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CAP. 8 Diritto Parlamentare

L'organizzazione della pubblica amministrazione (Università degli Studi di Catania)

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8) I PROCEDIMENTI PARLAMENTARI

1) I PROCEDIMENTI ORGANIZZATORI: LA PROGRAMMAZIONE DEI


LAVORI IN AULA E IN COMMISSIONE

1.1. LE ORIGINI E LE EVOLUZIONI DELLA PROGRAMMAZIONE DEI LAVORI

I procedimenti che conducono alla programmazione dei lavori parlamentari possono


qualificarsi come procedimenti di 2° grado: è con essi, infatti, che ciascuna Camera decide
quando riunirsi e a quali argomenti dedicare le proprie sedute. Evidentemente per questi
procedimenti vale il principio della “polifunzionalità”.

Le decisioni organizzative finiscono spesso per essere quelle politicamente più rilevanti: è con
esse che si stabiliscono le priorità anche in rapporto al programma di governo, si consente o
meno il tempestivo inserimento di un dibattito parlamentare su una questione scottante, si può
agevolare o ostacolare il raggiungimento del numero legale, si favoriscono o impediscono le
negoziazioni e gli accordi tra le forze politiche, si determinano il peso relativo e il ritmo di
lavoro dell’Assemblea e delle commissioni.
I regolamenti parlamentari del 1971 nell’adottare per le Camere il metodo della
programmazione dei lavori hanno inteso superare la logica della definizione dell’ordine del
giorno seduta per seduta. Questo era infatti approvato alla fine della seduta precedente,
su proposta del Presidente con decisione assunta a maggioranza della stessa Assemblea.

Con l’adozione del metodo della programmazione dei lavori, invece, si è inteso organizzare
la produzione legislativa, evitando provvedimenti sporadici, occasionali e intermittenti, e
altresì assicurare parametri essenziali per l’attività dell’Assemblea, delle commissioni e, anche
del singolo deputato, fornendo a quest’ultimo una serie di riferimenti temporali e materiali.
Tuttavia, l’adozione di questo metodo non si è rivelata sufficiente. Per un verso, infatti, si era
ancorata la definizione del programma e del calendario dei lavori al raggiungimento di un
accordo unanime nella conferenza dei capigruppo (ritenendo che questo fosse il solo modo di
individuare un punto di equilibrio tra le esigenze dei gruppi di maggioranza e quelle dei gruppi
di opposizione).
Per altro verso, si era sottovalutava l’importanza del momento attuativo del programma e del
calendario, senza cioè prevedere, specie alla Camera, strumenti procedurali che consentissero
l’effettivo rispetto dei tempi previsti in sede di programmazione dei lavori. Alla luce dell’estrema
difficoltà nel raggiungere l’ unanimità in seno alla conferenza dei capigruppo, sono state
adottate soluzioni di ripiego che hanno a lungo regolato la programmazione dei lavori: mentre
alla Camera si è continuato a procedere come prima ossia con la definizione dell’ordine del
giorno seduta per seduta, al Senato si è proceduti con “schemi dei lavori” di durata settimanale
che il Presidente del Senato poteva

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predisporre sulla base delle indicazioni emerse dalla conferenza e lo comunicava


all’Assemblea.

Con le modifiche del regolamento del Senato approvate nel 1988 il quadro si è completato. Vi è
stata la trasformazione da facoltativo in obbligatorio dello strumento del contingentamento dei
tempi, il che ha reso possibile attuare, con relativa certezza, le indicazioni contenute nel
programma e nel calendario. La disciplina di programmazione dei lavori era articolata su base
bimestrale (4 settimane dedicate alle commissioni, 3 all’Assemblea e una all’attività dei gruppi e
dei singoli senatori, art 53), nelle sessioni di bilancio diventa obbligatorio il contingentamento
dei tempi. Alla Camera il percorso è stato più tormentato: nel caso in cui non si registri l’accordo
unanime nella conferenza, solo il Presidente può assumere una decisione definitiva e
inappellabile (mutamento del ruolo del Presidente nel tempo).

Le tappe principali dell’evoluzione della programmazione dei lavori alla Camera


sono costituite dalle novelle regolamentari del 1981, del 1990 e del 1997.

- Con la prima tappa (1981) si è consentito al il Presidente dell’Assemblea in caso di mancato


raggiungimento dell’ unanimità, in seno alla conferenza di predisporre sulla base degli
orientamenti prevalenti e tenuto conto delle altre proposte un programma bimestrale e un
calendario bisettimanale dei lavori da sottoporre all’approvazione Assemblea.

- Con la seconda (1990) si esclusa ogni votazione dell’Assemblea sui programmi e calendari
predisposti dal Presidente. Si è introdotto anche qui, con cautela, lo strumento del
contingentamento dei tempi.

- Infine con la terza (1997) si è superato il principio dell’ unanimità in seno alla
conferenza dei capigruppo, richiedendosi per l’approvazione di programma e di
calendario il consenso dei presidenti di gruppi la cui consistenza numerica sia
complessivamente pari a ¾ dei componenti della Camera e al tempo stesso si è
generalizzato completamente il ricorso al contingentamento tempi.

1.2. GLI STRUMENTI DELLA PROGRAMMAZIONE DEI LAVORI NELLA


DISCIPLINA VIGENTE

Dunque, la disciplina vigente nei due rami del Parlamento vede la programmazione dei lavori
incentrarsi intorno a tre strumenti: il programma dei lavori (di orizzonte bimestrale al
Senato, bimestrale o trimestrale alla Camera), il calendario dei lavori (a cadenza mensile al
Senato, trisettimanale alla Camera), l’ordine del giorno (spesso detto “di seduta”).

- L’ ordine del giorno è l’unico ad essere determinato in via quasi esclusiva dal Presidente d’
Assemblea senza il coinvolgimento della conferenza dei capigruppo. È annunciato alla fine
della seduta precedente e alla Camera potrebbe essere oggetto di opposizione e di conseguente
votazione da parte dell’Assemblea. Sia il potere di formare

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l’ordine, che quello di opporvisi, sono condizionati e “vincolati” dall’esistenza del programma e
del calendario. L’ordine del giorno di seduta tende a diventare una mera attuazione della
programmazione.

- Il calendario dei lavori è il documento cruciale. Esso fissa il numero e la data delle singole
sedute con indicazione degli argomenti da trattare (r.S.) ovvero individua gli argomenti e
stabilisce le sedute per la loro trattazione, specificando quali sono i giorni destinate la
discussione e quelli nei quali l’Assemblea procederà alla votazioni (r.C.) (solo per votazioni serve
numero legale). In realtà, però, è frequente che il calendario si spinga oltre, fissando cioè anche
l’ orario di inizio e fine della seduta o delle votazioni, e specificando l’ordine con cui i diversi
provvedimenti dovranno essere iscritti all’ordine del giorno. All’interno viene pubblicato il
contingentamento dei tempi.

- Il programma dei lavori, infine è il documento di taglio più astratto e generale. In esso, ci si
limita a inserire, per ognuno dei due o tre mesi in esso ricompresi, provvedimenti o argomenti
che saranno oggetto di trattazione (si da una blanda attuazione all’art 23 r.C “elenco argomenti
con indicazione ordine di priorità e periodo in cui si deve trattare).

Il procedimento per la formazione del programma e del calendario dei lavori è


abbastanza articolato. Ai fini della formazione del programma sono previste diverse fasi:

1) Opportuni contatti della Presidenza di Assemblea con l’altro ramo del Parlamento e con il
Governo (ministro per i rapporti con il Parlamento) in vista della conferenza dei capigruppo.

2) Eventuale convocazione della conferenza dei presidenti di commissione (Al Senato si parla
di contatti anche con i presidenti delle commissioni permanenti e speciali e si consente una
convocazione da parte del presidente di assemblea dei presidenti di commissione, con
l’intervento del rappresentante di governo).

3) Alla Camera, comunicazione preventiva (almeno 2 giorni prima della conferenza) delle
indicazioni del Governo in ordine di priorità, ed eventualmente anche proposte dei gruppi.

4) Riunione della conferenza dei capigruppo, nella quale, per prassi, il Presidente di Assemblea
presenta una bozza di programma, approntata sulla base delle indicazioni del Governo e delle
proposte dei gruppi

5) In esito della riunione della conferenza, possono verificarsi due ipotesi: o il


programma è approvato (all’unanimità al Senato, con maggioranza qualificata alla
Camera), o in mancanza di tale approvazione, è definito dal Presidente.

6) Il programma è comunicato all’Assemblea e, dopo tale comunicazione diviene definitivo.


Solo al Senato, nel caso in cui sia stato predisposto dal Presidente, esso può essere discusso ed,
eventualmente, anche modificato.

Il procedimento per la formazione del calendario è analogo a quello appena descritto, ma un po’
semplificato nelle fasi preparatorie, non essendo necessari i contatti preliminari ed

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essendo sufficienti alla Camera 24 ore di anticipo nella comunicazione della priorità da parte
del Governo e gruppi. Dopo la comunicazione del calendario alla Camera si può discutere
(osservazioni che potranno essere prese in considerazione per calendario successivo), al Senato,
se il calendario non adottato all’unanimità si possono avanzare proposte di modifica su cui
decide l’ Assemblea per alzata di mano.

I regolamenti prescrivono una serie di vincoli contenutistici alla predisposizione di programma


e calendario. L’obiettivo è quello di garantire tempi congrui per l’esame in rapporto al tempo
disponibile e alla complessità degli argomenti: evitando cioè una compressione eccessiva dei
tempi di esame, in rapporto alla complessità, tanto tecnico- materiale quanto politica, dei
provvedimenti in discussione. Alla Camera programma e calendario sono predisposti sulla base
delle indicazioni del Governo e delle proposte dei gruppi (art 23), un altro vincolo riguarda il
rispetto di un arco temporale minimo per l’esame dei progetti di legge in commissione. Ove
programmi e calendari siano approvati dalla conferenza dei capigruppo, il regolamento
richiede inoltre che il Presidente riservi una quota (non determinata) del tempo disponibile agli
argomenti indicati dai gruppi dissenzienti (che hanno votato contro), ripartendola in
proporzione alla consistenza di questi. Nel caso in cui invece, programmi e calendari siano
definiti dal Presidente il vincolo è più preciso: è necessario che il Presidente inserisca nel
calendario le proposte dei gruppi di opposizione in modo da garantire a questi 1/5 degli
argomenti da trattare ovvero del tempo complessivamente disponibile. Si può parlare quindi di
una vera e propria quota riservata all’opposizione (previsione introdotta nel 1997).
Il regolamento del Senato contiene una previsione in qualche misura analoga, che, in più, cerca
di attribuire rilievo anche alle indicazioni provenienti dai singoli senatori. Il programma va
quindi redatto tenendo conto delle priorità indicate dal Governo e delle proposte dei gruppi e dei
singoli senatori ( questa è la news), anche per le funzioni di ispezione e controllo per le quali
sono riservate tempi specifici. Ogni 2 mesi almeno 4 sedute sono destinate all’esame di disegni di
legge e di documenti presentati dalle opposizioni e da questi fatti propri.

La sequenza programma – calendario - ordine del giorno è piuttosto rigida, ma non manca
comunque, qualche elemento di ha di flessibilità, che consente di tener conto delle urgenze che
regolarmente irrompono nell’agenda politica e, conseguentemente, in quella parlamentare:

1) In primo luogo vi sono alcuni provvedimenti che possono entrare automaticamente nel
calendario. Il Senato usa una formula generale “argomenti che per disposizione della
Costituzione o per regolamento devono essere discussi e votati in una certa data.
La Camera invece li enumera almeno in parte: disegni di legge finanziaria e bilancio,
disegno di legge comunitaria, atti dovuti diversi dalla conversione in legge dei decreti legge,
per questi disciplina peculiare.

2) In secondo luogo esiste una procedura di inserimento di argomenti nuovi all’ordine del
giorno in seduta (di dubbia applicabilità, rottura con il principio garantistico): sono richiesti
quorum particolarmente elevati, di 2/3 dei presenti al Senato e di ¾ dei votanti alla Camera.

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Inoltre, sia calendario che il programma possono essere “aggiornati” seguendo le medesime
procedure previste per la loro approvazione. Secondo regolamento della Camera sarebbe
necessario un aggiornamento mensile del programma, in pratica la decisione politica della
programmazione dei lavori sta tutta nella definizione dl calendario (ruolo ricognitivo del
calendario, tanto che al senato a volte se ne fa a meno). Inoltre in relazione a situazioni
sopravvenute e urgenti si possono inserire in calendario argomenti nuovi, non presenti nel
programma. Alla Camera è sempre la conferenza dei capigruppo a farlo, mentre al Senato è
l’Assemblea a decidere per alzata di mano. Queste integrazioni sarebbero ammissibili,
comunque, purché non rendano impossibile l’esecuzione del programma: a questo fine, si
potrebbero svolgere anche sedute supplementari

1.3. IL CONTINGENTAMENTO DEI TEMPI

Il Parlamento, specie oggi che è ben lungi dall’essere “solo” o “isolato” nello svolgimento delle
sue attività, non può prescindere dal “fattore tempo”: tanto nella fase della programmazione,
quanto nella fase della sua attuazione. La capacità decisionale del Parlamento e la sua
idoneità a costituire un’effettiva sede di dibattito pubblico dipendono dall’efficacia e dalla
tempestività della sua azione.

Il contingentamento dei tempi consiste nella determinazione del tempo complessivo da


dedicare ad un certo argomento e nella sua ripartizione tra i diversi gruppi parlamentari oltre
che tra gli altri soggetti e le operazioni che risultino “time consuming” (interventi del relatore e
del Governo, di richiamo al regolamento, a titolo personale, ecc). Sarà poi ciascun gruppo
parlamentare, secondo le proprie regole e procedure, a decidere come distribuire tra i propri
membri il tempo ad esso assegnato. In questa chiave, essenziale è la previsione di appositi e
non irrisori spazi per i singoli parlamentari, che desiderino intervenire a titolo personale o in
dissenso dal proprio gruppo. In caso contrario, risulterebbero infatti non infondati quei dubbi
sulla compatibilità con l’art. 67 Cost. di un contingentamento dei tempi o che si limitasse a
ripartire tra i soli gruppi tutto il tempo disponibile, rimettendo perciò integralmente alla
decisione dei gruppi l’effettivo esercizio del diritto di parola del singolo parlamentare.

Dunque, con il contingentamento dei tempi si stabilisce di dedicare un certo numero di ore
all’esame di un progetto di legge o di un argomento, nel momento in cui questo è iscritto nel
calendario dei lavori, eventualmente anche fissando il momento in cui tale esame si concluderà,
il più delle volte, con il voto finale. Alla Camera il regolamento è piuttosto analitico
nell’individuare le operazioni da compiersi, ribadito il principio generale per cui il tempo
assegnato ad ogni argomento deve essere rapportato alla sua complessità, si stabilisce che:

-Del tempo assegnato totale vengano sottratti i tempi per gli interventi dei relatori, dei
rappresentanti di Governo, dei deputati del gruppo misto (che a sua volta è ripartito tra le

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componenti politiche, in base alla loro consistenza numerica), per i richiami al


regolamento, e, infine, per le operazioni di voto

- Del tempo residuo dopo questa sottrazione, 1/5 sia riservato per gli interventi a titolo
personale.

- I restanti 4/5 siano invece distribuiti tra i gruppi: una parte in misura uguale e un’altra parte
in misura proporzionale alla consistenza degli stessi; a ciò si aggiunge la regola per cui, per
l’esame dei disegni di legge governativi, va riservato ai gruppi di opposizione un tempo
complessivamente maggiore di quello attribuito ai gruppi di maggioranza.

Nella prassi, per semplificare sono stati proposti modelli - tipo di contingentamento dei tempi,
da applicare ai diversi provvedimenti a seconda della loro complessività. Il potere di
determinare il contingentamento dei tempi spetta a chi decide il calendario dei lavori: perciò,
alla conferenza dei capigruppo, nel caso si raggiunga maggioranza richiesta
( unanimità al Senato, ¾ dell’assemblea alla Camera), oppure ove tale maggioranza non si
ottenga, al Presidente di Assemblea. L’introduzione del contingentamento alla Camera è stata
sofferta: tracce si trovano nel diverso trattamento nell’ambito del procedimento legislativo a
seconda che si applichi alla fase della discussione sulle linee generali (non meno di 30 minuti per
gruppo) o alle fasi successive (esame articoli e votazioni finali).
Il contingentamento va deliberato all’ unanimità dalla conferenza dei capigruppo quando si
tratta di progetti di legge:

- costituzionale

- vertenti prevalentemente su una materia cui è possibile chiedere lo scrutinio segreto, vale
a dire relativa a diritti e libertà, previsti nella prima parte della Costituzione

- riguardanti questioni di eccezionale rilevanza politica, sociale ed economica riferite ai diritti


previsti dalla prima parte della Costituzione, su richiesta di un gruppo parlamentare.

In ogni caso, una volta scaduti i tempi (contingentati) a disposizione dei gruppi si procede alle
votazioni, che si succedono una dietro l’altra, in un clima un po’ surreale, e anche se il tempo
preventivato per la loro effettuazione fosse stato consumato tutto. A meno che il Presidente
d’Assemblea non decida di assegnare un tempo ulteriore a ciascun gruppo, o anche solo ai
gruppi che hanno esaurito il tempo a loro disposizione.

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1.4. I RAPPORTI PER LA PROGRAMMAZIONE IN ASSEMBLEA E IN


COMMISSIONE

Anche nelle commissioni trova applicazione la programmazione dei lavori, che è affidata oltre
che ai loro presidenti, anche agli uffici di presidenza integrati dai rappresentanti dei gruppi: una
sorta di miniconferenza dei capigruppo In commissione (di rado partecipa anche il
rappresentante del governo). Nella prassi tende ad essere prevalente una programmazione a
cadenza settimanale: in concomitanza, cioè, con l’invio delle convocazioni settimanali delle
commissioni, i cui lavori si devono incastrare negli spazi lasciati liberi dall’Assemblea. A lungo
nell’esperienza parlamentare repubblicana, sono state proprio le commissioni gli organi decisivi,
ancor prima che nella definizione dei contenuti della legislazione approvata, ai fini della
selezione dei progetti di legge di cui avviare l’esame. Nell’ambito delle centinaia di progetti
assegnati a ciascuna commissione, e, ricompresi nell’ordine del giorno generale, erano gli uffici
di presidenza, integrati dai rappresentanti dei gruppi, delle singole commissioni a decidere quali
prendere in considerazione: procedendo nella maggior parte dei casi in sede legislativa o
deliberante, o in sede referente quando non c’era un sufficiente grado di consenso tra i gruppi
parlamentari o quando la materia era coperta da riserva d’assemblea. L’ordine del giorno
dell’Assemblea finiva per essere determinato anch’esso dalle scelte operate dalle commissioni.

A partire dagli anni ’90, grazie all’operatività della programmazione dei lavori e del
contingentamento dei tempi, si è realizzato uno spostamento di indirizzo e delle priorità della
legislazione con una valorizzazione della conferenza dei capigruppo. E’ ora l’Assemblea,
attraverso appunto la conferenza dei capigruppo, a decidere, quali progetti di legge esaminare
condizionando l’agenda delle commissioni. Diverse sono le modalità attraverso cui si assicura
alle Camere l’effettiva prevalenza della programmazione di Assemblea su quella delle
commissioni: alla Camera una volta che il calendario prevede l’inizio dell’esame di un progetto
di legge, la commissione può applicare il contingentamento e quando finisce il tempo, lascia il
passo all’aula per la votazione,in applicazione del principio di economia procedurale (art 79). Al
Senato invece, in sede referente è esclusa applicazione del contingentamento tempi (è frequente
che la commissione non concluda neanche l’esame del progetto di legge, e che si vada in aula
senza relatore).

Tale spostamento dalle commissioni all’Assemblea ha originato significativi effetti sia sui
rapporti tra Governo e Parlamento sia su quelli tra maggioranza e opposizione: a vantaggio
ambedue del primo dei due soggetti, così il Governo e la sua maggioranza hanno molta più
facilità a controllare le dinamiche di un unico centro decisionale di quanta non ne avessero a
seguire l’attività di quasi una trentina di centri decisionali poco coordinati tra loro e settoriali.

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2) I PROCEDIMENTI CONOSCITIVI E ISPETTIVI

2.1. L’INFORMAZIONE PARLAMENTARE

Ogni potere che delibera deve conoscere la verità, il Parlamento è dotato di una serie di
strumenti conoscitivi per esercitare le sue funzioni e per soddisfare la sua “curiosità”. Chi per
primo deve soddisfare la curiosità delle Camere è il Governo, e per suo tramite,
l’amministrazione: è questo un necessario canale istituzionale di informazione, per anni
tendenzialmente esclusivo (fino al 1971). Ma la Costituzione prevede uno strumento
autonomo, l’inchiesta, che consente una diretta acquisizione di notizie (art 82 Cost.). Tale
articolo è collocato alla fine del titolo relativo alla funzione legislativa, in posizione indipendente
dal rapporto fiduciario. Negli anni il legislatore ha inserito una serie di strumenti conoscitivi che
forniscono al Parlamento una massa di informazioni indipendenti: per l’ es. le relazioni annuali
al Parlamento delle autorità indipendenti e di altri soggetti.
Si è soliti enucleare, nell’ambito della generica attività conoscitiva un’attività propriamente
ispettiva.

L’ ispettiva è l’attività di acquisizione di conoscenze da parte del Parlamento cui corrisponde


un obbligo, variamente graduato, di risposta da parte dei soggetti interrogati. Lo strumento
ispettivo per eccellenza è l’inchiesta parlamentare, che reca con sé addirittura l’attribuzione dei
poteri dell’autorità giudiziaria in capo all’organo che la svolge. Mezzi meramente conoscitivi
sono invece: le indagini conoscitive nelle quali i soggetti da ascoltare sono semplicemente
invitati ad intervenire. Un carattere seppure blandamente coercitivo, e quindi ispettivo, hanno
le interrogazioni e le interpellanze, a cui il Governo non può, ma tendenzialmente “deve”
rispondere ( obbligo prettamente politico).

Vi sono poi apposite commissioni parlamentari bicamerali, dette di vigilanza,


istituzionalmente dotate di penetranti e particolari poteri ispettivi. Anche le commissioni
parlamentari permanenti, nelle materie di competenza per la loro attività legislativa, di
indirizzo e di controllo, si possono avvalere di strumenti ispettivi: audizione di ministri sugli
indirizzi politici, acquisizione di notizie, dati o documenti, esame di relazioni presentate
periodicamente dal governo, ecc … Si possono svolgere anche interrogazioni all’interno delle
commissioni permanenti (non interpellanze). La disponibilità di questo complesso insieme di
strumenti conoscitivi e ispettivi e il loro uso mirato e settoriale dovrebbero garantire alle
commissioni permanenti che lo desiderino di essere i veri centri di propulsione dell’attività
parlamentare: non solo di quella legislativa, ma soprattutto di quella di indirizzo e di controllo.

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2.2. LE COMMISSIONI D’INCHIESTA

Art 82 Cost. “Ciascuna Camera può disporre inchieste su materie di pubblico


interesse.
A tale scopo nomina fra i propri componenti una Commissione formata in modo da
rispecchiare la proporzione dei vari gruppi. La Commissione d’inchiesta procede alle
indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità
giudiziaria.”

Per procedere a un’inchiesta ci deve essere la decisione di una o entrambe le Camere. Non è
infatti ammissibile l’adozione di un atto avente forza di legge del Governo ( il Governo non può
porre la questione di fiducia su un atto istitutivo di una commissione di inchiesta). L’inchiesta
parlamentare è uno strumento di garanzia quindi, oggetto di un attività radicalmente
autonoma rispetto al circuito dell’indirizzo politico. Un’interpretazione rafforzata della norma,
questa prevista dal solo regolamento del Senato, che fissa un percorso procedurale accelerato
per le proposte di inchiesta sottoscritte da una minoranza (1/10 dei senatori).

La prassi sembra avere dimostrato non solo che l’opposizione non può imporre da sola la
costituzione di una commissione d’inchiesta, ma addirittura che le inchieste possono essere
utilizzate come un vero e proprio strumento a favore della maggioranza, in taluni (rari) casi
persino contro l’ opposizione. La scelta della legge per l’istituzione, al posto di un atto
bicamerale non legislativo, è dettata dalla volontà di perseguire obiettivi che senza la legge non
potrebbero essere realizzati: es. evitare che la fine della legislatura faccia perdere efficacia
all’atto istitutivo, fissare i poteri della commissione. Negli anni le commissioni d’inchiesta con
oggetto esteso e non determinato, hanno subito processo di istituzionalizzazione, la durata di
queste è stata più volte prorogata (es. commissione strategie antimafia, divenute quasi
permanenti d’inchiesta). L’ Istituzionalizzazione ha favorito indipendenza e autorevolezza di
questi organi (spesso la nomina del presidente di commissione è rimessa ai presidenti delle
Camere).

La considerazione dell’eccezionalità dell’ attribuzione dei poteri dell’autorità giudiziaria


dovrebbe poi indurre cautela nell’uso di questo strumento da limitare alle sole “materie di
pubblico interesse”. Quanto alle finalità dell’inchiesta, queste seguono la varietà delle funzioni
parlamentari. Talune inchieste sono strumentali all’acquisizione di informazioni da utilizzare
nell’attività legislativa, altre hanno un carattere più spiccato di controllo e verifica delle
responsabilità. Alcune commissioni di inchiesta finiscono per affiancare, nei fatti, organi
giudiziari inquirenti, assicurando a questi un utile sostegno e stimolo, ma anche provocando
discutibili commistioni e interferenze. Vi può essere concorrenza e simultaneità tra inchiesta
parlamentare e attività giudiziaria. Al riguardo, nel 1975 la Corte Costituzionale ha chiarito
che la commissione ha obbligo di trasmettere al giudice penale (se richiesto) gli atti e i
documenti frutto della propria attività ispettiva (eccezione per quelli che deve mantenere segreti
per adempimento delle proprie funzioni). Nei propri lavori può seguire un doppio binario:
utilizzare i suoi particolari poteri (attività giudiziaria)
o procedere informalmente con audizioni libere.

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Quanto all’esito delle inchieste, le leggi prevedono generalmente, l’obbligo di trasmettere alle
Camere relazioni sullo stato dei lavori. In ogni caso la commissione dovrebbe dar conto delle
indagini in una relazione conclusiva nella quale formulare proposte destinate all’esame
dell’Assemblea, anche allo scopo di garantire un legame dell’attività di inchiesta con le funzioni
tipiche del Parlamento. Spesso, però, queste relazioni non sono state discusse ovvero sono state
esaminate solo a distanza di anni, senza mai realmente attivare processi di responsabilità
politica.

Ma vi è anche la prassi virtuosa di commissioni che hanno saputo efficacemente utilizzare


questa libertà di azione per svolgere un prezioso ruolo persuasivo, di consiglio, controllo ed
indirizzo dei pubblici poteri, valorizzando appieno la centralità del Parlamento nel sistema
istituzionale e la sua essenziale funzione di arena di confronto e di discussione politica e sociale.
La Corte Costituzionale ha infine riconosciuto alle commissioni d’inchiesta la legittimazione a
sollevare conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, chiarendo che la riconosciuta
indipendenza funzionale delle commissioni non postula una loro strutturale distinzione dalle
Camere stesse, di cui rappresentano una articolazione (valorizza il principio di leale
collaborazione tra poteri dello Stato).

2.3. LE INDAGINI CONOSCITIVE

L’ indagine conoscitiva è lo strumento più utilizzato dalle commissioni parlamentari


permanenti, insieme alle audizioni, per condurre accertamenti e acquisire notizie e
informazioni nelle materie di loro competenza. Ciascuna commissione, per fare il punto su una
questione, può deliberare di aprire una indagine conoscitiva. In quella sede, la commissione
parlamentare procede ad acquisire notizie, in particolare attraverso l’audizione di “qualsiasi
persona in grado di fornire elementi utili all’indagine” (relazione delle Assemblee con la società
civile). Questo strumento permette alle commissioni di ascoltare liberamente, in una sede
formale, senza alcuna limitazione e sulla base di un semplice invito, soggetti estranei al
Parlamento. Le indagini conoscitive si concludono alla Camera con l’ approvazione di un
documento che tende a trasformarsi in un atto di indirizzo politico. Più spesso, però, l’attività
conoscitiva è strumentale all’ordinaria attività delle commissioni (per esempio nella fase
istruttoria del procedimento legislativo, strumento di approfondimento della materia da
regolare).

2.4. LE AUDIZIONI

Le audizioni, chiamate anche “udienze legislative”, dovrebbero essere lo strumento ordinario a


disposizione delle commissioni parlamentari per acquisire le informazioni che ritengono
necessarie in relazione alle varie questioni da trattare, esaurendosi in un'unica

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seduta, o frammento, da dedicare a queste attività informative. Tuttavia, il ricorso a questo


strumento è condizionato da un pesante vincolo strutturale, introdotto nella prospettiva che
vedeva nel Governo la principale fonte di informazione parlamentare, e dunque gli unici
soggetti che possono essere uditi, oltre ai membri del Governo, sono dirigenti e amministratori
delle amministrazioni centrali e degli enti sottoposti comunque a controllo ministeriale. Sono i
ministri a vagliare chi dovrà andare a rispondere, e a loro le commissioni devono rivolgersi se
vogliono procedere alle audizioni. L’elenco dei soggetti udibili si è ristretto ulteriormente con la
privatizzazione degli enti pubblici ed economici.
Oggi questi strumenti, poco usati, si colorano di una connotazione ispettiva piuttosto che
semplicemente conoscitiva. Mentre l’obiettivo di acquisire semplicemente conoscenze viene
perseguito attraverso audizioni informali (senza limiti soggettivi) che si svolgono in sede
appunto informale: al Senato, negli uffici di presidenza integrati dai rappresentanti dei gruppi
parlamentari, e alla Camera le commissioni si riuniscono informalmente nel plenum dei suoi
componenti. Le audizioni informali si svolgono poi, senza pubblicità o più esattamente senza più
nessuna forma di resocontazione scritta (in alcuni casi si è ritenuto di dare pubblicità
audiovisiva). A fronte dell’inaridirsi del ricorso allo strumento delle audizioni formali e del
proliferale incontrollato di quelle informali, i regolamenti hanno visto la formalizzazione di
strumenti conoscitivi settoriali, che consistono in vere e proprie audizioni in due campi: la
programmazione economica finanziaria e le politiche dell’UE.

2.5. LE INTERROGAZIONI

L’ interrogazione è una semplice domanda che ogni parlamentare può rivolgere al Governo su
un fatto determinato, chiedendo informazioni particolari, documenti, notizie o esprimere la
propria posizione politica (art 128 r. C. e 144 r. S.). Alle interrogazioni il rappresentante del
governo interessato (Presidente consiglio, ministro o sottosegretario) risponde in Assemblea, in
commissione o per scritto a seconda dell’opzione esercitata dall’interrogante al momento della
presentazione . L’interrogante può solo replicare, intervenendo, appunto in Assemblea o in
commissione, dichiarandosi soddisfatto o insoddisfatto ovvero nel caso di risposta scritta,
accontentarsi delle informazioni ricevute. Il Governo può essere chiamato a rispondere su
questioni gravi (terremoti, epidemia mucca pazza, ecc) con interrogazioni urgenti, ma la
maggior parte delle volte consistono in semplici segnalazioni (richiamare l’ attenzione
dell’amministrazione statale su un problema, circa 1/3 rimangono senza risposta). Una
particolare specie di interrogazione è quella “a risposta immediata” con la quale si è cercato
di introdurre in Italia il “question time” tipico del parlamento inglese (30 minuti nella seduta
della camera dei comuni ogni mercoledì, senza programmi). In Italia è stato approvato con molti
correttivi e viene praticato alla Camera dal 1997 e al Senato dal 1999.
Una volta a settimana (il mercoledì alla Camera), viene riservato uno spazio della seduta
dell’aula alle interrogazioni presentate da un deputato per ciascun gruppo parlamentare, entro
mezzogiorno del giorno precedente. Ad esse dovrebbero rispondere il Presidente del Consiglio
dei ministri o il vicepresidente del consiglio (premier nella question time)

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due volte al mese, e i ministri competenti una volta al mese. Gli argomenti sono i più disparati,
ma sempre conosciuti preventivamente dal Governo. Ciò insieme alla scarsa fantasia degli
interroganti, alla sistematica assenza del Premier e alla frequente sostituzione del Ministro
competente con quello per i rapporti col Parlamento impedisce di suscitare nelle aule quel clima
teso e brillante che caratterizza il question time britannico.

2.6. LE INTERPELLANZE

Anche l’ interpellanza consiste in una domanda formulata al Governo da uno o più


parlamentari. Si tratta però, a differenza della interrogazione, di una domanda motivata tesa
a conoscere i motivi o gli intendimenti della condotta del Governo in questioni che riguardano
determinati aspetti della sua politica. La maggior rilevanza politica della domanda spiega
perché la sua risposta debba aver luogo in Assemblea.

La procedura si articola nello svolgimento della parte del presentatore, dell’interpellanza, nella
conseguente risposta del rappresentante del Governo e in una replica dell’interpellante stesso
(interpellanza, risposta, replica dell’interpellante). Obiettivo di questo strumento di ispezione
parlamentare è quello di far emergere la posizione politica del Governo su una determinata
questione. Si comprende quindi come, dopo il dialogo tra il rappresentate del Governo e
interpellante, se l’interpellante non è soddisfatto può presentare una mozione (art 138 r. C.)
prospettando una diversa linea politica rispetto a quella indicata dal Governo, sulla quale si
apre un dibattito che si conclude con un voto. Nella prassi l’interpellanza si è progressivamente
confusa con lo strumento dell’ interrogazione.

Gli oggetti trattati vanno dall’uso delle basi NATO ai ritardi dei traghetti per la Sardegna, e il
Governo spesso tardivamente, risponde solo ad una parte delle interpellanze. Per
rivitalizzare l’ istituto si è introdotto, sulla base del Bundestag, una corsia preferenziale per le
interpellanze urgenti, presentate cioè da un gruppo di parlamentari. Sorge diritto alla risposta
in tempi brevi: entro 2 settimane al Senato e entro 48 ore alla Camera. Per evitare l’utilizzo
ostruzionistico sono posti anche limiti quantitativi: è concessa un’ interpellanza al mese al
Senato e due alla Camera per ciascun gruppo; e per ciascun parlamentare 6 l’anno al Senato e
una al mese alla Camera (art 156 bis del 1988 al Senato, e art 138 bis del 1997 alla Camera).

3) I PROCEDIMENTI DI INDIRIZZO

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3.1. INDIRIZZO POLITICO E PROGRAMMA DI GOVERNO NEI SISTEMI


MAGGIORITARI

Il potere di indirizzo consiste nella determinazione dei grandi obiettivi della politica
nazionale e nell’approntamento dei mezzi principali per conseguirli. Rispetto alla funzione di
indirizzo politico il Parlamento gioca un ruolo attivo ed importante, in un circuito, che lo vede
concorrere con il Governo e con il corpo elettorale, oltre che con il Presidente della Repubblica e
la Corte Costituzionale (ai quali spettano essenzialmente poteri di garanzia). Il peso del corpo
elettorale tende a variare a seconda degli assetti del sistema politico e della legge elettorale:

- nei sistemi proporzionali il corpo elettorale si limita per lo più a determinare il peso relativo,
in termini di seggi parlamentari, spettante alle diverse forza politiche, lasciando poi alla
dialettica tra queste la formazione della coalizione e programma di governo.

- nei sistemi maggioritari, invece, aumenta sensibilmente il contributo del corpo elettorale
alla definizione dell’indirizzo politico in quanto è esso è chiamato ad esprimersi sia sulla
coalizione che si forma prima delle elezioni, sia sul programma di Governo.
Da tali mutamenti trae origine la retorica del programma secondo cui, nei sistemi maggioritari,
il Governo, nel corso del suo mandato si limiterebbe a dare attuazione al suo programma già
presentato agli elettori. In questa ricostruzione vi è del vero ma anche molta retorica: infatti, in
parte per la sua naturale ambiguità, in parte per lo scorrere del tempo, l’indirizzo contenuto nel
programma ha bisogno perciò di costanti precisazioni e continui aggiornamenti.

Il contributo delle Camere alla funzione di indirizzo politico si esplica attraverso tutti i
procedimenti parlamentari. In altri termini, un intervento delle Camere nel circuito di indirizzo
politico si verifica, a volte, anche mediante atti che si collocano in procedimenti non prettamente
di indirizzo: per es., interrogazioni, interpellanze, audizioni, indagini conoscitive, quando non
nell’esame di proposte di legge o nelle inchieste parlamentari. Gli strumenti di indirizzo sono
delineati dai regolamenti di Camera e Senato con procedure diverse a seconda che si tratti
dell’Assemblea ( mozioni, ordini del giorno, risoluzione d’Assemblea) o delle commissioni (per lo
più risoluzioni, o ordini del giorno). Attraverso i procedimenti di indirizzo politico, le Camere
assumono esplicitamente decisioni volte ad indirizzare l’attività di Governo affrontando
questioni come ad es. la partecipazione italiana a missioni internazionali (spesso con mozioni),
ecc..

3.2. L’ORIGINE STORICA E L’ EFFICACIA DEGLI ATTI DI INDIRIZZO

Mozioni, risoluzioni e ordini del giorno sono, in origine e su un piano generalissimo, tutti
strumenti volti a promuovere votazioni di una Camera su uno specifico oggetto.

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Storicamente hanno origine dall’interpellanza, la quale nasce sì come strumento ispettivo ma


con la potenzialità di aprire un dibattito che si può concludere con un voto sulla questione
sollevata. Ed è per questa via che passo dopo passo si è costruito nel Piemonte sabaudo ben
oltre la lettera dello statuto Albertino, il rapporto fiduciario tra camera elettiva e governo del re.
I voti della camera sono diventati indirizzi al governo: risoluzioni, poi mozioni sino ad arrivare
alla cristallizzazione nella prassi della mozione di fiducia, prima successiva e quindi preventiva
che ha segnato la progressiva evoluzione in senso parlamentare della forma di governo del
regno. Gli effetti prodotti da questi atti possono essere i più vari in assenza di ogni disciplina
costituzionale: da mozioni o risoluzioni che modificano in modo incisivo il programma di
governo sino a ordini del giorno accolti come semplici raccomandazioni; talvolta poi è la stessa
legge a disciplinare gli effetti di atti di indirizzo.

3.3. LA MOZIONE

La mozione è un atto ad iniziativa non individuale (va presentata alla Camera da 10 deputati o
da un presidente di gruppo, al Senato da 8 senatori), diretto a provocare un dibattito e una
deliberazione dell’aula. E’ uno strumento polivalente, che mette in moto un procedimento
autonomo (non ha bisogno di appoggiarsi ad altri procedimenti), che si conclude con una voto
dell’Assemblea. Un voto che solitamente definisce gli indirizzi (ossia direttive parlamentari al
governo) ma può anche sanzionare comportamenti (mozioni conclusive dell’esame di relazioni
delle commissioni d’inchiesta) e persino esaurire i suoi effetti all’interno delle mura delle Camere
(costituendo per esempio ulteriori commissioni). E’ questa autonomia che fa della mozione lo
strumento più incisivo tra gli atti d’indirizzo.

Il testo della mozione si articola in genere in genere in una premessa con motivazione dell’atto
(la camera considerato, visto, valutato) , e in un dispositivo che, a seconda dei casi, recita
“impegna il governo”, se è un atto di indirizzo, ovvero “delibera” se è una decisione che produce i
suoi effetti all’interno della Camera.
La mozione è innanzitutto oggetto di una discussione di carattere generale, chiusa dalle
dichiarazioni del Governo e dalle repliche. Se sono state presentate più mozioni relative a fatti o
argomenti connessi, sono discusse insieme e sono poste ai voti secondo un ordine che eviti
preclusioni (art 158 r. S). Il regolamento della Camera perfeziona l’obiettivo di proteggere il
significato di ogni mozione, indicando per l’approvazione di eventuali emendamenti un criterio
opposto a quello previsto per il procedimento legislativo: gli emendamenti sostitutivi sono votati
dopo la frase o la parola cui si riferiscono, cosicchè se la frase o parola viene mantenuta
l’emendamento cade.

Al Senato, dal 1988 sono disciplinate le mozioni a procedimento abbreviato: devono essere
sottoscritte da almeno 1/5 dei senatori e discusse entro 30 giorni dalla presentazione (per
evitare usi ostruzionistici, non sono ammesse più di 6 mozioni l’anno

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per ciascun senatore). Il valore degli indirizzi contenuti nelle mozioni è tutto lasciato al modo in
cui si sviluppano i rapporti tra le forze politiche e tra il Governo e la Camera e il Senato, che, se
vogliono, possono chiamare a riferire sull’attuazione data a mozioni ma anche a risoluzioni o
ad ordini del giorno approvati.

3.4. LA RISOLUZIONE, IN ASSEMBLEA E IN COMMISSIONE

La risoluzione è invece uno strumento ad iniziativa individuale, che in genere chiude il


dibattito, spesso iniziatosi con altri fini. Si tratta di uno strumento prevalentemente accessorio.
Tale caratteristica rende poliedrico questo strumento. Le risoluzioni possono chiudere i
dibattiti originati nel modo più vario: da mozioni (se ritirate o respinte), da documenti
trasmessi alle Camere, da comunicazioni del Governo (in particolare il Parlamento in momenti
cruciali può fissare l’indirizzo da seguire e lo può fare votando dispositivi secchi, motivati solo
“ob relationem”, senza specificare, oppure può definirne dettagliatamente il contenuto, es. ha
autorizzato azioni militari all’estero per il ripristino della legalità internazionale).

Non essendo prevista una specifica disciplina in un parlamento organizzato su una pluralità di
gruppi, non sempre legati da vincoli di coalizione, talvolta si è proceduto a votare su più atti di
indirizzo, tra loro in parte contraddittori e in parte ridondanti. Alla fine è il Governo, che è il
destinatario di questa attività, ad interpretare gli indirizzi parlamentari. Le risoluzioni sono
anche gli atti che concludono procedimenti parlamentari tipizzati, al termine di un’istruttoria
svoltasi nelle commissioni permanenti (come la risoluzione con cui ciascuna camera approva il
DPEF).

La risoluzione, genericamente intesa, è anche lo strumento con cui le commissioni parlamentari


possono esprimere indirizzi. Il regolamento della Camera configura l’esame delle risoluzioni
in commissione come un procedimento autonomo, purché le risoluzioni vertano su “affari di
propria competenza, per i quali la commissione non debba riferire all’Assemblea”. Le risoluzioni
sono infine gli atti che possono chiudere (con un voto che definisce un indirizzo) una serie di
procedure tipiche previste dai regolamenti (esame delle relazioni della corte dei conti, dei voti
delle regioni, delle sent della Corte Cost …)

3.5. L’ ORDINE DEL GIORNO (DI ISTRUZIONE AL GOVERNO)

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“Ordine del giorno” è un’espressione che ha molti significati. Letteralmente è l’ordine del
giorno della seduta, cioè l’elenco degli argomenti che saranno trattati. Ma anche l’ordine del
giorno generale, cioè il complessivo elenco dei documenti (disegni di legge, relazioni,
documenti diversi) che pendono, che sono all’ordine del giorno delle Camere. Questa espressione
è usata per designare atti di indirizzo nei confronti del Governo.
Ordini del giorni di istruzione al Governo possono essere presentati dal singolo parlamentare
che, alla Camera non ne può sottoscrivere più di uno per procedimento. Essi possono essere
discussi e approvati nel corso di un procedimento legislativo, ma anche in occasione dell’esame
di altri atti di indirizzo. Sono dunque atti accessori, che si inseriscono in discussioni che hanno
oggetto altri alti: progetti di legge, mozioni o risoluzioni (in questo caso può avvenire che
l’ordine del giorno alla fine sia l’ultimo atto approvato).

La procedura di esame di questi atti nel corso del procedimento legislativo si differenzia non
poco tra Senato e Camera. In Senato possono essere anticipati in commissione in sede referente e
devono essere presentati prima (o al massimo nel corso) della discussione generale e la loro
votazione ha normalmente luogo durante l’esame e la votazione degli articoli e degli
emendamenti ad essere riferiti. Alla Camera, invece, essi possono essere presentati anche
durante la discussione degli articoli e sono esaminati in un momento successivo, ossia “dopo
l’approvazione dell’ultimo articolo”, subito prima della votazione finale del progetto di legge
(pregio di farli votare, dopo aver definito il testo normativo a cui si riferiscono).

In entrambi i rami del Parlamento, sugli ordini del giorno è chiamato ad esprimersi
obbligatoriamente il rappresentante del Governo. Le alternative sono tre:

1) Se il Governo li accetta integralmente, di solito non c’è bisogno di porli in votazione, dal
momento che essi hanno così già conseguito lo scopo.
2) Se, al contrario, esprime parere negativo, essi sono votati sempre che il presentatore sia
presente e insista per votarli.
3) Nell’ipotesi intermedia, cioè quando il rappresentante del Governo li accoglie solo come
raccomandazione, spetta al presentatore decidere se accontentarsi di questo generico
impegno o chiedere il voto in Assemblea, che può approvarlo o respingerlo del tutto.

Anche se accettati dal Governo o votati dall’Assemblea, gli ordini del giorno producono effetti
giuridici piuttosto incerti. Non possono fare altro che “esprimere un’intenzione, un desiderio
delle Camere”. I loro effetti, dunque, dovrebbero esaurirsi all’interno dei rapporti tra Parlamento
e Governo. Non sono mancati casi in cui invece di vincolare il Governo, fossero diretti
all’interprete (amministrazione pubblica) con l’obiettivo di condizionare l’interpretazione delle
disposizioni che si stavano per approvare. Per evitare contrasto tra testo e ordini del giorno:
“non possono essere presentati ordini del giorno che riproducano emendamenti o articoli
aggiuntivi respinti, in contrasto con deliberazioni già adottate nel corso della discussione”. Per
evitare questo impedimento, il presentatore di un emendamento può ritirarlo prima della
votazione e con il consenso del presidente trasformarlo non un ordine del giorno (solo nel
regolamento del Senato).

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4) I PROCEDIMENTI FIDUCIARI

4.1. IL RAPPORTO FIDUCIARIO E LA DEBOLE “RAZIONALIZZAZIONE”


DELLA FORMA DI GOVERNO PARLAMENTARE

Art 94 comma 1 Cost. “Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere.”

Il rapporto di fiducia tra Parlamento e Governo costituisce il cuore della forma di governo
parlamentare. Senza fiducia di ambedue le Camere il Governo non può restare validamente in
carica, e reciprocamente, le Camere non possono continuare nella loro attività e devono essere
sciolte dal Presidente della Repubblica se non sono in grado di esprimere la fiducia ad un
Governo. È la sussistenza, la necessaria permanenza, di
questo rapporto fiduciario che, realizzando una sorta collaborazione dei due poteri fa sì che le
Camere contribuiscano legittimamente alla funzione di indirizzo politico - amministrativo e
che il Governo, reciprocamente possa svolgere una ruolo di coprotagonista nell’attività
legislativa. L’opzione a favore della forma di governo parlamentare fu sancita dall’ordine del
giorno Perassi, approvato dalla seconda commissione costituita nell’ambito della commissione
dei 75, il 4 settembre 1946.

4.2. LA MOZIONE DI FIDUCIA

Art 94 comma 2 Cost. “Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia


mediante mozione motivata e votata per appello nominale.”

Art 94 comma 3 Cost. “Entro 10 giorni dalla sua formazione il Governo si


presenta alla Camere per ottenere la fiducia.”

L’ art 94 Cost. disciplina specificatamente le modalità di instaurazione del rapporto fiduciario,


evitando che la fiducia debba desumersi per implicito dalle singole votazioni che avvengono nel
corso del mandato governativo e obbligando i parlamentari e le forze politiche a prendere
posizione in modo esplicito, sul programma di governo e sulla sua composizione.

E’ entro dieci giorni dalla formazione del Governo, ossia dal giuramento nelle mani del
Presidente della Repubblica, che il Governo è tenuto a presentarsi alle due Camere per ottenere
la fiducia. La presentazione avviene il medesimo giorno (stabilito dai Presidenti di Assemblea),
prima all’una e poi all’altra Camera (criterio dell’alternanza): il Presidente del consiglio , per
effetto di una prassi informata all’economia procedurale affermatasi a

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partire dal 1980, rende le proprie dichiarazioni sul programma in forma orale (come
“comunicazioni del Governo”) solo ad un ramo del Parlamento, mentre nell’altro le deposita per
scritto. Il discorso programmatico del Presidente del Consiglio è oggetto di dibattito
parlamentare, in successione nelle due Camere.

Nel corso del dibattito, alla Camera come al Senato, viene presentata ad opera dei capigruppo
di quella che sarà la maggioranza, la mozione di fiducia, ossia quella specifica mozione,
necessariamente motivata e da votarsi per appello nominale, che ai sensi dell’art. 94 comma 2
Cost. è lo strumento la cui approvazione, a maggioranza semplice, è richiesta perché le Camere
accordino la fiducia al Governo (non è una mozione in senso proprio, il dibattito si instaura
inizialmente sulla base della mozione, quindi prosegue con comunicazioni del Presidente del
consiglio. È comunque classificabile come atto di manifestazione della volontà parlamentare).

Il requisito della motivazione della mozione di fiducia è sicuramente quello che è stato
valorizzato meno nella prassi repubblicana (sola eccezione dei due governi Spadolini del 1981 e
1982) e consiste in un riferimento esplicito ma generico ai contenuti delle dichiarazioni
programmatiche rese dal Presidente del Consiglio. Una motivazione dunque ob relationem.
Formula tralatizia: “la Camera udite le dichiarazione programmatiche del presidente del
consiglio le approva e passa all’ordine del giorno”. Dietro questa formula rimangono i conflitti.

L’art 94 Cost. prevede per la mozione di fiducia (come per tutte le votazioni fiduciarie) la
necessità di un voto per appello nominale: ossia il ricorso ad una forma di votazione palese
e in qualche misura “solenne” e inequivocabile, dal momento che richiede a ciascun
parlamentare di passare davanti al banco della presidenza e di rispondere individualmente,
ad alta voce, alla “chiama”, dicendo “sì”, “no” o “mi astengo”.
D’altronde è per effetto della votazione della mozione di fiducia che si costituiscono, in
Parlamento, qualificandosi giuridicamente, la maggioranza e l’opposizione. Gli effetti si
producono tanto su quelli che votano a favore che su quelli che votano contro, unica differenza i
fronti opposti in cui si schiereranno ogniqualvolta venga chiamato in causa il nesso fiduciario.
Per l’approvazione della mozione di fiducia, è sufficiente la maggioranza semplice. Nel
disciplinare il procedimento di approvazione della mozione di fiducia, i regolamenti
parlamentari si sono limitati a riprodurre esattamente il dettato costituzionale salvo
aggiungere che per queste mozioni non è consentita la votazione per parti separate, né la
presentazione di ordini del giorno.

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4.3. LA MOZIONE DI SFIDUCIA

Art 94 comma 2 Cost. “Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione
motivata e votata per appello nominale.

Art 94 comma 5 Cost. “La mozione di sfiducia deve essere firmata da almeno 1/10 dei
componenti della Camera e non può essere messa in discussione prima di tre giorni
dalla sua presentazione.”

L’art 94 c. 4, Cost prevede che il voto contrario di una o entrambe le Camere su una proposta del
Governo non comporta obbligo di dimissioni. La Costituzione si preoccupa di distinguere il voto
di dissenso espresso delle Camere nei confronti di specifici provvedimenti proposti dal Governo e
destinato a non avere ripercussioni sul rapporto fiduciario, dall’ipotesi disciplinata dall’ art 94 c
5, Cost. di revoca esplicita della fiducia accordata al Governo, che deve avvenire necessariamente
attraverso l’approvazione da parte delle Camere di una mozione (di sfiducia) ad hoc. Dunque,
la fiducia del Governo in carica può essere in ogni momento della legislatura separatamente
revocata da ciascuna Camera attraverso l’approvazione di una mozione motivata di sfiducia la
quale deve essere votata per appello nominale ed approvata dalla maggioranza dei presenti
(maggioranza semplice). Secondo l’art 94 c 5, Cost. tale mozione deve essere sottoscritta da
almeno 1/10 dei componenti di ogni Camera (che devono sottoscrivere la stessa mozione di
sfiducia, non potendosi sommare diverse mozioni sebbene dirette ad ottenere il medesimo
scopo). La norma costituzionale stabilisce inoltre la mozione di sfiducia non possa essere messa
in discussione prima di 3 giorni dalla sua presentazione, allo scopo di evitare colpi di mano delle
opposizioni che potrebbero essere indotte a sfruttare la momentanea assenza nell’ Assemblea di
parlamentari della maggioranza. L’approvazione della mozione di sfiducia a differenza del
semplice voto di dissenso, obbliga il Presidente del Consiglio, a nome del Governo, a presentare al
Capo dello Stato le dimissioni dell’ esecutivo. Di fatto, però, non è mai accaduto che un Governo si
sia dimesso a causa di una esplicita revoca della fiducia: numerose crisi di Governo, se si
eccettuano quelle assai peculiari del I e II Governo Prodi, sono state sempre, formalmente,
extraparlamentari, cioè conseguenti a spontanee dimissioni del Governo per dissensi manifestati
nella maggioranza. In qualche rara circostanza, mozioni di sfiducia al Governo sono state
discusse dalle Camere, ma di fatto sempre respinte, oppure sono risultate superate e non votate a
causa delle intervenute dimissioni del Governo nei cui confronti erano dirette. Tutto ciò si spiega
tenendo conto che le forze politiche della maggioranza uscente e lo stesso Governo ritengono
inutile o dannoso giungere ad un voto quando le ragiono o le condizioni della collaborazione che
hanno dato vita alla maggioranza stessa vengano giudicate non più esistenti.

Talvolta nella prassi è accaduto che il Capo dello Stato abbia respinto le dimissioni presentate e
conseguentemente invitato il Governo a verificare in seno alle Camere la sussistenza delle
condizioni politiche per il perseguimento delle sue attività e comunque ad approfondire nella
sede parlamentare le ragioni della crisi (Parlamentarizzazzione della crisi)

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4.4. LA MOZIONE DI SFIDUCIA AL SINGOLO MINISTRO

I procedimenti fiduciari espressamente disciplinati dalla Costituzione terminano qui, con le


mozioni di fiducia e sfiducia. La prassi, le convenzioni e le consuetudini costituzionali ne hanno
individuato altri due procedimenti: la mozione di sfiducia al singolo ministro (mozione di
sfiducia individuale) e la questione di fiducia.

Nel caso della mozione di sfiducia individuale (del singolo ministro), la disciplina sua
disciplina è stata “inventata” dalla giunta per il regolamento del Senato in un parere del 19
marzo 1984 e codificata poi dal regolamento della Camera il 7 maggio 1986. L’esigenza è
derivata da un problema pratico relativo all’ammissibilità e al trattamento procedurale al quale
assoggettare le mozioni volte a chiedere le dimissioni di un ministro (l’applicazione delle regola
ordinaria avrebbe previsto lo scrutinio segreto, lasciando così spazio ai franchi tiratori). Prima
il Senato, poi la Camera, nel ritenere ammissibili le mozioni volte a chiedere le dimissioni di un
ministro, hanno deciso di estendere ad esse il medesimo trattamento procedurale delle mozioni
di sfiducia dell’intero Governo: dunque, votazione palese per appello nominale, ma anche
motivazione, presentazione da parte di almeno 1/10 dei componenti dell’Assemblea e tre giorni
di intervallo minimo tra presentazione e votazione. Si è affidato al Presidente d’ Assemblea il
compito di decidere quando si sia davanti a mozioni di sfiducia e quando a mozioni di “censura”
(volte a criticare l’operato di un ministro senza chiederne la rimozione).

Tale strumento è ammissibile nell’ordinamento italiano? Vi sono dei dubbi al riguardo in


quanto è incompatibile con il rapporto fiduciario tra le Camere il Governo e tale strumento
accentuerebbe la prassi del “governo per ministeri” a svantaggio della collegialità governativa e
dei poteri di coordinamento del Presidente del Consiglio dei ministri.
Su questi argomenti ha provato a fare leva l’unico ministro che sia stato sfiduciato, il ministro di
grazia e giustizia Mancuso nel sollevare il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato nei
confronti del Senato (che aveva approvato la mozione di sfiducia individuale) del Presidente del
Consiglio e Presidente della Repubblica. La Corte Costituzionale ha respinto le obiezioni
affermando la legittimità della mozione di sfiducia individuale con la sentenza 7/1996,
richiamando i caratteri della forma parlamentare (collegamento tra indirizzo politico –
responsabilità - rapporto fiduciario) e sottolineando la sua idoneità a comportare, per il
ministro che ne sia stato colpito, l’obbligo di dimettersi. Non si è più verificato nessun caso,
perché nelle ipotesi è sempre intervenuto il Presidente del Consiglio in difesa del ministro
interessato.

4.5. LA QUESTIONE DI FIDUCIA

Art 94 comma 4 Cost. “Il voto contrario di una o di entrambe le Camere su una
proposta del Governo non comporta l’obbligo di dimissioni.”

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Decisamente più rilevante sul piano quantitativo e sul piano del sistema è la questione di
fiducia. Con la questione di fiducia è il Governo a dichiarare che dall’esito di una certa votazione
parlamentare dipende la sua permanenza in carica: a chiamare a raccolta, cioè la propria
maggioranza su una certa votazione, legando il suo destino al risultato di un voto. Si osserva che
la ratio dell’istituto è di tipo “ricattatorio”: con la sua posizione il Governo pone l’Assemblea
davanti a un’ alternativa netta, o approva il testo voluto dal Governo o questo si dimetterà. In
Italia la questione di fiducia non è oggetto di disciplina costituzionale ma, è una lettura in
negativo del disposto dell’art 94 Cost.: “ la sconfitta in una votazione parlamentare non
comporta per il Governo obbligo di dimissioni ” (ciò non impedisce di dichiarare che il destino del
Governo dipende dal voto). Vi sono stati accesi dibattiti sull’ ammissibilità e soprattutto sugli
effetti procedurali quando la votazione ha luogo nell’ambito del procedimento legislativo. Vi è
una vera e propria consuetudine costituzionale in forza della quale la questioni di fiducia
produce tre ordini di effetti (anche in deroga ai principi costituzionali che informano il
procedimento legislativo) :

1) Il voto palese per appello nominale.

2) La priorità della votazione su cui è stata posta la fiducia.

3) L’ inemendabilità (e indivisibilità) dell’oggetto di tale votazione.

Oggi tale consuetudine è stata in parte codificata, in parte integrata da norme inserite nei
regolamenti parlamentari (alla Camera nel 1971, al Senato nel 1988).
A queste fanno riscontro, sul versante governativo, due disposizioni legislative contenute nella
legge n. 400/1988: la disposizione legislativa secondo cui “Il consiglio dei ministri esprime
l’assenso all’ iniziativa del Presidente del consiglio di porre la questione di fiducia davanti alle
Camere” e quella secondo cui “spetta al Presidente del consiglio direttamente o a mezzo di un
ministro espressamente delegato porre la questione di fiducia”. Per il resto si applica la
consuetudine che in parte emende da un parere della giunta per il regolamento del 1984: la
questione di fiducia ha priorità su ogni altro voto e preclude non solo la votazione, ma anche
l’illustrazione degli emendamenti.

Al Senato, la disciplina regolamentare si limita a vietare la posizione della questione di fiducia


sulle proposte di modifica del regolamento e, in generale, su quanto attenga alle condizioni di
funzionamento interno del Senato. Per il resto, trova applicazione la suddetta consuetudine.
Alla Camera la ben più diffusa disciplina regolamentare allarga i divieti presenti in Senato:
vieta la questione di fiducia anche per le proposte di inchieste parlamentari, e su tutte le
votazioni per alzata di mano o scrutinio segreto. Sancisce la modalità di votazione (per appello
nominale), gli effetti sulla discussione e sull’ordine delle votazioni nonché l’intervallo di
almeno 24 ore che deve intercorrere tra la sua posizione e la sua votazione. Un momento di
svolta si ebbe con la celebre decisione del Presidente Iotti (seduta della durata di 10 giorni) che
ha stabilito che la questione di fiducia, modificando in base all’art 116 l’ordinario
procedimento di discussione e di approvazione dei progetti di legge, dà vita ad un iter
autonomo e speciale.

Le finalità in vista delle quali il Governo decide di porre la questione di fiducia sono in genere
ricondotte a due. Anzitutto, vi è lo scopo originario dell’istituto che consiste nel

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cosiddetto “ricompattamento della maggioranza” : mediante la questione di fiducia si vuole


ricondurre all’indirizzo politico – governativo le posizioni di quei parlamentari delle forze di
maggioranza che, altrimenti, su quel voto agirebbero con maggiore libertà.
Accanto a questo scopo, vi è quello di tipo antiostruzionistico, che fa leva sugli effetti procedurali
che sono essere riconnessi alla posizione della questione di fiducia. Entrambe le finalità tendono
ad essere esaltate quando la questione di fiducia è posta su un maxiemendamento.

La questione di fiducia, proprio perché disciplinata prevalentemente da fonti non scritte,


costituisce uno strumento estremamente duttile. Oltre che nel procedimento legislativo, può
essere posta anche su atti di indirizzo. Di questo tipo sono state le questioni di fiducia che hanno
comportato la caduta di entrambi i governi Prodi.

5) IL PROCEDIMENTO LEGISLATIVO

5.1. L’INIZIATIVA LEGISLATIVA

Art 71 Cost. “L’ iniziativa legislativa appartiene al Governo, a ciascun membro delle
Camere e ad altri organi ed enti ai quali sia conferita da legge costituzionale. Il popolo
esercita l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno
cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli”.

Il procedimento di formazione delle leggi ordinarie è, nelle sue linee essenziali, regolato
dalla Costituzione (artt. da 70 a 74), la quale rinvia per una disciplina più puntuale ai
regolamenti parlamentari, così ponendo una “riserva di regolamento parlamentare”. La
Costituzione fissa alcuni passaggi ineliminabili: l’ iniziativa, la deliberazione delle due Camere
in momenti distinti e successivi, l’esame in commissione, il voto articolo per articolo e il voto
finale. Tali passaggi rappresentano tutti anelli necessari di una catena, la cui mancanza
origina un vizio di legittimità costituzionale della legge, sindacabile dalla Corte costituzionale.

Il primo anello della catena è l’iniziativa legislativa, la redazione cioè di un progetto di legge,
composto in articoli e corredato da una relazione illustrativa da parte dei soggetti individuati
dall’ art 71 Cost. : il Governo, i singoli parlamentari, 50.000 elettori, ciascun consiglio regionale
e il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL).

Quando non proviene dai singoli parlamentari, l’inizia legislativa è a sua volta il risultato di un
procedimento. Per l’iniziativa del Governo si prevede un itinerario assai complesso: l’iniziativa
del ministro competente o del Presidente del consiglio, il concerto degli altri ministri coinvolti,
la delibera del consiglio dei ministri e a chiusura per espressa previsione costituzionale l’
autorizzazione del Presidente della Repubblica (se riscontra vizi può chiedere un riesame al
consiglio dei ministri) per la presentazione ad una delle due

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Camere. In questo iter il testo dell’iniziativa legislativa del Governo (alla Camera si chiama
“disegno di legge”, dato che gli altri progetti sono chiamati “proposte di legge”, al Senato, non
c’è differenza, tutti “disegni di legge”) si correda di relazioni (illustrativa, tecnico finanziaria
ecc …) che dovrebbero rappresentare la motivazione sostanziale dell’intervento normativo,
giustificandone la prevalenza politica sulle altre. Vanno ricordate tre caratteristiche
dell’iniziativa legislativa:

1) La prevalenza dell’iniziativa legislativa del Governo rileva solo su un piano politico, poiché
invece le iniziative legislative sembrano tutte avere per la Costituzione un uguale valore
giuridico.

2) L’iniziativa legislativa non è idonea a produrre effetti sostanziali (neppure se si individua in


termini estati al materia su cui intervenire), gli emendamenti dei parlamentari o dello stesso
Governo sono liberi di modificare pure il testo dei disegni di legge governativi, potendo così
aggirare sia tutta la fase endogovernativa, sia l’autorizzazione del Presidente della Repubblica.

3) L’iniziativa legislativa è in genere considerata un semplice impulso al procedimento, le


Camere non si ritengono obbligate a deliberare su un testo, ma libere di scegliere o elaborare i
testi da approvare, conformemente alla prescrizione costituzionale (art 70 Cost.) secondo cui
la funzione legislativa appartiene a loro.

Caratteristiche che apparivano comprensibili per valorizzare l’autonomia della funzione


legislativa per i primi 4 decenni, ma che ora dovrebbero essere riviste per l’accresciuto peso
del Governo quale soggetto normatore e per effetto dell’adesione all’UE.

Vi sono tuttavia iniziative legislative “obbligatorie” (anche dette vincolate o doverose) come
i disegni di legge di approvazione del bilancio, di rendiconto e dell’assestamento, che devono
essere presentati ogni anno e con la medesima cadenza approvati dalle Camere. E iniziative
legislative “riservate”, che spettano cioè ad uno solo dei soggetti titolari del potere di
iniziativa: è riservata a esempio al Governo la presentazione dei disegni di legge di bilancio e
quelli di conversione dei decreti legge. Può essere subordinata, in casi limitati previsti dalla
Costituzione, al raggiungimento di un accordo (per la ratifica dei patti che regolano rapporto
tra stato e chiesa) o di un intesa (rapporti tra Stato e altre confessioni religiose), oppure allo
svolgimento di consultazioni delle regioni o di referendum, ecc..

La sussistenza di questi prerequisiti va verificata dai Presidenti d’Assemblea a quali


l’ iniziativa è presentata, ad essi spetta dunque un generale giudizio sulla ricevibilità dei progetti
di legge: una verifica che dovrebbe limitarsi all’accertamento dell’esistenza dell’atto, della sua
regolarità formale e alla constatazione che un progetto di legge consista in un articolato e che
sia preceduto da una relazione illustrativa e ove richiesto da quella tecnico- finanziaria.

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5.2. L’ ESAME IN COMMISSIONE (IN SEDE REFERENTE)

Art 72 comma 1 Cost. “Ogni disegno di legge, presentato ad una Camera è, secondo le
norme del suo regolamento, esaminato da una Commissione e poi dalla Camera stessa,
che l’approva articolo per articolo e con votazione finale.”

Il progetto di legge, presentato al Presidente di una delle due Assemblee, viene dal medesimo
assegnato ad una commissione parlamentare permanente (o a più commissioni riunite se la
materia investa la competenza di più commissioni), o altrimenti ad una commissione
“speciale” costituita ad hoc. La scelta della commissione o delle commissioni competenti è al
Senato un potere esclusivo del Presidente d’Assemblea.
Alla Camera questa scelta è sottoposta ad una valutazione dell’aula, che in teoria potrebbe
variare la commissione, ma in pratica si limita a prendere atto della decisione presidenziale. Al
Presidente d’Assemblea spetta comunque risolvere eventuali conflitti di competenza insorti
dopo l’assegnazione.

Nel procedimento normale, o in sede referente, in commissione viene svolto un esame


preliminare e istruttorio (che comprende anche la formazione del testo base) rispetto alla
fase deliberativa, che ha luogo invece in Assemblea. Alla commissione spetta innanzitutto
svolgere un’ adeguata istruttoria. Scegliere la materia e dunque i progetti di legge su cui
lavorare è un’opzione politica (non è un atto dovuto, gran parte delle iniziative legislative non
sono esaminate e vengono messe solo per memoria all’ordine del giorno delle commissioni). Solo
per pochissime esiste un vero e proprio obbligo d’esame, ad esempio per i progetti che
costituiscono manovra di bilancio e disegni di legge di conversione. Il termine ordinario per
riferire all’Assemblea è due mesi.

L’esame in commissione si apre con un’ illustrazione preliminare svolta dal Presidente o
affidata ad un relatore, da lui nominato. Se presso l’altro ramo del Parlamento è iniziato
l’esame di un progetto di legge su analoga materia, i Presidenti delle due Assemblee devono
raggiungere intese per evitare lo svolgimento di procedimenti paralleli. Nella prassi il criterio
generale è che vada avanti la commissione che ha iniziato l’esame per prima.

Si svolge quindi la fase istruttoria propriamente detta: l’acquisizione cioè di “elementi di


conoscenza necessari per verificare la qualità e l’efficacia” dell’intervento normativo proposto.
Questa fase è regolata con dovizia di particolari dal regolamento della Camera (art 79 che ha
codificato i contenuti di due circolari dei Presidenti delle Camere del 1997). La definizione dei
contenuti dell’istruttoria è poi stata ribadita dallo stesso regolamento ove si è stabilito che nel
corso dell’esame in sede referente le commissioni devono prendere in considerazione i seguenti
elementi:

- La necessità dell’intervento legislativo


- Il rispetto degli altri ambiti di competenza
- Il rapporto costi-benefici
- La corretta stesura del testo

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Al fine di poter valutare questi elementi, la commissione può utilizzare l’intero strumentario
delle procedure informative messe a disposizione dai regolamenti: udire i ministri, disporre di
indagini conoscitive ed è soprattutto il Governo il soggetto maggiormente in grado di fornire
informazioni a priori circa la fattibilità dell’intervento legislativo (le Camere poi controllano la
correttezza dei dati forniti). Al Senato ove il regolamento dice poco sui contenuti
dell’istruttoria, questi approfondimenti sono svolti in sedi informali: ufficio di presidenza
integrato dai rappresentanti dei gruppi, o un apposito comitato ristretto composto in modo da
garantire la partecipazione di tutte le forze politiche, e procede ad istruttoria libera senza
formalità e pubblicità.

Esaurita questa prima fase, la commissione elabora un testo unificato di mediazione dei vari
progetti abbinati o altrimenti procede alla scelta di uno dei progetti come “testo base”. E’ con
riferimento a questo testo che si fissa un termine per la presentazione degli emendamenti, che
poi sono oggetto di discussione e votazione in commissione. L’esame di articoli ed emendamenti
avviene senza un particolare rigore procedurale, non dovendo rispettare un rigido ordine.

Sui testi risultanti dall’esame degli emendamenti viene sollecitato, alla Camera, e in concreto
acquisito il parere delle altre commissioni parlamentari interessate. Fra questi, i più importanti
sono i pareri delle commissioni “filtro”, che hanno cioè una competenza trasversale rispetto
ai singoli settori, di competenza di ciascuna commissione : es. la commissione di bilancio per
verificare la copertura finanziaria delle previsioni di spesa contenute nei progetti di legge e
rispetto di leggi sulla contabilità, la commissione affari costituzionali per la conformità alla
Costituzione e coerenza con l’ordinamento, la commissione politiche dell’UE per progetti di
attuazione di norme comunitarie, la commissione giustizia, e alla Camera la commissione lavoro
per gli aspetti concernenti il pubblico impiego, previdenza e autonomia contrattuale, per prassi
la commissione finanze e infine la commissione bicamerale per le questioni regionali (per
materie dell’art 117 Cost.). Il mancato rispetto dei pareri espressi dalle prime tre impedisce
l’approvazione del progetto di legge da parte di commissioni in sede deliberante: se la
commissione non segue neanche una condizione del parere, il testo è rimesso all’Assemblea. Se la
commissione destinataria dei pareri è in sede referente, la vincolatività si attenua e l’Assemblea
è libera di oltrepassare il parere contrario: si procede quindi alla stampa del parere in allegato
alla relazione dell’Assemblea con obbligo di motivare perché non ci si è conformati (i pareri
della commissione di bilancio hanno effetti significativi: se non ci si è adeguati si trasformano in
emendamenti da sottoporre al voto dell’Assemblea). Alla Camera può essere chiesto un parere
che ha lo stesso valore di quello delle commissioni filtro, si parla di parere rinforzato, il quale
consente così di ridurre il ricorso all’assegnazione dei progetti di legge a commissioni riunite.

Nella “sede referente”, il procedimento in commissione si esaurisce con la votazione del


mandato al relatore a riferire all’Assemblea. E’ questo l’unico voto che la commissione in
questa sede è tenuta a dare. Per sostenere il dibattito in aula, la commissione, oltre al relatore di
maggioranza e agli eventuali relatori di minoranza procede alla nomina di un comitato
rappresentativo anche delle minoranze chiamato “comitato dei nove”.

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Questo rappresenta la commissione nel corso dell’esame del progetto di legge in Assemblea
esercitando quelle funzioni di guida e sostegno della discussione in aula, oltre che esprimendosi
preventivamente su tutti gli emendamenti presentati. Il testo proposto dalla commissione viene
stampato, preceduto dalla relazione del relatore. Possono essere presentate oltre alla relazione
di maggioranza anche relazioni di minoranza (corredate con un testo alternativo).

5.3. L’ ESAME IN ASSEMBLEA

Arrivati in Assemblea (la stessa procedura si segue in commissione in sede “deliberante” o


“redigente”) sul testo predisposto dalla commissione si apre una discussione generale. È
questo il momento del primo e più ampio confronto pubblico sul testo del provvedimento che
dovrebbe coinvolgere tutti i parlamentari (piena pubblicità dei lavori dell’aula), tuttavia, nei
fatti, la discussione generale si è ridotta ad essere un passaggio di rito a cui sono dedicati spazi
residuali dei lavori parlamentari ( essa si svolge per lo più in aule deserte ove deputati o
senatori spesso stancamente leggono testi da lasciare agli atti). Alla Camera dovrebbe essere un
dibattito limitato (relatori, un deputato per gruppo e per componenti del gruppo misto, i
dissenzienti, e poi i rappresentanti del Governo e i relatori in replica), ma solo 20 deputati o un
capogruppo possono chiedere l’ampliamento. Ad ogni modo, essa è in genere oggetto di
contingentamento per entrambe le Camere.

La discussione può altresì concludersi con la votazione di una questione pregiudiziale o


sospensiva. Il procedimento si interrompe nel caso di votazione di una questione pregiudiziale o
anche, al Senato, per approvazione della proposta di “non passaggio agli articoli”. Si tratta di
voti che equivalgono al rigetto del provvedimento. Nel caso di approvazione di una questione
sospensiva il progetto di legge risulta solo accantonato in attesa di un evento od del
superamento di una certa scadenza. Diverso è, invece, il rinvio in commissione: uno strumento
che interrompe l’esame in Assemblea ed è di solito strumentale alla ricerca di un accordo
politico in una sede ristretta, ossia nella commissione, in cui la fase referente viene così a
riaprirsi.

Finita la discussione generale, si passa all’ esame degli articoli che compongono il testo e dei
relativi emendamenti, ossia delle proposte di modifica presentate da singoli parlamentari o
dal Governo, a loro volta suscettibili di ulteriori proposte di modifica, dette subemendamenti.
Con un emendamento si possono sostituire più articoli, un comma, una parola, anche una sola
virgola del testo in esame. Quello di presentare emendamenti è un diritto riconosciuto a ciascun
parlamentare, che in genere si presenta come una sorta di proiezione del diritto costituzionale
di iniziativa legislativa. Non è un diritto privo di limiti, innanzitutto nei tempi del suo esercizio: i
regolamenti dettano termini e modalità per la presentazione degli emendamenti (art 86 r. C e
100 r. S). Sfuggono tendenzialmente ai vincoli temporali il Governo e la commissione, i quali per
la loro posizione si fanno portatrici di scelte politiche che si risolvono in aggiustamenti al testo.
Rispetto all’iniziativa

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legislativa, la presentazione degli emendamenti presenta limiti che l’iniziativa non ha, ma al
contrario di essa, può esercitarsi anche su materie la cui iniziativa legislativa è riservata al
Governo.

Non tutti gli emendamenti presentati vengono esaminati. Ai Presidenti è riconosciuto un


rilevante potere circa la loro ammissibilità o proponibilità, non sono ammissibili emendamenti
relativi ad argomenti estranei all’oggetto del testo in esame. La verifica dovrebbe farla anche il
presidente della commissioni nel corso della fase referente.
Al Senato sono espressamente ritenuti inammissibili gli emendamenti “privi di ogni reale
portata modificativa” e sono improponibili quelli governativi che comportino oneri, privi della
relazione tecnico-finanziaria. Alla Camera si arriva a soluzioni analoghe con la prassi: sono
ammissibili in aula solo argomenti già considerati in commissione. Criteri più restrittivi per la
conversione dei decreti-legge, della manovra di bilancio, della legge comunitaria, ecc..

Sugli emendamenti presentati in Assemblea vanno acquisiti poi i pareri delle commissioni di
bilancio, per i profili di copertura finanziaria, e delle commissioni affari costituzionali.
Diversi sono gli effetti procedurali che ne derivano: solo al Senato il parere contrario della
commissione bilancio rende non votabile l’emendamento a meno che ne facciano richiesta 15
senatori. Alla Camera come al Senato, nessun vincolo nella procedura d’Assemblea è indotto dal
parere contrario della commissione affari costituzionali.

Gli emendamenti sono illustrati non autonomamente, ma nell’ambito della discussione


relativa a ciascun articolo nella quale ogni parlamentare, anche se presentatore di più
emendamenti, può intervenire una sola volta. Sugli emendamenti vengono acquisiti pareri del
Governo e del relatore: elementi essenziali di orientamento per il voto dei parlamentari, che
nelle sedute caotiche non riescono a seguire e votano secondo le indicazioni dei colleghi.

Arriva quindi il momento più delicato: quello delle votazioni sugli emendamenti e poi su
ogni articolo, come prescritto dalla Costituzione. Per garantire un’ espressione della volontà
chiara, gli emendamenti sono messi in ordine e posti in votazione, ove si riferiscano alla stessa
porzione di testo, a partire da quelli che più si allontanano dal testo base. Dunque, prima gli
emendamenti interamente soppressivi, poi quelli parzialmente soppressivi, quindi quelli
modificativi e infine quelli aggiuntivi. Gli articoli aggiuntivi sono votati alla fine, dopo la
votazione dell’articolo. I subemendamenti sono invece votati prima degli emendamenti a cui si
riferiscono (non sono ammissibili quelli interamente soppressivi). Sempre per garantire un
risultato coerente delle votazioni, il Presidente non mette in votazione gli emendamenti che
dichiara “preclusi”, perché oggettivamente incompatibili con precedenti votazioni, o “assorbiti”
dall’approvazione precedente di un testo. Questa è la procedura normalmente seguita. Tuttavia,
specie qualora ci si trovi di fronte a molti emendamenti, per es. nel caso di ostruzionismo, il
Presidente può modificare l’ordine delle votazioni degli emendamenti quando lo reputi
opportuno ai fini dell’economia o chiarezza delle votazioni (r. S) .

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Votati gli emendamenti, si vota ciascun articolo che può essere approvato o respinto, ma
anche accantonato quindi rinviato dal Presidente in commissione per un ulteriore
approfondimento. Uno o più articoli possono anche essere “stralciati”, cioè separati dal progetto
di legge: serve qui una decisione dell’Assemblea e la parte stralciata diviene un autonomo
progetto di legge che ha una vita propria (il più delle volte si conclude negli archivi).

Dopo la votazione articoli alla Camera (prima invece, al Senato) vengono discussi e votati gli
ordini del giorno. Quindi, il progetto di legge deve essere votato nel suo complesso, con le
relative dichiarazioni di voto (anch’esse soggette, di regola, a contingentamento dei tempi).
Questa deliberazione avveniva un tempo a scrutinio segreto mentre oggi invece avviene
generalmente a scrutinio palese, salva la possibilità di richiederne quello segreto nei soli casi
previsti dai regolamenti. Il voto finale è in genere preceduto dal coordinamento formale, ossia
dall’introduzione di modifiche esclusivamente di forma, che si rendono in genere necessarie per
ovviare ad errori materiali, imperfezioni o contraddizioni. Il coordinamento è oggetto di
un’accurata disciplina nei regolamenti parlamentari.

Infine il testo del progetto di legge, come approvato da una camera, per il principio del
bicameralismo perfetto, viene poi trasmesso all’altra, con il “messaggio” del Presidente
dell’una al Presidente dell’altra Assemblea, al quale spetta, nei modi che si sono visti, attivare
il procedimento legislativo presso quale ramo del Parlamento. Il testo viaggerà quindi da
palazzo Montecitorio a palazzo Madama (o viceversa) avanti e indietro
(le navette) anche più di una volta fino a che non vi sia una deliberazione conforme sul
medesimo testo, di Camera e Senato. I regolamenti prevedono comunque che la Camera che ha
approvato per prima il testo debba limitare il suo esame, nel caso non infrequente che l’altra
Camera glielo rimandi modificato, alle sole parti modificate.

Ne discende l’inammissibilità degli emendamenti che non si trovino in diretta correlazione con
le modifiche apportate dall’altro ramo del Parlamento, con la sola eccezione di quelli diretti ad
aggiornare la clausola di copertura finanziaria (termini di contesa quindi ristretti).

5.4. I PROCEDIMENTI IN SEDE LEGISLATIVA (O DELIBERANTE) E IN


SEDE REDIGENTE

Art 72 comma 3 Cost. “Il regolamento può altresì stabilire in quali casi e forme l’esame
e l’approvazione dei disegni di legge sono deferiti a Commissioni, anche permanenti,
composte in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari. Anche in
tali casi, fino al momento della sua approvazione definitiva, il disegno di legge è
rimesso alla Camera, se il Governo o un 1/10 dei componenti della Camera o 1/5 della
Commissione richiedono che sia discusso e votato dalla Camera stessa oppure che sia
sottoposto alla sua approvazione finale con le sole

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dichiarazioni di voto. Il regolamento determina le forme di pubblicità dei lavori delle


Commissioni.”

L’ art 72 comma 3 ha aperto la strada all’approvazione delle leggi direttamente in


commissione, senza bisogno di passare dall’Assemblea. Tale articolo affida ai regolamenti
parlamentari il compito di stabilire in quali casi e forme l’esame e l’approvazione dei progetti
di legge sono deferiti alle commissioni sempreché queste siano composte in modo da
rispecchiare la composizione dei gruppi parlamentari

La commissione viene denominata “in sede legislativa” alla Camera, e “in sede deliberante”
al Senato. Vi è un procedimento che può considerarsi intermedio tra quello in sede referente e
legislativa (o deliberante): “in sede redigente” (alla commissione la redazione del testo, all’
Assemblea la sua approvazione finale, senza modifiche).

Tali procedure sono circondate in Costituzione da una serie di cautele. Per effetto della
c.d. “riserva d’Assemblea” i procedimenti in sede legislativa non possono essere eseguiti per
progetti di legge in materia costituzionale, elettorale, di delega legislativa, di autorizzazione alla
ratifica di trattati internazionali, di approvazione di bilanci e dei conti consuntivi. A questo
elenco i regolamenti parlamentari aggiungono i disegni di legge di conversione dei decreti legge,
i disegni di legge finanziaria e leggi rinviate dal Presidente della Repubblica. Per espressa
prescrizione costituzionale, poi, il Governo, ma anche le minoranze parlamentari, possono
ottenere in qualsiasi fase del procedimento, il passaggio alla procedura normale (la c.d.
rimessione in Assemblea). La Costituzione ha demandato ai regolamenti parlamentari la
determinazione di casi e forme in cui un disegno di legge può essere deferito a una commissione
perché lo approvi definitivamente.

Il regolamento della Camera afferma che l’assegnazione in sede legislativa (si tratta di un
procedimento speciale) può essere proposta dal Presidente quando un progetto di legge
“riguardi questioni che non hanno speciale rilevanza di ordine generale”, ma subito dopo
afferma che possono essere assegnanti in sede legislativa anche i progetti rilevanti, “qualora
rivestano particolare urgenza”. La decisione iniziale spetta al Presidente d’Assemblea, al
momento dell’assegnazione in commissione. Per il trasferimento in sede invece, occorre oltre
all’assenso esplicito del Governo, anche una richiesta unanime della commissione al Senato. Alla
Camera, una richiesta di tutti i rappresentanti dei gruppi in commissione o di più dei 4/5 dei
componenti della commissione. Si tratta di quorum esattamente speculare rispetto a quelli che la
Costituzione richiede per la rimessione in Assemblea.

I regolamenti configurano in modo notevolmente diverso la sede redigente. Al Senato


costituisce un vero e proprio “ tertium genus ”, ossia un procedimento intermedio tra la sede
referente e la deliberante, che sin dall’inizio viene scelto dal Presidente d’Assemblea, il quale
affida all’aula la sola votazione finale. La stessa Assemblea con apposito ordine del giorno può
fissare i criteri su cui poi la commissione formulerà il testo (è sempre possibile la rimessione in
Assemblea). Si parla di “deliberante attenuata”.
Alla Camera invece la sede redigente è disegnata come una sorta di subprocedimento all’interno
della sede referente. È l’Assemblea, chiusa la discussione generale, a

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decidere di affidare alla commissione la definizione degli articoli, riservandosi il voto sugli
stessi articoli (senza discussione) e la votazione finale (con relative dichiarazioni di voto), ed
eventualmente stabilendo con apposito ordine del giorno i criteri.

Il parere espresso dalle commissioni filtro non comporta automaticamente la rimessione in


Assemblea, ma apre un ulteriore fase in aula in cui, con ordine del giorno, si decide se seguire o
no tali pareri. Quanto alle modalità di svolgimento dei lavori in commissione si applicano le
stesse regole previste per l’esame in Assemblea (art 94 R.C e 41 R.S).
Quindi è necessaria la presenza del Governo e della metà più uno dei componenti (accertamento
fatto all’inizio al Senato, e alla Camera alla votazione). Massima pubblicità delle sedute.

5.5. LA PROMULGAZIONE E LA PUBBLICAZIONE

Art 73 Cost. “Le leggi sono promulgate dal Presidente della Repubblica entro un mese
dall’approvazione.
Se le Camere, ciascuna a maggioranza assoluta dei propri componenti, ne
dichiarano l’urgenza, la legge è promulgata nel termine da essa stabilito.
Le leggi sono pubblicate subito dopo la promulgazione ed entrano in vigore il
quindicesimo giorno alla loro pubblicazione, salvo che le leggi stesse stabiliscano
diversamente.”

Approvata nel medesimo testo dai due rami del Parlamento, la legge è ormai formata (o
giuridicamente perfetta) : per produrre i suoi effetti però deve essere promulgata dal
Presidente della Repubblica e quindi pubblicata sulla Gazzetta ufficiale. Alla pubblicazione in
Gazzetta, dopo la vacatio legis, si lega l’entrata in vigore.
La promulgazione del Presidente della Repubblica, con la controfirma del Presidente del
consiglio, deve avvenire ai sensi dell’art 73 Cost. entro un mese dall’approvazione
(o diverso termine è stabilito dalle Camere se a maggioranza assoluta ne dichiarano l’urgenza).
In alternativa alla promulgazione, il Presidente della Repubblica ove riscontri vizi di legittimità
costituzionale (o anche relativi al merito costituzionale) può rinviare la legge alle Camere (c.d.
veto sospensivo) e si effettua la ripetizione del procedimento legislativo. In tal caso, dopo che si è
data lettura del messaggio di rinvio in ambedue i rami del Parlamento, il procedimento riparte
dalla Camera che aveva esaminato per prima il progetto di legge. Dopo la lettura del messaggio
in commissione, si passa in
Assemblea dove si può limitare la discussione alle sole parti oggetto del messaggio, per poi
procedere alla votazione articolo per articolo e alla finale. Se le Camere riapprovano la legge, il
Presidente della Repubblica non può rimandarla indietro nuovamente, ma è obbligato a
promulgare la legge e inviarla al ministro guardasigilli entro i 30 giorni successivi per la sua
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (se pensa di incorrere in ipotesi limite di alto
tradimento o attentato alla costituzione, può rifiutare nuovamente la promulgazione). La legge
entra in vigore 15 giorni dopo la pubblicazione sulla Gazzetta

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Ufficiale (vacatio legis, mancanza della legge) a meno che la stessa legge non preveda un
termine diverso.

6) I PROCEDIMENTI LEGISLATIVI “SPECIALI”

6.1. LEGGI COSTITUZIONALI

Art 138 Cost. “Le leggi di revisione costituzionale e le altre leggi costituzionali sono
adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore
di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna
Camera nella seconda votazione.
Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da
ciascuna delle Camere a maggioranza dei 2/3 dei componenti”

Nella categoria delle leggi costituzionali rientrano, ai sensi dell’art 138 Cost. sia le leggi di
revisione costituzionale, sia le altre leggi costituzionali (trattamento speciale per le leggi con
cui si adottano e modificano gli statuti delle regioni speciali). A parte la possibilità di richiedere
il referendum per le leggi costituzionali, l’art 138 Cost. prevede un doppio aggravamento
procedimentale per l’adozione delle leggi di revisione costituzionale e per le altre leggi
costituzionali:

- La necessità di due deliberazioni sul medesimo testo da parte di ciascuna Camera,


intervallate almeno da tre mesi.
- La necessità, nella seconda e definitiva votazione presso ciascuna Camera di una
maggioranza aggravata, pari almeno alla maggioranza assoluta dei componenti.
Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da
ciascuna delle Camere a maggioranza dei 2/3 dei suoi componenti.

I regolamenti parlamentari, con norme pressoché coincidenti, hanno sviluppato entrambi i


profili:

1) Riguardo al primo, hanno optato in favore delle letture alternate tra Camera e Senato,
anziché delle letture consecutive nel medesimo ramo del Parlamento. In tale modo si può
procedere con maggiore celerità.

2) Riguardo al secondo profilo, hanno stabilito (nonostante le perplessità in dottrina) che in


occasione della seconda lettura tanto la commissione in sede referente, quanto l’Assemblea siano
chiamate ad esaminare il progetto di legge costituzionale solamente nel suo complesso, senza
poter procedere alla discussione né alla votazione di articoli o emendamenti.

In entrambi i casi si sono adottate interpretazioni volte ad attenuare gli aggravamenti


procedurali posti dal costituente. Risultano deboli le altre garanzie specificatamente

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previste per l’esame di progetti di legge costituzionale, soprattutto nel regolamento della
Camera: maggior durata degli interventi in discussione generale e nell’esame articoli e divieto
di dichiarare d’urgenza di procedere a votazioni riassuntive e di applicare in prima battuta il
contingentamento dei tempi alle fasi successive alla discussione generale.

6.2. LEGGI DI AMNISTIA E INDULTO

Art 79 Cost. “L’amnistia e l’indulto sonno concessi con legge deliberata a maggioranza
dei 2/3 dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione
finale.”

Il requisito di una maggioranza aggravata è richiesto dalla Costituzione anche per le


leggi di amnistia e indulto (art 79 Cost). Per queste leggi, anzi, diversamente per quel che
accade per le leggi costituzionali, è necessario superare la maggioranza dei 2/3 dei componenti
di Camera e Senato anche nelle votazioni relative ai singoli articoli che la compongono. La
prescrizione costituzionale non ha ricevuto però specifico sviluppo nei regolamenti parlamentari
forse anche perché finora è stata attuata una sola volta.
Sono emerse alcune questioni procedurali, su cui Camera e Senato hanno preso posizioni
differenti riguardo le maggioranze richieste nelle votazioni intermedie: in Senato si è
proceduto senza verificare la sussistenza di tale maggioranza per la votazione di singoli articoli
né degli emendamenti ad essi riferiti, alla Camera, invece si è stabilito che la maggioranza dei
2/3 occorre per la votazione degli articoli e degli emendamenti interamente sostitutivi e
aggiuntivi, non per la votazione degli altri emendamenti né delle questioni incidentali.

6.3. LEGGI DI AUTORIZZAZIONE ALLA RATIFICA DEI TRATTATI


INTERNAZIONALI

Art 80 Cost. “Le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali che
sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano
variazioni del territorio od oneri o modificazioni di leggi.”

La Costituzione all’ art 80 prevede che il Parlamento debba autorizzare con legge la ratifica del
Capo dello Stato dei trattati più importanti. La legge di autorizzazione alla ratifica per la sua
delicatezza deve essere approvata in Assemblea e non può essere sottoposta a referendum
abrogativo. La negoziazione dei trattati spetta al governo, è lui a presentare alle Camere i
disegni di legge di autorizzazione. Questa che era considerata una regola indiscussa, ma non lo è
più dalla XIII legislatura, quando con apposite pronunce delle giunte per il regolamento, è stata
ammessa la presentazione di iniziative legislative di singoli parlamentari recanti
l’autorizzazione alla ratifica di trattati, è il testo del trattato è quello firmato dal Governo.

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I disegni di legge di autorizzazioni alla ratifica normalmente constano di un articolo che reca
l’autorizzazione alla ratifica, di un altro contenente il cosiddetto l’ordine di esecuzione (dà piena
attuazione nell’ordinamento interno al trattato), nonché del testo del trattato che costituisce un
allegato in sé inemendabile. Come inemendabili sono ritenuti, secondo una consolidata prassi,
sia la disposizione contenente l’autorizzazione alla ratifica, sia quella recante l’ordine
d’esecuzione. I disegni di legge che si presentano in questa semplice forma sono
tradizionalmente assegnati in sede referente alla commissione affari esteri.
Quando invece il trattato lascia margini di discrezionalità al legislatore nazionale, i disegni di
legge di autorizzazione alla ratifica possono contenere, oltre l’ordine d’esecuzione, anche
puntuali disposizioni di adattamento dell’ordinamento interno agli obblighi derivanti dal
trattato. Su queste ultime è possibile, secondo le regole ordinarie, l’attività emendativa,
solitamente assegnati alla commissione di merito competente per materia).
Attenzione bassa a questi tipi di leggi dato che il trattato è già concluso.

6.4.LEGGI DI APPROVAZIONE DELLE INTESE CON LE CONFESSIONI


ACATTOLOCHE

Art 7 Cost. “ Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine,
indipendenti e sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi.
Le modificazioni dei Patti, accettate delle parti, non richiedono procedimento di
revisione costituzionale.”

Art 8 Cost. “ Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla
legge.
Le confessioni religiose diverse da quella cattolica hanno diritto di organizzarsi
secondo i proprio statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico
italiano.
I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le
relative rappresentanze.”

I rapporti tra lo Stato e gli enti rappresentativi delle religioni diverse dalla cattolica sono
regolati con la legge sulla base di intese bilaterali (art 8 Cost.). I rapporti con la Chiesa cattolica
sono invece disciplinati, secondo l’art 7 Cost., dai famosi Patti Lateranensi 1929, modificabili
senza revisione costituzionale, se le variazioni sono “accettate dalle due parti”. Le modifiche
avvennero con il Concordato del 1984, reso esecutivo con la legge 121/1985. Le leggi che
regolano i rapporti con le confessioni diverse dalla cattolica seguono un procedimento
particolare, che nella sostanza ripropone il modello della legge di autorizzazione alla ratifica dei
trattati. Innanzitutto, l’iniziativa legislativa è riservata al Governo che procede a negoziare le
intese con la controparte (o le modifiche al concordato). Il testo dell’intesa negoziata è
riprodotto in un disegno di legge (non in allegato come per trattati) il quale, come avviene per i
trattati, non è considerato

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emendabile (salvo per le norme prive di corrispondenza con l’intesa, es. la copertura
finanziaria), dato che ogni emendamento comporterebbe la riapertura delle trattative. Questa
inemendabilità si riflette nel potere che hanno i Presidenti di Camera e Senato di dichiarare l’
improcedibilità di emendamenti, di parte o di interi disegni di legge, che incidano su materie
oggetto di intesa tra lo Stato italiano e le rappresentanze della chiesa cattolica o altre
confessioni.

6.5. LEGGI DI CONVERSIONE DEI DECRETI LEGGE

Art 77 Cost. “Il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare
decreti che abbiano valore di legge ordinaria.
Quando, in casi straordinari di necessità e urgenza, il Governo adotta, sotto la sua
responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso
presentarli per la conversione alle Camere che, sono appositamente convocate e si
riuniscono entro 5 giorni.
I decreti perdono efficacia sin dall’inizio, se non sono convertiti in legge entro 60
giorni dalla loro pubblicazione. Le Camere possono tuttavia regolare con legge i
rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti.”

I disegni di legge di conversione dei decreti legge sono lo strumento con cui il Governo
trasmette alle Camere il testo del decreto legge, adottato dallo stesso Governo, ai sensi dell’art
77 Cost.: “in casi straordinari di necessità e urgenza”. Essi si compongono in genere di un unico
articolo, con il quale si dispone la conversione in legge del decreto legge, il cui testo è riprodotto
in allegato.

È l’art 77 Cost. a stabilire, in modo tassativo, i tempi di inizio e di conclusione dell’esame


parlamentare di tali disegni di legge, prevedendo che i decreti legge debbano essere presentati il
giorno stesso alle Camere, che anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono
entro 5 giorni. I decreti perdono efficacia ex tunc (sin dall’inizio) se non convertiti entro 60
giorni. A questa urgenza costituzionale i regolamenti parlamentari hanno risposto in modo
diverso, ma sempre in contraddizione con la logica della Carta Costituzionale : in un primo
momento non differenziando il procedimento di esame dei disegni di legge di conversione
rispetto a quello previsto per altri progetti di legge. In un secondo momento, a partire dagli anni
‘ 80 specializzandoli sì ma attraverso introduzione di una serie di aggravanti procedurali
(consistenti in un sub procedimento per
la verifica parlamentare dei requisiti di necessità e urgenza, affidato in via preliminari alle
commissioni affari costituzionali e rispettive Assemblee). Tuttavia l’idea che un organo politico
potesse distinguere tra valutazione di legittimità costituzionale e quella di merito di un disegno
di legge si è rivelata fallace, così nel 1997 alla Camera fu soppressa, prevedendo in sostituzione il
coinvolgimento nel procedimento di conversione di un organo a composizione paritario quale il
comitato per la legislazione, chiamato ad operare però sulla base di paramenti differenti ( nei
quali non è incluso art 77 Cost.)

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Si hanno oggi discipline notevolmente diversificate tra Camera e Senato del procedimento di
conversione:

- Al Senato è ancora necessario il parere della commissione affari costituzionali


sull’esistenza dei presupposti e sui requisiti stabiliti dalla legislazione vigente (possibile
anche relativamente ad una parte del testo sul quale parere 10 senatori possono
chiedere una discussione e un voto dell’Assemblea).

- Alla Camera il comitato per la legislazione si esprime sulla qualità del testo e sulla
conformità alle regole sulla specificità e omogeneità e sui limiti di contenuto dei decreti
legge, previste dalla vigente legislazione, mentre alla commissione di merito (quella alla
quale il disegno è assegnato in sede referente) spetta valutare la sussistenza dei
presupposti sulla base degli elementi contenuti nella relazione governativa.

A questa differenza si aggiunge la disarmonia relativa all’applicazione del contingentamento


dei tempi all’ esame dei disegni di legge di conversione dei decreti legge: applicazione che
avviene regolarmente in Senato mentre è espressamente vietata alla Camera.

Con la legge di conversione dunque, le Camere stabilizzano gli effetti dell decreto legge,
rendendo permanente la disciplina da essi dettata, la quale viene in genere ampiamente
modificata per opera della stessa legge di conversione, mediante emendamenti riferito solo
formalmente a questa ma in realtà modificativi del testo del decreto legge, con efficacia dal
giorno successivo a quello della pubblicazione della legge di conversione.
Anche quanto ai margini di emendabilità della legge di conversione, i due regolamenti seguono
strade differenti: il regolamento della Camera prevede uno scrutinio segreto sull’ammissibilità
degli emendamenti riferiti ai disegni di legge di conversione, in più vanno dichiarati
inammissibili quelli che non siano strettamente attinenti alla materia del decreto legge. Il
regolamento del Senato prevede che siano esclusi solo quelli estranei all’oggetto della
discussione.

6.6. LEGGI DI DELEGA (E DI DELEGIFICAZIONE)

Art 76 Cost. “L’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo
se non con determinazione di principi e criteri direttivi soltanto per tempo limitato e
per oggetti definiti”

Con l’approvazione di una legge di delega il Parlamento demanda al Governo, ai sensi dell’art
76 Cost. l’esercizio della funzione legislativa su un certo oggetto. Non è una delega in bianco,
ma di una delega che oltre a riguardare un oggetto definito, deve essere temporanea e
parziale: nel senso che vale per un tempo limitato e parziale e non

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consente un’ attività del tutto libera al Governo, posto che deve svolgersi nel rispetto di principi
e dei criteri direttivi indicati dal legislatore delegante.

È dunque anzitutto al legislatore delegante che l’art. 76 Cost. rivolge le sue prescrizioni, a
tutela del Parlamento nei confronti di se stesso, in modo da evitare il ripetersi di esautoramenti
della funzione legislativa parlamentare come quelli verificatisi in epoca statutaria e fascista.
Alla medesima ratio sembra rispondere l’inclusione dei disegni di legge di delega all’interno
della riserva d’ Assemblea ad opera dell’art. 72 comma 4.
Il disegno costituzionale non impedisce pertanto che lo stesso legislatore delegante fissi ulteriori
limiti, in particolare di tipo procedimentale. Questi limiti ulteriori consistono in genere nel
coinvolgimento preventivo di organi o soggetti di vario genere, chiamati ad esprimere il loro
parere. La previsione assolutamente più frequente è quella dei pareri delle commissioni
parlamentari. È per effetto della previsione del parere di commissioni parlamentari sugli schemi
di decreti legislativi che il dialogo tra Parlamento e Governo, già realizzatosi durante
l’approvazione della legge di delega, ha modo di proseguire anche successivamente. Con
un’inversione dei ruoli, però: nella fase di approvazione della legge di delega l’ultima parola
spetta al Parlamento; al contrario, nella fase di adozione del decreto legislativo, la decisione
finale compete al Governo.

A queste due fasi, necessarie, se ne aggiunge sempre più spesso una terza, a carattere eventuale.
Accade infatti ormai con regolarità che la legge di delega, accanto alla delega principale,
preveda una delega accessoria, in virtù della quale, entro un termine successivo alla scadenza
della delega “principale”, il Governo è delegato ad adottare ulteriori decreti legislativi
“integrativi e correttivi”, nel rispetto dei medesimi principi e criteri e direttivi fissati nella legge
di delega e seguendo lo stesso procedimento delineato per l’adozione del decreto legislativo
“principale”. Lo strumento di delega integrativa e correttiva, la cui legittimità è stata affermata
in più occasioni dalla Corte Cost. presenta una serie di vantaggi consentendo di approvare una
serie di modifiche di dettaglio sulla base dell’esperienza o dei rilievi avanzati dopo la loro
entrata in vigore

Simile allo schema procedimentale della delega legislativa, dal punto di vista del “dialogo” tra
Parlamento e Governo, si rivela essere quello della delegificazione, istituto nel quale la
disciplina di alcune materie non protette da riserva di legge assoluta, è trasferita dalla fonte
legislativa primaria della legge a quella secondaria, dei regolamenti. In altri termini si tratta di
un mutamento di fonte normativa, relativamente ad alcune materie ben individuate. Ciò
consente un’attività diretta del Governo in quegli ambiti, considerata più rapida e flessibile. La
legge n. 400/ 1988 ha risistemato la materia, fino ad allora disciplinata dalla legge n.100 del
1926. All’art 17 della legge del 1988 è prevista la delegificazione come istituto che attribuisce al
Governo il potere generalizzato di emanare norme di rango secondario, per lo più consistenti in
regolamenti, sulla base di una legge a contenuto autorizzatorio da parte del Parlamento. Il
fenomeno della delegificazione si è sviluppato a partire dal settore amministrativo in materia di
procedimento con la legge n.
241 del 1990. Altro settore interessato della delegificazione è quello dell’indennità di
espropriazione. Importanti interventi delegificativi si registrano anche nel settore degli appalti
ma il settore nel quale il fenomeno si è manifestato in maniera più appariscente è

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quello del pubblico impiego con le tre leggi cosiddette Bassanini, Bassanini bis e
Bassanini ter.

Il secondo comma dell’ art 17 della legge n.400 prevede espressamente che la legge delega
debba indicare quali norme restano abrogate per effetto della delegificazione, cioè per effetto
dell’intervento (“autorizzato” della delega ) del potere governativo di interferire in materie già
affidate alla potestà legislativa parlamentare. Dunque il Parlamento può delegificare, ossia
delegare il Governo a disciplinare con regolamenti una certa materia, purchè indichi della legge
delega quali norme vanno abrogate. Non sempre ciò accade. A tal proposito, secondo la
dottrina costituzionalistica prevalente non è ammissibile un’abrogazione tacita, perché ciò
significherebbe che la validità di una norma di legge viene a dipendere dalla sua compatibilità
con una norma successiva regolamentare contravvenendo a due precisi principi: quello di
gerarchia delle fonti e quello della successione delle leggi nel tempo. Di conseguenza una legge
delega che non indica le norme da abrogare è sostanzialmente elusiva del dettato dell’art 76
Cost.

6.7. LEGGE FINANZIARIA, DI BILANCIO, RENDICONTO E ASSESTAMENTO

Art 81 Cost. “Le Camere approvano ogni anni i bilanci e il rendiconto consuntivo
presentati dal Governo.
L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per
periodi non superiori complessivamente a 4 mesi.
Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove
spese.
Ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi
fronte.”

Mentre la Costituzione fa esclusivo riferimento alle leggi di approvazione del bilancio e del
rendiconto, ponendo all’art. 81 Cost. una riserva di iniziativa a favore del Governo e una
riserva di approvazione a favore del Parlamento, la legislazione in materia di contabilità
pubblica è venuta delineando una gamma di provvedimenti legislativi decisamente più
articolata.
Con la legge n. 468\1978 si è deciso di valorizzare non la legge di bilancio, ma la “manovra di
bilancio”, avente il suo fulcro in un altro disegno di legge, da esaminarsi insieme a quello di
bilancio: il disegno di legge finanziaria. Successivi interventi legislativi hanno ridefinito il
contenuto proprio della legge finanziaria e ulteriormente arricchito gli strumenti che
compongono la manovra di bilancio, includendovi il DPEF e i disegni di legge collegati. Questa
disciplina legislativa ha trovato una risposta “speculare” nei regolamenti di Camera e Senato. Il
ruolo dei regolamenti parlamentari è diventato cruciale soprattutto dopo il 1978, quando
l’istituzione del disegno di legge finanziaria ha consigliato di dedicare un apposito periodo di
tempo dei lavori parlamentari quasi esclusivamente all’esame dei due disegni di legge, per i
quali si è previsto l’esame

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abbinato in commissione e in Assemblea, e ai documenti ad essi correlati, originando così


una fase specializzata e concentrata dei lavori parlamentari: la sessione di bilancio. Poiché
lo scopo primario di tale disciplina era quello di assicurare tempestività all’approvazione
delle leggi finanziaria e di bilancio, la sessione di bilancio è stata caratterizzata da due
elementi indefettibili: la garanzia dei tempi di decisione, ottenuta mediante l’obbligatoria
applicazione del meccanismo del contingentamento dei tempi e il divieto di adottare
deliberazioni su progetti di legge con conseguenze finanziaria quando è in corso l’esame dei
disegni di legge finanziaria e di bilancio. Il divieto opera solo nel corso della lettura dei
disegni di legge finanziaria e di bilancio presso quello stesso ramo del Parlamento ed è
tendenzialmente derogabile con decisione unanime delle conferenza dei capigruppo.

La disciplina dei regolamenti parlamentari ha poi avuto bisogno di ulteriori e rilevanti


riformatori, essenzialmente ispirati all’esigenza di introdurre le procedure parlamentari per
l’esame del DPEF e dei provvedimenti collegati e di assicurare la tenuta dei disegni di legge
che compongono la manovra di bilancio rispetto a normative intruse. La più accurata
tipizzazione del contenuto della legge finanziaria, legge a contenuto tipico e a competenza
limitata, ha portato a rafforzare le difese nei confronti delle disposizioni che rispetto ad esse
risultino estranee.

Si è configurato uno specialissimo potere di stralcio presidenziale, per effetto del quale il
Presidente del ramo del Parlamento cui il disegno di legge finanziaria è presentato per
primo, preliminarmente all’assegnazione, “accerta che il disegno di legge non rechi
disposizioni estranee al suo oggetto così come definito dalla legislazione vigente in materia
di bilancio e contabilità di Stato” e, ove individui ipotesi siffatte, “comunica all’Assemblea lo
stralcio delle disposizioni estranee, sentito il parere della commissione di bilancio”. Al
fine di evitare modifiche in Parlamento che introducano disposizioni estranee al contenuto
proprio del disegno di legge finanziaria, si è previsto uno specifico regime di presentazione e
di ammissibilità degli emendamenti. Essi devono infatti essere presentati necessariamente in
commissione. L’inammissibilità è decisa, in prima battuta, dai Presidenti di commissione e,
soprattutto, dal Presidente della commissione bilancio, con la possibilità, però, di appello
al Presidente di Assemblea.

Come la legge di approvazione del bilancio, anche quella di approvazione del rendiconto
generale dello Stato necessita, ai sensi dell’art. 81 comma 1 Cost., di essere deliberata
dalle due Assemblee a cadenza annuale, ponendosi a conclusione del ciclo di bilancio. Da ciò
l’opzione del regolamento della Camera di garantirne un’approvazione tempestiva
attraverso la fissazione di un termine piuttosto breve e l’estensione a tale disegno di legge, da
esaminarsi insieme al disegno di legge di approvazione dell’assestamento, e alle relazioni
della Corte dei conti sugli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria, delle regole dettate
per la sessione di bilancio quanto all’assegnazione e all’esame e all’ammissibilità degli
emendamenti in commissione e in Assemblea.

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