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ORGANIZZAZIONE

DEL SISTEMA MODA


Introduzione allo studio della moda (N. Giusti)
Capitolo 3: Le teorie della moda come sistema
Il filone della produzione culturale inaugurato da Paul Hirsch nel 1972 ha ignorato la moda come
industria che produce beni simbolici, mentre oggi è scontato pensare alla moda come a un’industria
culturale. Questo lo si deve a una riflessione che ha pensato la moda come un sistema di azione
collettiva e organizzata: in questo capitolo ci concentreremo sulle coordinate teoriche dello studio
della moda come sistema, mettendo in luce le sfumature concettuali che stanno dietro a termini come
sistema, mondo, industria, campo… Termini utilizzati indistintamente, ma che celano ipotesi di
funzionamento diverse delle realtà che descrivono.

La moda come innovazione e selezione collettiva
Herbert Blumer ci permette di collegare le teorie della diffusione, incentrate sul lato economico della
domanda, quindi sul rapporto tra individuo e vestiti, e le teorie che si focalizzano su un sistema
complesso di domanda e offerta di moda. Blumer considera la moda come risultante di un fenomeno
di selezione collettiva: nell’articolo del 1969 Fashion: from Class Differentiation to Collective Selection
approda a tali considerazioni attraverso uno studio empirico, osservando direttamente il
comportamento degli attori nell’industria della moda femminile parigina, durante gli anni del dominio
della haute couture sul mondo. Il suo concetto di moda è radicalmente diverso da quello di altri autori,
non riguarda una mania collettiva (fad), ma parla di un processo di reperimento di nuove forme sociali
all’interno di un mondo in perpetua evoluzione. Per Blumer la moda si fonda su due processi
successivi, non imitazione e distinzione, bensì innovazione e selezione. Nel processo di selezione
esistono individui che occupano posizioni centrali e che appongono il loro sigillo sui modelli, tuttavia
egli non ritiene che questi fashion leaders coincidano con l’élite economica. Anche quest’ultima è
infatti sottoposta ai processi di moda nel suo tentativo di distinguersi, e il suo prestigio, di per sé, non
basta ad assicurare che tutto ciò che lancia diventi moda. La gente adotta le mode quindi per essere in
sintonia con la moda, piuttosto che per imitare gruppi prestigiosi. Essere alla moda è una maniera per
corrispondere allo spirito del tempo, la moda vestimentaria mostra una sensibilità particolare verso
tutti gli sviluppi recenti, e non solo interni al proprio campo di applicazione. Blumer riprende anche
Walter Benjamin, autore conosciuto per la definizione di moda come sex appeal dell’inorganico, ma
che in realtà si è interessato alla moda per le sue “anticipazioni straordinarie”, in virtù del “fiuto
incomparabile” del genere femminile per tutto ciò che appartiene al futuro. Entrambi mettono le
donne sullo stesso piano degli artisti quanto a capacità di catturare la realtà con anni di anticipo.
Anche per Benjamin la moda sarebbe in contatto costante con il futuro. Oltre al rapporto con la
contemporaneità, per Blumer la moda ha tre caratteristiche principali: Introduce uniformità e
seleziona modelli con il sigillo del “come si deve”; assicura continuità storica tra passato e presente, e
nutre e dà forma ad una sensibilità e un gusto comuni. Tutte queste proprietà vengono dedotte
dall’osservazione dell’industria parigina della moda, in cui si ritrovano attori e dinamiche ancora
attuali, in più il processo è sostenuto anche dal confronto, la discussione e la lettura dei giornali di
moda. Il passaggio dalle centinaia di modelli a qualche decina battezzata dai manager e dai compratori
che selezionano avviene per lo studioso attraverso lo sviluppo di una massa di appercezione, ovvero
una sorta di cartella mentale in cui finiscono idee e percezioni collettive che acuisce e indirizza le
scelte e i gusti: ciò spiegherebbe perché gli acquirenti, in maniera indipendente, finiscano per fare
scelte identiche. Allo stesso modo i designer arrivano sempre a lanciare collezioni che hanno qualcosa
in comune, e ciò è motivato dallo stretto legare della moda con la contemporaneità: sono tre le
principali preoccupazioni dei designer, riprendere forme del passato o citare, dare risonanza a mode e
stili recenti, e sviluppare familiarità con le più recenti espressioni di modernità. I designer traducono
in vestiti i grandi temi dell’arte, della letteratura, e degli avvenimenti storico-politici in corso nella
società. Queste preoccupazioni direzionano la creatività, permettendo allo spirito del tempo di dare
omogeneità alle collezioni. Questa traduzione dello spirito contemporaneo avviene tramite un
processo di innovazione e selezione che coinvolge diversi attori: il motore della moda non sarebbe
l’invidia sociale ipotizzata dai seguaci della versione trickle down, bensì la ricerca della corrispondenza
a un “come si deve”. La visione di Blumer è compatibile con la teoria di Pierre Bourdieu sul
funzionamento della produzione culturale, la differenza sta nel significato che i due studiosi danno allo
spirito del tempo: il primo parla di modernità a valenza neutra, mentre il secondo ne offre
un’immagine demistificante, riconducendola alla dinamica delle classi sociali e al processo di dominio.
La modernità rappresenterebbe i gusti. Esiste una sorta di indifferenza alle nuove mode: i designer
devono anticipare un insieme di disposizioni che sono nell’aria, comprenderle e tradurle nel loro
lavoro perché il pubblico accetti la moda che propongono.

La moda come campo di produzione di beni simbolici
Per Pierre Bourdieu la traduzione dello spirito del tempo in prodotti si fa in maniera automatica: le
istituzioni che producono beni culturali sono legate all’economia e al mercato e tendono ad
organizzarsi in sistemi strutturalmente e funzionalmente omologhi che intrattengono una relazione di
omologia strutturale con il campo delle frazioni di classe dominante in cui reclutano gran parte della
loro clientela. In altri termini, esistono istituzioni simili in campi diversi che creano una serie di
prodotti analoghi, che verranno scelti da tipi di persone con caratteristiche analoghe. Esistono
corrispondenze oggettive tra i prodotti culturali e le porzioni di società che ne fruiscono, perciò non si
può comprendere la produzione culturale in ciò che ha di più specifico, la produzione del valore e della
credenza, se non si prendono contemporaneamente in considerazione lo spazio dei produttori e quello
dei consumatori. Tutti i campi della produzione simbolica sarebbero legati da una relazione di
omologia, perché riproducono lo stesso gioco di opposizioni: dominanti vs dominati. Per
comprendere la moda, ossia la lotta per l’imposizione dell’ultima differenza legittima, bisogna
ricostruire le strategie delle istituzioni e degli attori che producono e distribuiscono prodotti. Queste
strategie configurano dei rapporti di forza che sono economici e simbolici, e tale legame indissolubile
tra strategie economiche e simboliche costituisce la caratteristica principale dei campi culturali, e della
moda in particolare. In questo gioco per la conquista della dominanza simbolica ed economica, i
dominanti (case di moda classiche) e i dominati (i nuovi entranti) mettono in atto strategie per
mobilitare il capitale simbolico necessario a costruire valore attorno al loro prodotto e ad affermare
legittimamente l’ultima differenza in termini di stile. I dominanti lo fanno attraverso strategie di
conservazione, dall’alto di un capitale simbolico ormai consolidato, mentre i dominati lo fanno
attraverso strategie di sovversione, mettendo in discussione le posizioni dominanti e la legittimità dei
valori su cui è costruito il loro capitale simbolico. La posta in gioco sono le relazioni con il grande
pubblico e il potere di costruire e imporre simboli legittimi. Il confine legittimo di cosa è di moda e
cosa non lo è viene così continuamente spostato, tale da far cadere i concorrenti nel demodé. La perdita
di legittimità simbolica data dall’essere fuori moda si traduce ovviamente anche in una perdita di
valore economico. Gli oggetti di moda sono oggetti simbolici a ciclo corto, una volta che perdono il
proprio valore economico ed estetico possono essere utilizzati solo da consumatori meno ben piazzati
nella struttura sociale della distribuzione. In questo consiste per Bourdieu il trickle down: il ritorno di
un tema o di una forma, una serie di riutilizzazioni secondarie di ciò che è stato declassato. Il mercato
della moda è governato da un controllo rigoroso della distribuzione, che mira a mantenere separati i
mercati che offrono prodotti destinati a diverse classi sociali: questa separazione avverrebbe da un
lato tramite il segreto che ammanta(va) la presentazione delle collezioni, dall’altro tramite la politica
di gradazione dei prezzi. Le linee di prodotti sono principi di classificazione estetici ed economici,
aumentano le possibilità di accesso alla marca ma delimitando mercati diversi, e si basano sul
principio della gradazione dei prezzi. Quest’ultimo è alla base del sistema dei saldi: la differenza di
prezzo tra inizio e fine stagione rappresenta economicamente parte del valore della moda, quello della
novità, mentre la restante parte è costituita dal valore della griffe, e passa per una costruzione attenta
dell’immagine e della retorica che circondano il marchio. Alle strategie di sovversione si associa
l’estetica della modernità, della rottura col passato, dell’audacia, quindi il linguaggio delle avanguardie,
mentre a quelle della conservazione appartiene il registro dell’esclusività, dell’autenticità e della
raffinatezza. Anche la corrispondenza tra posizione geografica e posizione del campo conta in tutti i
campi della produzione di beni simbolici, concetto che anticipa quello attuale di location. La
corrispondenza tra strategie estetiche e commerciali è una delle caratteristiche principali del campo
della moda, i beni di moda possiedono un valore economico non proporzionato al valore degli
elementi materiali che entrano nella loro produzione. Nella moda si tratta sempre di soldi, ma non si
deve dire. Anche la produzione del valore del prodotto di moda passa per un’operazione di violenza
simbolica dissimulata dietro la fede del designer, ossia l’imposizione della firma realizzata dal
designer, così come dall’artista. Questa operazione si fonda sul potere magico del creatore, ovvero sul
capitale di autorità legato a una particolare posizione interna al campo. L’autorità caratteristica del
campo della moda è di tipo carismatico, è la rarità del produttore che fa la rarità del prodotto. Solo a
queste condizioni viene realizzata l’operazione di trasformazione del valore sociale dell’oggetto che è
detta transustanziazione, operata dall’imposizione della firma. Questo valore aggiunto simbolico
veicolato dalla firma si traduce direttamente in valore economico, e la vita dell’artista è parte del
valore del prodotto. Il potere del creatore, fondato sul riconoscimento della sua qualità individuale, è
una capacità di mobilitazione collettiva dell’energia simbolica prodotta dagli altri attori impegnati nel
funzionamento del campo (media, intermediari, clienti, altri creatori)… è il campo che fa l’artista in
quanto detentore legittimo del potere di transustanziazione: se nessuno degli altri attori lo legittima e
gli riconosce la qualità di creativo, il suo nome resterà un nome qualunque. L’artista (e la sua firma) è
insostituibile, mentre nella moda il designer è al tempo stesso insostituibile e sostituibile: esiste la
successione d’impresa, e una griffe spesso riesce a sopravvivere anche molto bene alla scomparsa del
suo creatore. L’ultima caratteristica del campo della moda è quella di essere un campo intermedio tra
quello dell’arte, in cui le persone sono irrimpiazzabili per definizione, e quello della burocrazia, i cui
attori sono per definizione interscambiabili. La condicio sine qua non per la riuscita di una successione
d’impresa è la costruzione di un personaggio che abbia una leggenda, una storia e delle qualità
peculiari (es. Karl Lagerfeld per Chanel). Riassumendo, Bourdieu fornisce una teoria del campo della
haute couture attualissimo: parla di campo situato a metà strada fra arte e burocrazia, retto dalla legge
di negazione dell’economia che opera in tutti i campi della produzione culturale, è fondato sulla
produzione della credenza nel valore profetico del creatore e della sua autorità, che è al tempo stesso
carismatico e burocratico (nel caso di designer che rimpiazzano il fondatore di una maison). Il
sociologo francese fonda la produzione di questa credenza su un’operazione di cambiamento del
valore dell’oggetto, chiamata transustanziazione, che viene operata grazie alla mobilitazione di tutti gli
attori del campo, produttori allo stesso titolo dei creativi. Ad ogni posizione nel campo corrispondono
strategie volte a monopolizzare le relazioni con il pubblico, e gli interessi della borghesia (classe
dominante) sono espressi dai creatori attraverso le loro proposte.

La moda come industria culturale
L’intuizione di Blumer che vede la moda come un sistema di azione collettiva che evolve per selezione
progressiva è ripresa dal teorico delle organizzazioni Paul M. Hirsch nel 1972 in un articolo intitolato
Processing Fads and Fashions: An Organization Set Analysis of Cultural Industry Sistem. Il concetto
nuovo è quello di sistema industriale, quadro di riferimento per tracciare la maniera in cui nuovi
prodotti e idee vengono filtrati ed arrivano dal produttore al consumatore attraverso un sistema di
organizzazioni. Questa prospettiva impedisce di pensare alla diffusione delle mode come un fenomeno
indipendente dalla loro produzione. Hirsch sottolinea che esiste un settore di connessione (through
put sector) composto da organizzazioni incaricate dell’innovazione che filtrano il flusso ridondante
delle informazioni destinate ai consumatori, che è generalmente ignorato. Nelle società industriali la
produzione e la distribuzione dell’arte avvengono all’interno di una rete di organizzazioni, i prodotti
culturali commerciali che circolano all’interno di queste reti sono oggetti non materiali, in quanto
servono a uno scopo estetico prima ancora che di utilità. Nel produrre e distribuire questo tipo di
oggetti le imprese vanno incontro ad alcune difficoltà come l’incertezza assoluta della domanda e la
dipendenza da attori autonomi, come i media. La risposta consiste in strategie di creazione di unità,
specializzate nel mettere a punto dispositivi per tamponare (buffering) le influenze ambientali e per
cooptare gli attori indipendenti. Queste organizzazioni costituiscono un sistema industriale culturale
(cultural industry sistem) che include tutte le organizzazioni coinvolte nel filtraggio di nuovi prodotti e
idee. La caratteristica fondamentale di questo tipo di organizzazioni è quella di essere fondate su
un’amministrazione per mestiere, modalità organizzativa caratterizzata dalla professionalizzazione del
lavoro manuale. Le decisioni relative alla pianificazione e all’organizzazione del lavoro sono prese da
chi poi lo realizzerà effettivamente (work crew), anziché dai manager come nella cosiddetta
amministrazione burocratica, che vede nella separazione tra pianificazione ed esecuzione del lavoro
uno dei suoi principi fondamentali. Le imprese organizzate per mestiere sono esenti dalla
caratteristica principale di quelle di tipo burocratico e taylorista, ossia la concentrazione del potere
decisionale e della responsabilità ai livelli superiori della scala gerarchica. Le mansioni e il modo
migliore per svolgerle sono state studiate da ingegneri e manager altrove. Hirsch parla anche di
incertezza sulla formula del best seller: nessuno conosce gli ingredienti esatti per produrre un best
seller. Per ridurre questa incertezza le strategie delle industrie culturali sono la sovrapproduzione e la
promozione differenziale dei nuovi prodotti: si seleziona un grande numero di prodotti, la maggior
parte dei quali a basso costo di produzione, che supera la capacità di assorbimento del mercato. In
seguito, beneficeranno di promozione solo alcuni di essi, sui quali si scommette. Per il resto si tenta di
approfittare di una copertura mediatica indipendente: i media sono quei gatekeepers che
costituiscono veri e propri checkpoints in grado di bloccare o favorire la circolazione delle mode. Terza
strategia, quella di accerchiarsi di intermediari e creare delle unità di confine incaricate nello specifico
delle relazioni con l’ambiente direttamente rilevante per l’organizzazione (task environment). Altra
caratteristica di questo tipo di industrie è il fatto di avere manodopera a buon mercato. Il modello di
sistema industriale culturale che risulta da questo tipo di analisi suppone che esista un surplus di
offerta e metta in evidenza la selezione progressiva, attraverso vari checkpoints strategici che filtrano
la sovrapproduzione. la strategia più diffusa consiste anche nell’investire massicciamente nella
comunicazione, cioè dotarsi di un ufficio stampa interno oppure mettersi nelle mani degli specialisti
della comunicazione. Chi investe in pubblicità si aspetta un ritorno in presenze sui redazionali
commisurato all’investimento fatto.

La moda come mondo dell’arte
Uno dei modi più diffusi di concepire il sistema della moda è quello che fa riferimento a Howard
Becker e al suo concetto di mondo dell’arte. L’approccio di Becker parte dal punto di vista di una
sociologia del lavoro applicata all’attività artistica e concepisce quindi l’arte come lavoro di qualcuno.
Di conseguenza, anche la concezione dell’arte è svincolata da considerazioni di tipo estetico-morale,
quello che conta è che la produzione delle opere d’arte ha luogo in quello che lui chiama mondo
dell’arte, ovvero una “rete di individui la cui collaborazione, organizzata grazie alla condivisione di
metodi convenzionali di fare le cose, produce quel genere di opere artistiche che dà il nome al mondo
dell’arte stesso”. Diventa indifferente il contenuto, importante il modo: un’attività collettiva che
funziona tramite conoscenza tacita e condivisa e produce un genere di prodotto caratteristico. Ogni
mondo si compone di attori e di oggetti necessari alla produzione e distribuzione delle opere d’arte, i
quali si connettono in catene di cooperazione, caratteristiche di ogni tipo di arte. Becker li classifica in
quattro categorie fondamentali:
• Personale di supporto e materiali (fornitori e personale tecnico);
• Membri dei canali di distribuzione;
• Costruttori delle teorie estetiche del mondo dell’arte;
• Stato;
Il personale di supporto è quello che spesso realizza materialmente l’opera, ma a cui nessuno
attribuisce il ruolo di autore. Gli esteti sono coloro che producono una legittimazione coerente e
argomentata attorno a ciò che gli artisti fanno e definiscono cosa è arte e cosa non lo è. I canali di
distribuzione sono responsabili di due azioni fondamentali: la definizione di standard ai quali l’opera
deve attenersi e forniscono anche i mezzi finanziari di cui l’artista ha bisogno per portare avanti la sua
attività. Questo intreccio di attori, scelte e comportamenti è retto da comportamenti codificati
(convenzioni) che assicurano un coordinamento tacito e automatico. Gli attori che le condividono
possono coordinarsi agevolmente senza che le regole del gioco vadano rinegoziate ogni volta. Il
sistema della moda può essere descritto da questo tipo di concettualizzazione: nel personale di
supporto possiamo riconoscere il microcosmo di tecnici e artigiani specializzati, nelle giornaliste di
moda a anche i designer stessi i ruoli di esteti ed estetologi, tutti attori che competono alla definizione
stessa di cosa sia la moda. Becker non parla mai della moda come mondo dell’arte possibile, ma il suo
quadro concettuale viene spesso ripreso e applicato a questo campo. Yunija Kawamura riprende
Becker per costruire una teoria della moda che la considera come un sistema in cui si rifiuta
l’equazione moda = vestiti. Kawamura considera la moda come un sistema istituzionale e si
preoccupa di sottolineare come i vestiti non siano che la materia prima grezza di un fenomeno più
complesso. Mette in evidenza come il processo di produzione della moda debba essere separato dalla
produzione dell’abbigliamento. La definizione che Kawamura dà del contesto sociale della moda
assomiglia molto alla definizione di Hirsch di industria culturale, ma anche alla definizione di mondo
dell’arte di Becker: “la moda è un sistema di istituzioni, organizzazioni, gruppi, produttori, eventi,
attività, che complessivamente contribuiscono alla creazione della moda, che è cosa diversa
dall’abbigliamento”. Si tratta di un prodotto simbolico che viene creato in un contesto istituzionale:
non sono prodotti che esistono e in qualche modo si diffondono, dall’alto verso il basso o viceversa,
diventando casualmente di moda, ma oggetti che vengono esplicitamente creati per essere moda e che
diventano recipienti delle forze, credenze e bisogni che li hanno resi tali. Kawamura è in polemica con
quella tradizione di stampo romantico che vede i prodotti culturali come l’opera di individui
artisticamente dotati. La moda, come tutti gli elementi di una cultura, è frutto del lavoro di gruppi
professionali e di organizzazioni impegnate nella produzione di simboli. Gli attori di questa
produzione materiale ma simbolica sono i designer e tutti i gatekeepers: come per Bourdieu, i designer
sono i principali responsabili della trasformazione dei vestiti in moda, sono le star del sistema, non
agiscono da soli ma senza di loro il prodotto non diventa moda. Lo star system permette di iniettare
singolarità nel consumo di massa, fidelizzando il consumatore. Ciò che di più originale risiede nel
pensiero di Kawamura è la considerazione del ruolo delle istituzioni in quanto tali: la studiosa fa
coincidere la nascita del fashion system con il 1868, anno di fondazione della Chambre syndacale de la
couture parisienne, atto ufficiale di istituzionalizzazione del sistema dell’haute couture parigina. La
federazione è di fatto un gatekeeper e decide chi sta dentro e fuori da sistema della moda parigina. Cos’
come le federazioni che li raccolgono sono gatekeepers, i designer sono agenti di diffusioni della moda,
agiscono non solo in termini di produttori delle collezioni, ma partecipano anche ad appuntamenti
istituzionali molto importanti per il mantenimento del sistema, come fiere e settimane della moda.
Questi sono riti di mobilitazione, che consentono lo sviluppo di una solidarietà morale attorno alla
moda attraverso compresenza fisica, coscienza reciproca di un comune oggetto di attenzione e
partecipazione emotiva comune.

Articolazioni nel mondo della moda
La concezione di fashion world è una vecchia idea di Paul Nystrom, ormai data per scontata. Diane
Crane traccia un quadro completo dei mondi della moda, fondato sull’osservazione empirica e
sull’analisi storica: per mondi, o centri, della moda ella intende i creativi, la loro clientela, i
commercianti, i redattori di riviste specializzate, i responsabili degli acquisti. Anche lei sottolinea il
dominio incontrastato del mondo parigino che ha dettato la moda fino agli anni ‘60. In seguito poi gli
stili si sono modificati, è aumentata la visibilità di designer provenienti da altri Paesi e Parigi ha
progressivamente perso la propria posizione dominante. Questa periodizzazione corrisponde a due
differenti tipi di organizzazione del mondo della moda: la moda di classe produceva stili vestimentari
che esprimevano la posizione sociale di appartenenza o di riferimento di chi li adottava, necessitava di
un sistema centralizzato di creazione e produzione dei modelli, con livello elevato di consenso tra i
designer, mentre nella moda di consumo esiste una differenziazione stilistica molto forte e un
consenso più limitato su quello che è di moda in un determinato periodo. Invece che essere orientata
secondo i gusti delle élite sociali, la moda di consumo include gusti e interessi di tutti i gruppi. L’idea
centrale è che la moda si sia evoluta da un sistema di classe ad un sistema multidimensionale, e si è
instaurata la centralità del consumo. Ulteriore differenziazione interna alla moda di consumo è quella
per categorie di stile: design di lusso, moda industriale, stili di strada. Il design di lusso si collega al
lascito della moda di classe, pone al centro dell’attenzione la moda dei creatori, che ormai sono artisti a
pieno titolo, i quali cercano di sottolineare la continuità e riproducibilità dell’eleganza, costruendosi
un’immagine peculiare. Quelli che rivendicano il ruolo di artista costruiscono tale immagine attraverso
strategie di rottura, ottenuta attraverso la distorsione delle convenzioni dell’abbigliamento. Questa
strategia, che Crane chiama “d’avanguardia”, consiste in un’opposizione netta rispetto alle
convenzioni correnti. È stato il caso dei giapponesi Kawakubo, Yamamoto e Miyake. La moda
industriale è quella dei grandi gruppi industriali, come Zara o Benetton, che vendono prodotti simili a
gruppi simili, infine gli stili di strada sono le mode create dalle subculture urbane, che forniscono idee
ai creativi e alle grandi industrie, e si tratta di tendenze passeggere. In realtà, questa segmentazione
oggi è confusa: grandi gruppi industriali adottano strategie tipiche del design del lusso, come affidare
la concezione della collezione a celebrities, per non parlare degli stili di strada che costituiscono ormai
un business realizzato. Quello che è importante del pensiero di Crane è che permette di riprendere le
teorie sviluppate da Bourdieu e Delsault sulle strategie del designer. Le ripartizioni del sistema moda
appena affrontate permettono di superare le obsolete ripartizioni come haute couture e pret-à-porter,
categorie fondate su un criterio ormai superato in un mercato in cui praticamente tutto è pret-à-porter,
ossia realizzato industrialmente.

Sistema, mondo e campo della moda
Tutti e tre i termini descrivono uno spazio di azione collettiva composto da attori ed oggetti che
contribuiscono a produrre quella che poi sarà la moda, ma dal punto di vista scientifico tali espressioni
non possono essere considerate equivalenti, in quanto celano ipotesi differenti riguardo le relazioni
esistenti tra gli attori dello spazio di azione collettiva. Nel caso di sistema, si ipotizza una condizione di
interdipendenza reciproca, non si fanno ipotesi sul mondo dell’arte, e infine nel caso di campo
(accezione di Bourdieu) si ipotizza un rapporto unidirezionale tra gruppi di attori (dominio). Le
proprietà dei sistemi sono state sviluppate dal biologo Ludwig von Bertalanffy, scienziato in cerca di
un linguaggio comune a tutte le scienze, poi sviluppate da Norbert Wiener, il quale segna una
gradualità nell’interdipendenza delle parti. I concetti di interdipendenza tra le parti restano le
caratteristiche peculiari dell’azione collettiva se concepita come sistema. Il concetto di mondo può
essere inteso nella sua accezione di senso comune, come l’insieme delle persone che lavorano nel
settore, oppure nella sua accezione di mondo dell’arte, così come è stata concepita da Becker. Egli con
mondo dell’arte intende un modello di attività collettiva con partecipanti legati tra loro dal contribuire
alla realizzazione dei prodotti caratteristici di quel mondo. L’ipotesi che viene fatta in questo caso è
quella di relativa autonomia di ogni singolo mondo dell’arte rispetto all’esterno: sconfinamenti e
sovrapposizioni esistono, ma si tratta di modelli a sé coerenti e dotati di confini definibili. Nulla viene
detto però riguardo le relazioni che attori e oggetti intrattengono tra loro all’interno del medesimo
mondo (si ipotizzano relazioni di dipendenza). Il concetto di campo è stato sviluppato dalla sociologia
economica, e da quella culturale, passando per l’opera di Bourdieu: non è lontano dal concetto di
sistema ed è anch’esso mutuato da scienze esatte, e anche il campo presuppone un’interdipendenza
tra le parti. La definizione che la sociologia economica ne dà è quella di DiMaggio e Powell:
organizzazioni che nel loro complesso costituiscono un’area riconosciuta di vita istituzionale, fornitori,
risorse, consumatori, agenzie di regolazione ed altre organizzazioni che producono servizi o prodotti
simili. Per Bourdieu, invece, campo è una sfera della vita sociale che si è progressivamente resa
autonoma dalle altre e all’interno della quale si instaura una competizione tra i partecipanti per la
distribuzione delle risorse del campo stesso e per la definizione dei confini. Il campo è caratterizzato
infatti da una distribuzione ineguale delle risorse e da una lotta fondativa per il lor controllo, la quale
dà origine alla suddivisione tra dominanti e dominati. Le differenze tra i tre concetti attengono, oltre
che alle ipotesi implicite sulle relazioni tra gli attori che ne fanno parte, al tipo di letteratura che li
utilizza.

Capitolo 4: Il lessico della moda
Abbiamo citato l’inutilità di etichette ufficiali come haute couture, alta moda e pret-à-porter, ma è bene
analizzare il loro significato specifico e il contesto di utilizzo.

Haute couture
Va chiarito che “alta moda” NON è la traduzione di “haute couture”, né i due fenomeno si
corrispondono. La Fédération française de la couture et du pret-à-porter definisce le maison de
couture come: imprese che creano ogni anno modelli originali destinati a essere riprodotti dopo le prove
su misura per la cliente. I termini haute couture e couture-création sono denominazioni protette
giuridicamente, di cui possono avvalersi esclusivamente le imprese iscritte su una lista compilata ogni
anno da una commissione del ministero dell’Industria. Secondo il decreto pubblicato sul Journal Officiel
il 6 aprile 1945, a Francia libera, le sole imprese che hanno il diritto alle denominazioni di couturier,
haute couture e couture-création sono quelle che riescono a presentare a Parigi almeno due volte l’anno
modelli originali creati dall’impresa, a poter documentare processi di creazione dei modelli presentati e a
rifiutare l’acquisto di qualsiasi modello esterno, a essere riconosciute da una commissione di
classificazione e controllo creata a questo proposito dalla Chambre syndacale de la couture parisienne.
Questa commissione richiede ai candidati una dichiarazione sull’onore che affermi che i modelli
originali sono creati esclusivamente dal capo della maison o dai suoi modellisti, che i modelli sono
eseguiti unicamente nei propri atelier e che questi comprendono un minimo di 20 persone impiegate
nella produzione, che la maison presenta a Parigi ogni stagione alle date fissate dalla Chambre, una
collezione di almeno 75 modelli originali, interamente creati e eseguiti all’interno, che la collezione è
presentata su almeno 3 modelli e che le presentazioni hanno luogo almeno 45 volte l’anno, all’interno
della maison. Un vero e proprio regolamento, che è stato progressivamente alleggerito nel 1993 e nel
2001. Tutte queste condizioni rappresentano delle barriere all’ingresso del mercato della moda. Con la
II guerra mondiale i couturier erano riusciti a consacrarsi definitivamente, poi la crisi del mercato e
l’ascesa simbolica dei créateurs del pret-à-porter, a partire dagli anni “60 hanno creato le condizioni
per una progressiva apertura. Questa prima breccia è divenuta una ricerca di nuove leve o di designer
stranieri che potessero scongiurare la scomparsa definitiva della couture. Oggi essa gode di un
rinnovato vigore, grazie al ritorno in auge dello chic e del glamour. I documenti ufficiali della Chambre,
aggiornati ogni stagione a seconda di chi presenta le collezioni, distinguono membri effettivi, coloro che
hanno sfilato, da membri corrispondenti e membri invitati: i primi erano un tempo i creatori di origine
straniera o aventi sedi ufficiali all’estero, mentre i secondi sono quei membri che potevano sfilare, in
quanto depositari di un know-how riconosciuto, ma che non potevano adempiere a tutte le richieste
necessarie per ottenere la denominazione ufficiale. Ciò che conta comunque è che l’haute couture è
stata all’originale dell’istituzionalizzazione del sistema moda e della professione di couturier, l’alta
moda italiana no. Come ricorda Lipovetsky, è il sistema haute couture che instaura quei modi di fare
che diverranno tipici della moda. Caratteristiche della haute couture prima e della forma-moda poi
sono:
• Numero limitato di designer che dettano i canoni fondamentali della moda corrente, seguendo
esclusivamente la loro libera ispirazione e non le richieste delle clienti;
• Sistema di diffusione dei modelli tramite vendita di cartamodelli/disegni e dei diritti di
riproduzione all’estero;
• Instaurazione di un ritmo di due collezioni l’anno;
• Strutturazione di un metodo originale di lavoro per la creazione;
• Creazione di un modello organizzativo tipico della casa di moda, composto da un nucleo
creativo interno e stabile, e licenze per quasi tutti i prodotti, oltre che lo sviluppo di tecniche
raffinate e peculiari di taglio e assemblaggio;
Tutto questo è stato inventato o utilizzato in maniera intensiva dalla haute couture, l’alta moda italiana
invece non ha costituito niente di tutto ciò: questo è l’incolmabile abisso che separa la nostra alta
moda dall’haute couture francese, non la nazione di appartenenza. Nel sistema della moda mondiale,
non abbiamo mai rappresentato quel modello e quel centro tecnologico, organizzativo e legittimante
che l’haute couture parigina è stata per almeno un centinaio di anni. L’istituzione che raggruppa i
couturier è la Chambre syndacale de la couture parisienne, fondata nel 1868. Il pret-à-porter è
federato ad essa, attraverso la Fédération française de la couture et du pret-à-porter des couturiers
et créateurs de mode. Si tratta di un sindacato padronale che ha il compito di organizzare il
calendario delle collezioni, so occupa del press release, del raggruppamento delle presentazioni, e della
stesura della lista dei giornalisti e clienti che possono partecipare alla sfilata. Il suo compito più
importante però è quello di rappresentare gli interessi delle imprese del settore, nei confronti dello
Stato francese e dei sindacati dei lavoratori. Altra funzione fondamentale della Camera è quella di
gestire ufficialmente la formazione e il reclutamento dei tecnici del settore, in particolare dei designer:
la sua celeberrima scuola un tempo era canale esclusivo di accesso alla professione, adesso è affiancata
da altre importanti istituzioni ma resta comunque uno dei percorsi didattici più antichi e prestigiosi.
La haute couture si chiama “alta” per distinguersi dalla “media” e dalla “piccola”: la moyenne couture è
costituita dalle case di moda che non sfilano, ma presentano modelli ispirati all’alta e semplificati; la
petite couture è quella delle sarte “di quartiere” che vestivano le clienti su misura, copiano i modelli
dell’alta.

Pret-à-porter
L’espressione nasce dal un calco dell’americano ready-to-wear, viene usata per la prima volta di una
campagna di comunicazione nel 1949 dalla francese Weill: l’obiettivo era dare all’abbigliamento
prodotto industrialmente un nome che permettesse di affrancarlo dalle associazioni simboliche
negative. L’abbigliamento industriale deve diventare un’alternativa non più squalificante rispetto a ciò
che è fatto in sartoria. Inizialmente il pret-à-porter indicava la confezione, venduta con un marchio
noto e proprio. Il piano Marshall e la ricostruzione dell’industria francese ed europea sono all’origine
di questa rivoluzione della moda. Nella letteratura dei fashion studies, pret-à-porter è un’espressione
molto utilizzata per indicare indistintamente tutta la produzione industriale dell’abbigliamento, in
opposizione all’haute couture e al pronto moda. Tuttavia, l’espressione viene spesso utilizzata per
coprire una serie variegata di situazioni. La caratteristica della stagionalità, che il pret-à-porter
riprende dall’haute couture, non permetterebbe di distinguerlo dal cosiddetto pronto moda
programmato, quindi conviene concentrarsi sul pret-à-porter “ufficiale”, espressione della Chambre
syndacale du pret-à-porter des couturiers et des créateurs de mode. Qui per couturier si intendono i
designer la cui attività nasce in haute couture e si estende poi al pret-à-porter, e per créateurs si
intendono le case nate direttamente nel mercato del pret-à-porter. Di tute le regole che definiscono
l’haute couture, il pret-à-porter ha tenuto unicamente quella della stagionalità, con collezioni che
vengono presentate dalle due alle sei volte l’anno. Per le linee “di lusso”, le prime linee più care e
pubblicizzate, esistono almeno due intercollezioni limitate e integrative, dette crociera o pre-inverno,
nate dalla necessità di presentare capi estivi in inverno e viceversa per coloro che andavano a fare
viaggi in paesi esotici e per permettere ai negozi di avere sempre qualcosa di nuovo da proporre.
Queste intercollezioni non sfilano e sono presentate solo a buyers professionisti. Il press release, data
di presentazione delle collezioni alla stampa, non è vincolante come per l’haute couture, in quanto il
pret-à-porter non è una denominazione protetta. Anche in questo caso si redige una lista di membri
effettivi e membri associati, anche se non viene fornita alcuna spiegazione sulla differenza di status
delle due categorie. Si delinea quindi una serie di strade diverse per stabilire cosa sia il pret-à-porter,
una consiste nell’attenersi alla denominazione legale, un’altra passa per la definizione di mondo
dell’arte di Becker: in questo senso, esso potrebbe essere un submondo del più generale mondo
dell’arte della moda. In realtà, tutti coloro che producono moda a livello industriale, che organizzano la
produzione in collezioni stagionali e che le presentano nelle varie settimane della moda possono
rivendicare la propria appartenenza al pret-à-porter. La conta di chi sfila e dove sfila non può essere un
criterio definitivo per sancire l’appartenenza a questo universo, esso va ricercato piuttosto nelle
differenze che il pret-à-porter dichiara rispetto al pronto programmato e in ciò che recupera dell’haute
couture. Queste differenze consistono nel modo di organizzare le connessioni tra processi creativi,
produttivi e distributivi, nonché nel ruolo che viene affidato al designer. Il pret-à-porter condivide in
parte lo spazio simbolico dell’haute couture e attua strategie di mercato che mettono in evidenza il
designer e il suo star system, dalla haute couture però si differenzia per la modalità di produzione: non
interno e sartoriale, ma industriale e delocalizzato, basato su rapporti di licenza e subappalto.
Questo modo di produzione origina quel processo che Paolo Volonté e Emanuela Mora chiamano
creatività diffusa. Mentre rispetto alle network enterprises del pronto moda, le case del pret-à-porter
si distinguono perché hanno come core business l’attività di concezione delle collezioni: esse svolgono
internamente questa operazione ed esternalizzano le altre a partire da quelle di produzione, mentre il
pronto moda nella sua versione pura si basa su una strategia di esternalizzazione della concezione
della collezione. Essa viene assemblata all’esterno rivisitando modelli visti alle sfilate ufficiali e
sfruttano il lavoro dei cool hunters, il cui compito è assorbire in maniera istantanea le mode correnti.

Uomo
Il 99% dei discorsi, scientifici o meno, sulla moda riguarda quella femminile. Il pensiero scientifico ha
sottolineato come l’ascesa della borghesia abbia corrisposto alla grande rinuncia da parte dell’uomo
all’abbigliarsi in maniera vistosa. La moda maschile moderna ha messo l’eleganza britannica al centro
della diffusione degli stili. La moda maschile resta però un mondo a parte: dal punto di vista
istituzionale, la moda uomo rientra a pieno titolo nella categoria del pret-à-porter, anche se ha una sua
settimana separata da quella della donna, e anche molti creatori che non fanno parte dell’universo
moda femminile, e in minor numero. In Italia la moda maschile è divisa tra le grandi fiere di Milano
(Milano collezioni uomo) e di Firenze (Pitti Uomo), la presentazione delle collezioni non implica
l’iscrizione alla Camera della moda italiana, che organizza le sfilate milanesi. La differenza tra le due
manifestazioni è che quelle milanesi sono divise in sfilate e presentazioni su appuntamento, a Firenze
invece la presentazione delle collezioni avviene durante un’unica grande fiera, e di rado si tratta di
sfilate, piuttosto di mostre o eventi di altro tipo. La moda uomo spezza i mercati della moda, un
corrispettivo della haute couture potrebbe essere la grande sartoria inglese o napoletana, se non fosse
che a queste manca completamente quella visibilità internazionale di cui godono invece i grandi
couturier femminili, e di un sistema organizzato di produzione e distribuzione. Per l’uomo non si è mai
avuta infatti la scissione tra haute, moyenne e petite couture, e Londra a Napoli non hanno mai
rappresentato dei centri organizzativi mondiali per la moda maschile, come lo è stata Parigi per quella
femminile. Nella moda uomo la produzione industriale e quella sartoriale sono tuttora ibridate senza
problemi. Esiste un segmento di mercato della moda uomo occupato da grandi stilisti e dalle loro linee
maschili, ma si tratta di un segmento separato da quello classico femminile, e tale divisione è ben
visibile anche nelle manifestazioni fieristiche. I grandi stilisti nati nell’ambito della moda femminile
presentano le proprie collezioni uomo durante la settimana della moda, mentre gli altri creatori si
limitano a presentare le proprie idee nel contesto delle fiere. Sfilata e fiera sono presentazioni diverse
che suscitano modi radicalmente differenti di conoscenza del prodotto: la prima è un vero e proprio
show (spettacolo), il prodotto viene intravisto e la percezione del singolo capo è inscindibile dal resto
della presentazione, nella seconda invece il prodotto è esposto, può essere toccato, discusso e valutato.
La scelta del contesto in cui presentare le collezioni è dettata dalle strategie estetiche e commerciali
dell’azienda.

Alta moda
Se si parla di sartoria e lavoro artigianale, verrebbe naturale comparare l’haute couture parigina
all’alta moda italiana, e una retorica del mondo della moda italiano tende a farlo tracciando la storia
delle sfilate fiorentine e del pioniere Giovan Battista Giorgini come riscatto dalla dominazione
stilistica straniera. Pur riconoscendo il valore di creatori oggi celeberrimi, va segnalato che l’alta moda
italiana non ha mai raggiunto l’importanza della collega parigina nel sistema della moda mondiale: non
è un caso che i più celebri designer italiani in grado di misurarsi con certi lavori sartoriali sfilino a
Parigi. Il dominio incontrastato della couture parigina durò fino all’inizio degli anni ’60, nel bel mezzo
dell’età dell’oro della moda italiana, in cui le case romane e milanesi vestivano le dive di Hollywood e
proclamavano sfide alla moda d’oltralpe. Alla fine la moda italiana finiva per copiare quella francese,
inoltre il concetto di atelier come viene inteso a Parigi dopo l’avvento di Chanel e Poiret in Italia non è
mai esistito: l’atelier parigino è per disposizione degli spazi e la decorazione degli interni un luogo di
ritrovo frequentato da intellettuali e non solo da clienti, è centro di un sistema complesso in cui il
couturier è anche coordinatore generale di una pletora di altri professionisti, il che mai accadde in
Italia. L’alta moda quindi potrebbe rappresentare un pallido tentativo di imitazione, per molto tempo
non ha avuto né il know-how, né il peso economico e simbolico internazionale della haute couture
francese. Il vero discrimine però consiste nel fatto che Parigi ha lanciato alcune pratiche organizzative,
come il metodo della forma-moda di Lipovetsky o l’organizzazione dell’atelier, che hanno contribuito
ad istituzionalizzare un sistema internazionale della moda, e l’alta moda ha ripreso queste pratiche. I
vestiti francesi sarebbero ricchi di innovazioni tecniche, a livello soprattutto del taglio, mentre gli
italiani li riproducevano sfruttando tecniche di taglio più tradizionali, in più mancava quella funzione
di coordinamento e controllo di disegnatori e modellisti, che invece era propria del couturier. Sul
versante delle istituzioni, la Camera della moda italiana è un’associazione volontaria senza scopo di
lucro, retaggio di un’associazione fondata da Giorgini nel 1958, e la sua attività è iniziata ufficialmente
nel 1962. La sua funzione principale è quella di organizzare le presentazioni di Milano Moda Donna e
Uomo, e fino a poco tempo fa si occupava anche delle sfilate di alta moda a Roma, che adesso sono
diventate parte di una manifestazione autonomamente organizzata da altri enti. Pur mantenendo
l’etichetta di Alta Moda, le sfilate di Alta Roma sono aperte a una serie eterogenea di stilisti e linee
autonome, nella dichiarata volontà di offrire un palcoscenico a giovani designer emergenti, e
probabilmente di mascherare la graduale scomparsa delle grandi sartorie che un tempo occupavano la
scena romana. Non esiste un protocollo di qualità sartoriale relativo ai modi della creazione e della
produzione da rispettare per essere inclusi nella lista, né esiste un controllo del governo italiano su di
essa, come invece avviene in Francia.

Pronto moda
È estremamente difficile fare un ritratto del pronto moda, del quale esistono diverse versioni. Il
Sentier corrisponde ai quartieri orientali del II arrondissement parigino, nei quali si installarono
mercanti di novità, e dagli anni ’20 dell’Ottocento confezionisti di abiti maschili. A partire dal 1850,
l’apertura dei grandi magazzini sulla Rive Droite consacrò questo quartiere come luogo di produzione
domestica e di commercio all’ingrosso, la cui manodopera era formata prettamente da immigrati. La
Quick Response invece si autodefinisce filosofia operativa e set di procedure per massimizzare la
profittabilità della filiera del tessile abbigliamento. Si tratta di una tecnica manageriale di chiaro stampo
taylorista che ottimizza la produzione di vestiti, nasce negli USA verso la fine degli anni ’80, in risposta
alla preoccupazione per la crescita delle importazioni dai paesi in via di sviluppo. La Quick Response
imposta in maniera standardizzata a consapevole un ciclo di produzione corto del tutto simile al modo
di produzione del pronto moda, si tratta però di un sistema da realizzare all’interno dell’industria e
manca quel lato comunitario e spontaneo che caratterizza il pronto moda italiano e il Sentier parigino.
Simona Segre Reinach sottolinea l’impossibilità di ridurre il pronto moda italiano a una mera
modalità produttiva, infatti esso rappresenta un orientamento produttivo che coinvolge anche
marketing e comunicazione, fino a creare un vero e proprio mondo a parte che si interseca con il resto
del mondo della moda. Dal punto di vista della produzione, la caratteristica comune al pronto moda, al
Sentier e alla Quick Response è quella di avere un ciclo di produzione fondato su una sorta di Just in
Time, seguendo le regole della cosiddetta moda industriale. Questo implica che non viene seguito il
ritmo delle collezioni stagionali, quelle per cui si produce “a campionario”. Con il metodo di
produzione corto si lavora senza scorte, riproducendo in tempi rapidissimi ciò che viene proposto da
altri, soprattutto dal pret-à-porter. Caratteristica di questo metodo è anche l’esternalizzazione
completa dei costi di concezione dei nuovi prodotti, attraverso il sistema della copia. Vari sono i
circuiti di circolazione dei vestiti da cui il pronto trae ispirazione: dal mercato dell’usato allo street
style, fino al design, sguinzagliando cool hunters in tutto il mondo alla ricerca di tendenze che potranno
poi arrivare anche in Italia, raccolte in books appositi. Dal punto di vista della distribuzione, la logica
del pronto con acquisti e riordini continui richiede una contabilità differente da quella a cui i
dettaglianti sono abituati, e ciò implica un rapporto diretto fra dettagliante e fornitore, secondo
relazioni di tipo business to business che assicurano la possibilità di riordinare la merce in tempo reale.
Il pronto non si esaurisce però nel concetto di produzione a ciclo corto, comprende anche velocità
nello sviluppo dei prodotti e accessibilità. Il pronto moda programmato si basa su una produzione di
tipo stagionale, indistinguibile di fatto dal pret-à-porter, e le intercollezioni di quest’ultimo nel pronto
si chiamano flash. Vera differenza tra intercollezione e flash sta nel fatto che le prime sono solo
campionario da sottoporre ai clienti, e solo in un secondo momento saranno effettivamente prodotte
sulla base degli ordini raccolti, mentre le flash sono formate da prodotti effettivamente realizzati.
Modalità intermedia è quella del pronto semi-programmato, che lavora sempre su collezioni ma con
intervalli di tempo inferiori ai 6 mesi; segue il pronto veloce, che lavora in parte su campionario, e
infine il pronto alla stanga: in quest’ultima modalità la produzione viene fatta in certi casi addirittura
bisettimanalmente e completamente al buio, ed è sostenibile solo in caso di piccolissime quantità di
produzione e lavorazioni non troppo complesse. L’accessibilità è una dimensione che permette di
distinguere le aziende del pronto che si lanciano su strategie simboliche tipiche del design di lusso da
quelle che restano nell’ambito della moda industriale. I prontisti che restano su una bassa fascia di
prezzo, come Zara e H&M, sono l’espressione completa della cosiddetta moda industriale. Nella parte
alta del mercato troviamo invece non solo alcuni prontisti e marchi relativamente giovani, ma anche le
seconde linee del pret-à-porter: in questa fascia a cavallo tra il pronto e il pret-à-porter troviamo per
esempio marchi come Patrizia Pepe o Pinko, che si sono lanciate nella competizione con il design di
lusso tramite la programmazione delle collezioni. A questi marchi sono necessarie strategie specifiche
come la costruzione del nome del designer (Patrizia Pepe è un’identità fittizia) o l’utilizzo di modelle
famose, e a chiudere il pacchetto vi è la pubblicità su riviste specializzate e l’inserimento nelle fiere e
negli eventi del settore. Di fatto è difficile distinguere questo pronto programmato proiettato nel
design di lusso dal pret-à-porter.

La produzione del campionario
Nel pret-à-porter le due collezioni stagionali, più le due intercollezioni intermedie sono realizzate
secondo capi campione, raccolti in uno o più campionari. Ogni campionario rappresenta l’intera
collezione che sarà proposta ai clienti ed ha un numero molto elevato di modelli e qualche variante di
colore. Il campionario non sempre coincide con la collezione che sfila, meno ampia e più azzardata, e in
genere vengono prodotti più campionari per poter rifornire tutti i principali show room presso i quali i
clienti effettueranno gli ordini. I campionari possono presentare variazioni importanti nel tipo di
modelli e taglie a seconda dell’angolo di mondo a cui sono destinati. Dei numerosi modelli (codici)
verranno prodotti solo quelli effettivamente ordinati dai clienti, quindi in teoria la produzione
potrebbe avere luogo acquistando le materie prime solo dopo aver raccolto gli ordini e quindi senza
rischio di rimanenze. In realtà, l’ordine delle materie prime viene fatto al buio su proiezioni di vendita,
stese sulla base dei primi ordini ricevuti, poi la produzione effettiva dei capi avviene esclusivamente in
base agli ordini confermati.

Capitolo 5: Il sistema della moda, frontiere e attori
Lo studioso francese Gilles Lipovetsky fornisce l’ultimo tassello per pensare la produzione della
moda. Il concetto di moda si stira ulteriormente fino a perdere i suoi contenuti specifici e a diventare
una forma della produzione industriale nella società contemporanea. Il sistema della moda è un mondo
in cui gli attori cooperano in maniera sistematica e deliberata alla produzione di prodotti a forte valore
aggiunto simbolico. Essi adottano per fare ciò delle strategie, distinguibili in strategie di conservazione
e di sovversione. Le leggi fondamentali del sistema moda sono quelle della negazione dell’economia,
della corrispondenza tra strategie estetiche e strategie commerciali e la produzione di valore
attraverso la creazione della rarità del produttore, operazione che implica la creazione e la cura di
un’autorità di tipo carismatico. In questo capitolo effettueremo un esercizio di esplorazione
concettuale: quello del fashion system e dei suoi attori principali, oltre che dei suoi confini logici.

La forma-moda e le sue modalità
Il perimetro dei prodotti che fanno parte del sistema della moda cambia in relazione alle mode
temporanee e alle strategie adottate dalle organizzazioni presenti nel campo. L’identificazione moda =
abbigliamento si fa sempre più evanescente, in quanto anche i prodotti che non sono vestiti entrano
burocraticamente nel campo della moda attraverso il sistema delle licenze e delle estensioni di marca
gestite dalle aziende, operazioni diventate di prassi per generare profitto attorno a esse. Sia che si
ammetta che il sistema della moda è un campo organizzativo, sia che lo si concepisca come mondo
dell’arte, si deve trovare il modo di definire le caratteristiche dei suoi prodotti, nonché i suoi confini.
Tutto sembra, prima o poi, ricadere nel fashion, e da sempre sono continui gli sconfinamenti coi mondi
dell’arte contigui. L’unico modo per definire i prodotti caratteristici del sistema moda sembra quello di
eludere i contenuti e concentrarsi piuttosto sulla modalità di produzione. Cosa rende un prodotto
chiaramente riconosciuto come “di moda”? Il concetto di moda si manifesta nel concetto di forma che
esula dai contenuti, un modus operandi che l’industria può scegliere se desidera produrre e
commercializzare i suoi prodotti. La forma-moda, teorizzata da Lipovetsky, ha tre caratteristiche
principali: l’effimero, la seduzione e la differenziazione marginale. Implica una logica di rinnovamento
rapidissima, oltre che la diversificazione e stilizzazione dei modelli. La sua diffusione caratterizza in
maniera strutturale la società dei consumi, e le caratteristiche di questo processo di diffusione della
moda come forma della produzione industriale si riassumono in tre azioni fondamentali:
1. Iniziativa e indipendenza dei fabbricanti nell’elaborazione delle merci;
2. Variazione regolare e rapida delle forme;
3. Demoltiplicazione dei modelli e delle serie;
Questi tre pilastri costituiscono una sorta di operazionalizzazione delle altrettante caratteristiche di
effimero, seduzione e differenziazione marginale. Sarebbe stata la haute couture parigina ad avere
inventato questi tre metodi, poi ripresi dalle altre industrie. La società contemporanea è ormai
organizzata secondo la legge del rinnovamento obbligato, dell’immagine e della sollecitazione
spettacolare. Altri mondi industriali e artistici si impossessano dei principi di funzionamento della
moda e ne sfruttano il potente apparato di produzione simbolica. Per lanciare prodotti che entrino in
maniera più o meno temporanea nel sistema moda però bisogna rispettare alcune convenzioni
produttive, oltre a quelle segnalate dallo studioso: molto è moda, ma non tutto.

Criteri di inclusione
Uno degli esempi citati da Lipovetsky stesso per spiegare come le industrie al di fuori
dell’abbigliamento si siano aggiornate secondo la forma-moda, è quello degli orologi Swatch e della
strategia del brand, che per realizzare una campagna rivoluzionaria del 2001 si è basata su:
• Produzione di un prodotto effimero e banale (trivial) distribuito a un prezzo accessibile per
consentirne la diffusione di massa e il rapido consumo;
• Lancio di almeno due collezioni l’anno;
• Costruzione simbolica del valore del prodotto;
• Utilizzo dei canali di comunicazioni specifici e riservati alla moda;
Swatch così facendo ha creato un nuovo concetto di orologio, che prima si classificava unicamente
come oggetto prezioso: l’orologio è diventato un fashion accessory that happens to tell time, ossia un
accessorio di moda che, tra l’altro, segna anche il tempo. L’industria del lusso è diventata maestra
nell’utilizzare il movimento triplice della forma-moda, e le riviste e i giornali sono gli stessi del mondo
della moda. Inoltre, l’adesione alla forma-moda non comporta necessariamente il conformarsi ad essa
anche dal punto di vista dei contenuti: non è obbligatorio realizzare vestiti per sfruttarne i
meccanismi.

Il rapporto con le arti
Il tentativo di creare legami con quelli che Bourdieu chiamerebbe campi di arti “legittime” è parte
integrante di un’altra strategia tipica della forma-moda. Lipovetsky sostiene che la forma-moda trova
il suo compimento attraverso l’incorporazione sistematica della dimensione estetica nell’elaborazione
dei prodotti industriali. Questo permette di situare il design industriale all’interno del campo della
moda: i due fenomeni sono accomunati da due caratteristiche, la presenza iperattuale (ovvero una
logica della contemporaneità) e la libertà demiurgica del creatore. Il design ama presentarsi senza
radici, annullando tutto quello che viene prima e seguendo quel gioco di démodé che Bourdieu aveva
individuato come caratteristico della moda. Inoltre, il design integra alcuni dei principi costitutivi della
moda, come il gioco, l’ironia, l’accostamento di forme ludiche/forme funzionali. Quanto alla libertà del
creatore, essa è un principio che proviene dall’esperienza del Bauhaus: è questo movimento che ha
stabilito per gli oggetti quello che i couturier avevano stabilito per i vestiti, sono Bauhaus e haute
couture che hanno contribuito a rivoluzionare rispettivamente design e moda promuovendo un
cosmopolitismo delle forme. Se è vero, come sostiene Blumer, che la moda traduce il linguaggio della
modernità prendendolo dalle arti e da tutto quanto di nuovo la società produce, lo stesso vale per il
design. I rapporti tra arte e moda, e tra moda e architettura non mancano: oggi le archistar collaborano
con altre star del design e della moda di lusso, realizzano negozi monumento e musei che oggi sono
difficilmente distinguibili dai grandi magazzini, diventano moda loro stessi, firmando un pezzo di città
così come i designer firmano i propri prodotti. Nei negozi l’atto di acquistare diventa un rito di
confessione e redenzione, e rinforza il sentimento dell’acquirente di appartenere a una confraternita.
La difficoltà di tracciare confini definiti tra i campi della moda, dell’arte e dell’architettura si
concretizza nel lavoro di alcuni designer in un continuo sconfinamento fra le discipline. Dal punto di
vista tecnico-progettuale, le similitudini tra moda e architettura sono anche più profonde: la creazione
di moda, come l’architettura, si fonda su una serie di passaggi dalle due alle tre dimensione, e
viceversa. Oggi, si pensi alle varie fondazioni, è la moda che legittima l’arte, le catene di cooperazione si
sovrappongono incarnando la contiguità che esiste fra questi mondi privi di frontiere, e vengono così
rese tangibili le teorizzazioni di Lipovetsky della moda come vera e propria forma della
contemporaneità.

L’industria e la moda come meccanismo organizzativo
L’automobile è uno degli esempi più comuni di status symbol, dal costo non banale. Questa è una delle
caratteristiche che Meyersohn e Katz considerano necessarie ad un prodotto per entrare a pieno
titolo nel mondo della moda. L’appropriazione di alcune modalità della forma-moda da parte delle
industrie automobilistiche non rende però le automobili un prodotto di moda a pieno titolo. Quello che
è interessante nel comportamento delle case automobilistiche è l’utilizzo strategico della moda. Si
mette sempre l’accento sul carattere effimero di questo mondo, senza considerare che la moda sì
cambia, ma solo dopo essere rimasta stabile per un lasso di tempo spesso non indifferente. L’effetto
più interessante della moda come forma della produzione industriale è quello della riduzione
dell’incertezza: se tutti i consumatori avessero gusti diversi sarebbe impossibile qualsiasi forma di
produzione di massa, se le mode non fossero note l’incertezza su cosa produrre sarebbe molto elevata.
Contrariamente a ciò che dice la retorica, la moda è uno strumento potentissimo di stabilizzazione del
mercato, e tentare di manipolarla può diventare una strategia percorribile. È stato Blumer il primo ad
aprire la strada a queste considerazioni notando come la moda fosse un meccanismo di aggiustamento
di comportamenti reciproci, in un mondo altrimenti abbandonato a una moltitudine di possibilità.
Ogni industria che tenti di ridurre l’incertezza del mercato, cercando di assicurare successo ai suoi
prodotti attraverso le tre modalità della forma-moda (indipendenza dell’offerta, demoltiplicazione dei
modelli e delle serie, variazione rapida e regolare delle forme, è suscettibile all’ingresso nel campo
della moda. La sua specificità consiste nella condivisione di determinate regole del gioco e convenzioni
che definiscono strategie industriali e commerciali nei confronti del pubblico e dei concorrenti: sono le
strategie di riduzione dell’incertezza che configurano l’appartenenza al sistema moda. Stabilizzare le
relazioni di mercato, controllare l’incertezza, significa fornirsi dei mezzi per controllarne le fonti. La
moda introduce un’incertezza fittizia e prevedibile, perciò almeno parzialmente controllabile. Si tratta
di un meccanismo organizzativo a pieno titolo, che permette alle industrie di stabilizzare
temporaneamente le relazioni domanda/offerta attorno a oggetti che sono di moda. Al tempo stesso, è
suscettibile di cambiare questo equilibrio temporaneo: controllare i tempi del cambiamento è uno dei
risultati più invidiato al campo della moda. Per stabilizzare domanda e offerta, la strategia che mira a
influenzare in maniera attiva cosa va di moda creando tendenze, riguarda solo alcuni attori, quelli che
orbitano attorno al design di lusso. Ovviamente essa non è la sola possibile, è stata affiancata da una
strategia passiva, mirante a sfruttare i costi sostenuti da altri per creare delle mode, e tutto il sistema
della copia ne è un esempio.

Proposte di metodo
Stabilizzare l’ambiente e ridurre l’incertezza è un effetto scaturito dal sistema con cui la moda è stata
organizzata per un centinaio di anni, tuttavia una volta tramontata la moda di classe con il suo
potenziale coercitivo, creare un’identità forte per imporre l’ultima differenza legittima non è il solo
modo per produrre la moda. In una società postmoderna, esistono due strategie fondamentai:
1. Tentare di dettare l’ultima differenza legittima, ovvero la moda;
2. Captare e seguire istantaneamente tutto quello che è già o a breve sarà moda;
Il primo caso è associato ai couturier e ai designer di moda che si appoggiano ad un sistema globale
della moda per dettare gli stili, mentre il secondo è quello della moda industriale o del pronto. Questi
ultimi limitano gli investimenti nella creazione di nuovi prodotti grazie alla copia immediata dei
prodotti lanciati da altri designer o scovati per strada. Abbiamo notato però come design di lusso e
moda industriale si siano ormai intersecati e finiscano per condividere il medesimo spazio di
concorrenza. Anche le strategie si confondono: i designer vanno a caccia degli stili di strada e la moda
industriale fa disegnare intere collezioni ai designer, condividono gli stessi circuiti di legittimazione.
L’attenzione che tutti in generale dedicano alla strada li rende seguaci della seconda strategia.
Individuate le fondamentali strategie attiva e passiva che caratterizzano diversi attori, resta da
individuare chi appartenga al sistema. L’agire strategico è caratterizzante per l’appartenenza ai sistemi
organizzativi, ma non è l’unica condizione sufficiente. All’epoca in cui Bourdieu elaborava la sua
concezione di moda e di prodotti culturali, la moda era un prodotto simbolico a ciclo corto, il cui valore
era legato al fatto di essere nuovo. Il vintage ha introdotto nella moda la categoria del classico,
riattribuendo valore a certe cose del passato. Metodo in via di consolidamento per registrare questa
contemporanea confusione fra presente e passato può essere quello di aprire gli armadi dei più
influenti fashion leader, così come osservare le settimane della moda. Incrociando la presenza delle
aziende nelle grandi fiere internazionali, nelle pagine dei redazionali delle riviste, nei vari siti
commerciali delle città, si possono ricostruire materialmente le catene di cooperazione e i circuiti di
legittimazione costitutivi del campo della moda. Altro elemento: la localizzazione delle case madri, così
come degli showroom e dei punti vendita, è altrettanto indicativa del tipo di strategia simbolica e
commerciale seguita dalle case di moda, che la scelgono in base alla loro posizione nel sistema. È
chiaro che essere dentro o fuori non è una questione risolvibile in termini assoluti.

Capitolo 6: Il sistema della moda, un percorso diacronico
Lo scopo del capitolo è leggere il funzionamento del sistema nella sua strutturazione progressiva,
focalizzandosi sui momenti fondamentali che hanno permesso alla moda di diventare quel potente
meccanismo di azione collettiva che oggi è. Dalla nascita del sistema moda, inizialmente coincidente
con la haute couture e col relativo innesco di pratiche di lavoro, fino agli anni ’50, in cui il trionfo del re
couturier va di pari passo con la diffusione del pret-à-porter, con la routinizzazione del carisma e la
strutturazione di un modello di burocrazia aziendale per le imprese di moda. I nostri stilisti hanno
rappresentato quella testa di ponte per la “guerra d’indipendenza” del sistema moda: hanno aperto la
strada a un sistema mondiale policentrico e non più incentrato su Parigi.

Preistoria della moda
Le apparenze hanno da sempre costituito un campo governato e regolamentato in maniera molto
accurata da una serie di norme sociali, quali le leggi suntuarie, che descrivevano nei minimi dettagli il
modo in cui gli appartenenti alle diverse professioni e classi dovevano abbigliarsi. Tali norme
costituivano una rappresentazione estetica dell’organigramma del potere. Fino al XVIII secolo in
Francia ero lo Stato a deliberare sui cambiamenti della moda, e quelli per cui si può parlare di
abbigliamento sono una parte infinitesimale della popolazione. Il lavoro di chi i vestiti li produce è
inquadrato nella costellazione delle regole delle corporazioni, e i sarti restano a lungo i soli ad avere il
diritto di vestire uomini e donne. Nel 1782 le sarte si vedono finalmente riconosciuto il diritto di far
concorrenza ai maestri sarti, e Rose Bertin diventa la prima marchande de modes a imporre una
propria griffe sui vestiti che fa e a poter aumentare i prezzi in ragione della qualità estetica da essa
garantita. Tuttavia, non è ancora arrivata la Rivoluzione e la modista non può proporre in maniera
totalmente autonoma creazioni originali, e il suo commercio si concentra, più che su vestiti, sulla
produzione di accessori. Nel caso di Bertin ci troviamo davanti a un artigianato d’arte, ossia un
artigiano che aggiunge una componente estetica riconosciuta ai suoi lavori, ma che dipende ancora dal
cliente per il giudizio del risultato. Due date da ricordare sono marzo 1791, per l’abolizione delle
corporazioni, e 29 ottobre 1793, quando la Convenzione promulga un decreto in cui proclama che
nessuno può più costringere un cittadino a vestirsi in un dato modo: il diritto sancisce per la prima
volta la libertà di vestirsi. Il primo ad approfittare della libertà di vestire gli altri e se stesso fu l’inglese
Charles Frederick Worth, inventore della haute couture intesa come sistema per la creazione e la
diffusione della moda, non solo come modo raffinato di produrre materialmente bei vestiti. Fu lui ad
introdurre la pratica di presentare i modelli su ragazze in carne e ossa dette sosia, future
mannequinnes, e a inventare il couturier: comincia quel processo di emancipazione della figura del
creatore che sarà cruciale per lo sviluppo del sistema mode e per tutte le sue dinamiche fondamentali.
L’invenzione più importante di Worth è sia tecnica che commerciale, e consiste nel cosiddetto profilo
triplo: egli comprava i tessuti dalla fabbrica e non dal tessutaio (risparmiando), lo vendeva
direttamente al cliente e incassava il costo di produzione del vestito stesso. I diversi mestieri si
ritrovano uniti sotto l’egida del creatore/imprenditore e il sistema moda come noi oggi lo conosciamo
ha inizio.

La moda di classe e la strutturazione del sistema
Durante il Secondo Impero Parigi è la capitale del mondo della moda, e nasce il celebrity endorsement
come pratica commerciale. I sarti del resto del mondo tentano di riprodurre le novità create per il
grande mondo parigino, e la loro fama viene consacrata anche dalla letteratura. le creazioni circolano
attraverso le classi, attraverso il sistema della copia o tramite gli abiti d’occasione e tutti il sistema
dell’usato presso cui si riforniscono i poveri. I grandi magazzini aprono i battenti in questo periodo,
primo fra tutti Au Bon Marché nel 1852, e prendono l’abitudine di acquistare dei modelli per
riprodurli per il grande pubblico, sviluppando così l’industria della confezione. La società è semplice, le
classi sono stratificate e le identificazioni e le appartenenze ancora molto delimitate. La moda è una
moda di classe, in cui manca l’identità della persona. Il sistema di esportazione della moda parigina,
che è anche all’origine di tutti il circuito illegale della copia, vale alle creazioni la loro grandissima
diffusione. Parigi resta per un centinaio d’anni il faro della moda mondiale, e la ricetta del successo è
dovuta a due fenomeni: la progressiva autonomizzazione della figura del creatore e la
demoltiplicazione dei modelli e delle serie. La confezione americana, avanzata dal punto di vista
tecnico, propone un prodotto più accessibile economicamente e di gran qualità, ma resta la parente
povera del sistema della moda francese. I sarti e i grandi department stores americani acquistano i
modelli della haute couture per poi riprodurli, ed è questo sistema che ne permette la diffusione
capillare. Il mercato americano resta il più interessante, primo mercato di massa. Qui si investe
massicciamente in marketing e pubblicità, e i media sono potentissimi. Durante un viaggio negli USA,
Paul Poiret ha modo di constatare l’ampiezza del fenomeno della copia statunitense, e al suo ritorno
fonda il Sindacato di difesa della grande sartoria francese e delle industrie collegate. Questo sistema di
diffusione si istituzionalizza e si arricchisce progressivamente, e resterà invariato fino agli anni ’50. La
seconda guerra mondiale e le restrizione ad essa dovute istituzionalizzano il mestiere del couturier e
chiudono in maniera legale il mercato del lavoro.

Il modello Dior
Il 18 febbraio 1952 su Elle appare il primo dossier interamente consacrato al pret-à-porter, la cui
grazia deriva comunque dall’autorità suprema nel campo della moda. Le riviste femminili, che già
vendevano cartamodelli, cominciano a far disegnare modelli originali di pret-à-porter, e nasce così una
moda autonoma rispetto a quella dei grandi couturier: l’haute couture è già in fase calante. A partire
dal 1948, la Maison Dior sviluppa un sistema di licenze differenziate per prodotto e per paese: il
marchio diventa il modello organizzativo della quasi totalità delle case di moda, un nucleo tecnico e
creativo concentrato attorno alle attività di concezione dei prodotti, con la couture prodotta
internamente e una costellazione di altri prodotti concepiti internamente e realizzati all’esterno,
tramite licenze di produzione e distribuzione. Dior apre una maison a New York, poi una succursale a
Londra: lo stilista si reca lì qualche volta, realizza collezioni dedicate vendute poi da una rete
indipendente. I modelli in gran parte sono realizzati negli atelier Dior, ma anche da fabbricanti
americani scelti. Saranno proprio le licenze a scongiurare la chiusura della maison al momento della
scomparsa del celebre couturier. Christian Dior intratteneva anche un rapporto molto stretto con le
redattrici di moda, responsabili della diffusione del New Look. Ecco perché è riduttivo trattarlo
semplicemente come un grande designer: è una persona e un marchio allo stesso tempo, carisma e
riproducibilità sono però il risultato del lavoro collettivo della sua selezionata a sapiente équipe.
L’autorità carismatica, costruita anche grazie all’organizzazione burocratica (la maison) e inserita nel
mondo dell’arte, diventa routine organizzata. L’essere sospeso tra insostituibile e riproducibile è forse
la caratteristica più tipica del campo della moda.

Amministrazione e creazione
Molto frequenti nell’ambito delle imprese culturali, i binomi si compongono di un creativo e di un
amministrativo, ossia qualcuno dotato di quelle qualità necessarie a gestire il processo di creazione dei
nuovi prodotti, e qualcun altro che assicuri la gestione di tutte le attività collaterali ma indispensabili
alla concezione dei nuovi prodotti. Gli amministrativi procurano le risorse necessarie, finanziarie e
materiali, gestiscono il personale, supervisionano la comunicazione, garantiscono una distribuzione
adeguata… quindi assicurano ai creativi di poter svolgere il loro lavoro senza interferenze. Il
coordinamento di queste attività prende il nome di “amministrazione”, e i binomi sono un classico
delle imprese della moda.

La Révolution e Les Italiens
In Francia, gli inizi della confezione vanno di pari passo con l’apertura dei grandi magazzini: è a Pierre
Parissot, fondatore del primo grande magazzino specializzato in abiti da lavoro, La belle jardinière,
che si deve l’idea di razionalizzare la produzione. Le innovazioni produttive si accompagnano alle
innovazioni commerciali: il prezzo diventa fisso, costante e segnato, e l’epoca è esattamente quella
della nascita dell’haute couture. Non esiste quindi un’epoca della grande couture, a cui poi succede
come per incanto un’era industriale: le due si sviluppano parallelamente e non di rado le loro strade si
incrociano, tuttavia l’esclusione dei confezionisti francesi dalle presentazioni della haute couture ne
limitano l’espansione e relegano la confezione alle classi medie. Dopo gli anni della guerra, i grandi
magazzini si dotano di conseillères de mode, che selezionano gli oggetti da vendere come vere e
proprie direttrici artistiche ante litteram. Esse aggiungono un tocco nobiliare ai modelli, e così la
confezione esce dal ghetto della classe media e viene sdoganata per il gran mondo e per il celebrity
endorsement. L’esperienza delle conseillères de mode, dei grandi magazzini e delle riviste femminile
converge all’inizio degli anni ’60 in quella dei bureaux du style, che incoraggiano il lavoro di giovani
designer. Nel 1957 nasce Relation Textiles, primo gabinetto di conseil in stile indipendente in Europa,
mentre Karl Lagerfeld è il primo stilista di pret-à-porter a creare un proprio profumo e una delle
prime grandi personalità carismatiche autonome, tra i designer prodotti dal pret-à-porter: è lui che
accettando la direzione artistica di Chanel eleva lo status sociale dello stilista al rango del couturier.
Mentre Dior costruisce il suo impero e porta il sistema couture al suo apice stilistico e commerciale,
nuovi entranti costruiscono la resistenza al dominio incontrastato di Parigi sul mondo della moda: nel
febbraio 1951 i designer italiani sfilano per la prima volta a Firenze presso Giovan Battista Giorgini,
il quale ha l’idea di invitare i buyers americani di ritorno dalle collezioni parigine, per presentare loro
dei modelli da produrre industrialmente. I modelli italiano, stile a parte, presentano un’attrattiva
fondamentale per gli acquirenti stranieri: costano la metà di quelli parigini. Inoltre, esiste in Italia una
moda boutique, un pret-à-porter distribuito in zone strategiche nei luoghi più affascinanti del turismo
internazionale, come Capri. Se le sartorie italiane sono completamente asservite alla moda francese,
più dinamica è la moda boutique, che lavora in stretta connessione con i fabbricanti di tessuti.
L’industria italiana dopo la guerra approfitta degli aiuti americani per rinnovare la tecnologia del
processo produttivo, e il Gruppo finanziario tessile (Gft) è all’origine della rivoluzione delle taglie,
ovvero della definizione di forme standardizzate per la produzione industriale. Il Gft produce linee
proprie e diventerà il primo a negoziare contratti di licenza, per produrre le linee dei designer. I
designer italiani non hanno una generazione di sarti affermati che aprono loro la strada del pret-à-
porter, l’alta moda non costituirà mai un sistema organizzativo equivalente ed alternativo a quello
della haute couture. Le presentazioni delle collezioni cominciano a dividersi fra Firenze, Roma e
Torino, per poi prendere definitivamente la strada di Milano. Non esisterà mai in Italia una Parigi,
intesa come centro unico da cui si irradia la moda, così come il pret-à-porter italiano non nasce dalla
fusione di sartoria e confezione, come quello francese. In Italia sono i confezionisti che si dotano di
designer per migliorare lo stile delle loro produzioni: la figura del designer, sarto o stilista che sia,
resta da inventare, sia sul piano sociale che su quello professionale. È a Walter Albini che gli storici
attribuiscono l’invenzione della figura dello stilista, professionista indipendente che lavora per diversi
produttori di abbigliamento. Lui sarà il primo a sfilare a Milano, abbandonando Firenze, presto seguito
dagli scissionisti: è a Milano che aprono gli show room in mancanza di un luogo unico dedicato alle
presentazioni, e ogni angolo della città diventa un palcoscenico. Anche gli stilisti italiani cominciano a
dare forma a un’idea di stile che va al di là dei vestiti. Giorgio Armani, il più celebre designer di moda
italiano vivente, era un ex responsabile degli acquisti presso la Rinascente, poi approdato all’empireo
della haute couture come corrispondente, e comincia come stilista nel 1965 presso Cerruti. Si delinea
il sistema italiano, così come lo definiscono Nicoletta Bocca ed Enrica Morini: un designer che propone
una linea di modelli a un’impresa, alla quale si lega con contratto libero-professionale, un insieme di
produttori coinvolti nella fabbricazione dei vari tipi di capi che compongono una linea, distribuzione
che utilizza il metodo degli agenti e dei contatti individualizzati, mercato che diventa obiettivo del
processo creativo, certi confezionisti diventano anche licenziatari. Le relazioni tra moda e industria
seguono, in Italia, un percorso “di qualificazione estetica del prodotto industriale”.

Fine della storia
Gli sviluppi più recenti vedono la moda dei designer perdere quel potere assoluto di dettare l’ultima
differenza reciproca. Lo status float vede il passaggio delle mode dalla strada al designer di lusso,
mentre diversa è la maniera in cui avviene il galleggiamento: un tempo le mode avevano
necessariamente il bisogno di essere rielaborate o avvallate dall’autorità del designer, oggi si muovono
in maniera molto più autonoma. Il risultato è la ricerca spasmodica della tendenza da parte di tutti, e la
proliferazione di altre figure professionali che svolgono il lavoro che un tempo era al cuore del
mestiere del designer di moda, ossia cogliere lo spirito del tempo. A loro non resta che la traduzione di
esso in vestiti. Oggi però il potere del designer si estende fino a una serie di campo un tempo
impensati, ed entra in conflitto con altre figure dotate di un’autorità carismatica: le celebrities. Dopo
“les Italiens” il mondo dei designer si è arricchito di nuovi talenti, comparsi per ondate progressive, e al
design di lusso non resta che diluirsi in una diffusione di moda multiforme e difficilmente prevedibile.

Capitolo 7: Prospettive organizzative
Tra le discipline che hanno affrontato l’oggetto moda, gli studi organizzativi lo hanno fatto in maniera
opportunistica: hanno considerato la moda come uno degli infiniti possibili contesti organizzativi, da
analizzare con le medesime categorie. L’impressione è che gli autori abbiano voluto a tutti i costi
trovare casi empirici per validare teorie formulate altrove, senza avere la curiosità di comprendere in
senso sociologico il loro oggetto di studi. Howard Becker ci ricorda come quando si studia un’arte sia
necessario apprendere il linguaggio tecnico utilizzato da quelli del settore. In questo capitolo si vuole
analizzare quali sono i fondamenti teorici veramente utili alla comprensione della moda e discutere
alcuni dei modi in cui gli studi organizzativi l’hanno affrontata.

La moda come oggetto di studio
Il primo problema è la definizione dell’oggetto di studio, sempre mancata negli studi organizzativi. A
questi oggetti di moda indefiniti viene attribuita una serie di caratteristiche ben precise, funzionali alla
teoria che poi si tenta di dimostrare. Ciò porta a non distinguere tra quello che è pertinente e quello
che non lo è al fine di comprendere il fenomeno moda, e quindi a generalizzare. L’assenza di chiarezza
nella definizione dell’oggetto di studio conduce a mescolare diversi piano. Altro problema che
discende dal non avere una definizione e una teoria della moda è quello legato all’accettazione della
retorica dei professionisti del settore. Antidoto a queste trappole è la necessaria rielaborazione dei
dati di cui ci si serve, alla luce delle dinamiche fondamentali del campo: negazione dell’economia,
costruzione della credenza attraverso l’autorità carismatica, le tre declinazioni della forma-moda di
Lipovetsky.

Il dilemma esplorazione/sfruttamento
Due grandi filoni hanno utilizzato la moda come esempio per dimostrare la validità delle loro teorie: la
riflessione sulla co-evoluzione delle forme organizzative e quella sull’ipercompetitività. Entrambe
trovano origine in due articoli di James March, Exploration and Exploitation in Organizational
Learning e The Future, Disposable Organizations and the Rigidities of Imagination. Sono due articoli che
non hanno come oggetto la moda, ma che sono fondamentali per la comprensione di questo campo.
Nel primo testo March esplora uno dei dilemmi ai quali le organizzazioni sono confrontate
quotidianamente, tese tra lo sfruttamento delle conoscenze che già hanno e l’esplorazione di nuovi
campi di conoscenza. Lo sfruttamento delle conoscenze esistenti permette di raffinare, scegliere,
produrre, agire con efficienza… mentre l’esplorazione consente ricerca, varianza, rischio,
sperimentazione, innovazione… Le due attività non hanno lo stesso peso: sfruttare conoscenze
acquisite è più facile ed è un’attività di prossimità nel tempo e nello spazio, mentre esplorare è
un’attività dai risultati incerti, le cui conseguenze sono lontane del tempo e perciò difficilmente
valutabili. Ci sono dei rischi: sfruttare sempre la stessa competenza dà risultati positivi
nell’immediato, ma porta alla ripetizione di attività tecnologicamente inferiori e a una probabile
autodistruzione. Se la conoscenza di un’organizzazione non si evolve, in presenza di un ambiente che
cambia rapidamente la sua adeguatezza alo stessi si deteriora in fretta. C’è un altro problema, quello
legato all’apprendimento reciproco degli individui che si adattano alle conoscenze possedute da
un’organizzazione e viceversa. L’organizzazione sa quello che sanno i suoi membri, mentre gli stesso
sanno quello che imparano stando nell’organizzazione. Ciò rende meno probabile il miglioramento
delle conoscenze, che diventano obsolete. Questo degenerare progressivo del sapere può essere
evitato se nuovi individui vengono inseriti nell’organizzazione, tramite il ricambio del personale
(turnover). Le conoscenze individuali devono essere condivise, ovvero iscritte al codice, ossia l’insieme
delle conoscenze che un’organizzazione ha: la cultura organizzativa. Il codice evolve solo se i nuovi
entranti sono devianti rispetto a ciò che l’organizzazione già sa, e il punto più alto di conoscenza
organizzativa si ha quando l’organizzazione integra rapidamente i saperi devianti portati dai singoli
individui, anche se il turnover è possibile solo entro certi limiti. Di recente si è sviluppata la tendenza a
riorientare uno stile, e di conseguenza la strategia principale della griffe, attraverso il cambiamento di
direzione artistica: ogni volta che arriva un nuovo direttore artistico, porta con sé competenze diverse
a cui deve integrare i segreti della maison. Altra constatazione di March è che il vantaggio competitivo
lega la media delle prestazioni e la varianza in maniera inversamente proporzionale: se
l’organizzazione si comporta sempre mediamente allo stesso modo, è improbabile che vada incontro a
fallimenti, ma anche a picchi di eccellenza. Più aumentano i concorrenti, più è importante sapersi
distinguere, e il massimo è fare mediamente bene e anche saper variare le proprie prestazioni. La
conoscenza standardizzata aumenta la performance media, ma riduce la varianza, e più aumentano i
concorrenti più è improbabile vincere utilizzando solo una conoscenza standardizzata. Viviamo in un
mondo in cui la sopravvivenza delle organizzazioni dipende più dalla conoscenza che dall’accesso alle
risorse materiali: appropriarsi di una conoscenza, dice March, necessita almeno di due condizioni: la
prima è la coscienza dell’esistenza di una conoscenza degna di interesse, la seconda è la capacità di
servirsene. In presenza di un ambiente così mutevole e turbolento, la maggior parte delle teorie
organizzative prevede che saranno favorite le organizzazioni flessibili e capaci di adattarsi
rapidamente ai cambiamenti. Un ulteriore aspetto, aggiunge March, nello sfruttare le conoscenze che
già si possiedono consiste nel fatto che non si tratta solo della scelta meno costosa che permette di
standardizzare, ma rafforza anche la legittimità. Esistono dei modi di fare, di pensare, di organizzare
che sono riconosciuti come validi e più legittimi di altri. Comportandosi alla maniera legittima ci si
assicura il sostegno altrui alle proprie azioni, di conseguenza la sopravvivenza organizzativa è favorita
dal fatto che tutti fanno o pensano si debba fare così. Si tratta del concetto di convenzione, ovvero si
sviluppano modi convenzionali di agire che si caricano di legittimità e generano sostegno e reciprocità.
Ecco uno dei motivi della nascita dei campi organizzativi: quando organizzazioni disparate, in un
medesimo settore, si strutturano in un campo, emergono spinte potenti alla conformità che le rendono
simili fra loro. Il problema è che le strategie che sono razionali per un’organizzazione non lo sono per
tutte, e rischiano di diventare irrazionali nel momento in cui sono adottate da tutti. La legittimità
prodotta dallo sfruttare le conoscenze esistenti è un ulteriore fattore che rende meno conveniente
l’esplorazione. La paralisi generata dal dilemma esplorazione/sfruttamento non può probabilmente
essere superata a livello delle singole organizzazioni, l’unica risposta possibile deve essere trovata a
livello di sistema organizzativo. Il modello che March propone è quello di un adattamento sistemico,
attraverso la selezione e la ricomposizione di singole unità organizzative, efficaci ma che non si
adattano. Un sistema di organizzazioni “usa e getta”, efficaci nel breve termine e capaci di utilizzare
bene una competenza nota. Si tratta di organizzazioni rigide che non sono chiamate al cambiamento e
alla flessibilità. Una volta che la strategia che le organizzazioni sanno gestire è diventata disfunzionale
in un contesto ambientale mutato, l’organizzazione rigida dovrebbe essere scartata e sostituita da
un’altra, diversa, sempre rigida, portatrice di nuove conoscenze. La devianza, portata da nuove
organizzazioni, assicura la necessaria varietà del sistema e la varianza è assicurata a livello del sistema
di organizzazioni. Sono molti però gli inconvenienti tecnici che fanno resistenza all’esistenza di mondi
così concepiti: potrebbero non esserci abbastanza organizzazioni mutanti o devianti, e anche la
devianza ha un problema di stabilità: le organizzazioni portatrici di una conoscenza diversa devono
avere la capacità di perdurare nella loro devianza, anche in presenza di un ambiente che spinge alla
conformità. Come fare allora ad acquisire la rigidità di forme, strategie e tecnologie necessarie a
perdurare nella direzione voluta, anche se diversa da quella della maggior parte delle organizzazioni?
La parola d’ordine per March è visione, un concetto che insiste sull’importanza dei sogni. Una visione
chiara di dove si vuole arrivare protegge le visioni alternative dall’iniziale mancanza di risultati; una
forte immaginazione orienta la ricostruzione della propria storia, in maniera da nutrire quel sostegno
acritico indispensabile a sostenere la rigidità organizzativa in ambienti selettivi.

La moda tra co-evoluzione e ipercompetitività
Molti dei concetti affrontati nei due articoli hanno fatto scaturire nuovi filoni di studio: uno è
incentrato sulla co-evoluzione delle forme organizzative, l’altro si focalizza sugli ambienti cosiddetti
ipercompetitivi. Arie Lewin, Chris Long e Timothy Carroll utilizzano, di tutti gli argomenti di March,
solo quello che chiamiamo modello di adattamento organizzativo, che lega i livelli di sfruttamento ed
esplorazione ai cambiamenti nella popolazione delle organizzazioni. Così, propongono una teoria delle
forme organizzative secondo la quale gli adattamenti strategici di un’organizzazione co-evolvono con i
cambiamenti ambientali, ossia le dinamiche competitive, tecnologiche, istituzionali, e con la
popolazione e le forme delle organizzazioni circostanti. Sulla base di studi empirici costruiscono un
modello fondato su un gran numero di variabili che influiscono sulla co-evoluzione:
1. Ambiente extraistituzionale, ossia grado di avanzamento tecnologico, demografia, movimenti
sociali, nuovi entranti, logiche di management…
2. Ambiente istituzionale, ovvero regolazioni politiche, pubbliche, mercati, sistema educativo,
struttura della governance…
Ruolo di primo piano viene attribuito alle cosiddette forme nazionali di capitalismo, che manifestano
la messa in pratica collettiva della cultura, dei valori, della storia di una nazione. Ogni ambiente è
talmente peculiare da innescare evoluzioni simili nelle organizzazioni che ne fanno parte. La “forma M”
(organizzazione multidivisionale) è la forma organizzativa prevalente in tutto il mondo. Antti Ainamo
e Marie-Laure Djelic riprendono da Lewin il concetto di co-evoluzione e da Henk Volberda il
concetto di ipercompetitività, per proporre la loro visione di industria della moda. Per loro si tratta di
un ambiente ipercompetitivo in cui si possono individuare modelli organizzativi diffusi a livello
nazionale, che co-evolvono: lo studio mira a mostrare come imprese americane, italiane e francesi
siano evolute in maniera omogenea nei rispettivi paesi. Troppo preoccupati a dimostrare
l’appartenenza delle griffes a un preciso modello organizzativo, dimenticano di controllare se i dati che
possiedono e utilizzano siano pertinenti alla loro analisi. I modelli organizzativi co-evoluti nelle
singole nazioni sarebbero la “forma H”, ossia la Holding, per la Francia, l’impresa a rete (network
enterprises), ossia un’organizzazione a metà tra gerarchia e mercato, per l’Italia e l’organizzazione
virtuale per gli Stati Uniti.

Network enterprise e virtual enterprise
Quello di network enterprise è un concetto formulato nel 1990 da Walter Powell, sulla scia del pensiero
neoistituzionalista che riflette sulle istituzioni all’interno delle quali avvengono gli scambi economici. Lo
schema classico vede l’organizzazione interna (devo procurarmi un bene/servizio, me lo faccio da me)
come alternativa al mercato. L’istituzione preposta all’organizzazione interna degli scambi economici è la
gerarchia, ossia una struttura di tipo burocratico disegnata in maniera gerarchica e governata da regole
formali ed autorità di tipo legale-razionale. La network organization è una proposta per inquadrare tutte le
situazioni che non sono immediatamente riconducibili né a scambi di mercato, né ad organizzazioni
interne. Le reti implicano scambi tra acquirenti e venditori distinti e non appartenenti alla stessa
organizzazione, ma gli scambi hanno una durata così lunga o sono talmente frequenti che diventa
impossibile considerarli di mercato, ovvero come relazioni tra persone e organizzazioni realmente distinte.
Il mercato è per definizione quel luogo metaforico di scambio tra molteplici identici acquirenti e molteplici
identici compratori anonimi, mentre l’identità di chi compra nel nostro caso è fondamentale. La virtual
organization è definita da Ahuja e Carley, è un’organizzazione distribuita geograficamente i cui membri,
legati da un interesse/scopo comune, comunicano e coordinano il loro lavoro attraverso la tecnologia
informatica. Questa caratteristica crea un legame con la Quick Response, che si avvale in genere di un
utilizzo esteso delle tecnologie informatiche, associate a una spinta delocalizzazione della produzione.
L’impresa virtuale (virtual factory) era definita come un’impresa in cui vengono mobilitate reti di risorse
esterne, configurate per un compito preciso, e poi dissolte o riconfigurate. Il risultato sarebbe quello di
un’impresa senza muri, che si comporta come una rete collaborativa di persone che lavorano assieme,
senza pensare a chi è il padrone o al luogo in cui si trova. In generale, non è detto che la distinzione delle
forme di organizzazione sulla base del paese di appartenenza sia sempre verificata. La strategia di
diversificazione comune a tutte le grandi griffes del design di lusso è stata inaugurata da Paul Poiret, poi
portata avanti dal modello Dior, e da allora la casa di moda non crea solo vestiti, bensì diventa un luogo di
creazione complessa, con un nocciolo duro che si occupa della concezione dei prodotti e un gran numero di
contratti di licenza di produzione e distribuzione. La diffusione della forma H in tutto il sistema della moda
può fare pensare, più che a una caratteristica nazionale, a due fenomeni spesso correlati tra loro:
l’organizzazione per mito e cerimonia, e la ricerca di legittimità. Le strutture organizzative sembrano
disegnate in funzione di veri e propri miti su come un’organizzazione deve funzionare in maniera razionale.
Se l’isomorfismo, ovvero la tendenza delle organizzazioni ad assumere la stessa forma, è un fenomeno
abbastanza evidente, è comunque un azzardo tentare di ricondurre l’insieme delle organizzazioni della
moda di un determinato paese a un unico modello rappresentativo. In un panorama estremamente
variegato, differenze e uguaglianze seguono i percorsi delle strategie commerciali, più che i confini dei
singoli Stati. La frattura nazionale messa in evidenza dai seguaci della co-evoluzione organizzativa non
sembra una buona strada per mettere a fuoco le dinamiche attuali del sistema della moda, in quanto tutte e
tre le forme (holding, network enterprises e virtual enterprises) servono a descrivere il funzionamento delle
organizzazioni che lavorano in questo ambito. La moda rappresenta un potente vettore di stabilità
ambientale e di riduzione dell’incertezza: identificare delle tendenze permette una relativa certezza su cosa
produrre e vendere, in termini economici trasforma l’incertezza in rischio. Una delle dinamiche
fondamentali del campo della moda è quella per cui qualcuno sposta di continuo il confine dell’ultima
differenza legittima, e in questo modo acquisisce un temporaneo vantaggio, chiamato vantaggio
competitivo, che deriva dal definire “di moda” il proprio stile. Il vantaggio competitivo non è legato tanto
alle azioni messe in atto dalle singole organizzazioni, quanto al funzionamento dell’insieme delle
organizzazioni che fanno parte del sistema. Tutte quelle che riescono a seguire la corrente delle tendenze
attuali otterranno successo, in maniera relativamente indipendente dalle performance individuali. Secondo
segreto per stare al passo è detto “strategia passiva”, della copia o dell’esternalizzazione dei costi relativi
alla creazione del prodotto: chi si limita a copiare e seguire le proposte altrui, annulla il vantaggio
competitivo eventualmente acquisito da chi tenta di imporre una nuova moda.

Un campo di organizzazione usa e getta
La moda è la calamita che consolida gruppi di attori attorno ad una concezione condivisa della
creazione, della distribuzione e dell’interpretazione di una rete di informazioni. La moda, così come il
mercato, è il meccanismo che permette di costruire il senso, quindi l’azione degli attori che stanno
all’interno di uno stesso campo. Gli articoli di March forniscono poi un’ulteriore ispirazione utile a
pensare alla moda: i nuovi entranti, portatori di stili e tecnologie differenti, tenderanno piano piano ad
assomigliarsi fra loro e a riportare equilibrio al sistema, in attesa di nuovi entranti e di altra
innovazione. Questa immagine assomiglia alla descrizione che Bourdieu e Delsault fanno della haute
couture: imprese che sfruttano le stesse competenze estetiche, commerciali, organizzative e
tecnologiche, sono fronteggiate da altre, portatrici di competenze e storie nuove. Nuovi entranti e
vecchi attori del sistema lottano fra loro nel tentativo di imporre l’ultima differenza legittima.

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