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KARL MARX (1818-1883)

Karl Marx nasce a Treviri, in Germania, nel 1818 da una famiglia ebraica convertita al
protestantesimo. Studia diritto a Berlino, nella stessa università in cui aveva insegnato Hegel
fino a pochi anni prima. Entra quindi in contatto con la filosofia hegeliana ed entra a far
parte della sinistra hegeliana (Hess, Bauer, Ruge, Stirner) . A Berlino diventa giornalista e fa
attività politica rivoluzionaria. Si trasferisce poi nel 1843 a parigi dove frequenta Blanc,
Proudhon e Bakunin, viene poi espulso e va in Belgio. Ma sue posizione politiche sono
scomode e viene cacciato anche da lì e va a Londra (pochi soldi fa la fame). Muore nel 1883
2 anni dopo la moglie.

1843/1844 scrive l'Ideologia tedesca, la Sacra famiglia, i Manoscritti del 44, le Tesi su
Feuerbach

1847 – il Manifesto del Partito Comunista

1859 – Per la critica dell'economia politica

1860 – Il Capitale

Scrive Marx: “la filosofia, fintanto che ancora una goccia di sangue pulserà nel suo cuore
assolutamente libero…griderà sempre….la sentenza sua propria contro tutte le divinità
celesti e terrestri”. Uno dei punti fondamentali è stabilire uno stretto rapporto tra il
momento della riflessione critico-filosofica ed il momento dell’impegno pratico - politico, in
quanto non è più ammissibile una pura ricerca teorica fine a se stessa, del tutto sganciata
dalla vita reale e dalle sue complesse problematiche: lo stesso Hegel aveva insegnato che il
pensiero non era separato e separabile dal mondo, ossia che l’autocoscienza era tale in
quanto si rapportava dialetticamente con la concretezza della realtà storica e naturale,
intervenendo in essa e modificandola incessantemente.
Si trattava quindi di sviluppare fino alle estreme conseguenze questo motivo hegeliano per
passare però da una filosofia speculativa ad una filosofia della prassi, secondo quelle
intuizioni che si ritrovavano già nel pensiero di Ruge e di Feuerbach.

IL RAPPORTO CON HEGEL E FEUERBACH

All’inizio degli anni ’40 Marx lesse le opere di Feuerbach e ne divenne un seguace: in esse
infatti egli trovò i primi strumenti concettuali che gli consentirono di operare una critica
serrata dell’hegelismo.
In un saggio breve del 1842, scritto per la rivista di Ruge, Marx così commentò l’importanza
di Feuerbach “a voi teologi e filosofi speculativi do questo consiglio: liberatevi dai concetti e
dai pregiudizi della filosofia speculativa del passato, se mai desiderate giungere alle cose
come sono realmente, cioè alla verità. Non v’è altra strada che vi porti alla verità e alla
libertà se non quella che passa attraverso il Feuerbach”.
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Marx in particolare apprezzò la demistificazione della filosofia hegeliana operata da
Feuerbach, lo smascheramento del suo carattere teologico e speculativo. Egli così fece
propria la critica di Feuerbach, che aveva avuto il merito di aver colto il rovesciamento
operato da Hegel: fa derivare
i predicati storici concreti come lo Stato, il diritto, la società civile, la famiglia, l’economia
ecc. da un metafisico ed inesistente soggetto spirituale, da un’essenza ideale astratta. Hegel
aveva preteso addirittura di far discendere e dipendere la natura e la sensibilità umana da un
principio astratto quale l’Idea infinita, il puro pensiero, l’attività cosciente. Particolarmente
significativa apparve a Marx la mistificazione (= visione falsificante) hegeliana dello Stato:
infatti nella sua filosofia del diritto Hegel aveva trasformato lo Stato in una sorta di sostanza
mistica, una suprema incarnazione metafisica dell’Idea, rispetto a cui famiglia e società
civile apparivano come pure e semplici accidentalità, come predicati, Hegel aveva capovolto
il rapporto reale esistente tra famiglia e società da una parte e Stato dall’altra poiché
“famiglia e società civile sono i presupposti dello Stato, sono essi propriamente gli attivi. Ma
nella speculazione di Hegel diventano il contrario: mentre l’idea è trasformata in soggetto, i
soggetti reali, la società civile, la famiglia…diventano dei momenti obiettivi dell’Idea”.
Tuttavia, nonostante le sue mistificazioni, Hegel aveva colto la specificità della società
moderna ossia la scissione tra società civile e Stato dove la prima era luogo dell’interesse
economico particolare, il secondo tendeva (falsamente) a porsi come della conciliazione
etica tra interessi privati e bene pubblico. Sennonché tale conciliazione non era reale, poiché
il moderno Stato borghese non superava ed unificava i conflitti della società civile.
In generale tutta la filosofia di Hegel aveva rappresentato la realtà al rovescio, facendo
discendere le forme della vita reale (lavoro, economia, diritto, cultura, Stato ecc.) da un
soggetto spirituale che si esplicava ed oggettivava nella storia. Per Marx le forme della
coscienza, il pensiero logico e tutto ciò che era produzione della cultura umana trovavano la
loro base concreta, la loro vera origine, in quel complesso di condizioni sensibili, naturali e
sociali in cui l’uomo si era trovato immerso fin dalla preistoria. Il sistema filosofico di Hegel
aveva quindi falsificato il mondo umano concreto, sociale e storico, sovrapponendo ad esso
uno schema astratto, metafisico ed aprioristico: in questo consiste il “misticismo logico” di
Hegel, ossia l’aver posto una mistica sostanza spirituale a fondamento della storia reale degli
uomini. Ciò indusse Marx ad affermare che quella descritta da Hegel “non è la storia reale
dell’uomo” ma soltanto una storia ideale e speculativa.
Hegel ebbe comunque il merito di intuire la storicità dell’essere umano, ovvero il fatto che
l’essenza umana fosse un’essenza storica, comprensibile solo entro la prospettiva del
divenire temporale (= l’uomo è uguale a ciò che storicamente egli diviene). La storia umana
non era quindi una successione casuale di eventi ma un processo dotato di una sua legge
dialettica e razionale intrinseca. l’hegelismo aveva colto il carattere dinamico-dialettico della
storia, il suo essere processo, azione, ma aveva sbagliato nel concepire tale prassi come
attività meramente spirituale.
Per avendo svelato il misticismo dell’hegelismo, Feuerbach ha commesso degli errori-, la
critica a Feuerbach è contenuta nelle Tesi su Feuerbach del 1845. Marx riconobbe a

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Feuerbach il merito di “aver riportato l’uomo sui suoi piedi”, cioè di aver demistificato
l’estraniazione idealistica recuperando una corretta visione sensibile e naturale dell’uomo.
Tuttavia Feuerbach presentavano si limita a considerare la sfera sensibile come se fosse solo
qualcosa di oggettivo, di esistente per sé, non cogliendo che la realtà complessiva era data
invece da un oggetto materiale (la natura) che entrava in un rapporto dinamico e dialettico
con l’attività del soggetto umano. Feuerbach non aveva colto il rapporto dialettico esistente
tra la prassi del soggetto umano da un lato e l’oggetto-natura dall’altro, aveva ignorato che in
quella stessa realtà e su tale oggetto si era sviluppata ed esercitata l’attività pratico-sensibile
dell’uomo, quella prassi, quell’azione storica del soggetto umano che aveva trasformato
incessantemente, attraverso il lavoro, l’oggetto-natura. Scrive Marx: “il difetto principale di
tutti i materialismi che si sono susseguiti finora (ivi compreso quello di Feuerbach) è che ciò
che gli sta di fronte, la realtà, la sensibilità, viene concepito soltanto sotto la forma di oggetto
o di intuizione; ma non come attività sensibile, umana, come prassi; non soggettivamente…
Feuerbach vuole oggetti sensibili realmente diversi dagli oggetti del pensiero; ma egli non
concepisce l’attività umana stessa come attività oggettiva. Nella “Essenza del cristianesimo”
egli considera quindi schiettamente umano solo il comportamento teoretico, mentre la prassi
viene concepita e descritta solo nella sua forma sordidamente giudaica. Egli non comprende
quindi il significato “rivoluzionario” dell’attività pratico-critica”. Feuerbach tendeva a
considerare l’uomo e la società come una sorta di pura e semplice emanazione o riflesso
passivo e necessario di determinate condizioni ambientali, naturali e materiali, ma “il
fondamento più essenziale e più immediato del pensiero umano è proprio la modificazione
della natura ad opera dell’uomo…E’ perciò unilaterale la concezione materialistica della
storia…come se esclusivamente la natura agisse sull’uomo, esclusivamente l’ambiente
naturale, in generale, condizionasse il suo sviluppo storico. Essa dimentica che anche l’uomo
reagisce sulla natura, la modifica, si costruisce nuove condizioni di vita. Della “natura” della
Germania qual era al tempo della migrazione dei germani è restato maledettamente poco. La
superficie della terra, il clima, la vegetazione, la fauna, gli uomini stessi si sono infinitamente
modificati e tutto ciò ad opera dell’attività umana” (Marx- Engels).

In questo contesto teorico si collocò la concezione della “filosofia della prassi”, la filosofia
non dovevano risultare estranee al mondo reale, ai problemi della società umana, non
dovevano cioè limitarsi a contemplare teoricamente la realtà, ma dovevano invece
contribuire attivamente a modificarla rendendola sempre più equa e razionale. “i filosofi
hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta di trasformarlo”. Filosofia della
prassi significava anche che la conoscenza del mondo e l’azione umana nel mondo erano
coincidenti; “il problema se il pensiero umano abbia una verità oggettiva non è un problema
teorico ma pratico. Nella prassi l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e la potenza,
la concretezza del suo pensiero”.
A Feuerbach mancava la prospettiva storica in quanto aveva considerato in modo solo
naturalistico l’essenza umana, concependola astrattamente come semplice rapporto naturale
esistente tra l’individuo e la propria specie biologica, ignorandone il carattere storico-sociale.
Feuerbach non aveva compreso la storicità della specie umana, la sua intrinseca tendenza ad

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esplicarsi e realizzarsi progressivamente e faticosamente nel tempo. Nella Tesi n. 6
scrive“Feuerbach risolve l’essenza religiosa nell’essenza umana. Ma l’essenza umana non è
qualche cosa di astratto che risieda nel singolo individuo. Essa, nella sua realtà, è l’insieme
dei rapporti sociali. Feuerbach, che non procede alla critica di questa essenza reale, è quindi
costretto: 1) ad astrarre dal corso storico, a fissare per sé il sentimento religioso e a
presupporre un individuo umano astratto, isolato. 2) l’essenza può quindi essere intesa
soltanto come “genere”, come generalità interna, muta, che collega in modo naturale molti
individui.”
Infine Marx criticò l’analisi dell’alienazione religiosa. Anche in questo caso la chiave del
discorso fu incentrata sul tema della storicità: Feuerbach aveva ridotto la religione
all’alienazione di un’essenza umana astratta ed astorica, non comprendendo che tale forma
di alienazione era stata invece il prodotto di un determinato sviluppo storico, ossia di
un’alienazione socio-economica. Per Marx la religione era nata come fenomeno culturale
legato allo sviluppo storico umano, quindi a concrete e precise forme di vita materiale,
sociale ed economica. Ciò significava che una condizione materiale alienante era stata alla
base dell’alienazione religiosa, che si era prodotta sul piano della coscienza. “Feuerbach
non vede quindi che anche il sentimento religioso è un prodotto sociale e che l’individuo
astratto che egli analizza appartiene ad una determinata forma sociale”. Lo sviluppo storico
delle società umane aveva determinato progressivamente situazioni di vita sempre più
alienanti, privando gran parte degli uomini di ciò che essi stessi avevano prodotto con il
loro lavoro, negando il soddisfacimento dei loro bisogni primari, impedendo alla
maggioranza degli uomini uno sviluppo armonico delle proprie potenzialità, creando
un’umanità sofferente, indigente, alienata.
La religione era stata infatti la risposta di un’umanità sofferente ed oppressa che aveva
cercato e trovato compensazioni illusorie e chimeriche, quindi narcotizzanti, alla propria
condizione miserabile.
“La miseria religiosa è insieme espressione della miseria reale e della protesta contro la
miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo
senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo.
L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una
condizione che ha bisogno di illusioni”.

ALIENAZIONE ECONOMICA, ECONOMIA POLITICA BORGHESE E COMUNISMO

Negli stessi anni in cui si staccò dalle posizioni di Feuerbach, Marx sviluppò anche una
critica radicale dell’economia capitalistica utilizzando il concetto hegeliano di alienazione nei
Manoscritti economico-filosofici del ’44, rimasti inediti fino al ‘900. In tale scritto
confluirono ed interagirono le tre fonti principali della riflessione del giovane Marx: la
filosofia hegeliana, il pensiero economico borghese, le teorie del socialismo francese. Il
principale rilievo critico che Marx mosse all’economia politica borghese (l’economica
politica elaborata da Smith e Ricardo) fu il fatto che essa avesse occultato il fenomeno
dell’alienazione, negandolo: per Smith e Ricardo la proprietà privata costituiva una sorta di

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dato di fatto originario così evidente che non andava nemmeno spiegato. Non si erano
accorti, o non avevano voluto accorgersi, che la proprietà privata dei mezzi di produzione era
il risultato e l’effetto di quel processo storico che aveva generato il lavoro alienato e che era
culminato nel modo di produzione capitalistico. Occultando tale verità, la scienza economica
borghese aveva considerato la proprietà privata come una sorta di assioma assoluto, astorico
e indiscutibile, da cui far discendere le stesse leggi economiche “l’economia politica parte dal
fatto della proprietà privata e non ce la spiega”. On solo l’economia politica borghese ignora
la conflittualità strutturale ed immanente nel sistema capitalistico tra capitale (= mezzi di
produzione, quindi capitale finanziario, terreni, impianti, strutture produttive ecc.) e lavoro
salariato: per Marx infatti esisteva un’opposizione reale, oggettiva e dialettica tra questi due
termini, che risultavano sempre e comunque irriducibili ed inconciliabili (l’interesse del
capitalista si opponeva sempre a quello dell’operaio e viceversa, profitto e salario erano
dialetticamente opposti); ma gli economisti borghesi volevano dimostrare che tra capitale e
lavoro, tra profitto e salario, ci fosse invece una sorta di armonia reciproca, di vantaggio
reciproco, per cui l’arricchimento del capitalista si risolveva in un vantaggio anche per
l’operaio. Smith aveva parlato addirittura della mano invisibile della natura che faceva sì che
il perseguimento dell’interesse privato e personale si risolvesse alla fine sempre in un
vantaggio generale per tutta la società.
Una ulteriore falsificazione operata dagli economisti borghesi era data dalla loro tendenza a
non considerare storicamente il lavoro e il sistema capitalistico, cioè a non vederli come il
risultato di una determinata evoluzione storica: il lavoro era qualcosa di naturale, privo di
storia, e il capitalismo appariva altrettanto naturale, basato cioè su leggi oggettive ed
immodificabili. Non poteva esistere un sistema economico diverso da quello capitalistico. I
grandi economisti non avevano intuito la vera natura dell’alienazione. Marx attribuì a
questo termine un significato negativo che nel sistema capitalistico consissteva in:
1. alienazione rispetto al prodotto del proprio lavoro; l’operaio produceva delle merci che
non gli appartenevano e nello stesso tempo riproduceva il capitale (il lavoro,
producendo le merci, cioè scambiandosi con il capitale, valorizzava e riproduceva
automaticamente il capitale stesso) che nemmeno gli apparteneva, ma che anzi gli
appariva come una potenza ostile. In altre parole l’operaio era espropriato dei
prodotti, del frutto del proprio lavoro, quindi anche di quel mondo oggettivo che lo
circondava “l’operaio si viene a trovare rispetto al prodotto del suo lavoro come
rispetto ad un oggetto estraneo”, per cui avveniva che “quanto più l’operaio si
consuma nel lavoro, tanto più potente diventa il mondo estraneo, oggettivo, che egli si
crea dinanzi, tanto più povero diventa egli stesso e tanto meno il suo mondo interno
gli appartiene in proprio…L’operaio diventa tanto più povero quanto maggiore è la
ricchezza che produce, quanto più la sua produzione cresce di potenza e di estensione.
L’operaio diventa una merce tanto più vile quanto più grande è la quantità di merce
che produce. La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la
valorizzazione del mondo delle cose”… L’oggettivazione si presenta come perdita
dell’oggetto in siffatta guisa che l’operaio è derubato degli oggetti più necessari non
solo per la vita, ma anche per il lavoro.” (Manoscritti economico-filosofici)

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2. alienazione dall’attività lavorativa: nella fabbrica il lavoro è un’attività ripetitiva,
forzata, meccanica. Il lavoro capitalistico era privo di qualsiasi creatività, di qualsiasi
interesse e si trasformava in attività estraniante in cui l’operaio diventava uno
strumento, un’appendice della macchina, un semplice ingranaggio di un sistema che
tendeva a disumanizzarlo “il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo
essere e quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto
ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo
e distrugge il suo spirito. Perciò l’operaio solo fuori del lavoro si sente presso di sé e si
sente fuori di sé nel lavoro”.
3. Alienazione dall’altro uomo, ossia gli altri operai considerati dei concorrenti, e i
capitalisti considerati dei nemici che lo sfruttavano e lo espropriavano. L’uomo
operaio tendeva a sviluppare rapporti sociali conflittuali che avevano come effetto
quello di negare la propria naturale essenza sociale “se il prodotto del lavoro non
appartiene all’operaio e un potere estraneo gli sta di fronte, ciò è possibile soltanto
per il fatto che esso appartiene ad un altro uomo estraneo all’operaio. Se la sua
attività è per questi un tormento, deve essere per un altro un godimento, deve essere
la gioia della vita altrui”.
4. Alienazione dall’essenza dell’uomo, la “vita del genere (umano)”, ossia l’attività
lavorativa intesa come espressione diretta e precipua della natura umana. La vera
essenza dell’uomo, come già aveva intuito Hegel, era la capacità di lavorare e creare
un mondo umano, modificando e assoggettando la natura e producendo da sé le
condizioni materiali necessarie alla propria esistenza. Per Marx quindi
l’oggettivazione dell’uomo (= creazione di un mondo oggettivo derivante dalle
esigenze e dalle capacità del soggetto) costituiva un processo necessario e positivo. “si
possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per
tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché
cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza”.

Nei Manoscritti del ‘44 il compito di superare l’alienazione fu assegnato alla rivoluzione
comunista, quindi al proletariato mondiale. Il proletariato, come il servo di Hegel, avendo
ereditato e sperimentato su di sé tutta la potenza del negativo accumulatosi nella storia, cioè
tutta l’alienazione storica dell’uomo, era l’unico soggetto in grado di negare dialetticamente
tale alienazione e di superarla attraverso la rivoluzione. Scrive Marx:“il comunismo come
soppressione positiva della proprietà privata intesa come autoestraneazione dell’uomo, e
quindi come reale appropriazione dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo e per l’uomo;
perciò come ritorno dell’uomo per sé, dell’uomo come essere sociale, cioè umano, ritorno
completo, fatto cosciente, maturato entro tutta la ricchezza dello svolgimento storico sino ad
oggi… E’ la soluzione dell’enigma della storia ed è consapevole di essere questa soluzione”. Il
comunismo del Marx dei Manoscritti è negazione della negazione, quindi come esito
necessario di un processo dialettico che avrebbe generato da sé quella nuova società “l’intero
movimento della storia è quindi l’atto reale di generazione del comunismo, l’atto di nascita
della sua esistenza empirica”. Il comunismo autentico (a differenza dei socialismi non
scientifici) è una riappropriazione dell’essenza umana, era la soppressione positiva della
proprietà privata in tutte le sue forme, era la vittoria della logica dell’essere su quella
dell’avere, era la realizzazione piena dell’uomo come essere sociale.
Pertanto il comunismo a cui pensava Marx non consisteva affatto in un anacronistico e
romantico ritorno indietro verso un passato primitivo, ma consisteva invece nella
realizzazione dei bisogni più elevati e ricchi degli uomini (le tecniche e le produzioni
culturali più valide sviluppate nelle diverse epoche sarebbero state recuperate e fatte proprie
anche dalla futura società comunista); inoltre il comunismo di Marx ed Engels non era
affatto un ideale astratto ed utopico ma costituiva invece un processo reale ed oggettivo,
osservabile e descrivibile empiricamente attraverso lo studio del sistema capitalistico e delle
sue tendenze intrinseche.
Anche nelle altre opere degli anni ’40, ossia La sacra famiglia, L’ideologia tedesca, Tesi su
Feuerbach, Miseria della filosofia, Il manifesto del partito comunista, Marx insistette nella
sua critica del cosiddetto socialismo utopistico, soprattutto francese, della prima metà
dell’Ottocento (Fourier, Saint-Simon, Proudhon, Owen ecc.), il quale, del tutto
astrattamente, cioè senza tener conto dello sviluppo storico effettivo, delle condizioni e delle
forze reali operanti in esso, aveva delineato modelli fittizi di una perfetta società socialista,
spesso descritta anche nei minimi particolari e nei dettagli.
A tali utopie Marx contrappose il suo socialismo scientifico, basato su una metodologia
induttiva che si rifaceva ai dettami delle scienze empiriche e naturali, quindi all’osservazione
attenta dei fenomeni sociali ed economici. Scrive nella Ideologia tedesca: “il comunismo per
noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà
conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose
presente”. La lotta di classe, la rivoluzione, il comunismo costituivano dei fattori reali
operanti all’interno del processo storico, che avrebbero determinato o avrebbero potuto
determinare il crollo del sistema capitalistico e la nascita di un modello di società socialista.
Il dibattito sul determinismo o sul non determinismo del marxismo è ancora aperto e
problematico. Inoltre da molti decenni si è discusso circa la presunta scientificità o non
scientificità della teoria marxista: la questione non è facilmente risolvibile se non altro
perché in Marx s’intrecciarono e convissero due impostazioni, per molti aspetti
contrapposte: da un lato la dialettica hegeliana e dall’altro la metodologia empirica ed
induttiva, molto simile a quella positivistica.
Alcuni studiosi, come ad esempio l’italiano G. Della Volpe, hanno visto in Marx il “Galilei
delle scienze sociali”, ossia il primo scienziato ad aver introdotto in tale ambito una
metodologia quantitativa ed empiristico-induttiva. Resta innegabile che soprattutto il Marx
degli scritti degli anni ’40 fu sicuramente influenzato dalla visione dialettica della storia di
Hegel e di essa il filosofo conservò una traccia indelebile. Nello stesso tempo però è presente
innegabilmente nel marxismo, soprattutto nelle opere degli anni ’50 e ’60, anche una chiara
metodologia empiristico-induttiva, del tutto coerente con i dettami tipici della scienza
moderna e positivista.

SCIENZA ED IDEOLOGIA

Alla luce di quanto detto e considerando l’analisi dell’alienazione economica e lo


smascheramento delle mistificazioni operate dall’economia politica borghese, è possibile
cogliere una fondamentale distinzione concettuale tipica del marxismo, quella tra ideologia e
scienza.
Il termine ideologia non indica soltanto la produzione ideale e culturale degli uomini ma
significa anche e soprattutto visione deformata, falsa rappresentazione della realtà. È un
sistema di pseudo-conoscenze che tendevano, più o meno consapevolmente, a mistificare,
cioè ad occultare e a deformare la verità, anziché svelarla.
Al contrario la scienza si configurò come autentica rivelazione dei rapporti causali reali ed
oggettivi, come scoperta delle leggi che dominavano il mondo naturale e storico: la scienza
quindi era attività conoscitiva libera e veritiera e si contrapponeva pertanto all’ideologia,
intesa invece come sapere falsificante e condizionato, dal momento che in essa agivano, in
qualche modo e in una forma più o meno latente ed inconsapevole, fattori legati a interessi
di natura economica e sociale.
L’ideologo era dunque il portatore di una visione del mondo che tendeva a giustificare un
determinato sistema, a difendere un certo ordine sociale, anche se la sua concezione tendeva
a porsi come visione universale, ossia come puro prodotto spirituale non condizionato dalle
strutture sociali: in realtà si trattava di una falsa universalità e di una falsa autonomia, in
quanto i valori difesi dall’ideologia erano soprattutto l’espressione degli interessi delle classi
dominanti; in questo senso l’ideologia si comportava come falsa coscienza, cioè come una
coscienza che mistificava la realtà, occultando e mascherando i rapporti di forza e di potere
presenti in essa.

CRITICA DELLA SOCIETA’ BORGHESE E DELLA CONCEZIONE HEGELIANA DELLO


STATO

Il marxismo voleva essere soprattutto un pensiero critico, volto cioè a svelare ed evidenziare
quelle contraddizioni della realtà che Hegel aveva ritenuto di poter superare soltanto
attraverso la sua dialettica astratta e filosofica. Nella civiltà borghese occidentale si era
determinata una frattura tra la società civile e lo Stato. La società civile era divenuta il regno
dell’egoismo di classe, dei particolarismi, dello scontro tra interessi economici e giuridici
contrapposti, in cui i ceti e le classi più deboli soccombevano. Nella società civile nascevano
le differenze sociali ed economiche, nasceva l’ingiustizia sociale, lo sfruttamento dell’uomo
sull’uomo, la ricchezza spropositata di pochi e la miseria di molti. La moderna società civile
borghese era fondata soprattutto su valori asociali se non proprio antisociali, esaltava cioè
l’egoismo, la competizione, l’individualismo, l’atomismo sociale; tutte le Costituzioni
borghesi, nate non a caso da rivoluzioni borghesi, si basavano sui diritti dell’individuo,
considerati sacri ed inviolabili, e consideravano lo Stato un potere che doveva limitarsi a
tutelare e garantire proprio tali diritti. Lo Stato liberale, democratico-parlamentare, basato
sul principio della rappresentanza e della delega, costituiva il regno dell’individualismo
borghese, in cui l’interesse particolare di un singolo o di un gruppo era considerato
intangibile, anche se era fonte di ingiustizia ed andava contro l’interesse generale e
collettivo. Lo Stato etico di Hegel costituiva quindi, per Marx, una falsificazione ideologica,
poiché l’esperienza storica aveva ampiamente dimostrato che lo Stato, inteso come potere
ed apparato politico-militare, non solo non sottometteva la società civile, ma si rivelava
essere un suo strumento.
In questo contesto teorico si collocò la critica radicale dello Stato democratico-borghese che
da un lato riconosceva l’uguaglianza formale dei cittadini, cioè l’uguaglianza giuridica, e
dall’altro manteneva la disuguaglianza reale, cioè quella economico-sociale. “lo Stato
sopprime alla sua maniera le differenze di nascita, di condizione, cultura, professione,
dichiarando che nascita, condizione, educazione, occupazione non sono differenze politiche,
proclamando ciascun membro del popolo partecipe in egual misura della sovranità popolare,
senza riguardo a tali differenze…Nondimeno lo Stato lascia che la proprietà privata, la
cultura, la professione operino nel loro modo, cioè come proprietà privata, come cultura,
come professione, e facciano valere la loro essenza”.
Alla democrazia borghese e all’uguaglianza formale, Marx contrappose la democrazia
socialista, in cui si sarebbe dovuta realizzare non solo l’uguaglianza giuridica ma anche
quella reale e sostanziale, ossia economico-sociale, una democrazia vera, in grado di
recuperare completamente l’uguaglianza e la socialità originarie dell’uomo, stravolte e perse
nel corso dello sviluppo storico.

IL MATERIALISMO STORICO

Il materialismo storico è una questione ancora aperta tra gli studiosi marxiani. Secondo Curi
(studioso italiano) il materialismo storico i fattori dinamici che determinano la storia sono
essenzialmente fattori di carattere economico, tuttavia Marx non ha mai impiegato questa
espressione, l'unico cenno è nella prefazione “per la critica dell'economia politica”. È più che
altro un’espressione adoperata da Engels nell'interpretazione della ricerca marxiana che ha
l’obiettivo di trasformare in dottrina, in ideologia generale la dottrina di Marx. Nella
Ideologia Marx ed Engels vogliono sottolineare un concetto essenziale della loro nuova
visione, ossia che le idee, le teorie e le produzioni della coscienza in genere non potevano
assolutamente prescindere dalle condizioni storico-economico-sociali in cui esse
maturavano e da cui derivavano: le rappresentazioni ideali del mondo, anche le più
rivoluzionarie, si rapportavano sempre e comunque a determinate condizioni di vita e di
organizzazione della società, per cui ogni battaglia ideale rimandava necessariamente ad
una lotta reale che si sviluppava all’interno delle forze operanti in un certo contesto
socio-economico. Esiste cioè un nesso inscindibile e causale tra la sfera della coscienza,
quindi delle produzioni culturali, sfera riassunta da Marx nel concetto di sovrastruttura, e la
sfera della vita materiale, economico-sociale, indicata con il termine di struttura:
quest’ultima era, in ultima analisi, la causa e l’origine lontana di tutte le sovrastrutture (=
idee, visioni del mondo, religioni, arte, diritto, politica, costumi ecc.). Il fondamento
concettuale del materialismo storico derivò dal rovesciamento del sistema hegeliano: infatti
la storia dell’uomo, secondo Marx, non era affatto la storia di uno spirito universale, astratto
e metafisico, ma era invece la storia della specie biologica umana che, fin dalla sua
comparsa, aveva dovuto sviluppare una lunga lotta per la sopravvivenza, lavorando e
costruendo le condizioni materiali necessarie per vivere. La storia umana era stata storia
materiale e non certo storia ideale. L’uomo era stato costretto a sviluppare un’attività
collettiva e sociale attraverso cui aveva prodotto i propri mezzi di sussistenza: tale attività
era stata quella lavorativa, con cui progressivamente l’uomo aveva modificato la natura,
dominandola e sottomettendola alle proprie esigenze e creando così un mondo sempre più
umanizzato.
Il materialismo storico affermava che il lavoro, quindi l’economia che su di esso si basava,
rappresentava la struttura universale di tutte le società umane, in rapporto a cui tutti gli altri
aspetti si configuravano come sovrastrutture; a questo proposito così si espresse Marx:
“l’insieme dei rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la
base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale
corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo della produzione
materiale condiziona, in generale, il processo sociale e spirituale della vita.” Il rapporto
struttura sovrastruttura era un rapporto di causa-effetto, che però non andava interpretato in
modo meccanico e deterministico. Ciò che Marx volle sottolineare era che, date certe
condizioni economico-sociali di fondo, dati certi rapporti di produzione, si avevano, in
corrispondenza, determinate forme politiche, giuridiche, artistiche, religiose, morali,
culturali, ecc. Le produzioni ideali erano dunque in qualche modo sempre condizionate dalle
strutture socio economiche, gli aspetti sovrastrutturali trovavano la loro spiegazione, la loro
ragione d’essere, la loro radice in una determinata forma di organizzazione e produzione
economica. Secondo Marx era possibile risalire alla matrice economica di fondo non solo
nell’analisi delle forme politico-statali, in cui il rapporto struttura-sovrastruttura risultava
più evidente e diretto (ad esempio sistema economico feudale = Stato feudale frazionato,
sistema economico capitalistico = Stato nazionale unitario), ma anche nelle stesse
produzioni più astratte e spirituali, come le forme artistiche o quelle religiose (es.: società
feudale - poesia cavalleresca; società borghese - romanzo storico; economia preistorica -
religioni animistiche e naturalistiche). “Non si parte da ciò che gli uomini dicono, si
immaginano, si rappresentano, né da ciò che si dice, si pensa, si immagina, si rappresenta
che siano per arrivare da qui agli uomini vivi; ma si parte dagli uomini realmente operanti e
sulla base del processo reale della loro vita si spiega anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi
ideologici di questo processo di vita. Anche le immagini nebulose che si formano nel cervello
dell’uomo sono necessarie sublimazioni del processo materiale della loro vita,
empiricamente constatabile e legato a presupposti materiali. Di conseguenza la morale, la
religione, la metafisica ed ogni altra forma ideologica, e le forme di coscienza che ad esse
corrispondono, non conservano oltre la parvenza dell’autonomia”. Pertanto la storia delle
idee, con cui gli uomini nelle diverse epoche avevano interpretato il mondo, non era da
considerare idealisticamente come una sorta di storia spirituale autonoma rispetto a tutto il
resto, ma al contrario erano proprio i grandi cambiamenti nelle strutture economico-sociali a
determinare l’evoluzione dei grandi apparati ideologici :« ... ad un dato punto del loro
sviluppo.le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti
di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà. [...] Questi rapporti, da forme di
sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un'epoca di
rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno
rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura.» (da Per la critica dell'economia politica).
Bisogna tuttavia precisare che Marx utilizzò queste due categorie (struttura e sovrastruttura)
in termini molto generali, tanto è vero che alcuni studiosi marxisti hanno messo in evidenza
il loro carattere piuttosto vago e poco preciso; a questo proposito riportiamo il giudizio di
Wright Mills nel suo scritto I marxisti (1969) “la distinzione di struttura e sovrastruttura non
è affatto delineata con chiarezza…Molti fattori che non possono essere considerati
esplicitamente ‘economici’ entrano in ciò che Marx pare voler indicare con ‘modi di
produzione’ o ‘base economica’. Il fatto che i marxisti sostengano un gran numero di
interpretazioni diverse sembra confermare il mio punto di vista”.
Anche sul problema del rapporto struttura-sovrastruttura si riscontra una certa
indeterminatezza concettuale, poiché Marx in effetti, nell’enunciare la legge generale, non
spiegò poi in che modo, ossia secondo quali meccanismi, una data struttura produceva un
certo contenuto sovrastrutturale. il rapporto tra uomo e natura e tra struttura e
sovrastruttura era estremamente complesso, mediato e dinamico (dialettico), per cui la
relazione tra essere (natura, struttura) e coscienza (sovrastruttura), era caratterizzata da
un’interazione reciproca, per cui avveniva che l’uomo, con la sua azione, si emancipava dai
condizionamenti ambientali e anche le idee, quando diventavano patrimonio comune
consolidato, tendevano ad acquistare un potere “materiale” tale da agire sul livello della
struttura, contribuendo a modificarla. Ciò appariva molto evidente soprattutto nelle fasi di
passaggio da un sistema economico ad un altro, quando una certa società era percorsa da
contraddizioni sempre più esplosive, quando cioè determinati rapporti sociali, anziché
favorire lo sviluppo di nuove forze produttive (cioè di nuove strutture economiche e di
nuove classi) lo ostacolavano e lo ingabbiavano. L’esempio emblematico di tale processo fu
quello della Rivoluzione francese in cui i vecchi rapporti sociali, caratterizzati dal
predominio dell’aristocrazia feudale, vennero a scontrarsi con le nuove forze
economico-sociali della borghesia capitalistica, che chiedeva un nuovo assetto giuridico e
politico della società, quindi nuovi rapporti sociali.
In una lettera del 1890 Engels ci tenne a precisare che il materialismo storico non doveva
assolutamente essere ridotto a mero economicismo deterministico, come veniva deformato
dagli avversari di Marx “la situazione economica è la base, ma i diversi momenti della
sovrastruttura – le forme politiche della lotta di classe e i risultati di questa…le forme
giuridiche, anzi persino i riflessi di tutte queste lotte reali nel cervello di coloro che vi
prendono parte, le teorie politiche, giuridiche, filosofiche, le visioni religiose e il loro
successivo sviluppo in sistemi dogmatici – esercitano altresì la loro influenza sul decorso
delle lotte storiche e in molti casi ne determinano in modo preponderante la forma”. Marx
tuttavia, pur avendo rovesciato il sistema idealistico di Hegel, ritenne hegelianamente che la
storia non fosse una successione casuale, caotica ed incomprensibile di eventi ma possedesse
invece una propria logica, un filo conduttore che ne faceva un processo dialettico-razionale
basato su passaggi e momenti necessari.
Alla luce del suo modello teorico materialistico, egli rilesse l’intero corso della storia umana,
individuando in particolare cinque fondamentali formazioni economico-sociali (= modelli
complessivi di società fondati su un determinato modo di produzione, quindi su determinati
rapporti economici e sociali), che si erano avvicendate nel processo storico. In primo luogo
c’era stato il cosiddetto comunismo primitivo, antecedente l’età neolitica: in quella fase
l’uomo preistorico si era limitato ad utilizzare i frutti spontanei della natura, quindi aveva
provveduto alle proprie necessità attraverso le attività della raccolta, della caccia e della
pesca; non esisteva alcuna forma di proprietà privata poiché i beni della natura
appartenevano a tutti i membri della tribù e gli utensili che essi usavano costituivano una
proprietà personale e non una proprietà privata. Il primo grande cambiamento avvenne
nell’ultima fase della preistoria (come aveva già intuito Rousseau), ossia con l’avvento
dell’età neolitica (12000-10000 anni a.C.), dopo la fine dell’ultima glaciazione: in essa si
ebbe la scoperta dell’agricoltura, nacquero la proprietà privata dei mezzi di produzione, la
divisione del lavoro, la differenza tra città e campagna, tra lavoro manuale e lavoro
intellettuale, si costituirono le prime forme statali ecc.
Successivamente si erano avute: la società asiatica, relativa alle antiche civiltà orientali
preclassiche; la società antica greco-romana; la società feudale e la società borghese.
Ognuna di queste grandi formazioni economico-sociali si era basata su un determinato
modo di produzione (sistema economico), quindi su un determinato rapporto di proprietà e
su determinati rapporti sociali tra le classi. Il passaggio da un modello di società ad un altro
era sempre avvenuto attraverso la dissoluzione di quello precedente, sotto la spinta di quelle
nuove forze economiche e sociali che si erano sviluppate al suo interno: tali passaggi quindi
avevano sempre comportato una rivoluzione economica, sociale, culturale, politica e
giuridica. La storia umana quindi aveva visto lo scontro tra sistemi economici contrapposti
e tra classi sociali antagoniste, in quanto portatrici di interessi diversi.
Le guerre, le conquiste, le rivoluzioni, le migrazioni ecc. trovavano sempre la loro
spiegazione e la loro ragion d’essere in un certo sistema economico, che si basava a sua volta
su una determinata forma di dominio sociale e politico.
Marx, pur essendo stato il più grande critico del sistema borghese, non auspicò affatto un
ritorno al passato ed anzi riconobbe i grandi meriti storici della borghesia, la cui rivoluzione
era stata così radicale da non avere eguali: “la borghesia ha avuto nella storia una funzione
sommamente rivoluzionaria. Dove è giunta al potere, essa ha distrutto tutte le condizioni di
vita feudali, patriarcali, idilliache […] Essa per prima ha mostrato che cosa possa l’attività
umana. Essa ha creato ben altre meraviglie che le piramidi d’Egitto, gli acquedotti romani e
le cattedrali gotiche; essa ha fatto ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le
Crociate […] La borghesia ha assoggettato la campagna al dominio della città. Ha creato città
enormi, ha grandemente accresciuto la popolazione urbana in confronto con quella rurale
[…] così ha reso dipendenti dai popoli civili quelli barbari o semibarbari, i popoli contadini
dai popoli borghesi, l’Oriente dall’Occidente […] La borghesia ha creato delle forze
produttive il cui numero e la cui importanza superano quanto mai avessero fatto tutte
insieme le generazioni passate. Soggiogamento delle forze naturali, macchine, applicazione
della chimica all’industria e all’agricoltura, navigazione a vapore, ferrovie, telegrafi elettrici,
dissodamenti di interi continenti, fiumi resi navigabili, intere popolazioni sorte quasi per
incanto del suolo…”

ECONOMIA POLITICA: TEORIA DELLO SFRUTTAMENTO

L’analisi scientifica dei meccanismi e delle leggi del sistema capitalistico venne condotta da
Marx in due grandi opere, che costituirono la summa del suo pensiero economico e sociale: i
Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (spesso indicati con
Grundrisse) e il Capitale.
Marx si collocò sicuramente nel solco dell’economia politica classica, ossia sviluppò fino alle
estreme conseguenze impostazioni e teorie di Adam Smith e David Ricardo: utilizzando in
particolare alcune intuizioni di Ricardo, soprattutto la sua teoria del valore delle merci
derivante dalla quantità di lavoro contenuto in esse, Marx pervenne alla teoria del
plusvalore, ossia ad una teoria dello sfruttamento capitalistico.
Engels dice durante l'orazione funebre:
«Il 14 marzo, alle due e quarantacinque pomeridiane, ha cessato di pensare la più grande
mente dell'epoca nostra [...] Così come Darwin ha scoperto la legge dello sviluppo della
natura organica, Marx ha scoperto la legge dello sviluppo della storia umana [...] Ma non è
tutto. Marx ha anche scoperto la legge peculiare dello sviluppo del moderno modo di
produzione capitalistico e della società borghese da esso generata. La scoperta del plusvalore
ha subitamente gettato un fascio di luce nell'oscurità in cui brancolavano prima, in tutte le
loro ricerche, tanto gli economisti borghesi che i critici socialisti [...] Per lui la scienza era
una forza motrice della storia, una forza rivoluzionaria [...] Perché Marx era prima di tutto
un rivoluzionario.»
Marx fu quindi il continuatore dell’economia politica classica di Smith e Ricardo e di questa
scuola conservò l’impostazione oggettiva, nel senso che per lui, come vedremo, il lavoro e il
valore di una merce rappresentavano grandezze oggettive e quantificabili, mentre molte
correnti economiche postclassiche di fine Ottocento avranno un carattere soggettivistico, in
quanto sosterranno che non esiste alcun valore oggettivo in quanto l’unico criterio di
valutazione di una merce è costituito soltanto dalla sua utilità. Marx mosse dalla
constatazione che l’economia capitalistica era essenzialmente un’economia di mercato,
dominata cioè esclusivamente dalle leggi e dalle richieste del mercato e non certo dai
bisogni effettivi degli uomini.
La forza della filosofia di Marx può essere espressa in due fondamentali scoperte: la prima
consiste nell'aver scoperto il duplice carattere del lavoro, che può essere sia concreto che
astratto. La seconda scoperta è individuare l'origine del plus valore slegandolo da una
situazione in particolare, definendolo cioè indipendentemente dalle sue forme particolari.

1. Analizzando il concetto di merce, Marx notò che gli economisti lo consideravano


come un dato assoluto e scontato mentre non lo era affatto, elaborò così la teoria del
cosiddetto feticismo delle merci. Nel sistema capitalistico la merce si presentava come
una realtà “oggettiva”del tutto indipendente da coloro che l’avevano prodotta
acquistando così quasi un carattere mistico e misterioso, simile a quei feticci (divinità)
che l’uomo preistorico costruiva con le proprie mani e poi adorava e ne aveva timore.
Infatti, come scrisse Marx “per trovare un’analogia dobbiamo involarci nella regione
nebulosa del mondo religioso. Quivi i prodotti del cervello umano paiono figure
indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto tra di loro e in rapporto
con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana”. Il
feticismo delle merci rivelava che “dietro” le merci si nascondevano rapporti sociali di
dominio e sfruttamento. ogni merce possedeva due valori: un valore d’uso, nel senso
di una sua utilità, una sua funzione (il grano ha valore d'uso alimentazione), e un
valore di scambio (VS), ossia un valore oggettivo in base al quale si determinava un
rapporto quantitativo che rendeva possibile lo scambio (una certa quantità di grano
scambiata con quantità altra merce). Il VS di ogni merce era dato dalla quantità di
lavoro sociale medio necessario per produrla, non dipendeva quindi dalla prestazione
di un singolo operaio ma dal tempo lavorativo medio socialmente necessario per
produrla, date le capacità produttive presenti in una società. Ogni merce incorporava
ed oggettivava una quantità di lavoro sociale e tale quantità ne determinava il suo
valore di scambio. il lavoro possiede il duplice carattere della merce: concreto perchè
produce una merce, astratto perché produce una merce come oggetto che ha un
valore. Il parallelismo è possibile perchè per scambiare due merci diverse, due merci
cioè che hanno un valore d'uso diverso, si usa il lavoro, la quantità di lavoro
necessario alla loro produzione, cioè una quantità astratta non riferita all'effettivo
lavoro compiuto. Ne consegue che anche il lavoro era considerato una merce, era
infatti forza-lavoro comprata dal capitalista attraverso il salario (= valutazione
monetaria del VS della merce forza lavoro). Il VS della forza lavoro era a sua volta
determinato dalla quantità di lavoro sociale necessario per produrla, cioè dal valore
complessivo di tutti i mezzi di sussistenza necessari a tenere in vita il lavoratore e a
consentirgli di riprodursi.

2. Nelle società pre-capitalistiche la legge che regola lo scambio delle merci è M – D


-M, cioè si produce una merce, viene venduta e subito viene comprata un'altra merce
necessaria al consumo personale. nel sistema capitalistico si verificava un fenomeno
peculiare: il capitalista investiva del denaro D per acquistare una merce M (forza
lavoro + materie prime + energia ecc.) che gli consentiva di realizzare un guadagno D1
che risultava maggiore del capitale iniziale investito D. Da dove si originava questo in
più di valore, ossia questo plusvalore, che rendeva così vantaggioso per il capitalista
il ciclo esemplificato dalla formula D-M-D1? Dall’analisi di questo scambio Marx
ricavò la sua teoria del plusvalore (PV), cioè dello sfruttamento capitalistico. Il plus
valore è la fonte, l'unica, del guadagno del capitalista. Esso è ottenuto da L (quantità
di lavoro impiegata per la produzione di una certa merce) – V (lavoro necessario per
la riproduzione della forza-lavoro). Significa che l'operaio lavora più di quanto viene
pagato, cioè le merce che produce durante le ore di lavoro è superiore alla quantità di
merce che gli viene pagata. All'operaio non viene pagato tutto il lavoro che svolge e il
lavoro non pagato è il guadagno del capitalista. Il plus- valore fonda lo sfruttamento
capitalistico. L'operaio sarà sempre sfruttato, è il sistema capitalistico a imporlo non
è quindi legato alla malvagità o bontà del padrone, non è una cosa discrezionale. Lo
sfruttamento non ha una connotazione etica o morale, esso nasce dalla realtà del
processo lavorativo concreto grazie al quale alle merci viene attribuito un valore d'uso
e nasce dalla valorizzazione del capitale attraverso il capitale fisso. Il capitalista non
compra dall'operaio la merce che ha prodotto, ma la forza lavoro, cioè l'energia che
l'operaio impiega per produrre la merce. Se ad esempio un operaio trasforma una
materia in merce facendogli acquistare un valore di 6 scellini, il capitalista non paga
all'operaio i 6 scellini della merce ma ne paga 3, cioè il denaro che corrisponde alla
forza lavoro. La differenza tra 6 e 3 è il guadagno del capitalista. Il salario inoltre
corrisponde alla quantità di denaro necessaria per riprodurre le forze del lavoratore,
è un salario di sopravvivenza. Marx introdusse inoltre una fondamentale distinzione
tra il saggio del plusvalore (= il rapporto che esprimeva il livello del plusvalore) e il
saggio del profitto (= il rapporto che esprimeva il livello del profitto).

La formula del primo era PV/V, mentre la formula del secondo era PV/ (C+V), dove C indica
il capitale costante (materie prime + macchine + energia ecc.), V indica il capitale variabile
(salari, il costo della forza lavoro), PV indica il plusvalore. Il rapporto tra C e V (C/V) venne
chiamato da Marx composizione organica del capitale. Il plusvalore genera quindi il profitto,
che non coincide con PV. L’interesse prevalente del capitalista era quello di aumentare la
produttività del lavoro operaio (produttività = quantità di merci prodotte in una unità di
tempo), poiché più essa era elevata più aumentava il PV relativo (= il rapporto tra il tempo di
lavoro necessario per riprodurre il valore del salario e il tempo di lavoro in cui l’operaio
produceva invece plusvalore): PVr = V(t)/L(t), dove V indicava in generale il valore del
salario (calcolato in rapporto al tempo) e L la quantità di lavoro dell’operaio espressa in
tempo. L’interesse del capitalista era che il tempo necessario per riprodurre il valore del
salario fosse ridotto al minimo e aumentasse invece sempre più il tempo produttivo di
plusvalore. Questa formula spiega la tendenza intrinseca del sistema capitalistico alla
continua innovazione tecnologica (+ tecnologia = + produttività = + plusvalore relativo);
sennonché l’incremento progressivo della produttività e l’eccesso di concorrenza
determinavano un aumento della composizione organica del capitale (C/V), in quanto si
investiva in modo crescente in macchinari e in materie prime (in C), mentre si investiva
relativamente sempre di meno nell’impiego di mano d’opera (in V). Ciò però determinava,
sulla base della formula del saggio del profitto, che se il saggio di plusvalore non aumentava,
il saggio del profitto tendeva progressivamente a diminuire.
Paradossalmente era proprio l’enorme quantità di lavoro accumulato sotto forma di capitale
costante ad ostacolare la produzione di nuovo profitto e quindi ad inceppare il sistema
produttivo: la ricchezza prodotta ed accumulata metteva in crisi il sistema, se i profitti
continuavano a diminuire, in quanto l’investimento in C cresceva costantemente, ad un certo
momento non era più conveniente investire, quindi il sistema tendeva ad entrare in una
situazione di crisi irreversibile. Era questa l’irrazionalità e la contraddizione di fondo
dell’economia capitalistica, ossia il “vero limite della produzione capitalistica è il capitale
stesso”. Questa è la caduta tendenziale del saggio di profitto, una sorta di malattia mortale
del capitalismo, che lo avrebbe portato inevitabilmente al collasso.
Contro tale malattia, il capitalismo metteva in atto delle contromisure come aumentare il
saggio del plusvalore, ossia intensificare lo sfruttamento.
Ma la reazione più significativa alla tendenza alla crisi era data dallo sviluppo del fenomeno
imperialistico, di cui Marx, pur essendo morto nel 1883 riuscì già ad intuire chiaramente
almeno due tratti caratteristici:
1. il processo di concentrazione monopolistica delle imprese;
2. la spartizione integrale del pianeta da parte delle potenze industriali. Infatti, secondo
le analisi di Marx, la concorrenza capitalistica esasperata, con le sue inevitabili e cicliche
crisi di sovrapproduzione e la diminuzione tendenziale dei profitti, avrebbe generato il suo
opposto, ossia la formazione dei monopoli (trusts, cartelli, fusioni tra banche ed industrie),
che a loro volta avrebbero provocato un forte inasprimento delle lotte imperialistiche tra le
diverse potenze industriali, miranti alla conquista di nuovi mercati e di nuove risorse da
sfruttare (colonie, guerre, esportazione di imprese e di capitali). Le contraddizioni interne ed
internazionali, combinate con la presa di coscienza del proletariato mondiale e con lo
sviluppo della lotta di classe, avrebbero dovuto avere come esito finale il crollo del sistema,
abbattuto dalla rivoluzione comunista mondiale. In realtà questo crollo finale del
capitalismo, per una serie molteplice di ragioni, che sarebbe troppo complesso esaminare,
non si è verificato (almeno fino ad oggi), anche perché il capitalismo, dimostrando una
vitalità ed una flessibilità che Marx stesso non poteva prevedere, è riuscito sempre a
superare in qualche modo le proprie interne contraddizioni, facendo proprie anche alcune
idee ed istanze provenienti dallo stesso pensiero socialista.

LE CONTRADDIZIONI DELLA SOCIETA’ CAPITALISTICA

Come era avvenuto in tutte le società del passato, anche all’interno dell’economia
capitalistica si erano generate necessariamente quelle contraddizioni e lacerazioni, quelle
dinamiche sociali, quegli elementi di crisi che avrebbero determinato il collasso finale del
sistema stesso, il suo abbattimento. Un elemento centrale dell’analisi marxista del
capitalismo fu la sottolineatura dello stridente contrasto che si era generato tra una
ricchezza prodotta sempre maggiore e una miseria crescente delle masse; a questo
proposito riportiamo una citazione di Engels “nei paesi industriali più progrediti noi
abbiamo domato le forze naturali e le abbiamo costrette al servizio degli uomini;
abbiamo così moltiplicato all’infinito la produzione, tanto che un fanciullo oggi produce
più di quello che producevano ieri cento adulti. E quali sono i risultati? Crescente
sopralavoro e miseria crescente delle masse, e una grande crisi ogni dieci anni”.
Attraverso l’osservazione delle dinamiche economiche e sociali dei paesi capitalistici più
avanzati, Marx colse quell’aspetto per cui l’enorme sviluppo delle forze produttive, con
conseguente nascita di un mercato mondiale, generava una sorta di perversa semplificazione
della società che tendeva progressivamente a polarizzarsi tra una minoranza sempre più
ricca e potente ed una massa sterminata sempre più povera e priva di proprietà. Era questa
la legge dello sviluppo ineguale immanente al sistema capitalistico, in virtù della quale una
minoranza si arricchiva sempre di più ed una maggioranza si proletarizzava ed impoveriva
tanto da determinare sul piano internazionale una crescente divaricazione tra paesi
industrializzati e paesi sottosviluppati(è il problema che oggi riguarda i rapporti tra Nord e
Sud del mondo; su questo punto l’analisi marxiana si è rivelata fondamentalmente esatta,
ossia le previsioni di Marx hanno avuto una conferma empirica nel corso del Novecento).
Sulla base della legge dello sviluppo ineguale Marx elaborò una teoria del crollo del
capitalismo, ma “la polarizzazione non si è verificata; nel corso della storia del capitalismo la
struttura classista non si è ridotta, come si aspettava Marx, a due classi. Al contrario si è
generalizzata la tendenza opposta, e quanto più avanzato è il capitalismo tanto più
complessa e diversificata si è fatta la stratificazione” (W. Mills).
Nelle società democratiche occidentali, attraverso una politica di riforme progressive,
ottenute anche grazie alle lotte dei partiti socialisti e dei sindacati, le condizioni di vita e di
lavoro del proletariato sono complessivamente e proporzionalmente migliorate rispetto al
passato, anche se non sono affatto scomparse le disuguaglianze di fondo; inoltre lo sviluppo
del capitalismo tecnologico del XX secolo, anziché portare all’estinzione dei ceti medi, ha
determinato un loro rafforzamento, tanto che si parla oggi di capitalismo terziarizzato (=
sviluppo del settore terziario, quindi dei ceti medi).
In ogni caso per Marx dalla rivoluzione proletaria sarebbe nata una nuova società socialista.
Per attuare la transizione dal capitalismo al comunismo occorreva passare attraverso una
fase intermedia, quella del socialismo, che non fu mai descritta in modo compiuto. Pertanto
le teorie marxiste sullo Stato socialista, sono da attribuire soprattutto a Lenin, la cui teoria
politica è entrata a far parte a pieno titolo della tradizione marxista, tanto che si parla
appunto di marxismo-leninismo.
Il socialismo era la nuova società che doveva nascere subito dopo l’abbattimento
rivoluzionario del sistema capitalistico-borghese; esso doveva realizzare la socializzazione
dei mezzi di produzione, che dai privati sarebbero passati alla comunità, cioè allo Stato.
Nella fase del socialismo, lo Stato svolgeva ancora una funzione decisiva: infatti, distrutto
l’ordine borghese, lo Stato socialista diventava lo strumento attraverso cui attuare la
dittatura del proletariato. Questo passaggio (la costruzione dello Stato socialista e la
dittatura del proletariato) risultava necessario poiché occorreva creare una struttura di
potere che da un lato consolidasse le conquiste rivoluzionarie e dall’altro preparasse il
terreno all’avvento del comunismo. Il partito rivoluzionario avrebbe dovuto
temporaneamente rafforzare lo Stato, creando un potere socialista, uno Stato socialista che
esercitasse la dittatura del proletariato. La dittatura del proletariato era l’organizzazione
degli oppressi che si costituivano in classe dominante allo scopo di reprimere gli oppressori.
Si trattava dunque di un sistema che da un lato dilatava la democrazia e dall’altro la
restringeva: la dilatava in quanto creava per la prima volta una vera democrazia per i poveri,
per il popolo, che vedeva riconosciuti non solo i diritti formali di uguaglianza ma anche
quelli sostanziali, economico-sociali; ma nello stesso tempo apportava una serie di
restrizioni alla libertà degli oppressori, degli sfruttatori, dei capitalisti, spezzando con la
forza la loro resistenza e negando loro gli antichi privilegi.
Quindi, secondo Lenin (che interpretava Marx), quella del proletariato sarebbe stata una
dittatura fondamentalmente diversa da tutte le altre dittature del passato, poiché essa si
configurava come il potere autoritario della maggioranza degli ex oppressi sulla minoranza
degli ex oppressori, era cioè una dittatura “democratica” esercitata dal basso, espressione di
una volontà collettiva e generale.
Nella società socialista tuttavia sarebbero sopravvissute ancora le tracce della vecchia
società. In essa infatti la proprietà, anziché essere veramente soppressa, veniva solo
universalizzata, nel senso che diventava proprietà collettiva, trasformando tutti i cittadini in
salariati: lo Stato socialista consisteva quindi in una sorta di capitalismo di Stato, in quanto
quest’ultimo rimaneva l’unico capitalista. Ognuno avrebbe ricevuto un salario equivalente
alla quantità di lavoro prestato, secondo la formula “ad ognuno secondo il proprio lavoro” ed
il criterio di uguaglianza si sarebbe basato appunto su questa uguale misura di lavoro.
Attenzione, la società socialista era postcapitalista ma ancora pre-comunista: da essa si
usciva con il comunismo vero e proprio, approdo finale della storia, in cui si realizzava un
distacco totale dalla vecchia società (N.B. il comunismo segnava la fine della vecchia storia
umana e l’inizio di una nuova storia, la storia di un’umanità finalmente emancipata dal
bisogno e dall’oppressione): con il comunismo infatti si attuava la totale, integrale, effettiva
soppressione della proprietà privata dei mezzi di produzione.
Il comunismo annunciato da Marx ed Engels era dunque la riappropriazione da parte degli
“individui umani associati” della totalità delle forze produttive esistenti e la loro
subordinazione allo sviluppo integralmente umano di ogni individuo, allo sviluppo di tutte le
facoltà dell’uomo (mentre nel vecchio mondo l’individuo era unidimensionale, ognuno cioè
aveva una sfera di attività determinata che gli veniva imposta e a cui non poteva sfuggire).
Ciò implicava anche una corrispondente rivoluzione antropologica e culturale. L’uomo
infatti avrebbe cessato per sempre di essere homo oeconomicus, abituato cioè a misurare se
stesso ed il proprio rapporto col mondo e con gli altri sulla base del possesso privato, e
sarebbe divenuto finalmente uomo totale, uomo nuovo, mirante a sviluppare liberamente e
completamente le proprie potenzialità senza instaurare rapporti di potere, di dominio, di
possesso. Solo in questa fase suprema della storia si sarebbe realizzata la vera

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uguaglianza. Gli uomini fisicamente, moralmente, intellettualmente non sono uguali,
possiedono capacità ed esigenza diverse, allora nella società comunista avanzata e matura il
criterio dell’uguaglianza sarebbe stato riassunto dalla formula “ognuno secondo le proprie
capacità, ad ognuno secondo i propri bisogni” . Lo sviluppo illimitato della forze produttive
avrebbe debellato ogni forma di miseria; il lavoro non sarebbe stato più una necessità
alienante, ma sarebbe diventato libera attività volta alla realizzazione di se stessi, ognuno
avrebbe acquisito le conoscenze necessarie per controllare i processi produttivi, ponendo
fine così all’asservimento alle macchine. Inoltre la diffusione di un benessere generalizzato
avrebbe consentito la diminuzione notevole della giornata lavorativa e il conseguente
aumento del tempo libero, da utilizzare per lo sviluppo completo della propria personalità.
Da questo punto di vista il comunismo marxiano si presentò come la realizzazione di un
umanesimo integrale.
In una società senza classi, senza dominatori e dominati, scompariva anche la necessità di
mantenere in vita una struttura statale, intesa come potere politico, burocratico, militare e
territoriale: non avrebbero avuto più ragion d’essere e non sarebbero più esistiti i confini
nazionali, non si sarebbero più verificate guerre tra popoli e nazioni. Un’unica, universale
comunità, costituita da uomini liberi ed uguali, avrebbe unito tutta l’umanità. Enorme è
stato il fascino esercitato da questo mito marxiano del comunismo sulle menti di milioni
di uomini negli ultimi 150 anni.

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