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Il Comunismo Cinese e la guerra di Corea

La repubblica popolare cinese


Mentre in Europa la contrapposizione tra i due blocchi finì per congelare l'assetto geografico
creatosi fino al ’48 l'Asia divenne terreno di veri scontri armati tra due schieramenti; benché molto
violenti essi rimasero limitati regionalmente senza sfociare in conflitti più estesi. In questo quadro
l'ascesa al potere dei comunisti in Cina costituì un evento epocale che influì non solo in Cina ma
anche a est e a ovest. Con la sconfitta dei giapponesi alla fine della seconda guerra mondiale la
temporanea alleanza tra il partito comunista di Mao Zedong e il Guomindang di Chiang Kai-Shek si
era definitivamente sciolta e la Cina si trovò divisa fra i territori sotto il diretto controllo dei
comunisti, soprattutto in aree interne, e territori nazionalisti perlopiù in zone costiere. Questi ultimi
volevano arrivare a una resa dei conti con i comunisti, che invece puntavano a una rivoluzione
sociale accusando il regime nazionalista di essere corrotto e asservito ai grandi proprietari terrieri.
Ben presto il confronto armato fu inevitabile: in una prima fase i nazionalisti, superiori militarmente
grazie agli Stati Uniti, ebbero il sopravvento, ma i comunisti erano saldamente radicati nelle
campagne: nelle regioni conquistate la popolazione rurale si era scritta schierata con loro
sperando in una riforma agraria collettivista che avrebbe messo fine allo sfruttamento. Si era così
formato un esercito popolare composto da contadini legati alle loro terre.

Nel 48 l'andamento del conflitto cambiò drasticamente tanto che nel febbraio ’49 le truppe di Mao
entrarono a Pechino mentre Kai-Shek si riparò a Taiwan sotto protezione degli States. Qui si
costituì uno Stato indipendente, la cosiddetta Cina nazionalista. Il 1 ottobre ’49 i comunisti
proclamarono la Repubblica popolare cinese esordendo con un largo programma di
socializzazioni: vennero nazionalizzate le industrie e le principali attività economiche, si
ridistribuirono le terre ai contadini uniti in cooperative. Alcuni settori privati sopravvissero per
qualche anno ma venne poi adottato un rigido regime collettivista. L'URSS poteva così contare su
un nuovo alleato nella sfida all'Occidente; da parte sua il governo cinese voleva rafforzare i legami
con l'unione sovietica, suo unico interlocutore sul piano internazionale. Nel febbraio del ’50 i due
paesi stipularono un trattato di amicizia e di mutua assistenza e, nelle intenzioni di Stalin, l'accordo
avrebbe fatto da contrappeso al patto Atlantico appena varato.

Inizialmente Pechino imitò il sistema dei piani quinquennali i cui primi risultati erano stati
incoraggianti. Nel ’58 però per liberarsi dal rapporto con l'URSS e trasformare il paese in una
potenza industriale mondiale, Mao lanciò un suo progetto economico e sociale, il “grande balzo in
avanti”. Si volevano incrementare in parallelo produzione agricola e industriale con una profonda
riorganizzazione del lavoro; nelle campagne le cooperative sovietiche vennero sostituite con
comuni popolari in cui la manodopera era impiegata nei campi e nei forni per la produzione
dell'acciaio. Il risultato fu però un disastro collettivo: venne causata una tragica carestia che causò
quasi 30 milioni di morti e produzione agricola e industriale subirono un vasto crollo. A ciò si
aggiunsero problemi di gestione dovuti all'impreparazione dei governanti e al prevalere di scelte
ideologiche che ebbero effetti dannosi. La Cina precipitò così in una situazione drammatica da cui
sarebbe uscita lentamente solo molti anni dopo con ingenti costi umani e materiali.

La guerra di Corea
Con la fine della guerra anche in Giappone venne imposto un regime di occupazione militare
americano. L'obiettivo era indurre il paese a modificare radicalmente la sua organizzazione politica
e sociale: bisognava estirpare sia il rigido autoritarismo sia il militarismo e quindi introdurre un
assetto liberal-democratico. Il rilancio giapponese era considerato indispensabile agli Stati Uniti per
riequilibrare la presenza dei partiti comunisti che si stavano espandendo sempre di più in ogni
angolo del Cosmo. Nel ’46 gli americani imposero così una nuova costituzione che pur
mantenendo al vertice il sovrano, trasformò il sistema autocratico in una monarchia costituzionale.
Da allora il Giappone conobbe un eccezionale stabilità politica garantita sia da una classe dirigente
riconfermata continuamente dall’elettorato, sia da una grande crescita economica.

Il modello Comunista e quello capitalistico si trovarono a coesistere nella penisola Coreana, che
dal 1910 era passata ai giapponesi dopo una secolare sudditanza nei confronti della Cina. Alla fine
della grande guerra la Corea era stata divisa in due parti separate dal 38º parallelo:

• nella parte settentrionale occupata dai sovietici, era sorto il regime di Kim Il Sung, leader
comunista contro i giapponesi;
• nella parte meridionale si era instaurato un governo nazionalista sostenuto dagli americani.
Questa divisione doveva essere temporanea ma nel clima della guerra fredda le due zone si
trasformarono in Stati indipendenti ciascuno dei quali rivendicava la piena sovranità sull'intera
penisola.
Dopo una serie di scontri nel giugno ’50 le truppe nord coreane, armate dei sovietici, invasero il
sud occupandone una grande parte. In risposta venne allestito un esercito delle Nazioni Unite al
governo al comando di MacArthur, composto da reparti dell'esercito americano. Fu proprio in
questa guerra che il patto Atlantico venne reso operativo con l'istituzione di un organismo integrato
di difesa, la Nato. Dopo alcuni scontri e lunghi negoziati, nel ’53 si giunse alla firma di un armistizio
che sancì il ripristino della linea di separazione originale nel mezzo di una zona demilitarizzata. Il
conflitto era costato 4 milioni di vittime.

La guerra ebbe effetti dirompenti: nel corso delle operazioni, a cui avevano partecipato anche i
reparti militari cinesi a sostegno del Nord, MacArthur aveva invocato l'impiego della bomba
Atomica contro la Cina ma l'ipotesi era stata scartata da Truman. L'episodio suscitò allarme e
paura poiché si balenò il timore di un conflitto su più larga scala. Ci fu una conseguente corsa al
riarmo nucleare che impegnò enormi fette dei bilanci di Stati Uniti e URSS e radicalizzò sia la
politica interna che quella estera dei due paesi.

L'incubo di un'aggressione comunista alimentò in USA una crescente diffidenza verso le file della
sinistra radicale, i cui esponenti vennero sospettati di essere spie sovietiche. Di questa paura si
fece interprete il senatore McCarthy che fu anche presidente della commissione per le attività
antiamericane. Nel paese si diffondeva un atteggiamento paranoico: si vedevano “comunisti”
ovunque, soprattutto nello spettacolo, nella cultura e nella pubblica amministrazione, ipotizzando
un rischio immediato per i destini della democrazia. Nel ’50 il congresso approvò l'internal security
act che consentiva di depurare funzionari pubblici sospettati di filosovietismo ma anche di
emarginare chiunque fosse simpatizzante comunista. Il “maccartismo” provocò una vera e propria
“caccia alle streghe”: senza alcuna prova concreta migliaia di uomini furono accusati di slealtà e
considerati pericolosi per la sicurezza nazionale; vennero allontanati dal lavoro, messi in carcere o
costretti all’esilio.
Le elezioni presidenziali del ’52 videro poi vincitore un repubblicano, Eisenhower. La nuova
amministrazione assunse nei confronti dell'URSS una linea molto più risoluta rispetto a quella di
Truman. Durante il suo secondo mandato il presidente, preso atto dei mutamenti nella leadership
sovietica, mostrò una progressiva disponibilità ad un dialogo con Mosca.

La destalinizzazione
Il 5 marzo ’53 Stalin morì. Con la sua scomparsa si concluse un'epoca della storia del comunismo.
In un primo tempo la guida del paese fu garantita dai suoi stretti collaboratori finché nel ’55
Chruscev assunse nelle sue mani le massime cariche del partito e dello Stato. Egli riteneva che il
blocco occidentale non fosse un nemico da sconfiggere ma un avversario da sfidare: bisognava
dimostrare che il modello socialista poteva competere con quello capitalistico per la crescita
economica e del tenore di vita. Il nuovo leader era consapevole che per reggere il confronto con
l'Occidente ci fosse bisogno di una profonda riforma dell’economia, per rinnovare l'industria e
promuovere lo sviluppo sociale, avviò dunque alcune modifiche nel sistema della pianificazione
quinquennale cercando soprattutto di ridurre l'impatto delle spese militari.
In quanto a politica estera Chruscev da un lato volle rilanciare i negoziati con gli occidentali sulle
questioni ancora aperte, dall'altro avviò la riconciliazione con la Jugoslavia e lo scioglimento del
Cominform. Venne riconosciuta la legittimità di differenti vie nazionali al socialismo per poter
adeguare la costruzione della società comunista alle differenti caratteristiche di ciascun paese. Si
cercò poi di rafforzare i legami con i paesi satelliti con nuovi trattati come, il patto di Varsavia,
un'alleanza militare con i paesi dell’Oriente europeo.

In quanto alla politica interna invece, egli promosse la destalinizzazione delle strutture dello Stato e
del partito:
• vennero allontanati gli uomini più legati a Stalin;

• furono liberati i prigionieri politici, in particolare quelli nei Gulag, con l'intenzione di eliminare le
grandi purghe;
• vennero allentati i controlli sulla vita sociale e sulla cultura.
In questo contesto di liberalizzazione maturò l’iniziativa più importante: nel ’56, al termine del 20º
congresso del PCUS, Chruscev lesse un rapporto in cui denunciava gli errori e crimini commessi
da Stalin. Si trattava di un severo atto d'accusa contro il dittatore, al quale vennero addebitati i
delitti e le aberrazioni che avevano allontanato l'URSS dalla legalità socialista. Nelle sue parole
emerse il ritratto di Stalin come quello di un tiranno crudele, impegnato a imporre un vero proprio
culto della personalità a scapito dell'interesse collettivo.
L'atto di accusa intendeva anche salvaguardare la validità della dottrina comunista e si rifaceva a
Lenin. Scaricare l'intera responsabilità su un solo uomo significava assolvere l'intera classe
dirigente sovietica senza compiere un'analisi sulle cause profonde su cui versava l'URSS. I partiti
comunisti europei accettarono, pur con qualche perplessità, la demolizione del mito di Stalin. Nei
paesi satellite si accesero quindi le aspettative di potersi liberare dal condizionamento di Mosca,
ma si trattava di un'illusione: la dirigenza sovietica non intendeva infatti rinunciare al suo ruolo di
guida mei confronti degli altri Stati.

Subito dopo il congresso in Polonia ci furono timide aperture del regime e vennero liberati alcuni
dirigenti comunisti arrestati sotto Stalin.
Contro il governo andò crescendo la protesta operaia anche con l'appoggio della Chiesa cattolica,
molto attiva nella società nonostante le persecuzioni. Alla fine del ’56 scoppiarono in Polonia una
serie di scioperi di piazza e, di fronte al rischio di una sollevazione popolare, i dirigenti
consentirono alcune liberalizzazioni, tra cui il ritorno a piccole forme di proprietà privata terriera.
Ma le speranze sfiorirono in fretta: la dirigenza comunista polacca mantenne il paese allineato
all'URSS e negli anni ci furono addirittura dei passi indietro.
Anche in Ungheria i contrasti con i filosovietici sfociarono in insurrezioni popolari alla fine del ’56. Il
governo fu assunto dal gruppo di comunisti riformisti guidato da Nagy, che il 1 novembre annunciò
il ripristino del pluralismo politico, l'uscita dal patto di Varsavia e la neutralità del paese. Il
segretario del partito comunista Kadar invocò a quel punto l'intervento di Mosca: il 5 novembre le
truppe erano ormai piombate a Budapest schiacciando la resistenza. Negy fu arrestato e il potere
venne assunto da Kadar, che restaurò il vecchio ordine.
Il ’56 fu dunque un anno spartiacque del movimento comunista internazionale. Quel che restava
dello stalinismo si era dissolto e si erano aperte alcune crepe nel blocco orientale, non comunque
tali da generale mutamenti sostanziali negli equilibri internazionali. In Occidente, piuttosto, si
manifestarono crisi di coscienza tra coloro che avevano sostenuto i regimi dell'est. Il volto
repressivo del "socialismo reale” si era rivelato per quello che era, e non pochi abbandonarono i
partiti in cui avevano militato.

Nel 57 l’URSS lanciò poi il primo satellite intorno alla terra, lo Sputnik. L'episodio suscitò negli
americani il timore di essere stati superati in campo tecnologico e sancì l'inizio della competizione
spaziale come strumento per la conquista del primato politico in campo internazionale.

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