Sei sulla pagina 1di 20

Fabio Frosini*

E QUESTA DIFFICULTÀ È RAGIONEVOLE.


LA PERDITA DELLA LIBERTÀ NEI DISCORSI DI
MACHIAVELLI

1. Discorrere le storie

Nel Proemio al primo libro dei Discorsi Machiavelli giustifica


la propria aspirazione a rendere di nuovo vivo l’insegnamento di
Livio. Per nominare questa dinamica che, prendendo un «caso»,
lo solleva attraverso una serie di comparazioni a un nuovo signi-
ficato, Machiavelli utilizza il termine «discorrere»: discorrere gli
esempi affinché diventino significativi1. Il «discorso» è dunque
un lavoro di ricomposizione critica della «storia» (dunque del-
la «realtà») in un tessuto più ampio, strutturato in esperienze
paragonabili. L’esempio non è pertanto un modello compiuto
e concluso, da imitare pedissequamente, come se si trattasse di
«copiare» un oggetto artistico. Non ha in sé il proprio «signi-
ficato», ma lo acquisisce solamente nel momento in cui viene
svolto sul piano del discorso attraverso il suo accostamento ad
altri «casi». Mentre nel Principe Machiavelli intende mettere
a disposizione una «prudenza» già attrezzata per i «casi» fon-
damentali della vita di un principato nuovo, per cui «al lettore
non esperto non è facile vedere il processo attraverso il quale si
è pervenuti ai giudizi, non è facile imparare a fare in proprio un
simile lavoro»2; nei Discorsi il suo obiettivo è precisamente quel-
lo di rendere il più possibile visibile quel processo, insegnando

* Università di Urbino.
1
Cfr. C. PINCIN, Osservazioni sul modo di procedere di Machiavelli nei «Di-
scorsi», in Renaissance Studies in Honor of Hans Baron, ed. by Antony Molho
and John A. Tedeschi, Firenze, Sansoni 1971, pp. 385-408, qui 399-403.
2
Ivi, p. 399.

Atti Urbino.indb 99 25-09-2009 10:01:51


100 FABIO FROSINI

a fare in proprio il lavoro di ricomposizione significativa delle


«storie»3.
Dei Discorsi è stato scritto che restano legati «al periodo e al-
l’ambiente degli Orti Oricellari: ma tale legame non significa che
lo scopo perseguito fosse stato, seppure a lunga scadenza, l’edu-
cazione di un’élite, con sottintesa speranza di esito repubblicano.
Nei Discorsi, così come ci sono pervenuti, e che pure appaiono
– come tutta l’opera di Machiavelli – scritti per cambiare il mon-
do, la prospettiva è molto più lontana»4. Essi si rivolgono infatti,
come tenterò di argomentare, direttamente al popolo. E se è vero
che che i Discorsi sono «scritti [...] per convincere gli uomini che
essi possono operare, se vogliono, possono cambiare il mondo
come i personaggi delle storie»5, questa opera di convinzione non
è da limitare ai «prudenti» protagonisti delle conversazioni degli
Orti Oricellari.
In cosa consiste questo lavoro di ricomposizione critica, e dove
conduce? Vale qui il paragone con l’imitazione artistica. Scrive Ma-
chiavelli nel Proemio al primo libro, che solitamente, chi ammira
l’arte dell’«antiquità», ricercandone e collezionandone i frammen-
ti, vuole abbellirne la propria casa e permetterne l’imitazione a chi
si diletta di quella arte. L’antico vale qui in forma museale, la sua
imitazione è copia. Ma, se ancora oggi i giuristi e i medici ricorro-
no agli insegnamenti della legislazione e della medicina antiche, lo
stesso non accade nella politica e nell’arte della guerra. La politica
antica non viene imitata, al limite solo «ammirata», tanto che la vir-
tù antica è cancellata dal mondo. Il fatto è, spiega Machiavelli, che
la «presente religione» (nella versione definitiva Machiavelli prefe-
risce l’espressione più comprensiva «la presente educazione»6) ha
indebolito il mondo, ma questa indifferenza rispetto alla politica
antica ha ragioni più profonde: essa nasce «dal non avere vera co-
gnizione delle storie, per non trarne, leggendole, quel senso né gu-
stare di loro quel sapore che le hanno in sé»7. Per questa ragione,

3
Cfr. C. PINCIN, Le prefazioni e la dedicatoria dei «Discorsi» di Machiavel-
li, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXLIII, 1966, pp. 72-83,
qui 77-78.
4
Ivi, pp. 82-83.
5
Ivi, p. 77
6
Cfr. N. MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, a c. di G.
Inglese, Milano, Rizzoli 1984, pp. 56, 60. Uno studio delle varianti in Pincin,
«Le prefazioni e la dedicatoria», cit., pp. 72-75.
7
N. MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, [Proemio],
in Opere, a c. di C. Vivanti, Vol. I, Torino, Einaudi-Gallimard 1997, p. 198.

Atti Urbino.indb 100 25-09-2009 10:01:51


È QUESTA DIFFICULTÀ È RAGIONEVOLE 101

prosegue Machiavelli, chi legge le storie si limita a un rapporto pu-


ramente estetico («infiniti che le leggono, pigliono piacere di udire
quella varietà degli accidenti»8), «sanza pensare altrimenti di imi-
tarle, iudicando la imitazione non solo difficile ma impossibile»9.
Occorre dunque restaurare il vero significato delle storie e al
contempo intervenire nel modo in cui «la presente educazione»
si rapporta al passato antico. Come condurre a termine que-
sta impresa? Non certo prendendo a modello l’arte, applicando
meccanicamente un ideale imitativo che renderebbe la politica
antica ancora più morta e muta di quanto già non sia, e che ne
farebbe rivivere solo degli elementi superficiali, estetizzanti. Ma
la riattivazione della politica antica non può neanche fare leva su
di una continuità ininterrotta di pratiche scientifiche, come per
la giurisprudenza e la medicina. Vi è infatti una frattura reale – la
«presente religione» o «educazione» – che non può essere ignora-
ta. Machiavelli aggiunge subito sotto che gli uomini considerano
impossibile l’imitazione della politica antica, «come se il cielo, il
sole, li elementi, li uomini, fussino variati di moto, di ordine e di
potenza da quello che gli erono antiquamente»10. Ma, appunto,
quel «come se» non cambia le cose: il giudizio di impossibilità ri-
mane, la consapevolezza del «prudente» non scalfisce, in quanto
tale, il fatto che il popolo, «educato» dal cristianesimo, giudica
impossibile far rivivere la virtù romana. Di più, la tesi ontologi-
ca, antica, che cielo, sole, elementi e uomini hanno sempre avuto
gli stessi gradi di potenza e di moto, e sempre l’avranno11 (da cui
segue la tesi antropologica, che gli uomini hanno sempre avuto e
sempre avranno le stesse passioni12), non solo non è incompatibi-

8
Ibidem.
9
Ibidem.
10
Ibidem.
11
Vivanti, nella sua ed. (cit., pp. 898-899), cita in nota, tra le altre pos-
sibili fonti, Lucrezio, De rerum natura, V, 677-680 e II, 300-302. Machiavelli
aveva scritto, si noti, «come se il cielo, il sole, li elementi, l’anima, li uomini
fussino variati di substantia, di moti, d’ordine et di potenza», quindi correg-
ge sopprimendo «anima» e «di substantia». Il testo della prima versione del
Proemio è pubblicato e discusso da Pincin, «Le prefazioni e la dedicatoria»,
cit., p. 74, che nota a questo proposito: «È notevole il duplice rifiuto di residui
del linguaggio di una certa tradizione [...]. Rimangono solo termini antichi»
(Ivi, p. 79).
12
Cfr. già Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati: «Io ho
sentito dire che le istorie sono la maestra delle actioni nostre, et maxime de’
principi, et il mondo fu sempre ad un modo abitato da uomini che hanno avu-

Atti Urbino.indb 101 25-09-2009 10:01:52


102 FABIO FROSINI

le con la diversificazione storica delle forme dell’immaginazione


(e delle complessioni passionali), ma anzi la richiede come pro-
prio risvolto necessario: l’identità dei moti e delle passioni può
darsi solamente nella diversità delle educazioni e delle seconde
nature13, e dunque, in quanto tale, questa affermazione non ha un
valore immediatamente politico.

2. La posizione del popolo

È dunque necessario tutto un lavoro, affinché la diversità del-


le educazioni diventi significativa agli occhi dei destinatari dei
Discorsi: dove «diventare significativa» significa precisamente in-
dividuare il modo in cui l’eternità del moto degli elementi, in cui
il gioco della diversità è solo un modo per esprimere l’indifferen-
za, insiste nel tempo della politica, in cui invece decisivo diventa
il modo in cui «la presente educazione» articola concretamente
i rapporti di potere, rendendo possibile o impossibile l’esercizio
della libertà. Insomma, l’insegnamento che l’immaginazione re-
pubblicana potrà trarre dalla discussione del caso di Roma, non
sarà – quasi si trattasse di un’imitazione artistica – l’abbando-
no del cristianesimo per il paganesimo, ma la «capacità» (che è
un’arte difficile) di commisurare l’educazione cristiana presente
a tutte le altre parti della struttura singolare attuale, sulla base del
grado di potenza (cioè di libertà) che questa struttura esprime.
Discorrere le storie renderà visibile ai lettori la differenza tra iden-
tità strutturale e diversità storica, cioè il fatto che ogni conforma-
zione passionale data (l’irrazionalità della plebe, la volontà di pre-
varicazione dei senatori) esprime al contempo una costanza strut-
turale e una seconda natura che – riflettendo dei rapporti di forze

te sempre le medexime passioni; et sempre fu chi serve et chi comanda, et chi


serve malvolentieri et chi serve volentieri, et chi si ribella et è ripreso» (Opere,
a c. di C. Vivanti, Vol. I, cit., p. 24).
13
«Sogliono dire gli uomini prudenti, e non a caso né immeritamente, che
chi vuole vedere quello che ha a essere consideri quello che è stato: perché tut-
te le cose del mondo, in ogni tempo, hanno il proprio riscontro con gli antichi
tempi. Il che nasce perché, essendo quelle operate dagli uomini che hanno ed
ebbono sempre le medesime passioni, conviene di necessità che le sortischino
il medesimo effetto. Vero è che le sono le opere loro ora in questa provincia
più virtuose che in quella ed in quella più che in questa, secondo la forma della
educazione nella quale quegli popoli hanno preso il modo del vivere loro»
(Discorsi, III, 43, p. 517).

Atti Urbino.indb 102 25-09-2009 10:01:52


È QUESTA DIFFICULTÀ È RAGIONEVOLE 103

politici – la determina in modo decisivo. Non si tratta dunque di


«svelare l’inganno», di denunciare l’impostura cristiana. La veri-
tà effettuale del cristianesimo (come di qualsiasi altra «setta») sta
nei «buoni» o «cattivi» effetti da esso prodotti. Popolarizzare la
prudenza non sta nell’insegnarla astrattamente, come disincanta-
ta alternativa alla religione («come se» tutti potessero diventare
dei «prudenti»), ma nel rendere visibile il fatto che il nesso tra
la «potenza» sempre identica dei cieli e delle passioni umane, e
l’educazione che ogni volta la traduce in «verità effettuale» (in li-
bertà o servitù, in virtù od ozio), è un nesso non necessario, ma
sottoposto a due cose: la catena degli accidenti (la fortuna) e il
prevalere mai definitivo di determinati rapporti di forze (la politi-
ca). Se la prima cosa non è anticipabile né manipolabile, la secon-
da è invece il frutto della rispettiva capacità, di popolo e grandi,
di «costruire» un’immaginazione collettiva capace di mettere in
prospettiva sé e l’altro in uno stesso spazio.
Come si dispiega questa dialettica dei rapporti di forze nella
storia di Roma? La «discussione» del caso Roma mostra che la
sua potenza e libertà sono state legate a delle contingenze politi-
che: l’accettazione dei tumulti per avere un popolo numeroso (a
differenza di Sparta) e armato (a differenza di Venezia). Questa
struttura fondamentale si lega a tutte le restanti parti dell’educa-
zione romana: dalle «accuse» pubbliche alla religione come esal-
tazione dei valori patriottici, alle magistrature che via via sono
state istituite: in una parola, all’educazione, di cui la religione è
l’elemento ordinatore. Ora, Machiavelli fa vedere come sia nei tu-
multi, sia nella religione fossero presenti il dominio e la resistenza
al dominio: nei tumulti – che sono l’effetto non voluto del dise-
gno senatorio di espandere la potenza di Roma senza renderne
partecipe la plebe, e che a loro volta producono l’ampliamento
continuo della libertà14; nella religione – che è una funzione di
controllo politico abilmente congegnata da Numa, ma che è an-
che una forma nella quale la plebe immagina il rapporto reale con
le proprie condizioni di esistenza nella città: in realtà, nelle ceri-
monie pubbliche il dominio del senato e la resistenza della plebe

14
Su questo tema cfr. G. CADONI, Machiavelli teorico dei conflitti sociali,
«Storia e Politica», XVII, 1978, n. 2, pp. 197-220; F. DEL LUCCHESE, «Dispu-
tare» e «combattere». Modi del conflitto nel pensiero politico di Machiavelli,
in «Filosofia politica», XV, 2001, n. 1, pp. 71-95 (sul rapporto tra Discorsi e
Istorie fiorentine); ID., Tumulti e indignatio. Conflitto, diritto e moltitudine in
Machiavelli e Spinoza, Milano, Edizioni Ghibli 2004, pp. 241-264.

Atti Urbino.indb 103 25-09-2009 10:01:52


104 FABIO FROSINI

si equilibrano continuamente, rilanciando il conflitto ma anche


consolidando ogni volta la potenza e la libertà15. Ne risulta che
il conflitto tra «umori» non è pensabile senza la religione, che il
rapporto delle forze è sempre declinato in determinati rapporti di
«educazione».
Vi è dunque una costante dialettica, che alimenta lo spazio
politico in quanto spazio specificamente pubblico, cioè struttural-
mente discutibile (dunque indeciso), omogeneo (dunque eguali-
tario) e indisponibile (dunque comune). Questa dialettica impe-
disce allo spazio di (ri)convertirsi in una stratificazione naturale,
con l’attribuzione privata del tutto a una sola parte (o a un insie-
me di parti)16. Ma essa è strutturalmente asimmetrica: la colloca-
zione spaziale del popolo determina la sua lotta come l’unica che
può avere reale interesse alla libertà in quanto esistenza di uno
spazio pubblico. Né i grandi, né il principe possono avere inte-
resse a ciò. Il principe, evidentemente, perché può fare propria
la posizione politica del popolo solamente sopprimendo lo spazio
politico in cui essa è formulabile. I grandi, perché occupano nella
dialettica conflittuale il luogo «alto» che ne determina il desiderio
come «desiderio grande di dominare»17. Solo il popolo, occupan-
do il luogo «basso» del conflitto, è quella «parte» il cui desiderio
è determinato come «desiderio di non essere dominati»18.
Ma questo desiderio del popolo è ontologicamente identico
a quello di tutte le altre parti, grandi e principi; come anche «i
desiderii dei popoli liberi», che «rade volte sono perniziosi alla
libertà, perché e’ nascono o da essere oppressi, o da suspizione di

15
Sulla struttura e sulla funzione del concetto di religione in Machiavelli
cfr. A. TENENTI, La religione di Machiavelli, in ID., Credenze, ideologie, liberti-
nismi tra Medio Evo ed Età Moderna, Bologna, Il Mulino 1978, pp. 175-219.
Sul rapporto tra religione e politica cfr. G. Procacci, Introduzione a N. MA-
CHIAVELLI, Il Principe e Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Milano, Fel-
trinelli 1960, pp. XVII-XCII, qui LIX-LX.
16
«[...] non il bene particulare, ma il bene comune è quello che fa grandi
le città. E sanza dubbio, questo bene comune non è osservato se non nelle
republiche, perché tutto quello che fa a proposito suo si esequisce, e quantun-
que e’ torni in danno di questo o di quello privato, e’ sono tanti quegli per chi
detto bene fa, che lo possono tirare innanzi contro alla disposizione di quegli
pochi che ne fussono oppressi» (Discorsi, II, 2, p. 331).
17
Ivi, I, 5, p. 211. Cfr. anche Il Principe, IX, Opere, a c. di C. Vivanti, Vol. I,
cit., p. 143: «[...] et e’ grandi desiderano comandare e opprimere el populo».
18
Discorsi, I, 5, p. 211. Cfr. anche Il Principe, IX, p. 143: «[...] il populo
desidera non essere comandato né oppresso da’ grandi».

Atti Urbino.indb 104 25-09-2009 10:01:53


È QUESTA DIFFICULTÀ È RAGIONEVOLE 105

avere ad essere oppressi»19, sono la stessa cosa di quel «combatte-


re per ambizione» che condusse la plebe di Roma a «volere con la
nobilità dividere gli onori e le sustanze come cosa stimata più da-
gli uomini»20. In tutti i casi, è lo stesso smisurato «desiderio» al-
l’opera, che si declina in forme determinate dal rapporto, di volta
in volta dato, tra prospettiva spaziale, rapporti di forze ed educa-
zione. Perché «qualunque volta è tolto agli uomini il combattere
per necessità, combattono per ambizione [...]. La cagione è per-
ché la natura ha creati gli uomini in modo che possono deside-
rare ogni cosa, e non possono conseguire ogni cosa: talché essen-
do sempre maggiore il desiderio che la potenza dello acquistare,
ne risulta la mala contentezza di quello che si possiede, e la poca
sodisfazione d’esso»21. Questa dismisura tra desiderio e potenza
viene a Roma costantemente (anche se sempre temporaneamente)
rimessa in equilibrio nei tumulti, che accrescono la libertà e «riag-
giustano» il rapporto tra religione e politica, in modo che la pri-
ma non si limiti a proiettare sulla plebe la volontà di dominio del
senato, ma anche restituisca alla plebe la sua stessa immaginazio-
ne prospettica della libertà. I tumulti sono insomma al contempo
effetto di una certa educazione, e fonte di una sua riformulazione
costante. La dinamica del caso Roma, per come Machiavelli la ri-
costruisce, è da sempre un intreccio di potenza e corruzione (non
vi è potenza allo stato puro), un intreccio che gradualmente si ra-
dicalizza, fino al punto in cui l’ambizione non può più essere in
alcun modo ricondotta all’immaginazione pubblica della libertà:

Ma quello che lo istorico nostro [Livio] dice della natura della mol-
titudine [«Haec natura moltitudinis est: aut humiliter servit, aut superbe
dominatur»], non dice di quella che è regolata dalle leggi, come era la ro-
mana; ma della sciolta, come era la siragusana: la quale fece quegli errori
che fanno gli uomini infuriati e sciolti, come fece Alessandro Magno, ed
Erode ne’ casi detti. Però non è più da incolpare la natura della moltitu-
dine che de’ principi, perché tutti equalmente errano, quando tutti sanza
rispetto possono errare. [...] Conchiudo adunque contro alla commune
opinione, la quale dice come i popoli, quando sono principi, sono varii,
mutabili ed ingrati, affermando che in loro non sono altrimenti questi
peccati che siano ne’ principi particulari22.

19
Discorsi, I, 4, p. 210.
20
Ivi, I, 37, p. 276.
21
Ibidem. Cfr. anche ivi, I, 46, p. 293.
22
Ivi, I, 58, p. 317.

Atti Urbino.indb 105 25-09-2009 10:01:53


106 FABIO FROSINI

La moltitudine «regolata dalle leggi» è quella alla quale è im-


pedito di errare, perché la sua azione è sottratta all’arbitrio («san-
za rispetto possono...»), non può non essere quella che è, o per-
ché costretta a ciò dall’ambizione dei potenti, o perché contenuta
in un corpo di leggi che sono, al contempo, riflesso esatto di un
costume ed espressione di una volontà «educativa» (dunque reli-
giosa) di un legislatore o del senato; che però è costantemente ri-
formulata dalla resistenza della plebe, in modo da contenere tan-
to l’ambizione dei grandi quanto quella dei plebei. Tutti i Discorsi
sono percorsi dall’opposizione tra «necessità» (come sinonimo di
«virtù») ed «elezione» (come sinonimo di «corruzione»)23, dove
però la prima non ha nulla a che fare con l’esercizio esterno del-
la «forza», ma è il risultato mobile dell’interazione costante tra le
lotte e l’immaginazione di esse, quando tale interazione produce
una forma di obbligazione interna che rende efficace l’esercizio
dell’educazione (leggi e norme diffuse).
Nell’intervallo tra necessità ed elezione si dispongono dunque
tutte le ambizioni degli «umori», ma, sebbene esse siano onto-
logicamente identiche ed effettualmente tendano allo stesso fine
(opprimere l’altra parte), non possono essere completamente
equiparate, perché, come si è detto, si trovano in luoghi differen-
ti dello spazio politico strutturato dai rapporti di forze. Questo
vuole dire che, se non vi è nessun rapporto essenziale tra popolo
e libertà (nel senso che il popolo non è di principio il tutore della
libertà), non abbiamo neanche a che fare con una mera fattua-
lità (nel senso che il popolo sarebbe accidentalmente legato alla
libertà, come potrebbe accadere anche ai grandi). La distinzione
analitica tra unicità del desiderio e sue forme effettuali non mette
cioè capo nella perfetta equivalenza degli umori, non cancella la
dissimmetria della dialettica: questa si impone infatti non rispetto
a questo o quel popolo, ma rispetto alla parte che ogni volta oc-
cupa il punto più basso dei rapporti di forze24.

23
«Gli uomini non operono mai nulla bene, se non per necessità; ma,
dove la elezione abonda, e che vi si può usare licenza, si riempie subito ogni
cosa di confusione e di disordine» (ivi, I, 3, p. 208).
24
Cfr. p. es. ivi, I, 3, pp. 207-208, in cui si spiega che, dopo la cacciata dei
Tarquinii, pareva «che i nobili avessono diposto quella loro superbia, e fossero
diventati d’animo popolare, e sopportabili da qualunque ancora che infimo».
Questo «inganno» nasceva, spiega Machiavelli, dalla paura che, volendo i Tar-
quinii rientrare nell’Urbe, la plebe li appoggiasse. Pertanto, finché i Tarquinii
vissero, l’inganno «se ne stette nascosto». Dopo la morte di tutti i Tarquinii,
quando «fu ai nobili la paura fuggita, cominciarono a sputare contro alla plebe

Atti Urbino.indb 106 25-09-2009 10:01:53


È QUESTA DIFFICULTÀ È RAGIONEVOLE 107

Questo ovviamente non toglie affatto peso al carattere decisi-


vo dell’educazione, che «deformando» i rapporti di forze è l’uni-
co accesso alla «verità effettuale della cosa». Semmai ne esalta il
carattere politico, cioè contingente: legare non solo teoricamen-
te, ma politicamente l’educazione con i rapporti di forze diventa
allora per il punto di vista del popolo un compito politicamen-
te vitale. A differenza dei nobili, che nascono «in alto», la parte
popolare non può lasciare che i rapporti di forze si equilibrino
in modo «naturale». Essa deve «discorrerli» precisamente perché
il popolo è sempre sulla difensiva, nel luogo «basso» della pro-
spettiva che, ad ogni momento, rischia di essere naturalizzato
(e chiuso) a «ordine» con la definitiva prevalenza dei grandi, o
di essere sostituito da uno spazio di nuova subordinazione, con
l’alleanza di un principe filo-popolare. Sapere insomma cosa sia
un’«educazione», e quale nesso intrattenga con i rapporti di for-
ze, è per la sopravvivenza politica del popolo una questione di
vitale importanza. In caso contrario, vince la «spontaneità» del
dominio dei grandi, contrapposta alla «spontaneità» dell’ambi-
zione popolare. Solo diventando capace di apprezzare il legame
tra l’educazione e i rapporti di forze (tra la religione e la politica), il
popolo potrà arrivare a saper «vedere» il «basso» non più soltan-
to come segno della propria naturale abiezione, o della propria
confusa resistenza, ma come un punto di proiezione prospettica
a partire dal quale ridefinire tutto lo spazio come necessariamente
pubblico. Per il luogo prospettico elevato che occupano, i grandi
quella capacità di apprezzare il nesso tra educazione e rapporti di
forze la possiedono (almeno tendenzialmente) già. Essi sono per-
ciò sempre capaci di vedere più lontano della moltitudine riotto-
sa e impotente, ma al contempo, e per la loro stessa collocazione
topologica, non possono usare quella capacità per potenziare la
libertà comune. Quella lungimiranza può semmai convincerli che
è necessario tollerare una certa libertà, se si intende conseguire

quel veleno che si avevano tenuto nel petto» e ad opprimerla. Ne seguirono


«molte confusioni, romori e pericoli di scandoli, che nacquero intra la plebe
e la nobiltà», finché furono creati i tribuni della plebe. La paura dei Tarquinii
rende dunque i nobili eguali ai plebei (li fa agire «per necessità»), contenendo
la loro ambizione. Così, dopo la creazione del tribunato, è la paura della plebe
a svolgere la stessa funzione. Ma in entrambi i casi la paura nasce come argi-
ne temporaneo alla declinazione del desiderio come «desiderio di dominare»,
mentre, nel caso della plebe, l’esplosione del desiderio (con i Gracchi e con «le
parti mariane») sorge dalla cessazione temporanea della paura dei nobili.

Atti Urbino.indb 107 25-09-2009 10:01:54


108 FABIO FROSINI

un determinato risultato (l’ampliamento di Roma). L’istituzione


dei tribuni e l’uso politico della religione non come strumento di
mero dominio, ma come spazio dinamico nel quale, per poter do-
minare, è necessario accogliere parte dell’ambizione plebea, sono
due momenti fondamentali di questa politica comunque vòlta a
«isgannare il popolo»25.
«Discorrere le storie» vuole dunque dire in concreto, per il
popolo come massa, praticare un’educazione che politicizzi lo spa-
zio, sottraendolo alla naturalità della distribuzione gerarchica e
immettendolo in uno schema immaginario in cui il popolo, pro-
prio perché occupa il luogo «basso», diventi capace di «conosce-
re» la necessità del rapporto tra spazio pubblico e libertà. Non
si tratta di prendere consapevolezza della propria centralità in
qualsiasi dinamica di potere, al fine di assumere una «soggettivi-
tà» prima solo latente. Questa posizione del problema risponde a
preoccupazioni filosofiche assenti in Machiavelli. Il punto di par-
tenza del Segretario è sempre la divisione dell’umanità in pruden-
ti e volgo, che non si tratta di accettare o meno, ma di assumere a
ineludibile punto di partenza. Il suo contributo originale sta però
in ciò, che egli riconduce questa divisione a quella di «chi serve
et chi comanda»26, rendendo possibile la costruzione di schemi
prospettici, che mettano in luce il rapporto tra la potenza politica
contenuta in ogni educazione data, e la potenza nella sua asso-
lutezza. Diventa così possibile dare un significato non fatalistico,
ma politico-attuale al condizionamento passionale delle forze in
conflitto. Visto dal basso, tale condizionamento, se adeguatamen-
te discusso, assume un significato diverso e irriducibile a quello
che esso assume, se visto dall’alto. La politicizzazione dello spa-
zio è il modo in cui il popolo rivendica per sé questa capacità di
discorso. Questa non è un’opzione che il popolo liberamente può
o non può fare propria: esso è necessitato a fare propria questa
prospettiva, perché essa è l’unico modo in cui la necessità della
potenza si può imporre alla città o, che è lo stesso, il popolo può
rivendicare la propria libertà come libertà comune. Discutendo
di educazione (e quindi di corruzione), Machiavelli unisce la de-
scrizione della meccanica delle forze in contrasto e la presenza
in essa del «punto di vista», non come luogo della costituzione
– necessaria o solo possibile – della «soggettività libera», ma della

25
Discorsi, I, 47, p. 297.
26
N. MACHIAVELLI, Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati,
cit., p. 24.

Atti Urbino.indb 108 25-09-2009 10:01:54


È QUESTA DIFFICULTÀ È RAGIONEVOLE 109

possibile attualizzazione della necessità, cioè, in definitiva, della


possibile unione di storia e politica.

3. Imparare a essere liberi

Nel sedicesimo capitolo del primo libro dei Discorsi, Machia-


velli avvia una discussione – che prosegue nei capitoli 17 e 18 –
sul modo in cui un «popolo» possa «perdere» la libertà, ovvero,
pur dandosene l’occasione, non «riacquistarla» se non tempora-
neamente. Alla luce di quanto detto, questo problema assume un
significato cruciale: qui la «prospettiva» del popolo viene assunta
non solo come elemento in un rapporto di forze e in una struttu-
ra educativa, ma come punto di vista a partire dal quale pensare il
modo in cui questo elemento, coinvolto nel conflitto, possa anche
svolgerlo a proprio vantaggio. Si tratta qui insomma di pensare
concretamente, politicamente il convergere dell’esigenza di «di-
scorrere» le storie, con la funzione del popolo nel conflitto poli-
tico che percorre la città. Non sorprenderà dunque, che questo
passaggio avvenga (come vedremo) grazie a un avvicinamento
dell’analisi ai termini dell’Italia e della Firenze attuali, e alle bru-
cianti questioni aperte, prima tra tutte l’orizzonte monarchico or-
mai ampiamente delineatosi in Europa e, in maniera «passiva», in
Italia27.
Il capitolo 16 discute il caso di un popolo che si trovi acciden-
talmente a essere libero:
Quanta difficultà sia a uno popolo uso a vivere sotto uno prin-
cipe perservare dipoi la libertà, se per alcuno accidente l’acquista,
come l’acquistò Roma dopo la cacciata de’ Tarquinii, lo dimo-
strono infiniti esempli che si leggono nelle memorie delle antiche
istorie. E tale difficultà è ragionevole: perché quel popolo è non
altrimenti che un animale bruto, il quale, ancora che di natura fe-
roce e silvestre, sia stato nutrito sempre in carcere ed in servitù;
che dipoi, lasciato a sorte in una campagna libero, non essendo
uso a pascersi, né sappiendo i luoghi dove si abbia a rifuggire,
diventa preda del primo che cerca rincatenarlo.
Questo medesimo interviene a uno popolo, il quale, sendo uso
a vivere sotto i governi d’altri, non sappiendo ragionare né delle

27
Uso il termine «passivo» nell’accezione di A. GRAMSCI, Quaderni del
carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci a c. di Valentino Gerratana, To-
rino, Einaudi 19772, pp. 41-42, 133, 504.

Atti Urbino.indb 109 25-09-2009 10:01:54


110 FABIO FROSINI

difese o offese pubbliche, non conoscendo i principi né essendo


conosciuto da loro, ritorna presto sotto uno giogo, il quale il più
delle volte è più grave che quello che poco inanzi si aveva leva-
to d’in sul collo: e trovasi in queste difficultà, quantunque che la
materia non sia corrotta. Perché un popolo dove in tutto è entra-
ta la corruzione, non può, non che piccol tempo, ma punto vive-
re libero come di sotto si discorrerà: e però i ragionamenti nostri
sono di quelli popoli dove la corruzione non sia ampliata assai, e
dove sia più del buono che del guasto28.
Questo passo richiama da vicino quanto Machiavelli aveva già
scritto nel capitolo V del Principe, dedicato a Quomodo admini-
strandae sunt civitates vel principatus qui ante quam occuparentur
suis legibus vivebant, dove si spiega che la città libera è, dal pun-
to di vista del principe, solamente un problema; la sua maggiore
vita, la sua maggiore potenza è mero disordine; la memoria della
antica libertà perduta, un incubo che grava sul presente: tutto ciò
rende enormemente più duro e pericoloso il processo di sotto-
missione29. Ma qui, si noti, «principe» è anche una città dominan-
te che si regge a repubblica, come Firenze verso Pisa. La gene-
ralizzazione è compiuta a partire dall’esistenza di un rapporto di
dominio, non dal modo in cui lo stato si regge, e la libertà di una
città è quindi quella rivolta verso l’esterno: il non essere domina-
ti da nessuno30. Nel momento della conquista espansiva a partire
da uno stato già esistente (è questo il caso esaminato nei capitoli
III-V del Principe), la città che si regge a repubblica si compor-
ta come quella che regge a principato, assimilando in varie forme
(che possono andare dalla fluidità di Roma alla rigidità meschina
di Firenze) lo spazio esterno. L’ottica della politica estera e della
guerra come conquista non conoscono che questa logica.
Il cambiamento presente nei Discorsi riguarda appunto la lo-
gica con la quale pensare il rapporto tra interno ed esterno, tra
politica e guerra. Se si assume la prospettiva del popolo, decisi-
vo diventa il regime libero o non libero con il quale una città si
regge, e cosa ciò esattamente voglia dire in relazione al rapporto
tra governanti e governati, e questa accezione di «libertà» diventa

28
Discorsi, I, 16, p. 240.
29
Il Principe, V, p. 130.
30
Su questa accezione di libertà cfr. PH. PETTIT, Il repubblicanesimo. Una
teoria della libertà e del governo, trad. it. di P. Costa, Milano, Feltrinelli 2000,
e Q. SKINNER, La libertà prima del liberalismo, trad. it. di M. Geuna, Torino,
Einaudi 2000.

Atti Urbino.indb 110 25-09-2009 10:01:54


È QUESTA DIFFICULTÀ È RAGIONEVOLE 111

determinante anche per intendere l’altra, quella rivolta all’ester-


no. Nei Discorsi il centro della proiezione prospettica della repu-
tazione non è né il principe, né la città repubblicana come «prin-
cipe», ma il popolo, di cui interessa capire come possa imparare a
essere libero31.
Come testimonia la discussione del caso Roma, essere liberi è
il risultato di un difficile apprendimento: in presenza della perdita
accidentale del principe (la cacciata dei Tarquinii), il presupposto
della non-corruzione non è sufficiente; indispensabile è un ele-
mento costruttivo, che appartiene al campo del «discorrere». La
plebe non ha infatti deliberato la fine della monarchia a partire
da una rivendicazione nata dal suo interno, sebbene sopportasse
come tutti le angherie di Tarquinio. Dopo lo stupro e la morte di
Lucrezia, Lucio Giunio Bruto, con un’allocuzione nel Foro, in cui
presentava tutte le atrocità e ingiustizie commesse dai Tarquinii,
«infiammò il popolo [multitudinem] e lo indusse a togliere il po-
tere al re e a deliberare l’esilio di Lucio Tarquinio, di sua moglie e
dei suoi figli»32. La folla è arringata da un uomo che la spinge ad
agire secondo le proprie ragioni. L’azione della folla non nasce da
un «discorso» di quelle ragioni. Questo «discorso» è appunto la
parte costruttiva, sulla quale solamente può fondarsi una libertà
non accidentale, non avventizia, non concessa, ma cercata, ragio-
nata e difesa.
Il paragone tra popolo e animale cresciuto in cattività, presen-
te nel capitolo 16 del libro primo dei Discorsi, è del resto illumi-
nante, per l’analogia tra, rispettivamente, conoscenza dei luoghi
in cui pascersi e ragionamenti delle difese e offese pubbliche da
una parte, dall’altra conoscenza dei rifugi e conoscenza dei prin-
cipi da parte del popolo e viceversa. Dunque, la capacità colletti-
va di «ragionare» pubblicamente le questioni di interesse politico
e civile (allusione alle pubbliche accuse di Roma contro le calun-
nie di Firenze33), è il «nutrimento» della libertà, mentre la sua
«difesa» è la conoscenza attiva e passiva di cosa sia un «principe».
Nutrire la libertà significa alimentarla, farla crescere. E infatti le

31
Sottolinea questo aspetto C. Vivanti nell’Introduzione
nell’ all’edizione da
lui curata delle Opere, Vol. I, cit., pp. IX-CIX, qui LXXI e LXXXII. Cfr. an-
che Giuliano Procacci, Introduzione a N. MACHIAVELLI, Opere scelte, a c. di
G. F. Berardi, Roma, Editori Riuniti 1969.
32
TITO LIVIO, Storia di Roma dalla sua fondazione. Libri I-III, I, 59, trad.
it. di M. Scàndola, Milano, Rizzoli 1963, p. 98.
33
Cfr. Discorsi, I, 7 e 8, pp. 217-222.

Atti Urbino.indb 111 25-09-2009 10:01:55


112 FABIO FROSINI

pubbliche accuse svolgono nella storia di Roma la duplice fun-


zione di istituire un controllo diffuso capillarmente nella società,
che travalica di molto i confini della legge propriamente detta, in
quanto rende ogni cittadino un potenziale «magistrato» («i citta-
dini, per paura di non essere accusati, non tentano cose contro
allo stato»34); e di contenere la conflittualità tra umori, per qual-
siasi questione possa sorgere, entro i limiti della forma giuridica
ordinaria, senza necessità di ricorrere a mezzi straordinari, dato
che ogni cittadino sa e sente, avendo patito un torto, di poter ot-
tenere giustizia («si dà onde sfogare a quegli omori che crescono
nelle cittadi, in qualunque modo, contro a qualunque cittadino:
e quando questi omori non hanno onde sfogarsi ordinariamente,
ricorrono a’ modi straordinari, che fanno rovinare tutta una re-
publica»35). Se questo è il «nutrimento» della libertà – un ordi-
namento capace di aderire a tutta la società, portando ad espres-
sione tutta la conflittualità e permettendo così a tutte le «parti» di
mettere in prospettiva le altre –, cosa s’intende con «conoscere i
principi» ed «essere conosciuto da loro»? È meno ovvio di quan-
to possa apparire, dato che a prima vista del principe dovrebbe
sopratutto avere contezza quel popolo, che a lungo sia stato sotto
il suo governo, come quello romano al termine della serie dei re.
Ma non è, appunto, così. Il termine «conoscere» va letto in
termini prospettici, alla luce di quanto ne dice, nella Dedica del
Principe, il famoso paragone con la cartografia36. La «conoscen-
za» non è una nozione ovvia, determinata dalla mera familiarità,
o addirittura dall’abitudine alla soggezione o al dominio. La co-
noscenza è invece, precisamente, la messa in prospettiva, cioè la
presa di distanza che consiste nel demarcare i rispettivi «luoghi» e
nel ridefinire in termini politici (alto/basso) quello che a entrambe
le parti appare dapprima come mero «ordine» naturale di domi-
natori e dominati37. «Conoscere» vuole dire quindi esattamente
il contrario dell’abitudine a essere governati: la «conoscenza» è
un situazione in cui due forze si fronteggiano e si rispecchiano, in
cui cioè ciascuna vede sé stessa negli effetti che produce sul piano
della reputazione di cui l’altra è depositaria e testimone, e nella

34
Ivi, I, 7, p. 217.
35
Ibidem.
36
Il Principe, [Dedica], p. 118.
37
Sulla politica come revoca della distribuzione naturale dello spazio
cfr. J. RANCIÈRE, La Mésentente. Politique et philosophie, Paris, Galilée 1995,
pp. 31, 36-37.

Atti Urbino.indb 112 25-09-2009 10:01:55


È QUESTA DIFFICULTÀ È RAGIONEVOLE 113

quale ciascuna «vede» la contingenza del rapporto che le unisce


e le divide38. Perché dunque un popolo accidentalmente liberato-
si dal dominio di un principe «ritorna presto sotto uno giogo»?
Perché non sa (ancora) che un principe non è il rappresentante
di un ordine «naturale» di dominio, la cui assenza segna solo una
sospensione dell’ordine, ma un’«accidentale» forza tra le forze;
una forza la cui natura è identica a quella di tutte le altre, anche
se è di potenza superiore a molte altre; una forza, infine, la cui
«natura» sarà definita sul piano degli effetti, per il rapporto che
assumerà verso il popolo e verso i grandi, ma che sarà comunque
caratterizzata da un’incompossibilità nei confronti dello spazio
repubblicano. Il privato che diventi principe, infatti, potrà ap-
poggiare lo stato sul popolo o sugli ottimati, ottenendo differenti
gradi di stabilità39. In ogni caso, però, la sua funzione sposterà la
conflittualità tra umori su di un altro piano, impedendole di svi-
lupparsi nell’interezza delle sue implicazioni.
In Romagna il Valentino risana una materia corrotta, la ricon-
duce all’ordine strappandola all’anarchia feudale40, ma non isti-
tuisce la libertà dei popoli, che invece assoggetta con la forza e
con la legge. Il tribunale da lui istituito, come istanza non solo
distinta dall’arbitrio del principe (o dei suoi emissari), ma anche
capace di rappresentargli le rivendicazioni delle diverse città, tra-
duce l’odio dei popolani verso il potere dei signori feudali su di
un piano differente, rendendolo compatibile con la sovranità mo-
narchica. Su di un piano solo più complesso, lo stesso discorso
viene fatto a proposito dei «parlamenti» francesi41, «iudice terzo»
tra «grandi» e «populari», istituito dal re in modo che «battessi e’

38
Per questa ragione «conoscere» il principe ed «essere conosciuto» da
lui sono nozioni inseparabili: un principe non conosce il popolo che governa,
che è ridotto a insieme di sudditi, ma conosce solo quel popolo che gli sta
dinnanzi come gruppo che rivendica per sé il potere, o rivendica una precisa
limitazione del potere principesco, a partire dalla sua particolare prospettiva
«dal basso» (e che rivendica questa prospettiva come sua propria).
39
Questa distinzione, presente in Principe, IX, è alla base di tutto il tratta-
to. Cfr. G. CADONI, Crisi della mediazione politica e conflitti sociali. Niccolò Ma-
chiavelli, Francesco Guicciardini e Donato Giannotti di fronte al tramonto della
Florentina Libertas, Roma, Jouvence 1994, pp. 93-165. Ma il tema è già ampia-
mente sviluppato, in una prospettiva fortemente storicistica, da V. MASIELLO,
Classi e Stato in Machiavelli, Bari, Adriatica Editrice 1971, pp. 49-124.
40
Cfr. Il Principe, VII, p. 136.
41
Su tutta la questione cfr. G. CADONI, Machiavelli. Regno di Francia e
principato civile, Roma, Bulzoni 1974, pp. ***.

Atti Urbino.indb 113 25-09-2009 10:01:55


114 FABIO FROSINI

grandi e favorissi e’ minori»42 per moderare «l’odio dello univer-


sale contro a’ grandi fondato in su la paura»43.
Si prende infine la singolare caratterizzazione di Romolo come
fondatore di una monarchia che ritiene in sé molto di una repub-
blica, presente nei Discorsi: egli, scrive Machiavelli, fonda Roma,
dandole ordini «più conformi a uno vivere civile e libero che a
uno assoluto e tirannico»44. Il rapporto stretto tra monarchia e
repubblica è effettivamente ribadito nel capitolo successivo, in-
titolato Quanto sono laudabili i fondatori d’una republica o d’uno
regno, tanto quelli d’una tirannide sono vituperabili45. Nello svi-
luppare il proprio ragionamento, Machiavelli non dimentica tut-
tavia di precisare che una differenza rimane, e sta precisamente
nell’aggettivazione utilizzata per discutere la qualità degli ordini
di Romolo, «più conformi a uno vivere civile e libero che a uno
assoluto e tirannico». L’ordine monarchico può essere civile e as-
soluto, ma non può essere in nessun caso né libero né tirannico,
altrimenti sarebbe o una repubblica (civile + libera) o una tiran-
nia (assoluta + tirannica). Del resto, tutto il discorso sulla perdita
della libertà da parte di un popolo, che non conosca i principi, si
spiega alla luce di questa differenza ineliminabile tra monarchia e
repubblica, tra primato della legge e primato della libertà, diffe-
renza che, dal punto di vista del popolo in quanto parte politica,
non è solo importante, ma decisiva.
Infatti, nella seconda parte del capitolo 16, lo stesso discorso
che nella prima parte è stato condotto a partire dalla prospettiva
del popolo, viene ripreso a partire dalla prospettiva di un princi-
pe, che abbia esclusivamente interesse a conferire stabilità al pro-
prio potere46. Questi dovrà offrire al popolo degli spazi di «sicu-
rezza» attraverso leggi alle quali nessuno, neanche lui, sia sottrat-
to, e permettergli di sfogare in parte il suo rancore nei confronti
degli ottimati. In questo modo il principe, assecondando parzial-
mente una passione costruttiva del popolo (l’odio verso i grandi),
riuscirà in realtà ad eluderla, perché lo svierà dalla sua esigenza
fondamentale, quella di «riavere la sua libertà»47. A questo scopo
utilizzerà una distinzione facilmente individuabile in «tutte le re-

42
Il Principe, XIX, p. 169.
43
Ibidem.
44
Ivi, I, 9, p. 224.
45
Ivi, I, 10, pp. 225-228.
46
Ivi, I, 16, p. 241.
47
Ibidem, pp. 241-242.

Atti Urbino.indb 114 25-09-2009 10:01:56


È QUESTA DIFFICULTÀ È RAGIONEVOLE 115

publiche, in qualunque modo ordinate»48, la distinzione tra quei


«quaranta o cinquanta cittadini» che «aggiungono [...] ai gradi
del comandare», e tutti gli altri, ai quali «basta vivere sicuri»49.
I primi potranno essere o eliminati o assimilati, i secondi soddi-
sfatti con «ordini e leggi, dove insieme con la potenza sua [del
principe scil.] si comprenda la sicurtà universale. [...] In esemplo
– prosegue Machiavelli – ci è il regno di Francia, il quale non vive
sicuro per altro che per essersi quelli re obligati a infinite leggi,
nelle quali si comprende la sicurtà di tutti i suoi popoli»50.
È stato giustamente osservato che qui Machiavelli si lascia alle
spalle la tradizionale dicotomia repubblicana tra libertà e sicurtà
e, forte dell’esempio francese e del riferimento al carattere strut-
turalmente oligarchico delle repubbliche, ridefinisce la libertà
non più come partecipazione, ma come godimento passivo di una
condizione in cui la sicurezza del singolo è garantita dalla legge51.
Ma dicendo questo, occorre anche tener presente la prospettiva
che rende possibile tale ridefinizione, una prospettiva che apre sì
verso la stagione della sovranità della «respublica» moderna, ma
contiene anche dentro di sé un’alternativa, il cui sviluppo stiamo
seguendo dentro il testo dei Discorsi. Questa alternativa non è
però, come sarà a questo punto chiaro, un ritorno al passato, alla
vecchia idea di libertà come partecipazione. Anche perché, come
Machiavelli aveva avuto modo di constatare di persona, Firenze
dentro e fuori le mura non funzionava certo come una repubblica
democratica. Ripensare la libertà in termini europei era possibi-
le solo abbandonando ogni nostalgia e svolgendo fino in fondo
le implicazioni contenute nella realtà del popolo come passività,
disordine, incapacità di prendere decisioni, e così via; e quelle
contenute nella realtà della sua controparte – sia essa un principe
o gli ottimati –, che invece è capace di tutto ciò. Qui dunque Ma-
chiavelli mostra, riferendosi alla Francia, come, facendo proprie
delle rivendicazioni popolari, il principe possa condurre quella
che Gramsci chiamerà una «rivoluzione passiva»52, che conferma
e rafforza la subordinazione politica del popolo nel momento in

48
Ivi, p. 242.
49
Ibidem.
50
Ibidem.
51
E. FASANO GUARINI, Machiavelli and the crisis of the Italian republics,
in Machiavelli and Republicanism, ed. by G. Bock, Q. Skinner and M. Viroli,
Cambridge (Mass.), Cambridge U.P. 1990, pp. 17-40, qui 28.
52
Su questo concetto cfr. supra, nota 30.

Atti Urbino.indb 115 25-09-2009 10:01:56


116 FABIO FROSINI

cui ne assume in forma progressiva alcune istanze. Ma è appunto


questa la strategia che i Discorsi intendono studiare e sventare.
Come ciò sia possibile, non emerge dalla discussione del caso
di Roma, in sé concluso in una parabola in cui la libertà si iden-
tifica con l’incorruzione, ma l’esercizio della libertà produce la
corruzione. La plebe non giunge mai ad assumere liberamente il
punto di vista del «basso» come prospettiva politica. Diversa è
però la situazione nel mondo attuale, dominato per un verso da
un’universale «corruzione» (a cui sfuggono solo insignificanti en-
claves53) determinata dalla catastrofe della libertà antica, diviso
per l’altro dalla grande alternativa tra «equalità» e «inequalità»,
in nessun modo coincidente con quella incorruzione/corruzione.
Il tema viene non casualmente introdotto nei capitoli 17 e 18 del
primo libro, nell’ambito della discussione relativa alla perdita del-
la libertà: ma mentre nel capitolo 18 corruzione è assenza di ob-
bligazione interna, secondo l’accezione antica, nel 17 essa viene
ricondotta all’esistenza di «inequalità», ed equiparata alla «poca
attitudine alla vita libera»54. Mentre nel primo caso la corruzione
cresce, con il crescere dell’equalità tra plebei e patrizi, nel secon-
do è invece la presenza di «gentiluomini»55, figure sociali legate a
grandi possedimenti ed eventualmente a castelli e sudditi propri,
a impedire l’equalità.
In questo spostamento trova posto il discorso popolare relati-
vo alla perdita della libertà, ma a questo punto come un discorso
che si svolge interamente all’interno di questa struttura fonda-
mentalmente «egualitaria» che è il popolo. Dove ha trionfato la
sistemazione monarchica, come in Francia, il sistema dei rapporti
di forze (la bilancia delle «ambizioni») lascia sussistere popolo e
grandi, che vengono equilibrati in vario modo dalla corona con
lo strumento della legge e della forza (l’appoggio dei baroni). Ma
dove l’equalità si è andata affermando, e tutto lo spazio è stato
saturato dal popolo, questo dovrà trovare al proprio interno le
modalità del «discorrere», dunque di un approccio alla verità.
Ma questo popolo emerge dal naufragio della libertà antica: il suo
«principio» non contiene nessuna bontà, anzi è la stessa corru-
zione. Non ha dunque senso impostare un discorso di libertà in
termini di «ritorno ai principii», come Machiavelli indica a pro-
posito di Roma. Questo «discorso del popolo» non potrà allora

53
Cfr. Discorsi, II, [Proemio], p. 325, e I, 55, p. 310.
54
Ivi, I, 17, p. 245.
55
Ivi, I, 55, p. 311.

Atti Urbino.indb 116 25-09-2009 10:01:56


È QUESTA DIFFICULTÀ È RAGIONEVOLE 117

che definitivamente eliminare la problematica della fondazione. Il


mondo moderno riemerge gradualmente, con ritmi e temporali-
tà differenti, dalla servitù che sta a fondamento del mondo cri-
stiano-borghese, senza che questa riemersione torni a produrre
un qualche conformismo, se non in modo selettivo (riguardante
solo il popolo) e passivo nelle monarchie. Anzi: nel mondo mo-
derno la libertà e l’individualismo crescono insieme56. Dunque il
suo «principio» non è alle sue spalle, in un luogo al contempo
definito e mitico, ma nello stesso corso del suo svolgersi, in nes-
sun luogo definito ma nell’insieme delle lotte che hanno condotto
all’equalità. Inoltre, se l’equalità significa la soppressione dei gen-
tiluomini come incompatibili con il vivere politico, il conflitto si
riproporrà come interno al popolo stesso, come viene ampiamen-
te ricostruito nella storia di Firenze, e come viene sommariamen-
te ricordato nel Discursus florentinarum rerum, con la distinzione
di «primi, mezzani e ultimi» interna e non esterna alla struttura
generale dell’equalità57.
In questo contesto, la moltitudine degli ultimi non solo po-
trà affermare il proprio diritto di cittadinanza (come fa la plebe a
Roma), ma potrà farlo in base a un discorso egualitario in linea di
principio condiviso da tutto il popolo, ingiungendo così alla città
di realizzare le promesse universali edificate con le lotte di tutti.
Si delineano così un nuovo rapporto tra basso e alto e un nuovo
concetto di libertà. Mentre a Roma l’esistenza di un dislivello tra

56
Il caso di Firenze, discusso nelle Istorie fiorentine, è esemplare del
modo in cui potenza e crisi si intrecciano nel moderno (cfr. F. DEL LUCCHESE,
La città divisa: esperienza del conflitto e novità politica in Machiavelli, in Ma-
chiavelli: immaginazione e contingenza, a c. di F. Del Lucchese, L. Sartorello,
S. Visentin, Pisa, Edizioni ETS 2006, pp. 17-29). Tale intreccio vi è bensì an-
che nell’antico: anche a Roma «il processo attraverso cui si instaura il «vivere
libero» è [...] quello stesso che lo conduce a distruzione» (G. CADONI, Ma-
chiavelli. Regno di Francia e principato civile, cit., p. 206), in quanto la crescita
della potenza, che esprime la crescita della libertà attraverso il conflitto tra
plebei e nobili, è al contempo la progressiva dissipazione dell’iniziale fondo di
«bontà» riposante nella «buona» fondazione di Roma. Per quanto l’origine di
Roma non sia (come quella di Sparta) riconducibile a un individuo, essendo il
risultato di un accumularsi casuale di individui ed eventi, essa svolge insomma
nella sua «storia» sempre e comunque un ruolo decisivo. Diversamente stanno
le cose per il mondo moderno, che è già sempre corrotto e che perciò cerca
(e talvolta trova) la «ragione» della propria «libertà» nel corso del suo stesso
faticoso costruirsi.
57
Cfr. N. MACHIAVELLI, Discursus florentinarum rerum post mortem Iunio-
ris Laurentii Medices, in Opere, a c. di C. Vivanti, Vol. I, cit., p. 738.

Atti Urbino.indb 117 25-09-2009 10:01:57


118 FABIO FROSINI

alto e basso è essenziale all’esistenza della libertà (la funzione del-


la plebe sta, paradossalmente, nel lottare affinché tale dislivello
rimanga preterintenzionalmente in una sorta di proporzione ot-
tima, non eccessiva in nessuno dei due sensi); nel mondo moder-
no la libertà consiste invece nella capacità collettiva organizzata
di individuare le aree di inequalità che costantemente, sempre di
nuovo si aprono nel tessuto dell’equalità, rischiando di svuotarlo
a mera parola. La libertà, dunque, non consiste più nel «trattene-
re» la corruzione, ma nell’ingiunzione, sempre di nuovo soffocata
e sempre di nuovo rilanciata, a tener fede al comune discorso del-
l’equalità popolare, includendo in questo modo i rapporti di for-
ze nell’educazione stessa, come materia da «discorrere» costan-
temente. Quando la scomposizione politica e la differenziazione
spaziale dell’equalità sia diventata un fatto politico, riguardi cioè i
«molti» e non più solo ristretti circoli di intellettuali, diventa pos-
sibile costruire un «discorso» collettivo che si identifichi con lo
svolgersi stesso dei rapporti di forze, e non si limiti a esserne un
contrappeso, come nel caso dell’incorruzione antica.

Atti Urbino.indb 118 25-09-2009 10:01:57

Potrebbero piacerti anche