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Schifanoia 46-47.

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I L CA M A L E O N TE E IL C E N TAURO.
NOT E S U LL’ A N T RO P O LOG IA D I G IOVAN N I PIC O
E N I CCO L Ò M AC HIAVE LLI
To m m a s o D e Robertis
This article is a study of the anthropological accounts set out, respectively, by Giovanni Pico della Mirandola in the
Oratio de dignitate hominis and by Niccolò Machiavelli in the Prince. Generally speaking, many differences occur
between Pico’s overall conception of man and Machiavelli’s own one. On the one side, Pico’s account celebrates hu-
man indeterminateness and free will, features making man the most «fortunate of living things». On the other side,
Machiavelli’s view is much more deterministic, insofar as the Florentine claims that every man is hindered by his
own nature, which is basically fixed and not able to «adapt its way of proceeding to the nature of its times».
Yet, in the Prince Machiavelli seems to be considerably closer to Pico’s anthropological account presented in the
Oratio. In his work, in fact, Machiavelli stresses on the importance of changing when demanded by circumstances,
and he appeals to some particular motifs («diventare il contrario», «usare l’una e l’altra natura») that are very close
to Pico’s ones. At the same time, however, Machiavelli’s metaphor of the centaur is a direct criticism to Pico’s con-
ception of human being (metaphorically expressed through the images of Proteus and the chameleon) which intend-
ed to celebrate man as a divine creature but did not pay attention to worldly life and political issues.

L e concezioni antropologiche elaborate da Giovanni Pico della Mirandola e Niccolò Machia-


velli si trovano, come è noto, assai distanti l’una dall’altra. Le celeberrime battute iniziali
della Oratio pichiana, esaltanti l’uomo come «magnum miraculum, nullis angustiis coercitus,
arbitrarius honorariusque plastes et fictor», poco hanno a che spartire con la figura dell’uomo
machiavelliano, drammaticamente determinato dai limiti della propria natura, incapace di «ve-
dere discosto» e ostacolato, inoltre, dalla incalcolabile mutevolezza della realtà esterna.1
Tuttavia, queste differenti formulazioni conoscono nelle pagine del Principe un momento
di significativa vicinanza, rintracciabile nei numerosi luoghi dell’opuscolo nei quali Machiavelli
riflette sulla nozione di variabilità come dispositivo proprio dell’agire umano. La cornice di
pronunciato determinismo a cui Machiavelli, nella diversità degli accenti e dei generi letterari,
resta sostanzialmente fedele lungo l’intero corso della sua produzione, si presenta nel testo del
Principe in una versione più mitigata. Per evidenti ragioni di opportunità politica, l’autore de-

Tommaso De Robertis, tommaso.derobertis@nemo.unipr.it


1 Un esempio su tutti è costituito dal capitolo ottavo dell’Asino, dove l’uomo è dipinto come l’ultima e più svantaggiata
tra le creature: Niccolò Machiavelli, L’asino, viii, vv. 118-135, a cura di Antonio Corsaro, in Idem, Scritti in prosa e in
poesia, a cura di Antonio Corsaro, Paola Cosentino, Emanuele Cutinelli-Rendina, Filippo Grazzini, Nicoletta Marcelli,
coordinamento di Francesco Bausi, Roma, Salerno editrice, 2012, («Edizione nazionale delle opere di Niccolò Machiavelli»,
i, 2), pp. 191-192: «Ogni animal tra noi nasce vestito, / che ’l difende dal freddo tempo e crudo / sotto ogni ciel e per
qualunque lito. / Sol nasce l’uom d’ogni difesa ignudo, / e non ha cuoio, spine, o piume, o vello, / setole, o scaglie, che li
faccian scudo. / Dal pianto il viver suo comincia quello, / con tuon di voce dolorosa e roca, / tal ch’egli è miserabile a ve-
dello. / Poi crescendo la sua vita è poca, / senz’alcun dubbio al paragon di quella / che vive un cervo, una cornacchia, un’o-
ca. /Le man vi diè natura, e la favella, / e con quelle anco ambizïon vi dette, / e avarizia, che quel ben cancella. / A quante
infermità vi sottomette / natura, prima e poi fortuna quanto / ben senz’alcuno effetto vi promette!». Tra i più importanti
studi a carattere generale sulla riflessione antropologica degli autori dell’Umanesimo e del Rinascimento, con attenzione
anche alle posizioni di Giovanni Pico e Niccolò Machiavelli, segnaliamo: Giovanni Gentile, Il concetto dell’uomo nel Ri-
nascimento, in Idem, Il pensiero italiano del Rinascimento, Firenze, Sansoni, 1940, pp. 47-113; Paul Oskar Kristeller, The
Philosophy of Man in the Italian Renaissance, in Idem, Studies in Renaissance Thought and Letters, Roma, Edizioni di Storia e
Letteratura, 1956, pp. 261-278; Idem, Concetti rinascimentali dell’uomo e altri saggi, Firenze, La Nuova Italia, 1978; L’uomo del
Rinascimento, a cura di Eugenio Garin, Roma, Laterza, 1988; Leonid Michailovic Batkin, L’idea di individualità nel
Rinascimento italiano, Roma-Bari, Laterza, 1992.
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cide di attenuare in questo scritto i toni pessimistici della propria antropologia e prospetta per
l’uomo la possibilità, almeno teorica, di mutare natura e indirizzo d’azione in conformità con
le circostanze esterne. Il Fiorentino si rivolge infatti al proprio principe imponendogli di «stare
in modo edificato con lo animo che, bisognando non essere, tu sappia diventare il contrario»,
e prosegue:
E hassi a intendere questo, che uno principe, e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quel-
le cose per le quali li òmini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare
contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla relligione; e però bisogna che elli abbi
uno animo disposto a volgersi secondo che e’ venti della fortuna e la variazione delle cose li comandano.1

L’immagine utopica del principe delineata da Machiavelli è quella di una figura non costretta
da alcuna natura predeterminata, ma potenzialmente in grado di scegliere di volta in volta, «se-
condo che e’ venti della fortuna e la variazione delle cose li comandano», la disposizione pratica
più confacente alla situazione da affrontare. Egli deve far convivere i contrari («Oltra di questo,
per possere intraprendere maggiore imprese, servendosi sempre della relligione, si volse [scil.
Ferdinando il Cattolico] a una pietosa crudeltà»),2 essere allo stesso tempo bestia e uomo («per-
tanto a uno principe è necessario sapere usare bene la bestia e lo uomo […] bisogna a uno prin-
cipe sapere usare l’una e l’altra natura; e l’una sanza l’altra non è durabile»),3 modificare la pro-
pria natura in funzione delle circostanze esterne («imparare a potere essere non buono e usarlo
e non usarlo secondo la necessità»).4 Machiavelli conferma questo indirizzo teorico nel capitolo
25, dedicato al rapporto tra virtù e fortuna: in esso il margine di libertà riconosciuto all’azione
umana è maggiore di quello teorizzato qualche anno più tardi nell’analoga trattazione affidata
al capitolo 9 del terzo libro dei Discorsi. Nel commento a Livio, innanzitutto, emerge chiara-
mente che a creare le condizioni di un favorevole riscontro sono i tempi e non l’azione dell’uo-
mo politico;5 inoltre il testo dei Discorsi risulta limitato, rispetto al capitolo del Principe, al solo
esame della «fortuna in particulari». Nel capitolo dei Discorsi, infatti, Machiavelli non si preoc-
cupa né di preservare per l’uomo un margine significativo di arbitrio – «la metà, o presso» – nel
governo delle «cose del mondo», né tantomeno di concludere la trattazione con un appello al-
l’azione e alla perseveranza argomentando che, essendo la fortuna donna, «è necessario, volen-
dola tenere sotto, batterla e urtarla».6
L’autore del Principe ventila dunque l’idea di un leader politico potenzialmente in grado di
determinare ogni volta la propria natura in funzione delle circostanze esterne, di modulare il
proprio corredo comportamentale in aderenza alle singole contingenze. Non è di secondaria
importanza ricordare che tale idea, nel contesto storico e culturale in cui il Principe vide la luce,
era associata in maniera pressoché univoca alla Oratio de dignitate hominis di Giovanni Pico, e
nello specifico alla prima parte di essa, dove l’autore prende le distanze dalla letteratura de
dignitate hominis precedente (i cui argomenti a favore della grandezza della natura umana non
sono a parere del Mirandolano sufficientemente soddisfacenti), e individua egli stesso il tratto
distintivo che rende l’uomo la più mirabile delle creature.

1 Niccolò Machiavelli, Il principe, xviii, a cura di Mario Martelli, corredo filologico a cura di Nicoletta Marcelli,
Roma, Salerno editrice, 2006, («Edizione nazionale delle opere di Niccolò Machiavelli», i, 1), pp. 240-241.
2 Machiavelli, Il principe, xxi, cit., p. 282 (corsivo mio).
3 Ivi, xviii, pp. 235-236. 4 Ivi, xv, p. 216.
5 Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, iii, 9, a cura di Francesco Bausi, Roma, Salerno edi-
trice, 2001, («Edizione nazionale delle opere di Niccolò Machiavelli», i, 2), ii, p. 608: «Ma quello viene ad errare meno e
avere la fortuna prospera, che si riscontra – come ho detto – con il suo modo il tempo: e sempre mai si procede secondo
ti sforza la natura». Su questo aspetto cfr. Giulia Oskian, Machiavelli, Montaigne, Charron: modelli antropologici e sviluppi
politici, «Rinascimento», xliv, 2004, pp. 251-272. Lettura simile è proposta anche da Giulio Ferroni, Machiavelli, o del-
l’incertezza. La politica come arte del rimedio, Roma, Donzelli, 2003.
6 Machiavelli, Il principe, xxv, cit., p. 310. Per un’analisi dei «tre tempi» che costituiscono la trattazione sulla fortuna
presente nel xxv capitolo del Principe, cfr. Gennaro Sasso, Niccolò Machiavelli, I, Il pensiero politico, Bologna, il Mulino,
1993, pp. 424-440.
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Ora mentre ricercavo il senso di queste sentenze non mi soddisfacevano gli argomenti che in gran
numero vengon recati da molti sulla grandezza della natura umana: essere l’uomo vincolo delle creature,
familiare alle superiori, sovrano delle inferiori; interprete della natura per l’acume dei sensi, per l’inda-
gine della ragione, per la luce dell’intelletto, intermedio fra il tempo e l’eternità e, come dicono i
Persiani, copula, anzi Imeneo del mondo, di poco inferiore agli angeli, secondo la testimonianza di
David. Grandi cose queste, certo, ma non le più importanti, non tali cioè per cui possa arrogarsi il privi-
legio di una ammirazione senza limiti. Perché, infatti, non ammirare di più gli angeli e i beatissimi cori
del cielo?
Ma finalmente mi parve di avere compreso perché l’uomo sia il più felice degli esseri animati e degno
perciò di ogni ammirazione […] I bruti nel nascere seco recano dal seno materno tutto quello che avran-
no. Gli spiriti superni o dall’inizio o poco dopo furono ciò che saranno nei secoli. Nell’uomo nascente il
Padre ripose semi d’ogni specie e germi d’ogni vita. E secondo che ciascuno li avrà coltivati, quelli cresce-
ranno e daranno in lui i loro frutti. E se saranno vegetali sarà pianta; se sensibili, sarà bruto; se razionali,
diventerà animale celeste; se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio.1

Ciò che secondo Pico rende l’uomo superiore anche alle creature angeliche è la sua indeter-
minatezza, il suo statuto di «indiscretae opus imaginis», la libertà che solo a lui è data di poter
scegliere la propria natura, di essere ciò che più desidera.2 L’idea della variabilità e della costi-
tutiva indeterminatezza della natura umana deve essere considerata, come ha ricordato
Eugenio Garin, cifra esclusiva della Oratio pichiana e suo tratto distintivo nei confronti di tutta
la tradizione letteraria precedente.3 La presenza di questa idea lungo le pagine del Principe
costituisce una spia sufficientemente significativa per suggerire l’ipotesi di una sua influenza
su Machiavelli.
I canali attraverso cui le note immagini della Oratio possono essere giunte al Segretario fio-
rentino sono molteplici, e soprattutto non necessariamente diretti se teniamo conto dell’im-
patto che la prolusione pichiana, con la sua carica suggestiva e il suo sfortunato epilogo, dovette
avere a Firenze, e non solo, a partire dagli ultimi anni del Quattrocento. Il Poliziano la cita a
proposito della concordia tra Platone e Aristotele già nel primo capitolo dei primi Miscellanea
del 1489, dunque sette anni prima della sua pubblicazione nelle Commentationes curate dal nipo-
te Gian Francesco.4 Pietro Pomponazzi la cita, sicuramente di seconda mano, nelle lectiones su-
per i et ii De partibus animalium tenute a Bologna tra il 1521 e il 1524:
Homo autem qui est medius, cui natura et Deus dedit quod respiciat inferiora et superiora, et est imagi-
nandum quod Deus et natura dixerit homini: “o homo, ego posui te in medio generabilium et corrupti-

1 Giovanni Pico della Mirandola, Oratio de dignitate hominis, in Idem, De hominis dignitate, Heptaplus, De ente et
uno, a cura di Eugenio Garin, Torino, Aragno, 2004, pp. 103-107.
2 Su questo aspetto, cfr. Renato Lazzerini, Significato dell’uomo come «indiscretae opus imaginis», in Studi pichiani, Atti
del convegno di studi pichiani per il v centenario della nascita di G. Pico della Mirandola (Modena - Mirandola, 23-25 mag-
gio 1963), Modena, Aedes Muratoriana, 1965, pp. 109-117.
3 Eugenio Garin, La “dignitas hominis” e la letteratura patristica, «La Rinascita», i, 1938, 4, pp. 102-146: 103-104, n. 1: «Il
Pico, dopo aver ricordato i motivi tipici delle celebrazioni tradizionali, soggiunge: magna haec sed non principalia, e al mo-
tivo “trito nelle scuole” del microcosmo oppone lo sviluppo del concetto ermetico del “miracolo” per cui nell’uomo è
l’attività che crea l’essere stesso, sfuggendo così alla natura della quale si fa sovrano».
4 Angelus Politianus, Liber Miscellaneorum, i, 1, in Idem, Opera omnia, i, scripta in editione basilensi anno mdliii
collecta, a cura di Ida Maïer, Torino, Bottega d’Erasmo, 1971, p. 227: «Quod et Picus hic Mirandula meus in quadam suarum
disputationum prefactione tractavit» (citato in Francesco Bausi, Introduzione a Pico della Mirandola, Discorso sulla
dignità dell’uomo, Parma, Guanda, 2003, p. x, n. 2). Francesco Bausi richiama inoltre un passaggio dell’Argumentum che
Gian Francesco Pico premette alla sezione delle Commentationes dove è contenuta l’Oratio (citato da Giuseppe Tognon
in Giovanni Pico della Mirandola, Discorso sulla dignità dell’uomo, prefazione di Eugenio Garin, Brescia, La Scuola,
1987, p. 1) in cui si afferma che Giovanni Pico tenne l’Oratio sempre in casa e «nec nisi amicis comunem fecerit» (Joannes
Picus Mirandulanus, De hominis dignitate, in Idem, Opera omnia, i, scripta in editione basilensi anno mdlxxii, a cura di
Eugenio Garin, Torino, Bottega d’Erasmo, 1971, p. 313). Difficile è però determinare il numero di questi amici – che, per
un uomo come Pico, non dovevano essere certo pochissimi – e stabilire soprattutto se, quanto e come tali amici siano a
loro volta stati veicoli dei contenuti dell’Oratio, contribuendo a diffonderne i temi e le suggestioni attraverso i canali più
diversi.
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bilium et posui in arbitrio tuo quod possis videre et aspicere eterna et non eterna et posui in arbitrio tuo,
quod tu possis te transmutare in deum et in bestias”.1

È assai probabile che di Pico e della sua orazione Pomponazzi avesse sentito parlare da Alberto
Pio da Carpi (nipote per parte materna di Giovanni) presso il quale Pomponazzi risiede dal 1496
al 1499, durante l’esilio ferrarese di questi, e dal quale racconta di aver ottenuto il codice conte-
nente gli scolii greci del bizantino Michele di Efeso al De partibus animalium, che nel 1521 non
erano ancora disponibili in lingua latina e che il Mantovano, ignorante di greco, si fa tradurre
«ab illis qui intelligunt litteras grecas».2
Circa venticinque anni dopo anche Giovan Battista Gelli attingerà a piene mani all’Oratio pi-
chiana per la composizione della Circe, e si servirà delle stesse celebri immagini della prima par-
te dell’orazione (il camaleonte, il grande miracolo della natura, l’uomo libero di farsi terreno
o divino) per informare numerose battute del dialogo.3 Il Gelli oltretutto, che nella Circe non fa
mai il nome di Giovanni Pico, non sapeva nemmeno che l’orazione di questi non fosse stata in
realtà mai pronunciata,4 a conferma di come i temi e gli spunti di questo testo godessero di una
fortuna non determinabile in base al numero delle edizioni dell’opera allestite, e che, veicolati
anche oralmente, si diffondessero per i più diversi e non rintracciabili rivoli.5
Vale forse la pena di ricordare che anche più diretti fattori ambientali possono aver favorito
l’avvicinamento di Machiavelli ai contenuti dell’Oratio. Da un lato la grande amicizia con Biagio
Buonaccorsi, assai vicino a sua volta agli ambienti del neoplatonismo fiorentino: aveva infatti
sposato Alessandra Ficino, nipote di Marsilio, ed era in buoni rapporti sia con lo stesso Giovanni

1 Pietro Pomponazzi, Expositio super primo et secundo De partibus animalium, i, 20, a cura di Stefano Perfetti, Firenze,
Olschki, 2004, p. 110 (cfr. relativa Introduzione, pp. lxvi-lxvii, n. 119). Devo la segnalazione della lezione pomponazziana,
a me ignota, alla professoressa Vittoria Perrone Compagni, che ringrazio per la consueta gentilezza.
2 Ivi, i, 8, p. 46: «Nam dominus Albertus, dominus Carpi, habet expositorem grecum istius libri De partibus, qui dicitur
nomine Michael Ephesios, et feci ad me mittere, et Carpum unum certum hominem misi ut ad me portaret, et feci mihi
interpretari istam partem ab illis qui intelligunt litteras grecas, et dicunt mihi isti quod iste grecus expositor nihil addit nec
diminuit ab eo quod dicit littera Aristotelis interpretata a Theodoro Gaza. Et ita videtis in quanto labore sumus». L’aned-
doto è raccontato anche da Stefano Perfetti nell’Introduzione (p. xxvii). Su Alberto III Pio signore di Carpi cfr. Cesare Va-
soli, Alberto Pio e la cultura del suo tempo, in Società, politica e cultura a Carpi ai tempi di Alberto III Pio, Atti del convegno
(Carpi, 19-21 maggio 1978), Padova, Antenore, 1981, pp. 3-42; Charles Bernhard Schmitt, Alberto Pio and the Aristotelian
Studies, in ivi, pp. 43-64.
3 Eugenio Garin, Noterelle su Giovanni Pico e G. B. Gelli, «Rinascimento», xix, 1979, pp. 259-264, dove numerosi passaggi
dei due testi sono posti a confronto rendendo così evidente la loro vicinanza. Più di recente Vittoria Perrone Compagni
è tornata sulla presenza dell’Oratio pichiana nel dialogo del Gelli, mettendo però in luce anche la presa di distanza che la
Circe compie nei confronti dell’umanesimo pichiano: «Più che antiumanesimo, come pensa de Gaetano, si dovrà allora
parlare di nuovo umanesimo, registrando i modi in cui quell’ideale viene adeguandosi alla situazione storica mutata. Il
nuovo umanesimo del Gelli è in volgare; è enciclopedico, con larghe aperture al settore scientifico; raccoglie suggestioni
molto diverse (platoniche, neoplatoniche, ermetiche), ma ha un orientamento sostanzialmente aristotelico; è, infine, par-
ticolarmente attento ai problemi morali e religiosi» (Vittoria Perrone Compagni, Cose di filosofia si possono dire in vol-
gare. Il programma culturale di Giambattista Gelli, in Il volgare come lingua di cultura dal Trecento al Cinquecento, Atti del conve-
gno internazionale (Mantova, 18-20 ottobre 2001), a cura di Arturo Calzona, Francesco Paolo Fiore, Alberto Tenenti,
Cesare Vasoli, Firenze, Olschki, 2003, pp. 301.337: 308-309. La Circe fu stampata nel 1549 e dedicata a Cosimo de’ Medici (cfr.
Angela Piscini, Giovan Battista Gelli, in Dizionario biografico degli italiani, liii, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana,
1999, pp. 12-18: 16).
4 Garin, Noterelle, cit., p. 261: «Se dalla Circe il nome di Pico è assente, del rilievo dato all’Oratio non mancano altrove
esplicite ammissioni. La nona lezione della ‘lettura prima’ della Commedia si apre con un richiamo importante. Dice il
Gelli (ed. C[arlo] Negroni, Firenze, Bocca, 1887, pp. 133-135; ed. [Delmo] Maestri, pp. 614-617): “Scrive il dottissimo Pico
della Mirandola, in una orazione che egli fece nel Senato Romano, aver letto nelle memorie degli Arabi, che uno de’ loro
sapienti, il quale era chiamato Adala Saracino, usava dire che non aveva trovato mai in questa scena mondana, nel consi-
derar le cose naturali, cosa alcuna la quale fusse più eccellente e più maravigliosa che l’uomo”».
5 Ad ogni modo, le edizioni degli Opera omnia di Giovanni Pico curati dal nipote, a partire dalla princeps sino al 1513, fu-
rono le seguenti: Bologna, Benedetto Faelli, 1496; Lione, Jacobino Suigo e Nicolas Benedict, dopo il 1496 (contraffazione
della princeps); Venezia, Bernardino Vitali, 1498 (ristampa della princeps del Faelli ai limiti della contraffazione); Strasburgo,
Johann Prüss, 1504; Reggio Emilia, Ludovico Mazzali, 1506 (Leonardo Quaquarelli, Zita Zanardi, Pichiana. Biblio-
grafia delle edizioni e degli studi, Firenze, Olschki, 2005, («Studi pichiani», 10), pp. 101-178). Su una possibile influenza dei testi
pichiani su Machiavelli si è di recente soffermato Sebastiano Gentile, Pico della Mirandola, Giovanni, in Enciclopedia ma-
chiavelliana, ii, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2014, p. 304.
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Pico sia soprattutto con Girolami Benivieni, al quale il Buonaccorsi dedica nel 1519 un commen-
to del Mirandolano alla Canzone d’amore del Benivieni stesso, del quale egli aveva tenuto copia.1
Dall’altro lato, sebbene in misura minore, può forse aver avuto un ruolo la vicinanza professio-
nale con Giovanni Nesi, priore a Firenze dal maggio al giugno 1485 e dal gennaio al febbraio
1503, attivo nell’organismo delle Pratiche, ufficiale dello Studium nel 1497 e 1499, podestà di Pra-
to tra il 1505 e il 1506, e autore di una trascrizione proprio dell’Oratio de dignitate hominis, in una
versione anteriore a quella pubblicata nelle Commentationes, e contenuta nel manoscritto Pala-
tino 885 della Biblioteca Nazionale di Firenze identificato da Franco Bacchelli.2
Ad ogni modo, se suggestioni riconducibili allo scritto pichiano hanno davvero agito sul Ma-
chiavelli estromesso dai pubblici uffici e intento a tratteggiare l’immagine ideale del principe,
ciò è avvenuto senza che il Fiorentino volesse mostrare esplicitamente tale debito. Tra le due
opere, soprattutto in determinati passaggi, sussiste una forte assonanza di immagini (la defini-
zione pichiana dell’uomo come essere transformantis naturae sembra pacificamente estendibile
anche al principe di Machiavelli), sebbene chiare spie lessicali – tali da rendere evidente il legame
dall’uno all’altro testo – non siano rintracciabili nel Principe. Eppure certi spunti (per noi piut-

1 Opere di Girolamo Benivieni Fiorentino. Novissimamente rivedute et da molti errori espurgate. Con una Canzona dello amor Ce-
leste et divino, col Commento dello Ill.mo S. Conte Giovanni Pico Mirandolano distinto in Libbri iii . Et altre Frottole di diversi Auttori,
Venezia, Nicolo Zopino e Vincentio compagno, 1522, pp. 2r-3r: «Blasius Bonacorsius Hieronymo Benivieno amico suo di-
lectissimo. Doverrebbono certamente Gierolamo dilettissimo tutti li studiosi de nostri tempi, et quelli che per lo advenire
saranno, piangere di continuo la immatura morte di quello admirando giovane Giovanni Pico Principe Mirandolano, con-
siderato per le eccellente et molte sue virtù quanta grande perdita habbino fatta, rispetto massime allo utile che della vita
sua possevano sperare et promettersi, la qual perdita è stata non solo commune à quelli che delle cose philosophice, et
delle Platonice massime sono desiderosi, ma etiam a tutti li amatori et professori della Scrittura Sacra, havendo lui già con
più eccellentissime opere, le quali non haveva anchora dato in luce, sodisfatto in gran parte a queli primi, et cercando hora
con somma utilità et gloria della Christiana relligione sodisfare a questi secondi, ad che si oppose la inopinata et lagrimabil
morte sua, la quale, credo però che li studiosi et litterati sopradetti, soportino patientemente, considerato che lo Omni-
potente Dio non opera cosa alcuna se non con grandissimo mysterio et divina providentia, la quale credo habbi di presente
messo in animo à questi nostri impressori, di publicare mediante l’arte loro, lo erudito et elegante commento del prefato
Principe sopra una tua dotta et leggiadra Canzona, fatta et composta dello Amore divino secondo la mente et oppenione
de Platonici, acciocchè anchora questo non resti insieme con molte altre opere sue negletto et in oblivione delli huomini,
et che tutti e litterati et amatori del nome suo habbino commodità di poterlo godere, pigliandone quel frutto, che delle
altre opere sue, non prodotte in luce, prendere non possano. Havendo io dunque appresso di me uno trasunto di detta
Canzona et Commento, et essendone con grande instantia richiesto da alcuni nostri impressori, sono stato alquanto so-
speso, se lo dovevo concedere, o no. […] Il perché vinto ultimamente da conforti et prieghi delli amici, ho voluto più tosto
con qualche mio carico apresso di te, fare copia di questo mio trasunto, anchora che fuora dalla tua voluntà, alli impressori
predetti, che ritenendolo, de fraudare el desiderio di molti, pensando massimamente dovere essere tanto più escusabile la
mia colpa, quanto è men grave l’offesa privata che la publica, perchè questa oltre al ben commune, ha anchora per fine el
bene privato dell’amico. Conciosia che havendo io notitia di più trasunti di detta opera, li quali in varii luoghi et per mano
di molti disseminati si leggono, iudicavo al tutto impossibile che la non fussi uno giorno per el medesimo modo publicata,
il che bisognava fussi con molto maggiore dispiacere tuo et di tutti li amatori delle cose del Conte, respetto allo essere tali
trasunti imperfetti et ripieni di molti errori, de quali io credo che questa mia copia sia, se non in tutto almanco per la mag-
gior parte, pur grata». La princeps del ’19 fu edita a Firenze dai Giunta. Sul Buonaccorsi cfr. Gaspare de Caro, Biagio Buo-
naccorsi, in Dizionario biografico degli italiani, xv, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1972, p. 77; Denis Fachard,
Biagio Buonaccorsi, Bologna, Boni, 1976; Gennaro Sasso, Biagio Buonaccorsi e Niccolò Machiavelli, in Idem, Machiavelli e gli
antichi e altri saggi, iii, Milano, Ricciardi, 1988, pp. 173-209; Denis Fachard, Buonaccorsi, Biagio, in Enciclopedia machiavel-
liana, i, cit., pp. 230-235. È noto che l’affetto e la deferenza del Buonaccorsi verso Machiavelli fossero enormi, come emerge
da molte delle loro lettere. E tra loro non dovettero mancare conversazioni “più impegnate”, così come non deve essere
trascurato il ruolo di sostegno intellettuale che il «buon Biagio» svolgeva a favore di Machiavelli: nell’ottobre del 1502 si
prodiga per procurargli le Vite di Plutarco che Niccolò gli aveva richiesto mentre si trovara in legazione presso il Valentino
(Niccolò Machiavelli, Lettere, 37 (B. Buonaccorsi a N. Machiavelli, 21 ottobre 1502), in Idem, Opere, iii, a cura di Franco
Gaeta, Torino, utet, 1984, p. 129); successivamente, non si sa però quando con esattezza, trae diligente copia del Principe,
e lo invia all’amico Pandolfo Bellacci incitandolo a ergersi ad «acerrimo difensore contro a tutti quelli che per malignità o
invidia lo volessino, secondo l’uso di questi tempi, mordere e lacerare». Il manoscritto è contenuto nel codice Riccardiano
2603, della Biblioteca Riccardiana di Firenze (cfr. Oreste Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli nella loro re-
lazione col machiavellismo. Storia ed esame critico, iii, 2, Roma, Loescher & C., 1911, p. 91, da cui cito il passaggio della dedica
del Buonaccorsi al Bellacci).
2 Franco Bacchelli, Giovanni Pico e Pier Leone da Spoleto. Tra filosofia dell’amore e tradizione cabalistica, Firenze,
Olschki, 2001, p. 56, n. 163. Cfr. Elisabetta Tortelli, Giovanni Nesi: un podestà di Prato tra l’accademia del Ficino e il convento
del Savonarola a Prato, in Prato umanistica, i, a cura di Roberto Cardini, Firenze, Polistampa, 2009, pp. 67-93: 76, n. 24.
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tosto sulfurei) dovevano risultare più familiari ai lettori dell’epoca, specie a quelli che nelle in-
tenzioni di Machiavelli sarebbero stati i lettori veri e decisivi della propria opera, i Medici, i quali
avrebbero di certo potuto (meglio di noi) cogliere dietro l’immagine di un principe dalla natura
multiforme e in grado di determinarsi ogni giorno un lessico familiare, nonché l’eco di quei
motivi magici e neoplatonici che avevano conosciuto così grande fioritura sotto di loro.1
Ancora meglio, sicuramente, avrebbero colto il riferimento polemico che la figura del cen-
tauro machiavelliano costituisce nei confronti dell’antropologia pichiana (e, più in generale, cri-
stiana e neoplatonica), esemplificata dalle note metafore del camaleonte e di Proteo. Vittoria
Perrone Compagni nota infatti che, «diversamente dalle due metafore pichiane, che indicano
una possibilità sempre aperta di metamorfosi, la metafora di Machiavelli si presenta stabile nella
sua duplicità, racchiusa nei confini del mondo naturale, staticamente limitata da una colloca-
zione che non consente superamenti di livello, perfezionamenti di essenza: un uomo per il qua-
le l’angelicarsi costituirebbe un suicidio ontologico, perché abbandonerebbe la sua definizione
di animale razionale e cesserebbe di essere uomo».2
Le metafore scelte dai due autori fanno dunque riferimento a due diversi e ben identificabili
paradigmi filosofici. Il poliedrico camaleonte pichiano è immagine dell’homo contemplator («io
ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo»), del fi-
losofo che, celando la propria dottrina al volgo,3 perviene autonomamente alla «sommità di
Dio»4 attraverso un cammino di progressiva ascesa e di assoluto solipsismo. Dall’altro lato, in-
vece, il ben più goffo centauro machiavelliano incarna l’essenza dell’homo agens, calato nella
fluidità e nell’instabilità della biologia politica, impegnato in un percorso interamente orizzon-
tale nella sua inalterabile immanenza.
Coerentemente, i due autori assegnano alla componente passionale connaturata all’uomo
ruoli diametralmente opposti. Laddove infatti Pico prevede un percorso di purificazione dagli

1 Testimonianza di una conoscenza non superficiale da parte di Machiavelli dei principali motivi cristiani e neoplatonici
che informavano le discussioni de dignitate hominis è la cosiddetta Esortazione alla penitenza (Niccolò Machiavelli, Esor-
tazione alla penitenza, a cura di Emanuele Cutinelli-Rèndina, in Idem, Scritti in prosa e in poesia, cit., pp. 401-416). Il breve
scritto fu redatto molto probabilmente su commissione dal Fiorentino negli ultimi anni della sua vita (tra il 1526 e il 1527,
secondo lo studio realizzato sull’autografo superstite da Paolo Ghiglieri, La grafia del Machiavelli studiata negli autografi,
Firenze, Olschki, 1969, p. 358) per essere recitato in una delle tante confraternite o congregazioni presenti al tempo a Fi-
renze (su quest’opera, cfr. almeno Emanuele Cutinelli-Rèndina, Riscrittura e mimesi. Il caso dell’Esortazione alla pe-
nitenza, in Cultura e scrittura di Machiavelli, Atti del Convegno (Firenze-Pisa, 27-30 ottobre, 1997), Roma, Salerno editrice,
1998, pp. 413-421). In esso Machiavelli attinge al corredo di autori normalmente utilizzato negli scritti de dignitate (Lattanzio,
Agostino, Cicerone, oltre naturalmente ai testi sacri) e la sua celebrazione dell’uomo quale creatura “posta al centro del
mondo” e “prima fruitrice dei beni del creato” è assai vicina a quella realizzata da Manetti nel De dignitate et excellentia ho-
minis del 1452 (Ianotii Manetti De dignitate et excellentia hominis, edidit Elizabeth R. Leonard, Padova, Antenore, 1975).
Con essa l’Esortazione di Machiavelli condivide la collocazione dell’uomo al centro del mondo al fine di contemplare que-
st’ultimo e rivolgere, in seguito, lo sguardo al cielo (Manetti, De dignitate, iii, cit., pp. 72-73 e Machiavelli, Esortazione,
cit., pp. 412-413), la concezione del mondo come creazione a uso e beneficio dell’uomo (Manetti De dignitate, iii, cit., pp.
80-82 e Machiavelli, Esortazione, cit., p. 412) e il tema – aristotelico e ciceroniano – della superiorità dell’uomo ricono-
sciuta nella facoltà della parola e nell’uso delle mani (Manetti, De dignitate, iii, cit., pp. 92-93 e Machiavelli, Esortazione,
cit., p. 413). Antecedenti dell’opera manettiana sono poi il De dignitate hominis et excellentia humanae vitae di Antonio da
Barga e il De excellentia et praestantia hominis di Bartolomeo Facio, che all’opera del da Barga chiaramente si ispira. Tutti
testi, questi, che contengono numerose analogie con l’Oratio de dignitate hominis di Pico, ma non la stessa concezione del-
l’uomo come creatura indeterminata e libera, che è motivo esclusivamente pichiano.
2 Vittoria Perrone Compagni, Machiavelli metafisico, in Nuovi maestri e antichi testi. Umanesimo e Rinascimento alle
origini del pensiero moderno, Atti del convegno (Mantova, 1-3 dicembre 2010), a cura di Vittoria Perrone Compagni, Stefano
Caroti, Firenze, Olschki, 2012, pp. 223-252: 237.
3 Giovanni Pico della Mirandola, Epistola de genere dicendi philosophorum (G. Pico a E. Barbaro, 3 giugno 1485), in
Prosatori latini del Quattrocento, a cura di Eugenio Garin, Milano-Napoli, Ricciardi, 1952, pp. 805-823: 813. Sulla questione se
il discorso del filosofo-barbaro rispecchi o meno l’effettivo pensiero di Pico, cfr. Francesco Bausi, Nec rhetor neque phi-
losophus. Fonti, lingua e stile nelle prime opere latine di Giovanni Pico della Mirandola (1484-87), Firenze, Olschki, 1996, («Studi
pichiani», 3), pp. 13-92 e soprattutto p. 14, n. 3. Cfr. anche Fabio Frosini, Umanesimo e immagine dell’uomo: note per un con-
fronto tra Leonardo e Giovanni Pico, in Leonardo e Pico. Analogie, contatti, confronti, Atti del convegno (Mirandola, 10 maggio
2003), a cura di Fabio Frosini, Firenze, Olschki, 2005, («Studi pichiani», 9), pp. 174-177 e soprattutto pp. 174-175 n. 5.
4 Pico della Mirandola, Oratio de dignitate hominis, cit., p. 111.
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note sull ’ antropologia di giovanni pico e niccolò machiavelli 133


impulsi corporei, «i piedi e le mani dell’anima»,1 una liberazione dagli «sfrenati tumulti della
bestia multiforme»,2 Machiavelli auspica invece per il proprio principe un disciplinamento ra-
zionale e un uso sapiente di quegli impulsi e di quella bestia.
Dovete adunque sapere come sono dua generazione di combattere, l’uno con la legge, l’altro con la forza:
quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie; ma perché el primo molte volte non basta,
bisogna ricorrere al secondo: pertanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e l’uomo.
Questa parte è suta insegnata a’ principi copertamente dalli antiqui scrittori, li quali scrivono come Achille
e molti altri di quelli principi antichi furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina
li custodissi; il che non vuol dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia e mezzo omo, se non che
bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura, e l’una sanza l’altra non è durabile.3

Quello stesso leone impetuoso le cui minacce e la cui rabbia Pico chiede di acquietare,4 deve
essere invece prontamente convocato e sapientemente utilizzato («non partirsi dal bene poten-
do, ma sapere intrare nel male necessitato») dal principe machiavelliano.5 Questi, figura intera-
mente mondana ed espressione vivente di dissenso verso quegli «uomini umili e contemplativi
che la nostra religione ha glorificato più di quelli attivi»,6 è chiamato ogni giorno ad affrontare
gli eventi fortuiti “ridisegnando” di continuo i tratti della propria natura «secondo che e’ venti
della fortuna e la variazione delle cose li comandano». L’indeterminatezza e la variabilità del
suo essere si configurano infatti come il risultato di un lungo processo di preparazione perso-
nale atto ad acquisire quelle doti fisiche e intellettive (per mezzo delle «opere» e dello «esser-
cizio della mente»)7 che non risultano costituzionalmente presenti nell’uomo: «perché, dove
manca la natura, sopperisce la ’ndustria».8 In Pico invece la variabilità rappresenta uno dei

1 Ivi, p. 115.
2 Ivi, p. 117. Tema, quello della liberazione dalle passioni dell’animo, presente a più riprese anche nel commento al Ge-
nesi: Pico della Mirandola, Heptaplus, II, 7, in Idem, De hominis dignitate, Heptaplus, De ente et uno, cit., p. 243; cfr. anche
ivi, iv, 6, p. 285; ivi, vi, 6, p. 323. 3 Machiavelli, Il principe, xviii, cit., pp. 235-236.
4 Pico della Mirandola, Oratio de dignitate hominis, cit., p. 117: «Ma se innanzitutto l’uomo in noi farà tregua con i
suoi nemici, acqueterà gli sfrenati tumulti della bestia multiforme e le minacce e la rabbia e l’impeto del leone».
5 Malgrado l’enorme distanza tra queste due formulazioni, Pico e Machiavelli mostrano tuttavia di condividere l’as-
sunto aristotelico (Eth. Nic., ii, 5, 1105b 19-1106a 13) che considera le passioni come eticamente neutre (adiaphora), qualifi-
candosi positivamente o negativamente soltanto sulla base dell’uso che ne viene fatto: Aristotelis Stagiritae Peripa-
teticorum Principis Ethicorum ad Nicomachum libri decem Ioanne Argyropylo Byzantio Interprete, nuper ad Graecum exemplar
diligentissime recogniti. Cum Donati Acciaioli Florentini viri doctissimi Commentariis, denuo in lucem editi, Lugduni, apud ant.
Vincentium, 1553, pp. 146-147: «Secundum affectus non dicimur boni vel mali; at secundum virtutes dicimur boni vel mali:
ergo affectus non sunt virtutes, vel virtutes non sunt affectus. Item affectibus non laudamur vel vituperamur; at virtutibus
laudamur et vituperamur: ergo virtutes non sunt affectus. Item affectus sine electione fiunt; virtutes autem non sunt sine
ea. Ergo et caetera. Item affectibus dicimur moveri; virtutibus vero non dicimur moveri. Affectus autem est motio quae-
dam ut supra diximus». Se, per quanto riguarda Machiavelli, tale aspetto risulta già sufficientemente chiaro dai passaggi
citati, su Pico si veda Pico della Mirandola, Heptaplus, iv, 5, cit., p. 285: «E dico questo perché, avendo Dio creato e
poi benedetto questi animali che indicano gl’impulsi sensuali, ritenendoli cattivi per loro natura, non li crediamo coi Ma-
nichei dovuti a un principio di male anziché a un Dio buono. Tutte quelle cose dunque son buone e necessarie all’uomo,
ma noi, trasmodando all’ambizione, al furore, all’escandescenza, alla superbia, rendiamo cattive, per colpa nostra, cose
che quel sommo principio aveva create buonissime». Cfr. Francesco Adorno, ‘Fortuna’ e’ virtù’ in Machiavelli e Aristotele.
Una ‘barba’ del Machiavelli, in Idem, Pensare storicamente. Quarant’anni di studi e ricerche, Firenze, Olschki, 1996, pp. 305-321:
316: «Non a caso per Aristotele il desiderio, l’ira, la paura, l’ardimento, la gioia, l’amicizia, la pietà, l’esser buono e così via
sono passioni, ma non in sé virtù o vizi, né virtù e vizio sono le capacità (potenze) di sentire queste passioni; la virtù, al-
l’opposto, è acquisire, far propria (abito) la capacità di coordinare volta a volta quelle passioni (fortune) in un ordine e se-
condo un fine che ponga una giusta misura».
6 Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, ii, 2, cit., i, p. 318.
7 Machiavelli, Il principe, xiv, cit., p. 211. Le «opere», ovvero il continuo esercizio realizzato mediante la caccia e l’as-
suefazione del corpo ai disagi, implementano le necessarie doti di resistenza fisica, accrescono la conoscenza dei siti e con-
tribuiscono alla formazione di un corredo comportamentale multiforme e atto a variare. Lo «essercizio della mente», ov-
vero la conoscenza della storia, permette la proiezione e l’efficace applicazione al presente di paradigmi pratici tratti da
contingenze passate simili.
8 Machiavelli, L’arte della guerra, i, in Idem, L’arte della guerra. Scritti politici minori, a cura di Jean Jacques Marchand,
Denis Fachard, Giorgio Masi, Roma, Salerno editrice, 2001 («Edizione nazionale delle opere di Niccolò Machiavelli», i, 3)
pp. 55-56.
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costitutivi essenziali inerenti ab initio al composto umano. Il Creatore si rivolge infatti al suo
Adamo dicendo:
Non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, […
] Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto
né celeste né terreno, né mortale né immortale […]». Ma a che ricordar tutto ciò? Perché comprendiamo,
dal momento che siamo nati nella condizione di essere ciò che vogliamo, che è nostro dovere avere cura spe-
cialmente di questo: […].1

Indeterminatezza e variabilità sono dunque in Pico non il frutto di un lungo e costante lavoro
teso a modificare i propri tratti di natura, sono bensì la natura stessa dell’essere umano.
Se come ha sostenuto Batkin, in Pico si trova dunque espressa in maniera compiuta l’idea –
comune ad autori quali Alberti, Leonardo e Michelangelo – dell’«uomo universale»,2 in Machia-
velli tale idea rappresenta piuttosto un orizzonte di riferimento. Il carattere stabile e universale
della storia è, per il Segretario, la manifestazione a livello macrocosmico di un profondo con-
vincimento antropologico, radicato nel solco del naturalismo aristotelico: che «gli uomini […
] nacquero, vissero e morirono sempre con uno medesimo ordine».3 Il progetto universalistico
è ostacolato dal presentarsi dell’evento fortuito, incalcolato o incalcolabile, che vanifica ogni
speranza umana di comandare «alle stelle et a’ fati».4
Se assai differente, quindi, è il compito che Pico e Machiavelli assegnano all’uomo nel mon-
do, ugualmente stringente in entrambi è però la necessità di rivendicare la massima dignità per
quella strumentazione razionale che sostanzia e legittima la loro missione: storico-politica per
il Fiorentino, filosofico-teologica per il Mirandolano. Non deve stupire, a questo proposito, che
l’apologia alla storia presente nel proemio ai Discorsi, da un lato, e quella alla filosofia esposta
nell’Oratio pichiana, dall’altro, sviluppino gli stessi motivi argomentativi, fondati sull’indignata
constatazione della “miseria del proprio tempo”5 e sulla necessità di uno studio consapevole di
tali discipline.6 Ricerca delle cause, dunque, e indagine attorno ai processi della natura e della
storia che, sebbene piegate dai due autori in direzioni tra loro divergenti, scaturiscono
entrambe dalla stessa esigenza di pervenire alla verità attraverso un autonomo procedimento
razionale. Al manifesto metodologico, di ascendenza oraziana, affidato da Pico ai passaggi della
propria Oratio («mi sono proposto di non giurare sulla parola di nessuno, di frequentare tutti i
maestri […], di esaminare tutte le posizioni»)7 mi pare facciano eco le parole con le quali Ma-

1 Pico della Mirandola, Oratio de dignitate hominis, cit., pp. 105-109 (corsivi miei).
2 Leonid Michailovic Batkin, L’idea di individualità nel Rinascimento italiano, cit., pp. 219-220.
3 Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, i, 11, cit., i, p. 83.
4 Machiavelli, Lettere, 121 (N. Machiavelli a G. B. Soderini, 13-21 settembre 1506), cit., p. 244. La massima «sapiens do-
minabitur astris», attribuita a Tolomeo, è presente, come rilevato da Gaeta, nella lettera che Bartolomeo Vespucci, pro-
fessore di atrologia all’Università di Padova, scrive a Machiavelli il 4 giugno 1504 (Idem, Lettere, 92 (B. Vespucci a N. Ma-
chiavelli, 4 giugno 1504), cit., pp. 193-195).
5 Per Pico tale aspetto è stato rilevato anche da Lidia Braghina, Alcune considerazioni sul pensiero morale di Giovanni
Pico della Mirandola, in L’opera e il pensiero di Giovanni Pico della Mirandola nella storia dell’Umanesimo, I, Atti del convegno
(Mirandola, 15-18 settembre 1963), Firenze, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, 1965 pp. 17-34: 31.
6 Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, proemio, cit., i, pp. 4-6: «Considerando adunque quanto
onore si attribuisca alla antiquità, e come molte volte […] un frammento di una antiqua statua sia suto comperato a gran
prezzo, per averlo appresso di sé, onorarne la sua casa e poterlo fare imitare a coloro che di quella arte si dilettono […]
nondimanco, nello ordinare le republiche, nel mantenere li stati, nel governare e regni, nello ordinare la milizia e ammi-
nistrare la guerra, nel iudicare e sudditi, nello accrescere l’imperio, non si truova principe né republica né capitano che
agli esempli delli antiqui ricorra»; Pico della Mirandola, Oratio de dignitate hominis, cit., p. 131: «Queste sono le ragioni,
venerandi Padri, che non soltanto mi invogliarono, ma mi trascinarono allo studio della filosofia. Né certo le avrei ricor-
date, se non dovessi rispondere a quanti sono soliti condannare lo studio della filosofia soprattutto nei principi, o in genere
in coloro che hanno una qualche fortuna. Infatti ormai tutto questo filosofare – chè è tanta la miseria del nostro tempo –
è piuttosto in dispregio e in disdegno, che non in onore e gloria».
7 Pico della Mirandola, Oratio de dignitate hominis, cit., pp. 139-141. Il noto monito oraziano è tratto da Epistolae, i,
1, 14. Cfr. anche August Buck, Giovanni Pico della Mirandola e l’antropologia dell’Umanesimo italiano, in Giovanni Pico della
Mirandola, Atti del convegno di studi nel cinquecentesimo anniversario della morte (Mirandola, 4-8 ottobre 1994), a cura
di Gian Carlo Garfagnini, i, Firenze, Olschki, 1997, («Studi pichiani», 5), pp. 1-12: 7-9.
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chiavelli replica in una lettera all’amico Vettori che gli raccomandava, non senza ironia, la let-
tura della Politica di Aristotele: «io non beo paesi, né voglio in queste cose [scil. nella valutazione
dei fenomeni storico-politici] mi muova veruna autorità senza ragione».1 È la rivendicazione,
insomma, di uno spazio di indagine autonomo da parte del teorico, di una autodeterminazione
metodologica fondata sul rifiuto non tanto dell’auctoritas in sé e per sé, quanto piuttosto di ogni
forma di fissità autoritativa, di fedeltà di scuola, di cieco affidamento nella consolidata tradizio-
ne a fare di Giovanni Pico e Niccolò Machiavelli due “difensori del libero pensiero”.2
Figure, le loro, rese irriducibilmente distanti dalla diversa biografia intellettuale, dai non pa-
ragonabili spessori teorici e dagli opposti intenti dottrinali, ma che, germinate nel medesimo
milieu politico e culturale, non possono non condividere – come ha suggestivamente espresso
Fabio Frosini a proposito di Machiavelli e Leonardo – «un comune modo di pensare, una filosofia
che non ha bisogno di contatti diretti per svilupparsi nella stessa direzione, a partire magari da
premesse ideologiche anche diversissime, perché confrontata con gli stessi problemi storici,
chiamata agli stessi compiti».3

1 Machiavelli, Lettere, 212 (N. Machiavelli a F. Vettori, 29 aprile 1513), cit., p. 379.
2 Pico come «difensore del diritto dell’uomo al libero pensiero» è definito da Braghina, Alcune considerazioni sul pen-
siero morale di Giovanni Pico della Mirandola, cit., pp. 32-33.
3 Frosini, Umanesimo e immagine dell’uomo, cit., p. 208 (corsivo in testo). Sulle nozioni di dignitas e indignitas hominis
in relazione a Leonardo e Machiavelli si è di recente soffermato Gennaro Maria Barbuto, Leonardo e Machiavelli. Di-
gnitas e indignitas hominis, «Bruniana & Campanelliana», xx, 2014, pp. 13-24.

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