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TEMI E PROBLEMI DI
SCIENZE UMANE
VOLUME terzo
Sociologia
1. Disuguaglianze razziali ed etniche
I concetti di razza ed etnia 123
Le minoranze 124
I modelli dei rapporti razziali ed etnici 125
Il razzismo 126
Pregiudizio e discriminazioni 128
Mappe concettuali 129
2. Le differenze di genere
Genere e società: differenze tra i sessi 131
Adozione di ruoli sessuali differenziati nelle varie società 133
Il maschilismo 134
Il femminismo e gli studi di genere 135
La socializzazione ai ruoli sessuali 136
Il costo del maschilismo e il futuro dei ruoli sessuali 137
Mappe concettuali 139
3. La globalizzazione
La globalizzazione economica e culturale 141
Le teorie sociologiche della globalizzazione 145
Gli aspetti contrapposti della globalizzazione 148
Mappe concettuali 149-153
Antropologia
1. Arte e arti
Che cosa significa arte? 157
Arte rituale e arte utile 158
Il gusto artistico 159
Il peso dell’arte 159
Viaggi musicali 160
I musei etnografici 161
Arte per turisti 162
Mappe concettuali 164
2. Economia e lavoro
Raccolta, caccia e pesca Pastorizia nomade 167
Orticoltura Agricoltura e allevamento 168
Allevamento degli animali, culture agro-pastorali e pastoralismo nomade 169
L’invenzione dei mestieri Scambi e commerci 170
L’era industriale 171
Le Corporations e le multinazionali 172
Le trasformazioni dell’economia contemporanea 172
Nuove concezioni economiche 174
Mappe concettuali 175-180
3. La politica
Il potere – L’autorità 181
La politica: la prospettiva antropologica 182
Le bande – La tribù 183
I Capi 184
La socializzazione politica 185
Lo Stato 186
Tipologia dei regimi politici 187
Il regime democratico 187
Il regime totalitario 188
Il regime autoritario 188
Il populismo 189
Mappe concettuali 190-194
Nella seconda metà dell’Ottocento la cultura europea viene quasi del tutto dominata dal movimen-
to del positivismo, che informa di sé atteggiamenti mentali, credenze varie, pratiche educative e co-
stumi sociali, produzioni artistiche e letterarie, concezioni della vita e dottrine pedagogiche determi-
nate. Si vuole qui ricordare soprattutto la fede dei positivisti nel processo di industrializzazione, che
avrebbe portato a liberare sempre più l’uomo dai bisogni concreti, con l’ampliarsi e la varietà dei
prodotti forniti, la fede nella scienza pura e nella scienza applicata, che davano origine a nuove te-
cnologie e a scoperte sorprendenti, la fiducia nel progresso. A fondamento e garanzia di tutto stava
la fede nel metodo scientifico.
Il primo impulso al positivismo fu dato, già nella prima parte del secolo, da Auguste Comte
(1798-1857), secondo il quale l’educazione positiva deve mirare a favorire la solidarietà tra gli esseri
umani: un’educazione scientifica, che dovrebbe servire a formare al raziocinio e alla comprensione
delle problematiche della nuova civiltà tecnico-industriale .
Il positivismo si sviluppò in Inghilterra, dove assunse caratteristiche specifiche, e i suoi maggiori
rappresentanti furono John Stuart Mill (1806-1873) e Herbert Spencer (1820-1903). Il positi-
vismo inglese fu molto influenzato dalle teorie evoluzionistiche di Charles Darwin (1809-1882),
secondo il quale non solo l’uomo deriva dai primati del modo animale secondo una linea continua,
ma anche sono sopravissute tutte quelle specie di esseri viventi che nel corso della storia del mondo
hanno sviluppato modificazioni genetiche tali da favorire il loro adattamento all’ambiente, mentre le
altre sono dovute scomparire sulla base di un meccanismo di selezione naturale.
Edouard Séguin (1812-1880) è, con Trattamento morale, igienico ed educazione degli idioti e di
altri fanciulli ritardati (1846), il più importante studioso della Francia positivista per quanto con-
cerne la rieducazione dei subnormali, opera per la quale trasse ispirazione anche dai lavori del suo
predecessore Itard, autore di un importante scritto sull’educazione di un “ragazzo selvaggio” trova-
to nel secolo precedente nella regione dell’Aveyron. Secondo Séguin, l’attività corporea non è scindi-
bile da quella psichica e da quella sociale, pertanto l’educazione dei portatori di handicap deve pas-
sare attraverso i sensi e il movimento. L’educazione sensoriale è perciò il primo passo di un’educa-
zione integrale: occorre partire dai sensi per poi approdare al corpo, al movimento, all’educazione
intellettuale e a quella della volontà. L’ambiente è fondamentale: i contesti di assistenza devono
essere ser ni e stimolanti.
Herbert Spencer scrisse nel 1861 L’educazione intellettuale, morale e fisica. Vi si criticava l’edu-
cazione tradizionale, libresca, astratta e decorativa, e si sosteneva invece la necessità di reimpostare
i curricoli e i programmi su base più moderna. Le prime nozioni da insegnare a tutti dovevano essere
quelle di più immediata utilità, che preparassero per la vita concreta: anzitutto la fisiologia, l’igiene e
l’educazione fisica (che servono alla conservazione della specie), poi le discipline scientifiche, la bio-
logia, la matematica, la chimica e la geologia (che servono per svolgere la propria professione e per
consentire lo sviluppo delle attività industrali). Infine devono venire insegnate quelle conoscenze
utili ai genitori nell’allevamento dei figli, quali i principi dell’alimentazione e dell’educazione del
corpo, i vari saperi relativi all’educazione morale e intellettuale dei bambini, gli elementi essenziali
della psicologia, e così via. Solo dopo l’acquisizione di competenze siffatte si possono insegnare le
discipline che servono nel tempo libero, cioé quelle che vengono normalmente trasmesse nelle scuo-
le. Alla base di tale scelta viè l’idea che il bambino, nel suo sviluppo, deve ripercorrere in breve lo
sviluppo dell’umanità (secondo la legge biogenetica formulata da Haeckel).
Il bambino, che viene visto simile ad un uomo primitivo, deve, da una parte, essere lasciato libero
di esprimersi secondo natura e di far emergere i propri bisogni; deve essere aiutato, dall’altra, a ren-
dersi abile nelle diverse tecniche di adattamento all’ambiente. L’educazione formale invece non ha
mai tenuto conto del fatto che il processo della conoscenza nell’uomo procede dal semplice al com-
plesso, dall’indefinito al definito, dal concreto all’astratto, dall’empirico al razionale.
Fra le direzioni prese dal positivismo pedagogico, una posizione di grande rilievo è occupata dalla
prospettiva evoluzionistica aperta da Darwin e portata alle sue conseguenze ultime da Spencer.
L’argomentazione sviluppata da Spencer può essere ricondotta alla seguente: dopo che Darwin ha
scoperto la “legge scientifica” che sottosta al divenire del mondo biologico, indicandola nell’evolu-
zione, alla pedagogia resta il compito di trasferire, per via analogica, tale legge a criterio di spiegazio-
ne del processo di sviluppo psichico e di dedurre da simile criterio la legge stessa dell’educazione.
Posto che i vari ordini della realtà (biologica, psichica, sociologica, etica, ecc.) rientrano entro lo stes-
so ordine della natura, la pedagogia deve prendere atto di due dati fondamentali, e precisamente: co-
me nel mondo biologico si assiste alla presenza di bisogni che spiegano l’attività di tutti gli esseri
viventi, così nel mondo psicologico si dovrà assistere alla presenza di interessi, come manifestazioni
esterne di quegli stessi bisogni. Si tratterà poi di individuare le progressive espressioni culturali di
soddisfazione di quei bisogni lungo il corso dell’evoluzione (filogenesi) per poter disporre dei gradi
di sviluppo, psicologico e culturale, che l’educazione è chiamata a seguire nel corso del processo di
formazione dell’individuo (ontogenesi).
Per questa via il quadro “scientifico” dell’educazione raggiunge la propria completezza perchè, dal
punto di vista dell’apprendimento (del soggetto che deve apprendere) si dispone della conoscenza
dei ritmi di sviluppo mentale e dell’evoluzione degli interessi-bisogni dell’alunno, mentre dal punto
di vista dell’insegnamento (dell’oggetto che deve essere appreso), si dispone di un ordine cronologi-
co e gerarchico delle materie, ordine che è quello stesso elaborato dall’umanità nella sua evoluzione
culturale e sociale. L’evoluzione bio-psichica svela le leggi di sviluppo; l’evoluzione culturale l’ordi-
ne gerarchico delle acquisizioni culturali: alla pedagogia spetta il compito di precisare le forme delle
loro correlazioni metodologiche e didattiche.
Sarà Stanley Hall (1844 - 1924), assertore della teoria della ricapitolazione (l’uomo ricapitola
nell’arco della sua vita le fasi di sviluppo attraversate dall’umanità, tendenti ad una sempre maggiore
razionalità) a porre le basi di un orientamento di ricerca che darà vita alla psicologia sperimentale ad
orientamento pedagogico e, quindi, alla psicopedagogia. Stanley Hall procede per via induttiva, con
l’osservazione del bambino in laboratorio, nell’intento di sostituire alla pedagogia tradizionale, fon-
data sulla filosofia e sull’etica, una pedagogia esclusivamente costruita sulla conoscenza scientifica
dell’infanzia e della fanciullezza, condotta con rigore di metodo, controllata sperimentalmente.
E. Meumann definisce ‘pedologia’ tale nuova scienza che sostituisce la pedagogia filosofica del
passato, ma, come dirà nel 1910 Binet: “La pedologia ha l’aspetto di una macchina di precisione,
d’una locomotiva misteriosa, scintillante e complessa, ma i pezzi non sembra combacino bene e la
macchina ha un difetto: non cammina”.
Già Dewey nel 1896 (allievo di S. Hall e fondatore, sempre nel 1896, di una “scuola-laboratorio”
elementare annessa all’Università di Chicago), e successivamente Buyse, collaboratore di Decroly,
fanno osservare che il soggetto da studiare, secondo l’ottica di interesse pedagogico, deve essere lo
scolaro, cioé il soggetto colto in una concreta situazione di apprendimento: è l’avvio della pedago-
gia sperimentale, che porta la sperimentazione nella scuola comune, per controllare la validità e
l’efficacia delle procedure che impiega, e che coincide, almeno in parte, con il fenomeno delle “Scuo-
le Nuove”, definite da Ferrière come “laboratori di pedagogia pratica”.
LA PEDAGOGIA POSITIVISTICA
Auguste Comte (1798 - 1857) educazione positiva > favorire la solidarietà tra gli esseri umani
educazione scientifica > nuova civiltà tecnico-industriale
Charles Darwin (1809 - 1882) evoluzione della specie sviluppo di modificazioni genetiche
che favoriscono l’adattamento all’ambiente
“ciò che è a priori per l’individuo è a posteriori per la specie” (filogenesi / ontogenesi)
il bambino, nel suo sviluppo, deve ripercorrere in breve lo sviluppo dell’umanità
(legge biogenetica di Haeckel)
bambino => uomo primitivo libero di esprimersi secondo natura e di far emergere i propri bisogni
aiutato a rendersi abile nelle diverse tecniche di adattamento all’ambiente
reimpostazione dei curricoli e dei programmi (su base più moderna e scientifica)
bisogni interessi
naturali mentali
(biologia) (psicologia)
PEDAGOGIA
correlazioni metodologico-didattiche
contenuti apprendimento
(oggetto) (soggetto)
ordine cronologico e ritmi di sviluppo mentale
gerarchico delle materie evoluz. interessi-bisogni
Stanley Hall (1844 - 1924) teoria della ricapitolazione (=> legge biogenetica)
sapere induttivo
osservazione del bambino in laboratorio
controllo sperimentale
E. Meumann ‘pedologia’
pedagogia sperimentale
L’espressione “scuola attiva” è del pedagogista svizzero Ferrière. Col termine “attiva” Ferrière in-
dicava una scuola che assumesse al centro del proprio metodo educativo “l’attività spontanea, per-
sonale, produttiva” del fanciullo. Oggi però si parla comunemente di scuola attiva per fare riferimen-
to ad un arco di esperienze pedagogiche che comprendono Dewey e tutta la sua scuola, Decroly,
Claparède, Montessori, ecc., un vero e proprio continente intellettuale che ha condotto la problema-
tica della scuola nuova ed i suoi obiettivi molto al di là dei limiti (scientifici, ideologici e sociali) che
il movimento delle scuole nuove in Svizzera aveva alle origini, nei primi decenni del secolo. La scuo-
la svizzera ha teorizzato il rovesciamento del tradizionale processo di educazione. Non più una con-
cezione rigida delle materie da insegnare con programmi prefissati contenuti negli appositi libri di
testo. Il maestro non è il protagonista dell’attività scolastica, colui che svolge il programma, control-
la il profitto e tiene la disciplina. Il maestro è un animatore della vita scolastica che favorisce la ricer-
ca, individua gli interessi, suggerisce gli strumenti didattici che possano ampliare e organizzare me-
glio la conoscenza. Ma il punto di partenza deve sempre essere l’esperienza sensibile e diretta. Il
lavoro manuale viene introdotto nella scuola come strumento educativo, dato che solo certe destrez-
ze del corpo sono in grado di sviluppare alcune qualità del carattere e dell’intelligenza. Intorno a
questa rivoluzione didattica sorgono nei primi quindici anni del novecento una serie di iniziative.
Nel 1899 Adolphe Ferrière (1879-1960) fonda a Ginevra l’Ufficio internazionale delle Scuole Nuo-
ve. Nel 1902 si apre in Svizzera la prima scuola nuova.Nel 1912 viene fissato il programma minimo
pechè un istituto possa dirsi “scuola nuova”. Deve essere un internato familiare in campagna, dove
l’esperienza del fanciullo sia alla base dell’educazione intellettuale e dell’educazione morale. Sempre
nel 1912 Claparède, Bovet e Ferrière fondano l’Istituto superiore di scienze dell’educazione J.-J.
Rousseau, cui Piaget darà fama internazionale.
Precursore del movimento delle scuole nuove è il grande scrittore russo Lev Tolstoj. Nato nel 1828
a Jasnaia Poljana da una famiglia aristocratica di possidenti terrieri e vissuto fino al 1910, Tolstoj af-
fianca al suo lavoro artistico, fin dalla giovinezza, un impegno politico e sociale che lo spinge a cer-
care di migliorare il tenore di vita dei contadini della tenuta paterna secondo i principi della pedago-
gia rousseauiana. Nel 1859 questo produce la fondazione a Jasnaja Poljana di una scuola sperimenta-
le per i figli dei contadini. Tolstoj propone una scuola basata sul rifiuto di ogni forma di autorità che
possa intralciare il libero sviluppo della persona. L’ “educazione” (“premeditata formazione degli
uomini secondo modelli dati”) deve essere sostituita dall’ “istruzione”, come “libero rapporto fra gli
individui avente per base il bisogno di ognuno di acquisire cognizioni già acquisite da altri”.
La libertà della natura del fanciullo viene rispettata eleminando orari, classi, programmi, disciplina
formale, lezioni imposte. Assertore del principio della non-violenza, Tolstoj si fa dunque sostenito-
re di un “non intervento” in educazione. Lo sviluppo di personalità creative e libere verrà ottenuto
sulla base della capacità del maestro di suscitare interesse e attivare le esperienze, lasciando “la stes-
sa libertà per tutti gli allievi di ascoltare o non ascoltare il professore, di accettarne o non accettarne
l’influenza”. La didattica tradizionale viene sostituita da iniziative di ricerca, esperimenti, lavori ma-
nuali, conversazioni ed escursioni effettuati a partire dai bisogni e dalle motivazioni espresse dagli
allievi. In questo modo Tolstoj inaugura la corrente della descolarizzazione e della didattica non-di-
rettiva, introducendo principi che verranno ampiamente sviluppati in talune parti dell’Attivismo e
della pedagogia contemporanea.
Il movimento della scuola attiva era stato preceduto in Europa anche da una serie di esperienze
d’élite che ne anticiparono alcuni temi. Nel 1889 Cecil Reddie (1858-1932) in Inghilterra, ad Abbot-
sholme, fonda una “new school” per ragazzi dagli undici ai diciotto anni (metodi diretti e sperimen-
tali, attività manuali e artistiche, sport non competitivi, vita di relazione). L’Ecole des Roches
(1899) di Edmond Demolins (1852-1907) riproduce la vita reale della famiglia: rudimentale e in
aperta campagna, organizzato in gruppi di una trentina di alunni, insegna ad armonizzare l’iniziativa
individuale con lo spirito di collaborazione e cooperazione sociale. Hermann Lietz (1868-1919) in-
augura il modello delle scuole nuove in Germania. Le sue comunità scolastiche offrono ai giovani la
possibilità di un’attività libera e di un sano lavoro in campagna. Tuttavia l’ispirazione democratica
(“self-government”) delle scuole inglesi alle quali sembrano ispirarsi subisce un mutamento sostan-
ziale: i principi cui si richiamano le comunità tedesche sono motivi romantici e irrazionali, ideali na-
zionalistici e anti-democratici. Questo accade soprattutto nelle scuole fondate dai seguaci di Lietz.
Negli Istituti di Gustav Wyneken (1875-1964) e Paul Geheeb (1875-1961) compaiono invece mo-
tivi più democratici, umanistici e ottimisti. Negli Istituti di Wyneken prevalgono il rifiuto di ogni au-
torità e metodo, le pratiche naturistiche, l’esaltazione della gioventù. Wyneken fu in particolare so-
stenitore del movimento giovanile degli “uccelli migratori”, espressione vitalistica di ritorno alla na-
tura e tentativo di evasione dagli schemi borghesi.
Quando nel 1921 viene fondata la Lega internazionale per l’educazione nuova, tutte le principali
forme di sperimentazione riconducibili al modello della scuola attiva sono già state avviate: in Euro-
pa l’École de l’Ermitage (1907) di Ovide Decroly (1871-1932), le Case dei bambini (1907) di
Maria Montessori (1870-1952), negli U.S.A. la scuola di Winnetka (1919) di Carleton Washburne
(1889-1968), il “Dalton Plan” (1920) di Helen Parkhurst (1887-1969). Nel 1921 Alexander Neill
(1883-1973) avvia a Summerhill (1921) il suo progetto pedagogico non-direttivo e libertario.
Sempre nel 1921 viene pubblicata la celebre “Dichiarazione di Calais” - ispirata da Ferrière - che
può essere considerata la “magna charta” della scuola attiva. Dei trenta punti ricordiamo:
- la scuola deve funzionare come internato ed essere situata in campagna;
- maschi e femmine devono essere educati insieme;
- vita all’aria aperta e attenzione all’educazione fisica;
- organizzazione democratica e partecipazione attiva alle scelte comunitarie;
- massimo spazio agli interessi spontanei, all’esperienza, all’attività personale degli allievi;
- sostituire al nozionismo la ricerca diretta ed il metodo sperimentale;
- il maestro non protagonista ma animatore dell’attività didattica;
- primato dei valori spirituali (verità, bontà, bellezza);
- ricorso al gioco ed al lavoro manuale come strumenti educativi.
La scuola che ne risulta viene così descritta da Ferrière: “La scuola così intesa è un alveare, alveare
rumoroso, talvolta febbricitante, tanto zelo i piccoli operai della scienza e del lavoro manuale metto-
no nell’adempiere al compito che si sono imposti e a superare le tappe del sapere”.
LE SCUOLE NUOVE
Lev Tolstoj (1828 - 1910) Jàsnaia Poliana (1859)
Adolphe Ferrière (1879 - 1960) Cecil Reddie (1858 - 1932) Abbotsholme (1889)
1899: Ufficio internazionale Hermann Lietz (1868 - 1919) Landerziehungsheime (1898)
scuole nuove (Ginevra) Edmond Demolins (1852 - 1907) Ecole des Roches (1899)
1912: Istituto superiore di Scienze Gustav Wyneken (1875 - 1964) Wickersdorf (1906)
dell’educazione J.J. Rousseau Paul Geheeb (1875 - 1961) Oderwald (1910)
1921: Lega internazionale per Ovide Decroly (1871 - 1932) École de l’ Ermitage (1907)
l’educazione nuova Maria Montessori (1870 - 1952) Casa dei bambini (1907)
Carleton Washburne (1889 - 1968) Winnetka (1919)
“Dichiarazione di Calais” Helen Parkhurst (1887 - 1969) - Dalton Plan (1920)
Alexander Neill (1883 - 1973) Summerhill (1921)
Celestin Freinet (1896 - 1966) Polier (1935)
Lev Tolstoj: Jasnaia Poliana: scuola sperimentale per i figli dei contadini
rifiuto di ogni forma di autorità che intralci lo sviluppo (Rousseau)
istruzione vs educazione
(acquisizione non imposta di nozioni) (formazione premeditata)
Allievo dell’hegeliano G.S. Morris e del caposcuola della psicologia sperimentale negli Stati Uniti,
G. Stanley Hall, John Deweyelabora una forma di pragmatismo che fu detta strumentalismo per
l’accentuazione conferita al valore strumentale della conoscenza. Nel 1894 viene chiamato presso
l’Università di Chicago, dove gli viene assegnato anche l’incarico di pedagogia. Nel 1904 si trasfe-
rìsce alla Columbia University di New York, dove rimane sino al 1929. Tra le sue opere più impor-
tanti di argomento pedagogico vanno ricordate: Il mio credo pedagogico (1897), Scuola e Società
(1899) e Democrazia ed Educazione (1916); rilevanti, per le numerose implicazioni pedagogiche,
anche Come pensiamo (1910) e Logica, teoria dell’indagine (1938).
Per Dewey la realtà è un tutto unitario che mostra caratteri di incertezza ed errore, di precarietà e
rischio, e la ragione è solo un mezzo per raggiungere una situazione di maggiore stabilità e sicurezza.
Il punto di partenza di Dewey è l’esperienza; ma questa è assai più vasta della coscienza perchè
comprende anche l’ignoranza, l’abitudine, tutto ciò che è “vago, oscuro e misterioso”: il torto del-
l’empirismo classico è appunto quello di aver ridotto l’esperienza a coscienza, escludendone gli
aspetti sfavorevoli, precari, incerti, irrazionali; invece l’amare e l’odiare, il desiderare ed il temere,
non sono stati dello spirito, ma ‘operazioni attive’ che concernono altre cose.
Anche la logica ha per Dewey un valore strumentale ed operativo; ogni ricerca muove da una
situazione problematica, di incertezza e di dubbio, primo momento dell’indagine che in qualche
modo suggerisce, sia pur vagamente, una soluzione. Il secondo momento è lo sviluppo di quest’idea
mediante il ragionamento, che Dewey chiama l’intellettualizzazione del problema. Il terzo mo-
mento consiste nell’osservazione e nell’esperimento: si tratta di saggiare le varie ipotesi prospet-
tate, eventualmente di rilevarne l’inadeguatezza, ed allora il quarto momento consisterà in una riela-
borazione intellettuale delle primitive ipotesi. Si giunge così a formulare nuove idee che trovano
nel quinto momento dell’indagine la loro verificazione, che può consistere nell’applicazione pratica
o in nuove osservazioni. In termini biologici, da uno squilibrio iniziale, tramite la reintegrazione ar-
monica di organismo e ambiente, si giunge al ristabilimento dell’equilibrio.
La posizione di Dewey è naturalistica, in quanto egli scorge una piena continuità tra il mondo bio-
logico ed il mondo spirituale; Dewey ha utilizzato il concetto di “transazione” per intendere sia la
stretta interconnessione (“condizionalità bicontinua”) esistente fra tutti gli aspetti dell’universo,
compresa l’esperienza umana, sia il fatto che ogni atto di conoscenza è funzione ad un tempo di un
organismo e di un ambiente: il soggetto conoscente non preesiste alla ricerca, ma si costituisce in es-
sa. Perciò appunto Dewey vuole distinguere tra interazione, che avviene tra entità definite e stabi-
li, e transazione, processo costitutivo degli stessi termini interessati.
Per Dewey non esistono fini o valori assoluti: i fini propriamente umani sono progetti costruiti in
termini di mezzi necessari alla loro realizzazione; i fini del lavoro hanno in comune con quelli del
gioco la caratteristica di essere scelti valutando essenzialmente la qualità più o meno soddisfacente
delle attività che ne assicurano il conseguimento; ma mentre il fine del gioco una volta conseguito se-
gna anche la fine delle attività messe in opera, il fine del lavoro, una volta conseguito, si trasforma da
mezzo procedurale in mezzo materiale per attività ulteriori. Ne consegue che il lavoro germina dal
gioco come attività che ha assicurata una continuità maggiore, una maggiore ricchezza di significati
che ci fa annettere alla nostra attività un così forte interesse da indurci ad uno sforzo più intenso e
continuativo: Dewey oppone questa teoria (Interesse e sforzo nell’educazione, 1896) tanto all’her-
bartismo (“interesse”) quanto all’hegelismo (“sforzo” e “disciplina”). Lo sforzo senza interesse è
pratica da lavoro forzato, ma l’interesse che non suscita sforzo non è interesse vero. L’interesse ve-
ro è qualcosa di naturalmente attivo e dinamico.
La dottrina deweyana dell’interesse è alla base della sua pedagogia. Occorre che l’insegnamento si
fondi su interessi reali; ma l’interesse non è qualcosa di fisso e statico: legato all’attività, muta e si
complica con il complicarsi ed approfondirsi dell’attività stessa. Gli interessi devono - all’interno
del processo educativo - essere fatti evolvere. E’ questa la tesi centrale del breve scritto “Il mio cre-
do pedagogico”. L’educazione deriva dalla partecipazione dell’individuo alla coscienza sociale della
specie ed è un processo che “s’inizia inconsapevolmente quasi dalla nascita”. Il processo educativo
ha due aspetti, l’uno psicologico, che consiste nel dispiegarsi delle potenzialità individuali, l’altro
sociale, che consiste nel preparare ed adattare l’individuo ai compiti che dovrà assolvere da adulto
nella società; se è vero che le potenzialità dell’individuo in sviluppo non hanno significato fuor di un
ambiente sociale, d’altronde “il solo possibile adattamento che possiamo dare al fanciullo nelle con-
dizioni esistenti è quello di porlo in possesso completo di tutte le sue facoltà, (...) dargli la padro-
nanza di se stesso; prepararlo alla vita futura significa educarlo in modo (...) che il suo occhio, il suo
orecchio e la sua mano possano essere pronti strumenti di comando”.
Dunque dei due aspetti dell’educazione “quello psicologico è basilare”, mentre insistere sulla “de-
finizione sociale dell’educazione come adattamento alla civiltà ne fa un processo forzato ed esterno
e conduce a subordinare la libertà dell’individuo ad una situazione sociale e politica presupposta”. La
vita attiva e sociale del fanciullo costituisce il centro intorno al quale si organizzano progressivamen-
te le varie materie, prima quelle che lo familiarizzano con il suo ambiente, nel tempo e nello spazio
(storia, geografia, nozioni scientifiche) poi quelle che gli forniscono strumenti per l’approfondimen-
to delle prime (leggere, scrivere, far di conto). Ma le attività manuali, espressive o costruttive, co-
stituiranno il “centro di correlazione” di ogni altro studio ( lavori di falegnameria, cucinare, cucire,
modellare, filare, tessere, ecc.). Al bambino non viene fornito un materiale già formato, ma materia-
li grezzi (creta, legno, paglia, lana, ecc.) rispetto ai quali ben presto è il bambino stesso che proget-
ta di fare qualcosa.
In Scuola e società Dewey mette in rilievo l’importanza che rivestono, anche dal punto di vista
educativo, le trasformazioni tecnologiche e la cosiddetta rivoluzione industriale. Un tempo, quando i
beni venivano prodotti nell’ambito della famiglia o nelle botteghe artigiane del vicinato, il fanciullo
poteva osservare i vari processi, cimentarsi in forma dapprima giocosa, poi di apprendistato, nelle
più varie attività sociali. La rivoluzione industriale ha eliminato tutto ciò; la scuola deve allora orga-
nizzarsi in modo da fornire essa stessa, nel proprio interno, tutte le esperienze produttive che fuori
della scuola non sono più attingibili: deve essere un ambiente di vita e di lavoro.
1. fare esperienze a lungo e liberamente => emergere di situazioni problematiche vs “assegnare problemi”
2. opportunità di giungere da sé a delimitare e precisare intellettualmente una situazione problematica
3. idee e ipotesi => ricerca di dati, di materiale di osservazione e di esperimento
possibilità di compiere osservazioni e ricerche dirette (materiale di consultazione vs libri di testo).
4. rielaborazione delle idee primitive => idee formate personalmente vs fornite già pronte
5. applicazione delle idee elaborate e verifica vere esperienza arricchita
situazioni problematiche
false esperienza sterile
lavoro e gioco fine del gioco => fine delle attività messe in opera
fine del lavoro => da mezzo procedurale in mezzo materiale per attività ulteriori
interesse/sforzo interesse e sforzo vs herbartismo (“interesse”)
più intenso e continuativo hegelismo (“sforzo” e “disciplina”)
processo educativo
aspetto psicologico aspetto sociale
dispiegarsi delle “Il mio credo pedagogico” adattamento ai compiti che il fanciullo
potenzialità individuali (basilare) dovrà assolvere da adulto nella società
preparazione alla vita futura => occhio / orecchio / mano = pronti strumenti di comando
Scuola e società preindustriale => botteghe artigiane (il fanciullo si cimenta in varie attività)
Società rivoluzione industriale scuola => esperienze produttive che non sono più attingibili
1. DALTON PLAN
Sulla scia dell’atmosfera progressiva deweyana Helen Parkhurst (1887 - 1969) realizza un meto-
do educativo nuovo, il “piano Dalton”. La Parkhurst si occupa di scuole montessoriane e fa espe-
rienza di pluriclassi rurali. Il lavoro nella scuola secondaria di Dalton (Massachussetts) viene teo-
rizzato per la prima volta nell’opera L’educazione secondo il Piano Dalton (1922).
La Parkhurst cerca di costruire dei curricoli a misura di ciascun alunno al fine di salvaguardarne
l’autonomia. I programmi organizzati per compiti mensili sono strutturati in modo molto dettaglia-
to (10 unità progressive mensili suddivise in 20 unità minori) e suddivisi in varie parti relative ad
altrettante unità didattiche per giorni e ore di attività. Queste unità comprendono diverse discipline
che prevedono lo svolgimento di numerosi compiti (sulla scorta di un programma di studi generale
che prevede minimo e massimo per ciascuna materia) alla cui soluzione deve dedicarsi l’allievo. La
scelta del piano di lavoro viene da lui effettuata mensilmente, con la sottoscrizione di un preciso
“contratto”: per onorarlo l’alunno può utilizzare i materiali delle aule-laboratorio, seguendo i propri
ritmi, senza dover rispettare scadenze intermedie prefissate. Il “laboratory plan” prevede che ci sia-
no aule laboratorio per ciascuna materia di studio, con libri di consultazione, materiali di studio e at-
trezzature sperimentali. Non esistono libri di testo uguali per tutti e le classi, in senso tradizionale,
sono abolite: gli allievi operano individualmente e si spostano liberamente all’interno delle aule.
L’alunno può approfondire le materie preferite, essendo comunque tenuto per le altre allo svolgi-
mento del programma minimo.
L’insegnante non “fa lezione”, ma svolge il ruolo di consulente, seguendo il lavoro e i suoi progres-
si e dando consigli se necessario. Le verifiche sono di tipo formativo, il rendimento viene trascritto
in grafici documentati.
La Parkhurst ebbe presente fin dall’inizio il pericolo di un individualismo eccessivo e cercò di ov-
viarvi giustapponendo alle attività individuali tutta una serie di attività sociali: nei laboratori, infat-
ti, gli allievi impegnati nell’espletamento del compito prescelto sono liberi di associarsi con altri
aventi analoghi “contratti”, e il lavoro di gruppo è facilitato dal fatto stesso che si trovano a coope-
rare allievi che ahanno raggiunto all’incirca lo stesso grado di abilità in quella singola materia.
2. WINNETKA SCHOOLS
Carleton Washburne(1889 - 1968), esponente della scuola attiva e della “educazione progressi-
va”, dirige, dal 1919 al 1943, il sistema delle scuole di Winnetka (un sobborgo operaio di Chicago). I
nuovi metodi educativi messi a punto nel corso di questa esperienza vengono descritti nell’opera La
Filosofia del curricolo di Winnetka (1926) e più tardi in Winnetka, storia e significato di un esperi-
mento pedagogico (1955). Consigliere scolastico del governo militare alleato, Washburne viene invia-
to in Italia e contribuisce dal 1945 alla revisione dei programmi per la scuola elementare.
Nelle scuole di Winnetka Washburne racconta come nella sperimentazione che si lega al suo nome
tutta l’attività sia tesa a far apprendere da solo l’alunno e fargli correggere autonomamente il proprio
lavoro. Il programma è diviso in una parte “minima” e una “di sviluppo”. Il programma minimo,
individuale, riguarda “le conoscenze e le tecniche mediante le quali cerchiamo di ottenere un comune
livello tra gli alunni” ed è formato da unità didattiche in successione predeterminata da far svolgere
secondo percorsi individualizzati. Comprende materie strumentali (leggere, scrivere, far di conto) e
materie sociali (storia, geografia, nozioni civiche). Ciascun allievo procede secondo il proprio ritmo
intellettuale, utilizzando libri di lavoro e materiale autoeducativo, come tests d’avviamento autocor-
rettivi. Solo se superata una unità di lavoro si passa alla successiva; si può progredire rapidamente
in una materia e rimanere stazionari in altre, ma non si “ripetono” anni e non esistono le classi.
Il programma di sviluppo “consta di stimoli e di occasioni offerte in vista di un lavoro creativo
che interessa la collettività”, in cui si promuove l’eccellenza. Si tratta di attività di gruppo e creative
che comprendono composizioni libere, letture di vario genere, attività manuali ed estetiche, recita-
zione, escursioni, ricerche scientifiche e sociali, rappresentazioni teatrali. Ogni allievo partecipa a
qualche attività di gruppo (ad es. nel caso delle rappresentazioni teatrali potrà svolgere una specifi-
ca mansione: scelta o scrittura del copione, recitazione, regia, scenografia, costumi, organizzazione,
vendita dei biglietti, critica sul giornale scolastico, ecc.).
L’insegnamento è individualizzato: l’insegnante gira fra i tavoli di lavoro e sostiene con i suoi sug-
gerimenti l’attività di ciascuno. Anche il sistema di valutazione prende nuove vie, in quanto “ogni
alunno segue il suo passo, ognuno si controlla da sé, e continua a esercitarsi nei punti in cui è debo-
le”. Frequente è l’utilizzo dei test con una funzione “diagnostica”, per evidenziare gli aspetti del-
l’apprendimento sui quali l’alunno ha bisogno di esercitarsi maggiormente. La valutazione ha quindi
un carattere essenzialmente formativo.
Sulla scorta delle critiche mossegli da vari pedagogisti, tra cui Kilpatrick (1871 - 1965), Washburne
riconoscerà che una individualizzazione troppo marcata finisce col creare incongruenze tra program-
ma minimo e programma di sviluppo, a svantaggio del secondo: “l’individualismo esagerato (...) po-
trebbe diventare fatale per la comunità”. Occorre dunque che il programma di sviluppo acquisisca
maggiore peso all’interno del curricolo, e che sia sempre dotato di “una cornice sociale, in modo che
ogni fanciullo possa contribuire con la sua attività e le sue facolta particolari alla riuscita dell’impre-
sa collettiva”.
Lʼ Attivismo americano: il “piano Dalton” e le scuole di Winnetka
“laboratory plan” -> aule-laboratorio per tutte le materie di studio -> abolizione delle classi
percorsi individualizzati
ciascun allievo procede secondo il proprio ritmo intellettuale
solo se superata una unità di lavoro si passa alla successiva
si può progredire rapidamente in una materia e rimanere stazionari in altre
non si “ripetono” anni non esistono le classi
rappresentazioni teatrali
Nato a Renaix, nelle Fiandre orientali, Decroly trova nel padre il primo educatore, che mette a di-
sposizione sua e dei fratelli un ampio giardino con piante ed animali da osservare e curare, e un labo-
ratorio per il gioco. Quando Ovide inizia la frequenza della scuola secondaria, l’imposizione di uno
studio libresco ed astratto lo pone in contrasto con gli insegnanti, al punto di farlo cacciare da scuo-
la. In questi eventi è possibile vedere l’origine del suo “istintivo” rifiuto della scuola tradizionale e
della sua vocazione di riformatore. Laureatosi in medicina, con specializzazione in neuropsichiatria,
nel 1898, nel 1901fonda una scuola di insegnamento speciale per bambini anormali e successivamen-
te, nel 1907, l’ Ecole de l’Ermitage, a Ixelles, un esperimento pedagogico “pour la vie, par la vie”
(Una scuola per la vita attraverso la vita, 1908) che acquisirà presto fama mondiale. Dal 1920 è
docente di psicologia infantile a Bruxelles; scrive Verso la scuola rinnovata (1921), La funzione di
globalizzazione e l’insegnamento (1929), Lo sviluppo del linguaggio parlato nel bambino (1932).
Nello stesso anno l’autore muore improvvisamente nel giardino della sua scuola.
La scuola e l’ambiente
Nella sua critica delle scuole pubbliche (1921), Decroly sostiene che la “mortalità” e la dispersione
scolastica sono il frutto di un sistema di comunicazione che privilegia la parola a svantaggio degli in-
teressi e della partecipazione attiva degli alunni. La scuola è separata dalla vita e distaccata dall’am-
biente. Da qui la proposta di rovesciare la didattica in uso. Si impone una strategia didattica che pro-
vochi l’incontro tra l’individuo e il suo ambiente e raccordi i bisogni del soggetto coi dati materiali,
sociali e culturali dell’ambiente. Nella Scuola dell’Ermitage l’ambiente non è l’aula o la scuola stessa,
ma la natura che circonda l’edificio, nuovo campo delle occupazioni attive dell’alunno. L’ambiente
naturale del bambino è la campagna, poiché, secondo la legge biogenetica, il bambino deve
ripercorrere la stessa via percorsa dalla sua specie a partire dalle sue origini. Laboratori, campi e
giardini, allevamenti, spazi di gioco e di vita comune, attrezzi: l’ambiente deve diventare campo di
attività e di esperienze per l’individuo. La scuola deve essere organizzata come ambiente in cui
l’alunno possa avvicinarsi gradualmente alle attività materiali e sociali proprie della vita reale.
Programmi e bisogni
In polemica con i sistemi scolastici in uso, Decroly (1921) sostiene che il programma delle attività
educative deve realizzare la convergenza di contenuti culturali intorno ad un interesse centrale (prin-
cipio dell’unità), adeguarsi ai livelli ed alle caratteristiche mentali del singolo alunno (principio del-
l’individualizzazione dell’apprendimento), prevedere un insieme di conoscenze che facilitino l’inse-
rimento positivo dell’alunno nella vita sociale (principio dell’adattamento all’ambiente), promuove-
re lo sviluppo di tutti gli aspetti della vita infantile (principio dell’integrità dello sviluppo). I nuovi
programmi devono rispettare, in una forma unitaria, sia l’esigenza soggettivo-psicologica, sia quella
oggettivo-sociale. L’esigenza soggettivo-psicologica è inerente al bisogni dell’individuo, che Decroly
riconduce a quattro principali: 1) il bisogno di nutrirsi; 2) il bisogno di lottare contro le intemperie;
3) il bisogno di difendersi dai nemici; 4) il bisogno di lavorare con gli altri, ricrearsi ed elevarsi in mo-
do solidale.
A questi bisogni corrispondono altrettanti interessi specifici. L’approccio ai quattro bisogni avverrà
nella scuola materna in modo frammentario frammentario, assecondando gli interessi spontanei
immediati, nella scuola elementare in modo globale, attraverso l’individuazione di argomenti scel-
ti, uno per volta, come centro dell’attività.
BISOGNO - INTERESSE
ambiente ambiente
ambiente
vicino
vicino vita nello spazio lontano
lontano
animali geografia
piante
aria, acqua, minerali
famiglia,scuola,società vita nel tempo
storia
OSSERVAZIONE ASSOCIAZIONE
impressioni raccordi
percezioni ESPRESSIONE generalizzazioni
misurazioni giudizi
controlli concreta (disegno-lavoro)
astratta (scritta-orale)
La funzione di “globalizzazione”
Strettamente legata alla teoria dei “centri d’interesse” è quella della globalizzazione. “La mamma si
presenta al fanciullo tutta intera e non nei dettagli; gli oggetti, come tutto l’ambiente che lo circonda
direttamente, si offrono parimenti alla sua curiosità avida senza che nessuno si sogni di imporre un
ordine di presentazione”. Contro le teorie psicopedagogiche tradizionali, secondo le quali si va dalla
“parte” al “tutto”, Decroly ritiene che la base per l’identificazione della realtà psicologica sia costi-
tuita da conoscenze globali la cui struttura è colta dal fanciullo nel suo complesso, nella sua “globali-
tà”. Il “centro d’interesse” rappresenta il primo passo compiuto verso la comprensione della realtà
globale. L’attività di globalizzazione riguarda tutto il campo della vita psichica. Questa funzione,
infatti, è presente in misura notevole nel bambino, ma si trova anche nell’adulto.
OVIDE DECROLY (Renaix, 1871 - 1932)
infanzia: ampio giardino con piante ed animali da osservare e curare, laboratorio per il gioco
adolescenza: scuola secondaria: lo studio libresco ed astratto lo pone in contrasto con gli insegnanti
laurea in medicina, specializzazione in neuropsichiatria
fondazione di una scuola di insegnamento speciale per bambini anormali
1907 Ecole de l’Ermitage, Ixelles 1920 docente di psicologia infantile a Bruxelles
opere: Una scuola per la vita attraverso la vita (1908) Verso la scuola rinnovata (1921)
La funzione di globalizzazione e l’insegnamento(1929)
Lo sviluppo del linguaggio parlato nel bambino (1932)
conservazione educazione
della specie integrazione dell’individuo nella comunità esigenze della vita sociale
ambiente ambiente
ambiente
vicino
vicino vita nello spazio lontano
lontano
animali geografia
piante
aria, acqua, minerali
famiglia,scuola,società vita nel tempo
storia
OSSERVAZIONE ASSOCIAZIONE
impressioni raccordi
percezioni ESPRESSIONE generalizzazioni
misurazioni giudizi
controlli concreta (disegno-lavoro)
astratta (scritta-orale)
trittico
FUNZIONE DI GLOBALIZZAZIONE decroliano
Maria Montessori nasce a Chiaravalle in provincia di Ancona nel 1870. E’ la prima donna a laure-
arsi in medicina, all’Università di Roma. Assistente nella clinica neuro-psichiatrica, si dedica all’edu-
cazione dei bambini deboli di mente, guidata dalla letture delle opere di Itard e Seguin. Diventa diret-
trice della futura Scuola Magistrale ortofrenica di Roma, dove sperimenta l’utilizzo di materiali edu-
cativi per il recupero dei frenastenici. Nel 1907 istituisce la “Casa dei Bambini” nel quartiere di
San Lorenzo a Roma, in quel tempo assai degradato. La nuova concezione di scuola dell’infanzia,
che ha modo così di sperimentare, ha successo. Due anni dopo tale concezione viene presentata nel-
l’opera “Il metodo della pedagogia scientifica applicata all’educazione infantile delle Case dei
Bambini”. Nel 1916 scrive L’autoeducazione nelle scuole elementari. Nasce un movimento montes-
soriano dal quale avrà origine nel 1924 l’Opera nazionale Montessori e quindi la Scuola magistrale
Montessori, poi chiusa dal regime fascista. La rivendicazione da parte della Montessori della piena
autonomia delle sue scuole, la pubblicazione di scritti come La pace e l’educazione (1933) sono un
segno del contrasto insanabile con le autorità fasciste, che costringe la pedagogista ad abbandonare
l’Italia e a viag-giare per diffondere la propria teoria educativa.
Muore a Noordwyk (Olanda) nel 1952, dopo aver scritto le opere con le quali perviene alla forma-
lizzazione del suo pensiero sulla struttura psichica dell’infanzia e le sue implicazioni educative:
Il segreto dell’infanzia (1938) e La mente del bambino (1952).
La maestra “direttrice”
L’insegnante, nella scuola montessoriana, ha il compito di “dirigere” il lavoro dei bambini e di assi-
curare le condizioni di ordine e quiete per le loro attività. L’insegnante controlla che l’attività con il
materiale strutturato si svolga secondo le regole e la successione prevista e assiste i bambini nello
svolgimento dei compiti. La Montessori tratteggia la figura di un insegnante che padroneggia il mate-
riale scientifico e cerca il più possibile di ritirarsi sullo sfondo, riducendo gli interventi al minimo in-
dispensabile e assicurando però le condizioni indispensabili di ordine e di quite per le attività dei
bambini: il “silenzio” è in questo senso uno strumento importante. Il bambino delle case montesso-
riane è concentrato, disciplinato, calmo, occupato nel suo lavoro.
1909 Il metodo della pedagogia scientifica applicata allʼeducazione infantile delle Case dei Bambini
1916 Lʼautoeducazione nelle scuole elementari 1933 La pace e lʼeducazione
1938 Il segreto dellʼinfanzia 1952 La mente del bambino
sviluppo => atto creativo, risultato di attività esercitate dal soggetto sullʼambiente
processo educativo
“per raggiungere la pace nel mondo occorrono due cose: prima di tutto, un uomo nuovo, l’uomo
migliore; e poi un ambiente che non abbia più limiti innanzi all’infinito desiderio dell’uomo”.
“la vera difesa dei popoli non può poggiare sulle armi; giacchè le guerre si succederanno sempre
l’un all’altra, e non potranno mai assicurare la pace e la prosperità di nessun popolo, finchè
non si ricorrerà a questo grande ‘armamento per la pace’ che è l’educazione” (1937)
Célestin Freinet (1896 - 1966)
Il tema della pedagogia popolare assume con Freinet una dimensione innovativa, legata tanto ad
un’ispirazione politica socialista, quanto a una riscoperta dei valori della cultura popolare e delle sue
connotazioni creative. Célestin Freinet, in qualità di maestro elementare della comunità di Bar-sur
Loup, in Provenza, partecipa fin dal 1920 al dibattito educativo. Nel 1925 pubblica “Imprimerie à
l’école”, opera in cui teorizza la sua concezione del ruolo della tipografia a scuola. Nel 1935, dopo
aver lasciato la scuola pubblica, aprirà una propria scuola a Polier. Nel ‘49 pubblica Nascita di una
pedagogia popolare, e negli anni successivi promuove una serie di iniziative per la diffusione del-
l’educazione popolare e la stamperia a scuola, cui è collegato anche il Movimento per la Coopera-
zione Educativa (MCE) italiano.
L’espressione usata da Freinet per designare l’apprendimento infantile, “experience tatonnée”, deri-
va dall’idea che la mente del bambino sia come acqua che scorre libera, in cerca di un alveo in cui in-
canalarsi, andando “a tentoni” fino a quando non è indirizzata. Alla scuola spetta appunto questo
compito di orientamento, offrendo al bambino i canali che la cultura umana ha elaborato per indiriz-
zare e arricchire la sua esperienza. Il punto di partenza è costituito dai bisogni e dalle attività spon-
tanee, il punto di arrivo consiste in attività cooperative e organizzate che socializzino senza perdere
la creatività e la spontaneità iniziali.
Il lavoro scolastico
Nella scuola di Freinet i bambini, accolti in un clima contrassegnato da attenzione, disponibilità, ab-
bondante conversazione e scambio di esperienze, scrivono testi liberi, tanto nel contenuto che nel-
l’occasione della scrittura. Esperienza, ricerche, attività di documentazione renderanno più ampia la
gamma degli argomenti sui quali si può scrivere e più approfonditi i contenuti. La stamperia scola-
stica è costituita da un piccolo complesso tipografico dotato di caratteri da stampa, una piccola
pressa, il rullo inchiostratore, ecc. Il suo funzionamento è nelle mani degli alunni, che trasformeran-
no questi testi, con lavoro di redazione ma anche di effettiva stampa, in un giornale. I testi prodotti
dagli alunni comprendono: 1. il “testo libero”, composizioni improvvisate scelte e selezionate collet-
tivamente; 2. la corrispondenza interscolastica, testi stampati e illustrati inviati ad una classe corri-
spondente; 3. il disegno libero e le incisioni in linoleum stampati insieme ai testi; 4. il “calcolo viven-
te”, ovvero dei problemi di aritmetica derivanti da problemi reali; 5. il “libro della vita”, interamente
scritto dagli alunni in sostituzione del libro di testo; 6. maestri e allievi apprestano un ricco materiale
di consultazione, schedari e biblioteche di lavoro (libri, ritagli, campioni, ecc.).
I testi individuali vengono fusi in un testo comune, che richiederà, come il testo individuale, l’avvio
di procedure di autocorrezione, contro il sistema tradizionale di correzione da parte del maestro.
I voti vengono assegnati mediante votazione democratica e paritaria di tutta la classe.
Gli apprendimenti grammaticali, aritmetici, scientifici, storici ruotano tutti attorno a una serie di
laboratori di lavoro pratico (dall’agricoltura, all’artigianato, al commercio) e alla realizzazione conte-
nutistica e pratica del giornale scolastico. Vengono approntate, per l’apprendimento di ortografia,
calcolo, storia, geografia e scienze, delle “scatole per insegnare” contenenti rulli di carta sui quali
stampare il programma prescelto.
Appare necessaria una nuova personalità d’insegnante, che si spoglia dell’autoritarismo, della disci-
plina, degli obblighi buracratici per assumere le vesti di cooperatore alle attività degli alunni. Il mae-
stro deve soprattutto saper evocare le energie espressive e creative degli alunni, per poi farsi stru-
mento del loro incanalarsi in “centri d’interesse” sui quali si organizzerà la stesura dei testi e tutta
una serie di nuove attività.
Il giornale scolastico servirà a socializzare le proprie esperienze con la famiglia, la comunità e le al-
tre scuole. L’educazione popolare di Freinet ritiene che i valori di identità e tradizione della cultura
popolare vadano difesi, ma non all’insegna del particolarismo e della chiusura. La cooperazione che
si crea fra gli alunni, fra gli insegnanti, fra alunni e insegnanti di una stessa scuola deve dilatarsi alle
altre comunità scolastiche, ad altri paesi con uno spirito prima di confronto e socializzazione e poi
di lavoro comune per obiettivi più ampi.
Una delle personalità più interessanti del “movimento per la cooperazione educativa” è stato Bru-
no Ciari (1923 - 1970), studioso della pedagogia moderna e sperimentatore dei nuovi metodi. Egli
ha efficacemente contribuito al rinnovamento educativo con la sua attività di maestro a Certaldo.
Nel suo libro pubblicato nel 1961, Le nuove tecniche didattiche, riprende l’insegnamento pedagogi-
co di Freinet in modo non passivo, ma ricco di personali contributi. Da Freinet Ciari riprende la pra-
tica della tipografia e del testo libero, del giornale di classe e della corrispondenza, delle schede auto-
correttive e della didattica del calcolo vivente.
Ciari riprende inoltre il metodo globale di Decroly, proponendo però che la frase iniziale da cui in-
comincia l’apprendimento della scrittura parta dal suggerimento dei ragazzi stessi.
Nell’ordine della sperimentazione che si vale delle tecniche di Freinet e che raccoglie la sua idea di
“pedagogia popolare”, si situa l’opera di Mario Lodi. Il suo libro più noto è il diario di un’esperien-
za didattica in un paese della Bassa padana, Vho di Piadena, tra il 1964 e il 1969: Il paese sbagliato.
Nella lettera introduttiva Lodi afferma: “distruggere la prigione, mettere al centro della scuola il bam-
bino, liberarlo da ogni paura, dare motivazione e felicità al suo lavoro, creare intorno a lui una comu-
nità di compagnii che non gli siano antagonisti, dare importanza alla sua vita, e ai sentimenti più alti
che dentro gli si svilupperanno, questo è il dovere di un maestro di scuola, di una buona società”.
Nel libro viene descritto l’intero corso elementare di una classe.Testo libero, tipografia scolastica,
piani di lavoro, ricerche scientifiche, calcolo vivente, l’applicazione del metodo di Freinet sta alla
base della vita scolastica libera e attiva che Mario Lodi vuole realizzare.
L’originalità di questa esperienza risulta chiaramente in un momento particolare nella vita del grup-
po: quando in terza classe si decide di costruire con disegni e collages una specie di grande ritratto
del paese. Il risultato è somigliante e pieno di vita, proprio perché è sbagliato rispetto alle misure,
alle direzioni, alle proporzioni. Queste saranno invece rispettate in una vera pianta costruita poi dai
bambini in base a misurazioni e controlli. Ma la prima raffigurazione, capace di contenere personag-
gi, episodi e momenti significativi, è come la radice affettiva e insostituibile della seconda, quasi un
simbolo di come deve essere il processo educativo. Nel “paese sbagliato” è simboleggiata la relazio-
ne che i bambini stabiliscono con il loro ambiente: gli spazi, le luci, i colori sono l’espressione di un
paese a misura di bambino. E’ da qui che deve quindi partire l’opera di istruzione, le conoscenze
astratte devono fiorire da questa radice.
Célestin Freinet (1896 - 1966) “pedagogia popolare” -> ispirazione politica socialista
motivazioni
attive comunicative
(fare, esprimersi) (corrispondenza)
la tipografia a scuola
2. corrispondenza interscolastica -> testi stampati e illustrati inviati ad una classe corrispondente
5. libro della vita -> è scritto dagli alunni e sostituisce il libro di testo
Mario Lodi
Testo libero, tipografia scolastica, piani di lavoro, ricerche scientifiche, calcolo vivente
Per Claparède i processi mentali rappresentano funzioni con cui l’organismo conosce e si adatta
alle necessità ambientali. La spiegazione dei processi psichici deve essere rintracciata attraverso l’in-
dividuazione dei bisogni fondamentali che scaturiscono dall’interazione tra individuo e ambiente:
pertanto l’educazione funzionale dovrà essere organizzata su questi bisogni fondamentali e sugli
interessi conseguenti. Claparède delinea due leggi: la legge del bisogno, per cui “ogni bisogno tende
a provocare le reazioni atte a soddisfarlo”, e la legge dell’interesse, per cui “ogni comportamento
è dettato da un interesse”.
Claparède delinea anche le leggi dello sviluppo in chiave funzionale:
1) legge della successione genetica, secondo la quale lo sviluppo individuale ripete lo sviluppo della
specie;
2) legge dell’esercizio genetico-funzionale, secondo la quale lo sviluppo procede attraverso
l’esercizio delle funzioni, in modo tale che l’esercizio di ogni funzione diventa premessa per lo
sviluppo di quelle ulteriori;
3) legge dell’andamento funzionale, per la quale l’esercizio si produce solo in condizioni di bisogno
ed interesse;
4) legge dell’autonomia funzionale, in relazione alla quale il bambino va considerato un essere
autonomo e in sé completo;
5) legge dell’individualità, che stabilisce l’assoluta unicità di ogni destinatario dell’azione educativa.
L’educazione funzionale stabilisce che il fanciullo sia educato in modo tale da non ostacolare il suo
libero farsi secondo un primato dell’autoeducazione del soggetto rispetto all’eteroeducazione del
maestro. La concezione funzionale è dunque puerocentrica: essa “consiste nel prendere il fanciullo
come centro dei programmi e dei metodi scolastici”.
Nella concezione di Claparède il maestro deve diventare soprattutto “stimolatore di interessi”,
dotato di una preparazione psicologica in grado di analizzare bisogni ed interessi del fanciullo nei
loro caratteri comuni ma anche specificamente individuali.
La “scuola su misura” per Claparède può mutare nell’organizzazione e nei metodi per riuscire a
raggiungere l’obiettivo dell’individualizzazione. Egli propone di riprendere una serie di soluzioni già
esistenti in forma sperimentale (classi parallele formate da alunni di capacità omogenee, classi mobili
per cui ogni alunno si sposta per ciascuna materia nella classe corrispondente al suo livello, ecc.),
oppure di scegliere il sistema delle opzioni, il quale prevede un programma minimo comune, accanto
al quale si colloca un’ampia offerta di possibilità di studio che ciascun alunno sceglie secondo le pro-
prie attitudini.
Una psicopedagogia scientifica si deve anche preoccupare di una misurazione accurata del cammino
percorso e dei risultati raggiunti. Pertanto, in luogo del tradizionale sistema degli esami, occorrerà
approntare per la valutazione dei metodi scientifici di controllo del rendimento e delle capacità men-
tali come i test.
Jean Piaget (1896 - 1980)
Formatosi alla scuola della biologia, della filosofia e della psicologia, Piaget ha un ingegno precocis-
simo, che lo porta all’età di vent’anni ad aver già pubblicato numerosi lavori di zoologia. In questo
periodo traccia anche un programma: dedicarsi allo studio e alla spiegazione dei legami tra biologia e
conoscenza. Nascerà così l’epistemologia genetica, che si preoccupa di analizzare lo sviluppo della
conoscenza scientifica del mondo attraverso lo studio clinico esperimentale dei bambini fino a nove
anni. Entrato nel 1921 nell’Istituto J. J. Rousseau per volontà di Claparède, Piaget inizia gli studi
che daranno come primo frutto “Pensiero e linguaggio nel fanciullo” (1923), cui seguiranno, nel giro
di pochi anni, studi sul giudizio e sul ragionamento, la rappresentazione del mondo e l’idea di causa.
Nel 1932 pubblica “Il giudizio morale nel fanciullo”, opera in cui ipotizza che lo sviluppo della mo-
ralità sia legato soprattutto allo sviluppo dell’intelligenza.
Nel 1955 fonda il Centro di Epistemologia genetica e continua in seguito a pubblicare numerosi altri
scritti che costituiscono una sistemazione più ampia e comprensiva delle sue ricerche.
La teoria psicologica piagetiana viene definita psicologia genetica, in quanto orientata a seguire lo
sviluppo dell’intelligenza e dei sistemi di conoscenza attraverso la costruzione (genesi) di nuovi
schemi e operazioni nelle fasi proprie di ciascuna età e a spiegare il passaggio da una fase all’altra.
L’intelligenza per Piaget è la capacità che permette al soggetto di adattare il comportamento alle
modificazioni ambientali. L’apprendimento avviene nel bambino dapprima attraverso i processi
complementari di assimilazione e accomodamento, consentendo un graduale passaggio dai riflessi
innati alle azioni, agli schemi, alle operazioni concrete e a quelle interiorizzate e formali.
Tre sono le fasi fondamentali di sviluppo dell’intelligenza (senso-motoria 0 - 2 anni; operatoria
concreta suddivisa in pre-operatoria, 2 - 7 anni e operatoria, 7 - 11 anni; operatoria formale, da 11
anni in poi), sostanzialmente immodificabili.
La concezione pedagogica
Per Piaget il motore dell’intelligenza del bambino è la sua azione, quindi l’educatore deve soprat-
tutto predisporre le condizioni adatte all’esercizio di questo fare, e adeguare le sue richieste al livello
dello sviluppo psichico del suo allievo bambino protagonista attivo del processo di apprendimento.
Piaget insegna che il bambino, data la stessa natura dei suoi processi psicologici, deve essere reso
protagonista dei propri apprendimenti piuttosto che mantenuto, come si è ritenuto giusto fare per
lungo tempo, come passivo fruitore di ciò che gli viene presentato. Come si vede, la centralità del fa-
re è in pieno accordo con le concezioni dell’attivismo. Ma il grado di analisi che Piaget conduce sul-
l’agire evolutivo nei suoi diversi settori cognitivi, morali, linguistici, sociali, produce anche un nuovo
profilo della professionalità dell’insegnante. La didattica deve essere psicologica, l’insegnante è un
vero e proprio ricercatore in grado di rintracciare le condizioni migliori per l’apprendimento e le di-
namiche psicologiche sottostanti. Da questo punto di vista l’influenza di Piaget sulla scuola è stata
grandissima, perché ha fornito una ricca quantità di nozioni ed idee per perfezionare la concreta atti-
vità didattica, con la produzione di numerose “didattiche psicologiche” modellate sulla sua teoria.
L’immagine del bambino proposta da Piaget, parallelamente a quella dell’insegnante ricercatore, è
quella di un ricercatore serio, tranquillo e, perlomeno per tutta la fase pre-operatoria, individualista.
Il “piccolo scienziato” piagetiano socializza le sue ricerche (cioé la sua attività di conoscenza del
mondo) all’incirca verso i sei/sette anni. Prima, secondo Piaget, il suo sviluppo sociale e linguistico
non gli permettono di assumere completamente il “punto di vista degli altri”, pertanto il bambino
effettua la propria esperienza in modo sostanzialmente egocentrico. Su questo punto si sono con-
centrate le maggiori critiche a Piaget: la sua immagine del bambino sarebbe inadatta a descrivere la
capacità sociale e comunicativa dell’infanzia, più competente e precoce di quanto egli non abbia
ipotizzato (cfr. L. S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio, 1934).
LA PSICOPEDAGOGIA EUROPEA: LA SCUOLA DI GINEVRA
processi mentali => funzioni con cui lʼorganismo conosce e si adatta alle necessità ambientali
leggi la successione genetica -> lo sviluppo individuale ripete lo sviluppo della specie
del lʼ esercizio genetico-funzionale -> lo sviluppo procede attraverso lʼesercizio delle funzioni
lʼ andamento funzionale -> lʼesercizio si produce solo in condizioni di bisogno / interesse
lʼ autonomia funzionale -> il bambino va considerato un essere autonomo e completo
lʼ individualità -> assoluta unicità di ogni destinatario dellʼazione educativa
intelligenza => capacità che permette di adattare il comportamento alle modificazioni ambientali
assimilazione accomodamento
riflessi innati -> azioni -> schemi -> operazioni -> interiorizzate (reversibili)
strutture dʼinsieme -> operazioni concrete / formali -> concetti
1. Sigmund Freud
Esaminando la possibilità di “applicare la psicoanalisi alla pedagogia ed all’educazione in generale”,
Freud afferma che “questo compito è (...) forse il più importante dei compiti dell’ analisi” (Introdu-
zione alla Psicoanalisi, 1932). Freud indica due vie attraverso cui la psicoanalisi può venire in soc-
corso dell’ educazione: una - utopistica - consiste nel sottoporre tutti i bambini ad un trattamento
analitico; l’altra, più realistica, consiste nel mettere a disposizione degli educatori le conoscenze e
gli strumenti psicoanalitici che consentano loro di risolvere il compito educativo nel migliore dei mo-
di.
Le scoperte psicoanalitiche riguardanti la psicologia infantile sono state puntualmente tradotte in
precetti educativi per genitori ed insegnanti. La maggior parte di questi precetti è in netto contrasto
con quelli tradizionalmente seguiti nell’ allevamento dei bambini : tipico è l’ esempio dell’ istruzione
sessuale infantile che, un tempo ritenuta dannosa e perciò sconsigliata, viene dalla psicoanalisi, dap-
prima energicamente, in seguito con alcune fondamentali cautele (cfr. Anna Freud, Susan Isaacs,
Françoise Dolto), sostenuta e raccomandata.
Compito dell’educatore - scrive Freud - è insegnare al bambino a padroneggiare le pulsioni, poichè
è impossibile lasciare completamente libero di di seguire i suoi impulsi un individuo il cui destino è
la convivenza con i propri simili. Per assolvere il suo compito l’educazione deve esercitare anche un
azione repressiva: non reprimere sarebbe bello ma è impossibile; però proprio “proprio questa re-
pressione delle pulsioni comporta il pericolo della malattia nevrotica”. Il compito dell’educatore è
quindi quello di trovare “una via di mezzo tra la Scilla della permissività e la Cariddi del divieto fru-
strante”, in modo da ottenere il massimo e nuocere il minimo”, dove il “nuocere il minimo” esprime
l’idea che l’educazione nuoccia comunque e che assomigli ad una “passeggiata sulle uova” in cui
l’abilità consiste nel romperne il meno possibile. Non a caso Freud ha scritto che educare è una pro-
fessione impossibile.
Una volta che la pratica educativa tradizionale diventa per la psicoanalisi oggetto di studio, alcuni
aspetti del rapporto educativo vengono meglio compresi ed evidenziati: l’educatore, ed in particola-
re il genitore, tende a proiettare sul bambino il proprio “ideale dell’ Io”, ed introduce così nel rap-
porto educativo tutte le vicende della propria storia e le traversie del confronto tra l’aspetto mega-
lomanico del proprio ideale dell’Io e la severità del suo Super-Io.
La modalità con cui i genitori sviluppano e fanno fronte ai propri “fantasmi”, il loro‘investimento’
del bambino come oggetto narcisistico, provocano diversi atteggiamenti educativi:
1) la coazione a ripetere spinge certi genitori a riprodurre nel rapporto educativo i tipi di conflitto
da loro stessi vissuti; 2) altre volte la loro modalità di identificazione ed il loro Io li inducono a cer-
care di opporsi, negli atteggiamenti educativi, all’immagine dei propri genitori.
2) Anna Freud
Sigmund Freud affida il compito di applicare la psicoanalisi all’ educazione alla figlia Anna, la quale
ha dedicato la massima parte della propria attività professionale all’analisi dei bambini desumendone
la necessità di un impegno pedagogico della psicoanalisi.
Rivolgendosi a tutti coloro che si prendono cura dei bambini - genitori, insegnanti, pediatri - Anna
Freud li invita a riflettere sui loro interventi educativi allo scopo di prevenire quei disturbi nevrotici
dell’ infanzia che poi è così difficile curare. In particolare, mette in guardia gli educatori da un trop-
po precoce “equilibrio” psichico, raggiunto a costo della “calcificazione” delle dinamiche evolutive:
esaudendo prontamente e completamente le aspettative degli adulti, il bambino paga con una soffe-
renza nevrotica più o meno mascherata il suo essere “buono”; per questo Anna Freud invita a non
guardare con eccessivo compiacimento narcisistico i bambini “troppo buoni”: comportamenti infan-
tili precocemente “maturi” possono infatti sottendere funzionamenti psichici nevrotici.
Le scuole psicoanalitiche
Sigfried Bernfeld Vienna 1919 - 1920: Istituto Baumgarten per orfani di guerra ebrei
“Antiautoritarismo e psicoanalisi nella scuola”, 1921
traduzione italiana: Milano, Feltrinelli, 1971
Alexander Neill, formatosi allo studio della psicoanalisi nell’interpretazione radicale di Wilhelm
Reich, dà inizio alla comunità educativa di Summerhill, presso Leiston, nel Suffolk, nel 1921.
Educazione non-direttiva
L’esperienza di Summerhill ha molti aspetti in comune con quella tolstojana, anche se presenta una
riflessione più ampia e organica sul concetto di “non direttività”, nutrita soprattutto da un approc-
cio libertario alla lezione della psicoanalisi freudiana.
Come Rousseau e Tolstoj, Neill crede nella bontà originaria del fanciullo che, se non distorta dal-
l’educazione ne farà un adulto interiormente ricco e capace di essere felice. Il problema dell’educa-
zione è anzitutto rivolgersi all’uomo nella sua integralità, occupandosi non solo della formazione in-
tellettuale ma anche di quella emotiva. L’educazione deve adattarsi alle necessità psicologiche del
bambino, senza pretendere di socializzarlo e moralizzarlo precocemente. O il bambino cresce nel ri-
spetto della sua libertà, o il suo sviluppo psichico risulta bloccato o deviato. L’assenza di imposi-
zione non significa però possibilità di tiranneggiare gli altri. Ciascuno ha il diritto di veder rispettata
la sua libertà personale, per cui ciascuno è libero, ma nel rispetto delle esigenze altrui: “Libertà signi-
fica fare ciò che piace, finché questo non limita la libertà degli altri. Il risultato è l’autodisciplina”.
L’itinerario educativo sarà dunque fondato sull’amore, sull’approvazione, sulla libera attività. A
Summerhill si pratica la coeducazione e non esiste costrizione riguardo alle forme di apprendimento.
La comunità, descritta in “Summerhill, un’esperienza educativa rivoluzionaria” (1960), ospita ra-
gazzi e ragazze tra i conque e i sedici anni ed è organizzata nella forma tipica di una scuola nuova,
con aule, convitto, officine, laboratori ed ampi spazi aperti in campagna. Ragazzi e ragazze sono di-
visi in tre gruppi per età, con un assistente per gruppo. Non esiste costrizione nelle attività di ap-
prendimento. Classi organizzate in base all’età e agli interessi seguono a turno le lezioni dei vari in-
segnamenti: inglese, arte, chimica, matematica, geografia, tenute prevalentemente sotto forma di la-
boratorio. Non c’è obbligo di frequenza, ma la discontinuità fa perdere il contatto con la sequenza
degli apprendimenti e finisce per provocare l’esclusione dal gruppo. I pasti avvengono in modo co-
munitario, e la prima metà del pomeriggio è libera per tutti, mentre dalle cinque si svolgono preva-
lentemente attività di officina e artigianato. La sera, a seconda dell’età, si può andare al cinema, a
ballare, assistere o organizzare spettacoli teatrali, partecipare a conferenze. I dormitori per maschi e
femmine sono separati.
Il sistema di Summerhill presenta naturalmente numerosi problemi: ad esempio i più giovani non
hanno rispetto per la proprietà comune. Va ricordato che molti ospiti di Summerhill sono “ragazzi
difficili”, spesso, a detta di Neill, “figli di genitori ansiosi e nevrotici che trasmettono insicurezza e
infelicità” e che devono ritornare ad essere liberi per trovare, in tempi e spazi congeniali, l’equilibrio
parzialmente compromesso.
Ogni problema viene dunque affrontato, discusso e risolto democraticamente con regolare votazio-
ne nelle assemblee della scuola, che possono proporre e approvare leggi e multe per chi disturba la
comunità. Nono è detto che la soluzione adottata sia la definitiva: verrà corretta, se necessario, in
un’assemblea successiva.
. EDUCAZIONE E PSICOANALISI
Anna Freud (1895 - 1982) direzione della Hampstead Child Therapy Clinic di Londra
Il trattamento psicoanalitico dei bambini (1946) Normalità e patologia nell’infanzia (1965)
analisi dei bambini: impegno pedagogico della psicoanalisi. => sogni, giochi, disegno, attività espressive
prevenire i disturbi nevrotici dell’ infanzia => trovare la via di mezzo tra soddisfacimenti e restrizioni
bambini “troppo buoni” nell’ esaudire le aspettative degli adulti => “calcificazione” delle dinamiche evolutive
comportamenti infantili precocemente “maturi” => funzionamenti psichici nevrotici.
Le posizioni più significative sul tema della creatività, in ambito pedagogico, sono quelle assunte
da J. Dewey, per il quale la creatività è quella forma di intelligenza più duttile nel seguire il divenire
ininterrotto dell’esperienza, che mostra la capacità di “infuturarsi” allentando i legami che la tratten-
gono all’esperienza attuale.
J. S. Bruner considera invece un’azione creativa “qualsiasi atto che produca una sorpresa pro-
duttiva, cioè una modificazione concreta inaspettata nelle diverse attività in cui l’uomo si trova coin-
volto. Tutte le forme di sorpresa produttiva hanno la loro origine in una particolare forma di attività
combinatoria, in un disporre i dati in prospettive nuove. Qualsiasi atto creativo si avvale perciò del
procedimento euristico che ha come momento essenziale l’atto della scoperta: un’operazione di rior-
dinamento e di trasformazione di fatti evidenti che permette di procedere al di là di quei fatti verso
una nuova intuizione”.
G. Calvi, condividendo la tesi di E. P. Torrance secondo cui la creatività cresce in contesti non
autoritari e a misura della riduzione dei controlli, afferma che “l’alunno creativo risulta sempre og-
getto di pressioni che lo inducono a ridurre le prestazioni, perchè le procedure educative hanno in
vista il gruppo omogeneo e si ispirano a valori di uniformità rispetto a cui il crativo è una variabile
imprevedibile. A ciò si aggiunga che gli insegnanti sembrano desiderare la creatività degli alunni, ma
sono spesso nell’impossibilità di favorirla a causa di particolari limiti di personalità” (Calvi G., La
creatività, in Nuove questioni di psicologia, La Scuola, Brescia, 1972).
Sfavorevoli alla creatività sono per Torrance le scuole che si regolano sul programma e non sul cur-
riculum dello studente dove l’acquisizione di contenuti programmati non concede itinerari creativi.
Emile Durkheim: “La sociologia e l'educazione” (1922)
Ai problemi teorici e pratici dell'educazione, Durkheim dedica una viva attenzione nel corso dei
suoi ultimi anni. Nell'affrontare il problema dell'educazione egli tiene fermi due principi: il primo
verte sull'assoluto primato della società sull'individuo; il secondo fa capo ad un'ideologia pregiu-
diziale della natura umana che opporrebbe resistenza all'interiorizzazione dei valori sociali.
Durkheim considera infatti la natura umana tendenzialmente inerte e oppositiva rispetto ai doveri
sociali; anticipando le tesi freudiane del Disagio della Civiltà, arriva alla conclusione che la socia-
lizzazione della natura umana non può prescindere da un certo grado di repressione.
Per Durkheim l'educazione è essenzialmente riproduzione sociale: "Ogni società, considerata ad
un momento determinato del suo sviluppo, ha un sistema di educazione che si impone agli individui
con una forza generalmente irresistibile. (…)Vi è dunque, in ogni periodo, un modello normativo
dell'educazione, dal quale non possiamo discostarci." Ora, i costumi e le idee che determinano que-
sto modello non siamo stati noi, individualmente, a crearli. Sono il prodotto della vita in comune e
ne esprimono le necessità; essi sono, nella maggior parte, opera delle generazioni anteriori. Tutto il
passato dell'umanità ha contribuito a creare questo insieme di massime che inquadrano l'educazio-
ne. L’individuo non può pretendere di ricostruire, col solo sforzo della sua ‘cogitazione personale’,
quello che è frutto dell’opera di tante generazioni che l’hanno preceduto.
Ogni società si forma un certo ideale dell'uomo, di quello che deve essere dal punto di vista intel-
lettuale, fisico e morale; questo ideale è, in una certa misura, lo stesso per tutti i cittadini, ma esso si
differenzia secondo gli ambienti particolari che ciascuna società comprende nel suo seno. E' questo
ideale, contemporaneamente uno e diverso, che costituisce per Durkheim il ‘polo’ dell'educazione.
L’educazione consiste, per il sociologo francese, in una “socializzazione metodica” delle giovani
generazioni. In ognuno di noi, afferma, esistono due esseri: l'uno è fatto da tutti gli stati mentali che
non si riferiscono che a noi stessi e agli avvenimenti della nostra vita personale: è quello che si po-
trebbe chiamare l’essere individuale. L'altro è un sistema di idee, di sentimenti e di abitudini, che
esprimono in noi non la nostra personalità, ma il gruppo o i gruppi diversi di cui facciamo parte. Di
questo genere sono le credenze religiose, le pratiche morali, le tradizioni nazionali o professionali,
le opinioni collettive di ogni genere. Il loro insieme forma l'essere sociale: costituire questo essere
in ciascuno di noi è lo scopo finale dell'educazione.
Spontaneamente l'uomo non sarebbe propenso a sottomettersi ad un'autorità politica, a rispettare
una disciplina morale, ad aver dedizione ad un modello o un ideale e a sacrificarsi: «E' la società
stessa che, a misura che si è formata e consolidata, ha estratto dal suo seno queste grandi forze
morali, davanti alle quali l'uomo ha sentito la propria inferiorità.»
Se la società, afferma Durkheim, modella secondo i propri bisogni gli individui, «può sorgere il
dubbio che questi subiscano per tal fatto un'intollerabile tirannia». Viceversa, in realtà sono essi
stessi interessati a questa sottomissione, perché l’essere nuovo che l’azione collettiva, attraverso
l’educazione, edifica in ciascuno di noi, rappresenta quello che vi è in noi di propriamente umano.
L'uomo, infatti, non è un uomo che perché vive in società: «E' la società che ci fa uscire dal nostro
egocentrismo, che ci obbliga a tener conto di altri interessi che non sono i nostri, che ci ha insegnato
a dominare le nostre passioni, i nostri istinti, a dare loro una legge, ad aver soggezione, a privarci, a
sacrificarci, a subordinare i nostri scopi personali a scopi più elevati».
Durkheim arriva a paragonare l’atto educativo alla suggestione ipnotica: per analogia, si può dire
che l'educazione deve essere essenzialmente un'azione di autorità. L'educazione ha infatti, secondo
Durkheim, lo scopo di sovrapporre, all'essere individualista e asociale che noi siamo alla nascita, un
essere totalmente nuovo, portandoci a superare la nostra natura originaria. Il senso del dovere é per
il fanciullo e per lo stesso adulto lo stimolante dello sforzo per eccellenza. Ma il fanciullo non può
conoscere il dovere che per il tramite dei suoi maestri o dei suoi genitori. Non può sapere quello che
è se non attraverso la maniera nella quale glielo rivelano, mediante il loro linguaggio e la loro con-
dotta. E' quindi necessario che essi siano per lui il dovere incarnato e personificato: “L'educatore –
conclude Durkheim - è il mandatario di una grande persona morale che lo trascende: la società”.
Jacques Maritain: la concezione dell’educazione
Nato a Parigi da una famiglia protestante, Jacques Maritain (1882-1973), discepolo di Bergson, si
laurea alla Sorbona e si converte al cattolicesimo; insegna filosofia all’Istituto cattolico di Parigi e
in seguito negli Stati Uniti, alla Columbia University e all’Università di Chicago. Nel 1925 pubblica
Tre riformatori: Lutero, Cartesio, Rousseau, atto di accusa della scristianizzazione introdotta dal
protestantesimo e proseguita nella modernità fino alla degenerazione sociale contemporanea. Dieci
anni dopo uscirà Umanesimo integrale, la cui soluzione è il ritorno ad un personalismo cristiano di
tipo tomista. Il ruolo dell’educazione nella restaurazione cristiana verrà quindi descritto in Educa-
zione al bivio (1943) e ne L’educazione della persona (1959).
Maritain ritiene che di fronte alla crisi della civiltà contemporanea e dell’educazione, imputabile al
diffondersi del materialismo, del pragmatismo, del sociologismo, occorra una pedagogia nuova, che
sappia ispirarsi a un nuovo umanesimo, capace di rinnovare completamente l’umanità. La proposta
pedagogica di Maritain consiste dunque nel superamento della visione sia individualistico-naturali-
stica, sia sociale dell’educazione, nella ricerca di una filosofia adeguata e nel quadro di un nuovo
umanesimo. Tale umanesimo dovrà fondarsi su una filosofia cristiana, che ha avuto, secondo Mari-
tain, nell’opera di Tommaso d’Aquino la sua migliore sistemazione sul piano pedagogico.
Il tomismo pedagogico di Maritain si esplica nell’affermazione della centralità dell’uomo come
persona, come “universo” a sé stante. Il significato di tale personalismo viene chiarito in Umane-
simo integrale (1936), dove si afferma che «si tratta di passare da un umanesimo antropocentrico,
incentrato solo sull’homo faber, ad uno teocentrico nel quale, tuttavia, il riferimento a Dio non si-
gnifica l’annullamento dell’uomo, ma piuttosto la condizione della sua piena e completa realizza-
zione».
Ad un umanesimo parziale, tutto incentrato sulla tecnica, si contrappone dunque un umanesimo
integrale, disponibile ad accogliere l’uomo in tutte le sue espressioni, in tutti i suoi valori, in tutte le
sue potenzialità.
Per realizzare tale umanesimo integrale, occorre dunque un’ «educazione integrale», la quale porrà
fine «alla discordia tra l’esigenza sociale e quella individuale nell’uomo stesso. Essa deve quindi
sviluppare insieme il senso della libertà e quello della responsabilità, quello degli umani doveri, il
coraggio di affrontare i rischi e di esercitare l’autorità per il bene generale e, al tempo stesso, il ri-
spetto dell’umanità in ogni persona individuale».
L’opera del maestro deve dunque essere regolata da quattro norme fondamentali:
1) incoraggiare e favorire quelle disposizioni fondamentali che permettono al bambino di
svilupparsi nella vita dello spirito;
2) centrare l’attenzione sull’intima profondità della personalità e del suo dinamismo spirituale;
3) unificare, non disperdere, ovvero sforzarsi di assicurare e nutrire l’intera unità dell’uomo;
4) liberare l’intelligenza invece di sovraccaricarla.
Il rispetto dell’allievo, comunque, non presuppone, per Maritain, uno spontaneismo in nome di
presunti interessi o bisogni naturali, poiché egli è convinto che «l’educazione propriamente detta
non comincia che quando il fanciullo si adegua all’educatore, alla cultura, alla verità, al sistema di
valori che egli ha la missione di trasmettergli».
Walter Benjamin: le ragioni dell’infanzia
Con il ‘24 Walter Benjamin dà avvio a un confronto con il mondo dell’infanzia e con la cosiddetta
Kinderliteratur in cui egli si rivela nel ruolo di “educatore”, a un tempo ingegnoso e discreto, e di
studioso di questioni pedagogiche. Si dischiude così un’ulteriore sfaccettatura della caleidoscopica
produzione di Benjamin, sempre abile nel coinvolgersi con grande ginnastica interdisciplinare in
campi estremamente diversi. Non è parso improprio, al riguardo, parlare di un autentico “esperi-
mento” pedagogico (mantenuto peraltro sul piano della scrittura, senza convolgimento in una veri-
fica pratica).
Gli sforzi di penetrare concettualmente l’universo infantile sono documentati, oltre che da una con-
ferenza del 1929 intitolata Letteratura per l’infanzia, dalle recensioni apparse sulla “Frankfurter
Zeitung”, in cui Benjamin ha occasione di esporre le ragioni che sorreggono la sua passione antiqua-
ria, e da un folto gruppo di conferenze radiofoniche, che egli ha letto alla radio, con frequenza quasi
regolare, negli anni compresi tra il 1929 e il 1932. A tali testi andrebbero peraltro affiancate non po-
che pagine della Strada a senso unico e dell’Infanzia berlinese, così come andrebbe ricordato l’amore
per l’opera di Proust; il “luogo” in cui Benjamin ha visto intrecciarsi in maniera straordinaria il mon-
do dell’adulto e quello del bambino.
Nella centralità dell’interesse di Benjamin per le problematiche pedagogiche e per il mondo non an-
cora deformato dell’infanzia e della fantasia creatrice, si potrebbe ravvisare uno spostamento d’inte-
resse dalla “Jugend” alla “Kindheit”, ossia dalla potenzialità della Gioventù a quella dell’Infanzia.
Sul piano giornalistico, l’interesse teorico-pratico per le problematiche dell’infanzia è evidente an-
zitutto in un corpus di brevi scritti che si estendono dal 1924 al 1932 e che si potrebbero radunare
sotto la categoria più generale di “recensioni pedagogiche”. Si tratta di approfondimenti certamente
occasionali, che non vanno intesi come l’elaborazione di una vera e propria teoria pedagogica, ma
che tuttavia risultano indubbiamente stimolanti e ricchi di suggestioni per la stessa pedagogia odier-
na. Di tale corpus fanno parte in primo luogo due recensioni concernenti gli antichi libri per bambini
(Vecchi libri per l’infanzia I e II, 1924); ad esse seguono - quattro anni più tardi - gli articoli Antichi
giocattoli, Giocattolo e gioco, Storia culturale del giocattolo, Abbecedario di cent’anni fa.
Nel ‘29 è la volta di una recensione di un libro di Edwin Hoernie dedicato all’ “educazione proleta-
ria” (Una pedagogia comunista). Nel ‘30 escono tre recensioni: Elogio della bambola, Pedagogia
coloniale, A proposito di un abbecedario. Nel ‘32 esce una recensione - intitolata Pestalozzi ad
Yverdun - di un libro su Pestalozzi di Alfred Zander.
L’interesse di Walter Benjamin per il mondo dell’infanzia presenta una indubbia contiguità con il
suo costante dedicarsi alla passione antiquaria, al “sogno del collezionista”, soprattutto quand’esso
è indirizzato verso ciò che è anacronistico, “invecchiato”, emarginato dalla storia dei grandi eventi.
I collezionisti veri, questi extra-vagantes capaci di frequentare territori altri rispetto alla maledizio-
ne dell’essere utili, orientano il loro sguardo verso scarti-reliquie in cui appare assopito il ricordo di
strati originari che gli uomini del moderno paiono aver cancellato o rimosso. Ogni recupero collezio-
nistico, che è insieme anche un salvataggio, può paradossalmente equivalere a un gesto di sabotaggio:
“La vera, disconosciuta passione del collezionista - si legge in Elogio della bambola - è sempre anar-
chica, distruttiva”. In questo sfondo, il mondo dei bambini appare come il regno in cui la “schiavitù
di essere utili” appare intimamente problematizzato, data la marginalità (se non la totale irrilevanza)
che essi occupano nel sistema produttivo degli adulti.
Di qui discende la quasi programmatica resistenza benjaminiana a “crescere”, il suo voler restare
dalla parte delle fate e die bambini anziché da quello dei benpensanti, degli adulti cresciuti in modo
sbagliato. I destinatari specifici degli scritti benjaminiani sulla lettereatura per l’infanzia sono non
tanto i bambini, quanto piuttosto gli adulti, e ciò non solo perchè egli è convinto che “i bambini pos-
sono educare gli educatori attenti”, ma perchè l’attingere alle macerie del dimenticato e al forziere
magico dell’infanzia si direbbe si configuri - nell’extra-vagare benjaminiano - come un semplice pre-
testo per strappare quegli scarti della tradizione culturale al conformismo che tende a sopraffarli.
Alleandosi con i bambini, nel cui linguaggio, nel cui gioco e nel cui rapporto con le parole, immagini
e colori egli scorge le tracce di una segreta, quasi edenica felicità, Benjamin mira soprattutto a sot-
trarre tali testi all’universo di certezze dei benpensanti. In tal senso i libri per bambini, quando in
essi non sia intervenuta l’impronta moraleggiante, restano una sorta di testo sacro, un luogo in cui
alberga quella promessa di felicità che tanti adulti hanno smarrito o tradito, e al quale i bambini pos-
sono aderire grazie a una fantasia senza grammatica, capace di veder adunarsi parole in sempre nuovi
“costumi”. Nel bambino scatta cioé una sorta di gioiosa e giocosa identificazione mimetica, tanto più
con il libro illustrato, con la lettura degli abbecedari e con le immagini colorate, che rappresentano
per lui il primo ingresso nel mondo del racconto e un momento di autoliberazione e vittoria sulla
paura.
Se i grandi, incapaci di “restar fedeli” ai paesi delle fiabe che hanno permeato i loro cuori di bambini
e di portare a “compimento” nell’esistenza adulta i desideri espressi da piccoli, appaiono a Benja-
min ormai vivere mutilati della loro infanzia, i bambini, in quanto portavoce della speranza delle ge-
nerazioni gli sembrano esposti alla minaccia di dover vivere esclusivamente in modo infantile.
Mentre l’adulto borghese è par excellence un accumulatore di cose da fruire, il bambino - nella nobil-
tà di intenzioni che Benjamin gli attribuisce - mira a goderle e a gustarle, da vero seigneur quale il
benpensante invece non sa essere. I bambini sanno accettare di essere guardati dalle immagini, anzi-
ché piegarle al proprio utile. Assistono al libero fluire e parlare delle immagini, al dipanarsi del mon-
do quasi riposante in se stesso, alle suggestioni che scaturiscono dalle cose-giocattoli o dai giocattoli
stessi, se ne lasciano permeare, in uno spontaneo travasarsi in essi tramite il gioco, sì da trasformare
a propria misura gli oggetti del loro amore. I bambini appaiono coinvolti dalla dialettica tra accettare
e trasformare: accettare le leggi del diverso, del gratuito, del divertente, che tralucono dai libri di figu-
re; trasformare e rovesciare istintivamente i materiali con cui la loro prima esperienza storica li chia-
ma a confronto: colori, lettere, figure, cui la loro fantasia - instancabile - sembra lasciare in serbo
sempre nuove combinazioni. i bambini paiono condotti da due costanti della letteratura fiabesca
quali l’esagerazione e la ripetizione. Grazie all’esagerazione essi parrebbero infatti capaci di sfuggire
in qualche modo alle violenze di adulti che propinano o destinano loro storie atroci come quelle nar-
rate nel celebre Pierino porcospino (1845) di Heinrich Hoffmann. Grazie poi alla dinamica della ri-
petizione (il “racconta di nuovo!”) sia il bambino che l’adulto sono messi in condizione di porsi
oltre il terrore e sottrarvisi.
Contro i terrorismi pedagogici, o comunque contro la “corsa” affannosa ad additare “mete” ai bam-
bini o a sciorinar loro “un sapere prefissato”. Benjamin non manca di entusiasmarsi - tra gli scarti da
lui amorevolmente raccolti - per quegli abbecedari, sillabari, o libri di lettura in cui risulti evidente la
preoccupazione di “tutelare la sovranità di chi gioca, di non fargli sprecare energie nei contenuti di-
dattici e di bandire il terrore con cui le prime cifre o lettere così volentieri si piantano come un fetic-
cio davanti al bambino”. In quest’ottica neo-illuministica, non sorprende che i bambini vengano da
Benjamin investiti di un ruolo centrale ai fini di un programma di rinnovamento socio-culturale che
non potrà certo limitarsi agli aspetti pedagogici. É questo il tratto distintivo che il saggista berlinese
rinviene anche nel collezionismo praticato dai bambini, i quali - notoriamente - sono irresistibilmente
attratti da ciò che rimane dei lavori di muratori, sarti, falegnami, e riescono a tramutarli in oggetto di
gioco. Non a caso un appunto dei Passagen-Werk (I “Passages” di Parigi) ribadisce che Kinderbü-
cher (libri per bambini), figure e illustrazioni consentono, a chi con intelligenza colleziona scarti di
qualità , di “prendere posizione” nella “lotta contro la distrazione e di guardare il mondo con occhi
sgranati, da autentico puer.
Nella difesa delle ragioni dell’infanzia, Benjamin attacca ferocemente e rigetta quella che passa sot-
to il nome di “pedagogia coloniale”, un sistema educativo volto - a suo giudizio - a stravolgere la
“delicata e riposta” fantasia del bambino. Offrendo indicazioni di rotta quantomai preziose anche
oggi, Benjamin scrive in proposito nella sua magistrale recensione dal titolo Pedagogia coloniale:
“La delicata e chiusa fantasia del bambino viene intesa senza scrupoli di sorta, come domanda psi-
cologica nel senso di una società produttrice di merci, e in essa, con squallida disinvoltura, l’educa-
zione viene considerata come lo sbocco coloniale per lo smercio di beni culturali”. Questo testo è un
vero e proprio atto di condanna della società dei consumi, che sfrutta la fantasia del bambino a fini
meramente commerciali. Alla “pedagogia coloniale” Benjamin vorrebbe veder sostituita piuttosto
un’educazione che esuli dai valori individualistici dominanti e che abbia invece un’ “autorità” nel
“collettivo”, in frontale opposizione comunque rispetto alla pedagogia degli anni Venti che mira a
preservare i bambini dal mondo conflittuale dei “grandi” mantenendoli entro una campana di vetro.
Anche rileggendo il giocattolo egli non manca di metterne in evidenza la funzione di collegamento tra
l’individuo e la realtà che lo circonda. In tale direzione si muove soprattutto il suo scritto Una peda-
gogia comunista, nel quale lo scrittore berlinese auspica che nei bambini stessi venga favorita una
presa di coscienza delle condizioni sociali in cui essi sono chiamati a svilupparsi, compresi lo sfrut-
tamento e l’oppressione da cui essi possono essere interessati, poichè è insostenibile che l’infanzia
resti assolutamente immune dalle contraddizioni in cui si dibattono gli adulti: soltanto se ciò avvie-
ne, è possibile affermare che la pedagogia proletaria garantisce loro il “compimento” della loro infan-
zia. Nel senso di questa “politicizzazione” dei fattori educativi, si muove anche il Programma per
un teatro proletario dei bambini. Il teatro qui prefigurato, è concepito come uno spazio scenico di
rappresentazione concreta della vita nel suo fluire e nelle sue illimitate variazioni, come un luogo
storicamente determinato di educazione, alternativo all’individualismoe all’idealismo, un teatro che
diventa “rappresentativo di un mutato rapporto fra adulti e bambini” (E. Fachinelli).
Il folto gruppo delle “narrazioni radiofoniche” con cui il saggista berlinese si rivolge ai ragazzi “dai
dieci ai quindici anni”, nella cosiddetta “Ora dei ragazzi” della durata compresa tra i venti e trenta
minuti, confermano la centralità dell’interesse benjaminiano per le problematiche pedagogiche e per
il mondo non ancora deformato dell’infanzia e della fantasia creatrice, posto al centro delle proprie
costellazioni simboliche e recuperato con stupore e reverenza in chiave materialistica e antiidealisti-
ca. Garbato e ingegnoso collezionista di storie e di aneddoti adatti alla logica dell’ascolto, nella mez-
z’oretta di splendido intrattenimento Benjamin si rivela un micro-narratore capace di informare e
intrattenere con la spigliatezza di chi conosce alla perfezione le nuove possibilità tecniche dischiuse
dalla radio. Sa ammannire curiosità ed erudizione con il tono di uno zio che abbia molto viaggiato,
condendolo qua e là con il ricorso ad effetti stranianti à la Brecht e con l’occhio guardingo e disin-
cantato del perlustratore del Moderno nelle sue ambivalenze. Ogni micro-narrazione diviene il veico-
lo di un messaggio rivolto a fruitori impalpabili, inafferrabili, a ragazzi per i quali può essere perti-
nente, a tutti gli effetti, l’appellativo di “Stimati invisibili!” che apre la conferenza Letteratura
per l’infanzia. Il filo rosso che lega queste micro-narrazioni è, non a caso, un discreto, ininterrotto
illuminismo di sottofondo che sembra protrarre nel XX secolo le tonalità critico-didat-tiche del
XVIII. Fedele al procedimento della mescolanza (o di montaggio) di elementi eterogenei, al sapiente
assemblaggio di esperienze dirette, descrizioni, citazioni, commenti riflessioni, Benjamin mira, in
fondo, a promuovere grazie ad esse una sorta di singolare e stimolante “illuminismo per ragazzi”.
L’intento appare quello di divertire insegnando (delectando docere), secondo un modello caro alla
stessa drammaturgia di Bertoldt Brecht, al quale il critico berlinese si stava interessando proprio in
quegli anni. Non deve sorprendere tale vigilanza laico-illuministica su un terreno quasi vergine qual è
il mondo della formazione di ragazzi e adolescenti, estremamente esposto alle mire di una vera e
propria “pedagogia coloniale”. A questo riguardo, anche le vivaci e sapienti chiacchierate di Benja-
min alla radio, si pongono come un autentico antidoto a una educazione considerata come il sempli-
ce “sbocco coloniale” per lo “smercio” di istanze culturali che si prefiggono tutt’altro che il fine di
risvegliare l’autonomo sguardo e il giudizio di chi ascolta (o legge).
Per Benjamin, non si tratta di mediare delle conoscenze manipolando più o meno crudamente le
giovani coscienze degli ascoltatori, ma di destare curiosità inducendo nei ragazzi una propria “capa-
cità di osservazione”. Si tratta, in fondo, di agire criticamente quasi con la discrezione maieutica del-
l’Haskalah, dell’Illuminismo ebraico, del maestro che addensa problemi, difficoltà e suggestioni ri-
manendo il più possibile nell’ombra, quasi cancellando se stesso, affinchè sia l’allievo a rifulgere tro-
vando il proprio personale cammino verso il vero. Benjamin sembra suggerire che forse proprio in
questo modo è possibile condurre gli “egregi invisibili” al conoscere e all’apprendere in prima perso-
na, rendendoli vigili dinanzi al grande aperto della vita, alle soglie della “foresta dell’età virile” (im-
magine presente nell’Infanzia berlinese).
Benjamin non esita - invitando i bambini a guardarsi dall’impostura - a misurarsi in modo ironico e
scanzonato con il mondo della magia e del demonico (il Faust goethiano, Cagliostro, i racconti di
Hoffmann). Facili bersagli di un illuminismo antiautoritario sono il polo dell’insegnamento scolasti-
co tradizionale e la figura del “maestro di scuola” con le sue certezze preconfezionate.
In senso più propositivo, Benjamin non tralascia neppure l’opportunità di far apprendere preziosi
elementi sullo sviluppo della tecnica industriale (Visita a una fonderia dell’ottone).
Agli “egregi invisibili” non vengono poi risparmiate storie “di oppressi, perseguitati e prigionieri”
(come ad esempio i detenuti del carcere francese della Bastiglia o il trovatello Caspar Hauser), oppu-
re li introduce in realtà scabrose come la camorra napoletana o le antiche bande di briganti e banditi
in Germania, visti come mitici riparatori di torti. O, infine, ripercorre per loro l’esperienza del boot-
leggers americani, ossia dei contrabbandieri di bevande alcoliche che negli anni Venti e nei primi anni
Trenta hanno sfidato la prohibition e il puritanesimo: Benjamin sa bene che le sue scelte tematiche
dovranno misurarsi con le obiezioni del mondo adulto; all’inizio della trasmissione sui contrabban-
dieri egli rende esplicito l’inevitabile interrogativo che gli par di veder spuntare sulle labbra di certi
genitori , che si interessano della questione “se sia o no il caso di raccontare simili storie ai bambini”.
Sintesi da: GIULIO SCHIAVONI, Walter Benjamin. Il figlio della felicità. Un percorso biografico e
concettuale. Einaudi, Torino 2001
JEROME SEYMOUR BRUNER: OLTRE LA SCUOLA ATTIVA
Nel panorama della cultura americana della seconda metà del XX secolo, J. S. Bruner è stato il
fondatore dello strutturalismo educativo. Se il pragmatismo deweyano e il modello delle Scuole
Attive aveva dominato lo scenario educativo americano fino agli anni sessanta, Bruner rappresenta
il cosiddetto “dopo Dewey”. Nato a New York nel 1915, J. S. Bruner è stato docente di psicologia
ad Harvard, disciplina dove si era formato alla scuola del Funzionalismo, della Gestalt e del
Comportamentismo. Dopo le prime ricerche di psicologia sociale, dagli anni ‘50 Bruner si è
occupato costantemente di processi percettivi e dell’influenza dei fattori sociali nello sviluppo
cognitivo. Il suo nuovo indirizzo di ricerche, che contrastava il comportamentismo pragmatista, fu
chiamato New look on perception. Nel 1960, Bruner si impegnò in nuovi ambiti di ricerca psico-
pedagogici. Le sue ricerche in questo campo avevano una motivazione politico-educativa: il lancio
del primo Sputnik sovietico, avvenuto nel 1957, aveva evidenziato un ritardo tecnologico degli Stati
Uniti rispetto all’Unione Sovietica. Questo aveva portato la società americana a riflettere
sull’effettiva funzionalità del sistema scolastico statunitense, ancora fondato sul modello attivista.
L’attivismo era - per Bruner – eccessivamente concentrato sugli interessi e i bisogni spontanei degli
alunni, troppo “puerocentrico”. Da ciò deriverebbe lo scadimento dei livelli d’istruzione. Così nel
1959, l’Accademia Nazionale delle Scienze si riunì a Woods Hole per migliorare e rendere più
efficienti i programmi scolastici e i metodi di insegnamento. La conferenza fu presieduta da Bruner.
Esito della conferenza fu l’uscita nel 1960 del rapporto di revisione del sistema scolastico con il
titolo The process of education. La nuova proposta psico-pedagogica contenuta nel rapporto fece
presto il giro del mondo e nel decennio che seguì Bruner continuò ad approfondire la sua ricerca
pedagogica nel filone della psicologia cognitiva. Le principali opere pedagogiche di Bruner sono:
Dopo Dewey. Il processo di apprendimento nelle due culture (1964); Lo sviluppo cognitivo (1966);
Il conoscere. Saggi per la mano sinistra (1968); Il significato dell’educazione (1971); Verso una
teoria dell’istruzione (1991); La cultura dell’educazione (1996).
Nell’analisi dei processi di apprendimento, Bruner parte dalla prospettiva di Jean Piaget, per
cercare successivamente di “ampliarne” le posizioni teoriche con la decisiva influenza dei fattori
socio-culturali rispetto a quelli genetici. Secondo Bruner, Piaget si è limitato a spiegare
l’apprendimento come processo di maturazione delle strutture mentali (fisiologismo/biologismo),
trascurando la dimensione socio-culturale, che può agevolare la crescita e il potenziamento dello
sviluppo. Per Bruner gli stadi di sviluppo non sono collegati solo all’età, i fattori ambientali
possono influenzare lo sviluppo sia positivamente che negativamente, determinando anticipazioni o
ritardi. Secondo Bruner tutto può essere insegnato a tutti in qualsiasi età, purché il contenuto sia
tradotto in forme di rappresentazione adatte; è possibile accelerare i processi di apprendimento,
quindi non è mai troppo presto per introdurre l’alunno nel mondo del sapere: «Si può insegnare
qualunque cosa in forma onesta a chiunque in qualsivoglia età, proprio perché qualunque idea può
essere tradotta in modo corretto e utile nelle forme di pensiero proprie del fanciullo di età
prescolastica. Queste prime rappresentazioni possono essere in seguito riprese, approfondite e
precisate meglio». Bruner condivide l’opinione della Montessori, secondo cui il momento più
produttivo per l’apprendimento della lettura e della scrittura è quello dei periodi critici o sensitivi,
tra i tre e i quattro anni. In quella fase dello sviluppo, il fanciullo è capace di assorbire tutte le
informazioni diffuse nell’ambiente; e lo fa inconsciamente, senza compiere alcuno sforzo. Bruner
nel processo educativo attribuisce un ruolo di fondamentale importanza all’ambiente familiare,
sociale e scolastico frequentato dall’alunno. Nell’era di un avanzato processo di sviluppo industriale
e tecnologico, non è più opportuno aspettare la fioritura e la spontanea maturazione dell’alunno,
intorno ai sei anni di età, per iniziare il normale processo di alfabetizzazione. A quell’età è già
troppo tardi e molte strutture mentali si sono ormai consolidate, perdendo la naturale plasticità degli
anni precedenti. Bruner dà molta importanza al linguaggio inteso come mezzo per interiorizzare le
esperienze, e all’insegnamento: sostiene infatti che si possa insegnare al bambino qualsiasi cosa,
basta tener conto delle sue capacità attuali di elaborare il messaggio. Pertanto spetta all’istruzione
precedere, accompagnare e dirigere il processo di sviluppo. Bruner pensa che le fasi dello sviluppo
cognitivo infantile – formulate da Piaget in maniera piuttosto rigida - possano essere anticipate,
accelerate, guidate dall’intervento educativo esterno, operato attraverso l’istruzione.
1941 Harvard Ph.D in psicologia 1952 “cognition project”: processi percettivi / influenza dei fattori sociali
nello sviluppo cognitivo New look on perception.
1957 lancio del primo Sputnik sovietico: ritardo tecnologico degli Stati Uniti rispetto all'Unione Sovietica:
critiche all'attivismo, responsabile dello scadimento dei livelli d'istruzione.
1959 Woods Hole conferenza per rendere più efficienti i programmi scolastici e i metodi di insegnamento.
1960 The process of education rapporto di revisione del sistema scolastico.
1972: Oxford University approfondimento della ricerca pedagogica nel filone della psicologia cognitiva.
Dopo Dewey. Il processo di apprendimento nelle due culture (1964); Lo sviluppo cognitivo (1966);
Il conoscere. Saggi per la mano sinistra (1968); Il significato dell'educazione (1971);
Verso una teoria dell'istruzione (1991); La cultura dell'educazione (1996).
Dewey vs Bruner
metodo implicito nello sviluppo del fanciullo sviluppo mentale => discontinuo stadi pause avanzamenti
farsi guidare dai suoi bisogni e interessi padroneggiare le tecniche della propria cultura
ritmo dato dal fanciullo stesso importanza dell’ambiente accelerazione sviluppo
Piaget vs Bruner
insegnamento a spirale
accelerare i processi di apprendimento
ripresa dei contenuti via via approfondendoli
e traducendoli «in forme di pensiero congrue all'età»
(Comenio: ciclicità)
Tecnologie educative, scolarizzazione di massa, critica della scuola.
Verso la metà degli anni sessanta le linee di ricerca dei temi dell’educazione mostravano alcuni temi
emergenti: il discorso della scuola attiva che, nelle sue varie correnti e nelle sue realizzazioni, aveva
dominato la scena pedagogica per alcuni decenni, era in declino; le sue tesi fondamentali erano diven-
tate luoghi comuni generalmente acquisiti, trovando una elaborazione scientifica - ed un contempora-
neo superamento - nell’ambito della psicologia dell’età evolutiva: la “spontaneità” del bambino usci-
va dalla genericità per essere ripensata come struttura psicologica in divenire che, nella sua interazio-
ne con l’ambiente acquisiva forme sempre più articolate di organizzazione della mente.
Questa prospettiva metteva in primo piano il problema dell’apprendimento: venivano avviate ri-
cerche sempre più raffinate relative alla tecnologia dell’istruzione, con l’utilizzo di strumenti e sus-
sidi materiali (uso di “macchine per insegnare”, l’introduzione degli audiovisivi, ecc). che alteravano
l’antico rapporto orale tra maestro e allievo.
Nasceva così la ricca problematica relativa alla sperimentazione pedagogica, che comportava la
determinazione di finalità educative scientificamente controllabili, la determinazione dei mezzi per
conseguirle, il controllo scientifico del loro rapporto.
Questi modelli di cultura pedagogica indicavano livelli molto elevati di specializzazione dei pedago-
gisti e sottointendevano un ideale di massimizzazione dell’efficienza dell’apparato educativo.
L’elemento che relativizzava questa direzione della ricerca veniva dalla riflessione più generale sulle
condizioni e sui livelli educativi esistenti nel mondo, quindi il mondo del sottosviluppo, della pover-
tà, della fame. Tradotto in termini di risorse questo raffronto conduceva ad una drammatica conside-
razione: il modello educativo esistente nei paesi occidentali impegnati nella “scolarizzazione di mas-
sa” non avrebbe mai potuto essere ripetuto nei paesi del sottosviluppo perchè i mezzi economici a
disposizione (già limitati in molte nazioni del vecchio continente, Italia compresa) non lo consenti-
vano nel modo più assoluto. Occorreva immaginare modelli educativi diversi per i nuovi paesi emer-
genti.
Questo clima intellettuale, caratterizzato da un elevatissimo livello tecnico dell’elaborazione peda-
gogica e da un grave sospetto sulla validità dei modelli occidentali considerati in una prospettiva
planetaria, venne investito da una serie di prospettive critiche che riguardavano il significato sociale
dell’educazione, considerato come obiettivo dell’istituzione scolastica, il valore dell’educazione co-
me progetto adulto che investe il mondo infantile, il rapporto tra maestro e scolari.
L’analisi marxista della educazione come fattore di trasmissione della cultura dominante si integra-
va con la tendenza, propria della psicoanalisi, ad individuare nella forma scolare dell’istruzione una
riproduzione degli elementi psicologicamente negativi tipici della famiglia.
Tali linee ideologiche comparivano talvolta anche all’interno delle forme di solidarismo e di moralità
proprie della cultura cristiana, tendenti a declinare la critica dell’educazione scolare nel senso dell’al-
largamento dell’istruzione e della scolarizzazione, in direzione delle classi più svantaggiate.
Don Lorenzo Milani, sacerdote e educatore, sceglie di dedicare la propria vita e il proprio sacerdo-
zio all’educazione popolare. Antimilitarista convinto, prete e intellettuale “scomodo”, istituisce la
sua prima scuola popolare a San Donato, presso Prato, nei primi anno ‘50. Trasferitosi nel 1954 a
Barbiana, nel Mugello, apre una seconda scuola popolare, caratterizzata dall’adozione del tempo
pieno, dal lavoro di gruppo, dalla consapevolezza politica e civile. La pubblicazione di Lettera a una
professoressa (1967) rende celebre la scuola di Barbiana, suscitando numerose polemiche a cui l’au-
tore non potrà rispondere a causa della morte prematura.
L’esperienza di Barbiana
Don Milani decide di fondare una scuola popolare dopo aver maturato la convinzione che la scuola
sia un diritto di tutti, e che questo diritto, nonostante la Costituzione italiana lo ribadisca, non venga
effettivamente fruito dai poveri. Per questo, nella scuola di Barbiana egli cerca di offrire ai montanari
del Mugello la possibilità di accedere a quegli strumenti intellettuali che sono indispensabili per es-
sere cittadini. Egli non intende adeguare i giovani agli schemi delle classi dominanti, bensì tutelare la
loro identità culturale. Secondo don Milani la povertà è portatrice di valori evangelici che vanno di-
fesi mediante un’educazione civile e non confessionale, per farne i fattori determinanti per una so-
cietà più giusta. Questo implica che non possa esistere una scuola uguale per tutti. La scuola che si
dichiara tale è, nei fatti, scuola della classe dominante. La scuola popolare deve rivendicare la pro-
pria diversità.
A Barbiana si richieda serietà e impegno: non si tratta di una scuola “facile, ammiccante, disimpe-
gnata, solo formalistica”; essa non prevede né ricreazione, né giochi. Don MIlani guida la classe con
carisma, ma anche come leader direttivo e indiscusso. La disciplina può essere dura, perché l’obietti-
vo della “coscientizzazione” viene giudicato troppo importante perché si possa evitare di ricorrere a
punizioni (anche corporali) comunque meno gravi di quelle che la scuola pubblica infligge con la boc-
ciatura o con l’emarginazione sociale. Don Milani si sente padre dei suoi ragazzi e come tale agisce.
Nodo centrale di tutta l’educazione è, per don Milani, la conoscenza della lingua e la sua padronan-
za, che permette ai membri delle classi popolari di inserirsi alla pari nella società di quanti detengono
il potere servendosi di un linguaggio elaborato. La lingua deve dunque essere il cuore della didattica e
va valorizzata in tutte le sue possibilità espressive, in modo che aiuti a sviluppare la capacità di leg-
gere il presente e giudicare la realtà con un approccio critico, da diversi punti di vista. Per quanto ri-
guarda la scrittura, è necessario “scrivere come si parla”, perché le forme del linguaggio scritto servo-
no spesso a occultare la verità e a escludere dalla fruizione dei testi una larga fascia sociale che, pur
essendo alfabetizzata, non è in grado di comprenderli. Il punto di partenza è, come in altre “didatti-
che della povertà” (Tolstoj, Pestalozzi), l’esperienza diretta della classe o dell’ambiente.
L’esistenza, le relazioni, l’ideale comunitario, la creazione di gruppi, il lavoro, il rifiuto della pedago-
gia accademica sono ciò che caratterizza l’attività di Barbiana. Non ci sono né voti, né promozioni,
né bocciature. Non esistono classi e ognuno può procedere con tempi e ritmi individuali. Si attua il
mutuo insegnamento e si criticano i libri di testo tradizionali.
Un aspetto particolare della didattica di don Milani concerne l’ “arte dello scrivere”. Il momento
della preparazione consiste nella scelta, nell’organizzazione e nella stesura collettiva dell’argomento
per una delle famose Lettere che la scuola indirizza al mondo esterno. Il momento della “discussio-
ne” (che può anche durare mesi) è costituito invece dalla “ripulitura” (sempre collettiva) dello scrit-
to di tutti gli aspetti inutili, che ne limitano la comprensione, e dalla revisione che ne precede l’invio.
Nascerà così la celeberrima Lettera a una professoressa.
Lo spunto per la stesura della Lettera a una professoressa è fornito dalla bocciatura di un alunno
della scuola di Barbiana, Gianni, all’esame esterno per accedere alla scuola media. Questo evento
porta i ragazzi di Barbiana a denunciare la concezione classista della scuola italiana, in contrasto con
la Costituzione e con le finalità di democrazia che la formazione della scuola media unica avrebbe
dovuto perseguire. La “professoressa” del titolo è l’emblema dell’insegnante-burocrate, insensibile
ai problemi di quegli alunni che si trovano in difficoltà perché condizionati dai problemi relativi al
retroterra socio-culturale di appartenenza, dell’insegnante cieco di fronte alle richieste di aiuto da
parte di chi vede leso il proprio diritto allo studio solo perché non all’altezza degli standard che altri
hanno stabilito, e infine dell’insegnante indifferente alla necessità di trasformare la scuola da luogo di
formalismi e “purezza” culturale a contesto di formazione concreta di cittadini inseriti in una realtà
storica.
IVAN ILLICH
Descolarizzare la società (1971) e Distruggere la scuola (1972) sono due titoli estemamente signi-
ficativi di una tendenza “antiscolastica” che non ha avuto in Ivan Illich (Vienna, 1926 - Brema 2002)
il suo unico rappresentante, ma che certamente lo vede come il più noto.
Nato in Austria da padre croato e da madre ebrea sefardita, Illich è stato uno scrittore, storico, pe-
dagogista e filosofo. Il suo essenziale interesse fu rivolto all'analisi critica delle forme istituzionali in
cui si esprime la società contemporanea, nei più diversi settori (dalla scuola all'economia alla medici-
na), ispirandosi a criteri di umanizzazione e convivialità, derivati anche dalla fede cristiana, così da
poter essere riconosciuto come uno dei maggiori sociologi dei nostri tempi. Nella sua opera di edu-
catore e teorico presso il Centro intercultural de documentaciòn di Cuernavaca (Messico), Illich ha
dato il via a una corrente di pensiero fortemente critica e polemica nei confronti della società e della
scuola contemporanea. Illich è considerato la bandiera del movimento della “descolarizzazione”.
La critica
Secondo Illich si assiste “alla fine dell’era della scolarizzazione”, perché la scuola è ormai incapace
di nascondere alla società quello che è il suo male di fondo: la discrepanza tra il mito dell’uguaglianza
che alimenta, e la disuguaglianza che di fatto produce. La scuola è inevitabilmente centro di riprodu-
zione dell’ideologia oppressiva del potere sociale e politico: non è possibile riformarla, va abolita.
La critica della scuola è radicale: essa “vende” un programma prodotto e confezionato da “esperti”,
come se si trattasse di una merce qualsiasi. L’insegnante è un distributore e l’allievo un consumatore
di prodotti che servono a condizionare e indottrinare quest’ultimo.
La scuola ha inoltre un “programma occulto” con cui mira ad accreditarsi quale unica fonte di pro-
mozione e di successo sociale: essa inculca all’alunno la passività, lo costringe a valutarsi in relazio-
ne all’efficacia del proprio percorso scolastico, lo induce al consumo “obbligatorio e competitivo”.
La scuola è il centro stesso del sistema di riproduzione sociale. L’eliminazione della scuola mette-
rebbe in crisi questo sistema creando una società più libera: progetto pedagogico e progetto rivolu-
zionario trovano qui il loro punto d’unione.
L’alternativa
Occorre dunque sostituire la scula con momenti di formazione alternativi, immersi nel sociale, in
modo che l’educazione dell’individuo avvenga a diretto contatto con l’esperienza e si svolga in mo-
do più umano e più libero. Illich postula così la creazione di una rete di strutture educative aperte,
organizzata in quattro servizi fondamentali:
a) negozi e ambienti per l’apprendimento formale (dalle biblioteche ai laboratori, dalle sale-spetta-
colo alle teaching-machines ai circuiti TV ) affiancati da strutture sociali, come fabbriche, botteghe,
dove invece è possibile apprendere direttamente tramite l’esperienza;
b) iniziative di raccordo per mettere in contatto chi insegna e chi desidera imparare, anche per po-
ter effettuare scambi di competenze;
c) socializzazione libera, mediante la formazione di gruppi di lavoro riuniti intorno ad un interesse
comune;
d) creazione di un “annuario degli educatori”, in modo che chi ritiene di aver bisogno di un “esper-
to” possa mettersi in contatto con lui e ottenerne le prestazioni.
L’idea guida di questo progetto implica la possibilità che gli individui possa no liberamente sceglie-
re come e quanto fruire delle diverse offerte educative, ma anche che la società si trasformi, per di-
ventare sempre più un luogo di contatto, di confronto e di scambio alla pari, all’insegna di una “nuo-
va convivialità” come fonte di democrazia.
Paulo Freire: la pedagogia degli oppressi
1
L’attività di problem posing consiste nel concettualizzare un problema, mediante una riflessione
sulla situazione problematica nella quale l’allievo s’imbatte.
Tecnologie educative, scolarizzazione di massa, critica della scuola.
Paulo Freire (Recife, 1921 - São Paulo, 1997) La pedagogia degli oppressi (1968)
1946 Nordeste lavoratori adulti: alto tasso di analfabetismo
educatori-coordinatori => inventario dell'universo lessicale dei gruppi con cui si deve lavorare
elaborazione di schede (promemoria) che facilitino il dialogo e l'inquadramento delle situazioni-problema
1. alfabetizzazione 2. coscientizzazione
presentazione di parole generatrici capacità critica (dialogo comunitario)
collegate ai contesti di vita coscienza della condizione di oppressione e
dialogo e riflessione consapevole della possibilità che le masse diventino popolo,
problem-posing: opinione pubblica consapevole, uomini e donne
concettualizzare un problema, protagonisti della propria storia.
mediante una riflessione
sulla situazione problematica 3. liberazione o umanizzazione degli oppressi
nella quale l'allievo s'imbatte prassi: azione legata alla riflessione
utilizzo di quadri situazione praxis rivoluzionaria vs attivismo (azione per l'azione)
immagini raffiguranti situazioni note parola: azione + riflessione = dialogo
(ad es. contadini intenti a lavorare vs “verbosità (flatus vocis) alienata e alienante”
un terreno privo d'acqua)
scuola
mito dellʼuguaglianza / produzione di disuguaglianza
centro di riproduzione dellʼideologia oppressiva del potere politico
b) iniziative di raccordo tra chi insegna e chi desidera acquisire particolari competenze
povertà = portatrice di valori tutelare lʼidentità culturale (vs cultura delle classi dominanti)
1967“Lettera ad una professoressa” -> denuncia della struttura classista della scuola media
(testo 137 ”lʼantipedagogia di don Milani”) professoressa => insegnante-burocrate
CARL ROGERS: la pedagogia non-direttiva
Carl Rogers (Chicago, 1902 - La Jolla, California, 1987), psicologo statunitense, si forma tra
diverse influenze: dalla cultura religiosa al pensiero umanistico, alla psicoanalisi, all’attivismo
deweyano. Impegnato professionalmente nel recupero di giovani disadattati e nel lavoro terapeutico
individualizzato, Rogers elabora il principio della «terapia centrata sul cliente», che influenzerà la
successiva pratica psicologica clinica e che egli giudica utilizzabile anche nell’attività educativa.
La psicoterapia umanistica rogersiana (La terapia centrata sul cliente, 1951; Psicoterapia e
relazioni umane, 1970) è fondata su una considerazione unitaria (“olistica”) della persona: lo
sviluppo della personalità individuale è influenzato dell’ambiente sociale sia positivamente che
negativamente: nel primo caso, il bambino viene messo nelle condizioni di riconoscere con
autenticità i propri desideri e le proprie motivazioni e di agire in base ad essi, sviluppa un sé
positivo che lo porta a maturare un buon livello di autostima e lo conduce all’autorealizzazione; nel
secondo caso, il bambino può sperimentare l’ «affetto condizionato», essendo costretto ad accettare
come propria una serie di desideri e motivazioni altrui; in tal modo sviluppa un sè negativo, un
falso sé, che lo spinge a ripudiare la propria natura ed a reprimere gli aspetti autentici di sé.
Il terapeuta deve dunque creare un ambiente facilitante, un clima di accettazione incondizionata e
apertura totale, che conduca il paziente ad una correzione della percezione di sé e ad un aumento
dell’autostima; egli deve essere empatico e mantenersi, a sua volta, autentico, evitando ogni
mascheramento professionale e lasciando fluire emozioni e stati d’animo propri. A questo scopo il
terapeuta utilizza il colloquio non direttivo, affidato a tecniche quali: l’intervento a specchio, la
sintesi-parafrasi, e la «riflessione dei sentimenti».
In Libertà nell’apprendimento (1971), Rogers distingue tra un apprendimento artificiale “dal collo
in su”, fatto di contenuti privi di significato per l’individuo e imposti dall’esterno, e un apprendi-
mento significativo, spontaneo, che nasce dall’esperienza e dai processi vitali dell’individuo. Questo
secondo tipo di apprendimento comporta una partecipazione globale della personalità, è automoti-
vato e incide profondamente sul soggetto. La teoria rogersiana dell’apprendimento si organizza in-
torno all’idea che la persona sia naturalmente motivata ad apprendere e riesca a vincere le resistenze
interne (gli apprendimenti significativi implicano sempre potenzialmente una ristrutturazione della
personalità) qualora la situazione non venga percepita come minacciosa. Su questi aspetti si fonda
l’idea della pedagogia non-direttiva, alla base della quale c’è la necessità di una ristrutturazione
del ruolo di chi insegna. L’insegnante deve diventare un facilitatore: non impone nulla, non impar-
tisce lezioni non richieste, non interroga se non gli viene esplicitamente richiesto dagli allievi. La
«sequenza didattica» delineata da Rogers implica che il docente presenti l’argomento e i materiali
dell’intervento didattico, proponga le tecniche di studio e dichiari quali sono i temi di sua maggior
competenza. Gli studenti svolgono quindi la loro ricerca in modo del tutto autonomo e secondo i
propri obiettivi personali, effettuando periodicamente un’autovalutazione del lavoro compiuto.
Possono richiedere l’aiuto dell’insegnante, che si porrà al loro servizio per “facilitare” il raggiungi-
mento dei loro risultati. Nel gruppo di apprendimento si è tutti alla pari e ognuno può essere auten-
ticamente se stesso ed esprimere le proprie emozioni anche negative. L’insegnante non valuta: se gli
viene richiesto, esprime una propria opinione personale. La relazione tra docente e alunni avviene
infatti in una dinamica di gruppo dove la circolazione «democratica» della comunicazione costitui-
sce un elemento di differenza rispetto alla normale pratica scolastica.
L’insegnante «facilitatore» deve dunque: stabilire il clima e l’atmosfera iniziale di fiducia; indi-
viduare e chiarire i propositi dei singoli e i propositi generali del gruppo; assecondare i desideri e le
forze motivazionali autentiche degli allievi; organizzare e rendere disponibili i mezzi per appren-
dere: a) favorendo lo svolgimento di ricerche autonome; b) suggerendo materiali e tecniche di stu-
dio; c) fornendo un supporto tecnico per il raggiungimento dei risultati; considerare se stesso un
mezzo a disposizione del gruppo; accettare e rispettare espressioni ed atteggiamenti emozionali;
fare di se stesso un “discente partecipe”, un membro del gruppo; partecipare personalmente, con
sentimenti e pensieri, senza imposizioni; cercare di riconoscere ed accettare i propri limiti.
CARL ROGERS (Chicago, 1902 - La Jolla, California, 1987)
Sé vs falso Sé affetto
autorealizzazione condizionato
(autostima)
ripudio della propria natura da parte del paziente
e repressione degli aspetti autentici di sé
“riflettere i sentimenti”
correzione della percezione di sé -> aumento dell’ autostima
apprendimento
artificiale spontaneo testo 129: la critica
“dal collo in su” “significativo” dell’insegnamento
partecipazione globale
della personalità
Tradizionalmente la pedagogia è stata intesa come “filosofia minore” o “ancella della filosofia”.
Attualmente la maggior parte degli studiosi accetta piuttosto l’autonomia del sapere pedagogico e
l’esistenza, al suo interno, di una filosofia dell’educazione. Pur nella diversità delle opinioni, l’orien-
tamento oggi prevalente nel campo della teoria dell’educazione riconosce alla filosofia dell’educa-
zione due ambiti di ricerca principali, quello della riflessione sulla natura, sui fini e sui valori del-
l’educazione, e quello dell’analisi epistemologica, linguistica e concettuale della teorizzazione peda-
gogica e della pratica educativa. La filosofia non deve per questo “guidare” l’educazione come acca-
deva nella subordinazione tradizionale della pedagogia ala filosofia, ma può validamente partecipare
e stimolare la ricerca pedagogica, effettuando allo stesso tempo un’analisi rigorosa dei “ragionamen-
ti” con cui si costruiscono le teorie e le azioni dell’educazione.
La filosofia dell’educazione deve dunque essere distinta dalla pedagogia generale. La filosofia
dell’educazione analizza a livello generale i presupposti delle azioni educative, mentre la pedagogia
generale sceglie un’impostazione educativa concreta e determinata rispetto a una data situazione. La
pedagogia generale è perciò un sapere trasversale rispetto ai temi e ai problemi fondamentali e comu-
ni alle diverse scienze dell’educazione; a caartterizzarla è inoltre il fatto di non limitarsi alla riflessio-
ne teorica, ma di proporre anche scelte educative coerenti con determinati valori di riferimento.
Secondo Raymond Buyse, fondatore nel 1928 del primo laboratorio di pedagogia sperimentale
presso l’Università di Lovanio, la pedagogia sperimentale si distingue per il suo essere disciplina
che affronta i problemi educativi nell’ottica della ricerca scientifica, con l’esigenza di fondare le af-
fermazioni in campo educativo su dispositivi validi di ricerca, su misurazioni affidabili, su risultati
generalizzabili e ripetibili. Non va quindi confusa con la sperimentazione educativa, intesa come in-
sieme di attività e iniziative indirizzate a introdurre approcci innovativi nella pratica educativa.
LE SCIENZE DELL’EDUCAZIONE
Oggi la riconosciuta complessità della realtà educativa ha dato luogo ad un’enorme massa di studi,
che vanno dalle ricerche demografiche agli studi sullo sviluppo psicofisico degli alunni, dalle piani-
ficazioni alle valutazioni sul rendimento scolastico a lungo termine, alle indagini economiche, e così
via. La riflessione e la ricerca sulla realtà educativa si sono ampliate in modo tale da richiedere un ap-
proccio pluridisciplinare che va sotto il nome di “scienze dell’educazione”, intese, secondo una defi-
nizione di Gustave Mialaret, come “l’insieme di discipline che studiano le condizioni di esistenza, di
funzionamento e di evoluzione delle situazioni e dei “fatti” educativi”.
La definizione precisa dell’ “enciclopedia” delle scienze dell’educazione costituisce a sua volta un
problema epistemologico, nel senso che i diversi specialisti non sono in completo accordo circa i sa-
peri che vi devono essere compresi. È comunque ampiamente condivisa l’idea che di questa enciclo-
pedia debbano far parte le scienze che si occupano dell’aspetto spiccatamente individuale coinvolto
nei fenomeni educativi (per cui vi trovano posto, principalmente, la biologia e la psicologia del-
l’educazione) degli aspetti sociali e culturali (riconducibili anzitutto alla sociologia dell’educazione e
all’antropologia dell’educazione), dell’aspetto metodologico-didattico (legato a discipline come la
docimologia e la didattica) e infine, dell’aspetto dei contenuti (inerenti ad ambiti come la storia del-
l’educazione o l’epistemologia).
Aldo Visalberghi: conoscere per educare
Tradizionalmente, ciò che si esigeva da un insegnante è che sapesse egli stesso ciò che doveva inse-
gnare. Certo, qua e là, nei pensatori anche dell’antichità che si sono occupati con maggiore acutezza
dei problemi educativi, appare a sprazzi la consapevolezza che la cosa non è semplice. In Socrate è
affermata l’istanza “maieutica”, per cui il vero maestro, più che insegnare ciò che sa, aiuta a trovare
ciò che forse egli stesso non ha chiaro del tutto, e in Sant’Agostino appare il principio che abbassar-
si al livello dell’incolto è in realtà un innalzarsi. Per Plutarco l’educando è piuttosto un legno da ac-
cendere che un vaso da riempire, e Montaigne vuole teste ben fatte anzichè ben piene. Comenio
vuole che si imiti la natura, che sviluppa e differenzia gli organismi in modo progressivo dall’interno,
anziché additivo dall’esterno. Le citazioni si potrebbero moltiplicare, ma difficilmente considerare
come chiare e decise affermazioni del fatto che l’educando è un essere in fieri che si sviluppa secon-
do proprie leggi che occorre conoscere, e che possono esplicarsi diversamente da individuo a indivi-
duo. Quest’esigenza è chiaramente enunciata per la prima volta soltanto da Rousseau: “Cominciate
dunque con lo studiare meglio i vostri allievi; perché certamente non li conoscete affatto”. E l’Emilio
può considerarsi in effetti il primo geniale abbozzo dell’evoluzione psicologica dell’essere umano
dalla nascita alla giovinezza, articolato per stadi e non privo di accenni di psicologia differenziale.
Ma non basta conoscere la materia da insegnare e l’allievo cui si debba insegnarla. Occorre conosce-
re anche i metodi più efficaci per insegnarla. Tale esigenza si fa esplicita soprattutto in Pestalozzi.
Anche in questo caso non si tratta di un’istanza chiaramente “scientifica”. Ma Pestalozzi parte da
certe ipotesi circa l’istruzione intellettuale (forma, numero e nome come “elementi” dell’intuizione)
e sviluppa materiali e procedure didattiche che vi si ispirano: opera dunque in modi aperti alla verifi-
ca empirica. A lui si ricollegheranno, differenziandosene variamente, Froebel e Herbart. L’esigenza
di metodi efficaci domina la pedagogia dell’ ‘800, anche se solo nel primo ‘900, con Decroly e gli
sperimentalisti, essi diverranno oggetto di ricerca scientifica vera e propria.
Pestalozzi era stato anche acutamente consapevole di quelli che oggi chiamiamo i “condizionamenti
sociali” dell’educazione. In gioventù si era occupato di problemi sociali, le sue prime esperienze
educative le aveva fatte con i figli di poveri contadini. Dopo di lui alcuni socialisti “utopisti” come
Robert Owen, inserirono esperimenti pedagogici nel quadro di tentativi di riforma sociale. Nell’ope-
ra di Marx ed Engels l’educazione si inquadra saldamente nella problematica delle trasformazioni
sociali. Ma questo motivo diventa centrale, e comporta l’esplicita richiesta che l’educatore, come
operatore sociale, conosca adeguatamente i problemi della società, soltanto in John Dewey. L’opera
più significativa in proposito è Democrazia e educazione (1916) in cui è chiaramente affermata
l’esigenza che la scuola, nonstante sia espressione della società esistente, tenda a preparare l’avven-
to di una società diversa, più giusta, che non sia schiava delle leggi del profitto e delle forme attuali
di divisione del lavoro. Chi opera nella scuola deve perciò conoscere non solo le materie che insegna,
la psicologia dell’allievo, i metodi didattici, ma anche la sociatà in cui opera, non per perpetuarla, ma
per migliorarla.
(da A. Visalberghi, Pedagogia e scienze dell’educazione, Modadori, Milano 1978)
Il sapere pedagogico contemporaneo è da lungo tempo consapevole che il suo cammino verso la
scientificità richiede una compiuta epistemologia pedagogica, in grado di dotare la pedagogia del ri-
gore necessario a costituirsi come scienza. Ciò presuppone anche una riforma “interna”, attraverso
la ricerca di un linguaggio il più possibile rigoroso e coerente. Esemplare è a questo proposito l’esa-
me condotto da numerosi studiosi dell’indirizzo filosofico “analitico” sul linguaggio e sui concetti
della pedagogia e dell’educazione. L’analisi del linguaggio pedagogico di Israel Scheffler individua
nelle definizioni, negli slogan educativi e nelle metafore tre aspetti tipici del linguaggio pedagogico,
proponendo tra i compiti di una scienza dell’educazione l’analisi linguistica e logica dei loro signifi-
cati e delle loro caratteristiche. Le definizioni (ad esempio “l’educazione è formazione integrale del-
la persona”), osserva Scheffler, risultano utilizzate in pedagogia prevalentemente per scopi pratici,
in relazione al raggiungimento di determinati obiettivi. Si tratta, più che di definizioni scientifiche
(cioè strettamente tecniche o teoriche), di definizioni generali di tipo convenzionale, descrittivo o
programmatico. Se le definizioni possono essere chiarificatrici, gli slogan pedagogici (come “impa-
rare ad imparare”) “forniscono una riunione simbolica delle idee chiave e delle attitudini fondamenta-
li delle tendenze educative” e devono essere vagliati criticamente sia in relazione al loro significato
letterale che a quello pratico. Le metafore, invece, mettono in luce analogie senza precisare esplicita-
mente in che cosa consistono. Così, di volta in volta, troviamo in pedagogia la metafora della cresci-
ta, della plasmazione, della scultura, e così via. Esse sono utili per indirizzare l’attività educativa,
ma possono, in determinati contesti, diventare sterili e oltrepassare le loro limitazioni di uso e di
significato.
Gli autori che si sono dedicati al compito di definire la scientificità del sapere pedagogico sono con-
sapevoli della fallibilità del concreto agire educativo. Anche se le regole dell’insegnamento cercano di
indicare le azioni efficaci con più alta probabilità di successo, il successo educativo non è mai assicu-
rato, poiché la complessità dell’uomo e dei contesti educativi, la molteplicità degli influssi sociali,
sono tali da vanificare ogni certezza al riguardo.
Inoltre l’educazione, come afferma Wolfgang Brezinka, non è mai fine a se stessa. Pertanto essa
non può essere assunta acriticamente come “buona”, né nella dimensione dei fini, né in quella dei
mezzi. I fini dipendono da una valutazione etica, i mezzi, a loro volta, sia da una valutazione etica
che da una valutazione pratica della loro efficacia. Spesso la giustificazione acritica dei fini e dei
mezzi avviene sotto le bandiere dello slogan del “bisogno generale di educazione”. È perciò necessa-
rio, secondo Brezinka, riconoscere che “l’ideale del generale bisogno di educazione è un mito moder-
no”, perché in questo modo si nasconde “che l’educazione presuppone ed esige continuamente scel-
te e decisioni” da valutare criticamente volta per volta. Il rischio è quello di un messianismo politi-
co-pedagogico, in cui si ritiene dovere delle istituzioni pianificare totalmente l’esistenza umana in
nome di una educazione permanente e totalizzante. Qui la scientificità della pedagogia può divenire
strumento del sogno perverso di una tecnologia del controllo, della “distopia” sociale che romanzi
profetici come 1984 di George Orwell o Il Mondo Nuovo di Aldous Huxley hanno sinistramente
delineato.
LA SCIENZA E LE SCIENZE DELLʼEDUCAZIONE
SCIENZE DELLʼEDUCAZIONE
psicologia sociologia
generale generale
sociale dei piccoli gruppi
dellʼetà evolutiva dellʼeducazione / scolastica
dellʼapprendimento della conoscenza
differenziale settore settore antropologia sociale-culturale
psicometria psicologico sociologico economia/politica dellʼeducazione
competenze dellʼeducatore
educatore
Erewhon, cioè Nowhere (In-nessun-posto) è un mondo immaginario dove i malati vengono messi
in prigione e processati; i delinquenti vanno all’ospedale oppure sono curati a domicilio da medici
dell’anima chiamati “raddrizzatori”; le scuole dell’Irragionevolezza insegnano la nebulosità e l’ipote-
tica invece delle idee chiare e distinte. In Erewhon, la virtù è la salute, la malattia il crimine, la ric-
chezza è premiata e la miseria punita. Ogni legge morale, sentimentale, pratica è rovesciata rispetto
alle leggi sulle quali si basa tutta la struttura del nostro mondo occidentale.
Una dittatura ha riportato l’ordine nel mondo sconvolto dalle guerre. La stabilità del sistema è assi-
curata da un rigoroso controllo del numero e del tipo dei cittadini, che nascono in provetta. Il potere
è nelle mani di dieci Controllori, e il motto dello stato è “Comunità, Identità, Stabilità”. Ma in que-
sto mondo c’è una Riserva in cui sono confinati gli individui ritenuti indegni del Nuovo Mondo. Qui
Bernard Marx, un alto funzionario anticonformista, incontra John, nato da grembo di donna, e ottie-
ne di farlo uscire dalla Riserva. Ma il giovane, dapprima impressionato dall’Utopia, ne è a poco a
poco disgustato: per avere provocato una ribellione deve presentarsi al Grande Controllore Musta-
pha Mond il quale gli dimostra che la libertà nuoce alla felicità. John si ritira in un faro abbandonato;
ma perseguitato anche lì dalla folla che spia il suo essere diverso, si uccide.
La Terra, divisa in tre superstati, è sotto il plumbeo regime dell’Ingsoc (Socialismo Inglese), che
controlla le mosse di tutti i cittadini ed è dominata dal “Grande Fratello”, un despota spietato e mo-
ralista; chi si innamora subisce il lavaggio del cervello. Un funzionario che contravviene alla linea del
partito per amore è rimesso in riga e stroncato.
In una società del medioevo prossimo venturo, condannata all’ignoranza da un potere dispotico
che condanna i libri al rogo, il pompiere incendiario Montag incontra Clarissa che ama la lettura, co-
mincia a leggere per curiosità e non smette più, diventando un fuorilegge. Montag raggiunge una fo-
resta dove si sono rifugiati gli uomini in esilio; qui incontra Clarissa e apprende che nella foresta tut-
ti imparano a memoria un testo, diventando uomini-libro per salvare il passato.
PROGRAMMAZIONE E TEORIA DEL CURRICOLO
Tradizionalmente la scuola è stata governata con programmi, ossia con documenti centralizzati
che prescrivevano - e tuttora indicano - in modo indifferenziato, contenuti e metodi dell’istruzione.
Introdotta nella scuola italiana con un decreto delegato (416) del 1974, la programmazione ufficial-
mente è invece un’attività che si svolge “localmente”, tiene conto delle esigenze di “quella” determi-
nata scuola e di “quel” determinato ambiente socio-economico a cui è destinata.
L’incontro tra programmazione e programma si verifica nello sviluppo della nozione di curricolo,
così sintetizzata da Clitilde Pontecorvo: “la nozione di curricolo (...) non include solo una scelta (e,
meno che mai, un elenco) di contenuti, come nei tradizionali programmi ministeriali, bensì indica an-
che obiettivi, metodi di insegnamento e di apprendimento, materiali didattici e soprattutto richiede
di considerare l’allievo nelle sue preliminari abilità, conoscenze, motivazioni”.
È tuttavia significativo che nel corso degli anni anche la pratica della programmazione sia entrata in
crisi, generando in molti casi forme di “ritualismo”, da parte degli insegnanti: se la programmazione
doveva servire a spingere le scuole ad uscire dal consueto e dall’imitativo per assumere autonoma-
mente le decisioni relative alle linee di intervento da seguire, molto spesso essa è stata intesa come
soluzione da praticare uniformemente, seguendo linee d’azione predefinite; in tal modo essa rimane
spesso una semplice dichiarazione di intenti.
Il legame tra singolo piano didattico e il complesso delle finalità e degli obiettivi generali ha prodot-
to all’inizio degli anni ‘80 la riflessione sulla scuola come organizzazione che persegue e realizza, al-
l’interno di un sistema, specifici progetti. Si è così aperto un nuovo scenario in cui la scuola del
progetto elabora piani di lavoro, strategie di intervento e propone offerte formative calibrate sulle
esigenze - reali o ipotetiche - dell’utenza. Il modello della progettazione ha avuto riflessi sul piano
didattico, mettendo talvolta in secondo piano il modello della programmazione; i termini progetta-
zione e programmazione sono tuttora spesso usati per indicare le medesime operazioni.
La lezione tradizionale è basata sul presupposto che il compito della scuola sia di fornire “pari op-
portunità”, permettendo a tutti gli alunni di una classe di ricevere una comunicazione culturale indif-
ferenziata, prevalentemente a carattere verbale, da parte dell’insegnante. In un secondo momento la
verifica, orale o scritta, deve stabilire le capacità individuali a livello di memorizzazione e di analisi.
L’efficacia di questa procedura didattica risiede nella presenza di un gruppo sostanzialmente omo-
geneo di allievi, le cui capacità, i cui ritmi e tempi di apprendimento si collocano su “valori medi” in
base ai quali l’insegnante costruisce il suo intervento. Laddove la situazione sia effettivamente tale,
la verifica dà risultato positivo e un nuovo argomento viene affrontato. È evidente, tuttavia, che le
situazioni di partenza non sono, in genere, affatto omogenee: ciascun allievo entra nella scuola con
esperienze culturali, sociali e affettive diverse di fronte alle quali la scuola ha tre atteggiamenti possi-
bili: la selezione palese, che respinge coloro che sono troppo lontani dai valori medi; la selezione
nascosta, che fa sì che la scuola “assolva” i risultati negativi, lasciando che sia la società a selezio-
nare i meglio preparati; il tentativo di costruire percorsi didattici in grado di tener conto delle diffe-
renze individuali. È da questo terzo approccio che nasce l’unità didattica curricolare ed indivi-
dualizzata, che ha come scopo quello di tenere conto di tempi, ritmi, stili cognitivi e capacità di
ciascuno, senza per questo lasciar cadere l’aspetto collettivo dell’insegnamento. A tal fine essa in-
terviene anzitutto sulla verifica, che viene ad assumere forme, tempi e finalità differenti. La verifica
viene perciò utilizzata a livello preliminare come strumento per appurare quali sono le condizioni di
partenza di ciascun alunno rispetto a quanto si desidera far apprendere: la mancanza di prerequisiti
essenziali nei casi individuali potrà essere così affrontata subito con interventi di compensazione e
recupero. Successivamente, qualora gli allievi non conseguano i risultati attesi, verranno realizzati
interventi di sostegno individualizzato.
La programmazione si articola nelle cinque fasi dell’analisi della situazione iniziale, della selezione
degli obiettivi, della selezione dei contenuti, della selezione dei metodi e degli strumenti, della verifica
e valutazione. Ciò che caratterizza queste fasi è una sostanziale successione sul piano temporale, ma
anche, allo stesso tempo, un’interdipendenza sistemica e la necessità di continui feedback per adat-
tarsi flessibilmente al contesto.
Per mezzo dell’analisi della situazione iniziale si definiscono i limiti entro cui si deve attuare l’in-
tervento educativo e si accerta il possesso da parte degli alunni dei prerequisiti, cioé delle basi che i
soggetti coinvolti devono già possedere per poter raggiungere gli obiettivi previsti. Gli elementi della
situazione di partenza possono essere classificati come:
a) variabili relative all’ambiente extrascolastico: economia del territorio, trasporti, ecc.;
b) variabili relative al contesto familiare: nucleo familiare, caratteri del rapporto scuola-famiglia, ecc;
c) variabili relative alla struttura e all’organizzazione della scuola: attrezzature disponibili, persona-
le, risorse dell’istruzione;
d) variabili relative agli insegnanti: preparazione, capacità di gestione collegiale, atteggiamenti socio-
emotivi, ecc.;
e) variabili relative al gruppo-classe: situazioni dei rapporti di socializzazione, composizione della
classe, ecc.;
f) variabili relative al singolo alunno: caratteristiche cognitive ed affettive d’ingresso.
La seconda fase della programmazione riguarda l’elaborazione degli obiettivi formativi e didattici,
intendendo col termine “formativo” (spesso sostituito dalle espressioni “generali” o “finali”) gli sco-
pi dell’azione educativa (che sono inesauribili e vanno oltre la scuola investendo l’intera esistenza
della persona) e con il termine “didattico” (spesso sostituito dalle espressioni “intermedi” o “opera-
tivi”) le capacità, le abilità, le conoscenze precise che l’alunno devo possedere al termine di un itine-
rario di apprendimento.
Alcuni studiosi (come Bloom, Guilford, Gagné) hanno affrontato il problema di una classificazione
sistematica e formale degli obiettivi. Pioniere a questo proposito è stato Benjamin Bloom, che, dopo
aver affermanto l’importanza di costruire gli obiettivi sulla scorta di quattro criteri (didattico, psico-
logico, logico ed oggettivo), ha proposto classificazioni gerarchiche ormai famose - le tassonomie -
come criteri per la formulazione di obiettivi da adottare in relazione alla concreta situazione della
scuola, della classe e dell’alunno. Negli anni successivi alle tassonomie di Bloom, riferite all’area co-
gnitiva, affettiva e psicomotoria, ne sono seguite molte altre, fra cui il “modello gerarchico dei tipi di
apprendimento” di Robert Gagné e il modello di funzionamento dell’intelligenza di Joy Guilford.
3. La scelta e l’organizzazione dei contenuti
La terza fase della programmazione riguarda la scelta e l’organizzazione dei contenuti, ossia degli
argomenti di studio mediante i quali raggiungere gli obiettivi.
Un criterio estremamente frequente per la scelta dei contenuti in un ottica curricolare e programma-
toria - che si contrappone alla vecchia scuola, astrattamente e arbitrariamente contenutistica - è quel-
lo della produttività. In questo senso occorre individuare contenuti che presentino la caratteristica
di legarsi ad apprendimenti utilizzabili in situazioni ulteriori, quindi degli alfabeti: “Compito della
scuola, domani - scrive Franco Frabboni - diventa prevalentemente quello di insegnare ad apprende-
re e molto meno quello di informare”. Appare però difficile trovare un accordo sulla preferenza dei
contenuti “produttivi” trasversalmente validi per le varie discipline, perché mancano i criteri per in-
dividuarli. Si possono considerare più diffusi gli approcci che privilegiano lo studio autonomo di
ogni disciplina, per giungere al reperimento di quei nuclei fondanti il cui insegnamento produce il
possesso “competente” (e quindi produttivo) della disciplina stessa. A questo proposito le discipli-
ne di studio possono essere indicate come sistemi di teorie e concetti, ossia strutture, caratterizzati
da metodi di ricerca e da linguaggi specifici con cui costruiscono modelli della realtà. Secondo l’ottica
adottata da autori come Jerome Bruner o Joseph Schwab, esistono procedure oggettive per indivi-
duare le strutture delle materie di studio e per organizzarne i contenuti in una forma coerente. Rima-
ne la difficoltà di individuare le strutture di tutte le discipline (si pensi alla storia, alla poesia), e di
accordarsi unanimemente su di esse.
Un’altra posizione individua nelle mappe concettuali l’approccio più adeguato alla selezione dei
contenuti. Ogni disciplina ha, secondo questa concezione, la possibilità di riferirsi a un determinato
territorio di fenomeni attraverso una molteplicità di mappe piuttosto che mediante un’unica struttu-
ra. Pertanto è possibile attuare una programmazione didattica che selezioni all’interno della discipli-
na le “mappe” più congeniali a un dato percorso di apprendimento.
L’approccio per mappe concettuali ha portato anche nuovi elementi per la realizzazione di un su-
peramento dei confini che separano le discipline, valorizzando le loro possibilità di interazione, so-
vrapposizione, scambio, nell’ottica dell’interdisciplinarità.
4. I metodi
Nella programmazione didattica il termine “metodo” è usato tanto nel significato di procedimento
didattico, quanto per indicare l’insieme di rapporti tra docenti, alunni, materiali, riferito all’organiz-
zazione dei contenuti, al modo di presentarli agli alunni e alle attività svolte dall’insegnante. La cen-
tralità del metodo nel discorso didattico è tale che la scienza didattica viene spesso denominata me-
todologia.
La riflessione sul metodo nell’attività scolastica non può che partire dall’analisi della lezione, in-
tesa come il momento in cui l’insegnante affronta con i discenti, in un’attività condivisa, alcuni con-
tenuti di apprendimento. Lo schema della lezione tradizionale, essenzialmente concepita come espo-
sizione orale dei contenuti da parte dell’insegnante, è stato tracciato per la prima volta, nella peda-
gogia dell’età contemporanea, da Herbart, il quale distingue quattro “gradi”: 1° la chiarezza (presen-
tazione dell’argomento ed esposizione degli obiettivi cui tende la lezione); 2° l’associazione (richia-
mo delle informazioni possedute e collegamento di queste con il nuovo argomento); 3° la sistema-
zione (approfondimento, ordinamento e sintesi delle nuove informazioni); 4° il metodo (applicazio-
ni delle informazioni ricevute e operazioni di vario tipo).
Oggi, tuttavia, la didattica colloca sotto il nome di lezione una gamma molto più estesa e varia di
interventi, in cui la tradizionale lezione cattedratica, o frontale, rappresenta solo una parte:
- la lettura e il commento dei testi;
- la lezione dialogata;
- la discussione tra alunni e insegnanti;
- la discussione tra alunni;
- l’uso di laboratori (tra cui i laboratori multimediali).
Al di là delle classificazioni è evidente che ciascuna lezione può indurre livelli di partecipazione più
o meno elevati da parte dei discenti, all’interno di un continuo collocato fra l’estremo di una lezione-
conferenza o monologo, in cui la partecipazione viene espressa mediante l’ascolto e l’attenzione, e
una lezione-attività di gruppo, dove gli allievi sono direttamente protagonisti dell’apprendimento.
Bisogna peraltro osservare che l’esplosione dell’attivismo pedagogico ha prodotto un notevole al-
largamento degli approcci all’apprendimento, così che la lezione è stata spesso sostituita con varie
forma di attività strutturate, in misure diverse, dagli insegnanti. Tra gli approcci alternativi:
- l’apprendimento per “centri d’interesse”;
- l’apprendimento per progetti;
- l’apprendimento basato sulle varie forme di lavoro e interazione di gruppo;
- l’apprendimento basato sull’ “imparare facendo” (learning by doing) attraverso varie for-
me di esperienza individualizzata;
- l’apprendimento basato sulla ricerca;
- l’apprendimento basato sull’uso di apparati multimediali.
Una strategia didattica attualmente in corso di diffusione nel nostro paese è la didattica breve, che
viene definita dal suo ideatore, Filippo Ciampolini, come “il complesso di tutte le metodologie che,
agli obiettivi della didattica tradizionale (rispetto del rigore scientifico e dei contenuti delle varie di-
scipline), aggiunge anche quello della drastica riduzione del tempo necessario al loro insegnamento e
al loro apprendimento”. La didattica breve si qualifica come un percorso in cui l’insegnante si pre-
occupa di “distillare” contenuti e concetti fondamentali di un campo disciplinare per offrirli quindi
agli studenti con una metodologia adeguata e un apprendimento valido anche sul piano del supera-
mento di determinate verifiche.
5. Strumenti e tecnologie
L’ultima fase della programmazione è rappresentata dalla verifica e dalla valutazione, importante
non solo per il presente e il futuro cui viene indirizzato un processo di formazione, ma anche per un
continuo monitoraggio e aggiustamento del processo di formazione.
Il processo valutativo comprende al suo interno vari livelli (controllo, verifica, valutazione, meta-
valutazione), varie tipologie (valutazione diagnostica e prognostica) e funzioni (sommativa e for-
mativa).
In merito ai diversi livelli della valutazione, viene indicata con il termine “controllo” l’operazione
che prevede, nelle attività formative, una misura dei risultati dei processi di apprendimento-insegna-
mento attraverso delle prestazioni - in itinere - del discente. Si possono utilizzare a questo proposi-
to prove pratiche, vari tipi di esercitazioni scritte e orali, sulla base di scale di misurazione preventi-
vamente elaborate, in grado di trasformare gli esiti in punteggi definiti.
La verifica segue il controllo, dando conto di come i differenziali di apprendimento di ogni allievo
(ritmi di apprendimento + stili cognitivi) si riorganizzano intorno ai prerequisiti disciplinari e ai con-
tenuti di insegnamento alla fine di un’unità didattica. I tipi di prova sono gli stessi del controllo.
La valutazione implica un giudizio globale circa la rispondenza di ciò che è stato apputato me-
diante controllo e verifica la totalità del processo formativo, inteso sia come percorso di colui che
apprende, sia come insieme di strategie didattiche. Lo scopo è un miglioramento di entrambi, piut-
tosto che, come si pensa tradizionalmente, una selezione di coloro che non riescono a rispondere, al-
meno a livelli minimi, alle aspettative scolastiche.
La valutazione, qualora venga intesa come criterio orientativo per la programmazione, comprende
al suo interno una dimensione diagnostica e una prognostica tra loro interconnesse. La prima coin-
cide essenzialmente con la situazione di partenza, e viene effettuata mediante controlli e osservazio-
ni; la seconda si occupa invece dei modi e dei tempi in cui è ipotizzabile il raggiungimento degli ob-
biettivi del percorso formativo e un miglioramento individualizzato della situazione di apprendimen-
to. In questo secondo caso essa prevede interventi di recupero e sostegno.
La valutazione viene solitamente suddivisa in valutazione di processo e valutazione di prodotto:
nel primo caso la verifica dei risultati consente di accettare eventuali carenze e, quindi, di apportare
le necessarie strategie di recupero. Si tratta quindi di una valutazione formativa. Nel secondo caso
la valutazione viene al termine di un processo di apprendimento e ha un valore finale o sommativo.
Se la tempestività dei controlli e delle verifiche aumenta la produttività delle valutazioni conse-
guenti, nondimeno è necessaria anche una riflessione sistematica sul processo di valutazione stesso e
sulla sua rispondenza agli obiettivi. La metavalutazione (= valutazione della valutazione) rappre-
senta così un’importante occasione di analisi critica dei processi piuttosto che, semplicemente, dei
prodotti dell’attività formativa.
La psico-pedagogia ha messo in luce a questo proposito una serie di “effetti” che condizionano la
“oggettività” dell’operazione valutativa nella scuola e in altri ambienti; si possono ricordare tra essi:
a) l’effetto alone, per il quale il docente rischia di farsi condizionare da quegli elementi “di contor-
no” (lo stile con cui l’alunno si presenta, i modi espositivi) che più si avvicinano a quelli voluti dal-
l’insegnante;
b) l’effetto Pigmalione, detto anche “della profezia che si autoadempie”. Lo scultore Pigmalione si
innamora della statua da lui scolpita, che per amore acquista la parola. C’è anche un’omonima com-
media di Bernard Shaw in cui un linguista dimostra di essere in grado di educare alla buona pronun-
cia una piccola fioraia, raccolta per la strada, tanto da trasformarla in una “duchessa”. L’effetto indi-
ca una profezia a rovescio, secondo la quale l’allievo diviene ciò che il docente ha deciso a priori che
sia: quest’ultimo proietta sull’alunno le sue attese determinando il successo o l’insuccesso dell’azio-
ne educativa in accordo con le sue aspettative e con il suo programma educativo.
PROGRAMMAZIONE E TEORIA DEL CURRICOLO
PROGRAMMAZIONE PROGRAMMA
attività che si svolge localmente e collegialmente documento generale che proviene dal “centro”
per determinare obiettivi e percorsi di apprendi- del sistema scolastico e ha valore prescrittivo
mento di una determinata comunità scolastica sui contenuti e sui metodi dellʼistruzione
CURRICOLO
prodotto della programmazione che include
i vari momenti della programmazione per obiettivi
effetto
“alone” “Pigmalione”
LE CONDIZIONI DI ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO SCOLASTICO
La complessità del sapere richiede che la scuola si organizzi come “ambiente educativo di appren-
dimento dotato di caratteristiche di lavoro particolari. Secondo Gino Giugni la scientificità del lavoro
scolastico si ordina intorno a tre criteri:
- elasticità, come capacità di modificarsi di volta in volta al mutare delle esigenze formative;
- dinamicità, come apertura costante all’innovazione;
- funzionalità, come orientamento a raggiungere scopi precisi e consapevoli sia da parte dei
formatori sia da parte di coloro che vengono formati.
L’attuazione di questi criteri si colloca in una situazione dove la scuola cerca ancora di promuovere
il grande obiettivo pedagogico delineato all’inizio del XX secolo dalla corrente dell’Attivismo, il
passaggio di chi apprende dal ruolo di spettatore a quello di attore del processo formativo.
L’obiettivo di una scuola “di tutti e di ciascuno” viene raggiunto in un sistema formativo dove le
differenze individuali non vengono negate attraverso una didattica uniforme (come accade nel model-
lo tradizionale di lezione), ma valorizzate attraverso tecniche didattiche e ambienti educativi in grado
di diversificare obiettivi e attività pur nel rispetto delle finalità fondamentali dell’uguaglianza di op-
portunità, di diritti e di promozione umana. L’individualizzazione ha come scopo la formazione di
soggetti liberi, autonomi, consapevoli e responsabili all’interno di una comunità sociale, coerente-
mente con il fatto che ciasxccuno è individuo e allo stesso tempo membro di diversi gruppi.
Al di fuori delle interazioni uno-a-uno fra educatore e allievo non è possibile ipotizzare interventi
pedagogici prescindendo dalle problematiche del gruppo. La realtà tipicamente umana del gruppo,
“totalità dinamica” secondo la definizione di Kurt Lewin, può essere considerata sotto diversi
aspetti, come quello psicologico, quello sociologico e quello pedagogico. La considerazione pedago-
gica, in genere, si serve di quanto maturato dalle altre prospettive per il raggiungimento di alcuni im-
portanti obiettivi educativi, come:
- la crescita positiva dell’individuo dentro e attraverso il gruppo;
- lo sviluppo di interazioni di gruppo produttive e soddisfacenti;
- la formazione di gruppi in grado di raggiungere, comunitariamente, obiettivi in tutte le sfere
della vita.
Nella realtà formativa il gruppo si presenta soprattutto secondo quelle caratteristiche che gli stu-
diosi definiscono del “piccolo gruppo”, o gruppo “faccia-a-faccia”, in cui le persone condividono
fatti come:
- la coesione, come capacità da parte dei membri di stare e operare insieme;
- l’organizzazione, come distribuzione di compiti e ruoli interni;
- la differenziazione, come costituzione di una identità di gruppo rispetto ad altri gruppi;
- la rete di comunicazione, come modalità regolari nello scambio di messaggi fra i membri;
- la leadership, ossia la caratteristica di alcuni individui di godere di elevati livelli di
“popolarità” cui consegue prestigio e autorità nei confronti degli altri;
- la produttività, come capacità di raggiungere obiettivi comuni;
- la soddisfazione personale, come livello di gratificazione che l’individuo sviluppa
attraverso il riconoscimento da parte del gruppo.
Nella classe scolastica coesistono vari tipi e modalità di gruppo. Gli insegnanti si trovano infatti di
fronte un gruppo nato per fini istituzionali (la classe costituita secondo i regolamenti per il funzio-
namento dell’istituzione scolastica) che riceve, come gruppo formale, una serie di regole dall’esterno
(ad esempio il regolamento di disciplina) o può stabilirlea propria volta in virtù del contratto forma-
tivo (momento iniziale di una situazione formativa in cui il formatore “negozia” con i soggetti in for-
mazione le modalità e gli esiti su cui costruire il processo formativo). Allo stesso tempo sanno che
all’interno della classe vi saranno sottogruppi aggregati in modo spontaneo, con regole che si pro-
durranno in moso informale nel corso delle interazioni.
Inoltre un gruppo-classe (e i sottogruppi al suo interno) assume una duplice caratterizzazione,
fondamentale per le sue implicazioni educative, come gruppo incentrato sull’affettività (gruppo di
base o auto centrato) o gruppo incentrato su obiettivi esterni (gruppo di lavoro o eterocentrato).
L’ “Educazione aperta”
Sebbene le classi siano alla base dell’ordinamento scolastico italiano, la pedagogia del nostro Paese
ha fortemente sentito il richiamo del modello della cosiddetta open education, ossia di quel modello
di educazione che cerca di superare la struttura della classe in nome di una scuola su misura (secon-
do l’espressione di Claparéde) capace di adattarsi ai bisogni di individualizzazione e socializzazione.
Si può parlare di scuola aperta - sostiene Petracchi - quando si verificano tre condizioni: quella am-
bientale (spazi ampi, idonei alla libertà di movimento, e flessibili, per consentire attività a gruppi
“mobili” di alunni); quella relazionale (i rapporti nella “scuola aperta” sono multidirezionali, coin-
volgono alunni, insegnanti, personale non docente, genitori, cittadini); quella didattica (non c’è cur-
ricolo rigidamente preordinato, come non c’è un metodo o una tecnica pregiudizialmente esclusi.
L’intervento didattico si può esplicare quando si profila come concreto aiuto all’alunno nel suo pro-
cesso di autorealizzazione).
Nella classe aperta la classe istituzionale si scinde in più gruppi sulla base delle differenze intra-
individuali (come differenti livelli di competenza nelle diverse aree disciplinari) e di differenze inter-
individuali (interessi diversificati).
L’interclasse è l’organizzazione flessibile ed unitaria degli insegnanti ed allievi di più classi, ope-
ranti per la realizzazione di obiettivi collegialmente determinati con interventi reciprocamente com-
plementari. Questa forma di educazione può essere realizzata in modi differenti: orizzontale (ad es
II A + II B), verticale (II A + III A) e misto (II A + III B) a seconda delle esigenze particolari (come
un viaggio d’istruzione, la realizzazione di un progetto, ecc).
La scuola senza classi (in inglese nongraded school, scuola senza gradi verticali) è basata sulla ne-
cessità di costruire curricoli assolutamente individualizzati, organizzati con la presenza di ogni allie-
vo in più gruppi, alternati a seconda delle discipline, delle attività e dei livelli.
Gli spazi
Insegnanti e alunni si trovano regolarmente, come sappiamo, a dover fruire di spazi su cui non han-
no neppure potuto dare un parere consultivo. Peraltro lo spazio adeguato a un insegnamento basato
sul lavoro di gruppo e sull’educazione aperta deve presentare quattro caratteristiche principali:
- aule di dimensioni diverse adeguate al lavoro di gruppo;
- una struttura in grado di sopportare e facilitare lo spostamento continuo degli studenti;
- locali per il team docente con materiali e strumenti atti alla progettazione e alla ricerca;
- ambienti di vario tipo in grado di rispondere alle varie richieste degli allievi.
Di qui la necessità di una progettazione degli spazi e dei tempi di una scuola “open space” con set-
tori centrali dedicati agli scambi sociali, spazi modulari a geometria variabile, aree predisposte per
l’uso delle tecnologie didattiche. In questa scuola le aule devono essere progettate come luoghi at-
trezzati per particolari esercitazioni o per l’apprendimento di tecniche specifiche: arredi, strumen-
tazioni, materiali devono consentire il realizzarisi di percorsi ideativi originali. La stessa disposizio-
ne dei banchi e delle persone, le distanze stabilite dall’insegnante, la sua capacità di muoversi nello
spazio rappresentano fattori la cui incidenza può favorire o limitare le capacità di apprendimento
degli alunni.
L’adozione del modello dell’open classroom e della “scuola aperta” può oggi condurre a una peda-
gogia delle classi eterogenee, il cui riflesso nella gestione degli spazi conduca ad affiancare alle aule-
classi opportune aule-specializzate, divise tra laboratori di natura disciplinare e a carattere perma-
nente e aule-progetto di natura multidisciplinare e a carattere mobile.
I tempi
La maggiore richiesta di sapere implica anche una diversa organizzazione e un’estensione del “tem-
po scuola”, legata alla profonda trasformazione contestuale della qualità del lavoro scolastico.
Al tempo-base rigido della scuola tradizionale si è aggiunto, a partire dalla situazione normativa fis-
sata dalla legge 820/1971, un tempo lungo. Esso ha assunto la duplice fisionomia del tempo prolun-
gato (con aggiunta di attività integrative alle curricolari e frequenza facoltativa) e del tempo pieno
(con ampliamento delle attività curricolari e frequenza obbligatoria). Le motivazioni sono molteplici,
e vanno dall’aspetto etico-politico di offrire un servizio di custodia e organizzazione educativa del
tempo pomeridiano degli scolari, all’offerta politica di attività integrative e di sostegno per gli svan-
taggiati, all’arricchimento della crescita psicologica, all’obiettivo pedagogico di una scuola della “pie-
na educazione”.
La scelta del tempo lungo provoca una vera e propria rivoluzione nella scuola, perché, se rettamen-
te interpretato, richiede un affinarsi della gestione democratica e collegiale nel quadro del “sistema
formativo allargato”, in cui la programmazione del tempo implica anche un coinvolgimento delle fa-
miglie e deller ealtà extrascolastiche, un’integrazione delle attività fra interno e esterno della scuola.
Il Mastery Learning
Open Education
funzione dellʼeducazione
diritto dellʼindividuo rispetto dellʼautoattività nel
a vivere una vita piena processo di apprendimento
corrente pedagogica statunitense che, a partire dagli anni cinquanta, si propone di affrontare il problema
della razionalizzazione delle risorse destinate allʼeducazione attraverso percorsi educativi individualizzati
in grado di rendere più “produttiva “ la scuola: per fare in modo che un maggior numero di persone
riesca a conseguire gli obiettivi scolastici, occorre accertare scientificamente con test e prove oggettive
i livelli di partenza di ciascuno, scomponendo gli obiettivi fino a trasformarli in comportamenti semplici e
misurabili, collegando i metodi e le verifiche allʼesatta realizzazione e misurazione degli obiettivi.
tassonomie
classificazioni gerarchiche, sistematiche e formali degli obiettivi didattico-educativi
OPERAZIONI
4. produzione
5. sintesi 4. risoluzione divergente progettare comunicazione
di problemi non verbale
6. valutazione 5. giudizio caratterizzazione strutturare creativa
(sistema di valori)
Guilford
La professione insegnante ha avuto, a partire dagli anni Settanta, una notevole evoluzione e altret-
tante notevoli “crisi”, al punto che è lecito domandarsi, anzitutto, «perché gli insegnanti continuano
ad insegnare?». La “fuga” da questa professione ha a tutt’oggi, almeno in Italia, delle percentuali
consistenti, ma sembra comunque contraddetta dal persistere di atteggiamenti di motivazione e im-
pegno; pertanto la risposta alla domanda conduce a un’analisi dell’attuale ruolo sociale e scolastico
degli insegnanti per individuarvi la cause di motivazione e demotivazione, come pure i fattori
importanti dello “stile didattico” prevalente. A monte di questa analisi sta però il riconoscimento
della difficoltà di individuare il ruolo specifico e le funzioni dell’insegnante, in una società in cui
quest’ultimo, come sottolinea Claudio Volpi, «non ha più l’autorità che gli derivava, in una società
pre-industriale, dal fatto di essere l’unico depositario della cultura accettata». Di fronte alla molte-
plicità di fonti informative della società multimediale, l’insegnante cessa comunque di essere il solo
responsabile della formazione e il portatore di una “missione”, per qualificarsi come professionista
con obiettivi delimitati e riconoscibili.
La valutazione della professionalità insegnante deve essere compiuta in relazione alle problemati-
che concrete relative alla gestione dei rapporti con la classe e delle situazioni di apprendimento. La
complessità dei fattori in gioco a questo riguardo sul piano comunicativo ed operativo è stata ab-
bondantemente studiata e schematizzata in tabelle riassuntive molto note, come quella prodotta da
Gilbert De Landsheere:
8. Funzioni di affettività positiva: loda, riconosce i meriti, cita come esempio, mostra
disponibilità; incoraggia; promette un premio; ricompensa; si esprime con senso
dell’humour; si rivolge all’alunno in modo affettuoso.
Roy Nash (1983) ha cercato di indagare come gli atteggiamenti verso gli insegnanti creano
aspettative che influenzano il comportamento degli insegnanti stessi. L’indagine - “qualitativa” -
comprendeva solo una classe di 12-13 anni, con interviste ai singoli alunni. Si chiese ai ragazzi di
paragonare gli insegnanti, a loro piacimento. Le analisi delle conversazioni rivelarono sei costrutti
comuni a tutti o quasi tutti i ragazzi:
1. Mantiene l’ordine – Non è in grado di mantenere l’ordine; 2. Ti insegna – Non ti insegna;
3. Spiega – Non spiega; 4. Interessante – Noioso; 5. Giusto – Ingiusto; 6. Amichevole – Non
amichevole.
Tutti convennero che gli insegnanti dovessero essere in grado di mantenere l’ordine: anche i ra-
gazzi indisciplinati biasimavano l’insegnante perché era “tenero” e non riusciva a tenerli disciplina-
ti. Se l’insegnante non è in grado di far fronte alla situazione, la lezione diventa disorganizzata,
alcuni ragazzi si annoiano, altri non prestano più attenzione. Ma la situazione è altrettanto negativa
per l’insegnante prepotente e ultrasevero. I ragazzi non consentono agli insegnanti di essere duri e
ingiusti senza protestare: qualche volta non lavoreranno, rifiuteranno di rispondere alle domande o
di partecipare alla lezione.
In generale, i ragazzi non consideravano i tempi dedicati alla discussione come insegnamento
appropriato, non amavano gli insegnanti che dicevano loro di «arrivarci da soli», apprezzavano
l’insegnante che rendeva la lezione fluida e che chiariva i punti principali in modo tale che essi
potessero capire. Sulla giustizia, i ragazzi auspicavano risolutezza, se non severità, ma l’insegnante
doveva comportarsi con equità con tutti. Non doveva punire tutti per colpa di alcuni. Si chiedeva
che gli insegnanti fossero amichevoli e che parlassero familiarmente, senza sgridare o dominare la
classe. In conclusione, osserva Nash:
«I modelli di comportamento dell’insegnamento sono negoziati dall’insegnante e dagli alunni
insieme. L’insegnante non può soltanto imporre il suo metodo ad una classe ma deve ottenere al-
meno una minima collaborazione dagli alunni. Molte delle aspettative che gli alunni hanno rivelano
una concezione sostanzialmente passiva del loro ruolo. Per esempio, come si è detto, i ragazzi pen-
sano che essi devono essere tenuti in ordine, non pensano che si debba dare loro l’opportunità di
controllare autonomamente il loro comportamento; pensano che si debbano insegnare loro delle
cose e non reclamano l’opportunità di trovare le cose da soli. La concezione del comportamento
dell’insegnante che essi considerano corretta è di fatto quella che limita la loro autonomia e il
campo della loro azione significativa» (R. Nash, Aspettative dell’insegnante e apprendimento
dell’alunno, Lisciani & Giunti, Teramo, 1983, p. 85)
LA PROFESSIONALITAʼ INSEGNANTE
insegnante
socializzazione
selezione
stili di insegnamento
organizzative / di imposizione
di sviluppo e promozione
Gilbert le funzioni di personalizzazione
De Landsheere dellʼinsegnante di valutazione positiva / negativa
di concretizzazione
di affettività positiva / negativa
Domenico Starnone:
un insegnante allo specchio (testo 34)
insegnante che
Roy Nash: mantiene / non mantiene lʼordine
uno studio empirico insegna / non insegna
sulle aspettative spiega / non spiega
verso gli insegnanti è interessante / noioso
(testo 37) è giusto / ingiusto
è amichevole / ostile
LA PROFESSIONALITAʼ INSEGNANTE
INSEGNANTE
parziale 1 2 3 4 5 6 7 obiettivo
autocratico 1 2 3 4 5 6 7 democratico
distaccato 1 2 3 4 5 6 7 comunicativo
comprensivo 1 2 3 4 5 6 7 non comprensivo
aspro 1 2 3 4 5 6 7 gentile
monotono 1 2 3 4 5 6 7 stimolante
stereotipato 1 2 3 4 5 6 7 originale
apatico 1 2 3 4 5 6 7 vivace
scialbo 1 2 3 4 5 6 7 attraente
evasivo 1 2 3 4 5 6 7 responsabile
costante 1 2 3 4 5 6 7 incostante
eccitabile 1 2 3 4 5 6 7 posato
incerto 1 2 3 4 5 6 7 sicuro di sè
disorganizzato 1 2 3 4 5 6 7 sistematico
rigido 1 2 3 4 5 6 7 flessibile
pessimista 1 2 3 4 5 6 7 ottimista
emot. maturo 1 2 3 4 5 6 7 emot. immaturo
ment. chiusa 1 2 3 4 5 6 7 ment. aperta
stile dʼ insegnamento
permissività 1 2 3 4 5 controllo
apatia 1 2 3 4 5 energia
aggressività 1 2 3 4 5 protettività
ambiguità 1 2 3 4 5 chiarezza
.
condivisione contenuti 1 2 3 4 5 non condivisione contenuti
asciuttezza 1 2 3 4 5 ridondanza
cordialità 1 2 3 4 5 freddezza
Anderson STILE
dominante integrante
De Landsheere
organizzative
dʼ imposizione
di sviluppo e promozione
di personalizzazione
di concretizzazione
di affettività positiva
di affettività negativa
autoformazione eteroeducazione
crescita dentro la cultura adeguamento ad un codice imposto
paideia - humanitas - bildung disciplina / allevamento
asimmetria
culturale
educatore educando
autenticità
accettazione positiva
comprensione empatica (Rogers)
INSEGNANTE
1 2 3 1 2 3 1 2 3
parziale 1 2 3 4 5 6 7 obiettivo
autocratico 1 2 3 4 5 6 7 democratico
distaccato 1 2 3 4 5 6 7 comunicativo
comprensivo 1 2 3 4 5 6 7 non comprensivo
aspro 1 2 3 4 5 6 7 gentile
monotono 1 2 3 4 5 6 7 stimolante
stereotipato 1 2 3 4 5 6 7 originale
apatico 1 2 3 4 5 6 7 vivace
scialbo 1 2 3 4 5 6 7 attraente
evasivo 1 2 3 4 5 6 7 responsabile
costante 1 2 3 4 5 6 7 incostante
eccitabile 1 2 3 4 5 6 7 posato
incerto 1 2 3 4 5 6 7 sicuro di sè
disorganizzato 1 2 3 4 5 6 7 sistematico
rigido 1 2 3 4 5 6 7 flessibile
pessimista 1 2 3 4 5 6 7 ottimista
emot. maturo 1 2 3 4 5 6 7 emot. immaturo
ment. chiusa 1 2 3 4 5 6 7 ment. aperta
stile dʼ insegnamento
permissività 1 2 3 4 5 controllo
apatia 1 2 3 4 5 energia
aggressività 1 2 3 4 5 protettività
ambiguità 1 2 3 4 5 chiarezza
.
condivisione contenuti 1 2 3 4 5 imposizione contenuti
asciuttezza 1 2 3 4 5 ridondanza
cordialità 1 2 3 4 5 freddezza
Anderson STILE
dominante integrante
1 2 3 4 5 1 2 3 4 5
punire - minacciare- sollecitare approvare
espellere dallʼ aula rilevare gli interessi
richiamare lʼ attenzione accettare i comportamenti
De Landsheere
organizzative 1 2 3
dʼ imposizione 1 2 3
di sviluppo e promozione 1 2 3
di personalizzazione 1 2 3
di concretizzazione 1 2 3
di affettività positiva 1 2 3
di affettività negativa 1 2 3
Quanto più nelle società si mescolano le etnie e si moltiplicano gli stili di vita, le fedi religiose, le
culture, tanto maggiore appare la necessità che i cittadini siano capaci di darsi regole comuni, di
convivere pacificamente, di rispettarsi a vicenda.
Con l’espressione “formazione alla cittadinanza” si intende per l’appunto il complesso di inter-
venti educativi realizzati in vari ambienti (prima di tutto famiglia, scuola, ma anche luoghi del tem-
po libero e della vita politica) attraverso il quale le persone imparano a convivere sulla base del ri-
conoscimento unanime di un nucleo di “valori comuni” e cioè di principi etico-religiosi condivisi.
Quando questo accade si apre la strada a un modello civico e di educazione alla cittadinanza capace
di contenere insieme locale e globale, basato cioè sulla conservazione della memoria comune, ma
anche aperto al valore della diversità. Lo scopo è quello di creare processi di inclusione anziché di
esclusione, stimando come destino di una società aperta non la separazione ma la coabitazione.
Le pratiche educative si affidano alle consuetudini del dialogo, della discussione, della critica
costruttiva, della partecipazione alla vita civica, alla gestione efficace e positiva dei conflitti.
L’obiettivo è di formare identità capaci, da un lato, di affrontare il pluralismo di opinioni e di stili
di vita senza sentimenti di superiorità o, al contrario, di paura, e dall’altro di vivere al propria appar-
tenenza all’interno di una molteplicità di appartenenze.
La formazione civica non dovrebbe perciò essere concepita come semplice trasmissione di infor-
mazioni e di norme, bensì come il processo globale in cui si intrecciano conoscenza, riflessione e
azione. Non basta cioè conoscere quali sono i propri diritti e doveri, ma occorre favorirne la speri-
mentazione mediante iniziative concrete (forme di tirocinio assistito, partecipazioni ad attività di
volontariato e, in seguito, al servizio civile).
Queste istanze richiedono l’attivazione di due principali processi educativi: a) lo studio e l’eserci-
zio delle norme che regolano la vita associata e i diritti umani; b) il principio di solidarietà intesa
come espressione dei costi umani e sociali da onorare in comune. Detto in altre parole, non si può
sperare di promuovere processi di socializzazione etico-politica senza fare appello al contestuale
riconoscimento dei diritti e doveri dei quali siamo detentori e al principio degli obblighi di cui
dobbiamo farci carico in quanto parte di una collettività.
Il principio di diritto e quello di dovere rappresentano, per così dire, il “piedistallo etico” (o, nel
linguaggio pedagogico, i valori) intorno a cui promuovere il senso civico individuale e sociale.
Nei diritti dell’uomo si riconosce l’insieme delle condizioni che assicurano il pieno rispetto e il
pieno sviluppo della personalità umana. In tal senso l’uomo è il soggetto e il destinatario di questi
diritti. Essi appartengono alla dignità stessa della persona e precedono le leggi scritte che possono
solo riconoscerli e non determinarli. La prima categoria di diritti (definiti anche diritti umani di
“prima generazione”, in quanto furono i primi ad essere riconosciuti, fin dalle Dichiarazioni dei
diritti che seguirono la rivoluzione americana e francese alla fine del XVIII secolo) tutela la persona
umana rispetto alla vita, all’identità personale, alla libertà di pensiero e di associazione, alle ga-
ranzie processuali. La seconda categoria (diritti di “seconda generazione”, stabiliti più di recente)
impegna l’autorità pubblica a porre in essere interventi specifici in ordine al lavoro, alla salute,
all’alimentazione, all’abitazione e all’educazione. Si è frattanto incominciato a parlare con sem-
pre maggiore insistenza di diritti umani di “terza generazione”, o di solidarietà: il diritto alla pace,
al rispetto dell’ambiente, allo sviluppo. Frutto di un intenso e impegnativo lavoro che dura ormai
da anni sono pure la promozione e la tutela dei diritti dell’infanzia (cfr.).
Complementare al riconoscimento e all’esercizio dei diritti umani si pone la condivisione dei vin-
coli di solidarietà. Questa non va associata, come spesso accade nel parlare corrente, alla generosità
personale e al volontariato e, dunque, a qualcosa di eccezionale che solo le persone umanamente più
sensibili e disponibili svolgono. Un conto è parlare della solidarietà come iniziativa privata, motiva-
ta dalla necessità di rispondere a situazioni di particolare emergenza, mentre è decisamente diffe-
rente parlare della solidarietà in quanto normale atteggiamento di lealtà politica, di disponibilità a
svolgere la propria parte.
ll quadro concettuale dell’educazione alla cittadinanza riconosciute dal Consiglio sull’Istruzione
dell’UE (Unione europea) si concentra su quattro aree di competenza:
Area 1: interazione efficace e costruttiva con gli altri, incluso lo sviluppo personale (fiducia in sé,
responsabilità personale ed empatia); comunicazione e ascolto; e cooperazione con gli altri. La re-
sponsabilità personale implica, tra le altre cose, quella di riflettere sulle proprie attitudini, imporsi
un autocontrollo e sviluppare un senso di responsabilità per le proprie azioni, il che la rende anche
una competenza socialmente utile. La seconda componente più comune in questa area di competen-
za a livello primario è "comunicazione e ascolto", che implica l'abilità di esprimere le proprie opi-
nioni e di sostenerle con l'aiuto di argomentazioni, oltre che quella di ascoltare con rispetto le
opinioni degli altri.
Area 2: pensiero critico, inclusi ragionamento e analisi, alfabetizzazione mediatica, conoscenza,
identificazione e utilizzo delle fonti. Fondamentale, in quest’area, la capacità di riflettere in modo
critico sulle questioni e la capacità di scegliere tra diverse opzioni, in particolare quando sono coin-
volte considerazioni etiche (pensiero critico ed esercizio della capacità di giudizio). Una gran parte
dei sistemi educativi europei riconosce come prioritaria l'alfabetizzazione mediatica, inclusa quella
relativa ai social media e che riguarda il cyber- bullismo, come una competenza importante.
Area 3: agire in modo socialmente responsabile, inclusi rispetto della giustizia e dei diritti umani;
rispetto degli altri esseri umani, delle altre culture e delle altre religioni; sviluppo di un senso di ap-
partenenza; e comprensione delle problematiche relative all'ambiente e alla sostenibilità.
Area 4: agire democraticamente, inclusi rispetto dei principi democratici; conoscenza e compren-
sione delle istituzioni, delle organizzazioni e dei processi politici; conoscenza e comprensione dei
concetti sociali e politici fondamentali. Incoraggiare la partecipazione degli studenti al processo
democratico è presente nei curricoli della maggior parte dei sistemi educativi europei. Pertanto, la
moderna educazione alla cittadinanza tende non semplicemente a diffondere conoscenze teoriche
sulla democrazia, ma incoraggia anche gli studenti a diventare cittadini attivi che partecipano alla
vita pubblica e politica.
L’Educazione alla Cittadinanza Globale
La Strategia ECG sostiene azioni volte a promuovere nei cittadini competenze relative a:
a) cittadinanza attiva, cioè saper operare scelte informate ed applicare il sapere nella pratica;
b) approccio critico, cioè saper decostruire le informazioni e comprendere come sono state
costruite socialmente;
c) complessità e approccio olistico, cioè comprendere le ecologie, le tensioni e gli equilibri mon-
diali, nella consapevolezza di vivere all’interno di un sistema interdipendente in cui ogni azione
provoca effetti sulle dinamiche locali e planetarie;
d) diversità culturale, cioè saper considerare i contesti caratterizzati dalla diversità culturale come
potenzialmente vantaggiosi per tutti, a partire dalla capacità di saper ascoltare attivamente, guardare
criticamente le proprie premesse culturali e dialogare con chi manifesta altri punti di vista;
e) pratiche collaborative e dialogiche nell’affrontare i problemi e nei processi decisionali;
f) apprendimento trasformativo, cioè l’impegno a produrre cambiamenti a livello locale che
influenzino il globale;
g) consapevolezza e responsabilità per il bene comune.
Tali competenze caratterizzano l’ECG soprattutto quando valorizzano i processi di apprendimento
esperienziale che favoriscono la partecipazione attiva di chi apprende ed i processi riflessivi sulle
pratiche.
b) il principio di solidarietà
competenze relative a:
pedagogie ECG
Il problema della realizzazione di un’efficace protezione dei bambini e degli adolescenti si è posto
per la prima volta nell’ambito internazionale agli inizi del ‘900: si tratta quindi di una conquista
piuttosto tardiva. Nel 1902, nell’ambito della conferenza dell’Aia sul diritto internazionale privato,
venne infatti approvata una convenzione per regolare la tutela de minori, stabilendo come criterio-
guida il diritto di cittadinanza. Si tratta di una prima dimostrazione d’interesse verso il ragazzo, an-
che se le esigenze di una protezione della personalità venivano subordinate alle regolamentazioni
presenti all’interno dei diversi stati nazione.
Un passo ulteriore in questa direzione si realizza con la Dichiarazione dei diritti del fanciullo,
approvata dalla Società delle Nazioni il 24 settembre 1924. Nella Dichiarazione di Ginevra, come
sin-teticamente viene chiamato questo documento, si affermano solennemente alcuni principi di
notevole importanza:
- «il fanciullo deve essere posto in condizione di svilupparsi in maniera normale, sia sul piano
fisico che in quello spirituale»;
- «il fanciullo che ha fame deve essere nutrito; il fanciullo malato deve essere curato; il fan-
ciullo traviato deve essere ricondotto sulla nuova via; l’orfano e l’abbandonato deve essere
accolto e soccorso»;
- «il fanciullo deve essere il primo a ricevere soccorsi in caso di calamità»;
- «il fanciullo deve essere messo in condizione di guadagnarsi da vivere ma deve essere
protetto contro ogni forma di sfruttamento»;
- «il fanciullo deve essere allevato nel convincimento che le sue migliori qualità dovranno
essere messe al servizio dei suoi fratelli».
In un documento ufficiale, approvato da tutti gli Stati membri, si identificano così per la prima
volta alcuni diritti fondamentali del fanciullo, riconosciuto pertanto finalmente titolare di diritti.
La dichiarazione ribalta totalmente la vecchia logica che aveva improntato gli ordinamenti giuridici
precedenti, secondo cui si attribuivano ai ragazzi solo doveri e mai diritti, potendo al limite ricono-
scere che alcuni doveri gravassero nei suoi confronti sugli adulti.
Questo cambiamento di mentalità trova un più preciso compimento nella “nuova” Dichiarazione
dei diritti del fanciullo, approvata con voto unanime il 20 novembre 1959 dall’assemblea plenaria
delle nazioni Unite. L’ampio e articolato documento, composto da un ampio preambolo e da 10
principi fondamentali, contiene rilevanti novità; questi i punti di maggior rilievo:
a) si riconosce che il ragazzo, a causa della sua immaturità fisica e intellettuale, ha bisogno di
una particolare protezione e di cure speciali (principi secondo e quarto), compresa un’ade-
guata protezione giuridica prima e dopo la nascita: nasce così il diritto per i minori.
b) Si sottolinea che il fanciullo, per lo sviluppo armonioso della sua personalità, ha bisogno di
amore e comprensione: «egli deve, per quanto è possibile, crescere sotto le cure e le respon-
sabilità dei genitori e, in ogni caso, in un’atmosfera di affetto e di sicurezza morale e mate-
riale». Questi bisogni, enunciati nel principio sesto della dichiarazione, sono il principale
elemento di innovazione dell’intero documento; il riconoscimento del diritto all’amore e al-
l’affetto, ritenuti fondamentali per una crescita ed uno sviluppo sereni ed equilibrati, segna
un salto di qualità rispetto agli altri documenti relativi ai minori scritti in precedenza, i quali
andavano a soddisfare prevalentemente bisogni di natura materiale.
c) Si specifica che il diritto del ragazzo alla crescita umana implica uno sviluppo sano e norma-
le non solo sul piano fisico, ma anche su quello intellettuale, morale, spirituale e sociale in
condizione di libertà e dignità (principio secondo).
d) Si esplicita il riconoscimento non solo del diritto alla famiglia, alla tutela da ogni forma di
sfruttamento e alla salute, ma anche al gioco come strumento di sviluppo educativo.
Grande rilevanza è accordata all’educazione, nel principio settimo, secondo il quale essa deve con-
tribuire «alla cultura generale del fanciullo», per consentirgli, «in una situazione di uguaglianza di
possibilità, di sviluppare le sue facoltà, il suo giudizio personale, e di divenire un membro utile alla
società». Si tratta di un principio di rilevante attualità pedagogica, in quanto sottolinea il valore del-
l’istruzione come strumento in grado di attivare il senso critico - sotto forma di “giudizio persona-
le” - al fine di consentire la formazione di un cittadino a tutti gli effetti, non un cittadino che si lasci
guidare dai media o dal senso comune.
Il punto d’arrivo di questo lungo processo di conquista civile è senza dubbio la Convenzione sui
diritti del bambino, promulgata a New York nel 1989 con il preciso obbiettivo di aggiornare e spe-
cificare ulteriormente la mappa dei diritti, ma anche di obbligare gli Stati ad assumere le nuove nor-
me in modo vincolante: il suo significato politico appare particolarmente importante, perché passa
dalle mere dichiarazioni di intenti all’assunzione di impegni precisi a livello degli ordinamenti giu-
ridici e dell’azione amministrativa degli Stati che vi aderiscono. Per la prima volta si istituisce un
meccanismo di controllo che può svolgere una rilevante azione di promozione, tentando, in modo
più compiuto che nel passato, non solo tutta la gamma di diritti che devono essere riconosciuti al
bambino, ma anche di indicare gli strumenti per tutelarli e promuoverli concretamente.
È innanzitutto da rilevare che il termine “bambino”, adottato nella Convenzione, si estende a tutta
la minore età: l’art. 1 della convenzione specifica infatti che questo termine si riferisce ad «ogni es-
sere umano al di sotto del 18° anno d’età, a meno che, secondo le leggi del suo paese, non abbia
raggiunto prima la maggiore età».
Il principio generale, che sta alla base di tutte le norme e gli istituti giuridici a tutela del soggetto
in età evolutiva, è l’interesse superiore del fanciullo, che sovrasta tutte le decisioni e gli interventi
amministrativi, sociali e giudiziari che riguardano questioni minorili. Qualsiasi provvedimento che
riguardi il minore deve recepire questo principio, pertanto l’amministrazione deve perfezionarsi al
fine di garantire questo interesse superiore. In questo senso, la Convenzione appare come uno stru-
mento molto più raffinato dei precedenti atti, sia sotto il profilo contenutistico che della formula-
zione giuridica delle norme: in primo luogo si tratta di un unico strumento che raccoglie insieme i
diritti civili e politici, quelli economici, sociali e culturali, con esplicito riferimento alle norme inter-
nazionali già in vigore in materia di tutela dei minori, ordinate in un unico disegno; in secondo luo-
go, il testo precisa gli impegni che lo Stato deve assumersi per adempiere e garantire i diritti dei
minori, in funzione dell’effettività delle norme. Un limite da evidenziare di tale sistema di tutela è il
mancato riconoscimento dei cosiddetti “diritti di terza generazione”: pace, ambiente, sviluppo; per
quanto la formulazione di alcune norme possa lasciar intravedere alcuni cenni a tali tematiche, non
si giunge ad una forma di diritto riconosciuto.
Dal punto di vista formale, gli articoli della Convenzione sono 54, divisi in tre parti: la prima con-
siste nell’enunciazione dei diritti e degli impegni che gli Stati si assumono, la seconda riguarda la
modalità della tutela internazionale, la terza riguarda la pratica della firma e della validità del testo
stesso. La prima parte, la più interessante, è composta di 41 articoli che descrivono sostanzialmente
quattro categorie di contenuto:
1. Non discriminazione (art. 2): i diritti sanciti dalla Convenzione devono essere garantiti a tut-
ti i minori, senza distinzione di razza, sesso, lingua, religione, opinione del bambino o dei
genitori.
2. Superiore interesse (art. 3): in ogni legge, provvedimento, iniziativa pubblica o privata e in
ogni situazione problematica, l’interesse del bambino/adolescente deve avere la priorità.
3. Diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo del bambino (art. 6): gli Stati devono
impegnare il massimo delle risorse disponibili per tutelare la vita e il sano sviluppo dei
bambini, anche tramite la cooperazione tra Stati.
4. Ascolto delle opinioni del minore (art. 12): prevede il diritto dei bambini ad essere ascoltati
in tutti i processi decisionali che li riguardano, e il corrispondente dovere, per gli adulti, di
tenere in adeguata considerazione le opinioni.
L’Italia ha ratificato la Convenzione con Legge n. 176 del 27 maggio 1991 e ha fino ad oggi presen-
tato al Comitato sui Diritti dell’infanzia quattro Rapporti.
Il riconoscimento dei diritti dei bambini
Dichiarazione dei diritti del fanciullo Società delle Nazioni 1924, Ginevra
- «il fanciullo deve essere posto in condizione di svilupparsi in maniera normale, sia sul piano
fisico che in quello spirituale»;
- «il fanciullo che ha fame deve essere nutrito; il fanciullo malato deve essere curato; il fan-
ciullo traviato deve essere ricondotto sulla nuova via; l’orfano e l’abbandonato deve essere
accolto e soccorso»;
- «il fanciullo deve essere il primo a ricevere soccorsi in caso di calamità»;
- «il fanciullo deve essere messo in condizione di guadagnarsi da vivere ma deve essere
protetto contro ogni forma di sfruttamento»;
- «il fanciullo deve essere allevato nel convincimento che le sue migliori qualità dovranno
essere messe al servizio dei suoi fratelli».
ribaltamento degli ordinamenti giuridici precedenti => ai ragazzi solo doveri e mai diritti
Valore dell’istruzione come strumento in grado di attivare il senso critico (giudizio personale)
Convenzione sui diritti del bambino New York 1989
1. strumento che raccoglie insieme i diritti civili e politici, quelli economici, sociali e culturali,
con riferimento alle norme internazionali in vigore in materia di tutela dei minori, ordinate in
un unico disegno;
2. il testo precisa gli impegni che lo Stato deve assumersi per adempiere e garantire i diritti dei
minori, in funzione dell’effettività delle norme.
II parte: modalità della tutela internazionale; III parte: pratica della validità del testo stesso.
L’Italia ha ratificato la Convenzione con Legge n. 176 del 27 maggio 1991 e ha fino ad oggi presen-
tato al Comitato sui Diritti dell’infanzia quattro Rapporti.
Differenze, disabilità ed educazione inclusiva
La coscienza critica di una società che tende all’integrazione si esprime in modo chiaro quando de-
nuncia un’invenzione, quella della anormalità, all’interno della quale si collocano gli esseri umani
per svariate ragioni, siano esse etiche, politiche, psicologiche o geografiche. Michel Foucault, nel
testo Gli anormali (1982), aveva colto le implicazioni profonde che si producono quando il tessuto
sociale è oggetto di una separazione, un confine che esclude e che isola. Al contrario, i principi
dell’inclusione si fondano su un pensiero in grado di cogliere la differenza in termini di
molteplicità, da cui si può trarre un vantaggio reciproco.
Quello di handicap è un concetto campo-dipendente: è l’ambiente che trasforma un deficit fisico o
psichico in una riduzione di potenzialità. Oggi la cultura dell’integrazione, o dell’inclusione, ha
finalmente imposto il suo superamento, introducendo l’idea che ogni persona sia portatrice di
“diverse abilità” e non possa essere considerata “anormale” nel senso foucaultiano del termine, a
causa delle sue particolarità. Si tratta, in altri termini, di superare la contraddizione tra normale e
anormale, con tutto ciò che ne deriva sotto il profilo, sociologico, politico e pedagogico.
1
principali tipi di disabilità: motoria, sensoriale, cognitiva, mentale, relazionale, della comunicazione;
cronica o temporanea; congenita, insorta in età evolutiva o in età adulta. Attualmente, la valutazione della
disabilità si fa con la classificazione ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health)
dell’OMS, che mette in relazione salute individuale, fattori personali e fattori ambientali.
so, al contesto socioculturale di appartenenza della persona. L’handicap può essere interpretato
come il risultato dell’incontro tra disabilità e ambiente fisico e sociale: tanto più accogliente e
adatto a ogni individuo è l’ambiente fisico e sociale, tanto minore sarà l’handicap. Ad esempio, una
piccola disabilità nel camminare diventa un handicap grave su di un ripido sentiero di montagna,
mentre è lieve in una strada piana e non dissestata. Un ipoudente con una protesi che compensa
bene il suo deficit è, sì, menomato nell’udito, ma non necessariamente ‘portatore di handicap’.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2002 ha approvato una nuova Classificazione
Internazionale del Funzionamento, della disabilità e della Salute denominata ICF: i tre termini
portanti della precedente versione (menomazione, disabilità, handicap) sono stati sostituiti da:
funzioni e strutture corporee, attività, partecipazione.
Nel primo ambito, concernente funzioni e strutture corporee, sono raggruppate le classificazioni
relative alle funzioni fisiologiche dei sistemi corporei (incluse le funzioni psicologiche) e alle parti
anatomiche del corpo. Nel secondo ambito, riguardante le attività, sono raggruppate le classifica-
zioni relative all’esecuzione di un compito o di un’azione da parte di un individuo. Nel terzo ambi-
to, riguardante la partecipazione, sono raggruppate le classificazioni relative ai livelli di coinvolgi-
mento in situazioni di vita concrete e normali. Questa nuova classificazione cerca di porre in primo
piano le capacità del singolo e le sue possibilità di partecipazione sociale.
La legge 104/92, che ha riconosciuto a tutti gli individui il diritto di frequentare la scuola normale,
è stata frutto di un ambiente sociale democratico e solidale che riconosce, non crea, i diritti delle
persone disabili. Ambiente sociale è la scuola, quando questa non esclude, ma accoglie, integra,
valorizza la diversità. Per fortuna non esiste più, dunque, un “pianeta handicap” inteso come luogo
segregativo. Le persone disabili vivono tra noi e noi possiamo trarre benefici dalla loro presenza,
proprio come loro traggono vantaggi dal vivere insieme in un mondo di uguali e diversi. Perciò la
disabilità, che ha una connotazione socio-culturale, si evolve seguendo l’evoluzione della società e
della cultura.
Definire un individuo sulla base della menomazione (o della sua disabilità) implica il rischio di
effettuare una stigmatizzazione (e di produrre handicap). La condizione di handicap è tale in rap-
porto all’atteggiamento di altre persone in un determinato contesto socio-ambientale. Laddove non
sia possibile intervenire sull’aspetto della menomazione, si invece fare molto nei confronti
dell’ambiente fisico e sociale: si possono eliminare tutti gli ostacoli fisici, le barriere
architettoniche, si può intervenire traducendo in segnali sonori quelli visivi (si pensi alla scritta sul
semaforo avanti sostituita o accompagnata da un segnale sonoro di via libera, ecc.), si può
intervenire sull’ambiente sociale sensibilizzando società e individui sulla necessità di agevolare il
processo d’integrazione (dal semplice non posteggiare le auto sul marciapiedi, alla ricerca di
sempre più importanti sussidi tiflologici, ecc.)2. E’ soprattutto l’ambiente socioculturale che fa
l’handicap, attraverso il rifiuto, l’emarginazione, l’isolamento, non dedicando cure e tempo e non
considerando i portatori di disabilità come interlocutori.
La persona disabile è un individuo con una propria identità, una propria connotazione, delle
caratteristiche proprie: è il fattore sociale che trasforma la disabilità in handicap, e il fattore sociale
indica non solo le azioni delle persone, i loro ruoli e funzioni, ma anche i prodotti sociali: e così una
scala con alti gradini è ambiente “fisico”, ma anche “sociale”. Anche un costrutto “scientifico”,
come quello secondo il quale l’autismo va univocamente interpretato come il frutto di madri poco
2
I vari tipi di barriera possono essere così classificati: barriere fisiche (specie architettoniche, ma anche funzio-
nali, come protesi inadeguate o insufficienti), culturali (mentalità diffusa, scarsa consapevolezza dei diritti, pregiu-
dizi), psicologiche (scarsa empatia, comportamenti difensivi, pietismo, rifiuto), economiche (scarsi investimenti,
abbandono delle famiglie), normative (adeguamento delle norme alle esigenze attuali, per rendere esigibile il dirit-
to al lavoro e a una vita normale).
affettuose, di “madri frigorifero”, va inteso come un ‘prodotto sociale’. Sul versante opposto, tanto
la creazione di un apparato telematico-informatico che permetta di scannerizzare in rilievo ciò che
si vuole stampare da Internet, quanto il corretto utilizzo dei risultati della ricerca e dei paradigmi
scientifici contribuiscono a diminuire la disabilità e l’handicap.
In seguito all’approvazione dell’ICF nel 2002, il termine “handicap” è stato accantonato ed è stato
sostituito dalla locuzione “persona che sperimenta difficoltà nella partecipazione sociale”. Al di là
di ogni considerazione sulla rincorsa - talvolta eccessiva - all’eufemismo ed al politically correct, ai
quali si è assistito negli ultimi anni, appare fuor di dubbio che occorra partire dal positivo, facendo
leva su ciò che c’è, valorizzando ed enfatizzando senza forzature le aree di efficienza e di “sviluppo
potenziale”.
Il lessico relativo alla disabilità ed all’handicap ha conosciuto negli ultimi cinquant’anni, in Italia e
a livello internazionale, notevoli cambiamenti. Si è così passati dal termine inserimento (semplice
introduzione della persona disabile a scuola o nel lavoro), utilizzato per indicare la presenza nelle
classi comuni - per la prima volta in Italia verso la fine degli Anni Sessanta - di alunni con minora-
zioni, sino ad allora rinchiusi per legge nelle classi e negli istituti speciali, al termine integrazione
(che indica la rimozione degli ostacoli ed effettivo supporto alla piena partecipazione), utilizzato
dalla metà degli anni settanta per significare che l’alunno con disabilità non era solo presente in
classe, ma si collegava al lavoro didattico dei compagni e riusciva a divenire per quanto possibile
“uno di loro”, grazie al lavoro svolto in classe ed all’interazione fra loro ed i coetanei non disabili.
La parola inclusione, che indica riconoscimento e accoglimento della differenza e coinvolge tutto il
contesto, è invece entrata da poco nel nostro sistema educativo, e questo è avvenuto, principalmen-
te, per adeguarsi alla terminologia internazionale. In molti paesi europei, infatti, si usa il termine
inclusion per indicare, in generale, un processo che porta all'istruzione degli alunni con disabilità
nelle classi comuni. Sarebbe riduttivo usare inclusione come sinonimo di integrazione, anche se
certamente tra i due termini non c'è la frattura logica e culturale che ha segnato il passaggio da
‘inserimento’ a ‘integrazione’. L'inclusione deve essere intesa come un'estensione del concetto di
integrazione che coinvolge non solo gli alunni con disabilità, formalmente certificati, ma tutti gli
alunni che - per difficoltà specifiche e diversità socio-culturali – presentino una situazione di
“svantaggio”: seppure con ritardo, anche nella scuola italiana si è iniziato, negli ultimi anni, a
prestare un’attenzione nuova agli alunni con Bisogni Educativi Speciali, ossia in generale a coloro
che per vari motivi, anche temporanei, non rispondono in maniera attesa alla programmazione della
classe e richiedono, quindi, una forma di aiuto aggiuntivo.
L’educazione inclusiva
Al fine di promuovere un’efficace esperienza di educazione inclusiva, è necessario agire sugli am-
bienti educativi, ponendo al centro delle attività il gruppo classe, per realizzare forme di sapere e
conoscenza fondate sul dialogo. In questo modo diviene possibile la realizzazione di un percorso
didattico, le cui diverse fasi comprendono: un ascolto efficace, il pensiero riflessivo, il decentra-
mento cognitivo e il saper lavorare in modo autonomo ma in stretta relazione, cercando di potenzia-
re l’identità sociale e individuale. La partecipazione del gruppo classe, allenato all’ascolto attivo e
alla riflessione, è tanto più indispensabile, nelle dinamiche di inclusione, quando è presente in clas-
se una figura specialistica, come l’insegnante di sostegno. La presenza di tale figura può infatti, in
taluni casi, provocare degli effetti contrari agli obiettivi desiderati, dal momento che il soggetto ap-
pare ancor più “diverso” proprio per il fatto di essere affiancato da un facilitatore, da qualcuno che
può essere percepito come un diaframma tra l’alunno e la classe. Il risultato può essere quello di un
isolamento della coppia formata dall’altro e dal suo educatore, limitando le interazioni e il funzio-
namento inclusivo del gruppo educativo. Un’autentica pedagogia inclusiva dovrebbe dunque foca-
lizzarsi sulle capacità dialogica di ogni membro del gruppo, provocando un’occasione di crescita
complessiva. In questo modo la presenza dell’altro costituisce un valore e un’opportunità per tutti,
dando vita ad un allargamento della percezione della realtà, fornendo i mezzi affinchè il processo
d’integrazione possa essere vissuto in modo attivo e consapevole.
cultura dell’integrazione / inclusione => ogni persona portatrice di “diverse abilità” non “anormale”
concezione “medicalizzata” della disabilità => complesso sintomatologico, esito di affezione organica
prenatale / natale / post natale aspetto biologico dominante
menomazione disabilità
perdita/anormalità di una struttura o di una
funzione psicologica, fisiologica o anatomica conseguenza pratica della menomazione =>
termine menomazione: più comprensivo di disturbo
perdite o alterazioni provvisorie o permanenti ciò che si è in grado di fare e ciò che non si riesce a fare
(anomalie difetti perdite a carico di arti, organi, tes-
suti o altre strutture dell’organismo psichico e fisico) sfera delle attività in un contesto socio-culturale
handicap
fenomeno sociale => condizione di svantaggio conseguente a menomazione o disabilità
che limita o impedisce l’adempimento di un ruolo sociale considerato “normale”
(età sesso contesto socioculturale della persona).
incontro tra disabilità e ambiente fisico e sociale
più accogliente è l’ambiente fisico e sociale, tanto minore sarà l’handicap.
2002 nuova Classificazione Internazionale del Funzionamento, della disabilità e della Salute ICF
( vs menomazione / disabilità / handicap )
classificazioni di
funzioni fisiologiche sistemi corporei esecuzione di compiti e azioni livelli di coinvolgimento in situa-
incl. funzioni psicologiche e parti anatomiche zioni di vita concrete e normali
.
capacità del singolo e le sue possibilità di partecipazione sociale.
legge 104/92
riconoscimento del diritto di frequentare la scuola normale per tutti gli individui
ambiente sociale democratico e solidale che riconosce i diritti delle persone disabili. Ambiente
scuola => ambiente sociale che non esclude, ma accoglie, integra, valorizza la diversità.
Inserimento, integrazione, inclusione
estensione del concetto di integrazione che coinvolge tutti gli alunni che
per difficoltà specifiche e diversità socio-culturali – presentino una situazione di “svantaggio”
educazione inclusiva
difficoltà degli alunni => problema didattico-educativo piuttosto che mancanze individuali
intervento specialistico
insegnante di sostegno
focalizzazione sulle capacità dialogica intergruppo facilitatore percepito come
presenza dell’altro come occasione di crescita vs diaframma tra l’alunno e la classe
allargamento della percezione della realtà sociale isolamento / limite alle interazioni
favorire lo sviluppo di classi inclusive, la partecipazione di tutti gli alunni nelle classi regolari, inclusi gli alunni
a rischio di esclusione e insuccesso scolastico (stranieri o appartenenti a minoranze etniche o linguistiche)
vs fenomeni di drop-out, (abbandono del percorso scolastico) => sistemi di ‘ancoraggio’
formazione di legami sociali stabili attraverso la mediazione scolastica
Multiculturalismo e Educazione interculturale
I termini ‘multiculturale’ e ‘interculturale’ sono ormai entrati stabilmente nel lessico delle scienze
dell’educazione. Non sempre, tuttavia, essi sono usati in modo appropriato: ritenuti erroneamente
intercambiabili, sono impiegati spesso come sinonimi. Al contrario, questi due termini non sono
affatto equivalenti, ma fanno riferimento a situazioni e pratiche diverse e sottendono concezioni
sociali ed educative differenti. Come primo punto di riferimento, possiamo assumere la definizione
di ‘multi- culturalità’ come la caratteristica di una situazione sociale verificabile: la convivenza di
persone provenienti da - e socializzate in - diversi contesti culturali, e la ‘interculturalità’ come la
risposta educativa relazionale alla società multiculturale e multietnica.
Questa definizione comporta diverse considerazioni e conseguenze: anzitutto quella che la multi-
culturalità è uno stato e un dato di fatto, esito di flussi migratori e di incontri tra le culture dovuti a
una spinta della storia, mentre l’interculturalità è un processo educativo intenzionale che deve es-
sere progettato dagli educatori per rispondere alle esigenze formative della società d’oggi. Potrem-
mo anche osservare che l’educazione interculturale è una prospettiva che va affermata in tutti i con-
testi educativi, a prescindere dalla presenza fisica, nelle singole scuole o comunità, di alunni di dif-
ferente nazionalità: la società d’oggi ci pone sempre e comunque a confronto con modelli culturali,
atteggiamenti, comportamenti diversi che debbono essere affrontati in un’ottica interculturale.
Un altro punto di rilievo è il diverso atteggiamento verso il contatto culturale che è conseguente ai
termini di multi- e inter-culturale. La multiculturalità, applicata sia nella società che nella scuola,
non presuppone necessariamente l’attivazione di momenti di contatto, acculturazione e scambio tra
le culture; essa è infatti una categoria di carattere descrittivo e storico, che si esaurisce nel rilevare
la presenza in un territorio o in un’istituzione sociale di culture diverse.
La multiculturalità può anche realizzarsi, anzi trova la sua espressione più frequente, nella creazio-
ne di ‘nicchie etniche’, di piccoli ghetti in cui ciascuna cultura continua a esistere (e spesso a cri-
stallizzarsi) senza essere sottoposta al vivificante incontro con l’alterità. Ogni nazionalità, etnia,
gruppo religioso continua a praticare le proprie abitudini e le proprie tradizioni senza curarsi delle
altre comunità; in questa situazione, una parola chiave diventa la tolleranza: tutti possono fare ciò
che vogliono sinché non invadono lo spazio di un altro gruppo. In questa situazione, una società
può conservarsi anche a lungo, ma nel momento in cui una crisi economica, delle tensioni religiose
o etniche o altri fattori rompono l’equilibrio, le differenze taciute e non valorizzate e i conflitti che
portano con sé possono deflagrare in modo violento e irrazionale. L’interculturalità, al contrario,
oltrepassa la tolleranza, presuppone il confronto e lo scambio tra le culture, pone il problema della
cittadinanza e della partecipazione, esercita la legittima e reciproca critica, concepisce le differenze
culturali come un valore.
Un atteggiamento interculturale riconosce il conflitto e non lo ignora: qualunque incontro tra cul-
ture diverse, qualunque migrazione, hanno sempre suscitato conflitti che non vanno negati, ma ge-
stiti e risolti in modo pacifico. La prospettiva interculturale concepisce le diverse identità culturali
come mutevoli e in continua trasformazione, presuppone che l’identità, per potersi arricchire e svi-
luppare, necessita del confronto con l’alterità. La concezione per cui, in una società multiculturale,
le diverse identità culturali debbono vivere separate l’una dall’altra, senza scambi e contatti, è dun-
que senz’altro regressiva; basti pensare che la giustificazione di favorire il libero sviluppo di ciascu-
na cultura separata dalle altre fu una delle legittimazioni ideologiche di un regime razzista e segre-
gazionista come quello sudafricano dell’apartheid1.
1
Riflettendo sulle differenze tra i termini di interculturale e multiculturale, è legittimo interrogarsi sulle ragioni per cui
questi due termini vengono così spesso confusi. Una ragione va può essere ricercata nella presenza sul mercato della
pubblicistica angloamericana che impiega, in genere, i termini di educazione multi-culturale, pedagogia multiculturale
ecc. L’uso di questi termini non è casuale, ma fa riferimento a specifici modelli sociali impiegati negli USA. La società
statunitense è stata coinvolta dai problemi della multiculturalità molto prima della nostra a ha reagito in modi diversi nei
vari momenti storici. Nei primi anni del secolo il modello vigente negli USA era quello del melting-pot, crogiuolo dove
tutte le culture dovevano fondersi. ‘Melting Pot’ è, in realtà, il titolo di una pièce teatrale di Israel Zangwill, ebreo
La nuova categoria dell’interculturalità propone un progetto di interazione fondato sull’idea che le
culture si aprano reciprocamente e apprendano le une dalle altre in un’interazione dinamica, in
una specie di inter-scambio creativo, senza perdere la propria identità. In tale modo, si dà importan-
za all’iter che designa la necessità dell’incontro e del reciproco cambiamento. In ambito scolastico,
per quanto riguarda la scuola italiana e in parte europea, l’utopia interculturale appare ancora lonta-
na a livello di curricula, di programmi, di formazione e soprattutto di pluralismo culturale e lingui-
stico degli stranieri. La competenza culturale di molti insegnanti permetterebbe di progettare compi-
ti di accoglienza, inserimento, insegnamento della seconda lingua o della lingua d’origine, promo-
zione della comprensione delle differenze culturali e prevenzione del pregiudizio. Tutto questo però
si svolge in modo estemporaneo e soprattutto senza un quadro teorico che le supporti. Per cambiare
la situazione occorrerebbe intervenire su diversi fronti, in particolare sulla formazione degli inse-
gnanti: si tratterebbe, in particolare, di preparare questi ultimi a essere capaci di apertura alla diver-
sità, a gestire le grandi questioni etiche inerenti all’intercultura, tra relativismo e rischio di assimila-
zione. Si dovrebbe poi dotare l’insegnante di strumenti metodologici per inserire la prospettiva in-
terdisciplinare nelle discipline scolastiche. Infine, non dovrebbe mancare nella formazione dei do-
centi l’esperienza diretta, per quanto parziale, di almeno un diverso universo culturale, cioè la cono-
scenza il più possibile approfondita di una comunità etnica della propria zona, nelle sue forme di vi-
ta e di relazione. Ma le difficoltà sono tante: quale dovrebbe essere il motore di questi cambiamen-
ti? La politica e Il ministero della Pubblica Istruzione? Gli esperti di pedagogia o coloro che do-
vrebbero formare gli insegnanti? Vi è poi un secondo problema. Le pratiche interculturali già affer-
matesi sono prima di tutto di tipo “compensativo”, così definite perché rispondono principalmente
all’urgenza di compensare gli svantaggi patiti dagli immigrati nelle nuove realtà dovuti alla scarsa
conoscenza di lingua, norme giuridiche, usi e costumi dei Paesi ospitanti. Tuttavia, gli interventi
compensativi non esauriscono l’ambito dell’educazione interculturale, che è molto più ampio; sce-
gliere la prospettiva interculturale, infatti, non significa limitarsi a mere strategie d’integrazione
degli alunni immigrati, né a misure compensatorie di carattere speciale. Si tratta piuttosto di assu-
mere la diversità come paradigma dell’identità della scuola e come occasione per aprire l’intero
sistema formativo a tutte le differenze. Di qui la necessità di coinvolgere competenze interculturali
elevate, rivolte alla conoscenza profonda dei diversi universi culturali, al fine di apprezzarne le dif-
ferenze e gli eventuali punti di convergenza. Ciò costituisce un requisito indispensabile per un’edu-
cazione interculturale capace di promuovere il rispetto del pluralismo (come vuole l’approccio mul-
ticulturalista) senza però rinunciare alla possibilità di trovare momenti d’intesa e livelli di armoniz-
zazione tra le differenze. In questo ambito, l’educazione interculturale suggerisce che i manuali sco-
lastici valorizzino maggiormente le più significative esperienze storiche di dialogo e coesistenza tra
culture, poiché da esse gli alunni e i docenti possano ricavare utili insegnamenti, validi anche per il
presente. Applicare quest’ottica significa considerare la migrazione secondo una prospettiva di tipo
relazionale, che tenga conto della capacità - sia dei migranti che della società di accoglienza - di
confrontare e scambiare, su una base di sostanziale parità e reciprocità valori, culture, schemi di
comportamento.
inglese emigrato in America, che trasferisce nel Nuovo continente una vicenda alla Giulietta e Romeo in chiave etnico-
religiosa. Al termine della storia i due giovani, tuttavia, riescono a coronare il loro sogno d’amore grazie alla grande
forza del Melting Pot americano, che consente a tutte le culture di unirsi per costruire le magnifiche sorti della “Repub-
blica degli uomini e del Regno di Dio”, dove tutti vanno per lavorare e guardare avanti, a differenza di quanto accade a
Roma e Gerusalemme, dove si guarda solo al passato. Il successo della commedia fu tale che negli anni venti, le offici-
ne Ford di Detroit istituirono le “Feste del Melting Pot”. Queste feste avevano come centro la finta tolda di una nave
che veniva attraversata dai nuovi immigrati. Costoro, che all’inizio del percorso erano abbigliati secondo i loro abiti na-
zionali e portavano un fagotto e la bandiera del loro paese, al termine del percorso si ripresentavano in abiti da “perfetto
americano” e con la bandiera degli USA. Questo modello di società, basato sulla presunzione che il buon americano si
costruisse dimenticando storia e identità degli immigrati si dimostrò ben presto illusorio.
Negli ultimi anni, infatti, l’immagine che ci viene più frequentemente proposta per rappresentare la società americana è
specularmente diversa: si parla infatti di salad-bowl, vale a dire di insalatiera (etnica). Questa metafora ci trasferisce dal
modello della totale perdita di memoria e di identità del melting pot a quello della società multiculturale.
Esperienze di pedagogia interculturale nella pratica scolastica
Alcune esperienze educative possono essere utili per approfondire le modalità attraverso le quali si
può contribuire alla realizzazione di veri e propri laboratori di relazione e d’interazione intercultura-
le. L’acquisizione del decentramento cognitivo e l’esercizio del pensiero divergente possono essere
considerati come requisiti fondamentali perché bambini e adolescenti possano accedere ad un con-
fronto sereno, aperto e creativo con la storia di cui l’altro è portatore.
In una simile prospettiva, una proposta interessante è quella che permette di raccontare gli incontri
culturali mediante l’utilizzo della narrativa di viaggio. Sono molti gli esempi che possono essere
utili a questo proposito: dai testi classici, come quelli di Joseph Conrad, ai più recenti, come quelli
di Ryszard Kapuscinski o Bruce Chatwin. L’incontro con l’altro viene espresso nel registro dello
choc cognitivo e del confronto, senza pregiudizi e senza esotismi, per lasciar spazio alla riflessione
e all’analisi critica. R. Kapuscinski (1932-2007), storico e reporter polacco autore di libri fonda-
mentali per la comprensione della storia e della cultura africana, asiatica, latinoamericana, nel libro
L’altro (2007) scrive:
«Parlando di viaggio, non ci riferiamo certo all’avventura turistica. Per la mentalità del reporter il viaggio
significa sfida e sforzo, fatica e sacrificio, un compito arduo, un ambizioso progetto da portare a termine.
Viaggiando sentiamo che sta accadendo qualcosa di importante, che partecipiamo ad un evento di cui siamo
nello stesso tempo testimoni e creatori, che adempiamo a un dovere, che siamo responsabili di qualcosa.
Tanto per cominciare, siamo responsabili della strada che percorriamo. Spesso sappiamo perfettamente che
la percorreremo quell’unica volta, che non ci torneremo mai più, e quindi che non abbiamo il diritto di tra-
scurarne o perderne il minimo dettaglio. (…) Per questo viaggiamo concentrati e con l’orecchio sempre in
ascolto. La strada che si percorre è importante, perché ogni passo ci avvicina all’incontro con l’altro. È per
questo che ci siamo messi in viaggio. Quale altro motivo avrebbe potuto indurci ad affrontare fatiche, rischi,
scomodità e pericoli? Non è solo il viaggio intrapreso volontariamente, il viaggio come forma di vita, ad es-
sere una rarità. Anche una forte curiosità per il mondo è un fenomeno raro. Alla maggior parte delle persone
esso interessa ben poco».
Il passaggio successivo consiste nella lettura diretta dei testi narrativi e poetici, appartenenti a
tradizioni culturali lontane, come quelle degli indiani d’America o dei popoli africani, così ricchi di
rimandi a cosmologie distanti da quelle occidentali e cariche di fascino. Ancora una volta l’obietti-
vo è quello di valorizzare le differenze e favorire l’apprendimento di punti di vista divergenti rispet-
to a quelli locali: leggere un testo corrisponde alla creazione di un dialogo in cui non esiste una sola
verità, ma il confronto tra tradizioni e valori, i quali nella rappresentazione simbolica del testo lette-
rario assumono maggiore forza e pregnanza.
Un’altra importante risorsa didattica è quella che fa tesoro del patrimonio artistico, musicale e di
rappresentazione plastica delle culture tradizionali. Il campo dell’etnomusicologia può offrire un
contributo educativo molto ricco, se si propone ai ragazzi l’ascolto di brani che appartengono alle
varie tradizioni musicali. L’insegnante deve possedere l’accortezza di scegliere i pezzi secondo una
scalarità che consenta il contatto con l’alterità in modo non brusco o troppo difficile: l’ascolto di re-
gistrazioni “sul campo” è senza dubbio un mezzo di lavoro rigoroso e valido, ma talvolta può essere
preferibile scegliere, almeno per le prime esercitazioni, brani di autori e interpreti della “world mu-
sic” che propongono le tradizioni musicali d’appartenenza in uno stile più facilmente avvicinabile.
L’incontro con la scultura africana, dei pellerossa del nord America o degli Aborigeni australiani
– per fare qualche esempio – sotto le varie forme delle maschere, dei pali totemici, idoli o altro an-
cora, può avere un importante effetto suggestivo. Introdurre nella scuola la possibilità di osservare,
toccare e “sentire” la vicinanza dei pezzi etnografici non è però molto semplice, benché utilissimo.
Una soluzione è quella di visitare i siti dei più importanti musei etnografici – ad es. del Musée du
quai Branly di Parigi – o di compiere un viaggio per raggiungere un museo nel quale questi oggetti
sono custoditi e mostrati al pubblico (ad es. Firenze, Parma, Lugano).
Multiculturalismo e Educazione interculturale
'multi-culturalità' vs ‘interculturalità’
convivenza di persone provenienti da - e risposta educativa relazionale
socializzate in - diversi contesti culturali alla società multiculturale e multietnica
stato e dato di fatto “processo educativo intenzionale
flussi migratori e incontri tra le culture progettato dagli educatori per rispondere
alle esigenze formative della società d'oggi”
categoria di carattere descrittivo e storico contatto acculturazione scambio tra culture
situazione di fatto dei contesti ‘multiculturali’: prospettiva interculturale:
creazione di 'nicchie etniche', piccoli ghetti applicabile a tutti i contesti educativi
cristallizzazione senza confronto con l'alterità dialettica identità-alterità
testi scolastici => valorizzazione delle esperienze storiche di dialogo e coesistenza tra culture
L'andragogia si propone come una teoria unitaria dell'apprendimento ed educazione degli adulti.
Il termine è stato coniato nel 1833 dall’editore tedesco Alexander Kapp, per distinguerlo da quello
di pedagogia, e verrà ripreso nel corso del ‘900 dal pedagogista americano Malcom Knowles (1913-
1997). Si tratta di un modello incentrato sulla comprensione della diversità di bisogni e interessi di
apprendimento degli adulti rispetto ai bambini.
Punto iniziale del modello di Knowles dell’apprendimento adulto, è la considerazione degli adulti
come learners (soggetti in apprendimento) con le loro specifiche prospettive individuali: “andrago-
gia” è per Knowles il corpo delle conoscenze riguardante i discenti adulti in modo parallelo e distin-
to rispetto al modello pedagogico dell’apprendimento infantile.
Knowles identifica le differenziazioni del modello andragogico rispetto a quello pedagogico sul-
la base di sei presupposti (core principles):
1. Il bisogno di conoscere: gli adulti sentono l'esigenza di sapere perché occorra apprendere qual-
cosa e a cosa possa servire.
2. Il concetto di sé: il concetto di sé, nel bambino, è basato sulla dipendenza da altri. Il concetto di
sé nell'adulto è vissuto come dimensione essenzialmente autonoma.
3. Il ruolo dell'esperienza precedente: nell'educazione dell'adulto ha un ruolo essenziale l'espe-
rienza, sia come attività di apprendimento, sia come pregresso, talvolta negativo, che costituisce
una barriera di pregiudizi e abiti mentali che fa resistenza all'apprendimento stesso. Qualsiasi
gruppo di adulti sarà più eterogeneo - in termini di background, stile di apprendimento, motiva-
zione, bisogni, interessi e obiettivi - di quanto non accada in un gruppo di giovani. Di qui l’enfa-
si posta nella formazione degli adulti sulle tecniche esperienziali - tecniche che si rivolgono al-
l'esperienza dei discenti, come discussioni di gruppo, esercizi di simulazione, attività di problem
solving, metodo dei casi e metodi di laboratorio - rispetto alle tecniche trasmissive.
4. La disponibilità ad apprendere: gli adulti sono disponibili ad apprendere ciò che hanno biso-
gno di sapere e di saper fare per far fronte efficacemente alla situazione della loro vita reale.
5. L'orientamento verso l'apprendimento: gli adulti sono motivati ad investire energia nella mi-
sura in cui ritengono che questo potrà aiutarli ad assolvere dei compiti o ad affrontare problemi
con cui devono confrontarsi nelle situazioni della loro vita reale.
6. Motivazione: il desiderio di una maggiore soddisfazione nel lavoro, l'auto-stima, la qualità del-
la vita.
Knowles illustra come l'applicazione di tali presupposti implichi un nuovo modello di proget-
tazione e conduzione di programmi di formazione degli adulti, nonché una nuova figura di do-
cente. Sulla base delle caratteristiche specifiche che presentano i soggetti adulti, Knowles cerca
di formulare un modello andragogico per la formazione che a suo avviso può incorporare prin-
cipi e metodologie provenienti da varie teorie, mantenendo comunque la sua integrità.
Nel modello andragogico è centrale il richiamo alla responsabilità del discente e alla condivi-
sione del progetto (contratto di apprendimento).
Gli elementi fondamentali del modello andragogico sono i seguenti: Assicurare un clima fa-
vorevole all'apprendimento; Creare un meccanismo per la progettazione comune; Diagnosti-
care i bisogni di apprendimento; Progettare un modello di esperienze di apprendimento; Met-
tere in atto il programma; Valutare il programma.
Knowles propone il coinvolgimento diretto - anzi assegna un ruolo decisionale - ai soggetti
dell’apprendimento in tutte le fasi del processo, a cominciare dalla determinazione degli obiet-
tivi. Rivaluta tra le risorse dell’apprendimento, aspetti scontati come l’esperienza, ma anche altri
che lo sono di meno, come lo stato emotivo e affettivo degli individui, le loro reciproche intera-
zioni e quelle con il contesto, tanto di lavoro quanto di vita.
Malcom Knowles: l'Andragogia
modello modello
andragogico vs pedagogico
risorse dell'apprendimento
La psicologia ha cominciato ad occuparsi della comunicazione di massa negli anni ’30 e ’40,
quando la diffusione della radio e i problemi di controllo dell’opinione pubblica legati alla seconda
guerra mondiale hanno risvegliato l’interesse per il funzionamento dei media. Si partiva da una vi-
sione piuttosto meccanica, per cui il bombardamento di messaggi dei mezzi di comunicazione di
massa produrrebbe negli individui effetti persuasivi quasi automaticamente. Scopo della ricerca era
stabilire quali fattori potenziano la comunicazione persuasiva e quali la indeboliscono.
Gli studi classici sugli effetti dei media sono legati essenzialmente alla scuola di Yale, formatasi
nel periodo della seconda guerra mondiale attorno a C. Hovland, e hanno dominato fino agli anni
’60 e ’70. L’approccio è di tipo meccanicistico e si parte dal presupposto che i media automatica-
mente influenzino le menti delle persone, spostando opinioni e atteggiamenti, e si studiano le con-
dizioni della loro efficacia. Il metodo più seguito è il paradigma di Yale, che è un elegante disegno
sperimentale prima e dopo con un gruppo di controllo. Si indagano opinioni e atteggiamenti di un
gruppo di persone. Dopo averlo esposto al messaggio, il gruppo viene riesaminato per vedere se c’è
stato cambiamento. Il confronto con un gruppo di controllo non sottoposto al messaggio consente di
escludere l’interferenza di altre variabili intervenienti.
All’impostazione meccanicistica delle ricerche sui media, oltre al comportamentismo, dominante
in psicologia, ha contribuito il più generale clima storico-culturale creatosi intorno alla seconda
guerra mondiale. Con la diffusione della radio, nuovo potente mezzo di massa, e i problemi di con-
trollo dell’opinione pubblica suscitati dalla situazione bellica, ci si interroga essenzialmente sul po-
tere, sulla forza persuasiva dei media, senza tentare analisi più fini che entrino nei meccanismi dei
processi di persuasione. Persuade più la comunicazione di massa o quella interpersonale? La per-
suasione di massa per penetrare davvero deve fare i conti poi con la circolazione interpersonale di
idee? Quali sono i fattori che rendono più efficace la propaganda? E quali quelli che la contrastano
o ne attenuano gli effetti? Erano queste le domande di fondo dei ricercatori.
Nonostante i difetti di impostazione, gli studi del periodo classico hanno avuto il merito di fondare
il campo della psicologia dei media e hanno ottenuto importanti risultati, alcuni dei quali, specie ri-
letti criticamente, conservano interesse e attualità. Le acquisizioni del periodo classico riguardano
più che altro la fonte e il messaggio, mentre lasciano in ombra il ricevente (sarà con la svolta cogni-
tiva che ci si concentrerà sul lato mentale di chi riceve). Sono state raccolte prove sperimentali del
fatto che l’efficacia persuasiva dipende dalla credibilità della fonte (da quanto chi parla è competen-
te e affidabile) e dall’attrattiva della fonte (da quanto chi parla è simpatico). L’importanza della cre-
dibilità della fonte è in accordo col senso comune e con la retorica classica, che l’aveva sottolineata
fin da Aristotele. Però le ricerche psicologiche sono andate a vedere come i riceventi arrivano a
convincersi che una data fonte è credibile, individuando una serie di fattori che spingono a credere
nella fonte (ad esempio il fatto che non parli allo scopo di persuadere, che dica cose contro il pro-
prio interesse, che esprima ripensamenti). Il peso dell’attrattiva è meno intuitivo per il senso comu-
ne: il fatto che una persona popolare e simpatica possa persuadere indipendentemente da ciò che
dice meraviglia un po’. C’è da dire però che dalle ricerche emerge che gli effetti dell’attrattiva si
fanno sentire solo entro certi limiti: sulle questioni importanti le persone si lasciano incantare meno
e i cambiamenti di idee prodotti per questa via sono instabili.
Per quanto riguarda il messaggio, sono essenzialmente due i temi chiariti dagli studi classici: il
confronto tra argomenti logici ed emotivi e il confronto tra argomenti bilaterali e unilaterali.
Relativamente al primo punto, si è visto che non c’è una regola fissa, ma a seconda dei casi è prefe-
ribile far leva sulla logica o sulle emozioni. Il ricorso alle emozioni è però più facile dal punto di vi-
sta del persuasore, perchè gli argomenti logici per risultare efficaci, oltre a essere capiti e accettati,
devono stimolare la curiosità del ricevente per il loro carattere di novità. Gli appelli alla paura, tipici
argomenti emotivi usati nelle campagne igienico-sanitarie, si sono rivelati efficaci. Tuttavia, se si
spaventano troppo e non sanno come fronteggiare il pericolo, le persone vanno in ansia e il messag-
gio è controproducente. Anche sulla questione degli argomenti bilaterali (pro e contro) o unilaterali
(pro) non si può dare una regola univoca. A seconda del tipo di pubblico è preferibile esporre sia i
contro (confutandoli, ovviamente), sia i pro (sostenendoli) o esporre solo i pro. Quando la gente
dell’uditorio è preparata e smaliziata convengono le procedure argomentative bilaterali, altrimenti si
passa per individui ignoranti o in malafede. Coi mezzi di massa, specie in politica e su questioni di-
battute nell'opinione pubblica, è in genere consigliabile la strada della bilateralità, perchè gli argo-
menti bilaterali "vaccinano", rendono meno vulnerabili alle contropropagande.
La nuova generazione di ricerche sulla psicologia dei media, quella attuale, differisce dalla classica
perché, anziché limitarsi a guardare il fenomeno dall’esterno, si interessa ai processi mentali del ri-
cevente e ai meccanismi di persuasione, e perché l'approccio è ecologico, attento a ciò che accade in
concreto, nelle situazioni di vita reale in cui intervengono le comunicazioni di massa. Sul piano me-
todologico agli esperimenti di laboratorio vengono affiancate le indagini sul campo e si introducono
sistemi per capire che cosa accade nella testa del ricevente (come la tecnica di Greenwald, basata su
resoconti introspettivi, e le tecniche inferenziali, analoghe a quelle usate in psicologia cognitiva)1.
Dagli studi più recenti è emerso che l'influenza dei media non è un fenomeno elementare, ma
consiste in un processo persuasivo, una sequenza di eventi concatenati, che, secondo il modello
di McGuire, comporta tre tappe principali: la ricezione del messaggio (che implica l'attenzione e la
la comprensione), la convinzione (fatta di influenzamento e ritenzione in memoria) e l'esecuzione
(il comportarsi di conseguenza).
Altra acquisizione fondamentale maturata di recente è la distinzione tra via centrale e via perife-
rica (secondo la terminologia di R.E. Petty e J.T. Cacioppo) o elaborazione sistematica e elabora-
zione euristica (come le chiama S. Chaiken). I riceventi possono trattare in due modi differenti i
messaggi in arrivo. Se seguono la via centrale, badano agli elementi che contano, non di contorno,
mettono in gioco ampiamente il sapere di cui dispongono, controllano i processi cognitivi impe-
gnandosi e pilotando la comprensione, elaborano le informazioni a un livello più profondo e le inte-
riorizzano e memorizzano di più. Il contrario succede con la via periferica. Questa non è, come si
puo credere a prima vista, emotiva, ma piuttosto implica una specie di analiticità limitata, fatta di
ragionamenti più euristici (basati su scorciatoie e strategie economiche), automatici e superfìciali.
È molto importante sapere se l'uditorio segue una via o l'altra, perché i mezzi persuasivi efficaci in
un caso non lo sono nell'altro. Non c'e una regola fissa. Molto dipende dal mezzo di comunicazione
(ad. esempio con la televisione prevale la periferica), dalle caratteristiche personali dei riceventi (gli
individui più intelligenti, con più spiccati bisogni cognitivi e i meglio informati sono propensi alla
via centrale).
Modello di McGuire. Le cinque fasi sono in sequenza. Ciascuna presuppone la precedente e il risultato
finale si ottiene solo percorrendole tutte. Per semplicità si possono raggruppare in modo da avere solo tre
momenti. Le prime due fasi rientrano sotto la voce ricezione: se i destinatari hanno prestato attenzione al
messaggio e l'hanno afferrato, diciamo che è stato ricevuto. Quando il soggetto subisce l'influenza e il
cambiamento si mantiene stabilmente nella sua mente, vuol dire che è convinto. Se agisce anche di con-
seguenza e fa quel che il persuasore voleva, la catena è completa e si arriva all'esecuzione.
1
La tecnica di Greenwald consiste nel chiedere ai soggetti di annotare ciò che viene loro in mente in rappor-
to al messaggio. Restano dubbi sulla validità dei dati: è possibile che le cose che il soggetto annota non gli
siano venute in mente spontaneamente, ma le abbia elaborate al momento di svolgere il compito richiestogli
dallo sperimentatore. Con le tecniche inferenziali, lo sperimentatore fa determinate previsioni. Ad esempio,
si aspetta che, se si segue un dato percorso cognitivo, ci vorrà più tempo perché si manifestino gli effetti o
sarà più efficace un certo tipo di argomento anziché un altro o influiranno diversamente le distrazioni.
Variando le condizioni sperimentali può controllare se le previsioni sono esatte e verificare le ipotesi sui
processi cognitivi del ricevente.
LA PERSUASIONE ATTRAVERSO I MEDIA
credibilità vs attrattiva
della fonte
che non parli allo scopo di persuadere può essere efficace
che dica cose contro il proprio interesse ma limitatamente su questioni importanti
che esprima ripensamenti cambiamenti di idee / maggiore instabilità
confronto
argomenti logici vs emotivi argomenti bilaterali vs unilaterali
(pro-contro) (pro)
richiedono: più immediati uditorio
comprensione se non generano + smaliziato - informato
stimolare la curiosità troppa ansia + informato + emotivo
modello McGuire
distinzione
via centrale vs via periferica (R.E. Petty e J.T. Cacioppo)
elaborazione sistematica vs elab. euristica (S. Chaiken)
elementi essenziali elementi di contorno
sapere pregresso analiticità limitata
controllo dei processi cognitivi ragionamenti più euristici:
impegno per la comprensione scorciatoie / strategie economiche
elaborazione profonda informazioni automatismi/superficialità di giudizio
interiorizzazione/memorizzazione
mezzi di comunicazione:
stampa vs televisione
caratteristiche dei riceventi:
+ informati/scolarizzati - autonomi - informati
LA SOCIETÀ DELLA COMUNICAZIONE
La società attuale è stata definita “società della comunicazione”, perché caratterizzata da una cir-
colazione delle informazioni senza precedenti, dovuta allo sviluppo dei trasporti, delle telecomuni-
cazioni e dei mass media. L’invenzione di tecnologie della comunicazione (il telefono, la radio, la
televisione, ecc.) ha consentito di arrivare a questo punto. Tuttavia lo sviluppo delle comunicazioni
è legato all’esplosione scolastica, all’industrializzazione, al capitalismo e a condizioni favorevoli,
tra le quali l’affermarsi nel XX secolo di un’ideologia della comunicazione, di convinzioni sul valo-
re della comunicazione nella vita umana.
Un effetto dello sviluppo delle comunicazioni è la globalizzazione. Se si eccettuano le poche so-
cietà semplici che ancora resistono, viviamo tutti in un unico grande scenario. La globalizzazione
consiste in parte in integrazione economica (testimoniata non solo dagli scambi internazionali, ma
anche dalle imprese multinazionali e transnazionali), in parte in integrazione politica (basti pensare
agli organismi sovranazionali), in parte in integrazione culturale.
Lo sviluppo moderno ha portato con sé anche concentrazione ed imperialismo della comunicazione:
i mezzi di comunicazione sono controllati in prevalenza da gruppi economici e di potere dei paesi
avanzati, che hanno in mano l’editoria, la produzione radiofonica, televisiva e cinematografica. La
maggior parte dell’informazione, ad esempio, viene da quattro grandi agenzie (Reuter, AFP, UPI,
AP) due statunitensi, una britannica e una francese. L’evidente sviluppo tra paesi a sviluppo avan-
zato e meno avanzato ha fatto parlare, dagli anni ’70, di imperialismo della comunicazione.
L’enorme flusso di comunicazioni sulla terra non è solo circolazione di informazione per fini ope-
rativi o conoscitivi. La gente comunica e fruisce dei media in larga misura per loisir (passatempo,
divertimento, svago). Sembra esserci stata una tendenza della comunicazione a spostarsi dall’infor-
mazione al loisir: si comunica sempre più per ragioni espressive e sempre meno a scopo strumenta-
le. La maggior parte delle telefonate, ad esempio, sono di sfogo psicologico o di intrattenimento.
Nei mass media si è ugualmente assistito al ridimensionamento dell’informazione e alla crescita del
loisir. Nel campo della stampa periodica è significativo l’incremento dei periodici, in genere più ri-
creativi, rispetto ai quotidiani, che privilegiano l’informazione. Nella TV è evidente la trasformazio-
ne dei programmi di informazione che sono ritenuti più spettacolari e di intrattenimento, come è te-
stimoniato dall’affermarsi delle figure dell’anchorman, del giornalista-presentatore, figura a metà
strada tra quella tradizionale del giornalista e quella dell’animatore.
Con lo spostamento verso il loisir i messaggi invitano a interpretazioni superficiali, però chi ha più
cultura è avvantaggiato, perché ha più probabilità di scorgere dietro lo spettacolo e la banalità il si-
gnificato profondo delle cose. Si accentua così il gap conoscitivo tra subinformati e superinformati,
la concentrazione e l’imperialismo producono disparità internazionali, tra paesi avanzati e meno
avanzati, e intranazionali, nella popolazione dei singoli paesi. La partecipazione democratica è mi-
nacciata proprio perché l’informazione non tende a distribuirsi uniformemente: non può esserci
democrazia reale dove pochi sanno e molti sono all’oscuro.
I MASS MEDIA
Alla base delle comunicazioni di massa ci sono la stampa, il cinema, la radio, la televisione, i si-
stemi di diffusione informatici. I sociologi non si interessano ai mezzi in quanto tali, ma alle comu-
nicazioni per loro tramite e a tutto ciò che nella vita sociale vi sta intorno. I mass media costituisco-
no in effetti un’agenzia culturale, che svolge un’attività istituzionalizzata (con norme coordinate,
finalità sociali riconosciute, legittimazioni), organizzata (con un dispiego di risorse considerevole),
inserita nel tessuto sociale (vicina specialmente ai vertici della società), rivolta ad un pubblico va-
sto, eterogeneo e anonimo, in cui si trattano temi a tutto campo, si media tra realtà ed esperienza
diretta (basti pensare a come si allarga con i media il nostro orizzonte di conoscenze), si diffondono
contenuti di dominio pubblico (chiunque può riprenderli) e si permea la vita sociale.
Le prime riflessioni sui mass media tra il XIX e il XX secolo hanno oscillato tra la visione negati-
va delle critiche alla cultura di massa e la visione positiva degli interazionisti simbolici.
Nel XIX secolo voci critiche nei riguardi della cultura di massa sono state quella di Alexis de
Tocqueville (La democrazia in America, 1831), che tra i caratteri negativi degli americani ha anno-
verato l’appiattimento culturale; quella di Friedrich Nietzsche, per il quale i giornali (“il cieco
chiasso permanente che svia le orecchie e i sensi in una falsa direzione”, Umano troppo umano,
1878) facevano parte della “nuova barbarie”, della condizione storico-sociale di degenerazione che
ostacolava la trasformazione dell’uomo in superuomo, cioè in spirito libero che realizza se stesso.
Nel XX secolo Jose Ortega y Gasset, filosofo spagnolo (1883-1955), ha messo l’accento sul fatto
che la cultura di massa impedisce il formarsi di una coscienza della modernità e rende schiavi del
proprio stato: «La massa travolge tutto ciò che è differente, singolare, individuale, qualificato e
selezionato» (La ribellione delle masse, 1930).
Di segno opposto le idee dei padri dell’interazionismo simbolico, che hanno visto nello sviluppo
moderno dei mass media prospettive di progresso e di partecipazione democratica. C. H. Cooley, in
particolare, rifacendosi a Tocqueville, ha messo in discussione la convinzione che la cultura di mas-
sa porti ad un livellamento in basso. A suo avviso si creano solo un nuovo tipo di individualità e di
intelligenza più sociali. All’inizio degli anni ’20, negli Stati Uniti, si fa sentire la voce critica di
Walter Lippman, che in Public opinion (1922) sostiene che i media offrono un’immagine stereoti-
pata, semplificata e rigida della realtà, derivata dalla tradizione. Di conseguenza i mass media osta-
colano i cambiamenti sociali.
Le ricerche empiriche
Nel periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale, sulla spinta di interessi pratici legati alla
propaganda bellica e commerciale, cominciano gli studi empirici. Tra le due guerre la radio, che il 4
novembre 1918 aveva diffuso la notizia della fine delle ostilità, comincia trasmissioni regolari e ar-
riva a contare milioni di ascoltatori. Ormai si tratta di un’impresa commerciale, inserita nel merca-
to anche perché pubblicizza prodotti di consumo. L’ascesa dei governi totalitari in Germania, Unio-
ne Sovietica, Italia e Spagna si avvale della stampa e della radio e fa nascere seri interrogativi sul
rapporto tra media e politica. Prevalgono le idee della bullet theory (teoria della pallottola, detta an-
che dell’ago ipodermico): i media vengono considerati potenti strumenti di persuasione che agisco-
no pressoché automaticamente su riceventi passivi e inermi i quali, colpiti dai messaggi e isolati,
sradicati dal tessuto comunitario e culturalmente impreparati, finiscono per cedere. Figure di spicco
di questo periodo sono F.H.Lund, H. Blumer, H. D. Laswell; quest’ultimo, in particolare, ha avuto
il merito di introdurre le tecniche di analisi del contenuto, di proporre la prima analisi funzionale dei
media e di formulare le famose cinque domande guida (Chi? Che cosa? Attraverso quale canale? A
chi? Con quale effetto?) come strumento euristico per individuare e classificare i principali oggetti
della ricerca sui media. Alla bullet theory fanno da sfondo la teoria della cultura di massa, ripresa
dalla tradizione filosofica, ed il comportamentismo, dominante nella psicologia dell’epoca.
Nel periodo classico, dagli anni ’30 ai ’70, dominano la scuola di Yale, più psicologica, e quella di
Lazarsfeld, sociologica. La scuola di Yale, formatasi attorno a Carl Hovland (1912-1961), ha stu-
diato gli effetti di persuasione dei media in condizioni controllate di laboratorio. In decenni di ricer-
ca sono stati analizzati fattori legati alla fonte, al tipo di messaggio, al pubblico.
La scuola di Paul F. Lazarsfeld (1901-1976), alla Columbia University, mette in discussione gli
assunti di base della bullet theory: il ricevente non è un bersaglio che se ne sta passivamente in atte-
sa di essere colpito dal messaggio persuasivo; al contrario, ha considerato il pubblico dei media
composto da consumatori attivi, in grado di scegliere e integrati nel loro ambiente sociale primario.
Di conseguenza la scuola di Lazarsfeld ha studiato le caratteristiche dell’audience e ha messo a con-
fronto influenze dei media e dei rapporti interpersonali su scelte come il voto politico, la moda, i
prodotti da acquistare. Famose le indagini sulla campagna presidenziale del ’40 e sulle donne di
Decatur, piccolo centro dell’Illinois1. Secondo la scuola di Lazarsfeld vale la tesi dei media deboli.
Gli effetti persuasivi sono limitati perché si ha una esposizione selettiva (prestiamo più at-tenzione a
ciò che ci conferma nelle idee che abbiamo già) e perché c’è un flusso di comunicazione a due
stadi: a) il messaggio entra nella comunicazione e poi b) viene diffuso attraverso comunica-zioni
interpersonali, specie ad opera dei leader di opinione (opinion leader), persone che si tengono
informate e controllano le opinioni degli altri.
Negli anni ’60 e ’70 il lavoro della scuola di Lazarsfeld è stato criticato e si è affermata l’idea che
è necessario prendere in esame il contesto storico-sociale dei mass media. Le ricerche classiche
considerano i media alla stregua di un fenomeno naturale da studiare empiricamente. Così ne danno
per scontato il quadro in cui si inseriscono e si vietano ogni possibilità di comprensione più profon-
da del fenomeno e di critica. Già a partire dal secondo dopoguerra questi aspetti sono stati eviden-
ziati dalla teoria critica della scuola di Francoforte, che analizza i media come industria culturale
(Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, 1947). Per la teoria critica i
mass media sono uno strumento di dominio e, allo stesso tempo, un’industria culturale che rispon-
de a logiche economiche. I prodotti dei media sono caratterizzati da standardizzazione, serialità,
comprensibilità immediata. Gli effetti prodotti sulle persone sono negativi e consistono nell’instupi-
dimento (non si esercita il pensiero e ci si perde in un amusement programmato) e nell’asservimento
al consumo.
Negli anni ’60 poi sale alla ribalta la teoria culturologica, inaugurata da Edgar Morin (L’industria
culturale, 1963), per il quale i media rientrano in un fenomeno culturale più ampio e si capiscono
solo prendendo in esame l’insieme della cultura post-moderna, inquadrandoli nel complesso delle
convinzioni, valori, norme, abitudini, stili di vita, modi di pensare delle società contemporanee. Più
che chiedersi se la cultura di massa sia un bene o un male, si cerca di capirla, analizzarla, descriver-
la nel dettaglio e, semmai, valutarne singolarmente i suoi aspetti. Tra le nozioni più fortunate intro-
dotte da Morin c’è quella di immaginario. Si tratta di una sfera di conoscenze illusorie, in cui le co-
se sono trasfigurate fantasticamente: ad esempio, nell’immaginario la gente pensa di stare in un
mondo caratterizzato dal progresso, il benessere, l’uguaglianza, mentre nei fatti cresce il consumi-
smo, non la qualità della vita, le economie sono in crisi e le disuguaglianze sono forti e resistono al-
lo sforzo di superarle.
1
E. Katz e P. Lazarsfeld nel 1945 studiarono l’impatto delle influenze personali e dei media sulle scelte di
vita quotidiana in un campione di 800 donne. I ricercatori concentrarono l’attenzione sui casi in cui le donne
mutavano atteggiamenti e comportamenti in quattro campi: gli acquisti, la moda, gli eventi di interesse pub-
blico e la scelta degli spettacoli cinematografici. Se, ad esempio, le intervistate dichiaravano di essere passa-
te a una nuova pettinatura, si andava a indagare ulteriormente con domande tese a individuare quale parte
avevano avuto nelle decisioni le influenze personali e quali le comunicazioni di massa. Vennero elaborati in-
dici di efficacia, per misurare la forza persuasiva delle diverse forme di influenza (da 0, efficacia nulla a 1,
efficacia massima). Risultò che in tutti e quattro i campi il sistema di influenza più efficace era costituito dai
contatti personali (valori superiori a 0,30), seguiti dalla radio (valori intorno a 0,20) e dai giornali, con indici
in genere assai bassi. Anche tra le donne di Decatur esistevano leader di opinione, per lo più specializzati in
tutti e quattro i campi.
Nel filone culturologico si colloca anche Marshall McLuhan, sociologo canadese (Gli strumenti
del comunicare, 1964). Il suo punto di partenza è la nota tesi che “il medium è il messaggio”, cioè
che per gli effetti sul ricevente non sono decisivi i contenuti, ma il canale, il mezzo di comunicazio-
ne adoperato. Le tecnologie della comunicazione richiedono adattamenti psicologici, a partire dalle
modalità percettive, di conseguenza la loro introduzione e le loro varie tipologie modificano la con-
figurazione psichica degli individui. McLuhan distingue due categorie fondamentali di mezzi di co-
municazione: i caldi (radio, cinema), che saturano il ricevente di informazione, e i freddi (telefono,
TV), che ne trasmettono poca e richiedono che il ricevente intervenga a integrare.
Le critiche hanno avuto il merito di allargare l’orizzonte degli studi sui media. Però hanno il limite
di essere prevalentemente filosofiche e speculative. In seguito si è continuato sulla strada delle ri-
cerche empiriche, ma con una diversa attenzione al contesto storico-sociale.
Allo stato attuale, coesistono filoni diversi per impostazione e metodi, ma soprattutto per argomen-
to privilegiato. Ci sono gli studi sul consumo, sui motivi che portano a preferire questo o quel pro-
dotto, le ricerche sulla ricezione, le elaborazioni mentali dei riceventi, sulla produzione, sulla cultu-
ra dei comunicatori di massa e sull’agenzia culturale dei media e sugli effetti. Circa gli effetti è da
segnalare che si è tornati al concetto di media potenti. Tuttavia, più che interessarsi degli effetti a
breve termine, come l’azione di una campagna pubblicitaria o elettorale, si vanno a studiare gli ef-
fetti a lungo termine, prodotti nel tempo, come quelli che si manifestano sull’organizzazione della
conoscenza della realtà sociale all’interno della società. Un effetto a lungo termine è costituito dagli
scarti conoscitivi (knowlwdge gaps). E’ opinione comune che i mezzi di informazione tendano ad
uniformare il pensiero della gente; questa tesi è stata portata avanti anche negli studi sui media. Ad
esempio, per la teoria della cultura di massa e per la teoria critica la diffusione dei media comporta
la standardizzazione e il livellamento delle conoscenze. Alcune ricerche recenti suggeriscono il con-
trario: l’azione dei media produrrebbe piuttosto differenze tra categorie e gruppi nella conoscenza
della realtà sociale, con disparità nel grado di informazione e nella comprensione delle notizie dif-
fuse.
Secondo il funzionalismo, i mass media assolvono compiti utili per la sopravivenza e il buon fun-
zionamento del sistema sociale; essi non fanno che potenziare le funzioni sociali che la comunica-
zione ha sempre avuto, come la trasmissione del patrimonio socio-culturale, l’integrazione e il con-
trollo dell’ambiente (Laswell, 1948). Lazarsfeld e Merton hanno osservato che i media servono an-
che a conferire uno status (leggere il giornale, ad esempio, è un modo di darsi un’immagine) e a
moralizzare, additando alla pubblica opinione il deviante.
Negli studi sulla produzione molte ricerche sono state condotte sul newsmaking, l’attività con cui
vengono confezionate le notizie. Ci si è interessati a che cosa accade nelle redazioni dei giornali,
dei notiziari radio e dei telegiornali e come si arriva al prodotto finito. Ci si è serviti dell’osserva-
zione partecipante, di interviste e questionari. I primi lavori risalgono al ’50, quando D. M. White si
interessò alla figura del gatekeeper (usciere, guardiano), il giornalista addetto a selezionare – con
scelte sistematiche e criteri precisi - i dispacci d’agenzia. Oggi non si usano più gatekeepers, ma si
tende a selezionare attraverso il lavoro di gruppo, facendo circolare i dispacci in redazione.
Il grosso delle indagini è degli anni ’70 e ’80, nel corso dei quali è stato svolto il grosso del lavoro
empirico sull’argomento. Sono state studiate in particolare le distorsioni (biases) involontarie: le
notizie giornalistiche sono spesso fuorvianti, inducono le persone a distorsioni che fanno arrivare a
conclusioni errate o comunque ingiustificate non supportate da sufficienti ragioni. Tali distorsioni
sono legate all’organizzazione del lavoro giornalistico. Il senso comune tende a pensare che i gior-
nalisti sono tendenziosi. E’ dimostrato però che il più delle volte le notizie fuorvianti sono il prodot-
to della cultura professionale giornalistica, delle routine produttive, le procedure abitualmente se-
guite, della struttura organizzativa delle redazioni, con la loro composizione e le loro reti informa-
tive, già preordinate.
Mass-media: studi e ricerche empiriche
teorie culturologiche
EdgarMorin (L’industria culturale, 1963) Marshall McLuhan (Gli strumenti del comunicare, 1964)
media > fenomeno della cultura post-moderna “il medium è il messaggio” canale vs contenuti
valori norme abitudini stili di vita modi di pensare modifica della configurazione percettiva/psichica degli ind.
immaginario => conoscenze illusorie tipologie dei media
trasfigurazione positiva della propria condizione caldi (radio, cinema) (telefono, TV) freddi
saturi => ricevente => da intregrare
anni ’50: D. M. White: gatekeeper (usciere, guardiano) anni ’70 e ’80: distorsioni (biases) involontarie
giornalista addetto a selezionare i dispacci d’agenzia
cultura professionale giornalistica
routine produttive procedure abituali
2000:media digitali struttura organizzativa delle redazioni
“fake news” reti informative preordinate
Mass-media, nuovi media e educazione
Si sono affermate nel corso del tempo diverse tecnologie mediatiche: le prime a svilupparsi sono
state quelle mass-mediali – come la stampa, la radio, la televisione – il cui aspetto comune è la
diffusione delle informazioni da un’unica sorgente verso un pubblico numeroso e disperso sul
territorio. Successivamente si sono aggiunte nuove categorie di media, fra le quali possiamo
elencare:
- i self media, come il registratore o il videoregistratore, dai quali si possono ottenere ripro-
duzioni fedeli di documenti sonori o video. Dopo aver attraversato diverse trasformazioni
tecnologiche connesse sia alla modalità di registrazione, sia ai supporti di registrazione, sia
ai supporti di destinazione dei documenti (nastro, audio- o video-cassetta) sono stati del tut-
to soppiantati dalla digitalizzazione (CD, DVD, pendrive, etc).
- i media personali, come il telefono o il fax, oggi ormai al termine della loro funzionalità
analogica e assorbiti nei nuovi media digitali;
- i personal media, rappresentati dai Pc, compresi i portatili;
- i telemedia, la famiglia di media più recente, che ha avuto la massima diffusione attraverso
l’implementazione a vari livelli dei Pc con i media interpersonali. Si tratta di nuove forme di
media che sfruttano la rete internet per sviluppare connessioni peer to peer. I telemedia sono
veicolati da dispositivi digitali di difficile classificazione: è infatti molto problematico
considerare un cellulare di oggi come un telefono1.
I media si caratterizzano attraverso una specificità di linguaggi, i quali, nella loro varietà, vanno
adeguatamente analizzati perché se ne possano cogliere le notevoli implicazioni educative.
Lo statuto del cinema, all’interno dei media, è senza dubbio di grande rilevanza dal punto di vista
artistico. Le valenze educative del cinema sono evidenti, sia come materiale di costruzione dell'id-
entità che come luogo di relazione e riflessione sul proprio contesto sociale e culturale. Attraverso
la partecipazione emotiva e la costruzione dell’immaginario infantile, esso può ampliare gli oriz-
zonti del possibile e condurre gradualmente dalla dimensione ludica ad una più profonda e matura
consapevolezza di sé nel rapporto con l’ “altro”. Cinema e televisione sono formidabili produttori
di “storie” di fantasia: film, soap opera, cartoni, sceneggiati sono altrettanti contenitori di racconti e
personaggi con cui bambini, adolescenti, adulti possono identificarsi e da cui possono acquisire mo-
delli di comportamento.
D’altra parte, perché si faciliti nel bambino la comprensione del fatto che i messaggi mediatici sono
dei costrutti e non il riflesso della realtà, è auspicabile attivare un percorso di “media education”:
un’attività, educativa e didattica, finalizzata a sviluppare nei giovani una informazione e compren-
sione critica circa la natura e le categorie dei media, le tecniche da loro impiegate per costruire mes-
saggi e produrre senso, i generi e i linguaggi specifici.
Cinema e fiction televisiva possono, ad esempio, creare l’illusione, attraverso il montaggio alterna-
to o parallelo, che due eventi si verifichino in contemporanea in luoghi differenti. Ciò che nel cine-
ma e nella fiction in genere è un artificio funzionale ed usuale per la costruzione dell’intreccio e gli
snodi narrativi, può divenire ingannevole quando esso compaia in contesti diversi, come l’informa-
zione televisiva: essa, infatti, è caratterizzata da un’immagine tecnica che mescola notizie e inter-
pretazioni. Può quindi produrre, per chi non vuole ‘perdere tempo’ ad analizzare il lessico o verifi-
care le fonti, comunicazioni inavvertite e l’illusione dell’informazione oggettiva. Quello che appare
nel medium televisivo come informazione - per quanto buona - non è mai la realtà, bensì, nella
maggior parte dei casi, una semplificazione degli eventi e la loro offerta all’interno di forme di rac-
conto stereotipate. Questa sostanziale falsificazione spesso crea dei “modelli” e dei “personaggi”,
piuttosto che riportare l’autenticità del fatto, risultando quest’ultima secondaria in termini di spet-
tacolo televisivo.
Sono ormai circa tre decenni che i computer hanno iniziato ad avere una diffusione di massa e un
uso come strumenti didattici, ma il dibattito sugli effetti di questa rivoluzione è ancora notevolmen-
te aperto. Sommariamente, secondo la posizione “pessimistica”, assisteremmo per questo a una con-
trazione dello sviluppo sociale, a una riduzione dei movimenti fisici, a un’educazione “virtuale” che
si distaccherà sempre più dagli apprendimenti concreti; gli “ottimisti”, al contrario, pensano alle en-
ormi possibilità che il computer offre, alle “scuole cyberspaziali” dove ciascuno può compiere per-
corsi virtuali assolutamente individualizzati di apprendimento, senza per questo cessare di frequen-
tare le scuole “reali” in cui svolgere attività fisiche e incontri sociali.
Secondo Neil Postman, uno degli interpreti più “apocalittici” dell’influsso dei media sulla nostra
cultura, quest’ultima è incapace di riconoscere le mutazioni antropologiche prodotte da media come
1
In realtà per definire i nuovi media è necessario aggiungere sempre la parola “anche”, per cui i cellulari sono anche
dei telefoni, ma anche dei mezzi di navigazione e di collegamento ai social network; allo stesso modo sono anche delle
videocamere e delle fotocamere digitali. La caratteristica principale di queste tecnologie consiste proprio nella loro
capacità di ibridarsi con un fine eminentemente relazionale.
TV e computer, introdotti nella scuola come nuove opportunità didattiche senza rendersi conto che
la loro presenza implica una vera e propria ‘guerra psichica’ all’interno di coloro che apprendono.
La ‘guerra’ è provocata dal contrasto fondamentale esistente tra le modalità di apprendimento tipi-
che della scuola, incentrate sulla parola scritta e sull’oralità della lezione, e quelle dei nuovi media,
del tutto diverse. Secondo Postman la scuola rappresenta dunque un «contropotere» rispetto all’in-
flusso dei media. In realtà, l’atteggiamento estremo di Postman non corrisponde a quello del mag-
gior numero di esperti, sempre più propensi a valutare in modo più concreto gli effetti specifici che
computer e nuovi media possono produrre in ambiente scolastico. A tale atteggiamento “realistico”
e “pragmatico”, che tende ad emergere come tendenza predominante dopo anni di diffidenza e
sospettosità diffusa, possono affiancarsi, come atteggiamenti tuttora presenti:
- il “romanticismo tecnologico”, che vede nel computer un medium “naturalmente” forma-
tivo, per cui la semplice interazione con esso apporterebbe benefici effetti cognitivi;
- la posizione di chi ritiene che la scuola, in nome della difesa della qualità umana della cul-
tura, dovrebbe essere, perlomeno, cauta e selettiva nell’introduzione delle tecnologie infor-
matiche, implicanti il rischio di spersonalizzazione dell’insegnamento;
- la posizione di chi pensa che l’informatizzazione della didattica possa condurre a nuove di-
suguaglianze educative, non solo tra le scuole attrezzate adeguatamente e quelle che non lo
sono, ma anche tra gli alunni stessi, partendo dall’assunto che un uso pedagogico poco con-
sapevole del computer e dei nuovi media a scuola possa giovare principalmente solo agli
alunni già avvantaggiati.
Resta però il fatto che, oltre ad essere un importantissimo ‘materiale strutturato’ per l’apprendi-
mento, dotato di notevoli risorse autocorrettive, il computer è uno strumento altamente interattivo e
ricco di potenzialità, con caratteristiche di dinamicità e programmabilità ormai imprescindibili.
L’uso educativo del personal computer ha seguito, a partire dal momento della sua nascita negli
anni ottanta, l’approccio skinneriano dell’istruzione programmata. Tale approccio, denominato CAI
(Computer Assisted Instruction) si vale del computer come “teachin machine” (macchina per inse-
gnare) attraverso sequenze semplici e sistematicamente rinforzate di apprendimento.
Secondo Seymour Papert, inventore del linguaggio di programmazione Logo2, occorre ripensare
globalmente il processo di apprendimento mediato dal computer che «potrebbe potenzialmente de-
tecnicizzare l’insegnamento». Papert ritiene che la scuola tenda a negare la naturalità dell’apprendi-
mento e lo riduca a un tecnicismo in cui l’insegnante diventa lo specialista. Il potenziale rivoluzio-
nario del computer risiede in un approccio didattico definibile PET (Progressive Educational Tech-
nology). Alla base del PET sta l’idea che un uso diretto del computer fornito di un linguaggio facile
da padroneggiare per il bambino permetta a quest’ultimo di avere un individuale itinerario di pro-
grammazione e apprendimento, direttamente connesso con il proprio ambiente, la propria personali-
tà, la propria esperienza di vita.
Particolari riflessioni sono state sviluppate sul ruolo positivo dei computer nell’educazione lingui-
stica: è stato rilevato come, ad esempio, le tastiere e la videoscrittura motivino alla scrittura e facili-
tino la revisione, il controllo, la manipolazione degli scritti mediante giochi di stampa, di composi-
zione tipografica, di comprensione, di permutazione stilistica, di produzione di storie o di apprendi-
mento di regole.
In ogni caso i mass-media contemporanei mutano profondamente il modo in cui i bambini appren-
dono: l’approccio conoscitivo tradizionale nella scuola è infatti incentrato sulla parola (parlata e so-
prattutto scritta) che mette in gioco determinate forme logiche di immagazzinamento dell’esperien-
za. Per contro, nell’apprendimento televisivo o informatico un ruolo preponderante è svolto dall’im-
magine, che fornisce un apprendimento più immediato e coinvolgente, “per immersione”, in cui la
dimensione analogica prevale su quella logica.
2
Il linguaggio di programmazione Logo si basa un un interfaccia grafico programmabile con sempilci comandi dai
bambini. I bambini infatti possono far muovere sul video del PC una tartaruga che traccia figure geometriche attraverso
le indicazioni fornite dagli utenti con determinati tasti.
Inoltre, la possibilità di “navigare” senza competenze tecniche particolari, consente di attingere, con
percorsi totalmente personalizzati, a un’enorme massa di conoscenze, prima disponibili solo a spe-
cialisti e studiosi. Il rischio principale, a questo riguardo, è lo zapping informatico: bambini di otto-
dieci anni, “nativi digitali”, dimostrano una notevole abilità nel navigare sul web o su un cd-rom di-
dattico, ma lo fanno come se si trattasse di un videogioco, percorrendo siti o nodi in modo casuale,
lasciando inesplorate le parti più complesse e “noiose” e ritornando più volte su quelli più attraenti.
I videogiochi
Pur imparentato con gli altri tipi di media dei quali riprende i vari linguaggi, il videogioco è un
medium che ha avuto un’immensa diffusione dagli anni ottanta in poi presso il pubblico giovanile,
unico per le sue caratteristiche di interattività. Secondo lo psicologo Francesco Antinucci, i video-
giochi sono «oggetti complessi e molto interessanti dal punto di vista cognitivo».
I videogiochi potrebbero essere classificati in “sensomotori” (i giochi in cui l’elemento centrale è la
destrezza e la rapidità nell’uso dei pulsanti e del joystick per colpire bersagli o guidare mezzi in mo-
vimento), “operatori” (dove vengono simulate attività, come la costruzione di una città, in cui oc-
corre, attraverso calcoli mentali, ottimizzare le risorse a disposizione) e “simbolici” (incentrati sul
fatto di vivere delle avventure fantastiche in cui entrano in gioco il coraggio, l’intuizione e la creati-
vità, la capacità di fare scelte opportune secondo la logica profonda del gioco).
Tutt’e tre le tipologie possono consentire al bambino di esercitare competenze cognitive fonda-
mentali e possono rappresentare una buona introduzione al mondo della tecnologia informatica per
le loro caratteristiche di interattività, individualità e flessibilità. D’altronde non può essere negata la
potenzialità negativa dei videogiochi (specie di quelli di tipo sensomotorio) di produrre forme di
stress da sovrastimolazione percettiva, oltre che comportamenti di isolamento relazionale e dipen-
denza simili a quelli indotti da altri media molto coinvolgenti.
Quanto ai media più tradizionali, basati sulla parola e sull’immagine fissati su carta, come il libro,
il più “nobile” di essi, il timore di una scomparsa provocata dal dominio dei media elettronici e dal-
l’ampia diffusione di e-book e e-reader, viene combattuto dal valore permanente delle sue caratte-
ristiche “speciali”. Isaac Asimov ha compiuto una celebrazione delle caratteristiche uniche del libro
come medium, affermando la sua difficile sostituibilità grazie alla durata nel tempo, all’utilizzo
senza l’utilizzo di fonti energetiche, alla flessibilità e velocità d’uso.
Secondo studiosi come Ong, McLuhan, Postman, la “cultura del libro” (che ha sostituito l’orecchio
con l’occhio) ha condotto con sé il passaggio da un atteggiamento psichico orale e intuitivo a uno
visivo e razionale. Le conseguenze individuate da questi studiosi sono note: individualizzazione del
pensiero e del sapere, primato della sequenzialità rispetto alla globalità dell’intuizione. I media
basati sull’audiovisione permettono invece, secondo McLuhan, un contatto molto più profondo e
simultaneo tra culture analfabete e post-alfabete. Essi pongono nella condizione di una ricezione
basata sull’ “orecchiocchio” che restituisce una parte dele dimensioni orali del «villaggio globale»
in cui la TV svolge la funzione di medium “tattile-uditivo”.
Nella ricerca di alternative all’invasività dei nuovi media e del medium televisivo , si è giunti in
tempi recenti a una nuova valorizzazione della letteratura per l’infanzia. Ciò che caratterizza questa
produzione, secondo il pedagogista Franco Cambi, è l’appartenere contemporaneamente all’univer-
so del racconto e dell’attività educativa, con i tre obiettivi dell’ ‘iniziazione’, della fantasia e della
prospettiva pedagogica, simboleggiati rispettivamente dal Pinocchio di Collodi, dalle opere di Ro-
dari e da Cuore di De Amicis (F. Cambi, Letteratura per l’infanzia: teoria e storia, 1995).
Lo scenario contemporaneo mostra una ricca varietà di offerta in cui si incrociano le esigenze più
differenti (commerciali, pedagogiche, politiche) con libri di poesia espressiva o ludica, racconti e
romanzi che seguono i generi adulti, libri-gioco e fumetti. Lo stesso oggetto-libro si è via via diver-
sificato e arricchito nei formati, nei materiali, nelle illustrazioni. Il valore del libro sta anche, secon-
do molti educatori e pedagogisti, tra cui Mario Lodi, nella possibilità di essere prodotto e fruito in
modo più creativo dei media elettronici. Secondo Lodi, la scuola gioca un ruolo fondamentale per
fare sì che il bambino, piuttosto che fruitore passivo,sia protagonista creativo dei messaggi: ciò si-
gnifica, fra l’altro, portare la tipografia in classe, ossia fare in modo che la scrittura, allo stesso tem-
po individuale e collettiva, produca dei testi dotati di contenuti significativi e in grado di essere so-
cializzati con altri gruppi. Nascono così veri e propri libri, tra cui i famosi Cipì e Bandiera, prodotti
dalle classi elementari di Mario Lodi e in seguito pubblicati.
Il dibattito sulla fruizione dei media presso i giovani tende spesso a trascurare che le analisi sulla
non-lettura di bambini e ragazzi potrebbero essere modificate da una valutazione più attenta dei
prodotti che hanno maggior successo presso questo tipo di pubblico.
Soprattutto è il caso del fumetto, fino a pochi anni fa trascurato o condannato dai pedagogisti e
dagli educatori in genere (assieme ai libri horror e alla letteratura “rosa”) per la sua banalità o ad-
dirittura per la sua diseducatività. Non è invece casuale che studiosi dell’educazione come Antonio
Faeti o Gianni Rodari ne abbiano al contrario riconosciuto l’importanza e le potenzialità positive
dal punto di vista educativo. A una osservazione più attenta, si nota infatti come il fumetto implichi,
esattamente come qualsiasi testo narrativo, libro o film, una vasta produzione estremamente diver-
sificata al proprio interno, nella quale coesistono raffinati prodotti artistici, peraltro spesso ricchi di
contenuti ‘alti’, assieme a materiali nettamente orientati ad un consumo spicciolo. Ancora una volta
viene dunque posto in luce l’elemento fondamentale dell’educazione a un consumo selettivo e criti-
co, unico approccio che consente ai giovani di fruire della “loro” letteratura senza inutili demoniz-
zazioni pedagogiche. Occorre ricordare che il fumetto riesce ad esprimere con grande efficacia una
serie di temi vicini alla sensibilità infantile e/o giovanile, inserendoli in strutture narrative facilmen-
te accessibili, dove operano personaggi nei quali è possibile, spesso, identificarsi. Allo stesso tempo
la struttura narrativa del fumetto ha caratteristiche particolari di grande rilevanza cognitiva, in quan-
to, come “racconto per parole e immagini”, esso propone, come afferra Luca Raffaelli, una «lettura
musicale», sulla base di una serie di quadri in sequenza (le vignette) il cui “ritmo” di lettura viene
stabilito dal lettore stesso.
È stato sostenuto che la fruizione incontrollata della TV da parte dei bambini produce già in età
prescolare una vera e propria modificazione dello sviluppo. I bambini, spesso messi in condizione
di seguire da soli le trasmissioni, si “adultizzano” precocemente, abituandosi a seguire narrazioni
complesse e a ricevere stimoli emotivi “forti”. Essi non hanno però un referente reale della vita
adulta che vedono rappresentata: si crea un rapporto sostitutivo fra la persona, il mondo reale e la
TV. Il mezzo televisivo diventa così compensazione delle carenze affettive, della comunicazione e
della presenza interpersonale: sostituisce il dialogo familiare e le emozioni possibili in un rapporto
reale. Inoltre, le trasmissioni televisive presentano spesso caratteri intrinsecamente negativi: inco-
raggiano attraverso la pubblicità e i modelli comportamenti consumistici, spettacolarizzano violenza
ed erotismo, mescolano con indifferenza vero e finto, tragico e divertente; a questo si unisce la sem-
pre più diffusa possibilità di fruire, fin dalla seconda infanzia, di messaggi destinati ad un pubblico
adulto, i cui contenuti pornografici o di violenza estrema tendono ad avere effeti psicologici consi-
stenti. I bambini risentono anche di una serie di effetti fisici, dallo stress da eccessiva stimolazione
alla passività del corpo (che in molti casi, associato all’eccesso di cibi consumati durante la visione,
induce obesità). Vanno incontro, inoltre, a una scarsa esperienza fisica della realtà, e a difficoltà di
apprendimento e percezione, possono aumentare i comportamenti aggressivi, per emulazione dei
modelli televisivi, possono essere pesantemente condizionati gli stili di vita.
Occorre però ricordare che una parte degli studiosi che si occupano di questo argomento ritiene che
il rapporto tra bambini e TV non debba essere descritto solo come negativo e a senso unico: piutto-
sto è necessario distinguere tutte le variabili e le circostanze in gioco, riconoscendo anche che i
bambini sono meno “indifesi” e “plasmabili” di quanto sembrino.
Il problema pedagogico dei media ha comunque un livello morale e politico, lo stesso che fa so-
stenere a personalità della cultura come Karl Popper la necessità di una «patente per fare la TV».
Diviene così centrale il ruolo degli adulti, e in primo luogo della famiglia, per un uso corretto della
TV da parte dei bambini. Come molte ricerche negli ultimi vent’anni hanno dimostrato, per molti
bambini in età scolare e prescolare - soprattutto per le fasce di popolazione meno abbiente e con mi-
nor accesso ai new media - la televisione è un’amica il cui menu quotidiano accompagna e riempie
la giornata. Una parte, spesso preponderante, della visione avviene da soli: la televisione è anche
un’ottima baby sitter. I genitori, infine, tendono a far assistere ai bambini, nelle fasce di uso comu-
ne dell’apparecchio, ai programmi pensati per un pubblico più maturo, limitandosi a “glissare” in
vari modi quando contengono scene imbarazzanti e violente. In realtà, anche molti dei prodotti (te-
lefilm, cartoni animati) ritenuti dagli adulti adatti ai bambini, presentano contenuti che richiedono di
essere elaborati. I bambini tendono, esattamente come gli adulti, a identificarsi con i personaggi, ma
hanno meno barriere all’assorbimento delle visioni del mondo e dei comportamenti di questi model-
li. Possono, ad esempio, essere attratti dalla violenza, che sullo schermo non viene solo raccontata,
ma direttamente rappresentata in modo imitabile; oppure elementi ricorrenti, come vari tipi di pau-
ra, lutti famigliari, ecc, possono essere avvertiti come tristi e angosciosi senza che si abbiano a di-
sposizione sbocchi (forme di rappresentazione, dialoghi con gli adulti) che ne consentano il supera-
mento. Di fronte a questa situazione, l’esperto di comunicazione sociale Gianfranco Bettetini parla
di “salute televisiva”, proponendo allo spettatore di abbandonare ogni atteggiamento consumistico
per giungere a un atteggiamento di “lettura consapevole” e quindi selettiva, oltre che interpretativa.
In questo senso, secondo Bettetini, un importante contributo è offerto dai nuovi media, concepiti e
strutturati su una interattività e una selezione personale reali. Tuttavia la validità di questa offerta è
proporzionata alla capacità critica e all’autonomia di scelta del singolo spettatore; caratteristiche
che possono essere sviluppate solo con un’educazione mirata.
Lo psicologo Guido Petter ha sostenuto la necessità di superare sia le posizioni “apocalittiche” che
quelle “integrate”. La televisione, come il PC o il tablet, è presente in tutte le case, con più apparec-
chi che consentono una visione individualizzata, piace ai bambini, diffonde informazione e cultura
con un linguaggio facilmente comprensibile ed assimilabile. Non si può quindi pensare di risolvere i
problemi semplicemente spegnendola o demonizzandola; essa non essere né esaltata ne utilizzata in
modo acritico. Petter fornisce a questo proposito una serie di consigli ai genitori per «limitare i pos-
sibili effetti negativi di un’esperienza televisiva compiuta in modo sregolato e per rafforzarne quelli
positivi». I principali sono:
- vedere un certo numero di programmi insieme ai bambini, osservare le loro reazioni, inter-
venire per introdurre una lettura critica dei linguaggi e dei messaggi e una discussione in cui
essi possano elaborare consapevolmente quanto hanno visto;
- abituare se stessi e i bambini a scegliere, con l’aiuto di apposite guide, spettacoli determinati
in moment precisi, evitando la visione “a flusso continuo” e lo “zapping”;
- imparare e far imparare ad analizzare i palinsesti, creando dei criteri-guida per le scelte e
delle aspettative precise nei confronti dei programmi;
- proporre letture collegate con spettacoli televisivi, insegnando quindi al bambino a riformu-
lare quanto ha visto in un linguaggio più elaborato;
- utilizzare la videoregistrazione per smontare, confrontare, collezionare criticamente pro-
grammi.
La pubblicità e la sua analisi
La pubblicità, nella sua forma fondamentale, è la comunicazione della disponibilità di una merce al
pubblico che può acquistarla. La diffusione della comunicazione pubblicitaria è avvenuta soprattut-
to nella seconda metà del Novecento, con l’espansione mondiale di un’economia incentrata sul con-
sumo di massa di ogni tipo di prodotto, e la presenza dei mass-media in grado di raggiungere la
quasi totalità delle persone. Parallelamente, i messaggi pubblicitari sono divenuti sempre più elabo-
rati, spettacolari, persuasivi, coinvolgenti, seduttivi, prodotti su misura a partire dalle caratteristiche
del settore di pubblico cui si rivolgono grazie ad approfondite ricerche di mercato. Una svolta fon-
damentale è stata data dall’enorme aumento della pubblicità televisiva, costituita da spot.
Gli spot sono forme di comunicazione molto concentrate nel tempo, ma anche molto complesse:
devono infatti condurre un potenziale pubblico a conoscere qualcosa, ad apprezzarlo e ad agire di
conseguenza (acquistare a far acquistare un prodotto, nella maggior parte dei casi) senza annoiarsi e
cambiare canale. Come qualunque spettacolo televisivo, sono costituiti da una sequenza in cui sono
presenti diversi codici: immagini emotivamente ricche, azioni, parole (parlate e scritte) che trasme-
ttono slogan, sfondi sonori e musica che contiene i jingles, memorizzabili con estrema facilità da
adulti e bambini. Il tutto può dar luogo a diversi tipi di storia, basati sulla vita quotidiana, su situa-
zioni comiche, su situazioni “da favola”, oppure a meccanismi privi di trama, dove il montaggio
propone un messaggio secondo modalità non-narrative. Gli spot - straordinari contenitori di stili,
luoghi comuni, frammenti di altri spettacoli, stereotipi sociali presentati allo scopo di rafforzare in
vari modi il messaggio - raggiungono massicciamente i bambini, o sono a loro direttamente indi-
rizzati. Infatti gli esperti di comunicazione pubblicitaria hanno scoperto, già da lungo tempo, che i
bambini sono straordinari consumatori: sebbene privi di denaro, spingono gli adulti ad acquistare
prodotti esplicitamente indirizzati a loro ma anche beni, come le automobili, che sono considerati di
esclusivo interesse dell’adulto.
I bambini tendono a memorizzare gli spot più di qualsiasi altro messaggio televisivo, ciò perché si
identificano con le situazioni proposte (specie se nello spot sono presenti altri bambini, usati anche
per il loro grande potere di richiamo emotivo sull’adulto), perché gli spot presentano una visione
del mondo positiva e rassicurante, situazioni eccitanti, tenere, divertenti, sorprendenti, strutture faci-
li da memorizzare come i jingles. Da un punto di vista educativo, questo porta con sé molti rischi:
i bambini possono acquisire una visione della realtà semplificata e distorta, scarsa capacità di con-
centrazione, scarsa disponibilità a dilazionare nel tempo la soddisfazione per il raggiungimento di
un risultato (negli spot l’ “happy end” è immediato), una socializzazione troppo precoce e una serie
di comportamenti adulti. Varie ricerche hanno dimostrato che la comprensione degli spot cambia
col cambiare dell’età: solo verso gli undici anni, infatti, la maggioranza dei bambini identificano
correttamente gli spot come messaggi a scopo commerciale e persuasivo, mentre intorno agli otto
prevale l’idea di una funzione informativa. Ciò non toglie che anche adolescenti o adulti - sebbene
dimostrino maggiore senso critico e un gradimento via via più selettivo - siano sedotti dalla bellezza
degli “spot”, divenuti negli ultimi cinquant’anni una delle principali forme di “arte applicata”.
Dato il grande potere esercitato dagli spot sui bambini, esistono ormai da tempo, in tutta Europa,
normative e codici di autodisciplina per limitare i tempi, i modi e i contenuti della pubblicità a loro
destinata o alla quale possono essere esposti. Secondo gli esperti, i più piccoli, che non sono ancora
in grado di comprendere completamente l’esistenza e la specificità del messaggio pubblicitario, do-
vrebbero essere limitati il più possibile nella sua visione, mentre a partire dai sei anni è possibile
rafforzare le capacità critiche, insegnando a decodificare i vari aspetti del messaggio, a riconoscere
le intenzioni del pubblicitario, a distinguere tra mondo reale e mondo rappresentato dalla pubblicità.
I media e la scuola
Per quanto riguarda l’utilizzo dei media nella scuola, gli studiosi si dividono in tre posizioni: la pri-
ma include il pensiero di Papert e dei suoi sostenitori, che spingono verso una maggiore introduzione
dello studio dei media e del loro uso didattico nella programmazione scolastica, la seconda riprende il
pensiero di Postman, adducendo la necessità che la scuola rimanga immune dall’uso didattico dei me-
dia, e la terza è la posizione che cerca di conciliare le altre due, indicando le potenzialità dei nuovi
mezzi, ma sottolineando il rischio che i processi di apprendimento ne risultino banalizzati.
Secondo Neil Postman, sistema scolastico e mass-media, in quanto «sistemi di apprendimento to-
tale» creano un “duopolio” in cui si contendono l’educazione dei giovani. Ciò avviene sulla base di
una opposizione strutturale per cui alla cultura scientifico-tecnologica, alla linearità e razionalità dei
discorsi e dell’impegno intellettuale lungo, analitico e programmato della scuola si contrappongono
la cultura iconico-orale, il flusso discorsivo di tipo analogico e l’immediatezza emotiva dei media.
Pur senza aderire a questa contrapposizione, è evidente che i media hanno sconfitto la scuola e la
cultura tradizionale nel suscitare l’interesse del pubblico giovane o adulto: le informazioni conden-
sate o allargate in contesti differenziati, la possibilità di scegliere assecondando gusti e interessi per-
sonali fanno dei media tradizionali, ma soprattutto dei nuovi media, delle “guide” straordinarie, ca-
paci di fornire nozioni con la massima efficacia. Il loro proporsi come agenzie educative extra-sco-
lastiche deve essere considerato come un dato di fatto. Ormai l’epoca in cui si guardava al mondo
dell’extrascuola come a qualcosa di secondario rispetto al luogo consacrato della trasmissione cul-
turale è molto lontana e il rapporto fra l’istituzione educativa e gli scenari educativi esterni – l’edu-
cazione cosiddetta informale – deve essere di nuovo definito. La scommessa pedagogica della scuo-
la consiste, perciò, nello spostamento dalle nozioni alle competenze, dall’informazione alla rifles-
sione e al dialogo inteso come confronto critico, dai contenuti al loro apprendimento e al loro uso.
L’ “insegnare a imparare”, slogan dominante nel pensiero pedagogico del ‘900, diviene sempre più
lo spazio verso cui la scuola viene fatalmente indirizzata dal ruolo dei media nella società contem-
poranea.
Peraltro l’educazione scolastica all’utilizzo didattico dei media rende necessario che gli insegnanti
sviluppino un “lessico comune” e un dialogo con i propri alunni basato su un’effettiva conoscenza
di programmi, software etc. da essi più apprezzati e utilizzati, al di là del giudizio sul loro valore
educativo effettivo. È possibile ipotizzare degli itinerari didattici che abbiano come principale obiet-
tivo il passaggio da una fruizione passiva ad un uso interattivo. Ciò implica un’ “attivizzazione”
dell’approccio al mezzo, ma anche lo sviluppo della capacità di descrivere, analizzare, selezionare,
contestualizzare, collegare e interpretare i messaggi.
Ovviamente oggi non è più sufficiente un’educazione alla fruizione dei media ‘tradizionali’, ma
occorre anche un’educazione attraverso i media, in un’epoca come la nostra segnata dalla diffusio-
ne planetaria media personalizzati e ad uso individuale. La scuola deve dunque evolversi verso una
vera e propria didattica multimediale.
Afferma Patricia Greenfield che «ciascun mezzo, a causa del suo codice particolare e delle sue
Caratteristiche tecniche, accentua tipi di informazione diversi (…). Pertanto informazioni sullo
stesso argomento, provenienti da più media, ne consentono l’apprendimento da ottiche diversifi-
cate». Secondo la studiosa americana, sarebbe dunque desiderabile una didattica capace di sfrutta-
re al meglio e in modo differenziato le peculiarità di ciascun medium: pertanto, ad esempio, ci si
può valere della parola scritta per far soffermare gli alunni sui fatti relativi a un dato argomento,
mentre i sentimenti e le emozioni dei protagonisti possono essere meglio colti mediante il cinema
o la fiction televisiva. In particolare una didattica multimediale può consentire una elevata indivi-
dualizzazione dei curricoli: un obiettivo fondamentale per la scuola del terzo millennio.
Intelligenze digitali
Per poter reggere il confronto con i media, la scuola deve seguire alcuni passaggi obbligati che con-
ducono ad un comune approdo: unire la presenza preziosa dell’insegnante con una maggiore profes-
sionalità legata alla gestione dei nuovi linguaggi e delle nuove tecnologie dell’educazione.
Occorre pertanto fissare l’attenzione su due aspetti fondamentali:
1. la funzione dell’insegnante è la vera risorsa che la scuola possiede rispetto ai media: è l’insegnan-
te che dà significato all’evento educativo e che recupera il senso dell’azione di cui è protagonista in-
sieme all’allievo. Questo suo essere un operatore “del senso” lo rende insostituibile. I software di-
dattici sono spesso rigidi e si limitano a produrre un programma replicabile ma non modificabile, non
adattabile alla realtà di ogni studente. La rete propone invece modelli facilmente condivisibili, secon-
do il principio del cooperative learning, ma non riesce a distinguere le conoscenze certificate e a
fornire un significato critico al lavoro di ricerca. L’insegnante, al contrario, anche utilizzando gli
stessi supporti, è presente nell’ “hic et nunc” della relazione educativa, può pertanto intervenire
graduando e contestualizzando la comunicazione a seconda delle esigenze. La scuola ha dunque il
compito primario di affiancare gli studenti nell’affrontare la complessa stratificazione dei linguaggi
presenti nella comunicazione sociale, aiutandoli a coglierli distintamente e nei loro ‘sistemi di paren-
tela’, per poi valutare in modo critico quali sono le loro fonti, i loro significati e i loro obiettivi.
2. L’insegnante deve acquisire una nuova professionalità legata all’utilizzo dei nuovi strumenti del-
l’educazione. Questo è necessario in primo luogo perché l’utilizzo del materiale hardware e software
per ottimizzare la didattica è oggi imprescindibile: acquisendo nuove abilità, l’insegnante diventa più
‘bravo’ e funzionale nel ruolo “registico” di costruttore di situazioni educative significative; in se-
condo luogo, l’introduzione di nuovi strumenti, quali il computer o le LIM, crea delle modificazioni
sostanziali alle tecniche dell’apprendimento che si realizzano all’interno di un gruppo scolastico; tali
strumenti non vanno visti come sostitutivi dei media tradizionali, quasi fossero in competizione con
essi, bensì come risorse fondamentali di integrazione e arricchimento dei percorsi didattici. In tal sen-
so, occorre definire una sorta di “dogma pedagogico”: non si possono ‘studiare’ i nuovi linguaggi
senza ‘utilizzare’ i nuovi linguaggi e le tecnologie che li producono. Pertanto, nel rispetto della speci-
ficità che caratterizza la struttura dei linguaggi digitali, occorre contestualizzare i messaggi all’interno
del mezzo che li produce: in altri termini, si impara a conoscere i mezzi utilizzandoli.
A questo proposito non si può negare che le dotazioni in uso nelle scuole risultino cronicamente in-
soddisfacenti per tradurre in atto, nella didattica quotidiana, le potenzialità della tecnologia digitale:
si pensi solo al tempo che occorre perché mediamente una scuola si doti delle nuove tecnologie; esso
corrisponde solitamente - per i rapidissimi tempi di evoluzione e cambiamento dei new media - al lo-
ro graduale divenire strumenti obsoleti; cosicché le nuove strumentazioni, per i tempi della burocra-
zia scolastica, arrivano nelle scuole spesso già datati. In questo modo si crea una spaccatura innega-
bile tra le modalità di acquisizione delle informazioni e la gestione degli apprendimenti da parte dei
ragazzi – sempre più nativi digitali – e le tipologie di analisi tipiche della cultura scolastica. L’attività
scolastica appare poco motivante e non favorisce il superamento dello scontro fra differenti modelli
di apprendimento. Ciò che serve è invece una nuova prospettiva per l’educazione, in grado di aggan-
ciare l’intelligenza digitale, rendendola disponibile – grazie alla presenza “significante” dell’insegnan-
te - a funzioni di natura critica.
MASS-MEDIA E EDUCAZIONE
cultura e comunicazione di massa
U. Eco
“apocalittici” “integrati”
irrimediabile negatività dei media accettazione incondizionata
per la crescita umana dei nuovi media
McLuhan, Postman
“cultura del libro” culture analfabete culture post-alfabete
visivo-razionale (occhio) vs orale intuitivo (orecchio) vs media audiovisivi => “orecchiocchio”
sequenzialità vs globalità dell’intuizione vs apprendimento per “immersione”
dimensione logica vs dimensione emotiva vs dimensione analogica (immagine)
TV
informazione-interpretazione falsificazione vs autenticità
ipersemplificazione degli eventi illusione dell’informazione oggettiva
rapporto bambini - TV non solo negativo => distinguere variabili e circostanze in gioco
ruolo della famiglia => facilitare/guidare all’elaborazione critica dei messaggi
superamento di posizioni “apocalittiche” o “integrate”
spegnimento/demonizzazione esaltazione o utilizzo acritico
strategie educative
0-6 anni: limitare il più possibile la visione di spot normative europee e codici
sei anni: rafforzare le capacità critiche di autodisciplina per limitare
decodifica messaggi: intenzioni del messaggio - tempi modi contenuti della
distinzione tra mondo reale e m. rappresentato pubblicità destinata ai bambini
Il computer e le reti in educazione
anni ‘80: approccio skinneriano dell’istruzione programmata CAI (Computer Assisted Instruction)
computer come “teachin machine” sequenze semplici/sistematicamente rinforzate di apprendimento
Burrhus Skinner (1904-1990)
30 anni di diffusione del computer => dibattito aperto sulla rivoluzione informatica
atteggiamenti verso l’uso educativo del computer
“navigare” senza competenze tecniche ruolo positivo dei computer nell’educazione linguistica:
particolari consente di attingere, con tastiere e videoscrittura: motivano alla scrittura
percorsi personalizzati, a un’enorme facilitano la revisione, il controllo, la manipolazione
massa di conoscenze, prima disponibili degli scritti mediante giochi di stampa, di composizione
solo a specialisti e studiosi tipografica, di comprensione, di permutazione stilistica,
di produzione di storie o di apprendimento di regole.
il “duopolio”
sistema scolastico mass-media
a) cultura scientifico-tecnologica linearità/razionalità vs b) cultura iconico-orale flusso discorsivo
dei discorsi e dell'impegno intellettuale lungo, analogico / immediatezza emotiva dei media
analitico e programmato della scuola
Intelligenze digitali
mondo in cui dati reali e virtuali si compenetrano, metodologia della ricerca fondata sul-
si contrappongono e si avvicinano secondo logiche l’analisi critica e confronto con le fonti
che appaiono estranee alla cultura tradizionale,
improntata alla scrittura => brave new world
dominato dall'informazione e dalla comunicazione vs
digitale e globale, assunta soprattutto dalla rete e
gestita attraverso processi di scelta rapida del tipo approccio dei digitali => esperienza diretta e
“mi piace/non mi piace”. condivisione con i pari => processo cooperativo
modello di euristica cognitiva
modo di accostarsi ad un problema =>
capacità di fornire una risposta rapida
ed efficace al momento senza curarsi degli
esiti “a lungo termine”: approccio open source
(condivisione musica/video, etc) esperienze on-line
unire
presenza dell'insegnante maggiore professionalità nella gestione
dei nuovi linguaggi e delle nuove tecnologie
2. L'insegnante deve acquisire una professionalità legata all'utilizzo dei nuovi strumenti
utilizzo ragionato del materiale hardware e software per ottimizzare la didattica
insegnante ruolo “registico” => costruttore di situazioni educative significative
nuovi strumenti (computer/LIM etc) =>
non in competizione con i media tradizionali ma
risorse di integrazione/arricchimento dei percorsi didattici
non si possono 'studiare' o conoscere i nuovi linguaggi e tecnologie senza saggiarli utilizzandoli
tempi della burocrazia scolastica vs tempi di evoluzione e cambiamento dei new media
(tempo che occorre perché la
scuola si doti delle nuove tecnologie) le nuove strumentazioni arrivano
nelle scuole spesso già obsolete o datate
Tutte le società operano delle distinzioni tra i loro membri, e tali distinzioni generalmente si tradu-
cono in disuguaglianze sociali. Uno dei modi più comuni per differenziare tra loro gli individui con-
siste nel distinguerli in base alle caratteristiche somatiche o ai tratti culturali. La conseguenza di que-
ste differenziazioni sociali è che i diversi gruppi finiscono per considerare se stessi e per essere con-
siderati dagli altri come “diversi”.
I rapporti razziali ed etnici sono i modelli di interazione tra gruppi i cui membri hanno in co-
mune delle caratteristiche somatiche o dei tratti culturali particolari. Quando gli individui hanno
in comune certe caratteristiche somatiche vengono definiti come “razza”, quando hanno in comune
certi tratti culturali vengono definiti come “gruppi etnici”.
Per tutto il corso della storia i rapporti tra i gruppi razziali ed etnici sono stati contrassegnati dal
pregiudizio, dall’antagonismo, dalla guerra e dalla disuguaglianza sociale.
Il termine “razza” si riferisce alle caratteristiche somatiche dei diversi gruppi umani, trasmesse per
via genetica, mentre il termine “etnia” si riferisce alle differenze acquisite per mezzo della cultura.
La razza
Intesa come concetto biologico, la parola razza è pressoché priva di qualsiasi significato. Gli oltre
sei miliardi di individui che popolano la terra presentano una grande varietà di caratteristiche quali il
colore della pelle, la struttura dei capelli, il rapporto tra gli arti e il tronco, la conformazione del na-
so, delle labbra e delle palpebre, che sono il prodotto dell’adattamento dei gruppi umani all’ambien-
te in cui vivevano: la pelle scura protegge le popolazioni delle aree tropicali dai danni dei raggi del
sole, gli arti relativamente corti permettono alle popolazioni che vivono in un clima molto rigido di
mantenere alta la temperatura corporea. Ma queste differenze evolutive influenzano solo i tratti so-
matici, non ci sono al momento dati attendibili che mostrino l’esistenza di una trasmissione eredita-
ria di caratteristiche psichiche nei diversi gruppi. Per quanto gli antropologi per decenni abbiano ten-
tato di formulare un qualche tipo di ordine concettuale dividendo la specie umana in razze e sotto-
razze, di fatto non esiste una razza “pura”. Gruppi di popolazione diversi si sono incrociati tra loro
per decine di migliaia di anni dando luogo ad un continuum di tipi umani. Le differenze somatiche tra
i gruppi umani sono semplicemente un fatto biologico e per questo non rivestono un interesse parti-
colare per il sociologo. Il forte interesse del sociologo per la razza deriva invece dall’importanza che
essa assume come fatto sociale, visto che gli individui attribuiscono parecchi significati alle differen-
ze somatiche, reali o immaginarie, esistenti tra gruppi umani. Quindi, dal punto di vista sociologico,
una razza è costituita da un rilevante numero di persone che, per ragioni sociali o geografiche, si so-
no accoppiate tra loro per un lungo periodo di tempo, col risultato di aver sviluppato delle caratteri-
stiche somatiche identificabili e di considerare se stesse e di essere considerate dagli altri come una
unità biologica.
L’etnia
Mentre la razza si riferisce esclusivamente a delle caratteristiche somatiche, il concetto di etnia ri-
guarda i tratti culturali. Questi comprendono la lingua, la religione, l’origine nazionale, le consuetudi-
ni alimentari, il senso di un’eredità storica comune ed ogni altra specificità culturale. Molti gruppi,
come i neri e gli indiani d’America, hanno una connotazione sia razziale che etnica. In altri casi, i
gruppi etnici non si distinguono dal resto della popolazione per le loro caratteristiche somatiche.
Gli americani di origine tedesca o polacca, per esempio, fisicamente non si distinguono gli uni dagli
altri. Dal punto di vista sociologico, un gruppo etnico è costituito da un rilevante numero di persone
che, in conseguenza dei tratti culturali comuni e dell’alto livello di interazione reciproca, considerano
se stesse e vengono considerate dagli altri come un’unità culturale. Le differenze etniche non vengo-
no ereditate per via genetica, ma apprese attraverso la cultura. Nessun gruppo etnico possiede dei
tratti culturali innati, li acquisisce invece dal proprio ambiente.
Le minoranze
Nel mondo moderno molte società sono grandi ed eterogenee, in seguito ad insediamenti coloniali,
attività missionarie, migrazioni, ecc.; in queste società esistono spesso delle minoranze che hanno
sembianze fisiche e abitudini culturali diverse da quelle del gruppo dominante. Accade allora che il
gruppo dominante operi delle differenziazioni e neghi la possibilità ai membri della minoranza di
avere uguale accesso al potere, alla ricchezza e al prestigio. Il termine viene usato dai sociologi nel-
l’accezione che per primo gli diede Louis Wirth (1945): “Possiamo definire gruppo di minoranza un
gruppo di individui che, a causa delle loro caratteristiche somatiche o culturali, sono distinti o se-
parati rispetto agli altri nella società nella quale vivono e sono quindi trattati in modo inuguale e che
perciò si considerano oggetto di una discriminazione collettiva.” Questo concetto è stato successiva-
mente perfezionato, cosicché oggi i sociologi pensano che una parte della popolazione costituisca un
gruppo di minoranza quando sussistono le seguenti caratteristiche specifiche:
I rapporti razziali ed etnici possono seguire modelli assai diversi che vanno da un’armoniosa con-
vivenza al conflitto aperto. George Simpson e Milton Yinger (1972) hanno identificato sei modelli
fondamentali di ostilità o cooperazione fra i gruppi. Il loro elenco copre virtualmente tutti i possibili
modelli di rapporti di razza e di etnia. Inoltre, ciascun modello esiste o è esistito in qualche parte
della terra.
1. Assimilazione. In taluni casi un gruppo minoritario viene semplicemente eliminato per assi-
milazione nel gruppo dominante. Questo processo può comportare l’assimilazione culturale, l’assi-
milazione razziale o entrambe. L’assimilazione culturale si verifica quando il gruppo di minoranza
abbandona i propri tratti specifici e adotta quelli della cultura dominante; l’assimilazione razziale si
verifica quando le differenze somatiche tra i gruppi spariscono in conseguenza degli accoppiamenti
incrociati. Il Brasile è probabilmente il miglior esempio di un paese che ha praticato una politica di
assimilazione. Con l’eccezione di alcuni gruppi isolati di indiani, i vari gruppi razziali ed etnici pre-
senti nella società si accoppiano abbastanza liberamente. Il Portogallo ha tentato di attuare una poli-
tica di assimilazione nelle colonie africane che ha amministrato fino alla metà degli anni ‘70. I porto-
ghesi istituirono uno status speciale, quello di assimilado, per quegli africani o individui di razza mi-
sta che venivano considerati sufficientemente portoghesi per colore o cultura da condividere i privi-
legi del gruppo dominante.
2. Pluralismo. Alcune minoranze non intendono perdere la loro identità di gruppo; i loro membri
hanno una forte coscienza della propria eredità, ne sono fieri e manifestano lealtà al gruppo. Dal
canto suo il gruppo dominante nella società può desiderare o addirittura incoraggiare la varietà cultu-
rale nell’ambito più vasto dell’unità nazionale. La Tanzania, per esempio, è una società pluralistica,
tendenzialmente rispettosa delle differenze culturali esistenti tra le popolazioni africane, asiatiche,
europee e medio-orientali presenti nel paese. In Svizzera quattro gruppi etnici di lingua tedesca,
francese, italiana e romancia conservano il proprio sentimento di identità di gruppo e vivono insieme
pacificamente in una entità sociale complessiva.
3. Tutela legale delle minoranze. In alcune società, certi settori consistenti del gruppo do-
minante manifestano degli atteggiamenti ostili nei confronti dei gruppi di minoranza. In tali casi, lo
stato può trovarsi nella necessità di istituire delle misure di legge a tutela degli interessi e dei diritti
delle minoranze. In Gran Bretagna, ad esempio, il Race Relations Act del 1965 stabilisce l’illegalità di
ogni discriminazione nell’assunzione di lavoratori e in materia di abitazioni fondata su motivazioni
razziali. E’ un atto delittuoso anche la pubblicazione e la pubblica espressione di sentimenti che
possano incoraggiare l’ostilità tra i gruppi razziali ed etnici nella popolazione.
Il razzismo
Alcuni gruppi razziali ed etnici riescono a convivere in condizioni di uguaglianza e di rispetto reci-
proco mentre altri si trovano in uno stato di disuguagliaanza e conflitto permanenti. E’ chiaro che
non esistono ragioni intrinseche per le quali debbano essere ostili l’uno con l’altro. I cattivi rapporti
tra gruppi razziali ed etnici hanno delle cause sociali: come si sviluppano le disuguaglianze e gli anta-
gonismi di razza e di etnia? La stragrande maggioranza dei gruppi umani tende ad essere etnocen-
trica, cioè tende ad impiegare ciecamente i propri valori e le proprie usanze per giudicare gli altri
gruppi. Non c’è quindi da meravigliarsi che spesso trovino inadeguati gli altri gruppi sotto qualche
aspetto. Per la stragrande maggioranza delle persone va da sé che le loro norme, la loro religione, i
loro atteggiamenti, i loro valori, le loro abitudini culturali siano giusti e adeguati, mentre quelli degli
altri gruppi sono singolari, bizzarri e perfino immorali. Perciò è quasi inevitabile che una certa misu-
ra di etnocentrismo si riscontri presso tutti i gruppi razziali ed etnici. In effetti essa può risultare
funzionale per la sopravvivenza del gruppo. Gli atteggiamenti etnocentrici assicurano la solidarietà e
la coesione del gruppo in cui si manifestano perchè offrono ai suoi membri la necessaria fiducia nelle
proprie tradizioni culturali. Naturalmente il fatto negativo è che gli atteggiamenti etnocentrici sono
disfunzionali per gli altri gruppi. In presenza di certe condizioni gli atteggiamenti possono assumere
una forma estrema e aggressiva e servire come giustificazione dell’oppressione razziale ed etnica.
È questo il fenomeno del razzismo: un gruppo considerato inferiore o diverso viene sfruttato o op-
presso dal gruppo dominante. Il razzismo non è il prodotto necessario del contatto tra gruppi diver-
si. È perfettamente possibile conciliare l’identificazione con il proprio gruppo e il sentimento di fie-
rezza di esserne gli eredi con il rispetto per la cultura e per le tradizioni degli altri gruppi.
Le cause del razzismo
L’etnocentrismo si trasforma in razzismo soltanto quando sono presenti certe condizioni; in parti-
colare perché il razzismo si sviluppi devono sussistere tre condizioni fondamentali:
1. Devono esistere due o più gruppi sociali, identificabili per caratteristiche fisiche e abitudini cultu-
rali. Se gli individui non sono coscienti delle differenze esistenti tra i gruppi e non sono in grado di
rilevare l’appartenenza all’uno o all’altro gruppo, il razzismo non si sviluppa.
2. Deve esistere una competizione tra i gruppi per l’accesso alle risorse valutate positivamente, co-
me il potere, la terra o i posti di lavoro. In questa situazione, i membri di un gruppo saranno portati
a garantire i propri interessi negando ai membri degli altri gruppi il pieno accesso a tali risorse.
3. Il potere deve essere distribuito in modo ineguale tra i gruppi, tanto che uno di essi sia in grado di
avanzare pretese sulle risorse limitate a scapito dell’altro o degli altri gruppi. A questo punto le di-
suguaglianze sono diventate parte integrante della struttura sociale.
Il gruppo dominante sviluppa delle concezioni razziste sulla presunta inferiorità del gruppo o dei
gruppi di minoranza per giustificare la propria costante supremazia.
Secondo la prospettiva del conflitto, dietro il razzismo stanno le disuguaglianze economiche. Le di-
spute tra i gruppi non riguardano tanto il fondamento reale delle distinzioni razziali o etniche, quan-
to l’uso di presunte distinzioni per mantenere in piedi le disuguaglianze sociali. Nel periodo colonia-
le, ad esempio, alla base del razzismo che si sviluppò nelle nazioni conquistatrici, c’era un pressante
interesse economico. I colonizzatori, infatti, si servivano delle popolazioni indigene per avere forza-
lavoro a buon mercato. Le potenze europee, specialmente quelle che praticavano la schiavitù, si tro-
varono di fronte a un dilemma morale: il modo in cui trattavano le popolazioni delle colonie era in-
compatibile con la loro dichiarata fede cristiana. Poiché nessun cristiano può legittimamente fare di
un altro essere umano uno schiavo, si fece ricorso ad una giustificazione ovvia: quella di classificare
le popolazioni coloniali come subumane. Il razzismo delle potenze occidentali è stato un fenomeno
rilevante sia per le sue dimensioni di scala internazionale, sia per la sistematica giustificazione teori-
ca fornita da teologi e scienziati, ma esso si riscontra in tutto il mondo ogni qual volta si presentano
situazioni di competizione economica tra gruppi diversi. Non è un caso che, per quanto riguarda gli
Stati Uniti (Selznick e Steinberg, 1969), i maggiori pregiudizi si riscontrano tra i bianchi di status in-
feriore, cioé tra gli individui che si sentono più minacciati dai miglioramenti economici e dalla com-
petizione delle minoranze.
Il gruppo dominante cerca sempre di legittimare i propri interessi attraverso un’ideologia, cioé un
insieme di credenze che spiegano e giustificano il sistema sociale esistente. L’ideologia del razzismo
serve a legittimare le disuguaglianze sociali esistenti fra i gruppi facendole apparire “naturali” e “giu-
ste”. Ma l’ideologia del razzismo non si limita a giustificare le disuguaglianze esistenti; essa la raf-
forza mediante il processo sociale della “profezia che si autoadempie”, che nel campo dei rapporti
razziali ed etnici funziona in questo modo: l’ideologia razzista del gruppo dominante definisce infe-
riore la minoranza e, in considerazione di ciò, si crede che i suoi membri non siano idonei a svolgere
occupazioni di status elevato, a ricevere un’istruzione superiore, ad assumere posizioni di responsa-
bilità nella società. Di conseguenza, essi non hanno accesso a questi canali di mobilità; all’opposto,
ottengono solo posti di lavoro di status inferiore, ricevono un’istruzione di basso livello e raramente
assumono posizioni di responsabilità. Questo stato delle cose viene assunto come “prova” dell’infe-
riorità del gruppo di minoranza e l’ideologia razzista trova così una conferma.
Pregiudizio e discriminazioni
A differenza della maggior parte delle società, gli Stati Uniti sono in primo luogo un paese compo-
sto da immigranti giunti in un periodo relativamente recente; gli antenati della grande maggioranza
degli americani giunsero in questo paese come esploratori, avventurieri, colonizzatori, rifugiati poli-
tici, deportati o schiavi in catene. Vi è una credenza gelosamente custodita dagli americani, secondo
la quale la loro società ha assolto la funzione di “crogiuolo” di popoli diversi. Dell’essenza di questo
credo si è fatto interprete The Melting pot (il Crogiuolo), un popolare spettacolo di successo rap-
presentato a Brodway nel 1908:
“L’America è il crogiuolo di Dio, la grande pentola nella quale tutte le razze d’Europa si mescolano e
rinascono! Eccovi arrivati, buona gente - io penso - quando vi vedo ad Ellis Island; e ve no state divisi
in cinquanta gruppi, con le vostre cinquanta lingue e con le vostre storie e con le vostre ancestrali riva-
lità. Ma non sarete più quelli, fratelli, perché il fuoco di Dio vi forgerà... tedeschi,e francesi, irlandesi e
inglesi, ebrei e russi, nel suo crogiuolo. E così Dio crea l’americano”.
La verità è un po’ diversa. I primi coloni sbarcarono per lo più giungendo dall’Europa settentriona-
le “anglosassone” e ben presto ebbero il controllo sul potere politico ed economico. I loro discen-
denti sono riusciti in gran parte a conservare questo potere nelle loro mani e i loro valori sono diven-
tati i valori dominanti di tutto il paese. Le successive ondate di immigranti hanno dovuto lottare a
lungo e duramente per entrare a far parte del gruppo degli americani che contano e molti non ci sono
riusciti. Coloro che per razza o etnia erano affini ai WASP (White, Anglo-saxon, Protestant, cioé
bianchi, anglosassoni, protestanti) dominanti, come gli scandinavi o i tedeschi, furono accettati con
una certa facilità. Coloro che erano affini ai WASP per razza, ma diversi dal punto di vista etnico,
come i cattolici irlandesi e i polacchi, dovettero affrontare pregiudizi e discriminazioni assai più duri.
Coloro che erano diversi, sia sotto il profilo etnico che razziale, rispetto ai gruppi dominanti, come i
neri e gli ispano-americani vennero esclusi sistematicamente da ogni partecipazione ugualitaria alla
società americana per mezzo di barriere sia formali che informali.
DISUGUAGLIANZE RAZZIALI ED ETNICHE
Minoranze => gruppi che, per caratteristiche somatiche e/o culturali, sono oggetto di discriminazione
5. endogamia
3. tutela legale delle minoranze -> difesa delle m. dagli atteggiamenti ostili
(G.B. race relactions act 1965)
4. trasferimento della popolazione (Pakistan, Uganda, ex-Jugoslavia)
ideologia razzista -> legittimazione delle disuguaglianze sociali esistenti, che appaiono,
nei confronti delle minoranze discriminate, “naturali” e “giuste”
La differenziazione operata in base al sesso è universale, riguarda ogni tipo di società, perché que-
sta caratteristica rappresenta degli attributi ascritti inscindibilmente connessi alla condizione umana.
Ogni società in base al sesso accorda un trattamento diverso agli uomini e alle donne e si attende da
loro dei modelli di comportamento diversi. Queste distinzioni non comportano necessariamente che
un sesso o un gruppo di individui debbano a priori avere un maggiore accesso alle ricompense socia-
li, ma in realtà la differenziazione si traduce quasi sempre in disuguaglianza sociale. In quasi tutte le
società che conosciamo, certi diritti e certe facoltà sono state negate alle donne sulla base di assunti
sociali riguardanti i diversi talenti e le diverse potenzialità dei due sessi. In tutto il corso della storia
lo status inferiore delle donne è stato considerato un fatto di natura autoevidente, sostenuto dalle
convinzioni degli uomini e delle donne e tramandato da una generazione all’altra come parte della
cultura.
La divisione della specie umana nelle categorie di “maschio” e di “femmina” si fonda su un fatto
biologico: il sesso. Però tutte le società hanno elaborato questo fatto biologico in differenze seconda-
rie: tratti di natura sociale e culturale. Si parla così di genere maschile e femminile. Il termine “gene-
re” si riferisce non all’identità sessuale (la consapevolezza cioé di essere maschio o femmina) ma al
“ruolo sessuale”, cioé alle concezioni riguardanti quei tratti della personalità e del comportamento
che sono appropriati ai membri di ciascuno dei sessi. In altre parole, il concetto si riferisce a delle
caratteristiche puramente sociali, quali lo stile della capigliatura, il tipo di vestiario, i ruoli occupa-
zionali, e ad altri tratti e attività culturalmente approvati. Oggi la disuguaglianza strutturale tra i ses-
si che per tanto tempo è stata data per scontata viene messa in discussione, e se le donne hanno tut-
t’oggi uno status subordinato in quasi tutti i settori della società, vi è una tendenza crescente a con-
siderare questa situazione come irrazionale e ingiusta.
Ma in che modo i sessi differiscono tra loro? Ogni tentativo di cambiare i ruoli tradizionali deve af-
frontare il problema della eventuale esistenza di differenze di comportamento innate tra gli uomini e
le donne e, se queste esistono, di stabilire qual è la loro importanza. I ruoli sessuali sono assoluta-
mente flessibili, come qualcuno sostiene, oppure esistono delle barriere naturali, determinate geneti-
camente, al di là delle quali qualsiasi cambiamento è impossibile? Per dare una risposta a questo in-
terrogativo i sociologi si valgono dei dati di tre discipline: la biologia, la psicologia e l’antropologia.
Dati biologici
L’uomo e la donna sono diversi sotto l’aspetto anatomico, genetico e ormonale. Le differenze ana-
tomiche principali riguardano il sistema riproduttivo, l’altezza, il peso, la conformazione fisica, tutti
caratteri che distinguono chiaramente il maschio dalla femmina. Le differenze genetiche tra i sessi si
fondano sul rispettivo corredo cromosomico: la coppia di cromosomi sessuali, detti anche eterocro-
mosomi, sono uguali nelle femmine (XX) e diversi nei maschi (XY). La mancanza di un secondo cro-
mosoma X fa sì che l’uomo sia, sotto molti aspetti, il sesso debole: i maschi hanno più probabilità
delle femmine di nascere morti o malformati; nell’arco di tutto il ciclo vitale il tasso di mortalità degli
uomini è superiore a quello delle donne; le donne sono più resistenti degli uomini alla maggior parte
delle malattie e hanno una superiore tolleranza alla sofferenza e alla malnutrizione. Quanto alle diffe-
renze ormonali, gli studiosi di scienze naturali e di scienze sociali concordano nel ritenere che esse
esercitino una certa influenza nel comportamento dell’uomo e della donna, ma attribuiscono ad essa
un’importanza secondaria.
Dati psicologici
Gli psicologi sostanzialmente concordano sul fatto che alla nascita esistono probabilmente certe
predisposizioni e delle differenze di secondaria importanza nel comportamento dei due sessi, ma
che esse possono essere annullate o accentuate con facilità attraverso l’apprendimento culturale.
Se infatti gli studi effettuati su bambini molto piccoli hanno messo in luce l’esistenza di differenze
di temperamento connesse al sesso già nelle prime fasi della vita (i maschi più attivi delle femmine,
le femmine più portate al sorriso e sensibili al calore e alle carezze), si potrebbe trattare di tendenze
che possono essere prodotte dall’apprendimento fin dal momento della nascita, se i genitori trattano
in modo differenziato i bambini fin dalla nascita. D’altra parte gli studi di John Money e dei suoi
collaboratori (1969) mostrano che gli esseri umani possono essere allevati senza troppe difficoltà
come se appartenessero all’altro sesso. Money ne deduce che la specie umana “al momento della
nascita è neutra dal punto di vista psicosessuale” e che il genere è indipendente dal sesso biologico.
Dati antropologici
Gli antropologi hanno rilevato che in numerose società le caratteristiche dell’identità sessuale sono
molto diverse dalla nostra. Sull’argomento è classico lo studio sul campo eseguito nel 1935 da Mar-
garet Mead :“Sesso e temperamento in 3 popoli primitivi della Nuova Guinea”.
Presso la tribù degli Arapesh la Mead trovò che entrambi i sessi si conformavano a un tipo di per-
sonalità che definiremmo femminile. Sia gli uomini che le donne si mostravano miti, passivi ed affet-
tuosi. L’aggressività, la competitività e la possessività erano fortemente scoraggiati in entrambi i
sessi. Era convinzione comune che uomini e donne avessero identici desideri sessuali, e tanto gli uni
che gli altri si curavano dell’allevamento dei bambini.
All’opposto nella vicina tribù dei Mundugumor, composta da individui cannibali e cacciatori di te-
ste, la violenza e l’aggressività erano attributi richiesti sia agli uomini che alle donne. Le donne Mun-
dugumor non mostravano traccia di quello che noi chiamiamo “istinto materno”. Avevano paura del-
la gravidanza, provavano avversione per l’allattamento e mostravano una particolare ostilità nei con-
fronti delle figlie.
La terza tribù, quella dei Tchambuli, si differenziava dalle altre per le forti differenze esistenti tra
i ruoli assegnati ai due sessi. Ma questi ruoli erano capovolti rispetto a quelli che noi consideriamo
“normali”: le donne rappresentavano l’elemento dominante ed energico, non portavano alcun orna-
mento ed erano loro a fornire il sostegno economico principale. Dal canto loro gli uomini si occupa-
vano di arti, passavano il tempo a fare pettegolezzi, si mostravano espressivi e pieni di premure nei
confronti dei bambini. Margaret Mead giunse alla conclusione che i caratteri del genere, dalla masco-
linità alla femminilità, non sono necessariamente connessi al sesso biologico. Da allora gli antropolo-
gi hanno studiato parecchie altre società in cui i ruoli sessuali presentano differenze trascurabili op-
pure tendono a distribuirsi in modo capovolto rispetto a quello che consideriamo “normale” (Barry
et al., 1957, D’Andrade, 1966).
Nonostante la teoria di M. Mead, i dati provenienti da culture diverse mettono in luce la prevalen-
za di un modello molto rigido di dominio del maschio. La tendenza generale che emerge dalle diverse
culture indica che gli uomini hanno una personalità più dispotica delle donne e che queste sono più
passive e piene di premure. Queste caratteristiche non si siluppano in modo “naturale”: in tutte le
culture i bambini vengono sistematicamente socializzati all’accettazione dei ruoli sessuali prevalenti.
In tutte le società esiste qualche forma di divisione del lavoro tra uomini e donne. Generalmente
agli uomini competono compiti la cui esecuzione richiede vigore fisico e lunghi spostamenti da casa,
come la caccia e il pascolo del bestiame. Le donne invece sono responsabili di compiti che richiedo-
no uno sforzo fisico meno violento e che possono essere svolti senza allontanarsi troppo da casa.
Ma, al di là di questi modelli fondamentali, tra le culture esiste una grande diversificazione per ciò
che concerne il tipo di lavoro che si considera appropriato per gli uomini e per le donne.
La concezione occidentale della donna come creatura delicata ebbe origine nelle classi superiori del-
l’Europa del dodicesimo secolo e da allora si è mantenuta viva, sotto varie forme, sino ai giorni no-
stri. Tracce della cavalleria medioevale si possono riscontrare, ad esempio, nella consuetudine ma-
schile di cedere il posto a sedere alle donne, di aprire loro le porte, di evitare espressioni volgari in
loro presenza.
Nelle diverse società industrializzate del mondo moderno i ruoli sessuali sono sostanzialmente si-
mili. Alcuni paesi, tra cui l’Italia, hanno cercato di equiparare lo status dell’uomo e della donna in-
serendo nella Costituzione il principio di uguaglianza tra i sessi. Ma la parità di fatto non è stata an-
cora raggiunta. Più in generale, si può affermare che in gran parte delle società industrializzate il
principio dell’uguaglianza venga sancito senza che ad esso corrisponda un’uguaglianza di fatto.
La conclusione generale che si può trarre dall’analisi dei dati antropologici riguardo ai ruoli sessuali,
è che, se il dominio del maschio costituisce pur sempre la norma, i ruoli sessuali - come qualsiasi al-
tra forma di comportamento appreso - sono fondamentalmente flessibili. Per rendercene conto basta
guardare alla storia recente della nostra cultura: non è passato molto tempo da quando i maschi ap-
partenenti alla classe superiore delle società occidentali amavano usare parrucche e calze di seta.
La prospettiva funzionalista
Benché gli esseri umani possano essere socializzati secondo uno spettro assai ampio di ruoli ses-
suali, la maggior parte delle società hanno adottato, di tali ruoli, dei modelli abbastanza coerenti.
Ciò secondo la prospettiva funzionalista è dovuto al fatto che una società è più efficiente se i com-
piti e le responsabilità vengono assegnati a individui particolari e se i suoi membri sono socializzati
allo svolgimento di ruoli particolari. I funzionalisti sostengono che svolgere dei ruoli sessuali assai
diversi a seconda del sesso fosse estremamente funzionale nelle società tradizionali, preindustriali.
Il neonato della specie umana è più indifeso di quello di qualsiasi altra specie animale per un lungo
tempo dopo la nascita, ed è quindi necessario che si provveda ad accudirlo. È opportuno che la ma-
dre, che lo partorisce e lo allatta, stia a casa e si prenda cura di lui. Stando a casa, i doveri domestici
tendono ad avere il sopravvento. Nello stesso modo è opportuno che il maschio, che fisicamente è
più potente e che non deve periodicamente portare i figli nel grembo né allattarli, si assuma i compiti
di cacciare, di difendere la famiglia dai nemici e dai predatori e che conduca il bestiame al pascolo.
Ma questi ruoli sessuali tradizionali sono ancora funzionali in una società industriale moderna?
Due teorici del funzionalismo, Talcott Parsons e Robert Bales (1955) sostengono di sì. Essi affer-
mano che in una famiglia moderna è necessaria la presenza di due adulti specializzati nello svolgi-
mento di ruoli specifici. Il ruolo “strumentale”, che generalmente spetta al padre, si incentra sul rap-
porto tra la famiglia e il mondo esterno. Il padre, per esempio, ha la responsabilità di guadagnare il
reddito che serve da sostegno per la famiglia. Il ruolo “espressivo”, che generalmente spetta alla ma-
dre, si incentra sui rapporti interni alla famiglia. Ecco quindi che la madre ha la responsabilità di elar-
gire il supporto affettivo necessario per tenere unita la famiglia. Il carattere strumentale del ruolo
dell’uomo comporta che egli sia l’elemento dominante e competente, mentre quello espressivo della
donna comporta che essa sia passiva ed affettuosa. L’unità familiare funziona, secondo Parsons e
Bales, in modo più efficace di quanto accadrebbe se le differenze di ruolo sessuale non fossero netta-
mente definite.
Il maschilismo
Il dominio di un gruppo su un altro è sempre giustificato da un’ideologia che legittimi l’assetto so-
ciale e lo faccia apparire naturale e moralmente accettabile. La disuguaglianza tra i sessi è fondata sul
maschilismo, accettato sia dal gruppo dominante sia dal gruppo subordinato.
L’idologia maschilista si fonda sulla convinzione che le differenze di genere e la superiorità dell’uo-
mo rispetto alla donna affondino le radici nell’ordine naturale delle cose. Questa credenza è stata
parte integrante delle tradizioni culturali per migliaia di anni.
Perfino il linguaggio rispecchia la posizione dominante del maschio, sia pure in forme e misura di-
verse nelle varie lingue del mondo
Come la maggior parte delle ideologie che giustificano i vari tipi di disuguaglianza, l’ideologia ma-
schilista è sostenuta in una certa misura dalla religione. Nell’occidente, la stessa immagine di Dio è
maschile. Stando al racconto biblico, Dio creò l’uomo a propria immagine e somiglianza, mentre la
donna è frutto di un atto di creazione secondario. Gli antichi israeliti erano un popolo estremamente
patriarcale ed ancora oggi ogni ebreo maschio ortodosso deve recitare ogni mattina questa preghiera:
Che tu sia benedetto, o Dio nostro Signore, re dell’Universo, per non avermi fatto nascere gentile.
Che tu sia benedetto, o Dio nostro Signore, re dell’Universo, per non avermi fatto nascere schiavo.
Che Tu sia benedetto, o Dio nostro Signore, re dell’Universo, per non avermi fatto nascere donna.
Questa prevenzione è stata trasmessa al cristianesimo. Dal canto suo Gesù Cristo sembra sia restato
assai distante dagli atteggiamenti patriarcali del suo tempo, ma il cristianesimo che oggi conosciamo
è stato fortemente influenzato dagli ultimi insegnamenti di San Paolo, che esplicitamente considera-
va l’inferiorità del ruolo della donna come parte dell’ordine naturale voluto da Dio.
L’uomo... è l’immagine di Dio e rispecchia la gloria divina; la donna è il riflesso della gloria dell’uomo.
Perché l’uomo non è scaturito dalla donna; no, la donna è scaturito dall’uomo; e l’uomo non è stato
creato per il bene della donna, ma la donna per il bene dell’uomo. (Lettere ai Corinzi 11: 7-9).
Le mogli rispetteranno i mariti come essi rispettano il Signore, poichè come Cristo è il capo della Chie-
sa e serve tutto il corpo, così il marito è il capo della propria moglie; e come la Chiesa si sottomette a
Cristo, così le mogli si sottometteranno in tutto ai loro mariti. (Lettera agli Efesi 5: 22-23)
Anche oggi molte chiese e sette cristiane assegnano soltanto agli uomini la condizione di sacerdote.
Nelle società occidentali gli atteggiamenti maschilisti sono tuttora presenti e ottengono un largo
consenso sulle qualità e sulle capacità specifiche degli uomini e delle donne. Credenze prive di fon-
damento riguardanti la “mascolinità” e la “femminilità” sono accettate acriticamente da milioni di
persone di entrambi i sessi e si incarnano nel concetto che loro hanno di sé, determinando il modo
in cui entrano in rapporto le une con le altre e conducono la loro vita privata (Klein, 1975; Rothman,
1978). Il gruppo subordinato tende ad accettare l’ideologia che legittima il gruppo dominante perché
considera l’assetto esistente come una cosa “naturale” e non lo contesta. Questo tipo di atteggia-
mento, definito da Marx come “falsa coscienza”, è un modo soggettivo di intendere la propria situa-
zione che non corrisponde alla realtà oggettiva. Solo quando il gruppo subordinato si libera dalla fal-
sa coscienza, è in grado di sfidare il sistema esistente e di pretendere che si attuino dei cambiamenti.
Malgrado i molti successi ottenuti dal movimento delle donne è evidente che molte donne perman-
gono in uno stato di falsa coscienza e continuano ad accettare un sistema che sancisce la loro inferio-
rità. Un gran numero di studi empirici ha messo in luce la tendenza delle donne ad interiorizzare la
rigida immagine sociale, o stereotipo, che le dipinge come inferiori e prive di competenze. Un nume-
ro di donne abbastanza consistente, in definitiva, non gradisce che avvengano troppi cambiamenti
nei ruoli sessuali esistenti. L’ideologia maschilista è ancora profondamente radicata nella cultura e
nella coscienza dello stesso gruppo subordinato.
Il femminismo è un movimento sociale che punta a superare le condizioni di inferiorità della donna
in qualunque campo si manifestino (politico, economico, familiare, educativo). Benché le sue radici
affondino nel secolo scorso, esso ha acquisito una forza e un impatto sociale particolarmente rile-
vanti soprattutto nella seconda metà del Novecento. Se il “vecchio” femminismo ottocentesco per-
seguiva in particolare l’emancipazione della donna tramite la conquista dei diritti civili, quali la pa-
rità politica, giuridica ed economica, il femminismo moderno porta avanti un programma più radica-
le, definito in termini di liberazione della donna, il cui scopo è di trasformare non solo le condizio-
ni di vita, ma la stessa cultura della società, per far posto finalmente in essa al carattere specifico e
ineliminabile del genere femminile. È soprattutto a partire dai primi anni Sessanta che, avvalendosi
di tecniche di “crescita della coscienza” e di altri metodi, il movimento delle donne ha acquisito pie-
na consapevolezza delle varie forme di discriminazione delle quali la donna è fatta oggetto. Si posso-
no individuare due diverse prospettive teoriche tuttora compresenti all’interno del movimento delle
donne:
1) la prospettiva dell’emancipazione, che eredita le posizioni del “femminismo liberale”, propone
la logica delle “pari opportunità”, promuove la somiglianza tra i sessi e prospetta una progressiva
estinzione delle differenze (con qualche rischio di assunzione del modello dominante maschile);
2) il pensiero della Differenza, maturato all’interno del “femminismo radicale”, punta alla valoriz-
zazione delle differenze tra maschi e femmine, rivendicando l’opera di civilizzazione che le donne
hanno svolto nei secoli e le diversità del pensiero femminile nelle sue molte espressioni.
È all’interno di tale corrente che si sono sviluppati gli “studi di genere”. Il concetto di genere venne
introdotto per la prima volta nel 1975 dall’antropologa femminista Gayle Rubin, per indicare “l’in-
sieme dei processi, adattamenti modalità di comportamento e di rapporti, con i quali ogni società
trasforma la sessualità biologica in prodotti dell’attività umana e organizza la divisione dei compiti
tra gli uomini e le donne, differenziandoli l’uno dall’altro”. Il genere è dunque il modo in cui l’indivi-
duo “legge” e “interpreta” il proprio e l’altrui carattere sessuale. Tale concetto è stato introdotto per
sopperire all’unilateralità delle precedenti trattazioni delle differenze sociali tra uomo e donna, che
erano maturate nel contesto dei movimenti femministi. Oggi si chiamano infatti “studi di genere”
(gender studies) quelle ricerche che una volta andavano sotto il titolo di “studi delle donne” (women
studies). Il nuovo nome vuole evidenziare che il tema dell’indagine dev’essere la compresenza ineli-
minabile dei due sessi nella struttura e nella vita della società; all’interno dei movimenti femministi è
emersa la chiara consapevolezza che l’analisi della condizione femminile non può mai essere disgiun-
ta da unaa parallela analisi di quella maschile, e che la liberazione della donna non può passare da
una soppressione delle differenze di genere, ma da una loro ridiscussione.
I ruoli sessuali vengono appresi nel corso del processo della socializzazione. Le caratteristiche fon-
damentali dell’identità sessuale e dei ruoli sessuali vengono appresi molto precocemente nell’ambito
della famiglia e successivamente vengono rinforzate dalla scuola, dal gruppo dei pari, dai mezzi di
comunicazione di massa e da vari altri agenti sociali.
La famiglia
Dal momento della nascita i genitori trattano i figli in modo diverso a seconda del loro sesso. Le
bambine vengono trattate con fare protettivo, ai bambini è concessa maggiore libertà. Le bambine
sono apprezzate quado si comportano in modo docile e amabile, non sono stimolate ad essere intra-
prendenti e competitive, e ricevono di solito maggiore approvazione per la grazia e la dolcezza che
per l’intelligenza. Ai bambini, invece, viene impartito un addestramento al ruolo sessuale più rigido.
Alle bambine si possono permettere certi comportamenti da maschietto, ma ai bambini non è mai
permesso di comportarsi da femminucce; si insegna al bambino a “comportarsi come un uomo”, a
reprimere le emozioni e in particolare le paure. Come fa notare Ruth Hartley (1970) richiedendo al
bambino di evitare qualsiasi comportamento “da femminuccia” si alimentano atteggiamenti di ostilità
verso tutto ciò che è femminile, che successivamente possono far sviluppare in lui un senso di di-
sprezzo per l’altro sesso.
La scuola
La scuola rinforza in molti modi gli stereotipi sessuali tradizionali. Il più evidente è forse il modo
in cui alcune attività scolastiche o parascolastiche - corsi di studio, hobby, sport, ecc. - sono segre-
gate a seconda del sesso.
Poiché si pensa, tradizionalmente, che il ragazzo è destinato a provvedere al sostentamento della
famiglia, l’istruzione è considerata più importante per lui che per la ragazza, quindi la scuola tende
a preoccuparsi di più del successo scolastico dei maschi e delle loro possibilità di fare l’università.
Mantenere in piedi i ruoli sessuali tradizionali comporta un costo sociale, economico e psicologico.
Essi negano il pieno uso dei propri talenti alla metà della popolazione e richiedono l’osservanza di
norme di comportamento oramai anacronistiche.
Una delle conseguenze più evidenti del maschilismo sta nella limitazione che pone alle scelte pro-
fessionali delle donne causando loro un grave danno economico; altrettanto importanti sono però i
costi psicologici che gravano sulle donne. Di fatto a tutt’oggi l’opportunità di agire e di modellare
l’ambiente in modo creativo è riservata in gran parte agli uomini. Spesso le donne vivono questa
esperienza “di seconda mano”, attraverso il loro ruolo di sostegno agli uomini che agiscono, si muo-
vono, modellano il mondo. Nella misura in cui ciò avviene, il nocciolo dell’esperienza delle donne è
passivo, non attivo. La conformità alle caratteristiche stabilite dall’identità sessuale sottrae alle don-
ne un gran numero di opportunità nel campo dell’istruzione, della politica, della cultura e dell’eco-
nomia, lasciando loro in molti casi la sola possibilità di incarnare l’ideale femminile di perfetta casa-
linga o di bellezza conforme agli stereotipi proposti dalle pubblicità. Se accettano questi stereotipi
devono abbandonare ogni possibilità di sondare i propri talenti, se li rifiutano rischiano di andare in-
contro ai conflitti di ruolo e all’accusa di non essere femminili. E poiché il concetto che la donna ha
di sé dipende fortemente dall’aspetto fisico e dal ruolo di madre, il processo di invecchiamento è tale
che molte donne lo affrontano con difficoltà, talvolta con ripugnanza e vergogna. Per un uomo l’in-
vecchiamento non è una prova altrettanto dura: l’aspetto fisico non è altrettanto centrale nel ruolo
maschile tradizionale, e inoltre il lavoro offre all’uomo - spesso anche nel periodo del pensionamen-
to - una costante fonte di identificazione.
D’altra parte anche gli uomini sono soggetti ad alcune tensioni. Il ruolo tradizionalmente svolto da-
gli uomini è molto pressante e ricco di difficoltà. La probabilità che gli uomini si suicidino supera di
molto quello delle donne. Hanno il triplo delle probabilità di soffrire di gravi disturbi mentali. Ven-
gono colpiti da malattie connesse allo stress, come l’ulcera, l’asma, l’ipertensione, i disturbi cardiaci,
in una proporzione estremamente superiore. Diventano alcolizzati nella proporzione di sei ad uno
rispetto alle donne, e la grande maggioranza dei consumatori di droghe è di sesso maschile.
Nelle società industriali avanzate i ruoli sessuali stanno comunque cambiando rapidamente. Man
mano che l’economia si diversifica, la vecchia divisione del lavoro fondata sul sesso perde sempre
più la sua ragion d’essere. La tendenza verso una nuova concezione della sessualità libera le donne
dai vecchi criteri della “doppia morale” (una più permissiva per gli uomini e una più restrittiva per
le donne). I livelli sempre più alti raggiunti dalle donne nel campo dell’istruzione stimolano in loro
una maggiore libertà di scelta e una più forte motivazione ad esercitare tale scelta. Nel contempo, il
ruolo del maschio come unica fonte di sostentamento per la famiglia è soggetto a una rapida erosione
e la stessa sorte subisce il dominio del maschio sia nella famiglia che in altri settori della società.
Quale sarà il futuro assetto dei ruoli sessuali? L’ipotesi più probabile é che - perlomeno nei paesi
più industrializzati in cui la società é più aperta al cambiamento - si affermi un modello in cui molti
stili di vita e molti ruoli alternativi saranno considerati accettabili da parte sia degli uomini che delle
donne, che uomini e donne sperimentino, in modo interscambiabile, un’ampia gamma di ruoli.
DIFFERENZE DI GENERE
differenze tra i sessi = disuguaglianze sociali -> status inferiore delle donne
(“fatto di natura” autoevidente -> falsa coscienza)
flessibile stabile
b) PSICOLOGIA -> (cfr. Witkin ʻ62, Maccoby e Jacklin ʻ74, Houston ʻ83: differenze individuali)
c) ANTROPOLOGIA -> M. Mead “Sesso e temperamento in 3 popoli primitivi della Nuova Guinea” 1935
sottomissione femminile
(femm. passive e premurose)
concezione della donna come “creatura delicata”: Europa, basso medioevo: ideale cavalleresco
società industrializzate: principio dellʼ uguaglianza (vs uguaglianza di fatto)
H. Hacker -> donne => gruppo discriminato (conflitto di interessi tra g. subordinato e g. dominante)
R. Collins
discriminazione trae vantaggio dallo status quo ed
un tempo funzionale è scarsamente motivato al cambiamento
MASCHILISMO
dominio di un gruppo -> ideologia disuguaglianza tra i sessi -> ideologia maschilista:
attivo / passivo superiorità dellʼ uomo =
ordine naturale delle cose
( linguaggio, religione)
liberazione dalla falsa coscienza -> movimento delle donne (crescita della coscienza -> autocoscienza)
Costi psicologici
del maschilismo maschi -> creativi, attivi, modellano lʼ ambiente
vs
a) per le donne femmine -> passive, oggetti e sostegno agli uomini
Tre fattori della globalizzazione sono diventati particolarmente significativi negli ultimi decenni:
a) la crescita delle multinazionali; b) la nuova divisione internazionale del lavoro; c) la trasforma-
zione in ambito mondiale dei mass media.
b) La vecchia divisione del lavoro viene rimpiazzata da una nuova divisione del lavoro, per mezzo
della quale le aziende nei paesi sviluppati hanno cominciato a spostare la produzione nei paesi del
Terzo Mondo per risparmiare denaro, visto che il costo del lavoro è più conveniente (delocalizza-
zione). Ciò ha tagliato i costi di produzione e, al tempo stesso, ridotto i posti lavoro nelle industrie
del mondo sviluppato.
c) La proprietà, le immagini e i messaggi dei mass media stanno diventando sempre più uniformi
nell’intero globo. La televisione, l’editoria (giornali, riviste e libri), il cinema, internet ecc. sono in
mano di poche multinazionali.
La teoria del “New World Order”. La rete di istituzioni che definisce la struttura del nuovo
sistema economico globale è stata interpretata, in termini strutturali, da parte di studiosi e “teorici
del complotto”, come soggetta al controllo di individui che rappresentano e cercano di far avanzare
gli interessi di una nuova classe capitalistica internazionale. Una classe formata sulla base di
istituzioni che comprendono decine di migliaia di gruppi multinazionali, unità operative del
capitalismo globale, portatori di capitale e di tecnologia e agenti principali del nuovo ordine
imperiale. Le multinazionali non sono le uniche basi organizzative, ma a queste si aggiungono la
Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale (F.M.I.) e le altre istituzioni finanziarie
internazionali (I.F.I.) che costituiscono la «comunità finanziaria internazionale», altresì denominata
«rete finanziaria globale» (Barnet e Cavenagh,1994).
Inoltre, il cosiddetto “Nuovo Ordine Mondiale” avrebbe inventato una schiera di programmi
strategici globali e di tribune politiche, come il Gruppo dei Sette (G-7), la Trilateral Commission
(T.C.) e il World Economic Forum (W.E.F.), mentre gli apparati statali delle nazioni al centro del
sistema sarebbero stati ristrutturati per rispondere efficacemente agli interessi del capitale globale.
L'insieme di queste istituzioni costituisce una parte fondamentale del nuovo sistema di «governance
globale», da alcuni considerato come il “nuovo imperialismo”.
Nel disegno di una divisione tra Est e Ovest del mondo successivo alla seconda guerra mondiale,
l'egemonia degli Stati Uniti nel sistema economico mondiale, il grande processo di decolonizzazio-
ne e la decisione (conferenza di Bretton Woods, 1944) di imporre un ordine economico mondiale
liberista, crearono l'ossatura per venticinque-trent'anni di continui e rapidi tassi di crescita economi-
ca e di sviluppo capitalistico: la cosiddetta «Età dell'oro del capitalismo» (Marglin e Schor, 1990).
In molti casi lo stato fu convertito in un grosso organismo per lo sviluppo nazionale, realizzando
un modello economico basato su principi nazionalistici (protezione dell'industria nazionale,
approfondimento e l'estensione del mercato nazionale) e sul concetto di modernizzazione.
Ma alla fine degli anni Sessanta, a causa della stagnazione della produzione, del calo della produt-
tività, dell'intensificazione dei conflitti di classe (con le rivendicazione di salari più alti, di maggiore
assistenza sociale e migliori condizioni di lavoro), le fondamenta di questo sistema vennero
intaccate da crepe che cominciarono a farlo vacillare. Venne allora avviato un processo di
internazionalizzazione del capitale e delle sue forme produttive (investimenti per estendere il
commercio ed espandere la produzione) e speculative. La forza conduttrice di questo processo fu
una politica di liberalizzazione e di deregolamentazione. Questa strategia fu progettata e
incoraggiata dagli economisti associati alle istituzioni finanziarie internazionali, e venne adottata in
tutto il mondo dai governi dominati dal capitale transnazionale o da quelli che ne erano soggetti.
L'istituzione del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale hanno così stabilito una
cornice istituzionale per un processo di sviluppo capitalistico e per il libero scambio internazionale.
Negli Stati Uniti degli anni Quaranta, inizialmente le forze protezioniste impedirono l'istituzione di
un terzo elemento, l'I.T.O. (International Trade Organization). In una soluzione di compromesso,
l'istituzione del G.A.T.T. (General Agreement on Tariffs and Trade, Accordo generale sulle tariffe
e il commercio), un "forum" progettato per liberalizzare il commercio mediante vari negoziati, aprì
la strada per un mercato mondiale a basse tariffe e l'eliminazione di altre barriere per commerciare
liberamente in beni e servizi.
Fu soltanto nel 1994, cinquant'anni più tardi, che il progetto originale fu completato nella forma
dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (World Trade Organization - W.T.O. o O.M.C.),
istituita come parte del continuo sforzo di rinnovamento dell'ordine economico mondiale esistente e
per stabilire ciò che il presidente Bush e la Heritage Foundation, un "forum" della destra politica
con sede a Washington, definirono il «Nuovo Ordine Mondiale». Il perseguimento del Nuovo Or-
dine Mondiale e la vasta adozione di piani di aggiustamento strutturale portavano a un nuovo, plau-
sibile quadro politico per un regime globale di libero scambio e alla costituzione di una nuova “eco-
nomia imperiale”. Il suo unico elemento mancante era un accordo generale per governare il libero
flusso del capitale di investimento. Con questa finalità i rappresentanti politici del capitale imperiale
progettarono il Multilateral Agreement on Investment (M.A.I.), dapprima dietro le porte chiuse
dell'O.E.C.D (Organisation for Economic Co-operation and Development), il club delle nazioni più
ricche e più potenti del mondo, poi tramite la già citata Organizzazione Mondiale del Commercio,
l'ultima e una tra le più efficaci armi istituzionali.
Il mondo oggi è avvolto da una fitta rete di trasporti – aerei, autostradali, ferroviari, marittimi –
attraverso i quali si muovono, rapidamente e a costi sempre più bassi, persone e cose. Grazie a com-
puter, televisioni, satelliti, reti telefoniche e telematiche si possono inviare in tempo reale da un ca-
po all’altro del pianeta, notizie, immagini, messaggi e suoni. Via Internet viaggiano le quotazioni di
borsa e si spostano i denari virtuali che gli uomini di affari usano per le operazioni finanziarie.
Si può dire che oggi i paesi del mondo sono collegati fra loro come non mai in passato. Non c’è
avvenimento accaduto in qualche luogo della Terra che non sia immediatamente conosciuto e che
non possa avere conseguenze in moltissimi altri luoghi del pianeta. Una stretta interdipendenza (o
dipendenza reciproca) unisce infatti tutti i paesi del mondo globalizzato.
Con la globalizzazione si è sviluppata anche la tendenza ad uniformare in ogni parte del mondo la
maniera di vivere, almeno fra le persone benestanti e urbanizzate. Un turista può fare il giro del pia-
neta senza mai provare la sensazione di trovarsi in un paese diverso. Nelle grandi città di tutti i con-
tinenti, perfino nel cuore dell’Africa, trova infatti gli stessi edifici di vetro e acciaio, gli stessi hotel
di lusso dalle identiche forme architettoniche, costruiti dalle stesse catene alberghiere (Accor, Hil-
ton, Jolly, NH, Sofitel, etc.), le stesse autostrade, le camere d’albergo arredate alla stessa maniera.
Negli ultimi tempi però in molti paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, si va diffon-
dendo il timore che l’affermarsi di consumi e mode occidentali porti alla graduale scomparsa di
molte tradizioni culturali locali. È nato cioè, nei confronti dell’occidente, un atteggiamento misto, di
attrazione-rifiuto. Accanto alla voglia di godere della cultura e della tecnologia occidentale, cresce
un’avversione dovuta, in parte, al ricordo del colonialismo e dell’arroganza razzista dei bianchi, e in
parte all’orgoglio di appartenere a grandi culture, non inferiori a quelle europee e americane, ma
minacciate oggi dall’influenza dei modelli occidentali. L’atteggiamento di rifiuto è particolarmente
forte all’interno del mondo islamico.
Oggi tutti i paesi del mondo sono coinvolti, in maggiore o minor misura, in un unico mercato glo-
bale. Ciò significa che merci prodotte in paesi lontanissimi possono giungere facilmente sui nostri
mercati, come le nostre sui loro (chi non ha mai visto su uno stereo, una maglietta, un giocattolo,
l’etichetta made in Taiwan, ad esempio?). Significa anche che, se lo trova conveniente, un uomo
d’affari può investire il suo denaro in imprese straniere o un imprenditore può far produrre le sue
merci da operai d’altri paesi, in qualunque punto del globo. Per gli imprenditori la scelta di trasfe-
rire parti della lavorazione e anche interi impianti industriali in paesi poveri dell’Europa dell’Est,
d’Asia o dell’America Latina risulta vantaggiosa, perché in questi paesi la manodopera costa meno,
non avendo ancora conquistato i diritti sindacali ottenuti in occidente. Inoltre lo sviluppo delle nuo-
ve tecnologie informatiche e telematiche permette di dirigere e controllare le varie fasi di produzio-
ne anche da molto lontano. Perciò il fenomeno dei “trasferimenti industriali”, chiamato delocalizza-
zione, ha assunto grandi dimensioni e nell’Europa occidentale è stato causa di una lunga serie di
licenziamenti.
La globalizzazione economica ha alcuni meriti: nell’emisfero sud del pianeta la miseria è ancora
diffusa, ma alcuni paesi dell’Asia orientale – in particolare Singapore, Hong-Kong, Taiwan, Corea
del sud – hanno conosciuto fin dagli anni Settanta una rapida crescita economica. Negli anni Ottan-
ta la Cina e, più di recente, l’India – i due giganti demografici dell’Asia, con i loro quasi due miliar-
di e mezzo di abitanti – hanno dato inizio a un irresistibile sviluppo economico che ha portato centi-
naia di milioni di persone a godere di nuovo benessere. Secondo gli economisti, questo stupefacente
balzo in avanti di un’area così vasta del mondo è in gran parte dovuto alla globalizzazione dell’eco-
nomia e dei mercati. Agli effetti della globalizzazione viene attribuita anche la crescita generalizza-
ta, a partire dal 2005, del reddito complessivo del pianeta. Essa deriva dalla nascita di industrie e
fabbriche in aree del mondo in precedenza agricole e arretrate. Grazie alla manodopera a buon mer-
cato e agli investimenti stranieri, questi paesi di recente industrializzazione riescono a produrre a
basso costo e contribuiscono e tenere bassi i prezzi di beni e servizi sul mercato mondiale, frenando
l’inflazione.
Nonostante questi successi, nell’età della globalizzazione è aumentata nel mondo la disuguaglian-
za sociale, cioè la distanza fra ricchi e poveri, che invece negli anni precedenti era andata costante-
mente calando. Negli ultimi decenni i pochi ricchi sono diventati sempre più ricchi e i molti poveri
sempre più poveri. Oggi singoli individui sono ormai più ricchi di interi stati: basti pensare che il
patrimonio delle 15 persone più ricche del mondo supera la ricchezza complessiva di tutti i paesi
dell’Africa a sud del Sahara.
Fra i paesi ricchi – quelli che detengono il potere economico, la conoscenza scientifica, la forza
militare – e quelli poveri – che sono oppressi dai debiti e dalla fame – la differenza è enorme.
La disuguaglianza sociale aumenta anche all’interno dei paesi industrializzati, dove si allarga a
forbice la differenza fra ricchi e poveri. Si calcola che nel mondo globalizzato un miliardo e 200
milioni di esseri umani – per metà bambini al di sotto dei 5 anni – sopravvivano a stento, con
l’equivalente di un dollaro al giorno, e anche con meno. La povertà globale e l’ingiustizia sociale
sono problemi gravissimi, perché offendono la dignità e i diritti della persona, condannando una
larga parte dell’umanità a vivere in condizioni disumane. A queste ragioni umanitarie si aggiungono
le preoccupazioni di economisti e politici che nella povertà estrema vedono un ostacolo allo svilup-
po e un pericolo per la pace: chi è troppo povero, infatti, può comprare a malapena lo stretto neces-
sario per vivere, non ha soldi per l’istruzione o per raggiungere alte qualifiche professionali, perciò
difficilmente può contribuire al progresso generale. Inoltre le forti disuguaglianze sociali spingono
le masse disperate all’emigrazione e possono essere causa di tensioni o di rivolte feroci.
I classici della sociologia moderna – Émile Durkheim, Max Weber e Karl Marx – hanno condiviso
la definizione territoriale della società ed accettato il modello della società nazionale e statale. Ma
ora questa concezione viene posta in discussione dal fenomeno della globalizzazione, che ha messo
in crisi l’equivalenza tra società e Stato nazionale, per cui gli scienziati della società si vedono co-
stretti a cambiare il loro modo di pensare e ad orientare in modo nuovo le proprie teorie di fronte al-
la molteplicità di aspetti presentati da un mondo senza più confini.
In dissenso con la sociologia tradizionale, sta dunque prendendo forma una sociologia della globa-
lizzazione, un insieme ancora disorganico di teorie, ipotesi di lavoro e progetti di ricerca fra loro
contraddittori: il dibattito sulla globalizzazione si basa, infatti, su una controversia riguardante le
unità di analisi sociologica che potranno sostituire la «vecchia» sociologia, ancora legata alla rap-
presentazione di mondi sociali ordinati su base nazionale-statale, mentre stanno nascendo nuovi
ambiti di ricerca, come ha messo in evidenza la sociologia delle migrazioni.
L’attenzione della sociologia si sposta pertanto sul sistema-mondo, che si ritiene abbia avuto ori-
gine dal formarsi di spazi sociali transnazionali e dalla nascita di un sistema capitalistico mondiale,
ancora fondato sulla divisione del lavoro e sulle disuguaglianze sociali.
Allo stato attuale degli studi, si è giunti alla conclusione che il sistema-mondo si fonda su una serie
di contraddizioni che rappresentano due facce della stessa medaglia: globalizzazione e regionalizza-
zione, congiunzione e frammentazione, centralizzazione e decentramento. La sociologia dell’800
era divisa dalla storica controversia tra un preponderante peso dei fattori economici (Marx) e un
pluralismo in cui l’approccio economico si combinava con quello sociale e culturale (Weber); nel
primo decennio del nuovo secolo, i principali autori della sociologia della globalizzazione (Waller-
stein, Held, Robertson, Bauman, Giddens) si dividono sulle origini e sugli effetti della globalizza-
zione. Alcuni affermano che l’economia capitalistica e la tecnologia rappresentano il motore che
accelera in senso positivo il processo di globalizzazione; altri sostengono che la politica interna-
zionale, la globalizzazione della cultura e dell’industria culturale sono la principale causa delle di-
storsioni del sistema-mondo, il quale provoca nuove disuguaglianze sociali su scala internazionale
(ricchezza globale e povertà locale).
Secondo il sociologo inglese Anthony Giddens, la globalizzazione rappresenta uno dei tratti
dominanti della modernità. Frutto della separazione dello spazio e del tempo, la globalizzazione
viene definita come "l'intensificazione di relazioni sociali mondiali che collegano tra loro località
distanti facendo in modo che gli eventi locali vengano modellati dagli eventi che si verificano a
migliaia di chilometri di distanza e viceversa". In sostanza i processi di globalizzazione si
manifestano come intersezione di esperienze, come intrusione della distanza nel locale. Il globale
entra nella vita quotidiana degli individui soprattutto attraverso i processi di mediatizzazione
dell'esperienza: rivoluzionando le nozioni tradizionali di spazio e tempo, i media elettronici hanno
reso possibile lo stabilirsi di relazioni sociali indipendenti dai contesti locali di interazione. Eventi
lontani possono divenire altrettanto o più familiari dell'universo di presenze locali con le quali
l'individuo entra quotidianamente in contatto e la distanza può dunque essere integrata nel quadro
dell'esperienza personale. Rielaborando e superando la teoria del sistema-mondo di Wallerstein,
Giddens vede la globalizzazione come il dispiegarsi in tutte le dimensioni istituzionali della
modernità. Attualmente, secondo Giddens, gli individui divengono membri di una comunità globale
dalla quale nessuno può chiamarsi fuori. Secondo Giddens all'indebolimento del senso di
appartenenza alla comunità nazionale corrisponderebbe il rafforzamento di una identità globale, la
cui costruzione sarebbe essenzialmente favorita dai media elettronici. Lo sviluppo di relazioni
sociali smorza il sentimento nazionalistico e simultaneamente può favorire la rinascita dei
particolarismi regionali e locali.
Roland Robertson (Globalizzazione: Teoria Sociale e Cultura Globale, 1992), sottolinea l’am-
piezza e la profondità con le quali si è affermata nella coscienza comune "la consapevolezza che il
mondo. intero è ormai un solo luogo". Per Robertson la globalizzazione in atto e la globalizzazione
appresa, riflessa dai mass-media, sono due aspetti dello stesso processo: occorre, per Robertson, te-
ner desta l’attenzione sulla fragilità di questa conditio humanitatis alla fine del xx secolo. Bisogna
indagare su quale aspetto assuma il mondo nella produzione transculturale di modi di essere e di
simboli culturali. La globalizzazione culturale contrasta l’identificazione dello Stato nazionale con
la società nazionale, producendo o facendo incontrare in una dimensione transculturale molteplici
stili di comunicazione e di vita, attribuzioni, responsabilità, rappresentazioni di sé o di altri, di grup-
pi ed individui. Il locale e il globale, argomenta Robertson, non si escludono. Al contrario, il locale
deve essere compreso come un aspetto del globale. Globalizzazione significa anche l’unirsi, l’in-
contrarsi reciproco di culture locali, che in questo clash (conflitto) of localities devono essere ride-
finite nei loro contenuti. Robertson propone di sostituire il concetto fondamentale di globalizzazio-
ne culturale con glocalizzazione, una fusione tra "globalizzazione" e "localizzazione". Questa sin-
tesi di parole, "glocalizzazione", implica l’assunto che l’idea di poter comprendere il mondo presen-
te, ciò che in esso declina o si viene affermando, senza misurarsi e riflettere su concetti come quelli
di politiche culturali, di capitale culturale, di differenze culturali, appare assurda. La "cultura
globale" non può essere intesa staticamente, ma solo come un processo dialettico, secondo il
modello della "glocalizzazione", nella quale elementi contraddittori sono compresi e decifrati nella
loro unità. In questo senso si può parlare di paradossi delle culture "glocali". La globalizzazione -
apparentemente ciò che è enormemente grande, ciò che è all’esterno, ciò che alla fine arriva e
schiaccia tutto il resto - può essere colta nelle piccole cose concrete di tutti i giorni, nella propria
vita, nei simboli culturali che portano tutti la sigla del "glocale". Tutto ciò può essere inteso anche
così: solo come ricerca culturale glocale (ricerca sull’industria, sulla disuguaglianza, sulla tecnica,
sulla politica) la sociologia della globalizzazione diviene empiricamente possibile e necessaria. In
base a quanto s’è detto, l’universalizzazione e l’unificazione su scala mondiale di istituzioni,
simboli e stili di comportamento (per esempio McDonald, i blue jeans, la democrazia, le tecnologie
dell’informazione, le banche, i diritti umani ecc.) e la valorizzazione e riscoperta delle culture e
delle identità locali (il pop tedesco e il rai nordafricano, il carnevale africano di Londra e il würstel
bianco Hawaii ) non costituiscono una contraddizione. Piuttosto - per prendere l’esempio dei diritti
umani - essi in primo luogo vengono affermati in pressoché tutte le culture come diritti universali e,
in secondo luogo, come tali vengono spesso affermati e interpretati in maniera assai differente.
David Held dimostra come la globalizzazione abbia superato il concetto di sovranità politica per
l’importanza assunta dagli accordi internazionali, dalla politica internazionale di sicurezza, dall’in-
ternazionalizzazione dei processi politici decisionali, dal traffico delle merci e dalla divisione del
lavoro su scala mondiale. Tutto ciò sta progressivamente portando verso la perdita di sovranità degli
Stati nazionali: riduce quindi la libertà d’azione dei governi, induce un cambiamento delle istituzio-
ni e delle organizzazioni statali, rendendo sempre più necessaria la presenza di un governo mondia-
le, con una nuova concezione della sovranità strutturata a livello regionale, nazionale ed internazio-
nale. Si tratta di fronteggiare i pericoli globali di una società mondiale del rischio, rappresentati dal-
la crisi ecologica cosmopolitica (buco dell’ozono, effetto-serra, variazioni violente del clima, riper-
cussioni sulla salute dell’uomo, estinzione di specie animali e vegetali) dovuta agli eccessi tecnico-
industriali indirizzati a produrre una sempre maggiore ricchezza; dai contrasti determinati dalla po-
vertà, che rappresenta il più grave problema del pianeta; dalla minaccia delle armi di annientamento
di massa; dalle guerre locali; dal terrorismo fondamentalista. Tutto ciò rimette in discussione gli
schemi tradizionali di sicurezza e sottolinea con forza la necessità di una governance mondiale.
Il sociologo Zygmunt Bauman ha una visione piuttosto pessimistica degli scenari mondiali e della
nascente società globale, in quanto ritiene che la globalizzazione e la localizzazione siano le forze
motrici che spingono verso una nuova «polarizzazione e stratificazione della popolazione mondiale
in ricchi globalizzati e poveri localizzati». Egli scrive, a tale proposito: «Globalizzazione e localiz-
zazione possono essere facce inseparabili della stessa medaglia, ma le due parti della popolazione
mondiale vivono su lati differenti e ne vedono solo una faccia [...] Alcuni sono cittadini del mondo,
altri sono incatenati al loro posto [...] La globalizzazione è in primo luogo e innanzitutto una nuova
ripartizione di privilegi e privazioni di diritti, di ricchezza e povertà, di possibilità e di mancanza di
prospettive, di potenza e impotenza, di libertà e assenza di essa».
Avendo perso fiducia nella capacità degli Stati nazionali di fare una valida politica internazionale,
Bauman non crede nella possibilità di una «solidarietà cosmopolitica», non pensa che si possa risol-
vere il problema fondamentale del «futuro del lavoro»: se il capitalismo si sbarazza del lavoro, la
disoccupazione diventa un pericolo che in prospettiva riguarda tutti, la stessa democrazia come for-
ma di vita. Inoltre, lo stesso capitalismo globale, qualora si liberi della responsabilità di assicurare
occupazione e democrazia, perde la propria legittimità ad esistere. È necessario, pertanto, predispor-
re idee e modelli per un nuovo contratto sociale capace di fondare una democrazia futura in grado di
andare al di là della società del lavoro, su cui era fondata la democrazia precedente. Se il capitali-
smo globale distrugge il nucleo centrale dei valori della società del lavoro, si spezza la storica al-
leanza tra capitalismo, Stato sociale e democrazia, nata in Europa e in America come «democrazia
del lavoro», la quale prevede che il cittadino debba guadagnare del denaro per sostenere i diritti
politici di libertà, per cui il lavoro salariato non è la base soltanto dell’esistenza privata, ma anche
della politica.
I capisaldi della teoria del sociologo francese Alain Touraine (1925) relativa alla globalizzazione
possono essere riassunti nei seguenti punti:
1. La globalizzazione ha dato inizio ad una nuova fase della storia, non solo per la della produzione
e degli scambi, ma anche per la completa separazione dell’economia dalle istituzioni politiche, or-
mai incapaci di controllarla.
2. La dissoluzione delle frontiere porta alla frammentazione della società, con il conseguente crollo
di tutte le precedenti categorie sociali di analisi e di azione: agli inizi della modernizzazione i fatti
sociali sono stati pensati secondo termini politici come sovranità, autorità, nazione, rivoluzione.
Dopo la Rivoluzione industriale, le categorie politiche sono state sostituite dalle categorie sociali ed
economiche (classi sociali, profitto, concorrenza, investimenti, contrattazioni collettive). Infine, con
la globalizzazione, si è avuta l’affermazione dell’individualismo, il quale «rivela la fragilità di un io
costantemente modificato dagli stimoli che lo colpiscono e influenzano».
3. Nella società globalizzata gli individui dipendono dalle tecniche di produzione, ma anche dalle
tecniche di consumo e di comunicazione. È pertanto necessario salvaguardare la nostra esistenza
individuale, facendo nascere un essere capace di costituirsi come soggetto di diritti e come attore
libero dalla dipendenza di precedenti figure (Dio, Nazione, Progresso, società senza classi), in grado
di esprimere la volontà di essere attore della propria esistenza.
4. Il modello di modernizzazione occidentale è stato caratterizzato da una società che ha accumu-
lato risorse di ogni genere nelle mani di un’élite, ritenendo «inferiori» le altre categorie sociali.
Questa divisione ha causato forti conflitti, diminuiti grazie ad una serie di conquiste che hanno ga-
rantito la pace sociale. Queste conquiste sono state realizzate nell’ultimo secolo da talune categorie
sociali (i lavoratori, i colonizzati, le donne) capaci di dare vita a vari movimenti sociali di liberazio-
ne. Con il passare del tempo questi successi hanno finito per indebolire il dinamismo del modello
occidentale, che ha in parte perduto la capacità di creare nuovi conflitti. Un nuovo dinamismo può
nascere pertanto da un’azione sociale atta a superare il modello occidentale, che oggi è in parte por-
tata avanti dai movimenti ecologisti e da quelli che lottano contro la globalizzazione.
Touraine è certo che in futuro saranno le donne le principali attrici di un’azione di rinnovamento,
giacché esse sono ormai in grado di lottare contro la dominazione maschile e soprattutto hanno le
capacità di attuare quella ricomposizione di tutte le esperienze individuali e collettive richiesta
dall’attuale fase storica.
Il sociologo Ulrich Beck (Che cos’è la globalizzazione, 1999), ha teorizzato una società del ri-
schio che trascende le attuali frontiere degli Stati nazionali, nati dalla «prima modernità». Ci si sta
avviando, secondo Beck, verso la formazione di uno Stato transnazionale, cooperativo e cosmopo-
litico, dove la realizzazione degli interessi comuni avviene simultaneamente a più livelli (locali, re-
gionali, nazionali, transnazionali), per merito di istituzioni molto lontane dai propri confini territo-
riali. La «prima modernità», nata e sviluppatasi tra il ‘700 e il ‘900 come conseguenza della società
industriale, era caratterizzata dal progresso scientifico e tecnologico, dal pieno impiego della forza
lavoro, dallo sfruttamento intensivo delle risorse naturali. Essa ha poi ceduto il posto alla «seconda
modernità» o modernità riflessiva, in quanto essa ci spinge a riflettere, appunto, su una serie di pro-
cessi sociali strettamente interconnessi, quali la globalizzazione e l’individualizzazione, la disoccu-
pazione e la sottoccupazione, le crisi economiche e l’espansione dei mercati finanziari mondiali, i
problemi ambientali con i conseguenti rischi globali, le minacce che circondano il Welfare State, le
sfide poste di continuo ai sistemi politici. Infatti i governi nazionali sono chiamati a dare una rispo-
sta risolutiva e simultanea a tutti questi problemi che caratterizzano la società globale del rischio e
che possono essere affrontati soltanto in un quadro politico ed istituzionale transnazionale. Per que-
sto motivo è quanto mai urgente «reinventare» la politica attraverso una serie di sperimentazioni
che consentano di passare dal sistema politico-istituzionale dello Stato-nazione ad una democrazia
cosmopolitica capace di operare a livello sia nazionale che internazionale.
Secondo vari studiosi, la globalizzazione si basa su una serie di ambivalenze che riguardano per
prima cosa la globalizzazione culturale, da alcuni considerata una conseguenza della globalizzazio-
ne economica, da altri, invece, il risultato di un insieme di fattori convergenti in una cultura globale
che comincia a penetrare nelle società nazionali e nei loro spazi culturali, secondo un processo che
sta rendendo contemporaneamente possibili e reali fenomeni contrapposti. La globalizzazione non è
pertanto un fenomeno unidimensionale, ma produce una nuova valorizzazione delle culture locali: a
una costante delocalizzazione economica e culturale si contrappone cioè una rilocalizzazione, che
porta alla «rinascita del locale», nel senso che «locale» e «globale» non si escludono, ma il primo
può diventare un aspetto del secondo e produrre l’incontro di culture locali, rivedute in senso non
tradizionale, con una cultura globale che è il risultato di un processo di formazione in continuo
movimento. Da un lato, si verificano l’universalizzazione e l’unificazione a livello mondiale di
istituzioni, simboli e stili di vita (la democrazia, le tecnologie dell’informazione, i diritti umani, i
blue jeans, i McDonald); dall’altro, cresce il bisogno di difendere le culture e le identità locali.
La globalizzazione fa sorgere nuove comunità transnazionali, produce legami che cambiano la
dimensione sociale del vivere e lavorare insieme, costruisce una nuova rete di rapporti sociali; al
contempo, essa causa frammentazioni che mettono in discussione l’unità e la sovranità degli Stati
nazionali. La globalizzazione rappresenta anche un processo di concentrazione e centralizzazione
del capitale, della ricchezza, del potere decisionale, dell’informazione, del sapere, ma nello stesso
momento produce una decentralizzazione che conferisce maggiore influenza alle comunità locali.
Il mondo globalizzato presenta una serie di conflitti a volte drammatici, ma contiene anche le pre-
messe di una civilizzazione globale, che sembra portare verso una «società mondiale» legata al co-
mune destino di un mondo senza più confini.
La Globalizzazione
fenomeno sociale, economico e politico che si è sviluppato dalla fine del ‘900, per una
serie di condizioni favorevoli che hanno portato alla realizzazione di una stabile rete di
rapporti economici, sociali e culturali fra le più diverse e lontane aree geografiche.
prima “globalizzazione del mondo” => secoli XV-XVI: scoperte geografiche.
economica politica
commerciale produttiva finanziaria interdipendenza/crisi Stati-nazione
strategie del "libero mercato" Globalizzazione “responsabilità sociale” (W.Brandt)
deregulation dei mercati internazionali New World Order (G.Bush)
delocalizzazione della produzione vs movimento no / new global:
"flessibilità" e mobilità del lavoro religiosa diritti umani, lotta alla povertà
multinazionali vs Stati-nazione “post-secolarizzazione” salvaguardia ambientale
emancipazione dal controllo religioso
vs nuovi fondamentalismi/integralismi
Globalizzazione culturale
culture extra-europee:
atteggiamento misto
attrazione: nei confronti dell'Occidente avversione:
godere della cultura e della ricordo del colonialismo e
tecnologia occidentale dell’arroganza razzista dei bianchi
orgoglio di appartenere
a grandi culture
La globalizzazione economica
a) crescita delle multinazionali
1. Capitalismo familiare (XIX sec. e inizio del XX) 2. Capitalismo manageriale (inizio - metà sec. XX)
Grandi aziende amministrate da imprenditori manager professionisti - strutture e capacità
individuali ereditate dai loro discendenti familiari non in grado di gestire la crescente
complessità degli affari nazionali e internazionali
3. Capitalismo istituzionale (dalla metà del sec. XX)
reticolo di aziende i cui leader sono occupati a sviluppo delle multinazionali:
prendere decisioni non in una singola azienda, beni patrimoniali e fatturati annui più consistenti
ma in una rete di organizzazioni internazionali. del P.I. L. della maggior parte dei paesi del mondo
Ford, General Motors, Shell, Toyota, Wolkswagen,
gruppi multinazionali Nestlè, Sony, Pepsi, Coca-Cola, Kodak, Xerox, etc.
unità operative del capitalismo globale immenso potere economico
1944/45: divisione Est/Ovest egemonia U.S.A. nel sistema economico mondiale - processo di decolonizzazione
1944: conferenza di Bretton Woods => ordine economico mondiale liberista - modello economico basato su
principi nazionalistici (protezione dell'industria nazionale, approfondimento/estensione del mercato nazionale)
1944 Fondo Monetario Internazionale (F.M.I.) e Banca Mondiale (1945) => libero scambio internazionale
1947: G.A.T.T. General Agreement on Tariffs and Trade Accordo generale sulle tariffe e il commercio =>
apertura ad un mercato mondiale a basse tariffe - eliminazione di barriere per il libero commercio in beni e servizi
1948: O.E.C.D. (Organisation for Economic Co-operation and Development OCSE)
1945/1970: anni di rapidi tassi di crescita economica e di sviluppo capitalistico => «Età dell'oro del capitalismo»
fine anni ‘60: stagnazione della produzione - calo produttività - intensificazione conflitti di classe
rivendicazione di salari più alti, maggiore assistenza sociale e migliori condizioni di lavoro
crisi del sistema
processo di internazionalizzazione del capitale e delle politica di liberalizzazione e deregolamentazione
sue forme produttive (investimenti per estendere il adottata in tutto il mondo dai governi dominati dal
commercio ed espandere la produzione) e speculative capitale transnazionale o da quelli che ne erano soggetti
(economisti associati alle istituzioni finanziarie internazionali)
b) nuova divisione internazionale del lavoro c) trasformazione mondiale dei mass media:
spostamento della produzione nei paesi del proprietà, immagini e messaggi dei mass media
Terzo Mondo (delocalizzazione) sempre più uniformi nell'intero globo: televisione,
editoria (giornali, riviste e libri), cinema, internet
in mano di un numero ristretto di multinazionali
Aspetti contrapposti della globalizzazione
rilocalizzazione: «rinascita del locale» e nuova valo- costante delocalizzazione economica e culturale:
rizzazione delle culture locali: «locale» e «globale» la prima determina, nel territorio che perde le
non si escludono, ma il primo può diventare un produzioni, una contrazione dei posti di lavoro;
aspetto del secondo e produrre l’incontro di culture la delocalizzazione di esseri umani, quando essa
locali, rivedute in senso non tradizionale, con una è una scelta obbligata, può provocare un senso di
una cultura globale che è ilrisultato di un processo sradicamento e perdità di identità culturale
di formazione in continuo movimento.
La globalizzazione politica
Il mondo globalizzato
contiene le premesse di una civilizzazione globale, presenta una serie di conflitti a volte drammatici:
che sembra portare verso una «società mondiale» determina fenomeni di emigrazione, crisi del-
legata al comune destino di un mondo senza più confini l’occupazione, perdita dell’identità culturale
Le teorie sociologiche della globalizzazione
«Con la crisi dello Stato e del concetto di comunità emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno
è più compagno di strada ma antagonista di ciascuno, da cui guardarsi. Questo “soggettivismo” ha minato
le basi della modernità, l'ha resa fragile, da cui una situazione in cui, mancando ogni punto di riferimento,
tutto si dissolve in una sorta di liquidità; le uniche soluzioni per l'individuo senza punti di riferimento
sono da un lato l'apparire a tutti costi, l'apparire come valore e il consumismo: un consumismo che non
mira al possesso di oggetti di desiderio in cui appagarsi, ma che li rende subito obsoleti, e il singolo passa
da un consumo all'altro in una sorta di bulimia senza scopo». (U. Eco, la società liquida, 2015)
Stato sociale politiche pubbliche con le quali lo Stato interviene ‘Stato assistenziale’
per garantire l’assistenza e il benessere dei cittadini
a) sostegno economico nelle fasi non occupazionali del ciclo vitale (vecchiaia, maternità)
e nelle situazioni di incapacità lavorativa (malattia, invalidità, disoccupazione etc.)
b) erogazione di servizi in natura (istruzione, assistenza sanitaria, abitazione etc.);
c) concessione di benefici fiscali (carichi familiari, acquisto di un’abitazione etc.)
d) locazione di abitazioni a famiglie a basso reddito e assunzione di persone invalide
anni 1980 => ridimensionamento del ruolo dello Stato nei processi economici
G. Esping-Andersen (Three worlds of welfare capitalism, 1990):
classificazione dei sistemi di welfare strutturata in tre tipologie:
Un tentativo di definizione
Per arte si intende quell’insieme di pratiche il cui scopo è sostanzialmente dare piacere e suscitare
emozioni. Con il termine arte infatti noi intendiamo la pittura, la scultura, la musica, la letteratura,
la danza, la fotografia, il cinema e altre forme di espressione, che risulteranno legate all’ambiente
fisico e al modello di vita di chi le produce.
Quando pronunciamo la parola «arte», chiunque capisce di che cosa stiamo parlando. Tuttavia se
ci mettiamo ad analizzare il fenomeno un po’ più attentamente, ci salta agli occhi il grande numero
di attività che noi indichiamo con questa parola. Arte è un dipinto di Michelangelo, ma anche un
brano dei REM, un film di Federico Fellini, ma anche una maschera africana, un romanzo di
Gabriel Garcia Marquez, ma anche una danza indiana, una commedia di Shakespeare, un dipinto di
Van Gogh e molte altre cose ancora.
Può persino sembrare difficile capire che cosa abbiano in comune tutte queste cose, che noi
accomuniamo in una stessa categoria, chiamata arte. Potremmo forse dire che le accomuna la
capacità di creare piacere, esprimendo dei sentimenti, ma il modo con cui tutte queste espressioni
della creatività umana raggiungono la sensibilità della gente, non è assolutamente universale, ma è
profondamente legato alle culture di appartenenza. Non solo, neppure il modo di produrre arte è
uguale, così come è diverso il ruolo che ciò che chiamiamo «arte» svolge in una società.
1
«Alcuni anni fa a Bergamo, in occasione di una mostra di arte africana – racconta l’antropologo Marco Aime - ebbi la
fortuna di conoscere lo scrittore nigeriano Wole Soyinka, premio Nobel per la letteratura nel 1987. Nel corso della visi-
ta, mentre osservavamo la sapiente regia degli allestitori, giocata su tagli di luce che conferivano agli oggetti un’aura di
inquietante mistero, Soyinka si fermò davanti a una maschera chiedendo: «Questa per te che cos’è?» «Una maschera»
risposi con imbarazzo a una domanda apparentemente elementare. «Per me è un bel pezzo di legno – disse lui sorriden-
do. – Se fosse indossata da una persona e questa danzasse allora sì, sarebbe una maschera».
Il gusto artistico
Il peso dell’arte
Se le popolazioni sedentarie possono produrre oggetti materiali, anche di grandi dimensioni, come
monumenti, affreschi, edifici ecc., che segnano indelebilmente lo spazio, la necessità di leggerezza
dei nomadi, che spesso abitano in aree desertiche o semidesertiche, ha fatto sì che tendenzialmente
queste culture abbiano sviluppato forme espressive non visive di tipo immateriale, come la danza, la
musica e la poesia. Un’arte trasportabile, insomma. Pensiamo alla raffinata cultura poetica dei
tuareg del Sahara, oppure alla ricca tradizione orale dei peul, popolo di allevatori diffuso in tutta
l’Africa occidentale, il cui lungo racconto iniziatico, Kaidara, è stato raccolto e trascritto dal grande
scrittore maliano Amadou Hampâté Bâ. Si tratta di un poema che racconta le gesta di un giovane,
che deve superare molte difficili prove per raggiungere la conoscenza. Musica e danza sono altre
due forme espressive facilmente trasportabili. Si può dire che non esista popolo al mondo che non
abbia prodotto una sua musica, anche se la sua produzione e la sua fruizione possono rispondere a
logiche diverse. La musica è un codice che esprime linguaggi diversi, adatti a situazioni differenti; è
un suono umanamente organizzato. Esistono musiche per il tempo della festa, per i funerali, per le
celebrazioni solenni, per la guerra, per la caccia, per determinati rituali, per il semplice piacere
estetico di ascoltare dei suoni ritenuti gradevoli.
Viaggi musicali
Contaminazioni artistiche
Sebbene ogni forma artistica sia legata alla cultura che la produce, in molti casi l’arte non si è
fermata a casa propria. Infatti, grazie ai viaggi che hanno da sempre caratterizzato la storia
dell’uomo, molte espressioni artistiche hanno finito per incontrarsi e generare forme nuove.
Pensiamo, per esempio, a quale influenza hanno avuto le sculture e le maschere africane, con le loro
linee stilizzate, su pittori come Picasso o scultori come Giacometti.
Tuttavia la forma artistica che più ha viaggiato e più si è arricchita di elementi «stranieri» è quasi
certamente la musica. Questa forma d’arte, infatti, rappresenta un’ottima metafora delle cosiddette
contaminazioni culturali o meticciati. Pochi elementi culturali sono così aperti a prestiti esterni
come la musica, che maggiormente si presta a fusioni e inglobamenti.
I musei etnografici
Il grande etnologo e scrittore francese Michel Leiris, nel suo bellissimo libro L’Africa fantasma,
descrive alcune scene di veri e propri furti di oggetti sacri, perpetrati alle spalle delle popolazioni
che i componenti della Missione etnografica Dakar-Gibuti (1931), di cui egli stesso faceva parte,
via via incontravano.
È così che sono nati molti musei etnografici in Europa e in America. Spesso l’unico fine di questa
condotta era il lucro, in pochi casi invece è stato il desiderio di conoscenza, ma anche la volontà di
preservare dall’usura del tempo oggetti che, in molti casi, sarebbero andati distrutti, a far sì che
molti oggetti «d’arte» siano finiti ad arricchire le sale di celebri istituzioni come il Museum of
Mankind di Londra, quello di Quai Branly a Parigi o l’American Museum of Natural History a New
York, per citarne solo alcuni.
I musei stessi inoltre possono diventare campo di ricerca per un antropologo, in quanto rivelatori
di un certo sguardo sull’altro. Ogni percorso espositivo è un racconto, in cui l’autore rivela il suo
pensiero, che si traduce anche in un discorso politico: sono gli occidentali a fare i musei sugli altri,
non il contrario, e questo tradisce un rapporto di forza asimmetrico.
I musei di inizio Novecento, ad esempio, erano organizzati in modo da raffigurare le varie tappe
dell’evoluzione umana, secondo le teorie dell’epoca. Gli oggetti esposti erano presentati come il
frutto di artisti ingenui, entusiasti, «naturali», e all’arte etnica spesso si attribuiva una carica
sessuale forte, unita al potere di raffigurare idee collettive che nascevano da pulsioni primitive.
Tanto per i musei etnografici quanto per le esposizioni temporanee si pone un problema di fondo,
che da anni alimenta accese discussioni. Si possono esporre oggetti prodotti per finalità diverse
nello stesso contesto in cui esponiamo un quadro di Goya o la Gioconda? L’arte, per noi, è materia
che deve essere in qualche modo esposta per essere ammirata, ma è lo stesso per opere prodotte in
contesti culturali diversi?
Un certo tradimento è inevitabile, se si decide di inserire oggetti prodotti con fini diversi nel cir-
cuito dell’arte. Un oggetto etnografico diventa opera d’arte solo attraverso lo sguardo dell’osser-
vatore occidentale e il valore di un’opera d’arte si basa, secondo il nostro criterio, sull’utilizzo di
categorie predeterminate culturalmente. Per esempio, quando di un’opera diciamo «è un falso»,
presupponiamo che esista un originale autentico, frutto della mano di un artista, che ha realizzato
solo quell’opera. Il presupposto dell’unicità dell’opera è però un altro concetto occidentale, che non
trova necessariamente riscontro presso altre società. Se uno scultore realizza tre maschere per una
danza, non sono forse tutte e tre originali?
Quella maschera, inoltre, a differenza di una scultura occidentale, non era stata concepita per
essere esposta in una teca, ma per danzare. Un altro tradimento. Si assiste così a una certa
disumanizzazione dell’arte primitiva, che spesso colpisce gli oggetti di varie parti del mondo
quando vengono «deportati» come schiavi catturati, ridotti a merci, privati dei loro legami sociali e
ripensati per adattarsi alle esigenze economiche, culturali, politiche e ideologiche di uomini che
appartengono a società distanti.
Esporre oggetti etnografici è un po’ come tradurre un testo da una lingua straniera e sappiamo
benissimo come i traduttori diventino talvolta, inevitabilmente, traditori. Non esiste un modo giusto,
qualunque sia la scelta sarà sempre il frutto di una nostra interpretazione. Se si espone una maschera
con delle ricche informazioni sulla sua origine, sulle tecniche di realizzazione, sull’utilizzo che ne
viene fatto e sul significato simbolico che le viene attribuito, si crea un oggetto etnografico.
Togliendo quelle informazioni, lo si trasforma in un’opera d’arte, che parla da sola, da ammirare
per il suo valore estetico e non per la sua funzione sociale. Nel primo caso si può venire accusati di
negare a quella maschera la dignità di creazione artistica, riducendola a reperto etnico; nel secondo
l’accusa è di sottrarre, non solo fisicamente, l’oggetto al suo contesto originale, disattivandone le
caratteristiche intrinseche, per poi giudicarlo secondo categorie culturali predefinite. La scelta è tra
«bellezza» e «antropologia» e come ogni scelta implica, inevitabilmente, una rinuncia.
Arte o artigianato?
Uno dei terreni più recenti battuti dagli antropologi è quello del turismo, una pratica in continua
crescita e che rappresenta una nuova forma di incontro tra occidentali e nativi. Tra le dinamiche di
compravendita, che spesso si innescano tra le due parti, una delle più classiche riguarda
l’artigianato. L’interesse antropologico nasce proprio dai diversi sguardi che si incrociano sullo
stesso oggetto.
Una delle questioni più dibattute, rispetto a questo ambito, riguarda la collocazione dei manufatti
prodotti per i turisti: si tratta di arte o di artigianato? Una questione che, ancora una volta, si fonda
su e si alimenta di categorie essenzialmente occidentali. Essendo oggetti spesso prodotti in serie e
uguali tra di loro, sfuggono, per esempio, all’idea di unicità collegata all’arte; tuttavia in epoca
moderna il concetto di unicità è stato messo in discussione, basti pensare alle serie di Marilyn
Monroe dipinte da Andy Warhol, tutte pressoché uguali eppure tutte uscite dalla mente e dalla
mano dell’autore. Se uno scultore bobo del Burkina Faso oppure un sepik della Nuova Guinea
scolpiscono sei maschere uguali e due di queste vengono utilizzate nei loro villaggi per cerimonie
rituali, mentre le altre quattro vengono vendute ai turisti, possiamo dire che le prime due sono
oggetti d’arte, mentre le altre appartengono all’artigianato?
Su questo tema il dibattito è quanto mai aperto e le posizioni tra gli studiosi sono diverse. Una
linea di demarcazione si può però tracciare, quando siamo in presenza di forme di espressione
creativa prodotte esclusivamente per i turisti, anche se questi oggetti ricalcano in tutto e per tutto
forme, linee, dimensioni di quelli «originali».
I tuareg artigiani
A Timbuctu (Mali) si incontrano continuamente tuareg che vendono oggetti di artigianato per la
strada, negli hotel, nei ristoranti. Avvicinano i turisti e danno vita a una sorta di recita che sembra
studiata in una scuola comune, tanto si ripete uguale ogni giorno, in ogni luogo, anche se il
venditore è diverso.
Il primo elemento che viene messo in luce è il nomadismo. «Nous les tuaregs sommes touts des
nomades» («Noi tuareg siamo tutti nomadi») ripetono quasi come uno slogan ed è evidente come
siano consci del fatto che il nomadismo, il mistero ombroso degli «uomini blu» eserciti un certo
fascino sui turisti. Utilizzano non il termine imohag, «uomini liberi», con cui loro si definiscono,
ma tuareg, appellativo denigratorio assegnato loro dagli arabi, che significa «senza dio», ma che è
anche quello con cui li conoscono i turisti.
Per dare maggiore credibilità alla sua dichiarazione di nomadismo, spesso il venditore racconta di
essere appena arrivato dal deserto o di dover ripartire l’indomani per il deserto. La seconda
affermazione è più frequente, perché serve a mettere una certa fretta al turista nel chiudere l’affare.
Una sorta di implicita minaccia: «se non lo compri ora non lo troverai più domani». Marco Aime
racconta di aver incontrato spesso, nei suoi soggiorni a Timbuctu, venditori che gli dicevano di
essere in partenza, salvo poi rivederli il giorno dopo, e quello dopo ancora e ogni altra volta che
tornava per lavoro in quella città. Uno slogan che ricorre nella trattativa per gli oggetti è: «li ho fatti
io». Tutti i venditori si spacciano per artigiani, ma la realtà è diversa. A Timbuctu i produttori di
oggetti d’artigianato, in particolare quelli in metallo, non sono numerosi e in molti casi gli oggetti
venduti provengono dal Niger, dove la produzione artigianale è molto più forte e originale. La
figura dell’artigiano rappresenta però, nell’immaginario del turista occidentale, un immediato
rimando a un mondo passato, perduto, preindustriale, romantico, che mette in moto una certa
nostalgia; la stessa che spesso spinge molti viaggiatori a recarsi in regioni del mondo considerate
ancora «intatte», cioè non contaminate dall’Occidente. L’idea di una persona che ancora è padrona
dei propri mezzi di produzione, che con le sue mani modella la materia e la trasforma in un oggetto
finito, affascina chi vive in una realtà dove gli oggetti sono il prodotto di una catena di lavorazioni
spezzettate e spersonalizzate.
Li conosciamo come tuareg, ma questo nome è stato assegnato loro dagli arabi e significa «senza dio». Il nome con cui questi
nomadi sahariani si definiscono è imohag, «uomini liberi». I gruppi del nord abitano i massicci rocciosi dell’Hoggar e dell’Ajjer
(Algeria); quelli del sud vivono nella parte meridionale del deserto, in Mali e in Niger, in un territorio che presenta caratteristiche
sahariane. La lingua comune è il tamashek. L’universo tuareg è formato da una sorta di confederazione formata da diversi kel o clan,
che vivono sparsi sul territorio e che costituiscono le uniche vere unità sociali di riferimento per questi nomadi.
I kel conoiderati nobili sono ormai pochi e risiedono tutti nel cuore dell’Hoggar. È tra i loro appartenenti che viene scelto
l’amenokal, il capo supremo, il quale esercita però un potere relativo, poiché tra i tuareg l’autorità centrale non è mai stata
considerata molto importante. L’amenokal, il cui nome significa «padrone di tutte le terre», aveva il compito di controllare e di tenere
a bada le rivalità che spesso scoppiavano tra i vari gruppi. Come presso molti popoli pastori e guerrieri la stratificazione sociale è
assai marcata e l’appartenenza a una stirpe nobile conferisce una grande importanza. Si tratta di un sistema di caste, diviso in cinque
classi chiuse. La piramide gerarchica tradizionale era dominata dai nobili (imuhar), che assicuravano protezione ai loro vassalli
(imrad), addetti alla pastorizia, all’allevamento dei cammelli e alla guida delle carovane. Questi ultimi si avvalevano dei servigi di
schiavi catturati nel corso di razzie: gli iklan svolgevano i lavori domestici, mentre ai gradini più bassi della piramide stavano i bella
e gli harratin, generalmente di pelle nera, ai quali venivano affidati i lavori più pesanti. Fuori dal sistema delle caste c’erano gli
inaden, i «figli del diavolo». Erano fabbri e artigiani, considerati esseri pericolosi e imparentati con il demonio, il quale avrebbe
insegnato loro la misteriosa arte di dominare il ferro con il fuoco. I tuareg sono tradizionalmente monogami. La forzata
islamizzazione ha scalfito solo leggermente la tradizione autoctona e la poligamia non è mai stata adottata. Le donne tuareg non
portano il velo, non assumono atteggiamenti di sottomissione di fronte agli uomini e sono le depositarie principali della scrittura e
quindi responsabili dell’educazione dei figli. «È il ventre che dà il colore a un figlio»: con queste parole i tuareg riassumono il
concetto per cui all’interno dei kel la discendenza viene trasmessa per linea materna.
Che cosa significa arte?
forme di espressione artistica => dai graffiti e pitture preistoriche presenti in ogni società e cultura
“arte” => insieme di pratiche il cui scopo è dare piacere e suscitare emozioni
pittura scultura musica letteratura danza fotografia cinema arti applicate
Pietà (Michelangelo) Sonata (Chopin) commedia (Shakespeare) Blowin in the wind (Dylan)
minestra Campbell (Andy Warhol) Vespa Ferrari (Moma) ‘action painting’ ‘espressionismo astratto’
boscimani !kung > uova di struzzo come borracce aborigeni > boomerang incisi inuit > arpioni scolpiti
religioni => ruolo importante per la produzione artistica (creazione, committenza, filtri e divieti)
es. islam => divieto di rappresentare la figura umana (sostituita da calligrafia grafica decorazione)
Comprendere l’arte di altre culture => es. melodie indiane o arabe (testo)
Alcune melodie indiane o arabe possono apparire noiose e monotone a un orecchio occidentale. Siamo infatti
abituati a decifrare i suoni grazie a un’educazione musicale che si basa su scale di sette note, con dodici intervalli di
un semitono. Il modello armonico indiano si fonda su tre gamme analoghe, con una suddivisione di ventidue gradi,
il cui intervallo è superiore a 1/4 di tono del nostro sistema. Per questo quelle che a un indiano paiono come nette
variazioni di tono, risultano impercettibili al nostro orecchio e l’insieme ci sembra monotono. Viceversa, la nostra
musica suona un po’ rozza e semplice alle orecchie di un indiano o di un arabo, perché più povera di sfumature.
Il peso dell’arte
Arte materiale arte immateriale
popolazioni sedentarie popolazioni nomadi
oggetti materiali grandi dimensioni leggerezza forme espressive non visive
matrice africana
+ folk irlandese => country americano
musiche ritmi
scala pentatonica
caraibiche, brasiliane, messicane blues, gospel, jazz, rock, reggae, hip hop
Michel Leiris (L’Africa fantasma) => furti di oggetti sacri Missione etnografica Dakar-Gibuti (1931)
musei etnografici
. Museum of Mankind Londra Quai Branly Parigi American Museum of Natural History New York
sono gli occidentali a fare i musei sugli altri non il contrario (rapporto di forza asimmetrico)
post-colonizzazione
sguardo dell’osservatore occidentale => oggetto etnografico diventa ‘opera d’arte’
simulazione
illusione dell’autenticità
Dall’inizio della storia dell’umanità, sono esistite migliaia di culture e società differenti, che si
possono tuttavia classificare secondo un numero limitato di tipi fondamentali, basati sulle tecniche
che esse hanno impiegato per sfruttare l’ambiente naturale. A seconda della strategia di sussistenza,
tutte le società possono essere classificate tra le seguenti, su cui si sono basate: raccolta, caccia e pe-
sca, pastorizia, orticoltura, agricoltura e industria.
Per millenni l'uomo si è procurato il cibo direttamente dall’ambiente naturale. Questo tipo di eco-
nomia, chiamato di caccia-raccolta, prevede in genere una divisione su base sessuale dei compiti:
alle donne spetta l'attività di raccolta di vegetali e animali, mentre gli uomini si recano a caccia o a
pesca. La caccia e la raccolta sono forme della cosiddetta economia di acquisizione o di prelievo, in
quanto le società che le mettevano in pratica non conoscevano tecniche produttive in senso stretto
(come l’agricoltura e l’allevamento), ma “acquisivano” direttamente dalla natura ciò di cui avevano
bisogno. La raccolta è più antica della caccia, e fornì sostentamento dapprima agli australopitechi, i
primi ominidi bipedi africani vissuti a partire da 4-5 milioni di anni fa1; fu l’homo sapiens, secondo
recenti teorie archeologiche, a introdurre, 195.000 anni fa, la caccia. Le società di caccia e raccolta,
costituite da piccoli gruppi primari che raramente superano le quaranta unità, sono costantemente in
movimento perché devono lasciare un’area non appena si esauriscono le risorse alimentari che que-
sta offriva. Di conseguenza, poiché la proprietà sarebbe un impedimento per loro, possiedono un
numero esiguo di beni. Nessuno può acquistare ricchezza, perché non c’è ricchezza. Tra queste
popolazioni la guerra è inconsueta, anche perché quasi non ci sono beni materiali per cui combat-
tere. Anche se viene spesso presentata come una forma primitiva, questa economia ha dei vantaggi:
in media infatti un cacciatore-raccoglitore lavora meno di un contadino ed è meglio nutrito.
Pastorizia nomade
All’incirca tra dieci e dodicimila anni fa, alcuni gruppi di caccia e raccolta cominciarono a svilup-
pare la pastorizia, una strategia di sussistenza basata sulla domesticazione2 di alcune specie animali.
Questa strategia venne adottata da molte popolazioni che abitavano deserti o regioni comunque non
idonee alla coltivazione delle piante, ma in cui si trovavano animali – come le capre o le pecore –
facilmente addomesticabili da usare come fonte di alimentazione. Rispetto alla caccia e alla raccol-
ta, la pastorizia è una strategia più produttiva. Non solo assicura una fonte costante di alimentazio-
ne, ma le dimensioni delle greggi possono via via essere allargate. Una conseguenza importante di
questa circostanza è che le società possono crescere di numero e comprendere centinaia e anche
1
Presso gli odierni popoli cacciatori e raccoglitori, come i Boscimani Kung San del deserto del Kalahari
(Botswana), i Pigmei Mbuti del Congo o gli aborigeni australiani, la raccolta costituisce la parte più consi-
stente delle risorse alimentari, e generalmente questa attività è compito delle donne, che ogni giorno percor-
rono decine di chilometri a piedi alla ricerca di vegetali, uova, larve, miele, insetti e piccoli animali cattura-
bili con le mani come lucertole, lumache, uccellini nel nido; esse si aiutano con un bastone da scavo appun-
tito ad una estremità, utile ad estrarre radici, per trasportare il raccolto usano canestri intrecciati da loro
stesse.
2
‘Domesticare’ significa scegliere una specie – vegetale o animale - sulla base dei benefici che può portare,
toglierla dalla sua condizione naturale e trasferirla in un contesto in cui l'uomo la controlla. Non bisogna con-
fondere la domesticazione con l’addomesticazione. Addomesticare significa rendere utilizzabile un indivi-
duo, non una specie. Posso addomesticare una tigre, ma il suo cucciolo sarà selvatico. Al contrario non devo
domesticare un puledro, in quanto i cavalli sono stati domesticati in quanto specie.
migliaia di persone. La maggiore produttività della pastorizia permette l’accumulazione di un
surplus di bestiame e di cibo. Attraverso gli scambi, questo surplus può essere convertito in altre
forme di ricchezza e queste, a loro volta, possono essere utilizzate per acquistare potere. Per la
prima volta, alcuni individui sono in grado di diventare più potenti di altri e trasmettere il loro status
ai propri discendenti. Cominciano a comparire modelli di capo tribù e di capo clan. I popoli dediti
alla pastorizia sono solitamente nomadi poiché devono condurre costantemente i greggi verso nuovi
pascoli. I prodotti della cultura materiale in queste società sono perciò costituiti da oggetti facilmen-
te trasportabili: tende, tappeti, utensili semplici, gioielli e così via. La vita di nomade mette spesso i
pastori in contatto con altri gruppi. La prima conseguenza è lo sviluppo di un commercio sistemati-
co, la seconda è che le dispute sui diritti di pascolo scatenano spesso le guerre. La schiavitù, scono-
sciuta nelle società di caccia e raccolta, fa la sua comparsa. Iniziano a svilupparsi istituzioni politi-
che ed economiche, la cultura e la struttura sociale diventano più complesse.
L’orticoltura
Le società dedite all’orticoltura comparvero per la prima volta tra dieci e dodicimila anni fa, quan-
do alcuni cacciatori e raccoglitori cominciarono consapevolmente a seminare, curare e raccogliere
dei vegetali commestibili. A differenza dei pastori, la loro vita è relativamente stanziale, visto che
periodicamente spostano i loro orti e i loro villaggi entro brevi distanze. Una delle tecniche di colti-
vazione più antiche e diffuse, specie nelle zone semiaride, è quella ‘alla zappa’. Nelle regioni tropi-
cali viene spesso adottata la tecnica taglia e brucia: si sgombra un appezzamento di terreno brucian-
do la vegetazione tagliata, si coltiva poi per due tre anni, fino a che il suolo è esaurito, quindi si ri-
pete il procedimento altrove. Questi tipi di coltivazioni sono detti pluviali, poiché l'irrigazione di-
pende unicamente dalle precipitazioni piovose; essi richiedono una rotazione dei terreni per fare ri-
posare il suolo. Anche in questo caso il surplus permette che alcuni individui diventino più potenti
di altri, e che alcune persone possano dedicarsi ad attività lavorative diverse dalla produzione ali-
mentare: compaiono nuovi status e ruoli specializzati, come quelli dello sciamano, del mercante,
dell’artigiano. La guerra è molto comune nelle società orticole, perché spesso è più conveniente ru-
bare i raccolti del vicino che produrne in proprio. Nelle società orticole più aggressive compaiono le
pratiche del cannibalismo, della caccia alle teste, di solito come atto rituale di vendetta. Gli orticolo-
ri producono oggetti più elaborati rispetto ai cacciatori e ai pastori: case, troni, grandi sculture in
pietra.
Agricoltura e allevamento
Circa 10 000 anni fa nel Vicino Oriente - la Mezzaluna fertile - ebbe inizio lo sviluppo agricolo:
da cacciatore e raccoglitore l’uomo divenne agricoltore e allevatore di animali3. Il presupposto di
questo processo, chiamato “rivoluzione neolitica” dal padre della moderna paleoetnologia, Vere
Gordon Childe (1892-1957), è la cosiddetta domesticazione di alcune specie vegetali ed animali.
L’uomo del Neolitico capì che il disfacimento del seme nella terra dava origine alla pianta e che
quindi, piantando i semi, si potevano far crescere le piante vicino a casa. Egli imparò poi gradual-
mente a selezionare le piante più produttive. Un processo analogo venne realizzato per gli animali:
l'uomo iniziò così a diventare un produttore. Le specie domesticate a poco a poco mutano genetica-
mente diventando più corrispondenti alle esigenze umane. I vantaggi più diretti della domesticazio-
ne furono una maggior quantità di cibo a disposizione dei coltivatori. Ciò portò a una crescita della
popolazione, fattore che dava un vantaggio numerico ai popoli che avevano adottato l'orticoltura.
3
Nel resto del mondo il passaggio all’agricoltura si verificò, in tempi diversi tra il 7500 e il 2500 a. C., in
almeno quattro regioni: la Cina orientale, il Messico centrale e meridionale, le Ande (forse l’Amazzonia), gli
Stati Uniti orientali.
Quando, circa 6000 anni fa, fu inventato l’aratro, la vera rivoluzione agricola ebbe inizio. L’uso
dell’aratro accresce fortemente la produttività del terreno, porta alla superficie nutrimenti che erano
affondati oltre la portata delle radici delle piante e rovescia le erbacce in modo che agiscano da
fertilizzanti. Lo stesso terreno può essere coltivato quasi continuamente, cosicché diventano
possibili insediamenti stabili e permanenti.
L'agricoltura irrigua – a differenza delle coltivazioni pluviali - prevede l'irrigazione o l’allagamen-
to periodico dei campi, che garantiscono alla terra una fertilità maggiore. In alcuni casi il terreno è
lavorato a terrazze, sfruttando i pendii: in questo caso l’irrigazione avviene per caduta dall'alto ver-
so il basso. ln altri casi sono state sfruttate le pianure alluvionali dei grandi fiumi per creare una rete
di canali che trasportano l’acqua anche in campi distanti dal fiume.
Il modello agricolo impone stanzialità e determina una maggiore densità di popolazione, un fatto
che richiede un'organizzazione più complessa e comporta una successiva stratificazione sociale.
Una parte della popolazione non è obbligata a lavorare la terra, ma può dedicarsi a tempo pieno a
ruoli altamente specializzati. Compaiono le città, composte essenzialmente di persone che in modo
diretto o indiretto scambiano la loro capacità lavorativa specializzata con i prodotti agricoli di colo-
ro che ancora lavorano la terra. Comincia a comparire la monarchia ereditaria, con una elaborata
corte, una burocrazia di governo, finchè non fa la sua comparsa lo stato, come istituzione sociale
separata. Compaiono le classi sociali e la ricchezza è quasi sempre distribuita in modo ineguale, con
una piccola minoranza di proprietari terrieri che dispone del surplus prodotto dalla maggioranza che
lavora. Una maggiore densità significa anche più malattie e più rapidità di contagio. Inoltre presso
quasi tutte le popolazioni agricole la coltivazione è legata a rituali religiosi per garantire fertilità nei
raccolti; compaiono di conseguenza specialisti di rituali, che rivestono un ruolo importante all'inter-
no della comunità. Le società agricole tendono ad essere costantemente in guerra; ciò richiede
un’organizzazione militare efficiente, compaiono quindi per la prima volta degli eserciti permanen-
ti. Si sviluppano le reti stradali e le risorse possono essere investite in nuovi prodotti culturali mate-
riali: pitture e statue, edifici pubblici, monumenti, palazzi, stadi.
4
Le testimonianze archeologiche indicano che le piante e gli animali furono domesticati contemporanea-
mente, all’incirca 11 000 anni fa; al tempo stesso suggeriscono che il nomadismo pastorale comparve tra il
IV e il III millennio a. C. In base a queste informazioni non possiamo ritenere che l’allevamento del bestiame
sia un passaggio intermedio tra la pratica di caccia e raccolta e l’agricoltura: piuttosto dobbiamo immaginar-
lo come contemporaneo o posteriore all’agricoltura stessa.
Società nomadi pastorali si trovano ancora oggi in tutto il mondo5. ll ciclo produttivo dei pastori
non è soggetto alla stagionalità come quello agricolo: il pastore può infatti trarre un apporto conti-
nuo dai suoi animali. I pastori in genere hanno un rapporto di complementarità e conflittualità con
gli agricoltori, poiché da un lato intrattengono regolarmente scambi con essi, dall'altro spesso si
trovano a sfruttare, anche se in modo diverso, i medesimi terreni. Da un punto di vista culturale ed
economico i nomadi non possono esistere senza le società stanziali (e viceversa), ma la mobilità fa
di loro una categoria che spesso sfugge alle classificazioni di chi conduce una vita sedentaria e
desta pertanto sospetti.
La rivoluzione agro-pastorale trovò una delle prime culle nella Mezzaluna fertile grazie a una serie
di condizioni favorevoli. In questa regione, infatti, le specie domesticabili erano presenti in abbon-
danza. Inoltre il blocco continentale eurasiatico si sviluppa principalmente in direzione est-ovest, e
pertanto presenta caratteristiche climatiche simili; spostandosi lungo tale asse l'agricoltura si diffuse
molto rapidamente. La nascita e la diffusione dell'agricoltura fornirono alle popolazioni euroasiati-
che un vantaggio notevole rispetto ai popoli che non avevano adottato questo sistema di produzione,
un vantaggio destinato a imporsi nel tempo e a determinare profonde disuguaglianze.
Grazie alla produzione agricola e all’allevamento l’uomo si garantì la sussistenza. Non essendo
più necessario che tutti si dedicassero alla produzione di cibo, nacquero le prime specializzazioni:
nei villaggi iniziarono a comparire il fabbro, il tessitore, il falegname, il maniscalco, il barbiere, etc.
che via via si specializzarono nelle loro attività, migliorando le tecniche costruttive. Le nuove tec-
nologie e invenzioni consentirono un maggiore accesso alle risorse e un vantaggio sugli altri popoli.
Sul piano delle armi, ad esempio, permisero di conquistare territori occupati da altri: iniziò così la
professione militare e la guerra diventò un mestiere. L’artigianato raggiunse livelli di maggiore pre-
cisione e raffinatezza e ampliò il suo campo d’azione. Fu inventata la scrittura, che consentiva la
trasmissione dei saperi e l’acquisizione di nuove conoscenze. Si svilupparono attività non stretta-
mente materiali come quelle artistiche, e la preghiera venne affidata a specialisti.
Poiché la società si faceva più complessa, si vennero a costituire delle forme di gerarchia, che furo-
no la base per la nascita dei primi grandi imperi della storia, come quello assiro-babilonese, sorto
proprio nel cuore della Mezzaluna fertile. L’aumento di popolazione conseguente alla maggior
disponibilità di cibo, insieme alla collocazione geografica favorevole agli scambi, avvantaggiò i
popoli euroasiatici rispetto a quelli degli altri continenti.
Scambi e commerci
La storia dell’uomo è segnata dagli scambi, sia di merci sia di idee. Essi avvennero inizialmente
sotto forma di baratto6, uno scambio di merce con altra merce senza l’uso del denaro. Il valore dei
5
Società nomadi pastorali si trovano oggi in Africa, come i peul, allevatori di bovini, o i tuareg e i somali,
che allevano cammelli; in Asia, come tibetani, kazaki, kirghisi, beduini, che si dedicano a bovini, camelidi,
ovini e caprini; in Europa i lapponi, samoiedi, allevano renne, sulle Alpi vengono allevate mucche e pecore;
ovini e caprini pascolano in molte regioni del mondo mediterraneo; nell’America meridionale molti gruppi
andini si procurano da vivere allevando il lama e il guanaco. Anche nell’area mediterranea troviamo forme di
pastorizia transumante, dalla Spagna alla Provenza, dalla Grecia alla Sardegna, dagli Appennini alle Alpi.
6
Già Erodoto, storico greco del vi secolo a.C., narra che alcune popolazioni del Mediterraneo praticavano il
baratto muto. Il venditore esponeva la sua merce e poi si ritirava. Il compratore valutava la merce e vi
poneva accanto un quantitativo di polvere d’oro allontanandosi a sua volta. Il venditore allora esaminava
l’offerta e, se non la riteneva sufficiente, si ritirava senza toccare nulla in attesa di un rilancio da parte
dell’altro. La trattativa proseguiva in silenzio fino al raggiunto accordo, che veniva festeggiato con rulli di
tamburi e festeggiamenti.
beni scambiati veniva attribuito di volta in volta dal venditore e dal compratore, sulla base delle
reciproche necessità.
Con l’introduzione del denaro le merci iniziarono ad avere un prezzo e si poté scambiare denaro
con beni o servizi. Il commercio divenne un’attività lavorativa vera e propria, praticata sia a livello
locale sia a lunga distanza, al punto che con il tempo si vennero a creare delle rotte commerciali,
che attraversavano paesi e continenti. Il commercio però non metteva in movimento solamente
merci, ma anche idee; così attraverso i mercanti si diffusero saperi e religioni.
Secondo lo storico dell’economia Karl Polanyi esistono tre modalità di far dialogare tra di loro la
produzione e lo scambio: reciprocità, ridistribuzione e scambio di mercato.
La reciprocità è quella forma di scambio che avviene in società caratterizzate dall’egualitarismo,
dove non esistono leggi che regolano vendita e acquisto. In questo caso lo scambio avviene in modo
simmetrico: io ti do una cosa e tu me ne dai un’altra, sulla base del valore che attribuiamo a quegli
oggetti. Lo scambio avviene quindi direttamente tra individui uguali tra di loro per status.
La redistribuzione invece può essere messa in atto solo in società dove esista una struttura centra-
lizzata di potere. In pratica il capo, il sovrano o lo stato ricevono beni e denaro da parte di tutti i
componenti del gruppo, sia esso una piccola tribù o uno stato-nazione; successivamente essi
dovranno provvedere a redistribuirli secondo modalità, più o meno eque, previste dalla loro società.
Nel nostro caso è l’apparato fiscale che si occupa di raccogliere il denaro delle imposte per poi
redistribuirlo sotto forma di servizi ai cittadini.
L’era industriale
La terza modalità di passaggio di merci e servizi è quella dello scambio di mercato o commercio
calcolato. Fino alla metà del XVIII secolo era l’artigianato la principale attività di trasformazione.
La nascita delle manifatture industriali e l’espandersi dei commerci su scala mondiale, diedero il via
a quella che Polanyi ha definito la grande trasformazione, cioè l’avvento dell’era industriale e il
conseguente sorgere dell’economia di mercato.
Questa trasformazione radicale segnò la divisione tra i diversi tipi di economie e civiltà. In seguito
alla rivoluzione industriale scomparve la tradizionale società commerciale, i cui fondamenti poggia-
vano sulle risorse internazionali di oro; mentre la produzione, grazie all’introduzione delle macchi-
ne, prese il sopravvento sull’attività mercantile.
Con l’avvento del sistema capitalistico, muta la sostanza dei rapporti economici precedenti, che si
fondavano soprattutto sui rapporti sociali. Al contrario, nel sistema capitalistico sono i rapporti
sociali a essere definiti tramite quelli economici. A partire da questo momento nascono le cosiddette
«merci fittizie», come la terra, il lavoro, la moneta, che prima non venivano considerate beni di
scambio.
Con l’avvento della società di mercato il valore degli oggetti e dei servizi non viene più deciso da
venditore e compratore, ma stabilito dalla cosiddetta legge di mercato, che si basa sul principio
della domanda e dell’offerta. Se un bene è raro e c’è molta richiesta, il suo prezzo salirà, se invece
la richiesta diminuisce e c’è abbondanza di quel bene, il prezzo scenderà.
Reciprocità, redistribuzione e scambio di mercato spesso convivono all’interno di ogni società, ma
ogni società dà priorità a una di queste modalità. Nelle società occidentali, per esempio, è ormai il
mercato a svolgere tale ruolo, ma questo non significa che non esistano forme di economia
mercantile in società tradizionali e forme di reciprocità in società capitalistiche.
Per esempio, sui mercati di molte parti del mondo vige la consuetudine di contrattare il prezzo di
un bene. La pratica della contrattazione mette in gioco i due contendenti e per certi versi è un
tentativo per attenuare gli effetti della legge di mercato, che spersonalizza gli attori, acquirente e
venditore, imponendo un prezzo fisso uguale per tutti. Contrattando i due si mettono in gioco e
cercano di stabilire un compromesso, che accontenti tutti e due, tenendo conto degli interessi di
entrambi. A un cliente più ricco il mercante chiederà più soldi che a uno meno abbiente, rendendo
così più personalizzato lo scambio.
Con l’invenzione della moneta fu possibile spostare valori elevati senza spostare necessariamente
oggetti: la moneta è infatti un portatore di valore; essa è anche portatrice di segni, poiché rappresen-
ta il sistema organizzativo che ne garantisce il valore.
Nella letteratura etnografica troviamo descritti diversi tipi di moneta, che non necessariamente
hanno la forma di quelle attuali: potevano essere considerate monete delle piccole barre di ferro, dei
fili di rame, delle zappe; c’erano monete di sale oppure piccole conchiglie chiamate cauri, che vale-
vano come moneta.
Questo tuttavia non impediva che al fianco dello scambio monetario convivessero altre forme di
baratto o di altro scambio personalizzato.
In un sistema di mercato quasi tutto è acquistabile con il denaro. Se escludiamo alcuni titoli come
una laurea o la patente di guida, che devono essere acquisiti con l’abilità, il resto è sul mercato.
Ma non è così dappertutto. Presso molte popolazioni, come per esempio i tiv della Nigeria o i mossi
del Burkina Faso, esistono quelle che sono state definite sfere di scambio. In queste società non tutti
i generi sono acquistabili con denaro, e nemmeno tutto può essere scambiato con tutto. Per esempio
non si possono scambiare animali con prodotti vegetali. I beni e i servizi sono raggruppati in sfere
diverse tra di loro e ciascuna di queste sfere possiede un valore «morale» diverso, per cui certi beni
possono essere scambiati solo con beni appartenenti alla stessa sfera.
Le corporations e le multinazionali
L’economia dei paesi a capitalismo maturo non si basa più sulla concorrenza tra una miriade di
singoli capitalisti, ma è dominata da grandi società o corporations, cioè da organizzazioni commer-
ciali formali la cui proprietà è estremamente frammentata e che possono esercitare un enorme pote-
re economico e politico. La corporation – giuridicamente una società di capitali che in Italia è rap-
presentata principalmente dalle società per azioni – è un’istituzione relativamente recente, assurta a
posizioni di primo piano dalla fine del XIX secolo. Essa non è di proprietà di un singolo individuo,
ma di migliaia o anche di centinaia di migliaia di azionisti, alcuni dei quali sono a loro volta delle
corporations. Le dimensioni e il potere economico delle principali corporations sono immensi, e il
dominio che esse esercitano sulle economie nazionali ha conseguenze importanti. Una di esse ri-
guarda la possibilità che queste società hanno di manovrare la politica nazionale, di ottenere condi-
zioni di favore, di influenzare la struttura fiscale del paese e di impedire ogni sforzo diretto ad im-
pedire la crescita degli oligopoli in settori particolari.
Se in passato le grandi società concentravano la loro attività in un solo settore economico, oggi la
diversificano acquistando pacchetti azionari di controllo di società che operano in una moltitudine
di settori. Quasi tutte le maggiori corporations hanno assunto dimensioni internazionali, impiantan-
do industrie all’estero o acquistando società straniere. Molte multinazionali hanno un reddito e un
patrimonio superiori a quelli di alcuni paesi in cui operano. Sottratte all’autorità di qualsiasi stato,
soggette a una responsabilità quasi del tutto fittizia di fronte a degli azionisti remoti e dispersi, tese
al perseguimento del profitto e gestite da una ristrettissima élite di imprenditori e dirigenti, le multi-
nazionali pongono problemi che coinvolgono il “sistema-mondo”: decisioni prese da un ristretto nu-
mero di individui possono significare non solo la prosperità o la disoccupazione in paesi distanti mi-
gliaia di chilometri, ma anche un’intromissione diretta nelle faccende politiche di tali paesi.
Naturalmente le multinazionali possono svolgere talvolta un ruolo positivo, promuovendo lo svilup-
po economico nei paesi più poveri, esportandovi la tecnologia e i capitali necessari, ma le loro moti-
vazioni sono meramente commerciali: sfruttare una forza-lavoro a buon mercato e le risorse ivi esi-
stenti, aprire nuovi mercati e ricavare profitti dai paesi nei quali operano.
Le più recenti trasformazioni dell’economia non hanno più avuto come nucleo centrale la fabbri-
ca e l’organizzazione industriale, ma hanno riguardato soprattutto la distribuzione dell’occupazione
nei settori dell’attività economica agricola, industriale e terziaria. In tutti i Paesi industrializzati si
continua infatti a registrare l’aumento sempre più rilevante di coloro che lavorano negli uffici, nei
servizi, nel commercio o nelle libere professioni: si ha, cioè, una continua espansione del settore
terziario rispetto agli altri due, fenomeno che viene comunemente definito terziarizzazione del-
l’economia.
Nel mondo occidentale, a causa delle continue innovazioni tecnologiche, il settore primario (agri-
coltura) e quello secondario (industria) hanno raggiunto un livello produttivo molto elevato ed una
contemporanea riduzione del numero degli occupati, che oggi sono addetti all’industria solo in parte
minoritaria e ancora meno all’agricoltura. Viceversa, il terziario è il settore in espansione, che conti-
nua ad assorbire lavoratori perché nel suo ambito l’innovazione tecnologica non riduce l’occupazio-
ne ma crea nuove professioni, nuove specializzazioni, nuove opportunità di lavoro e nuovi modelli
di formazione professionale che aprono altri settori di occupazione, e così via. Il settore terziario,
tuttavia, costituisce una realtà lavorativa eterogenea e complessa, in quanto composta da tipi di oc-
cupazione molto diversi, che possono, sì, comportare un alto livello di specializzazione, ma anche
produrre una vasta dequalificazione destinando una notevole quantità di manodopera a servizi
marginali, che richiedono minima, o persino nessuna, professionalità.
Il terziario può essere suddiviso in due grandi categorie: i servizi alle imprese (banche, assicura-
zioni, attività di comunicazione, consulenze legali, fiscali, finanziarie ecc.), che esigono un livello
medio-alto di professionalità, e i servizi alle persone (sostegno alla famiglia, ai diversamente abili,
agli invalidi ecc.).
Questi ultimi si possono ulteriormente suddividere in servizi al consumatore (commercio, ristora-
zione, turismo, attività di riparazione come quelle di idraulici, meccanici, carrozzieri, elettricisti e
falegnami) e servizi sociali, come la sanità, l’istruzione e tutti gli altri previsti dal Welfare State; è
nei servizi al consumatore che si registra la massima presenza di occupati non specializzati. Il no-
tevole incremento dei servizi alle persone è stato determinato non tanto dal progresso tecnologico,
quanto da due fattori sociali: il lavoro extradomestico delle donne, che devono ricorrere in modo
massiccio all’aiuto fornito dai servizi esterni, per continuare a svolgere i compiti di cura della
famiglia e della casa; l’aumento del tempo libero, che ha determinato una crescita rilevante delle
attività legate al turismo, allo spettacolo e alle attività ricreative in genere.
Le società occidentali, nelle quali il processo di industrializzazione ha raggiunto il livello di sa-
turazione, lasciando il posto alla terziarizzazione, sono definite società postindustriali e si vanno
caratterizzando anche come società «opulente», in quanto la maggioranza della loro popolazione ha
un tenore di vita superiore al passato, grazie a una più diffusa ricchezza che consente un più ampio
consumo di beni e servizi, un più esteso e qualificato impiego del tempo libero.
Le trasformazioni in corso nell’economia globalizzata hanno una portata epocale sia per la velocità
che per la radicalità dei cambiamenti riguardanti i modelli produttivi, i loro contesti sociali, istitu-
zionali e geografici. Si sta profilando la nascita di un’impresa senza confini, cioè senza limiti
spaziali ed organizzativi, portata ad operare all’interno di sistemi economici caratterizzati da
fenomeni di specializzazione della produzione e di localizzazione, che consiste nell’insediamento
delle attività economiche in quelle aree geografiche che offrono il vantaggio di poter sfruttare un
insieme di risorse le quali consentono di produrre a bassi costi e quindi a prezzi concorrenziali
(abbondanza di materie prime, un mercato del lavoro caratterizzato da numerosa manodopera, bassi
salari, limitata tutela dei lavoratori, possibilità di raggiungere mercati non ancora dominati da una
forte concorrenza, facilitazioni negli scambi internazionali ecc.). Naturalmente, questo fenomeno
produce anche il fenomeno, inverso, della delocalizzazione, cioè il trasferimento delle imprese dal
territorio nazionale di appartenenza verso zone del pianeta ritenute più vantaggiose sotto il profilo
economico. Il contesto di un’impresa ormai non è più nazionale, in quanto essa opera sempre meno
entro una ristretta dimensione geografica. Il nuovo contesto è composto da un «ambiente» e da uno
o più «territori». L’ambiente è una porzione del mondo esterno all’impresa, costituito dall’insieme
delle organizzazioni e degli attori sociali che ricoprono un ruolo rilevante per il reperimento delle
risorse e la collocazione dei prodotti o dei servizi (fornitori, banche, azionisti, sindacati ecc.).
L’ambiente è specifico e variabile in base alle scelte strategiche e di localizzazione dell’impresa
stessa, compiute secondo la logica di aumentare la propria indipendenza rispetto alle risorse di cui
abbisogna e alle organizzazioni con cui ha relazioni.
Alla base della nuova economia, oltre alla globalizzazione degli affari, vi è la rivoluzione tecnolo-
gica dell’informazione, che ne favorisce la crescente «immaterialità», permettendo il passaggio dal-
l’impresa centralizzata all’impresa di rete; un altro aspetto è costituito, come si è visto, da una dimi-
nuita centralità e da un’accresciuta flessibilità del lavoro. Non va nemmeno trascurata la nascita di
un’economia della conoscenza, determinata dalla maggiore esigenza di informazione e di formazio-
ne generale e professionale da parte di lavoratori, dirigenti ed imprenditori, dato che le conoscenze
necessarie diventano sempre più complesse, trasversali alle varie materie, soggette a continue e ra-
pide trasformazioni. «Si registra – sostiene il sociologo Edgar Morin – una inadeguatezza sempre
più ampia, profonda e grave tra i nostri saperi disgiunti, frazionati, suddivisi in discipline da una
parte, e realtà o problemi sempre più pluridisciplinari, trasversali, multidimensionali, transnazionali,
globali, planetari, dall’altra», per cui, invece di una «testa ben piena», è meglio avere una «testa ben
fatta», che sappia collegare fra loro le varie conoscenze, poiché un sapere «isolato» appare poco uti-
le, mentre risulta determinante avere delle conoscenze «pertinenti», cioè capaci di collocare il sape-
re stesso all’interno di un preciso contesto.
Bisogna, inoltre, tenere conto dell’economia del loisir (svago, cultura, spettacolo), che viene
«consumato» non solo in maggiore quantità, ma in modo diverso, dato che si acquistano non solo
dei beni materiali, ma anche stili di vita, immagini e «sogni». Vi sono poi alcuni beni di consumo
che diventano status symbol, il cui possesso finisce per influenzare i comportamenti individuali e
collettivi (vedi il made in Italy). Per fronteggiare questo nuovo tipo di domanda si costruiscono le
«cattedrali del consumo» (centri commerciali, casinò, fast food, parchi a tema), dove è possibile
praticare il culto dello shopping e dove il consumo si mescola all’intrattenimento.
Con il passaggio dalla ripetitiva fabbrica fordista, intesa come luogo centrale del lavoro e del-
l’economia, alla diffusione delle «cattedrali del consumo», diventate mete di un pellegrinaggio le-
gato al nuovo iper-consumismo, si può dire che il volto dell’economia contemporanea sia profonda-
mente cambiato e che tale trasformazione abbia inciso sulla dimensione culturale ed esistenziale
dell’«homo consumens». Si tratta di un fenomeno che non va sottovalutato, perché influisce sui
mutamenti quantitativi e qualitativi che pesano sulle trasformazioni e sul funzionamento non solo
dell’economia, ma dell’intera società sotto il profilo sociologico, antropologico e politico.
Secondo il sociologo americano Richard Sennett, l’umanità è oggi formata da uomini flessibili, la
cui vita è condizionata dalle tre parole d’ordine del nuovo capitalismo: flessibilità, mobilità e
rischio. Sorgono così delle differenze profonde tra la precedente generazione, per la quale la vita e
il lavoro scorrevano duramente ma anche regolarmente, e la generazione dei figli, sottoposta alla
nuova legge del capitalismo flessibile, per cui si cambia spesso lavoro, si disdegna l’idea di una lun-
ga carriera dentro la stessa azienda, ma al contempo si prova un senso di deriva e di smarrimento,
poiché si avverte la paura di perdere il controllo della propria vita. Afferma infatti Sennett: «Com’è
possibile mantenere degli obiettivi a lungo termine in una società a breve termine? In che modo
possono essere conservati dei rapporti sociali durevoli? Come può un essere umano sviluppare
un’autonarrazione di identità e una storia della propria vita in una società composta di episodi e
frammenti? Le condizioni della nuova economia si alimentano di esperienze che vanno alla deriva
nel tempo, da un posto all’altro, da un lavoro all’altro [...] Il capitalismo a breve termine minaccia
di corrodere il carattere, e in particolare quei tratti del carattere che legano gli esseri umani tra loro e
li dotano di una personalità sostenibile».
Economia e lavoro
* Odierni popoli cacciatori/raccoglitori: Boscimani Kung San del deserto del Kalahari (Botswana), Pigmei Mbuti
(Congo), aborigeni australiani. Raccolta generalmente compito delle donne: decine di km a piedi alla ricerca di
vegetali, uova, larve, miele, insetti e piccoli animali catturabili con le mani come lucertole, lumache, uccellini
nel nido; bastone da scavo appuntito, utile ad estrarre radici; per trasporto: canestri intrecciati da loro stesse.
**' Domesticare' = scegliere una specie - vegetale o animale - per i benefici che può portare,
toglierla dalla sua condizione naturale e trasferirla in un contesto controllabile.
domesticazione vs addomesticazione => rendere utilizzabile un individuo, non una specie.
Agricoltura e allevamento
allevamento agricoltura
animali erbivori recintati per difendere i campi coltivati: terreno coltivato quasi continuamente =>
specie animali domesticate per fornire cibo, pelli agricoltura irrigua: irrigazione/allagamento
e ossa, manufatti, per la caccia o per il trasporto: periodico dei campi vs coltivazioni pluviali
capra pecora maiale gallina bue tacchino cammello etc terreno lavorato a terrazze: irrigazione per caduta
specie animali non domesticate => scarsa convenienza pianure alluvionali dei grandi fiumi rete di canali
carnivori vs erbivori lentezza nella crescita 4000 a. C. => aratro inizio rivoluzione agricola:
difficoltà di riproduzione e sopravvivenza in cattività nutrimenti affondati portati in superficie
specie con organizzazione sociale: arriva oltre la portata delle radici delle piante
domesticazione più facile rovesciamento delle erbacce (fertilizzanti)
vs coltivazione-orticoltura: alla zappa
* Società nomadi pastorali si trovano oggi in Africa, come i peul, allevatori di bovini, o i tuareg e i somali, che allevano cammelli;
in Asia, come tibetani, kazaki, kirghisi, beduini, che si dedicano a bovini, camelidi, ovini e caprini; in Europa i lapponi, samoiedi,
allevano renne, sulle Alpi vengono allevate mucche e pecore; ovini e caprini pascolano in molte regioni del mondo mediterraneo;
nell’America meridionale molti gruppi andini si procurano da vivere allevando il lama e il guanaco. Anche nell’area mediterranea
troviamo forme di pastorizia transumante, dalla Spagna alla Provenza, dalla Grecia alla Sardegna, dagli Appennini alle Alpi.
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AM
ERI
vite EURASIA
olive
CHE
avena miglio
segala (germogli di) soia
cotone
fave
AFRICA
pomodori ananas frumento
avocado noci di cocco
orzo albero del pane
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L’invenzione dei mestieri
prime specializzazioni
mestieri e artigianato
nuove tecnologie e invenzioni => armi conquista professione militare => guerra come mestiere
forme di gerarchia => primi grandi imperi della storia (assiro-babilonese: Mezzaluna fertile)
aumento di popolazione / disponibilità di cibo / collocazione geografica / scambi => popoli euroasiatici
Scambi e commerci
* Già Erodoto, storico greco del vi secolo a.C., narra che alcune popolazioni del Mediterraneo praticavano il baratto muto.
Il venditore esponeva la sua merce e poi si ritirava. Il compratore valutava la merce e vi poneva accanto un quantitativo di polvere
d’oro allontanandosi a sua volta. Il venditore allora esaminava l’offerta e, se non la riteneva sufficiente, si ritirava senza toccare nulla
in attesa di un rilancio da parte dell’altro. La trattativa proseguiva in silenzio fino al raggiunto accordo, che veniva festeggiato con
rulli di tamburi e festeggiamenti.
L’era industriale
invenzione della moneta => spostamento di valori elevati senza spostamento di oggetti
letteratura etnografica: tiv (Nigeria) mossi (Burkina Faso) > testo
Corporations e multinazionali
paesi a capitalismo maturo dominata da grandi società azionarie (fine XIX sec.)
impresa
un «ambiente» contesto composto da uno o più territori
organizzazioni attori sociali
addetti al reperimento delle risorse e
alla collocazione dei prodotti o dei servizi
(fornitori, banche, azionisti, sindacati ecc.)
localizzazione delocalizzazione
insediamento delle attività economiche trasferimento delle imprese
in aree geografiche vantaggiose dal territorio nazionale di appartenenza
bassi costi / prezzi concorrenziali: verso zone economicamente più vantaggiose
differenza tra
le generazioni per la quale la vita e il lavoro la generazione dei figli, sottoposta alla nuova legge
scorrevano duramente ma anche regolarmente; del capitalismo flessibile: si cambia spesso lavoro,
vita come narrazione lineare, routine, stabilità; si disdegna l’idea di una lunga carriera dentro la
etica lavorativa: obiettivi di lungo periodo stessa azienda, ma al contempo si prova un senso
di deriva e di smarrimento, poiché si avverte la
paura di perdere il controllo della propria vita.
«Com’è possibile mantenere degli obiettivi a lungo termine in una società a breve termine? Com'è possibile
mantenere fedeltà e impegni reciproci all'interno di aziende che vengono continuamente fatte a pezzi e ristrut-
turate? In che modo possiamo decidere quale dei nostri tratti merita di essere conservato all'interno di una so-
cietà impaziente, che si concentra sul momento? In che modo possono essere conservati dei rapporti sociali
durevoli? Come può un essere umano sviluppare un’autonarrazione di identità e una storia della propria vita in
una società composta di episodi e frammenti? Le condizioni della nuova economia si alimentano di esperienze
che vanno alla deriva nel tempo, da un posto all’altro, da un lavoro all’altro [...] Queste sono le sfide che il nuo-
vo capitalismo flessibile pone al carattere. Il capitalismo a breve termine minaccia di corrodere il carattere, e in
particolare quei tratti del carattere che legano gli esseri umani tra loro e li dotano di una personalità sostenibile».
Richard Sennett, L’uomo flessibile, 1999, Feltrinelli, p. 7, 26.
La politica
In tutte le società moderne esiste un’organizzazione di governo formata da un certo numero di
istituzioni che sono in grado di formulare e di prendere delle decisioni riguardanti la maggior parte
dei componenti di una comunità. Con il termine governo si è soliti indicare un apparato politico,
costituito da rappresentanti eletti dai cittadini e da funzionari che formano gli organi pubblici,
capace di formulare dei programmi politici e di prendere le relative decisioni. All’interno di ogni
società esiste, di conseguenza, un ordine politico attraverso il quale prendono forma le varie attività
politiche e le diverse forme di lotta politica, condotte da un certo numero di organizzazioni politi-
che, che si distinguono per l’ideologia e per lo specifico programma di governo della società.
La politica è, pertanto, l’insieme dei mezzi usati per esercitare il potere del governo e per stabilire
i contenuti e le finalità da raggiungere tramite l’attività governativa. Ma la sfera politica non si li-
mita a questo, perché essa si estende al di là delle istituzioni statali in senso stretto e comprende
gruppi sociali, categorie professionali ed economiche, movimenti di vario genere, che hanno la
possibilità di esercitare la propria influenza sugli organi di governo, attraverso molteplici strumenti,
che non sono soltanto i tradizionali canali politici (partiti, sindacati, Parlamento, manifestazioni di
piazza ecc.), ma anche la pluralità dei mass media e i canali di nuovo conio, come Internet.
Il potere
Il potere costituisce il nucleo centrale della politica secondo la celebre definizione di Max Weber,
per il quale con questo termine «si designa qualsiasi possibilità di far valere entro una relazione so-
ciale, anche di fronte a un’opposizione, la propria volontà, quale che sia la base di questa possibili-
tà». Weber definisce quindi la natura del potere sulla base dei rapporti che si stabiliscono fra due
parti sociali, dando per scontato che una parte eserciti un dominio sull’altra.
Il sociologo americano Talcott Parsons fa invece riferimento a un gruppo molto vasto, come la
società, per cui il potere consiste sia nella «capacità di una società di mobilitare le proprie risorse in
vista di determinati obiettivi», sia nella «capacità di prendere e far valere decisioni che sono vinco-
lanti». Per Parsons, il potere rappresenta una risorsa fondamentale per ogni società, in quanto esso
è costituito dalla competenza e dall’abilità di un sistema politico nel «far fare» determinate cose a
tutti o alla maggioranza di coloro che ne fanno parte.
Quello di Weber e quello di Parsons sono due modi complementari di definire un problema com-
plesso come il potere, che in ogni caso va distinto dalla forza: se questa, infatti, rappresenta l’uso
della coercizione fisica per imporre il proprio volere sugli altri, quello può essere invece esercitato
anche senza coercizione; tuttavia, alcune dottrine politiche tendono a considerare il potere e la forza
due elementi politici fra loro inscindibili.
L’autorità
L’autorità, altro concetto politico di fondamentale importanza, viene definita da Weber «la possi-
bilità di trovare obbedienza, presso certe persone, a un comando che abbia un determinato conte-
nuto». Il sociologo tedesco pone in questo modo l’accento sul controllo del potere esercitato da un
gruppo di persone su un gruppo molto più ampio, il che comporta il problema della istituzionaliz-
zazione e della legittimazione del potere stesso: i «comandi» sono impartiti attraverso organizzazio-
ni o istituzioni (esercito, scuola, ospedale), all’interno delle quali i rapporti fra gli individui sono
regolati secondo un ordine gerarchico, cioè attraverso dei ruoli che vengono assegnati a determinate
persone (ufficiali, insegnanti, medici) a prescindere da sentimenti e interessi personali; i comandi
sono inoltre legittimati proprio dal ruolo gerarchico, il quale conferisce a chi comanda il diritto di
controllare i comportamenti degli altri, che devono ubbidire per soddisfare non solo le proprie esi-
genze personali, ma anche quelle dell’organizzazione.
L’autorità può essere dunque definita una forma di potere istituzionalizzato e legittimato e la si
può classificare secondo la tipologia stilata da Max Weber:
1) L’autorità carismatica costituisce di solito la base dei regimi totalitari e viene esercitata da una
persona in possesso di una personalità capace di determinare nei suoi seguaci fedeltà e obbedienza
senza riserve, alla quale si attribuiscono qualità superiori alla media degli esseri umani. Gli ordini
emanati dal capo devono essere eseguiti escludendo ogni possibilità di metterli in discussione, an-
che qualora essi si presentino come arbitrari e ingiustificati, proprio perché tra il leader carismatico
e i suoi discepoli si stabilisce un rapporto di comunione dal basso verso l’alto, che assume aspetti
mistici. L’intera struttura organizzativa dello Stato, attraverso la quale il capo esercita il proprio po-
tere, si fonda sul principio di devozione assoluta, che nasce da un forte legame affettivo e dall’indi-
scussa ammirazione verso il leader carismatico da parte dei seguaci.
2) L’autorità tradizionale era, fino alla fine dell’Ottocento, una prerogativa propria delle monar-
chie assolute e rappresentava il legame fra il sovrano e i propri sudditi, la cui lealtà e fedeltà nei
suoi confronti costituivano una specie di patrimonio ereditario, che si trasmetteva da una generazio-
ne all’altra. Da parte sua, il monarca aveva il dovere di adempiere a determinati obblighi a favore
dei suoi sottoposti, garantendo l’erogazione di alcuni servizi, il mantenimento dell’ordine pubblico,
l’amministrazione della giustizia, la distribuzione di una parte delle risorse economiche dello Stato
per salvaguardare non solo gli interessi delle classi più elevate, ma anche i bisogni primari di quelle
medie e inferiori.
3) L’autorità razionale-legale rappresenta il fondamento dello Stato democratico contemporaneo e
si fonda sull’esistenza di posizioni di potere considerate legittime e necessarie, nonché su una serie
di regole scritte che garantiscono il funzionamento dell’organizzazione sociale e sono vincolanti per
tutti i cittadini senza distinzioni di sesso, classe e ceto, cultura, religione ed etnia. L’ubbidienza del-
l’intera comunità al gruppo di individui che gestisce il potere deriva al fatto che esso esercita un’au-
torità ritenuta legittima, in quanto regolata dalle leggi e fondata sulla volontà espressa dai cittadini
stessi. A questo tipo di autorità corrisponde un ordine politico costituito secondo i criteri propri di
ogni burocrazia: il personale viene reclutato sulla base di un’accurata selezione, viene remunerato
con uno stipendio, costituisce il settore pubblico, che è rigorosamente separato da quello dell’impie-
go privato. Lo Stato finanzia l’amministrazione pubblica e il suo apparato burocratico attraverso
fondi prelevati dall’erario, nel quale confluiscono le imposte e le tasse versate dai contribuenti.
Le bande
La politica non si esprime solo nei palazzi del potere, ma inizia nelle relazioni interpersonali, so-
prattutto in quelle piccole società dove l’organizzazione politica si fonda sul principio di parentela e
che rientrano nell’ambito del governo minimale. Popolazioni di cacciatori-agricoltori come i khoi-
san, che abitano il deserto del Kalahari (Botswana-Namibia), o gli aborigeni australiani, sono orga-
nizzate in bande: gruppi ristretti, tra la trentina e il centinaio di individui, quasi tutti imparentati; in
genere si dividono in due metà patrilineari tra le quali vigono regole di scambio matrimoniale.
Le relazioni parentali forniscono la base delle gerarchie interne e determinano i fattori di integra-
zione tra gli individui del gruppo; le decisioni vengono prese dal consiglio degli uomini, all’interno
del quale il più anziano esprime una posizione di autorevolezza, anche se questo non gli conferisce
alcuna forma di potere, come nessuna forma di potere viene espressa dal consiglio, dal momento
che non esistono forme coercitive per il singolo. Tali società vengono definite egualitarie, ma non è
esattamente così, dal momento che le donne sono escluse dal consiglio e non partecipano diretta-
mente alle decisioni del gruppo. La struttura organizzativa delle bande non si limita ai legami pa-
rentali e territoriali, ma prevede anche l’istituzione di sodalizi tra bande diverse, come i sodalizi per
classi di età o per generazioni, che estendono la rete delle relazioni al di fuori della ristretta cerchia
dei parenti: politica e parentela si possono intrecciare.
La tribù
La tribù è un insieme più grande della banda, che comprende individui che non sono necessaria-
mente parenti tra di loro. Essendo più numerose, le tribù hanno anche un tipo di organizzazione più
complesso. Infatti nelle tribù incontriamo per la prima volta la figura del capo, che nelle bande non
esiste. Esistono diversi tipi di capi: in alcune società di caccia il capo è a volte il cacciatore più abi-
le, come accade per esempio presso gli inuit del Circolo Polare, o il guerriero più coraggioso, come
presso le tribù degli indiani d’America. In altre, invece, il capo è una sorta di mediatore e di paciere,
il cui ruolo è quello di appianare le questioni tra i membri della sua tribù. È una sorta di giudice, che
deve avere un carattere paziente e che deve sapere rappacificare gli animi. Per esempio, i capi
anuak, una popolazione del Sudan, sistemano le dispute, ma non esercitano affatto alcuna forma di
governo. In molte società dell’Oceania il capo, per diventare tale, deve mostrarsi generoso, donare
il più possibile; solo così verrà riconosciuto come vero leader della comunità.
I Capi
La politica della parentela non è un’esclusiva dei piccoli gruppi: i nuer del Sudan meridionale ven-
nero descritti da Evans-Pritchard (I nuer, un’anarchia ordinata, 1940) come una società che non
aveva capi. Appariva quasi impossibile, a molti, che una comunità di 300.000 individui potesse
gestirsi senza avere dei referenti politici definiti, soprattutto nel periodo storico del colonialismo e
del modello inglese dell’indirect rule, che prevedeva di affidare ai capi locali la gestione delle im-
poste da pagare al governo. I nuer, sostiene Evans-Pritchard, quando agiscono politicamente (cioè
affrontano decisioni inerenti la sfera comune e collettiva) lo fanno sulla base della loro appartenen-
za a unità di parentela come i lignaggi e i clan. Secondo Adam Kuper, invece, i nuer costruiscono le
proprie relazioni sociali non tanto sulla parentela, quanto sulla vicinanza territoriale, non esistendo
neppure una parola nella lingua nuer che traduca la parola clan.
Molte società invece hanno un capo, figura che manca alle società acefale e alle bande seminoma-
di, ed è l’espressione di un’asimmetria, in quanto ha prerogative e privilegi che gli altri non hanno:
può esercitare il potere, cosa che i suoi sottomessi non possono fare. La parola capo quindi indica
un individuo che detiene una funzione di comando, con diverse modalità: i capi anuak del Sudan
risolvono le dispute ma non hanno nessuna forma di governo; presso gli shilluk, sempre del Sudan,
il capo regna ma non governa; presso i kachin della Birmania ogni villaggio ha un capo, mentre altri
villaggi si riuniscono costituendo un "grappolo di villaggi", tra i quali il più anziano e il suo capo è
superiore a tutti gli altri. Tra i cheyenne del Colorado e del Dakota, ogni accampamento aveva un
capo, mentre quando si riunivano era un consiglio di capi e la Società dei guerrieri a comandare
sulla popolazione; presso gli inuit il capo è colui che si distingue nell’abilità venatoria, che verrà
ascoltato nelle decisioni relative alla caccia, ma non per forza anche in altri contesti. In alcune
società un capo esercita l’autorità senza avere la forza necessaria per imporla, diventando quindi un
regolatore di dispute all’interno di un contesto sociale limitato. La sua funzione principale è di man-
tenere l’ordine attraverso la risoluzione delle controversie, dev’essere quindi un buon oratore, che
non è solo uno dei requisiti, ma anche uno dei doveri che deve assolvere in quanto capo. Ciò non
vale solo per le popolazioni tribali, ma anche nell’ambito della politica e del governo: presso gli
antichi romani l’arte della retorica era un’arma di persuasione, e in ogni dibattito democratico la
parola è fondamentale.
Il capo è innanzitutto un paciere, un mediatore,e svolge questo ruolo grazie alla sua posizione
esterna alla rete sociale, posizione che gli deriva proprio dal rapporto asimmetrico che ha con il re-
sto della società: si stabilisce un contratto tra il capo e la comunità, dove la comunità sa che il capo
deve qualcosa, perché riceve a sua volta qualcosa dalla comunità. L’azione del capo deve essere
pubblica e diretta verso l’intera comunità, senza mai privilegiare un gruppo, una famiglia, un indi-
viduo: per questo in molti casi si ha un capo straniero alla popolazione che comanda, che può essere
frutto di una conquista o di un assorbimento di individui esterni ai quali è affidato il ruolo dell’auto-
rità in funzione della loro neutralità verso le relazioni locali. L’asimmetria può essere espressa sul
piano dell’età o dello status, da particolari abilità nella caccia, nel combattimento o nello svolgi-
mento di altre attività, oppure da una spiccata attitudine a risolvere conflitti. La diversità del capo
rispetto al resto del gruppo si può esprimere anche dal punto di vista economico, dal momento che
ha il compito di accumulare e ridistribuire beni e deve essere sempre generoso, come nel caso dei
big men della Nuova Guinea o dell’Amazzonia, la cui carriera si fonda sulla sua capacità di tessere
relazioni favorevoli e sull’abilità nell’intraprendere scambi sia di tipo materiale che di carattere so-
ciale. Il Big man deve per forza mostrarsi generoso, offrire banchetti alla popolazione per ottenere e
rafforzare il consenso nei suoi confronti. È una sorta di voto di scambio: accumula beni in quantità,
stringe alleanze (anche grazie a matrimoni favorevoli), elargisce ricchezze e cibo; il suo status non è
ereditario, e quindi deve competere con altri uomini che cercano di prendersi la carica. I rituali
sacrificali, i grandi banchetti offerti hanno anche l’effetto di distruggere l’eccesso di ricchezza che
potrebbe concentrarsi nelle mani di un individuo, garantendo una certa equità ridistribuendo alla
società beni e ricchezze.
Fino a quando rimane a livello di villaggi o tribù, l’azione del capo si traduce in una sorta di in-
fluenza, piuttosto che in un esercizio del potere vero e proprio. Quello di Tribù non è un concetto
ben definito: con esso ci si riferisce a tutte le organizzazioni più grandi di una banda o di un villag-
gio, ma più piccole di uno Stato: generalmente indica un insieme integrato di individui, più numero-
so di quello della banda, basato su gruppi di discendenza; più tribù si possono alleare per dare origi-
ne a una formazione politica integrata più ampia, definita con il termine dominio. Con il dominio
nasce la società non egualitaria, l’asimmetria non è più privilegio di un solo capo, ma di un’elite, la
burocrazia. La sempre maggiore specializzazione del lavoro e la crescita continua della popolazione
da gestire comportano la creazione di nuovi status gerarchici.
La socializzazione politica
La prospettiva antropologica
Gli antropologi si occupano anche delle società complesse, nelle quali la struttura politica domi-
nante è quella dello Stato, con le sue diverse tipologie: grandi imperi dell’antichità assiro-babilo-
nesi, egiziano, romano, i grandi imperi maya, inca, atzechi, quelli medioevali, come quello cinese,
i regni africani, i moderni Stati-nazione, che caratterizzano la geografia politica contemporanea, e
che presentano notevoli differenze nella gestione del potere.
L’Europa conta numerose monarchie costituzionali e nel resto del mondo ci sono ancora monar-
chie assolute (Arabia Saudita per esempio), repubbliche presidenziali e repubbliche parlamentari,
senza dimenticare i regimi dittatoriali. Ciò che caratterizza un sistema statale è il monopolio della
forza: qualunque Stato ha a sua disposizione un apparato coercitivo, che ricorre alla forza per com-
battere la violenza o l’opposizione e per dare sicurezza ai cittadini, la burocrazia si fa più complessa
e articolata e controlla gran parte dell’esistenza degli individui, come l’esercito e la polizia control-
lano il territorio.
Per costruire uno Stato non è sufficiente mettere in campo le forze necessarie a controllare mili-
tarmente l’ordine pubblico e garantire la sicurezza: bisogna creare un’ideologia che estenda a tutti
l’idea di una comunità non percepibile quotidianamente, dal momento che in uno Stato non sono
possibili rapporti face to face: la comunità assume confini troppo grandi per poterla frequentare, è
da immaginare1. Nel passato il bisogno di un’idea comune e superiore si aveva con l’intrecciarsi del
potere politico alla religione, ora è grazie ai mezzi di comunicazione moderni che è stato possibile
creare le cosiddette "comunità immaginate": gruppi di persone che non hanno mai interagito faccia
a faccia ma che finiscono per condividere un’idea comune. Perché uno stato esista occorre che i
suoi abitanti ci credano, e affinchè lo facciano il potere politico deve convincerli.
1
Esistono comunità molto vaste (definite dallo storico inglese Benedict Anderson «comunità immaginate»),
i cui membri non vivono vicini, ma sono accomunati da un’idea, da simboli, da credenze. Le «comunità im-
maginate» sono nate in seguito all’alfabetizzazione di massa e al «capitalismo a stampa» e per esistere neces-
sitano di una costruzione da parte di qualche gruppo.
l’uso della forza, le proprie decisioni a tutti coloro che risiedono su di un determinato territorio. La
legittimità della sovranità dello Stato risiede nel consenso che esso riesce a ottenere dai cittadini,
senza ricorrere sempre e comunque all’uso della forza, anche se esso è l’unico soggetto sociale che
ha il potere di far rispettare le proprie leggi, facendovi ricorso in caso di necessità. Lo Stato, in base
al principio di sovranità, detiene il potere di conferire validità e legittimità alle norme che emana ed
ha pertanto il compito fondamentale di produrre ed applicare una particolare categoria di norme so-
ciali, che prendono il nome di norme giuridiche (stateways). Esse costituiscono un complesso di
disposizioni emanate dallo Stato per regolare la vita sociale secondo precisi indirizzi politici, pren-
dendo in considerazione gli atti concreti e visibili degli individui.
L’influenza della politica nella società non si limita alla presenza e all’azione dello Stato, perché
quanto è di stretta pertinenza statale occupa un ambito chiaramente delimitato. In realtà, non tutto
ciò che riguarda il governo della cosa pubblica è di stretta competenza dell’istituzione statale: esis-
tono altre istituzioni e gruppi sociali che hanno una valenza politica e che risultano più numerosi e
complessi dello Stato stesso. Per indicare questo insieme di elementi che non appartengono alla
sfera della politica, viene comunemente usata l’espressione società civile, che comprende tutto
quello che, pur avendo importanza per la collettività, non rientra nelle decisioni e nell’azione dello
Stato e delle altre istituzioni politiche.
Il regime politico è costituito da una serie di istituzioni che regolano i conflitti per la conquista e
per l’esercizio del potere, per la definizione e la scelta dei valori che animano la vita delle istituzio-
ni, per la formulazione di norme e procedure che garantiscono la ripetizione di determinati compor-
tamenti e che rendono possibile lo svolgimento regolare e ordinato delle attività politiche, l’eserci-
zio del potere e di tutte le attività sociali ad esso collegate. Compito delle istituzioni è infine quello
della scelta e dell’impiego di determinati mezzi per l’attuazione concreta delle decisioni politiche
prese per raggiungere quei fini che il regime si propone di perseguire.
Il regime democratico
Il regime democratico è basato sul principio della sovranità popolare e della rappresentanza, in vir-
tù del quale i poteri della formulazione delle leggi e del governo della società vengono esercitati at-
traverso una delega conferita da tutti i componenti della società stessa. Il sistema politico si fonda,
pertanto, sul consenso dei cittadini, che si manifesta attraverso la libera e spontanea approvazione
dei comportamenti e delle decisioni del gruppo di persone a cui sono stati conferiti il diritto di rap-
presentare i cittadini e il potere di governo. I cittadini, da parte loro, hanno il pieno godimento dei
diritti civili e politici, senza distinzione di sesso, razza, religione e condizione economica.
Le caratteristiche fondamentali di un regime democratico sono:
a) l’individualismo, che costituisce il principio in base al quale ogni individuo è uguale di fronte
alla legge e ha diritto a manifestare le sue idee e la sua volontà politica senza discriminazioni di
alcun tipo;
b) il governo costituzionale, che è tenuto a svolgere l’azione politica secondo le regole fissate dal
corpo di leggi scritte emanate dallo Stato e dai princìpi indicati nella Costituzione, dove sono fissati
i diritti e i doveri dei cittadini, i limiti del potere politico, la configurazione, le funzioni e le finalità
delle istituzioni pubbliche che compongono l’ordinamento statale;
c) il suffragio universale, che rappresenta un diritto politico di primaria importanza, perché garan-
tisce a tutti i cittadini di esprimere la loro volontà politica attraverso il voto, assicurando a tutti la
piena libertà di votare se- condo la propria opinione politica;
d) il pluralismo politico, che serve a garantire la presenza e la partecipazione alla vita pubblica di
più partiti, in modo da offrire a tutti gli elettori la possibilità di scegliere i programmi e gli uomini
che si confrontano nella competizione politica;
e) il principio della maggioranza e della minoranza, che garantisce, al partito o alla coalizione di
partiti che hanno conseguito nel Paese la maggioranza dei voti, il diritto-dovere di governare, ma
nello stesso tempo affida ai partiti che sono usciti sconfitti dalle urne, e che costituiscono la mino-
ranza, il compito di esercitare l’opposizione al governo in modo leale e costruttivo, cosicché sia ga-
rantito un proficuo confronto di idee e di proposte nel Parlamento e in tutte le altre sedi istituzionali;
f) la separazione delle funzioni, che costituisce un altro principio fondamentale di tutte le demo-
crazie moderne e che prevede l’esercizio della funzione legislativa, affidata al Parlamento; della
funzione esecutiva, affidata al Governo centrale e agli Enti locali per l’applicazione delle leggi che
regolano i rapporti tra i cittadini; della funzione giudiziaria, affidata ad una magistratura indipen-
dente, formata da giudici di carriera appositamente selezionati e specializzati per attuare il rispetto
delle leggi, per comminare le sanzioni a coloro che non le rispettano, per garantire il risarcimento
dei torti subiti dai cittadini.
Il regime totalitario
Il regime totalitario è caratterizzato dalla soppressione di tutti i diritti politici e civili e da un ferreo
controllo svolto su tutti soggetti individuali e collettivi. Si tratta di un sistema politico dove il potere
viene esercitato da un ristretto numero di persone, solitamente guidate da un leader che ricopre un
ruolo accettato dagli altri in modo indiscusso. Questo gruppo, che governa lo Stato, pratica l’azione
politica con ampia discrezionalità, poiché non ha l’obbligo di rispondere del proprio operato a nes-
suna istituzione politica (corpo elettorale, Parlamento, sistema di partiti). Il potere del gruppo si
fonda su alcuni valori generici (la potenza militare e politica della nazione, la patria, la razza, l’or-
dine, la religione ecc.), sulla manipolazione del consenso popolare e su una partecipazione dei citta-
dini che si riduce all’adesione a manifestazioni di massa caratterizzate da forti condizionamenti
emotivi e da sollecitazioni demagogiche.
Le caratteristiche essenziali di un regime totalitario sono:
a) l’uso su vasta scala di un’ideologia politica per dare spiegazione di ogni avvenimento della vita
pubblica e privata, per indicare gli obiettivi da perseguire, per definire i comportamenti graditi o
sgraditi al potere;
b) la costituzione di un partito unico, guidato da un capo e da un ristretto gruppo di potere,
un’istituzione politica capace di monopolizzare tutte le cariche pubbliche e di governo, che vengono
assegnate a suoi iscritti, i quali traggono da tali incarichi prestigio sociale e vantaggi economici;
c) l’uso diffuso e indiscriminato di metodi basati sul terrore (tortura, carcere duro, esilio, elimina-
zione fisica di chi è ritenuto un nemico dello Stato) per mantenere il controllo su tutta la società;
d) il controllo dei mezzi di comunicazione, impiegati per diffondere la propaganda di regime, per
rafforzare i modelli culturali e di comportamento ritenuti utili dal regime per consolidare il consen-
so popolare, fornendo un’interpretazione «ufficiale» dei provvedimenti governativi e di tutti gli av-
venimenti;
e) il rigido controllo su tutte le istituzioni pubbliche (esercito, forze di polizia, magistratura,
burocrazia);
f) il controllo dell’economia, attraverso una diretta sorveglianza su quei settori economici ritenuti
strategici per controllare anche l’economia privata, tanto da arrivare, nei casi estremi, all’abolizione
della proprietà privata nei settori dell’agricoltura, dell’industria e dei servizi.
Il regime autoritario
Nei regimi autoritari il potere politico viene gestito dal leader di un partito che è riuscito ad assi-
curarsi la fiducia delle masse e a conquistare il potere dopo aver avuto il sopravvento su tutti gli
avversari politici grazie alla schiacciante maggioranza di voti ottenuta in una tornata elettorale.
Nel regime autoritario, il partito dominante svolge un ruolo meno appariscente e invasivo rispetto
a quanto accade nei regimi totalitari, ma ugualmente determinante attraverso le pressioni e i condi-
zionamenti esercitati sulle istituzioni pubbliche e sui partiti politici avversari. Il controllo sulla vita
privata e sociale degli individui è meno asfissiante e appariscente rispetto ai regimi totalitari, ma i
cittadini sono indottrinati e manipolati attraverso l’attento controllo delle istituzioni sociali (scuola e
università, sindacati, associazioni culturali e religiose, organizzazioni sportive o per il tempo libe-
ro). Particolari ingerenze e rigorosi condizionamenti sono riservati ai mezzi di comunicazione di
massa, usati come mezzi di propaganda «capillare» per diffondere i messaggi politici del regime o
delle istituzioni fiancheggiatrici, per manipolare intelligenze e coscienze, per suscitare entusiasmo e
partecipazione, per soffocare e ridurre gli effetti delle manifestazioni di dissenso e delle posizioni
critiche nei confronti delle autorità di regime. Le libertà individuali, di solito, non sono del tutto
soppresse, ma le regole democratiche previste dalla Costituzione, i sistemi elettorali, gli organismi
di controllo vengono adattati e trasformati a seconda delle esigenze del regime, in modo da condi-
zionare e controllare l’operato di tutte le istituzioni politiche: Parlamento, organi di governo, comu-
nità locali e partiti politici.
Il populismo
Il populismo è un fenomeno politico che si è spesso manifestato in varie forme nel corso della sto-
ria, ma che ha assunto una certa rilevanza e ha avuto una particolare diffusione dal Novecento ai
nostri giorni. Esso consiste nel mobilitare le masse, ad opera di un partito o di un gruppo politico
guidato da un leader, per la conquista e la gestione del potere, agitando le passioni e i sentimenti
popolari attraverso manifestazioni di piazza e proposte sovente demagogiche. Può avere caratteristi-
che diverse a seconda dei vari contesti sociopolitici.
1. Il populismo-movimento si basa sulla mobilitazione delle classi medie e inferiori da parte di un
gruppo politico che punta alla conquista del potere attraverso l’esaltazione dei valori nazionali tradi-
zionali e lo sfruttamento della protesta di gruppi socialmente e politicamente emarginati che si ri-
tengono vittime di ingiustizie e sentono minacciati i loro tradizionali modelli di comportamento;
spesso l’insoddisfazione e il malcontento sociale si accompagnano a un desiderio di cambiamento
per ottenere migliori condizioni di vita.
2. Il populismo-regime è un movimento che si riconosce in un capo carismatico, capace di rivol-
gersi direttamente alle masse, vantando la convinzione di incarnare la volontà e i valori popolari;
quando il leader si fa scudo del popolo e pretende di parlare e di esercitare tutto il potere nel suo
nome, può instaurarsi una dittatura che soffoca ogni forma di democrazia. L’affermazione di un
movimento populista può tuttavia conciliarsi con il mantenimento di un regime democratico, quan-
do il leader si pone alla guida di un governo che mantiene il rispetto formale delle regole democra-
tiche e del pluralismo politico, anche se la forte personalizzazione del potere porta a «inquinare» la
vita sociale del Paese e ad esercitare controlli e limitazioni sull’azione delle istituzioni politiche
avversarie.
3. Il populismo-ideologia si ha quando al centro di una dottrina politica viene collocato il popolo,
celebrato per le sue virtù, che lo rendono moralmente «sano»: la salvezza del Paese dipende unica-
mente dalle azioni del popolo stesso sotto la guida di un leader «consapevole e ispirato», il quale
interpreta la volontà popolare e assume la guida dello Stato; questa, inoltre, viene esercitata più age-
volmente quando si individua un «nemico del popolo» (la borghesia, i «poteri forti» dell’economia
e dei mass media, i «comunisti», gli immigrati ecc.) che agisce per ordire un «complotto» ai danni
del Paese.
4. Il populismo-retorica attecchisce soprattutto nella società della comunicazione, fa ricorso al-
l’uso dei mass media per mettere in atto strategie di manipolazione dell’opinione pubblica, per cor-
rompere il dibattito politico e per gettare il discredito sull’intera classe politica e sulle istituzioni.
Il leader populista cerca di sfruttare il risentimento popolare per conquistare il consenso elettorale,
per imporre un nuovo ordine sociale e politico, sfruttando in modo massiccio ed invasivo la propria
presenza sugli schermi televisivi (telepopulismo) e su altri mezzi di comunicazione. Il leader popu-
lista è spesso un «attore mediatico» che ama collocarsi al di fuori del sistema dei partiti: preferisce
rivolgersi direttamente alle folle per denunciare i «guasti del sistema» e proporre la realizzazione di
una «vera» democrazia; egli mette a punto un’accurata «messa in scena» per una teatralizzazione
dell’azione politica, dando particolare rilevanza a parole, gesti e immagini accuratamente studiati ed
all’abile sfruttamento di modelli culturali/comportamentali, nonché di «miti» della cultura di massa.
La Politica
insieme dei mezzi usati per esercitare il potere del governo e per stabilire
i contenuti e le finalità da raggiungere tramite l’attività governativa
governo apparato politico costituito da rappresentanti eletti dai cittadini e da funzionari che formano
gli organi pubblici, capace di formulare dei programmi politici e di prendere le relative decisioni.
istituzioni statali ordine politico attività / forme di lotta politica organizzazioni politiche
gruppi sociali categorie professionali movimenti partiti sindacati manifestazioni mass-media web
Il potere
"possibilità di far valere entro una relazione sociale, anche di fronte a un’opposizione,
la propria volontà, quale che sia la base di questa possibilità" Max Weber
potere vs forza
Autorità
"la possibilità di trovare obbedienza, presso certe persone, a un comando che abbia un determinato contenuto".
Max Weber
istituzionalizzazione legittimazione del potere
: organizzazioni o istituzioni (polizia, esercito, scuola, ospedale)
ruolo gerarchico (ufficiali, insegnanti, medici)
controllo dei comportamenti degli altri => obbedienza
strutture di governo
3 diversi approcci principali
I Capi Evans-Pritchard (I nuer, un’anarchia ordinata, 1940): società senza capi (testo)
appartenenza a un gruppo:
far parte di una collettività
accettandone valori e modelli di vita
integrazione protezione
partecipazione
adesione incondizionata e acritica:
scelta libera e volontaria forme di fanatismo da appartenenza
critica e non incondizionata
l’individuo aderisce a un gruppo xenofobia => ostilità contro stranieri e "diversi"
condividendone le iniziative fino a quando
le ritiene in sintonia con le proprie idee e nazionalismo => esaltazione della storia,
interessi, la propria visione della società della cultura, della forza della propria nazione
lucidità critica vs obbligo rafforzarne la potenza nei confronti di altri Paesi
conservazione della propria personalità
confronto paritetico con gli altri integralismo intolleranza e rifiuto della
convivenza con idee e posizioni differenti
(religione e radicalismi ideologici)
Nascita dello Stato moderno => concentrazione del potere nella persona di un sovrano
unificazione del Paese (legislazione e apparato burocratico-amministrativo)
sudditanza della popolazione senza distinzioni di casta o di classe
Stato nazionale => unico sistema di leggi corpo di funzionari (burocrazia) esercito permanente
sistema di prelievo fiscale unificazione del mercato economico sul territorio nazionale
Il regime democratico
a) individualismo
ogni individuo uguale di fronte alla legge (libertà di espressione vs discriminazioni)
b) governo costituzionale c) suffragio universale d) pluralismo politico
possibilità di scegliere i programmi e gli uomini che si confrontano nella competizione politica
e) principio della maggioranza e della minoranza
partito di maggioranza: diritto-dovere di governare / minoranza: esercitare l’opposizione
f) separazione delle funzioni
funzione legislativa funzione esecutiva funzione giudiziaria
Parlamento Governo centrale Enti locali magistratura indipendente
Il regime totalitario
controllo
d) dei mezzi di comunicazione e) sulle istituzioni pubbliche
propaganda di regime => f) dell’economia esercito, forze di polizia,
consolidamento del consenso popolare magistratura, burocrazia
interpretazione «ufficiale» dei sorveglianza sui settori
provvedimenti governativi economico-strategici
e degli avvenimenti controllo dell’economia privata,
eventuale abolizione della proprietà privata
nell’agricoltura, nell’industria e nei servizi
Il regime autoritario
Il populismo
1. Il populismo-movimento 2. populismo-regime
movimento che punta a conquistare il potere capo carismatico che si rivolge alle masse
esaltazione dei valori nazionali tradizionali dichiarando di incarnare la volontà e i valori popolari
insoddisfazione malcontento sociale possibilità di:
mobilitazione delle classi medie/inferiori + a) mantenimento di un regime democratico
gruppi socialmente/politicamente emarginati b) derive autoritarie
che si ritengono vittime di ingiustizie
3. Il populismo-ideologia 4. Il populismo-retorica
“popolo” celebrato per le sue virtù, uso dei mass media per mettere in atto
che lo rendono moralmente «sano»: strategie di manipolazione dell'opinione pubblica
salvezza del Paese => si fa leva sul risentimento popolare
leader «consapevole» che interpreta per conquistare il consenso elettorale,
la volontà popolare e assume la guida dello Stato imporre un nuovo ordine sociale e politico
individuazione di un «nemico del popolo»: presenza invasiva su TV e mass-media
borghesia, «poteri forti» (economia e mass media) (telepopulismo)
i «comunisti», gli immigrati ecc. leader populista => «attore mediatico»
«complotto» ai danni del Paese che si colloca al di fuori del sistema dei partiti:
(discredito sulla classe politica e sulle istituzioni) si propone alle folle (“gente”) per denunciare
i «guasti del sistema» e proporre la realizzazione
di una «vera» democrazia
accurata «messa in scena»
teatralizzazione dell'azione politica,
cura delle parole, gesti e immagini studiati
ricorso a modelli culturali/comportamentali
popolari e ai «miti» della cultura di massa
Le parole dell'antropologia
caccia-raccolta: economia basata sullo sfrut-
agricoltura: modello di produzione basato tamento delle risorse naturali, raccogliendo
sullo sfruttamento di piante domesticate. Si bacche, frutti, piante (le donne) e cacciando
definisce coltivazione, quando è praticata con (gli uomini).
zappe e mezzi simìli; agricoltura, quando si capo: individuo che ad esempio in una tribù
utilizza l'aratro. detiene una funzione di comando e che pos-
allevamento: pratica economica basata sullo siede determinate prerogative e privilegi.
sfruttamento di animali domesticati. Si defi- casta: gruppo ordinato su base gerarchica a
nisce allevamento una pratica stanziale, men- cui si appartiene per nascita e non per affilia-
tre per pastorizia si intende una forma di al- zione.
levamento che prevede lo spostamento sta- circoncisione: pratica di modificazione geni-
gionale dei capi di bestiame. tale maschile che consiste nella rimozione del
ambienti antropizzati: ambiente prodotto di prepuzio. A seconda del contesto può signifi-
una lunga azione dell'uomo. care l'appartenenza religiosa o il passaggio al-
animismo: termine usato per indicare un va- l'età adulta.
sto insieme di religioni tradizionali non isti- clan: gruppo di discendenza i cui membri fan-
tuzionalizzate. no risalire la loro discendenza a un comune
antropologia marxista: prospettiva antro- antenato mitico.
pologica che cerca di individuare modi di commercio: pratica economica che prevede
produzione diversi da quello capitalista e di lo scambio di beni o servizi con l'interme-
studiare le questioni legate alla stratificazione diazione del denaro.
sociale, all'interrelazione tra modello econo- comparazione: metodo antropologico che
mico e struttura sociale, nonché ai rapporti tra consiste nel confronto tra diverse culture al
colonizzati e colonizzatori. fine di riscontrare elementi di similitudine o
antropopoiesi: secondo l'antropologo France- di differenza.
sco Remotti è quell'insieme di pratiche che le cultura: lnsieme di saperi, pratiche, tradizioni
società mettono in atto per rendere più umano condivisi da un gruppo umano, che vengono
il corpo, per costruire l'uomo secondo i propri trasmessi di generazione in generazione, ma
criteri di umanità. sempre suscettibili di cambiamenti e prestiti
aree culturali: aree geografiche abitate da da altre culture in seguito a incontri, scontri,
gruppi umani, che condividono tratti culturali migrazioni.
comuni. dialetti: sono dialetti le parlate non ufficial-
arte immateriale: l'insieme di forme espres- mente riconosciute da uno stato, ma non per
sive non plastiche, come danza, musica, poe- questo inferiori a una lingua.
sia, canto ecc. diffusionismo: prospettiva antropologica se-
arte materiale: l'insieme di forme espressive condo cui le diverse culture venivano irradiate
plastiche, come scultura, pittura ecc. da centri particolarmente importantì e si dif-
artigianato: attività di trasformazione con- fondevano alle società periferiche.
dotta con mezzi manuali e su piccola scala. discendenza bilineare: trasmissione di beni e
banda: la banda è la forma tipica di organiz- status per cui i figli ereditano da entrambi i
zazione di popolazioni di cacciatori-racco- genitori.
glitori, di piccole dimensioni (meno di cin- discendenza matrilineare: trasmissione di
quanta membri), con base fortemente egua- beni e status per cui i figli ereditano esclusi-
litaria. vamente per via materna. Poiché quasi sempre
baratto: forma dì scambio di beni o servizi sono gli uomini a detenere i beni, i figli della
senza la mediazione del denaro. Gli attori del donna erediteranno da suo fratello, lo zio ma-
baratto stabìliscono insieme il valore deì beni terno.
in oggetto.
discendenza patrilineare: trasmissione di be- evolutiva, che le avrebbe condotte ìnfine al
ni e status per cui i figli ereditano esclusiva- modello occidentale.
mente per via paterna. famiglia: insieme di parenti stretti, che vivo-
discendenza unilineare: trasmissione di beni no insieme. Si parla di famiglia nucleare,
e status per cui i figli ereditano o per via pa- quando è formata da genitori e figli; di fami-
terna o pervia materna. glia allargata quando oltre al nucleo, convivo-
domesticazione: selezione progressiva prati- no altri parenti (nonni, zii, cugini ecc. ).
cata dall'uomo su piante e animali fino a fatto sociale totale: aspetto particolare di una
renderli più produttivi e assoggettati all'uomo. cultura che è in relazione con tutti gli altri
La domesticazione non riguarda una sola aspetti di quella stessa cultura e attraverso il
pianta o un solo animale, ma le intere specie. quale è possibile leggere per estensione le di-
dote: beni o denaro che la sposa reca con sé al verse componenti di una società.
momento del matrimonio. feticcio: oggetto che materializza in sé la divi-
ecologia culturale: prospettiva antropologica nità e che funge da intermediario tra questa e
che pone l'accento sul rapporto tra le popola- gli uomini.
zioni e l'ambiente in cui vivono, analizzando- funzionalismo: prospettiva antropologica che
ne prevalentemente gli aspetti relativi all'adat- supponeva le società come un organismo in
tamento e all'economia. cui le diverse funzioni (economia, politica.
emico: il punto di vista di chi fa parte della rƁeligione ecc.) contribuiscono a mantenere
società in oggetto e che percepisce gli stessi l'equilibrio.
fatti con una prospettiva interna. genere: termine introdotto dalla critica fem-
endogamia: pratica matrimoniale in cui si minista per indicare il ruolo sociale attribuito
privilegìa il matrimonio con un partner in- a un individuo in quanto uomo o donna in una
terno al gruppo. determinata società.
esogamia: pratica matrimoniale in cui si pri- gerontocrazia: nelle società dove sono pre-
vilegia il matrimonio con un partner esterno al senti sistemi di classi d'età è il governo degli
gruppo. anziani, in cui gli anziani detengono il potere.
età anagrafica: nella nostra società l'età ana- gruppi di discendenza: gruppi basati sulla
grafica è la differenza tra l'anno corrente e il relazione di affiliazione: si definiscono a par-
nostro anno di nascita. È un dato che serve tire da un capostipite, che è l'antenato comu-
soprattutto a fini burocratici. ne. Si distinguono in gruppi a discendenza
età sociale: età che nasce dal legame tra l'età bilaterale o cognatica e a discendenza unili-
anagrafica e un determinato valore che ogni neare (patrilineare o patrilineare).
società attribuisce a quell'età. È la percezione gusto artistico: criteri artistici culturalmente
sociale dell'età anagrafica di un indivìduo in definiti e quindi variabili nel tempo.
una determinata società. gusto sociale: formulata da Pierre Bourdieu e
etico: il punto di vista dell'osservatore ester- Marvin Harris, questa espressione indica il
no, che spesso è altro rispetto alla comunità fatto che le esperienze percettive e gustative
che studia. sono influenzate dal contesto socioculturale di
etnocentrismo: atteggiamento opposto al re- riferimento. Pìù in generale si riferisce all'al-
lativismo, che prende come unico punto di ternarsi delle mode che secondo Bourdieu so-
riferimento e come metro di giudizio la pro- no dettate dalla classe dominante.
pria cultura. identità: l’identità è un dato relazionale, che
etnografia: pratica di raccolta e di registra- si costituisce e si negozia continuamente sulla
zione dei dati sulla base dell'osservazione base degli altri, del diverso. Noi siamo ciò che
partecipante. gli altri non sono, ma dobbiamo essere consci
evoluzionismo sociale o unilineare: pro- che ciò che crediamo di essere spesso è il frut-
spettiva antropologica sviluppatasi tra fine to di una scelta e non di un dato assoluto.
Ottocento e inizio Novecento, che conside- incesto: rapporto sessuale tra due persone fra
rava le diverse società poste su una scala le quali esistano determinati vincoli di con-
sanguineità.
infibulazione: nota anche come circoncisione nati, classificati, conservati ed esposti gli og-
faraonica o sudanese, è una forma di modifi- getti etnografici raccolti in varie parti del
cazione genitale femminile che comporta mondo.
l'asportazione del clitoride, delle piccole lab- neoevoluzionismo: prospettiva antropologica
bra, di parte delle grandi labbra vaginali con che riprende le teorie evoluzioniste, ma
cauterizzazione, a cui segue la cucitura della affermando che i modelli di evoluzione sono
vulva, lasciando aperto solo un foro per per- molti e non esiste una sola linea evolutiva.
mettere la fuoriuscita dell'urina e del sangue nomadismo: pratica pastorale, che prevede il
mestruale. Tale pratica è stata condannata continuo spostamento degli armenti in cerca
dall'OMS come la forma più grave di mutila- di pascoli favorevoli.
zione genitale femminile. nonluoghi: luoghi privi di connotazione cul-
interpretativismo: prospettiva antropologica turale che si ritrovano uguali in ogni parte del
che ritiene ogni cultura come un sistema a sé, mondo, ad esempio le stazioni del metrò, gli
che va studiato secondo i riferimenti simbolici aeroporti ecc.
di quella cultura e che non può essere compa- oggetto etnografico: oggetto esotico, raccolto
rato con altri sistemi. durante viaggi o esplorazioni in giro per il
lignaggio: gruppo di discendenza i cui mem- mondo, successivamente esposto in un museo.
bri fanno risalire la loro discendenza a un co- Un oggetto etnografico diventa opera d'arte
mune antenato storicamente definito. solo attraverso lo sguardo dell'osservatore oc-
lingua: un insieme organizzato di suoni, che cidentale; e il valore di un'opera d'arte si basa,
acquisiscono un significato dato loro dagli secondo il nostro criterio, sull'utilizzo di cate-
uomini che l'hanno codificato. Lo status di gorie predeterminate culturalmente.
lingua è connesso al riconoscimento ufficiale osservazione partecipante: pratica che pre-
di uno stato. vede un lungo soggiorno sul terreno, durante
linguaggio: sistema dì codici tale da permet- il quale l'antropologo conduce interviste, os-
tere a due o più esseri viventi di comunicare serva il comportamento dei locali e condivide
tra loro e di trasmettersi informazioni. con loro gran parte della loro esistenza.
materialismo culturale: prospettiva antro- parentela: sistema di relazioni tra individui
pologica teorizzata da Marvin Harris, che ri- legati fra di loro da vincoli di discendenza e
cerca leggi universali, basandosi sul presup- da vincoli matrimoniali.
posto che gli esseri umani agiscano sempre parenti affini: parenti acquisiti dopo il matri-
sulla base di un calcolo costi/benefici. monio (cognato, genero, nuora ecc.).
matrimonio: definisce le condizioni in cui un parenti collaterali: parenti legati da vincoli
uomo e una donna possono intrattenere rela- di discendenza (genitori, nonni, zii, fratelli).
zioni sessuali e la gestione dei loro beni, rego- poliandria: pratica che prevede il matrimonio
la il processo di allevamento dei figli e stabi- di una donna con più uomini.
lisce privilegi e doveri, serve a trasmettere al- poligamia: pratica che prevede il matrimonio
la prole uno status sociale e a determinare un con più partner.
legame socialmente significativo tra i gruppi poliginia: pratica che prevede il matrimonio
domestici del marito e della moglie. dì un uomo con più donne.
migrazioni: spostamenti da un luogo a un al- polimorfismi: differenze di carattere somati-
tro, in genere con carattere permanente, di una co, indicatìve del luogo di provenienza di un
popolazione o di un gruppo di uomini in cerca individuo, prodotte da lenti e complessi pro-
di nuove risorse per sopravvivere. cessi di adattamento dei diversi gruppi umani
mito: racconto dell'origine di cui non si cono- alle diverse condizioni ambientali.
sce l'autore, che narra come un gruppo o una politeisti: fedeli di religioni che contemplano
popolazione è venuta al mondo. più divinità.
monoteisti: fedeli di religioni che contempla- postmodernismo: prospettiva antropologica
no una sola divinità. in cui rapporti tra osservatori e osservati ven-
museo etnografico: nato nella prima metà gono messi in discussione, si analizzano i pro-
dell'Ottocento, è il luogo in cui vengono radu- cessi di scrittura, le retoriche descrittive, por-
tando l'antropologia su un terreno sempre più scambio di mercato: forma di scambio in cui
prossimo alla letteratura e trasformando l'ana- il valore dei beni scambiati è determinato dal-
lisi antropologica in una critica culturale sem- la legge della domanda e dell'offerta.
pre più rivolta alla nostra società. scarificazione: incisione sulla pelle a scopo
prezzo della sposa (o ricchezza della sposa): terapeutico o decorativo, spesso associata ai
beni o denaro che la famiglia dello sposo do- riti di iniziazione.
na a quella della sposa, per compensare la sciamano: specialista rituale, tipico delle po-
perdita di una donna e pertanto le sue capacità polazioni siberiane e dei nativi americani, do-
lavorative. tato di poteri particolari, il quale, attraverso la
razza: concetto sviluppato nel XVIII secolo: trance, spesso indotta dal ritmo di tamburi,
prevede la classificazione dell'umanità in riesce a entrare in contatto con le entità so-
gruppi, o razze, formati da individui che pre- vrannaturali.
sentano una serie di tratti somatici e fisici di- scrittura: pratica finalizzata a riportare l'ora-
stintivi. Nel corso del Novecento questa clas- lità su un supporto materiale. Esistono nume-
sificazione è risultata infondata dal punto di rosi tipi di scritture, basate su logiche diverse.
vista scientifico. La scrittura fu alla base della nascita degli sta-
razzismo: dottrina che si basa sul concetto di ti.
razza, che attribuisce a ogni razza determinate Scuola di Manchester: corrente di pensiero
caratteristiche fisiche, culturali e morali, iden- che tendeva a considerare le società come
tificando in quella di appartenenza un mag- meccanismi in continuo movimento e segnate
giore livello di evoìuzione rispetto alle altre. da perenni conflitti interni, che ne determina-
reciprocità: scambio tra due o più soggetti no i mutamenti.
alla pari. selezione naturale: teorizzato da Darwin nel
redistribuzione: pratica economica che pre- XIX secolo, è il processo attraverso cui la
vede un'autorità centrale, che raccoglie i con- natura selezìona gli organismi animali e vege-
tributi della popolazione e li ridistribuisce in tali più adatti all'ambiente in cui vivono. È il
forma di beni o servizi. meccanismo alla base dell'evoluzione delle
relativismo culturale: atteggiamento secondo specie.
il quale ogni espressione culturale deve essere sesso: legato all'anatomia, il sesso indica la
spiegata all'interno del quadro simbolico della differenza biologica alla base della distinzione
società che la produce. tra maschi e femmine. È un dato naturale e
religioni: sistemi di credenze più o meno isti- immutabile, se non con specifiche operazioni
tuzionalizzati, che prevedono l'esistenza di chirurgiche.
entità sovrannaturali e sovraumane. sfere di scambio: modello di scambio in cui i
riti di passaggio: espressione coniata da Van beni sono raggruppati in ‘sfere’ secondo il va-
Gennep nel 1909, indica i rituali che accom- lore morale cha la popolazione attribuisce a
pagnano le transizioni attraverso i diversi sta- essi. Tali beni possono solo essere scambiati
tus che segnano la vita di ogni individuo, co- con beni appartenenti alla stessa sfera.
me la nascita, il passaggio all'età adulta, la sistema di classi d'età: è un'istituzione cultu-
morte. rale e politica che mette in relazione età bio-
rito: pratica ripetitiva e collettiva, che serve a logica ed età sociale. I sistemi di classi d'età
rappresentare, a mettere in scena una pratica determinano un ordine sociale, creando cate-
legata alla religione o al potere, al fine di ren- gorie basate sull'età e sulla generazione.
derla visibile. società egualitarie: società in cui le decisioni
rituali: comportamenti simbolici, sociali, ri- non vengono prese da un capo, ma per lo più
petitivi e standardizzati che vengono praticati dal consiglio degli uomini, all'interno del qua-
in occasioni cerimoniali distinte dalla vita le il più anziano del gruppo esprime solita-
quotidiana. Possono avere numerosi signifi- mente una posizione di autorevolezza.
cati, sia laici sia religiosi. strutturalismo: prospettiva antropologica che
si pone come obiettivo di dimostrare l'unità
psichica del genere umano attraverso
l'individuazione di categorie universali della necessariamente parenti tra di loro. È un'orga-
mente. Le diversità culturali sarebbero, per gli nizzazione caratteristica di popolazioni di
strutturalisti, delle varianti di temi costanti, agricoltori e allevatori, e può essere guidata
ìnsiti nella struttura psichica umana. da un capo.
superorganica: definizione adottata dal so- visione olistica: visione totalizzante che tiene
ciologo francese Émile Durkheim per definire conto di vari elementi dì una società, di una
la cultura come realtà che sta al di sopra delle cultura, per poter analizzare anche uno solo di
individualità umane. essi.
surmodernità: evoluzione ulteriore rispetto
alla modernità: accelerazione della storia in
cui la rapidità ha annullato le distanze e per-
tanto il tempo prevale sullo spazio.
tabu alimentari: indicano gli alimenti che
non possono essere mangiati da determinati
gruppi, perché considerati impuri o perché
associati al totem del clan.
tatuaggio: pratica nata in Polinesia. Segno
indelebile e ornamentale sul corpo che può
trasmettere informazioni sullo status sociale,
gruppo etnico, genere ecc.
tempo ciclico: concezione del tempo che si
basa sulla ripetitività e circolarità degli eventi,
come per esempio lo scorrere delle stagioni o
il ciclo lunare. È caratterizzata da un'assenza
di direzionalità nel processo storico.
tempo lineare: concezione del tempo che si
basa sull'idea di progressione e che fornisce
quindi il senso del fluire del tempo e della sto-
ria.
thick description: definizione coniata da
Clifford Geertz per indicare una pratica etno-
grafica che non si limiti alla mera descrizione
dei fatti, ma che contenga già in sé l'interpre-
tazione di quei fatti.
totem: animale o personaggio simbolico che
rappresenta gli antenati mitici di un clan.
tradizione: l'insieme delle pratiche che una
popolazione ritiene fondate su un passato co-
mune. Secondo Hobsbawm e Ranger questo
passato può essere inventato o rielaborato a
partire dal presente attraverso un processo di
‘filiazione inversa’.
tradizione orale: processo di trasmissione
verbale intergenerazionale di conoscenze e
pratiche culturali di una determinata popola-
zione.
transumanza: pratica pastorale che prevede
lo spostamento dei capi di bestiame tra due
punti stabiliti.
tribù: la tribù è un insieme più grande della
banda, che comprende individui che non sono
METODOLOGIA DELLA RICERCA SOCIO-PSICOPEDAGOGICA
13. ‘action research’ l’ interdipendenza tra teoria e pratica / il processo circolare dinamico
Benchè si possa essere portati a credere che una ricerca cominci col lavoro empirico di osservazio-
ne e di assunzione di informazioni, si può affermare che invece, nelle prime fasi di una ricerca, pre-
valgono la riflessione, l’elaborazione teorica e l’ideazione. Il ricercatore inizialmente deve preoccu-
parsi soprattutto di pensare, perchè prima di mettersi a condurre indagini empiriche occorre aver
chiaro che cosa cercare e come cercarlo. L’inizio di ogni ricerca è in realtà una laboriosa attività intel-
lettuale in cui ci si pongono interrogativi, si studia, si scambiano idee con altri, si considerano gli ap-
procci possibili ai problemi e si azzardano ipotesi su come stanno le cose.
Eccedere con la documentazione. Una delle prime cose da fare per impostare una ricerca è do-
cumentarsi sull’argomento che interessa. Documentarsi è importante perchè dalla letteratura degli
studi precedenti si possono trarre utili suggerimenti e perché ignorare ciò che si sa già espone a gravi
rischi. Può accadere che impieghiamo tempo e risorse per risolvere questioni già assodate e, al limite,
che l’intera ricerca sia costruita con l’obiettivo di chiarire qualcosa che è già chiaro.
Se però documentarsi è importante, farsi prendere dalla preoccupazione di leggere tutto è sbagliato.
L’eccessiva conoscenza della letteratura può avere un’azione di freno sullo slancio della ricerca.
Quando ci si documenta è importante leggere un numero limitato di testi selezionati e procedere
sempre ben orientati, avendo in mente le direttive dello studio e il quadro fin lì maturato.
Passare subito al disegno d’indagine. Un altro errore è quello di proiettarsi con la mente diret-
tamente al lavoro operativo d’indagine, alle tecniche da impiegare, alle persone da interpellare, agli
ambiti dove sperimentare o osservare senza aver chiarito che cosa si vuole cercare e aver definito
l’oggetto d’indagine.
Farsi prendere dal perfezionismo. C’è chi nelle fasi iniziali della ricerca, quando ancora si sta
definendo l’oggetto d’indagine, si lascia scoraggiare dal fatto che molte cose sona ancora poco chiare
e dubbie; in realtà è naturale che sia così, i dubbi si risolvono strada facendo.
Fingere. Un requisito essenziale di una buona ricerca è l’autenticità: il ricercatore deve sforzarsi
davvero di trovare risposte alle sue domande e di esplorare un pezzo di realtà con l’intento di com-
prenderlo. Un modo sbagliato di cominciare una ricerca è darsi invece da fare per costruire una fac-
ciata dietro la quale mettere il proprio lavoro al riparo dalle critiche.
Come definire l’oggetto d’indagine
La definizione dell’oggetto d’indagine è il primo momento dell’attività ideativa con cui comincia
una ricerca. Il secondo sarà l’elaborazione di un disegno d’indagine. Nella definizione dell’oggetto
d’indagine mettiamo in chiaro che cosa intendiamo ricercare, mentre nell’elaborazione del disegno
stabiliamo come procederemo nella ricerca. Perciò la definizione dell’oggetto precede logicamente
l’elaborazione del disegno.
All’inizio un ricercatore può essere motivato a condurre una ricerca su qualcosa, ma avere ancora
idee vaghe e confuse sulla questione da indagare. Chiarire a se stesso l’oggetto di indagine serve a cir-
coscrivere il campo, a valutare l’effettiva portata del lavoro che si sta per intraprendere, cogliendone
le implicazioni, il significato e il valore, a a farsi una prima idea dei risultati che possono emergere.
Nel definire l’oggetto di indagine si segue un procedimento ideale, che si può schematizzare in
quattro tappe. (1) Come prima cosa il ricercatore si pone una o più domande cui con la ricerca inten-
de dare risposta: sono le domande d’inizio. (2) Successivamente porta avanti una prima esplora-
zione sulle questioni che ha in mente, un primo tentativo di rispondere, che non è ancora l’indagine
vera e propria, ma rientra nel lavoro di preparazione e di messa a fuoco dell’oggetto. Sono tre le
fonti cui si può attingere nell’esplorazione preliminare: la letteratura, altre persone impegnate
nello studio del settore e la realtà stessa. Conseguentemente l’esplorazione preliminare è in genere
fatta di tre componenti: la documentazione (sui libri e sulle riviste), le conversazioni con i colleghi e
le cosiddette indagini di sfondo. L’indagine di sfondo segue generalmente un approccio qualitativo,
proprio per evitare di limitare in anticipo l’orizzonte dell’esplorazione precostituendo in buona par-
te i risultati. Le tecniche più usate sono l’intervista non strutturata e non direttiva, l’esame di docu-
menti e l’osservazione non standardizzata. (3) All’esplorazione preliminare segue l’impostazione
teorica, che consiste nella scelta dell’approccio da adottare nel tentativo di dare risposta ai nostri
quesiti (ad esempio, riguardo al nesso creatività-disturbi mentali, assumere una prospettiva umani-
stica, oppure psichiatrica, psicoanalitica, sociologica, ecc.).
(4) L’ultima tappa è l’elaborazione di ipotesi. L’ipotesi può consistere in una spiegazione possi-
bile di un fenomeno o in un modello di funzionamento di qualcosa o nella presupposizione che in
certi ambiti della vita individuale e sociale si facciano determinate esperienze e che le cose stiano in
un dato modo. Detto in sintesi, l’ipotesi ora è una spiegazione, ora è un modello, ora è una congettu-
ra descrittiva.
É importante che nella mente del ricercatore la domanda d’inizio sia ben formulata, tanto che si
consiglia spesso di metterla per iscritto. Una buona domanda d’inizio dovrebbe avere almeno tre
requisiti: chiarezza, fattibilità, pertinenza.
(I) Perchè una domanda sia chiara non dev’essere vaga o troppo generica, ma precisa; inoltre essa
non dev’essere ambigua (contenente più domande tra loro concatenate), bensì univoca.
(II) La fattibilità è un requisito da non sottovalutare per una domanda d’inizio. Se ci si chiede qual-
cosa di molto interessante, ma che non si può appurare (perchè in sé la questione è insolubile o per-
ché noi non disponiamo dei mezzi adatti: dati statistici, fonti, strumenti osservativi, ecc), la ricerca
non si realizzerà.
(III) Quando si dice invece che le domande d’inizio di una ricerca devono essere pertinenti, ci si
riferisce al fatto che devono essere domande cui si può rispondere con una ricerca scientifica. Noi
possiamo chiederci molte cose, che è ovviamente lecito, se non necessario, che un uomo si chieda,
ma a cui non si può trovare risposta nella scienza. Rientrano in questa categoria, ad esempio, le
domande di natura morale o etica.
COME NASCE UNA RICERCA
b) scegliere i testi che possono darci di più in vista dei nostri scopi
d) preferire gli scritti critici, che danno spazio alla teoria, a quelli che si limitano a riportare dati
e) formare il nostro elenco di letture mettendo assieme testi che seguono approcci diversificati
definizione dellʼoggetto di indagine -> messa in chiaro di ciò che si intende ricercare
definizione elaborazione
dellʼoggetto del disegno
dʼindagine
2. esplorazione preliminare
documentazione conversazioni
su libri e riviste con i colleghi
4. elaborazione di ipotesi
Per lungo tempo (specie dal XVII secolo in poi) ha dominato una visione dell’attività di ricerca tesa
ad idealizzare le procedure e i metodi, che ha rappresentato una sorta di mito del metodo scientifico.
Fondamentale in questa visione è l’idea (rintracciabile nell’opera di Francis Bacon come in quella di
Renè Descartes) che il metodo sia il fulcro della ricerca scientifica, l’elemento portante e l’unica co-
sa che conta davvero. Nel corso del XX secolo il mito del metodo scientifico si è progressivamente
sgretolato. Per la filosofia della scienza e l’epistemologia attuali è chiaro che a fare ricerca non è il
metodo, ma il ricercatore. Si è capito che il lavoro di ricerca, almeno in parte, consiste in una attività
creativa, ben lontana dall’applicazione scontata di un metodo prestabilito. É apparso chiaro che per
fare ricerca occorrono qualità particolari: non doti innate - si badi - ma qualità che possono essere
acquisite, insegnate e tramandate.
La crisi dell’induttivismo
La data di nascita dell’induttivismo viene di solito fissata nel 1620, anno in cui il filosofo inglese
Francis Bacon (1561 - 1626) pubblicò il Novum Organum (letteralmente “nuovo strumento”), dove
proponeva di rimpiazzare gli strumenti aristotelici di ragionamento basati sulla deduzione, col me-
todo induttivo. L’induttivismo è una teoria del metodo scientifico, secondo la quale nella ricerca si
procede dal particolare all’universale. Come prima cosa lo scienziato osserva e accumula un gran
numero di dati. Di qui elabora successivamente principi, leggi e teorie di valore generale.
L’induttivista insiste sulla necessità di distinguere la fase della raccolta dei dati da quella dell’elabo-
razione teorica e condanna ogni tentativo di azzardare ipotesi senza dati. La tesi di fondo dell’indut-
tivismo è dunque che i principi, le leggi, le teorie si ricavano dai dati raccolti, cioé basandosi sulla
constatazione di un gran numero di fatti particolari.
La concezione induttivista presenta tre capisaldi:
1. L’osservativismo. Con questo termine si indica la tendenza, propria dell’induttivismo, a pri-
vilegiare l’osservazione e in genere la raccolta dei dati, mettendo in secondo piano l’ideazione e la
teorizzazione. La famosa massima di Newton hypoteses non fingo (non creo ipotesi) sta proprio a
sottolineare l’atteggiamento di distacco estremo e passività che dovrebbe caratterizzare il lavoro ini-
ziale di osservazione e accumulo di dati.
2. Il principio di induzione. Questo principio sostiene che da una serie di premesse riferite a
casi particolari è possibile logicamente trarre conclusioni di portata generale, cioè che le generalizza-
zioni hanno una giustificazione razionale.
3. Il principio di uniformità della natura. Fin dall’inizio l’induttivismo si è basato sul
presupposto che in natura ci siano regolarità che la ricerca scientifica può evidenziare. Le vicende
naturali non si svolgerebbero caoticamente, ma nel rispetto di un ordine, di una trama, di un disegno
sottinteso.
L’induttivismo è stato ampiamente criticato, già da D. Hume nel XVIII secolo. Nel ‘900 si è assis-
tito poi (Duhem, Popper, ecc.) ad un vero e proprio attacco all’intero impianto dell’induttivismo:
tutti e tre i capisaldi si sono mostrati insostenibili.
a. Una ricerca che intendesse davvero cominciare con la pura e semplice raccolta di dati non po-
trebbe avere mai inizio. É stato osservato che non si possono raccogliere dati a tappeto e acritica-
mente, perchè la raccolta di dati è per forza di cose selettiva ed è orientata a seconda di ciò che il
ricercatore vuole sapere, cioè dipende dagli interrogativi, dalle idee e dalle ipotesi che questi ha in
mente: “Dobbiamo esaminare - si domanda Karl G. Hempel - tutti i granelli di sabbia di tutti i de-
serti e su tutte le spiagge e annotare le loro forme, pesi, composizioni chimiche, le distanze inter-
correnti tra l’uno e l’altro, la loro temperatura sempre in mutamento e la loro distanza, anch’essa
sempre cangiante, dal centro della luna? Dobbiamo registrare i pensieri fluttuanti che attraversano le
nostre menti durante queste noiose operazioni? Le forme delle nubi che passano sulla nostra testa, il
mutevole colore del cielo?” .
b. Il principio di induzione ha scarso fondamento. Hume aveva notato che passare dalle osserva-
zioni alle leggi comporta un salto logico. A causa del salto logico tra piano dell’esperienza, fatto di
nessi occasionali (Hume parlava di relazioni di fatto), e piano astratto delle connessioni necessarie
(Hume parlava di relazioni di idee), l’inferenza induttiva non può avere la stessa validità della dedu-
zione logica.
c. Il principio di uniformità della natura sembra un’artificiosa costruzione. Sempre secondo Hume,
l’idea che esistano in natura delle regolarità è una credenza su basi psicologiche, derivante dall’abi-
tudine e destituita di significato razionale. La psicologia cognitiva di oggi concorda sostanzialmente
con tale tesi.
Come dev’essere il buon ricercatore? Per quanto non appaia facile tracciarne un identikit, alcuni
requisiti sembrano sicuramente necessari.
Preparazione specifica. Il ricercatore deve - com’è ovvio - essere un esperto della materia in cui
lavora e in particolare dei problemi su cui indaga.
Cultura. La preparazione specifica però non basta. Per quanto tale aspetto sia spesso sottovaluta-
to, il ricercatore dev’essere anche un uomo di cultura, che spazi con le sue conoscenze negli ambiti
più diversi, che conosca la tradizione ma sappia anche, nell’affrontare criticamente i problemi, allon-
tanarsene.
Creatività. Il ricercatore deve infatti essere in grado di pensare cose nuove e originali, oltre che vali-
de, perciò è bene che sia dotato di immaginazione, fantasia, flessibilità di pensiero.
Autenticità. É importante che il ricercatore nel suo lavoro sia motivato dal bisogno di scoprire dav-
vero come stanno le cose e non dall’esigenza di far bella figura, di far carriera o altro.
Desiderio di superamento dell’esistente. Il ricercatore col suo lavoro è un innovatore, uno che
cambia, poco o tanto, le conoscenze esistenti e consolidate. Ogni buona ricerca porta alla fine a ve-
dere le cose in modo in parte diverso da come apparivano prima.
Si può affermare, per concludere, che la parte più importante di una ricerca è, probabilmente,
l’ideazione. Può capitare, infatti, che un ricercatore ripeta esattamente le operazioni fatte da un al-
tro, ma solo per mettere alla prova quel lavoro o inquadrarlo meglio grazie ad un procedimento che
solitamente si chiama replica. Per il resto si può dire, però, che non esistono due ricerche uguali e
che ogni ricerca è in qualche modo unica. I lavori di indagine differiscono per le domande di parten-
za, l’impostazione data ai problemi, le ipotesi messe alla prova, il materiale adoperato, il disegno
complessivo secondo il quale si procede. La ricerca è un’attività fluida, che prende forma a seconda
dell’impronta che ad essa dà il ricercatore in base alle sue idee.
IL RICERCATORE
la crisi dell ʼinduttivismo -> Francis Bacon (1561 - 1626) Novum Organum
2. principio di induzione => da una serie di premesse riferite a casi particolari è possibile
logicamente trarre conclusioni di portata generale
3. principio di => le vicende naturali si svolgono nel rispetto di un ordine, una trama,
uniformità della natura un disegno sottinteso , e la ricerca scientifica può evidenziare tali regolarità
ideazione vs osservativismo
a) preparazione specifica - esperienza nelle discipline e nelle aree di ricerca fatte oggetto di indagine
b) cultura - conoscenze nei vari ambiti del sapere, attitudine al ʻpensieroʼ in aree non ʻspecialisticheʼ
f) abilità di gestione e coordinamento - saper organizzare le risorse personali che si mettono in gioco
Il problema del punto di vista del ricercatore si può sintetizzare così: il ricercatore nel condurre la
ricerca ha in mente un quadro di pensiero (framework), che, se da un lato è una base di partenza,
dall’altra è una specie di carcere mentale. Il framework del ricercatore consiste nelle teorie specifi-
che sull’argomento in studio che adotta, nei concetti e nel sapere specialistico che possiede, ma an-
che nel più vasto entroterra di concezioni cui egli aderisce per il solo fatto di essere uno studioso e
un individuo di una civiltà. Tutto questo vincola nel corso della ricerca a vari livelli, perchè fa vedere
certi fatti anziché altri, spinge a impostare le indagini in un dato modo, crea certe aspettative sui ri-
sultati e fa sì che che il ricercatore interferisca nei processi che portano ai risultati, influenzandoli
(anche senza rendersene conto) in ragione delle proprie aspettative.
La questione del punto di vista del ricercatore si è imposta all’attenzione nel ‘900, producendo un
un reale sconvolgimento nella filosofia e nell’epistemologia. Una volta presa coscienza che la ricerca
dipende dal punto di vista del ricercatore, l’immagine stessa della scienza ne è risultata profonda-
mente modificata. É caduto il mito dell’oggettività scientifica. Nel ‘900 si è capito che i fatti sono
strettamente legati alle teorie, cosa che ha portato alla fine dell’induttivismo baconiano (cfr. Il ricer-
catore, par. I) e dell’idea che l’oggettività consista nell’attenersi ai fatti.
Una convinzione comune, che in passato ha dominato anche in epistemologia e in filosofia della
scienza, è che all’oggettività si possa pervenire attenendosi ai fatti. L’idea che esista una prova del
nove dei fatti presuppone una netta distinzione tra fatti e teorie. I fatti in particolare dovrebbero
essere, come spesso si dice, preteorici, cioè entità a sé stanti, che esistono prima di qualsiasi teoria
sulla realtà. Senonchè è emerso sempre più chiaramente che i fatti, lungi dall’essere indipendenti dal-
le teorie, sono - come si dice - “carichi di teoria” (theory-laden). Le teorie, secondo l’espressione di
T. Kuhn, sono “modi di vedere il mondo”. Il mondo che si vede da una certa prospettiva teorica non
è lo stesso mondo che si vede da un’altra; le teorie sono “grammatiche osservative”, sistemi di regole
che ci dicono come leggere gli input che ci vengono dalla realtà esterna. L’attività scientifica è poi
oltremodo teorica: nella ricerca scientifica, tutto ciò che lo scienziato fa, dall’impostazione dell’inda-
gine alle osservazioni, alla raccolta dei dati, alle misurazioni, all’uso di strumenti, di metodi e tecni-
che, ai controlli, alle conclusioni e ai resoconti, presuppone un entroterra teorico assai raffinato ed
elaborato.
Il problema del punto di vista del ricercatore si è imposto all’attenzione non solo perchè si è capito
che non ci si può affidare ad un’oggettività basata sui fatti, ma anche in forza di un’altra convinzione
maturata nel corso del ‘900: il sapere scientifico non forma un sistema teorico unitario, non c’è un
unico grande edificio della scienza. Ad esempio, la teoria della relatività di Einstein è andata ad af-
fiancarsi alla visione tradizionale del mondo fisico offerta dalla teoria classica o galileiana o newto-
niana, e le due teorie continuano a coesistere. Nelle scienze sociali la coesistenza di molteplici teorie
è di comune riscontro. Le varie teorie scientifiche sono separate l’una dall’altra non solo perchè è
difficile collegarle e integrarle a formare un quadro unitario, ma anche perchè nascono ciascuna in un
clima intellettuale non scientifico. I ricercatori elaborano una teoria e lavorano in quella direzione
spinti da interessi pratici, da ideali, da valori, da curiosità, gusti e altre cose che non hanno a che fare
con la scienza: la produzione scientifica è, in definitiva, culturalmente e storicamente condizionata.
Il punto di vista del ricercatore nelle scienze sociali
Il problema del punto di vista del ricercatore nelle scienze sociali è, rispetto alle scienze naturali,
più serio e sentito per alcune ragioni. Ne spiccano due:
a. i fatti sociali implicano il punto di vista dei protagonisti. Lo psicologo, il sociologo, l’antropologo
non studiano atomi, molecole, cellule, corpi solidi; essi hanno a che fare con eventi i cui protagonisti
pensano e attribuiscono significati alle vicende che vivono. Questo complica le cose e rende i fatti
sociali ancor più esposti all’interpretazione soggettiva del ricercatore.
b. il ricercatore è parte della realtà sociale che studia. Siccome fa parte del mondo sociale che stu-
dia, il ricercatore è imbevuto anch’egli delle idee circolanti (ideologie, rappresentazioni sociali) su
come stanno le cose.
Sono state proposte varie strategie per affrontare il problema del punto di vista del ricercatore:
1. Purificarsi dai preconcetti. Sappiamo che liberarsi totalmente dei preconcetti è impossibile, tut-
tavia si può essere consapevoli del fatto che esistono vari punti di vista e che la propria conoscenza
è legata ad uno di essi. Purificarsi dai preconcetti significherebbe allora non sbarazzarsi del proprio
punto di vista, ma assumere quello sguardo tipico di chi si è esercitato a prendere in esame le cose
da più punti di vista. É quel che accade, ad esempio, in antropologia culturale, dove il ricercatore, in
virtù del fatto che ha in mente la varietà di mondi e di culture esistenti, può e deve abbandonare ogni
forma di etnocentrismo o di esclusivismo culturale per poter descrivere i fenomeni sociali da lui pre-
scelti come oggetto d’indagine.
2. Assumere una prospettiva critica. Una strategia che si può tentare è spaziare, essere liberi, non
lasciarsi mai incarcerare da una visione delle cose. Questo significa in pratica mettere sempre in di-
scussione il proprio punto di vista, assumere la critica del proprio framework come sistema.
3. Allargare l’orizzonte tenendo conto di più punti di vista. Un’altra strategia consiste nel prendere
in esame ciò che si sta studiando da due o più punti di vista e cercare di integrarli. Si tratta in realtà
di costruire una visione ulteriore, di livello più alto, che inglobi quelle precedenti. Ad esempio, le te-
rapie dei disturbi mentali si possono studiare avendo in mente solo i trattamenti praticati in Occi-
dente. Se allarghiamo lo sguardo e ci interessiamo anche alle terapie tradizionali, possiamo elaborare
una concezione più complessa della cura delle malattie mentali, che tenga conto, oltre che dei lavori
degli psichiatri e degli psicologi clinici, di quella dei guaritori. Questo è l’approccio che viene propo-
sto dall’etnopsichiatria, o psichiatria transculturale e che l’OMS (Organizzazione mondiale della Sa-
nità), a partire dalla conferenza di Alma Ata, in Kazakistan (Il ruolo delle medicine tradizionali nel
sistema sanitario, Red, 1984) ha fatto propria.
IL PUNTO DI VISTA DEL RICERCATORE
framework
i ʻfattiʼ sono strettamente legati alle teorie (“theory-laden”) > circolo ermeneutico
“precomprensione”
punti di vista = prospettive teoriche
metodologico
relativismo e soggettivismo
ideologico
d) allargare lʼorizzonte tenendo conto di più punti di vista tra loro integrati
La ricerca interdisciplinare
Possiamo definire l’interdisciplinarità una forma di collaborazione tra le discipline che tende a un
sapere unitario e più avanzato sulle cose. L’interdisciplinarità è un’idea che emerge nel XX secolo,
in particolare nel dopoguerra. Autori come il filosofo Ernst Cassirer e lo psicologo Jean Piaget han-
no preparato il terreno alle tendenze interdisciplinari e hanno promosso la ricerca interdisciplinare.
Rispetto alle collaborazioni occasionali tra discipline, l’interdisciplinarità è qualcosa di diverso, per-
chè rappresenta un programma di collaborazione sistematica tra le discipline a carattere istituzio-
nale e comunitario. Si comprende meglio in che cosa consiste la ricerca interdisciplinare confrontan-
dola con attività che, sebbene mettano in gioco più discipline, sono sostanzialmente diverse: la
“multidisciplinarità” e la “falsa interdisciplinarità”. É stato Piaget a introdurre la distinzione tra in-
terdisciplinarità e multidisciplinarità. Nel lavoro multidisciplinare c’è un centro di interesse comune
che viene esaminato nell’ottica di ciascuna disciplina. Le differenti concezioni vengono accostate
l’una all’altra senza preoccuparsi di integrarle. La differenza fondamentale rispetto all’interdiscipli-
narità sta nel fatto che nella multidisciplinarità manca il dialogo produttivo tra le varie discipline.
Un certo scambio c’è, ma non si realizzano quelle che Piaget chiama “ibridazioni feconde”. Nel la-
voro interdisciplinare le discipline, a contatto con le altre, rivedono le proprie posizioni, le acquisi-
zioni di ciascuna nell’interazione si trasformano e danno luogo a contenuti nuovi, che vanno a for-
mare il sapere interdisciplinare. Le “false interdisciplinarità” sono invece delle condizioni in cui il
dialogo produttivo c’è, ma è limitato ad ambiti prefissati. Un caso comune è quello di discipline re-
gine che si servono di discipline ancelle (ad es. le materie funzionali alla comprensione di altre: la
chimica, la fisica, la biologia, l’anatomia rispetto alla medicina). Questa situazione viene chiamata
interdisciplinarità ausiliaria. Un altro caso è quello in cui due discipline si trovano a lavorare in-
sieme intorno a temi di confine, di incerta collocazione, che riguardano l’una e l’altra: in questo caso
si parla di interdisciplinarità complementare.
Temi come l’aggressività, l’emarginazione, la devianza, non sono solo centri di interesse dove le
varie discipline possono incontrarsi. Rappresentano problemi da risolvere, sia sul piano teorico, sia
sul piano pratico-applicativo. Tutto il sapere che la tradizione accumula deve servire a risolvere i
problemi. In effetti, anziché pensare alla scienza come a una collezione di discipline, si può assume-
re una visione più pragmatica e considerarla organizzata per campi: ad esempio, lo studio dell’ag-
gressività è un campo.
Un principio fondamentale della ricerca interdisciplinare consiste nello sforzarsi di avere una visio-
ne unitaria e vicina al reale, cercando al tempo stesso di rispettare la specificità delle discipline e la-
sciando che ciascuna proceda con la propria impostazione e i propri metodi.
Il lavoro interdisciplinare si svolge attraverso una serie di tappe successive. La prima fase è quella
dell’analisi multidisciplinare. Il primo passo, all’interno di questa fase, consiste nel passare in
rassegna i diversi contributi sul tema per enucleare da ciascuna disciplina contenuti rilevanti. Sono
rilevanti quei contenuti validi all’interno della tradizione della disciplina e pertinenti in vista degli
scopi che ci si prefigge. Il passo successivo è contestualizzare i contenuti enucleati, cioè inquadrarli
nel loro ambito disciplinare, reinserirli nella cornice metodologica e teorica in cui sono emersi e han-
no senso.
Una volta tirati fuori e contestualizzati i contenuti rilevanti, è terminata la fase dell’analisi multi-
disciplinare e comincia la successiva dell’elaborazione interdisciplinare. Spiegazioni, descrizioni,
concetti presi da discipline diverse, vengono confrontati e fatti interagire. Dal confronto può risult-
are che due spiegazioni dello stesso fenomeno fornite da discipline diverse (es. l’etologia e la psico-
analisi per l’aggressività) siano scarsamente compatibili, o del tutto incompatibili. Se non ci sono in-
compatibilità o le incompatibilità sono state superate, si può passare ad elaborare contenuti nuovi, i
quali andranno a collocarsi in un sistema di pensiero, in un discorso organico nuovo, di tipo interdi-
sciplinare.
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Il lavoro interdisciplinare richiede che le varie discipline dialoghino alla pari, riconoscendosi e ri-
spettandosi reciprocamente. Se una disciplina tende ad egemonizzare le altre e prende il sopravven-
to su di esse, la ricerca interdisciplinare rischia di essere compromessa. Nel corso del lavoro interdi-
sciplinare l’egemonia si manifesta il più delle volte sotto forma di estensioni indebite: concetti e ra-
gionamenti di un settore vengono adoperati per spiegare ed illustrare fenomeni appartenenti a un’al-
tro in maniera artificiosa o meccanica, senza riguardo per gli specifici contesti disciplinari.
In filosofia della scienza e in epistemologia (la teoria della conoscenza scientifica) il riduzionismo
sostiene che alcune scienze sono di base mentre altre vi si stratificano sopra. Le conoscenze di livel-
lo più alto, sarebbero interamente traducibili nei termini delle discipline fondamentali. Ad esempio,
un organismo vivente è composto da cellule, una cellula è formata da molecole chimiche, le molecole
da atomi, gli atomi da particelle elementari. Ridurre un ordine di scienze all’altro significa interpreta-
re i fenomeni più complessi sulla base di quelli più semplici da cui sono formati. Il “fisicalismo”
proposto da O. Neurath, ad esempio, tende a tradurre ogni fenomeno osservabile nei termini della
fisica ed a ricondurre tutte le scienze ad una medesima base fisica. Il riduzionismo epistemologico
rende impraticabile il lavoro interdisciplinare: la disciplina ritenuta fondamentale, infatti, prende la
supremazia e nega alle altre il diritto di esistere.
LA RICERCA INTERDISCIPLINARE
vs
interdisciplinarità
ausiliaria complementare
il lavoro interdisciplinare
fase I
esame dei contributi delle varie discipline
fase II
confronto/interazione tra contenuti di diverse discipline
analisi
elaborazione di nuovi contenuti
interdisciplinare (integrare carenze concettuali con contenuti complementari)
rischi
Mentre un sondaggio sulle opinioni dei cittadini è una tipica indagine quantitativa, l’indagine bio-
grafica è tipicamente qualitativa. Nel sondaggio compaiono soprattutto dati: numeri, statistiche; nel-
le “storie di vita” numeri e statistiche praticamente scompaiono e lasciano il posto a discorsi, descri-
zioni, racconti.
Approccio quantitativo e qualitativo presuppongono concezioni diverse della ricerca nelle scienze
sociali, a cominciare dalla questione di carattere generale del significato e del valore da attribuire al-
l’attività di ricerca, via via fino al problema specifico delle procedure da adottare.
Consideriamo i principali punti di divergenza.
Senso e finalità della ricerca. Chi segue l’orientamento quantitativo, pensa in genere che scopo del-
la ricerca sia contribuire al progresso scientifico, mentre i fautori dell’orientamento qualitativo sono
solitamente più critici nei confronti della cultura dominante, meno propensi a riconoscersi negli
aspetti istituzionali dell’attività accademica di ricerca .A differenza dei ricercatori quantitativi, che
solitamente tendono a considerare l’impegno etico e sociale estraneo all’attività scientifica, i ricerca-
tori qualitativi sono in genere animati dal desiderio di promuovere la giustizia sociale.
Carattere estensivo o intensivo delle indagini. La ricerca qualitativa si affida all’indagine intensiva,
mentre la qualitativa all’estensiva. Chi fa ricerca qualitativa pensa che, al limite, studiando in pro-
fondità anche un solo caso, si può arrivare a capire la vita dell’intera società. Chi fa ricerca quantita-
tiva, al contrario, è convinto che si possano passare in rassegna un gran numero di casi prima di rica-
vare categorie e modelli validi per l’universo sociale.
Codifica e standardizzazione delle procedure. Nelle indagini quantitative le procedure sono stabilite
in partenza nel dettaglio e il ricercatore segue protocolli ben definiti e riproducibili, cioè che altri
possono ripetere in tempi e circostanze diverse. Per chi fa ricerca quantitativa si tratta di requisiti
fondamentali dell’indagine, senza i quali diviene impossibile comparare i dati. Dal punto di vista del
ricercatore qualitativo codifica e standardizzazione sono fatti negativi, almeno così come vengono
solitamente intesi. Costituiscono un intralcio all’espansione della conoscenza, un vincolo che impe-
disce di sondare la realtà e scoprire proprio ciò che più interessa.
La contrapposizione tra ricerca qualitativa e ricerca quantitativa si può fare risalire alla seconda
metà del XIX secolo, quando esplose il cosiddetto Methodenstreit (dibattito sul metodo).
Nell’università tedesca, ad opera di studiosi di varie discipline, tra cui J.G. Droysen, W. Dilthey,
W. Windelband, H. Richert, sorse un movimento chiamato solitamente storicismo, che dava partico-
lare rilievo al problema “ermeneutico” (ermeneutica = scienza dell’interpretazione) ed all’esigenza di
comprendere ciò che gli uomini producono, dai testi alla cultura.
Dilthey indicò i due contrapposti domini della ricerca scientifica con le espressioni scienze natu-
rali (Naturwissenschaften) e scienze dello spirito (Geisteswissenschaften). Nelle scienze naturali
si va alla ricerca di leggi universali, mentre nello studio dei fatti umani ciò che interessa è cogliere gli
eventi e le esperienze nella loro individualità, unicità e irripetibilità. Perciò, a differenza della scienze
naturali, le scienze dello spirito non spiegano le cose riconducendole a cause a a leggi, ma le descri-
vono, le ricostruiscono e le interpretano. Droysen distinse tra lo spiegare (Erklären), tipico delle
scienze naturali, e il comprendere (Werstehen), proprio delle scienze umane.
Già agli inizi del XX secolo, Max Weber si rese però conto che l’idea di scienze umane tese solo a
descrivere casi particolari era insostenibile. Se da un lato la tradizione ermeneutica aveva fatto bene
a rivendicare l’importanza dei vissuti soggettivi, tipici della storia e dei fatti umani, dall’altro non si
poteva rinunciare alle generalizzazioni e alle spiegazioni di portata più ampia. Così Weber nell’im-
postazione della sua sociologia comprendente combinò comprensione e spiegazione, ideando un
procedimento in cui dall’interpretazione di casi particolari si passa all’elaborazione di modelli di
portata sufficientemente generale, gli idealtipi, che fanno poi da mattoni di costruzione per teorie di
portata più ampia.
Il dibattito sulla ricerca qualitativa e quantitativa rappresenta tutt’oggi una questione aperta. Resta
il fatto che il ricercatore alle prese con la propria indagine deve prendere una decisione. Occorre sta-
bilire se e in quale misura seguire un orientamento o l’altro oppure se combinarli entrambi e, nel ca-
so, come integrarli in un unico disegno d’indagine.
RICERCA QUANTITATIVA E QUALITATIVA
indagine
quantitativa qualitativa
studio empirico (sondaggio / inchiesta) condotto studio empirico condotto su un campione ristretto
interpellando mediante questionari una popolazione attraverso interviste non strutturate, non direttive,
o un campione rappresentativo di essa privilegiando le ʻstorie di vitaʼ dei soggetti interpellati
numeri, misurazioni, statistiche discorsi, descrizioni, racconti
ampia, di superficie ristretta, in profondità
obiettivi conoscitivi
estensivo intensivo
passare in rassegna un gran numero di casi per studiare in profondità un ristretto numero di casi
ricavare categorie e modelli scientificamentevalidi per capire la vita dellʼintera società
Max Weber
interpretazione di casi particolari
“sociologia comprendente”
elaborazione di modelli generali
idealtipi
IL QUESTIONARIO
inchieste
polari > si / no / (non lo so)
1) risposta esatta
domande chiuse 2) “distrattore”
3) risposta errata
valutazione
questionari e verifica
scolastici del profitto
sintetiche
domande aperte
libere
Il Disegno di Ricerca
Una volta definito l’oggetto d’indagine, dopo che si è arrivati a elaborare le ipotesi alla base della
ricerca, non si passa subito al lavoro empirico, non ci si mette cioè a raccogliere dati per confermare
o smentire le idee maturate. Di mezzo c’è un altro passaggio ideativo che consiste nell’elaborare il
disegno di ricerca, cioè nel fare un piano, un programma del lavoro che si intende portare avanti.
È meglio non limitarsi a pensare, ma scrivere una relazione, anche fatta di appunti essenziali. Sulla
carta è più facile accorgersi di lacune ed errori. È particolarmente utile discutere con altri il piano di
lavoro. Nella discussione si allarga il raggio di idee e sviluppi che noi non vediamo possono essere
visti da altri. Non bisogna però affidarsi ciecamente alle discussioni con gli altri. Se il raggio di idee si
allarga, ci sono rischi, primo fra tutti quello di farsi prendere dalla cosiddetta mentalità di gruppo
(group think). Quando interviene la mentalità di gruppo, il consenso viene scambiato per obiettività
e si crede che le cose stiano in un modo solo perchè ci si trova d’accordo.
Nelle ricerche di tipo quantitativo il disegno è particolarmente dettagliato e preciso, tende a preve-
dere in anticipo tutto ciò che il ricercatore farà nel corso della ricerca.
Nelle ricerche qualitative il disegno è più vago e indeterminato e soprattutto non copre l’intero la-
voro empirico, ma lascia aperti gli sviluppi della ricerca. È sbagliato però pensare che la ricerca qua-
litativa sia priva di disegno: bisogna infatti stabilire - come fa notare Harold Becker - quale area di
vita andare ad esplorare, bisogna vedere come avvicinarsi ad essa e familiarizzare con quel mondo,
bisogna decidere se far uso di informatori o di intermediari, ecc.
Le scelte dell’area del set concettuale vanno a delimitare e stabilire l’insieme dei concetti che ado-
pereremo nel lavoro. Nelle ricerche quantitative queste scelte consistono nell’individuare delle varia-
bili da considerare e degli indicatori grazie ai quali si pensa di avere informazioni sulle variabili. Nelle
ricerche qualitative buona parte del disegno concettuale concerne l’individuazione dell’oggetto da
approfondire nella ricerca.
La parte del disegno relativa alle risorse richiede di decidere come procurarsi i mezzi finanziari, il
materiale, di quali persone servirsi, quali soggetti sperimentali impiegare e così via.
La scelta dell’area delle procedure riguarda i metodi specifici da adottare per la raccolta di dati (os-
servazione, esperimento, intervista, questionario, ecc.).
Possiamo farci un’idea più precisa di come si arriva a elaborare il disegno di ricerca esaminando una
check-list riguardante le scelte del ricercatore che ha deciso di svolgere una ricerca di tipo quantitati-
vo e sta decidendo le procedure.
check-list per decidere le procedure di una ricerca quantitativa
unità di analisi
dove? campo di analisi
indagine a chi ci rivolgiamo
popolazione / campione rappresentativo/ componenti
L’unità di analisi è data dalle componenti elementari che formano l’universo su cui indaghiamo.
Si tratta in genere di una categoria di persone o di realtà socio-culturali. Può trattarsi ad esempio di
bambini in età prescolare, di disoccupati, degli abitanti di un quartiere, di programmi televisivi, ecc.
Il campo di analisi è l’insieme delle unità di analisi a cui ci interessiamo. Se ad esempio abbiamo de-
ciso di indagare sui programmi televisivi, ne sceglieremo un certo insieme (per fascia oraria, per ge-
nere, ecc.) a seconda delle ipotesi e degli scopi della nostra ricerca. È importante anche il quesito “a
chi ci rivolgiamo?”. Nel rispondere dobbiamo pensare soprattutto alla disponibilità delle persone e
alle possibilità concrete di raggiungerle e ottenere la loro collaborazione.
La scelta tra popolazione, campione rappresentativo e componenti selezionate della popolazione
rappresenta un altro momento in cui occorrono realismo e senso della ricerca.
La popolazione è l’intero universo dei soggetti cui ci si può rivolgere o che si possono esaminare. Il
campione rappresentativo è una parte di popolazione scelta in modo tale che, almeno sulle cose che
ci interessano, può fornirci informazioni paragonabili a quelle che ricaveremmo dall’intera popola-
zione. Il più delle volte è comunque preferibile, realisticamente, ricorrere a componenti selezionate
della popolazione, senza preoccuparsi di avere un campione rappresentativo.
Efficacia. Il lavoro empirico che progettiamo deve essere efficace, cioè rispondere agli scopi che ci
prefiggiamo, servire a studiare l’oggetto di indagine che è stato definito e mettere alla prova le ipote-
si formulate.
Rigore. Buona parte del disegno mira a a fare in modo che la ricerca non risulti criticabile al punto da
essere inutilizzabile.
Fattibilità. Ciò che progettiamo deve essere realizzabile sia sul piano economico che sul piano delle
risorse in termini di tempo e di energie personali.
Rispetto delle norme etiche. Qualunque cosa si decida di fare, occorre mettere molta attenzione a ri-
spettare le norme etiche. Chi viene sottoposto a un’indagine ha diritto a essere informato e a sapere
che cosa sta accadendo. Le persone (il problema si pone sopratutto negli esperimenti) non vanno
esposte a rischi, né materiali, né psicologici e sociali. È scorretto poi approfittare del fatto che altri
si trovino in posizioni subalterne per indurle a collaborare a ricerche. È anche scorretto trattare le
persone come cavie e non instaurare un clima psicologico di rispetto e parità.
IL DISEGNO DI RICERCA
efficacia -> rispondere agli scopi / studiare lʼoggetto/ mettere alla prova le ipotesi
rigore -> mettere la ricerca al riparo dalle critiche (sulla sua scientificità)
È nelle ricerche di tipo quantitativo che si parla di variabili, indicatori, indici, di variabile indipen-
dente e di variabile dipendente, di variabili qualitative e quantitative, continue e discontinue, di vali-
dità degli indicatori, e così via. Nella ricerca quantitativa si lavora con concetti definiti ed operativi
perchè solo questi garantiscono l’esattezza, l’obiettività e la misurabilità.
Al contrario chi fa ricerca qualitativa evita i concetti definiti e operativi, giudicandoli vincolanti e
addirittura controproducenti per i propri obiettivi, e preferisce i concetti “sfuocati” (o, come dice
Blumer, sensibilizzatori). Le variabili hanno senso solo se si lavora con concetti definiti e operativi.
Che cos’è una variabile? Possiamo dire che è qualsiasi proprietà di tipo materiale o non materiale
che può cambiare da un individuo all’altro e/o nel tempo, elaborata concettualmente in modo da
renderne riscontrabili empiricamente le variazioni con procedure oggettive, ed utilizzata prevalente-
mente dai ricercatori all’interno di un disegno di ricerca di tipo quantitativo.
Ad esempio, il peso corporeo è una variabile. È una proprietà che varia da una persona all’altra e
ache da un momento all’altro, perchè le persone ingrassano e dimagriscono. Il peso è una variabile
materiale. Se consideriamo le variabili non materiali (quelle più comuni nelle scienze sociali) le
cose immediatamente si complicano. Prendiamo l’integrazione sociale degli individui, presa in esame
da Durkheim nel suo studio sul suicidio: come si fa a stabilire se un individuo è socialmente integra-
to o meno? Così com’è, la nozione di integrazione sociale degli individui è troppo vaga e astratta.
Durkheim ha individuato nell’integrazione sociale tre componenti: la partecipazione alla vita religio-
sa, alla vita politica e alla vita domestica. Per valutare ciascuna componente si è servito di una serie
di dati statistici indicativi (ad es. per la vita domestica, l’informazione relativa all’esser sposati e al-
l’avere figli). Una volta che è stato fatto questo lavoro di elaborazione concettuale, la nozione della
proprietà da riscontrare non è più quella di partenza, ma è diventata più precisa ed operativa: le va-
riazioni di una proprietà soggetta a cambiamenti diventano riscontrabili empiricamente con procedu-
re oggettive.
Le variabili non esistono come tali in natura, ma solo nella ricerca. Il ricercatore in effetti le costrui-
sce lavorando attorno a concetti che rende sempre meno vaghi e astratti e più vicini al suo operare
concreto. Una variabile è dunque un costrutto mentale e teorico, qualcosa che esiste nella mente del
ricercatore e nella tradizione scientifica, non nella realtà studiata. Si tratta di un costrutto operativo,
perchè tende a rendere i concetti in termini di operazioni da fare per riscontrarli nell’esperienza.
Tipi di variabili
Spetta a Lazarsfeld, esponente di spicco della tradizione sociologica quantitativa, il merito di aver
ricostruito il cammino ideale che il ricercatore segue quando costruisce una variabile.
Lazarsfeld distingue quattro fasi:
2. Specificazione del concetto. Una volta messo a fuoco, il concetto viene analizzato e scompo-
sto nelle dimensioni che occorrono a formarlo. Durkheim ha scomposto la nozione di integrazione
sociale in integrazione religiosa, politica, domestica, facendo così riferimento a tre ambiti concreti in
cui si manifesta la partecipazione degli individui alla vita sociale. Si è servito di un procedimento ra-
zionale. Anzichè specificare il concetto per via di ragionamento, si può seguire un procedimento em-
pirico. In questo caso andiamo a cercare le manifestazioni concrete del concetto nella realtà, serven-
doci di un’indagine empirica. Dobbiamo innanzitutto ritagliarci un campo di analisi dove si può pre-
sumere che l’entità che ci interessa sia presente, raccogliere dati attraverso osservazioni, questionari,
interviste, esame di documenti, per poi analizzarli. Un esempio classico di questo procedimento si
ritrova nel famoso studio di T.W. Adorno (e coll.) sulla personalita autoritaria, condotto attraverso
un centinaio di interviste, che ha dato modo di individuare una serie di tratti della personalità autori-
taria (sottomissione ad un principio di autorità superiore, aggressività verso le persone che non se-
guono le convenzioni, tendenza a condannare lo sviluppo dell’immaginazione, moralismo in fatto di
sesso, ecc.).
3. Scelta degli indicatori. Individuate le dimensioni del concetto, vanno cercati per ciascuna di
esse indicatori empirici. Si tratta di fatti osservabili, dati reperibili dai quali si può inferire come
stanno le cose. Ad esempio, per Durkheim i dati statistici sui matrimoni e sui figli fungevano da in-
dicatori dell’integrazione nella società domestica. L’indicatore è dunque un sintomo o segno di
un particolare fenomeno che ci interessa.
4. Formazione degli indici. Se per renderlo empiricamente riscontrabile, il concetto è stato scom-
posto in dimensioni e per ciascuna dimensione sono stati individuati vari indicatori, ora bisogna pro-
cedere a una ricomposizione: i dati elementari relativi ai vari indicatori (integrazione politica, religio-
sa, domestica), vengono combinati per dar luogo ad una misura unica della variabile.
L’indice è tale misura unica della variabile (integrazione sociale).
Tra gli indicatori e la qualità che segnalano c’è un rapporto di probabilità, non di certezza. Ad es.
chi afferma di condividere un’affermazione (“l’obbedienza e il rispetto sono le qualità principali da
insegnare ai bambini”), può darsi che lo faccia per motivi contingenti e transitori (è preoccupato per-
chè al momento non riesce a tenere sotto controllo i propri figli).
Per rendere gli indicatori più sicuri si segue il principio di moltiplicarli, cioè di adoperarne tanti per
un’unica qualità: ad es. nei questionari di Likert non ci si limita ad una sola affermazione relativa al-
l’accordo espresso riguardo ad una specifica questione (atteggiamento verso il potere), ma si pro-
pongono, a tale riguardo, numerose domande.
VARIABILI, INDICATORI, INDICI
variabile
proprietà di tipo materiale (es.peso) o non materiale (es. integrazione sociale) che può
cambiare da un individuo all’altro e/ o nel tempo, elaborata concettualmente in modo da
renderne riscontrabili empiricamente le variazioni con procedure oggettive, ed utilizzata
prevalentemente dai ricercatori all’interno di un disegno di ricerca di tipo quantitativo.
costrutto operativo
tipi di
sesso, stato civile
non ordinabili => non è possibile creare una graduatoria razza, religione
qualitative
ordinabili => si può creare una graduatoria (rango) titolo di studio
livello di qualifica
variabili
vani dell’abitazione
discrete => salti da un valore all’altro componenti nucleo famigl.
quantitative
continue => infiniti valori intermedi possibili reddito, età, ecc.
2. Specificazione del concetto => scomposizione del concetto religiosa / politica / domestica
nelle sue dimensioni
razionale
procedimento
empirico (indagine)
4. Formazione degli indici => i dati elementari relativi ai vari indicatori religiosa +
vengono combinati per dar luogo ad integrazione politica +
una misura unica della variabile domestica =
L’insieme degli individui oggetto di studio in una ricerca prende il nome di universo o popolazione.
Il più delle volte però non conviene indagare effettivamente sull’intera popolazione. Per non inda-
gare sull’intera popolazione ci si limita a una parte di essa ritagliata con specifiche procedure, le
tecniche di campionamento, che prende il nome di campione. L’impiego di campioni si basa sul
presupposto della “rappresentatività”, cioè sulla convinzione che il campione, se costruito corretta-
mente, rappresenta la popolazione e per gli scopi dell’indagine equivale ad essa.
Le inchieste sono indagini in cui, mediante questionari (anche postali) o interviste (spesso telefo-
niche), si interpella un certo numero di persone con l’intento di studiare una popolazione ampia
(i cittadini di uno stato, gli abitanti di una città, gli studenti universitari, ecc.).
Quando l’inchiesta mira a conoscere i pareri della gente su questioni di attualità e pubblico interes-
se, si parla di sondaggio d’opinione.
Ci sono inchieste in cui ci si rivolge all’intera popolazione: si chiamano censimenti. A parte i censi-
menti, le inchieste si basano sull’impiego di campioni: non si va ad interpellare tutta la popolazione,
ma ci si limita a un campione rappresentativo di essa.
Le inchieste si possono adoperare sia nel quadro di studi trasversali, sia nel quadro di studi longitu-
dinali. Negli studi trasversali ci si limita a ritrarre la popolazione in un dato momento attraverso
una sola inchiesta. Lo scopo degli studi longitudinali è invece vedere come cambiano le cose nel
tempo. Perciò si esegue una serie di inchieste a distanza di tempo l’una dall’altra e se ne confrontano
i risultati. Gli studi longitudinali si distinguono in studi di panel, in cui un unico campione viene se-
guito nel tempo, per cui le stesse persone vengono interpellate a ondate successive, e studi di trend,
che mirano a conoscere le linee di tendenza dei cambiamenti che si verificano; essi si eseguono ripe-
tendo una stessa inchiesta su campioni di popolazione che possono cambiare di volta in volta.
Per costruire un campione rappresentativo di una data popolazione si segue un procedimento ca-
ratteristico, fatto di operazioni successive, che prende il nome di piano di campionamento.
1. Come prima cosa si predispone la lista di campionamento, cioè l’elenco degli individui che
compongono la popolazione, formano l’universo nel quale si intende indagare. Di solito ci si avvale
di elenchi già esistenti (ad es. liste elettorali ufficiali, elenco telefonico, dati dell’anagrafe, liste di
iscritti ad associazioni).
2. Si stabilisce poi quanto deve essere ampio il campione; si dice che l’ampiezza del campione è
funzione dell’ampiezza ed eterogeneità della popolazione; bisogna dunque individuare il minimo ne-
cessario per rappresentare accuratamente la popolazione: più la popolazione tende all’omogeneità,
più il campione si avvicina all’unità e potrà essere piccolo, mentre più la popolazione tende all’ete-
rogeneità, più il campione dovrà essere grande e avvicinarsi al numero di individui dell’intera popo-
lazione.
3. Dalla lista di campionamento si estraggono poi gli elementi da inserire nel campione. Esistono di-
verse procedure di estrazione tra le quali il ricercatore può scegliere.
Le tecniche di estrazione. È necessario garantirsi sempre il surplus necessario per far fronte all’as-
sottigliamento naturale. Quello che risulta dalle operazioni di campionamento è solo un campione
teorico. Il campione effettivo, l’insieme delle persone che di fatto verranno interpellate, sarà sicura-
mente più piccolo. Alcune persone non risulteranno reperibili, altre non saranno disposte a collabo-
rare, altre ancora risponderanno, ma le interviste rilasciate o i questionari riempiti saranno inutilizza-
bili per difetti tecnici di vario genere.
Le procedure per estrarre il campione dalla lista sono di due tipi fondamentali: le probabilistiche e
le non probabilistiche o ragionate.
Campionamento probabilistico
Nel Campionamento casuale semplice ciascun individuo della popolazione ha la stessa proba-
bilità di essere inserito nel campione.
Il campionamento sistematico mira, come il campionamento casuale semplice, a estrarre dalla
popolazione gli individui del campione casualmente, così che tutti abbiano la stessa probabilità di
essere selezionati.Semplicemente si fa scorrere la lista di campionamento e si seleziona un individuo
ogni k, dove k è una costante numerica intera (es.un elemento ogni 100).
Nel campionamento casuale stratificato la popolazione viene suddivisa in sottounità, dette
strati, sulla base di certe caratteristiche. Ad esempio, se la popolazione è costituita dagli alunni degli
ultimi tre anni della scuola superiore, si creeranno tre gruppi dei diversi anni. Una volta divisa la po-
polazione in strati, si procede a estrarre da ciascuno di essi un campione casuale.
La procedura con cui il campione verrà estratto dalla popolazione influisce sull’ampiezza minima
necessaria alla rappresentatività del campione. Il campionamento non probabilistico richiede in linea
di massima campioni più grandi del campionamento probabilistico, perchè la tecnica di estrazione
offre scarse garanzie di rappresentatività. Il campione stratificato consente di lavorare con campioni
più piccoli del campionamento casuale, perchè la stratificazione riduce l’effetto della disomogeneità
della popolazione.
Una volta definita e conclusa l’estrazione del campione (4), se ne stima (5) l’affidabilità, cal-
colando il margine di errore cui ci si espone nel trarre conclusioni sull’universo a partire da rileva-
zioni fatte su di esso.
IL CAMPIONAMENTO
universo / campione
popolazione
parte della popolazione / universo ritagliata con specifiche procedure
insieme degli individui (tecniche di campionamento) che rappresenta la popolazione e, per
oggetto di studio in una ricerca gli scopi dellʼindagine “equivale” ad essa ( = “rappresentatività”)
inchieste
sondaggio censimenti
dʼopinione (intera popolazione)
pareri della gente
su questioni di attualità
e pubblico interesse
di panel di trend
unico campione il campione
seguito net tempo può cambiare
1. predisposizione della
lista di campionamento -> elenco di individui che formano lʼuniverso
campionamento
casuale semplice (ciascun individuo ha la stessa probabilità di essere inserito nel campione)
probabilistico sistematico (un individuo ogni k - costante numerica intera es. un elemento ogni 100)
5. stima della calcolare il margine di errore cui ci si espone nel trarre conclu-
affidabilità del campione sioni sullʼuniverso a partire da rilevazioni fatte sul campione
L’INTERVISTA
L’intervista consiste in un colloquio, un dialogo tra un intervistatore, che pone le domande e regi-
stra le risposte, ed un intervistato, che risponde. Quella classica è l’intervista faccia a faccia, in cui
intervistatore e intervistato si incontrano e conversano in un luogo convenuto. Negli anni ‘90 si è
diffusa l’intervista telefonica dove non c’è contatto diretto e l’intervistato viene di solito chiamato
al telefono di casa. Le interviste vengono adoperate sia in ricerche di tipo qualitativo, sia di tipo
quantitativo. Nel primo caso si ricorre a quelle che spesso si chiamano interviste in profondità: col-
loqui nei quali il ricercatore cerca di scavare a fondo, con l’intento, ad esempio, di ricostruire una
subcultura o la carriera tipica di certe categorie di individui. Nelle ricerche quantitative invece sono
d’obbligo le interviste standardizzate, che consentono di trattare in maniera quantitativa i dati.
Strutturazione Un’intervista può essere più o meno strutturata, cioè più o meno preordinata,
preparata prima. Si distinguono solitamente tre gradi di strutturazione.
a) Nell’intervista strutturata, l’intervistatore ha un elenco di domande cui attenersi, detto modulo
di intervista. Le domande vanno lette così come sono scritte, nell’ordine in cui si trovano. Quando il
grado di strutturazione è alto, all’intervistatore si chiede di astenersi da ogni intervento che possa in
qualche modo influenzare l’intervistato. Durante la lettura delle domande l’intonazione, il ritmo, la
velocità di eloquio, i comportamenti non verbali andrebbero controllati in modo che risultino unifor-
mi e non diano suggerimenti di alcun tipo cambiando nel passaggio da un argomento all’altro.
L’intervistatore deve poi sforzarsi di apparire neutrale dinanzi alle risposte dell’intervistato, evitan-
do di commentarle anche solo con le espressioni del viso e i gesti.
b) L’intervista semi-strutturata si può configurare in vari modi. Una possibilità è che alcune do-
mande siano già stabilite, ma che l’intervistatore abbia facoltà di introdurne altre. Di solito quelle la-
sciate alla discrezione dell’intervistatore sono domande sonda, che possono avere lo scopo di far
chiarezza in momenti di incomprensione, ma anche di approfondire elementi interessanti che doves-
sero emergere nel dialogo. Ci sono poi interviste semi-strutturate preordinate sul piano dei contenu-
ti e libere per quanto riguarda la forma dei discorsi. L’intervistatore non ha domande prefissate da
porre, ma una serie di punti da trattare, una traccia da seguire. Un esempio di semi-strutturazione è
l’intervista circoscritta o focalizzata (focused interview) di Merton e Randall. Lo scopo qui è quello
di vedere come le persone reagiscono a un evento (fatto di cronaca, proiezione, ecc.) in cui sono co-
involti in veste di spettatori. Se si prendono in esame più esperienze di vita nel corso degli stessi
colloqui, si sconfina dall’intervista focalizzata alle interviste narrative, che sono alla base delle storie
di vita.
c) La facoltà di manovra è massima nell’intervista non-strutturata. Qui non ci sono domande pre-
stabilite, né c’è una traccia di intervista, ma ci si lascia guidare dal dialogo e dallo sviluppo dei di-
scorsi. Il ricercatore ha comunque chiari in mente gli elementi ed i problemi da esplorare.
Direttività. La direttività è una caratteristica della conduzione, riguarda cioè il modo in cui l’inter-
vistatore gestisce il colloquio. Nell’intervista direttiva l’intervistatore guida decisamente l’intervista-
to, evitando che divaghi, richiamandolo ad attenersi alle domande e facendo in modo che fornisca le
informazioni che interessano. Al contrario nell’intervista non-direttiva (elaborata dallo psicologo
umanista Carl Rogers), l’intervistato è libero di sviluppare i suoi ragionamenti. Sta all’intervistatore
orientarsi nel flusso di pensiero dell’intervistato. Ovviamente tra i due estremi è possibile tutta una
gamma di conduzioni intermedie. In linea di massima strutturazione e direttività vanno di pari pas-
so. L’intervista non-direttiva è per forza di cose non-strutturata, l’intervista strutturata e semistrut-
turata implicano una certa direttività.
Polarità. Le domande che si pongono in una intervista possono essere centrate sul polo oggettivo,
cioè volte a stabilire fatti concreti, oppure sul polo soggettivo, cioè tese a capire il punto di vista
dell’intervistato, la sua percezione delle cose, il modo in cui le vive e il senso che dà ad esse.
Sistemi di registrazione delle interviste. L’intervistatore può limitarsi a prendere nota per
iscritto delle risposte. Il compito è particolarmente facile quando le domande sono chiuse, cioè ri-
chiedono di scegliere tra alternative prefissate. Registrare le risposte a domande aperte può risultare
invece problematico. Se l’intervistato parla in fretta e dice molto, è difficile stargli dietro. Se l’inter-
vistatore cerca di riportare i discorsi dell’intervistato con parole sue, ci sono rischi di distorsione.
L’intervistatore può travisare ciò che l’intervistato dice: via via che il colloqio procede, si forma una
propria idea di ciò che pensa l’intervistato e tende ad anticipare le risposte successive in base alle
precedenti. Un limite dell’annotazione è che si perde tutta lo scambio non verbale: non resta traccia
dei gesti, degli sguardi, delle espressioni del viso, della prosodia che accompagna le parole. La regi-
strazione meccanica, con magnetofono o con videocamera, consente di superare i limiti dell’annota-
zione: i discorsi dell’intervistato restano registrati e e si può trasferirli per iscritto quando si vuole,
con calma e attenzione.
polarità
sul polo oggettivo (stabilire fatti concreti)
intervista
centrata
sul polo soggettivo (punto di vista dell’intervistato)
direttività
direttiva (intervistato richiamato ad attenersi alle domande)
-> strutturata
intervista
non-direttiva (intervistato libero di sviluppare i suoi ragionamenti)
(C. Rogers) -> non-strutturata
Il colloquio clinico è il principale strumento dello psicologo clinico, viene adoperato dallo psicolo-
go sia per valutare i disturbi psicologici, sia per trattarli con la psicoterapia. C’è una certa somiglian-
za tra i colloqui condotti nella pratica clinica e le interviste delle scienze sociali. In entrambi i casi,
due o più persone dialogano, e c’è chi raccoglie informazioni e chi le fornisce; tuttavia esiste una dif-
ferenza fondamentale: mentre le interviste mirano alla ricerca, i colloqui clinici hanno per obiettivo
ultimo la cura di persone sofferenti.
I colloqui clinici si distinguono in genere per lo scopo che in ciascuno si persegue. Le classificazioni
correnti però tengono conto dei tipi principali di colloquio, che rientrano in tre categorie fondamen-
tali: diagnostici, di consulenza e terapeutici.
(1) I colloqui diagnostici. Nella psichiatria tradizionale i colloqui diagnostici servono unicamente
a fare il quadro dei disturbi in vista di una diagnosi di tipo classificatorio, cioè a raccogliere elementi
che consentano di ricondurre il caso in una delle categorie nosografiche (descrittive delle malattie)
note. Si ricorre solitamente alla classificazione dei disturbi mentali del DSM (Diagnostical and
statistical Manual of Mental Disorders), il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali pub-
blicato dall’American Psychiatric Association (Associazione psichiatrica americana). Anche se si
continua a condurre colloqui in vista di diagnosi classificatorie, attualmente si cerca di allargare la
diagnosi, analizzando la condizione psicologica e sociale del paziente in tutta la sua complessità.
L’allargamento dell’orizzonte diagnostico è in parte dovuto alla messa in discussione del modello
medico di malattia mentale che c’è stata negli anni ‘60 e ‘70. In quel periodo è apparso con chiarez-
za (si pensi in particolare alla corrente dell’antipsichiatria) che il disturbo psicologico non si può
considerare alla stregua di una malattia fisica, ma che va inquadrato e capito nella vita psicologica e
sociale della persona sofferente, di cui è parte integrante.
b. L’esame della condizione mentale è un tipo di colloquio che è stato molto criticato, ma è tut-
tora largamente praticato. Il clinico parlando con il paziente, cerca di metterlo alla prova e di farsi
un’idea del suo funzionamento psichico, stimolandolo in vario modo. Indaga, con domande semplici,
spesso banali, la percezione, l’attenzione, il pensiero, l’emotività, la conoscenza di sé, l’orientamen-
to nel mondo, le abilità comunicative, con l’intento di riscontrare eventuali alterazioni.
d. A volte si parla di anamnesi psicosociale o di biografia o di storia della vita. In linea di massi-
ma questo colloquio è orientato a ricostruire, in ordine cronologico, le esperienze passate del pazien-
te fino ad arrivare alle attuali condizioni psicologiche, sociali ed economiche. Alcuni clinici preferi-
scono insistere sul polo oggettivo, mentre altri si interessano prevalentemente al polo soggettivo.
e. Intervista clinica. Questo colloquio mira a fare emergere la soggettività del paziente sul momen-
to, mentre dialoga col clinico. Questi inizia il discorso nel modo più aperto possibile, lasciando il più
ampio spazio all’interlocutore.
(2) La consulenza (counsiling) consiste nel dare consigli per risolvere problemi psicologici e co-
muni difficoltà della vita. Si può fare con persone che non hanno effettivamente disturbi, ma solo
comuni difficoltà della vita., ma si attua di solito con familiari e operatori che hanno a che fare con
persone sofferenti (ad es. genitori e insegnanti di un bambino depresso). Il colloquio di consulenza è
caratteristico in quanto di solito il rapporto è più paritario e informale.
(3) Il colloquio terapeutico è quello che si attua nelle sedute di psicoterapia. Il modo di condurli e
la forma che prendono variano a seconda dell’approccio terapeutico.
Il colloquio clinico tende fondamentalmente alla cura del paziente, non è dunque possibile piegare il
colloquio alle esigenze di una ricerca. Non è pensabile, ad esempio, che un colloquio clinico sia strut-
turato e standardizzato, perchè strada facendo possono nascere esigenze terapeutiche che obbligano
a cambiare programma o a uscire dalle domande preordinate. Nonostante ciò, si può considerare il
colloquio clinico come una fonte ricchissima anche in vista della ricerca, perchè mette a disposizio-
ne del ricercatore un enorme patrimonio di conoscenze psicologiche e sociali. C’è grande differenza,
ad esempio, tra una seduta psicoanalitica classica, una seduta di terapia cognitiva o una seduta di
orientamento sistemico.
I QUESTIONARI PSICOMETRICI
IL COLLOQUIO CLINICO
colloqio clinico
(counsiling)
dare consigli per risolvere problemi si attuano nelle sedute di psicoterapia
psicologici e comuni difficoltà della vita. variano secondo l’approccio terapeutico
Rapporto più paritario e informale
esame della durante il colloquio si mette alla prova il paziente stimolandolo in vario modo
condizione mentale per farsi un’idea del suo funzionamento (metodo criticato ma praticato)
intervista clinica mira a fare emergere la soggettività del paziente sul momento,
mentre dialoga col clinico, nel modo più aperto e con il più ampio spazio
L’OSSERVAZIONE
L’osservazione elimina due cause di distorsione della verità presenti nell’intervista e nel questiona-
rio: il fatto che la persona interpellata possa non capire le domande e che non sappia effettivamente
come stanno le cose. Tuttavia resta intatta un’altra causa di distorsione: la possibilità che le persone
mentano. Se le persone osservate sanno di esserlo, poco o tanto mettono in atto strategie di dissi-
mulazione, non facendo cose che farebbero tranquillamente in privato o in situazioni quotidiane.
Quando un osservatore si trattiene a lungo con quelli che osserva e entra a far parte del loro gruppo,
diventa una presenza familiare, per cui la dissimulazione si riduce. Difficilmente però scompare del
tutto.
Nell’osservazione il problema della veridicità, oltre che alla dissimulazione, è legato alle interpreta-
zioni dell’osservatore. Per quanto si faccia, non è possibile fare resoconti obiettivi delle azioni uma-
ne. Descrivere i comportamenti implica necessariamente una lettura delle intenzioni, dei pensieri, dei
ragionamenti retrostanti e in genere del lato mentale di chi agisce. Siccome è costretto a interpretare,
l’osservatore è soggetto ad errore. Rischia di introdurre distorsioni legate ai propri preconcetti e alla
propria lettura delle cose.
L’osservazione può essere condotta in vari modi, a seconda delle circostanze e di come il ricercato-
re organizza il lavoro.
Posizione dell’osservatore. In casi particolari l’osservatore non è presente alla scena. In alcune
ricerche vengono sistemate telecamere fisse o magnetofoni in punti strategici. In generale quando
l’osservatore è assente si parla di osservazione indiretta.
Di regola però l’osservazione è diretta e l’osservatore è presente mentre si svolgono i fatti. Può
mescolarsi alle persone che osserva, come accade nell’osservazione partecipante, oppure, è il caso
dell’osservazione senza contatto sociale, operare da una postazione che gli consente di osservare
senza essere visto, sfruttando strutture architettoniche particolari o grazie allo specchio unidirezio-
nale, o di telecamere a circuito chiuso. Nell’osservazione partecipante l’osservatore può lavorare in
incognito, da clandestino, oppure gli altri possono essere al corrente del suo ruolo e della ricerca che
sta portando avanti.
Ambiente. L’osservazione si può condurre sul campo, nell’ambiente naturale dove si svolgono
abitualmente i fatti, oppure nel contesto artificiale del laboratorio.
Tecniche di documentazione. Si va dai resoconti fatti alla fine e basati sulla memoria o sugli ap-
punti presi man mano alle annotazioni su schede appositamente predisposte, alle registrazioni col
magnetofono o con la telecamera.
Grado di standardizzazione. Il lavoro può essere preordinato e seguire protocolli più o meno ri-
gidi o essere lasciato alla discrezione dell’osservatore. La standardizzazione riguarda i contenuti da
osservare, gli ambienti nei quali osservare, le modalità di osservazione, le tecniche di documentazio-
ne, la posizione dell’osservatore, i ritmi, i tempi del lavoro.
Estensione. L’ambito di osservazione può essere più o meno esteso, non solo per il numero di
persone osservate, ma anche per l’entità dei fenomeni osservati e la durata dell’osservazione.
Per etnografia propriamente si intende la descrizione della vita dei popoli in antropologia cultura-
le, però il termine è stato esteso ad indicare lo studio di subculture presenti all’interno di una realtà
culturale più ampia, tipiche dei gruppi che vivono nelle nostre società occidentali, anche nelle grandi
città. In prospettiva etnografica si può studiare, ad esempio, il mondo dei barboni di un parco, gli
anziani di un quartiere, un gruppo di alcoolisti, un accampamento di nomadi, ecc. È famosa la ricer-
ca sui musicisti da ballo di H. S. Becker, esponente di spicco della scuola di Chicago noto per i suoi
studi sulla devianza.
Per facilitare l’inserimento chi fa indagini di etnografia urbana utilizza spesso intermediari, persone
che conoscono sia il ricercatore sia la gente del gruppo, e informatori, di solito elementi del gruppo
desiderosi di collaborare. Di solito l’osservatore prende appunti senza farsi notare. È buona regola
stendere una relazione alla fine di ogni giornata. Alcuni consigliano di tenere, oltre a un registro delle
osservazioni dove si annotano le vicende prese in esame, un diario personale per raccontare di sé. Se
inserirsi nel gruppo consente di capire meglio le cose, è spesso anche fonte di distorsione, perchè il
ricercatore si lega alle persone che osserva, provando simpatie, antipatie, sentimenti di solidarietà,
andando incontro a incidenti. Dalle indagini etnografiche si ricavano alcuni contenuti fondamentali: i
tipi di persone che popolano un ambiente e le loro attività, le scene caratteristiche che si ripetono in
un contesto sociale, gli scripts, ovvero i copioni delle sequenze caratteristiche di determinate
attività.
In etologia l’osservazione costituisce uno dei metodi fondamentali di studio. Konrad Lorenz di-
stingue tre modi di impostare l’osservazione in etologia.
Il sistema del cacciatore consiste nel giocare d’astuzia, “far la posta” e sorprendere l’animale sen-
za essere visti e senza disturbarlo.
Nel sistema del contadino l’animale viene tenuto in cattività e osservato.
Il sistema di mettere in libertà esemplari addomesticati è stato adoperato nel tentativo di realizzare
un’osservazione tranquilla in condizioni naturali. L’animale che è stato addomesticato si lascia avvi-
cinare senza difficoltà dal ricercatore che conosce e continua a comportarsi normalmente anche in
sua presenza.
Jane Goodall, che ha condotto un lavoro pionieristico sugli scimpanzé, ha seguito un metodo che
potremmo definire approccio graduale. Il ricercatore riesce pian piano a farsi accettare dagli animali
come presenza innocua e familiare, come uno tra i tanti elementi del loro habitat.
L’ OSSERVAZIONE
cacciatore “far la posta” e sorprendere l’animale senza essere visti e senza disturbarlo
L’esperimento è il metodo più applicato in psicologia, dove, sebbene si faccia ricorso abitualmente
anche ad indagini, tende ad essere considerato lo strumento di ricerca per eccellenza. E’ importante
anche in psicologia animale e comparata, in etologia (dove però conta molto soprattutto l’osserva-
zione). In sociologia e in antropologia è meno utilizzabile.
Nell’esperimento il ricercatore non si limita a raccogliere dei dati, ma interviene attivamente sulla
realtà, manipolandola e sottoponendola ad un particolare trattamento al fine di ricavare le infor-
mazioni che gli interessano. In questo modo può osservare dinamiche che egli stesso provoca e
controlla e non deve limitarsi a registrare ciò che spontaneamente accade.
3) Rilevazione degli effetti del cambiamento introdotto. Il ricercatore di regola ha in mente do-
ve i cambiamenti si potranno produrre. Si aspetta che, manipolando il fattore x, ne risentirà un altro
ben preciso, y. In questa previsione lo guida l’ipotesi sperimentale, che dice proprio che le variazio-
ni di y e x sono correlate. Ad esempio, nel caso del collegio il fattore y può essere costituito dai
comportamenti aggressivi dei ragazzi tra loro e con gli adulti. L’ipotesi sperimentale dice che con
una dieta televisiva più violenta i ragazzi diventano più aggressivi.
4) Tenere sotto controllo il resto. Oltre ai fattori x e y, nella situazione sperimentale ce ne sono
molti altri. Alcuni di questi possono influire sul fenomeno che interessa allo sperimentatore. Può
darsi che il cambiamento di y sia determinato dal loro cambiamento, anzichè conseguire alla manipo-
lazione di x. Nel collegio, ad esempio, potrebbe nascere un’aspra questione per il funzionamento
della mensa. Di conseguenza i ragazzi potrebbero divenire più tesi e aggressivi per questo, indipen-
dentemente dalla dieta televisiva..
Il ricercatore deve tenere sotto controllo gli altri fattori. Quand’è possibile li terrà costanti, impe-
dendo che si modifichino nel corso dell’esperimento. Altrimenti ne terrà conto e farà in modo che
il loro variare non interferisca con i suoi risultati e con le sue conclusioni..
Le variabili. Ogni fattore che è presente nella situazione sperimentale, che può cambiare e può
influire sul fenomeno in studio costituisce una variabile.
Il fattore x, quello che lo sperimentatore modifica appositamente, prende il nome di variabile
indipendente, mentre y è la variabile dipendente.
I termini indipendente e dipendente si riferiscono al rapporto tra le due variabili. La dipendente è
quella i cui cambiamenti sono subordinati, conseguenti ai cambiamenti dell’altra.
La variabile indipendente è quella che viene manipolata - che dipende - dallo sperimentatore.
Le altre di solito si chiamano variabili accessorie o intervenienti. Queste sono di grande importan-
za, perchè come si è detto possono interferire con i risultati sperimentali e vanno perciò tenute sot-
to controllo.
Esperimenti di laboratorio ed esperimenti sul campo. Nelle scienze sociali si pone il problema
se condurre esperimenti di laboratorio o sul campo, se lavorare cioè in situazioni più vicine alla real-
tà o più rigorosamente sperimentali.
Nell’esperimento di laboratorio il ricercatore lavora “a casa propria”. Invita i soggetti in un am-
biente predisposto e crea la situazione adatta per mettere alla prova le cose che gli interessano.
Operando così, può far facilmente uso di strumenti tecnici e può esercitare un buon controllo sulla
situazione sperimentale.
Con l’esperimento sul campo il ricercatore va nell’ambiente naturale, nella vita quotidiana dove i
soggetti utili all’indagine normalmente si trovano. Sul campo è molto più difficile controllare la si-
tuazione sperimentale. Facilmente variabili indesiderate si intrufolano e sfuggono al controllo.
Il controllo. Nell’esperimento occorre evitare che variabili intervenienti interferiscano nella rela-
zione tra variabile indipendente e variabile dipendente. A questo fine il ricercatore svolge un com-
plesso lavoro che prende il nome di controllo. Quali sono i fattori che possono interferire con
l’esperimento? In genere vengono classificati in tre tipi.
a) i fattori interni hanno origine dentro i soggetti sperimentali. Nel corso dell’esperimento le perso-
ne possono cambiare interiormente. Ad esempio, i ragazzi, specie se la sperimentazione dura a lun-
go, possono per conto proprio andare incontro a maturazioni e diventare per questo meno aggressi-
vi.
b) i fattori esterni dipendono da circostanze ambientali. Se nasce un problema per la mensa e que-
sto esaspera gli animi, siamo di fronte ad un fattore esterno che interferisce con l’esperimento.
c) i fattori legati allo sperimentatore sono i più insidiosi da controllare: chi conduce l’espe-
rimento, con le sue aspettative influenza i soggetti sperimentali anche senza volerlo. Di solito - ma
può accadere anche il contrario - accade che i soggetti tendano ad esagerare nel collaborare. Si fanno
una loro idea dell’esperimento e dei suoi scopi e si comportano in modo che i risultati siano quelli
che a loro giudizio ci si aspetta.
Il gruppo di controllo. Per evitare l’interferenza dei fattori esterni e dei fattori interni è efficace
l’impiego del gruppo di controllo. Questo è costituito da soggetti il più possibile simili a quelli
sperimentali e tenuti nella stessa situazione, presso i quali però non viene introdotto il cambiamen-
to sperimentale. Differiscono dai soggetti sperimentali perchè nella loro esperienza la variabile indi-
pendente non viene manipolata, ma resta invariata. Nell’esempio del collegio, si possono individuare
due classi che abbiano il maggior numero possibile di caratteristiche in comune (età, sesso, estrazio-
ne socioculturale, livelli di profitto, ecc): ad una si cambia la dieta televisiva (gruppo sperimentale),
all’altra si lascia tale e quale (gruppo di controllo). Se qualche fattore non noto è intervenuto nella
vita del collegio durante l’esperimento, si farà sentire su entrambi i gruppi. In questo modo l’effetto
di interferenza verrà annullato.
L’ ESPERIMENTO
ambiente
1) delimitazione della situazione sperimentale
soggetto gruppo
sperimentale
L’action research (ricerca-azione) è una modalità di ricerca in cui teoria e pratica sono intimamente
collegate; la riflessione e l’analisi vengono subito sviluppate nei loro risvolti applicativi e tradotte in
interventi su realtà sociali come gruppi, comunità, organizzazioni, rapporti tra gruppi, città, e via
dicendo.
L’action research solitamente procede in tre tappe.
1) Prima c’è l’analisi , l’esame della situazione in cui ci si trova a lavorare in gruppo (il gruppo, le
relazioni intergruppo, la comunità, l’organizzazione, ecc.). L’analisi è già orientata, nel senso che il
ricercatore ha in mente un determinato problema, come le tensioni razziali o l’insoddisfazione dei
lavoratori di un’azienda. Inoltre è supportata dalle conoscenze della tradizione e dalle esperienze
precedenti, anche su casi simili o sullo stesso caso.
2) Sulla base dell’analisi della situazione si progetta l’intervento, si decide cioè quali cambiamenti
introdurre e come produrli.
3) Il controllo consiste nel verificare i risultati dell’intervento, andando a vedere se il cambiamento
c’è stato davvero e di quale entità è.
Il processo è circolare, in quanto il controllo fornisce informazioni ulteriori sulla situazione, che
arricchiscono e modificano l’analisi fatta in precedenza; la circolarità fa sì che la teoria e la pratica
dell’action research si modifichino costantemente in corso d’opera. Si tratta di una metodologia di
studio e di intervento estremamente flessibile, in grado di adattarsi costantemente alle esigenze
nuove e alle cose nuove scoperte.
I presupposti dell’action research vanno cercati nel pragmatismo americano, teso a sottolineare il
significato pratico delle teorie. La storia dell’action research come pratica di ricerca inizia negli Stati
Uniti negli anni trenta, in un clima dominato dal pragmatismo deweyano, ad opera di John Collier e
Kurt Lewin. Uno dei campi in cui Lewin si addentrò è quello dei conflitti tra gruppi e delle tensioni
razziali. Si trattava di un problema che sentiva particolarmente, perchè da ebreo emigrato (come gli
altri esponenti della Gestalt) negli Stati Uniti aveva vissuto con partecipazione le vicende dell’asce-
sa del nazismo e le persecuzioni degli ebrei europei. In seguito l’action research si è diffusa nella for-
mazione degli operatori sociali, acquistando un posto di rilievo nella ricerca pedagogica.
Costruzione del piano generale. Si precisa esattamente l’idea generale iniziale, i fattori che si
intende modificare, le relative azioni da intraprendere, le risorse necessarie.
Controllo e valutazione. Tutto ciò confluisce nella documentazione complessiva del caso, fonda-
mentale per effettuare una valutazione dell’intero processo. Come già si è detto, il controllo consiste
nel verificare i risultati dell’intervento, andando a vedere se il cambiamento c’è stato e qual è l’entità
effettiva della ricaduta, in termini cognitivi ed educativi. Chiarita e integrata con i risultati dell’espe-
rienza l’idea generale iniziale, si valuta l’opportunità di riavviare l’intero processo.
Sul piano epistemologico il procedimento dell’action research è stato fatto oggetto di diverse criti-
che:
a) il ricercatore è limitato in quanto ancorato ad un orientamento di azione e intervento ed è troppo
coinvolto.
b) I risultati dell’action research ci danno informazioni sulla validità operativa delle pratiche di inter-
vento dei ricercatori ma dicono molto meno circa la validità delle loro teorie. Può darsi che la modali-
tà di intervento sia efficace - e per questo vale la pena di tenerla in considerazione e attuarla - ma che
la teoria sia sbagliata e costituisca solo la razionalizzazione con cui il ricercatore legittima il suo ope-
rato.
c) Da un punto di vista etico l’impiego dell’action research richiede prudenza. Bisogna fare attenzio-
ne a non condurre interventi sulla realtà sociale allo scopo di capire come stanno le cose. Non si può
correre il rischio di trasformare la vita reale in una sorta di laboratorio. rischio di trasformare la vita
reale in “laboratorio”.
ACTION RESEARCH (RICERCA-AZIONE)
L’action research (ricerca-azione) è una modalità di ricerca in cui teoria e pratica sono intimamente
collegate; la riflessione e l’analisi vengono subito sviluppate nei loro risvolti applicativi e tradotte
in interventi su realtà sociali come gruppi, comunità, organizzazioni, rapporti tra gruppi, ecc.
INTERVENTO
ANALISI
ricognizione
diari / profili delle prestazioni
situazione => osservazione soggettivi cronaca diretta / interviste
descrizione / raccolta dei dati strumenti
oggettivi videoregistrazione
questionari / inventari
brainstorming
analisi critica
promemoria analitici
AZIONE resoconti
limiti b) la validità operativa può non corrispondere alla validità delle teorie
epistemologici
c) rischio di trasformare la vita reale in “laboratorio”
LA RICERCA EDUCATIVA
Molti studi condotti nelle scienze psicologiche e sociali sono di interesse pedagogico. Ad esempio,
gli esperimenti sul gioco e la creatività (Dansky e Silverman), le ricerche sulla curiosità e i comporta-
menti esplorativi, sugli effetti della TV e dei mass media, ecc. Tuttavia il fatto che l’oggetto d’inda-
gine e i risultati siano d’interesse pedagogico non è sufficiente perchè si possa parlare di ricerca edu-
cativa.
Una ricerca educativa è contraddistinta da alcune caratteristiche.
a) Ambito scolastico. Le ricerche educative si svolgono in genere a scuola o nell’istituzione scolasti-
ca. Quando il lavoro è condotto in ambiente extrascolastico (su un quartiere, una città, nelle famiglie,
ecc.), la scuola costituisce un punto di riferimento costante.
b) Interesse per i problemi educativi. Le ricerche educative hanno ha per finalità di fondo sviluppare
conoscenze che possono servire a migliorare l’istruzione, l’educazione e l’attività scolastica.
Ferme restando le caratteristiche ricordate, la ricerca educativa si svolge come qualsiasi altra ricerca:
comincia con una fase ideativa in cui si definisce l’oggetto di indagine e si elabora il disegno di ricer-
ca. Procede poi, a seconda di ciò che si è deciso, o con un’indagine in senso stretto (mediante esa-
me di documenti, osservazioni, interviste, questionari) su un campione o con esperimenti o con un
lavoro di action research. Infine si passa a analizzare i dati raccolti e si traggono le conclusioni.
Ricerca educativa e scolarizzazione di massa. Nel corso del XX secolo si è assistito, nei paesi a
sviluppo avanzato, al diffondersi della ricerca educativa. Il fenomeno è in parte legato all’evoluzione
delle scienze psicologiche e sociali, che sempre più sono entrate nei vari ambiti della vita umana.
Però in parte è da ricondursi alla scolarizzazione di massa, che in USA, Canada, Unione Sovietica e
Giappone si è verificata nella prima metà del secolo e in Europa nella seconda metà.
Propriamente per scolarizzazione di massa si intende la seconda fase dell’esplosione scolastica, il
fenomeno moderno della diffusione della scuola. La prima fase dell’alfabetizzazione è consistita nel-
la lotta all’analfabetismo. Con la scolarizzazione di massa non ci si limita a diffondere l’istruzione di
base, ma larghi strati di popolazione accedono a titoli di studio avanzati. In un primo tempo il siste-
ma scolastico si è trovato a far fronte a una domanda di istruzione senza precedenti, con problemi
strutturali ed organizzativi acuiti dalla sovrapposizione, in Europa, con l’esplosione demografica del
dopoguerra (“baby boom”).
Superato il primo impatto, l’attenzione si è spostata sulla qualità dell’istruzione. Le ricerche sono
andate a vedere che cosa dà la scuola, se raggiunge gli obiettivi che si prefigge, cioè se è efficace, e se
è una macchina che funziona, cioè se è efficiente. Particolare importanza hanno avuto gli studi sulla
dispersione scolastica, cioè sul fenomeno degli abbandoni, delle ripetenze e in generale della sotto-
scolarizzazione o malscolarizzazione, un fenomeno che viene ritenuto espressione di inefficienza
del sistema scolastico..
La scolarizzazione di massa non ha stimolato le ricerche educative solo perchè ha posto problemi
organizzativi e e di qualità. Ha anche rivoluzionato l’assetto della scuola, facendole perdere l’equili-
brio sul quale tradizionalmente si reggeva: nella scuola d’elite, infatti, le fondamentali tensioni sociali
restavano fuori, mentre con la scolarizzazione di massa entrano nell’istituzione scolastica. Concreta-
mente questo significa che nella stessa classe si trovano alunni di provenienza socio-economica di-
versa e di cultura diversa. In piccolo la classe riproduce la struttura sociale con le sue disuguaglianze,
la stratificazione, le categorie e i gruppi etnici e religiosi , a volte in conflitto.
I vincoli della ricerca educativa. Chi fa ricerca educativa in genere non ha la stessa facoltà di
manovra dei ricercatori di altri settori.
Un primo ordine di vincoli viene dalle finalità educative che il lavoro deve avere. Non ci si può
permettere di sperimentare, ad esempio, un metodo didattico senza essere ragionevolmente certi che
porterà vantaggi o per lo meno che non arrecherà danno.
Un altro ordine di vincoli sta nel fatto di trovarsi a lavorare dentro l’istituzione scolastica, cioè in
un ambiente umano già strutturato, con una propria organizzazione, un proprio personale, una pro-
pria cultura, cui il ricercatore deve adeguarsi. Se poi la ricerca è partecipativa, bisogna tener conto
delle esigenze e delle richieste degli operatori coinvolti.
LA RICERCA EDUCATIVA
disegno di ricerca
esame di documenti
osservazione
indagine interviste
questionari
conclusioni
Nel corso del XX secolo si è assistito, nei paesi a sviluppo avanzato, al diffondersi della ricerca educativa.
Il fenomeno è in parte legato all’evoluzione delle scienze psicologiche e sociali, però in parte è da ricondursi
alla scolarizzazione di massa (=> seconda fase dell’esplosione scolastica, il fenomeno moderno della
diffusione della scuola).
La prima fase dell’alfabetizzazione è consistita nella lotta all’analfabetismo; con la scolarizzazione di
massa non ci si limita a diffondere l’istruzione di base, ma larghi strati di popolazione accedono a titoli di
studio avanzati. In un primo tempo il sistema scolastico si è trovato a far fronte a una domanda di
istruzione senza precedenti, con problemi strutturali ed organizzativi acuiti dalla sovrapposizione, in
Europa, con l’esplosione demografica del dopoguerra (“baby boom”).
Superato il primo impatto, l’attenzione si è spostata sulla qualità dell’istruzione. Le ricerche sono andate
a vedere che cosa dà la scuola, se raggiunge gli obiettivi, se è efficace ed efficiente. Particolare importanza
hanno avuto gli studi sulla dispersione scolastica, cioè sul fenomeno degli abbandoni, delle ripetenze e
in generale della sottoscolarizzazione o malscolarizzazione.
La scolarizzazione di massa ha anche rivoluzionato l’assetto della scuola, facendole perdere l’equilibrio
sul quale tradizionalmente si reggeva: nella scuola d’elite, infatti, le fondamentali tensioni sociali restavano
fuori, mentre con la scolarizzazione di massa entrano nell’istituzione scolastica. Concretamente questo
significa che nella stessa classe si trovano alunni di provenienza socio-economica diversa e di cultura
diversa. In piccolo la classe riproduce la struttura sociale con le sue disuguaglianze, la stratificazione, le
categorie e i gruppi etnici e religiosi , a volte in conflitto.
L’ESAME DI DOCUMENTI
L’esame dei documenti è il primo metodo utilizzato in indagini sociologiche empiriche. Durkheim
nel suo lavoro sulle cause sociali del suicidio del 1987 si servì di dati tratti da studi precedenti.
In seguito la ricerca empirica si è spostata sul campo e i ricercatori sempre più sono andati ad os-
servare la gente, a intervistarla e a sottoporla a sondaggi mediante questionari.
Per documento si intende qualsiasi materiale che possa fornire informazioni e che sia stato redat-
to da qualcuno in vista di qualche scopo. Il documento è un tipo particolare di testimonianza, che si
caratterizza perchè non informa occasionalmente, ma è realizzato appositamente per trasmettere e
conservare informazioni su determinati fatti: costituisce una testimonianza intenzionale. Ad esem-
pio, un legno intagliato testimonia il lavoro artigianale di un uomo, però non è un documento, mentre
lo è la lettera in cui quel tale racconta la sua abilità nell’intagliare il legno, o il ritaglio di giornale dove
si parla di una mostra dei suoi lavori. Chi redige un documento non lo fa di regola con lo scopo di in-
formare il ricercatore che lo esaminerà. In questo senso il documento è una testimonianza spontanea
e, per chi indaga, costituisce una fonte naturale, in quanto le informazioni che offre non sono rispo-
ste a sollecitazioni del ricercatore, ma sono lì disponibili.
Gli storici, che fanno largo uso dell’esame dei documenti, distinguono solitamente tra documenti
primari, che forniscono informazioni di prima mano su ciò che interessa, e documenti secondari, in
cui le notizie vengono riferite indirettamente, avendole prese da altri documenti primari.
Ad esempio nella ricostruzione di un attentato sono documenti primari le dichiarazioni dei testimoni
oculari e dell’attentatore, sono documenti secondari le notizie date dai mass media.
Nelle scienze sociali i documenti vengono classificati a seconda dello scopo e della modalità di reda-
zione. In linea di massima se ne incontrano quattro tipi.
Personali. Lettere, diari, foto, filmati e in genere ogni documentazione realizzata per uso privato.
Pubblici. Comprendono ad esempio i registri, le pagelle e le altre scritture scolastiche, gli schedari
degli uffici, le sentenze dei tribunali, le leggi, ecc.
Statistici. In genere si tratta di pubblicazioni curate da istituti specializzati nel rilevamento e l’ela-
borazione di dati o da organi ufficiali, statali (ad es. l’ISTAT, Istituto nazionale di statistica), o di
organismi sovranazionali.
Scientifici. Una importante fonte di documenti è costituita dsalle ricerche precedenti condotte sul-
l’argomento che si sta studiando o su argomenti attinenti. A tal fine sono preziosi gli archivi centra-
lizzati dove affluiscono sistematicamente dati di ricerche.
Vantaggi e svantaggi. Uno dei principali vantaggi dell’esame dei documenti sta nella praticità.
Il ricercatore non deve andare sul campo a produrre i dati della ricerca, osservando o interpellando
la gente, ma li trova belli e pronti. Il lavoro risulta particolarmente agevole quando i documenti sono
di facile accesso e già raccolti in archivi e pubblicazioni.
Altro fondamentale vantaggio dell’esame dei documenti è l’ampliamento del raggio di conoscen-
ze. A molte informazioni, sopratutto se relative a vicende passate, non si può accedere andando a
interpellare le persone, ma solo attraverso i documenti. In molti casi poi gli interessati sono poco
disposti a collaborare.
Servirsi di documenti è vantaggioso anche perchè si lavora con una fonte naturale. Siccome chi l’ha
redatta non pensava allo storico o al sociologo, il documento non è viziato da dissimulazione, dal
tentativo di ingannare il ricercatore. Può esserci distorsione dei fatti, ma per altri fini.
Uno degli svantaggi più importanti del lavoro con i documenti è legato al problema della sopravvi-
venza selettiva. Il materiale documentario disponibile non riproduce fedelmente la società o la vita
sociale di un gruppo. Di solito tende a rappresentare maggiormente le fasce più in vista e di vertice e
a lasciare in ombra la base o la gente qualunque. In parte il fenomeno è dovuto al fatto che le attività
ufficiali e delle persone illustri vengono documentate di più. La sopravvivenza selettiva produce
un’immagine deformata della società, in cui i vertici sono sovrarappresentati rispetto alla base. Uno
dei motivi per cui in passato gli storici hanno finito per narrare una historia rerum gestarum, fatta
di grandi imprese e di potenti, è che erano attaccati ai documenti, più che altro per esigenze di rigore.
Con l’avvento della nuova storia e con la crescente tendenza a raccontare le vicende della base, si è
rivendicato il valore delle testimonianze non documentarie, proprio per poter accedere al mondo del-
le classi subalterne, sulle quali scarseggiavano i documenti.
La differenza di rappresentazione tra base e vertici prodotta dalla sopravvivenza selettiva non è
solo quantitativa, ma anche qualitativa. Delle persone importanti i documenti dicono di più di aspet-
ti positivi della vita (svaghi, opere realizzate, sentimenti). Quando si parla della gente comune più
spesso è per faccende di cronaca nera o criminalità o povertà. Nel complesso l’immagine della base è
più negativa di quella del vertice.
Di fronte ai documenti, specie quelli personali, il ricercatore incontra spesso difficoltà di com-
prensione. Si tratta di materiale informativo costruito per persone che condividevano le conoscenze
di un certo contesto, c’è un entroterra di sapere che viene dato per scontato, presupposizioni ovvie
per i destinatari ma ignote al ricercatore.
Esame qualitativo e quantitativo Sui documenti si può lavorare sia in maniera qualitativa, sia con
tecniche quantitative. Attraverso l’esame qualitativo si ricavano solitamente racconti di vicende o
descrizioni di situazioni, azioni, modi di fare e di intendere le cose. Viene applicato soprattutto ai
documenti personali, dove possone essere rintracciati strutture e modelli caratteristici.
Quando un documento viene esaminato con un approccio quantitativo, per ricavarne misure e dati
numerici, si fa uso di regola dell’analisi del contenuto. Nei procedimenti di analisi del contenuto il
primo passo è la campionatura, la costruzione di un campione del materiale documentario che si in-
tende analizzare. Ad es., se ci interessano i cartoni animati per ragazzi in TV, con opportuni criteri
estrarremo un numero limitato di filmati che rappresentano bene questo genere di trasmissioni.
Il momento decisivo è la scelta del sistema di codifica. Il ricercatore deve stabilire i criteri di estra-
zione dei contenuti, cioè che cosa considerare elementi da conteggiare o trascurare.
L’analisi del contenuto opera sempre una selezione, che dipende dagli scopi della ricerca.
Per definire il sistema di codifica vanno precisate tre cose: a) l’unità di analisi, l’elemento di base
da prendere in considerazione, b) l’unità di contesto, l’ambito di collocazione, e c) le categorie, il
modo in cui intendiamo classificare ciò che rintracciamo. Ad esempio si potranno prendere in consi-
derazione gli argomenti trattati negli articoli (a) che compaiono sui quotidiani (b), catalogati in varie
categorie (c) (editoriale, interni, estero, affari e finanza, sport, società, arte e spettacoli, ecc.).
Il sistema di codifica comprende anche le modalità di quantificazione. Occorre stabilire come con-
teggiare i contenuti rintracciati nei documenti. Di solito si riportano le frequenze con cui figurano nel
campione i contenuti delle diverse categorie scelte.
L’analisi del contenuto è un procedimento rigoroso, però ha un vizio di fondo: parte dal presuppo-
sto che la comprensione dei testi si spieghi col modello dell’estrazione. I documenti sarebbero come
serbatoi di contenuti che contengono, già fatti, i significati da estrarre. Le ricerche di psicologia della
comprensione, nella lettura, nell’ascolto dei messaggi sonori, hanno dimostrato che è più risponden-
te al vero il modello interattivo. I contenuti non esistono già nel documento, ma è il ricercatore che
nel momento della consultazione, rispondendo allo stimolo offerto dal materiale e mettendo in gioco
il suo sapere pregresso, elabora i significati e in un certo senso crea i contenuti.
ESAME DI DOCUMENTI
DOCUMENTO
materiale che possa fornire informazioni e che sia
stato redatto da qualcuno in vista di qualche scopo
personale
primario pubblico secondario
statistico
informazioni scientifico notizie
di prima mano indirette
vantaggi: svantaggi:
ESAME
qualitativo quantitativo
documenti =
modello interattivo modello dell’ estrazione “serbatoi di
contenuti”
ermeneutica oggettività
psicologia della
comprensione analisi del contenuto
a) campionatura
3. il punto di vista i fatti sono carichi di teoria / una pluralità di teorie scientifiche
del ricercatore il punto di vista del ricercatore nelle scienze sociali
6. il disegno di ricerca le scelte del disegno di ricerca: problemi e criteri da tenere presenti.
14. l’esame dei documenti primari e secondari, personali, pubblici, statistici, scientifici
documenti vantaggi e svantaggi / esame qualitativo e quantitativo
16. la ricerca educativa ricerca educativa e scolarizzazione di massa / vincoli della r. educativa
METODOLOGIA DELLA RICERCA SOCIO-PSICOPEDAGOGICA
13. ‘action research’ l’ interdipendenza tra teoria e pratica / il processo circolare dinamico
Al termine del percorso liceale lo studente si orienta con i linguaggi propri delle scienze umane
nelle molteplici dimensioni attraverso le quali l’uomo si costituisce in quanto persona e come
soggetto di reciprocità e di relazioni: l’esperienza di sé e dell’altro, le relazioni interpersonali, le
relazioni educative,le forme di vita sociale e di cura per il bene comune, le forme istituzionali in
ambito socio-educativo, le relazioni con il mondo delle idealità e dei valori. L’insegnamento
pluridisciplinare delle scienze umane, da prevedere in stretto contatto con la filosofia, la storia, la
letteratura, mette lo studente in grado di:
1) padroneggiare le principali tipologie educative, relazionali e sociali proprie della cultura
occidentale e il ruolo da esse svolto nella costruzione della civiltà europea;
2) acquisire le competenze necessarie per comprendere le dinamiche proprie della realtà sociale,
con particolare attenzione ai fenomeni educativi e ai processi formativi formali e non, ai servizi alla
persona, al mondo del lavoro, ai fenomeni interculturali e ai contesti della convivenza e della
costruzione della cittadinanza;
3) sviluppare una adeguata consapevolezza culturale rispetto alle dinamiche degli affetti.
Antropologia
Pedagogia
PRIMO BIENNIO
Lo studente comprende, in correlazione con lo studio della storia, lo stretto rapporto tra
l’evoluzione delle forme storiche della civiltà e i modelli educativi, familiari, scolastici e sociali,
messi in atto tra l’età antica e il Medioevo. Scopo dell’insegnamento è soprattutto quello di
rappresentare i luoghi e le relazioni attraverso le quali nelle età antiche si è compiuto l’evento
educativo.
In particolare saranno affrontati i seguenti contenuti:
a) il sorgere delle civiltà della scrittura e l’educazione nelle società del mondo antico (Egitto,
Grecia, Israele);
b) la paideia greco-ellenistica contestualizzata nella vita sociale, politica e militare del tempo con la
presentazione delle relative tipologie delle pratiche educative e organizzative;
c) l’humanitas romana, il ruolo educativo della famiglia, le scuole a Roma, la formazione
dell’oratore;
d) l’educazione cristiana dei primi secoli;
e) l’educazione e la vita monastica ;
f) l’educazione aristocratica e cavalleresca .
La presentazione delle varie tematiche sarà principalmente svolta attraverso l’analisi di documenti,
testimonianze e opere relative a ciascun periodo, con particolare riferimento ai poemi omerici e alla
Bibbia, a Platone, Isocrate, Aristotele, Cicerone, Quintiliano, Seneca, Agostino, Benedetto da
Norcia.
SECONDO BIENNIO
A partire dai grandi movimenti da cui prende origine la civiltà europea – la civiltà monastica, gli
ordini religiosi, le città e la civiltà comunale – lo studente accosta in modo più puntuale il sapere
pedagogico come sapere specifico dell’educazione, comprende le ragioni del manifestarsi dopo il
XV-XVI secolo di diversi modelli educativi e dei loro rapporti con la politica, la vita economica e
quella religiosa, del rafforzarsi del diritto all’educazione anche da parte dei ceti popolari, della
graduale scoperta della specificità dell’età infantile ed infine del consolidarsi tra Sette e Ottocento
della scolarizzazione come aspetto specifico della modernità.
In particolare verranno affrontati i seguenti contenuti:
a) la rinascita intorno al Mille: gli ordini religiosi, la civiltà comunale, le corporazioni, la cultura
teologica;
b) la nascita dell’Università;
c) l’ideale educativo umanistico e il sorgere del modello scolastico collegiale;
d) l’educazione nell’epoca della Controriforma;
e) l’educazione dell’uomo borghese e la nascita della scuola popolare;
f) l’Illuminismo e il diritto all’istruzione;
g) la valorizzazione dell’infanzia in quanto età specifica dell’uomo;
h) educazione, pedagogia e scuola nel primo Ottocento italiano;
i) pedagogia, scuola e società nel positivismo europeo ed italiano.
La presentazione delle varie tematiche sarà principalmente svolta attraverso l’analisi di documenti,
testimonianze e opere relative a ciascun periodo, con particolare riferimento a Tommaso d’Aquino,
Erasmo, Vittorino da Feltre, Silvio Antoniano, Calasanzio, Comenio, Locke, Rousseau, Pestalozzi,
Fröbel, Aporti, Rosmini, Durkheim, Gabelli.
QUINTO ANNO
A partire dalla lettura delle riflessioni e proposte di autori particolarmente significativi del
novecento pedagogico lo studente accosta la cultura pedagogica moderna in stretta connessione con
le altre scienze umane per riconoscere in un’ottica multidisciplinare i principali temi del confronto
educativo contemporaneo. Sono punti di riferimento essenziali: Claparède, Dewey, Gentile,
Montessori, Freinet, Maritain; è prevista la lettura di almeno un’opera in forma integrale di uno di
questi autori.
Inoltre durante il quinto anno sono presi in esame i seguenti temi:
a) le connessioni tra il sistema scolastico italiano e le politiche dell’istruzione a livello europeo
(compresa la prospettiva della formazione continua) con una ricognizione dei più importanti
documenti internazionali sull’educazione e la formazione e sui diritti dei minori;
b) la questione della formazione alla cittadinanza e dell’educazione ai diritti umani;
c) l’educazione e la formazione in età adulta e i servizi di cura alla persona;
d) i media, le tecnologie e l’educazione;
e) l’educazione in prospettiva multiculturale;
f) l’integrazione dei disabili e la didattica inclusiva.
Scegliendo fra questi temi gli studenti compiono una semplice ricerca empirica utilizzando gli
strumenti principali della metodologia della ricerca anche in prospettiva multidisciplinare con
psicologia, antropologia e sociologia.
Psicologia
PRIMO BIENNIO
Lo studente comprende la specificità della psicologia come disciplina scientifica e conosce gli
aspetti principali del funzionamento mentale, sia nelle sue caratteristiche di base, sia nelle sue
dimensioni evolutive e sociali. Lo studente coglie la differenza tra la psicologia scientifica e quella
del senso comune, sottolineando le esigenze di verificabilità empirica e di sistematicità teorica cui
la prima cerca di adeguarsi.
In particolare durante il primo biennio si prenderanno in esame:
a) i diversi aspetti della relazione educativa dal punto di vista teorico (almeno le teorie di
derivazione psicoanalitica, umanistica e sistemica), con gli aspetti correlati (comunicazione verbale
e non verbale, ruoli e funzioni di insegnanti e allievi, emozioni e sentimenti e relazione educativa,
immagini reciproche, contesti educativi e relazione insegnante-allievo);
b) concetti e teorie relative all’apprendimento (comportamentismo, cognitivismo, costruttivismo,
socio-costruttivismo, intelligenza, linguaggio e differenze individuali e apprendimento, stili di
pensiero e apprendimento, motivazione e apprendimento);
c) un modulo particolare andrà dedicato al tema del metodo di studio, sia dal punto di vista teorico
(metacognizione: strategie di studio, immagine e convinzioni riguardo alle discipline, immagine di
sé e metodo di studio, emozioni e metodo di studio, ambienti di apprendimento e metodo di studio)
che dal punto di vista dell’esperienza dello studente.
SECONDO BIENNIO
Sono affrontati in maniera più sistematica:
a) i principali metodi di indagine della psicologia, i tipi di dati (osservativi, introspettivi ecc),
insieme alle relative procedure di acquisizione (test, intervista, colloquio ecc.);
b) le principali teorie sullo sviluppo cognitivo, emotivo e sociale lungo l’intero arco della vita e
inserito nei contesti relazionali in cui il soggetto nasce e cresce (famiglia, gruppi, comunità sociale).
Vengono anche presentate alcune ricerche classiche e compiute esercitazioni pratiche per
esemplificare, attraverso una didattica attiva, nozioni e concetti. A tal fine è prevista la lettura di
testi originali, anche antologizzati, di autori significativi quali Allport, Bruner, Erickson, Freud,
Lewin, Piaget e Vygotskij.
Sociologia
SECONDO BIENNIO
In correlazione con gli studi storici e le altre scienze umane lo studente affronta i seguenti
contenuti:
a) il contesto storico-culturale nel quale nasce la sociologia: la rivoluzione industriale e quella
scientifico-tecnologica;
b) le diverse teorie sociologiche e i diversi modi di intendere individuo e società ad esse sottesi.
Teorie e temi possono essere illustrati attraverso la lettura di pagine significative tratte dalle opere
dei principali classici della sociologia quali Compte, Marx, Durkheim, Weber, Pareto, Parsons.
E’ prevista la lettura di un classico del pensiero sociologico eventualmente anche in forma
antologizzata.
QUINTO ANNO
Durante il quinto anno sono affrontati in maniera sistematica:
a) alcuni problemi/concetti fondamentali della sociologia: l’istituzione, la socializzazione, la
devianza, la mobilità sociale, la comunicazione e i mezzi di comunicazione di massa, la
secolarizzazione, la critica della società di massa, la società totalitaria, la società democratica, i
processi di globalizzazione;
b) il contesto socio-culturale in cui nasce e si sviluppa il modello occidentale di welfare state;
c) gli elementi essenziali dell’indagine sociologica "sul campo", con particolare riferimento
all’applicazione della sociologia all'ambito delle politiche di cura e di servizio alla persona: le
politiche della salute, quelle per la famiglia e l’istruzione nonché l'attenzione ai disabili
specialmente in ambito scolastico.
Per ciascuno di questi temi è prevista la lettura di pagine significative tratte da autori classici e
contemporanei.