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SCIENZE UMANE

TEMI E PROBLEMI DI
SCIENZE UMANE

VOLUME terzo

1. Autori, temi e problemi della pedagogia contemporanea


2. Sociologia: disuguaglianze, differenze di genere, globalizzazione
3. Antropologia: arte e arti, economia e lavoro, la politica
Scienze umane Indice

Storia della pedagogia

La seconda metà del XIX secolo: il positivismo pedagogico 1


Dalla pedagogia positivistica alla pedagogia sperimentale 2
Le Scuole nuove 3
John Dewey 5
L’Attivismo americano: Helen Parkhurst e il Dalton plan 7
Carleton Washburne e le Winnetka schools 7
L’Attivismo europeo: Ovide Decroly 9
Maria Montessori 11
Célestin Freinet 14
Il movimento di cooperazione educativa in Italia: Bruno Ciari e Mario Lodi 15
La psicopedagogia europea: la scuola di Ginevra: E. Claparede 16
Jean Piaget: la concezione pedagogica 17
Psicoanalisi ed educazione: Sigmund Freud, Anna Freud e l’educazione affettiva 18
Alexander Neill: l’educazione non-direttiva e l’esperienza di “Summerhill” 20
Emile Durkheim: la sociologia e l’educazione 21
Jacques Maritain: l’educazione della persona 22
Walter Benjamin: le ragioni dell’infanzia 23
Jerome Bruner e lo strutturalismo educativo 27
Carl Rogers: l’educazione non direttiva e l’insegnante facilitatore 30
Tecnologie educative, scolarizzazione di massa, critica della scuola 31
Lorenzo Milani: l’esperienza di Barbiana 31
Ivan Illich: la “descolarizzazione” 33
Paulo Freire: la pedagogia degli oppressi 34
mappe concettuali 35-52

Temi e problemi di pedagogia


La scienza e le scienze dell’educazione 55
- Aldo Visalberghi: conoscere per educare 56
- L’analisi del linguaggio pedagogico; fallibilità e politicità dell’educazione 57
- Distopie 58
Programmazione e teoria del curricolo 59
- dal programma alla progettazione 59
- la programmazione per obiettivi 60
Le condizioni di organizzazione del lavoro scolastico 64
- elasticità, dinamicità, funzionalità; l’individualizzazione e il gruppo in educazione 64
- L’educazione aperta; gli spazi 65
- I tempi; il mastery learning 66
mappe concettuali 67-70
La professione insegnante 71
- i compiti del docente e la loro evoluzione nel quadro sociale 71
- gli stili di insegnamento 72
- le funzioni dell’insegnante: Gilbert De Landsheere 73
- Aspettative verso gli insegnanti e apprendimento degli alunni: Roy Nash 74
mappe concettuali 75-78
Il riconoscimento dei diritti dei bambini 79
Differenze, disabilità ed educazione inclusiva 83
- menomazione, disabilità ed handicap 83
- inserimento, integrazione, inclusione 85
Multiculturalismo ed Educazione interculturale 89
- esperienze di pedagogia interculturale nella pratica scolastica 91
L’educazione degli adulti 92
- educazione permanente e lifelong learning 93
- Malcom Knowles: l’andragogia 94
mappe concettuali 95-97
La persuasione attraverso i media 99
La società della comunicazione 101
- I Mass media 101
- le ricerche empiriche
Mass-media, nuovi media ed educazione 105
- scopi e interpretazioni della comunicazione di massa; mass media e new media 105
- i linguaggi dei media: cinema e informazione televisiva 106
- i computer e le reti in educazione 106
- i videogiochi; il libro a scuola: la letteratura per l’infanzia e il fumetto 108
- la fruizione della TV nell’età evolutiva 109
- la pubblicità e la sua analisi 111
- i media e la scuola 112
- intelligenze digitali 113
- nuove tecnologie e funzione dell’insegnante e della scuola 114
mappe concettuali 115-120

Sociologia
1. Disuguaglianze razziali ed etniche
I concetti di razza ed etnia 123
Le minoranze 124
I modelli dei rapporti razziali ed etnici 125
Il razzismo 126
Pregiudizio e discriminazioni 128
Mappe concettuali 129

2. Le differenze di genere
Genere e società: differenze tra i sessi 131
Adozione di ruoli sessuali differenziati nelle varie società 133
Il maschilismo 134
Il femminismo e gli studi di genere 135
La socializzazione ai ruoli sessuali 136
Il costo del maschilismo e il futuro dei ruoli sessuali 137
Mappe concettuali 139

3. La globalizzazione
La globalizzazione economica e culturale 141
Le teorie sociologiche della globalizzazione 145
Gli aspetti contrapposti della globalizzazione 148
Mappe concettuali 149-153
Antropologia

1. Arte e arti
Che cosa significa arte? 157
Arte rituale e arte utile 158
Il gusto artistico 159
Il peso dell’arte 159
Viaggi musicali 160
I musei etnografici 161
Arte per turisti 162
Mappe concettuali 164

2. Economia e lavoro
Raccolta, caccia e pesca Pastorizia nomade 167
Orticoltura Agricoltura e allevamento 168
Allevamento degli animali, culture agro-pastorali e pastoralismo nomade 169
L’invenzione dei mestieri Scambi e commerci 170
L’era industriale 171
Le Corporations e le multinazionali 172
Le trasformazioni dell’economia contemporanea 172
Nuove concezioni economiche 174
Mappe concettuali 175-180

3. La politica
Il potere – L’autorità 181
La politica: la prospettiva antropologica 182
Le bande – La tribù 183
I Capi 184
La socializzazione politica 185
Lo Stato 186
Tipologia dei regimi politici 187
Il regime democratico 187
Il regime totalitario 188
Il regime autoritario 188
Il populismo 189
Mappe concettuali 190-194

Scienze umane: linee generali e competenze 195


STORIA DELLA
PEDAGOGIA
La seconda metà del XIX secolo: il positivismo

Nella seconda metà dell’Ottocento la cultura europea viene quasi del tutto dominata dal movimen-
to del positivismo, che informa di sé atteggiamenti mentali, credenze varie, pratiche educative e co-
stumi sociali, produzioni artistiche e letterarie, concezioni della vita e dottrine pedagogiche determi-
nate. Si vuole qui ricordare soprattutto la fede dei positivisti nel processo di industrializzazione, che
avrebbe portato a liberare sempre più l’uomo dai bisogni concreti, con l’ampliarsi e la varietà dei
prodotti forniti, la fede nella scienza pura e nella scienza applicata, che davano origine a nuove te-
cnologie e a scoperte sorprendenti, la fiducia nel progresso. A fondamento e garanzia di tutto stava
la fede nel metodo scientifico.
Il primo impulso al positivismo fu dato, già nella prima parte del secolo, da Auguste Comte
(1798-1857), secondo il quale l’educazione positiva deve mirare a favorire la solidarietà tra gli esseri
umani: un’educazione scientifica, che dovrebbe servire a formare al raziocinio e alla comprensione
delle problematiche della nuova civiltà tecnico-industriale .
Il positivismo si sviluppò in Inghilterra, dove assunse caratteristiche specifiche, e i suoi maggiori
rappresentanti furono John Stuart Mill (1806-1873) e Herbert Spencer (1820-1903). Il positi-
vismo inglese fu molto influenzato dalle teorie evoluzionistiche di Charles Darwin (1809-1882),
secondo il quale non solo l’uomo deriva dai primati del modo animale secondo una linea continua,
ma anche sono sopravissute tutte quelle specie di esseri viventi che nel corso della storia del mondo
hanno sviluppato modificazioni genetiche tali da favorire il loro adattamento all’ambiente, mentre le
altre sono dovute scomparire sulla base di un meccanismo di selezione naturale.
Edouard Séguin (1812-1880) è, con Trattamento morale, igienico ed educazione degli idioti e di
altri fanciulli ritardati (1846), il più importante studioso della Francia positivista per quanto con-
cerne la rieducazione dei subnormali, opera per la quale trasse ispirazione anche dai lavori del suo
predecessore Itard, autore di un importante scritto sull’educazione di un “ragazzo selvaggio” trova-
to nel secolo precedente nella regione dell’Aveyron. Secondo Séguin, l’attività corporea non è scindi-
bile da quella psichica e da quella sociale, pertanto l’educazione dei portatori di handicap deve pas-
sare attraverso i sensi e il movimento. L’educazione sensoriale è perciò il primo passo di un’educa-
zione integrale: occorre partire dai sensi per poi approdare al corpo, al movimento, all’educazione
intellettuale e a quella della volontà. L’ambiente è fondamentale: i contesti di assistenza devono
essere ser ni e stimolanti.
Herbert Spencer scrisse nel 1861 L’educazione intellettuale, morale e fisica. Vi si criticava l’edu-
cazione tradizionale, libresca, astratta e decorativa, e si sosteneva invece la necessità di reimpostare
i curricoli e i programmi su base più moderna. Le prime nozioni da insegnare a tutti dovevano essere
quelle di più immediata utilità, che preparassero per la vita concreta: anzitutto la fisiologia, l’igiene e
l’educazione fisica (che servono alla conservazione della specie), poi le discipline scientifiche, la bio-
logia, la matematica, la chimica e la geologia (che servono per svolgere la propria professione e per
consentire lo sviluppo delle attività industrali). Infine devono venire insegnate quelle conoscenze
utili ai genitori nell’allevamento dei figli, quali i principi dell’alimentazione e dell’educazione del
corpo, i vari saperi relativi all’educazione morale e intellettuale dei bambini, gli elementi essenziali
della psicologia, e così via. Solo dopo l’acquisizione di competenze siffatte si possono insegnare le
discipline che servono nel tempo libero, cioé quelle che vengono normalmente trasmesse nelle scuo-
le. Alla base di tale scelta viè l’idea che il bambino, nel suo sviluppo, deve ripercorrere in breve lo
sviluppo dell’umanità (secondo la legge biogenetica formulata da Haeckel).
Il bambino, che viene visto simile ad un uomo primitivo, deve, da una parte, essere lasciato libero
di esprimersi secondo natura e di far emergere i propri bisogni; deve essere aiutato, dall’altra, a ren-
dersi abile nelle diverse tecniche di adattamento all’ambiente. L’educazione formale invece non ha
mai tenuto conto del fatto che il processo della conoscenza nell’uomo procede dal semplice al com-
plesso, dall’indefinito al definito, dal concreto all’astratto, dall’empirico al razionale.

Dalla pedagogia positivistica alla pedagogia sperimentale

Fra le direzioni prese dal positivismo pedagogico, una posizione di grande rilievo è occupata dalla
prospettiva evoluzionistica aperta da Darwin e portata alle sue conseguenze ultime da Spencer.
L’argomentazione sviluppata da Spencer può essere ricondotta alla seguente: dopo che Darwin ha
scoperto la “legge scientifica” che sottosta al divenire del mondo biologico, indicandola nell’evolu-
zione, alla pedagogia resta il compito di trasferire, per via analogica, tale legge a criterio di spiegazio-
ne del processo di sviluppo psichico e di dedurre da simile criterio la legge stessa dell’educazione.
Posto che i vari ordini della realtà (biologica, psichica, sociologica, etica, ecc.) rientrano entro lo stes-
so ordine della natura, la pedagogia deve prendere atto di due dati fondamentali, e precisamente: co-
me nel mondo biologico si assiste alla presenza di bisogni che spiegano l’attività di tutti gli esseri
viventi, così nel mondo psicologico si dovrà assistere alla presenza di interessi, come manifestazioni
esterne di quegli stessi bisogni. Si tratterà poi di individuare le progressive espressioni culturali di
soddisfazione di quei bisogni lungo il corso dell’evoluzione (filogenesi) per poter disporre dei gradi
di sviluppo, psicologico e culturale, che l’educazione è chiamata a seguire nel corso del processo di
formazione dell’individuo (ontogenesi).
Per questa via il quadro “scientifico” dell’educazione raggiunge la propria completezza perchè, dal
punto di vista dell’apprendimento (del soggetto che deve apprendere) si dispone della conoscenza
dei ritmi di sviluppo mentale e dell’evoluzione degli interessi-bisogni dell’alunno, mentre dal punto
di vista dell’insegnamento (dell’oggetto che deve essere appreso), si dispone di un ordine cronologi-
co e gerarchico delle materie, ordine che è quello stesso elaborato dall’umanità nella sua evoluzione
culturale e sociale. L’evoluzione bio-psichica svela le leggi di sviluppo; l’evoluzione culturale l’ordi-
ne gerarchico delle acquisizioni culturali: alla pedagogia spetta il compito di precisare le forme delle
loro correlazioni metodologiche e didattiche.
Sarà Stanley Hall (1844 - 1924), assertore della teoria della ricapitolazione (l’uomo ricapitola
nell’arco della sua vita le fasi di sviluppo attraversate dall’umanità, tendenti ad una sempre maggiore
razionalità) a porre le basi di un orientamento di ricerca che darà vita alla psicologia sperimentale ad
orientamento pedagogico e, quindi, alla psicopedagogia. Stanley Hall procede per via induttiva, con
l’osservazione del bambino in laboratorio, nell’intento di sostituire alla pedagogia tradizionale, fon-
data sulla filosofia e sull’etica, una pedagogia esclusivamente costruita sulla conoscenza scientifica
dell’infanzia e della fanciullezza, condotta con rigore di metodo, controllata sperimentalmente.
E. Meumann definisce ‘pedologia’ tale nuova scienza che sostituisce la pedagogia filosofica del
passato, ma, come dirà nel 1910 Binet: “La pedologia ha l’aspetto di una macchina di precisione,
d’una locomotiva misteriosa, scintillante e complessa, ma i pezzi non sembra combacino bene e la
macchina ha un difetto: non cammina”.
Già Dewey nel 1896 (allievo di S. Hall e fondatore, sempre nel 1896, di una “scuola-laboratorio”
elementare annessa all’Università di Chicago), e successivamente Buyse, collaboratore di Decroly,
fanno osservare che il soggetto da studiare, secondo l’ottica di interesse pedagogico, deve essere lo
scolaro, cioé il soggetto colto in una concreta situazione di apprendimento: è l’avvio della pedago-
gia sperimentale, che porta la sperimentazione nella scuola comune, per controllare la validità e
l’efficacia delle procedure che impiega, e che coincide, almeno in parte, con il fenomeno delle “Scuo-
le Nuove”, definite da Ferrière come “laboratori di pedagogia pratica”.
LA PEDAGOGIA POSITIVISTICA

Auguste Comte (1798 - 1857) educazione positiva > favorire la solidarietà tra gli esseri umani
educazione scientifica > nuova civiltà tecnico-industriale

Charles Darwin (1809 - 1882) evoluzione della specie sviluppo di modificazioni genetiche
che favoriscono l’adattamento all’ambiente

Edouard Séguin (1812 - 1880) rieducazione dei subnormali (Itard)


Trattamento morale, igienico ed educazione degli idioti e di altri fanciulli ritardati (1846)

attività corporea / psichica / sociale


educazione dei disabilii educazione sensoriale > educazione integrale
sensi > corpo> movimento> educazione intellettuale> volontà.
importanza dell’ambiente: contesti di assistenza sereni e stimolanti

Herbert Spencer (1820 - 1903) L’educazione intellettuale, morale e fisica (1861)

“ciò che è a priori per l’individuo è a posteriori per la specie” (filogenesi / ontogenesi)
il bambino, nel suo sviluppo, deve ripercorrere in breve lo sviluppo dell’umanità
(legge biogenetica di Haeckel)

bambino => uomo primitivo libero di esprimersi secondo natura e di far emergere i propri bisogni
aiutato a rendersi abile nelle diverse tecniche di adattamento all’ambiente

funzionalismo espansione dell’ energia vitale


utilitarismo principio dell’interesse

processo della conoscenza nell’uomo semplice complesso


indefinito definito
concreto astratto
empirico razionale

critica dell’educazione formale tradizionale > libresca, astratta, repressiva, decorativa

reimpostazione dei curricoli e dei programmi (su base più moderna e scientifica)

1. nozioni da insegnare a tutti > fisiologia igiene educazione fisica (gioco)


immediata utilità vita concreta: (conservazione della specie)
2. discipline scientifiche > biologia matematica chimica geologia
( formazione professionale e attività industrali).
3. discipline utili ai genitori > principi dell’alimentazione e dell’educazione del corpo
nell’allevamento dei figli
4. vari saperi relativi all’educazione > puericultura, fisiologia, psicologia
morale e intellettuale dei bambini
5. discipline che servono nel tempo libero > materie umanistiche
Dalla pedagogia positivistica alla pedagogia sperimentale

bisogni interessi
naturali mentali
(biologia) (psicologia)

individuazione gradi di sviluppo


progressive esperienze psicologico-culturale
culturali di soddisfazione dell’individuo
dei bisogni

corso dell’evoluzione processo di formazione


FILOGENESI ONTOGENESI

evoluzione culturale evoluzione bio-psichica


ordine gerarchico delle
acquisizioni culturali leggi di sviluppo

PEDAGOGIA
correlazioni metodologico-didattiche

contenuti apprendimento
(oggetto) (soggetto)
ordine cronologico e ritmi di sviluppo mentale
gerarchico delle materie evoluz. interessi-bisogni

Stanley Hall (1844 - 1924) teoria della ricapitolazione (=> legge biogenetica)

psicologia sperimentale ad orientamento pedagogico psicopedagogia

sapere induttivo
osservazione del bambino in laboratorio
controllo sperimentale

E. Meumann ‘pedologia’

J. Dewey 1896 “scuola-laboratorio” elementare annessa all’Università di Chicago


scolaro colto in concreta situazione di apprendimento

pedagogia sperimentale

R. Buyse sperimentazione nella scuola comune

SCUOLE NUOVE “laboratori di pedagogia pratica”.


LE SCUOLE NUOVE

L’espressione “scuola attiva” è del pedagogista svizzero Ferrière. Col termine “attiva” Ferrière in-
dicava una scuola che assumesse al centro del proprio metodo educativo “l’attività spontanea, per-
sonale, produttiva” del fanciullo. Oggi però si parla comunemente di scuola attiva per fare riferimen-
to ad un arco di esperienze pedagogiche che comprendono Dewey e tutta la sua scuola, Decroly,
Claparède, Montessori, ecc., un vero e proprio continente intellettuale che ha condotto la problema-
tica della scuola nuova ed i suoi obiettivi molto al di là dei limiti (scientifici, ideologici e sociali) che
il movimento delle scuole nuove in Svizzera aveva alle origini, nei primi decenni del secolo. La scuo-
la svizzera ha teorizzato il rovesciamento del tradizionale processo di educazione. Non più una con-
cezione rigida delle materie da insegnare con programmi prefissati contenuti negli appositi libri di
testo. Il maestro non è il protagonista dell’attività scolastica, colui che svolge il programma, control-
la il profitto e tiene la disciplina. Il maestro è un animatore della vita scolastica che favorisce la ricer-
ca, individua gli interessi, suggerisce gli strumenti didattici che possano ampliare e organizzare me-
glio la conoscenza. Ma il punto di partenza deve sempre essere l’esperienza sensibile e diretta. Il
lavoro manuale viene introdotto nella scuola come strumento educativo, dato che solo certe destrez-
ze del corpo sono in grado di sviluppare alcune qualità del carattere e dell’intelligenza. Intorno a
questa rivoluzione didattica sorgono nei primi quindici anni del novecento una serie di iniziative.
Nel 1899 Adolphe Ferrière (1879-1960) fonda a Ginevra l’Ufficio internazionale delle Scuole Nuo-
ve. Nel 1902 si apre in Svizzera la prima scuola nuova.Nel 1912 viene fissato il programma minimo
pechè un istituto possa dirsi “scuola nuova”. Deve essere un internato familiare in campagna, dove
l’esperienza del fanciullo sia alla base dell’educazione intellettuale e dell’educazione morale. Sempre
nel 1912 Claparède, Bovet e Ferrière fondano l’Istituto superiore di scienze dell’educazione J.-J.
Rousseau, cui Piaget darà fama internazionale.

Precursore del movimento delle scuole nuove è il grande scrittore russo Lev Tolstoj. Nato nel 1828
a Jasnaia Poljana da una famiglia aristocratica di possidenti terrieri e vissuto fino al 1910, Tolstoj af-
fianca al suo lavoro artistico, fin dalla giovinezza, un impegno politico e sociale che lo spinge a cer-
care di migliorare il tenore di vita dei contadini della tenuta paterna secondo i principi della pedago-
gia rousseauiana. Nel 1859 questo produce la fondazione a Jasnaja Poljana di una scuola sperimenta-
le per i figli dei contadini. Tolstoj propone una scuola basata sul rifiuto di ogni forma di autorità che
possa intralciare il libero sviluppo della persona. L’ “educazione” (“premeditata formazione degli
uomini secondo modelli dati”) deve essere sostituita dall’ “istruzione”, come “libero rapporto fra gli
individui avente per base il bisogno di ognuno di acquisire cognizioni già acquisite da altri”.
La libertà della natura del fanciullo viene rispettata eleminando orari, classi, programmi, disciplina
formale, lezioni imposte. Assertore del principio della non-violenza, Tolstoj si fa dunque sostenito-
re di un “non intervento” in educazione. Lo sviluppo di personalità creative e libere verrà ottenuto
sulla base della capacità del maestro di suscitare interesse e attivare le esperienze, lasciando “la stes-
sa libertà per tutti gli allievi di ascoltare o non ascoltare il professore, di accettarne o non accettarne
l’influenza”. La didattica tradizionale viene sostituita da iniziative di ricerca, esperimenti, lavori ma-
nuali, conversazioni ed escursioni effettuati a partire dai bisogni e dalle motivazioni espresse dagli
allievi. In questo modo Tolstoj inaugura la corrente della descolarizzazione e della didattica non-di-
rettiva, introducendo principi che verranno ampiamente sviluppati in talune parti dell’Attivismo e
della pedagogia contemporanea.

Il movimento della scuola attiva era stato preceduto in Europa anche da una serie di esperienze
d’élite che ne anticiparono alcuni temi. Nel 1889 Cecil Reddie (1858-1932) in Inghilterra, ad Abbot-
sholme, fonda una “new school” per ragazzi dagli undici ai diciotto anni (metodi diretti e sperimen-
tali, attività manuali e artistiche, sport non competitivi, vita di relazione). L’Ecole des Roches
(1899) di Edmond Demolins (1852-1907) riproduce la vita reale della famiglia: rudimentale e in
aperta campagna, organizzato in gruppi di una trentina di alunni, insegna ad armonizzare l’iniziativa
individuale con lo spirito di collaborazione e cooperazione sociale. Hermann Lietz (1868-1919) in-
augura il modello delle scuole nuove in Germania. Le sue comunità scolastiche offrono ai giovani la
possibilità di un’attività libera e di un sano lavoro in campagna. Tuttavia l’ispirazione democratica
(“self-government”) delle scuole inglesi alle quali sembrano ispirarsi subisce un mutamento sostan-
ziale: i principi cui si richiamano le comunità tedesche sono motivi romantici e irrazionali, ideali na-
zionalistici e anti-democratici. Questo accade soprattutto nelle scuole fondate dai seguaci di Lietz.
Negli Istituti di Gustav Wyneken (1875-1964) e Paul Geheeb (1875-1961) compaiono invece mo-
tivi più democratici, umanistici e ottimisti. Negli Istituti di Wyneken prevalgono il rifiuto di ogni au-
torità e metodo, le pratiche naturistiche, l’esaltazione della gioventù. Wyneken fu in particolare so-
stenitore del movimento giovanile degli “uccelli migratori”, espressione vitalistica di ritorno alla na-
tura e tentativo di evasione dagli schemi borghesi.

Quando nel 1921 viene fondata la Lega internazionale per l’educazione nuova, tutte le principali
forme di sperimentazione riconducibili al modello della scuola attiva sono già state avviate: in Euro-
pa l’École de l’Ermitage (1907) di Ovide Decroly (1871-1932), le Case dei bambini (1907) di
Maria Montessori (1870-1952), negli U.S.A. la scuola di Winnetka (1919) di Carleton Washburne
(1889-1968), il “Dalton Plan” (1920) di Helen Parkhurst (1887-1969). Nel 1921 Alexander Neill
(1883-1973) avvia a Summerhill (1921) il suo progetto pedagogico non-direttivo e libertario.
Sempre nel 1921 viene pubblicata la celebre “Dichiarazione di Calais” - ispirata da Ferrière - che
può essere considerata la “magna charta” della scuola attiva. Dei trenta punti ricordiamo:
- la scuola deve funzionare come internato ed essere situata in campagna;
- maschi e femmine devono essere educati insieme;
- vita all’aria aperta e attenzione all’educazione fisica;
- organizzazione democratica e partecipazione attiva alle scelte comunitarie;
- massimo spazio agli interessi spontanei, all’esperienza, all’attività personale degli allievi;
- sostituire al nozionismo la ricerca diretta ed il metodo sperimentale;
- il maestro non protagonista ma animatore dell’attività didattica;
- primato dei valori spirituali (verità, bontà, bellezza);
- ricorso al gioco ed al lavoro manuale come strumenti educativi.
La scuola che ne risulta viene così descritta da Ferrière: “La scuola così intesa è un alveare, alveare
rumoroso, talvolta febbricitante, tanto zelo i piccoli operai della scienza e del lavoro manuale metto-
no nell’adempiere al compito che si sono imposti e a superare le tappe del sapere”.
LE SCUOLE NUOVE
Lev Tolstoj (1828 - 1910) Jàsnaia Poliana (1859)
Adolphe Ferrière (1879 - 1960) Cecil Reddie (1858 - 1932) Abbotsholme (1889)
1899: Ufficio internazionale Hermann Lietz (1868 - 1919) Landerziehungsheime (1898)
scuole nuove (Ginevra) Edmond Demolins (1852 - 1907) Ecole des Roches (1899)
1912: Istituto superiore di Scienze Gustav Wyneken (1875 - 1964) Wickersdorf (1906)
dell’educazione J.J. Rousseau Paul Geheeb (1875 - 1961) Oderwald (1910)
1921: Lega internazionale per Ovide Decroly (1871 - 1932) École de l’ Ermitage (1907)
l’educazione nuova Maria Montessori (1870 - 1952) Casa dei bambini (1907)
Carleton Washburne (1889 - 1968) Winnetka (1919)
“Dichiarazione di Calais” Helen Parkhurst (1887 - 1969) - Dalton Plan (1920)
Alexander Neill (1883 - 1973) Summerhill (1921)
Celestin Freinet (1896 - 1966) Polier (1935)

atmosfera di tipo familiare


....................................................
scuola - internato situata in campagna
.......................................................................
vita all’aria aperta e attenzione all’educazione fisica
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coeducazione dei sessi
..................................
organizzazione democratica e partecipazione attiva alle scelte comunitarie
...............................................................................................................................
massimo spazio agli interessi spontanei, all’esperienza, all’attività personale degli allievi
................................................................................
ricerca diretta e metodo sperimentale vs nozionismo
......................................................................................
maestro: non protagonista ma animatore (puerocentrismo)
...........................................................................
insegnamento: cultura generale e specializzazione
.............................................................................
primato dei valori spirituali (verità, bontà, bellezza)
..................................................................................................
ricorso al gioco ed al lavoro manuale come strumenti educativi

Lev Tolstoj: Jasnaia Poliana: scuola sperimentale per i figli dei contadini
rifiuto di ogni forma di autorità che intralci lo sviluppo (Rousseau)

istruzione vs educazione
(acquisizione non imposta di nozioni) (formazione premeditata)

eliminazione di orari, classi, programmi, disciplina, lezioni imposte Summerhill


non-violenza, non intervento Montessori, Neill
interesse e attivazione di esperienze “scuole nuove”
ricerche, esperimenti, lavori manuali, conversazioni ,escursioni attivismo
didattica non direttiva Rogers
descolarizzazione Illich
JOHN DEWEY (Burlington, Vermont , 1859 - New York, 1952)

Allievo dell’hegeliano G.S. Morris e del caposcuola della psicologia sperimentale negli Stati Uniti,
G. Stanley Hall, John Deweyelabora una forma di pragmatismo che fu detta strumentalismo per
l’accentuazione conferita al valore strumentale della conoscenza. Nel 1894 viene chiamato presso
l’Università di Chicago, dove gli viene assegnato anche l’incarico di pedagogia. Nel 1904 si trasfe-
rìsce alla Columbia University di New York, dove rimane sino al 1929. Tra le sue opere più impor-
tanti di argomento pedagogico vanno ricordate: Il mio credo pedagogico (1897), Scuola e Società
(1899) e Democrazia ed Educazione (1916); rilevanti, per le numerose implicazioni pedagogiche,
anche Come pensiamo (1910) e Logica, teoria dell’indagine (1938).
Per Dewey la realtà è un tutto unitario che mostra caratteri di incertezza ed errore, di precarietà e
rischio, e la ragione è solo un mezzo per raggiungere una situazione di maggiore stabilità e sicurezza.
Il punto di partenza di Dewey è l’esperienza; ma questa è assai più vasta della coscienza perchè
comprende anche l’ignoranza, l’abitudine, tutto ciò che è “vago, oscuro e misterioso”: il torto del-
l’empirismo classico è appunto quello di aver ridotto l’esperienza a coscienza, escludendone gli
aspetti sfavorevoli, precari, incerti, irrazionali; invece l’amare e l’odiare, il desiderare ed il temere,
non sono stati dello spirito, ma ‘operazioni attive’ che concernono altre cose.
Anche la logica ha per Dewey un valore strumentale ed operativo; ogni ricerca muove da una
situazione problematica, di incertezza e di dubbio, primo momento dell’indagine che in qualche
modo suggerisce, sia pur vagamente, una soluzione. Il secondo momento è lo sviluppo di quest’idea
mediante il ragionamento, che Dewey chiama l’intellettualizzazione del problema. Il terzo mo-
mento consiste nell’osservazione e nell’esperimento: si tratta di saggiare le varie ipotesi prospet-
tate, eventualmente di rilevarne l’inadeguatezza, ed allora il quarto momento consisterà in una riela-
borazione intellettuale delle primitive ipotesi. Si giunge così a formulare nuove idee che trovano
nel quinto momento dell’indagine la loro verificazione, che può consistere nell’applicazione pratica
o in nuove osservazioni. In termini biologici, da uno squilibrio iniziale, tramite la reintegrazione ar-
monica di organismo e ambiente, si giunge al ristabilimento dell’equilibrio.
La posizione di Dewey è naturalistica, in quanto egli scorge una piena continuità tra il mondo bio-
logico ed il mondo spirituale; Dewey ha utilizzato il concetto di “transazione” per intendere sia la
stretta interconnessione (“condizionalità bicontinua”) esistente fra tutti gli aspetti dell’universo,
compresa l’esperienza umana, sia il fatto che ogni atto di conoscenza è funzione ad un tempo di un
organismo e di un ambiente: il soggetto conoscente non preesiste alla ricerca, ma si costituisce in es-
sa. Perciò appunto Dewey vuole distinguere tra interazione, che avviene tra entità definite e stabi-
li, e transazione, processo costitutivo degli stessi termini interessati.
Per Dewey non esistono fini o valori assoluti: i fini propriamente umani sono progetti costruiti in
termini di mezzi necessari alla loro realizzazione; i fini del lavoro hanno in comune con quelli del
gioco la caratteristica di essere scelti valutando essenzialmente la qualità più o meno soddisfacente
delle attività che ne assicurano il conseguimento; ma mentre il fine del gioco una volta conseguito se-
gna anche la fine delle attività messe in opera, il fine del lavoro, una volta conseguito, si trasforma da
mezzo procedurale in mezzo materiale per attività ulteriori. Ne consegue che il lavoro germina dal
gioco come attività che ha assicurata una continuità maggiore, una maggiore ricchezza di significati
che ci fa annettere alla nostra attività un così forte interesse da indurci ad uno sforzo più intenso e
continuativo: Dewey oppone questa teoria (Interesse e sforzo nell’educazione, 1896) tanto all’her-
bartismo (“interesse”) quanto all’hegelismo (“sforzo” e “disciplina”). Lo sforzo senza interesse è
pratica da lavoro forzato, ma l’interesse che non suscita sforzo non è interesse vero. L’interesse ve-
ro è qualcosa di naturalmente attivo e dinamico.
La dottrina deweyana dell’interesse è alla base della sua pedagogia. Occorre che l’insegnamento si
fondi su interessi reali; ma l’interesse non è qualcosa di fisso e statico: legato all’attività, muta e si
complica con il complicarsi ed approfondirsi dell’attività stessa. Gli interessi devono - all’interno
del processo educativo - essere fatti evolvere. E’ questa la tesi centrale del breve scritto “Il mio cre-
do pedagogico”. L’educazione deriva dalla partecipazione dell’individuo alla coscienza sociale della
specie ed è un processo che “s’inizia inconsapevolmente quasi dalla nascita”. Il processo educativo
ha due aspetti, l’uno psicologico, che consiste nel dispiegarsi delle potenzialità individuali, l’altro
sociale, che consiste nel preparare ed adattare l’individuo ai compiti che dovrà assolvere da adulto
nella società; se è vero che le potenzialità dell’individuo in sviluppo non hanno significato fuor di un
ambiente sociale, d’altronde “il solo possibile adattamento che possiamo dare al fanciullo nelle con-
dizioni esistenti è quello di porlo in possesso completo di tutte le sue facoltà, (...) dargli la padro-
nanza di se stesso; prepararlo alla vita futura significa educarlo in modo (...) che il suo occhio, il suo
orecchio e la sua mano possano essere pronti strumenti di comando”.
Dunque dei due aspetti dell’educazione “quello psicologico è basilare”, mentre insistere sulla “de-
finizione sociale dell’educazione come adattamento alla civiltà ne fa un processo forzato ed esterno
e conduce a subordinare la libertà dell’individuo ad una situazione sociale e politica presupposta”. La
vita attiva e sociale del fanciullo costituisce il centro intorno al quale si organizzano progressivamen-
te le varie materie, prima quelle che lo familiarizzano con il suo ambiente, nel tempo e nello spazio
(storia, geografia, nozioni scientifiche) poi quelle che gli forniscono strumenti per l’approfondimen-
to delle prime (leggere, scrivere, far di conto). Ma le attività manuali, espressive o costruttive, co-
stituiranno il “centro di correlazione” di ogni altro studio ( lavori di falegnameria, cucinare, cucire,
modellare, filare, tessere, ecc.). Al bambino non viene fornito un materiale già formato, ma materia-
li grezzi (creta, legno, paglia, lana, ecc.) rispetto ai quali ben presto è il bambino stesso che proget-
ta di fare qualcosa.
In Scuola e società Dewey mette in rilievo l’importanza che rivestono, anche dal punto di vista
educativo, le trasformazioni tecnologiche e la cosiddetta rivoluzione industriale. Un tempo, quando i
beni venivano prodotti nell’ambito della famiglia o nelle botteghe artigiane del vicinato, il fanciullo
poteva osservare i vari processi, cimentarsi in forma dapprima giocosa, poi di apprendistato, nelle
più varie attività sociali. La rivoluzione industriale ha eliminato tutto ciò; la scuola deve allora orga-
nizzarsi in modo da fornire essa stessa, nel proprio interno, tutte le esperienze produttive che fuori
della scuola non sono più attingibili: deve essere un ambiente di vita e di lavoro.

Il metodo dell’apprendimento si identifica per Dewey con il metodo generale dell’indagine:


1. occorre che il fanciullo possa fare a lungo e liberamente le sue esperienze, sicché dal corso di que-
ste possano emergere ad un certo punto effettive situazioni problematiche da lui appercepite come
tali; l’ “assegnare problemi” è un facile e dannoso surrogato, cui l’insegnante è indotto dall’ “ordine
materiale dell’aula scolastica”, inadatto alle reali situazioni dell’esperienza infantile.
2. Il fanciullo deve avere l’opportunità di giungere da sé a delimitare e precisare intellettualmente
una situazione problematica;
3. quando si hanno idee e ipotesi in mente, si va in cerca di dati, di materiale di osservazione e di
esperimento. Il bambino deve avere la possibilità di compiere osservazioni e ricerche dirette, avendo
a disposizione materiale di consultazione (troppi libri di testo, pochi repertori di consultazione, os-
serva Dewey, nella scuola comune).
4. Il momento della rielaborazione delle idee primitive, esige che il fanciullo si sia formato personal-
mente le sue idee, anziché essergli state fornite già pronte, come per lo più si fa nelle scuole.
5. L’applicazione delle idee elaborate e la loro verifica, se si è partiti da vere situazioni problemati-
che, potrà arricchire l’esperienza ordinaria del fanciullo; in caso contrario, le applicazioni (su cui
molti metodi in uso insistono) non potranno non essere estrinseche ed artificiose. (Democrazia ed
educazione, 1916).
JOHN DEWEY ( Burlington, Vermont , 1859 - New York, 1952)
Il mio credo pedagogico (1897) Scuola e Società (1899) Democrazia ed Educazione (1916)
Come pensiamo (1910) Logica, teoria dell’indagine (1938)

pragmatismo / strumentalismo => valore strumentale della conoscenza


realtà => tutto unitario con caratteri di incertezza, errore, precarietà, rischio
ragione => mezzo per raggiungere una situazione di maggiore stabilità e sicurezza.
esperienza => ignoranza aspettative abitudine credenza
(più vasta della coscienza) aspetti sfavorevoli, precari, incerti, irrazionali
vs l’amare e l’odiare, il desiderare ed il temere
empirismo classico => esperienza = coscienza, idee chiare e distinte
squilibrio
“logica come teoria dell’indagine”-> valore strumentale ed operativo atti di reintegrazione
ristabilimento dell’equilibrio

1. situazione problematica incertezza e di dubbio - idea di soluzione


2. intellettualizzazione del problema sviluppo di quest’idea mediante il ragionamento
3. esperimento osservazione saggiare le varie ipotesi prospettate
(eventualmente rilevarne l’inadeguatezza)
4. rielaborazione intellettuale nuove idee per verificare le ipotesi
5. verificazione applicazione pratica o nuove osservazioni

1. fare esperienze a lungo e liberamente => emergere di situazioni problematiche vs “assegnare problemi”
2. opportunità di giungere da sé a delimitare e precisare intellettualmente una situazione problematica
3. idee e ipotesi => ricerca di dati, di materiale di osservazione e di esperimento
possibilità di compiere osservazioni e ricerche dirette (materiale di consultazione vs libri di testo).
4. rielaborazione delle idee primitive => idee formate personalmente vs fornite già pronte
5. applicazione delle idee elaborate e verifica vere esperienza arricchita
situazioni problematiche
false esperienza sterile

interconnessione (“condizionalità bicontinua”) fra tutti gli aspetti dell’universo


atto di conoscenza = funzione ad un tempo di un organismo e di un ambiente
transazione il soggetto conoscente non preesiste alla ricerca, ma si costituisce in essa.
processo costitutivo degli vs interazione relazione tra
stessi termini interessati entità definite e stabili

lavoro e gioco fine del gioco => fine delle attività messe in opera
fine del lavoro => da mezzo procedurale in mezzo materiale per attività ulteriori
interesse/sforzo interesse e sforzo vs herbartismo (“interesse”)
più intenso e continuativo hegelismo (“sforzo” e “disciplina”)

processo educativo
aspetto psicologico aspetto sociale
dispiegarsi delle “Il mio credo pedagogico” adattamento ai compiti che il fanciullo
potenzialità individuali (basilare) dovrà assolvere da adulto nella società

preparazione alla vita futura => occhio / orecchio / mano = pronti strumenti di comando

Scuola e società preindustriale => botteghe artigiane (il fanciullo si cimenta in varie attività)
Società rivoluzione industriale scuola => esperienze produttive che non sono più attingibili

materie che consentono al fanciullo di storia, geografia, nozioni scientifiche


familiarizzare con l’ ambiente, nel tempo e nello spazio

strumenti per l’approfondimento delle prime leggere, scrivere, far di conto

attività manuali, espressive o costruttive lavori di falegnameria, cucinare, cucire,


“centro di correlazione” di ogni altro studio modellare, filare, tessere, ecc.

materiali grezzi (creta, legno, paglia, lana, ecc.) vs materiali strutturati


L’ Attivismo americano: il “piano Dalton” e le scuole di Winnetka

1. DALTON PLAN

Sulla scia dell’atmosfera progressiva deweyana Helen Parkhurst (1887 - 1969) realizza un meto-
do educativo nuovo, il “piano Dalton”. La Parkhurst si occupa di scuole montessoriane e fa espe-
rienza di pluriclassi rurali. Il lavoro nella scuola secondaria di Dalton (Massachussetts) viene teo-
rizzato per la prima volta nell’opera L’educazione secondo il Piano Dalton (1922).

I Programmi: “piani di lavoro” e contratti

La Parkhurst cerca di costruire dei curricoli a misura di ciascun alunno al fine di salvaguardarne
l’autonomia. I programmi organizzati per compiti mensili sono strutturati in modo molto dettaglia-
to (10 unità progressive mensili suddivise in 20 unità minori) e suddivisi in varie parti relative ad
altrettante unità didattiche per giorni e ore di attività. Queste unità comprendono diverse discipline
che prevedono lo svolgimento di numerosi compiti (sulla scorta di un programma di studi generale
che prevede minimo e massimo per ciascuna materia) alla cui soluzione deve dedicarsi l’allievo. La
scelta del piano di lavoro viene da lui effettuata mensilmente, con la sottoscrizione di un preciso
“contratto”: per onorarlo l’alunno può utilizzare i materiali delle aule-laboratorio, seguendo i propri
ritmi, senza dover rispettare scadenze intermedie prefissate. Il “laboratory plan” prevede che ci sia-
no aule laboratorio per ciascuna materia di studio, con libri di consultazione, materiali di studio e at-
trezzature sperimentali. Non esistono libri di testo uguali per tutti e le classi, in senso tradizionale,
sono abolite: gli allievi operano individualmente e si spostano liberamente all’interno delle aule.
L’alunno può approfondire le materie preferite, essendo comunque tenuto per le altre allo svolgi-
mento del programma minimo.
L’insegnante non “fa lezione”, ma svolge il ruolo di consulente, seguendo il lavoro e i suoi progres-
si e dando consigli se necessario. Le verifiche sono di tipo formativo, il rendimento viene trascritto
in grafici documentati.
La Parkhurst ebbe presente fin dall’inizio il pericolo di un individualismo eccessivo e cercò di ov-
viarvi giustapponendo alle attività individuali tutta una serie di attività sociali: nei laboratori, infat-
ti, gli allievi impegnati nell’espletamento del compito prescelto sono liberi di associarsi con altri
aventi analoghi “contratti”, e il lavoro di gruppo è facilitato dal fatto stesso che si trovano a coope-
rare allievi che ahanno raggiunto all’incirca lo stesso grado di abilità in quella singola materia.

2. WINNETKA SCHOOLS

Carleton Washburne(1889 - 1968), esponente della scuola attiva e della “educazione progressi-
va”, dirige, dal 1919 al 1943, il sistema delle scuole di Winnetka (un sobborgo operaio di Chicago). I
nuovi metodi educativi messi a punto nel corso di questa esperienza vengono descritti nell’opera La
Filosofia del curricolo di Winnetka (1926) e più tardi in Winnetka, storia e significato di un esperi-
mento pedagogico (1955). Consigliere scolastico del governo militare alleato, Washburne viene invia-
to in Italia e contribuisce dal 1945 alla revisione dei programmi per la scuola elementare.

L’educazione progressiva nelle scuole di Winnetka

Nelle scuole di Winnetka Washburne racconta come nella sperimentazione che si lega al suo nome
tutta l’attività sia tesa a far apprendere da solo l’alunno e fargli correggere autonomamente il proprio
lavoro. Il programma è diviso in una parte “minima” e una “di sviluppo”. Il programma minimo,
individuale, riguarda “le conoscenze e le tecniche mediante le quali cerchiamo di ottenere un comune
livello tra gli alunni” ed è formato da unità didattiche in successione predeterminata da far svolgere
secondo percorsi individualizzati. Comprende materie strumentali (leggere, scrivere, far di conto) e
materie sociali (storia, geografia, nozioni civiche). Ciascun allievo procede secondo il proprio ritmo
intellettuale, utilizzando libri di lavoro e materiale autoeducativo, come tests d’avviamento autocor-
rettivi. Solo se superata una unità di lavoro si passa alla successiva; si può progredire rapidamente
in una materia e rimanere stazionari in altre, ma non si “ripetono” anni e non esistono le classi.
Il programma di sviluppo “consta di stimoli e di occasioni offerte in vista di un lavoro creativo
che interessa la collettività”, in cui si promuove l’eccellenza. Si tratta di attività di gruppo e creative
che comprendono composizioni libere, letture di vario genere, attività manuali ed estetiche, recita-
zione, escursioni, ricerche scientifiche e sociali, rappresentazioni teatrali. Ogni allievo partecipa a
qualche attività di gruppo (ad es. nel caso delle rappresentazioni teatrali potrà svolgere una specifi-
ca mansione: scelta o scrittura del copione, recitazione, regia, scenografia, costumi, organizzazione,
vendita dei biglietti, critica sul giornale scolastico, ecc.).
L’insegnamento è individualizzato: l’insegnante gira fra i tavoli di lavoro e sostiene con i suoi sug-
gerimenti l’attività di ciascuno. Anche il sistema di valutazione prende nuove vie, in quanto “ogni
alunno segue il suo passo, ognuno si controlla da sé, e continua a esercitarsi nei punti in cui è debo-
le”. Frequente è l’utilizzo dei test con una funzione “diagnostica”, per evidenziare gli aspetti del-
l’apprendimento sui quali l’alunno ha bisogno di esercitarsi maggiormente. La valutazione ha quindi
un carattere essenzialmente formativo.
Sulla scorta delle critiche mossegli da vari pedagogisti, tra cui Kilpatrick (1871 - 1965), Washburne
riconoscerà che una individualizzazione troppo marcata finisce col creare incongruenze tra program-
ma minimo e programma di sviluppo, a svantaggio del secondo: “l’individualismo esagerato (...) po-
trebbe diventare fatale per la comunità”. Occorre dunque che il programma di sviluppo acquisisca
maggiore peso all’interno del curricolo, e che sia sempre dotato di “una cornice sociale, in modo che
ogni fanciullo possa contribuire con la sua attività e le sue facolta particolari alla riuscita dell’impre-
sa collettiva”.
Lʼ Attivismo americano: il “piano Dalton” e le scuole di Winnetka

DALTON PLAN Helen Parkhurst (1887 - 1969)


esperienza nelle pluriclassi rurali - influenza di Dewey e Montessori
esperienza nella scuola secondaria di Dalton (Massachussetts)
Lʼeducazione secondo il Piano Dalton (1922)

“laboratory plan” -> aule-laboratorio per tutte le materie di studio -> abolizione delle classi

insegnante consulente libri di consultazione


attività individuali materiali di studio ed esperimento
10 unità progressive mensili vs
suddivise in 20 unità minori libri di testo uguali per tutti

contratto mensile programma di studi generale ritmo personale di lavoro


dello studente che prevede min. e max. approfondimento delle materie preferite
per ciascuna materia utilizzo del materiale di laboratorio

scambio informale di esperienze


attività sociali lavori di gruppo con allievi di pari abilità
collaborazione-consulenza dellʼinsegnante verifica formativa
rendimento trascritto
in grafici documentati

WINNETKA Carleton Washburne(1889 - 1968)


SCHOOLS esponente della scuola attiva e della “educazione progressiva” (Dewey)
1919 -1943: sovraintendente della scuola di Winnetka (sobborgo di Chicago)
Winnetka, storia e significato di un esperimento pedagogico (1955)

programma minimo libri di lavoro e materiale autoeducativo insegnante:


( individuale) (tests dʼavviamento autocorrettivi) tests di controllo
(diagnostici)

materie strumentali materie sociali


(leggere, scrivere, far di conto) (storia, geografia, nozioni civiche)

unità didattiche rapportate alle


predeterminate diverse età mentali

percorsi individualizzati
ciascun allievo procede secondo il proprio ritmo intellettuale
solo se superata una unità di lavoro si passa alla successiva
si può progredire rapidamente in una materia e rimanere stazionari in altre
non si “ripetono” anni non esistono le classi

programma di sviluppo attività di gruppo e creative


(sociale)

composizioni libere letture di vario genere attività manuali ed estetiche

recitazione escursioni ricerche scientifiche/ sociali

rappresentazioni teatrali

scelta/ scrittura del copione, recitazione, regia, scenografia, costumi


organizzazione, vendita biglietti, critica sul giornale scolastico, ecc.

ogni allievo partecipa a qualche attività di gruppo


OVIDE DECROLY (Renaix, 1871 - 1932)

Nato a Renaix, nelle Fiandre orientali, Decroly trova nel padre il primo educatore, che mette a di-
sposizione sua e dei fratelli un ampio giardino con piante ed animali da osservare e curare, e un labo-
ratorio per il gioco. Quando Ovide inizia la frequenza della scuola secondaria, l’imposizione di uno
studio libresco ed astratto lo pone in contrasto con gli insegnanti, al punto di farlo cacciare da scuo-
la. In questi eventi è possibile vedere l’origine del suo “istintivo” rifiuto della scuola tradizionale e
della sua vocazione di riformatore. Laureatosi in medicina, con specializzazione in neuropsichiatria,
nel 1898, nel 1901fonda una scuola di insegnamento speciale per bambini anormali e successivamen-
te, nel 1907, l’ Ecole de l’Ermitage, a Ixelles, un esperimento pedagogico “pour la vie, par la vie”
(Una scuola per la vita attraverso la vita, 1908) che acquisirà presto fama mondiale. Dal 1920 è
docente di psicologia infantile a Bruxelles; scrive Verso la scuola rinnovata (1921), La funzione di
globalizzazione e l’insegnamento (1929), Lo sviluppo del linguaggio parlato nel bambino (1932).
Nello stesso anno l’autore muore improvvisamente nel giardino della sua scuola.

La scuola e l’ambiente
Nella sua critica delle scuole pubbliche (1921), Decroly sostiene che la “mortalità” e la dispersione
scolastica sono il frutto di un sistema di comunicazione che privilegia la parola a svantaggio degli in-
teressi e della partecipazione attiva degli alunni. La scuola è separata dalla vita e distaccata dall’am-
biente. Da qui la proposta di rovesciare la didattica in uso. Si impone una strategia didattica che pro-
vochi l’incontro tra l’individuo e il suo ambiente e raccordi i bisogni del soggetto coi dati materiali,
sociali e culturali dell’ambiente. Nella Scuola dell’Ermitage l’ambiente non è l’aula o la scuola stessa,
ma la natura che circonda l’edificio, nuovo campo delle occupazioni attive dell’alunno. L’ambiente
naturale del bambino è la campagna, poiché, secondo la legge biogenetica, il bambino deve
ripercorrere la stessa via percorsa dalla sua specie a partire dalle sue origini. Laboratori, campi e
giardini, allevamenti, spazi di gioco e di vita comune, attrezzi: l’ambiente deve diventare campo di
attività e di esperienze per l’individuo. La scuola deve essere organizzata come ambiente in cui
l’alunno possa avvicinarsi gradualmente alle attività materiali e sociali proprie della vita reale.

Programmi e bisogni
In polemica con i sistemi scolastici in uso, Decroly (1921) sostiene che il programma delle attività
educative deve realizzare la convergenza di contenuti culturali intorno ad un interesse centrale (prin-
cipio dell’unità), adeguarsi ai livelli ed alle caratteristiche mentali del singolo alunno (principio del-
l’individualizzazione dell’apprendimento), prevedere un insieme di conoscenze che facilitino l’inse-
rimento positivo dell’alunno nella vita sociale (principio dell’adattamento all’ambiente), promuove-
re lo sviluppo di tutti gli aspetti della vita infantile (principio dell’integrità dello sviluppo). I nuovi
programmi devono rispettare, in una forma unitaria, sia l’esigenza soggettivo-psicologica, sia quella
oggettivo-sociale. L’esigenza soggettivo-psicologica è inerente al bisogni dell’individuo, che Decroly
riconduce a quattro principali: 1) il bisogno di nutrirsi; 2) il bisogno di lottare contro le intemperie;
3) il bisogno di difendersi dai nemici; 4) il bisogno di lavorare con gli altri, ricrearsi ed elevarsi in mo-
do solidale.
A questi bisogni corrispondono altrettanti interessi specifici. L’approccio ai quattro bisogni avverrà
nella scuola materna in modo frammentario frammentario, assecondando gli interessi spontanei
immediati, nella scuola elementare in modo globale, attraverso l’individuazione di argomenti scel-
ti, uno per volta, come centro dell’attività.

Il metodo: “centri d’interesse” e ambiente


Per l’attività didattica Decroly propone di scegliere un argomento relativo ad uno degli interessi
fondamentali e di farne, per un certo periodo, il “centro” di tutta l’attività scolastica. La creazione di
un “centro d’interesse” evita la frammentarietà delle nozioni e tiene occupate tutte le attività.
Il momento oggettivo-sociale dell’apprendimento è rappresentato dall’ambiente. Per Decroly il
programma deve promuovere lo sviluppo integrale di tutte le facoltà dell’alunno e l’addattamento al-
l’ambiente in cui egli è destinato a vivere. Per questo tra i contenuti vengono privilegiati quelli con-
cernenti l’ambiente naturale (quindi di tipi geografico-scientifico) e quelli riguardanti l’ambiente so-
ciale (quindi di tipo etico-storico-sociologico).
L’unità del programma è garantita da un procedimento per “idee associate” (attraverso il riferimen-
to ai centri d’interesse) e ha tuttavia come obiettivo l’individualizzazione attraverso il riconoscimen-
to dei bisogni specifici di ciascun educando in un metodo attivo, che è caratterizzato dai tre processi
dell’osservazione (impressione e percezione), dell’associazione (generalizzazione, riflessione e giu-
dizio), dell’espressione (creazione e azione). L’insegnamento inizia con l’osservazione, vero centro
dell’attività, basata su “lezioni di cose” e attività interne o esterne alla scuola, nelle quali sono conte-
nuti numerosi apprendimenti scientifici. In seguito i bambini potranno “associare nello spazio e nel
tempo” quanto osservato (attivando così conoscenze geografiche e storiche), e quindi esprimere
quanto acquisito nella direzione delle realizzazioni artistiche, pratiche e linguistiche. I progressi di
ciascuno verranno annotati su apposite schede personali che permetteranno di fornire stimoli e inse-
gnamenti a carattere individualizzato.

CENTRI D’INTERESSE PROGRAMMA DELLE IDEE ASSOCIATE

BISOGNO - INTERESSE

ambiente ambiente
ambiente
vicino
vicino vita nello spazio lontano
lontano
animali geografia
piante
aria, acqua, minerali
famiglia,scuola,società vita nel tempo
storia

OSSERVAZIONE ASSOCIAZIONE

impressioni raccordi
percezioni ESPRESSIONE generalizzazioni
misurazioni giudizi
controlli concreta (disegno-lavoro)
astratta (scritta-orale)

La funzione di “globalizzazione”
Strettamente legata alla teoria dei “centri d’interesse” è quella della globalizzazione. “La mamma si
presenta al fanciullo tutta intera e non nei dettagli; gli oggetti, come tutto l’ambiente che lo circonda
direttamente, si offrono parimenti alla sua curiosità avida senza che nessuno si sogni di imporre un
ordine di presentazione”. Contro le teorie psicopedagogiche tradizionali, secondo le quali si va dalla
“parte” al “tutto”, Decroly ritiene che la base per l’identificazione della realtà psicologica sia costi-
tuita da conoscenze globali la cui struttura è colta dal fanciullo nel suo complesso, nella sua “globali-
tà”. Il “centro d’interesse” rappresenta il primo passo compiuto verso la comprensione della realtà
globale. L’attività di globalizzazione riguarda tutto il campo della vita psichica. Questa funzione,
infatti, è presente in misura notevole nel bambino, ma si trova anche nell’adulto.
OVIDE DECROLY (Renaix, 1871 - 1932)

infanzia: ampio giardino con piante ed animali da osservare e curare, laboratorio per il gioco
adolescenza: scuola secondaria: lo studio libresco ed astratto lo pone in contrasto con gli insegnanti
laurea in medicina, specializzazione in neuropsichiatria
fondazione di una scuola di insegnamento speciale per bambini anormali
1907 Ecole de l’Ermitage, Ixelles 1920 docente di psicologia infantile a Bruxelles
opere: Una scuola per la vita attraverso la vita (1908) Verso la scuola rinnovata (1921)
La funzione di globalizzazione e l’insegnamento(1929)
Lo sviluppo del linguaggio parlato nel bambino (1932)

critica delle la mortalità e la dispersione scolastica sono il frutto di un sistema di comunica-


scuole pubbliche zione che privilegia la parola a svantaggio di interessi e partecipazione attiva.

la concezione educativa -> la vita come processo di adattamento all’ambiente

individuale adattamento all’ambiente bisogni naturali

conservazione educazione

della specie integrazione dell’individuo nella comunità esigenze della vita sociale

1. dell’ unità ------------------> convergenza di contenuti culturali intorno ad un interesse centrale


2. dell’ individualizzazione -> adeguazione ai livelli ed alle caratterist. mentali del singolo alunno
principi 3. dell’ adattamento all’ambiente --------> facilitazione dell’inserimento positivo nella vita sociale
4. dell’ integrità dello sviluppo -> promozione dello sviluppo di tutti gli aspetti della vita infantile

bisogni primordiali approccio ai 4 bisogni


di nutrirsi scuola materna:
di proteggersi dalle intemperie frammentario -> interessi spontanei immediati
di difendersi dai pericoli e dai nemici scuola elementare:
di agire, lavorare in solidarietà, ricrearsi, elevarsi globale -> individuazione di argomenti scelti,
uno per volta, come centro dell’attività

CENTRI D’INTERESSE PROGRAMMA DELLE IDEE ASSOCIATE


BISOGNO - INTERESSE

ambiente ambiente
ambiente
vicino
vicino vita nello spazio lontano
lontano
animali geografia
piante
aria, acqua, minerali
famiglia,scuola,società vita nel tempo
storia

OSSERVAZIONE ASSOCIAZIONE

impressioni raccordi
percezioni ESPRESSIONE generalizzazioni
misurazioni giudizi
controlli concreta (disegno-lavoro)
astratta (scritta-orale)
trittico
FUNZIONE DI GLOBALIZZAZIONE decroliano

percezione infantile -> globale-sincretica vs analisi / sintesi


parte / tutto
attività mentale percettiva-affettiva
MARIA MONTESSORI (Chiaravalle 1870 - Noordwyk 1952)

Maria Montessori nasce a Chiaravalle in provincia di Ancona nel 1870. E’ la prima donna a laure-
arsi in medicina, all’Università di Roma. Assistente nella clinica neuro-psichiatrica, si dedica all’edu-
cazione dei bambini deboli di mente, guidata dalla letture delle opere di Itard e Seguin. Diventa diret-
trice della futura Scuola Magistrale ortofrenica di Roma, dove sperimenta l’utilizzo di materiali edu-
cativi per il recupero dei frenastenici. Nel 1907 istituisce la “Casa dei Bambini” nel quartiere di
San Lorenzo a Roma, in quel tempo assai degradato. La nuova concezione di scuola dell’infanzia,
che ha modo così di sperimentare, ha successo. Due anni dopo tale concezione viene presentata nel-
l’opera “Il metodo della pedagogia scientifica applicata all’educazione infantile delle Case dei
Bambini”. Nel 1916 scrive L’autoeducazione nelle scuole elementari. Nasce un movimento montes-
soriano dal quale avrà origine nel 1924 l’Opera nazionale Montessori e quindi la Scuola magistrale
Montessori, poi chiusa dal regime fascista. La rivendicazione da parte della Montessori della piena
autonomia delle sue scuole, la pubblicazione di scritti come La pace e l’educazione (1933) sono un
segno del contrasto insanabile con le autorità fasciste, che costringe la pedagogista ad abbandonare
l’Italia e a viag-giare per diffondere la propria teoria educativa.
Muore a Noordwyk (Olanda) nel 1952, dopo aver scritto le opere con le quali perviene alla forma-
lizzazione del suo pensiero sulla struttura psichica dell’infanzia e le sue implicazioni educative:
Il segreto dell’infanzia (1938) e La mente del bambino (1952).

Una pedagogia scientifica per l’infanzia


Maria Montessori è profondamente convinta della necessità di studiare a fondo la psicologia del
bambino prima di impostare qualsiasi intervento educativo. Occorre esplorarne i meccanismi mentali
ed il loro funzionamento prima di imporre al bambino delle regole e pretendere dei comportamenti.
L’osservazione della libera espressione porta la Montessori alla scoperta del bambino psichico e
della sua vita spontanea; lo sviluppo è un atto creativo, risultato di attività esercitate dal soggetto
sull’ambiente; con l’espressione “embrione spirituale”, la Montessori intende riferirsi al bambino
che, nel periodo postnatale, è il vero creatore o costruttore di se stesso, depositario della propria
originalità. La “mente assorbente” è la tendenza della mente infantile ad assorbire le caratteristiche
del mondo che lo circonda in modo spontaneo, naturale ed inconscio. Ogni bambino ha dei periodi
sensitivi, dei momenti privilegiati di particolare sensitività rispetto a determinati aspetti evolutivi,
come il linguaggio, il comportamento sociale, ecc. L’energia vitale dell’rmbrione spirituale perviene
alla propria “incarnazione” in virtù delle sollecitazioni che riceve da spinte “nebulose”, che condu-
cono il bambino ad assorbire dall’ambiente i contenuti indispensabili alla propria crescita (nebule
del linguaggio, dell’assorbimento del costume, ecc.).
Montessori ritiene che vadano rispettati nella scuola dell’infanzia tre princìpi: un ambiente adatto,
l’uso di materiale scientificamente studiato e una nuova professionalità dell’educatore.

Le “Case dei bambini”


Nella “Casa dei bambini” gli spazi hanno una valenza educativa come l’ubicazione stessa della
scuola. Spazi interni ed esterni, suppellettili, materiali ed elementi di arredo sono tutti a “misura di
bambino”. Vengono aboliti i “banchi di scuola”, pareti e mobilio facilmente spostabile consentono la
flessibilità di organizzazione. Le classi sono poche, le aule non troppo ampie e studiate per essere
ambienti di lavoro destinati ai bambini, che si ritrovano anche in spazi comuni come nel giardino, nei
luoghi di refezione, di ricreazione, di lettura. I bambini sono responsabili di tutte le attività di vita
quotidiana, del buon mantenimento dell’aula e dell’ordine, e svolgono varie attività sociali, come
servire a tavola, preparare la colazione, allevare animali, coltivare l’orto, partecipare ad esercizi sen-
soriali di gruppo (es. tattili a occhi chiusi).
Il materiale scientifico
L’educazione deve fornire dei contesti di esperienza che permettano alla “mente assorbente” del
bambino di mettere ordine in un eccesso di stimoli e di autodirigersi in una crescita libera. Montes-
sori ritiene che l’uso di materiali scientificamente studiati per la crescita sensoriale e cognitiva possa
rendere l’alunno capace di apprendere con ordine, riducendo l’intervento dell’insegnante. Si tratta di
materiali appositamente preparati per esercitare, attraverso i sensi, le competenze specifiche con
gradualità e progressività. Troviamo così una serie di oggetti che variano progressivamente in rela-
zione a ad una sola caratteristica (colore, altezza, peso, ruvidezza, forma, incastro...), oggetti che
variano in relazione alle loro proprietà sonore (ad es. campane che variano per il suono e non per la
dimensione), lettere alfabetiche di vari materiali, casellari con scomparti che contengono un numero
specifico di oggetti; e ancora astucci da aprire e chiudere, bottoniere da abbottonare e sbottonare,
matasse colorate da disporre nel giusto ordine di gradazione, superfici variamente ruvide o lisce da
graduare, solidi da incastrare in apposite nicchie, ecc. Secondo la Montessori, a partire dall’età di
cinque anni il bambino - dopo aver affinato la propria sensibilità - è in grado di apprendere le tecni-
che della lettura e della scrittura. Con lo stesso metodo può essere messo in condizione di conoscere
le regole del calcolo. Assieme al disegno, lettura scrittura ecalcolo costituiscono la “quadriga trion-
fante” della scuola dell’infanzia.

La maestra “direttrice”
L’insegnante, nella scuola montessoriana, ha il compito di “dirigere” il lavoro dei bambini e di assi-
curare le condizioni di ordine e quiete per le loro attività. L’insegnante controlla che l’attività con il
materiale strutturato si svolga secondo le regole e la successione prevista e assiste i bambini nello
svolgimento dei compiti. La Montessori tratteggia la figura di un insegnante che padroneggia il mate-
riale scientifico e cerca il più possibile di ritirarsi sullo sfondo, riducendo gli interventi al minimo in-
dispensabile e assicurando però le condizioni indispensabili di ordine e di quite per le attività dei
bambini: il “silenzio” è in questo senso uno strumento importante. Il bambino delle case montesso-
riane è concentrato, disciplinato, calmo, occupato nel suo lavoro.

Maria Montessori e l’educazione alla pace


Il volume Educazione e pace (Garzanti, Milano, 1949) raccoglie quindici conferenze tenute da Ma-
ria Montessori negli anni trenta; il messaggio in esse contenuto ha il merito di richiamare l’attenzio-
ne sulla necessità improrogabile di porre il problema della pace in termini antropologici e pedago-
gici: nella Montessori, quello della pace si configura non semplicemente come un problema educati-
vo, ma proprio come il problema dell’educazione, il problema dell’uomo; il rapporto educativo co-
me rapporto adulto-bambino risulta così al centro di una questione che ha carattere sociale, univer-
sale. Per il contributo dato al problema della pace, tra il 1949 e il 1951, la Montessori fu candidata al
Premio Nobel per la pace. Il ruolo che la Montessori attribuisce alla pace rappresenta, a ben vedere,
una riflessione sulla sua teoria pedagogica generale, che del resto si configura, nel suo insieme, come
una “pedagogia irenica”, contrapposta alla “pedagogia polemica”: quest’ultima fa della lotta il
fattore principale del processo educativo; l’educando per progredire deve lottare contro se stesso e
contro gli altri, contro la vecchia società e contro la natura. Alla lotta Maria Montessori sostituisce
l’attività liberamente creatrice che non divide ma unisce, in quanto fa della pace non solo il fine ma
anche il mezzo del processo educativo. Il bambino montessorianamente concepito non è un combat-
tente ma un lavoratore, anzi un operaio che in un ambiente pacificato, non più teatro di lotte ma
sede e strumento di lavoro, costruisce i poteri dell’uomo.
La Montessori distingue tra pace autentica e pace inautentica. “Generalmente - scriveva nel ‘32 -
s’intende per pace la cessazione della guerra: ma questo concetto negativo non è quello della pace”,
perchè significa solo “l’adattamento forzato dei vinti a un dominio reso stabile”. Invece “la vera pa-
ce fa pensare al trionfo della giustizia e dell’amore tra gli uomini; fa pensare a un mondo migliore,
dove regna l’armonia”. Due sono i mezzi che conducono a questa unione pacificatrice: uno è lo sfor-
zo immediato di risolvere senza violenza i conflitti, vale a dire di eludere la guerra; l’altro è lo sforzo
prolungato di costruire stabilmente la pace tra gli uomini. Ora, “evitare i conflitti è opera della poli-
tica, costruire la pace è opera dell’educazione”, ed è quest’ultima che conta veramente.
Il problema principale è quello del rapporto tra età infantile ed età adulta, è qui che si trova “un
conflitto terribile: una guerra senza tregua”, un conflitto tra forte e debole. Infatti “l’adulto vince il
bambino: e, nel bambino divenuto uomo, restano perpetuamente i caratteri di quella famosa pace do-
po la guerra, che da un lato è distruzione, dall’altro doloroso adattamento”. Per raggiungere la pace
nel mondo” occorrono invece due cose: prima di tutto, un uomo nuovo, l’uomo migliore; e poi un
ambiente che non abbia più limiti innanzi all’infinito desiderio dell’uomo”.
Dunque “nello sviluppo due strade sono possibili: quella dell’uomo che ama e quella dell’uomo
che possiede; da un lato l’uomo che ha conquistato la sua indipendenza e che si associa agli altri in
modo armonioso, dall’altro l’uomo schiavo, che, volendosi liberare, diviene schiavo del possesso e
giunge all’odio”. “Oggi - dice la Montessori - il bambino è un cittadino dimenticato”.
Per la Montessori l’educazione non è istruzione, nel senso in cui la si considera nelle scuole, bensì
“l’educazione è la tutela di un’obbedienza alla vita. L’educazione deve aiutare il bambino fin dalla
nascita nel suo svolgimento psichico”; a tal fine “il bambino deve poter vivere in un ambiente co-
struito per lui, che corrisponda ai suoi bisogni”. Mentre l’educazione, come oggi è intesa, incoraggia
gli individui all’isolamento e al culto dell’interesse personale, essa “deve valorizzare gli istinti occul-
ti che guidano l’uomo nella costruzione di se stesso. Ora, tra questi vi è, potente, l’istinto sociale”.
É necessaria una nuova educazione: “la gioia di vivere; l’ottimismo della speranza; la libertà e l’indi-
pendenza; l’amore degli uomini, sono conseguenze naturali e necessarie di una formazione normale
dell’uomo”. Se non si danno condizioni di libertà e di indipendenza al bambino, “tutti gli sforzi di
stabilire una politica della democrazia saranno vani”; non si deve presentare il lavoro al bambino co-
me un dovere da compiere, qualche cosa che è imposta, dal di fuori, bensì come attività che “deve
sorgere dall’intimo come necessità spirituale”.
Volendo riassumere la lezione di Educazione e pace, la si può sintetizzare in sei proposte:
1. educazione all’autonomia e alla libertà; 2. educazione all’integrazione personale (non come ade-
guamento ma come preparazione a un nuovo futuro); 3. educazione alla valorizzazione delle poten-
zialità e della costruttività; 4. educazione all’amore e non al possesso; 5. educazione per l’intera
umanità (in una prospettiva planetaria, universale, cosmica); 6. educazione al futuro e al cambiamen-
to (puntando sulla speranza rappresentata dal bambino).
La realizzazione della pace comporta l’eliminazione della lotta sia fra adulti e bambini sia fra gli
stessi bambini; il che implica anzitutto “il superamento dell’abitudine a considerare come sola opero-
sità e creatività dell’essere umano quella dell’uomo adulto”; in secondo luogo, la Montessori, coe-
rentemente, ha puntato ad una educazione fondata non sull’emulazione, sulla competizione, bensì
sulla collaborazione. Il fare affidamento sulla laboriosità del bambino e sulla collaborazione nell’or-
ganizzazione della vita e del lavoro permettono - secondo la Montessori - di superare la duplice lot-
ta tra educatori e educandi, e tra alunni stessi. É dunque attraverso l’educazione fondata sulla labo-
riosità e sulla collaborazione che si educa alla pace in quanto, appunto, si eliminano le due lotto (tra
adulti e bambini e tra gli stessi bambini) che fanno nascere e alimentano gli atteggiamenti di violenza.
Si tratta di una concezione secondo cui il destino del bambino non è “né ascetico ne dionisiaco; è il
destino di costruire l’umanità con l’intelligenza e con il lavoro” (Bertin).
Nella conferenza “Educazione per la pace” del 1937, Maria Montessori afferma che “la vera difesa
dei popoli non può poggiare sulle armi; giacchè le guerre si succederanno sempre l’un all’altra, e non
potranno mai assicurare la pace e la prosperità di nessun popolo, finchè non si ricorrerà a questo
grande ‘armamento per la pace’ che è l’educazione”.
MARIA MONTESSORI (Chiaravalle 1870 - Noordwyk 1952)

1896 prima donna laureata in medicina dellʼUniversità di Roma


assistente nella clinica neuro-psichiatrica: educazione dei bambini deboli di mente (Itard e Seguin)

utilizzo di materiali educativi per il recupero dei frenastenici


prima scuola magistrale ortofrenica
1907 apertura della “Casa dei Bambini”
(quartiere di San Lorenzo a Roma, Via dei Marsi)

1909 Il metodo della pedagogia scientifica applicata allʼeducazione infantile delle Case dei Bambini
1916 Lʼautoeducazione nelle scuole elementari 1933 La pace e lʼeducazione
1938 Il segreto dellʼinfanzia 1952 La mente del bambino

la pedagogia scientifica per lʼinfanzia osservazione della libera espressione


scoperta del bambino psichico (naturale) della sua vita spontanea

sviluppo => atto creativo, risultato di attività esercitate dal soggetto sullʼambiente

“embrione spirituale” “mente assorbente”


bambino nel periodo postnatale: tendenza della mente infantile ad assorbire
creatore / costruttore di se stesso le caratteristiche del mondo che lo circonda
depositario della propria originalità in modo spontaneo, naturale ed inconscio

periodi sensitivi nebule


momenti privilegiati di particolare sensitività, centri di attività che conducono il bambino ad
risposta a determinate acquisizioni comportamentali assorbire dallʼambiente i contenuti indispensabili
alla propria crescita (spinte nebulose)

nebule del linguaggio, delle funzioni di adattamento allʼambiente


di riproduzione del comportamento sociale
“esplosione” della scrittura e lettura

bambino concentrato, disciplinato, calmo, vs bambino assorbito nel gioco e nellʼimmaginazione


occupato nel suo lavoro (ambiente adatto) illogico, necessitante di guida (premi e castighi)

AMBIENTE spazi interni ed esterni, suppellettili, materiali ed elementi di arredo


EDUCATIVO a “misura di bambino” abolizione dei “banchi di scuola”
flessibilità di organizzazione degli spazi e del mobilio

MATERIALE materiali scientificamente studiati per la crescita sensoriale e cognitiva


DI SVILUPPO esercizio individuale, graduale e progressivo dei sensi
oggetti che variano progressivamente per una sola caratteristica
(colore, altezza, peso, forma, incastro, ruvidezza, suono)
astucci, solidi, matasse, superfici, campanelline
(=> es. campane: varia il suono e non la dimensione)

attività servire a tavola, preparare la colazione


sociali allevare animali, coltivare lʼorto
esercizi sensoriali di gruppo (es. tattili a occhi chiusi)

LA MAESTRA assicurare le condizioni di ordine e quiete per le attività dei bambini


“DIRETTRICE” dirigere lʼattività dei bambini con il materiale strutturato
interventi ridotti al minimo indispensabile
Maria Montessori e l’educazione alla pace

Educazione e pace (Garzanti, Milano, 1949) 15 conferenze (anni ‘30)

il problema dell’educazione - il problema dell’uomo:


rapporto tra età infantile ed età adulta => questione di carattere sociale universale
“un conflitto terribile: una guerra senza tregua” un conflitto tra forte e debole
l’adulto vince sul bambino => “Oggi il bambino è un cittadino dimenticato”
realizzazione della pace => superare la lotta tra educatori/educandi e tra alunni stessi

processo educativo

“pedagogia irenica” vs “pedagogia polemica”


attività liberamente creatrice lotta contro se stesso e contro gli altri
che non divide ma unisce contro la vecchia società e contro la natura
bambino operaio bambino combattente
laboriosità collaborazione emulazione competizione

pace autentica vs pace inautentica


fine e mezzo transitoria strumentale
trionfo della giustizia e cessazione della guerra
dell’amore tra gli uomini adattamento forzato dei vinti
sforzo
di costruire stabilmente la pace di risolvere senza violenza i conflitti
opera dell’educazione eludere la guerra: politica
lavoro
attività che sorge dall’intimo dovere da compiere
necessità spirituale imposizione dal di fuori

istinto sociale vs isolamento e culto dell’interesse personale


gioia di vivere ottimismo della speranza schiavitù del possesso => odio
libertà e indipendenza amore degli uomini dipendenza e rivalità
uomo che ama vs uomo che possiede

1. educazione all’autonomia e alla libertà


2. educazione all’integrazione personale
(non adeguamento ma preparazione a un nuovo futuro)
3. educazione alla valorizzazione delle potenzialità e della costruttività
4. educazione all’amore e non al possesso
5. educazione per l’intera umanità (in prospettiva planetaria)
6. educazione al futuro e al cambiamento
(speranza rappresentata dal bambino)

“per raggiungere la pace nel mondo occorrono due cose: prima di tutto, un uomo nuovo, l’uomo
migliore; e poi un ambiente che non abbia più limiti innanzi all’infinito desiderio dell’uomo”.

“la vera difesa dei popoli non può poggiare sulle armi; giacchè le guerre si succederanno sempre
l’un all’altra, e non potranno mai assicurare la pace e la prosperità di nessun popolo, finchè
non si ricorrerà a questo grande ‘armamento per la pace’ che è l’educazione” (1937)
Célestin Freinet (1896 - 1966)

Il tema della pedagogia popolare assume con Freinet una dimensione innovativa, legata tanto ad
un’ispirazione politica socialista, quanto a una riscoperta dei valori della cultura popolare e delle sue
connotazioni creative. Célestin Freinet, in qualità di maestro elementare della comunità di Bar-sur
Loup, in Provenza, partecipa fin dal 1920 al dibattito educativo. Nel 1925 pubblica “Imprimerie à
l’école”, opera in cui teorizza la sua concezione del ruolo della tipografia a scuola. Nel 1935, dopo
aver lasciato la scuola pubblica, aprirà una propria scuola a Polier. Nel ‘49 pubblica Nascita di una
pedagogia popolare, e negli anni successivi promuove una serie di iniziative per la diffusione del-
l’educazione popolare e la stamperia a scuola, cui è collegato anche il Movimento per la Coopera-
zione Educativa (MCE) italiano.

Il principio educativo e il compito della scuola

L’espressione usata da Freinet per designare l’apprendimento infantile, “experience tatonnée”, deri-
va dall’idea che la mente del bambino sia come acqua che scorre libera, in cerca di un alveo in cui in-
canalarsi, andando “a tentoni” fino a quando non è indirizzata. Alla scuola spetta appunto questo
compito di orientamento, offrendo al bambino i canali che la cultura umana ha elaborato per indiriz-
zare e arricchire la sua esperienza. Il punto di partenza è costituito dai bisogni e dalle attività spon-
tanee, il punto di arrivo consiste in attività cooperative e organizzate che socializzino senza perdere
la creatività e la spontaneità iniziali.

Il lavoro scolastico

Nella scuola di Freinet i bambini, accolti in un clima contrassegnato da attenzione, disponibilità, ab-
bondante conversazione e scambio di esperienze, scrivono testi liberi, tanto nel contenuto che nel-
l’occasione della scrittura. Esperienza, ricerche, attività di documentazione renderanno più ampia la
gamma degli argomenti sui quali si può scrivere e più approfonditi i contenuti. La stamperia scola-
stica è costituita da un piccolo complesso tipografico dotato di caratteri da stampa, una piccola
pressa, il rullo inchiostratore, ecc. Il suo funzionamento è nelle mani degli alunni, che trasformeran-
no questi testi, con lavoro di redazione ma anche di effettiva stampa, in un giornale. I testi prodotti
dagli alunni comprendono: 1. il “testo libero”, composizioni improvvisate scelte e selezionate collet-
tivamente; 2. la corrispondenza interscolastica, testi stampati e illustrati inviati ad una classe corri-
spondente; 3. il disegno libero e le incisioni in linoleum stampati insieme ai testi; 4. il “calcolo viven-
te”, ovvero dei problemi di aritmetica derivanti da problemi reali; 5. il “libro della vita”, interamente
scritto dagli alunni in sostituzione del libro di testo; 6. maestri e allievi apprestano un ricco materiale
di consultazione, schedari e biblioteche di lavoro (libri, ritagli, campioni, ecc.).
I testi individuali vengono fusi in un testo comune, che richiederà, come il testo individuale, l’avvio
di procedure di autocorrezione, contro il sistema tradizionale di correzione da parte del maestro.
I voti vengono assegnati mediante votazione democratica e paritaria di tutta la classe.
Gli apprendimenti grammaticali, aritmetici, scientifici, storici ruotano tutti attorno a una serie di
laboratori di lavoro pratico (dall’agricoltura, all’artigianato, al commercio) e alla realizzazione conte-
nutistica e pratica del giornale scolastico. Vengono approntate, per l’apprendimento di ortografia,
calcolo, storia, geografia e scienze, delle “scatole per insegnare” contenenti rulli di carta sui quali
stampare il programma prescelto.
Appare necessaria una nuova personalità d’insegnante, che si spoglia dell’autoritarismo, della disci-
plina, degli obblighi buracratici per assumere le vesti di cooperatore alle attività degli alunni. Il mae-
stro deve soprattutto saper evocare le energie espressive e creative degli alunni, per poi farsi stru-
mento del loro incanalarsi in “centri d’interesse” sui quali si organizzerà la stesura dei testi e tutta
una serie di nuove attività.
Il giornale scolastico servirà a socializzare le proprie esperienze con la famiglia, la comunità e le al-
tre scuole. L’educazione popolare di Freinet ritiene che i valori di identità e tradizione della cultura
popolare vadano difesi, ma non all’insegna del particolarismo e della chiusura. La cooperazione che
si crea fra gli alunni, fra gli insegnanti, fra alunni e insegnanti di una stessa scuola deve dilatarsi alle
altre comunità scolastiche, ad altri paesi con uno spirito prima di confronto e socializzazione e poi
di lavoro comune per obiettivi più ampi.

Il movimento di cooperazione educativa in Italia: Bruno Ciari e Mario Lodi

L’insegnamento di Freinet, col sostegno organizzativo del “movimento di cooperazione educativa”


(MCE), stimola nel secondo dopoguerra, in Italia, varie iniziative pedagogiche e contribuisce alla
formazione di una coscienza realistica riguardo allo scarto esistente tra idee educative progressive e
volontà politica effettiva presente nell’istituzione scolastica. L’esperienza pedagogica concreta toc-
ca direttamente i problemi della scuola elementare delle zone depresse del paese, delle campagne e
delle borgate di città.

Una delle personalità più interessanti del “movimento per la cooperazione educativa” è stato Bru-
no Ciari (1923 - 1970), studioso della pedagogia moderna e sperimentatore dei nuovi metodi. Egli
ha efficacemente contribuito al rinnovamento educativo con la sua attività di maestro a Certaldo.
Nel suo libro pubblicato nel 1961, Le nuove tecniche didattiche, riprende l’insegnamento pedagogi-
co di Freinet in modo non passivo, ma ricco di personali contributi. Da Freinet Ciari riprende la pra-
tica della tipografia e del testo libero, del giornale di classe e della corrispondenza, delle schede auto-
correttive e della didattica del calcolo vivente.
Ciari riprende inoltre il metodo globale di Decroly, proponendo però che la frase iniziale da cui in-
comincia l’apprendimento della scrittura parta dal suggerimento dei ragazzi stessi.

Nell’ordine della sperimentazione che si vale delle tecniche di Freinet e che raccoglie la sua idea di
“pedagogia popolare”, si situa l’opera di Mario Lodi. Il suo libro più noto è il diario di un’esperien-
za didattica in un paese della Bassa padana, Vho di Piadena, tra il 1964 e il 1969: Il paese sbagliato.
Nella lettera introduttiva Lodi afferma: “distruggere la prigione, mettere al centro della scuola il bam-
bino, liberarlo da ogni paura, dare motivazione e felicità al suo lavoro, creare intorno a lui una comu-
nità di compagnii che non gli siano antagonisti, dare importanza alla sua vita, e ai sentimenti più alti
che dentro gli si svilupperanno, questo è il dovere di un maestro di scuola, di una buona società”.
Nel libro viene descritto l’intero corso elementare di una classe.Testo libero, tipografia scolastica,
piani di lavoro, ricerche scientifiche, calcolo vivente, l’applicazione del metodo di Freinet sta alla
base della vita scolastica libera e attiva che Mario Lodi vuole realizzare.
L’originalità di questa esperienza risulta chiaramente in un momento particolare nella vita del grup-
po: quando in terza classe si decide di costruire con disegni e collages una specie di grande ritratto
del paese. Il risultato è somigliante e pieno di vita, proprio perché è sbagliato rispetto alle misure,
alle direzioni, alle proporzioni. Queste saranno invece rispettate in una vera pianta costruita poi dai
bambini in base a misurazioni e controlli. Ma la prima raffigurazione, capace di contenere personag-
gi, episodi e momenti significativi, è come la radice affettiva e insostituibile della seconda, quasi un
simbolo di come deve essere il processo educativo. Nel “paese sbagliato” è simboleggiata la relazio-
ne che i bambini stabiliscono con il loro ambiente: gli spazi, le luci, i colori sono l’espressione di un
paese a misura di bambino. E’ da qui che deve quindi partire l’opera di istruzione, le conoscenze
astratte devono fiorire da questa radice.
Célestin Freinet (1896 - 1966) “pedagogia popolare” -> ispirazione politica socialista

1920: maestro elementare a Bar-sur Loup


1925 ”Imprimerie à lʼécole”: il ruolo della tipografia a scuola
1935 scuola privata a Polier

“experience tatonnée” -> bisogni e attività spontanee

attività naturale del fanciullo -> attività di gruppo, cooperativa

motivazioni

attive comunicative
(fare, esprimersi) (corrispondenza)

cultura autoprodotta, vissuta e interiorizzata

la tipografia a scuola

complesso tipografico (caratteri da stampa, piccola pressa, rullo inchiostratore, ecc.)

realizzazione del giornale scolastico

1. testo libero -> composizioni improvvisate scelte e selezionate collettivamente

2. corrispondenza interscolastica -> testi stampati e illustrati inviati ad una classe corrispondente

3. disegno libero e incisioni in linoleum stampati insieme ai testi

4. calcolo vivente: problemi di aritmetica derivanti da problemi reali

5. libro della vita -> è scritto dagli alunni e sostituisce il libro di testo

6. schedari e biblioteche di lavoro: materiale di consultazione (libri, ritagli, campioni, ecc.)

“scatole per insegnare” meccanismi semplici (ortografia, calcolo)


contenenti rulli di carta sui quali tecniche complesse (ambito matematico)
stampare il programma prescelto centri dʼinteresse (storia, geografia, scienze)
programmi di lavor (agricoltura, artigianato, commercio)
laboratori di lavoro pratico
insegnante -> cooperatore alle attività degli alunni
assegnazione democratica dei voti
procedure di autocorrezione

MCE (movimento per la cooperazione educativa)

Bruno Ciari (1923 - 1970)


Le nuove tecniche didattiche (1961)
metodo globale, tipografia, testo libero, schede autocorrettive, didattica del calcolo vivente

Mario Lodi
Testo libero, tipografia scolastica, piani di lavoro, ricerche scientifiche, calcolo vivente

ritratto del paese (disegni e collages)


sbagliato rispetto a misure, dimensioni, proporzioni
ma
Il paese sbagliato somigliante e pieno di vita
(1971) (paese a misura di bambino)
radice affettiva della

vera pianta costruita in base a misurazioni e controlli


La psicopedagogia europea: la scuola di Ginevra

Édouard Claparède (1873 - 1940)

Padre dell’indirizzo di studi psicologici denominato “funzionalismo”, Claparède dà il suo contribu-


to più illustre alla storia dell’attivismo con la fondazione dell’Istituto Jean-Jacques Rousseau. L’iti-
nerario intellettuale di Claparède passa attraverso la laurea in medicina, gli interessi di psicologia e la
specializzazione in neurologia. Pubblica nel 1905 “Psicologia del bambino e pedagogia sperimenta-
le”. Nel 1912 fonda a Ginevra insieme a Bovet l’Istituto di Scienze dell’Educazione già citato. Oltre
a lavorare nell’Istituto, Claparède continua in seguito la pubblicazione di opere fondamentali per la
comprensione dell’attivismo, come La scuola su misura (1920) e L’educazione funzionale (1930).

Per Claparède i processi mentali rappresentano funzioni con cui l’organismo conosce e si adatta
alle necessità ambientali. La spiegazione dei processi psichici deve essere rintracciata attraverso l’in-
dividuazione dei bisogni fondamentali che scaturiscono dall’interazione tra individuo e ambiente:
pertanto l’educazione funzionale dovrà essere organizzata su questi bisogni fondamentali e sugli
interessi conseguenti. Claparède delinea due leggi: la legge del bisogno, per cui “ogni bisogno tende
a provocare le reazioni atte a soddisfarlo”, e la legge dell’interesse, per cui “ogni comportamento
è dettato da un interesse”.
Claparède delinea anche le leggi dello sviluppo in chiave funzionale:
1) legge della successione genetica, secondo la quale lo sviluppo individuale ripete lo sviluppo della
specie;
2) legge dell’esercizio genetico-funzionale, secondo la quale lo sviluppo procede attraverso
l’esercizio delle funzioni, in modo tale che l’esercizio di ogni funzione diventa premessa per lo
sviluppo di quelle ulteriori;
3) legge dell’andamento funzionale, per la quale l’esercizio si produce solo in condizioni di bisogno
ed interesse;
4) legge dell’autonomia funzionale, in relazione alla quale il bambino va considerato un essere
autonomo e in sé completo;
5) legge dell’individualità, che stabilisce l’assoluta unicità di ogni destinatario dell’azione educativa.
L’educazione funzionale stabilisce che il fanciullo sia educato in modo tale da non ostacolare il suo
libero farsi secondo un primato dell’autoeducazione del soggetto rispetto all’eteroeducazione del
maestro. La concezione funzionale è dunque puerocentrica: essa “consiste nel prendere il fanciullo
come centro dei programmi e dei metodi scolastici”.
Nella concezione di Claparède il maestro deve diventare soprattutto “stimolatore di interessi”,
dotato di una preparazione psicologica in grado di analizzare bisogni ed interessi del fanciullo nei
loro caratteri comuni ma anche specificamente individuali.
La “scuola su misura” per Claparède può mutare nell’organizzazione e nei metodi per riuscire a
raggiungere l’obiettivo dell’individualizzazione. Egli propone di riprendere una serie di soluzioni già
esistenti in forma sperimentale (classi parallele formate da alunni di capacità omogenee, classi mobili
per cui ogni alunno si sposta per ciascuna materia nella classe corrispondente al suo livello, ecc.),
oppure di scegliere il sistema delle opzioni, il quale prevede un programma minimo comune, accanto
al quale si colloca un’ampia offerta di possibilità di studio che ciascun alunno sceglie secondo le pro-
prie attitudini.
Una psicopedagogia scientifica si deve anche preoccupare di una misurazione accurata del cammino
percorso e dei risultati raggiunti. Pertanto, in luogo del tradizionale sistema degli esami, occorrerà
approntare per la valutazione dei metodi scientifici di controllo del rendimento e delle capacità men-
tali come i test.
Jean Piaget (1896 - 1980)
Formatosi alla scuola della biologia, della filosofia e della psicologia, Piaget ha un ingegno precocis-
simo, che lo porta all’età di vent’anni ad aver già pubblicato numerosi lavori di zoologia. In questo
periodo traccia anche un programma: dedicarsi allo studio e alla spiegazione dei legami tra biologia e
conoscenza. Nascerà così l’epistemologia genetica, che si preoccupa di analizzare lo sviluppo della
conoscenza scientifica del mondo attraverso lo studio clinico esperimentale dei bambini fino a nove
anni. Entrato nel 1921 nell’Istituto J. J. Rousseau per volontà di Claparède, Piaget inizia gli studi
che daranno come primo frutto “Pensiero e linguaggio nel fanciullo” (1923), cui seguiranno, nel giro
di pochi anni, studi sul giudizio e sul ragionamento, la rappresentazione del mondo e l’idea di causa.
Nel 1932 pubblica “Il giudizio morale nel fanciullo”, opera in cui ipotizza che lo sviluppo della mo-
ralità sia legato soprattutto allo sviluppo dell’intelligenza.
Nel 1955 fonda il Centro di Epistemologia genetica e continua in seguito a pubblicare numerosi altri
scritti che costituiscono una sistemazione più ampia e comprensiva delle sue ricerche.

La teoria psicologica piagetiana viene definita psicologia genetica, in quanto orientata a seguire lo
sviluppo dell’intelligenza e dei sistemi di conoscenza attraverso la costruzione (genesi) di nuovi
schemi e operazioni nelle fasi proprie di ciascuna età e a spiegare il passaggio da una fase all’altra.
L’intelligenza per Piaget è la capacità che permette al soggetto di adattare il comportamento alle
modificazioni ambientali. L’apprendimento avviene nel bambino dapprima attraverso i processi
complementari di assimilazione e accomodamento, consentendo un graduale passaggio dai riflessi
innati alle azioni, agli schemi, alle operazioni concrete e a quelle interiorizzate e formali.
Tre sono le fasi fondamentali di sviluppo dell’intelligenza (senso-motoria 0 - 2 anni; operatoria
concreta suddivisa in pre-operatoria, 2 - 7 anni e operatoria, 7 - 11 anni; operatoria formale, da 11
anni in poi), sostanzialmente immodificabili.

La concezione pedagogica
Per Piaget il motore dell’intelligenza del bambino è la sua azione, quindi l’educatore deve soprat-
tutto predisporre le condizioni adatte all’esercizio di questo fare, e adeguare le sue richieste al livello
dello sviluppo psichico del suo allievo bambino protagonista attivo del processo di apprendimento.
Piaget insegna che il bambino, data la stessa natura dei suoi processi psicologici, deve essere reso
protagonista dei propri apprendimenti piuttosto che mantenuto, come si è ritenuto giusto fare per
lungo tempo, come passivo fruitore di ciò che gli viene presentato. Come si vede, la centralità del fa-
re è in pieno accordo con le concezioni dell’attivismo. Ma il grado di analisi che Piaget conduce sul-
l’agire evolutivo nei suoi diversi settori cognitivi, morali, linguistici, sociali, produce anche un nuovo
profilo della professionalità dell’insegnante. La didattica deve essere psicologica, l’insegnante è un
vero e proprio ricercatore in grado di rintracciare le condizioni migliori per l’apprendimento e le di-
namiche psicologiche sottostanti. Da questo punto di vista l’influenza di Piaget sulla scuola è stata
grandissima, perché ha fornito una ricca quantità di nozioni ed idee per perfezionare la concreta atti-
vità didattica, con la produzione di numerose “didattiche psicologiche” modellate sulla sua teoria.
L’immagine del bambino proposta da Piaget, parallelamente a quella dell’insegnante ricercatore, è
quella di un ricercatore serio, tranquillo e, perlomeno per tutta la fase pre-operatoria, individualista.
Il “piccolo scienziato” piagetiano socializza le sue ricerche (cioé la sua attività di conoscenza del
mondo) all’incirca verso i sei/sette anni. Prima, secondo Piaget, il suo sviluppo sociale e linguistico
non gli permettono di assumere completamente il “punto di vista degli altri”, pertanto il bambino
effettua la propria esperienza in modo sostanzialmente egocentrico. Su questo punto si sono con-
centrate le maggiori critiche a Piaget: la sua immagine del bambino sarebbe inadatta a descrivere la
capacità sociale e comunicativa dell’infanzia, più competente e precoce di quanto egli non abbia
ipotizzato (cfr. L. S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio, 1934).
LA PSICOPEDAGOGIA EUROPEA: LA SCUOLA DI GINEVRA

ÉDOUARD CLAPARÈDE (1873 - 1940)


studi di psicologia e neurologia
1905: Psicologia del bambino e pedagogia sperimantale
1912: fondazione dellʼIstituto di Scienze dellʼ Educazione J. J. Rousseau
1920: La scuola su misura 1930: Lʼ educazione funzionale

processi mentali => funzioni con cui lʼorganismo conosce e si adatta alle necessità ambientali

educazione funzionale = > individua i bisogni fondamentali e gli interessi conseguenti

bisogno -> “ogni bisogno tende a provocare le reazioni atte a soddisfarlo”


lʼinteresse -> “ogni comportamento è dettato dallʼinteresse”

leggi la successione genetica -> lo sviluppo individuale ripete lo sviluppo della specie
del lʼ esercizio genetico-funzionale -> lo sviluppo procede attraverso lʼesercizio delle funzioni
lʼ andamento funzionale -> lʼesercizio si produce solo in condizioni di bisogno / interesse
lʼ autonomia funzionale -> il bambino va considerato un essere autonomo e completo
lʼ individualità -> assoluta unicità di ogni destinatario dellʼazione educativa

autoeducazione vs eteroeducazione -> puerocentrismo


maestro = stimolatore di interessi dotato di preparazione psicologica
valutazione: metodi scientifici di controllo del rendimento
“scuola su misura” -> insegnamento individualizzato -> opzioni

programma minimo + ampia offerta opzionale


comune di possibilità di studio

JEAN PIAGET (1896 - 1980)


studi di biologia, zoologia, epistemologia, psicologia
1921: entra nellʼIstituto J. J. Rousseau
1923: “Pensiero e linguaggio nel fanciullo” 1932: “Il giudizio morale nel fanciullo”
1955: fonda il Centro di Epistemologia genetica

psicologia => sviluppo dellʼintelligenza e dei sistemi di conoscenza attraverso la costruzione


genetica (genesi) di nuovi schemi e operazioni nelle fasi proprie di ciascuna età

intelligenza => capacità che permette di adattare il comportamento alle modificazioni ambientali

apprendimento => costruzione di schemi, operazioni, concetti

assimilazione accomodamento

riflessi innati -> azioni -> schemi -> operazioni -> interiorizzate (reversibili)
strutture dʼinsieme -> operazioni concrete / formali -> concetti

fasi di sviluppo dellʼintelligenza: senso-motoria 0 - 2 anni


pre-operatoria 2 - 7 anni
operatoria concreta 7 - 11 anni
operatoria formale 11 anni in poi
sostanzialmente immodificabili

motore dellʼintelligenza del bambino è la sua azione

bambino protagonista attivo del processo di apprendimento


(puerocentrismo / attivismo)

educatore: predisporre le condizioni adatte allʼ esercizio del fare infantile

didattica “psicologica” insegnante ricercatore


PSICOANALISI ED EDUCAZIONE

1. Sigmund Freud
Esaminando la possibilità di “applicare la psicoanalisi alla pedagogia ed all’educazione in generale”,
Freud afferma che “questo compito è (...) forse il più importante dei compiti dell’ analisi” (Introdu-
zione alla Psicoanalisi, 1932). Freud indica due vie attraverso cui la psicoanalisi può venire in soc-
corso dell’ educazione: una - utopistica - consiste nel sottoporre tutti i bambini ad un trattamento
analitico; l’altra, più realistica, consiste nel mettere a disposizione degli educatori le conoscenze e
gli strumenti psicoanalitici che consentano loro di risolvere il compito educativo nel migliore dei mo-
di.
Le scoperte psicoanalitiche riguardanti la psicologia infantile sono state puntualmente tradotte in
precetti educativi per genitori ed insegnanti. La maggior parte di questi precetti è in netto contrasto
con quelli tradizionalmente seguiti nell’ allevamento dei bambini : tipico è l’ esempio dell’ istruzione
sessuale infantile che, un tempo ritenuta dannosa e perciò sconsigliata, viene dalla psicoanalisi, dap-
prima energicamente, in seguito con alcune fondamentali cautele (cfr. Anna Freud, Susan Isaacs,
Françoise Dolto), sostenuta e raccomandata.
Compito dell’educatore - scrive Freud - è insegnare al bambino a padroneggiare le pulsioni, poichè
è impossibile lasciare completamente libero di di seguire i suoi impulsi un individuo il cui destino è
la convivenza con i propri simili. Per assolvere il suo compito l’educazione deve esercitare anche un
azione repressiva: non reprimere sarebbe bello ma è impossibile; però proprio “proprio questa re-
pressione delle pulsioni comporta il pericolo della malattia nevrotica”. Il compito dell’educatore è
quindi quello di trovare “una via di mezzo tra la Scilla della permissività e la Cariddi del divieto fru-
strante”, in modo da ottenere il massimo e nuocere il minimo”, dove il “nuocere il minimo” esprime
l’idea che l’educazione nuoccia comunque e che assomigli ad una “passeggiata sulle uova” in cui
l’abilità consiste nel romperne il meno possibile. Non a caso Freud ha scritto che educare è una pro-
fessione impossibile.
Una volta che la pratica educativa tradizionale diventa per la psicoanalisi oggetto di studio, alcuni
aspetti del rapporto educativo vengono meglio compresi ed evidenziati: l’educatore, ed in particola-
re il genitore, tende a proiettare sul bambino il proprio “ideale dell’ Io”, ed introduce così nel rap-
porto educativo tutte le vicende della propria storia e le traversie del confronto tra l’aspetto mega-
lomanico del proprio ideale dell’Io e la severità del suo Super-Io.
La modalità con cui i genitori sviluppano e fanno fronte ai propri “fantasmi”, il loro‘investimento’
del bambino come oggetto narcisistico, provocano diversi atteggiamenti educativi:
1) la coazione a ripetere spinge certi genitori a riprodurre nel rapporto educativo i tipi di conflitto
da loro stessi vissuti; 2) altre volte la loro modalità di identificazione ed il loro Io li inducono a cer-
care di opporsi, negli atteggiamenti educativi, all’immagine dei propri genitori.

2) Anna Freud
Sigmund Freud affida il compito di applicare la psicoanalisi all’ educazione alla figlia Anna, la quale
ha dedicato la massima parte della propria attività professionale all’analisi dei bambini desumendone
la necessità di un impegno pedagogico della psicoanalisi.
Rivolgendosi a tutti coloro che si prendono cura dei bambini - genitori, insegnanti, pediatri - Anna
Freud li invita a riflettere sui loro interventi educativi allo scopo di prevenire quei disturbi nevrotici
dell’ infanzia che poi è così difficile curare. In particolare, mette in guardia gli educatori da un trop-
po precoce “equilibrio” psichico, raggiunto a costo della “calcificazione” delle dinamiche evolutive:
esaudendo prontamente e completamente le aspettative degli adulti, il bambino paga con una soffe-
renza nevrotica più o meno mascherata il suo essere “buono”; per questo Anna Freud invita a non
guardare con eccessivo compiacimento narcisistico i bambini “troppo buoni”: comportamenti infan-
tili precocemente “maturi” possono infatti sottendere funzionamenti psichici nevrotici.

3) Il ruolo dell’insegnante nell’educazione affettiva


Un merito reale della riflessione psicoanalitica sui processi educativi è quello di aver svelato all’edu-
catore l’altra faccia del suo rapporto col bambino, dandogli consapevolezza del fatto che le sue do-
mande su “che cosa fare” sottendono un desiderio di certezza impossibile, fondato su arcaiche fan-
tasie di onnipotenza, mentre accettare l’ignoto che è nel bambino significa farlo persona, renderlo
soggetto, anzichè oggetto, della sua educazione.
Quando, verso i sei anni, iniziano i processi di culturalizzazione, il bambino proietta sull’insegnan-
te gli atteggiamenti strutturati nei confronti dei genitori ; in questo senso il maestro o la maestra rap-
presentano una derivazione delle relazioni parentali pregresse, ed in particolare della funzione pater-
na. L’insegnante è così destinato ad entrare in conflitto con la figura paterna, conflitto che può:
a) svolgere un’ azione adattante, favorendo le dinamiche di autonomia dalle figure parentali;
b) riacutizzare i problemi edipici ancora irrisolti.
L’insegnante che rimane prigioniero della posizione paterna che il bambino gli attribuisce assume,
inevitabilmente, un ruolo autoritario, che lo eserciti in modo repressivo o tollerante (con la nota con-
trapposizione maestro cattivo - maestro buono).
Una classe scolastica organizzata intorno a fantasie parentali che riproducono il rapporto con il
padre si struttura come una sommatoria di rapporti diadici: l’alunno attende il sapere con una richie-
sta passiva ed esigente, simile all’incorporazione della fase orale.
Quando invece l’insegnante riesce a sottrarsi alle lusinghe narcisistiche e non cerca di porsi come
risposta assoluta alle domande di sapere dell’alunno, allora lascia un positivo vuoto affettivo in cui
si organizzano i rapporti orizzontali tra gli alunni; il maestro, divenendo mediatore tra le richieste
del gruppo e gli scopi culturali che questo si pone, perde la sua centralità ed il suo posto viene preso
dagli oggetti culturali.

Le scuole psicoanalitiche

Sigfried Bernfeld Vienna 1919 - 1920: Istituto Baumgarten per orfani di guerra ebrei
“Antiautoritarismo e psicoanalisi nella scuola”, 1921
traduzione italiana: Milano, Feltrinelli, 1971

Alexander Neill Leiston, Suffolk: “Summerhill”, 1921


“Summerhill, un’esperienza educativa rivoluzionaria”, 1960
traduzione italiana: Milano, Forum Editoriale, 1971

Vera Schmidt Mosca 1921 - 1924 Casa dei bambini


“Educazione psicoanalitica nella Russia Sovietica. Rapporto
sull’asilo di Mosca”, traduzione italiana in:
Chiara Saraceno, “Dall’educazione antiautoritaria all’educazione
socialista”, De Donato, Bari, 1972
Alexander Neill (1883-1973)

Alexander Neill, formatosi allo studio della psicoanalisi nell’interpretazione radicale di Wilhelm
Reich, dà inizio alla comunità educativa di Summerhill, presso Leiston, nel Suffolk, nel 1921.

Educazione non-direttiva

L’esperienza di Summerhill ha molti aspetti in comune con quella tolstojana, anche se presenta una
riflessione più ampia e organica sul concetto di “non direttività”, nutrita soprattutto da un approc-
cio libertario alla lezione della psicoanalisi freudiana.
Come Rousseau e Tolstoj, Neill crede nella bontà originaria del fanciullo che, se non distorta dal-
l’educazione ne farà un adulto interiormente ricco e capace di essere felice. Il problema dell’educa-
zione è anzitutto rivolgersi all’uomo nella sua integralità, occupandosi non solo della formazione in-
tellettuale ma anche di quella emotiva. L’educazione deve adattarsi alle necessità psicologiche del
bambino, senza pretendere di socializzarlo e moralizzarlo precocemente. O il bambino cresce nel ri-
spetto della sua libertà, o il suo sviluppo psichico risulta bloccato o deviato. L’assenza di imposi-
zione non significa però possibilità di tiranneggiare gli altri. Ciascuno ha il diritto di veder rispettata
la sua libertà personale, per cui ciascuno è libero, ma nel rispetto delle esigenze altrui: “Libertà signi-
fica fare ciò che piace, finché questo non limita la libertà degli altri. Il risultato è l’autodisciplina”.

L’itinerario educativo nella comunità di Summerhill

L’itinerario educativo sarà dunque fondato sull’amore, sull’approvazione, sulla libera attività. A
Summerhill si pratica la coeducazione e non esiste costrizione riguardo alle forme di apprendimento.
La comunità, descritta in “Summerhill, un’esperienza educativa rivoluzionaria” (1960), ospita ra-
gazzi e ragazze tra i conque e i sedici anni ed è organizzata nella forma tipica di una scuola nuova,
con aule, convitto, officine, laboratori ed ampi spazi aperti in campagna. Ragazzi e ragazze sono di-
visi in tre gruppi per età, con un assistente per gruppo. Non esiste costrizione nelle attività di ap-
prendimento. Classi organizzate in base all’età e agli interessi seguono a turno le lezioni dei vari in-
segnamenti: inglese, arte, chimica, matematica, geografia, tenute prevalentemente sotto forma di la-
boratorio. Non c’è obbligo di frequenza, ma la discontinuità fa perdere il contatto con la sequenza
degli apprendimenti e finisce per provocare l’esclusione dal gruppo. I pasti avvengono in modo co-
munitario, e la prima metà del pomeriggio è libera per tutti, mentre dalle cinque si svolgono preva-
lentemente attività di officina e artigianato. La sera, a seconda dell’età, si può andare al cinema, a
ballare, assistere o organizzare spettacoli teatrali, partecipare a conferenze. I dormitori per maschi e
femmine sono separati.
Il sistema di Summerhill presenta naturalmente numerosi problemi: ad esempio i più giovani non
hanno rispetto per la proprietà comune. Va ricordato che molti ospiti di Summerhill sono “ragazzi
difficili”, spesso, a detta di Neill, “figli di genitori ansiosi e nevrotici che trasmettono insicurezza e
infelicità” e che devono ritornare ad essere liberi per trovare, in tempi e spazi congeniali, l’equilibrio
parzialmente compromesso.
Ogni problema viene dunque affrontato, discusso e risolto democraticamente con regolare votazio-
ne nelle assemblee della scuola, che possono proporre e approvare leggi e multe per chi disturba la
comunità. Nono è detto che la soluzione adottata sia la definitiva: verrà corretta, se necessario, in
un’assemblea successiva.
. EDUCAZIONE E PSICOANALISI

Sigmund Freud (1856 - 1939)


educatori => utilizzo di conoscenze e strumenti psicoanalitici
compito dell’ educatore => insegnare al bambino a padroneggiare le pulsioni
educazione => necessità di azione repressiva => rischio di nevrosi

trovare “una via di mezzo”


Scilla tra Cariddi
permissività divieto frustrante
educare è una “professione impossibile” (“passeggiata sulle uova” )

educatore => proietta sul bambino il proprio “ideale dell’ Io”


genitori => ‘investimento’ del bambino come oggetto narcisistico
a) la coazione a ripetere riprodurre conflitti da loro stessi vissuti
b) opposizione, negli atteggiamenti educativi, all’immagine dei propri genitori

Anna Freud (1895 - 1982) direzione della Hampstead Child Therapy Clinic di Londra
Il trattamento psicoanalitico dei bambini (1946) Normalità e patologia nell’infanzia (1965)

analisi dei bambini: impegno pedagogico della psicoanalisi. => sogni, giochi, disegno, attività espressive
prevenire i disturbi nevrotici dell’ infanzia => trovare la via di mezzo tra soddisfacimenti e restrizioni
bambini “troppo buoni” nell’ esaudire le aspettative degli adulti => “calcificazione” delle dinamiche evolutive
comportamenti infantili precocemente “maturi” => funzionamenti psichici nevrotici.

Alexander Neill (1883 - 1973) approccio psicoanalitico libertario (W. Reich)


bontà originaria del fanciullo => principio della “non direttività”
integralità della formazione (intellettuale ed emotiva):
avversione alla socializzazione e moralizzazione precoce
libertà totale nel rispetto delle esigenze altrui

Summerhill (1921, Leiston, Suffolk) scuola nuova


ragazzi e ragazze (5 - 16 anni divisi in tre gruppi, un assistente per gruppo)
assenza di costrizione nelle attività di apprendimento: non c’è obbligo di frequenza
aule e laboratori (inglese, arte, chimica, matematica, geografia)
convitto: pasti comunitari
prima metà del pomeriggio libera per tutti
ampi spazi aperti in campagna
officine e artigianato (dopo le 17)
sera: cinema, teatro, ballo, conferenze
notte: dormitori separati maschi / femmine
assemblee democratiche: leggi e multe per chi disturba la comunità

accoglienza di “ragazzi difficili” => figli di genitori ansiosi e nevrotici che


trasmettono insicurezza e infelicità

liberi di trovare, in tempi e spazi congeniali,


l’equilibrio parzialmente compromesso
La creatività nel dibattito pedagogico

Le posizioni più significative sul tema della creatività, in ambito pedagogico, sono quelle assunte
da J. Dewey, per il quale la creatività è quella forma di intelligenza più duttile nel seguire il divenire
ininterrotto dell’esperienza, che mostra la capacità di “infuturarsi” allentando i legami che la tratten-
gono all’esperienza attuale.
J. S. Bruner considera invece un’azione creativa “qualsiasi atto che produca una sorpresa pro-
duttiva, cioè una modificazione concreta inaspettata nelle diverse attività in cui l’uomo si trova coin-
volto. Tutte le forme di sorpresa produttiva hanno la loro origine in una particolare forma di attività
combinatoria, in un disporre i dati in prospettive nuove. Qualsiasi atto creativo si avvale perciò del
procedimento euristico che ha come momento essenziale l’atto della scoperta: un’operazione di rior-
dinamento e di trasformazione di fatti evidenti che permette di procedere al di là di quei fatti verso
una nuova intuizione”.
G. Calvi, condividendo la tesi di E. P. Torrance secondo cui la creatività cresce in contesti non
autoritari e a misura della riduzione dei controlli, afferma che “l’alunno creativo risulta sempre og-
getto di pressioni che lo inducono a ridurre le prestazioni, perchè le procedure educative hanno in
vista il gruppo omogeneo e si ispirano a valori di uniformità rispetto a cui il crativo è una variabile
imprevedibile. A ciò si aggiunga che gli insegnanti sembrano desiderare la creatività degli alunni, ma
sono spesso nell’impossibilità di favorirla a causa di particolari limiti di personalità” (Calvi G., La
creatività, in Nuove questioni di psicologia, La Scuola, Brescia, 1972).
Sfavorevoli alla creatività sono per Torrance le scuole che si regolano sul programma e non sul cur-
riculum dello studente dove l’acquisizione di contenuti programmati non concede itinerari creativi.
Emile Durkheim: “La sociologia e l'educazione” (1922)

Ai problemi teorici e pratici dell'educazione, Durkheim dedica una viva attenzione nel corso dei
suoi ultimi anni. Nell'affrontare il problema dell'educazione egli tiene fermi due principi: il primo
verte sull'assoluto primato della società sull'individuo; il secondo fa capo ad un'ideologia pregiu-
diziale della natura umana che opporrebbe resistenza all'interiorizzazione dei valori sociali.
Durkheim considera infatti la natura umana tendenzialmente inerte e oppositiva rispetto ai doveri
sociali; anticipando le tesi freudiane del Disagio della Civiltà, arriva alla conclusione che la socia-
lizzazione della natura umana non può prescindere da un certo grado di repressione.
Per Durkheim l'educazione è essenzialmente riproduzione sociale: "Ogni società, considerata ad
un momento determinato del suo sviluppo, ha un sistema di educazione che si impone agli individui
con una forza generalmente irresistibile. (…)Vi è dunque, in ogni periodo, un modello normativo
dell'educazione, dal quale non possiamo discostarci." Ora, i costumi e le idee che determinano que-
sto modello non siamo stati noi, individualmente, a crearli. Sono il prodotto della vita in comune e
ne esprimono le necessità; essi sono, nella maggior parte, opera delle generazioni anteriori. Tutto il
passato dell'umanità ha contribuito a creare questo insieme di massime che inquadrano l'educazio-
ne. L’individuo non può pretendere di ricostruire, col solo sforzo della sua ‘cogitazione personale’,
quello che è frutto dell’opera di tante generazioni che l’hanno preceduto.
Ogni società si forma un certo ideale dell'uomo, di quello che deve essere dal punto di vista intel-
lettuale, fisico e morale; questo ideale è, in una certa misura, lo stesso per tutti i cittadini, ma esso si
differenzia secondo gli ambienti particolari che ciascuna società comprende nel suo seno. E' questo
ideale, contemporaneamente uno e diverso, che costituisce per Durkheim il ‘polo’ dell'educazione.
L’educazione consiste, per il sociologo francese, in una “socializzazione metodica” delle giovani
generazioni. In ognuno di noi, afferma, esistono due esseri: l'uno è fatto da tutti gli stati mentali che
non si riferiscono che a noi stessi e agli avvenimenti della nostra vita personale: è quello che si po-
trebbe chiamare l’essere individuale. L'altro è un sistema di idee, di sentimenti e di abitudini, che
esprimono in noi non la nostra personalità, ma il gruppo o i gruppi diversi di cui facciamo parte. Di
questo genere sono le credenze religiose, le pratiche morali, le tradizioni nazionali o professionali,
le opinioni collettive di ogni genere. Il loro insieme forma l'essere sociale: costituire questo essere
in ciascuno di noi è lo scopo finale dell'educazione.
Spontaneamente l'uomo non sarebbe propenso a sottomettersi ad un'autorità politica, a rispettare
una disciplina morale, ad aver dedizione ad un modello o un ideale e a sacrificarsi: «E' la società
stessa che, a misura che si è formata e consolidata, ha estratto dal suo seno queste grandi forze
morali, davanti alle quali l'uomo ha sentito la propria inferiorità.»
Se la società, afferma Durkheim, modella secondo i propri bisogni gli individui, «può sorgere il
dubbio che questi subiscano per tal fatto un'intollerabile tirannia». Viceversa, in realtà sono essi
stessi interessati a questa sottomissione, perché l’essere nuovo che l’azione collettiva, attraverso
l’educazione, edifica in ciascuno di noi, rappresenta quello che vi è in noi di propriamente umano.
L'uomo, infatti, non è un uomo che perché vive in società: «E' la società che ci fa uscire dal nostro
egocentrismo, che ci obbliga a tener conto di altri interessi che non sono i nostri, che ci ha insegnato
a dominare le nostre passioni, i nostri istinti, a dare loro una legge, ad aver soggezione, a privarci, a
sacrificarci, a subordinare i nostri scopi personali a scopi più elevati».
Durkheim arriva a paragonare l’atto educativo alla suggestione ipnotica: per analogia, si può dire
che l'educazione deve essere essenzialmente un'azione di autorità. L'educazione ha infatti, secondo
Durkheim, lo scopo di sovrapporre, all'essere individualista e asociale che noi siamo alla nascita, un
essere totalmente nuovo, portandoci a superare la nostra natura originaria. Il senso del dovere é per
il fanciullo e per lo stesso adulto lo stimolante dello sforzo per eccellenza. Ma il fanciullo non può
conoscere il dovere che per il tramite dei suoi maestri o dei suoi genitori. Non può sapere quello che
è se non attraverso la maniera nella quale glielo rivelano, mediante il loro linguaggio e la loro con-
dotta. E' quindi necessario che essi siano per lui il dovere incarnato e personificato: “L'educatore –
conclude Durkheim - è il mandatario di una grande persona morale che lo trascende: la società”.
Jacques Maritain: la concezione dell’educazione

Nato a Parigi da una famiglia protestante, Jacques Maritain (1882-1973), discepolo di Bergson, si
laurea alla Sorbona e si converte al cattolicesimo; insegna filosofia all’Istituto cattolico di Parigi e
in seguito negli Stati Uniti, alla Columbia University e all’Università di Chicago. Nel 1925 pubblica
Tre riformatori: Lutero, Cartesio, Rousseau, atto di accusa della scristianizzazione introdotta dal
protestantesimo e proseguita nella modernità fino alla degenerazione sociale contemporanea. Dieci
anni dopo uscirà Umanesimo integrale, la cui soluzione è il ritorno ad un personalismo cristiano di
tipo tomista. Il ruolo dell’educazione nella restaurazione cristiana verrà quindi descritto in Educa-
zione al bivio (1943) e ne L’educazione della persona (1959).
Maritain ritiene che di fronte alla crisi della civiltà contemporanea e dell’educazione, imputabile al
diffondersi del materialismo, del pragmatismo, del sociologismo, occorra una pedagogia nuova, che
sappia ispirarsi a un nuovo umanesimo, capace di rinnovare completamente l’umanità. La proposta
pedagogica di Maritain consiste dunque nel superamento della visione sia individualistico-naturali-
stica, sia sociale dell’educazione, nella ricerca di una filosofia adeguata e nel quadro di un nuovo
umanesimo. Tale umanesimo dovrà fondarsi su una filosofia cristiana, che ha avuto, secondo Mari-
tain, nell’opera di Tommaso d’Aquino la sua migliore sistemazione sul piano pedagogico.
Il tomismo pedagogico di Maritain si esplica nell’affermazione della centralità dell’uomo come
persona, come “universo” a sé stante. Il significato di tale personalismo viene chiarito in Umane-
simo integrale (1936), dove si afferma che «si tratta di passare da un umanesimo antropocentrico,
incentrato solo sull’homo faber, ad uno teocentrico nel quale, tuttavia, il riferimento a Dio non si-
gnifica l’annullamento dell’uomo, ma piuttosto la condizione della sua piena e completa realizza-
zione».
Ad un umanesimo parziale, tutto incentrato sulla tecnica, si contrappone dunque un umanesimo
integrale, disponibile ad accogliere l’uomo in tutte le sue espressioni, in tutti i suoi valori, in tutte le
sue potenzialità.
Per realizzare tale umanesimo integrale, occorre dunque un’ «educazione integrale», la quale porrà
fine «alla discordia tra l’esigenza sociale e quella individuale nell’uomo stesso. Essa deve quindi
sviluppare insieme il senso della libertà e quello della responsabilità, quello degli umani doveri, il
coraggio di affrontare i rischi e di esercitare l’autorità per il bene generale e, al tempo stesso, il ri-
spetto dell’umanità in ogni persona individuale».
L’opera del maestro deve dunque essere regolata da quattro norme fondamentali:
1) incoraggiare e favorire quelle disposizioni fondamentali che permettono al bambino di
svilupparsi nella vita dello spirito;
2) centrare l’attenzione sull’intima profondità della personalità e del suo dinamismo spirituale;
3) unificare, non disperdere, ovvero sforzarsi di assicurare e nutrire l’intera unità dell’uomo;
4) liberare l’intelligenza invece di sovraccaricarla.

Il rispetto dell’allievo, comunque, non presuppone, per Maritain, uno spontaneismo in nome di
presunti interessi o bisogni naturali, poiché egli è convinto che «l’educazione propriamente detta
non comincia che quando il fanciullo si adegua all’educatore, alla cultura, alla verità, al sistema di
valori che egli ha la missione di trasmettergli».
Walter Benjamin: le ragioni dell’infanzia

Con il ‘24 Walter Benjamin dà avvio a un confronto con il mondo dell’infanzia e con la cosiddetta
Kinderliteratur in cui egli si rivela nel ruolo di “educatore”, a un tempo ingegnoso e discreto, e di
studioso di questioni pedagogiche. Si dischiude così un’ulteriore sfaccettatura della caleidoscopica
produzione di Benjamin, sempre abile nel coinvolgersi con grande ginnastica interdisciplinare in
campi estremamente diversi. Non è parso improprio, al riguardo, parlare di un autentico “esperi-
mento” pedagogico (mantenuto peraltro sul piano della scrittura, senza convolgimento in una veri-
fica pratica).
Gli sforzi di penetrare concettualmente l’universo infantile sono documentati, oltre che da una con-
ferenza del 1929 intitolata Letteratura per l’infanzia, dalle recensioni apparse sulla “Frankfurter
Zeitung”, in cui Benjamin ha occasione di esporre le ragioni che sorreggono la sua passione antiqua-
ria, e da un folto gruppo di conferenze radiofoniche, che egli ha letto alla radio, con frequenza quasi
regolare, negli anni compresi tra il 1929 e il 1932. A tali testi andrebbero peraltro affiancate non po-
che pagine della Strada a senso unico e dell’Infanzia berlinese, così come andrebbe ricordato l’amore
per l’opera di Proust; il “luogo” in cui Benjamin ha visto intrecciarsi in maniera straordinaria il mon-
do dell’adulto e quello del bambino.
Nella centralità dell’interesse di Benjamin per le problematiche pedagogiche e per il mondo non an-
cora deformato dell’infanzia e della fantasia creatrice, si potrebbe ravvisare uno spostamento d’inte-
resse dalla “Jugend” alla “Kindheit”, ossia dalla potenzialità della Gioventù a quella dell’Infanzia.

Le recensioni pedagogiche (1924 - 32)

Sul piano giornalistico, l’interesse teorico-pratico per le problematiche dell’infanzia è evidente an-
zitutto in un corpus di brevi scritti che si estendono dal 1924 al 1932 e che si potrebbero radunare
sotto la categoria più generale di “recensioni pedagogiche”. Si tratta di approfondimenti certamente
occasionali, che non vanno intesi come l’elaborazione di una vera e propria teoria pedagogica, ma
che tuttavia risultano indubbiamente stimolanti e ricchi di suggestioni per la stessa pedagogia odier-
na. Di tale corpus fanno parte in primo luogo due recensioni concernenti gli antichi libri per bambini
(Vecchi libri per l’infanzia I e II, 1924); ad esse seguono - quattro anni più tardi - gli articoli Antichi
giocattoli, Giocattolo e gioco, Storia culturale del giocattolo, Abbecedario di cent’anni fa.
Nel ‘29 è la volta di una recensione di un libro di Edwin Hoernie dedicato all’ “educazione proleta-
ria” (Una pedagogia comunista). Nel ‘30 escono tre recensioni: Elogio della bambola, Pedagogia
coloniale, A proposito di un abbecedario. Nel ‘32 esce una recensione - intitolata Pestalozzi ad
Yverdun - di un libro su Pestalozzi di Alfred Zander.
L’interesse di Walter Benjamin per il mondo dell’infanzia presenta una indubbia contiguità con il
suo costante dedicarsi alla passione antiquaria, al “sogno del collezionista”, soprattutto quand’esso
è indirizzato verso ciò che è anacronistico, “invecchiato”, emarginato dalla storia dei grandi eventi.
I collezionisti veri, questi extra-vagantes capaci di frequentare territori altri rispetto alla maledizio-
ne dell’essere utili, orientano il loro sguardo verso scarti-reliquie in cui appare assopito il ricordo di
strati originari che gli uomini del moderno paiono aver cancellato o rimosso. Ogni recupero collezio-
nistico, che è insieme anche un salvataggio, può paradossalmente equivalere a un gesto di sabotaggio:
“La vera, disconosciuta passione del collezionista - si legge in Elogio della bambola - è sempre anar-
chica, distruttiva”. In questo sfondo, il mondo dei bambini appare come il regno in cui la “schiavitù
di essere utili” appare intimamente problematizzato, data la marginalità (se non la totale irrilevanza)
che essi occupano nel sistema produttivo degli adulti.
Di qui discende la quasi programmatica resistenza benjaminiana a “crescere”, il suo voler restare
dalla parte delle fate e die bambini anziché da quello dei benpensanti, degli adulti cresciuti in modo
sbagliato. I destinatari specifici degli scritti benjaminiani sulla lettereatura per l’infanzia sono non
tanto i bambini, quanto piuttosto gli adulti, e ciò non solo perchè egli è convinto che “i bambini pos-
sono educare gli educatori attenti”, ma perchè l’attingere alle macerie del dimenticato e al forziere
magico dell’infanzia si direbbe si configuri - nell’extra-vagare benjaminiano - come un semplice pre-
testo per strappare quegli scarti della tradizione culturale al conformismo che tende a sopraffarli.
Alleandosi con i bambini, nel cui linguaggio, nel cui gioco e nel cui rapporto con le parole, immagini
e colori egli scorge le tracce di una segreta, quasi edenica felicità, Benjamin mira soprattutto a sot-
trarre tali testi all’universo di certezze dei benpensanti. In tal senso i libri per bambini, quando in
essi non sia intervenuta l’impronta moraleggiante, restano una sorta di testo sacro, un luogo in cui
alberga quella promessa di felicità che tanti adulti hanno smarrito o tradito, e al quale i bambini pos-
sono aderire grazie a una fantasia senza grammatica, capace di veder adunarsi parole in sempre nuovi
“costumi”. Nel bambino scatta cioé una sorta di gioiosa e giocosa identificazione mimetica, tanto più
con il libro illustrato, con la lettura degli abbecedari e con le immagini colorate, che rappresentano
per lui il primo ingresso nel mondo del racconto e un momento di autoliberazione e vittoria sulla
paura.
Se i grandi, incapaci di “restar fedeli” ai paesi delle fiabe che hanno permeato i loro cuori di bambini
e di portare a “compimento” nell’esistenza adulta i desideri espressi da piccoli, appaiono a Benja-
min ormai vivere mutilati della loro infanzia, i bambini, in quanto portavoce della speranza delle ge-
nerazioni gli sembrano esposti alla minaccia di dover vivere esclusivamente in modo infantile.
Mentre l’adulto borghese è par excellence un accumulatore di cose da fruire, il bambino - nella nobil-
tà di intenzioni che Benjamin gli attribuisce - mira a goderle e a gustarle, da vero seigneur quale il
benpensante invece non sa essere. I bambini sanno accettare di essere guardati dalle immagini, anzi-
ché piegarle al proprio utile. Assistono al libero fluire e parlare delle immagini, al dipanarsi del mon-
do quasi riposante in se stesso, alle suggestioni che scaturiscono dalle cose-giocattoli o dai giocattoli
stessi, se ne lasciano permeare, in uno spontaneo travasarsi in essi tramite il gioco, sì da trasformare
a propria misura gli oggetti del loro amore. I bambini appaiono coinvolti dalla dialettica tra accettare
e trasformare: accettare le leggi del diverso, del gratuito, del divertente, che tralucono dai libri di figu-
re; trasformare e rovesciare istintivamente i materiali con cui la loro prima esperienza storica li chia-
ma a confronto: colori, lettere, figure, cui la loro fantasia - instancabile - sembra lasciare in serbo
sempre nuove combinazioni. i bambini paiono condotti da due costanti della letteratura fiabesca
quali l’esagerazione e la ripetizione. Grazie all’esagerazione essi parrebbero infatti capaci di sfuggire
in qualche modo alle violenze di adulti che propinano o destinano loro storie atroci come quelle nar-
rate nel celebre Pierino porcospino (1845) di Heinrich Hoffmann. Grazie poi alla dinamica della ri-
petizione (il “racconta di nuovo!”) sia il bambino che l’adulto sono messi in condizione di porsi
oltre il terrore e sottrarvisi.
Contro i terrorismi pedagogici, o comunque contro la “corsa” affannosa ad additare “mete” ai bam-
bini o a sciorinar loro “un sapere prefissato”. Benjamin non manca di entusiasmarsi - tra gli scarti da
lui amorevolmente raccolti - per quegli abbecedari, sillabari, o libri di lettura in cui risulti evidente la
preoccupazione di “tutelare la sovranità di chi gioca, di non fargli sprecare energie nei contenuti di-
dattici e di bandire il terrore con cui le prime cifre o lettere così volentieri si piantano come un fetic-
cio davanti al bambino”. In quest’ottica neo-illuministica, non sorprende che i bambini vengano da
Benjamin investiti di un ruolo centrale ai fini di un programma di rinnovamento socio-culturale che
non potrà certo limitarsi agli aspetti pedagogici. É questo il tratto distintivo che il saggista berlinese
rinviene anche nel collezionismo praticato dai bambini, i quali - notoriamente - sono irresistibilmente
attratti da ciò che rimane dei lavori di muratori, sarti, falegnami, e riescono a tramutarli in oggetto di
gioco. Non a caso un appunto dei Passagen-Werk (I “Passages” di Parigi) ribadisce che Kinderbü-
cher (libri per bambini), figure e illustrazioni consentono, a chi con intelligenza colleziona scarti di
qualità , di “prendere posizione” nella “lotta contro la distrazione e di guardare il mondo con occhi
sgranati, da autentico puer.
Nella difesa delle ragioni dell’infanzia, Benjamin attacca ferocemente e rigetta quella che passa sot-
to il nome di “pedagogia coloniale”, un sistema educativo volto - a suo giudizio - a stravolgere la
“delicata e riposta” fantasia del bambino. Offrendo indicazioni di rotta quantomai preziose anche
oggi, Benjamin scrive in proposito nella sua magistrale recensione dal titolo Pedagogia coloniale:
“La delicata e chiusa fantasia del bambino viene intesa senza scrupoli di sorta, come domanda psi-
cologica nel senso di una società produttrice di merci, e in essa, con squallida disinvoltura, l’educa-
zione viene considerata come lo sbocco coloniale per lo smercio di beni culturali”. Questo testo è un
vero e proprio atto di condanna della società dei consumi, che sfrutta la fantasia del bambino a fini
meramente commerciali. Alla “pedagogia coloniale” Benjamin vorrebbe veder sostituita piuttosto
un’educazione che esuli dai valori individualistici dominanti e che abbia invece un’ “autorità” nel
“collettivo”, in frontale opposizione comunque rispetto alla pedagogia degli anni Venti che mira a
preservare i bambini dal mondo conflittuale dei “grandi” mantenendoli entro una campana di vetro.
Anche rileggendo il giocattolo egli non manca di metterne in evidenza la funzione di collegamento tra
l’individuo e la realtà che lo circonda. In tale direzione si muove soprattutto il suo scritto Una peda-
gogia comunista, nel quale lo scrittore berlinese auspica che nei bambini stessi venga favorita una
presa di coscienza delle condizioni sociali in cui essi sono chiamati a svilupparsi, compresi lo sfrut-
tamento e l’oppressione da cui essi possono essere interessati, poichè è insostenibile che l’infanzia
resti assolutamente immune dalle contraddizioni in cui si dibattono gli adulti: soltanto se ciò avvie-
ne, è possibile affermare che la pedagogia proletaria garantisce loro il “compimento” della loro infan-
zia. Nel senso di questa “politicizzazione” dei fattori educativi, si muove anche il Programma per
un teatro proletario dei bambini. Il teatro qui prefigurato, è concepito come uno spazio scenico di
rappresentazione concreta della vita nel suo fluire e nelle sue illimitate variazioni, come un luogo
storicamente determinato di educazione, alternativo all’individualismoe all’idealismo, un teatro che
diventa “rappresentativo di un mutato rapporto fra adulti e bambini” (E. Fachinelli).

Le conferenze radiofoniche per i ragazzi

Il folto gruppo delle “narrazioni radiofoniche” con cui il saggista berlinese si rivolge ai ragazzi “dai
dieci ai quindici anni”, nella cosiddetta “Ora dei ragazzi” della durata compresa tra i venti e trenta
minuti, confermano la centralità dell’interesse benjaminiano per le problematiche pedagogiche e per
il mondo non ancora deformato dell’infanzia e della fantasia creatrice, posto al centro delle proprie
costellazioni simboliche e recuperato con stupore e reverenza in chiave materialistica e antiidealisti-
ca. Garbato e ingegnoso collezionista di storie e di aneddoti adatti alla logica dell’ascolto, nella mez-
z’oretta di splendido intrattenimento Benjamin si rivela un micro-narratore capace di informare e
intrattenere con la spigliatezza di chi conosce alla perfezione le nuove possibilità tecniche dischiuse
dalla radio. Sa ammannire curiosità ed erudizione con il tono di uno zio che abbia molto viaggiato,
condendolo qua e là con il ricorso ad effetti stranianti à la Brecht e con l’occhio guardingo e disin-
cantato del perlustratore del Moderno nelle sue ambivalenze. Ogni micro-narrazione diviene il veico-
lo di un messaggio rivolto a fruitori impalpabili, inafferrabili, a ragazzi per i quali può essere perti-
nente, a tutti gli effetti, l’appellativo di “Stimati invisibili!” che apre la conferenza Letteratura
per l’infanzia. Il filo rosso che lega queste micro-narrazioni è, non a caso, un discreto, ininterrotto
illuminismo di sottofondo che sembra protrarre nel XX secolo le tonalità critico-didat-tiche del
XVIII. Fedele al procedimento della mescolanza (o di montaggio) di elementi eterogenei, al sapiente
assemblaggio di esperienze dirette, descrizioni, citazioni, commenti riflessioni, Benjamin mira, in
fondo, a promuovere grazie ad esse una sorta di singolare e stimolante “illuminismo per ragazzi”.
L’intento appare quello di divertire insegnando (delectando docere), secondo un modello caro alla
stessa drammaturgia di Bertoldt Brecht, al quale il critico berlinese si stava interessando proprio in
quegli anni. Non deve sorprendere tale vigilanza laico-illuministica su un terreno quasi vergine qual è
il mondo della formazione di ragazzi e adolescenti, estremamente esposto alle mire di una vera e
propria “pedagogia coloniale”. A questo riguardo, anche le vivaci e sapienti chiacchierate di Benja-
min alla radio, si pongono come un autentico antidoto a una educazione considerata come il sempli-
ce “sbocco coloniale” per lo “smercio” di istanze culturali che si prefiggono tutt’altro che il fine di
risvegliare l’autonomo sguardo e il giudizio di chi ascolta (o legge).
Per Benjamin, non si tratta di mediare delle conoscenze manipolando più o meno crudamente le
giovani coscienze degli ascoltatori, ma di destare curiosità inducendo nei ragazzi una propria “capa-
cità di osservazione”. Si tratta, in fondo, di agire criticamente quasi con la discrezione maieutica del-
l’Haskalah, dell’Illuminismo ebraico, del maestro che addensa problemi, difficoltà e suggestioni ri-
manendo il più possibile nell’ombra, quasi cancellando se stesso, affinchè sia l’allievo a rifulgere tro-
vando il proprio personale cammino verso il vero. Benjamin sembra suggerire che forse proprio in
questo modo è possibile condurre gli “egregi invisibili” al conoscere e all’apprendere in prima perso-
na, rendendoli vigili dinanzi al grande aperto della vita, alle soglie della “foresta dell’età virile” (im-
magine presente nell’Infanzia berlinese).
Benjamin non esita - invitando i bambini a guardarsi dall’impostura - a misurarsi in modo ironico e
scanzonato con il mondo della magia e del demonico (il Faust goethiano, Cagliostro, i racconti di
Hoffmann). Facili bersagli di un illuminismo antiautoritario sono il polo dell’insegnamento scolasti-
co tradizionale e la figura del “maestro di scuola” con le sue certezze preconfezionate.
In senso più propositivo, Benjamin non tralascia neppure l’opportunità di far apprendere preziosi
elementi sullo sviluppo della tecnica industriale (Visita a una fonderia dell’ottone).
Agli “egregi invisibili” non vengono poi risparmiate storie “di oppressi, perseguitati e prigionieri”
(come ad esempio i detenuti del carcere francese della Bastiglia o il trovatello Caspar Hauser), oppu-
re li introduce in realtà scabrose come la camorra napoletana o le antiche bande di briganti e banditi
in Germania, visti come mitici riparatori di torti. O, infine, ripercorre per loro l’esperienza del boot-
leggers americani, ossia dei contrabbandieri di bevande alcoliche che negli anni Venti e nei primi anni
Trenta hanno sfidato la prohibition e il puritanesimo: Benjamin sa bene che le sue scelte tematiche
dovranno misurarsi con le obiezioni del mondo adulto; all’inizio della trasmissione sui contrabban-
dieri egli rende esplicito l’inevitabile interrogativo che gli par di veder spuntare sulle labbra di certi
genitori , che si interessano della questione “se sia o no il caso di raccontare simili storie ai bambini”.

Sintesi da: GIULIO SCHIAVONI, Walter Benjamin. Il figlio della felicità. Un percorso biografico e
concettuale. Einaudi, Torino 2001
JEROME SEYMOUR BRUNER: OLTRE LA SCUOLA ATTIVA

Nel panorama della cultura americana della seconda metà del XX secolo, J. S. Bruner è stato il
fondatore dello strutturalismo educativo. Se il pragmatismo deweyano e il modello delle Scuole
Attive aveva dominato lo scenario educativo americano fino agli anni sessanta, Bruner rappresenta
il cosiddetto “dopo Dewey”. Nato a New York nel 1915, J. S. Bruner è stato docente di psicologia
ad Harvard, disciplina dove si era formato alla scuola del Funzionalismo, della Gestalt e del
Comportamentismo. Dopo le prime ricerche di psicologia sociale, dagli anni ‘50 Bruner si è
occupato costantemente di processi percettivi e dell’influenza dei fattori sociali nello sviluppo
cognitivo. Il suo nuovo indirizzo di ricerche, che contrastava il comportamentismo pragmatista, fu
chiamato New look on perception. Nel 1960, Bruner si impegnò in nuovi ambiti di ricerca psico-
pedagogici. Le sue ricerche in questo campo avevano una motivazione politico-educativa: il lancio
del primo Sputnik sovietico, avvenuto nel 1957, aveva evidenziato un ritardo tecnologico degli Stati
Uniti rispetto all’Unione Sovietica. Questo aveva portato la società americana a riflettere
sull’effettiva funzionalità del sistema scolastico statunitense, ancora fondato sul modello attivista.
L’attivismo era - per Bruner – eccessivamente concentrato sugli interessi e i bisogni spontanei degli
alunni, troppo “puerocentrico”. Da ciò deriverebbe lo scadimento dei livelli d’istruzione. Così nel
1959, l’Accademia Nazionale delle Scienze si riunì a Woods Hole per migliorare e rendere più
efficienti i programmi scolastici e i metodi di insegnamento. La conferenza fu presieduta da Bruner.
Esito della conferenza fu l’uscita nel 1960 del rapporto di revisione del sistema scolastico con il
titolo The process of education. La nuova proposta psico-pedagogica contenuta nel rapporto fece
presto il giro del mondo e nel decennio che seguì Bruner continuò ad approfondire la sua ricerca
pedagogica nel filone della psicologia cognitiva. Le principali opere pedagogiche di Bruner sono:
Dopo Dewey. Il processo di apprendimento nelle due culture (1964); Lo sviluppo cognitivo (1966);
Il conoscere. Saggi per la mano sinistra (1968); Il significato dell’educazione (1971); Verso una
teoria dell’istruzione (1991); La cultura dell’educazione (1996).

Bruner: il confronto con l’attivismo e con Piaget


In Dopo Dewey, Bruner formalizza, attraverso il confronto con Il mio credo pedagogico di Dewey,
una svolta pedagogica in senso strutturalista. Due cose Bruner intende fare: a) mettere a punto una
strategia didattica capace di andare al di là della centralità dell’esperienza nel processo educativo
(attraverso il confronto critico con Dewey); b) studiare una metodologia capace di andare al di là
dell’evoluzione spontanea dello sviluppo mentale (attraverso il confronto critico con Piaget).
Secondo Bruner, l’idea pedagogica attivistica non è più adeguata alla società contemporanea:
1. Dewey, afferma Bruner, ha sostenuto che il metodo è implicito nello sviluppo del fanciullo, per
cui ci si deve far guidare dai suoi bisogni e interessi: il ritmo è dato dal fanciullo stesso, se ne
devono rispettare i tempi. Secondo Bruner lo sviluppo mentale dipende invece dal saper
padroneggiare le tecniche della propria cultura. Lo sviluppo non è continuo, non procede per stadi,
ma ha degli avanzamenti, delle pause, delle sedimentazioni. L’ambiente in cui è inserito il soggetto
favorisce lo sviluppo e l’accelerazione dell’evoluzione. E’ possibile adeguare la struttura
psicologica individuale del soggetto all’oggetto che deve essere appreso.
2. Secondo Dewey, partecipando democraticamente alla vita scolastica, l’individuo forma una
sicura coscienza sociale. Per Bruner, i rapporti democratici non possono garantire il risultato
educativo, è necessario attuare una riforma strutturale dell’istruzione. La società può progredire
solo se si aiutano gli individui ad accedere a saperi sempre più complessi. Per Bruner i contenuti
scolastici devono trascendere l'esperienza immediata sganciando l'individuo da una visione
empirica del sapere e porlo in una prospettiva logico-scientifica caratterizzata dall'astrazione e dal
linguaggio simbolico, attraverso il possesso delle grandi idee organizzatrici delle singole discipline
(strutture). La scuola è sì il mezzo fondamentale della riforma sociale, ma deve innazitutto
trasmettere a tutti i linguaggi fondamentali con i quali si accede al sapere, specie in una società a
rapido sviluppo tecnologico come l’attuale.
In generale: mentre Dewey aveva concepito il pensiero e la conoscenza come strumenti per
l'azione, Bruner riafferma il primato del pensiero sull'attività umana, individuale e sociale. E’ il
pensiero che influenza l’azione, non viceversa. In altre parole è la cultura a formare la nostra
impostazione mentale, fornendoci gli strumenti necessari a organizzare e comprendere il mondo: la
mente stessa, quindi, non potrebbe nemmeno esistere senza una cultura di riferimento.

Nell’analisi dei processi di apprendimento, Bruner parte dalla prospettiva di Jean Piaget, per
cercare successivamente di “ampliarne” le posizioni teoriche con la decisiva influenza dei fattori
socio-culturali rispetto a quelli genetici. Secondo Bruner, Piaget si è limitato a spiegare
l’apprendimento come processo di maturazione delle strutture mentali (fisiologismo/biologismo),
trascurando la dimensione socio-culturale, che può agevolare la crescita e il potenziamento dello
sviluppo. Per Bruner gli stadi di sviluppo non sono collegati solo all’età, i fattori ambientali
possono influenzare lo sviluppo sia positivamente che negativamente, determinando anticipazioni o
ritardi. Secondo Bruner tutto può essere insegnato a tutti in qualsiasi età, purché il contenuto sia
tradotto in forme di rappresentazione adatte; è possibile accelerare i processi di apprendimento,
quindi non è mai troppo presto per introdurre l’alunno nel mondo del sapere: «Si può insegnare
qualunque cosa in forma onesta a chiunque in qualsivoglia età, proprio perché qualunque idea può
essere tradotta in modo corretto e utile nelle forme di pensiero proprie del fanciullo di età
prescolastica. Queste prime rappresentazioni possono essere in seguito riprese, approfondite e
precisate meglio». Bruner condivide l’opinione della Montessori, secondo cui il momento più
produttivo per l’apprendimento della lettura e della scrittura è quello dei periodi critici o sensitivi,
tra i tre e i quattro anni. In quella fase dello sviluppo, il fanciullo è capace di assorbire tutte le
informazioni diffuse nell’ambiente; e lo fa inconsciamente, senza compiere alcuno sforzo. Bruner
nel processo educativo attribuisce un ruolo di fondamentale importanza all’ambiente familiare,
sociale e scolastico frequentato dall’alunno. Nell’era di un avanzato processo di sviluppo industriale
e tecnologico, non è più opportuno aspettare la fioritura e la spontanea maturazione dell’alunno,
intorno ai sei anni di età, per iniziare il normale processo di alfabetizzazione. A quell’età è già
troppo tardi e molte strutture mentali si sono ormai consolidate, perdendo la naturale plasticità degli
anni precedenti. Bruner dà molta importanza al linguaggio inteso come mezzo per interiorizzare le
esperienze, e all’insegnamento: sostiene infatti che si possa insegnare al bambino qualsiasi cosa,
basta tener conto delle sue capacità attuali di elaborare il messaggio. Pertanto spetta all’istruzione
precedere, accompagnare e dirigere il processo di sviluppo. Bruner pensa che le fasi dello sviluppo
cognitivo infantile – formulate da Piaget in maniera piuttosto rigida - possano essere anticipate,
accelerate, guidate dall’intervento educativo esterno, operato attraverso l’istruzione.

Bruner: il concetto di strutturalismo pedagogico


La proposta didattica di Bruner è di orientamento strutturalista. Con il rispetto dovuto alle
modalità soggettive dell’acquisizione della conoscenza, il motivo centrale della didattica di Bruner
è la nozione di struttura, con cui si indica l’idea generale, o l’insieme di principi fondanti una
determinata disciplina. Secondo Bruner, oggi non è più possibile pensare di poter trasferire l’intero
patrimonio culturale dell’umanità: non ha più senso un ideale enciclopedico del sapere, proprio
perché i saperi si sono differenziati e specializzati in modo formidabile. Si tratterà dunque di fornire
ai giovani gli strumenti metodologici, le capacità critiche che li rendano capaci di interpretare e
padroneggiare la realtà: sono le strutture, ossia i fondamenti delle discipline. Il compito
fondamentale della ricerca pedagogica è dunque quello di individuare le idee fondamentali delle
singole discipline, le strutture di fondo che le sostengono, così da ordinare su di esse gli itinerari e
gli obiettivi di insegnamento. L'insegnante partirà certo da casi concreti ma solo al fine di far
scoprire, astrarre, padroneggiare e interiorizzare i princìpi regolatori, le strutture del sapere e della
realtà culturale che consentiranno all’alunno di organizzare la propria esistenza.
La scuola potrà essere mezzo di riforma sociale solo se riuscirà a trasmettere a tutti i linguaggi
fondamentali attraverso cui si accede al sapere. Il metodo di insegnamento, pur non trascurando il
mondo psicologico dell’alunno, va pertanto cercato all’interno delle discipline: questo è il principio
fondamentale della pedagogia strutturalista. Essa presenta notevoli vantaggi: rende più interessanti
le discipline, di cui si coglie subito l’utilità, e facilita l’apprendimento mnemonico. Dopo una lunga
stagione pedagogica di orientamento puerocentrico, l’accento si sposta sui contenuti del sapere,
verso un’idea di educazione che persegue come scopo l’ideale della perfezione e dell’eccellenza.
Non si tratta di una ricaduta nel nozionismo: Bruner riconosce l’importanza dell’esperienza imme-
diata, del vissuto dell’alunno, ma ritiene che il possesso di una struttura, di un’idea fondamentale,
possa essere condizione generatrice di ulteriori scoperte, di più ampie generalizzazioni, in quanto
favorisce il transfer dell’apprendimento e contribuisce a rafforzare la continuità tra diversi livelli
scolastici. All’insegnante viene riconosciuta una posizione centrale nel processo di apprendimento:
superati i sistemi autoritari, il nuovo profilo professionale del docente consisterà nella competenza
disciplinare e nelle conoscenze psicologiche, nonché nella capacità di costruire un curricolo di studi
e di gestirlo, lavorando in équipe con i colleghi. La riforma pedagogica di Bruner, così come la si
può desumere dalla sua relazione di Woods Hole, può essere compendiata nei seguenti punti:
1) fare emergere la struttura della disciplina nei processi di apprendimento;
2) individuare l’età giusta per l’inizio dell’apprendimento;
3) tenere conto del ruolo della motivazione nell’apprendimento.
In Bruner il concetto di struttura è ambivalente, nel senso che essa esprime sia i concetti generali,
le idee madri della disciplina, sia il metodo di studio, ossia la strategia utilizzata dalla mente umana
per semplificare le nozioni, acquisire, conservare e riutilizzare l’informazione al momento giusto.
«Le strutture - dice Bruner - sono le idee organizzatrici che mirano a connettere e semplificare
l’esperienza: in fisica si è scoperta l’idea di forza, in chimica di combinazione, in psicologia quella
di motivazione, in letteratura quella di stile. La storia della cultura è la storia delle grandi idee orga-
nizzative e strutturali». Insegnare agli alunni a pensare per strutture inizialmente può essere un’im-
presa didattica molto difficile, ma ne vale la pena perché il tempo e le risorse profuse daranno sicu-
ramente buoni frutti in termini di miglioramento qualitativo dell’apprendimento. Nell’insegnamento
della geografia, ad esempio, si potrà presentare agli alunni delle ultime classi delle elementari una
carta muta degli Stati Uniti e chiedere loro di localizzare, attraverso il ragionamento, la posizione
delle principali città della Nazione. L’esercizio piace agli alunni perché la consegna stimola diverse
componenti dell’intelligenza: la distribuzione spaziale dei centri urbani; la posizione fisica (pianura,
coste, montagna); il clima; le infrastrutture (strade, porti, aeroporti, etc.); i bisogni e le condizioni
della vita; la produzione e l’economia; il sistema dei trasporti e delle comunicazioni. Analogamente
si può fare per le altre discipline: la storia e la letteratura, ma anche le materie scientifiche, come la
psicologia, la linguistica, la biologia, l’antropologia, la fisica e la matematica.
L’insegnamento per strutture attiva altri fattori dell’apprendimento, quali: l’interesse per la discipli-
na, che fa scaturire la motivazione allo studio; la memoria, che consente d’inserire i ricordi della
memoria a breve termine nella mappa neurologica generale, per cui, le cose che sfuggono alla me-
moria automatica vengono recuperate dalla memoria logica attraverso un processo di ricostruzione
razionale; il transfer, che indica la capacità di trasferire le abilità acquisite in un campo a un altro
campo della conoscenza e della ricerca; la continuità educativa, come fattore di sviluppo unitario
del percorso formativo. Un fattore importante dell’apprendimento precoce è l’insegnamento a spi-
rale, attraverso il quale è possibile accelerare i processi di apprendimento: la scuola riprende i con-
tenuti dell’istruzione via via approfondendoli e traducendoli «in forme di pensiero congrue all’età,
stimolanti perciò, e tali da invogliare il fanciullo ad andare avanti, ad anticipare». Visto che – come
sosteneva Comenio - si può insegnare tutto a tutti in ogni età, è bene introdurre il bambino fin dal-
l’età precoce «a quei concetti e a quelle forme di apprendimento che più tardi faranno di lui un uo-
mo colto». Pertanto l’insegnamento a spirale è la forma d’insegnamento che inizia in tenera età in
termini essenziali e semplicissimi, per tornare più volte su se stesso, in forme sempre più allargate e
più complete, durante il curriculum scolastico dell’alunno, dalle elementari all’università e oltre.
JEROME SEYMOUR BRUNER (New York, 1915-2016)

1941 Harvard Ph.D in psicologia 1952 “cognition project”: processi percettivi / influenza dei fattori sociali
nello sviluppo cognitivo New look on perception.
1957 lancio del primo Sputnik sovietico: ritardo tecnologico degli Stati Uniti rispetto all'Unione Sovietica:
critiche all'attivismo, responsabile dello scadimento dei livelli d'istruzione.
1959 Woods Hole conferenza per rendere più efficienti i programmi scolastici e i metodi di insegnamento.
1960 The process of education rapporto di revisione del sistema scolastico.
1972: Oxford University approfondimento della ricerca pedagogica nel filone della psicologia cognitiva.
Dopo Dewey. Il processo di apprendimento nelle due culture (1964); Lo sviluppo cognitivo (1966);
Il conoscere. Saggi per la mano sinistra (1968); Il significato dell'educazione (1971);
Verso una teoria dell'istruzione (1991); La cultura dell'educazione (1996).

Bruner: il confronto con l'attivismo e con Piaget


Dopo Dewey: svolta pedagogica strutturalista
a) strategia didattica che vada oltre la centralità dell'esperienza nel processo educativo
(confronto con Il mio credo pedagogico di Dewey)
Secondo Bruner, l'idea pedagogica attivistica non è più adeguata alla società contemporanea:

Dewey vs Bruner

metodo implicito nello sviluppo del fanciullo sviluppo mentale => discontinuo stadi pause avanzamenti
farsi guidare dai suoi bisogni e interessi padroneggiare le tecniche della propria cultura
ritmo dato dal fanciullo stesso importanza dell’ambiente accelerazione sviluppo

coscienza sociale: partecipazione riforma strutturale dell'istruzione


democratica alla vita scolastica accedere a saperi sempre più complessi
visione empirica del sapere contenuti scolastici: trascendere l'esperienza immediata
prospettiva logico-scientifica: astrazione
linguaggio simbolico strutture:
grandi idee organizzatrici delle singole discipline

pensiero e conoscenza come primato del pensiero sull'attività individuale e sociale


strumenti per l'azione la cultura forma l’impostazione mentale

scuola: trasmettere i linguaggi fondamentali per accedere


al sapere in una società a rapido sviluppo tecnologico

b) metodologia che vada al di là dell'evoluzione spontanea dello sviluppo mentale


(confronto critico con Piaget)
processi di apprendimento => rivalutare l’influenza dei fattori socio-culturali rispetto a quelli genetici

Piaget vs Bruner

apprendimento come processo dimensione socio-culturale, che può agevolare


di maturazione delle strutture mentali la crescita e il potenziamento dello sviluppo
(fisiologismo/biologismo)
fasi di sviluppo cronologicamente definite stadi di sviluppo collegati non solo all'età
fattori ambientali (familiari sociali)
anticipazioni ritardi accelerazioni guidate
sostanzialmente immodificabili tutto può essere insegnato a tutti in qualsiasi età
nelle forme di rappresentazione adatte
periodi critici o sensitivi (3-4 anni) Montessori
Bruner: il concetto di strutturalismo pedagogico

riforma pedagogica di Bruner (relazione di Woods Hole)


1) fare emergere la struttura della disciplina nei processi di apprendimento
2) individuare l'età giusta per l'inizio dell'apprendimento
3) tenere conto del ruolo della motivazione nell'apprendimento

ricerca pedagogica idee fondamentali/strutture di fondo delle singole discipline


individuare => itinerari e obiettivi di insegnamento
strumenti metodologici/capacità critiche per interpretare la realtà

struttura => insieme di vs ideale enciclopedico del sapere


principi fondanti una disciplina (saperi differenziati e specializzati)
esperienza immediata, vissuto dell'alunno vs nozionismo
possesso della struttura:
condizione generatrice di scoperte
generalizzazioni, transfer di apprendimento
perfezione e eccellenza vs orientamento puerocentrico

insegnante: posizione centrale nel processo fattori dell'apprendimento


di apprendimento: competenza disciplinare interesse per la disciplina
conoscenze psicologiche lavoro in equipe motivazione allo studio
capacità di costruzione di un curricolo memoria

partire da casi concreti => scuola => mezzo di riforma sociale


scoprire, astrarre, padroneggiare e trasmettere a tutti i linguaggi fondamentali
interiorizzare princìpi regolatori, attraverso cui si accede al sapere
metodo di insegnamento cercato continuità educativa:
all'interno delle discipline fattore di sviluppo unitario
del percorso formativo

transfer (trasferire le abilità acquisite inserimento dei ricordi della MBT


in un campo a un altro campo nella mappa neurologica generale:
della conoscenza e della ricerca) ciò che sfugge alla memoria di lavoro
viene recuperato dalla memoria logica

1) idee madri della disciplina


concetto di struttura
ambivalente 2) metodo di studio strategia per semplificare le nozioni,
acquisire, conservare e riutilizzare l'informazione
fisica: forza chimica: combinazione
psicologia: motivazione letteratura: stile
es geografia => carta muta (testo)

insegnamento a spirale
accelerare i processi di apprendimento
ripresa dei contenuti via via approfondendoli
e traducendoli «in forme di pensiero congrue all'età»
(Comenio: ciclicità)
Tecnologie educative, scolarizzazione di massa, critica della scuola.

Verso la metà degli anni sessanta le linee di ricerca dei temi dell’educazione mostravano alcuni temi
emergenti: il discorso della scuola attiva che, nelle sue varie correnti e nelle sue realizzazioni, aveva
dominato la scena pedagogica per alcuni decenni, era in declino; le sue tesi fondamentali erano diven-
tate luoghi comuni generalmente acquisiti, trovando una elaborazione scientifica - ed un contempora-
neo superamento - nell’ambito della psicologia dell’età evolutiva: la “spontaneità” del bambino usci-
va dalla genericità per essere ripensata come struttura psicologica in divenire che, nella sua interazio-
ne con l’ambiente acquisiva forme sempre più articolate di organizzazione della mente.
Questa prospettiva metteva in primo piano il problema dell’apprendimento: venivano avviate ri-
cerche sempre più raffinate relative alla tecnologia dell’istruzione, con l’utilizzo di strumenti e sus-
sidi materiali (uso di “macchine per insegnare”, l’introduzione degli audiovisivi, ecc). che alteravano
l’antico rapporto orale tra maestro e allievo.
Nasceva così la ricca problematica relativa alla sperimentazione pedagogica, che comportava la
determinazione di finalità educative scientificamente controllabili, la determinazione dei mezzi per
conseguirle, il controllo scientifico del loro rapporto.
Questi modelli di cultura pedagogica indicavano livelli molto elevati di specializzazione dei pedago-
gisti e sottointendevano un ideale di massimizzazione dell’efficienza dell’apparato educativo.
L’elemento che relativizzava questa direzione della ricerca veniva dalla riflessione più generale sulle
condizioni e sui livelli educativi esistenti nel mondo, quindi il mondo del sottosviluppo, della pover-
tà, della fame. Tradotto in termini di risorse questo raffronto conduceva ad una drammatica conside-
razione: il modello educativo esistente nei paesi occidentali impegnati nella “scolarizzazione di mas-
sa” non avrebbe mai potuto essere ripetuto nei paesi del sottosviluppo perchè i mezzi economici a
disposizione (già limitati in molte nazioni del vecchio continente, Italia compresa) non lo consenti-
vano nel modo più assoluto. Occorreva immaginare modelli educativi diversi per i nuovi paesi emer-
genti.
Questo clima intellettuale, caratterizzato da un elevatissimo livello tecnico dell’elaborazione peda-
gogica e da un grave sospetto sulla validità dei modelli occidentali considerati in una prospettiva
planetaria, venne investito da una serie di prospettive critiche che riguardavano il significato sociale
dell’educazione, considerato come obiettivo dell’istituzione scolastica, il valore dell’educazione co-
me progetto adulto che investe il mondo infantile, il rapporto tra maestro e scolari.
L’analisi marxista della educazione come fattore di trasmissione della cultura dominante si integra-
va con la tendenza, propria della psicoanalisi, ad individuare nella forma scolare dell’istruzione una
riproduzione degli elementi psicologicamente negativi tipici della famiglia.
Tali linee ideologiche comparivano talvolta anche all’interno delle forme di solidarismo e di moralità
proprie della cultura cristiana, tendenti a declinare la critica dell’educazione scolare nel senso dell’al-
largamento dell’istruzione e della scolarizzazione, in direzione delle classi più svantaggiate.

LORENZO MILANI (1923 - 1967)

Don Lorenzo Milani, sacerdote e educatore, sceglie di dedicare la propria vita e il proprio sacerdo-
zio all’educazione popolare. Antimilitarista convinto, prete e intellettuale “scomodo”, istituisce la
sua prima scuola popolare a San Donato, presso Prato, nei primi anno ‘50. Trasferitosi nel 1954 a
Barbiana, nel Mugello, apre una seconda scuola popolare, caratterizzata dall’adozione del tempo
pieno, dal lavoro di gruppo, dalla consapevolezza politica e civile. La pubblicazione di Lettera a una
professoressa (1967) rende celebre la scuola di Barbiana, suscitando numerose polemiche a cui l’au-
tore non potrà rispondere a causa della morte prematura.
L’esperienza di Barbiana

Don Milani decide di fondare una scuola popolare dopo aver maturato la convinzione che la scuola
sia un diritto di tutti, e che questo diritto, nonostante la Costituzione italiana lo ribadisca, non venga
effettivamente fruito dai poveri. Per questo, nella scuola di Barbiana egli cerca di offrire ai montanari
del Mugello la possibilità di accedere a quegli strumenti intellettuali che sono indispensabili per es-
sere cittadini. Egli non intende adeguare i giovani agli schemi delle classi dominanti, bensì tutelare la
loro identità culturale. Secondo don Milani la povertà è portatrice di valori evangelici che vanno di-
fesi mediante un’educazione civile e non confessionale, per farne i fattori determinanti per una so-
cietà più giusta. Questo implica che non possa esistere una scuola uguale per tutti. La scuola che si
dichiara tale è, nei fatti, scuola della classe dominante. La scuola popolare deve rivendicare la pro-
pria diversità.
A Barbiana si richieda serietà e impegno: non si tratta di una scuola “facile, ammiccante, disimpe-
gnata, solo formalistica”; essa non prevede né ricreazione, né giochi. Don MIlani guida la classe con
carisma, ma anche come leader direttivo e indiscusso. La disciplina può essere dura, perché l’obietti-
vo della “coscientizzazione” viene giudicato troppo importante perché si possa evitare di ricorrere a
punizioni (anche corporali) comunque meno gravi di quelle che la scuola pubblica infligge con la boc-
ciatura o con l’emarginazione sociale. Don Milani si sente padre dei suoi ragazzi e come tale agisce.
Nodo centrale di tutta l’educazione è, per don Milani, la conoscenza della lingua e la sua padronan-
za, che permette ai membri delle classi popolari di inserirsi alla pari nella società di quanti detengono
il potere servendosi di un linguaggio elaborato. La lingua deve dunque essere il cuore della didattica e
va valorizzata in tutte le sue possibilità espressive, in modo che aiuti a sviluppare la capacità di leg-
gere il presente e giudicare la realtà con un approccio critico, da diversi punti di vista. Per quanto ri-
guarda la scrittura, è necessario “scrivere come si parla”, perché le forme del linguaggio scritto servo-
no spesso a occultare la verità e a escludere dalla fruizione dei testi una larga fascia sociale che, pur
essendo alfabetizzata, non è in grado di comprenderli. Il punto di partenza è, come in altre “didatti-
che della povertà” (Tolstoj, Pestalozzi), l’esperienza diretta della classe o dell’ambiente.
L’esistenza, le relazioni, l’ideale comunitario, la creazione di gruppi, il lavoro, il rifiuto della pedago-
gia accademica sono ciò che caratterizza l’attività di Barbiana. Non ci sono né voti, né promozioni,
né bocciature. Non esistono classi e ognuno può procedere con tempi e ritmi individuali. Si attua il
mutuo insegnamento e si criticano i libri di testo tradizionali.
Un aspetto particolare della didattica di don Milani concerne l’ “arte dello scrivere”. Il momento
della preparazione consiste nella scelta, nell’organizzazione e nella stesura collettiva dell’argomento
per una delle famose Lettere che la scuola indirizza al mondo esterno. Il momento della “discussio-
ne” (che può anche durare mesi) è costituito invece dalla “ripulitura” (sempre collettiva) dello scrit-
to di tutti gli aspetti inutili, che ne limitano la comprensione, e dalla revisione che ne precede l’invio.
Nascerà così la celeberrima Lettera a una professoressa.
Lo spunto per la stesura della Lettera a una professoressa è fornito dalla bocciatura di un alunno
della scuola di Barbiana, Gianni, all’esame esterno per accedere alla scuola media. Questo evento
porta i ragazzi di Barbiana a denunciare la concezione classista della scuola italiana, in contrasto con
la Costituzione e con le finalità di democrazia che la formazione della scuola media unica avrebbe
dovuto perseguire. La “professoressa” del titolo è l’emblema dell’insegnante-burocrate, insensibile
ai problemi di quegli alunni che si trovano in difficoltà perché condizionati dai problemi relativi al
retroterra socio-culturale di appartenenza, dell’insegnante cieco di fronte alle richieste di aiuto da
parte di chi vede leso il proprio diritto allo studio solo perché non all’altezza degli standard che altri
hanno stabilito, e infine dell’insegnante indifferente alla necessità di trasformare la scuola da luogo di
formalismi e “purezza” culturale a contesto di formazione concreta di cittadini inseriti in una realtà
storica.
IVAN ILLICH

Descolarizzare la società (1971) e Distruggere la scuola (1972) sono due titoli estemamente signi-
ficativi di una tendenza “antiscolastica” che non ha avuto in Ivan Illich (Vienna, 1926 - Brema 2002)
il suo unico rappresentante, ma che certamente lo vede come il più noto.
Nato in Austria da padre croato e da madre ebrea sefardita, Illich è stato uno scrittore, storico, pe-
dagogista e filosofo. Il suo essenziale interesse fu rivolto all'analisi critica delle forme istituzionali in
cui si esprime la società contemporanea, nei più diversi settori (dalla scuola all'economia alla medici-
na), ispirandosi a criteri di umanizzazione e convivialità, derivati anche dalla fede cristiana, così da
poter essere riconosciuto come uno dei maggiori sociologi dei nostri tempi. Nella sua opera di edu-
catore e teorico presso il Centro intercultural de documentaciòn di Cuernavaca (Messico), Illich ha
dato il via a una corrente di pensiero fortemente critica e polemica nei confronti della società e della
scuola contemporanea. Illich è considerato la bandiera del movimento della “descolarizzazione”.

La critica
Secondo Illich si assiste “alla fine dell’era della scolarizzazione”, perché la scuola è ormai incapace
di nascondere alla società quello che è il suo male di fondo: la discrepanza tra il mito dell’uguaglianza
che alimenta, e la disuguaglianza che di fatto produce. La scuola è inevitabilmente centro di riprodu-
zione dell’ideologia oppressiva del potere sociale e politico: non è possibile riformarla, va abolita.
La critica della scuola è radicale: essa “vende” un programma prodotto e confezionato da “esperti”,
come se si trattasse di una merce qualsiasi. L’insegnante è un distributore e l’allievo un consumatore
di prodotti che servono a condizionare e indottrinare quest’ultimo.
La scuola ha inoltre un “programma occulto” con cui mira ad accreditarsi quale unica fonte di pro-
mozione e di successo sociale: essa inculca all’alunno la passività, lo costringe a valutarsi in relazio-
ne all’efficacia del proprio percorso scolastico, lo induce al consumo “obbligatorio e competitivo”.
La scuola è il centro stesso del sistema di riproduzione sociale. L’eliminazione della scuola mette-
rebbe in crisi questo sistema creando una società più libera: progetto pedagogico e progetto rivolu-
zionario trovano qui il loro punto d’unione.

L’alternativa
Occorre dunque sostituire la scula con momenti di formazione alternativi, immersi nel sociale, in
modo che l’educazione dell’individuo avvenga a diretto contatto con l’esperienza e si svolga in mo-
do più umano e più libero. Illich postula così la creazione di una rete di strutture educative aperte,
organizzata in quattro servizi fondamentali:
a) negozi e ambienti per l’apprendimento formale (dalle biblioteche ai laboratori, dalle sale-spetta-
colo alle teaching-machines ai circuiti TV ) affiancati da strutture sociali, come fabbriche, botteghe,
dove invece è possibile apprendere direttamente tramite l’esperienza;
b) iniziative di raccordo per mettere in contatto chi insegna e chi desidera imparare, anche per po-
ter effettuare scambi di competenze;
c) socializzazione libera, mediante la formazione di gruppi di lavoro riuniti intorno ad un interesse
comune;
d) creazione di un “annuario degli educatori”, in modo che chi ritiene di aver bisogno di un “esper-
to” possa mettersi in contatto con lui e ottenerne le prestazioni.
L’idea guida di questo progetto implica la possibilità che gli individui possa no liberamente sceglie-
re come e quanto fruire delle diverse offerte educative, ma anche che la società si trasformi, per di-
ventare sempre più un luogo di contatto, di confronto e di scambio alla pari, all’insegna di una “nuo-
va convivialità” come fonte di democrazia.
Paulo Freire: la pedagogia degli oppressi

“Alfabetizzazione, coscientizzazione, liberazione”, sono le tappe della pedagogia sociale di Paulo


Freire (Recife, 1921 – São Paulo, 1997), che costituiscono l’ossatura portante della sua opera più
significativa: La pedagogia degli oppressi (1968).
1. Un ruolo primario è affidato alla parola, intesa non come prerogativa di pochi privilegiati.
Freire visse in un contesto storico, quello brasiliano, nel quale il tasso di analfabetismo era altissi-
mo; a partire dal 1946 si impegnò nell’alfabetizzazione dei lavoratori adulti del Nordeste, appron-
tando un metodo – quello del problem-posing1 - il cui scopo non era solamente quello di insegnare
agli adulti a leggere e scrivere, ma soprattutto di aiutarli a capire un meglio il mondo nel quale vive-
vano. L’avvio alla lettura e alla scrittura avveniva dunque attraverso l’utilizzo di una serie di quadri
situazione, cioè di immagini raffiguranti situazioni note (ad es. quella dei contadini intenti a lavora-
re un terreno privo d’acqua), e con un successivo invito al dialogo e alla riflessione consapevole.
L’inizio della lettura prendeva quindi avvio con la presentazione di parole generatrici direttamente
collegate ai contesti di vita. E’ fondamentale la preparazione degli educatori-coordinatori, i quali
dovranno preliminarmente approntare un inventario dell’universo lessicale dei gruppi con cui si de-
ve lavorare ed elaborare delle schede – promemoria, non rigide prescrizioni - che facilitino il dialo-
go e l’inquadramento delle situazioni-problema.
2. Grazie all’alfabetizzazione si giunge alla coscientizzazione, cioè all’acquisizione di una capacità
critica che solo il dialogo comunitario può consentire. Attraverso il dialogo si prende coscienza del-
la condizione di oppresso e del fatto che è possibile far sì che le masse diventino popolo, opinione
pubblica consapevole, uomini e donne protagonisti della propria storia.
3. Questa trasformazione, che porterà alla liberazione o umanizzazione degli oppressi, avverrà
attraverso una prassi, dall’azione, che non può prescindere dalla riflessione. Freire ci invita a non
confondere la praxis rivoluzionaria, attraverso la quale si giunge alla liberazione delle masse popo-
lari, con il cosiddetto attivismo, che è azione per l’azione, che marginalizza la riflessione rendendo
impossibile il dialogo. Dunque, associando azione e riflessione, la parola diventa dialogo; diversa-
mente si avrebbe solo una semplice emissione di fiato (flatus vocis) che Freire chiama “verbosità”.
Per Freire il mezzo attraverso cui le tre tappe succitate hanno possibilità di compimento è l’educa-
zione problematizzante, che ritiene essere la priorità dell’epoca. Il pedagogista era convinto che non
ogni educazione portasse alla liberazione degli oppressi, ma solo quella che porta a sviluppare in se
stessi e nell’altro l’attitudine alla ricerca e al senso critico. L’educatore non deve creare rapporti di
dipendenza, ma proporre un cammino di ricerca che sviluppi lo spirito critico. Questa concezione di
educazione è diametralmente opposta a quella che Freire definisce “depositaria”, la quale, negando
il dialogo e basandosi su postulati che richiamano un tipo di rapporto “verticale”, minimizza il pote-
re creatore degli educandi e soddisfa gli interessi degli oppressori. Dunque esiste un modo di educa-
re iniquo perché basato su una “verbosità alienata e alienante”, che considera l’educando un reci-
piente vuoto che l’educatore deve riempire. Freire teorizza un modello educativo che superi la con-
traddizione educatore/educando, in modo che ambedue divengano contemporaneamente educatori
ed educandi. Quest’ultima prospettiva rispetta il senso etimologico di ex-ducere, che vuol dire: tira-
re fuori, trarre il meglio da un individuo per portarlo a compimento mediante la condivisione con
altri di valori, passioni, impegni concreti di natura sociale, politica, culturale.
Si delinea così un modello pedagogico ad orientamento dinamico ed orizzontale: alla concezione
“bancaria” della formazione si sostituisce quindi un paradigma dialogico e relazionale, il quale tro-
va il suo punto focale in una orientazione progressiva dell’educando verso l’acquisizione di un mo-
do di essere libero, critico e radicale.

1
L’attività di problem posing consiste nel concettualizzare un problema, mediante una riflessione
sulla situazione problematica nella quale l’allievo s’imbatte.
Tecnologie educative, scolarizzazione di massa, critica della scuola.

anni ‘60: declino attivismo => luoghi comuni acquisiti


elaborazione scientifica => psicologia dell’età evolutiva
“spontaneità” ripensata come struttura psicologica in divenire
apprendimento
tecnologia dell’istruzione strumenti e sussidi materiali “teaching machine”
audiovisivi vs rapporto orale maestro-allievo sperimentazione pedagogica: mezzi/finalità educative
scientificamente controllabili
specializzazione dei pedagogisti massima efficienza dell’apparato educativo
riflessione sulle condizioni e sui livelli educativi esistenti nel mondo =>
modello educativo dei paesi occidentali (“scolarizzazione di massa”) non ripetibile nei paesi
sottosviluppati per carenza di risorse => modelli educativi diversi per i nuovi paesi emergenti

clima intellettuale => elevato livello tecnico dell’elaborazione pedagogica +


‘sospetto’ sulla validità dei modelli occidentali in prospettiva planetaria

prospettive critiche valore/significato sociale dell’educazione rapporto maestro-scolaro


analisi marxista psicoanalisi cultura cristiana
educazione come fattore di forma scolare dell’istruzione => forme di solidarismo e di moralità
trasmissione della cultura dominante riproduzione di elementi classi sociali più svantaggiate
negativi tipici della famiglia.
critica dell’educazione scolare => allargamento dell’istruzione e della scolarizzazione

Paulo Freire (Recife, 1921 - São Paulo, 1997) La pedagogia degli oppressi (1968)
1946 Nordeste lavoratori adulti: alto tasso di analfabetismo
educatori-coordinatori => inventario dell'universo lessicale dei gruppi con cui si deve lavorare
elaborazione di schede (promemoria) che facilitino il dialogo e l'inquadramento delle situazioni-problema

1. alfabetizzazione 2. coscientizzazione
presentazione di parole generatrici capacità critica (dialogo comunitario)
collegate ai contesti di vita coscienza della condizione di oppressione e
dialogo e riflessione consapevole della possibilità che le masse diventino popolo,
problem-posing: opinione pubblica consapevole, uomini e donne
concettualizzare un problema, protagonisti della propria storia.
mediante una riflessione
sulla situazione problematica 3. liberazione o umanizzazione degli oppressi
nella quale l'allievo s'imbatte prassi: azione legata alla riflessione
utilizzo di quadri situazione praxis rivoluzionaria vs attivismo (azione per l'azione)
immagini raffiguranti situazioni note parola: azione + riflessione = dialogo
(ad es. contadini intenti a lavorare vs “verbosità (flatus vocis) alienata e alienante”
un terreno privo d'acqua)

liberazione degli oppressi


educazione problematizzante vs educazione“depositaria”
attitudine alla ricerca e al senso critico negazione del dialogo rapporto “verticale”
paradigma dialogico e relazionale minimizzazione della creatività degli educandi
superamento della contraddizione educatore/educando educando come recipiente da riempire
modello pedagogico dinamico/orizzontale vs concezione “bancaria” della formazione
educando: modo di essere libero, critico e radicale
IVAN ILLICH (1926) teologo-sociologo

Descolarizzare la società (1971) riflessione critica nei confronti


Distruggere la scuola (1972) della società e della scuola

movimento di “descolarizzazione” -> fine dellʼera della scolarizzazione

scuola
mito dellʼuguaglianza / produzione di disuguaglianza
centro di riproduzione dellʼideologia oppressiva del potere politico

vendita di un programma confezionato da “esperti”

rituale di iniziazione dei bambini al ruolo di consumatori


programma occulto => autoaccreditarsi come unica fonte di promozione sociale

insegnante condizionamento alunno passivo / integrato vs autentico


distributore indottrinamento consumatore conformista / competitivo creativo

momenti di formazione alternativi: strutture educative aperte (“società conviviale”)

a) ambienti per lʼapprendimento formale biblioteche, laboratori, sale-spettacolo


teaching-machines, circuiti TV

b) iniziative di raccordo tra chi insegna e chi desidera acquisire particolari competenze

c) formazione di gruppi di lavoro per interessi comuni, con socializzazione libera

d) creazione di un “annuario degli educatori”, con esperti da contattare

LORENZO MILANI (1923 - 1967) sacerdote educatore

1950: scuola popolare a San Donato (Prato)


1954: Barbiana scuola per i figli dei montanari del Mugello
tempo pieno / lavoro di gruppo

premessa per lʼeducazione religiosa


scuola popolare serietà e impegno vs scuola facile, ammiccante,
disciplina dura => coscientizzazione disimpegnata, formalistica

povertà = portatrice di valori tutelare lʼidentità culturale (vs cultura delle classi dominanti)

strumento di potere e selezione


conoscenza e padronanza della lingua
lettura del presente “scrivere come si parla”

voti, tempi e ritmi individualizzati


abolizione di promozioni / bocciature mutuo insegnamento
classi critica dei libri di testo tradizionali

scrittura delle “lettere”:

a) preparazione => scelta, organizzazione, stesura


collettiva
b) discussione, ripulitura

1967“Lettera ad una professoressa” -> denuncia della struttura classista della scuola media
(testo 137 ”lʼantipedagogia di don Milani”) professoressa => insegnante-burocrate
CARL ROGERS: la pedagogia non-direttiva

Carl Rogers (Chicago, 1902 - La Jolla, California, 1987), psicologo statunitense, si forma tra
diverse influenze: dalla cultura religiosa al pensiero umanistico, alla psicoanalisi, all’attivismo
deweyano. Impegnato professionalmente nel recupero di giovani disadattati e nel lavoro terapeutico
individualizzato, Rogers elabora il principio della «terapia centrata sul cliente», che influenzerà la
successiva pratica psicologica clinica e che egli giudica utilizzabile anche nell’attività educativa.
La psicoterapia umanistica rogersiana (La terapia centrata sul cliente, 1951; Psicoterapia e
relazioni umane, 1970) è fondata su una considerazione unitaria (“olistica”) della persona: lo
sviluppo della personalità individuale è influenzato dell’ambiente sociale sia positivamente che
negativamente: nel primo caso, il bambino viene messo nelle condizioni di riconoscere con
autenticità i propri desideri e le proprie motivazioni e di agire in base ad essi, sviluppa un sé
positivo che lo porta a maturare un buon livello di autostima e lo conduce all’autorealizzazione; nel
secondo caso, il bambino può sperimentare l’ «affetto condizionato», essendo costretto ad accettare
come propria una serie di desideri e motivazioni altrui; in tal modo sviluppa un sè negativo, un
falso sé, che lo spinge a ripudiare la propria natura ed a reprimere gli aspetti autentici di sé.
Il terapeuta deve dunque creare un ambiente facilitante, un clima di accettazione incondizionata e
apertura totale, che conduca il paziente ad una correzione della percezione di sé e ad un aumento
dell’autostima; egli deve essere empatico e mantenersi, a sua volta, autentico, evitando ogni
mascheramento professionale e lasciando fluire emozioni e stati d’animo propri. A questo scopo il
terapeuta utilizza il colloquio non direttivo, affidato a tecniche quali: l’intervento a specchio, la
sintesi-parafrasi, e la «riflessione dei sentimenti».
In Libertà nell’apprendimento (1971), Rogers distingue tra un apprendimento artificiale “dal collo
in su”, fatto di contenuti privi di significato per l’individuo e imposti dall’esterno, e un apprendi-
mento significativo, spontaneo, che nasce dall’esperienza e dai processi vitali dell’individuo. Questo
secondo tipo di apprendimento comporta una partecipazione globale della personalità, è automoti-
vato e incide profondamente sul soggetto. La teoria rogersiana dell’apprendimento si organizza in-
torno all’idea che la persona sia naturalmente motivata ad apprendere e riesca a vincere le resistenze
interne (gli apprendimenti significativi implicano sempre potenzialmente una ristrutturazione della
personalità) qualora la situazione non venga percepita come minacciosa. Su questi aspetti si fonda
l’idea della pedagogia non-direttiva, alla base della quale c’è la necessità di una ristrutturazione
del ruolo di chi insegna. L’insegnante deve diventare un facilitatore: non impone nulla, non impar-
tisce lezioni non richieste, non interroga se non gli viene esplicitamente richiesto dagli allievi. La
«sequenza didattica» delineata da Rogers implica che il docente presenti l’argomento e i materiali
dell’intervento didattico, proponga le tecniche di studio e dichiari quali sono i temi di sua maggior
competenza. Gli studenti svolgono quindi la loro ricerca in modo del tutto autonomo e secondo i
propri obiettivi personali, effettuando periodicamente un’autovalutazione del lavoro compiuto.
Possono richiedere l’aiuto dell’insegnante, che si porrà al loro servizio per “facilitare” il raggiungi-
mento dei loro risultati. Nel gruppo di apprendimento si è tutti alla pari e ognuno può essere auten-
ticamente se stesso ed esprimere le proprie emozioni anche negative. L’insegnante non valuta: se gli
viene richiesto, esprime una propria opinione personale. La relazione tra docente e alunni avviene
infatti in una dinamica di gruppo dove la circolazione «democratica» della comunicazione costitui-
sce un elemento di differenza rispetto alla normale pratica scolastica.
L’insegnante «facilitatore» deve dunque: stabilire il clima e l’atmosfera iniziale di fiducia; indi-
viduare e chiarire i propositi dei singoli e i propositi generali del gruppo; assecondare i desideri e le
forze motivazionali autentiche degli allievi; organizzare e rendere disponibili i mezzi per appren-
dere: a) favorendo lo svolgimento di ricerche autonome; b) suggerendo materiali e tecniche di stu-
dio; c) fornendo un supporto tecnico per il raggiungimento dei risultati; considerare se stesso un
mezzo a disposizione del gruppo; accettare e rispettare espressioni ed atteggiamenti emozionali;
fare di se stesso un “discente partecipe”, un membro del gruppo; partecipare personalmente, con
sentimenti e pensieri, senza imposizioni; cercare di riconoscere ed accettare i propri limiti.
CARL ROGERS (Chicago, 1902 - La Jolla, California, 1987)

La terapia centrata sul cliente (1951) psicoterapia umanistica


Psicoterapia e relazioni umane (1970) considerazione unitaria
(“olistica”) della persona
personalità
individuale

influsso dell’ambiente sociale


positivo negativo

Sé vs falso Sé affetto
autorealizzazione condizionato
(autostima)
ripudio della propria natura da parte del paziente
e repressione degli aspetti autentici di sé

terapeuta - saggio, autentico (vs mascheramenti professionali)

terapia accettazione incondizionata intervento a specchio


apertura totale empatia
ambiente “facilitante” colloqio non direttivo sintesi - parafrasi

“riflettere i sentimenti”
correzione della percezione di sé -> aumento dell’ autostima

La pedagogia non-direttiva “Libertà nell’apprendimento” (1971)

apprendimento
artificiale spontaneo testo 129: la critica
“dal collo in su” “significativo” dell’insegnamento

partecipazione globale
della personalità

non-direttività non impone nulla


non impartisce lezioni non richieste
insegnante facilitatore non interroga se non gli viene richiesto
dichiara le sue aree di competenza
non valuta se non a titolo personale

stabilisce il clima e l’atmosfera iniziale di fiducia


individua e chiarisce propositi dei singoli e del gruppo
asseconda desideri e forze motivazionali autentiche
organizza e rende disponibili i mezzi per apprendere:
a) asseconda lo svolgimento di ricerche autonome;
b) suggerisce materiali e tecniche di studio;
c) fornisce un supporto tecnico per il raggiungimento dei risultati
considera se stesso un mezzo a disposizione del gruppo
accetta e rispetta espressioni ed atteggiamenti emozionali
fa di se stesso un “discente partecipe”, un membro del gruppo
partecipa personalmente, con sentimenti e pensieri, senza imposizioni
cerca di riconoscere ed accettare i propri limiti
PEDAGOGIA
TEMI E PROBLEMI
LA SCIENZA E LE SCIENZE DELL’EDUCAZIONE

Filosofia dell’educazione, pedagogia generale e pedagogia sperimentale

Tradizionalmente la pedagogia è stata intesa come “filosofia minore” o “ancella della filosofia”.
Attualmente la maggior parte degli studiosi accetta piuttosto l’autonomia del sapere pedagogico e
l’esistenza, al suo interno, di una filosofia dell’educazione. Pur nella diversità delle opinioni, l’orien-
tamento oggi prevalente nel campo della teoria dell’educazione riconosce alla filosofia dell’educa-
zione due ambiti di ricerca principali, quello della riflessione sulla natura, sui fini e sui valori del-
l’educazione, e quello dell’analisi epistemologica, linguistica e concettuale della teorizzazione peda-
gogica e della pratica educativa. La filosofia non deve per questo “guidare” l’educazione come acca-
deva nella subordinazione tradizionale della pedagogia ala filosofia, ma può validamente partecipare
e stimolare la ricerca pedagogica, effettuando allo stesso tempo un’analisi rigorosa dei “ragionamen-
ti” con cui si costruiscono le teorie e le azioni dell’educazione.
La filosofia dell’educazione deve dunque essere distinta dalla pedagogia generale. La filosofia
dell’educazione analizza a livello generale i presupposti delle azioni educative, mentre la pedagogia
generale sceglie un’impostazione educativa concreta e determinata rispetto a una data situazione. La
pedagogia generale è perciò un sapere trasversale rispetto ai temi e ai problemi fondamentali e comu-
ni alle diverse scienze dell’educazione; a caartterizzarla è inoltre il fatto di non limitarsi alla riflessio-
ne teorica, ma di proporre anche scelte educative coerenti con determinati valori di riferimento.
Secondo Raymond Buyse, fondatore nel 1928 del primo laboratorio di pedagogia sperimentale
presso l’Università di Lovanio, la pedagogia sperimentale si distingue per il suo essere disciplina
che affronta i problemi educativi nell’ottica della ricerca scientifica, con l’esigenza di fondare le af-
fermazioni in campo educativo su dispositivi validi di ricerca, su misurazioni affidabili, su risultati
generalizzabili e ripetibili. Non va quindi confusa con la sperimentazione educativa, intesa come in-
sieme di attività e iniziative indirizzate a introdurre approcci innovativi nella pratica educativa.

LE SCIENZE DELL’EDUCAZIONE

Oggi la riconosciuta complessità della realtà educativa ha dato luogo ad un’enorme massa di studi,
che vanno dalle ricerche demografiche agli studi sullo sviluppo psicofisico degli alunni, dalle piani-
ficazioni alle valutazioni sul rendimento scolastico a lungo termine, alle indagini economiche, e così
via. La riflessione e la ricerca sulla realtà educativa si sono ampliate in modo tale da richiedere un ap-
proccio pluridisciplinare che va sotto il nome di “scienze dell’educazione”, intese, secondo una defi-
nizione di Gustave Mialaret, come “l’insieme di discipline che studiano le condizioni di esistenza, di
funzionamento e di evoluzione delle situazioni e dei “fatti” educativi”.
La definizione precisa dell’ “enciclopedia” delle scienze dell’educazione costituisce a sua volta un
problema epistemologico, nel senso che i diversi specialisti non sono in completo accordo circa i sa-
peri che vi devono essere compresi. È comunque ampiamente condivisa l’idea che di questa enciclo-
pedia debbano far parte le scienze che si occupano dell’aspetto spiccatamente individuale coinvolto
nei fenomeni educativi (per cui vi trovano posto, principalmente, la biologia e la psicologia del-
l’educazione) degli aspetti sociali e culturali (riconducibili anzitutto alla sociologia dell’educazione e
all’antropologia dell’educazione), dell’aspetto metodologico-didattico (legato a discipline come la
docimologia e la didattica) e infine, dell’aspetto dei contenuti (inerenti ad ambiti come la storia del-
l’educazione o l’epistemologia).
Aldo Visalberghi: conoscere per educare

Tradizionalmente, ciò che si esigeva da un insegnante è che sapesse egli stesso ciò che doveva inse-
gnare. Certo, qua e là, nei pensatori anche dell’antichità che si sono occupati con maggiore acutezza
dei problemi educativi, appare a sprazzi la consapevolezza che la cosa non è semplice. In Socrate è
affermata l’istanza “maieutica”, per cui il vero maestro, più che insegnare ciò che sa, aiuta a trovare
ciò che forse egli stesso non ha chiaro del tutto, e in Sant’Agostino appare il principio che abbassar-
si al livello dell’incolto è in realtà un innalzarsi. Per Plutarco l’educando è piuttosto un legno da ac-
cendere che un vaso da riempire, e Montaigne vuole teste ben fatte anzichè ben piene. Comenio
vuole che si imiti la natura, che sviluppa e differenzia gli organismi in modo progressivo dall’interno,
anziché additivo dall’esterno. Le citazioni si potrebbero moltiplicare, ma difficilmente considerare
come chiare e decise affermazioni del fatto che l’educando è un essere in fieri che si sviluppa secon-
do proprie leggi che occorre conoscere, e che possono esplicarsi diversamente da individuo a indivi-
duo. Quest’esigenza è chiaramente enunciata per la prima volta soltanto da Rousseau: “Cominciate
dunque con lo studiare meglio i vostri allievi; perché certamente non li conoscete affatto”. E l’Emilio
può considerarsi in effetti il primo geniale abbozzo dell’evoluzione psicologica dell’essere umano
dalla nascita alla giovinezza, articolato per stadi e non privo di accenni di psicologia differenziale.
Ma non basta conoscere la materia da insegnare e l’allievo cui si debba insegnarla. Occorre conosce-
re anche i metodi più efficaci per insegnarla. Tale esigenza si fa esplicita soprattutto in Pestalozzi.
Anche in questo caso non si tratta di un’istanza chiaramente “scientifica”. Ma Pestalozzi parte da
certe ipotesi circa l’istruzione intellettuale (forma, numero e nome come “elementi” dell’intuizione)
e sviluppa materiali e procedure didattiche che vi si ispirano: opera dunque in modi aperti alla verifi-
ca empirica. A lui si ricollegheranno, differenziandosene variamente, Froebel e Herbart. L’esigenza
di metodi efficaci domina la pedagogia dell’ ‘800, anche se solo nel primo ‘900, con Decroly e gli
sperimentalisti, essi diverranno oggetto di ricerca scientifica vera e propria.
Pestalozzi era stato anche acutamente consapevole di quelli che oggi chiamiamo i “condizionamenti
sociali” dell’educazione. In gioventù si era occupato di problemi sociali, le sue prime esperienze
educative le aveva fatte con i figli di poveri contadini. Dopo di lui alcuni socialisti “utopisti” come
Robert Owen, inserirono esperimenti pedagogici nel quadro di tentativi di riforma sociale. Nell’ope-
ra di Marx ed Engels l’educazione si inquadra saldamente nella problematica delle trasformazioni
sociali. Ma questo motivo diventa centrale, e comporta l’esplicita richiesta che l’educatore, come
operatore sociale, conosca adeguatamente i problemi della società, soltanto in John Dewey. L’opera
più significativa in proposito è Democrazia e educazione (1916) in cui è chiaramente affermata
l’esigenza che la scuola, nonstante sia espressione della società esistente, tenda a preparare l’avven-
to di una società diversa, più giusta, che non sia schiava delle leggi del profitto e delle forme attuali
di divisione del lavoro. Chi opera nella scuola deve perciò conoscere non solo le materie che insegna,
la psicologia dell’allievo, i metodi didattici, ma anche la sociatà in cui opera, non per perpetuarla, ma
per migliorarla.
(da A. Visalberghi, Pedagogia e scienze dell’educazione, Modadori, Milano 1978)

conoscenza dell’allievo conoscenza della società


(Rousseau) (Dewey)
educatore

conoscenza dei metodi conoscenza della materia


(Pestalozzi)
L’analisi del linguaggio pedagogico

Il sapere pedagogico contemporaneo è da lungo tempo consapevole che il suo cammino verso la
scientificità richiede una compiuta epistemologia pedagogica, in grado di dotare la pedagogia del ri-
gore necessario a costituirsi come scienza. Ciò presuppone anche una riforma “interna”, attraverso
la ricerca di un linguaggio il più possibile rigoroso e coerente. Esemplare è a questo proposito l’esa-
me condotto da numerosi studiosi dell’indirizzo filosofico “analitico” sul linguaggio e sui concetti
della pedagogia e dell’educazione. L’analisi del linguaggio pedagogico di Israel Scheffler individua
nelle definizioni, negli slogan educativi e nelle metafore tre aspetti tipici del linguaggio pedagogico,
proponendo tra i compiti di una scienza dell’educazione l’analisi linguistica e logica dei loro signifi-
cati e delle loro caratteristiche. Le definizioni (ad esempio “l’educazione è formazione integrale del-
la persona”), osserva Scheffler, risultano utilizzate in pedagogia prevalentemente per scopi pratici,
in relazione al raggiungimento di determinati obiettivi. Si tratta, più che di definizioni scientifiche
(cioè strettamente tecniche o teoriche), di definizioni generali di tipo convenzionale, descrittivo o
programmatico. Se le definizioni possono essere chiarificatrici, gli slogan pedagogici (come “impa-
rare ad imparare”) “forniscono una riunione simbolica delle idee chiave e delle attitudini fondamenta-
li delle tendenze educative” e devono essere vagliati criticamente sia in relazione al loro significato
letterale che a quello pratico. Le metafore, invece, mettono in luce analogie senza precisare esplicita-
mente in che cosa consistono. Così, di volta in volta, troviamo in pedagogia la metafora della cresci-
ta, della plasmazione, della scultura, e così via. Esse sono utili per indirizzare l’attività educativa,
ma possono, in determinati contesti, diventare sterili e oltrepassare le loro limitazioni di uso e di
significato.

Fallibilità e politicità dell’educazione

Gli autori che si sono dedicati al compito di definire la scientificità del sapere pedagogico sono con-
sapevoli della fallibilità del concreto agire educativo. Anche se le regole dell’insegnamento cercano di
indicare le azioni efficaci con più alta probabilità di successo, il successo educativo non è mai assicu-
rato, poiché la complessità dell’uomo e dei contesti educativi, la molteplicità degli influssi sociali,
sono tali da vanificare ogni certezza al riguardo.
Inoltre l’educazione, come afferma Wolfgang Brezinka, non è mai fine a se stessa. Pertanto essa
non può essere assunta acriticamente come “buona”, né nella dimensione dei fini, né in quella dei
mezzi. I fini dipendono da una valutazione etica, i mezzi, a loro volta, sia da una valutazione etica
che da una valutazione pratica della loro efficacia. Spesso la giustificazione acritica dei fini e dei
mezzi avviene sotto le bandiere dello slogan del “bisogno generale di educazione”. È perciò necessa-
rio, secondo Brezinka, riconoscere che “l’ideale del generale bisogno di educazione è un mito moder-
no”, perché in questo modo si nasconde “che l’educazione presuppone ed esige continuamente scel-
te e decisioni” da valutare criticamente volta per volta. Il rischio è quello di un messianismo politi-
co-pedagogico, in cui si ritiene dovere delle istituzioni pianificare totalmente l’esistenza umana in
nome di una educazione permanente e totalizzante. Qui la scientificità della pedagogia può divenire
strumento del sogno perverso di una tecnologia del controllo, della “distopia” sociale che romanzi
profetici come 1984 di George Orwell o Il Mondo Nuovo di Aldous Huxley hanno sinistramente
delineato.
LA SCIENZA E LE SCIENZE DELLʼEDUCAZIONE

filosofia dellʼeducazione pedagogia generale


riflessione sulla natura, sapere trasversale
sui fini e sui valori dellʼeducazione rispetto ai temi e ai problemi fondamentali
analisi epistemologica, linguistica e concettuale e comuni alle diverse scienze dellʼeducazione

pedagogia sperimentale sperimentazione educativa


disciplina che affronta i problemi educativi attività e iniziative indirizzate a introdurre
con dispositivi validi di ricerca, misurazioni approcci innovativi nella pratica dellʼeducazione
affidabili, risultati generalizzabili e ripetibili

SCIENZE DELLʼEDUCAZIONE

insieme di discipline che studiano le condizioni di esistenza,


di funzionamento e di evoluzione delle situazioni e dei “fatti” educativi

psicologia sociologia
generale generale
sociale dei piccoli gruppi
dellʼetà evolutiva dellʼeducazione / scolastica
dellʼapprendimento della conoscenza
differenziale settore settore antropologia sociale-culturale
psicometria psicologico sociologico economia/politica dellʼeducazione

docimologia settore settore storia dellʼeducazione


pedagogia speciale metodologico dei contenuti storia del pensiero scientifico
metodologie didattiche didattico storia delle varie discipline
tecnologie educative teoria del curricolo
informatica epistemologia generale
logica epistemologia genetica

competenze dellʼeducatore

conoscenza dellʼallievo conoscenza della società


(Rousseau) (Dewey)

educatore

conoscenza dei metodi conoscenza della materia


(Pestalozzi)

definizioni (scientifiche, descrittive utilizzate per scopi pratici)


analisi del
linguaggio pedagogico slogan (riunione simbolica delle idee chiave delle tendenze educative)
(Israel Scheffler)
metafore (analogie non esplicitamente precisate)

politicità dellʼeducazione lʼeducazione non è fine a se stessa


(Wolfgang Brezinka) lʼideale del generale bisogno di educazione è un mito moderno
rischio di messianismo politico-pedagogico
educazione permanente totalizzante
scientificità dellʼeducazione => tecnologia del controllo

“distopia” (G. Orwell, 1984; A. Huxley, Il Mondo Nuovo)


DISTOPIE

Samuel Butler, Erewhon, romanzo, 1872

Erewhon, cioè Nowhere (In-nessun-posto) è un mondo immaginario dove i malati vengono messi
in prigione e processati; i delinquenti vanno all’ospedale oppure sono curati a domicilio da medici
dell’anima chiamati “raddrizzatori”; le scuole dell’Irragionevolezza insegnano la nebulosità e l’ipote-
tica invece delle idee chiare e distinte. In Erewhon, la virtù è la salute, la malattia il crimine, la ric-
chezza è premiata e la miseria punita. Ogni legge morale, sentimentale, pratica è rovesciata rispetto
alle leggi sulle quali si basa tutta la struttura del nostro mondo occidentale.

Aldous Huxley, Il Mondo nuovo, romanzo, 1932

Una dittatura ha riportato l’ordine nel mondo sconvolto dalle guerre. La stabilità del sistema è assi-
curata da un rigoroso controllo del numero e del tipo dei cittadini, che nascono in provetta. Il potere
è nelle mani di dieci Controllori, e il motto dello stato è “Comunità, Identità, Stabilità”. Ma in que-
sto mondo c’è una Riserva in cui sono confinati gli individui ritenuti indegni del Nuovo Mondo. Qui
Bernard Marx, un alto funzionario anticonformista, incontra John, nato da grembo di donna, e ottie-
ne di farlo uscire dalla Riserva. Ma il giovane, dapprima impressionato dall’Utopia, ne è a poco a
poco disgustato: per avere provocato una ribellione deve presentarsi al Grande Controllore Musta-
pha Mond il quale gli dimostra che la libertà nuoce alla felicità. John si ritira in un faro abbandonato;
ma perseguitato anche lì dalla folla che spia il suo essere diverso, si uccide.

George Orwell, 1984, romanzo, 1949

La Terra, divisa in tre superstati, è sotto il plumbeo regime dell’Ingsoc (Socialismo Inglese), che
controlla le mosse di tutti i cittadini ed è dominata dal “Grande Fratello”, un despota spietato e mo-
ralista; chi si innamora subisce il lavaggio del cervello. Un funzionario che contravviene alla linea del
partito per amore è rimesso in riga e stroncato.

Ray Bradbury, Fahrenheit 451, romanzo, 1953

In una società del medioevo prossimo venturo, condannata all’ignoranza da un potere dispotico
che condanna i libri al rogo, il pompiere incendiario Montag incontra Clarissa che ama la lettura, co-
mincia a leggere per curiosità e non smette più, diventando un fuorilegge. Montag raggiunge una fo-
resta dove si sono rifugiati gli uomini in esilio; qui incontra Clarissa e apprende che nella foresta tut-
ti imparano a memoria un testo, diventando uomini-libro per salvare il passato.
PROGRAMMAZIONE E TEORIA DEL CURRICOLO

Dal programma alla progettazione

Tradizionalmente la scuola è stata governata con programmi, ossia con documenti centralizzati
che prescrivevano - e tuttora indicano - in modo indifferenziato, contenuti e metodi dell’istruzione.
Introdotta nella scuola italiana con un decreto delegato (416) del 1974, la programmazione ufficial-
mente è invece un’attività che si svolge “localmente”, tiene conto delle esigenze di “quella” determi-
nata scuola e di “quel” determinato ambiente socio-economico a cui è destinata.
L’incontro tra programmazione e programma si verifica nello sviluppo della nozione di curricolo,
così sintetizzata da Clitilde Pontecorvo: “la nozione di curricolo (...) non include solo una scelta (e,
meno che mai, un elenco) di contenuti, come nei tradizionali programmi ministeriali, bensì indica an-
che obiettivi, metodi di insegnamento e di apprendimento, materiali didattici e soprattutto richiede
di considerare l’allievo nelle sue preliminari abilità, conoscenze, motivazioni”.
È tuttavia significativo che nel corso degli anni anche la pratica della programmazione sia entrata in
crisi, generando in molti casi forme di “ritualismo”, da parte degli insegnanti: se la programmazione
doveva servire a spingere le scuole ad uscire dal consueto e dall’imitativo per assumere autonoma-
mente le decisioni relative alle linee di intervento da seguire, molto spesso essa è stata intesa come
soluzione da praticare uniformemente, seguendo linee d’azione predefinite; in tal modo essa rimane
spesso una semplice dichiarazione di intenti.
Il legame tra singolo piano didattico e il complesso delle finalità e degli obiettivi generali ha prodot-
to all’inizio degli anni ‘80 la riflessione sulla scuola come organizzazione che persegue e realizza, al-
l’interno di un sistema, specifici progetti. Si è così aperto un nuovo scenario in cui la scuola del
progetto elabora piani di lavoro, strategie di intervento e propone offerte formative calibrate sulle
esigenze - reali o ipotetiche - dell’utenza. Il modello della progettazione ha avuto riflessi sul piano
didattico, mettendo talvolta in secondo piano il modello della programmazione; i termini progetta-
zione e programmazione sono tuttora spesso usati per indicare le medesime operazioni.

Dalla “lezione” alla “unità curricolare e individualizzata”

La lezione tradizionale è basata sul presupposto che il compito della scuola sia di fornire “pari op-
portunità”, permettendo a tutti gli alunni di una classe di ricevere una comunicazione culturale indif-
ferenziata, prevalentemente a carattere verbale, da parte dell’insegnante. In un secondo momento la
verifica, orale o scritta, deve stabilire le capacità individuali a livello di memorizzazione e di analisi.
L’efficacia di questa procedura didattica risiede nella presenza di un gruppo sostanzialmente omo-
geneo di allievi, le cui capacità, i cui ritmi e tempi di apprendimento si collocano su “valori medi” in
base ai quali l’insegnante costruisce il suo intervento. Laddove la situazione sia effettivamente tale,
la verifica dà risultato positivo e un nuovo argomento viene affrontato. È evidente, tuttavia, che le
situazioni di partenza non sono, in genere, affatto omogenee: ciascun allievo entra nella scuola con
esperienze culturali, sociali e affettive diverse di fronte alle quali la scuola ha tre atteggiamenti possi-
bili: la selezione palese, che respinge coloro che sono troppo lontani dai valori medi; la selezione
nascosta, che fa sì che la scuola “assolva” i risultati negativi, lasciando che sia la società a selezio-
nare i meglio preparati; il tentativo di costruire percorsi didattici in grado di tener conto delle diffe-
renze individuali. È da questo terzo approccio che nasce l’unità didattica curricolare ed indivi-
dualizzata, che ha come scopo quello di tenere conto di tempi, ritmi, stili cognitivi e capacità di
ciascuno, senza per questo lasciar cadere l’aspetto collettivo dell’insegnamento. A tal fine essa in-
terviene anzitutto sulla verifica, che viene ad assumere forme, tempi e finalità differenti. La verifica
viene perciò utilizzata a livello preliminare come strumento per appurare quali sono le condizioni di
partenza di ciascun alunno rispetto a quanto si desidera far apprendere: la mancanza di prerequisiti
essenziali nei casi individuali potrà essere così affrontata subito con interventi di compensazione e
recupero. Successivamente, qualora gli allievi non conseguano i risultati attesi, verranno realizzati
interventi di sostegno individualizzato.

La programmazione per obiettivi

La programmazione si articola nelle cinque fasi dell’analisi della situazione iniziale, della selezione
degli obiettivi, della selezione dei contenuti, della selezione dei metodi e degli strumenti, della verifica
e valutazione. Ciò che caratterizza queste fasi è una sostanziale successione sul piano temporale, ma
anche, allo stesso tempo, un’interdipendenza sistemica e la necessità di continui feedback per adat-
tarsi flessibilmente al contesto.

1. L’analisi della situazione iniziale

Per mezzo dell’analisi della situazione iniziale si definiscono i limiti entro cui si deve attuare l’in-
tervento educativo e si accerta il possesso da parte degli alunni dei prerequisiti, cioé delle basi che i
soggetti coinvolti devono già possedere per poter raggiungere gli obiettivi previsti. Gli elementi della
situazione di partenza possono essere classificati come:
a) variabili relative all’ambiente extrascolastico: economia del territorio, trasporti, ecc.;
b) variabili relative al contesto familiare: nucleo familiare, caratteri del rapporto scuola-famiglia, ecc;
c) variabili relative alla struttura e all’organizzazione della scuola: attrezzature disponibili, persona-
le, risorse dell’istruzione;
d) variabili relative agli insegnanti: preparazione, capacità di gestione collegiale, atteggiamenti socio-
emotivi, ecc.;
e) variabili relative al gruppo-classe: situazioni dei rapporti di socializzazione, composizione della
classe, ecc.;
f) variabili relative al singolo alunno: caratteristiche cognitive ed affettive d’ingresso.

2. La selezione degli obiettivi formativi e didattici

La seconda fase della programmazione riguarda l’elaborazione degli obiettivi formativi e didattici,
intendendo col termine “formativo” (spesso sostituito dalle espressioni “generali” o “finali”) gli sco-
pi dell’azione educativa (che sono inesauribili e vanno oltre la scuola investendo l’intera esistenza
della persona) e con il termine “didattico” (spesso sostituito dalle espressioni “intermedi” o “opera-
tivi”) le capacità, le abilità, le conoscenze precise che l’alunno devo possedere al termine di un itine-
rario di apprendimento.
Alcuni studiosi (come Bloom, Guilford, Gagné) hanno affrontato il problema di una classificazione
sistematica e formale degli obiettivi. Pioniere a questo proposito è stato Benjamin Bloom, che, dopo
aver affermanto l’importanza di costruire gli obiettivi sulla scorta di quattro criteri (didattico, psico-
logico, logico ed oggettivo), ha proposto classificazioni gerarchiche ormai famose - le tassonomie -
come criteri per la formulazione di obiettivi da adottare in relazione alla concreta situazione della
scuola, della classe e dell’alunno. Negli anni successivi alle tassonomie di Bloom, riferite all’area co-
gnitiva, affettiva e psicomotoria, ne sono seguite molte altre, fra cui il “modello gerarchico dei tipi di
apprendimento” di Robert Gagné e il modello di funzionamento dell’intelligenza di Joy Guilford.
3. La scelta e l’organizzazione dei contenuti

La terza fase della programmazione riguarda la scelta e l’organizzazione dei contenuti, ossia degli
argomenti di studio mediante i quali raggiungere gli obiettivi.
Un criterio estremamente frequente per la scelta dei contenuti in un ottica curricolare e programma-
toria - che si contrappone alla vecchia scuola, astrattamente e arbitrariamente contenutistica - è quel-
lo della produttività. In questo senso occorre individuare contenuti che presentino la caratteristica
di legarsi ad apprendimenti utilizzabili in situazioni ulteriori, quindi degli alfabeti: “Compito della
scuola, domani - scrive Franco Frabboni - diventa prevalentemente quello di insegnare ad apprende-
re e molto meno quello di informare”. Appare però difficile trovare un accordo sulla preferenza dei
contenuti “produttivi” trasversalmente validi per le varie discipline, perché mancano i criteri per in-
dividuarli. Si possono considerare più diffusi gli approcci che privilegiano lo studio autonomo di
ogni disciplina, per giungere al reperimento di quei nuclei fondanti il cui insegnamento produce il
possesso “competente” (e quindi produttivo) della disciplina stessa. A questo proposito le discipli-
ne di studio possono essere indicate come sistemi di teorie e concetti, ossia strutture, caratterizzati
da metodi di ricerca e da linguaggi specifici con cui costruiscono modelli della realtà. Secondo l’ottica
adottata da autori come Jerome Bruner o Joseph Schwab, esistono procedure oggettive per indivi-
duare le strutture delle materie di studio e per organizzarne i contenuti in una forma coerente. Rima-
ne la difficoltà di individuare le strutture di tutte le discipline (si pensi alla storia, alla poesia), e di
accordarsi unanimemente su di esse.
Un’altra posizione individua nelle mappe concettuali l’approccio più adeguato alla selezione dei
contenuti. Ogni disciplina ha, secondo questa concezione, la possibilità di riferirsi a un determinato
territorio di fenomeni attraverso una molteplicità di mappe piuttosto che mediante un’unica struttu-
ra. Pertanto è possibile attuare una programmazione didattica che selezioni all’interno della discipli-
na le “mappe” più congeniali a un dato percorso di apprendimento.
L’approccio per mappe concettuali ha portato anche nuovi elementi per la realizzazione di un su-
peramento dei confini che separano le discipline, valorizzando le loro possibilità di interazione, so-
vrapposizione, scambio, nell’ottica dell’interdisciplinarità.

4. I metodi

Nella programmazione didattica il termine “metodo” è usato tanto nel significato di procedimento
didattico, quanto per indicare l’insieme di rapporti tra docenti, alunni, materiali, riferito all’organiz-
zazione dei contenuti, al modo di presentarli agli alunni e alle attività svolte dall’insegnante. La cen-
tralità del metodo nel discorso didattico è tale che la scienza didattica viene spesso denominata me-
todologia.
La riflessione sul metodo nell’attività scolastica non può che partire dall’analisi della lezione, in-
tesa come il momento in cui l’insegnante affronta con i discenti, in un’attività condivisa, alcuni con-
tenuti di apprendimento. Lo schema della lezione tradizionale, essenzialmente concepita come espo-
sizione orale dei contenuti da parte dell’insegnante, è stato tracciato per la prima volta, nella peda-
gogia dell’età contemporanea, da Herbart, il quale distingue quattro “gradi”: 1° la chiarezza (presen-
tazione dell’argomento ed esposizione degli obiettivi cui tende la lezione); 2° l’associazione (richia-
mo delle informazioni possedute e collegamento di queste con il nuovo argomento); 3° la sistema-
zione (approfondimento, ordinamento e sintesi delle nuove informazioni); 4° il metodo (applicazio-
ni delle informazioni ricevute e operazioni di vario tipo).
Oggi, tuttavia, la didattica colloca sotto il nome di lezione una gamma molto più estesa e varia di
interventi, in cui la tradizionale lezione cattedratica, o frontale, rappresenta solo una parte:
- la lettura e il commento dei testi;
- la lezione dialogata;
- la discussione tra alunni e insegnanti;
- la discussione tra alunni;
- l’uso di laboratori (tra cui i laboratori multimediali).
Al di là delle classificazioni è evidente che ciascuna lezione può indurre livelli di partecipazione più
o meno elevati da parte dei discenti, all’interno di un continuo collocato fra l’estremo di una lezione-
conferenza o monologo, in cui la partecipazione viene espressa mediante l’ascolto e l’attenzione, e
una lezione-attività di gruppo, dove gli allievi sono direttamente protagonisti dell’apprendimento.
Bisogna peraltro osservare che l’esplosione dell’attivismo pedagogico ha prodotto un notevole al-
largamento degli approcci all’apprendimento, così che la lezione è stata spesso sostituita con varie
forma di attività strutturate, in misure diverse, dagli insegnanti. Tra gli approcci alternativi:
- l’apprendimento per “centri d’interesse”;
- l’apprendimento per progetti;
- l’apprendimento basato sulle varie forme di lavoro e interazione di gruppo;
- l’apprendimento basato sull’ “imparare facendo” (learning by doing) attraverso varie for-
me di esperienza individualizzata;
- l’apprendimento basato sulla ricerca;
- l’apprendimento basato sull’uso di apparati multimediali.
Una strategia didattica attualmente in corso di diffusione nel nostro paese è la didattica breve, che
viene definita dal suo ideatore, Filippo Ciampolini, come “il complesso di tutte le metodologie che,
agli obiettivi della didattica tradizionale (rispetto del rigore scientifico e dei contenuti delle varie di-
scipline), aggiunge anche quello della drastica riduzione del tempo necessario al loro insegnamento e
al loro apprendimento”. La didattica breve si qualifica come un percorso in cui l’insegnante si pre-
occupa di “distillare” contenuti e concetti fondamentali di un campo disciplinare per offrirli quindi
agli studenti con una metodologia adeguata e un apprendimento valido anche sul piano del supera-
mento di determinate verifiche.

5. Strumenti e tecnologie

Strumenti e tecnologie tendono ad assumere, in una società tecnologicamente complessa e dominata,


come la nostra, dall’informazione multimediale, un particolare rilievo. L’uso di particolari strumenti
nell’azione didattica ha assunto infatti uno straordinario impulso in età contemporanea con le tecno-
logie di comunicazione di massa e informatiche sviluppate a partire dalla seconda metà del XX seco-
lo, scalzando per la prima volta l’insegnante dalla sua centralità nell’apprendimento scolarizzato.
Uno dei profeti più noti a questo riguardo è stato lo psicologo Burrhus Skinner, che a partire dagli
anni ‘50 vide nelle macchine per insegnare (prima strumenti più semplici e in seguito computer) la
via principale per realizzare un insegnamento individualizzato in un approccio in cui l’aspetto tec-
nologico del processo educativo risultava dominante. Ciò ha prodotto una larga diffusione delle tec-
nologie nelle formazione scolastica e aziendale, in cui l’uso di strumenti come lavagne luminose, au-
diovisivi, televisori, videoregistratori è passata rapidamente in secondo piano rispetto alle possibi-
lità interattive garantite dal personal computer, o dalle nuove “lavagne interattive”.
Schematizzando, tra i diversi sussidi didattici attualmente in uso troviamo:
- testi e ipertesti (dal libro al cd rom, ecc.)
- materiali sonori (CD musicali, audiolibri, materiali per laboratorio linguistico, ecc.);
- materiali visivi (diapositive, lucidi, illustrazioni, cartine);
- materiali audiovisivi (film, prodotti multimediali);
- materiali per attività fisiche, osservative, sperimentali (dalle palestre ai laboratori).
6. Verifica e valutazione

L’ultima fase della programmazione è rappresentata dalla verifica e dalla valutazione, importante
non solo per il presente e il futuro cui viene indirizzato un processo di formazione, ma anche per un
continuo monitoraggio e aggiustamento del processo di formazione.
Il processo valutativo comprende al suo interno vari livelli (controllo, verifica, valutazione, meta-
valutazione), varie tipologie (valutazione diagnostica e prognostica) e funzioni (sommativa e for-
mativa).
In merito ai diversi livelli della valutazione, viene indicata con il termine “controllo” l’operazione
che prevede, nelle attività formative, una misura dei risultati dei processi di apprendimento-insegna-
mento attraverso delle prestazioni - in itinere - del discente. Si possono utilizzare a questo proposi-
to prove pratiche, vari tipi di esercitazioni scritte e orali, sulla base di scale di misurazione preventi-
vamente elaborate, in grado di trasformare gli esiti in punteggi definiti.
La verifica segue il controllo, dando conto di come i differenziali di apprendimento di ogni allievo
(ritmi di apprendimento + stili cognitivi) si riorganizzano intorno ai prerequisiti disciplinari e ai con-
tenuti di insegnamento alla fine di un’unità didattica. I tipi di prova sono gli stessi del controllo.
La valutazione implica un giudizio globale circa la rispondenza di ciò che è stato apputato me-
diante controllo e verifica la totalità del processo formativo, inteso sia come percorso di colui che
apprende, sia come insieme di strategie didattiche. Lo scopo è un miglioramento di entrambi, piut-
tosto che, come si pensa tradizionalmente, una selezione di coloro che non riescono a rispondere, al-
meno a livelli minimi, alle aspettative scolastiche.
La valutazione, qualora venga intesa come criterio orientativo per la programmazione, comprende
al suo interno una dimensione diagnostica e una prognostica tra loro interconnesse. La prima coin-
cide essenzialmente con la situazione di partenza, e viene effettuata mediante controlli e osservazio-
ni; la seconda si occupa invece dei modi e dei tempi in cui è ipotizzabile il raggiungimento degli ob-
biettivi del percorso formativo e un miglioramento individualizzato della situazione di apprendimen-
to. In questo secondo caso essa prevede interventi di recupero e sostegno.
La valutazione viene solitamente suddivisa in valutazione di processo e valutazione di prodotto:
nel primo caso la verifica dei risultati consente di accettare eventuali carenze e, quindi, di apportare
le necessarie strategie di recupero. Si tratta quindi di una valutazione formativa. Nel secondo caso
la valutazione viene al termine di un processo di apprendimento e ha un valore finale o sommativo.
Se la tempestività dei controlli e delle verifiche aumenta la produttività delle valutazioni conse-
guenti, nondimeno è necessaria anche una riflessione sistematica sul processo di valutazione stesso e
sulla sua rispondenza agli obiettivi. La metavalutazione (= valutazione della valutazione) rappre-
senta così un’importante occasione di analisi critica dei processi piuttosto che, semplicemente, dei
prodotti dell’attività formativa.
La psico-pedagogia ha messo in luce a questo proposito una serie di “effetti” che condizionano la
“oggettività” dell’operazione valutativa nella scuola e in altri ambienti; si possono ricordare tra essi:
a) l’effetto alone, per il quale il docente rischia di farsi condizionare da quegli elementi “di contor-
no” (lo stile con cui l’alunno si presenta, i modi espositivi) che più si avvicinano a quelli voluti dal-
l’insegnante;
b) l’effetto Pigmalione, detto anche “della profezia che si autoadempie”. Lo scultore Pigmalione si
innamora della statua da lui scolpita, che per amore acquista la parola. C’è anche un’omonima com-
media di Bernard Shaw in cui un linguista dimostra di essere in grado di educare alla buona pronun-
cia una piccola fioraia, raccolta per la strada, tanto da trasformarla in una “duchessa”. L’effetto indi-
ca una profezia a rovescio, secondo la quale l’allievo diviene ciò che il docente ha deciso a priori che
sia: quest’ultimo proietta sull’alunno le sue attese determinando il successo o l’insuccesso dell’azio-
ne educativa in accordo con le sue aspettative e con il suo programma educativo.
PROGRAMMAZIONE E TEORIA DEL CURRICOLO

PROGRAMMAZIONE PROGRAMMA
attività che si svolge localmente e collegialmente documento generale che proviene dal “centro”
per determinare obiettivi e percorsi di apprendi- del sistema scolastico e ha valore prescrittivo
mento di una determinata comunità scolastica sui contenuti e sui metodi dellʼistruzione

CURRICOLO
prodotto della programmazione che include
i vari momenti della programmazione per obiettivi

unità didattica curricolare individualizzata lezione


modalità didattica incentrata sul fatto di tenere conto modalità didattica contenente un argomento
di tempi, ritmi, stili cognitivi e capacità di ciascun (o sottoargomento) in sé conchiuso,
soggetto in formazione nel quadro di delimitata, come struttura base con poche
un opportuno curricolo varianti, dalle unità orarie giornaliere

MODELLO DI PROGRAMMAZIONE PER OBIETTIVI

al territorio (ambiente extrascolastico)


ANALISI DELLA al contesto familiare
SITUAZIONE variabili relative allʼorganizzazione della scuola
DI PARTENZA agli insegnanti
al gruppo-classe
al singolo alunno
conoscenza
formativi (generali/ educativi/ finali)
SELEZIONE affettività
DEGLI obiettivi a) intermedi -> capacità
OBIETTIVI didattici socialità
b) operativi -> abilità
psicomotricità

SCELTA DEI selezione delle discipline


CONTENUTI strutture / mappe concettuali tassonomie
interdisciplinarietà

lezione cattedratica frontale / lezione dialogata / “didattica breve”


lezione lettura / commento dei testi
discussione tra alunni e insegnante / tra alunni
I METODI
centri dʼinteresse
metodi attivi progetti di ricerca
lavoro e interazione di gruppo

testi / ipertesti (libro, cd rom, ecc.)


materiali sonori (cd, audiocassette, ecc.)
STRUMENTI materiali visivi (diapositive, lucidi, illustrazioni, cartine)
materiali audiovisivi (film, prodotti multimediali)
materiali per attività fisiche, osservative, sperimentali (palestre, laboratori)

controllo (prove pratiche, test, esercitazioni scritte / orali)


VERIFICA verifica (interpreta i risultati del controllo)
E di processo formativa
VALUTAZIONE valutazione
di prodotto sommativa
valutazione (giudizio globale sul processo formativo)
metavalutazione (analisi critica dei prodotti dellʼattività formativa)

effetto
“alone” “Pigmalione”
LE CONDIZIONI DI ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO SCOLASTICO

Il lavoro scolastico: elasticità, dinamicità, funzionalità

La complessità del sapere richiede che la scuola si organizzi come “ambiente educativo di appren-
dimento dotato di caratteristiche di lavoro particolari. Secondo Gino Giugni la scientificità del lavoro
scolastico si ordina intorno a tre criteri:
- elasticità, come capacità di modificarsi di volta in volta al mutare delle esigenze formative;
- dinamicità, come apertura costante all’innovazione;
- funzionalità, come orientamento a raggiungere scopi precisi e consapevoli sia da parte dei
formatori sia da parte di coloro che vengono formati.
L’attuazione di questi criteri si colloca in una situazione dove la scuola cerca ancora di promuovere
il grande obiettivo pedagogico delineato all’inizio del XX secolo dalla corrente dell’Attivismo, il
passaggio di chi apprende dal ruolo di spettatore a quello di attore del processo formativo.

L’individualizzazione e il gruppo in educazione

L’obiettivo di una scuola “di tutti e di ciascuno” viene raggiunto in un sistema formativo dove le
differenze individuali non vengono negate attraverso una didattica uniforme (come accade nel model-
lo tradizionale di lezione), ma valorizzate attraverso tecniche didattiche e ambienti educativi in grado
di diversificare obiettivi e attività pur nel rispetto delle finalità fondamentali dell’uguaglianza di op-
portunità, di diritti e di promozione umana. L’individualizzazione ha come scopo la formazione di
soggetti liberi, autonomi, consapevoli e responsabili all’interno di una comunità sociale, coerente-
mente con il fatto che ciasxccuno è individuo e allo stesso tempo membro di diversi gruppi.
Al di fuori delle interazioni uno-a-uno fra educatore e allievo non è possibile ipotizzare interventi
pedagogici prescindendo dalle problematiche del gruppo. La realtà tipicamente umana del gruppo,
“totalità dinamica” secondo la definizione di Kurt Lewin, può essere considerata sotto diversi
aspetti, come quello psicologico, quello sociologico e quello pedagogico. La considerazione pedago-
gica, in genere, si serve di quanto maturato dalle altre prospettive per il raggiungimento di alcuni im-
portanti obiettivi educativi, come:
- la crescita positiva dell’individuo dentro e attraverso il gruppo;
- lo sviluppo di interazioni di gruppo produttive e soddisfacenti;
- la formazione di gruppi in grado di raggiungere, comunitariamente, obiettivi in tutte le sfere
della vita.
Nella realtà formativa il gruppo si presenta soprattutto secondo quelle caratteristiche che gli stu-
diosi definiscono del “piccolo gruppo”, o gruppo “faccia-a-faccia”, in cui le persone condividono
fatti come:
- la coesione, come capacità da parte dei membri di stare e operare insieme;
- l’organizzazione, come distribuzione di compiti e ruoli interni;
- la differenziazione, come costituzione di una identità di gruppo rispetto ad altri gruppi;
- la rete di comunicazione, come modalità regolari nello scambio di messaggi fra i membri;
- la leadership, ossia la caratteristica di alcuni individui di godere di elevati livelli di
“popolarità” cui consegue prestigio e autorità nei confronti degli altri;
- la produttività, come capacità di raggiungere obiettivi comuni;
- la soddisfazione personale, come livello di gratificazione che l’individuo sviluppa
attraverso il riconoscimento da parte del gruppo.
Nella classe scolastica coesistono vari tipi e modalità di gruppo. Gli insegnanti si trovano infatti di
fronte un gruppo nato per fini istituzionali (la classe costituita secondo i regolamenti per il funzio-
namento dell’istituzione scolastica) che riceve, come gruppo formale, una serie di regole dall’esterno
(ad esempio il regolamento di disciplina) o può stabilirlea propria volta in virtù del contratto forma-
tivo (momento iniziale di una situazione formativa in cui il formatore “negozia” con i soggetti in for-
mazione le modalità e gli esiti su cui costruire il processo formativo). Allo stesso tempo sanno che
all’interno della classe vi saranno sottogruppi aggregati in modo spontaneo, con regole che si pro-
durranno in moso informale nel corso delle interazioni.
Inoltre un gruppo-classe (e i sottogruppi al suo interno) assume una duplice caratterizzazione,
fondamentale per le sue implicazioni educative, come gruppo incentrato sull’affettività (gruppo di
base o auto centrato) o gruppo incentrato su obiettivi esterni (gruppo di lavoro o eterocentrato).

L’ “Educazione aperta”

Sebbene le classi siano alla base dell’ordinamento scolastico italiano, la pedagogia del nostro Paese
ha fortemente sentito il richiamo del modello della cosiddetta open education, ossia di quel modello
di educazione che cerca di superare la struttura della classe in nome di una scuola su misura (secon-
do l’espressione di Claparéde) capace di adattarsi ai bisogni di individualizzazione e socializzazione.
Si può parlare di scuola aperta - sostiene Petracchi - quando si verificano tre condizioni: quella am-
bientale (spazi ampi, idonei alla libertà di movimento, e flessibili, per consentire attività a gruppi
“mobili” di alunni); quella relazionale (i rapporti nella “scuola aperta” sono multidirezionali, coin-
volgono alunni, insegnanti, personale non docente, genitori, cittadini); quella didattica (non c’è cur-
ricolo rigidamente preordinato, come non c’è un metodo o una tecnica pregiudizialmente esclusi.
L’intervento didattico si può esplicare quando si profila come concreto aiuto all’alunno nel suo pro-
cesso di autorealizzazione).
Nella classe aperta la classe istituzionale si scinde in più gruppi sulla base delle differenze intra-
individuali (come differenti livelli di competenza nelle diverse aree disciplinari) e di differenze inter-
individuali (interessi diversificati).
L’interclasse è l’organizzazione flessibile ed unitaria degli insegnanti ed allievi di più classi, ope-
ranti per la realizzazione di obiettivi collegialmente determinati con interventi reciprocamente com-
plementari. Questa forma di educazione può essere realizzata in modi differenti: orizzontale (ad es
II A + II B), verticale (II A + III A) e misto (II A + III B) a seconda delle esigenze particolari (come
un viaggio d’istruzione, la realizzazione di un progetto, ecc).
La scuola senza classi (in inglese nongraded school, scuola senza gradi verticali) è basata sulla ne-
cessità di costruire curricoli assolutamente individualizzati, organizzati con la presenza di ogni allie-
vo in più gruppi, alternati a seconda delle discipline, delle attività e dei livelli.

Gli spazi

Insegnanti e alunni si trovano regolarmente, come sappiamo, a dover fruire di spazi su cui non han-
no neppure potuto dare un parere consultivo. Peraltro lo spazio adeguato a un insegnamento basato
sul lavoro di gruppo e sull’educazione aperta deve presentare quattro caratteristiche principali:
- aule di dimensioni diverse adeguate al lavoro di gruppo;
- una struttura in grado di sopportare e facilitare lo spostamento continuo degli studenti;
- locali per il team docente con materiali e strumenti atti alla progettazione e alla ricerca;
- ambienti di vario tipo in grado di rispondere alle varie richieste degli allievi.
Di qui la necessità di una progettazione degli spazi e dei tempi di una scuola “open space” con set-
tori centrali dedicati agli scambi sociali, spazi modulari a geometria variabile, aree predisposte per
l’uso delle tecnologie didattiche. In questa scuola le aule devono essere progettate come luoghi at-
trezzati per particolari esercitazioni o per l’apprendimento di tecniche specifiche: arredi, strumen-
tazioni, materiali devono consentire il realizzarisi di percorsi ideativi originali. La stessa disposizio-
ne dei banchi e delle persone, le distanze stabilite dall’insegnante, la sua capacità di muoversi nello
spazio rappresentano fattori la cui incidenza può favorire o limitare le capacità di apprendimento
degli alunni.
L’adozione del modello dell’open classroom e della “scuola aperta” può oggi condurre a una peda-
gogia delle classi eterogenee, il cui riflesso nella gestione degli spazi conduca ad affiancare alle aule-
classi opportune aule-specializzate, divise tra laboratori di natura disciplinare e a carattere perma-
nente e aule-progetto di natura multidisciplinare e a carattere mobile.

I tempi

La maggiore richiesta di sapere implica anche una diversa organizzazione e un’estensione del “tem-
po scuola”, legata alla profonda trasformazione contestuale della qualità del lavoro scolastico.
Al tempo-base rigido della scuola tradizionale si è aggiunto, a partire dalla situazione normativa fis-
sata dalla legge 820/1971, un tempo lungo. Esso ha assunto la duplice fisionomia del tempo prolun-
gato (con aggiunta di attività integrative alle curricolari e frequenza facoltativa) e del tempo pieno
(con ampliamento delle attività curricolari e frequenza obbligatoria). Le motivazioni sono molteplici,
e vanno dall’aspetto etico-politico di offrire un servizio di custodia e organizzazione educativa del
tempo pomeridiano degli scolari, all’offerta politica di attività integrative e di sostegno per gli svan-
taggiati, all’arricchimento della crescita psicologica, all’obiettivo pedagogico di una scuola della “pie-
na educazione”.
La scelta del tempo lungo provoca una vera e propria rivoluzione nella scuola, perché, se rettamen-
te interpretato, richiede un affinarsi della gestione democratica e collegiale nel quadro del “sistema
formativo allargato”, in cui la programmazione del tempo implica anche un coinvolgimento delle fa-
miglie e deller ealtà extrascolastiche, un’integrazione delle attività fra interno e esterno della scuola.

Il Mastery Learning

Il Mastery Learning (apprendimento per la padronanza) corrente pedagogica statunitense che, a


partire dagli anni cinquanta, si propone di affrontare il problema della razionalizzazione delle risorse
destinate all’educazione attraverso percorsi educativi individualizzati in grado di rendere più “pro-
duttiva “ la scuola: per fare in modo che un maggior numero di persone riesca a conseguire gli obiet-
tivi scolastici, occorre accertare scientificamente con test e prove oggettive i livelli di partenza di cia-
scuno, scomponendo gli obiettivi fino a trasformarli in comportamenti semplici e misurabili, colle-
gando i metodi e le verifiche all’esatta realizzazione e misurazione degli obiettivi.

Benjamin Bloom, Tassonomia degli obiettivi educativi (1956)


Robert Gagné, Condizioni dell’apprendimento (1973)
Joy Guilford, La natura dell’intelligenza umana (1967)
A. J. Harrow, Tassonomia degli obiettivi educativi. Area psicomotoria (1984)
LA DIDATTICA E LE CONDIZIONI DI ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO SCOLASTICO

elasticità => capacità di modificarsi al mutare delle esigenze

dinamicità => apertura costante allʼinnovazione

funzionalità => orientamento a raggiungere scopi precisi e consapevoli


Scuola come
“ambiente educativo “learning by doing” => discente = attore vs spettatore (-> attivismo)
di apprendimento”
individualizzazione => valorizzazione delle differenze individuali
attraverso tecniche didattiche, ambienti
educativi e attività diversificate

lavoro di gruppo => crescita dellʼindividuo dentro il gruppo


sviluppo di interazioni produttive
raggiungimento “comunitario” di obiettivi

coesione stare / operare insieme


organizzazione distribuzione di ruoli e compiti interni
il gruppo differenziazione costituzione di una identità di gruppo
in rete di comunicazione modalità regolari nello scambio di messaggi
educazione leadership acquisizione di popolarità, prestigio ed autorità allʼinterno
produttività capacità di raggiungere obiettivi comuni (del gruppo
soddisfazione pers. gratificazione per il riconoscimento da parte del gruppo

gruppi come gruppi di addestramento “T-Group” (Lewin)


mezzi di formazione, gruppi di discussione dei casi Psicodramma (Moreno) (p. 66)
cambiamento, terapia gruppi Balint Role-playing

fini istituzionali -> gruppo formale gruppo di lavoro eterocentrato


gruppo classe ->
relazioni informali gruppo di base autocentrato
(interazioni -> sottogruppi) (affettività)

Open Education

funzione dellʼeducazione
diritto dellʼindividuo rispetto dellʼautoattività nel
a vivere una vita piena processo di apprendimento

scuola aperta classi aperte interclasse scuola senza classi


spazi aperti, gruppi mobili di alunni allievi di + classi ogni allievo in + gruppi
libertà di movimento, differenze individuali -> organizz. flessibile curricula individualizzati
libertà di scelta tecnologie adeguate obiettivi determinati
interessi degli alunni (recupero deficit)

ambientale spazi ampi, idonei alla libertà di movimento, flessibili


condizioni relazionale rapporti multidirezionali (alunni, insegnanti, genitori, cittadini)
didattica assenza di curricolo o di metodo preordinato

aule di dimensioni diverse (-> lavoro di gruppo)


struttura flessibile (-> facilità negli spostamenti)
SPAZI locali con materiale e strumenti per la progettazione e la ricerca
ambienti di vario tipo (-> richieste degli allievi)
classi eterogenee (aule-classi / aule-specializzate / laboratori / aule-progetto)

tempo-base -> scansione istituzionale rigida del tempo scolastico

TEMPI tempo prolungato -> attività integrative / frequenza facoltativa

tempo pieno -> ampliamento attività curricolari / frequenza obbligatoria


TASSONOMIA DEGLI OBIETTIVI EDUCATIVI

Mastery Learning (apprendimento per la padronanza)

corrente pedagogica statunitense che, a partire dagli anni cinquanta, si propone di affrontare il problema
della razionalizzazione delle risorse destinate allʼeducazione attraverso percorsi educativi individualizzati
in grado di rendere più “produttiva “ la scuola: per fare in modo che un maggior numero di persone
riesca a conseguire gli obiettivi scolastici, occorre accertare scientificamente con test e prove oggettive
i livelli di partenza di ciascuno, scomponendo gli obiettivi fino a trasformarli in comportamenti semplici e
misurabili, collegando i metodi e le verifiche allʼesatta realizzazione e misurazione degli obiettivi.

tassonomie
classificazioni gerarchiche, sistematiche e formali degli obiettivi didattico-educativi

Benjamin Bloom Tassonomia degli obiettivi educativi (1956)


Robert Gagné Condizioni dellʼapprendimento (1973)
Joy Guilford La natura dellʼintelligenza umana (1967)
A. J. Harrow Tassonomia degli obiettivi educativi. Area psicomotoria (1984)

OPERAZIONI

cognitive affettive sociali psicomotorie

Bloom Gagné Guilford Krafthwohl (Dave) Harrow

1. conoscenza 1. associazione 1. cognizione ricezione ricevere capacità


verbale 2. memoria percettive

2. comprensione 2. apprendimento risposta partecipare capacità


di concetti 3. produzione fisiche
convergente
3. applicazione 3. apprendimento valorizzazione collaborare abilità
4. analisi di principi organizzazione modellare motorie

4. produzione
5. sintesi 4. risoluzione divergente progettare comunicazione
di problemi non verbale
6. valutazione 5. giudizio caratterizzazione strutturare creativa
(sistema di valori)

Guilford

produzione convergente vs produzione divergente

operazioni comportamentali che convergono operazioni comportamentali che divergono


sullʼoggetto di studio per accettarne dallʼoggetto di studio per discuterne
convenzionalmente “lʼuso, il costume, la regola” “lʼuso, il costume, la regola” e proporre creativamente,
con originalità e fantasia, un uso e una funzione diversa

abilità di classificazione pluralità di risposte ad un problema dato

trovare ed applicare analogie originalità / varieà di soluzioni proposte

ordinare eventi ed elementi fluidità (verbale, ideativa, associativa)


di un sistema flessibilità (-> uso insolito di un oggetto usuale)
capacità di costruire superando le restrizioni
ragionare deduttivamente e dovute allʼabitudine (-> pensiero creativo)
trarre conclusioni pertinenti
La professionalità insegnante

La professione insegnante ha avuto, a partire dagli anni Settanta, una notevole evoluzione e altret-
tante notevoli “crisi”, al punto che è lecito domandarsi, anzitutto, «perché gli insegnanti continuano
ad insegnare?». La “fuga” da questa professione ha a tutt’oggi, almeno in Italia, delle percentuali
consistenti, ma sembra comunque contraddetta dal persistere di atteggiamenti di motivazione e im-
pegno; pertanto la risposta alla domanda conduce a un’analisi dell’attuale ruolo sociale e scolastico
degli insegnanti per individuarvi la cause di motivazione e demotivazione, come pure i fattori
importanti dello “stile didattico” prevalente. A monte di questa analisi sta però il riconoscimento
della difficoltà di individuare il ruolo specifico e le funzioni dell’insegnante, in una società in cui
quest’ultimo, come sottolinea Claudio Volpi, «non ha più l’autorità che gli derivava, in una società
pre-industriale, dal fatto di essere l’unico depositario della cultura accettata». Di fronte alla molte-
plicità di fonti informative della società multimediale, l’insegnante cessa comunque di essere il solo
responsabile della formazione e il portatore di una “missione”, per qualificarsi come professionista
con obiettivi delimitati e riconoscibili.

I compiti del docente e la loro evoluzione nel quadro sociale


Se la figura tradizionale dell’insegnante, trasmettitore di cultura e dispensatore di informazioni,
appare ormai decisamente tramontata (seppure più nella teoria che nella pratica), altrettanto non si
può dire per i compiti ad essa connessi, che in parte sembrano essersi aggiunti agli altri caratteristici
della sua nuova professionalità in via di definizione. Nei livelli operativi dell’attività docente si pos-
sono distinguere, come ha sintetizzato il pedagogista Gino Giugni:
1. le attività curricolari, che riguardano il docente come insegnante delle materie obbligatorie o
opzionali;
2. Le attività extracurricolari, che vedono il docente come “animatore culturale” (attività ausiliarie:
aiutare gli alunni in difficoltà; attività cooperative: potenziare il sentimento di partecipazione);
3. Le attività facoltative, che vedono il docente nel ruolo di “esperto” (corsi liberi, seminari di
approfondimento e ricerca).
Attualmente a questa tabella occorrerebbe aggiungere le mansioni di progettazione e programma-
zione dell’attività formativa rispetto al territorio, nonché le qualità richieste dai compiti di “direzio-
ne”, “mediazione”, “promozione” del processo di arricchimento e ampliamento delle esperienze
degli alunni, il quale richiede una complessa competenza professionale, una sensibile partecipa-
zione sociale e una forte umanità. L’insegnante dovrebbe quindi presentarsi anzitutto come elabo-
ratore e mediatore di cultura in una società nella quale i contrasti e le contraddizioni non consen-
tono più facili “mandati”, come quello che il sociologo Emile Durkheim sintetizzava affermando
che «il maestro è il mandatario di una grande persona morale che lo supera: la società».
Questa visione implicava la presenza di una società già “compiuta”, all’interno della quale spettava
all’insegnante svolgere con la massima efficienza possibile i suoi compiti di socializzazione e
selezione. Sebbene tali compiti facciano parte anche attualmente della professionalità insegnante,
nella loro realizzazione si riconoscono da tempo forme di contraddizione e rischi di ideologizzazio-
ne, messi in luce dalla critica pedagogica degli anni sessanta e settanta (La Lettera ad una professo-
ressa di Lorenzo Milani, o Le vestali della classe media, 1968, del sociologo Marzio Barbagli).
A essere messi in luce sono i condizionamenti prodotti dall’appartenenza sociale dell’insegnante,
tendenti a fare della socializzazione e/o della selezione operazioni a carattere ideologico, coerenti
con un orientamento sociopolitico determinato. Un’aspetto rilevante, a questo proposito, è il pro-
gressivo abbassamento del livello socioeconomico degli insegnanti, cui è corrisposto un abbassa-
mento del prestigio generale della professione. Alle “vestali della classe media” si sono sostituiti, in
molti casi, insegnanti che vedono in parte nella propria professione una “missione” sociale di eleva-
zione dei gruppi più emarginati. Pertanto al potenziamento di atteggiamenti di recupero e sostegno
(del resto in parte previsti istituzionalmente nei casi di disturbi d’apprendimento o “svantaggio
culturale”) è corrisposto anche il tentativo di limitare gli effetti “classisti” della selezione. Sembra
operare, anche in questo caso, quella che il sociologo Basil Bernstein ha definito la pedagogia
invisibile, ossia l’influenza del contesto e delle origini sociali dell’insegnante sulla sua pratica
scolastica (ivi compresi i criteri e i meccanismi della selezione).
Peraltro la situazione attuale indica un forte orientamento verso la valutazione dell’operato dell’in-
segnante non tanto in relazione ai suoi presupposti ideologici, quanto alla sua ricaduta pratica: l’in-
segnante non è più giudicato tanto per le sue conoscenze e competenze, quanto per la “facilità” con
la quale i suoi allievi imparano. Ciò può talvolta ingenerare, nello stile educativo degli insegnanti,
delle tendenze “difensive” verso la semplificazione e la “perdita di complessità” dei contenuti.
Le aspettative sull’operato degli insegnanti non corrispondono a una loro immagine sociale nitida
e ben definita: la percezione dell’insegnante si muove alternativamente tra le figure dell’artigiano,
semplice e cattedratico trasmettitore di conoscenze, dell’animatore di attività piacevoli e ricreative,
nonché tali da promuovere l’iniziativa dei discenti, e dello specialista, verso cui si indirizzano spes-
so le preferenze degli insegnanti stessi. La molteplicità, la discrepanza e la contraddittorietà di que-
ste immagini sono del resto coerenti con la molteplicità di funzioni che vengono oggi attribuite alla
scuola: a seconda delle situazioni, l’insegnante potrà trovarsi a svolgere il ruolo di istruttore, di sor-
vegliante, di agente di diffusione socioculturale, di giudice, di consulente, di terapeuta e così via, in
un affastellamento e in una contraddittorietà potenziale di ruoli molto elevata.

Gli stili dell’insegnamento


Come ben sanno gli studenti, ogni insegnante è caratterizzato da uno “stile” didattico-educativo
particolare, un fatto che ha suscitato l’interesse di molti studiosi. Uno dei primi studi che volle
andare oltre la rilevazione di dimensioni di personalità e attegiamenti degli insegnanti per osservar-
ne il comportamento reale, fu, negli anni sessanta, quello di Ryans, svolto negli Stati Uniti su un
numero molto alto di insegnanti. Obiettivo della ricerca era l’identificazione dei modelli fondamen-
tali di comportamento che gli insegnanti seguono in classe; l’osservazione sistematica veniva con-
dotta sulla base di uno schema preordinato che elencava una serie di caratteristiche di comporta-
mento e chiedeva all’osservatore di assegnare un punteggio da 0 a 7 all’insegnante osservato per
ciascuna caratteristica.
Le categorie comportamentali erano espresse in coppie antinomiche: parziale-obiettivo, autocra-
tico-democratico, distaccato-comunicativo, comprensivo-non comprensivo, aspro-gentile, mono-
tono-stimolante, stereotipato-originale, apatico-vivace, scialbo-attraente, evasivo-responsabile,
costante-incostante, eccitabile-posato, incerto-sicuro di sé, disorganizzato-sistematico, rigido-fles-
sibile, pessimista-ottimista, emotivamente maturo-immaturo, di mentalità chiusa-aperta.
Ryans giunse a definire tre modelli (o polarità di modelli) fondamentali di comportamento inse-
gnante: un modello X definito cordiale, comprensivo, amichevole piuttosto che distaccato, egocen-
trico e rigido; un modello Y definito responsabile, efficiente, sistematico invece che evasivo, non
pianificato, disorganizzato; un modelle Z definito stimolante, immaginativo piuttosto che noioso e
legato alla routine.
Altri ricercatori (Stern, Spaulding e Anderson) hanno evidenziato uno stile d’insegnamento
“centrato sull’insegnante” (autoritario, punitivo, formalizzato, competitivo, poco socializzante,
poco comunicativo, direttivo) e uno stile “centrato sullo studente” (partecipato, cooperativo,
democratico, attivo, socializzato, comunicativo.
La ricerca delle variabili comportamentali più significative e utili per discriminare gli stili educativi
ha portato alcuni autori (Solomon e Rosenberg) a redigere un ricco catalogo di comportamenti
insegnanti, indicati attraverso una serie di coppie polari di opposti: permissività-controllo, apatia-
energia, aggressività-protettività, ambiguità-chiarezza, asciuttezza-tendenza all’esagerazione,
incoraggiamento all’espressione degli studenti-lezione accademica, cordialità-freddezza.
Anderson ha individuato due modalità fondamentali di comportamento insegnante: lo stile
“dominante” e quello “integrante”. Categorie tipiche del primo sono ad es. il punire, il minacciare,
il sollecitare, il richiamare l’attenzione, l’espellere dall’aula; comportamenti definiti “integranti”
sono invece l’approvazione, l’accettazione di un comportamento, il rilevare interessi espressi
dall’alunno. E’ da notare che secondo Anderson nessun insegnante è classificabile come dominante
o integrante, perché ognuno di essi si colloca in uno dei tanti punti di gradazione tra l’uno e l’altro
stile.
Il sociologo Paul Musgrave parla di tre tipi fondamentali, ciascuno dei quali, se realizzato in
forma pura, non è esente da problemi:
- lo studioso, dotato di cultura profonda e aggiornata, «è improbabile che si comprenda o abbia
grande successo con degli alunni le cui motivazioni sono prevalentemente utilitaristiche»;
- l’insegnante dedito agli alunni, orientato alla promozione della formazione personale degli
alunni più che al lavoro nel proprio ambito disciplinare, rischia di non essere congruente con
«le richieste di carattere professionale avanzate dagli adolescenti nella scuola secondaria»;
- il missionario, interamente occupato a “salvare” i suoi studenti dai condizionamenti negativi
dell’ambiente, necessiterà «di qualcosa di più che una coscienza sociale ben sviluppata per
affrontare dei giovani ribelli, spalleggiati da genitori spesso amorali».

Le funzioni dell’insegnante: Gilbert De Landsheere.

La valutazione della professionalità insegnante deve essere compiuta in relazione alle problemati-
che concrete relative alla gestione dei rapporti con la classe e delle situazioni di apprendimento. La
complessità dei fattori in gioco a questo riguardo sul piano comunicativo ed operativo è stata ab-
bondantemente studiata e schematizzata in tabelle riassuntive molto note, come quella prodotta da
Gilbert De Landsheere:

1. Funzioni organizzative: regola la partecipazione degli allievi; organizza i movimenti degli


allievi; fissa la programmazione del lavoro (dà indicazione sull’ordine e la successione dei
lavori, ne controlla l’avanzamento); risolve situazioni di conflitto.

2. Funzioni di imposizione: trasmette informazioni (espone e spiega gli argomenti, risponde


alle domande); impone i problemi (formula i quesiti, indica i compiti); impone metodi di
soluzione e modi di procedere; suggerisce le risposte (fornisce tracce e fa domande per
facilitare la soluzione); impone opinioni e giudizi di valore; impone aiuti non richiesti.

3. Funzioni di sviluppo e promozione: crea situazioni stimolanti e propone scelte; richiede


che si compia una ricerca personale; struttura il pensiero dell’allievo (cerca di rendere più
chiara l’espressione spontanea dell’allievo, lo invita a precisare, completare, sintetizzare,
generalizzare, gli chiede di esprimere un parere); dà all’alunno l’aiuto richiesto (risolve
personalmente la difficoltà, orienta lo schema di ricerca dell’allievo, risponde alle sue
domande di chiarimento).

4. Funzioni di personalizzazione: accetta l’espressione spontanea; interpreta situazioni


personali; invita l’alunno a servirsi della sua esperienza extra-scolastica; individualizza il
suo intervento in funzione della situazione personale di un allievo.

5. Funzioni di valutazione positiva (feedback +): approva ed accetta tutto in maniera


stereotipata; approva ripetendo la risposta dell’allievo; concorda caso per caso, a ragion
veduta; approva secondo schemi non evidenti.

6. Funzioni di valutazione negativa (feedback -): non è d’accordo in maniera stereotipata;


non concorda, ripetendo la risposta dell’allievo in maniera ironica e provocatoria; non
concorda a ragion veduta; non approva secondo schemi non evidenti.
7. Funzioni di concretizzazione: usa un materiale, o suggerisce all’allievo di servirsi di un
materiale con valore figurativo, simbolico, adatto alla manipolazione e costruzione; utilizza
tecniche audio-visive; scrive alla lavagna:

8. Funzioni di affettività positiva: loda, riconosce i meriti, cita come esempio, mostra
disponibilità; incoraggia; promette un premio; ricompensa; si esprime con senso
dell’humour; si rivolge all’alunno in modo affettuoso.

9. Funzioni di affettività negativa: critica, accusa, prende in giro; minaccia; ammonisce e


rimprovera; rimprovera pesantemente; punisce; rimanda la decisione; rifiuta l’espressione
spontanea; ha atteggiamenti cinici.

Aspettative verso gli insegnanti e apprendimento degli alunni: Roy Nash

Roy Nash (1983) ha cercato di indagare come gli atteggiamenti verso gli insegnanti creano
aspettative che influenzano il comportamento degli insegnanti stessi. L’indagine - “qualitativa” -
comprendeva solo una classe di 12-13 anni, con interviste ai singoli alunni. Si chiese ai ragazzi di
paragonare gli insegnanti, a loro piacimento. Le analisi delle conversazioni rivelarono sei costrutti
comuni a tutti o quasi tutti i ragazzi:
1. Mantiene l’ordine – Non è in grado di mantenere l’ordine; 2. Ti insegna – Non ti insegna;
3. Spiega – Non spiega; 4. Interessante – Noioso; 5. Giusto – Ingiusto; 6. Amichevole – Non
amichevole.
Tutti convennero che gli insegnanti dovessero essere in grado di mantenere l’ordine: anche i ra-
gazzi indisciplinati biasimavano l’insegnante perché era “tenero” e non riusciva a tenerli disciplina-
ti. Se l’insegnante non è in grado di far fronte alla situazione, la lezione diventa disorganizzata,
alcuni ragazzi si annoiano, altri non prestano più attenzione. Ma la situazione è altrettanto negativa
per l’insegnante prepotente e ultrasevero. I ragazzi non consentono agli insegnanti di essere duri e
ingiusti senza protestare: qualche volta non lavoreranno, rifiuteranno di rispondere alle domande o
di partecipare alla lezione.
In generale, i ragazzi non consideravano i tempi dedicati alla discussione come insegnamento
appropriato, non amavano gli insegnanti che dicevano loro di «arrivarci da soli», apprezzavano
l’insegnante che rendeva la lezione fluida e che chiariva i punti principali in modo tale che essi
potessero capire. Sulla giustizia, i ragazzi auspicavano risolutezza, se non severità, ma l’insegnante
doveva comportarsi con equità con tutti. Non doveva punire tutti per colpa di alcuni. Si chiedeva
che gli insegnanti fossero amichevoli e che parlassero familiarmente, senza sgridare o dominare la
classe. In conclusione, osserva Nash:
«I modelli di comportamento dell’insegnamento sono negoziati dall’insegnante e dagli alunni
insieme. L’insegnante non può soltanto imporre il suo metodo ad una classe ma deve ottenere al-
meno una minima collaborazione dagli alunni. Molte delle aspettative che gli alunni hanno rivelano
una concezione sostanzialmente passiva del loro ruolo. Per esempio, come si è detto, i ragazzi pen-
sano che essi devono essere tenuti in ordine, non pensano che si debba dare loro l’opportunità di
controllare autonomamente il loro comportamento; pensano che si debbano insegnare loro delle
cose e non reclamano l’opportunità di trovare le cose da soli. La concezione del comportamento
dell’insegnante che essi considerano corretta è di fatto quella che limita la loro autonomia e il
campo della loro azione significativa» (R. Nash, Aspettative dell’insegnante e apprendimento
dell’alunno, Lisciani & Giunti, Teramo, 1983, p. 85)
LA PROFESSIONALITAʼ INSEGNANTE

insegnante

figura tradizionale nuova professionalità abbassamento del:


trasmettitore di cultura elaboratore livello socio-economico
dispensatore di informazioni mediatore culturale prestigio sociale

socializzazione
selezione

“vestali della classe media” missione di elevazione dei “pedagogia invisibile”


gruppi più emarginati

percezione sociale dellʼinsegnante

artigiano animatore specialista


trasmettitore organizzatore di esperto e aggiornato
di conoscenze attività piacevoli nelle discipline insegnate

stili di insegnamento

Ryans Stern, Spaulding, Anderson Solomon, Rosenberg

parziale / obiettivo centrato su: permissività / controllo


autocratico /democratico insegnante studente apatia / energia
distaccato / comunicativo autoritario partecipato aggressività / protettività
+ o - comprensivo punitivo cooperativo ambiguità / chiarezza
aspro / gentile formalizzato democratico + incoraggiamento -
monotono / stimolante competitivo attivo asciuttezza / esagerazione
stereotipato / originale poco socializzante socializzato cordialità / freddezza
apatico / vivace poco comunicativo comunicativo accademico / aperto
scialbo /attraente direttivo non direttivo
evasivo / responsabile
costante / incostante Musgrave Anderson
eccitabile / posato
incerto / sicuro di sè studioso dominante / integrante
disorganizzato / sistematico
rigido / flessibile dedito agli alunni punire approvare
pessimista /ottimista minacciare accettare
emotivamente + o - maturo missionario sollecitare rilevare interesse
mentalità chiusa / aperta richiamare
espellere

organizzative / di imposizione
di sviluppo e promozione
Gilbert le funzioni di personalizzazione
De Landsheere dellʼinsegnante di valutazione positiva / negativa
di concretizzazione
di affettività positiva / negativa
Domenico Starnone:
un insegnante allo specchio (testo 34)

Carl Rogers: lʼinsegnante come facilitatore

insegnante che
Roy Nash: mantiene / non mantiene lʼordine
uno studio empirico insegna / non insegna
sulle aspettative spiega / non spiega
verso gli insegnanti è interessante / noioso
(testo 37) è giusto / ingiusto
è amichevole / ostile
LA PROFESSIONALITAʼ INSEGNANTE

INSEGNANTE

ARTIGIANO ANIMATORE SPECIALISTA


cattedratico trasmettitore di attività piacevoli delle discipline
di conoscenze e ricreative

Ryans : modelli fondamentali di comportamento degli insegnanti

parziale 1 2 3 4 5 6 7 obiettivo
autocratico 1 2 3 4 5 6 7 democratico
distaccato 1 2 3 4 5 6 7 comunicativo
comprensivo 1 2 3 4 5 6 7 non comprensivo
aspro 1 2 3 4 5 6 7 gentile
monotono 1 2 3 4 5 6 7 stimolante
stereotipato 1 2 3 4 5 6 7 originale
apatico 1 2 3 4 5 6 7 vivace
scialbo 1 2 3 4 5 6 7 attraente
evasivo 1 2 3 4 5 6 7 responsabile
costante 1 2 3 4 5 6 7 incostante
eccitabile 1 2 3 4 5 6 7 posato
incerto 1 2 3 4 5 6 7 sicuro di sè
disorganizzato 1 2 3 4 5 6 7 sistematico
rigido 1 2 3 4 5 6 7 flessibile
pessimista 1 2 3 4 5 6 7 ottimista
emot. maturo 1 2 3 4 5 6 7 emot. immaturo
ment. chiusa 1 2 3 4 5 6 7 ment. aperta

Stern - Spaulding - Anderson:

stile dʼ insegnamento

fondato sullʼ insegnante centrato sullo studente


autoritario partecipato
punitivo cooperativo
formalizzato democratico
competitivo attivo
poco socializzante socializzato
poco comunicativo comunicativo
direttivo non direttivo

umanistico sistemico creativo

relazioni umane rigorosa improntato


nel gruppo pianificazione allʼ inventiva ed
educativo del lavoro allʼ intensità dello
stimolo intellettuale
Solomon - Rosenberg

variabili comportamentali degli insegnanti

permissività 1 2 3 4 5 controllo

apatia 1 2 3 4 5 energia

aggressività 1 2 3 4 5 protettività

ambiguità 1 2 3 4 5 chiarezza
.
condivisione contenuti 1 2 3 4 5 non condivisione contenuti

asciuttezza 1 2 3 4 5 ridondanza

espressione incoraggiata 1 2 3 4 5 lezione accademica

cordialità 1 2 3 4 5 freddezza

Anderson STILE

dominante integrante

punire - minacciare- sollecitare approvare


espellere dallʼ aula rilevare gli interessi
richiamare lʼ attenzione accettare i comportamenti

De Landsheere

organizzative

dʼ imposizione

di sviluppo e promozione

di personalizzazione

FUNZIONI di valutazione positiva (feedback +)


dellʼ insegnante
di valutazione negativa (feedback -)

di concretizzazione

di affettività positiva

di affettività negativa

ROY NASH comportamento insegnante : costrutti

mantiene lʼ ordine 1 non mantiene lʼ ordine


ti insegna 2 non ti insegna
spiega 3 non spiega
interessante 4 noioso
giusto 5 ingiusto
amichevole 6 non amichevole
AUTONOMIA E ETERONOMIA: DINAMICHE EDUCATIVE

autoformazione eteroeducazione
crescita dentro la cultura adeguamento ad un codice imposto
paideia - humanitas - bildung disciplina / allevamento

autonomia educativa eteronomia

asimmetria
culturale
educatore educando

intenzionalità disponibilità scarsa disponibilità


educativa ad apprendere allʼapprendimento

buona relazione educazione “imposta”


educativa condizionamento

autenticità
accettazione positiva
comprensione empatica (Rogers)

Pragmatica della comunicazione educativa

ogni relazione è un “sistema” -> feed-back (retroazione) circolarità

sistemi comunicativi “con storia” -> ridondanze / regole / omeostasi


resistenza al cambiamento

accettazione rifiuto disconferma

1) non si può non comunicare congrua


assiomi 2) contenuto / relazione (-> metacomunicazione) comunicazione
della 3) punteggiatura (arbitraria) incongrua
comunicazione 4) modello numerico / analogico
5) simmetria / complementarietà

a) relazione profonda tra due persone


vita familiare / dipendenza materiale / amicizia / amore

b) messaggio strutturato in modo da:


DOPPIO LEGAME 1) affermare qualcosa (contenuto)
ingiunzione paradossale 2) metacomunicare sulla propria asserzione (relazione)
illusione delle alternative 3) determinare una contraddizione reciproca
tra i due livelli di comunicazione

errori della c) impedimento al ricettore del messaggio


comunicazione (solitamente in rapporto complementare subordinato
educativa con lʼ emittente) di rifiutarlo o metacomunicare su di esso

RISPOSTA TANGENZIALE risposta (adulta) inadeguata rispetto


(con effetto di disconferma) allʼ intervento (del bambino) di cui non
si prende in considerazione la richiesta
effettiva di attenzione

MISTIFICAZIONE DELLʼ IO attribuzione allʼ altro di desideri,bisogni, stati dʼ animo


in realtà non espressi, con fini di controllo

EFFETTO PIGMALIONE le aspettative dellʼeducatore determinano


il successo o lʼinsuccesso dellʼ educando

metacomunicazione esplicita ecologia relazionale


apertura / ascolto “contrattazione” paritaria
LA PROFESSIONALITAʼ INSEGNANTE :
SCHEDA DI VALUTAZIONE

INSEGNANTE

ARTIGIANO ANIMATORE SPECIALISTA


cattedratico trasmettitore di attività piacevoli delle discipline
di conoscenze e ricreative

1 2 3 1 2 3 1 2 3

Ryans : modelli fondamentali di comportamento dellʼ insegnante

parziale 1 2 3 4 5 6 7 obiettivo
autocratico 1 2 3 4 5 6 7 democratico
distaccato 1 2 3 4 5 6 7 comunicativo
comprensivo 1 2 3 4 5 6 7 non comprensivo
aspro 1 2 3 4 5 6 7 gentile
monotono 1 2 3 4 5 6 7 stimolante
stereotipato 1 2 3 4 5 6 7 originale
apatico 1 2 3 4 5 6 7 vivace
scialbo 1 2 3 4 5 6 7 attraente
evasivo 1 2 3 4 5 6 7 responsabile
costante 1 2 3 4 5 6 7 incostante
eccitabile 1 2 3 4 5 6 7 posato
incerto 1 2 3 4 5 6 7 sicuro di sè
disorganizzato 1 2 3 4 5 6 7 sistematico
rigido 1 2 3 4 5 6 7 flessibile
pessimista 1 2 3 4 5 6 7 ottimista
emot. maturo 1 2 3 4 5 6 7 emot. immaturo
ment. chiusa 1 2 3 4 5 6 7 ment. aperta

Stern - Spaulding - Anderson:

stile dʼ insegnamento

fondato sullʼ insegnante centrato sullo studente


autoritario 1 2 3 4 5 partecipato
punitivo 1 2 3 4 5 cooperativo
formalizzato 1 2 3 4 5 democratico
competitivo 1 2 3 4 5 attivo
poco socializzante 1 2 3 4 5 socializzato
poco comunicativo 1 2 3 4 5 comunicativo
direttivo 1 2 3 4 5 non direttivo

umanistico sistemico creativo


1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5
relazioni umane rigorosa improntato
nel gruppo pianificazione allʼ inventiva ed
educativo del lavoro allʼ intensità dello
stimolo intellettuale
Solomon - Rosenberg

variabili comportamentali degli insegnanti

permissività 1 2 3 4 5 controllo

apatia 1 2 3 4 5 energia

aggressività 1 2 3 4 5 protettività

ambiguità 1 2 3 4 5 chiarezza
.
condivisione contenuti 1 2 3 4 5 imposizione contenuti

asciuttezza 1 2 3 4 5 ridondanza

espressione incoraggiata 1 2 3 4 5 lezione accademica

cordialità 1 2 3 4 5 freddezza

Anderson STILE

dominante integrante
1 2 3 4 5 1 2 3 4 5
punire - minacciare- sollecitare approvare
espellere dallʼ aula rilevare gli interessi
richiamare lʼ attenzione accettare i comportamenti

De Landsheere

organizzative 1 2 3

dʼ imposizione 1 2 3

di sviluppo e promozione 1 2 3

di personalizzazione 1 2 3

FUNZIONI di valutazione positiva 1 2 3


dellʼ insegnante
di valutazione negativa 1 2 3

di concretizzazione 1 2 3

di affettività positiva 1 2 3

di affettività negativa 1 2 3

ROY NASH comportamento insegnante : costrutti

mantiene lʼ ordine 1 2 3 non mantiene lʼ ordine


ti insegna 1 2 3 non ti insegna
spiega 1 2 3 non spiega
interessante 1 2 3 noioso
giusto 1 2 3 ingiusto
amichevole 1 2 3 non amichevole
La formazione alla cittadinanza e l’educazione ai diritti umani

Quanto più nelle società si mescolano le etnie e si moltiplicano gli stili di vita, le fedi religiose, le
culture, tanto maggiore appare la necessità che i cittadini siano capaci di darsi regole comuni, di
convivere pacificamente, di rispettarsi a vicenda.
Con l’espressione “formazione alla cittadinanza” si intende per l’appunto il complesso di inter-
venti educativi realizzati in vari ambienti (prima di tutto famiglia, scuola, ma anche luoghi del tem-
po libero e della vita politica) attraverso il quale le persone imparano a convivere sulla base del ri-
conoscimento unanime di un nucleo di “valori comuni” e cioè di principi etico-religiosi condivisi.
Quando questo accade si apre la strada a un modello civico e di educazione alla cittadinanza capace
di contenere insieme locale e globale, basato cioè sulla conservazione della memoria comune, ma
anche aperto al valore della diversità. Lo scopo è quello di creare processi di inclusione anziché di
esclusione, stimando come destino di una società aperta non la separazione ma la coabitazione.
Le pratiche educative si affidano alle consuetudini del dialogo, della discussione, della critica
costruttiva, della partecipazione alla vita civica, alla gestione efficace e positiva dei conflitti.
L’obiettivo è di formare identità capaci, da un lato, di affrontare il pluralismo di opinioni e di stili
di vita senza sentimenti di superiorità o, al contrario, di paura, e dall’altro di vivere al propria appar-
tenenza all’interno di una molteplicità di appartenenze.
La formazione civica non dovrebbe perciò essere concepita come semplice trasmissione di infor-
mazioni e di norme, bensì come il processo globale in cui si intrecciano conoscenza, riflessione e
azione. Non basta cioè conoscere quali sono i propri diritti e doveri, ma occorre favorirne la speri-
mentazione mediante iniziative concrete (forme di tirocinio assistito, partecipazioni ad attività di
volontariato e, in seguito, al servizio civile).
Queste istanze richiedono l’attivazione di due principali processi educativi: a) lo studio e l’eserci-
zio delle norme che regolano la vita associata e i diritti umani; b) il principio di solidarietà intesa
come espressione dei costi umani e sociali da onorare in comune. Detto in altre parole, non si può
sperare di promuovere processi di socializzazione etico-politica senza fare appello al contestuale
riconoscimento dei diritti e doveri dei quali siamo detentori e al principio degli obblighi di cui
dobbiamo farci carico in quanto parte di una collettività.
Il principio di diritto e quello di dovere rappresentano, per così dire, il “piedistallo etico” (o, nel
linguaggio pedagogico, i valori) intorno a cui promuovere il senso civico individuale e sociale.
Nei diritti dell’uomo si riconosce l’insieme delle condizioni che assicurano il pieno rispetto e il
pieno sviluppo della personalità umana. In tal senso l’uomo è il soggetto e il destinatario di questi
diritti. Essi appartengono alla dignità stessa della persona e precedono le leggi scritte che possono
solo riconoscerli e non determinarli. La prima categoria di diritti (definiti anche diritti umani di
“prima generazione”, in quanto furono i primi ad essere riconosciuti, fin dalle Dichiarazioni dei
diritti che seguirono la rivoluzione americana e francese alla fine del XVIII secolo) tutela la persona
umana rispetto alla vita, all’identità personale, alla libertà di pensiero e di associazione, alle ga-
ranzie processuali. La seconda categoria (diritti di “seconda generazione”, stabiliti più di recente)
impegna l’autorità pubblica a porre in essere interventi specifici in ordine al lavoro, alla salute,
all’alimentazione, all’abitazione e all’educazione. Si è frattanto incominciato a parlare con sem-
pre maggiore insistenza di diritti umani di “terza generazione”, o di solidarietà: il diritto alla pace,
al rispetto dell’ambiente, allo sviluppo. Frutto di un intenso e impegnativo lavoro che dura ormai
da anni sono pure la promozione e la tutela dei diritti dell’infanzia (cfr.).
Complementare al riconoscimento e all’esercizio dei diritti umani si pone la condivisione dei vin-
coli di solidarietà. Questa non va associata, come spesso accade nel parlare corrente, alla generosità
personale e al volontariato e, dunque, a qualcosa di eccezionale che solo le persone umanamente più
sensibili e disponibili svolgono. Un conto è parlare della solidarietà come iniziativa privata, motiva-
ta dalla necessità di rispondere a situazioni di particolare emergenza, mentre è decisamente diffe-
rente parlare della solidarietà in quanto normale atteggiamento di lealtà politica, di disponibilità a
svolgere la propria parte.
ll quadro concettuale dell’educazione alla cittadinanza riconosciute dal Consiglio sull’Istruzione
dell’UE (Unione europea) si concentra su quattro aree di competenza:
Area 1: interazione efficace e costruttiva con gli altri, incluso lo sviluppo personale (fiducia in sé,
responsabilità personale ed empatia); comunicazione e ascolto; e cooperazione con gli altri. La re-
sponsabilità personale implica, tra le altre cose, quella di riflettere sulle proprie attitudini, imporsi
un autocontrollo e sviluppare un senso di responsabilità per le proprie azioni, il che la rende anche
una competenza socialmente utile. La seconda componente più comune in questa area di competen-
za a livello primario è "comunicazione e ascolto", che implica l'abilità di esprimere le proprie opi-
nioni e di sostenerle con l'aiuto di argomentazioni, oltre che quella di ascoltare con rispetto le
opinioni degli altri.
Area 2: pensiero critico, inclusi ragionamento e analisi, alfabetizzazione mediatica, conoscenza,
identificazione e utilizzo delle fonti. Fondamentale, in quest’area, la capacità di riflettere in modo
critico sulle questioni e la capacità di scegliere tra diverse opzioni, in particolare quando sono coin-
volte considerazioni etiche (pensiero critico ed esercizio della capacità di giudizio). Una gran parte
dei sistemi educativi europei riconosce come prioritaria l'alfabetizzazione mediatica, inclusa quella
relativa ai social media e che riguarda il cyber- bullismo, come una competenza importante.
Area 3: agire in modo socialmente responsabile, inclusi rispetto della giustizia e dei diritti umani;
rispetto degli altri esseri umani, delle altre culture e delle altre religioni; sviluppo di un senso di ap-
partenenza; e comprensione delle problematiche relative all'ambiente e alla sostenibilità.
Area 4: agire democraticamente, inclusi rispetto dei principi democratici; conoscenza e compren-
sione delle istituzioni, delle organizzazioni e dei processi politici; conoscenza e comprensione dei
concetti sociali e politici fondamentali. Incoraggiare la partecipazione degli studenti al processo
democratico è presente nei curricoli della maggior parte dei sistemi educativi europei. Pertanto, la
moderna educazione alla cittadinanza tende non semplicemente a diffondere conoscenze teoriche
sulla democrazia, ma incoraggia anche gli studenti a diventare cittadini attivi che partecipano alla
vita pubblica e politica.
L’Educazione alla Cittadinanza Globale

L’Educazione alla Cittadinanza Globale (o planetaria, ECG) trova nell’Organizzazione delle


Nazioni Unite, ed in particolare nell’UNESCO, la sua principale cornice di riferimento. I Paesi
Membri del Consiglio d’Europa hanno adottato nel 2010 una comune Carta sull’Educazione alla
Cittadinanza Democratica e ai Diritti Umani, con specifico riferimento all’interdipendenza globale
e alla solidarietà. Sebbene il concetto di cittadinanza globale acquisti sfumature diverse nei diversi
Paesi del mondo, riflettendo diversità politiche, storiche, culturali, si può dire che si riferisce al sen-
so di appartenenza di ciascuno ad una comunità ampia, all’intera umanità ed al pianeta terra.
La cittadinanza globale si basa inoltre sul concetto di interdipendenza tra il locale e l’universale,
presuppone un comportamento sostenibile, empatico e solidale e considera l’educazione come
un’azione trasformativa, basata sull’utilizzo di metodologie didattiche innovative fondate sul
dialogo e la riflessione, che mettono al centro chi apprende.

La Strategia ECG sostiene azioni volte a promuovere nei cittadini competenze relative a:
a) cittadinanza attiva, cioè saper operare scelte informate ed applicare il sapere nella pratica;
b) approccio critico, cioè saper decostruire le informazioni e comprendere come sono state
costruite socialmente;
c) complessità e approccio olistico, cioè comprendere le ecologie, le tensioni e gli equilibri mon-
diali, nella consapevolezza di vivere all’interno di un sistema interdipendente in cui ogni azione
provoca effetti sulle dinamiche locali e planetarie;
d) diversità culturale, cioè saper considerare i contesti caratterizzati dalla diversità culturale come
potenzialmente vantaggiosi per tutti, a partire dalla capacità di saper ascoltare attivamente, guardare
criticamente le proprie premesse culturali e dialogare con chi manifesta altri punti di vista;
e) pratiche collaborative e dialogiche nell’affrontare i problemi e nei processi decisionali;
f) apprendimento trasformativo, cioè l’impegno a produrre cambiamenti a livello locale che
influenzino il globale;
g) consapevolezza e responsabilità per il bene comune.
Tali competenze caratterizzano l’ECG soprattutto quando valorizzano i processi di apprendimento
esperienziale che favoriscono la partecipazione attiva di chi apprende ed i processi riflessivi sulle
pratiche.

Le pedagogie relative all’ECG prendono in considerazione:


1. La co-progettazione: processi di apprendimento che valorizzano l’esperienza e le conoscenze e
sono quindi rilevanti per chi apprende e pertinenti rispetto alle loro vite. Per quanto possibile, ciò
implica processi di co-progettazione dei percorsi educativi che coinvolgano educatori e/o formatori
e discenti.
2. La metacognizione: potendo contare su percorsi che partono dalle esperienze e dalle parole di
chi apprende, le didattiche dell’ECG si caratterizzano per la capacità di offrire occasioni e strumenti
per l’autoriflessione individuale e collettiva, in modo da poter prendere consapevolezza ed esamina-
re le proprie opinioni e i meccanismi con cui si creano, le fonti di informazione, i propri valori, gli
stereotipi e i pregiudizi ed il rapporto con la dimensione della legalità e dei processi democratici.
In una prospettiva di ascolto attivo, comunicazione nonviolenta e trasformazione dei malintesi e dei
conflitti, l’ECG incoraggia a considerare tensioni e conflitti come opportunità di apprendimento,
imparando a fare i conti con le ambiguità, le incertezze, le contraddizioni legate ad un’esplorazione
del mondo che prende in considerazione la propria capacità di comunicare ed agire nel contesto del-
le relazioni interpersonali e sociali e della co-esistenza e co-evoluzione di diverse prospettive
culturali e spirituali.
3. La complessità: l’Educazione alla cittadinanza globale riconosce che la complessità dei temi
affrontati richiede un approccio sistemico e metodi adeguati ad esplorare gli aspetti inter- e trans-
disciplinari e la dimensione affettiva insieme a quelle del conoscere e del saper agire. In tal senso,
l’ECG è anche un’educazione a saper riconoscere altri punti di vista e ad allargare e, quando neces-
sario, cambiare il proprio repertorio conoscitivo e comportamentale.
4. Il pensiero narrativo: danno corpo a percorsi di cittadinanza globale approcci narrativi che fa-
voriscono la conoscenza, il dialogo e il confronto tra specificità individuali e premesse e contesti
culturali diversi. La costruzione dei significati è un processo sociale che nasce e si sviluppa all’in-
terno di un contesto storicamente e culturalmente determinato. Attraverso le narrazioni ed il rac-
contarsi si attuano, al tempo stesso, processi di acculturazione e distinzione dagli altri.
5. La consapevolezza della dimensione della cittadinanza in chiave mondiale: favorendo lo
studio della geografia sociale e della storia in prospettiva planetaria e adottando l’indagine e
l’ascolto di analisi multi-prospettiche di fronte alle situazioni di conflitto. Si tratta di rendere
esplicite le condizioni di violenza strutturale in relazione, per esempio, a contesti marcati dalle
dinamiche coloniali, patriarcali, di sfruttamento economico e dei territori. Tale consapevolezza
comporta, inoltre, la capacità di saper coinvolgere e ascoltare testimoni per narrazioni in prima
persona delle situazioni di discriminazione, e transizione capaci di attivare percorsi di confronto e
conoscenza. Ancora, comporta l’offerta di corrispondenza e scambio con coetanei di altri territori e
di altri contesti linguistici, compresi soggiorni di studio e volontariato all’estero nel solco di tradi-
zioni pluridecennali attivate da pedagogisti come Freinet e da associazioni di scambi internazionali
e oggi, in parte, sostenute da programmi quali Erasmus e con attività quali il Servizio Volontario
Europeo.
6. I futuri possibili e auspicati: l’Educazione alla cittadinanza globale è anche educazione di una
società ‘capace di futuro’ e, quindi inserisce il futuro nella scala dei tempi. Sollecita ad esplorare
l’orizzonte delle possibilità e a sviluppare la capacità progettuale, la dimensione del desiderio, della
speranza e dell’immaginazione. Il futuro è la parte della storia che noi possiamo cambiare,
consapevoli che la solidarietà verso le generazioni future è uno degli elementi della sostenibilità,
insieme alla sfida del saper distinguere i futuri probabili da quelli desiderabili e sostenibili.
7. La maieutica reciproca: specifico dell’Educazione alla cittadinanza globale è lo sviluppo delle
capacità discorsive e argomentative e l’adozione di un approccio dialogico e collaborativo che
sappia valorizzare le domande e le dinamiche maieutiche nella tradizione già consolidata in Italia da
Danilo Dolci, ricercando contesti di comunicazione nonviolenta che suscitino interesse reciproco e
permettano di cogliere i punti di vista altrui.
8. Gli apprendimenti trasformativi: percorsi di cittadinanza e prospettiva globale sollecitano la
disponibilità a pensare il mondo dal punto di vista della sua trasformazione. Questo atteggiamento
riguarda sia l’attenzione per i beni comuni e per l’analisi dei territori e delle relazioni in quanto
sistemi potenzialmente aperti, sia la capacità di affrontare i conflitti in chiave trasformativa,
imparando innanzitutto a sostare nel conflitto, esplorandone la dimensione di apprendimento, a
partire dalle emozioni che possono venir riconosciute e rispettate.
9. La collaborazione: per essere compiutamente educativi, i percorsi di educazione alla cittadinan-
za globale devono saper offrire condizioni e occasioni per agire collettivamente e cooperativamente,
favorendo la consapevolezza anche della dimensione ‘non economica’ dell’agire. Questa dimensio-
ne riguarda tanto il rapporto con una varietà di linguaggi espressivi, quanto l’esperienza di metodo-
logie specifiche per favorire percorsi partecipativi e collaborativi (come, ad esempio, il cooperative
learning), quanto la co-progettazione di possibili iniziative e azioni a livello locale e internazionale
coinvolgendo sia i discenti, sia diversi attori territoriali disponibili all’animazione di comunità.
10. I giochi e le simulazioni: di particolare importanza è l’utilizzo di giochi e simulazioni e di
tecnologie sia faccia a faccia, sia digitali e a distanza, nella prospettiva di prendere confidenza con
altri mondi e anche con la dimensione delle regole e della negoziazione.
11. L’apprendimento tra pari: i valori dell’ECG si riflettono nella capacità di ascolto attivo e di
mutuo aiuto fra quanti sono coinvolti nei processi di apprendimento e quindi in pratiche di appren-
dimento facilitato dai pari.
Formazione alla cittadinanza - Educazione ai diritti umani

educazione alla cittadinanza => interventi educativi


(famiglia - scuola - luoghi del tempo libero - vita politica)
convivenza basata su un nucleo di “valori comuni” condivisi

locale/globale processi di inclusione vs esclusione


memoria comune società aperta
diversità coabitazione vs separazione

dialogo critica costruttiva


pratiche educative => partecipazione alla vita civica
gestione efficace e positiva dei conflitti

pluralismo di opinioni/stili di vita vs senso di superiorità o paura


molteplicità di appartenenze => multiculturalismo / educazione interculturale

processo globale conoscenza-riflessione-azione


formazione civica => sperimentazione di iniziative concrete
(tirocinio assistito volontariato servizio civile)

a) norme che regolano la vita associata e i diritti umani

di “prima generazione” di “seconda generazione” di “terza generazione”


tutela della persona umana lavoro salute o di solidarietà:
vita identità personale alimentazione pace
libertà di pensiero/associazione abitazione rispetto dell'ambiente
garanzie processuali educazione sviluppo
tutela dei diritti dell'infanzia

b) il principio di solidarietà

costi umani e sociali da onorare in comune


vincoli di solidarietà vs generosità personale/volontariato
normale atteggiamento di lealtà politica (iniziativa privata estemporanea)

educazione alla cittadinanza: Consiglio sull'Istruzione dell'UE 4 aree di competenza

(I) interazione efficace e costruttiva (II) pensiero critico


sviluppo personale => fiducia in sé ragionamento e analisi
responsabilità personale ed empatia alfabetizzazione mediatica
comunicazione e ascolto conoscenza/identificazione/utilizzo
cooperazione con gli altri delle fonti di informazione

(III) agire in modo socialmente responsabile (IV) agire democraticamente


rispetto della giustizia e dei diritti umani rispetto dei principi democratici
degli altri esseri umani/culture/religioni conoscenza di istituzioni / organizzazioni
sviluppo del senso di appartenenza processi politici / concetti politici fondamentali
comprensione delle problematiche partecipazione degli studenti al processo democratico
relative all'ambiente e alla sostenibilità cittadini attivi nella vita pubblica e politica
Educazione alla Cittadinanza Globale

ONU / UNESCO 2010


Carta sull'Educazione alla Cittadinanza Democratica e ai Diritti Umani

senso di appartenenza => comunità ampia / umanità / pianeta terra


interdipendenza locale/universale => (‘glocal’: Robertson)
comportamento sostenibile/empatico/solidale
educazione => azione trasformativa
metodologie didattiche => dialogo/riflessione

competenze relative a:

a) cittadinanza attiva b) approccio critico c) approccio olistico


operare scelte informate decostruire le informazioni comprendere ecologie e
applicare il sapere nella pratica comprenderne la costruzione sociale tensioni/equilibri mondiali

d) diversità culturale e) pratiche collaborative/dialogiche


potenzialmente vantaggiosa: nell'affrontare problemi e processi decisionali

pedagogie ECG

1. co-progettazione 2. metacognizione 3. complessità


dei percorsi educativi autoriflessione individuale/collettiva e approccio sistemico
tra educatori e discenti opinioni/valori/stereotipi/pregiudizi: aspetti inter e transdisciplinari
(P. Freire) analisi e consapevolezza affetti/conoscenza/azione

4. pensiero narrativo 5. cittadinanza in chiave mondiale


conoscenza/dialogo/confronto geografia/storia in prospettiva planetaria
specificità dei contesti culturali analisi multi-prospettiche: conflitti/violenza
acculturazione/distinzione dagli altri saper ascoltare testimoni/narrazioni
corrispondenza e scambio (Freinet)

6. I futuri possibili e auspicati 7. maieutica reciproca 8. apprendimenti trasformativi


capacità progettuale: e comunicazione non violenta analisi dei territori e delle relazioni
desiderio/speranza/immaginazione (Danilo Dolci) riconoscere/rispettare le emozioni
futuri probabili/desiderabili/sostenibili cogliere il punto di vista altrui soluzione trasformativa dei conflitti
approcciodialogico-collaborativo produrre cambiamenti a livello
locale che influenzino il globale

9. collaborazione 10. giochi e simulazioni 11. apprendimento tra pari


percorsi partecipativi faccia a faccia/digitali/a distanza capacità di ascolto attivo
cooperative learning regole/negoziazione mutuo aiuto/insegnamento
Il riconoscimento dei diritti dei bambini

Il problema della realizzazione di un’efficace protezione dei bambini e degli adolescenti si è posto
per la prima volta nell’ambito internazionale agli inizi del ‘900: si tratta quindi di una conquista
piuttosto tardiva. Nel 1902, nell’ambito della conferenza dell’Aia sul diritto internazionale privato,
venne infatti approvata una convenzione per regolare la tutela de minori, stabilendo come criterio-
guida il diritto di cittadinanza. Si tratta di una prima dimostrazione d’interesse verso il ragazzo, an-
che se le esigenze di una protezione della personalità venivano subordinate alle regolamentazioni
presenti all’interno dei diversi stati nazione.
Un passo ulteriore in questa direzione si realizza con la Dichiarazione dei diritti del fanciullo,
approvata dalla Società delle Nazioni il 24 settembre 1924. Nella Dichiarazione di Ginevra, come
sin-teticamente viene chiamato questo documento, si affermano solennemente alcuni principi di
notevole importanza:
- «il fanciullo deve essere posto in condizione di svilupparsi in maniera normale, sia sul piano
fisico che in quello spirituale»;
- «il fanciullo che ha fame deve essere nutrito; il fanciullo malato deve essere curato; il fan-
ciullo traviato deve essere ricondotto sulla nuova via; l’orfano e l’abbandonato deve essere
accolto e soccorso»;
- «il fanciullo deve essere il primo a ricevere soccorsi in caso di calamità»;
- «il fanciullo deve essere messo in condizione di guadagnarsi da vivere ma deve essere
protetto contro ogni forma di sfruttamento»;
- «il fanciullo deve essere allevato nel convincimento che le sue migliori qualità dovranno
essere messe al servizio dei suoi fratelli».
In un documento ufficiale, approvato da tutti gli Stati membri, si identificano così per la prima
volta alcuni diritti fondamentali del fanciullo, riconosciuto pertanto finalmente titolare di diritti.
La dichiarazione ribalta totalmente la vecchia logica che aveva improntato gli ordinamenti giuridici
precedenti, secondo cui si attribuivano ai ragazzi solo doveri e mai diritti, potendo al limite ricono-
scere che alcuni doveri gravassero nei suoi confronti sugli adulti.
Questo cambiamento di mentalità trova un più preciso compimento nella “nuova” Dichiarazione
dei diritti del fanciullo, approvata con voto unanime il 20 novembre 1959 dall’assemblea plenaria
delle nazioni Unite. L’ampio e articolato documento, composto da un ampio preambolo e da 10
principi fondamentali, contiene rilevanti novità; questi i punti di maggior rilievo:
a) si riconosce che il ragazzo, a causa della sua immaturità fisica e intellettuale, ha bisogno di
una particolare protezione e di cure speciali (principi secondo e quarto), compresa un’ade-
guata protezione giuridica prima e dopo la nascita: nasce così il diritto per i minori.
b) Si sottolinea che il fanciullo, per lo sviluppo armonioso della sua personalità, ha bisogno di
amore e comprensione: «egli deve, per quanto è possibile, crescere sotto le cure e le respon-
sabilità dei genitori e, in ogni caso, in un’atmosfera di affetto e di sicurezza morale e mate-
riale». Questi bisogni, enunciati nel principio sesto della dichiarazione, sono il principale
elemento di innovazione dell’intero documento; il riconoscimento del diritto all’amore e al-
l’affetto, ritenuti fondamentali per una crescita ed uno sviluppo sereni ed equilibrati, segna
un salto di qualità rispetto agli altri documenti relativi ai minori scritti in precedenza, i quali
andavano a soddisfare prevalentemente bisogni di natura materiale.
c) Si specifica che il diritto del ragazzo alla crescita umana implica uno sviluppo sano e norma-
le non solo sul piano fisico, ma anche su quello intellettuale, morale, spirituale e sociale in
condizione di libertà e dignità (principio secondo).
d) Si esplicita il riconoscimento non solo del diritto alla famiglia, alla tutela da ogni forma di
sfruttamento e alla salute, ma anche al gioco come strumento di sviluppo educativo.

Grande rilevanza è accordata all’educazione, nel principio settimo, secondo il quale essa deve con-
tribuire «alla cultura generale del fanciullo», per consentirgli, «in una situazione di uguaglianza di
possibilità, di sviluppare le sue facoltà, il suo giudizio personale, e di divenire un membro utile alla
società». Si tratta di un principio di rilevante attualità pedagogica, in quanto sottolinea il valore del-
l’istruzione come strumento in grado di attivare il senso critico - sotto forma di “giudizio persona-
le” - al fine di consentire la formazione di un cittadino a tutti gli effetti, non un cittadino che si lasci
guidare dai media o dal senso comune.
Il punto d’arrivo di questo lungo processo di conquista civile è senza dubbio la Convenzione sui
diritti del bambino, promulgata a New York nel 1989 con il preciso obbiettivo di aggiornare e spe-
cificare ulteriormente la mappa dei diritti, ma anche di obbligare gli Stati ad assumere le nuove nor-
me in modo vincolante: il suo significato politico appare particolarmente importante, perché passa
dalle mere dichiarazioni di intenti all’assunzione di impegni precisi a livello degli ordinamenti giu-
ridici e dell’azione amministrativa degli Stati che vi aderiscono. Per la prima volta si istituisce un
meccanismo di controllo che può svolgere una rilevante azione di promozione, tentando, in modo
più compiuto che nel passato, non solo tutta la gamma di diritti che devono essere riconosciuti al
bambino, ma anche di indicare gli strumenti per tutelarli e promuoverli concretamente.
È innanzitutto da rilevare che il termine “bambino”, adottato nella Convenzione, si estende a tutta
la minore età: l’art. 1 della convenzione specifica infatti che questo termine si riferisce ad «ogni es-
sere umano al di sotto del 18° anno d’età, a meno che, secondo le leggi del suo paese, non abbia
raggiunto prima la maggiore età».
Il principio generale, che sta alla base di tutte le norme e gli istituti giuridici a tutela del soggetto
in età evolutiva, è l’interesse superiore del fanciullo, che sovrasta tutte le decisioni e gli interventi
amministrativi, sociali e giudiziari che riguardano questioni minorili. Qualsiasi provvedimento che
riguardi il minore deve recepire questo principio, pertanto l’amministrazione deve perfezionarsi al
fine di garantire questo interesse superiore. In questo senso, la Convenzione appare come uno stru-
mento molto più raffinato dei precedenti atti, sia sotto il profilo contenutistico che della formula-
zione giuridica delle norme: in primo luogo si tratta di un unico strumento che raccoglie insieme i
diritti civili e politici, quelli economici, sociali e culturali, con esplicito riferimento alle norme inter-
nazionali già in vigore in materia di tutela dei minori, ordinate in un unico disegno; in secondo luo-
go, il testo precisa gli impegni che lo Stato deve assumersi per adempiere e garantire i diritti dei
minori, in funzione dell’effettività delle norme. Un limite da evidenziare di tale sistema di tutela è il
mancato riconoscimento dei cosiddetti “diritti di terza generazione”: pace, ambiente, sviluppo; per
quanto la formulazione di alcune norme possa lasciar intravedere alcuni cenni a tali tematiche, non
si giunge ad una forma di diritto riconosciuto.
Dal punto di vista formale, gli articoli della Convenzione sono 54, divisi in tre parti: la prima con-
siste nell’enunciazione dei diritti e degli impegni che gli Stati si assumono, la seconda riguarda la
modalità della tutela internazionale, la terza riguarda la pratica della firma e della validità del testo
stesso. La prima parte, la più interessante, è composta di 41 articoli che descrivono sostanzialmente
quattro categorie di contenuto:
1. Non discriminazione (art. 2): i diritti sanciti dalla Convenzione devono essere garantiti a tut-
ti i minori, senza distinzione di razza, sesso, lingua, religione, opinione del bambino o dei
genitori.
2. Superiore interesse (art. 3): in ogni legge, provvedimento, iniziativa pubblica o privata e in
ogni situazione problematica, l’interesse del bambino/adolescente deve avere la priorità.
3. Diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo del bambino (art. 6): gli Stati devono
impegnare il massimo delle risorse disponibili per tutelare la vita e il sano sviluppo dei
bambini, anche tramite la cooperazione tra Stati.
4. Ascolto delle opinioni del minore (art. 12): prevede il diritto dei bambini ad essere ascoltati
in tutti i processi decisionali che li riguardano, e il corrispondente dovere, per gli adulti, di
tenere in adeguata considerazione le opinioni.

L’Italia ha ratificato la Convenzione con Legge n. 176 del 27 maggio 1991 e ha fino ad oggi presen-
tato al Comitato sui Diritti dell’infanzia quattro Rapporti.
Il riconoscimento dei diritti dei bambini

protezione dei bambini: inizi del ‘900 (conquista tardiva)


1902 conferenza dell’Aia sul diritto internazionale privato convenzione per la tutela dei minori
criterio-guida: diritto di cittadinanza protezione della personalità del bambino =>
subordinata alle regolamentazioni dei diversi stati nazione

Dichiarazione dei diritti del fanciullo Società delle Nazioni 1924, Ginevra

- «il fanciullo deve essere posto in condizione di svilupparsi in maniera normale, sia sul piano
fisico che in quello spirituale»;
- «il fanciullo che ha fame deve essere nutrito; il fanciullo malato deve essere curato; il fan-
ciullo traviato deve essere ricondotto sulla nuova via; l’orfano e l’abbandonato deve essere
accolto e soccorso»;
- «il fanciullo deve essere il primo a ricevere soccorsi in caso di calamità»;
- «il fanciullo deve essere messo in condizione di guadagnarsi da vivere ma deve essere
protetto contro ogni forma di sfruttamento»;
- «il fanciullo deve essere allevato nel convincimento che le sue migliori qualità dovranno
essere messe al servizio dei suoi fratelli».

ribaltamento degli ordinamenti giuridici precedenti => ai ragazzi solo doveri e mai diritti

“Nuova” Dichiarazione dei diritti del fanciullo 1959 Nazioni Unite

ampio preambolo e 10 principi fondamentali


a) il ragazzo ha bisogno di protezione cure speciali compresa la protezione giuridica prima e
dopo la nascita => nasce il diritto per i minori.
b) il fanciullo ha bisogno di amore e comprensione, deve crescere sotto le cure e le
responsabilità dei genitori in un’atmosfera di affetto e di sicurezza morale e materiale.
Vs documenti precedenti: soli bisogni di natura materiale.
c) il diritto del ragazzo alla crescita implica uno sviluppo sano e normale non solo sul piano
fisico, ma anche su quello intellettuale, morale, spirituale, sociale in condizione di libertà e
dignità
d) Si esplicita il riconoscimento non solo del diritto alla famiglia, alla tutela da ogni forma di
sfruttamento e alla salute, ma anche al gioco come strumento di sviluppo educativo.
e) l’educazione (principio VII), secondo deve contribuire «alla cultura generale del fanciullo»,
per consentirgli, «in una situazione di uguaglianza di possibilità, di sviluppare le sue facoltà,
il suo giudizio personale, e di divenire un membro utile alla società».

Valore dell’istruzione come strumento in grado di attivare il senso critico (giudizio personale)
Convenzione sui diritti del bambino New York 1989

obbiettivo di specificare ulteriormente la mappa dei diritti e di


obbligare gli Stati ad assumere le nuove norme in modo vincolante

il termine “bambino” si estende a tutta la minore età


«ogni essere umano al di sotto del 18° anno d’età»

principio generale => interesse superiore del fanciullo

1. strumento che raccoglie insieme i diritti civili e politici, quelli economici, sociali e culturali,
con riferimento alle norme internazionali in vigore in materia di tutela dei minori, ordinate in
un unico disegno;

2. il testo precisa gli impegni che lo Stato deve assumersi per adempiere e garantire i diritti dei
minori, in funzione dell’effettività delle norme.

Limite della Convenzione: mancato riconoscimento dei “diritti di terza generazione”

pace ambiente sviluppo

54 articoli divisi in tre parti


I parte: enunciazione dei diritti e degli impegni che gli Stati si assumono.
41 articoli che descrivono sostanzialmente quattro categorie di contenuto:
1. Non discriminazione (art. 2): i diritti sanciti dalla Convenzione devono essere garantiti a tut-
ti i minori, senza distinzione di razza, sesso, lingua, religione, opinione del bambino o dei
genitori.
2. Superiore interesse (art. 3): in ogni legge, provvedimento, iniziativa pubblica o privata e in
ogni situazione problematica, l’interesse del bambino/adolescente deve avere la priorità.
3. Diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo del bambino (art. 6): gli Stati devono
impegnare il massimo delle risorse disponibili per tutelare la vita e il sano sviluppo dei
bambini, anche tramite la cooperazione tra Stati.
4. Ascolto delle opinioni del minore (art. 12): prevede il diritto dei bambini ad essere ascoltati
in tutti i processi decisionali che li riguardano, e il corrispondente dovere, per gli adulti, di
tenere in adeguata considerazione le opinioni.

II parte: modalità della tutela internazionale; III parte: pratica della validità del testo stesso.

L’Italia ha ratificato la Convenzione con Legge n. 176 del 27 maggio 1991 e ha fino ad oggi presen-
tato al Comitato sui Diritti dell’infanzia quattro Rapporti.
Differenze, disabilità ed educazione inclusiva

La coscienza critica di una società che tende all’integrazione si esprime in modo chiaro quando de-
nuncia un’invenzione, quella della anormalità, all’interno della quale si collocano gli esseri umani
per svariate ragioni, siano esse etiche, politiche, psicologiche o geografiche. Michel Foucault, nel
testo Gli anormali (1982), aveva colto le implicazioni profonde che si producono quando il tessuto
sociale è oggetto di una separazione, un confine che esclude e che isola. Al contrario, i principi
dell’inclusione si fondano su un pensiero in grado di cogliere la differenza in termini di
molteplicità, da cui si può trarre un vantaggio reciproco.
Quello di handicap è un concetto campo-dipendente: è l’ambiente che trasforma un deficit fisico o
psichico in una riduzione di potenzialità. Oggi la cultura dell’integrazione, o dell’inclusione, ha
finalmente imposto il suo superamento, introducendo l’idea che ogni persona sia portatrice di
“diverse abilità” e non possa essere considerata “anormale” nel senso foucaultiano del termine, a
causa delle sue particolarità. Si tratta, in altri termini, di superare la contraddizione tra normale e
anormale, con tutto ciò che ne deriva sotto il profilo, sociologico, politico e pedagogico.

Menomazione, disabilità ed handicap


Per molto tempo della disabilità si è sottolineato l’aspetto organico. Prevaleva una concezione
“medicalizzata” della disabilità, intesa come un complesso sintomatologico, esito di una affezione
organica prenatale (è il caso che si verifica, ad esempio, quando la madre prende la rosolia durante
la gravidanza), natale (ad esempio un trauma durante il parto) o post natale (ad esempio un’infezio-
ne post-vaccinica). L’aspetto più importante risultava essere quello biologico, pertanto si focalizza-
va l’attenzione su qualcosa che non procede per il verso giusto durante la gravidanza o quando il
bambino nasce, e che provoca un danno permanente. Ma accettando questa definizione si rischiava
di confondere causa ed effetti.
Nel 1980 l’Organizzazione Mondiale della sanità (OMS) ha pubblicato una prima Classificazione
Internazionale delle Menomazioni, delle Disabilità e degli Handicap (ICIDH). Tale classificazione
distingueva rigorosamente i seguenti termini: menomazione, disabilità, handicap.
La menomazione è qualsiasi perdita o anormalità di una struttura o di una funzione psicologica,
fisiologica o anatomica. Il termine menomazione è più comprensivo di quello di disturbo, in quanto
si estende anche alle perdite anatomiche; ad esempio, la perdita di una mano non è un disturbo, ma
una menomazione. Essa è caratterizzata da perdite o alterazioni provvisorie o permanenti e
comprende anomalie, difetti o perdite a carico di arti, organi, tessuti o altre strutture dell’organismo
psichico e fisico. Si nasce menomati, ma si può anche diventarlo in seguito a incidenti.
Il concetto di disabilità è meno semplice da definire rispetto a quello di menomazione. La disabili-
tà è la conseguenza pratica della menomazione, e questo termine indica ciò che si è in grado di fare
e ciò che non si riesce a fare: esso riguarda perciò la sfera delle attività all’interno di un contesto so-
cio-culturale. Una menomazione del linguaggio comporta una disabilità nel parlare. Una menoma-
zione dell’udito produce una disabilità nell’ascoltare, così come le menomazioni della vista
determinano una disabilità nel vedere. Una menomazione psichica (schizofrenia o altri disturbi
psicotici) causa una disabilità nel vivere con gli altri1.
L’handicap è innanzitutto un fenomeno sociale: con questo termine si intende la condizione di
svantaggio, conseguente a una menomazione o a una disabilità, che in un determinato soggetto limi-
ta o impedisce l’adempimento di un ruolo sociale considerato “normale” in relazione all’età, al ses-

1
principali tipi di disabilità: motoria, sensoriale, cognitiva, mentale, relazionale, della comunicazione;
cronica o temporanea; congenita, insorta in età evolutiva o in età adulta. Attualmente, la valutazione della
disabilità si fa con la classificazione ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health)
dell’OMS, che mette in relazione salute individuale, fattori personali e fattori ambientali.
so, al contesto socioculturale di appartenenza della persona. L’handicap può essere interpretato
come il risultato dell’incontro tra disabilità e ambiente fisico e sociale: tanto più accogliente e
adatto a ogni individuo è l’ambiente fisico e sociale, tanto minore sarà l’handicap. Ad esempio, una
piccola disabilità nel camminare diventa un handicap grave su di un ripido sentiero di montagna,
mentre è lieve in una strada piana e non dissestata. Un ipoudente con una protesi che compensa
bene il suo deficit è, sì, menomato nell’udito, ma non necessariamente ‘portatore di handicap’.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2002 ha approvato una nuova Classificazione
Internazionale del Funzionamento, della disabilità e della Salute denominata ICF: i tre termini
portanti della precedente versione (menomazione, disabilità, handicap) sono stati sostituiti da:
funzioni e strutture corporee, attività, partecipazione.
Nel primo ambito, concernente funzioni e strutture corporee, sono raggruppate le classificazioni
relative alle funzioni fisiologiche dei sistemi corporei (incluse le funzioni psicologiche) e alle parti
anatomiche del corpo. Nel secondo ambito, riguardante le attività, sono raggruppate le classifica-
zioni relative all’esecuzione di un compito o di un’azione da parte di un individuo. Nel terzo ambi-
to, riguardante la partecipazione, sono raggruppate le classificazioni relative ai livelli di coinvolgi-
mento in situazioni di vita concrete e normali. Questa nuova classificazione cerca di porre in primo
piano le capacità del singolo e le sue possibilità di partecipazione sociale.

La legge 104/92, che ha riconosciuto a tutti gli individui il diritto di frequentare la scuola normale,
è stata frutto di un ambiente sociale democratico e solidale che riconosce, non crea, i diritti delle
persone disabili. Ambiente sociale è la scuola, quando questa non esclude, ma accoglie, integra,
valorizza la diversità. Per fortuna non esiste più, dunque, un “pianeta handicap” inteso come luogo
segregativo. Le persone disabili vivono tra noi e noi possiamo trarre benefici dalla loro presenza,
proprio come loro traggono vantaggi dal vivere insieme in un mondo di uguali e diversi. Perciò la
disabilità, che ha una connotazione socio-culturale, si evolve seguendo l’evoluzione della società e
della cultura.

Definire un individuo sulla base della menomazione (o della sua disabilità) implica il rischio di
effettuare una stigmatizzazione (e di produrre handicap). La condizione di handicap è tale in rap-
porto all’atteggiamento di altre persone in un determinato contesto socio-ambientale. Laddove non
sia possibile intervenire sull’aspetto della menomazione, si invece fare molto nei confronti
dell’ambiente fisico e sociale: si possono eliminare tutti gli ostacoli fisici, le barriere
architettoniche, si può intervenire traducendo in segnali sonori quelli visivi (si pensi alla scritta sul
semaforo avanti sostituita o accompagnata da un segnale sonoro di via libera, ecc.), si può
intervenire sull’ambiente sociale sensibilizzando società e individui sulla necessità di agevolare il
processo d’integrazione (dal semplice non posteggiare le auto sul marciapiedi, alla ricerca di
sempre più importanti sussidi tiflologici, ecc.)2. E’ soprattutto l’ambiente socioculturale che fa
l’handicap, attraverso il rifiuto, l’emarginazione, l’isolamento, non dedicando cure e tempo e non
considerando i portatori di disabilità come interlocutori.
La persona disabile è un individuo con una propria identità, una propria connotazione, delle
caratteristiche proprie: è il fattore sociale che trasforma la disabilità in handicap, e il fattore sociale
indica non solo le azioni delle persone, i loro ruoli e funzioni, ma anche i prodotti sociali: e così una
scala con alti gradini è ambiente “fisico”, ma anche “sociale”. Anche un costrutto “scientifico”,
come quello secondo il quale l’autismo va univocamente interpretato come il frutto di madri poco

2
I vari tipi di barriera possono essere così classificati: barriere fisiche (specie architettoniche, ma anche funzio-
nali, come protesi inadeguate o insufficienti), culturali (mentalità diffusa, scarsa consapevolezza dei diritti, pregiu-
dizi), psicologiche (scarsa empatia, comportamenti difensivi, pietismo, rifiuto), economiche (scarsi investimenti,
abbandono delle famiglie), normative (adeguamento delle norme alle esigenze attuali, per rendere esigibile il dirit-
to al lavoro e a una vita normale).
affettuose, di “madri frigorifero”, va inteso come un ‘prodotto sociale’. Sul versante opposto, tanto
la creazione di un apparato telematico-informatico che permetta di scannerizzare in rilievo ciò che
si vuole stampare da Internet, quanto il corretto utilizzo dei risultati della ricerca e dei paradigmi
scientifici contribuiscono a diminuire la disabilità e l’handicap.
In seguito all’approvazione dell’ICF nel 2002, il termine “handicap” è stato accantonato ed è stato
sostituito dalla locuzione “persona che sperimenta difficoltà nella partecipazione sociale”. Al di là
di ogni considerazione sulla rincorsa - talvolta eccessiva - all’eufemismo ed al politically correct, ai
quali si è assistito negli ultimi anni, appare fuor di dubbio che occorra partire dal positivo, facendo
leva su ciò che c’è, valorizzando ed enfatizzando senza forzature le aree di efficienza e di “sviluppo
potenziale”.

Inserimento, integrazione, inclusione

Il lessico relativo alla disabilità ed all’handicap ha conosciuto negli ultimi cinquant’anni, in Italia e
a livello internazionale, notevoli cambiamenti. Si è così passati dal termine inserimento (semplice
introduzione della persona disabile a scuola o nel lavoro), utilizzato per indicare la presenza nelle
classi comuni - per la prima volta in Italia verso la fine degli Anni Sessanta - di alunni con minora-
zioni, sino ad allora rinchiusi per legge nelle classi e negli istituti speciali, al termine integrazione
(che indica la rimozione degli ostacoli ed effettivo supporto alla piena partecipazione), utilizzato
dalla metà degli anni settanta per significare che l’alunno con disabilità non era solo presente in
classe, ma si collegava al lavoro didattico dei compagni e riusciva a divenire per quanto possibile
“uno di loro”, grazie al lavoro svolto in classe ed all’interazione fra loro ed i coetanei non disabili.
La parola inclusione, che indica riconoscimento e accoglimento della differenza e coinvolge tutto il
contesto, è invece entrata da poco nel nostro sistema educativo, e questo è avvenuto, principalmen-
te, per adeguarsi alla terminologia internazionale. In molti paesi europei, infatti, si usa il termine
inclusion per indicare, in generale, un processo che porta all'istruzione degli alunni con disabilità
nelle classi comuni. Sarebbe riduttivo usare inclusione come sinonimo di integrazione, anche se
certamente tra i due termini non c'è la frattura logica e culturale che ha segnato il passaggio da
‘inserimento’ a ‘integrazione’. L'inclusione deve essere intesa come un'estensione del concetto di
integrazione che coinvolge non solo gli alunni con disabilità, formalmente certificati, ma tutti gli
alunni che - per difficoltà specifiche e diversità socio-culturali – presentino una situazione di
“svantaggio”: seppure con ritardo, anche nella scuola italiana si è iniziato, negli ultimi anni, a
prestare un’attenzione nuova agli alunni con Bisogni Educativi Speciali, ossia in generale a coloro
che per vari motivi, anche temporanei, non rispondono in maniera attesa alla programmazione della
classe e richiedono, quindi, una forma di aiuto aggiuntivo.

L’educazione inclusiva

In ambito educativo, l´educazione inclusiva ha permesso di trasportare i nuovi paradigmi culturali


sviluppati dai Disability Studies e dal modello sociale della disabilità in ambito scolastico, sostenen-
do la creazione di contesti scolastici inclusivi, capaci cioè di rispondere alla diversità della popola-
zione studentesca. L´educazione inclusiva può avere diversi significati secondo i diversi punti di
vista degli studiosi che se ne occupano e/o delle varie aree geografiche di riferimento. Dalla pro-
spettiva dei Disability Studies (Barnes, Oliver e Barton, 2002) e dell´Inclusive Education (Arm-
strong, Armstrong e Barton, 2001), la pratica educativa ‘inclusiva’ può essere spiegata come un
processo radicale di cambiamento del sistema educativo. L´educazione inclusiva, secondo questi
approcci, non ha nulla a che fare con la semplice inclusione (cioè ‘il metter dentro´) di una mino-
ranza della popolazione studentesca all’interno della scuola regolare, fornendo un´assistenza di tipo
specialistico. Se fosse così, ci troveremmo ancora all´interno di un paradigma integrativo della dif-
ferenza, piuttosto che inclusivo: mentre l´integrazione scolastica (e il concetto di bisogno educativo
speciale) focalizza l´attenzione sull’individuo e su ciò che non funziona nella persona, al fine di id-
entificare delle risposte specialistiche mirate e aggiuntive (ad esempio adattamento, aggiustamento
e compensazione della differenza), l´inclusione scolastica cerca di identificare le barriere scolasti-
che che impediscono l´apprendimento di tutti i discenti - rigidità dei curricoli, forme tradizionali di
insegnamento e apprendimento, contesti e atteggiamenti discriminatori, logiche di pensiero disabili-
tanti - per tentare di rimuoverle. Le difficoltà di alcuni alunni non sono dunque messe da parte, ma
sono considerate un dilemma della professione insegnante, un problema didattico-educativo, piutto-
sto che delle mancanze individuali. L´intervento specialistico è ancora necessario, ma per supporta-
re il lavoro del docente, piuttosto che per compensare la ‘mancanza percepita’ del discente.

Al fine di promuovere un’efficace esperienza di educazione inclusiva, è necessario agire sugli am-
bienti educativi, ponendo al centro delle attività il gruppo classe, per realizzare forme di sapere e
conoscenza fondate sul dialogo. In questo modo diviene possibile la realizzazione di un percorso
didattico, le cui diverse fasi comprendono: un ascolto efficace, il pensiero riflessivo, il decentra-
mento cognitivo e il saper lavorare in modo autonomo ma in stretta relazione, cercando di potenzia-
re l’identità sociale e individuale. La partecipazione del gruppo classe, allenato all’ascolto attivo e
alla riflessione, è tanto più indispensabile, nelle dinamiche di inclusione, quando è presente in clas-
se una figura specialistica, come l’insegnante di sostegno. La presenza di tale figura può infatti, in
taluni casi, provocare degli effetti contrari agli obiettivi desiderati, dal momento che il soggetto ap-
pare ancor più “diverso” proprio per il fatto di essere affiancato da un facilitatore, da qualcuno che
può essere percepito come un diaframma tra l’alunno e la classe. Il risultato può essere quello di un
isolamento della coppia formata dall’altro e dal suo educatore, limitando le interazioni e il funzio-
namento inclusivo del gruppo educativo. Un’autentica pedagogia inclusiva dovrebbe dunque foca-
lizzarsi sulle capacità dialogica di ogni membro del gruppo, provocando un’occasione di crescita
complessiva. In questo modo la presenza dell’altro costituisce un valore e un’opportunità per tutti,
dando vita ad un allargamento della percezione della realtà, fornendo i mezzi affinchè il processo
d’integrazione possa essere vissuto in modo attivo e consapevole.

L´educazione inclusiva mira a rendere adeguatamente accoglienti i contesti scolastici intervenendo


sugli approcci pedagogici utilizzati dai docenti, sulla didattica di classe, sulle forme di valutazione,
sull´organizzazione scolastica e i rapporti con l´extra scuola, nel tentativo di costruire una comunità
educativa che favorisca l´apprendimento di tutti i discenti. Per fare ciò, è necessario comprendere
quali sono le logiche di pensiero che influenzano l´agire educativo, per evitare che anche le migliori
didattiche inclusive falliscano il loro intervento perché applicate secondo impliciti teorici che elabo-
rano la differenza in termini di ‘patologia’. Nel tentativo di creare dei sistemi educativi inclusivi,
l´Italia ha cominciato a ipotizzare l´uso di alcuni possibili strumenti che potessero modificare il
concetto di disabilità e costruire delle scuole più capaci di rispondere ai diversi bisogni degli alunni.
Tra questi strumenti, ricordiamo il già citato manuale di classificazione internazionale della disabili-
tà, denominato ICF (International Classification of Functioning Disability and Health), realizzato
dall´Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2001. Più recentemente poi, in Italia il ministero ha
emanato delle nuove misure legislative creando la macro-categoria degli alunni con bisogni
educativi speciali (Direttiva ministeriale 2012 e circolari 2013), proprio nel tentativo di favorire lo
sviluppo di una scuola e classi inclusive. Entrambe le iniziative sono supportate, almeno
apparentemente, da buone intenzioni, quelle cioè di favorire la partecipazione di tutti gli alunni
nella scuola e nelle classi regolari, inclusi gli alunni a rischio di esclusione e insuccesso scolastico,
come gli allievi provenienti da paesi stranieri o appartenenti a minoranze etniche o linguistiche.
L’obiettivo è quello di evitare i fenomeni di drop-out, ossia di abbandono del percorso scolastico, e
nello stesso tempo di generare dei sistemi di ancoraggio in grado di garantire la formazione di
legami sociali stabili tra i diversi individui, attraverso la mediazione della scuola.
Differenze, disabilità ed educazione inclusiva

anormalità etiche, politiche, psicologiche o geografiche


Michel Foucault Gli anormali (1982)

tessuto sociale separazione confine vs inclusione => differenza come molteplicità

handicap => concetto campo-dipendente


ambiente che trasforma un deficit fisico o psichico in riduzione di potenzialità

cultura dell’integrazione / inclusione => ogni persona portatrice di “diverse abilità” non “anormale”

concezione “medicalizzata” della disabilità => complesso sintomatologico, esito di affezione organica
prenatale / natale / post natale aspetto biologico dominante

1980 Organizzazione Mondiale della sanità (OMS)


Classificazione Internazionale delle Menomazioni, delle Disabilità e degli Handicap (ICIDH).

menomazione disabilità
perdita/anormalità di una struttura o di una
funzione psicologica, fisiologica o anatomica conseguenza pratica della menomazione =>
termine menomazione: più comprensivo di disturbo
perdite o alterazioni provvisorie o permanenti ciò che si è in grado di fare e ciò che non si riesce a fare
(anomalie difetti perdite a carico di arti, organi, tes-
suti o altre strutture dell’organismo psichico e fisico) sfera delle attività in un contesto socio-culturale

handicap
fenomeno sociale => condizione di svantaggio conseguente a menomazione o disabilità
che limita o impedisce l’adempimento di un ruolo sociale considerato “normale”
(età sesso contesto socioculturale della persona).
incontro tra disabilità e ambiente fisico e sociale
più accogliente è l’ambiente fisico e sociale, tanto minore sarà l’handicap.

2002 nuova Classificazione Internazionale del Funzionamento, della disabilità e della Salute ICF
( vs menomazione / disabilità / handicap )

funzioni e strutture corporee attività partecipazione.

classificazioni di

funzioni fisiologiche sistemi corporei esecuzione di compiti e azioni livelli di coinvolgimento in situa-
incl. funzioni psicologiche e parti anatomiche zioni di vita concrete e normali
.
capacità del singolo e le sue possibilità di partecipazione sociale.

legge 104/92

riconoscimento del diritto di frequentare la scuola normale per tutti gli individui
ambiente sociale democratico e solidale che riconosce i diritti delle persone disabili. Ambiente
scuola => ambiente sociale che non esclude, ma accoglie, integra, valorizza la diversità.
Inserimento, integrazione, inclusione

inserimento integrazione inclusione


introduzione della persona rimozione degli ostacoli ed effettivo riconoscimento e accoglimento
disabile a scuola o nel lavoro supporto alla piena partecipazione della differenza con coinvolgimento
fine Anni ‘60 alunni con minorazioni metà anni ‘70 del contesto
vs classi e istituti speciali 2000: terminologia internazionale

estensione del concetto di integrazione che coinvolge tutti gli alunni che
per difficoltà specifiche e diversità socio-culturali – presentino una situazione di “svantaggio”

Disability Studies Inclusive Education


(Barnes, Oliver e Barton, 2002) (Armstrong, Armstrong e Barton, 2001)

educazione inclusiva

pratica educativa ‘inclusiva’ semplice inclusione (‘metter dentro´)


processo radicale di cambiamento vs con assistenza di tipo specialistico
del sistema educativo => paradigma integrativo della differenza
‘ciò che non funziona nella persona’
identificazione / rimozione risposte specialistiche mirate e aggiuntive
delle barriere scolastiche che impediscono (adattamento, aggiustamento e compensazione)
l´apprendimento di tutti i discenti

rigidità dei curricoli forme tradizionali di insegnamento e apprendimento


contesti e atteggiamenti discriminatori logiche di pensiero disabilitanti

difficoltà degli alunni => problema didattico-educativo piuttosto che mancanze individuali
intervento specialistico

supporta il lavoro del docente vs compensazione ‘mancanza percepita’ del discente


. agisce sugli ambienti educativi
centro delle attività => gruppo classe percorso didattico
forme di sapere e conoscenza fondate sul dialogo

ascolto efficace pensiero riflessivo decentramento cognitivo


lavorare in autonomia/relazione potenziamento dell’identità sociale/individuale
contesti scolastici accoglienti rapporti con l´extra scuola valutazione formativa

insegnante di sostegno
focalizzazione sulle capacità dialogica intergruppo facilitatore percepito come
presenza dell’altro come occasione di crescita vs diaframma tra l’alunno e la classe
allargamento della percezione della realtà sociale isolamento / limite alle interazioni

ICF International Classification of Functioning Disability and Health 2001


. macrocategoria degli alunni con bisogni educativi speciali (Dir. minist. 2012 e circolari 2013)

favorire lo sviluppo di classi inclusive, la partecipazione di tutti gli alunni nelle classi regolari, inclusi gli alunni
a rischio di esclusione e insuccesso scolastico (stranieri o appartenenti a minoranze etniche o linguistiche)
vs fenomeni di drop-out, (abbandono del percorso scolastico) => sistemi di ‘ancoraggio’
formazione di legami sociali stabili attraverso la mediazione scolastica
Multiculturalismo e Educazione interculturale

I termini ‘multiculturale’ e ‘interculturale’ sono ormai entrati stabilmente nel lessico delle scienze
dell’educazione. Non sempre, tuttavia, essi sono usati in modo appropriato: ritenuti erroneamente
intercambiabili, sono impiegati spesso come sinonimi. Al contrario, questi due termini non sono
affatto equivalenti, ma fanno riferimento a situazioni e pratiche diverse e sottendono concezioni
sociali ed educative differenti. Come primo punto di riferimento, possiamo assumere la definizione
di ‘multi- culturalità’ come la caratteristica di una situazione sociale verificabile: la convivenza di
persone provenienti da - e socializzate in - diversi contesti culturali, e la ‘interculturalità’ come la
risposta educativa relazionale alla società multiculturale e multietnica.
Questa definizione comporta diverse considerazioni e conseguenze: anzitutto quella che la multi-
culturalità è uno stato e un dato di fatto, esito di flussi migratori e di incontri tra le culture dovuti a
una spinta della storia, mentre l’interculturalità è un processo educativo intenzionale che deve es-
sere progettato dagli educatori per rispondere alle esigenze formative della società d’oggi. Potrem-
mo anche osservare che l’educazione interculturale è una prospettiva che va affermata in tutti i con-
testi educativi, a prescindere dalla presenza fisica, nelle singole scuole o comunità, di alunni di dif-
ferente nazionalità: la società d’oggi ci pone sempre e comunque a confronto con modelli culturali,
atteggiamenti, comportamenti diversi che debbono essere affrontati in un’ottica interculturale.
Un altro punto di rilievo è il diverso atteggiamento verso il contatto culturale che è conseguente ai
termini di multi- e inter-culturale. La multiculturalità, applicata sia nella società che nella scuola,
non presuppone necessariamente l’attivazione di momenti di contatto, acculturazione e scambio tra
le culture; essa è infatti una categoria di carattere descrittivo e storico, che si esaurisce nel rilevare
la presenza in un territorio o in un’istituzione sociale di culture diverse.
La multiculturalità può anche realizzarsi, anzi trova la sua espressione più frequente, nella creazio-
ne di ‘nicchie etniche’, di piccoli ghetti in cui ciascuna cultura continua a esistere (e spesso a cri-
stallizzarsi) senza essere sottoposta al vivificante incontro con l’alterità. Ogni nazionalità, etnia,
gruppo religioso continua a praticare le proprie abitudini e le proprie tradizioni senza curarsi delle
altre comunità; in questa situazione, una parola chiave diventa la tolleranza: tutti possono fare ciò
che vogliono sinché non invadono lo spazio di un altro gruppo. In questa situazione, una società
può conservarsi anche a lungo, ma nel momento in cui una crisi economica, delle tensioni religiose
o etniche o altri fattori rompono l’equilibrio, le differenze taciute e non valorizzate e i conflitti che
portano con sé possono deflagrare in modo violento e irrazionale. L’interculturalità, al contrario,
oltrepassa la tolleranza, presuppone il confronto e lo scambio tra le culture, pone il problema della
cittadinanza e della partecipazione, esercita la legittima e reciproca critica, concepisce le differenze
culturali come un valore.
Un atteggiamento interculturale riconosce il conflitto e non lo ignora: qualunque incontro tra cul-
ture diverse, qualunque migrazione, hanno sempre suscitato conflitti che non vanno negati, ma ge-
stiti e risolti in modo pacifico. La prospettiva interculturale concepisce le diverse identità culturali
come mutevoli e in continua trasformazione, presuppone che l’identità, per potersi arricchire e svi-
luppare, necessita del confronto con l’alterità. La concezione per cui, in una società multiculturale,
le diverse identità culturali debbono vivere separate l’una dall’altra, senza scambi e contatti, è dun-
que senz’altro regressiva; basti pensare che la giustificazione di favorire il libero sviluppo di ciascu-
na cultura separata dalle altre fu una delle legittimazioni ideologiche di un regime razzista e segre-
gazionista come quello sudafricano dell’apartheid1.

1
Riflettendo sulle differenze tra i termini di interculturale e multiculturale, è legittimo interrogarsi sulle ragioni per cui
questi due termini vengono così spesso confusi. Una ragione va può essere ricercata nella presenza sul mercato della
pubblicistica angloamericana che impiega, in genere, i termini di educazione multi-culturale, pedagogia multiculturale
ecc. L’uso di questi termini non è casuale, ma fa riferimento a specifici modelli sociali impiegati negli USA. La società
statunitense è stata coinvolta dai problemi della multiculturalità molto prima della nostra a ha reagito in modi diversi nei
vari momenti storici. Nei primi anni del secolo il modello vigente negli USA era quello del melting-pot, crogiuolo dove
tutte le culture dovevano fondersi. ‘Melting Pot’ è, in realtà, il titolo di una pièce teatrale di Israel Zangwill, ebreo
La nuova categoria dell’interculturalità propone un progetto di interazione fondato sull’idea che le
culture si aprano reciprocamente e apprendano le une dalle altre in un’interazione dinamica, in
una specie di inter-scambio creativo, senza perdere la propria identità. In tale modo, si dà importan-
za all’iter che designa la necessità dell’incontro e del reciproco cambiamento. In ambito scolastico,
per quanto riguarda la scuola italiana e in parte europea, l’utopia interculturale appare ancora lonta-
na a livello di curricula, di programmi, di formazione e soprattutto di pluralismo culturale e lingui-
stico degli stranieri. La competenza culturale di molti insegnanti permetterebbe di progettare compi-
ti di accoglienza, inserimento, insegnamento della seconda lingua o della lingua d’origine, promo-
zione della comprensione delle differenze culturali e prevenzione del pregiudizio. Tutto questo però
si svolge in modo estemporaneo e soprattutto senza un quadro teorico che le supporti. Per cambiare
la situazione occorrerebbe intervenire su diversi fronti, in particolare sulla formazione degli inse-
gnanti: si tratterebbe, in particolare, di preparare questi ultimi a essere capaci di apertura alla diver-
sità, a gestire le grandi questioni etiche inerenti all’intercultura, tra relativismo e rischio di assimila-
zione. Si dovrebbe poi dotare l’insegnante di strumenti metodologici per inserire la prospettiva in-
terdisciplinare nelle discipline scolastiche. Infine, non dovrebbe mancare nella formazione dei do-
centi l’esperienza diretta, per quanto parziale, di almeno un diverso universo culturale, cioè la cono-
scenza il più possibile approfondita di una comunità etnica della propria zona, nelle sue forme di vi-
ta e di relazione. Ma le difficoltà sono tante: quale dovrebbe essere il motore di questi cambiamen-
ti? La politica e Il ministero della Pubblica Istruzione? Gli esperti di pedagogia o coloro che do-
vrebbero formare gli insegnanti? Vi è poi un secondo problema. Le pratiche interculturali già affer-
matesi sono prima di tutto di tipo “compensativo”, così definite perché rispondono principalmente
all’urgenza di compensare gli svantaggi patiti dagli immigrati nelle nuove realtà dovuti alla scarsa
conoscenza di lingua, norme giuridiche, usi e costumi dei Paesi ospitanti. Tuttavia, gli interventi
compensativi non esauriscono l’ambito dell’educazione interculturale, che è molto più ampio; sce-
gliere la prospettiva interculturale, infatti, non significa limitarsi a mere strategie d’integrazione
degli alunni immigrati, né a misure compensatorie di carattere speciale. Si tratta piuttosto di assu-
mere la diversità come paradigma dell’identità della scuola e come occasione per aprire l’intero
sistema formativo a tutte le differenze. Di qui la necessità di coinvolgere competenze interculturali
elevate, rivolte alla conoscenza profonda dei diversi universi culturali, al fine di apprezzarne le dif-
ferenze e gli eventuali punti di convergenza. Ciò costituisce un requisito indispensabile per un’edu-
cazione interculturale capace di promuovere il rispetto del pluralismo (come vuole l’approccio mul-
ticulturalista) senza però rinunciare alla possibilità di trovare momenti d’intesa e livelli di armoniz-
zazione tra le differenze. In questo ambito, l’educazione interculturale suggerisce che i manuali sco-
lastici valorizzino maggiormente le più significative esperienze storiche di dialogo e coesistenza tra
culture, poiché da esse gli alunni e i docenti possano ricavare utili insegnamenti, validi anche per il
presente. Applicare quest’ottica significa considerare la migrazione secondo una prospettiva di tipo
relazionale, che tenga conto della capacità - sia dei migranti che della società di accoglienza - di
confrontare e scambiare, su una base di sostanziale parità e reciprocità valori, culture, schemi di
comportamento.

inglese emigrato in America, che trasferisce nel Nuovo continente una vicenda alla Giulietta e Romeo in chiave etnico-
religiosa. Al termine della storia i due giovani, tuttavia, riescono a coronare il loro sogno d’amore grazie alla grande
forza del Melting Pot americano, che consente a tutte le culture di unirsi per costruire le magnifiche sorti della “Repub-
blica degli uomini e del Regno di Dio”, dove tutti vanno per lavorare e guardare avanti, a differenza di quanto accade a
Roma e Gerusalemme, dove si guarda solo al passato. Il successo della commedia fu tale che negli anni venti, le offici-
ne Ford di Detroit istituirono le “Feste del Melting Pot”. Queste feste avevano come centro la finta tolda di una nave
che veniva attraversata dai nuovi immigrati. Costoro, che all’inizio del percorso erano abbigliati secondo i loro abiti na-
zionali e portavano un fagotto e la bandiera del loro paese, al termine del percorso si ripresentavano in abiti da “perfetto
americano” e con la bandiera degli USA. Questo modello di società, basato sulla presunzione che il buon americano si
costruisse dimenticando storia e identità degli immigrati si dimostrò ben presto illusorio.
Negli ultimi anni, infatti, l’immagine che ci viene più frequentemente proposta per rappresentare la società americana è
specularmente diversa: si parla infatti di salad-bowl, vale a dire di insalatiera (etnica). Questa metafora ci trasferisce dal
modello della totale perdita di memoria e di identità del melting pot a quello della società multiculturale.
Esperienze di pedagogia interculturale nella pratica scolastica

Alcune esperienze educative possono essere utili per approfondire le modalità attraverso le quali si
può contribuire alla realizzazione di veri e propri laboratori di relazione e d’interazione intercultura-
le. L’acquisizione del decentramento cognitivo e l’esercizio del pensiero divergente possono essere
considerati come requisiti fondamentali perché bambini e adolescenti possano accedere ad un con-
fronto sereno, aperto e creativo con la storia di cui l’altro è portatore.
In una simile prospettiva, una proposta interessante è quella che permette di raccontare gli incontri
culturali mediante l’utilizzo della narrativa di viaggio. Sono molti gli esempi che possono essere
utili a questo proposito: dai testi classici, come quelli di Joseph Conrad, ai più recenti, come quelli
di Ryszard Kapuscinski o Bruce Chatwin. L’incontro con l’altro viene espresso nel registro dello
choc cognitivo e del confronto, senza pregiudizi e senza esotismi, per lasciar spazio alla riflessione
e all’analisi critica. R. Kapuscinski (1932-2007), storico e reporter polacco autore di libri fonda-
mentali per la comprensione della storia e della cultura africana, asiatica, latinoamericana, nel libro
L’altro (2007) scrive:
«Parlando di viaggio, non ci riferiamo certo all’avventura turistica. Per la mentalità del reporter il viaggio
significa sfida e sforzo, fatica e sacrificio, un compito arduo, un ambizioso progetto da portare a termine.
Viaggiando sentiamo che sta accadendo qualcosa di importante, che partecipiamo ad un evento di cui siamo
nello stesso tempo testimoni e creatori, che adempiamo a un dovere, che siamo responsabili di qualcosa.
Tanto per cominciare, siamo responsabili della strada che percorriamo. Spesso sappiamo perfettamente che
la percorreremo quell’unica volta, che non ci torneremo mai più, e quindi che non abbiamo il diritto di tra-
scurarne o perderne il minimo dettaglio. (…) Per questo viaggiamo concentrati e con l’orecchio sempre in
ascolto. La strada che si percorre è importante, perché ogni passo ci avvicina all’incontro con l’altro. È per
questo che ci siamo messi in viaggio. Quale altro motivo avrebbe potuto indurci ad affrontare fatiche, rischi,
scomodità e pericoli? Non è solo il viaggio intrapreso volontariamente, il viaggio come forma di vita, ad es-
sere una rarità. Anche una forte curiosità per il mondo è un fenomeno raro. Alla maggior parte delle persone
esso interessa ben poco».
Il passaggio successivo consiste nella lettura diretta dei testi narrativi e poetici, appartenenti a
tradizioni culturali lontane, come quelle degli indiani d’America o dei popoli africani, così ricchi di
rimandi a cosmologie distanti da quelle occidentali e cariche di fascino. Ancora una volta l’obietti-
vo è quello di valorizzare le differenze e favorire l’apprendimento di punti di vista divergenti rispet-
to a quelli locali: leggere un testo corrisponde alla creazione di un dialogo in cui non esiste una sola
verità, ma il confronto tra tradizioni e valori, i quali nella rappresentazione simbolica del testo lette-
rario assumono maggiore forza e pregnanza.
Un’altra importante risorsa didattica è quella che fa tesoro del patrimonio artistico, musicale e di
rappresentazione plastica delle culture tradizionali. Il campo dell’etnomusicologia può offrire un
contributo educativo molto ricco, se si propone ai ragazzi l’ascolto di brani che appartengono alle
varie tradizioni musicali. L’insegnante deve possedere l’accortezza di scegliere i pezzi secondo una
scalarità che consenta il contatto con l’alterità in modo non brusco o troppo difficile: l’ascolto di re-
gistrazioni “sul campo” è senza dubbio un mezzo di lavoro rigoroso e valido, ma talvolta può essere
preferibile scegliere, almeno per le prime esercitazioni, brani di autori e interpreti della “world mu-
sic” che propongono le tradizioni musicali d’appartenenza in uno stile più facilmente avvicinabile.
L’incontro con la scultura africana, dei pellerossa del nord America o degli Aborigeni australiani
– per fare qualche esempio – sotto le varie forme delle maschere, dei pali totemici, idoli o altro an-
cora, può avere un importante effetto suggestivo. Introdurre nella scuola la possibilità di osservare,
toccare e “sentire” la vicinanza dei pezzi etnografici non è però molto semplice, benché utilissimo.
Una soluzione è quella di visitare i siti dei più importanti musei etnografici – ad es. del Musée du
quai Branly di Parigi – o di compiere un viaggio per raggiungere un museo nel quale questi oggetti
sono custoditi e mostrati al pubblico (ad es. Firenze, Parma, Lugano).
Multiculturalismo e Educazione interculturale

'multi-culturalità' vs ‘interculturalità’
convivenza di persone provenienti da - e risposta educativa relazionale
socializzate in - diversi contesti culturali alla società multiculturale e multietnica
stato e dato di fatto “processo educativo intenzionale
flussi migratori e incontri tra le culture progettato dagli educatori per rispondere
alle esigenze formative della società d'oggi”
categoria di carattere descrittivo e storico contatto acculturazione scambio tra culture
situazione di fatto dei contesti ‘multiculturali’: prospettiva interculturale:
creazione di 'nicchie etniche', piccoli ghetti applicabile a tutti i contesti educativi
cristallizzazione senza confronto con l'alterità dialettica identità-alterità

tolleranza: vs confronto scambio critica reciproca


cittadinanza partecipazione
libertà senza invadere lo spazio comune differenze culturali come un valore
conflitti latenti che possono ‘esplodere’ vs conflitti gestiti e risolti in modo pacifico

diverse identità culturali separate vs apertura e interazione dinamica tra culture


senza scambi e contatti: logica regressiva
(regimi segregazionisti) ambito scolastico:
utopia interculturale ancora lontana
testo: il Melting pot (curricula, programmi, formazione, pluralismo cult.)
competenze per accoglienza, inserimento,
comprensione delle differenze
prevenzione del pregiudizio

formazione degli insegnanti


apertura alla diversità gestione questioni etiche: relativismo/assimilazione
strumenti metodologici esperienza diretta degli universi culturali presenti nel territorio
I problema: motore dei cambiamenti: politica ministero esperti formatori
II problema focalizzazione sulle sole pratiche ‘compensative’ e integrative
vs
diversità come paradigma dell'identità della scuola
occasione per aprire il sistema formativo alle differenze

rispetto del pluralismo vs armonizzazione tra le differenze


(approccio multiculturalista) (approccio interculturalista)

testi scolastici => valorizzazione delle esperienze storiche di dialogo e coesistenza tra culture

narrativa di viaggio testi narrativi e poetici etnomusicologia:


dai classici (Conrad) di culture ‘lontane’ scalarità:
ai contemporanei (Africa, Indiani d’America, etc) world music vs reg. “sul campo”
(Chatwin, Kapuscinski, etc)
testo: “L’altro”

scultura viaggi d’istruzione con


(maschere, pali, idoli, etc) visite ai musei etnografici
L’Educazione degli adulti

I modelli educativi sviluppatisi nella società contemporanea presentano caratteristiche riconducibili


a tre diverse forme, tra loro integrate: l’educazione formale, che occupa lo spazio preponderante,
strutturandosi in diversi ordini di scuola, da quella di base all’Università, ed esercitando un control-
lo istituzionalizzato e gerarchizzato sull’insegnamento; l’educazione informale riguarda i contesti
di vita dei ragazzi e delle persone in genere, i quali assumono un grande rilievo nella formazione
delle opinioni, delle attitudini e delle disposizioni del senso comune, attraverso cui si filtrano le co-
noscenze e si interpretano in modo immediato. Appartengono all’educazione informale contesti as-
sai complessi e variegati, come la famiglia da un lato, i processi di informazione e comunicazione
dall’altro. L’educazione non-formale contempla invece una serie di istituzioni – come i musei, gli
spazi espositivi, le biblioteche, i luoghi di memoria storica, ecc. – che forniscono occasioni di ap-
prendimento specifici e organizzati, condotti al di fuori del contesto scolastico, permettendo
l’acquisizione di competenze di base o specialistiche al di fuori del normale ambito della scuola.
Un processo educativo che si rivolge agli adulti è destinato ad attraversare tutti e tre i modelli edu-
cativi, mediante un approccio complesso, in grado di attribuire a ciascuno di essi il ruolo più adatto
e fruttuoso. Un simile processo rispecchia l’evoluzione storica che la cultura pedagogica ha adottato
nei suoi confronti. La cosiddetta “istruzione degli adulti”, nata in Inghilterra nella prima metà del-
l’800, a seguito dei processi di industrializzazione, rivolgeva il proprio interesse alla massa dei la-
voratori, al fine di promuovere un intervento di tipo tecnico-professionale in grado di provvedere
alla formazione di una manodopera più qualificata per l’industria nascente. Obiettivo non dichiarato
era anche quello di utilizzare l’educazione in senso conformistico, come mezzo di controllo nei con-
fronti delle tendenze “sovversive” che iniziavano ad agitare il mondo operaio. A questo si affianca-
va il modello danese, più vicino alla visione attuale, in cui si parlava di una “educazione per la vi-
ta”, intesa come processo continuo per permettere all’adulto di raggiungere una sempre maggiore
libertà individuale, attraverso lo studio e l’apprendimento. Il fautore di questo modello, il pastore
luterano Nicolai Frederik S. Grundtvig (1783-1872), affermava la necessità di creare percorsi for-
mativi di tipo “popolare”, in cui ogni persona, appartenente a qualsiasi classe sociale, potesse cerca-
re di migliorare la comprensione di sé e del mondo, attraverso una «comunicazione aperta, capace
di trasmettere la vita».
Dall’unione di questi due modelli ha origine la riflessione attuale; tuttavia, solo nella seconda metà
del ‘900 educazione e politica hanno avviato una significativa produzione di programmi di lavoro
capaci di realizzare interventi idonei a favorire lo sviluppo di una cultura pedagogica rivolta agli
adulti, con finalità di sviluppo sociale ed economico: «L’educazione degli adulti – spiega Jacques
Delors – va inserita nel quadro dell’educazione nel corso di tutta la vita ed assume un aspetto multi-
dimensionale perché combina l’apprendimento non formale con quello formale e lo sviluppo delle
abilità innate con nuove competenze» (L’educazione è un tesoro, 1996).
L’educazione degli adulti acquisisce quindi il valore di educazione permanente, sviluppandosi in
questi termini nel dibattito successivo. Questa consapevolezza introduce la necessità di valutare in
che cosa debba consistere un processo educativo che per sua natura si estende per tutto l’arco della
vita: è chiaro come l’educazione degli adulti non possa condurre a processi d’apprendimento intesi
come semplici prodotti, in altri termini non può limitarsi a sollecitare suggestive e efficaci forme di
apprendistato, benché di valore elevato; un modello pedagogico ricco, destinato a formare soggetti
liberi e pensanti, richiede che si sollecitino mezzi di cambiamento capaci di aiutare le persone ad es-
sere flessibili di fronte ad una realtà in continua evoluzione, rendendo più responsabili le scelte di
vita che occorre compiere, soprattutto nell’età adulta, essendo oggi richiesta una presenza produtti-
va fino a tarda età e in contesi in perenne mutamento.
Educazione permanente e lifelong learning: aspetti critici e progetti e europei

Il termine “educazione permanente”, che deriva dall’espressione francese éducation permanente,


sostituita negli ultimi anni dalle formule anglofone lifelong education o lifelong learning, sottolinea
la continuità nel tempo e nello spazio del processo di formazione, includendo al proprio interno an-
che la vecchia definizione di educazione degli adulti. In realtà, sotto il profilo pedagogico, l’intro-
duzione di una simile visione del processo educativo produce una vera e propria rivoluzione nel
modo di considerare la formazione umana. Il ruolo centrale della scuola viene infatti rivisto, nella
prospettiva di una considerazione più vasta degli orizzonti educativi, dal momento che l’istituzione
scolastica rappresenta un luogo determinato in senso temporale: raccoglie soggetti di età compresa
fra l’infanzia e l’adolescenza, ai quali è destinato il lavoro d’inculturamento di base. Allo stesso
modo rappresenta anche un ambito riservato dal punto di vista spaziale: l’educazione formale ha la
necessità di strutturare ambienti educativi particolari, gestiti e presidiati attraverso un’organizza-
zione rigorosa. Pensare in termini di lifelong learning produce l’effetto innovativo di scardinare i
confini dell’educazione formale, attribuendo di fatto un valore quasi paritario ai processi di natura
non-formale e informale. Oggi lo sviluppo delle TIC (tecnologie dell’informazione e della comuni-
cazione) ha reso inadeguata la ripartizione rigida tra scuola ed extrascuola, soprattutto con l’espan-
sione e l’utilizzo diffuso di internet; in questo senso, il rischio del lifelong learning è quello di sot-
tendere un’ideologia culturale in base alla quale ‘conoscere’ equivale ad ‘essere aggiornato’; è evi-
dente che, da questo punto di vista, gli strumenti della TIC non sono facilmente superabili: internet
mostra “in tempo reale” fatti e fenomeni che la comunicazione ponderata della scuola non riesce a
seguire. Ma tutto questo non basta per trasformare l’informazione in formazione: la “formazione” è
infatti riconducibile ad una capacità di riflessione che esce dall’istante della rete e richiede tempo,
un tempo indispensabile per comprendere il senso profondo di un evento o di un’informazione, per
verificarne l’attendibilità, per valutarne le conseguenze. Si pone il problema della trasformazione
degli apprendimenti in pensieri: se riflettere sulla realtà implica un continuo aggiornamento, la ca-
pacità di pensare, di analizzare e di confrontare le situazioni per prendere decisioni personali non
riguarda l’informazione, ma un’abilità complessa che risponde a delle intenzioni educative ben pre-
cise. Un simile percorso può essere compiuto all’interno di istituzioni, di spazi in cui il lavoro edu-
cativo elabora gli apprendimenti rendendoli materia viva su cui creare processi di valutazione cri-
tica fondati sul confronto aperto, sulla cooperazione e lo scambio di vedute.
Il terreno del lifelong learning può però essere riservato ad aspetti specialistici della formazione,
come quella tecnica e professionale, in cui i fattori dell’aggiornamento assumono una maggiore
importanza. Questo è il motivo per il quale i progetti europei hanno riservato a questo ambito setto-
riale la maggior parte dei loro interventi, lasciando alla scuola di base il compito di fornire agli stu-
denti l’attrezzatura concettuale necessaria per utilizzare al meglio le innovazioni specialistiche, sen-
za sostituirsi ad essa. In quest’ottica, l’Unione europea ha elaborato una strategia di educazione per-
manente di tipo complesso – Lifelong Learning Programme LLP (2007-2013) – suddividendo
scopi e modalità attuative a seconda dei settori scolastici e dei destinatari (studenti, adulti in forma-
zione, associazioni di genitori, ecc.) e delle tipologie d’intervento, creando programmi specialistici
e linee d’azione definite “attività chiave”. I programmi di tipo settoriale sono quattro: il programma
Comenius, indirizzato all’istruzione scolastica, da quella di base alla scuola secondaria; l’Erasmus
riguarda l’istruzione superiore, università e corsi di qualificazione di livello universitario; il Leo-
nardo da Vinci investe la formazione professionale; infine il programma Grundtvig ha come cam-
po d’applicazione l’istruzione degli adulti. Il programma Leonardo da Vinci riguarda l’ambito nel
quale il lifelong learning riesce ad esprimere al meglio le sue potenzialità innovative: l’istruzione
tecnico-professionale. I progetti sostenuti si indirizzano verso due linee d’azione: da un lato contri-
buisce al miglioramento delle competenze specifiche di allievi interessati a compiere percorsi e
stage d’istruzione all’estero; dall’altra stimola la cooperazione a livello europeo tra centri di forma-
zione. Obiettivi simili – visite di studio e cooperazione scientifica e culturale – sono al centro del
programma Grundtvig, i cui destinatari sono insegnanti e operatori culturali, interessati ad acquisire
competenze specifiche attraverso un confronto con i colleghi stranieri.

Malcom Knowles: l’Andragogia

L'andragogia si propone come una teoria unitaria dell'apprendimento ed educazione degli adulti.
Il termine è stato coniato nel 1833 dall’editore tedesco Alexander Kapp, per distinguerlo da quello
di pedagogia, e verrà ripreso nel corso del ‘900 dal pedagogista americano Malcom Knowles (1913-
1997). Si tratta di un modello incentrato sulla comprensione della diversità di bisogni e interessi di
apprendimento degli adulti rispetto ai bambini.
Punto iniziale del modello di Knowles dell’apprendimento adulto, è la considerazione degli adulti
come learners (soggetti in apprendimento) con le loro specifiche prospettive individuali: “andrago-
gia” è per Knowles il corpo delle conoscenze riguardante i discenti adulti in modo parallelo e distin-
to rispetto al modello pedagogico dell’apprendimento infantile.
Knowles identifica le differenziazioni del modello andragogico rispetto a quello pedagogico sul-
la base di sei presupposti (core principles):
1. Il bisogno di conoscere: gli adulti sentono l'esigenza di sapere perché occorra apprendere qual-
cosa e a cosa possa servire.
2. Il concetto di sé: il concetto di sé, nel bambino, è basato sulla dipendenza da altri. Il concetto di
sé nell'adulto è vissuto come dimensione essenzialmente autonoma.
3. Il ruolo dell'esperienza precedente: nell'educazione dell'adulto ha un ruolo essenziale l'espe-
rienza, sia come attività di apprendimento, sia come pregresso, talvolta negativo, che costituisce
una barriera di pregiudizi e abiti mentali che fa resistenza all'apprendimento stesso. Qualsiasi
gruppo di adulti sarà più eterogeneo - in termini di background, stile di apprendimento, motiva-
zione, bisogni, interessi e obiettivi - di quanto non accada in un gruppo di giovani. Di qui l’enfa-
si posta nella formazione degli adulti sulle tecniche esperienziali - tecniche che si rivolgono al-
l'esperienza dei discenti, come discussioni di gruppo, esercizi di simulazione, attività di problem
solving, metodo dei casi e metodi di laboratorio - rispetto alle tecniche trasmissive.
4. La disponibilità ad apprendere: gli adulti sono disponibili ad apprendere ciò che hanno biso-
gno di sapere e di saper fare per far fronte efficacemente alla situazione della loro vita reale.
5. L'orientamento verso l'apprendimento: gli adulti sono motivati ad investire energia nella mi-
sura in cui ritengono che questo potrà aiutarli ad assolvere dei compiti o ad affrontare problemi
con cui devono confrontarsi nelle situazioni della loro vita reale.
6. Motivazione: il desiderio di una maggiore soddisfazione nel lavoro, l'auto-stima, la qualità del-
la vita.
Knowles illustra come l'applicazione di tali presupposti implichi un nuovo modello di proget-
tazione e conduzione di programmi di formazione degli adulti, nonché una nuova figura di do-
cente. Sulla base delle caratteristiche specifiche che presentano i soggetti adulti, Knowles cerca
di formulare un modello andragogico per la formazione che a suo avviso può incorporare prin-
cipi e metodologie provenienti da varie teorie, mantenendo comunque la sua integrità.
Nel modello andragogico è centrale il richiamo alla responsabilità del discente e alla condivi-
sione del progetto (contratto di apprendimento).
Gli elementi fondamentali del modello andragogico sono i seguenti: Assicurare un clima fa-
vorevole all'apprendimento; Creare un meccanismo per la progettazione comune; Diagnosti-
care i bisogni di apprendimento; Progettare un modello di esperienze di apprendimento; Met-
tere in atto il programma; Valutare il programma.
Knowles propone il coinvolgimento diretto - anzi assegna un ruolo decisionale - ai soggetti
dell’apprendimento in tutte le fasi del processo, a cominciare dalla determinazione degli obiet-
tivi. Rivaluta tra le risorse dell’apprendimento, aspetti scontati come l’esperienza, ma anche altri
che lo sono di meno, come lo stato emotivo e affettivo degli individui, le loro reciproche intera-
zioni e quelle con il contesto, tanto di lavoro quanto di vita.
Malcom Knowles: l'Andragogia

teoria unitaria dell'apprendimento ed educazione degli adulti


Alexander Kapp (1833) Malcom Knowles (1913-1997)
modello incentrato sulla comprensione della diversità di bisogni
e interessi di apprendimento degli adulti rispetto ai bambini
adulti => learners (soggetti in apprendimento)
corpo delle conoscenze dei discenti adulti parallelo e distinto
rispetto al modello pedagogico dell'apprendimento infantile

modello modello
andragogico vs pedagogico

sei presupposti (core principles)

1. bisogno di conoscere 2. concetto di sé 3. ruolo dell'esperienza pregressa


esigenza di sapere perché occorra vissuto come esperienza =>
apprendere qualcosa e a cosa possa servire dimensione autonoma a) attività di apprendimento
b) pregresso, talvolta negativo,
4. disponibilità ad apprendere 5.orientamento verso l'apprendimento che costituisce una barriera
ciò che hanno bisogno di sapere motivazione ad investire energia di pregiudizi e abiti mentali
e di saper fare per far fronte alle che si ritiene possa aiutare che ostacola l'apprendimento.
situazioni della vita reale ad assolvere dei compiti ed
affrontare problemi di vita reale adulti

6. Motivazione background, stile di apprendimento,


desiderio di una maggiore soddisfazione motivazione, bisogni, interessi e
nel lavoro, l'auto-stima, la qualità della vita. obiettivi - più eterogenei dei giovani

Assicurare un clima favorevole all'apprendimento tecniche esperienziali =>


discussioni di gruppo,
Creare un meccanismo per la progettazione comune esercizi di simulazione,
attività di problem solving,
Diagnosticare i bisogni di apprendimento metodo dei casi e
metodi di laboratorio
Progettare un modello di esperienze di apprendimento vs
tecniche trasmissive tradizionali
Mettere in atto il programma
a. nuovo modello di progettazione
Valutare il programma e conduzione di programmi di
formazione degli adulti
coinvolgimento diretto - ruolo decisionale - b. nuova figura di docente
dei soggetti dell'apprendimento c. richiamo alla responsabilità del
in tutte le fasi del processo, discente e alla condivisione del progetto
a partire dalla definizione degli obiettivi (contratto di apprendimento)

risorse dell'apprendimento

esperienza stato emotivo e affettivo degli individui interazioni reciproche e con


il contesto di lavoro e di vita
LA PERSUASIONE ATTRAVERSO I MEDIA

La psicologia ha cominciato ad occuparsi della comunicazione di massa negli anni ’30 e ’40,
quando la diffusione della radio e i problemi di controllo dell’opinione pubblica legati alla seconda
guerra mondiale hanno risvegliato l’interesse per il funzionamento dei media. Si partiva da una vi-
sione piuttosto meccanica, per cui il bombardamento di messaggi dei mezzi di comunicazione di
massa produrrebbe negli individui effetti persuasivi quasi automaticamente. Scopo della ricerca era
stabilire quali fattori potenziano la comunicazione persuasiva e quali la indeboliscono.
Gli studi classici sugli effetti dei media sono legati essenzialmente alla scuola di Yale, formatasi
nel periodo della seconda guerra mondiale attorno a C. Hovland, e hanno dominato fino agli anni
’60 e ’70. L’approccio è di tipo meccanicistico e si parte dal presupposto che i media automatica-
mente influenzino le menti delle persone, spostando opinioni e atteggiamenti, e si studiano le con-
dizioni della loro efficacia. Il metodo più seguito è il paradigma di Yale, che è un elegante disegno
sperimentale prima e dopo con un gruppo di controllo. Si indagano opinioni e atteggiamenti di un
gruppo di persone. Dopo averlo esposto al messaggio, il gruppo viene riesaminato per vedere se c’è
stato cambiamento. Il confronto con un gruppo di controllo non sottoposto al messaggio consente di
escludere l’interferenza di altre variabili intervenienti.
All’impostazione meccanicistica delle ricerche sui media, oltre al comportamentismo, dominante
in psicologia, ha contribuito il più generale clima storico-culturale creatosi intorno alla seconda
guerra mondiale. Con la diffusione della radio, nuovo potente mezzo di massa, e i problemi di con-
trollo dell’opinione pubblica suscitati dalla situazione bellica, ci si interroga essenzialmente sul po-
tere, sulla forza persuasiva dei media, senza tentare analisi più fini che entrino nei meccanismi dei
processi di persuasione. Persuade più la comunicazione di massa o quella interpersonale? La per-
suasione di massa per penetrare davvero deve fare i conti poi con la circolazione interpersonale di
idee? Quali sono i fattori che rendono più efficace la propaganda? E quali quelli che la contrastano
o ne attenuano gli effetti? Erano queste le domande di fondo dei ricercatori.
Nonostante i difetti di impostazione, gli studi del periodo classico hanno avuto il merito di fondare
il campo della psicologia dei media e hanno ottenuto importanti risultati, alcuni dei quali, specie ri-
letti criticamente, conservano interesse e attualità. Le acquisizioni del periodo classico riguardano
più che altro la fonte e il messaggio, mentre lasciano in ombra il ricevente (sarà con la svolta cogni-
tiva che ci si concentrerà sul lato mentale di chi riceve). Sono state raccolte prove sperimentali del
fatto che l’efficacia persuasiva dipende dalla credibilità della fonte (da quanto chi parla è competen-
te e affidabile) e dall’attrattiva della fonte (da quanto chi parla è simpatico). L’importanza della cre-
dibilità della fonte è in accordo col senso comune e con la retorica classica, che l’aveva sottolineata
fin da Aristotele. Però le ricerche psicologiche sono andate a vedere come i riceventi arrivano a
convincersi che una data fonte è credibile, individuando una serie di fattori che spingono a credere
nella fonte (ad esempio il fatto che non parli allo scopo di persuadere, che dica cose contro il pro-
prio interesse, che esprima ripensamenti). Il peso dell’attrattiva è meno intuitivo per il senso comu-
ne: il fatto che una persona popolare e simpatica possa persuadere indipendentemente da ciò che
dice meraviglia un po’. C’è da dire però che dalle ricerche emerge che gli effetti dell’attrattiva si
fanno sentire solo entro certi limiti: sulle questioni importanti le persone si lasciano incantare meno
e i cambiamenti di idee prodotti per questa via sono instabili.
Per quanto riguarda il messaggio, sono essenzialmente due i temi chiariti dagli studi classici: il
confronto tra argomenti logici ed emotivi e il confronto tra argomenti bilaterali e unilaterali.
Relativamente al primo punto, si è visto che non c’è una regola fissa, ma a seconda dei casi è prefe-
ribile far leva sulla logica o sulle emozioni. Il ricorso alle emozioni è però più facile dal punto di vi-
sta del persuasore, perchè gli argomenti logici per risultare efficaci, oltre a essere capiti e accettati,
devono stimolare la curiosità del ricevente per il loro carattere di novità. Gli appelli alla paura, tipici
argomenti emotivi usati nelle campagne igienico-sanitarie, si sono rivelati efficaci. Tuttavia, se si
spaventano troppo e non sanno come fronteggiare il pericolo, le persone vanno in ansia e il messag-
gio è controproducente. Anche sulla questione degli argomenti bilaterali (pro e contro) o unilaterali
(pro) non si può dare una regola univoca. A seconda del tipo di pubblico è preferibile esporre sia i
contro (confutandoli, ovviamente), sia i pro (sostenendoli) o esporre solo i pro. Quando la gente
dell’uditorio è preparata e smaliziata convengono le procedure argomentative bilaterali, altrimenti si
passa per individui ignoranti o in malafede. Coi mezzi di massa, specie in politica e su questioni di-
battute nell'opinione pubblica, è in genere consigliabile la strada della bilateralità, perchè gli argo-
menti bilaterali "vaccinano", rendono meno vulnerabili alle contropropagande.
La nuova generazione di ricerche sulla psicologia dei media, quella attuale, differisce dalla classica
perché, anziché limitarsi a guardare il fenomeno dall’esterno, si interessa ai processi mentali del ri-
cevente e ai meccanismi di persuasione, e perché l'approccio è ecologico, attento a ciò che accade in
concreto, nelle situazioni di vita reale in cui intervengono le comunicazioni di massa. Sul piano me-
todologico agli esperimenti di laboratorio vengono affiancate le indagini sul campo e si introducono
sistemi per capire che cosa accade nella testa del ricevente (come la tecnica di Greenwald, basata su
resoconti introspettivi, e le tecniche inferenziali, analoghe a quelle usate in psicologia cognitiva)1.
Dagli studi più recenti è emerso che l'influenza dei media non è un fenomeno elementare, ma
consiste in un processo persuasivo, una sequenza di eventi concatenati, che, secondo il modello
di McGuire, comporta tre tappe principali: la ricezione del messaggio (che implica l'attenzione e la
la comprensione), la convinzione (fatta di influenzamento e ritenzione in memoria) e l'esecuzione
(il comportarsi di conseguenza).
Altra acquisizione fondamentale maturata di recente è la distinzione tra via centrale e via perife-
rica (secondo la terminologia di R.E. Petty e J.T. Cacioppo) o elaborazione sistematica e elabora-
zione euristica (come le chiama S. Chaiken). I riceventi possono trattare in due modi differenti i
messaggi in arrivo. Se seguono la via centrale, badano agli elementi che contano, non di contorno,
mettono in gioco ampiamente il sapere di cui dispongono, controllano i processi cognitivi impe-
gnandosi e pilotando la comprensione, elaborano le informazioni a un livello più profondo e le inte-
riorizzano e memorizzano di più. Il contrario succede con la via periferica. Questa non è, come si
puo credere a prima vista, emotiva, ma piuttosto implica una specie di analiticità limitata, fatta di
ragionamenti più euristici (basati su scorciatoie e strategie economiche), automatici e superfìciali.
È molto importante sapere se l'uditorio segue una via o l'altra, perché i mezzi persuasivi efficaci in
un caso non lo sono nell'altro. Non c'e una regola fissa. Molto dipende dal mezzo di comunicazione
(ad. esempio con la televisione prevale la periferica), dalle caratteristiche personali dei riceventi (gli
individui più intelligenti, con più spiccati bisogni cognitivi e i meglio informati sono propensi alla
via centrale).

RICEZIONE CONVINZIONE ESECUZIONE

Attenzione > Comprensione > Influenzamento > Ritenzione > Comportamento

Modello di McGuire. Le cinque fasi sono in sequenza. Ciascuna presuppone la precedente e il risultato
finale si ottiene solo percorrendole tutte. Per semplicità si possono raggruppare in modo da avere solo tre
momenti. Le prime due fasi rientrano sotto la voce ricezione: se i destinatari hanno prestato attenzione al
messaggio e l'hanno afferrato, diciamo che è stato ricevuto. Quando il soggetto subisce l'influenza e il
cambiamento si mantiene stabilmente nella sua mente, vuol dire che è convinto. Se agisce anche di con-
seguenza e fa quel che il persuasore voleva, la catena è completa e si arriva all'esecuzione.

1
La tecnica di Greenwald consiste nel chiedere ai soggetti di annotare ciò che viene loro in mente in rappor-
to al messaggio. Restano dubbi sulla validità dei dati: è possibile che le cose che il soggetto annota non gli
siano venute in mente spontaneamente, ma le abbia elaborate al momento di svolgere il compito richiestogli
dallo sperimentatore. Con le tecniche inferenziali, lo sperimentatore fa determinate previsioni. Ad esempio,
si aspetta che, se si segue un dato percorso cognitivo, ci vorrà più tempo perché si manifestino gli effetti o
sarà più efficace un certo tipo di argomento anziché un altro o influiranno diversamente le distrazioni.
Variando le condizioni sperimentali può controllare se le previsioni sono esatte e verificare le ipotesi sui
processi cognitivi del ricevente.
LA PERSUASIONE ATTRAVERSO I MEDIA

paradigma di Yale => disegno sperimentale


opinioni e atteggiamenti del
gruppo sperimentale vs gruppo di controllo
esposizione al messaggio interferenza di
riesame gruppo sperimentale variabili intervenienti

Persuade più la comunicazione di massa o quella interpersonale?


Quali sono i fattori che rendono più efficace la propaganda?
Quali fattori la contrastano o ne attenuano gli effetti?

periodo classico => studi fonte messaggio vs ricevente meccanismi persuasione


svolta cognitivista => processi mentali del ricevente approccio ecologico
resoconti introspettivi
esperimenti di laboratorio indagini sul campo (Greenwald)

credibilità vs attrattiva
della fonte
che non parli allo scopo di persuadere può essere efficace
che dica cose contro il proprio interesse ma limitatamente su questioni importanti
che esprima ripensamenti cambiamenti di idee / maggiore instabilità

confronto
argomenti logici vs emotivi argomenti bilaterali vs unilaterali
(pro-contro) (pro)
richiedono: più immediati uditorio
comprensione se non generano + smaliziato - informato
stimolare la curiosità troppa ansia + informato + emotivo

modello McGuire

RICEZIONE CONVINZIONE ESECUZIONE


Attenzione > Comprensione > Influenzamento > Ritenzione> Comportamento

distinzione
via centrale vs via periferica (R.E. Petty e J.T. Cacioppo)
elaborazione sistematica vs elab. euristica (S. Chaiken)
elementi essenziali elementi di contorno
sapere pregresso analiticità limitata
controllo dei processi cognitivi ragionamenti più euristici:
impegno per la comprensione scorciatoie / strategie economiche
elaborazione profonda informazioni automatismi/superficialità di giudizio
interiorizzazione/memorizzazione
mezzi di comunicazione:
stampa vs televisione
caratteristiche dei riceventi:
+ informati/scolarizzati - autonomi - informati
LA SOCIETÀ DELLA COMUNICAZIONE

La società attuale è stata definita “società della comunicazione”, perché caratterizzata da una cir-
colazione delle informazioni senza precedenti, dovuta allo sviluppo dei trasporti, delle telecomuni-
cazioni e dei mass media. L’invenzione di tecnologie della comunicazione (il telefono, la radio, la
televisione, ecc.) ha consentito di arrivare a questo punto. Tuttavia lo sviluppo delle comunicazioni
è legato all’esplosione scolastica, all’industrializzazione, al capitalismo e a condizioni favorevoli,
tra le quali l’affermarsi nel XX secolo di un’ideologia della comunicazione, di convinzioni sul valo-
re della comunicazione nella vita umana.
Un effetto dello sviluppo delle comunicazioni è la globalizzazione. Se si eccettuano le poche so-
cietà semplici che ancora resistono, viviamo tutti in un unico grande scenario. La globalizzazione
consiste in parte in integrazione economica (testimoniata non solo dagli scambi internazionali, ma
anche dalle imprese multinazionali e transnazionali), in parte in integrazione politica (basti pensare
agli organismi sovranazionali), in parte in integrazione culturale.
Lo sviluppo moderno ha portato con sé anche concentrazione ed imperialismo della comunicazione:
i mezzi di comunicazione sono controllati in prevalenza da gruppi economici e di potere dei paesi
avanzati, che hanno in mano l’editoria, la produzione radiofonica, televisiva e cinematografica. La
maggior parte dell’informazione, ad esempio, viene da quattro grandi agenzie (Reuter, AFP, UPI,
AP) due statunitensi, una britannica e una francese. L’evidente sviluppo tra paesi a sviluppo avan-
zato e meno avanzato ha fatto parlare, dagli anni ’70, di imperialismo della comunicazione.

Declino dell’informazione e crescita del loisir

L’enorme flusso di comunicazioni sulla terra non è solo circolazione di informazione per fini ope-
rativi o conoscitivi. La gente comunica e fruisce dei media in larga misura per loisir (passatempo,
divertimento, svago). Sembra esserci stata una tendenza della comunicazione a spostarsi dall’infor-
mazione al loisir: si comunica sempre più per ragioni espressive e sempre meno a scopo strumenta-
le. La maggior parte delle telefonate, ad esempio, sono di sfogo psicologico o di intrattenimento.
Nei mass media si è ugualmente assistito al ridimensionamento dell’informazione e alla crescita del
loisir. Nel campo della stampa periodica è significativo l’incremento dei periodici, in genere più ri-
creativi, rispetto ai quotidiani, che privilegiano l’informazione. Nella TV è evidente la trasformazio-
ne dei programmi di informazione che sono ritenuti più spettacolari e di intrattenimento, come è te-
stimoniato dall’affermarsi delle figure dell’anchorman, del giornalista-presentatore, figura a metà
strada tra quella tradizionale del giornalista e quella dell’animatore.
Con lo spostamento verso il loisir i messaggi invitano a interpretazioni superficiali, però chi ha più
cultura è avvantaggiato, perché ha più probabilità di scorgere dietro lo spettacolo e la banalità il si-
gnificato profondo delle cose. Si accentua così il gap conoscitivo tra subinformati e superinformati,
la concentrazione e l’imperialismo producono disparità internazionali, tra paesi avanzati e meno
avanzati, e intranazionali, nella popolazione dei singoli paesi. La partecipazione democratica è mi-
nacciata proprio perché l’informazione non tende a distribuirsi uniformemente: non può esserci
democrazia reale dove pochi sanno e molti sono all’oscuro.

I MASS MEDIA

Alla base delle comunicazioni di massa ci sono la stampa, il cinema, la radio, la televisione, i si-
stemi di diffusione informatici. I sociologi non si interessano ai mezzi in quanto tali, ma alle comu-
nicazioni per loro tramite e a tutto ciò che nella vita sociale vi sta intorno. I mass media costituisco-
no in effetti un’agenzia culturale, che svolge un’attività istituzionalizzata (con norme coordinate,
finalità sociali riconosciute, legittimazioni), organizzata (con un dispiego di risorse considerevole),
inserita nel tessuto sociale (vicina specialmente ai vertici della società), rivolta ad un pubblico va-
sto, eterogeneo e anonimo, in cui si trattano temi a tutto campo, si media tra realtà ed esperienza
diretta (basti pensare a come si allarga con i media il nostro orizzonte di conoscenze), si diffondono
contenuti di dominio pubblico (chiunque può riprenderli) e si permea la vita sociale.

Origini degli studi sui mass media

Le prime riflessioni sui mass media tra il XIX e il XX secolo hanno oscillato tra la visione negati-
va delle critiche alla cultura di massa e la visione positiva degli interazionisti simbolici.
Nel XIX secolo voci critiche nei riguardi della cultura di massa sono state quella di Alexis de
Tocqueville (La democrazia in America, 1831), che tra i caratteri negativi degli americani ha anno-
verato l’appiattimento culturale; quella di Friedrich Nietzsche, per il quale i giornali (“il cieco
chiasso permanente che svia le orecchie e i sensi in una falsa direzione”, Umano troppo umano,
1878) facevano parte della “nuova barbarie”, della condizione storico-sociale di degenerazione che
ostacolava la trasformazione dell’uomo in superuomo, cioè in spirito libero che realizza se stesso.
Nel XX secolo Jose Ortega y Gasset, filosofo spagnolo (1883-1955), ha messo l’accento sul fatto
che la cultura di massa impedisce il formarsi di una coscienza della modernità e rende schiavi del
proprio stato: «La massa travolge tutto ciò che è differente, singolare, individuale, qualificato e
selezionato» (La ribellione delle masse, 1930).
Di segno opposto le idee dei padri dell’interazionismo simbolico, che hanno visto nello sviluppo
moderno dei mass media prospettive di progresso e di partecipazione democratica. C. H. Cooley, in
particolare, rifacendosi a Tocqueville, ha messo in discussione la convinzione che la cultura di mas-
sa porti ad un livellamento in basso. A suo avviso si creano solo un nuovo tipo di individualità e di
intelligenza più sociali. All’inizio degli anni ’20, negli Stati Uniti, si fa sentire la voce critica di
Walter Lippman, che in Public opinion (1922) sostiene che i media offrono un’immagine stereoti-
pata, semplificata e rigida della realtà, derivata dalla tradizione. Di conseguenza i mass media osta-
colano i cambiamenti sociali.

Le ricerche empiriche
Nel periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale, sulla spinta di interessi pratici legati alla
propaganda bellica e commerciale, cominciano gli studi empirici. Tra le due guerre la radio, che il 4
novembre 1918 aveva diffuso la notizia della fine delle ostilità, comincia trasmissioni regolari e ar-
riva a contare milioni di ascoltatori. Ormai si tratta di un’impresa commerciale, inserita nel merca-
to anche perché pubblicizza prodotti di consumo. L’ascesa dei governi totalitari in Germania, Unio-
ne Sovietica, Italia e Spagna si avvale della stampa e della radio e fa nascere seri interrogativi sul
rapporto tra media e politica. Prevalgono le idee della bullet theory (teoria della pallottola, detta an-
che dell’ago ipodermico): i media vengono considerati potenti strumenti di persuasione che agisco-
no pressoché automaticamente su riceventi passivi e inermi i quali, colpiti dai messaggi e isolati,
sradicati dal tessuto comunitario e culturalmente impreparati, finiscono per cedere. Figure di spicco
di questo periodo sono F.H.Lund, H. Blumer, H. D. Laswell; quest’ultimo, in particolare, ha avuto
il merito di introdurre le tecniche di analisi del contenuto, di proporre la prima analisi funzionale dei
media e di formulare le famose cinque domande guida (Chi? Che cosa? Attraverso quale canale? A
chi? Con quale effetto?) come strumento euristico per individuare e classificare i principali oggetti
della ricerca sui media. Alla bullet theory fanno da sfondo la teoria della cultura di massa, ripresa
dalla tradizione filosofica, ed il comportamentismo, dominante nella psicologia dell’epoca.
Nel periodo classico, dagli anni ’30 ai ’70, dominano la scuola di Yale, più psicologica, e quella di
Lazarsfeld, sociologica. La scuola di Yale, formatasi attorno a Carl Hovland (1912-1961), ha stu-
diato gli effetti di persuasione dei media in condizioni controllate di laboratorio. In decenni di ricer-
ca sono stati analizzati fattori legati alla fonte, al tipo di messaggio, al pubblico.
La scuola di Paul F. Lazarsfeld (1901-1976), alla Columbia University, mette in discussione gli
assunti di base della bullet theory: il ricevente non è un bersaglio che se ne sta passivamente in atte-
sa di essere colpito dal messaggio persuasivo; al contrario, ha considerato il pubblico dei media
composto da consumatori attivi, in grado di scegliere e integrati nel loro ambiente sociale primario.
Di conseguenza la scuola di Lazarsfeld ha studiato le caratteristiche dell’audience e ha messo a con-
fronto influenze dei media e dei rapporti interpersonali su scelte come il voto politico, la moda, i
prodotti da acquistare. Famose le indagini sulla campagna presidenziale del ’40 e sulle donne di
Decatur, piccolo centro dell’Illinois1. Secondo la scuola di Lazarsfeld vale la tesi dei media deboli.
Gli effetti persuasivi sono limitati perché si ha una esposizione selettiva (prestiamo più at-tenzione a
ciò che ci conferma nelle idee che abbiamo già) e perché c’è un flusso di comunicazione a due
stadi: a) il messaggio entra nella comunicazione e poi b) viene diffuso attraverso comunica-zioni
interpersonali, specie ad opera dei leader di opinione (opinion leader), persone che si tengono
informate e controllano le opinioni degli altri.

Negli anni ’60 e ’70 il lavoro della scuola di Lazarsfeld è stato criticato e si è affermata l’idea che
è necessario prendere in esame il contesto storico-sociale dei mass media. Le ricerche classiche
considerano i media alla stregua di un fenomeno naturale da studiare empiricamente. Così ne danno
per scontato il quadro in cui si inseriscono e si vietano ogni possibilità di comprensione più profon-
da del fenomeno e di critica. Già a partire dal secondo dopoguerra questi aspetti sono stati eviden-
ziati dalla teoria critica della scuola di Francoforte, che analizza i media come industria culturale
(Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, 1947). Per la teoria critica i
mass media sono uno strumento di dominio e, allo stesso tempo, un’industria culturale che rispon-
de a logiche economiche. I prodotti dei media sono caratterizzati da standardizzazione, serialità,
comprensibilità immediata. Gli effetti prodotti sulle persone sono negativi e consistono nell’instupi-
dimento (non si esercita il pensiero e ci si perde in un amusement programmato) e nell’asservimento
al consumo.

Negli anni ’60 poi sale alla ribalta la teoria culturologica, inaugurata da Edgar Morin (L’industria
culturale, 1963), per il quale i media rientrano in un fenomeno culturale più ampio e si capiscono
solo prendendo in esame l’insieme della cultura post-moderna, inquadrandoli nel complesso delle
convinzioni, valori, norme, abitudini, stili di vita, modi di pensare delle società contemporanee. Più
che chiedersi se la cultura di massa sia un bene o un male, si cerca di capirla, analizzarla, descriver-
la nel dettaglio e, semmai, valutarne singolarmente i suoi aspetti. Tra le nozioni più fortunate intro-
dotte da Morin c’è quella di immaginario. Si tratta di una sfera di conoscenze illusorie, in cui le co-
se sono trasfigurate fantasticamente: ad esempio, nell’immaginario la gente pensa di stare in un
mondo caratterizzato dal progresso, il benessere, l’uguaglianza, mentre nei fatti cresce il consumi-
smo, non la qualità della vita, le economie sono in crisi e le disuguaglianze sono forti e resistono al-
lo sforzo di superarle.

1
E. Katz e P. Lazarsfeld nel 1945 studiarono l’impatto delle influenze personali e dei media sulle scelte di
vita quotidiana in un campione di 800 donne. I ricercatori concentrarono l’attenzione sui casi in cui le donne
mutavano atteggiamenti e comportamenti in quattro campi: gli acquisti, la moda, gli eventi di interesse pub-
blico e la scelta degli spettacoli cinematografici. Se, ad esempio, le intervistate dichiaravano di essere passa-
te a una nuova pettinatura, si andava a indagare ulteriormente con domande tese a individuare quale parte
avevano avuto nelle decisioni le influenze personali e quali le comunicazioni di massa. Vennero elaborati in-
dici di efficacia, per misurare la forza persuasiva delle diverse forme di influenza (da 0, efficacia nulla a 1,
efficacia massima). Risultò che in tutti e quattro i campi il sistema di influenza più efficace era costituito dai
contatti personali (valori superiori a 0,30), seguiti dalla radio (valori intorno a 0,20) e dai giornali, con indici
in genere assai bassi. Anche tra le donne di Decatur esistevano leader di opinione, per lo più specializzati in
tutti e quattro i campi.
Nel filone culturologico si colloca anche Marshall McLuhan, sociologo canadese (Gli strumenti
del comunicare, 1964). Il suo punto di partenza è la nota tesi che “il medium è il messaggio”, cioè
che per gli effetti sul ricevente non sono decisivi i contenuti, ma il canale, il mezzo di comunicazio-
ne adoperato. Le tecnologie della comunicazione richiedono adattamenti psicologici, a partire dalle
modalità percettive, di conseguenza la loro introduzione e le loro varie tipologie modificano la con-
figurazione psichica degli individui. McLuhan distingue due categorie fondamentali di mezzi di co-
municazione: i caldi (radio, cinema), che saturano il ricevente di informazione, e i freddi (telefono,
TV), che ne trasmettono poca e richiedono che il ricevente intervenga a integrare.
Le critiche hanno avuto il merito di allargare l’orizzonte degli studi sui media. Però hanno il limite
di essere prevalentemente filosofiche e speculative. In seguito si è continuato sulla strada delle ri-
cerche empiriche, ma con una diversa attenzione al contesto storico-sociale.
Allo stato attuale, coesistono filoni diversi per impostazione e metodi, ma soprattutto per argomen-
to privilegiato. Ci sono gli studi sul consumo, sui motivi che portano a preferire questo o quel pro-
dotto, le ricerche sulla ricezione, le elaborazioni mentali dei riceventi, sulla produzione, sulla cultu-
ra dei comunicatori di massa e sull’agenzia culturale dei media e sugli effetti. Circa gli effetti è da
segnalare che si è tornati al concetto di media potenti. Tuttavia, più che interessarsi degli effetti a
breve termine, come l’azione di una campagna pubblicitaria o elettorale, si vanno a studiare gli ef-
fetti a lungo termine, prodotti nel tempo, come quelli che si manifestano sull’organizzazione della
conoscenza della realtà sociale all’interno della società. Un effetto a lungo termine è costituito dagli
scarti conoscitivi (knowlwdge gaps). E’ opinione comune che i mezzi di informazione tendano ad
uniformare il pensiero della gente; questa tesi è stata portata avanti anche negli studi sui media. Ad
esempio, per la teoria della cultura di massa e per la teoria critica la diffusione dei media comporta
la standardizzazione e il livellamento delle conoscenze. Alcune ricerche recenti suggeriscono il con-
trario: l’azione dei media produrrebbe piuttosto differenze tra categorie e gruppi nella conoscenza
della realtà sociale, con disparità nel grado di informazione e nella comprensione delle notizie dif-
fuse.

Secondo il funzionalismo, i mass media assolvono compiti utili per la sopravivenza e il buon fun-
zionamento del sistema sociale; essi non fanno che potenziare le funzioni sociali che la comunica-
zione ha sempre avuto, come la trasmissione del patrimonio socio-culturale, l’integrazione e il con-
trollo dell’ambiente (Laswell, 1948). Lazarsfeld e Merton hanno osservato che i media servono an-
che a conferire uno status (leggere il giornale, ad esempio, è un modo di darsi un’immagine) e a
moralizzare, additando alla pubblica opinione il deviante.

Negli studi sulla produzione molte ricerche sono state condotte sul newsmaking, l’attività con cui
vengono confezionate le notizie. Ci si è interessati a che cosa accade nelle redazioni dei giornali,
dei notiziari radio e dei telegiornali e come si arriva al prodotto finito. Ci si è serviti dell’osserva-
zione partecipante, di interviste e questionari. I primi lavori risalgono al ’50, quando D. M. White si
interessò alla figura del gatekeeper (usciere, guardiano), il giornalista addetto a selezionare – con
scelte sistematiche e criteri precisi - i dispacci d’agenzia. Oggi non si usano più gatekeepers, ma si
tende a selezionare attraverso il lavoro di gruppo, facendo circolare i dispacci in redazione.
Il grosso delle indagini è degli anni ’70 e ’80, nel corso dei quali è stato svolto il grosso del lavoro
empirico sull’argomento. Sono state studiate in particolare le distorsioni (biases) involontarie: le
notizie giornalistiche sono spesso fuorvianti, inducono le persone a distorsioni che fanno arrivare a
conclusioni errate o comunque ingiustificate non supportate da sufficienti ragioni. Tali distorsioni
sono legate all’organizzazione del lavoro giornalistico. Il senso comune tende a pensare che i gior-
nalisti sono tendenziosi. E’ dimostrato però che il più delle volte le notizie fuorvianti sono il prodot-
to della cultura professionale giornalistica, delle routine produttive, le procedure abitualmente se-
guite, della struttura organizzativa delle redazioni, con la loro composizione e le loro reti informa-
tive, già preordinate.
Mass-media: studi e ricerche empiriche

XIX XX secolo: anni ‘20/30: primi studi empirici


critica della cultura di massa F.H.Lund, H. Blumer, H. D. Laswell (=> Mead, Dewey, Freud)
Tocqueville, Nietzsche, bullet theory teoria della pallottola / dell’ago ipodermico
Ortega Y Gasset, media potenti strumenti di persuasione riceventi passivi e inermi
Walter Lippman (Chi? Che cosa? Attraverso quale canale? A chi? Con quale effetto?)
(Public opinion, 1922)
periodo classico (anni ’30/’70)
scuola di Yale - psicologica vs scuola di Paul Paul F. Lazarsfeld (1901-1976)
Carl Hovland (1912-1961) Columbia University - sociologica
persuasione dei media in condizioni vs bullet theory: ricevente: consumatore attivo
controllate di laboratorio: consapevole, in grado di scegliere
fonte, tipo di messaggio, pubblico studio delle caratteristiche dell’audience
media deboli esposizione selettiva (opinioni pregresse)
funzionalismo => mass media: comunicazione a due stadi:
Laswell, 1948: buon funzionamento del sistema sociale a) il messaggio entra nella comunicazione
Lazarsfeld/Merton: conferire uno status e moralizzare b) si diffonde (modelli di rif. - opinion leader)

anni ’60 e ’70 ritorno alla teoria dei media potenti


importanza del contesto storico-sociale vs Lazarsfeld
teoria critica - Scuola di Francoforte (fenomeno “naturale”)
M.Horkheimer -T. W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, 1947
mass media: strumento di dominio con logiche economiche
standardizzazione, serialità, comprensibilità immediata
effetti negativi: amusement programmato=> instupidimento

teorie culturologiche

EdgarMorin (L’industria culturale, 1963) Marshall McLuhan (Gli strumenti del comunicare, 1964)
media > fenomeno della cultura post-moderna “il medium è il messaggio” canale vs contenuti
valori norme abitudini stili di vita modi di pensare modifica della configurazione percettiva/psichica degli ind.
immaginario => conoscenze illusorie tipologie dei media
trasfigurazione positiva della propria condizione caldi (radio, cinema) (telefono, TV) freddi
saturi => ricevente => da intregrare

teorici della cultura di massa/teoria critica: ‘knowlwdge gap’ theory


effetti a lungo termine => conoscenza della realtà sociale (‘70 Tichenor, Donohue, Olien)
standardizzazione/livellamento delle conoscenze vs scarti conoscitivi: disparità
nell’informazione/comprensione
newsmaking
attività con cui vengono confezionate le notizie
(osservazione partecipante interviste questionari)

anni ’50: D. M. White: gatekeeper (usciere, guardiano) anni ’70 e ’80: distorsioni (biases) involontarie
giornalista addetto a selezionare i dispacci d’agenzia
cultura professionale giornalistica
routine produttive procedure abituali
2000:media digitali struttura organizzativa delle redazioni
“fake news” reti informative preordinate
Mass-media, nuovi media e educazione

Nella cultura contemporanea, tecnologica e multimediale, mass-media e nuovi media influiscono


potentemente sull’educazione sociale e sulla visione del mondo dei singoli individui. Storicamente i
media hanno assolto, nell’ultimo secolo, la funzione di indirizzare le scelte verso comportamenti di
consumo o verso l’adesione a simboli, modelli, valori e regole di identità e di partecipazione socia-
le, divenendo spesso - nei regimi totalitari come in quelli democratici - strumenti fondamentali per
la creazione del consenso politico. Questo stato di cose suscita problemi complessi, in parte causati
dalla velocità con cui i media si trasformano: in tale scenario complesso si colloca il ruolo dell’edu-
cazione, che prevede la possibilità di formare a un uso consapevole e critico dei media.

Scopi e interpretazioni della comunicazione di massa


Umberto Eco afferma, nel suo libro Apocalittici e integrati (1964) che la nascita dell’attuale civiltà
di massa, collegata all’allargarsi dell’area di consumo delle informazioni, corrisponde a una situa-
zione in cui «tutti gli appartenenti alla comunicazione diventano consumatori di una produzione in-
tensiva di messaggi a getto continuo». I mass-media sono i mezzi che consentono la diffusione di
massa di questi messaggi. Eco individua gli atteggiamenti fondamentali dell’opinione pubblica: da
un lato gli “apocalittici” che sottolineano l’irrimediabile negatività dei media per la crescita umana;
dall’altro gli “integrati” per i quali i media hanno apportato molti più contributi positivi che negativi
al progresso e al benessere dell’umanità. A queste due prospettive si è collegata una massa enorme
di studi, con profondi punti di contatto anche con le riflessioni pedagogiche.
Quella dei media è comunque una realtà in continuo movimento che tende a saturare sempre più il
mondo in cui viviamo. Ai ritmi vertiginosi di sviluppo delle capacità di telecomunicazione e delle
tecnologie informatiche corrisponde oggi la tendenza ad unire insieme i diversi media, consentendo
di scambiare dati e programmi all’interno di reti globali, comunicare con istituzioni e persone lonta-
nissime, dando il via a quella che Gianni Vattimo ha definito la «società trasparente».
L’ ‘educazione’ sociale fornita dai media, grazie alle dimensioni sempre più massicce della sua pre-
senza, può dunque essere particolarmente potente e pervasiva. Si tratta però di un’educazione, nella
maggior parte dei casi, informale e involontaria, oppure rivolta al condizionamento piuttosto che al-
la formazione della persona ad una visione del mondo indipendente e responsabile.

Mass-media e new media

Si sono affermate nel corso del tempo diverse tecnologie mediatiche: le prime a svilupparsi sono
state quelle mass-mediali – come la stampa, la radio, la televisione – il cui aspetto comune è la
diffusione delle informazioni da un’unica sorgente verso un pubblico numeroso e disperso sul
territorio. Successivamente si sono aggiunte nuove categorie di media, fra le quali possiamo
elencare:
- i self media, come il registratore o il videoregistratore, dai quali si possono ottenere ripro-
duzioni fedeli di documenti sonori o video. Dopo aver attraversato diverse trasformazioni
tecnologiche connesse sia alla modalità di registrazione, sia ai supporti di registrazione, sia
ai supporti di destinazione dei documenti (nastro, audio- o video-cassetta) sono stati del tut-
to soppiantati dalla digitalizzazione (CD, DVD, pendrive, etc).
- i media personali, come il telefono o il fax, oggi ormai al termine della loro funzionalità
analogica e assorbiti nei nuovi media digitali;
- i personal media, rappresentati dai Pc, compresi i portatili;
- i telemedia, la famiglia di media più recente, che ha avuto la massima diffusione attraverso
l’implementazione a vari livelli dei Pc con i media interpersonali. Si tratta di nuove forme di
media che sfruttano la rete internet per sviluppare connessioni peer to peer. I telemedia sono
veicolati da dispositivi digitali di difficile classificazione: è infatti molto problematico
considerare un cellulare di oggi come un telefono1.

I linguaggi dei media: cinema e informazione televisiva

I media si caratterizzano attraverso una specificità di linguaggi, i quali, nella loro varietà, vanno
adeguatamente analizzati perché se ne possano cogliere le notevoli implicazioni educative.
Lo statuto del cinema, all’interno dei media, è senza dubbio di grande rilevanza dal punto di vista
artistico. Le valenze educative del cinema sono evidenti, sia come materiale di costruzione dell'id-
entità che come luogo di relazione e riflessione sul proprio contesto sociale e culturale. Attraverso
la partecipazione emotiva e la costruzione dell’immaginario infantile, esso può ampliare gli oriz-
zonti del possibile e condurre gradualmente dalla dimensione ludica ad una più profonda e matura
consapevolezza di sé nel rapporto con l’ “altro”. Cinema e televisione sono formidabili produttori
di “storie” di fantasia: film, soap opera, cartoni, sceneggiati sono altrettanti contenitori di racconti e
personaggi con cui bambini, adolescenti, adulti possono identificarsi e da cui possono acquisire mo-
delli di comportamento.
D’altra parte, perché si faciliti nel bambino la comprensione del fatto che i messaggi mediatici sono
dei costrutti e non il riflesso della realtà, è auspicabile attivare un percorso di “media education”:
un’attività, educativa e didattica, finalizzata a sviluppare nei giovani una informazione e compren-
sione critica circa la natura e le categorie dei media, le tecniche da loro impiegate per costruire mes-
saggi e produrre senso, i generi e i linguaggi specifici.
Cinema e fiction televisiva possono, ad esempio, creare l’illusione, attraverso il montaggio alterna-
to o parallelo, che due eventi si verifichino in contemporanea in luoghi differenti. Ciò che nel cine-
ma e nella fiction in genere è un artificio funzionale ed usuale per la costruzione dell’intreccio e gli
snodi narrativi, può divenire ingannevole quando esso compaia in contesti diversi, come l’informa-
zione televisiva: essa, infatti, è caratterizzata da un’immagine tecnica che mescola notizie e inter-
pretazioni. Può quindi produrre, per chi non vuole ‘perdere tempo’ ad analizzare il lessico o verifi-
care le fonti, comunicazioni inavvertite e l’illusione dell’informazione oggettiva. Quello che appare
nel medium televisivo come informazione - per quanto buona - non è mai la realtà, bensì, nella
maggior parte dei casi, una semplificazione degli eventi e la loro offerta all’interno di forme di rac-
conto stereotipate. Questa sostanziale falsificazione spesso crea dei “modelli” e dei “personaggi”,
piuttosto che riportare l’autenticità del fatto, risultando quest’ultima secondaria in termini di spet-
tacolo televisivo.

Il computer e le reti in educazione

Sono ormai circa tre decenni che i computer hanno iniziato ad avere una diffusione di massa e un
uso come strumenti didattici, ma il dibattito sugli effetti di questa rivoluzione è ancora notevolmen-
te aperto. Sommariamente, secondo la posizione “pessimistica”, assisteremmo per questo a una con-
trazione dello sviluppo sociale, a una riduzione dei movimenti fisici, a un’educazione “virtuale” che
si distaccherà sempre più dagli apprendimenti concreti; gli “ottimisti”, al contrario, pensano alle en-
ormi possibilità che il computer offre, alle “scuole cyberspaziali” dove ciascuno può compiere per-
corsi virtuali assolutamente individualizzati di apprendimento, senza per questo cessare di frequen-
tare le scuole “reali” in cui svolgere attività fisiche e incontri sociali.
Secondo Neil Postman, uno degli interpreti più “apocalittici” dell’influsso dei media sulla nostra
cultura, quest’ultima è incapace di riconoscere le mutazioni antropologiche prodotte da media come

1
In realtà per definire i nuovi media è necessario aggiungere sempre la parola “anche”, per cui i cellulari sono anche
dei telefoni, ma anche dei mezzi di navigazione e di collegamento ai social network; allo stesso modo sono anche delle
videocamere e delle fotocamere digitali. La caratteristica principale di queste tecnologie consiste proprio nella loro
capacità di ibridarsi con un fine eminentemente relazionale.
TV e computer, introdotti nella scuola come nuove opportunità didattiche senza rendersi conto che
la loro presenza implica una vera e propria ‘guerra psichica’ all’interno di coloro che apprendono.
La ‘guerra’ è provocata dal contrasto fondamentale esistente tra le modalità di apprendimento tipi-
che della scuola, incentrate sulla parola scritta e sull’oralità della lezione, e quelle dei nuovi media,
del tutto diverse. Secondo Postman la scuola rappresenta dunque un «contropotere» rispetto all’in-
flusso dei media. In realtà, l’atteggiamento estremo di Postman non corrisponde a quello del mag-
gior numero di esperti, sempre più propensi a valutare in modo più concreto gli effetti specifici che
computer e nuovi media possono produrre in ambiente scolastico. A tale atteggiamento “realistico”
e “pragmatico”, che tende ad emergere come tendenza predominante dopo anni di diffidenza e
sospettosità diffusa, possono affiancarsi, come atteggiamenti tuttora presenti:
- il “romanticismo tecnologico”, che vede nel computer un medium “naturalmente” forma-
tivo, per cui la semplice interazione con esso apporterebbe benefici effetti cognitivi;
- la posizione di chi ritiene che la scuola, in nome della difesa della qualità umana della cul-
tura, dovrebbe essere, perlomeno, cauta e selettiva nell’introduzione delle tecnologie infor-
matiche, implicanti il rischio di spersonalizzazione dell’insegnamento;
- la posizione di chi pensa che l’informatizzazione della didattica possa condurre a nuove di-
suguaglianze educative, non solo tra le scuole attrezzate adeguatamente e quelle che non lo
sono, ma anche tra gli alunni stessi, partendo dall’assunto che un uso pedagogico poco con-
sapevole del computer e dei nuovi media a scuola possa giovare principalmente solo agli
alunni già avvantaggiati.

Resta però il fatto che, oltre ad essere un importantissimo ‘materiale strutturato’ per l’apprendi-
mento, dotato di notevoli risorse autocorrettive, il computer è uno strumento altamente interattivo e
ricco di potenzialità, con caratteristiche di dinamicità e programmabilità ormai imprescindibili.
L’uso educativo del personal computer ha seguito, a partire dal momento della sua nascita negli
anni ottanta, l’approccio skinneriano dell’istruzione programmata. Tale approccio, denominato CAI
(Computer Assisted Instruction) si vale del computer come “teachin machine” (macchina per inse-
gnare) attraverso sequenze semplici e sistematicamente rinforzate di apprendimento.
Secondo Seymour Papert, inventore del linguaggio di programmazione Logo2, occorre ripensare
globalmente il processo di apprendimento mediato dal computer che «potrebbe potenzialmente de-
tecnicizzare l’insegnamento». Papert ritiene che la scuola tenda a negare la naturalità dell’apprendi-
mento e lo riduca a un tecnicismo in cui l’insegnante diventa lo specialista. Il potenziale rivoluzio-
nario del computer risiede in un approccio didattico definibile PET (Progressive Educational Tech-
nology). Alla base del PET sta l’idea che un uso diretto del computer fornito di un linguaggio facile
da padroneggiare per il bambino permetta a quest’ultimo di avere un individuale itinerario di pro-
grammazione e apprendimento, direttamente connesso con il proprio ambiente, la propria personali-
tà, la propria esperienza di vita.
Particolari riflessioni sono state sviluppate sul ruolo positivo dei computer nell’educazione lingui-
stica: è stato rilevato come, ad esempio, le tastiere e la videoscrittura motivino alla scrittura e facili-
tino la revisione, il controllo, la manipolazione degli scritti mediante giochi di stampa, di composi-
zione tipografica, di comprensione, di permutazione stilistica, di produzione di storie o di apprendi-
mento di regole.
In ogni caso i mass-media contemporanei mutano profondamente il modo in cui i bambini appren-
dono: l’approccio conoscitivo tradizionale nella scuola è infatti incentrato sulla parola (parlata e so-
prattutto scritta) che mette in gioco determinate forme logiche di immagazzinamento dell’esperien-
za. Per contro, nell’apprendimento televisivo o informatico un ruolo preponderante è svolto dall’im-
magine, che fornisce un apprendimento più immediato e coinvolgente, “per immersione”, in cui la
dimensione analogica prevale su quella logica.
2
Il linguaggio di programmazione Logo si basa un un interfaccia grafico programmabile con sempilci comandi dai
bambini. I bambini infatti possono far muovere sul video del PC una tartaruga che traccia figure geometriche attraverso
le indicazioni fornite dagli utenti con determinati tasti.
Inoltre, la possibilità di “navigare” senza competenze tecniche particolari, consente di attingere, con
percorsi totalmente personalizzati, a un’enorme massa di conoscenze, prima disponibili solo a spe-
cialisti e studiosi. Il rischio principale, a questo riguardo, è lo zapping informatico: bambini di otto-
dieci anni, “nativi digitali”, dimostrano una notevole abilità nel navigare sul web o su un cd-rom di-
dattico, ma lo fanno come se si trattasse di un videogioco, percorrendo siti o nodi in modo casuale,
lasciando inesplorate le parti più complesse e “noiose” e ritornando più volte su quelli più attraenti.

I videogiochi

Pur imparentato con gli altri tipi di media dei quali riprende i vari linguaggi, il videogioco è un
medium che ha avuto un’immensa diffusione dagli anni ottanta in poi presso il pubblico giovanile,
unico per le sue caratteristiche di interattività. Secondo lo psicologo Francesco Antinucci, i video-
giochi sono «oggetti complessi e molto interessanti dal punto di vista cognitivo».
I videogiochi potrebbero essere classificati in “sensomotori” (i giochi in cui l’elemento centrale è la
destrezza e la rapidità nell’uso dei pulsanti e del joystick per colpire bersagli o guidare mezzi in mo-
vimento), “operatori” (dove vengono simulate attività, come la costruzione di una città, in cui oc-
corre, attraverso calcoli mentali, ottimizzare le risorse a disposizione) e “simbolici” (incentrati sul
fatto di vivere delle avventure fantastiche in cui entrano in gioco il coraggio, l’intuizione e la creati-
vità, la capacità di fare scelte opportune secondo la logica profonda del gioco).
Tutt’e tre le tipologie possono consentire al bambino di esercitare competenze cognitive fonda-
mentali e possono rappresentare una buona introduzione al mondo della tecnologia informatica per
le loro caratteristiche di interattività, individualità e flessibilità. D’altronde non può essere negata la
potenzialità negativa dei videogiochi (specie di quelli di tipo sensomotorio) di produrre forme di
stress da sovrastimolazione percettiva, oltre che comportamenti di isolamento relazionale e dipen-
denza simili a quelli indotti da altri media molto coinvolgenti.

Il libro a scuola: la letteratura per l’infanzia e il fumetto

Quanto ai media più tradizionali, basati sulla parola e sull’immagine fissati su carta, come il libro,
il più “nobile” di essi, il timore di una scomparsa provocata dal dominio dei media elettronici e dal-
l’ampia diffusione di e-book e e-reader, viene combattuto dal valore permanente delle sue caratte-
ristiche “speciali”. Isaac Asimov ha compiuto una celebrazione delle caratteristiche uniche del libro
come medium, affermando la sua difficile sostituibilità grazie alla durata nel tempo, all’utilizzo
senza l’utilizzo di fonti energetiche, alla flessibilità e velocità d’uso.
Secondo studiosi come Ong, McLuhan, Postman, la “cultura del libro” (che ha sostituito l’orecchio
con l’occhio) ha condotto con sé il passaggio da un atteggiamento psichico orale e intuitivo a uno
visivo e razionale. Le conseguenze individuate da questi studiosi sono note: individualizzazione del
pensiero e del sapere, primato della sequenzialità rispetto alla globalità dell’intuizione. I media
basati sull’audiovisione permettono invece, secondo McLuhan, un contatto molto più profondo e
simultaneo tra culture analfabete e post-alfabete. Essi pongono nella condizione di una ricezione
basata sull’ “orecchiocchio” che restituisce una parte dele dimensioni orali del «villaggio globale»
in cui la TV svolge la funzione di medium “tattile-uditivo”.
Nella ricerca di alternative all’invasività dei nuovi media e del medium televisivo , si è giunti in
tempi recenti a una nuova valorizzazione della letteratura per l’infanzia. Ciò che caratterizza questa
produzione, secondo il pedagogista Franco Cambi, è l’appartenere contemporaneamente all’univer-
so del racconto e dell’attività educativa, con i tre obiettivi dell’ ‘iniziazione’, della fantasia e della
prospettiva pedagogica, simboleggiati rispettivamente dal Pinocchio di Collodi, dalle opere di Ro-
dari e da Cuore di De Amicis (F. Cambi, Letteratura per l’infanzia: teoria e storia, 1995).
Lo scenario contemporaneo mostra una ricca varietà di offerta in cui si incrociano le esigenze più
differenti (commerciali, pedagogiche, politiche) con libri di poesia espressiva o ludica, racconti e
romanzi che seguono i generi adulti, libri-gioco e fumetti. Lo stesso oggetto-libro si è via via diver-
sificato e arricchito nei formati, nei materiali, nelle illustrazioni. Il valore del libro sta anche, secon-
do molti educatori e pedagogisti, tra cui Mario Lodi, nella possibilità di essere prodotto e fruito in
modo più creativo dei media elettronici. Secondo Lodi, la scuola gioca un ruolo fondamentale per
fare sì che il bambino, piuttosto che fruitore passivo,sia protagonista creativo dei messaggi: ciò si-
gnifica, fra l’altro, portare la tipografia in classe, ossia fare in modo che la scrittura, allo stesso tem-
po individuale e collettiva, produca dei testi dotati di contenuti significativi e in grado di essere so-
cializzati con altri gruppi. Nascono così veri e propri libri, tra cui i famosi Cipì e Bandiera, prodotti
dalle classi elementari di Mario Lodi e in seguito pubblicati.
Il dibattito sulla fruizione dei media presso i giovani tende spesso a trascurare che le analisi sulla
non-lettura di bambini e ragazzi potrebbero essere modificate da una valutazione più attenta dei
prodotti che hanno maggior successo presso questo tipo di pubblico.
Soprattutto è il caso del fumetto, fino a pochi anni fa trascurato o condannato dai pedagogisti e
dagli educatori in genere (assieme ai libri horror e alla letteratura “rosa”) per la sua banalità o ad-
dirittura per la sua diseducatività. Non è invece casuale che studiosi dell’educazione come Antonio
Faeti o Gianni Rodari ne abbiano al contrario riconosciuto l’importanza e le potenzialità positive
dal punto di vista educativo. A una osservazione più attenta, si nota infatti come il fumetto implichi,
esattamente come qualsiasi testo narrativo, libro o film, una vasta produzione estremamente diver-
sificata al proprio interno, nella quale coesistono raffinati prodotti artistici, peraltro spesso ricchi di
contenuti ‘alti’, assieme a materiali nettamente orientati ad un consumo spicciolo. Ancora una volta
viene dunque posto in luce l’elemento fondamentale dell’educazione a un consumo selettivo e criti-
co, unico approccio che consente ai giovani di fruire della “loro” letteratura senza inutili demoniz-
zazioni pedagogiche. Occorre ricordare che il fumetto riesce ad esprimere con grande efficacia una
serie di temi vicini alla sensibilità infantile e/o giovanile, inserendoli in strutture narrative facilmen-
te accessibili, dove operano personaggi nei quali è possibile, spesso, identificarsi. Allo stesso tempo
la struttura narrativa del fumetto ha caratteristiche particolari di grande rilevanza cognitiva, in quan-
to, come “racconto per parole e immagini”, esso propone, come afferra Luca Raffaelli, una «lettura
musicale», sulla base di una serie di quadri in sequenza (le vignette) il cui “ritmo” di lettura viene
stabilito dal lettore stesso.

La fruizione della TV nell’età evolutiva

È stato sostenuto che la fruizione incontrollata della TV da parte dei bambini produce già in età
prescolare una vera e propria modificazione dello sviluppo. I bambini, spesso messi in condizione
di seguire da soli le trasmissioni, si “adultizzano” precocemente, abituandosi a seguire narrazioni
complesse e a ricevere stimoli emotivi “forti”. Essi non hanno però un referente reale della vita
adulta che vedono rappresentata: si crea un rapporto sostitutivo fra la persona, il mondo reale e la
TV. Il mezzo televisivo diventa così compensazione delle carenze affettive, della comunicazione e
della presenza interpersonale: sostituisce il dialogo familiare e le emozioni possibili in un rapporto
reale. Inoltre, le trasmissioni televisive presentano spesso caratteri intrinsecamente negativi: inco-
raggiano attraverso la pubblicità e i modelli comportamenti consumistici, spettacolarizzano violenza
ed erotismo, mescolano con indifferenza vero e finto, tragico e divertente; a questo si unisce la sem-
pre più diffusa possibilità di fruire, fin dalla seconda infanzia, di messaggi destinati ad un pubblico
adulto, i cui contenuti pornografici o di violenza estrema tendono ad avere effeti psicologici consi-
stenti. I bambini risentono anche di una serie di effetti fisici, dallo stress da eccessiva stimolazione
alla passività del corpo (che in molti casi, associato all’eccesso di cibi consumati durante la visione,
induce obesità). Vanno incontro, inoltre, a una scarsa esperienza fisica della realtà, e a difficoltà di
apprendimento e percezione, possono aumentare i comportamenti aggressivi, per emulazione dei
modelli televisivi, possono essere pesantemente condizionati gli stili di vita.
Occorre però ricordare che una parte degli studiosi che si occupano di questo argomento ritiene che
il rapporto tra bambini e TV non debba essere descritto solo come negativo e a senso unico: piutto-
sto è necessario distinguere tutte le variabili e le circostanze in gioco, riconoscendo anche che i
bambini sono meno “indifesi” e “plasmabili” di quanto sembrino.
Il problema pedagogico dei media ha comunque un livello morale e politico, lo stesso che fa so-
stenere a personalità della cultura come Karl Popper la necessità di una «patente per fare la TV».
Diviene così centrale il ruolo degli adulti, e in primo luogo della famiglia, per un uso corretto della
TV da parte dei bambini. Come molte ricerche negli ultimi vent’anni hanno dimostrato, per molti
bambini in età scolare e prescolare - soprattutto per le fasce di popolazione meno abbiente e con mi-
nor accesso ai new media - la televisione è un’amica il cui menu quotidiano accompagna e riempie
la giornata. Una parte, spesso preponderante, della visione avviene da soli: la televisione è anche
un’ottima baby sitter. I genitori, infine, tendono a far assistere ai bambini, nelle fasce di uso comu-
ne dell’apparecchio, ai programmi pensati per un pubblico più maturo, limitandosi a “glissare” in
vari modi quando contengono scene imbarazzanti e violente. In realtà, anche molti dei prodotti (te-
lefilm, cartoni animati) ritenuti dagli adulti adatti ai bambini, presentano contenuti che richiedono di
essere elaborati. I bambini tendono, esattamente come gli adulti, a identificarsi con i personaggi, ma
hanno meno barriere all’assorbimento delle visioni del mondo e dei comportamenti di questi model-
li. Possono, ad esempio, essere attratti dalla violenza, che sullo schermo non viene solo raccontata,
ma direttamente rappresentata in modo imitabile; oppure elementi ricorrenti, come vari tipi di pau-
ra, lutti famigliari, ecc, possono essere avvertiti come tristi e angosciosi senza che si abbiano a di-
sposizione sbocchi (forme di rappresentazione, dialoghi con gli adulti) che ne consentano il supera-
mento. Di fronte a questa situazione, l’esperto di comunicazione sociale Gianfranco Bettetini parla
di “salute televisiva”, proponendo allo spettatore di abbandonare ogni atteggiamento consumistico
per giungere a un atteggiamento di “lettura consapevole” e quindi selettiva, oltre che interpretativa.
In questo senso, secondo Bettetini, un importante contributo è offerto dai nuovi media, concepiti e
strutturati su una interattività e una selezione personale reali. Tuttavia la validità di questa offerta è
proporzionata alla capacità critica e all’autonomia di scelta del singolo spettatore; caratteristiche
che possono essere sviluppate solo con un’educazione mirata.
Lo psicologo Guido Petter ha sostenuto la necessità di superare sia le posizioni “apocalittiche” che
quelle “integrate”. La televisione, come il PC o il tablet, è presente in tutte le case, con più apparec-
chi che consentono una visione individualizzata, piace ai bambini, diffonde informazione e cultura
con un linguaggio facilmente comprensibile ed assimilabile. Non si può quindi pensare di risolvere i
problemi semplicemente spegnendola o demonizzandola; essa non essere né esaltata ne utilizzata in
modo acritico. Petter fornisce a questo proposito una serie di consigli ai genitori per «limitare i pos-
sibili effetti negativi di un’esperienza televisiva compiuta in modo sregolato e per rafforzarne quelli
positivi». I principali sono:
- vedere un certo numero di programmi insieme ai bambini, osservare le loro reazioni, inter-
venire per introdurre una lettura critica dei linguaggi e dei messaggi e una discussione in cui
essi possano elaborare consapevolmente quanto hanno visto;
- abituare se stessi e i bambini a scegliere, con l’aiuto di apposite guide, spettacoli determinati
in moment precisi, evitando la visione “a flusso continuo” e lo “zapping”;
- imparare e far imparare ad analizzare i palinsesti, creando dei criteri-guida per le scelte e
delle aspettative precise nei confronti dei programmi;
- proporre letture collegate con spettacoli televisivi, insegnando quindi al bambino a riformu-
lare quanto ha visto in un linguaggio più elaborato;
- utilizzare la videoregistrazione per smontare, confrontare, collezionare criticamente pro-
grammi.
La pubblicità e la sua analisi

La pubblicità, nella sua forma fondamentale, è la comunicazione della disponibilità di una merce al
pubblico che può acquistarla. La diffusione della comunicazione pubblicitaria è avvenuta soprattut-
to nella seconda metà del Novecento, con l’espansione mondiale di un’economia incentrata sul con-
sumo di massa di ogni tipo di prodotto, e la presenza dei mass-media in grado di raggiungere la
quasi totalità delle persone. Parallelamente, i messaggi pubblicitari sono divenuti sempre più elabo-
rati, spettacolari, persuasivi, coinvolgenti, seduttivi, prodotti su misura a partire dalle caratteristiche
del settore di pubblico cui si rivolgono grazie ad approfondite ricerche di mercato. Una svolta fon-
damentale è stata data dall’enorme aumento della pubblicità televisiva, costituita da spot.
Gli spot sono forme di comunicazione molto concentrate nel tempo, ma anche molto complesse:
devono infatti condurre un potenziale pubblico a conoscere qualcosa, ad apprezzarlo e ad agire di
conseguenza (acquistare a far acquistare un prodotto, nella maggior parte dei casi) senza annoiarsi e
cambiare canale. Come qualunque spettacolo televisivo, sono costituiti da una sequenza in cui sono
presenti diversi codici: immagini emotivamente ricche, azioni, parole (parlate e scritte) che trasme-
ttono slogan, sfondi sonori e musica che contiene i jingles, memorizzabili con estrema facilità da
adulti e bambini. Il tutto può dar luogo a diversi tipi di storia, basati sulla vita quotidiana, su situa-
zioni comiche, su situazioni “da favola”, oppure a meccanismi privi di trama, dove il montaggio
propone un messaggio secondo modalità non-narrative. Gli spot - straordinari contenitori di stili,
luoghi comuni, frammenti di altri spettacoli, stereotipi sociali presentati allo scopo di rafforzare in
vari modi il messaggio - raggiungono massicciamente i bambini, o sono a loro direttamente indi-
rizzati. Infatti gli esperti di comunicazione pubblicitaria hanno scoperto, già da lungo tempo, che i
bambini sono straordinari consumatori: sebbene privi di denaro, spingono gli adulti ad acquistare
prodotti esplicitamente indirizzati a loro ma anche beni, come le automobili, che sono considerati di
esclusivo interesse dell’adulto.
I bambini tendono a memorizzare gli spot più di qualsiasi altro messaggio televisivo, ciò perché si
identificano con le situazioni proposte (specie se nello spot sono presenti altri bambini, usati anche
per il loro grande potere di richiamo emotivo sull’adulto), perché gli spot presentano una visione
del mondo positiva e rassicurante, situazioni eccitanti, tenere, divertenti, sorprendenti, strutture faci-
li da memorizzare come i jingles. Da un punto di vista educativo, questo porta con sé molti rischi:
i bambini possono acquisire una visione della realtà semplificata e distorta, scarsa capacità di con-
centrazione, scarsa disponibilità a dilazionare nel tempo la soddisfazione per il raggiungimento di
un risultato (negli spot l’ “happy end” è immediato), una socializzazione troppo precoce e una serie
di comportamenti adulti. Varie ricerche hanno dimostrato che la comprensione degli spot cambia
col cambiare dell’età: solo verso gli undici anni, infatti, la maggioranza dei bambini identificano
correttamente gli spot come messaggi a scopo commerciale e persuasivo, mentre intorno agli otto
prevale l’idea di una funzione informativa. Ciò non toglie che anche adolescenti o adulti - sebbene
dimostrino maggiore senso critico e un gradimento via via più selettivo - siano sedotti dalla bellezza
degli “spot”, divenuti negli ultimi cinquant’anni una delle principali forme di “arte applicata”.
Dato il grande potere esercitato dagli spot sui bambini, esistono ormai da tempo, in tutta Europa,
normative e codici di autodisciplina per limitare i tempi, i modi e i contenuti della pubblicità a loro
destinata o alla quale possono essere esposti. Secondo gli esperti, i più piccoli, che non sono ancora
in grado di comprendere completamente l’esistenza e la specificità del messaggio pubblicitario, do-
vrebbero essere limitati il più possibile nella sua visione, mentre a partire dai sei anni è possibile
rafforzare le capacità critiche, insegnando a decodificare i vari aspetti del messaggio, a riconoscere
le intenzioni del pubblicitario, a distinguere tra mondo reale e mondo rappresentato dalla pubblicità.
I media e la scuola

Per quanto riguarda l’utilizzo dei media nella scuola, gli studiosi si dividono in tre posizioni: la pri-
ma include il pensiero di Papert e dei suoi sostenitori, che spingono verso una maggiore introduzione
dello studio dei media e del loro uso didattico nella programmazione scolastica, la seconda riprende il
pensiero di Postman, adducendo la necessità che la scuola rimanga immune dall’uso didattico dei me-
dia, e la terza è la posizione che cerca di conciliare le altre due, indicando le potenzialità dei nuovi
mezzi, ma sottolineando il rischio che i processi di apprendimento ne risultino banalizzati.
Secondo Neil Postman, sistema scolastico e mass-media, in quanto «sistemi di apprendimento to-
tale» creano un “duopolio” in cui si contendono l’educazione dei giovani. Ciò avviene sulla base di
una opposizione strutturale per cui alla cultura scientifico-tecnologica, alla linearità e razionalità dei
discorsi e dell’impegno intellettuale lungo, analitico e programmato della scuola si contrappongono
la cultura iconico-orale, il flusso discorsivo di tipo analogico e l’immediatezza emotiva dei media.
Pur senza aderire a questa contrapposizione, è evidente che i media hanno sconfitto la scuola e la
cultura tradizionale nel suscitare l’interesse del pubblico giovane o adulto: le informazioni conden-
sate o allargate in contesti differenziati, la possibilità di scegliere assecondando gusti e interessi per-
sonali fanno dei media tradizionali, ma soprattutto dei nuovi media, delle “guide” straordinarie, ca-
paci di fornire nozioni con la massima efficacia. Il loro proporsi come agenzie educative extra-sco-
lastiche deve essere considerato come un dato di fatto. Ormai l’epoca in cui si guardava al mondo
dell’extrascuola come a qualcosa di secondario rispetto al luogo consacrato della trasmissione cul-
turale è molto lontana e il rapporto fra l’istituzione educativa e gli scenari educativi esterni – l’edu-
cazione cosiddetta informale – deve essere di nuovo definito. La scommessa pedagogica della scuo-
la consiste, perciò, nello spostamento dalle nozioni alle competenze, dall’informazione alla rifles-
sione e al dialogo inteso come confronto critico, dai contenuti al loro apprendimento e al loro uso.
L’ “insegnare a imparare”, slogan dominante nel pensiero pedagogico del ‘900, diviene sempre più
lo spazio verso cui la scuola viene fatalmente indirizzata dal ruolo dei media nella società contem-
poranea.
Peraltro l’educazione scolastica all’utilizzo didattico dei media rende necessario che gli insegnanti
sviluppino un “lessico comune” e un dialogo con i propri alunni basato su un’effettiva conoscenza
di programmi, software etc. da essi più apprezzati e utilizzati, al di là del giudizio sul loro valore
educativo effettivo. È possibile ipotizzare degli itinerari didattici che abbiano come principale obiet-
tivo il passaggio da una fruizione passiva ad un uso interattivo. Ciò implica un’ “attivizzazione”
dell’approccio al mezzo, ma anche lo sviluppo della capacità di descrivere, analizzare, selezionare,
contestualizzare, collegare e interpretare i messaggi.
Ovviamente oggi non è più sufficiente un’educazione alla fruizione dei media ‘tradizionali’, ma
occorre anche un’educazione attraverso i media, in un’epoca come la nostra segnata dalla diffusio-
ne planetaria media personalizzati e ad uso individuale. La scuola deve dunque evolversi verso una
vera e propria didattica multimediale.
Afferma Patricia Greenfield che «ciascun mezzo, a causa del suo codice particolare e delle sue
Caratteristiche tecniche, accentua tipi di informazione diversi (…). Pertanto informazioni sullo
stesso argomento, provenienti da più media, ne consentono l’apprendimento da ottiche diversifi-
cate». Secondo la studiosa americana, sarebbe dunque desiderabile una didattica capace di sfrutta-
re al meglio e in modo differenziato le peculiarità di ciascun medium: pertanto, ad esempio, ci si
può valere della parola scritta per far soffermare gli alunni sui fatti relativi a un dato argomento,
mentre i sentimenti e le emozioni dei protagonisti possono essere meglio colti mediante il cinema
o la fiction televisiva. In particolare una didattica multimediale può consentire una elevata indivi-
dualizzazione dei curricoli: un obiettivo fondamentale per la scuola del terzo millennio.
Intelligenze digitali

La digitalizzazione ha trasformato in modo radicale il mondo della comunicazione, al punto che i


media digitali sono definiti anche con il termine new media. La scuola ha la necessità di collocare
l’uso dei media digitali all’interno di obiettivi formativi che comprendono la contestualizzazione e
l’elaborazione critica delle informazioni, senza però togliere significato all’azione innovativa delle
nuove generazioni – i cosiddetti “nativi digitali” – le quali manifestano modalità di funzionamento
intellettivo inedito.
A questo proposito, un elemento di novità è stato introdotto da Howard Gardner, il quale consi-
dera una molteplicità di intelligenze non riconducibili ad un modello funzionale unico; tra esse anno-
vera un’intelligenza digitale, dalla quale dipendono le abilità d’uso dei dispositivi tecnologici.
Si tratta – per lo psicologo americano – di una competenza complessa, nata dall’intreccio di diversi
sottosistemi funzionali: memoria, abilità di percezione eroica e soprattutto iconica: Secondo Gard-
ner, l’utilizzo massiccio dei dispositivi elettronici e la grande importanza assunta dalla comunica-
zione digitale (compresi i media in versione mobile e i videogiochi) ha provocato un superinvesti-
mento dei sottosistemi cognitivi legati all’intelligenza digitale a scapito dei mezzi tradizionali di ela-
borazione delle informazioni.
Un’altro studioso che ha dato un grande contributo allo studio dei meccanismi cognitivi dei “nativi
digitali” è Antonio Battro, il quale sostiene coraggiosamente l’esistenza di una vera e propria intelli-
genza digitale, che caratterizza il pensiero dei ragazzi di oggi. Secondo Battro, l’intelligenza digitale è
un modello mentale implicito che si è manifestato – in relazione agli esiti della rivoluzione informati-
ca - a seguito di un forte investimento sulle competenze neuropsicologiche che solo oggi la scienza è
in grado di osservare: è infatti proprio l’esercizio quotidiano di queste funzioni che rende i modelli
cognitivi dei nativi digitali (gli allievi) diversi da quelli dei nativi gutenberghiani (gli insegnanti).
Questo non significa che le due forme di linguaggio non si possano incontrare, perché la plasticità
delle reti neurali consente percorsi di elaborazione lungo tutto il corso della vita.
I nativi digitali vivono all’interno di un mondo in cui dati reali e virtuali si compenetrano, si con-
trappongono e si avvicinano secondo logiche che appaiono estranee alla cultura tradizionale, impron-
tata alla scrittura. Si tratta di una sorta di brave new world dominato dall’informazione e dalla comu-
nicazione digitale e globale, assunta soprattutto dalla rete e gestita attraverso processi di scelta rapi-
da del tipo “mi piace/non mi piace”.
La comunicazione formativa subisce così una brusca trasformazione: mentre gli approcci tradizionali
prevedono una metodologia della ricerca fondata sull’analisi critica e su un confronto con le fonti, gli
approcci dei digitali prediligono l’esperienza diretta e la condivisione con i pari. Ne consegue un pro-
cesso cooperativo – un modello di euristica cognitiva - in cui contano il modo di accostarsi al pro-
blema e la capacità di fornire una risposta rapida ed efficace al momento, senza curarsi troppo degli
esiti “a lungo termine” a cui essa conduce: un approccio che potremmo definire open source, simile a
quello attraverso il quale i giovani condividono la musica, o le esperienze on-line.
Il problema che si pone a livello educativo è dunque elevato, poiché ci si trova ad affrontare strategie
cognitive e comunicative diverse. I rischi a cui la cultura digitale espone sono tanti, primo fra tutti la
perdita di valore delle conoscenze certificate. Ma occorre comunque fare i conti – nella scuola in pri-
mo luogo – con le “teste” dei nativi digitali: va cercata una mediazione, che presuppone l’acquisizio-
ne, da parte del mondo della scuola, del punto di vista dei ragazzi, senza preclusioni pregiudiziali.
A partire da questo è possibile introdurre modalità critiche nell’utilizzo dei dati in maniera digitale,
affiancando alla logica dell’esperienza diretta, quella che deriva da una lettura storica e critica degli
eventi.
Nuove tecnologie e funzione dell’insegnante e della scuola

Per poter reggere il confronto con i media, la scuola deve seguire alcuni passaggi obbligati che con-
ducono ad un comune approdo: unire la presenza preziosa dell’insegnante con una maggiore profes-
sionalità legata alla gestione dei nuovi linguaggi e delle nuove tecnologie dell’educazione.
Occorre pertanto fissare l’attenzione su due aspetti fondamentali:
1. la funzione dell’insegnante è la vera risorsa che la scuola possiede rispetto ai media: è l’insegnan-
te che dà significato all’evento educativo e che recupera il senso dell’azione di cui è protagonista in-
sieme all’allievo. Questo suo essere un operatore “del senso” lo rende insostituibile. I software di-
dattici sono spesso rigidi e si limitano a produrre un programma replicabile ma non modificabile, non
adattabile alla realtà di ogni studente. La rete propone invece modelli facilmente condivisibili, secon-
do il principio del cooperative learning, ma non riesce a distinguere le conoscenze certificate e a
fornire un significato critico al lavoro di ricerca. L’insegnante, al contrario, anche utilizzando gli
stessi supporti, è presente nell’ “hic et nunc” della relazione educativa, può pertanto intervenire
graduando e contestualizzando la comunicazione a seconda delle esigenze. La scuola ha dunque il
compito primario di affiancare gli studenti nell’affrontare la complessa stratificazione dei linguaggi
presenti nella comunicazione sociale, aiutandoli a coglierli distintamente e nei loro ‘sistemi di paren-
tela’, per poi valutare in modo critico quali sono le loro fonti, i loro significati e i loro obiettivi.
2. L’insegnante deve acquisire una nuova professionalità legata all’utilizzo dei nuovi strumenti del-
l’educazione. Questo è necessario in primo luogo perché l’utilizzo del materiale hardware e software
per ottimizzare la didattica è oggi imprescindibile: acquisendo nuove abilità, l’insegnante diventa più
‘bravo’ e funzionale nel ruolo “registico” di costruttore di situazioni educative significative; in se-
condo luogo, l’introduzione di nuovi strumenti, quali il computer o le LIM, crea delle modificazioni
sostanziali alle tecniche dell’apprendimento che si realizzano all’interno di un gruppo scolastico; tali
strumenti non vanno visti come sostitutivi dei media tradizionali, quasi fossero in competizione con
essi, bensì come risorse fondamentali di integrazione e arricchimento dei percorsi didattici. In tal sen-
so, occorre definire una sorta di “dogma pedagogico”: non si possono ‘studiare’ i nuovi linguaggi
senza ‘utilizzare’ i nuovi linguaggi e le tecnologie che li producono. Pertanto, nel rispetto della speci-
ficità che caratterizza la struttura dei linguaggi digitali, occorre contestualizzare i messaggi all’interno
del mezzo che li produce: in altri termini, si impara a conoscere i mezzi utilizzandoli.
A questo proposito non si può negare che le dotazioni in uso nelle scuole risultino cronicamente in-
soddisfacenti per tradurre in atto, nella didattica quotidiana, le potenzialità della tecnologia digitale:
si pensi solo al tempo che occorre perché mediamente una scuola si doti delle nuove tecnologie; esso
corrisponde solitamente - per i rapidissimi tempi di evoluzione e cambiamento dei new media - al lo-
ro graduale divenire strumenti obsoleti; cosicché le nuove strumentazioni, per i tempi della burocra-
zia scolastica, arrivano nelle scuole spesso già datati. In questo modo si crea una spaccatura innega-
bile tra le modalità di acquisizione delle informazioni e la gestione degli apprendimenti da parte dei
ragazzi – sempre più nativi digitali – e le tipologie di analisi tipiche della cultura scolastica. L’attività
scolastica appare poco motivante e non favorisce il superamento dello scontro fra differenti modelli
di apprendimento. Ciò che serve è invece una nuova prospettiva per l’educazione, in grado di aggan-
ciare l’intelligenza digitale, rendendola disponibile – grazie alla presenza “significante” dell’insegnan-
te - a funzioni di natura critica.
MASS-MEDIA E EDUCAZIONE
cultura e comunicazione di massa
U. Eco
“apocalittici” “integrati”
irrimediabile negatività dei media accettazione incondizionata
per la crescita umana dei nuovi media

moltiplicazione vertiginosa della comunicazione => le “reti globali”


G. Vattimo: la ‘società trasparente’
‘educazione sociale’ dei media:
a) potente pervasiva condizionante b) informale involontaria non formativa

Mass-media e new media


media tradizionali: self media media personali
stampa radio cinema televisione riproduttori di documenti sonori/video telefono fax
giornali libri fumetti (nastro, audio/video-cassetta) assorbiti nei nuovi
CD, DVD, pendrive, hard disk media digitali
e-book e-reader
digitalizzazione personal media - telemedia:
computer tablet cellulare

il libro a scuola: letteratura per l’infanzia e fumetto


libro => durata nel tempo, fruibilità immediata, flessibilità e velocità d’uso (Isaac Asimov)

McLuhan, Postman
“cultura del libro” culture analfabete culture post-alfabete
visivo-razionale (occhio) vs orale intuitivo (orecchio) vs media audiovisivi => “orecchiocchio”
sequenzialità vs globalità dell’intuizione vs apprendimento per “immersione”
dimensione logica vs dimensione emotiva vs dimensione analogica (immagine)

letteratura per l’infanzia: iniziazione, fantasia, formazione


Pinocchio Rodari Cuore (F.Cambi)
poesia ludica, racconti/romanzi, libri-gioco, fumetti
varietà materiali - formati - illustrazioni
fruizione creativa del libro vs TV (tipografia in classe => Freinet) M. Lodi
bambino protagonista - scrittura individuale/collettiva

fumetto importanza potenzialità educative vs banalità-diseducatività (A. Faeti, G. Rodari)


struttura iconico-narrativa diversificata: dai contenuti “alti” al consumo spicciolo
temi vicini alla sensibilità infantile/giovanile - facilità di identificazione

videogiochi => “oggetti complessi cognitivamente interessanti” (Antinucci)


sensomotori operatori simbolici
destrezza rapidità simulazione di attività: avventure fantastiche:
colpire guidare calcoli mentali scelte - coraggio
ottimizzazione delle risorse intuizione - creatività

esercizio di competenze cognitive aumento dei comportamenti aggressivi


introduzione alla tecnologia passività del corpo
interattività stress da sovrastimolazione percettiva
individualizzazione flessibilità isolamento relazionale e dipendenza
La fruizione della TV nell'età evolutiva

TV
informazione-interpretazione falsificazione vs autenticità
ipersemplificazione degli eventi illusione dell’informazione oggettiva

fruizione della TV in età prescolare/scolare =>


modificazione dello sviluppo / compensazione delle carenze affettive
sostituzione del dialogo familiare / adultizzazione precoce TV “babysitter”
bambini delle fasce meno abbienti: televisione “amica” e visione da soli:
identificazione con i personaggi / assorbimento acritico dei modelli osservati
mancanza di strumenti per riconoscere la mescolanza tra “verità” e finzione
programmi pensati per gli adulti con contenuti che vanno elaborati:
modelli consumistici, erotismo/pornografia,
violenza attraente, elementi tristi paurosi o angosciosi
effetti fisici => stress da eccessiva stimolazione passività del corpo
comportamenti aggressivi per emulazione dei modelli televisivi

rapporto bambini - TV non solo negativo => distinguere variabili e circostanze in gioco
ruolo della famiglia => facilitare/guidare all’elaborazione critica dei messaggi
superamento di posizioni “apocalittiche” o “integrate”
spegnimento/demonizzazione esaltazione o utilizzo acritico

a) vedere i programmi insieme ai bambini - osservare b) scegliere spettacoli determinati evitando


le reazioni - introdurre una lettura critica dei messaggi la visione “a flusso continuo” e lo “zapping”
c) creare dei criteri-guida condivisi per le scelte dei programmi (Guido Petter)

analisi della pubblicità: caratteristiche degli spot e rischi educativi

identificazione con le situazioni proposte


i bambini visione del mondo positiva e rassicurante
e gli spot situazioni eccitanti, tenere, divertenti, sorprendenti,
pubblicitari strutture facili da memorizzare come i jingles
spot con bambini => ulteriore richiamo emotivo
(bambini straordinari consumatori)

rischi educativi comprensione degli spot


visione della realtà semplificata/distorta 8 anni si coglie la funzione informativa
riduzione della capacità di concentrazione 11 anni: identificazione degli spot come
difficoltà a rimandare la soddisfazione messaggi a scopo commerciale e persuasivo
per il raggiungimento di un risultato adolescenti o adulti: più senso critico
=> “happy end” immediato gradimento più selettivo -
socializzazione precoce - ‘adultizzazione’ attrazione per la bellezza degli “spot”
(forma significativa di“arte applicata”)

strategie educative
0-6 anni: limitare il più possibile la visione di spot normative europee e codici
sei anni: rafforzare le capacità critiche di autodisciplina per limitare
decodifica messaggi: intenzioni del messaggio - tempi modi contenuti della
distinzione tra mondo reale e m. rappresentato pubblicità destinata ai bambini
Il computer e le reti in educazione

anni ‘80: approccio skinneriano dell’istruzione programmata CAI (Computer Assisted Instruction)
computer come “teachin machine” sequenze semplici/sistematicamente rinforzate di apprendimento
Burrhus Skinner (1904-1990)

30 anni di diffusione del computer => dibattito aperto sulla rivoluzione informatica
atteggiamenti verso l’uso educativo del computer

a) romanticismo tecnologico b) difesa della qualità “umana” della formazione


medium “naturalmente” formativo e rischio di spersonalizzazione dell’insegnamento
prospettiva ottimistica “scuole cyberspaziali” Neil Postman (1921-2003)Ecologia dei media, 1983
percorsi individualizzati di apprendimento pessimismo: contrazione dello sviluppo sociale
senza conflitto con le scuole “reali” riduzione dei movimenti fisici educazione “virtuale”
staccata ed avulsa dagli apprendimenti concreti
c) prospettiva critica (effetti sociali dei media): mutazioni antropologiche prodotte dai media
nuove disuguaglianze educative prodotte ‘guerra psichica’ => contrasto tra modalità di
dalla informatizzazione didattica: apprendimento scolastiche (parola scritta e oralità)
(il computer giova agli alunni già avvantaggiati) e modalità di apprendimento dei nuovi media
scuola => «contropotere» rispetto ai media

d) atteggiamento “realistico”/ “pragmatico” Seymour Papert (1928-2016)


valutazione concreta degli effetti specifici di linguaggio di programmazione Logo
computer e nuovi media in ambiente scolastico ripensare il processo di apprendimento mediato
‘materiale strutturato’ per l’apprendimento dal computer => interfaccia grafico programmabile
dotato di notevoli risorse autocorrettive, con semplici comandi dai bambini, i quali possono
strumento interattivo e ricco di potenzialità, far muovere sul video del PC una “tartaruga”
caratteristiche di dinamicità/programmabilità (triangolo) che traccia figure geometriche
(tendenza oggi predominante tra gli esperti approccio didattico PET
dopo anni di diffidenza/sospettosità diffusa) (Progressive Educational Technology) =>
potenzialità dei mezzi / rischio di banalizzazione idea che un uso diretto del computer fornito
di un linguaggio facile da padroneggiare per il
la scuola nega la naturalità dell’apprendimento bambino costituisca un itinerario individuale
riducendolo a un tecnicismo in cui di programmazione e apprendimento, connesso
l’insegnante diventa lo specialista. con il proprio ambiente, la propria personalità,
la propria specifica esperienza di vita.

“navigare” senza competenze tecniche ruolo positivo dei computer nell’educazione linguistica:
particolari consente di attingere, con tastiere e videoscrittura: motivano alla scrittura
percorsi personalizzati, a un’enorme facilitano la revisione, il controllo, la manipolazione
massa di conoscenze, prima disponibili degli scritti mediante giochi di stampa, di composizione
solo a specialisti e studiosi tipografica, di comprensione, di permutazione stilistica,
di produzione di storie o di apprendimento di regole.

vantaggi: rischi educativi:


‘democratizzazione’ del sapere di zapping informatico per i bambini “nativi digitali”:
opportunità inedite di approfondimento navigazione sul web come se si trattasse di un videogioco,
ed accesso a testi e informazioni percorrendo siti o nodi in modo casuale, lasciando
facilitazione nelle ricerche inesplorate le parti più complesse e “noiose”
e ritornando più volte su quelli più attraenti.
I media e la scuola

opposizione strutturale tra

il “duopolio”
sistema scolastico mass-media
a) cultura scientifico-tecnologica linearità/razionalità vs b) cultura iconico-orale flusso discorsivo
dei discorsi e dell'impegno intellettuale lungo, analogico / immediatezza emotiva dei media
analitico e programmato della scuola

i new-media hanno sconfitto la cultura tradizionale e la scuola


nel suscitare l'interesse del pubblico giovane o adulto

informazioni condensate/allargate scommessa pedagogica della scuola =>


scelte possibili in contesti differenziati spostamento dalle nozioni alle competenze,
che assecondano gusti e interessi personali dall'informazione alla riflessione e al dialogo
nuovi media: “guide” efficaci inteso come confronto critico, dai contenuti
agenzie educative extra-scolastiche al loro apprendimento e al loro uso.

ridefinizione del rapporto tra extrascuola e istituzione educativa:


“insegnare a imparare” =>
spazio verso cui la scuola viene indirizzata
dal ruolo dei media nella società contemporanea

itinerari didattici => passaggio da una fruizione passiva


ad un uso interattivo “attivizzazione” dell'approccio al mezzo
sviluppo della capacità di descrivere, analizzare, selezionare,
contestualizzare, collegare e interpretare i messaggi.

obiettivi formativi della didattica multimediale:


elaborazione critica delle informazioni e individualizzazione dei curricoli
didattica capace di sfruttare in modo differenziato le peculiarità di ciascun medium:
es.
parola scritta: cinema fiction:
fatti relativi ad un dato argomento sentimenti/emozioni dei protagonisti

Intelligenze digitali

mondo della comunicazione trasformato dalla digitalizzazione


nuove generazioni “nativi digitali” => modalità di funzionamento intellettivo inedito

Howard Gardner (1943) Antonio Battro (1936)


molteplicità di intelligenze => intelligenza digitale esistenza di una vera e propria intelligenza digitale
competenza complessa / intreccio di sottosistemi nel pensiero dei ragazzi di oggi (nativi-digitali)
funzionali: memoria, percezione ecoica-iconica intelligenza digitale: modello mentale implicito
utilizzo massiccio dalla comunicazione digitale => manifestatosi a seguito di forte investimento sulle
superinvestimento dei sottosistemi cognitivi competenze neuropsicologiche oggi osservabili
dell'intelligenza digitale vs mezzi tradizionali modelli cognitivi dei nativi digitali (gli allievi)
di elaborazione delle informazioni. vs nativi gutenberghiani (gli insegnanti)
Intelligenze digitali

mondo della comunicazione trasformato dalla digitalizzazione


nuove generazioni “nativi digitali” => modalità di funzionamento intellettivo inedito

Howard Gardner (1943) Antonio Battro (1936)


molteplicità di intelligenze => intelligenza digitale esistenza di una vera e propria intelligenza digitale
competenza complessa / intreccio di sottosistemi nel pensiero dei ragazzi di oggi (nativi-digitali)
funzionali: memoria, percezione ecoica-iconica intelligenza digitale: modello mentale implicito
utilizzo massiccio dalla comunicazione digitale => manifestatosi a seguito di forte investimento sulle
superinvestimento dei sottosistemi cognitivi competenze neuropsicologiche oggi osservabili
dell'intelligenza digitale vs mezzi tradizionali di modelli cognitivi dei nativi digitali (gli allievi)
elaborazione delle informazioni. vs nativi gutenberghiani (gli insegnanti)

le due forme di linguaggio possono incontrarsi:


la plasticità delle reti neurali consente percorsi
di elaborazione lungo tutto il corso della vita

nativi digitali vs comunicazione formativa - approccio tradizionale:

mondo in cui dati reali e virtuali si compenetrano, metodologia della ricerca fondata sul-
si contrappongono e si avvicinano secondo logiche l’analisi critica e confronto con le fonti
che appaiono estranee alla cultura tradizionale,
improntata alla scrittura => brave new world
dominato dall'informazione e dalla comunicazione vs
digitale e globale, assunta soprattutto dalla rete e
gestita attraverso processi di scelta rapida del tipo approccio dei digitali => esperienza diretta e
“mi piace/non mi piace”. condivisione con i pari => processo cooperativo
modello di euristica cognitiva
modo di accostarsi ad un problema =>
capacità di fornire una risposta rapida
ed efficace al momento senza curarsi degli
esiti “a lungo termine”: approccio open source
(condivisione musica/video, etc) esperienze on-line

problema educativo => strategie cognitive e comunicative diverse

rischi della cultura digitale:


a) perdita di valore delle conoscenze certificate

cercare una mediazione =>


a) acquisizione da parte del mondo della scuola,
del punto di vista dei ragazzi, senza preclusioni pregiudiziali.

b) possibilità di introdurre modalità critiche nell'utilizzo dei dati


in maniera digitale, affiancando alla logica dell'esperienza diretta,
quella che deriva da una lettura storica e critica degli eventi.
Nuove tecnologie e funzione dell'insegnante e della scuola

scuola: confronto con i media

unire
presenza dell'insegnante maggiore professionalità nella gestione
dei nuovi linguaggi e delle nuove tecnologie

1. funzione dell'insegnante: risorsa che la scuola possiede rispetto ai media:


operatore “del senso” - presente nel- vs rigidità software didattici
l'hic et nunc della relazione educativa vs cooperative learning: non distingue
graduare e contestualizzare la le conoscenze certificate - non fornisce
comunicazione a seconda delle esigenze un significato critico al lavoro di ricerca

compito primario di affiancare gli studenti nell'affrontare la complessa


stratificazione dei linguaggi presenti nella comunicazione sociale, aiutandoli
a coglierli distintamente e nei loro 'sistemi di parentela', per poi valutare
in modo critico le loro fonti, i loro significati e i loro obiettivi.

2. L'insegnante deve acquisire una professionalità legata all'utilizzo dei nuovi strumenti
utilizzo ragionato del materiale hardware e software per ottimizzare la didattica
insegnante ruolo “registico” => costruttore di situazioni educative significative
nuovi strumenti (computer/LIM etc) =>
non in competizione con i media tradizionali ma
risorse di integrazione/arricchimento dei percorsi didattici

non si possono 'studiare' o conoscere i nuovi linguaggi e tecnologie senza saggiarli utilizzandoli

dotazioni in uso nelle scuole:


cronicamente insoddisfacenti per tradurre in atto,
nella didattica quotidiana, le potenzialità della tecnologia digitale:

tempi della burocrazia scolastica vs tempi di evoluzione e cambiamento dei new media
(tempo che occorre perché la
scuola si doti delle nuove tecnologie) le nuove strumentazioni arrivano
nelle scuole spesso già obsolete o datate

nuova prospettiva per l'educazione vs spaccatura tra modalità di acquisizione


agganciare l'intelligenza digitale, rendendola delle informazioni e gestione degli
disponibile - grazie alla presenza “significante” apprendimenti da parte dei ragazzi
dell'insegnante - a funzioni di natura critica. nativi digitali e le tipologie di analisi
tipiche della cultura scolastica
SOCIOLOGIA
DISUGUAGLIANZE RAZZIALI ED ETNICHE

Tutte le società operano delle distinzioni tra i loro membri, e tali distinzioni generalmente si tradu-
cono in disuguaglianze sociali. Uno dei modi più comuni per differenziare tra loro gli individui con-
siste nel distinguerli in base alle caratteristiche somatiche o ai tratti culturali. La conseguenza di que-
ste differenziazioni sociali è che i diversi gruppi finiscono per considerare se stessi e per essere con-
siderati dagli altri come “diversi”.
I rapporti razziali ed etnici sono i modelli di interazione tra gruppi i cui membri hanno in co-
mune delle caratteristiche somatiche o dei tratti culturali particolari. Quando gli individui hanno
in comune certe caratteristiche somatiche vengono definiti come “razza”, quando hanno in comune
certi tratti culturali vengono definiti come “gruppi etnici”.
Per tutto il corso della storia i rapporti tra i gruppi razziali ed etnici sono stati contrassegnati dal
pregiudizio, dall’antagonismo, dalla guerra e dalla disuguaglianza sociale.

I concetti di razza ed etnia

Il termine “razza” si riferisce alle caratteristiche somatiche dei diversi gruppi umani, trasmesse per
via genetica, mentre il termine “etnia” si riferisce alle differenze acquisite per mezzo della cultura.

La razza
Intesa come concetto biologico, la parola razza è pressoché priva di qualsiasi significato. Gli oltre
sei miliardi di individui che popolano la terra presentano una grande varietà di caratteristiche quali il
colore della pelle, la struttura dei capelli, il rapporto tra gli arti e il tronco, la conformazione del na-
so, delle labbra e delle palpebre, che sono il prodotto dell’adattamento dei gruppi umani all’ambien-
te in cui vivevano: la pelle scura protegge le popolazioni delle aree tropicali dai danni dei raggi del
sole, gli arti relativamente corti permettono alle popolazioni che vivono in un clima molto rigido di
mantenere alta la temperatura corporea. Ma queste differenze evolutive influenzano solo i tratti so-
matici, non ci sono al momento dati attendibili che mostrino l’esistenza di una trasmissione eredita-
ria di caratteristiche psichiche nei diversi gruppi. Per quanto gli antropologi per decenni abbiano ten-
tato di formulare un qualche tipo di ordine concettuale dividendo la specie umana in razze e sotto-
razze, di fatto non esiste una razza “pura”. Gruppi di popolazione diversi si sono incrociati tra loro
per decine di migliaia di anni dando luogo ad un continuum di tipi umani. Le differenze somatiche tra
i gruppi umani sono semplicemente un fatto biologico e per questo non rivestono un interesse parti-
colare per il sociologo. Il forte interesse del sociologo per la razza deriva invece dall’importanza che
essa assume come fatto sociale, visto che gli individui attribuiscono parecchi significati alle differen-
ze somatiche, reali o immaginarie, esistenti tra gruppi umani. Quindi, dal punto di vista sociologico,
una razza è costituita da un rilevante numero di persone che, per ragioni sociali o geografiche, si so-
no accoppiate tra loro per un lungo periodo di tempo, col risultato di aver sviluppato delle caratteri-
stiche somatiche identificabili e di considerare se stesse e di essere considerate dagli altri come una
unità biologica.

L’etnia
Mentre la razza si riferisce esclusivamente a delle caratteristiche somatiche, il concetto di etnia ri-
guarda i tratti culturali. Questi comprendono la lingua, la religione, l’origine nazionale, le consuetudi-
ni alimentari, il senso di un’eredità storica comune ed ogni altra specificità culturale. Molti gruppi,
come i neri e gli indiani d’America, hanno una connotazione sia razziale che etnica. In altri casi, i
gruppi etnici non si distinguono dal resto della popolazione per le loro caratteristiche somatiche.
Gli americani di origine tedesca o polacca, per esempio, fisicamente non si distinguono gli uni dagli
altri. Dal punto di vista sociologico, un gruppo etnico è costituito da un rilevante numero di persone
che, in conseguenza dei tratti culturali comuni e dell’alto livello di interazione reciproca, considerano
se stesse e vengono considerate dagli altri come un’unità culturale. Le differenze etniche non vengo-
no ereditate per via genetica, ma apprese attraverso la cultura. Nessun gruppo etnico possiede dei
tratti culturali innati, li acquisisce invece dal proprio ambiente.

Le minoranze

Nel mondo moderno molte società sono grandi ed eterogenee, in seguito ad insediamenti coloniali,
attività missionarie, migrazioni, ecc.; in queste società esistono spesso delle minoranze che hanno
sembianze fisiche e abitudini culturali diverse da quelle del gruppo dominante. Accade allora che il
gruppo dominante operi delle differenziazioni e neghi la possibilità ai membri della minoranza di
avere uguale accesso al potere, alla ricchezza e al prestigio. Il termine viene usato dai sociologi nel-
l’accezione che per primo gli diede Louis Wirth (1945): “Possiamo definire gruppo di minoranza un
gruppo di individui che, a causa delle loro caratteristiche somatiche o culturali, sono distinti o se-
parati rispetto agli altri nella società nella quale vivono e sono quindi trattati in modo inuguale e che
perciò si considerano oggetto di una discriminazione collettiva.” Questo concetto è stato successiva-
mente perfezionato, cosicché oggi i sociologi pensano che una parte della popolazione costituisca un
gruppo di minoranza quando sussistono le seguenti caratteristiche specifiche:

1. i membri di un gruppo di minoranza soffrono di vari svantaggi a profitto di un altro gruppo. La


situazione non è caratterizzata soltanto dalla negazione di un uguale accesso della minoranza al po-
tere, alla ricchezza e al prestigio, ma anche dal vantaggio che il gruppo dominante trae dalla minoran-
za.
2. Una minoranza viene identificata attraverso le caratteristiche del gruppo socialmente visibili, o
riconoscibili, come il colore della pelle, la religione o la lingua.
3. Una minoranza è un gruppo cosciente di sé, dotato di un forte senso della propria identità. Co-
loro che appartengono ad una minoranza tendono a provare un forte senso di affinità gli uni con gli
altri. La comune esperienza delle sofferenze del gruppo minoritario (si pensi agli ebrei, al palestine-
si, agli indiani d’America) accresce questi sentimenti e quanto più i suoi membri sono oggetto di per-
secuzione, tanto più intensa è probabile che diventi la loro solidarietà di gruppo.
4. Generalmente gli individui non appartengono a un gruppo minoritario in seguito ad una scelta
volontaria, ma per il fatto di esservi nati. Il senso di comune identità deriva dalla consapevolezza di
avere una discendenza e delle tradizioni comuni.
5. Per libera scelta o per necessità, i membri di un gruppo minoritario si sposano generalmente al-
l’interno del gruppo. Questa pratica (detta endogamia) viene incoraggiata dal gruppo dominante,
dal gruppo minoritario o da entrambi. I membri del gruppo dominante sono di solito restii a sposarsi
con i membri della minoranza stigmatizzata, mentre la “coscienza di specie” del gruppo minoritario
predispone i membri di questo a cercare il proprio coniuge nell’ambito del gruppo. Di conseguenza,
lo status di minoranza all’interno della società tende a trasmettersi da una generazione all’altra.
Talvolta un gruppo di minoranza può essere numericamente maggioritario. Lo status di gruppo mi-
noritario non è un problema numerico, ma è determinato dalle caratteristiche sopra descritte: si pen-
si alla piccola etnia Tutsi che in Burundi ha dominato in passato sulla numerosa tribù degli Hutu, al-
l’esigua popolazione bianca che in Sudafrica ha dominato a lungo su quella nera, enormemente più
numerosa. Alcuni sociologi sostengono, ad esempio, che negli Stati Uniti le donne possono essere
considerate come un gruppo di minoranza anche se il loro numero è un po’ più alto di quello degli
uomini.
I modelli dei rapporti razziali ed etnici

I rapporti razziali ed etnici possono seguire modelli assai diversi che vanno da un’armoniosa con-
vivenza al conflitto aperto. George Simpson e Milton Yinger (1972) hanno identificato sei modelli
fondamentali di ostilità o cooperazione fra i gruppi. Il loro elenco copre virtualmente tutti i possibili
modelli di rapporti di razza e di etnia. Inoltre, ciascun modello esiste o è esistito in qualche parte
della terra.

1. Assimilazione. In taluni casi un gruppo minoritario viene semplicemente eliminato per assi-
milazione nel gruppo dominante. Questo processo può comportare l’assimilazione culturale, l’assi-
milazione razziale o entrambe. L’assimilazione culturale si verifica quando il gruppo di minoranza
abbandona i propri tratti specifici e adotta quelli della cultura dominante; l’assimilazione razziale si
verifica quando le differenze somatiche tra i gruppi spariscono in conseguenza degli accoppiamenti
incrociati. Il Brasile è probabilmente il miglior esempio di un paese che ha praticato una politica di
assimilazione. Con l’eccezione di alcuni gruppi isolati di indiani, i vari gruppi razziali ed etnici pre-
senti nella società si accoppiano abbastanza liberamente. Il Portogallo ha tentato di attuare una poli-
tica di assimilazione nelle colonie africane che ha amministrato fino alla metà degli anni ‘70. I porto-
ghesi istituirono uno status speciale, quello di assimilado, per quegli africani o individui di razza mi-
sta che venivano considerati sufficientemente portoghesi per colore o cultura da condividere i privi-
legi del gruppo dominante.

2. Pluralismo. Alcune minoranze non intendono perdere la loro identità di gruppo; i loro membri
hanno una forte coscienza della propria eredità, ne sono fieri e manifestano lealtà al gruppo. Dal
canto suo il gruppo dominante nella società può desiderare o addirittura incoraggiare la varietà cultu-
rale nell’ambito più vasto dell’unità nazionale. La Tanzania, per esempio, è una società pluralistica,
tendenzialmente rispettosa delle differenze culturali esistenti tra le popolazioni africane, asiatiche,
europee e medio-orientali presenti nel paese. In Svizzera quattro gruppi etnici di lingua tedesca,
francese, italiana e romancia conservano il proprio sentimento di identità di gruppo e vivono insieme
pacificamente in una entità sociale complessiva.

3. Tutela legale delle minoranze. In alcune società, certi settori consistenti del gruppo do-
minante manifestano degli atteggiamenti ostili nei confronti dei gruppi di minoranza. In tali casi, lo
stato può trovarsi nella necessità di istituire delle misure di legge a tutela degli interessi e dei diritti
delle minoranze. In Gran Bretagna, ad esempio, il Race Relations Act del 1965 stabilisce l’illegalità di
ogni discriminazione nell’assunzione di lavoratori e in materia di abitazioni fondata su motivazioni
razziali. E’ un atto delittuoso anche la pubblicazione e la pubblica espressione di sentimenti che
possano incoraggiare l’ostilità tra i gruppi razziali ed etnici nella popolazione.

4. Trasferimento della popolazione. In certe situazioni di intensa ostilità tra i gruppi, il


problema viene “risolto” rimovuendo tout court la minoranza dalla scena nazionale. Questa politica
fu adottata negli anni settanta, per esempio, dall’allora presidente dell’Uganda Ida Amin, che impo-
se semplicemente di andarsene ai cittadini di origine asiatica che per generazioni avevano vissuto in
quel paese. In qualche raro caso, il trasferimento della popolazione può coinvolgere apertamente una
parte del territorio. In India l’ostilità tra indù e musulmani era talmente forte che l’intero subconti-
nente fu suddiviso tra loro, in modo da dar vita a un nuovo stato musulmano, il Pakistan. Ancora in
anni recenti, in Africa come in Europa (nella ex-Jugoslavia) si sono verificati trasferimenti di popola-
zioni volontari o coatti.
5. Sottomissione continuata. In certi casi il gruppo dominante mostra di avere l’intenzione di
mantenere i propri privilegi sulla minoranza a tempo indeterminato. Può essere disposto ad usare la
forza a tale proposito e può addirittura segregare fisicamente i membri dei vari gruppi. Storicamente
la sottomissione continuata è stato stato un tipo di politica molto diffuso. Nel diciottesimo e nel di-
ciannovesimo secolo, per esempio, le potenze europee davano per scontato che il loro dominio sulle
popolazioni assoggettate delle colonie fosse una condizione permanente. Oggi i sentimenti dell’opi-
nione pubblica internazionle sono tali che pochi paesi oserebbero approvare una politica di sotto-
missione continuata. Tuttavia, in certi casi, il modello ha continuato ad esistere sino a pochi anni fa.
L’esempio più evidente è quello del Sudafrica, un paese nel quale, grazie alla politica dell’apartheid,
la minoranza bianca ha mantenuto per lungo tempo il proprio potere sulla maggioranza nera ricor-
rendo costantemente all’uso della forza per raggiungere tale obiettivo.

6. Sterminio. Lo sterminio di intere popolazioni, o genocidio, è stato tentato e anche realizzato


in parecchie parti del mondo. I metodi del genocidio comprendono il sistematico massacro attuato
con le armi e la propagazione intenzionale di malattie infettive, in particolare il vaiolo, tra popola-
zioni che sono prive di difese immunitarie naturali. I coloni olandesi del Sudafrica sterminarono
completamente gli Ottentotti e quasi raggiunsero lo stesso risultato con i San, che a un certo punto
della storia del Sudafrica furono classificati come “animali nocivi”. I coloni inglesi dell’isola di Tas-
mania spazzarono via la popolazione locale dandole la caccia per sport e addirittura offrendola in
pasto ai cani. Tra la primavera del 1915 e l’autunno del 1916, per volontà del movimento ultrana-
zionalista dei Giovani Turchi, più un milione di cittadini armeni dell’Impero ottomano fu stermina-
to; tra il 1933 e il 1945 parecchi milioni di ebrei furono assassinati in Germania; in Ruanda, nel
1994, in cento giorni più di ottocentomila persone di etnia tutsi sono state torturate e uccise.

Il razzismo

Alcuni gruppi razziali ed etnici riescono a convivere in condizioni di uguaglianza e di rispetto reci-
proco mentre altri si trovano in uno stato di disuguagliaanza e conflitto permanenti. E’ chiaro che
non esistono ragioni intrinseche per le quali debbano essere ostili l’uno con l’altro. I cattivi rapporti
tra gruppi razziali ed etnici hanno delle cause sociali: come si sviluppano le disuguaglianze e gli anta-
gonismi di razza e di etnia? La stragrande maggioranza dei gruppi umani tende ad essere etnocen-
trica, cioè tende ad impiegare ciecamente i propri valori e le proprie usanze per giudicare gli altri
gruppi. Non c’è quindi da meravigliarsi che spesso trovino inadeguati gli altri gruppi sotto qualche
aspetto. Per la stragrande maggioranza delle persone va da sé che le loro norme, la loro religione, i
loro atteggiamenti, i loro valori, le loro abitudini culturali siano giusti e adeguati, mentre quelli degli
altri gruppi sono singolari, bizzarri e perfino immorali. Perciò è quasi inevitabile che una certa misu-
ra di etnocentrismo si riscontri presso tutti i gruppi razziali ed etnici. In effetti essa può risultare
funzionale per la sopravvivenza del gruppo. Gli atteggiamenti etnocentrici assicurano la solidarietà e
la coesione del gruppo in cui si manifestano perchè offrono ai suoi membri la necessaria fiducia nelle
proprie tradizioni culturali. Naturalmente il fatto negativo è che gli atteggiamenti etnocentrici sono
disfunzionali per gli altri gruppi. In presenza di certe condizioni gli atteggiamenti possono assumere
una forma estrema e aggressiva e servire come giustificazione dell’oppressione razziale ed etnica.
È questo il fenomeno del razzismo: un gruppo considerato inferiore o diverso viene sfruttato o op-
presso dal gruppo dominante. Il razzismo non è il prodotto necessario del contatto tra gruppi diver-
si. È perfettamente possibile conciliare l’identificazione con il proprio gruppo e il sentimento di fie-
rezza di esserne gli eredi con il rispetto per la cultura e per le tradizioni degli altri gruppi.
Le cause del razzismo

L’etnocentrismo si trasforma in razzismo soltanto quando sono presenti certe condizioni; in parti-
colare perché il razzismo si sviluppi devono sussistere tre condizioni fondamentali:
1. Devono esistere due o più gruppi sociali, identificabili per caratteristiche fisiche e abitudini cultu-
rali. Se gli individui non sono coscienti delle differenze esistenti tra i gruppi e non sono in grado di
rilevare l’appartenenza all’uno o all’altro gruppo, il razzismo non si sviluppa.
2. Deve esistere una competizione tra i gruppi per l’accesso alle risorse valutate positivamente, co-
me il potere, la terra o i posti di lavoro. In questa situazione, i membri di un gruppo saranno portati
a garantire i propri interessi negando ai membri degli altri gruppi il pieno accesso a tali risorse.
3. Il potere deve essere distribuito in modo ineguale tra i gruppi, tanto che uno di essi sia in grado di
avanzare pretese sulle risorse limitate a scapito dell’altro o degli altri gruppi. A questo punto le di-
suguaglianze sono diventate parte integrante della struttura sociale.
Il gruppo dominante sviluppa delle concezioni razziste sulla presunta inferiorità del gruppo o dei
gruppi di minoranza per giustificare la propria costante supremazia.
Secondo la prospettiva del conflitto, dietro il razzismo stanno le disuguaglianze economiche. Le di-
spute tra i gruppi non riguardano tanto il fondamento reale delle distinzioni razziali o etniche, quan-
to l’uso di presunte distinzioni per mantenere in piedi le disuguaglianze sociali. Nel periodo colonia-
le, ad esempio, alla base del razzismo che si sviluppò nelle nazioni conquistatrici, c’era un pressante
interesse economico. I colonizzatori, infatti, si servivano delle popolazioni indigene per avere forza-
lavoro a buon mercato. Le potenze europee, specialmente quelle che praticavano la schiavitù, si tro-
varono di fronte a un dilemma morale: il modo in cui trattavano le popolazioni delle colonie era in-
compatibile con la loro dichiarata fede cristiana. Poiché nessun cristiano può legittimamente fare di
un altro essere umano uno schiavo, si fece ricorso ad una giustificazione ovvia: quella di classificare
le popolazioni coloniali come subumane. Il razzismo delle potenze occidentali è stato un fenomeno
rilevante sia per le sue dimensioni di scala internazionale, sia per la sistematica giustificazione teori-
ca fornita da teologi e scienziati, ma esso si riscontra in tutto il mondo ogni qual volta si presentano
situazioni di competizione economica tra gruppi diversi. Non è un caso che, per quanto riguarda gli
Stati Uniti (Selznick e Steinberg, 1969), i maggiori pregiudizi si riscontrano tra i bianchi di status in-
feriore, cioé tra gli individui che si sentono più minacciati dai miglioramenti economici e dalla com-
petizione delle minoranze.

L’ideologia del razzismo

Il gruppo dominante cerca sempre di legittimare i propri interessi attraverso un’ideologia, cioé un
insieme di credenze che spiegano e giustificano il sistema sociale esistente. L’ideologia del razzismo
serve a legittimare le disuguaglianze sociali esistenti fra i gruppi facendole apparire “naturali” e “giu-
ste”. Ma l’ideologia del razzismo non si limita a giustificare le disuguaglianze esistenti; essa la raf-
forza mediante il processo sociale della “profezia che si autoadempie”, che nel campo dei rapporti
razziali ed etnici funziona in questo modo: l’ideologia razzista del gruppo dominante definisce infe-
riore la minoranza e, in considerazione di ciò, si crede che i suoi membri non siano idonei a svolgere
occupazioni di status elevato, a ricevere un’istruzione superiore, ad assumere posizioni di responsa-
bilità nella società. Di conseguenza, essi non hanno accesso a questi canali di mobilità; all’opposto,
ottengono solo posti di lavoro di status inferiore, ricevono un’istruzione di basso livello e raramente
assumono posizioni di responsabilità. Questo stato delle cose viene assunto come “prova” dell’infe-
riorità del gruppo di minoranza e l’ideologia razzista trova così una conferma.
Pregiudizio e discriminazioni

I termini “pregiudizio” e “discriminazione” si riferiscono a due fenomeni diversi anche se collegati


tra loro. Il pregiudizio è un’opinione preconcetta nei confronti di un altro gruppo. Le persone che ad
esso appartengono vengono considerate con ostilità per il semplice fatto di appartenere ad un grup-
po particolare. La “discriminazione”, invece, si riferisce al modo di agire ostile verso individui in ba-
se alla loro appartenenza di gruppo. Non sempre il pregiudizio viene tradotto in discriminazione:
esiste una discrepanza, infatti tra ciò che la gente dice pensa o dice, e ciò che fa.
Un meccanismo psicologico che spesso si riscontra in certe situazioni di antagonismo razziale o et-
nico è quello del capro espiatorio. Esso consiste nell’attribuire la colpa dei propri guai o problemi a
un gruppo che non è in grado di opporre resistenza. Questo meccanismo opera di solito ogni volta
che i membri di un gruppo si sentono minacciati, ma non riuscendo a reagire e a lottare contro chi
realmente li minaccia, scaricano le loro frustrazioni su di un gruppo debole e disprezzato. Nella Ger-
mania nazista, ad esempio, venne artatamente scaricata la responsabilità del caos economico in cui il
paese si trovava sulla popolazione ebraica.
Un altro processo psicologico presente in molte situazioni di interazione razzista è costituito dalla
proiezione. Esso si verifica ogni qual volta degli individui attribuiscono ad altri le caratteristiche che
essi non vogliono riconoscere a se stessi.

I rapporti razziali ed etnici negli Stati Uniti

A differenza della maggior parte delle società, gli Stati Uniti sono in primo luogo un paese compo-
sto da immigranti giunti in un periodo relativamente recente; gli antenati della grande maggioranza
degli americani giunsero in questo paese come esploratori, avventurieri, colonizzatori, rifugiati poli-
tici, deportati o schiavi in catene. Vi è una credenza gelosamente custodita dagli americani, secondo
la quale la loro società ha assolto la funzione di “crogiuolo” di popoli diversi. Dell’essenza di questo
credo si è fatto interprete The Melting pot (il Crogiuolo), un popolare spettacolo di successo rap-
presentato a Brodway nel 1908:

“L’America è il crogiuolo di Dio, la grande pentola nella quale tutte le razze d’Europa si mescolano e
rinascono! Eccovi arrivati, buona gente - io penso - quando vi vedo ad Ellis Island; e ve no state divisi
in cinquanta gruppi, con le vostre cinquanta lingue e con le vostre storie e con le vostre ancestrali riva-
lità. Ma non sarete più quelli, fratelli, perché il fuoco di Dio vi forgerà... tedeschi,e francesi, irlandesi e
inglesi, ebrei e russi, nel suo crogiuolo. E così Dio crea l’americano”.

La verità è un po’ diversa. I primi coloni sbarcarono per lo più giungendo dall’Europa settentriona-
le “anglosassone” e ben presto ebbero il controllo sul potere politico ed economico. I loro discen-
denti sono riusciti in gran parte a conservare questo potere nelle loro mani e i loro valori sono diven-
tati i valori dominanti di tutto il paese. Le successive ondate di immigranti hanno dovuto lottare a
lungo e duramente per entrare a far parte del gruppo degli americani che contano e molti non ci sono
riusciti. Coloro che per razza o etnia erano affini ai WASP (White, Anglo-saxon, Protestant, cioé
bianchi, anglosassoni, protestanti) dominanti, come gli scandinavi o i tedeschi, furono accettati con
una certa facilità. Coloro che erano affini ai WASP per razza, ma diversi dal punto di vista etnico,
come i cattolici irlandesi e i polacchi, dovettero affrontare pregiudizi e discriminazioni assai più duri.
Coloro che erano diversi, sia sotto il profilo etnico che razziale, rispetto ai gruppi dominanti, come i
neri e gli ispano-americani vennero esclusi sistematicamente da ogni partecipazione ugualitaria alla
società americana per mezzo di barriere sia formali che informali.
DISUGUAGLIANZE RAZZIALI ED ETNICHE

Razza => caratteristiche somatiche (trasmesse geneticamente) -> biologia inesistenza


vs di “razze
Etnia => tratti culturali (acquisiti per trasmissione culturale) -> sociologia, antropologia pure”

Minoranze => gruppi che, per caratteristiche somatiche e/o culturali, sono oggetto di discriminazione

1. svantaggio a profitto di un altro gruppo (potere/ ricchezza / prestigio)

2. caratteristiche socialmente visibili (pelle / religione / lingua)

3. coscienza di sè, senso di identità

4. senso di discendenza, appartenenza (esser nato allʼ interno di una minoranza)

5. endogamia

Modelli dei rapporti razziali-etnici (coesistenza / conflitto aperto)

1. assimilazione -> abbandono dei tratti etnici-culturali specifici (Brasile)

2. pluralismo -> il gruppo dominante incoraggia la varietà culturale (Tanzania)

3. tutela legale delle minoranze -> difesa delle m. dagli atteggiamenti ostili
(G.B. race relactions act 1965)
4. trasferimento della popolazione (Pakistan, Uganda, ex-Jugoslavia)

5. sottomissione continuata (“apartheid” => Sudafrica)

6. sterminio (“genocidio” Armeni 1915 Ebrei 1933-1945 Tutsi, Ruanda 1994)

Etnocentrismo => razzismo: un gruppo considerato inferiore viene sfruttato


e oppresso dal gruppo dominante

a) + gruppi sociali identificabili per caratteristiche fisiche e abitudini culturali

condizioni b) competizione per lʼaccesso alle risorse (valutate positivamente)

c) potere distribuito in modo ineguale (sperequazione sociale)

prospettiva del conflitto: disuguaglianze economiche = > razzismo

ideologia razzista -> legittimazione delle disuguaglianze sociali esistenti, che appaiono,
nei confronti delle minoranze discriminate, “naturali” e “giuste”

“profezia che si autoadempie” : definizione errata della situazione che induce ad un


comportamento che fa sì che la profezia si avveri

discriminazione: modo di agire ostile verso individui in base


alla loro appartenenza ad un gruppo

capro espiatorio attrubuire la colpa dei propri problemi a un


meccanismi gruppo che non è in grado di opporre resistenza
psicologici
proiezione attribuire ad altri le caratteristiche che non
non si vuole riconoscere in se stessi

ideologia del “melting pot” (crogiuolo)


USA: paese composto prevalentemente da immigrati vs
ideologia white anglosaxon
“WASP” protestant
LE DIFFERENZE DI GENERE

La differenziazione operata in base al sesso è universale, riguarda ogni tipo di società, perché que-
sta caratteristica rappresenta degli attributi ascritti inscindibilmente connessi alla condizione umana.
Ogni società in base al sesso accorda un trattamento diverso agli uomini e alle donne e si attende da
loro dei modelli di comportamento diversi. Queste distinzioni non comportano necessariamente che
un sesso o un gruppo di individui debbano a priori avere un maggiore accesso alle ricompense socia-
li, ma in realtà la differenziazione si traduce quasi sempre in disuguaglianza sociale. In quasi tutte le
società che conosciamo, certi diritti e certe facoltà sono state negate alle donne sulla base di assunti
sociali riguardanti i diversi talenti e le diverse potenzialità dei due sessi. In tutto il corso della storia
lo status inferiore delle donne è stato considerato un fatto di natura autoevidente, sostenuto dalle
convinzioni degli uomini e delle donne e tramandato da una generazione all’altra come parte della
cultura.

Genere e società: differenze tra i sessi

La divisione della specie umana nelle categorie di “maschio” e di “femmina” si fonda su un fatto
biologico: il sesso. Però tutte le società hanno elaborato questo fatto biologico in differenze seconda-
rie: tratti di natura sociale e culturale. Si parla così di genere maschile e femminile. Il termine “gene-
re” si riferisce non all’identità sessuale (la consapevolezza cioé di essere maschio o femmina) ma al
“ruolo sessuale”, cioé alle concezioni riguardanti quei tratti della personalità e del comportamento
che sono appropriati ai membri di ciascuno dei sessi. In altre parole, il concetto si riferisce a delle
caratteristiche puramente sociali, quali lo stile della capigliatura, il tipo di vestiario, i ruoli occupa-
zionali, e ad altri tratti e attività culturalmente approvati. Oggi la disuguaglianza strutturale tra i ses-
si che per tanto tempo è stata data per scontata viene messa in discussione, e se le donne hanno tut-
t’oggi uno status subordinato in quasi tutti i settori della società, vi è una tendenza crescente a con-
siderare questa situazione come irrazionale e ingiusta.
Ma in che modo i sessi differiscono tra loro? Ogni tentativo di cambiare i ruoli tradizionali deve af-
frontare il problema della eventuale esistenza di differenze di comportamento innate tra gli uomini e
le donne e, se queste esistono, di stabilire qual è la loro importanza. I ruoli sessuali sono assoluta-
mente flessibili, come qualcuno sostiene, oppure esistono delle barriere naturali, determinate geneti-
camente, al di là delle quali qualsiasi cambiamento è impossibile? Per dare una risposta a questo in-
terrogativo i sociologi si valgono dei dati di tre discipline: la biologia, la psicologia e l’antropologia.

Dati biologici
L’uomo e la donna sono diversi sotto l’aspetto anatomico, genetico e ormonale. Le differenze ana-
tomiche principali riguardano il sistema riproduttivo, l’altezza, il peso, la conformazione fisica, tutti
caratteri che distinguono chiaramente il maschio dalla femmina. Le differenze genetiche tra i sessi si
fondano sul rispettivo corredo cromosomico: la coppia di cromosomi sessuali, detti anche eterocro-
mosomi, sono uguali nelle femmine (XX) e diversi nei maschi (XY). La mancanza di un secondo cro-
mosoma X fa sì che l’uomo sia, sotto molti aspetti, il sesso debole: i maschi hanno più probabilità
delle femmine di nascere morti o malformati; nell’arco di tutto il ciclo vitale il tasso di mortalità degli
uomini è superiore a quello delle donne; le donne sono più resistenti degli uomini alla maggior parte
delle malattie e hanno una superiore tolleranza alla sofferenza e alla malnutrizione. Quanto alle diffe-
renze ormonali, gli studiosi di scienze naturali e di scienze sociali concordano nel ritenere che esse
esercitino una certa influenza nel comportamento dell’uomo e della donna, ma attribuiscono ad essa
un’importanza secondaria.
Dati psicologici
Gli psicologi sostanzialmente concordano sul fatto che alla nascita esistono probabilmente certe
predisposizioni e delle differenze di secondaria importanza nel comportamento dei due sessi, ma
che esse possono essere annullate o accentuate con facilità attraverso l’apprendimento culturale.
Se infatti gli studi effettuati su bambini molto piccoli hanno messo in luce l’esistenza di differenze
di temperamento connesse al sesso già nelle prime fasi della vita (i maschi più attivi delle femmine,
le femmine più portate al sorriso e sensibili al calore e alle carezze), si potrebbe trattare di tendenze
che possono essere prodotte dall’apprendimento fin dal momento della nascita, se i genitori trattano
in modo differenziato i bambini fin dalla nascita. D’altra parte gli studi di John Money e dei suoi
collaboratori (1969) mostrano che gli esseri umani possono essere allevati senza troppe difficoltà
come se appartenessero all’altro sesso. Money ne deduce che la specie umana “al momento della
nascita è neutra dal punto di vista psicosessuale” e che il genere è indipendente dal sesso biologico.

Dati antropologici
Gli antropologi hanno rilevato che in numerose società le caratteristiche dell’identità sessuale sono
molto diverse dalla nostra. Sull’argomento è classico lo studio sul campo eseguito nel 1935 da Mar-
garet Mead :“Sesso e temperamento in 3 popoli primitivi della Nuova Guinea”.
Presso la tribù degli Arapesh la Mead trovò che entrambi i sessi si conformavano a un tipo di per-
sonalità che definiremmo femminile. Sia gli uomini che le donne si mostravano miti, passivi ed affet-
tuosi. L’aggressività, la competitività e la possessività erano fortemente scoraggiati in entrambi i
sessi. Era convinzione comune che uomini e donne avessero identici desideri sessuali, e tanto gli uni
che gli altri si curavano dell’allevamento dei bambini.
All’opposto nella vicina tribù dei Mundugumor, composta da individui cannibali e cacciatori di te-
ste, la violenza e l’aggressività erano attributi richiesti sia agli uomini che alle donne. Le donne Mun-
dugumor non mostravano traccia di quello che noi chiamiamo “istinto materno”. Avevano paura del-
la gravidanza, provavano avversione per l’allattamento e mostravano una particolare ostilità nei con-
fronti delle figlie.
La terza tribù, quella dei Tchambuli, si differenziava dalle altre per le forti differenze esistenti tra
i ruoli assegnati ai due sessi. Ma questi ruoli erano capovolti rispetto a quelli che noi consideriamo
“normali”: le donne rappresentavano l’elemento dominante ed energico, non portavano alcun orna-
mento ed erano loro a fornire il sostegno economico principale. Dal canto loro gli uomini si occupa-
vano di arti, passavano il tempo a fare pettegolezzi, si mostravano espressivi e pieni di premure nei
confronti dei bambini. Margaret Mead giunse alla conclusione che i caratteri del genere, dalla masco-
linità alla femminilità, non sono necessariamente connessi al sesso biologico. Da allora gli antropolo-
gi hanno studiato parecchie altre società in cui i ruoli sessuali presentano differenze trascurabili op-
pure tendono a distribuirsi in modo capovolto rispetto a quello che consideriamo “normale” (Barry
et al., 1957, D’Andrade, 1966).
Nonostante la teoria di M. Mead, i dati provenienti da culture diverse mettono in luce la prevalen-
za di un modello molto rigido di dominio del maschio. La tendenza generale che emerge dalle diverse
culture indica che gli uomini hanno una personalità più dispotica delle donne e che queste sono più
passive e piene di premure. Queste caratteristiche non si siluppano in modo “naturale”: in tutte le
culture i bambini vengono sistematicamente socializzati all’accettazione dei ruoli sessuali prevalenti.
In tutte le società esiste qualche forma di divisione del lavoro tra uomini e donne. Generalmente
agli uomini competono compiti la cui esecuzione richiede vigore fisico e lunghi spostamenti da casa,
come la caccia e il pascolo del bestiame. Le donne invece sono responsabili di compiti che richiedo-
no uno sforzo fisico meno violento e che possono essere svolti senza allontanarsi troppo da casa.
Ma, al di là di questi modelli fondamentali, tra le culture esiste una grande diversificazione per ciò
che concerne il tipo di lavoro che si considera appropriato per gli uomini e per le donne.
La concezione occidentale della donna come creatura delicata ebbe origine nelle classi superiori del-
l’Europa del dodicesimo secolo e da allora si è mantenuta viva, sotto varie forme, sino ai giorni no-
stri. Tracce della cavalleria medioevale si possono riscontrare, ad esempio, nella consuetudine ma-
schile di cedere il posto a sedere alle donne, di aprire loro le porte, di evitare espressioni volgari in
loro presenza.
Nelle diverse società industrializzate del mondo moderno i ruoli sessuali sono sostanzialmente si-
mili. Alcuni paesi, tra cui l’Italia, hanno cercato di equiparare lo status dell’uomo e della donna in-
serendo nella Costituzione il principio di uguaglianza tra i sessi. Ma la parità di fatto non è stata an-
cora raggiunta. Più in generale, si può affermare che in gran parte delle società industrializzate il
principio dell’uguaglianza venga sancito senza che ad esso corrisponda un’uguaglianza di fatto.
La conclusione generale che si può trarre dall’analisi dei dati antropologici riguardo ai ruoli sessuali,
è che, se il dominio del maschio costituisce pur sempre la norma, i ruoli sessuali - come qualsiasi al-
tra forma di comportamento appreso - sono fondamentalmente flessibili. Per rendercene conto basta
guardare alla storia recente della nostra cultura: non è passato molto tempo da quando i maschi ap-
partenenti alla classe superiore delle società occidentali amavano usare parrucche e calze di seta.

Adozione di ruoli sessuali differenziati nelle varie società

La prospettiva funzionalista
Benché gli esseri umani possano essere socializzati secondo uno spettro assai ampio di ruoli ses-
suali, la maggior parte delle società hanno adottato, di tali ruoli, dei modelli abbastanza coerenti.
Ciò secondo la prospettiva funzionalista è dovuto al fatto che una società è più efficiente se i com-
piti e le responsabilità vengono assegnati a individui particolari e se i suoi membri sono socializzati
allo svolgimento di ruoli particolari. I funzionalisti sostengono che svolgere dei ruoli sessuali assai
diversi a seconda del sesso fosse estremamente funzionale nelle società tradizionali, preindustriali.
Il neonato della specie umana è più indifeso di quello di qualsiasi altra specie animale per un lungo
tempo dopo la nascita, ed è quindi necessario che si provveda ad accudirlo. È opportuno che la ma-
dre, che lo partorisce e lo allatta, stia a casa e si prenda cura di lui. Stando a casa, i doveri domestici
tendono ad avere il sopravvento. Nello stesso modo è opportuno che il maschio, che fisicamente è
più potente e che non deve periodicamente portare i figli nel grembo né allattarli, si assuma i compiti
di cacciare, di difendere la famiglia dai nemici e dai predatori e che conduca il bestiame al pascolo.
Ma questi ruoli sessuali tradizionali sono ancora funzionali in una società industriale moderna?
Due teorici del funzionalismo, Talcott Parsons e Robert Bales (1955) sostengono di sì. Essi affer-
mano che in una famiglia moderna è necessaria la presenza di due adulti specializzati nello svolgi-
mento di ruoli specifici. Il ruolo “strumentale”, che generalmente spetta al padre, si incentra sul rap-
porto tra la famiglia e il mondo esterno. Il padre, per esempio, ha la responsabilità di guadagnare il
reddito che serve da sostegno per la famiglia. Il ruolo “espressivo”, che generalmente spetta alla ma-
dre, si incentra sui rapporti interni alla famiglia. Ecco quindi che la madre ha la responsabilità di elar-
gire il supporto affettivo necessario per tenere unita la famiglia. Il carattere strumentale del ruolo
dell’uomo comporta che egli sia l’elemento dominante e competente, mentre quello espressivo della
donna comporta che essa sia passiva ed affettuosa. L’unità familiare funziona, secondo Parsons e
Bales, in modo più efficace di quanto accadrebbe se le differenze di ruolo sessuale non fossero netta-
mente definite.

La prospettiva del conflitto


È chiaro che alcuni esponenti del funzionalismo tendono a difendere e giustificare lo status quo.
I suoi critici hanno sostenuto invece che i tradizionali ruoli sessuali possono essere stati funzionali
in una società preindustriale, ma che non hanno più senso nella società moderna diversificata; anzi, la
rigidità dei ruoli potrebbe essere addirittura disfunzionale nella società industriale, come è senz’altro
disfunzionale impedire alla popolazione femminile di partecipare attivamente alla vita economica.
La teoria del conflitto (Helen Hacker, 1951) sostiene che le donne possono essere considerate co-
me un gruppo di minoranza all’interno di una società, paragonabile alle minoranze razziali o di altro
tipo che subiscono delle discriminazioni. Randall Collins (1971, 1974) sostiene che le disuguaglianze
sessuali, così come qualsiasi altra forma di disuguaglianza sociale strutturata, si fondano su un con-
flitto di interessi tra il gruppo dominante e quello subordinato. Le disuguaglianze sessuali, impeden-
do al gruppo che ha uno status inferiore di fare il miglior uso possibile dei propri talenti, fanno sì
che abbia maggiori opportunità di farlo il gruppo che ha lo status superiore: gli uomini possono in-
fatti godere di uno status superiore solo se le donne ne hanno uno inferiore.
Il gruppo dominante trae vantaggio dall’assetto sociale esistente ed è scarsamente motivato a cam-
biarlo. Dato che in tutte le società l’assetto culturale rispecchia sempre gli interessi del gruppo do-
minante, i ruoli sessuali continuano a rinforzare il modello del dominio maschile.
La teoria funzionalista e la teoria del conflitto non sono comunque così incompatibili come potreb-
be apparire a tutta prima. Molti sociologi che si rifanno alla teoria del conflitto accettano l’ipotesi
che le disuguaglianze tra i sessi siano sorte probabilmente per il fatto di essere state un tempo fun-
zionali, anche se oggi non sono più tali. Molto sociologi funzionalisti, d’altro canto, convengono che
i ruoli tradizionali diventano disfunzionali nel mondo moderno. La cosa più importante è che gli uni
e gli altri concordano su di un punto: le differenze di genere esistenti sono di origine prevalentemen-
te sociale e non biologica.

Il maschilismo

Il dominio di un gruppo su un altro è sempre giustificato da un’ideologia che legittimi l’assetto so-
ciale e lo faccia apparire naturale e moralmente accettabile. La disuguaglianza tra i sessi è fondata sul
maschilismo, accettato sia dal gruppo dominante sia dal gruppo subordinato.
L’idologia maschilista si fonda sulla convinzione che le differenze di genere e la superiorità dell’uo-
mo rispetto alla donna affondino le radici nell’ordine naturale delle cose. Questa credenza è stata
parte integrante delle tradizioni culturali per migliaia di anni.
Perfino il linguaggio rispecchia la posizione dominante del maschio, sia pure in forme e misura di-
verse nelle varie lingue del mondo
Come la maggior parte delle ideologie che giustificano i vari tipi di disuguaglianza, l’ideologia ma-
schilista è sostenuta in una certa misura dalla religione. Nell’occidente, la stessa immagine di Dio è
maschile. Stando al racconto biblico, Dio creò l’uomo a propria immagine e somiglianza, mentre la
donna è frutto di un atto di creazione secondario. Gli antichi israeliti erano un popolo estremamente
patriarcale ed ancora oggi ogni ebreo maschio ortodosso deve recitare ogni mattina questa preghiera:

Che tu sia benedetto, o Dio nostro Signore, re dell’Universo, per non avermi fatto nascere gentile.
Che tu sia benedetto, o Dio nostro Signore, re dell’Universo, per non avermi fatto nascere schiavo.
Che Tu sia benedetto, o Dio nostro Signore, re dell’Universo, per non avermi fatto nascere donna.

Questa prevenzione è stata trasmessa al cristianesimo. Dal canto suo Gesù Cristo sembra sia restato
assai distante dagli atteggiamenti patriarcali del suo tempo, ma il cristianesimo che oggi conosciamo
è stato fortemente influenzato dagli ultimi insegnamenti di San Paolo, che esplicitamente considera-
va l’inferiorità del ruolo della donna come parte dell’ordine naturale voluto da Dio.

L’uomo... è l’immagine di Dio e rispecchia la gloria divina; la donna è il riflesso della gloria dell’uomo.
Perché l’uomo non è scaturito dalla donna; no, la donna è scaturito dall’uomo; e l’uomo non è stato
creato per il bene della donna, ma la donna per il bene dell’uomo. (Lettere ai Corinzi 11: 7-9).

In un’altra parte del Nuovo Testamento si legge:

Le mogli rispetteranno i mariti come essi rispettano il Signore, poichè come Cristo è il capo della Chie-
sa e serve tutto il corpo, così il marito è il capo della propria moglie; e come la Chiesa si sottomette a
Cristo, così le mogli si sottometteranno in tutto ai loro mariti. (Lettera agli Efesi 5: 22-23)

Anche oggi molte chiese e sette cristiane assegnano soltanto agli uomini la condizione di sacerdote.
Nelle società occidentali gli atteggiamenti maschilisti sono tuttora presenti e ottengono un largo
consenso sulle qualità e sulle capacità specifiche degli uomini e delle donne. Credenze prive di fon-
damento riguardanti la “mascolinità” e la “femminilità” sono accettate acriticamente da milioni di
persone di entrambi i sessi e si incarnano nel concetto che loro hanno di sé, determinando il modo
in cui entrano in rapporto le une con le altre e conducono la loro vita privata (Klein, 1975; Rothman,
1978). Il gruppo subordinato tende ad accettare l’ideologia che legittima il gruppo dominante perché
considera l’assetto esistente come una cosa “naturale” e non lo contesta. Questo tipo di atteggia-
mento, definito da Marx come “falsa coscienza”, è un modo soggettivo di intendere la propria situa-
zione che non corrisponde alla realtà oggettiva. Solo quando il gruppo subordinato si libera dalla fal-
sa coscienza, è in grado di sfidare il sistema esistente e di pretendere che si attuino dei cambiamenti.
Malgrado i molti successi ottenuti dal movimento delle donne è evidente che molte donne perman-
gono in uno stato di falsa coscienza e continuano ad accettare un sistema che sancisce la loro inferio-
rità. Un gran numero di studi empirici ha messo in luce la tendenza delle donne ad interiorizzare la
rigida immagine sociale, o stereotipo, che le dipinge come inferiori e prive di competenze. Un nume-
ro di donne abbastanza consistente, in definitiva, non gradisce che avvengano troppi cambiamenti
nei ruoli sessuali esistenti. L’ideologia maschilista è ancora profondamente radicata nella cultura e
nella coscienza dello stesso gruppo subordinato.

Il femminismo e gli studi di genere

Il femminismo è un movimento sociale che punta a superare le condizioni di inferiorità della donna
in qualunque campo si manifestino (politico, economico, familiare, educativo). Benché le sue radici
affondino nel secolo scorso, esso ha acquisito una forza e un impatto sociale particolarmente rile-
vanti soprattutto nella seconda metà del Novecento. Se il “vecchio” femminismo ottocentesco per-
seguiva in particolare l’emancipazione della donna tramite la conquista dei diritti civili, quali la pa-
rità politica, giuridica ed economica, il femminismo moderno porta avanti un programma più radica-
le, definito in termini di liberazione della donna, il cui scopo è di trasformare non solo le condizio-
ni di vita, ma la stessa cultura della società, per far posto finalmente in essa al carattere specifico e
ineliminabile del genere femminile. È soprattutto a partire dai primi anni Sessanta che, avvalendosi
di tecniche di “crescita della coscienza” e di altri metodi, il movimento delle donne ha acquisito pie-
na consapevolezza delle varie forme di discriminazione delle quali la donna è fatta oggetto. Si posso-
no individuare due diverse prospettive teoriche tuttora compresenti all’interno del movimento delle
donne:
1) la prospettiva dell’emancipazione, che eredita le posizioni del “femminismo liberale”, propone
la logica delle “pari opportunità”, promuove la somiglianza tra i sessi e prospetta una progressiva
estinzione delle differenze (con qualche rischio di assunzione del modello dominante maschile);
2) il pensiero della Differenza, maturato all’interno del “femminismo radicale”, punta alla valoriz-
zazione delle differenze tra maschi e femmine, rivendicando l’opera di civilizzazione che le donne
hanno svolto nei secoli e le diversità del pensiero femminile nelle sue molte espressioni.
È all’interno di tale corrente che si sono sviluppati gli “studi di genere”. Il concetto di genere venne
introdotto per la prima volta nel 1975 dall’antropologa femminista Gayle Rubin, per indicare “l’in-
sieme dei processi, adattamenti modalità di comportamento e di rapporti, con i quali ogni società
trasforma la sessualità biologica in prodotti dell’attività umana e organizza la divisione dei compiti
tra gli uomini e le donne, differenziandoli l’uno dall’altro”. Il genere è dunque il modo in cui l’indivi-
duo “legge” e “interpreta” il proprio e l’altrui carattere sessuale. Tale concetto è stato introdotto per
sopperire all’unilateralità delle precedenti trattazioni delle differenze sociali tra uomo e donna, che
erano maturate nel contesto dei movimenti femministi. Oggi si chiamano infatti “studi di genere”
(gender studies) quelle ricerche che una volta andavano sotto il titolo di “studi delle donne” (women
studies). Il nuovo nome vuole evidenziare che il tema dell’indagine dev’essere la compresenza ineli-
minabile dei due sessi nella struttura e nella vita della società; all’interno dei movimenti femministi è
emersa la chiara consapevolezza che l’analisi della condizione femminile non può mai essere disgiun-
ta da unaa parallela analisi di quella maschile, e che la liberazione della donna non può passare da
una soppressione delle differenze di genere, ma da una loro ridiscussione.

La socializzazione ai ruoli sessuali

I ruoli sessuali vengono appresi nel corso del processo della socializzazione. Le caratteristiche fon-
damentali dell’identità sessuale e dei ruoli sessuali vengono appresi molto precocemente nell’ambito
della famiglia e successivamente vengono rinforzate dalla scuola, dal gruppo dei pari, dai mezzi di
comunicazione di massa e da vari altri agenti sociali.

La famiglia
Dal momento della nascita i genitori trattano i figli in modo diverso a seconda del loro sesso. Le
bambine vengono trattate con fare protettivo, ai bambini è concessa maggiore libertà. Le bambine
sono apprezzate quado si comportano in modo docile e amabile, non sono stimolate ad essere intra-
prendenti e competitive, e ricevono di solito maggiore approvazione per la grazia e la dolcezza che
per l’intelligenza. Ai bambini, invece, viene impartito un addestramento al ruolo sessuale più rigido.
Alle bambine si possono permettere certi comportamenti da maschietto, ma ai bambini non è mai
permesso di comportarsi da femminucce; si insegna al bambino a “comportarsi come un uomo”, a
reprimere le emozioni e in particolare le paure. Come fa notare Ruth Hartley (1970) richiedendo al
bambino di evitare qualsiasi comportamento “da femminuccia” si alimentano atteggiamenti di ostilità
verso tutto ciò che è femminile, che successivamente possono far sviluppare in lui un senso di di-
sprezzo per l’altro sesso.

La scuola
La scuola rinforza in molti modi gli stereotipi sessuali tradizionali. Il più evidente è forse il modo
in cui alcune attività scolastiche o parascolastiche - corsi di studio, hobby, sport, ecc. - sono segre-
gate a seconda del sesso.
Poiché si pensa, tradizionalmente, che il ragazzo è destinato a provvedere al sostentamento della
famiglia, l’istruzione è considerata più importante per lui che per la ragazza, quindi la scuola tende
a preoccuparsi di più del successo scolastico dei maschi e delle loro possibilità di fare l’università.

I mezzi di comunicazione di massa


In tutte le forme di mass media è presente una forte accentuazione dei tradizionali stereotipi riguar-
danti l’identità e il ruolo sessuale. Forse la rappresentazione più insidiosa in questi mezzi è l’imma-
gine della donna nella pubblicità. Il tipico ritratto la raffigura o come oggetto sessuale per reclamiz-
zare vari prodotti per uomini, o come casalinga per reclamizzare prodotti per la casa: “La pubblicità
legittima il ruolo ideale, stereotipato, della donna come tentatrice, moglie, madre e oggetto sessuale, e
raffigura le donne come meno intelligenti e più dipendenti degli uomini. Fa credere alle donne che il
loro ruolo principale sia quello di piacere agli uomini e che esse si realizzino diventando mogli, madri
e casalinghe” (Lucy Komisar, The new feminism, 1972).

I costi del maschilismo e il futuro dei ruoli sessuali

Mantenere in piedi i ruoli sessuali tradizionali comporta un costo sociale, economico e psicologico.
Essi negano il pieno uso dei propri talenti alla metà della popolazione e richiedono l’osservanza di
norme di comportamento oramai anacronistiche.
Una delle conseguenze più evidenti del maschilismo sta nella limitazione che pone alle scelte pro-
fessionali delle donne causando loro un grave danno economico; altrettanto importanti sono però i
costi psicologici che gravano sulle donne. Di fatto a tutt’oggi l’opportunità di agire e di modellare
l’ambiente in modo creativo è riservata in gran parte agli uomini. Spesso le donne vivono questa
esperienza “di seconda mano”, attraverso il loro ruolo di sostegno agli uomini che agiscono, si muo-
vono, modellano il mondo. Nella misura in cui ciò avviene, il nocciolo dell’esperienza delle donne è
passivo, non attivo. La conformità alle caratteristiche stabilite dall’identità sessuale sottrae alle don-
ne un gran numero di opportunità nel campo dell’istruzione, della politica, della cultura e dell’eco-
nomia, lasciando loro in molti casi la sola possibilità di incarnare l’ideale femminile di perfetta casa-
linga o di bellezza conforme agli stereotipi proposti dalle pubblicità. Se accettano questi stereotipi
devono abbandonare ogni possibilità di sondare i propri talenti, se li rifiutano rischiano di andare in-
contro ai conflitti di ruolo e all’accusa di non essere femminili. E poiché il concetto che la donna ha
di sé dipende fortemente dall’aspetto fisico e dal ruolo di madre, il processo di invecchiamento è tale
che molte donne lo affrontano con difficoltà, talvolta con ripugnanza e vergogna. Per un uomo l’in-
vecchiamento non è una prova altrettanto dura: l’aspetto fisico non è altrettanto centrale nel ruolo
maschile tradizionale, e inoltre il lavoro offre all’uomo - spesso anche nel periodo del pensionamen-
to - una costante fonte di identificazione.
D’altra parte anche gli uomini sono soggetti ad alcune tensioni. Il ruolo tradizionalmente svolto da-
gli uomini è molto pressante e ricco di difficoltà. La probabilità che gli uomini si suicidino supera di
molto quello delle donne. Hanno il triplo delle probabilità di soffrire di gravi disturbi mentali. Ven-
gono colpiti da malattie connesse allo stress, come l’ulcera, l’asma, l’ipertensione, i disturbi cardiaci,
in una proporzione estremamente superiore. Diventano alcolizzati nella proporzione di sei ad uno
rispetto alle donne, e la grande maggioranza dei consumatori di droghe è di sesso maschile.
Nelle società industriali avanzate i ruoli sessuali stanno comunque cambiando rapidamente. Man
mano che l’economia si diversifica, la vecchia divisione del lavoro fondata sul sesso perde sempre
più la sua ragion d’essere. La tendenza verso una nuova concezione della sessualità libera le donne
dai vecchi criteri della “doppia morale” (una più permissiva per gli uomini e una più restrittiva per
le donne). I livelli sempre più alti raggiunti dalle donne nel campo dell’istruzione stimolano in loro
una maggiore libertà di scelta e una più forte motivazione ad esercitare tale scelta. Nel contempo, il
ruolo del maschio come unica fonte di sostentamento per la famiglia è soggetto a una rapida erosione
e la stessa sorte subisce il dominio del maschio sia nella famiglia che in altri settori della società.
Quale sarà il futuro assetto dei ruoli sessuali? L’ipotesi più probabile é che - perlomeno nei paesi
più industrializzati in cui la società é più aperta al cambiamento - si affermi un modello in cui molti
stili di vita e molti ruoli alternativi saranno considerati accettabili da parte sia degli uomini che delle
donne, che uomini e donne sperimentino, in modo interscambiabile, un’ampia gamma di ruoli.
DIFFERENZE DI GENERE

differenze tra i sessi = disuguaglianze sociali -> status inferiore delle donne
(“fatto di natura” autoevidente -> falsa coscienza)

sesso -> identità sessuale => riconoscimento di sé come maschio o femmina


vs
genere -> ruolo sessuale => tratti del comportamento culturalmente
appropriati ai membri dei rispettivi sessi

flessibile stabile

differenze differenze (essenzialismo)


culturali innate

a) BIOLOGIA monomorfismo -> dimorfismo

differenze anatomiche ( differente forza fisica -> uomo + forte)


differenze genetiche (uomo xy donna xx ) -> maschio sesso debole:
malformazioni
tasso di mortalità superiore
minore tolleranza alla sofferenza
minore resistenza alle malattie

b) PSICOLOGIA -> (cfr. Witkin ʻ62, Maccoby e Jacklin ʻ74, Houston ʻ83: differenze individuali)

-> Money ʻ69: “specie umana neutra al momento della nascita,


dal punto di vista delle caratteristiche psicosessuali”

-> psicoanalisi maschi: femmine:


autonomia connessione - relazioni
autosufficienza condivisione
distanza-competizione etica comunitaria
individualismo contatto

c) ANTROPOLOGIA -> M. Mead “Sesso e temperamento in 3 popoli primitivi della Nuova Guinea” 1935

Arapesh = personalità femminile carattere culturale


Mindugumor = personalità maschile dei ruoli sessuali
Tchambuli = ruoli capovolti

maggior parte delle culture = prevalenza del modello dominio maschile


( maschio dispotico)

sottomissione femminile
(femm. passive e premurose)

concezione della donna come “creatura delicata”: Europa, basso medioevo: ideale cavalleresco
società industrializzate: principio dellʼ uguaglianza (vs uguaglianza di fatto)

socializzazione dei ruoli sessuali

a) famiglia maschio -> addestramento + rigido al ruolo sessuale


mascolinità vs comportamenti “effemminati”
ostilità-disprezzo verso il femminile

b) scuola tendenza a preoccuparsi maggiormente del successo scolastico del maschio

c) mass media accentuazione degli stereotipi


oggetto sessuale
donna
casalinga
ADOZIONE DI MODELLI COERENTI DI RUOLI SESSUALI NELLE VARIE SOCIETÀ

prospettiva la famiglia è più efficiente se maschi


funzionalista e femmine svolgono ruoli diversi

società industriale padre: ruolo strumentale (esterno) -> dominante / competente


moderna:
Talcott Parsons
madre: ruolo espressivo (interno) -> passività / affettuosità
vs
altri funzionalisti => disfunzionalità dei ruoli tradizionali nella società industriale moderna

prospettiva del conflitto

H. Hacker -> donne => gruppo discriminato (conflitto di interessi tra g. subordinato e g. dominante)
R. Collins
discriminazione trae vantaggio dallo status quo ed
un tempo funzionale è scarsamente motivato al cambiamento

MASCHILISMO

dominio di un gruppo -> ideologia disuguaglianza tra i sessi -> ideologia maschilista:
attivo / passivo superiorità dellʼ uomo =
ordine naturale delle cose
( linguaggio, religione)

falsa coscienza -> il gruppo subordinato tende ad accettare lʼ ideologia


(Marx) del gruppo dominante come una cosa naturale

liberazione dalla falsa coscienza -> movimento delle donne (crescita della coscienza -> autocoscienza)

1) emancipazione -> pari opportunità rischio di assunzione


E. Badinter progressiva somiglianza tra i sessi del modello
estinzione delle differenze dominante maschile

2) Differenza -> valorizzazione delle differenze tra maschi e femmine:


L. Irigaray
femminile vs maschile
tatto / contatto logocentrismo
aderenza fallocentrismo
coinvolgimento autoaffermazione
udito (ascolto) primato della vista

3) multilateralità ed ambivalenza (androginia) liberazione dallʼ opposizione e dalla logica duale

Costi psicologici
del maschilismo maschi -> creativi, attivi, modellano lʼ ambiente
vs
a) per le donne femmine -> passive, oggetti e sostegno agli uomini

accettazione dellʼ ideale femminile -> difficoltà connesse al processo di invecchiamento


di “bellezza” e subordinazione nel lavoro
conflitto vs
rifiuto del ruolo: accusa di -> nevrosi e difficoltà di essere accettate
“mancanza di femminilità”

b) per gli uomini -> ruolo tradizionale pressante ed esposto a tensioni


reiezione della femminilità:
incapacità di esprimere le emozioni,
censura dellʼ ansietà e degli affetti (comp. virile)
atti di violenza, alcol e droghe, suicidi, disturbi mentali
La Globalizzazione
Che cosa significa «globalizzazione»
La globalizzazione è un fenomeno sociale, economico e politico che si è sviluppato dalla fine del
Novecento, per una serie di condizioni favorevoli che hanno portato alla realizzazione di una stabile
rete di rapporti economici, sociali e culturali fra le più diverse e lontane aree geografiche.
Il progressivo superamento delle frontiere nazionali ha in breve tempo determinato alcuni impor-
tanti risultati: lo stabilirsi di grandi flussi commerciali e di rapidi spostamenti di capitali, la costante
circolazione di persone, il continuo e rapido fluire di informazioni e conoscenze, l’adeguamento del
sistema bancario e finanziario alle nuove tecnologie, lo sviluppo di una rete di trasporti in grado di
collegare quasi tutte le zone del mondo, l’accelerazione dello sviluppo tecnologico soprattutto nel
settore dell’informatica. All’espandersi dei processi di globalizzazione ha notevolmente contribuito
lo sviluppo dei mass media, che hanno creato una rete di comunicazioni tale che grandi eventi in
aree geografiche lontane provocano effetti a livello locale, mentre vicende rilevanti sul piano locale
possono avere ripercussioni a livello planetario.
La stessa vita sociale ha dovuto registrare una serie di trasformazioni:
a) un nuovo tipo di mobilitazione politica, con la nascita di movimenti ed associazioni impegnati
su interessi specifici o nella difesa di valori universali, come i diritti umani, la pace, la lotta alla
povertà, la salvaguardia ambientale;
b) un’accelerazione del processo di secolarizzazione, inteso come emancipazione della società
civile dal controllo religioso e come rinvio della fede alla sfera privata delle singole coscienze;
c) una crisi delle culture locali, in larga parte sostituite dalla generale cultura del consumismo
diffusa dai mezzi di comunicazione.
Una prima forma di “globalizzazione del mondo” può essere fatta risalire ai secoli XV-XVI,
quando le scoperte geografiche aprirono alle navi europee tutti i mari e tutti i continenti e misero in
contatto, talvolta drammatico, popoli che prima si ignoravano. Oggi si parla di globalizzazione (da
globo = mondo) per indicare quella stretta rete di relazioni e di reciproche dipendenze – in partico-
lar modo di tipo economico e culturale – che unisce i paesi del mondo e si riflette, nel bene e nel
male, su masse enormi di popolazione.

La globalizzazione economica e culturale

Tre fattori della globalizzazione sono diventati particolarmente significativi negli ultimi decenni:
a) la crescita delle multinazionali; b) la nuova divisione internazionale del lavoro; c) la trasforma-
zione in ambito mondiale dei mass media.

a) Storicamente la crescita di grandi organizzazioni d’affari è avvenuta all’incirca in tre fasi:


1. Capitalismo familiare (XIX secolo e primi anni de XX). Le grandi aziende in Europa e Stati
Uniti erano amministrate in maniera predominante da imprenditori individuali e poi passate
ai loro discendenti.
2. Capitalismo manageriale (dall’inizio alla metà del XX secolo). A questo stadio, i manager
professionisti cominciarono ad avere maggiore influenza in quanto le strutture e le capacità
familiari non erano in grado di gestire la crescente complessità degli affari nazionali e inter-
nazionali.
3. Capitalismo istituzionale (dalla metà del XX secolo in avanti). E’ costituito da un reticolo di
aziende i cui leader sono occupati a prendere decisioni non in una singola azienda, ma in
una rete di organizzazioni internazionali. In questo periodo si ha lo sviluppo delle multina-
zionali, che operano oltre i confini nazionali. Queste organizzazioni hanno beni patrimoniali
e fatturati annui molto più consistenti del Prodotto Interno Lordo della maggior parte dei
paesi del mondo. Così, aziende molto note come Ford, General Motors, Shell, Toyota,
Wolkswagen, Nestlè, Sony, Pepsi, Coca-Cola, Kodak, Xerox, etc. hanno a loro disposizione
un immenso potere economico.

b) La vecchia divisione del lavoro viene rimpiazzata da una nuova divisione del lavoro, per mezzo
della quale le aziende nei paesi sviluppati hanno cominciato a spostare la produzione nei paesi del
Terzo Mondo per risparmiare denaro, visto che il costo del lavoro è più conveniente (delocalizza-
zione). Ciò ha tagliato i costi di produzione e, al tempo stesso, ridotto i posti lavoro nelle industrie
del mondo sviluppato.

c) La proprietà, le immagini e i messaggi dei mass media stanno diventando sempre più uniformi
nell’intero globo. La televisione, l’editoria (giornali, riviste e libri), il cinema, internet ecc. sono in
mano di poche multinazionali.

La teoria del “New World Order”. La rete di istituzioni che definisce la struttura del nuovo
sistema economico globale è stata interpretata, in termini strutturali, da parte di studiosi e “teorici
del complotto”, come soggetta al controllo di individui che rappresentano e cercano di far avanzare
gli interessi di una nuova classe capitalistica internazionale. Una classe formata sulla base di
istituzioni che comprendono decine di migliaia di gruppi multinazionali, unità operative del
capitalismo globale, portatori di capitale e di tecnologia e agenti principali del nuovo ordine
imperiale. Le multinazionali non sono le uniche basi organizzative, ma a queste si aggiungono la
Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale (F.M.I.) e le altre istituzioni finanziarie
internazionali (I.F.I.) che costituiscono la «comunità finanziaria internazionale», altresì denominata
«rete finanziaria globale» (Barnet e Cavenagh,1994).
Inoltre, il cosiddetto “Nuovo Ordine Mondiale” avrebbe inventato una schiera di programmi
strategici globali e di tribune politiche, come il Gruppo dei Sette (G-7), la Trilateral Commission
(T.C.) e il World Economic Forum (W.E.F.), mentre gli apparati statali delle nazioni al centro del
sistema sarebbero stati ristrutturati per rispondere efficacemente agli interessi del capitale globale.
L'insieme di queste istituzioni costituisce una parte fondamentale del nuovo sistema di «governance
globale», da alcuni considerato come il “nuovo imperialismo”.

Nel disegno di una divisione tra Est e Ovest del mondo successivo alla seconda guerra mondiale,
l'egemonia degli Stati Uniti nel sistema economico mondiale, il grande processo di decolonizzazio-
ne e la decisione (conferenza di Bretton Woods, 1944) di imporre un ordine economico mondiale
liberista, crearono l'ossatura per venticinque-trent'anni di continui e rapidi tassi di crescita economi-
ca e di sviluppo capitalistico: la cosiddetta «Età dell'oro del capitalismo» (Marglin e Schor, 1990).
In molti casi lo stato fu convertito in un grosso organismo per lo sviluppo nazionale, realizzando
un modello economico basato su principi nazionalistici (protezione dell'industria nazionale,
approfondimento e l'estensione del mercato nazionale) e sul concetto di modernizzazione.
Ma alla fine degli anni Sessanta, a causa della stagnazione della produzione, del calo della produt-
tività, dell'intensificazione dei conflitti di classe (con le rivendicazione di salari più alti, di maggiore
assistenza sociale e migliori condizioni di lavoro), le fondamenta di questo sistema vennero
intaccate da crepe che cominciarono a farlo vacillare. Venne allora avviato un processo di
internazionalizzazione del capitale e delle sue forme produttive (investimenti per estendere il
commercio ed espandere la produzione) e speculative. La forza conduttrice di questo processo fu
una politica di liberalizzazione e di deregolamentazione. Questa strategia fu progettata e
incoraggiata dagli economisti associati alle istituzioni finanziarie internazionali, e venne adottata in
tutto il mondo dai governi dominati dal capitale transnazionale o da quelli che ne erano soggetti.
L'istituzione del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale hanno così stabilito una
cornice istituzionale per un processo di sviluppo capitalistico e per il libero scambio internazionale.
Negli Stati Uniti degli anni Quaranta, inizialmente le forze protezioniste impedirono l'istituzione di
un terzo elemento, l'I.T.O. (International Trade Organization). In una soluzione di compromesso,
l'istituzione del G.A.T.T. (General Agreement on Tariffs and Trade, Accordo generale sulle tariffe
e il commercio), un "forum" progettato per liberalizzare il commercio mediante vari negoziati, aprì
la strada per un mercato mondiale a basse tariffe e l'eliminazione di altre barriere per commerciare
liberamente in beni e servizi.
Fu soltanto nel 1994, cinquant'anni più tardi, che il progetto originale fu completato nella forma
dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (World Trade Organization - W.T.O. o O.M.C.),
istituita come parte del continuo sforzo di rinnovamento dell'ordine economico mondiale esistente e
per stabilire ciò che il presidente Bush e la Heritage Foundation, un "forum" della destra politica
con sede a Washington, definirono il «Nuovo Ordine Mondiale». Il perseguimento del Nuovo Or-
dine Mondiale e la vasta adozione di piani di aggiustamento strutturale portavano a un nuovo, plau-
sibile quadro politico per un regime globale di libero scambio e alla costituzione di una nuova “eco-
nomia imperiale”. Il suo unico elemento mancante era un accordo generale per governare il libero
flusso del capitale di investimento. Con questa finalità i rappresentanti politici del capitale imperiale
progettarono il Multilateral Agreement on Investment (M.A.I.), dapprima dietro le porte chiuse
dell'O.E.C.D (Organisation for Economic Co-operation and Development), il club delle nazioni più
ricche e più potenti del mondo, poi tramite la già citata Organizzazione Mondiale del Commercio,
l'ultima e una tra le più efficaci armi istituzionali.

Il mondo oggi è avvolto da una fitta rete di trasporti – aerei, autostradali, ferroviari, marittimi –
attraverso i quali si muovono, rapidamente e a costi sempre più bassi, persone e cose. Grazie a com-
puter, televisioni, satelliti, reti telefoniche e telematiche si possono inviare in tempo reale da un ca-
po all’altro del pianeta, notizie, immagini, messaggi e suoni. Via Internet viaggiano le quotazioni di
borsa e si spostano i denari virtuali che gli uomini di affari usano per le operazioni finanziarie.
Si può dire che oggi i paesi del mondo sono collegati fra loro come non mai in passato. Non c’è
avvenimento accaduto in qualche luogo della Terra che non sia immediatamente conosciuto e che
non possa avere conseguenze in moltissimi altri luoghi del pianeta. Una stretta interdipendenza (o
dipendenza reciproca) unisce infatti tutti i paesi del mondo globalizzato.
Con la globalizzazione si è sviluppata anche la tendenza ad uniformare in ogni parte del mondo la
maniera di vivere, almeno fra le persone benestanti e urbanizzate. Un turista può fare il giro del pia-
neta senza mai provare la sensazione di trovarsi in un paese diverso. Nelle grandi città di tutti i con-
tinenti, perfino nel cuore dell’Africa, trova infatti gli stessi edifici di vetro e acciaio, gli stessi hotel
di lusso dalle identiche forme architettoniche, costruiti dalle stesse catene alberghiere (Accor, Hil-
ton, Jolly, NH, Sofitel, etc.), le stesse autostrade, le camere d’albergo arredate alla stessa maniera.

Negli ultimi tempi però in molti paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, si va diffon-
dendo il timore che l’affermarsi di consumi e mode occidentali porti alla graduale scomparsa di
molte tradizioni culturali locali. È nato cioè, nei confronti dell’occidente, un atteggiamento misto, di
attrazione-rifiuto. Accanto alla voglia di godere della cultura e della tecnologia occidentale, cresce
un’avversione dovuta, in parte, al ricordo del colonialismo e dell’arroganza razzista dei bianchi, e in
parte all’orgoglio di appartenere a grandi culture, non inferiori a quelle europee e americane, ma
minacciate oggi dall’influenza dei modelli occidentali. L’atteggiamento di rifiuto è particolarmente
forte all’interno del mondo islamico.

Oggi tutti i paesi del mondo sono coinvolti, in maggiore o minor misura, in un unico mercato glo-
bale. Ciò significa che merci prodotte in paesi lontanissimi possono giungere facilmente sui nostri
mercati, come le nostre sui loro (chi non ha mai visto su uno stereo, una maglietta, un giocattolo,
l’etichetta made in Taiwan, ad esempio?). Significa anche che, se lo trova conveniente, un uomo
d’affari può investire il suo denaro in imprese straniere o un imprenditore può far produrre le sue
merci da operai d’altri paesi, in qualunque punto del globo. Per gli imprenditori la scelta di trasfe-
rire parti della lavorazione e anche interi impianti industriali in paesi poveri dell’Europa dell’Est,
d’Asia o dell’America Latina risulta vantaggiosa, perché in questi paesi la manodopera costa meno,
non avendo ancora conquistato i diritti sindacali ottenuti in occidente. Inoltre lo sviluppo delle nuo-
ve tecnologie informatiche e telematiche permette di dirigere e controllare le varie fasi di produzio-
ne anche da molto lontano. Perciò il fenomeno dei “trasferimenti industriali”, chiamato delocalizza-
zione, ha assunto grandi dimensioni e nell’Europa occidentale è stato causa di una lunga serie di
licenziamenti.

La globalizzazione economica ha alcuni meriti: nell’emisfero sud del pianeta la miseria è ancora
diffusa, ma alcuni paesi dell’Asia orientale – in particolare Singapore, Hong-Kong, Taiwan, Corea
del sud – hanno conosciuto fin dagli anni Settanta una rapida crescita economica. Negli anni Ottan-
ta la Cina e, più di recente, l’India – i due giganti demografici dell’Asia, con i loro quasi due miliar-
di e mezzo di abitanti – hanno dato inizio a un irresistibile sviluppo economico che ha portato centi-
naia di milioni di persone a godere di nuovo benessere. Secondo gli economisti, questo stupefacente
balzo in avanti di un’area così vasta del mondo è in gran parte dovuto alla globalizzazione dell’eco-
nomia e dei mercati. Agli effetti della globalizzazione viene attribuita anche la crescita generalizza-
ta, a partire dal 2005, del reddito complessivo del pianeta. Essa deriva dalla nascita di industrie e
fabbriche in aree del mondo in precedenza agricole e arretrate. Grazie alla manodopera a buon mer-
cato e agli investimenti stranieri, questi paesi di recente industrializzazione riescono a produrre a
basso costo e contribuiscono e tenere bassi i prezzi di beni e servizi sul mercato mondiale, frenando
l’inflazione.

Nonostante questi successi, nell’età della globalizzazione è aumentata nel mondo la disuguaglian-
za sociale, cioè la distanza fra ricchi e poveri, che invece negli anni precedenti era andata costante-
mente calando. Negli ultimi decenni i pochi ricchi sono diventati sempre più ricchi e i molti poveri
sempre più poveri. Oggi singoli individui sono ormai più ricchi di interi stati: basti pensare che il
patrimonio delle 15 persone più ricche del mondo supera la ricchezza complessiva di tutti i paesi
dell’Africa a sud del Sahara.
Fra i paesi ricchi – quelli che detengono il potere economico, la conoscenza scientifica, la forza
militare – e quelli poveri – che sono oppressi dai debiti e dalla fame – la differenza è enorme.
La disuguaglianza sociale aumenta anche all’interno dei paesi industrializzati, dove si allarga a
forbice la differenza fra ricchi e poveri. Si calcola che nel mondo globalizzato un miliardo e 200
milioni di esseri umani – per metà bambini al di sotto dei 5 anni – sopravvivano a stento, con
l’equivalente di un dollaro al giorno, e anche con meno. La povertà globale e l’ingiustizia sociale
sono problemi gravissimi, perché offendono la dignità e i diritti della persona, condannando una
larga parte dell’umanità a vivere in condizioni disumane. A queste ragioni umanitarie si aggiungono
le preoccupazioni di economisti e politici che nella povertà estrema vedono un ostacolo allo svilup-
po e un pericolo per la pace: chi è troppo povero, infatti, può comprare a malapena lo stretto neces-
sario per vivere, non ha soldi per l’istruzione o per raggiungere alte qualifiche professionali, perciò
difficilmente può contribuire al progresso generale. Inoltre le forti disuguaglianze sociali spingono
le masse disperate all’emigrazione e possono essere causa di tensioni o di rivolte feroci.

Le teorie sociologiche della globalizzazione

I classici della sociologia moderna – Émile Durkheim, Max Weber e Karl Marx – hanno condiviso
la definizione territoriale della società ed accettato il modello della società nazionale e statale. Ma
ora questa concezione viene posta in discussione dal fenomeno della globalizzazione, che ha messo
in crisi l’equivalenza tra società e Stato nazionale, per cui gli scienziati della società si vedono co-
stretti a cambiare il loro modo di pensare e ad orientare in modo nuovo le proprie teorie di fronte al-
la molteplicità di aspetti presentati da un mondo senza più confini.
In dissenso con la sociologia tradizionale, sta dunque prendendo forma una sociologia della globa-
lizzazione, un insieme ancora disorganico di teorie, ipotesi di lavoro e progetti di ricerca fra loro
contraddittori: il dibattito sulla globalizzazione si basa, infatti, su una controversia riguardante le
unità di analisi sociologica che potranno sostituire la «vecchia» sociologia, ancora legata alla rap-
presentazione di mondi sociali ordinati su base nazionale-statale, mentre stanno nascendo nuovi
ambiti di ricerca, come ha messo in evidenza la sociologia delle migrazioni.
L’attenzione della sociologia si sposta pertanto sul sistema-mondo, che si ritiene abbia avuto ori-
gine dal formarsi di spazi sociali transnazionali e dalla nascita di un sistema capitalistico mondiale,
ancora fondato sulla divisione del lavoro e sulle disuguaglianze sociali.
Allo stato attuale degli studi, si è giunti alla conclusione che il sistema-mondo si fonda su una serie
di contraddizioni che rappresentano due facce della stessa medaglia: globalizzazione e regionalizza-
zione, congiunzione e frammentazione, centralizzazione e decentramento. La sociologia dell’800
era divisa dalla storica controversia tra un preponderante peso dei fattori economici (Marx) e un
pluralismo in cui l’approccio economico si combinava con quello sociale e culturale (Weber); nel
primo decennio del nuovo secolo, i principali autori della sociologia della globalizzazione (Waller-
stein, Held, Robertson, Bauman, Giddens) si dividono sulle origini e sugli effetti della globalizza-
zione. Alcuni affermano che l’economia capitalistica e la tecnologia rappresentano il motore che
accelera in senso positivo il processo di globalizzazione; altri sostengono che la politica interna-
zionale, la globalizzazione della cultura e dell’industria culturale sono la principale causa delle di-
storsioni del sistema-mondo, il quale provoca nuove disuguaglianze sociali su scala internazionale
(ricchezza globale e povertà locale).

Il sociologo ed economista Immanuel Wallerstein (Il sistema mondiale dell'economia moderna, 3


voll. 1978, 1982, 1995) sostituisce le singole società separate con un unico sistema-mondo, nel
quale società, governi, imprese, culture, classi sociali e individui devono tutti collocarsi ed affer-
marsi all’interno di un sistema capitalistico fondato sulla divisione del lavoro («L’intero globo ope-
ra all’interno della cornice e del sistema di regole di una divisione del lavoro vincolante, totale, che
noi chiamiamo economia mondiale»).
Secondo lo studioso, l’economia mondiale capitalistica è composta da tre elementi fondamentali:
a) un mercato unico, dominato dal principio del massimo profitto; b) la presenza di strutture sta-
tali che «ostacolano» il libero funzionamento del mercato capitalistico; c) l’articolarsi su tre livelli –
spazi centrali, semiperiferie, regioni e paesi periferici (l’autore non specifica i criteri per individuare
e delimitare questi livelli) – della situazione di sfruttamento nell’ambito della quale avviene l’ap-
propriazione del pluslavoro. All’interno di questo mercato mondiale, si verificano e si moltiplicano
i conflitti e le crisi di ristrutturazione, che rafforzano la distribuzione del potere e la disuguaglianza.
Pertanto, l’universalizzazione della logica capitalistica provoca forme di opposizione su scala mon-
diale, che Wallerstein individua nelle reazioni fondamentaliste antioccidentali ed antimoderne, nei
movimenti ecologici, nelle correnti neonazionalistiche: così, questo nuovo sistema capitalistico, che
fa coincidere la globalizzazione con il mercato mondiale, produce sia l’integrazione, sia la disgrega-
zione del pianeta.

Secondo il sociologo inglese Anthony Giddens, la globalizzazione rappresenta uno dei tratti
dominanti della modernità. Frutto della separazione dello spazio e del tempo, la globalizzazione
viene definita come "l'intensificazione di relazioni sociali mondiali che collegano tra loro località
distanti facendo in modo che gli eventi locali vengano modellati dagli eventi che si verificano a
migliaia di chilometri di distanza e viceversa". In sostanza i processi di globalizzazione si
manifestano come intersezione di esperienze, come intrusione della distanza nel locale. Il globale
entra nella vita quotidiana degli individui soprattutto attraverso i processi di mediatizzazione
dell'esperienza: rivoluzionando le nozioni tradizionali di spazio e tempo, i media elettronici hanno
reso possibile lo stabilirsi di relazioni sociali indipendenti dai contesti locali di interazione. Eventi
lontani possono divenire altrettanto o più familiari dell'universo di presenze locali con le quali
l'individuo entra quotidianamente in contatto e la distanza può dunque essere integrata nel quadro
dell'esperienza personale. Rielaborando e superando la teoria del sistema-mondo di Wallerstein,
Giddens vede la globalizzazione come il dispiegarsi in tutte le dimensioni istituzionali della
modernità. Attualmente, secondo Giddens, gli individui divengono membri di una comunità globale
dalla quale nessuno può chiamarsi fuori. Secondo Giddens all'indebolimento del senso di
appartenenza alla comunità nazionale corrisponderebbe il rafforzamento di una identità globale, la
cui costruzione sarebbe essenzialmente favorita dai media elettronici. Lo sviluppo di relazioni
sociali smorza il sentimento nazionalistico e simultaneamente può favorire la rinascita dei
particolarismi regionali e locali.

Roland Robertson (Globalizzazione: Teoria Sociale e Cultura Globale, 1992), sottolinea l’am-
piezza e la profondità con le quali si è affermata nella coscienza comune "la consapevolezza che il
mondo. intero è ormai un solo luogo". Per Robertson la globalizzazione in atto e la globalizzazione
appresa, riflessa dai mass-media, sono due aspetti dello stesso processo: occorre, per Robertson, te-
ner desta l’attenzione sulla fragilità di questa conditio humanitatis alla fine del xx secolo. Bisogna
indagare su quale aspetto assuma il mondo nella produzione transculturale di modi di essere e di
simboli culturali. La globalizzazione culturale contrasta l’identificazione dello Stato nazionale con
la società nazionale, producendo o facendo incontrare in una dimensione transculturale molteplici
stili di comunicazione e di vita, attribuzioni, responsabilità, rappresentazioni di sé o di altri, di grup-
pi ed individui. Il locale e il globale, argomenta Robertson, non si escludono. Al contrario, il locale
deve essere compreso come un aspetto del globale. Globalizzazione significa anche l’unirsi, l’in-
contrarsi reciproco di culture locali, che in questo clash (conflitto) of localities devono essere ride-
finite nei loro contenuti. Robertson propone di sostituire il concetto fondamentale di globalizzazio-
ne culturale con glocalizzazione, una fusione tra "globalizzazione" e "localizzazione". Questa sin-
tesi di parole, "glocalizzazione", implica l’assunto che l’idea di poter comprendere il mondo presen-
te, ciò che in esso declina o si viene affermando, senza misurarsi e riflettere su concetti come quelli
di politiche culturali, di capitale culturale, di differenze culturali, appare assurda. La "cultura
globale" non può essere intesa staticamente, ma solo come un processo dialettico, secondo il
modello della "glocalizzazione", nella quale elementi contraddittori sono compresi e decifrati nella
loro unità. In questo senso si può parlare di paradossi delle culture "glocali". La globalizzazione -
apparentemente ciò che è enormemente grande, ciò che è all’esterno, ciò che alla fine arriva e
schiaccia tutto il resto - può essere colta nelle piccole cose concrete di tutti i giorni, nella propria
vita, nei simboli culturali che portano tutti la sigla del "glocale". Tutto ciò può essere inteso anche
così: solo come ricerca culturale glocale (ricerca sull’industria, sulla disuguaglianza, sulla tecnica,
sulla politica) la sociologia della globalizzazione diviene empiricamente possibile e necessaria. In
base a quanto s’è detto, l’universalizzazione e l’unificazione su scala mondiale di istituzioni,
simboli e stili di comportamento (per esempio McDonald, i blue jeans, la democrazia, le tecnologie
dell’informazione, le banche, i diritti umani ecc.) e la valorizzazione e riscoperta delle culture e
delle identità locali (il pop tedesco e il rai nordafricano, il carnevale africano di Londra e il würstel
bianco Hawaii ) non costituiscono una contraddizione. Piuttosto - per prendere l’esempio dei diritti
umani - essi in primo luogo vengono affermati in pressoché tutte le culture come diritti universali e,
in secondo luogo, come tali vengono spesso affermati e interpretati in maniera assai differente.

David Held dimostra come la globalizzazione abbia superato il concetto di sovranità politica per
l’importanza assunta dagli accordi internazionali, dalla politica internazionale di sicurezza, dall’in-
ternazionalizzazione dei processi politici decisionali, dal traffico delle merci e dalla divisione del
lavoro su scala mondiale. Tutto ciò sta progressivamente portando verso la perdita di sovranità degli
Stati nazionali: riduce quindi la libertà d’azione dei governi, induce un cambiamento delle istituzio-
ni e delle organizzazioni statali, rendendo sempre più necessaria la presenza di un governo mondia-
le, con una nuova concezione della sovranità strutturata a livello regionale, nazionale ed internazio-
nale. Si tratta di fronteggiare i pericoli globali di una società mondiale del rischio, rappresentati dal-
la crisi ecologica cosmopolitica (buco dell’ozono, effetto-serra, variazioni violente del clima, riper-
cussioni sulla salute dell’uomo, estinzione di specie animali e vegetali) dovuta agli eccessi tecnico-
industriali indirizzati a produrre una sempre maggiore ricchezza; dai contrasti determinati dalla po-
vertà, che rappresenta il più grave problema del pianeta; dalla minaccia delle armi di annientamento
di massa; dalle guerre locali; dal terrorismo fondamentalista. Tutto ciò rimette in discussione gli
schemi tradizionali di sicurezza e sottolinea con forza la necessità di una governance mondiale.

Il sociologo Zygmunt Bauman ha una visione piuttosto pessimistica degli scenari mondiali e della
nascente società globale, in quanto ritiene che la globalizzazione e la localizzazione siano le forze
motrici che spingono verso una nuova «polarizzazione e stratificazione della popolazione mondiale
in ricchi globalizzati e poveri localizzati». Egli scrive, a tale proposito: «Globalizzazione e localiz-
zazione possono essere facce inseparabili della stessa medaglia, ma le due parti della popolazione
mondiale vivono su lati differenti e ne vedono solo una faccia [...] Alcuni sono cittadini del mondo,
altri sono incatenati al loro posto [...] La globalizzazione è in primo luogo e innanzitutto una nuova
ripartizione di privilegi e privazioni di diritti, di ricchezza e povertà, di possibilità e di mancanza di
prospettive, di potenza e impotenza, di libertà e assenza di essa».
Avendo perso fiducia nella capacità degli Stati nazionali di fare una valida politica internazionale,
Bauman non crede nella possibilità di una «solidarietà cosmopolitica», non pensa che si possa risol-
vere il problema fondamentale del «futuro del lavoro»: se il capitalismo si sbarazza del lavoro, la
disoccupazione diventa un pericolo che in prospettiva riguarda tutti, la stessa democrazia come for-
ma di vita. Inoltre, lo stesso capitalismo globale, qualora si liberi della responsabilità di assicurare
occupazione e democrazia, perde la propria legittimità ad esistere. È necessario, pertanto, predispor-
re idee e modelli per un nuovo contratto sociale capace di fondare una democrazia futura in grado di
andare al di là della società del lavoro, su cui era fondata la democrazia precedente. Se il capitali-
smo globale distrugge il nucleo centrale dei valori della società del lavoro, si spezza la storica al-
leanza tra capitalismo, Stato sociale e democrazia, nata in Europa e in America come «democrazia
del lavoro», la quale prevede che il cittadino debba guadagnare del denaro per sostenere i diritti
politici di libertà, per cui il lavoro salariato non è la base soltanto dell’esistenza privata, ma anche
della politica.

I capisaldi della teoria del sociologo francese Alain Touraine (1925) relativa alla globalizzazione
possono essere riassunti nei seguenti punti:
1. La globalizzazione ha dato inizio ad una nuova fase della storia, non solo per la della produzione
e degli scambi, ma anche per la completa separazione dell’economia dalle istituzioni politiche, or-
mai incapaci di controllarla.
2. La dissoluzione delle frontiere porta alla frammentazione della società, con il conseguente crollo
di tutte le precedenti categorie sociali di analisi e di azione: agli inizi della modernizzazione i fatti
sociali sono stati pensati secondo termini politici come sovranità, autorità, nazione, rivoluzione.
Dopo la Rivoluzione industriale, le categorie politiche sono state sostituite dalle categorie sociali ed
economiche (classi sociali, profitto, concorrenza, investimenti, contrattazioni collettive). Infine, con
la globalizzazione, si è avuta l’affermazione dell’individualismo, il quale «rivela la fragilità di un io
costantemente modificato dagli stimoli che lo colpiscono e influenzano».
3. Nella società globalizzata gli individui dipendono dalle tecniche di produzione, ma anche dalle
tecniche di consumo e di comunicazione. È pertanto necessario salvaguardare la nostra esistenza
individuale, facendo nascere un essere capace di costituirsi come soggetto di diritti e come attore
libero dalla dipendenza di precedenti figure (Dio, Nazione, Progresso, società senza classi), in grado
di esprimere la volontà di essere attore della propria esistenza.
4. Il modello di modernizzazione occidentale è stato caratterizzato da una società che ha accumu-
lato risorse di ogni genere nelle mani di un’élite, ritenendo «inferiori» le altre categorie sociali.
Questa divisione ha causato forti conflitti, diminuiti grazie ad una serie di conquiste che hanno ga-
rantito la pace sociale. Queste conquiste sono state realizzate nell’ultimo secolo da talune categorie
sociali (i lavoratori, i colonizzati, le donne) capaci di dare vita a vari movimenti sociali di liberazio-
ne. Con il passare del tempo questi successi hanno finito per indebolire il dinamismo del modello
occidentale, che ha in parte perduto la capacità di creare nuovi conflitti. Un nuovo dinamismo può
nascere pertanto da un’azione sociale atta a superare il modello occidentale, che oggi è in parte por-
tata avanti dai movimenti ecologisti e da quelli che lottano contro la globalizzazione.
Touraine è certo che in futuro saranno le donne le principali attrici di un’azione di rinnovamento,
giacché esse sono ormai in grado di lottare contro la dominazione maschile e soprattutto hanno le
capacità di attuare quella ricomposizione di tutte le esperienze individuali e collettive richiesta
dall’attuale fase storica.

Il sociologo Ulrich Beck (Che cos’è la globalizzazione, 1999), ha teorizzato una società del ri-
schio che trascende le attuali frontiere degli Stati nazionali, nati dalla «prima modernità». Ci si sta
avviando, secondo Beck, verso la formazione di uno Stato transnazionale, cooperativo e cosmopo-
litico, dove la realizzazione degli interessi comuni avviene simultaneamente a più livelli (locali, re-
gionali, nazionali, transnazionali), per merito di istituzioni molto lontane dai propri confini territo-
riali. La «prima modernità», nata e sviluppatasi tra il ‘700 e il ‘900 come conseguenza della società
industriale, era caratterizzata dal progresso scientifico e tecnologico, dal pieno impiego della forza
lavoro, dallo sfruttamento intensivo delle risorse naturali. Essa ha poi ceduto il posto alla «seconda
modernità» o modernità riflessiva, in quanto essa ci spinge a riflettere, appunto, su una serie di pro-
cessi sociali strettamente interconnessi, quali la globalizzazione e l’individualizzazione, la disoccu-
pazione e la sottoccupazione, le crisi economiche e l’espansione dei mercati finanziari mondiali, i
problemi ambientali con i conseguenti rischi globali, le minacce che circondano il Welfare State, le
sfide poste di continuo ai sistemi politici. Infatti i governi nazionali sono chiamati a dare una rispo-
sta risolutiva e simultanea a tutti questi problemi che caratterizzano la società globale del rischio e
che possono essere affrontati soltanto in un quadro politico ed istituzionale transnazionale. Per que-
sto motivo è quanto mai urgente «reinventare» la politica attraverso una serie di sperimentazioni
che consentano di passare dal sistema politico-istituzionale dello Stato-nazione ad una democrazia
cosmopolitica capace di operare a livello sia nazionale che internazionale.

Gli aspetti contrapposti della globalizzazione

Secondo vari studiosi, la globalizzazione si basa su una serie di ambivalenze che riguardano per
prima cosa la globalizzazione culturale, da alcuni considerata una conseguenza della globalizzazio-
ne economica, da altri, invece, il risultato di un insieme di fattori convergenti in una cultura globale
che comincia a penetrare nelle società nazionali e nei loro spazi culturali, secondo un processo che
sta rendendo contemporaneamente possibili e reali fenomeni contrapposti. La globalizzazione non è
pertanto un fenomeno unidimensionale, ma produce una nuova valorizzazione delle culture locali: a
una costante delocalizzazione economica e culturale si contrappone cioè una rilocalizzazione, che
porta alla «rinascita del locale», nel senso che «locale» e «globale» non si escludono, ma il primo
può diventare un aspetto del secondo e produrre l’incontro di culture locali, rivedute in senso non
tradizionale, con una cultura globale che è il risultato di un processo di formazione in continuo
movimento. Da un lato, si verificano l’universalizzazione e l’unificazione a livello mondiale di
istituzioni, simboli e stili di vita (la democrazia, le tecnologie dell’informazione, i diritti umani, i
blue jeans, i McDonald); dall’altro, cresce il bisogno di difendere le culture e le identità locali.
La globalizzazione fa sorgere nuove comunità transnazionali, produce legami che cambiano la
dimensione sociale del vivere e lavorare insieme, costruisce una nuova rete di rapporti sociali; al
contempo, essa causa frammentazioni che mettono in discussione l’unità e la sovranità degli Stati
nazionali. La globalizzazione rappresenta anche un processo di concentrazione e centralizzazione
del capitale, della ricchezza, del potere decisionale, dell’informazione, del sapere, ma nello stesso
momento produce una decentralizzazione che conferisce maggiore influenza alle comunità locali.
Il mondo globalizzato presenta una serie di conflitti a volte drammatici, ma contiene anche le pre-
messe di una civilizzazione globale, che sembra portare verso una «società mondiale» legata al co-
mune destino di un mondo senza più confini.
La Globalizzazione

fenomeno sociale, economico e politico che si è sviluppato dalla fine del ‘900, per una
serie di condizioni favorevoli che hanno portato alla realizzazione di una stabile rete di
rapporti economici, sociali e culturali fra le più diverse e lontane aree geografiche.
prima “globalizzazione del mondo” => secoli XV-XVI: scoperte geografiche.

culturale spaziale informatico-telematica


omologazione culturale: “compressione spaziale” (Robertson) rivoluzione tecnologica: new-media
mondo come «villaggio globale» accorciamento" delle distanze potenziamento flussi di informazione
crisi delle culture locali rivoluzione dei trasporti concentrazione mass-media

economica politica
commerciale produttiva finanziaria interdipendenza/crisi Stati-nazione
strategie del "libero mercato" Globalizzazione “responsabilità sociale” (W.Brandt)
deregulation dei mercati internazionali New World Order (G.Bush)
delocalizzazione della produzione vs movimento no / new global:
"flessibilità" e mobilità del lavoro religiosa diritti umani, lotta alla povertà
multinazionali vs Stati-nazione “post-secolarizzazione” salvaguardia ambientale
emancipazione dal controllo religioso
vs nuovi fondamentalismi/integralismi

Globalizzazione culturale

accelerata circolazione di parallelo fenomeno di uniformazione,


informazioni, immagini e valori omogeneizzazione e «omologazione» delle culture

«villaggio globale» (McLuhan):


l'uomo vive nel recinto delle pareti domestiche,
che ha però le dimensioni virtuali del mondo intero
(computer, tablet, cellulare, giornali on line, etc)
stretta interdipendenza tra i paesi del mondo globalizzato
consumo comune di culture che vengono diffuse da Internet,
dai media di cultura popolare, e dai viaggi internazionali
tendenza ad uniformare in ogni parte del mondo la maniera di vivere:
trade chains (abbigliamento, accessori, arredamento, fast food, hotel etc)

crescente interconnessione tra popolazioni e culture:


integrazione - ibridazione - imperialismo culturale
rischio di distruzione delle identità culturali
e scomparsa delle tradizioni culturali locali

cultura consumistica - occidentalizzata: “americanizzazione”

culture extra-europee:
atteggiamento misto
attrazione: nei confronti dell'Occidente avversione:
godere della cultura e della ricordo del colonialismo e
tecnologia occidentale dell’arroganza razzista dei bianchi
orgoglio di appartenere
a grandi culture
La globalizzazione economica
a) crescita delle multinazionali
1. Capitalismo familiare (XIX sec. e inizio del XX) 2. Capitalismo manageriale (inizio - metà sec. XX)
Grandi aziende amministrate da imprenditori manager professionisti - strutture e capacità
individuali ereditate dai loro discendenti familiari non in grado di gestire la crescente
complessità degli affari nazionali e internazionali
3. Capitalismo istituzionale (dalla metà del sec. XX)
reticolo di aziende i cui leader sono occupati a sviluppo delle multinazionali:
prendere decisioni non in una singola azienda, beni patrimoniali e fatturati annui più consistenti
ma in una rete di organizzazioni internazionali. del P.I. L. della maggior parte dei paesi del mondo
Ford, General Motors, Shell, Toyota, Wolkswagen,
gruppi multinazionali Nestlè, Sony, Pepsi, Coca-Cola, Kodak, Xerox, etc.
unità operative del capitalismo globale immenso potere economico

strategia economica liberista “New World Order” teoria del complotto


rete di istituzioni => struttura del nuovo sistema economico globale
interessi della nuova classe capitalistica internazionale
istituzioni finanziarie internazionali (I.F.I.) «comunità finanziaria internazionale»
apparati statali delle nazioni al centro del sistema ristrutturati per interessi del capitale globale
sistema di «governance globale» => “nuovo imperialismo” (Barnet e Cavenagh,1994)

1944/45: divisione Est/Ovest egemonia U.S.A. nel sistema economico mondiale - processo di decolonizzazione
1944: conferenza di Bretton Woods => ordine economico mondiale liberista - modello economico basato su
principi nazionalistici (protezione dell'industria nazionale, approfondimento/estensione del mercato nazionale)
1944 Fondo Monetario Internazionale (F.M.I.) e Banca Mondiale (1945) => libero scambio internazionale
1947: G.A.T.T. General Agreement on Tariffs and Trade Accordo generale sulle tariffe e il commercio =>
apertura ad un mercato mondiale a basse tariffe - eliminazione di barriere per il libero commercio in beni e servizi
1948: O.E.C.D. (Organisation for Economic Co-operation and Development OCSE)
1945/1970: anni di rapidi tassi di crescita economica e di sviluppo capitalistico => «Età dell'oro del capitalismo»

fine anni ‘60: stagnazione della produzione - calo produttività - intensificazione conflitti di classe
rivendicazione di salari più alti, maggiore assistenza sociale e migliori condizioni di lavoro
crisi del sistema
processo di internazionalizzazione del capitale e delle politica di liberalizzazione e deregolamentazione
sue forme produttive (investimenti per estendere il adottata in tutto il mondo dai governi dominati dal
commercio ed espandere la produzione) e speculative capitale transnazionale o da quelli che ne erano soggetti
(economisti associati alle istituzioni finanziarie internazionali)

World Economic Forum (W.E.F. Davos) 1971


Trilateral Commission (T.C.) 1973
Gruppo dei Sette (G-7) 1975
1991 George H. W: Bush e Heritage Foundation «Nuovo Ordine Mondiale»:
quadro politico per un regime globale di libero scambio => nuova “economia imperiale”
1994: (World Trade Organization - W.T.O. o O.M.C.) Organizzazione Mondiale del Commercio
1997 Multilateral Agreement on Investment (M.A.I.)

b) nuova divisione internazionale del lavoro c) trasformazione mondiale dei mass media:
spostamento della produzione nei paesi del proprietà, immagini e messaggi dei mass media
Terzo Mondo (delocalizzazione) sempre più uniformi nell'intero globo: televisione,
editoria (giornali, riviste e libri), cinema, internet
in mano di un numero ristretto di multinazionali
Aspetti contrapposti della globalizzazione

La globalizzazione non è un fenomeno unidimensionale:


tante le ambivalenze che riguardano la globalizzazione economica e culturale,
secondo un processo che determina contemporaneamente fenomeni contrapposti.
positivi aspetti negativi
globalizzazione economica e culturale:

maggiore crescita a livello globale, miglio- aumento delle disuguaglianze mondiali


ramento dell'economia e delle condizioni e della povertà; aumento della distanza
sociali dei paesi in via di sviluppo mediante tra ricchi e poveri: siano essi intesi come
la liberalizzazione dei relativi mercati: individui, che come classi sociali dei paesi
paesi dell’Asia orientale, Cina, India, etc. industrializzati, che come gli interi paesi
crescita generalizzata dal 2005 del reddito (paesi ricchi che detengono il potere
complessivo del pianeta => nascita di economico, la forza militare, la cono-
industrie e fabbriche in aree del mondo scenza scientifica e paesi oppressi dai
in precedenza agricole e arretrate. debiti e dalla fame) le forti disuguaglianze
sociali spingono le masse disperate
all’emigrazione e possono essere causa
di tensioni o di rivolte feroci

rilocalizzazione: «rinascita del locale» e nuova valo- costante delocalizzazione economica e culturale:
rizzazione delle culture locali: «locale» e «globale» la prima determina, nel territorio che perde le
non si escludono, ma il primo può diventare un produzioni, una contrazione dei posti di lavoro;
aspetto del secondo e produrre l’incontro di culture la delocalizzazione di esseri umani, quando essa
locali, rivedute in senso non tradizionale, con una è una scelta obbligata, può provocare un senso di
una cultura globale che è ilrisultato di un processo sradicamento e perdità di identità culturale
di formazione in continuo movimento.

difesa-valorizzazione di culture e identità locali universalizzazione e «omologazione» a livello


e nuova promozione delle forme di produzione mondiale di istituzioni, simboli e stili di vita
locali (cibo, artigianato, musica, etc.) (mode informatiche, accessori-status symbol,
abbigliamento, fast food, etc)

La globalizzazione politica

fa sorgere nuove comunità transnazionali, causa frammentazioni che mettono in discussione


produce legami che cambiano la dimensione l’unità e la sovranità degli Stati nazionali,
sociale del vivere e lavorare insieme, determinando frequenti forme di reazione:
costruisce una nuova rete di rapporti sociali fenomeni di intolleranza, razzismo, nazionalismo

produce una decentralizzazione che conferisce rappresenta un processo di concentrazione


maggiore influenza alle comunità locali, e centralizzazione del capitale, della ricchezza,
facilitandone talvolta lo sviluppo. del potere decisionale, dell’informazione, del sapere

Il mondo globalizzato

contiene le premesse di una civilizzazione globale, presenta una serie di conflitti a volte drammatici:
che sembra portare verso una «società mondiale» determina fenomeni di emigrazione, crisi del-
legata al comune destino di un mondo senza più confini l’occupazione, perdita dell’identità culturale
Le teorie sociologiche della globalizzazione

società nazionale/statale vs sistema-mondo spazi sociali transnazionali


Durkheim Weber Marx Wallerstein Robertson Giddens Bauman Beck

approccio fattori economici sociologia della globalizzazione:


socio-culturale globalizzazione/regionalizzazione,
origini/effetti della globalizzazione congiunzione/frammentazione,
centralizzazione/decentramento.
economia capitalistica/tecnologia
motore che accelera in senso positivo causa delle distorsioni del sistema-mondo
il processo di globalizzazione disuguaglianze sociali su scala internazionale
(ricchezza globale e povertà locale)
Immanuel Wallerstein (1930)
Il sistema mondiale dell'economia moderna,1978, 1982, 1995
singole società separate
unico sistema-mondo: economia-mondo:
sistema capitalistico fondato molteplicità di Stati-nazione integrati
sulla divisione del lavoro da un comune sistema economico

a) mercato unico b) strutture statali c) situazione di sfruttamento


dominato dal principio che «ostacolano» il libero funzio- operante su tre livelli:
del massimo profitto namento del mercato capitalistico Stati di centro, Semi-periferie, Periferie

sistema capitalistico => integrazione/disgregazione del pianeta


conflitti e crisi di ristrutturazione => distribuzione del potere disuguaglianza
universalizzazione della logica capitalistica => forme di opposizione su scala mondiale
reazioni fondamentaliste antioccidentali/antimoderne movimenti ecologici correnti nazionalistiche

Roland Robertson (1938)


Globalizzazione: Teoria Sociale e Cultura Globale, 1992

globalizzazione => comprendere il mondo presente =


dimensione transculturale di stili di vita, attribuzioni, riflettere sui concetti di politiche culturali,
responsabilità, rappresentazioni di sé o di gruppo capitale culturale, differenze culturali

incontro/scontro di culture locali che "cultura globale" = processo dialettico


nel clash (conflitto) of localities devono elementi contraddittori compresi
essere ridefinite nei loro contenuti e decifrati nella loro unità

universalizzazione e unificazione di istituzioni, valorizzazione e riscoperta delle culture e


simboli e stili di comportamento (es. democrazia, identità locali (pop tedesco, rai nordafricano,
diritti umani, blue jeans, fast food, ecc.) carnevale caraibico di Londra, poke hawaiano)
non costituiscono una contraddizione

locale e globale non si escludono globalizzazione culturale => glocalizzazione


locale => aspetto del globale (fusione di "globalizzazione" e "localizzazione")
globalizzazione colta nelle piccole cose concrete
sociologia della globalizzazione di tutti i giorni, nella propria vita, nei simboli
ricerca culturale glocale: culturali che portano la sigla del "glocale"
(industria, disuguaglianza, tecnica, politica)
Zygmunt Bauman (1925-2017)

«Con la crisi dello Stato e del concetto di comunità emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno
è più compagno di strada ma antagonista di ciascuno, da cui guardarsi. Questo “soggettivismo” ha minato
le basi della modernità, l'ha resa fragile, da cui una situazione in cui, mancando ogni punto di riferimento,
tutto si dissolve in una sorta di liquidità; le uniche soluzioni per l'individuo senza punti di riferimento
sono da un lato l'apparire a tutti costi, l'apparire come valore e il consumismo: un consumismo che non
mira al possesso di oggetti di desiderio in cui appagarsi, ma che li rende subito obsoleti, e il singolo passa
da un consumo all'altro in una sorta di bulimia senza scopo». (U. Eco, la società liquida, 2015)

visione pessimistica della società globale: globalizzazione e localizzazione:


globalizzazione => «nuova ripartizione di forze motrici che spingono verso una nuova
privilegi e privazioni di diritti, di ricchezza polarizzazione e stratificazione della popolazione
e povertà, di possibilità e di mancanza di mondiale in ricchi globalizzati e poveri localizzati.
prospettive, di libertà e assenza di essa

«Se il capitalismo globale si libera della responsabilità di assicurare occupazione e democrazia


e distrugge il nucleo centrale dei valori della ‘società del lavoro’, perde la propria legittimità ad
esistere; si spezza la storica alleanza tra capitalismo, Stato sociale e democrazia».

Alain Touraine (1925)


globalizzazione => affermazione dell'individualismo
«fragilità di un io costantemente modificato dagli stimoli che lo colpiscono e influenzano»
Individui dipendenti dalle tecniche di produzione, ma anche da quelle di consumo e comunicazione.
Il modello di modernizzazione occidentale è caratterizzato da una società che ha accumulato risorse di
ogni genere nelle mani di un'élite, ritenendo «inferiori» le altre categorie sociali - i lavoratori, i colonizzati,
le donne - capaci però di dare vita a vari movimenti sociali di liberazione.
nuovo dinamismo => azione sociale atta a superare il modello occidentale =>
movimenti ecologisti e anti-globalizzazione.

Ulrich Beck (1944-2015, Che cos'è la globalizzazione, 1999)


società del rischio che trascende le attuali frontiere degli Stati nazionali, nati dalla «prima modernità»
«prima modernità» ('700 - '900) «seconda modernità» (modernità riflessiva)
conseguenza della società industriale processi sociali strettamente interconnessi,
caratterizzata dal progresso scientifico/tecnologico, globalizzazione e individualizzazione,
dal pieno impiego della forza lavoro, dallo disoccupazione e sottoccupazione, crisi
sfruttamento intensivo delle risorse naturali economiche ed espansione dei mercati
finanziari mondiali, problemi ambientali,
sfide poste di continuo ai sistemi politici.

formazione di uno Stato transnazionale, cooperativo e cosmopolitico, dove la realizzazione


degli interessi comuni avviene a più livelli (locali, regionali, nazionali, transnazionali).

Anthony Giddens (1938)


globalizzazione => tratto dominante della modernità.
processi di globalizzazione => intersezione di esperienze / intrusione della distanza nel locale
vita quotidiana => processi di mediatizzazione dell'esperienza =>
stabilirsi di relazioni sociali indipendenti dai contesti locali di interazione.
indebolimento del senso di appartenenza alla comunità nazionale
rafforzamento di una identità globale (media elettronici) =>
sentimenti anti-nazionalistici e rinascita di particolarismi regionali/locali.
Welfare State

Con l’espressione “Welfare State” si indica il complesso di politiche pubbliche messe in


atto da uno Stato che interviene, in un’economia di mercato, per garantire l’assistenza e il
benessere dei cittadini, modificando in modo deliberato e regolamentato la distribuzione dei
redditi generata dalle forze del mercato stesso. Il welfare comprende pertanto il complesso
di politiche pubbliche dirette a migliorare le condizioni di vita dei cittadini. L’espressione
(«Stato del benessere»), entrata nell’uso in Gran Bretagna negli anni della Seconda guerra
mondiale, è tradotta di solito in italiano come Stato assistenziale (che ha però sfumatura
negativa) o Stato sociale. Secondo A. Briggs, gli obiettivi perseguiti dal welfare sono fon-
damentalmente tre: assicurare un tenore di vita minimo a tutti i cittadini; dare sicurezza agli
individui e alle famiglie in presenza di eventi naturali ed economici sfavorevoli di vario
genere; consentire a tutti i cittadini di usufruire di alcuni servizi fondamentali, quali l’istru-
zione e la sanità. Definizione di carattere più generale è quella formulata da I. Gough, il
quale indica il welfare come «l’uso del potere dello Stato volto a favorire l’adattamento
della forza lavoro ai continui cambiamenti del mercato e a mantenere la popolazione non
lavorativa in una società capitalistica».
Gli strumenti tipici per perseguire gli obiettivi del welfare sono:
a) corresponsioni in denaro, specie nelle fasi non occupazionali del ciclo vitale (vecchiaia,
maternità ecc.) e nelle situazioni di incapacità lavorativa (malattia, invalidità, disoccupazio-
ne ecc.);
b) erogazione di servizi in natura (struzione, assistenza sanitaria, abitazione ecc.);
c) concessione di benefici fiscali (per carichi familiari, l’acquisto di un’abitazione ecc.);
d) regolamentazione di alcuni aspetti dell’attività economica (quali la locazione di abitazioni
a famiglie a basso reddito e l’assunzione di persone invalide).
Nel corso del tempo, gli interventi di questo tipo si sono via via sviluppati in connessione
sia con l’evoluzione dei rapporti di solidarietà tra gli appartenenti al gruppo sociale, sia con
l’andamento dello sviluppo economico (e, quindi, con la crescente disponibilità di risorse da
destinare a tale scopo). Il momento di maggiore sviluppo del welfare, che coincide con la
visione dello ‘Stato del benessere’ come insieme di interventi di protezione sociale a carat-
tere tendenzialmente universale in favore dei cittadini, ha avuto la sua attuazione dopo la
Seconda guerra mondiale. Il sistema della ‘sicurezza sociale’, introdotto in Gran Bretagna
attraverso un’apposita legislazione del 1946 e del 1948, si impose come modello per gli altri
paesi industriali. Esso copriva: disoccupazione, invalidità, perdita dei mezzi di sussistenza,
collocamento a riposo per limiti di età, bisogni della vita coniugale (per le donne: matrimo-
nio, maternità, interruzione dei guadagni del marito, vedovanza, separazione), spese funera-
rie, sussidi all’infanzia, malattia fisica o incapacità. L’universalizzazione del welfare
(l’estensione, cioè, dei suoi servizi all’intera collettività, indipendentemente dallo stato di
bisogno) ha avuto due effetti non previsti ma in netto contrasto con i suoi obiettivi equitati-
vi: ha ridotto considerevolmente la capacità redistributiva dello ‘Stato del benessere di
massa’, prevalentemente affidata alla progressività del sistema tributario, e ha provocato una
massiccia espansione della spesa pubblica che ha messo in pericolo gli equilibri finanziari
del sistema, creando problemi al contenimento dell’inflazione e della disoccupazione.
Secondo l’economista R. Misha, tale aumento della spesa pubblica tende ad assumere
carattere permanente a causa prevalentemente della competizione politica e della pressione
dei gruppi di interesse, dando origine a una situazione di rigidità e di ridotta capacità di
intervento della politica economica. Si è rilevato che l’espansione della spesa può determi-
nare un eccessivo incremento della pressione fiscale e disavanzi del bilancio pubblico; che
le prestazioni assistenziali possono ridurre l’incentivo a lavorare; che le burocrazie chiamate
a fornire i servizi sociali sono sovente inefficienti e possono anteporre i propri interessi a
quelli dei cittadini; che la gratuità di alcuni servizi può accrescerne eccessivamente la do-
manda e determinare sprechi; che la povertà, per quanto ridotta, non è stata eliminata. Per
questi motivi, e anche perché è emerso in modo evidente che gli oneri che il welfare implica
non sono compatibili con il tasso di crescita dell’economia e con il tasso di natalità molto
basso dei paesi industrialmente avanzati, a partire dagli anni 1980 si è assistito a un conside-
revole ridimensionamento del ruolo dello Stato nei processi economici.
Il sociologo danese G. Esping-Andersen (Three worlds of welfare capitalism, 1990) ha
introdotto una classificazione dei diversi sistemi di welfare strutturata in tre tipologie,
fondata sulle differenti origini dei diritti sociali che ogni Stato concede ai propri cittadini.
1. Nel regime liberale i diritti sociali derivano dalla dimostrazione dello stato di bisogno. Il
sistema è fondato sulla precedenza ai poveri meritevoli (teoria della less eligibility) e sulla
logica del ‘cavarsela da soli’. Pertanto i servizi pubblici non vengono forniti indistintamente
a tutti, ma solamente a chi è povero di risorse, previo accertamento dello status di bisogno;
in virtù di questo, tale meccanismo viene spesso definito residuale, in quanto concernente
una fascia di destinatari molto ristretta. Per gli altri individui, che costituiscono la maggior
parte della società, tali servizi sono acquistabili sul mercato privato dei servizi. Quando
l’incontro tra domanda e offerta non ha luogo, per l’eccessivo costo dei servizi e/o per
l’insufficienza del reddito, si assiste al fallimento del mercato, cui pongono rimedio
programmi destinati alle fasce di maggior rischio. Tale regime riflette una teoria politica
secondo cui è utile ridurre al minimo l’impegno dello Stato, individualizzando i rischi
sociali. Il risultato è un forte dualismo tra cittadini non bisognosi e cittadini assistiti. Tale
modello è tipico dei paesi anglosassoni: Australia, Nuova Zelanda, Canada, Gran Bretagna e
Stati Uniti.
2. Nel regime conservatore i diritti derivano dalla professione esercitata: le prestazioni del
welfare sono legate al possesso di determinati requisiti, in primo luogo l’esercitare un
lavoro. In base al lavoro svolto si stipulano assicurazioni sociali obbligatorie che sono
all’origine della copertura per i cittadini. I diritti sociali sono quindi collegati alla
condizione del lavoratore. Questo è il modello tipico degli Stati dell’Europa continentale e
meridionale, tra cui l’Italia.
3. Nel regime socialdemocratico i diritti derivano dalla cittadinanza: vi sono quindi dei
servizi che vengono offerti a tutti i cittadini dello Stato senza nessuna differenza. Tale
modello promuove l’uguaglianza di status ed è tipico degli Stati dell’Europa del Nord.
Welfare State

Stato sociale politiche pubbliche con le quali lo Stato interviene ‘Stato assistenziale’
per garantire l’assistenza e il benessere dei cittadini

a) tenore di vita minimo b) aiuti agli svantaggiati


c) servizi fondamentali (istruzione, sanità, previdenza)

a) sostegno economico nelle fasi non occupazionali del ciclo vitale (vecchiaia, maternità)
e nelle situazioni di incapacità lavorativa (malattia, invalidità, disoccupazione etc.)
b) erogazione di servizi in natura (istruzione, assistenza sanitaria, abitazione etc.);
c) concessione di benefici fiscali (carichi familiari, acquisto di un’abitazione etc.)
d) locazione di abitazioni a famiglie a basso reddito e assunzione di persone invalide

GB legislazione 1946/48 => modello per le altre nazioni europee


disoccupazione - invalidità - perdita dei mezzi di sussistenza - collocamento a riposo per età
vita coniugale (per le donne: maternità, ‘reversibilità’, vedovanza, separazione)
spese funerarie - sussidi all’infanzia - malattia fisica o incapacità

universalizzazione del welfare (intera collettività, indipendentemente dallo stato di bisogno)


1) riduzione della capacità redistributiva dello ‘Stato del benessere di massa’
2) espansione della spesa => incremento pressione fiscale / disavanzo bilancio pubblico
3) le prestazioni assistenziali riducono l’incentivo a lavorare / la povertà non si è ridotta

anni 1980 => ridimensionamento del ruolo dello Stato nei processi economici
G. Esping-Andersen (Three worlds of welfare capitalism, 1990):
classificazione dei sistemi di welfare strutturata in tre tipologie:

1. regime liberale 2. regime conservatore (retributivo)


dimostrazione dello stato di bisogno prestazioni destinate a chi esercita un lavoro
precedenza ai poveri meritevoli assicurazioni sociali obbligatorie =>
servizi pubblici per chi è è povero di risorse copertura per i cittadini che versano i ‘contributi’
meccanismo ‘residuale’: Germania, Austria, Francia, Olanda
fascia di destinatari molto ristretta
altri cittadini: mercato privato dei servizi 3. regime socialdemocratico
ridurre al minimo l’impegno dello Stato diritti derivanti dalla cittadinanza:
Australia, Nuova Zelanda, Canada, servizi offerti a tutti i cittadini
Gran Bretagna, Stati Uniti uguaglianza di status
Svezia, Danimarca, Norvegia

Italia: welfare ‘non omogeneo’ (Europa meridionale)


prestazioni
generose per categorie centrali modeste per categorie deboli
(dipendenti pubblici - lavoratori grandi imprese) (lavoratori precari, stagionali, autonomi)
iperprotezione vecchiaia: famiglia,disoccupazione, esclusione:
oltre 60% spesa sociale vs 40% Europa sottodimensionate

divari di protezione: garantiti, semigarantiti, non garantiti


debolezza della rete di protezione dal rischio povertà REI-RdC
ANTROPOLOGIA
Arte e arti

Che cosa significa arte?

Rappresentare realtà e sogni


Con il suo caratteristico tono dissacratorio, Oscar Wilde, all’inizio del suo romanzo più celebre,
Il ritratto di Dorian Gray, scrive che «tutta l’arte è completamente inutile». Eppure, per quanto gli
uomini debbano dedicare gran parte del loro tempo e delle loro energie alla sussistenza, non esiste
popolo al mondo che non abbia dato vita a qualche forma di espressione artistica. I disegni conser-
vatisi sulle pareti di grotte e ripari preistorici sono un segno evidente di come l’uomo abbia cercato
fin dall’inizio di rappresentare ciò che vedeva e in molti casi ciò che avrebbe voluto vedere.
I graffiti e le pitture preistoriche, ma anche le diverse forme di scultura, infatti, non rappresentano
solamente scene realistiche, ma anche aspirazioni, sogni, credenze di chi le produceva. L’idea di
riprodurre realtà e pensiero attraverso segni, siano essi effimeri o impressi sulla materia, è pertanto
molto antica e ha assunto caratteristiche quanto mai diverse.

Un tentativo di definizione
Per arte si intende quell’insieme di pratiche il cui scopo è sostanzialmente dare piacere e suscitare
emozioni. Con il termine arte infatti noi intendiamo la pittura, la scultura, la musica, la letteratura,
la danza, la fotografia, il cinema e altre forme di espressione, che risulteranno legate all’ambiente
fisico e al modello di vita di chi le produce.
Quando pronunciamo la parola «arte», chiunque capisce di che cosa stiamo parlando. Tuttavia se
ci mettiamo ad analizzare il fenomeno un po’ più attentamente, ci salta agli occhi il grande numero
di attività che noi indichiamo con questa parola. Arte è un dipinto di Michelangelo, ma anche un
brano dei REM, un film di Federico Fellini, ma anche una maschera africana, un romanzo di
Gabriel Garcia Marquez, ma anche una danza indiana, una commedia di Shakespeare, un dipinto di
Van Gogh e molte altre cose ancora.
Può persino sembrare difficile capire che cosa abbiano in comune tutte queste cose, che noi
accomuniamo in una stessa categoria, chiamata arte. Potremmo forse dire che le accomuna la
capacità di creare piacere, esprimendo dei sentimenti, ma il modo con cui tutte queste espressioni
della creatività umana raggiungono la sensibilità della gente, non è assolutamente universale, ma è
profondamente legato alle culture di appartenenza. Non solo, neppure il modo di produrre arte è
uguale, così come è diverso il ruolo che ciò che chiamiamo «arte» svolge in una società.

Una concezione più estesa di arte


È sempre più difficile stabilire che cosa sia arte e che cosa non lo sia. Se nel mondo antico la divi-
sione era più chiara, oggi sono molte le discussioni attorno a questo tema. Blowing in the wind di
Bob Dylan o Imagine di John Lennon sono opere d’arte tanto quanto una sonata di Chopin o una
poesia di Baudelaire?
La tradizione classica occidentale escludeva dall’ambito artistico gli oggetti di uso quotidiano e
pratico, ma questa concezione è cambiata: il barattolo di minestra Campbell dipinto da Andy War-
hol negli anni Sessanta è diventato un soggetto artistico, così come gli oggetti di design, visto che la
Vespa e la Ferrari sono esposte nelle sale del MoMA (Museum of Modern Art di New York).
Si è arrivati ad adottare una concezione, peraltro condivisa già da altre società, secondo cui la
creatività estetica viene applicata a oggetti di uso comune, così come nel caso dei boscimani !kung,
che decorano uova di struzzo da utilizzare come borracce, degli aborigeni australiani, che incidono i
boomerang che usano per andare a caccia, e degli inuit, che scolpiscono gli arpioni con cui si procu-
rano il cibo. Addirittura nella maggior parte delle lingue parlate non esiste neppure un termine equi-
valente alla parola italiana «arte»; molto più spesso è possibile trovare termini come scultura, pittu-
ra, danza, canto, ma non un vocabolo che inglobi tutte queste forme artistiche.
Il significato occidentale di «arte»
Modi di produzione, utilizzo e finalità dei prodotti della creatività possono essere diversi nelle
differenti culture, così come variano i livelli di fruizione. È dunque difficile parlare di arte a nome
di altri. Quella di arte non è un’idea universale, bensì una categoria culturale occidentale, imposta
su scala mondiale, perché molti popoli del pianeta hanno subito il dominio politico, economico
occidentale. È l’arte a creare le opere d’arte, non il contrario. Perché ci sia arte bisogna che ci siano
i critici, le gallerie, le biennali, gli acquirenti. Al di fuori di questo circuito non c’è arte nel senso
occidentale del termine.

Arte rituale e arte utile


Forme artistiche legate a riti e a momenti di culto
Nella cultura occidentale l’arte viene prodotta per essere in qualche modo contemplata: esponiamo
quadri e sculture nei musei, assistiamo a concerti o ascoltiamo cd, leggiamo libri, andiamo a teatro.
L’arte viene prodotta da artisti e il pubblico ne gode la bellezza. In altri contesti culturali non sem-
pre gli artisti rappresentano un gruppo specializzato, ma chiunque può creare. Inoltre tali forme
espressive possono essere strettamente legate alla religione o ad altre forme rituali. Per esempio in
alcune società la produzione di musica è un fatto che potremmo definire elitario: solo alcuni specia-
listi sanno utilizzare i codici musicali, come nel caso delle musiche colte dell’India e del Giappone
o dell’Occidente. In altre società, come per esempio in quasi tutta l’Africa, la conoscenza dei codici
musicali è assai diffusa. Si potrebbe dire che ognuno sia musicista e partecipi in modo attivo alle
performance pubbliche.
Certe maschere non hanno un valore artistico di per sé. Diventano importanti solo nel momento in
cui vengono utilizzate per una danza. Alcune statuette possono invece fungere da intermediari per le
preghiere di un popolo. Insomma, esistono forme di arte che sono strettamente legate a momenti di
culto. Le bellissime maschere africane esposte nei musei etnografici di tutto il mondo, non sono in
realtà oggetti d’arte in sé e per sé: lo diventano nel momento in cui vengono indossati e usati per
qualche cerimonia. 1
Le maschere gelede, caratteristiche della cultura yoruba-nago (Togo, Benin, Nigeria), si dividono
a grandi linee in due gruppi: uno a carattere rituale-religioso, in cui le maschere rappresentano sim-
boli tradizionali, legati ai culti locali; l’altro a carattere profano, che presenta un grado assai più
marcato di innovatività nelle figure rappresentate e nelle forme. In questo secondo caso, non vinco-
lati da canoni religiosi, gli artisti sono più liberi di sperimentare e di seguire le trasformazioni della
società.

Religione e produzione artistica


Le religioni hanno sempre svolto un ruolo importante per la produzione artistica: pensiamo a
quante opere traggono ispirazione dalla sfera del divino. In alcuni casi erano le istituzioni religiose
stesse a commissionare opere artistiche, basti pensare ai templi, alle sculture, ai dipinti, che
costituiscono il patrimonio artistico di culti differenti. Musiche, danze e altri tipi di espressione
artistica sono legati a culti e a rituali religiosi in ogni angolo di mondo.
In altri casi invece le religioni hanno operato da filtro per la produzione artistica, come nel caso
dell’islam, dove vige il divieto di rappresentare la figura umana. Per questo i popoli islamici o
islamizzati hanno sviluppato in modo particolare e assai raffinato l’arte della calligrafia, della
grafica e della decorazione, che spesso, non a caso, chiamiamo «arabesco».

1
«Alcuni anni fa a Bergamo, in occasione di una mostra di arte africana – racconta l’antropologo Marco Aime - ebbi la
fortuna di conoscere lo scrittore nigeriano Wole Soyinka, premio Nobel per la letteratura nel 1987. Nel corso della visi-
ta, mentre osservavamo la sapiente regia degli allestitori, giocata su tagli di luce che conferivano agli oggetti un’aura di
inquietante mistero, Soyinka si fermò davanti a una maschera chiedendo: «Questa per te che cos’è?» «Una maschera»
risposi con imbarazzo a una domanda apparentemente elementare. «Per me è un bel pezzo di legno – disse lui sorriden-
do. – Se fosse indossata da una persona e questa danzasse allora sì, sarebbe una maschera».
Il gusto artistico

Il gusto artistico è un prodotto culturale


Se il tentativo di creare qualcosa di piacevole è condiviso da tutti, ogni forma artistica è però
strettamente legata alla cultura in cui nasce. Quelli che noi definiamo artisti creano all’interno di
coordinate precise, diverse da cultura a cultura.
Come per il cibo, possiamo affermare che neppure il gusto artistico è naturale. Esiste un’educa-
zione al gusto, che viene costruita fin dall’infanzia e che finisce per fare apparire come assolute e
innate delle categorie, che invece sono arbitrarie, che hanno l’arbitrarietà delle nozioni inculcate.
Il gusto artistico non è quindi universale, ma caratterizzato culturalmente. Ogni forma espressiva si
fonda su un certo grado di ripetizione di modelli precedenti. È questa ripetizione che determina i
differenti stili e che ci consente di attribuire ai maori le raffinatissime tavole di legno scolpite in
filigrana, o agli inuit le statuette in osso dalle forme tondeggianti o ancora agli indigeni americani
della costa nordoccidentale le rappresentazioni di animali con gli organi interni in vista, come si
trattasse di una radiografia.
Siamo talmente abituati ad ascoltare un certo tipo di musica fin da piccoli e ci sembra che quella
musica sia naturale, ma così non è. Questo non significa che un’opera debba rimanere confinata
all’interno del proprio ambito di produzione, ma non sempre è traducibile nei suoi termini originali.

Comprendere l’arte di altre culture


Questo fa sì che a volte oggetti o altre creazioni artistiche non piacciano a un pubblico straniero.
Per esempio è difficile per un europeo comprendere il complesso simbolismo dei dipinti degli
aborigeni australiani, i quali non sono pensati per essere osservati frontalmente, fissati in una
posizione precisa con un alto e un basso. In alcuni casi vanno guardati in movimento, o danzando.
I complessi intrecci di linee a punti contengono informazioni di carattere rituale, geografico,
anatomico. Senza il necessario bagaglio culturale se ne può al massimo gustare il valore estetico,
che comunque è misurato secondo il nostro gusto, ma difficilmente se ne comprende il significato
più profondo.
Alcune melodie indiane o arabe possono apparire noiose e monotone a un orecchio occidentale.
Siamo infatti abituati a decifrare i suoni grazie a un’educazione musicale che si basa su scale di
sette note, con dodici intervalli di un semitono. Il modello armonico indiano si fonda su tre gamme
analoghe, con una suddivisione di ventidue gradi, il cui intervallo è superiore a 1/4 di tono del
nostro sistema. Per questo quelle che a un indiano paiono come nette variazioni di tono, risultano
impercettibili al nostro orecchio e l’insieme ci sembra monotono. Viceversa, la nostra musica suona
un po’ rozza e semplice alle orecchie di un indiano o di un arabo, perché più povera di sfumature.
Ogni forma di arte appartiene quindi alla sua cultura d’origine. Per esempio l’originalità, da noi
considerata come spinta indispensabile alla creazione artistica, non è un dato universale, ma cultura-
le anch’esso. In alcune società, come nel Sudest asiatico, si tende infatti a riprodurre schemi estetici
tradizionali, piuttosto che inventarne di nuovi.
Il gusto del bello, come possiamo vedere, non è pertanto naturale, ma è il prodotto di un’educazio-
ne. Il proverbio che dice: «non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace», in fondo esprime
proprio questo concetto. Ciò che è piacevole per noi, può apparire orribile per altri. Questione di
gusti, ma i gusti vengono creati dalla società.

Il peso dell’arte

Arte materiale e arte immateriale


È difficile pensare a Michelangelo o a Donatello senza legare i loro nomi alle statue di marmo. Il
marmo è simbolo di perennità, resiste per millenni, oltre ad affascinare per le sue sfumature. Questi
e altri artisti poterono utilizzare quella pietra sia perché avevano la fortuna di lavorare vicino alle
Alpi Apuane, che sono ricche di marmo, sia perché la loro era un’arte di corte, stanziale. Una volta
realizzata, l’opera era destinata a rimanere in un luogo prescelto: la corte di un principe, una chiesa,
una piazza. Si trattava, insomma, di un’arte estremamente materiale e stanziale, come stanziali
erano le società in cui veniva prodotta.
La scultura, come altre espressioni plastiche, è strettamente connessa alla disponibilità di materiali
e al modello di vita stanziale: è dunque possibile presso popolazioni sedentarie e in regioni dove c’è
abbondanza di legno, metallo o pietra. Per esempio le celebri statues colon della Costa d’Avorio,
che rappresentano i bianchi colonizzatori, non sono la testimonianza di un’epoca solo perché
raffigurano i nuovi protagonisti apparsi sulla scena africana, ma anche perché presentano un tratto
innovativo nella statuaria africana dato dalla disponibilità di nuove vernici colorate, che gli artisti
acquistavano dai bianchi.

Se le popolazioni sedentarie possono produrre oggetti materiali, anche di grandi dimensioni, come
monumenti, affreschi, edifici ecc., che segnano indelebilmente lo spazio, la necessità di leggerezza
dei nomadi, che spesso abitano in aree desertiche o semidesertiche, ha fatto sì che tendenzialmente
queste culture abbiano sviluppato forme espressive non visive di tipo immateriale, come la danza, la
musica e la poesia. Un’arte trasportabile, insomma. Pensiamo alla raffinata cultura poetica dei
tuareg del Sahara, oppure alla ricca tradizione orale dei peul, popolo di allevatori diffuso in tutta
l’Africa occidentale, il cui lungo racconto iniziatico, Kaidara, è stato raccolto e trascritto dal grande
scrittore maliano Amadou Hampâté Bâ. Si tratta di un poema che racconta le gesta di un giovane,
che deve superare molte difficili prove per raggiungere la conoscenza. Musica e danza sono altre
due forme espressive facilmente trasportabili. Si può dire che non esista popolo al mondo che non
abbia prodotto una sua musica, anche se la sua produzione e la sua fruizione possono rispondere a
logiche diverse. La musica è un codice che esprime linguaggi diversi, adatti a situazioni differenti; è
un suono umanamente organizzato. Esistono musiche per il tempo della festa, per i funerali, per le
celebrazioni solenni, per la guerra, per la caccia, per determinati rituali, per il semplice piacere
estetico di ascoltare dei suoni ritenuti gradevoli.

Viaggi musicali

Contaminazioni artistiche
Sebbene ogni forma artistica sia legata alla cultura che la produce, in molti casi l’arte non si è
fermata a casa propria. Infatti, grazie ai viaggi che hanno da sempre caratterizzato la storia
dell’uomo, molte espressioni artistiche hanno finito per incontrarsi e generare forme nuove.
Pensiamo, per esempio, a quale influenza hanno avuto le sculture e le maschere africane, con le loro
linee stilizzate, su pittori come Picasso o scultori come Giacometti.
Tuttavia la forma artistica che più ha viaggiato e più si è arricchita di elementi «stranieri» è quasi
certamente la musica. Questa forma d’arte, infatti, rappresenta un’ottima metafora delle cosiddette
contaminazioni culturali o meticciati. Pochi elementi culturali sono così aperti a prestiti esterni
come la musica, che maggiormente si presta a fusioni e inglobamenti.

Le influenze della musica africana


In questo campo l’Africa ha messo in atto una vera e propria colonizzazione: gran parte dei generi
musicali contemporanei sono di matrice africana, fondati su una solida ritmica (rock, reggae, hip
hop) oppure, come nel caso del blues, su una scala pentatonica, tipica di molte musiche dell’Africa
occidentale.
A sua volta, però, la musica africana è stata «contaminata». Quella che oggi si suona e si produce
in Africa è una musica che aveva lasciato il continente e che gli schiavi africani avevano portato
con sé nella deportazione verso le Americhe. Questa musica da un lato ha influenzato i generi
locali, dando vita a stili come il blues, il gospel, che nasce dalla fusione dei canti neri con quelli di
chiesa, e il jazz. Inoltre il folk irlandese, portato dagli immigrati negli Stati Uniti, si fonde con il
blues e dà origine al country e così via. La musica africana ha influenzato, ma ha subito a sua volta
influenze caraibiche, brasiliane, messicane, per poi tornare in Africa arricchita da nuove forme
espressive.

Esiste la musica «tradizionale»?


Come nel caso del cibo occorre fare attenzione a parlare di musica «tradizionale», se per tradizio-
nale si intende antica e radicata nel luogo di nascita. Negli anni Sessanta, quando in Europa si par-
teggiava per i Beatles o per i Rolling Stones, i giovani congolesi si dividevano tra fan di Otis
Redding e sostenitori di James Brown. Il rythm and blues dominava la scena musicale del Congo, il
maggiore produttore di musica «africana», così come oggi il Senegal è il secondo o il terzo produt-
tore al mondo di musica rap. Nell’ambito della musica e della danza è diventato di moda parlare in
modo pomposo di «tradizione». In realtà nessuno conosce quella «pietra» originale e immutabile
chiamata «tradizione». Vi sono sempre dei cambiamenti nelle arti creative, e ciò che creiamo oggi,
e che è dunque un’innovazione, nel tempo può diventare tradizione.

I musei etnografici
Il grande etnologo e scrittore francese Michel Leiris, nel suo bellissimo libro L’Africa fantasma,
descrive alcune scene di veri e propri furti di oggetti sacri, perpetrati alle spalle delle popolazioni
che i componenti della Missione etnografica Dakar-Gibuti (1931), di cui egli stesso faceva parte,
via via incontravano.
È così che sono nati molti musei etnografici in Europa e in America. Spesso l’unico fine di questa
condotta era il lucro, in pochi casi invece è stato il desiderio di conoscenza, ma anche la volontà di
preservare dall’usura del tempo oggetti che, in molti casi, sarebbero andati distrutti, a far sì che
molti oggetti «d’arte» siano finiti ad arricchire le sale di celebri istituzioni come il Museum of
Mankind di Londra, quello di Quai Branly a Parigi o l’American Museum of Natural History a New
York, per citarne solo alcuni.
I musei stessi inoltre possono diventare campo di ricerca per un antropologo, in quanto rivelatori
di un certo sguardo sull’altro. Ogni percorso espositivo è un racconto, in cui l’autore rivela il suo
pensiero, che si traduce anche in un discorso politico: sono gli occidentali a fare i musei sugli altri,
non il contrario, e questo tradisce un rapporto di forza asimmetrico.
I musei di inizio Novecento, ad esempio, erano organizzati in modo da raffigurare le varie tappe
dell’evoluzione umana, secondo le teorie dell’epoca. Gli oggetti esposti erano presentati come il
frutto di artisti ingenui, entusiasti, «naturali», e all’arte etnica spesso si attribuiva una carica
sessuale forte, unita al potere di raffigurare idee collettive che nascevano da pulsioni primitive.

Tanto per i musei etnografici quanto per le esposizioni temporanee si pone un problema di fondo,
che da anni alimenta accese discussioni. Si possono esporre oggetti prodotti per finalità diverse
nello stesso contesto in cui esponiamo un quadro di Goya o la Gioconda? L’arte, per noi, è materia
che deve essere in qualche modo esposta per essere ammirata, ma è lo stesso per opere prodotte in
contesti culturali diversi?
Un certo tradimento è inevitabile, se si decide di inserire oggetti prodotti con fini diversi nel cir-
cuito dell’arte. Un oggetto etnografico diventa opera d’arte solo attraverso lo sguardo dell’osser-
vatore occidentale e il valore di un’opera d’arte si basa, secondo il nostro criterio, sull’utilizzo di
categorie predeterminate culturalmente. Per esempio, quando di un’opera diciamo «è un falso»,
presupponiamo che esista un originale autentico, frutto della mano di un artista, che ha realizzato
solo quell’opera. Il presupposto dell’unicità dell’opera è però un altro concetto occidentale, che non
trova necessariamente riscontro presso altre società. Se uno scultore realizza tre maschere per una
danza, non sono forse tutte e tre originali?
Quella maschera, inoltre, a differenza di una scultura occidentale, non era stata concepita per
essere esposta in una teca, ma per danzare. Un altro tradimento. Si assiste così a una certa
disumanizzazione dell’arte primitiva, che spesso colpisce gli oggetti di varie parti del mondo
quando vengono «deportati» come schiavi catturati, ridotti a merci, privati dei loro legami sociali e
ripensati per adattarsi alle esigenze economiche, culturali, politiche e ideologiche di uomini che
appartengono a società distanti.
Esporre oggetti etnografici è un po’ come tradurre un testo da una lingua straniera e sappiamo
benissimo come i traduttori diventino talvolta, inevitabilmente, traditori. Non esiste un modo giusto,
qualunque sia la scelta sarà sempre il frutto di una nostra interpretazione. Se si espone una maschera
con delle ricche informazioni sulla sua origine, sulle tecniche di realizzazione, sull’utilizzo che ne
viene fatto e sul significato simbolico che le viene attribuito, si crea un oggetto etnografico.
Togliendo quelle informazioni, lo si trasforma in un’opera d’arte, che parla da sola, da ammirare
per il suo valore estetico e non per la sua funzione sociale. Nel primo caso si può venire accusati di
negare a quella maschera la dignità di creazione artistica, riducendola a reperto etnico; nel secondo
l’accusa è di sottrarre, non solo fisicamente, l’oggetto al suo contesto originale, disattivandone le
caratteristiche intrinseche, per poi giudicarlo secondo categorie culturali predefinite. La scelta è tra
«bellezza» e «antropologia» e come ogni scelta implica, inevitabilmente, una rinuncia.

Arte per turisti

Arte o artigianato?
Uno dei terreni più recenti battuti dagli antropologi è quello del turismo, una pratica in continua
crescita e che rappresenta una nuova forma di incontro tra occidentali e nativi. Tra le dinamiche di
compravendita, che spesso si innescano tra le due parti, una delle più classiche riguarda
l’artigianato. L’interesse antropologico nasce proprio dai diversi sguardi che si incrociano sullo
stesso oggetto.
Una delle questioni più dibattute, rispetto a questo ambito, riguarda la collocazione dei manufatti
prodotti per i turisti: si tratta di arte o di artigianato? Una questione che, ancora una volta, si fonda
su e si alimenta di categorie essenzialmente occidentali. Essendo oggetti spesso prodotti in serie e
uguali tra di loro, sfuggono, per esempio, all’idea di unicità collegata all’arte; tuttavia in epoca
moderna il concetto di unicità è stato messo in discussione, basti pensare alle serie di Marilyn
Monroe dipinte da Andy Warhol, tutte pressoché uguali eppure tutte uscite dalla mente e dalla
mano dell’autore. Se uno scultore bobo del Burkina Faso oppure un sepik della Nuova Guinea
scolpiscono sei maschere uguali e due di queste vengono utilizzate nei loro villaggi per cerimonie
rituali, mentre le altre quattro vengono vendute ai turisti, possiamo dire che le prime due sono
oggetti d’arte, mentre le altre appartengono all’artigianato?
Su questo tema il dibattito è quanto mai aperto e le posizioni tra gli studiosi sono diverse. Una
linea di demarcazione si può però tracciare, quando siamo in presenza di forme di espressione
creativa prodotte esclusivamente per i turisti, anche se questi oggetti ricalcano in tutto e per tutto
forme, linee, dimensioni di quelli «originali».

Autenticità, rappresentazione o simulazione?


Lo stesso si può dire rispetto alle danze o ad altre forme di performance che, nate e sviluppatesi in
seno a una determinata società, vengono in qualche caso «messe in scena» per i turisti. Anche in
questo caso gesti, movenze, ritmi sono gli stessi, ma lo spirito, le motivazioni che animano gli attori
sono necessariamente differenti. Si tratta di quella che è stata chiamata «autenticità rappresentata»
(staged authenticity). Infatti in molti casi i locali mettono in mostra aspetti della loro cultura per i
turisti, estraniandoli dalla pratica quotidiana per trasformarli in pura rappresentazione, per quanto
fedele all’originale. Uno dei prodotti più evidenti dell’impatto turistico nei paesi del sud del mondo
è il congelamento della creatività locale. Spesso i turisti viaggiano accompagnati da un immaginario
precostruito: oggi il viaggio è sempre più verifica e meno scoperta. Si va in un posto perché si sa
com’è, lo si è già visto grazie ai media. Di questo immaginario fanno parte anche oggetti artigianali
e performances varie. Finisce così che i locali si rappresentino come i turisti li pensano e producano
gli oggetti che i turisti amano di più. Essendo il turismo una potenziale fonte di reddito, i locali
finiscono per seguire le leggi della domanda e per proporre di conseguenza una loro offerta.
Paradossalmente, un certo turismo «etnico» va alla ricerca di culture locali autentiche, ma nello
stesso tempo è espressione di un’industria turistica che, creando l’illusione dell’autenticità, rafforza
di fatto la simulazione sociale e culturale.

I tuareg artigiani
A Timbuctu (Mali) si incontrano continuamente tuareg che vendono oggetti di artigianato per la
strada, negli hotel, nei ristoranti. Avvicinano i turisti e danno vita a una sorta di recita che sembra
studiata in una scuola comune, tanto si ripete uguale ogni giorno, in ogni luogo, anche se il
venditore è diverso.
Il primo elemento che viene messo in luce è il nomadismo. «Nous les tuaregs sommes touts des
nomades» («Noi tuareg siamo tutti nomadi») ripetono quasi come uno slogan ed è evidente come
siano consci del fatto che il nomadismo, il mistero ombroso degli «uomini blu» eserciti un certo
fascino sui turisti. Utilizzano non il termine imohag, «uomini liberi», con cui loro si definiscono,
ma tuareg, appellativo denigratorio assegnato loro dagli arabi, che significa «senza dio», ma che è
anche quello con cui li conoscono i turisti.
Per dare maggiore credibilità alla sua dichiarazione di nomadismo, spesso il venditore racconta di
essere appena arrivato dal deserto o di dover ripartire l’indomani per il deserto. La seconda
affermazione è più frequente, perché serve a mettere una certa fretta al turista nel chiudere l’affare.
Una sorta di implicita minaccia: «se non lo compri ora non lo troverai più domani». Marco Aime
racconta di aver incontrato spesso, nei suoi soggiorni a Timbuctu, venditori che gli dicevano di
essere in partenza, salvo poi rivederli il giorno dopo, e quello dopo ancora e ogni altra volta che
tornava per lavoro in quella città. Uno slogan che ricorre nella trattativa per gli oggetti è: «li ho fatti
io». Tutti i venditori si spacciano per artigiani, ma la realtà è diversa. A Timbuctu i produttori di
oggetti d’artigianato, in particolare quelli in metallo, non sono numerosi e in molti casi gli oggetti
venduti provengono dal Niger, dove la produzione artigianale è molto più forte e originale. La
figura dell’artigiano rappresenta però, nell’immaginario del turista occidentale, un immediato
rimando a un mondo passato, perduto, preindustriale, romantico, che mette in moto una certa
nostalgia; la stessa che spesso spinge molti viaggiatori a recarsi in regioni del mondo considerate
ancora «intatte», cioè non contaminate dall’Occidente. L’idea di una persona che ancora è padrona
dei propri mezzi di produzione, che con le sue mani modella la materia e la trasforma in un oggetto
finito, affascina chi vive in una realtà dove gli oggetti sono il prodotto di una catena di lavorazioni
spezzettate e spersonalizzate.

Li conosciamo come tuareg, ma questo nome è stato assegnato loro dagli arabi e significa «senza dio». Il nome con cui questi
nomadi sahariani si definiscono è imohag, «uomini liberi». I gruppi del nord abitano i massicci rocciosi dell’Hoggar e dell’Ajjer
(Algeria); quelli del sud vivono nella parte meridionale del deserto, in Mali e in Niger, in un territorio che presenta caratteristiche
sahariane. La lingua comune è il tamashek. L’universo tuareg è formato da una sorta di confederazione formata da diversi kel o clan,
che vivono sparsi sul territorio e che costituiscono le uniche vere unità sociali di riferimento per questi nomadi.
I kel conoiderati nobili sono ormai pochi e risiedono tutti nel cuore dell’Hoggar. È tra i loro appartenenti che viene scelto
l’amenokal, il capo supremo, il quale esercita però un potere relativo, poiché tra i tuareg l’autorità centrale non è mai stata
considerata molto importante. L’amenokal, il cui nome significa «padrone di tutte le terre», aveva il compito di controllare e di tenere
a bada le rivalità che spesso scoppiavano tra i vari gruppi. Come presso molti popoli pastori e guerrieri la stratificazione sociale è
assai marcata e l’appartenenza a una stirpe nobile conferisce una grande importanza. Si tratta di un sistema di caste, diviso in cinque
classi chiuse. La piramide gerarchica tradizionale era dominata dai nobili (imuhar), che assicuravano protezione ai loro vassalli
(imrad), addetti alla pastorizia, all’allevamento dei cammelli e alla guida delle carovane. Questi ultimi si avvalevano dei servigi di
schiavi catturati nel corso di razzie: gli iklan svolgevano i lavori domestici, mentre ai gradini più bassi della piramide stavano i bella
e gli harratin, generalmente di pelle nera, ai quali venivano affidati i lavori più pesanti. Fuori dal sistema delle caste c’erano gli
inaden, i «figli del diavolo». Erano fabbri e artigiani, considerati esseri pericolosi e imparentati con il demonio, il quale avrebbe
insegnato loro la misteriosa arte di dominare il ferro con il fuoco. I tuareg sono tradizionalmente monogami. La forzata
islamizzazione ha scalfito solo leggermente la tradizione autoctona e la poligamia non è mai stata adottata. Le donne tuareg non
portano il velo, non assumono atteggiamenti di sottomissione di fronte agli uomini e sono le depositarie principali della scrittura e
quindi responsabili dell’educazione dei figli. «È il ventre che dà il colore a un figlio»: con queste parole i tuareg riassumono il
concetto per cui all’interno dei kel la discendenza viene trasmessa per linea materna.
Che cosa significa arte?

Oscar Wilde Il ritratto di Dorian Gray "tutta l’arte è completamente inutile"

forme di espressione artistica => dai graffiti e pitture preistoriche presenti in ogni società e cultura
“arte” => insieme di pratiche il cui scopo è dare piacere e suscitare emozioni
pittura scultura musica letteratura danza fotografia cinema arti applicate

il modo con cui le espressioni della creatività raggiungono la sensibilità


non è universale, ma è legato alle culture di appartenenza

che cosa é arte e che cosa non lo é?

Pietà (Michelangelo) Sonata (Chopin) commedia (Shakespeare) Blowin in the wind (Dylan)
minestra Campbell (Andy Warhol) Vespa Ferrari (Moma) ‘action painting’ ‘espressionismo astratto’
boscimani !kung > uova di struzzo come borracce aborigeni > boomerang incisi inuit > arpioni scolpiti

creatività estetica applicata a oggetti di uso comune

mancanza del termine arte in molte lingue e culture


"arte" categoria culturale occidentale imposta su scala mondiale
circuito artistico => critici gallerie biennali acquirenti

Arte rituale e arte utile

cultura occidentale => arte prodotta per una fruizione contemplativa


culture ‘altre’ e antiche => forme espressive funzionali (religione, riti; feste, etc)

Africa: maschere da indossare e usare per le cerimonie, le danze, etc


es. maschere gelede, yoruba-nago (Togo, Benin, Nigeria), carattere rituale-religioso / carattere profano

religioni => ruolo importante per la produzione artistica (creazione, committenza, filtri e divieti)

es. islam => divieto di rappresentare la figura umana (sostituita da calligrafia grafica decorazione)

Il gusto artistico come prodotto culturale


forme artistiche legate alla cultura in cui nascono => coordinate precise diverse da cultura a cultura.
gusto artistico non universale ma caratterizzato culturalmente => ripetizione di modelli precedenti
Il gusto del bello non è ‘naturale, ma è il prodotto di un’educazione
ciò che è piacevole per noi, può apparire orribile per altri > i gusti vengono creati dalla società

Comprendere l’arte di altre culture => es. melodie indiane o arabe (testo)

Alcune melodie indiane o arabe possono apparire noiose e monotone a un orecchio occidentale. Siamo infatti
abituati a decifrare i suoni grazie a un’educazione musicale che si basa su scale di sette note, con dodici intervalli di
un semitono. Il modello armonico indiano si fonda su tre gamme analoghe, con una suddivisione di ventidue gradi,
il cui intervallo è superiore a 1/4 di tono del nostro sistema. Per questo quelle che a un indiano paiono come nette
variazioni di tono, risultano impercettibili al nostro orecchio e l’insieme ci sembra monotono. Viceversa, la nostra
musica suona un po’ rozza e semplice alle orecchie di un indiano o di un arabo, perché più povera di sfumature.
Il peso dell’arte
Arte materiale arte immateriale
popolazioni sedentarie popolazioni nomadi
oggetti materiali grandi dimensioni leggerezza forme espressive non visive

Michelangelo Donatello Canova danza musica poesia => arte “trasportabile”


marmo => simbolo di perennità tuareg (Sahara) peul poema Kaidara Mali Yeleen
arte di corte stanzialità feste funerali celebrazioni solenni guerra caccia rituali

Contaminazioni artistiche metissage miscigenaçao


viaggi => incontri tra espressioni artistiche di diverse culture => forme nuove
maschere africane => Picasso Giacometti

musica => fusioni e inglobamenti

matrice africana
+ folk irlandese => country americano
musiche ritmi
scala pentatonica
caraibiche, brasiliane, messicane blues, gospel, jazz, rock, reggae, hip hop

"tradizione" “contaminazione” “innovazione”

Michel Leiris (L’Africa fantasma) => furti di oggetti sacri Missione etnografica Dakar-Gibuti (1931)

musei etnografici
. Museum of Mankind Londra Quai Branly Parigi American Museum of Natural History New York

sono gli occidentali a fare i musei sugli altri non il contrario (rapporto di forza asimmetrico)
post-colonizzazione
sguardo dell’osservatore occidentale => oggetto etnografico diventa ‘opera d’arte’

informazioni sulla sua origine contemplazione


tecniche di realizzazione informazioni inessenziali
significato simbolico e funzione sociale solo valore estetico
antropologia vs bellezza
unicità dell’opera => concetto occidentale vs A. Warhol
vs op. seriali
Arte per turisti manufatti artigianali prodotti in serie: arte o artigianato?
danze o ad altre forme di performance "messe in scena" per i turisti
. "autenticità rappresentata" (staged authenticity)
turisti immaginario precostruito
viaggio verifica vs scoperta legge della domanda
i locali si rappresentano come i turisti li pensano

simulazione
illusione dell’autenticità

testo: I Tuareg artigiani


Economia e lavoro

Dall’inizio della storia dell’umanità, sono esistite migliaia di culture e società differenti, che si
possono tuttavia classificare secondo un numero limitato di tipi fondamentali, basati sulle tecniche
che esse hanno impiegato per sfruttare l’ambiente naturale. A seconda della strategia di sussistenza,
tutte le società possono essere classificate tra le seguenti, su cui si sono basate: raccolta, caccia e pe-
sca, pastorizia, orticoltura, agricoltura e industria.

Raccolta, caccia e pesca

Per millenni l'uomo si è procurato il cibo direttamente dall’ambiente naturale. Questo tipo di eco-
nomia, chiamato di caccia-raccolta, prevede in genere una divisione su base sessuale dei compiti:
alle donne spetta l'attività di raccolta di vegetali e animali, mentre gli uomini si recano a caccia o a
pesca. La caccia e la raccolta sono forme della cosiddetta economia di acquisizione o di prelievo, in
quanto le società che le mettevano in pratica non conoscevano tecniche produttive in senso stretto
(come l’agricoltura e l’allevamento), ma “acquisivano” direttamente dalla natura ciò di cui avevano
bisogno. La raccolta è più antica della caccia, e fornì sostentamento dapprima agli australopitechi, i
primi ominidi bipedi africani vissuti a partire da 4-5 milioni di anni fa1; fu l’homo sapiens, secondo
recenti teorie archeologiche, a introdurre, 195.000 anni fa, la caccia. Le società di caccia e raccolta,
costituite da piccoli gruppi primari che raramente superano le quaranta unità, sono costantemente in
movimento perché devono lasciare un’area non appena si esauriscono le risorse alimentari che que-
sta offriva. Di conseguenza, poiché la proprietà sarebbe un impedimento per loro, possiedono un
numero esiguo di beni. Nessuno può acquistare ricchezza, perché non c’è ricchezza. Tra queste
popolazioni la guerra è inconsueta, anche perché quasi non ci sono beni materiali per cui combat-
tere. Anche se viene spesso presentata come una forma primitiva, questa economia ha dei vantaggi:
in media infatti un cacciatore-raccoglitore lavora meno di un contadino ed è meglio nutrito.

Pastorizia nomade

All’incirca tra dieci e dodicimila anni fa, alcuni gruppi di caccia e raccolta cominciarono a svilup-
pare la pastorizia, una strategia di sussistenza basata sulla domesticazione2 di alcune specie animali.
Questa strategia venne adottata da molte popolazioni che abitavano deserti o regioni comunque non
idonee alla coltivazione delle piante, ma in cui si trovavano animali – come le capre o le pecore –
facilmente addomesticabili da usare come fonte di alimentazione. Rispetto alla caccia e alla raccol-
ta, la pastorizia è una strategia più produttiva. Non solo assicura una fonte costante di alimentazio-
ne, ma le dimensioni delle greggi possono via via essere allargate. Una conseguenza importante di
questa circostanza è che le società possono crescere di numero e comprendere centinaia e anche

1
Presso gli odierni popoli cacciatori e raccoglitori, come i Boscimani Kung San del deserto del Kalahari
(Botswana), i Pigmei Mbuti del Congo o gli aborigeni australiani, la raccolta costituisce la parte più consi-
stente delle risorse alimentari, e generalmente questa attività è compito delle donne, che ogni giorno percor-
rono decine di chilometri a piedi alla ricerca di vegetali, uova, larve, miele, insetti e piccoli animali cattura-
bili con le mani come lucertole, lumache, uccellini nel nido; esse si aiutano con un bastone da scavo appun-
tito ad una estremità, utile ad estrarre radici, per trasportare il raccolto usano canestri intrecciati da loro
stesse.

2
‘Domesticare’ significa scegliere una specie – vegetale o animale - sulla base dei benefici che può portare,
toglierla dalla sua condizione naturale e trasferirla in un contesto in cui l'uomo la controlla. Non bisogna con-
fondere la domesticazione con l’addomesticazione. Addomesticare significa rendere utilizzabile un indivi-
duo, non una specie. Posso addomesticare una tigre, ma il suo cucciolo sarà selvatico. Al contrario non devo
domesticare un puledro, in quanto i cavalli sono stati domesticati in quanto specie.
migliaia di persone. La maggiore produttività della pastorizia permette l’accumulazione di un
surplus di bestiame e di cibo. Attraverso gli scambi, questo surplus può essere convertito in altre
forme di ricchezza e queste, a loro volta, possono essere utilizzate per acquistare potere. Per la
prima volta, alcuni individui sono in grado di diventare più potenti di altri e trasmettere il loro status
ai propri discendenti. Cominciano a comparire modelli di capo tribù e di capo clan. I popoli dediti
alla pastorizia sono solitamente nomadi poiché devono condurre costantemente i greggi verso nuovi
pascoli. I prodotti della cultura materiale in queste società sono perciò costituiti da oggetti facilmen-
te trasportabili: tende, tappeti, utensili semplici, gioielli e così via. La vita di nomade mette spesso i
pastori in contatto con altri gruppi. La prima conseguenza è lo sviluppo di un commercio sistemati-
co, la seconda è che le dispute sui diritti di pascolo scatenano spesso le guerre. La schiavitù, scono-
sciuta nelle società di caccia e raccolta, fa la sua comparsa. Iniziano a svilupparsi istituzioni politi-
che ed economiche, la cultura e la struttura sociale diventano più complesse.

L’orticoltura

Le società dedite all’orticoltura comparvero per la prima volta tra dieci e dodicimila anni fa, quan-
do alcuni cacciatori e raccoglitori cominciarono consapevolmente a seminare, curare e raccogliere
dei vegetali commestibili. A differenza dei pastori, la loro vita è relativamente stanziale, visto che
periodicamente spostano i loro orti e i loro villaggi entro brevi distanze. Una delle tecniche di colti-
vazione più antiche e diffuse, specie nelle zone semiaride, è quella ‘alla zappa’. Nelle regioni tropi-
cali viene spesso adottata la tecnica taglia e brucia: si sgombra un appezzamento di terreno brucian-
do la vegetazione tagliata, si coltiva poi per due tre anni, fino a che il suolo è esaurito, quindi si ri-
pete il procedimento altrove. Questi tipi di coltivazioni sono detti pluviali, poiché l'irrigazione di-
pende unicamente dalle precipitazioni piovose; essi richiedono una rotazione dei terreni per fare ri-
posare il suolo. Anche in questo caso il surplus permette che alcuni individui diventino più potenti
di altri, e che alcune persone possano dedicarsi ad attività lavorative diverse dalla produzione ali-
mentare: compaiono nuovi status e ruoli specializzati, come quelli dello sciamano, del mercante,
dell’artigiano. La guerra è molto comune nelle società orticole, perché spesso è più conveniente ru-
bare i raccolti del vicino che produrne in proprio. Nelle società orticole più aggressive compaiono le
pratiche del cannibalismo, della caccia alle teste, di solito come atto rituale di vendetta. Gli orticolo-
ri producono oggetti più elaborati rispetto ai cacciatori e ai pastori: case, troni, grandi sculture in
pietra.

Agricoltura e allevamento

Circa 10 000 anni fa nel Vicino Oriente - la Mezzaluna fertile - ebbe inizio lo sviluppo agricolo:
da cacciatore e raccoglitore l’uomo divenne agricoltore e allevatore di animali3. Il presupposto di
questo processo, chiamato “rivoluzione neolitica” dal padre della moderna paleoetnologia, Vere
Gordon Childe (1892-1957), è la cosiddetta domesticazione di alcune specie vegetali ed animali.
L’uomo del Neolitico capì che il disfacimento del seme nella terra dava origine alla pianta e che
quindi, piantando i semi, si potevano far crescere le piante vicino a casa. Egli imparò poi gradual-
mente a selezionare le piante più produttive. Un processo analogo venne realizzato per gli animali:
l'uomo iniziò così a diventare un produttore. Le specie domesticate a poco a poco mutano genetica-
mente diventando più corrispondenti alle esigenze umane. I vantaggi più diretti della domesticazio-
ne furono una maggior quantità di cibo a disposizione dei coltivatori. Ciò portò a una crescita della
popolazione, fattore che dava un vantaggio numerico ai popoli che avevano adottato l'orticoltura.

3
Nel resto del mondo il passaggio all’agricoltura si verificò, in tempi diversi tra il 7500 e il 2500 a. C., in
almeno quattro regioni: la Cina orientale, il Messico centrale e meridionale, le Ande (forse l’Amazzonia), gli
Stati Uniti orientali.
Quando, circa 6000 anni fa, fu inventato l’aratro, la vera rivoluzione agricola ebbe inizio. L’uso
dell’aratro accresce fortemente la produttività del terreno, porta alla superficie nutrimenti che erano
affondati oltre la portata delle radici delle piante e rovescia le erbacce in modo che agiscano da
fertilizzanti. Lo stesso terreno può essere coltivato quasi continuamente, cosicché diventano
possibili insediamenti stabili e permanenti.
L'agricoltura irrigua – a differenza delle coltivazioni pluviali - prevede l'irrigazione o l’allagamen-
to periodico dei campi, che garantiscono alla terra una fertilità maggiore. In alcuni casi il terreno è
lavorato a terrazze, sfruttando i pendii: in questo caso l’irrigazione avviene per caduta dall'alto ver-
so il basso. ln altri casi sono state sfruttate le pianure alluvionali dei grandi fiumi per creare una rete
di canali che trasportano l’acqua anche in campi distanti dal fiume.
Il modello agricolo impone stanzialità e determina una maggiore densità di popolazione, un fatto
che richiede un'organizzazione più complessa e comporta una successiva stratificazione sociale.
Una parte della popolazione non è obbligata a lavorare la terra, ma può dedicarsi a tempo pieno a
ruoli altamente specializzati. Compaiono le città, composte essenzialmente di persone che in modo
diretto o indiretto scambiano la loro capacità lavorativa specializzata con i prodotti agricoli di colo-
ro che ancora lavorano la terra. Comincia a comparire la monarchia ereditaria, con una elaborata
corte, una burocrazia di governo, finchè non fa la sua comparsa lo stato, come istituzione sociale
separata. Compaiono le classi sociali e la ricchezza è quasi sempre distribuita in modo ineguale, con
una piccola minoranza di proprietari terrieri che dispone del surplus prodotto dalla maggioranza che
lavora. Una maggiore densità significa anche più malattie e più rapidità di contagio. Inoltre presso
quasi tutte le popolazioni agricole la coltivazione è legata a rituali religiosi per garantire fertilità nei
raccolti; compaiono di conseguenza specialisti di rituali, che rivestono un ruolo importante all'inter-
no della comunità. Le società agricole tendono ad essere costantemente in guerra; ciò richiede
un’organizzazione militare efficiente, compaiono quindi per la prima volta degli eserciti permanen-
ti. Si sviluppano le reti stradali e le risorse possono essere investite in nuovi prodotti culturali mate-
riali: pitture e statue, edifici pubblici, monumenti, palazzi, stadi.

Allevamento degli animali, culture agro-pastorali e pastoralismo nomade


Con l'agricoltura iniziò il processo di sedentarizzazione e gli accampamenti si trasformarono in
villaggi stabili. Per difendere i campi coltivati dagli erbivori selvatici si cominciò a rinchiudere
questi animali in recinti; in seguito si capì che potevano essere utili. Alcune specie animali vennero
così domesticate per fornire cibo, pelli e ossa, per costruire manufatti, per la caccia o per il traspor-
to. Tre le principali specie animali domestiƁche ci sono la capra, la pecora, il maiale e la gallina, il
bue, il tacchino; nessuna specie animale o vegetale è stata domesticata dopo il Neolitico. Non tutte
le specie animali sono state domesticate; ciò è motivato da ragioni di scarsa convenienza, come la
maggiore quantità di cibo necessario all'allevamento dei carnivori rispetto agli erbivori, la lentezza
nella crescita, la difficoltà di riproduzione o di sopravvivenza in cattività. Inoltre è più facile
domesticare specie che presentano un'organizzazione sociale.
A differenza della pastorizia, che prevede lo sfruttamento di pascoli naturali e necessita del
nomadismo per sfruttare meglio le aree per il pascolo, l'allevamento è un'attività stanziale di
accudimento, nutrimento e protezione degli animali. ll pastoralismo nomade persiste anche come
ramo specializzato dell'attività agricola, sviluppatosi ai margini delle zone ad agricoltura irrigua4.
Esso ha determinato la storia di molti popoli che hanno svolto un ruolo di rilievo per l'umanità.

4
Le testimonianze archeologiche indicano che le piante e gli animali furono domesticati contemporanea-
mente, all’incirca 11 000 anni fa; al tempo stesso suggeriscono che il nomadismo pastorale comparve tra il
IV e il III millennio a. C. In base a queste informazioni non possiamo ritenere che l’allevamento del bestiame
sia un passaggio intermedio tra la pratica di caccia e raccolta e l’agricoltura: piuttosto dobbiamo immaginar-
lo come contemporaneo o posteriore all’agricoltura stessa.
Società nomadi pastorali si trovano ancora oggi in tutto il mondo5. ll ciclo produttivo dei pastori
non è soggetto alla stagionalità come quello agricolo: il pastore può infatti trarre un apporto conti-
nuo dai suoi animali. I pastori in genere hanno un rapporto di complementarità e conflittualità con
gli agricoltori, poiché da un lato intrattengono regolarmente scambi con essi, dall'altro spesso si
trovano a sfruttare, anche se in modo diverso, i medesimi terreni. Da un punto di vista culturale ed
economico i nomadi non possono esistere senza le società stanziali (e viceversa), ma la mobilità fa
di loro una categoria che spesso sfugge alle classificazioni di chi conduce una vita sedentaria e
desta pertanto sospetti.
La rivoluzione agro-pastorale trovò una delle prime culle nella Mezzaluna fertile grazie a una serie
di condizioni favorevoli. In questa regione, infatti, le specie domesticabili erano presenti in abbon-
danza. Inoltre il blocco continentale eurasiatico si sviluppa principalmente in direzione est-ovest, e
pertanto presenta caratteristiche climatiche simili; spostandosi lungo tale asse l'agricoltura si diffuse
molto rapidamente. La nascita e la diffusione dell'agricoltura fornirono alle popolazioni euroasiati-
che un vantaggio notevole rispetto ai popoli che non avevano adottato questo sistema di produzione,
un vantaggio destinato a imporsi nel tempo e a determinare profonde disuguaglianze.

L’invenzione dei mestieri

Grazie alla produzione agricola e all’allevamento l’uomo si garantì la sussistenza. Non essendo
più necessario che tutti si dedicassero alla produzione di cibo, nacquero le prime specializzazioni:
nei villaggi iniziarono a comparire il fabbro, il tessitore, il falegname, il maniscalco, il barbiere, etc.
che via via si specializzarono nelle loro attività, migliorando le tecniche costruttive. Le nuove tec-
nologie e invenzioni consentirono un maggiore accesso alle risorse e un vantaggio sugli altri popoli.
Sul piano delle armi, ad esempio, permisero di conquistare territori occupati da altri: iniziò così la
professione militare e la guerra diventò un mestiere. L’artigianato raggiunse livelli di maggiore pre-
cisione e raffinatezza e ampliò il suo campo d’azione. Fu inventata la scrittura, che consentiva la
trasmissione dei saperi e l’acquisizione di nuove conoscenze. Si svilupparono attività non stretta-
mente materiali come quelle artistiche, e la preghiera venne affidata a specialisti.
Poiché la società si faceva più complessa, si vennero a costituire delle forme di gerarchia, che furo-
no la base per la nascita dei primi grandi imperi della storia, come quello assiro-babilonese, sorto
proprio nel cuore della Mezzaluna fertile. L’aumento di popolazione conseguente alla maggior
disponibilità di cibo, insieme alla collocazione geografica favorevole agli scambi, avvantaggiò i
popoli euroasiatici rispetto a quelli degli altri continenti.

Scambi e commerci

La storia dell’uomo è segnata dagli scambi, sia di merci sia di idee. Essi avvennero inizialmente
sotto forma di baratto6, uno scambio di merce con altra merce senza l’uso del denaro. Il valore dei

5
Società nomadi pastorali si trovano oggi in Africa, come i peul, allevatori di bovini, o i tuareg e i somali,
che allevano cammelli; in Asia, come tibetani, kazaki, kirghisi, beduini, che si dedicano a bovini, camelidi,
ovini e caprini; in Europa i lapponi, samoiedi, allevano renne, sulle Alpi vengono allevate mucche e pecore;
ovini e caprini pascolano in molte regioni del mondo mediterraneo; nell’America meridionale molti gruppi
andini si procurano da vivere allevando il lama e il guanaco. Anche nell’area mediterranea troviamo forme di
pastorizia transumante, dalla Spagna alla Provenza, dalla Grecia alla Sardegna, dagli Appennini alle Alpi.
6
Già Erodoto, storico greco del vi secolo a.C., narra che alcune popolazioni del Mediterraneo praticavano il
baratto muto. Il venditore esponeva la sua merce e poi si ritirava. Il compratore valutava la merce e vi
poneva accanto un quantitativo di polvere d’oro allontanandosi a sua volta. Il venditore allora esaminava
l’offerta e, se non la riteneva sufficiente, si ritirava senza toccare nulla in attesa di un rilancio da parte
dell’altro. La trattativa proseguiva in silenzio fino al raggiunto accordo, che veniva festeggiato con rulli di
tamburi e festeggiamenti.
beni scambiati veniva attribuito di volta in volta dal venditore e dal compratore, sulla base delle
reciproche necessità.
Con l’introduzione del denaro le merci iniziarono ad avere un prezzo e si poté scambiare denaro
con beni o servizi. Il commercio divenne un’attività lavorativa vera e propria, praticata sia a livello
locale sia a lunga distanza, al punto che con il tempo si vennero a creare delle rotte commerciali,
che attraversavano paesi e continenti. Il commercio però non metteva in movimento solamente
merci, ma anche idee; così attraverso i mercanti si diffusero saperi e religioni.
Secondo lo storico dell’economia Karl Polanyi esistono tre modalità di far dialogare tra di loro la
produzione e lo scambio: reciprocità, ridistribuzione e scambio di mercato.
La reciprocità è quella forma di scambio che avviene in società caratterizzate dall’egualitarismo,
dove non esistono leggi che regolano vendita e acquisto. In questo caso lo scambio avviene in modo
simmetrico: io ti do una cosa e tu me ne dai un’altra, sulla base del valore che attribuiamo a quegli
oggetti. Lo scambio avviene quindi direttamente tra individui uguali tra di loro per status.
La redistribuzione invece può essere messa in atto solo in società dove esista una struttura centra-
lizzata di potere. In pratica il capo, il sovrano o lo stato ricevono beni e denaro da parte di tutti i
componenti del gruppo, sia esso una piccola tribù o uno stato-nazione; successivamente essi
dovranno provvedere a redistribuirli secondo modalità, più o meno eque, previste dalla loro società.
Nel nostro caso è l’apparato fiscale che si occupa di raccogliere il denaro delle imposte per poi
redistribuirlo sotto forma di servizi ai cittadini.

L’era industriale

La terza modalità di passaggio di merci e servizi è quella dello scambio di mercato o commercio
calcolato. Fino alla metà del XVIII secolo era l’artigianato la principale attività di trasformazione.
La nascita delle manifatture industriali e l’espandersi dei commerci su scala mondiale, diedero il via
a quella che Polanyi ha definito la grande trasformazione, cioè l’avvento dell’era industriale e il
conseguente sorgere dell’economia di mercato.
Questa trasformazione radicale segnò la divisione tra i diversi tipi di economie e civiltà. In seguito
alla rivoluzione industriale scomparve la tradizionale società commerciale, i cui fondamenti poggia-
vano sulle risorse internazionali di oro; mentre la produzione, grazie all’introduzione delle macchi-
ne, prese il sopravvento sull’attività mercantile.
Con l’avvento del sistema capitalistico, muta la sostanza dei rapporti economici precedenti, che si
fondavano soprattutto sui rapporti sociali. Al contrario, nel sistema capitalistico sono i rapporti
sociali a essere definiti tramite quelli economici. A partire da questo momento nascono le cosiddette
«merci fittizie», come la terra, il lavoro, la moneta, che prima non venivano considerate beni di
scambio.
Con l’avvento della società di mercato il valore degli oggetti e dei servizi non viene più deciso da
venditore e compratore, ma stabilito dalla cosiddetta legge di mercato, che si basa sul principio
della domanda e dell’offerta. Se un bene è raro e c’è molta richiesta, il suo prezzo salirà, se invece
la richiesta diminuisce e c’è abbondanza di quel bene, il prezzo scenderà.
Reciprocità, redistribuzione e scambio di mercato spesso convivono all’interno di ogni società, ma
ogni società dà priorità a una di queste modalità. Nelle società occidentali, per esempio, è ormai il
mercato a svolgere tale ruolo, ma questo non significa che non esistano forme di economia
mercantile in società tradizionali e forme di reciprocità in società capitalistiche.
Per esempio, sui mercati di molte parti del mondo vige la consuetudine di contrattare il prezzo di
un bene. La pratica della contrattazione mette in gioco i due contendenti e per certi versi è un
tentativo per attenuare gli effetti della legge di mercato, che spersonalizza gli attori, acquirente e
venditore, imponendo un prezzo fisso uguale per tutti. Contrattando i due si mettono in gioco e
cercano di stabilire un compromesso, che accontenti tutti e due, tenendo conto degli interessi di
entrambi. A un cliente più ricco il mercante chiederà più soldi che a uno meno abbiente, rendendo
così più personalizzato lo scambio.
Con l’invenzione della moneta fu possibile spostare valori elevati senza spostare necessariamente
oggetti: la moneta è infatti un portatore di valore; essa è anche portatrice di segni, poiché rappresen-
ta il sistema organizzativo che ne garantisce il valore.
Nella letteratura etnografica troviamo descritti diversi tipi di moneta, che non necessariamente
hanno la forma di quelle attuali: potevano essere considerate monete delle piccole barre di ferro, dei
fili di rame, delle zappe; c’erano monete di sale oppure piccole conchiglie chiamate cauri, che vale-
vano come moneta.
Questo tuttavia non impediva che al fianco dello scambio monetario convivessero altre forme di
baratto o di altro scambio personalizzato.
In un sistema di mercato quasi tutto è acquistabile con il denaro. Se escludiamo alcuni titoli come
una laurea o la patente di guida, che devono essere acquisiti con l’abilità, il resto è sul mercato.
Ma non è così dappertutto. Presso molte popolazioni, come per esempio i tiv della Nigeria o i mossi
del Burkina Faso, esistono quelle che sono state definite sfere di scambio. In queste società non tutti
i generi sono acquistabili con denaro, e nemmeno tutto può essere scambiato con tutto. Per esempio
non si possono scambiare animali con prodotti vegetali. I beni e i servizi sono raggruppati in sfere
diverse tra di loro e ciascuna di queste sfere possiede un valore «morale» diverso, per cui certi beni
possono essere scambiati solo con beni appartenenti alla stessa sfera.

Le corporations e le multinazionali

L’economia dei paesi a capitalismo maturo non si basa più sulla concorrenza tra una miriade di
singoli capitalisti, ma è dominata da grandi società o corporations, cioè da organizzazioni commer-
ciali formali la cui proprietà è estremamente frammentata e che possono esercitare un enorme pote-
re economico e politico. La corporation – giuridicamente una società di capitali che in Italia è rap-
presentata principalmente dalle società per azioni – è un’istituzione relativamente recente, assurta a
posizioni di primo piano dalla fine del XIX secolo. Essa non è di proprietà di un singolo individuo,
ma di migliaia o anche di centinaia di migliaia di azionisti, alcuni dei quali sono a loro volta delle
corporations. Le dimensioni e il potere economico delle principali corporations sono immensi, e il
dominio che esse esercitano sulle economie nazionali ha conseguenze importanti. Una di esse ri-
guarda la possibilità che queste società hanno di manovrare la politica nazionale, di ottenere condi-
zioni di favore, di influenzare la struttura fiscale del paese e di impedire ogni sforzo diretto ad im-
pedire la crescita degli oligopoli in settori particolari.
Se in passato le grandi società concentravano la loro attività in un solo settore economico, oggi la
diversificano acquistando pacchetti azionari di controllo di società che operano in una moltitudine
di settori. Quasi tutte le maggiori corporations hanno assunto dimensioni internazionali, impiantan-
do industrie all’estero o acquistando società straniere. Molte multinazionali hanno un reddito e un
patrimonio superiori a quelli di alcuni paesi in cui operano. Sottratte all’autorità di qualsiasi stato,
soggette a una responsabilità quasi del tutto fittizia di fronte a degli azionisti remoti e dispersi, tese
al perseguimento del profitto e gestite da una ristrettissima élite di imprenditori e dirigenti, le multi-
nazionali pongono problemi che coinvolgono il “sistema-mondo”: decisioni prese da un ristretto nu-
mero di individui possono significare non solo la prosperità o la disoccupazione in paesi distanti mi-
gliaia di chilometri, ma anche un’intromissione diretta nelle faccende politiche di tali paesi.
Naturalmente le multinazionali possono svolgere talvolta un ruolo positivo, promuovendo lo svilup-
po economico nei paesi più poveri, esportandovi la tecnologia e i capitali necessari, ma le loro moti-
vazioni sono meramente commerciali: sfruttare una forza-lavoro a buon mercato e le risorse ivi esi-
stenti, aprire nuovi mercati e ricavare profitti dai paesi nei quali operano.

Le trasformazioni dell’economia contemporanea

Le più recenti trasformazioni dell’economia non hanno più avuto come nucleo centrale la fabbri-
ca e l’organizzazione industriale, ma hanno riguardato soprattutto la distribuzione dell’occupazione
nei settori dell’attività economica agricola, industriale e terziaria. In tutti i Paesi industrializzati si
continua infatti a registrare l’aumento sempre più rilevante di coloro che lavorano negli uffici, nei
servizi, nel commercio o nelle libere professioni: si ha, cioè, una continua espansione del settore
terziario rispetto agli altri due, fenomeno che viene comunemente definito terziarizzazione del-
l’economia.
Nel mondo occidentale, a causa delle continue innovazioni tecnologiche, il settore primario (agri-
coltura) e quello secondario (industria) hanno raggiunto un livello produttivo molto elevato ed una
contemporanea riduzione del numero degli occupati, che oggi sono addetti all’industria solo in parte
minoritaria e ancora meno all’agricoltura. Viceversa, il terziario è il settore in espansione, che conti-
nua ad assorbire lavoratori perché nel suo ambito l’innovazione tecnologica non riduce l’occupazio-
ne ma crea nuove professioni, nuove specializzazioni, nuove opportunità di lavoro e nuovi modelli
di formazione professionale che aprono altri settori di occupazione, e così via. Il settore terziario,
tuttavia, costituisce una realtà lavorativa eterogenea e complessa, in quanto composta da tipi di oc-
cupazione molto diversi, che possono, sì, comportare un alto livello di specializzazione, ma anche
produrre una vasta dequalificazione destinando una notevole quantità di manodopera a servizi
marginali, che richiedono minima, o persino nessuna, professionalità.
Il terziario può essere suddiviso in due grandi categorie: i servizi alle imprese (banche, assicura-
zioni, attività di comunicazione, consulenze legali, fiscali, finanziarie ecc.), che esigono un livello
medio-alto di professionalità, e i servizi alle persone (sostegno alla famiglia, ai diversamente abili,
agli invalidi ecc.).
Questi ultimi si possono ulteriormente suddividere in servizi al consumatore (commercio, ristora-
zione, turismo, attività di riparazione come quelle di idraulici, meccanici, carrozzieri, elettricisti e
falegnami) e servizi sociali, come la sanità, l’istruzione e tutti gli altri previsti dal Welfare State; è
nei servizi al consumatore che si registra la massima presenza di occupati non specializzati. Il no-
tevole incremento dei servizi alle persone è stato determinato non tanto dal progresso tecnologico,
quanto da due fattori sociali: il lavoro extradomestico delle donne, che devono ricorrere in modo
massiccio all’aiuto fornito dai servizi esterni, per continuare a svolgere i compiti di cura della
famiglia e della casa; l’aumento del tempo libero, che ha determinato una crescita rilevante delle
attività legate al turismo, allo spettacolo e alle attività ricreative in genere.
Le società occidentali, nelle quali il processo di industrializzazione ha raggiunto il livello di sa-
turazione, lasciando il posto alla terziarizzazione, sono definite società postindustriali e si vanno
caratterizzando anche come società «opulente», in quanto la maggioranza della loro popolazione ha
un tenore di vita superiore al passato, grazie a una più diffusa ricchezza che consente un più ampio
consumo di beni e servizi, un più esteso e qualificato impiego del tempo libero.
Le trasformazioni in corso nell’economia globalizzata hanno una portata epocale sia per la velocità
che per la radicalità dei cambiamenti riguardanti i modelli produttivi, i loro contesti sociali, istitu-
zionali e geografici. Si sta profilando la nascita di un’impresa senza confini, cioè senza limiti
spaziali ed organizzativi, portata ad operare all’interno di sistemi economici caratterizzati da
fenomeni di specializzazione della produzione e di localizzazione, che consiste nell’insediamento
delle attività economiche in quelle aree geografiche che offrono il vantaggio di poter sfruttare un
insieme di risorse le quali consentono di produrre a bassi costi e quindi a prezzi concorrenziali
(abbondanza di materie prime, un mercato del lavoro caratterizzato da numerosa manodopera, bassi
salari, limitata tutela dei lavoratori, possibilità di raggiungere mercati non ancora dominati da una
forte concorrenza, facilitazioni negli scambi internazionali ecc.). Naturalmente, questo fenomeno
produce anche il fenomeno, inverso, della delocalizzazione, cioè il trasferimento delle imprese dal
territorio nazionale di appartenenza verso zone del pianeta ritenute più vantaggiose sotto il profilo
economico. Il contesto di un’impresa ormai non è più nazionale, in quanto essa opera sempre meno
entro una ristretta dimensione geografica. Il nuovo contesto è composto da un «ambiente» e da uno
o più «territori». L’ambiente è una porzione del mondo esterno all’impresa, costituito dall’insieme
delle organizzazioni e degli attori sociali che ricoprono un ruolo rilevante per il reperimento delle
risorse e la collocazione dei prodotti o dei servizi (fornitori, banche, azionisti, sindacati ecc.).
L’ambiente è specifico e variabile in base alle scelte strategiche e di localizzazione dell’impresa
stessa, compiute secondo la logica di aumentare la propria indipendenza rispetto alle risorse di cui
abbisogna e alle organizzazioni con cui ha relazioni.

Nuove concezioni economiche

Alla base della nuova economia, oltre alla globalizzazione degli affari, vi è la rivoluzione tecnolo-
gica dell’informazione, che ne favorisce la crescente «immaterialità», permettendo il passaggio dal-
l’impresa centralizzata all’impresa di rete; un altro aspetto è costituito, come si è visto, da una dimi-
nuita centralità e da un’accresciuta flessibilità del lavoro. Non va nemmeno trascurata la nascita di
un’economia della conoscenza, determinata dalla maggiore esigenza di informazione e di formazio-
ne generale e professionale da parte di lavoratori, dirigenti ed imprenditori, dato che le conoscenze
necessarie diventano sempre più complesse, trasversali alle varie materie, soggette a continue e ra-
pide trasformazioni. «Si registra – sostiene il sociologo Edgar Morin – una inadeguatezza sempre
più ampia, profonda e grave tra i nostri saperi disgiunti, frazionati, suddivisi in discipline da una
parte, e realtà o problemi sempre più pluridisciplinari, trasversali, multidimensionali, transnazionali,
globali, planetari, dall’altra», per cui, invece di una «testa ben piena», è meglio avere una «testa ben
fatta», che sappia collegare fra loro le varie conoscenze, poiché un sapere «isolato» appare poco uti-
le, mentre risulta determinante avere delle conoscenze «pertinenti», cioè capaci di collocare il sape-
re stesso all’interno di un preciso contesto.
Bisogna, inoltre, tenere conto dell’economia del loisir (svago, cultura, spettacolo), che viene
«consumato» non solo in maggiore quantità, ma in modo diverso, dato che si acquistano non solo
dei beni materiali, ma anche stili di vita, immagini e «sogni». Vi sono poi alcuni beni di consumo
che diventano status symbol, il cui possesso finisce per influenzare i comportamenti individuali e
collettivi (vedi il made in Italy). Per fronteggiare questo nuovo tipo di domanda si costruiscono le
«cattedrali del consumo» (centri commerciali, casinò, fast food, parchi a tema), dove è possibile
praticare il culto dello shopping e dove il consumo si mescola all’intrattenimento.
Con il passaggio dalla ripetitiva fabbrica fordista, intesa come luogo centrale del lavoro e del-
l’economia, alla diffusione delle «cattedrali del consumo», diventate mete di un pellegrinaggio le-
gato al nuovo iper-consumismo, si può dire che il volto dell’economia contemporanea sia profonda-
mente cambiato e che tale trasformazione abbia inciso sulla dimensione culturale ed esistenziale
dell’«homo consumens». Si tratta di un fenomeno che non va sottovalutato, perché influisce sui
mutamenti quantitativi e qualitativi che pesano sulle trasformazioni e sul funzionamento non solo
dell’economia, ma dell’intera società sotto il profilo sociologico, antropologico e politico.
Secondo il sociologo americano Richard Sennett, l’umanità è oggi formata da uomini flessibili, la
cui vita è condizionata dalle tre parole d’ordine del nuovo capitalismo: flessibilità, mobilità e
rischio. Sorgono così delle differenze profonde tra la precedente generazione, per la quale la vita e
il lavoro scorrevano duramente ma anche regolarmente, e la generazione dei figli, sottoposta alla
nuova legge del capitalismo flessibile, per cui si cambia spesso lavoro, si disdegna l’idea di una lun-
ga carriera dentro la stessa azienda, ma al contempo si prova un senso di deriva e di smarrimento,
poiché si avverte la paura di perdere il controllo della propria vita. Afferma infatti Sennett: «Com’è
possibile mantenere degli obiettivi a lungo termine in una società a breve termine? In che modo
possono essere conservati dei rapporti sociali durevoli? Come può un essere umano sviluppare
un’autonarrazione di identità e una storia della propria vita in una società composta di episodi e
frammenti? Le condizioni della nuova economia si alimentano di esperienze che vanno alla deriva
nel tempo, da un posto all’altro, da un lavoro all’altro [...] Il capitalismo a breve termine minaccia
di corrodere il carattere, e in particolare quei tratti del carattere che legano gli esseri umani tra loro e
li dotano di una personalità sostenibile».
Economia e lavoro

tecniche di sfruttamento dell'ambiente naturale / strategie di sussistenza:

caccia/raccolta pastorizia orticoltura agricoltura/allevamento industria

Raccolta, caccia e pesca


economia di acquisizione o di prelievo:
caccia-raccolta vs tecniche produttive (agricoltura allevamento)
australopitechi (africani) 4-5 milioni di anni fa => raccolta *
homo sapiens 195.000 anni fa => caccia
divisione su base donne: raccolta (vegetali e piccoli animali)
sessuale dei compiti uomini: caccia o pesca
piccoli gruppi primari - nomadi - numero esiguo di beni - non c’è ricchezza
guerra inconsueta => non ci sono beni materiali per cui combattere
cacciatore-raccoglitore: lavora meno di un contadino ed è meglio nutrito

Pastorizia nomade 10.000/8.000 a. C. Orticoltura


domesticazione** di varie specie animali: semina, cura e raccolta di vegetali commestibili
capra, pecora, gallina, bue, asino, cammello, etc coltivazioni pluviali: irrigazione piovana
pastorizia strategia di sussistenza ‘produttiva’ rotazione dei terreni per fare riposare il suolo
nomadismo: ricerca nuovi pascoli vs stanzialità: spostamenti entro brevi distanze
regioni desertiche o semi-desertiche zone semiaride: coltivazione 'alla zappa'
regioni tropicali: tecnica taglia e brucia: si
società di centinaia / migliaia di persone brucia la vegetazione tagliata, si coltiva per 2/3 anni
fonte costante di alimentazione sino ad esaurimento => si ripete altrove
dimensioni greggi allargabili conquista di nuovi terreni e sovraproduzione
bestiame/cibo accumulazione vegetali domesticati: cereali, piselli, frutti
convertibile ricchezza/potere di surplus gerarchie di potere e ricchezza
trasmissione dello status ai discendenti nuove attività lavorative
(capo-tribù capo-clan) diverse dalla produzione alimentare
nuovi status e ruoli specializzati:
sciamano, mercante, artigiano etc
cultura materiale
oggetti facilmente trasportabili: oggetti più elaborati (vs cacciatori/pastori)
tende, tappeti, utensili, gioielli etc case, troni, grandi sculture in pietra.
contatto con altri gruppi =>
a) sviluppo di commercio sistematico
b) dispute sui diritti di pascolo > guerre < molto comuni: facilità / + conveniente rubare
comparsa della schiavitù i raccolti del vicino che produrre in proprio
istituzioni politiche ed economiche cannibalismo, caccia alle teste =>
cultura e struttura sociale più complesse atti rituali di vendetta.

* Odierni popoli cacciatori/raccoglitori: Boscimani Kung San del deserto del Kalahari (Botswana), Pigmei Mbuti
(Congo), aborigeni australiani. Raccolta generalmente compito delle donne: decine di km a piedi alla ricerca di
vegetali, uova, larve, miele, insetti e piccoli animali catturabili con le mani come lucertole, lumache, uccellini
nel nido; bastone da scavo appuntito, utile ad estrarre radici; per trasporto: canestri intrecciati da loro stesse.

**' Domesticare' = scegliere una specie - vegetale o animale - per i benefici che può portare,
toglierla dalla sua condizione naturale e trasferirla in un contesto controllabile.
domesticazione vs addomesticazione => rendere utilizzabile un individuo, non una specie.
Agricoltura e allevamento

8.000 a. C. Mezzaluna fertile: “rivoluzione neolitica” Vere Gordon Childe (1892-1957)


7500-2500 a. C. Cina orientale, Messico centro-meridionale, Ande, Stati Uniti orientali
nessuna specie animale o vegetale domesticata dopo il Neolitico
selezione e domesticazione di specie vegetali ed animali presenti in abbondanza
uomo produttore
far crescere piante/animali vicino a casa => sedentarizzazione e stanzialità

allevamento agricoltura
animali erbivori recintati per difendere i campi coltivati: terreno coltivato quasi continuamente =>
specie animali domesticate per fornire cibo, pelli agricoltura irrigua: irrigazione/allagamento
e ossa, manufatti, per la caccia o per il trasporto: periodico dei campi vs coltivazioni pluviali
capra pecora maiale gallina bue tacchino cammello etc terreno lavorato a terrazze: irrigazione per caduta
specie animali non domesticate => scarsa convenienza pianure alluvionali dei grandi fiumi rete di canali
carnivori vs erbivori lentezza nella crescita 4000 a. C. => aratro inizio rivoluzione agricola:
difficoltà di riproduzione e sopravvivenza in cattività nutrimenti affondati portati in superficie
specie con organizzazione sociale: arriva oltre la portata delle radici delle piante
domesticazione più facile rovesciamento delle erbacce (fertilizzanti)
vs coltivazione-orticoltura: alla zappa

cambiamenti e vantaggi diretti della domesticazione:


maggior quantità di cibo => crescita demografica
organizzazione più complessa - stratificazione sociale
ruoli altamente specializzati esercitati a tempo pieno
accampamenti => villaggi stabili => città reti stradali
persone che scambiano la capacità lavorativa con i prodotti degli agricoltori
monarchia ereditaria (corte burocrazia) Stato classi sociali
distribuzione ineguale della ricchezza
minoranza di proprietari terrieri surplus prodotto dalla maggioranza che lavora
maggiore densità => più malattie e maggiore rapidità di contagio
coltivazione legata a rituali religiosi => fertilità: specialisti di rituali
guerra costante => organizzazione militare efficiente => eserciti permanenti
nuova cultura materiale: pitture e statue, edifici pubblici, monumenti, palazzi, stadi.

Allevamento degli animali, pastoralismo nomade e culture agro-pastorali


allevamento vs pastorizia
attività stanziale di accudimento, sfruttamento di pascoli naturali
nutrimento, protezione degli animali nomadismo pastoralismo nomade * =>
ramo specializzato dell'attività agricola nato
ai margini delle zone ad agricoltura irrigua.
stagionalità vs apporto continuo dagli animali
rapporto di complementarità e conflittualità con agricoltori-pastori:
scambi regolari / sfruttamento dei medesimi terreni / economia mista
Nomadi: non possono esistere senza le società stanziali
mobilità: categoria che sfugge alle classificazioni di chi conduce una vita sedentaria e desta sospetti

* Società nomadi pastorali si trovano oggi in Africa, come i peul, allevatori di bovini, o i tuareg e i somali, che allevano cammelli;
in Asia, come tibetani, kazaki, kirghisi, beduini, che si dedicano a bovini, camelidi, ovini e caprini; in Europa i lapponi, samoiedi,
allevano renne, sulle Alpi vengono allevate mucche e pecore; ovini e caprini pascolano in molte regioni del mondo mediterraneo;
nell’America meridionale molti gruppi andini si procurano da vivere allevando il lama e il guanaco. Anche nell’area mediterranea
troviamo forme di pastorizia transumante, dalla Spagna alla Provenza, dalla Grecia alla Sardegna, dagli Appennini alle Alpi.
30230_cap09 239-270.indd 249

pali dei continenti.


ó Centri di origine e prima diffusione dell’agricoltura e dell’allevamento. Le frecce indicano gli assi princi-

AM
ERI
vite EURASIA
olive
CHE

avena miglio
segala (germogli di) soia
cotone
fave

prima del 5.000


Fave sorgo prima del 7.500 a.C.
mais miglio
cacao patata dolce 8.000 a.C.

AFRICA
pomodori ananas frumento
avocado noci di cocco
orzo albero del pane

prima del 3.500 a.C. miglio 7.000 a.C.


zucca miglio cetriolo riso
mais sorgo banane
caffè cotone

patata dolce orzo


fave anguria frumento
patate piselli
cotone cipolle
paprica
Loescher Editore - Vietata la vendita e la diffusione

prime colture lama renna maiale cammello sebu pollame

alpaca cavallo pecora dromedario yak oca


datazione prime colture

assi principali maialino d’india bovini capra asino bufalo tacchino


dei continenti
12/01/12 22:52

249
L’invenzione dei mestieri

agricola / allevamento => sussistenza:


non è più necessario che tutti si dedichino alla produzione di cibo

prime specializzazioni

fabbro, tessitore, falegname, maniscalco, barbiere, calzolaio, etc.

mestieri e artigianato

nuove tecnologie e invenzioni => armi conquista professione militare => guerra come mestiere

scrittura attività artistiche occupazioni religiose

forme di gerarchia => primi grandi imperi della storia (assiro-babilonese: Mezzaluna fertile)
aumento di popolazione / disponibilità di cibo / collocazione geografica / scambi => popoli euroasiatici

Scambi e commerci

baratto * => scambio di merci senza l’uso del denaro -


valore attribuito da venditore e compratore

denaro => prezzo delle merci denaro <=> beni /servizi

commercio => attività lavorativa locale / lunga distanza =>


rotte commerciali => diffusione di saperi e religioni

Karl Polanyi (Vienna, 1886- Pickering, 1964)


La grande trasformazione, 1944
tre modalità di rapporto tra produzione e scambio:

Reciprocità Redistribuzione Scambio di mercato


forma di scambio che avviene in società società dove esista una struttura commercio calcolato: la nascita
caratterizzate dall’egualitarismo, dove centralizzata di potere. Il capo, delle manifatture industriali e
non esistono leggi che regolano vendita il sovrano o lo stato ricevono beni l’espandersi dei commerci su
e acquisto e lo scambio è simmetrico: e denaro da parte di tutti i membri scala mondiale, determinano
io ti do una cosa e tu me ne dai un’altra, del gruppo (piccola tribù-Stato); la ‘grande trasformazione’, cioè
sulla base del valore che attribuiamo agli poi essi dovranno provvedere a l’avvento dell’era industriale e il
oggetti. Lo scambio avviene quindi tra redistribuirli secondo modalità sorgere dell’economia di mercato.
individui uguali tra di loro per status. più o meno eque, previste dalla dalla metà del XVIII secolo
società: apparato fiscale => vs artigianato
raccogliere il denaro delle imposte
e redistribuirlo (servizi ai cittadini)

* Già Erodoto, storico greco del vi secolo a.C., narra che alcune popolazioni del Mediterraneo praticavano il baratto muto.
Il venditore esponeva la sua merce e poi si ritirava. Il compratore valutava la merce e vi poneva accanto un quantitativo di polvere
d’oro allontanandosi a sua volta. Il venditore allora esaminava l’offerta e, se non la riteneva sufficiente, si ritirava senza toccare nulla
in attesa di un rilancio da parte dell’altro. La trattativa proseguiva in silenzio fino al raggiunto accordo, che veniva festeggiato con
rulli di tamburi e festeggiamenti.
L’era industriale

metà XVIII secolo => manifatture industriali vs artigianato


rivoluzione industriale: introduzione delle macchine vs attività mercantile
espansione dei commerci su scala mondiale
scambio di mercato - commercio calcolato
sistema capitalistico => rapporti sociali definiti tramite quelli economici
nascita delle «merci fittizie» (terra, lavoro, moneta)
valore di oggetti e servizi stabilito dalla legge di mercato (principio di domanda e offerta)
bene raro + richiesta prezzo + alto e viceversa

reciprocità / redistribuzione / scambio di mercato:


convivono all’interno di ogni società con diverse priorità

società occidentali vs società tradizionali


mercato ruolo prioritario consuetudine di contrattare il prezzo

invenzione della moneta => spostamento di valori elevati senza spostamento di oggetti
letteratura etnografica: tiv (Nigeria) mossi (Burkina Faso) > testo

Corporations e multinazionali

paesi a capitalismo maturo dominata da grandi società azionarie (fine XIX sec.)

pacchetti azionari di controllo di società vs grandi società che concentrano


che operano in una moltitudine di settori la loro attività in un solo settore economico
società di capitali (società per azioni)
corporations
organizzazioni commerciali formali con proprietà
frammentata (migliaia/centinaia di migliaia di azionisti)
e dotate di enorme potere economico/politico

dominio sulle economie nazionali dimensioni internazionali


possibilità di manovrare la politica nazionale impiantare industrie all’estero
per ottenere condizioni di favore acquisto di società straniere
influenzare la struttura fiscale dei paesi
impedire ogni sforzo che limiti la crescita multinazionali
degli oligopoli in settori strategici

tese al perseguimento del profitto


reddito e patrimonio superiori a sottratte all’autorità e gestite da una ristrettissima
quelli di alcuni paesi in cui operano di qualsiasi stato élite di imprenditori e dirigenti

soggette a una responsabilità sfruttamento di forza-lavoro motivazioni meramente commerciali:


quasi del tutto fittizia di fronte a buon mercato e risorse aprire nuovi mercati e ricavare
ad azionisti remoti e dispersi dei paesi più poveri profitti dai paesi nei quali operano

ruolo positivo: problemi che coinvolgono il “sistema-mondo”:


a) promuovere lo sviluppo nei paesi più poveri a) prosperità - disoccupazione decise da pochi individui
b) esportazione di tecnologia e capitali b) intromissione nelle scelte politiche di molti paesi
La società postindustriale

attività economica: settori

primario secondario terziario


agricoltura industria servizi welfare state

saturazione e più innovazione tecnologica:


elevato livello produttivo: nuove professioni/specializzazioni
riduzione degli occupati espansione/terziarizzazione dell’economia
realtà lavorativa eterogenea e complessa:
alta specializzazione competenze elevate
<=> manodopera a bassa professionalità

servizi alle imprese servizi distributivi servizi sociali


credito, finanze, assicurazioni, trasporti, comunicazioni sanità, istruzione, ambiente
consulenze legali, fiscali, ragioneria commercio pubblica amministrazione
livello medio-alto di professionalità

servizi al consumatore terziario avanzato


ristorazione, alberghi, riparazione: nuove tecnologie, ricerca,
idraulici, meccanici, etc. lavanderie incremento consulenza, informatica, etc
servizi ricreativi, sportivi, di bellezza fattori sociali:
forte presenza di occupati non specializzati a) lavoro extradomestico delle donne:
aiuto fornito dai servizi esterni
b) aumento del tempo libero:
crescita rilevante delle attività legate
a turismo, spettacolo, attività ricreative

società postindustriali => società «opulente»


tenore di vita superiore al passato
ricchezza + diffusa / ampio consumo di beni e servizi / + esteso impiego del tempo libero
economia globalizzata => velocità/radicalità dei cambiamenti
(modelli produttivi e loro contesti sociali, istituzionali e geografici)

impresa
un «ambiente» contesto composto da uno o più territori
organizzazioni attori sociali
addetti al reperimento delle risorse e
alla collocazione dei prodotti o dei servizi
(fornitori, banche, azionisti, sindacati ecc.)

localizzazione delocalizzazione
insediamento delle attività economiche trasferimento delle imprese
in aree geografiche vantaggiose dal territorio nazionale di appartenenza
bassi costi / prezzi concorrenziali: verso zone economicamente più vantaggiose

materie prime, manodopera,


limitata tutela dei lavoratori,
mercati con poca concorrenza,
facilitazioni negli scambi internazionali
Terziario avanzato e flessibilità

nuova economia => globalizzazione


rivoluzione tecnologica dell’informazione
crescente «immaterialità»:
passaggio dall’impresa
centralizzata all’impresa di rete entertainment
web servizi informatici comunicazione di massa
nuove tecnologie quaternario / terziario avanzato consulenza aziendale

economia della conoscenza economia del loisir (svago, cultura, spettacolo)


maggiore esigenza di informazione e di formazione aumento/differenziazione del «consumo»:
generale e professionale; conoscenze professionali beni materiali / stili di vita / immagini e «sogni»
più complesse, trasversali alle varie materie, beni di consumo => status symbol
soggette a rapide trasformazioni (es. made in Italy, mode telematiche)
culto dello shopping «cattedrali del consumo»
Edgar Morin «testa ben fatta» vs «testa ben piena» (città mercato, casinò, fast-food, “non-luoghi”)
saperi pluridisciplinari vs disgiunti iper-consumismo - «homo consumens»:
nuova dimensione culturale ed esistenziale

fenomeno che influisce sui mutamenti quantitativi e qualitativi,


sulle trasformazioni e sul funzionamento dell’economia e della società

dalla fabbrica fordista al nuovo capitalismo: Henry Ford (1863-1947)


Richard Sennett: l’uomo flessibile “assembly-line”

flessibilità mobilità rischio


reinvenzione continua delle istituzioni prontezza nel assumersi dei rischi
specializzazione flessibile della produzione “trapiantare” esiti salariali imprevedibili
concentrazione di potere senza centralizzazione: il proprio lavoro corrosione dell’identità e
organizzazione a rete vs piramide (acentrica) mobilità occupazionale del carattere

differenza tra
le generazioni per la quale la vita e il lavoro la generazione dei figli, sottoposta alla nuova legge
scorrevano duramente ma anche regolarmente; del capitalismo flessibile: si cambia spesso lavoro,
vita come narrazione lineare, routine, stabilità; si disdegna l’idea di una lunga carriera dentro la
etica lavorativa: obiettivi di lungo periodo stessa azienda, ma al contempo si prova un senso
di deriva e di smarrimento, poiché si avverte la
paura di perdere il controllo della propria vita.

«Com’è possibile mantenere degli obiettivi a lungo termine in una società a breve termine? Com'è possibile
mantenere fedeltà e impegni reciproci all'interno di aziende che vengono continuamente fatte a pezzi e ristrut-
turate? In che modo possiamo decidere quale dei nostri tratti merita di essere conservato all'interno di una so-
cietà impaziente, che si concentra sul momento? In che modo possono essere conservati dei rapporti sociali
durevoli? Come può un essere umano sviluppare un’autonarrazione di identità e una storia della propria vita in
una società composta di episodi e frammenti? Le condizioni della nuova economia si alimentano di esperienze
che vanno alla deriva nel tempo, da un posto all’altro, da un lavoro all’altro [...] Queste sono le sfide che il nuo-
vo capitalismo flessibile pone al carattere. Il capitalismo a breve termine minaccia di corrodere il carattere, e in
particolare quei tratti del carattere che legano gli esseri umani tra loro e li dotano di una personalità sostenibile».
Richard Sennett, L’uomo flessibile, 1999, Feltrinelli, p. 7, 26.
La politica
In tutte le società moderne esiste un’organizzazione di governo formata da un certo numero di
istituzioni che sono in grado di formulare e di prendere delle decisioni riguardanti la maggior parte
dei componenti di una comunità. Con il termine governo si è soliti indicare un apparato politico,
costituito da rappresentanti eletti dai cittadini e da funzionari che formano gli organi pubblici,
capace di formulare dei programmi politici e di prendere le relative decisioni. All’interno di ogni
società esiste, di conseguenza, un ordine politico attraverso il quale prendono forma le varie attività
politiche e le diverse forme di lotta politica, condotte da un certo numero di organizzazioni politi-
che, che si distinguono per l’ideologia e per lo specifico programma di governo della società.
La politica è, pertanto, l’insieme dei mezzi usati per esercitare il potere del governo e per stabilire
i contenuti e le finalità da raggiungere tramite l’attività governativa. Ma la sfera politica non si li-
mita a questo, perché essa si estende al di là delle istituzioni statali in senso stretto e comprende
gruppi sociali, categorie professionali ed economiche, movimenti di vario genere, che hanno la
possibilità di esercitare la propria influenza sugli organi di governo, attraverso molteplici strumenti,
che non sono soltanto i tradizionali canali politici (partiti, sindacati, Parlamento, manifestazioni di
piazza ecc.), ma anche la pluralità dei mass media e i canali di nuovo conio, come Internet.

Il potere

Il potere costituisce il nucleo centrale della politica secondo la celebre definizione di Max Weber,
per il quale con questo termine «si designa qualsiasi possibilità di far valere entro una relazione so-
ciale, anche di fronte a un’opposizione, la propria volontà, quale che sia la base di questa possibili-
tà». Weber definisce quindi la natura del potere sulla base dei rapporti che si stabiliscono fra due
parti sociali, dando per scontato che una parte eserciti un dominio sull’altra.
Il sociologo americano Talcott Parsons fa invece riferimento a un gruppo molto vasto, come la
società, per cui il potere consiste sia nella «capacità di una società di mobilitare le proprie risorse in
vista di determinati obiettivi», sia nella «capacità di prendere e far valere decisioni che sono vinco-
lanti». Per Parsons, il potere rappresenta una risorsa fondamentale per ogni società, in quanto esso
è costituito dalla competenza e dall’abilità di un sistema politico nel «far fare» determinate cose a
tutti o alla maggioranza di coloro che ne fanno parte.
Quello di Weber e quello di Parsons sono due modi complementari di definire un problema com-
plesso come il potere, che in ogni caso va distinto dalla forza: se questa, infatti, rappresenta l’uso
della coercizione fisica per imporre il proprio volere sugli altri, quello può essere invece esercitato
anche senza coercizione; tuttavia, alcune dottrine politiche tendono a considerare il potere e la forza
due elementi politici fra loro inscindibili.

L’autorità

L’autorità, altro concetto politico di fondamentale importanza, viene definita da Weber «la possi-
bilità di trovare obbedienza, presso certe persone, a un comando che abbia un determinato conte-
nuto». Il sociologo tedesco pone in questo modo l’accento sul controllo del potere esercitato da un
gruppo di persone su un gruppo molto più ampio, il che comporta il problema della istituzionaliz-
zazione e della legittimazione del potere stesso: i «comandi» sono impartiti attraverso organizzazio-
ni o istituzioni (esercito, scuola, ospedale), all’interno delle quali i rapporti fra gli individui sono
regolati secondo un ordine gerarchico, cioè attraverso dei ruoli che vengono assegnati a determinate
persone (ufficiali, insegnanti, medici) a prescindere da sentimenti e interessi personali; i comandi
sono inoltre legittimati proprio dal ruolo gerarchico, il quale conferisce a chi comanda il diritto di
controllare i comportamenti degli altri, che devono ubbidire per soddisfare non solo le proprie esi-
genze personali, ma anche quelle dell’organizzazione.
L’autorità può essere dunque definita una forma di potere istituzionalizzato e legittimato e la si
può classificare secondo la tipologia stilata da Max Weber:
1) L’autorità carismatica costituisce di solito la base dei regimi totalitari e viene esercitata da una
persona in possesso di una personalità capace di determinare nei suoi seguaci fedeltà e obbedienza
senza riserve, alla quale si attribuiscono qualità superiori alla media degli esseri umani. Gli ordini
emanati dal capo devono essere eseguiti escludendo ogni possibilità di metterli in discussione, an-
che qualora essi si presentino come arbitrari e ingiustificati, proprio perché tra il leader carismatico
e i suoi discepoli si stabilisce un rapporto di comunione dal basso verso l’alto, che assume aspetti
mistici. L’intera struttura organizzativa dello Stato, attraverso la quale il capo esercita il proprio po-
tere, si fonda sul principio di devozione assoluta, che nasce da un forte legame affettivo e dall’indi-
scussa ammirazione verso il leader carismatico da parte dei seguaci.
2) L’autorità tradizionale era, fino alla fine dell’Ottocento, una prerogativa propria delle monar-
chie assolute e rappresentava il legame fra il sovrano e i propri sudditi, la cui lealtà e fedeltà nei
suoi confronti costituivano una specie di patrimonio ereditario, che si trasmetteva da una generazio-
ne all’altra. Da parte sua, il monarca aveva il dovere di adempiere a determinati obblighi a favore
dei suoi sottoposti, garantendo l’erogazione di alcuni servizi, il mantenimento dell’ordine pubblico,
l’amministrazione della giustizia, la distribuzione di una parte delle risorse economiche dello Stato
per salvaguardare non solo gli interessi delle classi più elevate, ma anche i bisogni primari di quelle
medie e inferiori.
3) L’autorità razionale-legale rappresenta il fondamento dello Stato democratico contemporaneo e
si fonda sull’esistenza di posizioni di potere considerate legittime e necessarie, nonché su una serie
di regole scritte che garantiscono il funzionamento dell’organizzazione sociale e sono vincolanti per
tutti i cittadini senza distinzioni di sesso, classe e ceto, cultura, religione ed etnia. L’ubbidienza del-
l’intera comunità al gruppo di individui che gestisce il potere deriva al fatto che esso esercita un’au-
torità ritenuta legittima, in quanto regolata dalle leggi e fondata sulla volontà espressa dai cittadini
stessi. A questo tipo di autorità corrisponde un ordine politico costituito secondo i criteri propri di
ogni burocrazia: il personale viene reclutato sulla base di un’accurata selezione, viene remunerato
con uno stipendio, costituisce il settore pubblico, che è rigorosamente separato da quello dell’impie-
go privato. Lo Stato finanzia l’amministrazione pubblica e il suo apparato burocratico attraverso
fondi prelevati dall’erario, nel quale confluiscono le imposte e le tasse versate dai contribuenti.

La politica: la prospettiva antropologica


Animale sociale per necessità, l’uomo vive in gruppo ed è quindi costretto a darsi delle regole, a
limitare gli impulsi soggettivi ed egoisti per il bene comune. La creazione delle regole è un’opera
degli uomini, e le regole stesse sono frutto di un continuo lavoro di aggiustamento, adattamento,
distruzione, ricostruzione; per sua natura l’uomo è costretto a fare politica, a organizzare i rapporti
con i suoi simili sulla base di norme condivise e con la necessità di farle rispettare. Essendo cultura-
li, le forme di organizzazione sociale sono diverse e numerose, che vanno da un grado minimo di
organizzazione e di governo a entità strutturate e fortemente gerarchizzate.
Nel 1940 escono due opere fondamentali per l’antropologia politica: la prima è African Political
Systems, di Edward Evans-Pritchard e Meyer Fortes, la seconda è I nuer. Un’anarchia ordinata, del
solo Evans-Pritchard. Le due opere hanno segnato l’inizio di una lunga serie di studi incentrati sulle
strutture di governo, portando alla formazione di 3 diversi approcci principali.
Il primo è quello cosiddetto genetico, di carattere evoluzionista, che si pone come finalità la ricer-
ca delle origini delle varie forme di organizzazione e la loro evoluzione nel tempo; tale paradigma
pone l’accento sulle dimensioni delle società e sulla loro organizzazione spaziale: l’organizzazione
territoriale sarebbe il fondamento della politica di una società, e l’ambito del politico agisce soprat-
tutto all’interno di un determinato territorio e ne determina l’organizzazione.
Il secondo è quello struttural-funzionalista, sintetizzabile nelle parole di Radcliffe-Brown, il qua-
le definisce l’organizzazione politica come “l’aspetto dell’organizzazione complessiva che assicura
lo stabilirsi e il mantenimento della cooperazione interna e dell’indipendenza esterna”; tale approc-
cio è teso a individuare le forme delle istituzioni politiche e fondato sull’idea che ogni istituzione
contribuisce a mantenere una società in equilibrio; l’accento viene spostato sulle funzioni che l’am-
bito politico svolge, come, per esempio, garantire la sopravvivenza della società, assicurare l’ordine
interno, difenderla dalle minacce esterne.
Il terzo è quello dinamista, secondo il quale le società sono organismi in perpetuo conflitto inter-
no, e l’attenzione, più che sulle istituzioni, è puntata sui processi e sulle dinamiche tra le componen-
ti della società; il potere politico appare come un prodotto della competizione e come un mezzo per
contenderla.
Una volta sul terreno, l’antropologo si trova di fronte a società che presentano forme di disugua-
glianza, di asimmetria, di gerarchia, e ovunque esiste una qualche modalità di dominio o di control-
lo da parte di qualcuno sugli altri. In quanto essere sociale, l’uomo è attraversato da legami diffe-
renti, pubblici e privati, e marchiato da una serie di ruoli fondati su status, ceto, casta, autorità:
alcuni di questi ruoli e legami sono ascritti, altri sono acquisiti.
Lucy Mair propone uno schema semplice ma efficace per classificare a grandi linee tre tipologie
di organizzazione: quelle a governo minimale, generalmente piccole società dove l’autorità è confe-
rita a poche persone ed è tendenzialmente debole; le società a governo diffuso, dove alla vita pub-
blica partecipa di solito la popolazione maschile adulta, ma esistono delle istituzioni come i sistemi
di classi di età che assicurano la gestione pubblica; infine le società a governo statale, con un potere
centralizzato e molto più differenziato rispetto alle forme precedenti.

Le bande

La politica non si esprime solo nei palazzi del potere, ma inizia nelle relazioni interpersonali, so-
prattutto in quelle piccole società dove l’organizzazione politica si fonda sul principio di parentela e
che rientrano nell’ambito del governo minimale. Popolazioni di cacciatori-agricoltori come i khoi-
san, che abitano il deserto del Kalahari (Botswana-Namibia), o gli aborigeni australiani, sono orga-
nizzate in bande: gruppi ristretti, tra la trentina e il centinaio di individui, quasi tutti imparentati; in
genere si dividono in due metà patrilineari tra le quali vigono regole di scambio matrimoniale.
Le relazioni parentali forniscono la base delle gerarchie interne e determinano i fattori di integra-
zione tra gli individui del gruppo; le decisioni vengono prese dal consiglio degli uomini, all’interno
del quale il più anziano esprime una posizione di autorevolezza, anche se questo non gli conferisce
alcuna forma di potere, come nessuna forma di potere viene espressa dal consiglio, dal momento
che non esistono forme coercitive per il singolo. Tali società vengono definite egualitarie, ma non è
esattamente così, dal momento che le donne sono escluse dal consiglio e non partecipano diretta-
mente alle decisioni del gruppo. La struttura organizzativa delle bande non si limita ai legami pa-
rentali e territoriali, ma prevede anche l’istituzione di sodalizi tra bande diverse, come i sodalizi per
classi di età o per generazioni, che estendono la rete delle relazioni al di fuori della ristretta cerchia
dei parenti: politica e parentela si possono intrecciare.

La tribù

La tribù è un insieme più grande della banda, che comprende individui che non sono necessaria-
mente parenti tra di loro. Essendo più numerose, le tribù hanno anche un tipo di organizzazione più
complesso. Infatti nelle tribù incontriamo per la prima volta la figura del capo, che nelle bande non
esiste. Esistono diversi tipi di capi: in alcune società di caccia il capo è a volte il cacciatore più abi-
le, come accade per esempio presso gli inuit del Circolo Polare, o il guerriero più coraggioso, come
presso le tribù degli indiani d’America. In altre, invece, il capo è una sorta di mediatore e di paciere,
il cui ruolo è quello di appianare le questioni tra i membri della sua tribù. È una sorta di giudice, che
deve avere un carattere paziente e che deve sapere rappacificare gli animi. Per esempio, i capi
anuak, una popolazione del Sudan, sistemano le dispute, ma non esercitano affatto alcuna forma di
governo. In molte società dell’Oceania il capo, per diventare tale, deve mostrarsi generoso, donare
il più possibile; solo così verrà riconosciuto come vero leader della comunità.

I Capi

La politica della parentela non è un’esclusiva dei piccoli gruppi: i nuer del Sudan meridionale ven-
nero descritti da Evans-Pritchard (I nuer, un’anarchia ordinata, 1940) come una società che non
aveva capi. Appariva quasi impossibile, a molti, che una comunità di 300.000 individui potesse
gestirsi senza avere dei referenti politici definiti, soprattutto nel periodo storico del colonialismo e
del modello inglese dell’indirect rule, che prevedeva di affidare ai capi locali la gestione delle im-
poste da pagare al governo. I nuer, sostiene Evans-Pritchard, quando agiscono politicamente (cioè
affrontano decisioni inerenti la sfera comune e collettiva) lo fanno sulla base della loro appartenen-
za a unità di parentela come i lignaggi e i clan. Secondo Adam Kuper, invece, i nuer costruiscono le
proprie relazioni sociali non tanto sulla parentela, quanto sulla vicinanza territoriale, non esistendo
neppure una parola nella lingua nuer che traduca la parola clan.
Molte società invece hanno un capo, figura che manca alle società acefale e alle bande seminoma-
di, ed è l’espressione di un’asimmetria, in quanto ha prerogative e privilegi che gli altri non hanno:
può esercitare il potere, cosa che i suoi sottomessi non possono fare. La parola capo quindi indica
un individuo che detiene una funzione di comando, con diverse modalità: i capi anuak del Sudan
risolvono le dispute ma non hanno nessuna forma di governo; presso gli shilluk, sempre del Sudan,
il capo regna ma non governa; presso i kachin della Birmania ogni villaggio ha un capo, mentre altri
villaggi si riuniscono costituendo un "grappolo di villaggi", tra i quali il più anziano e il suo capo è
superiore a tutti gli altri. Tra i cheyenne del Colorado e del Dakota, ogni accampamento aveva un
capo, mentre quando si riunivano era un consiglio di capi e la Società dei guerrieri a comandare
sulla popolazione; presso gli inuit il capo è colui che si distingue nell’abilità venatoria, che verrà
ascoltato nelle decisioni relative alla caccia, ma non per forza anche in altri contesti. In alcune
società un capo esercita l’autorità senza avere la forza necessaria per imporla, diventando quindi un
regolatore di dispute all’interno di un contesto sociale limitato. La sua funzione principale è di man-
tenere l’ordine attraverso la risoluzione delle controversie, dev’essere quindi un buon oratore, che
non è solo uno dei requisiti, ma anche uno dei doveri che deve assolvere in quanto capo. Ciò non
vale solo per le popolazioni tribali, ma anche nell’ambito della politica e del governo: presso gli
antichi romani l’arte della retorica era un’arma di persuasione, e in ogni dibattito democratico la
parola è fondamentale.
Il capo è innanzitutto un paciere, un mediatore,e svolge questo ruolo grazie alla sua posizione
esterna alla rete sociale, posizione che gli deriva proprio dal rapporto asimmetrico che ha con il re-
sto della società: si stabilisce un contratto tra il capo e la comunità, dove la comunità sa che il capo
deve qualcosa, perché riceve a sua volta qualcosa dalla comunità. L’azione del capo deve essere
pubblica e diretta verso l’intera comunità, senza mai privilegiare un gruppo, una famiglia, un indi-
viduo: per questo in molti casi si ha un capo straniero alla popolazione che comanda, che può essere
frutto di una conquista o di un assorbimento di individui esterni ai quali è affidato il ruolo dell’auto-
rità in funzione della loro neutralità verso le relazioni locali. L’asimmetria può essere espressa sul
piano dell’età o dello status, da particolari abilità nella caccia, nel combattimento o nello svolgi-
mento di altre attività, oppure da una spiccata attitudine a risolvere conflitti. La diversità del capo
rispetto al resto del gruppo si può esprimere anche dal punto di vista economico, dal momento che
ha il compito di accumulare e ridistribuire beni e deve essere sempre generoso, come nel caso dei
big men della Nuova Guinea o dell’Amazzonia, la cui carriera si fonda sulla sua capacità di tessere
relazioni favorevoli e sull’abilità nell’intraprendere scambi sia di tipo materiale che di carattere so-
ciale. Il Big man deve per forza mostrarsi generoso, offrire banchetti alla popolazione per ottenere e
rafforzare il consenso nei suoi confronti. È una sorta di voto di scambio: accumula beni in quantità,
stringe alleanze (anche grazie a matrimoni favorevoli), elargisce ricchezze e cibo; il suo status non è
ereditario, e quindi deve competere con altri uomini che cercano di prendersi la carica. I rituali
sacrificali, i grandi banchetti offerti hanno anche l’effetto di distruggere l’eccesso di ricchezza che
potrebbe concentrarsi nelle mani di un individuo, garantendo una certa equità ridistribuendo alla
società beni e ricchezze.
Fino a quando rimane a livello di villaggi o tribù, l’azione del capo si traduce in una sorta di in-
fluenza, piuttosto che in un esercizio del potere vero e proprio. Quello di Tribù non è un concetto
ben definito: con esso ci si riferisce a tutte le organizzazioni più grandi di una banda o di un villag-
gio, ma più piccole di uno Stato: generalmente indica un insieme integrato di individui, più numero-
so di quello della banda, basato su gruppi di discendenza; più tribù si possono alleare per dare origi-
ne a una formazione politica integrata più ampia, definita con il termine dominio. Con il dominio
nasce la società non egualitaria, l’asimmetria non è più privilegio di un solo capo, ma di un’elite, la
burocrazia. La sempre maggiore specializzazione del lavoro e la crescita continua della popolazione
da gestire comportano la creazione di nuovi status gerarchici.

La socializzazione politica

Nella società contemporanea, la componente politica è diventata estremamente complessa, al pari


delle componenti economiche, sociali e culturali, ma nello stesso tempo ha mantenuto la sua fonda-
mentale importanza, perché gli individui che formano la società civile (il complesso di tutto ciò che,
pur avendo importanza collettiva, non rientra nelle decisioni e nell’azione dello Stato e di altre isti-
tuzioni politiche), esprimono delle idee, manifestano delle opinioni politiche, hanno determinati
comportamenti, si assumono delle responsabilità attraverso l’esercizio dei loro diritti e delle moda-
lità di partecipazione alla vita pubblica previste dai moderni sistemi politici. L’appartenenza a un
gruppo consiste, per un individuo, nell’entrare a far parte di una collettività più o meno vasta, accet-
tandone valori, ideali e modelli di vita, per sentirsi in essa integrato e quindi protetto rispetto ad altri
gruppi. Quando questa adesione è accettata e vissuta in maniera incondizionata e acritica, si posso-
no manifestare delle forme di fanatismo da appartenenza, come la xenofobia, che consiste in un
sentimento di ostilità contro gli stranieri e tutti quei «diversi» che parlano e si comportano in modo
differente dalla maggioranza dei componenti di una comunità nazionale.
Un’altra forma di fanatismo è il nazionalismo, un’ideologia fondata sull’esaltazione della storia,
della cultura, della forza della propria nazione, per cui si considera necessario adottare certi com-
portamenti, ritenuti opportuni per difendere i caratteri originali e il prestigio della nazione stessa,
rafforzarne la potenza nei confronti di altri popoli e di altri Paesi. Un’ultima forma di fanatismo è
l’integralismo, che rifiuta la convivenza con idee e posizioni differenti, che non sopporta opinioni e
concezioni di vita diverse. Spesso questa forma di estremismo intransigente e acritico rappresenta la
base ideologica di gruppi che si rifanno a una religione, dalla quale traggono princìpi e regole di vi-
ta da applicare radicalmente e incondizionatamente alla propria vita.
Quando si pretende di applicare questi princìpi e regole alla struttura della società, alla vita fami-
liare e comunitaria, alla scuola, all’amministrazione della giustizia, alla gestione politica dello Sta-
to, si può parlare di fondamentalismo.
La partecipazione è, al contrario dell’appartenenza, il frutto di una scelta volontaria con cui l’indi-
viduo aderisce a un gruppo, condividendone le iniziative fino a quando le ritiene in sintonia con le
proprie idee, i propri interessi, la propria visione della società. In questo caso, cioè, il membro del
gruppo non si sente obbligato a «partecipare» sempre ed in modo incondizionato, ma conserva la
lucidità critica per valutare e decidere se, attraverso tale partecipazione, sia possibile raggiungere gli
scopi che gli interessano. Se l’appartenenza dà sicurezza, stabilità e le coordinate per definire se
stessi a livello personale e in rapporto agli altri (ovvero, identità), la partecipazione, proprio perché
liberamente scelta, permette di conservare la propria personalità, di scegliere i propri obiettivi, di
non lasciarsi sopraffare dagli altri.
Lo Stato

La prospettiva antropologica
Gli antropologi si occupano anche delle società complesse, nelle quali la struttura politica domi-
nante è quella dello Stato, con le sue diverse tipologie: grandi imperi dell’antichità assiro-babilo-
nesi, egiziano, romano, i grandi imperi maya, inca, atzechi, quelli medioevali, come quello cinese,
i regni africani, i moderni Stati-nazione, che caratterizzano la geografia politica contemporanea, e
che presentano notevoli differenze nella gestione del potere.
L’Europa conta numerose monarchie costituzionali e nel resto del mondo ci sono ancora monar-
chie assolute (Arabia Saudita per esempio), repubbliche presidenziali e repubbliche parlamentari,
senza dimenticare i regimi dittatoriali. Ciò che caratterizza un sistema statale è il monopolio della
forza: qualunque Stato ha a sua disposizione un apparato coercitivo, che ricorre alla forza per com-
battere la violenza o l’opposizione e per dare sicurezza ai cittadini, la burocrazia si fa più complessa
e articolata e controlla gran parte dell’esistenza degli individui, come l’esercito e la polizia control-
lano il territorio.
Per costruire uno Stato non è sufficiente mettere in campo le forze necessarie a controllare mili-
tarmente l’ordine pubblico e garantire la sicurezza: bisogna creare un’ideologia che estenda a tutti
l’idea di una comunità non percepibile quotidianamente, dal momento che in uno Stato non sono
possibili rapporti face to face: la comunità assume confini troppo grandi per poterla frequentare, è
da immaginare1. Nel passato il bisogno di un’idea comune e superiore si aveva con l’intrecciarsi del
potere politico alla religione, ora è grazie ai mezzi di comunicazione moderni che è stato possibile
creare le cosiddette "comunità immaginate": gruppi di persone che non hanno mai interagito faccia
a faccia ma che finiscono per condividere un’idea comune. Perché uno stato esista occorre che i
suoi abitanti ci credano, e affinchè lo facciano il potere politico deve convincerli.

Lo Stato: scienza politica e sociologia


Il concetto di «Stato» è stato messo a punto dalla scienza giuridica e dalla scienza politica, che lo
hanno definito come il massimo ordinamento normativo di una società, in quanto lo Stato elabora
un apparato legislativo, amministrativo, giudiziario e militare, che viene imposto ai cittadini che
hanno manifestato il loro consenso; lo difende, se necessario, con l’uso della forza, di cui detiene
per legge il monopolio. Dopo aver assunto forme diverse ed aver subìto una continua evoluzione
nel corso della storia, lo Stato moderno si è formato quando si è verificata una concentrazione del
potere nella persona di un sovrano, il quale ha unificato il Paese per mezzo di una legislazione e di
un apparato burocratico-amministrativo a cui tutti i sudditi sono dovuti sottostare senza distinzioni
di casta o di classe. Lo Stato nazionale è nato nel momento in cui è stato elaborato un unico sistema
di leggi, è stato creato un corpo di funzionari (la burocrazia), è stato costituito un esercito perma-
nente, è stato organizzato un sistema di prelievo fiscale ed è stato unificato il mercato economico,
facendolo corrispondere al territorio nazionale.
Le scienze politiche hanno individuato le caratteristiche che costituiscono il fondamento dello
Stato contemporaneo e che si possono così riassumere: a) un’autorità basata sul consenso dei go-
vernati; b) l’applicazione del principio dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge; c) la creazione
di una struttura statale non accentrata; d) la sottrazione del potere all’arbitrio dei governanti,
poiché esso viene distribuito e bilanciato tra organi diversi e separati; e) una costituzione scritta,
che fissa solennemente diritti e doveri dei cittadini, caratteristiche e prerogative delle istituzioni a
cui è affidato il governo della comunità.
Lo Stato è un soggetto sociale che detiene la sovranità, cioè l’autorità di far rispettare, anche con

1
Esistono comunità molto vaste (definite dallo storico inglese Benedict Anderson «comunità immaginate»),
i cui membri non vivono vicini, ma sono accomunati da un’idea, da simboli, da credenze. Le «comunità im-
maginate» sono nate in seguito all’alfabetizzazione di massa e al «capitalismo a stampa» e per esistere neces-
sitano di una costruzione da parte di qualche gruppo.
l’uso della forza, le proprie decisioni a tutti coloro che risiedono su di un determinato territorio. La
legittimità della sovranità dello Stato risiede nel consenso che esso riesce a ottenere dai cittadini,
senza ricorrere sempre e comunque all’uso della forza, anche se esso è l’unico soggetto sociale che
ha il potere di far rispettare le proprie leggi, facendovi ricorso in caso di necessità. Lo Stato, in base
al principio di sovranità, detiene il potere di conferire validità e legittimità alle norme che emana ed
ha pertanto il compito fondamentale di produrre ed applicare una particolare categoria di norme so-
ciali, che prendono il nome di norme giuridiche (stateways). Esse costituiscono un complesso di
disposizioni emanate dallo Stato per regolare la vita sociale secondo precisi indirizzi politici, pren-
dendo in considerazione gli atti concreti e visibili degli individui.
L’influenza della politica nella società non si limita alla presenza e all’azione dello Stato, perché
quanto è di stretta pertinenza statale occupa un ambito chiaramente delimitato. In realtà, non tutto
ciò che riguarda il governo della cosa pubblica è di stretta competenza dell’istituzione statale: esis-
tono altre istituzioni e gruppi sociali che hanno una valenza politica e che risultano più numerosi e
complessi dello Stato stesso. Per indicare questo insieme di elementi che non appartengono alla
sfera della politica, viene comunemente usata l’espressione società civile, che comprende tutto
quello che, pur avendo importanza per la collettività, non rientra nelle decisioni e nell’azione dello
Stato e delle altre istituzioni politiche.

TIPOLOGIA DEI REGIMI POLITICI

Il regime politico è costituito da una serie di istituzioni che regolano i conflitti per la conquista e
per l’esercizio del potere, per la definizione e la scelta dei valori che animano la vita delle istituzio-
ni, per la formulazione di norme e procedure che garantiscono la ripetizione di determinati compor-
tamenti e che rendono possibile lo svolgimento regolare e ordinato delle attività politiche, l’eserci-
zio del potere e di tutte le attività sociali ad esso collegate. Compito delle istituzioni è infine quello
della scelta e dell’impiego di determinati mezzi per l’attuazione concreta delle decisioni politiche
prese per raggiungere quei fini che il regime si propone di perseguire.

Il regime democratico
Il regime democratico è basato sul principio della sovranità popolare e della rappresentanza, in vir-
tù del quale i poteri della formulazione delle leggi e del governo della società vengono esercitati at-
traverso una delega conferita da tutti i componenti della società stessa. Il sistema politico si fonda,
pertanto, sul consenso dei cittadini, che si manifesta attraverso la libera e spontanea approvazione
dei comportamenti e delle decisioni del gruppo di persone a cui sono stati conferiti il diritto di rap-
presentare i cittadini e il potere di governo. I cittadini, da parte loro, hanno il pieno godimento dei
diritti civili e politici, senza distinzione di sesso, razza, religione e condizione economica.
Le caratteristiche fondamentali di un regime democratico sono:
a) l’individualismo, che costituisce il principio in base al quale ogni individuo è uguale di fronte
alla legge e ha diritto a manifestare le sue idee e la sua volontà politica senza discriminazioni di
alcun tipo;
b) il governo costituzionale, che è tenuto a svolgere l’azione politica secondo le regole fissate dal
corpo di leggi scritte emanate dallo Stato e dai princìpi indicati nella Costituzione, dove sono fissati
i diritti e i doveri dei cittadini, i limiti del potere politico, la configurazione, le funzioni e le finalità
delle istituzioni pubbliche che compongono l’ordinamento statale;
c) il suffragio universale, che rappresenta un diritto politico di primaria importanza, perché garan-
tisce a tutti i cittadini di esprimere la loro volontà politica attraverso il voto, assicurando a tutti la
piena libertà di votare se- condo la propria opinione politica;
d) il pluralismo politico, che serve a garantire la presenza e la partecipazione alla vita pubblica di
più partiti, in modo da offrire a tutti gli elettori la possibilità di scegliere i programmi e gli uomini
che si confrontano nella competizione politica;
e) il principio della maggioranza e della minoranza, che garantisce, al partito o alla coalizione di
partiti che hanno conseguito nel Paese la maggioranza dei voti, il diritto-dovere di governare, ma
nello stesso tempo affida ai partiti che sono usciti sconfitti dalle urne, e che costituiscono la mino-
ranza, il compito di esercitare l’opposizione al governo in modo leale e costruttivo, cosicché sia ga-
rantito un proficuo confronto di idee e di proposte nel Parlamento e in tutte le altre sedi istituzionali;
f) la separazione delle funzioni, che costituisce un altro principio fondamentale di tutte le demo-
crazie moderne e che prevede l’esercizio della funzione legislativa, affidata al Parlamento; della
funzione esecutiva, affidata al Governo centrale e agli Enti locali per l’applicazione delle leggi che
regolano i rapporti tra i cittadini; della funzione giudiziaria, affidata ad una magistratura indipen-
dente, formata da giudici di carriera appositamente selezionati e specializzati per attuare il rispetto
delle leggi, per comminare le sanzioni a coloro che non le rispettano, per garantire il risarcimento
dei torti subiti dai cittadini.

Il regime totalitario
Il regime totalitario è caratterizzato dalla soppressione di tutti i diritti politici e civili e da un ferreo
controllo svolto su tutti soggetti individuali e collettivi. Si tratta di un sistema politico dove il potere
viene esercitato da un ristretto numero di persone, solitamente guidate da un leader che ricopre un
ruolo accettato dagli altri in modo indiscusso. Questo gruppo, che governa lo Stato, pratica l’azione
politica con ampia discrezionalità, poiché non ha l’obbligo di rispondere del proprio operato a nes-
suna istituzione politica (corpo elettorale, Parlamento, sistema di partiti). Il potere del gruppo si
fonda su alcuni valori generici (la potenza militare e politica della nazione, la patria, la razza, l’or-
dine, la religione ecc.), sulla manipolazione del consenso popolare e su una partecipazione dei citta-
dini che si riduce all’adesione a manifestazioni di massa caratterizzate da forti condizionamenti
emotivi e da sollecitazioni demagogiche.
Le caratteristiche essenziali di un regime totalitario sono:
a) l’uso su vasta scala di un’ideologia politica per dare spiegazione di ogni avvenimento della vita
pubblica e privata, per indicare gli obiettivi da perseguire, per definire i comportamenti graditi o
sgraditi al potere;
b) la costituzione di un partito unico, guidato da un capo e da un ristretto gruppo di potere,
un’istituzione politica capace di monopolizzare tutte le cariche pubbliche e di governo, che vengono
assegnate a suoi iscritti, i quali traggono da tali incarichi prestigio sociale e vantaggi economici;
c) l’uso diffuso e indiscriminato di metodi basati sul terrore (tortura, carcere duro, esilio, elimina-
zione fisica di chi è ritenuto un nemico dello Stato) per mantenere il controllo su tutta la società;
d) il controllo dei mezzi di comunicazione, impiegati per diffondere la propaganda di regime, per
rafforzare i modelli culturali e di comportamento ritenuti utili dal regime per consolidare il consen-
so popolare, fornendo un’interpretazione «ufficiale» dei provvedimenti governativi e di tutti gli av-
venimenti;
e) il rigido controllo su tutte le istituzioni pubbliche (esercito, forze di polizia, magistratura,
burocrazia);
f) il controllo dell’economia, attraverso una diretta sorveglianza su quei settori economici ritenuti
strategici per controllare anche l’economia privata, tanto da arrivare, nei casi estremi, all’abolizione
della proprietà privata nei settori dell’agricoltura, dell’industria e dei servizi.

Il regime autoritario
Nei regimi autoritari il potere politico viene gestito dal leader di un partito che è riuscito ad assi-
curarsi la fiducia delle masse e a conquistare il potere dopo aver avuto il sopravvento su tutti gli
avversari politici grazie alla schiacciante maggioranza di voti ottenuta in una tornata elettorale.
Nel regime autoritario, il partito dominante svolge un ruolo meno appariscente e invasivo rispetto
a quanto accade nei regimi totalitari, ma ugualmente determinante attraverso le pressioni e i condi-
zionamenti esercitati sulle istituzioni pubbliche e sui partiti politici avversari. Il controllo sulla vita
privata e sociale degli individui è meno asfissiante e appariscente rispetto ai regimi totalitari, ma i
cittadini sono indottrinati e manipolati attraverso l’attento controllo delle istituzioni sociali (scuola e
università, sindacati, associazioni culturali e religiose, organizzazioni sportive o per il tempo libe-
ro). Particolari ingerenze e rigorosi condizionamenti sono riservati ai mezzi di comunicazione di
massa, usati come mezzi di propaganda «capillare» per diffondere i messaggi politici del regime o
delle istituzioni fiancheggiatrici, per manipolare intelligenze e coscienze, per suscitare entusiasmo e
partecipazione, per soffocare e ridurre gli effetti delle manifestazioni di dissenso e delle posizioni
critiche nei confronti delle autorità di regime. Le libertà individuali, di solito, non sono del tutto
soppresse, ma le regole democratiche previste dalla Costituzione, i sistemi elettorali, gli organismi
di controllo vengono adattati e trasformati a seconda delle esigenze del regime, in modo da condi-
zionare e controllare l’operato di tutte le istituzioni politiche: Parlamento, organi di governo, comu-
nità locali e partiti politici.

Il populismo
Il populismo è un fenomeno politico che si è spesso manifestato in varie forme nel corso della sto-
ria, ma che ha assunto una certa rilevanza e ha avuto una particolare diffusione dal Novecento ai
nostri giorni. Esso consiste nel mobilitare le masse, ad opera di un partito o di un gruppo politico
guidato da un leader, per la conquista e la gestione del potere, agitando le passioni e i sentimenti
popolari attraverso manifestazioni di piazza e proposte sovente demagogiche. Può avere caratteristi-
che diverse a seconda dei vari contesti sociopolitici.
1. Il populismo-movimento si basa sulla mobilitazione delle classi medie e inferiori da parte di un
gruppo politico che punta alla conquista del potere attraverso l’esaltazione dei valori nazionali tradi-
zionali e lo sfruttamento della protesta di gruppi socialmente e politicamente emarginati che si ri-
tengono vittime di ingiustizie e sentono minacciati i loro tradizionali modelli di comportamento;
spesso l’insoddisfazione e il malcontento sociale si accompagnano a un desiderio di cambiamento
per ottenere migliori condizioni di vita.
2. Il populismo-regime è un movimento che si riconosce in un capo carismatico, capace di rivol-
gersi direttamente alle masse, vantando la convinzione di incarnare la volontà e i valori popolari;
quando il leader si fa scudo del popolo e pretende di parlare e di esercitare tutto il potere nel suo
nome, può instaurarsi una dittatura che soffoca ogni forma di democrazia. L’affermazione di un
movimento populista può tuttavia conciliarsi con il mantenimento di un regime democratico, quan-
do il leader si pone alla guida di un governo che mantiene il rispetto formale delle regole democra-
tiche e del pluralismo politico, anche se la forte personalizzazione del potere porta a «inquinare» la
vita sociale del Paese e ad esercitare controlli e limitazioni sull’azione delle istituzioni politiche
avversarie.
3. Il populismo-ideologia si ha quando al centro di una dottrina politica viene collocato il popolo,
celebrato per le sue virtù, che lo rendono moralmente «sano»: la salvezza del Paese dipende unica-
mente dalle azioni del popolo stesso sotto la guida di un leader «consapevole e ispirato», il quale
interpreta la volontà popolare e assume la guida dello Stato; questa, inoltre, viene esercitata più age-
volmente quando si individua un «nemico del popolo» (la borghesia, i «poteri forti» dell’economia
e dei mass media, i «comunisti», gli immigrati ecc.) che agisce per ordire un «complotto» ai danni
del Paese.
4. Il populismo-retorica attecchisce soprattutto nella società della comunicazione, fa ricorso al-
l’uso dei mass media per mettere in atto strategie di manipolazione dell’opinione pubblica, per cor-
rompere il dibattito politico e per gettare il discredito sull’intera classe politica e sulle istituzioni.
Il leader populista cerca di sfruttare il risentimento popolare per conquistare il consenso elettorale,
per imporre un nuovo ordine sociale e politico, sfruttando in modo massiccio ed invasivo la propria
presenza sugli schermi televisivi (telepopulismo) e su altri mezzi di comunicazione. Il leader popu-
lista è spesso un «attore mediatico» che ama collocarsi al di fuori del sistema dei partiti: preferisce
rivolgersi direttamente alle folle per denunciare i «guasti del sistema» e proporre la realizzazione di
una «vera» democrazia; egli mette a punto un’accurata «messa in scena» per una teatralizzazione
dell’azione politica, dando particolare rilevanza a parole, gesti e immagini accuratamente studiati ed
all’abile sfruttamento di modelli culturali/comportamentali, nonché di «miti» della cultura di massa.
La Politica
insieme dei mezzi usati per esercitare il potere del governo e per stabilire
i contenuti e le finalità da raggiungere tramite l’attività governativa

governo apparato politico costituito da rappresentanti eletti dai cittadini e da funzionari che formano
gli organi pubblici, capace di formulare dei programmi politici e di prendere le relative decisioni.

istituzioni statali ordine politico attività / forme di lotta politica organizzazioni politiche
gruppi sociali categorie professionali movimenti partiti sindacati manifestazioni mass-media web

Il potere

"possibilità di far valere entro una relazione sociale, anche di fronte a un’opposizione,
la propria volontà, quale che sia la base di questa possibilità" Max Weber

"capacità di una società di mobilitare le proprie risorse in vista di determinati obiettivi e


di prendere e far valere decisioni che sono vincolanti" Talcott Parsons

potere vs forza

esercitabile anche coercizione fisica per imporre


senza coercizione il proprio volere sugli altri
“microfisica del potere”
Michel Foucault

Autorità
"la possibilità di trovare obbedienza, presso certe persone, a un comando che abbia un determinato contenuto".
Max Weber
istituzionalizzazione legittimazione del potere
: organizzazioni o istituzioni (polizia, esercito, scuola, ospedale)
ruolo gerarchico (ufficiali, insegnanti, medici)
controllo dei comportamenti degli altri => obbedienza

tipologia stilata da Max Weber:

1) autorità carismatica 2) autorità tradizionale 3) autorità razionale-legale


regimi totalitari monarchie assolute Stato democratico

fedeltà e obbedienza legame fra il sovrano e i sudditi: posizioni di potere considerate


senza riserve al capo lealtà e fedeltà patrimonio ereditario legittime e necessarie
devozione assoluta mantenimento dell’ordine pubblico regole scritte vincolanti
ammirazione indiscussa amministrazione della giustizia per tutti i cittadini senza
distribuzione delle risorse anche distinzioni di sesso, classe
alle classi medie e inferiori e ceto, cultura, religione, etnia

Obbedienza => volontà espressa dai cittadini stessi


personale politico amministrativo reclutato tramite selezione, remunerato
Lo Stato finanzia l’amministrazione => fondi prelevati dall’erario
(imposte e tasse versate dai contribuenti)
La politica: la prospettiva antropologica

uomo: animale sociale per necessità gruppo > regole

aggiustamento adattamento distruzione ricostruzione

norme condivise da rispettare forme di organizzazione sociale diverse e numerose


grado minimo di organizzazione < > entità strutturate e fortemente gerarchizzate

1940 antropologia politica:


African Political Systems Edward Evans-Pritchard e Meyer Fortes
I nuer. Un’anarchia ordinata, E. Evans-Pritchard.

strutture di governo
3 diversi approcci principali

1 genetico (evoluzionista) 2 struttural-funzionalista 3 dinamista


origini/evoluzione delle forme delle istituzioni politiche perpetuo conflitto interno
varie forme di organizzazione funzioni che l’ambito politico svolge processi e dinamiche di classe
organizzazione territoriale ordine interno, difesa, sopravvivenza potere prodotto della competizione

forme di disuguaglianza asimmetria gerarchia modalità di dominio o controllo


status (ascritti acquisiti) ruoli ceto casta autorità

Lucy Mair tre tipologie di organizzazione società

a governo minimale a governo diffuso a governo statale


piccole società sistemi di classi di età potere centralizzato
autorità conferita a pochi popolazione maschile adulta molto differenziato
tendenzialmente debole

bande tribù dominio

piccole società società + numerose più tribù


principio di parentela non solo parenti società non egualitaria
cacciatori-agricoltori elite burocrazia
khoi-san Kalahari (Botswana-Namibia) Inuit Indiani A. Anuak (Sudan) nuovi status gerarchici
aborigeni australiani (testo) abilità coraggio mediazione
gruppi ristretti (30-100)
figura del capo vs società acefale
bande seminomadi

I Capi Evans-Pritchard (I nuer, un’anarchia ordinata, 1940): società senza capi (testo)

capi shilluk Sudan: il capo regna ma non governa


kachin Birmania: ogni villaggio ha un capo +
grappoli di villaggi con a capo il + anziano
cheyenne Colorado Dakota: ogni accampamento ha un capo
il capo paciere-mediatore “asimmetria” e diversità economica:
Big men (Nuova Guinea) => generosità
La socializzazione politica

espressione delle idee e delle opinioni politiche


assunzione di responsabilità attraverso l’esercizio dei diritti e delle
modalità di intervento nella vita pubblica previste dai sistemi politici

appartenenza a un gruppo:
far parte di una collettività
accettandone valori e modelli di vita
integrazione protezione
partecipazione
adesione incondizionata e acritica:
scelta libera e volontaria forme di fanatismo da appartenenza
critica e non incondizionata
l’individuo aderisce a un gruppo xenofobia => ostilità contro stranieri e "diversi"
condividendone le iniziative fino a quando
le ritiene in sintonia con le proprie idee e nazionalismo => esaltazione della storia,
interessi, la propria visione della società della cultura, della forza della propria nazione
lucidità critica vs obbligo rafforzarne la potenza nei confronti di altri Paesi
conservazione della propria personalità
confronto paritetico con gli altri integralismo intolleranza e rifiuto della
convivenza con idee e posizioni differenti
(religione e radicalismi ideologici)

sicurezza fondamentalismo applicazione dei princìpi


stabilità integralisti alla struttura della società
identità (vita familiare/comunitaria, scuola, giustizia, Stato)

Stato vs società civile


massimo ordinamento normativo di una società Insieme delle relazioni associative, economiche,
apparato legislativo, amministrativo, giudiziario culturali e sociali intercorrenti nelle società, aventi
e militare difeso, se necessario, con l’uso della forza una valenza politica, distinte/contrapposte allo Stato

Nascita dello Stato moderno => concentrazione del potere nella persona di un sovrano
unificazione del Paese (legislazione e apparato burocratico-amministrativo)
sudditanza della popolazione senza distinzioni di casta o di classe

Stato nazionale => unico sistema di leggi corpo di funzionari (burocrazia) esercito permanente
sistema di prelievo fiscale unificazione del mercato economico sul territorio nazionale

fondamento dello Stato moderno

a) autorità basata sul b) principio dell’uguaglianza c) creazione di una struttura


consenso dei governati di tutti di fronte alla legge statale non accentrata

d) potere sottratto all’arbitrio e) costituzione scritta che f) principio di sovranità:


dei governanti tramite fissa diritti e doveri dei cittadini, validità delle norme giuridiche
distribuzione e bilanciamento caratteristiche e prerogative che emana, legittimata dal
tra organi diversi e separati delle istituzioni a cui è affidato il governo consenso dei cittadini,
con ricorso all’uso della forza
solo in caso di necessità.
TIPOLOGIA DEI REGIMI POLITICI

regime politico => istituzioni che regolano i conflitti per:


la conquista e per l’esercizio del potere,
la definizione e la scelta dei valori che animano la vita delle istituzioni,
la formulazione di norme/procedure per lo svolgimento delle attività politiche,
l’esercizio del potere e di tutte le attività sociali ad esso collegate.

Il regime democratico

sovranità popolare / rappresentanza / delega conferita da tutti i componenti della società


consenso dei cittadini: libera approvazione delle decisioni degli eletti a cui sono stati conferiti
il diritto di rappresentare i cittadini e il potere di governo
pieno godimento di diritti civili e politici
senza distinzione di sesso, razza, religione e condizione economica

a) individualismo
ogni individuo uguale di fronte alla legge (libertà di espressione vs discriminazioni)
b) governo costituzionale c) suffragio universale d) pluralismo politico
possibilità di scegliere i programmi e gli uomini che si confrontano nella competizione politica
e) principio della maggioranza e della minoranza
partito di maggioranza: diritto-dovere di governare / minoranza: esercitare l’opposizione
f) separazione delle funzioni
funzione legislativa funzione esecutiva funzione giudiziaria
Parlamento Governo centrale Enti locali magistratura indipendente

Il regime totalitario

soppressione di tutti i diritti politici e civili


ferreo controllo su tutti soggetti individuali e collettivi
potere esercitato da un leader indiscusso + ristretto numero di persone
azione politica: nessun obbligo verso le istituzioni politiche
ampia discrezionalità (corpo elettorale, Parlamento, sistema di partiti)
valori generici (potenza militare/politica della nazione, patria, razza, ordine, religione)
manipolazione del consenso popolare partecipazione dei cittadini =>
adesione a manifestazioni di massa (sollecitazioni demagogiche)

a) ideologia politica b) partito unico c) terrore


obiettivi da perseguire capo + ristretto gruppo di potere tortura, carcere duro,
comportamenti monopolio di tutte le esilio, eliminazione fisica
graditi/sgraditi al potere cariche pubbliche e di governo dei “nemici dello Stato”

controllo
d) dei mezzi di comunicazione e) sulle istituzioni pubbliche
propaganda di regime => f) dell’economia esercito, forze di polizia,
consolidamento del consenso popolare magistratura, burocrazia
interpretazione «ufficiale» dei sorveglianza sui settori
provvedimenti governativi economico-strategici
e degli avvenimenti controllo dell’economia privata,
eventuale abolizione della proprietà privata
nell’agricoltura, nell’industria e nei servizi
Il regime autoritario

potere politico => leader di un partito che è riuscito ad assicurarsi


la fiducia delle masse e a conquistare il potere attraverso le elezioni
partito dominante => pressioni/condizionamenti sulle istituzioni pubbliche e sui partiti politici avversari
controllo sulla vita privata e sociale degli individui / libertà individuali => non del tutto soppresse

cittadini indottrinati e manipolati => controllo delle istituzioni


(scuola/università, sindacati, associazioni culturali, religiose, sportive/tempo libero)
mass-media => mezzi di propaganda «capillare» messaggi politici del regime:
manipolare intelligenze e coscienze, suscitare entusiasmo e partecipazione,
soffocare e ridurre gli effetti delle manifestazioni di dissenso
e delle posizioni critiche nei confronti del regime
regole democratiche sistemi elettorali organismi di controllo:
adattati a seconda delle esigenze del regime, in modo da
condizionare e controllare l'operato di tutte le istituzioni politiche

Il populismo

fenomeno politico che ha assunto rilevanza e diffusione dal ‘900


partito o gruppo politico guidato da un leader carismatico =>
mobilitare le masse per la conquista e la gestione del potere
agitare passioni e ri/sentimenti popolari attraverso
manifestazioni di piazza e proposte demagogiche

1. Il populismo-movimento 2. populismo-regime
movimento che punta a conquistare il potere capo carismatico che si rivolge alle masse
esaltazione dei valori nazionali tradizionali dichiarando di incarnare la volontà e i valori popolari
insoddisfazione malcontento sociale possibilità di:
mobilitazione delle classi medie/inferiori + a) mantenimento di un regime democratico
gruppi socialmente/politicamente emarginati b) derive autoritarie
che si ritengono vittime di ingiustizie

3. Il populismo-ideologia 4. Il populismo-retorica
“popolo” celebrato per le sue virtù, uso dei mass media per mettere in atto
che lo rendono moralmente «sano»: strategie di manipolazione dell'opinione pubblica
salvezza del Paese => si fa leva sul risentimento popolare
leader «consapevole» che interpreta per conquistare il consenso elettorale,
la volontà popolare e assume la guida dello Stato imporre un nuovo ordine sociale e politico
individuazione di un «nemico del popolo»: presenza invasiva su TV e mass-media
borghesia, «poteri forti» (economia e mass media) (telepopulismo)
i «comunisti», gli immigrati ecc. leader populista => «attore mediatico»
«complotto» ai danni del Paese che si colloca al di fuori del sistema dei partiti:
(discredito sulla classe politica e sulle istituzioni) si propone alle folle (“gente”) per denunciare
i «guasti del sistema» e proporre la realizzazione
di una «vera» democrazia
accurata «messa in scena»
teatralizzazione dell'azione politica,
cura delle parole, gesti e immagini studiati
ricorso a modelli culturali/comportamentali
popolari e ai «miti» della cultura di massa
Le parole dell'antropologia
caccia-raccolta: economia basata sullo sfrut-
agricoltura: modello di produzione basato tamento delle risorse naturali, raccogliendo
sullo sfruttamento di piante domesticate. Si bacche, frutti, piante (le donne) e cacciando
definisce coltivazione, quando è praticata con (gli uomini).
zappe e mezzi simìli; agricoltura, quando si capo: individuo che ad esempio in una tribù
utilizza l'aratro. detiene una funzione di comando e che pos-
allevamento: pratica economica basata sullo siede determinate prerogative e privilegi.
sfruttamento di animali domesticati. Si defi- casta: gruppo ordinato su base gerarchica a
nisce allevamento una pratica stanziale, men- cui si appartiene per nascita e non per affilia-
tre per pastorizia si intende una forma di al- zione.
levamento che prevede lo spostamento sta- circoncisione: pratica di modificazione geni-
gionale dei capi di bestiame. tale maschile che consiste nella rimozione del
ambienti antropizzati: ambiente prodotto di prepuzio. A seconda del contesto può signifi-
una lunga azione dell'uomo. care l'appartenenza religiosa o il passaggio al-
animismo: termine usato per indicare un va- l'età adulta.
sto insieme di religioni tradizionali non isti- clan: gruppo di discendenza i cui membri fan-
tuzionalizzate. no risalire la loro discendenza a un comune
antropologia marxista: prospettiva antro- antenato mitico.
pologica che cerca di individuare modi di commercio: pratica economica che prevede
produzione diversi da quello capitalista e di lo scambio di beni o servizi con l'interme-
studiare le questioni legate alla stratificazione diazione del denaro.
sociale, all'interrelazione tra modello econo- comparazione: metodo antropologico che
mico e struttura sociale, nonché ai rapporti tra consiste nel confronto tra diverse culture al
colonizzati e colonizzatori. fine di riscontrare elementi di similitudine o
antropopoiesi: secondo l'antropologo France- di differenza.
sco Remotti è quell'insieme di pratiche che le cultura: lnsieme di saperi, pratiche, tradizioni
società mettono in atto per rendere più umano condivisi da un gruppo umano, che vengono
il corpo, per costruire l'uomo secondo i propri trasmessi di generazione in generazione, ma
criteri di umanità. sempre suscettibili di cambiamenti e prestiti
aree culturali: aree geografiche abitate da da altre culture in seguito a incontri, scontri,
gruppi umani, che condividono tratti culturali migrazioni.
comuni. dialetti: sono dialetti le parlate non ufficial-
arte immateriale: l'insieme di forme espres- mente riconosciute da uno stato, ma non per
sive non plastiche, come danza, musica, poe- questo inferiori a una lingua.
sia, canto ecc. diffusionismo: prospettiva antropologica se-
arte materiale: l'insieme di forme espressive condo cui le diverse culture venivano irradiate
plastiche, come scultura, pittura ecc. da centri particolarmente importantì e si dif-
artigianato: attività di trasformazione con- fondevano alle società periferiche.
dotta con mezzi manuali e su piccola scala. discendenza bilineare: trasmissione di beni e
banda: la banda è la forma tipica di organiz- status per cui i figli ereditano da entrambi i
zazione di popolazioni di cacciatori-racco- genitori.
glitori, di piccole dimensioni (meno di cin- discendenza matrilineare: trasmissione di
quanta membri), con base fortemente egua- beni e status per cui i figli ereditano esclusi-
litaria. vamente per via materna. Poiché quasi sempre
baratto: forma dì scambio di beni o servizi sono gli uomini a detenere i beni, i figli della
senza la mediazione del denaro. Gli attori del donna erediteranno da suo fratello, lo zio ma-
baratto stabìliscono insieme il valore deì beni terno.
in oggetto.
discendenza patrilineare: trasmissione di be- evolutiva, che le avrebbe condotte ìnfine al
ni e status per cui i figli ereditano esclusiva- modello occidentale.
mente per via paterna. famiglia: insieme di parenti stretti, che vivo-
discendenza unilineare: trasmissione di beni no insieme. Si parla di famiglia nucleare,
e status per cui i figli ereditano o per via pa- quando è formata da genitori e figli; di fami-
terna o pervia materna. glia allargata quando oltre al nucleo, convivo-
domesticazione: selezione progressiva prati- no altri parenti (nonni, zii, cugini ecc. ).
cata dall'uomo su piante e animali fino a fatto sociale totale: aspetto particolare di una
renderli più produttivi e assoggettati all'uomo. cultura che è in relazione con tutti gli altri
La domesticazione non riguarda una sola aspetti di quella stessa cultura e attraverso il
pianta o un solo animale, ma le intere specie. quale è possibile leggere per estensione le di-
dote: beni o denaro che la sposa reca con sé al verse componenti di una società.
momento del matrimonio. feticcio: oggetto che materializza in sé la divi-
ecologia culturale: prospettiva antropologica nità e che funge da intermediario tra questa e
che pone l'accento sul rapporto tra le popola- gli uomini.
zioni e l'ambiente in cui vivono, analizzando- funzionalismo: prospettiva antropologica che
ne prevalentemente gli aspetti relativi all'adat- supponeva le società come un organismo in
tamento e all'economia. cui le diverse funzioni (economia, politica.
emico: il punto di vista di chi fa parte della rƁeligione ecc.) contribuiscono a mantenere
società in oggetto e che percepisce gli stessi l'equilibrio.
fatti con una prospettiva interna. genere: termine introdotto dalla critica fem-
endogamia: pratica matrimoniale in cui si minista per indicare il ruolo sociale attribuito
privilegìa il matrimonio con un partner in- a un individuo in quanto uomo o donna in una
terno al gruppo. determinata società.
esogamia: pratica matrimoniale in cui si pri- gerontocrazia: nelle società dove sono pre-
vilegia il matrimonio con un partner esterno al senti sistemi di classi d'età è il governo degli
gruppo. anziani, in cui gli anziani detengono il potere.
età anagrafica: nella nostra società l'età ana- gruppi di discendenza: gruppi basati sulla
grafica è la differenza tra l'anno corrente e il relazione di affiliazione: si definiscono a par-
nostro anno di nascita. È un dato che serve tire da un capostipite, che è l'antenato comu-
soprattutto a fini burocratici. ne. Si distinguono in gruppi a discendenza
età sociale: età che nasce dal legame tra l'età bilaterale o cognatica e a discendenza unili-
anagrafica e un determinato valore che ogni neare (patrilineare o patrilineare).
società attribuisce a quell'età. È la percezione gusto artistico: criteri artistici culturalmente
sociale dell'età anagrafica di un indivìduo in definiti e quindi variabili nel tempo.
una determinata società. gusto sociale: formulata da Pierre Bourdieu e
etico: il punto di vista dell'osservatore ester- Marvin Harris, questa espressione indica il
no, che spesso è altro rispetto alla comunità fatto che le esperienze percettive e gustative
che studia. sono influenzate dal contesto socioculturale di
etnocentrismo: atteggiamento opposto al re- riferimento. Pìù in generale si riferisce all'al-
lativismo, che prende come unico punto di ternarsi delle mode che secondo Bourdieu so-
riferimento e come metro di giudizio la pro- no dettate dalla classe dominante.
pria cultura. identità: l’identità è un dato relazionale, che
etnografia: pratica di raccolta e di registra- si costituisce e si negozia continuamente sulla
zione dei dati sulla base dell'osservazione base degli altri, del diverso. Noi siamo ciò che
partecipante. gli altri non sono, ma dobbiamo essere consci
evoluzionismo sociale o unilineare: pro- che ciò che crediamo di essere spesso è il frut-
spettiva antropologica sviluppatasi tra fine to di una scelta e non di un dato assoluto.
Ottocento e inizio Novecento, che conside- incesto: rapporto sessuale tra due persone fra
rava le diverse società poste su una scala le quali esistano determinati vincoli di con-
sanguineità.
infibulazione: nota anche come circoncisione nati, classificati, conservati ed esposti gli og-
faraonica o sudanese, è una forma di modifi- getti etnografici raccolti in varie parti del
cazione genitale femminile che comporta mondo.
l'asportazione del clitoride, delle piccole lab- neoevoluzionismo: prospettiva antropologica
bra, di parte delle grandi labbra vaginali con che riprende le teorie evoluzioniste, ma
cauterizzazione, a cui segue la cucitura della affermando che i modelli di evoluzione sono
vulva, lasciando aperto solo un foro per per- molti e non esiste una sola linea evolutiva.
mettere la fuoriuscita dell'urina e del sangue nomadismo: pratica pastorale, che prevede il
mestruale. Tale pratica è stata condannata continuo spostamento degli armenti in cerca
dall'OMS come la forma più grave di mutila- di pascoli favorevoli.
zione genitale femminile. nonluoghi: luoghi privi di connotazione cul-
interpretativismo: prospettiva antropologica turale che si ritrovano uguali in ogni parte del
che ritiene ogni cultura come un sistema a sé, mondo, ad esempio le stazioni del metrò, gli
che va studiato secondo i riferimenti simbolici aeroporti ecc.
di quella cultura e che non può essere compa- oggetto etnografico: oggetto esotico, raccolto
rato con altri sistemi. durante viaggi o esplorazioni in giro per il
lignaggio: gruppo di discendenza i cui mem- mondo, successivamente esposto in un museo.
bri fanno risalire la loro discendenza a un co- Un oggetto etnografico diventa opera d'arte
mune antenato storicamente definito. solo attraverso lo sguardo dell'osservatore oc-
lingua: un insieme organizzato di suoni, che cidentale; e il valore di un'opera d'arte si basa,
acquisiscono un significato dato loro dagli secondo il nostro criterio, sull'utilizzo di cate-
uomini che l'hanno codificato. Lo status di gorie predeterminate culturalmente.
lingua è connesso al riconoscimento ufficiale osservazione partecipante: pratica che pre-
di uno stato. vede un lungo soggiorno sul terreno, durante
linguaggio: sistema dì codici tale da permet- il quale l'antropologo conduce interviste, os-
tere a due o più esseri viventi di comunicare serva il comportamento dei locali e condivide
tra loro e di trasmettersi informazioni. con loro gran parte della loro esistenza.
materialismo culturale: prospettiva antro- parentela: sistema di relazioni tra individui
pologica teorizzata da Marvin Harris, che ri- legati fra di loro da vincoli di discendenza e
cerca leggi universali, basandosi sul presup- da vincoli matrimoniali.
posto che gli esseri umani agiscano sempre parenti affini: parenti acquisiti dopo il matri-
sulla base di un calcolo costi/benefici. monio (cognato, genero, nuora ecc.).
matrimonio: definisce le condizioni in cui un parenti collaterali: parenti legati da vincoli
uomo e una donna possono intrattenere rela- di discendenza (genitori, nonni, zii, fratelli).
zioni sessuali e la gestione dei loro beni, rego- poliandria: pratica che prevede il matrimonio
la il processo di allevamento dei figli e stabi- di una donna con più uomini.
lisce privilegi e doveri, serve a trasmettere al- poligamia: pratica che prevede il matrimonio
la prole uno status sociale e a determinare un con più partner.
legame socialmente significativo tra i gruppi poliginia: pratica che prevede il matrimonio
domestici del marito e della moglie. dì un uomo con più donne.
migrazioni: spostamenti da un luogo a un al- polimorfismi: differenze di carattere somati-
tro, in genere con carattere permanente, di una co, indicatìve del luogo di provenienza di un
popolazione o di un gruppo di uomini in cerca individuo, prodotte da lenti e complessi pro-
di nuove risorse per sopravvivere. cessi di adattamento dei diversi gruppi umani
mito: racconto dell'origine di cui non si cono- alle diverse condizioni ambientali.
sce l'autore, che narra come un gruppo o una politeisti: fedeli di religioni che contemplano
popolazione è venuta al mondo. più divinità.
monoteisti: fedeli di religioni che contempla- postmodernismo: prospettiva antropologica
no una sola divinità. in cui rapporti tra osservatori e osservati ven-
museo etnografico: nato nella prima metà gono messi in discussione, si analizzano i pro-
dell'Ottocento, è il luogo in cui vengono radu- cessi di scrittura, le retoriche descrittive, por-
tando l'antropologia su un terreno sempre più scambio di mercato: forma di scambio in cui
prossimo alla letteratura e trasformando l'ana- il valore dei beni scambiati è determinato dal-
lisi antropologica in una critica culturale sem- la legge della domanda e dell'offerta.
pre più rivolta alla nostra società. scarificazione: incisione sulla pelle a scopo
prezzo della sposa (o ricchezza della sposa): terapeutico o decorativo, spesso associata ai
beni o denaro che la famiglia dello sposo do- riti di iniziazione.
na a quella della sposa, per compensare la sciamano: specialista rituale, tipico delle po-
perdita di una donna e pertanto le sue capacità polazioni siberiane e dei nativi americani, do-
lavorative. tato di poteri particolari, il quale, attraverso la
razza: concetto sviluppato nel XVIII secolo: trance, spesso indotta dal ritmo di tamburi,
prevede la classificazione dell'umanità in riesce a entrare in contatto con le entità so-
gruppi, o razze, formati da individui che pre- vrannaturali.
sentano una serie di tratti somatici e fisici di- scrittura: pratica finalizzata a riportare l'ora-
stintivi. Nel corso del Novecento questa clas- lità su un supporto materiale. Esistono nume-
sificazione è risultata infondata dal punto di rosi tipi di scritture, basate su logiche diverse.
vista scientifico. La scrittura fu alla base della nascita degli sta-
razzismo: dottrina che si basa sul concetto di ti.
razza, che attribuisce a ogni razza determinate Scuola di Manchester: corrente di pensiero
caratteristiche fisiche, culturali e morali, iden- che tendeva a considerare le società come
tificando in quella di appartenenza un mag- meccanismi in continuo movimento e segnate
giore livello di evoìuzione rispetto alle altre. da perenni conflitti interni, che ne determina-
reciprocità: scambio tra due o più soggetti no i mutamenti.
alla pari. selezione naturale: teorizzato da Darwin nel
redistribuzione: pratica economica che pre- XIX secolo, è il processo attraverso cui la
vede un'autorità centrale, che raccoglie i con- natura selezìona gli organismi animali e vege-
tributi della popolazione e li ridistribuisce in tali più adatti all'ambiente in cui vivono. È il
forma di beni o servizi. meccanismo alla base dell'evoluzione delle
relativismo culturale: atteggiamento secondo specie.
il quale ogni espressione culturale deve essere sesso: legato all'anatomia, il sesso indica la
spiegata all'interno del quadro simbolico della differenza biologica alla base della distinzione
società che la produce. tra maschi e femmine. È un dato naturale e
religioni: sistemi di credenze più o meno isti- immutabile, se non con specifiche operazioni
tuzionalizzati, che prevedono l'esistenza di chirurgiche.
entità sovrannaturali e sovraumane. sfere di scambio: modello di scambio in cui i
riti di passaggio: espressione coniata da Van beni sono raggruppati in ‘sfere’ secondo il va-
Gennep nel 1909, indica i rituali che accom- lore morale cha la popolazione attribuisce a
pagnano le transizioni attraverso i diversi sta- essi. Tali beni possono solo essere scambiati
tus che segnano la vita di ogni individuo, co- con beni appartenenti alla stessa sfera.
me la nascita, il passaggio all'età adulta, la sistema di classi d'età: è un'istituzione cultu-
morte. rale e politica che mette in relazione età bio-
rito: pratica ripetitiva e collettiva, che serve a logica ed età sociale. I sistemi di classi d'età
rappresentare, a mettere in scena una pratica determinano un ordine sociale, creando cate-
legata alla religione o al potere, al fine di ren- gorie basate sull'età e sulla generazione.
derla visibile. società egualitarie: società in cui le decisioni
rituali: comportamenti simbolici, sociali, ri- non vengono prese da un capo, ma per lo più
petitivi e standardizzati che vengono praticati dal consiglio degli uomini, all'interno del qua-
in occasioni cerimoniali distinte dalla vita le il più anziano del gruppo esprime solita-
quotidiana. Possono avere numerosi signifi- mente una posizione di autorevolezza.
cati, sia laici sia religiosi. strutturalismo: prospettiva antropologica che
si pone come obiettivo di dimostrare l'unità
psichica del genere umano attraverso
l'individuazione di categorie universali della necessariamente parenti tra di loro. È un'orga-
mente. Le diversità culturali sarebbero, per gli nizzazione caratteristica di popolazioni di
strutturalisti, delle varianti di temi costanti, agricoltori e allevatori, e può essere guidata
ìnsiti nella struttura psichica umana. da un capo.
superorganica: definizione adottata dal so- visione olistica: visione totalizzante che tiene
ciologo francese Émile Durkheim per definire conto di vari elementi dì una società, di una
la cultura come realtà che sta al di sopra delle cultura, per poter analizzare anche uno solo di
individualità umane. essi.
surmodernità: evoluzione ulteriore rispetto
alla modernità: accelerazione della storia in
cui la rapidità ha annullato le distanze e per-
tanto il tempo prevale sullo spazio.
tabu alimentari: indicano gli alimenti che
non possono essere mangiati da determinati
gruppi, perché considerati impuri o perché
associati al totem del clan.
tatuaggio: pratica nata in Polinesia. Segno
indelebile e ornamentale sul corpo che può
trasmettere informazioni sullo status sociale,
gruppo etnico, genere ecc.
tempo ciclico: concezione del tempo che si
basa sulla ripetitività e circolarità degli eventi,
come per esempio lo scorrere delle stagioni o
il ciclo lunare. È caratterizzata da un'assenza
di direzionalità nel processo storico.
tempo lineare: concezione del tempo che si
basa sull'idea di progressione e che fornisce
quindi il senso del fluire del tempo e della sto-
ria.
thick description: definizione coniata da
Clifford Geertz per indicare una pratica etno-
grafica che non si limiti alla mera descrizione
dei fatti, ma che contenga già in sé l'interpre-
tazione di quei fatti.
totem: animale o personaggio simbolico che
rappresenta gli antenati mitici di un clan.
tradizione: l'insieme delle pratiche che una
popolazione ritiene fondate su un passato co-
mune. Secondo Hobsbawm e Ranger questo
passato può essere inventato o rielaborato a
partire dal presente attraverso un processo di
‘filiazione inversa’.
tradizione orale: processo di trasmissione
verbale intergenerazionale di conoscenze e
pratiche culturali di una determinata popola-
zione.
transumanza: pratica pastorale che prevede
lo spostamento dei capi di bestiame tra due
punti stabiliti.
tribù: la tribù è un insieme più grande della
banda, che comprende individui che non sono
METODOLOGIA DELLA RICERCA SOCIO-PSICOPEDAGOGICA

1. come nasce l’ attività ideativa: formulazione delle domande di inizio


una ricerca gli errori da evitare / regole per il lavoro di documentazione
definizione dell’ oggetto di indagine

2. il ricercatore Il mito del metodo scientifico / la crisi dell’ induttivismo


il punto di vista del ricercatore / requisiti del “buon ricercatore”

3. ricerca interdisciplinarità, multidisciplinarità, false interdisciplinarità


Interdisciplinare le fasi del lavoro interdisciplinare

4. ricerca quantitativa le radici storiche del dibattito


e qualitativa concezioni quantitativa e qualitativa:
a) senso e finalità della ricerca b) obiettivi conoscitivi
c) carattere estensivo o intensivo delle indagini
d) codifica e standardizzazione delle procedure

5. disegno mediazione tra definizione dell’ oggetto di indagine e lavoro empirico


della Ricerca le scelte del disegno di ricerca: approccio, set concettuale,
risorse, procedure, controlli
i problemi ed i criteri da tenere presenti.

6. le variabili la variabile come costrutto operativo / tipi di variabili


le tappe dell’ elaborazione concettuale delle variabili
la scelta degli indicatori

7. campionamento le indagini campionarie / predisposizione della lista di campionamento


tecniche di estrazione del campione: procedure probabilistiche e ragionate.

8. l’ Intervista la strutturazione dell’ intervista:


intervista strutturata, semi-strutturata, non-strutturata
direttività e non-direttività / polarità: polo oggettivo e soggettivo
sistemi di registrazione dei dati / le critiche al metodo dell’ intervista

9. questionario tipi di domande:


a) le domande chiuse: polari, alternative, quantitative b) le domande aperte
la formulazione delle domande e la strutturazione del questionario
la successione delle domande: ordine logico e psicologico

10. questionari la misurazione dei tratti interiori


psicometrici liste di items ed autodescrizione

11. osservazione Il problema della veridicità / le tecniche di documentazione


osservazione distaccata e partecipante
il metodo etnografico e l’ osservazione qualitativa
l’ osservazione quantitativa di laboratorio (Bales)

12. esperimento le quattro operazioni dell’ esperimento


esperimento di laboratorio ed esperimento sul campo
il controllo dei fattori intervenienti

13. ‘action research’ l’ interdipendenza tra teoria e pratica / il processo circolare dinamico

14. ricerca educativa ricerca educativa e scolarizzazione di massa.

15. esame dei documenti primari e secondari


documenti documenti personali, pubblici, statistici, scientifici
vantaggi e svantaggi nell’ esame dei documenti
l’ esame quantitativo: analisi del contenuto
Come nasce una ricerca

Benchè si possa essere portati a credere che una ricerca cominci col lavoro empirico di osservazio-
ne e di assunzione di informazioni, si può affermare che invece, nelle prime fasi di una ricerca, pre-
valgono la riflessione, l’elaborazione teorica e l’ideazione. Il ricercatore inizialmente deve preoccu-
parsi soprattutto di pensare, perchè prima di mettersi a condurre indagini empiriche occorre aver
chiaro che cosa cercare e come cercarlo. L’inizio di ogni ricerca è in realtà una laboriosa attività intel-
lettuale in cui ci si pongono interrogativi, si studia, si scambiano idee con altri, si considerano gli ap-
procci possibili ai problemi e si azzardano ipotesi su come stanno le cose.

Come non si deve cominciare


L’inizio di una ricerca è un momento insidioso e delicato. Sono stati descritti alcuni errori comuni
di avvio. Anche se diversi, hanno in comune un denominatore comune: l’impazienza. É come se il
ricercatore volesse arrivare prima del tempo, affrancarsi dai passaggi richiesti, portare in fondo in
un certo senso la ricerca senza fare la ricerca.

Eccedere con la documentazione. Una delle prime cose da fare per impostare una ricerca è do-
cumentarsi sull’argomento che interessa. Documentarsi è importante perchè dalla letteratura degli
studi precedenti si possono trarre utili suggerimenti e perché ignorare ciò che si sa già espone a gravi
rischi. Può accadere che impieghiamo tempo e risorse per risolvere questioni già assodate e, al limite,
che l’intera ricerca sia costruita con l’obiettivo di chiarire qualcosa che è già chiaro.
Se però documentarsi è importante, farsi prendere dalla preoccupazione di leggere tutto è sbagliato.
L’eccessiva conoscenza della letteratura può avere un’azione di freno sullo slancio della ricerca.
Quando ci si documenta è importante leggere un numero limitato di testi selezionati e procedere
sempre ben orientati, avendo in mente le direttive dello studio e il quadro fin lì maturato.

Regole per un buon lavoro di documentazione


a. avere in mente quesiti ai quali cercare risposte
b. scegliere i testi che possono darci di più in vista dei nostri scopi; si seguono tre criteri:
I individuare i testi che dicono molto in poche pagine (non i più brevi, ma i più concentrati);
II preferire gli scritti critici rispetto a quelli che si limitano a riportare dati;
III formare un elenco di testi che seguono approcci diversificati;
c. intervallare la lettura con momenti di riflessione e discussione.

Passare subito al disegno d’indagine. Un altro errore è quello di proiettarsi con la mente diret-
tamente al lavoro operativo d’indagine, alle tecniche da impiegare, alle persone da interpellare, agli
ambiti dove sperimentare o osservare senza aver chiarito che cosa si vuole cercare e aver definito
l’oggetto d’indagine.

Farsi prendere dal perfezionismo. C’è chi nelle fasi iniziali della ricerca, quando ancora si sta
definendo l’oggetto d’indagine, si lascia scoraggiare dal fatto che molte cose sona ancora poco chiare
e dubbie; in realtà è naturale che sia così, i dubbi si risolvono strada facendo.

Fingere. Un requisito essenziale di una buona ricerca è l’autenticità: il ricercatore deve sforzarsi
davvero di trovare risposte alle sue domande e di esplorare un pezzo di realtà con l’intento di com-
prenderlo. Un modo sbagliato di cominciare una ricerca è darsi invece da fare per costruire una fac-
ciata dietro la quale mettere il proprio lavoro al riparo dalle critiche.
Come definire l’oggetto d’indagine

La definizione dell’oggetto d’indagine è il primo momento dell’attività ideativa con cui comincia
una ricerca. Il secondo sarà l’elaborazione di un disegno d’indagine. Nella definizione dell’oggetto
d’indagine mettiamo in chiaro che cosa intendiamo ricercare, mentre nell’elaborazione del disegno
stabiliamo come procederemo nella ricerca. Perciò la definizione dell’oggetto precede logicamente
l’elaborazione del disegno.
All’inizio un ricercatore può essere motivato a condurre una ricerca su qualcosa, ma avere ancora
idee vaghe e confuse sulla questione da indagare. Chiarire a se stesso l’oggetto di indagine serve a cir-
coscrivere il campo, a valutare l’effettiva portata del lavoro che si sta per intraprendere, cogliendone
le implicazioni, il significato e il valore, a a farsi una prima idea dei risultati che possono emergere.
Nel definire l’oggetto di indagine si segue un procedimento ideale, che si può schematizzare in
quattro tappe. (1) Come prima cosa il ricercatore si pone una o più domande cui con la ricerca inten-
de dare risposta: sono le domande d’inizio. (2) Successivamente porta avanti una prima esplora-
zione sulle questioni che ha in mente, un primo tentativo di rispondere, che non è ancora l’indagine
vera e propria, ma rientra nel lavoro di preparazione e di messa a fuoco dell’oggetto. Sono tre le
fonti cui si può attingere nell’esplorazione preliminare: la letteratura, altre persone impegnate
nello studio del settore e la realtà stessa. Conseguentemente l’esplorazione preliminare è in genere
fatta di tre componenti: la documentazione (sui libri e sulle riviste), le conversazioni con i colleghi e
le cosiddette indagini di sfondo. L’indagine di sfondo segue generalmente un approccio qualitativo,
proprio per evitare di limitare in anticipo l’orizzonte dell’esplorazione precostituendo in buona par-
te i risultati. Le tecniche più usate sono l’intervista non strutturata e non direttiva, l’esame di docu-
menti e l’osservazione non standardizzata. (3) All’esplorazione preliminare segue l’impostazione
teorica, che consiste nella scelta dell’approccio da adottare nel tentativo di dare risposta ai nostri
quesiti (ad esempio, riguardo al nesso creatività-disturbi mentali, assumere una prospettiva umani-
stica, oppure psichiatrica, psicoanalitica, sociologica, ecc.).
(4) L’ultima tappa è l’elaborazione di ipotesi. L’ipotesi può consistere in una spiegazione possi-
bile di un fenomeno o in un modello di funzionamento di qualcosa o nella presupposizione che in
certi ambiti della vita individuale e sociale si facciano determinate esperienze e che le cose stiano in
un dato modo. Detto in sintesi, l’ipotesi ora è una spiegazione, ora è un modello, ora è una congettu-
ra descrittiva.

Come formulare le domande d’inizio

É importante che nella mente del ricercatore la domanda d’inizio sia ben formulata, tanto che si
consiglia spesso di metterla per iscritto. Una buona domanda d’inizio dovrebbe avere almeno tre
requisiti: chiarezza, fattibilità, pertinenza.
(I) Perchè una domanda sia chiara non dev’essere vaga o troppo generica, ma precisa; inoltre essa
non dev’essere ambigua (contenente più domande tra loro concatenate), bensì univoca.
(II) La fattibilità è un requisito da non sottovalutare per una domanda d’inizio. Se ci si chiede qual-
cosa di molto interessante, ma che non si può appurare (perchè in sé la questione è insolubile o per-
ché noi non disponiamo dei mezzi adatti: dati statistici, fonti, strumenti osservativi, ecc), la ricerca
non si realizzerà.
(III) Quando si dice invece che le domande d’inizio di una ricerca devono essere pertinenti, ci si
riferisce al fatto che devono essere domande cui si può rispondere con una ricerca scientifica. Noi
possiamo chiederci molte cose, che è ovviamente lecito, se non necessario, che un uomo si chieda,
ma a cui non si può trovare risposta nella scienza. Rientrano in questa categoria, ad esempio, le
domande di natura morale o etica.
COME NASCE UNA RICERCA

prima fase di una ricerca => riflessione, elaborazione teorica, ideazione

errori comuni di avvio (impazienza -> denominatore comune)

a) eccedere nella documentazione vs numero limitato di testi selezionati

b) passare subito al disegno dʼindagine -> impazienza

c) farsi scoraggiare dagli aspetti poco chiari -> perfezionismo


(e dubbi
d) fingere e costruire una ʻfacciataʼ vs autenticità delle domande e delle risposte

Regole per un buon lavoro di documentazione

a) avere in mente quesiti ai quali cercare risposte

b) scegliere i testi che possono darci di più in vista dei nostri scopi

c) orientarci su quei testi che dicono molto in poche pagine

d) preferire gli scritti critici, che danno spazio alla teoria, a quelli che si limitano a riportare dati

e) formare il nostro elenco di letture mettendo assieme testi che seguono approcci diversificati

f) intervallare la lettura con momenti di riflessione e discussione

definizione dellʼoggetto di indagine -> messa in chiaro di ciò che si intende ricercare

attività ideativa iniziale

definizione elaborazione
dellʼoggetto del disegno

dʼindagine

1. formulazione delle domande dʼinizio

2. esplorazione preliminare

documentazione conversazioni
su libri e riviste con i colleghi

indagini di sfondo interviste (non strutturate, non direttive)


(approccio qualitativo)
3. impostazione teorica

4. elaborazione di ipotesi

spiegazione modello congettura


di un fenomeno di funzionamento descrittiva

chiarezza (precisione vs vaghezza)

formulazione delle fattibilità (vs insolubilità per mancanza di mezzi)


domande di inizio
pertinenza (oggetti possibili per una indagine scientifica)
Il ricercatore

Per lungo tempo (specie dal XVII secolo in poi) ha dominato una visione dell’attività di ricerca tesa
ad idealizzare le procedure e i metodi, che ha rappresentato una sorta di mito del metodo scientifico.
Fondamentale in questa visione è l’idea (rintracciabile nell’opera di Francis Bacon come in quella di
Renè Descartes) che il metodo sia il fulcro della ricerca scientifica, l’elemento portante e l’unica co-
sa che conta davvero. Nel corso del XX secolo il mito del metodo scientifico si è progressivamente
sgretolato. Per la filosofia della scienza e l’epistemologia attuali è chiaro che a fare ricerca non è il
metodo, ma il ricercatore. Si è capito che il lavoro di ricerca, almeno in parte, consiste in una attività
creativa, ben lontana dall’applicazione scontata di un metodo prestabilito. É apparso chiaro che per
fare ricerca occorrono qualità particolari: non doti innate - si badi - ma qualità che possono essere
acquisite, insegnate e tramandate.

La crisi dell’induttivismo

La data di nascita dell’induttivismo viene di solito fissata nel 1620, anno in cui il filosofo inglese
Francis Bacon (1561 - 1626) pubblicò il Novum Organum (letteralmente “nuovo strumento”), dove
proponeva di rimpiazzare gli strumenti aristotelici di ragionamento basati sulla deduzione, col me-
todo induttivo. L’induttivismo è una teoria del metodo scientifico, secondo la quale nella ricerca si
procede dal particolare all’universale. Come prima cosa lo scienziato osserva e accumula un gran
numero di dati. Di qui elabora successivamente principi, leggi e teorie di valore generale.
L’induttivista insiste sulla necessità di distinguere la fase della raccolta dei dati da quella dell’elabo-
razione teorica e condanna ogni tentativo di azzardare ipotesi senza dati. La tesi di fondo dell’indut-
tivismo è dunque che i principi, le leggi, le teorie si ricavano dai dati raccolti, cioé basandosi sulla
constatazione di un gran numero di fatti particolari.
La concezione induttivista presenta tre capisaldi:
1. L’osservativismo. Con questo termine si indica la tendenza, propria dell’induttivismo, a pri-
vilegiare l’osservazione e in genere la raccolta dei dati, mettendo in secondo piano l’ideazione e la
teorizzazione. La famosa massima di Newton hypoteses non fingo (non creo ipotesi) sta proprio a
sottolineare l’atteggiamento di distacco estremo e passività che dovrebbe caratterizzare il lavoro ini-
ziale di osservazione e accumulo di dati.
2. Il principio di induzione. Questo principio sostiene che da una serie di premesse riferite a
casi particolari è possibile logicamente trarre conclusioni di portata generale, cioè che le generalizza-
zioni hanno una giustificazione razionale.
3. Il principio di uniformità della natura. Fin dall’inizio l’induttivismo si è basato sul
presupposto che in natura ci siano regolarità che la ricerca scientifica può evidenziare. Le vicende
naturali non si svolgerebbero caoticamente, ma nel rispetto di un ordine, di una trama, di un disegno
sottinteso.
L’induttivismo è stato ampiamente criticato, già da D. Hume nel XVIII secolo. Nel ‘900 si è assis-
tito poi (Duhem, Popper, ecc.) ad un vero e proprio attacco all’intero impianto dell’induttivismo:
tutti e tre i capisaldi si sono mostrati insostenibili.
a. Una ricerca che intendesse davvero cominciare con la pura e semplice raccolta di dati non po-
trebbe avere mai inizio. É stato osservato che non si possono raccogliere dati a tappeto e acritica-
mente, perchè la raccolta di dati è per forza di cose selettiva ed è orientata a seconda di ciò che il
ricercatore vuole sapere, cioè dipende dagli interrogativi, dalle idee e dalle ipotesi che questi ha in
mente: “Dobbiamo esaminare - si domanda Karl G. Hempel - tutti i granelli di sabbia di tutti i de-
serti e su tutte le spiagge e annotare le loro forme, pesi, composizioni chimiche, le distanze inter-
correnti tra l’uno e l’altro, la loro temperatura sempre in mutamento e la loro distanza, anch’essa
sempre cangiante, dal centro della luna? Dobbiamo registrare i pensieri fluttuanti che attraversano le
nostre menti durante queste noiose operazioni? Le forme delle nubi che passano sulla nostra testa, il
mutevole colore del cielo?” .
b. Il principio di induzione ha scarso fondamento. Hume aveva notato che passare dalle osserva-
zioni alle leggi comporta un salto logico. A causa del salto logico tra piano dell’esperienza, fatto di
nessi occasionali (Hume parlava di relazioni di fatto), e piano astratto delle connessioni necessarie
(Hume parlava di relazioni di idee), l’inferenza induttiva non può avere la stessa validità della dedu-
zione logica.
c. Il principio di uniformità della natura sembra un’artificiosa costruzione. Sempre secondo Hume,
l’idea che esistano in natura delle regolarità è una credenza su basi psicologiche, derivante dall’abi-
tudine e destituita di significato razionale. La psicologia cognitiva di oggi concorda sostanzialmente
con tale tesi.

Requisiti del buon ricercatore

Come dev’essere il buon ricercatore? Per quanto non appaia facile tracciarne un identikit, alcuni
requisiti sembrano sicuramente necessari.

Preparazione specifica. Il ricercatore deve - com’è ovvio - essere un esperto della materia in cui
lavora e in particolare dei problemi su cui indaga.

Cultura. La preparazione specifica però non basta. Per quanto tale aspetto sia spesso sottovaluta-
to, il ricercatore dev’essere anche un uomo di cultura, che spazi con le sue conoscenze negli ambiti
più diversi, che conosca la tradizione ma sappia anche, nell’affrontare criticamente i problemi, allon-
tanarsene.

Creatività. Il ricercatore deve infatti essere in grado di pensare cose nuove e originali, oltre che vali-
de, perciò è bene che sia dotato di immaginazione, fantasia, flessibilità di pensiero.

Autenticità. É importante che il ricercatore nel suo lavoro sia motivato dal bisogno di scoprire dav-
vero come stanno le cose e non dall’esigenza di far bella figura, di far carriera o altro.

Desiderio di superamento dell’esistente. Il ricercatore col suo lavoro è un innovatore, uno che
cambia, poco o tanto, le conoscenze esistenti e consolidate. Ogni buona ricerca porta alla fine a ve-
dere le cose in modo in parte diverso da come apparivano prima.

Abilità di gestione e coordinamento. L’attività di ricerca è complessa e difficile; è importante


perciò saper gestire le risorse personali che si mettono in gioco. Al ricercatore è richiesta una ge-
stione di risorse materiali, di tempi e, se si collabora con altri, un lavoro di coordinamento.

Si può affermare, per concludere, che la parte più importante di una ricerca è, probabilmente,
l’ideazione. Può capitare, infatti, che un ricercatore ripeta esattamente le operazioni fatte da un al-
tro, ma solo per mettere alla prova quel lavoro o inquadrarlo meglio grazie ad un procedimento che
solitamente si chiama replica. Per il resto si può dire, però, che non esistono due ricerche uguali e
che ogni ricerca è in qualche modo unica. I lavori di indagine differiscono per le domande di parten-
za, l’impostazione data ai problemi, le ipotesi messe alla prova, il materiale adoperato, il disegno
complessivo secondo il quale si procede. La ricerca è un’attività fluida, che prende forma a seconda
dell’impronta che ad essa dà il ricercatore in base alle sue idee.
IL RICERCATORE

la crisi dell ʼinduttivismo -> Francis Bacon (1561 - 1626) Novum Organum

teoria del metodo scientifico secondo la quale nella ricerca si procede


dal particolare allʼuniversale: lo scienziato osserva ed accumula un gran
numero di dati ed elabora poi principi, leggi e teorie di carattere generale

1. osservativismo => privilegiare lʼosservazione mettendo in secondo piano


ideazione e teorizzazione

non si può raccogliere dati a tappeto e acriticamente,


la raccolta dei dati è per forza di cose selettiva
(-> idee, interrogativi, ipotesi del ricercatore) Duhem, Popper, Hempel (-> cit.)

2. principio di induzione => da una serie di premesse riferite a casi particolari è possibile
logicamente trarre conclusioni di portata generale

Hume => salto logico tra il piano dellʼesperienza (relazioni di fatto)


e il piano astratto delle connessioni necessarie (relazioni tra idee)

3. principio di => le vicende naturali si svolgono nel rispetto di un ordine, una trama,
uniformità della natura un disegno sottinteso , e la ricerca scientifica può evidenziare tali regolarità

Hume => lʼidea che esistano in natura regolarità è una credenza


su basi psicologiche, destituita di significato razionale

ideazione vs osservativismo

il ricercatore può talvolta ripetere esattamente le operazioni fatte


da un altro (replica), ma ogni ricerca è in qualche modo unica
(domande di partenza, impostazione, ipotesi, materiale, disegno)

requisiti del buon ricercatore

a) preparazione specifica - esperienza nelle discipline e nelle aree di ricerca fatte oggetto di indagine

b) cultura - conoscenze nei vari ambiti del sapere, attitudine al ʻpensieroʼ in aree non ʻspecialisticheʼ

c) creatività - pensare cose nuove ed originali, oltre che valide

d) autenticità - motivazione reale a scoprire come stanno le cose

e) desiderio di rottura, superamento dellʼesistente e innovazione

f) abilità di gestione e coordinamento - saper organizzare le risorse personali che si mettono in gioco

g) consapevolezza dellʼattività di ricerca - problemi e contraddizioni del sapere scientifico


Il punto di vista del ricercatore

Il problema del punto di vista del ricercatore si può sintetizzare così: il ricercatore nel condurre la
ricerca ha in mente un quadro di pensiero (framework), che, se da un lato è una base di partenza,
dall’altra è una specie di carcere mentale. Il framework del ricercatore consiste nelle teorie specifi-
che sull’argomento in studio che adotta, nei concetti e nel sapere specialistico che possiede, ma an-
che nel più vasto entroterra di concezioni cui egli aderisce per il solo fatto di essere uno studioso e
un individuo di una civiltà. Tutto questo vincola nel corso della ricerca a vari livelli, perchè fa vedere
certi fatti anziché altri, spinge a impostare le indagini in un dato modo, crea certe aspettative sui ri-
sultati e fa sì che che il ricercatore interferisca nei processi che portano ai risultati, influenzandoli
(anche senza rendersene conto) in ragione delle proprie aspettative.
La questione del punto di vista del ricercatore si è imposta all’attenzione nel ‘900, producendo un
un reale sconvolgimento nella filosofia e nell’epistemologia. Una volta presa coscienza che la ricerca
dipende dal punto di vista del ricercatore, l’immagine stessa della scienza ne è risultata profonda-
mente modificata. É caduto il mito dell’oggettività scientifica. Nel ‘900 si è capito che i fatti sono
strettamente legati alle teorie, cosa che ha portato alla fine dell’induttivismo baconiano (cfr. Il ricer-
catore, par. I) e dell’idea che l’oggettività consista nell’attenersi ai fatti.

I fatti sono carichi di teoria

Una convinzione comune, che in passato ha dominato anche in epistemologia e in filosofia della
scienza, è che all’oggettività si possa pervenire attenendosi ai fatti. L’idea che esista una prova del
nove dei fatti presuppone una netta distinzione tra fatti e teorie. I fatti in particolare dovrebbero
essere, come spesso si dice, preteorici, cioè entità a sé stanti, che esistono prima di qualsiasi teoria
sulla realtà. Senonchè è emerso sempre più chiaramente che i fatti, lungi dall’essere indipendenti dal-
le teorie, sono - come si dice - “carichi di teoria” (theory-laden). Le teorie, secondo l’espressione di
T. Kuhn, sono “modi di vedere il mondo”. Il mondo che si vede da una certa prospettiva teorica non
è lo stesso mondo che si vede da un’altra; le teorie sono “grammatiche osservative”, sistemi di regole
che ci dicono come leggere gli input che ci vengono dalla realtà esterna. L’attività scientifica è poi
oltremodo teorica: nella ricerca scientifica, tutto ciò che lo scienziato fa, dall’impostazione dell’inda-
gine alle osservazioni, alla raccolta dei dati, alle misurazioni, all’uso di strumenti, di metodi e tecni-
che, ai controlli, alle conclusioni e ai resoconti, presuppone un entroterra teorico assai raffinato ed
elaborato.

Esiste una pluralità di teorie scientifiche

Il problema del punto di vista del ricercatore si è imposto all’attenzione non solo perchè si è capito
che non ci si può affidare ad un’oggettività basata sui fatti, ma anche in forza di un’altra convinzione
maturata nel corso del ‘900: il sapere scientifico non forma un sistema teorico unitario, non c’è un
unico grande edificio della scienza. Ad esempio, la teoria della relatività di Einstein è andata ad af-
fiancarsi alla visione tradizionale del mondo fisico offerta dalla teoria classica o galileiana o newto-
niana, e le due teorie continuano a coesistere. Nelle scienze sociali la coesistenza di molteplici teorie
è di comune riscontro. Le varie teorie scientifiche sono separate l’una dall’altra non solo perchè è
difficile collegarle e integrarle a formare un quadro unitario, ma anche perchè nascono ciascuna in un
clima intellettuale non scientifico. I ricercatori elaborano una teoria e lavorano in quella direzione
spinti da interessi pratici, da ideali, da valori, da curiosità, gusti e altre cose che non hanno a che fare
con la scienza: la produzione scientifica è, in definitiva, culturalmente e storicamente condizionata.
Il punto di vista del ricercatore nelle scienze sociali

Il problema del punto di vista del ricercatore nelle scienze sociali è, rispetto alle scienze naturali,
più serio e sentito per alcune ragioni. Ne spiccano due:
a. i fatti sociali implicano il punto di vista dei protagonisti. Lo psicologo, il sociologo, l’antropologo
non studiano atomi, molecole, cellule, corpi solidi; essi hanno a che fare con eventi i cui protagonisti
pensano e attribuiscono significati alle vicende che vivono. Questo complica le cose e rende i fatti
sociali ancor più esposti all’interpretazione soggettiva del ricercatore.
b. il ricercatore è parte della realtà sociale che studia. Siccome fa parte del mondo sociale che stu-
dia, il ricercatore è imbevuto anch’egli delle idee circolanti (ideologie, rappresentazioni sociali) su
come stanno le cose.

Sono state proposte varie strategie per affrontare il problema del punto di vista del ricercatore:

1. Purificarsi dai preconcetti. Sappiamo che liberarsi totalmente dei preconcetti è impossibile, tut-
tavia si può essere consapevoli del fatto che esistono vari punti di vista e che la propria conoscenza
è legata ad uno di essi. Purificarsi dai preconcetti significherebbe allora non sbarazzarsi del proprio
punto di vista, ma assumere quello sguardo tipico di chi si è esercitato a prendere in esame le cose
da più punti di vista. É quel che accade, ad esempio, in antropologia culturale, dove il ricercatore, in
virtù del fatto che ha in mente la varietà di mondi e di culture esistenti, può e deve abbandonare ogni
forma di etnocentrismo o di esclusivismo culturale per poter descrivere i fenomeni sociali da lui pre-
scelti come oggetto d’indagine.

2. Assumere una prospettiva critica. Una strategia che si può tentare è spaziare, essere liberi, non
lasciarsi mai incarcerare da una visione delle cose. Questo significa in pratica mettere sempre in di-
scussione il proprio punto di vista, assumere la critica del proprio framework come sistema.

3. Allargare l’orizzonte tenendo conto di più punti di vista. Un’altra strategia consiste nel prendere
in esame ciò che si sta studiando da due o più punti di vista e cercare di integrarli. Si tratta in realtà
di costruire una visione ulteriore, di livello più alto, che inglobi quelle precedenti. Ad esempio, le te-
rapie dei disturbi mentali si possono studiare avendo in mente solo i trattamenti praticati in Occi-
dente. Se allarghiamo lo sguardo e ci interessiamo anche alle terapie tradizionali, possiamo elaborare
una concezione più complessa della cura delle malattie mentali, che tenga conto, oltre che dei lavori
degli psichiatri e degli psicologi clinici, di quella dei guaritori. Questo è l’approccio che viene propo-
sto dall’etnopsichiatria, o psichiatria transculturale e che l’OMS (Organizzazione mondiale della Sa-
nità), a partire dalla conferenza di Alma Ata, in Kazakistan (Il ruolo delle medicine tradizionali nel
sistema sanitario, Red, 1984) ha fatto propria.
IL PUNTO DI VISTA DEL RICERCATORE

il ricercatore, nel condurre la ricerca ha in mente un quadro di pensiero

framework

teorie specifiche concetti e sapere concezioni generali


sullʼargomento specialistico posseduto storicamente condizionate

risultati influenzati dalle proprie aspettative

i ʻfattiʼ sono strettamente legati alle teorie (“theory-laden”) > circolo ermeneutico
“precomprensione”
punti di vista = prospettive teoriche

il sapere scientifico non forma un sistema teorico unitario


clima intellettuale
pluralità di teorie scientifiche (vs “edificio della scienza”) ideali
valori
ogni teoria scientifica si colloca in un contesto non scientifico curiosità
gusti
interessi pratici
la produzione scientifica è culturalmente e storicamente condizionata eventi storici

il punto di vista del ricercatore nelle scienze sociali

1. i fatti sociali implicano il punto di vista dei protagonisti


( vs scienze naturali: oggetti che non pensano)

2. il ricercatore è parte della realtà sociale che studia


(è imbevuto egli stesso delle idee circolanti)

metodologico
relativismo e soggettivismo
ideologico

strategie per ʻsuperareʼ il relativismo

impossibilità della loro eliminazione


a) purificarsi dai preconcetti
esserne consapevoli e “controllarli”

b) limitare la soggettività allʼantefatto della ricerca (M. Weber)

c) assumere come sistema la critica del proprio framework (Feyerabend)

d) allargare lʼorizzonte tenendo conto di più punti di vista tra loro integrati
La ricerca interdisciplinare

Che cos’è l’interdisciplinarità

Possiamo definire l’interdisciplinarità una forma di collaborazione tra le discipline che tende a un
sapere unitario e più avanzato sulle cose. L’interdisciplinarità è un’idea che emerge nel XX secolo,
in particolare nel dopoguerra. Autori come il filosofo Ernst Cassirer e lo psicologo Jean Piaget han-
no preparato il terreno alle tendenze interdisciplinari e hanno promosso la ricerca interdisciplinare.

Interdisciplinarità, multidisciplinarità, falsa interdisciplinarità

Rispetto alle collaborazioni occasionali tra discipline, l’interdisciplinarità è qualcosa di diverso, per-
chè rappresenta un programma di collaborazione sistematica tra le discipline a carattere istituzio-
nale e comunitario. Si comprende meglio in che cosa consiste la ricerca interdisciplinare confrontan-
dola con attività che, sebbene mettano in gioco più discipline, sono sostanzialmente diverse: la
“multidisciplinarità” e la “falsa interdisciplinarità”. É stato Piaget a introdurre la distinzione tra in-
terdisciplinarità e multidisciplinarità. Nel lavoro multidisciplinare c’è un centro di interesse comune
che viene esaminato nell’ottica di ciascuna disciplina. Le differenti concezioni vengono accostate
l’una all’altra senza preoccuparsi di integrarle. La differenza fondamentale rispetto all’interdiscipli-
narità sta nel fatto che nella multidisciplinarità manca il dialogo produttivo tra le varie discipline.
Un certo scambio c’è, ma non si realizzano quelle che Piaget chiama “ibridazioni feconde”. Nel la-
voro interdisciplinare le discipline, a contatto con le altre, rivedono le proprie posizioni, le acquisi-
zioni di ciascuna nell’interazione si trasformano e danno luogo a contenuti nuovi, che vanno a for-
mare il sapere interdisciplinare. Le “false interdisciplinarità” sono invece delle condizioni in cui il
dialogo produttivo c’è, ma è limitato ad ambiti prefissati. Un caso comune è quello di discipline re-
gine che si servono di discipline ancelle (ad es. le materie funzionali alla comprensione di altre: la
chimica, la fisica, la biologia, l’anatomia rispetto alla medicina). Questa situazione viene chiamata
interdisciplinarità ausiliaria. Un altro caso è quello in cui due discipline si trovano a lavorare in-
sieme intorno a temi di confine, di incerta collocazione, che riguardano l’una e l’altra: in questo caso
si parla di interdisciplinarità complementare.

Temi come l’aggressività, l’emarginazione, la devianza, non sono solo centri di interesse dove le
varie discipline possono incontrarsi. Rappresentano problemi da risolvere, sia sul piano teorico, sia
sul piano pratico-applicativo. Tutto il sapere che la tradizione accumula deve servire a risolvere i
problemi. In effetti, anziché pensare alla scienza come a una collezione di discipline, si può assume-
re una visione più pragmatica e considerarla organizzata per campi: ad esempio, lo studio dell’ag-
gressività è un campo.

Le tappe del lavoro interdisciplinare

Un principio fondamentale della ricerca interdisciplinare consiste nello sforzarsi di avere una visio-
ne unitaria e vicina al reale, cercando al tempo stesso di rispettare la specificità delle discipline e la-
sciando che ciascuna proceda con la propria impostazione e i propri metodi.
Il lavoro interdisciplinare si svolge attraverso una serie di tappe successive. La prima fase è quella
dell’analisi multidisciplinare. Il primo passo, all’interno di questa fase, consiste nel passare in
rassegna i diversi contributi sul tema per enucleare da ciascuna disciplina contenuti rilevanti. Sono
rilevanti quei contenuti validi all’interno della tradizione della disciplina e pertinenti in vista degli
scopi che ci si prefigge. Il passo successivo è contestualizzare i contenuti enucleati, cioè inquadrarli
nel loro ambito disciplinare, reinserirli nella cornice metodologica e teorica in cui sono emersi e han-
no senso.
Una volta tirati fuori e contestualizzati i contenuti rilevanti, è terminata la fase dell’analisi multi-
disciplinare e comincia la successiva dell’elaborazione interdisciplinare. Spiegazioni, descrizioni,
concetti presi da discipline diverse, vengono confrontati e fatti interagire. Dal confronto può risult-
are che due spiegazioni dello stesso fenomeno fornite da discipline diverse (es. l’etologia e la psico-
analisi per l’aggressività) siano scarsamente compatibili, o del tutto incompatibili. Se non ci sono in-
compatibilità o le incompatibilità sono state superate, si può passare ad elaborare contenuti nuovi, i
quali andranno a collocarsi in un sistema di pensiero, in un discorso organico nuovo, di tipo interdi-
sciplinare.
_____________________________________________________________________

esame dei contributi delle varie discipline


FASE 1
enucleazione dei contenuti rilevanti
analisi multidisciplinare
contestualizzazione dei contenuti enucleati
..........................................................................................................................................
confronto tra contenuti di diverse discipline
FASE 2
elaborazione di nuovi contenuti
elaborazione interdisciplinare
inserimento dei nuovi contenuti
in un sistema interdisciplinare
_____________________________________________________________________

Il pericolo dell’egemonia, le estensioni indebite, il riduzionismo

Il lavoro interdisciplinare richiede che le varie discipline dialoghino alla pari, riconoscendosi e ri-
spettandosi reciprocamente. Se una disciplina tende ad egemonizzare le altre e prende il sopravven-
to su di esse, la ricerca interdisciplinare rischia di essere compromessa. Nel corso del lavoro interdi-
sciplinare l’egemonia si manifesta il più delle volte sotto forma di estensioni indebite: concetti e ra-
gionamenti di un settore vengono adoperati per spiegare ed illustrare fenomeni appartenenti a un’al-
tro in maniera artificiosa o meccanica, senza riguardo per gli specifici contesti disciplinari.
In filosofia della scienza e in epistemologia (la teoria della conoscenza scientifica) il riduzionismo
sostiene che alcune scienze sono di base mentre altre vi si stratificano sopra. Le conoscenze di livel-
lo più alto, sarebbero interamente traducibili nei termini delle discipline fondamentali. Ad esempio,
un organismo vivente è composto da cellule, una cellula è formata da molecole chimiche, le molecole
da atomi, gli atomi da particelle elementari. Ridurre un ordine di scienze all’altro significa interpreta-
re i fenomeni più complessi sulla base di quelli più semplici da cui sono formati. Il “fisicalismo”
proposto da O. Neurath, ad esempio, tende a tradurre ogni fenomeno osservabile nei termini della
fisica ed a ricondurre tutte le scienze ad una medesima base fisica. Il riduzionismo epistemologico
rende impraticabile il lavoro interdisciplinare: la disciplina ritenuta fondamentale, infatti, prende la
supremazia e nega alle altre il diritto di esistere.
LA RICERCA INTERDISCIPLINARE

forma di collaborazione tra le discipline che tende a


un sapere unitario e più avanzato sulle cose
interdisciplinarità
programma di collaborazione sistematica tra le discipline
a carattere istituzionale e comunitario

vs

multidisciplinarità nel lavoro multidisciplinare un centro di interesse comune


viene esaminato nellʼottica di ciascuna disciplina
(manca lʼintegrazione, lʼ”ibridazione feconda” (Piaget), il dialogo produttivo)

falsa interdisciplinarità dialogo produttivo tra discipline limitato ad ambiti prefissati

interdisciplinarità

ausiliaria complementare

discipline “regine” si servono due discipline lavorano insieme


di discipline “ancelle” su temi di confine

il lavoro interdisciplinare

principio fondamentale -> sforzarsi di avere una visione unitaria e vicina


(“regola aurea”) al reale rispettando la specificità delle discipline

tappe del lavoro interdisciplinare

fase I
esame dei contributi delle varie discipline

analisi enucleazione dei contenuti rilevanti


(concetti, descrizioni, spiegazioni)
multidisciplinare
contestualizzazione dei contenuti enucleati
(inquadramento nel loro ambito disciplinare)

fase II
confronto/interazione tra contenuti di diverse discipline
analisi
elaborazione di nuovi contenuti
interdisciplinare (integrare carenze concettuali con contenuti complementari)

inserimento dei nuovi contenuti in un sistema interdisciplinare

rischi

egemonia estensioni indebite riduzionismo

una disciplina concetti di un settore specifico tesi secondo la quale alcune


prende il sopravvento > adoperati incautamente per illustrare scienze sono di base mentre
sulle altre fenomeni di divera natura altre vi si stratificano sopra

la conoscenze di livello più alto


sarebbero interamente traducibili nei
termini delle discipline fondamentali
Ricerca quantitativa e qualitativa

Mentre un sondaggio sulle opinioni dei cittadini è una tipica indagine quantitativa, l’indagine bio-
grafica è tipicamente qualitativa. Nel sondaggio compaiono soprattutto dati: numeri, statistiche; nel-
le “storie di vita” numeri e statistiche praticamente scompaiono e lasciano il posto a discorsi, descri-
zioni, racconti.

Concezione quantitativa e qualitativa della ricerca

Approccio quantitativo e qualitativo presuppongono concezioni diverse della ricerca nelle scienze
sociali, a cominciare dalla questione di carattere generale del significato e del valore da attribuire al-
l’attività di ricerca, via via fino al problema specifico delle procedure da adottare.
Consideriamo i principali punti di divergenza.

Senso e finalità della ricerca. Chi segue l’orientamento quantitativo, pensa in genere che scopo del-
la ricerca sia contribuire al progresso scientifico, mentre i fautori dell’orientamento qualitativo sono
solitamente più critici nei confronti della cultura dominante, meno propensi a riconoscersi negli
aspetti istituzionali dell’attività accademica di ricerca .A differenza dei ricercatori quantitativi, che
solitamente tendono a considerare l’impegno etico e sociale estraneo all’attività scientifica, i ricerca-
tori qualitativi sono in genere animati dal desiderio di promuovere la giustizia sociale.

Obiettivi conoscitivi. La ricerca quantitativa punta soprattutto all’esattezza. La cosa importante è


che il sapere elaborato sia fatto di conoscenze precise, operative e fondate. La preoccupazione prin-
cipale di chi fa ricerca qualitativa è un’altra: la nostra conoscenza della vita psicologica e sociale degli
uomini, non solo quella comune, ma anche quella scientifica, contiene vistose lacune. Ci sono intere
aree, mondi di cui non sappiamo nulla e a proposito dei quali spesso abbiamo false convinzioni, che
servono a coprire la nostra ignoranza. L’obiettivo conoscitivo da perseguire allora non è più tanto
l’esattezza, quanto l’espansione degli orizzonti, l’allargamento delle conoscenze.

Carattere estensivo o intensivo delle indagini. La ricerca qualitativa si affida all’indagine intensiva,
mentre la qualitativa all’estensiva. Chi fa ricerca qualitativa pensa che, al limite, studiando in pro-
fondità anche un solo caso, si può arrivare a capire la vita dell’intera società. Chi fa ricerca quantita-
tiva, al contrario, è convinto che si possano passare in rassegna un gran numero di casi prima di rica-
vare categorie e modelli validi per l’universo sociale.

Codifica e standardizzazione delle procedure. Nelle indagini quantitative le procedure sono stabilite
in partenza nel dettaglio e il ricercatore segue protocolli ben definiti e riproducibili, cioè che altri
possono ripetere in tempi e circostanze diverse. Per chi fa ricerca quantitativa si tratta di requisiti
fondamentali dell’indagine, senza i quali diviene impossibile comparare i dati. Dal punto di vista del
ricercatore qualitativo codifica e standardizzazione sono fatti negativi, almeno così come vengono
solitamente intesi. Costituiscono un intralcio all’espansione della conoscenza, un vincolo che impe-
disce di sondare la realtà e scoprire proprio ciò che più interessa.

Le radici storiche del dibattito

La contrapposizione tra ricerca qualitativa e ricerca quantitativa si può fare risalire alla seconda
metà del XIX secolo, quando esplose il cosiddetto Methodenstreit (dibattito sul metodo).
Nell’università tedesca, ad opera di studiosi di varie discipline, tra cui J.G. Droysen, W. Dilthey,
W. Windelband, H. Richert, sorse un movimento chiamato solitamente storicismo, che dava partico-
lare rilievo al problema “ermeneutico” (ermeneutica = scienza dell’interpretazione) ed all’esigenza di
comprendere ciò che gli uomini producono, dai testi alla cultura.
Dilthey indicò i due contrapposti domini della ricerca scientifica con le espressioni scienze natu-
rali (Naturwissenschaften) e scienze dello spirito (Geisteswissenschaften). Nelle scienze naturali
si va alla ricerca di leggi universali, mentre nello studio dei fatti umani ciò che interessa è cogliere gli
eventi e le esperienze nella loro individualità, unicità e irripetibilità. Perciò, a differenza della scienze
naturali, le scienze dello spirito non spiegano le cose riconducendole a cause a a leggi, ma le descri-
vono, le ricostruiscono e le interpretano. Droysen distinse tra lo spiegare (Erklären), tipico delle
scienze naturali, e il comprendere (Werstehen), proprio delle scienze umane.
Già agli inizi del XX secolo, Max Weber si rese però conto che l’idea di scienze umane tese solo a
descrivere casi particolari era insostenibile. Se da un lato la tradizione ermeneutica aveva fatto bene
a rivendicare l’importanza dei vissuti soggettivi, tipici della storia e dei fatti umani, dall’altro non si
poteva rinunciare alle generalizzazioni e alle spiegazioni di portata più ampia. Così Weber nell’im-
postazione della sua sociologia comprendente combinò comprensione e spiegazione, ideando un
procedimento in cui dall’interpretazione di casi particolari si passa all’elaborazione di modelli di
portata sufficientemente generale, gli idealtipi, che fanno poi da mattoni di costruzione per teorie di
portata più ampia.

Il dibattito sulla ricerca qualitativa e quantitativa rappresenta tutt’oggi una questione aperta. Resta
il fatto che il ricercatore alle prese con la propria indagine deve prendere una decisione. Occorre sta-
bilire se e in quale misura seguire un orientamento o l’altro oppure se combinarli entrambi e, nel ca-
so, come integrarli in un unico disegno d’indagine.
RICERCA QUANTITATIVA E QUALITATIVA

indagine
quantitativa qualitativa

studio empirico (sondaggio / inchiesta) condotto studio empirico condotto su un campione ristretto

interpellando mediante questionari una popolazione attraverso interviste non strutturate, non direttive,
o un campione rappresentativo di essa privilegiando le ʻstorie di vitaʼ dei soggetti interpellati
numeri, misurazioni, statistiche discorsi, descrizioni, racconti
ampia, di superficie ristretta, in profondità

senso e finalità della ricerca

contribuire al progresso scientifico fare da coscienza critica della società

obiettivi conoscitivi

esattezza espansione degli orizzonti


conoscenze precise, operative e fondate allargamento delle conoscenze

carattere delle indagini

estensivo intensivo

passare in rassegna un gran numero di casi per studiare in profondità un ristretto numero di casi
ricavare categorie e modelli scientificamentevalidi per capire la vita dellʼintera società

codificazione e standardizzazione delle procedure

precodificazione progetto di partenza ʻminimaleʼ


procedure stabilite in partenza nel dettaglio procedure flessibili e modificabili
protocolli ben definiti e riproducibili ciò che emerge guida lʼindagine

le radici storiche del dibattito

Methodenstreit (dibattito sul metodo) > storicismo:


Droysen (1808 - 1884)
Dilthey (1833 - 1911)
scienze Windelband (1848 - 1915)
Rickert (1863 - 1936)
naturali dello spirito
(Naturwissenschaften) (Geisteswissenschaften)

leggi universali unicità / individualità degli eventi

spiegare comprendere ricostruire


(Erklären) (Werstehen) interpretare-> ermeneutica

Max Weber
interpretazione di casi particolari
“sociologia comprendente”
elaborazione di modelli generali

idealtipi
IL QUESTIONARIO

Il questionario consiste in un complesso di domande scritte alle quali si chiede di rispondere,


a tutte, nell’ordine in cui sono. Il questionario è lo strumento più usato nelle inchieste, cioè nelle
indagini in cui si va a interpellare un’intera popolazione o, come accade solitamente, un campione
rappresentativo di essa.

Tipi di domande. In un questionario possono comparire diversi tipi di domande. Solitamente si


distingue tra domande aperte, che lasciano liberi di rispondere come si vuole, e domande chiuse, in
cui ci si trova dinnanzi a risposte già belle e fatte e bisogna sceglierne una. Un’esempio di domanda
aperta è: “Perchè hai scelto questo liceo?”. Chi risponde può sviluppare il discorso come crede, lun-
go questa o quella direzione, esprimendosi con parole diverse.
Le domande chiuse più semplici sono quelle polari, che prevedono l’alternativa si/no. Spesso si
aggiunge una terza alternativa: non so. Si include quando la domanda verte su questioni opinabili o
su cose che non tutti conoscono, ed evita che il soggetto risponda senza convinzione, forzatamente,
nonostante non abbia maturato un proprio punto di vista. Di solito le domande chiuse sono più
complesse ed hanno una struttura a alternative multiple: prevedono varie risposte possibili espres-
se da brevi enunciati; si tratta di scegliere tra diverse affermazioni . Ad esempio: “Quando avrai ter-
minato il liceo, che cosa farai? a.inizierò subito a cercare lavoro; b. andrò all’Università; c. seguirò
un corso di specializzazione; d. mi dedicherò ad interessi non professionali; e. altro”.
Nei questionari si trovano spesso domande quantitative; servono a misurare qualcosa, come il li-
vello di conoscenze che le persone hanno in un settore, il grado di simpatia o avversione verso un
partito politico, l’entità del tempo libero, ecc. Ad esempio: “È soddisfatto del rapporto con i colle-
ghi di lavoro? molto/ abbastanza / poco / per niente”. Le domande quantitative sono alla base del
metodo di Likert per la misura degli atteggiamenti.
Nonostante le chiuse siano le più usate, entrambi i tipi di domande presentano vantaggi e svantag-
gi. Le domande aperte consentono all’intervistato di esprimersi liberamente, dicendo cose non pre-
viste e aggiungendo precisazioni e chiarimenti. Tuttavia con domande aperte è difficile codificare i
risultati e seguire procedure standardizzate. In realtà, anche se abbiamo posto la stessa domanda a
tutti, siccome gli intervistati rispondono liberamente, alla fine è come se avessimo in mano risposte
a domande in parte diverse, perchè ciascuno interpreta a modo suo e accentua questo o quell’aspet-
to. Adoperando domande chiuse è facile la standardizzazione, non c’è rischio di risposte prive di
significato e gli intervistati non devono sforzarsi di formulare discorsi; però esse limitano la sponta-
neità: può accadere che il soggetto, leggendo una risposta si convinca che è quella giusta, anche se
lasciato libero di esprimersi avrebbe detto altro. Le domande chiuse poi possono irritare chi compila
il questionario, perchè esse semplificano la realtà: spesso le persone, soprattuto se abituate a consi-
derare i problemi nella loro complessità e tener conto delle sfaccettature, reagiscono male vedendo
alternative rigide, perchè pensano che i problemi non possano essere ridotti in quei termini.

La formulazione delle domande: requisiti di un buon questionario


Una domanda di questionario è ben formulata se risponde a una serie di requisiti. La chiarezza è es-
senziale: chi legge deve innanzitutto capire che cosa si vuol sapere da lui. Per rendere il più possibile
chiare le domande si seguono alcune semplici regole ispirate ai criteri di brevità, comprensibilità, uni-
vocità, concretezza.
Si ricerca la brevità: tra due domande egualmente chiare è preferibile la più breve. Talvolta, specie
se la domanda è delicata, si può far ricorso a giri di frase o fare premesse, ma solitamente ci si sforza
di ridurre al minimo indispensabile le parole usate.
La comprensibilità riguarda la forma linguistica delle domande. La costruzione dovrebbe essere il
più possibile semplice; bisogna usare termini correnti, costruire le frasi con linearità.
Le domande vanno improntate all’univocità. Vanno evitate le espressioni vaghe ed ambigue, sog-
gette a più interpretazioni (rettitudine, malvagità, normalità, ecc.). Occorre presentare un’idea per
volta: vanno evitati i complessi concatenati di idee, in cui resta difficile sceglierne una (ad esempio:
“È giusto che le donne abbiano lo stesso trattamento degli uomini, facciano il servizio militare e
combattano in prima linea?”).
La concretezza è importante; è più facile intendersi se si fa riferimento, anzichè a discorsi astratti e
generali, a realtà concrete. Ad esempio è preferibile chiedere di giudicare comportamenti ben precisi
nei riguardi di immigrati o extracomunitari (non assumerli o assumerli, affittare un locale o non affit-
tarlo, ecc.) piuttosto che porre domande generiche sui pregiudizi razziali o etnici.
È importante anche la neutralità. Vanno evitate le domande tendenziose, che suggeriscano la ri-
sposta o forniscano valutazioni sul punto di vista “giusto” o “vero”. Ad esempio è tendenziosa una
domanda come questa: “È favorevole anche lei, come la maggior parte delle persone, a metter fine
con un intervento di pace all’assurda situazione nell’ex Jugoslavia?”. Oppure: “Einstein ha detto
che ogni uomo dovrebbe come prima cosa essere libero dai condizionamenti materiali. Lei è d’accor-
do?”.

La strutturazione del questionario

a. analisi della dimensione della risposta


Al fine di coprire l’intero arco delle risposte possibili, chi formula la domanda fa un lavoro preli-
minare che prende il nome di analisi della dimensione della risposta e che consiste proprio nel rico-
struire il ventaglio delle risposte che gli interpellati potrebbero dare a quella domanda. È un lavoro
che si può fare sia con una procedura razionale, sia con una procedura empirica, sia - ed è ciò che
più spesso si fa - con una procedura mista.
Quando si segue la procedura razionale, si cerca di individuare le risposte possibili a tavolino per
via di ragionamento. La procedura empirica è più mirata e offre più garanzie di riuscita. Ad un cam-
pione di persone viene sottoposta la stessa domanda in forma aperta. Si analizzano poi i contenuti
delle risposte con l’intento di individuare le direttive principali che vi figurano. Quando si segue una
procedura mista, prima si fa un’analisi razionale e poi si passa allo studio empirico su un campione.
Il doppio lavoro assicura una copertura maggiore del ventaglio di possibili risposte e soprattutto ob-
bliga a riflettere di più col risultato di un’analisi più raffinata, lucida e organica.

b. disposizione in successione delle domande: ordine logico e psicologico


Una volta formulate le domande, bisogna stabilire quali mettere prima e quali dopo. Si dice solita-
mente che nell’organizzazione di un questionario vanno seguiti un ordine logico e un ordine psicolo-
gico. L’esigenza di ordine logico è legata al fatto che gli intervistati si aspettano che il questionario
sia costruito razionalmente e che sviluppi una sorta di discorso che segue un filo conduttore (crono-
logico, che procede dal generale al particolare, che passa dai fatti oggettivi alle esperienze soggetti-
ve). Per stabilire l’ordine psicologico si tiene conto di diversi aspetti, sia cognitivi, sia emotivi.
In genere si mettono prima le domande più facili e interessanti, in modo da invogliare l’intervistato
a collaborare. Sul piano emotivo contano le domande delicate, che possono imbarazzare o far nasce-
re il sospetto di secondi fini (come accertare il reddito o propagandare qualcosa); in genere le doman-
de “delicate” vengono collocate alla fine. Un criterio a volte seguito è la tecnica ad imbuto: si met-
tono prima domande di carattere generale e aperte e poi domande specifiche e chiuse. In questo mo-
do il soggetto si sente inizialmente a proprio agio e si esprime liberamente. Dopo aver manifestato le
proprie opinioni, l’intervistato dovrà fornire una serie di risposte precise che interessano al ricerca-
tore.
IL QUESTIONARIO

Il questionario consiste in un complesso di domande scritte alle quali


si chiede di rispondere, a tutte, nell’ ordine in cui sono stampate.

inchieste
polari > si / no / (non lo so)

chiuse alternative (multiple) > scegliere tra diverse affermazioni

quantitative > tratti mentali, atteggiamenti, valori


(es. molto, abbastanza, poco, niente)
DOMANDE sono standardizzate;
limitano la spontaneità;
semplificano la realtà: possono irritare

aperte > lasciano liberi di rispondere come si vuole

strutturazione del questionario

brevità tra due domande egualmente chiare è preferibile la più breve

comprensibilità usare termini noti, costruire frasi semplici e lineari


requisiti chiarezza
univocità evitare espressioni vaghe ed ambigue, dire una cosa per volta

concretezza evitare discorsi astratti, riferirsi a situazioni concrete

neutralità non porre domande tendenziose, che suggeriscano


qual è il punto di vista “giusto” o “vero”

analisi della razionale individuare le risposte possibili per via di ragionamento


dimensione procedura empirica domanda aperta posta ad un campione, analisi risposte
della risposta mista analisi razionale + studio empirico di un campione

ordine logico costruzione razionale che segue un filo conduttore


(cronologico, generale ->particolare, oggettivo -> soggettivo)
successione

ordine psicologico mettere prima le domande più facile e interessanti


per invogliare l’intervistato a collaborare;
collocare alla fine le domande “delicate”
(-> tecnica “ad imbuto”: domande generali -> specifiche)

1) risposta esatta
domande chiuse 2) “distrattore”
3) risposta errata
valutazione
questionari e verifica
scolastici del profitto
sintetiche
domande aperte
libere
Il Disegno di Ricerca

Una volta definito l’oggetto d’indagine, dopo che si è arrivati a elaborare le ipotesi alla base della
ricerca, non si passa subito al lavoro empirico, non ci si mette cioè a raccogliere dati per confermare
o smentire le idee maturate. Di mezzo c’è un altro passaggio ideativo che consiste nell’elaborare il
disegno di ricerca, cioè nel fare un piano, un programma del lavoro che si intende portare avanti.
È meglio non limitarsi a pensare, ma scrivere una relazione, anche fatta di appunti essenziali. Sulla
carta è più facile accorgersi di lacune ed errori. È particolarmente utile discutere con altri il piano di
lavoro. Nella discussione si allarga il raggio di idee e sviluppi che noi non vediamo possono essere
visti da altri. Non bisogna però affidarsi ciecamente alle discussioni con gli altri. Se il raggio di idee si
allarga, ci sono rischi, primo fra tutti quello di farsi prendere dalla cosiddetta mentalità di gruppo
(group think). Quando interviene la mentalità di gruppo, il consenso viene scambiato per obiettività
e si crede che le cose stiano in un modo solo perchè ci si trova d’accordo.
Nelle ricerche di tipo quantitativo il disegno è particolarmente dettagliato e preciso, tende a preve-
dere in anticipo tutto ciò che il ricercatore farà nel corso della ricerca.
Nelle ricerche qualitative il disegno è più vago e indeterminato e soprattutto non copre l’intero la-
voro empirico, ma lascia aperti gli sviluppi della ricerca. È sbagliato però pensare che la ricerca qua-
litativa sia priva di disegno: bisogna infatti stabilire - come fa notare Harold Becker - quale area di
vita andare ad esplorare, bisogna vedere come avvicinarsi ad essa e familiarizzare con quel mondo,
bisogna decidere se far uso di informatori o di intermediari, ecc.

Le scelte del disegno di ricerca


In linea di massima le decisioni da prendere quando si traccia il disegno di ricerca riguardano cinque
aree fondamentali: l’approccio, il set concettuale, le risorse, le procedure, i controlli.

La scelta relativa all’approccio riguarda la questione di fondo, se seguire un’impostazione di tipo


qualitativo o quantitativo: non si tratta solo di scegliere tra due tecniche, ma, come sappiamo, tra
due mentalità o tradizioni.

Le scelte dell’area del set concettuale vanno a delimitare e stabilire l’insieme dei concetti che ado-
pereremo nel lavoro. Nelle ricerche quantitative queste scelte consistono nell’individuare delle varia-
bili da considerare e degli indicatori grazie ai quali si pensa di avere informazioni sulle variabili. Nelle
ricerche qualitative buona parte del disegno concettuale concerne l’individuazione dell’oggetto da
approfondire nella ricerca.

La parte del disegno relativa alle risorse richiede di decidere come procurarsi i mezzi finanziari, il
materiale, di quali persone servirsi, quali soggetti sperimentali impiegare e così via.

La scelta dell’area delle procedure riguarda i metodi specifici da adottare per la raccolta di dati (os-
servazione, esperimento, intervista, questionario, ecc.).

Le decisioni relative ai controlli servono a introdurre dispositivi e accorgimenti tesi ad assicurarsi


che il lavoro empirico risulti valido, cioè che sia svolto correttamente e fornisca risultati di ciò di cui
ci si può fidare.

Possiamo farci un’idea più precisa di come si arriva a elaborare il disegno di ricerca esaminando una
check-list riguardante le scelte del ricercatore che ha deciso di svolgere una ricerca di tipo quantitati-
vo e sta decidendo le procedure.
check-list per decidere le procedure di una ricerca quantitativa

quali dati raccogliere per misurare le variabili


su che cosa? informazioni su variabili interferenti

unità di analisi
dove? campo di analisi
indagine a chi ci rivolgiamo
popolazione / campione rappresentativo/ componenti

con quali strumenti? interviste / questionari / osservazione / esame documenti


check-list

laboratorio / sul campo


soggetti sperimentali
sperimentatori
esperimento materiali
ambiente
schema procedurale
organizzazione dei controlli

L’unità di analisi è data dalle componenti elementari che formano l’universo su cui indaghiamo.
Si tratta in genere di una categoria di persone o di realtà socio-culturali. Può trattarsi ad esempio di
bambini in età prescolare, di disoccupati, degli abitanti di un quartiere, di programmi televisivi, ecc.
Il campo di analisi è l’insieme delle unità di analisi a cui ci interessiamo. Se ad esempio abbiamo de-
ciso di indagare sui programmi televisivi, ne sceglieremo un certo insieme (per fascia oraria, per ge-
nere, ecc.) a seconda delle ipotesi e degli scopi della nostra ricerca. È importante anche il quesito “a
chi ci rivolgiamo?”. Nel rispondere dobbiamo pensare soprattutto alla disponibilità delle persone e
alle possibilità concrete di raggiungerle e ottenere la loro collaborazione.
La scelta tra popolazione, campione rappresentativo e componenti selezionate della popolazione
rappresenta un altro momento in cui occorrono realismo e senso della ricerca.
La popolazione è l’intero universo dei soggetti cui ci si può rivolgere o che si possono esaminare. Il
campione rappresentativo è una parte di popolazione scelta in modo tale che, almeno sulle cose che
ci interessano, può fornirci informazioni paragonabili a quelle che ricaveremmo dall’intera popola-
zione. Il più delle volte è comunque preferibile, realisticamente, ricorrere a componenti selezionate
della popolazione, senza preoccuparsi di avere un campione rappresentativo.

Problemi e criteri da tener presenti

Efficacia. Il lavoro empirico che progettiamo deve essere efficace, cioè rispondere agli scopi che ci
prefiggiamo, servire a studiare l’oggetto di indagine che è stato definito e mettere alla prova le ipote-
si formulate.
Rigore. Buona parte del disegno mira a a fare in modo che la ricerca non risulti criticabile al punto da
essere inutilizzabile.
Fattibilità. Ciò che progettiamo deve essere realizzabile sia sul piano economico che sul piano delle
risorse in termini di tempo e di energie personali.
Rispetto delle norme etiche. Qualunque cosa si decida di fare, occorre mettere molta attenzione a ri-
spettare le norme etiche. Chi viene sottoposto a un’indagine ha diritto a essere informato e a sapere
che cosa sta accadendo. Le persone (il problema si pone sopratutto negli esperimenti) non vanno
esposte a rischi, né materiali, né psicologici e sociali. È scorretto poi approfittare del fatto che altri
si trovino in posizioni subalterne per indurle a collaborare a ricerche. È anche scorretto trattare le
persone come cavie e non instaurare un clima psicologico di rispetto e parità.
IL DISEGNO DI RICERCA

domande esplorazione scelta del- definizione del- disegno della lavoro


di inizio preliminare lʼ approccio teorico lʼoggetto dʼindagine ricerca empirico

scrivere una relazione (piano di lavoro)


discutere con altri (senza farsi prendere dal “group think”)

ricerche quantitative vs ricerche qualitative

disegno dettagliato disegno non interamente predefinito


completo e preciso (aperto agli sviluppi della ricerca)

approccio quantitativo qualitativo

set concettuale variabili indicatori individuazione/ definizione


dellʼoggetto di ricerca

esperimento (laboratorio / sul campo) osservazione


scelte del procedure indagine (longitudinale / trasversale) interviste
disegno di ricerca esame di documenti questionari
action-research

risorse materiale necessario, mezzi finanziari,


personale, soggetti sperimentali, ecc.

controlli accorgimenti per la convalida del lavoro


(gruppo sperimentale, diario personale)

quali dati raccogliere per misurare le variabili


su che cosa informazioni su variabili interferenti

unità di analisi (componenti elementari dellʼuniverso indagato)


dove campo di analisi (insieme specifico delle unità di analisi)
indagine a chi ci rivolgiamo (disponibilità e possibilità concreta)
popolazione / campione rappresentativo

con quali strumenti interviste / questionari / osservazione / esame dei documenti


check-list
procedure
di una ricerca laboratorio / sul campo
quantitativa soggetti sperimentali
sperimentatori
esperimento materiali
ambiente
schema procedurale
organizzazione dei controlli

criteri da tenere presenti nellʼelaborazione del disegno di ricerca

efficacia -> rispondere agli scopi / studiare lʼoggetto/ mettere alla prova le ipotesi

rigore -> mettere la ricerca al riparo dalle critiche (sulla sua scientificità)

fattibilità -> ciò che progettiamo deve essere realizzabile

rispetto delle -> informare chi viene sottoposto ad indagine


norme etiche non esporre le persone a rischi materiali o psicologici
non usare le persone come cavie
VARIABILI, INDICATORI, INDICI

È nelle ricerche di tipo quantitativo che si parla di variabili, indicatori, indici, di variabile indipen-
dente e di variabile dipendente, di variabili qualitative e quantitative, continue e discontinue, di vali-
dità degli indicatori, e così via. Nella ricerca quantitativa si lavora con concetti definiti ed operativi
perchè solo questi garantiscono l’esattezza, l’obiettività e la misurabilità.
Al contrario chi fa ricerca qualitativa evita i concetti definiti e operativi, giudicandoli vincolanti e
addirittura controproducenti per i propri obiettivi, e preferisce i concetti “sfuocati” (o, come dice
Blumer, sensibilizzatori). Le variabili hanno senso solo se si lavora con concetti definiti e operativi.

Una variabile è un costrutto operativo

Che cos’è una variabile? Possiamo dire che è qualsiasi proprietà di tipo materiale o non materiale
che può cambiare da un individuo all’altro e/o nel tempo, elaborata concettualmente in modo da
renderne riscontrabili empiricamente le variazioni con procedure oggettive, ed utilizzata prevalente-
mente dai ricercatori all’interno di un disegno di ricerca di tipo quantitativo.
Ad esempio, il peso corporeo è una variabile. È una proprietà che varia da una persona all’altra e
ache da un momento all’altro, perchè le persone ingrassano e dimagriscono. Il peso è una variabile
materiale. Se consideriamo le variabili non materiali (quelle più comuni nelle scienze sociali) le
cose immediatamente si complicano. Prendiamo l’integrazione sociale degli individui, presa in esame
da Durkheim nel suo studio sul suicidio: come si fa a stabilire se un individuo è socialmente integra-
to o meno? Così com’è, la nozione di integrazione sociale degli individui è troppo vaga e astratta.
Durkheim ha individuato nell’integrazione sociale tre componenti: la partecipazione alla vita religio-
sa, alla vita politica e alla vita domestica. Per valutare ciascuna componente si è servito di una serie
di dati statistici indicativi (ad es. per la vita domestica, l’informazione relativa all’esser sposati e al-
l’avere figli). Una volta che è stato fatto questo lavoro di elaborazione concettuale, la nozione della
proprietà da riscontrare non è più quella di partenza, ma è diventata più precisa ed operativa: le va-
riazioni di una proprietà soggetta a cambiamenti diventano riscontrabili empiricamente con procedu-
re oggettive.
Le variabili non esistono come tali in natura, ma solo nella ricerca. Il ricercatore in effetti le costrui-
sce lavorando attorno a concetti che rende sempre meno vaghi e astratti e più vicini al suo operare
concreto. Una variabile è dunque un costrutto mentale e teorico, qualcosa che esiste nella mente del
ricercatore e nella tradizione scientifica, non nella realtà studiata. Si tratta di un costrutto operativo,
perchè tende a rendere i concetti in termini di operazioni da fare per riscontrarli nell’esperienza.

Tipi di variabili

Le variabili si classificano solitamente in qualitative e quantitative. Le variabili qualitative cam-


biano passando semplicemente dall’una all’altra di alternative prefissate. Ad esempio, si è coniugati
oppure no, si possiede un titolo di studio o nessuno.. Nel caso delle variabili quantitative invece
esiste una gamma di possibilità misurabili.
A loro volta le variabili qualitative si distinguono in non ordinabili, se non è possibile creare una
graduatoria (es. razza, religione, stato civile, sesso) e ordinabili, se ciascuna alternativa ha un rango
e occupa una posizione in graduatoria (es. titolo di studio, livello di qualifica). Le variabili quantita-
tive sono discrete quando ci sono salti da un valore all’altro (ad es. vani dell’abitazione, componen-
ti del nucleo famigliare) mentre sono continue quando tra i due valori esistono infiniti valori inter-
medi possibili (es. reddito, età, ecc.).
L’elaborazione concettuale della variabile

Spetta a Lazarsfeld, esponente di spicco della tradizione sociologica quantitativa, il merito di aver
ricostruito il cammino ideale che il ricercatore segue quando costruisce una variabile.
Lazarsfeld distingue quattro fasi:

1. Rappresentazione del concetto a livello di immagine. Con questa espressione Lazarsfeld


intende la “messa a fuoco” su un piano astratto del concetto alla base della variabile. Ad esempio,
Durkheim si è reso conto che l’integrazione sociale rappresenta una caratteristica della vita sociale
isolabile dalle altre e interessante in rapporto al problema del suicidio.

2. Specificazione del concetto. Una volta messo a fuoco, il concetto viene analizzato e scompo-
sto nelle dimensioni che occorrono a formarlo. Durkheim ha scomposto la nozione di integrazione
sociale in integrazione religiosa, politica, domestica, facendo così riferimento a tre ambiti concreti in
cui si manifesta la partecipazione degli individui alla vita sociale. Si è servito di un procedimento ra-
zionale. Anzichè specificare il concetto per via di ragionamento, si può seguire un procedimento em-
pirico. In questo caso andiamo a cercare le manifestazioni concrete del concetto nella realtà, serven-
doci di un’indagine empirica. Dobbiamo innanzitutto ritagliarci un campo di analisi dove si può pre-
sumere che l’entità che ci interessa sia presente, raccogliere dati attraverso osservazioni, questionari,
interviste, esame di documenti, per poi analizzarli. Un esempio classico di questo procedimento si
ritrova nel famoso studio di T.W. Adorno (e coll.) sulla personalita autoritaria, condotto attraverso
un centinaio di interviste, che ha dato modo di individuare una serie di tratti della personalità autori-
taria (sottomissione ad un principio di autorità superiore, aggressività verso le persone che non se-
guono le convenzioni, tendenza a condannare lo sviluppo dell’immaginazione, moralismo in fatto di
sesso, ecc.).

3. Scelta degli indicatori. Individuate le dimensioni del concetto, vanno cercati per ciascuna di
esse indicatori empirici. Si tratta di fatti osservabili, dati reperibili dai quali si può inferire come
stanno le cose. Ad esempio, per Durkheim i dati statistici sui matrimoni e sui figli fungevano da in-
dicatori dell’integrazione nella società domestica. L’indicatore è dunque un sintomo o segno di
un particolare fenomeno che ci interessa.

4. Formazione degli indici. Se per renderlo empiricamente riscontrabile, il concetto è stato scom-
posto in dimensioni e per ciascuna dimensione sono stati individuati vari indicatori, ora bisogna pro-
cedere a una ricomposizione: i dati elementari relativi ai vari indicatori (integrazione politica, religio-
sa, domestica), vengono combinati per dar luogo ad una misura unica della variabile.
L’indice è tale misura unica della variabile (integrazione sociale).

Tra gli indicatori e la qualità che segnalano c’è un rapporto di probabilità, non di certezza. Ad es.
chi afferma di condividere un’affermazione (“l’obbedienza e il rispetto sono le qualità principali da
insegnare ai bambini”), può darsi che lo faccia per motivi contingenti e transitori (è preoccupato per-
chè al momento non riesce a tenere sotto controllo i propri figli).
Per rendere gli indicatori più sicuri si segue il principio di moltiplicarli, cioè di adoperarne tanti per
un’unica qualità: ad es. nei questionari di Likert non ci si limita ad una sola affermazione relativa al-
l’accordo espresso riguardo ad una specifica questione (atteggiamento verso il potere), ma si pro-
pongono, a tale riguardo, numerose domande.
VARIABILI, INDICATORI, INDICI

variabile

proprietà di tipo materiale (es.peso) o non materiale (es. integrazione sociale) che può
cambiare da un individuo all’altro e/ o nel tempo, elaborata concettualmente in modo da
renderne riscontrabili empiricamente le variazioni con procedure oggettive, ed utilizzata
prevalentemente dai ricercatori all’interno di un disegno di ricerca di tipo quantitativo.

costrutto operativo

tipi di
sesso, stato civile
non ordinabili => non è possibile creare una graduatoria razza, religione
qualitative
ordinabili => si può creare una graduatoria (rango) titolo di studio
livello di qualifica
variabili
vani dell’abitazione
discrete => salti da un valore all’altro componenti nucleo famigl.
quantitative
continue => infiniti valori intermedi possibili reddito, età, ecc.

elaborazione concettuale della variabile (Lazarsfeld)


Durkheim

1. Rappresentazione del concetto => messa a fuoco integrazione suicidio


a livello di immagine su un piano astratto sociale

2. Specificazione del concetto => scomposizione del concetto religiosa / politica / domestica
nelle sue dimensioni
razionale
procedimento
empirico (indagine)

3. Scelta degli indicatori => individuazione di dati osservabili dati statistici su


dai quali inferire come stanno le cose matrimoni e figli

indicatore = sintomo o segno di un


particolare fenomeno

4. Formazione degli indici => i dati elementari relativi ai vari indicatori religiosa +
vengono combinati per dar luogo ad integrazione politica +
una misura unica della variabile domestica =

indice = misura unica della variabile integrazione sociale


IL CAMPIONAMENTO

L’insieme degli individui oggetto di studio in una ricerca prende il nome di universo o popolazione.
Il più delle volte però non conviene indagare effettivamente sull’intera popolazione. Per non inda-
gare sull’intera popolazione ci si limita a una parte di essa ritagliata con specifiche procedure, le
tecniche di campionamento, che prende il nome di campione. L’impiego di campioni si basa sul
presupposto della “rappresentatività”, cioè sulla convinzione che il campione, se costruito corretta-
mente, rappresenta la popolazione e per gli scopi dell’indagine equivale ad essa.

Le inchieste sono indagini in cui, mediante questionari (anche postali) o interviste (spesso telefo-
niche), si interpella un certo numero di persone con l’intento di studiare una popolazione ampia
(i cittadini di uno stato, gli abitanti di una città, gli studenti universitari, ecc.).
Quando l’inchiesta mira a conoscere i pareri della gente su questioni di attualità e pubblico interes-
se, si parla di sondaggio d’opinione.
Ci sono inchieste in cui ci si rivolge all’intera popolazione: si chiamano censimenti. A parte i censi-
menti, le inchieste si basano sull’impiego di campioni: non si va ad interpellare tutta la popolazione,
ma ci si limita a un campione rappresentativo di essa.
Le inchieste si possono adoperare sia nel quadro di studi trasversali, sia nel quadro di studi longitu-
dinali. Negli studi trasversali ci si limita a ritrarre la popolazione in un dato momento attraverso
una sola inchiesta. Lo scopo degli studi longitudinali è invece vedere come cambiano le cose nel
tempo. Perciò si esegue una serie di inchieste a distanza di tempo l’una dall’altra e se ne confrontano
i risultati. Gli studi longitudinali si distinguono in studi di panel, in cui un unico campione viene se-
guito nel tempo, per cui le stesse persone vengono interpellate a ondate successive, e studi di trend,
che mirano a conoscere le linee di tendenza dei cambiamenti che si verificano; essi si eseguono ripe-
tendo una stessa inchiesta su campioni di popolazione che possono cambiare di volta in volta.

Il piano per la costruzione di un campione

Per costruire un campione rappresentativo di una data popolazione si segue un procedimento ca-
ratteristico, fatto di operazioni successive, che prende il nome di piano di campionamento.

1. Come prima cosa si predispone la lista di campionamento, cioè l’elenco degli individui che
compongono la popolazione, formano l’universo nel quale si intende indagare. Di solito ci si avvale
di elenchi già esistenti (ad es. liste elettorali ufficiali, elenco telefonico, dati dell’anagrafe, liste di
iscritti ad associazioni).

2. Si stabilisce poi quanto deve essere ampio il campione; si dice che l’ampiezza del campione è
funzione dell’ampiezza ed eterogeneità della popolazione; bisogna dunque individuare il minimo ne-
cessario per rappresentare accuratamente la popolazione: più la popolazione tende all’omogeneità,
più il campione si avvicina all’unità e potrà essere piccolo, mentre più la popolazione tende all’ete-
rogeneità, più il campione dovrà essere grande e avvicinarsi al numero di individui dell’intera popo-
lazione.

3. Dalla lista di campionamento si estraggono poi gli elementi da inserire nel campione. Esistono di-
verse procedure di estrazione tra le quali il ricercatore può scegliere.
Le tecniche di estrazione. È necessario garantirsi sempre il surplus necessario per far fronte all’as-
sottigliamento naturale. Quello che risulta dalle operazioni di campionamento è solo un campione
teorico. Il campione effettivo, l’insieme delle persone che di fatto verranno interpellate, sarà sicura-
mente più piccolo. Alcune persone non risulteranno reperibili, altre non saranno disposte a collabo-
rare, altre ancora risponderanno, ma le interviste rilasciate o i questionari riempiti saranno inutilizza-
bili per difetti tecnici di vario genere.
Le procedure per estrarre il campione dalla lista sono di due tipi fondamentali: le probabilistiche e
le non probabilistiche o ragionate.

Campionamento probabilistico

Nel Campionamento casuale semplice ciascun individuo della popolazione ha la stessa proba-
bilità di essere inserito nel campione.
Il campionamento sistematico mira, come il campionamento casuale semplice, a estrarre dalla
popolazione gli individui del campione casualmente, così che tutti abbiano la stessa probabilità di
essere selezionati.Semplicemente si fa scorrere la lista di campionamento e si seleziona un individuo
ogni k, dove k è una costante numerica intera (es.un elemento ogni 100).
Nel campionamento casuale stratificato la popolazione viene suddivisa in sottounità, dette
strati, sulla base di certe caratteristiche. Ad esempio, se la popolazione è costituita dagli alunni degli
ultimi tre anni della scuola superiore, si creeranno tre gruppi dei diversi anni. Una volta divisa la po-
polazione in strati, si procede a estrarre da ciascuno di essi un campione casuale.

Campionamento non probabilistico o ragionato

La principale procedura non probabilistica è il campionamento a quote.


a) Per costruire il campione a quote come prima cosa vengono individuate caratteristiche rilevanti
ai fini dell’indagine (ad esempio, si può decidere che per un’indagine sui valori dei ragazzi contino il
sesso, l’età, il livello socio-economico, ecc).
b) Il secondo passo consiste nel vedere come le caratteristiche sono distribuite nella popolazione
(ad es. si vedrà che nella popolazione che ci interessa il 66% è composto di donne, contro il 34%
di maschi, ecc).
c) A questo punto si fissano le quote, cioè si stabilisce quanti individui con certe caratteristica de-
vono figurare nel campione.

La procedura con cui il campione verrà estratto dalla popolazione influisce sull’ampiezza minima
necessaria alla rappresentatività del campione. Il campionamento non probabilistico richiede in linea
di massima campioni più grandi del campionamento probabilistico, perchè la tecnica di estrazione
offre scarse garanzie di rappresentatività. Il campione stratificato consente di lavorare con campioni
più piccoli del campionamento casuale, perchè la stratificazione riduce l’effetto della disomogeneità
della popolazione.

Una volta definita e conclusa l’estrazione del campione (4), se ne stima (5) l’affidabilità, cal-
colando il margine di errore cui ci si espone nel trarre conclusioni sull’universo a partire da rileva-
zioni fatte su di esso.
IL CAMPIONAMENTO

universo / campione
popolazione
parte della popolazione / universo ritagliata con specifiche procedure
insieme degli individui (tecniche di campionamento) che rappresenta la popolazione e, per
oggetto di studio in una ricerca gli scopi dellʼindagine “equivale” ad essa ( = “rappresentatività”)

inchieste

indagini in cui si interpella un certo numero


di persone con lʼintento di studiare una
popolazione ampia, con questionari o interviste

sondaggio censimenti
dʼopinione (intera popolazione)
pareri della gente
su questioni di attualità
e pubblico interesse

studi trasversali studi longitudinali


ritrarre la popolazione vedere come cambiano
in un dato momento le cose nel tempo

di panel di trend
unico campione il campione
seguito net tempo può cambiare

piano per la costruzione di un campione

1. predisposizione della
lista di campionamento -> elenco di individui che formano lʼuniverso

2. scelta della -> minimo necessario per rappresentare la popolazione


ampiezza del campione -> funzione dellʼampiezza ed eterogeneità della popolazione

3. scelta della surplus necessario per far fronte


procedura di estrazione allʼassottigliamento naturale
(campione “teorico” vs “effettivo”)

a) individuare caratteristiche rilevanti ai fini dellʼindagine

a quote b) vedere come le caratteristiche sono distribuite nella popolazione

c) fissare le quote (quanti individui con certe caratter. per campione)


non probabilistico
o ragionato

campionamento

casuale semplice (ciascun individuo ha la stessa probabilità di essere inserito nel campione)

probabilistico sistematico (un individuo ogni k - costante numerica intera es. un elemento ogni 100)

casuale stratificato a) suddivisione in sottounità dellʼuniverso (= strati)


b)estrazione da ogni strato di un campione casuale

4. estrazione del campione

5. stima della calcolare il margine di errore cui ci si espone nel trarre conclu-
affidabilità del campione sioni sullʼuniverso a partire da rilevazioni fatte sul campione
L’INTERVISTA

L’intervista consiste in un colloquio, un dialogo tra un intervistatore, che pone le domande e regi-
stra le risposte, ed un intervistato, che risponde. Quella classica è l’intervista faccia a faccia, in cui
intervistatore e intervistato si incontrano e conversano in un luogo convenuto. Negli anni ‘90 si è
diffusa l’intervista telefonica dove non c’è contatto diretto e l’intervistato viene di solito chiamato
al telefono di casa. Le interviste vengono adoperate sia in ricerche di tipo qualitativo, sia di tipo
quantitativo. Nel primo caso si ricorre a quelle che spesso si chiamano interviste in profondità: col-
loqui nei quali il ricercatore cerca di scavare a fondo, con l’intento, ad esempio, di ricostruire una
subcultura o la carriera tipica di certe categorie di individui. Nelle ricerche quantitative invece sono
d’obbligo le interviste standardizzate, che consentono di trattare in maniera quantitativa i dati.

Strutturazione Un’intervista può essere più o meno strutturata, cioè più o meno preordinata,
preparata prima. Si distinguono solitamente tre gradi di strutturazione.
a) Nell’intervista strutturata, l’intervistatore ha un elenco di domande cui attenersi, detto modulo
di intervista. Le domande vanno lette così come sono scritte, nell’ordine in cui si trovano. Quando il
grado di strutturazione è alto, all’intervistatore si chiede di astenersi da ogni intervento che possa in
qualche modo influenzare l’intervistato. Durante la lettura delle domande l’intonazione, il ritmo, la
velocità di eloquio, i comportamenti non verbali andrebbero controllati in modo che risultino unifor-
mi e non diano suggerimenti di alcun tipo cambiando nel passaggio da un argomento all’altro.
L’intervistatore deve poi sforzarsi di apparire neutrale dinanzi alle risposte dell’intervistato, evitan-
do di commentarle anche solo con le espressioni del viso e i gesti.
b) L’intervista semi-strutturata si può configurare in vari modi. Una possibilità è che alcune do-
mande siano già stabilite, ma che l’intervistatore abbia facoltà di introdurne altre. Di solito quelle la-
sciate alla discrezione dell’intervistatore sono domande sonda, che possono avere lo scopo di far
chiarezza in momenti di incomprensione, ma anche di approfondire elementi interessanti che doves-
sero emergere nel dialogo. Ci sono poi interviste semi-strutturate preordinate sul piano dei contenu-
ti e libere per quanto riguarda la forma dei discorsi. L’intervistatore non ha domande prefissate da
porre, ma una serie di punti da trattare, una traccia da seguire. Un esempio di semi-strutturazione è
l’intervista circoscritta o focalizzata (focused interview) di Merton e Randall. Lo scopo qui è quello
di vedere come le persone reagiscono a un evento (fatto di cronaca, proiezione, ecc.) in cui sono co-
involti in veste di spettatori. Se si prendono in esame più esperienze di vita nel corso degli stessi
colloqui, si sconfina dall’intervista focalizzata alle interviste narrative, che sono alla base delle storie
di vita.
c) La facoltà di manovra è massima nell’intervista non-strutturata. Qui non ci sono domande pre-
stabilite, né c’è una traccia di intervista, ma ci si lascia guidare dal dialogo e dallo sviluppo dei di-
scorsi. Il ricercatore ha comunque chiari in mente gli elementi ed i problemi da esplorare.

Direttività. La direttività è una caratteristica della conduzione, riguarda cioè il modo in cui l’inter-
vistatore gestisce il colloquio. Nell’intervista direttiva l’intervistatore guida decisamente l’intervista-
to, evitando che divaghi, richiamandolo ad attenersi alle domande e facendo in modo che fornisca le
informazioni che interessano. Al contrario nell’intervista non-direttiva (elaborata dallo psicologo
umanista Carl Rogers), l’intervistato è libero di sviluppare i suoi ragionamenti. Sta all’intervistatore
orientarsi nel flusso di pensiero dell’intervistato. Ovviamente tra i due estremi è possibile tutta una
gamma di conduzioni intermedie. In linea di massima strutturazione e direttività vanno di pari pas-
so. L’intervista non-direttiva è per forza di cose non-strutturata, l’intervista strutturata e semistrut-
turata implicano una certa direttività.
Polarità. Le domande che si pongono in una intervista possono essere centrate sul polo oggettivo,
cioè volte a stabilire fatti concreti, oppure sul polo soggettivo, cioè tese a capire il punto di vista
dell’intervistato, la sua percezione delle cose, il modo in cui le vive e il senso che dà ad esse.

Sistemi di registrazione delle interviste. L’intervistatore può limitarsi a prendere nota per
iscritto delle risposte. Il compito è particolarmente facile quando le domande sono chiuse, cioè ri-
chiedono di scegliere tra alternative prefissate. Registrare le risposte a domande aperte può risultare
invece problematico. Se l’intervistato parla in fretta e dice molto, è difficile stargli dietro. Se l’inter-
vistatore cerca di riportare i discorsi dell’intervistato con parole sue, ci sono rischi di distorsione.
L’intervistatore può travisare ciò che l’intervistato dice: via via che il colloqio procede, si forma una
propria idea di ciò che pensa l’intervistato e tende ad anticipare le risposte successive in base alle
precedenti. Un limite dell’annotazione è che si perde tutta lo scambio non verbale: non resta traccia
dei gesti, degli sguardi, delle espressioni del viso, della prosodia che accompagna le parole. La regi-
strazione meccanica, con magnetofono o con videocamera, consente di superare i limiti dell’annota-
zione: i discorsi dell’intervistato restano registrati e e si può trasferirli per iscritto quando si vuole,
con calma e attenzione.

Le critiche mosse al metodo dell’intervista


La critica principale che viene mossa all’intervista, è che essa e artificiosa e in un certo senso crea
i risultati che si ottengono. Si segnalano, in particolare, tre punti critici specifici.
a) L’intervista risente del background culturale dell’intervistato. L’intervistato ha un proprio
mondo simbolico e ciò che dice dipende strettamente da questo. Non si possono, di conseguenza,
assumere le risposte senza tener conto del background culturale di chi le fornisce. Il problema si po-
ne soprattutto a livello di linguaggio: le parole e le espressioni possono avere significati diversi per
persone diverse; il diverso significato attribuito alle parole può incidere sull’effettiva comprensione
delle domande. Ci sono poi le inibizioni sociali, che ogni cultura ha. Le persone provano sentimenti,
hanno pensieri, fanno cose che non sono disposte a dichiarare, in quanto per il loro modo di vedere
e la cultura in cui sono stati educati quei sentimenti, quei pensieri e quei comportamenti sono ina-
missibili o riprovevoli..
b) L’intervista risente del contesto in cui ha luogo il colloquio. Di solito per individuare gli elemen-
ti che compongono il contesto ci si rifà all’analisi del socio-linguista D. Hymes, che distingue la si-
tuazione fisica, la scena psicologica, i partecipanti con i loro status e ruoli, le presupposizioni di cia-
scun partecipante, gli scopi comuni e individuali. Ciascun componente del contesto influisce sull’an-
damento dell’intervista e sulle risposte dell’intervistato.
c) L’intervista risente dello svolgimento dell’interazione e del clima che si crea. Una comunicazio-
ne tra due interlocutori ha uno sviluppo. Via via che i due parlano, la relazione si configura in un
modo più che in un altro perchè si realizza una serie di piccole negoziazioni su come impostare i di-
scorsi e sul senso e sul valore da dare alle cose. Per quanto riguarda il clima, è importante il fatto che
risulti formale o informale. Se il rapporto è compìto e distaccato, l’intervistato sarà portato a badare
particolarmente alla desiderabilità sociale di ciò che dice, cioè si preoccuperà di non esporsi a criti-
che. Tenderà a dare un’immagine di sé il più possibile convenzionale e irreprensibile.
Il clima informale riduce i rischi di distorsione legati alla desiderabilità sociale. Tuttavia anche il cli-
ma informale porta con sé rischi di distorsione. Se l’intervistatore è una persona simpatica, con la
quale ci si sente a proprio agio, l’intervistato è portato a essere compiacente e a dire ciò che a suo
avviso l’altro vuol sentirsi dire. Può accadere che intervistatore e intervistato, nel corso del colloquio
negozino, magari senza rendersene conto, una data visione delle cose, una chiave di lettura della real-
tà. Non emerge così ciò che l’intervistato ha in mente, ma ciò su cui intervistatore e intervistato fini-
scono per concordare.
L’ INTERVISTA

dialogo tra un intervistatore, che pone le domande faccia a faccia


e registra le risposte, ed un intervistato, che risponde telefonica

ricerche qualitative ricerche quantitative


interviste
in profondità standardizzate

strutturazione modulo prefissato


strutturata controllo dell’eloquio e della CNV
neutralità di fronte alle risposte

domande stabilite / libere (d. sonda)


intervista semi-strutturata contenuti preordinati / forma libera
-> intervista focalizzata (Merton - Randall)

assenza di domande prestabilite


non-strutturata narrativa sviluppo libero del dialogo
(-> problemi da esplorare)

polarità
sul polo oggettivo (stabilire fatti concreti)
intervista
centrata
sul polo soggettivo (punto di vista dell’intervistato)

direttività
direttiva (intervistato richiamato ad attenersi alle domande)
-> strutturata
intervista
non-direttiva (intervistato libero di sviluppare i suoi ragionamenti)
(C. Rogers) -> non-strutturata

sistemi prendere nota per iscritto (domande chiuse / domande aperte)


di registrazione rischi di distorsione, perdita della CNV
delle interviste magnetofono / videocamera

le critiche mosse al metodo dell’intervista

del background comprensione delle domande


a) culturale significato delle parole
dell’intervistato inibizioni sociali

situazione fisica / scena psicologica


l’intervista b) del contesto partecipanti (status - ruoli)
risente presupposizioni / scopi comuni e individuali

clima formale immagine di sé convenzionale


tendenza a distorcere la verità
c) dello svolgimento (desiderabilità sociale)
dell’interazione
clima informale maggiore sincerità
(rischio di “compiacenza”)
IL COLLOQUIO CLINICO

Il colloquio clinico è il principale strumento dello psicologo clinico, viene adoperato dallo psicolo-
go sia per valutare i disturbi psicologici, sia per trattarli con la psicoterapia. C’è una certa somiglian-
za tra i colloqui condotti nella pratica clinica e le interviste delle scienze sociali. In entrambi i casi,
due o più persone dialogano, e c’è chi raccoglie informazioni e chi le fornisce; tuttavia esiste una dif-
ferenza fondamentale: mentre le interviste mirano alla ricerca, i colloqui clinici hanno per obiettivo
ultimo la cura di persone sofferenti.
I colloqui clinici si distinguono in genere per lo scopo che in ciascuno si persegue. Le classificazioni
correnti però tengono conto dei tipi principali di colloquio, che rientrano in tre categorie fondamen-
tali: diagnostici, di consulenza e terapeutici.

(1) I colloqui diagnostici. Nella psichiatria tradizionale i colloqui diagnostici servono unicamente
a fare il quadro dei disturbi in vista di una diagnosi di tipo classificatorio, cioè a raccogliere elementi
che consentano di ricondurre il caso in una delle categorie nosografiche (descrittive delle malattie)
note. Si ricorre solitamente alla classificazione dei disturbi mentali del DSM (Diagnostical and
statistical Manual of Mental Disorders), il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali pub-
blicato dall’American Psychiatric Association (Associazione psichiatrica americana). Anche se si
continua a condurre colloqui in vista di diagnosi classificatorie, attualmente si cerca di allargare la
diagnosi, analizzando la condizione psicologica e sociale del paziente in tutta la sua complessità.
L’allargamento dell’orizzonte diagnostico è in parte dovuto alla messa in discussione del modello
medico di malattia mentale che c’è stata negli anni ‘60 e ‘70. In quel periodo è apparso con chiarez-
za (si pensi in particolare alla corrente dell’antipsichiatria) che il disturbo psicologico non si può
considerare alla stregua di una malattia fisica, ma che va inquadrato e capito nella vita psicologica e
sociale della persona sofferente, di cui è parte integrante.

a. L’esplorazione psicopatologica è un colloquio incentrato sui sintomi accusati dal paziente. Il


clinico chiede di descrivere con precisione i disturbi, di dire in che cosa consistono, quando si mani-
festano, quanto durano, quali problemi e quali sofferenze causano. L’informatore principale è il pa-
ziente stesso, ma ci si rivolge anche ad altre persone dell’entourage del paziente (familiari e
conoscenti).

b. L’esame della condizione mentale è un tipo di colloquio che è stato molto criticato, ma è tut-
tora largamente praticato. Il clinico parlando con il paziente, cerca di metterlo alla prova e di farsi
un’idea del suo funzionamento psichico, stimolandolo in vario modo. Indaga, con domande semplici,
spesso banali, la percezione, l’attenzione, il pensiero, l’emotività, la conoscenza di sé, l’orientamen-
to nel mondo, le abilità comunicative, con l’intento di riscontrare eventuali alterazioni.

c. Anamnesi clinica. A differenza dell’esplorazione psicopatologica e dell’esame della condizione


mentale, il colloquio anamnestico è orientato a ricostruire il passato, non a indagare la situazione at-
tuale. L’anamnesi clinica è centrata sui problemi medici e psicopatologici, mira a tracciare la storia
delle malattie fisiche, dei disturbi e dei disagi vissuti. Classicamente si distinguono un’anamnesi re-
mota, che comincia dalla prima infanzia e arriva sino ai tempi recenti, e un’anamnesi prossima, che
riguarda l’ultimo periodo di vita e ruota intorno a ciò che può avere attinenza con i disturbi attuali.

d. A volte si parla di anamnesi psicosociale o di biografia o di storia della vita. In linea di massi-
ma questo colloquio è orientato a ricostruire, in ordine cronologico, le esperienze passate del pazien-
te fino ad arrivare alle attuali condizioni psicologiche, sociali ed economiche. Alcuni clinici preferi-
scono insistere sul polo oggettivo, mentre altri si interessano prevalentemente al polo soggettivo.

e. Intervista clinica. Questo colloquio mira a fare emergere la soggettività del paziente sul momen-
to, mentre dialoga col clinico. Questi inizia il discorso nel modo più aperto possibile, lasciando il più
ampio spazio all’interlocutore.

(2) La consulenza (counsiling) consiste nel dare consigli per risolvere problemi psicologici e co-
muni difficoltà della vita. Si può fare con persone che non hanno effettivamente disturbi, ma solo
comuni difficoltà della vita., ma si attua di solito con familiari e operatori che hanno a che fare con
persone sofferenti (ad es. genitori e insegnanti di un bambino depresso). Il colloquio di consulenza è
caratteristico in quanto di solito il rapporto è più paritario e informale.

(3) Il colloquio terapeutico è quello che si attua nelle sedute di psicoterapia. Il modo di condurli e
la forma che prendono variano a seconda dell’approccio terapeutico.

Il colloquio clinico tende fondamentalmente alla cura del paziente, non è dunque possibile piegare il
colloquio alle esigenze di una ricerca. Non è pensabile, ad esempio, che un colloquio clinico sia strut-
turato e standardizzato, perchè strada facendo possono nascere esigenze terapeutiche che obbligano
a cambiare programma o a uscire dalle domande preordinate. Nonostante ciò, si può considerare il
colloquio clinico come una fonte ricchissima anche in vista della ricerca, perchè mette a disposizio-
ne del ricercatore un enorme patrimonio di conoscenze psicologiche e sociali. C’è grande differenza,
ad esempio, tra una seduta psicoanalitica classica, una seduta di terapia cognitiva o una seduta di
orientamento sistemico.
I QUESTIONARI PSICOMETRICI

Con un questionario psicometrico il ricercatore cerca di misurare i tratti interiori


delle persone. Il soggetto si trova davanti una lista di “items”, di proposizioni o
affermazioni distinte: gli è chiesto di autovalutarsi e di dire qual è la sua posizione.

items -> opinioni o pareri che si possono avere su un dato argomento

questionari di Likert per la misura degli atteggiamenti


molto d’accordo
dichiarare il proprio grado di accordo o disaccordo d’accordo
indeciso
es. atteggiamento verso il potere: contrario
“è naturale che ci sia chi comanda e chi obbedisce” molto contrario

indagine più efficace


numero elevato di items
si riducono i fattori di distorsione

IL COLLOQUIO CLINICO

Il colloquio clinico viene adoperato dallo psicologo per valutare i disturbi


psicologici e trattarli con la psicoterapia. Come nell’intervista, le persone
dialogano (c’è chi raccoglie informazioni e chi le fornisce); ma mentre le
interviste mirano alla ricerca, i colloqui clinici hanno per obiettivo la cura.

colloqio clinico

diagnostico di consulenza terapeutico

(counsiling)
dare consigli per risolvere problemi si attuano nelle sedute di psicoterapia
psicologici e comuni difficoltà della vita. variano secondo l’approccio terapeutico
Rapporto più paritario e informale

esplorazione sintomi accusati dal paziente; descrizione precisa dei disturbi:


psicopatologica in che cosa consistono, quando si manifestano, quanto durano

esame della durante il colloquio si mette alla prova il paziente stimolandolo in vario modo
condizione mentale per farsi un’idea del suo funzionamento (metodo criticato ma praticato)

anamnesi clinica orientato a ricostruire il passato (problemi medici e psicopatologici)

remota: dalla prima infanzia ai tempi recenti


anamnesi
prossima: ultimo periodo di vita e problemi attuali

anamnesi psicosociale orientato a ricostruire il passato (condizioni psicologiche, sociali ed economiche)


polo oggettivo / polo soggettivo (aspetti sociali / storie di vita)

intervista clinica mira a fare emergere la soggettività del paziente sul momento,
mentre dialoga col clinico, nel modo più aperto e con il più ampio spazio
L’OSSERVAZIONE

Nell’osservazione il ricercatore prende nota, attraverso i sensi (principalmente la vista e l’udito)


o adoperando strumenti specifici (il magnetofono o la telecamera) dei comportamenti manifesti
delle persone che osserva. Con l’osservazione i fatti vengono constatati direttamente, senza la me-
diazione dei discorsi, delle descrizioni, dei racconti e delle risposte alle domande; in questo modo
l’osservazione può consentire di cogliere fatti ed elementi non altrimenti raggiungibili. Le realtà che
esulano dai discorsi che l’osservazione può svelare sono di vario genere.
a) incoerenze tra ciò che le persone dicono e pensano e ciò che fanno. Non sempre quel che la gen-
te dice trova rispondenza nelle cose che fa. Le persone non sempre si comportano in conformità con
i propri atteggiamenti: ad esempio un’individuo può nutrire pregiudizi verso persone di diversa pro-
venienza etnica, ma trattarle normalmente quando le incontra: il fenomeno emerge mettendo a con-
fronto i risultati delle osservazioni con i dati ottenuti con interviste o questionari.
b) comportamenti inconsapevoli che le persone non potrebbero riferire. Ci sono cose che facciamo
senza rendercene conto e che perciò non siamo in grado di riferire: ad esempio non ci accorgiamo di
certi messaggi non verbali scambiati nel corso della comunicazione faccia a faccia.
c) realtà inaspettate e fatti non previsti dal ricercatore. Se nel predisporre un’intervista si possiede
già in partenza un’idea di che cosa cercare, nell’osservazione invece i fenomeni sociali si impongono
all’attenzione del ricercatore e a volte gli mettono sotto gli occhi fatti a cui non avrebbe mai pensato.

L’osservazione elimina due cause di distorsione della verità presenti nell’intervista e nel questiona-
rio: il fatto che la persona interpellata possa non capire le domande e che non sappia effettivamente
come stanno le cose. Tuttavia resta intatta un’altra causa di distorsione: la possibilità che le persone
mentano. Se le persone osservate sanno di esserlo, poco o tanto mettono in atto strategie di dissi-
mulazione, non facendo cose che farebbero tranquillamente in privato o in situazioni quotidiane.
Quando un osservatore si trattiene a lungo con quelli che osserva e entra a far parte del loro gruppo,
diventa una presenza familiare, per cui la dissimulazione si riduce. Difficilmente però scompare del
tutto.
Nell’osservazione il problema della veridicità, oltre che alla dissimulazione, è legato alle interpreta-
zioni dell’osservatore. Per quanto si faccia, non è possibile fare resoconti obiettivi delle azioni uma-
ne. Descrivere i comportamenti implica necessariamente una lettura delle intenzioni, dei pensieri, dei
ragionamenti retrostanti e in genere del lato mentale di chi agisce. Siccome è costretto a interpretare,
l’osservatore è soggetto ad errore. Rischia di introdurre distorsioni legate ai propri preconcetti e alla
propria lettura delle cose.

L’osservazione può essere condotta in vari modi, a seconda delle circostanze e di come il ricercato-
re organizza il lavoro.

Posizione dell’osservatore. In casi particolari l’osservatore non è presente alla scena. In alcune
ricerche vengono sistemate telecamere fisse o magnetofoni in punti strategici. In generale quando
l’osservatore è assente si parla di osservazione indiretta.
Di regola però l’osservazione è diretta e l’osservatore è presente mentre si svolgono i fatti. Può
mescolarsi alle persone che osserva, come accade nell’osservazione partecipante, oppure, è il caso
dell’osservazione senza contatto sociale, operare da una postazione che gli consente di osservare
senza essere visto, sfruttando strutture architettoniche particolari o grazie allo specchio unidirezio-
nale, o di telecamere a circuito chiuso. Nell’osservazione partecipante l’osservatore può lavorare in
incognito, da clandestino, oppure gli altri possono essere al corrente del suo ruolo e della ricerca che
sta portando avanti.
Ambiente. L’osservazione si può condurre sul campo, nell’ambiente naturale dove si svolgono
abitualmente i fatti, oppure nel contesto artificiale del laboratorio.

Tecniche di documentazione. Si va dai resoconti fatti alla fine e basati sulla memoria o sugli ap-
punti presi man mano alle annotazioni su schede appositamente predisposte, alle registrazioni col
magnetofono o con la telecamera.

Grado di standardizzazione. Il lavoro può essere preordinato e seguire protocolli più o meno ri-
gidi o essere lasciato alla discrezione dell’osservatore. La standardizzazione riguarda i contenuti da
osservare, gli ambienti nei quali osservare, le modalità di osservazione, le tecniche di documentazio-
ne, la posizione dell’osservatore, i ritmi, i tempi del lavoro.

Estensione. L’ambito di osservazione può essere più o meno esteso, non solo per il numero di
persone osservate, ma anche per l’entità dei fenomeni osservati e la durata dell’osservazione.

Per etnografia propriamente si intende la descrizione della vita dei popoli in antropologia cultura-
le, però il termine è stato esteso ad indicare lo studio di subculture presenti all’interno di una realtà
culturale più ampia, tipiche dei gruppi che vivono nelle nostre società occidentali, anche nelle grandi
città. In prospettiva etnografica si può studiare, ad esempio, il mondo dei barboni di un parco, gli
anziani di un quartiere, un gruppo di alcoolisti, un accampamento di nomadi, ecc. È famosa la ricer-
ca sui musicisti da ballo di H. S. Becker, esponente di spicco della scuola di Chicago noto per i suoi
studi sulla devianza.
Per facilitare l’inserimento chi fa indagini di etnografia urbana utilizza spesso intermediari, persone
che conoscono sia il ricercatore sia la gente del gruppo, e informatori, di solito elementi del gruppo
desiderosi di collaborare. Di solito l’osservatore prende appunti senza farsi notare. È buona regola
stendere una relazione alla fine di ogni giornata. Alcuni consigliano di tenere, oltre a un registro delle
osservazioni dove si annotano le vicende prese in esame, un diario personale per raccontare di sé. Se
inserirsi nel gruppo consente di capire meglio le cose, è spesso anche fonte di distorsione, perchè il
ricercatore si lega alle persone che osserva, provando simpatie, antipatie, sentimenti di solidarietà,
andando incontro a incidenti. Dalle indagini etnografiche si ricavano alcuni contenuti fondamentali: i
tipi di persone che popolano un ambiente e le loro attività, le scene caratteristiche che si ripetono in
un contesto sociale, gli scripts, ovvero i copioni delle sequenze caratteristiche di determinate
attività.

In etologia l’osservazione costituisce uno dei metodi fondamentali di studio. Konrad Lorenz di-
stingue tre modi di impostare l’osservazione in etologia.
Il sistema del cacciatore consiste nel giocare d’astuzia, “far la posta” e sorprendere l’animale sen-
za essere visti e senza disturbarlo.
Nel sistema del contadino l’animale viene tenuto in cattività e osservato.
Il sistema di mettere in libertà esemplari addomesticati è stato adoperato nel tentativo di realizzare
un’osservazione tranquilla in condizioni naturali. L’animale che è stato addomesticato si lascia avvi-
cinare senza difficoltà dal ricercatore che conosce e continua a comportarsi normalmente anche in
sua presenza.
Jane Goodall, che ha condotto un lavoro pionieristico sugli scimpanzé, ha seguito un metodo che
potremmo definire approccio graduale. Il ricercatore riesce pian piano a farsi accettare dagli animali
come presenza innocua e familiare, come uno tra i tanti elementi del loro habitat.
L’ OSSERVAZIONE

Il ricercatore prende nota, attraverso i sensi (vista/udito) o adoperando strumenti speci-


fici (magnetofono/telecamera) dei comportamenti manifesti delle persone che osserva.
I fatti vengono constatati direttamente, senza la mediazione dei discorsi, delle descrizioni,
dei racconti e delle risposte alle domande; in questo modo l’ osservazione può svelare:
a) incoerenze tra ciò che le persone dicono e pensano e ciò che fanno;
b) comportamenti inconsapevoli che le persone non potrebbero riferire;
c) realtà inaspettate e fatti non previsti dal ricercatore.

problema della strategie di dissimulazione


veridicità interpretazioni dell’osservatore

a) osservazione indiretta osservatore non presente alla scena


(telecamere, magnetofoni)
specchio unidirezionale
senza contatto sociale strutture architettoniche
posizione del b) osservazione naturalistica telecamere a circuito chiuso
l’osservatore distaccata (con contatto sociale)

“in incognito” (identità di ricercatore celata)


c) osservazione partecipante
ruolo dichiarato alle persone osservate

ambiente -> sul campo / laboratorio

tecniche di resoconti scritti alla fine dell’osservazione


documentazione appunti presi nel corso dell’osservazione
annotazioni su schede predisposte
magnetofono / telecamera
contenuti, ambientemodalità
tecniche di documentazione
grado di protocolli rigidi vs discrezionale posizione dell’osservatore
standardizzazione ritmi, tempi di lavoro

estensione numero di persone / durata / entità dei fenomeni

etnografia = descrizione della vita dei popoli in antropologia culturale; studio di


subculture presenti all’interno di una realtà culturale più ampia

osservazione partecipante appunti presi durante l’osservazione


relazione di fine giornata
registro delle osservazioni
intermediari e informatori diario personale

cacciatore “far la posta” e sorprendere l’animale senza essere visti e senza disturbarlo

ETOLOGIA contadino l’animale viene tenuto in cattività e osservato (Lorenz)


sistema del
l’ addomesticamento - libertà l’animale si comporta normalmente in pres. del ricercatore

l’ approccio graduale il ricercatore riesce pian piano a farsi accettare come


presenza innocua e familiare (Jane Goodall)
L’ESPERIMENTO

L’esperimento è il metodo più applicato in psicologia, dove, sebbene si faccia ricorso abitualmente
anche ad indagini, tende ad essere considerato lo strumento di ricerca per eccellenza. E’ importante
anche in psicologia animale e comparata, in etologia (dove però conta molto soprattutto l’osserva-
zione). In sociologia e in antropologia è meno utilizzabile.
Nell’esperimento il ricercatore non si limita a raccogliere dei dati, ma interviene attivamente sulla
realtà, manipolandola e sottoponendola ad un particolare trattamento al fine di ricavare le infor-
mazioni che gli interessano. In questo modo può osservare dinamiche che egli stesso provoca e
controlla e non deve limitarsi a registrare ciò che spontaneamente accade.

LE QUATTRO OPERAZIONI DELL’ESPERIMENTO

Schematicamente l’esperimento è fatto di quattro operazioni.

1) Delimitazione della situazione sperimentale. Il ricercatore circoscrive un ambito da manipo-


lare e studiare. In pratica ciò significa scegliere un ambiente fisico, un determinato settore della vita e
una o più persone che si prestano: i soggetti sperimentali. Ad esempio, per un esperimento possia-
mo prendere come situazione l’ambiente di un collegio e utilizzare i ragazzi come soggetti sperimen-
tali.

2) Introduzione di un cambiamento specifico. Il ricercatore va a manipolare un preciso fattore x,


seguendo il proprio piano sperimentale. Ad esempio nel collegio può prescrivere ai ragazzi (ovvia-
mente d’accordo con loro), il tipo di programmi televisivi da vedere nella giornata, in modo che la
loro “dieta televisiva” da varia si trasformi in assai ricca di programmi violenti (western, gialli, thril-
ler, ecc.). Il fattore x in questo caso è la “dieta televisiva” dei ragazzi.

3) Rilevazione degli effetti del cambiamento introdotto. Il ricercatore di regola ha in mente do-
ve i cambiamenti si potranno produrre. Si aspetta che, manipolando il fattore x, ne risentirà un altro
ben preciso, y. In questa previsione lo guida l’ipotesi sperimentale, che dice proprio che le variazio-
ni di y e x sono correlate. Ad esempio, nel caso del collegio il fattore y può essere costituito dai
comportamenti aggressivi dei ragazzi tra loro e con gli adulti. L’ipotesi sperimentale dice che con
una dieta televisiva più violenta i ragazzi diventano più aggressivi.

4) Tenere sotto controllo il resto. Oltre ai fattori x e y, nella situazione sperimentale ce ne sono
molti altri. Alcuni di questi possono influire sul fenomeno che interessa allo sperimentatore. Può
darsi che il cambiamento di y sia determinato dal loro cambiamento, anzichè conseguire alla manipo-
lazione di x. Nel collegio, ad esempio, potrebbe nascere un’aspra questione per il funzionamento
della mensa. Di conseguenza i ragazzi potrebbero divenire più tesi e aggressivi per questo, indipen-
dentemente dalla dieta televisiva..
Il ricercatore deve tenere sotto controllo gli altri fattori. Quand’è possibile li terrà costanti, impe-
dendo che si modifichino nel corso dell’esperimento. Altrimenti ne terrà conto e farà in modo che
il loro variare non interferisca con i suoi risultati e con le sue conclusioni..

Le variabili. Ogni fattore che è presente nella situazione sperimentale, che può cambiare e può
influire sul fenomeno in studio costituisce una variabile.
Il fattore x, quello che lo sperimentatore modifica appositamente, prende il nome di variabile
indipendente, mentre y è la variabile dipendente.
I termini indipendente e dipendente si riferiscono al rapporto tra le due variabili. La dipendente è
quella i cui cambiamenti sono subordinati, conseguenti ai cambiamenti dell’altra.
La variabile indipendente è quella che viene manipolata - che dipende - dallo sperimentatore.
Le altre di solito si chiamano variabili accessorie o intervenienti. Queste sono di grande importan-
za, perchè come si è detto possono interferire con i risultati sperimentali e vanno perciò tenute sot-
to controllo.

Esperimenti di laboratorio ed esperimenti sul campo. Nelle scienze sociali si pone il problema
se condurre esperimenti di laboratorio o sul campo, se lavorare cioè in situazioni più vicine alla real-
tà o più rigorosamente sperimentali.
Nell’esperimento di laboratorio il ricercatore lavora “a casa propria”. Invita i soggetti in un am-
biente predisposto e crea la situazione adatta per mettere alla prova le cose che gli interessano.
Operando così, può far facilmente uso di strumenti tecnici e può esercitare un buon controllo sulla
situazione sperimentale.
Con l’esperimento sul campo il ricercatore va nell’ambiente naturale, nella vita quotidiana dove i
soggetti utili all’indagine normalmente si trovano. Sul campo è molto più difficile controllare la si-
tuazione sperimentale. Facilmente variabili indesiderate si intrufolano e sfuggono al controllo.

Il controllo. Nell’esperimento occorre evitare che variabili intervenienti interferiscano nella rela-
zione tra variabile indipendente e variabile dipendente. A questo fine il ricercatore svolge un com-
plesso lavoro che prende il nome di controllo. Quali sono i fattori che possono interferire con
l’esperimento? In genere vengono classificati in tre tipi.
a) i fattori interni hanno origine dentro i soggetti sperimentali. Nel corso dell’esperimento le perso-
ne possono cambiare interiormente. Ad esempio, i ragazzi, specie se la sperimentazione dura a lun-
go, possono per conto proprio andare incontro a maturazioni e diventare per questo meno aggressi-
vi.
b) i fattori esterni dipendono da circostanze ambientali. Se nasce un problema per la mensa e que-
sto esaspera gli animi, siamo di fronte ad un fattore esterno che interferisce con l’esperimento.
c) i fattori legati allo sperimentatore sono i più insidiosi da controllare: chi conduce l’espe-
rimento, con le sue aspettative influenza i soggetti sperimentali anche senza volerlo. Di solito - ma
può accadere anche il contrario - accade che i soggetti tendano ad esagerare nel collaborare. Si fanno
una loro idea dell’esperimento e dei suoi scopi e si comportano in modo che i risultati siano quelli
che a loro giudizio ci si aspetta.

Il gruppo di controllo. Per evitare l’interferenza dei fattori esterni e dei fattori interni è efficace
l’impiego del gruppo di controllo. Questo è costituito da soggetti il più possibile simili a quelli
sperimentali e tenuti nella stessa situazione, presso i quali però non viene introdotto il cambiamen-
to sperimentale. Differiscono dai soggetti sperimentali perchè nella loro esperienza la variabile indi-
pendente non viene manipolata, ma resta invariata. Nell’esempio del collegio, si possono individuare
due classi che abbiano il maggior numero possibile di caratteristiche in comune (età, sesso, estrazio-
ne socioculturale, livelli di profitto, ecc): ad una si cambia la dieta televisiva (gruppo sperimentale),
all’altra si lascia tale e quale (gruppo di controllo). Se qualche fattore non noto è intervenuto nella
vita del collegio durante l’esperimento, si farà sentire su entrambi i gruppi. In questo modo l’effetto
di interferenza verrà annullato.
L’ ESPERIMENTO

il ricercatore manipola la realtà, sottoponendola ad un particolare


trattamento al fine di ricavare le informazioni che gli interessano

in un ambiente predisposto, il ricercatore crea la situazione


di laboratorio adatta per mettere alla prova le cose che gli interessano
esperimento
sul campo il ricercatore va nell’ ambiente naturale della vita quotidiana
dove i soggetti dell’ indagine normalmente si trovano

le quattro operazioni dell’esperimento

ambiente
1) delimitazione della situazione sperimentale
soggetto gruppo
sperimentale

2) introduzione di un cambiamento specifico variabile *


(manipolazione di un fattore x) indipendente

3) rilevazione degli effetti prodotti dalla V. D. sulla variabile


dipendente

4) tenere sotto controllo il resto variabili


accessorie

interni hanno origine dentro i


soggetti sperimentali
fattori
intervenienti esterni dipendono da circostanze
ambientali gruppo
di controllo
legati allo aspettative e tendenze
sperimentatore incontrollate del ricercatore

costituito da soggetti il più possibile simili


a quelli sperimentali e tenuti nella stessa
situazione, presso i quali però non viene
introdotto il cambiamento sperimentale.

* variabile = ogni fattore presente nella situazione sperimentale,


che può produrre un cambiamento o influire sul fenomeno in studio
L’ACTION RESEARCH

L’action research (ricerca-azione) è una modalità di ricerca in cui teoria e pratica sono intimamente
collegate; la riflessione e l’analisi vengono subito sviluppate nei loro risvolti applicativi e tradotte in
interventi su realtà sociali come gruppi, comunità, organizzazioni, rapporti tra gruppi, città, e via
dicendo.
L’action research solitamente procede in tre tappe.
1) Prima c’è l’analisi , l’esame della situazione in cui ci si trova a lavorare in gruppo (il gruppo, le
relazioni intergruppo, la comunità, l’organizzazione, ecc.). L’analisi è già orientata, nel senso che il
ricercatore ha in mente un determinato problema, come le tensioni razziali o l’insoddisfazione dei
lavoratori di un’azienda. Inoltre è supportata dalle conoscenze della tradizione e dalle esperienze
precedenti, anche su casi simili o sullo stesso caso.
2) Sulla base dell’analisi della situazione si progetta l’intervento, si decide cioè quali cambiamenti
introdurre e come produrli.
3) Il controllo consiste nel verificare i risultati dell’intervento, andando a vedere se il cambiamento
c’è stato davvero e di quale entità è.
Il processo è circolare, in quanto il controllo fornisce informazioni ulteriori sulla situazione, che
arricchiscono e modificano l’analisi fatta in precedenza; la circolarità fa sì che la teoria e la pratica
dell’action research si modifichino costantemente in corso d’opera. Si tratta di una metodologia di
studio e di intervento estremamente flessibile, in grado di adattarsi costantemente alle esigenze
nuove e alle cose nuove scoperte.

I presupposti dell’action research vanno cercati nel pragmatismo americano, teso a sottolineare il
significato pratico delle teorie. La storia dell’action research come pratica di ricerca inizia negli Stati
Uniti negli anni trenta, in un clima dominato dal pragmatismo deweyano, ad opera di John Collier e
Kurt Lewin. Uno dei campi in cui Lewin si addentrò è quello dei conflitti tra gruppi e delle tensioni
razziali. Si trattava di un problema che sentiva particolarmente, perchè da ebreo emigrato (come gli
altri esponenti della Gestalt) negli Stati Uniti aveva vissuto con partecipazione le vicende dell’asce-
sa del nazismo e le persecuzioni degli ebrei europei. In seguito l’action research si è diffusa nella for-
mazione degli operatori sociali, acquistando un posto di rilievo nella ricerca pedagogica.

La ricerca-azione attuata all’interno di situazioni scolastiche, è un processo di collegamento tra


autovalutazione e crescita culturale/professionale che si sviluppa attraverso le fasi di riflessione,
analisi, diagnosi, pianificazione, attuazione, controllo degli effetti. Il modello è dinamico e segue un
andamento ciclico a spirale e non lineare; tutto è modificabile e rivedibile alla luce dell’esperienza.
Nel modello di processo-attività del ciclo di ricerca-azione in situazioni scolastiche si possono indi-
viduare alcuni momenti specifici.

Identificazione e chiarificazione dell’idea generale. Le idee generali sono delle affermazioni


(proposte da alunni o insegnanti) che si riferiscono a delle situazioni problematiche emerse nel con-
testo scolastico (ad es. l’attribuzione degli insuccessi scolastici da parte degli alunni a motivi incon-
trollabili e casuali). L’affermazione può anche essere semplicemente un sintomo di qualcosa che ver-
rà pienamente alla luce nel corso del processo. L’identificazione di una idea generale e la sua chiarifi-
cazione sotto forma di domanda dà l’avvio all’azione. L’idea generale può essere rivista continua-
mente durante lo svolgersi del ciclo della ricerca, perciò si può dire che l’intero processo è la chiarifi-
cazione dell’idea generale.
Ricognizione. La ricognizione comprende:
a) una descrizione dei dati della situazione iniziale molto dettagliata;
b) una spiegazione dei dati rilevati attraverso l’analisi critica del contesto, che può partire da una
discussione preliminare (condotta in classe nella forma del brainstorming).
L’osservazione si basa sull’uso di diversi strumenti per la rilevazione dei dati, alcuni di natura più
soggettiva: diari (del docente e dello studente), profili (di lezioni e prestazioni degli studenti); crona-
ca diretta (osservazione letterale e concreta del lavoro degli studenti); interviste strutturate e libere;
altre di natura più oggettiva: a) registrazione o videoregistrazione di lezioni o parti di esse e trascri-
zione delle parti più importanti, questionari e inventari; b) analisi dei documenti rilevanti per i pro-
blemi studiati, quali programmi e piani di lavoro, relazioni sulla scuola, prove di esame e test usuali,
verbali di riunioni, schede e materiali di lavoro, esempi di lavoro di ragazzi.

Costruzione del piano generale. Si precisa esattamente l’idea generale iniziale, i fattori che si
intende modificare, le relative azioni da intraprendere, le risorse necessarie.

Attuazione delle fasi di azione. E’ il momento operativo. Il tempo di attuazione è estremamente


variabile e può dipendere da molteplici fattori: la frequenza con cui il ricercatore o l’insegnante coin-
volto nella ricerca-azione vede la classe, la necessità di ulteriori ricognizioni e modifiche all’idea ge-
nerale, ecc. Può trattarsi di un lavoro di gruppo con esposizione dei risultati, di verifiche individuali
su argomenti predefiniti, di discussioni in classe su temi specifici gestite dagli alunni e registrate, ecc.
Va tenuto conto che, durante la fase di azione, è assolutamente utile produrre i promemoria analitici
o stendere dei resoconti dell’esperienza, poichè aiutano il conseguimento di una comprensione più
approfondita della situazione. In essi possono essere riportate: riflessioni sistematiche sui dati rac-
colti, nuove idee sulla situazione, ipotesi emerse e da verificare, annotazioni sul tipo di dati necessa-
ri in futuro.

Controllo e valutazione. Tutto ciò confluisce nella documentazione complessiva del caso, fonda-
mentale per effettuare una valutazione dell’intero processo. Come già si è detto, il controllo consiste
nel verificare i risultati dell’intervento, andando a vedere se il cambiamento c’è stato e qual è l’entità
effettiva della ricaduta, in termini cognitivi ed educativi. Chiarita e integrata con i risultati dell’espe-
rienza l’idea generale iniziale, si valuta l’opportunità di riavviare l’intero processo.

Sul piano epistemologico il procedimento dell’action research è stato fatto oggetto di diverse criti-
che:
a) il ricercatore è limitato in quanto ancorato ad un orientamento di azione e intervento ed è troppo
coinvolto.
b) I risultati dell’action research ci danno informazioni sulla validità operativa delle pratiche di inter-
vento dei ricercatori ma dicono molto meno circa la validità delle loro teorie. Può darsi che la modali-
tà di intervento sia efficace - e per questo vale la pena di tenerla in considerazione e attuarla - ma che
la teoria sia sbagliata e costituisca solo la razionalizzazione con cui il ricercatore legittima il suo ope-
rato.
c) Da un punto di vista etico l’impiego dell’action research richiede prudenza. Bisogna fare attenzio-
ne a non condurre interventi sulla realtà sociale allo scopo di capire come stanno le cose. Non si può
correre il rischio di trasformare la vita reale in una sorta di laboratorio. rischio di trasformare la vita
reale in “laboratorio”.
ACTION RESEARCH (RICERCA-AZIONE)

L’action research (ricerca-azione) è una modalità di ricerca in cui teoria e pratica sono intimamente
collegate; la riflessione e l’analisi vengono subito sviluppate nei loro risvolti applicativi e tradotte
in interventi su realtà sociali come gruppi, comunità, organizzazioni, rapporti tra gruppi, ecc.

INTERVENTO

ANALISI feedback CONTROLLO

Il processo è circolare, in quanto il controllo fornisce informazioni ulteriori sulla


situazione, che arricchiscono e modificano l’analisi; questo fa sì che la teoria
e la pratica dell’action research si modifichino costantemente in corso d’opera

La ricerca-azione, attuata all’interno di situazioni scolastiche, è un processo di collegamento tra


autovalutazione e crescita culturale/professionale. Il modello è dinamico, segue un andamento
ciclico a spirale e non lineare; tutto è modificabile e rivedibile allla luce dell’esperienza.

ANALISI

ricognizione
diari / profili delle prestazioni
situazione => osservazione soggettivi cronaca diretta / interviste
descrizione / raccolta dei dati strumenti
oggettivi videoregistrazione
questionari / inventari
brainstorming
analisi critica

riflessione => idea generale => ipotesi

pianificazione procedure / risorse

promemoria analitici
AZIONE resoconti

CONTROLLO analisi dei dati


valutazione
documentazione
complessiva del caso

a) ricercatore troppo coinvolto nell’intervento

limiti b) la validità operativa può non corrispondere alla validità delle teorie
epistemologici
c) rischio di trasformare la vita reale in “laboratorio”
LA RICERCA EDUCATIVA

Molti studi condotti nelle scienze psicologiche e sociali sono di interesse pedagogico. Ad esempio,
gli esperimenti sul gioco e la creatività (Dansky e Silverman), le ricerche sulla curiosità e i comporta-
menti esplorativi, sugli effetti della TV e dei mass media, ecc. Tuttavia il fatto che l’oggetto d’inda-
gine e i risultati siano d’interesse pedagogico non è sufficiente perchè si possa parlare di ricerca edu-
cativa.
Una ricerca educativa è contraddistinta da alcune caratteristiche.
a) Ambito scolastico. Le ricerche educative si svolgono in genere a scuola o nell’istituzione scolasti-
ca. Quando il lavoro è condotto in ambiente extrascolastico (su un quartiere, una città, nelle famiglie,
ecc.), la scuola costituisce un punto di riferimento costante.

b) Interesse per i problemi educativi. Le ricerche educative hanno ha per finalità di fondo sviluppare
conoscenze che possono servire a migliorare l’istruzione, l’educazione e l’attività scolastica.

c) Carattere partecipativo. Spesso le ricerche educative vengono condotte con la collaborazione di


insegnanti o altri operatori scolastici. Il carattere partecipativo non è la regola, tuttavia nella maggior
parte dei casi ricercatori, insegnanti, équipe psico-sociopedagogiche, personale direttivo si trovano
uniti a collaborare.

Ferme restando le caratteristiche ricordate, la ricerca educativa si svolge come qualsiasi altra ricerca:
comincia con una fase ideativa in cui si definisce l’oggetto di indagine e si elabora il disegno di ricer-
ca. Procede poi, a seconda di ciò che si è deciso, o con un’indagine in senso stretto (mediante esa-
me di documenti, osservazioni, interviste, questionari) su un campione o con esperimenti o con un
lavoro di action research. Infine si passa a analizzare i dati raccolti e si traggono le conclusioni.

Ricerca educativa e scolarizzazione di massa. Nel corso del XX secolo si è assistito, nei paesi a
sviluppo avanzato, al diffondersi della ricerca educativa. Il fenomeno è in parte legato all’evoluzione
delle scienze psicologiche e sociali, che sempre più sono entrate nei vari ambiti della vita umana.
Però in parte è da ricondursi alla scolarizzazione di massa, che in USA, Canada, Unione Sovietica e
Giappone si è verificata nella prima metà del secolo e in Europa nella seconda metà.
Propriamente per scolarizzazione di massa si intende la seconda fase dell’esplosione scolastica, il
fenomeno moderno della diffusione della scuola. La prima fase dell’alfabetizzazione è consistita nel-
la lotta all’analfabetismo. Con la scolarizzazione di massa non ci si limita a diffondere l’istruzione di
base, ma larghi strati di popolazione accedono a titoli di studio avanzati. In un primo tempo il siste-
ma scolastico si è trovato a far fronte a una domanda di istruzione senza precedenti, con problemi
strutturali ed organizzativi acuiti dalla sovrapposizione, in Europa, con l’esplosione demografica del
dopoguerra (“baby boom”).
Superato il primo impatto, l’attenzione si è spostata sulla qualità dell’istruzione. Le ricerche sono
andate a vedere che cosa dà la scuola, se raggiunge gli obiettivi che si prefigge, cioè se è efficace, e se
è una macchina che funziona, cioè se è efficiente. Particolare importanza hanno avuto gli studi sulla
dispersione scolastica, cioè sul fenomeno degli abbandoni, delle ripetenze e in generale della sotto-
scolarizzazione o malscolarizzazione, un fenomeno che viene ritenuto espressione di inefficienza
del sistema scolastico..
La scolarizzazione di massa non ha stimolato le ricerche educative solo perchè ha posto problemi
organizzativi e e di qualità. Ha anche rivoluzionato l’assetto della scuola, facendole perdere l’equili-
brio sul quale tradizionalmente si reggeva: nella scuola d’elite, infatti, le fondamentali tensioni sociali
restavano fuori, mentre con la scolarizzazione di massa entrano nell’istituzione scolastica. Concreta-
mente questo significa che nella stessa classe si trovano alunni di provenienza socio-economica di-
versa e di cultura diversa. In piccolo la classe riproduce la struttura sociale con le sue disuguaglianze,
la stratificazione, le categorie e i gruppi etnici e religiosi , a volte in conflitto.

I vincoli della ricerca educativa. Chi fa ricerca educativa in genere non ha la stessa facoltà di
manovra dei ricercatori di altri settori.
Un primo ordine di vincoli viene dalle finalità educative che il lavoro deve avere. Non ci si può
permettere di sperimentare, ad esempio, un metodo didattico senza essere ragionevolmente certi che
porterà vantaggi o per lo meno che non arrecherà danno.
Un altro ordine di vincoli sta nel fatto di trovarsi a lavorare dentro l’istituzione scolastica, cioè in
un ambiente umano già strutturato, con una propria organizzazione, un proprio personale, una pro-
pria cultura, cui il ricercatore deve adeguarsi. Se poi la ricerca è partecipativa, bisogna tener conto
delle esigenze e delle richieste degli operatori coinvolti.
LA RICERCA EDUCATIVA

a) si svolge in genere a scuola o nell’istituzione scolastica

b) ha per finalità di fondo sviluppare conoscenze che possono servire


a migliorare l’istruzione, l’educazione e l’attività scolastica
Una ricerca educativa:
c) viene condotta con la collaborazione di insegnanti o altri operatori scolastici

d) si svolge come qualsiasi altra ricerca

fase ideativa (=> oggetto di indagine)

disegno di ricerca
esame di documenti
osservazione
indagine interviste
questionari

esperimenti action research campione

raccolta / analisi dei dati

conclusioni

il lavoro deve avere finalità educative


vincoli delle
ricerche educative
intervento in un ambiente strutturato, cui il ricercatore deve adeguarsi

Nel corso del XX secolo si è assistito, nei paesi a sviluppo avanzato, al diffondersi della ricerca educativa.
Il fenomeno è in parte legato all’evoluzione delle scienze psicologiche e sociali, però in parte è da ricondursi
alla scolarizzazione di massa (=> seconda fase dell’esplosione scolastica, il fenomeno moderno della
diffusione della scuola).
La prima fase dell’alfabetizzazione è consistita nella lotta all’analfabetismo; con la scolarizzazione di
massa non ci si limita a diffondere l’istruzione di base, ma larghi strati di popolazione accedono a titoli di
studio avanzati. In un primo tempo il sistema scolastico si è trovato a far fronte a una domanda di
istruzione senza precedenti, con problemi strutturali ed organizzativi acuiti dalla sovrapposizione, in
Europa, con l’esplosione demografica del dopoguerra (“baby boom”).
Superato il primo impatto, l’attenzione si è spostata sulla qualità dell’istruzione. Le ricerche sono andate
a vedere che cosa dà la scuola, se raggiunge gli obiettivi, se è efficace ed efficiente. Particolare importanza
hanno avuto gli studi sulla dispersione scolastica, cioè sul fenomeno degli abbandoni, delle ripetenze e
in generale della sottoscolarizzazione o malscolarizzazione.
La scolarizzazione di massa ha anche rivoluzionato l’assetto della scuola, facendole perdere l’equilibrio
sul quale tradizionalmente si reggeva: nella scuola d’elite, infatti, le fondamentali tensioni sociali restavano
fuori, mentre con la scolarizzazione di massa entrano nell’istituzione scolastica. Concretamente questo
significa che nella stessa classe si trovano alunni di provenienza socio-economica diversa e di cultura
diversa. In piccolo la classe riproduce la struttura sociale con le sue disuguaglianze, la stratificazione, le
categorie e i gruppi etnici e religiosi , a volte in conflitto.
L’ESAME DI DOCUMENTI

L’esame dei documenti è il primo metodo utilizzato in indagini sociologiche empiriche. Durkheim
nel suo lavoro sulle cause sociali del suicidio del 1987 si servì di dati tratti da studi precedenti.
In seguito la ricerca empirica si è spostata sul campo e i ricercatori sempre più sono andati ad os-
servare la gente, a intervistarla e a sottoporla a sondaggi mediante questionari.

Per documento si intende qualsiasi materiale che possa fornire informazioni e che sia stato redat-
to da qualcuno in vista di qualche scopo. Il documento è un tipo particolare di testimonianza, che si
caratterizza perchè non informa occasionalmente, ma è realizzato appositamente per trasmettere e
conservare informazioni su determinati fatti: costituisce una testimonianza intenzionale. Ad esem-
pio, un legno intagliato testimonia il lavoro artigianale di un uomo, però non è un documento, mentre
lo è la lettera in cui quel tale racconta la sua abilità nell’intagliare il legno, o il ritaglio di giornale dove
si parla di una mostra dei suoi lavori. Chi redige un documento non lo fa di regola con lo scopo di in-
formare il ricercatore che lo esaminerà. In questo senso il documento è una testimonianza spontanea
e, per chi indaga, costituisce una fonte naturale, in quanto le informazioni che offre non sono rispo-
ste a sollecitazioni del ricercatore, ma sono lì disponibili.

Gli storici, che fanno largo uso dell’esame dei documenti, distinguono solitamente tra documenti
primari, che forniscono informazioni di prima mano su ciò che interessa, e documenti secondari, in
cui le notizie vengono riferite indirettamente, avendole prese da altri documenti primari.
Ad esempio nella ricostruzione di un attentato sono documenti primari le dichiarazioni dei testimoni
oculari e dell’attentatore, sono documenti secondari le notizie date dai mass media.
Nelle scienze sociali i documenti vengono classificati a seconda dello scopo e della modalità di reda-
zione. In linea di massima se ne incontrano quattro tipi.
Personali. Lettere, diari, foto, filmati e in genere ogni documentazione realizzata per uso privato.
Pubblici. Comprendono ad esempio i registri, le pagelle e le altre scritture scolastiche, gli schedari
degli uffici, le sentenze dei tribunali, le leggi, ecc.
Statistici. In genere si tratta di pubblicazioni curate da istituti specializzati nel rilevamento e l’ela-
borazione di dati o da organi ufficiali, statali (ad es. l’ISTAT, Istituto nazionale di statistica), o di
organismi sovranazionali.
Scientifici. Una importante fonte di documenti è costituita dsalle ricerche precedenti condotte sul-
l’argomento che si sta studiando o su argomenti attinenti. A tal fine sono preziosi gli archivi centra-
lizzati dove affluiscono sistematicamente dati di ricerche.

Vantaggi e svantaggi. Uno dei principali vantaggi dell’esame dei documenti sta nella praticità.
Il ricercatore non deve andare sul campo a produrre i dati della ricerca, osservando o interpellando
la gente, ma li trova belli e pronti. Il lavoro risulta particolarmente agevole quando i documenti sono
di facile accesso e già raccolti in archivi e pubblicazioni.
Altro fondamentale vantaggio dell’esame dei documenti è l’ampliamento del raggio di conoscen-
ze. A molte informazioni, sopratutto se relative a vicende passate, non si può accedere andando a
interpellare le persone, ma solo attraverso i documenti. In molti casi poi gli interessati sono poco
disposti a collaborare.
Servirsi di documenti è vantaggioso anche perchè si lavora con una fonte naturale. Siccome chi l’ha
redatta non pensava allo storico o al sociologo, il documento non è viziato da dissimulazione, dal
tentativo di ingannare il ricercatore. Può esserci distorsione dei fatti, ma per altri fini.
Uno degli svantaggi più importanti del lavoro con i documenti è legato al problema della sopravvi-
venza selettiva. Il materiale documentario disponibile non riproduce fedelmente la società o la vita
sociale di un gruppo. Di solito tende a rappresentare maggiormente le fasce più in vista e di vertice e
a lasciare in ombra la base o la gente qualunque. In parte il fenomeno è dovuto al fatto che le attività
ufficiali e delle persone illustri vengono documentate di più. La sopravvivenza selettiva produce
un’immagine deformata della società, in cui i vertici sono sovrarappresentati rispetto alla base. Uno
dei motivi per cui in passato gli storici hanno finito per narrare una historia rerum gestarum, fatta
di grandi imprese e di potenti, è che erano attaccati ai documenti, più che altro per esigenze di rigore.
Con l’avvento della nuova storia e con la crescente tendenza a raccontare le vicende della base, si è
rivendicato il valore delle testimonianze non documentarie, proprio per poter accedere al mondo del-
le classi subalterne, sulle quali scarseggiavano i documenti.
La differenza di rappresentazione tra base e vertici prodotta dalla sopravvivenza selettiva non è
solo quantitativa, ma anche qualitativa. Delle persone importanti i documenti dicono di più di aspet-
ti positivi della vita (svaghi, opere realizzate, sentimenti). Quando si parla della gente comune più
spesso è per faccende di cronaca nera o criminalità o povertà. Nel complesso l’immagine della base è
più negativa di quella del vertice.
Di fronte ai documenti, specie quelli personali, il ricercatore incontra spesso difficoltà di com-
prensione. Si tratta di materiale informativo costruito per persone che condividevano le conoscenze
di un certo contesto, c’è un entroterra di sapere che viene dato per scontato, presupposizioni ovvie
per i destinatari ma ignote al ricercatore.

Esame qualitativo e quantitativo Sui documenti si può lavorare sia in maniera qualitativa, sia con
tecniche quantitative. Attraverso l’esame qualitativo si ricavano solitamente racconti di vicende o
descrizioni di situazioni, azioni, modi di fare e di intendere le cose. Viene applicato soprattutto ai
documenti personali, dove possone essere rintracciati strutture e modelli caratteristici.
Quando un documento viene esaminato con un approccio quantitativo, per ricavarne misure e dati
numerici, si fa uso di regola dell’analisi del contenuto. Nei procedimenti di analisi del contenuto il
primo passo è la campionatura, la costruzione di un campione del materiale documentario che si in-
tende analizzare. Ad es., se ci interessano i cartoni animati per ragazzi in TV, con opportuni criteri
estrarremo un numero limitato di filmati che rappresentano bene questo genere di trasmissioni.
Il momento decisivo è la scelta del sistema di codifica. Il ricercatore deve stabilire i criteri di estra-
zione dei contenuti, cioè che cosa considerare elementi da conteggiare o trascurare.
L’analisi del contenuto opera sempre una selezione, che dipende dagli scopi della ricerca.
Per definire il sistema di codifica vanno precisate tre cose: a) l’unità di analisi, l’elemento di base
da prendere in considerazione, b) l’unità di contesto, l’ambito di collocazione, e c) le categorie, il
modo in cui intendiamo classificare ciò che rintracciamo. Ad esempio si potranno prendere in consi-
derazione gli argomenti trattati negli articoli (a) che compaiono sui quotidiani (b), catalogati in varie
categorie (c) (editoriale, interni, estero, affari e finanza, sport, società, arte e spettacoli, ecc.).
Il sistema di codifica comprende anche le modalità di quantificazione. Occorre stabilire come con-
teggiare i contenuti rintracciati nei documenti. Di solito si riportano le frequenze con cui figurano nel
campione i contenuti delle diverse categorie scelte.

L’analisi del contenuto è un procedimento rigoroso, però ha un vizio di fondo: parte dal presuppo-
sto che la comprensione dei testi si spieghi col modello dell’estrazione. I documenti sarebbero come
serbatoi di contenuti che contengono, già fatti, i significati da estrarre. Le ricerche di psicologia della
comprensione, nella lettura, nell’ascolto dei messaggi sonori, hanno dimostrato che è più risponden-
te al vero il modello interattivo. I contenuti non esistono già nel documento, ma è il ricercatore che
nel momento della consultazione, rispondendo allo stimolo offerto dal materiale e mettendo in gioco
il suo sapere pregresso, elabora i significati e in un certo senso crea i contenuti.
ESAME DI DOCUMENTI

TESTIMONIANZA indagini sociologiche empiriche


ricerche storiche longitudinali
non intenzionale spontanea / intenzionale
( fonte naturale )

DOCUMENTO
materiale che possa fornire informazioni e che sia
stato redatto da qualcuno in vista di qualche scopo

personale
primario pubblico secondario
statistico
informazioni scientifico notizie
di prima mano indirette

vantaggi: svantaggi:

a) praticità a) sopravvivenza vertici della società


selettiva “sovrarappresentati”
b) ampliamento delle rispetto alla base
conoscenze b) difficoltà di
comprensione
c) non dissimulazione
(fonte naturale)

ESAME

qualitativo quantitativo
documenti =
modello interattivo modello dell’ estrazione “serbatoi di
contenuti”
ermeneutica oggettività
psicologia della
comprensione analisi del contenuto

a) campionatura

b) scelta del sistema di codifica

unità di analisi: elementi di base


criteri di
estrazione dei unità di contesto: ambito di collocazione
contenuti
categorie: modi di classificazione

modalità di frequenza con cui figurano nel campione


quantificazione i contenuti delle diverse categorie scelte
METODOLOGIA DELLA RICERCA SOCIO-PSICOPEDAGOGICA

1. come nasce come non si deve cominciare: errori d’inizio


una ricerca regole per il lavoro di documentazione
definizione dell’oggetto di indagine / le domande d’inizio

2. il ricercatore il mito del metodo scientifico / la crisi dell’induttivismo


requisiti del buon ricercatore

3. il punto di vista i fatti sono carichi di teoria / una pluralità di teorie scientifiche
del ricercatore il punto di vista del ricercatore nelle scienze sociali

4. la ricerca interdisciplinarità, multidisciplinarità, false interdisciplinarità


interdisciplinare le tappe del lavoro interdisciplinare
il pericolo dell’egemonia, le estensioni indebite, il riduzionismo

5. ricerca quantitativa concezioni quantitativa e qualitativa della ricerca


e qualitativa le radici storiche del dibattito

6. il disegno di ricerca le scelte del disegno di ricerca: problemi e criteri da tenere presenti.

7. variabili, indicatori, la variabile come costrutto operativo / tipi di variabili


indici l’elaborazione concettuale delle variabili / la scelta degli indicatori.

8. il campionamento il piano per la costruzione di un campione


campionamento probabilistico / campionamento non probabilistico

9. l’intervista strutturazione / direttività / sistemi di registrazione dei dati


le critiche mosse al metodo dell’intervista

10. il questionario tipi di domande / requisiti di un buon questionario


la strutturazione del questionario

11. il colloquio clinico i colloqui diagnostici / la consulenza / il colloquio terapeutico

12. l’osservazione il problema della veridicità / posizione dell’osservatore


ambiente, tecniche di documentazione, standardizzazione
il metodo etnografico / l’osservazione etologica

13. l’esperimento le quattro operazioni dell’esperimento


esperimento di laboratorio ed esperimento sul campo
il controllo dei fattori intervenienti e il gruppo di controllo

14. l’esame dei documenti primari e secondari, personali, pubblici, statistici, scientifici
documenti vantaggi e svantaggi / esame qualitativo e quantitativo

15. l’ “action research” identificazione e chiarificazione dell’idea generale / ricognizione


costruzione del piano generale / attuazione delle fasi d’azione
controllo e valutazione

16. la ricerca educativa ricerca educativa e scolarizzazione di massa / vincoli della r. educativa
METODOLOGIA DELLA RICERCA SOCIO-PSICOPEDAGOGICA

1. come nasce l’ attività ideativa: formulazione delle domande di inizio


una ricerca gli errori da evitare / regole per il lavoro di documentazione
definizione dell’ oggetto di indagine

2. il ricercatore Il mito del metodo scientifico / la crisi dell’ induttivismo


il punto di vista del ricercatore / requisiti del “buon ricercatore”

3. ricerca interdisciplinarità, multidisciplinarità, false interdisciplinarità


Interdisciplinare le fasi del lavoro interdisciplinare

4. ricerca quantitativa le radici storiche del dibattito


e qualitativa concezioni quantitativa e qualitativa:
a) senso e finalità della ricerca b) obiettivi conoscitivi
c) carattere estensivo o intensivo delle indagini
d) codifica e standardizzazione delle procedure

5. disegno mediazione tra definizione dell’ oggetto di indagine e lavoro empirico


della Ricerca le scelte del disegno di ricerca: approccio, set concettuale,
risorse, procedure, controlli
i problemi ed i criteri da tenere presenti.

6. le variabili la variabile come costrutto operativo / tipi di variabili


le tappe dell’ elaborazione concettuale delle variabili
la scelta degli indicatori

7. campionamento le indagini campionarie / predisposizione della lista di campionamento


tecniche di estrazione del campione: procedure probabilistiche e ragionate.

8. l’ Intervista la strutturazione dell’ intervista:


intervista strutturata, semi-strutturata, non-strutturata
direttività e non-direttività / polarità: polo oggettivo e soggettivo
sistemi di registrazione dei dati / le critiche al metodo dell’ intervista

9. questionario tipi di domande:


a) le domande chiuse: polari, alternative, quantitative b) le domande aperte
la formulazione delle domande e la strutturazione del questionario
la successione delle domande: ordine logico e psicologico

10. questionari la misurazione dei tratti interiori


psicometrici liste di items ed autodescrizione

11. osservazione Il problema della veridicità / le tecniche di documentazione


osservazione distaccata e partecipante
il metodo etnografico e l’ osservazione qualitativa
l’ osservazione quantitativa di laboratorio (Bales)

12. esperimento le quattro operazioni dell’ esperimento


esperimento di laboratorio ed esperimento sul campo
il controllo dei fattori intervenienti

13. ‘action research’ l’ interdipendenza tra teoria e pratica / il processo circolare dinamico

14. ricerca educativa ricerca educativa e scolarizzazione di massa.

15. esame dei documenti primari e secondari


documenti documenti personali, pubblici, statistici, scientifici
vantaggi e svantaggi nell’ esame dei documenti
l’ esame quantitativo: analisi del contenuto
SCIENZE UMANE LINEE GENERALI E COMPETENZE

Al termine del percorso liceale lo studente si orienta con i linguaggi propri delle scienze umane
nelle molteplici dimensioni attraverso le quali l’uomo si costituisce in quanto persona e come
soggetto di reciprocità e di relazioni: l’esperienza di sé e dell’altro, le relazioni interpersonali, le
relazioni educative,le forme di vita sociale e di cura per il bene comune, le forme istituzionali in
ambito socio-educativo, le relazioni con il mondo delle idealità e dei valori. L’insegnamento
pluridisciplinare delle scienze umane, da prevedere in stretto contatto con la filosofia, la storia, la
letteratura, mette lo studente in grado di:
1) padroneggiare le principali tipologie educative, relazionali e sociali proprie della cultura
occidentale e il ruolo da esse svolto nella costruzione della civiltà europea;
2) acquisire le competenze necessarie per comprendere le dinamiche proprie della realtà sociale,
con particolare attenzione ai fenomeni educativi e ai processi formativi formali e non, ai servizi alla
persona, al mondo del lavoro, ai fenomeni interculturali e ai contesti della convivenza e della
costruzione della cittadinanza;
3) sviluppare una adeguata consapevolezza culturale rispetto alle dinamiche degli affetti.

Antropologia

SECONDO BIENNIO E QUINTO ANNO


Lo studente acquisisce le nozioni fondamentali relative al significato che la cultura riveste per
l'uomo, comprende le diversità culturali e le ragioni che le hanno determinate anche in
collegamento con il loro disporsi nello spazio geografico.
In particolare saranno affrontate in correlazione con gli studi storici e le altre scienze umane:
a) le diverse teorie antropologiche e i diversi modi di intendere il concetto di cultura ad esse sottese;
b) le diverse culture e le loro poliedricità e specificità riguardo all’adattamento all’ambiente, alle
modalità di conoscenza, all’immagine di sé e degli altri, alle forme di famiglia e di parentela, alla
dimensione religiosa e rituale, all’organizzazione dell’economia e della vita politica;
c) le grandi culture-religioni mondiali e la particolare razionalizzazione del mondo che ciascuna di
esse produce;
d) i metodi di ricerca in campo antropologico. E’ prevista la lettura di un classico degli studi
antropologici eventualmente anche in forma antologizzata.

Pedagogia
PRIMO BIENNIO
Lo studente comprende, in correlazione con lo studio della storia, lo stretto rapporto tra
l’evoluzione delle forme storiche della civiltà e i modelli educativi, familiari, scolastici e sociali,
messi in atto tra l’età antica e il Medioevo. Scopo dell’insegnamento è soprattutto quello di
rappresentare i luoghi e le relazioni attraverso le quali nelle età antiche si è compiuto l’evento
educativo.
In particolare saranno affrontati i seguenti contenuti:
a) il sorgere delle civiltà della scrittura e l’educazione nelle società del mondo antico (Egitto,
Grecia, Israele);
b) la paideia greco-ellenistica contestualizzata nella vita sociale, politica e militare del tempo con la
presentazione delle relative tipologie delle pratiche educative e organizzative;
c) l’humanitas romana, il ruolo educativo della famiglia, le scuole a Roma, la formazione
dell’oratore;
d) l’educazione cristiana dei primi secoli;
e) l’educazione e la vita monastica ;
f) l’educazione aristocratica e cavalleresca .
La presentazione delle varie tematiche sarà principalmente svolta attraverso l’analisi di documenti,
testimonianze e opere relative a ciascun periodo, con particolare riferimento ai poemi omerici e alla
Bibbia, a Platone, Isocrate, Aristotele, Cicerone, Quintiliano, Seneca, Agostino, Benedetto da
Norcia.
SECONDO BIENNIO
A partire dai grandi movimenti da cui prende origine la civiltà europea – la civiltà monastica, gli
ordini religiosi, le città e la civiltà comunale – lo studente accosta in modo più puntuale il sapere
pedagogico come sapere specifico dell’educazione, comprende le ragioni del manifestarsi dopo il
XV-XVI secolo di diversi modelli educativi e dei loro rapporti con la politica, la vita economica e
quella religiosa, del rafforzarsi del diritto all’educazione anche da parte dei ceti popolari, della
graduale scoperta della specificità dell’età infantile ed infine del consolidarsi tra Sette e Ottocento
della scolarizzazione come aspetto specifico della modernità.
In particolare verranno affrontati i seguenti contenuti:
a) la rinascita intorno al Mille: gli ordini religiosi, la civiltà comunale, le corporazioni, la cultura
teologica;
b) la nascita dell’Università;
c) l’ideale educativo umanistico e il sorgere del modello scolastico collegiale;
d) l’educazione nell’epoca della Controriforma;
e) l’educazione dell’uomo borghese e la nascita della scuola popolare;
f) l’Illuminismo e il diritto all’istruzione;
g) la valorizzazione dell’infanzia in quanto età specifica dell’uomo;
h) educazione, pedagogia e scuola nel primo Ottocento italiano;
i) pedagogia, scuola e società nel positivismo europeo ed italiano.
La presentazione delle varie tematiche sarà principalmente svolta attraverso l’analisi di documenti,
testimonianze e opere relative a ciascun periodo, con particolare riferimento a Tommaso d’Aquino,
Erasmo, Vittorino da Feltre, Silvio Antoniano, Calasanzio, Comenio, Locke, Rousseau, Pestalozzi,
Fröbel, Aporti, Rosmini, Durkheim, Gabelli.

QUINTO ANNO
A partire dalla lettura delle riflessioni e proposte di autori particolarmente significativi del
novecento pedagogico lo studente accosta la cultura pedagogica moderna in stretta connessione con
le altre scienze umane per riconoscere in un’ottica multidisciplinare i principali temi del confronto
educativo contemporaneo. Sono punti di riferimento essenziali: Claparède, Dewey, Gentile,
Montessori, Freinet, Maritain; è prevista la lettura di almeno un’opera in forma integrale di uno di
questi autori.
Inoltre durante il quinto anno sono presi in esame i seguenti temi:
a) le connessioni tra il sistema scolastico italiano e le politiche dell’istruzione a livello europeo
(compresa la prospettiva della formazione continua) con una ricognizione dei più importanti
documenti internazionali sull’educazione e la formazione e sui diritti dei minori;
b) la questione della formazione alla cittadinanza e dell’educazione ai diritti umani;
c) l’educazione e la formazione in età adulta e i servizi di cura alla persona;
d) i media, le tecnologie e l’educazione;
e) l’educazione in prospettiva multiculturale;
f) l’integrazione dei disabili e la didattica inclusiva.
Scegliendo fra questi temi gli studenti compiono una semplice ricerca empirica utilizzando gli
strumenti principali della metodologia della ricerca anche in prospettiva multidisciplinare con
psicologia, antropologia e sociologia.

Psicologia
PRIMO BIENNIO
Lo studente comprende la specificità della psicologia come disciplina scientifica e conosce gli
aspetti principali del funzionamento mentale, sia nelle sue caratteristiche di base, sia nelle sue
dimensioni evolutive e sociali. Lo studente coglie la differenza tra la psicologia scientifica e quella
del senso comune, sottolineando le esigenze di verificabilità empirica e di sistematicità teorica cui
la prima cerca di adeguarsi.
In particolare durante il primo biennio si prenderanno in esame:
a) i diversi aspetti della relazione educativa dal punto di vista teorico (almeno le teorie di
derivazione psicoanalitica, umanistica e sistemica), con gli aspetti correlati (comunicazione verbale
e non verbale, ruoli e funzioni di insegnanti e allievi, emozioni e sentimenti e relazione educativa,
immagini reciproche, contesti educativi e relazione insegnante-allievo);
b) concetti e teorie relative all’apprendimento (comportamentismo, cognitivismo, costruttivismo,
socio-costruttivismo, intelligenza, linguaggio e differenze individuali e apprendimento, stili di
pensiero e apprendimento, motivazione e apprendimento);
c) un modulo particolare andrà dedicato al tema del metodo di studio, sia dal punto di vista teorico
(metacognizione: strategie di studio, immagine e convinzioni riguardo alle discipline, immagine di
sé e metodo di studio, emozioni e metodo di studio, ambienti di apprendimento e metodo di studio)
che dal punto di vista dell’esperienza dello studente.
SECONDO BIENNIO
Sono affrontati in maniera più sistematica:
a) i principali metodi di indagine della psicologia, i tipi di dati (osservativi, introspettivi ecc),
insieme alle relative procedure di acquisizione (test, intervista, colloquio ecc.);
b) le principali teorie sullo sviluppo cognitivo, emotivo e sociale lungo l’intero arco della vita e
inserito nei contesti relazionali in cui il soggetto nasce e cresce (famiglia, gruppi, comunità sociale).
Vengono anche presentate alcune ricerche classiche e compiute esercitazioni pratiche per
esemplificare, attraverso una didattica attiva, nozioni e concetti. A tal fine è prevista la lettura di
testi originali, anche antologizzati, di autori significativi quali Allport, Bruner, Erickson, Freud,
Lewin, Piaget e Vygotskij.

Sociologia
SECONDO BIENNIO
In correlazione con gli studi storici e le altre scienze umane lo studente affronta i seguenti
contenuti:
a) il contesto storico-culturale nel quale nasce la sociologia: la rivoluzione industriale e quella
scientifico-tecnologica;
b) le diverse teorie sociologiche e i diversi modi di intendere individuo e società ad esse sottesi.
Teorie e temi possono essere illustrati attraverso la lettura di pagine significative tratte dalle opere
dei principali classici della sociologia quali Compte, Marx, Durkheim, Weber, Pareto, Parsons.
E’ prevista la lettura di un classico del pensiero sociologico eventualmente anche in forma
antologizzata.
QUINTO ANNO
Durante il quinto anno sono affrontati in maniera sistematica:
a) alcuni problemi/concetti fondamentali della sociologia: l’istituzione, la socializzazione, la
devianza, la mobilità sociale, la comunicazione e i mezzi di comunicazione di massa, la
secolarizzazione, la critica della società di massa, la società totalitaria, la società democratica, i
processi di globalizzazione;
b) il contesto socio-culturale in cui nasce e si sviluppa il modello occidentale di welfare state;
c) gli elementi essenziali dell’indagine sociologica "sul campo", con particolare riferimento
all’applicazione della sociologia all'ambito delle politiche di cura e di servizio alla persona: le
politiche della salute, quelle per la famiglia e l’istruzione nonché l'attenzione ai disabili
specialmente in ambito scolastico.
Per ciascuno di questi temi è prevista la lettura di pagine significative tratte da autori classici e
contemporanei.

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