Psicologia e Pedagogia
Indice .
La Psicologia generale
I. La percezione
Percezione e sensazione; i sensi. 13
Le teorie sulla percezione - Percezioni senza stimolo. 14
Le figure reversibili 15
La percezione delle figure. 16
I principi gestaltici di raggruppamento percettivo. 17
La giovane e la vecchia. 19
Le costanze percettive. 20
Distanza e profondità. 20
Le illusioni percettive. 22
Movimenti illusori. 25
Parapsicologia: la percezione extrasensoriale. 26
II. La memoria
I compiti della memoria. 27
La formazione del ricordo. 27
L’oblio. 29
Il richiamo. 30
I tipi di memoria. 31
I disturbi della memoria. 32
III. L’apprendimento
L’apprendimento per condizionamento. 35
L’apprendimento cognitivo. 37
L’apprendimento sociale. 39
Contributi dell’Etologia. 40
VI. L’iniziazione 81
mappe concettuali 83
INTRODUZIONE ALLE SCIENZE UMANE:
SCIENZE DELL’UOMO E DELLA SOCIETÀ
Nel corso del ‘900, molti studiosi hanno sviluppato la convinzione che per capire gli esseri umani
sia necessario studiare i fatti che li riguardano contemporaneamente da diversi punti di vista: la loro
comprensione sarebbe altrimenti impossibile. Da questa concezione è nata la tendenza a collegare le
discipline che si occupano dell’essere umano e della vita sociale con denominazioni unitarie come:
Tutti questi saperi si incentrano sullo studio di un ambito specifico: la storia si occupa degli avve-
nimenti del passato, l’economia si rivolge ai processi di produzione e allo scambio-consumo di beni
e servizi, la scienza politica alle questioni relative al governo, e così via. Ma i metodi utilizzati sono
spesso comuni e i reciproci confini non sono né netti né stabili: i risultati raggiunti in un campo di-
sciplinare possono facilmente essere trasferiti in altri.
- il ruolo delle trasformazioni delle istituzioni sociali all’interno delle quali si svolge la vita perso-
nale e sociale (la famiglia, la scuola, la comunità allargata, la città, l’ambiente di lavoro, le strutture
socio-sanitarie e del tempo libero) e i sistemi dell’informazione e della comunicazione;
- i processi di formazione, intesi come processi permanenti che accompagnano gli uomini e le
donne dall’infanzia alla vecchiaia, e le metodologie di insegnamento grazie alle quali è possibile
realizzare interventi educativi e didattici efficaci;
- la molteplicità delle metodologie di ricerca attraverso le quali ciascuna delle scienze umane
analiz-za e interpreta i problemi posti dal proprio ambito di ricerca, contribuendo in tal modo ad
ampliare la conoscenza dei vari aspetti della realtà personale, sociale, culturale ed educativa.
Affrontando, in tal modo, le differenti sfere dell’esistenza personale, culturale e sociale, le scienze
umane permettono di mettere a fuoco gli scenari e le sfide in cui la società contemporanea è
coinvolta e di individuare possibili nuovi modelli di sviluppo in cui siano garantiti a tutti i
fondamentali diritti alla vita, all’istruzione, alla differenza, al gioco, alla creatività, alla felicità.
1. La psicologia è rivolta all’analisi sistematica dei processi comportamentali e delle funzioni
men-tali nelle loro molteplici manifestazioni emotive, cognitive e relazionali.
Essa si articola in ambiti specifici e si interessa delle varie funzioni cognitive della mente, quali:
La psicologia prende inoltre in esame le relazioni tra gli individui, tra i gruppi, tra individui e
gruppi appartenenti a culture diverse, considerate all’interno dei vari momenti e ambienti di vita;
mette a fuoco le diverse fasi del corso della vita nei loro risvolti cognitivi, affettivi e relazionali.
2. La pedagogia studia la formazione dell’uomo e della donna intesa come processo permanente
che accompagna l’intero corso della vita e che si realizza nei differenti contesti storici, culturali e
so-ciali. Essa si occupa di approfondire e di comprendere le dinamiche con cui, a partire
dall’infanzia, uomini e donne imparano a costruire la propria identità e a progettare la propria
esistenza attraverso una continua revisione e ricostruzione delle proprie esperienze e conoscenze.
In questa prospettiva, la pedagogia si propone di comprendere i fattori - storici, culturali, sociali -
che favoriscono o ostacolano la crescita intellettuale degli individui, il perseguimento di un’autono-
mia cognitiva e affettiva, l’emancipazione da stereotipi e pregiudizi, e di individuare le condizioni
in grado di motivare e sostenere il dispiegamento del ricco patrimonio di risorse mentali di cui
ciascuno è dotato.
La pedagogia si propone di studiare le condizioni per uno sviluppo integrale delle molteplici di-
mensioni della vita personale e sociale:
Essa si propone inoltre di studiare le condizioni per la costruzione di una società democratica,
fondata su valori come:
3. La sociologia studia i fenomeni e i processi che caratterizzano la vita associata con particolare
riferimento alle relazioni sociali, alle azioni degli individui, alle loro interazioni e alle
trasformazioni della società e delle istituzioni che la costituiscono.
Oggetto di indagine della sociologia sono, più in particolare, le correlazioni tra i fenomeni sociali
nelle diverse sfere in cui gli individui vivono, crescono e si formano:
4. L’antropologia (dal greco ànthropos, “uomo”, e lògos, “discorso” o “scienza”) nel suo signifi-
cato più ampio può essere definita la “scienza dell’uomo in generale”. lo studio dell’uomo, però,
può essere condotto in molti modi: ad esempio vi sono ricercatori specializzati nell’indagine delle
caratteristiche genetiche e biologiche della nostra specie (si parla a questo proposito di antropologia
fisica), altri hanno riflettuto in termini generali sui significati e sui valori della natura umana (antro-
pologia filosofica) e così via.
L’antropologia culturale, invece, si occupa della molteplicità e delle diversità delle forme di vita
e di pensiero che hanno contraddistinto l’esistenza di individui e di gruppi umani nel corso della
storia dell’umanità e nella varietà dei luoghi geografici. Essa è interessata a rilevare tanto le
differenze quanto le somiglianze (“ricorrenze”) tra comportamenti, idee, forme di vita sociale nel
confronto tra società diverse.
Per gli antropologi ,“cultura” non è semplicemente la conoscenza di alcune materie o discipline
(corrispondente a ciò che intendiamo quando diciamo che un determinato individuo “ha una buona
cultura”), né un semplice insieme di contenuti specifici (la legge, il costume, l’arte); piuttosto gli
an-tropologi chiamano cultura l’insieme delle idee condivise dai membri di un gruppo, idee che
orien-tano i comportamenti e si manifestano tanto nelle azioni quanto nelle produzioni individuali e
collet-tive: nella “cultura non-materiale” e nella “cultura materiale”.
La cultura materiale comprende tutti i manufatti, ossia gli oggetti che gli esseri umani producono
e ai quali danno un significato: ruote, abiti, scuole, fabbriche, città, libri, veicoli spaziali, ecc.;
La cultura non-materiale comprende prodotti più astratti - linguaggi, idee, credenze, regole,
costu-mi, miti, abilità, modelli familiari, sistemi politici.
scienze
umane sociali
scienze socio-umane
1. PSICOLOGIA => analisi sistematica dei processi comportamentali e delle funzioni mentali
nelle loro molteplici manifestazioni emotive, cognitive e relazionali.
2. PEDAGOGIA => formazione intesa come processo permanente che accompagna l’intero corso
della vita e che si realizza nei differenti contesti storici, culturali e sociali
corporea
vita personale intellettuale
e dimensione affettiva/relazionale
sociale estetica
etico/sociale
studio dell’uomo
caratteristiche genetiche/biologiche diversità delle forme di vita dei gruppi umani
della nostra specie nel corso della storia dell’umanità e
nella varietà dei luoghi geografici.
confronto tra società/culture diverse
“cultura”
inculturazione vs acculturazione
processo di apprendimento con cui processi conseguenti all’incontro tra più culture:
ogni soggetto assimila i valori, le conoscenze, ogni cultura, per quanto isolata, si costruisce e si trasforma
i comportamenti del proprio gruppo anche attraverso l’incontro/scambio con culture differenti.
Che cos’è la psicologia? Cosa significa studiare la “psiche”? Nel primo trattato sulla “psychè” (ani-
ma, soffio vitale), scritto da Aristotele nel IV secolo a. C., la psicologia è una riflessione speculativa,
filosofica, sull’anima; tale, sostanzialmente, essa rimarrà sino al XIX secolo.
Nella seconda metà dell’ottocento la psicologia acquista una sua autonomia scientifica; ad essa ven-
gono applicati i canoni allora vigenti del metodo sperimentale ed hanno inizio le prime ricerche em-
piriche e sistematiche sui processi psichici. Abbandonato poi il modello rigidamente sperimentale, la
psicologia si presenta, allo stato attuale, come una scienza “aperta” a numerosi metodi d’indagine,
nella quale confluiscono gli apporti di scienze diverse.
Qual è dunque l’oggetto di indagine della psicologia? Tra le tante definizioni possibili, una delle
meno limitative è la seguente:
la psicologia, ponendosi di fronte al comportamento dell’organismo, indaga
il funzionamento della mente umana nel suo costante interagire col mondo.
In questa definizione possiamo notare il riferimento a due livelli: un livello esteriore, esplicito, og-
gettivamente evidente (il “comportamento”) ed un livello più segreto, interno (implicito) spesso pa-
ragonato alla “scatola nera” delle apparecchiature elettroniche complesse (“mente”, “inconscio”),
che nasconde al suo interno meccanismi e programmi strategici attraverso i quali si esplica l’attività
mentale.
Per organismo si intende l’unità psico-fisica della persona, l’essere umano nella sua totalità.
Oggi è ormai generalmente assimilato anche al livello del senso comune l’influsso reciproco tra “psi-
che” (mente) e “soma” (corpo). E’ però importante non trasformare l’unitarietà psico-fisica, che è
un processo sempre dinamico, in una specie di “entità”; essa non è una “realtà” statica , ma sem-
plicemente un modello descrittivo unificante, in divenire.
Il termine mente non sta ad indicare, come nella vecchia psicologia sperimentale, un concetto
statico (la mente come apparato dotato di certe proprietà e funzioni studiabili isolatamente), ma
bensì quel tipo di organizzazione interna che permette all’intero organismo di interagire costante-
mente con l’ambiente e di adattarsi attivamente ad esso.
Il concetto di interazione non indica una serie di itinerari lineari di andata e ritorno (azione e
reazione), ma fa riferimanto ad un processo circolare e continuo che coinvolge organismo e ambiente
in maniera dinamica.
Il termine mondo, apparentemente poco “scientifico”, sembra indicare con efficacia maggiore,
rispetto alla ristrettezza dei termini “ambiente” o “realtà” , la complessità della situazione nella
quale l’individuo è immerso come parte integrante di un sistema di relazioni.
Indirizzi e settori di studio della psicologia
La psicologia scientifica si affaccia alla storia solo nella seconda metà dell’800. Nel corso del suo
sviluppo ha dato luogo al formarsi di varie scuole e indirizzi di ricerca, spesso in conflitto tra loro.
L’Associazionismo è la teoria risalente ai filosofi empiristi anglosassoni che nell’800 viene ripresa
da vari scienziati (Helmholtz, Weber, Fechner, ecc.) ed applicata alla psicologia; secondo tale teoria
ogni evento psichico complesso deriva da associazioni di idee semplici, attraverso la combinazione
di elementi di ordine sensoriale che si organizzano in base a regole associative.
L’idea della psicologia come scienza a sé stante, autonoma, si deve a Wilhem Wundt, fondatore nel
1875 del primo laboratorio di psicologia fisiologica (a Lipsia) e ideatore dell’Introspezionismo, una
tecnica di studio dei processi mentali (sensazioni, emozioni, ragionamenti) che si fonda sul resocon-
to metodico fornito dallo stesso soggetto (si trattava di solito di studenti del laboratorio).
All’inizio del ‘900 nasce in ambito psichiatrico, grazie all’opera di Sigmund Freud, la Psicoanalisi,
disciplina che, sulla base di ipotesi e teorizzazioni relative al funzionamento psichico dell’individuo,
si pone come procedimento volto all’analisi dei processi mentali inconsci, osservabili in particolare
attraverso le “associazioni libere” e l’interpretazione dei sogni del soggetto in analisi. Le sue princi-
pali linee di sviluppo riguardano la teoria dell’inconscio e la psicoterapia.
Nel 1913 negli Stati Uniti Watson da l’avvio ad un’altra corrente: il Comportamentismo, che si
oppone alla introspezione ed allo studio soggettivo. Watson riteneva infatti che l’unico oggetto di
studio scientificamente accettabile siano i comportamenti osservabili.
Contemporaneamente si sviluppa in Germania la Psicologia della Forma (Gestalt), scuola che
studia i fenomeni in modo globale, nel loro insieme; essa parte dal presupposto che l’insieme ha
proprietà specifiche che non corrispondono alla semplice somma delle parti che lo compongono.
Nel secondo dopoguerra si afferma il Cognitivismo, corrente che studia i processi mentali impli-
cati nella raccolta, recepimento, comprensione, memorizzazione ed uso delle informazioni.
A partire dagli anni cinquanta si sviluppa invece la Psicologia sistemica , indirizzo che studia il
mondo psichico a partire dal sistema della comunicazione regolato dalle leggi della totalità, della re-
tro-azione (“feed-back”) e della equifinalità (“ogni sistema è la miglior spiegazione di se stesso”).
omeostatiche
non verbale: MOTIVAZIONI primarie / secondarie
verbale mimico affettivo consapevoli/ inconsce
gestuale emotivo estrinseche / intrinseche
prosodico
posturale sociale
prossemico creativo
La percezione è un’attività psichica intermedia: sta un gradino più su della semplice sensazione,
ma è al di sotto di attività più complesse, come il pensiero, la memoria, il linguaggio.
Sensazione e percezione. Per sensazione intendiamo gli effetti immediati e semplici del contatto
dei nostri recettori sensoriali con i segnali provenienti dal mondo esterno; si tratta di un fatto biolo-
gico, che per molti psicologi costituisce un’astrazione, in quanto è assai difficile ipotizzare nell’uo-
mo un processo di questo genere, nel quale non compaia alcun processo “mentale”. Tale elaborazio-
ne mentale compare invece nella percezione: con il termine “percezione” intendiamo il processo in-
terno dell’organismo attraverso il quale la nostra mente elabora e organizza le informazioni deri-
vanti dall’incontro tra i nostri recettori sensoriali e i dati provenienti dal mondo esterno.
I sensi. I sensi portano al cervello informazioni sui fenomeni fisici e chimici del nostro ambiente.
Siamo immersi in una realtà ricca di tali fenomeni: noi non siamo sensibili a tutti, bensì solo ad alcu-
ni. Possediamo una molteplicità di sensi. Quattro (la vista, l’udito, il gusto e l’olfatto) sono detti
sensi speciali, perche gli organi che li rendono possibili (occhio, orecchio, lingua, naso), sono com-
plessi e altamente specializzati (con specifici recettori: fotorecettori, sonorecettori, chemiorecettori).
Esistono poi i sensi cutanei, i cui organi sono distribuiti in una miriade di punti sulla pelle.
Anch’essi sono quattro: sensibilità tattile, dolorifica, al caldo, al freddo (termorecettori).
Abbiamo poi vari sensi interni che (attraverso interocettori) ci portano informazioni dall’interno del
nostro corpo: dai visceri, se sono sofferenti per qualche ragione, ci arrivano sensazioni di dolore, dai
muscoli e dai tendini sensazioni sul loro stato di contrazione e tensione e da una parte dell’orecchio
(i canali semicircolari) sensazioni di equilibrio.
La percezione conscia dei propri movimenti, resa possibile dalla presenza di “propriocettori” (mu-
scoli, tendini, articolazioni) e coordinata da informazioni visivo-uditive viene chiamata cinestesia, e
costituisce, vista la sua rilevanza, quasi un “sesto senso”. Viene invece definita cenestesia la perce-
zione generale ed immediata del proprio corpo, determinata dall’insieme delle sensazioni, parzial-
mente inconsapevoli, di benessere-malessere; tale percezione è fondamentale nel periodo neonatale
ed infantile, ma mantiene la sua rilevanza anche nella vita adulta.
La vista occupa un posto particolare nello studio della percezione. Nella storia della psicologia la
maggior parte delle ricerche sono state sulla percezione visiva. Da un punto di vista funzionale l’oc-
chio ricorda una macchina fotografica e possiede vari dispositivi ottici. La retina fa da recettore del-
le informazioni visive e ne inizia l’elaborazione, trasformando le stimolazioni luminose in informa-
zioni di natura elettrica, avviandole lungo il cavo del nervo ottico e spedendole ai centri cerebrali su-
periori.
I fotorecettori sono cellule nervose capaci di trasformare l’energia luminosa che li colpisce in ener-
gia elettrica; di conseguenza si eccitano quando sono investite dalla luce. I fotorecettori sono di due
tipi: coni e bastoncelli. I bastoncelli sono numerosissimi (oltre 120 milioni), sono sensibili alla luce
debole, non distinguono i colori e non sono in grado di darci una visione distinta. I coni, che sono in
tutta la retina solo 5 milioni circa, rispondono esclusivamente a una luce forte, ma distinguono i co-
lori e sono responsabili della nostra visione distinta; essi agiscono solo nella visione diurna, a diffe-
renza dei bastoncelli, che entrano in azione al crepuscolo.
Le teorie sulla percezione. La percezione è dunque il processo attraverso il quale il cervello elabo-
ra le informazioni dei sensi e ci mette in grado di cogliere adeguatamente la realtà circostante.
Nella tradizione troviamo due diversi modi di concepire la percezione: la teoria realistica e la teoria
della rappresentazione.
(1) Secondo la teoria realistica gli oggetti della realtà si impongono sul nostro cervello, penetrano
in noi e obbligano la nostra mente a percepirli come sono. La concezione realistica, presente fin dal-
l’antichità (a partire da Leucippo) sostiene che la vista funziona per contatto: delle scorze sottili, i
simulacri, si staccano dagli oggetti e penetrano nell’occhio, trasmettendo la visione dell’oggetto.
Nel XVI secolo i simulacri saranno sostituiti dalle specie, ma è solo un cambiamento di termini.
(2) La teoria della rappresentazione dice che il cervello organizza, a partire da stimoli esterni o
interni, la realtà che ci si presenta, mediante procedimenti figurativi, schemi e criteri interiori. Tutto
ciò che vediamo è dunque frutto di una nostra costruzione, ma questo non significa che fuori gli og-
getti non ci siano, che sia tutto inventato da noi: il nostro cervello costruisce scene che trovano buo-
na corrispondenza nella realtà che c’è fuori. Il cervello riceve le informazioni dei sensi e ci lavora so-
pra fino a ricavarne percezioni, cioè fino a raffigurare le cose che vediamo; esso opera portando
avanti un vero ragionamento inferenziale: coglie gli indizi, formula ipotesi avvalendosi del-
l’esperienza passata (“pregressa”) e degli schemi innati.
.
Secondo la teoria associazionistica, che risale ai filosofi empiristi anglosassoni (Hobbes, Locke,
Berkeley) ed è stata ripresa nell’800 dalla prima scuola sperimentale di psicologia (Wundt) il cervel-
lo, basandosi sull’esperienza passata, associa, ad una data somma di sensazioni, determinate perce-
zioni presenti, pervenendo al riconoscimento di un “oggetto”.
Gli psicologi della Gestalt (scuola nata in Germania all’inizio del 900, che ha avuto molta impor-
tanza nella storia degli studi sulla percezione) il cervello possiede fin dalla nascita schemi e criteri
per organizzare il materiale fornito dai sensi, cui diamo “forma” (la parola tedesca Gestalt significa
proprio forma, configurazione).
Oggi è diffusa la convinzione che sia nella concezione associazionistica che in quella della Gestalt
ci sia del vero, però prevale la teoria del ragionamento inferenziale: per cogliere gli indizi, formu-
lare le ipotesi e vagliarle, il cervello si avvale sia dell’esperienza passata (come sostenevano gli asso-
ciazionisti), sia di schemi innati (come dicevano gli psicologi della Gestalt). Noi guardiamo e subito
percepiamo, vediamo senza “pensare”. In effetti però il nostro cervello ragiona, ma si tratta di un
ragionamento inconsapevole, che avviene senza che ce ne rendiamo conto.
Percezioni senza stimolo. Esistono anche situazioni in cui i sensi non forniscono alcun dato, manca
lo stimolo, ma la percezione c’è ugualmente: si tratta delle percezioni senza stimolo, che possono
comparire in forma di allucinazioni nelle malattie mentali come la schizofrenia, oppure nei casi di
deprivazione sensoriale (quando un soggetto rimane a lungo in condizione di grave carenza di stimo-
li). Le percezioni senza stimolo possono comparire anche in condizioni normali o quotidiane, come
l’attività onirica: nei sogni, si hanno infatti percezioni senza stimoli, essenzialmente visive.
fl-e figure nevensíbí!i
Le figrrr-e reversibiii sotro così dette in quanto possorlo nìLrtafe il lor-o aspetto se
si lissnttt> Pct Llll cet-to terlrpo. Acl escnrpirt nel cttbo tli Neclcer (cl1l no6ie clel slcr {íg. 6. Fìgura revc,r'.siltile
scopritore) si vede che si può percepile inclifferentemente in prinio pialo ìo Si percepi.sce unu tlcntruL grovane itt tLllat
spi-
golo A oppure lo spigolo B (fig. 7). un'aìtra prospettiva cleilo siesso cubo pie- t10it?.a cotl ttna t,ecchitL.
è
senit: rìella fìgura 8, nella. quale è conrunqr-re piir clilticile il ribaìtarlepto percet-
tivo. l-:r cliflererrza stzr trel latto clre nella ligtrra 7la pr.r-rspettiva clelilea il.,iuro-
tlente la tridirnensionalità, rnentre la figtrra 8 viene ei.roneamente percepita co-
rne figura piana (cioè Lln esagono regolare).
Fìg. 9.
Fig. 10.
Fig. I 1. La reversibilità di
Jeslrout
kt reversibilità dipertde dalla di-
reziotre dello sgttardo: da destra a
sírtistra si percepisce Lula papera,
da sittistra a destra un corúglio.
'?l:fiin$
i:D
tone
ffi
ffi
2. LA PERCEZIONE DELLE FIGURE
LaJîguru unità percettíva della pereezíone. Lafigara è I'elemento base, lounità della percezione;
con il termine figura intendiamo qualsiasi entità visiva (o uditiva) che abbia un aspetto proprio, di-
stinguibile per forma e colore.
Individuare una figura significa isolarla dal resto; una figura viene infatti individuata staccandola da
uno sfondo (operazione quasi sempre automatica e inconsapevole), e questo awiene solo se essa ha
un bordo o contorno che la racchiude, anche non del tutto completo (basta che dia I'impressione di
chiusura). (cfr. le figure di percezioni fluttuanti figura-sfondo). --*.
iYi
t_---
L'estraibilfià. Aflinchè una figura venga staccata dallo sfondo, è necessario che si possa estrarla da
eventuali figure piu complesse in cui risulta inserita, come nel caso delle fiigure mascherate, o nei
casi di mimetizzazione.
Come l'occhio esplora Ie figure. Per cogliere una hgura ci vuole tempo, non basta una semplice oc-
chiata, ma occoffe un lavoro di esplorazione. Con sistemi che consentono di registrare i movimenti
oculari di una persona che guarda un oggetto, possiamo studiare come awiene l'esplorazione delle
figure. Gli occhi altemano movimenti piccoli e assai rapidi (a seconda dell'ampiezzadel movimento
durano da2 a 10 centesimi di secondo), per lo piu involontari, detti saccadi (dal francese saccade:
scossa, sbalzo), a soste di 15-20 centesimi di secondo, dette fissazioni. Nel complesso I'esplora-
zione procede a scatti. In ognuno si inquadra un particolare e solo alla fine si coglie I'insieme.
:
:: i ;.: í.. il!!'J t: ; Ílt:rjÈc {Ìs4ir {: *r h i ri t} ; i *:} í! ; a} r a:i + n t: ii :
i..,.id iiir.Ji..;" ll diagramma sulla destra è la registrazione
del moto oculare di un osservatore che ha guardato la
foto per due mìnuti. I segmenli corrispondono alle sac-
cadi, cìoè agli spostamenti rapidi degli occhi, i nodi alle
fissazioni, in ciascuna delle quali I'osservatore vede niti-
damente un pezzo del viso. Notare come Io sguardo
insista sulla bocca, gll occhi, il naso e il ciutfo.
Nelle scene che noi vediamo sono contenute più figure. Noi tendiamo automaticamente a raggrup-
parle in base ad alcuni criteri.. Gli psicologi della Gestalt, convinti che gli uomini possiedano una ge-
nerale tendenza al collegamento, hanno raccolto molti esempi di raggruppamento percettivo delle fi-
gure. Da questo ricco materiali hanno ricavato alcune regole fondamentali in base alle quali operiamo
i raggruppamenti: i principi gestaltici di raggruppamento. Esaminiamoli uno per uno.
VICINANZA
2. somiglianza: le figure simili vengono percepite come appartenenti ad uno stesso gruppo.
SOMIGLIANZA
3. chiusura: se più figure possono essere interpretate come una forma chiusa, tendiamo a percepir-
le come un complesso unitario.
CHIUSURA
4. continuità: mettiamo insieme gli elementi che sembrano andare nella stessa direzione.
CONTINUITÀ
SIMMETRIA
6. significato: se più figure, messe insieme, costituiscono un simbolo familiare, le percepiamo come
un gruppo unitario.
SIGNIFICATO
Tutti questi principi hanno valore pratico, perchè sono importanti nella percezione corrente della
realtà che ci circonda. Differenti principi di raggruppamento possono agire contemporaneamente.
A volte si rinforzano l’un l’altro, spingendoci decisamente a percepire determinati gruppi, mentre
altre volte possono entrare in conflitto.
In questa immagine, si può vedere un viso di donna giovane, oppure il viso di una vecchia. La
guancia arrotondata/mento della “giovane” è il naso della “vecchia”. La piccola punta che si intra-
vede, (l’occhio destro della “vecchia”), è il naso della giovane mentre l’occhio sinistro della “vec-
chia” é l’orecchio sinistro della “giovane”. La bocca della vecchia è la collana che segna il collo
della “gio-vane”. Il fazzoletto e la pelliccia rimangono indifferenti per entrambi le figure.
La giovane-vecchia, che fu analizzata dallo psicologo americano E.G. Boring, ottiene il suo effetto
costringendoci a percepire la figura come fluttuante tra due immagini nettamente contrastanti tra lo-
ro. L’ambiguità deriva dall’accurata disposizione delle linee che entrano in gioco nei due diversi
contesti visivi. Il significato delle linee cambia a seconda del modo in cui i nostri occhi osservano
la figura. Ad esempio, spostando lo sguardo verso il basso, dalla guancia e dalla mascella della gio-
vane, le stesse linee si trasformano nel grosso naso adunco della vecchia. Allo stesso tempo il na-
strino al collo della giovane diventa la bocca della vecchia. Benché lo spostamento degli occhi
faciliti tale inversione, è del tutto superfluo.
Ci sono cambiamenti della scena visiva che nei processi percefiivi vengono annullati. I sensi ci in-
formano che ò in atto una variazione, tuttavia il nostro cervello fa in modo che questa non venga av-
vertita. Il fenomeno per cui un dato cambiamento, segualato dai sensi, viene mentalmente annullato
prende il nome di costanza percettiva; ogni deformazione transitoria degli oggetti conosciuti viene,
dal nostro cervello, considerata irrilevante e quindi automaticamente "annullata" all'ifttemo del pro-
cesso percettivo.
Nel fenomeno della costanza di grandezza il /r;r,v-
cervello conegge i dati della grandezza con quel- ( 't' ''i ,:)
li della distanza. In pratica ridimensiona l'imma- \,\<-:-/.*7 n
ll
gine retinica in proporzione alla distanza.
ffi L_l
Nella costanza di forma il cervello annulla ognr \\#st
ffi
deformazione dell' o ggetto dovuta alla pro spettiva.
Nella costanza di colore il cervello corregge gli
f,
effeui dovuti alle condizioni di illuminazione.
illl
\\i
ffi=a.
* 'l;il;É-l.+ A
II
II
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Nonostante l'immagine retinica sia sempre e soltanto bidimensionale, cioè piatta, noi non solo ve-
diamo il mondo a tre dimensioni, ma sappiamo collocare correttamente gli oggetti a una distanza va-
riabile da pochi centimetri a parecchi metri. Per ricavare la distanza e la profondita ci awaliamo di
una molteplicita di indicatori o indici. Alcuni, detti indicatori binoculari, funzionana grazie ai lavoro
simultaneo dei due occhi. Akn, indicatori monoculari, valgono anche quando guardiamo con un oc-
chio solo.
Gli indicatori binocularl sono molto efficaci, per valutare le distanze disponiamo di due meccani-
smi binoculari. Il primo è basato sulla convergenza oculare. Allorchè fissiamo un oggetto, i due
occhi oonvergono, cioè puntano su di esso ruotando all'interno. Piu l'oggetto è vicino, maggiore sarà
il grado di convergenza degli occhi. Il cervello è informato di quanto gli occhi sono ruotati ail'interno
e si serve di questo per calcolare la distanza dell'oggetto.
Il secondo meccanismo vtilizza le informazioni che arrivano dalle due retine. Quando fissiamo un
oggetto, i due occhi non lo guardano dal medesimo punto di osservazione. Tra essi c'è una distanza
di alcuni centimetri, sufficiente a creare un differente angolo visuale. Di conseguenza I'immagine del-
l'oggetto che si forma sulla retina di sinistra sarà leggermente diversa da quella che si forma sulla re-
tina di destra. Questa diseguaglianza si chiama disparità retinica, o binoculare.
Indìcatorí monocularí. Disponiamo di vari indicatori di distanza e profondità che funzionano sen-
za bisogno dell'uso coordinato dei due occhi: i principali sono: la grandezzarelativa, il gradiente di
tessitura, la prospettiva lineare, I'altezza di campo, l'interposizione, la velatura o prospettiva aerea,
I'ombreggiatura.
GRaNogzzn Rgenttvn
felicottero più piccolo è per noi piùr lontano. Siccome si
tralta di due elicotleri sospesi nel cielo, non sovrapposti in
alcun punto, senza nient'altro in mezzo, non abbiamo altri
per giudicare la distanza, salvo la diversità di
"t"rn"nti
grandezza. Lagrandezza relaliva di ciascuno funziona da
indicatore di distanza e profondità.
GRnolEt'ttE ot resslruPa
.Le superfici che osserviamo quasi mai sono completa-
mente uniformi. Di solito hanno una trama, dovuta a diver-
sità di struttura da un punto alllaltro. ll campo arato, ad
esempio, è irregolare. Più,la superficie è lontana dai nostri
occhi, più la sùa tessitura è fitta. il regolare aumento di
densiià della trama di una superficie prende il nome di
gradiente di tessitura ed è per noi un indice di dìstanza e
profondità.
L i;Jsa:T;."... -rli:l:ìi
Le linee che convergono in un unico punto di fuga lontano
danno l'impressione della pro{ondiià e della distanza.
'i:iÈFF osi:lúrl
s%
5.
ffi
a-àppat" sempre più vicino, perché sovrapposto al b, indi-
pendentemente da come è orientato.
ry
giornate diverse. ln una è it mattino dopo una nevicata e il
óielo è ter=o, mentre nelt'altra il tempo è piovoso e il cielo è
opaco. La montagna appare nitida in un caso e velata nel-
I'altro. Questa diiferenza si ripercuote sult'impressione di
distanza: dopo la nevicata il Gran Sasso sembra assai piùl
vicino.
altuîBFr€GG!íiîiJFìa
Ilprocesso di percezione, ormai apparirà chiaro, sebbene sia inconsapevole, non è semplice e iine-
are.Il cervello si trova a formulare ipotesi e a decidere quali prendere e scartare. Nel caso delle per-
cezioni fluttuanti resta indeciso, come si è visto, tra ipotesi ugualmente plausibili. Non meraviglia
che, in particolari situazioni, possa anche essere tratto in inganno e concludere per l'ipotesi errata.
E' quel che accade nelle illusioni percettive.
Nei binari di Ponzo gli elementi che suggeriscono la prospettiva sono evidenti: basta pensare che il
disegno ricorda veri e propri binari: il meccanismo della costanza di grandezza e le regole della pro-
spettiva lineare vengono da noi inconsapevolmente applicati. Per capire capire che cosa dia la pro-
spettiva nel caso della freccia di N{úller-Lyer, possiamo irnmaginare cli prolungare i bracci della frec-
cia. Il segmento all'apparenzaptùpiccolo non è che uno spigolo rivolto verso di noi, (ad es. l'angolo
di un edificio), l'altro potrebbe essere I'angolo interno di una stanza'. ecco fatta la prospettiva.
Illusíone di Sancler. Illusiotti cli Orbison' lllusioni di direzione
Illusíotrc di Herìng.
[llusione di Wundt.
lllusioni di -estensione
Illusiorrc di Muller-Lyer.
Fig. 26.
Secondo tut'ipotesi strggestiva, conlèrntata arrclrc da!!'atttore, I'illusiotte tl' A4uller-Lvet'
sarebbe tleternlinata dat latto che il nostro apperato visivo htteryreterebbe le ligure a
lòrnn di li.ecce conte strutt;tre trídintertsiottali, sintili ad nt angolo este,1lo (a) e ad rut
angolo húenrc (b). Poiché Ia prospettiva detennír'ta delle distorsiorti, il nostro cenello,
nel tentatítto di contpensazione, eccederebbe irL setlso opposto, nel printo caso restrirt' La figura è impossibile in realtà per-
gendo il segnlento, nel secortdo espandendolo ché struttando particolari meccanismi
prospettici si propongono partendo
dall'alto due struttt-tre che tendono a
diventare tre nel graduarsi verso il
basso. Si gioca slti dualisrni pienrt-
VItolÒ C (t lla'o-l)i(tl ltr.
Il segnrerrto AB ha la stessa lunghez,za Illusìorrc di f itclrcner.
ll|usíone di Poggendorf.
clel segn'rento BC rna appare piir lur-r-
go. Il tratteggio verticale tende a
o
espandere il segnrento sovradimensìo-
nandolo. o o-o
o( )o
oóo oóo
v
U
,-\
Illusione di Oppel-Kundt. A
Le circonferenze cerìl-rali di A e di B
sono identiche, ma in A appare di
Il segmento obliquo AB appartietre etl- maggior grandezza- Il conteslo, corne
la stessa retta di CD, ma viene perce- dicevano i gestaltisti, gioca qui Lrn
pito come appartenente ad una retta ruolo determinante. Poiché le due cir-
parallela. conferenze sono entrambe circondate
da altre circonferenze si tende a rap-
portarle a queste: dal confronto la A
Illusione di Zollner- Illusìone dí Gíbson. esce ingrandita, la B rimpicciolita.
A
t\
ooo
oJci
ooo
X@
Fig. 3..l0. ll segmenlo .orizzontole Fio. 3.11. ll cerchio nero o destro è Fiq. 3.'ì2. Le linee verticoli vengono
più bosso è percepilo come più in"reohò uguole oll'oltro. pe-rcepite come non porollele.
corto di quello in oho.
a) il movimento indotto. Se la luna appare velata da nubi che corrono veloci nel cielo, ci sembrerà
che si sposti. La luna in realtà sta ferma, ma l’impressione di movimento delle nubi viene trasferita
su di essa. K. Duncker, psicologo della Gestalt, ha scoperto la regola fondamentale del movimento
indotto: il nostro cervello, nel dubbio, è sempre portato a decidere che a muoversi sia l’oggetto più
piccolo. Siccome la luna appare più piccola delle nubi, ci sembra che sia essa a muoversi.
b) Il movimento apparente. Questa illusione è alla base del cinematografo e della televisione.
Il primo studio sul fenomeno del movimento apparente fu fatto da Wertheimer (psicologo della
Gestalt), il quale proiettava un fascio di luce prima attraverso una fessura verticale e poi attraverso
una inclinata. Se la successione delle due luci era molto rapida, i soggetti vedevano due immagini lu-
minose distinte, una verticale e una inclinata, proiettate contemporaneamente. Se la successione era
troppo lenta, i soggetti vedevano le due luci in successione. Rispettando un intervallo ottimale ap-
pariva il movimento: la luce verticale si spostava verso la posizione inclinata.
Nel cinema e nella televisione si susseguono fotogrammi, anzichè semplici luci, ma il principio è il
medesimo. Il vecchio cinema muto, in cui i movimenti sono a scatti, presenta fotogrammi a un ritmo
di 16 al secondo. L’attuale cinema, dove il movimento è fluido, a ritmo di 24 e la televisione di oltre
25 al secondo.
Il movimento apparente si spiega perchè il sistema immagine-retina per la percezione del movi-
mento non è perfetto. Il nostro cervello non distingue tra un’attivazione di recettori retinici vicini in
sequenza continua e con una brevissima discontinuità. Perciò può essere ingannato e confondere la
rapida successione di immagini col movimento dell’immagine.
c) Il fenomeno autocinetico. Mettiamoci in una stanza al buio con una piccola luce. Fissiamola a
lungo. Dopo un pò la luce comincerà a muoversi. In realtà, com’è ovvio, sta ferma. Si tratta di un’il-
lusione, nota come fenomeno autocinetico.
Il fenomeno auto cinetico dipende da una piccola disfunzione nel meccanismo occhio-testa di per-
cezione del movimento.
Per guardare a lungo la luce, stando al buio, occorre spostare ripetutamente gli occhi per mantenere
la fissazione sull’oggetto. Questo provoca una certa stanchezza dei muscoli oculari. Ad un certo
punto il cervello deve mandare ordini ai muscoli per mantenerne la contrazione, cioé per compensare
la loro stanchezza, per tenerli svegli, potremmo dire. L’ordine di mantenere la contrazione di per sé
è uguale a quello di movimento, solo che, anzichè produrre movimento, ha semplicemente l’effetto
di impedire il rilassamento da stanchezza.
Dato il funzionamento del sistema occhio-testa, se è partito l’ordine di movimento dell’occhio e
non c’è stato uno spostamento consequenziale dell’immagine sulla retina, vuol dire che l’oggetto si è
mosso e gli occhi l’hanno seguito. Quindi il cervello conclude che la luce si muove. Si sbaglia, perchè
in realtà ciò che sta accadendo è solo che i muscoli oculari sono stanchi.
LA PARAPSICOLOGIA
La parapsicologia è lo studio di ciò che sta oltre (gr. pará) i fenomeni noti alla psicologia. Tali fe-
nomeni, detti anche per questa ragione “occulti”, sono stati distinti in due classi:
SENSAZIONE per sensazioni intendiamo gli effetti immediati e semplici del contatto
dei nostri recettori sensoriali con i segnali provenienti dal mondo esterno.
percezione
sensazione
coni -> rispondono alla luce forte -visione diurna
retina
bastoncelli -> rispondono alla luce debole - visione notturna
cinestesia: percezione conscia dei propri movimenti, resa possibile dalla presenza di “proprio-
cettori” (muscoli, tendini, articolazioni) coordinata da informazioni visivo-uditive
della Gestalt il cervello possiede fin dalla nascita schemi e criteri per
organizzare il materiale fornito dai sensi, cui diamo “forma”.
fissazioni
2. somiglianza -> le figure simili vengono percepite come appartenenti ad uno stesso gruppo
3. chiusura -> se più figure possono essere interpretate come una forma chiusa, tendiamo
a percepirle come un complesso unitario.
4. continuità -> mettiamo insieme gli elementi che sembrano andare nella stessa direzione
5. simmetria -> tendiamo a riunire tra loro gli elementi simmetrici per formare figure uniche
6. significato -> se più figure, messe insieme, costituiscono un simbolo familiare, le percepiamo
come un gruppo unitario.
COSTANZE PERCETTIVE
fenomeno per cui un dato cambiamento, segnalato dai sensi, viene mentalmente annullato;
ogni deformazione transitoria degli oggetti conosciuti viene, dal nostro cervello, considerata
irrilevante e quindi automaticamente “annullata” allʼ interno del processo percettivo.
costanza di grandezza -> il cervello corregge i dati della grandezza con quelli della distanza
costanza di forma -> il cervello annulla ogni deformazione dellʼ oggetto dovuta alla prospettiva
costanza di colore -> il cervello corregge gli effetti dovuti alle condizioni di illuminazione
convergenza oculare
binoculari
disparità retinica
c) fenomeno autocinetico
LA MEMORIA
Nella vita pratica ricordare e disporre di strategie che aiutino a ricordare è assai importante. La
psicologia scientifica si è interessata alla memoria fin dalle origini: le prime ricerche sulla memoria
furono infatti effettuate da Hermann Ebbinghaus (1850 - 1909), il quale pubblicò le sue ricerche
(Sulla memoria) nel 1885. La psicologia ha dunque cercato di capire come funziona la memoria e di
trarre dalla conoscenza dei suoi meccanismi suggerimenti pratici utili in tutti i campi, nella recitazio-
ne e nell’oratoria, ma anche nello studio e nelle più comuni attività di tutti i giorni.
Le misure per valutare la memoria possono variare a seconda deil tipo di soggetti, del materiale, del
contesto e del tipo di memoria che si vuole esaminare. I metodi più usati, corrispondenti anche ai
principali compiti della memoria, sono la rievocazione, il riconoscimento, il riapprendimento, la
reintegrazione.
La rievocazione è il ricordo di qualcosa che é stato appreso e immagazzinato in precedenza,
senza alcun riferimento circostanziato al proprio passato e senza che venga fornito alcun aiuto (ad
esempio, si recita una poesia appresa in un lontano periodo di studio, o si risponde, senza suggeri-
menti, ad una domanda come “Qual è la capitale della Francia?”).
Il riconoscimento è la capacità di identificare, in un’esperienza successiva, un determinato
elemento già conosciuto, scegliendolo tra alcuni altri (ad esempio, la domanda precedente, “Qual è
la capitale della Francia?” presentata però in un quesito a scelta multipla in cui si può scegliere tra
tre possibilità: a. Madrid, b. Berlino, c. Parigi).
Il riapprendimento è la ripetizione di un’esperienza di apprendimento un pò di tempo dopo
la prima acquisizione, come quando, ad esempio, a distanza di anni studiamo nuovamente un argo-
mento di storia (ad es. la rivoluzione francese) già affrontato.
La reintegrazione è il tipo di ricordo più completo; grazie a tale capacità il soggetto è in grado
di localizzare spazialmente e temporalmente nel proprio passato un evento personale (“rimembran-
za”) ricostruendolo nei suoi dettagli percettivi ed affettivi (ad esempio, il ricordo di una festa estiva
di cui ricordiamo come eravamo vestiti, chi abbiamo incontrato, che musica abbiamo ascoltato, che
cosa abbiamo mangiato, quanto ci siamo divertiti o annoiati, ecc.). La capacità di reintegrazione può
essere valutata attraverso la tecnica del “ricordo guidato”: domande calibrate relative ai contenuti da
rievocare.
Per formazione del ricordo si intende il processo attraverso il quale le informazioni in arrivo sono
memorizzate in modo da poter essere richiamate a distanza di tempo. A volte, anzichè parlare di
formazione del ricordo, si usano i termini fissazione o registrazione o immagazzinamento.
(2) Organizzazione. Il materiale studiato può essere lasciato disorganico, privo di unità.
Diversamente chi memorizza può incamerare il materiale in modo ordinato, strutturato, con una
trama organica. I risultati sono decisamente migliori nel secondo caso.
Il materiale può avere un’organizzazione oggettiva oppure possiamo dargli noi un’organizzazione
soggettiva. Nel primo caso ciò che memorizziamo ha insita una struttura (ad es. i capitoli e i para-
grafi di un libro) e noi cerchiamo di afferrarla così com’è. In altri casi (ad esempio un testo difficile
o prolisso) siamo noi che, saltando parti consistenti (paragrafi o interi capitoli, passaggi per noi in-
comprensibili) o modificando l’ordine degli argomenti, gliene imponiamo una che ci facilita il com-
pito. In altri casi il materiale non ha di per sé una struttura, e gliene si impone una per facilitare la
memorizzazione. Per generare un’organizzazione in un materiale disordinato, esistono varie tecni-
che, dette “mnemotecniche”. La più banale consiste nel raggruppare le informazioni secondo qual-
che criterio. Ad esempio possiamo dire che le parole della lista che segue rientrano in tre gruppi:
nomi di alberi, avverbi, termini metereologici.
Un’altra strada consiste nel mettere insieme gli elementi costruendo un’unità dotata di senso. Ad
esempio da una lista di parole, combinandole adeguatamente, si può ricavare una storia. Questo pro-
cesso viene chiamato mediazione o associazione. Prendiamo la lista che segue.
Per ottenere un buon richiamo seriale, possiamo costruire questa storia: con la lanterna entrò nella
caverna, la trovò allagata e ne vide uscire uno stormo nascosto. Trasformando opportunamente le
parole viene fuori il titolo di una famosa poesia di Giovanni Pascoli: La cavallina storna.
Una terza strategia si basa sull’immaginazione visiva. Il soggetto costruisce un immagine com-
plessa in cui i vari elementi da ricordare sono tra loro in rapporto attivo. Se dobbiamo ricordare le
parole scimmia, sigaretta, cavallo, valigia, possiamo pensare ad una scimmia a cavallo che fuma una
sigaretta e tiene in mano una valigia. Ci basterà scorrere l’immagine memorizzata, come se fosse un
taccuino visuale, per risalire alle parole.
Una delle mnemotecniche più antiche è il metodo dei loci. Esso consiste nell’imprimersi nella men-
te un complesso di luoghi, di posti, di spazi circoscritti. Ad esempio si possono visualizzare gli
spazi della nostra camera da letto. Per ricordare una lista di cose, dobbiamo con l’immaginazione
collocarle una per una negli spazi della stanza. Meglio se con la fantasia creiamo scene dinamiche.
(3) Elaborazione. Più ci fermiamo a esaminare il materiale considerandolo da vari punti di vista,
meglio viene fissato il ricordo. Si parla di profondità o ampiezza o ricchezza dell’elaborazione per
indicare questo fattore che influisce sulla memoria. Si può lavorare su un testo da imparare preva-
lentemente in ampiezza, quando arriviamo a ricordare discretamente ciò che in esso è contenuto
per l’intera sua estensione; prevalentemente in profondità, quando lavoriamo su tale testo appro-
fondendo in particolare alcuni termini-chiave o alcuni passaggi che abbiamo trovato particolarmente
interessanti.
(4) Ridondanza. Un insieme di informazioni trasmesse, un messaggio, può essere più o meno
ridondante, a seconda che sia più o meno ripetitivo o prevedibile. I nostri abituali discorsi sono
generalmente ridondanti (contengono ripetizioni ad hanno una qualche prevedibilità), cosicchè ci è
facile capirli, anche se qualcosa ci sfugge.
(5) Conoscenza pregressa. La memoria dipende, come diceva Herbart, da quanto la persona sa del
mondo (pregresso: prae ‘pre’, gradi ‘andare’; già avvenuto). Chi più sa più facilmente ricorda. È
chiaro che per catalogare, organizzare ed elaborare il materiale, occorre conoscere la realtà che ci cir-
conda, perciò chi sa di più memorizza meglio.
(6) Intenzione. Perchè si formi il ricordo non è necessaria l’intenzione di ricordare. Tuttavia la
voglia di ricordare può rendere più efficace il processo di memorizzazione se spinge a impegnarsi
nella codifica, nell’organizzazione e nell’elaborazione del materiale.
(7) Attivazione emotiva. Per memorizzare bene occorre un giusto grado di attivazione emotiva. se
si è troppo attivi o al contrario troppo spenti l’operazione non riesce. Nell’arco della giornata nor-
malmente il grado di attivazione emotiva fluttua: basso al risveglio, sale fino al massimo pomeridia-
no, per poi ridiscendere; va però ricordato che altri processi mentali che pure intervengono nello
studio e nell’attività scolastica non seguono lo stesso percorso.
L’OBLIO
(3) La teoria della Rimozione, è stata elaborata da Freud, che ha concepito l’oblio come un mecca-
nismo di difesa volto a proteggere la psiche da esperienze dolorose che possono riferirsi a desideri
insoddisfatti, a conflitti non risolti o a impulsi socialmente riprovevoli. Secondo la teoria freudiana,
noi allontaniamo dalla nostra coscienza le informazioni spiacevoli attraverso un processo automati-
co di rimozione, di conseguenza gli eventi che sono stati spiacevoli o che ora ci turbano o ci fanno
paura sarebbero molto più difficili da ricordare degli altri. Mentre la normale dimenticanza sposta i
ricordi dal conscio al preconscio, la rimozione sposta i ricordi spiacevoli nella zona più profonda del
sistema psichico, che Freud chiama inconscio.
IL RICHIAMO
Molte volte i ricordi tornano agevolmente non appena servono. In altri casi però le cose non sono
così semplici. Può capitare che cerchiamo di ricordare qualcosa e ci sforziamo inutilmente: è il noto
fenomeno “sulla punta della lingua”. A volte le informazioni memorizzate in passato riaffiorano
non chiamate, come se fosse scattato qualche meccanismo. Evidentemente il richiamo, o recupero,
non è un fatto elementare e automatico: si tratta di un’attività abbastanza complessa che segue de-
terminate regole e si svolge in tappe successive. Il richiamo è un processo mentale.
Con ogni probabilità il processo di richiamo consiste in parte nell’accedere direttamente alle infor-
mazioni registrate e in parte nel fare un ragionamento inferenziale che, partendo dalle informazioni
recuperate, ci porta a ricostruire il ricordo.
Le informazioni ben catalogate sono recuperate più facilmente. Anche l’organizzazione e l’elabora-
zione delle informazioni facilitano il richiamo. Quando organizziamo ed elaboriamo il materiale da
memorizzare, moltiplichiamo le vie di accesso per il recupero.
Di regola le condizioni ambientali in cui memorizziamo qualcosa sono un buon suggerimento per il
richiamo. Una persona che ha fatto una promessa in un giorno di neve e se l’è dimenticata, può ri-
cordarsene alla successiva nevicata.
John Locke, filosofo empirista inglese del XVII secolo, esponendo alcuni esempi di associazione di
idee, cita questo episodio: “Un giovane (...) aveva imparato a ballare con grande perfezione, e ciò per
caso era avvenuto in una stanza in cui si trovava un vecchio baule. L’idea di questo notevole pezzo di
arredamento casalingo si era a tal punto mescolata con i passi e i giri della sua danza, che per quanto in
quella camera egli potesse ballare in maniera eccellente, ciò avveniva solo quando c’era il baule; né po-
teva ballare bene in un altro luogo se non c’era quel baule o un altro simile nella debita posizione nella
stanza.”
Da alcuni esperimenti si può trarre la conclusione che è possibile imparare a richiamare i ricordi. Il
soggetto, provando ripetutamente a richiamare, diviene sempre più bravo nell’operazione di richia-
mo: c’è un apprendimento a richiamare.
I TIPI DI MEMORIA
Nella psicologia contemporanea, a più riprese, è stata dibattuta la questione se la memoria sia unica
o se esistano più memorie. Allo stato attuale si è propensi ad ammettere che esistono più memorie.
Il più famoso modello di memorie che sia stato elaborato, il modello di Atkinson e Shiffrin, parte
dal presupposto che ci siano tre memorie, collegate tra loro come tre magazzini in comunicazione:
gli input, le informazioni in arrivo, entrano nella memoria sensoriale, di qui i dati passano nella me-
moria a breve termine e da questa nella memoria a lungo termine. Da questa memoria escono poi
gli output, le risposte che fanno uso delle conoscenze conservate in memoria.
Memoria sensoriale. Consiste nel prolungamento della percezione di un oggetto al di là del tempo
in cui stimola i nostri sensi. Quando guardiamo una figura o ascoltiamo un suono, per breve tempo
continuiamo a percepirli anche se la figura o il suono non ci sono più. La memoria sensoriale visiva
si chiama memoria iconica. Ha una durata di circa 0,25 secondi. Immagini intermittenti, presentate
a ritmo adeguato, ci sembrano continue perchè la nostra memoria sensoriale colma gli intervalli vuo-
ti. La memoria sensoriale uditiva, detta memoria ecoica (perchè prolunga il suono come un’eco), du-
ra un pò di più della iconica: da 2 a 4 secondi. È importante nella percezione del parlato, ma anche
dei suoni in genere.
Memoria a Breve Termine. Una distinzione che ha avuto particolare importanza è quella tra
memoria a breve termine (MBT) e memoria a lungo termine (MLT), introdotta da A. M. Melton
nel 1963. La prima dura assai poco, ma nei pochi secondi della sua durata il richiamo avviene senza
difficoltà. Nella seconda il materiale memorizzato viene conservato a lungo, forse per sempre, tutta-
via il richiamo a volte è laborioso. La memoria a breve termine possiede alcune proprietà caratteri-
stiche. La breve durata (le informazioni vi restano per alcuni secondi, con un massimo calcolato
intorno ai 30 secondi) e la capacità limitata: la MBT è come una piccola scatola che contiene pochi
elementi per volta. Se leggiamo un numero telefonico sull’elenco e lo componiamo, certamente qual-
che minuto dopo non lo ricorderemo più, però in quei pochi secondi utili l’abbiamo ricordato senza
fatica. Le informazioni che, in entrata, si collocano nella MBT, sono soggette ad una rapida dissolu-
zione se non vengono ripetute. Il materiale che sfugge alla ripetizione decade nell’oblio. I meccani-
smi che favoriscono il passaggio dalla MBT alla MLT sono l’attenzione, l’elaborazione, le mnemo-
tecniche (ad es. il metodo del luoghi e il metodo delle mediazioni o associazioni, già citati, il metodo
delle parole-chiave a cui riconnettere informazioni non correlate).
Memoria a Lungo Termine. La memoria a lungo termine è composta con ogni probabilità da più
memorie, diverse per il tipo di contenuti memorizzati. Essa è come un grande archivio, o come gli
scaffali di una biblioteca: può essere più o meno ampia, più o meno ordinata.
Nella memoria a lungo termine si distinguono due tipi di memoria: la dichiarativa e la procedurale.
È dichiarativa la memoria che ci dice come stanno le cose, mentre è procedurale la memoria che ci
dice come fare le cose. Ad esempio, se ci chiedono se l’aquila è un uccello, per rispondere, ricorria-
mo alla memoria dichiarativa, o descrittiva. Invece è grazie alla memoria procedurale che riusciamo a
fare le azioni giuste al momento di camminare, nuotare, andare in bicicletta, usare una tastiera di
computer, suonare uno strumento musicale. La memoria dichiarativa è fatta di dati sulla realtà, di
descrizioni del mondo. Diversamente la procedurale consiste in istruzioni, in informazioni necessa-
rie per svolgere questa o quella attività.
La memoria dichiarativa comprende a sua volta una memoria semantica e una memoria episodica.
Quando ricordiamo chi ha vinto nell’ultima partita della nazionale di calcio siamo nella memoria
episodica; se invece richiamiamo alla mente che l’Italia è una penisola, che la Sardegna è un’isola,
siamo nella memoria semantica. Nel primo caso le informazioni memorizzate riguardano specifici
eventi, nel secondo la conoscenza generale del mondo. All’interno della memoria episodica si distin-
guono una memoria autobiografica e una memoria di “ricordi pubblici”. Nel primo caso i ricordi
riguardano la propria vita, i fatti quotidiani e gli eventi passati che ci hanno visti coinvolti in prima
persona; nel secondo cose esterne, come i visi delle persone conosciute, i luoghi conosciuti o visti
attraverso i mass-media, i fatti di cui si è stati osservatori passivi, o testimoni.
I disturbi della memoria. Per diverse ragioni patologiche, più o meno gravi, si hanno disturbi di
memoria. Nell’amnesia il ricordo è abolito. L’amnesia può riguardare fatti specifici, nel qual caso si
parla di amnesia elettiva, o interi periodi dell’esperienza della persona: si parla di amnesia globale.
L’amnesia di fissazione, o anterograda è un’amnesia globale, in cui il soggetto non riesce a formare i
ricordi. Nell’amnesia retrograda o di evocazione il disturbo riguarda il richiamo. Perciò il vuoto si
estende all’indietro, su tutti gli avvenimenti accaduti.
Nella dismnesia il disturbo è più lieve: si dimentica con facilità, si fatica a memorizzare e rievocare.
Nelle ipermnesie, più rare, i ricordi si scatenano automaticamente senza che il soggetto riesca a
controllarli. L’aumento delle capacità mnestiche può essere permanente o transitorio.
Nelle paramnesie compaiono delle alterazioni qualitative della memoria: i ricordi vengono deformati
nel loro contenuto, nel loro significato e nella loro collocazione spazio-temporale. Tra le paramnesie
è nota l’esperienza del déjà-vu, in cui una situazione viene percepita come “già vista”. Tale espe-
rienza, detta anche falso riconoscimento, è spesso vissuta con la sensazione di sapere che cosa acca-
drà dopo. La sensazione di familiarità del déjà vu può essere spiegata come un’errata generalizzazio-
ne di esperienze passate applicata a una situazione che può essere parzialmente somigliante, o come
il ricordo di sogni o fantasie inconsce riattivato nella situazione attuale.
MEMORIA
Oggettiva
Soggettiva mediazione
immaginazione visiva
mnemotecniche
ampiezza metodo dei loci
(3) Elaborazione
profondità
(5) Conoscenza pregressa “chi più sa più ricorda” conoscenza della realtà
facilità di organizzazione
CONSCIO
(dimenticanza)
richiamo
TIPI DI MEMORIA
semantica episodica
elettiva
1.2. Comportamentismo e cognitivismo. La psicologia dei processi cognitivi ha avuto uno svi-
luppo assai rapido negli ultimi quarant’anni. Come è cambiato il modo di pensare alle attività psichi-
che? Nella prima metà del secolo gli psicologi, presi dalla preoccupazione di essere obiettivi, hanno
cercato di fare della psicologia una scienza fondata su fatti empirici e non su speculazioni astratte.
Buona parte della psicologia, tutta quella americana, è stata dominata dalla tendenza che prende il
nome di comportamentismo (o behaviorismo, “behaviour” = comportamento). In linea di mas-
sima il programma del comportamentismo è stato quello di si attenersi allo studio dei comporta-
menti manifesti, visibili all’esterno, evitando di occuparsi di quello che accade nella mente degli indi-
vidui. Questo significa che i comportamentisti si sono interessati degli input e degli output, trala-
sciando il trattamento delle informazioni che avviene all’interno dell’organismo. La mente per loro
era una scatola, in cui entravano stimoli e da cui uscivano risposte senza che fosse possibile rintrac-
ciare alcun meccanismo al suo interno: una “scatola vuota”, o comunque inaccessibile.
Nella seconda metà del secolo progressivamente il comportamentismo è stato soppiantato dal
cognitivismo. Secondo questa tendenza ciò che avviene dentro la “scatola” (mente/ cervello) può
essere analizzato scientificamente e costituisce il principale oggetto d’indagine per lo psicologo. Tra
i fattori che hanno determinato questo cambiamento di prospettiva, la fiducia nella possibilità di svi-
luppare metodi indiretti ma rigorosi per studiare quel che accade nella mente e l’avvento delle intelli-
genze artificiali (calcolatori digitali, computer, robot) che hanno permesso di mettere alla prova at-
traverso la simulazione le ipotesi che si andavano formulando sui processi cognitivi.
1.3. La mente: unità dinamica in interazione con l’ambiente. La psicologia dei processi co-
gnitivi ha contribuito a cambiare il modo di considerare le attività mentali.
Nella psicologia tradizionale le differenti facoltà o funzioni o attività psichiche (la percezione, l’ap-
prendimento, la memoria, ecc.) sono fenomeni separati: anche se entrano in rapporto tra loro, resta-
no ben distinti. Per la psicologia dei processi cognitivi la mente è un’unità, in cui le diverse fun-
zioni collaborano in stretta relazione l’una con l’altra. L’unità mente è in continuo movimento: è
sbagliato pensare che l’organismo prima assume l’informazione e la memorizza e dopo, solo quando
ha incamerato tutto ciò che gli serve, comincia a farne uso e a svolgere le attività. Non ci sono un
prima e un dopo nettamente separabili. Assunzione di informazioni, memorizzazione, utilizzo,
svolgimento di attività sono momenti che noi isoliamo per comodità, però non sono veri e propri
stadi, fasi, tappe distinte: sono aspetti di un flusso continuo. I processi cognitivi sono dinamici.
L’unità mente va continuamente incontro a trasformazioni in relazione all’ambiente. Non è isolata.
Il rapporto con l’ambiente non è passivo, né semplicemente attivo, ma di va e vieni: è interazione.
Noi interveniamo sull’ambiente e l’ambiente intanto interviene su di noi.
2. L’ASSUNZIONE DI INFORMAZIONI
2.1 Attenzione e selezione. Noi non assumiamo tutte le informazioni che ci arrivano dall’ambien-
te. Disponiamo di filtri che ne lasciano passare alcune e ne bloccano altre secondo determinati crite-
ri. Questo lavoro di filtraggio intelligente è la selezione delle informazioni.
Uno dei fattori principali che guidano la selezione è l’attenzione. Delle informazioni in arrivo ven-
gono assunte solo quelle verso le quali è diretta la nostra attenzione. Ma che cosa si intende per at-
tenzione? Le nostre risorse sono limitate, nel senso che possiamo impegnarci solo in un dato nume-
ro di cose alla volta. Del resto è esperienza comune che non si possono fare troppe cose insieme.
L’attenzione è la distribuzione delle risorse nell’ambito delle informazioni che la nostra mente
in un dato momento sta trattando. L’attenzione riguarda tutti i momenti dell’attività cognitiva: pos-
siamo concentrarci su informazioni in arrivo o sul recupero di dati in memoria o su attiità che stiamo
svolgendo. Capita anche che contemporaneamente dirigiamo l’attenzione su cose che si trovano a
diffe-enti livelli dell’attività cognitiva. Ad esempio, mentre ascoltiamo l’insegnante, riusciamo a
prendere appunti.
2.2. Schemi. Il concetto di schema è stato utilizzato da diversi psicologi (Bartlett, Piaget, Neisser).
In generale indica un complesso organizzato di conoscenze su un determinato oggetto. Lo schema
del volto umano è l’insieme sistematico delle idee che abbiamo su come è fatto il viso di un uomo.
Gli schemi fanno da guida all’assunzione di informazioni dal mondo esterno attraverso due mecca-
nismi.
1) lo schema stabilisce quali informazioni vanno assunte. Così come un computer viene predi-
sposto a ricevere dei dati attraverso l’installazione di specifici programmi (software), anche la mente
riceve dei dati a seconda che possieda oppure no degli schemi che ne consentano la ricezione. Ci
sono informazioni compatibili con lo schema ed altre incompatibili. Solo le prime vengono recepite.
2) lo schema pianifica la raccolta delle informazioni. Quando, ad esempio, guardiamo una figura,
stiamo raccogliendo informazioni visive. Non lo facciamo a caso, ma seguendo un programma. Gli
occhi esplorano le figure soffermandosi sui punti significativi, procedendo con criterio. Il program-
ma di esplorazione si basa sullo schema mentale che in quel momento stiamo applicando. Finché
non entra in funzione lo schema, esploriamo a caso; da quel momento in poi scatta un piano intelli-
gente.
Come vengono attivati gli schemi? Lo schema può venire attivato dal basso o dall’alto. Nel primo
caso sono i dati stessi in arrivo dal campo che stiamo esplorando a richiamare lo schema che ci ser-
ve. Se nelle prime fasi dell’esplorazione di una figura non abbiamo ancora uno schema da applicare,
dopo aver accumulato un certo numero di dati, solitamente lo troviamo.
Può accadere però che troviamo uno schema e cominciamo ad applicarlo perchè qualcuno ce lo sug-
gerisce, dicendoci qual è l’oggetto o indicandoci elementi a cui prestare attenzione: in questi casi lo
schema è attivato dall’alto.
3. I COMPITI COGNITIVI
3.1. Attività e compiti cognitivi. Basandosi sulle informazioni organizzate attraverso i processi
cognitivi, un essere umano svolge innumerevoli attività. Molte rientrano nelle cose che facciamo nel-
la vita quotidiana. Altre fanno parte di repertori specialistici e solo alcuni di noi sono in grado di
svolgerle. Gli psicologi hanno studiato approfonditamente un numero definito di attività significati-
ve. Lo hanno fatto per lo più in situazioni controllate, in laboratorio, adoperando soggetti sperimen-
tali. Per condurre gli esperimenti hanno chiesto ai soggetti di fare determinate cose; di conseguenza
si sono trovati ad analizzare l’esecuzione di compiti cognitivi. Sono state studiate varie abilità moto-
rie, le varie attività connesse col linguaggio, come il parlare, il comprendere i discorsi, il leggere, il
comprendere un testo, lo scrivere, il comporre. Storicamente ha avuto una parte importante la solu-
zione dei problemi (il problem solving), perchè è stato uno dei primi compiti a essere largamente
studiato in laboratorio.
3.2. Il problem solving. Köhler nelle sue ricerche a Tenerife (cfr. apprendimento per insight) fu il
primo a sottoporre gli animali a esperimenti di problem solving. Andava a indagare come le galline, il
cane o le scimmie risolvevano determinati problemi pratici.
Negli esperimenti con gli animali occorre predisporre le cose in modo tale che il soggetto sia spinto
a darsi da fare per trovare la soluzione. Köhler metteva del cibo in posizione visibile, ma difficile da
raggiungere. Quando il soggetto è un essere umano, per lo più - confidando nella sua collaborazione
con lo sperimentatore - ci si limita ad affidargli il compito di trovare la soluzione.
Nella psicologia sperimentale si possono distinguere tre tipi fondamentali di problemi.
I. Problemi pratici. Il soggetto viene messo dinnanzi a un compito concreto, che presenta difficoltà.
Si tratta solitamente di rompicapo meccanici. Köhler ideò varie prove di uso di strumenti (ad es.
l’impiego di costruzioni per elevarsi dal suolo).
2. Problemi razionali. Anche nei problemi pratici occorre il ragionamento. Tuttavia il soggetto è al-
le prese con una situazione concreta che può manipolare. Nel problema razionale invece prevale la
riflessione a tavolino. Occorre lavorare talvolta su cose astratte, fare ragionamenti geometrici o mate-
matici; in altri casi si ragiona su situazioni che in concreto sono possibili.
3. Problemi decisionali. Solitamente viene descritta una situazione della vita reale in cui va presa
una decisione e si chiede al soggetto di dire che cosa farebbe.
Gli psicologi della Gestalt hanno insistito sul fatto che per risolvere un problema non ci si può af-
fidare a comportamenti ripetitivi, ma occorrono elementi nuovi; hanno sostenuto che la novità nella
soluzione del problema è una riorganizzazione della situazione. Mentre il pensiero riproduttivo
tende a vedere le cose sempre allo stesso modo, il pensiero produttivo è quello capace di mettere
insieme in modo nuovo gli elementi della situazione a seconda delle esigenze.
4. L’INTELLIGENZA
4.1. Che cos’è. Quando gli psicologi sperimentali parlano di intelligenza, si riferiscono a capacità
che la persona effettivamente esprime: la capacità di far funzionare l’insieme dei processi cogniti-
vi per svolgere le attività che si è chiamati a svolgere. Essi hanno un’idea comparativa dell’intelli-
genza: non considerano il singolo preso di per sé, ma lo giudicano più o meno intelligente sotto uno
specifico profilo, mettendolo in relazione all’insieme della popolazione in cui vive.
4.2. Come è fatta. Noi possiamo valutare l’intelligenza solo sottoponendo l’individuo a determinati
compiti. Ciascun compito richiede capacità mentali specifiche. Però, secondo Spearman (1927) se
il soggetto ha una buona predisposizione, se la caverà comunque: esiste, a suo avviso, una predispo-
sizione mentale generale, che è indipendente dal compito specifico. Spearman portò varie prove a
favore dell’esistenza di una sorta di intelligenza unica, che anima le capacità mentali specifiche.
Una decina d’anni dopo Thurstone (1938) individuò sette fattori che concorrono alla predisposi-
zione mentale generale. Sono: 1. l’abilità numerica, 2. la capacità di ragionamento, 3. la facilità di pa-
rola, 4. la capacità di visualizzare e manipolare oggetti nello spazio, 5. l’efficienza percettiva, 6. la
memoria, 7. la comprensione verbale. Quando diciamo che una persona è genericamente intelligente
perchè se la cava bene in quasi tutti i compiti che le assegniamo, ciò vorrebbe dire che ha un buon
rendimento in tutte queste abilità.
Una maniera più attuale di immaginare la struttura dell’intelligenza è quella proposta da Guilford,
il quale propose, nel 1967, uno schema dell’intelligenza umana basato sui processi cognitivi. Ci sono
tre elementi principali: i contenuti informativi, le operazioni di elaborazione, i prodotti, cioé i ri-
sultati finali. Nel suo modello ci sono 4 fattori di contenuto (figurativi, simbolici, semantici, com-
portamentali), 5 di operazione (valutazione, produzione convergente, produzione divergente, me-
moria, cognizione) e 6 di prodotto (unità, classi, relazioni, sistemi, trasformazioni, implicazioni).
In tempi più recenti Howard Gardner (1985) ha sostenuto una posizione decisamente contraria
all’esistenza di un’intelligenza generale. A suo giudizio ci sono molte intelligenze, ovvero compe-
tenze umane in gran parte autonome. In concreto, secondo Gardner, le intelligenze sarebbero di sette
tipi. 1. linguistica, che ha il suo fulcro nelle abilità verbali; 2. logico-matematica, di chi eccelle nel
ragionamento astratto e nella capacità simbolica; 3. spaziale, che comprende l’abillità di percepire i
rapporti spaziali, di orientarsi, di stabilire relazioni nello spazio bi e tridimensionale; 4. musicale,
che si fonda sulla capacità di cantare, suonare strumenti, comporre musica, ascoltare musica com-
prendendone la struttura profonda; 5. corporeo-cinesica, che consiste nella capacità di controllare il
corpo con abilità e scioltezza, nell’eseguire sia movimenti fini e precisi sia sforzi muscolari ben pro-
porzionati al fine da raggiungere; 6. intelligenza interpersonale, che comprende varie abilità sociali,
come leggere le emozioni altrui, intuirne le intenzioni, usare e interpretare i messaggi non verbali;
7. intelligenza intrapersonale, che consiste nella capacità di comprendere se stessi, in particolare le
proprie emozioni e i propri desideri, e di saper usare questa conoscenza per organizzare bene la
propria vita.
4.3. Da che cosa dipende. L’intelligenza di una persona dipende da molteplici fattori.
1. Eredità. Disponiamo di parecchie prove che l’intelligenza ha una base ereditaria. Questo non
significa però che l’intelligenza di una persona sia unicamente (o irrimediabilmente) condizionata
dalla nascita.
2. Ambiente intellettuale ed istruzione. Chi cresce in un ambiente intellettualmente ricco e stimo-
lante, a contatto con genitori colti, in una città vivace, con mezzi di comunicazione a propria dispo-
sizione ha più possibilità di sviluppare la propria intelligenza.
3. Posizione sociale. Di regola nelle classi sociali più basse mediamente, a livello statistico, c’è me-
no intelligenza. Per capire come questo accade, bisogna tener presente che chi appartiene ad una
classe più alta ha una serie di vantaggi (disponibilità di libri, facilità di viaggi, opportunità di espe-
rienze formative, ecc.) per lo sviluppo delle proprie capacità intellettive.
4. Età. In linea di massima sembra che l’intelligenza abbia un’ascesa e un declino nel corso della
vita.. Ci sono comunque persone che restano fortemente intelligenti a tarda età, accanto ad altre che
vanno incontro a un decadimento marcato.
PROCESSI COGNITIVI
comportamentisti cognitivisti
si attengono ai comportamenti manifesti, evitano ritengono che ciò che avviene dentro
di occuparsi di quello che accade nella mente degli la “scatola” (mente/ cervello) sia analizzabile
individui (mente = scatola nera), sono interessati agli input- scientificamente e costituisca
output, tralasciano il trattamento interno delle informazioni il principale oggetto dʼindagine
assunzione di informazioni
attivato
compiti cognitivi
INTELLIGENZA
dipende da 1. eredità
capacità di far funzionare lʼinsieme 2. ambiente intellettuale ed istruzione
dei processi cognitivi per svolgere 3. posizione sociale
le attività che si è chiamati a svolgere 4. individualità
Alcuni comportamenti nell’essere umano e negli animali sono innati: possono essere presenti già
alla nascita o svilupparsi successivamente, indipendentemente dagli eventi della sua vita. Tuttavia,
attraverso la sua storia individuale, ogni individuo può introdurre nel suo comportamento dei cam-
biamenti, delle capacità nuove, acquisite in base alla sua esperienza. Questo è in sintesi l’apprendi-
mento. Se pensiamo all’apprendimento, ci viene in mente come prima cosa la scuola, dove si studia-
no le materie di insegnamento. Per la psicologia quello scolastico è solo un tipo particolare di ap-
prendimento, viene definito solitamente apprendimento formale o ufficiale o istituzionale. Il feno-
meno dell’apprendimento è però di proporzioni assai più vaste: gli individui passano la loro vita ad
imparare, anche se nella maggior parte del tempo apprendono senza accorgersene. In conseguenza
delle esperienze che fanno, si trasformano, cambiano i propri comportamenti, acquistano conoscen-
ze nuove. Il concetto di apprendimento in psicologia è molto ampio e comprende ogni cambiamento
nel comportamento e nelle conoscenze di un individuo che si verifica in conseguenza dell’esperien-
za. Ogni processo psichico che consente una modificazione durevole del comportamento
per effetto dell’esperienza rientra quindi tra i fenomeni osservati e studiati dagli psicologi nelle
loro ricerche sull’apprendimento.
Nel XX secolo la psicologia sperimentale ha accumulato molte ricerche sull’apprendimento.
Tuttavia c’è stata a lungo una frammentazione in scuole. Ciascuna scuola ha studiato una forma di
apprendimento, per lo più nella convinzione che fosse l’unica esistente. Solo negli ultimi anni si è
fatta strada l’idea che l’apprendimento è un fenomeno complesso, di cui le varie forme sono compo-
nenti.
Lo studio del comportamento animale in psicologia è sempre stato molto diffuso, perchè negli ani-
mali, rispetto agli umani, è possibile osservare dei comportamenti più semplici, e perchè si può ave-
re uin migliore controllo delle situazioni sperimentali. In particolare, lo studio degli animali ha dato
un contributo importante alla conoscenza di come funziona l’apprendimento umano nelle sue forme
più semplici. Secondo i principali teorici del condizionamento classico ed operante (Pavlov, Thorn-
dike, Skinner) l’apprendimento avviene attraverso una modificazione automatica del comportamen-
to, senza acquisizione di contenuti mentali.
Il condizionamento operante Nel condizionamento operante i soggetti sperimentali sono più libe-
ri che nel condizionamento classico. Possono esibire una varietà di comportamenti. Lo sperimenta-
tore predispone le cose in modo tale che alcuni comportamenti sortiscano effetti positivi, piacevoli,
ed altri effetti negativi, indesiderati. Mentre nel condizionamento classico il cane non può in alcun
modo influire sui rinforzi, nel condizionamento operante invece l’animale ha un certo controllo sulla
somministrazione dei rinforzi. In questo tipo di condizionamento, i soggetti “operano” nella situa-
zione influenzando la somministrazione di rinforzi. Per questo si parla di condizionamento operan-
te. Si parla anche di “condizionamento strumentale”, perchè i soggetti sperimentali tengono com-
portamenti strumentali, cioè finalizzati a certi risultati.
Thorndike (1874 - 1949) rinchiudeva gli animali dei suoi esperimenti (pulcini, cani e gatti) dentro
gabbie particolari (puzzle-box, gabbie rompicapo), dotate di particolari congegni di apertura, mecca-
nismi per aprire che l’animale dall’interno poteva far scattare. Che cosa facevano gli animali (ad es. i
gatti) una volta dentro? Inizialmente si mostravano nervosi, sfoderando una serie di comportamenti
senza un preciso criterio apparente: mordevano, graffiavano, infilavano le zampe nelle aperture.
Prima o poi capitava che facessero la mossa giusta per aprire la porta. Thorndike notò che il tempo
impiegato per uscire, col ripetersi delle prove, non diminuiva tutto in una volta; capì dunque che
l’animale non imparava a causa di un’improvvisa comprensione della situazione (per insight), ma
procedeva per tentativi ed errori. Egli formulò la legge dell’effetto, secondo la quale un atto che ha
conseguenze soddisfacenti acquista maggiori probabilità di essere ripetuto, mentre uno che dà effetti
insoddisfacenti ha minori probabilità di ripetersi.
Skinner (1904 - 1990) è l’esponente di spicco della corrente più decisa ad eliminare ogni contenu-
to mentale, detta comportamentismo metodologico. Egli ideò le “Skinner-box”, dei veri sistemi pro-
grammati di rinforzo. All’interno delle gabbie, se l’animale (ratti o piccioni) compiva una determi-
nata azione (tirare una leva, pigiare un tasto), riceveva un rinforzo. I rinforzi potevano essere di due
tipi: in un primo caso (rinforzo positivo) l’animale otteneva del cibo; in un secondo caso cessava un
forte rumore o un eccessivo freddo o una scossa elettrica (rinforzo negativo). Skinner elaborò dei
programmi di rinforzo, utilizzando rinforzi continui e costanti (quando il comportamento corretto
viene rinforzato sempre) e rinforzi intermittenti o parziali (quando il comportamento corretto viene
premiato a intervalli fissi o variabili); dimostrò che col rinforzo costante si ottiene un apprendimen-
to più rapido e marcato, con quello intermittente un apprendimento più duraturo e tenace.
Skinner riteneva che l’intera gamma di comportamenti che un individuo manifesta nel corso della
sua esperienza può essere spiegata col condizionamento operante: “il condizionamento operante -
scrive - modella il comportamento come uno scultore modella la creta”. Procedendo per approssima-
zioni successive e rinforzando certe risposte, si può incanalare il comportamento in vista di certi ri-
sultati. Il processo attraverso il quale, per approssimazioni successive, si fa emergere un comporta-
mento nuovo (come nelle forme di ammaestramento degli animali) si chiama modellamento.
L’APPRENDIMENTO COGNITIVO
2. L’insight (intuito). L’espressione apprendimento per insight (intuito) indica un processo in cui
compare un improvviso atto intelligente a sbloccare la situazione. In questo caso il soggetto elabora
attivamente conoscenze che già possiede fino a costruirne di nuove. L’esperienza passata è impor-
tante perchè fornisce la base di conoscenze su cui lavorare. L’esperienza attuale fa da stimolo per
l’elaborazione. Si tratta di una situazione di difficoltà, di un problema da risolvere che richiede in-
ventiva. Il soggetto lavorando su ciò che sa produce la conoscenza nuova che serve. Inizialmente
stenta a trovare la strada, ma a un dato momento capisce la soluzione e, tutto in una volta, la attua.
Lo studio sperimentale dell’insight è legato al lavoro di Wolfgang Köhler (1887 - 1967), uno dei
fondatori della scuola della Gestalt. Dal 1912 al 1920 condusse indagini sperimentali su animali nel-
l’isola di Tenerife, nelle Canarie. Lavorò con nove scimpanzé, ma fece anche prove di confronto con
esseri umani, cani e galline. Köhler conosceva approfonditamente gli animali adoperati come soggetti
sperimentali; nel suo libro (L’intelligenza delle scimmie antropoidi, 1917) li descrive uno per uno
ricostruendone anche, nei limiti del possibile, le vicende individuali e la storia vissuta. Il suo modo di
procedere, assai inconsueto per quegli anni, presenta molti punti di contatto con l’etologia.
Lo studio dell’apprendimento per insight richiede alcuni accorgimenti. Le indicazioni per ottenere
sperimentalmente l’insight si possono riassumere così.
a) il soggetto sperimentale deve trovarsi alle prese con una difficoltà reale. Köhler poneva gli ani-
mali di fronte ad un problema pratico da risolvere (di solito raggiungere del cibo collocato in posizio-
ne difficile).
b) il problema da risolvere deve trovarsi in una fascia adeguata di difficoltà. Se è troppo facile, il
soggetto non ricorre all’insight, se è troppo difficile, dopo qualche tentativo abbandona il campo.
c) il soggetto deve poter conoscere gli elementi della situazione utili per risolvere il problema. Gli
elementi utili a risolvere il problema devono essere visibili, almeno parzialmente.
Köhler documentò vari esempi di apprendimento per insight. Una delle prove più semplici è
l’aggiramento. Il soggetto ha davanti un obiettivo da raggiungere. La via più breve e diretta è impra-
ticabile. Di conseguenza occorre seguire un percorso più lungo.
Con le prove di aggiramento Köhler mise in evidenza l’insight solo nel cane. Per gli scimpanzé i
problemi di aggiramento sono troppo facili, per cui vengono risolti automaticamente. Per le galline,
al contrario, sono fuori portata. Lo sperimentatore, sotto gli occhi dell’animale, getta del cibo fuori
dalla finestra e subito chiude il vetro. Sultano, il più intelligente dei nove scimpanzé di Tenerife, non
esita: apre la porta, percorre il corridoio, apre la seconda porta e rapido arriva al cibo nel cortile. Il
cane si lancia contro il vetro, poi sta immobile a guardare la finestra, guarda lo sperimentatore. Solo
dopo, all’improvviso, agita la coda, si gira d’un balzo, infila la porta e fa il percorso di aggiramento
fino al cibo. Per mettere in evidenza l’insight negli scimpanzé Köhler ideò problemi più difficili:
prove di uso di strumenti. Un esempio è dato dall’impiego di costruzioni per elevarsi dal suolo.
Una banana è posta vicino al soffitto, troppo in alto per essere raggiunta con un salto. Nell’ambien-
te sono presenti delle casse. Una però non basta per raggiungere la banana. Occorre mettere l’una
sull’altra le casse e montare sulla costruzione. Grande costruisce una struttura con quattro casse.
Come si manifesta l’atto intelligente, e quali caratteri ha?
a) l’atto intelligente è composto da una sequenza di azioni, compiute come una sola. Quando la
soluzione viene individuata, l’animale fa una cosa dopo l’altra senza esitazioni. Parte e va fino in
fondo, come se avesse in mente l’intera sequenza di operazioni.
b) l’atto intelligente si stacca nettamente dal resto. Fino a quel momento il soggetto procede con-
fusamente, per tentativi, errori e correzioni. L’atto intelligente spicca, perchè costituisce un com-
portamento completamente diverso.
c) l’atto intelligente tende ad essere ripetuto e trasferito. Una volta che un soggetto ha risolto una
situazione con un atto intelligente, tenderà a ripetere quell’atto in situazioni simili.
L’APPRENDIMENTO SOCIALE
Gli esseri viventi imparano rapidamente comportamenti nuovi, anche complessi, assumendoli dagli
altri. Invece di stare a provare fino a che non arriva il comportamento giusto (condizionamento ope-
rante) o l’intelligenza non suggerisca cosa fare (insight), si copia il comportamento altrui. In questo
modo si apprende “senza prove”, risparmiandosi tante fatiche. Il processo con cui un soggetto im-
para dagli altri e rapidamente acquisisce comportamenti nuovi è l’apprendimento sociale.
Il primo lavoro sull’apprendimento imitativo risale al 1941, è di Miller e Dollard. Tuttavia solo
negli anni ‘60 e ‘70 l’interesse sull’argomento è cresciuto e le ricerche si sono moltiplicate. Il prin-
cipale studioso di apprendimento imitativo è oggi Albert Bandura che preferisce però, piuttosto
che parlare di imitazione, usare le espressioni apprendimento osservativo o vicariante.
Secondo Bandura nell’apprendimento osservativo avvengono due fatti importanti.
a) L’altro fa da modello. Il soggetto acquisisce determinate abilità osservandole nell’altro. Se c’è
una difficoltà da superare, guardando come se la cava l’altro, si possono ricavare le informazioni
necessarie e si può anche imparare ad attuare il comportamento corretto, copiando il suo.
b) il modello fa da rinforzo. Quando un soggetto osserva un altro, non si limita a carpire la maniera
di fare certe cose. Automaticamente viene spinto a ripetere ciò che l’altro fa: osservare il modello
condiziona a copiarlo. Come mai? In alcuni casi c’è modo di vedere che il comportamento del model-
lo dà buoni risultati. Il successo del modello ci spinge a rifare le azioni sue che hanno avuto effetti
positivi. A volte il modello occupa una posizione importante (d’autorità, di fascino, di simpatia) e
questo ci spinge a rifare ciò che fa, anche se non vediamo effetti positivi. In entrambi i casi il model-
lo diventa un rinforzo vicario, che sostituisce il rinforzo reale (il risultato positivo, il fatto di com-
piacere una persona importante).
CONTRIBUTI DELL’ETOLOGIA
L’etologo studia i comportamenti abituali degli animali, esaminandoli nel loro ambiente naturale.
Procedendo per comparazioni sistematiche tra specie e specie, l’etologia ha avuto il merito di evi-
denziare come l’apprendimento debba essere inquadrato nello specifico terreno biologico in cui si
verifica. Le specie animali sono tante, e ciascuna ha una sua storia evolutiva (filogenesi). Tale storia
evolutiva costituisce il bagaglio genetico di cui il singolo individuo è dotato al momento della nascita.
Ogni individuo, nel momento in cui viene sottoposto a una prova sperimentale, si trova in una fase
della sua ontogenesi (la storia evolutiva dell’individuo). L’etologia ha chiarito come tale realtà biolo-
gica possa influire sull’apprendimento ed ha raccolto esempi di apprendimento cognitivo, per condi-
zionamento, per imitazione e tradizione nelle vita degli animali in condizioni naturali.
Imitazione. Gli uccelli perfezionano il loro canto imitandosi. Se uccelli di specie diverse stazio-
nano nello stesso luogo, quelli di una specie possono imitare quelli di un’altra, modificando, a volte
in maniera anche marcata, il proprio canto. Questo fenomeno si chiama canzonatura.
Tradizione. Nell’isola di Koshima in Giappone i macachi fino al 1952 abitavano nella foresta. In
quell’anno i ricercatori cominciarono a mettere del cibo sulla spiaggia ed i macachi iniziarono a sta-
zionare sul litorale. Dopo qualche tempo una femmina di due anni immerse nell’acqua una patata
sporca e la ripulì. Alcuni suoi coetanei la imitarono, e l’abitudine di lavare le patate prima di man-
giarle si diffuse. Da allora il comportamento viene tramandato di generazione in generazione.
L’imprinting. Gli etologi hanno dimostrato l’esistenza di una forma di apprendimento particolare,
su base innata, che era sfuggita alla psicologia sperimentale: l’imprinting (traducibile con “stampa-
tua”, “impressione” o “impronta”). Si tratta di una forma di apprendimento precoce, irreversibile,
ed ha tre caratteristiche distintive fondamentali:
1. si può verificare solo in un preciso arco di tempo: la fase sensibile. Di regola la fase sensibile è
precoce, nel senso che cade in prossimità della nascita. É breve: dura pochi giorni o poche ore.
2. ciò che si è imparato con l’Imprinting è duraturo. Il tempo e le esperienze successive difficil-
mente riescono a modificare o cancellare l’acquisizione maturata nella fase sensibile.
3. l’effetto dell’imprinting non sempre si vede subito. A volte gli animali si servono delle cono-
scenze acquisite con l’imprinting molto tempo dopo la fase sensibile, quando già sono adulti.
L’imprinting del seguire. .Fin dal 1873 il naturalista inglese Spalding aveva rilevato che i pulcini
appena usciti dal guscio seguono il primo oggetto in movimento che attira la loro attenzione.
Konrad Lorenz riprese e approfondì queste osservazioni, elaborando il concetto di “apprendimen-
to precoce in fase sensibile”: il nidiaceo può essere indotto a seguire qualsiasi oggetto-stimolo suffi-
cientemente grande che si muove, purchè tale oggetto gli venga proposto subito dopo la nascita e
nell’arco di un periodo critico molto breve (11 - 18 ore dall’uscita dal guscio nell’anatroccolo selva-
tico); nei confronti dell’oggetto in lui “stampato” l’animale si comporta come nei confronti della
propria madre o dell’animale che ne ha covato l’uovo, e una volta adulto lo corteggia così come do-
vrebbe fare coni i suoi conspecifici, che invece trascura del tutto. Secondo Lorenze l’imprinting è di-
verso da ogni altra forma di apprendimento; in particolare non ha bisogno di ricompensa, permane
inalterato durante tutta la vita dell’animale e non è soggetto alla generalizzazione dello stimolo.
APPRENDIMENTO
modificazione durevole
APPRENDIMENTO del comportamento
per effetto dellʼesperienza
1) fase sensibile
etologia
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storia evolutiva
della specie dellʼ individuo
filogenesi ontogenesi
etologia descrizione dei comportamenti abituali degli animali, esaminati nel loro
ambiente naturale. Esaminando il comportamento delle varie specie
animali, lʼ etologo si preoccupa di fare lʼ inventario dei comportamenti
tipici di ciascuna specie, di cui costruisce un “etogramma”.
imprinting = > (lasciare unʼ impronta, marchiare) forma di apprendimento su base innata
d) lʼ atto intelligente è composto da una sequenza di azioni, compiute come una sola.
e) lʼ atto intelligente si stacca nettamente dal resto.
f ) lʼ atto intelligente tende ad essere ripetuto e trasferito.
SI RI RC
stimolo risposta risposta
incondizionato incondizionata condizionata
IL CONDIZIONAMENTO OPERANTE
Conoscere i metodi delle scienze psicologiche e sociali è importante perchè attraverso l’esame dei
metodi seguiti dagli scienziati e dai ricercatori, ci facciamo un’idea concreta della scienze, delle di-
scipline che studiamo. Riusciamo anche a calarci idealmente nella pratica di ricerca e a vagliare
meglio i risultati scientifici e le nozioni che apprendiamo, arrivando a valutare meglio sino a che
punto certe affermazioni possano essere comprovate e entro quali limiti esse possano valere.
CONCETTI DI BASE
Ricerca empirica e sperimentazione. Tutti quelli adoperati nelle scienze psicologiche e sociali
sono metodi empirici e sistematici.
Metodo empirico vuol dire fondato sull’esperienza. Lo scienziato cerca di stabilire come stanno le
cose basandosi su dati, fatti osservabili. Indubbiamente si avvale anche dei ragionamenti e delle co-
noscenze teoriche. Però, quando per avere conferma delle sue ipotesi conduce un’indagine, bada a
ciò che concretamente riscontra, più che alle idee che ha in mente.
Che il metodo è sistematico vuol dire che segue un disegno organico e razionale. Il ricercatore non
procede a caso o assecondando l’ispirazione del momento, ma si muove nel rispetto di criteri stabi-
liti, ha un piano, un programma di indagine studiato appositamente. Da un lato tiene presente il suo
quesito, ciò che si prefigge di capire, dall’altro si rifà ai modi soliti di procedere della ricerca in casi
simili. Durante la ricerca può anche rivedere il programma, ma sempre per una precisa ragione.
Sebbene i metodi adoperati nelle scienze psicologiche e sociali siano tutti empirici e sistematici, so-
lo alcuni di essi si possono definire propriamente sperimentali. L’esperimento è un tipo particolare
di indagine empirica: un metodo è dunque sperimentale solo se si basa questo tipo d’indagine. Se si
lavora con criteri osservativi e ci si basa su dati concreti, ma non c’è l’esperimento, potremo dire che
il metodo è empirico e sistematico, ma non che è sperimentale.
Nella ricerca psicologica e sociale si adoperano parecchi metodi di vario genere. La grande maggio-
ranza è comune alle varie discipline. Tuttavia, quando lo stesso metodo è adoperato in discipline
differenti, non viene applicato esattamente allo stesso modo. Cambiano gli scopi, le regole da segui-
re, il modo di lavorare del ricercatore.
Non esiste un metodo in assoluto preferibile agli altri. Caso per caso va scelto il metodo adatto,
tenendo conto degli interrogativi ai quali si vuole rispondere e delle condizioni concrete della ricerca,
come la disponibilità di mezzi o il grado di collaborazione che ci si può aspettare dagli interessati.
Oggi prevale la tendenza a adoperare più di un metodo all’interno di una ricerca. Molti metodi
sono complementari tra loro, nel senso che possono mettere in luce versanti differenti dello stesso
problema. Usarli insieme nel corso di un’indagine, combinarli intelligentemente, è spesso la cosa
migliore.
L’INTERVISTA
Tipi di intervista. Ci sono vari modi di intervistare. I vari tipi di intervista differiscono per alcune
caratteristiche fondamentali.
Strutturazione Un’intervista può essere più o meno strutturata, cioè più o meno preordinata,
preparata prima. Si distinguono solitamente tre gradi di strutturazione.
a) Nell’intervista strutturata, l’intervistatore ha un elenco di domande cui attenersi, detto modulo
di intervista. Le domande vanno lette così come sono scritte, nell’ordine in cui si trovano. Quando il
grado di strutturazione è alto, all’intervistatore si chiede di astenersi da ogni intervento che possa in
qualche modo influenzare l’intervistato. Durante la lettura delle domande l’intonazione, il ritmo, la
velocità di eloquio, i comportamenti non verbali andrebbero controllati in modo che risultino unifor-
mi e non diano suggerimenti di alcun tipo cambiando nel passaggio da un argomento all’altro.
L’intervistatore deve poi sforzarsi di apparire neutrale dinanzi alle risposte dell’intervistato, evitan-
do di commentarle anche solo con le espressioni del viso e i gesti.
b) L’intervista semi-strutturata si può configurare in vari modi. Una possibilità è che alcune do-
mande siano già stabilite, ma che l’intervistatore abbia facoltà di introdurne altre. Di solito quelle
lasciate alla discrezione dell’intervistatore sono domande sonda, che possono avere lo scopo di far
chiarezza in momenti di incomprensione, ma anche di approfondire elementi interessanti che doves-
sero emergere nel dialogo. Ci sono poi interviste semi-strutturate preordinate sul piano dei contenu-
ti e libere per quanto riguarda la forma dei discorsi. L’intervistatore non ha domande prefissate da
porre, ma una serie di punti da trattare, una traccia da seguire.
c) La facoltà di manovra è massima nell’intervista non-strutturata. Qui non ci sono domande pre-
stabilite, né c’è una traccia di intervista, ma ci si lascia guidare dal dialogo e dallo sviluppo dei di-
scorsi. Il ricercatore ha comunque chiari in mente gli elementi ed i problemi da esplorare.
Svincolare l’intervista da una rigida strutturazione offre il vantaggio delle flessibilità: l’intervistato-
re può adattarsi alla situazione e in particolare all’intervistato. D’altra parte anche l’intervista strut-
turata ha i suoi vantaggi, tant’è vero che viene solitamente preferita quando si lavora su larga scala.
La strutturazione assicura infatti che tutti gli intervistati vengano sottoposti alle stesse domande.
Direttività. La direttività è una caratteristica della conduzione, riguarda cioè il modo in cui l’inter-
vistatore gestisce il colloquio. Nell’intervista direttiva l’intervistatore guida decisamente l’intervista-
to, evitando che divaghi, richiamandolo ad attenersi alle domande e facendo in modo che fornisca le
informazioni che interessano. Al contrario nell’intervista non-direttiva si lascia che l’intervistato di-
ca quel che vuole seguendo il filo dei suoi ragionamenti. Sta all’intervistatore orientarsi nel flusso di
pensiero dell’intervistato. Ovviamente tra i due estremi è possibile tutta una gamma di conduzioni
intermedie. In linea di massima strutturazione e direttività vanno di pari passo. L’intervista non-
direttiva è per forza di cose non-strutturata, l’intervista strutturata e semistrutturata implicano una
certa direttività.
Polarità. In ogni intervista ci sono due poli verso i quali l’intervistatore può dirigere l’indagine.
L’interesse può andare ai fatti concreti di cui l’intervistato è stato protagonista o testimone, oppure
a ciò che pensa l’intervistato, al suo punto di vista sulle esperienze vissute. Nel primo caso l’inter-
vista è centrate sul polo oggettivo, nel secondo sul polo soggettivo, cioè tese a capire il punto di vi-
sta dell’intervistato, la sua percezione delle cose, il modo in cui le vive e il senso che dà ad esse.
Ad esempio, un’intervista sulle amicizie di un ragazzo può essere condotta con due intenti diversi.
Possiamo cercare di scoprire quanti e quali contatti il ragazzo ha, per ricostruire (polo oggettivo) il
modo delle sue amicizie (quanti amici hai? con quale frequenza incontri gli amici? quali attività con-
dividi con gli amici?). D’altra parte lo scopo può essere capire (polo soggettivo) come il ragazzo vi-
ve e intende il rapporto con gli amici (è importante per te l’amicizia? ti fidi degli amici? sei soddi-
sfatto delle amicizie che hai?).
In genere le interviste mirano a esplorare sia il lato oggettivo, sia il soggettivo e il colloquio verte
ora più sull’uno, ora più sull’altro.
Sistemi di registrazione delle interviste. L’intervistatore può limitarsi a prendere nota per
iscritto delle risposte. Il compito è particolarmente facile quando le domande sono chiuse, cioè ri-
chiedono di scegliere tra alternative prefissate. Registrare le risposte a domande aperte può risultare
invece problematico. Se l’intervistato parla in fretta e dice molto, è difficile stargli dietro. Se l’inter-
vistatore cerca di riportare i discorsi dell’intervistato con parole sue, ci sono rischi di distorsione.
Un limite dell’annotazione è che si perde tutta lo scambio non verbale: non resta traccia dei gesti,
degli sguardi, delle espressioni del viso. La registrazione meccanica, con magnetofono o con video-
camera, consente di superare i limiti dell’annotazione: i discorsi dell’intervistato restano registrati
e si può trasferirli per iscritto quando si vuole, con calma e attenzione.
IL QUESTIONARIO
Nei questionari si trovano spesso domande quantitative; servono a misurare qualcosa, come il li-
vello di conoscenze che le persone hanno in un settore, il grado di simpatia o avversione verso un
partito politico, l’entità del tempo libero, ecc. Ad esempio:
Le domande quantitative sono alla base del metodo di Likert per la misura degli atteggiamenti.
Nonostante le chiuse siano le più usate, entrambi i tipi di domande presentano vantaggi e svantag-
gi. Le domande aperte consentono all’intervistato di esprimersi liberamente, dicendo cose non pre-
viste e aggiungendo precisazioni e chiarimenti. Tuttavia con domande aperte è difficile codificare i
risultati e seguire procedure standardizzate. In realtà, anche se abbiamo posto la stessa domanda a
tutti, siccome gli intervistati rispondono liberamente, alla fine è come se avessimo in mano risposte
a domande in parte diverse, perchè ciascuno interpreta a modo suo e accentua questo o quell’aspet-
to. Adoperando domande chiuse è facile la standardizzazione, non c’è rischio di risposte prive di
significato e gli intervistati non devono sforzarsi di formulare discorsi; però esse limitano la sponta-
neità: può accadere che il soggetto, leggendo una risposta si convinca che è quella giusta, anche se
lasciato libero di esprimersi avrebbe detto altro. Le domande chiuse poi possono irritare chi compila
il questionario, perchè esse semplificano la realtà: spesso le persone, soprattuto se abituate a consi-
derare i problemi nella loro complessità e tener conto delle sfaccettature, reagiscono male vedendo
alternative rigide, perchè pensano che i problemi non possano essere ridotti in quei termini.
Come si prepara il questionario
Le domande vanno pensate in modo che servano agli scopi dell’indagine. É importante seguire alcu-
ne regole fondamentali, sia nella formulazione delle domande, sia nel metterle in ordine e organiz-
zarle, cioè nella strutturazione del questionario.
Una domanda di questionario è ben formulata se risponde a una serie di requisiti. La chiarezza è
essenziale: chi legge deve innanzitutto capire che cosa si vuol sapere da lui. Per rendere il più possi-
bile chiare le domande si seguono alcune semplici regole ispirate ai criteri di brevità, comprensibilità,
univocità, concretezza.
Si ricerca la brevità: tra due domande egualmente chiare è preferibile la più breve. Talvolta, specie
se la domanda è delicata, si può far ricorso a giri di frase o fare premesse, ma solitamente ci si sforza
di ridurre al minimo indispensabile le parole usate.
La comprensibilità riguarda la forma linguistica delle domande. La costruzione dovrebbe essere
il più possibile semplice; bisogna usare termini correnti, costruire le frasi con linearità.
Le domande vanno improntate all’univocità. Vanno evitate le espressioni vaghe ed ambigue, sog-
gette a più interpretazioni (rettitudine, malvagità, normalità, ecc.). Occorre presentare un’idea per
volta: vanno evitati i complessi concatenati di idee, in cui resta difficile sceglierne una (ad esempio:
“È giusto che le donne abbiano lo stesso trattamento degli uomini, facciano il servizio militare
e combattano in prima linea?”).
La concretezza è importante; è più facile intendersi se si fa riferimento, anzichè a discorsi astratti e
generali, a realtà concrete. Ad esempio è preferibile chiedere di giudicare comportamenti ben precisi
nei riguardi di immigrati o extracomunitari (non assumerli o assumerli, affittare un locale o non affit-
tarlo, ecc.) piuttosto che porre domande generiche sui pregiudizi razziali o etnici.
È importante anche la neutralità. Vanno evitate le domande tendenziose, che suggeriscano la
risposta o forniscano valutazioni sul punto di vista “giusto” o “vero”. Ad esempio è tendenziosa
una domanda come questa: “È favorevole anche lei, come la maggior parte delle persone, a metter
fine con un intervento di pace all’assurda situazione nell’ex Jugoslavia?”. Oppure: “Einstein ha
detto che ogni uomo dovrebbe come prima cosa essere libero dai condizionamenti materiali. Lei è
d’accordo?”.
Una volta formulate le domande, bisogna stabilire quali mettere prima e quali dopo. Si dice solita-
mente che nell’organizzazione di un questionario vanno seguiti un ordine logico e un ordine psicolo-
gico. L’esigenza di ordine logico è legata al fatto che gli intervistati si aspettano che il questionario
sia costruito razionalmente e che sviluppi una sorta di discorso che segue un filo conduttore (crono-
logico, che procede dal generale al particolare, che passa dai fatti oggettivi alle esperienze soggetti-
ve). Per stabilire l’ordine psicologico si tiene conto di diversi aspetti, sia cognitivi, sia emotivi. In
genere si mettono prima le domande più facili e interessanti, in modo da invogliare l’intervistato a
collaborare. Sul piano emotivo contano le domande delicate, che possono imbarazzare o far nascere
il sospetto di secondi fini (come accertare il reddito o propagandare qualcosa); in genere le domande
“delicate” vengono collocate alla fine. Un criterio a volte seguito è la tecnica ad imbuto: si metto-
no prima domande di carattere generale e aperte e poi domande specifiche e chiuse. In questo modo
il soggetto si sente inizialmente a proprio agio e si esprime liberamente. Dopo aver manifestato le
proprie opinioni, l’intervistato dovrà fornire una serie di risposte precise che interessano al ricerca-
tore.
L’OSSERVAZIONE
L’osservazione elimina due cause di distorsione della verità presenti nell’intervista e nel questiona-
rio: il fatto che la persona interpellata possa non capire le domande e che non sappia effettivamente
come stanno le cose. Tuttavia resta intatta un’altra causa di distorsione: la possibilità che le persone
mentano. Se le persone osservate sanno di esserlo, poco o tanto mettono in atto strategie di dissi-
mulazione, non facendo cose che farebbero tranquillamente in privato o in situazioni quotidiane.
Quando un osservatore si trattiene a lungo con quelli che osserva e entra a far parte del loro gruppo,
diventa una presenza familiare, per cui la dissimulazione si riduce. Difficilmente però scompare del
tutto.
Nell’osservazione il problema della veridicità, oltre che alla dissimulazione, è legato alle interpreta-
zioni dell’osservatore. Per quanto si faccia, non è possibile fare resoconti obiettivi delle azioni uma-
ne. Descrivere i comportamenti implica necessariamente una lettura delle intenzioni, dei pensieri, dei
ragionamenti retrostanti e in genere del lato mentale di chi agisce. Siccome è costretto a interpretare,
l’osservatore è soggetto ad errore. Rischia di introdurre distorsioni legate ai propri preconcetti e alla
propria lettura delle cose.
Posizione dell’osservatore. L’osservazione può essere condotta in vari modi, a seconda delle
circostanze e di come il ricercatore organizza il lavoro.
Esistono vari tipi di osservazione. Si va dall’osservazione naturalistica, che è un metodo distaccato
e rigoroso, all’osservazione partecipante in cui il ricercatore si immerge nelle vicende come uno qual-
siasi, le vive e poi le racconta.
Nell’osservazione naturalistica si tende a ridurre al minimo il contatto con i fatti osservati. In casi
particolari l’osservatore non è presente alla scena. In alcune ricerche vengono sistemate telecamere
fisse o magnetofoni in punti strategici. In generale quando l’osservatore è assente si parla di osserva-
zione indiretta. Di regola però l’osservazione naturalistica è diretta e l’osservatore è presente men-
tre si svolgono i fatti. Nel caso dell’osservazione naturalistica senza contatto sociale, il ricercatore
opera da una postazione che gli consente di osservare senza essere visto, sfruttando strutture archi-
tettoniche particolari o grazie allo specchio unidirezionale, o di telecamere a circuito chiuso.
Nell’osservazione partecipante l’osservatore si mescola alle persone che osserva. Può farlo in di-
versi modi. Son state condotte ricerche in cui l’osservatore era di fatto uno del gruppo. Possono ap-
proffittare, come nel caso del sociologo americano Harold Becker, del fatto che si trovano in certe
situazioni per studiarle. “Ero pianista di professione da alcuni anni - dice Becker - e facevo parte di
alcuni circoli musicali a Chicago. (...) Il fatto che frequentassi l’Università non mi differenziava da
altri nell’ambiente musicale. (...) Ho conservato numerosi appunti di ciò che avveniva mentre stavo
con gli altri musicisti. Facevo raramente interviste formali e mi concentravo piuttosto sull’ascoltare
e mettere per iscritto le loro conversazioni abituali.” (H. Becker, Outsiders, 1963).
Quando l’osservatore si mescola appositamente alle persone osservate, può assumere posizioni
diverse. In alcuni casi può lavorare in incognito, da clandestino. Come nel caso di Becker, non dice e
non fa capire che è un ricercatore, fa finta veramente di essere uno del gruppo. Se deve prendere ap-
punti, lo fa in segreto. In altri rivela la propria identità, ma prende parte egualmente a certe attività,
come fosse uno di loro. Così fece White in un classico studio sulle bande di strada in America
(Street corner society, 1955).
Tecniche di documentazione. Si va dai resoconti fatti alla fine e basati sulla memoria o sugli ap-
punti presi man mano alle annotazioni su schede appositamente predisposte, alle registrazioni col
magnetofono o con la telecamera.
Per etnografia propriamente si intende la descrizione della vita dei popoli in antropologia cultura-
le, però il termine è stato esteso ad indicare lo studio di subculture presenti all’interno di una realtà
culturale più ampia, tipiche dei gruppi che vivono nelle nostre società occidentali, anche nelle grandi
città. In prospettiva etnografica si può studiare, ad esempio, il mondo dei barboni di un parco, gli
anziani di un quartiere, un gruppo di alcoolisti, un accampamento di nomadi, ecc.
Per facilitare l’inserimento chi fa indagini di etnografia urbana utilizza spesso intermediari, persone
che conoscono sia il ricercatore sia la gente del gruppo, e informatori, di solito elementi del gruppo
desiderosi di collaborare. Di solito l’osservatore prende appunti senza farsi notare. È buona regola
stendere una relazione alla fine di ogni giornata. Alcuni consigliano di tenere, oltre a un registro delle
osservazioni dove si annotano le vicende prese in esame, un diario personale per raccontare di sé.
Se inserirsi nel gruppo consente di capire meglio le cose, è spesso anche fonte di distorsione, perchè
il ricercatore si lega alle persone che osserva, provando simpatie, antipatie, sentimenti di solidarietà,
andando incontro a incidenti.
In etologia l’osservazione costituisce uno dei metodi fondamentali di studio. Konrad Lorenz di-
stingue tre modi di impostare l’osservazione in etologia.
Il sistema del cacciatore consiste nel giocare d’astuzia, “far la posta” e sorprendere l’animale sen-
za essere visti e senza disturbarlo.
Nel sistema del contadino l’animale viene tenuto in cattività e osservato. Si finisce per studiarlo in
condizioni artificiali, ma l’osservazione fornisce egualmente dati interessanti.
Il sistema di mettere in libertà esemplari addomesticati è stato adoperato nel tentativo di realizzare
un’osservazione tranquilla in condizioni naturali. L’animale che è stato addomesticato si lascia avvi-
cinare senza difficoltà dal ricercatore che conosce e continua a comportarsi normalmente anche in
sua presenza.
Jane Goodall, che ha condotto un lavoro pionieristico sugli scimpanzé, osservandoli a lungo (per
22 anni) nel loro ambiente naturale, ha seguito un metodo che potremmo definire approccio gradua-
le. Il ricercatore riesce pian piano a farsi accettare dagli animali come presenza innocua e familiare,
come uno tra i tanti elementi del loro habitat.
L’ESPERIMENTO
L’esperimento è il metodo più applicato in psicologia, dove, sebbene si faccia ricorso abitualmente
anche ad indagini, tende ad essere considerato lo strumento di ricerca per eccellenza. E’ importante
anche in psicologia animale e comparata, in etologia (dove però conta molto soprattutto l’osserva-
zione). In sociologia e in antropologia è meno utilizzabile.
Nell’esperimento il ricercatore non si limita a raccogliere dei dati, ma interviene attivamente sulla
realtà, manipolandola e sottoponendola ad un particolare trattamento al fine di ricavare le infor-
mazioni che gli interessano. In questo modo può osservare dinamiche che egli stesso provoca e
controlla e non deve limitarsi a registrare ciò che spontaneamente accade.
4) Tenere sotto controllo il resto. Oltre ai fattori x e y, nella situazione sperimentale ce ne sono
molti altri. Alcuni di questi possono influire sul fenomeno che interessa allo sperimentatore. Può
darsi che il cambiamento di y sia determinato dal loro cambiamento, anzichè conseguire alla manipo-
lazione di x. Nel collegio, ad esempio, potrebbe nascere un’aspra questione per il funzionamento
della mensa. Di conseguenza i ragazzi potrebbero divenire più tesi e aggressivi per questo, indipen-
dentemente dalla dieta televisiva..
Il ricercatore deve tenere sotto controllo gli altri fattori. Quand’è possibile li terrà costanti, impe-
dendo che si modifichino nel corso dell’esperimento. Altrimenti ne terrà conto e farà in modo che
il loro variare non interferisca con i suoi risultati e con le sue conclusioni..
Le variabili. Ogni fattore che è presente nella situazione sperimentale, che può cambiare e può
influire sul fenomeno in studio costituisce una variabile.
Il fattore x, quello che lo sperimentatore modifica appositamente, prende il nome di variabile
indipendente, mentre y è la variabile dipendente.
I termini indipendente e dipendente si riferiscono al rapporto tra le due variabili. La dipendente è
quella i cui cambiamenti sono subordinati, conseguenti ai cambiamenti dell’altra.
La variabile indipendente è quella che viene manipolata - che dipende - dallo sperimentatore.
Le altre di solito si chiamano variabili accessorie o intervenienti. Queste sono di grande importan-
za, perchè, come si è detto, possono interferire con i risultati sperimentali e vanno perciò tenute
sotto controllo.
Esperimenti di laboratorio ed esperimenti sul campo. Nelle scienze sociali si pone il problema
se condurre esperimenti di laboratorio o sul campo, se lavorare cioè in situazioni più vicine alla real-
tà o più rigorosamente sperimentali.
Nell’esperimento di laboratorio il ricercatore lavora “a casa propria”. Invita i soggetti in un am-
biente predisposto e crea la situazione adatta per mettere alla prova le cose che gli interessano.
Operando così, può far facilmente uso di strumenti tecnici e può esercitare un buon controllo sulla
situazione sperimentale.
Con l’esperimento sul campo il ricercatore va nell’ambiente naturale, nella vita quotidiana dove i
soggetti utili all’indagine normalmente si trovano. Sul campo è molto più difficile controllare la si-
tuazione sperimentale. Facilmente variabili indesiderate si intrufolano e sfuggono al controllo.
Il controllo. Nell’esperimento occorre evitare che variabili intervenienti interferiscano nella rela-
zione tra variabile indipendente e variabile dipendente. A questo fine il ricercatore svolge un com-
plesso lavoro che prende il nome di controllo. Quali sono i fattori che possono interferire con
l’esperimento? In genere vengono classificati in tre tipi.
a) I fattori interni hanno origine dentro i soggetti sperimentali. Nel corso dell’esperimento le per-
sone possono cambiare interiormente. Ad esempio, i ragazzi, specie se la sperimentazione dura a
lungo, possono per conto proprio andare incontro a maturazioni e diventare per questo meno ag-
gressivi.
b) I fattori esterni dipendono da circostanze ambientali. Se nasce un problema per la mensa e
questo esaspera gli animi, siamo di fronte ad un fattore esterno che interferisce con l’esperimento.
c) I fattori legati allo sperimentatore sono i più insidiosi da controllare: chi conduce
l’esperimento, con le sue aspettative influenza i soggetti sperimentali anche senza volerlo. Di solito
accade che i soggetti tendano ad esagerare nel collaborare. Si fanno una loro idea dell’esperimento e
dei suoi scopi e si comportano in modo che i risultati siano quelli che a loro giudizio ci si aspetta.
Quando invece non si crea un clima collaborativo, può accadere che i soggetti sperimentali non
accettino i compiti nei quali sono coinvolti e “boicottino”, più o meno consapevolmente, l’esperi-
mento.
Il gruppo di controllo. Per evitare l’interferenza dei fattori esterni e dei fattori interni è efficace
l’impiego del gruppo di controllo. Questo è costituito da soggetti il più possibile simili a quelli
sperimentali e tenuti nella stessa situazione, presso i quali però non viene introdotto il cambiamen-
to sperimentale. Differiscono dai soggetti sperimentali perchè nella loro esperienza la variabile indi-
pendente non viene manipolata, ma resta invariata. Nell’esempio del collegio, si possono individuare
due classi che abbiano il maggior numero possibile di caratteristiche in comune (età, sesso, estrazio-
ne socioculturale, livelli di profitto, ecc): ad una si cambia la dieta televisiva (gruppo sperimentale),
all’altra si lascia tale e quale (gruppo di controllo). Se qualche fattore non noto è intervenuto nella
vita del collegio durante l’esperimento, si farà sentire su entrambi i gruppi. In questo modo l’effetto
di interferenza verrà annullato.
L’ INTERVISTA
polarità
sul polo oggettivo (stabilire fatti concreti)
intervista
centrata
sul polo soggettivo (punto di vista dell’intervistato)
direttività
direttiva (intervistato richiamato ad attenersi alle domande)
-> strutturata
intervista
non-direttiva (intervistato libero di sviluppare i suoi ragionamenti)
-> non-strutturata
inchieste
polari > si / no / (non lo so)
1) risposta esatta
domande chiuse 2) “distrattore”
3) risposta errata
valutazione
questionari e verifica
scolastici del profitto
sintetiche
domande aperte
libere
L’ OSSERVAZIONE
cacciatore “far la posta” e sorprendere l’animale senza essere visti e senza disturbarlo
ambiente
1) delimitazione della situazione sperimentale
soggetto gruppo
sperimentale
Il termine EDUCAZIONE (dal latino “educere” = tirar fuori, sviluppare, portare a compimento)
indica, in senso ampio, l’insieme di attività volte a promuovere l’acquisizione e lo sviluppo, nei
nuovi membri di una comunità, di quelle conoscenze, atteggiamenti e condotte che li realizzino pie-
namente a livello individuale e sociale. In senso più ristretto, si intende per educazione:
a) il processo di integrazione sociale e di trasmissione culturale mediante il quale, nell’ambito
di concrete situazioni storiche, ambientali e familiari, si struttura la personalità umana;
b) l’insieme delle iniziative individuali o collettive che tendono ad orientare tale processo in modo
sistematico verso obiettivi prefissati, attraverso metodi storicamente determinati.
Da quanto si è detto risulta chiaro che il concetto di educazione è assai più ampio di quello di
ISTRUZIONE (dal latino “instruere”, costruire), che si riferisce alla sola educazione intellettuale,
intesa come trasmissione di nozioni, comportamenti, tecniche e strumenti di apprendimento. Secon-
do alcuni pedagogisti, il termine FORMAZIONE può includere sia il concetto di educazione (volta
alla formazione globale dell’individuo) che il concetto di istruzione (indirizzata alla trasmissione di
nozioni e comportamenti).
Bisogna tener presente che l’educazione ha due aspetti, uno “esterno” e l’altro “interno”. L’aspet-
to più appariscente è quello esteriore, cioé quell’insieme di azioni, atteggiamenti, parole, accorgimenti
che una persona mette in opera per educarne un’altra. Ora, si chiama ETERO-EDUCAZIONE (dal
greco “éteros” = altro) tutto quel complesso di atti o di circostanze ambientali esterne che costitui-
scono il contributo indispensabile alla formazione: ambiente naturale e sociale, cultura materiale e
non-materiale, istituzioni educative, mass-media.
Ma la persona non è plasmabile come la cera dall’ “esterno”: ciascuno ha propria struttura fisica, il
proprio temeramento ereditario, ha particolari attitudini e una propria specifica forma di intelligenza
(teorica/pratica, intuitiva/ logica, ecc.). Ciascuno dunque collabora alla propria personale formazione
e tale contributo viene chiamato AUTO-EDUCAZIONE (dal greco “autòs” = stesso, in persona);
esso è un fattore indispensabile, e riguarda la partecipazione attiva, via via più consapevole e critica,
di ciascun educando al processo della propria formazione. Il bambino, ad esempio, apprende attra-
verso il gioco ad utilizzare convenientemente le proprie membra, acquisisce abilità manuali, speri-
menta le qualità dei corpi, esercita l’immaginazione e impara a riconoscere le proprie emozioni.
É chiaro che in tutti i tempi e in tutti i luoghi si è esercitata una pratica educativa. L’educazione
“precede”, dunque, la pedagogia: questa non sorge all’inizio della storia dell’uomo, ma più tardi,
quando gli uomini, presa una maggiore coscienza dei propri atti, cominciano a discutere sulle finalità
che l’educazione deve raggiungere e sui mezzi migliori per realizzarle.
La PEDAGOGIA (dal greco “pais” = fanciullo, “agoghé” = condotta, da “agein” = guidare, latino
“ducere”) è dunque la disciplina che ha per oggetto di studio le teorie, i metodi e i problemi relati-
vi all’educazione. Nel corso dei secoli, e in particolare nel mondo occidentale, la “pedagogia” ha avu-
to per lo più il valore di un complesso di prescrizioni e di riflessioni, desunte dall’esperienza e dal
senso comune, da dottrine morali, politiche e religiose, assumendo spesso forma letteraria piuttosto
che scientifica o filosofica. Solo nella seconda metà dell’800 la pedagogia ha iniziato a proporsi co-
me scienza o come filosofia dell’educazione da un lato, come didattica sperimentale dall’altro.
Abbiamo definito il metodo come la via che l’educatore segue per realizzare la formazione del sog-
getto: ora, esiste un ampio settore della metodologia che si occupa delle tecniche specifiche dell’in-
segnamento, in rapporto con l’evolversi dei metodi di educazione e delle istituzioni scolastiche, e
che si chiama DIDATTICA (dal greco “didasko” = insegno, “didaktikos” = istruttivo).
La didattica riguarda l’applicazione pratica dei metodi educativi nella scuola e, più specificamente,
nell’insegnamento e nell’apprendimento. La didattica si può distinguere in generale e particolare (o
“speciale”). Per esempio, possiamo occuparci in generale del modo più efficace per accelerare l’ap-
prendimento, oppure studiare gli strumenti più adatti per l’insegnamento particolare, poniamo, della
lingua straniera o della storia. Possiamo dunque definire la DIDATTICA GENERALE come lo stu-
dio dei fini, dei metodi, delle esperienze del processo educativo, la DIDATTICA SPECIALE come
lo studio degli strumenti atti a raggiungere un’abilità specifica in una determinata disciplina.
PEDAGOGIA
( gr. “pais” = fanciullo, “agoghé” = condotta, da “agein” -> lat. ‘ducere’ > educazione)
Disciplina che ha per oggetto di studio le teorie, i metodi e i problemi relativi all’ educazione.
Nel corso dei secoli e nel mondo occidentale in particolare la “pedagogia” ha avuto per lo più
il valore di un complesso di prescrizioni e di riflessioni, desunte dall’ esperienza e dal senso comune,
da dottrine morali, politiche e religiose, assumendo spesso forma letteraria piuttosto che scientifica o
filosofica. Solo nella metà del sec.XIX la pedagogia tese a proporsi come scienza o come filosofia
dell’ educazione da un lato, come didattica sperimentale dall’ altro.
EDUCAZIONE
(lat. ‘educere’ = tirar fuori, svilupparre, portare a compimento)
AUTO-EDUCAZIONE => complesso di contributi che ciascun educando fornisce nel corso
della sua formazione ( temperamento, forma specifica di intelligenza - teorica/pratica,
intuitiva/ logica - attitudini)
METODOLOGIA EDUCATIVA
( gr. methodos -> via (hodos) che conduce oltre (metà))
Studio dei modi più idonei per ottenere determinati obiettivi educativi; per la parte teorica
si appoggia alla pedagogia, per la parte pratica si affida all’ esperienza criticamente interpretata.
DIDATTICA
(didaktikos = istruttivo; didasco = insegnare)
Parte della metodologia che elabora le tecniche di insegnamento, in rapporto con
l’ evolversi dei metodi di educazione e delle istituzioni scolastiche.
DIDATTICA DIDATTICA
GENERALE SPECIALE
studio dei fini, dei metodi, strumenti atti a raggiungere
delle esperienze del processo educativo. un’ abilità specifica in una determinata disciplina
L’EDUCAZIONE NELLE CULTURE SENZA SCRITTURA
Lo scopo dell’educazione nelle società senza scrittura. Uno degli obiettvi fondamentali del-
l’educazione è la conservazione e la trasmissione del retaggio culturale delle generazioni precedenti.
Per le società prive di scrittura - medium e ‘strumento a distanza’ insostituibile per tramandare con
chiarezza, al di là della propria scomparsa, le proprie concezioni del mondo - questo obiettivo as-
sorbe quasi totalmente l’attività educativa.
L’educazione informale. Si risolve in parte il problema del passaggio diretto e personale di valo-
ri, pensieri, modalità di vita impartendo ai giovani un’educazione informale attraverso il gruppo fa-
migliare, i coetanei e gli adulti della comunità. Tale forma di educazione sostituisce in gran parte
presso i popoli senza scrittura ciò che la scuola rappresenta nella nostra società. I giovani imparano
in modo spontaneo il comportamento degli adulti e sono ammessi a partecipare come spettatori o
attori a quasi tutti i momenti di vita quotidiana della tribù. Inoltre svolgono spesso attività di gioco
con cui si esercitano alle future mansioni adulte. Si tatta di un’educazione basata quasi esclusiva-
mente sull’osservazione e sull’esperienza diretta, al contrario della nostra, in cui parole e simboli
hanno un ruolo fondamentale.
Le iniziazioni. L’altro momento caratteristico di questi sistemi educativi è costituito dalle inizia-
zioni, che consistono in un periodo sistematico di educazione analogo a quello scolastico.
Le iniziazioni hanno lo scopo di introdurre i giovani alla vita adulta e si articolano in una serie di
stadi che comprendono quasi sempre una prova fisica (gare, prove di destrezza o resistenza, tatu-
aggi, mutilazioni, ecc.) e l’insegnamento delle tradizioni, dei comportamenti adulti e dei misteri reli-
giosi della comunità. A occuparsi di questo sono individui specificamente designati, “maestri” che
si valgono spesso anche di riti e cerimonie pubbliche per segnare i momenti dell’iniziazione.
Si tratta peraltro di comportamenti conosciuti anche nella nostra società, seppure con caratteri at-
tenuati o parzialmente diversi: l’ “esame di maturità”, le cerimonie accademiche come la consegna
delle lauree, il conseguimento della patente di guida, o alcune “prove” richiesta dagli “anziani” nei
confronti delle “matricole” negli ambienti scolastici o militari, possono essere infatti paragonati ad
altrettante attività o riti - talvolta anacronistici e odiosi - di iniziazione.
L’importanza dei “simboli”. É importante ricordare che nelle culture senza scrittura osservazio-
ne ed esperienza diretta non sono da sole sufficienti a garantire la trasmissione del retaggio culturale:
un ruolo significativo spetta anche ai simboli, alle immagini e alla comunicazione orale di inse-
gnamenti o racconti. Fra i simboli, le immagini, cioè le rappresentazioni visive, consentono di espri-
mere in modo vivido e immediato idee astratte ed eventi lontani che racconti, miti, proverbi e canti,
prodotti in occasione di cerimonie o come forma di spettacolo e passatempo, renderanno più com-
pleti e comprensibili.
L’ascolto interpersonale. Attraverso questi sistemi le società senza scrittura svolgono la loro
opera di inculturazione, conservano e trasmettono tutto ciò che non può essere appreso attraverso
l’osservazione o l’esperienza: il ricordo del passato, la propria visione del mondo o le proprie con-
cezioni religiose e politiche. L’importanza che l’ascolto diretto riveste in queste civiltà è ormai tra-
montata nella nostra, dove la diffusione della scrittura e della stampa ha fatto prevalere anzitutto la
comunicazione mediante la parola scritta, oggi soppiantata dalla trasmissione audiovisiva dei mass-
media. La società in cui viviamo ha infatti sostituito anche nella comunità famigliare il dialogo tra i
giovani e gli adulti narratori con il contatto con una “narratrice di storie” inesauribile come la televi-
sione, con conseguenze educative non ancora del tutto vagliate e spesso allarmanti.
Società, cultura e educazione in Grecia dall’VIII al V secolo
Fra l’VIII e il VII secolo affluiscono in Grecia, provenienti dall’Oriente, passando in primo luogo
attraverso la Ionia, una serie di innovazioni tecnico-economiche destinate ad avere profonde riper-
cussioni sociali. Innanzitutto la tecnologia dell’estrazione e della lavorazione del ferro, che veniva a
sostituire quella del bronzo, il metallo usato fino a quel momento nelle civiltà orientali e micenea.
Non essendo una lega, il ferro è di lavorazione più semplice; i suoi giacimenti sono assai più larga-
mente diffusi; gli utensili prodotti risultano più resistenti ed economici di quelli in bronzo.
Tutto ciò determinava la possibilità, per le varie comunità, di procurarsi attrezzi agricoli ed armi in
quantità sufficienti; nei villaggi e nelle nascenti città si aprivano rapidamente le fucine dei fabbri, di
cui abbiamo eco nei poemi di Esiodo.
Una seconda fondamentale innovazione fu costituita dal conio della moneta metallica (oro, argen-
to), da cui gli scambi internazionali ricevettero un fortissimo impulso. Lo sviluppo di una economia
monetaria ebbe presto profonde conseguenze sociali: da un lato, esso indeboliva i medi e piccoli col-
tivatori, usi a procurarsi il necessario nei mercati locali mediante la pratica del baratto dei prodotti;
dall’altro, cominciava a determinare la formazione di ceti meno direttamente legati alla terra: com-
mercianti, cambiavalute, usurai, professionisti che scambiavano il loro servizio non più contro cibo
e doni, ma contro danaro, uno strumento sociale assai più efficace.
Tutto questo dava luogo alla rapida trasformazione delle iniziali comunità agricole in città (polis)
ad economia mista. La città ionica è, fin dall’inizio, bipolare. Essa è fondata e diretta dall’aristocra-
zia, che se ne serve come di un centro politico, oltre che per il controllo unificato del territorio e dei
traffici. Il polo aristocratico della città è l’acropoli, una struttura religiosa (vi sono i templi maggio-
ri), politica (vi siede il Senato cittadino) e militare (come arsenale e fortezza sovrastante la polis) che
assicura il dominio sulla città.
L’altro polo della città è la piazza del mercato (agorà), dove si muove una folla eterogenea di com-
mercianti al minuto, di esportatori e importatori, di contadini impoveriti che hanno abbandonato la
campagna, di artigiani, di stranieri privi di diritti politici (i meteci) attratti in città dalle possibilità di
guadagno che essa offre. Questa aggregazione sociale forma il popolo, il “demos” urbano che si vie-
ne gradualmente ponendo in antitesi all’aristocrazia egemone.
Un’altra innovazione, giunta dalla Fenicia, aiuta il ‘demos’ urbano a far propri gli strumenti cultu-
rali necessari alla propria crescita sociale e politica: si tratta della scrittura alfabetica. La scrittura
micenea, derivata dai modelli ideografici orientali, per la sua stessa difficoltà era rimasta patrimonio
di un ceto chiuso di sacerdoti e scribi di palazzo, ed era andata perduta insieme con quella società.
Per tre secoli la Grecia non aveva conosciuto alcun tipo di scrittura, la cultura era trasmessa in forma
esclusivamente orale, ad opera dei sacerdoti e dei poeti. La scrittura alfabetica, di facile apprendi-
mento e di agevole impiego, si rivelò uno strumento efficace per la diffusione della cultura tradizio-
nale ed anche per la costituzione di una cultura diversa: la diffusione dell’alfabeto rappresentò di
certo un veicolo potente per la laicizzazione e democratizzazione della cultura.
Riguardo ai luoghi nei quali la cultura viene prodotta e recepita, da un lato vi è la cultura “sacer-
dotale”, ramificata, ma raccolta intorno al santuario di Apollo a Delfi; questa tradizione viene inno-
vata e potenziata nel VI e V secolo ad opera di pensatori come Pitagora, Parmenide ed Eraclito.
Al lato opposto vi è la formazione di una cultura nuova, a carattere prevalentemente tecnico-
scientifico, che risponde alle esigenze maturate nel demos e nell’agorà. Questa cultura ha i suoi cen-
tri a Mileto nel VI secolo e ad Atene nel V secolo (Scuola di Mileto, “fisici posteriori”).
Naturalmente, queste tradizioni non si sviluppano in un reciproco isolamento. Vi è poi una terza
forma di produzione culturale, quella poetica, riconducibile alle figure degli aedi e dei rapsodi, che,
nel suo insieme, resta legata ai suoi committenti originari, gli aristocratici.
INNOVAZIONI ECONOMICHE E SOCIETÀ DINAMICHE DEL BACINO MEDITERRANEO
1) TECNOLOGIA DEL FERRO (vs bronzo) : non è una lega (bronzo: rame + stagno)
utensili + resistenti
giacimenti + diffusi
CULTURA
Il filo conduttore dell’educazione nell’tà arcaica della Grecia è l’areté, cioè la “virtù”, intesa come
ciò che rende qualcuno o qualcosa come “dovrebbe” essere. Si tratta di un’idea che ha le proprie ra-
dici nelle tradizioni dell’aristocrazia greca, l’unica classe sociale per la quale la cultura di quel tempo
elabora i concetti di virtù e di educazione. Si crede infatti che chi appartiene ad una classe sociale in-
feriore non abbia areté. Probabilmente legato all’areté è il concetto di onore: il motivo dominante
dell’educazione della nobiltà sta, dunque, nel destare il sentimento dell’obbligo, dell’impegno verso
l’ideale. Testimonianza di tale ideale educativo sono l’Iliade e l’Odissea.
Platone afferma che “Omero ha educato la Grecia”; in effetti Iliade e Odissea vengono utilizzati
per secoli come testi fondamentali cui attingere per l’educazione morale della gioventù. Ma, al di
là di questo, essi sono innanzitutto testimonianze dei valori dell’areté aristocratica cui si ispira
l’educazione ellenica delle origini.Composti probabilmente fra l’VIII e il VII secolo a. C. sulla base
di tradizioni orali anteriori (si pensi al ruolo svolto da aedi e rapsodi * in quest’opera di trasmissio-
ne orale), l’Iliade e l’Odissea costituiscono le prime due grandi narrazioni scritte della civiltà euro-
pea. Se in generale i poemi omerici vengono usati nella Grecia classica come inesauribili fonti di am-
monimenti ed esempi educativi, molti passi dei due testi consentono anche di rintracciare indicazioni
specifiche sulle concezioni pedagogiche della Grecia arcaica.
L’Iliade è espressione dell’antico spirito eroico dell’areté. L’aristocratico è sempre valoroso: il
combattimento e la vittoria sono le ragioni principali della sua esistenza. L’eroe omerico Achille è il
simbolo di tale valore.
Anche nell’Odissea il valore guerriero rimane la massima espressione della personalità virile, ma a
esso viene aggiunto il riconoscimento dei meriti intellettuali e sociali, rappresentati dalla figura di
Ulisse. Nei primi quattro libri del poema, la cosiddetta Telemachia, viene sviluppato una sorta di
‘romanzo pedagogico’, incentrato sulle vicende del giovinetto Telemaco, figlio di Ulisse. Prototipo
degli educandi letterari, Telemaco, contrariamente ad Achille, ascolta i consigli del suo maestro Mèn-
tore, che lo conduce all’azione e alla fama. La figura di Mèntore, che accompagna Telemaco nell’im-
portante esperienza educativa del viaggio a Pilo e a Sparta, rientra nell’usanza di affiancare ai giovani
di famiglia aristocratica un precettore come compagno di viaggio. Mèntore insegna a Telemaco come
comportarsi al cospetto di personaggi insigni e come agire in pubblico per conseguire i propri scopi,
proponendogli modelli di condotta in cui la saggezza e l’uso dell’eloquenza sembrano avere più im-
portanza di quanto avviene nell’Iliade.
In generale, Iliade e Odissea testimoniano che nella Grecia dell’età omerica sono già presenti aspetti
che resteranno nel curriculum formativo greco dell’età classica: 1) il collegamento tra l’educazione
dell’uomo e la vita associata, per cui educare significa fornire i valori e i comportamenti che danno
merito e onore presso la comunità; 2) l’idea che l’educazione riguarda l’uomo nella sua totalità e per
tutta la vita.
*Gli aedi erano cantori che componevano e recitavano poemi tratti da un vasto materiale leggendario
preesistente. Essi offrivano il loro servizio alle corti, nei palazzi dei signori, nelle festività religiose.
I poemi omerici derivano appunto dall’opera di intere generazioni di aedi. I rapsodi viaggiavano negli
stessi ambienti contribuendo alla circolazione dei testi omerici già composti, che essi conoscevano a
memoria. Alle origini della civiltà greca l’importanza di aedi e rapsodi è grande sia nel dare forma com-
piuta al materiale mitologico, sia nell’offrire - sul piano educativo - prototipi di valori morali e di com-
portamento. Per un greco antico infatti l’Iliade e l’Odissea ebbero per lungo tempo il carattere di una
enciclopedia: in essa si trovavano informazioni tecniche, regole di comportamento, conoscenze del
passato della propria comunità.
IL MODELLO EDUCATIVO GRECO DELLA CITTA’-STATO
I regni indipendenti in cui si forma il modello arcaio dell’educazione del guerriero lasciano gradual-
mente il posto, tra l’VIII e il VII secolo a. C., alla pólis, la città-stato che caratterizza il momento
più alto della storia greca. parallelamente si sviluppa un nuovo modello di virtù che proprio nel rap-
porto tra l’uomo e la pólis trova il suo fulcro.
La città-stato di Sparta si sviluppa nell’VIII secolo a. C. nella parte sud-orientale del Peloponneso.
In seguito alla vittoria contro Messene, e, forse, a una crisi economica che riduce drasticamente le
risorse a disposizione, Sparta sviluppa intorno al VI secolo un modello di vita a carattere principal-
mente militaresco, in cui un aspetto fondamentale è quello del controllo e della sorveglianza dei po-
poli sottomessi*. La struttura sociale spartana è gerarchica: vi è un numero minoritario di cittadini
liberi, o Spartiati, che si dedicano alla guerra; al di sotto vi sono cittadini liberi, per lo più contadini,
che non partecipano alla guerra, i Perieci; e poi molti schiavi e servi di “razza inferiore”, gli Iloti.
* Sparta ha lasciato di sé pochissime testimonianze, è dunque difficile ricostruire con esattezza l’educa-
zione spartana, anche a causa del rapido diffondersi dello stereotipo negativo, di provenienza prevalen-
temente filo-ateniese, che vede Sparta come uno stato militaresco e sostanzialmente illetterato.
Sparta vuole educare i suoi cittadini ad amare lo Stato sopra ogni altra cosa e a difenderlo coraggiosa-
mente e validamente con le armi. É perciò necessaria la buona salute fisica, in mancanza della quale i
neonati sembra venissero abbandonati, per deliberazione del consiglio degli anziani, sulle falde del
monte Taigeto. Superato questo primo “esame”, il fanciullo nato a Sparta viene affidato per i primi
sette anni alle cure femminili, in un clima famigliare duro e autoritario:
“Per ciò che concerneva le nutrici usavano metodi e diligenza particolari: prescrivevano che si allevas-
sero i piccoli senza fasciarli, e li facevano crescere liberi nel corpo, così come innocenti nel pensiero;
che li avvezzassero a mangiare alla loro maniera; che li lasciassero al buio per abituarli a non aver paura
e a non essere di cattivo umore e piagnucolosi”. (Plutarco, Vite parallele)
A sette anni il fanciullo viene arruolato in compagnie di tipo militare che si dividono in sottogruppi
comandati da diversi capi, a loro volta diretti dal paidónomos, un magistrato dedito a questa funzio-
ne educativa.
“Di lettere apprendevano quanto era necessario, ogni altro insegnamento dovendosi riferire all’obbe-
dienza, al tollerare le fatiche e a vincere nelle gare. E perciò gli esercizi erano adeguati all’età.Si rade-
vano i capelli, camminavano scalzi e il più delle volte giocavano ignudi. Appena compiuto il dodicesimo
anno, andavano senza tunica e ogni anno ricevevano un manto (...) dormivano insieme e per camerate,
sopra letti fatti con cime di foglie di canna, che coglievano con le loro mani, presso l’Eurota”.
Sino agli undici anni si restava fanciullo, sino ai quindici ragazzo, sino a venti ‘efebi’ o Ireni (mel-
lireni quelli che avevano maggiore età). In seguito, attraverso alcune pratiche di iniziazione (come la
criptia, periodo di segregazione dal gruppo e dalla città), ci si inseriva in gruppi di adulti.
Dall’infanzia alla prima maturità, lo spartano, sottratto alla famiglia, impara così a vivere in colletti-
vità con i suoi coetanei. I contenuti dell’iter formativo concernevano l’educazione fisica, attraverso
la ginnastica e la pratica di sport atletici, la caccia, le esercitazioni militari, la musica a scopo di inci-
tamento guerresco, tutto ciò che poteva incrementare nel giovane la forza, l’abilità guerresca e la de-
strezza nel sopravvivere (secondo un modello educativo solitamente denominato di ‘indurimento
fisico’). Pare facessero parte del sistema educativo spartano la xenofobia e violenza verso i ‘nemici
interni’: si incoraggiavano attività terroristiche ai danni dei Messeni, si invitavano i ragazzi ad andare
a rubare con destrezza e astuzia negli orti dei Perieci e degli Iloti:
“Quando l’ireno era giunto al ventesimo anno, comandava nelle battaglie ai suoi subordinati, se ne
serviva in tempo di pace per preparare il “rancio”; incaricava i più robusti di andare a far legna e i più
deboli di cogliere gli erbaggi, o, come si dice, rubarli negli orti o nei conviti, dove si insinuavano con
cautela e astutamente. Chi si lasciava cogliere in flagrante era ripetutamente staffilato, perché aveva
rubato con negligenza e con imperizia”. (Plutarco, Vite parallele)
L’educazione intellettuale era limitata, probabilmente veniva concesso poco spazio allo sviluppo
della capacità di leggere e scrivere. Anche nell’oratoria gli Spartani ebbero come loro caratteristica il
discorso breve e conciso, tanto che ancor oggi si definisce laconico (lacóne - spartano) quello stile
che non indulge al alcuna ricercatezza e si esprime con poche parole. Si fanno comunque imparare a
memoria ai fanciulli i versi di Omero ed Esiodo
Le ragazze praticavano anch’esse un iter che lasciava grande spazio all’educazione fisica, perchè si
irrobustissero al punto giusto per essere delle valide procreatrici di futuri spartani, e una parte mi-
nore alla musica e alla danza. Non vivevano, come le fanciulle ateniesi, totalmente segregate nel-
l’oikos, e partecipavano, nude come i ragazzi, alle cerimonie.
Il concetto di educazione riveste nell’Atene classicaun significato più ampio rispetto a quello spar-
tano, in quanto concerne la formazione “civile” in senso lato, piuttosto che solo quella del “cittadi-
no-guerriero”. All’interno del processo di ridefinizione dei valori sociali da parte della civiltà ellenica
che si riscontra a partire dal VI secolo a. C., assume una funzione basilare lo sviluppo di una areté
civile per la formazione del cittadino in tempo di pace.
Anche se Atene non ha mai posseduto un’organizzazione scolastica statale, nel corso degli anni si
viene consolidando una certa uniformità nei criteri ispiratori dell’educazione dei giovani.
La preparazione del cittadino inizia al settimo anno di vita: prima il fanciullo rimane affidato alle
cure della famiglia e, se questa ne possiede, degli schiavi domestici. A quell’età inizia invece il curri-
colo educativo esterno, riservato però solo ai maschi: l’educazione femminile non andava al di là
dell’istruzione primaria (leggere e scrivere), e si svolgeva all’interno della casa (oikos); le ragazze
passavano poi attraverso un’iniziazione divisa in stadi successivi.. Il bambino è invece sotto le cure
di uno schiavo fedele, il pedagogo, che lo conduce nei luoghi di educazione cittadini: a scuola
(didaskaleion) oppure in palestra (palaistra); da adolescente frequenterà i gymnásia, finanziati e
controllati dallo stato.
L’obiettivo dell’educazione ateniese è compendiato dall’espressione “essere bello e buono” (secon-
do l’ideale della kalokagathìa kalòs = bello, kai = e agathos = buono): l’uomo perfetto è moralmen-
te buono, ma anche fisicamente bello. La Musica (per l’anima) e la Ginnastica (per il corpo) rispon-
dono, entrambe, al concetto di armonia, inteso come sereno equilibrio, adeguata proporzione.
Preliminare alla musica (che comprende anche le lettere e le arti) è l’insegnamento della lettura, della
scrittura e del calcolo. Vi sono pertanto, per i bambini delle famiglie più agiate, tre istruttori, che
svolgono il loro insegnamento in scuole private a pagamento: il maestro (grammatistés) che insegna
a leggere e a scrivere, i rudimenti dell’artmetica e la recitazione dei versi di Omero ed Esiodo; il
kitharistés, che insegna a suonare la cetra e a cantare i versi accompagnandosi con la lira; l’istruttore
di educazione fisica (paidotríbes), che addestra alla lotta, al pugilato, al pancrazio (lotta e pugilato),
alla corsa, al salto, al lancio del disco e del giavellotto.
Pur non differenziandosi particolarmente dal curricolo spartano, è la differente finalità a rivestire i
contenuti del modello educativo ateniese di caratteristiche e significati specifici. L’obiettivo ateniese
è tipico della città-stato democratica, improntata al dinamismo politico, economico e culturale: si
tratta di fondare - attraverso gli strumenti della lettura, della scrittura, del calcolo - una virtù politica
incentrata sul diritto. Emerge il concetto di “cultura come educazione”, che i Greci del V-VI secolo
definiranno con il termine di paideia.
A completare il percorso formativo degli ateniesi provvedono le grandi feste e le manifestazioni
sportive pubbliche, le rappresentazioni teatrali, l’attività politica, la partecipazione ai pubblici di-
battiti e le leggi, momenti in cui la città comunica ai cittadini i propri valori e ne ottiene il consenso.
L’educazione ateniese “civile” è incentrata su un modello di formazione che oggi definiremmo “li-
berale”. Il lavoro, considerato occupazione inferiore, ne è escluso, in nome dell’ideale aristocratico
della “scholé” (da cui deriverà poi “scuola”), inteso come tempo da dedicare liberamente all’auto-
educazione, cioè l’“otium” latino. Dunque il percorso educativo è soprattutto per gli appartenenti
alla classe aristocratica, che hanno spostato semplicemente la propria areté dalla dimensione guerre-
sca a quella politica.
I SOFISTI
Verso la metà del V secolo compare ad Atene un nuovo personaggio, il “sofista”, un intellettuale
che, presentandosi nelle vesti di educatore dei giovani, fa professione di sapienza e la insegna dietro
compenso. Nell’Atene del V secolo, appena uscita vittoriosa dalla guerra contro i Persiani, si regi-
strano fenomeni nuovi, quali la crisi dell’aristocrazia, l’accresciuta potenza della borghesia cittadina,
l’incremento dei traffici e dei commerci, il perfezionamento delle tecniche e l’avvento della democra-
zia. Questo nuovo quadro storico-sociale richiedeva nel cittadino greco nuove abilità e un’accresciu-
ta consapevolezza delle sue potenzialità; alla prosperità materiale si aggiungeva la necessità di una
educazione politica nuova, a cui i Sofisti cercarono di provvedere, riconoscendo il valore formativo
del sapere ed elaborando, per primi, un concetto di cultura (“paideia”) intesa non più come “alle-
vamento e cura dei fanciulli”, ma come formazione globale dell’individuo all’interno della sua città e
civiltà. Il termine paideia diventa sinonimo di cultura: con i sofisti il problema educativo balza in
primo piano, perchè essi affermano che la virtù (“aretè”) non dipende dai natali ma dal sapere.
I Sofisti si propongono come istitutori e maestri della technè politica, insegnabile a tutti. La demo-
crazia rappresenta il presupposto e lo spazio entro cui i Sofisti si muovevano. Infatti la vita della
polis democratica richiedeva ai cittadini di partecipare ad assemblee, prendervi la parola, far valere la
propria opinione; perciò richiedeva di conoscere le varie accezioni dei vocaboli, di riuscire a disporre
i periodi in buon ordine; di possedere, insomma, un complesso accettabile di cognizioni grammatica-
li, lessicali, sintattiche, stilistiche. A questa necessità venivano incontro i Sofisti, prestando a paga-
mento, ai giovani appartenenti al ceto dirigente, le proprie lezioni per renderli abili nei loro affari.
I sofisti insegnano la dialettica e la retorica. La dialettica consente di acquisire l’abilità di prevalere
verbalmente sul proprio interlocutore; la retorica viene intesa come l’arte di persuadere il proprio
pubblico, esprimendosi con effiacia ed eleganza. Accanto a questi due capisaldi, i sofisti pongono,
come parte necessaria del curricolo, l’acquisizione di un sapere enciclopedico da usare come “base
culturale” nei discorsi. Si tratta di una cultura vasta e non approfondita, la “polymatheia”.
EDUCAZIONE E PEDAGOGIA
PROCESSO FORMATIVO
ISTRUZIONE EDUCAZIONE
trasmissione di nozioni formazione globale
e comportamenti della personalità
iniziazione
xenofobia e
violenza verso i
ʻnemici interniʼ
valori
cultura -> ʻpaideiaʼ
bellezza
ʻpoliticaʼ
educazione come kalokagathìa (kalòs = bello, agathos = buono)
dai 7 anni curriculum educativo esterno kitaristhés -> suonare la cetra, cantare versi
(“musiké”)
(solo maschile) paidotribés -> educazione fisica
grandi feste,
eventi manifestazioni sportive pubbliche,
educativi rappresentazioni teatrali
cittadini attività politica,
partecipazione ai pubblici dibattiti
idale aristocratico della “scholé” (-> scuola) => tempo da dedicare liberamente
allʼautoeducazione (-> “otium” latino)
LA PAIDEIA SOFISTICA E SOCRATE
grammatica aritmetica
trivio dialettica geometria quadrivio
retorica musica
astronomia
la confutazione (elenchos)
=> dimostrare la contradditorietà e
il dialogo insostenibilità delle tesi dellʼ interlocutore
socratico
usa
il “ti esti”
= risposte alla domanda “che cosʼ è?”
e ricerca della definizione
come scopo
la maieutica (arte della levatrice)
= far emergere la verità che ognuno
custodisce, in modo latente, dentro di sé
L’iniziazione
L’iniziazione a Sparta
Ai 16 anni si situava il passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Gli irenes subivano una serie di suc-
cessive iniziazioni che erano insieme prove di resistenza e cerimonie di carattere magico, con danze e
maschere. All’altare di Artemide Ortia, due gruppi concorrenti di efebi dovevano cercare di rubare
del formaggio e questo “grande gioco” dava luogo a scambi di colpi di staffile, ma la crudele flagella-
zione degli efebi sembra venisse praticata più tardi, in epoca romana. La prova più impressionante
era quella della criptìa: dopo un periodo in cui il giovane viveva solo e nascosto in campagna, come
un licantropo (uomo lupo), di notte egli praticava la caccia agli iloti, cioè agli schiavi, e doveva ucci-
derne almeno uno.
Robert Flacelière, La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle, Rizzoli, 1983
xenofobia e
violenza verso i
ʻnemici interniʼ
valori
cultura -> ʻpaideiaʼ
bellezza
ʻpoliticaʼ
educazione come kalokagathìa (kalòs = bello, agathos = buono)
dai 7 anni curriculum educativo esterno kitaristhés -> suonare la cetra, cantare versi
(“musiké”)
(solo maschile) paidotribés -> educazione fisica
grandi feste,
eventi manifestazioni sportive pubbliche,
educativi rappresentazioni teatrali
cittadini attività politica,
partecipazione ai pubblici dibattiti
idale aristocratico della “scholé” (-> scuola) => tempo da dedicare liberamente
allʼautoeducazione (-> “otium” latino)
L’EDUCAZIONE NELL’ETA’ ELLENISTICA
Il termine “Ellenismo” designa il periodo della sussistenza e della diffusione della civiltà greca dopo
la creazione dell’Impero macedone. Il primo periodo, definito alessandrino per il dominio culturale
di Alessandria d’Egitto, va dalla morte di Alessandro Magno (323 a. C.) alla conquista romana della
Grecia (146 a. C.). Il secondo, detto ellenistico-romano, terminerebbe con la definitiva chiusura delle
scuole filosofiche di Atene ad opera dell’imperatore Giustiniano (529 d. C.).
I caratteri generali dell’età ellenistica sono i seguenti: 1) si afferma una tendenza cosmopolita, ca-
ratterizzata dal fatto di riconoscersi accomunati da un’identità fondata sulla cultura greca; 2) il regno
territoriale acquista la preminenza sulla polis; 3) la paideia greca si estende a tutta l’area mediterra-
nea, per poi diffondersi successivamente anche a Roma; 4) si crea una classe di intellettuali stipen-
diati; 5) si diffonde la specializzazione scientifica e l’interesse per il problema morale e religioso di-
venta primario.
La paideia riveste un ruolo molto importante nella civiltà ellenistica: presso i popoli propriamente
greci ed in quelli ellenizzati si diffonde la tendenza a conformarsi ad un unico tipo di cultura, che
trovi un denominatore comune nell’educazione ricevuta.
* Allievo dei sofisti e di Socrate, vive tra il 436 e il 338 a. C. Nel 390 fonda, ad Atene, una scuola di re-
torica grazie alla quale sarà considerato come il più grande maestro di questa disciplina nel mondo anti-
co. Alla conoscenza ideale platonica Isocrate contrppone il valore pratico della doxa, l’opinione, e non
smette di essere seguace della sofistica, ritenendo che l’eloquenza giochi un ruolo fondamentale nella
formazione dell’uomo e del cittadino.
no i giovani dai sette ai venti anni di età; essa è pubblica e di carattere municipale. Donazioni e lasci-
ti di privati permettono il funzionamento delle scuole, anche là dove, come nel caso dell’efebato, es-
se sono direttamente gestite dalle autorità pubbliche.
L’istruzione primaria. Prima dei sette anni i bambini restano affidati alla cura delle donne di casa
e, nelle famiglie agiate, di una nutrice. Vengono insegnate tra le pareti domestiche le buone maniere e
un corretto uso della lingua. Inizia quindi l’educazione pubblica, e compaiono le figure del pedagogo
e del maestro. Il pedagogo, oltre ad assistere ed aiutare i fanciulli nel tragitto da casa a scuola, svolge
anche la funzione di ripetitore delle lezioni, e li educa dal punto di vista morale. Il maestro ha invece
il compito di preparare tecnicamente l’alunno, cioè di insegnargli le conoscenze basilari.
Leggere, imparare a memoria, scrivere e contare è il programma dell’istruzione primaria. Il metodo
della lettura consiste nell’andare dal semplice al complesso: il fanciullo impara in ordine le lettere
dell’alfabeto, chiamandole per nome; poi passa alle sillabe e, infine, alle parole. Lo stesso procedi-
mento, dal semplice al complesso, viene adottato anche per la scrittura. Si tratta di una pedagogia
dal carattere eminentemente “passivo”: il maestro trasmette le nozioni e l’alunno deve apprenderle
in un tempo più o meno breve; se ciò non avviene, si ricorre alle punizioni corporali.
L’istruzione secondaria. Il curricolo dell’istruzione secondaria è caratterizzato dagli studi lettera-
ri e scientifici. Maggiore spazio è però riservato ai primi, appannaggio anzitutto del grammatico,
che avvia alla letteratura (lettura, analisi metrica e grammaticale dei testi). Il retore provvede quindi a
sviluppare la capacità di produzione autonoma degli allievi, introducendoli alla composizione scritta
e all’esposizione orale. Lo studio delle scienze è in genere limitato alle teorie della geometria eucli-
dea.
L’efebato. Gli efebi, i giovani di età compresa tra i 18 e i 20 anni, ricevevano, nella polis dell’età
classica, un addestramento militare nei gymnasia. Con la perdita dell’indipendenza delle città greche,
l’efebato si trasforma in una sorta di istituzione scolastica elitaria: i giovani vi ricevono le competen-
ze necessarie al loro rango, attraverso conferenze, audizioni, studi in biblioteca; la ginnastica perde la
sua primitiva funzione armonizzante di corpo e spirito, tende a sconfinare nell’atletismo.
L’istruzione superiore. Gli studi superiori sono organizzati in modo serio e complesso sui tre
assi dell’insegnamento della filosofia, della medicina e della retorica, che ha il ruolo preminente.
La retorica. La formazione retorica non punta più alla preparazione del politico, quanto piuttosto
a formare, nella maggioranza dei casi, un brillante conferenziere o avvocato, un “professionista della
parola”, più “tecnico” che dotato di cultura critica ed elevata statura morale. Sebbene l’alta conce-
zione sviluppata da Isocrate sul valore formativo della retorica non scompaia, la tensione etica che
l’accompagnava risulta attenuata. L’eredità isocratea rimane tuttavia evidente nella suddivisione
dello studio della retorica nei momenti dell’inventio (raccolta degli argomenti), dispositio (organiz-
zazione delle parti del discorso), elocutio (strutturazione linguistica), memoria (memorizzazione) e
actio (pronunzia pubblica).
“Ellenismo” > diffusione della civiltà greca dopo la creazione dell’ Impero macedone.
(G. Droysen)
ellenistico => morte di Alessandro Magno (323 a. C.)
periodo conquista romana della Grecia (146 a. C.)
ellenistico-romano => 146 a. C. / chiusura scuole filosofiche di Atene (529 d. C.)
Scopo essenziale dell’educazione della Roma preellenistica è di formare la condotta del fanciullo al-
l’interno di un sistema rigido di valori. Per i giovani appartenenti alle famiglie nobili questi valori si
rifanno non solo alla tradizione nazionale, ma anche a quella propria della famiglia d’origine.
I principi del mos maiorum sono riducibili ad alcuni comportamenti fondamentali: la pietas (rispet-
to verso gli déi e i familiari), la constantia (fermezza d’animo) e la gravitas (senso della propria di-
gnità) sono i cardini costitutivi dell’ideale di vita al quale si ispira questa educazione, insieme al gu-
sto per il lavoro, la frugalità, l’austerità: i valori di una società contadina.
La famiglia educatrice. Il nucleo fondamentale della società romana è la famiglia. Quindi al centro
dell’educazione sta il focolare domestico, prima “scuola” del bambino: sua prima educatrice è la ma-
dre, la cui influenza è decisiva per la vita futura del figlio; pur se sotto l’aspetto giuridico la donna
romana non è né libera né padrona di sé, sotto quello educativo riveste una grande importanza.
All’età di sette anni il fanciullo passa sotto la tutela del padre; se si tratta di una figlia, resterà a ca-
sa a svolgere lavori domestici. Il pater familias è il fulcro del diritto e della società romana. Se ricono-
sce pubblicamente il figlio (cosa che avviene nel corso di una cerimonia in cui il neonato viene solle-
vato verso l’alto dalle braccia del genitore) si impegna con cura nello svolgimento dell’importante
compito educativo: fa del proprio figlio il compagno assiduo nelle varie funzioni civili e militari; nel-
l’azienda familiare, al foro, nelle esercitazioni con le armi, ecc.
Prima della nascita delle scuole, anche l’alfabetizzazione necessaria per gli scopi pratici della vita
quotidiana viene insegnata dal padre. L’insegnamento delle discipline artistiche è trascurato, mentre
l’educazione fisica ha come scopo l’irrobustimento del corpo e la preparazione bellica.
Nel periodo in cui Marco Porcio Catone (234 - 149 a. C.) compone la prima opera di autore roma-
no sull’educazione (De liberis educandis), Roma assimila molti aspetti della civiltà greca. Catone è il
più insigne rappresentante di quella cultura romana che vede in questo una minaccia per l’identità
del popolo romano, e che combatte per allontanarla. La battaglia di Catone però è inutile. I giovani
appartenenti alle famiglie aristocratiche vengono a contatto con la cultura ellenica per mezzo di inse-
gnanti privati. Presso le famiglie patrizie gli schiavi greci cominciano a svolgere in Roma la funzione
del paidagógos. Nel frattempo sorgono in Roma anche scuole il cui curricolo di studi si avvicina
sempre più a quello delle scuole greche e ben presto, accanto alla figura del precettore, appare anche
quella del maestro che insegna il greco.
L’organizzazione scolastica. Il corso di studi che si sviluppa a Roma dopo l’incontro con i mo-
delli formativi greci è suddiviso in tre fasi: scuola primaria, scuola secondaria (servizio militare) e
scuola superiore. Si tratterà, fino al basso Impero, di un sistema scolastico prevalentemente privato,
anche se gli imperatori cominceranno presto a promuovere la fondazione di scuole da parte dei mu-
nicipia e a finanziarle personalmente.
La scuola primaria si propone di attuare la prima alfabetizzazione, che viene impartita a molti
cittadini e ad alcuni schiavi. La maggior parte degli alunni e formata da maschi, ma alcune testimo-
nianze parlano anche della presenza di ragazze. L’alunno a sette anni è accompagnato nella scuola,
denominata ludus litterarius dallo schiavo paedagogus. L’insegnante (magister), talvolta affiancato
da un assistente (hypodidascalus), ricava pochi denari, è tenuto in scarsa considerazione e solita-
mente ha una limitata preparazione di base.
Nella scuola primaria si impara a leggere, a scrivere e a far di conto; strumenti principali dell’appren-
dimento sono la tavoletta rivestita di cera (tabella) sulla quale si scrive e lo stilo di legno o di metallo
per incidere i caratteri. Il metodo consiste nell’insegnare all’alunno prima il nome delle lettere dell’al-
fabeto in ordine, poi le loro forme grafiche e infine la loro trascrizione nella tabella. All’insegnamen-
to del calcolo è preposto uno specialista, il calculator, che fa memorizzare le tavole aritmetiche.
Il ludus litterarius non è affatto una scuola ludica, cioè basata sul gioco: l’attività dura dall’alba al
tramonto, il magister ricorre spesso alla pratica della coercizione e del castigo, tanto che Orazio defi-
nirà l’insegnante plagosus (manesco).
Scuola secondaria. L’insegnamento secondario è uno dei privilegi degli appartenenti all’aristocra-
zia. Vi accedono i giovani verso i 12 anni, frequantando la scuola del grammaticus, coadiuvato dal
litterator. Alle materie curricolari della paideia ellenistica (trivio e quadrivio) si aggiungono la medici-
na e l’architettura, considerate di utilità pratica per la formazione dei giovani patrizi.. Il termine degli
studi grammaticali coincide per il giovane sedicenne con la cerimonia dei Liberalia, durante la quale
egli assume la toga libera, detta anche virile. In seguito i giovani frequentano le scuole di retorica.
Al termine di una lunga serie di esercizi preparatori, l’alunno passo sotto la guida del retore alla
composizione di testi miranti allo sviluppo delle capacità di declamazione (declamatio).
A partire da Giulio Cesare, lo Stato romano si interessa sempre più alla scuola, poichè si compren-
de che essa svolge un’importante funzione di romanizzazione e di unificazione culturale.
Augusto crea i “Collegia iuvenum”, simili all’efebato greco, per l’addestramento dell’aristocrazia.
Tale istituzione serviva ufficialmente a esercitare i rampolli dell’aristocrazia nelle varie attività spor-
tive e nella caccia, ma in realtà consentiva loro di esercitare violenze di ogni sorta in quanto sostenuti
dal senso di appartenenza ad un gruppo numeroso e di grande prestigio.
L’educazione dei giovani romani comprendeva anche, come momenti rilevanti di formazione dif-
fusa, le varie forme di spettacolo: il teatro, le corse, il circo ed il combattimento tra gladiatori. Tali
spettacoli erano spesso offerti da personaggi ricchi ed influenti per attirarsi il favore del popolo.
Un posto importante occupava - oltre alle cerimonie ed ai sacrifici religiosi - la frequentazione dei
bagni pubblici, che costituivano, (soprattutto dopo il II sec. a. C.) un luogo importante di incontro,
di promiscuità fisica, di chiacchiere ed esibizioni di ogni tipo. Queste esperienze consentivano ai
giovani di entrare in relazione con qualunque individuo, ricco o povero che fosse, uomo o donna,
libero o schiavo, costituendo di fatto, oltre che una forma riconosciuta di iniziazione sessuale, una
momentanea sospensione interclassista delle varie differenze sociali, sessuali e culturali tipiche di
quell’epoca storica.
Quintiliano
Professore pubblico di eloquenza a Roma, Marco Fabio Quintiliano (35 - 95 d. C.), spagnolo, vie-
ne chiamato nel 70 a ricoprire la prima delle cattedre di retorica, istituite dall’imperatore Vespasia-
no. Dopo un ventennio di insegnamento si dedica alla composizione dell’Institutio oratoria, un am-
pio trattato concernente (anche se non in forma esplicita) la formazione degli insegnanti.
Quintiliano si rifà alla tradizione retorica greca iniziata da Isocrate: l’oratore esprime il grado più
alto cui possa giungere l’uomo colto “vir bonus, dicendi peritus” , che possiede tutte le doti del-
l’animo e non solo la rara qualità dell’eloquenza. Deve quindi essere una persona moralmente irre-
prensibile, la quale, percorrendo un lungo iter scolastico e attraverso l’esercizio costante, risulterà
“di una perfezione assoluta e immutabile”.
Alcuni libri dell’Istitutio sono dedicati alla pedagogia e alla didattica. Per quanto concerne il meto-
do, Quintiliano propone una serie di osservazioni fondamentali: egli suggerisce sostanzialmente l’in-
dividualizzazione dell’insegnamento, la gradualità, l’attivizzazione dell’educando, all’interno di
un quadro di valorizzazione della personalità di impianto umanistico.
Quintiliano vuole che l’educazione sia, soprattutto nella prima fase, davvero ludica. La scuola de-
ve essere considerata un’attività piacevole, come un gioco. Per questo ritiene scorretto il ricorso alla
minaccia ed alle punizioni corporali. Occorrono invece la lode, l’incoraggiamento e l’esempio, il ri-
chiamo all’autostima.
“Non sono così digiuno di pedagogia da pensare che occorra oberare i ragazzi fin dalla tenera età ed
esigere da loro un’applicazione agli studi eccessiva. Anzi, il primo errore da evitare è che un ragaz-
zo, non ancora in grado di affezionarsi agli studi, li prenda in odio e resti traumatizzato, anche dopo
i primissimi anni, da quella spiacevole suggestione. Si faccia in modo che per il bambino lo studio sia
un gioco, lo si inviti con dolcezza, lo si lodi, e sempre egli sia lieto di aver profittato; talvolta, se lui
non vuole, si insegni qualcosa a un altro, sì da farlo ingelosire: e intanto prenda gusto allo sforzo e
creda assai spesso che lui è il migliore, e sia invogliato, anche con premi, i quali fanno gran presa a
quell’età.” (Quintiliano, Institutio Oratoria, UTET, Torino 1968, p. 83)
a) Roma preellenistica
sistema rigido di valori
pietas rispetto verso gli déi e i familiari
tradizione nazionale e familiare constantia fermezza d’ animo
gravitas senso della propria dignità
ELLENISTICA ROMANA
identica scansione:
primaria/secondaria/superiore
PRIMARIA
Maestro (+ hypodidascalus)
pedagogo calculator
Metodo mnemonico
Lettura: lettere => parole
Punizioni corporali
SECONDARIA
Augusto:
EFEBATO COLLEGIA IUVENUM
formazione tecnico-professionale
SUPERIORE PAEDAGOGIUM
COLLEGIUM
(artigiani – soldati)