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Filosofia della Mente, Logica e

Lingue Naturali
Martino Branca Matricola: 840783

Modulo I


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Martino Branca Matricola: 840783

Introduzione

L’insegnamento di Filosofia della mente, logica e lingue naturali affronta due questioni
fondamentali:

1. Qual è l’origine del linguaggio umano?

2. In che misura parlare lingue diverse conduce a ragionare e a concettualizzare il mondo in


modo diverso?

1. Qual’è l’origine del linguaggio umano


Si è sostenuto come la necessità di comunicare quando un gruppo di individui si ritrova e ha
degli obiettivi e necessita di fare certe cose, possa essere un’evoluzione di sistemi di
comunicazione animale, come gesti e versi, che vengono via via elaborati nel tempo.

Le principali ipotesi
Tra le ipotesi che hanno analizzato questo interrogativo, troviamo:

- DEMOCRITO -> “… Dicono poi che gli uomini di quelle primitive generazioni,
conducendo una vita senza leggi e come quella delle fiere, uscivano alla pastura sparsi
chi di qua chi di là, procacciandosi quell'erba che era più gradevole di sapore ed i frutti
che gli alberi producevano spontaneamente. (2) Erano continuamente aggrediti dalle
fiere, e l'utilità apprese loro ad aiutarsi a vicenda; e, riunitisi in società sotto la spinta del
timore, cominciarono a poco a poco a riconoscersi all'aspetto. (3) E mentre prima
emettevano voci prive di significato e inarticolate, gradatamente cominciarono ad
articolar le parole; e, stabilendo tra di loro espressioni convenzionali per designare
ciascun oggetto, vennero a creare un modo, noto a tutti loro, per significare tutte le
cose.”

In questo passo Democrito espone la sua ipotesi sull’origine del linguaggio, secondo
cui i primitivi si rendono conto che da soli sono troppo deboli per combattere le fiere.
Questo li porta quindi a riunirsi in gruppi e vanno a creare la società in cui si accordano
per usare determinate parole per riferirsi a specifici oggetti.

“(4) Ma poiché simili raggruppamenti di uomini si formarono in tutte le regioni abitate


della terra, non ci poté essere una lingua di ugual suono per tutti, poiché ciascuno di
quei gruppi combinò i vocaboli come capitava; ecco perché svariatissimi sono i caratteri
delle lingue e perché quei primi gruppi furono la prima origine di tutte le varie nazioni.”

Qui Democrito propone una spiegazione per l’esistenza di lingue diverse: i nomi sono
convenzionali, stabiliti per accordo tra gruppi di persone. L’esistenza di vari gruppi di
persone ha portato al nascere di nomi diversi, e quindi di lingue diverse.

Secondo Democrito (e probabilmente secondo il «senso comune»), il linguaggio è un


prodotto sociale e culturale: gruppi di individui si sono accordati per usare
convenzionalmente determinate sequenze di suoni [o, secondo altri (Corballis), gesti]
per riferirsi a degli oggetti e con il passare del tempo, il repertorio di «parole» è
cresciuto, fino a creare le lingue. Ovviamente, riferendoci a quanto esposto

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precedentemente alla voce (4), essendoci gruppi di individui diversi, ci sono lingue
diverse.

Alla base di questa ipotesi c’è l’assunto che il linguaggio sia di fatto il prodotto delle
abilità cognitive degli uomini e il frutto di accordi convenzionali tra le persone: come
gli uomini si possono accordare tra di loro per istituire, ad esempio, determinate forme
di governo, così si accordano per utilizzare una determinata lingua.

Se il linguaggio è un prodotto sociale e culturale, allora dovrebbe essere immediato


spiegare la diversità culturale e ci potremmo aspettare che le lingue varino tra loro in
maniera indefinita. Potremmo, inoltre, aspettarci che il livello di complessità di una
lingua specifica sia correlato al grado di complessità della società che la parla. Infine,
potremmo prevedere che alla varietà tra le lingue corrisponda anche una varietà
cognitiva -> oltre che a lingue diverse ci sono modi di pensare differenti.

- LINGUAGGIO COME ORGANO -> un’altra posizione sostiene che il linguaggio non sia
un prodotto culturale, ma che sia più simile a un organo: gli individui comincerebbero a
parlare così come iniziano a camminare, semplicemente attuando una facoltà che è
parte del loro patrimonio genetico-biologico. -> Linguaggio come “istinto”.

Conseguenze delle due ipotesi

Linguaggio come organo

Se il linguaggio fosse davvero simile a una funzione organica, allora ci aspettiamo che:

1. Abbia delle caratteristiche tipiche di altre funzioni organiche, come l’iniziare a camminare, o
il tessere la tela per un ragno.

2. Abbia una componente innata e non derivi solo e unicamente dall’esperienza.

3. E quindi che questa facoltà sia comparsa «a un certo punto» nella storia evolutiva
dell’homo sapiens.

4. Tutti gli individui condividano la stessa lingua (parlino la stessa lingua). Questo comporta
che l’effettiva diversità tra le lingue debba essere spiegata.

Linguaggio come prodotto sociale


Se il linguaggio fosse invece un prodotto sociale/culturale, allora:

1. E’ immediato spiegare la diversità tra le lingue (vedi anche Democrito).

2. In linea teorica, ci potremmo aspettare una grande variabilità tra le lingue, in tutti gli aspetti
che le caratterizzano, non solo nelle parole ma anche nel modo di combinarle.

3. Ci potremmo aspettare che il grado di complessità di una lingua specifica sia correlato al
grado di complessità della società che la parla.

4. Ci potremmo aspettare che a lingue diverse corrispondano modi di pensare diversi (come,
appunto, già discusso precedentemente).

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2. In che misura parlare lingue diverse conduce a


ragionare e a concettualizzare il mondo in modo
diverso? (relativismo linguistico)

Questo semplice “esperimento” ci mostra che noi non interpretiamo il linguaggio procedendo
semplicemente in modo incrementale da sinistra a destra, perché se lo facessimo dovremmo
prima computare “secondo mattoncino” e poi dovremmo aggiungere quello che viene dopo,
cioè azzurro: visto che il secondo mattoncino è azzurro, dovremmo selezionare quello, ma noi
non lo facciamo, perché non selezioniamo il secondo mattoncino, che poi di fatto è azzurro.

Il linguaggio è strutturato in maniera gerarchica, nel senso che gli elementi linguistici (le parole,
e le combinazioni di parole) si combinano tra di loro secondo una gerarchia. Prima si
combinano determinati elementi per formare delle «unità»:

[mattoncino] + [azzurro] = [mattoncino azzurro]

E poi altre (combinazioni di) parole si combinano con le unità formatesi precedentemente:

[secondo] + [mattoncino azzurro]

Questa combinazione gerarchica avviene a livello sintattico (regole formali di una frase), e
anche a livello semantico, ossia di interpretazione del significato. Il contributo semantico (= di
significato) della combinazione di nome + aggettivo (quando l’aggettivo segue il nome) è quello
dell’intersezione insiemistica:

• Il nome “mattoncino” individua l’insieme dei mattoncini;

• L’aggettivo “azzurro” individua l’insieme delle cose azzurre;

La combinazione del nome “mattoncino” più l’aggettivo “azzurro” individua l’intersezione tra i
due insiemi, ossia l’insieme di mattoncini azzurri.

Il contributo semantico dell’aggettivo prenominale “secondo” è di diverso tipo. Questo


aggettivo individua, all’interno dell’insieme denotato dalla combinazione di mattoncino +
azzurro quell’oggetto che è in seconda posizione secondo un dato ordine (tipicamente, per noi,
contando da sinistra a destra).

Abbiamo mostrato, con un semplice esempio, come l’organizzazione del linguaggio non sia
lineare, ma gerarchica. Vediamo un’altra caratteristica del linguaggio, giocando sempre con lo
stesso esempio.

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Se ci sono più aggettivi post-nominali che


qualificano il nome, l’aggettivo che segue
immediatamente il nome (azzurro) si combina
per primo con il nome (mattoncino) –> prima
operazione di intersezione tra due insiemi:

[mattoncino] + [azzurro] = [ [mattoncino]


[azzurro] ]

Successivamente, il secondo aggettivo che


segue il nome si combina con la combinazione
ottenuta precedentemente, e la qualifica
ulteriormente – seconda operazione di
intersezione tra insiemi.

[mattoncino azzurro] + [sottolineato] = [ [[mattoncino] [azzurro]] [sottolineato] ]

Solo quando gli aggettivi che seguono il nome sono terminati entra in gioco l’aggettivo
prenominale “secondo”, che individua il mattoncino che è in seconda posizione in un dato
ordine nell’insieme dei mattoncini azzurri sottolineati.

[secondo] + [mattoncino azzurro sottolineato] = [ [secondo] [[[mattoncino] [azzurro]]


[sottolineato]] ]

La regola secondo cui un nome comune può essere modificato da un aggettivo e il risultato di
questa combinazione è una unità che di fatto appartiene ancora alla categoria sintattica dei
nomi comuni (mattoncino azzurro) si chiama regola di combinazione tra nome e aggettivo
post-nominale. Tale regola può essere reiterata, in quanto possiamo aggiungere un altro
aggettivo (sottolineato) alla combinazione ottenuta precedentemente (mattoncino azzurro), e
otterremmo ancora una volta una combinazione ([[mattoncino azzurro] sottolineato]) che
appartiene ancora alla categoria sintattica dei nomi, e che quindi può essere ulteriormente
modificato.

Questo ci suggerisce che il linguaggio contiene delle OPERAZIONI RICORSIVE -> Una regola
è ricorsiva se può essere applicata al risultato di una sua precedente operazione.

L’operazione di qualificazione (via intersezione insiemistica) di un nome da parte di un


aggettivo postnominale è un’operazione ricorsiva perché può essere applicata al risultato di
una sua precedente applicazione. Come nel caso di tutte le operazioni ricorsive, in linea di
principio può essere prodotta una sequenza di lunghezza infinita.

Tutte le lingue naturali (=lingue morte o vive di fatto parlate da popolazioni) hanno una struttura
soggiacente di tipo gerarchico e ricosivo: gli elementi si combinano in costituenti secondo un
ordine che non è lineare, ma che obbedisce a delle regole e alcune di queste sono ricorsive, in
quanto possono essere applicate al risultato di una precedente applicazione.

Bisogna però prestare ATTENZIONE -> non sempre la ricorsione va di pari passo con la
struttura gerarchica. Ci sono regole che sono ricorsive (possono essere applicate al risultato di
una loro precedente applicazione) senza però produrre delle strutture gerarchiche.

Consideriamo la regola:

“Prendi la terza lettera di una stringa di lettere, e aggiungila tra la prima e la seconda lettera
della stessa stringa.”
La regola è ricorsiva e produce quindi una sequenza infinita. Però essa non produce una
struttura gerarchica: ci dice solo che le lettere stanno una dopo l’altra su una linea piatta, non
che c’è una relazione di contenimento fra i prodotti della regola stessa. Questo si può vedere
dal fatto che l’applicazione della regola conduce a una struttura parentesi come la seguente:

[d][b][q][f]

[d][q][b][q][f]

[d][b][q][b][q][f] ecc…

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C’è anche il caso speculare, cioè ci sono strutture che sono gerarchiche, ma non ricorsive. Una
sillaba ha una struttura gerarchica (gli elementi base si compongono secondo un ordine
prestabilito, e alcuni gruppi di elementi sono subordinati ad altri) ma non ricorsiva (ovvero, se
vado a vedere dentro una sillaba, non ne trovo un’altra).

Il linguaggio umano ha la proprietà di avere regole ricorsive che producono strutture


gerarchiche. Ci riferiremo a questa proprietà del linguaggio umano con la metafora della
matrioska. La metafora richiama il fatto che, quando guardiamo all’interno di una bambola
russa, ne troviamo un’altra uguale, ma più piccola, con un’iterazione successiva della stessa
forma fino a quando la scomposizione non è più possibile. In questo caso la struttura
gerarchica può essere rappresentata mediante la metafora delle bambole a matrioska:

[secondo [[mattoncino] [azzurro]]]

[[mattoncino] [azzurro]]

[mattoncino]

La proprietà della lingua di avere strutture ricorsive di tipo gerarchico non è cosa di poco
conto, e non deve interessare solo chi si appassiona di proprietà formali delle lingue. Infatti il
linguaggio è un veicolo di pensiero e avere strutture ricorsive è quello che ci consente di
formulare pensieri complessi che si basano su pensieri più semplici.

Oggi la maggior parte dei linguisti ritiene che tutte le lingue umane siano organizzate
gerarchicamente (anche se alcuni dissentono) e che quindi queste non siano semplicemente
un inventario di parole combinate tramite regole (che noi conosciamo implicitamente dai tre
anni), ma in realtà sono complesse. Questo solleva una domanda: il bambino che deve
acquisire la sua lingua madre deve imparare che essa è gerarchica oppure l’informazione che
le lingue umane sono gerarchiche è parte dell’informazione di partenza del bambino? Il
bambino parte da zero (o quasi da zero) nell’acquisizione della lingua oppure è guidato da
alcune informazioni sul modo in cui lingue possono o non possono essere fatte?

Hamburger and Crain (1984) hanno provato a vedere come si comportano i bambini esposti
all’inglese quando si danno loro istruzioni simili a quelle del problema del mattoncino.

In un famoso articolo pubblicato nel 2002 sulla rivista Science, Hauser, Chomsky e Fitch hanno
sostenuto che il tipo di ricorsività che produce strutture gerarchiche (cioè la struttura a
matrioska), sarebbe una proprietà distintiva del linguaggio umano rispetto ai sistemi di
comunicazione animale. Nessun sistema di comunicazione animale anche molto sofisticato
presenterebbe tracce di una simile struttura.

Gli autori hanno sostenuto che il tipo di ricorsività che produce strutture gerarchiche sarebbe
l’unica proprietà in grado di differenziare in modo qualitativo e non meramente quantitativo
linguaggio umano e sistemi di comunicazione animali. Infatti, nel regno animale ci sono
meccanismi ricorsivi, per esempio gli uccelli usano sistemi di orientamento basati su complicati
calcoli matematici per loro migrazioni da un continente a un altro. Questi calcoli comprendono
meccanismi ricorsivi. Tuttavia, l’uomo sarebbe l’unico animale che usa la ricorsività per
combinare pensieri e informazioni di tipo linguistico.

Hauser, Chomsky e Fitch hanno anche proposto un’ipotesi sull’evoluzione nel linguaggio nella
specie, proponendo una congettura su come e quando sarebbe successo quel qualcosa
(ovvero la combinazione di ricorsività e gerarchia) che avrebbe determinato l’inizio del
linguaggio umano. L’articolo di Hauser, Chomsky e Fitch ha contribuito ad alimentare
un’ondata di studi sui sistemi di comunicazione animali e sull’evoluzione del linguaggio nella
nostra specie.

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Linguaggio:

- SINTASSI: l’insieme e lo studio delle regole formali di una frase e non solo:
- PRAGMATICA: studio del ruolo del contesto nel determinare il contenuto di un atto
comunicativo in situazioni concrete d’uso;
- SEMANTICA: studio del significato e del simboli;
- FONOLOGIA: studio dei suoni possibili e delle loro combinazioni nelle lingue del
mondo;
- MORFOLOGIA: studio della struttura delle parole.

IL LINGUAGGIO COME ORGANO (1)

Come abbiamo già accennato precedentemente, esistono due ipotesi principali sull’origine del
linguaggio umano:

1. Linguaggio come prodotto sociale;

2. Linguaggio come funzione biologica.

Analizzeremo per prima la seconda ipotesi .

Come abbiamo già indagato nella lezione precedente, affinché intendiamo il linguaggio come
una funzione organica ci si aspetta che questo abbia caratteristiche tipiche di altre funzioni
organiche, oltre che a una componente innata e che non derivi unicamente dall’esperienza.
Infine, che questa facoltà sia apparsa “a un certo punto” nella storia evolutiva dell’homo
sapiens.

A sostegno di questa prima ipotesi, diversi argomenti permettono di individuare alcune


caratteristiche in comune tra l’acquisizione del linguaggio e altre capacità considerate
“biologiche”. Tra queste identifichiamo:

1. Tappe di sviluppo predeterminate;

2. Esistenza del periodo critico-sensibile.

1. Tappe di sviluppo pre-determinate


Per ogni lingua e comunità si possono identificare tappe pre-determinate. La capacità di
usare il linguaggio, infatti, si sviluppa automaticamente in qualsiasi bambino di sviluppo
normale che abbia un’esposizione a una lingua (in genere quella dei genitori) senza che sia
necessaria alcuna istruzione esplicita. Tale facoltà si evolve in un lasso di tempo estremamente
breve, all’incirca attorno ai 3 anni.

Gli studi sull’acquisizione del linguaggio, che si sono fatti sempre più accurati negli ultimi
decenni, mostrano chiaramente che tale sviluppo segue tappe predeterminate e una tempistica
largamente prevedibile, anche se ci possono essere differenze individuabili non trascurabili.

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Le tappe
• 6-8 mesi -> BABBLIG o LALLAZIONE: produzione e ripetizione delle sillabe più comuni
della lingua a cui è esposto. La lallazione può essere univariata (quando viene ripetuta
una sola sillaba), oppure bivariata/multivariata (quando vengono ripetute più sillabe).

• 12 mesi -> il bambino comincia ad usare le PRIME PAROLE.

• 20 mesi -> ESPLOSIONE DEL VOCABOLARIO: il ritmo di acquisizione di nuove parole


“esplode”, fino a 10 parole nuove al giorno.

• 18-20 mesi -> OLOFRASE: prime combinazioni di due parole. ATTENZIONE: le


combinazioni rispettano le proprietà essenziali della lingua cui il bimbo è esposto
(variaizoni a seconda della lingua). Ad es. l’ordine verbocomplemento: un bimbo italiano
dirà «beve latte», un bimbo giapponese dirà l’equivalente di «latte beve», visto che il
complemento oggetto segue in italiano, ma precede in giapponese, il verbo

• Età prescolare -> il sistema grammaticale è pienamente sviluppato nei suoi aspetti
fondamentali

Tappe predeterminate e lingue dei segni

Un’ulteriore argomentazione a favore della teoria delle tappe predeterminate è l’analogia che si
riscontra nello sviluppo e nelle tempistiche delle lingue dei segni, quindi in una situazione di
input piuttosto diversa.

Le lingue dei segni sono delle lingue complete, che possono essere analizzate ai vari livelli di
complessità linguistica. L’acquisizione della lingua dei segni come lingua madre (anche se si
tratta di una situazione poco diffusa, visto che il 90-95% dei bambini sordi nasce da genitori
udenti) avviene con lo stesso automatismo e naturalezza della acquisizione delle lingue parlate.

E’ stato proposto che anche i bambini nati sordi ed esposti dalla nascita alla lingua dei segni
passino anche loro attraverso una fase di “LALLAZIONE MANUALE”: invece che «allenarsi»
con il ripetere sillabe, questi bambini si “allenerebbero” sperimentando particolari movimenti
delle mani: MANUAL BABBING.

Lo sviluppo del linguaggio sembra essere un processo che segue tappe predeterminate, non
plasmato nei suoi tempi di maturazione in maniera decisiva da fattori ambientali. Si
tratterebbe di qualcosa di analogo alla dentizione nel bambino o alla crescita delle ali negli
uccelli, fenomeni che sono in larga misura determinati nelle loro proprietà e nei loro tempi di
maturazione dalle informazioni contenute nel patrimonio genetico. Senza un'adeguata
alimentazione, o senza alcune altre condizioni minime, questi organi non si potrebbero
sviluppare. Quindi un ruolo del contesto ambientale sulla maturazione degli organi biologici
esiste sempre, ma è un ruolo limitato. Nessuno potrebbe ragionevolmente pensare che la
ragione per cui un cane pastore di norma sviluppa quattro denti canini è da ricercarsi in quello
che il cane ha ingerito nei primi anni di vita o che la ragione per cui le ali crescono in una certa
area del corpo dell’uccello è dovuta ai movimenti che gli uccelli adulti hanno insegnato ai loro
piccoli. L’ipotesi di Chomsky è che con il linguaggio succeda qualcosa di simile.

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Nella nostra cultura tendiamo a pensare che sollecitare il bambino rivolgendogli la parola
quando ancora non parla con un codice semplificato (il cosiddetto ‘motherese’ o ‘mammese’)
costituisca un passaggio fondamentale nello sviluppo del linguaggio. Ma, anche se ci sono
segnali che questo atteggiamento possa aiutare un po’ il bambino, i bambini sviluppano il
linguaggio senza problemi anche in culture in cui gli adulti non si rivolgono a loro fino a che non
sono in grado di interagire.

Nella nostra cultura in genere non insegniamo ai bambini a gattonare o a camminare, ma


aspettiamo che essi comincino a farlo per conto loro. Invece i !Kung San nel deserto del
Kalahari (in Namibia) ritengono di dover insegnare la posizione eretta ai loro bambini, per
esempio li fanno stare in piedi sostenendoli con mucchi di sabbia. In realtà, parlare o gattonare
potrebbero essere ambedue un istinto, una capacità che cresce autonomamente nel bambino
senza che ci sia bisogno di un insegnamento implicito o esplicito dall’esterno. In questo senso
noi e i !Kung San facciamo qualcosa di non necessario (anche se non è inutile).

L’esistenza di tappe di sviluppo pre-determinate nell’acquisizione della propria lingua madre


(tappe che sono le stesse per tutte le lingue, e per tutte le comunità) è un fatto difficilmente
spiegabile da chi ipotizza che la lingua sia una invenzione sociale.

2. Periodo critico sensibile


Un’ulteriore indicazione che le cose potrebbero essere come sostiene Chomsky è l’esistenza di
un periodo critico o sensibile, cioè il fatto che l’acquisizione del linguaggio avviene in modo
spontaneo, attraverso la semplice esposizione a una lingua, solo all'interno di una certa
finestra temporale (appunto il periodo critico, o sensibile).

L'esistenza di un periodo critico è suggerita dall'osservazione di tipo aneddotico di un bambino


che si trova in un ambiente linguistico nuovo per la sua famiglia e che impara la lingua
dell'ambiente extrafamigliare molto prima e molto meglio dei suoi genitori: dalla nascita entro la
pubertà si può imparare senza sforzi, basta la semplice esposizione.

L'esistenza di un periodo critico è confermata da studi sistematici che sono stati fatti su ampie
popolazioni di immigrati arrivati negli Stati Uniti in diversi momenti della loro vita o su
popolazioni di segnanti che sono stati esposti a ASL (American Sign Language) in diversi
momenti della loro vita. Questi studi individuano grosso modo nella pubertà il periodo ultimo
entro il quale una lingua seconda può essere acquisita in modo naturale con una competenza
vicina a quella di un madrelingua. Dopo questo periodo critico, una seconda lingua in genere si
impara in modo più lento e difficoltoso e la riuscita nell’acquisizione della seconda lingua
correla con fattori come la motivazione, il grado di istruzione ecc. i quali non hanno un ruolo
nell’acquisizione di una lingua durante il periodo critico.

In realtà, l’individuazione del periodo della pubertà come limite ultimo del periodo critico o
sensibile è una semplificazione. Infatti, per alcune competenze linguistiche (per esempio,
fonologiche) la finestra temporale che permette un’acquisizione “da madrelingua” sembra
essere anche più ristretta.

L’esistenza di un periodo critico per l'acquisizione di una lingua è un argomento a favore


dell'ipotesi del linguaggio come organo, perché i periodi critici si trovano di frequente in altre
specie a regolare lo sviluppo di funzioni cognitive. Per esempio, il canto dei fringuelli si sviluppa
pienamente solo se questi animali sono esposti al canto dei loro conspecifici entro il decimo
mese di vita. Dopo questo periodo critico, per quanto l’esposizione al canto di altri fringuelli sia
intensa, un fringuello che sia stato precedentemente isolato dai suoi conspecifici non
svilupperà che un canto rudimentale.

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COME NASCONO LE LINGUE

Nascita graduale
Dei gruppi di persone che parlavano una stessa lingua per ragioni storiche o geografiche
vengono isolate, e c’è una graduale trasformazione della lingua comune in varietà diverse, che
possono poi diventare non mutuamente comprensibili.

Ad esempio la caduta dell’Impero Romano ha portato le lingue latine a diversificarsi (spagnolo,


italiano e francese ecc…).

Nascita per catastrofe


Queste condizioni si sono verificate durante il periodo del colonialismo europeo, dal 1500 al
1900, quando un grande numero di persone che parlavano lingue tra loro non comprensibili
sono state costrette ad associarsi su base permanente senza avere un linguaggio preesistente
in comune.

Esistono due situazioni differenti di nascita per catastrofe.

Situazione del FORTE


Un gruppo esterno, percepito come più forte, penetra all’interno di un territorio multilingue, e
instaura dei rapporti stabili. Ad esempio i portoghesi penetrarono in diverse aree delle Indie per
legami di tipo commerciale e questo produsse delle lingue nate dall’incontro tra il portoghese e
le lingue indigene

Situazione della PIANTAGIONE


Diversi gruppi di persone che parlano lingue diverse sono trasportate in una zona isolata, e
messe a vivere fianco a fianco. La convivenza forzata porta alla creazione di una nuova lingua
per esigenze comunicative.

Un esempio molto recente di questo fenomeno viene rappresentato da quanto successo nelle
Hawaii nel periodo 1876-1920 nelle piantagioni da zucchero. Sebbene la prima piantagione di
zucchero risalga solo al 1835, già a partire dagli anni ’40 dell’800 la produzione cominciò a
diffondersi sempre più, con le piantagioni possedute da pochi latifondisti stranieri. Questo
comportò una continua richiesta di manodopera, complicata anche dal fatto che la
popolazione indigena delle Hawaii era molto diminuita a causa di epidemie portate dall’esterno,
e anche dal fatto che gli Hawaiani preferivano vivere di agricoltura propria o pesca piuttosto
che lavorare nelle piantagioni. L’enorme bisogno di manodopera spinse i latifondisti a
importare lavoratori dalla Cina, ma al fine di mantenere una forza lavoro che non fosse in grado
di coalizzarsi per fare rivendicazioni sul lavoro, i latifondisti decisero volontariamente di
diversificare la provenienza etnica (e linguistica) dei lavoratori (lavoratori dalle Filippine,
Giappone e Corea).

Le persone che si trovavano a lavorare insieme tutti i giorni nelle piantagioni non avevano un
linguaggio preesistente in comune e le esigenze comunicative portarono alla nascita di un
PIDGIN: un sistema di comunicazione molto rudimentale.

Con il termine pidgin (forse derivato dal termine per business nel pidgin inglese-cinese) si
indicano tutte le lingue nate per catastrofe nella loro prima fase. Si tratta di un idioma
estremamente impoverito e semplificato. Gli elementi lessicali sono presi dalle lingue (vere e
proprie) preesistenti. Ovviamente, la lingua dei più “forti” (l’inglese alle Hawaii, la lingua dei

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colonizzatori nelle colonie, ecc.) ha uno status speciale, e rappresenta la lingua lessificatrice
(che fornisce il maggior numero di vocaboli), le altre lingue parlate dai gruppi di persone sono
dette lingue del substrato.

Quando la comunità cominciano ad espandersi con la nascita delle famiglie, nasce la prima
generazione esposta al pidgin fin dalla nascita così da assumere il carattere di lingua madre.
Per definizione, il CREOLO è il prodotto dell’evoluzione di una lingua pidgin, evoluzione che
avviene quando il pidgin comincia ad avere parlanti nativi.

Pidgin e Creoli

Bickerton si concentra inizialmente sul pidgin e creolo hawaiani perché è un passaggio


avvenuto relativamente recentemente, e per il quale è possibile avere documentazione sia di
parlanti pidgin sia di parlanti creoli. La documentazione per i parlanti pidgin proviene da
registrazioni raccolte da Bickerton stesso nel 1973-1975, con interviste a persone (di 70, 80 e
in alcuni casi 90 anni) che erano immigrate (da adulti in quanto lavoratori) nelle Hawaii nei primi
decenni del secolo scorso – e che quindi parlavano il pidgin. Il «linguaggio» (pidgin) di queste
persone è stato poi confrontato con quello di altri hawaiani, che invece parlavano il creolo.

Mediante i suoi studi, Bickerton comprende che nel pidgin non c’è sintassi intera come modo
di organizzare le parole. I parlanti, infatti, usano la sintassi della loro lingua nativa.

L’assenza di modi di marcare il tempo, l’aspetto o la modalità; l’assenza di frasi subordinate e


di modi per distinguere i casi (per distinguere ad es. il complemento oggetto dal soggetto)
sono tutti sintomi di una lingua estremamente rudimentale.

Nel creolo, invece, si riconoscono delle costruzioni sintattiche, alcune proprie del creolo (ad es.
l’aspetto del verbo, la funzione strumentale e di modo, la subordinazione).

Nel creolo esistono due distinti complementatori per esprimere la subordinata: “go” e “fo”.
Questi distinguono tra azioni compiute (“go plaen”: l’azione di piantare si è svolta realmente) e
non compiute (“fo go wok”: l’azione di andare al lavoro non si è realizzata), modalità non
presente nel pidgin (ma neanche nell’inglese).

Il creolo delle Hawaii contiene altre innovazioni linguistiche rispetto al suo antecedente (il
pidgin): esibisce frasi relative e di ordine preciso per soggetto-verbo-oggetto.

Come si spiega il passaggio di complessità, a livello soprattutto sintattico e morfologico,


dal pidgin al creolo in un breve lasso di tempo?
- L’ipotesi del BIOPROGRAMMA (Bickerton): i bambini che imparano a parlare in un
ambiente in cui si parla un pidgin elaborano una lingua complessa (il creolo) attingendo
da conoscenze linguistiche innate. Il processo di creolizzazione sarebbe, quindi, una
prova a sostegno della tesi di Chomsky che esistono conoscenze linguistiche innate.

- L’ipotesi del SUBSTRATO: i bambini che imparano a parlare in un ambiente in cui si


parla un pidgin elaborano una lingua complessa (il creolo) attingendo dalle lingue del
substrato (cioè dalle lingue indigene che contribuiscono a formare il pidgin).

Riguardo alle lingue creole, gli studiosi hanno dunque pareri diversi e a prima vista, c’ è un
modo ovvio per decidere quale delle due ipotesi sia corretta: basta esaminare le lingue del
substrato che hanno contribuito alla formazione del pidgin e controllare se gli arricchimenti che
sono stati introdotti nella lingua creola derivino da elementi che sono presenti nelle le lingue del
substrato.

In realtà, le cose non sono così semplici, per almeno due ragioni:

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• non c’è accordo tra gli studiosi su come determinare il ruolo delle lingue del substrato
nella formazione della lingua creola;

• non è facile reperire i dati rilevanti.

Vediamo di chiarire meglio queste ragioni.

Come determinare il contributo delle lingue del substrato?


I sostenitori dell’ipotesi del substrato sostengono che attingere dalle lingue del substrato non
comporta necessariamente prendere in prestito degli elementi specifici, delle costruzioni
particolari, da queste lingue. Le lingue del substrato potrebbero semplicemente suggerire ai
bambini come è fatta una lingua vera e propria e innescare così il processo di formazione della
lingua creola. I sostenitori dell’ipotesi del bioprogramma, da parte loro, replicano che questa
ipotesi dei loro avversari è troppo vaga e, per questa ragione, difficile da falsificare: se non
possiamo rintracciare degli elementi specifici delle lingue del substrato che sono stati presi in
prestito dalla lingua creola, come possiamo affermare che i bambini abbiano attinto dalle lingue
del substrato per elaborare la lingua creola?

Difficoltà a reperire i dati


Certo, se qualche linguista fosse stato presente nel periodo in cui una lingua creola iniziava a
svilupparsi e avesse potuto descrivere ciò che accadeva, ora tutto sarebbe più semplice.
Probabilmente, se fossimo in possesso di una descrizione del genere, saremmo in grado di
valutare meglio se i bambini che elaboravano la lingua creola dal pidgin sfruttavano la
conoscenza delle lingue del substrato oppure no. Il problema è che le lingue creole, anche
quelle più recenti, hanno iniziato a svilupparsi almeno un secolo fa. A quel tempo, la
documentazione sulla nascita di queste lingue era molto scarsa. Nessun linguista è mai stato lì
a documentare la nascita di una lingua creola.

Nessun linguista è mai stato lì a documentare la nascita di una lingua creola parlata. Ma diversi
linguisti, in anni recenti, hanno potuto documentare la nascita di una lingua creola segnata
(linguaggio dei segni).

SILENT CHILDREN, NEW LANGUAGE


Nel 1979 in Nicaragua venne abbattuta la dittatura di Anastasio Somoza Debayle, che aveva
governato per decenni, e si instaurò il Governo Sandinista. Durante gli anni di dittatura, il Paese
era rimasto in una condizione di povertà dilagante e il nuovo governo si trovò quindi ad
affrontare diversi problemi, economici ma anche sociali. Il livello di analfabetismo in Nicaragua
era allarmante: infatti il privilegio di andare a scuola era riservato solo ai pochi ricchi, lasciando
quindi i bambini più poveri in isolamento. I bambini sordi si trovavano in una condizione ancora
più drammatica, poiché non solo non potevano ricevere un’istruzione, ma non avevano
nemmeno la possibilità di imparare una lingua per comunicare efficientemente con la propria
famiglia.Infatti ai tempi in Nicaragua non esisteva una lingua dei segni e i sordi si trovavano in
una situazione di completa alienazione. Ovviamente ognuno di loro possedeva un insieme di
gesti che utilizzava in famiglia (home signs), ma erano utili solo per fare semplici richieste e non
permetteva loro di esprimere concetti o pensieri complessi.

Il governo sandinista decise di mettere in atto anche delle riforme sociali e scolastiche che
permisero di istituire scuole professionali per persone sorde, con l’obiettivo di insegnare queste
a leggere il labiale. Una di queste scuole fu aperta a Managua. Ogni giorno una cinquantina di
ragazzi si riunivano per studiare e apprendere il metodo orale. Si trattò però di un fallimento: i

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ragazzi erano profondamente sordi, e non riuscivano a riconoscere le parole con il metodo
labiale.

Nel frattempo, però, i giovani riuscirono a trovare un modo per comunicare tra loro: iniziarono
ad utilizzare un sistema di gesti/segni, che divenne presto troppo complesso perché le
insegnanti riuscissero a comprenderne il significato utilizzando solo l’intuito. La scuola decise
quindi di rivolgersi al governo e richiedere l’aiuto di un professionista che potesse aiutare le
insegnanti a comprendere al meglio la singolare situazione in cui dovevano lavorare. Venne
mandata a Managua la linguista americana Judy Kegl specializzata in lingua dei segni che si
occupò di osservare e studiare come questi ragazzi sordi comunicassero tra loro.

Mediante l’ osservazione e documentazione giornaliera sul sistema comunicativo instaurato dai


ragazzi, Kegl osservò un alto livello di variabilità tra i segni utilizzati dai vari studenti: a volte
anche la stessa persona utilizzava segni differenti per indicare lo stesso concetto. Non esisteva
alcuna struttura consistente nel modo in cui i segni venivano utilizzati e non vi era alcuna
traccia di una grammatica predicibile.

La situazione riscontrata non era, però, sorprendente: i ragazzi conoscevano solo un insieme
limitato di segni che erano abituati ad utilizzare a casa per la comunicazione con i famigliari, ed
era quindi normale che per comunicare cercassero di utilizzare un sistema comune,
comprensibile seppur variabile.

Questo sistema rappresenta un pidgin segnato, visto che si è formato in condizioni analoghe,
e soprattutto ne condivide molte caratteristiche, come la presenza di un vocabolario e
l’assenza di una grammatica stabile. -> i ragazzi infatti si trovavano a convergere i diversi home
signs per creare un sistema comunicativo comune e questo sarà per via di cose un sistema
ridotto e non prevedibile, in analogia con la comunicazione tra persone con lingue differenti.

Qualche anno più tardi venne aperta anche una scuola primaria per bambini sordi, la quale
catturò l’attenzione di Judy Kegl nell’intento di confrontare i due sistemi comunicativi creatisi
negli istituti. Osservando i bambini più piccoli comunicare tra di loro, Kegl si trovò di fronte a
quella che sembrava essere una lingua a tutti gli effetti, con strutture consistenti e predicibili:
un creolo segnato. Infatti, i bambini più piccoli, pur frequentando una scuola anch’essa
incentrata sul sistema oralista di lettura del labiale (e quindi senza alcun insegnamento della
lingua dei segni) raccontavano di aver potuto osservare i ragazzi più grandi comunicare con
quel sistema gestuale (il pidgin), e di aver quindi “imparato” da loro a segnare. Tuttavia Kegl
nota che nella lingua dei più piccoli sono presenti strutture grammaticali, strutture assenti in
quella dei più grandi e tutti gli effetti un vero e proprio creolo.

Le due generazioni (adolescenti che parlavano pidgin, e bambini che parlavano il creolo) erano
presenti contemporaneamente, e quindi l’impressione di Kegl poteva essere verificata
sperimentalmente.

Kegl decise di mostrare un cartone animato (Mr. Koumal) a un gruppo di segnanti, chiedendo
loro di raccontarlo, di fronte a una videocamera. La produzione linguistica dei vari segnanti è
stata quindi trascritta, e codificata, con lo scopo di individuare: l’ampiezza del lessico (numero
di segni usati), la fluenza (numero di segni per minuto), e la presenza/assenza di strutture
morfo-sintattiche.Le ricercatrici (Kegl & Senghas) notano che nel passaggio dalla prima alla
seconda generazione di segnanti c’è un salto non solo quantitativo (i più giovani producono più
segni e più velocemente), ma anche qualitativo:

a. I più giovani usano strutture morfosintattiche che non erano presenti nel sistema
segnico della prima generazione.

b. Sono presenti verbi con più argomenti (soggetto, complemento oggetto, etc),
mentre i più «vecchi» omettevano molte informazioni.

c. I giovani usano il doppio dei segni -> racconto più dettagliato ed esoso.

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d. La prima generazione segna la traiettoria della moneta, mentre la seconda


generazione usa il classificatore. Ad esempio, per parlare del fatto che un uomo
lancia una monetina a mr Koumal, la prima generazione si focalizza sul lancio,
mentre i più giovani usano un «object classifier» (un segno che sta per oggetti con
determinate caratteristiche – piatto e rotondo per la moneta).

Secondo l’ipotesi del substrato, i bambini che imparano un pidgin come lingua madre, per
creare da questo pidgin una lingua ricca e strutturata, attingono dalle altre lingue a cui sono
esposti oltre al pidgin, cioè dalle lingue del substrato. E’ chiaro che, nel caso della lingua dei
segni del Nicaragua, questo non è possibile: i bambini sordi che nella scuola di Managua
hanno imparato il pidgin come lingua madre non sono stati esposti ad altre lingue oltre al
pidgin. Sono sordi, e dunque non sono stati esposti ad altre lingue parlate. Inoltre, prima di
frequentare la scuola di Managua, non possedevano neppure una lingua dei segni vera e
propria: avevano solo un sistema di segni “domestici” assai semplificato che usavano per
comunicare con gli altri membri (udenti) della famiglia. Dunque, nel caso della lingua dei segni
del Nicaragua, non ci sono altre lingue vere e proprie, lingue strutturate e complesse, dalle
quali i bambini sordi possono aver attinto per sviluppare la lingua dei segni complessa e
strutturata che hanno creato. Nel caso della lingua dei segni del Nicaragua, l’ipotesi del
substrato non è corretta.

Rimane dunque l’altra ipotesi: i bambini sordi hanno elaborato una lingua dei segni creola sulla
base di conoscenze linguistiche innate. Il caso della lingua dei segni del Nicaragua è ritenuto
oggi una delle prove a sostegno dell’ipotesi innatista di Chomsky.

Non si capiva ancora da dove venisse questo linguaggio. Che cosa succede dal pidgin al
creolo? Il passaggio avviene in pochissimo tempo e semplicemente per osservazione dei
grandi da parte dei piccoli. Il fatto che gli udenti usino molto i gesti fu ipotizzato che avesse
influito sulla nascita di questa nuova lingua: tuttavia le regole grammaticali del creolo non
posso essere state copiate dal gesto degli udenti, In un certo senso questo si verifica in ogni
bambino -> povertà dello stimolo

La nascita della lingua dei segni in Nicaragua e il linguaggio come


organo

Torniamo ora all’idea del linguaggio come organo. Il documentario sulla nascita della lingua dei
segni in Nicaragua ci dà ulteriori evidenze sulla questione del periodo critico.

Quando Judy Kegl si reca nella costa atlantica del Nicaragua, nella zona di Bluefields, e nel
1995 apre una scuola per bambini e adolescenti sordi, dove a tutti quanti viene insegnata la
lingua dei segni, e si può seguire singolarmente ogni studente e verificare quanto impara (che
livello di padronanza raggiunge) -> conferma dell’esistenza di un periodo critico.

JUDY KEGL:

Le nostre abilità naturali sono sempre li probabilmente, ma c’è qualcosa riguardo al processo di
maturazione, ciò che un bambino fa da zero a sette anni, quello è il punto in cui i bambini
stanno analizzando il linguaggio, scomponendolo, guardando ai pezzetti, facendo il genere di
cose che si devono fare per apprezzare pienamente tutti gli aspetti del linguaggio di cui si ha
bisogno per parlare. Dopo gli otto fino ai quindici, non è che la porta sia completamente chiusa.
Infatti delle ricerche recenti hanno mostrato che sembra chiudersi gradualmente. Ma, se la loro
esposizione al linguaggio è ritardata per qualche ragione fino a dopo i quindici, non sono più in
grado di impararlo nel modo in cui lo sappiamo.

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IL LINGUAGGIO COME PRODOTTO SOCIALE:


complessità linguistica e complessità sociale

Abbiamo parlato di lingue creole (orali e segnate), nate per “catastrofe” come evoluzione di
pidgin. Una domanda che sorge spontanea è se questo tipo di lingue sia “più semplice” di altre
lingue. Effettivamente, assumendo che il linguaggio sia un prodotto sociale/culturale, sorto per
soddisfare le esigenze comunicative del gruppo di individui che le hanno create, allora ci
potremmo aspettare che Il grado di complessità di una lingua specifica sia correlato al grado di
complessità della società che la parla (punto 3 “conseguenze delle ipotesi”, pag. 3).

In altre parole, se il linguaggio è un costrutto sociale, ci aspettiamo che società con una
organizzazione (ed esigenze comunicative) semplici, parlino delle lingue che sono più semplici,
meno complesse di altre lingue parlate in società complesse. E quindi che le lingue creole e le
lingue parlate da popolazioni non progredite dal punto di vista sociale ed economico siano più
semplici di lingue come l’italiano o l’inglese. Ma non è così. Popolazioni completamente isolate
e con un livello di organizzazione sociale comparabile a quello dell’età della pietra di fatto
parlano lingue il cui grado di complessità non si differenzia da quello delle lingue parlate nelle
società industrializzate.

Per capire questo cerchiamo prima di comprendere gli elementi che contribuiscono alla
complessità di una lingua.

La complessità linguistica
Come si misura la complessità di una lingua?
Una lingua possiede diverse aree che possono essere più o meno complesse per le varie
lingue:

-FONOLOGIA: studio dei suoni e di come


interagiscono all’interno di una lingua;

-FONETICA: studio degli aspetti fisici connessi


alla produzione dei foni;

-MORFOLOGIA: studio dei morfemi, della


struttura delle parole

-SINTASSI: combinazione di parole per formare


frasi;

-SEMANTICA: legame tra parole e mondo;

-PRAGMATICA: come usiamo la lingua per


comunicare. Come gli individui interpretano le
parole e le frasi in un contesto.

A livello globale, nel loro complesso, le lingue avrebbero lo stesso grado di complessità: si
ritiene infatti che tutte le lingue abbiano un medesimo livello di complessità, nel senso che tutte
le lingue hanno un aspetto fonetico, fonologico, sintattico, morfologico, semantico e
pragmatico. Questo non significa che le lingue non si differenzino fra loro nel livello di
complessità delle singole strutture linguistiche. Infatti, se si guarda ai singoli aspetti strutturali si
osservano differenze di complessità anche enormi. Tornando, però, al concetto principale,
riguardo all’insieme di tutti questi aspetti, non ci sono lingue più complesse di altre.

Un indizio che conferma quanto appena accennato è che, se ci fossero lingue più complesse
di altre, i bambini dovrebbero metterci più tempo a acquisire le lingue complesse e meno
tempo a acquisire le lingue meno complesse. Ma, come abbiamo visto, non è così. Intorno ai

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4-5 anni tutti i bambini, di tutte le società, e di tutte le lingue, arrivano a padroneggiare
completamente la loro lingua madre (anche se, ovviamente, il loro lessico deve crescere). Le
tappe e la tempistica di acquisizione del linguaggio è analoga per tutte le lingue (sebbene ci
possano essere differenze nelle tappe di acquisizione di singoli aspetti).

Siccome a uguale complessità corrisponde uguale capacità di trasmettere contenuti, tutte le


lingue permettono di esprimere qualsiasi contenuto -> Hanno la stessa capacità di trasmettere
contenuti e concetti astratti in quanto dal punto di vista globale tutte le lingue ganno lo stesso
grado di complessità (come discusso precedentemente).

Ci sono però grandi differenze fra le lingue riguardanti le circostanze in cui sono usate. Solo
alcune lingue (una piccola minoranza delle molte migliaia di lingue parlate al mondo) hanno una
forma scritta e sono usate anche in contesti ufficiali (a scuola, nei tribunali, in parlamento ecc.)
e nei media. La maggior parte delle lingue sono usate prevalentemente nei contesti informali (in
famiglia o fra amici) e si distinguono da quelle utilizzate in contesti formali, in quanto queste
ultime hanno lessici specialistici che spesso mancano nel primo caso (come nei dialetti).

Le lingue quindi variano, anche grandemente, nella dimensione del loro lessico.

Tuttavia non avere termini per esprimere un concetto non significa non saperlo esprimere del
tutto. Le lingue informali di solito nascono prima come dialetti, andando a sottolineare come le
lingue non sono che “dialetti istituzionalizzati”.

Complessità linguistica: MORFOLOGIA


Concentriamoci adesso su un singolo aspetto delle lingue, ossia la loro morfologia.

La morfologia è lo studio di come si compongono le parole del lessico. L’idea è che le parole
siano scomponibili in unità più piccole, i morfemi, che sono le unità minime dotate di
significato.

Ad esempio, in italiano, la parola “inesprimibile” è composta da diversi morfemi.

1. Espirm-: morfema lessicale: esprimere

2. -ibil-: morfema derivazionale: prende un verbo e lo trasforma in un aggettivo


(esprimIBIL-: che si può esprimere)

3. In-: morfema derivazionale: prende un aggettivo e ne dà il significato opposto


(INesprimibil-: che non si può esprimere)

4. -e: morfema grammaticale: indica che l’aggettivo (o il nome) è singolare


(inesprimibilE: che non si può esprimere - singolare)

Per ordinare le lingue in base alla loro complessità morfologica, si utilizza l’indice di
sinteticità, un coefficiente che descrive il grado di concentrazione di funzioni morfologiche
all'interno di una parola, e si calcola stimando il numero medio di morfemi per parola all’interno
di una frase standard. In altre parole, si tratta di un indice riportate il numero di morfemi medio
che compongono le parole della lingua. Mediante questo indice possiamo immaginare una
gerarchia di complessità.

Es.: Il cinese è una lingua isolante - quasi totalmente priva di morfologia e le parole non sono
scomponibili in unità morfologiche più piccole. L’indice di sinteticità di una lingua isolante è 1
(ogni parola contiene un solo morfema).

In lingue come l’inglese, l’italiano e il latino le parole (possono contenere / contengono) al loro
interno dei morfemi che forniscono informazioni grammaticali, come il numero (e il genere) di
un nome (singolare o plurale, maschile e femminile) e la persona o il tempo (e aspetto) di un
verbo. Lingue di questo tipo di chiamano lingue flessive. All’interno delle lingue flessive, poi,
possiamo stabilire un ordine relativo di complessità in base al numero di informazioni
grammaticali che sono codificate morfologicamente. Ad esempio, l’inglese è morfologicamente
più semplice dell’italiano perché utilizza meno morfemi, sia per i nomi (non c’è il genere

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grammaticale), sia nei verbi, dove solo la 3° persona singolare è marcata, e molte forme (ad es.
il futuro) sono perifrastiche.

Il punto più alto della gerarchia viene raggiunto dalle lingue polisintetiche, ovvero quando le
parole superano i 4 morfemi. Esse sono lingue in cui le parole sono estremamente lunghe e
complesse, formate da molti morfemi che devono essere messi in un ordine preciso. Inoltre,
all’interno di una stessa parola, possono comparire più morfemi lessicali (per la lingua italiana
questo potrebbe corrispondere ad un’intera frase inserita in una singola parola).

Le lingue polisintetiche hanno parole composte da tantissimi morfemi lessicali, oltre che gli altri
(derivazionali, grammaticali ecc…). Un esempio di lingua polisintetica viene rappresentata dal
Mohawk oppure l’eschimese. In queste lingue è possibile identificare parole con più di 11
morfemi. Anche in italiano ci sono casi simili, come ad esempio la parola “daglielo” -> dare a
lui quello.

Le lingue polisintetiche sono parlate in quasi tutti gli habitat occupati dalla nostra specie, ma
c’è una proprietà condivisa da tutte le società in cui si parlano queste lingue: tutte sono parlate
in comunità tradizionali e di piccole dimensioni. Nessuna lingua polisintetica è la lingua ufficiale
di uno stato-nazione moderno tecnologicamente avanzato. Questo rappresenta un aspetto
cruciale nell’opera di falsificazione dell’ipotesi del linguaggio come prodotto sociale: se la
complessità linguistica riflettesse la complessità culturale, non ci aspetteremo di trovare il
grado maggiore di complessità morfologica in società “semplici”, cioè in comunità tradizionali.
Questo è un buon esempio del perché la lingua non può essere vista come il deposito delle
tradizioni culturali acquisite.

Complessità linguistica: SINTASSI


Le società con lingue polisintetiche, quindi, parlano lingue morfologicamente complesse, ma in
generale non più complesse di altre. Infatti, a un massimo di complessità morfologica
corrisponde un minimo di complessità sintattica. Possiamo dire che c’è tanta complessità
sintattica se ci sono molte regole da rispettare perché una frase sia corretta in una data lingua.

Il latino, ad esempio, come specificato precedentemente, si trova ad una posizione più alta
nella gerarchia di complessità morfologica rispetto all’Italiano, ma è molto più semplice dal
punto di vista sintattico: si può mettere la parola in qualsiasi posizione della frase e questa
manterrà sempre lo stesso significato e valore. Quindi a un massimo di complessità
morfologica corrisponde un minimo di regole sulla combinazione delle parole nella frase. La
sintassi poverissima equilibra la morfologia ricchissima.

Ma perché le lingue polisintetiche sono parlate solo da comunità tradizionali?


Ci sono opinioni differenti.

Alcune persone, come Mark Baker, ritengono che il fatto che le lingue polisintetiche siano
tipiche di società poco complesse sia un caso e a favore di questa tesi portano un’eccezione
alla regola (che però riguarda una lingua morta): quella degli aztechi era una società
tecnologicamente avanzata e con un’organizzazione sociale complessa (era infatti un impero).
Si ritiene che, da molti punti di vista, avesse un livello analogo a quello dei conquistatori
spagnoli. Eppure la lingua degli aztechi (il nahuatl) era una delle lingue più polisintetiche delle
Americhe.

Altri studiosi pensano che non sia un caso (per esempio John McWhorther) e propongono che
più una società è grande, più ha stratificazioni sociali, più è complessa. Il linguaggio ufficiale di
queste società grandi e complesse a un certo punto della sua storia deve essere stato imposto
a un gran numero di parlanti non-nativi che hanno imparato quel linguaggio da adulti, perché
esso era importante per ragioni economiche o politiche (pensate all’inglese oggi). Ma, mentre
un bambino acquisisce una lingua facilmente e in maniera naturale anche se essa è
morfologicamente ricca, gli adulti fanno fatica. Quindi gli aspetti morfologici tendono a essere
omessi dai parlanti non-nativi. Alla lunga questa influenza dei parlanti non-nativi può ridurre la
complessità morfologica delle lingue maggiori.

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Le lingue variano in livelli di complessità strutturale se si guarda singolarmente a morfologia e


sintassi. Però, prese complessivamente le lingue non hanno livelli di complessità differenti. A
una sintassi povera corrisponde una morfologia ricca (e viceversa). La tesi del carattere
culturale e non biologico del linguaggio ne esce indebolita. La complessità linguistica non
riflette la complessità culturale, come mostrato dal caso estremo delle lingue polisintetiche,
lingue dalla complessità morfologica altissima parlate da società con un’organizzazione sociale
molto limitata.

IL LINGUAGGIO COME ORGANO (2)

Ritorniamo quindi all’ipotesi iniziale del linguaggio come funzione organica.

Tra le conseguenze dell’ipotesi (che abbiamo già esposto a pag. 3), affinché intendiamo il
linguaggio simile ad una funzione biologica ci aspettiamo che questo abbia una componente
innata e non derivi solo e unicamente dall’esperienza. Nel documentario sulla lingua creola
segnata del Nicaragua si fa poi riferimento a un’altra questione che è stata considerata come
evidenza a favore dell’ipotesi che il linguaggio sia un organo: la questione della povertà dello
stimolo, o argomento per l’innatismo.

L’argomento della povertà dello stimolo


Questo argomento si basa sull’osservazione che i bambini riescono a padroneggiare il
linguaggio, comprendendo e producendo già da molto piccoli, frasi grammaticalmente
complesse, senza che abbiano ricevuto istruzioni esplicite su come fare, e senza che tali regole
grammaticali siano (facilmente o immediatamente) desumibili dall’input linguistico a cui sono
esposti. In questo senso, gli stimoli linguistici sono «poveri».

Tornando alla nascita della lingua de segni del Nicaragua, la questione della povertà dello
stimolo è portata all’estremo: i bambini della «seconda generazione» (quelli arrivati nella scuola
primaria) sono esposti a un sistema segnico elaborato dalla «prima generazione» (gli
adolescenti che frequentavano la scuola professionale) che è estremamente povero e
semplificato – e senza struttura grammaticale: un pidgin segnato. Tuttavia, a partire da questo
input che è povero, i bambini della seconda generazione sviluppano una lingua dei segni che
presenta consistenze (sintassi) ed è molto più ricca: un creolo. Per spiegare questa
complessificazione di un input povero, è stato ipotizzato che i bambini abbiano attinto a
conoscenze «linguistiche» innate, ossia a una facoltà del linguaggio che abbia permesso loro di
strutturare l’input secondo una struttura gerarchica e ricorsiva. Tuttavia, secondo Chomsky,
una situazione analoga (partire da un input povero per produrre un output ricco) si realizza di
fatto ogni volta che un bambino acquisisce la sua lingua madre.

Secondo Chomsky la capacità del linguaggio, intesa come la capacità di individuare e usare
regole è innata. L’idea è che lo sviluppo linguistico sia guidato da un insieme articolato di
informazioni che sono specificate nel genoma umano, come succede nel caso di altri organi, e
tale tesi è stata suggerita da Chomsky dall’osservazione della complessità formale delle lingue
naturali: Chomsky ha studiato il linguaggio umano come sistema formale e gli studi ispirati dal

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suo paradigma teorico hanno evidenziato il grado di estrema astrattezza e complessità delle
regole che governano i fenomeni linguistici, anche i più comuni. Il fatto che il bambino possa
acquisire strutture linguistiche con alto grado di complessità in un contesto di acquisizione non
controllato e senza istruzione esplicita ha suggerito che alcuni principi grammaticali possano
essere parte del patrimonio genetico del bambino. Se è così, l’organo del linguaggio
comprenderebbe una grammatica universale.

Cosa sono le regole del linguaggio? Queste sono le possibilità di combinazioni di elementi
del linguaggio cha danno luogo a frasi “ben formate”, ovvero che sono sentite come frasi
grammaticalmente possibili in una determinata lingua. In altre parole, la grammatica qui è vista
come un filtro di combinazioni di elementi primitivi, che non sono solo parole combinate con i
filtri della sintassi, ma anche suoni e di significati. Queste regole non vengono insegnate, e
sono di fatto (implicitamente) conosciute da tutti gli utenti di una lingua.

Come fa il bambino ad imparare le regole?


Potremmo ipotizzare che il bambino si basi sull’input linguistico a cui è esposto, e cerchi di
desumere da quell’input delle regolarità, e quindi formuli delle ipotesi sulle possibili regole, e
produca delle frasi ottenute applicando le regole ipotizzate. Se la frase prodotta è corretta, avrà
un feedback positivo. Se la frase prodotta è sbagliata, avrà un feedback negativo, e
ricomincerà a formulare nuove ipotesi da testare (come nell’apprendimento formalizzato
dall’approccio comportamentista).

Esempi di povertà dello stimolo

Regola di accordo tra soggetto e verbo

Come fa il bambino a capire che la frase “il cane insegue il bambino” sia
grammaticalmente corretta a differenza di “il cane inseguono il bambino”?
Potrebbe pensare che il verbo debba concordare con la parola immediatamente precedente (in
sequenza lineari). Tuttavia se dico “la ragazza che ama i cani insegue il bambino” capisco
subito che la regola è sbagliata in quanto, se l’applicassimo otterremo la frase “la ragazza che
ama i cani inseguono il bambino” grammaticalmente scorretta.

Come abbiamo visto nel capitolo introduttivo, il linguaggio non si basa su regole che fanno
riferimento all’ordine lineare delle parole, ma a una struttura gerarchica. Il verbo non può
accordarsi con un sintagma* nominale [un cane] incassato in un altro sintagma nominale [le
ragazze che amano [un cane]] sebbene sia linearmente più vicino nella sequenza di parole: il
verbo è in qualche modo «costretto» a scegliersi per l’accordo il sintagma nominale più
prominente nella struttura gerarchica nella quale si trova – cioè quello meno incassato – e a
ignorare la sequenza lineare. (*sintagma: nell’uso attuale, unità sintattica di varia complessità e
autonomia, di livello intermedio tra la parola e la frase (per es., a casa, di corsa, contare su
[qualcuno]); in partic., con riferimento alla categoria grammaticale: s. nominale, verbale,
aggettivale, preposizionale.)

In altre parole, il verbo è i qualche modo “costretto” a scegliere per l’accordo il sintagma
nominale più prominente nella struttura gerarchica nella quale si trova e a ignorare la sequenza
lineare. Per quanto la regola sia estremamente complessa (perché richiede di individuare il
sintagma-soggetto in base alla sua «prominenza» nella struttura gerarchica), i bambini la
riescono a padroneggiare già dai 3 anni.

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Coreferenza pronominale

Es.1: “Pietro dice che lui è stanco”. -> in italiano, tendiamo a omettere i pronomi personali, ma
concentrandosi unicamente sulla frase sorge una domanda: Chi è lui? Ossia, chi è stanco?

Il riferimento del pronome “lui” può essere un qualsiasi individuo (ad esempio, tale Leo, di cui
stanno parlando). Ma può anche essere Pietro stesso. Ossia, la frase può voler dire «Pietro
dice di se stesso di essere stanco». In questo caso si parla di coreferenza pronominale, ossia
il pronome “lui” può avere lo stesso riferimento (=coreferenza) di un altro sintagma nominale
(Pietro) nella stessa frase.

Es.2: “Lui dice che Pietro è stanco”. In questo caso, lui può riferirsi solo e unicamente a un
altro individuo, e non può riferirsi a Pietro stesso. La frase non può infatti voler dire «Pietro dice
di se stesso di essere stanco». Ossia, nella frase non ci può essere lo stesso riferimento tra il
pronome lui e il nome Pietro.

Qual è la regola che ci permette di capire se un pronome può o non può avere lo stesso
riferimento di un altro nome nella frase (e quindi essere coreferente)?

Anche in questo caso, la risposta più semplice ha a che fare con l’ordine lineare: «siccome un
pronome sta al posto di un nome, deve prima esserci il nome perché il pronome possa
coriferirsi». Ma anche i questo caso, la regola basata sull’ordine lineare (il pronome può riferirsi
a un nome che viene prima; e non può riferirsi a un nome che viene dopo) è sbagliata, perché
esistono frasi, come quella nell’esempio 3, in cui il pronome lui può riferirsi a Pietro, sebbene il
pronome venga linearmente prima del nome Pietro; e, inoltre, ci sono frasi come quella
nell’esempio 4 in cui il pronome lui non può invece riferirsi al nome Pietro, sebbene il pronome
venga dopo il nome.

Es.3: “Quando lui è stanco, Pietro ha mal di testa.”

Es.4: “A Pietro lui non rivolge la parola.”

La regola corretta per stabilire se un pronome possa o non possa avere lo stesso riferimento di
un nome presente nella stessa frase si basa, ancora una volta, sulla identificazione della
struttura gerarchica della frase.

Per ogni frase, bisogna identificare i COSTITUENTI -> I costituenti sono delle sequenze di
parole che formano delle unità naturali, ossia che si combinano tra di loro (come «mattoncino
azzurro» nella prima lezione). Per individuare i costituenti all’interno di una frase, ossia per
riconoscere quali sequenze di parole costituiscono una unità, e quali no, si possono utilizzare
vari test. Uno è il “test della frase scissa”.

TEST DELLA FRASE SCISSA

Le frasi scisse vengono ottenute da delle frasi “normali”, spostando degli elementi X, e
mettendoli all’interno della seguente struttura:

E’ X che [frase di partenza senza X].

Frase di partenza: y z k X j w —> Frase scissa: E’ X che [y z k _ j w]

(L’underscore __ indica la posizione che è occupata nella frase di partenza dalla sequenza di
parole X che viene spostata).

Es. “Gianni dice che tu vincerai la gara”

È Gianni che __ dice che tu vincerai la gara.

È la gara che Gianni dice che tu vincerai __.

È che tu vincerai la gara che Gianni dice __.

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Solo le sequenze di parole che formano delle unità naturali (cioè dei costituenti) possono
seguire il verbo "essere" e precedere il “che” in una frase scissa. Per esempio la sequenza
“dice che tu” non forma un’unità naturale nella frase esempio (“Gianni dice che tu vincerai la
gara”), e quindi la frase scissa “È dice che tu che Gianni __ vincerai la gara” è agrammaticale.

Il costituente più grande di tutti è la frase stessa, visto che essa è senza dubbio un gruppo di
parole che forma un’unità naturale.

Questa digressione su i costituenti ci serve per proporre una nuova formulazione (giusta) della
regola della coreferenza: Il pronome non si può riferire alla stessa persona a cui si riferisce un
nome proprio contenuto nel costituente più piccolo che contiene il pronome. Andiamo passo
per passo. Prendiamo una frase che contenga un pronome e identifichiamo il costituente più
piccolo che contiene il pronome. Se dentro quel costituente c’è anche il nome, non ci può
essere coreferenza; se dentro quel costituente non c’è il nome, ci può essere coreferenza.

Es.1: “Pietro dice che lui è stanco”. Applicando il test della frase scissa, il costituente più
piccolo che contiene il pronome è:

È che lui è stanco che Pietro dice __.

Visto che dentro quel costituente non c’è il nome, ci può essere coreferenza: lui può essere
Pietro.

Es.2: “Lui dice che Pietro è stanco”. Applicando il test della frase scissa, non riusciamo a
trovare costituenti più piccoli della frase intera che contengano il pronome lui. Quindi, il
costituente più piccolo che contiene il pronome è la frase intera: “Lui dice che Pietro è stanco”.
Visto che dentro quel costituente c’è il nome, non ci può essere coreferenza: lui non può
essere Pietro.

Pensiamo ora a un bambino immaginario che debba arrivare a individuare la versione corretta
della regola di coreferenza basandosi esclusivamente sui dati a cui è esposto. Se la versione
corretta della regola di coreferenza fosse la nozione di precedenza lineare, il compito del
bambino potrebbe non essere particolarmente arduo. Ma, come abbiamo visto, la prima
versione della regola della coreferenza è sbagliata. La versione corretta della regola della
coreferenza è basata non sull’ordine lineare, ma sulla struttura a costituenti e questa non
sembra essere immediatamente accessibile dall’input acustico a cui il bambino è esposto: per
esempio, noi non facciamo una pausa per segnalare che è terminato il costituente più piccolo
che contiene il pronome.

Dunque, come ci aspetteremmo che si comporti il nostro bambino immaginario? Una


predizione ragionevole sarebbe che il bambino parta da qualcosa simile alla prima versione
della regola, che è più facile perché è immediatamente accessibile nello stimolo acustico.
Dunque, i bambini dovrebbero fare per un certo periodo degli errori nella computazione della
coreferenza. Poi si dovrebbero accorgere che c'è qualcosa che non va e dovrebbero passare a
una versione più adeguata della regola.

Esperimenti che hanno lo scopo di verificare la conoscenza della regola di coriferimento sono
stati condotti con bambini inglesi e italiani (l'esperimento di solito consiste nel farli assistere a
una storia raccontata usando dei giochi e poi nel porre loro delle domande circa quanto è
accaduto nella storia). I bambini più piccoli con cui si è riusciti a fare gli esperimenti avevano 2
anni e 8 mesi. Nessuna variazione individuale e nessuna variazione fra bambini italiani e inglesi
è stata riscontrata. I bambini di tutte le età mostrano un comportamento identico a quello degli
adulti, ovvero ammettono la coreferenza dove lo ammettono gli adulti e non lo ammettono
dove non lo ammettono gli adulti.

La conclusione che Chomsky ha tratto a partire da casi come questo è che le regole sono
troppo complesse per essere apprese da un bambino sulla base degli stimoli a cui è esposto
nel tempo breve in cui le apprende (lo stimolo sarebbe cioè troppo povero per poter condurre il

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Martino Branca Matricola: 840783

bambino alla regola giusta). Quindi, la regola di coreferenza non sarebbe appresa, ma sarebbe
invece parte del patrimonio genetico del bambino.

Se la regola di coreferenza fa parte del patrimonio genetico, ci si aspetta che essa sia un
universale linguistico, ovvero sia presente in tutte le lingue parlate dagli appartenenti alla nostra
specie. Questo sembra essere corretto, almeno nelle lingue che sono state studiate finora.

La modificazione avverbiale

A che cosa si riferiscono gli avverbi?


Es.1: “Immediatamente le persone pensarono che Gianni sarebbe partito”. -> Come si può
notare, l’avverbio “immediatamente” modifica il verbo “pensare” non il verbo
“partire” (nonostante in linea di principio si possa partire immediatamente). Si potrebbe
pensare che ci sia una regola che dice che un avverbio modifica il primo verbo che lo segue.
Questa regola sarebbe semplice, perché è basata sull’ordine lineare (trova il primo verbo che
segue l’avverbio).

Es.2: “Lentamente la persona che camminava si alzò” -> questo rappresenta un chiaro
controesempio della regola lineare. Interpretiamo la frase con il seguente significato “la persona
che camminava si alzò lentamente”. Quindi “lentamente” modifica il verbo “camminare”, anche
se questo non è il primo verbo che segue l’avverbio.

Qual’è la regola giusta? Possiamo osservare che il primo verbo che segue l’avverbio nella
frase del secondo esempio fa parte di un costituente che non include l’avverbio:

“Lentamente la persona che camminava si alzò”

e mediante il test della parola scissa otteniamo

“È la persona che camminava che __lentamente si alzò”

Sempre il test della frase scissa ci mostra che la sequenza di parole “lentamente la persona
che camminava” non forma un costituente nella frase del secondo esempio. La frase scissa
che ne deriva è infatti agrammaticale:

*È lentamente la persona che camminava che si alzò

Quindi la ragione per cui “lentamente” non può modificare “camminare”, nonostante
“camminare" sia il verbo più vicino all’avverbio in termini lineari, è che l’avverbio “lentamente”
non fa parte del costituente più piccolo che contiene il verbo “camminare”. Ancora una volta
nella grammatica conta l’organizzazione per costituenti (che non è immediatamente evincibile
dall’input) piuttosto che l’ordine lineare, che è evincibile. —> lo stimolo è povero.

La corretta regola prevede che: un avverbio non può modificare un verbo se non è presente nel
costituente più piccolo che contiene quel verbo.

La morale che Chomsky trae da questi esempi è la seguente. La lingua sembra contenere dei
principi semplici (come la regola “se il complemento oggetto non è specificato, allora il verbo
denota un’azione che ha come oggetto una cosa o una persona imprecisata” -> “John mangia”
= mangia qualcosa), ma in realtà la lingua contiene molti trabocchetti. In questo senso la forma
superficiale della lingua (lo stimolo a cui è esposto il bambino) è povera (o addirittura
fuorviante).

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Martino Branca Matricola: 840783

Se assumiamo il punto di vista di un ipotetico bambino che deve acquisire la grammatica da


zero, egli dovrebbe cadere in questi trabocchetti. In particolare, perché il bambino non cada
nei trabocchetti avrebbe bisogno di un’istruzione esplicita o che venga corretto quando
sbaglia. Il punto è che i bambini non sembrano avere bisogno di un’istruzione specifica e non
cadono nemmeno in questi tranelli. L’ipotesi di Chomsky, quindi, è che questo avviene perché
il bambino non parte da zero ma invece è guidato da principi grammaticali innati che gli
permettono di evitare i trabocchetti della lingua, di acquisirla nonostante lo stimolo linguistico
sia povero o fuorviante.

Esistono dunque regole altamente complesse che usiamo quando parliamo e interpretiamo le
frasi senza saperle formulare esplicitamente. In un certo senso (molto diverso da quello
freudiano) queste regole operano in noi in modo inconscio. Questa idea non deve sorprendere.
L'analogia con altre capacità cognitive dovrebbe chiarirlo: per vedere un oggetto non
dobbiamo conoscere le leggi che governano la percezione visiva e per afferrarlo non dobbiamo
essere consapevoli degli schemi motori attraverso i quali la nostra mente coordina il
movimento dei muscoli.

L’argomento della povertà dello stimolo si può ripetere anche per domini cognitivi diversi dal
linguaggio. Per esempio, si potrebbe sostenere che esiste un organo innato per la percezione
visiva sulla base del fatto che lo stimolo prossimale che è inizialmente processato dal cervello
(l’immagine bidimensionale che viene proiettata sulla retina) è troppo povero per spiegare
come mai noi percepiamo il mondo come tridimensionale. Si può quindi sostenere che il
passaggio dalle due alle tre dimensioni richiede delle computazioni particolari e questa
capacità computazionale non è plasmata dai dati in ingresso, ma è una capacità
geneticamente determinata.

LA VARIETÀ DELLE LINGUE

Varietà tra lingue


Grande obiezione all’innatismo
Abbiamo quindi passato in rassegna una serie di argomenti a favore della ipotesi che il
linguaggio sia “simile a un organo”. Rimane tuttavia un argomento molto forte contro l’ipotesi
della natura innata e biologicamente determinata del linguaggio (e a favore dell’ipotesi del
linguaggio come costrutto sociale): la VARIETÁ DELLE LINGUE. Se, infatti, analizziamo le
conseguenze dell’ipotesi del linguaggio come organo, ci aspetteremmo che tutti gli individui
condividano la stessa lingua, al contrario di quanto riscontrato nella realtà. Dall’altra parte,
assumere che il linguaggio sia un prodotto sociale, in linea generale, ci permetterebbe di
spiegare una grande variabilità tra le lingue, in tutti gli aspetti che le caratterizzano (non solo
nelle parole ma anche nel modo di combinarle).

Fra i sostenitori della varietà delle lingue abbiamo Democrito, Martin Joos (“Le lingue possono
differire tra loro senza limiti e in modi imprevedibili”), ma già nel medioevo era presenta la
visione opposta, secondo cui le lingue, seppure apparentemente diverse, di fatto non
variassero in maniera sostanziale le une dalle altre (Ruggero Bacone: “la grammatica è nella
sostanza sempre la stessa in tutte le lingue, per quanto possa variare accidentalmente”). La
questione è rilevante, perché c'è un'obiezione molto forte contro la visione del linguaggio come
organo biologico e contro l'assimilazione del linguaggio ad altre capacità cognitive come la

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Martino Branca Matricola: 840783

visione o l'afferrare oggetti: altre capacità cognitive (all’infuori del linguaggio) non vengono
influenzate dall’ambiente.

La risposta di Chomsky
Nell’affrontare questo problema, Chomsky cominciò a enucleare quella che oggi viene
chiamata TEORIA DEI PRINCIPI E DEI PARAMETRI. Prima però di introdurla, bisogna fare
un’ulteriore precisazione.

Per poter rispondere alla domanda: “le lingue possono variare in maniera imprevedibile e
indefinita, o hanno una base comune?” bisogna prima specificare che cosa si intenda con
lingua. Chomsky introduce una distinzione tra Lingua-E e Lingua-I.

- Lingua-E: può essere vista come l’estrinsecazione di una determinata lingua, ossia
come l’insieme delle frasi di quella lingua;
- Lingua-I: (interne, intensionale) l’insieme di regole sintattiche che sono alla base della
formazione delle frasi di quella lingua.

Secondo Chomsky, le lingue variano molto le une dalle altre se ci si focalizza solo sulla loro
estrinsecazione; ma, di fatto, sono estremamente simili (di base, la stessa lingua) se ci si
concentra sulle regole fondamentali che sono alla loro base. L’idea di Chomsky è che se
guardo alle lingue-E «esterne/estensionali» (insiemi di frasi), queste sembrano molto diverse le
une dalle altre; ma se guardo alle lingue-I «interne/intensionali», allora sono (variazioni della)
stessa lingua. La sua idea è che tutte le lingue condividano una serie di principi, che sono
universali (la lingua-I), però, all’interno di questi principi, si possono “settare/impostare” dei
parametri in modi particolari e questo darebbe origine alla (apparente) diversità tra le lingue (le
lingue-E).

- Principi: Proprietà grammaticali che sono universali (cioè valgono in tutte le lingue
naturali) e sono universali perché fanno parte del patrimonio genetico della specie.

- Parametri: I principi lasciano aperti degli spazi di libertà o parametri in cui ogni lingua
può orientarsi come vuole.

L’individuazione della struttura comune


Ovviamente, per valutare la plausibilità o meno della risposta di Chomsky, bisogna verificare se
davvero è possibile individuare una struttura comune in tutte le lingue (struttura sintattica
soggiacente), e quali sarebbero i parametri che rendono conto della (apparente) diversità tra le
lingue.

Per prima cosa vanno trovati ti costituenti: sequenze di parole che formano delle unità
naturali.

Es.: “Gianni osserva tre foto di un ragazzo invidioso con attenzione”

Assumeremo che le frasi corrispondano a dei sintagmi verbali (SV), in quanto nucleo
fondamentale e imprescindibile di una qualsiasi frase è il verbo.

Proviamo a usare il test della frase scissa per individuare i costituenti di questa frase.

È Gianni che osserva tre foto di un ragazzo invidioso con attenzione

Sono tre foto di un ragazzo invidioso che Gianni osserva con attenzione

È con attenzione che Gianni osserva tre foto di un ragazzo invidioso

Applicando il test della frase scissa, abbiamo individuato, per il momento, tre costituenti:

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Martino Branca Matricola: 840783

1. [Gianni] è il soggetto della frase;

2. [tre foto di un ragazzo invidioso] è il complemento (oggetto) del verbo transitivo osservare.

3. Chiameremo [con attenzione] un aggiunto.

Il nucleo della frase è il verbo [osserva]: visto che stiamo identificando la frase con il sintagma
verbale, e visto che il verbo è il nucleo di questo sintagma, lo chiameremo testa del sintagma
verbale.

ATTENZIONE: Non bisogna confondere complemento del verbo e aggiunti. Gli aggiunti sono
facoltativi (possono anche non esserci), e sono iterabili (possono essere un numero indefinito).
Invece il numero dei complementi non è libero, ma dipende rigidamente dal tipo di verbo.
Alcuni verbi non prendono alcun complemento (intransitivi, “cenare”), altri ne prendono uno
solo (transitivi, “divorare”), altri ne prendono due (di-transitivi, ”presentare”).

Molti verbi sono “opzionalmente intransitivi”, ossia sono verbi transitivi che possono anche
essere usati senza un complemento oggetto esplicito:

a. Gianni ha mangiato la cotoletta.

b. Gianni ha mangiato.

L’idea è che quando vengono usati come in b., i verbi rimangano transitivi, e abbiano un
complemento “implicito”:

c. Gianni ha mangiato qualcosa /del cibo

Assumeremo qui che i verbi transitivi devono avere il complemento, esplicito o implicito.

Ora ritorniamo all’analisi della nostra frase.

Come di combinano questi elementi in una frase? Una prima ipotesi che possiamo avere è
che siccome noi pronunciamo i diversi elementi della frase esempio uno dopo l’altro in una
sequenza lineare, una possibilità è che questi elementi siano organizzati secondo uno schema
lineare:

[Sogg Gianni] + [Testa osserva] + [Compl tre foto di un ragazzo invidioso] + [Agg con attenzione]

ma come ormai sappiamo bene gli elementi che costituiscono il sintagma verbale non sono
concatenati uno di fianco all’altro, bensì stanno in una precisa relazione gerarchica, in cui gli
elementi si combinano tra di loro secondo un ordine ben preciso, dando luogo a una struttura
stratificata, in cui alcune combinazioni avvengono prima di altre (e quindi gerarchicamente
subordinate):

osserva -> testa del sintagma verbale

[ osserva [tre foto di un ragazzo invidioso] ]

[[ osserva [ tre foto di un ragazzo invidioso]] [con attenzione]]

[Gianni [[ osserva [ tre foto di un ragazzo invidioso]] [con attenzione]]]

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Martino Branca Matricola: 840783

Usando le etichette che abbiamo individuato precedentemente, abbiamo:

Testa (verbo)

[ testa [compl] ]

[[ testa [compl] ] [agg]]

[Sogg [ [testa [compl]] [agg] ]]

Oppure con notazione equivalente:

La parola più importante, e


necessaria, all’interno di un
sintagma verbale è il verbo. Il
verbo rappresenta la testa del
sintagma verbale. Se il verbo è
transitivo, ci deve essere un
complemento. All’interno del SV,
ci possono essere degli aggiunti.
il soggetto si unisce per ultimo
alla combinazione di verbo +
complemento [+ aggiunti], e
occupa la posizione che
chiameremo di specificatore.

Adesso vedremo cinque argomenti a sostegno dell’idea che il sintagma verbale (SV) abbia una
struttura gerarchica.

1. TEST DELLA PROFORMA


Una proforma è una parola che sostituisce un gruppo di parole. L’esempio più noto è quello
dei pronomi che possono sostituire un intero sintagma nominale:

"Incontro spesso un ragazzo alto”


che diventa

“Lo incontro spesso”

Tuttavia, ci sono anche altri tipi di proforma. Per esempio, c’è una proforma che sostituisce
pezzi di sintagma verbale. Per esempio:

“Maria prende la metropolitana e anche Gianni lo fa”

“lo fa” sostituisce “prende la metropolita” nel caso di Gianni. In questo caso la proforma
sostituisce il verbo e il complemento e in termini più generici possiamo concludere che la
proforma può sostituire il costituente formato da testa più complemento, come nell’esempio
sotto indicato:

“Gianni osserva tre foto di un ragazzo invidioso con attenzione. Maria lo fa distrattamente”

lo fa = osserva tre foto di un ragazzo invidioso

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Martino Branca Matricola: 840783

Però la proforma può sostituire anche il super-costituente che si forma quando al sotto-
costituente (formato da testa + complemento) si somma l’aggiunto:

“Gianni osserva tre foto di un ragazzo invidioso con attenzione. Anche Maria lo fa”

lo fa = osserva tre foto di un ragazzo invidioso con attenzione

Non dovrebbe essere possibile avere una proforma che sostituisce la struttura verbo +
aggiunto se il complemento non viene sostituito anch’esso dalla proforma (il che genererebbe
un super-costituente). La proforma può infatti sostituire verbo + complemento, ma non verbo +
aggiunto. La ragione è che nel SV non c’è un nodo ramificante che comprende verbo +
aggiunto ma esclude il complemento.

Se avessimo una struttura piatta non riusciremmo a spiegare il comportamento della proforma.
Ci aspetteremmo infatti che la proforma sostituisca o tutto il sintagma o solo i nodi finali.

Il test della proforma non ci dice soltanto che la struttura del sintagma verbale è gerarchica.
Esso ci dice anche quale sia il tipo di organizzazione gerarchica che ha il sintagma. Infatti, in
linea di principio, ci sono diverse organizzazioni gerarchiche possibili. Per esempio anche
quella qui di seguito è un’organizzazione gerarchica (l’asterisco indica però che non è una
struttura corretta):

Questa struttura gerarchica non ha niente di illogico, ma non rappresenta la forma della frase in
italiano. Una struttura come questa sarebbe motivata se una proforma potesse sostituire l’unità
composta da soggetto e verbo, lasciando fuori il complemento.

Se proviamo ad usare la proforma “lo fa” per sostituire il composto sogg + verbo, (in cui
«Anche lo fa quattro quadri di una ragazza» vorrebbe dire «Gianni osserva anche quattro quadri
di una ragazza») otteniamo una frase che non è grammaticale

«Gianni osserva tre foto di un ragazzo invidioso con attenzione. *Anche lo fa quattro quadri di
una ragazza.»

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Martino Branca Matricola: 840783

Il test della proforma rivela quindi che i costituenti non sono combinati in maniera lineare, ma
anzi le loro combinazioni rispettano un ordine ben preciso, dando luogo a una struttura
stratificata, in cui alcune combinazioni avvengono prima di altre (ovvero una struttura
gerarchica ben precisa).

2. ESPRESSIONI IDIOMATICHE

C’è un secondo argomento a sostegno della struttura gerarchica del SV, e in particolare del
fatto che il verbo ha un rapporto diretto con il suo oggetto (rapporto testa-complemento), e
non con il suo soggetto.

In italiano e nelle altre lingue esistono molte espressioni idiomatiche che sono formate da
verbo e oggetto, ma nessuna espressione idiomatica è formata da verbo e soggetto (ad es.:
mangiare la foglia sbarcare il lunario tagliare la corda tirare le cuoia ecc..).

3. RUOLO SEMANTICO DEL SOGGETTO

Un terzo argomento a sostegno del fatto che il verbo si combina prima con il suo oggetto, e
solo dopo con il soggetto, riguarda il ruolo semantico del soggetto. Consideriamo queste
due frasi inglesi:

(1) “John broke his arm” (Gianni si è rotto il braccio)

(2) “John broke the window” (Gianni ha rotto la finestra)

In (2) John è l’agente (chi compie l’azione), invece in (1) John è il paziente, colui che subisce
l’azione (stiamo considerando la lettura in cui John si è rotto un braccio accidentalmente, non
la lettura “strana” in cui è un autolesionista).

Il punto cruciale è che, per sapere quale sia il ruolo semantico del soggetto (chi fa o chi
subisce un’azione), devo prima sapere con quale complemento si è combinato il verbo. Infatti il
verbo è lo stesso in (1) e (2), quindi se il ruolo semantico del soggetto dipendesse solo dal
verbo, esso non dovrebbe cambiare nelle due frasi.

La morale è: il ruolo semantico del soggetto è determinato dalla combinazione di verbo +


oggetto. Ma questo significa che il verbo si combina prima con l’oggetto e poi il risultato di
questa combinazione a sua volta si combina con il soggetto.

4. I COMPOSTI
C’è un quarto argomento a sostegno della struttura gerarchica del SV, e in particolare del fatto
che il verbo ha un rapporto diretto con il suo oggetto (rapporto testa-complemento), e non con
il suo soggetto. In italiano e in molte altre lingue esistono dei composti formati da nome +
verbo: tagliaerba, accendisigari, portamonete, apriscatole, scaldavivande ecc. I composti di
questo tipo sono sempre formati da verbo più complemento, non sono mai formati da verbo +
soggetto.

Per esempio: mangiacomunista (di bambini)

L’interpretazione della parola suggerisce che chi viene mangiato sono i comunisti, nonostante il
cliché dica che sono i comunisti a mangiare i bambini (e non i bambini a mangiare i comunisti).
La ragione per cui la grammatica impone l’interpretazione contraria a quella suggerita dal
cliché è che, quando metto insieme un verbo e un nome, la prima combinazione che provo è
quella in cui il nome (comunista) è l’oggetto, non il soggetto, della frase.

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Martino Branca Matricola: 840783

5. LE RISPOSTE BREVI
Il quinto argomento riguarda le frasi brevi con cui, in certi contesti, si può rispondere a
domande. Queste risposte brevi non sono mai composte da specificatone (soggetto) + verbo,
ma solo da testa (verbo) + complemento:

A: Cosa piace fare a Gianni?

B: Accendere il camino

Invece una risposta breve formata da soggetto e verbo a esclusione dell’oggetto non è mai
accettabile.

A: Cosa sta succedendo?

B: *Gianni accende

Abbiamo visto 5 argomenti a sostegno dell’idea che


il sintagma verbale (SV) abbia una struttura
gerarchica, in cui il verbo (la testa del SV) si
combina prima con il suo oggetto (il complemento),
e forma un costituente; poi questa combinazione
([V+Comp]) può essere modificata da eventuali
aggiunti ( [ [V+Comp] Agg] ), e solo alla fine si
combina con il soggetto, che sta nella posizione
dello specificatore.

Il sintagma nominale (SN)

Prediamo sempre in considerazione la frase “Gianni osserva tre foto di un ragazzo invidioso con
attenzione”. Il sintagma verbale contiene al suo interno un altro sintagma:

“tre foto di un ragazzo invidioso”

Che tipo di sintagma è?


Il sintagma nominale (o SN) è il gruppo di parole raccolte intorno al nome (proprio come
mostrato dall’esempio). In questa tipologia di sintagma la parola più importante non è più il
verbo, bensì il nome. Appunto per questo il nome rappresenta la testa del sintagma.

Nell’esempio precedente la testa del SN è foto:

“tre foto di un ragazzo invidioso”

Il sintagma “di un ragazzo invidioso” sembra stare in una relazione con il nome simile a quella
che un complemento tiene con il verbo. Pensate all’analogia fra “fotografa un ragazzo
invidioso” (verbo + complemento) e “foto di un ragazzo invidioso”. Chiameremo il sintagma “di
un ragazzo invidioso” complemento del nome.

“tre foto di un ragazzo invidioso”

Infine abbiamo un numerale che occupa una posizione nella periferia sinistra del sintagma.
Data l’analoga collocazione, diremo che il numerale occupa una posizione di specificatore
(come il soggetto nel sintagma verbale, il numerale sta nella periferia sinistra del sintagma).

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Martino Branca Matricola: 840783

“tre foto di un ragazzo invidioso”

Otteniamo quindi tre elementi del SN:

1. [Spec tre]

2. [testa foto]

3. [Compl di un ragazzo invidioso]

Nel sintagma nominale esempio non c’è un aggiunto, ma vedremo che è possibile avere
aggiunti anche nel sintagma nominale.

Anche nel caso del sintagma nominale possiamo chiederci se questi elementi stanno in una
posizione di concatenazione uno di fianco all’altro, ovvero

[Spec tre] + [testa foto] + [Compl di un ragazzo invidioso]

o, con notazione equivalente,:

Ma anche qui è possibile mostrare che il sintagma nominale ha una struttura gerarchica,
ovvero:

foto

[foto [di un ragazzo invidioso]]

[tre [ foto [di un ragazzo invidioso]]]

o, con notazione equivalente,:

Anche qui, il test della proforma ci aiuta. In italiano abbiamo una proforma che sostituisce una
parte del sintagma nominale (un po’ come “farlo”, che sostituisce una parte del sintagma
verbale): è il “ne” partitivo. “ne” può sostituire la testa del SN e il suo complemento:

“Gianni osserva tre foto di un ragazzo invidioso. Maria invece ne osserva due”

Ne = foto di un ragazzo invidioso

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Martino Branca Matricola: 840783

Inoltre “ne” può sostituire anche solo la testa del sintagma nominale.

“Gianni osserva tre foto di un ragazzo invidioso. Maria invece ne osserva tre di un ragazzo
timido”

ne = foto

Notiamo che se invece avessimo una struttura piatta, non potremmo spiegare come mai la
proforma può sostituire testa + complimento lasciando lo specificatone (guarda la figura della
notazione lineare).

Riassumendo, sintagma verbale e sintagma nominale hanno lo stesso tipo di struttura


gerarchica. Nella nostra frase di partenza il sintagma nominale era il complemento del
sintagma verbale:

“Gianni osserva [tre foto di un ragazzo invidioso] con attenzione”

Cioè finora abbiamo operato un primo livello di scomposizione e nel sintagma contenuto (il SN)
abbiamo trovato iterata la stessa struttura del sintagma contenente (il SV). Riprendendo la
metafora della matriosca, siamo passati dalla matriosca più grande a quella immediatamente
contenuta in essa.

Il sintagma preposizionale (SP)

Abbiamo visto che all’interno del SV è contenuto un SN che ha la stessa struttura gerarchica.
Passiamo ora alla matriosca ancora più piccola.

Il sintagma preposizionale (SP) è il gruppo di parole raccolte intorno alla preposizione. Un


esempio di sintagma preposizionale è il seguente (che al tempo stesso rappresenta il
complemento del SN):

“di un ragazzo invidioso”

La parola più importante, e necessaria, all’interno di un sintagma preposizionale è la


preposizione. La preposizione rappresenta la testa del sintagma preposizionale. Nella nostra
frase esempio la testa del SP è di:

“di un ragazzo invidioso”

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Martino Branca Matricola: 840783

Una preposizione come “di” non può stare da sola. È per sua natura “transitiva”, cioè, come un
verbo transitivo, deve essere accompagnata da un complemento. Il complemento nella farse
sarà il SN “un ragazzo invidioso”.

“di un ragazzo invidioso”

SP = [[testa di] [Compl un ragazzo invidioso]]

In questo SP la posizione di specificatore è vuota (ma è riempita in altri SP).

Visto che il complemento del SP è un SN (un sintagma nominale), abbiamo un’altra matrioska
in quanto anche questo SN dà luogo a sua volta a una struttura gerarchica.

Sappiamo già che il SN ha una struttura gerarchica simile a quella del SV. All’interno del SN “un
ragazzo invidioso” è immediato individuare la testa ossia il nome ragazzo, e lo specificatore
ossia l’articolo indeterminativo un.

[SN un ragazzo invidioso]

[Spec un]

[testa ragazzo]

A differenza del primo SN che abbiamo analizzato (“tre foto di un ragazzo invidioso”), in questo
nuovo sintagma nominale la testa non ha complemento. In quello precedente, infatti, foto stava
nella relazione testa-complemento con il SP “di un ragazzo invidioso” a specificare di che cosa
fossero le foto. In questo caso, invece, la testa è il
nome ragazzo il quale è un nome “intransitivo”,
ovvero un nome che non prende un complemento.
Il materiale che segue la testa ragazzo, ossia
l’aggettivo invidioso, non è quindi il complemento
di ragazzo, ma svolge il ruolo di aggiunto. Per
rappresentare questo SN – in cui la testa ragazzo
non ha un complemento, ma ha un aggiunto –
inseriamo nella posizione del complemento il
simbolo dell’insieme vuoto [ ø ], per indicare che
non c’è un complemento.

Il sintagma aggettivale (SA)

Un aspetto molto interessante è che l’aggiunto invidioso potrebbe essere ulteriormente


espanso, per esempio si può dire.

“(Gianni osserva tre foto di un ragazzo) invidioso di frequentare l’alta società”

Il sintagma “invidioso di frequentare l’alta società” sarà un sintagma aggettivale (SA).

Questo sintagma ha come testa l’aggettivo invidioso e, come suggerito dal suo significato,
prenderà come complemento il SP “di frequentare l’alta società”. Il SP in questione prende
come complemento il sintagma “frequentare l’alta società”. Ma di che tipo è questo
sintagma? Sembra avere la struttura di un SV.

SA = [invidioso [SP di [SV frequentare l’alta società]]]

Tornando quindi all’inizio.

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Martino Branca Matricola: 840783

Eravamo partiti da un sintagma verbale e lo avevamo scomposto. Ad ogni livello di


scomposizione avevamo trovato un’iterazione della medesima struttura:

[(Spec) [[testa (Compl)] (Agg)]]

Specificatore, complemento e aggiunto sono fra parentesi perché non devono essere per forza
realizzati in ogni sintagma, come abbiamo già visto nei casi precedenti. Arrivati al livello ultimo
di scomposizione abbiamo trovato un sintagma verbale, cioè ritroviamo lo stesso tipo di
sintagma dal quale eravamo partiti. Il punto fondamentale è che la frase è fatta in modo tale
che ad ogni livello di scomposizione ritroviamo l’iterazione della stessa struttura astratta e, in
linea di principio, questo regresso all’infinito nel quale ad ogni passo indietro si trova la stessa
struttura potrebbe non avere mai fine. Il nome tecnico della teoria che descrive questa
proprietà delle frasi è “TEORIA X-BARRA”.

Secondo la teoria chomskiana, la struttura che abbiamo descritto è un universale linguistico,


cioè tutti i sintagmi in tutte le lingue del mondo avrebbero una struttura astratta come quella
individuata dalla teoria x-barra (In altri termini, la struttura individuata dalla teoria x-barra
sarebbe un principio). Inoltre, a parte la testa del sintagma, che è sempre una parola singola
(un verbo nel caso del SV, un nome nel caso del SN, una preposizione nel caso del SP, un
aggettivo nel caso del SA), il materiale linguistico che occupa le altre posizioni, se è complesso
(un costituente) viene a sua volta scomposto, sempre assumendo la stessa struttura e inoltre la
scomposizione può a sua volta contenere altri costituenti che devono essere ulteriormente
scomposti. Nella struttura ad x-brarra l’unica cosa che non dovrò mai scomporre è la testa.

La risposta all’obiezione
Sulla base di quanto abbiamo appreso finora, per rispondere alla grande obiezione all’ipotesi
chomskiana che il linguaggio sia come un organo, la struttura che sottosta a tutte le lingue è
universale (la struttura X-barra) ed è questa parte, la Lingua-I, che è innata. Le lingue sono solo
apparentemente molto diverse nel senso che condividono tutte una serie di principi universali,
ma differiscono per come alcuni parametri vengono settati da lingue particolari.

Abbiamo visto un principio («tutte le lingue hanno una struttura sintattica che può essere
rappresentata con la struttura a X-barra e che quindi è gerarchica e ricorsiva»). Adesso
prendiamo in considerazione un parametro, ossia una di quelle «scelte» che sono possibili
all’interno dei principi universali, e che porta le lingue a differenziarsi.

Il parametro

Il parametro della testa

In generale, in italiano, la testa precede linearmente il suo complemento

nel SV: [testa osserva [compl la foto] ]

nel SN: [testa foto [compl di un ragazzo] ]

nel SP: [testa di [compl un ragazzo] ]

ed è sempre così anche per altri tipi di sintagmi, che non sono stati ancora analizzati a lezione.
C'è un ampio gruppo di lingue, di cui gli esempi più studiati sono forse il giapponese e il turco,

33
Martino Branca Matricola: 840783

in cui si osserva un ordine speculare fra elementi testa e relativi complementi. Così in
giapponese e in turco la testa N segue il suo complemento dentro l'SN, la preposizione (o,
come è più corretto chiamarla, la postposizione) segue l'SN nel SP, V segue il suo
complemento nel SV, ecc. È interessante notare che lo specificatore in queste lingue sta dove
sta in italiano (per esempio, il soggetto e elementi simili agli articoli stanno nella periferia
sinistra rispettivamente del sintagma verbale e del sintagma nominale). Questa differenza
interlinguistica può essere agevolmente spiegata nell'ambito della Teoria X-barra. L'unica
cosa da aggiungere alla teoria è una clausola che dice che le diverse lingue possono
differenziarsi in un parametro, cioè nell'ordine lineare che vige fra testa e complemento. Il
parametro che stabilisce l’ordine fra testa e complemento è chiamato “parametro della
testa” (o “parametro testa complemento”)

Sintagma del Complementatore

C’è un sintagma (chiamato sintagma del complementatore, SC) che corrisponde alla frase
subordinata introdotta da verbi come dire, affermare, sapere, credere, ecc.

Si considerino le seguenti frasi:

“Gianni dice [bugie]”

“Gianni dice [che Maria è partita]”

Dire è un verbo transitivo, e il suo complemento può essere un SN, come bugie, oppure una
intera frase subordinata, come “che Maria è partita”. Chiamiamo Sintagma del
Complementatore (SC) la frase subordinata.

Nel Sintagma del Complementatore (SC), la testa è la congiunzione subordinante (qui, il che) e
il cui complemento è la frase subordinata stessa, che stiamo qui trattando come Sintagma
Verbale (SV). Nella frase qui sotto, l’intero sintagma del complementatore (la parte sottolineata)
è il complemento del verbo principale “dice”; la testa è in grassetto mentre il suo complemento
è in corsivo.

"Gianni dice [che [Maria vede quella foto di Piero]]”

Immaginate ora una lingua ipotetica (chiamiamola Onailati, ovvero italiano scritto alla rovescia)
che sia come l’italiano, tranne per il fatto che il parametro della testa in questa lingua prevede
che la testa segue il complemento, anziché precederlo come avviene in italiano. Come
tradurreste in Onailati la seguente frase?

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Martino Branca Matricola: 840783

“Tre amici di Giorgio dicono che Maria vede quella foto di Piero”

Ricordate che cambia la posizione della testa rispetto alla posizione del complemento ma la
posizione dello specificatore non cambia.

Onailati: “Tre Giorgio di amici Maria quella Piero di foto vede che dicono”

Si parte innanzitutto dall’identificazione della testa del SV principale (nel nostro caso il verbo
dicono in quanto verbo principale della frase). Sulla base dell’identificazione di specificatore,
testa e complemento si sussegue con l’identificazione dei successivi sintagmi e con le
appropriate inversioni. -> SI parte quindi dalla semplificazione del SV.

Se si analizza quindi la struttura a X-barra e si ricava la frase tradotta in Onailati, si osserva che
se si guarda alla ricetta che conduce a questi risultati per molti versi opposti, si scopre che
essa è molto simile. Quindi, a differenze superficiali molto grandi nella LinguaE, possono
corrispondere differenze molto piccole nella Lingua-I.x

LE OBIEZIONI ALLA TEORIA INNATISTA DI


CHOMSKY

Abbiamo presentato una serie di argomenti a sostegno dell’ipotesi che la facoltà del linguaggio
sia innata, ossia che tutti gli esseri umani siano portati a sviluppare il linguaggio. Abbiamo
specificato che con “facoltà del linguaggio” intendiamo non le singole lingue, ma la lingua-I
intesa come la capacità di organizzare l’input linguistico in una struttura che è gerarchica e che
si basa su regole di tipo ricorsivo. In particolare, uno dei principi universali che abbiamo
discusso è che tutte le lingue esibiscono una struttura sintattica di questo tipo (gerarchica, e
ricorsiva – rappresentabile per mezzo della struttura a X-barra) perché questa informazione
circa la loro organizzazione interna è parte del patrimonio genetico della nostra specie.

Obiezioni alla teoria innatista del linguaggio


Periodicamente questa concezione universalistica viene messa in discussione. In anni recenti
questo è avvenuto a opera di alcuni lavori, fra i quali:

1. Everett, Daniel L. (2005)

2. Nicholas Evans & Stephen C. Levinson (2009)

Spesso la forma dell’attacco alla concezione universalista è la seguente: si sceglie una lingua
“esotica” (quindi poco studiata) e si cerca di mostrare che essa non ha una struttura
gerarchica.

1. Everett
Nel 1968 Danile Everett diventa missionario e viene mandato al Summer Institute of Linguistics
per poi andare nella comunità PIRAHÃS nel Brasile nord-occidentale. In questa comunità la
lingua parlata non ha alcun tratto in comune con le altre lingue in quanto la popolazione non ha
contatto con altri popoli. Missionari mandati prima dell’intervento di Everett avevano vissuto a

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Martino Branca Matricola: 840783

lungo insieme ai Pirahãs senza riuscire a comprendere la lingua. Tuttavia, Everett riesce a
comprendere la logica della lingua e, impregnato della tesi di Chomsky, scrive la tesi di
dottorato su come anche il pirahãs rispetti la teoria innatista. Con un successivo contatto con
le teorie di Sapir, il quale sostiene che la lingua venga forgiata dalla cultura oltre che influenzare
la concettualizzazione della realtà dei parlanti, Everett si re-immerge nello studio della lingua
dei Pirahãs pubblicando nel 2005 un articolo in cui sostiene che quella lingua non si conforma
ai principi universali chomskyani (e che questo si riflette nel modo in cui i Pirahãs
concettualizzano il mondo). Nel suo articolo “Cultural Constraints on Grammar and Cognition in
Pirahãs” Everett sostiene che la lingua dei Pirahãs sia soggetta a vincoli culturali per quanto
riguarda la grammatica, più in particolare nota l’assenza di un processo di subordinazione o
“incassamento” (embedding). Abbiamo visto come uno degli universali linguistici sia che
l’ipotesi che tutte le lingue abbiano una struttura gerarchica e ricorsiva. Il processo
dell’incassamento (il fatto che un sintagma possa occorrere all’interno di un altro sintagma) è la
base della ricorsione. Se una lingua non ha questa possibilità di incassamento, costituisce una
forte obiezione alla teoria chomskyana.

Che cosa succederebbe se una lingua non possedesse un meccanismo ricorsivo?

La ricorsione è alla base dell’incassamento, ed è ciò che permette di generare un numero


infinito di frasi a partire da un numero finito di parole. Quindi, se una lingua non possedesse un
meccanismo ricorsivo, quella lingua non potrebbe esprimere un numero infinito di frasi, ma
avrebbe un repertorio finito di frasi esprimibili. E, aggiunge Everett, se delle persone vivono in
una società in cui la cultura limita gli argomenti di cui è lecito parlare, ad esempio permettendo
di parlare solo di quello che è presente HIC ET NUNC (letteralmente “qui e ora”) proibendo di
parlare di cose passate, future, possibili, etc, allora queste restrizioni culturali potrebbero porre
dei vincoli a ciò che si può esprimere con una lingua. Se la cultura di un popolo limita gli
argomenti possibili di conversazione a solo ciò che è stato personalmente percepito coi sensi,
o che un’altra persona riferisce di aver percepito, allora questi vincoli culturali potrebbero
riflettersi in vincoli grammaticali proibendo l’incassamento (e quindi la ricorsione). In altre
parole, Everett (come vedremo meglio più avanti) sostiene che nella lingua dei Pirahãs non
esista l’incassamento, e questo perché la cultura dei Pirahãs proibisce di parlare di determinati
argomenti.

La prova di Everett

Nella lingua PIrahãs si può dire

John’s house

si può dire

John’s brother

ma non si può dire

* John’s brother’s house. [* in Pirahã]

Per esprimere questo concetto bisogna usare due frasi distinte, non incassate, come:

John has a brother. This brother has a house.

Everett fornisce anche una spiegazione “culturale” sul perché non si possa dire “John’s
brother’s house”: i Pirahas sono una comunità molto piccola, si conoscono tutti, per cui non
c’è alcun bisogno di ricorrere a espressioni come “John’s brother’s house”, visto che tutti
conoscono lo stesso il nome del fratello di John (si conoscono tutti), e quindi è sufficiente dire,
ad esempio, “Peter’s house”.

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Martino Branca Matricola: 840783

La risposta di Nevis, Pesetsky, Rodrigues

Nevins, Pesetsky e Rodrigues obiettano a Everett che un conto è dire che alla base del
linguaggio c’è la possibilità di incassare un’espressione dentro un’altra, un conto è dire che
non esistono limiti o vincoli a questa possibilità di incassamento.

I tre studiosi per ribattere a Everett, prendono come esempio il tedesco: Nevins, Pesetsky e
Rodrigues notarono che anche il tedesco è soggetto agli stessi vincoli della lingua Pirahãs.
Mentre in inglese l’uso del genitivo sassone è potenzialmente ricorsivo (“John’s brother’s
name’s …”), in tedesco no: ci può essere solo un unico genitivo sassone per sintagma.

Ritornando quindi alle supposizioni di Everett, lo studioso afferma che:

1. La lingua dei Pirahã non ha ricorsione;

2. La mancanza di ricorsione si spiega per motivi culturali: i Pirahã vivono in comunità molto
piccola, in cui tutti si conoscono, e quindi «è sufficiente utilizzare un solo livello per il
possessore».

Riguardo al secondo punto, Nevins, Pesetsky e Rodrigues suggeriscono che, visto che anche
in tedesco non è possibile incassare i genitivi sassoni, ricorrere a una spiegazione culturale non
sembra plausibile (in Germania non è vero che tutti conoscono tutti), ma sembra essere un
vincolo grammaticale: in inglese è possibile la ricorsione del possessore prenominale; in
tedesco e in Pirahãs è possibile un solo possessore prenominale (mentre in italiano non è
possibile neanche un possessore prenominale).

Riguardo al primo punto; Nevins, Pesetsky e Rodrigues mostrano come non sia possibile
mostrare che non è possibile un tipo particolare di ricorsione per sostenere che quella lingua
non ha ricorsione. Per dimostrare che una lingua non ha del tutto il meccanismo della
ricorsione, infatti, è necessario mostrare che non è mai possibile l’incassamento di un sintagma
all’interno di un altro sintagma dello stesso tipo.

Nevins, Pesetsky, Rodrigues riprendono le analisi della lingua dei Pirahãs effettuate da Everett
nella sua tesi di dottorato e notano come fossero presenti diversi casi di frasi incassate: “Lui sa
davvero come fare frecce”, “Koxoi ha già ordinato al bambino di tagliare l’erba”, ecc. In
generale, NPR notano come l’articolo del 2005 di Everett presenti i dati in maniera molto
diversa rispetto ai suoi lavori precedenti, senza offrire spiegazioni.

Evans e Levinson
Evans e Levinson criticano la tradizione generativista-chomskyana, sostenendo che questo
approccio non sia di fatto “falsificabile”, ma anzi ingannevole.

Le predizioni dell’approccio generativista-chomskyano sono molto “forti” e di fronte alle


eccezioni ricorrono a spiegazioni ad hoc (hanno la forma “Tutte le lingue obbediscono a questo
principio”, ma di fronte a una eccezione a tale principio, la risposta diventa “questa sembra
una eccezione, ma viene spiegata nella seguente maniera: …”).

Come abbiamo discusso nei paragrafi precedenti, uno dei principi supposti universali è la
strutturazione delle frasi in constituenti, struttura rappresentabile per mezzo degli alberi
sintattici. Secondo Evans & Levinson, invece, la strutturazione in costituenti è un metodo,
usato da alcune lingue. Altre lingue non avrebbero invece i costituenti, perché mescolano
(scramble) le parole, come in:

“Ultima Cumaei venit iam carminis aetas”

“L’ultima era del carme di Cuma è già giunta”

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Martino Branca Matricola: 840783

In questo verso di Virgilio, notiamo che le singole parole che compongono quelli che abbiamo
definito “costituenti”, o sintagmi, appaiono linearmente lontane. Il SN “ultima aetas” che funge
da soggetto, e il SN (marcato con il caso genitivo, che in italiano traduciamo con un SP)
“Cumaei carminis”.

Secondo Evans & Levinson, molte lingue, come il latino, presentano un ordine delle parole
estremamente libero in cui parole che secondo la teoria X-barra dovrebbero appartenere allo
stesso costituente (come ultima e aetas – “L’ultima era”), si trovano di fatto separate da altre
parole che intervengono. In altre parole, sarebbe un mito l’organizzazione in costituenti di tutte
le lingue.

Come viene spiegata da un “chomskyano” la frase di Virgilio?


L’assunzione è che la struttura profonda della frase latina sia organizzata in costituenti, con le
parole tra loro adiacenti. In questa posizione infatti avverrebbe il controllo della morfologia. Si
assume poi che le parole si siano mosse dalla loro posizione iniziale per ragioni diverse da
quelle sintattiche, tipicamente per porre enfasi su determinate parole, e/o mettere in secondo
piano altre. Oppure per ragioni stilistiche formali.

Secondo l’approccio generativista-chomskyano, quindi, le singole parole che costituiscono un


sintagma sono tra loro adiacenti nella loro posizione originaria (“struttura profonda”, dove
avvengono operazioni morfo-sintattiche e semantiche), ma possono poi muoversi dalla
posizione originaria e comparire dislocate nella “struttura superficiale” (la frase che è stata
pronunciata). Tutte le lingue infatti sono organizzate in costituenti ma questi sono soggetti a
movimenti sintattici.

Evans & Levinson obiettano che questa strategia di formulare dei principi generali (“le parole
che formano un sintagma sono tra loro adiacenti”) e ricorrere a spiegazioni corollarie per
rendere conto di eccezioni (“se le parole non sono adiacenti, allora si sono spostate tramite
movimento sintattico”), non è scientificamente accettabile perché renderebbe la teoria non
falsificabile. Inoltre obbiettano che tale visione derivi da un bias etnocentrico: si assume come
base l’inglese, e si cerca di spiegare (forzatamente) quello che succede in altre lingue
basandosi su fenomeni presenti in inglese. Infine Evans & Levinson concludono che, se anche
si volesse imporre una struttura “English-like” a frasi come quella di Virgilio, tutto questo non
avrebbe alcun senso, perché la nozione di ordine (profondo) e di costituenza “non giocano
alcun ruolo. Inoltre non ci sarebbe alcuna evidenza della realtà psicologica della nozione di
costituente in lingue in cui l’ordine delle parole appare così variabile.

La critica di Evans & Levinson fa leva sul fatto che non sarebbe corretto sostenere che tutte le
lingue hanno un’organizzazione interna per costituenti.

La lingua dei segni italiana


L’idea di verificare l’ipotesi dell’universalità della struttura gerarchica guardando a lingue
“diverse”, “esotiche” (ovvero molte lontane da lingue come l’inglese per le quali tale ipotesi è
stata elaborata) sembra una buona intuizione. Una possibilità è quindi di guardare a lingue che
hanno avuto un’interazione minima con altre lingue, come il Pirahã. Un altro modo è guardare a
lingue che per la loro costituzione intrinseca potrebbero avere proprietà chiaramente difformi
dalle lingue che sappiamo avere una struttura gerarchica. Da questo punto di vista le lingue
dei segni sembrano essere un ottimo esempio di lingue “diverse” visto che usano la modalità
visivo-gestuale al posto della modalità fonoarticolatoria. Se fosse possibile mostrare che anche
le lingue dei segni hanno una struttura del SV gerarchica avremmo rafforzato la plausibilità
dell’ipotesi dell’universalità della struttura gerarchica.

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Martino Branca Matricola: 840783

Un chiarimento preliminare

Prima di procede con l’analisi della LIS (lingua dei segni italiana), è giusto fare una
precisazione. Ci sono casi in cui il costituente sostituito dalla proforma è formato da parole non
contigue fra di loro.

“Gianni ha mangiato con piacere la minestra. Invece Maria l’ha fatto controvoglia”

Lo ha fatto = [mangiato la minestra]

La sequenza [mangiato la minestra] è identificata come un costituente anche se queste parole


non sono contigue nella frase esempio, dove sono interrotte dall’espressione avverbiale “con
piacere”. Quindi i costituenti non devono per forza essere formati da parole contigue.

Come spiegare questo fatto? L’idea è che la “struttura profonda” della frase sia quella in cui
dopo la testa (il verbo mangiare) viene il complemento (la minestra), e dopo viene l’aggiunto
(con piacere). Questo è quanto previsto appunto dalla Teoria X-barra. Per motivi stilistici, di
enfasi (ad es. si vuole sottolineare che il mangiare è avvenuto con piacere, e quindi si vuole
pronunciare “vicino” il verbo e il suo aggiunto), avviene un movimento, spostando a destra il
complemento oggetto [la minestra], e finendo quindi per pronunciarlo dopo l’aggiunto [con
piacere].

Ora torniamo alla LIS.

La LIS ha una costruzione in cui il SV può essere sostituito da una proforma. Questa proforma
è il segno che viene glossato in italiano con STESSO. Grosso modo possiamo pensare a
STESSO come alla controparte in LIS della proforma “farlo”.

Questa costruzione è illustrata negli esempi sotto.

SALA GIANNI VASO ROMPERE, MARIO STESSO CUCINA

“Gianni ha rotto un vaso in sala e Mario l’ha fatto in cucina”

SALA GIANNI VASO ROMPERE, MARIO STESSO

“Gianni ha rotto un vaso in sala e anche Mario l’ha fatto”

Se la LIS avesse la struttura piatta non potremmo spiegare perché nel primo esempio la
proforma può sostituire solo VASO ROMPERE senza sostituire anche SALA.

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Martino Branca Matricola: 840783

Conclusione
L’aver mostrato che anche le lingue dei segni possono avere una struttura gerarchica ci
garantisce che tutte le lingue abbiano una struttura di tipo gerarchico? Ovviamente, no.
Per quante siano le lingue che hanno una struttura gerarchica, sarà sempre possibile in linea
teorica trovarne una che non ha una struttura gerarchica. Se pensassimo che aver accumulato
una lunga lista di lingue gerarchiche ci assicura che tutte lo siano, ci comporteremmo come il
famoso tacchino induttivista di Bertrand Russell. Fermi restando i limiti del ragionamento
induttivo, ci si deve porre la domanda del perché la grande maggioranza, e forse tutte, le lingue
studiate finora hanno una struttura gerarchica e ricorsiva. L’ipotesi innatista chomskiana
fornisce una risposta. Ci sono in linea di principio altre risposte, ma nessuna di esse è mai
stata davvero sviluppata a fondo.

IL LINGUAGGIO COME ORGANO (3)

Ritorniamo nuovamente all’ipotesi iniziale del linguaggio come funzione organica.

L’ultima delle conseguenze dell’ipotesi (che abbiamo già esposto a pag. 3) sarebbe quella che
il linguaggio sia comparso a un certo punto nell’evoluzione dell’homo sapiens. Abbiamo
presentato una serie di argomenti a sostegno dell’ipotesi che la facoltà del linguaggio sia
innata, e presente in tutti gli uomini. Se così è, è lecito chiedersi quando, nel cammino
dell’evoluzione dell’uomo, è comparso il linguaggio.

Evidenza sull’origine dell’uomo


Gli ominini sono la famiglia che include gli esseri umani moderni, appartenenti alla specie
Homo Sapiens, e i loro diretti antenati (australopiteco, Homo Habilis, Homo Erectus). I primi
ominini fecero la loro comparsa almeno quattro milioni di anni fa. L’homo è comparso per la
prima volta due milioni di anni fa con l’Homo Habilis ed Erectus. Tutte le specie del genere
Homo, tranne l’Homo Sapiens, sono estinte, ma solo 40.000 anni fa in Eurasia erano presenti
cinque specie del genere Homo. Si ritiene oggi che la specie Homo Sapiens abbia avuto
origine nel Corno d’Africa circa 200.000 anni fa. Vediamo perché.

L’ipotesi “Out of Africa” e il DNA mitocondriale


L'ipotesi dell'origine unica, o ipotesi “Out of Africa”, propone che gli uomini moderni si siano
evoluti in Africa e che siano poi migrati all'esterno sostituendo quegli ominini che erano in altre
parti del mondo. Oggi è l’ipotesi più accreditata perché è sostenuta dagli studi condotti
mediante marcatori non ricombinanti, come il DNA mitocondriale.

I genetisti possono determinare la vicinanza


genetica di individui e gruppi di individui
determinando quanto del loro DNA è condiviso.
Il DNA nel nucleo è ereditato da tutti e due i
genitori. Il DNA nei mitocondri è ereditato
solamente dalla madre. Questo fatto ha una
conseguenza importante: la differenza tra il DNA

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Martino Branca Matricola: 840783

mitocondriale di due individui che discendono da una stessa donna può essere attribuita solo
all’occorrenza di una mutazione nel processo ereditario. Senza questa mutazione, due individui
che discendono da una stessa donna avrebbero esattamente lo stesso DNA mitocondriale.
Assumendo che la mutazione del DNA sia costante, possiamo utilizzare la differenza tra il DNA
mitocondriale di due individui come un “orologio molecolare.” Vale a dire, possiamo utilizzare la
differenza tra il DNA mitocondriale di due individui per calcolare il numero delle generazioni che
separano questi due individui dal loro progenitore comune più vicino in linea femminile.

È sulla base di queste osservazioni che Cann, Stoneking and Wilson (1987) hanno utilizzato la
tecnica del DNA mitocondriale per cercare di localizzare nello spazio e nel tempo la donna più
recente da cui tutti gli esseri umani di oggi discendono in linea femminile. Con l’aiuto di
elaborate tecniche statistiche, questi studiosi hanno concluso che questa donna è vissuta circa
200.000 anni fa nel Corno d’Africa. L’hanno soprannominata “Eva africana”.

Perché una sola Eva? Eva non era l’unica donna nella sua comunità. Però nessuna altra
donna a lei contemporanea è considerata l’antenato comune di tutti gli esseri umani. Infatti,
solo nel caso di Eva per ogni generazione discendente da lei fino ai nostri giorni c'è una figlia
che ha dato alla luce un'altra figlia. Invece, per le contemporanee di Eva la linea discendente si
deve essere spezzata a un certo punto (ovvero per tutte le altre contemporanee di Eva, c’è
stata a un certo punto almeno una discendente che non ha avuto una figlia).

E Adamo? Dato che il cromosoma Y è unicamente trasmesso dal padre ai figli maschi, è
possibile individuare il progenitore maschio comune di tutti i maschi attuali. Fino a pochissimo
tempo fa c’era una discrepanza fra i dati derivanti dall’analisi del cromosoma Y e quelle del
DNA mitocondriale. Infatti, l'Adamo Y-cromosomale sembrava essere vissuto circa 75.000 anni
fa, cioè Adamo Y-cromosomale e Eva mitocondriale si sarebbero mancati per decina di migliaia
di anni. I due dati non erano in contraddizione diretta fra loro, dato che le linee di discendenza
maschile potrebbero essere svanite più rapidamente delle linee di discendenza femminili, per
esempio perché potrebbe essere stato più comune per i maschi morire prima di raggiungere
l’età fertile. Tuttavia alcuni lavori usciti nel 2013 e del 2014, che adottano tecniche di analisi più
raffinate, sembrano aver risolto la discrepanza fra datazione di Adamo Y-cromosomale e Eva
mitocondriale. Poznik et al. (2013) datano Adamo Y-cromosomale fra 120.000 e 156.000 anni
fa e Eva mitocondriale fra 99.000 e 148.000 anni fa. Scozzari et al. (2014) datano Adamo Y-
cromosomale a 196.000 anni fa.

Teoria della catastrofe di Toba


La variabilità genetica fra gli individui della nostra specie è molto ridotta, se confrontata alla
variabilità genetica fra individui di altre specie animali. Questo in parte si spiega con il fatto che
discendiamo tutti da un piccolo gruppo, la comunità di Eva. Tuttavia, secondo alcuni studiosi,
la bassa variabilità genetica si potrebbe spiegare anche attraverso un “collo di bottiglia”
avvenuto nella storia del sapiens: la catastrofe di Toba.

La teoria della catastrofe di Toba sostiene che tra 75.000 e 70.000 anni fa l'esplosione di un
supervulcano al di sotto del Lago Toba in Indonesia, probabilmente il più grande evento
eruttivo negli ultimi 25 milioni di anni, rese ancora più rigido il clima del pianeta che già stava
attraversando una glaciazione. La specie, ridotta quasi all’estinzione, si sarebbe salvata con
l’avvicinamento di poche migliaia di sopravvissuti e quindi la nascita di una comunità. Questo
collo di bottiglia nella numerosità della popolazione umana spiega in parte la scarsa variabilità
genetica nella nostra specie, inoltre la teoria per ora non appare in contraddizione con le
datazioni matrilineari dell'Eva mitocondriale e patrilineari dell'Adamo Y-cromosomale.

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Martino Branca Matricola: 840783

I Neanderthal e i Sapiens
Oltre all’homo sapiens c’erano anche altre specie di ominini, tra cui l’Homo di Neanderthal.

Il Neanderthal è considerato una forma umana più primitiva (per esempio le evidenze di
pensiero simbolico come la pittura, la decorazione del corpo o la sepoltura sono episodiche e
molto rudimentali nel Neanderthal). Questo è il primo importante lavoro che è emerso dal
progetto genoma del Neanderthal.

Il progetto di ricostruzione del genoma del Neanderthal, coordinato da Svante Pääbo, ha già
portato a una scoperta del tutto inaspettata, ovvero che l’uomo di Neanderthal e l’Homo
Sapiens si sarebbero incrociati e avrebbero generato una prole fertile. Lo si è scoperto perché
sono state trovate tracce del DNA di Neanderthal nel DNA di europei e asiatici di oggi. In
particolare sembra che l’accoppiamento fertile sia avvenuto solo fra femmine del Sapiens e
maschi del Neanderthal (lo deduciamo dal fatto che non sono state trovate tracce del
Neanderthal nel DNA mitocondriale delle femmine odierne di Sapiens).

I Neanderthal e l’ipotesi “Out of Africa”

Un’osservazione interessante è che non sono state trovate tracce del DNA di Neanderthal nel
DNA degli africani di oggi. Questo suggerisce che l’Homo sapiens si sia incrociato con il
Neanderthal dopo il suo arrivo in Eurasia dall’Africa, e quindi conferma indirettamente l’ipotesi
dell’origine unica africana. Sembrerebbe quindi che, ai tempo della grande migrazione, una
parte dei sapiens rimase in Africa e non si incrociò mai con i Neanderthal.

Fino alla scoperta di Pääbo si riteneva che i Neanderthal, i Sapiens e gli altri ominini fossero
specie diverse appartenenti tutte al genere Homo. Il fatto che i Neanderthal e i Sapiens si siano
potuti incrociare e questi incroci abbiano avuto discendenti fa sorgere dei dubbi sulla loro
appartenenza a specie diverse (di solito, quando due animali appartengono a specie diverse si
incrociano, la loro prole non è fertile). La questione però è dibattuta.

Homo Sapiens e linguaggio


La grande ondata migratoria (prima ce n’erano già state, ma non significative), avvenne si
pensa intorno a 50.000 - 60.000 anni fa, e di fatto coincise con l’estinzione delle altre specie di
homo presenti nel resto del mondo. La domanda sorge spontanea: se la comunità di Eva
aveva dimensioni abbastanza limitate, come mai allora altre comunità non hanno lasciato
una discendenza che arrivasse fino a noi?

Si pensa che l’homo sapiens avesse qualcosa in più che gli avrebbe permesso di sopravvivere.
L’aspetto peculiare della Comunità di Eva era aver sviluppato abilità linguistiche superiori, e
questo aveva dato un vantaggio evolutivo ai discendenti di Eva. Il possesso di abilità
linguistiche superiori aveva dato a questi discendenti la possibilità di vivere più a lungo, e
quindi maggiori probabilità di generare una prole a cui trasmettere il proprio patrimonio
genetico, per questo motivo, la discendenza di altre comunità finì per estinguersi e la facoltà
del linguaggio è diventata parte del patrimonio genetico dell’Homo Sapiens.

Se l’ipotesi precedente è corretta, è plausibile che il linguaggio, nella sua forma moderna, sia
comparso all’epoca di Eva africana, più o meno duecentomila anni fa.

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Martino Branca Matricola: 840783

LIEBERMAN (2007) ha proposto che l’emergenza del linguaggio nella sua forma moderna
sarebbe avvenuta ancora più recentemente, ovvero circa 50.000 anni fa, in coincidenza con
l’ultima migrazione fuori dall’Africa dell’Homo Sapiens, quella che ha portato all’estinzione di
tutte le altre forme umane. Egli sostiene che nelle altre specie fosse assente un carattere fisico
necessario allo sviluppo del linguaggio: il tratto vocale.

Il tratto vocale è una particolare conformazione della gola che permette la completa
articolazione dei suon9. Probabilmente questo tratto non era presente nemmeno nei primi
homo sapiens, ma si è sviluppato nel tempo. Questo permetterebbe anche di spiegare perché
l’ultima migrazione dei Sapiens fuori dall’Africa ha avuto delle conseguenze maggiori di quelle
che l’hanno preceduta sulle altre forme umane.

Anche i bambini piccoli non hanno il tratto vocale (come gli uomini primitivi): hanno un cavo per
l’aria separato dal cavo per far entrare il cibo. Questo spiegherebbe il fatto che quando i
neonati succhiano il latte dalla mamma possono andare avanti anche per 20 minuti senza
interruzioni.

La tesi dell’evoluzione unica del linguaggio


Queste ipotesi di datazione sono coerenti con l’ipotesi, generalmente accettata, che il
linguaggio, nella sua forma moderna, si sia evoluto una volta sola nella nostra specie (tesi
dell’evoluzione unica del linguaggio).

Quando un organo si è evoluto indipendentemente in diverse specie, si trovano tracce di


questa evoluzione indipendente. Per esempio, sappiamo che l’occhio si è evoluto
indipendentemente più di una volta nel regno animale perché gli occhi delle piovre, dei
mammiferi e degli insetti rivelano per la loro struttura di non avere alcun antenato comune. Se il
linguaggio, nella sua forma moderna, si fosse evoluto indipendentemente in diversi gruppi di
Homo Sapiens, dovremmo aspettarci di trovare qualche traccia di questa evoluzione
indipendente. Per esempio, se le diverse lingue oggi presenti sul pianeta fossero il risultato di
evoluzioni indipendenti della facoltà del linguaggio, sarebbe naturale aspettarsi che alcuni
membri della specie Homo Sapiens abbiano evoluto una facoltà del linguaggio per certe lingue
o tipi di lingue e non per altre. Tuttavia, nessun bambino possiede una predisposizione innata
di questo genere: se il bambino viene rimosso dalla comunità dei suoi genitori, diventerà un
parlante nativo della comunità in cui cresce, indipendentemente dalla lingua dai genitori.

L’ipotesi che è stata proposta, quindi, è che ai tempi di Eva Africana una qualche mutazione
genetica abbia fatto sì che alcuni homo sapiens sviluppassero la facoltà del linguaggio.
Dall’Africa, poi, gruppi di homo sapiens si sono mossi per popolare gli altri continenti
“portandosi dietro” la mutazione genetica (la facoltà del linguaggio). Questa sarebbe stata
trasmessa geneticamente.

L’effetto del fondatore seriale


L'effetto del fondatore è un processo che determina lo sviluppo di una nuova popolazione a
partire da un piccolo numero di individui che portano con sé solo una parte della variabilità
genetica della popolazione originale. L'effetto del fondatore seriale si ha quando si hanno
distacchi successivi: a partire da una popolazione originaria si stacca un piccolo gruppo di
individui che formano una comunità autonoma in un territorio separato. In seguito, da questa
seconda comunità si stacca un altro piccolo gruppo di individui, e così via. Ad ogni passaggio
c’è una riduzione di variabilità genetica nel nuovo gruppo che si forma.

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Martino Branca Matricola: 840783

Fondatore seriale e ipotesi “Out of Africa”

Studi di genetica delle popolazioni hanno trovato un effetto del fondatore seriale nelle
popolazione dei 5 continenti. Il continente con la maggiore variabilità genetica è l’Africa e mano
a mano che ci si allontana dall’Africa la variabilità diminuisce. La minore variabilità si trova in
America Latina e in Oceania, dove l’Homo Sapiens sarebbe arrivato più tardi. Queste ricerche
hanno quindi corroborato il modello “out of Africa”. Infatti, se l’assunto di base è che gli uomini
moderni si siano evoluti in Africa per poi migrare nelle altre parti del mondo, si riesce a capire
come mai la variabilità genetica delle popolazioni che occupano i territori raggiunti più tardi
dall’Homo Sapiens sia così bassa.

Fondatore seriale e linguaggio


Fonemi e Foni
Un fonema è un’unità distintiva di suono che, in combinazione con altri fonemi, forma le
parole. Perché due suoni diversi (o foni) siano due fonemi distinti essi devono condurre a
differenze fra significati. I fonemi si scrivono fra / /, mentre i foni si scrivono fra [ ].

Per esempio, la [l] e la [r] sono due fonemi distinti in italiano, quindi possiamo scrivere /l/ e /r/.
Possiamo dirlo perché questi due suoni ci permettono di distinguere fra la parola ‘lana’ e la
parola ‘rana’. Invece, in italiano la [n] di ‘nonno’ e la [η] di ‘anche’ sono due foni diversi, ma
questa differenza non è distintiva, quindi non si tratta di due fonemi diversi. Se tento di
pronunciare ‘nonno' con la [η], anziché con la [n], ottengo una pronuncia strana, ma non
cambio il significato della parola.

Il repertorio dei fonemi cambia da lingua a lingua: per esempio, in giapponese [l] e [r] sono due
foni, ma non due fonemi. In inglese, [n] e [η] sono due fonemi diversi, non soltanto due foni
diversi, come avviene in italiano. La [n] la si trova in ‘thin’ (magro), mentre la e [η] la si trova in
‘thing’ (cosa). Incidentalmente, questo significa che i fonemi sono entità astratte, mentre i foni
sono entità concrete.

Si sa da molto tempo che le lingue sono molto diverse fra loro per quanto riguarda la variabilità
fonetica. Alcune hanno un repertorio di fonemi molto più limitato di altre. Lingue famose per il
loro ricco repertorio sono, ad esempio, le lingue dei khoi-san, oggi parlate nell’Africa
sudoccidentale ma un tempo parlate anche in altre regioni del continente. Queste lingue sono
note per i cosiddetti “click”. Si tratta di suoni prodotti facendo schioccare le labbra o la lingua
contro il palato o contro i denti (come il suono che usiamo per mandare un bacio o per
riprodurre la cavalcata del cavallo). Nelle lingue khoi-san i click sono fonemi, sono cioè parte
integrante del sistema linguistico.

La teoria di Atkinson
In uno studio del 2011, ATKINSON ha effettuato un’analisi sul numero di fonemi di 504 lingue
parlate nei 5 continenti e ha sostenuto che le lingue che contengono il maggior numero di
fonemi sono quelle parlate nell’Africa sub-sahariana, mentre quelle con il minor numero di
fonemi sono parlate in Sud America e nelle isole tropicali del Pacifico. Inoltre all’aumentare
della distanza dall’Africa, tenderebbe a diminuire la variabilità fonemica.

La congettura di Atkinson è estremamente interessante, e perché, se fosse confermata,


avremmo ulteriore evidenza a favore dell’ipotesi “Out of Africa”. Inoltre si potrebbe ipotizzare
che la gran parte delle lingue moderne sono riconducibili attraverso moltissimi passaggi

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Martino Branca Matricola: 840783

intermedi (che le hanno profondamente trasformate) alle lingue che oggi usano i click, cioè le
lingue dei khoi-san. Ci sarebbe cioè convergenza fra dati di variabilità genetica e dati di
variabilità linguistica. Sono state tuttavia avanzate delle critiche, soprattutto di tipo
metodologico, ed è quindi necessario che altri studi e ricerche supportino (o smentiscano)
l’ipotesi di Atkinson.

Il gene del linguaggio


Le evidenze finora presentate sono compatibili con l’ipotesi che nel patrimonio genetico
dell’Homo sapiens già dai tempi di Eva africana fosse presente la “facoltà del
linguaggio” (Lingua-I). Se è così, ci si potrebbe aspettare di riuscire a trovare evidenza di un
“qualcosa” nel nostro DNA che sia deputato all’analisi della lingua.

Lai et al. (2001) hanno individuato il primo gene, chiamato FOXP2, di cui si può dimostrare che
è coinvolto nel linguaggio (perlomeno nel linguaggio parlato - speech). Il gene, localizzato sul
cromosoma 7, è stato scoperto studiando i membri di una famiglia britannica (chiamata
“famiglia KE”), la maggior parte dei quali ha una menomazione della parola e del linguaggio. La
concordanza fra gene e disturbo nella famiglia KE è perfetta. Ogni componente che ha una
versione danneggiata del gene FOXP2 ha la malattia (che consiste in disturbi dell’articolazione,
ma anche in disturbi più strettamente grammaticali, come problemi nella formazione del tempo
passato dei verbi e deficit di comprensione linguistica). Invece chi ha una versione non
modificata del gene è sano.

La storia evolutiva di FOXP2


Enard et al. (2002) hanno studiato la storia evolutiva FOXP2 confrontando le versioni del gene
in vari primati e topi. FOXP2 è rimasto sostanzialmente inalterato nel corso dell’evoluzione dei
mammiferi, ma è cambiato negli esseri umani dopo che la linea evolutiva che porta all’uomo si
era divisa dalla linea evolutiva che porta allo scimpanzé.

Gli studiosi, applicando le tecniche di misurazione disponibili, hanno proposto che la versione
umana del gene sia emersa solo 120.000 anni fa.

Molto recentemente la questione della datazione della versione umana del gene FOXP2 si è
complicata perché nel progetto di sequenziazione del genoma di Neanderthal è emerso che il
Neanderthal aveva una versione del gene FOXP2 quasi identica (anche se non esattamente
uguale) a quella umana. Il problema è che il progenitore di Neanderthal e di Homo sapiens nel
quale sarebbe avvenuta la mutazione “umana” del gene FOXP2 è vissuto ben prima di 120.000
anni fa. La questione dell’attendibilità dello studio di Enard et al. è attualmente oggetto di
ricerca.

Riassumendo, il problema di una datazione precisa della comparsa del linguaggio rimane
aperto, ma l’evidenza disponibile che proviene da fonti diverse suggerisce che la stima più
accurata possa essere fra 100.000 e 200.000 anni fa, se non addirittura in un’epoca più
recente. Se questa ipotesi di datazione è corretta (e, almeno alla luce delle nostre conoscenze
attuali, sembra esserlo), ne discende una conseguenza importante: l’organo del linguaggio è di
origine molto recente. 50.000 anni (ma anche 200.000 anni) sono un “battito di ciglia” in termini
evolutivi. Secondo le teorie Darwiniane, il meccanismo di selezione naturale richiede tempi
molto lunghi per l’evoluzione di organi complessi e sicuramente il linguaggio è un’abilità
altamente complessa, se non altro per il fatto che esso coinvolge un coordinamento
estremamente raffinato di abilità senso-motorie e di abilità cognitive multiple.

Come è possibile che tale abilità si sia evoluta in un tempo così ristretto? (ROMPICAPO)

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Martino Branca Matricola: 840783

L’evoluzione del linguaggio


Il rompicapo
L’esistenza del «rompicapo» dipende da come si guarda al linguaggio umano.

1. Alcuni sostengono che il linguaggio umano è «solo» una evoluzione di forme di


comunicazione presenti in altri animali, e che quindi ci sia stato un lento e graduale
sviluppo di tale abilità, che sarebbe comune anche ai primati, e che quindi può essere
fatta risalire ad (almeno) milioni di anni fa (antenato comune tra gli homo e gli altri
primati non umani).

2. Altri, invece, ritengono che il linguaggio umano sia un unicum, e che esista un salto
qualitativo (e non solo quantitativo) tra il linguaggio umano ed altre forme di
comunicazione animale. Se allora il linguaggio è “comparso” nell’homo sapiens, c’è un
rompicapo.

1. La posizione continuista
Se si sostiene che il linguaggio umano sia una evoluzione di forme di comunicazione presenti
anche in primati non umani, e che nell’homo sapiens si sia semplicemente (lentamente e
gradualmente) evoluto, allora non c’è un rompicapo, perché i tempi per questa evoluzione sono
sufficientemente lunghi per giustificare una selezione naturale di questa abilità che avrebbe
avvantaggiato (gradualmente, passo per passo) chi la possedeva.

Secondo i continuisti, quindi, l’evoluzione del linguaggio umano sarebbe simile al cammino
che ha portato l’uomo ad assumere la posizione eretta: noi homo sapiens ci muoviamo sempre
in posizione eretta, ma questa è una evoluzione che può essere fatta risalire – al suo esordio –
a milioni di anni fa, visto che è rintracciabile anche nei primati non umani a noi più vicini, come i
bonobi.

La posizione continuista è sostenuta, tra gli altri, da Michael Corballis, nel suo libro “Dalla mano
alla Bocca”.

Corballis sostiene che le capacità linguistiche potevano essersi in larga misura già evolute
prima dell’avvento di Homo Sapiens. Secondo l’autore il linguaggio, inteso come strumento
per comunicare, è nato in modalità gestuale, e che forme primordiali di comunicazione
gestuale siano rintracciabili anche nei primati non umani. In particolare, il passaggio alla
posizione (semi-)eretta, rintracciabile anche negli scimpanzé e nei bonobo, avrebbe “liberato”
le mani, che sarebbero state utilizzate a fini comunicativi, con gesti finalizzati a trasmettere
contenuti e che, gradualmente, si sarebbero sempre più complessificati, fino a raggiungere una
buona capacità espressiva: un proto-linguaggio gestuale.

Secondo questa teoria, forme rudimentali di comunicazione gestuale sarebbero presenti anche
in altri primati non umani, e in tutte le specie di ominini. Il vantaggio «evolutivo» dell’Homo
Sapiens sarebbe dovuto al passaggio dalla forma solo gestuale a quella orale – ipotizzando
anche in questo caso un passaggio graduale, con una possibile lunga convivenza di queste
due forme di espressione (visivo-gestuale e acustica).

Il passaggio alla modalità solo vocale/uditiva (orse avvenuto 50.000 anni fa, come sostenuto da
Lieberman), grazie a modifiche dell’apparato vocale dell’homo sapiens, avrebbe forse
avvantaggiato l’homo sapiens, in quanto l’utilizzo di parole invece dei gesti presenta una serie
di vantaggi:

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Martino Branca Matricola: 840783

1. permette di riferirsi a molti più oggetti, sia perché i gesti sono necessariamente limitati
in numero, invece relativamente pochi fonemi possono essere combinati tra di loro per
ottenere un numero estremamente ampio di parole, sia perché le parole permettono
una maggiore arbitrarietà, mentre i gesti tendono a essere più iconici (pensate a
possibili gesti per riferirsi a tigre/leone/ eopardo, o a vari tipi di bacche – velenose o no).

2. Il linguaggio orale può essere utilizzato al buio;

3. Il linguaggio orale può essere sentito anche da persone anche non immediatamente nel
campo visivo, e inoltre con la voce è più facile attirare l’attenzione;

4. Il linguaggio orale “libera le mani”, che quindi possono essere utilizzate per altre attività
mentre uno sta parlando;

Secondo Corballis le capacità comunicative-linguistiche potevano quindi essersi in larga


misura già evolute prima dell’avvento di Homo Sapiens. Quello che sarebbe successo circa
200.000 (o 50.000) anni fa non è l’invenzione del linguaggio ma il suo passaggio dalla modalità
segnata alla modalità fono-articolatoria. Secondo Corballis questo “annullerebbe” il
rompicapo consistente nello spiegare come un organo complesso si sia evoluto in un “battito
di ciglia”: il linguaggio avrebbe avuto tutto il tempo di evolversi (in forma gestuale) in un periodo
imprecisato ben prima di 200.000/50.000 anni fa.

Dal punto di vista biologico, l’evoluzione che ha contribuito allo sviluppo delle capacità
linguistiche fono-articolatorie è stata l’abbassamento della laringe. Solo dopo questo
abbassamento, in tempi molto più recenti, sarebbe diventato fisicamente possibile all’Homo
Sapiens produrre un ricco repertorio di suoni linguistici. Tale cambiamento fisico avrebbe
generato un angolo retto tra il cavo orale e la bocca, permettendo così la formazione di vocali.

Obiezioni alla teoria di Corballis

Tuttavia l’ipotesi di Corballis è controversa per diversi motivi:

1. Esiste una continuità tra i gesti e le parole ma non viene spiegata la presenza della
sintassi: è plausibile assumere che le parole si siano evolute dai gesti, ma è molto
difficile spiegare come le regole di combinazione delle parole (la sintassi) si sia evoluta
da un proto-sistema di comunicazione di tipo gestuale.

2. L’abbassamento della laringe non sembra essere sufficiente per spiegare la produzione
linguistica nella sua forma orale. Fitch (2013) mostra che ci sono altre specie in cui la
laringe si è abbassata durante l’evoluzione (leoni, koala, alcune specie di cervidi).
Inoltre, molti animali in cui la laringe non è permanentemente abbassata la possono
comunque abbassare per produrre suoni (es.: cani). Oggi si pensa che la spinta
evolutiva all’abbassamento della laringe non sia stata il linguaggio, ma la possibilità di
produrre vocalizzazioni che fanno credere che l’animale sia più grosso di quello che è in
realtà (“the size exaggeration hypothesis”).

2. Linguaggio: un unicum dell’uomo


Il «rompicapo» è davvero tale, quindi, solo per coloro che, invece, ritengono che il linguaggio
umano sia un unicum, e che esista un salto qualitativo (e non solo quantitativo) tra il linguaggio
umano ed altre forme di comunicazione animali.

- CARTESIO: qualsiasi uomo, anche il più ottuso, ha il linguaggio, inteso come capacità di
combinare in modo creativo le parole per esprimere pensieri di qualsiasi tipo; gli animali,
sebbene possano avere organi che permettono loro di articolare suoni (come le gazze o i
pappagalli), non hanno il linguaggio.

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Martino Branca Matricola: 840783

- CHOMSKY: il linguaggio è un ponte tra le capacità del pensiero (abilità cognitive:


(formulare pensieri da esprimere) e motorie (articolare/percepire suoni o segni)

È opportuno introdurre preliminarmente le nozioni che ci permettono di capire come un’abilità


estremamente complessa (come il linguaggio) venga selezionata dal punto di vista evolutivo.
Le tre nozioni sono:

• Adattamento
• exattamento
• spandrel

Adattamento

Per adattamento (adaptation) si intende il processo in cui un tratto di un organismo si è


evoluto attraverso il processo della selezione naturale, in maniera tale da aumentare il
successo riproduttivo dell’organismo stesso. Ad esempio, durante il suo viaggio alle
Galapagos, Darwin notò diversi tipi di fringuelli, che differivano tra loro soprattutto per la forma
del becco.

Ci sono quattordici specie diverse di fringuelli individuate da Darwin alle Galapagos. Tutte
queste specie si sono evolute da un unico antenato comune, attraverso un processo noto
come radiazione adattativa, processo evolutivo regolato dalla selezione naturale e da
meccanismi di mutazione genetica, tramite cui le specie si adattano ad occupare una specifica
nicchia ecologica. Le mutazioni genetiche, che compaiono per caso, avvantaggeranno gli
uccelli in determinati ambienti (es.: becco grande in un ambiente di semi grandi), mentre
determineranno delle difficoltà in altri (es.: becco grande in un ambiente di insetti). Questo ha
ovviamente un impatto sulla possibilità di sopravvivenza dell’animale e quindi maggiore
probabilità di riprodursi e trasmettere la caratteristica genetica (es.: becco grande) ai
discendenti. Con il passare del tempo, vengono quindi selezionati i fringuelli che hanno le
caratteristiche fisiche (forma del becco) più vantaggiose per procacciarsi il cibo nei vari
ambienti.

Exattamento

Si parla di exattamento (exaptation) quando un tratto di un organismo si è evoluto in una


prima fase per svolgere una certa funzione, ma da un certo punto del percorso evolutivo, lo
stesso tratto si è evoluto per svolgere una funzione diversa. Es: le piume delle ali degli uccelli
all’inizio del loro sviluppo non servivano per volare, ma svolgevano un ruolo di
termoregolazione (o addirittura estetico per questioni di richiamo sessuale). Solo da un certo
punto in poi si sono evolute per permettere il volo.

Questa era proprio l’obiezione che Mivart aveva mosso a Darwin: secondo lui i principi della
teoria dell’evoluzione non potevano spiegare “the incipient stages of useful structures” (Le
prime fasi di strutture utili). Darwin rispose parlando «pre-adaptation»: un organo (o un tratto)
potrebbe essersi evoluto (essere stato selezionato) prima per assolvere una funzione, ma poi,
in seguito, potrebbe avere assunto una diversa funzione (Il termine «pre-adaptation» è stato
sostituito con exattamento perché il primo sembrava suggerire una finalità).

Riassumendo, ci sono dei casi in cui un tratto, un organo, o una abilità comincia a svilupparsi
(ossia, essere selezionata perché apporta un vantaggio agli individui che ce l’hanno, e quindi la
trasmettono alla loro prole) per una ragione (ad esempio, le ali degli uccelli per
termoregolazione e la vescica dei pesci per permettere il nuoto, regolando la quantità d’aria per
potersi muovere in acqua) e però in seguito quegli stessi tratti/organi/abilità si rivelano utili per
assolvere una nuova funzione, diversa, e quindi il percorso evolutivo può continuare per

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Martino Branca Matricola: 840783

svolgere al meglio la seconda funzione (le ali si rivelano utili per volare, e la vescica per
respirare aria).

È spesso molto difficile capire se un organo si è sviluppato con un processo di adattamento o


di exattamento. La ragione è che anche in casi che possono sembrare semplici un organo può
svolgere funzioni diverse e indipendenti (es.: ossa, non solo per sostenere il corpo, ma
appartengono anche al sistema circolatorio). Se non sappiamo bene quale sia la sua funzione
primaria, può essere difficile capire quale sia stato il percorso evolutivo di un organo.

Spandrel

Il concetto di spandrel, in termine evoluzionistico, può essere spiegato con la metafora degli
spandrel della basilica di San Marco a Venezia. In architettura, uno spradel (pennacchio, a volte
tradotto come “lunetta”) è lo spazio fra due archi o fra un arco e la struttura rettangolare in cui
è inserito. Il concetto di spandrel è un’estensione di quello di exattamento. In tutti e due i casi,
si intende una situazione in cui un tratto A si sviluppa per una fase della sua storia evolutiva
(tipicamente la fase iniziale) come sottoprodotto, piuttosto che come risultato diretto della
selezione adattiva a favore del tratto A. La differenza è che con il termine ‘spandrel’ Gould e
Lewontin vogliono sottolineare che a volte un tratto A può essere il sottoprodotto non
semplicemente dello sviluppo di un singolo altro tratto B ma del Bauplan (forma architettonica
generale) che un organismo arriva ad avere per poter sviluppare il tratto B. Quindi, anche se la
selezione naturale in ultima analisi è responsabile del processo che porta allo sviluppo del
tratto A, il processo è molto indiretto. Un esempio di spandrel riguarda l’area intorno al garrese
nel cervo irlandese gigante (Megaloceros giganteus), una specie oggi estinta.

L’area intorno al garrese nel cervo irlandese gigante si è alzata visibilmente nel corso
dell’evoluzione di questa specie, e questo sollevamento è considerato uno spandrel della
riorganizzazione necessaria a permettere lo sviluppo di una testa che potesse sostenere le
enormi corna dell’animale (la riorganizzazione coinvolgeva l’allungamento della spina dorsale
per permettere l’inserimento di una voluminosa membrana fibrosa). Il garrese del cervo
irlandese, il cui sollevamento all’inizio è stato un semplice sottoprodotto di una
riorganizzazione generale, cambiò poi forma diventando ancora più accentuato e ornandosi
con colori caratteristici, presumibilmente per attirare l’attenzione e favorire l’accoppiamento.

Possiamo quindi chiederci quale tipo di processo selettivo abbia portato allo sviluppo della
facoltà del linguaggio, ovvero come il linguaggio sia stato selezionato.

Prima possibilità:

Gli ingredienti fondamentali che compongono la facoltà del linguaggio sono presenti, anche se
in forma più rudimentale, nei sistemi di comunicazione degli animali non-umani. Questa
possibilità “aggirerebbe” il rompicapo: non ci sarebbe niente di particolarmente ‘speciale’ nella
facoltà del linguaggio, che sarebbe una semplice evoluzione di sistemi di comunicazione degli
animali non-umani, che quindi si sarebbero potuti evolvere in tempi molto lunghi (tesi
continuista). Questa ipotesi pone una differenza quantitativa, ma non qualitativa, tra il sistema
di comunicazione umano tramite linguaggio e altri sistemi di comunicazione animale.

-> linguaggio come risultato di una lenta evoluzione di qualcosa che è cominciato tanto
tempo fa.

Seconda possibilità:

Gli ingredienti fondamentali che compongono la facoltà del linguaggio sono il risultato di un
adattamento specifico per il linguaggio umano. Secondo questa ipotesi, anche se tratti simili a

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Martino Branca Matricola: 840783

quelli che si trovano nel linguaggio sono presenti in altre specie, hanno subito un processo di
adattamento così radicale, che sono da considerarsi tratti diversi nell’uomo e nelle altre specie.
Questa ipotesi postula un salto qualitativo tra linguaggio umano e comunicazione animale. E
rimane il rompicapo di spiegare come abbia potuto avvenire così velocemente una tale
evoluzione.

-> linguaggio nato da adattamento radicale.

Terza possibilità:

Seguendo un’intuizione che risale almeno a Aristotele, il linguaggio può essere visto come il
sistema che fa da ponte fra il sistema concettuale e il sistema di articolazione dei suoni. La
terza possibilità sull’evoluzione del linguaggio è quindi che le due interfacce fra cui il linguaggio
fa da ponte (sistema fono-articolatorio e sistema concettuale) siano presenti in qualche forma
nelle specie non-umane e che la vera unica novità umana sia “il ponte”, cioè il sistema che
permette di esprimere i contenuti concettuali in suoni (o in segni).

La terza possibilità sull’evoluzione del linguaggio aggirerebbe parzialmente il rompicapo: si


assumerebbe che le abilità cognitive connesse con la rappresentazione concettuale dei
pensieri da un lato, e le abilità motorie connesse con la produzione e comprensione dei suoni
(o dei segni) linguistici dall’altro lato, possano essere presenti anche in altri animali, con tempi
di evoluzione lunghi e graduali. Ciò che renderebbe speciale la comunicazione umana sarebbe
l’avere il linguaggio come ponte tra questi due sistemi.

La scelta fra queste tre ipotesi è un problema molto difficile, perché non ci sono fossili di
linguaggio che ci dicano qualcosa sull’evoluzione di questo organo. Dato che il meccanismo di
selezione naturale richiede tempi molto lunghi, è plausibile che alcuni ingredienti di base del
linguaggio fossero presenti prima di 200.000 anni fa, cioè prima che il linguaggio nella sua
forma evoluta emergesse. E’ anche possibile che alcuni tratti fossero presenti prima che il
cammino evolutivo dell’uomo si differenziasse da quello di altri specie animali. Quindi la ricerca
empirica si è concentrata sugli studi comparativi, cercando di indagare se gli ingredienti che
costituiscono il linguaggio umano siano oggi presenti anche in altre specie animali.

Ma qui sorgono subito due domande.

• In quali animali cercare i tratti costitutivi del linguaggio umano?


• E bisogna cercare solo nei sistemi di comunicazione animali?

Quali animali?

Certamente bisogna cercare nei primati superiori, in primo luogo bonobo e scimpanzé, che
sono gli animali che sono più simili all’uomo, perché si sono staccati più tardi dalla linea
evolutiva che ha portato a noi. Ma non solo questi animali sono importanti. Infatti, a differenza
di quanto divulgato dalla teoria darwiniana, i primati superiori non sono i progenitori dell’uomo.
Piuttosto l’uomo e gli altri primati discendono da un progenitore comune che è vissuto alcuni
milioni di anni fa. Fin dove si deve risalire per trovare un progenitore comune dipende dal tratto
di cui si vuole studiare l’origine. Non c’è un limite fisso. Inoltre è necessario introdurre una
distinzione fra tratti analoghi e tratti omologhi:

• Tratti analoghi: sono quelli che sono presenti in due specie senza che ci sia evidenza che
fossero presenti nel progenitore più vicino.

• Tratti omologhi: sono i tratti che sono riconducibili al comune progenitore.

Si potrebbe pensare che i tratti omologhi siano gli unici interessanti al fine dello studio
dell’evoluzione di un tratto. Ma non è così.

In alcuni casi i tratti analoghi si sono evoluti per ragioni completamente indipendenti nelle due
specie che li condividono. Questi sono i casi in cui il confronto fra le due specie non ci dice

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Martino Branca Matricola: 840783

molto sulla storia evolutiva di quel tratto (p.e.: forme delle ali negli uccelli o pipistrelli ->
evoluzioni indipendenti). Tuttavia, ci sono esempi di analogia in cui due tratti complessi si sono
evoluti indipendentemente in due specie distanti, ma in cui l’evoluzione è stata diretta dallo
stesso gene regolatore. Un gene regolatore è un gene che è necessario e sufficiente per
l’attivazione di altri geni che, lavorando in modo coordinato, portano allo sviluppo di un tratto
complesso (per esempio, un organo biologico). Il gene PAX6 è forse l’esempio più chiaro. Esso
ha portato all’evoluzione indipendente dell’occhio in specie così distanti come l’uomo, i
calamari e i moscerini.

Cercare solo nei sistemi di comunicazione animale?

I sistemi di comunicazione animali sono il posto più ovvio dove cercare i tratti che, magari in
forma più evoluta, costituiscono il linguaggio umano. Ma ci sono ragioni per indagare anche
altre ambiti del comportamento e della cognizione animali. Il linguaggio è un modo di dare
forma ai pensieri, almeno tanto quanto è un modo per comunicarli. Noi pensiamo in maniera
linguisticamente strutturata in molte circostanze in cui non comunichiamo con nessuno.
Quindi, analizzare la capacità di pensiero degli animali, indipendentemente dalla loro capacità
di trasmettere questi pensieri, è un modo per indagare una delle caratteristiche fondamentali
del linguaggio.

L’ipotesi di Hauser, Chomsky e Fitch


Un articolo di Hauser, Chomsky e Fitch a proposto una forte spinta a cercare anche fuori dai
sistemi di comunicazione animali.

Una prima osservazione, a prima vista molto anti-intuitiva è che la funzione primaria del
linguaggio potrebbe non essere quella di comunicare. Chomsky in particolare insiste molto sul
fatto che, anche se il linguaggio è certo usato per la comunicazione:

a. è usato ancora di più per organizzare pensieri, anche quando questi non devono essere
comunicati.

b. L’uso del linguaggio solipsistico, per formulare pensieri a noi stessi, è probabilmente più
frequente dell’uso comunicativo verso gli altri.

c. Il linguaggio sarebbe quindi un caso come quello delle ossa (di cui non sappiamo bene
se la funzione primaria è il sostegno del corpo o il permettere la circolazione
sanguigna). -> linguaggio organo per la comunicazione o per la strutturazione del
pensiero.

Riguardo all’ultimo punto, Chomsky fa presente che anche se il linguaggio è uno strumento
potente, è nondimeno molto imperfetto per la comunicazione, quindi la sua congettura è che il
linguaggio non si sia evoluto per facilitare la comunicazione, ma sia stato usato per fini
comunicativi solo dopo che si era sviluppato nei suoi tratti fondamentali. Quindi potrebbe
essere che usiamo il linguaggio per comunicare forzando alla comunicazione un sistema
disegnato ab origine per altre finalità. Più in specifico, Hauser Chomsky e Fitch hanno proposto
che la grammatica, in particolare la capacità combinatoria con le proprietà di gerarchia e di
ricorsione che abbiamo studiato nella prima parte del corso, potrebbe essersi inizialmente
evoluta per svolgere una funzione diversa da quella che svolge oggi (come è successo con le
ali). Secondo questi autori, la grammatica potrebbe essere stata “exattata”, o potrebbe essere
uno spandrel, perché il meccanismo ricorsivo potrebbe essersi evoluto inizialmente per funzioni
che non hanno a che fare con la comunicazione.

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Martino Branca Matricola: 840783

Quindi l’ipotesi di Hauser, Chomsky e Fitch è che molti degli ingredienti che fanno del
linguaggio quello che è oggi fossero presenti ben prima di 200.000 anni fa e che siano presenti
oggi in altre specie animali. Questo varrebbe in particolare per la capacità di formulare pensieri
e per la capacità di articolare suoni complessi. Quello che mancherebbe nei sistemi di
comunicazione animali sarebbe il collante fondamentale fra pensiero e articolazione, ovvero la
capacità combinatoria che va sotto il nome di grammatica.

LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE

Linguaggio e sistemi di comunicazione gestuali


Chomsky,per sostenere che il linguaggio non è una specializzazione di sistemi comunicativi
pre-esistenti cita uno studio di Laura Ann Petitto sul linguaggio dei segni che mostrerebbe
che il linguaggio co-esiste nell’uomo con i sistemi di comunicazione più primitivi che abbiamo
in comune con altre specie.

L’acquisizione dei pronomi e l’errore di inversione


I bambini normoudenti cominciano a usare i pronomi personali io e tu tra i 18 e i 22 mesi di età,
con un ordine preciso: prima il pronome me, poi tu, e infine quello di terza persona (lui/lei). Il
processo si conclude intorno ai 30 mesi. Prima di usare i pronomi, i bambini li sostituiscono
con nomi propri, dicendo ad esempio “Pia fa questo” al posto di “io faccio questo”. Il ricorso a
nomi propri invece che a pronomi continua anche nel periodo di acquisizione dei pronomi (tra i
20 e i 30 mesi).

Quando cominciano a usare i pronomi, alcuni bambini udenti commettono una serie di errori
sistematici, invertendo i pronomi. Tale fenomeno prende il nome di errore di inversione del
pronome e l’interpretazione che si può dare a tale errore è che i bambini scambino i pronomi
per i nomi propri di persona sentendo spesso il caregiver riferirsi a sé stesso con “io” e a loro
con “tu”. Questi errori avvengono tipicamente intorno ai 2 anni e in seguito (intorno ai 30 mesi) i
pronomi vengono usati correttamente.

Ora, è importante sottolineare che si tratti di un problema puramente linguistico: i bambini


invertono le etichette linguistiche. Quello che ci interessa qui, è che nei bambini udenti l’errore
avviene con le «parole»: i bambini invertono l’uso dei pronomi io/tu intesi come segni
linguistici, ma non invertono i gesti per riferirsi a sé stessi e all’interlocutore (ossia, non
indicano se stessi per significare “tu dormi”). Come detto precedentemente, quindi, una
possibile spiegazione all’errore di inversione del pronome è che quando inizia a usare il codice
linguistico, il bambino assuma che il pronome è una specie di nome proprio con un referente
fisso.

Nella lingua dei segni (nello studio di Petitto viene analizzata la American Sign Language -
ASL) i pronomi di prima e seconda persona coincidono con i gesti che i bambini piccoli (ma
anche gli adulti) usano per indicare sé stessi o la persona che si trovano davanti.

[N.B. con «segni» si intende le parole che fanno parte di una lingua vera e propria - la lingua dei segni; con
«gesti» si intendono i «movimenti della mano, del braccio, del capo che sottolineano uno stato d'animo,
un'intenzione o un proposito» – ma che non sono parte di un sistema linguistico vero e proprio].

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Si potrebbe quindi pensare che i pronomi della ASL emergano in maniera graduale dal sistema
gestuale, che a sua volta è parte integrante del sistema comunicativo pre-linguistico.
Ovviamente il sistema gestuale continua ad essere usato anche dopo che il linguaggio si è
pienamente sviluppato e si può pensare che sia un sistema comunicativo semplificato rispetto
al linguaggio che abbiamo in comune con le specie animali a noi più vicine, come i primati.

Petitto ha studiato la produzione spontanea di due bambini sordi figli di sordi che erano stati
esposti alla ASL fin dalla nascita. Questi bambini all’età di 10-12 mesi usavano gesti per
indicare persone, cose o posizioni, esattamente come fanno i bambini udenti della loro età. I
gesti usati erano quelli usati dai bambini udenti: si tratta di gesti comunicativi.

Dopo questo periodo i due bambini sordi hanno smesso del tutto di usare i gesti per riferirsi a
se stessi o a altre persone mentre continuavano a usarli per indicare oggetti (guarda grafico in
figura).

Sotto vengono riportate le fasi evolutive sull’utilizzo del comportamento di pointing:

• 10-12 mesi: indicano come i bambini udenti (gesti


referenziali comunicativi)

• 12/15-18/20 mesi: smettono di usare il pointing per


riferirsi a sé stesse o all’interlocutore ma solo per riferirsi
ad altri oggetti

• 22 mesi: utilizzano il gesto di nuovo facendo errori di


inversione come i bambini udenti con i pronomi. Infatti,
oltre ad aver filmato e trascritto la produzione spontanea
di frasi in ASL, da cui si poteva evincere dal contesto il
significato inteso per i pronomi, Petitto ha anche
eseguito una serie di compiti in cui il bambino doveva
comprendere l’utilizzo dei pronomi personali.

La morale che Petitto ha tratto da questo studio è che c’è una cesura (una sorta di spezzatura)
fra sistema comunicativo che include i gesti e il sistema linguistico vero e proprio. Ossia: in
un primo momento i bambini sordi (come gli udenti) usano il pointing (l’indicare) come gesto
comunicativo, correttamente. Quando però il pointing entra a far parte di un sistema linguistico
(diventa un segno, una parola), i bambini sordi compiono lo stesso tipo di errore che fanno i
bambini udenti con i pronomi io/tu. Intorno ai 20 mesi, quindi, indicare qualcuno è un segno
non un gesto: i gesti comunicativi infatti (come abbiamo visto durante il processo di
acquisizione di pronomi in bambini normoudenti) non possono essere sbagliati. Sebbene i
segni per i pronomi in ASL siano fisicamente molto simili ai gesti di indicamento, di fatto sono
parte del sistema linguistico e quindi sono soggetti a errori di inversione.

Lo studio di Petitto sembra indicare che NON c’è una forte continuità fra sistema comunicativo
gestuale pre-linguistico e sistema linguistico (e quindi l’ultimo non è una specializzazione del
primo). Chomsky conclude che i due sistemi stanno fianco a fianco senza che uno sia a livello
ontogenetico o filogenetico la base dell’altro. Questa è l’evidenza che andrebbe contro la
congettura di Corballis secondo cui il linguaggio orale è una «semplice» evoluzione del sistema
comunicativo gestuale.

Linguaggio e comunicazione
Come accennato, secondo Chomsky la funzione principale del linguaggio (inteso come
“sintassi”, ossia come organizzazione degli elementi linguistici in una struttura gerarchica e
ricorsiva) non sarebbe primariamente quella di comunicare. Questa tesi va contro la
concezione comune per cui il linguaggio serve per comunicare e contro le teorie che vedono le

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lingue come una creazione delle società di individui che le parlano che quindi “forgiano" la
lingua per assolvere a fini comunicativi. Ma, assumendo la prospettiva che vede la
comunicazione come la funzione primaria del linguaggio, ci si aspetta che le varie lingue di
fatto riescano ad assolvere efficacemente a questa funzione. Ossia, che le lingue siano ben
progettate per la comunicazione. Ma cos’è la comunicazione?

Si può dire che la comunicazione è la trasmissione di un pensiero da una persona (il “mittente”)
a un’altra persona (o altre persone – il “ricevente”). E, ovviamente, la comunicazione risulterà
tanto più efficace quanto il pensiero che si vuole trasmettere riesca a giungere al ricevente per
come lo intendeva trasmettere il mittente. Ossia, affinché una comunicazione sia efficace,
bisogna, tra le altre cose, evitare le AMBIGUITÀ le quali non permettono di risalire
precisamente al messaggio da comunicare.

Perché le lingue sono ambigue? Perché nell’evoluzione delle lingue, le ambiguità non
scompaiono?
Bisogna distinguere fra diversi tipi di ambiguità.

Ambiguità LESSICALE (o polisemia)

Contraddistingue le parole che sono più di un significato indipendente (es. arco, riso, lira,
stagno, collo, relazione, acuto, credenza). Potrebbe sembrare che l’ambiguità lessicale faccia
solo danni, ma non è così.

IL FENOMENO DEL MONDO PICCOLO


In un famoso articolo del 1969 due sociologi (Travers & Milgram, 1969) hanno individuato il
numero di intermediari che in media collegano due persone qualsiasi che vivevano negli Stati
Uniti. Mediante appropriati calcoli, i due studiosi individuano sei gradi di separazione (teoria
dei sei gradi di separazione).

La teoria dei sei gradi di separazione è un'ipotesi secondo cui qualunque persona può essere
collegata a qualunque altra persona attraverso una catena di conoscenze con non più di 5
intermediari. Questo viene chiamato «fenomeno del mondo piccolo», in quanto gli individui
che di fatto appartengono a una rete molto grande (una nazione nello studio di Travers &
Milgram, gli utenti di Facebook nel mondo) di fatto sono inter-connessi tra di loro per mezzo di
legami di «conoscenze». Tale fenomeno è garantito dai superconnettori, nodi (persone) con un
enorme numero di connessioni.

GRADI DI SEPARAZIONE NEL LESSICO


Adesso concentriamoci sulle relazioni tra le parole del lessico. Consideriamo cioè la rete di
parole di una lingua, e cerchiamo di capire come sono connesse tra di loro queste parole. In
uno studio del 2002, Sigman e Cecchi hanno preso in considerazione un vocabolario di 66.000
parole, e hanno considerato le connessioni semantiche tra le parole, per vedere qual era il
grado di separazione tra le parole del lessico.

I legami, le connessioni semantiche, tra le parole considerate da Sigman e Cecchi sono quelli
di:

• antinomia: rapporto di contraddizione, reale o apparente (bello/brutto);

• iperonimia-iponimia: entrambi i concetti indicano una specifica relazione semantica tra due
termini, uno dei quali (detto iperonimo) ha un campo semantico più esteso dell’altro
(iponimo) (albero<->quercia);

• meronimia: fenomeno lessicale per il quale una parola designa una parte di tutto, indicato da
un’altra parola (pagina/libro).

Ad es. le parole leone e strisce hanno 3 gradi di separazione

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Sigman & Cecchi hanno visto che quando si aggiunge la polisemia (ambiguità lessicale) come
connessione semantica tra le parole, la connettività tra le parole aumenta, e si verifica anche
per il lessico il fenomeno del «mondo piccolo», portando a 7 gradi di separazione tra parole di
un network.

La polisemia, quindi, pur essendo d’ostacolo a una comunicazione davvero efficiente


(introduendo un’ambiguità lessicale), rende il lessico organizzato in una rappresentazione
compatta. Le parole polisemiche assolvono così il ruolo di super-conduttori per le reti
semantiche, portando a un vantaggio. -> le ambiguità lessicali non sono solo uno svantaggio.

È comunque opportuno ricordare che il vantaggio delle ambiguità si riscontra solo per quelle
lessicali, mentre lo stesso discorso non vale per altre tipologie.

Proprietà di spostamento

Una caratteristica che distingue le lingue naturali dai sistemi linguistici artificiali che un
ingegnere disegnerebbe a tavolino è la proprietà di spostamento. Un esempio di
spostamento e nella seguente frase interrogativa:

Es.1: “Quali ladri hanno arrestato t?”

In questa frase il sintagma interrogativo “quali ladri” è collegato a due posizioni diverse. Da una
parte è pronunciato in una posizione nella periferia sinistra della frase, dall’altra svolge la
funzione di complemento del verbo. La posizione canonica del complemento è quella che
segue il verbo, come si vede nel secondo esempio:

Es.2: “Hanno arrestato i ladri”

In un certo senso, in (1), il sintagma interrogativo “quali ladri” si è spostato dalla sua pozione
canonica alla posizione a inizio frase. Per indicare la posizione di partenza, spesso si usa una t
(che sta per “traccia” della posizione che precede lo spostamento).

Un altro caso di spostamento è quello dei pronomi che sono detti clitici. Un esempio è il
pronome “ne” che nella frase (4) sostituisce il nome “studenti”. Tuttavia, il pronome non
compare nella posizione in cui compare il nome che sostituisce, ma si sposta nella posizione in
cui vanno tutti i pronomi clitici. Indico la posizione di partenza con una traccia.

Es.3: “Ogni giorno incontro molti studenti”

Es.4: “Ogni giorno ne incontro molti t”

Le tracce non sono dei meri simboli formali. Invece hanno una realtà psicologica. Ovvero,
anche se non si pronunciano, incidono sul modo in cui processiamo una frase. Facciamo un
esempio. Posso sostituire il nome “americana” in (5) con il clitico “ne” e ottengo (6). Come
sempre indico la posizione di partenza con la traccia.

Es.5: “Ho visto una ragazza americana”

Es.6: “Ne ho vista una t americana”

In italiano c’è un processo di elisione, che permette di non pronunciare una vocale in certi
contesti fonologici. Un esempio è (7), in cui la “a” si pronuncia una volta sola (cioè di solito non
si pronuncia “Ho visto una americana”)

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Es.7: “Ho visto un’americana”

Però l’elisione in (8) è inaccettabile.

Es.8: “*Ne ho vista un’americana”

Perché?
C’è una risposta naturale, se consideriamo le tracce. Le due “a” in (9) non sono davvero
adiacenti, perché fra di loro interviene la traccia del nome “ragazza”.

Es.8: “*Ne ho vista un’americana"

Es.9: “Ne ho vista una t americana”

Es.10: “Ho visto una ragazza americana”

Quindi anche se la traccia non si pronuncia, essa incide su un processo fonologico bloccando
l’elisione. Possiamo concludere che le tracce esistono nel sistema linguistico del parlante e
non sono una mera notazione ad uso dei linguisti.

La proprietà di spostamento e la conseguente esistenza della tracce non aiuta la


comunicazione. Al contrario la rende difficoltosa. La ragione è semplice. Per capirlo basta
assumere l’ottica di chi ascolta una frase (o di chi la legge). Le tracce contano, sono importanti,
come abbiamo appena visto, però non hanno contenuto fonologico, quindi è difficile
identificarle e questo spesso crea dei problemi.

Vediamo un ulteriore esempio dell’importanza delle tracce con la seguente struttura:

Es.11: “Il coniglio che ha mangiato…”

l’interpretazione finale che la struttura in (11) riceve dipende dalla posizione in cui si trova la
traccia.

Es.12: “Il coniglio che t ha mangiato è più grasso di quello che ha digiunato” (Traccia nella
posizione di soggetto del verbo “mangiare”, cioè il coniglio ha mangiato)

Es.13: “Il coniglio che ha mangiato t era stato cucinato da un bravo cuoco” (Traccia nella
posizione di oggetto del verbo “mangiare”, cioè il coniglio è stato mangiato)

Quindi mettere la traccia nel posto giusto è fondamentale per capire il significato di una frase
che stiamo leggendo o ascoltando. Però a volte mettere la traccia nel posto giusto è molto
complicato.

L’esistenza delle tracce crea delle ambiguità temporanee. Siccome noi non aspettiamo a
interpretare la frase che essa sia finita, ma la elaboriamo mentre la sentiamo, a un certo punto
dobbiamo “indovinare” dove mettere la traccia. A volte la mettiamo in una posizione
incompatibile con la prosecuzione della frase e in questi casi, dobbiamo tornare indietro e
rivedere la scelta che abbiamo fatto.

Nell’esempio riportato sotto immaginiamo di leggere prima il primo blocco della frase e solo
dopo aggiungere i blocchi successivi:

“Mentre Leo mangiava la minestra / bolliva sul fuoco / la carne”

Prima si parte dall’ipotesi che Leo mangi la minestra; aggiungendo il secondo blocco la rivedo
perché inadeguata; con l’ultimo blocco (a fine frase) torno all’ipotesi iniziale.

In inglese le ambiguità temporanee sono più numerose che in italiano.

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Il linguaggio, però, è anche ricco di ambiguità non-temporanee, cioè di ambiguità che


restano tali anche quando si ha finito di ascoltare o leggere la frase. Un esempio è la frase
riportata sotto:

“Luca ha salutato la cugina di Antonio con il cappello”

Nell’esempio riportato non si riesce a capire se si è usato il cappello per salutare la cugina di
Antonio o se l’ultima indossasse un cappello.

La proprietà di spostamento è una caratteristica fondamentale in ogni lingua naturale nota


eppure è fonte potenziale di ambiguità. Inoltre, si potrebbero facilmente immaginare lingue che
sono espressive come le lingue esistenti ma che non hanno la proprietà di spostamento (lingue
artificiali). La domanda, che da qualche sostegno alla controversa ipotesi di Chomsky, persiste:
se il linguaggio è stato sviluppato per un’esigenza comunicativa, perché esistono tali
ambiguità?

[Guarda esercizi alberi su slide lezione 11]

PRODUZIONE E PERCEZIONE DEI SUONI E


TEORIA DELLA MENTE

Riprendendo quanto abbiamo affrontato nell’argomento precedente, sembrerebbe che il


linguaggio non sia «progettato per la comunicazione». L’idea quindi sarebbe che l’usare il
linguaggio per comunicare sia frutto di un exattamento o spandrel: la facoltà del linguaggio
(Grammatica Universale/Lingua-I) si sarebbe evoluta per altre ragioni (come organizzare i
concetti per formulare pensieri astratti) e solo poi, avendo l’homo sapiens un sistema
concettuale sviluppato, e un sistema fonoarticolatorio che gli permetteva di produrre suoni
altamente differenziati, nell’uomo sarebbe stato exattato con la funzione di comunicare.

Linguaggio come unicum: percezione e produzione


Ora, se si considera il linguaggio umano come un unicum per l’uomo in quanto è l’unico ad
averlo usato come ponte tra abilità concettuali (formulare pensieri astratti) e abilità motorie
(produrre pensieri sotto forma di suoni), bisogna verificare se i tratti costitutivi del linguaggio
umano siano (separatamente) presenti in altre specie animali. Sorgono quindi due domande: il
sistema senso-motorio per la produzione e la percezione di suoni è un unicum umano?
Ossia, la capacità di produrre suoni (linguistici), e di percepirli, è posseduta solo
dall’uomo? Analizziamo queste due capacità separatamente:

• La produzione di suoni;

• La percezione di suoni.

La PRODUZIONE di suoni
Un'analogia rilevante con il linguaggio umano sono i canti negli uccelli (ricordiamoci la
questione di dove – ossia in quali specie animali – andare a cercare tratti distintivi del

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linguaggio, e in particolare del fatto che non possiamo restringere la ricerca solo e unicamente
alle specie più “vicine” a noi nel cammino evolutivo).

I canti degli uccelli possono essere estremamente complessi e avere una struttura interna
molto articolata (ma non di tipo gerarchico). Inoltre molti uccelli, anche se non tutti,
sviluppano l’abilità di cantare solo se possono ascoltare i loro conspecifici in un periodo
critico nello sviluppo: se non sono esposti al canto dei conspecifici durante il periodo critico,
gli uccelli produrranno poi canti difettosi e semplificati. Ancora, in analogia con la fase della
lallazione nei bambini, i giovani uccelli passano attraversano una fase di sviluppo in cui
producono versioni semplificate che sono il primo passo della produzione del canto.

Si viene a rintracciare un’ulteriore e sorprendente analogia fra il linguaggio umano e canto degli
uccelli: gruppi di uccelli appartenenti alla stessa specie hanno dialetti diversi, a seconda del
luogo dove vivono. Addirittura, siccome ci sono uccelli che hanno vissuto in comunità diverse,
esistono anche uccelli cosiddetti “bilingui” (L.Baptista).

- Estremamente complesso, struttura interna molto articolata

- Periodo critico nello sviluppo

- Esistenza di un periodo di lallazione, come per gli uomini

- Esistenza dei dialetti intraspecie

È chiaro che i meccanismi alla base della acquisizione del canto degli uccelli e il linguaggio
umano sono un esempio di analogia e non di omologia (per esempio, questa elaborata
capacità di canto non è presente nei primati non umani, che sono specie molto più vicine a noi
degli uccelli). Però, dato che molti aspetti della neurofisiologia sono condivisi tra tutti i
vertebrati, i parallelismi fra acquisizione del linguaggio umano e del canto negli uccelli
suggeriscono che potrebbero esserci vincoli sul modo in cui il cervello dei vertebrati può
acquisire modelli complessi di suono.

La PERCEZIONE di suoni
Analizziamo i foni [b] e [p]: hanno lo stesso luogo di articolazione (bilabiale), e modo di
articolazione (occlusivo); differiscono solo per la sonorità: [b] è un suono sonoro; [p] è un suono
sordo. Ossia, per pronunciare la [b] le corde vocali vibrano mentre passa l’aria; mentre per
pronunciare la [p] l’aria passa senza far vibrare le corde vocali. In entrambe le consonanti il
flusso d’aria viene bloccato mediante una breve occlusione, cui segue un rapido rilascio, ma
differiscono per il tempo di attacco della sonorità (VOT, Voice Onset Time), ossia l’intervallo tra
l’occlusione e il rilascio dell’aria: nella [b], consonante sonora, l’aria viene rilasciata subito, tra
gli 0 e 20 ms (millisecondi) dall’occlusione; nella [p], invece, l’intervallo è più lungo: il VOT
avviene dopo i 60 ms. Effettivamente è possibile manipolare il VOT e posizionarlo a 30, 40, 50
ms. Che cosa succede se si manipola il VOT, posizionandolo in intervalli compresi tra i 20
e i 60 ms? Gli individui percepiscono il suono in maniera continua (così come di fatto è
prodotto) o categoriale (ossia o come una [b] o come una [p], come sarebbe richiesto
dalla percezione di suoni linguistici – ossia fonemi)?

Se le persone percepiscono il suono in maniera continua


(come è da un punto di vista acustico), allora ci
aspetteremmo che, facendo ascoltare le sillabe [ba] e [pa]
manipolando il loro VOT ad intervalli compresi tra 20 e 60, i
giudizi delle persone alla domanda «che suono hai sentito» si
dovrebbero posizionare su un continuum (come riportato nella
prima figura), ma in realtà NON è così. quando si chiede a
una persona di riconoscere il suono che hanno sentito, gli

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Martino Branca Matricola: 840783

individui lo categorizzano o come [p], o come [b], e


concordano su questo. Un VOT di 20 ms costituisce la soglia:
sotto questa soglia, il suono è per tutti [b], sopra questa
soglia, il suono è per tutti [p] (guarda seconda immagine). Il
segnale fisico è continuo, mentre la sua suddivisione in
categorie discrete è opera del nostro sistema percettivo.
Questo fenomeno di discretizzazione del continuo è chiamato
percezione categoriale. Il fenomeno della percezione
categoriale è importante perché senza di esso il linguaggio
non potrebbe avere un insieme finito di fonemi che formano l’inventario da cui ogni lingua
attinge per costruire il suo vocabolario.

Il fenomeno della percezione categoriale non è un unicum legato al suono, bensì è


caratteristico anche della visione (p.e. arcobaleno -> la lunghezza d’onda varia in maniera
continua, ma noi mettiamo insieme lunghezze d’onda simili avendo la percezione di un unico
colore).

Siamo gli unici a percepire in maniera discreta questo continuum?


A lungo si è considerata la percezione categoriale come una caratteristica unicamente
umana. Come già accennato, i fonemi sono rappresentazioni astratte dei foni (suoni linguistici):
sebbene i foni possano differire lungo una linea continua, la lingua si basa su fonemi (categorie
distinte e identificabili) che compongono i morfemi (e le parole). Si pensava quindi che il fatto di
percepire variazioni continue di suoni in maniera categoriale fosse «imposto» dalla necessità di
percepire fonemi (entità linguistiche) e che quindi fosse imprescindibilmente legato al fatto di
possedere una lingua -> la percezione categoriale dei suoni è connessa al sistema
linguistico?.

Per verificare che questa fosse un’ipotesi plausibile, vengono testati neonati di 1-4 mesi (che
non sono in grado di produrre suoni come [ba] e [pa]) con cincillà e grilli, i quali non hanno
accesso al sistema linguistico. Ai neonati veniva dato un ciuccio e si monitorava il ritmo di
suzione. Mediante tale monitoraggio era possibile riscontrare che alla presentazione di stimoli
nuovi aumentava il ritmo: ai bambini veniva fatto ascoltare il suono [ba] e solo dopo il periodo
di abitazione si aumentava il VOT. Quando si rimaneva entro il limite categoriale del suono [b] il
ritmo di suzione non aumentava, ma quando il suono cambiava in [p] sì, a conferma del fatto
che i neonati fossero capaci di discriminare suoni linguistici in maniera categoriale. Gli stessi
risultati vennero ottenuti anche con la sperimentazione animale: nel caso dei cincillà, gli animali
dovevano succhiare da uno strumento acqua e con i suoni [pa] ricevevano una leggera scossa.
Questi mostravano una risposta condizionata aversiva quando il VOT aumentava e
raggiungeva la soglia della consonante [p] il quale dimostrava che la percezione categoriale
non fosse unicamente legata al sistema linguistico.

Possiamo concludere che diversi aspetti importanti del sistema fono-articolatorio che è al
servizio del linguaggio umano, sono presenti anche in altre specie.

Rimane comunque una differenza importante: un tratto collegato ma non coincidente con la
capacità di produrre suoni complessi è la capacità di imitazione. C’è un aspetto
dell’acquisizione del linguaggio in cui l’imitazione gioca un ruolo più importante. Si tratta dello
sviluppo del lessico. Dato il carattere di arbitrarietà delle parole, esse devono essere apprese
attraverso l’imitazione del comportamento dei conspecifici. La straordinaria capacità umana di
apprendere nuove parole non è presente tra i primati superiori più vicini: gli sforzi per insegnare
un lessico a gorilla, scimpanzé e bonobo hanno condotto (nella più ottimistica delle valutazioni)
a insegnare loro poche centinaia di parole (in forme di segni) dopo molti anni di insegnamento
intensivo ed esplicito. Quindi la capacità di imitare decine di migliaia di suoni dalla forma
convenzionalizzata potrebbe essere un fattore di differenziazione, e lo è sicuramente rispetto ai
primati superiori diversi dall’uomo.

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Teoria della mente e linguaggio


Come abbiamo già visto nei capitoli precedenti, l’ipotesi di Chomsky Hauser & Fitch sulla
comparsa ed evoluzione del linguaggio negli uomini assume che gli ingredienti fondamentali
che compongono il linguaggio umano potrebbero essere presenti in altre specie animali e che
però nell’Homo Sapiens abbiano trovato la combinazione “giusta” per sviluppare il linguaggio
come abilità estremamente complessa. Abbiamo visto come il sistema motorio preposto
all’articolazione di suoni (produzione) sia presente negli uccelli; e che la percezione dei suoni di
tipo categoriale sia presente non solo negli uomini ma anche in altre specie animali (cincillà,
macachi, rane e (certi) uccelli). Introduciamo così una abilità cognitiva che secondo alcuni
autori è connessa con l’uso e la interpretazione del linguaggio: la Teoria della mente (ToM,
Theory of Mind).

Teoria della mente


Con teoria della mente ci si riferisce alla capacità di attribuire stati mentali ad altri e di
prevedere e spiegare il comportamento altrui sulla base di questi stati. Tale abilità si traduce
nella nostra capacità di capire che l’altro individuo può pensare, credere, desiderare cose
diverse dalle mie, attribuire agli altri pensieri per riuscirne (appunto) a prevedere i
comportamenti. In parole povere, la teoria delle mente è la consapevolezza della
consapevolezza altrui.

Diversi studi su bambini a sviluppo tipico hanno mostrato che c’è una forte relazione tra
sviluppo delle competenze linguistiche e abilità di Teoria della mente.

Es.: Test di Sally-Anne: si tratta di un test della credenza di 1° ordine che verifica se i bambini
hanno sviluppato la padronanza di un adeguato lessico psicologico. Una volta presentato il
contesto con le bambole (guardare slide per chiarimenti) viene chiesto al bambino ‘Dove
cercherà la sua biglia Sally?’. Per rispondere correttamente (nel cesto), il bambino – che sa che
la biglia adesso è nella scatola – deve attribuire a Sally una credenza falsa, visto che Sally non
ha visto che la biglia veniva spostata.

Come già accennato, si sa che l’acquisizione della consapevolezza che altri individui possano
avere intenzioni, desideri, credenze diverse dalla propria è una abilità che emerge lentamente
nei bambini (inizialmente la loro prospettiva è egocentrica). Sono stati individuate le seguenti
fasi:

• Capire che altri possono avere desideri diversi dai propri;

• Capire che altri possono avere credenze diverse dalla propria;

• Capire che la conoscenza si acquisisce tramite la percezione (capire che una persona
può non sapere cosa succede in una stanza se si trovava in un altro posto nel momento
dell’accaduto);

• Capire che altri possono avere false credenze (come verificato nel test di Sally-Anne) (4
anni circa);

• Capire che altri possono avere false credenze riguardo a ciò che qualcun altro ancora crede
(6 anni circa)

Esiste un collegamento con il linguaggio: i bambini arrivano a sviluppare una teoria della mente
di primo ordine quando hanno un lessico abbastanza ampio, e una teoria della mente di
secondo ordine quando hanno anche sviluppato la subordinazione.

Ora, analogamente al discorso sul sistema senso-motorio per la produzione e la percezione di


suoni, è giusto chiedersi se la teoria della mente sia posseduta solo dall’uomo, ovvero: la
teoria della mente è un unicuum umano perché abbiamo solo noi il linguaggio?

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Gli studi sulla ToM sugli scimpanzé

Premack & Woodruff (1978)

Questo è il primo studio che si pone direttamente la questione se gli scimpanzé abbiano o
meno una teoria della mente – intesa come la capacità di riconoscere le intenzioni di un altro
individuo, e prevederne il comportamento in base alle sue credenze. P&W mostrano a una
scimpanzé dei video in cui un uomo ha dei problemi nel compiere un’azione (ad es., non riesce
a far funzionare uno stereo, con la spina non attaccata), e poi due foto una delle quali
rappresenta la soluzione al problema (la spina attaccata). P&W notano come la scimpanzé sia
in grado di scegliere l’alternativa che rappresenta la soluzione al problema in un alto numero di
casi. In altre parole, secondo P&W, gli scimpanzé sono in grado di attribuire a un altro individuo
desideri e scopi. Non si avrebbero però ancora evidenze del fatto che gli scimpanzé siano in
grado di attribuire conoscenze ad altri individui.

Lo studio di P&W ha subito molte critiche metodologiche, ma questa ricerca ha comunque


dato l’avvio a numerosi altri studi che hanno cercato di indagare la questione se gli scimpanzé
avessero o meno una ToM.

Povinelli ed Eddy (1996)

I due studiosi riportano 15 studi volti a indagare se gli scimpanzé comprendono che la
percezione visiva offre una visione soggettiva sul mondo. La domanda sperimentale è: gli
scimpanzé capiscono che l’atto del vedere può avere conseguenze sullo stato mentale
interno di una persona, che si riverberano su ciò che una persona sa?
Nello studio vengono allenati scimpanzé a intendere le persone come “possibili procacciatori di
cibo” e a chiedere a quest’ultime cibo. Uno dei due “procacciatori” poteva vedere lo
scimpanzé che chiedeva il cibo e l’altro no, a causa della posizione del corpo oppure perché
era bendato oppure perché aveva un secchio sulla testa o a causa di qualche altro
marchingegno che alterava la prospettiva visiva. Lo scimpanzé chiedeva il cibo in egual misura
a tutti e due gli sperimentatori e non imparò mai a chiedere il cibo selettivamente solo allo
sperimentatore che poteva vederlo. Povinelli & Eddy conclusero che gli scimpanzé non si
basavano su quello che gli altri vedevano per dedurre ciò che sapevano.

Hare, Call e Tomasello (2001)

Una delle critiche mosse contro lo studio di Povinelli ed Eddy è che gli scimpanzé dovevano
interagire con una specie diversa dalla loro. Nello studio di Hare, Call e Tomasello si prende
quindi in considerazione la relazione tra scimpanzé, oltre che la struttura della gerarchia sociale
degli animali: nelle comunità di scimpanzé ci sono dominanti e subordinati. In generale, se gli
scimpanzé competono per lo stesso pezzo di cibo, il dominante ha la precedenza sul
subordinato. Tuttavia, se dominante e subordinato non competono per lo stesso pezzo di cibo,
una volta che il subordinato si è impossessato di un pezzo di cibo, il dominante glielo lascia.

SETTING SPERIMENTALE

ad ogni esperimento partecipava una coppia di scimpanzé: un


dominante e un subordinato. L’esperimento aveva luogo in una fila
di tre gabbie adiacenti con il cibo (mele o banane) piazzato nella
gabbia centrale e gli scimpanzé nelle gabbie laterali. La gabbia
centrale aveva una porta a ghigliottina che si apriva sulla gabbia
dello scimpanzé dominante e una porta a ghigliottina sul lato
opposto che si apriva sulla gabbia dello scimpanzé subordinato.

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Martino Branca Matricola: 840783

Quando queste porte erano aperte, anche parzialmente, ogni scimpanzé poteva vedere quel
che vedeva l’altro. La gabbia centrale conteneva due barriere che ostruivano la vista del cibo
allo scimpanzé dominante, ma non al subordinato.

CONDIZIONI SPERIMENTALI
Il comportamento di ciascuna coppia dominantesubordinato è stato osservato in quattro casi.

1. UNIFORMED: La porta del subordinato rimaneva aperta parzialmente (in modo che
potesse vedere, ma non entrare) e la porta del dominante rimaneva chiusa, mentre un
pezzo di cibo veniva piazzato dietro una delle barriere. In questa condizione, il
dominante non sa dove si trovi il cibo (è «uninformed», non informato)

2. INFORMED (controllo): La porta del subordinato e la porta del dominante rimanevano


aperte parzialmente (in modo che potessero vedere, ma non entrare), mentre un pezzo
di cibo veniva piazzato dietro una delle barriere. Questa è una condizione di controllo
della condizione 1: il setting è simile, ma qui il dominante sa dove si trova il cibo.

3. MISINFORMED: La porta del subordinato e la porta del dominante rimanevano aperte


parzialmente (in modo che potessero vedere, ma non entrare), mentre un pezzo di cibo
veniva piazzato dietro una delle barriere. Poi la porta del dominante veniva chiusa per
10-15 secondi, durante i quali il cibo veniva spostato dietro all’altra barriera (condizione
con il dominante disinformato). In questa condizione, il dominante ha una falsa
credenza rispetto a dove si trovi realmente il cibo (è «misinformed», disinformato).

4. INFORMED (controllo): La porta del subordinato e la porta del dominante rimanevano


aperte parzialmente (in modo che potessero vedere, ma non entrare), mentre un pezzo
di cibo veniva piazzato dietro una delle barriere. Dopo 10-15 secondi, a porte aperte, il
cibo veniva spostato dietro all’altra barriera. Questa è una condizione di controllo della
condizione 3: il setting è simile, ma qui il dominante sa dove si trova il cibo.

Nelle condizioni 1 e 3, lo scimpanzé subordinato poteva notare che lo scimpanzé dominante


non sapeva dove si trovava il cibo, o perché non aveva visto (condizione 1 – «uninformed»), o
perché aveva visto che veniva messo in un posto, da cui però – a sua insaputa – era stato poi
spostato (condizione 3). Nelle condizioni di controllo 2 e 4, lo scimpanzé subordinato e quello
dominante avevano accesso alle medesime informazioni sulla posizione del cibo.

L’ipotesi era che, se gli scimpanzé subordinati avessero capito la differenza tra ciò che gli altri
sanno e non sanno, avrebbero cercato di ottenere il cibo più spesso nei casi in cui lo
scimpanzé dominante non "sapeva" dove si trovava il cibo (condizioni 1 e 3) che nelle
condizioni di controllo 2 e 4. Si noti che lo scimpanzé dominante non era in grado di vedere il
cibo una volta che era stato piazzato dietro la barriera. Dunque, lo scimpanzé subordinato,
quando decideva se impossessarsi del cibo o meno, non poteva basarsi su quello che lo
scimpanzé dominante stava vedendo in quel momento. Poteva solo basare la propria scelta su
quello che lo scimpanzé dominante aveva visto in precedenza (cioè, su quello che lo
scimpanzé dominante “sapeva").

RISULTATI

Inizialmente viene calcolata la percentuale media di pezzi di


cibo ottenuti dai subordinati nelle quattro condizioni.

I subordinati recuperano più cibo quando il dominante o non sa


dove sia il cibo (Condizione 1, uninformed) o pensa che sia nel
posto sbagliato (Condizione 3, misinformed) rispetto alle
condizioni di controllo. Questo suggerisce che i subordinati
sanno che i dominanti non sono informati sulla posizione del
cibo e che mettano a frutto questa informazione.

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Martino Branca Matricola: 840783

Poi viene calcolato il numero di volte in cui il subordinato non


ha cercato di avvicinarsi.

I subordinati NON si avvicinano al cibo quando il dominante sa


dove si trova il cibo (le condizioni 2 e 4 di controllo) rispetto a
quando il dominante o non sa dove sia il cibo (Condizione 1,
uninformed) o pensa che sia nel posto sbagliato (Condizione 3,
misinformed).

L’esperimento che abbiamo descritto, insieme ad altri


esperimenti di controllo fatti da Hare, Call e Tomasello,
sembrano indicare che gli scimpanzé, in condizioni opportune,
sono in grado di sapere quello che gli altri membri del loro
gruppo ‘sanno’ oppure ‘non sanno’ e possono usare questa
conoscenza per scegliere come comportarsi.

I ricercatori però dubitano che gli scimpanzé riescano a rappresentarsi la falsa credenza.
Nell’esperimento di Hare, Call & Tomasello (2001), nella condizione 1 (uninformed) il dominante
non sapeva dove si trovava il cibo; mentre nella condizione 3 (misinformed) il dominante aveva
di fatto una falsa credenza su dove fosse il cibo (non aveva assistito al suo spostamento). In
linea teorica, lo scimpanzé avrebbe dovuto «approfittare» maggiormente della situazione in cui
il dominante era misinformed rispetto a quella uninformed: nel primo caso infatti il dominante
pensava che il cibo fosse nel luogo sbagliato, quindi il subordinato aveva ancora più chance di
ottenerlo. Si può però notare come i subordinati (riprendendo i risultati riportati nella prima
immagine) non ottengano più cibo nella condizione 3 (misinformed) rispetto alla condizione 1
(uninformed). Sembra quindi che gli scimpanzé non distinguano tra ignoranza e falsa credenza.

Riassumendo, gli studi sembrano mostrare che i primati abbiano una qualche
rappresentazione delle intenzioni, desideri e credenze (anche se non necessariamente false
credenze) degli altri. Questo, ovviamente, non vuol dire che gli scimpanzé condividano ogni
aspetto della teoria della mente con gli esseri umani. Gli esperimenti indicano semplicemente
che alcuni dei meccanismi di base presenti nella teoria della mente degli esseri umani sono
probabilmente condivisi anche dagli scimpanzé.

LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE NEI PRIMATI

L’esperimento di Hare, Call e Tomasello indica che alcuni dei meccanismi di base presenti nella
teoria della mente degli esseri umani sono probabilmente condivisi anche dagli scimpanzé.
Questi studi suggeriscono che gli scimpanzé, molto vicini a noi uomini nella storia evolutiva,
abbiano una teoria della mente. Potrebbe quindi essere che i primati possano «comunicare» in
maniera simile a noi uomini.

L’ipotesi che noi esseri umani siamo molto vicini agli scimpanzé, e quello che ci divide da loro
sono da un lato la configurazione anatomica del tratto orale (abbassamento della laringe) e
dall’altro lato l’aver sviluppato una cultura molto avanzata, è esplicitamente sostenuta da Sue
Savage-Rumbaugh. La sua ipotesi quindi è che le differenze tra sistema comunicativo animale
e linguaggio umano siano di tipo quantitativo, non qualitativo, e che il secondo (il nostro
linguaggio) sia una evoluzione del primo. Si tratta di una posizione continuista

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Martino Branca Matricola: 840783

Forme di comunicazione delle grandi scimmie


Analizziamo le forme di comunicazioni degli animali a noi più vicini dal punto di vista evolutivo,
le grandi scimmie antropomorfe (apes), cercando di verificare se possiedono una forma di
comunicazione che sia qualitativamente simile al nostro linguaggio.

Nella nostra analisi discuteremo prima delle forme di comunicazione di queste scimmie «in
libertà», e poi passeremo in rassegna i tentativi di insegnare loro il linguaggio umano.

Segnali vocali delle scimmie


Il cercopiteco verde usa tre distinte vocalizzazioni (alarm calls, segnali di allarme) per
segnalare al gruppo la presenza di un leopardo (latrato rumoroso), di un’aquila (breve colpo di
tosse bisillabico) o di un serpente (una sorta di sbuffo). E il gruppo reagisce in modo conforme
(sentendo il verso per il leopardo, sale sull’albero; per l’aquila guarda in alto; per il serpente si
tira su e guarda in basso). Tuttavia non è chiaro se le espressioni vocali di queste scimmie
abbiano davvero un significato referenziale: il fatto che il gruppo reagisce coerentemente ai vari
segnali (ad es, salendo sull’albero quando sente il richiamo per «leopardo») non implica
necessariamente che si rappresenti mentalmente il referente «leopardo». La risposta
appropriata potrebbe essere semplicemente una risposta emotiva (Sali sull’albero!) senza
meccanismi cognitivi sottostanti. Inoltre, è stato dimostrato che le vocalizzazioni delle scimmie
sono determinate geneticamente (fissate dalla nascita e non acquisite) e soprattutto sono
vincolate: in presenza dello stimolo adeguato, le scimmie non riescono a sopprimere la
produzione della vocalizzazione.

Comportamenti gestuali delle scimmie


Diversi ricercatori si sono invece focalizzati sui comportamenti gestuali delle grandi scimmie
nello stato di natura, e hanno individuato la caratteristica della intenzionalità: i gesti venivano
prodotti con l’intenzione di comunicare determinati messaggi ai loro interlocutori. Questo è
evidente dal fatto che uno scimpanzé poteva attirare volontariamente l’attenzione del suo
interlocutore prima di compiere un gesto comunicativo, e che inoltre perseverava nel fare il
gesto se l’interlocutore non rispondeva in maniera adeguata.

Ricercatori hanno analizzato i gesti delle scimmie identificando 66 gesti per 19 messaggi
specifici: non c’è quindi una corrispondenza 1:1 e lo stesso gesto può significare cose diverse
a seconda del contesto. Inoltre, diversi individui possono usare gesti diversi, ma soprattutto un
importante differenza tra gesti comunicativi e linguaggio umano (oltre a quelle già introdotte in
precedenza) questi gesti non vengono mai combinati tra di loro in maniera produttiva: le
sequenze di gesti prodotti in maniera spontanea da primati non umani non seguono alcuna
regola di combinazione. Ossia, quando i primati producono combinazioni di gesti, il risultato
ottenuto non è né diverso in significato ma neanche più efficiente della produzione di un
singolo gesto.

Linguaggio insegnato
Le limitazioni nel sistema comunicativo spontaneo dei primati potrebbero essere dovute al fatto
che non hanno sviluppato una cultura molto avanzata. Per questo motivo, la ricerca si è anche
focalizzata su tentativi di insegnare ai primati non umani il linguaggio umano, facendoli
crescere sin da piccoli insieme agli uomini.

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Apes e linguaggio: Viki

Negli anni ‘40 due psicologi, Keith e Catherine Hayes, educarono una scimpanzé, Viki, come
una bambina, e cercarono di insegnarle a parlare, con metodi logopedici. L’esperimento si
rivela alquanto fallimentare: dopo sei anni di vita, quando i bambini imparano e riescono già a
pronunciare centinaia di parole, Viki sapeva dire solo tre parole.

Visto che il cavo orale degli scimpanzé non è in grado di articolare i suoni in maniera fine a
causa della diversa configurazione del tratto vocale, che non ha la laringe abbassata come
negli uomini, e la cui configurazione anatomica non permette la modulazione dei suoni, il fatto
che Viki non sia del tutto riuscita a imparare il linguaggio umano vocale potrebbe essere
dovuto a vincoli anatomici.

Per verificare se il fallimento di Viki nell’acquisire il linguaggio fosse dovuto a limitazioni


anatomiche, si provò a insegnare la lingua dei segni a primati antropomorfi (Koko e Washoe).

Il progetto Nim Chimpsky

Negli anni ‘70 partì il «Progetto Nim» (Neam Chimpsky): educare uno scimpanzé come un
bambino e insegnargli la lingua dei segni. Herbert S. Terrace, lo psicologo che diede avvio al
progetto Nim, e che lo seguì per tutto il periodo, riporta che Nim aveva imparato 125 segni
(secondo altri, solo 85). Nim produceva anche sequenze di segni.

Terrace decise di analizzare in dettaglio tutte le sequenze (20.000) di segni prodotte da Nim,
per verificare se fosse rintracciabile una qualche consistenza. Venne trovata una certa
coerenza nell’ordine delle parole per combinazioni di due segni (Nim tende a segnare «more X»
più che «X more»; e preferisce segnare «Verbo + Me/Nim» più che «Me/Nim + verbo»). Tuttavia,
le combinazioni di 3 o più segni di Nim sono qualitativamente diverse da quelle di un qualsiasi
bambino di 2 o 3 anni. Nei bambini infatti produrre 3 o più parole significa aggiungere
informazione e complessità; invece per Nim si tratta quasi sempre solo di ripetizioni superflue
di segni. Ad esempio, la più frequente combinazione di 2 segni è «Play Nim»; la più frequente
combinazione di 3 segni è «Play Nim Me». Terrace conclude che con il passaggio da 2 a 3 o 4
segni non sembra che venga aggiunta una elaborazione semantica o sintattica: non c’è
aumento della complessità comunicativa né aggiunta di informazioni, si tratta sempre di
ripetizioni superflue di segni.

C’è un’altra differenza sostanziale con quello che succede con la acquisizione del linguaggio:
per i bambini (udenti o sordi segnanti nativi), la lunghezza media degli enunciati prodotti (MLU,
Mean Length of Utterance, ossia Lunghezza Media dell’Enunciato) aumenta in funzione dell’età.
Per Nim, invece, nel periodo preso in considerazione (tra i 26 e i 39 mesi) non si assiste a un
graduale aumento della complessità. Infine, Terrace nota come Nim produce segni solo per
ottenere cose, e mai per commentare. La sua conclusione è quindi decisamente scettica:
sebbene Nim abbia imparato l’associazione tra 125 segni e loro referenti, non è in grado di
combinare questi segni.

Terrace muove una serie di forti obiezioni al progetto stesso di insegnare la lingua dei segni ai
primati (obiezioni che rivolge esplicitamente anche a Washoe e Koko): le produzioni dei primati
si rivelano essere quasi sempre semplici imitazioni o ripetizioni di quanto viene segnato
dall’uomo. Sarebbe poi l’interlocutore umano a “riempire di significato” i segni prodotti dal
primate. Si tratta, in altre parole, di critiche metodologichele.

Apes e linguaggio: Kanzi

La metodologia adottata per verificare le competenze linguistiche di Kanzi cerca di rispondere


alle obiezioni viste precedentemente.

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Martino Branca Matricola: 840783

La ricerca condotta da Sue Savage-Rumbaugh prevedeva l’uso di una tastiera con dei simboli
astratti che corrispondono a parole in inglese (lessigrammi). Quando si preme un tasto, un
altoparlante collegato emette la parola inglese corrispondente.

Inizialmente lo studio prevedeva che la bonobo Matata fosse in grado di apprendere l’utilizzo
della tastiera, ma quando il tentativo ha scarso successo spontaneamente Kanzi (un altra
scimmia bonobo che aveva assistito all’addestramento di Matata) comincia ad usare la tastiera
per comunicare correttamente.

L’utilizzo della tastiera con lessigrammi permise di valutare molto meglio l’effettiva competenza
linguistica di Kanzi, in quanto offre dei parametri più “oggettivi”: Kanzi deve premere dei tasti, il
che non prevede la produzione di gesti/segni che devono essere interpretati dall’uomo.
L’interazione con i ricercatori è assente sopprimendo il pericolo di “attribuzione di significato”
alla produzione animale.

Analizziamo quindi più nel dettaglio le caratteristiche sorprendenti del linguaggio di Kanzi. Si
valuta prima la comprensione lessicale e poi la produzione.

Kanzi arriva a conoscere il significato di tutti i simboli della tastiera (che usa in produzione), e
inoltre comprende anche circa 800 parole inglesi.

LA PRODUZIONE DI KANZI
Per quanto riguarda la produzione linguistica, Kanzi è in grado non solo di scegliere il simbolo
appropriato quando glielo si chiede, ma anche di produrre lui stesso delle combinazioni di
simboli, o combinazioni di simboli più gesti, per formare delle “frasi”.

Combinazione di simboli e gesti


Kanzi può produrre combinazioni tra un simbolo della tastiera (che indica il verbo) e un gesto
(indica agente e paziente dell’evento). In questo caso, i gesti sono un modo per indicare chi è
l’agente e chi è il paziente dell’azione a cui fa riferimento la parola della tastiera:

a. [CHASE] [gesto: mano di Sue verso Kelly]

Sue rincorre Kelly

b. [CHASE] [gesto: mano di Kelly verso Sue]

Kelly rincorre Sue

In queste combinazioni, l’ordine di parole e gesti non segue l’ordine delle parole delle frasi
attive dell’inglese: il gesto che indica l’agente dell’azione segue il verbo, mentre nelle frasi
attive dell’inglese la parola che si riferisce all’agente precede il verbo.

Combinazione di simboli
Crescendo, Kanzi ha iniziato a esprimersi producendo delle combinazioni di simboli con la
tastiera. Si tratta di combinazioni di due simboli, che – ovviamente – indicano nomi o verbi
(nella tastiera non ci sono simboli per le parole funzionali, come le preposizioni).

Quando usa combinazioni di simboli, Kanzi tende a riprodurre l’ordine della parole inglese,
producendo combinazioni come:

HIDE + PEANUT (verbo + complemento)

MATATA + BITE (soggetto + verbo)

(quando usava simbolo + gesto il soggetto seguiva il verbo)

Ma anche altre combinazioni che non seguono l’ordine, come:

CHILDSIDE + CARRY (aggiunto + verbo) (= porta(mi) (dalla) parte-dei-bambini, la parte


di laboratorio dove c’erano dei bambini)

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Martino Branca Matricola: 840783

Questi fatti, osserva Savage-Rumbaugh, indicano che Kanzi usa delle regole per produrre
combinazioni di parole o combinazioni di parole e gesti: l’analisi suggeriva che Kanzi aveva
sviluppato alcune semplici strategie grammaticali che erano basate sul suo riconoscimento del
ruolo che le parole hanno in comunicazioni differenti. Non solo tendeva a usare l’ordine delle
parole dell’inglese quando combinava dei simboli, ma escogitava delle regole proprie per
combinare gesti e simboli. Le comunicazioni di Kanzi mettevano fortemente in discussione
l’affermazione che solo gli esseri umani sono in grado di compiere il processo di pensiero che
consiste nel manipolare dei simboli veramente arbitrari secondo delle convenzioni
grammaticali. La conclusione cui giunge la Savage-Rumbaugh è forse troppo forte. Kanzi arriva
a produrre combinazioni di due simboli, e sebbene quando usa la tastiera con i lessigrammi è
rintracciabile una certa consistenza, l’ordine non è sempre consistente e quando c’è la
combinazione di simboli più gesti è diverso.

L’INTERAZIONE COMUNICATIVA
Tra le critiche mosse da Terrace c’è anche il fatto che tutte le produzioni spontanee dei primati
fossero ordini e richieste, mentre nei bambini sin da molto presto si trovano produzioni di
commenti e descrizioni. Anche quando Kanzi produce delle combinazioni di parole, di solito
vuole ottenere qualcosa, vuole che il suo interlocutore faccia qualcosa. Di solito, ma non
sempre. Greenfield e Savage-Rumbaugh (1991) osservano che il 4% delle comunicazioni di
Kanzi è costituito da commenti, cioè da comunicazioni che non hanno lo scopo di indurre il
suo interlocutore a fare qualcosa. Questa è probabilmente una percentuale più bassa che nei
bambini (Goldin Meadow 1996). Ma attesta comunque che Kanzi ogni tanto usa il linguaggio
anche per “commentare” o più in generale per scambiare informazioni con l’interlocutore,
senza secondi fini.

“Matata mordere” è una constatazione e non un ordine. Il fatto che Kanzi produca questa frase
quando la sperimentatrice chiede come si fosse procurato la ferita alla mano riflette l’intenzione
dell’animale di informare Sue.

KANZI E TEORIA DELLA MENTE

La domanda che viene da chiedersi sulla base delle conclusioni precedenti è: Kanzi ha una
teoria della mente? Se la conclusione precedente è corretta, Kanzi comprende che altri
possono ignorare ciò che lui sa e che lui può modificare questo stato di ignoranza agendo in un
certo modo. Questo comporta che Kanzi sia in grado di attribuire stati mentali, cioè Kanzi
avrebbe una “teoria della mente”.
In uno dei filmati su Kanzi, c’è una scena stupefacente. Savage-Rumbaugh sta mettendo alla
prova la comprensione dell’inglese di una delle sorelle di Kanzi, Tamuli. Tamui non capisce e
Kanzi sembrerebbe aver compreso la difficoltà della sorella e vorrebbe insegnare (p.e. “Tamuli,
spulcia Kanzi!”, Kanzi prende la mano di Tamuli e se la porta al petto per mostrarle come deve
spulciarlo).

LIMITI DELLE COMBINAZIONI PRODOTTE

Le combinazioni di parole prodotte da Kanzi con la tastiera raramente erano composte da più
di due o tre parole. Questo può essere in parte dovuto a limitazioni imposte dalla tastiera come
mezzo di comunicazione. Formare delle sequenze più lunghe sulla tastiera nel corso di uno
scambio comunicativo è poco agevole in quanto richiede un tempo relativamente lungo
rispetto al tempo che si impiega a emettere una frase con la voce.

Per cercare di valutare meglio le capacità linguistiche di Kanzi, Savage-Rumbaugh e i suoi


collaboratori hanno condotto dei test per valutare quanto Kanzi comprendesse l’inglese. Oltre
alle varie prove in cui si testa la capacità di Kanzi di comprendere il significato di singole parole

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Martino Branca Matricola: 840783

– anche se queste venivano presentate in cuffia senza vedere in faccia l’interlocutore, Kanzi è
stato testato per la sua capacità di comprendere delle frasi in inglese.

TEST DI COMPRENSIONE
• I soggetti

Il test è stato condotto su Kanzi (9 anni) e su Alia, una bambina di due anni e mezzo. Come
Kanzi, Alia è stata esposta all’inglese e ai lessigrammi fin dalla prima infanzia e non è stata
“addestrata” a parlare.

• Il materiale 

Nel corso del test, ai soggetti sono state presentate 660 frasi di diversi tipi. Le frasi erano dei
comandi (tranne che per un tipo) a cui i soggetti dovevano reagire in modo appropriato. Il
soggetto aveva di fronte diversi oggetti e doveva selezionarne alcuni per eseguire il comando
correttamente. 

I comandi consistevano in frasi nuove per i soggetti, spesso si trattava di istruzioni strane
(come “pour the water on the vacuum cleaner”, “versa l’acqua sull’aspirapolvere”), per
assicurarsi che Kanzi o Alia non fossero già stati esposti a quelle frasi e semplicemente le
ricordassero. Prima della presentazione delle frasi, i soggetti sono stati sottoposti a un test
per assicurarsi che comprendessero le singole parole che erano contenute nei comandi.

• Procedura 

C’erano due fasi nell’esperimento:

- le prove non cieche (non blind trials, le prime 180 prove per Alia e le prime 244 per
Kanzi), in cui lo sperimentatore diceva la frase ai soggetti e dava loro l’insieme degli
oggetti che dovevano manipolare per rispondere al comando;

- le prove cieche (blind trials, il resto delle prove), in cui i soggetti non potevano vedere
chi emetteva il comando e la persona su cui i soggetti dovevano agire indossava delle
cuffie in modo da non poter udire il comando.

• Codifica 

Savage-Rumbaugh (per Kanzi) e Murphy (per Alia) hanno codificato immediatamente le
risposte in tre classi: corrette, parzialmente corrette, errate.

- Le risposte corrette sono quelle in cui i soggetti, immediatamente oppure con qualche
ritardo, eseguono l’ordine correttamente.

- Le risposte parzialmente corrette sono, ad esempio, risposte in cui i soggetti


prendono altri oggetti oltre a quelli richiesti, oppure prendono gli oggetti richiesti ma
invertono l’azione che dovrebbero eseguire su questi oggetti.

- Le risposte errate sono quelle in cui il soggetto non reagisce o sbaglia tutto.

• Risultati 

Kanzi ha dato risposte corrette nel 72% di tutte le prove (cieche e non) e Alia ha dato risposte
corrette nel 66% di tutte le prove (cieche e non).

Per verificare in che misura Kanzi e Alia comprendevano che l’ordine delle parole faceva una
differenza per il significato della frase, Savage-Rumbaugh e i suoi collaboratori hanno
controllato la percentuale di risposte corrette per coppie di frasi di questo genere:

Sottotipo A: coppie di frasi in cui l’ordine delle parole viene invertito e cambia anche il verbo. 

Es.: “porta gli aghi di pino all’esterno” 

“vai all’esterno e prendi gli aghi di pino” 

Sottotipo B: coppie di frasi in cui l’ordine delle parole rimane costante e cambia il verbo. 

Es.: "porta le rocce all’esterno” 

“prendi le rocce che sono all’esterno” 


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Martino Branca Matricola: 840783

Sottotipo C: coppie di frasi in cui solo l’ordine delle parole cambia. 



Es.: “metti il succo di frutta nelle uova” 

“metti le uova nel succo di frutta”


Di questi tre sottotipi, il terzo è quello che ci dice di più sulle capacità grammaticali di Kanzi.
Infatti, l’unico indizio su cui basarsi per dare la risposta corretta è la grammatica. Diverso è il
discorso per i sottotipi A e B, dove il ruolo della grammatica è meno decisivo, in quanto
Kanzi potrebbe dare la risposta corretta solo grazie alla conoscenza lessicale (ad es., per
rispondere correttamente a «Porta/Prendi gli aghi di pino all’esterno» può essere sufficiente
conoscere il significato di «porta/prendi» e dei due nomi).

• Valutazione complessiva 

I dati indicano che

- Kanzi ha un livello di comprensione dell’inglese superiore a quello di una bambina di due


anni e mezzo. Infatti, la percentuale di risposte corrette di Kanzi sia nelle prove cieche che
in quelle non cieche è superiore a quella di Alia.

Tuttavia, i dati indicano anche che:

- Kanzi, e Alia in misura ancora maggiore, hanno delle difficoltà a eseguire dei comandi che
richiedono la comprensione di differenze di significato correlate all’ordine delle parole
dell’inglese. Infatti, nel caso di coppie di frasi in cui solo l’ordine delle parole cambia,
(sottotipo C), Kanzi risponde correttamente solo a 12 coppie su 21 (57% dei casi).

RIASSUMENDO

• Kanzi ha un livello di comprensione dell’inglese superiore a quello di una bambina di due anni
e mezzo.

• Quali strategie Kanzi usa esattamente per comprendere le frasi dell’inglese rimane una
questione aperta (in generale, Kanzi ha un punteggio piuttosto alto nella comprensione, ma
sembra avere delle difficoltà con l’ordine delle parole).

MEMORIA

La questione centrale è sempre la stessa: dobbiamo verificare se i tratti costitutivi del


linguaggio umano siano (separatamente) presenti in altre specie animali. Per ora abbiamo
trattato:

• Produzione e ricezione di suoni

• Teoria della mente (ToM)

• Comunicazione/linguaggio nei primati

Ne esploriamo un altro

Mental Time Travel Hypothesis


Secondo la “Mental time travel hypotesis” (Suddendorf, Corballis, 1997), solo gli uomini, ma
non gli animali, sono in grado di ricordare specifici eventi accaduti nel passato, né di
programmare e pianificare il futuro. La capacità di “viaggiare nel tempo” è fondamentale per

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Martino Branca Matricola: 840783

poter prevedere e anticipare possibili eventi futuri, e mettere quindi in atto comportamenti
adeguati. Per questo sono state individuate due componenti di questa ipotesi:

• Retrospettiva: la memoria episodica riceve ed immagazzina informazioni riguardo ad eventi


accaduti in un determinato momento.

• Prospettiva: capacità di anticipare necessità o stati futuri, non coincidenti con gli stati
presenti.

È importante sottolineare che l’abilità che sarebbe prettamente umana – secondo Corballis e
Suddendorf – è la capacità di viaggiare nel tempo ricordandosi e anticipando eventi
particolari, e non generali. Questa abilità coinvolge un tipo particolare di memoria, la memoria
episodica. Altri animali possiedono sicuramente altri tipi di memoria, come quella implicita e
quella semantica.

Gli autori suppongono che tali capacità siano state cruciali per lo sviluppo della specie umana,
i cui appartenenti sembrano sviluppare tali competenze intorno all’età di quattro anni. I bambini
più piccoli e gli animali possiedono la capacità di progredire e arretrare nel tempo, ma solo per
durate limitate (secondi o minuti). Per poter parlare di memoria episodica, è invece necessario
che gli eventi ricordati siano accaduti ore, giorni o mesi prima.

Lo studio della memoria episodica negli animali


Come indagare se gli animali possiedono una memoria retrospettiva e/o prospettiva degli
eventi? Siccome la memoria episodica riguarda la coscienza che un individuo ha di eventi
passati e futuri, non è possibile indagare “direttamente” questa abilità negli animali. Bisogna,
quindi, inferire la memoria episodica animale a partire dall’osservazione dei loro comportamenti
e siccome si utilizzano solo criteri comportamentali, gli autori si riferiscono alla memoria
episodica degli animali con il termine di “episodic-like memory”.

Per parlare di memoria episodica devo avere informazioni su cosa è accaduto, dove è
accaduto e quando è accaduto un particolare episodio. Ciò che è veramente importante è la
componente “quando”. Infatti, sebbene due eventi possano condividere il “cosa” ed il “dove”,
è molto improbabile che condividano lo stesso momento.

Memoria episodica e memoria semantica


Il criterio del cosa, del dove e del quando permette anche la distinzione tra memoria episodica
e memoria semantica.

• La memoria episodica è relativa a esperienze personali specifiche.

• La memoria semantica riguarda, invece, le conoscenze generali sul funzionamento del


mondo.

Quest’ultima quindi non è strettamente legata agli elementi spaziali e temporali relativi
all’apprendimento degli eventi.

La memoria episodica (analogamente a quella semantica) è di tipo dichiarativo, in quanto è


possibile un richiamo consapevole delle informazioni in essa contenute. La memoria non-
dichiarativa include informazioni che fondamentalmente non sono consapevoli (per es.
l’apprendimento di capacità motorie o la conoscenza grammaticale).

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Martino Branca Matricola: 840783

Memoria episodica negli animali: gli esperimenti sulle


ghiandaie
Molte ricerche iniziali sulla capacità di memoria episodica animale hanno dimostrato la
presenza delle componenti “cosa” e “dove” in primati e ratti, in assenza di prove riguardanti la
sequenza temporale (la componente “quando”). Viene quindi introdotta una strategia diversa:
adottare una prospettiva ecologica in cui gli animali hanno bisogno di ricordare e integrare le
informazioni relative a “cosa” succede, “dove” succede e “quando” succede rispetto
all’esperienza della ricerca di cibo. Negli esperimenti che vedremo, gli animali nascondono il
cibo per una successiva consumazione, necessitando poi della memoria per il suo
ritrovamento.

Gli esperimenti che seguono sfruttano una caratteristica delle ghiandaie: se viene dato loro più
cibo di quello che consumano, lo nascondono in un posto per poterlo poi consumare più tardi.

L’idea alla base del primo esperimento è di manipolare le condizioni sperimentali per verificare
se le ghiandaie si ricordano dove e quando hanno nascosto cosa

Esperimento I: Clayton, Bussey, Dickinson (2003)

L’esperimento I vuole indagare il possesso di una memoria retrospettiva (eventi passati


accaduti in un determinato momento).

PROCEDURA
In un primo giorno, venivano dati alle ghiandaie dei vermi e un contenitore dove nasconderli. In
un giorno successivo venivano date loro delle noccioline e un contenitore (diverso da quello
dove avevano nascosto i vermi) dove nascondere le noccioline. Visto che le ghiandaie
preferiscono i vermi alle noccioline, il compito era pensato per vedere se le ghiandaie si
ricordavano cosa avevano nascosto (vermi o noccioline), dove lo avevano nascosto (in quale
dei due contenitori).

Per stabilire se le ghiandaie si ricordavano anche quando avevano nascosto il cibo, i ricercatori
hanno diviso le ghiandaie in due gruppi:

• gruppo del decadimento: precedentemente istruito riguardo al fatto che i vermi, loro cibo
preferito, col tempo, deperiscono (deteriorano);

• gruppo del rifornimento: non ha l’opportunità d’imparare che i vermi sono un cibo che
deperisce.

L’idea è quella di verificare se questi due gruppi si comportano diversamente quando il cibo gli
viene presentato dopo intervalli di tempo diversi.

Ai due gruppi vengono ripresentati i contenitori dove loro avevano precedentemente nascosto i
vermi e le noccioline, ma la ripresentazione poteva o avvenire dopo 4 ore, oppure dopo un
periodo di tempo più esteso (124 ore).

PREVISIONI
L’idea di base è che se le ghiandaie preferiscono i vermi alle noccioline, se si ricordano cosa
hanno nascosto e dove, andranno ad aprire per primo il contenitore che contiene i vermi. Ma
se si ricordano anche quando hanno nascosto il cibo, ci interessa vedere che cosa fa il gruppo
del decadimento (quello istruito che i vermi deperiscono): se si ricordano quando hanno
nascosto il cibo, allora dovrebbero andare a cercare i vermi se i contenitori vengono
ripresentati dopo 4 ore, ma dovrebbero andare a cercare le noccioline per prime se i contenitori
vengono ripresentati dopo 124 ore.

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Martino Branca Matricola: 840783

RISULTATI
Se veniva data la possibilità al gruppo del decadimento di recuperare il cibo entro breve
tempo (4 ore), i soggetti davano la precedenza al consumo dei vermi; cercavano invece le
noccioline se l’intervallo di tempo era maggiore (124 ore). Il gruppo del rifornimento,
all'opposto, prosegue nella ricerca dei vermi senza tener in considerazione il periodo che
intercorre tra immagazzinamento e il recupero del cibo.

DISCUSSIONE
Il comportamento del gruppo del decadimento, che sceglie fra i due cibi in base al momento in
cui sono stati nascosti, indica che le ghiandaie ricordano cosa hanno nascosto, e dove e
quando l’hanno fatto. Esse cioè avrebbero una episodic-like memory.

Per ora abbiamo indagato solo la memoria retrospettiva (sul passato), ma è anche opportuno
studiare quella prospettica (riguardante il futuro).

Come abbiamo visto precedentemente, il viaggio mentale nel tempo non è utile
esclusivamente per la memoria episodica, ma anche per l’anticipazione di eventi e bisogni
futuri (future planning). Quando indaghiamo questa capacità negli animali è opportuno fare una
distinzione: pianificazione del futuro e semplice comportamento anticipatorio non combaciano.
Esistono comportamenti specie-specifici che sembrano l’anticipazione di uno stato futuro, ma
senza una vera e propria pianificazione (pensiamo al comportamento migratorio di alcune
specie di uccelli). In generale, bisogna prendere in considerazione due aspetti:

• per dimostrare la capacità di pianificazione futura gli animali devono effettuare anticipazioni
di ore, o addirittura giorni, e non di secondi o minuti;

• la risposta per l’ottenimento del cibo è conseguente a bisogni presenti (ad esempio,
premendo una leva per ottenere una ricompensa in cibo). La pianificazione futura, invece,
necessita di azioni rilevanti per uno stato futuro indipendente da quello attuale.

Esperimento II: Emery & Clayton (2001)

L’esperimento II vuole indagare il possesso di una memoria prospettica e, come per la


memoria episodica, il comportamento che gli autori ritengono adeguato per verificare l’abilità di
viaggiare in avanti nel tempo è quello relativo alla ricerca e alla conservazione del cibo.
Implicito è il fatto che tale condotta deve essere messa in atto non in modo istintivo ed
automatico, ma deve essere in relazione allo stato futuro del cibo conservato.

IPOTESI SPERIMENTALE

Se le ghiandaie possiedono un memoria prospettica verso il futuro, il comportamento delle


ghiandaie sul nascondimento del cibo cambierà se possono prevedere che in futuro delle altre
ghiandaie ladruncole potrebbero rubare il cibo che hanno nascosto

PROCEDURA
Gli uccelli venivano privati del cibo durante la notte. Il mattino seguente nella gabbia di ogni
esemplare veniva posto un contenitore pieno di sabbia e un vasetto contenente 50 vermi.
L’esemplare aveva 15 minuti in cui poteva mangiare i vermi o nasconderli nel contenitore pieno
di sabbia e di fatto, ogni esemplare ne nascondeva un certo numero. Ci sono due condizioni:
un gruppo di ghiandaie nasconde il cibo senza essere vista; un altro gruppo nasconde il cibo
osservata da un’altra ghiandaia.

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Martino Branca Matricola: 840783

Dopo 15 minuti, il contenitore pieno di sabbia e il vasetto contenente i vermi venivano tolti dalla
gabbia. 3 ore dopo, venivano inseriti nella gabbia del soggetto due contenitori. Uno è quello
dove la ghiandaia aveva nascosto i vermi tre ore prima, mentre il secondo contenitore era
nuovo. Questa fase dell’esperimento avveniva sempre fuori dalla vista dell’animale osservatore
(la gabbia dell’altra ghiandaia era coperta da un panno). I soggetti per 10 minuti potevano
mangiare i vermi nascosti 3 ore prima, oppure potevano cambiargli posizione, o nascondendoli
in nuovi punti nel vecchio contenitore oppure mettendoli nel nuovo contenitore.

PREVISIONI

Se le ghiandaie hanno una memoria prospettica (future planning), allora ci possiamo aspettare
che il gruppo che aveva inizialmente nascosto i vermi osservato da un’altra ghiandaia cambierà
il posto dei vermi che aveva nascosto prima più dell’altro gruppo, perché si aspetta che la
ghiandaia che lo aveva osservato possa rubarglieli. L’altro gruppo di ghiandaie che aveva
nascosto i vermi «in privato» non ha motivi per cambiare la disposizione dei vermi nascosti, e
quindi viene utilizzato come gruppo di controllo.

PARTECIPANTI: GRUPPI SPERIMENTALI


L’esperimento è stato condotto su diversi “gruppi sperimentali”:

A. Ghiandaie che avevano sia commesso loro stesse dei furti, sia che avevano visto altre
ghiandaie commettere furti (A = esperienza sociale attiva e passiva del furto);

B. Ghiandaie che non avevano commesso dei furti, ma che avevano visto altre ghiandaie
commettere furti (B = esperienza solo passiva del furto);

C. Ghiandaie che avevano commesso loro stesse dei furti, ma non avevano mai visto altre
ghiandaie commettere furti (C = esperienza solo attiva del furto);

RISULTATI
Il comportamento delle ghiandaie sembra indicare che esse sono in grado di fare una
pianificazione sul futuro, nello specifico sui loro bisogni alimentari a distanza di ore. Inoltre, la
pianificazione sul futuro è influenzata dal contesto sociale. Il comportamento consistente nel
nascondere il cibo per usi futuri viene attuato solo quando esso è socialmente motivato (cioè
quando un’altra ghiandaia ha visto il sito iniziale del cibo).

• Risultati del gruppo A (esperienza attiva e passiva furto):



Nella condizione “osservati”, le ghiandaie nascondono in una nuova posizione una quantità
maggiore di vermi che nella condizione “non osservati”. Inoltre, i soggetti, hanno la tendenza
ad immagazzinare il cibo in nuovi siti più nella condizione “osservati” che nella condizione
“non osservati”. Questo suggerisce che le ghiandaie osservate nascondono nuovamente i
vermi perché si aspettano che la ghiandaia che li aveva osservati glieli possa rubare in futuro.

• Risultati del gruppo B (esperienza solo passiva furto):



Rispetto alle ghiandaie ladruncole dell’esperimento precedente, nella fase di recupero (3h
dopo) le ghiandaie “oneste” del secondo esperimento ri-nascondono un numero molto
piccolo di vermi, indipendentemente che siano nella condizione “osservati” o nella condizione
“non osservati”.

• Risultati del gruppo C (esperienza solo attiva furto):



Come le ghiandaie del primo gruppo A, i soggetti rinascondono una quantità maggiore di
vermi nella condizione “osservato”. Inoltre, sempre in linea con quanto avveniva
nell’esperimento con le ghiandaie ladruncole e osservatrici, i soggetti hanno la tendenza ad
immagazzinare il cibo in nuovi siti più nella condizione “osservato” che nella condizione “non
osservato”.

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Martino Branca Matricola: 840783

DISCUSSIONE
L’insieme degli esperimenti con i tre gruppi sperimentali mostra che il fattore decisivo che
spinge le ghiandaie a nascondere il cibo ai conspecifici (e a nasconderlo in luoghi ad essi non
noti) è l’esperienza di avere commesso un furto. Invece l’esperienza di avere assistito a un
furto non sembra essere un fattore sufficiente a innescare il comportamento in questione.
Inoltre il comportamento delle ghiandaie ladruncole mostra:

• La presenza di una memoria episodica che permette di muoversi all’indietro sulla linea del
tempo (la ghiandaia si deve ricordare a distanza di 3h dall’episodio se è stata osservata
mentre nascondeva i vermi)

• La capacità di muoversi in avanti sulla linea del tempo, facendo le scelte più opportune in
vista di un stato futuro (il bisogno di cibo) tenendo conto della situazione corrente (il fatto di
non essere osservati mentre si cambia il nascondiglio del cibo)

Le ghiandaie hanno una ToM?

Gli esperimenti descritti non sono sufficienti per concludere che ghiandaie abbiano una teoria
della mente. Infatti, quando nella condizione “osservati” la ghiandaia nasconde i vermi,
attribuisce sì uno stato mentale all’altra ghiandaia («sa dove ho messo i vermi, me li può
rubare») ma non gli attribuisce uno stato mentale diverso dal proprio, che è la condizione che
permette di parlare di teoria delle mente in senso proprio. Infatti, a quel punto ambedue le
ghiandaie hanno la stessa informazione su quello che è avvenuto 3 ore prima.

Conclusioni
Più in generale, l’ipotesi secondo cui gli animali non sarebbero in grado di ricordare specifici
eventi accaduti nel passato, né di programmare e pianificare il futuro sembra essere messa in
discussione dai risultati sperimentali. Questo indica che la capacità di muoversi sulla linea del
tempo non è intrinsecamente collegata al possesso del linguaggio.

Sembra chiaro che c’è una forma, sia pur abbastanza rudimentale, di pensiero, anche in
assenza di linguaggio.

Abbiamo presentato l’ipotesi di Chomsky, Fitch e Hauser secondo cui la componente


unicamente umana del linguaggio sarebbe il sistema combinatorio, cioè la grammatica. Invece
i due sistemi fra cui il linguaggio fa da ponte, ovvero il sistema fono-articolatorio da una parte,
e il sistema concettuale dall’altra, sarebbero presenti, sia pur in forma rudimentale, anche negli
animali, il che suggerisce che il salto verso il linguaggio moderno, avvenuto forse 200.000 anni
fa, sarebbe stata la messa a disposizione del sistema combinatorio per esigenze comunicative.

Resta da ora da indagare se è proprio vero che negli animali non c’è una capacità
grammaticale.

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CAPACITÀ GRAMMATICALI NEGLI ANIMALI

Come ci eravamo lasciati nell’argomento precedente, dobbiamo adesso appurare se negli


animali è completamente assente una capacità grammaticale. Prima di farlo, dobbiamo però
introdurre una distinzione importante, quella fra grammatiche a stati finiti e grammatiche a
struttura sintagmatica. La distinzione è importante perché i lavori sulle competenze
grammaticali degli animali fanno un uso cruciale di questa distinzione.

Una grammatica può essere vista astrattamente come un dispositivo che produce sequenze di
simboli (=parole) applicando determinate regole.

Grammatiche a stati finiti


Una grammatica a stati finiti è una grammatica in cui il modo in cui una sequenza si sviluppa al
livello n+1 (cioè la n+1 parola della sequenza) dipende unicamente dalla parola n.

Ad esempio, se parto dai simboli/parole:

il / un / cane / gatto / morde

una grammatica a stati finiti formula le regole dicendo che il può essere seguito da gatto o da
cane, ma non da morde o da un. In questo caso, il sarebbe il livello n e “il gatto” o “il cane”
sarebbe il livello n+1.

1. Il cane morde un gatto.


2. Il gatto morde un cane.
3. * Il morde un cane gatto.
4. * Cane morde gatto il un.

Un altro modo per rappresentare una grammatica a stati finiti è usare la notazione (A B)n , che
crea strutture di questo tipo:

AB

ABAB

ABABAB

ABABABAB

ecc.

Per determinare la lettera che comparirà nel punto n è sufficiente guardare la lettera che è
comparsa al livello n-1.

Fino agli anni ’50, prima di Chomsky, si pensava che una grammatica a stati infiniti potesse
essere uno strumento formale sufficientemente ricco per modellare le lingue naturali e che il
linguaggio umano potesse essere spiegato in base alle cosiddette “transizioni di probabilità”:
ovvero sulla base di un database immenso, da elementi primitivi si poteva arrivare a definire
che cosa potesse seguire e che cosa no. Per esempio, è più probabile che la parola “con” sia
seguita dalla parola “la” che dalla parola “problemi”. Ed è (quasi) impossibile che la parola
“con” sia seguita dalla parola “mangia”. Si pensava che calcolando le “transizioni di
probabilità” su un corpus vastissimo, per esempio tutto l’inglese scritto, una grammatica a stati
finiti potesse produrre l’inglese o almeno approssimarlo in maniera sufficientemente adeguata.
In questa grammatica si possono anche identificare delle regole ricorsive: una grammatica a
stati finiti potrebbe contenere una regola della forma P → xP, che mi fa passare da P a xP. Visto
che xP è comunque un «tipo» di P, posso ri-applicare la regola, passando da xP a xxP, e così
via.

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Es.: aggiungere all’aggettivo P triste l’avverbio x molto:

applico P → xP a triste e ottengo molto triste

applico P → xP a molto triste, ottengo molto molto triste

applico P → xP a molto molto triste e ottengo molto molto molto triste

L’insufficienza della grammatica a stati finiti


Ricordando quanto abbiamo già affrontato nei primi argomenti del corso, non solo le lingue
naturali hanno strutture ricorsive, ma che il tipo di ricorsività che osserviamo nelle lingue
naturali ha il potere di creare strutture gerarchiche (metafora della matriosca). Le
grammatiche a stati finiti creano strutture ricorsive, ma non gerarchiche. Questa è la ragione
per cui non sono adeguate a rappresentare la complessità delle lingue naturali.

Chomsky ha mostrato che le grammatiche delle lingue naturali non sono grammatiche a stati
finiti. Ci sono diverse argomenti usati da Chomsky.

• Innanzitutto, noi abbiamo giudizi di grammaticalità molto diversi su sequenze in cui le


“transizioni di probabilità” sono uguali a zero. Prendiamo per esempio le seguenti frasi:


Es.1: I pirotti carulizzano elaticamente 

Es.2: *Carulizzano pirotti elaticamente i 


Le frasi in (1) e (2) usano parole non esistenti, per cui la transizione di probabilità tra queste
parole è 0. Tuttavia, per noi, la frase in (1) “suona” più grammaticale della frase in (2)

• Le lingue naturali contengono relazioni a distanza in cui l’occorrenza di una parola


dipende non dalla parola immediatamente precedente ma dalla struttura più ampia in cui la
parola è inserita. Per esempio:


Es.3: O il ragazzo mangia gelati o il cane divora torte 

Es.4: Se il ragazzo mangia gelati allora il cane divora torte


A prima vista, potrebbe sembrare che non ci sia un problema a generare le sequenze in (3)
o (4). Per esempio, la nostra grammatica prevede che dopo “o” possa venire “il”. Quindi
quando incontro il secondo “o”, posso farlo seguire da un determinante come “il”. Però,
oltre a generare le sequenze giuste in (3) e (4), la grammatica a stati finiti genera sequenze
come (5) o (6). 


Es.5: * O il ragazzo mangia gelati allora il cane divora torte 

Es.4: * Se il ragazzo mangia gelati o il cane divora torte


Il problema è che “se” richiede “allora” , mentre “o” richiede “o” anche se queste parole
non sono adiacenti. Invece una grammatica a stati finiti sa prevedere solo transizioni fra
elementi adiacenti, e non tra elementi che esibiscono “dipendenze a distanza”.

Si potrebbe pensare che il caso della relazione a distanza fra “se” e “allora” o fra “o” e “o”
sono casi particolari, non rappresentativi di quello che succede normalmente nelle lingue
naturali, ma non è così: i fenomeni di dipendenza a distanza sono pervasivi nelle lingue
naturali. Per esempio:


Dipendenza a distanza in casi di accordo: 

Sono arrivate in grave ritardo tre ragazze 


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Dipendenza a distanza in casi di movimento sintattico: 



La commessa della quale ti sei dimenticato (cf. ti sei dimenticato della commessa) 


Dipendenza a distanza in caso di anafora pronominale: 

Ogni ragazzo ha detto che lo avevano informato in ritardo


Inoltre i casi di incassamento di una dipendenza dentro un’altra dipendenza sono molto
comuni.

Riassumendo, le grammatiche a stati finiti non sono modelli plausibili per la grammatica delle
lingue naturali.

Chomsky ha mostrato che un altro tipo di grammatiche, quelle a struttura sintagmatica, sono
dei candidati più plausibili, perché in queste grammatiche è possibile esprimere il fatto che
l’occorrenza di una parola dipende non dalla parola immediatamente precedente ma dalla
struttura più ampia in cui la parola è inserita.

Grammatiche a struttura sintagmatica


Un esempio molto rudimentale di grammatica a struttura sintagmatica è la grammatica An Bn ,
cioè una grammatica del tipo:

AB

AABB

AAABBB

AAAABBBB

ecc.

La grammatica An Bn è una grammatica a struttura sintagmatica perché l’occorrenza di A o di B


dipende non dalla lettera immediatamente precedente ma dalla struttura più ampia in cui la
lettera è inserita. Per esempio, nella stringa AAABBB per determinare che la sesta lettera deve
essere una B non devo solo guardare alla quinta lettera ma anche guardare al contesto più
ampio (cioè al fatto che c’è stata una sequenza di tre A seguita da due B).

Le grammatiche a struttura sintagmatica sono meglio attrezzate per affrontare il problema delle
dipendenze a distanza nelle lingue naturali perché possono tenere conto del contesto più
ampio di occorrenza di una parola. Però, nemmeno le grammatiche a struttura sintagmatica
potrebbero essere sufficienti.

Grammatiche e animali
La domanda che ci viene da porre è: è possibile trovare in qualche specie animale delle
abilità di analisi dell’input che superino il livello delle grammatiche a stati finiti?

Lo studio sui tamarini


Nello studio sono state create due grammatiche, utilizzate per generare stringhe audio senza
senso, costituite da sillabe consonante-vocale:

• Due classi di suono: A e B (A e B non sono i suoni, ma indicano unicamente le due classi)

• Ognuna delle due classi era formate da 8 differenti sillabe con struttura consonante-vocale

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• Le sillabe appartenenti alle due classi erano chiaramente distinguibili sia dalle scimmie che
dagli umani: le sillabe di tipo B erano pronunciate da un uomo, mentre quelli di tipo A da una
donna.

Gli animali vengono familiarizzati a due tipo di frasi:

1. Grammatica a stati finiti



La grammatica a stati finiti (GSF) era una struttura del tipo (AB)n in cui
una sillaba di tipo “A” era seguita da una sillaba di tipo “B”, e queste
coppie erano ripetute n volte.

2. Grammatica a struttura sintagmatica 



La grammatica a struttura sintagmatica (GSS) utilizzata era invece una
struttura dalla forma AnBn tale per cui n sillabe di tipo “A” dovevano
necessariamente essere seguite da n sillabe di tipo “B”

In entrambe le grammatiche, n era uguale a 3 (questo perché si sa che i tamarini distinguono


fra stringhe diverse solo se le stringhe hanno al massimo lunghezza 3). Per ognuna delle due
grammatiche, c’erano 64 stringhe diverse (60 di queste venivano usate nella fase di
familiarizzazione e 4 nella fase di test vera e propria).

I tamarini sono stati divisi in due gruppi, uno per grammatica.

FASE DI FAMILIARIZZAZIONE

Ogni gruppo è stato esposto per 20 minuti a 60 stringhe costruite secondo le regole della
grammatica di appartenenza. Si vuole verificare se i tamarini riescono ad estrapolare le regole
delle sequenze: come?

FASE TEST

Test individuale, effettuato il giorno dopo, dopo una rifamiliarizzazione di due minuti con la
grammatica di appartenenza. Ogni tamarino è stato testato con 8 stringhe (8 nuovi stimoli non
fatti ascoltare durante il processo di familiarizzazione), 4 di questi avevano la struttura della
grammatica con cui era stato familiarizzato mentre gli altri 4 non seguivano le regole di questa
grammatica. Per verificare se il tamarino padroneggiava una grammatica si misuravano gli
sguardi che rivolgeva all’altoparlante nascosto. Si considera il voltarsi a guardare dell’animale
come un indice di sorpresa, cioè se il tamarino si voltava per guardare la fonte del suono
questo voleva dire che riconosceva lo stimolo come anomalo. Se si notano reazioni di sorpresa
vorrà dire che i tamarini si sono accorti della differenza e quindi hanno estrapolato la regola.

Oltre che con tamarini, l’esperimento è stato somministrato anche a studenti (gruppo di
controllo).

RISULTATI

I tamarini hanno facilmente padroneggiato le grammatiche a stati finiti (GSF):

• Quando al tamarino venivano presentati stimoli non grammaticali, nel 72% dei casi i tamarini
si voltavano («sorpresi») verso l’altoparlante;

• Quando al tamarino venivano presentati stimoli grammaticali, solo nel 34% i tamarini si
voltavano («sorpresi») verso l’altoparlante (=> si erano abituati a quella grammatica, per cui
non si sorprendevano);

• A livello individuale, 9 scimmie su 10 hanno guardato maggiormente agli stimoli


“agrammaticali” che a quelli “grammaticali”

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Martino Branca Matricola: 840783

Questi risultati dimostrano la padronanza degli animali per la grammatica a stati finiti.

I tamarini hanno fallito il riconoscimento delle grammatiche a struttura sintagmatica (GSS),


mostrando una percentuale equivalente nel guardare a stimoli “grammaticali” e
“agrammaticali”:

• Il 29% ha guardato le violazioni

• Il 31% ha guardato gli stimoli coerenti

• Nessuna scimmia ha guardato a più della metà delle violazioni.

CONSIDERAZIONI SUL FALLIMENTO

Il fallimento nel padroneggiare le grammatiche a struttura sintagmatica non può essere dovuto
a fattori esterni, come la lunghezza degli stimoli, la rumorosità, o altri fattori acustici, né a
differenze nell’esposizione, nel test o nelle procedure di valutazione. Infatti il setting
sperimentale e gli stimoli fisici usati erano gli stessi dell’esperimento con le grammatiche a stati
finiti. Inoltre la lunghezza delle sequenze (n uguale a 3 ) era nei limiti della capacità di memoria
di lavoro dei tamarini. Pertanto sembra lecito concludere che i tamarini abbiano difficoltà a
padroneggiare le grammatiche a struttura sintagmatica.

Lo studio sugli storni (Gentner et al.)


Gli storni producono canti decomponibili in unità acustiche di base. Tra queste unità ci sono
trilli (rattle) e singulti (warble). Lo studio mette in discussione le conclusioni dello studio
precedente cercando di rintracciare una qualche capacità sintattica negli animali.

Sono stati registrati 8 trilli (elementi di tipo A) e 8 singulti (elementi di tipo B) prodotti da uno
storno maschio adulto che sono stati poi utilizzati per costruire le sequenze in accordo a una
GSF e a una GSS.

MATERIALE
Grammatica a stati finiti

GSF = (AB)2 = trillo singulto trillo singulto

Grammatica a struttura sintagmatica

GSS = (A2B2) = trillo trillo singulto singulto

Per ognuna delle due grammatiche sono state generate tutte le possibili sequenze a partire dal
repertorio iniziale di 8 unità di base. Sono state quindi generate 4096 sequenze della forma
(AB)2 e 4096 sequenze della forma (A2B2 ). Fra le 4096 sequenze generate da ognuna delle due
grammatiche ne sono state selezionate 8, che sono state utilizzate per la fase di
condizionamento iniziale.

IL CONDIZIONAMENTO
L’apparato di sperimentazione era composto da tre porticine comandate a distanza, con un
contenitore sotto la porticina centrale in cui lo storno aveva accesso al cibo alle condizioni che
stiamo per descrivere.

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FASE 1: dopo che lo storno aveva individuato il contenitore come fonte


di cibo, il cibo diventava disponibile solo se lo storno beccava la
porticina centrale quando dietro di questa si attivava un diodo luminoso.

FASE 2: non si attivava più il diodo luminoso, ma lo storno otteneva il


cibo continuando a beccare sulla porticina centrale. Subito dopo, ogni
volta che lo storno beccava la porticina centrale, iniziava la presentazione
dello stimolo sonoro.

FASE 3: è la fase di familiarizzazione con una delle due grammatiche. Per un primo gruppo di
storni, se beccavano la porticina centrale dopo aver sentito una delle sequenze prodotte dalla
grammatica a stati finiti c’era un rinforzo (ovvero, il cibo diventava disponibile nel solito
contenitore). Invece, se beccavano la porticina centrale dopo aver sentito una delle sequenze
prodotte dalla grammatica a struttura sintagmatica c’era una punizione (la luce nella gabbia si
oscurava per un istante). Per un secondo gruppo di storni il rinforzo era associato alla
grammatica a struttura sintagmatica e la punizione alla grammatica a stati finiti.

Risultati della fase di condizionamento: 9 degli 11 storni che hanno partecipato alla fase di
condizionamento hanno imparato a distinguere le sequenze generate dalle grammatiche a stati
finiti da quelle generate dalle grammatiche a struttura sintagmatica. Il ritmo di acquisizione
variava molto fra gli storni ed è stato lento rispetto a quello osservato in altri esperimenti di
riconoscimento dei suoni.

Obiezioni metodologiche

Hanno imparato a memoria?


Poiché nella fase di condizionamento sono state usate sempre le stesse 16 sequenze, non si
poteva escludere che gli storni riconoscessero le serie “giuste” (cioè quelle che portavano a un
rinforzo) perché le avevano imparate a memoria. Per escludere la possibilità, gli sperimentatori
hanno cambiato da un momento all’altro gli stimoli per i quattro storni che si erano dimostrati
più abili nella fase di condizionamento. Al posto di usare i 16 stimoli iniziali, hanno usato 16
stimoli nuovi, che avevano le stesse caratteristiche dei primi 16. Le altre condizioni sperimentali
non venivano modificate.

Nonostante un calo nella prestazione, gli storni mostrano di saper distinguere fra le due
grammatiche anche con i nuovi stimoli (la percentuale di risposte corrette nelle prime 100
prove successive al cambio delle sequenze non era casuale).

Vanno per esclusione?


È possibile che gli storni abbiano imparato solo la grammatica a stati finiti, riuscendo a
distinguere la grammatica a struttura sintagmatica solo per esclusione. Secondo questa
ipotesi, gli storni non sarebbero “più bravi” dei tamarini.

Per escludere questa ipotesi gli sperimentatori hanno creato 16 nuove sequenze, che non
erano generate né dalla grammatica a stati finiti, né dalla grammatica a struttura sintagmatica.
In questo senso erano “agrammaticali”. Queste sequenze avevano la forma AAAA, BBBB,
ABBA, BAAB, con 4 sequenze per ognuna di queste forme. 4 uccelli su 4 sono stati in grado di
distinguere le sequenze “agrammaticali” dalle sequenze (AB)2. 3 uccelli su 4 sono stati in grado
di distinguere le sequenze “agrammaticali” dalle sequenze (A2B2). L’ipotesi che gli storni
vadano per esclusione, sembra quindi da escludere.

Se la cavano anche con sequenze più lunghe?


Gli uccelli sono anche stati testati con sequenze più lunghe, dove n = 3 o 4. La fase di
condizionamento era invariata a n = 2.

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Dai risultati emerge che gli storni continuano a distinguere tra le due grammatiche anche a n =
3 e n = 4.

Altre possibili complicazioni


Ci sono altre ipotesi che potrebbero spiegare il comportamento degli storni senza dover
assumere che essi sappiano padroneggiare le grammatiche a struttura sintagmatica. Per
esempio:

• una sequenza dalla forma AnBn si può distinguere da una sequenza dalla forma (AB)n solo
guardando ai primi due (o agli ultimi due) elementi della sequenza, per vedere se sono uguali
o diversi.

• una sequenza dalla forma AnBn si può distinguere da una sequenza dalla forma (AB)n
semplicemente contando il numero delle transizioni A/B (la sequenza dalla forma AnBn
contiene una sola transizione)

Gli autori considerano queste e altre complicazioni e mostrano che gli storni non usano questi
“trucchetti” per distinguere fra le sequenze prodotte dalla grammatica a struttura sintagmatica
e quelle prodotte dalla grammatica a stati finiti.

Le conclusioni di Gentner

Come spiegare le differenze fra il comportamento dei tamarini e quello degli storni?

Una possibilità è che abbia giocato un ruolo il setting sperimentale molto diverso: con gli storni
c’è stata una fase di condizionamento con lunghe sessioni di rinforzo/punizione, mentre con i
tamarini c’è stata solo una breve fase di familiarizzazione di venti minuti. Un’altra possibilità è
che solo le specie che sono in grado di acquisire modelli complessi di vocalizzazione (uccelli,
umani, e forse alcuni cetacei) sappiano padroneggiare strutture ricorsive come quelle generate
dalle grammatiche a struttura sintagmatica.

La conclusione di Gentner et al. è che l’ipotesi di Chomsky, Fitch e Hauser secondo cui la
sintassi con le sue proprietà ricorsive è una caratteristica puramente umana è messa in seria
discussione. Secondo gli autori, è invece più probabile che le differenze fra le diverse specie
siano quantitative e non qualitative. Non ci sarebbe cioè una singola proprietà che
contraddistingue in modo categorico il sistema di comunicazione umano.

Se Gentner et al. hanno ragione, il modello di evoluzione del linguaggio potrebbe essere più
continuista di quanto sostenuto da Chomsky, Fitch e Hauser, con piccole modifiche che
aumentano il potere di meccanismi che erano presenti in modo rudimentali nei progenitori
dell’uomo. Se questo fosse il quadro corretto, Chomsky, Fitch e Hauser avrebbero dato
un’eccessiva importanza a meccanismi come l’exattamento e lo spandrel a scapito del
meccanismo classico della selezione naturale, cioè l’adattamento.

Critiche a Gentner e collaboratori

Tuttavia uno studio del 2009 avanza un’altra ipotesi. In questo studio, Van Heijningen e
collaboratori testano le capacità sintattiche degli zebra finches (Il diamante mandarino,
conosciuto anche come diamantino).

Dallo studio sembra che anche i diamantini siano capaci di discriminare tra stimoli artificiali
costruiti con le strutture della GSF e GSS. Tuttavia, per dimostrare che questo avviene perché
viene riconosciuta la struttura ricorsiva, è fondamentale testare se gli uccelli sono in grado di
distinguere tra stimoli che hanno la stessa struttura (GSF vs GSS) ma che sono costituiti da
elementi che provengono da categorie non familiari. Con questa modifica, 7 diamantini su 8
hanno fallito nel riconoscere le due strutture come diverse – e questo suggerisce che la

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discriminazione che era avvenuta precedentemente si basasse su generalizzazioni di tipo


fonetico invece che sintattico.

Questo studio solleva quindi dubbi sull’ipotesi che gli storni e i diamantini usino regole
sintattiche per distinguere tra stringhe di stimoli.

Conclusioni
Se avessero ragione Gentner e collaboratori (e quindi gli storni riuscissero davvero a
riconoscere le grammatiche a struttura sintagmatica), si potrebbe ipotizzare che gli uccelli
siano ancora più simili agli umani di quanto pensassimo.

Abbiamo visto i notevoli parallelismi fra apparato fonoarticolatorio degli uccelli e degli umani
(periodo critico, lallazione, percezione categoriale…) che fanno pensare che l’evoluzione di
questi tratti analoghi in umani e uccelli potrebbe essere stata guidata dagli stessi meccanismi
(un po’ come il gene PAX6 ha guidato la formazione dell’occhio in specie così distanti come
l’uomo, i calamari e i moscerini). Non possiamo escludere che anche la capacità combinatoria
tipica della sintassi sia un tratto analogo di questo tipo. Se è così, non possiamo escludere che
nell’evoluzione di questa capacità abbiano giocato un ruolo importante meccanismi come lo
spandrel e l’exattamento (in fondo, proprio gli uccelli usano calcoli ricorsivi per l’orientamento
in volo).


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Modulo II


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IL RELATIVISMO LINGUISTICO

Introduzione
Secondo la tesi del relativismo linguistico (che viene anche chiamata tesi Sapir-Whorf dai
due autori che l’hanno sostenuta) il possesso di una particolare lingua determina in maniera
essenziale il nostro modo di pensare: non potremmo avere pensieri o concetti o modi di
categorizzare la realtà senza la, o al di fuori della, lingua che parliamo.

Discende dalla tesi del relativismo linguistico che due diverse comunità linguistiche
concettualizzerebbero il mondo in modo diverso e le differenze di concettualizzazione
sarebbero tanto maggiori, quanto maggiori sono le differenze fra le lingue delle due comunità
-> parlare una determinata lingua determinerebbe il modo di concettualizzare il mondo
secondo le categorie linguistiche della lingua e questo caratterizzerebbe il nostro pensiero
(modo di pensare).

lingua concettualizzazione modalità di pensiero


del mondo

La realtà oggettiva va ricercata nel flusso caleidoscopio di percezioni: il mondo viene presentato
in un flusso variopinto di impressioni che deve essere organizzato dalle nostre menti, ovvero
dai sistemi linguistici presenti nelle nostre menti. In altre parole, la nostra percezione del
mondo oggettivo è filtrata dalle categorie della nostra lingua, ed è per questa ragione che due
lingue diverse porteranno a percepire la realtà in maniera diversa.

Procediamo quindi con la trattativa del discorso procedendo, prima con l’inquadrare
storicamente l’ipotesi del relativismo linguistico, poi cerchiamo di chiarire che cosa si intenda
esattamente con ipotesi del relativismo linguistico, introducendo dei caveat per meglio
specificarla e distinguerla da altre posizioni teoriche. Infine, introdurremo i criteri che
utilizzeremo per valutare criticamente gli studi recenti svolti per verificare effettive influenze
della lingua sul pensiero.

Panoramica storica
La lingua originaria e le lingue perfette
Alla base del racconto della Torre di Babele, c’è l’affermazione che prima della punizione divina
tutti gli uomini parlassero la stessa lingua. Questa lingua “originaria” è quindi stata vista da
molti autori come la lingua perfetta, che permetteva la comunicazione diretta tra Dio e gli
uomini. E questa lingua è stata identificata con l’ebraico, lingua in cui è scritto appunto
l’Antico Testamento (questo prima degli studi di linguistica storica che hanno dimostrato
l’esistenza di altre lingue precedenti alla lingua in cui è stata scritta la Bibbia).

Sempre in una prospettiva religiosa, sono state considerate lingue «perfette» anche il latino e il
greco, oltre all’ebraico, visto che (almeno secondo Giovanni) l’iscrizione sulla croce di Gesù
Cristo era in tutte e tre queste lingue.

Queste annotazioni ci servono solo per dire che per molto tempo si è pensato che esistesse
una unica lingua originaria, trasmessa da Dio agli uomini, identificata con l’ebraico. Anche il
greco e il latino, comunque, venivano considerate lingue sacre, anche perché l’Antico
Testamento è stato presto tradotta in queste lingue.

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Nel De Vulgari Eloquentia, Dante definisce la lingua volgare come la lingua che si acquisisce
naturalmente da bambini, semplicemente ascoltando la balia (il caregiver, diremmo adesso). E
la contrappone al latino, oramai lingua morta, le cui regole devono essere studiate per poter
essere apprese. Dante sostiene anche che la lingua volgare sia universale: tutto il mondo ne
fruisce, sebbene le lingue si differenzino per vocaboli e pronuncia. A partire da queste
assunzioni, Eco arriva esplicitamente a sostenere che Dante sia un precursore di Chomsky, e
veda nel volgare la facoltà del linguaggio, visto che tutti i bambini di tutti i luoghi lo apprendono
in maniera naturale e spontanea, e quindi la sua ossatura deve essere la stessa, con le lingue
che si differenziano solo per vocaboli e pronuncia.

Le lingue del popolo e le lingue di “nobile origine”


Dal momento in cui esistono lingue naturali diverse, si può pensare che esistano anche lingue
migliori di altre: la questione della lingua diventa questa volta importante per dare ulteriore
spinta ai primi moti nazionalistici. La lingua diventa quindi un importante fattore unificante per
dare identità alle prime nazioni e alcuni studiosi si impegnano a «dimostrare» la presunta
superiorità della propria lingua rispetto alle altre.

È a partire dalle supposizioni e teorie di questi primi autori che comincia quello che si potrebbe
definire come una sorta di razzismo linguistico: si sostiene apertamente che la propria lingua
– per ragioni (supposte) storiche (è la lingua di Noè) oppure anche strutturali (ha determinate
caratteristiche che le permetterebbero di esprimere al meglio la realtà) – è migliore di altre
lingue.

La lingua comparativa
Con il colonialismo inglese in India, si sono scoperte interessanti affinità tra lingue come il
greco, il latino, l’ebraico, il celtico, e, appunto, il sanscrito. Con gli studi di linguistica
comparativa, si è arrivati a ipotizzare l’esistenza di una lingua proto-indoeuropea (di cui non ci
sono tracce), che sarebbe stata parlata circa 7000 anni fa.

Con la linguistica comparativa, quindi, tramontò l’idea di ricercare la lingua originaria trasmessa
da Dio ad Adamo – o se anche la si fosse voluta indentificare con il protoindoeuropeo, si capì
che tutte le lingue, e famiglie di lingue, da lì discendenti, avevano subito varie mutazioni nel
corso del tempo. Cadde quindi la “scusa” di indicare una determinata lingua come “migliore”
di altre perché in (supposta) discendenza diretta dalla lingua di Noè.

Humboldt: La lingua come visione del mondo


Arriviamo quindi alla figura di Karl Wilhelm von Humboldt, il quale teorizza in maniera articolata
l’idea che la lingua esprima lo spirito del popolo che la parla, e che identifichi la nazione: “La
lingua è la manifestazione fenomenica dello spirito dei popoli: la loro lingua è il loro spirito e il
loro spirito è la loro lingua”. Inoltre l’autore sostiene che pensiero e linguaggio siano
intrinsecamente legati e che il secondo permette di restituire una particolare visione del
mondo.

«Poiché sulla lingua della medesima nazione influisce una soggettività uniforme,
in ogni lingua è insita una peculiare visione del mondo. Come il singolo
suono si inserisce tra l’oggetto e l’uomo, così la lingua intera si inserisce tra
l’uomo e la natura […] L’uomo vive principalmente con gli oggetti, e quel che è
più, poiché in lui patire e agire dipendono dalle sue rappresentazioni, egli vive

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con gli oggetti percepiti esclusivamente nel modo in cui glieli porge la
lingua. Con lo stesso atto, in forza del quale ordisce dal suo interno la rete della
propria lingua, egli vi si inviluppa, e ogni lingua traccia attorno al popolo cui
appartiene un cerchio da cui è possibile uscire solo passando, nel medesimo
istante, nel cerchio di un’altra lingua.»

In Humboldt l’esistenza di lingue costituisce una ricchezza: visto che le lingue sono
espressioni delle varie culture, e ognuna porta a una prospettiva diversa sul mondo, attraverso
la pluralità di lingue si possono scoprire realtà diverse.

Il “darwinismo” linguistico

Schleicher

August Schleicher nel 1863 pubblica “La teoria darwiniana e la glottologia”: le lingue sono
viste come degli organismi naturali, indipendenti dal volere degli individui che le parlano, che
crescono e si sviluppano secondo leggi naturali, per poi morire.

Si noti come, in verità, il processo postulato da Schleicher secondo cui le lingue, dopo un
periodo di massimo splendore (identificato con una morfologia ricca), “invecchiano” per poi
morire, è di fatto un processo inverso rispetto a quello darwiniano di evoluzione verso una
maggiore perfezione grazie alla selezione naturale di tratti utili per la sopravvivenza. Inoltre,
applicando questo ragionamento alle lingue parlate in Europa nella seconda metà dell’800,
l’inglese sarebbe stato da considerare come in avanzata fase di decadenza, avendo perso
ormai quasi completamente il ricco apparato morfologico flessivo originario.

Jespersen

Otto Jespersen, linguista danese, obietta a tale conclusione. Una lingua, per lui, non è «un
organismo che vive e muore al pari di una pianta o di un animale», ma costituisce una «attività
umana, come sforzo, da parte di un individuo, di farsi capire o almeno di stabilire un rapporto
con un altro individuo». A questo punto, l’evoluzione della lingua dovrebbe portare a un suo
continuo miglioramento, fino ad arrivare alla lingua che «con i mezzi più semplici riesce ad
esprimere i pensieri umani nella maniera più piena e più accessibile», ossia la lingua che riesca
a ottenere la massima efficacia comunicativa con il minimo dei mezzi.

Quello che ci interessa qui è il diffondersi dell’idea che le caratteristiche strutturali di una lingua
riflettano le caratteristiche della cultura e della società in cui queste lingue sono parlate.

Il “razzismo linguistico”
A partire dagli studi precedenti (involontariamente), vengono spalancate le porte del “razzismo
linguistico”: si sostiene che l’inglese è una lingua altamente avanzata che permette di
esprimere i pensieri in maniera efficiente con il minimo sforzo (proprio come discusso
precedentemente con lo studio di Jespersen), e allora lingue che adottano strategie
morfosintattiche diverse sono considerate come non-efficienti, e questo viene messo in
collegamento con la non efficienza della società e della cultura (o meglio, della mancanza di
cultura) degli individui che parlano tali lingue. Nel momento in cui si afferma che una lingua è
superiore ad un’altra, si apre la porta alla conseguenza che altre lingue sono inferiori, e che
quindi chi le parla si trova ad un livello (sociale, culturale, o intellettuale) inferiore.

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Franz Boas

Contro l’idea del «darwinismo linguistico», e contro l’assunto che le lingue parlate da comunità
socialmente e culturalmente meno avanzate di quelle occidentali fossero “primitive” in quanto
non in grado di esprimere la realtà in maniera efficiente, si scaglia Franz Boas, antropologo
tedesco, che verso la fine dell’800 si trasferisce negli Stati Uniti per studiare la cultura, e le
lingue, degli eschimesi e dei nativi americani. E Boas obietta appunto all’idea che a società
«semplici» corrispondano «lingue semplici». Nella sua monumentale opera Handbook of
American Indian Languages (1911) analizza diverse lingue amerinde, e nota come in esse siano
presenti strutture morfosintattiche estremamente elaborate, e che solo conoscendo queste si
possa accedere alla cultura dei popoli che le parlano

Da Boas a Sapir, e da Sapir a Whorf

Sapir fu appunto allievo di Boas, ed elaborò l’idea del maestro che le lingue avessero un forte
legame con la cultura degli individui, ponendo però maggiore enfasi sulla influenza di
particolari costruzioni linguistiche sulla rappresentazione della realtà.

Whorf fu a sua volta allievo di Sapir, e propose una versione ancora più estrema del legame tra
lingua e pensiero – il cosiddetto determinismo linguistico – sostenendo che le strutture
linguistiche determinassero visioni diverse del mondo.

I caveat
Come abbiamo già discusso nell’introduzione dell’argomento, l’ipotesi alla base del relativismo
linguistico è che il fatto di parlare una specifica lingua abbia un effetto diretto sul modo di
concettualizzare la realtà. Questa ipotesi però deve essere chiarita, per distinguerla da altre
ipotesi, e per chiarirne la portata.

Caveat 1
LA LINGUA vs LE LINGUE DETERMINANO IL PENSIERO?
Secondo il relativismo linguistico, lingue diverse portano a concettualizzazioni del mondo
diverse. Parlare una certa lingua (come l’italiano, o il giapponese o il Mohawk) porta le persone
che parlano quella specifica lingua a vedere il mondo in maniera diversa.

Una tesi diversa è invece l’idea che parlare una lingua determini il modo in cui gli uomini
concettualizzano il mondo. Questa seconda ipotesi (che non è il relativismo linguistico) ritiene
che la lingua (una qualsiasi lingua) strutturi il nostro pensiero e che senza lingua non potremmo
“pensare”.

L’idea che la lingua determini il pensiero è sostenuta da tutti quegli autori (compreso Chomsky)
che vedono il linguaggio umano come la modalità mediante cui strutturiamo i nostri concetti, e
quindi pensiamo la realtà. L’idea è che alcune categorie del linguaggio siano presenti in tutte
quante le lingue (ad esempio, categorie come prima/dopo, uguale/diverso, maggiore/minore,
oggetto/sostanza), e queste categorie linguistiche strutturino poi il modo con cui noi
concettualizziamo la realtà.

La tesi del relativismo linguistico, invece, sostiene che se una lingua specifica X contiene
particolari strutture linguistiche (non presenti in un’altra lingua Y), allora le persone che parlano
quella determinata lingua X concettualizzeranno la realtà in maniera diversa rispetto a coloro
che parlano un’altra lingua Y che non contiene quelle particolari strutture linguistiche.

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Alla base del relativismo linguistico, quindi, c’è l’idea che le lingue possano variare tra di loro
in aspetti fondamentali che permettono di plasmare il pensiero.

Caveat 2
IN CHE SENSO UNA LINGUA DETERMINA IL PENSIERO?
È opportuno riflettere sull’affermazione secondo cui il parlare una lingua particolare “ha un
effetto” sul modo con cui si pensa.

Si possono infatti distinguere due versioni differenti:

• Determinismo linguistico: si tratta della versione forte, secondo cui le lingue determinano
la concettualizzazione della realtà. Questa versione è attribuibile a Whorf: nei suoi scritti più
divulgativi si trovano affermazioni secondo cui le lingue sono come delle «gabbie» che
forzano chi le parla a pensare in determinati modi.

• Relativismo linguistico: versione debole (il nesso tra lingua e pensiero è più debole), con
la lingua che invita a certi modi di pensare particolare, ma senza forzare necessariamente
schemi concettuali. Questa versione è invece attribuibile a Sapir.

Inoltre, anche all’interno di una versione debole del relativismo linguistico, è necessario chiarire
con precisione «in che senso» la lingua influenza il pensiero.

ESPERIMENTO: Schooler, Engstler-Schooler (1990)

Si tratta di un famoso esperimento: si fa vedere il video di una rapina in banca, di 30 secondi,


in cui la telecamera è fissa sul volto del rapinatore. Dopo si svolge un compito distrattore per
20 minuti (leggere dei brani e rispondere a delle domande), e poi i partecipanti vengono divisi in
due gruppi:

• Face Verbalization: devono scrivere su un foglio tutti i dettagli del rapinatore che si
ricordano;

• Control: per lo stesso tempo (5 minuti) sono impegnati in una attività non collegata (parole
crociate).

Dopo, vengono presentati 8 volti, e viene chiesto di indicare qual era il ladro, e quanto si è
sicuri della scelta.

Il gruppo della Face Verbalization ha raggiunto una accuratezza del 38%; il gruppo Control
del 64% - si tratta di una differenza significativa. Ossia, chi ha descritto verbalmente il volto del
rapinatore, ha avuto maggiori difficoltà a riconoscerlo rispetto a chi non è passato attraverso la
mediazione linguistica. I due autori parlano di verbal overshadowing: il descrivere
verbalmente qualcosa peggiora (al posto di migliorare) il riconoscimento della cosa che è stata
descritta.

Non entriamo qui nell’analisi del fenomeno, ma ci interessa un aspetto particolare, che ha a
che vedere con il modo in cui viene immagazzinata in memoria una determinata informazione:
quello che l’esperimento suggerisce è che sia possibile una memorizzazione «diretta»
dell’informazione (il volto del ladro), e una memorizzazione mediata dal linguaggio (mediante
la descrizione linguistica del volto del ladro).

Linguaggio e memoria: In uno studio del 1932, chiamato «Uno studio sperimentale sull’effetto
del linguaggio sulla rappresentazione di forme percepite visivamente», Carmichael, Hogan e
Walter evidenziano come il dare una particolare etichetta a uno stimolo linguistico porta a
memorizzarlo con determinate caratteristiche, «aggiunte dal linguaggio». Un esempio è

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rappresentato dall’esperimento degli occhiali (“memorizzare un paio di occhiali/manubrio della


montatura”).

Torniamo ora alla questione del relativismo linguistico.

Come vedremo, è sicuramente vero che le lingue differiscono tra loro in vari aspetti, alcuni
legati al lessico, altri legati ad elementi morfosintattici. Facciamo un esempio lessicale: in
italiano (e in inglese) si usa un solo verbo per indicare il dare (to give); in lingue come il Navajo,
invece, bisogna usare verbi diversi a seconda della forma dell’oggetto che deve essere dato
(oggetto lungo e flessibile, oggetto lungo e rigido, materiale liscio e flessibile).

Dan Slobin parla di un particolare effetto chiamato “pensare per parlare” (thinking for
speaking): gli individui organizzano il loro pensiero ponendo attenzione su quegli aspetti che
dovranno codificare linguisticamente. Secondo Slobin, una lingua può richiedere che vengano
linguisticamente codificati particolari aspetti della realtà (pensiamo alla forma degli oggetti per
la lingua Navajo). Nel momento in cui un individuo deve eseguire un compito di
categorizzazione che richiede una mediazione linguistica, queste diverse caratteristiche
linguistiche emergeranno. Dunque parlanti di lingue diverse codificheranno aspetti diversi. È
quindi ovvio che si riscontri una diversità nella categorizzazione tra parlanti lingue diverse se le
lingue differiscono sul tipo di aspetti che richiedono vengano espressi linguisticamente.

Per vedere però se una determinata lingua ha davvero un effetto sul modo di categorizzare la
realtà, occorre verificare che tale influenza si verifichi anche quando la persona sta
svolgendo un compito che non richiede la mediazione linguistica; e inoltre che tale effetto
sia a lungo termine (e, ad esempio, non scompaia nel momento in cui si acquisisce una
seconda lingua che richieda nuove categorizzazioni). In altre parole, per valutare la portata
dell’influenza della lingua sul pensiero, bisogna appurare se tali effetti sono a breve termine ed
eliminabili, oppure a lungo termine e stabili.

Riassumendo, l’ipotesi del relativismo linguistico sostiene che il fatto di parlare una
determinata lingua abbia un qualche effetto (forte o debole) sul modo in cui viene
concettualizzata la realtà. Tuttavia, per trovare questo effetto della lingua sul pensiero, è
necessario eliminare l’intermediazione linguistica, ossia bisogna trovare un effetto sul modo di
categorizzare della realtà da parte di un individuo che non sia impegnato in compiti linguistici
(p.e: riconoscimento non-linguistico dei colori). Se infatti troviamo che un parlante della lingua
Navajo, ad esempio, pone maggiormente attenzione alla forma degli oggetti nel momento in
cui deve parlare, ossia utilizzare il verbo appropriato (ossia, deve pensare per parlare), allora
questo effetto è ovvio e prevedibile proprio perché la lingua richiede di codificare
obbligatoriamente determinati aspetti della realtà.

Caveat 3
QUALI ASPETTI DELLA LINGUA POSSONO AVERE EFFETTO SULLA
CONCETTUALIZZAZIONE?
La discussione sulle diversità tra lingue (che si rifletterebbe anche in diversità di pensiero) si è
spesso concentrata sulla diversità nel lessico, ossia sul fatto che una lingua decida di
lessicalizzare determinati concetti, per i quali non esiste un equivalente monolessemico in
un’altra lingua. Si sente dire spesso (infatti) che una certa lingua (in genere la propria) ha una
forza espressiva unica, una capacità di esprimere un concetto non esprimibile con uguale
vividezza in un’altra lingua (p.e: in siciliano “cuddiari” ovvero “alzare il collo a destra o a sinistra
per guardarsi intorno e cercare qualcuno”). Molto spesso questi concetti nelle loro lingue sono
esprimibili con una sola parola (anche se in molti casi si tratta di parole composte), mentre in
italiano richiedono delle circonvoluzioni. La domanda che ci viene da porre a questo punto è:
avere a disposizione una parola sola per esprimere un concetto che in altre lingue si
esprime con più parole davvero ci fa pensare in maniera diversa?

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Un determinista linguistico affermerebbe che la mancata possessione di una parola


equivarrebbe con la mancanza del possibile concetto espresso. Secondo questa prospettiva,
si identifica il possedere un concetto con l’avere una parola corrispondente.

La tesi relativistica forte – il determinismo linguistico - dice che noi pensiamo in una specifica
lingua (per es. l’italiano). Secondo la tesi relativistica forte, l’organizzazione del mio pensiero
corrisponde all’organizzazione della frase che esprime quel pensiero nella mia lingua. Ma
questa tesi, nella sua forma forte, non è credibile. Infatti, la lingua non determina il pensiero
rigidamente, e questo può essere dimostrato prendendo in considerazione molti casi in cui è
chiaro che ciò che una persona pensa va oltre ciò che questi può dire in una frase:

1. gli indicali
2. L’ambiguità lessicale

3. L’ambiguità strutturale
4. Lo zio Alberto

1. Gli indicali

Prendiamo in considerazione la seguente frase:

“Sta piovedo”

Il significato, il contenuto linguistico, di questa frase è più povero del pensiero che ho
formulato e che (in genere) riesco a trasmettere al mio interlocutore, perché il mio pensiero non
riguarda un semplicemente evento di piovere, ma è riferito all’evento di piovere in un
determinato luogo. In altre parole, il pensiero riguarda anche un luogo preciso, anche se nella
frase non viene indicato.

Notiamo che anche se dicessimo:

“Sta piovendo qui”

la situazione non cambierebbe. Qui è legato al contesto in cui la frase è pronunciata. Il pensiero
che s’intende trasmettere per mezzo di questa frase è che sta piovendo in qualche punto
specifico (il pensiero riguarda un luogo), anche se questo luogo non è presente, o è comunque
sottodeterminato, nella frase.

2. L’ambiguità lessicale

Riprendiamo in considerazione un concetto che abbiamo già discusso in “Linguaggio e


Comunicazione” (guarda pag. 54). Con ambiguità lessicale si intendono quelle parole che
hanno più significati.

Nell’argomento sulla rigidità della corrispondenza linguaggio-pensiero, il mio pensiero non


riguarda tutti i possibili significati della parola ambigua, ma si riferisce solo al concetto che ho
in mente in quel momento. In poche parole, a parole ambigue non corrispondono pensieri
ambigui (almeno per chi parla).

3. L’ambiguità strutturale

Inoltre, come abbiamo già ampiamente discusso nel modulo I, una frase può essere
strutturalmente ambigua, cioè può essere associata a due contenuti informazionali diversi, ma
anche in questo caso chi parla ha in mente un pensiero preciso, anche se la frase pronunciata
può avere due interpretazioni diverse.

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4. Lo zio Alberto

Le parole sono in genere più povere del pensiero che riusciamo a trasmettere quando le
usiamo. Se dico:

“Quello è mio zio”

per riferirmi allo zio Alberto il contenuto linguistico in senso stretto è “quello è un uomo che

a. è il fratello di mia madre, oppure

b. è il fratello di mio padre, oppure

c. ha sposato una sorella di mia madre, oppure

d. ha sposato una sorella di mio padre”

in genere io so quale condizione fra (a) e (b) è quella che si applica allo zio Alberto. Il pensiero
circa lo zio Alberto va oltre quanto la frase letteralmente dice.

Sulla base dei casi appena trattati, possiamo concludere che il contenuto linguistico
sottospecifica il pensiero che convoglia. O, detto conversamente, il pensiero eccede il
linguaggio che lo convoglia (“Language is sketchy, thought is rich”). Per questo non può
essere vero che i nostri pensieri si riducono al contenuto linguistico delle frasi con cui
cerchiamo di trasmetterli.

Caveat 4
LINGUA E PENSIERO… E LA CULTURA?
Ritorniamo ancora una volta sulla variazione lessicale tra le lingue e sul fatto che lingue diverse
decidano di lessificare concetti diversi. Uno degli esempi più lampanti di questo enunciato
viene rappresentato dagli eschimesi: sembrerebbe che questo popolo abbia decine (o
centinaia) di modi diversi di riferirsi alla neve. Secondo un relativista linguistico, una persona
che parli la lingua eschimese (che ha tanti n modi per riferirsi alla neve) guarderà il mondo (in
particolare, la neve) in modo radicalmente diverso da una persona che parli una lingua come
l’inglese o l’italiano che non ha così tante parole per riferirsi alla neve. Ossia, gli eschimesi
vedono diverse categorie dove noi vediamo un’unica indifferenziata categoria di neve.

Sebbene la storia secondo cui gli eschimesi avrebbero decine (o più) di parole per riferirsi alla
neve sia una bufala, la storia continua a imperversare nonostante siano passati più di 25 anni
da quando è stata smascherata, a dimostrazione del fatto che la tesi del relativismo linguistico
piace. Ma supponiamo che gli eschimesi davvero avessero tante parole per ‘neve’. Questa
sarebbe un’indicazione che la lingua determina il loro modo di concettualizzare la realtà
(secondo la tesi Sapir-Whorf)? Oppure sarebbe un’indicazione che, siccome vivono in
mezzo alla neve, la loro lingua riflette una particolare sensibilità a questa sostanza? La
lingua causa la rappresentazione della realtà o la riflette?
Esistono moltissimi casi in cui un gruppo di individui arriva a sviluppare un vocabolario
estremamente ricco e variegato per riferirsi alle varie sfumature di uno stesso fenomeno, ma il
nesso di causalità NON è dal linguaggio alla percezione (ho tante parole, quindi percepisco le
sfumature), ma dalla cultura (mi interessa riferirmi a sfumature diverse) al lessico.

CULTURA LESSICO

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Arriviamo quindi ad un ulteriore caveat nell’affrontare la questione del relativismo linguistico.


Come detto, l’ipotesi è che il fatto di parlare una determinata lingua influenzi o determini il
pensiero, ossia il modo in cui la realtà viene categorizzata. Tuttavia, in molti casi (ne parleremo),
è importante distinguere anche possibili differenze non solo linguistiche, ma anche culturali.
Ossia, se noto che l’individuo X (sembra) pensa(re) in maniera diversa dall’individuo Y, questa
differenza potrebbe essere dovuta non solo alla lingua, ma anche alla cultura. Non sempre,
infatti, è la lingua a influire/determinare la concettualizzazione, ma la cultura a farci concentrare
su determinati concetti che vengono poi lessificati.

Caveat 5
COME DIMOSTRARE CHE LA LINGUA INFLUENZA IL PENSIERO?
Come già accennato, la tesi del relativismo linguistico piace, e spesso viene acriticamente
accettata dai più. Il modo in cui si “argomenta” è però spesso il seguente: trovo una lingua in
cui c’è una (importante) differenza lessicale o morfosintattica rispetto alle “nostre” lingue, e
assumo (do per scontato) che a tale differenza corrisponda una diversità di pensiero. Questo
è il modo in cui è stato inizialmente presentato il relativismo linguistico, e questo è ancora il
modo in cui tuttora viene divulgato.

Vediamo un esempio di Whorf, e usiamolo per specificare quali siano i criteri che utilizzeremo
per valutare la portata delle affermazioni sul relativismo linguistico.

La concezione del tempo

In italiano, possiamo ritrovare diversi marcatori lessicali (come ieri, adesso, lunedì prossimo) e
morfosintattici (come l’espressione del tempo passato, presente o futuro sul verbo) che si
riferiscono al tempo:

Ieri sono andata in piscina.


Adesso mi riposo.
Lunedì prossimo farò una gara di nuoto.

In uno dei suoi scritti più famosi, e più citati, Whorf sostiene che la lingua Hopi (una lingua della
famiglia delle Lingue uto-azteche) non abbia alcun marcatore linguistico per riferirsi al tempo, e
quindi i parlanti Hopi abbiano una diversa concezione del tempo. Da ciò, lo studioso deduce
che sarebbe «ingiustificato» credere che gli Hopi abbiano la nostra stessa concezione del
tempo. Ma quale sarebbe dunque la concezione del tempo per i parlanti Hopi?
Gli Hopi avrebbero una visione del tempo in un certo senso einsteiniana: l’idea di un tempo
“relativo”. Tale concezione sarebbe rintracciabile negli Hopi.

Obiezioni a Whorf

OBIEZIONE 1

Dire che «visto che la lingua è diversa, allora il pensiero è diverso» è un argomento fallace,
circolare, in cui si assume come ovvia la conclusione che invece deve essere dimostrata.
Ossia, se anche due lingue sono diverse per come marcano (o non marcano) il tempo, bisogna
ancora dimostrare che la concezione del tempo dei parlanti è diversa, non lo si può
semplicemente assumere come dato di fatto.

Whorf da per scontato l’assenza del concetto di tempo negli Hopi a partire unicamente
dall’assenza di forme morfosintattiche e lessicali.

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OBIEZIONE 2
La seconda obiezione riguarda invece l’analisi che fa Whorf

a. del modo in cui le lingue occidentali marcano il tempo, e

b. del modo in cui gli Hopi (non) marcano il tempo.

a. Whorf parla come se fosse “ovvio” che gli occidentali marcano il tempo secondo la
prospettiva di un tempo lineare – passato, presente e futuro. Ma, come sottolineato da
Chomsky, se uno si mettesse ad analizzare «whorfianamente» l’inglese, allora dovrebbe
dire che:


1. c’è una distinzione morfologica tra ciò che è passato e ciò che non è passato (e
non tra passato/presente/futuro): 

Es.: “John [was/is] short” [Visto che il presente può tranquillamente essere usato
anche per riferirsi a eventi futuri, come in: “Next Saturday Inter plays Torino”].


2. Modi diversi (presente e progressivo) per stati o eventi presenti: 



Es.1: “John is short” / “*John is being short” 

Es.2: “John is playing tennis” / “*Now, John plays tennis” 


3. E un complesso sistema di verbi modali modali per riferirsi a eventi futuri: 



Es.: “John will play tennis”

Quindi, se si adottasse il modo di ragionare di Whorf (che parte dalla lingua per dedurne la
concettualizzazione), i parlanti inglese avrebbero una concezione del tempo che non è una
linea continua dal passato al futuro, ma avrebbero un sistema di opposizione passato/non-
passato, a cui si interseca un complesso sistema di modalità che distingue tra ciò che è
permesso, possibile, etc etc.

Inoltre, Whorf aveva presentato il sistema temporale della lingua Chichewa (una tribù di
illetterati) come qualcosa di assolutamente ‘bizzarro’, che portava con sé una nuova
concezione del tempo – nuova in quanto sarebbe radicalmente diversa dalla «nostra».
Tuttavia, lo stesso sistema temporale è presente in italiano standard. Quindi, Whorf
presenta il modo linguistico degli occidentali di marcare il tempo come se fosse unitario, e
lo scheletro che sostiene la nostra idea (che si assume condivisa) di tempo. Ma, se si
analizzano i modi diversi con cui le diverse lingue occidentali marcano il tempo, si possono
notare differenze tra lingue, seppur i relativisti linguistici tendono a non pensare che a
queste differenze linguistiche corrispondano poi diverse concezioni (e si ritorna alla prima
obiezione, sulla circolarità del ragionamento di Whorf).

b. Whorf sostiene che la lingua Hopi non contenga alcun elemento linguistico per riferirsi al
tempo, ma già in un trattato del 1983 di Ekkehart Malotki (Hopi Time: A Linguistic Analysis
of the Temporal Concepts in the Hopi Language) si sostiene che nella lingua Hopi ci sono
diversi modi per riferirsi al tempo, sia lessicali, che morfologici. Nel lavoro si Malotki si
cerca una prova linguistica per la concezione del tempo nella lingua Hopi: si scopre che in
realtà la lingua pullula di espressioni per indicare il tempo.

Riassumendo, ci sono oramai molte evidenze che vanno contro l’affermazione di Whorf
secondo cui nella lingua Hopi non ci sono marcatori linguistici del tempo, e che questo
causerebbe una loro diversa concezione del tempo (ipotesi che sarebbe comunque da
dimostrare).

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Valutare il relativismo linguistico


Quello che ci interessava in questa introduzione al tema del relativismo linguistico era
semplicemente di stabilire dei criteri secondo cui valutare la portata delle affermazioni dei
sostenitori del relativismo linguistico. Visto che però, come abbiamo appena visto, non è
sufficiente dire che se una lingua X differisce da una lingua Y in un aspetto, allora i parlanti
della lingua X penseranno in modo diverso dai parlanti della lingua Y, ma bisogna dimostrarlo,
prenderemo in considerazione gli esperimenti. Infatti, dopo un lungo periodo in cui la tesi del
relativismo linguistico era stata di fatto screditata, e non presa in considerazione (almeno non
dagli accademici, sebbene continuasse a imperversare nell’immaginario collettivo), negli ultimi
30 anni è tornata in auge perché diversi autori hanno condotto degli esperimenti i cui risultati
confermerebbero una qualche versione del relativismo linguistico.

Quello che faremo, quindi, è presentare gli esperimenti e valutare criticamente l’interpretazione
dei risultati emersi.

I COLORI

Come vedremo, le lingue variano molto nel lessico che hanno a disposizione per riferirsi ai
colori: alcune lingue hanno un repertorio estremamente ricco, in altre lingue esistono invece
solo due termini per riferirsi ai colori. Secondo la tesi del relativismo linguistico, a questa
variazione lessicale, dovrebbe corrispondere una differenza sistematica nel riconoscimento
non-linguistico dei colori e in altri compiti cognitivi che riguardano i colori.

Colori e relativismo linguistico


Come discusso nelle lezioni introduttive, non basta dare per scontato che se un individuo che
parla una lingua che ha solo due termini per riferirsi ai colori, allora quella persona non
percepirà i colori (o li percepirà in maniera diversa da chi ha un lessico più ricco), ma bisogna
dimostrarlo. Prima parleremo di uno studio (più una sua replica) condotto da Berlin & Kay,
volto a indagare se c’è una differenza (comportamentale) nel riconoscimento dei colori a
seconda della lingua parlata. Poi, analizzeremo uno studio più recente che usa anche misure
più “fini”, in situazioni più controllate.

L’esperimento di Berlin & Kay (1969)


Gli studi di Berlin & Kay vengono condotti su un ampio numero di lingue parlate nel mondo,
che differiscono tra di loro per la quantità di termini che si riferiscono ai colori. L’idea generale
di Berlin & Kay è di verificare se una lingua che contiene termini diversi per riferirsi ai colori
abbia effettivamente una influenza sul modo con cui i parlanti concettualizzano i colori.

La prima ricerca sperimentale è stata condotta su una media di 24 parlanti nativi di 20 lingue.

FASE PRELIMINARE: elicitazione termini basici di colore

Per prima cosa, gli autori hanno chiesto ai partecipanti di elencare tutti i termini della loro
lingua madre che si riferissero ai colori. Per identificare i termini basici di colore, B&K hanno
preso in considerazione solo quei termini con le seguenti caratteristiche:

• Termini monolessemici (di una sola parola: no “giallo limone”)

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• La loro estensione non deve essere inclusa in quella di un altro termine per il colore (no
“cremisi” perché incluso in “rosso”)

• Non limitati a una classe particolare di oggetti (no “biondo”)

• Termini “psicologicamente salienti” per i parlanti (no “scarlatto”)

Si otteneva così una grande diversità nell’inventario dei termini basici per i colori nelle 20 lingue
testate (tra 2 e 12 termini): ci sono lingue che hanno 2 termini e altre che ne hanno 12.

COMPITO 1
Ai partecipanti venivano presentati i 329 campioni di colore Munsell, e dovevano selezionare
quei campioni che ritenevano essere i “migliori esempi” (foci, colori focali) per ognuno dei
termini basici di colore della propria lingua. Quindi, per il Compito 1, il parlante della lingua X
che possiede solo due termini basici per riferirsi al colore – ad esempio qualcosa che noi
italiani potremmo rappresentarci come “colore-chiaro" e “colore-scuro”, dovrà indicare il
migliore esemplare (colore focale) di “colore-chiaro" e il migliore esemplare di “colore-scuro”; il
parlante della lingua Y che possiede 12 termini basici per riferirsi ai colori, dovrà indicare qual è
il migliore esemplare (colore focale) per ognuno dei 12 termini basici che usa.

COMPITO 2
Messo davanti a una tabella graduata, il soggetto doveva indicare tutti gli esemplari che
ricadevano nell’estensione di ogni termine basico di colore, ossia indicare i confini di ogni
categoria di colore. Quindi, per il Compito 2, ogni parlante doveva indicare, per ogni termine di
base di colore della sua lingua, quali di questi colori venivano identificati.

RISULTATI

Come abbiamo visto, le lingue testate avevano da 2 a 12 termini basici per i colori. Ma, in
maniera sorprendente, i colori focali identificati nel Compito 1 erano estremamente simili in
tutte le lingue. Ossia, c’erano alcuni determinati colori che venivano scelti come colori focali
(migliori esemplari) sia da parlanti che avevano solo due termini basici, sia da parlanti che ne
avevano dodici. Questo indica che: esistono alcuni colori che vengono ritenuti esemplari
prototipici indipendentemente dalla lingua parlata.

Nella seconda parte dell’esperimento, invece, i soggetti dovevano indicare le categorie tra i
colori. Per questo compito non c’è una forte consistenza: i confini variano non solo da lingua a
lingua, ma anche tra parlanti della stessa lingua.

Berlin & Kay, concentrandosi maggiormente sui risultati del primo compito, concludono che
alcuni colori focali vengono riconosciuti come tali (ovvero come colore più rappresentativo)
indipendentemente da come poi una determinata lingua decide di lessicalizzare i termini per i
colori. Inoltre, i due autori analizzano la distribuzione dei termini di colore nelle varie lingue (che
variavano da avere solo 2 termini di colore fino a 11/12), e trovano che c’è una sistematicità:

• Se una lingua ha 11 termini basici di colore, allora questi si riferiscono alle categorie di:
BIANCO, NERO, ROSSO, VERDE, GIALLO, BLUE, MARRONE, ARANCIONE, ROSA, VIOLA,
GRIGIO
• Se una lingua possiede meno di 11 termini basici di colore, ci sono vincoli particolari sulle
categorie che vengono codificate:

I. Tutte le lingue hanno dei termini che si riferiscono al “bianco” (tonalità luminosa e calda)
e al “nero” (tonalità scura e fredda) BIANCO, NERO.

II. Se una lingua ha 3 termini per colore, allora, oltre ai termini BIANCO e NERO, contiene
il ROSSO, BIANCO, NERO, ROSSO.

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III. Se una lingua ha 4 termini, allora il quarto termine è o il VERDE o il GIALLO. BIANCO,
NERO, ROSSO, VERDE o BIANCO, NERO, ROSSO, GIALLO

IV. Se una lingua ha 5 termini, allora sono: BIANCO, NERO, ROSSO, VERDE, GIALLO.

V. Se ha 6 termini, sono BIANCO, NERO, ROSSO, VERDE, GIALLO, BLU/AZZURRO.

VI. Se ha 7 termini, sono BIANCO, NERO, ROSSO, VERDE, GIALLO, BLU/AZZURRO,


MARRONE.

VII. Se ha 8 termini, sono BIANCO, NERO, ROSSO, VERDE, GIALLO, BLU/AZZURRO,


MARRONE e [GRIGIO o ROSA o ARANCIONE o VIOLA]

Vengono quindi individuati 7 stadi evolutivi delle lingue, caratterizzati da una progressiva
lessicalizzazione dei termini di colore rispettando la gerarchia illustrata precedentemente.

A partire dal lavoro di B&K, sembrerebbe che le lingue si siano evolute, a partire dall’avere solo
2 termini basici, e aggiungendone gradualmente altri. Col tempo, hanno raggiunto un massimo
di 11 (12) termini basici. A conferma di ciò, le lingue non perdono mai termini basici di colore. I
7 stadi quindi possono essere visti come stadi evolutivi, in cui l’ordine logico corrisponde
all’ordine temporale.

DISCUSSIONE
Berlin & Kay ritengono che i loro risultati vadano contro la tesi del relativismo linguistico: il
sistema linguistico (ossia, l’inventario lessicale dei colori) non influenza il sistema percettivo (la
discriminazione dei colori, e i giudizi di similarità tra colori). Viceversa, è il sistema percettivo
che pone dei vincoli sul sistema linguistico, in particolare sulla categorizzazione dei colori. In
particolare, l’esistenza di 11 colori focali è un fenomeno percettivo indipendente dall’esistenza
di un sistema linguistico. Berlin & Kay ritengono che questi foci rappresentino delle categorie
semantiche universali.

Tesi universalista di Berlin & Kay

A partire dai risultati ottenuti con l’esperimento, B&K formulano la tesi universalista:

• Esiste una gamma di colori focali

• Le varie lingue evolvono verso la completa lessicalizzazione dello spettro dei colori focali

• In ogni lingua esistono le risorse per indicare i colori focali, anche se non in tutte essi sono
tutti denotati da termini di base

• Il lessico di colore varia considerevolmente in lingue diverse

• Ma c’è convergenza sull’identificazione dei colori focali

• Il relativismo linguistico prevede che attività di nominare e attività di concettualizzare


coincidano

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• Invece l’identificazione dei colori focali non è determinata dall’attribuzione di etichette


lessicali

• La somiglianza e la tipicità dei colori non sono determinate dal lessico

Crucialmente, non avviene che le categorie percettive siano determinate o influenzate in


maniera significativa dal lessico. Al contrario, il lessico recepisce categorie percettive
preesistenti, anche se non tutte le lingue etichettano le stesse categorie percettive.

Critiche a Berlin & Kay

Molte delle lingue che hanno testato i due sperimentatori (15) sono già allo stadio VII e molte
delle persone testate sono bilingui. Inoltre sono quasi tutti studenti di Berkeley, quindi il
campione è troppo omogeneo

IL WORLD COLOR SURVEY (WCS)

Le generalizzazioni a cui erano giunti Berlin & Kay nel 1969 sono state poi modificate e ri-
definite, anche grazie a nuovi studi che sono stati condotti su un campione molto più ampio di
parlanti, di lingue, e soprattutto testati nelle loro comunità. Il mega-progetto, del 1976, è il
World Color Survey (WCS).

Nel WCS, missionari protestanti del Summer Institute of Linguistics, hanno raccolto dati
provenienti da 25 parlanti monolingui di 110 lingue non-scritte e tribali, che appartengono a 45
famiglie linguistiche distinte. I partecipanti dovevano prima dare un nome (dire di che colore
erano) a 320 tasselli Munsell, più i 10 tasselli acromatici (bianco-grigio-nero), presentati in
ordine random. Dopo dovevano indicare i colori focali per ognuno dei colori che avevano
nominato nella sessione precedente. Il dataset così ottenuto ha permesso delle analisi
statistiche molto più dettagliate che hanno portato grosso modo, ma non completamente, a
confermare le conclusioni cui Berlin & Kay erano giunti nello studio precedente.

LEVINSON E I YÉLÎ DNYE


In un lavoro del 2000, però, Levinson obietta alle conclusion di Berlin & Kay: secondo lui, la
popolazione dei Yélî Dnye (che vive sulle isole Rossel della Nuova Guinea) non sembra
possedere termini basici per riferirsi al colore perché non sembra esistere nessun termine che
soddisfa tutti i criteri elencati da B&K (essere monolessemici, etc - guardare pag 94/95). Inoltre,
i 7 partecipanti che hanno eseguito il WCS task (denominare il colore dei 330 mattoncini)
concordano solo su 4 colori: bianco, nero, rosso e verde. Gli altri termini che si riferiscono ai
colori sono usati in maniera non consistente.

Il lavoro di Berlin & Kay, come tutti i lavori sperimentali, è soggetto a critiche e può essere
migliorato ma resta un riferimento classico e soprattutto è l’unica ricerca con un campione
molto ampio di lingue. L’idea di Berlin & Kay è che l’ontologia trascenda il linguaggio: ci sono
alcuni colori «nel mondo» che sono considerati più salienti di altri (i colori focali). Le lingue si
trovano in diversi stadi evolutivi rispetto alla lessificazione dei colori: alcune lingue hanno solo
due parole, ma quando il repertorio lessicale si evolve, i nuovi termini vanno a riferirsi ai colori
che, nel mondo, sono maggiormente salienti (salienti rispetto ai colori “meno prototipici” e più
vicini nella gerarchia di salienza): dopo bianco/nero, si lessifica il rosso etc.

I risultati di Berlin & Kay vanno quindi in direzione opposta all’ipotesi del relativismo linguistico,
anche nella sua forma debole. Tuttavia, utilizzando un paradigma sperimentale più controllato,
e prendendo misure più fini, potrebbe comunque emergere una differenza nel modo in cui i
colori sono percepiti – a seconda della lingua che si parla.

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Esperimento “BLURRO”
Se l’ipotesi di relativismo linguistico fosse corretta, ci aspetteremmo che i giudizi di tipo
psicofisico sui colori siano in qualche misura influenzati dal tipo di lessico di colore della lingua
parlata dai soggetti sperimentali (questo è un argomento ampiamente discusso nei paragrafi
precedenti). Per esempio, in lingue come l’italiano (e il russo) esistono due termini basici distinti
per riferirsi al blu e all’azzurro. In altre lingue (ad esempio in inglese), che chiameremo lingue
“blurro”, invece, c’è un unico termine che serve per coprire entrambe le sfumature di colore.
L’ipotesi relativistica prevede che i parlanti italiano o russo giudichino più simili fra di loro
esempi di blu e di azzurro di quanto facciano i parlanti inglesi, ossia diano giudizi di tipo
psicofisico diverso sulle sfumature di blu o azzurro. L’esperimento di Boroditsky e colleghi,
che stiamo per descrivere, coinvolge parlanti inglese (“una lingua blurro”) e parlanti russo (una
lingua che, come l’italiano, ha un termine per ‘blu’ e un termine distinto per ‘azzurro’ -> termini
basici distinti).

DISEGNO SPERIMENTALE
La struttura base dell’esperimento era molto semplice. Si mostrava ai
soggetti sperimentali una configurazione di tre quadrati (come quella riportata
a destra) e si chiedeva loro: “Quale dei due quadrati in basso è identico a
quello sopra?”. Le diverse configurazioni di tre quadrati erano formate a
partire da venti gradazioni dall’azzurro chiaro al blu scuro.

PARTECIPANTI
24 soggetti parlanti nativi inglese, “lingua blurro” in cui non c’è una distinzione fra ‘blu’ e
‘azzurro’, e 26 parlanti nativi russo, lingua in cui c’è una distinzione fra ‘blu’ (siniy) e
‘azzurro’ (goluboy).

PROCEDURA

Il compito principale era un compito di discriminazione, che consisteva nell’identificare quale


dei due quadrati in basso fosse identico a quello in alto. La configurazione con i tre quadrati
appariva sullo schermo di un computer e i soggetti dovevano indicare a quale quadrato fra i
due in basso corrispondesse quello in alto premendo un tasto sul lato sinistro o destro della
tastiera. Ogni soggetto doveva effettuare 136 prove di discriminazione.

Dopo che aveva fatto il compito di discriminazione, a ogni parlante russo veniva chiesto per
ognuna delle venti gradazioni usate nell’esperimento se la classificava come siniy (blu) o
come goluboy (azzurro). Similmente a ogni parlante inglese veniva chiesto se la classificava
come dark blue (blu) o come light blue (azzurro).

In questo modo per ognuna delle venti gradazioni veniva determinato per ogni singolo
soggetto sperimentale se essa apparteneva alla fascia del blu o dell’azzurro.

Le prove del compito di discriminazione potevano quindi essere divise in due categorie diverse
per ogni partecipante:

• Within category trials: quelle prove in cui il soggetto aveva scelto tra due colori che per
lui appartenevano alla stessa categoria di colore (tra due blu o tra due azzurri);

• Cross category trials: quelle prove in cui il soggetto aveva scelto tra due colori che per
lui appartenevano a due categorie diverse di colore (un blu e un azzurro);

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IPOTESI SPERIMENTALE

Il compito di discriminazione (ossia, discriminare


quale colore è uguale a un altro) non è altro che un
compito di tipo percettivo: focalizzandosi sulla
differenza “fisica” tra le sfumature di colore, il
colore 2 differisce dal colore 7, quanto il colore 7
differisce dal colore 12. I parlanti russo però
hanno termini diversi per riferirsi ai tre campioni di colore: il 2 e il 7 sono goluboy (azzurro), il 12
è siniy (blu). I parlanti inglese, invece, si riferiscono a tutti e tre i campioni con il termine blue.

L’ipotesi è: il fatto di parlare russo rende le persone più “brave” degli inglesi nel riconoscere un
colore blu se in competizione con l’azzurro? Ossia, i parlanti russo sono più “bravi” degli
inglesi nei cross-category trials?

CONDIZIONI
Il compito di discriminazione veniva svolto in tre condizioni diverse:

• Condizione 1: Nessuna interferenza -> ai partecipanti venivano presentati i 3 quadratini,


e dovevano discriminare quale dei due quadratini era uguale a quello in alto. Non c’erano
interferenze

• Condizione 2: Interferenza spaziale -> I soggetti dovevano tenere in mente una


configurazione di 4x4 quadrati (alcuni chiari e altri scuri) mentre svolgevano il compito di
discriminazione (per essere sicuri che avessero effettivamente svolto il compito
interferente, dopo che avevano svolto il compito di discriminazione si chiedeva loro di
scegliere fra la configurazione originaria e un’altra configurazione di 4x4 quadrati)

• Condizione 3: Interferenza verbale -> I soggetti dovevano tenere in mente una sequenza
composta di otto numeri fra 1 e 9 mentre svolgevano il compito di discriminazione (per
essere sicuri che avessero effettivamente svolto il compito interferente, dopo che
avevano svolto il compito di discriminazione si chiedeva loro di scegliere fra la sequenza
originaria e un’altra sequenza di otto numeri).

RISULTATI
Vengono prese due distinte misure:

1. L’accuratezza: quante volte i partecipanti discriminano correttamente (ossia, se


riescono a indicare il quadratino che è dello stesso colore di quello in alto);

2. I tempi di reazione: quanto tempo (in millisecondi) impiegano per dare la risposta.

1. Accuratezza

Concentrandoci sulla misura dell’accuratezza non c’è differenza tra parlanti russo e parlanti
inglese (ossia, i russi non sono più bravi nel discriminare il colore uguale a quello di
partenza).

2. Tempi di reazione

Le differenze tra i due gruppi emergono con questa seconda misura (si tratta di una misura
più fine).

Un primo risultato, non troppo sorprendente, è che sia i parlanti inglese che i parlanti russo
erano più veloci quando i due colori fra cui dovevano scegliere erano più lontani nello
spettro. Ma il risultato più rilevante è che i parlanti russo - ma non i parlanti inglese - erano
più veloci nei cross-category trials (cioè nelle prove in cui dovevano scegliere fra due
colori che appartenevano uno alla fascia dell’azzurro e uno alla fascia del blu) rispetto ai

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within-category trials (scegliere tra due blue, oppure tra due azzurri). La risposta nei “cross-
category trials” era in media di circa 100 millisecondi più veloce che la risposta nei “within
category trials”.


Prestiamo ora attenzione all’immagine a
fianco: i partecipanti parlanti inglese sono
sempre più veloci nel rispondere rispetto ai
parlanti russo. Ma questo risultato non ci
interessa: ci possono essere ragioni diverse
(ad es., i parlanti inglese possono essere più
abituati ad usare il computer, o a svolgere
compiti sperimentali). Quello che ci interessa
è vedere all’interno di ogni singolo gruppo
sperimentale se ci sono differenze tra i
cross-category trials e i within category trials,
nelle varie condizioni: i russi sono più bravi
nel cross-category trials nei tempi di reazione. 

Bisogna anche prestare attenzione a quanto succede nelle altre due condizioni in cui c’è
interferenza: per quanto riguarda gli inglesi (guardare anche le lineette che partono dagli
istogrammi) non ci sono grandi differenze in tutte e tre le prove; nel caso dei russi, invece,
nella seconda condizione c’è differenza come nella prima, ma nelle terza - quella con
interferenza verbale - la situazione cambia. Nella condizione di interferenza verbale i parlanti
russo non risultano più veloci nei cross category trials rispetto ai within category trials.
Questo non può dipendere solo dal fatto che sia presente una distrazione, perché anche
nella seconda condizione c’è un fastidio.

INTERPRETAZIONE DI BORODITSKY E COLLEGHI

Nel commentare i risultati che hanno ottenuto, Boroditsky e colleghi sostengono che essi non
sono compatibili con la tesi Sapir-Whorf nella sua forma forte. Questo è mostrato molto
chiaramente dal fatto che a livello di accuratezza non c’è alcuna differenza fra parlanti russo e
parlanti inglese. Chi parla una “lingua blurro” sa distinguere due tonalità che vanno sotto la
stessa etichetta linguistica, al contrario di quanto direbbe la tesi Sapir-Whorf nella sua forma
forte. Tuttavia, gli autori sostengono che i risultati dell’esperimento portano acqua al mulino di
una versione debole della tesi del relativismo linguistico:

“Il caso dei blu russi suggerisce che le distinzioni categoriche abituali o obbligatorie
fatte nella propria lingua si traducono in distorsioni categoriche specifiche della lingua in
compiti percettivi oggettivi. La differenza fondamentale in questo caso non è che chi
parla inglese non può distinguere tra blu chiaro [azzurro] e blu scuro [blu], ma piuttosto
che chi parla russo non può evitare di distinguerli: deve farlo per parlare russo in modo
convenzionale. Questo requisito comunicativo sembra indurre i madrelingua russi a fare
abitualmente uso di questa distinzione anche quando svolgono un compito percettivo
che non richiede il linguaggio.”

Boroditsky e colleghi insistono sul fatto che l’effetto della lingua si riscontrerebbe in compiti
puramente percettivi (“riconosci il colore uguale”), senza intermediazione linguistica. Questo
era un criterio su cui avevamo insistito (guardare pag. 89).

COMMENTO AI RISULTATI
1. La differenza, quando emerge, è di meno di un decimo di secondo nel tempo di risposta
(nei cross-category trials ci mettono 1 secondo; nei within-category trials ci mettono 1,1
secondo). Non c’è differenza nell’accuratezza. 


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Anche se si tratta di un risultato sperimentalmente interessante, siamo ben lontani dal


dimostrare che parlare lingue diverse abbia conseguenze apprezzabili sul modo in cui
concepiamo la realtà o operiamo nel mondo.

2. La facilitazione per i russi nei cross-category trials rispetto ai within-category trials emerge
nelle prime due condizioni, MA non emerge nella terza condizione, quando i soggetti sono
impegnati a ricordare sequenze di numeri (quando devono ricordare sequenze di numeri, i
russi non sono più veloci a riconoscere il colore tra un blu e un azzurro, piuttosto che tra
due blu o tra due azzurri). Quest’ultimo dato è particolarmente interessante per una serie di
motivi:

I. Sappiamo che per ricordare una sequenza di cifre (o parole) utilizziamo il ripasso
fonoarticolatorio, cioè ci aiutiamo ripetendola in maniera sub-vocale;

II. Si sa che per ricordare stimoli visivi ci si aiuta attribuendo loro un’etichetta verbale
quando questo è possibile, cioè quando agli oggetti che devo ricordare corrisponde
un nome. Ad es.: immagine con una pera, mela e banana, automaticamente si
assocerà all’immagine la sequenza di parole “mela, pera, banana” (anche se il
compito non lo richiede).

III. Infine si sa che il meccanismo di codifica verbale degli stimoli visivi è lo stesso
coinvolto nel processo di ripasso articolatorio.

Questo ci permetterebbe di capire il particolare effetto che si riscontra nella terza


condizione dell’esperimento: dato che il meccanismo di ripasso articolatorio è impegnato
nella ripetizione della lista di numeri, la codifica linguistica dei quadrati è svantaggiata in
quanto lo stesso meccanismo - utilizzato per codificare gli stimoli visivi - è già usato in un
altro compito. Nella prima e seconda condizione, invece, i parlanti russo fanno, in maniera
automatica, una codifica linguistica dei quadrati “il quadrato a destra è blu, quello a sinistra
è azzurro, quello sotto è azzurro”). 

Da parte loro, ai parlanti di una “lingua blurro” come l’inglese fare una codifica linguistica
dei quadrati non serve a nulla (“il quadrato a destra è blurro, quello a sinistra è blurro, quello
sotto è blurro”).

INTERPRETAZIONE DEI RISULTATI E TESI SAPIR-WHORF

Il risultato di Boroditsky e colleghi può quindi essere una dimostrazione che in un compito di
accoppiamento colore-colore mi aiuto (se posso) dando un nome ai due colori che devo
accoppiare (proprio utilizzando lo stesso meccanismo sub-vocale che viene utilizzato per il
ricordo di stimoli visivi - guarda il motivo (II) per l’effetto nella terza condizione sperimentale. Si
tratta di una strategia spontanea e automatica, che viene bloccata quando il ripasso
articolatorio è impossibile.

Questo risultato è interessante, ma non ci dice molto sul ruolo del linguaggio nel categorizzare
la realtà. Ci dice qualcosa di più limitato, cioè quali sono le strategie messe in atto
spontaneamente dai soggetti per svolgere un compito sperimentale in laboratorio.

Uno studio della BBC


Un particolare articolo su internet (“La lingua influenza la personalità e la struttura del cervello”)
tratta di come la comunicazione può avere anche un impatto sulla nostra visione del mondo e
un esempio lampante riguarda la percezione dei colori. Lo studio prende in considerazione i
parlanti Himba (una lingua parlata nel nord della Namibia), una lingua che possiede un unico
termine per riferirsi sia al blu che al verde (lingua “grue” - green + blue) e che invece avrebbe
termini diversi per riferirsi a sfumature di verde. Secondo tale articolo queste persone

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Martino Branca Matricola: 840783

“percepirebbero” il mondo in maniera radicalmente diversa da chi parla una lingua in cui
esistono termini diversi per riferirsi al verde e al blue.

L’idea è questa: visto che i parlanti Himba inserivano il verde e il blu nella stessa categoria (per
tutti e due la parola buru), se presento in un test tutti colori verde più un colore blu, mi aspetto
che gli Himba siano meno bravi a individuare l’intruso perché per loro sono tutti esemplari di
colore buru. Mentre, siccome gli stessi parlanti usavano termini diversi per classificare diverse
sfumature di verde (a differenza dei soggetti inglesi), per gli Himba potrebbe essere più
semplice individuare l’intruso, mentre per gli inglesi sarebbe più difficile.

Questi risultati dimostrerebbero un effetto del lessico sulla percezione psicofisica, tuttavia non
esistono studi pubblicati che riportano questo lavoro e nell’articolo online non vengono citati
autori di questa ricerca.

L’ORIENTAMENTO SPAZIALE

In questa sezione parleremo della relazione tra orientamento spaziale e linguaggio.

Le lingue variano nel tipo di espressioni che vengono utilizzate per collocare gli oggetti nello
spazio, e nelle caratteristiche che vengono ritenute salienti per attuare questo
posizionamento. La tesi del relativismo linguistico sostiene che a variazioni (importanti) nel
sistema linguistico in questo ambito corrispondano variazioni nel sistema non-linguistico di
orientamento spaziale.

Orientamento spaziale e relativismo linguistico


Quando parliamo di «lingue che cambiano molto nell’uso del lessico spaziale» non intendiamo
differenze nel tipo di vocaboli (ad es.: right vs destra), e neanche nell’ampiezza del repertorio
lessicale spaziale (come avevamo visto per il lessico per i colori - guardare pag 94). Ci riferiamo
al tipo di strategie che vengono utilizzate per collocare un oggetto nello spazio.

Collocare spazialmente un oggetto


Per collocare un oggetto ho bisogno di un punto di riferimento rispetto al quale collocarlo.

Esistono due modalità di riferimento spaziale:

• Modalità egocentrica: l’oggetto è descritto (collocato spazialmente) rispetto alla


posizione dell’osservatore.

• Modalità geocentrica (o assoluta): l’oggetto è descritto (collocato spazialmente) rispetto


a un punto di riferimento indipendente dall’osservatore.

C’è una differenza fondamentale tra queste due modalità: se l’osservatore si sposta rispetto
agli oggetti che intende collocare spazialmente, i riferimenti egocentrici cambiano, quelli
geocentrici non cambiano (per es.: da una prospettiva la palla si trova a destra della bicicletta;
dalla prospettiva opposta la palla è alla sinistra della bicicletta; Malta, indipendentemente dal
nostro punto di vista, è sempre a Sud della Sicilia).

Nella lingue come la nostra ci sono entrambe le modalità, seppur tendiamo ad utilizzare
maggiormente quella egocentrica. Ci sono popolazioni, però, che occupano uno spazio

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geografico molto limitato e nel quale ci sono chiari punti di riferimento geografici molto chiari
(per esempio una collina o un fiume). Alcune di queste popolazioni parlano lingue in cui non
esistono descrizioni linguistiche di tipo egocentrico.

Ci viene da porre, quindi, una domanda: queste popolazioni rappresentano lo spazio come
chi sa usare punti di riferimenti egocentrici?

L’ipotesi del relativismo di Levinson e colleghi


Riprendendo la questione precedentemente introdotta, l’ipotesi avanzata da Levinson e
colleghi è che persone che parlano utilizzando solo la modalità geocentrica non hanno la
nostra visione dello spazio.

“... Considerate un linguaggio che non abbia termini per davanti, dietro, sinistra, destra e
così via ... preferendo invece designare tutte queste relazioni, non importa quanto
microscopiche in scala, in termini di nozioni come Nord, Sud, Est, Ovest, ecc. Ora un
parlante di tale linguaggio non può ricordare le disposizioni di oggetti nel nostro stesso
modo, in termini della loro localizzazione relativamente a un particolare angolo visivo... I
parlanti di [tali] lingue ricordano effettivamente le disposizioni spaziali in modo diverso in
modi che possono essere dimostrati sperimentalmente e osservativamente”

Un esempio di lingua senza indicazioni di tipo egocentrico è lo Tzeltal, una lingua Maya parlata
dai Tenejapan in un’area del Chiapas in Messico. In questa popolazione esiste un sistema di
orientamento “a monte/a valle” (uphill/downhill) che è fondamentale per il sistema spaziale
basato sull'inclinazione complessiva del terreno di Tenejapa dall'alto (sud) al basso (nord), in
modo che il termine per “a monte” (e di conseguenza, “a valle”) fa riferimento primario
all'effettiva inclinazione del terreno. Questo sistema sostituisce quindi il nostro uso di sinistra/
destra in molti contesti: quando ci sono due oggetti orientati in modo tale che uno si trova a
sud dell'altro, può essere indicato come oggetto “a monte”. Ora, curiosamente, questo sistema
di allineamento Nord/Sud non è completato da una simile differenziazione dell‘asse ortogonale
(sull’asse ortogonale non si riscontra la medesima differenziazione). C'è un nome ortogonale
ma il termine è indifferente sul fatto che si riferisca a Oriente o Occidente; ciò che significa
veramente è "trasversale all’inclinazione" (crosshill). Quindi c'è una distinzione a tre vie.

L’esperimento: Brown & Levinson (1993)


IPOTESI SPERIMENTALE
Nella lingua Tzeltal dei Tenejapans ci sono solo termini di riferimento assoluti-geocentrici e,
conseguentemente, ci si aspetta che i parlanti Tzeltal percepiscano, e poi memorizzino,
disposizioni spaziali secondo le categorie della loro lingua – e quindi in modo assoluto-
geocentrico – anche in compiti che non richiedano l’intermediazione linguistica (torniamo
sempre al secondo caveat del relativismo linguistico a pag. 88 ). In generale, ci si aspetta che i
parlanti di una lingua con una prevalenza di termini relativi-geocentrici percepiscano e
memorizzino le relazioni spaziali secondo questa modalità.

PROCEDURA SPERIMENTALE
1. Un soggetto si siede su una sedia da ufficio con le rotelle e viene posto
davanti a un tavolo in cui tre animali sono disposti in un certo ordine
(chiamiamo questo “tavolo degli stimoli”). 20 Gli viene detto di
memorizzare la posizione degli animali e successivamente questi
vengono rimossi.

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2.Dopo qualche istante, il soggetto viene fatto ruotare di 180 gradi


e si trova davanti a un altro tavolo vuoto (chiamiamo questo “tavolo
della rievocazione”).

3.Infine, gli vengono dati i tre animali che ha visto sul tavolo degli
stimoli e gli viene chiesto di metterli come prima

Ci sono due modi per svolgere questo compito. Per esempio, supponiamo che sul tavolo degli
stimoli gli animali avessero la parte superiore del corpo rivolta a Nord (guarda immagine nella
pagina precedente). Nel tavolo degli stimoli, l’ordine con cui sono messi gli animali può quindi
essere descritto in due maniera diverse:

• Partendo da nord: pesce-granchio-scarabeo;

• Partendo da destra: pesce-granchio-scarabeo.

Nel momento in cui i soggetti si girano di 180° per trovarsi di fronte al tavolo della rievocazione,
e devono mettere gli animali “come prima”, hanno due possibilità.

A. Possono mantenere l’ordine partendo da nord – soluzione geocentrica

B. Possono mantenere l’ordine partendo da destra – soluzione egocentrica

SETTING SPERIMENTALE
Levinson e colleghi hanno testato in questo compito tenejapan e olandesi (che hanno termini
per “destra” e “sinistra”). Ogni soggetto veniva testato 5 volte, con la stessa procedura ma con
diversi animali o con diverse disposizioni degli stessi animali. I soggetti olandesi erano testati in
una stanza dell’università, mentre i soggetti tenejapan erano testati su dei tavoli all’aperto
(questo dettaglio è molto rilevante).

RISULTATI
La stragrande maggioranza dei tenejapan ha scelto la soluzione geocentrica, mentre la
stragrande maggioranza degli olandesi ha scelto la soluzione egocentrica.

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Nell’asse verticale è riportata la percentuale di soggetti, per ognuno dei due gruppi
sperimentali: Olandesi (Dutch) con la linea più chiara, e Tenejapan con la linea più scura.

Nell’asse orizzontale è riportata la percentuale di scelte di tipo assoluto-geocentrico. Ossia, a


livello di 0 ci sono quelli che non hanno mai fatto una scelta geocentrica; a livello di 20 ci sono
quelli che hanno fatto il 20% di scelte geocentriche; a livello di 100 ci sono quelli che hanno
sempre fatto scelte geocentriche.

DISCUSSIONE
Secondo Brown & Levinson, questi dati supportano la tesi del relativismo linguistico: il lessico
per le relazioni spaziali influenza in maniera determinante il comportamento (non-linguistico) dei
parlanti. Quindi, la lingua specifica che una persona parla influenza il modo in cui quella
persona categorizza e ricorda le configurazioni spaziali.

Gli studi di Li & Gleitman


Il gruppo di ricerca di Lila Gleitman ha contestato questa interpretazione dei risultati di
Levinson. In particolare, Gleitman e colleghi interpretano l’esperimento di Levinson in modo
speculare: non è il linguaggio a determinare le differenti strategie di ragionamento spaziale ma
sono le differenze culturali sul modo in cui lo spazio viene categorizzato che sono responsabili
per le differenze fra le lingue. Inoltre mostrano che, cambiando il setting sperimentale, si
possono indurre parlanti di lingue con termini egocentrici, come l’inglese, ad adottare un
comportamento geocentrico come i tenejapan. Se così fosse, è chiaro che la differenza fra
comportamento geocentrico ed egocentrico non si può attribuire in modo predominante alla
lingua parlata dai soggetti. In particolare, contestano a Gumperz & Levinson il diverso setting
sperimentale in cui tenejapans e olandesi sono stati testati: gli olandesi sono stati testati in un
laboratorio (al chiuso) i tenejapans sono stati testati all’aperto.

Li & Gleitman sospettano quindi che il diverso comportamento di olandesi e tenejapans


(olandesi riordinano gli oggetti con una modalità relativa/egocentrica; i tenejapans con una
modalità assoluta/geocentrica) possa essere ricondotto non necessariamente ad una differenza
tra i sistemi linguistici, ma semplicemente al diverso setting sperimentale, ossia al fatto che per
i tenejapans c’erano chiari punti di riferimento (la casa, la collina, etc) che potrebbero essere
stati usati per risolvere il compito. I due sperimentatori sottolineano come la consegna per
eseguire il compito (“riordina gli oggetti nello stesso modo”) fosse di fatto ambigua, nel senso
che entrambi gli ordinamenti (relativo e assoluto) fossero corretti. Il sospetto, quindi, è che il
diverso setting sperimentale abbia suggerito modi diversi di risolvere il compito. In altre parole,
che la presenza di punti di riferimento esterni ai tavoli abbia suggerito ai tenejapans una
risoluzione del compito di tipo assoluto.

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L’ESPERIMENTO
Per testare la loro ipotesi, Li & Gleitman decidono di testare dei partecipanti americani
(l’inglese, come l’olandese e l’italiano, è una lingua con una preponderanza di riferimenti
spaziali egocentrici) in tre condizioni differenti:

1. Partecipanti testati in un laboratorio con tende aperte/chiuse



In una prima replica dell’esperimento di Levinson, i soggetti americani sono stati testati in
un laboratorio dentro l’università, ma in due condizioni diverse:

• Con le tende del laboratorio chiuse: si poteva vedere all’esterno

• Con le tende del laboratorio aperte: si potevano vedere punti di riferimento esterni (es.:
libreria)


2. Partecipanti testati all’aperto 



In una seconda replica dell’esperimento di Levinson, i soggetti americani sono stati testati
all’aperto, e quindi con dei chiari riferimenti esterni (setting sperimentale analogo a quello
usato per i Tenejapans).


3. Statuetta con paperi che si baciano



Infine, nella replica C dell’esperimento di Levinson, fatta questa volta in un
laboratorio al chiuso (come gli olandesi), viene introdotto un cambiamento
piccolo: sul tavolo degli stimoli c’era un oggetto in più. Si trattava di una
coppia di paperi che si baciano (la scelta non è casuale, l’oggetto doveva
essere simmetrico).

Sul tavolo degli stimoli i paperi erano posti sempre alla destra del soggetto
sperimentale, in posizione distanziata dalla serie dei tre animali la cui
disposizione il soggetto doveva memorizzare. Durante l’esperimento non
veniva mai richiamata l’attenzione sulla presenza dei paperi.


Quando i soggetti si postavano sul tavolo della rievocazione, trovavano già una copia
identica dei paperi.


Per metà dei soggetti sperimentali (“soggetti egocentrici”) i paperi erano alla
loro destra (come nel tavolo degli stimoli). 


Per l’altra metà dei soggetti sperimentali (“soggetti geocentrici”) i paperi
erano alla loro sinistra.

IPOTESI SPERIMENTALE

L’ipotesi sperimentale è la seguente: se il comportamento dei tenejapans (maggiori ordini


assoluti/geocentrici) rispetto agli olandesi (maggiori ordini relativi/egocentrici) fosse dovuto non
alla lingua ma al setting sperimentale, allora ci aspettiamo che gli americani (lingua con
riferimenti relativi) si comportino in maniera simile ai tenejapans nelle condizioni in cui vengono
resi più salienti dei riferimenti esterni (tende su; test all’aperto; paperi che si baciano con bias
assoluto)

RISULTATI
I risultati vanno nella direzione suggerita dalla Gleitman. Quando gli americani vengono testati
in un setting sperimentale in cui ci sono dei chiari riferimenti spaziali esterni rispetto agli oggetti
da ordinare, il loro comportamento nel tavolo della rievocazione diventa simili a quello dei
Tenejapans, ossia fanno molte più scelte di ordinamento di tipo assoluto/geocentrico.

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DISCUSSIONE
Questo suggerisce che la strategia che viene utilizzata per riordinare gli oggetti (relativa o
assoluta) possa non essere dovuta alla lingua, ma a fattori esterni.

Un ulteriore studio: Li et al

Un altro studio mette in dubbio l’interpretazione dei risultati ottenuti da Levinson e colleghi sui
Tenejepans.

Riprendiamo in considerazione la procedura sperimentale di Brown & Levinson. Li e colleghi


sottolineano come l’istruzione di rimettere gli oggetti nello “stesso” modo (“do the same”) è di
fatto ambigua, nel senso che entrambe le disposizioni (egocentrica e geocentrica) sono
corrette. Si tratta semplicemente di due diversi modi per svolgere il compito, cercando di
interpretare che cosa lo sperimentatore intendesse con «stesso» modo.

Li e colleghi sostengono che se si vuole vedere l’effetto della lingua sul pensiero, allora bisogna
scegliere un esperimento in cui ci sia una sola modalità corretta per risolvere il compito, una
modalità che si basi su una soluzione di tipo geocentrico oppure su una modalità di tipo
egocentrico. E, a questo punto, verificare se chi parla una lingua con riferimenti geocentrici ha
più problemi nel risolvere il compito che richieda di ricorrere alla modalità egocentrica. E
questo è quello che si propongono di testare.

PROCEDURA SPERIMENTALE
L’esperimento viene svolto sempre con soggetti Tenejapan che parlano Tzeltal, 26 adulti
monolingui. L’idea è la seguente: si chiede ai soggetti di identificare una particolare carta target
tra altre quattro carte, che sono uguali, ma che hanno semplicemente orientamenti spaziali
diversi.

In questo tipo di compito c’è una sola risposta corretta possibile. Le istruzioni non sono
ambigue, e c’è un solo modo corretto per risolvere il compito, ossia indicare quella carta che
ha esattamente lo stesso orientamento delle due figure.

I Tenejapans vengono familiarizzati con questa procedura, prima con la carta scoperta (ce
l’hanno di fronte mentre devono individuare quella uguale), poi con la carta che viene mostrata,
deve essere memorizzata, e poi viene coperta.

Dopo questa fase di familiarizzazione, inizia la fase del test che va a testare l’eventuale effetto
della lingua sul compito.

1. Il soggetto viene posto di fronte a un tavolo, gli viene mostrata la carta da memorizzare, e
poi la carta viene inserita dentro a una scatola.

2. Poi il soggetto si deve girare di 180° per mettersi di fronte a un altro tavolo, dove trova le 4
carte tra cui deve individuare la carta uguale a quella che ha memorizzato.

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CONDIZIONI

Ci sono due condizioni:

1. Nella condizione egocentrica quando il soggetto si gira, porta con sé la scatola, che quindi
viene anch’essa ruotata di 180°.

2. Nella condizione geocentrica quando il soggetto si gira la scatola viene portata dallo
sperimentatore, che non la ruota, ma la lascia orientata nello stesso modo in cui era nel
tavolo

LE PROVE

Ci sono due tipi di trials:

1. Nei rotation training trials la scatola in cui è stata messa la carta rimane aperta (e quindi il
soggetto può vederla anche quando deve scegliere la carta uguale nel tavolo 2). 

Questi trials servono nuovamente per familiarizzare il soggetto con la procedura.

2. Nei test trials una volta che la carta è stata memorizzata al tavolo 1, la scatola viene
chiusa, e quindi quando il soggetto ce l’ha al tavolo 2 (ruotata nella egocentric condition,
non ruotata nella geocentric condition) è chiusa e il soggetto deve solo “ricordarsi” com’era
la carta e capire come è orientata.

IPOTESI SPERIMENTALE
Ritorniamo ora sull’ipotesi sperimentale che vuole essere testata.

Li e colleghi ritengono che se il relativismo linguistico è corretto, i Tenejapans, che parlano


Tseltal (lingua con solo riferimenti geocentrici), dovrebbero risolvere con più facilità il compito
“riconosci la carta uguale” nella condizione geocentrica, mentre dovrebbero avere maggiori
difficoltà nella condizione egocentrica. Ossia, se l’ipotesi del relativismo linguistico è corretta,
l’accuratezza dei Tenejapans nei trials di tipo geocentrico/assoluto dovrebbe essere più alta
dell’accuratezza nei trials di tipo egocentrico/relativo.

RISULTATI

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DISCUSSIONE
Senza entrare nei dettagli delle altre condizioni intermedie, quello che si nota è che i soggetti
Tenejapans non hanno una prestazione migliore nelle condizioni geocentriche: la loro
accuratezza nell’eseguire correttamente il compito è la stessa sia che si tratti di usare un
orientamento di tipo geocentrico (quello codificato nella loro lingua), sia che si tratti di usare un
orientamento di tipo egocentrico.

Se Gleitman e collaboratori hanno ragione, non c’è un argomento forte a favore del relativismo
linguistico nemmeno se si guarda a lingue che non hanno un lessico spaziale di tipo
egocentrico.

QUINE

La Tesi dell’Indeterminatezza della Traduzione


Willard Van Orman Quine è un filosofo americano che nel 1960 scrive il libro Word and Object
in cui propone la famosa tesi dell’indeterminatezza della traduzione.

Secondo tale tesi, nel momento in cui si hanno due lingue L e L’ e vogliamo tradurre qualcosa
da una all’altra, per farlo c’è bisogno di un insieme di regole. Sia C l’insieme delle condizioni
che un manuale di traduzione deve rispettare per essere corretto. La Tesi
dell’Indeterminatezza della Traduzione dice che, se esiste un manuale di traduzione da L a
L’, allora ne esistono altri (forse infiniti altri) che sono tutti conformi a C ma sono incompatibili
fra di loro. In altre parole, Quine sostiene che esistano molti modi per “tradurre" una lingua da
un’altra, sempre rispettando le condizioni di correttezza, e che però questi modi sono
incompatibili tra di loro. Da ciò consegue che la traduzione tra lingue è sempre indeterminata.

Comportamentismo e teoria del significato


Prima di parlare dell’esperimento mentale che Quine ha utilizzato per sostenere la Tesi
dell’Indeterminatezza della Traduzione, facciamo una piccola digressione sulla concezione
filosofica del filosofo.

Quine è rigorosamente comportamentista e l’assunto del comportamentismo in psicologia è


che solo il comportamento esplicito, cioè osservabile direttamente, è studiabile
scientificamente. Almeno nella versione più radicale del comportamentismo, la mente è
considerata una scatola nera il cui funzionamento interno non può essere studiato e quindi il
vocabolario che fa riferimento alla dimensione interna (mentale) dovrebbe essere bandito. Il
comportamentismo è quindi anti-mentalista. Secondo il comportamentismo, quello che si può
e si deve studiare è la relazione che intercorre tra certi tipi di stimoli (ambientali) e certi tipi di
risposte (comportamentali).

La nozione stessa di significato sembra essere intrinsecamente un’entità mentale. Per


esempio, si può pensare al significato come al contenuto informazionale a cui le menti dei

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singoli parlanti accedono per permettere loro di riferirsi alla realtà esterna al linguaggio. Quindi,
come si fa a essere comportamentisti e a costruire nondimeno una teoria del significato?

Quine propone di sostituire la nozione di significato che è “macchiata di mentalismo” con la


nozione di significato-stimolo, che obbedisce ai dettami del comportamentismo. Il significato
di una frase è l’insieme di risposte che quella frase potrebbe provocare nell’individuo che la
sente: risposte di assenso o di dissenso.

Quando prendiamo una frase possiamo distinguere diverse tipologie di significati-stimolo:

• Il significato-stimolo affermativo α di un enunciato A è l’insieme delle stimolazioni che


spingerebbero un parlante ad assentire all’enunciato.

• Il significato-stimolo negativo β di un enunciato A è l’insieme delle stimolazioni che


spingerebbero un parlante a dissentire all’enunciato.

È solo mettendo assieme i significati-stimolo affermativo e negativo che otteniamo il


significato complessivo della frase.

α + β = SIGNIFICATO COMPLESSIVO della frase

ATTENZIONE: il significato-stimolo è dato dalle stimolazione (p.e: il fatto che l’individuo


percepisca davvero qualcosa di rosso), per esempio la percezione visiva di un oggetto, non
dall’oggetto stesso.

Traduzione radicale
Come avevamo lasciato in sospeso prima, Quine ha sostenuto la Tesi dell’Indeterminatezza
della Traduzione utilizzando l’esperimento mentale della traduzione radicale ovvero la
situazione (che Quine immaginava, senza averne avuto alcuna esperienza diretta) di un
linguista che va nella giungla per descrivere una lingua totalmente sconosciuta, che è parlata
da una popolazione che finora ha vissuto in una condizione di isolamento. L’esperimento
mentale consiste nel cercare di immaginarsi come questo linguista radicale possa arrivare a
comprendere il significato delle parole (associazione nome-oggetto), e soprattutto nel valutare
se il manuale di traduzione che il linguista arriverebbe a formarsi sia “corretto”, nel senso che
riesca a tradurre effettivamente le parole nell’unico modo possibile.

Abbiamo visto che per il filosofo americano comprendere il significato di una frase equivale a
individuare l’insieme di significati-stimolo affermativi e negativi collegati a quella frase, ossia
individuare l’insieme di situazioni/stimolazioni che porterebbero un parlante ad assentire a
quella frase, e l’insieme di situazioni/stimolazioni che porterebbero un parlante a dissentire da
quella frase. Per intraprendere il compito di associare i significati-stimolo alle varie frasi, il
linguista radicale dovrà quindi partire dalle frasi enunciate dai parlanti nativi, e cercare di
individuare le situazioni/stimolazioni che le hanno elicitate. Ma da quale tipo di enunciati
dovrà partire il linguista?

CLASSIFICAZIONE DEGLI ENUNCIATI


Quine permette di distinguere diverse tipologie di enunciati:

• Enunciati permanenti: frasi che descrivono aspetti relativamente stabili della realtà.

Es.: “Al Polo Nord fa freddo”

• Enunciati di occasione: frasi che sono vere o false a seconda della condizione
contingente in cui vengono pronunciate.


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Es.: “A Milano piove” (la “correttezza” della frase non dipende da un aspetto “stabile”
della realtà - a Milano non piove sempre - ma dipende unicamente dalle circostanze)

- Enunciati osservativi: sono enunciati di occasione, inoltre un parlante li accetta o li


rifiuta sulla base dell’osservazione immediata, senza dover far riferimento a
conoscenze acquisite in precedenza. 

Es.: “Questo è rosso”; “Questo è un coniglio

- Enunciati non-osservativi: sono enunciati di occasione, Ma un parlante, per poterli


accettare o rifiutare, deve fare riferimento a conoscenze acquisite in precedenza 

Es.: “Questo è uno scapolo” (Per acconsentire alla frase devo sapere qualcosa in più
sull’individuo in questione, non basta averlo davanti a sé)


RIFORMULAZIONE COMPORTAMENTISTA

• Gli enunciati di occasione sono quelli a cui si può assentire sulla base della stimolazione
del momento.

• Gli enunciati permanenti sono tutti gli altri.

• Gli enunciati di occasione osservativi sono quelli il cui significato-stimolo è uguale per
tutti i parlanti. (all’enunciato “questo è rosso” tutti parlanti direbbero si o no)

• Gli enunciati di occasione non-osservativi sono quelli il cui significato-stimolo cambia


da parlante a parlante. (all’enunciato “questo è uno scapolo” ogni parlante assentirebbe o
meno a seconda delle informazioni che ha sulla vita della persona in questione e questa
informazione tipicamente varia da parlante a parlante)

Torniamo quindi alla domanda iniziale: da quale enunciato dovrà partire il linguista?

Prima di tutto, possiamo ragionare sugli enunciati permanenti. Questi sono poco informativi
per il linguista radicale: dal fatto che tutti i parlanti della lingua L’ acconsentono in tutte le
situazioni all’enunciato di L’ “Al Polo Nord fa freddo” il linguista radicale non può ricavare
granché. Per esempio, il significato stimolo di “Al Polo Nord fa freddo” è uguale al significato-
stimolo di “2 + 5 = 7”, cioè il significato-stimolo non permette di distinguere fra i due enunciati.

Gli enunciati di occasione non-osservativi presentano il problema che il significato stimolo


varia troppo da parlante a parlante. La cosa saggia per il linguista radicale sarebbe quindi di
partire dagli enunciati di occasione osservativi.

Tradurre gli enunciati di occasione osservativi sembra abbastanza facile. Tradurre l’enunciato
di occasione osservativo A della lingua L significa trovare l’enunciato A’ della lingua L’ che ha
come significato-stimolo per i parlanti di L’ lo stesso insieme di stimolazioni che sono il
significato-stimolo di A in L. Si ricostruiscono così quali sono gli insiemi dei significati-stimolo
affermativi e quelli negativi per arrivare pian piano al significato generale della frase.

Così facendo, il linguista dovrebbe arrivare ad aggiungere parole al suo vocabolario, arrivando
anche alle parole appartenenti alle classi chiuse, come le congiunzioni, negazione e
disgiunzione. Per esempio, la negazione nella lingua L’ sarà quell’espressione che applicata
all’enunciato A ci dà l’enunciato A* tale che il significato-stimolo affermativo di A coincide con il
significato-stimolo negativo di A*.

Passo dopo passo, il linguista radicale facendo domande ai parlanti di L’ arriverà quindi a
costruire un manuale di traduzione adeguato.

Indeterminatezza della traduzione


L’esempio di Quine è il riuscire ad associare l’affermazione Gavagai! della lingua L’ con
l’espressione Coniglio! della lingua L (quella del linguista radicale) dopo che il linguista radicale
ha assistito a diverse enunciazioni di Gavagai in diverse occasioni, tutte accomunate dalla

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presenza di un coniglio (enunciati di occasione osservativi). Ora, Quine non mette in dubbio
che il linguista radicale con il tempo possa riuscire costruire un manuale di traduzione
adeguato, ma segnala un problema: data la dipendenza del manuale di traduzione dagli
enunciati di occasione osservativi, non c’è un modo univoco per costruire un manuale di
traduzione (e, quindi, Tesi della Indeterminatezza della Traduzione).

Una parentesi: Definizioni estensionali e intensionali

Come premessa, è opportuno ribadire cosa si intende per definizione estensionale e


intensionale (guarda pag. 24). Facciamo un esempio.

Consideriamo l’insieme dei multipli di 7:

• La definizione estensionale di questo insieme viene fornita dando la lista degli elementi
che ne fanno parte, quindi {7, 14, 21, 28…}

• La definizione intensionale dei multipli di 7, invece, consiste nel fornire la proprietà di cui
deve godere un oggetto per fare parte dell’insieme. Nello specifico la definizione
intensionale dell’insieme dei multipli di 7 sarà: {x: x = 7y, y è un numero intero} (si legge:
l’insieme degli x tale che x è uguale a 7 moltiplicato per y, per ogni numero intero y)

Quine ritiene che il solo concetto accettabile di significato sia quello di significato-stimolo, e
quindi assume una prospettiva unicamente estensionale al significato (e come abbiamo già
discusso prima, per lui l’estensione non è identificabile con un oggetto, ma con l’insieme delle
stimolazioni elicitate da un dato oggetto).

Pensiamo ora agli enunciati:

“Questo è un animale dotato di reni”

“Questo è un animale dotato di cuore”

Questi enunciati intuitivamente non hanno lo stesso significato ma, dato che nel mondo in cui
viviamo l’insieme degli animali dotati di reni e l’insieme degli animali dotati di cuore sono co-
estensionali, essi avranno lo stesso significato-stimolo. L’insieme delle stimolazioni elicitate
dagli animali dotati di reni è infatti uguale all’insieme delle stimolazioni elicitate dagli animali
dotati di cuore. Questa osservazione per alcuni sarebbe un problema, ma per Quine è la base
su cui costruire la tesi dell’Indeterminatezza della Traduzione.

Torniamo ora a Gavagai. Se il linguista ha assistito, con il tempo, a diverse occasioni in cui
parlanti L’ reagiscono dicendo gavagai e tutte queste sono accomunate dalla presenza di un
coniglio, allora dopo un po’ il linguista ipotizzerà che Gavagai significa coniglio. Se però ci
riferiamo al concetto di significato-stimolo, il significato-stimolo di “coniglio” è uguale al
significato stimolo di “parte non staccata di coniglio”. Infatti laddove c’è un “coniglio” c’è
anche una “parte non staccata di coniglio” o come direbbe Quine: le stimolazioni che
spingerebbero un parlante ad assentire all’enunciato “questo è un coniglio” spingerebbero lo
stesso parlante ad assentire all’enunciato “questa è una parte non staccata di coniglio” (in
maniera del tutto analoga all’esempio “Questo è un animale dotato di reni”/“Questo è un
animale dotato di cuore” ). Ora, è indubbio che tradurre in un modo o nell’altro fa una differenza
(la coda di un coniglio è una “parte non staccata di coniglio” ma non è un “coniglio”) e quindi,
come fa il linguista radicale a essere sicuro che “gavagai” traduca davvero “coniglio” e
non “parte non staccata di coniglio”? Qual’è la traduzione giusta?

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La conclusione di Quine non è che si deve trovare la traduzione giusta ma che, data l’unica
concezione corretta di significato, ovvero quella di significato-stimolo, va bene sia tradurre
“coniglio” che “parte non staccata di coniglio”. L’importante è che, una volta deciso quale sia
la traduzione corretta, ci si attenga ad essa. Quello che non si deve fare è tradurre “gavagai”
qualche volta come “coniglio” e qualche volta come “parte non staccata di coniglio”. Ma, dato
che l’intero manuale di traduzione si dovrà basare sugli enunciati di occasione osservativi,
l’indeterminatezza della traduzione si rifletterà a tutti i livelli.

Quine e il relativismo linguistico


La Tesi dell’Indeterminatezza della Traduzione ha un sapore un po’ paradossale, quindi una
reazione che molti hanno avuto è di guardare ad essa come a uno dei paradossi a cui si giunge
se si vuole essere rigorosamente comportamentisti. Bisogna comunque ricordarsi che Quine
era un filosofo, non un linguista, quindi quando ha costruito il suo argomento non è stato
ispirato da una lingua specifica. Si trattava di un semplice esperimento mentale. Eppure,
esistono lingue nel mondo in cui è stato esplicitamente sostenuto il fatto che quello che per noi
è “coniglio”, per qualcuno è “coniglità”.

L’esistenza di tali lingue ha aperto una discussione sulla possibilità che parlare lingue come
l’italiano o l’inglese oppure lingue del secondo tipo abbia conseguenze sul modo in cui i
parlanti categorizzano il mondo. Per esempio, i parlanti delle lingue del secondo tipo
categorizzano il mondo come composto da individui chiaramente identificabili (“conigli”)
o lo categorizzano come fatto di sostanze (“coniglità”) di cui quelli che noi chiameremmo
individui non sono altro che stadi spaziotemporali?

Un piccolo intermezzo
Prima di affrontare la questione linguistica indagata dal relativismo linguistico riguardo alla
differenza tra “coniglio” e “coniglità”, facciamo prima un breve intermezzo, sulla questione della
acquisizione dei nomi.

Come fanno i bambini ad acquisire il significato delle parole? O in altre parole, come fanno
i bambini ad associare una parola al suo significato?

Se ci pensiamo, l’idea di Quine del linguista radicale che deve codificare un linguaggio
sconosciuto riflette la situazione che si verifica ogni volta che un bambino deve acquisire il
significato di parole nuove. Si potrebbe pensare che i bambini imparano il legame di
significazione che intercorre tra una parola e l’oggetto da una semplicemente “osservazione
diretta”: il caregiver mostra l’oggetto al bambino e pronuncia la parola e in questa maniera il
bambino impara a che cosa la parola si riferisce (si tratta degli enunciati occasionali osservativi
di Quine).

Questa visione incorre, però, in due problemi (più un’ulteriore questione che introduciamo):

1. Il primo problema consiste nell’identificare, all’interno della scena visiva indicata dal
caregiver l’oggetto che il caregiver intende mostrare, e talvolta questo non è semplice.

2. Anche assumendo che il bambino riesca a focalizzare la sua attenzione sull’oggetto


inteso dal parlante, permane un secondo problema: come fa il bambino a capire a
che cosa esattamente la parola si riferisca?

3. C’è poi un’altra questione: una volta che un bambino abbia capito che una parola si
riferisce a un oggetto (assumendo quindi che (1) il bambino sia riuscito a focalizzare

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l’attenzione sull’oggetto giusto, e (2) che abbia capito quale aspetto di quell’oggetto
fosse rilevante per il significato (ad es. «coniglio nella sua interezza» e non una sua
parte, proprietà, ecc) come fa il bambino a sapere a quali altri oggetti quel nome
può essere correttamente esteso?

1. Individuare gli oggetti nella scena

Per quanto riguarda il primo problema, quello di identificare il corretto referente di un nome
pronunciato dal caregiver, sono di fondamentale importanza aspetti sociali (l’attenzione
condivisa, la condivisione dello sguardo, il gesto di indicare…)

2. A cosa si riferisce la parola

Per quanto riguarda il secondo problema, quello di capire quale tipo di descrizione debba
venire associata al referente indicato (“coniglio” si riferisce a quel particolare coniglio, Bunny,
oppure alla categoria dei conigli, oppure ad animali con le orecchie lunghe, oppure a sue
proprietà), è stato ipotizzato che i bambini siano guidati da una serie di assunzioni nel
processo di mappatura da nome a significato.

ASSUNZIONI

• Assunzione dell’oggetto intero 



Quando sentono un’etichetta (un nome) che si riferisce a un oggetto, i bambini assumono
che l’etichetta si riferisca all’oggetto nella sua interezza, e non a una sua parte.

Come osserva Quine (1960), quando un bambino deve acquisire il significato di una
parola, sono in linea teorica possibili una lista infinita di associazioni tra la parola che
deve imparare e il suo effettivo riferimento. Tuttavia, i bambini riescono a estrapolare il
legame corretto tra la parola e il suo riferimento. Questo può essere spiegato dal fatto che
si è notato come i bambini sembrino essere guidati da delle euristiche nel loro processo
di mappatura tra una parola e il suo riferimento e una prima assunzione è quella
dell’oggetto intero. Assumendo che i bambini siano guidati da questo principio, possiamo
restringere la gamma delle possibili descrizioni che possono essere predicate
dell’oggetto inteso come referente del nome a solo quelle che corrispondono a un
oggetto intero (così facendo abbiamo eliminato le assunzioni che la parola “coniglio” si
riferisca a una proprietà del referente - rimangono altre).


• Assunzione dell’estensione tassonomica 



I bambini assumono che le etichette si riferiscono agli oggetti della stessa categoria e
non a oggetti tematicamente correlati.


• Assunzione della mutua esclusività

Questa breve digressione era mirata solo e unicamente a mostrare come il problema filosofico
di Quine (ci sono innumerevoli interpretazioni possibili per il mapping tra un nome e il suo
referente) (1) non si presenta solo per la traduzione tra lingue diverse, ma si presenta ogni volta
che un bambino deve imparare il riferimento di un nome per lui nuovo; e (2) diverse evidenze
sperimentali mostrano come di fatto il bambino non prenda in considerazione le varie
interpretazioni possibili, ma si lasci guidare da delle assunzioni che lo portano ad assumere che

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Martino Branca Matricola: 840783

un nome si riferisca a un oggetto nella sua interezza (a. dell’oggetto intero); e che si riferisca a
oggetti della stessa categoria (a. dell’estensione tassonomica).

In altre parole, studi su acquisizione del linguaggio suggeriscono che i bambini sono di fatto
guidati da dei bias (assunzioni) che li portano a mappare un nome nuovo con l’oggetto nella
sua interezza (e non a sue parti), e che poi li portano a estendere quel nome a oggetti della
stessa categoria. Ossia, quando un bambino sente il nome “biberon”:

1. Penserà che si riferisca all’oggetto ‘biberon’ nella sua interezza, e non a sue parti (il
succhiotto, o la bottiglia);

2. Penserà che il nome “biberon” si riferisca ad altri biberon, e non, per esempio, al materiale
di cui il biberon è fatto.

Torniamo al relativismo linguistico


In lingue come l’italiano (e inglese, francese, etc), la maggior parte dei nomi sono nomi
contabili (tavolo, sedia, vestito, etc), nomi che morfologicamente possono essere messi al
plurale (tavol-o/tavol-i), e che possono essere preceduti da numerali (un tavolo / quattro
tavoli). Esistono anche nomi massa (riso, oro, sabbia, legname, mobilia), nomi che
morfologicamente non possono essere pluralizzati (ris-o / *ris-i), e che non possono essere
semplicemente preceduti da numerali, ma che hanno bisogno di introdurre dei classificatori
per poterli contare (*quattro risi / quattro chili di riso). A queste distinzioni morfologiche,
tendono anche ad equivalere delle distinzioni semantiche: i nomi contabili tendono a riferirsi a
oggetti che hanno una forma be definita, mentre i nomi massa tendono a riferirsi al materiale,
alla sostanza di cui sono fatti gli oggetti (oro), o comunque a denotare un insieme non ben
definito (mobilia). Ci sono lingue, però, in cui tutti i nomi sono – morfologicamente parlando –
nomi massa: non possono essere pluralizzati, e non possono essere preceduti da numerali
(bisogna introdurre dei classificatori). La domanda diventa: i parlanti di queste lingue
percepiscono gli oggetti “come noi” (per la loro forma), o diversamente (per la loro
sostanza)? Ossia, vedono un coniglio oppure della coniglità?

OGGETTI vs SOSTANZE

Nelle scorse sezioni, abbiamo analizzato due diversi ambiti in cui il lessico (dei colori, e dei
riferimenti spaziali) di una certa lingua poteva avere (o meno) una influenza sulla
concettualizzazione (dei colori e dello spazio). In questo capitolo, prendiamo in considerazioni
delle (eventuali) differenze che sarebbero causate da elementi di morfo-sintassi.

Relativismo linguistico grammaticale


La tesi del relativismo linguistico grammaticale è l’ipotesi che differenze a livello di struttura
grammaticale possano influenzare la categorizzazione della realtà esterna. Lo faremo
studiando un solo caso, quello della differenza fra nomi contabili e nomi massa, alla quale
corrisponde (più o meno) la distinzione ontologica fra oggetto e sostanza.

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Martino Branca Matricola: 840783

Nomi contabili e nomi di massa


Come vengono marcati i nomi comuni? Alcune lingue, come l’italiano, distinguono fra nomi
contabili e nomi massa (per comprendere maggiormente la differenza guardare pag. 115).

• I nomi contabili sono quelli che

a. si possono mettere al plurale;

b. che possono essere introdotti da un numerale (uno, due, tre ecc.)

c. che di solito si riferiscono a entità individuabili (p.e. “macchina” o “tavolo”).

• I nomi massa sono quelli che

d. non si possono pluralizzare

e. che non possono essere introdotti da un numerale

f. si riferiscono a sostanze oppure designano una quantità imprecisata di oggetti


che in sé sarebbero numerabili (p.e. “oro” oppure “mobilia”).

Ci sono lingue, come il giapponese, il cinese (mandarino o cantonese), lo yucatec (una lingua
maya) e molte altre ancora, che non hanno questa distinzione. I nomi sono tutti massa (infatti
non si possono pluralizzare). Per esempio il nome giapponese che corrisponde più da vicino al
nostro nome “tavolo” andrebbe tradotto con “tavolinità”. Ovviamente anche in queste lingue si
può esprimere l’informazione che in italiano si esprime dicendo “tre tavoli”. Tuttavia, per farlo
bisogna usare delle espressioni speciali chiamate classificatori (p.e.: in giapponese al posto di
dire l’equivalente di “tre tavoli” si dice l’equivalente di “tre pezzi di tavolinità”).

Come abbiamo visto anche a inizio paragrafo, la distinzione fra nomi contabili e nomi massa
corrisponde alla distinzione fra oggetti individuabili (espressi da nomi contabili) e sostanze.

La domanda che si pone il relativismo è: il modo di guardare al mondo di chi parla una
lingua in cui ci sono solo nomi massa è diverso da quello di chi parla una lingua che
grammaticalizza la distinzione fra sostanze distinte e oggetti discreti?

Gli esperimenti di Lucy


Lucy, lavorando sullo yucatec, riassume la situazione in questo modo:

“L'uso degli item lessicali inglesi attira abitualmente l'attenzione sulla forma di un
referente ... L'uso degli item lessicali Yucatec, invece, attira regolarmente l'attenzione
sulla composizione materiale di un referente… Se questi schemi linguistici si
traducono in sensibilità generale a queste proprietà dei referenti, allora i parlanti inglesi
dovrebbero occuparsi relativamente di più della forma degli oggetti e i parlanti di
Yucatec dovrebbero occuparsi relativamente di più della composizione materiale degli
oggetti”

Lucy ha condotto una serie di esperimenti che sembrano mostrare una variabilità fra culture
diverse in corrispondenza di lingue diverse.

PARTECIPANTI
- 10 adulti Yucatec parlanti Maya (lingua con soli nomi massa)

- 13 adulti americani

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PROCEDURA
Ai soggetti veniva inizialmente mostrato un oggetto (ad esempio un foglio di carta). Chiamiamo
questo oggetto stimolo standard. Si mostravano poi due alternative:

1. una aveva la stessa forma, ma non lo stesso materiale dello stimolo standard (ad es. un
foglio di plastica),

2. l’altra era un oggetto di forma diversa dallo dello stimolo standard, ma era fatto dello
stesso materiale (ad es. un libro con pagine di carta).

Lucy chiedeva poi ai soggetti quale delle due alternative fosse più simile («most like») allo
stimolo standard.

IPOTESI SPERIMENTALE
Sulla base delle osservazioni precedentemente condotte dallo sperimentatore, ci si aspetta che
siccome gli americani fanno uso della lingua inglese, gli item lessicali attireranno abitualmente
l’attenzione sulla forma dello stimolo standard, e quindi risponderanno maggiormente per il
foglio di plastica. Gli Yucatec, invece, dovrebbero mostrare una concentrazione maggiore di
risposte per il libro.

RISULTATI
Gli americani tendevano a scegliere l’alternativa con la stessa forma, mentre gli yucatec
tendevano a scegliere l’alternativa con la stesso materiale. Lucy interpreta questi risultati
come una conferma dell’ipotesi del relativismo linguistico: i parlanti Yucatec parlano una lingua
che possiede solo nomi massa; la lingua avrebbe un effetto sul modo in cui questi parlanti
percepiscono, e concettualizzano gli oggetti, concentrandosi maggiormente sulla loro
composizione materiale piuttosto che sulla loro forma. Al contrario degli americani, i quali,
parlando una lingua in cui abbondano i nomi contabili darebbero più attenzione alla forma degli
oggetti.

CRITICHE

L’esperimento di Lucy è interessante e sembra effettivamente sostenere una forma di


relativismo linguistico, ma in realtà queste differenze tra i due gruppi potrebbero essere dovuta
ad altri fattori che vanno oltre la lingua.

Prima di tutto, come abbiamo già discusso per l’esperimento di Levinson sull’orientamento
spaziale, le istruzioni per risolvere il compito (trova l’oggetto «most like», più simile), sono
ambigue, nel senso che non c’è una risposta corretta e una sbagliata. Da questo si riesce a
comprendere come i soggetti potrebbero essersi basati su altre considerazioni non puramente
cognitive e queste possono aver influito sulla modalità di svolgimento del compito.

La cultura statunitense e quella yucatec sono molto diverse, quindi non si può escludere che
la differenza di comportamento nel test di Lucy sia dovuta alla diversa cultura di appartenenza,
non alla diversa lingua parlata. Per esempio, è possibile che gli yucatec non siano
particolarmente familiari con fogli di carta / di plastica / libri, così come è possibile che gli
americani non siano particolarmente familiari con gli ingredienti delle tortillas. Questo tipo di
differenze (culturali, non linguistiche) potrebbero aver portato i soggetti americani e yucatec a
risolvere il compito in maniera diversa.

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Nuovi studi
Un modo per minimizzare l’influenza della cultura di appartenenza è guardare al
comportamento dei bambini piccoli, nei quali l’influenza culturale non ha potuto ancora
dispiegarsi appieno.

Nei prossimi esperimenti si confrontano bambini appartenenti a due culture diverse ma


appartenenti a due società industriali avanzate (USA e Giappone).

1. Esperimento di Soja, Carey & Spelke


Questo primo studio è rivolto solo a bambini americani.

PARTECIPANTI
I soggetti erano bambini americani di 2 anni. Erano quindi nella fase dell'esplosione lessicale,
durante la quale i bambini possono acquisire anche 10 parole nuove al giorno. La loro lingua
target era l’inglese, ovvero una lingua che ha una chiara distinzione fra nomi massa e contabili.
Tuttavia, nel loro eloquio spontaneo i bambini di due anni non distinguevano ancora fra i due
tipi di nomi (in inglese per esempio si mette un articolo prima di un nome contabile, “a book/
many books” [un libro / molti libri], ma si usano altri determinanti prima dei nomi massa, “some
sugar/much sugar” [dello zucchero / molto zucchero]).

CONDIZIONE “FORMA”
Fase 1

A un primo gruppo di bambini veniva mostrato un oggetto di metallo che non avevano mai
visto che aveva una forma di T. Lo sperimentatore successivamente diceva frasi come “This is
my blicket” oppure “Do you see this blicket?”. In questo modo veniva dato un nome inventato
(blicket) all’oggetto a forma di T. Notate che in inglese la struttura sintattica delle frasi usate è
compatibile sia con i nomi massa, sia con i nomi contabili (si può dire “this is my wallet” come
“this is my water”). Quindi i bambini non potevano capire dal contesto grammaticale se il nome
“blicket” fosse contabile o massa.

Fase 2

Dopo un certo lasso di tempo, venivano mostrate al bambini due alternative: uno era un
oggetto a forma di T, simile per forma al “blicket” originario ma diverso per la materia di cui
era fatto (per esempio, non era di metallo ma di plastica); la seconda alternativa erano alcuni
pezzetti della stessa sostanza del “blicket” originario (metallo) che non avevano una forma
ben definita.

Veniva, quindi, detto al bambino: “point to the blicket”.

I bambini nella gran parte dei casi indicavano l’oggetto a forma di T. Questo indica che i
bambini, anche senza indizi grammaticali, avevano assunto che il nome “blicket” si riferisse a
un oggetto, non a una sostanza. Altrimenti non avrebbero detto che il nuovo oggetto era un
“blicket”, dato che esso era fatto di una sostanza diversa rispetto al “blicket” originario.

CONDIZIONE “SOSTANZA”
Fase 1
A un secondo gruppo di bambini veniva mostrata una certa quantità di crema Nivea. La crema
formava un grumo avente la forma di una S rovesciata. Per il resto l’esperimento era simile a
quello con i “blicket”: “This is my stad / Do you see this stad?”. In questo modo veniva dato un

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Martino Branca Matricola: 840783

nome inventato (stad) alla sostanza cremosa. Anche in questo caso i bambini non potevano
capire dal contesto grammaticale se il nome “stad” fosse contabile o massa.

Fase 2
Dopo un certo lasso di tempo, venivano mostrate ai bambini due alternative: la prima
alternativa era ancora la crema Nivea (stessa sostanza) ma questa volta essa formava dei
mucchietti, al posto di formare una S rovesciata (forma differente); la seconda alternativa era
una nuova sostanza, un gel per capelli, che aveva la medesima forma della crema Nivea nella
fase 1 (cioè formava una S rovesciata).

Veniva detto al bambino: “point to the stad”.

I bambini nella gran parte dei casi indicavano la crema Nivea, anche se quanto stavano
indicando aveva una configurazione (forma) diversa dalla crema Nivea alla quale era stato
originariamente associato il nome “stad”. Questo indica che i bambini, anche senza indizi
grammaticali, avevano assunto che il nome “stad” si riferisse a una sostanza, non a un oggetto
con una forma determinata . Altrimenti non avrebbero indicato la nuova massa di crema come
“stad”, dato che essa aveva una configurazione diversa rispetto allo “stad” originario (S
rovesciata).

DISCUSSIONE

Un’interpretazione possibile dei risultati sperimentali è che i bambini a 2 anni hanno una
distinzione prelinguistica fra concetto di “sostanza” e concetto di “oggetto” e che questa
distinzione li guida nell’acquisizione del lessico.

Se vedono un oggetto solido, i bambini non si curano (almeno in prima battuta) di quale
materiale è fatto e quindi associano il nuovo nome alla sua forma. Se vedono una sostanza
non-solida, non si curano (almeno in prima battuta) della sua forma e quindi associano un
nuovo nome alla sua composizione. Notiamo che, se i bambini fanno così, sono molto facilitati
nell’acquisizione del lessico. Se il bambino partisse da zero, il compito di acquisire il lessico
sarebbe un percorso ad ostacoli quasi impossibile. Se invece il bambino parte da una serie di
distinzioni concettuali prelinguistiche, come la distinzione oggetto-sostanza, il suo compito
rimane difficile ma diventa più fattibile. Per esempio, ogni volta che mi riferisco con un nuovo
nome a un’entità dai contorni ben definiti e non modificabili, il bambino assumerà che io mi
riferisca all’oggetto, e non alla sostanza di cui è fatto, né al suo colore, né al suo odore. Se
invece mi riferisco a un’entità dai contorni non ben definiti o comunque modificabili, il bambino
assumerà che la parola nuova che sto usando sia un’etichetta per una sostanza.

Queste assunzioni ontologiche possono aiutare il bambino nelle fasi iniziali dell’acquisizione
del lessico, ma questo vale solo se la distinzione fra oggetto e sostanza (e altre distinzioni
ontologiche più fini) sono appunto prelinguistiche (ovvero, pre-esistenti all’acquisizione di una
specifica lingua - non pre-esistenti al linguaggio).

2. Esperimento di Imai & Gentner (1997)


Imai & Gentner hanno replicato l’esperimento di Soja, Carey, & Spelke con bambini esposti alla
lingua giapponese. Hanno fatto però alcune modifiche.

C’erano tre condizioni:

La prima e la terza condizione erano simili a quelle dell’esperimento originario:

1. Condizione forma (o condizione oggetto complesso): come il blicket;

2. Condizione intermedia, ovvero “condizione oggetto semplice”: quello che veniva


mostrato inizialmente era sì un oggetto ma dalla forma meno definita del “blicket”. La forma

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Martino Branca Matricola: 840783

dell’oggetto semplice assomigliava un po’ a quella


della sostanza, in particolare esso aveva la forma di un
rene.

3. Condizione sostanza: come stad;

PARTECIPANTI
Giapponesi: 43 bambini (14 di 2 anni; 15 di 2 anni e 8
mesi; 14 di 4 anni); e 18 adulti

Americani: 42 bambini (14 di 2 anni; 14 di 2 anni e 8


mesi; 14 di 4 anni); e 18 adulti.

RISULTATI
• Condizione oggetto complesso: tutti i soggetti (bambini e adulti, americani e giapponesi)
preferiscono estendere all’oggetto simile per forma (e non per sostanza)

• Condizione sostanza: a partire dai gruppi di 2 anni e 8 mesi, i giapponesi fanno


consistentemente scelte per sostanza, mentre gli americani fanno un numero maggiore di
scelte per forma rispetto ai giapponesi. Notate invece come i gruppi di bambini di 2 anni
americani e giapponesi si comportino nella stessa maniera. In generale, però, entrambi i
gruppi (americani e giapponesi) hanno fatto meno scelte in base alla forma nella condizione
«sostanza» rispetto alla condizione «oggetto complesso».

• Condizione oggetto semplice: i partecipanti americani fanno più scelte in base alla forma.
Invece i bambini giapponesi sono a livello di chance: scelgono in ugual misura l’oggetto della
stessa forma o quello della stessa sostanza.

CONCLUSIONI
I bambini giapponesi nel complesso hanno avuto un comportamento piuttosto simile ai
bambini esposti all’inglese, e questo è particolarmente vero nella condizione “oggetto
complesso” e nella condizione “sostanza”. Questo suggerisce, in linea con lo studio di Soja,
Carey & Spelke, che «l’ontologia trascenda il linguaggio» (nel senso che alcune «cose»
vengono percepite come oggetti o sostanze indipendentemente dalla lingua parlata). Questa
rappresenta una prova forte a favore della prima discussione sull’ontologia di Soia e contro la
“congettura” di Quine, poiché il giapponese non ha un apparato linguistico per contrassegnare
le due categorie linguistiche.

Tuttavia, i nostri risultati indicano anche effetti forti e precoci della lingua. Nonostante la
somiglianza interlinguistica rispetto a oggetti complessi e sostanze, è stata osservata una

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Martino Branca Matricola: 840783

marcata differenza interlinguistica per gli oggetti semplici. I parlanti inglese dai 2 anni in su
hanno proiettato i nomi secondo la forma, sia per oggetti semplici che per quelli complessi.
Hanno usato una regola di denominazione degli oggetti per qualsiasi entità solida e limitata,
conformandosi in effetti al vincolo dell'intero oggetto. Al contrario, i bambini giapponesi - la cui
lingua non fornisce indicazioni sul fatto che oggetti semplici debbano essere visti come oggetti
o come sostanze - hanno risposto a livelli di chance ossia, 50% per forma, 50% per sostanza.

Riassumendo, Imai & Gentner notano che, come già dimostrato da Soya et al., nei casi chiari di
oggetto complesso e sostanza, i bambini piccoli si comportano «lasciandosi guidare
dall’ontologia». Ma ci sono alcune differenze tra gli americani e i giapponesi. Nella condizione
“oggetto semplice”, i bambini esposti all’inglese si sono comportati come nella condizione
“oggetto complesso”, cioè hanno scelto l’oggetto simile per forma (e non per sostanza) a
quello visto inizialmente. Invece i bambini giapponesi, nella stessa condizione, non hanno
mostrato una chiara preferenza. Hanno scelto l’oggetto simile per forma e quello simile per
sostanza un numero analogo di volte.

Siccome le lingue come il giapponese hanno solo nomi massa, chi crede nell’ipotesi di
relativismo linguistico si aspetta che chi le parla sia più predisposto a concentrarsi sulla
“sostanza”. Quindi le differenze fra bambini inglesi e bambini giapponesi sono state
interpretate da alcuni come una evidenza a favore di una versione debole della tesi del
relativismo linguistico. Tuttavia va sottolineato che, se influenza della lingua c’è, essa è
piuttosto debole. Essa si manifesta infatti in maniera chiara solo nel caso intermedio, ovvero la
condizione “oggetto semplice”, che è stata costruita apposta per essere a metà strada fra i
due casi più netti originariamente considerati da Soja et al.

D’altra parte non è sorprendente che sia così. Come abbiamo sottolineato prima, se il bambino
fosse “tabula rasa” e non partisse con delle ipotesi ontologiche di base, il compito di
acquisizione del lessico sarebbe probabilmente impossibile. Quindi le categorie ontologiche
sembrano venire prima della lingua ma l’esposizione a una certa lingua può effettivamente
avere un ruolo (abbastanza limitato) nel determinare come le applichiamo agli oggetti che di
volta in volta dobbiamo categorizzare.

Discussione
Come abbiamo visto, nella condizione «oggetto semplice» i bambini inglesi differiscono da
quelli giapponesi: i parlanti inglese estendono la pseudoparola blicket a un oggetto della stessa
forma, mentre i giapponesi non hanno chiare preferenze, scegliendo a livello di chance o
oggetto con stessa forma o oggetto con stessa sostanza.

È stata avanzata una diversa interpretazione di questi risultati.

Gleitman & Papafragou (2005) affermano che:

“Alla luce di tutti i risultati finora esaminati, esiste un'altra interpretazione dei risultati che
non implica un effetto del linguaggio sul pensiero ma solo un effetto del linguaggio sul
linguaggio: la comprensione implicita dell'organizzazione di una lingua specifica può
influenzare l'interpretazione della conversazione.”

Gleitman & Papafragou sostengono che questo l’effetto ottenuto dagli studi di Imai & Gentner
potrebbe essere dovuto a una influenza del linguaggio sul linguaggio.

La procedura sperimentale consiste nella presentazione di un oggetto associato a una pseudo-


parola (blicket), senza indicazioni sul fatto che sia un nome massa o un nome contabile: in
giapponese non esiste questa distinzione, e in inglese viene usato this blicket, è compatibile
sia con nomi contabili (this table) che con nomi massa (this sugar).

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Il contributo di G&P prende in considerazione che le lingue differiscono in modo sorprendente


nelle loro forme e locuzioni comuni - i modi “preferiti di parlare”. Questi rappresentano schemi
probabilistici che potrebbero distorcere l'interpretazione di nuove parole e, visto che in inglese
i nomi contabili sono in numero decisamente maggiore rispetto ai nomi massa, i soggetti
penseranno che la pseudoparola blicket sia un nome contabile. Visto che i nomi contabili sono
di norma associati a oggetti e non a sostanze, estenderanno di conseguenza la pseudoparola
ad altri oggetti della stessa forma (e non sostanza). Ossia, il fatto che nella condizione «oggetto
semplice», in cui gli stimoli erano «ontologicamente ambigui» tra un oggetto e una sostanza, i
bambini parlanti inglesi estendano blicket a un oggetto della stessa forma (e non sostanza) non
sarebbe dovuto al fatto che la loro lingua prevede questa distinzione, e quindi loro
categorizzano conseguentemente il mondo (effetto del linguaggio sul pensiero), ma al fatto che
una parola nuova viene interpretata (per questioni di probabilità, ovvero la massiccia
preponderanza dei nomi contabili rispetto ai nomi massa nella lingua inglese) come un nome
contabile (effetto del linguaggio sul linguaggio), e l’averla interpretata come nome contabile
guida la successiva categorizzazione (ovvero la fase 2).

Il comportamento dei bambini giapponesi, invece, non richiede particolari spiegazioni. L’item
oggetto semplice era stato costruito apposta per essere una via di mezzo tra un qualcosa che
ontologicamente appariva come oggetto con forma ben definita (come l’oggetto complesso) e
un qualcosa che ontologicamente appariva come sostanza (come la sostanza), non sorprende
quindi che i partecipanti giapponesi rispondano a livello di chance - metà delle volte
estendendo per forma, e metà delle volte estendendo per sostanza, anche se nella loro lingua
esistono solo nomi massa (per cui ci si potrebbe aspettare una massiccia estensione per
sostanza, cosa che non avviene). Questo avviene in quanto non c’è una chiara distinzione tra
nomi massa e nomi contabili nella lingua giapponese, quindi non si propongono schemi
probabilistici.

I NUMERI

Cognizione numerica e linguaggio


In questa lezione parliamo della relazione tra linguaggio e aspetti della cognizione
numerica. Come vedremo, le lingue variano nel tipo di espressioni che si riferiscono alle
quantità numeriche e la tesi del relativismo linguistico sostiene che a variazioni (importanti) nel
sistema linguistico in questo ambito corrispondano variazioni nel sistema non-linguistico di
cognizione numerica.

Prima però di affrontare questi argomenti, dobbiamo fare delle premesse: nella maggioranza
delle lingue, le espressioni linguistiche usate per riferirsi alle quantità sono i numeri, che
permettono di contare e di riferirsi alle quantità.

Numeri e spazio
Le persone cresciute in civiltà industrializzate e alfabetizzate mappano i numeri nello spazio,
proiettandoli in una linea da sinistra verso destra. Questo avviene in maniera inconsapevole
anche in compiti che non richiedono esplicitamente un tale mapping.

Due fenomeni tra gli altri che lo dimostrano sono:

• SNARC effect;

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• Pseudoneglect in compiti di bisezione numerica.

SNARC effect

SNARC è l’acronimo di Spatial Numerical Association of Response Code.

Ai partecipanti vengono presentati dei numeri su uno schermo, e loro devono indicare,
premendo due tasti sulla tastiera, se il numero presentato è un numero pari oppure se è un
numero dispari. In una condizione, la risposta per il numero pari è premendo un tasto sulla
sinistra e per il numero dispari è premendo un tasto sulla destra, in un’altra condizione le
risposte sono invertite (pari a destra, e dispari a sinistra).

Da questi studi si è osservato che:

• i tempi di reazione nel rispondere a un numero basso con la mano sinistra sono minori di
quelli necessari per rispondere a un numero alto con la stessa mano

• i tempi di reazione nel rispondere a un numero alto con la mano destra sono minori di
quelli necessari per rispondere a un numero basso con la stessa mano

L’interpretazione che viene data di questo effetto suggerisce che noi ci rappresentiamo
mentalmente la linea dei numeri secondo una dimensione orizzontale, in cui i numeri sono
ordinati da sinistra verso destra (numeri piccoli a sinistra, numeri grandi a destra). Questo
permetterebbe di spiegare il maggior vantaggio della mano sinistra per numeri bassi e quello
della mano destra per numeri alti.

Pseudoneglect

Il negliect (o negligenza spaziale unilaterale) è un disturbo attentivo associato a lesioni


cerebrali tipicamente nell’emisfero destro. Tale sindrome si identifica come un’incapacità del
soggetto di orientarsi verso gli spazi corporeo ed extracorporeo controlaterali alla lesione
(quindi, spesso verso lo spazio sinistro). Il paziente “ignora” gli stimoli provenienti
dall’emispazio controlesionale (cioè sinistro) e/o non agisce su di esso.

COMPITO DI BISEZIONE DI LINEE


In un compito di bisezione di linee (mostro una linea, e chiedo di indicarne la metà), i pazienti
con neglect mostrano una deviazione verso destra nella bisezione di linee (bias verso destra),
per esempio indicano la metà di una linea molto più a destra della sua metà reale.

In vari compiti, per esempio quando devono bisezionare una linea usando un mouse, i
soggetti neurotipici (senza neglect) tendono invece a indicare come punto di bisezione un
punto un po’ più a sinistra della metà reale di una linea. Hanno cioè un bias verso sinistra, il che
vuol dire che tendono ad errare in direzione opposta ai pazienti con neglect (ovviamente la
magnitudine dell’errore nei normodotati è molto minore che nei pazienti).

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Si interpreta l’esistenza del bias verso sinistra come evidenza che, quando l’emisfero destro
non è danneggiato, la metà sinistra dello spazio viene leggermente sovrastimata. Questa
sovrastima è il contrario di quanto succede quando c’è un danno cerebrale all’emisfero destro
con conseguente neglect. Il fenomeno è quindi chiamato pseudoneglect.

COMPITO DI BISEZIONE NUMERICA


In un tipico compito vengono dati a un soggetto 50 coppie di numeri a due cifre. In metà delle
coppie i numeri sono crescenti (es. 10-26) e in metà sono decrescenti (es. 85-36). Il compito
del soggetto è di dire, senza fare di conto, qual è il numero che sta in mezzo fra i due numeri di
ogni coppia. Per assicurarsi che il soggetto non faccia un calcolo gli si dà poco tempo per
rispondere.

Diversi esprimenti fatti da gruppi di ricerca differenti mostrano che anche in questo caso i
soggetti sperimentali tendono a errare mostrando un bias verso sinistra, soprattutto quando i
numeri sono presentati in ordine decrescente. Quindi possiamo concludere che c’è lo stesso
fenomeno di pseudo-neglect sia con la bisezione di linee che con la bisezione numerica (bias
verso sinistra). Ma, visto che il fenomeno dello pseudoneglect riguarda la concettualizzazione
dello spazio, e visto che il compito di bisezione numerica riguarda la rappresentazione della
linea dei numeri, l’esistenza di questo fenomeno è una chiara evidenza della natura spaziale
della rappresentazione numerica, cioè del fatto che mappiamo i numeri nello spazio lungo
una linea che va da sinistra verso destra.

Gli esperimenti riguardanti SNARC effect e bisezione sono stati condotti con individui parlanti
lingue con un lessico numerico sofisticato. Esistono però popolazioni che parlano lingue in cui
ci sono solo tre termini per indicare numerosità, ovvero la controparte dei nostri numeri 1, 2
mentre per numerosità maggiori si usano espressioni interscambiabili fra di loro che si
potrebbero tradurre con “un po’, un buon numero”.

Quello che ci viene da chiedere ora è: la propensione a mappare i numeri piccoli a sinistra e
quelli grandi a destra dipende dal cultura e, in particolare, dal possedere un lessico
numerico, oppure è un fattore biologico? Se una persona parla una lingua che non
contiene un “lessico sofisticato” per indicare le quantità numeriche (non ha i nostri
numeri), mostrerà lo stesso tipo di effetto?

L’articolo e l’esperimento di Dehaene et al. (2008)


Queste domande trovano risposta in un articolo di Dehaene et al. che prende in
considerazione la distinta rappresentazione numerica dei Mundurukù.

I mundurukú sono una popolazione di circa 7000 individui che vivono in piccoli villaggi nello
stato del Parà in Brasile. Hanno scarsi contatti con altre popolazioni, anche se qualcuno di loro
sa un po’ di portoghese per via di contatti con missionari o funzionari governo. Solo qualche
bambino ha ricevuto un minimo di istruzione.

La lingua mundurukú ha termini solo per numeri da uno a cinque.

1 si dice “püg”

2 si dice “eba”, che vuol dire “le tue (due) mani”, oppure si può anche dire “xep xep”

3 si dice “ebapüg” (2+1)

4 si dice “ebadipdip” (2+1+1)

5 si dice “püg põgbi” = “una mano”

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Per numerosità maggiori di 5 sono usate intercambiabilmente espressioni come “alcuni” , “un
po’” , “una certa quantità”, ecc.

I mundurukú non usano i numeri da 1 a 5 in sequenza e non sono abituati a contare. Quando è
stato loro chiesto dai ricercatori di contare degli oggetti alcuni mundurukú l’hanno fatto in
modo non verbale associando faticosamente gli oggetti alle dita della mano e dei piedi.

I termini corrispondenti a “1” e “2” sono usati per quantità precise (rispettivamente un oggetto
o due oggetti). I rimanenti tre termini numerici sono usati con una certa flessibilità. Per
esempio, in un compito sperimentale che consisteva nel dire quanti punti c’erano in una
immagine mostrata loro dai ricercatori, i mundurukù hanno usato il termine corrispondente a
“4” per riferirsi a quattro oggetti solo nel 70% dei casi. Nell’altro 30% dei casi hanno usato
l’espressione corrispondente a “3” oppure espressioni come “alcuni” e “un po’”. Sembra cioè
che i mundurukú usino i termini corrispondenti a “3” “4” e “5” come noi usiamo l’espressione
“un paio” per indicare una quantità ridotta (non necessariamente due oggetti).

In un esperimento precedente a quello che stiamo per descrivere lo stesso gruppo di


ricercatori aveva verificato che, pur non avendo alcun rudimento di geometria euclidea, i
mundurukù se la cavavano abbastanza bene in compiti di discriminazione fra forme
geometriche.

Torniamo però alla questione originale: la rappresentazione mentale numerica come linea
orizzontale con numeri piccoli a sinistra e grandi a destra dipende dalla cultura? Dal
linguaggio? Vediamolo con l’esperimento condotto da Dehaene e colleghi.

PARTECIPANTI
33 mundurukù (adulti e bambini) più adulti USA controllo.

COMPITO

Number-space task: individuare su una linea la posizione di uno stimolo.

PROCEDURA SPERIMENTALE

Si utilizzano due item di familiarizzazione: si mostra che “un dot” corrisponde all’estremo
sinistro della linea, e “10 dots” corrispondono all’estremo destro della linea. Con i due item di
familiarizzazione, si dice ai partecipanti che le numerosità “1” e “10” costituiscono gli estremi
della linea e che gli stimoli presentati successivamente (li vediamo dopo), che corrispondono a
numerosità intermedie, possono essere posizionati in qualsiasi posizione. Visto che la
familiarizzazione non coinvolgeva i numeri intermedi (da 2 a 9), l’analisi delle scelte compiute
dai soggetti servivano per verificare se i soggetti compissero un mapping sistematico (numeri
più piccoli a sinistra, e numeri più grandi a destra).

Ai mundurukú venivano presentati stimoli di quattro tipi:

• Insiemi di dots (da 1 a 10) -> visiva

• Sequenze di toni (da 1 a 10) -> uditiva

• Espressioni di numero in mundurukú da 1 a 10 (per i numeri superiori a 5 si sono usate


espressioni composte, per esempio 7 è stato indicato come “pũg põgbi xex xep bodi”
che vuol dire più o meno “la tua mano e due di fianco”)

• Espressioni di numero in portoghese (rilevante solo per chi sapeva un po’ di portoghese)

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Martino Branca Matricola: 840783

Mentre sentivano questi suoni avevano davanti a sé


una linea orizzontale sullo schermo del computer al
limite sinistro della quale c’era 1 punto mentre al
limite destro della quale c’erano 10 punti. Dopo le
due prove di riscaldamento i mundurukú dovevano
indicare un punto sulla linea che corrispondeva a
quanto avevano sentito.

RISULTATI

I risultati mostrano che i mundurukú hanno capito il compito. Infatti, tranne per pochi
partecipanti che usavano solo i punti estremi, gli altri indicavano punti distribuiti sull’intera linea
e inoltre c’è una correlazione positiva fra numerosità dello stimolo e posizione indicata sulla
linea (maggiore era la numerosità più il punto indicato stava a destra). Questo avveniva in tutte
e quattro le modalità di presentazione (dots, toni e numeri nelle due lingue).

CONCLUSIONI

Questo fatto mostra che la capacità di mappare numerosità nello spazio non è determinata
culturalmente. Persino una popolazione che non è abituata a contare e usa solo i numeri “1” e
“2” per riferirsi a quantità precise sa associare numerosità crescenti a punti dello spazio che si
sviluppano progressivamente da sinistra verso destra. Però ci sono differenze importanti, che
sono culturalmente determinate. Per capire quali sono, cerchiamo di dare un’idea informale di
cosa si intenda per mapping lineare e mapping logaritmico.

Funzione lineare e funzione logaritmica

Semplificando molto le cose, si può dire che il mapping è


lineare se i numeri sono distribuiti nello spazio rispettando
per ogni numero la distanza che c’è fra esso e i numeri
vicini. (1 2 3 4 5 6 7 8 9 10))

Il mapping è logaritmico se lo spazio che divide due numeri


piccoli è maggiore dello spazio che divide due numeri più
grandi. Ovvero in un mapping logaritmico i numeri più
grandi sono schiacciati nella parte destra dello spazio.

(1 2 3 4 5 6 7 8 9 10)

I mundurukú mappavano da numerosità allo spazio in modo logaritmico, non lineare. I controlli
nord-americani mappavano in modo lineare.

COMMENTO AI RISULTATI

È comune che un bambino collochi il numero 10 verso la metà di una linea che va da 0 a 100.
Questo suggerisci che anche i bambini compiono un mappaggio numerico logaritmico, e così il
comportamento dei mundurukú può essere ricollegato a quello quello dei bambini in età pre-
scolare.

Nelle nostre culture, il passaggio dal mapping logaritmico a quello lineare avviene di solito a
partire dalla prima elementare, con una certa variabilità dovuta alle esperienze individuali e al

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Martino Branca Matricola: 840783

range numerico sul quale si testano i bambini. Fa differenza se si chiede di mappare nello
spazio i numeri da 1 a 10 oppure quelli da 1 a 100.

Ritorno alla tesi Sapir-Whorf


Tornando alla tesi Sapir-Whorf, sembrerebbe che i risultati sperimentali offrano una visione
sfaccettata. Da una parte non è necessario parlare una lingua che abbia termini per numeri per
svolgere operazioni mentali che a prima vista potrebbero sembrare culturalmente determinate,
come il mapping spaziale di numerosità. D’altra parte, la forma del mapping sembra essere
fortemente dipendente dalla cultura. Senza una lingua con un ricco vocabolario numerico
nemmeno gli adulti sanno fare un mapping lineare.

Il caso dei numeri in portoghese


C’è un caso interessante su cui i ricercatori richiamano la nostra attenzione.

Si ricorderà che i soggetti erano stati testati anche con i numeri in portoghese. Non
sorprendentemente, i mundurukú che non conoscevano il portoghese hanno avuto prestazioni
molto basse in questo compito. Il risultato interessante riguarda i mundurukú che avevano
ricevuto un’istruzione rudimentale in portoghese e quindi conoscevano i numeri da 1 a 10.
Questi soggetti infatti avevano una prestazione logaritmica con i numeri in mundurukú ma una
prestazione lineare con i numeri in portoghese.

Perché un medesimo soggetto può avere una prestazione logaritmica con i numeri in
mundurukú e una prestazione lineare con i numeri in portoghese?

È possibile che questo sia dovuto al fatto che i numeri in mundurukú sono visti come etichette
per quantità imprecise, non come veri numeri in una scala. Quindi i numeri in mundurukú non
si mappano nello spazio in modo lineare perché di base non sono concepiti come intervallati in
modo regolare l’uno dall’altro.

I ricercatori interpretano le prestazioni di questo gruppo di mundurukú come un’evidenza che


va contro la tesi Sapir-Whorf almeno nella sua versione più forte. Infatti è bastata una limitata
esposizione al sistema dei numeri per attivare il mapping lineare. Se le lingue fossero “gabbie”
che limitano la nostra capacità di pensiero, non ci aspetterebbe una transizione così veloce da
una sistema all’altro.

Conclusioni generali
Il gruppo di ricerca di Dehaene e Pica, anche in base ad altri test su abilità numeriche e
matematiche, concludono che:

1. Esiste un "senso dei numeri” universale e innato, localizzato in una precisa area
cerebrale, che ci permette, ad esempio, di confrontare numerosità tra loro senza
doverle contare (in questo compito i munduruku si comportano come i francesi);

2. Per quanto concerne i calcoli matematici «esatti» (sottrarre 4 da 7), possedere un


vocabolario preciso (numerico) sembra essere necessario (i munduruku vanno
decisamente peggio dei controlli);

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Martino Branca Matricola: 840783

3. Il mappare le numerosità nello spazio, secondo una linea orizzontale, ordinandole


(numeri piccoli a sinistra, numeri grandi a destra) è un’abilità posseduta anche dai
munduruku, e quindi non dipendente dal linguaggio;

4. Il tipo di mapping dei munduruku e dei bambini occidentali prima della scuola è di tipo
logaritmico, degli occidentali scolarizzati è lineare: questo suggerisce una influenza
della cultura (non della lingua), nel senso di scolarizzazione.

SNARC effect
Torniamo ora ad un’altra questione riguardo possibili effetti culturali sullo SNARC effect.

Ancora una volta bisogna chiederci: l’associazione registrata nel compito di risposta
numeri piccoli-sinistra / numeri grandi-destra è di tipo culturale? È dovuta all’abitudine di
lettura da sinistra verso destra?

Lo studio di Shaki, Fischer & Petrusic

Questo studio ha confrontato la rappresentazione spaziale dei numeri in tre gruppi di adulti:
Canadesi, che leggono sia le parole che i numeri arabi da sinistra a destra; Palestinesi, che
leggono parole arabe e numeri arabi da destra a sinistra; e Israeliani, che leggono parole
ebraiche da destra a sinistra ma numeri arabi da sinistra a destra.

I Canadesi associavano piccoli numeri con la sinistra e numeri grandi con la destra (effetto
SNARC), i Palestinesi mostravano l'associazione inversa e gli Israeliani non avevano
un'associazione spaziale affidabile per i numeri.

Questi risultati suggeriscono che le abitudini di lettura di parole e numeri contribuiscono alla
rappresentazione spaziale dei numeri.

Lo studio di Hung, Hung, Tzeng & Wu

Nel presente studio, si è esaminato l'orientamento della linea numerica mentale per diverse
notazioni numeriche nei lettori cinesi. I dati hanno dimostrato che i numeri arabi sono allineati
mentalmente orizzontalmente con una direzionalità da sinistra a destra, mentre le parole
numeriche cinesi sono allineate verticalmente con una direzionalità dall'alto verso il basso.
Questi risultati indicano che diverse notazioni dello stesso concetto hanno mappature flessibili
all'interno dello spazio, che è plausibilmente modellato dal contesto dominante in cui appaiono
le notazioni numeriche.

Tuttavia, la questione è complessa, perché recentemente è stato trovato un analogo dello


SNARC effect (con localizzazione a sinistra di piccoli quantità e a destra di quantità più grandi)
anche in macachi e bambini di 7-9 mesi.

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Martino Branca Matricola: 840783

LA CONTROFATTUALITÀ

Condizionale e pensiero
In questa sezione, parliamo di un tipo particolare di enunciati, gli enunciati ipotetici, o
condizionali. Sono gli enunciati che contengono la costruzione: Se …, (allora) …

In accordo con il discorso che stiamo analizzando, vedremo poi la relazione tra linguaggio e
pensiero e in particolare, ci chiederemo se il fatto di parlare una lingua che renda più o meno
salienti, dal punto di vista linguistico, determinate forme del condizionale abbia una influenza
sul modo con cui i parlanti traggono inferenze logiche.

Condizionali
In italiano, esistono diverse tipologie di condizionale:

1. Condizionali all’indicativo

Si tratta di enunciati ipotetici della realtà: contengono verbi al modo indicativo, nei vari
tempi verbali (presente, passato e futuro). Con questo tipo di enunciati, si ipotizza una
situazione (Gianni viene alla festa), che non si sa se si sia effettivamente realizzata (se…),
ma che viene presentata come un fatto plausibile.

Es.: “Se Gianni è venuto alla festa, Leo si è divertito”

“Se Gianni viene alla festa, Leo si diverte”

“Se Gianni verrà alla festa, Leo si divertirà”

2. Condizionali al congiuntivo (/condizionale)



Si tratta di enunciati che contengono verbi al modo congiuntivo nell’antecedente (venisse,
fosse venuto) e al condizionale nel conseguente (si divertirebbe, si sarebbe divertito).

Es.1: “Se Gianni venisse alla festa, Leo si divertirebbe”

Es.2: “Se Gianni fosse venuto alla festa, Leo si sarebbe divertito”


Si nota che, pur contenendo gli stessi enunciati (“Gianni venire alla festa”, “Leo divertirsi”),
nella stessa costruzione (se …, (allora) …), la scelta di questo modo verbale ha un effetto
sulla interpretazione.

L’enunciato ipotetico (2) è un condizionale detto della possibilità: questa volta, l’evento di
Gianni che viene alla festa viene presentato come meno plausibile, un qualcosa che
potrebbe benissimo non realizzarsi.

L’enunciato ipotetico (3) è un condizionale controfattuale: il marcare l’antecedente con il
congiuntivo trapassato fa sì che l’evento di Gianni che viene alla festa viene presentato
come sicuramente non realizzato. Come conseguenza di ciò, anche l’evento del
conseguente viene interpretato come non realizzato. Ossia, possiamo dedurre che: 

Gianni non è venuto alla festa 

Leo non si è divertito.


Anche se considerato colloquiale, la stessa interpretazione di controfattualità si ottiene
quando è presente l’imperfetto.

Es.: “Se Gianni veniva alla festa, Leo si divertiva”

Ma ritorniamo ora all’argomento del modulo.

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Martino Branca Matricola: 840783

Relativismo linguistico e cinese: condizionali in mandarino


Come abbiamo accennato nel modulo I, il mandarino è una lingua estremamente povera dal
punto di vista morfologico: le parole non vengono morfologicamente marcate né per genere né
per numero, e i verbi non vengono morfologicamente marcati né per la persona né per il tempo
né per il modo. Oltre all’assenza di morfologia sui nomi e sui verbi, in mandarino non ci sono
nemmeno gli articoli (determinativo o indeterminativo) e non c’è nemmeno la congiunzione e.

I sostenitori del relativismo linguistico dicono che la lingua particolare parlata da una persona
influisce/determina il modo con cui quella persona concettualizza il mondo (pensa). Le strutture
linguistiche di una lingua particolare sarebbero gli “occhiali” attraverso cui una persona guarda
al mondo. Se così è, però, gli “occhiali" della lingua cinese non aiuterebbero particolarmente la
vista.

Consideriamo i tre tipi di enunciati ipotetici da cui siamo partiti:

“Se Gianni viene alla festa, Leo si diverte.”

“Se Gianni venisse alla festa, Leo si divertirebbe.”

“Se Gianni fosse venuto alla festa, Leo si sarebbe divertito.”

Questi tre enunciati, in cinese mandarino, verrebbero resi nella stessa identica maniera
qualcosa come:

“Se Gianni venire a festa, Leo divertirsi.”

Le differenze (per noi italiani “ovvie”) tra l’ipotizzare un evento come plausibile (condizionale
della realtà – indicativo), come meramente possibile (condizionale della possibilità – congiuntivo
passato), o come controfattuale (condizionale della irrealtà – congiuntivo trapassato) vengono
annullate in cinese mandarino, nel senso che non sono codificate linguisticamente. Se la
lingua codifica il pensiero, un parlante cinese, che non ha strutture che distinguono cosa è
reale da cosa è irreale, avrebbe difficoltà nel pensiero astratto.

Alfred Bloom nel 1981 pubblica un libro, “The linguistic shaping of thought. A study in the
impact of language on thinking in China and the West”, in cui sostiene una versione debole del
relativismo linguistico, riguardo l’influenza della lingua sul pensiero astratto. Chiedendo
domande ipotetiche, utili per lavorare su un questionario per misurare i livelli di astrazione nel
pensiero politico, Bloom si accorge che i soggetti rispondevano straniti o con molta difficoltà a
domande puramente astratte, basate sull’immaginazione.

Lo studioso nota che nelle lingue occidentali vengono codificate diversamente frasi in cui ci
sono condizioni reali e frasi con condizioni irreali. In queste lingue esistono strutture linguistiche
particolari, fondamentalmente di tipo morfosintattico (aspetto/tempo verbale) preposte a
segnalare la controfattualità di un evento ipotizzato (francese: imperfetto nell’antecedente e
condizionale nel conseguente; tedesco: congiuntivo in entrambe le frasi; italiano e spagnolo:
congiuntivo + il condizionale). Bloom sottolinea come queste lingue permettono di codificare
linguisticamente due cose:

1. La descrizione di questi eventi (Gianni che va alla festa, Leo che si diverte), che
vengono presentati come plausibili, possibili o non realizzati;

2. Il nesso di implicazione fra antecedente e conseguente: se si realizza l’antecedente (in


un mondo possibile o controfattuale), allora si realizza il conseguente.

In cinese mandarino invece per gli enunciati ipotetici ci sono strategie diverse, che non
coinvolgono la morfologia verbale (congiuntivo, livelli di passato), ma scelte lessicali. Senza

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entrare nei dettagli, è possibile utilizzare diverse costruzioni (diversi modi) “se…, allora …”
per segnalare il grado di probabilità che il parlante attribuisce all’antecedente, o la
(bi)direzionalità del legame tra antecedente e conseguente (se vs se e solo se – ma con l’uso di
due diverse congiunzioni corrispondenti al nostro allora).

Tuttavia, nota Bloom, non esistono strategie lessicali, grammaticali, o prosodiche per segnalare
linguisticamente che si entra nel regno della controfattualità, ossia per indicare che gli eventi
ipotizzati non si sono di fatto realizzati, e che se ne sta parlando con lo scopo di esplorare
possibilità che avrebbero potuto realizzarsi (anche se di fatto non si sono realizzate).

A partire da ciò, Bloom vuole esplorare l’ipotesi che l’assenza di una marca linguistica per la
controfattualità in cinese mandarino abbia delle conseguenze cognitive: porti cioè i suoi
parlanti ad avere un tipo di ragionamento astratto diverso da chi parla una lingua che segnala
la controfattualità.

Gli studi di Bloom

Studio I: studio esplorativo

Bloom compie un primo studio iniziale esplorativo. Prepara due storie a cui seguono delle
domande. Una è:

“Tempo fa c’era un filosofo greco che non parlava cinese. Il suo nome era Decos. Se
avesse saputo il cinese, visto che a quel tempo la Cina e la Grecia avevano degli scambi
commerciali, sarebbe stato influenzato dalla cultura cinese. Avrebbe individuato i punti
migliori della logica cinese e greca e avrebbe integrato la logica greca e la logica cinese
di quei tempi per creare una nuova logica avanzata che avrebbe dato un importante
contributo allo sviluppo della filosofia sia greca che cinese.”

A cui seguono queste domande:

A. Che tipo di contributo diede Decos allo sviluppo della filosofia?


B. Quanto importante fu il contributo di Decos?
C. A quale condizione sarebbe stato in grado Decos di fornire un contributo alla logica cinese
e greca?

La storia ha la forma:

X non si è verificato. Ma se X fosse successo, allora sarebbe successo Y, sarebbe successo Z,


e sarebbe successo W e K.

Le domande sono:

Che tipo di K?

Quanto importante fu K?

A quale condizione si sarebbe verificato K?

Ovviamente in cinese mandarino non c’è una marca morfologica che segnali la controfattualità,
per cui la traduzione letterale degli enunciati ipotetici è qualcosa del tipo:

X non si è verificato. Ma se X, allora Y, e Z, e W, e K.

SOGGETTI TESTATI

Bloom sottopone questa storia a: 28 studenti universitari americani; 54 studenti universitari di


Taiwan; 36 impiegati di un hotel a Taiwan.

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RISULTATI

Le risposte corrette (che richiedevano il riconoscimento della controfattualità dell’ipotesi


iniziale, e della falsità dell’ultima assunzione) sono state:

• 89% per gli studenti universitari americani;

• 69% per gli studenti universitari di Taiwan;

• 17% per gli impiegati di un hotel a Taiwan.

Intervistati dopo il test, i partecipanti cinesi avevano detto che:

A. Una volta giunti alle ultime implicazioni della serie, si erano dimenticati che il filosofo
non sapeva parlare cinese, e quindi avevano assunto che quelle implicazioni fossero
vere;

B. La maggior parte, però, si ricordava che il filosofo non sapeva parlare cinese, però
ritenevano questo fatto in contraddizione con le successive implicazioni, e quindi
avevano assunto che le implicazioni dovevano essere vere.

CONCLUSIONE

La conclusione cui giunge Bloom è che la mancanza di un marcatore linguistico specifico


per la controfattualità in cinese mandarino ha una influenza diretta sul modo di ragionare dei
suoi parlanti, che non sarebbero in grado di ragionare ipoteticamente delle conseguenze
possibili (ma non realizzate) di un evento che non si è realizzato. Suggerisce inoltre che gli
studenti cinesi che avevano risposto correttamente erano quelli che avevano una migliore
conoscenza dell’inglese, ed erano quindi passati attraverso una preliminare traduzione in
inglese per poter risolvere il compito.

Studio II

Bloom decide di preparare una nuova storia, per indagare più accuratamente la supposta
relazione tra strutture linguistiche e pensiero astratto. La storia ha la stessa struttura di quella
dello studio preliminare (Non X. Ma se X, allora …), ed è presentata in due versioni distinte:

• Versione 2: l’interpretazione non-controfattuale è possibile;

• Versione 3: l’interpretazione controfattuale è l’unica possibile.

Le domande di comprensione finale, poi, vengono cambiate.

La differenza tra la Versione 2 e la Versione 3 è che nel primo caso viene lasciata aperta la
possibilità che Bier riesca a entrare in contatto con qualche testo filosofico cinese, visto che
alcuni (pochi) sono stati tradotti. Mentre nella Versione 3, questa possibilità è esclusa: Bier non
sa il cinese, e nessun testo cinese è stato tradotto. Quindi non è logicamente possibile
ipotizzare che Bier sia entrato in contatto con i testi cinesi.

IPOTESI SPERIMENTALE

Nel momento in cui un parlante cinese si imbatte nell’assunzione controfattuale “Bier non
parlava cinese. Ma se parlava cinese…”, se ha problemi a capire il senso di questa
inconsistenza logica, nella versione 2 può pensare che magari Bier è entrato in contatto con
testi cinesi tradotti nella sua lingua. Questa opzione è invece (logicamente) esclusa dalla
versione 3. Quindi la versione 3 dovrebbe rendere l’interpretazione conrtrofattuale altamente
saliente perché non ci sono altri modi per rendere conto delle successive implicazioni.

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PARTECIPANTI e RISULTATI
Versione 2 % di risposte controfattuali

75 adulti di Taiwan 6%

28 studenti universitari di Taiwan 7%

17 studenti universitari di Hong Kong 6%

55 adulti (studenti e no) americani 98%

Versione 3

44 adulti di Taiwan 46%

38 studenti universitari di Taiwan 63%

20 studenti universitari di Hong Kong 50%

52 adulti (studenti e no) americani 96%

DISCUSSIONE DEI RISULTATI (Bloom)


Gli americani interpretano sempre le storie, in entrambe le versioni, come controfattuali: 97%.
I parlanti cinese, invece, non sembrano accedere a questa interpretazione.

Facendo la media di tutti i soggetti cinesi, in entrambe le versioni, si raggiunge una media del
29% di interpretazioni controfattuali. Inoltre, si nota come la versione 2 (che lascia aperta la
possibilità di rendere conto delle successive implicazioni assumendo che Bier fosse entrato in
contatto con qualche testo cinese tradotto) riceve minori interpretazioni controfattuali. La
versione 3, invece, che non rende possibile questa “scappatoia interpretativa”, favorisce
leggermente l’interpretazione controfattuale.

Infine, paragonando la performance di partecipanti cinesi, si nota come l’accuratezza più alta
(63% di interpretazioni controfattuali) si ottiene con gli studenti di Taiwan con la Versione 3.
Bloom sottolinea come questi studenti avessero ricevuto un training intensivo in inglese.

Per testare l’ipotesi che fosse l’aver accesso all’inglese (e alla sua marca morfologica per il
controfattuale) ad aver aiutato questi partecipanti, Bloom decide di somministrare a un
sottogruppo (21 partecipanti) degli adulti cinesi che avevano un inglese fluente una nuova
versione di storia (Versione 2), questa volta in inglese. La percentuale di risposte controfattuali
è passata dal 6% del gruppo originario con la versione in cinese all’86% con la versione in
inglese.

Bloom conclude quindi che i parlanti cinese, diversamente dai parlanti inglese (e lingue
occidentali), non hanno a disposizione degli schemi cognitivi già preparati, specificamente
progettati (designed) per interpretare l’informazione in maniera controfattuale. Ossia, la
strutturazione linguistica della loro lingua (non esiste marca linguistica esplicita per la
controfattualità) influenzerebbe gli schemi concettuali usati per argomentare (e quindi il
pensiero).

Discussione generale
Se davvero si tratta di una influenza della lingua sul pensiero (e quindi relativismo linguistico),
si tratta unicamente di una influenza, non di una determinazione, visto che – come Bloom
stesso suggerisce – gli studenti cinesi con buona padronanza dell’inglese danno maggiori
risposte controfattuali quando la storia è in cinese, e in numero ancora più alto quando la storia
è presentata in inglese. Ciò indica che l’eventuale influenza della lingua cinese sul modo di
argomentare verrebbe “sorpassata” nel parlare un’altra lingua (l’inglese). In altre parole, si
tratterebbe di un’evidenza a favore di una versione debole del relativismo linguistico (in cui
la lingua favorisce un determinato modo di pensare, ma non lo determina rigidamente), e non
una versione forte (altrimenti l’essere cresciuti con il cinese come lingua madre avrebbe dovuto
rendere impossibile il concettualizzare del tutto il pensiero controfattuale - le “gabbie di

133
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Whorf”). Se la lingua ha davvero un effetto sulla concettualizzazione, infatti, ci si aspetta che


questa abbia un effetto a lunga durata (e che questi effetti non siano coinvolti unicamente nel
tipo di compito che stiamo facendo - compito in inglese/cinese).

Il fatto che gli studenti di Taiwan (cinesi che conoscono l’inglese) migliorino così tanto nelle
percentuali di risposte controfattuali con la versione inglese, suggerisce che il compito
richiedesse una mediazione linguistica determinata dal modo in cui venivano presentati il
testo e le domande (guarda Caveat 2, pag. 89). Forse questi elementi sono, in realtà,
responsabili delle risposte dei soggetti.

Ma forse non si possono trarre nemmeno queste implicazioni.

In primo luogo, bisogna dire che quello che Bloom presenta come esperimento non rispetta i
crismi degli esperimenti scientifici: non è esplicitata la procedura; non si possono
paragonare direttamente i risultati in due lingue diverse; non si parla di un test pilota per
valutare l’accettabilità della versione cinesi e molto altro. Ed effettivamente altri studi successivi
hanno provato a replicare i risultati di Bloom.

Au (1983)

Au è una ricercatrice cinese parlante mandarino e, rileggendo la versione cinese della storia
controfattuale di Bloom, trova il testo «non-idiomatico» (non-naturale, artificioso) sospettando
che la bassa accuratezza riscontrata dal ricercatore fosse di fatto dovuta alla formulazione
non chiara del testo. Vengono quindi avviati nuovi studi in cui la ricercatrice cinese testa 125
partecipanti di Honk Kong. In questo esperimento ad alcuni vengono proposte le storie in
cinese mandarino, e ad altri in inglese. Il materiale consiste in:

1. Una nuova storia che ha la stessa struttura di quella iniziale di Bloom, ma è percepita
come naturale: “storia del brodo umano”

2. La Versione 3 della storia di Bier che era stata utilizzata da Bloom

La percentuale di risposte corrette (in cui viene riconosciuta la controfattualità delle


implicazioni) diventa:

1. Storia del brodo umano: 



a. In lingua cinese: 100% 

b. In lingua inglese: 93%

2. Versione 3 di Bier: 

a. In lingua cinese: 88% 

b. In lingua inglese: 93%

COMMENTO

Innazitutto, si può notare come Au non replichi i risultati di Bloom: riproponendo la stessa
storia usata da Bloom (Versione 3), la percentuale di accuratezza (88%) è più alta di quella
riscontrata da Bloom. Au nota però come (sebbene le differenze non siano statisticamente
significative, ma forse a causa del basso numero di partecipanti per ogni condizione), ci sia una
differenza di accuratezza tra la storia del Brodo Umano (100%) e quella della Versione 3 (Storia
di Bier - 88%). Sospetta che questa differenza sia dovuta alla «non-naturalità» della
formulazione della storia.

In un secondo studio, quindi, Au oltre a ritestare la storia del Brodo Umano, propone una
nuova versione della storia di Bier (Versione 3) modificandola e rendendola più idiomatica per

134
Martino Branca Matricola: 840783

capire come mai ci siano risultati più bassi nell’accuratezza rispetto alla storia del brodo
umano.

RISULTATI

Con la versione leggermente modificata della versione 3 di Bloom, la percentuale di


accuratezza (e quindi, di risposte che hanno riconosciuto la controfattualità) sale ulteriormente
(dall’88% dello studio precedente) fino a raggiungere il 97% (34 soggetti su 35).

DISCUSSIONE

Questo risultato suggerisce che la difficoltà dei soggetti cinesi di Bloom con la storia di Bier era
probabilmente dovuta al suo cinese non-idiomatico, piuttosto che alla logica controfattuale
della storia in sé. A questo punto, non esistono prove convincenti dell'ipotesi secondo cui
l’assenza di una costruzione controfattuale specifica in lingua cinese possa impedire ai parlanti
Cinese di ragionare in maniera controfattuale. Le scoperte di Bloom, quando interpretate
insieme a quelle di Au, non sembrano più supportare questa ipotesi, né l'ipotesi Sapir-Whorf in
generale.

Consideriamo un ultimo lavoro.

Lardiere (1992)

Lardiere adotta un’altra strategia per rispondere a Bloom. Invece di dimostrare (come aveva
fatto Au) che i cinesi erano in grado di ragionare controfattualmente, Lardiere punta a
dimostrare che se esistono dei modi diversi tra cinesi e americani di compiere inferenze
controfattuali, questi non sono dovuti a differenze di lingua (presenza/assenza di marca
morfologica della controfattualità), ma di cultura. Lo studio avviato da Lardiere dimostra che
laddove esistono chiaramente differenze nei modelli di risposta controfattuale, queste non
possono essere attribuite alla presenza/assenza di una costruzione "controfattuale" linguistica
(cioè a differenze di lingua).

Per dimostrare che le difficoltà dei cinesi nel ragionare in maniera controfattuale non è dovuta a
una mancata marca linguistica, ma da un fatto culturale, Lardiere prende in considerazione la
lingua araba. Questa lingua marca esplicitamente la controfattualità, ma, testando parlanti
madrelingua, i risultati ottenuti sono molto inferiori in accuratezza a quelli degli americani, e
sono molto più simili a quelli cinesi.

Visto che in arabo esiste la marca della controfattualità, Lardiere conclude che questo
“fallimento” nel pensiero controfattuale non può quindi essere fatto risalire alla lingua, ma
origina a suo avviso nella cultura, e soprattutto nei metodi educativi e quindi a un diverso
modo di approcciare a scuola i problemi astratti di questo tipo.

Riassumendo, Lardiere ipotizza che la prestazione inferiore dei parlanti cinese e arabo nei
compiti di ragionamento controfattuale – che richiedono l’ipotizzare una situazione che non si è
verificata, e valutare quindi che cosa sarebbe successo nell’eventualità che si fosse realizzata –
non sia dovuta a differenze linguistiche, ma a differenze culturali, che si riflettono anche nei
metodi educativi adottati a scuola.

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Martino Branca Matricola: 840783

IL TEMPO

In questo capitolo parliamo della concezione del tempo, e di come questa possa essere
influenzata dal linguaggio e/o dalla cultura.

Tempo e linguaggio
La nostra esperienza (indipendentemente dalla lingua che parliamo) ci porta a esperire che il
tempo è composto di momenti che succedono una sola volta, e che non si può rivivere ciò che
è passato. Questo tipo di esperienza ci porta a rappresentare il tempo come un
cambiamento unidirezionale, lungo una linea.

Questi aspetti della rappresentazione del tempo (mappare il tempo passato/futuro lungo una
linea spaziale) dovrebbero essere universali, in ogni cultura e in ogni lingua.

Il tempo e lo spazio: la direzione


Quando parliamo del tempo, lo facciamo spesso in termini metaforici, prendendo in prestito
espressioni linguistiche che si riferiscono di fatto allo spazio, dimensione della quale abbiamo
una esperienza percettiva diretta. In un articolo del 2001, però, Boroditsky afferma che la
nostra esperienza ci può sì portare a concettualizzare il tempo come una linea, ma al tempo
stesso l’esperienza non ci istruisce su quale sia la direzione spaziale della rappresentazione
del tempo. In particolare, facendo riferimento al nostro corpo, il tempo può muoversi lungo:

• una linea sagittale,

• trasversale/orizzontale,

• longitudinale/verticale

Inoltre, oltre a non saper la direzione non conosciamo nemmeno il verso (se sagittale: avanti/
indietro; orizzontale: destra/sinistra; verticale: basso/alto).

Tutti questi aspetti, secondo la Boroditsky, non vengono specificati dalla nostra esperienza, ma
sono codificati nelle specifiche lingue.

L’ipotesi di Boroditsky è che la rappresentazione del tempo di una persona sia influenzata
dalla lingua che parla, ossia dalla particolare rappresentazione spaziale che la lingua fornisce.

In una serie di studi, la sperimentatrice si focalizza sulla rappresentazione del tempo. Il suo
intento è verificare se categorie linguistiche particolari influenzino il tipo di rappresentazione
che un parlante ha del tempo.

La lingua pullula di metafore di tipo spaziale per riferirci al tempo, tanto che a volte non ce ne
rendiamo nemmeno conto: vediamo il tempo come qualcosa che si muove lungo una linea
sagittale e/o orizzontale. In italiano (così come in inglese) diciamo “Leo ha l’orologio avanti/
indietro di 5 minuti”, “La lezione della prof. è stata lunga e noiosa” così come il «non guardare
indietro» può riferirsi sia al voltarsi letteralmente come al rimpiangere il passato.

Sebbene in linea teorica le metafore spaziali per il tempo che noi usiamo si riferiscono ad un
asse sagittale (“mi sono lasciata i tempi bui alle spalle”; “hai davanti a te anni radiosi e felici”),
la Borodistky, e anche gli altri autori, considerano queste metafore come metafore orizzontali.

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Martino Branca Matricola: 840783

Metafore orizzontali e verticali (mandarino)

Sia l’inglese che il cinese mandarino usano metafore spaziali con orientamento orizzontale per
riferirsi al tempo. Ma in cinese mandarino sono anche comuni metafore spaziali con
orientamento verticale: ci si può riferire al passato come qualcosa che è sopra, e al futuro
come qualcosa che è sotto.

Boroditsky: metafore spaziali e concezione del tempo (2001)


Boroditsky compie una serie di esperimenti per verificare se questi aspetti linguistici
(rappresentazione solo orizzontale del tempo per gli inglesi; rappresentazione anche verticale
del tempo per i parlanti cinese mandarino) influenzano la concettualizzazione del tempo.

DISEGNO SPERIMENTALE

Il compito richiede unicamente ai partecipanti di dire se una frase sia vera oppure falsa il più
velocemente possibile.

Viene presentato un prime, una domanda che richiede una risposta di tipo puramente
spaziale. Il prime spaziale può richiedere di attivare una rappresentazione di tipo orizzontale o
di tipo verticale.

Il prime viene presentato, e i partecipanti devono dire se la frase è vera o falsa:

Dopo il prime viene presentata la frase target, una domanda su relazioni di tipo temporale.
Tali frasi sono di due tipi:

1. Con metafora spaziale per il tempo (before/after) 



“March comes before April” (Vero)

2. Con termini puramente temporali (earlier/later) 



“November comes later than December” (Falso)

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Martino Branca Matricola: 840783

IPOTESI SPERIMENTALE

Se si attiva con un prime una rappresentazione di tipo spaziale-temporale, ci aspettiamo che le


persone siano più brave a rispondere a frasi che richiedono una computazione di tipo
temporale. Inoltre, ci si potrebbe aspettare che gli inglesi saranno più veloci a rispondere alla
domanda target temporale dopo un prime di tipo orizzontale; i parlanti mandarino invece
potrebbero essere avvantaggiati con una preliminare attivazione della direzione verticale.

PARTECIPANTI

26 parlanti inglese e 20 parlanti mandarino. Quest’ultimi sono bilingui (parlano anche inglese),
ma con mandarino come prima lingua, parlata esclusivamente almeno fino ai 6 anni di età, e
che hanno acquisito l’inglese in media a 12 anni.

Tutti i partecipanti sono testati in inglese.

RISULTATI

Entrambi i gruppi (inglesi e mandarino) hanno avuto tempi di risposta più veloci su enunciati
con metafore spazio-temporali (before/after) dopo prime
orizzontali rispetto a prime verticali.

C’è invece una differenza nei tempi di risposta sugli


enunciati puramente temporali (earlier/later): i parlanti
inglese sono stati più veloci con enunciati puramente
temporali (earlier/later) dopo prime orizzontali rispetto a
prime verticali; i parlanti mandarino invece sono stati più
veloci con enunciati puramente temporali (earlier/later)
dopo prime verticali rispetto a prime orizzontali (guarda
immagine a lato).

DISCUSSIONE

Boroditsky interpreta i risultati nella seguente maniera.

Quando si usano metafore spazio-temporali (before/after), che sfruttano una rappresentazione


del tempo di tipo orizzontale, entrambi i gruppi sono facilitati dalla precedente attivazione della
dimensione orizzontale dello spazio. Quando invece si presentano enunciati che codificano la
relazione temporale senza riferimento allo spazio (puramente temporali - earlier/later)
emergerebbe l’influenza «a lungo termine» della lingua sulla rappresentazione del tempo: la
lingua inglese usa solo riferimenti linguistici temporali di tipo orizzontale, e quindi gli inglesi
continuano a essere più veloci dopo un prime orizzontale; in mandarino invece ci sono molti
riferimenti linguistici temporali di tipo verticale, e quindi i parlanti con il mandarino come lingua
madre sarebbero più veloci dopo prime di tipo verticale.

In altre parole, Boroditsky ipotizza che quando ai partecipanti vengono presentati gli enunciati
che utilizzano termini puramente temporali (earlier/later), essi attivino la loro rappresentazione
“naturale” del tempo, quella che (secondo Boroditsky) è stata forgiata dalla prima esposizione
alla lingua madre: per i madrelingua inglesi una rappresentazione spaziale orizzontale, per i
madre-lingua mandarino una rappresentazione spaziale verticale. Questo spiegherebbe la
diversità nei tempi di reazione.

In un altro esperimento (Esperimento 3), Boroditsky mira a verificare se un training particolare


fatto con i parlanti inglese li può portare a modificare la loro rappresentazione spaziale del
tempo, rendendola verticale (come in molte metafore in mandarino).

PARTECIPANTI

70 studenti universitari americani.

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Martino Branca Matricola: 840783

TRAINING

Ai partecipanti viene detto che impareranno un nuovo sistema per riferirsi al tempo,
presentando 5 enunciati che utilizzano questo nuovo sistema. Il sistema nuovo usa metafore
spaziali di tipo verticale (nell’esperimento precedente le metafore fornite erano unicamente
orizzontali), con il passato in alto e il futuro in basso, come in cinese mandarino.

I partecipanti vengono divisi in due gruppi:

1. A un gruppo viene presentato above/below (sopra/sotto), analogo a before/after


(metafore spaziali - in questo esperimento verticali); 

Es.: “Monday is above Tuesday”

2. A un altro gruppo viene presentato higher/lower than (più in alto/basso), analogo a


earlier/later than (termini puramente temporali).

Es.: “Monday is higher than Tuesday”

I partecipanti devono estrapolare da soli la regola sottostante questo nuovo sistema di


riferimento temporale.

Dopo la familiarizzazione, vengono presentate 90 frasi che usano questo nuovo sistema e i
partecipanti devono rispondere se queste frasi sono vere o false (proprio come nel primo
esperimento).

DISEGNO SPERIMENTALE

Subito dopo questa fase di training, viene nuovamente riproposto l’esperimento 1.

IPOTESI SPERIMENTALE

Ci si aspetta che, nuovamente, i parlanti inglese siano più veloci a rispondere a enunciati che
usano metafore spazio-temporali (before/after) dopo prime orizzontali. La domanda è che cosa
succede quando si presentano enunciati che usano termini puramente temporali (earlier/later
than) dopo i prime spaziali (orizzontale e verticale).

RISULTATI

Di nuovo, i parlanti inglesi sono più veloci a


rispondere a enunciati con before/after (metafore
spazio-temporali) dopo prime orizzontali rispetto a
prime verticali, ma questa volta i parlanti inglesi
sono più simili ai parlanti mandarino con enunciati
con earlier/later (termini puramente temporali):
più veloci dopo prime verticali rispetto a prime
orizzontali (guarda immagine a lato).

COMMENTO

Nel complesso, i parlanti inglese che sono stati addestrati a parlare del tempo usando termini
verticali hanno mostrato uno schema di risultati molto simile a quello dei parlanti mandarini.
Questi risultati confermano che, anche in assenza di altre differenze culturali (ad esempio,
direzione della scrittura), le differenze nel parlare portano effettivamente a differenze nel
pensiero.

DISCUSSIONE DEI RISULTATI

Boroditsky trova una differenza nei tempi di reazione tra parlanti inglese e madrelingua
mandarino per gli enunciati che contengono termini puramente temporali (earlier/later) e li
interpreta ipotizzando che i termini puramente temporali richiedano l’attivazione della

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Martino Branca Matricola: 840783

rappresentazione naturale, a lungo termine, del tempo che sarebbe stata forgiata dalla lingua
madre: per l’inglese di tipo orizzontale, per il mandarino di tipo verticale.

Ora, ciò è strano per due motivi. In primo luogo, in cinese mandarino esistono sia metafore
spaziali di tipo orizzontale che di tipo verticale, per cui non è chiaro perché la rappresentazione
naturale, a lungo termine, del tempo dovrebbe essere di tipo verticale. In secondo luogo, la
Boroditsky stessa nota come un training di pochi minuti (5 frasi di familiarizzazione + 90 frasi
da valutare) con i parlanti inglese con una rappresentazione verticale del tempo porta anche gli
americani a essere più veloci dopo prime verticali. Ma se il rispondere a frasi con riferimenti
puramente temporali dovrebbe richiedere l’attivazione della rappresentazione naturale e a lungo
termine del tempo “dettata” dalla lingua madre non si capisce come mai gli americani
rispondano come i lingua madre mandarino.

In altre parole, c’è una contraddizione tra l’interpretazione dei risultati dell’esperimento 1 e
dell’esperimento 3. Da un lato si dice che i bilingue mandarino-inglese (che vivono negli Stati
Uniti e parlano prevalentemente inglese) attivino la rappresentazione primordiale del tempo
derivata dalla loro lingua madre; dall’altro lato si dice che per i parlanti inglese bastano 95 frasi
che usano la metafora verticale per modificare la loro rappresentazione del tempo.

Le obiezioni allo studio di Boroditsky

January & Kako (2007)

L’obiezione teorica appena discussa viene mossa da January & Kako.

“Boroditsky (2001) considera questo [il fatto che gli americani sono più veloci dopo i
primi veriticali dell'esperimento 3] come prova di influenza del linguaggio sul pensiero
perché sembra che l'esposizione a una nuova metafora per le relazioni temporali possa
causare un cambiamento (temporaneo?) nella rappresentazione mentale del tempo.
Tuttavia, questa affermazione sembra del tutto incompatibile con l'affermazione
dell'esperimento 1 nello stesso articolo secondo cui le metafore della lingua madre
hanno effetti duraturi sulla rappresentazione temporale.”

Ma, a parte queste obiezioni sulla interpretazione dei risultati, sono state mosse delle critiche ai
risultati stessi ottenuti dalla Boroditsky. January & Kako infatti provano a replicare, in 6
esperimenti diversi, la supposta facilitazione per i parlanti inglese, per enunciati temporali dopo
prime spaziali orizzontali, e non la trovano.

Chen (2007)

Anche nell’articolo di Chen vengono riportati 4 diversi tentativi di replicare i risultati della
Boroditsky, ma che falliscono: nello studio di Chen, i soggetti (sia parlanti cinese che parlanti
inglese) sono più lenti dopo un prime orizzontale rispetto a quello verticale, indipentemente dal
tipo di target e dalla lingua madre.

Inoltre Jenn-Yeu Chen, che è cinese madre-lingua mandarino, muove un’altra obiezione
all’ipotesi iniziale di Boroditsky: la rappresentazione naturale del tempo in mandarino non è di
tipo verticale, ma orizzontale. Chen deriva questa conclusione estraendo le espressioni
contenenti riferimenti temporali da numerosi articoli cinesi concludendo che le metafore
spaziali orizzontali siano, in realtà, molto più numerose di quelle verticali.

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Martino Branca Matricola: 840783

Ovviamente, se Chen ha ragione, i risultati della Boroditsky diventano difficilmente interpretabili


alla luce del relativismo linguistico: se in mandarino le metafore spaziali di tipo orizzontale sono
più diffuse di quello di tipo verticale allora non si capisce perché i madre-lingua mandarino
dovrebbero essere più veloci nel valutare gli enunciati puramente temporali dopo un prime di
tipo verticale.

Il fatto poi che due ricercatori diversi non riescano a replicare i risultati della Boroditsky pone
ulteriori dubbi sulla questione.

Boroditsky (2011)
In un articolo del 2011, Borodistky ritorna sulla questione.

Nel 2011 la Borodistky risponde all’obiezione di Chen facendo notare come sì, le metafore
verticali in mandarino non sono così frequenti come quelle orizzontali, ma ai fini del confronto
interlinguistico, l'osservazione chiave è che le metafore verticali sono più frequenti in
mandarino che in inglese. Inoltre riconosce che il paradigma usato nello studio del 2001, e i
successivi tentativi di replica, hanno dati risultati inconsistenti.

Borodistky argomenta che il problema con il paradigma sperimentale dello studio precedente
potrebbe essere dovuto all’aver «mischiato» due diverse rappresentazioni di tipo orizzontale:
una sull’asse sagittale, per cui il futuro è davanti, e il passato dietro; e una sull’asse laterale,
per cui il futuro è a destra e il passato è a sinistra. Nel prime, la rappresentazione visiva usava
una linea orizzontale laterale, mentre l’enunciato da verificare usava termini di tipo sagittale.

Nell’articolo del 2011, Borodistky presenta quindi un nuovo paradigma sperimentale, in cui:

• il compito separa le direzioni all'interno degli assi;

• il compito non è linguistico (gli stimoli sono fotografie e le risposte sono la pressione di un
pulsante);

• il compito si basa sul tempo di reazione (una misura implicita dell'elaborazione che è
improbabile che i partecipanti manipolino per compiacere lo sperimentatore);

• il compito verifica il ragionamento temporale attraverso una vasta gamma di progressioni


e durate temporali.

PARTECIPANTI
118 parlanti inglese (età media 19 anni); 63 bilingui Mandarino-Inglese (con il cinese mandarino
come lingua madre - età media 25 anni)

PROCEDURA

Compare su uno schermo una croce (punto di fissazione) per 500 ms; dopo, al centro dello
schermo compare una immagine (p.e: Woody Allen da giovane), che rimane per 2 secondi;
infine compare un’altra immagine (p.e: Woody Allen da vecchio), che rimane sullo schermo fino
a che i partecipanti non rispondono alla seguente domanda:

“Questa foto mostra Woody Allen a un tempo precedente o successivo (earlier or later) nella
sua vita rispetto alla prima foto?”

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Martino Branca Matricola: 840783

Per rispondere, i partecipanti dovevano premere un pulsante su una tastiera: per rispondere
earlier dovevano premere un pulsante nero; per rispondere later dovevano premere un
pulsante bianco.

C’erano due liste:

• tastiera orizzontale laterale (51 inglese, 26 mandarino)

• tastiera verticale (67 inglese, 37 mandarino)

In ogni lista c’erano due blocchi (76 trials per blocco):

- blocco congruente (passato a sinistra/in basso; futuro a destra/in alto),

- blocco incongruente (passato a destra/in alto; futuro a sinistra/in basso).

IPOTESI SPERIMENTALE

L’idea è questa: se un partecipante ha effettivamente una rappresentazione del tempo che è


basata su un mapping spaziale, allora ci aspettiamo che la sua performance nei blocchi
congruenti (in cui la posizione dei pulsanti per rispondere earlier/later sono coerenti con la
rappresentazione spaziale corrispondente) sia migliore della sua performance nei blocchi
incongruenti. Più specificamente, se esiste una influenza della lingua sulla concettualizzazione,
allora ci aspettiamo che i parlanti inglese (che usano solo metafore spaziali orizzontali, con il
passato a sinistra e il futuro a destra) abbiano solo una rappresentazione del tempo di tipo
spaziale orizzontale, mentre i parlanti mandarino (che usano anche metafore spaziali verticali,
con il passato in alto e il futuro in basso) avrebbero una rappresentazione del tempo anche di
tipo spaziale verticale. E quindi, ci si aspetta che:

• I parlanti inglese nella lista orizzontale laterale siano più veloci nei blocchi congruenti
rispetto ai blocchi incongruenti; mentre per i parlanti inglese della lista verticale non
dovrebbero mostrare differenze nei due blocchi;

• I parlanti mandarino siano più veloci nei blocchi congruenti rispetto ai blocchi
incongruenti in entrambe le liste (verticale e orizzontale).

RISULTATI

Accuratezza: 95,5% (nessuna differenza statistica)

Tempi di reazione:

I parlanti inglese della lista orizzontale sono più


veloci nei trials dei blocchi congruenti (canonical)
rispetto a quelli incongruenti (non-canonical).

Per i parlanti inglese non c’è invece facilitazione


nella lista verticale per i blocchi congruenti/
incongruenti.

I parlanti mandarino sono sempre più veloci nei


blocchi congruenti (canonical) rispetto a quelli
incongruenti (non-canonical), sia nella lista
orizzontale che nella lista verticale.

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Martino Branca Matricola: 840783

DISCUSSIONE

Come previsto, i parlanti inglese e mandarino hanno mostrato schemi diversi: entrambi hanno
mostrato un effetto di canonicità (facilitazione per trials congruenti) sull'asse orizzontale, ma
solo i parlanti mandarino hanno mostrato un effetto di canonicità sull'asse verticale.

Entrambi i gruppi organizzano il tempo sull'asse da sinistra a destra con eventi precedenti a
sinistra, un modello coerente con la direzione di scrittura. Ma i parlanti mandarini mostrano
anche evidenza di rappresentazioni verticali del tempo, con eventi precedenti rappresentati più
in alto. Chi parla inglese non ha mostrato evidenza di tale rappresentazione. Questa differenza
tra i due gruppi è prevista dai pattern di metafora spazio-temporale in inglese e mandarino.

I risultati forniscono la prova di una differenza interculturale nel ragionamento temporale in


un compito implicito e non-linguistico. Sembra che i parlanti di lingue diverse attivino
automaticamente diverse rappresentazioni spaziali culturalmente specifiche quando ragionano
sul tempo. In particolare, Boroditsky sostiene che, sebbene la nostra tendenza a
concettualizzare il tempo in modo spaziale possa essere considerata come universale,
naturale, basata sulla nostra esperienza fisica, alcune dimensioni (asse orizzontale (laterale/
sagittale) /verticale; passato destra/sinistra o sopra/sotto) siano «specificate tramite le metafore
spazio-temporali, e in altri aspetti della cultura».

Tempo e spazio: Discussione generale


Come abbiamo visto, Borodistky è estremamente cauta nel discutere i suoi risultati: la
differenza riscontrata tra parlanti mandarino e parlanti inglese (solo i primi hanno una
facilitazione dei trials congruenti verticali) viene imputata questa volta a differenze nel
linguaggio e nella cultura. Ossia, l’attivazione di una rappresentazione verticale del tempo da
parte dei parlanti mandarino potrebbe essere influenzata dall’uso di metafore spaziali
verticali, ma potrebbe anche essere che queste ultime siano a loro volta attivate da «aspetti
culturali». In altre parole, rimane aperta la questione su «che cosa influenzi che cosa»: l’effetto
trovato potrebbe essere dovuto alla lingua, o alla cultura, o ad altri aspetti ancora. Altri studi,
infatti, hanno trovato effetti nella concettualizzazione dello spazio che sembrano derivare da
altre questioni, non puramente linguistiche.

Tempo e spazio: questioni non-linguistiche


Direzione di scrittura
In molte culture, la scrittura avviene da sinistra verso destra, e dall’alto verso il basso. Ma non
in tutte. In particolare, in arabo si scrivono sia lettere che numeri consistemente da destra
verso sinistra; in ebraico si scrivono le lettere da destra verso sinistra, ma i numeri da sinistra
verso destra; in cinese tradizionale, si scriveva dall’alto verso il basso, ma recentemente, nella
Cina continentale, si è passati a un sistema di scrittura “occidentale” da sinistra verso destra,
mentre a Taiwan è rimasta la scrittura dall’alto verso il basso.

Tversky, B., Kugelmass, S., & Winter, A. (1991) hanno testato bambini inglesi, arabi ed ebrei.

In un compito, dicevano ai bambini di pensare ai momenti del giorno in cui si mangia la


colazione, il pranzo e la cena. Poi mettevano su un foglio un adesivo per il pranzo, e
chiedevano ai bambini di posizionare un altro adesivo, per la colazione, e un altro ancora per la
cena.

I bambini parlanti inglese (direzione di scrittura, da sinistra a destra) tendevano a ordinare


anche gli eventi da sinistra a destra (colazione-pranzo-cena); I bambini parlanti arabo

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Martino Branca Matricola: 840783

tendevano ad allinearli con ordine da destra a sinistra (cena-pranzo-colazione); I bambini ebrei


hanno mostrato un pattern misto.

Bergen, B., & Chan Lau, T. T. (2012):

“L'inglese, come il cinese mandarino nella Cina continentale, è scritto da sinistra a


destra e poi dall'alto verso il basso. Ma a Taiwan, i caratteri sono scritti prevalentemente
dall'alto verso il basso e poi da destra a sinistra.
In un esperimento comportamentale, abbiamo testato madrelingua inglesi, cinese
mandarino dalla Cina continentale e cinese mandarino di Taiwan chiedendo loro di
posizionare insiemi di carte in ordine temporale. I risultati hanno mostrato che chi
parlava inglese rappresentava sempre il tempo spostarsi da sinistra a destra (SD). I
partecipanti della Cina continentale hanno seguito la stessa direzione, ma una piccola
parte ha disposto le carte dall'alto verso il basso. I partecipanti di Taiwan avevano la
stessa probabilità di descrivere il tempo che si spostava da SD e dall'alto verso il basso,
con una grande minoranza che lo descriveva come spostarsi da destra a sinistra.
Il sistema di scrittura nativa influenza il modo in cui le persone rappresentano il tempo
nello spazio.”

Cultura
Altri studi, infine, hanno ipotizzato un legame tra la cultura e la scelta di particolari
rappresentazioni spaziali. Ad esempio, nella lingua Aymara, il passato è (linguisticamente e
gesturalmente) concettualizzato come davanti, mentre il futuro come dietro.

Núñez & Sweetser pongono particolare enfasi sul fatto che anche i gesti degli Aymara indichino
che per loro il passato è davanti e il futuro è dietro; e ipotizzano che questa rappresentazione
spaziale derivi dalla loro visione culturale secondo cui si può conoscere solo ciò che si
esperisce visivamente: solo gli eventi già successi (passati) possono essere visti (con gli
occhi - di fronte a noi); mentre gli eventi futuri non possono essere visti, sono preclusi alla
nostra vista (alle spalle).

Un ultimo studio ipotizza un forte legame tra aspetti culturali (e non linguistici) e la
rappresentazione del tempo: lo studio di De La Fuente et al.
I parlanti Darija, un dialetto dell’arabo moderno parlato in Marocco, usano metafore linguistiche
per riferirsi al tempo “standard”, con il futuro davanti e il passato dietro. Tuttavia, tendono a
concettualizzare il passato come davanti e il futuro come dietro.

Gli autori dello studio ipotizzano che questa concettualizzazione (il passato davanti e il futuro
dietro) non dipenda dalla lingua (le metafore verbali, infatti, hanno il futuro davanti), ma dalla
cultura: la cultura marocchina da particolare importanza alle tradizioni, e quindi i loro modelli
mentali sarebbero maggiormente focalizzati sul passato. Secondo De La Fuente e colleghi, il
mapping spazio-tempo nelle menti delle persone è condizionato dai loro atteggiamenti
culturali verso il tempo, che dipendono dalla focalizzazione dell’attenzione (nel caso dei
Darija, verso le tradizione) e che possono variare indipendentemente dalle mappature spazio-
tempo racchiuse nel linguaggio.

Conclusioni
Abbiamo passato in rassegna diversi studi che hanno mostrato un comportamento diverso tra
partecipanti appartenenti a lingue (e culture) diverse. Alcuni autori (Boroditsky in primis)
attribuiscono queste differenze alla lingua, ma altri autori sottolineano il ruolo di fattori culturali
(direzione di scrittura, importanza data al ruolo della visione, e delle tradizioni).

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Martino Branca Matricola: 840783

IL GENERE

In quest’ultimo capitolo parleremo di un ulteriore fenomeno morfosintattico, ossia la


possibilità di marcare morfologicamente i nomi comuni per il genere grammaticale.

Come già sappiamo, in alcune lingue, come l’inglese, non c’è marca morfologica di genere per
i nomi comuni (mentre c’è ad esempio per i pronomi he/she; his/her); in altre lingue, come
l’italiano, tutti i nomi comuni sono marcati per genere maschile e femminile; in altre lingue
ancora, come il tedesco, i nomi comuni sono marcati con tre tipi di genere: maschile, femminile
e neutro.

Il genere grammaticale
Stiamo parlando di un fenomeno morfosintattico, perché si parla di una marca morfologica
che indica che un determinato nome risulta maschile (o femminile) dal punto di vista
grammaticale, nel senso che richiede ad esempio accordo morfologico-grammaticale con
altri elementi della frase (ad esempio articoli e aggettivi che si riferiscono a quel nome).

Il genere grammaticale e sesso biologico


Questione diversa è il sesso biologico, inteso come «il carattere che permette, negli organismi
viventi a riproduzione gamica, di distinguere gli individui appartenenti alla stessa specie in
generi differenti».

In lingue come l’italiano, tende a esserci una sovrapposizione tra sesso biologico e genere
grammaticale: i nomi comuni che si riferiscono a individui/animali che hanno sesso biologico
femminile tendono a essere morfologicamente femminili (mamma, ragazza, gatta, cagna,
mucca, scrofa…); i nomi comuni che si riferiscono a individui/animali che hanno sesso
biologico maschile tendono a essere morfologicamente maschili (nonno, scolaro, gatte, cane,
toro, maiale…), anche se ci sono eccezioni: ci nomi comuni per animali che sono
grammaticalmente maschili (p.e: giaguaro) o femminili (tigre), ma si possono riferire a esemplari
biologicamente maschili o femminili (il giaguaro femmina, la tigre maschio)).

Il genere grammaticale e gli oggetti “asessuati”


Per quanto riguarda invece i nomi comuni che si riferiscono a entità che non sono
biologicamente maschili o femminili (artefatti, concetti astratti, eventi…), il fatto che il nome che
si riferisce a queste entità sia grammaticalmente maschile o femminile (nelle lingue che
marcano il genere) è un puro accidente, e l’assegnazione è arbitraria: non ci sono motivi
intrinseci per cui la sedia è grammaticalmente femminile e lo sgabello è grammaticalmente
maschile.

Da uno scritto di Mark Twain, madrelingua inglese (lingua che non marca morfologicamente per
genere i nomi comuni), si può notare e dalla traduzione in italiano che non c’è assolutamente
uniformità crosslinguistica nel marcare grammaticalmente il genere dei nomi comuni

Genere grammaticale e relativismo linguistico


Secondo i sostenitori del relativismo linguistico, chi parla una lingua che marca
morfologicamente i nomi comuni in base al genere (maschile, femminile e, in caso, neutro)

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Martino Branca Matricola: 840783

potrebbe essere spinto da questa caratteristica linguistica ad attribuire proprietà


biologicamente maschili ai referenti dei nomi grammaticalmente maschili, e ad attribuire
proprietà biologicamente femminili ai referenti dei nomi grammaticalmente femminili. Ossia, noi
italiani potremmo vedere la sedia come un oggetto con caratteristiche (biologicamente)
femminili, e lo sgabello come aventi caratteristiche (biologicamente) maschili.

Boroditsky & Schmidt (2000)


Boroditsky & Schmidt hanno testato questa ipotesi con una serie di esperimenti, riportati in
due articoli, e poi riassunti in un capitolo di libro.

Nel primo lavoro, con Schmidt, le autrici hanno due domande sperimentali:

1) l’assegnazione del genere grammaticale (maschile o femminile) a degli artefatti è davvero


completamente arbitraria, o esistono delle proprietà degli oggetti denominati che li fanno
percepire come più maschili o più femminili?

2) Gli individui concettualizzano gli oggetti anche come aventi caratteristiche femminili o
maschili? E, in caso, questa concettualizzazione degli oggetti come maschili o femminili è
influenzata dal genere grammaticale che la lingua che parlano assegna ai nomi
corrispondenti (influenza della lingua)?

Esperimento 1: l’assegnazione del genere è completamente arbitraria?

Si potrebbe ipotizzare che gli animali o le cose che risultano facili da antropomorfizzare
possano essere visti come aventi caratteristiche stereotipicamente maschili o femminili, e
quindi con genere grammaticale consistente, anche in lingue diverse. Se questa ipotesi fosse
vera, nomi di animali considerati belli e aggraziati tenderebbero quindi ad essere di genere
grammaticale femminile, e quelli di animali aggressivi e forti tenderebbero a essere di genere
grammaticale maschile. Ci aspetteremmo inoltre che i nomi di referenti facili da
antropomorfizzare abbiano generi grammaticali più stabili in lingue diverse rispetto a nomi che
si riferiscono a entità astratte o comunque meno “umanizzabili”.

Nel primo esperimento, Boroditsky & Schmidt paragonano l’assegnazione del genere
grammaticale, in due lingue che lo marcano morfologicamente (lo spagnolo e il Tedesco), alle
intuizioni di parlanti inglese (lingua che non marca il genere) riguardo al genere degli stessi
oggetti. Se l’assegnazione del genere fosse completamente arbitraria, allora ci aspettiamo che
non ci sia corrispondenza tra le intuizioni dei parlanti inglese e il genere grammaticale
assegnato in lingue come lo spagnolo e il tedesco. Se invece ci fosse una qualche base che
porta le lingue a catalogare determinati oggetti come maschili o femminili, allora ci aspettiamo
corrispondenza nell’assegnazione di genere tra spagnolo e tedesco, e con le intuizioni dei
parlanti inglese.

PARTECIPANTI
15 parlanti inglese i quali non conoscevano lo spagnolo o il tedesco.

MATERIALI

Lista di 50 nomi di animali, e di 85 nomi di artefatti (veicoli, abbigliamento, arredamento).

PROCEDURA

I parlanti inglese dovevano classificare ogni oggetto e animale come maschile o femminile.

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RISULTATI

Come prima cosa, si è verificato se ci fosse concordanza di genere in spagnolo e in tedesco.


Tra i 135 nomi considerati si è verificato che la concordanza fosse presente soprattutto tra i
nomi di animali, meno tra i nomi di artefatti. I parlanti inglese poi hanno catalogato i nomi
seguendo un pattern simile: per gli animali c’è stata sostanziale corrispondenza sia con lo
spagnolo che con il tedesco, mentre non c’è stata corrispondenza per il genere degli artefatti.

DISCUSSIONE

Boroditsky & Schmidt concludono notando come sia impressionante che le intuizioni dei
parlanti inglese (lingua che non marca il genere grammaticale) corrispondessero all’effettivo
genere grammaticale marcato sia in spagnolo che in tedesco per i nomi di animali.

Questo suggerisce che il genere grammaticale assegnato agli animali non sia totalmente
arbitrario, ma che probabilmente rifletta le percezioni che gli individui hanno riguardo alle
proprietà stereotipicamente maschili o femminili di quegli animali.

Esperimento 2: il genere grammaticale influenza la percezione?

La seconda domanda sperimentale è se questa marca morfologica abbia un effetto sulla


percezione che gli individui hanno dei referenti (SOLE: genere grammaticale maschile -
referente come tipicamente maschile, ad esempio come potente e minaccioso; genere
grammaticale femminile - caratteristiche tipicamente femminili, come caldo e che dà la vita).

Nel secondo esperimento, Boroditsky & Schmidt vogliono testare l’ipotesi secondo cui il
genere grammaticale “faccia parte” della concettualizzazione di un oggetto, anche in compiti
in cui non viene richiesta l’intermediazione linguistica. Per fare ciò, testano parlanti spagnoli e
tedeschi, ma il compito viene svolto interamente in lingua inglese, per cercare di minimizzare il
ricorso alla verbalizzazione della propria lingua. Inoltre, il compito è un compito di
memorizzazione: i soggetti devono ricordarsi delle coppie formate da il nome di un oggetto e
un nome proprio (p.e: ricordarsi la coppia <apple, Patricia>). I nomi degli oggetti sono stati
scelti in modo che avessero genere opposto in spagnolo e in tedesco: ad esempio apple è
femminile in spagnolo, e maschile in tedesco. I nomi propri erano per la metà nomi di donne
(come Patricia), e per la metà nomi di uomini (come Patrick).

IPOTESI SPERIMENTALE

Se l’attribuzione del genere “entra” nella concettualizzazione dell’oggetto – e quindi se gli


spagnoli concepiscono la mela come femminile, e i tedeschi come maschile – allora ci
aspettiamo che vengano ricordate più facilmente le coppie di nomi oggetto-persona in cui c’è
concordanza di genere (e quindi che gli spagnoli ricordino meglio la coppia <apple, Patricia>
piuttosto che <apple, Patrick>, mentre che i tedeschi facciano il contrario).

PARTECIPANTI

25 parlanti spagnolo; 16 parlanti tedesco; 20 parlanti inglese.

MATERIALI

24 nomi di oggetti (in inglese), e 24 nomi propri (inglesi) metà maschili e metà femminili, con
genere invertito in spagnolo e in tedesco.

Altri 30 parlanti inglese hanno assegnato un genere agli oggetti e in maniera randomizzata,
sono state formate coppie oggetto–nome.

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PROCEDURA

A ogni partecipante sono state presentate, sullo schermo di un computer, 24 coppie oggetto-
nome. Ogni coppia rimaneva sullo schermo per 5 secondi e dopo compariva la successiva.
Dopo seguivano 5 minuti con un compito distrattore.

Nella fase di test, venivano presentati solo i nomi degli oggetti, e i partecipanti dovevano
indicare se il nome appaiato (il nome proprio) era maschile e femminile.

RISULTATI

I parlanti spagnolo e tedesco hanno mostrato una facilitazione nel compito a seconda della
loro lingua: entrambi i gruppi hanno ricordato meglio le associazioni oggetto-nome proprio
quando il nome proprio aveva lo stesso genere del nome dell’oggetto nella loro lingua (82%
quando c’era consistenza; 74% quando non c’era consistenza).

Visto che i nomi degli oggetti avevano genere opposto nelle due lingue (spoon è femminile in
spagnolo, e maschile in tedesco), i partecipanti spagnoli e tedeschi hanno mostrato un
comportamento opposto.

Anche i parlanti inglese si sono ricordati meglio (86%) le coppie oggetto-nome proprio quando
il genere del nome proprio era consistente con il precedente rating fatto con altri soggetti (a cui
era stato chiesto di dire se secondo loro spoon era maschile o femminile - si parla degli altri 30
soggetti discussi nei “materiali”).

CONCLUSIONI

Le due sperimentatrici concludono che le idee che le persone hanno riguardo al genere degli
oggetti sembrerebbero essere fortemente influenzate dal genere grammaticale che la loro
lingua madre assegna a questi oggetti.

Phillips & Boroditsky (2003)


In questo secondo articolo, Phillips & Boroditsky presentano altri esperimenti volti a indagare la
questione se il fatto di parlare una lingua che richiede di marcare morfologicamente il genere
su tutti i nomi comuni abbia un impatto su come i parlanti concettualizzano gli oggetti.

L’ipotesi è che i parlanti “trasferiscano” sui referenti dei nomi anche delle caratteristiche
sessuate, ossia vedano come più femminile (o maschile) la luna, se la loro lingua marca quel
nome con il genere femminile (o maschile).

Esperimento 1: Picture Similarity

In un primo esperimento, vengono presentate sullo schermo coppie di immagini: a sinistra c’è
sempre una persona – o un maschio o una femmina - a destra c’è un oggetto oppure un
animale. Ai partecipanti viene chiesto di indicare, in una scala da 1 a 9, quanto ritengono
“simili” le due cose. I nomi degli oggetti/animali sono stati scelti in modo che avessero genere
opposto nelle due lingue (luna è femminile in spagnolo, e maschile in tedesco).

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PARTECIPANTI

Parlanti spagnolo e parlanti tedesco.

RISULTATI

I partecipanti hanno ritenuto più simili le coppie persona-oggetto/animale che condividevano il


genere biologico-grammaticale. Ossia, i parlanti spagnolo hanno ritenuto più simili coppie
del tipo ballerina-luna, mentre i parlanti tedesco hanno ritenuto più simili coppie del tipo re-
luna.

Esperimenti 2 e 3: Picture Similarity

Lo stesso compito di Picture Similarity viene riproposto con partecipanti bilingue spagnolo-
tedesco (Esperimento 2). Gli autori trovano che i partecipanti tendono a considerare più simili
quelle coppie persona-oggetto che condividono lo stesso genere biologico-grammaticale nella
lingua in cui si sentono più competenti (non nella lingua del paese in cui sono nati, né quella
per la quale hanno più anni di esposizione).

Il terzo esperimento considera nuovamente bilingui spagnolo-tedesco, e introduce un


compito di inteferenza verbale per evitare che i partecipanti denominino le immagini per
eseguire il compito.

Come nel 1° esperimento, i partecipanti hanno trovato più similarità tra coppie persona-
oggetto che condividevano il genere nella loro lingua madre.

Vigliocco et al. (2005)


Vigliocco utilizza un compito simile.

Esperimento 1

PROCEDURA

Vengono presentate ai partecipanti delle triplette di nomi – 3 nomi che si riferiscono ad


animali, oppure 3 nomi che si riferiscono ad artefatti. Si dice che è un esperimento sulla
similarità di significato, e si chiede di scegliere le 2 parole (tra le 3 presentate) che sono le più
simili quanto a significato. Nelle istruzioni viene specificato che il giudizio di similarità deve
essere fatto sulla base del significato delle parole, e non per altri aspetti (ad es. similiarità
fonologica o visiva).

Dopo aver effettuato il compito, viene chiesto di indicare quale strategia è stata adottata per
operare la scelta.

PARTECIPANTI

36 parlanti italiano (lingua con genere grammaticale marcato sui nomi), e 36 parlanti inglese
(lingua senza genere grammaticale).

IPOTESI SPERIMENTALE

Se il fatto di marcare grammaticalmente il genere sui nomi comuni ha un effetto sulla


categorizzazione, ci aspettiamo che i parlanti italiano concettualizzino gli oggetti come dotati di
genere, e usino questa informazione per eseguire il compito, e quindi che giudichino come
semanticamente più simili coppie di nomi che condividono il genere.

In inglese questa informazione non è codificata linguisticamente, e quindi ci aspettiamo scelte


di accoppiamento diverse.

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RISULTATI

Vigliocco ottiene che nessun partecipante italiano ha menzionato il genere grammaticale come
strategia utilizzata per eseguire il giudizio di similarità semantica. I partecipanti italiani hanno
accoppiato tra di loro nomi che condividevano lo stesso genere quando appartenevano alla
categoria animali. Questo non succedeva per gli italiani con gli artefatti, né per i parlanti
inglese.

DISCUSSIONE

Vigliocco e colleghi interpretano i dati di questo esperimento come evidenza che i parlanti
italiano tendono a includere l’informazione legata al genere grammaticale nel significato di
nomi, ma solo se i nomi si riferiscono agli animali (per i quali ha senso parlare di genere
biologico), ma non se i nomi si riferiscono ad artefatti.

Esperimento 3

Nel terzo esperimento, Vigliocco e colleghi ripropongono lo stesso compito (giudizio di


similarità tra triplette di nomi) a un gruppo di 28 partecipanti parlanti tedesco, lingua che
richiede di marcare morfologicamente i nomi comuni, ma con 3 diversi generi (maschile,
femminile e neutro), e a 28 parlanti inglese.

La procedura è la stessa dell’esperimento precedente.

RISULTATI

Non è stato trovato nessun effetto legato al genere grammaticale: i tedeschi non usavano
questa informazione (né per gli artefatti, ma neanche per gli animali) per giudicare la similarità.

C’era un’altissima concordanza tra parlanti inglese e parlanti tedesco nelle scelte il che indica
che abbiano usato criteri semantici simili (comunque non legati al genere).

DISCUSSIONE

Sebbene la lingua tedesca richieda di marcare morfologicamente il genere grammaticale su


tutti i nomi, in questo esperimento Vigliocco e colleghi non trovano alcun effetto nel giudizio di
similarità tra nomi che condividono lo stesso genere grammaticale (ad es. sono entrambi
maschili), neanche per gli animali. Vigliocco e collaboratori ipotizzano che questo sia dovuto al
fatto che in tedesco i generi grammaticali siano 3 e che quindi non sia possibile far
corrispondere il genere grammaticale con il sesso biologico, come (probabilmente) avevano
fatto gli italiani per i giudizi su nomi di animali.

Esperimento 4

In questi due esperimenti, però, gli stimoli erano nomi per cui ai partecipanti venivano richiesti
giudizi linguistici. Non è detto che l’influenza del genere grammaticale (trovata solo per gli
italiani, e solo per i nomi di animali) permanga anche a livello di concettualizzazione mentale,
quando non è coinvolto il linguaggio.

Per esplorare questa possibilità, Vigliocco e collaboratori compiono un ulteriore esperimento,


presentando come stimoli delle immagini, e non più nomi, sempre in triplette, e sempre
chiedendo di selezionare la coppia più simile, basandosi sulla somiglianza di significato tra i
concetti (similarità tra triplette di immagini).

RISULTATI

NON c’è alcun effetto legato al genere grammaticale, né legato alla lingua (italiano o inglese) né
legato alla categoria (animali e artefatti): Quando bisogna accoppiare due immagini all’interno

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di una tripletta (ad esempio, immagini di leopardo, cervo e mucca), il fatto che due immagini
abbiano un nome che condivide il genere grammaticale (leopardo e cervo sono 2 nomi maschili
mentre mucca è un nome femminile) NON rende più probabile la scelta di quella coppia.

VIGLIOCCO ET AL. (2005): DISCUSSIONE GENERALE

Considerando insieme i risultati di questi 3 esperimenti, ossia che si è trovata una influenza
dell’informazione morfologica legata al genere grammaticale:

• Solo per gli italiani (esp. 1) e non per i tedeschi (esp. 3);

• Solo per nomi di animali e non per nomi di artefatti (esp. 1);

• Solo per i nomi e non per le immagini (esp. 1 e 4);

Vigliocco e collaboratori concludono che l’influenza del genere grammaticale sulla


concettualizzazione è rintracciabile solo nelle lingue per cui c’è alta concordanza tra genere
grammaticale e sesso biologico (sì italiano, no tedesco), e solo quando è possibile
«sessualizzare» il referente (sì animali e no artefatti), e solo se il compito richiede un giudizio
linguistico sulle parole, e non se ci si basa sulle immagini.

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