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I paragrafi 77 e 78 della Kritik der Urteilskraft


di Kant
Davide De Gennaro
a. a. 2021-22
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§77. Della peculiarità dell’intelletto umano per cui è possibile per noi il concetto di uno
scopo naturale

Kant introduttivamente richiama gli argomenti della nota precedente, cioè il §76: essa assumeva una
funzione preparatoria rispetto al §77. Forniva infatti un’illustrazione preliminare della peculiare
struttura delle facoltà umane rispetto alle facoltà pensabili, e di alcune conseguenze da essa
implicate. Come annuncia il titolo, il paragrafo declina le considerazioni della nota in riferimento al
concetto di Naturzweck1, mostrando cosa da esse risulti. Kant giunge dunque alla radice del
problema, derivante dal fatto che vi sia l’ineludibile bisogno di utilizzare tale concetto per
individuare gli organismi e comprenderli nella loro differenza dall’inorganico, ma al contempo il
concetto stesso resista alle deduzioni, agli intenti teoretici di darne una giustificazione assoluta,
rimanendo inesplicabile.
Dalla peculiarità delle nostre facoltà dipendono alcune delle categorie fondamentali di cui
facciamo uso; tuttavia tendiamo a compiere il passaggio illegittimo di attribuire loro lo statuto di
cosa in sé. Si riassume qui, a titolo di esempio, un caso esaminato nel §76. Kant argomenta che la
distinzione tra le categorie modali di realtà e possibilità scaturisce dalla costituzione delle facoltà
conoscitive del soggetto, e precisamente dalla disomogeneità e dal rapporto tra intelletto e
sensibilità2. Le nostre categorie di realtà e possibilità non possono esser comprese in modo assoluto,
ma si definiscono solo in relazione tra loro ed al soggetto. Perciò Kant afferma nel §77 che ad esse
«non può esser dato alcun oggetto adeguato nell’esperienza». Le categorie, ad esempio, non sono
mai date come contenuti d’esperienza, in quanto sono modi di darsi della stessa. Dunque,
nonostante la tendenza a considerarle predicati oggettivi, tale rischio viene ‘neutralizzato’ ed esse
mantengono spontaneamente uno statuto regolativo nell’indagare l’esperienza. Il concetto di
Naturzweck invece da questo punto di vista è problematico: ciò che lo differenzia da altre idee è che
ci sono degli oggetti, gli organismi, che sembrano dare realtà ad esso, fornendo quindi l’apparente
esibizione della finalità3 della natura o della nozione di intelletto architettonico ad essa correlata.

1 Nel §65, in sede di Analitica, attraverso approssimazioni successive attuate applicando condizioni restrittive alle
definizioni via via ottenute, Kant giunge alla conclusione che «le cose in quanto scopi naturali (Naturzwecke) sono
esseri organizzati (organisierte)». Gli organismi biologici, caso unico nella struttura della conoscenza, danno luogo ad
una singolare modalità del giudizio, tale che non abbiamo di essi alcun concetto determinato, ma la loro definizione in
ultima analisi corrisponde con lo stesso principio trascendentale del giudizio per la riflessione su di essi. Nel §66 si
legge infatti: «Questo principio, nello stesso tempo la loro definizione, dice: Un prodotto organizzato della natura è
quello in cui tutto è scopo e vicendevolmente anche mezzo. Niente in esso è gratuito, senza scopo, o da ascrivere
a un cieco meccanismo della natura». Immanuel Kant, Critica della facoltà di giudizio, Torino: Einaudi, 2011, pp. 206-
209.
2 Nello specifico, i concetti dell’intelletto operano l’unificazione di dati sensibili, fornendo la possibilità di un oggetto,
ma senza garantirne la realtà; le intuizioni sensibili forniscono dati spazio-temporali per i quali potrebbe però non darsi
l’universale atto alla sussunzione, ed in tal caso non costituirebbero un oggetto di conoscenza per noi. Forniscono
quindi solo la realtà dell’oggetto.
3 Si renderà Zweckmäßigkeit con «finalità», ricalcando la traduzione francese (finalité) o inglese (purposiveness), e non
quella più letterale di «conformità a scopi», proposta da Garroni e Hohenegger nell’edizione adottata come riferimento.
3

Kant tuttavia precisa come attraverso tale idea non si apprenda oggettivamente nulla
sull’organico, né sulla natura nel suo complesso come sistema, in quanto la finalità non è una
categoria, ma scaturisce solo dall’applicazione a certi oggetti d’esperienza di un «intelletto in
genere», cioè “in quanto tale”, pensato in modo indeterminato, non specificamente operante con le
categorie del nostro. Si sottopone a critica il modo di giudicare sugli organismi, caratterizzato
dall’impossibilità della determinazione categoriale di essi; ne segue che tale giudizio non può essere
determinante ma solo riflettente4. Il riflettente è il modo in cui va pensata l’applicazione
dell’intelletto alla contingenza del darsi degli organismi, in assenza di categorie atte a sussumerli.
Con ciò si produce l’idea centrale del §77, di una peculiarità o di una «certa contingenza (gewisse
Zufälligkeit)» del nostro intelletto: questa si mostra nel modo di comportarsi di esso nei confronti
del Giudizio5, contrassegnato dall’avere a disposizione il principio di finalità, non come categoria,
ma come modo in cui l’intelletto in connessione col Giudizio opera dinanzi a certi oggetti
d’esperienza.
Il comprendere la contingenza del nostro intelletto significa metterne a fondamento («zu
Grund gelegen») l’idea un altro intelletto possibile, diverso da quello umano. Kant introduce nel
terzo capoverso la nozione di intelletto intuitivo, poi ridefinito come archetypus. Giungiamo a
pensarne una nozione non contraddittoria solo per negazione delle caratteristiche del nostro
intelletto, discorsivo, altrimenti detto ectypus6 (il che viene esplicitato solo alla termine dell’ottavo
capoverso). La ragione pensa solo attraverso dicotomie a priori negative la possibilità formale, o
logica (la non contraddittorietà), di ciò che risulta dalla negazione delle facoltà umane, ma ciò non
equivale alla comprensione della possibilità reale di tale nozione 7. Essa rimane per Kant una
costruzione indispensabile per raffigurarsi la peculiarità del nostro intelletto e riconoscerlo come
solo uno fra quelli possibili. Ciò impedisce di pensarlo come assoluto: non può essere assoluto un
intelletto per il quale si dia il contingente, poiché altrimenti la stessa contingenza dovrebbe essere
pensata come assoluta e necessaria, il che è una contraddizione in termini.

4 Della distinzione critica tra giudizio determinante e riflettente qui ribadita, Kant forniva una definizione nominale nel
§4 della seconda Introduzione alla Kritik der Urteilskraft. Nel giudizio determinante l’universale, sotto cui si sussume il
particolare, è già dato; invece nel giudizio riflettente è dato solo il particolare, per la cui sussunzione il giudizio deve
trovare l’universale. Il giudizio determinante unifica il molteplice dell’intuizione sotto leggi trascendentali universali,
ovvero l’apparato categoriale proprio dell’intelletto, e dunque è «solo sussuntivo»: vale a dire, è come un’operazione
automatica, avviene in modo immediato. L’intera Urteilskraft invece opera mediante giudizi riflettenti, prescrivendo la
legge a se stessa (è autonoma o nomotetica), e non alla natura, nonostante attinga sempre anche alla componente
determinante. La tesi viene enunciata in vari punti nel procedere della critica per chiarire che, per quanto sia inevitabile
utilizzare il principio di finalità, mediante esso non si affermi determinatamente nulla di positivo sugli oggetti.
5 Si adotta la dicitura tradizionale di Gargiulo, che traspone come «Giudizio» la capacità, o forza di giudizio
(Urteilskraft), e invece come «giudizio» il singolo atto del giudicare (Urteil).
6 La parola è greca, l’uso è ampiamente latino. Gli ‘ectipi’ erano le effigi sulle monete. Kant usa tale espressione
metaforica per rendere chiaro come l’intelletto lavori con rappresentazioni delle cose che non contengono tutti i loro
predicati reali.
7 L’idealismo tedesco successivo a Kant, già a partire da Fichte, sino a Schelling ed Hegel, tenderà ad eliminare, o
dichiarare impropria, la distinzione tra pensabilità della possibilità logica e comprensione di quella reale: l’intelletto
intuitivo così, da semplice limite negativo, diviene una nozione positiva ed un principio di spiegazione.
4

Kant prosegue “scomponendo” l’operazione dell’intelletto in riferimento al giudizio, in cui si


mostra la peculiarità dell’intelletto umano rispetto ad un altro possibile. I concetti cardine sono
quelli di particolare e universale, ed il modo in cui essi sono posti in connessione. All’inizio del
quinto capoverso si legge:
[…] mediante l’universale del nostro (umano) intelletto il particolare non è determinato; ed è
contingente in quanti vari modi possano presentarsi alla nostra percezione cose diverse che pure
convergono in una caratteristica comune.8

Per «caratteristica comune» s’intende la regola di un certo universale in base alla quale è possibile
sussumere diversi oggetti sotto di esso. Il nostro intelletto ha la proprietà di dover andare
dall’universale al particolare mediante concetti. Ciò significa che la molteplicità dei particolari
possibili non è contenuta sinteticamente nell’universale, o direttamente deducibile da esso, ma deve
necessariamente essere esperita e sussunta attraverso il Giudizio.
Il nostro intelletto riesce a produrre solo un tipo di universali: Kant lo denominerà nell’ottavo
capoverso, con una dicitura alquanto paradossale, analytische Allgemeine («analiticamente
universale» oppure «universale analitico»). Affinché si dia la produzione di un’esperienza, essi
necessitano che delle intuizioni gli siano date. La facoltà conoscitiva umana consta di una
fondamentale componente di passività, o ricettività. Non produce da sé i propri oggetti, ma solo le
forme entro cui essi si presentano. Kant afferma che tuttavia possiamo pensare negativamente «la
facoltà di una completa spontaneità dell’intuizione» 9, ovvero un’intuizione intellettuale e non
sensibile, senza il tratto della ricettività. Si determina meglio la nozione di intelletto intuitivo in
riferimento al quale si pensa la peculiarità del nostro. Si nega ad esso la differenza di genere con
l’intuizione, definendolo solo come non discorsivo: esso non opera con concetti a cui siano date
intuizioni, come il nostro, ma con concetti direttamente intuenti10.
Dal raffronto del nostro intelletto con quello intuitivo emerge l’ineludibile presupposto teorico
di un «accordo delle caratteristiche della natura (Naturmerkmale) con la nostra facoltà dei concetti»,
accordo definito come «assai contingente (sehr zufällig)», e «del quale un intelletto intuente non ha
però bisogno»11. La questione segna un limite intrinseco dell’intero impianto della filosofia critica.
Per l’intelletto umano il particolare è dato e non si trova già iscritto nell’universale, ma non c’è
alcuna garanzia metafisica che nel particolare contingente si diano dei predicati distintivi (i
Merkmale, in latino notae) che riconosciamo come tratti comuni agli oggetti, tali da permetterne
l’unificazione e la sussunzione sotto universali. La presenza di tali regolarità, costanti od
isomorfismi dev’essere indipendente dal soggetto ed insita nella natura stessa, e non è spiegabile

8 I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, cit., p. 238.


9 Ivi, p. 239.
10 Il modello storico e teorico di un siffatto intelletto è la monade dominante leibniziana, che precisa la nozione
tradizionale di intelletto divino in una forma più completa e coerente.
11 I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, cit., p. 239.
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criticamente; tuttavia è dimostrata dalla sola possibilità del darsi di un’esperienza, la quale per
definizione viene intesa come connessione ordinata di fenomeni mediante leggi. Tali regolarità sono
dunque dei dati primi («etwas gegeben»): Kant vi si riferisce talvolta col termine facta12. Questo
tipo di deduzione non trascendentale viene detta, nella prima edizione della KrV, «deduzione
soggettiva».
Nel settimo capoverso Kant afferma che possiamo pensare tale armonia tra la natura e il
Giudizio come contingente solo implicandovi la finalità. Infatti, come accennato nel §76,
chiamiamo così la «legalità del contingente»13, già sempre operante nell’organizzare quanto vi è di
non determinabile categorialmente. Inoltre pensiamo la contingenza dell’accordo con la natura in
riferimento alla peculiare costituzione del nostro intelletto, comparandolo ad un intelletto intuitivo
per cui invece tale accordo sarebbe necessario, in quanto conosce i suoi oggetti, per così dire,
producendoli, senza andare dall’universale al particolare nel senso sopra specificato. Kant precisa
inoltre che non è indispensabile attribuire ad un tale intelletto un fine intenzionale 14, e pensarlo
quindi come il Dio creatore del teismo, dotato di volontà, che sceglie il mondo. In ultimo si può
aggiungere che l’accordo è per noi contingente, ma rispetto alla nostra esperienza dobbiamo
pensarlo come “soggettivamente necessario”. Decade l’opposizione metafisica tra necessità e
contingenza: in prospettiva critica esse assumono significato solo in rapporto a ciò che il soggetto
conosce nell’esperienza.
Nel capoverso ottavo Kant introduce la dicitura di analytische Allgemeine sopra indicata:
emerge che proprio dal nostro modo di rapportare particolare e universale deriva il nostro concetto
di causalità meccanica. Infatti ricostruendo il nexus effectivus non possiamo che muovere dagli
effetti (particolare), non deducibili, ma sempre dati, per risalire alla loro ragione determinante, cioè
la causa (universale). Tale struttura non è più oggettiva della finalità, ma sempre relativa alla
peculiarità del nostro intelletto. Kant propone ancora di pensare per negazione un intelletto intuitivo
che possa inferire il caso particolare dal concetto: ipotizza poi come esso operi a confronto col
nostro:

12 Ha luogo qui l’esplicitazione di un problema che si presenta nella sua forma iniziale nella prima edizione della
Kritik der reinen Vernhunft, in un passaggio che verrà integralmente soppresso nella seconda edizione: una delle ragioni
della soppressione è che la questione verrà profondamente rivista e riformulata in una versione più matura e conclusiva
nella Kritik der Urteilskraft. Il passo in esame si trova all’inizio dell’Analitica dei principi: esso risponde al quesito di
come sia possibile la sintesi della riproduzione dell’immaginazione, ovvero l’associazione stabile di rappresentazioni
che spesso si sono succedute o accompagnate tra loro, di modo che rimangano connesse anche senza la presenza
dell’oggetto. Kant scrive: «Se il cinabro fosse ora rosso ora nero, a volte leggero a volte pesante […] allora la mia
facoltà empirica di immaginazione non potrebbe mai avere l’opportunità, nella rappresentazione del colore rosso, di
ricevere nei pensieri il pesante cinabro. E se una certa parola fosse accostata ora ad una cosa ora ad un’altra […] senza
che in ciò dominasse una certa regola cui i fenomeni di per se stessi fossero già sottoposti, non potrebbe aver luogo
alcuna sintesi empirica della riproduzione». KrV, A 100-101.
13 I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, cit., p. 237.
14 «[…] dobbiamo pensare un altro intelletto in riferimento al quale, e prima di ogni scopo ad esso attribuito, possiamo
rappresentarci come necessaria quell’armonia […]». Ivi, p. 239.
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[…] possiamo anche pensare a un intelletto che, dato che non è discorsivo come il nostro, ma è
intuitivo, va dall’universale sintetico (dell’intuizione di un tutto in quanto un tutto sintetico) al
particolare, cioè dal tutto alle parti, quindi un intelletto, e la sua rappresentazione del tutto, che
non contiene in sé la contingenza del legame delle parti per rendere possibile una determinata
forma del tutto […] Secondo la costituzione del nostro intelletto, invece, un tutto reale della
natura deve essere considerato solo come effetto delle concorrenti forze motrici delle parti. 15

Viene quindi introdotto il concetto chiave di «tutto reale (reales Ganze)»16, in rapporto con la
nozione di synthetische Allgemeine. Infatti, se pensato a fondo, quest’ultimo non è simile a nessuno
degli universali parziali producibili dall’intelletto umano, ma va piuttosto concepito come un
concetto dalla massima estensione che raccolga sinteticamente sotto di sé la totalità dell’esistente, in
un’unica intuizione. Dunque per l’intelletto intuitivo i collegamenti tra le parti non sono contingenti
ma già dati e necessari. Quello umano procede invece in modo inverso, risalendo via via dalle parti
a forme più generali, e dunque comprendiamo la nozione di tutto reale come possibile solo in
quanto effetto di cause efficienti, meccaniche (nel passaggio riportato, sinonimo di «forze motrici»).
Ora, davanti alla contingenza del legame delle parti, operiamo riproducendo il modo in cui
ipotizziamo faccia un intelletto archetipo, ovvero pensando «la possibilità delle parti […] come
dipendenti dal tutto»: tuttavia al nostro intelletto non è dato di dedurre il legame delle parti da un
tutto reale. Possiamo solo operare attraverso la costruzione di quella che Kant chiama una
«rappresentazione» di questa totalità. Poiché l’intelletto umano può comprendere la nozione di tutto
reale solo come effetto di cause efficienti, allora abbiamo la rappresentazione di un effetto assoluto,
complessivo, pensata come ciò che permette alla causa efficiente di causare l’effetto. Quest’ultima è
proprio la struttura logica della causa finale17: dunque ciò che la tradizione ha chiamato “finalità”,
talvolta con presunzione metafisica, coincide con l’operazione del porre la rappresentazione di un
tutto come causa delle sue parti. Se ci si illude di conoscere alcunché col principio di finalità, si sta
pensando che rappresentarsi un tale effetto assoluto coincida col possedere la nozione di tutto reale.
Ne segue che solo in virtù della peculiare costituzione del nostro intelletto siamo spinti ad usare il
concetto di Naturzweck, e dunque esso riguarda non gli organismi in sé, ma il nostro modo di
giudicarli. Kant segna dunque i limiti di validità di tale principio, indispensabile per orientarsi
nell’esperienza ma insoddisfacente a scopi scientifici, in quanto privo di carattere determinante.
Il capoverso nove fornisce una ragione critica di come sia impossibile comprendere secondo il
solo meccanismo gli oggetti di cui giudichiamo finalisticamente, cioè i corpi organici, ma al

15 Ivi, p. 239-240.
16 La nozione di tutto reale richiama quella di ideale trascendentale, una rappresentazione individuale di un’idea di
totalità. Ne è un esempio classico il Dio spinoziano: essa è una somma assoluta di elementi, specificabili sottraendoli
dalla totalità.
17 Ad esempio il filosofo olandese Adrian Heereboord, in un manuale di metafisica molto diffuso in nord Europa al
tempo di Kant, ne dà la seguente definizione: «definiamo fine (finem) la causa esterna per cui (propter quam), ovvero in
grazia di cui (cuius gratia) la cosa è; ovvero, che spinge la causa efficiente ad agire, e così alla conseguenza di questa».
Adrian Heereboord, Meletemata Philosophica, 1665, II, 23-24, p. 264, I.
7

contempo non se ne possa escludere a priori la generazione per cause integralmente meccaniche. Il
nostro intelletto, nel comprendere il «tutto della materia» degli organismi, non può considerare tale
tutto come prodotto delle parti, come giudicando di cause ed effetti meccanici, ma deve far uso
dell’«idea di un tutto come scopo», ovvero della rappresentazione di questa totalità da cui dipende
la relazione reciproca tra le parti. Si giunge così al passaggio chiave dell’argomentazione, che si
serve della distinzione tra fenomeno e cosa in sé: la nostra necessità di rappresentarci l’unità
dell’organico tramite il concetto di uno scopo non implica che concepirlo solo meccanicamente sia
impossibile in assoluto per ogni intelletto. Ciò sarebbe lecito se pensassimo gli organismi, ed in
generale ogni essere materiale, come cose in sé. In tal caso l’unità del tutto della materia
coinciderebbe con la sua pura coesione spaziale. Lo spazio verrebbe così ad essere un «fondamento
reale», una proprietà dell’oggetto (come secondo la tesi newtoniana) e non una forma della
sensibilità. Così inteso, lo spazio somiglia alla rappresentazione di un tutto della materia poiché
anche in esso si determina il collegamento delle parti in rapporto al tutto.
Ci si imbatte qui in un problema antico, sviluppato soprattutto nel Medioevo da Tommaso,
Duns Scoto e Occam, e che Kant riceve tramite Leibniz, Wolff e Baumgarten: il principium
individuationis. Esso consiste nel giustificare teoricamente la possibilità di mantenere l’identità
individuale di oggetti (non solo degli organismi) i quali mutano continuamente secondo la quantità
e la qualità. L’unità di quelli che Leibniz, dal punto di vista del corporeo, chiamava semplici
«aggregati» di parti fisiche, non ci è mai data: in tal caso sarebbe il solo perimetro spaziale a
fornirla. Il nostro intelletto deve invece costruirla riferendo gli oggetti a rappresentazioni degli stessi
come totalità, come interi, il che significa per Kant pensarli secondo cause finali. In generale,
l’intelletto discorsivo esperisce oggetti determinati, o ha leggi riguardanti porzioni più o meno
estese d’esperienza, ma non accede mai a delle totalità come tali; tuttavia organizza l’esperienza
secondo idee di interi, rappresentandoli (il che coincide con l’uso di cause finali).
Da tali riflessioni si desume che gli organismi sono l’occasione offrentesi nell’esperienza che
obbliga ad osservare la contingenza del nostro intelletto, ponendola in rilievo in maniera evidente.
Lo stesso processo che consente di comprendere la possibilità degli organismi ed individuarli ha
luogo nel pensare la contingenza del nostro intelletto in riferimento ad una sua unità possibile, che è
finalistica e coincide con la nozione di intelletto archetipo. A partire dall’esperienza elementare
della vita biologica l’intelletto, in definitiva, è costretto a vedere persino l’intero mondo come
contingente: si innesca quindi anche il procedimento critico che porta a scoprire la finalità come
forma di giudizio mediante cui facciamo fronte all’esperienza della contingenza.
Per i motivi esposti, Kant conclude che senza la finalità nessuna ragione finita potrebbe
comprendere «neppure un’erbetta» e dunque è impossibile immaginare un “Newton del filo
8

d’erba”18 che intenda l’organico solo mediante leggi meccaniche. Anche se per ipotesi se ne
scoprissero tutte le leggi empiriche, ciò non renderebbe superflua la causalità mediante scopi.
Argomentazione, questa, che prepara la trattazone del §78: la riunione del principio meccanico e
teleologico.

§78. Della riunione, nella tecnica della natura, del principio del meccanismo universale
della materia con quello teleologico

Il §78 chiude la Dialettica, la quale muoveva inizialmente, nel §70, dalla tematizzazione di
un’antinomia, prodotta dall’«opposizione (Wiederstreit)» di due proposizioni. Esse recitavano:
Ogni generazione di cose materiali e delle loro forme deve essere giudicata come possibile solo
secondo leggi meccaniche. […]
Alcuni prodotti della natura materiale non possono essere giudicati come possibili secondo leggi
solo meccaniche (il loro giudizio richiede una legge del tutto diversa della causalità, vale a dire
quella delle cause finali).19

La figura antinomica ha una struttura logica peculiare: la sua soluzione critica consiste nel
comprendere che essa è interna al modo di giudizio riflettente, dunque le due proposizioni non sono
realmente in contraddizione in quanto vanno considerate non come principi costitutivi, dal valore
determinante ed oggettivo (sull’uso dei quali non si potrebbe disquisire) ma come massime
regolative della riflessione, dunque soggettive20. Quindi, non solo possono accostarsi e coesistere,
ma devono necessariamente essere utilizzate entrambe nella conoscenza della natura, con funzioni
diverse. In questo senso, l’antinomia è solo «parvente (scheinbar)»21 e illusoria, poiché non oppone
dei principi dogmatici; nella misura in cui le due proposizioni venissero erroneamente considerate
tali, esse diverrebbero, pur mantenendo gli stessi quantificatori logici, una tesi ed una antitesi
inconciliabili (la verità dell’una implica la falsità dell’altra, tertium non datur):
Tesi: Ogni generazione di cose materiali è possibile secondo leggi solo meccaniche.
Antitesi: Alcune generazioni di quelle stesse cose non sono possibili secondo leggi solo
meccaniche.22

18 Nel §75 Kant scrive: «[…] è umanamente assurdo anche soltanto concepire una simile impresa, o lo sperare che un
giorno possa sorgere un Newton, che faccia comprendere sia pure la produzione d’un filo d’erba per via di leggi naturali
non ordinate da alcun fine». I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, cit., p. 232.
19 Ivi, p. 219.
20 La differenza costitutivo-regolativo viene avvicinata varie volte nella Kritik der teleologischen Urteilskraft a quella
tra determinante e riflettente, istituendo un richiamo terminologico che suggerisce come la seconda sia uno sviluppo,
un’elaborazione ulteriore della prima. In breve, i principi costitutivi danno luogo ad un dominio d’esperienza entro cui
siano legislativi, ad esempio le categorie nel dominio della natura; i principi regolativi non costituiscono un dominio
d’esperienza, ma ad essa forniscono una regola che la ordini e ne connetta parti diverse.
21 L’uso di questo lessico non deve indurre a pensare che qui venga ricalcato il modello delle quattro antinomie
paradigmatiche della KrV, basate sulla parvenza (Schein) trascendentale. Con questa espressione s’intende infatti lo
scambio illegittimo tra fenomeno e cosa in sé, dovuto all’insopprimibile esigenza della ragione di travalicare i limiti
dell’esperienza possibile, cercando per tutto il condizionato l’incondizionato. In questo caso invece «Ogni apparenza
(Anschein) di antinomia tra le massime del modo di spiegare propriamente fisico (meccanico) e teleologico (tecnico),
riposa dunque su ciò: che si scambia un principio della facoltà riflettente di giudizio con quello della facoltà
determinante […]». I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, cit., p. 222.
22 Ivi, p. 220.
9

Kant non concede questa forma di antinomia e la presenta per confutarla, in quanto «la ragione non
può dimostrare né l’uno né l’altro di questi principi» 23. Il §78 costituisce quindi un compimento
della Dialettica, in quanto propone l’unificazione del principio meccanico e teleologico,
funzionalmente eterogenei, eliminando definitivamente ogni apparente contraddizione tra di essi.
Nel primo capoverso Kant reitera l’importanza del meccanismo nell’indagine sulla natura.
Spiegare, dall’idea di un architetto che agisca mediante fini, oggetti in cui vediamo una finalità, è
un ragionamento tautologico e che sconfina nel trascendente disancorandosi dall’esperienza. Dal
punto di vista della storia delle idee, Kant accoglie quindi la novità teorica propria dell’età post-
cartesiana e della scienza moderna, consistente nella perdita di valore esplicativo scientifico delle
cause finali, in favore delle efficienti. Assume una posizione radicale per la cultura filosofica della
Germania del 1790, in cui pesavano ancora i residui di finalismo presenti nel wolffismo: pur
abbandonato formalmente, esso era ben radicato ed influenzava le scienze naturali, in particolare la
biologia del ‘700. Inoltre, i prodromi della cultura romantica - si pensi a Goethe - andranno nella
direzione di un recupero di forme di vitalismo finalistico irrazionalista, sebbene l’influsso scolastico
fosse cessato.
Nel secondo capoverso, specularmente, Kant richiama l’impossibilità di rinunciare anche al
principio di finalità. Seppur non apporti alcuna conoscenza positiva, esso è indispensabile nel suo
statuto epistemologico di «principio euristico»24, l’unica forma minima con cui è ammesso nella
scienza. Non si comprende, mediante la finalità, il funzionamento dei fenomeni biologici, ma essa
costruisce il campo di ricerca entro cui possano essere determinati scientificamente. È quindi uno
strumento della logica della scoperta scientifica (ars inveniendi), che si aggiunge ai principi
fondanti della scienza newtoniana: esso permette di trovare nuove connessioni tra i fenomeni, che
altrimenti risulterebbe arduo scoprire, se non impossibile. Nello specifico, Kant si riferisce al
reperimento di universali empirici nella classificazione dei prodotti della natura 25, possibile solo
individuando, tra le forme variegate di tali oggetti, tendenze e caratteri comuni, tali da poter
attuarne un raggruppamento nella loro somiglianza. Questa operazione non è meramente descrittiva,
ma giustificata mediante un principio finalistico di unità concettuale. Kant si rivolge poi contro un
tipo di spiegazione fallace diffuso nella biologia e nella filosofia del tempo, consistente
nell’attenersi al principio delle cause efficienti dogmaticamente, anche quando non si comprenda
una certa relazione tra fenomeni fisici. Ciò porta a postulare «chimerici poteri naturali» 26, misteriose

23 Ibid.
24 Il carattere euristico del principio di finalità veniva accennato già nel §61: «Il concetto di legami e forme della
natura secondo scopi è però, almeno, un principio in più per portare sotto regole i fenomeni della natura quando le
leggi della causalità secondo il suo semplice meccanismo non bastano». Ivi, p. 194.
25 Per contestualizzare tali tesi, si noti che nel 1735 veniva pubblicata la prima edizione del Systema Naturae di
Linneo, il sistema di classificazione degli esseri viventi ancora oggi in uso nella nomenclatura biologica.
26 I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, cit., p. 244. Un esempio di questo tipo di forze è il conatus spinoziano.
10

forze od impulsi metafisici che operano come fossero cause meccaniche, contravvenendo al celebre
motto newtoniano: «hypotheses non fingo»27.
Kant giunge a trattare l’unificazione dei due principi, affermando questa conclusione:

[…] la riunione di entrambi i principi può riposare non su un fondamento di spiegazione


(explicatio) della possibilità di un prodotto secondo leggi date per la facoltà determinante di
giudizio, ma solo su un fondamento della sua esposizione (expositio) per la facoltà riflettente di
giudizio.28

La differenza tra spiegazione ed esposizione è la seguente: «spiegare» significa derivare il


fondamento di possibilità di un certo oggetto da un principio che deve poter essere distintamente
conosciuto e addotto. Si ricorre invece all’«esposizione» nel caso in cui l’oggetto risulti
inspiegabile, dato e non deducibile: essa consiste in una precisa descrizione delle caratteristiche
proprie dell’oggetto. Tale distinzione va tenuta ferma, per comprendere perché la riunione non può
avvenire nella spiegazione della possibilità di un prodotto della natura secondo questi due principi
eterogenei.
Se i principi del meccanismo e della teleologia fossero entrambi costitutivi l’uso di uno
escluderebbe l’altro; invece, come già mostrato, si affiancano e collaborano, perciò debbono poter
connettersi in un principio superiore. Tale principio, che deve rendere possibile l’unificabilità delle
due massime nel giudicare la natura secondo esse, viene indicato da Kant nel «sostrato
soprasensibile della natura»: con ciò si intende un fondamento semplicemente pensato di cui non si
ha esperienza nell’intuizione né empirica né pura, e deriva direttamente dal rappresentarsi la
struttura del nostro intelletto come contingente. Perciò si deve porre il soprasensibile «alla base
della natura in quanto fenomeno»29. Tuttavia tale principio viene definito «trascendente»: di esso
non è possibile affermare determinazioni positive ma solo farsene un concetto indeterminato,
dunque non può mai esser conosciuto e addotto distintamente. Ne segue che tale principio non può
esser stimato come fondamento necessario di una spiegazione (nel senso tecnico sopra specificato)
dei prodotti della natura secondo i due principi distinti, in esso accomunati. A causa della
«limitatezza (Eingeschränkenheit) del nostro intelletto» ciò che è lecito supporre è invece solo la
possibilità che meccanismo e finalità si accordino «anche oggettivamente»30 in tale principio.

27 L’espressione compare nello Scolio Generale della seconda edizione dei Principia, del 1713. Newton nega al
metodo scientifico la prerogativa di indagare la ragione ultima dei fenomeni, limitandolo all’osservazione e
all’esperimento da cui trarre per induzione conclusioni generali: «[…] non sono riuscito a dedurre dai fenomeni la
ragione di queste proprietà della gravità, e non invento ipotesi (hypotheses); poiché tutto ciò che non è dedotto dai
fenomeni è da chiamarsi ipotesi; e le ipotesi, siano esse metafisiche o fisiche, di qualità occulte o meccaniche, non
hanno posto nella filosofia sperimentale». I. Newton, Philosophiae Naturalis Principia Mathematica, Classici della
scienza, Torino: UTET, 1997, pp. 801-802.
28 I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, cit., p. 244.
29 Ivi, p. 245.
30 Ibid.
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Questa conclusione è sufficiente a render legittimo operare, senza incorrere in contraddizione,


in questo modo: fin dove sia possibile, si usufruirà solo di leggi meccaniche nell’indagare la natura,
ed il limite del loro utilizzo saranno i casi in cui esse si rivelino insufficienti a comprendere la
contingenza dell’oggetto (il caso degli organismi); si tenterà allora di coglierne le relazioni in base
ad un principio di unità teleologica, mediante il giudizio riflettente. Pur non potendo, tramite questo
principio, dare una spiegazione degli organismi ma solo una loro esposizione, bisogna tuttavia
concludere ciò che Kant scrive al termine del quarto capoverso, fornendo forse la più chiara e
completa definizione del principio di finalità tra quelle elaborate nel corso del processo critico:

Si resta dunque al principio della teleologia di cui sopra: che, secondo la costituzione
dell’intelletto umano, non può essere ammessa per la possibilità di esseri organici nella natura
causa diversa da quella che agisce intenzionalmente e che il semplice meccanismo della natura
non può affatto bastare per la spiegazione di questi suoi prodotti […] 31

Il capoverso quinto precisa ulteriormente la definizione qui riportata, ed a partire da essa Kant
non potrà evitare di ammettere, per la prima volta nello sviluppo della critica, che il principio di
finalità sia trascendentale. Il principio sopra riportato è una massima della facoltà di giudizio
riflettente e non di quella determinante, perciò ha valore solo soggettivo e non oggettivo; giudicare
finalisticamente degli organismi, dunque, presuppone anche di pensarli, in quanto prodotti naturali,
secondo la causalità meccanica. Ne segue che «la massima di cui sopra comporta nello stesso tempo
la necessità […] di una riunione di entrambi i principi» ma l’unità dei due elementi non consiste nel
«mettere una massima, del tutto o in certe parti, al posto dell’altra» 32. In campo scientifico, non
comprendere un fenomeno non implica l’uso del principio di finalità con la pretesa di darne una
spiegazione equivalente a quella di tipo meccanico né, viceversa, il meccanismo può svolgere la
funzione di quello teleologico. Le due forme di giudizio non si compensano a vicenda, come se
ricorressimo all’uno dove l’altro non giunge a spiegare. L’unico passaggio legittimo è quello di
«subordinare l’una (la massima del meccanismo) all’altra (la massima del tecnicismo
intenzionale)»33: ciò è giustificato dal fatto che la finalità è un principio trascendentale,
«irremissibilmente inerente al genere umano»34, e già sempre in atto nell’organizzare
sistematicamente l’esperienza. Il considerare le parti degli organismi meccanicamente, come
prodotte per cause efficienti, è possibile solo in virtù della previa comprensione finalistica della loro

31 Ivi, p. 246.
32 Ibid.
33 L’espressione «tecnicismo intenzionale» viene usata per designare il principio di finalità, in quanto per Kant esso è
pensato «secondo una lontana analogia con la nostra causalità secondo fini in generale». Nel lessico di Kant, infatti, il
termine «tecnica (Technik)» è riferito alla struttura mezzi-fini propria dell’agire del soggetto pratico umano dotato di
volontà, caratterizzato da una «intenzione (Absicht)», ovvero un fine soggettivo. La causa finale è stata tradizionalmente
pensata come proiezione del nostro modo di operare sulla natura. il che verrà dimostrato da Kant come erroneo e
contraddittorio. Il concetto di Naturzweck non ha a che fare con quello ordinario di fine pratico: «quindi, per parlare
propriamente, l’organizzazione della natura non ha niente di analogico con qualsiasi causalità che noi conosciamo». Cf.
I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, p. 208.
34 L’espressione compare al termine del §75. I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, p. 233.
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unità. La subordinazione del nexus effectivus al finalis è già implicito nella prima approssimazione
di definizione del concetto di Naturzweck:
[…] un rapporto di causa ed effetto, che ci riteniamo in grado di comprendere come legale solo
in quanto poniamo alla base della causalità della sua causa (Kausalität der Ursache) l’idea
dell’effetto come la condizione di possibilità di questo […] 35
La struttura della finalità risulta da una composizione di cause efficienti, comprese al suo interno.
Dunque, per quanto lontano possa giungere la spiegazione meccanica, dinanzi al darsi dell’organico
essa viene subordinata a un principio teleologico, secondo la costituzione del nostro intelletto.
In conclusione, si può aggiungere che tale principio trascendentale soggiace anche alla
produzione di ogni rappresentazione di totalità (Allheit) grazie alle quali procediamo
nell’esperienza, da quelle parziali, come gli universali concreti della scienza (ad esempio le classi
biologiche), sino alle idee trascendentali della ragione pura (anima, mondo e Dio), descritte con la
nozione di focus immaginarius, verso cui convergono connettendosi tutte le particolari leggi
d’esperienza. Le Ideen stesse sono totalità finalistiche, con uno statuto non costitutivo (non sono
riferibili a oggetti mediante intuizioni adeguate) ma solo regolativo: garantiscono l’interrelazione
coerente dell’esperienza, che non si riduce mai alla sola unificazione del molteplice operata dai
concetti dell’intelletto. In tal senso, il Giudizio come matrice del principio di finalità non è
propriamente una facoltà (Vermögen) a sé, ma, si potrebbe dire, ha sede nel rapporto tra ragione e
intelletto, che si instaura nel portare il particolare sotto l’universale. L’uso regolativo delle idee è
dovuto al fatto che la ragione coopera con un intelletto peculiarmente conformato, ovvero che
conosce oggettivamente solo in rapporto all’intuizione e che ha condizioni date, le categorie.

35 Ivi, p. 200.

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