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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE

18/02/2021 (1°)

MODULO 1 - LE VARIABILI DELL’APPRENDIMENTO LINGUISTICO


Lezione 1: dal “good language” al “good strategy user”
Questo modulo si focalizza sul fatto che esistono delle forti di erenze tra l’insegnamento della L1,
impropriamente chiamata lingua materna, e quella che invece è una lingua diversa da L1.

In generale, individui con capacità cognitive nella norma sono in grado di apprendere senza
nessun problema la propria L1, ed incontrare invece delle di coltà nell’apprendimento di lingue
diverse da L1. Ciò vuol dire che esistono una serie di fattori che incidono sull’apprendimento di
una lingua diversa da L1, che non hanno nulla a che vedere con le capacità di una L1 e che vanno
ad in uenzare il risultato. Dall’altro lato è vero che mentre l’apprendimento e l’utilizzo di L1 è
pressoché omogeneo in un determinato contesto, la gamma di competenza linguistica nella lingua
diversa da L1 è enormemente ampia. Per descriverla possediamo una quantità di descrittori
incredibili — possiamo avere persone che sono in grado di comprendere ma non di parlare,
persone che sono in grado di imparare parole ma non di formare frasi, persone che sono in grado
di leggere testi complessi ma non di articolare una produzione orale etc. La gamma di
competenza linguistica è enorme. Esistono, dunque, una serie di fattori individuali che in uenzano
il processo di acquisizione di lingua diversa da L1, ma che non in uenzano l’acquisizione di L1, e
che per noi sono molto interessanti in quanto ci permettono di lavorare con minore o maggiore
e cacia all’interno dell’ambiente scolastico.

L’espressione “good language learner” è abbastanza complessa — il suo signi cato dipende
innanzitutto da quel “good”. Altra di coltà sta nel decretare se tutte le lingue sono uguali — si
potrebbe essere un buon apprendente di una lingua e un cattivo apprendente di un’altra? Cosa
vuol dire essere un good language learner se poi a seconda della lingua do dei risultati diversi? Ed
in ne, learner e student sono sinonimi? Ovviamente no; learner lo si è sempre, student lo si è solo
in classe. Non è facile de nire quindi chi è un buon apprendente di lingua, ma per noi è
fondamentale sciogliere questa espressione. Quindi, cosa vuol dire “good”?

Nel testo di Lightbown e Spada (2001) ci viene detto che “good” è uno studente intelligente, con
attitudine per le lingue e con atteggiamento positivo. Un’altra de nizione è quella che ci viene
data da Nunan (1995) la quale identi ca studenti con “motivation, a preparedness to take risks,
and the determination to apply their developing language stil outside the classroom”.

Ad ogni modo, alcuni dei fattori che incidono pesantemente nell’essere un buon apprendente di
lingue sono sicuramente l’età, il contesto culturale, l’approccio all’insegnamento e gli
obbiettivi. Abbiamo visto che è di cile de nire il buon apprendente di lingue, questo perché
ognuna di queste parole si presta a molteplici interpretazioni (anche le de nizioni scienti che
hanno bisogno di ulteriori speci cazioni). Andiamo perciò verso un concetto più generale, quello
del “good strategy user”. Nel passare dal good language learner al good strategy user dobbiamo
chiamare in causa la metacognizione, ossia la capacità di ri ettere su ciò che si sta facendo /
apprendendo. Il buon apprendente, secondo Brown, è la persona che sa fare un uso adeguato
delle strategie di apprendimento a seconda dei contesti e degli obiettivi da conseguire. Stiamo
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lasciando da parte l’ambito delle lingue per ora perché ciò che ci interessa è la capacità dello
studente di saper usare delle strategie di apprendimento, non che conosca meramente della loro
esistenza ma piuttosto dell’essere metacognitivamente capace — oltre a conoscere le strategie
deve conoscere i contesti in cui si trova e gli obbiettivi che deve conseguire. A questo proposito, il
buon insegnante è la persona che deve allenare lo studente a prendere consapevolezza di sé e
delle strategie di apprendimento adeguate. É colui che sa fornire tali strategie anche a seconda
della personalità dello studente, dei loro modi di porsi etc. e che saprà proporre agli studenti dei
percorsi per rendersi più capaci di sfruttare via via queste strategie in base agli obiettivi che loro
intendono conseguire. Detto questo, chi è un good strategy user / apprendente e cace?

Osserviamo assieme uno schema.

Il primo passaggio consiste nel fatto che lo studente e cace riceve un compito da parte del suo
insegnante (con determinate caratteristiche) — lo studente attiva quindi le strategie per risolvere
un compito di di coltà adeguata. A questo punto, si passa allo step 2. Lo studente, mentre
svolge il compito, attiva dei processi di controllo — veri ca che stia facendo la cosa giusta. Attiva
quindi la consapevolezza metacognitiva, seleziona le strategie più adeguate (quali organizzazione,
ripetizione, elaborazione verbale, abilità di riassumere etc). In seguito, lo studente riceve un
feedback dal buon insegnante ed in base a questo può correggere le sue attribuzioni e agire sulla
sua sfera emotivo-motivazionale (modi ca). Il lavoro sulla motivazione stimola una ri essione
personale che migliorerà la prestazione nel compito successivo (e questo porta nuovamente
all’uso di strategie etc).

Quali sono quindi le strategie di apprendimento linguistico che ci interessano?


Luciano Mariani de nisce “strategia” come “sapere cosa fare quando non si sa cosa fare” —
essere uno stratega signi ca, anche di fronte a qualcosa di completamente nuovo, essere in
grado di spezzettare il compito in sottocompiti, o consultare le fonti, per analogia ricordare
qualcosa di simile già studiato etc e quindi recuperare strategie e conoscenze per a rontare un
compito nuovo. Rebecca Oxford ha elaborato una classi cazione che funge come punto di
riferimento condiviso, suddividendo le strategie di apprendimento in indirette e dirette.

Le strategie indirette sono le strategie metacognitive, a ettive e sociali; mentre quelle dirette
sono le strategie di memorizzazione, cognitive e compensative. Vediamole nel dettaglio.

Le strategie di apprendimento linguistico indirette si chiamano così perché non sono strettamente
collegate al trattare la materia linguistica ma hanno a che fare con il “saper essere” della persona,
hanno a che fare con una sfera generale, quella delle competenze esistenziali (capacità
d’apprendimento in generale). Tra queste strategie troviamo le strategie metacognitive, le quali
consistono nel saper piani care e valutare il percorso matetico per apprendere una L≠1 (es.
identi care il proprio stile di apprendimento, riconoscere i proprio bisogni, piani care lo
svolgimento un compito in L≠1, recuperare e organizzare materiali ecc.). Vi sono poi le strategie di
tipo a ettivo, che agiscono sui fattori ansiogeni e motivazionali dell’apprendimento (es.
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identi care il proprio umore e il proprio livello di ansia, parlare del proprio stato d’animo, parlare
con sé stessi per guidare le proprie operazioni etc.). In ne, troviamo le strategie di tipo sociale
che riguardano il cooperare, l’interagire, l’entrare in empatia con gli altri (es. porre domande per
veri care di aver compreso, chiedere chiarimenti, chiedere aiuto per svolgere un compito, parlare
con un madrelingua etc.).

Esistono poi delle strategie di apprendimento linguistico dette “dirette” dal momento che vengono
messe in atto nel momento in cui uso la lingua e per usare la lingua. Innanzitutto, menzioniamo le
strategie compensative le quali servono per sopperire ai problemi che derivano dalla mancanza
di competenza (es. indovinare dal contesto, usare sinonimi e perifrasi per le parole mancanti,
usare gesti —che potrebbero essere non internazionali — e pause etc). Non si tratta di strategie
spontanee, si impara ad usarle. Troviamo poi le strategie di memoria, ossia collegare un concetto
o un elemento in L 1 con un altro (es. immagazzinamento e recupero delle informazioni attraverso
l’ordine [acronimi], i suoni [rime], le immagini [immagini mentali] etc). Per ultime troviamo le
strategie cognitive, che sono quelle di manipolazione diretta del materiale linguistico (es.
ragionamento, analisi, presa di appunti, riassunto, riorganizzazione delle informazioni per creare
nuovi schemi etc). Queste servono per usare il materiale linguistico, per imparare la lingua e fare
cose con la lingua (ambito più strettamente scolastico).

L’ultimo passaggio nella lezione di oggi è la consapevolezza nell’apprendimento. Ciò che vediamo
nella tabella qui sotto è ripreso dagli studi di Maslowe, che si è occupato di apprendimento
soprattutto nell’età adulta. Si tratta di vari stadi dell’apprendimento, partiamo dal primo.

Inizialmente quando l’apprendente


non è consapevole che esiste una
necessità o una sfera di
competenza / arte / abilità si trova in
una incompetenza inconsapevole,
e in realtà non è un apprendente, è
una persona. In questo stadio non si
sa di non sapere. Ad un certo punto
si trova un meccanismo di spinta che
può arrivare da uno stimolo esterno
(es. conversazione con qualcuno di
cui ha stima o che gli pone delle
sollecitazioni, sempre all’interno di un
ambito di !! ducia!!) oppure interno
(es. legge, osserva, ascolta) — essa
permette di accedere allo stadio 2 a
causa di una “urgenza”. Si tratta della
fase di incompetenza consapevole
e qui la persona sa di non sapere;
questo passaggio può avvenire solo se lo studente si trova in un ambiente ricco o stimolante per
la conoscenza / competenza che deve acquisire. Per l’apprendente è anche un momento di
confusione perché la sua sicurezza viene messa in dubbio e vacillano i suoi punti di riferimento;
solo in questo stadio l’insegnante può intervenire per aiutarlo a sviluppare la sua competenza. In
questo stadio l’apprendente ha perciò bisogno di informazioni, risorse, conoscenze ed è pronto
per riceverle. Il passaggio successivo, lo stadio tre, è la competenza consapevole. Ciò signi ca
che lo studente si mette in moto per sviluppare la sua competenza (fase incentrata sull’agire e sul
lavorare). In questa fase allo studente costa molta fatica esercitare la sua competenza
(allenamento) e tutte le sue risorse sono impiegate per acquisire le abilità necessarie per
padroneggiare la lingua (lavoro di pratica). Nel caso il cui questo allenamento è pro cuo e non
comprende “ostacoli” si giunge all’ultimo stadio ossia quello della competenza inconsapevole,
fase legata all’essere — la competenza diventa una parte dell’apprendente e della sua esperienza
personale. Non c’è più bisogno di un grande sforzo per mettere in atto tale competenza, si
liberano delle energie che la persona può investire in un altro ambito di conoscenza.

Questo che abbiamo visto è il ciclo ideale.

Il passaggio dallo stadio 1 e 2 è caratterizzato dall’e etto Dunning-Crougare (?) scoperto nel
1999, una specie di cortocircuito mentale che fondamentalmente condanna chi è un
incompetente di non accorgersi della propria incompetenza. Più aumenta la competenza più cala
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la ducia nelle proprie capacità; a scarsa competenza corrisponde alta ducia — gli incompetenti
tendono a sovrastimare le loro prestazioni e sottovalutano il livello medio delle prestazioni
dell’intero gruppo di riferimento. Non hanno una percezione dei proprio limiti, ignorano i propri
errori e fanno fatica a riconoscere le competenze altrui. Mano a mano che l’apprendimento
progredisce il senso di superiorità decresce — da una parte chi è incompetente non sente
bisogno di apprendere e rimane su questo stadio 1, dall’altra si crea la sindrome dell’impostore
per cui più una persona studia più tende a credere che per tutti sia così oppure di non essere
veramente “così bravi”. Questo è un distorsione della capacità di valutare o decidere, e deriva dai
nostri processi mentali. Quando andiamo ad insegnare a degli studenti e a lavorare sulla loro
consapevolezza, dobbiamo stare molto attenti a questi meccanismi di distorsione che ci possono
dare dei giudizi inappropriati sui nostri apprendenti.

In ne per oggi vediamo le variabili dell’apprendimento. Vi sono infatti tutta una serie di variabili
che vanno ad in uire sulla nostra capacità di imparare una lingua e la nostra performance in tale
lingua. Più noi ne abbiamo consapevolezza più possiamo intervenire su di esse e di conseguenza
andare a conseguire gli obbiettivi che ci poniamo. Menzioniamo innanzitutto i fattori individuali (o
cognitivi) che dipendono in maniera molto stretta esclusivamente dalla persona e dalle sue
caratteristiche legate alla capacità cognitive o individuali (es. età, motivazione, esperienze,
convinzioni, atteggiamenti, attribuzioni, attitudine, stile di apprendimento, intelligenza, L1,
conoscenza di altre lingua). Vi sono poi dei fattori esterni che incidono sull’apprendimento
linguistico (es. input e output linguistico, istruzione formale, curriculum del corso, insegnante, stile
di insegnamento, metodo, classe come ambiente di apprendimento, cultura di appartenenza e
status della L 1 — prestigio di cui gode etc). I fattori a ettivi (o tratti delle personalità) sono
legati alla persona ma su cui abbiamo molto meno controllo (es. introversione vs estroversione,
ansia linguistica, autostima, inibizione vs risk tasking, empatia, tolleranza dell’ambiguità).

19/02/2021 (2°)
Come avviene la ricerca sulle variabili? L’interesse dello studio di questa ricerca è capire come le
variabili in uenzano l’apprendimento linguistico di una lingua diversa da L1. Quando i ricercatori
vogliono indagare in quale misura una variabile in uenza l’apprendimento di una L 1 formulano
un’ipotesi e selezionano un possibile gruppo di apprendenti, ai quali somministrano un
questionario per poter osservare la misurazione che a loro interessa (es. motivazione). A questo
gruppo di apprendenti, è somministrato anche un test di lingua per poter conoscere i loro livelli di
successo/performance nell’apprendimento linguistico. Questionario e test vengono valutati ed i
ricercatori mettono in relazione i risultati ottenuti — tale relazione indica quando è probabile che
un apprendente che ha ottenuto un punteggio alto nel questionario abbia anche un punteggio alto
nel test linguistico. Se queste due variabili (es. motivazione e prestazione linguistica) sono
correlate, il ricercatore cercherà di scoprirne la relazione (es. vede se questa situazione si
ripresenta sempre, se la correlazione è positiva o negativa/inversa). Questo procedimento fa si che il
ricercatore possa avere un esito: “si” (con correlazione positiva o negativa — in questo caso
abbiamo confermato la nostra ipotesi di ricerca), oppure “no” (dati spaiati senza correlazione,
nessuna regolarità — il ricercatore deve riformulare l’ipotesi iniziale, ripartendo dall’inizio di questo
ciclo).

Ci sono però una serie di elementi di cautela che sono particolarmente importanti — innanzitutto
vi sono molti modi diversi di de nire il concetto di “successo” (la competenza linguistico-
comunicativa è estremamente complessa, avere successo signi ca essere uenti, corretti, e caci? la
persona che ha un’alta motivazione che tipo di test sulla performance linguistica deve a rontare? un
test di uenza? di correttezza? siamo sicuri che di fronte a due test diversi la persona motivata riporti
comunque un successo?). Altro problema è il fatto che quando parliamo di variabili dobbiamo
misurare dei comportamenti, non processi o qualità — non analizziamo la personalità o
l’attitudine o l’intelligenza o le strategie. Tutto ciò che vediamo sono le competenze, ciò che le
persone dicono o fanno con la lingua, e dal pov comportamentale vediamo le azioni che le
persone fanno (es.risk taking, ansia linguistica con battito cardiaco, rossore, manifestazioni etc). Perciò
dobbiamo procedere con molta cautela nell’andare a creare il nostro progetto di ricerca. In terzo
luogo, altro elemento importante è che le variabili psicologiche sono spesso strettamente
correlate fra di loro e molte volte la terminologia adoperata non è così uniforme (terreno che ha
bisogno di precisione terminologica, settore di ricerca molto attuale). Un rischio enorme che si corre è
che non sempre il fatto che esiste una correlazione tra due fattori indica che c’è un rapporto di
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causa-e etto — in poche parole, non necessariamente tale fenomeno provoca l’altro (importanza
del ruolo del contesto).

Cosa sono i fattori individuali?

Conosciute anche come variabili cognitive, rientrano in questo gruppo quelle caratteristiche che
hanno a che fare con l’ambito più strettamente cognitivo. Esse non dipendono interamente dalla
persona, ma solitamente sono acquisite per via ereditaria, per in uenza del contesto oppure
biologicamente. Tuttavia, la persona ha la possibilità di modi carne il peso attraverso il proprio
intervento consapevole. L’unico fattore tra questi che non risponde a questa caratteristica è l’età.

I fattori individuali che ci interessano sono i fattori di di erenziazione, o meglio quegli elementi che
possano presentarsi sotto forme diverse in persone diverse (elementi che possono manifestarsi in
maniera diversa e creare un puzzle per il quale combinando diversi elementi ogni persona diventa
unica). Alcuni di questi fattori di di erenziazione sono determinati in maniera siologica (età), altri
sono dati dal contesto di apprendimento (esperienze di apprendimento linguistico, L1, altre lingue
conosciute, convinzioni, atteggiamenti, attribuzioni), altri ancora sono dati da componenti ereditarie
o biologiche (attitudine, intelligenza, stile di apprendimento), altri ancora sono un mix di questi
elementi (motivazione all’apprendimento linguistico). Il tratto che accomuna tutti questi fattori è
l’incidenza che hanno sulla componente cognitiva dell’apprendimento e sulla possibilità di
modi cazione consapevole. Vediamo per prima la motivazione.

Quando parliamo di motivazione all’apprendimento di una L 1, essa è considerata uno dei fattori
più importanti per l’apprendimento linguistico di successo. É uno dei fattori individuali, difatti, su
cui si è scritto di più e che è stato oggetto di numerosi studiosi; c’è però poco consenso attorno
alla de nizione di tale motivazione. Ad esempio, possiamo descriverla come un “insieme di spinte
che portano un individuo ad applicarsi con determinazione ad un compito arduo come quello
dell’apprendimento linguistico, non facendosi dissuadere da ostacoli, sacri ci, fatiche”.
L’apprendimento linguistico è di cile, comporta secondo molti un cambiamento della mentalità
della persona, una messa in discussione dei propri valori, un cambiamento dell’identità culturale.
Per questo, la motivazione all’apprendimento linguistico richiede particolare determinazione. Da
questo punto di partenza possiamo aggiungere che tale motivazione può essere di tipi diversi.

Come vediamo in questo


diagramma, la sorgente
della motivazione può
essere interna all’allievo
(causa endogena) oppure
esterna (causa esogena). La
causa endogena interna
all’allievo fondamentalmente
è solo una: il piacere. Il tipo
di obbiettivo e di risultato
ottenuto può essere diverso:
egodinamico (mette in
moto l’io), edonistico
oppure integrativo.

Nel caso della causa


esogena esterna, essa può
essere determinata dal
bisogno oppure dal dovere.
Il bisogno concorre nella
realizzazione di un obiettivo
di tipo strumentale (con ne
con integrativo è molto sottile).
Nel caso del dovere, l’obiettivo è di tipo risultativo (una motivazione che si conclude in sé stessa). A
livello del mantenimento della creazione di un apprendimento che diventa light-long learning, la
parte sinistra dello schema crea gli studenti che possono dare i migliori frutti. Da questa prima
classi cazione, notiamo che non è facile notare una sola causa di motivazione — nella vita è
fattibile che più cause si succedano (es. da bisogno a piacere); la classi cazione prosegue in base
al momento in cui si manifesta. Anche quando la motivazione è provocata da cause endogene, vi
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è sempre un insieme di fattori che contribuisce a determinare le sue caratteristiche (es. nascita,
durata, intensità etc.) — quali sono i fattori che la in uenzano?

Ognuna delle relazioni che vediamo nello schema rappresenta un fattore che in uenza la
motivazione dell’apprendente ad imparare la lingua; l’insegnante dovrebbe lavorare su tale
motivazione stimolando la curiosità, ma anche portando un profondo rispetto nel confronti della
L1 dell’apprendente. […] La motivazione è un costrutto molto complesso. [lettura]

La motivazione è quindi un processo


dinamico, che può trasformarsi e cambiare nel
tempo, proprio come il comportamento
dell’apprendente. Esistono vari schemi che
cercano di descrivere qual è la dinamica della
motivazione. Vediamone alcuni.

1) Titone nel 1974 a ermò che esiste un


primo livello (“io”), legato alla dimensione
interiore dell’apprendente e alla sua volontà di
operare, che poggia su un secondo livello
(“strategia”, ossia la capacità di operare).
In ne questo poggia su un terzo livello, la
“tattica”, che consiste nell’atto concreto di
operazione, e di realizzazione di una serie di
atti linguistici che servono per conseguire gli
obiettivi desiderati. Si mette in moto la
motivazione quando essa passa traverso
questi tre livelli, che sono tra di loro
interconnessi e non posso esistere
separatamente, tanto che possono essere letti
sia da sx a dx che al contrario.

2) Il modello di Dörnyei (2001) riprende quello


di Titone: vi è una prima fase, quella della
scelta in cui la persona si prepara e stabilisce
gli obiettivi della sua azione; una seconda fase
in cui svolge i compiti necessari a mantenere
la motivazione, ed in ne viene individuata la
fase retrospettiva in cui si reagisce alla propria
performance e ci si autovaluta (si veri ca se ciò
che è stato fatto ha avuto successo, tornando a valutare la prima fase).

In tutti e due i casi è fondamentale il ruolo del feedback. Solo il feedback fa capire se si è messa
in atto la tattica corretta o se è necessario andare a migliorare la strategia, ed incrementare /
mantenere la mia motivazione piuttosto che spegnerla. La risposta ricevuta è quindi essenziale
per andare a creare un nuovo ciclo.

Vediamo qui come dovrebbe evolversi il pro lo


motivazionale del nostro apprendente. La motivazione
dovrebbe proseguire su un continuum. Il progresso
dovrebbe avvenire secondo una motivazione
essenzialmente estrinseca, e su questo noi insegnanti
giochiamo un ruolo determinante. La motivazione
attraversa varie tappe — quella dell’interiorizzazione,
quando io mi rendo conto che le nalità
dell’apprendimento linguistico coincidono con i miei
bisogno; quello dell’identi cazione, quando comincio a
trovare dei tratti comuni fra la mia identità e quelli della cultura della lingua-obiettivo; in ne
troviamo l’integrazione (“mi sento parte della comunità che si esprime attraverso questa L 1”; può
avvenire sia con LS che L2). Ovviamente il sostegno dato a questo percorso motivazionale è dato
dalla crescita continua dell’autonomia, della competenza e della relazionalità.

Spostandoci su un altro punto, convinzioni, atteggiamenti e attribuzioni de niscono nella


ricerca glottodidattica quell’insieme di percezioni che l’apprendente ha della lingua, di se stesso
come apprendente, del processo di apprendimento linguistico. Vanno ad identi care tutto
quell’insieme di idee che caratterizzano il fenomeno dell’apprendimento linguistico nei suoi tre
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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
poli: lingua, apprendente e apprendimento. […] Le convinzioni in uenzano pesantemente il
processo di apprendimento delle lingue X (ossia di quelle lingue che si imparano dopo la L1).

Un tipo di convinzione è l’atteggiamento. Esso è una convinzione particolare. Quando parliamo


di atteggiamento intendiamo una disposizione favorevole o sfavorevole assunta da una persona
verso qualcosa o qualcuno, caratterizzata da un chiaro orientamento di tipo valutativo.
L’atteggiamento non è mai neutro, è sempre o positivo o negativo (e questo ha sempre in uenza
negli esiti dell’apprendimento linguistico). Le principali fonti di atteggiamento sono le esperienze
personali, i messaggi veicolati dai media (es. varietà linguistica considerata o meno di prestigio), gli
schemi mentali della persona (determinano l’accettazione o ri uto di un determinato tipo di esperienza di
apprendimento), e poi il contesto sociale di riferimento all’interno del quale le persone si muovono
(+ in uenze che ricevono dal contesto stesso). Tutto questo porta a formare giudizi e valutazioni, e
tutto ciò porta ad approvazione o disapprovazione. L’atteggiamento incide fortemente sulla
motivazione delle persone, ma soprattutto va a creare la “profezia che si autoavvera" — quando
una persona riceve molto spesso un giudizio (spesso negativo) nei confronti delle sue capacità da
persone che hanno un certo “potere” su di lei, comincia a pensare che sia vero e matura la
convinzione che per quanto faccia, nulla andrà a modi care ciò che le persone pensano di lei
(rischio maggiore in contesto scolastico). La “profezia che si autoavvera” è uno degli schemi
psicologici più pericolosi nei quali si può cadere e l’atteggiamento è in uenzato da ciò che gli altri
dicono di noi. La natura degli atteggiamenti è composita: vi è una componente cognitiva (ciò che io
penso della lingua, parte sulla quale si può intervenire in modo consapevole), una componente a ettiva
(determinata dal bagaglio emotivo; spesso qui ho meno capacità di controllo) ed in ne una componente
conativa (legata all’azione, “come io mi comporto nei confronti della lingua”). Queste tre componenti
assieme danno origine ad un’atteggiamento, una disposizione percettiva complessa.

Gli atteggiamenti linguistici svolgono diverse funzioni nel costruire la relazione dell’apprendente
con la lingua. Hanno in primo luogo una funzione di tipo utilitaristico — sono utili per
l’apprendente perché possono volgersi in direzioni diverse quando questo risulta vantaggioso per
lui stesso, oppure possono permettere di evitare delle conseguenze spiacevoli. Gli atteggiamenti
spesso servono per evitare delle situazioni poco piacevoli per l’apprendente o per difendere la
propria identità personale, o più in generale per mantenere un certo equilibrio psicologico
(“comfort zone”). In quest’ottica ci focalizziamo su una tipologia speci ca di atteggiamenti, le
attribuzioni. Con questo termine intendiamo la spiegazione della causa di un avvenimento o di un
comportamento.
Nello schema vediamo che ogni persona
attribuisce i fatti della vita a varie cause, che si
possono raggruppare in quattro contenitori
principali — lo sforzo, la fortuna, il contesto e
l’abilità. Come vediamo, possiamo avere un
raggruppamento in base alla durata della cause
oppure in base all’origine. Le cause possono
essere viste come instabili o stabili a seconda
della loro durata — qui troviamo sforzo e fortuna
come instabili, abilità e contesto come stabili.
L’origine della cause, invece, può essere interna o
esterna — sforzo e abilità dipendono da “me”,
contesto e fortuna no. Il fatto che una persona
faccia ricadere l’attribuzione del risultato in uno di
questi quattro contenitori incide moltissimo nel
tipo di motivazione e di impegno che metterà
nell’applicarsi nello studio e, di conseguenza, nel
tipo di successo scolastico che potrò ottenere.

A livello didattico, questo ci interessa perché il compito didattico mette in atto l’autoregolazione
della persona (capacità di gestire le proprie risorse) e la motivazione. A nché si attivi il circolo
virtuoso della motivazione, l’insegnante deve in primo luogo formulare dei compiti che non siano
meramente esecutivi ma che rendano necessario l’uso di strategie per svolgere tali compiti. A
questa fase di applicazione deve seguire una fase di valutazione esplicita, non solo di valutazione
del compito ma anche delle strategie che sono state usate. É importante che lo studente si
autovaluti. A questo punto scatta il passaggio successivo — questa fase metacognitiva permette
all costudente di uscire dal constatare il “cosa” per so ermarsi sul “come” e quindi, attraverso il
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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
confronto con i compagni e con l’insegnante,
individua la strategia e cace per risolvere il
compito. Lo studente si convince che il successo
nello svolere il compito dev’essere attribuito
all’impegno e all’e cacia delle strategie — e qui
troviamo il collegamento con lo schema
precedente. Tale apprendimento strategico genera
aspettative positive nei confronti di sé stessi come
studenti e determina quindi un maggiore stimolo
ad usare sempre di più delle strategie.

25/02/2021 (3°)
Per iniziare la lezione di oggi, presentiamo delle
de nizioni di stili di apprendimento. Quando
parliamo di stile di apprendimento abbiamo a
che fare con un termine che descrive le variazioni
tra gli apprendenti nell’utilizzare uno o più sensi
per comprendere, organizzare ed immagazzinare l’esperienza. Si tratta di di erenze che nello
speci co riguardano l’atto di apprendere, la comprensione, l’organizzazione e la memorizzazione.
Altra possibile de nizione è la seguente: “il modo frequente dell’apprendente di rispondere e
usare degli stimoli nel contesto di apprendimento”. Mentre la prima de nizione si concentra sui
sensi, la seconda si concentra piuttosto nella risposta agli stimoli (interno // messa in relazione tra
interno ed esterno). Teniamo presente che stiamo parlando in termini di massima, questo perché
stiamo parlando di tratti tipici ma non assoluti delle persone (sono delle tendenze). Una terza
de nizione, più completa, lo individua come un insieme di comportamenti caratteristici cognitivi,
a ettivi e siologici che funzionano come relatori relativamente stabili di come i discenti
percepiscono l’ambiente di apprendimento e vi reagiscono. Inserisce una parola importante:
“comportamento”, che abbiamo già trovato nella lezione scorsa. Inoltre amplia il raggio d’azione
perché non si concentra sui sensi, ma prende in considerazione anche la sfera cognitiva e quella
a ettiva. Anche qui troviamo la relazione tra percezione e reazione attraverso il comportamento.
Quando parliamo di stile di apprendimento, parliamo quindi di qualcosa di complesso. Tali stili di
apprendimento vanno osservati, innanzitutto nei loro comportamenti (quali comportamenti
corrispondono a determinati stili di comportamento?). Una prima di coltà è data dal fatto che
dobbiamo riuscire ad individuare le manifestazioni dei processi di apprendimento (i processi in
sé non sono osservabili); la seconda caratteristica di tali stili di apprendimento è la loro
pluridimensionalità — sono cognitivi, a ettivi e psicologici allo stesso tempo per cui ci sono
molti aspetti interconnessi tra di loro. Terzo dato di complessità è la loro funzionalità, devono
fornire delle informazioni utili a chi interagisce con la persona dal pov educativo. In ne, dobbiamo
renderci conto che c’è un forte legame con il contesto e l’ambiente di apprendimento.Altro
aspetto di cui dobbiamo occuparci è quello della permanenza, ossia il fatto che lo stile di
apprendimento è relativamente stabile (dovremmo fare più rilevazioni). Possiamo quindi dire in
generale che per lo stile di apprendimento abbiamo delle di coltà di misurazione alle quali si può
ovviare attraverso della rilevazioni parziali e procedendo a degli assemblaggi successivi per poter
avere un quadro abbastanza obiettivo degli apprendenti che stiamo osservano.

Tuttavia, quali sono le caratteristiche comuni degli stili di apprendimento?


Innanzitutto, ciascuno di noi (studente/insegnante) ha un proprio stile di apprendimento: questo
ha dei punti di forza e alcuni di debolezza. Altra caratteristica comune è che questi stili di
apprendimento sono disposti su un continuum — ne esistono molti, ma non sono polarizzati: il
passaggio da uno stile di apprendimento all’altro è sempre graduale e sfumato, ogni persona avrà
presenti vari stili di apprendimento, ognuno dei quali presente in misura maggiore o minore (mai
solo uno). Non ci sono degli opposti, ma piuttosto delle sfumature. In ne, uno stile di
apprendimento non ha attribuzione valoriale, il che signi ca che non c’è uno stile di
apprendimento migliore o peggiore — sono tutti posti sullo stesso livello in termini di e cacia di
apprendimento. Fare una buona didattica signi ca ampliare la gamma degli stili degli studenti che
lavorano con noi. Quando andiamo a studiare gli stili di apprendimento dobbiamo adoperare un
approccio multifattoriale — ogni stile è caratterizzato da una componente sensoriale, una
componente cognitiva, una componente ambientale, e una componente a ettiva. Ci concentriamo
per ora sulle prime tre, l’ultima la vedremo in distinta sede. […]

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Vediamo ora quali sono le modalità sensoriali. Intendiamo quindi riferirci a quelli che sono i nostri
orientamenti preferenziali nella percezione e nella prima elaborazione delle informazioni (canali che
preferiamo attivare quando riceviamo informazioni e dobbiamo trattarle per la prima volta). Si tratta, in
poche parole, del primo passaggio nella gestione degli input da apprendere. Questo è diverso dal
parlare di stili cognitivi (“tecniche e modi di elaborazione e ristrutturazione delle informazioni per
acquisire e recuperare e riutilizzare gli input”, fase avanzata). […] Dopo aver svolto varie attività
insieme, possiamo osservare la classi cazione delle modalità sensoriali in:

- modalità visiva, suddivisa in visivo-verbale (si sviluppa quando impariamo a leggere/scrivere) e


visivo-non verbale (immagini etc) — in genere ha bisogno di una visione globale dell’argomento,
anche dettagliata; normalmente si crea delle immagini verbali (trasposizione ad immagine di
argomenti su livello teorico; normalmente preferisce testi descrittivi; dimensione “spazio”)

- modalità uditiva, ha a che fare con suono trasmesso tramite linguaggio verbale orale e
linguaggio non verbale (persona che ha bisogno di una strutturazione dell’argomento sequenziale e
testi narrativi; dimensione “tempo”)

- modalità cinestetica, informazione veicolate attraverso il movimento sico e le sensazioni ad


esso legato, o attività esperienziale (ricorda meglio ciò che ha sperimentato di persona e preferisce
una strutturazione globale con pochi dettagli; preferisce testi narrativi focalizzati su dimensione
“azione”)

Inevitabilmente nel fare questa classi cazione entrano in gioco dei condizionamenti culturali — la
cultura in cui siamo nati e cresciuti si sovrappone ai nostri canali personali (es. istintivi). Possiamo
aggiungere che la rilevazione che si fa della modalità sensoriale deve sempre tener conto dell’età
della persona (più giovane meno strati cazioni cultural ci sono state).

Facciamo un passo avanti e parliamo di stili cognitivi. Partiamo da alcune de nizioni. Secondo la
de nizione di Goldstein e Blackman (1978), gli stili cognitivi sono modi caratteristici con cui gli
individui organizzano concettualmente l’ambiente circostante. É interessante notare come qui non
si parli di apprendimento — parliamo di tutto ciò che ha a che fare con le informazioni/fatti/natura
dell’ambiente che ci circonda. Tal infatti devono essere in qualche modo organizzati per essere
utilizzati nella vita di tutti i giorni. Secondo Stemberg e Grigorenko (1997), invece, gli stili cognitivi
costituiscono un ponte fra la misurazione dell’intelligenza e la misura della personalità. Ci si è resi
conto che vi è necessità di mettere in relazione la sfera della cognizione con la personalità (tratti
caratteriali idi ciascun individuo). Tale legame va ad individuare gli stile cognitivi. Altra de nizione,
quella di Ridding e Cheema (1991), chiarisce che “ci si riferisce allo stile di apprendimento come
ad una strategia preferita che quindi può mutare e allo stile cognitivo come ad un tratto della
personalità”. Emergono qui degli elementi che ci spostano dal versante della sfera dell’intelligenza
alla sfera della personalità — lo stile cognitivo sembra collocarsi a metà tra queste due. In
quest’ultima de nizione quando parliamo di stile apprendimento parliamo di qualcosa che
volendo si può anche modi care perché dipende dalla strategia che la persona mette in atto; al
contrario quando parliamo di stile cognitivo abbiamo a che fare con qualcosa che è legato alla
personalità (che le persone non possono modi care in quanto legato al proprio tipo psicologico).
Questo tratto della personalità (stile cognitivo) si manifesta quando ci sono delle informazioni da
elaborare, si esplicita attraverso delle tecniche particolari (un certo stile cognitivo presuppone che
vengano messe in atto delle tecniche particolati per trattare le informazioni necessarie alla persona).
In ne, questo tratto della personalità determina dei comportamenti.

Per riassumere, quando abbiamo a che fare con degli stil cognitivi abbiamo a che fare con una
componente degli stili di apprendimento, una componente strettamente legata alla personalità
dell’individuo, una componente che si manifesta quando ci sono delle informazioni da elaborare,
una componente che determina un certo tipo di comportamenti, e una componente che si
manifesta attraverso delle tecniche particolari. A di erenza di uno stile di apprendimento, lo stile
cognitivo è più semplice ed univoco, si può modi care con maggiore di coltà.

Come si classi cano gli stili cognitivi? Troviamo analitico vs globale, sistematico vs intuitivo,
ri essivo vs impulsivo, indipendente dal campo vs dipendente dal campo. Come anticipato,
queste individuano non tanto dei poli estremi, quanto dei continuum. […] Basandoci sull’attività
fatta insieme possiamo anticipare che essere indipendenti dal campo signi ca essere persone
che di fronte ad una situazione complessa isolano facilmente gli elementi; tali persone fanno più
fatica nelle relazioni interpersonali, sono duciose nelle proprie capacità di problem-solving e non
sempre amano le attività di stampo comunicativo. Chi invece è dipendete dal campo è una
persona che spesso si lascia in uenzare dalla struttura con cui le cose si presentano, a seconda
del modo in cui vengono presentate reagisce o ne dà un’interpretazione diversa, è una persona
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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
che spesso ha capacità di relazione interpersonali molto buone, preferisce lavorare in gruppo e
tende ad amare le attività di tipo comunicativo. Come vediamo, qui stiamo parliamo di qualcosa
che a che fare con tratti di personalità e modalità di porsi di fronte a s de cognitive.

Già ad osservare la terminologia della classi cazione precedente notiamo che vi sono delle
sovrapposizioni e questo è un limite della classi cazione degli stili cognitivi (es. intuitivo, impulsivo;
sistematico, analitico — spesso si trovano in contemporanea). Possiamo aggiungere che spesso gli
studiosi che si sono occupati di tale argomento non si sono preoccupati di fare una sintesi, vi
sono queste opposizioni binarie ed una amplia sovrapponibilità dei descrittori — si tende
piuttosto a trovare due macro-pro li. Altra critica che viene spesso fatta è che ci sono spesso
delle implicazioni valoriali legate ad implicazioni culturali — questo non ci permette di essere
oggettivi nella rilevazione che stiamo facendo. In ne, teniamo in considerazione l’evoluzione nel
tempo: se da un alto la personalità è un fattore permanente, dall’altro non si può negare che
l’esperienza in uisca sulla propria condotta e che una ri essione esplicita porti a modi care lo
stile cognitivo che si adotta (è vero no ad un certo punto che gli stili cognitivi sono scarsamente
modi cabili; la metacognizione può incidere anche in questo senso).

Come leghiamo tutto questo all’apprendimento linguistico? […] Per concludere questa lezione,
quando parliamo di stili di apprendimento parliamo sempre dell’integrazione di più elementi (mai
di una somma). Questi elementi tra di loro creano sempre qualcosa di unico e originale, che dà
origine al modo di ciascuno di noi di porsi all’insegnamento. Le strategie didattiche devono essere
quelle di potenziare i punti di forza degli studenti ma anche di rinforzare le aree deboli. Berthorz
(2011) parla di semplessità, ossia l’arte di adattarsi alla complessità — secondo lui è il principio
fondamentale della materia vivente che ha permesso agli organismi di mettere a punto nel corso
dei millenni dei processi e delle soluzioni e caci per risolvere dei problemi complessi ed agire in
modo rapido — dovremmo quindi realizzare operazioni complesse con procedure semplici
avvalendosi anche di creatività ed immaginazione.

26/02/2021 (4°)
Con la lezione di ieri abbiamo terminato le variabili interne, quindi oggi iniziamo le variabili esterne.
I fattori esterni sono accomunati dal fatto di provenire da un centro di regolazione esterno rispetto
al soggetto che apprende. Di conseguenza, la persona non può modi carle in maniera diretta.
Altra importante caratteristica è che non dipendono dalla natura soggettiva dell’apprendente
(persone diverse sono soggette allo stesso tipo di vincoli esterni). Inoltre, tali fattori sono stabili nel
tempo a di erenza dei fattori interni. Possono, però, variare nello spazio e a livello macro. I fattori
esterni non riguardano mai il singolo, ma prendono in considerazione i gruppi. In ne, il loro grado
di in uenza sull’apprendimento del singolo dipende (anche) dalla percezione del locus of control.
É logico che in certa misura vi è un margine di sovrapposizione tra la percezione del singolo
riguardo la sua percezione di modi care l’in uenza del fattore esterno su quello che può essere il
peso di tale fattore. Alcuni di questi fattori, tuttavia, sono immodi cabili anche per l’insegnante.

É vero che non possiamo modi care le indicazioni nazionali (scuola media, curriculum…), ad
esempio, ciò nonostante è importante conoscere l’impatto di questi elementi sull’apprendimento
dei nostri studenti per porci degli apprendimenti didattici e regolare di conseguenza i nostri modi
didattici. Ad ogni modo, quali sono i fattori esterni? come li classi chiamo?
Presentiamo qui una carrellata: tra i principali troviamo l’input e output linguistici (il materiale
linguistico/lingua che riceve e quello che produce l’apprendente), l’istruzione formale e la L2
(come l’insegnamento formale in uisce sullo sviluppo di questa L2), il curriculum del corso,
l’insegnante, il suo stile di insegnamento ed il metodo adottato dall’insegnante, la classe come
ambiente di apprendimento (insieme di dinamiche), ed in ne la cultura di appartenenza della
persona e lo status della L≠1 (il prestigio di cui gode la lingua L≠1 rispetto alla propria L1).

Prendiamo ora in considerazione il ruolo dell’input. Nel farlo, dobbiamo dare per scontato il fatto
che per imparare una lingua è necessario fare esperienza di lingua. Non sempre gli approcci
glottodidattici l’hanno pensata in questo modo, ecco quindi l’interessamento al ruolo dell’input
come ambito di studi recente. Secondo la de nizione di Nuzzo e Grassi (2016), quando parliamo
di input intendiamo modelli di comunicazione (orali, scritti, trasmessi) a cui l’apprendente è
esposto nel contesto della classe o nell’ambiente esterno alla classe. Le caratteristiche dell’input
sono varie e molto diverse tra loro. L’input può di erenziarsi in base al registro (formale, informale
etc), alla varietà (es.Veneto: semidialetofonia in contesto migratorio), alla spontaneità (spontaneo,
semi-controllato, molto controllato etc), alla complessità (distingue l’aver appreso la lingua in un
contesto di istruzione o di interazione quotidiana al di fuori della scuola), o alle coordinate
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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
contestuali (fa si che si abbiano delle di erenze pragmatiche). Cosa vuol dire quest’ultima cosa? Il
messaggio linguistico che emettiamo è comprensibile solo nel contesto in cui è stato prodotto: se
noi lo estrapoliamo e lo proponiamo senza connotazioni legate al contesto, tali elementi
pragmatici impediscono di comprenderne il signi cato. La funzione dell’input nell’apprendimento
della lingua è caratterizzato da posizioni diverse. Van Patten (1996) ritiene che quando si
acquisisce una L2 il processo sia fondamentalmente uguale a quello di una L1, l’unica condizione
perché questo avvenga è che l’input sia comprensibile. Dall’altro lato, secondo Long e Robinson
(1998) le cose sono diverse — i processi di acquisizione di L1 e L2 sono diversi, a nché ci sia
un’acquisizione della L2 è necessario che l’input ricevuto sia modi cato e che si sia del feedback.
In poche parole, se voglio che una persona impari una L2, devo proporgli un input sempli cato da
un pov grammaticale e lessicale. In secondo luogo, devo rallentare l’eloquio. Inoltre, devo fornirgli
delle informazioni sugli errori linguistici che ha commesso. Long e Robinson aggiungono che
imparare a scuola è diverso dall’imparare attraverso una conversazione con i nativi, e quindi non
si può genericamente parlare di input di una L2 ed estendere così il concetto a qualsiasi contesto
di apprendimento (formale e non formale). Questo perché l’interazione che si ha a scuola
normalmente è molto più ricca rispetto a quella esterna (ragazz* più esposto a scambi comunicativi
con persone diversi cati come varietà linguistica e con persone con cui ha scambio vero e
proprio+riceve feedback). La situazione nella conversazione con i nativi è fondamentalmente
diversa (né peggiore né migliore) — il materiale linguistico a cui è sottoposto è diverso,
l’interazione è minore, ci possono essere molti campioni diversi cati di lingua a seconda degli
ambiti di comunicazione (es. messaggi radiofonici, conversazioni di altre persone, ambiente di lavoro,
sportello, autobus, etc). Il feedback è di natura diversa: esso è una reazione dell’interlocutore che
bisogna essere capaci di leggere ed interpretare; non è una vera e propria correzione (la più
frequente è una reazione di incomprensione). Di conseguenza, l’apprendimento può essere più
lento. Vediamo qualche esempio.

Nel secondo caso non sappiamo quanto il


parlante non nativo sia capace di usufruire ed
integrare i suggerimenti di feedback proposti
dal parlante nativo. Passiamo quindi a vedere
come l’input abbia un’importanza
fondamentale nel determinare il successo
scolastico dei bambini che hanno L2 come
lingua di scolarizzazione, ed in particolare
quale sia il ruolo dell’esposizione alla L2.

Nell’immagine vediamo un doppio iceberg proposto da Cummins. Egli teorizza che esista una
competenza linguistica e cognitiva comune, vale a dire che secondo lui è del tutto indi erente
quale sia la lingua in cui questa competenza cognitiva sottostante è stata sviluppata: l’importante
è che tale competenza linguistica e cognitiva raggiunga un certo livello, si potenzi, venga portata
avanti. Ciò che poi noi vediamo può essere L1 oppure L2, molto spesso sono entrambe le lingue
— la competenza cognitiva su cui poggia la lingua è sempre e solamente una.

Qual è la de nizione che ci dà Cummins? É molto importante che quando un bambino che ha una
lingua diversa rispetto a quella della scolarizzazione arriva in un paese e viene inserito a scuola
viene mantenuta la sua lingua materna perché tale bambino raggiunga questo livello di
competenza linguistica. Infatti, se si abbandona il lavoro sulla L1 per focalizzarsi sulla L2 il
bambino non raggiunge la competenza linguistica e cognitiva necessaria in L1, nella L2 deve
ripartire da molto in basso e di cilmente riuscirà a riguadagnare le tappe che gli permetteranno di
emergere con la sua L2. Se invece lo aiutano a mantenere alta la sua competenza in L1 essa
stessa spingerà in alto la competenza linguistica in L2.

Cummins a erma ciò che segue: “nella misura in cui l’educazione nella lingua X è e cace nel
promuovere padronanza in lingua X, si avrà un transfer della padronanza alla lingua Y purché ci
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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
sia adeguata esposizione alla lingua Y (o a scuola o nell’ambiente) e adeguata motivazione
all’apprendimento della lingua Y.” Qui entra in gioco il progetto linguistico delle famiglie
migratorie. Cummins lega lo sviluppo cognitivo allo sviluppo e alla padronanza della L1 e della L2
— sono dei fattori indissolubili. In un contesto di L2 l’esposizione all’input linguistico è l’indice che
determina con maggiore sicurezza i successo scolastico dell’alunno; questo perché è solamente a
scuola che può potenziare tale lingua. […]

Vediamo ora il ruolo dell’output. Gli studi sull’output sono ancora più recenti, il che vuol dire che
ancor meno approcci glottodidattici hanno ritenuto importante fare pratica nella produzione di una
lingua per poterla imparare. Per lungo tempo si è ritenuto che si potesse imparare una lingua
anche senza avere delle vere e proprie occasioni per praticarla sia allo scritto che all’orale.
Quando parliamo di output intendiamo riferirci alla produzione linguistica (sia scritta che orale)
dell’apprendente. Merrill Swain (1988-1995) elabora l’output hypothesis seconda la quale per
proseguire nell’acquisizione gli studenti hanno bisogno di su cienti opportunità per la produzione
in L≠1. Ciò vuol dire che per iniziare è su ciente essere esposti all’input con le caratteristiche
viste prima, ma per continuare sono necessarie tali opportunità di produzione linguistica. Queste
mettono lo studente di fronte all’evidenza che non è in grado di dire ciò che vuole in L≠1.

A questo punto avviene progressivamente un passaggio dalle strategie semantiche di


comprensione (usare le parole appoggiandosi esclusivamente sul lessico) a quelle grammaticali di
produzione. La produzione comprensibile in una lingua L≠1 attiva l’elaborazione grammaticale
mentale dello studente e sviluppa la sua interlingua. A cosa serve l’output quindi?

Vediamo un’elaborazione di Gass e Selinker (2008). L’output ha una funziona molto precisa nel
processo di apprendimento delle lingue. Innanzitutto serve per fare una veri ca delle ipotesi —
l’apprendente ipotizza che la lingua funzioni in un determinato modo e prova a costruire le frasi,
nel momento in cui le produce fa una veri ca (questo serva per sviluppare la sua interlingua). Il
feedback che riceve fa si che si sia una modi ca semantica o morfosintattica della produzione.

A questo punto abbiamo una seconda funzione, quella metalinguistica. Attraverso l’output
l’insegnante può osservare le ipotesi di lavoro sulla lingua e conoscere quali sono le strategie di
apprendimento degli studenti. Lo studente usa la lingua per parlare della lingua stessa e quindi
amplia le sue conoscenze. La terza funzione è quella di sviluppare la uenza nella L2 che si sta
imparando — si stimola l’automatizzazione nell’uso della L≠1, per cui si libera spazio nella
memoria per immagazzinare delle nuove strutture in modo graduale. In ne, svolge la funzione di
passare dall’elaborazione semantica all’elaborazione morfosintattica — usare gli item linguistici
incontrati no a quel momento ma che ancora non stati sperimentati, e che quindi vengono messi
in gioco attraverso le costruzioni del parlante. […] Riprendiamo il discorso sul ruolo del feedback,
vista la sua importanza anche in questo contesto (output+feedback=interazione). Con il feedback si
ha l’interazione che fornisce ai parlanti la correzione degli errori e informazioni metalinguistiche,
facilitando il miglioramento dell’accuratezza della produzione in L≠1. Il feedback può essere di
tipo esplicito (al quale corrisponde una correzione diretta) oppure implicito (=correzione
indiretta). […] [domanda su Cummins, BICS, CAMS etc.]

04/03/2021 (5°)
Nella lezione di oggi vedremo altre variabili esterne, parleremo di curriculum, di plurilinguismo, di
cultura di appartenenza e di status della lingua. Iniziamo però proprio dal curriculum, vediamo
cosa signi ca. Quando parliamo di curriculum, dobbiamo tenere presente che esso fa parte delle
procedure didattiche. Ci troviamo dentro ad un contesto di insegnamento formale e ci riferiamo a
tutto quell’insieme di indicazioni che de niscono i contenuti ed i modi con cui la lingua dev’essere
insegnata, gli approcci che devono essere usati, le modalità di valutazione, le tecniche etc. —
tutte le caratteristiche del corso che si va a programmare. La parola curriculum va a de nire una
sfera molto ampia, andando a comprendere tutti quegli elementi di progettazione che devono
essere presi in considerazione quando si realizza un insegnamento linguistico all’interno di un
contesto istituzionalizzato (gruppo di apprendenti). Quali sono i passaggi che si osservano quando
si deve creare un curriculum? Il primo è sempre l’analisi dei bisogni del soggetto che apprende
(perché ha deciso/bisogno di frequentare il corso, a cosa gli/le serve la lingua che deve imparare,
quali sono le sue priorità presenti e quali quelle future). Successivamente nel curriculum si
de niscono le mete educative e glottodidattiche, ossia le nalità di grande respiro
dell’insegnamento (che concezione abbiamo del ruolo di apprendente, che idea abbiamo di lingua
e di comunicazione, che valore diamo all’apprendimento della cultura assieme alla lingua). Una
volta chiarito questo punto si individuano gli obbiettivi comunicativi — qualcosa di più speci co
(“saper fare”); in ne, il curriculum individua il materiale ed i mezzi che servono per realizzare tali
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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
obiettivi (vincolati dagli obiettivi, dal contesto e dalle risorse che la scuola mette a disposizione).
Le sezioni in cui si articola il curriculum sono varie. É un documento molto importante perché
funge da nostra guida e deve ispirare i passaggi del nostro operato, dal momento che incide sulle
varie fasi dell’apprendimento. Come dicevamo prima, il curriculum è una delle procedure
didattiche, non l’unica, ma quella che si pone a livello più alto e che fonde al suo interno il
programma ed il sillabo. Quando si parla di programma s’intende ciò che dev’essere fatto
durante l’anno (in Italia non esistono programmi ministeriali) — i programmi sono documenti stesi
dai singoli insegnanti sulla base delle indicazioni nazionali (linee programmatiche ed obiettivi che
devono essere raggiunti, ma non speci cano quali argomenti devono essere a rontati nei vari
anni). Il sillabo è l’insieme dei veri e propri contenuti (es. nel caso della lingua, le parole che
devono essere imparate, le strutture morfosintattiche, le strutture comunicative etc). Normalmente
nel curriculum ci sono anche le indicazioni per la individualizzazione, cioè dei suggerimenti in
base alla situazione didattica, alla natura degli allievi o la tipo di di coltà che possono presentare
— esso dà delle indicazioni su come intervenire per modi care gli obiettivi per venire incontro alle
esigenze di gruppi particolari di allievi. La legge italiana stabilisce la ssazione di obbiettivi minimi
e l’individuazione di percorsi di erenziati per gli studenti che non riescono a raggiugnere tali
obiettivi minimi. In queso caso, però, sarà necessario stendere un piano educativo
individualizzato. Ad ogni modo, nel curriculum è prevista una guida metodologica (indicazioni sul
“come” raggiungere tali obbiettivi) e poi anche i criteri di valutazione (come devono essere
valutati gli studenti). Questo si conosce come curriculum esplicito, ossia come si progetta un
corso; chiaramente la progettazione può essere fatta per contenuti, per competenze, sotto
l’in usso di un potere (es. politici che determinano il tipo di istruzione che dev’essere impartita),
però ogni realtà ha anche un curriculum implicito — ogni apprendente quando si trova ad
imparare una lingua in un contesto formale non deve semplicemente fare i conti con un
curriculum esplicito, ma anche con una serie di regole che derivano dal modo con cui si va a
scuola, si impara in quel determinato paese e in quella determinata cultura (es. l’organizzazione
scolastica, la relazione scuola-famiglia, quanto si richiede o è apprezzato il coinvolgimento delle
famiglie, il tipo di relazione da instaurare con l’insegnante etc). In una visione tradizionale del
curriculum, la professione era quella che troviamo di seguito.

Vi era l’idea che ci fosse una competenza


comunicativa da raggiungere, che poteva
essere divisa in competenza linguistica,
pragmalinguistica e negli aspetti
socioculturali. Si organizzavano i vari step
della progressione attorno a queste
competenze ed in base al tempo da
raggiungere la persona acquisiva una
competenza comunicativa compatta in tutti
questi aspetti che la portavano da zero no
a una competenza idealmente da
madrelingua (avanzamento uniforme). In
una progettazione tradizionale, perciò, si
faceva un’analisi dei bisogni pragmatici
immediati dell’alunno ed un elenco dei
contenuti che riguardavano i vari ambiti della competenza comunicativa; l’ambizione massiva
doveva essere il madrelinguismo. La realtà di oggi è molto diversa e l’evoluzione
dell’apprendimento linguistico è molto cambiato. Il concetto di madrelinguismo è stato
profondamente messo in discussione, ma soprattutto al momento di progettare un curriculum le
cose sono molto più variegate. Nella realtà dei fatti, quando si fa l’analisi dei bisogni bisogna
necessariamente tenere conto dei bisogni pragmatici attuali e futuri delle persone a cui
insegniamo, oltre al bisogno di imparare ad imparare. Nel de nire le mete educative e
glottodidattiche, tutto è molto legato al contesto educativo all’interno del quale cii si muove.

Nel caso dell’Italia è molto forte il modello olodinamico di Titone già menzionato, dove le mete di
insegnamento sono innanzitutto delle mete di tipo educativo e in seguito glottodidattiche (es.
mete di culturizzazione, socializzazione e autopromozione). Nel de nire gli obiettivi comunicativi
dobbiamo tenere presenti i contesti speci ci all’interno del quali ci si muove e saper dire cosa
serve allo studente in base al contesto in cui andrà ad inserirsi. Altra cosa da tenere presente è
che il madrelinguismo è una chimera, non solo perché non è il punto di arrivo d’acquisizione dei
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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
nostri studenti, ma perché non è un criterio su cui fare riferimento (chi de nisce qual è la
competenza di un madrelingua? a quale madrelingua stiamo facendo riferimento?). Inoltre,
madrelingua signi ca forse privo di accento regionale? (in Italia no); oltretutto esistono dei livelli di
competenza linguistica in lingua straniera che vanno oltre il madrelinguismo (traduttori/interpreti/
scrittori con competenza superiore di quella dei madrelingua) — e per questo è stato espunto
anche dal quadro comune di riferimento europeo. Quello di cui si parla oggigiorno è la
competenza plurilinguistica e pluriculturale, si parla piuttosto di competenze diverse sviluppate
su gradi diversi in base alle necessità delle persone.

Focalizziamoci ora sul concetto di plurilinguismo, partendo dal bilinguismo.

Il bilinguismo è un concetto in evoluzione, di cui vediamo una serie di de nizioni. Inizialmente


(Bloom eld, 1933) veniva de nito come una conoscenza di due lingue con una competenza nativa
e sbilanciata in entrambe le lingue, verso la metà del Novecento questa concezione cambia.
Haugen (1953) a erma che il bilinguismo consiste nel saper produrre frasi di senso compiuto in
entrambe le lingue. Progressivamente si va verso una de nizione del bilingue (Fishman, 1967;
Baker, 2001) in cui si parla più ampiamente di una conoscenza linguistica compartimentalizzata
nelle due lingue secondo sfere o domini d’uso funzionali complementari. Ciò signi ca che una
persona ha una competenza linguistica globale, ma poi ha due lingue che gestisce in maniera
diversa e complementare a seconda di cosa deve fare con tali lingue. Le de nizioni più attuali di
bilinguismo ci parlano di un contatto fra due sistemi linguistici senza speci care il grado di
diversità: è irrilevante che siano “lingue”, “dialetti della stessa lingua” o “varietà dello stesso
dialetto” — i meccanismi dell’interferenza saranno sempre gli stessi (Weinreich, 2008). Vediamo
insieme un continuum sviluppato da Valés (2003).

De Mauro (2006) ci dice che oggi


“assistiamo ad una crisi forse
de nitiva del monolitismo
linguistico. […] Nuovi spazi e
nuovi compiti si o rono alla vita
delle lingue meno di use, e più
in generale alla più completa
a ermazione dei diritti linguistici
umani.” Questo perché abbiamo
una mescolanza di lingue,
persone e culture determinata
dalle migrazioni ma anche dalla
di usione dei mezzi di
comunicazione.

Questa a ermazione di De Mauro si rispecchia anche nel consiglio d’Europa, che attraverso i suoi
documenti, parla di una chiara prospettiva plurilingue e che pone al centro dell’attenzione gli
apprendenti ie lo sviluppo del loro repertorio plurilingue. I documenti europei fanno una chiara
distinzione tra multilinguismo e plurilinguismo. Il multilinguismo è la presenza di più lingue su un
determinato territorio, mentre il plurilinguismo è la competenza dei parlanti in grado di utilizzare
più di una lingua. Andando più nello speci co, Grosjean (2008) mette ben chiaro che un bilingue
non è due monolingui in un solo individuo, ma una persona con una con gurazione linguistica
unica, che gli permette di a rontare tutti i bisogni comunicativi della sua vita quotidiana, a seconda
dei contesti e degli interlocutori. Di conseguenza, essere bilingue/plurilingue vuol dire usare due o
più lingue regolarmente, non vuol dire parlare due o più lingue perfettamente. […]

Ri ettiamo ora sul ruolo della cultura di appartenenza e di come questa sia legata strettamente
con la motivazione. Le dinamiche sociali che si creano all’interno di un gruppo o di una realtà
sociale in uiscono in maniera molto forte sulla motivazione delle persone sull’atteggiamento che
hanno nei confronti dell’apprendimento linguistico; questo va a determinare il successo
nell’apprendimento. Norton (1995) rileva che distinguere tra motivazione integrativa e motivazione
strumentale non sia abbastanza completo, dal momento che le dinamiche sono ben più
complesse. Rileva infatti delle forti relazioni di potere all’interno di qualsiasi società — queste
pesano molto all’interno delle relazioni fra parlanti di una L1 e di una L2 perché vanno, ad
esempio, a determinare le opportunità di parlare una lingua e anche di qualità. Secondo Norton,
l’investimento gioca un ruolo particolarmente importante. Per investimento intende la convinzione
che ha una persona che imparando una lingua target si potranno acquisire maggiori risorse
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simboliche o materiali, e che questo incrementi il valore del loro capitale culturale. Tale
investimento aumenta la loro motivazione e farà sì che ci sia una rivalutazione di sé stessi,
migliorando così l’apprendimento linguistico. Su questo investimento gioca moltissimo la cultura
di appartenenza ed in particolare modo l’a liazione al gruppo etnico (Group-Engendered Forces),
la quale genera delle forze interne al gruppo che possono incedere molto nell’apprendimento.
Quando parliamo dell’a liazione al gruppo etnico ci riferiamo al senso di orgoglio, di una certa
visione del mondo e delle norme di comportamento che ha una determinata cultura. Normalmente
tale a liazione è una cosa serena, ma quando ci si trova in una realtà di migrazione i gruppi etnici
entrano necessariamente in contatto fra di loro e questo può determinare una condizione di
frizione tra i gruppi di appartenenza e nell’identi cazione con il proprio gruppo etnico-linguistico.
Le persone quindi valutano costi e bene ci del fatto di identi carsi o distinguersi dal proprio
gruppo etnico di appartenenza. Questo si ri ette nell’acquisizione della lingua target e lo si vede
ancora di più nell’acquisizione dell’accento (permane l’accento della propria lingua materna o
no?). Questo tratto si nota in modo particolare se il soggetto decide di mantenere la propria
pronuncia nativa anche quando parla la lingua target, o se la pronuncia tende ad assomigliare
sempre di più alla lingua nativa (distinguersi spesso visto come tradimento). Questa
identi cazione e questo peso in uenzano molto anche i bambini, che hanno sulle spalle i processi
di identi cazione o distinzione delle proprie famiglie, e li portano con sé. La decisione di
mimetizzarsi all’interno della lingua / cultura che stanno apprendendo o di mantenere nel modo di
parlare / comportarsi dei tratti che li identi cano maggiormente con la cultura d’origine non è mai
una questione neutra, ma ha sempre a che fare con un percorso che richiede una presa di
consapevolezza. La lingua non è semplicemente un codice che permette la comunicazione, ma è
una merce molto potente e molto sfruttabile anche nelle relazioni di potere (lingua e cultura non si
possono mai scindere, lingua non è mai neutra).

Legata alla cultura di appartenenza e più in generale alla cultura legata alle lingue, è anche lo
status della lingua che si va ad imparare. Se con cultura d’appartenenza ci riferiamo alla cultura
di chi sta imparando, con status della lingua ci riferiamo alle caratteristiche della lingua da
imparare. Anche questo ha una forte relazione con la motivazione ad imparare — anche qui
parliamo di una variabile esterna, perché è qualcosa che condiziona un gruppo di apprendenti.

Le considerazioni che vediamo in slide, ad esempio, riguardano un gruppo di apprendenti italiani.


Quale tipo di scheda mentale devo tenere presente quando insegno una tale lingue ad un gruppo
di apprendenti? Di quale status gode tale lingua?

Questi sono status con cui bisogna a rontarsi


perché hanno a che fare con la percezione della
lingua e sono quindi qualcosa con cui bisogna
fare i conti a livello di gruppo di apprendenti.

Lo status della lingua incide anche su quanto


volentieri gli studenti usino quella lingua per
parlare o quanto volentieri la usino — alcuni
studi fanno l’esempio dei giapponesi come
apprendenti di inglese come LS e parla del fatto
che usano l’inglese più volentieri per parlare di
grammatica piuttosto che per parlare di fatti
personali. Questo è dovuto allo status
dell’inglese in Giappone ed è anche legato alla
cultura di appartenenza, impostata sul
confucianesimo in cui abbiamo un senso molto
forte di gerarchia e in cui non va bene emergere
come individuo/personalità e per ciò tutto ciò
che è oggetto di sfera individuale non dovrebbe
essere argomento in classe. Un altro dato che
incide molto nel successo nell’apprendimento, e
secondo questo studio di Carr e Pauwels (2006), è lo status socioeconomico degli studenti (e in
generale le variabili macro come lo stato socioeconomico ed il gruppo etnico). Queste sono le
variabili che incidono maggiormente sul successo dello studente. Secondo questi studi, pesano
di più tali variabili che non le variabili micro (individuali ed a ettive). Cosa si intende con status
socioeconomico degli studenti? Il tipo di occupazione, gli anni di studio, le entrate economiche, i
tipo di alloggio, le classe sociale (prestigio locale e rispettabilità) etc. Questo perché uno status
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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
più alto incide maggiori opportunità di apprendimento e quest’ultime garantiscono un maggiore
successo nell’apprendimento linguistico. […]

11/03/2021 (6°)
Nella lezione di oggi vediamo alcune delle variabili di tipo a ettivo. Innanzitutto, presentiamo i
fattori a ettivi. Abbiamo già detto che si distinguono da fattori individuali e variabili esterne per il
fatto che sono degli elementi legati alla personalità di ciascun apprendente, e che si manifestano
attraverso il suo modo di reagire agli stimoli linguistici. I fattori a ettivi hanno ricevuto una
particolare attenzione da parte delle scienze grazie ad uno studio particolare, “L’errore di
Cartesio”. In questo libro, Damasio smentisce il “cogito ergo sum” di Cartesio (non è solo la
facoltà cognitiva che mi riconosce come essere umano) e attraverso una serie di dimostrazioni
scienti che Damasio autorizza l’ingresso delle emozioni nelle scienze cognitive. Dà il via ad una
serie di ipotesi riguardo le relazioni tra la mente ed il corpo, e riguardo il ruolo che hanno le
emozioni nel costruire la nostra esperienza. Questo ha fatto sì che con strumenti più moderni di
indagine diagnostica si siano potuti studiare gli e etti delle emozioni ed il loro contributo ai
processi di ragionamento e al comportamento sociale delle persone. Le variabili a ettive non sono
più una sfera di studio legata ad una sfera astratta o ad un veramente speculativo, ma diventano
delle vere e proprie scienze. Ciò che ci interessa è vedere le relazioni tra le emozioni e la
cognizione (se ci sono delle emozioni che rendono più facile la cognizione e l’apprendimento,
quali sono i metodi di insegnamento che possono favorire una relazione positiva fra le emozioni e
l’apprendimento). Un’altra sfera di indagine è quella di stampo più sociolinguistico — le relazioni
che esistono fra le emozioni ed il fatto di acquisire la lingua di un’altra persona/ambiente, ossia
quell’insieme di meccanismi che si mettono in atto a livello emotivo quando devo imparare la
lingua di qualcun altro (legame fra le emozioni e relazioni di potere, e come questo si ri ette sui
meccanismi di apprendimento etc). Altro ambito di interesse e di studio sono le relazioni tra le
emozioni e la personalità plurilingue — è importante prendere consapevolezza della propria
esperienza plurilingue e di come questa sia essenziale per capire la predisposizione
all’apprendimento linguistico delle persone. In ne, altro ambito in cui i fattori a ettivi hanno un
ruolo importante, è quello della gestione delle dinamiche emotive nelle classi di lingua, sia per il
tipo di relazioni che si vengono a creare tra le persone che imparano una lingua insieme all’interno
di una classe sia perché ci si è resi conto che esiste il cosiddetto “apprendimento incarnato”
(embodied), ossia il fatto che l’apprendimento passa anche attraverso una specie di memoria
cellulare (attraverso il movimento del nostro corpo si ha la memorizzazione della lingua).

Quali sono i tratti che identi cano i fattori a ettivi?


Da quanto ci dice lo studio di McCrae e Costa, essi sono legati alla dimensione psicologica
dell’individuo, hanno a che fare con tratti del carattere e della personalità, determinano il modo
di pensare, di sentire e di agire. Inoltre, hanno un certo indice di permanenza (almeno 6 anni) e
sono universali e replicabili. Difatti, i fattori a ettivi si riferiscono alla personalità dell’individuo,
ma sono anche generalizzabili in culture diverse — non sono legati ad una cultura speci ca, ma
fanno parte delle persone in quanto agenti sociali a prescindere dalla cultura a cui appartengono.

Per categorizzarli si fa riferimento ad una classi cazione che parte dagli studi di psicologia, i quali
individuano i “big ve” — cinque indici che, combinati fra di loro, permettono di descrivere tutte le
personalità. Questi big ve sono:

- estroversione vs introversione

- amicalità vs antagonismo

- coscienziosità vs negligenza

- nevroticismo vs stabilità emotiva

- apertura alle esperienze vs conformismo

Per quanto riguarda l’apprendimento in generale e l’apprendimento delle lingue, questi tratti sono
normalmente meno indagati rispetto agli altri tratti di cui abbiamo già parlato. Probabilmente
questo dipende dal fatto che sono più di cili da rilevare e da correlare — quello che si è visto
studiandoli, è che in lingue diverse le persone possono manifestare personalità diverse.

Con sicurezza si può a ermare che non c’è relazione tra le abilità cognitive di una persona ed i
fattori a ettivi; in generale si è notato che mettendo assieme tutti i fattori individuali, esterni ed
a ettivi, pare che i fattori a ettivi siano quelli che pesano meno nel raggiungimento dello scopo
nale (diventare un apprendente di successo). Per noi è comunque importante studiarli, correlati
con gli altri fattori, messi in relazione con la motivazione, ad esempio, della quale sono dei
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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
componenti. Per i nostri ni, abbiamo isolato alcuni fattori a ettivi particolarmente rilevanti —
introversione (vs estroversione), autostima, empatia, ansia linguistica, inibizione (vs risk taking) e
tolleranza dell’ambiguità.

Quando parliamo di estroversione, parliamo di un tratto della personalità che è normalmente


connessa con emozioni positive, con un certo dinamismo della persona, con la tendenza a
cercare stimoli e compagnia di altre persone. A livello di comportamento, si manifesta attraverso
un impegno evidente con il mondo esterno (relazioni attive con diverse realtà); normalmente la
persona estroversa si comporta con amichevolezza, calore e particolare energia. É disponibile al
gioco, anche da adulto, ed è costantemente alla ricerca di stimoli all’esterno. In ne, nelle
situazioni sociali tende a dominare. Al contrario la persona introversa tende ad essere meno attiva
socialmente — ha un bisogno minore di stimoli dall’esterno perché ne trova al proprio interno e in
modo autonomo. Ha delle relazioni più riservate, è meno ottimista, meno energico, più tranquillo e
tendenzialmente più ri essivo (e meno impulsivo). Questi sono però i poli di un continuum.

I big ve non sono tratti assoluti della personalità, quanto piuttosto dei poli — ciò signi ca che
esiste un continuum lungo il quale si dispongono le persone e ognuno di noi è dato da un
equilibrio tra estroversione ed introversione. Costa e McCrae individuano sei tratti come ciò che
caratterizzano le persone estroverse: il calore, la gregarietà, l’assertività, l’attività, la ricerca di
stimoli, e le emozioni positive.

Come si relaziona tutto questo con l’apprendimento linguistico?

Ci sono due ipotesi a riguardo. Secondo Ellis (1994) sia gli studenti estroversi che gli introversi
possono essere dei buoni apprendenti. Gli estroversi sono degli apprendenti migliori perché
gestiscono meglio le strategie di comunicazione interpersonale — in questo modo la persona
estroversa è anche più disponibile ad accettare di fare degli errori, mettersi in gioco, e superare
l’inibizione per cominciare ed apprendere. L’estroverso impiega maggiormente strategie di tipo
sociale quali la cooperazione (soprattutto con i pari; la persona è molto disposta ad interagire con
i compagni per imparare la lingua e ad usare la lingua tutte le volte che ne ha bisogno) e la
richiesta di chiarimenti. Impiega anche una strategia metacognitiva, difatti va alla ricerca di
opportunità di praticare la lingua — appro tta di ogni occasione possibile, aumentando così le
sue esperienze (input che riceve) e l’output che produce; di conseguenza non può che avere una
maggiore possibilità di migliorare la lingua. Oltre a questo, ottiene un input interattivo modi cato,
ossia un input che si adatta al suo livello di apprendimento e che riesce a sfruttare. Tuttavia,
anche l’apprendente introverso ha delle strategie valide. Secondo Ellis, gli apprendenti introversi
hanno abilità cognitive di studio più sviluppate quindi fanno un maggiore sfoggio di strategie
cognitive* e metacognitive**. Ad esempio, possiamo menzionare l’analisi* delle espressioni, l’uso*
di formule e modelli, la ripetizione*, la pratica* di sistemi fonologiche gra ci, come anche il
coordinamento**, l’organizzazione** e la gestione** dell’apprendimento, la de nizione** di
obbiettivi, la piani cazione** e ciente dello svolgimento di un compito linguistico ed, in ne,
l’auto-monitoraggio** (valuta le sue prestazioni ed i suoi progressi, riesce ad acquisire una
maggiore autostima per poter proseguire con una maggiore ducia in sé stesso). In poche parole,
mostra una maggiore consapevolezza di prestazioni e progressi. Cosa molto importante su cui
l’insegnante può avere un margine di intervento è rendere consapevole sia estroversi che
introversi dei propri punti di forza e di come valorizzarli.

Detto questo, cosa signi ca successo nell’apprendimento linguistico?


Per un apprendente introverso, avere successo signi ca avere maggiore controllo delle operazioni
di acquisizione, immagazzinamento e recupero delle informazioni per la comprensione e la
produzione linguistica. In poche parole, questo apprendente riesce a raggiungere dei risultati
molto buoni perché ha un ottimo controllo in questi passaggi. L’apprendente estroverso è a sua
volta un ottimo apprendente in altri aspetti, quelli probabilmente più evidenti, come ad esempio la
maggiore uenza orale ed un maggiore utilizzo di espressioni colloquiali e connotate
emotivamente (maggiore padronanza lessicale). Tuttavia, non possiamo equiparare il successo
con la produzione orale che è solo un’abilità nel ventaglio di competenza linguistica. Inoltre, vi è
una stretta correlazione con la cultura in cui si muovono gli apprendenti — ogni cultura può
dare un rilievo diverso a vari aspetti dell’apprendimento. Inseriamo qui una ri essione nell’ambito
della comunicazione interculturale. Questa è un ambito di studi creato nel 1959 da Hall, il quale
ha scritto “The silent language”. Con “comunicazione interculturale” intende una forma di
comunicazione che condivide informazioni tra culture e gruppi sociali di erenti — la capacità di
mettere in comunicazione tra di loro culture e gruppi sociali che hanno normalmente codici di
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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
comportamento diversi e lingue diverse. Nel tempo questi studi si sono evoluti, ma la prospettiva
di Hall è per noi interessante perché ci permette di collocare il ruolo dell’estroversione /
introversione all’interno dell’apprendimento linguistico. Hall ci dice che esistono culture low-
context e culture high-context. Le prime sono culture in cui il contesto ha un ruolo minimo,
in uisce minimamente nella comunicazione perché le persone sono abituate a comunicare in
maniera molto esplicita (il linguaggio è diretto, i segnali sono chiari e de niti). Di conseguenza la
comprensione del messaggio passa attraverso le informazioni che vengono dichiarate nella
comunicazione (soprattuto verbale). Appartengono a questa categoria le culture che hanno radici
nell’Europa Occidentale (+USA, Australia). Nella seconda categoria invece, vi è una forte
comunicazione implicita legata in particolare ad una serie si segnali non verbali. In questo caso la
comprensione del messaggio può avvenire solo attraverso informazioni preliminari e contestuali
(ne deriva un grossissimo rischio di incomprensione se tali cornici non vengono condivise).
Rientrano in questo gruppo le culture asiatiche, africane, arabe, centro-europee, latino americane.

Come si collega questo all’estroversione/introversione e al concetto di successo


nell’apprendimento linguistico?
In una realtà come quella che abbiamo appena descritto, possiamo descrivere la persona
introversa come meno comunicativa, che trasmette un minor numero di messaggi (che hanno al
loro interno minori informazioni) e quindi una persona di minor successo. Questo è sicuramente
vero all’interno di una cultura low-context. Cambiando prospettiva, l’introverso è più ri essivo e
osservatore e può avere maggior successo nelle culture high-context, dove è necessario dare
maggiore attenzione ai dati contestuali. Questo ci interessa per due ragioni: da un lato ci
dobbiamo ricordare che, specialmente in un contesto L2, la lingua serve per studiare e soddisfare
dei bisogni pragmatici — introversione, estroversione, successo etc. devono essere calibrati
tenendo conto di questa dimensione. L’altro aspetto che dobbiamo tenere presente è che queste
considerazioni ci possono dare degli utili suggerimenti sulla relazione che vi è tra il metodo di
insegnamento che adottiamo e la personalità introversa/estroversa dell’apprendente. […]

Con questa attività abbiamo introdotto l’ansia linguistica. Partiamo da una de nizione generale
per poi parlare di quest’argomento più in ottica di apprendimento linguistico.

Quando parliamo di ansia parliamo di una sensazione di disagio, di s ducia nelle proprie capacità,
di timore o di paura che una persona prova in determinate circostanze. L’ansia viene distinta in
due tipologie principali: l’ansia di stato e quella di tratto. La seconda è caratteriale, è qualcosa
che ha a che fare con una caratteristica stabile della persona e della sua personalità, e lo
leghiamo al nevroticismo (esso si contraddistingue per una serie di comportamenti tra cui lo
sviluppo di idee irrazionali, lo scarso controllo dei propri impulsi, l’ine cace gestione dello stress,
il basso livello di autostima, l’imbarazzo nelle situazioni sociali ed emozioni negative protratte).
L’ansia di stato ha queste stesse manifestazioni ma ha carattere transitorio, ossia si veri ca solo
in determinate situazioni. Come si collega tutto questo all’apprendimento? Come si collega l’ansia
a ciò che abbiamo detto nora? Chiariamo subito che quando parliamo di ansia e di
apprendimento non ci riferiamo esclusivamente a situazioni spiacevoli, questo perché entra in
gioco anche un altro concetto, quello della competitività. Essa può essere vissuta in maniera
negativa oppure positiva e stimolante. Percorriamo assieme lo SCHEMA sottostante, il quale ci
illustra dove si può inserire l’ansia nel percorso di apprendimento.

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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
Se l’apprendente parte da un’immagine di insuccesso può trovarsi di fronte ad una condizione di
ansia (di stato o di tratto). Essa può essere debilitante o facilitante.

Se l’ansia è debilitante, l’apprendente evita i contatti con la fonte del fallimento percepito
(l’apprendimento della materia) e quindi l’apprendimento della lingua, nel nostro caso, è
abbandonato o ostacolato; questo fa si che si ricali ulteriormente nell’immagine di insuccesso.

Se invece la tensione è positiva, l’apprendente entra in competizione (anche solo con se stesso),
aumenta gli sforzi per migliorare la sua L≠1 e questi miglioramenti si possono misurare
confrontandosi con altri apprendenti o con sue performance precedenti: diventa più competitivo.
Questo genera un’immagine di successo che fa in modo che l’apprendente ottenga delle
ricompense associate al successo ottenuto apprendendo la L≠1 — l’apprendente continua a
partecipare in questo ambiente di successo e il circolo diventa virtuoso.

Quali sono i fattori che possono far si che l’apprendente provi ansia durante l’apprendimento?
L’insicurezza, la bassa autostima ed il fatto di collezionare degli insuccessi — si crea quella
profezia che si autoavvera che abbiamo già anticipato. L’obiettivo di questi studi è capire come si
possa calibrare l’ansia in modo che diventi un fattore di successo piuttosto che di insuccesso;
questo perché gli studi dimostrano che gli sforzi mentali che fa l’apprendente per controllare
l’ansia lo distraggono dallo sforzo cognitivo. Lo studente classico è difatti talmente impegnato a
tenere sotto controllo la sua ansia che distoglie energie dal compito cognitivo e di conseguenza
ottiene dei risultati inferiori a quelli possibili. Altri studi, come ad esempio quelli di Horwitz (1986),
hanno individuato un terzo tipo di ansia — l’ansia di situazione, legata ad un ambiente o ad una
situazione. Come si collega questo con l’ansia verso l’apprendimento linguistico? Ed in particolar
modo con la pratica della lingua?

L’ansia di stato è legata ad un momento, l’ansia di tratto rende l'apprendente ansioso durante
qualsiasi tipo di apprendimento, mentre chi ha un’ansia di situazione legata all’apprendimento
linguistico la manifesta solamente quando si trova di fronte alla necessità di imparare una lingua.
Esiste una “patologia” che si chiama Foreign Language Anxiety — questa ansia è determinata
non tanto dalla mancanza di competenza, quanto piuttosto dal fatto che la persona percepisce la
propria padronanza come limitata (le persone non si sentono se stesse né a proprio agio). Le
varie abilità in lingua straniera hanno un grado ansiogeno diverso. Ci sono delle ricadute a livello
generale (di comportamento) quali la
sudorazione, le palpitazioni, la risata
nervosa, le contorsioni, l’irrequietezza, il
ri uto del contatto oculare. A livello di
apprendimento, si creano delle
conseguenze quali mancanza di
concentrazione, vuoti di memoria,
atteggiamento di apparente indi erenza,
comportamenti di evitamento, tendenza
alla distrazione (meccanismo di difesa),
scarso studio domestico, assenze frequenti. Ancora più in particolare, a livello di apprendimento
linguistico, ci sono ricadute molto speci che. Ad esempio, l’apprendente con FLA si blocca
quando viene interpellato, formula risposte brevi, ha di coltà di memorizzazione, non è capace di
auto-correggersi, si ri uta di rispondere, usa strutture grammaticali più semplici, ed evita
messaggi ritenuti di cili o personali. Questo fa si che si comprometta l’e cacia della
comunicazione (il messaggio non arriva in maniera adeguata) e si mostra una forte riluttanza alla
comunicazione. MacIntyre e Gardner, studiosi che verso il 1994 hanno ripreso questo concetto
di ansia introdotto da Horwitz e che hanno cercato di inserirlo maggiormente nel contesto della
classe, hanno sviluppato un modello dell’ansia linguistica legati a quelli che sono i vari passaggi
dell’apprendimento di una lingua che avviene in classe. Essi cercano di migliorare la rilevazione
dell’ansia linguistica cercando di inserire una serie di rilevazioni qualitative, oltre a quelle
quantitative. L’apprendente, nei vari step della lezione in classe, deve innanzitutto comprendere
istruzioni orali o scritte da ricordare e seguire (input), piani care i messaggi, selezionare gli item
linguistici e strutturali adeguati, applicando le regole linguistiche e pragmatiche che conosce per
conseguire gli obiettivi del compito (processing), ed in ne produrre un testo in L≠1 orale o scritta,
mantenere il ritmo del parlato, rispettare i limiti di tempo, monitorare la prestazione (output).
Chiaramente, in queste tre fasi lo studente può manifestare ansia. É molto importante, secondo
MacIntyre e Gardner, rilevare l’ansia in queste tre fasi perché in studenti diversi ci possono essere
cause diverse di ansia. Bisognerebbe andare ad indagare le cause dell’ansia dello speci co
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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
studente, essendo consapevoli del fatto che se lo studente manifesta ansia nella fase di
comprensione dell’input questo avrà poi delle ricadute in tutte le fasi.

Cosa dobbiamo fare noi insegnanti una volta presa consapevolezza di cosa l’ansia può provocare
nelle varie fasi dell’apprendimento linguistico? Innanzitutto, l’insegnante deve accettarne
l’esistenza (non minimizzarla). É importante trattarla esplicitamente e misurarla a classe intera.
Una volta individuata, è importante de nire delle aspettative realistiche riguardo quelle che sono le
possibilità del singolo, e soprattutto esplicitare il collegamento tra credenze e comportamenti.
Nella prassi didattica è importante elargire sempre un rinforzo positivo, assumere un
atteggiamento facilitatore, promuovere la conoscenza dello stile di apprendimento personale e
promuovere anche i contatti “protetti” con parlanti della L≠1. Questo perché la ducia nelle
proprie capacità comunicative dipende da quanto rilassato si sente l’apprendente e quanto si
sente competente nella L≠1.

18/03/2021 (7°)
Introduciamo l’autoe cacia — questo termine moderno indica l’autodeterminazione, è una
parole che ci arriva dagli antichi (“autostima”, “dare una stima del proprio valore” in Platone,
Aristotele, Socrate). Già loro parlano di “consapevolezza” all’interno dell’ambito
dell’apprendimento, intendendo nello speci co la vita stessa come tale ambiente. Più avanti nel
tempo, nel 1900, troviamo gli studiosi / padri del costruttivismo, che introducono i concetti più
propriamente loso ci all’interno del lone della pedagogia. In particolar modo introducono
concetti loso ci riguardanti l’autoconsapevolezza, la consapevolezza del sé e di quello che può
far stare bene il sé — provano a misurarne l’incidenza, quale può essere il peso dell’autostima nel
raggiungimento di alcuni risultati dal pov pedagogico, etc. Il primo che introduce la parola
“autorganizzazione” è Maslow (1954) che realizza questa piramide, nota come la piramide dei
bisogni. Egli pone l’autorealizzazione al vertice della piramide dei bisogni. Ciò signi ca che
dapprima la persona deve trovare conforto
secondi i suoi bisogni di stampo siologico,
deve sentirsi protetta e sicura garantendosi la
sopravvivenza, in seguito può avvertire ed
a rontare i bisogni che appartengono ai due
strati superiori ossia l’a etto e l’appartenenza
(riconoscimento sociale), delineati da Maslow
come bisogni sociali o di sopravvivenza
psicologica, e al vertice vi è la piena
autorealizzazione. Ovviamente, il modo in cui
si può giungere a questa cima non è uno solo
(studio, lavoro, realizzazione personale…).

Rogers nel 1959 comincia a parlare di didattica umanistica — egli che l’insegnante debba
organizzare l’ambiente di apprendimento in modo che ogni studente non solo possa imparare, ma
abbia voglia di farlo e che quindi sia una dei compiti dell’insegnante quello di promuovere
l’autorealizzazione dello studente. Attraverso gli studi fatti, colleghiamo l’autoe cacia /
autorealizzazione all’apprendimento esperienzale, un tipo di apprendimento che si basa sul fare
esperienza di qualcosa (imparare attraverso l’azione). Dopo essere entrati in contatto con
qualcosa (es. una lingua), l’insegnante richiama l’accaduto e fa ri ettere lo studente su ciò che è
successo. Dopodiché, l’insegnante invita lo studente a trarre delle conclusione dalla ri essione a
a concettualizzarla attraverso una sistematizzazione. A questo punto, l’insegnante invita l’alunno
ad applicare la “regola” o il “principio” a preparare la successiva esperienza pratica (applicazione).
Fondamentalmente questo tipo di apprendimento in ambito dell’insegnamento delle lingue si
chiama apprendimento per induzione. Perché colleghiamo l’autoe cacia a questo tipo di
apprendimento? Vediamo insieme uno schema di Kohonen (2001; vedi sotto).

L’apprendimento esperienzale viene allacciato alle consapevolezza (sapendo che la


consapevolezza è la base dell’autostima). In particolare modo, tra quelle consapevolezze troviamo
la consapevolezza personale dell’apprendente (quando l’apprendente possiede tali
caratteristiche può trarre pieno frutto dall’apprendimento esperienziale che conduce). Altre
consapevolezze sono quelle del processo, del compito e la consapevolezza professionale
dell’insegnante. A noi interessa la parte centrale dello schema, ossia il fatto che l’apprendimento
linguistico come crescita personale dell’apprendente è un momento particolarmente esigente
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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
perché richiede un certo tipo
di applicazione, sforzi
persistenti, capacità, coraggio
di confrontarsi con elementi
sconosciuti, apparire infantili
etc. Solo le persone con un
senso di autoe cacia
avanzato sono in grado di
tollerare questa messa in
discussione della propria
identità. L’autorealizzazione è
strettamente legata all’ansia
linguistica, perché la causa
principale per cui le persone
spesso diventano ansiose
nelle occasioni sociali in cui
devono usare la lingua
(straniera) non è il fatto che a
loro manchino delle
conoscenza o abilità per
essere e caci in quel
determinato contesto, bensì la
condizione di non possedere quelle determinate capacità. Normalmente le persone con poche
capacità non necessariamente sono ansiose nei contesti in cui devono usufruirne, a volte lo sono
di più le persone che hanno capacità molto più elevate ma che sono convinte di non possederle
dal momento che si reputano inadeguate. L’obiettivo a cui dovremmo aspirare come insegnanti è
proprio questo senso di autoe cacia perché “solo con un alto senso di autoe cacia, ossia di
consapevolezza di poter raggiungere determinati obiettivi, è possibile crescere e ra orzare l’idea
che si ha di sé, aumentando la propria autostima, sapendo controllare le proprie emozioni e
rappresentazioni mentali. Ritenersi capaci di svolgere adeguatamente un compito, di comunicare
appropriatamente, di ottenere buoni risultati, signi ca aumentare la motivazione e il desiderio di
impegnarsi per farlo in modo sempre migliore e quindi anche decidendo il modo con cui a rontare
l’apprendimento” (Menegale, 2015). Per molto tempo nell’educazione si è stati convinti del
contrario — spesso l’insegnante ha premuto per mostrare allo studente di non avere gli strumenti
necessari per svolgere determinati compiti / di non essere capace, costringendolo in questo
modo a dover studiare di più per acquisire questi strumenti. Gli studi mostrano che l’insegnante
deve cercare di aumentare il senso di autoe cacia degli studenti, a volte mettendoli a confronto
con compiti al di sotto delle loro capacità per poi aumentare la di coltà. […]

Parliamo ora di empatia, diamo una de nizione. Secondo Arnold, “empathy is the process of
putting yourself in someone else’s shoes”. Più nel dettaglio, varie de nizioni di questa parola
concordano nel dire che questa è un’attività di interpretazione delle sensazioni intersoggettive
comunicate a distanza, nalizzata a stabilire le capacità di vita sociali tra le specie viventi più
evolute. L’empatia quindi non include solo le persone. L’empatia ha uno scopo ben preciso, è
infatti una pratica che mettiamo in atto perché ci interessa sondare la capacità di vita sociale tra
queste specie. L’empatia ci serve per capire che tipo di relazioni possiamo stabilire con gli altri
rappresentanti delle specie viventi che stanno nel nostro raggio. É suddivisa in cognitiva ed
emozionale. La prima consiste nell’immaginare i sentimenti di un’altra persona in base al suo
comportamento, al contesto, adottando una logica deduttiva razionale (rappresentazione del
pensiero dell’altra persona). La seconda riguarda il “vivere” gli stessi sentimenti di un’altra
persona (contagio emotivo). L’empatia, comunque, è data dall’insieme di questi elementi.

Un contributo molto interessante a questo settore di studi psicologici è stato dato dalla scoperta
dei neuroni specchio i quali provano la tendenza che l’uomo ha ad imitare il comportamento altrui
— questo ha una base biologica. Per spiegare brevemente come funzionano tali neuroni, quando
osserviamo un’azione che viene eseguita da un’altra persona, tale osservazione genera
un’attivazione del nostro sistema motorio simile a quella che si veri ca quando eseguiamo la
stessa operazione in prima persona. Fondamentalmente, abbiamo una comprensione diretta degli
atti che osserviamo fatti dagli altri e facciamo riferimento ad una specie di vocabolario implicito
che ci riconosce come umani e ci permette di riconoscere le azioni altrui. La mappa posta in
seguito ci fa notare che tali neuroni si attivano quando facciamo un’azione o quando la vediamo
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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
eseguita da qualcuno che recepiamo come simile. Inoltre, ci permettono di capire gli altri e di
entrare in relazione con loro; se lesionati, possono potenzialmente essere una delle cause
dell’autismo. Si trovano nell’area di Broca (adoperata anche per la comprensione del linguaggio) e
nella corteccia parietale inferiore. L’empatia ci porta verso un concetto per noi particolarmente
interessante, quello dell’embodiment
(“incarnato”). La teoria dell’embodied
consciousness sostiene che
l’apprendimento non ha solo luogo
nella mente, ma che avviene in
interconnessione tra la mente ed il
corpo come se fosse un’unica unità
che interagisce con l’ambiente.
L’embodied consciousness riguarda
tutti quegli aspetti della cognizione
che sono modulati attraverso ciò che
ci circonda, la simulazione, e gli
aspetti del corpo. A livello cerebrale, i
meccanismi neurali permettono alla
persona di comprendere direttamente
il signi cato delle azioni e delle
emozioni altrui tramite una loro
replicazione interna (simulazione)
senza necessità di un’esplicita
mediazione ri essiva. Ciò signi ca
che nel momento in cui percepisco
che qualcuno sta compiendo un’azione non ho bisogno che qualcuno mi spieghi cosa sta
succedendo, ma lo comprendo automaticamente. A livello linguistico, tutti i gesti che
accompagnano il discorso (gestures accompanying speech) hanno un impatto sulla memoria
dell’apprendente, sia che questo avvenga in lingua materna sia in lingua straniera. In particolar
modo, questi studi ci dicono che se alle parole vengono accompagnati dei gesti esse vengono
maggiormente imparate dalla persona perché vanno ad impattare un percorso neurale più
signi cativo. Possiamo allora dire che un’altra scoperta su cui si pone molta ducia è quella del
cosiddetto linguaggio incarnato — gli esseri umani utilizzano le stesse strutture neurali con cui
esperiscono la realtà anche per comprendere il materiale linguistico che descrive tali esperienze.
A livello di insegnamento questo ci fa capire quanto sia importante l’esperienza e ci introduce alla
metodologia task-based, oltre che al lone della linguistica cognitiva e della grammatica cognitiva
(che poggiano sulla stretta relazione tra la cognizione ed il corpo).

Tornando all’empatia, quali sono le sue relazioni con l’apprendimento linguistico?


Partiamo dall’assunto che apprendere una lingua straniera è sempre una s da per l’integrità
dell’identità della persona. Entra in gioco qui un ego linguistico (la nostra identità linguistica,
come ci percepiamo a livello linguistico). Guiora, studioso che si è interessato particolarmente
delle relazioni tra l’empatia e l’apprendimento linguistico, ha studiato la natura e la permeabilità di
questo stesso ego — egli ritiene che ci sia uno stretto collegamento tra la permeabilità dell’ego
linguistico e la capacità di una persona di apprendere. Egli parte dalla considerazione che parlare
è l’abilità più esigente da un pov psicologico perché modi ca l’abilità primitiva che gli uomini
hanno di riconoscersi fra di loro. Volendo fare una metafora, la morfologia e la sintassi sono lo
scheletro di una lingua, il lessico è invece i muscoli e la carne, la pronuncia è invece il midollo
spinale, ciò che fa stare in piedi l’ego linguistico della persona, il punto più sensibile. I con ni
dell’ego linguistico sono il tratto della personalità che ci interessa di più parlando di empatia.

Essi, in una persona empatica, sono piuttosto permeabili e essibili, accettano delle
trasformazioni. Questo ci permette di classi care le esperienze e le emozioni che vengono fatte,
anche quelle riportate in una lingua diversa dalla nostra. L’ego linguistico, però, è anche quel
tratto che ci permette di proteggere la nostra identità, di conservare un equilibrio fra le varie
divisioni concettuali; il maggiore o minore spessore di tale ego ci permettono di individuare gli stili
di apprendimento di una persona, le sue preferenze, le sue qualità.

Più nel dettaglio, possiamo chiederci: quand’è che una persona empatica è più portata per
l’apprendimento delle lingua e quando non lo è? Possiamo dire che gli individui empatici hanno
maggiori successi linguistici perché hanno una maggiore permeabilità dell’ego, riconoscono più
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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
facilmente le caratteristiche delle altre lingue e riescono ad identi carsi meglio con i
comportamenti comunicativi di chi parla le lingue che devono imparare — normalmente hanno
una maggior predisposizione all’apprendimento linguistico. Inoltre queste persone tendono ad
essere più inesibite (variabile del risk taking), entrano meno in ansia quando si trovano ad
approcciare una lingua o una cultura nuova; l’empatia è uno dei fattori che si prende in
considerazione quando si calcola l’attitudine all’apprendimento linguistico ed è legata all’età (più
giovane = più ematico). Come si di erenziano questi atteggiamenti?
Le persone con con ni sottili dell’ego linguistico1 (maggiore empatia) normalmente in una
situazione di apprendimento linguistico privilegiano strategie di compensazione1 (se non
comprendono interamente messaggio tentano di arrivare comunque a raggiunger i propri
obbiettivi attraverso altri elementi). Al contrario, chi ha dei con ni marcati2 dal pov dell’ego
linguistico (persone più rigide) tende a poggiare su strategie di tipo metacognitivo e di
memorizzazione che permettono un controllo più ampio e sicuro in qualsiasi situazione.

Chi ha dei con ni dell’ego sottili è facilmente adattabili a situazioni nuove1 ed è in una
situazione di “attesa” riguardo ciò che potrebbe capitare; spesso apprezza o gestisce bene la
creatività1 e l’emotività1 in situazioni di apprendimento linguistico, ed ha un rapporto facile con
dati confusi1 o contradditori. Al contrario, chi ha dei con ni marcati preferisci l’apprendimento
compartimentalizzato2 (le cose devono essere presentate in modo separato, ci dev’essere una
distinzione ben precisa degli elementi dell’apprendimento), realizza una maggiore valutazione
dell’input in base all’utilità2. Detto questo possiamo aggiungere che l’empatia non è tanto legata
alla lingua che si apprende quanto al contesto in cui la lingua viene appresa. L’empatia non è
legata all’estroversione/introversione. […]

Per nire la lezione di oggi passiamo alla tolleranza dell’ambiguità. Si tratta dell’argomento più
nuovo all’interno dello studio delle variabili, questo perché si è fatto strada anche grazie a tutti gli
studi sulla comunicazione interculturale e al plurilinguismo. Per tolleranza dell’ambiguità si intende
la disponibilità a reggere la “fatica” di una situazione imprevedibile, in cui mancano dati ed è
necessario negoziare (Hofstede, 2010). Tollerare le ambiguità signi ca accettare che alcuni
concetti / idee si sovrappongono anche quando sono apparentemente contraddittorie fra di loro
— bisogna essere in grado di mettersi in un momento di attesa anche cognitiva ed essere
duciosi del fatto che proseguendo ed acquisendo maggiori informazioni queste diventeranno
chiare. Non tutti godono dello stesso livello di tolleranza dell’ambiguità: questo perché essa è
strettamente dipendente dal contesto di apprendimento (strutturato / non strutturato) e
dall’approccio glottodidattico utilizzato. Inoltre, è correlata con l’empatia, il risk taking, e
l’organizzazione sociale della cultura di riferimento della L≠1 e dalla cultura di provenienza.

Come funziona la tolleranza dell’ambiguità?


Ehrman (1999) la divide in tre livelli collegati
a ciò che per l’apprendimento delle lingue
abbiamo denominato intake, processing ed
output. Apprendere una lingua, soprattutto
all’inizio, signi ca tollerare un gran numero
di situazioni in cui vi è imprevedibilità e in
cui è facile “perdere la faccia”. É una
situazione di stress; chi fatica a tollerare
questo tipo di stress solitamente fatica
anche a progredire nell’apprendimento
linguistico e crea una serie di convinzioni
poco e caci riguardo lo stesso (es. “ nché
non avrò imparato tutto il lessico non potrò
parlare in lingua”). Ehrman a erma che a
seconda dei vari livelli di funzionamento ci
possono essere diversi gradi di tolleranza
dell’attività.

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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
Nel primo livello (intake) le persone con con ni dell’ego sottili colgono l’input, ma possono avere
delle interferenze nel capire a cosa devono dare attenzione fra tutto il materiale a loro proposto;
nel caso delle persone con con ni dell’ego marcati invece, queste preferiscono attività collegate
strettamente al testo. Nel secondo livello (gestione dell’intake / processing), troviamo il vero e
proprio livello di tolleranza dell’ambiguità. Chi ha con ni dell’ego sottili tende a soccombere sotto
l’eccesso di informazione e non riesce a gestire l’intake, mentre chi ha dei con ni troppo marcati è
molto rigido nella scelta dell’input e rischia di concentrare la sua attenzione solo su alcuni
elementi e di perdere di vista la complessità del materiale linguistico fornito. Nel terzo step
(output) troviamo il risultato di tale processo — chi ha con ni dell’ego troppo sottili avrà delle
di coltà nello scegliere come riorganizzare la conoscenza (la tolleranza dell’ambiguità sarà
esagerata, avrà avanzato di poco nella sua conoscenza), mentre chi ha dei con ni dell’ego troppo
marcati avrà recepito e memorizzato l’intake senza una riorganizzazione — lo avrà interiorizzato
esattamente come gli è stato fornito. Ehrman parla del fatto che nell’apprendimento di una lingua,
e specialmente nei primi passi di questo percorso, vi può essere una regressione temporanea,
ossia di ritorno (anche a livello psicologico) ad un’età precedente. Da un pov psicologico è un
malfunzionamento dei con ni personali interiori. Normalmente è necessario che all’inizio lo
studente tolleri una forma di regressione temporanea che assottiglia un po’ i con ni dell’ego e che
permette di ricostruire un nuovo sé. […]

Quali sono le relazioni tra la tolleranza dell’ambiguità e la metodologia glottodidattica?


In un approccio comunicativo usiamo la lingua per dare compiti reali e l’input è molto ricco, è
adatto ad apprendenti che hanno un con ne dell’ego molto sottile e quindi la programmazione è
fondata sul contenuto. In un approccio formalistico o strutturalista, le spiegazioni sono
grammaticali esplicite e le traduzioni mai ambigue. Questo è adatto a persone che hanno con ni
dell’ego marcati, e che prediligono una programmazione piuttosto basata sulle strutture.

La maggioranza degli studenti si trova per lo più a metà, per cui attiveranno dei processi di
regressione / di accomodamento per poter apprendere la lingua e mettere in atto la loro tolleranza
dell’ambiguità, accomodando il materiale linguistico — dobbiamo infatti tenere conto che
abbiamo di fronte studenti che hanno bisogno di accorgimento metodologici che possono essere
di erenti. Come facciamo tutto questo? La tolleranza dell’ambiguità è ovviamente una variabile
psicologica sulla quale si può agire attraverso la pratica metodologica che mettiamo in atto;
possiamo andare ad aumentare la tolleranza dei nostri studenti attraverso pratiche metodologiche
rassicuranti (es. dare un rinforzo della tolleranza a chi già la possiede ed incanalarla a chi ne è n
troppo provvisto). Andiamo a impostare un tipo di didattica che promuove lo sviluppo della
competenza comunicativa, e che inizialmente si regge su uno sca olding / impalcatura che
sostiene gli studenti e dà loro grande sostegno dal pov contenutistico, delle strutture e della
ri essione metacognitiva — progressivamente esso viene meno per andare a stimolare il pensiero
divergente, accogliendo una didattica che veda l’errore come qualcosa di “naturale”.

Le pratiche metodologiche che dobbiamo tener


presente devono permettere di gradare i
compiti ed i rischi che gli studenti si devono
assumere di fronte agli altri, di porre in maniera
chiara gli obiettivi espliciti prima e dopo la
lezione, di proporre un atteggiamento sereno
verso l’errore e che faccia frequenti ricognizioni
metacognitive per mostrare agli studenti come
stanno migliorando

L’errore è una tappa siologica


dell’apprendimento, va bene sbagliare — in
questo modo lo studente si sente accettato
nella sua divergenza e più pronto ad
accomodare questa nuova conoscenza
all’interno dei suoi nuovi schemi mentali.

Quello che farà l’insegnante nel cercare di stimolare il pensiero divergente sarà promuovere delle
strategie di essibilità cognitiva, creando volutamente delle complessità e pensando ad una
infrazione meditata delle regole. Il passaggio dall’una all’altra prende il nome di “fading”.

(per sintesi delle variabili dell’apprendimento linguistico, vedi manuale prof)

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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
19/03/2021 (8°)
Per chiudere questo primo modulo, teniamo presente che rimangono ancora delle questioni in
sospeso. La più importante ora come ora è la necessità di trovare una teoria sovraordinata e
onnicomprensiva che possa mettere in ordine tutti gli studi, le teorie e le relazioni che sono state
trovate nora. Nonostante questo venga fatto dal manuale che abbiamo preso in considerazione,
è utile trovare una teoria de nitiva che possa aiutare l’insegnate, una teoria che prenda in
considerazione quali sono le esigenze dell’insegnamento delle lingue nel XXI secolo.

Tra le principali caratteristiche di quest’ultima dobbiamo sottolineare che percepiamo


l’apprendimento come un’esperienza situata, ossia l’apprendimento non è più concepito come
qualcosa che avviene in astratto, ma piuttosto è qualcosa che avviene all’interno di una comunità
di pratica perché si entra in contatto con altre persone / menti / modi di relazionarsi (realtà di
interazione). Lo studio delle variabili di apprendimento deve prendere maggiormente in
considerazione il ruolo del contesto, quanto pesa il contesto in cui l’apprendente apprende la
lingua rispetto alle sue variabili individuali di apprendimento. Un’altra cosa che questa teoria deve
trattare è lo stretto nesso che esiste tra le variabili individuali e le opportunità di apprendimento
che una persona ha — a prescindere dall’attitudine e dalle convinzioni personali è logico che se
una persona ha più opportunità di apprendimento e di pratica linguistica è inevitabile che si possa
avere un risultato migliore a parità di motivazione / convinzioni personali. Qui diventa
particolarmente interessante il ruolo dell’insegnante nel cercare di colmare quel divario che esiste
fra l’apprendimento che avviene in classe e quello che avviene fuori. L’insegnante dovrebbe
diventare sempre di più una persona che cerca di incrementare le opportunità di praticare la
lingua all’interno della classe, ma anche la capacità che hanno le persone di trarre pro tto dalle
opportunità che hanno fuori dalla classe (sempre più numerose grazie anche a internet).

Detto questo, tale teoria dovrà tenere il considerazione il legame fra variabili dell’apprendimento e
i processi d’acquisizione, in particolare la fase di tale processo in cui ciascuna variabile si colloca
— a seconda della fase ciascuna variabile può in uire di più o di meno.

Altro importante elemento è come le variabili si condizionino a vicenda, ma soprattutto la teoria


deve tener conto di quanto possa pesare la consapevolezza dell’apprendente (ruolo delle
convinzioni o degli stili di apprendimento e come questo può modi care il suo e ettivo
apprendimento linguistico). In ne, altro elemento da indagare e su cui lavorare è la relazione che
esiste fra le variabili dell’apprendimento ed i singoli aspetti dell’apprendimento linguistico.
Abbiamo visto più volte come ciascuna variabile può in uenzare aspetti diversi e quindi quanto
sia necessario valorizzare le competenze parziali delle persone (specchio delle capacità individuali
di erenti). In questo preciso momento storico in cui si troviamo, all’incrocio di scienze diverse che
dialogano fra di loro (neuroscienze, linguistica, linguistica scienti ca e neurocognitiva, studi di
comunicazione interculturale, dinamiche psicologiche di costruzione dell’identità etc) possiamo
svelare alcuni degli enigmi relativi al modo in cui le persone imparano le lingue, come e perché
intraprendono e riescono (o meno) nello studio delle lingue, e come una persona di erisce da
un’altra in termini di stili, strategie e motivazioni, ma riesce comunque a modo suo (standard di
successo di erenti fra di loro). Ciò che è universale e ciò che è individuale è, in e etti, un mistero
stimolante da svelare. Detto questo, ci rendiamo conto che c’è molto lavoro e molta ricerca da
fare. Cosa vuol dire, però, fare ricerca (in particolare sulle variabili dell’apprendimento)?

Simuliamo un esempio. Un gruppo di ricercatori vuole studiare come la motivazione in uenzi


l’apprendimento linguistico. Selezionano un gruppo di apprendenti e somministrano un
questionario per misurare tipo e grado di motivazione (possibile modalità di ricerca, ne esistono
altre). Dalla somministrazione del questionario traggono dei risultati, somministrano poi agli stessi
apprendenti un test di pro tto linguistico e dopodiché test e questionario vengono valutati e messi
in correlazione. Si può vedere quindi se vi è a ettiva correlazione o meno — nel caso in cui la
correlazione esista, questa può essere di valore positivo (alta motivazione, alto pro tto) o negativo
(alta motivazione, basso pro tto). Bisogna però avere molta cautela nell’interpretare questi dati —
abbiamo a che fare con dei tratti che non possono essere osservate direttamente; si tratta di
categorie astratte, etichette che vengono attribuite ad un determinato range di comportamenti
(azioni che il ricercatore rileva, non variabili in sé). Chiaramente, le caratteristiche non sono
indipendenti fra di loro ed è importante capire come vanno interpretati i vari dati che si ottengono

— es. potremmo chiedere agli apprendenti in questo questionario “quanto spesso usi la lingua
straniera fuori dalla classe?” con ipotesi che chi usa di più la lingua straniera sia più motivato,
ma in realtà bisogna sostenere la domanda con altre indagini perché alto numero di interazioni
in LS dipende dal numero di opportunità che tale persona ha al di fuori della classe

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Spesso è impossibile separare le due variabili (motivazione / possibilità di uso della LS al di fuori
della classe) — oltre alla domanda secca dobbiamo aggiungere anche altre informazioni, è difatti
importante contestualizzare le domande. Di conseguenza, l’errore più grande che si possa fare è
quello di trarre la conclusione che una variabile causi l’altra: anche se occorrono insieme e
crescono/decrescono allo stesso modo, potrebbe esserci un fattore terzo che le in uenza
entrambe.

— es. studenti di successo potrebbero essere studenti molto motivati, ma potrebbe essere che
esistano dei fattori che determinino a loro volta la motivazione che sta alla base del successo
=> vanno indagate le possibili variabili di contesto e l’attitudine; la causa-e etto deve sempre
essere su ragata da una serie di altre indagini

Altra considerazione che va presa è che quando parliamo di successo linguistico dobbiamo
sempre precisare cosa intendiamo ( uenza, correttezza, conoscenze metalinguistiche…) e
dobbiamo avere una netta percezione di come l’ambiente sociale ed educativo abbiano un forte
peso nel determinare il successo nell’apprendimento linguistico dal momento che vanno a
modi care l’accesso alle relazioni sociali in cui la persona può essere un partner stimolato. Questo
si somma poi alle caratteristiche dell’individuo e determinare il suo successo nell’apprendimento
linguistico. In particolare, questo fattore va tenuto in considerazione quando facciamo indagini in
contesto migratorio.

Per concludere, comprendere le relazioni fra le caratteristiche individuali, le situazioni sociale ed il


successo nell’apprendimento delle L≠1 è una s da, ma non per questo è da considerare
impossibile. Lo scopo è trova are dei modi con cui gli insegnanti possano aiutare gli apprendenti
con le caratteristiche diverse ad avere successo nell’apprendimento delle L≠1 — l’apprendimento
delle L≠1 ha un impatto enorme nel plasmare le opportunità di educazione, impiego, mobilità e
altri vantaggi sociali.

Vediamo ora dei modi per fare ricerca grazie ad un focus group. Il focus group è uno strumento
qualitativo, non vi è una letteratura che ci spieghi le origini di questo metodo utilizzato da più di un
secolo. Il primo testo a cui si fa riferimento per parlare di focus group è del 1941. Si tratta di un
metodo poco documentato e che non fornisce dati di tipo qualitativo, per cui nella ricerca sociale
era stato messo in disparte — tuttavia è tornato in auge negli ultimi quindici anni. Si caratterizza
per l’esplicito uso dell’interazione di gruppo quale strumento per la produzione e la rilevazione di
informazioni riguardanti l’orientamento degli individui coinvolti su speci che tematiche,
strutturate in uno schema che funge da traccia per la discussione. Questo metodo si usa quando
più che documentare un certo fenomeno si ha bisogno di capirlo, quindi è una tappa preliminare
rispetto ad una ricerca di tipo qualitativo vera e propria. Sta riscontrando particolare interesse
ultimamente perché lo rendono molto più in linea con quello che è lo sviluppo delle scienze
“morbide” e sociali: da un alto questo perché è molto sensibile all’aspetto culturale (ricerca
quantitativa non è sempre accurata ed onesta dal pov culturale, tende ad eliminare le di erenze di
interpretazione culturale). Inoltre è in linea con le prospettive di costruttivismo (più importanza alla
soggettività che alla razionalità e all’oggettività) — è la persona che conta e ciò che ha da dirci più
che quello che statisticamente rientri in un determinato range di opinioni. Per di più coinvolge
l’osservatore mettendo in discussione la distinzione classica tra osservato e osservatore, ritenuta
arti ciale. Come si caratterizza il focus group?

É un’intervista condotta da un moderatore che usa il gruppo come mezzo per raccogliere delle
informazioni (dall’interazione del gruppo nasce la ricchezza — è importante che le persone si
in uenzino tra di loro). Il gruppo, tuttavia, è omogeneo dal pov del background culturale e di solito
ha una comunità di interessi rispetto al target della comunità della ricerca. Sono tali dinamiche di
gruppo che producono le interazioni valide e interessanti che non sono accessibili con altri mezzi
quali interviste singole o questionari. Il focus group permette di andare molto più in profondità
delle relazioni interpersonali. Inoltre, c’è un focus ossia un argomento speci co di discussione (no
vasto raggio). L’obiettivo del focus non è quello di prendere decisioni né raccogliere consenso, ma
piuttosto esplorare un argomento o sondare opinioni. […] Il valore del focus group risiede
proprio nella soggettività, nel valore che si dà alle interpretazioni che le persone danno e alla
costruzione di signi cato che fanno insieme.

Passiamo ora a vedere uno strumento di ricerca che si associa al focus group e che ha delle
caratteristiche quali-quantitative. Parliamo del sondaggio, che mitiga l’eccesso di soggettività con
una compensazione di quantitività. A cosa serve il sondaggio? L’obiettivo dei sondaggi, di solito, è
quello di ottenere un’istantanea delle condizioni, degli atteggiamenti, degli eventi in un momento
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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
dato senza modi care il contesto (a di erenza del focus group). Vuole cogliere l’osservato senza
elementi che “inquinino” il dato che ci interessa rilevare. Per fare il sondaggio bisogna determinare
una popolazione, ossia un gruppo di soggetti che vengono sottoposti alla ricerca. Data la
caratteristica che ha il sondaggio, a volte tale popolazione coincide con la totalità dei destinatari,
ma più frequentemente si fanno dei campioni rappresentativi (es. campione mantiene la
proporzione di genere degli insegnanti in una scuola). Per quanto riguarda gli strumenti, i
sondaggi principali sono di solito questionari, interviste o entrambi. Per costruire un sondaggio
si deve de nire innanzitutto l’obiettivo (cosa vogliamo trovare?), si cerca di identi care la
popolazione target (di chi vogliamo avere informazioni?) e la literature review (cosa hanno detto gli
altri su questo argomento?), dopodiché si determinano i campioni (di quante persone abbiamo
bisogno e come le identi chiamo?) e si identi cano gli strumenti di indagine (come verranno
raccolti i dati?). Si cerca di progettare le procedure d’indagine (come verranno concretamente
raccolti i dati?), si individuano le procedure di analisi (come verranno assemblati e analizzati i dati?)
ed in ne si determinano le procedure di report (come verranno scritti e presentati i dati?).
Noi studieremo in particolare il questionario, che ha dei punti di forza innegabili: permette di
raccogliere molti dati in tempi brevi, presenta modalità omogenee di somministrazione e permette
di essere contemporaneo. A livello di tipi di domande, ricordiamo:

• chiuse con risposta dicotomica (sì/no, V/F, ecc.) => pilotaggio e successiva analisi statistica

• chiuse con risposte multiple (una o più possibilità)

• chiuse con scala di gradazione (scala Likert, distribuzione di punteggi)

• domande aperte => si deve trovare uno schema per poi riportarle

Le principali insidie del questionario sono le seguenti. Innanzitutto la scelta delle parole: non
devono condizionare la risposta (no svelare intenzioni, tono neutro), non devono svelare
l’atteggiamento del ricercatore; la formulazione deve essere chiara, ad ogni domanda corrisponde
una sola informazione ed in ne bisogna fare domande culturalmente neutre. L’altro versante a cui
prestare attenzione è il fatto che quando si faranno domande aperte bisognerà cercare di
quanti care i dati qualitativi — questo si può fare grazie all’analisi attraverso parole chiave (con
creazione di categorie), l’analisi attraverso una variabile (es. esperienza di insegnamento) o l’analisi
attraverso l’assegnazione progressiva di categorie «a senso» ( > doppio cieco). […]

Una volta fatto i focus group, trascritti i risultati, fatto il questionario, ottenuti i risultati, cosa ne
facciamo? Si tratta della parte più ricca della ricerca. La cosa principale è che non si analizza alla
ne, ma durante perché aiuta ad avere nuove idee (che possono essere implementate già in
corsa), ad essere più oggettivi riguardo i dati che si raccolgono, a focalizzare meglio la domanda
di ricerca e a veri care la coerenza fra la domanda e lo strumento. Ricordiamo inoltre che non c’è
mai solo un modo per portare avanti la ricerca — si analizzano i dati per cercare regolarità e
spiegazioni (leggere e rileggere i dati può fornire pov diversi). Bisogna restare aperti anche alle
suggestioni, ossia a quelle informazioni che non rientrano in quelle speci che che la nostra ricerca
stava raccogliendo ma che inaspettatamente sono stati raccolti. Questo dati, raccolti per sbaglio
o individuati in maniera laterale, possono talvolta essere più importanti della ricerca stessa.
Introduciamo qui il termine “serendipity” inteso come la capacità di trovare ciò che non si sta
cercando. Detto questo, come si realizza la tabulazione l’analisi dei dati? Vediamo gli step.

• step 1 => assemblare i dati

• step 2 => codi care i dati in categorie o patterns



• step 3 => identi care i dati quantitativi e qualitativi

• step 4 => comparare i dati (tabelle, gra ci, schemi, ecc.)

• step 5 => costruire signi cati e interpretazioni (non semplici descrizioni, ma correlazioni)

• step 6 => riportare i risultati



• step 7 => organizzare l’intera ricerca

25/03/2021 (9°)
Iniziamo ora il secondo modulo facendo un quadro storico-epistemologico.

Vediamo innanzitutto il percorso formativo di un’insegnante di lingua straniera. Pe prima cosa


dobbiamo chiarire che questa gura padroneggia una serie di elementi linguistici e culturali, ha
quindi una serie di conoscenze — deve sapere una serie di saperi (sapere la lingua sul piano orale
e scritto, saperla descrivere e conoscere la cultura). Deve avere anche una serie di strumenti che
derivano da un domino di ambito pedagogico-didattico: fondamentalmente l’insegnante deve
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saper relazionarsi con gli studenti in modo autorevole (ma non autoritario), deve saper strutturare
dei percorsi formativi, conoscere le tecniche adatte per far apprendere i contenuti linguistici e
deve saper utilizzare i supporti informatici a ni educativi. In ne deve avere una serie di
conoscenze di tipo psico-linguistico quali conoscere le caratteristiche di apprendimento dello
studente e saper motivare gli studenti nei confronti della lingua. I percorsi formativi dell’insegnante
di lingua straniera possono essere vari. […] Vi sono comunque dei vantaggi e degli svantaggi
nell’essere un’insegnante di LS (non madrelingua). […] Tra i possibili vantaggi individuati assieme
troviamo il fatto di avere una lingua in comune con gli studenti — una lingua veicolare (L1) di
comunicazione (non sempre succede se si insegna una L2). Altri vantaggi possono derivare dal
fatto che l’insegnante ha una conoscenza della LM condivisa con gli studenti e che quindi può
fornire dei trucchi comuni (l’insegnante a sua volta è stato uno studente di LS), oppure anche il
fatto di conoscere entrambe le culture (punti di curiosità, attrito etc), e avere una conoscenza più
approfondita della grammatica di partenza. In ne, non dà per scontato che tutti gli studenti siano
allo stesso livello e condivide la passione della LS che insegna agli studenti (insegnante come
modello positivo). A livello di svantaggi invece possiamo menzionare la pronuncia, le frasi
idiomatiche, l’incompleta conoscenza lessicale della LS e una successiva confusione con la
lingua di partenza, l’impossibilità di conoscere tutte le sfaccettature della lingua, l’arti ciosità da
parte dell’insegnante o una minore a dabilità, l’evoluzione / aggiornamento sulla lingua in quanto
essere vivente. Tornando alla presentazione ppt, vediamo insieme una tabella che riassume i
vantaggi e gli svantaggi dell’insegnante di LS.

* madrelingua che però può


non avere conoscenza in
ambito glottodidattico

** formazione di un circolo
vizioso

*** falso pragmatico //


comunicazione autentica

**

***

Andiamo ora a vedere cos’è la glottodidattica. L’evoluzione in Italia di questa scienza giovane è
molto interessante. Partiamo dagli anni ’60, attorno al 1962 si introduce la scuola media
uni cata. Questo signi ca che la scuola media diventa obbligatoria e che si uniscono i corsi di
studio (prima vi era l’avviamento professionale=> scuola professionale, e il ginnasio=> liceo).

Dalla metà del XX secolo la scuola italiana aveva delle caratteristiche piuttosto “forti”: innanzitutto
escludeva tutto ciò che era pratico, era molto teorica. Ad esempio, la laurea in Lingue era una
laurea in Lettere in cui vi era un po’ di Lingue — ancora no agli anni ’70 mancano i laureati in
Lingue e Letterature Straniere tanto’è che insegnavano Lingue a scuola persone con conoscenza
bassa delle lingue o persone che avevano imparato le lingue all’infuori dell’università — questo
perché al suo interno l’apprendimento delle lingue era molto ridotto. L’Italia aveva, difatti, una
necessità precedente rispetto a quella di imparare le lingue straniere, ossia quella di imparare
l’italiano — nel secondo dopoguerra erano di use soprattutto le lingue regionali. La lingua
nazionale (italiano) era insegnata a scuola; veniva data la priorità alla grammatica e alla
correttezza rispetto alla capacità e ettiva di parlare per cui le lingue che si insegnavano a scuola
erano poche (solo nelle scuola di avviamento professionale si parlava di insegnare solo le lingue).
Non vi era la lingua straniera alle medie e, di conseguenza, vi era una sorta di “ignoranza”
riguardo alle lingue straniere nel grosso del sistema scolastico italiano. Altro dettaglio, ma molto
importante, è che per tutti gli anni ’50 le lingue da imparare erano viste come “le lingue del
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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
nemico” (francese e tedesco), le persone erano restie nell’imparare le lingue e non vi era molto
interesse. A nché si parli di vera educazione linguistica bisogna arrivare al 1962 quando si inizia a
capire che le persone hanno bisogno di poter parlare per poter migliorare la loro condizione di
vita. Quando compare il termine glottodidattica? In Italia nel 1966. Quando parliamo di
educazione linguistica ci riferiamo a quella parte dell’educazione generale che riguarda le lingue
naturali (moderne, classiche, nazionali, estere); di conseguenza per glottodidattica s’intende la
metodologia dell’educazione linguistica. Ma teniamo presente che all’università ancora non vi è
un’insegnamento di lingue che si possa ritenere tale — sono sporadici i corsi di lingue.

Bisogna aspettare il 1968 perché qualcosa cambi: la contestazione studentesca è molto forte in
tutta Italia, ma in particola modo a Venezia (Ca’ Foscari) si fa sentire nella facoltà di Lingue dove
gli studenti reclamano un insegnante madrelingua che insegni loro a usare le lingue. Questo fa sì
che si arrivi ad acquistare un laboratorio linguistico. Nello stesso periodo, a Brescia, nasce il
CLADIL (?), un centro linguistico che organizza corsi di formazione e convegni sulla
glottodidattica. La glottodidattica nasce tra la ne degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, è una
scienza giovane. La prima cattedra di glottodidattica risale al 1971, a data a Giovanni Freddi.
Questo percorso di sviluppo, o meglio la de nizione della disciplina, si può considerare completo
quando nel 1975 il GISCEL pubblica le dieci tesi per l’educazione linguistica democratica, un
manifesto contenente dieci tesi in cui si suggeriscono tutti quegli elementi che devono essere
presi in considerazione dall’insegnante. Esso pone l’attenzione sul fatto che la lingua è vera e che
non bisogna lasciare fuori i dialetti o le varietà regionali, ma piuttosto bisogna partire da esse per
insegnare alle persone a parlare in italiano e per arricchire il proprio bagaglio.

Quali sono i pregi italiani nell’impostazione dell’insegnamento delle lingue?


La glottodidattica italiana in tutto il suo percorso ha sempre tenuto molto unita l’insegnamento
della lingua e quello della civiltà; elabora e sviluppa i concetto di unità didattica (UD) e in ne, vista
la necessità di insegnare l’italiano alla popolazione oltre che le lingue straniere, la didattica
nazionale ha sempre cercato di stimolare la relazione tra le LS e la L1 — il plurilinguismo di cui
parliamo molto oggi è sempre esistito in Italia, è sempre stato molto avvertito in quanto tratto
caratteristico del territorio. Andiamo a de nire quindi cos’è la glottodidattica.

É una scienza interdisciplinare dell’educazione plurilinguistica. Secondo molti studiosi, esiste


una forte a nità tra la professione medica e quella dell’insegnante (discipline a carattere teorico-
pratico) — il glottodidatta, così come il medico, assume dei concetti da altre discipline e li usa in
funzione di una situazione didattica speci ca e ne trae delle implicazioni. Le scienze che ruotano
attorno alla glottodidattica sono varie: quelle che riguardano i contenuti (studiano la facoltà di
linguaggio e prodotto), quelle che riguardano l’uso della lingua nel contesto socio-culturale, quelle
che studiano la persona che acquisisce la lingua (si occupano del cervello e della mente;
neurolinguistica, psicolinguistica etc) e poi quelle che riguardano l’educazione, l’insegnamento, le
tecnologie didattiche, la pedagogia etc. Tutte queste sono fra di loro in relazione, creando un ciclo
di rimando completo. La glottodidattica, in quanto scienza interdisciplinare, si de nisce anche
come scienza metadisciplinare, ossia una scienza che ri ette su se stessa per migliorarsi di
continuo e adattarsi alle mutate esigenze del contesto, ma anche per arricchirsi dei vari apporti
delle scienze da cui trae implicazioni. É chiaramente una scienza complessa, come tutte quelle
scienze che si occupano di problemi a cui non vi è una risposta univoca (le variabili che entrano in
gioco sono tante). Questa disciplina ha una dimensione interna e una dimensione esterna. La
prima costituisce la parte più di ricerca, che si occupa ad esempio di linguistica, interazioni tra i
fattori dello spazio didattico, bilinguismo; la seconda si occupa maggiormente dell’aspetto
pratico-applicativo (es. de nire il curricolo/sillabo/unità di apprendimento, approccio/metodo/
tecnica, abilità linguistica etc). Esse sono in continua relazione fra di loro: la ricerca in uenza la
pratica e in base a ciò che succede nella pratica di hanno dei riscontri che vanno a determinare
nuove richieste a cui la ricerca cercherà di dare risposta. L’insegnante di LS, quindi, assume dei
concetti di altre discipline e poi ltra tali concetti in funzione di una situazione didattica speci ca.

Trattandosi di una scienza, ci serve una terminologia condivisa. Vediamo alcune de nizioni che
possono guidarci nel nostro percorso, nonostante la terminologia adoperata in questo ambito
spesso è sovrapponibile. In questi anni è entrano in uso il termine linguistica educativa per
riferirsi alla glottodidattica — è stato introdotto per superare la monodirezionalità della teoria
dell’applicazione per sottolineare le continue interrelazioni fra campo teorico e campo applicativo
[e i molti] scambi pro cui nell’una e nell’altra direzione. Sottolinea il fatto che si fa sia ricerca
pratica che teorica. Tanti però continuano a preferire la parole glottodidattica in quanto termine
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più uni cante all’interno della comunità e più conosciuto all’esterno, nei cosiddetti «settori a ni» e
nel mondo accademico. Di che cosa si occupa la glottodidattica?

Realizza lo studio delle questioni dell’apprendimento e dell’insegnamento a una persona della


lingua, delle lingue, dei linguaggi e lo sviluppo delle competenze e delle abilità linguistico-
comunicative in risposta alle sollecitazioni provenienti dalla società. La glottodidattica, di
conseguenza, è sempre in relazione con la persone, le sue necessità e la società all’interno della
quale la persona si trova a dover utilizzare le lingue (importanza del contesto). Questo signi ca
che vanno prese in considerazione le dimensioni del plurilinguismo e dell’interculturalità — la
prima è una dimensione geopolitica (es.spostamenti tra vari paesi) ma anche una dimensione
cognitiva (es. sempre più normale che una persona conosca tre o più lingue). L’organo, molto
attivo, che si occupa di tutto questo è il Consiglio d’Europa.

Abbiamo già visto il doppio iceberg riportato in gura. Viene qui ripreso perché ci ricorda che
quando impariamo una lingua L≠1 non lo facciamo mai in modo avulso o indipendente, ma
questo poggia sempre sulla CUP (Common underlying pro ciency, padronanza comune
sottostante) che riguarda una competenza di tipo cognitivo. Questa CUP dipende da una serie di
elementi. Lo rivediamo qui perché è fondamentale per qualsiasi insegnante (che deve avere una
formazione adeguata e aggiornata sui meccanismi di apprendimento delle lingue e sulle esigenze degli
apprendenti, oltre che sapere come valorizzare le lingue storico-naturale incluse nel paese e le pluralità
culturali, non solo linguistiche).

Introduciamo tre parole che ci servono in prospettiva


glottodidattica. Quando parliamo di teoria facciamo
riferimento a tutte le dichiarazioni teoriche, mutuate
da altre discipline (es. sociolinguistica,
psicolinguistica, ecc.). Quando parliamo di
approccio invece siamo dentro la glottodidattica e ci
riferiamo a una loso a di fondo che collega fra di
loro l’idea di lingua, la concezione del ruolo
dell’insegnante e di quello dello studente. In ne, per
metodo intendiamo la progettazione
dell’educazione linguistica (es. de nizione dei livelli,
dell’impianto della veri ca, dell’ordine di
presentazione dei materiali, ecc. — la modalità in cui
si realizza l’approccio).

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Nell’immagine sopra vediamo le relazioni che legano tra di loro le teorie, l’approccio, il metodo e
la tecnica. Le frecce indicano che l’approccio genera il metodo, il metodo genera e si concretizza
nella tecnica, quest’ultima può andare modi care il metodo che a sua volta, dopo essere stato
implementato, può in uenzare l’approccio. I parametri di validazione vanno a determinare se un
approccio è fondato o infondato scienti camente (cioè su teorie esterne all’universo concettuale
della glottodidattica). Parlando di metodo invece, tali parametri possono de nire se esso è
adeguato o inadeguato a realizzare l’approccio e ancora se è coerente o incoerente al suo interno.
La tecnica, a sua volta, può essere adeguata/inadeguata e coerente/incoerente con approccio e
metodo, ma anche e cace o ine cace nel raggiungere gli obiettivi.

Detto questo, come si organizza la glottodidattica? Avevamo accennato che si tratta di una
metadisciplina che ha una dimensione di ricerca e una applicativa. Gli spazi della ricerca
glottodidattica si dividono in uno spazio di ricerca e uno di azione. Quando parliamo di
approccio e metodo stiamo nella dimensione della ricerca glottodidattica: in realtà il metodo funge
da punto di giuntura tra ricerca e azione glottodidattica. Gli ambienti esterni alla glottodidattica
propriamente intesa sono principalmente le teorie di riferimento (mondo delle idee) da un lato e la
metodologia didattica (mondo dell’azione) dall’altro.

Facciamo un ulteriore passo e vediamo ora le variabili dell’agire didattico.

Lo schema modernizzato da Legendre che vediamo sopra cerca di analizzare ciò che accade
all’interno di un contesto di insegnamento linguistico. In tutti i contesti di apprendimento (zona
gialla) troviamo alcuni elementi che interagiscono tra di loro: un sujet (apprendente), un objet
(contenuto da apprendere), un milieu (contesto dell’apprendimento) e un agent (agente
dell’apprendimento). Fra di loro questi elementi si pongono in relazione, soprattutto relazioni di
apprendimento (sujet-objet), di insegnamento (sujet-agent) e di didattica (agent-objet, agent deve
in qualche modo trasformare il contenuto a nché possa essere appreso). Legendre realizza poi
una funzione secondo la quale l’apprendimento che si genera è una funzione di questi elementi.

Un anno più tardi (1989) Germain realizza una trasposizione glottodidattica di questo modello e
crea un disegno in cui troviamo oggetto, soggetto e agente.

Come ultimo passaggio, vediamo la cronologia


degli approcci e dei metodi. Possiamo catalogare
tali approcci a seconda del perno su cui si
concentrano. Ci saranno quindi dei metodi (e poi
degli approcci) centrati sull’apprendente, altri sulla
lingua, altri sul contesto e altri sull’insegnante.
Riguardo l’evoluzione storica dei metodi
glottodidattici, la data di nascita della disciplina
“glottodidattica” a livello internazionale si fa risalire
al 1942 quando viene pubblicato un libro di
Blooming (?) — ciò vuol dire che prima di tale data
si parlava di scienze che si occupavano
dell’insegnamento delle lingue, di pedagogia, di
linguistica etc. Per ripercorrere tale evoluzione
storica adottiamo una legenda e una linea
temporale.

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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
Prima del 1900, grossomodo nel ‘700, vi era un approccio formalistico con il metodo
grammaticale-traduttivo — le lingue servivano per leggere i classici, i saggi, i romanzi in lingua
originale, oppure per le ragazze di buona famiglia per farsi una cultura ed il metodo adoperato si
basava sull’apprendere la grammatica ed esercitare le conoscenze che si acquisivano man mano
attraverso la traduzione (da L1 a LS). Questo approccio formalistico (che poggia sulla forma della
lingua, ha pochissima cultura o valore comunicativo) dà moltissima importanza all’agent, ossia
all’insegnante (“insegnante-sacerdote”). Segue l’approccio naturale, reso attraverso il metodo
diretto (Berlitz), ma non cambia l’importanza riservata agli insegnanti (madrelingua?) dovuta anche
nel fatto che non vi sono dei veri e propri libri di testo. Con la seconda guerra mondiale si fa
avanti un nuovo approccio allo studio della lingua più scienti co, chiamato strutturalismo, a cui
corrisponde il metodo situazionale che vuole inserire lo studente all’interno della situazione
comunicativa (lingua pone l’individuo in relazione con le altre persone). Quest’idea sposta il polo
dall’insegnante alla lingua. Dopodiché troviamo un approccio comunicativo a cui corrisponde il
metodo nozionale-funzionale. Qui l’attenzione non viene concentrata sulla lingua come elemento a
sé stante ma piuttosto alla lingua in quanto capace di trasmettere delle funzioni (es. ordini,
descrizioni, chiedere informazioni etc. — lingua serve a realizzare i bisogni della persona che
parla). In ne troviamo un approccio umanistico-a ettivo, che fa suo l’approccio comunicativo e
che si rende conto che le variabili che entrano in gioco parlando della lingua sono moltissime, e
che bisogna prender in considerazione anche il contesto all’interno del quale la persona impara
(variabili che derivano dall’ambiente di apprendimento) — tra i principali metodi troviamo
suggestopedia, TPR, silent way. Attualmente si parla di approccio integrato, ossia di un approccio
che cerca di fare tesoro delle indicazioni che provengono dagli approcci precedenti e di unire tale
indicazioni dando la giusta importanza alle informazioni che derivano da ciascuno di questi perni.

01/04/2021 (10°)
Oggi ci focalizzeremo sull’evoluzione dei metodi glottodidattici, degli approcci e delle tecniche.

Come avevamo menzionato l’altra volta, il 1942 è un punto di discrimine — si tratta dell’anno
u ciale in cui si fa nascere l’insegnamento linguistico su base scienti ca grazie a “Outline Guide
for the pratical study of foreign languages” di Bloom eld. Prima di questa pubblicazione,
l’insegnamento era considerato pre-scienti co, ossia poggiava più sulle buone pratiche e su
quello che si pensava essere l’apprendimento delle lingue, senza pensare che ci fosse uno studio
scienti co. Andiamo un po’ più in profondità.

Grossomodo nel 1700 si colloca la nascita dell’approccio formalistico o deduttivo; è il momento


in cui il latino cessa di essere una lingua di comunicazione e diventa unicamente una lingua
classica, solo letta e tradotta. Partiamo da qui perché il latino è l’unica lingua per la quale c’è una
tradizione di insegnamento. Nel 1700 nasce l’esigenza di conoscere delle lingue per poterle
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sfruttare nella comunicazione internazionale — tali lingue sono prevalentemente l’italiano e il
francese (diplomazia internazionale). L’unico modo che si conosceva all’epoca per l’insegnamento
delle lingue riguardava difatti il latino, di conseguenza si iniziò ad usare lo stesso sistema adottato
per il latino con le altre lingue. Le teorie (ambito esterno) su cui si appoggia l’approccio
formalistico o deduttivo sono degli studi portati avanti già dal ‘500 dall’Accademia della Crusca,
dalla Port Royal francese etc. riguardo la linguistica descrittiva, per cui un tipo di impostazione
teorica che vedeva la lingua come un insieme di regole che potevano essere descritte attraverso
una grammatica. Dal pov pedagogico, l’educazione era vista come il rispetto delle regole. Ne
deriva un approccio che ha delle caratteristiche de nite — l’approccio linguistico è quello dello
studio del latino (lingua morta su cui esercitare le facoltà intellettiva). All’interno di questa teoria e di
questo approccio, viene adoperato un metodo grammaticale e traduttivo che degli obiettivi
precisi, ossia quelli di leggere e e scrivere, applicare le regole e leggere i classici (priorità alla
scrittura rispetto alla lingua parlata). Le tecniche prioritarie per questa tipologia di metodo sono la
lettura nella lingua target, il dettato, la traduzione (sia da L1 a lingua target che contrario) e la
manipolazione. Riprendendo lo schema della scorsa lezione, vediamo che il milieu dove si
sviluppa questo tipo di approccio è la lectio (la lezione in cui il docente attraverso una modalità
frontale trasmette la lingua allo studente), lo studente è considerato una tabula rasa (non vengono
rilevate le sue conoscenza precedenti, i suoi saperi in ambito linguistico etc — si considera solo
come un contenitore nel quale travasare la lingua, ma soprattutto lo studente è meramente
esecutivo, non partecipativo). L’objet è la lingua, concepita però come un insieme di morfosintassi
+ pronuncia + lista di vocaboli. La cultura che viene trasmessa con questo tipo di approccio è
rigorosamente classica (es. cosa scrive Moliere). Il fulcro di tutto questo lavoro è sicuramente
l’insegnante (agent), considerato come fonte di informazione, modello da seguire, giudice
insindacabile che insegna in L1 condivisa con lo studente. La L1 ha allora un ruolo fondamentale
perché ciò che viene richiesto allo studente non è portare dei signi cati da una lingua all’altra, ma
travasare delle frasi in modo meccanico. Molto spesso in questo approccio l’insegnante stesso
non sa parlare la lingua target — sa fare traduzione ed esercizi, ma non è detto che sappia
esprimersi in LS. […]

L’approccio deduttivo domina la scena no alla ne dell’800. Agli inizi del ‘900, nella scena
internazionale, accadono moltissimi eventi (guerre, movimenti, migranti!!) — abbiamo delle lingue,
ad esempio negli USA e in Germania, che non servono più per fare trattati scritti, scambi,
studiare la letteratura ma piuttosto lingue che servono per comunicare. La gente ha bisogno di
imparare la lingua per poter sopravvivere, cambiano quindi le esigenze delle persone. Si sviluppa
un nuovo approccio che si basa su teorie di erenti dalle precedenti. Ci troviamo in un epoca
precedente al 1942 in cui più che vere e proprie teorie, risaltano alcuni studi di fonetica (Viëtor)
che orientano rispetto ad un’anticipazione dell’orale rispetto allo scritto. Altri studi, di Jespersen e
Palmer, portano a pratiche di tipo attivo nei confronti della lingua. Tuttavia, non si ha ancora una
vera teoria su cui si appoggia questo nuovo approccio. L’approccio naturale si caratterizza per il
fatto che pone al centro della sua teoria l’idea che le lingue che vengono insegnate devono essere
vive e parlate (spagnolo, inglese, francese non deve essere trovato nei libri ma “per strada”). Inoltre
viene data la priorità all’oralità e solo in un secondo momento alla scrittura. Ci si avvicina ad
un’ottica di personalizzazione (non tutti hanno bisogno della lingua per la stessa nalità) e nasce
l’idea della induzione — deduzione e induzione in glottodidattica sono contrari; la prima signi ca
passare dalla regola ala sua applicazione, la seconda si basa sul ricavare le regole di
funzionamento dalla lingua dall’osservazione e dall’uso della lingua stessa. Il metodo più famoso
che poggia sull’approccio naturale è il metodo Berlitz. Egli crea un metodo che si de nisce per
“immersione” (le persone imparano bene una lingua se vi vengono immerse). L’obiettivo principale
è quello di imparare a esprimere concetti direttamente in LS, senza la mediazione della L1. Le
principali tecniche adoperate sono gesti, immagini, drammatizzazioni per comprendere l’input
(imitazione —mim-mem approach), un largo uso di materiali autentici (no letteratura, sì
quotidianità) e lettura sfruttata per un ne solo estetico (gusto di leggere in lingua straniera). […]
Con l’avvento del fascismo e del nazismo le scuole adottanti il metodo Berlitz non hanno potuto
sopravvivere, l’insegnamento delle lingue è seriamente compromesso, e tali scuole vengono viste
particolarmente male perché non adoperano libri di testo ma si basano sull’insegnamento da
parte di un madrelingua. L’organizzazione di tale approccio è molto signi cativa — il tipo di milieu
è diverso perché si tratta di una “scoperta” della lingua, lo studente ha un ruolo centrale in questo
approccio perché è attivo, molto sollecitato e motivato, ed è considerato un esploratore perché
deve scoprire la lingua proposta dall’insegnante. L’object vede la lingua come un oggetto da
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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
esplorare in maniera deduttiva e la cultura è considerata qualcosa di aneddotico perché viene
raccontata dal docente o attraverso delle letture (con tutti i limiti che ciò implica). L’insegnante,
fulcro di questo approccio, è rigorosamente un madrelingua di tale LS /L2 ed il suo ruolo è quello
di dare degli stimoli in questa nuova lingua e dare un feedback allo studente che prova ad usarla
(“allenatore”). […] L’approccio naturalistico è un approccio molto interessante che ha però una
serie di limiti: da un lato sviluppa solo un certo tipo di abilità (prevalentemente orali), dall’altro è
molto esigente dal pov degli insegnanti. Prende piede negli USA perché dispongono di una
ricchezza — una forte immigrazione ebrea consistente e molto istruita. Gli anni che precedono la
Seconda Guerra Mondiale vedono una progressiva chiusura verso l’insegnamento linguistico e
allo stesso tempo un a narsi degli studi prettamente linguistici. Nel 1941 gli USA entrano in
guerra e questo fa sì che si attui una politica di isolazionismo che impedisce agli USA di avere
accesso alle lingue vive e ai loro parlanti. Allo stesso tempo, però, gli USA hanno la necessità di
mantenere l’insegnamento / uso di queste lingue. Devono quindi mettere in piedi un modello di
insegnamento linguistico che li renda competitivi a livello internazionale — fondamentalmente
devono imparare le lingue sia degli alleati che dei nemici, sfruttando a loro vantaggio gli studi
compiuti in quegli anni. Inoltre, negli stessi anni si di ondono il giradischi (campioni di lingua incisi
sui dischi che possono essere sfruttati per l’insegnamento, primo volta che abbiamo campione di
lingua che non proviene dall’insegnante ma da un altro tipo di supporto) e l’immigrazione (immigrati
portatori di LS che se adeguatamente istruite possono diventare insegnanti in questi corsi di lingua).

Le teorie a cui fa riferimento il nuovo approccio, detto strutturalistico, dal pov psicologico in
senso lato, sono quelle del (neo)behaviorismo di Pavlov e Skinner (si riescono a creare delle
abitudini nelle persone sottoponendole a degli stimoli che prevedano una risposta, la quale viene
corretta attraverso un rinforzo che può essere positivo o negativo). Altri importanti studi da ricordare
solo quelli della linguistica tassonomica di Bloom eld (categorizza la lingua in una serie di categorie,
e che permette di fare della lingue delle tessere di puzzle che posso essere combinate tra di loro) e la
linguistica contrastiva di Lado (lingue che possono essere studiate in opposizione, mettendo a
confronto i sistemi linguistici delle due lingue — es. le di coltà dell’inglese per un italofono). Si tratta
di un tipo di orientamento molto scienti co, quasi di vivisezione della lingua e del comportamento.
Il neobehaviorismo e la linguistica tassonomica si sposano perfettamente perché da un lato
abbiamo lo stimolo risposta-rinforzo che prevede delle sollecitazioni all’apprendente, dall’altro
troviamo la lingua scomposta in piccoli pezzi che può entrare nel gioco di stimolazione-risposta.
L’approccio strutturalistico considera che l’apprendimento delle lingue sia fondamentalmente un
allenamento e che quindi la lingua sia formata da una serie di strutture che devono essere
metabolizzate attraverso l’imitazione. I metodi che nascono da questo approccio strutturalistico
sono vari e mettono in luce per la prima volta il forte legame tra lingua e civiltà (vedi army
specialize training program). Inoltre, sviluppa dei modelli operativi — è la prima volta che si dice
“una lezione deve essere sviluppata in questi modo..” e che vengano de niti dei pacchetti di
come si deve insegnare una lingua. Ovviamente si insiste molto sull’uso e sull’insegnamento della
lingua viva; gli obiettivi riguardano principalmente la comunicazione orale. Le tecniche più
utilizzate si chiamano pattern drills (sequenza stimolo-risposta, es. trasforma al plurale, volgi al
passato, volgi al passivo, rispondi come nel modello etc). Skinner stesso a erma che “learning is
overlearning” — l’apprendimento è solo iperapprendimento, questo è l’unico modo in cui si
impara. […] L’ambiente in cui si sviluppa l’approccio strutturalistico è una situazione di training o
addestramento. Lo studente ha un ruolo passivo, deve sviluppare delle risposte corrette rispetto a
degli stimoli ben precisi a l*i forniti (ruolo passivo-meccanico). Il fulcro di questo metodo è
sicuramente la lingua, analizzata come mai prima (troviamo la scienti cità dell’analisi della lingua).
Essa è considerata un insieme di strutture minime a cui si aggiunge un insieme di regole (il limite è
che a livello di testo non si può pensare così). La civiltà è considerata il contesto della lingua.
L’agent, l’insegnante, è un modello linguistico da imitare, fornisce gli stimoli, dà il feedback e le
nozioni di cultura. Per la prima volta, con l’army specialize training program, si ha un insegnate
senior americano che parla la L1 degli apprendenti ed un informant (madrelingua della LS), e
spesso anche un esperto di cultura e civiltà — si comincia a rendersi conto della speci cità della
preparazione dell’insegnante. Verso la ne dello sviluppo di questo metodo si forma il metodo
situazionale, che funga da punto di passaggio con il metodo successivo. Alle caratteristiche del
metodo strutturalistico si aggiunge la speci cità della situazione comunicativa — la lingua non è
più insegnata a partire dalla struttura linguistica (es. verbo avere, struttura passiva) ma a partire da
un contesto comunicativo. […]

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L’approccio comunicativo arriva dopo la 2WW, momento di stallo in Europa riguardo
l’apprendimento delle lingue (luogo di imperialismi, regimi dittatoriali, lingue viste come negative
perché il regime non può controllare ciò che viene detto etc.). Negli anni ’60-’80 grazie soprattutto
all’impulso dato dal Consiglio d’Europa prende il via un approccio importante che
contraddistingue tutta l’ultima parte del XX secolo — l’approccio comunicativo. Prende le mosse
in Inghilterra con Wikins (?) e poi si espande nel resto del mondo, si può ritenere una vera e
propria evoluzione metodologica (Noam Chomsky). Le esigenze di dover rinnovare
l’insegnamento linguistico nascono dal fatto che la nascita del consiglio d’Europa (con nalità
paci sta) e dell’Unione Europea (con priorità di carattere economico) fa sì che si sostengano il
plurilinguismo e la mobilità. Nascono anche i “livelli soglia”, vale a dire che si determina lo sforzo
tra i vari paesi che aderiscono al consiglio d’Europa a stabilire quali devono essere le conoscenze
comunicative minime che le persone (che vogliono spostarsi all’interno dell’UE) devono poter
possedere per poter sopravvivere in un altro paese, integrarsi e lavorare. Questo livello soglia
diventerà poi il B1 del quadro comune europeo. […] La rivoluzione dell’apprendimento linguistico
determinata da Chomsky avviene grazie all’introduzione della L.A.D. (language acquisition device)
— ognuno di noi possiede questa LAD ed in base ad essa elabora l’input linguistico proveniente
dall’esterno. Le teorie linguistiche su cui basa l’approccio comunicativo sono chiaramente il
cognitivismo di Chomsky, una concezione pedagogica di apprendimento che prevede un ruolo
molto più attivo da parte del soggetto che apprende — la mente di chi apprende seleziona l’input
che arriva dall’esterno, lo elabora e gli attribuisce un signi cato e fa questo in base a ciò che ha
già all’interno della propria mente. Inoltre, sempre negli anni ’60-’70, Jacobson e Halliday
elaborano il concetto di funzioni comunicative — usiamo la lingua sempre e comunque per
realizzare degli scopi, classi cati in 6 (per Jacobson) o 7 (per Halliday) funzioni comunicative
precise. Traendo le implicazioni di queste teorie si elabora l’approccio di tipo comunicativo, che si
basa sul fatto che esistono delle funzioni comunicative universali (tutte le lingue del mondo hanno,
ad esempio, la funzione interpersonale o regolativa-funzionale etc — esponenti diversi nelle varie
lingue che realizzano le stesse funzioni). Viene poi introdotto il concetto di “nozione” linguistica
(concetto linguistico, la lingua si sviluppa attorno a dei concetti come colori, quantità, tempo, azione
che poi ricevono delle manifestazioni diverse in ciascuna lingua). In ne, i contenuti vengono
organizzati in base al bisogno degli apprendenti — non può esistere un unico metodo valido per
tutti. Il metodo più famoso che realizza questo approccio prende il nome di metodo nozionale-
funzionale. I cardini sono l’elaborazione del modello operativo dell’unità didattica, rigorosamente
procedualizzata (?); la cultura, che riveste un ruolo centrale; l’insegnamento della grammatica e
della regolarità linguistica esclusivamente attraverso una modalità di tipo induttivo grazie a dei
materiali autentici. L’obiettivo fondamentale è di raggiungere una competenza comunicativa piena,
ossia che non abbia solamente una parte linguistica ma che contempli anche una parte non
verbale, una che riguardi la dimensione sociopragmatica etc (in questo caso si fa riferimento al
modello di Hymer, che studia l’atto comunicativo nel relazionarsi all’interno di vari contesti).

Le tecniche che vengono utilizzate si moltiplicano: tra le principali troviamo simulazioni e role-play,
i compiti autentici, gli esercizi di coppia o di gruppo, ma soprattuto nessun dettato e nessuna
traduzione (contemplata successivamente dal quadro della comunità europea solo a partire dal livello
B2). […] Nell’approccio comunicativo, di conseguenza, vi è un ruolo molto attivo dello studente
che diventa il fulcro di questo modo di fare lezione (è difatti il centro della programmazione). Il
milieu è la forte interazione fra gli attori. L’object è la lingua, vista però come strumento di
comunicazione e azione sociale, nel quale viene stabilito il “livello soglia”. L’agent ha
fondamentalmente il ruolo di guida e tutor per accompagnare lo studente in questo percorso di
apprendimento della LS. […]

L’approccio umanistico-a ettivo si colloca negli anni ’90, prima negli USA e poi in EU. Prende
tale nome perché si colloca nell’era dell’umanesimo psicologico, in un periodo in cui viene data
moltissima importanza alla sfera interiore della persona (a etti, aspetto emotivo… > negli stessi anni
si dà molta importanza all’empatia, all ostile di apprendimento etc). Krashen critica in certa misura il
sistema di Chomsky e sostiene che sia possibile che una persona impari una lingua solamente se
c’è qualcuno che la sostiene questa acquisizione, se vi è un input modi cato, se alla persona
viene proposto un I+1 (input leggermente al di sopra del livello dell’apprendente in modo tale da
sviluppare la sua conoscenza). In questo periodo, quindi, entra in crisi l’idea che esista un
meccanismo prede nito per l’apprendimento delle lingue e prende piede l’idea che tale macchina
possa funzionare solo se c’è un contesto sociale o un ambiente favorevole che ci sostiene
nell’apprendimento delle lingue. Difatti, nel solco del costruttivismo (Piaget, Vygotskij, Bruner)
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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
troviamo l’idea che l’apprendimento è un costrutto mentale soggettivo — ognuno di noi sviluppa
un proprio tipo di apprendimento. L’approccio che si sviluppa a partire da questa teoria prevede
che venga messa al centro la soggettività dello studente (esigenze personali). La comunicazione è
vista ancora di più come un mettersi in relazione con gli altri — emerge difatti questa esigenza.
Secondo Krashen, è molto importante rispettare l’ordine naturale di acquisizione (sono di questi
anni gli studi di linguistica acquisizionale). Si sviluppano i cosiddetti “metodi psicologici” quali la
Suggestopedia, il Silent Way e in minor misura anche il TPR — tutti metodi che si basano sul
coinvolgimento del corpo. Gli obiettivi sono di sviluppare una forte comunicazione verbale e non,
e di puntare molto all’autonomia dell’apprendente. Le tecniche associate a questo approccio
sono principalmente la drammatizzazione, la conversazione, la musicoterapia, i regoli colorati, le
tecnologie ed il gioco (didattica ludica). L’ambiente è quello di una costante interazione fra gli
studenti, che non deve essere forzata. Lo studente è il fulcro, è uno studente motivato e stimolato
dall’insegnante, molto autonomo. L’object è una lingua visto come strumento di comunicazione e
di azione sociale, mentre la cultura è vista come intercultura, come scambio, come messa in
relazione con le altre culture. Cambia molto il ruolo dell’agent — l’insegnante diventa il regista dei
omenti dell’apprendimento, un consulente, in parte uno psicologo, motiva e crea un ambiente
rilassato. […]

Per ultimo, vediamo l’approccio integrato. Più che di un approccio veramente in uso possiamo
parlare di tendenze attuali della glottodidattica. Questo approccio è una maturazione ragionata —
chiamato anche evidence-based, quest’approccio è basato sull’evidenza. É caratterizzato da un
importante potere del mercato editoriale (circolo vizioso) e dalla globalizzazione. Dal pov teorico ci
si rende conto che l’umanistico-a ettivo è e cace ma non sempre realizzabile, oltre che del
valore della metacognizione (far ri ettere l’apprendete su ciò che sta apprendendo). Per cui viene
dato un valore marcato alle strategie. Gli approcci che lavorano in questo contesto sono vari:
CLIL, intercomprensione, glottodidattica di Arlecchino, Project Work, cooperative learning,
l’autonomia — accomunati tutti dal fatto che si tendono ad integrare le indicazione metodologiche
provenienti da diversi ambiti, viene data sempre maggiore importanza l’insegnamento del lessico
e si riconosce il ruolo di supporto della grammatica; in ne si tende a tornare ad un percorso
esplicito di ri essione grammaticale che parte dall’induzione, per poi esplicitare la regola
grammaticale. Le tecniche adoperate sono varie. Generalmente l’insegnate sceglie quelle
funzionali agli obiettivi didattici, le più idonee, e si aggiungono delle tecniche metastrategiche per
imparare ad imparare. […]

Riassumendo brevemente:

- approccio formalistico o deduttivo —> vale più la grammatica che la pratica

- approccio naturale —> vale più la pratica che la grammatica

- approccio strutturalistico —> language learning is over learning

- approccio comunicativo —>1° comandamento: comunica!

- approccio umanistico-a ettivo —> soprattutto l’apprendente

- approccio integrato —> alla ricerca dell’equilibrio

08/04/2021 (11°)
Gli argomenti che tratteremo nella lezione di oggi sono i seguenti: educazione linguistica, curricolo
e mete educative, competenza comunicativa ed in ne procedure didattiche.

La cornice all’interno della quale ci muoviamo prende il nome di educazione linguistica.


Abbiamo dato un breve cenno al signi cato di educazione linguistica già parlando di
glottodidattica, ora contestualizziamo meglio questo termine in Italia e diamo una cornice precisa
di riferimento. Per farlo prendiamo in considerazione un periodo particolare, gli anni ’60 (nascita
della scuola media uni cata). Nel 1970 viene pubblicato il primo volume che si occupa in maniera
scienti ca della didattica delle lingue straniere (“Metodologia e didattica delle lingue straniere” di
Giovanni Freddi) — vuol dire che no a quel momento non esisteva una vera e propria
metodologia di insegnamento delle lingue. Nel 1971 si trova la prima cattedra di Didattica delle
lingua moderna in Italia (G.Freddi, Ca’ Foscari). Si a erma in questo modo la glottodidattica, ossia
la disciplina attraverso la quale si mette in regola l’educazione linguistica.

Negli anni ’70 abbiamo lo sviluppo dell’educazione linguistica. Più nel dettaglio, nel 1975 si
pubblicano le 10 tesi del GISCEL per l’educazione linguistica democratica. Esse ampliano il
bacino di riferimento della glottodidattica e aggiungono una forte attenzione per la lingua materna.
Il GISCEL sostiene che non sia necessario livellare o annullare l’identità delle persone per far
imparare un italiano neutro, ma al contrario bisogna partire dalle ricchezze e diversità delle
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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
persone (date anche dalle origini dialettali) per arrivare alla linea materna (persone sono portatrici di
ricchezze sulle quali costruire, non tabula rase). Si arriva a de nire quindi la glottodidattica come la
metodologia dell’educazione linguistica e l’educazione linguistica come una parte dell’educazione
generale che riguarda le lingue naturali (moderne, classiche, nazionali ed estere).

La caratteristica più strettamente italiana della glottodidattica è il fatto che ci sia sempre stato un
fortissimo legame tra l’insegnamento della lingua e delle rispettiva culture, che si sia lavorato
molto per sviluppare dei modelli operativi (oggi detti procedure didattiche; organizzazione del
materiale didattico e modi di fare lezione che potessero essere condivisibili e spendibili), ed in ne
un’importante attenzione al plurilinguismo (in Italia soprattuto di tipo interno).

Esploriamo ora il curricolo, il primo dei modelli operativi che prendiamo in considerazione,
mettendolo in relazione con le mete educative. Nel modulo precedente abbiamo parlato del
curricolo considerandolo una variabile esterna. La de nizione che adoperiamo di curricolo è la
seguente: «[Il curricolo presenta un] piano di lavoro proiettato di norma su un intero ciclo
scolastico.* Esso de nisce le mete e gli obiettivi ( nali e intermedi) da raggiungere in rapporto al
contesto sociale e alle caratteristiche degli apprendenti, indica i materiali, i sussidi e le tecniche di
lavoro da mettere in gioco, descrive le forme di accertamento e di valutazione».
*periodo di tempo che copre più di un anno scolastico, es. biennio / triennio etc.

Il curricolo è fondamentalmente la descrizione più completa che possiamo avere di un progetto di


educazione linguistica. Il curricolo deve tenere in considerazione il contesto sociale all’interno del
quale gli apprendenti si trovano. Parlando di contesto sociale dobbiamo tenere presente quale
politica linguistica viene attuata — l’insegnamento delle lingue è sempre strettamente legato agli
obiettivi politici-economici che un determinato paese vuole conseguire. Nel nostro caso, in Italia,
quando si tratta di de nire un curricolo dobbiamo prendere in considerazione le linee guida del
Consiglio d’Europa (massima autorità) e le indicazione nazionali provenienti dal ministero
dell’istruzione. Tuttavia, è necessario tenere in considerazione anche il contesto scolastico e la
politica scolastica messa in atto all’interno della scuola. Il curricolo dovrà basarsi quindi sulle
lingue previste dalla scuola, sul background linguistico degli studenti e delle famiglie, e sulla
formazione dell’insegnante. In poche parole, il passaggio più importante da fare prima di stilare un
curricolo è sicuramente una profonda analisi del contesto all’interno del quale si va ad adoperare.

Altro elemento da de nire prima di stilare un curricolo è capire a chi ci stiamo rivolgendo — è
altrettanto importante conoscere gli studenti con cui si lavorerà, facendo quindi una debita analisi
dei bisogni. Questa riguarderà i bisogni linguistici, il livello, l’età, la motivazione, gli stili di
apprendimento, le conoscenze pregresse etc. degli studenti. Chiaramente però è altrettanto
importante la gura dell’insegnante e nel momento in cui si programma un curricolo è necessario
pensare che per a rontarlo e portarlo avanti è fondamentale che l’insegnante sia dotato di una
formazione iniziale e di una formazione continua (grossa di erenza tra insegnare una lingua e
fare educazione linguistica aka sviluppare in pieno tutte le risorse linguistiche di una persona,
richiede un passo in più).

Detto questo, normalmente il curricolo deve


prevedere le mete educative (il “cosa”).

Le tre principali mete educative “generali” previste


dal curricoli della scuola italiana sono la
culturizzazione, la socializzazione e
l’autopromozione (realizzare i propri obiettivi di
vita). Vi sono poi tre mete speci che della
glottodidattica, ossia il sapere la lingua e i linguaggi
non-verbali, il saper fare lingua e il saper fare con la
lingua e i linguaggi non verbali. Tutto questo
signi ca sviluppare la competenza comunicativa e
glottomatetica (capacità di imparare lingua) negli
studenti.

Vediamo ora nello speci co cosa si intende per competenza comunicativa, lasciando il
linguaggio comune ed addentrandoci in una de nizione più tecnica e specialistica. Dobbiamo
quindi scegliere una delle molteplici de nizioni di competenza comunicativa, prendiamo in
considerazione quella di Balboni. Secondo Balboni, la nostra competenza comunicativa è data da
questo grande rettangolo ed ha due grandi aspetti principali — un aspetto è quello che
percepiamo dall’esterno (che coincide con il sapere fare mediante la lingua, e che si conosce
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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
anche come performance/prestazione) ossia quella capacità di agire socialmente con la lingua (atti
linguistici, testi orali e scritti); un altro aspetto rimane dentro la mente del parlante, non è visibile
ma è ovviamente il motore di tale performance. Questa parte “nascosta” viene denominata da
Balboni come “sapere la lingua” all’interno della mente. Essa è formata da una serie di
competenza, così suddivise:

- competenza linguistica => avere sottocompetenza grafemica, fonologica, morfosintattica,


lessicale, testuale (conoscere la lingua in tutti i suoi aspetti); per lungo tempo si è ritenuta
questo tipo di competenza come unica competenza linguistica

- competenza extra-linguistica => cinesica (movimento, signi cato dei gesti), prossemica
(valore che si dà alla distanza fra le persone), oggettemica (valore dato agli oggetti), vestemica
(signi cato attribuito agli abiti) — rientra in questo ambito anche la competenza olfattiva
(“odore”/“profumo” a seconda della cultura) o anche quella cronemica (che ha a che fare con il
tempo)

- competenze socio-pragmatiche e interculturali => legate al contesto (mi metto in relazione


con altra cultura e questo fa sorgere necessità diverse)

Negli approcci già menzionati la scorsa lezione, gli ultimi due ambiti di competenza qui visti sono
stati presi in considerazione solo dal secondo dopoguerra in poi (approccio comunicativo). Tutto
ciò che sta all’interno della mente deve trovare un modo per relazionarsi con l’esterno: com’è
possibile? cosa deve padroneggiare una persona per far sì che ciò che sta dentro la sua testa
possa diventare una performance e cace? Dallo schema vediamo sottolineata l’importanza delle
abilità linguistiche, ossia le capacità di fare lingua (es. mettere insieme suoni, morfosintassi,
gestione livelli di formalità, gra a etc. per padroneggiare la lingua).

Veniamo ora al nostro “come”, ossia i meccanismi che ci permettono di operare questo tipo di
trasformazione. Parliamo di procedure. La tradizione pedagogica ci ha tramandato procedure di
diverso tipo. La prima che viene presa in considerazione è quella del modello socratico, chiamata
conversazione maieutica, in cui troviamo un allievo/piccolo gruppo, un insegnante e un oggetto
di studio. Si tratta però di un contesto che, purtroppo, al giorno d’oggi si può realizzare solo in
alcune scuole di dottorato. Altra procedura è quella della lectio, dove l’idea è quella
dell’insegnante come detentore del sapere ed unico che entra in contatto con l’oggetto,
trasmesso all’allievo. É un modello di trasmissione che può andare bene per alcuni contenuti, ma
che per le lingue non è e cace (lingue necessitano pratica). Le procedure che vengono ritenute
più e caci in merito alle lingue e promosse dalla glottodidattica sono quelle chiamate learner
centred. Si tratta di procedure che mettono l’allievo al centro, l’insegnante in scambio con
l’allievo, ma quest’ultimo ha uno scambio costante anche con l’oggetto. Inoltre entra in gioco
anche l’ambiente all’interno del quale si apprende.

La procedura didattica di livello più alto viene chiamato modulo, un contenitore all’interno del
quale si organizzano più unità didattiche, ognuna delle quali è a sua volta organizzata in più
unità di acquisizione (oppure di apprendimento). Analizziamo queste tre procedure.

Innanzitutto il concetto di learner centred nasce dagli studi di neurolinguistica condotti negli anni
’60-’70. Uno degli studi che è stato più proli co per la glottodidattica ha attribuito agli emisferi del
cervello delle caratteristiche diverse — l’emisfero destro, nell’elaborazione degli segnali che
provengono dal mondo esterno, avrebbe delle caratteristiche olistiche-intuitivo, sarebbe
maggiormente coinvolto nelle perfezionali sensoriali, mentre invece l’emisfero sinistro sarebbe
maggiormente coinvolto nei processi di tipo analitico, logico, legati alle scansioni temporali e alle
conoscenze astratte. Tale studio di neurolinguistica, che prende il nome di bitonalità, si trova alla
base del modello gestaltico della percezione. Al giorno d’oggi questo studio è stato superato, si
parla di un coinvolgimento pressoché equo dei due emisferi nell’acquisizione linguistica, ma è
stato fondamentale per il tempo. Secondo questo modello gestaltico, ogni volta che entriamo in
contatto con qualche stimolo nuovo vi è prima una percezione globale, poi viene realizzata
un’analisi ed in ne una sintesi. Il nostro cervello posiziona la sintesi di tale stimolo in un
determinato luogo a contatto con le altre conoscenze che già possediamo. Capiamo quindi che il
processo di globalità è trattato dall’emisfero destro mentre invece il processo di analisi
dall’emisfero sinistro. Entra qui in gioco il principio della direzionali, secondo il quale i nostri
emisferi si attiva proprio un quest’ordine, da destro a sinistra — ogni volta che impariamo
qualcosa procediamo dal globale all’analitico, dal visivo al linguistico e dall’emozionale al
razionale. Sostiene Freddi che per ottimizzare lo studio da parte dello studente sia necessario
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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
seguire il modo naturale di imparare: proporre allo studente una concezione globale, poi un’analisi
e guidarlo verso la sintesi.

Entra a questo punto in gioco la molecola matetica, ossia l’unità di acquisizione. Tutte le volte che
una persona impara un elemento linguistico viene esposta ad un input linguistico che ha natura
varia ma che si può riunire in un gruppo di attività globali di esplorazione del contesto (es. ipotesi
sui signi cato globale, ricerca di elementi speci ci etc.). Dopodiché la fase di analisi viene detta
“intake” e si realizza sulla base dei vari aspetti della competenza comunicativa che abbiamo visto
prima (atti comunicativi, aspetti linguistici, linguaggi non verbali, aspetti socioculturali) — si lavora
qui in maniera induttiva, facendo veri care le ipotesi formate in precedenza e analizzando i
meccanismi di funzionamento delle varie grammatiche. In ne, la fase di sintesi può coincidere con
una prima sintesi spontanea da parte dello studente seguita da una ri essione guidata con
l’insegnante per formalizzare ciò che è stato scoperto attraverso, per esempio, mappe mentali, o
“regole”, o schemi di riferimento da completare.

L’unità didattica, ossia l’unità vera e propria di lavoro dell’insegnante, si articola in più lezioni e
normalmente ogni unità didattica copre un’area tematica. Come si organizza?

Vi è una fase iniziale di introduzione con relativa motivazione iniziale, una fase di lavoro dell’input
(rete di unità di apprendimento), dopodiché vi sarà la fase conclusiva di controllo (nella quale si
veri cherà l’acquisizione dell’unità didattica) o si procederà ad un rinforzo o un eventuale
recupero. Aggiungiamo a questo punto che il modulo è un’entità sovraordinata rispetto all’unità
didattica, ed è stata introdotta recentemente dal momento che vi è la necessità di veri care le
competenze. Il modulo è una porzione del corpus di contenuti di un curricolo ed è valido per le
discipline “segmentatili” (storia, letteratura, geogra a etc); è meno valido per l’apprendimento
linguistico che è a spirale, non a sequenza. […]

[vedi esempi su PPT]

09/04/2021 (12°)
Nelle prossime lezioni smonteremo la competenza linguistica per capire come la possiamo
rendere disponibile ed accessibile agli studenti. Ci so ermiamo oggi sull’insegnamento della
fonetica e della fonologia. […] Vediamo una tabella di ripasso e facciamo un paio di sondaggi
riferiti alla scuola d’obbligo in
Italia. […]

La didattica italiana in merito a


fonetica e fonologia è sempre
stata minima legata alla L1 (per
non dire assente), mentre la
didattica nella pronuncia delle
LS è stata nora caratterizzata
da interventi sporadici. Da un
lato questo perché si è sempre
data maggiore importanza allo
scritto e anche perché la
didattica delle lingue per molto
tempo stata improntata sulla
didattica delle lingue classiche
(dove il massimo che si
riportava era qualche regola di
lettura). La seconda ragione è
che l’Italia è stata caratterizzata
per moltissimi anni da una
diglossia molto forte, ossia da
un diverso utilizzo della lingua
per cui il dialetto era adoperato
per la comunicazione orale mentre l’italiano per lo scritto.

L’italiano era la lingua di prestigio da utilizzare nelle comunicazioni u ciali, mentre il dialetto era
da usare nelle forme colloquiali o situazioni di basso prestigio. Nella scuola era insegnato
esclusivamente l’italiano scritto, nessuna attenzione veniva riservata alla pronuncia dell’italiano
orale se non per stigmatizzare. Altra importante ragione è il fatto che per molti anni nelle università
italiane c’è stato uno studio prettamente letterario delle L≠1, lo studio delle lingue era orientato a
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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
diventare dei letterati, la conoscenza della comunicazione viva era di minore importanza rispetto
ad altri elementi della competenza comunicativa. Il problema principale derivante dalla scarsa
competenza fonologica e fonetica è che si possono generare, rispettivamente, delle devianze
fonologiche e delle devianze fonetiche, cioè delle di erenze rispetto ad una norma standard.

Per quanto riguarda l’italiano, una devianza fonologica signi ca creare degli equivoci (pronunciare
parole in modo che interlocutore non le capisca o le capisca in maniera sbagliata, es. venti). Invece la
devianza fonetica non provoca problemi di comprensione, ma piuttosto di coltà di valutazione di
ordine socioculturale e di identità (es. pronuncia & appartenenza culturale; tre, re — vocali aperte o
chiuse). É importante comprendere le pronunce e pronunciare con precisione sia nella L1 sia nelle
L≠1 innanzitutto per scambiare messaggi che siano chiari ed e caci. Il fatto di essere padroni
della fonologia e della fonetica di una lingua ci permette di comunicare con maggiore sicurezza e
scioltezza (=> autoe cacia!!); inoltre, la pronuncia e la consapevolezza fonologica, sono la base
per la decodi ca orale e scritta (se non comprendo con chiarezza faccio fatica a leggere). Per
ultimo, una buona comprensione della pronuncia aiuta a sviluppare le abilità meta-fonologiche (es.
saper dividere in sillabe, saper togliere/sostituire fonemi etc.) — elementi fondamentali per
acquisire una competenza di lettura adeguata alla scolarizzazione.

Partiamo però dalla didattica fonetico-fonologica della L1. Perché è così importante?

Sicuramente non perché tutti devono parlare con una pronuncia perfettamente standardizzata.
L’italiano neostandard è infatti una lingua arti ciale che imparano solo i professionisti, ma
fondamentalmente è una lingua che non esiste e non è funzionale nella comunicazione
quotidiana. É però importante che tutti prendano consapevolezza delle distanza tra la propria
pronuncia regionale e quella standard in modo da capire come veniamo percepiti, e soprattutto è
importante giungere ad un grado di consapevolezza per i quale un parlante nativo possa scegliere
quale varietà usare in base al contesto in cui si trova.

Le criticità di tale didattica fonetico-fonologica della L1 sono diverse. Come dicevamo prima, in
Italia vi è una forte diglossia già da secoli, nella quale l’italiano ha funzioni colte ed è la lingua alta
mentre il dialetto ha funzioni comunicative ed è la lingua bassa. Con il progredire della
scolarizzazione si è sostituita alla diglossia quella che Berruto chiama “dilalia”, un a ancamento
dei due codici comunicativi per cui abbiamo l’italiano con funzioni colte e un alternare di italiano e
dialetti per le funzioni comunicative quotidiane, a seconda del contesto in cui le persone si
trovano. Nascono però anche delle ibridazioni, ossia vari italiani regionali — ognuno di questi può
essere de nito come una lingua che ha la struttura morfosintattica dell’italiano, ma un lessico
alcuni tratti fonetico-fonologici presi in prestito dai dialetti. La criticità non è nella dilalia, ma
piuttosto nell’usare l’italiano regionale con la convinzione che sia un italiano comprensibile in tutta
Italia. La scuola, su questo fronte, si è limitata ad un intervento blando, stigmatizzando alcuni tratti
fonetici, ma manca comunque una ri essione più ampia. Oltre alla tendenza ad ignorare l’italiano
standard, ci sono poi una serie di spinte sociolinguistiche che portano ad adottare dei
comportamenti devianti che complicano ulteriormente la comunicazione. Alcune di queste
derivano dal prestigio celato che hanno alcune varietà / varianti di lingua in un certo gruppo
sociale (ruolo del giudizio dei pari); in altri casi ci può essere un ipercorrettismo oppure un
condizionamento del sistema gra co sulla pronuncia. […]

Facciamo ora un salto verso le lingue straniere. La didattica fonetico-fonologica della L≠1
all’interno della situazione italiana si caratterizza nuovamente da macchie di leopardo, in cui
generalmente non viene dedicato molto spazio all’insegnamento della pronuncia. Partiamo da una
premessa: insegnare la fonologia è necessario perché l’apprendente deve essere in grado di
esplicitare il nesso tra la gra a e la fonetica, e anche perché deve istruirsi ex-novo in abitudini
fonetiche. Questo passaggio, carente nella scuola italiana, ha dato come esito una pronuncia
altrettanto carente nelle L≠1. Ovviamente, questo ci porta a numerose incomprensioni con i
parlanti madrelingua. Fatichiamo a farci capire e a capire cosa ci viene detto.

Le criticità che possono emergere se non viene curato questo passaggio sono numerose.

Innanzitutto, si possono veri care dei transfer fonetici-fonologici dalla L1 (es. usiamo i suoni della
L1 per parlare in L≠1). Altro problema dipende dalle di erenze tra i sistemi fonologici delle lingue
— esse non si di erenziano solo per avere dei suoni diversi, ma anche dal fatto di avere lingue
isosillabiche/isoaccentuali oppure si di erenziano fra di loro per la lunghezza di consonanti e
vocali. Altro problema, soprattutto per gli italiani, è che l’italiano regionale può in uire sulla
pronuncia della lingua straniera (persona non ne ha la percezione nella L1 e la ripropone senza
accorgersene nella L≠1). Ulteriore criticità riguarda la pronuncia italianizzata, che è diventata ormai
una sub-norma italiana — ci siamo talmente abituati al fatto che certe parole inglesi vengano
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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
pronunciate in un certo modo in italiano che chi le pronuncia in modo corretto è considerato
“snob” o non viene capito. L’ultima delle criticità è un’in uenza contraria, ossia il fatto che per
condizionamento dell’inglese realizziamo una pronuncia “inglese” di parole che non lo sono.
Vediamo un piccolo a ondo sul fatto che ci sono delle variabili che a livello sillabico distinguono
fra di loro le diverse lingue, le quali infatti danno un diverso ruolo alla struttura sillabica. Nel nostro
caso, l’italiano è una lingua isosillabica mentre l’inglese è una lingua isoaccentuale. La branca di
studi che si occupa di questo è la isocronia (suddivisione ritmica del tempo all’interno della frase;
altri elementi che caratterizzano la prosodia sono l’intonazione e l’accento). Nelle lingue
isosillabiche ogni sillaba ha la stessa durata (es. italiano, frnacese, spagnolo, turco, cinese…)
mentre nelle lingue isoaccentuali è uguale la durata tra due sillabe accentate (es. inglese,
olandese, tedesco, russo…).

1. Sto bene. (3 sillabe) || 1- Ring Jack soon (3 sillabe)

2. Mi sento proprio in gran forma || 2- Telephone Allison afterwards (9 sillabe)

Il fatto che una lingua sia isoaccentuale piuttosto che isosillabica sembra che dipenda dal fatto
che una lingua presenta gruppi consonantici completi (isoaccentuale) oppure no (isosillabica).
Questo signi ca che uno studente deve necessariamente sviluppare la sensibilità a strutture
sillabiche diverse; è importante sottolineare questa diversità, altrimenti uno studente italiano
adotterà la stessa isocronia per l’inglese e così facendo creerà enunciati incomprensibili.

Altra caratteristica che distingue le lingue a livello sonoro sono i pro li di sonorità. L’italiano ha
pochi suoni vocalici ma molto di usi, mentre l’inglese ha molti suoni vocalici ma frequenti
riduzioni vocaliche (spesso semi-vocali piuttosto che vocali vere e proprie). A livello di didattica
questo comporta che bisogna sviluppare la sensibilità a strutture sonore diverse e far sentire agli
studenti i punti di articolazioni delle vocali. Per farlo esistono i trapezi vocalici, il cui scopo è quello
di ra gurare l’interno della nostra bocca.

Per uno studente è utile vedere le vocali, sentirle, capire come


si deve posizionare la lingua etc. nell’emettere un suono — è
quindi importante fare fonetica articolatoria.

Altra variabile a livello sono è che le lingue hanno suoni


distintivi diversi (coppie minime) anche per quanto riguarda le
consonanti. Anche qui è necessario sviluppare la sensibilità a
foni diversi e far sentire i punti di articolazione delle
consonanti. Come è possibile questo? Attraverso le tecniche
glottodidattiche. […]

Si fa presto a dire pronuncia, ma come abbiamo oramai capito è molto sfaccettata. Bisogna infatti
acquisire consapevolezza del proprio apparato fonatorio; bisogna articolare i singoli suoni,
riconoscere e riprodurre la sillaba (unire i singoli suoni), riconoscere e riprodurre l’accento tonico,
riconoscere e riprodurre la lunghezza di vocali e consonanti, riconoscere e riprodurre l’intonazione
della frase (es. domanda piuttosto che a ermazione), ed in ne, riconoscere e riprodurre la
prosodia (ritmo, pause e velocità). Da qui si passa poi all’acquisizione della gra a.

Il percorso di una corretta acquisizione degli aspetti fonologici di una lingua passa attraverso vari
punti. Si parte da un ascolto globale (dialogo, testo, annuncio pubblicitario), all’interno del quale
poi si farà un ascolto focalizzato su un elemento fonologico e prosodico che si vuole far
osservare. Il primo passaggio sarà quello dell’imitazione, seguito da una produzione guidata e
quindi una produzione libera. Si avvia lo studente ad una lettura silenziosa e in ne ad una lettura
ad alta voce. Introduciamo qui la lettura silenziosa perché questo tipo di input è stato lavorato
solo dal pov dell’oralità, solo dopo aver ssato il suono si può introdurre la gra a perché altrimenti
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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
lo studente sarà portato a farsi inquinare la pronuncia dalle abitudini del suo sistema linguistico. In
seguito alla lettura ad alta voce si passerà alla scrittura. L’alfabeto IPA è il modo più semplice ed
e cace per insegnare l’accuratezza fonologica, è uno strumento particolarmente importante che
però purtroppo non è su cientemente sfruttato nella didattica italiana. […]

L’ultimo passaggio della lezione di oggi riguarda il legame tra la fonologia e la scrittura. La
fonologia ci porta automaticamente ad entrare nel mondo della letto-scrittura. Per prima cosa
dobbiamo precisare che imparare a leggere non è innato: non tutte le società leggono, non
condividiamo tutti l stesso codice scritto, non leggiamo tutti nella stessa direzione.
L’apprendimento della lettura necessita di comprendere, identi care e memorizzare la parole
scritte — si tratta di tre passaggi distinti che devono entrare in relazione immediata fra di loro per
poter diventare un lettore esperto. Poco a poco l’identi cazione della parola diventerà rapida,
precisa e automatica. Per poter diventare però un lettore esperto sono necessari dei pre-requisiti.

Bisogna infatti avere a disposizione risorse di tipo cognitivo, essere capaci di attivare delle
strategie inferenziali (processi top-down da processi di super cie verso profondità e collegare
informazione tra di loro), ed è necessario mantenere l’attenzione per un periodo di tempo
su cientemente alto (processi attentivi). Inoltre, bisogna predisporre di risorse mnestiche —
esse derivano dal fatto che dobbiamo realizzare delle analisi sensoriali, le quali si legano all’analisi
visiva e fonologica e alla memorizzazione di una serie di regole per la lettura. Questo processo
deve sedimentare nella memoria a nché si possano automatizzare le procedure di lettura. Inoltre,
bisogna avere delle risorse linguistiche. Più è ricco il bagaglio lessicale (a livello orale) più sarà
facile imparare a leggere, ma soprattutto sono fondamentali adeguate competenze meta-
fonologiche (segmentazione della parole, distinzione fonemi). Queste competenza meta-
fonologiche ci permettono di:

• Separare la forma linguistica dal signi cato

• Comprendere le relazioni tra forma fonetica e gra ca

• Velocizzare i processi di conversione fonema-grafema

Cosa signi ca essere competenti dal pov meta-fonologica? Padroneggiare i vari livelli di
consapevolezza fonologica, come vediamo in tabella.

Vi sono delle tappe evolutive per acquisire la


consapevolezza fonologica. Nell’età prescolare (0-5 anni) si
ha una competenza fonologica epilinguistica — il
bambino riesce a riprodurre i suoni e delle parole che ha già
sentito; le sue abilità fonologiche sono implicite e
generalmente ai 5 anni riesce a distinguere parola, sillaba e
incipit-rima. Nell’età scolare (5-10 anni) si sviluppano delle
competenze di tipo meta-fonologico e fonologico.
Sviluppa quindi delle abilità fonologiche esplicite, facendo un
ulteriore passo riesce quindi a gestire il fonema, lo schema
sillabico, l’analisi segmentale ed il principio alfabetico in
maniera abbastanza spontanea.

Gli ultimi passaggi della lezione ci spiegano come si acquisisce la lettura.

Il primo stadio è detto logogra co — il bambino si crea un lessico per immagini e “indovina” le
parole in base a degli indizi che associa a tali immagini (associazione parole-indizi visivi). Vi è poi
uno stadio fonologico, in cui si comincia a parlare di lettura (associazione lettere-suoni). Qui
intervengono i processi cognitivi di livello più alto, l’elemento visivo permette di individuare le
lettere scritte ed associarle a dei suoni (entra in gioco l’attenzione). L’ultimo stadio è detto
ortogra co — qui il bambino ha imparato ad individuare degli insieme di lettere a cui
corrispondono dei suoni e questi si sono immagazzinati nella sua memoria (via lessicale,
rappresentazione della parola in memoria).

Quando leggiamo, possiamo attivare due vie a seconda del nostro grado di competenza / lettura
in quella lingua, dell’età che abbiamo e del tipo di lettura che stiamo facendo. Supponiamo di
trovare la parola scritta “matin” — si attiva una procedura fonologica per la quale compio
un’analisi visiva della parola e metto in atto la memoria a breve termine (decodi ca) con un analisi
grafemica e fonemica ed in ne assemblo il tutto riconoscendo la parola francese. Dall’altro lato si
realizza una procedura ortogra ca: compio un analisi visiva, attivo la memoria a lungo termine
(ricerca fra tutte le parole del lessico ortogra co) e la collego alla sua pronuncia. Entrambe sono
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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
capacità necessarie perché a seconda di ciò che ho di fronte dovrò attivare la procedura
fonologica piuttosto che che ortogra ca.

Leggere in lingua diverse signi ca anche allenare


abilità (meta)fonologiche diverse perché svilupparle
è un processo, da un lato, universale (il tipo di
abilità e le tappe sono uguali in tutti i bambini di tutte
le lingue, dalla sillaba al singolo suono) e dall’altro
dipendente dalla lingua (contenuti -tipo di suoni-,
grado di sviluppo di alcune abilità, trasparenza della
lingua). Di conseguenza, quando insegniamo una
lingua straniera dobbiamo tenere presente che el
competenze (meta)fonologiche dello studente che
abbiamo di fronte non si recuperano naturalmente,
ma vanno sollecitate. Il lavoro (meta)fonologico in
L1 non è direttamente trasferibile nelle L≠1 — è
necessario un lavoro speci co, anche se
insegniamo questa lingua a dei non bambini.

15/04/2021 (13°)
Nella lezione di oggi ci focalizzeremo maggiormente sulla competenza linguistica. La volta scorsa
avevamo esplorato la parte sinistra del modello di competenza comunicativa (Balboni), ossia ciò
che noi non riusciamo a vedere perché sta dentro la mente dell’apprendente, ciò che dà modo
alla competenza comunicativa di mettersi in moto. Questa parte si chiama “sapere la lingua”, ed è
data dalla competenza linguistica, socioculturali ed interculturali. Ci siamo focalizzati sulla
competenza fonologica settimana scorsa, mentre oggi ci concentreremo sul tassello centrale
dello schema, il quale si riferisce alle abilità. L’apprendente deve infatti saper sfruttare il proprio
“sapere la lingua” per “saper fare lingua” — l’unione tra la mente ed il mondo è data dalle abilità
linguistiche, che si manifestano attraverso gli atti linguistici. […] Le abilità linguistiche possono
suddividersi in intralinguistiche e interlinguistiche: le prime si manifestano all’interno della
stessa lingua, le seconde in relazione con le altre lingue. […] Le abilità intralinguistiche sono la
lettura, la parafrasi, la scrittura, il dialogo, l’ascolto, i dettato e il monologo. L’unica abilità che è
solo interlinguistica è la traduzione. Le abilità che possono essere sia l’una che l’altra (dipende da
come si realizzano) sono il riassunto, gli appunti e a volte il monologo. […] In un ulteriore
suddivisione, le abilità primarie sono lettura, ascolto, scrittura e monologo — prendono questo
nome perché coinvolgono un solo senso alla volta (solo vista, solo udito etc.). Si tratta di abilità
considerate singole che possono essere svolte in autonomia senza coinvolgere altre attività. Le
abilità integrate, invece, sono la traduzione (leggere e scrivere), la parafrasi, il riassunto, il dettato,
gli appunti — si dicono così perché sono attività che mettono assieme due o più attività primarie.
Fra queste troviamo anche il dialogo, un’attività di interazione che prevede che il soggetto ascolti
e parli. […] Oltre a questo, possiamo a ermare che le abilità primarie nel percorso di acquisizione
della LM si sviluppano i questo ordine: ascolto, monologo, lettura, scrittura.

Questa classi cazione ci fa ri ettere sull’ordine naturale dell’acquisizione delle abilità.

La classi cazione delle abilità primarie può essere realizzata in base al supporto richiesto,
troviamo quindi le abilità scritte (lettura, scrittura) e le abilità orali (monologo, ascolto). Può
essere fatta però anche un’altra classi cazione, letta come una matrice, sul tipo di abilità che ci
viene richiesta e sul tipo di processamento del codice linguistico. Distinguiamo allora tra abilità
ricettive (ascolto, lettura — ci permettono di ricevere dell’input linguistico), e abilità produttive
(monologo, scrittura — permettono di generare output linguistico). Si tratta di una matrice
generalizzata, nata negli anni ’60, che serviva per dare delle coordinate di riferimento agli
insegnanti. Tuttavia, nella realtà comunicativa non usiamo quasi mai un’abilità alla volta perché
nella nostra realtà ascoltiamo, prendiamo appunti, parliamo, guardiamo slide allo stesso tempo.

In questo schema [PPT] vediamo una descrizione più veritiera su quella che è la classi cazione
delle abilità e ettivamente adoperate da una persona (nel riquadro esterno troviamo la LM,
nell’area grigia la lingua obiettivo; poi troviamo la matrice, la lingua che si distingue in abilità
ricettive e produttive, abilità orali e scritte; ci sono delle abilità intra- e inter-linguistiche che
possono assumere direzioni diverse…). Saper fare lingua signi ca saper gestire queste abilità.

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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
Per lavorare sulle attività in classe vi è bisogno delle tecniche didattiche, fondamentalmente il
vero e proprio motore dell’azione didattica. Balboni le de nisce come quelle “procedure operative,
attività, modi di fare esercizio e usare la lingua” (insieme di pratiche con le quali l’insegnante
mette lo studente nelle condizioni di usare quella lingua). Le tecniche possono di erenziarsi a
seconda del tipo di lavoro che richiedono e di contesto nel quale vengono impiegate — possiamo
avere tecniche da usare in classe, altre che prevedono un lavoro individuale, altre anche che
possono essere svolte con/senza glottotecnologie. Per giudicare una tecnica didattica l’elemento
fondamentale è che non c’è un tratto assoluto di buono o cattivo, le tecniche didattiche di per sé
sono neutre — sono degli strumenti, materiali, non hanno un connotato positivo o negativo.
Dipende tutto da ciò che dovremo fare. Dal momento che si classi cano allo stesso modo, le
tecniche didattiche possono essere più o meno e caci nel raggiugnere gli scopi del metodo
scelto per insegnare la lingua. Oltre a questo, possono essere più o meno coerenti con le
premesse del metodo adoperato. Una classi cazione delle tecniche didattiche ci è data da
Porcelli (1994), secondo i quale si può valutare le tecniche in base alla CAVEAT. La tecnica
didattica dev’essere:

- coerente con i singoli atti didattici proposti in classe

- ampia, coinvolgendo più abilità e più competenze

- vivace nella realizzazione per non annoiare e demotivare

- e cace ed e ciente (in termini di tempo) in relazione agli obiettivi didattici

- a aticante (a aticamento) per determinare la durata e la collocazione temporale (inizio lezione,


non alla ne)

- tecnologica (tecnologizzazione), quindi utile / necessaria / pratica

Entriamo ora a considerare le abilità ricettive. […] Quando siamo di fronte ad un’attività di
comprensione la conoscenza del mondo, ciò che sappiamo enciclopedicamente su un
determinato argomento, è importante così come lo sono i dati che abbiamo sul tipo di testo
presentato. I fattori che intervengono nel processo di comprensione sono vari. Quando
comprendiamo un testo, infatti, uniamo la conoscenza del mondo, la nostra competenza
comunicativa (insieme di conoscenze linguistiche — grammatica, pronuncia, ortogra a etc. — +
abilità linguistiche, conoscenze interculturali etc.) ed i processi cognitivi necessari per percepire il
dato linguistico, elaborare i dati con la memoria, recuperare e sintetizzare le informazioni. Quello
che importa è che poggiamo tutto questo su un bagaglio di esperienze, culture, tradizioni che si
sono consolidate nel tempo e che fanno parte della nostra considerazione del mondo (script,
frame, schemi). Questo insieme costituisce la grammatica dell’aspettativa (expectancy grammar),
costruita da Oller. Egli a erma che “se tutte queste competenze sono adeguatamente sviluppate
posso attivare la cosiddetta grammatica dell’aspettativa”, ossia la capacità di prevedere che cosa
potrà ricorrere in un dato contesto situazionale (costituito da argomento, luogo sico e culturale,
momento, ruoli psicologici e sociali, scopi immediati e dichiarati, norme sociali che regolano lo
scambio) e cotesto (intorno testuale). Difatti, quando si approccia una lettura o un ascolto, anche
in LM, si arriva ad una porzione di testo poco chiara. Si fa appello alle aspettative — si mettono
all’attivo tutte le proprie preconoscenze (fa parte di un meccanismo spontaneo e naturale ma che
va allenato). La grammatica dell’aspettative fa si che si crei un’ipotesi globale e simultanea della
possibile situazione presentata dal testo. Quando vogliamo sviluppare le abilità ricettive, di
conseguenza, ci organizzeremo in più fasi. La prima è data dalle fasi di pre-lettura/pre-ascolto.
Questo signi ca che prima di lavorare alla lettura o all’ascolto di un testo, si lavora con
l’apprendente alitando le conoscenze già possedute, creando attesa e attivando l’expectancy
grammar (information gap — ho curiosità di scoprire info quando questa mi manca). Di seguito, si
propone l’ascolto o la lettura. Dapprima si dovrà favorire una comprensione globale e poi una
analitica del testo. Segue la fase di post-lettura/ascolto in cui l’insegnante stimola lo studente
attraverso delle tecniche didattiche a rielaborare e re-impiegare le informazioni, contenuti, parole
e strutture del testo. Vediamo ora degli esempi. […]

Osserviamo ora più nel dettaglio le abilità produttive. Per svilupparle negli apprendenti si lavora
attraversa quattro fasi progressive. La fase zero coincide con un analisi del contesto situazionale,
la fase uno si concentra sulla concettualizzazione (dei concetti che dovranno essere esposti), la
fase due consiste nella progettazione (strutturazione del testo), ed in ne la fase tre è quella della
realizzazione che può essere orale (monologo su traccia) oppure scritta. Le prime tre fasi sono in
comune al monologo e alla scrittura. Vediamole più nel dettaglio.

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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
Nella fase zero cosa devo analizzare? Bisogna saper individuare gli scopi di chi produce il testo e
di chi lo riceve. Devo capire il rapporto di ruolo fra i due (determinerà il tipo di lingua che userò), il
luogo sico e culturale, il tipo di testo da produrre (descrittivo, narrativo, espositivo, argomentativi,
prescrittivo), ed in ne il genere comunicativo (narrativo => aba, novella, racconto, poema epico,
cronaca giornalistica, cronaca storica, memoria giudiziaria, aneddoto, resoconto di viaggio,
biogra a). […] Si giunge quindi alla fase uno: come si può concettualizzare ciò che poi si dovrà
scrivere? Ad esempio, attraverso un brain-storming, oppure una mappa. Nella fase due, si può
progettare il testo attraverso, ad esempio, una scaletta. Nella fase tre, quella di realizzazione, sono
necessarie delle indicazioni per la stesura. […] Oltre a delle indicazioni contenutistiche e a dei
vincoli di forma, bisogna anche far ri ettere lo studente sulle caratteristiche del genere testuale
che va a scrivere e sugli aspetti che deve tenere sotto controllo mentre scrive (lavoro di tipo
metacognitivo). Inoltre, in questa fase è previsto che prima della consegna del testo, l’insegnante
dia delle dritte all’apprendente per rivedere il suo elaborato (rilettura mirata). Se, però, ci troviamo
nel caso del monologo le cose si complicano. Nella tradizione italiana l’unico tipo di monologo
che si a ronta a scuola è l’interrogazione, vi è quindi una mancanza di preparazione tecnica
speci ca (training). All’interno della tradizione nord-europea invece vi è un altro tipo di
preparazione al monologo — difatti preparare un discorso è una delle competenze su cui si forma
lo studente, il quale realizza un monologo libero o, più spesso, su traccia. Viene incoraggiata la
presa in carico della propria preparazione per ciascuno studente.

Presentiamo ora velocemente le abilità di interazione. Genericamente le possiamo chiamare


“saper dialogare”, un’abilità altamente complessa che richiede una integrazione continua del
copione mentale in base alla dinamica dello scambio (a di erenze del monologo, bisogna
continuamente riaggiustare le proprie intenzioni comunicative e gli atti linguistici). Bisogna inoltre
porre una forte attenzione ai meccanismi di coesione (come ci si raccorda alle battute precedenti)
e alle convenzioni (modi in cui si da e si prende la parola, determinati culturalmente). Inoltre
l’abilità di interazione prevede un continuo intrecciarsi di comunicazione verbale e di codici
extralinguistici che molte volte sovrappongono il loro signi cato a quello della comunicazione
verbale in senso stretto. Saper dialogare è un’abilità fra le più richieste e tra le più complesse da
padroneggiare. Come insegnante, si dovrà far acquisire all’apprendente delle strategie di
comunicazione orale (devo rendere lo studente in grado di mantenere la conversazione, e di
creare uno scambio per cui l’interlocutore continui a parlare con lui) e delle strategie di
negoziazione orale (ottenere comunicazione reale e autentica). Per poter gestire questo tipo di
abilità dobbiamo saper manipolare la competenza pragmatica, che ci permette di modulare l’atto
comunicativo sulla base della risposta del nostro interlocutore. […]

Come si insegna la modalità di interazione? Bisogna avvalersi di una serie di tecniche didattiche
che vanno da una range di tecniche guidate (limitano la creatività dello studente) a delle tecniche
in cui l’apprendente è più libero, autonomo e ricco di responsabilità. La prima tecnica didattica è
quella della drammatizzazione (recitare un dialogo, ripetizione a memoria — utile perché in
questo modo lo studente acquisisce degli atti comunicativi sui quali può giocare più liberamente),
il role-taking (sostituzione di alcuni elementi del testo drammatizzato), il role-making (situazione
+ atti comunicativi dati — l’allievo è libero di realizzare questa situazione usando le routine
comunicative che vuole), ed in ne il role-play (situazione+obiettivi — massima libertà per l’allievo
di svolgere il compito). Vediamo degli esempi. […] Per sviluppare l’abilità di interazione,
d’altronde, è necessario che lo studente sia posto in situazioni di autenticità. Difatti, quando si
comunica lo si fa perché vi è un gap informativo, quindi un vuoto di informazioni — si comunica
con gli altri per riuscire a colmarlo. Vediamo qui alcune tecniche di esercizi che prevedono il suo
riempimento. […] Come anticipavamo, oltre a lavorare sulle modalità di creare la competenza
comunicativa e di saper dialogare, è molto importante sviluppare nello studente la capacità di
continuare la conversazione e saper negoziare. Bisogna quindi lavorare in modo esplicito con gli
studenti sulle strategie comunicative. Vediamo alcuni esempi. […] Lo studente viene stimolato a
ri ettere su ciò che fa quando gli manca una parola ed in questo modo gli si rende noto che è del
tutto normale che gli manchino parole e strutture linguistiche, difatti tutti noi nostri processi di
apprendimento attraversiamo questi momenti. La cosa più intelligente in queste fase è usufruire
della strategia più adeguata — condividere con gli altri studenti le strategie che si adoperano può
diventare prezioso perché ci si rinforza nella propria strategia, se ne imparano di nuove e si
legittimano le strategie che si utilizzano. Si capisce quali sono funzionali e quali invece ine caci.
[…] Ricordiamo che è solo attraverso l’output che migliora la competenza comunicativa dello
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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
studente, che l*i ha la conferma di ciò che sa, di ciò che non sa, e di dover o meno ristrutturare la
propria competenza. […]

16/04/2021 (14°)
Con la lezione di oggi ci addentriamo nella didattica della grammatica e della competenza
metalinguistica (capacità di operare in modo consapevole con strutture della lingua). […]

Partiamo da una de nizione di cosa intendiamo per grammatica, dal momento che ci possono
essere più signi cati di questa parola. Innanzitutto chiariamo che quando parliamo di grammatica
ci riferiamo alla descrizione ragionata di un sistema linguistico che consiste di solito in un insieme
di regole «astratte» (Beccaria, 1994). Dobbiamo però fare i conti con alcune caratteristiche della
grammatica: già abbiamo detto che è una descrizione della lingua, ma in verità non spiega
determinati elementi della lingua dal momento che li da per acquisiti (es. soggetto). Vi è quindi
una terminologia speci ca — quando insegno grammatica non insegno solo le regole della lingua,
ma anche la terminologia tecnica necessaria per quest’ultima. A seconda dell’età, del grado di
scolarizzazione e del luogo dove l’apprendente è scolarizzato, cambierà il ruolo dell’insegnante
nell’insegnare tale terminologia. Altro importante elemento da prendere in considerazione quando
insegniamo la grammatica di una lingua è che la grammatica non contiene solo regole assolute,
ma anche scelte della lingua dove ogni scelta è funzionale al signi cato che deve esprimere.

Di conseguenza, ci saranno delle grammatiche (dette pedagogiche o didattiche) che sceglieranno


il campione di lingua da insegnare a ragione degli obiettivi che intendono conseguire. Oltre a
questo dobbiamo tenere presente che esistono modi diversi per presentare la lingua — vi
possono essere dei modi per descrivere la regola grammaticale in cui la grammatica si limita a
descrivere il funzionamento, come anche dei modi in cui la grammatica che fa delle interpretazioni
(es. categorizzazioni etc). In ne dobbiamo essere consapevoli che descrivere la lingua è diverso
dalla lingua stessa. La descrizione dev’essere coerente in una prospettiva di educazione
linguistica. É chiaro che la lingua scritta in uno scritto accademico è una varietà linguistica diversa
dalla lingua orale. La grammatica dovrà quindi descrivere la lingua che è più funzionale ai ni
dell’apprendimento dello studente, e questo cambia anche in base al livello in cui si colloca
l’allievo.

Quando diciamo che la grammatica descrive una lingua, dobbiamo delineare delle caratteristiche
della descrizione grammaticale. Innanzitutto, dev’essere coerente — dobbiamo avere delle regole
che descrivono in modo unitario la lingua (regole potenti che non entrino mai in con itto tra di
loro). Inoltre il sistema di descrizione dev’essere comparabile, questo perché all’interno di una
prospettiva interlinguistica la descrizione grammaticale deve essere fruttata per descrivere tutte le
lingue o quante più possibili (insegnamento di più lingue allo stesso studente). Altra caratteristica
è che tale grammatica dev’essere de nita — dovrebbe far riferimento all’intero sistema
linguistico, dovremmo poter parlare di una grammatica della fonologia, di una grammatica della
morfologia e di una grammatica testuale nonché di una grammatica extraverbale (non solo
ortogra a). Per convenzione, tuttavia, quando si parla di grammatica si tende a rifarsi
esclusivamente alla morfosintassi.

Abbiamo già accennato che la lingua è un elemento vivo e di erisce dalla descrizione delle sue
regole grammaticali. Sappiamo che la lingua è l’oggetto della descrizione grammaticale. É
importante chiedersi, in quest’ottica, qual è il sistema linguistico che la grammatica va a
descrivere. Pensando alla lingua che parliamo, esiste una grande distanza tra la lingua scritta e
quella orale. La prima ha una serie di rigidità e di licenze che sono diversa da quelle del parlato.
Insegnare allo studente una grammatica che osservi esclusivamente le norme di comportamento
della lingua scritta signi ca insegnargli una lingua che talvolta è molto lontana da quella orale. Allo
stesso tempo, ci rendiamo conto che vi sono vari livelli di oralità e di lingua colloquiale. Quale
standard linguistico dev’essere insegnato allo studente, allora? Come bisogna considerare l’errore
o la devianza dalla regola? […] L’altro passaggio è: di quale grammatica stiamo parlando? Vi sono
due possibili punti di vista: le grammatiche di riferimento (compendi che raccolgono la
descrizione sistematica dei meccanismi di funzionamento della lingua includendo più possibili
varietà linguistiche), e le grammatiche didattiche — in quest’ottica Serianni ci parla di norma
sommersa. Troviamo, a volte, nelle grammatiche usate per insegnare le lingue dei residui di norme
grammaticali che non sono più in uso: esistono quindi delle norme sommerse che non vengono
presentate dalle grammatiche e che sono lontano dall’uso. Vi è una discrepanza tra la grammatica
didattica e l’e ettivo uso nella lingua. Vediamo un esempio riguardo i pronomi personali. […]
Questo ci fa ri ettere su cosa signi chi e ettivamente “regola” e su quali siano le nalità
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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
dell’insegnamento linguistico della grammatica. Dal momento che a seconda degli obiettivi
cambierà il modo di insegnare, le nalità dovranno essere determinate quanto prima possibile.

Si può intendere la regola in due modi. Da un lato troviamo le regole regolative — qui regola e
norma sono sinonimi, parliamo quindi delle norme che vengono imposte da un’autorità; dall’altro
forviamo le regole costitutive, ossia quelle regole connaturate al fenomeno (indica qualcosa che si
presenta con una determinata frequenza/regolarità). Le due facce della medaglia sono da una
parte qualcosa di stabilito / giuridico, e dall’altra un qualcosa di naturale e osservabile. Già a
partire da questo capisco che mi comporterò in modo diverso con gli studenti. Se si intende la
grammatica come un insieme di regole costitutive, quello che si metterà in atto sarà un approccio
descrittivo — si avvicineranno gli studenti all’osservazione della lingua e gli si farà notare come i
parlanti la usano. In questo caso si parlerà di una ri essione sulla lingua, sviluppando una
competenza meta-linguistica. Nell’altro caso, si avrà un approccio normativo e si avvicineranno
gli studenti ad un modello linguistico (esistenza di uno standard linguistico). Ci si avvicinerà in
questo modo alla correttezza (adeguamento). In poche parole, si tratta di due ambiti diversi rivolti
ad apprendenti diversi in diversi stadi di apprendimento. […] Tale distinzione manca in alcune
grammatiche per l’insegnamento, per cui dev’essere l’insegnante stesso ad essere consapevole
di tali distinzioni. Indirettamente, sapere come funziona la lingua ed imparare ad osservarla può
aiutare lo studente ad avere una maggiore consapevolezza e ad essere maggiormente autonomo.

Vediamo ora un breve excursus storico sugli approcci glottotidattici e sui metodi per
l’insegnamento della grammatica. […] Gli approcci per l’insegnamento delle lingua si distinguono
a partire dalle sigle; a seconda dell’importanza che danno alla grammatica e al modo in cui questa
viene insegnata si distinguono in FoFs, FoM e FonF.

Gli approcci di insegnamento che rientrano nei Focus of Forms (FoFs) sono quelli che prevedono
che le forme linguistiche e le norme di funzionamento della lingua vengano insegnate in modo
diretto ed esplicito. Il sillabo (insieme dei contenuti) del corso viene costruito con una
progressione lineare ed accumulati sulle strutture (es. articolo, preposizioni ,verbo essere…).

Gli approcci raggruppati nei Focus on Meaning (FoM) ritengono che la lingua non debba essere
oggetti di studio, ma debba essere strumento di comunicazione. In questo caso non troviamo un
insegnamento esplicito delle regole grammaticali, ed il sillabo del corso è costruito a spirale sulle
funzioni comunicative (es. presentarsi, chiedere informazioni, realizzare obiettivi comunicativi…).

In ne, gli approcci Focus on Form (FonF) vedono gli studenti impegnati in compiti che sono
essenzialmente di natura comunicativa, ma quando il compito lo richiede l’attenzione viene
spostata sulle strutture linguistiche.

Come vengono incasellati i vari approcci all’interno di questa classi cazione?


Gli approcci FoFs, detti approcci sintetici, coincidono con l’approccio formalistico (metodo
grammaticale- traduttivo) , l’approccio strutturale (metodo situazionale) ed alcuni approcci
psicologici (TPR, Silent Way). Fanno parte degli approcci FoM, detti analitici, l’approccio
naturale (metodo diretto) e l’approccio comunicativo (metodo nozionale-funzionale). In ne, gli
approcci FonF, detti integrati, rinchiudono gli approcci task based, gli approcci CLIL-EMILE e
gli approcci intercomprensivi.

Giungiamo ora al come si insegna la grammatica. La grammatica dovrebbe essere una questione
di scopi: serve allo studente per organizzare delle informazioni (grammatica no contenitore
esterno, ma classi catore). Dovrebbe servire per correggere eventualmente delle ipotesi errate,
per creare il “monitor” che permette di monitorare la propria progressione linguistica. É inoltre un
importante elemento per avviare lo studente all’astrazione e al ragionamento astratto con il gusto
della ri essione; altro scopo della grammatica è quello di incentivare lo sviluppo cognitivo.

I contenuti su cui si deve concentrare la grammatica sono la morfosintassi, la fonologia, la


grafemica, il testuale, la sociolinguistica, la pragmalinguistica e l’extralinguistica — tutto
quell’insieme di competenze che fanno parte della competenza che sta nella mente dell’alunno.

I metodi che possono essere usati sono due: deduttivo e induttivo.

Il processo deduttivo va dal generale (regola) al particolare (applicazione).

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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE

Il processo induttivo funziona al contrario, va difatti dal particolare (parole, frasi, testo) al generale
(regole ed eventuali eccezioni). In questo caso, fondamentalmente, l’insegnante aiuta lo studente
a fare delle ipotesi dello studente un sistema di descrizione delle lingue.

[…]

Quando insegniamo grammatica dobbiamo quindi a rontare vari aspetti.

A livello di forma, dobbiamo insegnare morfosintassi (ma anche fonologia, testualità, ortogra a,
pragmatica…). A livello di signi cato, la grammatica veicola i signi cati (non è la stessa cosa dire
“ho aperto la nestra”, “la nestra è stata aperta”, “hanno aperto la nestra” — scelgo quale
costruzione usare a seconda del signi cato e dell’intenzione che do alla frase). A livello di uso, le
alternative si scelgono in base al contesto («Il giudice aveva comunicato che sarebbe arrivato con
qualche minuto di ritardo »; « Silvia aveva detto che arrivava più tardi »).

Vediamo di seguito le fasi di un percorso di tipo induttivo.

Infatti, vediamo qualche esempio nei libri di testo. […]

22/04/2021 (15°)
Oggi parleremo di lessico e comunicazione. Nella comunicazione in una L≠1 gli errori lessicali
svolgono un ruolo molto più importante rispetto agli errori grammaticali. Questo perché sono più
comuni, dannosi (rendono la comunicazione più problematica) e sono i più facilmente notati dai
parlanti nativi (soprattutto nella comunicazione orale). Vediamo alcuni esempi tratti da apprendenti
di italiano L2. […] Il lessico svolge un ruolo fondamentale nello sviluppo della competenza
linguistica perché raccoglie al suo interno una serie di informazioni che provengono dall’ambiente,
dalle abitudini di un popolo, dalle istituzioni, dai suoi valori, dal cibo, dalle relazioni familiari e dalla
cortesia. Ad esempio, la parola “grasso” nell’italiano neostandard rientra nell’o esa, mentre
invece non lo era no al primo dopoguerra. “Vecchio”, inoltre, in italiano neostandard è
considerato poco attuale mentre in altre culture è sinonimo di “saggio”. In francese “maigre” ha il
signi cato di scarno, patito ed è molto lontano dal “magro” italiano percepito come un
complimento. “Bar” per noi esempli ca un luogo dove trovarsi con le amiche, mentre in altri
contesti il bar è il luogo di ritrovo di soli uomini oppure il posto esclusivo per un luogo serale.
“Emotion” ha un signi cato molto diverso dal nostro “emozione” — queste parole sono
strettamente legate alla cultura di cui sono lo specchio. Il lessico è difatti spia della cultura.

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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
Al suo interno troviamo anche espressioni sse, quali similitudini, proverbi, metafore, che
costituiscono una componente complessa da gestire per l’apprendente. Esse assumono dei
signi cati precisi facendo riferimento ai valori del popolo che utilizza quella determinata lingua.

Vediamo degli esempi (paragoni, elementi spazio-temporali, modalità). […]

Diamo quindi una de nizione di lessico. Dobbiamo innanzitutto metterci d’accordo su cosa si
intenda per “parola” — è uno di quei termini che può essere utilizzato con accezioni di erenti e
per la quale diventa problematico trovare una de nizione. Spesso si usa “parola” con il signi cato
di “voce” oppure “vocabolo”. La de nizione più di usa di parole è “segmento della catena parlata
o del testo scritto tale che non sia interrompibile da altri elementi, sia mobile, possa comparire da
sola, e abbia un signi cato.” (Beccaria, 1994). Le parole compongono il sistema lessicale: il
lessico viene de nito come sistema dinamico, sensibile, aperto, soggetto a variazioni perché è in
continuo mutamento (a di erenza di altri sistemi detti chiusi). Subisce delle variazioni sul piano
sincronico, il che vuol dire che nello stesso momento possiamo avere lo stesso signi cato
veicolato da parole di erenti oppure usi lessicali diversi per una stessa parola in ragione di una
serie di variabili qui elencate:

- il mezzo di comunicazione (scritto/orale)
- la classe sociale e i livelli di istruzione, età,
- il contesto comunicativo
genere…

- il rapporto tra i comunicanti


- l’area geogra ca, la cultura, i suoi valori

- la frequenza d’uso
Il lessico però è soggetto a molte variazioni anche sul piano diacronico, dovuto a:

- l’evoluzione storica e sociale
- il cambiamento di signi cato di alcune
- i mutamenti culturali e di valori
parole

- i cambiamenti dovuti a nuove scoperte - l’introduzione di neologismi



scienti che e tecnologiche

Questo fa sì che il lessico sia, dal pov linguistico, un ambito di insegnamento che dà molte meno
sicurezze rispetto alla grammatica.

Oltre ad essere un sistema, il lessico comprende anche il saper usare le parole in maniera
adeguata — esso signi ca non solo conoscere la parola, ma adoperarla con l’intonazione giusta
per il contesto. Vediamo un esempio. […] Padroneggiare il lessico è importante perché ha un
valore pragmatico fondamentale.

Facciamo un passo avanti e vediamo ora come si organizza il lessico. Facciamo subito un
inquadramento linguistico del lessico e chiediamoci: cosa contiene una parola?

L’informazione lessicale è l’insieme di quelle informazioni contenute all’interno di una parola.


Questo comprende il signi cato (contenuto semantico) come anche altre proprietà: foniche (forma
sonora), gra che (solo per le lingue scritte), morfologiche (uno o più morfemi, pre ssi, radici,
su ssi etc) ed anche l’appartenenza ad una classe lessicale (o più di una, come nell’inglese). Oltre
a questo tipo di informazioni, un altro tipo di analisi del lessico ci dà la struttura — come si
organizza l’elemento lessicale rispetto alle altre parole. […] Il signi cato si distingue in signi cato
lessicale (parole piene, es. “cane”, “ballare”, “velocemente” — categorie grammaticali essibili) e
grammaticale (parole vuote, es.“che”, “sebbene”, “da” — categorie grammaticali non essibili,
funzionali). Inoltre, troviamo il signi cato collocazionale, de nito in base alla combinazione con
un’altra parola, che può essere più o meno forte (“rumore”: fortissimo / robusto / assordante;
“dolore”: fortissimo / lancinante / severo). In ne, il signi cato azionale è determinante —
nell’esempio posto di seguito troviamo una parola (dormire) il cui signi cato si di erenzia in base
al modo in cui viene presentata l’azione.

es. mi sono addormentato alle 15 / ho dormito tutto il pomeriggio / mentre dormivo hanno
bussato alla porta (altri verbi hanno invece un signi cato puntuale?)

Ragioniamo ora sulle informazioni che derivano dalla struttura paradigmatica, ossia le relazioni
paradigmatiche (in base a quali criteri decido che in un determinato spazio metto una parola
oppure un’altra oppure vanno bene entrambe). […] Nel completare le frasi notiamo che le parole
scelte sostengono fra di loro delle relazioni di sinonimia, di iperonimia / iponimia. oppure di
opposizione. Nel caso della struttura sintagmatica, si prende in considerazione la situazione in cui
le parole si combinano fra di loro per costituire delle unità linguistiche più complesse. […]

Come vediamo nelle frasi riportate nel PPT, le restrizioni in queste strutture sintagmatiche sono
dettate da restrizioni concettuali, solidarietà semantica, solidarietà basata sull’uso, combinazioni
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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
ristrette (in questo caso gli elementi sono liberi fra di loro e si possono spostare; in quasi tutte le
lingue le combinazioni fra le parole sono normalmente ristrette — le parole che si possono
associare liberamente fra di loro sono molto poche), collocazioni (la scelta della parola speci ca,
detta collocato, è condizionata dalla seconda parola, detta base) e in ne espressioni idiomatiche
(il signi cato è costruito su una base metaforica e non si può cambiare nulla, i membri di questa
espressione di comportano come se fossero una parola sola).

Prima di parlare di come si impara il lessico e delle tecniche di apprendimento, facciamo un


lavoro di gruppo di brain-storming. […] Quali sono le fasi in cui si divide l’apprendimento del
lessico? Innanzitutto è necessario fare una distinzione riguardo l’ordine di memorizzazione delle
parole da parte dell’apprendente (studi condotti in contesti spontanei, L2). Nella prima fase di
acquisizione della lingua, le parole sono memorizzate grazie ad un’associazione formale. Se la
persona è già alfabetizzata è spontaneo associare la motorizzazione alla gra a, in caso contrario è
più facile che la nuova parola venga memorizzata in base al tipo di suono sentito (similitudine di
suoni simili). In una fase più avanzata del proprio apprendimento linguistico, l’apprendente
realizza una associazione in base al contenuto, al signi cato delle parole.

L’ordine di apprendimento delle informazioni associate alle parole è però diverso (sempre in L2).
Per prima cosa l’apprendente elabora le informazioni di carattere semantico e fonologico, in
seconda battuta la sintassi (posizione nella frase), ed in ne la morfologia (maschile, femminile,
persone del verbo etc). Il fatto che l’apprendente dia spontaneamente maggiore importanza al
lessico della lingua dovrebbe stimolarci a dare a nostra volta, come insegnanti, maggiore
importanza al lessico e in secondo luogo alla morfologia o alla grammatica.

In quale ordine vengono apprese le parole? Cosa risulta essere più facile/di cile da imparare per
l’apprendente? Solitamente gli apprendenti imparano più facilmente parole che presentano una
solida di erenza sonora (riesce a discriminarle meglio), una trasparenza morfologica (a cui riesce
ad attribuire più facilmente un ruolo all’interno della frase) ed in ne quelle parole che non hanno
una speci cità semantica (iperonimi, gli permettono di essere più agile da un pov comunicativo).

I tipi di elementi lessicali che l’allievo padroneggia più facilmente all’inizio sono i singoli elementi
non analizzati con valore pragmatico (stringhe di frasi, es. come ti chiami?), parole contenuto (a
di erenza della parole vuote) e in ne parole funzione.

Come si insegna, dunque, il lessico?


Vi sarà una prima tappa cognitiva che consiste nel far notare l’elemento lessicale, una seconda
tappa associativa il cui scopo è che lo studente riesca a collocare la nuova parola all’interno del
proprio lexicon (conoscenza passiva), che ne sappia dare una de nizione e che non sappia
riutilizzarle autonomamente. In ne la terza tappa è quella dell’autonomia, in cui lo studente può
richiamare questa parola in modo automatico. Non è detto che queste tre tappe si trovino nella
stessa lezione o nella stessa unità. Vediamo, per concludere, alcune tecniche didattiche.

La fase di noticing (nel testo scritto) consiste nel far notare agli studenti le parole alle quali devono
prestare attenzione. Per farlo possiamo usare tecniche come la sottolineature, le glosse
(corrispondente in L1 o disegno), l’abbinamento di nuove parole con de nizioni, sinonimi o scelta
del signi cato tra tre o quattro opzioni, la conoscenza sui meccanismi di formazione delle parole,
le conoscenza nelle altre LX (attivazione del repertorio linguistico), oppure ancora l’uso del
dizionario. […] La fase successiva è quella di consolidamento del nuovo lessico, in cui è
necessario favorire l’immagazzinamento e la memorizzazione delle parole. Alcune tecniche
possono comprendere: domande e risposte su un test, esercizi sulla formazione e il
raggruppamento delle parole, costruzione di campi semantici attraverso diagrammi o mappe
semantiche, costruzione di coppie in relazione semantica o di quasi-sinonimia, opposizione,
iponimia, reciprocità, o ancora il raggruppamento di parole secondo vari criteri (a ni/falsi amici,
famiglie di parole, sistemi chiusi, prestiti, varietà geogra che, parole che presentano analogie
ortogra che o fonologiche etc). […] La terza fase è quella dell’autonomia e del reimpiego delle
parole da parte dello studente. L’insegnante deve portare l’alunno all’utilizzo attivo del lessico
appreso. Inizialmente si conduce attraverso attività molto guidate per andare verso un reimpiego
libero e autonomo. Si favorisce infatti l’acquisizione di strategie per la comprensione, la
memorizzazione e il reimpiego. […]

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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
29/04/2021 (16°)
Nella lezione di oggi ci occuperemo di BiLS e dell’apprendimento linguistico […]

Inseriamo la dislessia nell’ambito dei BiLS, ossia bisogni linguistici speci ci, cosa che tutti gli
studenti hanno. Alcuni studenti hanno dei bisogni linguistici speci ci provocati da di erenze
evolutive, le quali possono essere legate alla comunicazione, al linguaggio oppure
all’apprendimento. Questo insieme di disturbi provocano i bisogni linguistici speci ci che
menzionavamo prima. Le conseguenze di quest’ultimi sono delle di coltà a scuola, l’incapacità di
sviluppare delle competenze chiave per la propria vita, e una vulnerabilità psicologica ed emotiva.

Diamo quindi una de nizione — BiLS è una sigla coniata da uno studioso italiano (Daloiso, 2015).
Per BiLS intendiamo una parte di alunni con bisogni educativi speciali che presentano di erenze
evolutive di elaborazione cognitivo-linguistica. Tale di erenze interessano primariamente lo
sviluppo della competenza comunicativa nella L1 ed incidono signi cativamente
sull’apprendimento di altre lingue (seconde, straniere, classiche) al punto di richiedere interventi
di sostegno al percorso di educazione cognitivo-linguistica sia durante il lavoro in classe sia nello
studio individuale. Utilizziamo due volte l’aggettivo “cognitivo-linguistica” perché l’ambito di
intervento non può essere esclusivamente linguistico — il processo che sviluppa la
manifestazione linguistica è soprattutto, all’inizio, cognitivo. Vediamo ora perché è stato coniato
questo termine e perché scegliamo un focus di questo tipo — in poche parole, scegliamo un
focus non sul disturbo, ma sul bisogno emergente nel contesto dell’educazione linguistica
(poniamo l’attenzione sulle necessità dello studente nell’ambito dell’educazione linguistica perché
non ci interessano le diagnosi o i disturbi da un pov neurologico). Usiamo l’aggettivo “linguistico”
perché realizziamo un focus sulle di erenze evolutive che incidono fortemente sull’apprendimento
linguistico, ed in ne usiamo “speci co” perché riguarda una peculiarità dell’apprendimento
linguistico di questi alunni. I BiLS comportano una certa fragilità in quello che è il processing
linguistico (ridotta capacità di memoria, tutte le informazioni che devono essere tenute a mente
nel momento in cui ci si accinge a scrivere non trovano spazio nella memoria di lavoro). La mappa
come strumento permette di liberare in parte la memoria di lavoro per lasciare maggiore spazio
agli altri processi che intervengono. Osserviamo la mappa. […] Riuscire a svolgere questi tre stadi
signi ca poter attivare un controllo attentivo (rimanere attenti per su ciente tempo); inibire invece
altri tipi di disturbi signi ca elaborare gli input che provengono dall’esterno, essere essibili dal
pov cognitivo per recuperare le informazioni necessarie ed integrarle con quelle che già si hanno,
signi ca attivare un controllo strategico per compensare le informazioni che mancano.

Quando uno studente con dislessia si trova di fronte ad un processing linguistico riscontra delle
di coltà che riguardano vari stadi di questo percorso. Nel primo stadio le di coltà che può
incontrare riguardano un’elaborazione fonologica lenta, problemi di conversione fonema-grafema,
e un sovraccarico di informazioni. Nella fase di output, si ha una causa (?) spesso lenta e/o
inaccurata, stanchezza, elaborazione “povera” delle informazioni (dispende molta più energie in
meccanismi che per altri studenti sono più automatizzati).

So ermiamoci ora sulle origini del disturbo della dislessia.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ci propone questa de nizione: “Dyslexia, also known as
reading disorder, is characterized by trouble with reading despite normal intelligence. Di erent
people are a ected to varying degrees. Problems may include di culties in spelling words,
reading quickly, writing words, “sounding out” words in the head, pronouncing words when
reading aloud and understanding what one reads. Often these di culties are rst noticed at
school. The di culties are involuntary and people with this disorder have a normal desire to
learn.” (2018 ICD-10-CM Diagnosis Code F81.0)

Per quanto si tratti di un disturbo che riguarda soprattutto la lettura, avviene in presenza di
un’intelligenza perfettamente nella norma; inoltre si manifesta con gradi diversi di severità.
Aggiungiamo inoltre che la dislessia è raramente isolata, molto spesso si accompagna a
disortogra a e a disgra a. Ha inoltre tre forme principali: la dislessia fonologica, quella di
super cie e quella mista. In precedenza avevamo visto che, al momento della lettura, di fronte a
una parola scritta si possono avviare due possibili percorsi (procedura fonologica e procedura
ortogra ca). Entrambe sono capacità necessarie. […] Nel leggere la frase “Per fortuna Monica ha
superato con successo l’esofagodermarodigiunoplastica della settimana scorsa” il lettore
competente utilizza e cacemente le due vie: passa per la via lessicale per leggere l’insieme del
messaggio e passa per la via fonologica per leggere il nome “esofagodermarodigiunoplastica”.

Cosa succede ad una persona dislessica? A seconda del grado di dislessia, una di queste vie è
bloccata o sviluppata minormente.

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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
La dislessia fonologica è un
disturbo della consapevolezza
fonologica che provoca una
incapacità nel manipolare i

suoni della lingua (corrispondenza


fonema-grafema).

Tra le principali conseguenze


possiamo menzionare una serie di
errori tipici, i quali coinvolgono:
lettura laboriosa di parole regolari;
lettura di cile delle non-parole e
delle parole rare; parafrasia verbale
(casa per casei cio); parafrasia
semantica (casa per condominio).

Altro tipo di dislessia è quella di super cie;


essa è de nita come una compromissione
delle componenti lessicali che rende di cile
l’accesso al signi cato. Errori tipici dello
studente con dislessia di super cie sono:
lettura laboriosa delle parole irregolari (in cui
non è possibile applicare la conversione
grafema/fonema); regolarizzazione nella
lettura delle parole irregolari (es.« femme »
→/fam/). Il lato più pericoloso è che è
compromesso il signi cato di ciò che si sta
leggendo.

Il terzo tipo di dislessia (mista) mescola i


due visti precedentemente.

La dislessia, ad ogni modo, non è solo una questione di fragilità riguardo l’elaborazione
fonologica, la working memory e la velocità di elaborazione. Punti forti degli studenti con dislessia
sono l’apprendimento strutturato (apprendimento impostato su rigidità ferrea), il possesso di una
memoria non verbale potente e una forte capacità di apprendimento pragmatico e di competenze
legate, nel nostro caso, all’uso della lingua.

Per terminare la lezione, so ermiamoci su una ri essione sull’ambito delle lingue straniere.
Leggendo le statistiche riguardo il censimento degli studenti con dislessia nei vari paesi troviamo
queste cifre.

Se la dislessia deriva da diversità di tipo neurocognitivo (biologiche),


bisogna chiedersi perché sono presenti percentuali così diverse tra i
vari paesi. Da cosa derivano queste di erenze?

Partiamo da una considerazione — la dislessia è legata


all’apprendimento della lettura. Imparare a leggere dipende dal
sistema ortogra co e dalla struttura della lingua che si impara.
Sappiamo infatti che ci sono sistemi trasparenti (1 grafema = 1 fonema)
e sistemi opachi (1 grafema ≠ 1 fonema). Ecco quindi che il sistema
cambia la via di lettura: con un sistema gra co della lingua
trasparente si potrà accedere alla lettura sia dalla via ortogra ca sia attraverso la via fonologica (la
persona dislessica è quindi avvantaggiata); se al contrario si ha un sistema di scrittura opaco
l’unico sistema di lettura possibile è quello ortogra co. Per quanto riguarda gli e etti sulla
manifestazione della dislessia, possiamo menzionare che in Italiano questo studente riesce a
realizzare una lettura abbastanza precisa ma lenta, mentre in inglese la lettura è inesatta e lenta.
Quali sono le conseguenze? Nei sistemi trasparenti è più di cile individuare la dislessia, mentre
nei sistemi opachi la dislessia si manifesta con maggiore severità (ri etti su legame individuare/
nascondere).

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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
Come abbiamo già anticipato, quando si impara una lingua straniera, può accadere che la
dislessia si manifesti con gradi diversi di severità nella stessa persona (es. persona che non ha
manifestato segni particolari di dislessia nella L1, li mostra nel momento in cui comincia ad
imparare una lingua straniera — si parla di dislessia di erenziale).

Detto questo, quali sono le di coltà principali nell’apprendimento delle L≠1?


Per quanto riguarda l’ascolto, sicuramente il riconoscere e analizzare i fonemi e gli schemi
intonativi assenti in L1, e il comprendere il senso generale del testo a causa delle di coltà
fonologiche e della povertà lessicale. A livello di lettura, invece, le maggiori di coltà riguardano il
decodi care il testo (rapporto fonema-grafema della L 1), il comprendere il senso generale del
testo a causa delle di coltà fonologiche e della povertà lessicale, il comprendere il senso
profondo e metaforico del testo, a causa della povertà delle strategie metacognitive (mancano
perché lo studente è talmente impegnato nello svolgere i compiti tecnici, procedurali che ha poca
energia da investire nello sviluppo delle strategie). Nel caso della produzione orale, lo studente
dislessico farà fatica a produrre fonemi e schemi intonativi assenti in L1, l’essere uente e
preparato alla comunicazione, a causa dei de cit di automatizzazione, e il recuperare rapidamente
il lessico e le strutture grammaticali apprese. Nella scrittura valgono le stesse indicazioni della
produzione orale ma si aggiungono delle di coltà legate alla dimensione prassica (composizione
scritta), quali gestire la funzione esecutivo-motoria della scrittura sia in L1 che in L 1 (disgra a) e
l’ortogra a corretta (disortogra a), il comporre un testo scritto nel tempo previsto, a causa della
lentezza nel recupero del lessico e delle strutture grammaticali, e l’organizzare un testo scritto, in
termini di ordine e/o coerenza e coesione.

06/05/2021 (17°)
Vediamo oggi la valutazione della competenza comunicativa. Per prima cosa, partiamo dalle
de nizioni. Abbiamo qui a che fare con una disciplina scienti ca per cui la parola “valutazione”
che usiamo nella lingua comune diventa un termine su cui dobbiamo essere d’accordo.
Riportiamo qui alcune de nizioni relativamente recenti del concetto di valutazione prese dalla
pedagogia e dalla glottodidattica. Si tratta di de nizioni relativamente recenti e che hanno versioni
leggermente diverse tra di loro seppur a ni. Overton (2011) a erma che la valutazione è il
processo che conduce alla comprensione oggettiva di una condizione attraverso l’osservazione e
la misurazione. Vediamo che si focalizza su tre elementi: il processo, la comprensione oggettiva
(tentativo di dare una de nizione che possa essere condivida e corrispondete and una realtà) ed i
modi con cui dev’essere condotta la valutazione. Porcelli (1992) aggiunge un tassello: “É il
processo attraverso cui il docente rapporta i risultati dell’apprendimento scolastico con la storia
personale dell’allievo, con i suoi atteggiamenti verso la scuola e la società, con i condizionamenti
psico sici e ambientali ai quali è soggetto.” Come vediamo, Porcelli ci cala maggiormente
all’interno della dimensione scolastica — inserisce la gura del docente e delinea la valutazione
come il momento intelligente di qualsiasi azione. In questo, il docente non si limita a misurare i
risultati dell’apprendimento, ma rapporta questi risultati registrati all’interno del contesto
scolastico con quella che è la storia personale dell’allievo (è necessario tenere in considerazione certi
condizionamenti; anni ’90 => approccio umanistico-a ettivo). Domenici (2007) a erma, invece, che “il
processo di valutazione è lo strumento attraverso cui poter raccogliere il maggior numero di
informazioni sul processo di insegnamento- apprendimento e migliorare l’azione formativa.”
Ancora una volta vediamo che il focus viene spostato un pochino: dall’allievo qui ci si apre ad una
nuova utilità della valutazione — essa serve non solo per dare un voto allo studente, ma anche
per far ri ettere l’insegnante su ciò che sta facendo e per migliorarlo (autovalutazione
dell’insegnante). […] Questa attività ci ha permesso di ri ettere su come la valutazione sia
presente in molte delle azioni che vengono fatte a scuole. La valutazione ha un suo impiego
ampio, molto di uso e di erenziato a seconda della dimensione educativa del paese.

Quali sono gli scopi della valutazione? Se pensiamo che le valutazioni servano solo per stabilire i
voti che si mettono sulle pagelle siamo fuori strada. La valutazione è, in realtà, un momento di
dialogo e di comunicazione che permette di migliorare sia la prestazione dello studente che
quella dell’insegnante. La valutazione ci può aiutare a dare molte risposte a domande che ci
poniamo durante l’attività didattica, che ritroviamo nell’immagine sottostante. Tutte queste
domande stuzzicano nell’insegnante l’interrogativo di “come concepisco la valutazione?” e “cosa
faccio fare come valutazione?” (conoscenze ≠ competenze).

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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE

Ecco che allora quando parliamo di valutazione intendiamo un processo sistemico, qualcosa che
nasce con l’inizio della mia azione didattica. La valutazione nasce già nel momento della
progettazione. Difatti, il processo didattico è composto da tre fasi: progettazione, attuazione e
restituzione. Ingenuamente si potrebbe pensare che la valutazione si trovi esclusivamente
nell’ultimo step, ma in realtà la valutazione si fa sempre: troviamo una valutazione in entrata
(quando si fa analisi dei bisogni degli studenti), un monitoraggio ossia una valutazione in itinere
durante l’azione didattica, ed in ne un accertamento ossia una valutazione in uscita (veri ca,
compito, interrogazione, esame…). Nella valutazione non è coinvolto solo lo studente, ma anche il
servizio di una scuola e la sua capacità di funzionare e la famiglia, perché il contesto nel quale lo
studente vive entra inevitabilmente in gioco. Quali sono allora le caratteristiche della valutazione?
Vediamo una sintesi.

Ovviamente, la valutazione richiede tempo — non necessariamente nella somministrazione, ma


nell’ideazione (iniziare un corso, una lezione, un anno scolastico, un percorso formativo avendo già in
mente come verrà valutato). La valutazione determina sia gli obbiettivi del corso sia le modalità
formative. Inoltre, è necessario rapportare le informazioni raccolte tra di loro.

Detto questo, quali sono i principi della valutazione?

Interessa a tutti che la valutazione sia valida per poter essere utile — a nché una valutazione sia
valida deve misurare ciò che si pre gge di misurare. Esiste un acronimo, P.A.C.E., che permette di
identi care i quattro principi in base ai quali una valutazione può essere considerata valida.
Innanzitutto, essa dev’essere pertinente (dev’esserci coerenza di contenuti e format tra test,
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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
programma svolto e oggetto di veri ca). Dev’essere poi accettabile da parte degli studenti, ossia
uno strumento che gli studenti riescono ad adoperare, che conoscono e hanno già visto durante
l’insegnamento; dev’essere una valutazione accettabile dal pov culturale. La valutazione
dev’essere poi comparabile, dove per comparabilità di intende la capacità di fornire risultati
a dabili, costanti e stabili nel tempo riducendo l’e etto di in uenze esterne. Tali risultati devono
essere comparabili sia all’interno della stessa prova sia in momenti diversi. La comparabilità di
risultati dà validità statistica e fa sì che la prova sia oggettiva. Ultimo criterio è quello
dell’economia — riprendendo il discorso sul tempo che facevamo poco fa, la prova di valutazione
deve rispondere a delle esigenze pratiche (in termini di tempo, somministrazione, correzione ed
esecuzione). Ad ogni modo, è importante che la valutazione sia anche etica ossia che raggiunga il
vero bene con i mezzi idonei. Ogni volta che si somministra una prova di valutazione, ci sono due
e etti fa tenere in considerazione: l’impatto e l’e etto washback. Fondamentalmente l’impatto
riguarda le conseguenze del test per il candidato e per la classe (micro level; grado di di coltà/
facilità della prova) e/o per l’intera società (macro level; nel caso di somministrazione di prove
quali l’ottenere il permesso di cittadinanza, o rinnovo del permesso di soggiorno). Il washback
riguarda, invece, le conseguenze del test per l’insegnamento e sulla relazione fra formazione e
valutazione — questo perché nei contesti formativi in cui ci troviamo ad insegnare gli studenti
studiano per il voto, e di conseguenza dopo l’esame etc. si cancella ciò che è stato studiato.

Ci dobbiamo poi interrogare su quale sia il rapporto tra eguaglianza ed equità (vedi immagini PPT
— modi ca / rimozione della barriera sistemica, un elemento di base che crea di coltà per alcuni di
loro ma la cui rimozione è andato a vantaggio di tutti). L’obiettivo realistico che dobbiamo porci è
quindi che la prova risulti utile a tutti — il momento della valutazione dev’essere un momento utile
per lo studente, e non frustrante.

Introduciamo ora alcuni termini della terminologia docimonologica.

1) docimonologia: quella parte della didattica che studia su basi scienti che i criteri della
votazione scolastica
2) veri ca: l’accertamento sistematico delle conoscenze/competenze d’uso/abilità presenti nei
soggetti da valutare attraverso la misurazione delle performance (manifestazione esterna della
competenze dell’apprendente). Questa performance è un indice e un campione della
competenza — un indice perché ci aiuta ad intuire i processi mentali dello studente e delle
abilità complesse, e a campione perché ogni prova che facciamo deve selezionare alcune
abilità, alcune aree lessicali etc.

3) valutazione: ingloba la veri ca; intendiamo infatti quel processo globale costituito dalla
raccolta di informazioni attraverso procedure di veri ca che mette in relazione i dati emersi
dalle prove con le caratteristiche dell’individuo (piano oggettivo e piano soggettivo).

4) certi cazione: una fotogra a della conoscenza linguistica in un momento preciso, svincolata
da qualsiasi considerazione legata al percorso di apprendimento.

Quali sono le tecniche di veri ca che si possono utilizzare?


Partiamo dal principio che per noi conoscere una lingua signi ca saperla usare per degli scopi
comunicativi. Quando veri chiamo tale conoscenza, dobbiamo veri care alcuni ambiti:

- la capacità comunicativa di una persona (adeguata risposta al compito, la capacità di usare la


lingua in modo pratico e in contesti diversi)

- l’adeguatezza pragmatica (registro e contenuti, e cace della comunicazione)

- la competenza linguistica (grammatica, lessico, pronuncia, intonazione)

Tuttavia, si devono tenere in considerazione parametri diversi, tra cui:

• l’accuratezza (accuracy; correttezza a livello fonetico, grammaticale e lessicale)

• uenza ( uenti; capacità di comunicare non necessariamente in modo totalmente accurato)

• comprensione interculturale (appartenenza a culture diverse; grande obiettivo di fondo da non


dimenticare)

Prima di stendere la veri ca bisogna stabilirne gli obiettivi, che devono essere:

- descritti con un verbo d’azione che indichi un comportamento de nito e osservabile

- descritti come prodotti dell’apprendimento (e non processi)

- descritti in modo chiaro, breve e non ambigui

- adatti al livello linguistico, cognitivo, emotivo degli studenti

[…]

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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
Vediamo ora le caratteristiche delle prove per la competenza comunicativa. Innanzitutto, le prove
si distinguono in prove oggettive e prove comunicative. La prova oggettiva veri ca una singola
abilità linguistica alla volta (ascolto, produzione orale, produzione scritta…) e molto spesso ha una
risposta univoca e prede nita (es. vero o falso). Inoltre, la correzione di una prova oggettiva può
essere realizzata anche da parte di un non esperto (purché in possesso della chiave). La tecnica
più rappresentativa è data dalle domande a scelta multipla. Attenzione, però, questa prova è
oggettiva perché il risultato può essere espresso attraverso un valore numerico che rimane
sempre lo stesso. Tali dati numerici possono essere facilmente confrontati tra di loro.

Dall’altro lato, la prova comunicativa veri ca simultaneamente più abilità e più componenti
linguistiche, realizza una contestualizzazione degli items (ri-creazione dell’evento comunicativo)
attraverso un compito verosimile e motivato. Il focus si pone sul signi cato funzionale e sul
contesto piuttosto che sulla forma linguistica, ed in ne integra abilità linguistiche e
metalinguistiche. Ovviamente la prove di tipo comunicativo sono più di cili da creare e da
valutare. Vediamo un esempio. […]

Per terminare, ritorniamo sul feedback. Esso è il momento in cui si


restituisce allo studente la valutazione e gli/le si comunica cosa è
andato bene/storto. Parliamo di feedback formativo, perché tale
restituzione dev’essere appunto formativa per lo studente, e ha un
ruolo particolarmente importante. Vediamo nel gra co la zona di
sviluppo prossimale che è quell’area in cui lo studente apprende; si
colloca tra ciò che l’apprendente sa già fare senza aiuto e ciò che
non riesce a fare in quanto lontano dalle sue competenze.

Tale zona di sviluppo prossimale è quell’area in cui lo studente è


pronto per imparare e può farlo se è aiutato da qualcuno
(sca olding!!). Tale ZSP fu individuata da Vygotskij.

Detto questo, il feedback formativo lavora nella ZSP e cerca di


rimuovere lo sca olding esterno sviluppando il sistema cognitivo
dello studente — cerca di fargli fare progressivamente un salto per
renderlo autonomo. Il momento in cui forniamo feedback dovrebbe
essere una buona metà della nostra attività didattica.

Il feedback (qualsiasi tipo di informazione che diamo allo studente)


è uno strumento da approfondire e da usare maggiormente. Vediamo in questa tabella quali sono
le sue caratteristiche principali e come dev’essere per poter essere e cace.

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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE

14/05/2021 (18°)
A rontiamo oggi l’ultima lezione del corso. Ci concentriamo oggi sul quadro comune europeo di
riferimento per le lingue e sulla sua evoluzione dal 2001 al 2020. Vedremo, in particolare, le sue
origini e nalità, la sua struttura e l’impianto teorico, i descrittori del QCER e le sue criticità, ed
in ne parleremo del volume complementare.

Il quadro comune europeo è un documento erogato da un organismo chiamato Consiglio


d’Europa ed in particolare dalla sezione dell’Unità delle politiche linguistiche. Si tratta di un
organismo con nalità di carattere sociopolitico che raggruppa una cinquantina di paesi e che ha
una sua storia, legata prevalentemente al tentativo di omogeneizzare e far funzionare meglio le
relazione tra i paesi che ne fanno parte. Le origini del QCER sono abbastanza lontane; esso mette
le sue radici già con la nascita dei livelli soglia, verso la metà degli anni ’70. Più nel dettaglio, i
livelli soglia sono un elenco di parole che costituiscono quel serbatoio di conoscenze che deve
possedere una persona per poter spostarsi, vivere e lavorare in un paese dove si parla una lingua
diversa dalla sua LM. É quel periodo che va a cavallo tra lo strutturalismo e l’approccio
comunicativo, la saldatura è data dall’impianto nozionale-funzionale. Per tante lingue europee si
stilano degli elenchi delle parole conosciute (e quindi delle funzioni comunicative) possedute dalle
persone che decidono di spostarsi (anni ’70, grandi ussi migratori => bisogno di creare dei sillabi). I
livelli soglia diventeranno, all’interno del QCER, il livello B1. Tra il 1996 ed il 2001 un grande
gruppo di studiosi, dislocati in vari paesi europei, cominciano a lavorare a quello che diventerà il
quadro comune europeo. Questo gruppo di linguisti, glottodidatti, persone che si occupano di
politica linguistica, di integrazione etc. decide che l’Europa ha bisogno di alcune linee guide
comuni per quanto riguarda l’insegnamento delle lingue. Serve uno strumento che funga da
vademecum. Questo gruppo di studiosi si dà delle indicazioni di base quali il voler avere una
continuità con il passato (no sconvolgere le pratiche, ma proporsi come una sistematizzazione
delle conoscenze che già si sono sedimentate nel tempo) e punta a sviluppare un modello di
competenza — a chi si occupa di redigere questo QCER interessa riuscire a creare un pro lo che
possa adattarsi a qualsiasi lingua, e quindi poter creare un documento che possa (aldilà delle
singole storie nazionali dell’insegnamento delle lingue) trasmettere un’idea di lingua e di che cosa
signi ca sapere una lingua che possa essere condiviso da tutti. Nel 2001 esce questo
documento, prima in inglese, che costituisce il primo esempio di documento condiviso e quindi
rielaborato dal basso, rivisto dall’alto e poi trasmesso verso il basso. Come dicevamo, nel 2001
escono le versioni in inglese e francese del QCER, che poi viene tradotto in tutte le lingue del
Consiglio d’Europa. Questo quadro comune di riferimento per le lingue diventa uno strumento
ineliminabile per l’apprendimento delle lingue, ma chiaramente il tempo passa e nel 2018 esce il
“companion” (volume complementare), che è stato tradotto in italiano nel 2020. Non è un nuovo
QCER, ma piuttosto qualcosa che si aggiunge e che estende i descrittori della competenza
linguistica previsti dal QCER del 2001.

Quali sono le nalità che si pongono gli estensori del QCER?


Sappiamo che è un documento politico. Le sue nalità sono innanzitutto di promuovere il
plurilinguismo e di dare una risposta alla diversità culturale e linguistica delle varie comunità.
Questa è una dichiarazione d’intenti da parte dell’ Europa nei confronti di ciò che viene fatto negli
Stati Uniti (dove vi è un’unica lingua che uni ca). L’altro ambito in cui il QCER promuove il
plurilinguismo è quello della valorizzazione delle competenza parziali, il che signi ca non
insistere a nché le persone acquisiscano le competenza di livello più alto in un’unica lingua
ritenendo che questo sia l’obiettivo da raggiungere, bensì valorizza il fatto che le persone posso
aver anche solo delle competenze di comprensione orale in una lingua o che possono parlare una
lingua minoritaria o un dialetto anche senza essere in grado di scriverlo. Altra nalità è quella di
aumentare la consapevolezza dei processi di apprendimento — no a quel momento chi
insegnava le LS e chi le imparava non aveva consapevolezza di come questo apprendimento
avvenisse e attraverso la sua organizzazione il QCER vuole invece rendere pubblica e condivisa
tale consapevolezza, insistendo anche su quanto sia importante che gli apprendenti imparino ad
imparare le lingue. In ne, una nalità essenziale è quella di creare un codice comune tra gli
operatori per facilitarne la comunicazione secondo criteri di trasparenza (dichiarare in maniera
precisa a cosa corrisponde la competenza del singolo), coerenza (quando si descrive una competenza
orale ci devono essere dei descrittori coerenti per descrivere anche la comprensione scritta o la
produzione scritta) e onnicomprensività (devono essere presi in considerazione tutti gli aspetti della
lingua).

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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE
Vediamo ora come è strutturato e qual è il suo impianto teorico. I livelli sono tre e sono organizzati
al loro interno in sottolivelli. Ciascun livello ha un suo nome, il che deriva dal ruolo che queste
competenze possono avere nella vita dell’apprendente.

[…] Per quanto riguarda l’impianto


teorico, dobbiamo fare una premessa: il
QCER trasmette una nozione di
competenza (ossia “che cosa signi ca
sapere una lingua”). Il QCER parte da
questa a ermazione: “Per svolgere i
compiti e le attività richiesti nelle varie
situazioni comunicative, chi usa e
apprende una lingua si avvale di un
insieme di competenze acquisite nel
corso della propria esperienza.“ Si rivolge
sia a chi usa una lingua sia per gli
apprendenti, quindi non è uno
strumento esclusivo. Il QCER distingue
tra competenze generali e competenze linguistico-comunicative. Le prime si riferiscono al sapere,
al saper fare, saper essere e al sapere apprendere (riguardo alla persona in generali). Le seconde
si riferiscono invece ad una competenza linguistica in senso stretto, una competenza socio-
linguistica e una competenza pragmatica. Tutto questo si concretizza nel QCER attraverso i
descrittori, ciascuno dei quali ha determinate caratteristiche che rispecchiano questa loso a di
fondo. Vediamo degli esempi.

Il
QCER è strutturato in nove capitoli che si organizzano in questo modo:

* notiamo che nel


capitolo 6 il QCER dà
degli accenni di
glottodidattica senza
essere però mai
prescrittivo; non
impone mai un
metodo ma dà dei
consigli/indicazioni, e
suggerisce sempre di
trattare l’errore come
una spia
dell’apprendimento e
mai come qualcosa
da punire.

[…]

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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE

Vediamo ora quali sono le criticità dei descrittori del QCER. Innanzitutto, alcune di queste si
riferiscono alla terminologia che viene utilizzata: nel QCER si dice che la “competenza linguistico-
culturale dell’apprendente è attualizzata nella messa in atto di varie attività linguistiche che
comprendono la ricezione, la produzione, l’interazione e la mediazione.” Noi abbiamo sempre
chiamato tutto questo “abilità linguistiche”, non “attività”. Altro problema riguarda il fatto che il
QCER è stato pensato per la situazione di lingua straniera, quindi di un contesto in cui si impara
una lingua (contesto formale, percorso scolastico) e si tende ad ignorare la situazione
dell’apprendimento informale — vi sono diversi aspetti che non sono contemplati. Ad esempio,
nel QCER del 2001 manca un livello inferiore ad A1 (vi possono essere casi in cui uno studente
può non essere alfabetizzato per rientrare nell’A1). Inoltre, il QCER non prende in considerazione
che ci possano essere situazioni di input misto (acquisizione naturale + acquisizione strutturata in
classe) — la progressione della competenza non segue i livelli. Altro punto delicato è l’età
dell’apprendente: il QCER describe bene quali sono le abilità che si possono acquisire a scuola
per una fascia d’età precisa. É un modello elaborato per studenti adulti, non per apprendenti in
età scolare — in de nitiva, ignora tutta la fascia giovane (es. C2: “può scrivere in modo scorrevole e
avvincente storie e racconti di esperienze con uno stile appropriato al genere richiesto” => non può
esistere un parlante C2 di 8 anni). In ne, altro problema riguarda l’internazionalizzazione e dunque il
fatto che molti paesi non europei hanno già dei sistemi di valutazione per le varie lingue — sarà
necessario trovare una armonizzazione.

Prendendo in considerazione il fatto che ci sono stati molti cambiamenti, è nato il volume
complementare. Quali sono, di conseguenza, i tratti dell’evoluzione della società che hanno
maggiormente coinvolto l’aspetto linguistico? Innanzitutto, ci sono stati fortissimi cambiamenti dal
pov sociale (globalizzazione, società multilinguistica e multiculturale; mobilità su ampia scala;
creazione di comunità di diversi tipi all’interno degli stati nazionali, es. lingue minoritarie).

Vi sono inoltre stati grossi cambiamenti educativi: si è andati verso un’idea di educazione sempre
più inclusiva e democratica per cui si deve valorizzare la ricchezza linguistica di tutti, oltre al fatto
che si promuove una cittadinanza europea/globale e non un nazionalismo. In ne, vi sono stati dei
cambiamenti educativo-linguistici con una forte evoluzione della linguistica educativa. A questo
proposito, vi è stato il superamento del fatto che si identi chi una lingua con una nazione (lingua-
identità, prospettiva monolingue). Non c’è più la contrapposizione nativo (con livello alto di
competenza linguistica) contro non nativo (con livello basso di competenza linguistica), ma
soprattutto chi è il nativo? Colui che risiede in Italia da molte generazioni ma che parla un italiano più
povero dello “straniero” che è arrivato in Italia, ha seguito un corso di studi e parla un italiano molto
ricco ed adeguato alle varie situazioni sociali? Oltre al superamento di questa dicotomia, vi è stato
un ampliamento della competenza comunicativa (non più solo parlare, scrivere, leggere, ascoltare,
dialogare).

Partendo da questi cambiamenti educativo-linguistici vediamo come il volume complementare ha


cercato di rispondere — quale sono le parole chiave che il volume complementare dichiara in
apertura e che porta avanti durante il suo sviluppo?

- partecipazione (intesa come la chiave di volta della cittadinanza del 2020/2030 — bisogna far
in modo che tutte le persone abbiano gli strumenti per partecipare alla vita sociale; la lingua è
difatti un elemento essenziale).

- diversità (linguistico-culturale, personale, sociale, estetica), la sua valorizzazione ed il suo


mantenimento

- mediazione (tutte le persone hanno l’abilità di mediare tra testi, tra persone con lingua diverse,
mediare tra situazioni e codici diversi)

- innovazione (saper usare strumenti digitali)

- creatività
Vediamo nelle prossime slide quali di erenze mostra il VC 2020 rispetto al QCER 2002. 

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INSEGNAMENTO DELLE LINGUE

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