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Alcune informazioni sul valdismo (da Enciclopedia Italiana/Treccani)

Il valdismo è un movimento religioso originatosi in Francia nel XII sec. e confluito


successivamente nella Riforma protestante.
Esso iniziò dall’attività di un mercante lionese, Valdo (o Valdesio), nato verso il 1140. Nel
1176 un avvertimento celeste avrebbe indotto Valdo alla conversione: avendo chiesto a un teologo
quale fosse la via perfetta alla salvezza, si sentì ripetere la consegna di Gesù al giovane ricco: «se
vuoi essere perfetto, vendi ciò che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e
seguimi» (Matteo 19-21). Valdo cedette alla moglie i beni immobili che possedeva, restituì ciò che
riteneva di avere indebitamente ricevuto e distribuì il suo capitale liquido al popolo. Si diede quindi
a predicare il suo ideale di povertà tra le classi più umili, diffondendo in pari tempo fra esse il
Vangelo nella traduzione volgare dovuta a Bernardo Ydros e Stefano d’Anse. Presto numerosi
seguaci (i Poveri di Cristo o Poveri di Lione) si strinsero intorno a lui e cominciarono a predicare la
parola di Dio nella campagna e nelle città vicine. Invitato dall’arcivescovo di Lione, Guichard, ad
astenersi da ogni forma di predicazione e di spiegazione delle Scritture, Valdo rifiutò e, con tutti i
suoi seguaci, fu espulso dalla diocesi di Lione (1177). Però una separazione netta dalla Chiesa
ufficiale si ebbe solo dopo la nomina del nuovo arcivescovo di Lione, Giovanni de Bellesmains
(1181). Considerati come ribelli e cacciati nuovamente da Lione, i valdesi furono esplicitamente
condannati dal sinodo di Verona (1184).
Il movimento valdese non ha alle origini alcun atteggiamento esplicito di rivolta contro la
Chiesa: è un movimento laico di liberi predicatori, che intende portare la parola di Gesù a diretto
contatto delle classi più umili e più povere, e, come tanti altri movimenti contemporanei, vuol
essere prima di tutto rinuncia totale a ogni ricchezza attraverso il voto di povertà. Ciò che
costituisce il tratto distintivo del valdismo originario di fronte al francescanesimo è l’insistenza sul
diritto alla predicazione per i laici.
Durante il XIII e il XIV sec. il valdismo mantenne intatto il suo carattere di movimento
evangelico e rifiutò ogni sistema filosofico-teologico, mostrando anzi una singolare ripugnanza a
ogni innovazione di carattere dogmatico. Muovendo da una libera interpretazione del Vangelo,
diffondeva nel popolo precetti di morale pratica, positiva, e prospettava come esempio da seguire la
vita degli apostoli: i valdesi predicavano la povertà e l’astensione dal lavoro; vivevano d’elemosina;
condannavano come illeciti la menzogna, il giuramento e ogni forma di giudizio; praticavano la
continenza, non in odio alla materia creata, ma per desiderio di perfezione. Proclamavano inoltre
l’uguaglianza di tutti i fedeli nell’ambito della Chiesa e il sacerdozio universale fondato unicamente
sul merito individuale (affidato a tutti, uomini e donne) e non sopra una consacrazione esteriore:
1
rifiutavano i sacramenti, impartiti dagli ecclesiastici; praticavano la confessione l’un con l’altro;
negavano la transustanziazione e la validità della Messa; rifiutavano la venerazione dei santi e la
preghiera per i defunti, non ammettendo la comunione dei santi, né il Purgatorio. Perseguitati
accanitamente, dopo due secoli e mezzo, erano praticamente scomparsi dall’Austria, Germania,
Francia, Spagna.
Il gruppo valdese destinato a sussistere e a mantenersi intatto attraverso i secoli fu quello che
si venne raccogliendo, fin dal XIII sec., in alcune valli delle Alpi Cozie. All’inizio furono ben
accolti, ma nel corso del tempo subirono persecuzioni.
Il movimento valdese acquistò una totale autonomia di fronte alla Chiesa cattolica solo con
l’adesione alla Riforma, decisa nel sinodo di Chanforan presso Angrogna (piccola città vicino
Torino, 12 settembre 1532), nel quale si decise anche l’istituzione del culto pubblico: fu bandita
ogni forma di simulazione e di compromesso riguardo alla partecipazione dei valdesi alle cerimonie
del culto cattolico e fu infine accettata una formula di fede che implicava l’adesione dei valdesi alle
idee dei riformatori svizzeri in merito alla predestinazione, alle opere buone, al giuramento, alla
confessione fatta a Dio soltanto, al riposo domenicale, al digiuno non obbligatorio, al matrimonio
lecito anche ai ministri, al riconoscimento di due soli sacramenti: battesimo ed eucaristia.
L’adesione alla Riforma segnò l’inizio di lunghe persecuzioni che, salvo brevi interruzioni,
durarono due secoli [si noti che anche le comunità calabre furono sottoposte a repressione violenta
tra fine maggio e inizio giugno del 1561, su questo vd. infra].

Valdesi nel Mediterraneo. Tra medioevo e prima età moderna (2009)

Introduzione

Nel panorama degli studi storici il valdismo occupa una posizione marginale, caratteristica è
ravvisabile anche in associazione alla loro pratica religiosa rispetto alla fede cattolica (si noti che
marginalità non implichi il concetto di inferiorità, ma semplicemente quello di occupare una
posizione marginale in un dato contesto). La marginalità del popolo valdese fu anche sociale e
geografica. All’interno della storia del valdismo si può delimitare una storia nel valdismo nell’Itali
meridionale. Tale vicenda storica è stata trascurata anche nell’ambito del più vasto fenomeno del
valdismo, in favore dei movimenti istauratisi in Francia e in Italia settentrionale. Vale, però, la pena
interrogarsi sulle modalità che questo fenomeno mostrò in Italia meridionale. Ci si potrà accorgere
che non si tratta di movimenti transitori di persone ma di vere e proprie presenze sia nell’ambito

2
religioso, sia in quello sociale, sia in quello geografico, sia in quello economico che hanno avuto
una loro stratificazione e importanza e consistenza storica.
Da un punto di vista religioso la vicenda dei valdesi nell’Italia meridionale ha visto un certo
interesse a causa delle repressioni che subirono nel XVI sec., ma è necessario pensare, documenti
alla mano, anche al complesso dei fenomeni migratori e all’altrettanto complesso mosaico di culture
che li caratterizzano.
I primi a nutrire un interesse più ampio verso il fenomeno del valdismo meridionale furono
vari eruditi locali, i quali, però, non seppero elevare le loro ricerche fino ad avere uno sguardo
d’insieme, o che almeno non coinvolgesse soltanto le loro comunità, anche quelle vicine. A tale
scopo è necessaria, oggi, una rivalutazione da parte degli studiosi, che sappiano ricostruire non
soltanto l’aspetto religioso, sociale, economico delle comunità valdesi del Mezzogiorno, ma anche
le dinamiche interne agli stessi gruppi e quelle esterne, ossia i rapporti con le diverse forme di
potere (statale, feudale, ecclesiastico). Tali studi, devono, infine comprendere la natura e le forme
del valdismo meridionale in relazione al più ampio fenomeno migratorio dell’epoca, soprattutto
nella dimensione dei movimenti a causa della religione, in modo da restituire quella ragnatela
migratoria che caratterizzava i rapporti complessi tra questi gruppi, le popolazioni autoctone, le
comunità d’origine e quelle con cui si intrattenevano rapporti a vario titolo, sia in Italia, sia
all’estero (soprattutto Ginevra, città di Calvino). Ci si renderà conto che il valdismo in Italia
meridionale, lungi dall’essere un fenomeno marginale, era piuttosto una realtà variegata e
consolidata, che si può riassumere con la formula di valdismo mediterraneo.
Nb.: il libro raccoglie gli atti del Convegno “Valdismo mediterraneo tra medioevo e prima
età moderna” tenutosi a Fisciano e Pagani il 4 e 5 dicembre 2008. Si articola secondo alcune
tematiche: in primo luogo si parte da una valutazione storica sia della Chiesa all’epoca in cui
nacque e si sviluppò il movimento valdese (Azzara), sia del complesso fenomeno migratorio che
per motivi religiosi interessò il Sud (Fratini). Il nucleo più consistente del Convegno riguarda gli
interventi che hanno gettato luce sull’identità delle comunità valdesi nel Mezzogiorno. I vari
contributi sono basati su un solido utilizzo di fonti d’archivio (Tortora, Barra, Zumpano Ciaccio) e
si occupa sia di aspetti storici, sia di aspetti sociali, economici e politici, senza trascurare di offrire
una ricostruzione documentata sulle stragi del 1561. Un altro nucleo di ricerca ha analizzato la
diffusione delle vicende e delle idee valdesi nel resto dell’Europa (Gilmont, de Lange). L’ultima
sezione si è soffermata in particolare sull’aspetto politico, occupandosi di indagare il ruolo che ebbe
il potere statuale e soprattutto quello feudale nell’evoluzione della vicenda valdese.

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Parte prima. Questioni storiche e storiografiche

1. La chiesa e il papato nell’età di Valdesio


di Claudio Azzara

L’esperienza di Valdesio si situava in un momento storico cruciale, ossia sul finire del XII
sec., quando i processi avviati in precedenza, nell’XI sec., iniziavano a mostrare i loro esiti; tali
processi sono sintetizzabili con il termine di riforma gregoriana 1. In particolare la Chiesa si
organizzava sempre più in senso gerarchico e soprattutto si svincolava dall’ingerenza del potere
laico, fino a teorizzare una supremazia della Chiesa sul potere laico. Il ruolo centrale in questo
processo fu rivestito dal papato che iniziava a emanciparsi dal controllo delle famiglie aristocratiche
romane, le quali, lottando per il soglio pontificio, avevano causato un indebolimento della figura
papale, ed erano state fonte di scandalo. Ormai l’elezione del pontefice non era più soltanto una
questione romana, ma attirava l’attenzione di tutte le forze politiche ed intellettuali dell’Occidente
cristiano. In tale contesto risultò rafforzato il rapporto fra Roma e il re di Francia. Un altro aspetto
importante è che l’elezione veniva riservata, dal 1059 in poi, soltanto a vescovi, preti, diaconi e
cardinali, sottraendola di fatto i laici. E nel 1179 si decretava la necessità di eleggere il pontefice
con almeno i due terzi delle preferenze, in modo da rendere più stabile il suo pontificato. I cardinali
fungevano da principali collaboratori del papa, che li sceglieva da famiglie particolarmente fidate.
Nel corso del XII sec., inoltre, si rafforzava anche il potere giurisdizionale della Santa Sede, al
quale ricorrevano, ormai, non solo le autorità ecclesiastiche, ma anche molte autorità laiche.
Dal punto di vista teorico un apporto fondamentale fu dato da san Bernardo di Chiaravalle, il
quale teorizzò il governo del papa sul mondo intero. Tale interpretazione era consentita dal fatto che
il papa fosse inteso come vicario di Cristo sulla terra, e pertanto fosse re e sacerdote allo stesso
tempo, a imitazione esclusiva di Cristo. Non a caso la formula «vicarius Christi» per indicare il
papa entrò regolarmente nell’uso della cancelleria pontificia dell’epoca, sovrapponendosi alla
tradizionale forma «successore di Pietro». Ciò portò a un inevitabile scontro del potere imperiale.
Federico I, incoronato nel 1555, attraverso la riscoperta del diritto romano riprese l’idea del
princeps quale monarca universale, perfettamente autonomo da ogni altra autorità, in quanto
investito del suo potere direttamente da Dio, senza intermediazioni. È tutto il contrario della teoria

1
Serie di riforme che fra i secc. XI e XII caratterizzarono l’operato dei pontefici romani - soprattutto quello di Gregorio
VII, da cui il nome – e che erano tese al ristabilimento dell’integrità morale del clero, all’eliminazione di ingerenze
laiche e all’esaltazione della funzione papale, riorganizzata secondo lo schema monarchico, intesa come guida unitaria e
suprema della Chiesa. In particolare la Chiesa era la sola che avesse il potere di nominare, di trasferire e di deporre i
vescovi (si pone fine alla lotta per le investiture, ossia alla prassi da parte del potere laico di nominare vescovi a sua
scelta).
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portata avanti dal papato, ossia dell’Impero inteso come protettore della Chiesa e strumento per il
governo temporale della società cristiana. Nel corso del XII sec. l’ingerenza del papato causò
contrasti anche con altri Stati, tra cui l’Inghilterra; si possono ravvisare in questi scontri gli albori di
una presa di coscienza di sé dei vari regni occidentali.
L’apice del potere papale fu raggiunto da Innocenzo III (Lotario dei Conti di Segni) a
cavallo fra i secc. XII e XIII. La sua ingerenza si fece sentire a vari livelli nei diversi stati europei,
fino a giocare un ruolo fondamentale nella travagliata successione al trono dell’Impero, una volta
morto Enrico VI (1197), decretando la vittoria finale di Federico II, di cui era tutore. Il suo potere
raggiunse un tale grado di prestigio che, dopo la conquista di Costantinopoli del 1204 durante la IV
crociata, impose le strutture ecclesiastiche romane e lo stesso primato del papa anche sui territori
ortodossi. Sotto Innocenzo III fu formulata la teoria della plenitudo potestatis, ossia la supremazia
assoluta del pontefice su qualsiasi altra autorità, in quanto il suo potere non derivava dalla Chiesa,
ma da Cristo stesso. Uno dei motivi di questo successo risiedeva nella perfetta organizzazione della
macchina burocratica, grazie alla quale, tra l’altro, il papa poteva disporre ovunque di uomini di sua
fiducia. Si assistette, inoltre, a un rafforzamento del potere territoriale del papato che riuscì a
ottenere terre cadute nel corso del tempo a signori locali. Si ebbe la creazione di un dominio che
corrisponde grosso modo agli attuali Lazio, Umbria, Marche, a cui si aggiunse in seguito la
Romagna. Non da ultimo il papato riuscì a incrementare le entrate finanziarie in modo da poter
sostenere le crescenti spese. Innocenzo III poté, comunque, portare avanti la sua politica grazie a
una impostazione ideologica imprescindibile: il contrasto di ogni forma di dissenso e di
disobbedienza religiosa.
Già dall’XI sec., infatti, l’intera cristianità era percorsa da importanti fermenti spirituali che
si erano manifestati presso tutti gli strati del corpo sociale. Tali tendenze coinvolsero soprattutto i
laici, e si erano espressero in una grande varietà di dottrine, di atteggiamenti e di movimenti più o
meno organizzati ed estesi. Se i fenomeni di eresia che si manifestarono nei primi secoli del
Cristianesimo erano soprattutto di natura dottrinaria e ideologica, in questo contesto la critica
ricorrente era sempre rivolta a condannare la ricchezza della Chiesa, il suo esercizio del potere
temporale, l’indegnità morale di non piccola parte del clero e la pretesa da parte di questo di essere
l’interprete esclusivo della Parola di Dio. Tali movimenti vagheggiavano diffusamente un ritorno
del clero e dei fedeli alla povertà apostolica. Non poche volte, inoltre, questa polemica si legava a
una generale insoddisfazione per l’ordine politico e sociale esistente, coinvolgendo soprattutto gli
emarginati, i poveri, gli esclusi. È per questo motivo che sia le istituzioni ecclesiastiche, sia quelle
laiche si trovarono subito d’accordo nel condannare e reprimere questi fenomeni, utilizzando tutti
gli strumenti sia intellettuali sia materiali a disposizione.

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Si definirono le idee e i comportamenti da bollare come eretici, in modo da poterli
individuare e punire prontamente. Il papato si proclamò unico interprete della retta fede, tramite una
serie di atti ufficiali, tra i quali ci fu la bolla Ad abolendam disposta da papa Lucio III nel 1184 con
la quale si avviava la persecuzione del movimento pauperistico di Valdesio. L’autorità ecclesiastica
denunciava gli eretici, e il potere temporale si occupava della persecuzione e della punizione
materiale, pena la scomunica e la perdita dell’ufficio. È da segnalare, comunque, l’impegno di
alcuni pontefici a recuperare quando possibile alcune frange eterodosse: è il caso di Innocenzo III,
che ricondusse alla Chiesa il movimento degli umiliati diffuso in Italia settentrionale e approvò il
progetto di vita di san Francesco d’Assisi, il quale pure rischiava di sfociare nell’eresia. L’azione di
Innocenzo III, tuttavia, non era compiuta senza prudenza, ma solo dopo aver ricevuto da Francesco
il giuramento di incondizionata fedeltà al papa. Era, del resto, dovere del papa, in quanto investito
direttamente da Cristo, di ricondurre le pecore smarrite nel suo gregge e portarle alla salvezza
eterna. Il successore di Innocenzo III, ossia Onorio III, istituzionalizzò la comunità dei seguaci di
Francesco in ordine e ne accolse la regola, e lo stesso fece con quello fondato dal castigliano
Domenico di Guzmán, poi noto come ordine dei domenicani. La forza di questi due movimenti
risiedeva nella pratica della povertà, nel rispondere ai bisogni spirituali del tempo, diventando
concorrenti della predicazione ereticale. Molti altri movimenti, invece, non volendosi sottomettere e
rientrare nell’alveo della Chiesa, come il movimento di Valdesio, subirono una feroce persecuzione.

2. Per una geografia del valdismo mediterraneo


di Marco Fratini

Negli ultimi studi è stata sentita sempre più viva l’esigenza di ricostruire gli spostamenti che
coinvolsero interi gruppi o singole persone, mosse da intenti religiosi. Da ciò si è compreso come
movimenti eterodossi nati oltralpe si siano diffusi in una certa misura anche nel bacino del
Mediterraneo. Se è stato giustamente formulato il concetto di valdismo mediterraneo, analogamente
le fonti ci autorizzano a parlare di un calvinismo 2 mediterraneo. È stato sempre più spesso possibile
ricostruire, dai documenti, una diffusione del Calvinismo da Ginevra, città dove operò Calvino,
anche in centri molto lontani e che non avevano potuto maturare tali idee in maniera autoctona. Un
caso esemplare è quello di Nicola Gallo, originario della Sardegna, che nel 1558 subì a Ginevra un
processo per aver simpatizzato per dottrine antitrinitarie; Gallo era entrato in contatto con le idee di
Calvino nella sua stessa terra.

2
Per approfondire: https://www.treccani.it/enciclopedia/calvino-e-il-calvinismo_%28Enciclopedia-dei-ragazzi%29/
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Seguendo la documentazione appare che tali idee viaggiassero e si sovrapponessero alle
rotte commerciali dell’epoca. Sarebbe opportuno considerare questi movimenti in diacronia, ossia a
vari livelli temporali, in modo da ricostruire l’evoluzione della diffusione del valdismo, e di risalire
alle origini degli insediamenti nel Sud Italia. Porre al centro del dibattito tale questione vuol dire
non considerare la vicenda valdese soltanto per quanto riguarda le repressioni in Calabria, ma vuol
dire constatarne la presenza, per quanto marginale, effettiva e duratura. Individuare questa presenza,
poi, consentirebbe agli storici di descrivere meglio la problematicità e la pluralità presente nelle
società meridionali al passaggio dal Medioevo all’Età moderna. Per avere un quadro completo,
inoltre c’è l’esigenza di studiare queste comunità non soltanto dal punto di vista religioso, ma anche
antropologico, in modo da comprendere anche il modello economico di queste società. Al contrario
del calvinismo mediterraneo, che ebbe una componente migratoria molto contenuta, le
caratteristiche del valdismo mediterraneo videro, invece, una forte componente migratoria, che ne
influenzò fortemente il destino storico. Il fattore geografico, che implicava il rapportarsi alle
comunità preesistenti, e il fattore migratorio furono molto importanti, poiché determinarono la
configurazione di queste comunità. Si pone un forte problema di identità: bisogna chiedersi non
soltanto chi fossero i valdesi, ma anche come si relazionassero, spesso dissimulando la propria
religiosità, con le comunità ospitanti, in che cosa si assimilassero e come si distinguessero.
I movimenti di comunità valdesi interessarono, nei momenti di maggiore accanimento,
gruppi numericamente elevati. Questi gruppi mostrarono un grado tale di coesione, al punto da
costituire non poche volte la maggioranza o la totalità dei borghi in cui si insediavano. Il fenomeno
delle migrazioni, già iniziato nel XIV sec. divenne sempre più articolato e organizzato. Tale
fenomeno fu contrastato dalle popolazioni locali: nel Mezzogiorno, infatti, il problema della
diversità religiosa fu sollecitato da quello etnico. L’Inquisizione, nel Cinquecento, sfruttò questa
condizione per uniformare il credo e frantumare i corpi estranei. Ma prima di arrivare a questa
situazione le regioni meridionali divennero, nell’immaginario dei valdesi delle Alpi e di quelli
provenzali un prolungamento delle loro comunità, quasi una terra promessa per loro. Con le
repressioni del XVI sec. i valdesi tornarono ad assumere la dimensione di fuggiaschi. E qui entrano
in gioco i rapporti con altre comunità o altre confessioni non cattoliche.
Tra queste si nota un ruolo particolare di Ginevra e del flusso di predicatori che inviava in
giro per il Mediterraneo. In particolare sembra che Ginevra soccorse materialmente le comunità che
avevano subito repressione, al punto che un gran numero di profughi si rifugiò nella stessa città
svizzera (la stima è, comunque, inquantificabile per incompletezza delle fonti). Ma perché si erano
instaurati tali rapporti? Il numero dei valdesi nel Mezzogiorno era divenuto tale da essere ritenuto
degno di attenzione da parte dei Protestanti: probabilmente i calvinisti dovettero nutrire il progetto

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di instaurare in queste comunità la sede operativa per predicare le loro idee in Italia. Questo
progetto fallì ben presto, molto prima di vedere la luce. Lo studio di queste relazioni, non solo con
Ginevra, ma anche con le altre comunità che erano in relazione con il Sud e che portarono soccorso
al bisogno, sarebbe un grande aiuto per ricostruire una valida mappa del valdismo in Italia.
Seguendo gli spostamenti sia dei valdesi che dei protestanti si potrebbe ricostruire ancora meglio
quella ragnatela migratoria (Tortora) fondata non solo su motivazioni di ordine economico, ma
anche sulla necessità di mantenere rapporti in una situazione di dispersione e di marginalità. Non a
caso coloro che dopo le repressioni restarono nei borghi dove erano insediati ricevettero, fra le altre
imposizioni, anche quella di non intrattenere relazioni con quelli dei paesi ultramontani (i valdesi
delle Alpi o della Provenza) e con quelli che erano fuggiti. Ciò implica che coloro che erano rimasti
avrebbero potuto viaggiare verso i fuggiaschi o le comunità originarie. Si ci può, per converso,
chiedere se ci siano stati viaggi di ritorno da parte dei fuggitivi, o se per lo più le emigrazioni
fossero definitive. Ciò che emerge, comunque, è che i valdesi continuarono a predicare di nascosto,
portando aiuto ai membri delle loro comunità ovunque si trovassero.

Parte seconda. I valdesi nel Mezzogiorno d’Italia

3. Nuove fonti sulle presenze valdesi del Mezzogiorno d’Italia tra medioevo e
prima età moderna
di Alfonso Tortora

Questo contributo è stato ripubblicato, ampliato e corretto, in I valdesi nel Mezzogiorno


d’Italia, a cui si rimanda infra.

4. Note sugli insediamenti valdesi del Sub-appennino dauno-irpino


di Francesco Barra

La configurazione geografica dell’area dell’Appennino dauno-irpina3 presenta una grande


frammentazione, ragion per cui anche a livello amministrativo abbiamo l’attuale divisione in due
province: Avellino e Foggia, appartenenti a loro volta a due regioni diverse. Tale condizione si
riflette anche nelle vicende storiche, in cui si sono spesso visti opposti i poteri che governavano i

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Appendice dell’Appendino meridionale distribuito maggiormente ai confini della Puglia, nel foggiano, ma che
interessa anche il confine con la Campania, estendendosi nella parte estrema delle province di Benevento e Avellino.
Una piccola propaggine rientra, in realtà, anche nella provincia molisana di Campobasso.
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diversi versanti dell’Appennino, come ad es. fu la dialettica fra Longobardi e Bizantini, che intorno
all’anno Mille ha trovato in quella zona i punti di contatto più fecondi e dinamici.
Nel Trecento si verificò un crollo demografico della zona, con conseguente destrutturazione
dei centri abitati minori e un nuovo assetto produttivo. L’area divenne soprattutto terra di
immigrazione, ad opera prima dei franco-provenzali di fede valdese e poi di popolazioni albanesi e
dalmatine. I primi insediamenti franco-provenzali nella zona si ricollegano al periodo fra il 1268 e il
1302, quando Carlo I d’Angiò ordinò il ripopolamento della zona di Lucera 4, distrutta dai Saraceni,
con famiglie originarie della Provenza. Tale tentativo si rivelò fallimentare, ma coloro che rimasero
in Italia si spostarono più giù, alle falde dell’Appennino, dove le condizioni climatiche erano più
favorevoli.
L’area in seguito subì altre ondate migratorie, e un ruolo chiave fu svolto proprio dai
valdesi. Tali zone erano favorevoli per due motivi: da un lato i valdesi si sentivano sicuri perché
appartati, ma non tanto da non essere vicini alle principali vie di comunicazione, ossia il tratturo
(sentiero per lo spostamento delle greggi) Pescasseroli-Candela e la via regia delle Puglie. I
predicatori, invece, si avvalevano dei sentieri montani. Un ulteriore elemento di vantaggio per i
valdesi era anche la frammentazione dal punto di vista dell’amministrazione religiosa: l’area, infatti,
essendo sottoposta a cinque diocesi, era più debole dal punto vista dell’amministrazione
ecclesiastica. Il modo privato di professare la fede da parte dei valdesi, poi, fece sì che essi per
lungo tempo venissero confusi con gli albanesi.
Da alcuni documenti che stanno emergendo dagli studi odierni si rileva come i valdesi
trovassero buona accoglienza presso i feudatari delle aree in cui si stabilivano. Un esempio ne è la
legislazione di Castelluccio Valmaggiore5 del 1465, che si dice aperta anche nel futuro ad
accogliere questi migranti, con i quali si fissavano gli obblighi tributari, altri tipi di doveri, ed
eventuali diritti. Non meno importante è la legislazione che riguarda Volturara Appula 6, la quale
saccheggiata dai francesi nel 1528, auspicava l’insediamento di altre comunità provenzali, oltre
quelle già insediate, alle quali si prometteva di vivere liberamente, secondo le loro consuetudini. Il
tratto interessante è che entrambe queste legislazioni non sono composte da decreti singoli, ma
annoverano l’intervento nel tempo dei successivi feudatari che manifestano tutti la tendenza ad
accogliere queste comunità giudicate laboriose e pacifiche.

5. Valdesi in transito e le fonti del Venerabile Hospedale di Spezzano Piccolo


di Eduardo Zumpano

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Comune del foggiano di notevole importanza strategica, si situa su un territorio collinare.
5
Comune del foggiano situato alle falde dei monti dauni, si estende nei pressi del fiume Celone.
6
Comune del foggiano situato sulle alture dei monti dauni.
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In questo articolo si analizza il registro del Venerabile Hospedale di Spezzano Piccolo 7 per
esaminare il flusso in transito nelle regioni meridionali, e specialmente in Calabria, di valdesi.
Spezzano, infatti, stando alla nostra documentazione, non è mai stato un insediamento valdese, o di
altre comunità eterodosse, ma ha visto transitare pellegrini diretti verso la Terra Santa, e di fatto,
ospitava una delle più importanti istituzioni caritatevoli della Calabria: il Venerabile Hospedale.
Tali opere di carità nacquero diffusamente durante l’età moderna per sopperire alla povertà
dilagante e alle esigenze di una società in movimento e bisognosa dei più elementari servizi sociali.
Nella gestione di questi organismi un ruolo importante venne svolto direttamente non solo dai ceti
nobiliari e borghesi, ma anche dalla Chiesa cattolica. Più precisamente gli hospedali fungevano da
ricoveri per le persone povere e per i pellegrini in transito.
Nei registri di questo hospedale troviamo registrati circa 315 eretici in generale, convertiti o
meno, che chiedevano rifugio e assistenza. La permanenza in alcuni luoghi di molti assistiti (che
quindi non si limitarono al semplice transito occasionale) può essere dedotta, ad esempio, dalla
presenza di alcuni cognomi tuttora diffusi. Un esempio è il cognome Ricciardone, che è sicuramente
la traslitterazione dell’occitano Reycchardon, tuttora diffuso in zona. Un dato molto importante è
che questi registri riportano fedelmente il nome, il cognome, il luogo di provenienza e soprattutto la
confessione religiosa di colui che chiede alloggio. Un altro dato interessante è che tutti i calvinisti
registrati erano definiti “piemontesi” e “della Valle di Lucerna”: è ragionevole supporre che in
realtà fossero valdesi. Una domanda, dunque, a cui in futuro si dovrà rispondere riguarda il perché
queste persone non avessero paura a dichiararsi, nonostante il rischio di essere denunciati al
Tribunale ecclesiastico. Ciò che si può ricavare, allo stato attuale delle ricerche, è che fino alla metà
del Settecento, e forse oltre, vi erano protestanti in transito che non avevano perso del tutto la loro
identità di valdesi, e che ritornavano, forse, ai loro luoghi d’origine, questa volta senza dissimulare
la propria fede.

6. Famiglie e patrimoni dei calabro-valdesi


di Renata Ciaccio

I modelli di comportamento delle famiglie valdesi stanziate nel Mezzogiorno e


sopravvissute alla repressione del 1561 è stata, di solito, indagata tramite documenti di natura
inquisitoriale e provenienti da archivi ecclesiastici, oppure tramite testimonianze orali raccolte
all’indomani del massacro da storici valdesi più o meno contemporanei agli eventi. Durante il

7
Frazione di Casali del Manco, comune in provincia di Cosenza, situato nel territorio montuoso della Sila.
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Seicento le testimonianze sui modelli di vita si fanno più scarse. Sappiamo, però, che per buona
parte del secolo i calabro-valdesi continueranno a essere vessati dagli abati e dai baroni locali. La
Chiesa, inoltre, che avrà una vigilanza attenta sui relapsi, ossia coloro che si erano riconvertiti
all’eresia, tuttavia non interverrà per frenare gli abusi. Nulla sappiamo sulla vita interna alle
comunità stesse.
È necessario indagare l’identità stessa dei soggetti eretici. Come sottolinea Tortora,
all’epoca dell’incontro di Chanforan del 1532, i valdesi avevano raggiunto una elevata complessità
migratoria, dovuta soprattutto ai massicci trasferimenti del Quattrocento verso il Sud Italia. Ciò
deve aver generato, dunque, una complessità nei nuovi insediamenti, sia per quanto riguarda il
livello della pratica religiosa, sia per quello economico, sociale e politico. Tale complessità ci
riconduce non solo alle parole di Grado Merlo, che parlava di fenomeno dei valdismi, proprio per
indicare questa complessità, ma anche a quelle di Biller, il quale coniava il concetto di
monovaldismo, poiché Biller, pur ammettendo questa condizione variegata, riconosceva la fede
individuale come parametro di riferimento comportamentale. La definizione di ragnatela migratoria
adottata da Tortora rende bene l’idea della particolarità e della ricchezza di contatti di questi
insediamenti, che consentivano ai nuovi arrivati una nuova coesione sociale, sempre attenta, però, a
una strategia difensiva e resa possibile dalla frammentazione politica, fiscale e giurisdizionale del
Mezzogiorno.
Nei luoghi in cui si stanziarono i valdesi – o ultramontani come venivano chiamati nell’alta
Calabria tirrenica – vissero, in un primo momento, in un clima di tolleranza e di accettazione. In
questo contesto non è possibile estrapolare un unico modello di vita, ma delle modalità varie. Non
sempre aiuta la documentazione, poiché raramente essa proviene dai soggetti interessati, ma le fonti
notarili hanno il pregio di consentire di cogliere sia il compromesso nel modo di vivere delle
famiglie valdesi sia i rapporti con il potere politico, in primo luogo l’aristocrazia feudale. Queste
informazioni vengono fuori da una attenta lettura delle formule.
Durante la prima età moderna il Regno di Napoli si trovava in un equilibrio molto delicato
che coinvolgeva soprattutto i rapporti fra monarchia con i poteri locali e con la Chiesa.
Quest’ultimo aspetto è rilevante, in quanto dopo il Concilio di Trento, ci sarà una
confessionalizzazione della politica e una politicizzazione della confessione religiosa. Questo
compromesso consentirà al baronaggio una serie di abusi e soprattutto l’espandersi della
giurisdizione feudale. Il coinvolgimento nella guerra dei Trent’anni da parte della monarchia
spagnola aveva avuto come conseguenza una ricerca affannosa di denaro. Per ovviare a tale
bisogno, fra le altre misure, ci fu la vendita di terre demaniali. Se da un lato ciò screditava l’autorità
dello Stato e ne indeboliva la forza, dall’altro recava vantaggio ai grandi baroni e ai grandi

11
finanzieri e speculatori stranieri, soprattutto genovesi. I baroni non solo si appropriarono dei
territori demaniali, ma esercitarono anche abusi in termini giuridici. Le dimensioni della signoria
erano, comunque, funzionali all’uso delle risorse del territorio, e la Corona tendeva a bilanciare il
peso delle grandi casate, regolando il controllo spaziale delle risorse, in modo che nessuna famiglia
aristocratica potesse avere un accrescimento eccessivo.
Gli insediamenti valdesi insistevano soprattutto sul versante tirrenico della Calabria, ossia la
cosiddetta Calabria citeriore che, tra XVI e XVII sec., subì, oltre a questo processo politico, anche
le ripercussioni che furono determinate da carestie intermittenti, terremoti, epidemie e rivolte
popolari. Dai documenti notarili emerge il cosiddetto polimorfismo valdese, ossia la capacità di
queste comunità di adattarsi al sistema economico vigente, soprattutto nei feudi degli Spinelli e
degli Aragona-Mendoza. Piuttosto che analizzare i singoli atti notarili si è cercato di raggruppare
tutti gli atti disponibili relativi a singole famiglie feudali (si è adottato un criterio geografico,
dunque, che considerasse le realtà insediatesi in un unico feudo) per meglio evidenziare i rapporti
instauratisi tra valdesi e potere locale. Sono stati seguiti gli atti notarili di due notai, Filippo Urselli,
valdese, esercitante a Guardia8, e Giulio Apicella, cattolico, esercitante a Montalto9; entrambi
operavano nella prima metà del Seicento. Dall’andamento degli atti si possono intuire inasprimenti
sia sul piano repressivo sia sul piano tributario, in concomitanza con un periodo difficile o negli
anni appena precedenti.
Dai testamenti redatti da Urselli emergono usi caratteristici, come quello di non far
distinzioni fra maschi e femmine sul piano ereditario (a discapito dell’usanza derivata dal diritto
romano di favorire gli eredi maschi), o di tenere molto molto bassa la dote delle figlie femmine, in
modo da scoraggiare pretendenti cattolici e favorire il matrimonio endogamico. Ciò è segno anche
della chiusura del gruppo etnico e della volontà di non condividere valori e regole. Emerge, inoltre,
dai documenti, un adattamento alla religiosità dominante, poiché nei testamenti sono presenti tutte
le formule devozionali dedicate a Dio, alla Madonna e ai Santi, nonché lasciti alla Chiesa (ma qui
veniva adottata la scappatoia del lascito solo in caso di morte di tutti gli eredi), e per la celebrazione
di messe in suffragio. Tuttavia i valdesi non veneravano né la Madonna, né i santi, e soprattutto non
credevano nel Purgatorio, e quindi ritenevano inutili le messe in suffragio. La presenza, dunque, di
un formulario tradizionale ma modificato in alcune parti può essere un forte indizio di eterodossia.
Erano, inoltre, più propensi a lasciti per opere di carità ed erano più attenti alla sepoltura del corpo.
Erano, inoltre, soliti fare testamento non in punto di morte, ma in perfetta salute, molto
probabilmente per evitare che in punto di morte fossero obbligati a fare lasciti alla Chiesa. In

8
Località di San Sisto, attuale San Sisto dei Valdesi, frazione del comune di San Vincenzo La Costa in provincia di
Cosenza. Il territorio è prevalentemente collinare.
9
Oggi Montalto Uffugo, in provincia di Cosenza, situato su territorio prevalentemente collinare.
12
generale si riscontra che questa comunità praticasse più diffusamente forme di solidarietà, che
avevano il fine di tutelare i membri stessi. Questa comunità, angariata dai tributi ecclesiastici e dai
feudatari, insorse nel 1635. La repressione che ne seguì privò loro di gran parte dei beni e li collocò
in un regime di sorveglianza ancora più stretto.
La situazione a Montalto è, invece, diversa, qui abbiamo alcune famiglie che detenevano la
maggior parte dei terreni, e quindi potevano vantare un certo controllo sull’economia del posto, tra
queste si distingueva la famiglia Muglia. Fra gli atti testamentari e di dote si riscontra una certa
somiglianza con quelli di Guardia, senonché i testamenti redatti da Apicella sono in numero
nettamente inferiore di quelli redatti da Urselli. In numero maggiore sono, invece, gli atti di
compravendita, soprattutto dei Muglia, spesso coinvolti in liti giudiziarie per il recupero di crediti
ormai decorsi. Non mancano transazioni commerciali con i cattolici. Contrariamente alla
consuetudine delle comunità valdesi, poi, erano disponibili a intraprendere la carriera ecclesiastica.
Se, dunque, a Guardia feudalità, Chiesa e potere regio erano allineati in una serie di scambi a
loro beneficio e a danno della popolazione locale, a Montalto, invece, il potere feudale dei degli
Aragona-Mendoza, già da anni in conflitto con il papato e talvolta anche con la Corona, sostenne i
valdesi insediati nei propri casali, specialmente quelli abbienti, poiché proprio da questi gli
provenivano le entrate fiscali maggiori. Questa situazione provocherà, talvolta, il malcontento e la
protesta della parte cattolica.
Per comprendere meglio le radici della conflittualità fra cattolici e valdesi bisogna risalire
alla questione del sequestro dei beni realizzato dal governo spagnolo all’indomani della strage del
giugno 1561. Dopo questa forte repressione, nel 1598, il Santo Uffizio aveva emanato disposizioni
restrittive contro i valdesi di Guardia e San Sisto, ma queste disposizioni non erano state applicate
per i valdesi di Vaccarizzo (frazione di Montalto, dove era forte la presenza dei Muglia). Negli anni
successivi, particolarmente nel 1608, i valdesi di Vaccarizzo protestano per non essere sottoposti
alle pubbliche penitenze, in quanto infamanti a vita, poiché loro non avevano mai abiurato, e,
inoltre, si erano comportati da veri cattolici fin dal loro arrivo in Calabria.
È interessante approfondire il rapporto tra simulazione del credo religioso e ricchezza
economica. I valdesi di Vaccarizzo si erano davvero convertiti, oppure essendo più ricchi
semplicemente riuscivano a pagare un maggiore grado di tolleranza? Quando il predicatore Gian
Luigi Pascale giunse in Calabria fu visto come un pericolo dai Muglia, poiché erano riusciti a
dissimulare bene l’eresia, comportandosi da veri cattolici, quindi avrebbe minato i loro interessi,
rompendo gli equilibri. D’altro canto di questo comportamento dei ceti agiati si doleva lo stesso
Pascale. Dalla sua corrispondenza sembra che queste persone abbiano tramato con il feudatario per
affrettare la sua partenza dalla Calabria. Di lì a pochi mesi Pascale fu condotto a Roma, processato e

13
condannato a morte per eresia dall’Inquisizione. E in effetti da altri documenti sono emerse altre
vicende in cui il duca di Montalto ha spesso protetto i suoi vassalli valdesi anche contro lo stesso
potere del clero locale. I valdesi erano noti per la loro maestria nell’allevamento del baco da seta,
tra le loro maggiori produzioni c’erano, infatti, i gelsi, alimento del baco da seta. La
commercializzazione della seta, infatti, coincide esattamente con la presenza dei valdesi in Calabria.
E non a caso i barba si fingevano mercanti di seta per proteggere se stessi nei loro spostamenti.
Alcune famiglie, dunque, significavano un non piccolo introito per il feudatario.
In conclusione si può affermare che le minoranze etniche, consapevoli della loro identità, ma
legate ad una complessa rete di interessi religiosi ed economici, erano costrette a differenziare i loro
comportamenti, adattandosi, di volta in volta, alle politiche dei modelli signorili di dominio
territoriale. A Guardia, dunque, la politica di sopraffazione porterà le comunità a mascherare la sua
identità, preservandola gelosamente, per sopravvivere. Al contrario a Vaccarizzo, dove la feudalità
si schierò con i valdesi, quest’ultimi, sentendosi più garantiti, al fine di preservare i loro beni
terreni, abbandoneranno prima il loro credo originario in un lento processo di mimesi che li porterà
a fondersi completamente con la vicina popolazione cattolica.

7. La documentazione sui valdesi di San Sisto


di Antonio Perrotta

Si ricostruiscono, con l’aiuto di fotografie dei luoghi e di testimonianze scritte, i fatti di


sangue del 1561 che portarono alla strage di parte della comunità di Guardia, frazione di San Sisto.
Tali eccidi furono avviati dal governatore De Castagneto, che trovò la morte negli scontri.
Fondamentali sono le testimonianze che Scipione Lentolo 10 raccolse dai profughi. Compreso il
pericolo imminente, il 10 maggio 1561, i valdesi di Guardia di San Sisto raggiunsero quelli di
Guardia Piemontese11. Quest’ultimi decisero di non dare ascolto ai loro confratelli i quali,
sconfortati, andarono a nascondersi nei boschi nei pressi di San Sisto. Vista la situazione seguì
un’ordinanza del governatore De Castagneto che decretava il rientro di anziani, donne e bambini.
Dopodiché il De Castagneto diede ordine di fare irruzione nel bosco. Nel combattimento morì lo
stesso governatore (23 maggio 1561). Questo evento dovette essere il pretesto della successiva ira
della Chiesa, nonostante a San Sisto i cattolici fossero la minoranza. I superstiti cercarono di
ritornare in paese, ma da lontano videro San Sisto in fiamme. Cercarono ancora riparo nei boschi
vicini, assistendo impotenti alla distruzione delle loro case e alla strage dei loro cari. Le ossa di

10
1525 – 1599, pastore protestante e teologo di origine napoletana.
11
Conosciuto in passato come Guardia Lombarda, questo comune fu fondato dai valdesi nel XII sec.; situato in collina,
il comune fa parte della provincia di Cosenza.
14
queste persone vennero raccolte in una fossa comune interrata sotto la chiesa di San Michele
Arcangelo, per la costruzione della quale il parroco di San Sisto, padre Bernardino, costrinse i
valdesi a prestare manodopera, nell’intento di convertirli. La chiesa fu ultimata nel 1556, mentre i
resti furono riscoperti nel 1950.

Parte terza. Fra il Mediterraneo e l’Europa

8. La rédaction et la circulation des lettres de Gianluigi Pascale (1559-1560)


di Jean-François Gilmont (contributo in francese)

L’arresto e l’esecuzione di Gianluigi Pascale sono celebri in ragione dell’abbondante


corrispondenza che riuscì a far uscire dalle prigioni di Fuscaldo, da Cosenza e da Napoli.
Le lettere di Pascale furono edite in francese da Jean Crespin già nel 1564. Crespin non
pubblicò tutto il materiale. Scipione Lentolo, invece, ne fornì una trascrizione più ampia. Crespin e
Lentolo non propongono sempre le stesse lettere, e anche quando lo fanno ci sono differenze
notevoli. Non è questo l’unico caso in cui la traduzione a stampa sia diversa dall’originale o dal
testimone più vicino all’originale (è anche il caso degli atti del processo di Goffredo Varaglia, ma
vd. anche infra, contributo successivo). È molto probabile che tra l’originale e l’edizione a stampa
ci siano state altre trascrizioni intermedie. Dopo che nel 1556 il barba (predicatore valdese
itinerante) Gilles de Gilles esorta i valdesi a uscire dalla clandestinità, e prevedendo il rischio,
propone loro l’esilio. Rimasti con il solo predicatore Stefano Negrin, i valdesi di Calabria si
rivolgono a Ginevra. Alla fine (1559) saranno loro inviati Giacomo Bonello e Gianluigi Pascale. La
predicazione dei due fu considerata da subito audace, Brunello fu arrestato alcune volte e poi arso
vivo a Palermo il 18 febbraio 1560. A questa data il Pascale era già in prigione.
Pascale nacque a Cuneo da una famiglia borghese tra il 1520 e il 1525. Dopo una prima
parte di vita condotta in maniera dissoluta si arruolò a Nizza. Qui conobbe il Vangelo. Dopo
qualche tempo si reca a Ginevra (1554). Qui ha relazioni con Giangaleazzo Caracciolo (vd. infra,
contributo dodici) e si dà all’attività intellettuale: si occupò di dare edizioni delle Sacre Scritture
nelle lingue moderne e apprese la teologia. Arrivato in Calabria si assunse la predicazione a San
Sisto dei Valdesi e a Guardia Piemontese. Pascale iniziò a predicare ai valdesi di rinunciare alla loro
clandestinità. Fu imprigionato a Fuscaldo dopo poche settimane. Da qui trasferito prima a Napoli e
poi a Roma, dove subì la pena di morte il 9 settembre del 1560. Durante la prigionia, che peggiorò
drasticamente quando fu trasferito a Napoli e poi a Roma, Pascale ebbe modo di scrivere lettere in
cui narrava la sua situazione. Da questa corrispondenza si evince che le comunità a cui era stato

15
inviato intervennero economicamente per potergli permettere, quando possibile, una prigionia più
dignitosa mentre non era trasferito a Napoli. La corrispondenza non è regolare, ma è intervallata da
periodi anche lunghi di silenzio, a seconda delle condizioni della prigionia. È ipotizzabile che
dovette avere amici (nel caso Maria e Lorenzo Maietto) che raccolsero la sua corrispondenza, ma
lui non fa mai accenno esplicitamente a questa opportunità.
Pascale fu, dunque, autore della narrazione del suo martirio, in quanto si occupò di scrivere
e far diffondere le lettere che narravano la sua vicenda. È probabile che sia stato influenzato in ciò
dalla lettura dal Livre des martyrs di Jean Crespin edito nel 1554. In effetti nella corrispondenza
non si trova soltanto la descrizione della prigionia, o le lettere di esortazione alla fede indirizzate
alle comunità di San Sisto e di Guardia (che desiderava esplicitamente fossero inviate anche a
Ginevra), ma anche affermazioni chiare della consapevolezza di essere destinato alla morte, e di
voler che il suo martirio sia conosciuto tramite la stampa delle lettere stesse, fatta a sue spese. Il
fatto che esistano alcune differenze nella tradizione è dovuto al meccanismo adottato da Pascale
stesso nel far recapitare le lettere. Tutti gli originali sarebbero giunti soltanto alla moglie, mentre le
lettere indirizzate agli altri corrispondenti sarebbero state loro notificate tramite copia. Questi canali
di trasmissione subirono la perdita di alcune lettere. Da qui nascono le divergenze fra i testi di
Crespin e quelli di Lentolo. Sarebbe, tuttavia, errato pensare che la versione di Crespin, che si basa
sugli originali giunti a Ginevra, sia più degna di fiducia, poiché non poche volte il traduttore si è
preso licenze sul testo o è incappato in errori di cattiva comprensione dell’italiano.

9. L’eco delle stragi calabresi nella pubblicistica di area tedesca


di Albert de Lange

Una lettera da Montalto, datata 11 giugno 1561, racconta l’esperienza di un testimone


oculare anonimo, che narrava l’eccidio di ottantotto eretici, sgozzati dal boia come pecore da
macello. Tale lettera fu tradotta in tedesco nel 1561 e pubblicata in forma anonima; due anni più
tardi apparve tradotta in latino a Basilea. Nel 1608 ne apparve anche una traduzione in francese in
aggiunta alla riedizione dell’Histoire des martys di Jean Crespin.
La lettera appare come il risultato della fusione di due “Avvisi di Napoli”, due lettere con
contenuto cronachistico. Questa fusione, a sua volta, non è stata operata da nessuno dei traduttori,
poiché dipendono tutti da un’altra fonte su cui si sono basati in maniera autonoma. Tale fonte è un
testo in italiano stampato a Roma o a Venezia e circolante in Europa sotto forma di foglietto e di cui
non sopravvive nessun esemplare.

16
Gli “Avvisi di Napoli” furono pubblicati nel 1846 da Francesco Palermo e poi riedite da
Luigi Amabile. Si trattava di tre lettere manoscritte da Montalto, datate 5, 11 e 12 giugno 1561,
scoperte negli Archivi dei Medici di Firenze. Le lettere sono anonime.
In base all’analisi filologica emerge che nelle tre traduzioni manca sempre la lettera del 5
giugno, e quelle dell’11 e del 12 sono sistematicamente fuse in un unico resoconto. Nel 1564 Pierre
Gilles, pastore valdese, nella sua Histoire des Vaudois pubblicò una quarta lettera che aveva
tradotto da un originale italiano a stampa, datata 27 giugno 1561, questa volta firmata a nome Luigi
d’Appiano, che sarebbe stato il sottosegretario dell’arcivescovo Gaspare del Fosso di Reggio
Calabria. Anche di questa lettera non sussistono esemplari originali. Ne esiste, però, una versione in
italiano data dal pastore valdese Scipione Lentolo nella sua Historia delle grandi e crudeli
persecutioni. Tale opera, terminata nel 1595, non vide mai luce a causa della morte di Lentolo; il
manoscritto, donato dai discendenti di Lentolo alla biblioteca di Berna, fu edito soltanto del 1906.
Gilles, dunque, non conobbe questa versione. E infatti il testo di Gilles e il testo di Lentolo non
sono la filiazione diretta di un’unica lettera: le redazioni contengono, infatti, dettagli differenti, al
punto che è necessario postulare almeno un paio di versioni divergenti circolanti precedentemente
in Italia.
Riassumendo: esistono quattro lettere che narrano delle stragi di San Sisto, tuttavia di
queste, due (5 e 27 giugno) non compaiono mai nella tradizione cinquecentesca, mentre le altre due
(11 e 12 giugno) compaiono costantemente fuse in un’unica lettera.
Nel corso del XVI sec. ci furono altre ristampe, senza differenze sostanziali di contenuto, in
area nord-europea presso editori luterani; il testo è corredato da una prefazione anonima di
ispirazione luterana e con polemica anticattolica. Ci si può interrogare sull’identità del prefatore, ma
su questo non possiamo dare una risposta, ma – interrogativo altrettanto importante – bisogna
chiarire da quale esemplare dipende il testo delle traduzioni, poiché presenta degli ampliamenti
rispetto agli “Avvisi di Napoli” pubblicati dal Palermo. Tali aggiunte esistevano già nella versione
italiana conosciuta dall’Anonimo? Un risposta può provenire dal famoso martirologio Rerum in
ecclesia gestarum dell’esule inglese John Foxe. Questa opera fu pubblicata per la prima volta nel
1554 a Strasburgo. Nel 1562 Foxe chiese a Heinrich Pantaleon, suo amico, di preparare la seconda
parte della seconda edizione, che uscì nel 1563 con il titolo Martyrum Historia. È qui che apparve
per la prima volta la traduzione in latino della lettera di Montalto (ossia la fusione delle lettere 11 e
12 giugno). Dall’analisi della lettera emerge che il traduttore latino non dipende da quello tedesco,
ma entrambe dipendono dalla stessa fonte italiana. Tale lettera rappresenta una tradizione
indipendente dagli “Avvisi di Napoli”, e fonde le lettere dell’11 e del 12 giugno in un’unica lettera
del 12 giugno 1561. Questa fonte è, altresì, più ampia degli “Avvisi”, come si può leggere nelle

17
traduzioni tedesca e latina. Non è da escludere che fra la prima redazione di questa lettera e le
traduzioni ci sia stata una redazione intermedia che sia la reale fonte dei traduttori. La riproduzione
più fedele è probabilmente ricostruita tramite la traduzione francese di Goulart del 1608.
Questo opuscolo ebbe successo nelle sue diverse traduzioni in tutta l’area protestante ed
ebbe numerose ristampe durante il XVI e il XVII sec. Tutti i traduttori interpretavano la vicenda in
chiave edificante e religiosa, poiché il martirio dei valdesi doveva essere un esempio, un segno di
Dio, per attivare i luterani tedeschi. Nessun editore denuncia il potere temporale, ma sono tutti
concordi a incolpare la Chiesa.

Parte quarta. Il Mezzogiorno tra religione e feudalità

10. Religione popolare ed eresia nel Mezzogiorno moderno: qualche considerazione


di Elisa Novi Chavarria

Il brevissimo intervento esprime considerazioni sull’entità e la partecipazione dei ceti


popolari ai movimenti ereticali. Tale polemica ebbe come personaggi principali Benedetto Croce e
Delio Cantimori, nello specifico vide la risposta di Croce a Delio Cantimori. Per Croce i moti
spirituali vanno dall’alto al basso (popolo). Per Cantimori, invece, nel caso dell’eterodossia in età
moderna, la partecipazione fu tale da far dilagare il dibattito anche nei ceti più bassi della società.
Dati alla mano (i registri inquisitoriali) se ne deduce, in realtà, una scarsa incidenza delle idee
riformate tra le popolazioni locali, anche in virtù della rapida reazione della Chiesa alle idee
protestanti. In questo scenario la Chiesa preferì promuovere un’adesione passiva piuttosto che un
approfondimento dello spessore teologico dei fedeli. Le forme tradizionali della vita religiosa
ebbero, dunque, ben più rapida circolazione e in maniera trasversale a vari livelli sociali, e furono in
linea con i criteri di moralizzazione che la Chiesa promuoveva in quel tempo.
Dunque, al netto del fenomeno valdese, la reale incidenza delle idee della Riforma – che pur
si erano diffuse fra gli anni quaranta e cinquanta del XVI sec. nelle classi più basse di alcuni
territori (soprattutto Capua e Terra di Lavoro) – nel tessuto sociale meridionale fu assolutamente
minima.

11. Baronaggio, Camera della Sommaria e fondazione di nuovi casali da parte di


minoranza etnico-religiose
di Giuseppe Cirillo

18
Tra fine Quattrocento e inizio Cinquecento gli equilibri amministrativi all’interno del Regno
di Napoli erano già ben definiti al punto che la fondazione di nuovi casali, nel caso specifico da
parte di valdesi, non intaccava la situazione, poiché non c’era spazio per la nascita di nuovi istituti
territoriali.
Analizzando le fonti è emerso che nella Calabria citeriore, dopo lo spopolamento di età
medievale, si ebbe una nuova crescita nel Cinquecento, poiché i feudatari incentivarono l’arrivo di
colonie albanesi. La fondazione di nuove comunità, comunque, non era libera: la Camera della
Sommaria (organo amministrativo-economico, giurisdizionale e consultivo della Corona)
richiedeva alcuni requisiti: che la fondazione avvenisse a scopo di ripopolamento, che le nuove
comunità si insediassero su antichi siti di presenza greco-ortodossa per non entrare in conflitto con
la maggioranza cattolica, e infine non concedeva autonomia amministrativa ai nuovi casali, fin
quando non avessero raggiungo un certo numero di contribuenti (i cosiddetti fuochi fiscali) per far
fronte alla tassazione ordinaria. Solo nel momento in avessero raggiunto una certa capacità
contributiva si poteva aprire un’istruttoria per richiedere di ottenere l’autonomia (in gergo essere
elevati a Università). Dal punto di vista amministrativo erano intesi come casali feudali, ossia
accorpati a una specifica area feudale. Una amministrazione di tipo feudale incentivò i feudatari alla
costituzione di nuove colonie albanesi. Alcuni casali verso il Seicento ottennero l’autonomia
amministrativa.
Nello specifico delle colonie albanesi dietro a queste fondazioni c’era una motivazione di
ordine politico, poiché il feudatario, Petrantonio Sanseverino del ramo di Bisignano, aveva sposato
la figlia del principe d’Albania, che in quegli anni era occupata dai Turchi. Il Sanseverino, dunque,
favorì gli interessi dell’Albania. Non secondaria era la motivazione di rimpinguare le rendite feudali
su terreni incolti o precedentemente utilizzati solo per un’agricoltura estensiva.
Verso la metà del Seicento la Camera della Sommaria iniziò a concedere sempre più
difficilmente la creazione di nuovi casi casali e procedette a una specie di sanatoria per quelli
fondati nel Cinquecento, tra i quali anche quelli albanesi, che furono elevati a Università. Tuttavia
questa situazione portò, al contrario, a un certo spopolamento di questi casali, con conseguente
creazione di casali abusivi. Ciò accadeva perché molti avevano speranza di sottrarsi alla pressione
fiscale, almeno nell’attesa che anche il nuovo casale raggiungesse di nuovo il numero minimo di
fuochi fiscali. Questi casali, costruiti all’interno di territori feudali, spesso sfuggivano a qualsiasi
controllo statale, e infatti, questa politica fiscale intrusiva fu contrastata dai feudatari che
difendevano la formazione di nuovi casali per motivi di convenienza: la dipendenza del casale dal
feudatario era un deterrente nei confronti dell’ingerenza del potere statale. Nel periodo della

19
Controriforma cattolica, però, la politica di incentivare troppo le minoranze etniche sarà
controproducente per i feudatari che l’avranno applicata.
Per quanto riguarda i valdesi si possono fare considerazioni analoghe ai casali albanesi.
Visto che la Camera della Sommaria regolamentava tramite un preciso iter e vigilava sulla
fondazione di nuovi casali, è impensabile che i valdesi si siano sottratti a questa trafila. I flussi
seguivano precise politiche baronali per il ripopolamento di aree interne. Le nuove comunità
formavano centri separati per non provocare scontri con le popolazioni locali. I nuovi casali,
nascendo su territori feudali, instauravano una stretta relazione di dipendenza dal feudatario. Nel
caso dei valdesi, poi, i nuovi casali erano incentivati da feudatari tolleranti verso le minoranze
etnico-religiose, che le incoraggiavano allo scopo di acquisire consenso su quei territori che
presentavano, comunque, una certa stratificazione nel tempo di una pluralità etnico-religiosa.
In questo panorama si comprende come i valdesi, insieme ad altre comunità non cattoliche,
furono oggetto di repressione da parte della Chiesa durante il periodo della Controriforma, con
conseguente uscita di scena delle famiglie che avevano incoraggiato queste minoranze, in favore di
feudatari più intransigenti che ruppero la pluralità che si stava instaurando nel territorio.

12. Tra religione e feudalità: note sul Mezzogiorno in età moderna


di Maria Anna Noto

Durante l’età moderna si assistette a una sostanziale convergenza tra i fini perseguiti dalle
autorità civili e quelli perseguiti dalle autorità ecclesiastiche, nell’ottica di un generale
disciplinamento sociale. In questo contesto, dunque, il dissenso religioso si configura come dissenso
politico e viceversa, poiché l’eretico era visto come il sommo attentatore dell’ordine costituito. Le
scelte di politica religiosa dei baroni meridionali, dunque, si configuravano come vere e proprie
scelte autonome e centrifughe rispetto alla politica reale.
Alcuni esempi sono emblematici, come i fatti che accaddero ai Caracciolo. Galeazzo
Caracciolo, feudatario, abbracciò i principi della religione riformata, finendo per rappresentare un
significativo esempio della confluenza dei percorsi evangelici di matrice valdesiana nell’alveo del
calvinismo. Dopo il trasferimento a Ginevra (1551) fondò la Chiesa calvinista italiana. Grazie
all’intercessione del padre di Galeazzo era stata concessa ugualmente successione del titolo al figlio
maggiore, Colantonio. Tuttavia Colantonio, un po’ per propensione, un po’ per l’esperienza
religiosa del padre, si mostrò spesso irriverente dei confronti dell’autorità ecclesiastica, al punto da
permettere continui sconfinamenti nel beneventano, territorio dello Stato pontificio. Tale situazione
portò alla scomunica non solo del Caracciolo stesso, ma anche di altri baroni limitrofi all’area in cui

20
avvenivano gli sconfinamenti. Come aggravante a queste imputazioni era stata aggiunta la presunta
frequentazione con eretici. Nel periodo successivo alla Controriforma le usurpazioni territoriali nei
confronti dei beni ecclesiastici, patrimoniali e giurisdizionali dei feudatari rappresentano una voce
importante nelle imputazioni formulate dai tribunali ecclesiastici. Da questa vicenda emerge
chiaramente l’uso (che divenne ricorrente) alla censura e alla scomunica da parte della Chiesa per
difendere i propri interessi.
È da notare che tale procedimento era in certa misura osteggiato dalle autorità statali, tese ad
arginare, comunque, la strabordante ingerenza della Chiesa. Con il tempo, infatti, qualora gli
interessi del potere statuale ritenessero troppo duri i provvedimenti ecclesiastici, tendevano a
osteggiarli, in modo da non perdere del tutto l’appoggio popolare che avrebbe rafforzato il
feudatario. Un esempio di ciò sono i fatti che avvennero nel 1566 in seguito alla bolla papale che
richiedeva azioni repressive nel Beneventano. Il timore principale era generato dal tipo di
procedimento richiesto, extra ordinem, per l’accertamento dei reati. Si prevedeva, infatti, la prassi
della denuncia segreta, sul modello dell’Inquisizione spagnola, fortemente aborrita dalla
popolazione. Sebbene la provincia appartenesse allo Stato pontificio, i feudatari circonvicini
nutrivano fortissimi interessi nella zona. E inoltre, a parte gli interessi dei feudatari, emerge la
volontà, da parte di questi territori ad auto-conservarsi attraverso sottili strategie, in un costante
processo di aggregazione e disaggregazione tra le comunità e le autorità, al fine di consolidare la
propria esistenza. Del resto anche i valdesi, per sopravvivere, dovettero adattarsi a questo fluido
“laboratorio del compromesso” che si rileva sempre più essere un dato caratterizzante della storia
del Mezzogiorno d’Italia.

21
I valdesi nel Mezzogiorno d’Italia. Una breve storia tra Mediterraneo e
prima età moderna (2017)

Introduzione

La storia delle comunità valdesi, soprattutto nel Meridione d’Italia, è stata da pochi anni
indagata nel panorama storiografico di ambito accademico. Ciò accadde negli anni ’80 del
Novecento, quando si iniziò a prestare attenzione soprattutto alle comunità valdesi in Calabria.
Questa lacuna nella ricerca storiografica era, come ha sottolineato Prosperi, una «riduzione della
complessità delle religioni storicamente vissute dai popoli della penisola nelle forme di una
Cattolicesimo tridentino fatto quasi soltanto di papi, parrocchie e santi».
Recuperare la storia di queste comunità, la cui presenza i Italia è superiore a quanto si pensi,
vuol dire, dunque, rivalutare la storia generale secondo una prospettiva più ampia e più
comprensiva. Nonostante, infatti, alcuni storici – soprattutto fra l’età post-risorgimentale e la Prima
Guerra Mondiale – abbiano acceso alcune piccole luci sul problema, il tema è stato trattato
soprattutto in ambito di storiografia locale. È necessario, dunque, un dialogo fra storiografia locale e
Storia generale che consenta di analizzare la vicenda dei valdesi in tutte le sue sfaccettature.

1. Sull’identità valdese tra secondo Medioevo e prima età moderna

Lo scopo della trattazione è tracciare un quadro della storia dei valdesi medievali e della
primissima età moderna. Per fare ciò bisogna, dunque, definire l’oggetto stesso della ricerca, ossia
chi erano i valdesi.
Secondo Tortora è possibile individuare, più che definire, le caratteristiche fondamentali del
movimento valdese, questo perché è necessario distinguere l’identità attribuita dall’esterno
dall’identità percepita dall’interno delle comunità. La prima, infatti, è quella che l’Inquisizione gli
ha dato, la definizione di eretici, la seconda è quella che di se stesso dava il movimento, ossia quella
di essere puri cristiani discendenti degli apostoli. Il nome stesso di valdesi, valdismo e valdesismo
(di più recente conio), è emblematico in ciò. Questo termine, infatti, per tutto il Basso Medioevo e
poco oltre era percepito come spregiativo e diffamante, mentre, dalla metà del Cinquecento, passò a
divenire ragione di orgoglio e di autoidentità.
La data simbolica in cui si ricorda il passaggio da una condizione all’altra è il 1532 quando
il peuple appelé Vaudois incontrò i predicatori riformati giunti nella Valle d’Angrogna, in
Chanforan. In particolare il contributo dei predicatori della Riforma elvetico-strasburghese furono
22
decisivi. Pur accettando l’epiteto di valdesi, dopo l’incontro con i riformatori, questi vecchi eretici
medievali, almeno in teoria non rinunciarono ai loro principi di fede, ma semplicemente non li
applicarono più (G. Audisio, Des Prauves de Lyon aux vaudois réformés). I discepoli di Valdesio
confessavano in origine un Cristianesimo letterale, caratterizzato da atti di pietà penitenziale,
rifiutavano il giuramento, la menzogna, il purgatorio, la pena di morte, mentre a partire dall’influsso
dei predicatori evangelici attuarono anche l’interpretazione delle Sacre Scritture. In questo modo
divennero valdo-protestanti, o valdesi moderni (Audisio).
Questo contatto portò le comunità valdesi a un passaggio di stato fondamentale: da comunità
di vite religiosa clandestina, supportate dall’operato dei predicatori itineranti, i cosiddetti barba, a
comunità progressivamente organizzate con chiese proprie, secondo il modello calvinista. Questa
situazione ha portato alcuni storici (Cameron) a dire che l’esperienza religiosa valdese si concluse
nel Medioevo, poiché con l’avvento della Riforma si dissolse in essa. Il passaggio è fondamentale,
poiché si passa da una religione puramente spirituale a una religione con una organizzazione calata
nella Storia, con una sua strutturazione interna (anche se già prima, per motivi di sopravvivenza
religiosa, avevano pur dovuto darsi un modello organizzativo minimo interno, assimilabile a quello
degli ordini monastici).
L’istanza originale di un Cristianesimo spirituale è ben visibile anche in altri movimenti,
come quello francescano, ed è caratteristica del Basso Medioevo. Anche i francescani, infatti, pur
entrando a far parte della Chiesa cattolica, continueranno ad essere aderenti al loro modo di
intendere la fede e il culto, ossia un personale e soggettivo rapporto con il Cristo povero e
predicativo. Di pari modo anche i valdesi seguivano una fede vissuta individualmente e non
nell’ambito di una organizzazione ben definita. I valdesi, infatti, definivano se stessi pauperes
Christi. In questa condizione è lecito chiedersi se esistesse una pluralità di interpretazioni (valdismi,
Merlo) o una sola (valdismo, Audisio). Si tratta di distinguere tra le differenziazioni che il
movimento avrebbe avuto nel tempo e nello spazio contro una interpretazione del valdismo da
intendersi come movimento rimasto unitario nei suoi caratteri fino all’incontro con i predicatori
riformati. Oltre a questi concetti si è affacciato quello di mono-valdismo (Biller) che, documenti
alla mano, dimostra come questa istanza spiritualista di una vita esemplarmente cristiana e orientata
alla salvezza eterna fungesse da parametro di riferimento della vita di ogni credente valdese.
Tale modo di praticare questa istanza, e quindi l’aggettivo valdese che la connotava,
attribuito a quanti non erano cattolici ma soltanto considerati eretici o scismatici, alterava
spregiativamente questa istanza spirituale. La vicenda spirituale e umana dei valdesi nasce, infatti,
proprio come conseguenza del mancato riconoscimento a Valdesio e ai suoi seguaci da parte della

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Chiesa cattolica, dell’esigenza di essere pauperes Christi fuori dagli schemi prefigurati degli
organismi ecclesiastici.
In pratica l’appartenenza dei valdesi non era a una chiesa ma a un sistema di fede e di culto.
I protestanti furono, dunque, i primi a dare ai valdesi una propria identità come comunità evangelica
con una sua esistenza sul piano storico. Tale passaggio è evidente in alcuni documenti protestanti.
Étienne Noël nella sua Storia delle persecuzioni e guerre contro il popolo chiamato valdese del
1562 attestava ancora questa mancanza di organizzazione nelle comunità valdesi, come simbolo
dell’inferiorità rispetto ai protestanti, dai quali vennero influenzati. Girolamo Miolo nella sua
Historia breve e vera de gl’affari e de i Valdesi delle Valli del 1586-7, pur evidenziando questo
senso di appartenenza a una legge piuttosto che a una chiesa, restituisce dignità a questo comunità,
legittimandone la vicenda storica come coloro che da più lungo tempo conservavano la pura
dottrina. Si è già, dunque, compiuto un passo in avanti nell’acquisizione di consapevolezza e dignità
della comunità valdese. Il contatto tra valdesi e riformati c’era già stato, e ormai il termine valdese,
era diventato enfatica affermazione di eccellenza. Questo passaggio consentì la nascita di una storia
valdese nel corso del Cinquecento inteso come populo.
Due eventi si mostrarono fondanti nell’identità di questo popolo: l’interdetto costituzionale
pronunciato dalla Chiesa di Roma e la più recente esperienza con la Riforma. Il primo evento portò
a definire, nell’immaginario europeo, i valdesi come uomini violenti, diabolici, sessualmente
sfrenati e di aspetto mostruoso, fino a trasferire nel modello della stregoneria il termine stesso di
valdese. Di questo problema era cosciente anche Miolo, e infatti la questione centrale era: il termine
valdese era anche linguisticamente rivestito di sacralità oppure no? Rimandava a un lascito di una
antica tradizione fondata sulla vita apostolica e predicativa, più che a una semplice esperienza
umana oppure no? Miolo sperimentava la prova della contraddizione delle accuse rivolte ai valdesi,
narrando come gli eventi, dispersi ma qualitativamente elevati, si legassero a una catena
genealogica che risaliva inequivocabilmente a Valdesio o addirittura agli apostoli. In questa storia
dilatata e frammentata nel tempo è possibile rintracciare anche notizie sul valdismo in Italia e nel
Sud nel Basso Medioevo.

2. Valdesi nel Mezzogiorno d’Italia agli inizi dell’età moderna

Secondo il racconto dello storico Pierre Gilles l’origine di alcuni paesi della Capitanata 12
(Monteleone, Montaguto, Faeto, Celle, Motta) risalirebbero all’insediamento di alcune famiglie
valdesi fuggite dalla Provenza per motivi religiosi intono al 1400. Poiché, tuttavia, sul giudizio di
12
Distretto storico-culturale della Puglia che è stato anche unità amministrativa. Corrisponde approssimativamente
all’area dei monti della Daunia e della provincia di Foggia.
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queste comunità gravava la critica di carattere morale e religioso, che li identificava sostanzialmente
in luterani perseguitati dal Santo Ufficio, sul finire dell’Ottocento storici locali respinsero tale tesi,
ricollegando la fondazione di queste città al periodo angioino.
Ciò mostra come un pregiudizio possa orientare la ricerca storica. Oggi, invece, liberi da tali
preconcetti, possiamo chiederci se non esistessero già nuclei di valdesi in queste zone e se non
fossero stati raggiunti da una successiva ondata di spostamenti all’inizio del XV sec. E in effetti
accertamenti sulla documentazione riconducono a una presenza di provenzali in luoghi molto vicini
agli insediamenti indicati.
In questo caso è indispensabile interrogare correttamente le fonti, le principali delle quali
sono gli atti notarili. In primo luogo gli atti di matrimonio. Questi atti ci parlano di matrimoni
contratti nel 94% dei casi tra valdesi stessi e non con persone del luogo, indice palese, l’endogamia,
di una chiusura della minoranza. I testamenti, invece, ci mostrano alcuni aspetti religiosi, proprio in
virtù della pluralità di clausole religiose che vi si trovano. Tra le varie clausole che caratterizzavano
il testamento cattolico si possono enucleare l’affidamento dell’anima a Dio, alla Vergine Maria, e ai
santi. Successivamente si sceglieva il luogo sacro in cui sarebbe avvenuta la sepoltura ecclesiastica,
si istituivano le elemosine, quali ricompense ai preti presenti e a coloro che celebreranno la messa
esequiale, si stabilivano una novena di messe a suffragio e lasciti e donazioni a enti religiosi o ai
poveri del posto, accompagnata dalla frase rituale, «per la salvezza della propria anima» o varianti
simili. Un testamento simile implica l’esistenza del Purgatorio. Ebbene la differenza dei testamenti
valdesi è ben visibile rispetto a quelli dei cattolici: i valdesi, infatti, mostravano maggiore ritrosia
soprattutto nelle frasi rituali concernenti la messa, i santi e l’osservanza delle vigilie. Altra
caratteristica è data dalla moderazione nei gesti religiosi registrati, mentre al contrario si nota una
prassi rafforzata nella carità verso i poveri.
Una indagine condotta su testamenti in Calabria redatti da un notaio di origine valdese nel
Seicento, Filippo Urselli, evidenziano proprio l’assenza dell’invocazione a Dio, alla Madonna e ai
santi nelle prime disposizioni testamentari, o al massimo inserita in maniera del tutto schematica
(comunque 65 su 106), forse a scopo difensivo contro l’indiscrezione dei cattolici presenti.
Parimenti di solito non erano previsti lasciti alla Chiesa, e le messe in suffragio non sono richieste
dalla maggioranza testamentari. I valdesi, per paura di persecuzioni e di sopravvivenza, dovettero in
qualche modo adattarsi alle pratiche religiosi della maggioranza, partecipandovi fisicamente, ma
non con il cuore. E in ciò furono accusati da alcuni di pusillanimità (con termine specifico
nicodemismo13). Ma proprio da questo atteggiamento siamo spinti a ricercare le modalità con cui le

13
Erano così chiamati gli incerti o troppo prudenti seguaci della Riforma, che si adeguavano solo esteriormente alle
pratiche religiose e contro i quali scese in polemica Calvino.
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comunità valdesi si aggregarono a quelle del Meridione tra il finire del Medioevo e l’inizio dell’età
moderna.

3. Nuove fonti sui valdesi nel Mezzogiorno d’Italia tra Medioevo e prima età
moderna

La storiografia valdese delle origini lascia trasparire un importante problema relativamente


all’utilizzo delle fonti. Già Gabriel Audisio notava come le prime ricostruzioni storiche siano partite
e si siano generalmente sviluppate in concomitanza con i processi inquisitoriali. Oltre a questa
considerazione si deve aggiungere il dato di fatto che coloro i quali si siano cimentati a ricostruire
per primi la storia dei vari insediamenti valdesi sparsi per l’Europa abbiano dovuto affidarsi a chi
aveva conservato, in qualche misura, la memoria storica delle comunità stesse. Un ulteriore
elemento di complicazione sono le articolazioni che a livello politico, sociale e religioso le varie
comunità hanno assunto a seconda dei contesti.
Un esempio di ciò è dato dalle comunità valdesi della Provenza, del Delfinato e del
Piemonte, che a partire dal 1335 circa iniziarono a insediarsi nel Sud dell’Italia, e particolarmente in
Calabria, per poi spostarsi nella Daunia, nelle località vicine alla Capitanata, all’Irpinia e a
Benevento. Tramite l’azione dei predicatori itineranti valdesi si generò un modello di vita che era
un amalgama tra le aspettative religiose e le ideologie politiche del gruppo ospitante, e le più intime
convinzioni dei valdesi, introducendo il criterio dell’anonimato come logica della coesistenza a
supporto del microcosmo valdese ovunque si radicasse (al punto che alcuni fonti parlano di
atteggiamento nicodemitico).
L’indagine storica è, dunque, condizionata da questo voluto occultamento fino a quando,
nella seconda metà del Cinquecento, forti di una organizzazione ecclesiastica, i valdesi non
iniziarono a fuoriuscire dagli ambienti marginali in cui erano confinati. Data questa situazione le
uniche fonti percorribili di natura laica sono gli atti notarili e quelli che documentavano la presenza
di flussi migratori nel corso del XV sec., nel caso specifico dei valdesi dalla Francia verso il
Meridione. Un sentore della diffusione dei valdesi si ha, inoltre, nei documenti che potessero
attestare conflittualità economica tra municipalità diverse o gruppi della stessa municipalità.
Due documenti hanno particolare carattere di unicità, e indagarne non solo il contenuto, ma
anche le correlazioni, può essere molto proficuo, ed è questa la strada da intraprendere dal punto di
vista della ricerca storica. Si tratta di due naulisamenta navigii pro Valdensibus. Il primo contratto
fu stipulato in data 5 maggio 1477, il secondo il 3 settembre dello stesso anno. Si tratta di contratti
che prevedevano il trasporto di alcune persone fino a Napoli e a Paola il primo, solo fino a Napoli il

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secondo. Entrambi i contratti furono stipulati a Marsiglia. Dall’analisi toponomastica, ad esempio, è
stato possibile risalire al fatto che i cognomi degli stipulanti fossero caratteristici di aree in cui era
forte la presenza valdese (in questo caso il Delfinato). Nel primo contratto non si fa nessun accenno
alla religiosità dei passeggeri, mentre nel secondo si dice esplicitamente che si trattasse di valdesi
della Provenza.
A questo punto è lecito formulare la domanda: è possibile che comunità, provenienti già da
luoghi ormai diversi dall’originaria sede lionese di predicazione, portassero con sé differenti
consapevolezze al livello dottrinario e delle scelte di vita sociale? La bibliografia non fornisce
ancora risposte adeguate in tal senso. Un’altra domanda è: quale itinerario hanno percorso una volta
sbarcati? Dalla risposta si potrebbe comprendere l’organizzazione e i collegamenti con il territorio,
poiché è probabile che si dirigessero verso colonie già presenti sul territorio. Il secondo contratto
parla del trasporto di 150 persone: è evidente che si tratti di una intera comunità e che, quindi, ci
siano delle strategie di trasferimento già sperimentate (un asse viario privilegiato avrebbe, ad
esempio, potuto essere quello dell’impianto stradale dell’antico Impero Romano). Nel caso
specifico dovettero percorrere l’asse viario che collegava Napoli a Foggia. Un percorso
ragionevolmente praticato deve essere stato, infatti, quello che attraverso la Valle Caudina, da
Benevento, giungeva ad Ariano e da lì alle regioni pugliesi. Tra l’altro, all’epoca, specialmente
nelle zone più interne non si era ancora formata una economia di mercato, ma si era trovato un certo
equilibrio fra pastorizia e agricoltura, su livelli di reddito abbastanza bassi. Un universo ideale,
insomma, per insediamenti rurali autosufficienti, così come lo era l’alta valle del Celone in Calabria
(Valmaggiore, territori fra Castelluccio Valmaggiore, Faeto, Celle San Vito, Roseto Valfortore).
In questi luogo re Carlo I d’Angiò favorì, nel luglio del 1269, l’insediamento di provenzali
per contrastare gli assalti dei saraceni di Lucera e dintorni. È possibile che insieme a questi uomini
o poco dopo siano arrivati anche valdesi. Siamo sul percorso dell’antica via Traiana. Dalla
documentazione proveniente da questi territori è possibile assumere le date più prossime riguardo
alla fondazione in questo territorio di comunità valdesi. Siamo tra 1310 e 1325. La data è,
comunque, troppo vicina a quella del 1315, quella con cui la tradizione storiografica di origini
valdese e riformata colloca i primi insediamenti valdesi nel Mezzogiorno; è, dunque, sospetta di
aver influenzato le ricostruzioni storiche.
Gli atti di matrimonio consentono di ricavare ancora più informazioni. Possiamo conoscere
le parti in causa, i nomi dei contraenti, gli stessi testimoni, i loro luoghi di provenienza, il modo
stesso di intendere la fede religiosa mediante l’osservazione delle espressioni rituali utilizzate negli
stessi contratti. Ad esempio la formula classica nei contratti matrimoniali è che gli sposi si
impegnano a celebrare il matrimonio di fronte alla Santa Madre Chiesa, giurando sui santi Vangeli

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di Dio. I valdesi non potevano prestare giuramento e la promessa di matrimonio davanti alla Chiesa
viene riformulata, dall’avvento del Protestantesimo in poi, con le parole: «così come è comandato».
Lo studio approfondito di questi atti può rilevare la presenza di mentalità sicuramente non Cattolica,
al netto di una sottostima degli atti dovuta ad atteggiamenti difensivi dei valdesi che avrebbero
inserito formule più consone alla religione cattolica.
Lo studio di questi documenti può, comunque, aiutarci a delineare l’estensione o almeno la
presenza di comunità valdesi all’interno del territorio. Da qui il passo successivo è organizzare
mappe storiche, analizzare le caratteristiche di queste comunità, il tasso di organizzazione
professionale (di solito agricoltura e custodia degli animali). Per quanto riguarda l’Italia
meridionale un ruolo importante è rivestito dall’Archivio di Benevento. Negli atti matrimoniali è
stato possibile, ad esempio. risalire alla presenza di antiche comunità nel Beneventano, ai confini
con la Capitanata. Una formula ricorrente per quanto riguarda l’assegno maritale (una delle
modalità contrattuali che fissava la dote) prevedeva l’uso del termine sabbatatici, o gli equivalenti
sandaliati, e inzabbatati. Ciò rimanderebbe a un antico uso dei magistri valdesi di portare una
calzatura con uno scudo a forma di croce nella parte superiore, per i timori legati alle persecuzioni
da parte della Chiesa romana. Tale uso antico rimase in vita fino al 1270 circa, mentre nei secoli
successivi sopravvisse come una sorta di ricordo. L’estensione di questo termine è, dunque, una
forte spia di insediamenti valdesi, soprattutto perché il dato si può combinare con fonti di altra
natura. Tanto più che il termine deriva etimologicamente dal provenzale sabataz o ensabataz con
cui Guillame de Tudèle nella Chanson de la Croisade (1210) indicava i valdesi. Ciò ci porterebbe a
una migrazione avvenuta tra fine XIII e inizio XIV sec. Questi maestri valdesi dovettero porre
qualche norma per il regolamento dei lucri reciproci fra i coniugi, di cui la formula «et pro
computazione sabbatatici».

4. “Martiri” senza santi e senza ossa. Il caso dei valdesi del Mezzogiorno d’Italia

Nel 1909 veniva pubblicata a Edimburgo la terza edizione (1a ed. 1905) di un opuscoletto
dedicato alla storia dei valdesi scritto dal reverendo presbiteriano James Gibson. Tale opera
rientrava nell’impegno editoriale di Gibson di editore di A voice from Italy, un giornalino di
corrispondenza tra i presbiteriani riuniti nella Religious Society Scotland e nella Chiesa cristiana
libera in Italia (una corrente dell’evangelismo italiano affine per organizzazione al valdismo). Il
volumetto si intitola The Waldenses: Their Home and their History, ha carattere apologetico e ha lo
scopo di esaltare il ruolo dei valdesi nella storia. Il reverendo Gibson vuole trasmettere ai giovani la
memoria storica dei valdesi e, soprattutto, illustrarne la funzione svolta nell’importante processo di

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evangelizzazione italiana nel corso della Storia. Corollario di questo obiettivo è dimostrare come
nel tempo la storia dei valdesi fosse stata una storia di martiri e di eroi.
In pratica la vicenda storica dei valdesi appariva utile al reverendo per ricordare i tanti
martiri ed eroi grazie ai quali i protestanti ha avuto il suo posto nella Storia. Gibson riportava, con
documentata evidenza, l’eroismo dei valdesi nel mostrare lo loro fede quando necessario, vivendo
nella clandestinità, ma senza mai ripudiare la loro legge. E per testimoniare quella che per loro era
la continuità della vera fede avevano dato anche la vita. Questo per Gibson è il tratto distintivo dei
dell’essere valdese nella Storia.
All’epoca di Gibson il capostipite del movimento, comunemente ritenuto Pietro Valdo, non
aveva ancora fondatezza storica, fino a quando, nel 1946, il domenicano Antoine Dondaine scoprì
la professione di fede cattolica rilasciata da Valdesius nelle mani del sinodo regionale di Lione nel
1180. Un passo decisivo verso una comprensione storica migliore del movimento valdese si ebbe
grazie al pastore e professore di Storia ecclesiastica e di teologia pratica alla Facoltà Valdese di
Teologia a Firenze, Emilio Comba. Comba portava avanti ricerche svolte su documenti d’archivio
provenienti da numerosi archivi europei. Le ricerche avvennero tra fine Ottocento e inizio
Novecento in un momento in cui vi era stata la presa di Roma (o liberazione a seconda dei punti di
vista). Agli occhi di Comba, dunque, dovette esserci anche una motivazione politica oltre che
religiosa e apologetica: la speranza che l’Italia potesse liberarsi dall’influenza del papato. Si
profilavano nuovi rapporti tra Stato e Chiesa e il popolo valdese era ansioso di affacciarsi sul
panorama religioso nazionale. Pertanto veniva rivolto largo spazio alla storia religiosa, in
particolare alla storia valdese e a quella della Riforma. I martiri della Chiesa e i martiri della
Nazione si ritrovarono legati a un’unica idea, sorta dalle ceneri del Risorgimento: quella del
Cristianesimo sociale, al cui centro si poneva l’individuo. I due modelli di martiri richiedevano,
però due differenti sistemazioni storiche.
Nel 1909 il teologo valdese Teofilo Gay pubblicava il manoscritto scoperto da Comba
qualche anno prima a Berna, contenente lo scritto che l’ex frate carmelitano poi passato alla
Riforma, Scipione Lentolo, aveva dedicato all’Historia delle grandi e crudeli persecuzioni fatte ai
tempi nostri in Provenza, Calabria e Piemonte contro il popolo che chiamano valdese e delle gran
cose operate dal Signore in loro aiuto e favore. In questo scritto spicca l’attenzione al sacrificio del
cuneese Giovan Luigi Pascale, consumatosi in Calabria nell’ambito delle persecuzioni svoltesi fra
1559 e 1561. Il Comba sottolineava la santità di un popolo in relazione al martirio di uno di essi. Da
soldato del principe Emanuele Filiberto di Savoia si era convertito ed era stato destinato come
predicatore alle comunità valdesi del Mezzogiorno.

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Le argomentazioni del Comba e di Gibson si intersecano, ma il tema dei santi personaggi
valdesi aveva i suoi natali già nella seconda metà del Cinquecento. In questo periodo si potevano
osservare due tendenze: una trasmessa dalla storiografica cattolica, un’altra di segno opposto,
all’interno della quale ampio era lo spazio concesso, anche a livello emotivo, alla sofferenza a
carico del dissenso evangelico. Due dei primi rappresentanti di questa corrente furono Flacio Illirico
che iniziò a stampare a Ginevra dal 1554, e Jean Crespin, che produsse a Basilea dal 1556. La
storiografia di questa matrice era senz’altro apologetica e polemista nei confronti dei cattolici e il
suo punto di forza era saper ben esibire la funzione fondamentale svolta dalla Riforma, raffigurata
competitivamente attraverso una equilibrata e sapiente miscela di conoscenze storiche, politiche,
retoriche, diplomatiche, filologiche e infine teologiche. Il tutto, poi, era disposto in maniera da
fondersi in una grande pluralità di voci compatte per la relativa autosufficienza che la Riforma
stessa mostrava nei confronti di tutte le tradizioni esterne o distanti da essa, soprattutto quella
cattolica. In entrambi gli autori la sofferenza si manteneva implicita nella stessa ricostruzione della
storia del dissenso religioso basso medievale, ed era la prova fondamentale, concretizzata nel
martirio al suo più alto grado, di una realtà che diceva di praticare il senso della vera traditio
cristiana. Il martirio era assimilazione a Cristo. Contro questa posizione era sceso in campo il
cattolico Girolamo Muzio, autore, nel 1570, di una Historia sacra apparsa in Venezia nel 1570 che
rispondeva alle tesi di questi autori.
In questo contesto si situa, nello specifico, l’interpretazione della vicenda valdese.
Protagonista ne fu Girolamo Miolo, con la sua Historia breve. Miolo sapeva che il mercato
culturale protestante era avido di conoscenze, parzialmente nuovo sotto il profilo intellettuale e
variamente stratificato: bisognava procedere a un’attenta selezione delle fonti per mediare tra il
passato e il presente del popolo valdese. I valdesi, insomma, agli occhi del Miolo rappresentavano
una esemplare mediazione fra vecchio e nuovo. Miolo si assunse il compito di “riabilitare” il
giudizio sui valdesi agli occhi degli stessi Protestanti, che erano rimasti fermi all’incontro di
Chanforan. Ciò portò il Miolo a riadattare la storia valdese proprio per i Protestanti: secondo questa
ricostruzione i valdesi, infatti, erano perseguitati solamente per non credere alla Messa e al Papa, e
alle sue “superstizioni”. Le comunità periferiche non avevano ancora posto nella narrazione storica:
l’ombra del nicodemismo pesava su di esse. A riabilitarle fu il napoletano Scipione Lentolo, che
tramite la storia del martirio di Giovan Luigi Pascale elevò tutto un popolo.
A discapito della marginalità storiografica di cui hanno goduto le comunità valdesi del Sud
Italia, un certo sviluppo del Protestantesimo italiano a cavallo fra Ottocento e Novecento vide come
centro propulsore proprio il Mezzogiorno, vuoi per gli effetti della rivoluzione garibaldina, vuoi per
una generale tendenza, abbastanza diffusa negli ambienti contadini del Sud Italia e della Sicilia, di

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rifiuto del Cattolicesimo tradizionale e delle forme di devozione ancestrali, privilegiando, invece,
alcune forme del biblicismo protestante. Questo secondo processo storico fu fortemente
incoraggiato dalle nuove esperienze offerte ai contadini meridionali e siciliani dall’emigrazione
negli Stati Uniti e nel mondo anglosassone. Una buona parte di coloro che si convertirono,
all’epoca, passarono proprio alla Chiesa valdese. Coloro che non confluirono in questo movimento,
invece, diedero vita a Chiese evangeliche libere, a partire dal 1870.
Fu, infatti, proprio un autore di età risorgimentale a indagare per la prima volta la vicenda
del martirio dei valdesi in ambito calabrese. Alcuni autori precedenti come Muston (L’Israël des
Alpes. Première histoire complète des Vaudois du Piémont et de leurs colonies, Parigi, 1851), gli
stessi Comba e Gay, che pur descrisse un nutrito elenco di martiri valdesi, non seppero inquadrare
la questione nel contesto culturale loro proprio. A farlo fu proprio questo autore liberale, Filippo De
Boni, che nel 1864 pubblicò L’Inquisizione e i Calabro-Valdesi. Il De Boni si occupò della
questione in un’ottica di dichiarata polemica politica nei riguardi della Chiesa cattolica, cogliendo,
per la prima volta, il senso che il martirio valdese occupava nella storia d’Italia.
Il medico irpino Luigi Amabile si pose sulla scia del De Boni (si potrebbe individuare
qualche rilevante apporto volto a tentare possibili mediazioni fra dialettica hegeliana e scienza
moderna negli scritti dell’Amabile). Nel suo Sant’Officio dell’Inquisizione di Napoli il fenomeno
del martirio dei valdesi viene visto come parte integrante del popolo italiano. Ciò era innovativo,
poiché l’Amabile mirava a una profonda educazione civile e politica degli italiani, che contribuisse
al miglioramento delle generazioni cittadine e alla creazione di una coscienza nazionale, liberando
l’Italia dai limiti di una precaria conoscenza della sua stessa storia.

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