1. Low – I linguaggi del pop e la cultura inglese contemporanea Il concetto di English
imagination è un concetto difficile da definire in quanto fa riferimento ad un qualcosa di sfuggente e in divenire che non si basa su un’idea di identità fissa e riconoscibile. Peter Ackroyd lo paragona all’immagine del cerchio che, per il fatto di non avere né un inizio né una fine, rappresenta una continua fuga dall’identico e quindi il principio della “diversity” → l’equazione tra Englishness - diversity coglie l’aspetto più importante della cultura inglese, cioè il suo essere uno spazio di fusione e commistione di vite, linguaggi ed esperienze. Così intesa, la English imagination costituisce una low culture, cioè un insieme aperto di linguaggi in cui la musica pop, la tv, la moda e il cinema assumono la stessa importanza di un testo letterario. La low culture sovverte la high culture, cioè la cultura ufficiale che esclude spazi culturali contemporanei vitali quali il cinema, la moda, la musica pop e la letteratura contemporanea che caratterizzano la Englishness stessa. Sarà il postmodernismo a dichiarare la crisi della funzione formativa fornita dalla high culture. Il rapporto low – high culture è ben rappresentato dal mito dell’Arcadia: essa rappresenta un’innocenza perduta a casa dell’accumulo di esperienza generato dal progresso in età moderna (sarà il postmodernismo a sancire la fine della high culture) → la nascita del pop è, infatti, strettamente collegata al malcontento giovanile degli anni ’50 (Arcady which has been destroyed by its modernizing culture). Bracewell individua, quindi, un nesso importante tra l’anticonformismo e l’idea di ribellione che vi è alla base della cultura pop. La cultura pop, propriamente detta, nasce negli anni ’50 in Gran Bretagna, in seguito al boom economico, e assume fin dall’inizio diverse identità: • Rappresenta una spazio di resistenza in grado di esprimere il malcontento e lo spirito di ribellione giovanile. Il pop è estremamente legato al concetto di piazza, di scambio e per questo è “oppositional” e anti-sistema → viene spesso collegato a concetti quali “deviance” e “delinquency”. In questi termini, il pop viene inteso come subculture, cioè una cultura alternativa a quella ufficiale che rivendica il proprio spazio attraverso un concetto di resistenza e genera forme di identità collettiva alternativa → si parla di “bricolage”, perché questo processo di resistenza all’ordine viene articolato essenzialmente a livello segnico, cioè attraverso l’appropriazione di alcuni segni che vengono messi insieme e creano uno stile ben preciso. • Diventa fonte di puro intrattenimento, pura merce da vendere e acquistare insieme ad una serie di commodities ad essa legate. Il “consumerism” è importante perché diviene forma di emancipazione sociale e risorsa attraverso cui costruire il proprio stile. Musica e stile sono fonti di creatività per i più giovani, quindi un linguaggio fluido attraverso cui fuggire l’appartenenza ad una classe sociale. La capacità della musica di creare un mondo è legata alla capacità del pubblico di interpretare e riarticolare il significato stesso della musica pop in quanto bene prodotto e venduto all’interno di un mercato (si tratta di una possibilità offerta dalla riproducibilità tecnica dell’opera d’arte). • Diventa pratica quotidiana, in quanto linguaggio in grado di parlare a chiunque attraverso un dialogo intercorporeo tra musica e ascoltatore. 2. Absolute beginners: Colin MacInnes e la nascita del teenager Colin MacInnes è stato il primo scrittore inglese ad occuparsi di pop culture, in particolare dell’emergere della cultura dei teenager nella Londra degli anni ’50, sottolineando il valore e il potenziale sovversivo delle sottoculture giovanili rispetto alla cultura ufficiale. Molto probabilmente fu la sua condizione di gay ad offrirgli una prospettiva altra attraverso cui guardare la realtà, uno sguardo in rapporto di comprensione con immigrati e gli stessi teenager, cioè quelle sottoculture che non trovavano adeguata rappresentazione nei media. La fama di McInnes è legata alla trilogia di romanzi londinesi intitolata Visits of London, in particolare al terzo romanzo, Absolute Beginners. Questo si apre con una discussione tra il protagonista, un inside-outsider che fa il fotografo di professione, e il suo amico Wiz riguardo al fenomeno dei baby singers, cantanti giovanissimi (appunto “absolute beginners”), lanciati sulla scena musicale dall’industria discografica. C’è da precisare che la vicenda dei baby singers rappresenta un momento di crisi, quasi una fase di declino dello sviluppo della cultura giovanile. La rivoluzione dei teenager è strettamente legata al boom economico post- bellico perché, aumentando la ricchezza complessiva, cresce in proporzione anche il denaro guadagnato dagli stessi teenager attraverso lavori di ogni tipo, oppure messo a loro disposizione dai genitori. È questo in sostanza il mondo della youth culture che si afferma dapprima in America e poi in Inghilterra nel secondo dopoguerra per giungere attraverso vari processi di trasformazione fino ai giorni nostri e diventare così pop culture. I protagonisti assoluti di questo mondo sono appunto i giovani che utilizzano musica, moda e le ultime tendenze in generale per scrivere la propria identità e segnalare la propria appartenenza ad una certa sottocultura. Il protagonista di Absolute Beginners è appunto un teenager (termine con cui si designa un gruppo sociale ben preciso i cui tratti distintivi sono indicati innanzitutto in termini di abbigliamento). La cultura dei teenager si contrappone a quella dei Teddy Boys, in quanto la prima è legata a rock americano (in particolare ad Elvis) ed è caratterizzata da un look aggressivo, la seconda è legata invece al jazz e al pop ed è amante della moda italiana e degli scooter. Soho è una zona di Londra particolarmente legata al fenomeno dei teenager. 3. Come together – I Beatles e la cultura pop degli anni ‘60 I Beatles rappresentano pienamente gli anni Sessanta poiché ebbero un grande impatto non soltanto sul mondo della musica, ma anche su quello della moda, del cinema, della letteratura e della comunicazione in genere. La loro comparsa sulle scene rappresentò uno spartiacque nella cultura musicale contemporanea, cioè una seconda esplosione pop, successiva alla nascita del rock e alla beatificazione di Presley → l’elemento di novità che caratterizzava i quattro musicisti rispetto a quest’ultimo era il confronto tra l’appeal di un singolo individuo, per quanto affascinante, e quello esercitato da un gruppo, che già suggerisce un’idea di comunità e propone di sé un profilo pubblico più ricco di sfaccettature. Ciascuno dei quattro Beatles, infatti, rappresentava un mondo a sé stante: George Harrison si interessava di cultura indiana, Ringo Starr era un personaggio teatrale ed irriverente, John Lennon rappresentava l’anima più trasgressiva e anticonformista, Paul McCartney quella più rassicurante. L’unicità e originalità dei singoli componenti ebbero una notevole importanza non solo dal punto di vista dell’immagine e degli effetti sul pubblico, ma anche e soprattutto in termini prettamente musicali: i Beatles rappresentavano un lavoro collettivo, corale e la loro musica era un racconto a più voci, capace di appropriarsi di forme e di generi diversi per parlare a gente diversa. Non a caso, uno degli aspetti fondamentali del gruppo fu rappresentato dalla sua straordinaria capacità comunicativa che risultava assolutamente inclusiva. Nei primissimi anni della loro carriere (1962-1964) i Beatles seppero realizzare una originale fusione di elementi della cultura europea con altri elementi provenienti dal rock americano, provocando un processo di americanizzazione della lingua e delle culture giovanili. Non è un caso che la commistione beatlesiana si sia sviluppata in uno spazio come quello di Liverpool, vera e propria porta tra Europa e America. Negli anni di attività del gruppo si ha in Gran Bretagna una vera e propria rivoluzione del costume, in cui vengono amplificate alcune tendenze: i teenager escono con la vespa, hanno i capelli lunghi e le ragazze accorciano le loro gonne. La capacità del gruppo di coinvolgere, di creare il desiderio di emulazione nei loro fan, era dato da un complesso di fattori in cui musica, moda e altre tendenza (come l’uso di droghe) interagivano tra loro. A ciò si aggiunge anche la loro capacità di resistere ad ogni forma di autorità, e dunque di fare il verso alla cultura ufficiale. Aspetti centrale della loro poetica sono: • l’insistenza sul presente, espressa dal concetto di “nowness”; • pur essendo immersi in questa atmosfera, il gruppo seppe ben radicare la sua arte nel passato → la loro idea di passato, di tradizione, eccedeva il rock’ n rollo americano degli anni Cinquanta per includere la stessa tradizione inglese; • invenzione di nuovi linguaggi, non soltanto verbali (uso dello slang in alcune canzoni), ma anche musicali, spesso legati alla cultura ufficiale (cori e inni); • rappresentazione di piccole situazioni quotidiane nella loro unicità; • valorizzazione di differenze di ogni tipo, come la provenienza geografica (Liverpool), sociale e linguistica (i Beatles, a differenza dei Rolling Stones, non cantavano con un accento americano, ma marcatamente inglese); • influenza da parte di scrittori inglesi contemporanei, primo tra tutti, Allen Ginsberg. Il passaggio dei Beatles dal periodo rocker/mod a quello hippy, sebbene ebbe nell’assunzione di droghe il suo tratto più rilevante, fu marcato da importanti trasformazioni sia sul piano del look che dell’invenzione musicale: a partire dal 1967, la loro musica divenne estremamente complessa e ricca di sfaccettature, un’arte difficile da ascoltare e leggere, una traduzione sonora perfette della ricchezza di suggestioni e sensazioni che solo le droghe potevano creare. Il disco in cui la loro musica e il pop in genere diventa arte è “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”. Si tratta di un’opera rivoluzionaria da ogni punto di vista. Innanzitutto la copertina completamente a colori (disegnata da Peter Blake e che presenta un collage di personaggi legati in vario modo al mondo del gruppo) rappresentava di per sé un’opera pop, perfettamente intonata al gusto ed alle creazioni della Pop Art inglese e americana. Tra l’altro, il termine “album” nasce proprio con questo disco che si apre come un album fotografico e al suo interno sono presenti, foto, testi e persino gadgets. L’album si apre con suggestioni visive, oltre che sonore: siamo in un teatro, c’è brusio degli spettatori in sottofondo, sta per iniziare lo spettacolo, ha inizio il primo pezzo che ha lo stesso titolo dell’album. A suonare non sono i Beatles, ma la Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band che al termine lancia Ringo Starr nel pezzo successivo. La grande importanza assunta dalle droghe nella storia di questo disco è resa, così, in termini visivi, letterari e sonori. Sulla copertina dell’album, notiamo che le piante che cingono la scritta “Beatles”, ai piedi dei musicisti, sono piante di marijuana. C’è da aggiungere che il terzo brano dell’opera, “Lucy in the Sky with Diamonds”, è divenuto celebre perché in molti vi hanno letto tra le righe la sigla LSD, ipotesi, avvalorata dal testo fantastico ricco di immagini tipiche delle visioni di chi ha fatto uso di sostanze allucinogene. La stessa struttura liquida dell’album, con le tracce legate le une alle altre, crea un senso di fluidità che ancora una volta sembra rimandare all’alterazione di percezione creata dalle droghe. “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” è un album estremamente vario e complesso che si oppone alla linearità e purezza di “The White Album”. Già partendo dalla copertina, completamente bianca, non siamo più di fronte ad un elaboratissimo concept album, ma ad un insieme di pagine bianche che ciascun musicista scrive seguendo spunti, riflessioni e intenzioni diverse. Si tratta, per questo, di un’opera meno corale, basata piuttosto su singole voci, che si alternano in uno spazio sonoro estremamente vasto. Questo è l’inizio dell’ultimissima fase dei Beatles che porterà al loro scioglimento. 4. Velvet Goldmine – Oscar Wilde e la cultura glam “Velvet Goldmine” è il titolo di un film del 1198, in cui il regista americano indaga un momento centrale della cultura inglese contemporanea, cioè il fenomeno del glam rock (emerso in Gran Bretagna tra il 1969 e il 1973) ponendo particolare enfasi sull’aspetto che più di ogni altro aveva caratterizzato quell’esperienza: il gender bending. Sul palco (e non solo) i glamsters erano in grado, attraverso l’uso di segni visivi quali trucco (lunghe ciglia finte, paillettes) e abiti eccentrici (lamé, stoffe sgargianti, zatteroni), di costruire un’identità di genere assolutamente ibrida che poneva in netto contrasto con il machismo di certi performers degli anni ’60 (si pensi ai Rolling Stones). Il film ruota intorno a tre figure maschili principali: quella del giornalista Arthur Stuart che nei primi anni ’80, al fine di scrivere un articolo per il suo quotidiano, si trova ad indagare sulla scomparsa dalle scene di una star del glam; quella del cantante Brian Slade (della cui vita si occupa appunto Stuart); e quella del divo rock americano Curt Wild (che inizia all’omosessualità i primi due). Non è un caso che Wild significhi “selvaggio”, ma che al tempo stesso abbia una sola “e” in meno di Wilde, il cognome di Oscar. Per lo stesso regista, Oscar Wilde è il vero padre del glam rock e si spiega in questi termini la scelta altamente sperimentale del regista di cominciare la narrazione filmica con l’immagine della nascita di Wilde a Dublino nel 1854. Nella sequenza successiva ci ritroviamo in una scuola vittoriana dove alcuni studenti annunciano al loro maestro ciò che piacerebbe loro fare da grandi e in cui il piccolo Wilde dichiara di voler diventare “a pop idol”. Wilde scelse Londra come palcoscenico in cui mettere in scena il suo personaggio più importante, cioè Oscar Wilde. Si spiega in questi termini la grande importanza assegnata dall’artista alla sua immagine e quindi alla costruzione di questa sia in termini visivi, che verbali. Wilde era un maestro indiscusso nell’arte della conversazione, in grado di parlare con frasi perfette, come se le avesse tutte scritte faticosamente durante la notte, e tuttavia tutte spontanee. Inoltre, l’immagine del dandy, l’uso del fiore all’occhiello, l’amore per il bello, ne avevano fatto un attore unico di quella società → in questo, Wilde fu un precursore del pop, o addirittura, la prima pop star del secolo. Un aspetto centrale della sua vita è senz’altro da identificare nella complessa performance di una mascolinità altra che si andava a porre in netto contrasto con la mascolinità normativa del suo tempo. Il suo fu un tentativo di costruire un discorso alternativo nella e sulla mascolinità, un discorso che egli non etichettò mai apertamente omosessuale e che tuttavia mirava a mettere in discussione la mascolinità imperiale dominante in età vittoriana. Wilde fu un cultore della sua immagine, un eccellente conversatore e un uomo libero dalla morale, ma questi elementi non erano percepiti dai contemporanei come elementi che rimandavano alla dimensione della omosessualità, ma piuttosto come segni di una certa “effimancy”, termine che all’epoca di Wilde non implicava essere “womanish” ovvero desiderare altri uomini, ma piuttosto spendere troppo tempo con le donne. La sua vicinanza alle donne si manifestava non solo nell’esercizio di un’effeminatezza nutrita dalla sua ossessione per la moda e per l’arredamento, ma anche dal suo sentirsi a proprio agio in ambienti familiari. In questo senso, Wilde rappresentava “the abnormal” e la sua umiliazione rappresentò, per alcuni, la vittoria della mascolinità imperiale e della salute nazionale e imperiale. Ritornando al film, in esso compare un oggetto magico, dotato di poteri straordinari: la spilla verde che indossa Wilde da scolaretto. Dopo la sua dichiarazione di voler diventare un pop idol, ci ritroviamo a Londra nel 1954, dove un ragazzetto di nome Jack Fairy (che appare come la prima star del glam e incarnazione dell’omosessualità) trova per caso la spilla mezza sepolta in un campo. La spilla si Wilde passa poi nelle mani di Brian Slade, che la utilizza invece sulla sua sciarpa. Slade a sua volta la regala al suo amante Curt Wild, che la indossa sul suo giubbotto di pelle. La spilla ha una certa importanza in quanto è oggetto magico che mette in rapporto presente e passato. Altro segno della presenza di Wilde nel film è dato dall’inclusione nella sceneggiatura di diversi paradossi e citazioni wildiane. Si è detto che il glam fu una reazione al machismo degli anni Sessanta e fu David Bowie a rappresentare questo cambiamento. La sua esigenza di creare un discorso artistico in cui la musica divenisse teatro era finalizzata alla costruzione di una mascolinità nuova, complessa in cui l’aggressività del rock fosse decostruita soprattutto a livello d’immagine → ecco perché le star del glam costruirono per sé un’identità di genere essenzialmente ibrida attraverso l’impiego di segni ben precisi e la moda, in questo senso, giocò un ruolo fondamentale: gli zatteroni, i boa di struzzo, i vestiti luccicanti, il trucco marcato, i capelli tinti e le paillettes erano alcuni dei segni che venivano combinati per creare testi visivi che commentavano ironicamente la musica. Come Bowie, Slade mette in scena l’uccisione del suo alter-ego Maxwell Demon durante un concerto, ma quella che doveva essere una trovata pubblicitaria finisce per deludere profondamente i suoi fan che segnano la sua morte artistica. Attraverso i ricordi personali del giornalista Arthur Stuart, alla fine del film, si scopre che dietro la scomparsa di Slade si nasconde la metamorfosi di quest’ultimo in Tommy Stone (autore di facili successi, incarnazione di una mascolinità normale). L’esperienza glam fu una rivoluzione sessuale in cui purtroppo le donne ebbero spesso il ruolo di spettatrici; è quello che accade alla moglie di Slade (incarnazione filmica della prima moglie di Bowie, Angela) che all’inizio del film appare come complice dei primi successi di Brian per poi essere progressivamente messa da parte fino ad apparire negli anni ’80, a colloquio con Stuart, come triste survivor di un’epoca lontana. Il film si chiude in maniera circolare attraverso la ricomparsa dell’oggetto magico wildiano, segno di un’alterità irriducibile che Stuart fa definitivamente sua. 5. London Calling: Hanif Kureishi, Londra e la cultura pop degli anni ‘70 Dagli anni ’50 in poi sarà il pop ad assumere grande importanza comunicativa e narrativa. Lo spazio in questa cultura si manifesta è quello urbano, in particolare quello londinese, e Kureishi è riuscito a fornirgli una degna raffigurazione letteraria attraverso il suo romanzo “The Buddha of Suburbia”, il cui protagonista, Karim Amir, riesce a coniugare la sua grande curiosità passionale all’esigenza stessa di movimento e spostamento. Il romanzo si apre con la sua voce, come fosse una voce fuori campo, e tutti i gesti, i volti e le enunciazioni degli attori sono riportati sulla pagina. L’incipit del romanzo contiene temi e motivi che saranno sviluppati nel testo → sin dalle prime battute, le due assonanze “Karim Amir” e “Born e bred” sembrano porsi come richiesta d’ascolto poiché enfatizzano la componente sonora. La stessa punteggiatura del testo, fatta di frasi brevi, trattini e parentesi, crea un senso di frammentarietà ed inquietudine, scandendo così un tempo musicale che sembra già introdurre le atmosfere rock e pop che caratterizzeranno le pagine successive. Karim, fin dall’inizio, cerca di rendere la sua non-identificazione: un’appartenenza alla estrema periferia (“from the south London suburbs”) e la necessità di reagire, di rispondere a questo luogo grigio, noioso attraverso lo spostamento, la ricerca di nuovi spazi e possibilità sociali, sessuali e mentali. Questa dialettica tra paralisi e movimento viene così tradotta in senso geografico attraverso l’identificazione di una punto di partenza, cioè the suburbs come casa e famiglia, e un altrove che risulta qui ancora vago ma che diventerà sempre più identificabile con il centro, il cuore di Londra, in particolare con West Kensington dove Karim si trasferirà con suo padre ed Eva. Il romanzo è perciò articolato in due sezioni principali, “In the Suburbs” e “In the City”. Questo spostamento rappresenta un percorso complesso e non lineare: la vera Londra rappresenterà per Karim uno spazio problematico in cui egli sarà costretto a mettere in scena un’identità etnica che non gli appartiene, adottando un accento indiano per il suo ruolo di Mowgli nello spettacolo teatrale di “The Jungle Book”. Londra, quindi, come palcoscenico in cui i ruoli sono spesso imposti e in cui tuttavia è possibile modellare la propria identità; ma Karim avverte la propria alterità rispetto alla grande città perché sente di non appartenere né al centro né alla sua periferia, ma agli interstizi, alle borderlines. Un esempio di ciò è il fatto che Karim conosce alla perfezione tutte le strade della periferia e del centro londinese perché spazi di traduzione, trasformazione e proiezione verso il “terzo spazio”. La Londra sognata dal protagonista è quella più cara a Kureishi, cioè la Londra pop, fatta di musica, droga, sesso e in genere di esperienze in grado di unire al di là delle differenze. Un’enfasi particolare viene qui data alla musica: il sound della capitale corrisponde sia al suono dei bonghi percossi dalle persone in Hyde Park, sia a “Light my Fire” dei Doors → nel primo caso si fa riferimento alla musica in quanto pratica improvvisata in uno spazio pubblico e in questo senso, la sgradevolezza del suo sound è resa ironicamente con “I’m afraid” da parte di Karim. Tuttavia, le dissonanze che caratterizzano questa musica sono date proprio dal fatto che essa è una pratica libera, non prescritta, dunque uno spazio artistico e sociale in cui voci diverse interagiscono in completa libertà → la società non è altro che fare musica insieme e il sound di questa non potrà mai avere un carattere del tutto armonico. Il secondo riferimento alla canzone dei Doors introduce al tema della passione e quindi del desiderio sessuale. Occorre precisare che i numerosi riferimenti alla pop musica fatti da Kureishi svolgono in realtà diverse funzioni: innanzitutto, la puntualità e la precisione con cui l’autore cita brani, album e musicisti rimanda al concetto di “novel’s status as reportage”, ed è possibile parlare di “The Buddha of Suburbia” in termini di historic novel, un’opera in cui il contesto assume una centralità assoluta (Kureishi è un maestro nel ricostruire, citare la moda, i programmi televisivi e la cucina). In particolare, il romanzo testimonia l’evoluzione della musica pop e rock dai primi anni ’70 fino alla vigilia del governo Thatcher, segna quindi il passaggio dal glam rock alla musica punk. Un’altra funzione svolta dagli inserti musicali è quella della caratterizzazione: attraverso i gusti musicali di una dato personaggio, il lettore è in grado di cogliere particolari aspetti della personalità dello stesso → Karim, ad esempio, confessa di essere ossessionato da un verso di una canzone di Bob Dylan, in cui il cantante fa riferimento ad una situazione ben precisa, cioè quella dell’attesa del momento in cui poter uscire, fuggire da un contesto statico e soffocante. Si tratta di un’immagine che riproduce la condizione di costante restlessness in cui si trova il giovane Karim. Inoltre, un particolare brano può anche amplificare o contribuire alla creazione di un certo mood, grazie alla capacità propria della musica di attivare comportamenti, azioni, quindi di agire sul mondo e di porsi come vero e proprio linguaggio. La centralità della musica nel romanzo è data anche e soprattutto dalla modalità e dall’organizzazione discorsiva e il suo carattere altamente episodico che ricorda la struttura di un album musicale. 6. The Smiths L’esperienza musicale degli Smiths si svolge all’interno della cultura pop dell’Inghilterra degli anni ’80, in particolare nel periodo che va dal 1982 al 1987, periodo caratterizzato da un’estrema urgenza espressiva e da una grande intensità creativa. Il gruppo si compone di voce (Morrissey), chitarra (J. Marr), basso (A. Rourke) e batteria (M. Joyce). Il gruppo dimostrò fin da subito un profondo senso di solidarietà con i più deboli, con gli emarginati e con i poveri, articolando complessi manifesti politici e promuovendo, come antidoto alla pomposità e alla superficialità del tempo, un intelligente ritorno alla semplicità e alla quotidianità. Caratteristica essenziale del gruppo, infatti, è la straordinaria ordinariness ed incisività della propria proposta musicale → non a caso, il loro è un nome estremamente comune, quasi l’equivalente inglese di famiglia Rossi o famiglia Bianchi; il loro aspetto è quello di tanta gente ordinaria ed è definito un “no look”: jeans, magliette, mocassini con qualche scelta eccentrica da parte del cantante; le performance dal vivo e le apparizioni in televisioni sono essenziali e rappresentano una sorta di trasgressione della prassi vigente in quegli anni. Risulta anche interessante la scelta di alcuni segni utilizzati in maniera sistematica dal gruppo. Innanzitutto i fiori: ogni concerto degli Smiths era contraddistinto da un autentico diluvio di gladioli e crisantemi, con mazzi sparsi e infilati nelle tasche posteriori degli stinti jeans del cantante. I fiori rappresentavano un vero e proprio linguaggio attraverso cui i fan potevano dialogare direttamente con il loro idolo, porgendoli o lanciandogli i gladioli dalla platea durante i concerti. Altri segni sono gli occhiali da vista utilizzati in concerto per stabilire una sorta di solidarietà con chi veniva definito “ugly”, cioè bruto e di cattivo aspetto, e l’apparecchio acustico utilizzato in tv per lanciare un segno ai fan non udenti → tensione costante ad esprimere il proprio senso di comunanza con outsiders di ogni tipo. Morrissey esprime, inoltre, il suo disprezzo per la Regina, che aveva definito gli stessi poveri come egoisti ed avari. Il compito degli Smiths è di farlo capire al maggior numero possibile di ascoltatori. Dal punto di vista stilistico, la chitarra di Johnny Marr ebbe un ruolo centrale: la chitarra elettrica è senza dubbio lo strumento che più di ogni altro ha saputo articolare un linguaggio complesso e poliedrico, poiché si spazia dagli arpeggi fino all’uso del distorsore, dagli effetti di volume ai riverberi e al delay. Il senso è quello di un suono vivo, corporeo, quasi tangibile. Morrissey, poi, bandì i luoghi comuni dai suoi testi, rivoluzionò e rese più ampio il vocabolario del pop, dando nuovo rilievo a vocaboli caduti in disuso e riscoprendo le possibilità di un linguaggio insieme vario ed incisivo: la loro è una sorta di “poesia della normalità” che non rinuncia mai alla parodia, allo scherzo, alla creazione di immagini con cui mettere in dubbio il proprio mondo che lo circonda, cioè l’Inghilterra della Regina e dei conservatori → sono tratti distintivi della Englishness del cantante. L’album più importante della carriere degli Smiths è senza dubbio The Queen is Dead, un caposaldo della popular music e dell’intera cultura inglese contemporanea. Il brano di apertura di intitola come l’album ed è un collage di immagini tese verso l’abbassamento delle icone reali. L’io del testo si sente prigioniero dell’Inghilterra al pari di un cinghiale tra delle arcate, ma qui “arches” , a causa dell’ambigua pronuncia, può riferirsi anche a degli “archers”, cioè a degli arcieri alla ricerca di selvaggina o ancora agli archi dorati di Mc Donald’s che legano l’Inghilterra della Thatcher agli Stati Uniti. Preziosa è l’immagine di sua bassezza con la testa bendata che si unisce in una splendida realizzazione poetica all’immagine di Carlo che indossa il velo nuziale della regina sulla prima pagina del Daily Mail, immagine che coglie da un lato il chiassoso rapporto dei Reali con i media, dall’altro l’assoluta subordinazione del Principe a sua madre. Con il quesito “è cambiato il mondo o sono cambiato io?” Morrissey dice bene il senso di displacement, di disagio suo e di parte della generazione rispetto ad una realtà grigia e soffocante. Questo senso di insicurezza e inquietudine nutrono il brano There is a Light that Never Goes Out, il cui tema è quello del desiderio d’amore, di darsi all’altro in un rapporto in cui amore e morte possono anche coincidere. L’amore è visto come possibilità di rigenerazione, cambiamento, risposta tutta umana ad un ordine di cose inumano. Un amore testo sino alla morte, elemento per eccellenza incontrollabile ed eccedente rispetto al potere. Panic, brano pubblicato qualche mese dopo il primo di apertura, dura solo due minuti e il suo testo assume quasi la forma di un manifesto contro la leggerezza di certa dj music di fine anni ’80, in particolare contro la scarsa sensibilità di un dj della BBC che, dopo la notizia del disastro nucleare di Chernobyl del 1986, mandò in onda I’m Your Man degli Wham. Così, partendo da alcuni riferimenti a città quali London, Birmingham e Dublin, il brano si conclude con un imperativo non dissimile dalla solenne affermazione della Regine. La morte come risposta ironica al nonsense imperante, come elemento di rottura che limitandosi ad esse mera affermazione verbale, può assumere il senso di una tensione verso il cambiamento, lo spostamento, verso il ripensamento della realtà circostante proprio a partire dalla sensibilità del singolo. Il primo e terzo brano, grazie ai suoni più duri ed al ritmo incalzante, risultano essere molto simili tra loro, creando una sorte di cornice al secondo brano, vicino alla classica forma della ballata. L’arte degli Smiths rappresenta un vero e proprio atto di denuncia nei confronti della politica di Margaret Thatcher. L’ideologia del Primo Ministro fa leva su istanze contraddittorie: da un lato la difesa dei valori morali della tradizione, incarnati dalla famiglia e dalla patria e sostenuti da un marcato razzismo, dall’altro la forte incentivazione del mercato e della sua totale liberalizzazione, la promozione di uno spiccato individualismo utilitaristico, solidale con la sovranità del consumo. Quello della difesa dei valori della tradizione è un compito svolto dalla stessa Monarchia, che diventa in questi anni più visibile grazie alla diffusione dei media e della stampa popolare. Si comprendere, ora, perché il messaggio degli Smiths abbia assunto una tale rilevanza al momento della sua articolazione. Attaccare il mondo dei Reali attraverso un linguaggio popolare significava in un certo senso attaccare dal basso questo processo di costruzione d’immagine. La scrittura degli Smiths diventa effettiva possibilità di sfidare l’ordine del discorso in un contesto in cui la comunicazione risulta essere articolata su molteplici livelli e su diversi canali (tv, radio, cinema e giornali). Morrissey dichiara di essere un “living sign”, rappresenta, cioè un esempio di icona pop alternativa che, non avendo mai ceduto a pressioni commerciali di alcun tipo, si è dimostrata sempre fedele al suo credo artistico e personale. E’ per questo che è ammirato da milioni di fan cercano iconicamente, appunto, di emularlo e di condividerne gusti e antipatie. Paradossalmente, Morrissey è anche un iconoclasta: è esempio vivente di un’anti-icona, di artista che usa la sua arte per attaccare, attraverso parodia e sovversione, non solo preti e regine, ma anche icone sacre quali Margaret Thatcher e G. W. Bush. Ironicamente, c’è qualcosa di religioso in questa anti-iconicità che spinge i suoi fan a venerarne l’immagine e il mondo ad essa connessi → non è un caso che il miglior contributo scientifico sull’artista inglese sia intitolato “Saint Morrissey” e che l’autore dichiari che Morrissey ha raggiunto nella sua vita quella trascendenza che gli altri personaggi hanno raggiunto solo una volta morti. Il fascino della sua persona è dato dalla capacità di pensare e presentare se stesso utilizzando più discorsi contemporaneamente e, in questo senso, Morrissey non è soltanto un living sign, ma anche un living text, cioè un testo vivente e uno spazio di interazione tra diversi segni, voci e discorsi che si intersecano al fine di articolare una critica alla situazione politica e culturale del tempo. Grazie al genio culturale di Morrissey, gli Smiths furono in grado di creare un universo segnico complesso fatto da un lato di citazioni di testi letterari, televisivi e cinematografici e dall’altro da una dimensione iconica e iconografica fortemente riconoscibile: • il nome del gruppo voleva essere un tributo fatto da Morrissey ad una delle sue cantanti preferite, Patti Smith; • i fiori divennero un vero e proprio linguaggio con cui era possibile comunicare con i fan; • le lenti del NHS (servizio sanitario nazionale britannico) e l’apparecchio acustico erano usate per stabilire uno stretto contatto con tipi particolari di fan: le lenti erano un segno di solidarietà con ragazzi e ragazze costretti ad indossarli per necessità e per questo derisi dai loro compagni; l’apparecchio acustico era invece un segno di solidarietà con una fan non udente, da cui Morrissey aveva ricevuto una lettera; • la voce di Morrissey, al tempo stesso maschile e femminile, era quella della donna del Nord → la sua scelta di chiamarsi semplicemente “Morrissey” esprimeva l’intenzione di rifiutare il nome proprio in quanto segno di identificazione di genere, al fine di abitare una sorta di borderline da cui rivolgersi ad ascoltatori di ambo i sessi; • James Dean rappresentava una delle maggiori ossessioni di Morrissey, che fu sicuramente attratto dalla straordinaria bellezza dell’attore, dal look che gli aveva procurato immensa popolarità (il taglio di capelli di Morrissey ricorda quello di Dean), nonché dalla sua ambiguità sessuale e dalla sua affascinante inquietudine; • la più grande ossessione cinematografica di Morrissey erano i film della New Wave inglese degli anni ’60; • i testi del gruppo rappresentano una costante traduzione e riarticolazione di opere letterarie, in particolare di quelle di Oscar Wilde; • al pari di Wilde, Morrissey si dedicò con attenzione alla costruzione della sua persona. Alcune interviste contenevano, addirittura, epigrammi e paradossi chiaramente wildeani, che contribuivano alla costruzione della sua complessità intellettuale, una complessità che contrastava fortemente con la superficialità di molte pop star dei primi anni ’80. Morrissey è stato in grado, a partire dallo scioglimento degli Smiths nel 1987, di riarticolare la sua opera e la sua persona attraverso un complesso dialogo con ulteriori segni e testi. La sua carriera solista ha inizio con la pubblicazione del singolo “Suedhead” e dell’album “Viva Hate” nel 1988. La veste grafica dell’album segnala un allontanamento del cantante dalla poetica visiva che aveva caratterizzato i dischi del gruppo: la copertina ritrae una foto dello stesso Morrissey → l’album rappresenta un testo autobiografico, come una sorta di diario personale. A livello strettamente musicale, l’album si caratterizza per l’assenza di coralità tipica degli Smiths e per l’introduzione di una serie di strategie finalizzate ad enfatizzare la centralità dell’elemento vocale (ne è un esempio la sezione d’archi utilizzata al posto del classico organico pop con chitarra, basso e batteria). I primi quattro anni della carriera solista di Morrissey si caratterizzano per la sua quasi totale assenza dalle scene; egli realizzò, in cambio, una serie di singoli di grande spessore. Due di questi meritano particolare attenzione per la loro originalità tematica e letteraria: • Piccadilly Palare: il titolo si riferisce ad uno slang usato dalle prostitute nel tardo ‘800 a Londra. È possibile leggere la canzone come riferimento indiretto all’interesse del cantante per la dimensione della gang (strettamente collegato al suo amore per il mondo criminale); inoltre il “palare” può essere letto come metafora del linguaggio visivo, letterario e musicale di Morrissey che può essere letto in maniera appropriata solo dai suoi fan. La sua complessità letteraria è spesso fonte di fraintendimenti: nel caso di questo brano, molti critici hanno fatto riferimento alla sua posizione all’interno della comunità gay, ma la sfuggente identità sessuale del cantante riflette il suo interesse verso l’ambiguità sessuale come forza liberatrice e forma di resistenza all’identificazione di genere; • November Spawned a Monster: la tematica principale è l’invalidità. Mary Margaret O’Hara presta la sua voce nel brano per interpretare una bambina mostruosa ed esprime la posizione difficile di questa, la sua alterità in un mondo fatto di persone identiche e perfette. Sfortunatamente, il senso di questa canzone non fu compreso fino in fondo e Morrissey fu accusato di cinismo e insensibilità rispetto a temi così delicati. La posizione di Morrissey nel panorama musicale si rivelò estremamente difficile e complessa, poiché l’introduzione di un’ironia e una profondità tipicamente letterarie non fu sempre ben accetta e il cantante, così com Oscar Wilde, divenne presto vittima del suo stesso wit. Qualche anno dopo November Spawned a Monster, l’artista finì nuovamente nel mirino della critica musicale per il brano National Front Disco. Morrissey affrontò con ironia temi scottanti come quelli legati al nazionalismo e ai rapporti interrazziali e ciò fu visto come un discorso apertamente razzista. Questa controversia fu l’effetto anche della scelta dell’artista stesso di optare per una dimensione iconica e musicale decisamente più aggressiva. Per il ritorno sulle scene nel 1991, affidò gli arrangiamenti dei suoi brani ad un gruppo di amanti del rockabilly, che introdussero un suono decisamente più potente e convincente. Sul palco tutti i membri della band erano vestiti da rocker americani degli anni ’50 con la sola eccezione del cantante che, in omaggio alla cultura glam, preferiva spesso indossare camicie scintillanti. Il gruppo influenzò positivamente il sound di Your Arsenal, tributo al glam rock. Criminali e pugili rappresentano un’altra ossessione del Morrissey solista e richiamano la sua attenzione a certe forme di machismo; ad essi si aggiungono gli skinhead (amanti dello ska, del rocksteady e del reggae). Al 1997 risale l’ultimo album solista di Morrissey: il ritratto mediatico sfavorevole, lo scarso successo dei suoi ultimi lavori e il fallimento della sua etichetta discografica segnarono la fine della prima parte della sua carriera solista e costrinsero l’artista a scegliere un lungo esilio in America (Los Angeles). You are the Quarry, pubblicato nel 2004, rappresenta il ritorno di Morrissey sulla scena musicale. Esso fu preceduto da una serie di interviste rilasciate alla stampa britannica e, in questo modo, il cantante ebbe modo di utilizzare la stampa come modalità discorsiva per introdurre e discutere alcuni dei temi trattati nell’album. Lo stesso titolo del lavoro sembra far riferimento all’idea di dialogo → c’è sempre un “I” che si riferisce ad uno “you” che è persona o personificazione. Il lettore è spinto a interpretare le parole di Morrissey come un riferimento alle politiche coloniali americane verso le periferie del mondo: si rivolge all’America da insider e definisce il paese “big- head”, a causa della sua incapacità di mettersi in discussione. L’immagine dell’America come una terra di libertà e opportunità viene subito decostruita facendo riferimento all’assenza nella storia americana di un presidente nero, gay o donna. In Irish Blood, English Heart Morrissey scrive della particolare condizione umana, quella di chi abita il confine, la borderline tra differenze e identità diverse, che nel suo caso si realizza nelle sue origini irlandesi e la sua sensibilità inglese. Si tratta di una risposta a tutti coloro che vedevano nel cantante un nazionalista ed un razzista, ossessionato dalla superiorità storica e culturale dell’Inghilterra sul resto del mondo. Il brano più importante dell’album sia in termini letterari che musicale (grazie all’arrangiamento di Ennio Morricone), Dear God Please Help me si apre con il narratore in prima persona che fa riferimento alla sua posizione di enunciazione e chiede l’aiuto di Dio per affrontare le tentazioni della carne. Il brano include il riferimento sessuale più esplicito mai contenuto in un testo di Morrissey, ma ciò che conta qui non è il fatto che il cantante stia rivelando la sua omosessualità, ma la capacità del narratore di stabilire un affascinante dialogo con Dio stesso, ritraendolo contemporaneamente come salvatore e confidente. Roma è lo spazio di enunciazione non solo di questo brano, ma anche di You Have Killed Me, all’interno del quale Morrissey cita due icone culturali strettamente collegate alla capitale italiana, cioè Pasolini (con cui si identifica) e Anna Magnani (interprete del film pasoliniano preferito da Morrissey). Egli è stato folgorato dal realismo di Pasolini, in questo linguaggio molto vicino al realismo dei film inglese degli anni ’60 che aveva tanto amato da teenager e che poneva l’accento sul corpo nudo, sul dialetto, sulla parolaccia in quanto verbalità della connessione; realismo che rappresentava uno spazio fortemente resistente e sovversivo rispetto al mondo culturale dell’alta e media borghesia italiana.