6.5 La musica sacra del Cinquecento italiano. Repertorio e istituzioni
Come si è già detto a proposito dei compositori fiamminghi vissuti a cavallo tra il XV e il XVI secolo, la grande tradizione della polifonia sacra fiamminga quattrocentesca si innestò senza soluzione di continuità nell'esperienza compositiva liturgico-musicale cattolica del XVI secolo. I generi della musica sacra erano sempre strettamente connessi alla liturgia o a un evento devozionale. A parte il canto gregoriano che continuava ad essere praticato (pur con le ovvie varianti, rispetto al repertorio più antico, che si erano venute accumulando nel corso dei secoli), nell'ambito della musica polifonica il genere maggiormente eseguito fu quello della Messa, limitatamente però alle cinque parti che compongono l'Ordinarium Missae: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei. Il tipo di messa più diffuso fu senza dubbio la "messa ciclica", nella quale tutte le cinque parti sono costruite su uno stesso cantus prius factus, che poteva essere una melodia tratta dal repertorio gregoriano o da un canto profano italiano o francese, posta generalmente nella voce del tenor. Grande fortuna ebbe anche la cosiddetta Missa parodia, in cui, come si è già detto, i prestiti da una composizione preesistente non si limitavano a una sola voce, ma a intere sezioni polifoniche. Infine le messe venivano composte 51 51 con particolari tecniche musicali (canone mensurale, canone enigmatico, ecc.) o anche liberamente. Tra le parti del Proprium Missae quelle più frequentemente realizzate in forma polifonica sono gli Offertori e le Sequenze (in particolare lo Stabat mater). Nell'ambito dell'Ufficio liturgico le parti poste in musica polifonicamente sono per lo più gli Inni, i Magnificat (nella liturgia del vespro), le Lamentazioni, gli Improperi, i Salmi, i responsori, e il Passio. Comunque il genere che avrà maggior fortuna nel corso del Cinquecento è il mottetto, già in parte praticato nella seconda metà del secolo precedente (da non confondere con il mottetto celebrativo di carattere sia sacro sia profano in uso dal Duecento fino alla prima metà del Quattrocento). Come si è già detto si tratta di una composizione esclusivamente vocale (da quattro a più voci) su testi religiosi in latino ispirati, desunti o liberamente tratti dalle Sacre Scritture, dal testo del Proprium Missae o da quelli dei Padri della Chiesa. Il successo di questa forma è dovuto principalmente alla sua brevità, alla sua concisione e al fatto che la presenza di un testo non canonico, non "ufficiale", poteva ispirare in vari modi la fantasia del compositore, esprimendo in questo il vero spirito della musica rinascimentale. Si tratta di una composizione quasi "paraliturgica", cantata nel corso di celebrazioni o festività particolari, o utilizzata talvolta anche nella Messa in sostituzione di pezzi liturgici "ufficiali", oppure durante l'Offertorio, l'Elevazione o la Comunione. Nel Cinquecento la musica sacra, sia vocale, sia strumentale, si sviluppò non soltanto in tutti i luoghi dove normalmente si praticano le funzioni liturgiche (cappelle private, chiese, parrocchie e conventi) ma anche in istituzioni religiose e laicali (fondate in seguito alla Controriforma), quali i seminari, i collegi, gli oratori, gli orfanotrofi, i conservatori e le congregazioni. Lo sviluppo maggiore si ebbe nelle cappelle private più rappresentative (delle corti signorili più prestigiose, delle più illustri famiglie, o di cardinali), nelle grandi chiese cattedrali e basilicali e in generale nei centri politici e culturali di maggiore importanza. Tra le cappelle private sono da ricordare, oltre a quella papale, quella vicereale a Napoli, quella degli Estensi a Ferrara, dei Medici a Firenze, dei Gonzaga a Mantova (S. Barbara), dei Savoia a Torino. Tra le cappelle delle grandi chiese o cattedrali si distinsero, oltre a quelle delle principali chiese e basiliche romane, la cappella della basilica di San Marco a Venezia, quella del duomo di Milano, di San Petronio a Bologna, di Santa Maria del Fiore a Firenze, della SS. Annunziata a Napoli e della cattedrale di Palermo. In tutti questi luoghi hanno operato nel corso del Cinquecento illustri compositori, sia fiamminghi sia italiani, in qualità di maestri di cappella, di cantori o di organisti. Tra i centri maggiori il ruolo più importante spetta certamente a Roma, costante punto di riferimento non soltanto per tutta la Cristianità occidentale ma anche per tutto il mondo culturale e intellettuale in qualche modo legato alla committenza papale ed ecclesiastica in genere. A Roma la musica polifonica veniva praticata dappertutto, non soltanto in Vaticano e 52 52 nelle quattro grandi basiliche, ma in ogni chiesa, ogni convento e in ogni istituzione religiosa. La cappella papale o Cappella di Nostro Signore, successivamente chiamata cappela sistina, era la cappella privata del papa. La sua istituzione risale al XIV secolo e nel corso del Quattrocento vi operarono i maggiori cantori e compositori del tempo fra i quali Dufay (dal 1428) al 1437) e Josquin Despres (dal 1486 al 1494). Un momento particolarmente felice è rappresentato dal papato di Sisto IV (1471-1484). Ma la sua importanza aumenta decisamente nel corso del '500 sotto i pontificati di Leone X (1513-1521), Paolo III (1534-49) e Giulio III (1550-1555) al quale si deve la nomina di Palestrina a cantore pontificio. Grande rilievo ebbe anche la Cappella Giulia fondata da papa Giulio II (1503-1513) intorno al 1513 e destinata ai servizi liturgici all'interno della Basilica di S. Pietro. Essa fu potenziata successivamente da Giulio III, che chiamerà alla sua direzione, nel 1551, Pierluigi da Palestrina (Palestrina tornerà a dirigere la Cappella Giulia nel 571 sotto Pio V, dopo la morte di Giovanni Animuccia). Fra le altre cappelle romane, particolarmente importanti furono quelle di S. Giovanni in Laterano e di S. Maria Maggiore, che ebbero tra gli altri, come maestro di cappella, proprio Palestrina, rispettivamente dal 1555 al 1560 e dal 1561 al 1565. Tra le altre istituzioni religiose romane bisogna ricordare anche il Seminario romano fondato in pieno clima controriformistico da papa Pio IV nel 1565, di cui il Palestrina fu il primo maestro di cappella. In tutte le istituzioni romane operarono durante il '500 i più illustri musicisti del tempo, sia franco-fiamminghi sia italiani, tra i quali, oltre al Palestrina, Arcadelt, Costanzo Festa, Rubino Mallapert, Francois Roussel, Giovanni Maria Ferrabosco, Giovanni Animuccia, Felice Anerio, Giovanni Maria Nanino, Cristobal Morales e Francois Roussel. Tutto questo fervore ha fatto sì che Roma sia stata considerata, non solo nel Cinquecento ma anche nei secoli successivi, come il punto di riferimento principale per la composizione della musica sacra caratterizzata fondamentalmente dallo stile "a cappella". Ma sarà principalmente Palestrina ad essere considerato il modello ideale per la polifonia liturgica fino a tutto il Settecento inoltrato, e il suo mito rimarrà legato alla nozione di "stile alla Palestrina". In effetti Palestrina rappresenta un perfetto equilibrio tra le istanze contrappuntistiche di stampo franco-fiammingo e l'esigenza di trasparenza nell'amalgama armonico creato dalla sovrapposizione delle varie linee melodiche, che garantisce anche una certa comprensibilità del testo. Quest'ultima era una delle necessità avanzate dalla commissione (di cui facevano parte anche i cardinali Carlo Borromeo e Vitellozzo Vitelli) che, dopo il Concilio di Trento, nel 1564-65, aveva avuto l'incarico di definire le caratteristiche della musica da impiegare nella liturgia e di regolamentarne l'uso. 6.6 La musica nella riforma luterana. Il corale Lo sviluppo dottrinale e liturgico del luteranesimo determinò la 53 53 necessità di un repertorio musicale appropriato alle specifiche esigenze del culto protestante. Com'è noto, nel 1517 Martin Lutero (1483-1546), monaco agostiniano e teologo, affisse alla porta del Duomo di Wittemberg 95 tesi riguardanti l'infondatezza teologica della dottrina e della pratica della vendita delle indulgenze. La critica luterana, inizialmente limitata alla denuncia di abusi ecclesiastici, si estese presto anche a questioni dogmatiche determinando la frattura decisiva con la Chiesa di Roma. Alcuni principi propri del Cristianesimo riformato, come il sacerdozio universale e il libero esame dei testi sacri, comportarono conseguenze rilevanti nell'organizzazione liturgica. Anzitutto Lutero rese accessibili i testi sacri e liturgici anche a chi non conosceva il latino, traducendo in tedesco la Bibbia, affinché ogni credente potesse attuare direttamente e responsabilmente l'interpretazione del Verbo, e per confermare le Scritture come unica forma di fede. La stessa messa, adattata alle specificità dottrinali protestanti, adottò la lingua tedesca allo scopo di garantire la partecipazione attiva e consapevole dei fedeli. L'azione riformatrice di Lutero non si limitò agli aspetti testuali della liturgia, ma operò anche sull'articolazione musicale del repertorio sacro. La complessa polifonia sacra cattolica, affidata ad esecutori professionisti, escludeva il coinvolgimento diretto dell'assemblea nel canto, e fu dunque necessario elaborare un corpus musicale idoneo alle necessità della nuova liturgia. Lutero, che possedeva una certa conoscenza teorica e pratica della musica, approntò dunque, con l'aiuto di alcuni musicisti come Johann Walter (ca. 1496-1570) e Conrad Rupsch (ca. 1474-1530) un repertorio di canti religiosi in tedesco, in gran parte consistenti in rielaborazioni di canti gregoriani. Questi canti sono inni strofici assembleari chiamati in tedesco Choral o Kirchenlieder, corali in italiano. Quattro raccolte di corali furono pubblicate nel 1524, e altre ne seguirono. Inizialmente i canti erano destinati a essere cantati all'unisono dai fedeli (che li imparavano a memoria), senza armonizzazione o accompagnamento, dunque le melodie erano semplici, procedevano per intervalli facili da intonare, ed erano articolate in frasi regolari. La struttura melodica dei primi corali aveva lo stesso schema A A B tipico della Barform usata dai Minnesänger. Successivamente i compositori luterani iniziarono a scrivere versioni polifoniche dei corali: la melodia, in questo caso, era affidata alla voce superiore, ed era accompagnata da altre tre voci che procedevano in stile omoritmico-accordale; questa prassi esecutiva non veniva affidata ai fedeli, ma a cori di cantori professionisti. Un'altra possibilità esecutiva era quella di affidare la melodia alle voci, e le parti sottostanti all'organo. Il corale è tuttora il nucleo liturgico-musicale fondamentale del culto luterano; il repertorio cinquecentesco è stato utilizzato e rinnovato attraverso i secoli applicando alle melodie originarie nuove armonizzazioni (famose sono quelle di J. S. Bach), che sono il riflesso dei differenti gusti storici. I corali saranno anche posti alla base di elaborazioni più complesse nell'ambito delle forme strumentali organistiche. 54 54 6.7 La controriforma In seguito alla rivoluzione religiosa provocata da Martin Lutero, buona parte dell'Europa si convertì e si staccò dalla Chiesa di Roma. Il grave pericolo in cui quest'ultima venne a trovarsi, provocò un forte impulso verso un rinnovamento che non tradisse lo spirito della religione cattolica e delle sue istituzioni e che potesse in qualche modo far fronte al dilagare delle dottrine protestanti. Questo movimento ha preso il nome di Controriforma. La manifestazione più evidente dei nuovi fermenti cattolici fu la convocazione, nel 1545, del Concilio di Trento, che, con varie interruzioni e interventi dall'esterno, si concluse nel 1563 dopo aver rinsaldato la compagine gerarchica della Chiesa e l'autorità del papa, precisato dogmi e fissati gli obblighi disciplinari del clero e dei fedeli. Riguardo alla musica sacra, il Concilio di Trento condannava lo spirito profano presente, ad esempio, nelle messe costruite su un cantus firmus profano, o nelle Messe parodie basate su chansons, e le complessità contrappuntistiche che rendevano incomprensibili le parole del testo. Inoltre si riprovava la negligenza e il malcostume dei cantori nel fiorire la propria parte per emergere nel contesto vocale, e la loro cattiva pronuncia delle parole; infine si riprovava l'uso di strumenti rumorosi in chiesa. Tuttavia, al di là di questi pronunciamenti, il Concilio di Trento non prese in considerazione le questioni tecniche e non fornì le regole musicali da seguire, ma demandò le soluzioni pratiche ai vari vescovi e alle diocesi. Dunque non vennero ufficialmente proibite né la polifonia, né la parodia su modelli profani: l'importante era che, qualunque soluzione tecnica fosse adottata, il testo cantato rimanesse intelligibile, e fossero evitati abusi esecutivi. 6.8 Giovanni Pierluigi da Palestrina Tutto il fervore musicale della Roma del Cinquecento di cui si è detto, ha fatto sì che questa città divenisse, anche nei secoli successivi, il punto di riferimento principale per la composizione della musica sacra. Ma sarà principalmente Palestrina ad essere considerato il modello ideale per la polifonia liturgica fino a tutto il Settecento inoltrato. Giovanni Pierluigi da Palestrina (Palestrina 1525 o 26-1594) fu fanciullo cantore nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, dove ricevette la sua formazione musicale. Nel 1544 divenne organista e maestro del coro nella cattedrale di Palestrina. Nel 1551 fu nominato maestro della cappella Giulia (o Vaticana) in S. Pietro da papa Giulio III, suo protettore (in precedenza vescovo di Palestrina) al quale dedicò nel 1554 il suo primo Libro di Messe a 4 voci. Dopo un breve e contestato incarico di cantore nella cappella di Nostro Signore (la cappella privata del papa oggi detta sistina), fu nello stesso anno maestro di cappella della basilica di S. Giovanni in Laterano, e sei anni dopo ebbe la stessa carica nella basilica di S. Maria Maggiore. Nel 1571 fu richiamato a collaborare con la Cappella Vaticana in S. Pietro. Svolse attività didattica anche presso il Seminario 55 55 Romano, lavorò per il cardinale Ippolito d'Este a Roma e a Tivoli, e per la "Compagnia dei Musici di Roma" (da cui trarrà origine l'attuale Accademia di Santa Cecilia). Palestrina è il compositore al quale fu riconosciuto di aver interpretato al meglio l'essenza dello stile della Controriforma, per la sua polifonia sobria e lontana da suggestioni profane. La sua formazione musicale è di ascendenza franco-fiamminga, perché fiamminghi furono i suoi maestri, e dunque alla base del suo stile c'è il contrappunto imitativo affidato a un organico esclusivamente vocale, le cui singole parti hanno un andamento ritmico melodico autonomo e continuo, pur nel rispetto dell'andamento delle altre parti. Gli elementi conservatori nello stile di Palestrina, derivati dalla vecchia tradizione fiamminga sono: l'uso frequente di un organico a 4 voci invece delle ormai consuete 5 o 6 voci; alcune messe scritte con la tecnica, ormai datata, su cantus prius factus, come ad esempio la prima delle due messe scritte sulla tradizionale melodia della chanson francese L'homme armé; inoltre l'uso rigoroso della tecnica del canone, nelle messe Missa ad fugam (interamente in doppio canone) e Repleatur os meum, in modo rigoroso, e in molte altre messe, in modo meno severo. Altro dato interessante è che la maggior parte delle messe di Palestrina sono costruite su cantus firmus gregoriano, e inoltre, alcune messe parodia sono basate su mottetti polifonici a loro volta fondati sul canto gregoriano. Questo dato non è casuale, per il fatto che Palestrina permea la sua polifonia non solo dello spirito, ma anche della tecnica del canto gregoriano. Le linee melodiche delle sue parti vocali procedono infatti prevalentemente per grado (i pochi intervalli superiori alla terza vengono immediatamente riequilibrati con intervalli che procedono in direzione inversa), con rare note ribattute, in frasi sinuose e di lungo respiro, non articolate da cadenze regolari, e in ambiti che non vanno oltre l'intervallo di nona. Dal punto di vista armonico la produzione palestriniana esclude ogni cromatismo, e gli intervalli che le voci formano nei loro incontri verticali, sono quelli che, nella grammatica armonica, si chiamano triadi e accordi di sesta. La linea del basso spesso procede per intervalli di quarta o di quinta, che producono cadenze pseudo tonali, per cui si verificano situazioni a metà strada tra il sistema modale del XV secolo e l'armonia tonale del secolo XVIII. Il procedere diatonico, l'assenza di cromatismi e il trattamento discreto delle dissonanze, conferisce alla musica di Palestrina un clima sobrio e distaccato. Altro elemento importante nella polifonia palestriniana è il sapiente trattamento della sonorità che deriva dal saper raggruppare, spaziare o raddoppiare le voci nelle loro combinazioni verticali: una sorta di "orchestrazione vocale". Un medesimo accordo produce sfumature differenti se viene eseguito da combinazioni vocali diverse: in Palestrina è sempre felice la scelta delle voci e quindi la giusta sonorità in rapporto alle varie situazioni espressive. Il ritmo nella polifonia cinquecentesca viene scandito da un metro 56 56 identico per tutte le voci, e nell'ambito di questo appuntamento collettivo, ogni voce conserva l'indipendenza del suo ritmo personale, che asseconda la declamazione delle parole del testo nel suo procedere. Nelle musiche di Palestrina più che altrove, il metro collettivo che contiene il fluire ritmico di tutte le voci dà come effetto la sensazione di una successione ritmica regolare messa in evidenza più che dagli accenti tonici, dai cambiamenti d'armonia e dalla collocazione di ritardi sui tempi forti. L'equilibrio stabilito tra il procedere orizzontale delle voci e i loro incontri intervallari verticali produce nell'ambito della polifonia palestriniana una trama sonora trasparente dalla quale non è difficile far emergere con chiarezza il testo letterario. A questo scopo peraltro Palestrina, soprattutto nella Missa papae Marcelli, organizzò il discorso musicale in modo che una data frase fosse spesso pronunciata dalle voci in modo simultaneo, e non attraverso un contrappunto imitativo eccessivamente sfasato: ma per evitare la monotonia di questo procedimento (il falso bordone), egli divise l'organico di sei voci in vari gruppi minori, ognuno dotato di un proprio colore sonoro, riservando l'insieme delle sei voci per parole esprimenti una tensione particolarmente significativa. Così nessuna voce arriva ad avere il testo per intero, dato che vi sono scarse ripetizioni di esso. In questo modo la musica di Palestrina, basata sulla purezza della sonorità vocale e sull'uso controllato del contrappunto, riflette gli ideali di conservatorismo e di interiorità della Controriforma. Tra i compositori contemporanei di Palestrina, legati al suo stile musicale e come lui esponenti della scuola romana sono da ricordare Giovanni Maria Nanino (1545 ca.-1607), Felice Anerio (1560-1614), Giovanni Animuccia (1500 ca.-1571). Altro importante esponente della scuola romana fu lo spagnolo Tomàs Luis de Victoria (1549 ca.-1611), la cui presenza a Roma dimostra come durante tutto il XVI secolo vi furono stretti rapporti tra i compositori spagnoli e romani. Gli ultimi compositori franco-fiamminghi del XVI secolo furono Philippe De Monte e Orlando di Lasso, autori anche di molta musica profana. Orlando di Lasso è considerato, insieme a Palestrina tra i grandi compositori di musica sacra del tardo Cinquecento, ma mentre Palestrina eccelse soprattutto nelle Messe, la fama di Lasso è legata principalmente ai mottetti, la cui forma complessiva e i dettagli particolari sono informati ad un approccio drammatico e descrittivo del testo. 6.9 La scuola veneziana Il centro della cultura musicale di Venezia era la basilica di S. Marco, e in essa l'organizzazione musicale dipendeva direttamente da funzionari statali, che non risparmiavano sulla sua gestione, in quanto le manifestazioni musicali erano concepite ed esibite con sfarzo a dimostrazione della magnificenza dello stato. La carica di maestro di cappella era molto ambita, e anche gli organisti erano scelti con selezioni rigorose. 57 57 A differenza della scuola romana che coltivava prevalentemente il contrappunto tradizionale e lo stile solamente vocale ("a cappella"), la scuola veneziana tendeva a uno stile più accordale che contrappuntistico in senso tradizionale, in cui le voci procedevano piuttosto omoritmicamente; inoltre coltivarono molto le sonorità e i contrasti timbrici, e la tecnica policorale detta anche del "cori spezzati", che in S. Marco venne stimolata dalla presenza di due organi posti su due cantorie collocate una di fronte all'altra. In effetti, come si è già detto, l'usanza di scrivere pezzi per doppio coro (per cori spezzati) non aveva avuto origine a Venezia, perché fin dai primi anni de XVI secolo si era sperimentata in area veneta la tecnica di contrapporre raggruppamenti corali diversi: ma questa tecnica si rivelò congeniale al tipo di scrittura corale omoritmica prediletta dai compositori veneziani. Anche la tradizionale polifonia franco-fiamminga metteva in atto, ma in maniera saltuaria, meccanismi musicali basati sul contrasto sonoro: per esempio contrapponeva passi affidati a due o tre voci, a passi cantati dall'intero organico vocale oppure alternava episodi scritti in contrappunto imitativo a episodi in struttura accordale. La scuola veneziana invece fa dei contrasti sonori la sua cifra stilistica privilegiata, impiegando anche gruppi di strumenti mescolati alle voci o contrapposti ad esse: la tecnica policorale prevedeva dunque la contrapposizione di cori vocali e gruppi strumentali, o la contrapposizione di cori misti di voci e strumenti insieme. Se la pratica polifonica vocale del Rinascimento consentiva che gli strumenti sostituissero o raddoppiassero le parti vocali, comparve ora una nuova pratica denominata "concertato" o "concerto", un termine che divenne fondamentale per la prima musica barocca. Il termine, "concertare" (probabilmente dal latino 'gareggiare') si riferiva di solito a gruppi in concorrenza o in contrasto fra loro, oppure alla combinazione di voci e strumenti; venne usato come titolo per la prima volta nei Concerti...per voci et strumenti (1587) di Andrea e Giovanni Gabrieli. Andrea Gabrieli prescrive, nella premessa ai suoi Psalmi davidici, l'uso di strumenti e voci "insieme e separatamente" senza però precisare i tipi di combinazione che (come anche nella precedente suddetta raccolta) sono lasciati alla discrezione dell'esecutore. Negli ultimi anni del secolo il termine entrò nell'uso comune, come per esempio nel titolo Concerti ecclesiastici, che troviamo in tre famose raccolte: una con opere di Andrea Gabrieli e altri autori (1590); una seconda con opere di Adriano Banchieri (1595) e una terza contenente i famosi Concerti di Lodovico Grossi da Viadana (1602). Giovanni Gabrieli nelle sue Sacrae symphoniae (1597) fu il primo compositore a indicare esattamente nella partitura gli strumenti specifici da usare nell'esecuzione; in genere suonavano insieme alle voci non solo l'organo, ma anche tromboni, cornette e viole. Naturalmente le voci erano abbinate agli strumenti in base ai timbri: quelli acuti della viola da braccio duplicavano le voci superiori, mentre il suono dei cornetti e quello dei tromboni sostenevano le voci basse. L'andamento semplificato delle voci, 58 58 che procedono per lo più a blocchi accordali, serviva allo scopo di mettere in rilievo e con estrema chiarezza il ritmo naturale delle parole, che in questo modo erano facilmente percettibili. Willaert aveva pubblicato nel 1550 i suoi Salmi a uno et a duoi chori a Venezia e questa produzione ebbe seguito attraverso i suoi discepoli, a cominciare dal teorico Gioseffo Zarlino che trattò questo procedimento compositivo nella sua opera intitolata Istitutioni harmoniche del 1558. Il procedimento antifonico regolare dei Salmi di Willaert, con sezioni alternate regolarmente tra i due cori, venne arricchito e amplificato dal suo allievo Andrea Gabrieli (1533-1585), che sfruttò questa tecnica con una numerosa serie di effetti sonori: anzitutto con un maggior numero di cori contrapposti, e inoltre con episodi espressi attraverso dialoghi serrati seguiti da episodi che vedono i cori riuniti in procedimenti omoritmici, frequenti effetti d'eco e ripetizioni di parole. Non è del tutto assente il contrappunto imitativo, ma questo cede il posto principale allo stile omoritmico accordale che viene usato per meglio sottolineare la declamazione del testo. Il vocabolario è in genere diatonico, salvo la presenza di qualche cromatismo teso a evidenziare concetti significativi. Andrea Gabrieli operò spesso al di fuori di Venezia, in Italia e all'estero, soprattutto nei paesi di lingua tedesca, tanto che fino alla metà del Seicento le sue opere sacre e profane, ebbero larga diffusione in edizioni e ristampe. Furono suoi allievi, tra gli altri, il teorico Lodovico Zacconi (1555- 1627), autore del trattato Prattica di musica e il nipote Giovanni Gabrieli (1557 ca.- 1612). La raccolta intitolata Concerti...per voci, et stromenti musicali , pubblicata a Venezia nel 1587, contiene opere di Andrea e Giovanni Gabrieli, sacre e profane, per organici che comprendono dalle 6 alle 16 parti sia vocali, sia strumentali, anche se di queste ultime non vengono precisati gli strumenti esecutori. Giovanni Gabrieli proseguì l'opera di evoluzione delle tecniche policorali soprattutto nella sperimentazione di sempre nuovi impasti di voci e strumenti e relativi effetti timbrici e sonori. Con Giovanni il mottetto policorale arrivò a dimensioni mai raggiunte, perché vi furono impiegati fino a cinque cori, ognuno con una diversa combinazione di voci acute e gravi, e ognuno combinato con strumenti di timbro diverso. Famosa è la sua Sonata pian'e forte, contenuta nelle Sacrae Symphoniae del 1597; si tratta, formalmente, di un mottetto a doppio coro per strumenti, ed è importante, più che per il valore musicale, per il fatto che è uno dei primi pezzi stampati per un insieme strumentale in cui sono specificati esattamente quali particolari strumenti sono richiesti, nell'esecuzione, per ogni parte: il primo "coro" prevede una cornetta e tre tromboni, il secondo "coro" un violino e tre tromboni. Ma la raccolta è importante anche perché Giovanni in questa sonata fu uno dei primi a usare indicazioni di dinamica, sia nel titolo, sia nella partitura, di "pian[o] e "forte" (la prima indicazione è usata quando ogni "coro" suona da solo, la seconda quando i due "cori" suonano insieme). Nelle citate Sacrae symphoniae del 1597 e nelle le 59 59 Symphoniae sacrae del 1615, Giovanni Gabrieli sperimenta contrasti ritmici, dinamici, e, a volte, cromatismi sia melodici sia armonici. Nelle Sacrae symphoniae del 1597 troviamo anche una Canzon in echo per otto cornette e due tromboni (con un arrangiamento alternativo per organo), e una Canzon da sonar per viola, cornetta e nove tromboni. La scuola veneziana ebbe larga fama in Italia e nell'Europa settentrionale (Germania, Austria), tra la fine del XVI e l'inizio del XVII secolo. Tra gli allievi di Giovannni Gabrieli fu Heinrich Schutz, il più importante esponente della musica sacra tedesca della sua epoca. 7. CLAUDIO MONTEVERDI TRA RINASCIMENTO E BAROCCO Un discorso a parte merita l'opera di Claudio Monteverdi, perché nell'ambito della sua intera produzione, ma soprattutto dei suoi otto libri di madrigali (stampati a Venezia dal 1587 al 1638) possiamo percorrere gradualmente il passagio dal XVI al XVII secolo, dalla tradizione polifonica rinascimentale della seconda metà del Cinquecento, alle innovazioni espressive, stilistiche, formali e strutturali del primo Seicento barocco. Monteverdi (1567-1643) studiò a Cremona, sua città natale, con Marcantonio Ingegneri, maestro di cappella del Duomo di quella città. Nel 1590 entrò al servizio del duca di Mantova Vincenzo Gonzaga, dapprima come suonatore di viola, e, dal 1602, come maestro della cappella ducale. Dal 1613 fino alla morte fu maestro di cappella della basilica di S. Marco a Venezia. I primi cinque libri di madrigali, e parte del sesto, vennero composti a Mantova, e rispecchiano la padronanza della tecnica madrigalistica del tardo Cinquecento, con l'alternarsi di sezioni in contrappunto imitativo e sezioni in stile omoritmico-accordale (che a volte realizzano una sorta di declamato polifonico), e la resa fedele del testo poetico attraverso una serie di "madrigalismi" tra i quali anche l'uso di dissonanze. Già in questa prima fase tuttavia si rintracciano segnali evidenti di evoluzione stilistica, come alcuni passi che non sono melodici, ma declamatori, come dei recitativi: ne è un esempio l'incipit di Sfogava con le stelle (Quarto libro dei madrigali), in cui questo verso viene declamato da tutte le voci su un accordo che l'autore pone all'inizio senza specificare il valore da attribuire all'intonazione delle sillabe: ne scaturisce una sorta di recitazione, in declamato polifonico che si rifà allo stile recitativo della contemporanea monodia accompagnata. In questo senso va interpretata la graduale trasformazione dell'organico che esegue, e della tessitura che spesso si allontana dall'ideale rinascimentale dell'uguaglianza delle voci, e si assottiglia spesso in duetti sostenuti dalla parte del basso che funge da sostegno armonico. Le scelte poetiche di Monteverdi si diressero, in una prima fase, ai versi del Tasso (Gerusalemme liberata), per passare, a partire dal Libro quarto, prevalentemente a G. Battista Guarini (Il Pastor fido), e poi ancora a Gabriello Chiabrera (1552-1638) e Giovanni Battista Marino (1569- 60 60 1625). Per quanto riguarda gli incontri dissonanti delle voci, questi in molti casi possono essere interpretati come abbellimenti, ma in effetti essi venivano prevalentemente impiegati da Monteverdi allo scopo di rendere e comunicare il significato e gli "affetti" contenuti nel testo poetico. Anche se Monteverdi non usa i cromatismi e le conseguenti dissonanze nel modo esasperato di Gesualdo da Venosa, tuttavia, soprattutto a cominciare dal suo Terzo libro di madrigali lo vediamo derogare dalle regole contrappuntistiche riguardanti gli incontri consonanti delle voci. Furono proprio le deviazioni dalle regole grammaticali contrappuntistiche riguardanti le combinazioni armoniche dissonanti che sollecitarono il biasimo del teorico bolognese Giovanni Maria Artusi, allievo di Zarlino, il quale nella sua opera L'Artusi, ovvero Delle imperfettioni della moderna musica (1600) e nella successiva Seconda parte dell'Artusi (1603), criticava le innovazioni armoniche di Monteverdi che contrastavano con la regola, per esempio, per cui ogni dissonanza deve essere preceduta e seguita da una consonanza. Tra i vari passi monteverdiani contestati dall'Artusi c'è quello iniziale del madrigale Cruda Amarilli (pubblicato per la prima volta nel quinto libro di madrigali a cinque voci, del 1605, ma sicuramente in circolazione in forma manoscritta già all'inizio del secolo): in esso Artusi disapprovava le licenze contrappuntistiche causa di aspre dissonanze negli incontri vocali. Ma proprio tali dissonanze poste su parole-chiave sono indice della volontà di Monteverdi di comunicare attraverso l'insieme armonico il significato emozionale del messaggio poetico. La risposta di Monteverdi all'attacco di Artusi appare dapprima nella lettera agli Studiosi lettori, pubblicata nello stesso quinto libro, dove afferma di essere consapevole di ciò che scrive ("..io non faccio le mie cose à caso"), ed enuncia l'esistenza di una "seconda prattica", successiva e diversa da quella "insegnata dal Zerlino". Due anni dopo, il concetto di "seconda prattica" fu spiegato dal fratello di Monteverdi, Giulio Cesare, nella dichiaratione anteposta alla pubblicazione degli Scherzi musicali (Venezia, 1607) con le seguenti parole: "[...] prima prattica intende che sia quella che versa intorno alla perfetione del armonia [della musica], cioè che considera l'armonia non comandata ma comandante, e non serva ma signora del oratione [testo] [...]; seconda prattica, della quale è stato il primo rinovatore ne nostri caratteri il divino Cipriano Rore [...] intende che sia quella che versa intorno alla perfetione della melodia, cioè che considera l'armonia comandata non comandante, e per signora del armonia pone l'oratione, per cotali ragioni halla detta seconda e non nova". Secondo Monteverdi dunque, l'Artusi criticava le innovazioni armoniche senza tenere conto delle esigenze illustrative del testo ("[...] nulla curandosi dell'oratione, tralasciandola in maniera tale come se nulla havesse che fare con la musica"). Era infatti ormai da tempo in atto un mutamento nei rapporti tra musica e poesia, e la parola, lungi ormai dall'essere considerata mera base fonetica e sostegno delle complicate 61 61 costruzioni musicali, si immedesimava con la musica costituendone l'anima e determinandone il carattere espressivo. Nel linguaggio monteverdiano, la profonda aderenza tra musica e testo, che si impone sin dalle prime composizioni madrigalistiche, e si conferma in tutti i successivi lavori come suo tratto personale, non è basata esclusivamente sulla resa pittorica della singola parola (i suddetti madrigalismi), ma è intesa in senso più ampio, offrendo musicalmente una visione d'insieme del significato testuale: la cosiddetta "teatralità monteverdiana" coglie nel testo il momento poetico centrale, e adegua ad esso il clima generale della musica. Attraverso gli otto libri di madrigali assistiamo al progressivo e naturale modificarsi della struttura musicale in funzione delle esigenze espressive. Scelte poetiche spesso complesse e artificiose portano Monteverdi alla ricerca di un'"oratoria musicale" e alla costruzione di forme più estese e articolate. Il confronto, essenziale, con l'assetto strutturale del testo letterario non pregiudica però l'autonomia del linguaggio propriamente musicale, che va invece scoprendo nessi formali e mezzi tonali che superano gradatamente l'orizzonte modale della polifonia madrigalesca. Fondamentale in questo processo di rinnovamento musicale è l'adozione, sin dal quinto libro dei madrigali, del 'basso continuo', premessa indispensabile all'impiego della voce solista nella compagine di un madrigale polifonico. A partire dal settimo libro (Venezia, 1619), intitolato concerto, si verifica una vera e propria frattura formale: il termine assai estensivo di madrigale si trova applicato anche a composizioni che, per la molteplicità degli stili musicali e dei generi letterari in esse adottati, più nulla hanno a che fare con la polivocalità contrappuntistica della tradizione cinquecentesca; nella varietà degli "altri generi de canti", il numero delle voci, sostenute dal basso continuo, varia da uno a sei e ad esse si associano varie formazioni strumentali con funzione concertante. Lo stile concertato o concertante, inteso come unione di parti vocali e strumentali non sempre paritarie, ma il più delle volte con funzioni distinte (melodiche e di accompagnamento prevalentemente armonico), ha le sue origini nelle composizioni policorali della scuola veneziana, oltre che nei madrigali polifonici a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, che dal contesto polifonico delle 5 voci, arrivò alle 3, 2, o anche a una voce solista. Il basso continuo è una sorta di accompagnamento armonicoaccordale posto a sostegno di parti vocali; consisteva in una parte di basso scritta per esteso al di sotto della, o delle altre parti vocali, sulla quale erano scritte delle cifre che suggerivano il tipo di accordo (non scritto) da realizzare estemporaneamente durante l'esecuzione. In genere veniva affidato almeno a due esecutori: uno per eseguire la linea del basso (in genere uno strumento ad arco con registro grave come la viola da gamba), l'altro o gli altri per realizzare estemporaneamente gli accordi adeguati, e spesso suggeriti dalla numerica sovrapposta alla parte del basso (tastiere, liuto, tiorba, chitarrone). Questo basso si dice continuo perché nelle 62 62 composizioni del XVII e XVIII secolo in cui è impiegato, accompagna ininterrottamente il discorso musicale a differenza delle parti di basso nella musica polifonica, che, come tutte le altre voci, aveva le sue pause. Il contrappunto del XVII secolo dunque si diversifica da quello del Rinascimento: consisteva sempre in una combinazione di linee melodiche differenti, ma ora le linee dovevano adattarsi alle regole strutturali di una serie di successioni armoniche di accordi esplicitamente definiti e suonati dal continuo, dunque era un contrappunto controllato armonicamente. Tornando a Monteverdi, l'intitolazione di Concerto attribuita al suo settimo libro di madrigali sta a registrare una pluralità di stili e di mezzi espressivi sperimentati in questa opera. Questa sperimentazione prosegue nei Madrigali guerrieri et amorosi. libro ottavo (Venezia 1638), l'ultimo libro di madrigali stampato durante la vita dell'autore (perché il Nono Libro uscirà postumo), notevole per la varietà di generi e di forme, tra cui si hanno madrigali a cinque voci, assolo, duetti e trii con basso continuo, e composizioni per coro, solisti e orchestra. Già la prefazione "Claudio Monteverde a chi legge" costituisce il programma estetico della raccolta; in essa Monteverdi spiega la sua poetica, la quale tende a uno stile espressivo che valorizzi al massimo l'oratione costituita dall'intrecciarsi di "affetti" contrastanti: alla realizzazione espressiva di questi affetti dovevano tendere insieme voci e strumenti per incontrarsi in quella "imitazione unita" che costituisce l'ideale esecutivo monteverdiano. Tra le tante tecniche formali usate c'è il del basso ostinato: nel Lamento della ninfa, la parte di basso adotta uno schema melodico fisso (una quarta discendente), che viene ripetuto in modo identico, per 34 volte, mentre la voce solista (la ninfa) melodizza con ricchezza di espressione il suo "lamento". Ma di importanza fondamentale nel Libro ottavo è il Combattimento di Tancredi e Clorinda. Il testo si basa sul famoso episodio descritto dal Tasso nel XII canto della Gerusalemme liberata, i cui versi (ottave 52-62 e 64-68) sono stati parzialmente modificati e frequentemente contaminati dalla versione della Gerusalemme conquistata. Lo stesso Monteverdi, nella prefazione sopra citata, spiega le ragioni della sua scelta: "[...] diedi di piglio al divin Tasso, come poeta che esprime con ogni proprietà et naturalezza con la sua oratione quelle passioni, che tende a voler descrivere et ritrovai la descrittione, che fa del combattimento di Tancredi con Clorinda, per haver io le due passioni contrarie da mettere in canto guerra cioè preghiera, et morte [...]". Questa scelta poetica richiede l'introduzione del "concitato genere", in aggiunta a quelli già usati "molle et temperato", necessario alla resa delle caratteristiche guerriere del testo tassiano che descrive l'incontro dei protagonisti, il duello, il ferimento di Clorinda, il riconoscimento da parte di Tancredi, il battesimo e la commovente morte. La composizione prevede un organico di tre voci (un soprano, Clorinda, e due tenori, Tancredi e il narratore del testo) e quattro parti strumentali: "quattro viole da brazzo, soprano, alto, tenore et basso, 63 63 et contrabasso da gamba che continuerà con il clavicembano". Il fatto che il Combattimento sia "in genere rappresentativo", come le istruzioni esecutive di Monteverdi prescrivono, è ampiamente confermato dalle sue caratteristiche musicali che mirano a "rappresentare" la concitazione drammatica e "i contrasti, che sono quelli che scuotono grandemente l'animo nostro", e richiedono espressamente la realizzazione mimica. A questo scopo vengono sperimentate diverse innovazioni. Dal punto di vista ritmico l'adozione del pirricchio (giustificata da un discutibile accostamento del ritmo musicale con la metrica classica:"[...] è tempo veloce nel quale tutti gli migliori filosofi affermano in questo genere essere stato usato le saltazioni belliche, concitate [...]"), si traduce nel frazionamento della semibreve (paragonata allo spondeo) "in sedeci semicrome et ripercosse ad una per una (il famoso effetto di 'tremolo') con agionzione di oratione contenente ira et sdegno". Questo procedimento sottolinea i momenti guerreschi del racconto già sulle parole "quai due tori gelosi e d'ira ardenti", ma soprattutto durante la prima battaglia ("l'onta irrita lo sdegno alla vendetta/ e la vendetta poi l'onta rinnova"; "tornano al ferro, e l'uno e l'altro il tinge / di molto sangue") e durante il secondo duello ("torna l'ira nei cori e li trasporta"). Il contrasto espressivo dell'episodio della morte di Clorinda, che conclude il lavoro, viene reso invece attraverso l'adozione degli stili "molle" e "temperato", che ben si adattano, secondo Monteverdi, all'espressione degli 'affetti' dell'umiltà e della temperanza. Vengono anche applicati, nella partitura, procedimenti realistico-descrittivi come la figurazione strumentale 'rotatoria' sulle parole "va girando", quello del "trotto del cavallo" o degli squilli di tromba (realizzati con gli archi) che precedono il suono delle armi; oppure quelli più sottili come l'incedere cadenzato dei due guerrieri che "vansi incontro a passi tardi e lenti", la pausa meditativa dell'invocazione alla notte, ed altri effetti espressivi ottenuti con la ripartizione degli incisi tra strumenti e narratore, con ritmi puntati incalzanti, scale rapide, recitazione veloce di alcuni passaggi del testo in gara con i ribattuti degli archi, i pizzicati, il contrasto dinamico tra piano e forte. Ma gli effetti tecnici e strumentali di questa straordinaria partitura musicale, lontani dall'essere semplici compiacimenti imitativi, aderiscono intimamente ai contrastanti moti dell'animo rispecchiando progressivamente l'ira, l'odio, l'accanimento, il dolore, e costituendo in questo senso la grandezza della musicalità monteverdiana.