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Michele Amari

Storia dei musulmani di Sicilia -


Volume primo

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TITOLO: Storia dei musulmani di Sicilia - Volume primo


AUTORE: Amari, Michele
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TRATTO DA: Storia dei musulmani di Sicilia / scritta


da Michele Amari - Firenze : F. Le Monnier - volume 1,
1854 - LVI, 536 p. ; 22 cm.

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3
STORIA
DEI

MUSULMANI
DI SICILIA

SCRITTA

DA MICHELE AMARI.

VOLUME PRIMO.

FIRENZE.

FELICE LE MONNIER.

1854.

4
Indice generale
INTRODUZIONE.............................................................................6
TAVOLA ANALITICA..................................................................29
PARTE PRIMA. - OPERE PERDUTE......................................29
PARTE SECONDA. - OPERE ESISTENTI..............................35
LIBRO PRIMO...............................................................................75
CAPITOLO I..............................................................................75
CAPITOLO II.............................................................................85
CAPITOLO III............................................................................97
CAPITOLO IV.........................................................................130
CAPITOLO V...........................................................................153
CAPITOLO VI.........................................................................174
CAPITOLO VII........................................................................200
CAPITOLO VIII.......................................................................211
CAPITOLO IX.........................................................................223
CAPITOLO X...........................................................................248
LIBRO SECONDO.......................................................................259
CAPITOLO I............................................................................259
CAPITOLO II...........................................................................270
CAPITOLO III..........................................................................279
CAPITOLO IV.........................................................................298
CAPITOLO V...........................................................................305
CAPITOLO VI.........................................................................321
CAPITOLO VII........................................................................341
CAPITOLO VIII.......................................................................355
CAPITOLO IX.........................................................................383
CAPITOLO X...........................................................................400
CAPITOLO XI.........................................................................419
CAPITOLO XII........................................................................444

5
INTRODUZIONE.
Non ostante la cultura delle colonie musulmane che tennero la
Spagna e la Sicilia e dettero tante parti di civiltà all'Europa, egli è
avvenuto che la storia loro rimanesse per molti secoli oscura e
trasandata, quasi di popoli barbari. E ciò per cagione che i cronisti
latini e greci del medio evo poco ne scrissero; che le opere arabiche
andarono a male quando i Musulmani sgombravan da quei paesi; e
che quel tanto che ne fu serbato in Affrica o in Oriente, non potea
passare, senza difficoltà grandissime, dalla società musulmana alla
società europea. Quegli ostacoli, superati un po' dal decimosesto al
decimottavo secolo, or si vincono felicemente. La tolleranza
filosofica; il genio degli studii storici; i viaggi; il commercio; le
dominazioni europee in alcuni paesi di Musulmani; la influenza
esercitata sopra altri; le accademie asiatiche istituite sotto varie
denominazioni, in Inghilterra, Francia, Alemagna, Stati Uniti
d'America e stabilimenti inglesi in India; i giornali periodici di esse;
lo zelo di raccogliere manoscritti, monete antiche e monumenti;
l'agevolezza ad apparare le lingue orientali; le frequenti
pubblicazioni di libri arabici, han reso ormai praticabili molte
ricerche tentate invano dalle passate generazioni. Così qualche
opera pregevole rischiara già la storia dei Musulmani di Spagna, e
sappiam che altre se ne apparecchino di maggior polso. Così gli
annali delle Crociate si compiono col favor dei cronisti musulmani.
Così escono alla luce o s'intraprendono di continuo tanti altri lavori
storici su l'Affrica, su l'Egitto e su varii Stati dell'Asia anteriore.
La genuina tradizione dei tempi musulmani si dileguò di Sicilia
al conquisto normanno, insieme coi dotti ch'emigravano in Affrica,
in Spagna o in Egitto. Se ne andavano con essi i libri; o erano
distrutti tra le guerre del conquisto nell'undecimo secolo; tra le
sedizioni dei Cristiani nel duodecimo; tra le disperate ribellioni dei
Musulmani nei principii del decimoterzo: ancorchè la Sicilia non
abbia dato, nè anco in que' tempi, lo scandalo d'un auto-da-fè di
manoscritti arabici, come quello del cardinal Ximenes che ne fece
ardere ottantamila su la piazza di Granata, mentre Colombo

6
scopriva l'America. Il fatto è che dalla metà del decimoterzo secolo
alla metà del decimoquarto, rimanendo tuttavia in Sicilia, come
n'abbiam prove, qualche notaio che intendesse gli atti distesi in
arabico e qualche Giudeo che traducesse opere dei medici arabi, tal
cognizione di lingua non servì a tramandare memorie storiche, ma
soltanto a propalar qualche errore degli Arabi o dei traduttori. Così
io penso leggendo nelle croniche latine di Sicilia a quel tempo, che
dopo i casi del buon Menelao re d'Italia e di Sicilia, i Greci, mandati
da Eraclio imperatore di Costantinopoli, si fossero impadroniti della
Trinacria; le avessero posto nome di Sicilia, da due voci greche
l'una delle quali suona fico e l'altra olivo; e che poi, ribellatosi
Maniace luogotenente di Eraclio e spento a tradigione dalla corte
bizantina, il figliuol suo, per vendetta, avesse dato l'isola ai Saraceni
di Tunis, l'anno di Maometto centonovantotto, e ottocento ventisette
di Cristo1. Erano i fatti di venti secoli compendiati in una vita
d'uomo. Quella falsa etimologia dal fico e dall'ulivo, ignota ai Greci
e ai Latini, trovasi appunto negli scritti d'Ali-ibn-Katâ' e d'Ibn-
Rescîk, i quali vissero in Sicilia nell'undecimo secolo. Si incontrano
poi sovente negli autori musulmani somiglianti anacronismi sugli
imperatori romani, e si vede sempre citato a dritto o a torto il nome
d'Eraclio, che sedea sul trono vivendo Maometto. Indi mi è paruto
probabile che la tradizione detta di sopra, tutta quanta ella è, fosse
derivata da unica sorgente arabica. Se altre notizie vi erano su la
dominazione musulmana, i cronisti siciliani, secondo la ignoranza e
pregiudizii della età loro, le doveano trascurare, o volontariamente
sopprimere.
Dopo tre secoli in circa, ristorandosi gli studii storici in Italia e
non rimanendo la Sicilia addietro dalle altre province, Tommaso
Fazzello da Sciacca (nato il 1498, morto il 1570) rigettò le favole di
Maniace; ritrovò un filo della tradizione bizantina nel MS. di
Scilitze allor noto sotto il titolo di Curopalata; e, innestatovi quel po'
1
Veggansi: Bartolomeo de Neocastro, cap. LXXXIV; l'Anonymi Chronicon
Siculum, cap. I a V, presso Di Gregorio, Biblioteca Aragonese, tomo I, p. 115, e
tomo II, p. 121, seg.; e la Lettera di Fra Corrado, presso Caruso, Bibliotheca
Historica regni Siciliæ, tomo I, p. 47.

7
di tradizione musulmana che gli potea fornir Leone Affricano e
qualche altra notizia incerta, scrisse, nella sua nobilissima storia
generale di Sicilia, due capitoli così così su la dominazione
musulmana2. Lasciovvi una lacuna, a riempir la quale si affaticava
Antonino d'Amico da Messina (morto il 1641) riportando
dall'Escuriale pochi squarci di Abulfeda e di Sceaboddino (Scehâb-
ed-dîn-'Omari) voltati in latino, alla meglio o alla peggio, da Marco
Dobelio Citeron, professore d'arabico in Spagna: i quali rimasero
inediti; ma Agostino Inveges da Sciacca (1595-1677) tradusse in
italiano la traduzione e infilzolla nei suoi Annali di Palermo3.
Giambattista Caruso da Polizzi, sopravvenuto quando la critica e la
diplomatica davan più salda base alle ricerche storiche, pubblicò,
nel 1720, primo tra i suoi importanti lavori, la Raccolta degli
scrittori dell'epoca Saracenica in Sicilia: dove, alle memorie già
citate e ad altre di minor nota, aggiunse il testo arabico della cronica
di Cambridge4, procacciatogli con la versione latina da un dotto
inglese: i fogli del qual testo si stamparono a Roma, mancando in
Sicilia i caratteri e chi li sapesse leggere.
Ove si consideri come gli eruditi siciliani del decimosettimo e
decimottavo secolo non fossero stati secondi a que' di alcun'altra
provincia italiana o straniera nello studio dei patrii annali, forte si
maraviglierà che niuno tra loro avesse pensato di apprendere
l'arabico. E pur in quella stagione a Roma, in Toscana, in
Lombardia si facea quel che oggidì ammiriamo in Alemagna,
Francia e Inghilterra: si raccoglieano con ardore i MSS. orientali
riportati da viaggiatori italiani; i missionarii della Propaganda di
Roma studiavano le lingue orientali; si pubblicavano appo noi libri
in arabico e in siriaco; si formavano musei asiatici; si compilavano
opere di gran dottrina sul Corano, e grammatiche e dizionarii
arabici, per esempio quello del Giggei: fiorivano, in somma, gli
studii orientali al segno, che il Renaudot, dando fuori nel 1713 la

2
Historia Sicula, deca II, lib. VI.
3
Tomo II, Palermo Sacro (1650), p. 627, seg.
4
Veggasi la Tavola Analitica, parte II, n° VII.

8
Storia dei Patriarchi d'Alessandria, la dedicò a Cosimo III de'
Medici; confessando nella prefazione che nel corso del
decimosettimo secolo gli orientalisti di tutta Europa non avessero
avuto altro capitale che le opere uscite dai tipi di Firenze. Ma queste
tornarono inutili alla Sicilia, perchè i progredimenti dell'intelletto
difficilmente si comunicavano dall'uno all'altro sminuzzolo d'Italia,
e più difficilmente valicavano il mare. Nè miglior frutto cavò la
Sicilia dagli ardimenti di Francesco Maria Maggio da Palermo de'
Chierici Regolari (1612-1686), missionario, il quale dopo otto anni
di peregrinazione in Siria, Persia, Mesopotamia, Armenia, Georgia,
tornò a Roma pratichissimo degli idiomi arabico, turco e georgiano;
tanto che ne scrisse le grammatiche parallele5, dedicate a papa
Urbano Ottavo6. Francesco Tardia da Palermo (1732-1778)
pervenuto, non so come, ad avere una tintura di arabico, ne usò in
opera di lieve momento, la edizione, cioè, d'una versione italiana di
Edrisi, fatta dal maltese Domenico Macrì7. Le illustrazioni sue di
alcuni diplomi arabici dell'epoca normanna rimangono inedite; nè
sembrano gran che. Morto immaturamente il Tardia, senza far
discepoli, si ricadde in tale ignoranza di arabiche lettere, che una
iscrizione cufica cubitale passò tuttavia in Palermo per caldaica e
scolpita poco appresso il diluvio. Gli eruditi del paese, quando lor
occorrea di interpretare qualche leggenda di lapidi o monete, più
corta via non trovavano che di rivolgersi ad Olao Gerardo Tychsen
professore di Rostock, il quale avea gran fama, meritata non credo,
in quei rami di filologia arabica.
Tra tanta penuria, piombò in Palermo il maltese Giuseppe Vella,
frate cappellano dell'Ordine Gerosolimitano, il quale con quel suo
dialetto mescolato d'arabico corrotto e di pessimo italiano, potea
comprender tanto dell'idioma degli Arabi, quanto un contadino di
5
Nell'originale "paralelle". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
6
Syntagmata Linguarum Orientalium, Romæ 1643, in-fog. La più estesa è la
grammatica georgiana, a scriver la quale il Maggio fu il primo, o tra i primi, in
Europa. La turca e l'arabica, accompagnate dai riscontri in caratteri siriaci ed
ebraici, mostrano anche buoni studii e molta pratica.
7
Veggasi la Tavola Analitica, parte II, n° XX.

9
Roma intenderebbe Cicerone o Tito Livio senza avere mai studiato
il latino; e, per giunta, il Vella ignorava i caratteri, nè li apprese che
a capo di parecchi anni, da uno schiavo musulmano che vivea in
Palermo. Digiuno d'ogni erudizione, ma furbo, baldanzoso,
sfacciato, ciarlatano che testè facea mestier di dare i numeri del
lotto, il Vella aprì nuova bottega: fabbricò due codici diplomatici in
arabico, dicea, ma ne mostrava la sola versione italiana; dei quali il
primo intitolò Consiglio di Sicilia, e vi finse il carteggio degli emiri
dell'isola coi principi aghlabiti e fatimiti d'Affrica; il secondo,
Consiglio d'Egitto, e lo disse raccolta delle lettere dei principi
normanni di Sicilia, i quali, per passatempo, raccontassero tutte le
faccende di casa loro ai moribondi califi fatimiti d'Egitto. Annali,
geografia, statistica, dritto pubblico di due epoche, fasti gentilizii,
tutte le fole che gli parean profittevoli, accozzò l'ignorante
impostore ne' codici diplomatici; oltre le false leggende che spacciò
di monete e suggelli genuini; le monete ch'ei falsò a dirittura, come
si afferma; e i diciassette libri perduti di Tito Livio, dei quali si
vantò di tener sotto chiave la versione arabica. Per quattordici anni
(1783-1796) si godè onorificenze, favor di governanti, pensioni, e in
ultimo la grassa abbadia di San Pancrazio. Condannato dai
magistrati, quando si scoprì la frode, alla reclusione in fortezza, il re
gli fece espiar la pena in una deliziosa villa ch'egli avea comperato
di sue baratterie; e gli fu reso il medagliere ch'egli avea raccolto, di
364 monete non false, tra le quali 219 di oro. Ma è da sapersi che un
segretario del governo era stato complice, o forse promotore, della
magagna del Consiglio d'Egitto, intesa a fingere un nuovo dritto
pubblico siciliano del duodecimo secolo, ampliando l'autorità del
principe e scorciando quella dei baroni8. La opinione pubblica, che
sapea coteste brutture, avea prima dei magistrati condannato l'abate
Vella e il governo con lui; il qual giudizio ritrasse con grazia
anacreontica il Meli, nelle quartine che incominciano:
8
Veggansi: Scinà, Prospetto della Storia Letteraria di Sicilia nel secolo XVIII,
tomo III, p. 296 a 383; Lettera di Italinski, nella raccolta Mines d'Orient, tomo I,
p. 236; e gli opuscoli tedeschi citati da Wenrich, Commentarii, § XXVIII a
XXXII, p. 36, seg.

10
Azzardannu 'na jurnata
Visitari li murtali,
Virità fu sfazzunata;
Ristau nuda a lu spitali.
.............
Sta minsogna saracina
Cu sta giubba mala misa,
Trova a cui pri concubina
L'accarizza, adorna, e spisa. ec.

Pur la impostura del Vella diè occasione a buoni studii.


Monsignor Alfonso Airoldi, arcivescovo d'Eraclea, nobil uomo,
erudito, magnifico, potente, come Giudice ch'egli era della
Monarchia di Sicilia, ossia Legato del papa a dispetto del papa,
accintosi ad aiutare il Vella pria che questi si scoprisse con la frode
politica del Consiglio d'Egitto, fece venire a sue spese caratteri
arabici dall'officina bodoniana di Milano; comperò libri; porse
danaro del suo; fece istituire in Palermo la cattedra di arabico; fece
decretare dal governo la provvisione di mille once all'anno, o
vogliam dire 12,500 lire italiane, per una missione in Affrica in
traccia di manoscritti, la quale poi non mandossi ad effetto. Di più
l'Airoldi scrisse una bella prefazione, ch'è stampata nel primo
volume del Consiglio di Sicilia, nella quale si additano tutte le fonti
della storia dei Musulmani Siciliani conosciute a quel tempo9. Infine
ei fece una buona collezione di monete, vetri e corniole incise,
d'oltre un centinaio, delle quali monete circa 70 arabiche e il resto
greche, romane e dei bassi tempi; coordinate poscia e interpretate in
parte dal Morso, come ritraggo da una lettera di costui del 1828.
L'arcivescovo d'Eraclea legò questo medagliere e molti libri al
nipote Cesare Airoldi, già presidente della Camera dei Comuni di

9
Codice diplomatico di Sicilia sotto il governo degli Arabi, pubblicato per opera
di Alfonso Airoldi ec. Tomi 3 in-4, Palermo, 1789-90-92.

11
Sicilia; il quale ha donato l'uno e gli altri alla Biblioteca Comunale
di Palermo.
Per zelo di smascherare il Vella, Rosario Di Gregorio da Palermo
(1753-1809), pubblicista di gran fama, si metteva a studiar l'arabico
dassè solo, con la grammatica d'Erpenio e il dizionario di Golio, e a
capo di tre anni dava fuori un ottimo saggio di Cronografia
musulmana, corredato di parecchi diplomi in arabico10; a capo d'altri
quattro anni (1790) la raccolta di croniche e ricordi arabici d'ogni
maniera relativi alla Sicilia, testi e versioni, la quale ha per titolo:
Rerum Arabicarum, quæ ad historiam Siculam spectant, ampla
Collectio. Sia notato ad onor della Sicilia, che quest'opera uscì
contemporaneamente al falso codice diplomatico. Oltre gli squarci
ristampati, contiene d'inedito: il Nowairi; una vasta raccolta di
iscrizioni con bei rami; e qualche brano di diploma. Secondo i tempi
e le condizioni in cui fu compilata, la dobbiam riconoscere
maraviglioso sforzo d'ingegno e di volontà: ma la confesseremo
anco opera imperfetta; poichè il Di Gregorio non arrivò mai, nè
uomo il potea nelle sue condizioni, a legger francamente due righi
di manoscritto arabico, a penetrarsi delle forme grammaticali, a
rendersi familiari i modi di dire, com'oggi si fa nelle scuole
d'Alemagna e di Francia dopo un anno di studio. Salvatore Morso
da Palermo (1766-1828), successore del Vella nella cattedra
d'arabico, seppe quest'idioma un po' meglio che il Di Gregorio;
lavorò su la diplomatica, la epigrafia e la numismatica degli Arabi
Siciliani; e lasciò, oltre parecchi manoscritti, l'opera pubblicata
(1824 e 1827) col titolo di Palermo antico (sic): ov'egli abbozzò
una descrizione della città nel XII secolo, e inserivvi curiosi
documenti; ma parmi abbia sbagliato la pianta topografica.
Ripigliavano in questo tempo i Siciliani l'impresa di scrivere la
storia, della quale si credean ormai raccolti tutti i materiali. Saverio
Scrofani da Modica (morto il 1835) la trattò leggermente, nei
Discorsi su la Dominazione degli Stranieri in Sicilia (Parigi 1824).
Pietro Lanza da Palermo principe di Scordia e in oggi di Butera, ne
10
De supputandis apud Arabes Siculos temporibus, Palermo, 1786, in-4.

12
fece argomento di una prolusione accademica recitata il 1832:
lavoro giovanile, breve per sua natura e pur più sodo assai che
quello del provetto Scrofani. Carmelo Martorana da Palermo diè
fuori nel medesimo tempo le Notizie storiche dei Saraceni Siciliani,
che dovean far quattro libri e altrettanti volumi, ma ne son usciti
due soli (Palermo 1832-1833). Oltre il Rerum Arabicarum, egli
adoprò i trattati di storia ed erudizione orientale pubblicati in Italia e
fuori infino al 1830: dettò una compilazione posata, fornita di
nozioni su la società musulmana, condotta per lo più con buona
critica: ma non parmi che salga alla dignità della storia; oltrechè vi
mancano di quelle stesse notizie che si poteano raccogliere in
Sicilia, se all'autore non parea superfluo d'apprender l'arabico.
Da quel tempo in poi, quel poco che si è fatto in Sicilia e altre
province italiane è stato nei rami sussidiarii alla storia; se non
voglia eccettuarsi il brevissimo compendio di Davidde Bertolotti,
intitolato Gli Arabi in Italia, Torino 1834. Il signor Mortillaro da
Palermo, discepolo del Morso, ha pubblicato un brano di diploma11,
parecchie iscrizioni di vasi e suggelli, una lista dei MSS. arabici che
sono in Sicilia, ed alcuni elementi di lingua arabica e di storia
musulmana ec.: un intero volume, nel quale trovo da lodar solo i
rami delle iscrizioni che sono ben fatti, e il saggio d'un catalogo
delle monete e vetri arabici fabbricati in Sicilia12. Mi occorrerà forse
di correggere qua e là qualche errore del signor Mortillaro, di quei
soli che recherebbero torto alla verità storica; non dovendosi
appuntare tutti gli altri nelle opere di chi non ha avuto comodo di
bene studiar quella lingua. E il farò a malincuore, perchè mi
annoiano mortalmente i pettegolezzi letterarii, e perchè temo che la
critica non si apponga a nimistà. Ma, qualunque sia l'animo mio
verso l'autore, io tengo che la condotta politica d'un uomo non abbia
nulla di comune col merito dei suoi studii; e sarei il primo ad
11
Nel Catalogo dei diplomi .... della Cattedrale di Palermo, ec., Palermo, 1842,
in-8.
12
Opere di Vincenzo Mortillaro, marchese di Villarena, tomo III. Nel tomo IV si
trova la illustrazione di un bell'astrolabio, del quale mi occorrerà far parola in
questa Introduzione.

13
applaudir come scrittore tale o tal altro che punirei come cittadino
con tutta la severità delle leggi, se mai le vicende mi chiamassero
nuovamente alla esecuzione delle leggi. Così, scrivendo poc'anzi del
Martorana, io rivoluzionario impenitente del 1848, dimenticava
ch'ei fu allora Prefetto di Polizia in Palermo e che imprigionò gli
amici miei. Tornando all'argomento, mi rimane a dir di Giuseppe
Caruso, attuale professore di arabico in Palermo, il quale ha
pubblicato non male tre diplomi arabici, studiati già da Tardia, Di
Gregorio e Morso, che ne sapeano poco più o poco men di lui 13.
Infine dobbiamo a Domenico Spinelli da Napoli un'opera
numismatica che risguarda indirettamente le colonie musulmane di
Sicilia14.
Gli ultimi saggi storici su quelle colonie, son opera di stranieri e
li ha promosso l'Istituto di Francia. A misura che si approfondivano
le vicende dell'incivilimento europeo, si vedea di quale momento vi
fossero stati i Musulmani di Sicilia. L'Accademia, dunque, delle
Iscrizioni proponea per l'anno 1833 un premio a chi presentasse il
miglior saggio storico su le incursioni e dominazioni dei Musulmani
in Italia15. Il premio, differito più volte, fu accordato, l'anno 1838, a
M. Des Noyers, bibliotecario al Museo di Storia Naturale di Parigi,
in merito di un prospetto, che si stampò a pochi esemplari, nel quale
l'autore tratteggiò quei conquisti con le cagioni e conseguenze loro,
e diè il disegno e fin la tavola dei capitoli di un'opera da dividersi in
due parti; cioè racconto storico e influenza della Sicilia musulmana
13
Due nella Biblioteca Sacra, tomo II, Palermo 1834, p. 40, seg.; e un altro nel
Tabularium Capellæ Collegiatæ Divi Petri in regio Panormitano Palatio,
compilato dal Garofalo, p. 28, seg.
14
Monete cufiche battute da principi longobardi, normanni e svevi nel regno
delle Due Sicilie, interpretate e illustrate dal principe di San Giorgio Domenico
Spinelli, e pubblicate per cura di Michele Tafuri, Napoli, 1844, 1 vol. in-4, con
rami.
15
Ecco la tesi dell'Accademia: Tracer l'histoire des différentes incursions faites
par les Arabes d'Asie et Afrique, tant sur le continent de l'Italie, que dans les îles
qui en dépendent; et celle des établissements qu'ils y ont formés: rechercher
quelle a été l'influence de ces événements sur l'état de ces contrées et de leurs ha-
bitants.

14
nei varii rami di civiltà. Ei non compilò l'opera, nè so se l'abbia or
fatto; ma di certo non l'ha pubblicato. Non conoscendo l'arabico, M.
Des Noyers dovette star contento ai materiali tradotti; ai quali
s'aggiunse in quel tempo il capitolo d'Ibn-Khaldûn su la Sicilia, dato
in arabico e in francese, con acconcia prefazione e note di molta
dottrina, da M. Noël Des Vergers. M. César Famin si affrettò a
stampare nel 1843 il primo volume d'una Histoire des Invasions des
Sarrazins en Italie, il quale arriva all'878; lavoro di picciol conto, di
cui l'autore non so se pria di morire abbia lasciato manoscritta la
continuazione.
Il premio proposto dall'Istituto avea allettato altresì Giovanni
Giorgio Wenrich, professore di Letteratura biblica a Vienna, e noto
per eruditi lavori su le versioni orientali degli autori greci e su la
origine della poesia ebraica ed arabica. Ritoccata, dopo l'esito del
concorso, cotesta novella opera, ei diella a stampa in Lipsia il 1845,
sotto il titolo di: Rerum ab Arabibus in Italia insulisque
adjacentibus . . . gestarum, Commentarii. È dettata in elegante
latino, con dignità, concisione e diligenza. L'autore molto si aiutò
dei lavori del Martorana; accoppiò il metodo seguíto da costui con
quello di M. Des Noyers; aggiunse i fatti che risultavano da' testi
arabici pubblicati dopo il Di Gregorio; ma non fe' novelle ricerche
nei MSS.; talchè non accrebbe di molto il patrimonio del Martorana.
I materiali su i quali si è lavorato fin qui, mettendo da canto i
greci e i latini, sono stati: la Cronica di Cambridge, parte del
Nowairi, parte di Scehâb-ed-dîn-'Omari, parte d'Ibn-Khaldûn, poche
biografie d'Ibn-Khallikân, pochi ragguagli biografici e bibliografici
del Casiri, e qualche squarcio d'Ibn-el-Athîr messo da M. Des
Vergers in nota a Ibn-Khaldûn detto. Il Martorana e il Wenrich si
sono avvalsi, inoltre, d'una compilazione italiana della quale è
mestieri ch'io faccia parola: cioè gli Annali Musulmani del
Rampoldi. Quest'erudito italiano, morto a Milano in età avanzata il
1836, avea fatto in gioventù lunghi viaggi in Oriente; dei quali, nè
delle altre vicende di sua vita non ho potuto avere ragguagli;
ancorchè vi si fossero adoperati alcuni amici in Milano. Nelle opere

15
sue ritrovo, ch'ei soggiornò in Siria e al Cairo nel 1784, al Cairo
stesso nel 1785; e non so quando a Smirne 16: pertanto è molto
probabile ch'egli intendeva l'arabico volgare. Che abbia conosciuto
profondamente la lingua, nol credo; mostrandosi ignaro talvolta
delle più ovvie forme grammaticali, delle più trite etimologie; per
esempio la voce sceikh ch'ei fa derivare dal persiano sciah (re). Di
più si ritrae ch'egli attinse spesso alle versioni europee, anzichè agli
originali; poichè trascrive i vocaboli arabici con ortografia or
francese ora inglese e non mai italiana: come djeami (moschea
cattedrale) in luogo di giami; Jannabi, Jaafar, nomi proprii, per
Giannabi, Giafar, ec. Nè va preso sul serio l'infinito numero di
citazioni ch'egli infilza, di nomi d'autori arabi e persiani, quand'ei
non distingue quelli veduti da lui stesso dagli altri allegati su le
citazioni altrui. Pei fatti di Sicilia sparsi negli Annali, il Rampoldi
non sempre cita; talvolta nomina il Nowairi, dicendo tutto il
contrario di lui; o segue la Cronica di Cambridge senza punto farne
menzione; e in un sol caso, certe avvisaglie cioè tra Cristiani e
Musulmani nell'887, si riferisce al Nighiaristan, o meglio avrebbe
scritto Nigâristân. Compilazione questa è di aneddoti, scritta in
persiano nel decimosesto secolo, della quale v'ha a Parigi parecchi
MSS., e una edizione di Calcutta in litografia: ma nulla vi si trova
intorno la Sicilia; come mi afferma il dotto orientalista M. De
Frémery, ch'io pregai di percorrerla, poichè ignoro il persiano. Gli
avvenimenti delle altre province musulmane, per quanto io ne abbia
potuto vedere, non son trattati con maggiore diligenza. Pertanto
questo gran lavoro in dodici volumi, che offre del resto giudiziose
osservazioni locali, molta erudizione, idee vaste e filosofiche e
fors'anco fatti genuini che invano si cercherebbero altrove, questo
lavoro, io dico, rimarrà come inutile; non sapendosi il più delle
volte se i racconti sian tolti da buone sorgenti, se l'autore citi con
esattezza, o se aggiunga del suo altre circostanze ch'ei confusamente
si ricordava o che gli pareano necessarie a compiere il cenno dei

16
Annali Musulmani, tomo II, p. 340, nella descrizione d'Aleppo; II, 386; III, 388
e 463.

16
cronisti. Si potrà cavar partito dagli Annali del Rampoldi, se mai
cadranno in man di qualche valoroso orientalista i MSS. arabi o
persiani ch'ei lasciò, i quali non ho potuto sapere nè quanti, nè quali,
nè dove fossero. Allora si potrà veder chiaro in tal miscuglio di
elementi. In questo mezzo ho dovuto rigettare assolutamente
l'autorità del Rampoldi.

Or ne vengo ai miei proprii lavori. Quand'io giunsi a Parigi,


perseguitato per avere scritto il Vespro Siciliano, che già corre il
duodecim'anno, mi parve come un obbligo di tentar la Storia dei
Musulmani di Sicilia; pensando che tra tanti uomini più capaci di
me, italiani e stranieri, niuno potea avere insieme lo zelo e le
cognizioni locali d'un siciliano e i comodi grandissimi che a me
dava il soggiorno di Parigi. Come il solo modo di riuscir nell'intento
era la ricerca di novelli materiali, così io non esitai a giocar dieci
anni di fatica in questa maniera di scavi d'antichità. Appresi
l'arabico a Parigi; confrontai i testi del Di Gregorio coi MSS.
originali; mi diedi a raccogliere frammenti storici, descrizioni
geografiche, biografie, e le prose e poesie degli Arabi Siciliani, e i
titoli di lor opere perdute, e quanto fosse stato scritto in arabico da
Siciliani o da Arabi qualunque su la Sicilia e i suoi abitatori. Molti
materiali ho trovato da me stesso nei MSS. arabici di Parigi,
Oxford, Londra, Leyde: altri ne ho avuto per favor di amici da
Leyde, Cambridge, Heidelberg, Madrid, Pietroburgo, Tunis,
Costantina; altri son usciti alla luce dal 1842 a questa parte: e, se
non ho potuto frugar tutte le biblioteche di Alemagna, Italia e
Spagna, i cataloghi stampati mi assicurano che poco o nulla era da
sperarne. Cotesti materiali, escluse le poesie che non abbiano
importanza storica, faranno una Biblioteca Arabo-Sicula; nella
quale mi è parso di dar luogo ad alcuni squarci di autori arabi
relativi alla storia di Sicilia del XIII e XIV secolo, ancorchè non
trattino dei Musulmani dell'isola. Alla stampa dei testi, che non era
impresa da autore povero, nè da libraio d'Italia o fosse pur di
Francia e Inghilterra, ha provveduto, per sommo zelo delle lettere,

17
la Società Orientale di Alemagna, alla quale io ne feci domanda; e
fu benignamente accolta, per la premura che s'era data il dottissimo
professore Fleischer di Lipsia, pubblicando un prospetto di quella
mia raccolta. A spese dunque di quella dotta Società si stamperanno
i testi a Gottinga, in un volume. La versione italiana in due volumi
con note nella parte geografica, cavate dai diplomi dell'undecimo
secolo in giù, si pubblicherà, com'io spero, in Italia, nel sesto
medesimo del volume arabico, in guisa da potersi vendere con
quello o senza. Il duca di Luynes, benemerito dell'Italia per le
edizioni di Matteo da Giovenazzo, dei Monumenti Normanni e
Svevi del regno di Napoli, e dello splendido Codice diplomatico di
Federigo Secondo imperatore, e per un gran lavoro, al quale
attende, su le monete puniche di Sicilia, ha cortesemente assentito a
fare una carta comparata della Sicilia, ordinata in questo modo: che
si corregga a cura sua la carta in quattro fogli dell'ufficio 17
topografico di Sicilia; ed egli indi vi noti i nomi antichi; io vi
trasporti gli arabici ricavati da Edrisi e altre fonti; e la carta si
stampi a due colori, in guisa da mostrare a colpo d'occhio il
riscontro dei luoghi attuali, del XII secolo e dell'antichità. Con la
solita munificenza, l'egregio archeologo francese ha profferto di far
incidere questa carta a proprie spese.
Nella Biblioteca Arabo-Sicula mancheranno, come accennai, le
poesie non relative a fatti storici e inoltre le notizie dei manoscritti
arabi di Sicilia, i diplomi, le iscrizioni e le monete. Quanto alle
prime, che prenderebbero uno o due volumi di testo, io le ho
copiato; ma non sarà facile trovare i mezzi di stamparle, nè preme.
Il resto son lavori male abbozzati fin qui, e da rifarsi tutti in Sicilia.
Tale il catalogo dei MSS. della Lucchesiana di Girgenti, Biblioteca
de' Gesuiti in Palermo, Monastero di San Martino presso Palermo, e
Biblioteca Vientimilliana di Catania, i quali sommano ad una
cinquantina, secondo la lista che ne mandò il signor Mortillaro al
Cardinal Mai18. Va fatta di pianta la collezione dei diplomi arabici

17
Nell'originale "uficio". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
18
Mortillaro, Opere, tomo III, p. 189, seg.

18
dei tempi normanni, la più parte inediti, pochi pubblicati, così così,
da Di Gregorio, Morso, Giuseppe Caruso, Mortillaro; e un solo
correttamente, il quale dobbiamo a M. Des Vergers19. I diplomi si
dovrebbero ricercare nel Monastero di Morreale; Cattedrale,
Cappella Palatina e Commenda della Magione in Palermo;
vescovati di Catania, Girgenti, Patti, Cefalù, e in tutti altri archivii
ecclesiastici e pubblici; e sarebbero da vedersi le copie che per
avventura se ne trovassero nelle biblioteche: il quale lavoro
richiederebbe e tempo e spesa e pazienza contro gli ostacoli e
pratica a leggere i MSS. arabici e libertà di viaggiare in Sicilia.
Similmente le iscrizioni lapidarie, o di vasi, gemme e drappi, date
da Di Gregorio. Morso, Lanci e Mortillaro, e una anco da me e le
molte altre inedite, voglionsi quasi tutte verificar sopra luogo da
occhi esercitati, e rintracciarne delle altre sugli edifizii e nei musei e
per le case. Per la numismatica, infine, è da eseguire in grande il
lavoro principiato dal Mortillaro e da me sopra commendato. Cioè
si debbono esaminare in Palermo le collezioni di monete e vetri dei
Gesuiti, o della Università degli Studii, alla quale ne furono legate
circa 300 dal Cavalier Poli; quella di Monsignor Airoldi, testè
donata alla Biblioteca Comunale, e le altre di privati: si debbono
estendere le ricerche a tutta l'isola; scevrare le monete false dalle
vere; confrontarle coi cataloghi stampati dal Castiglioni a Milano,
dallo Spinelli a Napoli; ed oltremonti, da Tychsen, Adler, Marsden,
Moëller, Fraehn, Soret, ec.; ricercarne infine per tutte le grandi
collezioni d'Europa, il che io ho fatto soltanto in quella di Parigi.
Per necessità lascio dunque ad altre persone, o rimetto ad altro
tempo, coteste ricerche, dalle quali la Storia non potrà cavar altro
che qualche nome e qualche data svelati dalle monete e iscrizioni;
qualche particolarità di diritto pubblico e qualche altro nome
proprio e topografico forniti dai diplomi del duodecimo secolo; e
qualche notizia artistica o filologica.

19
Journal Asiatique, octobre 1845, p. 313, seg., tradotto da me in italiano,
nell'Archivio Storico Italiano, Append., n° XVI (1847).

19
Da tal classe di materiali ho dovuto rigettare due notizie date dal
Mortillaro. L'una risguarda Abi-Kanom (sic) ben Mohammed ben
Osman segestano, autore del Kitabo-l-Nachli ossia Libro delle
palme, MS. dell'anno 1004 dell'era cristiana, posseduto dal
Monastero di San Martino presso Palermo20. Tal titolo e nome van
corretti Kitâb-el-Nahl wal-'Asl, (Trattato delle api e del miele) di
Abu-Hâtim-Sahl-ibn-Mohammed del Segestân21; chè di quella
provincia di Persia si tratta e non di Segesta in Sicilia, distrutta
molti secoli innanzi il conquisto musulmano. Perciò si tolga dal
novero degli scrittori Arabi Siciliani questo Segestano postovi da
alcun compilatore di Giornale di Scienze e Lettere, che un tempo si
pubblicava in Palermo sotto gli auspicii della Polizia e la direzione
del Mortillaro22. Va eliminato al pari un Hâmid-ibn-Ali, che il
Mortillaro suppose siciliano, senza per altro affermarlo, nella
illustrazione di un bell'astrolabio in ottone che v'ha in Palermo23,
delineato il 343 dell'egira (954-955) dal detto Hâmid, e, com'io
credo, copiato sul metallo qualche secolo appresso24, per uso d'un
personaggio, il cui nome va letto Scerf-ed-dîn-Ahmed-ibn-Mongiâ-
ibn-Nâgi-ibn-Mohammed, della tribù di Sa'd, nato o dimorante in
Zenkelûn, terra in Egitto25. Il nome dell'autore va bene, e anco il
tempo in cui visse; poichè l'astronomo Ibn-Iunis, che morì il 1008,
cita appunto tra i più celebri costruttori di astrolabii questo Hâmid-
ibn-Ali, da Wâset, aggiugne egli, e così toglie luogo ad ogni contesa
su la patria26.
Raccolti e studiati i materiali, senza rimorso di lasciarne addietro
che fossero di momento, ho scritto la Storia, scopo di quelle mie
20
Mortillaro, Opere, tomo III, p. 190.
21
Hagi-Khalfa, ediz. di Fluëgel, tomo V, p. 163, n° 10, 568.
22
Giornale di Scienze e Lettere per la Sicilia, n° CXXXVII (maggio 1834), p. 18
del fascicolo annessovi d'un dizionario biografico.
23
Mortillaro, Opere, tomo IV, p. 110, seg.
24
Il titolo di Scerf-ed-dîn non era punto in uso nel X e XI secolo; e però la copia
sull'ottone va riferita al XII o XIII. Inoltre questo Scerf-ed-dîn non fu al certo
principe, ma qualche dotto.
25
Veggasi questo nome etnico nel Lobb-el-Lobbâb, di Soiûti.
26
Notices et Extraits des MSS., tomo VII, p. 54, 55.

20
ricerche. E comincio a pubblicarla prima della Biblioteca Arabo-
Sicula, sì che ne presento adesso il primo volume, e gli altri due
intendo stamparli a un tempo con quella raccolta. Ho cavato i fatti,
in primo luogo dai settanta scrittori arabi, inediti la più parte, che
compongono la Biblioteca; i nomi dei quali, accompagnati di cenni
biografici e bibliografici, si leggeranno nella seconda parte della
Tavola Analitica in fin di questa Introduzione. Indi il lettore potrà
giudicare delle autorità che si citano in tutto il corso dell'opera.
Primeggian tra quelle il Riadh-en-Nofûs, la Cronica di Cambridge,
Imâd-ed-dîn, Ibn-el-Athîr, il Baiân, Nowairi, Ibn-Khaldûn, Tigiani,
Ibn-Haukal, Edrisi, Ibn-Giobair. Dei settanta poi, qual mi ha fornito
un centinaio di pagine, qual due o tre righi, qual fatti nuovi e
importanti, e qual noiose ripetizioni o racconti che mal reggono alla
critica. Pochi contengono tradizioni primitive; sendo perdute le
migliori croniche musulmane della Sicilia, e non rimanendone che i
nomi di dieci autori ch'ho noverato nella prima parte della Tavola.
Pur l'uso degli annalisti arabi a copiare le croniche troncandole qua
e là, anzi che rimpastare i fatti nel proprio stile, ci ha conservato in
parte le prime scritture. In generale le croniche e annali arabi sono
diligenti nelle date; accennano i fatti anzi che narrarli; difettan di
critica; non raccontano nè cagioni nè conseguenze nè gli episodii, in
cui si vegga l'indole, le fattezze e le passioni degli attori. Fa
eccezione a questo qualche biografia. Lavorando su elementi di tal
fatta, chi voglia scrivere la storia com'oggi la s'intende, è trattenuto
ad ogni passo, costretto a indovinare, a far supposizioni, a mettere
in forse, e sovente è strascinato ad imitare l'andatura monotona
degli originali. Per buona sorte, la tendenza del secol nostro ai
lavori storici ha fatto pubblicare, da una trentina d'anni a questa
parte, molti testi, versioni e dotti comenti, mercè i quali si
comprendono ormai pienamente gli ordini politici, le leggi civili,
penali e di culto, l'indole delle sètte religiose, le vicende delle
scienze e lettere, tutti in somma i fatti generali della Storia dei
Musulmani: e ciò supplisce a molte lacune degli annali. Fra coteste
opere sol ricorderò l'Ahkâm-Sultanîa di Mawerdi, trattato

21
fondamentale di dritto pubblico, da me studiato sopra un MS. di
Parigi, ed or meglio assai su la edizione che ne diè l'anno scorso il
dottor Enger a Bonn. Altri lumi ho cavato dai MSS. parigini di Ibn-
abd-Rabbih, Ibn-Kutîa, Ibn-el-Athîr, Ibn-Khaldûn, ec.
Degli scrittori bizantini e latini sarebbe superfluo a presentare
una tavola analitica. Tra i primi, ho preferito sempre gli originali ai
copisti; e però la Continuazione di Teofane, che ci accompagna per
gran tratto di queste istorie, al Cedreno, seguíto da alcuni moderni
non so per quale predilezione. Quasi sempre ho adoperato, come più
recenti, le edizioni di Bonn. Oltre gli autori ch'ebbero alle mani il
Martorana e il Wenrich, è adesso di ragion pubblica il libro di
Eustatio, arcivescovo di Tessalonica, su la espugnazione di quella
città per le armi siciliane nel 1185; dove si ritrovano particolari
prima ignoti, e alcuni toccano i Musulmani che rimaneano in
Sicilia. Quanto agli scrittori latini usciti in luce dopo il Muratori, ho
cavato partito dalle croniche: di Giovanni Diacono di Venezia,
pubblicata da Zanetti e indi nel Pertz; del monaco Amato che tanto
rischiara i fatti del conquisto normanno, data dallo Champollion; di
Benedetto monaco di Sant'Andrea, nel Pertz; di Marangone,
nell'Archivio Storico Italiano; e dalla poesia latina su la impresa de'
Pisani e Genovesi a Mehdîa nel 1088, per la quale mi son servito
della edizione di M. Du Méril. Ho rigettato, per esserne evidente la
falsità, i Chronici Neapolitani Fragmenta; il Chronicon Arnulphi
monachi; e le interpolazioni alla Cronica della Cava: tutte fatture di
Francesco Pratilli, erudito napoletano del secol passato, appigliatosi
a tal tristo espediente, per ticchio di gareggiar col Muratori. Alcune
agiografie greche e latine, vagliate con giusta diffidenza, mi han
pure fornito fatti degni di fede: tali, tra le greche, la Vita di San
Giovanni Damasceno; quella di Sant'Ignazio patriarca di
Costantinopoli; quella di San Nilo il Giovane; e gli squarci di quella
di San Niceforo vescovo di Mileto pubblicati da M. Hase nelle note
a Giovanni Diacono Caloense; tali i testi o versioni in latino che si
trovano nel Gaetani, delle quali la raccolta dei Bollandisti offre
talvolta i testi greci, e sempre dà qualche correzione. I diplomi greci

22
e latini di Sicilia mi hanno aiutato sopratutto allo studio dei nomi
topografici, ch'era necessario per conoscere le città o villaggi
dell'XI e XII secolo, i quali alla cacciata dei Musulmani rimasero in
parte abbandonati, con immenso danno dell'agricoltura Siciliana,
non riparato dopo sette secoli. Oltre le collezioni di Pirri, De
Grossis, Lello, Mongitore, ec., ho cavato quei documenti dai
tabularii stampati di alcune chiese, dal Giornale Ecclesiastico di
Sicilia, e dalla Historia Diplomatica Friderici Secundi Romanorum
imperatoris, della quale son già usciti cinque volumi, a cura di M.
Huillard-Breholles e spesa del duca di Luynes. Infine ho tratto
alcuni ragguagli di Storia letteraria dai MSS. latini della Biblioteca
imperiale di Parigi Ni. 7310, 7281, 7406, e Fonds Saint-Germain
1450. Il primo dei quali, studiato un tempo dall'Humboldt27, è
versione dell'Ottica di Tolomeo, fatta, sopra una versione arabica,
da Eugenio ammiraglio del reame di Sicilia; il quale altresì tradusse
dal greco le profezie dette della Sibilla Eritrea, di cui v'ha tre MSS.
a Parigi. I citati MSS. 7281 e 7406 sono compilazione latina di un
Giovanni di Sicilia su le notissime tavole astronomiche, dette
Alfonsine, del giudeo Arzachele da Toledo. Allo stesso Giovanni di
Sicilia, o altro di tal nome, appartiene il MS. 1450 Saint-Germain,
ch'è trattato di rettorica.
Lo argomento e divisione cronologica del presente lavoro è
esposto a capo del primo libro. Cotesto disegno non coincide con
quello dell'Accademia delle Iscrizioni, seguíto dal Wenrich. Da una
mano io ho voluto ristringere il campo alla Sicilia. Le guerre dei
Musulmani in Italia dal VII al XII secolo fanno due ordini di
avvenimenti, dei quali il primo dà argomento a Storia particolare,
l'altro no; anzi questo non si potrebbe accoppiar con quello
altrimenti che negli Annali generali d'Italia. L'uno è la guerra, prima
d'infestagione poi di conquisto, che movea dall'Affrica propria;
portava lo stabilimento delle colonie musulmane in Sicilia; tentava
la Terraferma dallo stretto di Messina al Tevere; e vi lasciava, con
orribili guasti, anco qualche elemento di civiltà. L'altro ordine si
27
Veggasi il Cosmos, versione francese, Paris, 1848, tomo II, p. 519.

23
compone di scorrerie minori dei Musulmani or d'Affrica or di
Spagna, le quali affliggeano la Sardegna, la Corsica e la riviera
dalla foce del Tevere alle Alpi Marittime: calamità disparate e senza
compenso. Perciò ho accennato queste di passaggio nella narrazione
delle cose operate dai Musulmani in Sicilia; ma ben ho raccontato
distesamente i casi dell'Italia Meridionale, poichè sono connessi a
quei di Sicilia. Da un'altra mano, dovendo esporre le condizioni
d'ogni maniera in cui si vivea nell'isola innanzi il conquisto
musulmano, ho preso le mosse necessariamente dai tempi più
antichi in cui ebbero origine: a che non pensarono i dotti stranieri
lodati di sopra. Dopo la dominazione musulmana, ho toccato i fatti
principali dei monarchi normanni di Sicilia e dei due primi di Casa
Sveva; e l'ho scritto tanto più volentieri, quanto i testi arabi me ne
davano ragguagli ignoti per l'addietro. Mi son fermato alla
deportazione dei Musulmani di Sicilia in Puglia; parendomi opera
insensata ad abbozzare le vicende della colonia di Lucera su i vaghi
cenni dei cronisti, quando stan sepolte nei registri angioini di Napoli
centinaia di documenti su quella colonia: chè moltissimi ne vidi io
stesso il 1840 e n'usai parecchi nella Guerra del Vespro Siciliano.
Se un giorno avverrà che l'Archivio di Napoli sia aperto liberamente
agli eruditi, altri, con migliori auspicii che i miei, intraprenderà così
fatto lavoro. Ho dato poi altr'ordine alle materie. I miei predecessori
conduceano la cronica dal principio alla fine, e poi ripigliavano da
capo a far la storia legislativa, religiosa, morale, letteraria, artistica
ed economica. In luogo d'imitarli, meglio mi è parso di presentare i
fatti, di qualunque classe, a misura che sviluppansi ed operano.
Pertanto ho interrotto spesso la narrazione delle guerre e vicende
politiche, per descrivere i fenomeni civili e intellettuali che n'erano
a vicenda effetti e cagioni: in vece di percorrere l'una dopo l'altra
tante linee di racconti, le ho troncato ad epoche, e disposto i tronchi
parallelamente l'uno all'altro; amando a seguire, il più che potessi
senza ingenerar confusione, l'ordine dei tempi, che mi par logico
sopra ogni altro. In fin del terzo volume porrò un indice dei nomi
proprii e di luoghi, e una tavola alfabetica degli autori citati in tutto

24
il corso dell'opera, indicando le edizioni o MSS. di cui mi sia
servito. I nomi o altre voci arabiche saranno trascritti, rendendo le
lettere e segni dell'alfabeto arabico d'Oriente nel modo che segue:

1. Elif - a italiana.
2. Ba - b id.
3. Ta - t id.
4. Tha - th inglese.
5. Gim - g italiana.
6. Ha - h latina.
7. Kha - kh italiana.
8. Dal - d id.
9. Dsal - ds id.
10. Ra - r id.
11. Za - z id.
12. Sin - s id.
13. Scin - sc avanti le vocali e, i, e sci o sce avanti le altre;
sempre col suono della ch francese e sh inglese.
14. Sad - s italiana.
15. Dhad - dh id.
16. Ta - t id.
17. Za - z id.
18. Ain - suono particolare che si rende con un '.
19. Ghain - gh italiana.
20. Fa - f id.
21. Kaf - k id.
22. Caf - k id.
23. Lam - l id.
24. Mim - m id.
25. Nun - n id.
26. Hè - h, e quando è finale,si sopprime o si rende t.
27. Waw - w inglese.
28. Ia - i italiana.

25
La vocale fatha si rende e, e quando è seguíta dalla alef di
prolungaz., â.
» kesra » i ed î nel detto caso.
» dhamma » o ed û nel detto caso.

Mi rimane adesso a rendere testimonianza degli aiuti altrui.


Debbo ai signori Reinaud e Hase, professori, l'un d'arabico, l'altro di
greco moderno, nella École des Langues Orientales vivantes a
Parigi, quel che so di dette due lingue e della paleografia
appartenente all'una o all'altra: debbo loro inoltre di avermi avviato
allo studio della erudizione musulmana e bizantina, non meno che
guidato nelle ricerche su manoscritti o libri stampati. Mi diè
consigli di questa fatta, nel primo anno de' miei studii, il barone
Mac-Guckin De Slane, dotto orientalista. E, in ogni tempo, i due
professori lodati di sopra m'assisteano cortesemente, anzi
amorevolmente, nella interpretazione di qualche passo di testo, o in
altra grave difficoltà.
Dissi di sopra che altri mi procacciava copie di parecchi testi
arabi. Riconosco tal favore, innanzi ogni altro, dal mio amico il
dottor Dozy, or professore d'istoria nella Università di Leyde; il
quale, studiando quella ricca collezione di manoscritti, ne prese
quanto potea giovare al mio intento. Altri estratti di testi mi sono
stati mandati cortesemente da M. Alphonse Rousseau, primo
interprete della Legazione francese a Tunis; dal dottor Weil,
bibliotecario a Heidelberg; dal professore Gayangos di Madrid; da
M. Cherbonneau, professore d'arabo a Costantina; dal signor
Wright; e dal conte Miniscalchi da Verona, benemeriti delle lettere
arabiche. Tra i non orientalisti, il Conte di Siracusa mi fece ottenere
nel 1846 copia di un MS. di Madrid; il duca di Serradifalco impetrò
per me lo stesso anno il prestito di un manoscritto di Pietroburgo, il
quale mi fu mandato a Parigi per mezzo della Legazione di Russia,
con liberalità di cui debbo lodar quel governo, non ostanti le mie
opinioni politiche le quali non ho bisogno di ripeter qui. L'ingegnere
alemanno signor Honnegar, venendo alcuni anni fa da Tunis a

26
Parigi, mi recò altri squarci di testo, fatti copiare per conto mio. Il
lucido d'una iscrizione di Sicilia e alcune notizie bibliografiche ebbi
nel 1846 per favore dell'erudito principe di Granatelli, al quale io
era obbligato d'altronde per assai più efficaci prove di amistà. Altri
lucidi di iscrizioni mi ha fatto copiare il duca di Serradifalco, chiaro
per opere archeologiche, e ne tengo anche dal mio amico Saverio
Cavallari, ingegnere e archeologo. Debbo far menzione ancora del
mio fratel cognato Giuseppe di Fiore, per varie notizie raccoltemi in
Sicilia; del dotto ellenista siciliano Pietro Matranga, per aver
procacciato il confronto di un testo arabico alla Vaticana; e del
signor Power bibliotecario a Cambridge, e del defunto Samuel Lee
professore in quella Università, per altro simil favore.
Mentre io studiava in Parigi, risegnato lo impiego nel Ministero
di Palermo e lo stipendio di quello che m'era unico mezzo di
sussistenza, parecchi amici dal 1844 al 1846 mi soccorsero di
danaro, da rimborsarsi col prezzo dell'intrapreso lavoro. Il fecero
per benevolenza verso di me, e zelo per un'opera che speravano
illustrasse la storia del paese: tra i quali se alcuno partecipava delle
mie opinioni politiche e altri allora vi si avvicinava, altri non era
meco legato che di privata amistà; nè questa associazione ebbe mai
indole nè scopo politico, foss'anco di mera dimostrazione.
L'associazione fu promossa dal barone di Friddani e da Cesare
Airoldi, nominato di sopra; la secondarono in Sicilia Mariano
Stabile, amico mio dalla fanciullezza, il principe di Granatelli e altri
amici; e lo Stabile si incaricò di riscuotere il danaro in Sicilia, e,
riscosso o no, me ne somministrava. Io accettai la profferta.
Soscrissero Cesare Airoldi, Massimo d'Azeglio, la signora Carpi, il
barone di Friddani, la famiglia Gargallo, Giovanni Merlo,
Domenico Peranni, il marchese Ruffo, il duca di Sammartino, il
principe di Scordia, il conte di Siracusa, Mariano Stabile, il signor
Troysi, e quegli che primo mi avea confortato agli studii storici tanti
anni innanzi, il carissimo mio Salvatore Vigo; i nomi dei quali ho
messo per ordine alfabetico. Non tutti fornirono la stessa somma di
danaro: poichè chi pagò in una volta tutte le cinque quote di ogni

27
messa, le quali si doveano fornire successivamente; e chi fu
richiesto d'una o due quote, e non fu sollecitato per le altre: i
particolari del qual conto van trattati tra me e i soscrittori, e al
pubblico non ne debbo dir altro che il beneficio e la gratitudine mia.
Mutato alla fin del 1846 il disegno della pubblicazione, e intrapresa
questa dall'editore signor Le Monnier, io non ho altrimenti usato,
d'allora a questa parte, il comodo che mi aveano offerto sì
liberalmente i soscrittori.

Parigi, luglio 1854.

28
TAVOLA ANALITICA
DELLE
SORGENTI ARABICHE DELLA STORIA DI SICILIA.

PARTE PRIMA. - OPERE PERDUTE.


I. Ibn-Katâ' (Abu-'l-Kasem-Ali-ibn-Gia'far-ibn-Ali, detto Ibn-
Katâ') discendente della regia schiatta aghlabita, nacque in Sicilia il
433 (1041-1042); uscì dopo il conquisto normanno, e morì in Egitto
il 515 (1121-1122). Di questo sommo filologo darò, a suo luogo, la
biografia. Tra le molte opere ch'ei scrisse, era un Târîkh-Sikillîa
(Cronica di Sicilia) ricordato da Soiûti28 e da Hagi-Khalfa29.
Nessuno annalista par che abbia letto quella cronica. Compose di
più El-Dorra-el-Khatîra (La nobil Perla), antologia dei versi di
censettanta poeti arabo-siculi30, della quale molti frammenti ci ha
conservato Imad-ed-dîn da Ispahan31; e ciò si vegga al n° XXVIII
della parte seconda di questa Tavola.
II. Abu-Zeîd-el-Gomri, di origine berbera come sembra al
nome, scrisse anch'egli una cronica di Sicilia. Lo afferma Sekhâwi,
autore del XV secolo, in un suo studio di storiografia32; e lo ripete
Hagi-Khalfa33. Nè il primo nè il secondo ci dicono dove e in qual
tempo sia vivuto questo Abu-Zeîd; non citato per altro da alcuno
annalista.

28
MS. del dottor John Lee, e MS. di Parigi, al nome Ali-ibn-Gia'far etc.
29
Ediz. di Fluegel, tomo II, p. 135, n° 2243; e tomo III, p. 203, n° 4935.
30
Soiûti e Hagi-Khalfa, l. c.
31
Imad-ed-dîn, nella Kharîda, tomo XI, MS. di Parigi, Ancien Fonds 1375, fog.
20 verso, e MS. del British Museum, Rich. 7593.
32
MS. di Leyde, 677, Warn, notato nel Catalogo del Dozy, tomo II, pag. 142, n°
DCCXLVI. Debbo questa notizia al Dozy stesso.
33
Ediz. Fluegel, tomo II, p. 135, n° 2213.

29
III. Ibn-Rekîk (Abu-Ishâk-Ibrahîm-ibn-Kasem-ibn-Rekîk)
liberto ei medesimo, o il padre, come potrebbe argomentarsi dalla
voce rekîk (schiavo), fu segretario in un oficio pubblico a Kairewân,
verso la fine del decimo secolo34. Egli scrisse una Cronica d'Affrica,
che talvolta fa menzione della Sicilia, ed è citata spesso dai
compilatori: Ibn-Wuedrân, Ibn-Abbâr, Ibn-Adsari autore del Baiân,
Ibn-Khaldûn, Nowairi, Tigiani, Leone Affricano. Quantunque io
accetti il giudizio del dotto barone De Slane, il quale gitta su le
spalle d'Ibn-Rekîk le favole che si mescolarono al racconto delle
prime guerre dei Musulmani in Affrica35, penso pure che costui
potea compilar senza critica le narrazioni dei tempi andati, e
scrivere schiettamente le vicende de' suoi proprii. Si badi a tal
distinzione, quante volte si vedrà citata l'autorità d'Ibn-Rekîk nel
corso del presente lavoro.
IV. Ibn-Rescîk (Abu-Ali-Hasan) forse di origine siciliana, nato
in Affrica d'uno schiavo greco, orafo, l'anno mille; vivuto a corte
dei principi Zîrîti a Mehdia e negli oficii pubblici a Kairewân;
rifuggito poscia in Sicilia; e morto a Mazara, chi dice il
millecinquantotto, chi il sessantatrè, e chi il settanta, fu uomo di
molte lettere; del quale tratterò più largamente nel quarto libro di
questa istoria. Tra le altre cose, ei scrisse una cronica di Kairewân,
ove toccò talvolta i fatti di Sicilia: come si ritrae dalle citazioni di
varii compilatori. L'Anmûdeg (il Tipo), opera del medesimo autore,
contiene un aneddoto, trascrittoci da Ibn-Khallikân, risguardante il
principe kelbita di Sicilia Iusûf. Da altri frammenti che abbiamo
d'Ibn-Rescîk ei sembra informato della erudizione che potea
rimanere in quel tempo tra i Greci di Sicilia: il che aumenta
l'autorità sua come cronista.
V. Ibn-Iahîa (Abu-Ali-Hasan-el-Fakîh, ossia il giurista) scrisse
un Târîkh-Sikillîa (Cronica di Sicilia) del quale i geografi Jakût e
34
Baiân, tomo I, p. 254, nell'anno 387 (997), cita uno squarcio d'Ibn-Rekîk sopra
un magistrato per nome Iusûf, col quale ci solea fare il giro delle province per
levar le tasse.
35
Lettre à M. Hase, nel Journal Asiatique, série IV, tomo IV, p. 349 e 350; His-
toire des Berbères par Ibn-Khaldoun, tomo I, p. 292, nota del traduttore.

30
Kazwîni ci hanno conservato qualche squarcio. Ancorchè il
soprannome e il nome proprio di costui si riscontrino con quei
d'Ibn-Rescîk e l'uno e l'altro sembrin di certo vissuti al medesimo
tempo, pure il divario dei nomi patronimici; la origine greca d'Ibn-
Rescîk; la qualità di giurista data a Ibn-Iahîa; infine la diversità
delle due croniche che s'intitolano, l'una di Kairewân e l'altra di
Sicilia, fanno supporre con fondamento che ai tratti di due autori
diversi.
VI. Abu-s-Salt-Omeîa (Ibn-Abd-el-'Azîz-ibn-abi-s-Salt) nato a
Denia in Spagna il 1067, morto a Mehdia in Affrica il 1131 o pochi
anni appresso, medico, poeta, erudito, meccanico, continuò la
Cronica d'Ibn-Rekîk36. In questa, o altra opera, ci narra un curioso
aneddoto della sconfitta dell'esercito siciliano al Capo Dimas il
1123. Imâd-ed-dîn da Ispahan, nella Kharîda, ci ha conservato
alcuni squarci di poeti arabo-siculi e di loro biografie, raccolti da
Abu-s-Salt37 in un'altra opera che ha per titolo Risâla min Ahl
el-'Asr (Epistola su i contemporanei).
VII. Ibn-Sceddâd ('Izz-ed-dîn-Abu-Mohammed-Abd-el-'Azîz-
ibn-Sceddâd-ibn-Temîm) della tribù berbera di Senhâgia e della
regia schiatta dei Zirîti, visse nella seconda metà del XII secolo,
poichè l'avol suo Temîm, regnava a Mehdia dal 1062 al 1107.
Secondo la espressa testimonianza di Abulfeda38, ei compilò due
istorie, di Kairewân, cioè, e di Sicilia. Di questa ultima troviamo
squarci negli Annali d'Abulfeda, e perciò anche nell'opera di
Scehâb-ed-dîn-Omari39. In fine, il Tigiani tolse da Ibn-Sceddâd il
36
Questo fatto si ricava da Tigiani, Rehela, versione francese, di M. Alph. Rous-
seau, p. 120. (Estratto dal Journal Asiatique, série IV, tomo XX, sept. 1852, p.
176.)
37
Veggansi su questo autore: Ibn-Khallikân, versione inglese, tomo I, p. 228;
Dozy, Historia Abbadidarum, tomo I, p. 405, nota 52; Ibn-Abbâr, MS. sella
Società Asiatica di Parigi, fog. 408 verso; Ibn-abi-Oseba, MS. della Bibl. imper.
di Parigi, Suppl. Arabe, 673, fog. 191 recto, seg.
38
Annales Moslemici, tomo II. p. 446, anno 336, e presso Di Gregorio, Rerum
Arabic., p. 81 a 83. Veggasi anche la Prefazione di Reiske nel primo volume
degli Annales Moslemici, p. VIII.
39
Presso Di Gregorio, op. cit. p. 59.

31
racconto della espugnazione di Mehdia nel 1160, che quel cronista
sapea da un testimonio oculare40.
Ibn-Sceddâd, di cui adesso abbiamo precise notizie41, è appunto
l'Ascanagius del Caruso, l'Al-Sanhaj del Di Gregorio, ec.42, come si
trascriveva inesattamente il nome etnico di Es-Senhâgi col quale lo
denotò Abulfeda. Monsignor Airoldi, nella prefazione al Codice
diplomatico dell'abate Vella, diè i suoi nomi nella forma in cui li
trovava presso D'Herbelot; aggiugnendo, su la fede dello impostore
Vella, che l'opera in diciotto volumi si serbasse nella Biblioteca di
Fez43.
VIII. Ibn-Bescirûn (Othmân-ibn-Abd-er-Rahîm-ibn-abd-er-
Rezzâk-ibn-Gia'far-ibn-Bescirûn-ibn-Scebib) della tribù arabica di
Azd, detto Sikîlli e Mehdi, ossia Siciliano e da Mehdia (in Affrica),
perchè nato forse in uno di cotesti paesi, non sappiamo quale, e
passato a dimorare nell'altro, visse nella seconda metà del
duodecimo secolo. Ei compilò un Mokhtâr fi-l-Nezm wa-l-Nethr li
Afâdhil Ahl el-'Asr (Scelta di poesie e prose dei più illustri
contemporanei), nel quale ricordò molti Spagnuoli, Affricani e
Siciliani. Imad-ed-dîn da Ispahan44 si servì di questa raccolta, che è
notata altresì nella bibliografia di Hagi-Khalfa45. Dell'autore diremo
nel sesto libro.
IX. Gemâl-ed-dîn (Mohammed-ibn-Sâlem) cadi supremo
d'Egitto, nato il 1207, morto il 1297, conobbe di persona lo
imperator Federigo Secondo; fu poi mandato ambasciatore a
Manfredi dal Sultan di Egitto Bibars: e dimorò in Italia parecchi
40
Tigiani, Rehela, MS. di Parigi, fog. 141 recto, e versione di M. Rousseau, p.
261 (Estratto del Journal Asiatique.)
41
Veggansi: Ibn-Khallikân, edizione di M. De Slane, testo arabico, tomo I, 145, e
versione inglese, tomo I, 282, seg.; Quatremère, Mémoires sur les Khalifes Fati-
mites, nel Journal Asiatique, série III, tomo II (1836), p. 131; Sacy, Exposé de la
Religion des Druses, tomo I, p. CCCCLX. Il Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo II,
p. 295, 296, avea dato ragguagli meno esatti su questo autore.
42
Rerum Arabicarum, p. 37, 38.
43
Codice Diplomatico di Sicilia, introduzione, tomo I. p. 15.
44
Veggasi la seconda parte di questa tavola, n. XXVIII.
45
Ediz. Fluegel, tomo IV, p. 146, e tomo V, p. 438, n° 11,590.

32
anni. Egli accennò, non sappiamo in quale delle opere sue, la
condizione dei Saraceni di Lucera, la sconfitta di Manfredi, e il
sapere di questo re in matematica, filosofia e lettere arabiche. Di
questi squarci abbiamo una trascrizione o sunto negli annali di
Abulfeda46.
X. Ibn-Sa'îd (Nûr-ed-dîn-Ali-ibn-Sa'id-ibn-Musa) da Granata,
nato il 1214, morto il 1274, oltre il trattato di geografia di che sarà
detto nella seconda parte di questa Tavola, e oltre un'opera istorica
su l'Oriente, che non appartiene al soggetto nostro, ne pubblicò
un'altra alla quale si lavorava in sua famiglia da due generazioni:
opera compiuta da lui con ricerche in Oriente e segnatamente nelle
biblioteche di Bagdad innanzi la irruzione dei Tartari47. Voglio dire
del Moghrib fi Holâ-el-Maghreb (Peregrino discorso su gli
ornamenti dell'Occidente), del quale scrive il Makkari, che il primo
libro trattasse della Spagna, il secondo della Sicilia, il terzo della
Italia e altre province del continente48. Pertanto è da supporre molto
importante quella storia di Sicilia i cui elementi furono apprestati
forse alla famiglia di Ibn-Sa'îd da dotti Siciliani rifuggiti in Spagna.
Persuaso di ciò, io ho tentato per dieci anni tutti i modi di aver
questo libro; guidandomi cortesemente il professore Gayangos di
Madrid, ch'io richiesi dapprima, e cooperando poi meco il Dozy,
che dal canto suo desiderava anco di studiare quella celebre opera,
intento, com'egli era ed è, a rifare la storia della Spagna
Musulmana. Ma fallirono le speranze che noi avevamo posto in sir
Thomas Read, console inglese a Tunis, credendo ch'ei possedesse
una copia di Ibn-Sa'îd; al quale ancorchè io avessi scritto e fattogli
scrivere da persone ch'ei conoscea, non n'ebbi risposta mai. M.
Alphonse Rousseau, interprete della Legazione francese a Tunis,
46
Annales Moslemici, anno 697 (1297), V, p. 144. Abulfeda conoscea di persona
Gemâl-ed-dîn. Su le opere di lui si vegga Reinaud, Extraits etc. des Croisades, p.
XXV.
47
Riscontrinsi: Reinaud, Géographie d'Aboulfeda, introduzione, tomo I, p. CXLI,
e Dozy, Historia Abbadidarum, tomo II, p. 150.
48
Makkari, The history of the Mohammedan Dynasties in Spain, versione del
prof. Gayangos, tomo I, p. 204, 481.

33
ch'è uom gentile ed erudito. si è adoperato anco invano a trovare
quel MS. a Tunis. Pur non dispero che si venga a capo dell'intento,
quando che sia; parendo che una copia dell'Ibn-Sa'id si conservi
nella moschea principale di Tanger, e forse un'altra ve n'abbia a
Pietroburgo49, senza contare quella di sir Thomas Read.
Queste dieci son le opere principali non pervenute insino a noi,
note per espresso attestato d'altri scrittori, o per gli squarci che
questi ne abbian dato; opere, dico, che di proposito o per incidenza
toccavano la storia dei Musulmani di Sicilia. V'ha inoltre parecchi
biografi affricani e siciliani del nono e decimo secolo, citati nel
Riâdh-en-Nofûs, dei quali farò menzione nella seconda parte della
presente tavola, n° XI, trattando del Riâdh. È probabilissimo che
abbian detto anco della Sicilia tanti cronisti di Kairewân, i cui nomi
sappiamo da Hagi-Khalfa e da altri, ma parmi inutile di trascriverli
qui. Se è da prestar fede a Leone Affricano, scrisse anco la cronica
di Sicilia un Ibn-Hossein50, del quale invano ho cercato il nome
presso autori più diligenti di Leone. Infine avverto i lettori che non
troveranno qui il nome del Tabari, famosissimo annalista del nono e
decimo secolo, che condusse sua narrazione dai tempi più remoti
fino all'anno 302 dell'egira (914 e 915). Come ognun sa, que' pochi
volumi che abbiamo in Europa de' molti onde si componea l'opera
del Tabari, trattano di tempi anteriori al conquisto musulmano della
Sicilia; e però non se ne può sperar altro che qualche notizia su le
incursioni del settimo e ottavo secolo. Io ne ho cercato invano tra i
frammenti del Tabari che posseggono la Bodlejana (Hunt. 198), e la
Bibl. di Parigi (Supp. Ar., 744); onde mi è parso inutile di
49
Veggasi a questo proposito la Historia Abbadidarum del Dozy, tomo I, p. 215
in nota. Sui varii titoli delle opere istoriche di Ibn-Sa'id, sia che tutti denotino
opere diverse, o che alcuni indichino solemente diverse redazioni, si confrontino:
Hagi Khalfa, edizione di Fluegel, tom. V, p. 438 e 647, n. 11,822 e 12,488;
Casiri, Bibl. Arab.-Hisp., tomo II, p. 16; Abulfeda, Annal. Moslem., tomo I, p.
VIII, prefazione di Adler; Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo I, p. 240; e gli
scrittori nostri contemporanei che ho citato nelle note precedenti.
50
Leonis Africani De Viris illustribus etc., presso Fabricius, Bibliotheca Græca,
tomo XIII (Hamburgo 1726), p. 278, nella vita di Esseriph Essachali ossia Edrisi,
nella quale sono confusi il conte Ruggiero e re Ruggiero suo figliuolo.

34
percorrere a questo effetto i tre volumi della Biblioteca di Berlino,
che comprendono gli Annali, dal 71 al 159 (690-775).

PARTE SECONDA. - OPERE ESISTENTI.


I. Ibn-Abd-el-Hakem (Abd-er-Rahmân) autore del Fotûh-
Misr(Conquisti in Egitto), morto verso l'874 dell'era cristiana. La
Biblioteca imperiale di Parigi n'ha due copie, Ancien Fonds 653 e
785; la prima delle quali più bella, ma meno antica e men corretta
dell'altra, che porta la data del 1180. È diligentissima narrazione;
condotta nel primo stile storico degli Arabi, cioè nominando per
ciascun fatto tutti coloro per cui bocca fosse passato, dal testimone
oculare infino al compilatore. Ne ho preso pochi righi su la sconfitta
navale di Costante imperatore e la uccisione di lui in Sicilia. Alcuni
squarci sul conquisto d'Affrica sono stati tradotti in francese dal
baron De Slane nella Lettre à M. Hase, Journ. Asiat., série IV, tomo
IV 1844), pag. 356, e nella Histoire des Berbères par Ibn-Khal-
doun, tomo I, pag. 301 seg.
II. Ibn-Koteiba (Abu-Mohammed-Abd-Allah-ibn-Moslem), au-
tore dell'Ahâdîth-el-Imâma etc. (Notizie del principato e del
governo), e di altre opere molto pregiate, nacque l'828 e morì l'884.
Un MS. dell'Ahâdîth è posseduto dal professore Gayangos, il quale
ne ha tradotto in inglese molti importanti capitoli51; tra i quali, due
che trattano di imprese sopra la Sicilia52. Di questi ultimi darò il
testo; avendone avuto copia per favore del signor Gayangos. Egli
dubitava che altro fosse, e più antico, lo autore di quest'opera; ma
dilegua il dubbio Ibn-Scebbât53, recando lo stesso titolo di libro e
nome di autore e il testo di uno dei detti due capitoli. Veggasi su
l'Autore, Ibn-Khallikân, vers. inglese di M. De Slane, tomo II, p. 22,
51
Nell'opera di Makkari intitolata: The History of the Mohammedan Dynasties in
Spain, tomo I, p. L.
52
Ibid., p. LXVI e LXVII.
53
Veggasi il n° XXVII della presente Tavola.

35
e De Slane stesso, Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, tomo I,
p. 175.
III. Beladori (Ahmed-ibn-Iahîa), vissuto a corte del califfo
abbassida Motewakkel, e morto a Bagdad l'892, scrisse il Fotûh el-
Boldân (Conquisti de' varii paesi), MS. di Leyde (430 Warn.),
notato nel Catalogo del Dozy, tomo II, p. 156, n° DCCLXXVII. Ne
ho il testo di un capitoletto sul conquisto di Sicilia, mandatomi dal
Dozy. Su questo diligente e giudizioso cronista arabo si veggano:
Hamaker, Specimen Catalogi Bibl. Lugd. Batav., p. 7; De Slane,
Lettre à M. Hase, l. c.; Reinaud, Memoire sur l'Inde, p. 16.
IV. Mas'ûdi (Abu-Hasan-Ali-ibn-Hosein), intrepido viaggiatore,
arricchitosi di immensa erudizione, ma non sempre guidato da
buona critica, nacque a Bagdad non si sa l'anno appunto; morì il
956; e scrisse varie opere, nelle quali allargò tanto il campo della
cosmografia, da comprendervi anco la storia. Ne' due lavori
principali che ci rimangono di lui, cioè il Morûg ed-dseheb (I Prati
d'oro) e il Tenbîh etc. (Avvertimento e Prospetto), Mas'ûdi nominò
poche volte la Sicilia, e sol per dire uno errore su la dominazione
bizantina, una favola su l'Etna, e una notizia su l'uso delle pomici al
tempo suo. Ho cavato cotesti brevi paragrafi dai MSS. di Parigi,
Ancien Fonds 598 e Supp. Arabe 714, copie del Morûg, e Supp.
Arabe 901, esemplare del Tenbîh. Del primo v'ha una versione
inglese incominciata dal dottor Sprenger e non continuata. Avremo
adesso il testo arabico e la versione francese, che si pubblicano a
spese della Società Asiatica di Parigi dal valoroso orientalista signor
Derembourg.
V. Istakhri (ovvero Estakhri, e con l'articolo Alestakhri, Abu-
Ishak), che prese il nome della sua patria, Istakhr, l'antica Persepoli,
scrisse, dopo il 951 un trattato di geografia, frutto di lunghi viaggi
per l'Oriente, sotto il titolo di Kitâb el-Akâlîm (Libro dei Climi). È
descrizione frettolosa e magra, in ciò che risguarda i paesi
occidentali; onde altro non vi leggiamo della Sicilia, se non che la
era fertilissima, abbondante di grani, greggi, e schiavi. Ho copiato
que' pochi righi dal bel fac-simile del MS. della Biblioteca di Gotha,

36
pubblicato in litografia dal dottor Moëller, col titolo di Liber
Climatum, auctore Sceicho Abu Ishako al Faresi vulgo El Isstachri,
Gothæ 1839. Su l'autore si vegga Reinaud, Géographie d'Aboulfe-
da, Introduction, p. LXXXI.
VI. Ibn-Haukal (Abu-'l-Kasem-Mohammed), mercatante di
Bagdad, dopo una trentina d'anni di viaggi nei quali si spinse fino
all'Affrica settentrionale ed alla Sicilia, diè fuori, il 976,un Kitâb el-
Mesâlek wa el-Memâlek (Libro delle strade e dei Reami), nel quale
inserì, corresse e accrebbe di molto il trattato di Istakhri. Un lungo
capitolo contiene la descrizione di Palermo, ch'io pubblicai con la
versione francese nel Journal Asiatique, IV série, tomo V (1845), p.
73, seg., e poscia in italiano soltanto nell'Archivio Storico Italiano,
vol. IV, Append., n° 16 (1847). Io avea trascritto il testo dal cattivo
e moderno MS. di Parigi, Suppl. Arabe 885, copia di quello di
Leyde (314 Warner, Dozy, Catalogo, tomo II, p. 131, n° DCCXXII)
col quale era stata confrontata la mia trascrizione, per favore del
prof. Dozy e del dottor Moëller. Poscia ho riscontrato la edizione
mia con l'antico MS. della Bodlejana ad Oxford (Hunt. 538). Vi ho
aggiunto altri paragrafi su le città di Salerno, Napoli, Gaeta, isola di
Malta e Monte Kelâl o Telâl, che M. Reinaud crede sia Frassineto,
quel famoso propugnacolo dei Musulmani sul Mediterraneo:
paragrafi copiati da me sul MS. di Parigi e confrontati sul MS. di
Leyde dal professore Dozy. Della descrizione dell'Affrica,
importantissimo documento, ha dato una versione francese il barone
De Slane, Journal Asiat., III série, tomo XIII, p. 153, seg., e 209,
seg. Su l'autore si vegga Reinaud, Géographie d'Aboulfeda,
Introduction, p. LXXXII, seg.
VII. Cronica di Cambridge. Lascio questo titolo al Kitâb
Târîkh Gezîra Sikillîa ec. (Libro della Cronica dell'isola di Sicilia
ec.), che possiede la Biblioteca dell'Università di Cambridge, della
stessa carta e scrittura, e legato nel medesimo volume degli Annali
di Eutichio, patriarca d'Alessandria. Il MS., secondo il giudizio che
me ne dava il dotto professore Samuel Lee, fu copiato dalla stessa
mano di una versione arabica del Vangelo che porta la data del 1272

37
e si conserva anche nella Biblioteca di Cambridge. Erpenio, che
aveva posseduto questa cronica, vi scrisse in piè 1613, Desunt hic
quinque vel sex lineæ; onde si argomenta che possano mancarvi uno
o due anni di racconto.
La Cronica di Cambridge, accennata dal siciliano Martino La
Farina, poi dall'inglese Guglielmo Cave, fu ricercata su quegli
indizii da Giambattista Caruso; il quale ottenne, per mezzo del sig.
Tommaso Hobwart, una copia del testo e una buona versione latina.
Testo e versione furono pubblicati nella raccolta del Caruso,
stampandosi a Roma e ritoccandoli l'Assemani e il Fontanini: indi il
Di Gregorio li diè di nuovo nel Rerum Arabicarum. Nel 1845 io
andava apposta a Cambridge per confrontare questa ultima edizione
col MS., ma nol rinveniva, non ostante che si affaticasse meco il
signore J. Power, il quale, eletto a bibliotecario pochi mesi innanzi,
avea trovato in disordine i MSS. Orientali. Dopo la mia partenza di
Cambridge, questo erudito e gentile uomo, venuto a capo della
ricerca, si diè la premura di mandarmi il confronto, fatto dal Lee,
dal signor Pharos di Siria, e da lui medesimo: a che aggiunse una
esatta descrizione del Codice; mentre un'altra me ne facea pervenire
il Lee. Con aiuti sì fatti, ho potuto correggere alcune mende delle
edizioni precedenti; e sopratutto metter da canto le correzioni che si
eran fatte su le sgrammaticature dell'originale; per lo più scambii tra
il caso retto e l'obbliquo; i quali errori trovandosi nella nostra
Cronica e non già negli Annali d'Eutichio, copiati dalla medesima
persona, si debbon riferire all'autor della Cronica.
L'autore, creduto dapprima Eutichio stesso, e poi Ascanagio o
Senhagi del quale dissi di sopra, fu senza dubbio siciliano, e di
linguaggio greco, come avvisò il Di Gregorio54; o piuttosto il direi
di schiatta latina. A quella dei dominatori non appartenea di certo.
Ei segue l'era costantinopolitana, ch'era in uso appo i Cristiani di
Sicilia; ma invece dello stile ampolloso e sforzato dei Bizantini,

54
Veggansi le prefazioni del Caruso e del Di Gregorio nel Rerum Arabicarum, p.
33 a 39. Il Wenrich. Commentarii, Introductio, § IX, p. 14 e 15, replicò le
conchiusioni del Di Gregorio senz'altro.

38
scrive con la rozza semplicità dei cronisti d'Italia e d'altre parti
d'Occidente: sì che mi par proprio qualche liberto cristiano o
qualche monaco di Palermo che pensasse latino o italiano, e
dettasse, o forse traducesse, in quello arabico volgare ch'ei sapeva,
per far cosa grata a qualche emir di Sicilia di casa kelbita. Il
racconto corre dall'827 al 964, con le solite proporzioni dei cronisti;
sottile cioè in cima e largo alla base; mere note cronologiche pei
tempi lontani, e narrazioni più o men particolareggiate a misura che
si avvicina l'età dell'autore. Pertanto mi par quasi certo che la
Cronica di Cambridge fosse stata scritta verso la fine del X secolo: e
la rimarrà sempre uno dei più preziosi documenti della Sicilia
Musulmana.
VIII. Il Kitâb Hiat Ascikâl el-Erdh, MS. di Parigi, Ancien
Fonds 582, copiato il 1445 in bellissimi caratteri, è anco anonima
compilazione, della fin del X secolo; o piuttosto copia di Istakhri,
con qualche squarcio di Ibn-Haukal, e interpolazioni di notizie del
XII secolo, come crede M. Reinaud. Nel capitolo, in fatti, della
Sicilia, ch'io ho tolto da questo MS., si nota un giudizio su l'indole
dei Palermitani, diametralmente opposto a quel sì severo che ne
avea dato Ibn-Haukal: e ciò ben si adatterebbe alle condizioni della
città sotto re Ruggiero. Veggasi su questa compilazione, Reinaud,
Géographie da Aboulfeda, Introduction, p. LXXXVI.
IX. 'Arîb, autore d'un compendio di Tabari, con aggiunte che
sono importantissime per la Storia d'Affrica e di Sicilia, dal 290 al
320 dell'egira (903 a 932). Secondo il professor Dozy, introduzione
al Baiân, tom. II, pag. 31, costui scrisse tra il 973 e il 976; opinione
che so contrastata dal dottor Weil bibliotecario a Gotha, scrittor
della vita di Maometto e della Storia dei califi; e altresì dal baron
De Slane, Histoire des Berbères par Ibn Khaldoun, tomo I, p. 261,
il quale suppon l'autore identico a un 'Arîb-ibn-Mohammed, o Ibn-
Homeidi, spagnuolo morto il 1097. Senza entrar nella lite, io noterò
solo che l'andamento della cronica la fa supporre scritta non guari
dopo gli avvenimenti che narra, e però nel X secolo. Ve n'ha un MS.
nella Biblioteca ducale di Sassonia-Gotha, del quale il dottor

39
Nicholson pubblicò la versione inglese intitolata An Account of the
establishment of the Fatemite Dynasty in Africa. Il dotto signor
Weil mi ha cortesemente copiato il testo dei paragrafi risguardanti
la Sicilia; che poi sono stati stampati dal Dozy nel Baiân.
X. Iahîa-ibn-Sa'îd, continuatore degli Annali di Eutichio, visse
verso il medesimo tempo. L'opera di lui, che corre dal 938 al 1026,
si trova nel bel MS. della Biblioteca di Parigi, Ancien Fonds 131 A.
Contiene importanti ragguagli su i Fatemiti d'Egitto; qualche notizia
su i Bizantini; e pochissimi righi su l'argomento nostro.
XI. Il Riâdh-en-Nofûs (Giardino degli animi), compilato da
Abu-Bekr-Abd-Allah-ibn-Mohammed-el-Maleki, è raccolta di
biografie e notizie storiche dell'Affrica dai principii del conquisto
musulmano fino al 963. Manoscritto unico in Europa; posseduto
dalla Biblioteca di Parigi, Ancien Fonds 752: un vol. in-fog., mutilo
in fine, di mediocre scrittura, con pochi punti diacritici e
malagevole a deciferare; copiato il 1326 su due esemplari,l'uno del
1149 e l'altro del 120455 e racconciato, e forse legato di nuovo, il
1640, come vi si legge in una postilla assai moderna56. Dell'autore
non ho potuto trovar notizie; nè anco par n'abbia avuto Hagi-Khalfa,
poichè nota il titolo del libro e il nome dell'autore, lasciando in
bianco l'anno della costui morte57. Parmi dettato alla fine del X o al
principio dell'XI secolo al più tardi: poichè l'autore non cita
giammai Ibn-Rekîk nè altri scrittori dalla metà del X secolo in poi, e
all'incontro riferisce un fatto per tradizione orale di un Asdani, che
lo sapea dal figliuolo di Abu-l-Arab, al quale lo avea detto Abu-l-
Arab stesso, che morì il 94458. Aggiugnendo a questa data tre
generazioni a ragion di 25 anni per ciascuna, si arriva poc'oltre il

55
Fog. 83 recto dal MS., che dovrebbe essere in fin del volume e si trova verso la
metà, sendo stati trasposti i fogli nella legatura.
56
Si legge in arabico, in foglio di altro sesto, messo tra il 75 e il 76 del MS. Vi si
aggiunge in italiano: è scritto questo libro doppo mille e cinquecento anni;
grossolana impostura, perchè tornerebbe al VI secolo dell'era cristiana.
57
Ediz. di Finegel, tomo III, p. 521. Non trovo nè anco la data nei MSS. di Hagi
Khalfa della Bibl. di Parigi.
58
MS. fog. 5 recto.

40
mille. Debbo avvertire che in altro luogo si dice la Sicilia in potere
dei Cristiani59; il che ci condurrebbe un secolo più giù; ma può
essere postilla del copista del 1140 inserita nel testo da chi lo
trascrisse; come si vede sovente nei codici.
Il gran pregio del Riâdh è che inserisce, per lo più, squarci di
biografi contemporanei agli avvenimenti; a moltissimi di Abu-l-
Arab, or or citato, autore delle Tabakât-Ifrikîa, o vogliam dire
Biografie classificate di illustri affricani60, il cui nome intero è
Mohammed-ibn-Ahmed-ibn-Temîm; parente di casa aghlabita;
uomo eruditissimo e d'alto stato: sì che fu dei capi della rivoluzione
del popolo di Kairewân contro il secondo califo fatemita. Tra i
biografi i cui frammenti leggonsi nel Riâdh, ve n'ha uno siciliano; e
di parecchi siciliani vi si danno le biografie: onde questo libro,
sendo pieno di aneddoti, ci svela meglio le fattezze della colonia
musulmana di Sicilia, le opinioni, le bizzarrie, le passioni
predominanti, le usanze; la vita interiore, com'oggi si dice. La storia
poi dei Musulmani d'Affrica non si potrà scriver degnamente, se
non si intraprenderà prima l'arduo lavoro di pubblicare e tradurre
tutto il Riâdh-en-Nofûs.
XII. Khodhâ'i (Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Selâma-ibn-
Hedher), morto il 1062, dettò una storia generale, che può passare
per buona cronica dei Fatemiti d'Egitto. Si addimanda 'Oiûn el-
Me'ârif etc., ovvero Tarîkh el-Khodhâ'i (Fonti di cognizioni e varii
ragguagli dei califi), ovvero Cronica di quel della tribù di Khodhâ'61.
La Biblioteca di Parigi ne ha un MS., Ancien Fonds 761, dal quale
ho cavato due righi sul liberto siciliano Giawher, che conquistò
l'Egitto ai Fatemiti.
XIII. Ibn-'Awwâm (Abn-Zakarîa-Iahîa-ibn-Mohammed-ibn-
Ahmed) da Siviglia, verso la metà dell'XI secolo, scrisse una bella
opera intitolata Kitâb et-Felâh (Libro dell'agricoltura), che è stata
59
MS. fog. 28 recto.
60
Fa cenno di quest'opera Ibn-Abbâr, MS. dalla Società Asiatica di Parigi, fog. 14
recto.
61
Hagi-Khalfa, ediz. Fluegel, tomo IV, p. 293, n° 8,486, e tomo II, p. 142, n°
2,280.

41
pubblicata con versione spagnuola dal Banqueri62. Quivi si descrive
un modo di orticultura detto siciliano, e si trovano pochi altri
squarci toccanti l'industria siciliana sotto gli Arabi. Li darò secondo
il testo del Banqueri.
XIV. Bekri (Abu-Obeid-Allah-Abd-Allah-ibn-Abd-el-'Azîz),
nobile arabo, nato in Spagna nella prima metà dell'XI secolo,
compilò, tra le altre, un'opera geografica, intitolata El-Mesâlek wa
l-Memâlek (Le vie e i Reami). Un volume staccato di questa opera
si conserva nella Biblioteca di Parigi, Ancien Fonds 580; del quale
il dotto M. Quatremère ha voltato in francese la descrizione
dell'Affrica63, scritta il 106764. Io ne ho cavato qualche cenno su le
prime incursioni dei Musulmani in Sicilia. Su lo autore si vegga la
prefazione di M. Quatremère; Reinaud, Géographie d'Aboulfeda,
introd., p. CV; e Dozy, Recherches sur l'histoire de l'Espagne pen-
dant le moyen-âge, tomo I, p. 296, seg.
XV. Momaidi ( Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-abi-Nasr),
della tribù arabica di Azd, nato ad Algeziras innanzi il 1029 e morto
il 1095, ci dà ragguagli di tre poeti siciliani suoi contemporanei.
L'opera tratta principalmente della Storia letteraria della Spagna; si
intitola Gezwat-el-Moktabis ec. (Tizzone per chi accatta il fuoco
della dottrina); e ve n'ha un MS., bello e antico, nella Bodlejana a
Oxford (Hunt. 464, catalogo, tomo I, n° DCCLXXXIII), dal quale
ho copiato ciò che fa al nostro argomento.
XVI. Bellanôbi (Abu-Hasan-Ali-ibn-Abd-er-Rahmân) siciliano,
detto il Bellanôbi ch'è a dir della città di Villanuova, fu Kâteb, ossia
segretario in oficii pubblici. Le sue poesie trovansi nel MS.
dell'Escuriale, n° CCCCLV, raccolte, insieme coi versi di altri poeti,
dal Cadi Abd-Allah-'Othmâni, al quale erano state recitate il 1119 in
Alessandria d'Egitto da un Ibn-Hamûd che le tenea dallo autore
medesimo. Da ciò è chiaro che questi visse nella seconda metà

62
Libro de agricultura. Su autor el doctor.... ebn el Awam Sevillano, Madrid
1802, due volumi in foglio.
63
Nell'opera intitolata: Notices et Extraits des MSS., tomo XIII (1831) p. 437, seg.
64
Ibid., p. 633

42
dell'XI secolo. Casiri, copiato dal Di Gregorio65, lesse il nome
dell'autore Albalbuni; e, quel ch'è peggio, percorrendo il MS. più
che di passo, suppose ch'egli avesse scritto a lode di parecchi
principi siciliani, e segnatamente d'Ibn-Hamûd. Movendomi a
curiosità questo gran nome, che fu portato da un ramo della regia
famiglia degli Alidi, trapiantato in Sicilia e rimasovi celebre per
liberalità e intrighi politici sotto la dominazione normanna, io feci
opera ad aver copia del MS. dello Escuriale: onde pregatone il conte
di Siracusa a Parigi, ei si piacque richieder la regina di Spagna, per
cui volere fu fatto un bellissimo esemplare del MS. sotto la
direzione del professor Gayangos. Avuto così alle mani il testo, le
speranze mie si dileguavano. In vece di canti eroici o satire su la
nobiltà musulmana di Sicilia, ho trovato una tenera elegia del
Bellanôbi per la morte della propria madre e altri versi suoi; altri di
Ibn-Rescîk, ricordato di sopra66 che fu siciliano per soggiorno; ho
scoperto, infine, che Ibn-Hamûd entra in iscena, non da
protagonista, ma da rawi come dicono gli Arabi, ossia recitatore
degli altrui componimenti; e dubbio pur è s'ei fosse appartenuto alla
illustre famiglia siciliana di tal nome. Darò dunque nella raccolta
dei testi que' pochi cenni biografici e bibliografici che si possono
ricavare dal MS., le poesie non già, non contenendo allusioni
istoriche. E del Bellanôbi tornerò, a parlare, a luogo suo, nel quarto
libro.
XVII. Ibn-Hamdîs (Abd-el-Gebbâr-ibn-Abi-Bekr-ibn-
Mohammed), nato a Siracusa, verso il 1052, di nobile stirpe arabica,
emigrato in Spagna, e morto a Majorca il 1132, noverato tra i più
eleganti poeti dell'Occidente, spesso fece ricordo nei versi suoi della
cara patria siciliana; e in parecchi poemetti toccò i costumi dei
nobili musulmani dell'isola, al tempo di sua gioventù. Darò cotesti
squarci, come documenti storici che son veramente; e vi aggiugnerò
qualche nota biografica che li accompagna. Li traggo dal Diwân, o
vogliam dire raccolta delle poesie, di Ibn-Hamdîs, MS. della

65
Rerum Arabicarum, p. 237.
66
Nella prima parte di questa Tavola, n° IV.

43
Biblioteca imperiale di Pietroburgo, copiato il 1598 e proveniente
da Costantinopoli, prestatomi dal governo russo a intercessione del
duca di Serradifalco, e mandatomi cortesemente infino a Parigi
l'anno 1846. Lo trascrissi tutto; e gli squarci che ho accennato or
ora, sono stati confrontati, per favore del nostro orientalista il conte
Miniscalchi da Verona; e dell'ellenista Pietro Matranga siciliano,
scrittore alla Vaticana, con un MS. del 1210 che ne possiede quella
splendida Biblioteca, antico, bello e corretto esemplare67. Ho detto
qui del Diwân apposito di Ibn-Hamdis. Molti versi suoi son dati da
altri scrittori che lungo sarebbe a nominare; dalle cui opere io li ho
trascritto, e alcuni me ne ha copiato l'amicissimo professor Dozy dai
MSS. di Leyde.
XVIII. Ibn-Bassâm (Abu-Hasan-Ali) da Santarem, scrisse, nei
principii del duodecimo secolo, un'opera di Storia letteraria,
intitolata la Dsakhîra; della quale la Bodlejana68 di Oxford possiede
una copia (Marsh. 407, catalogo, tomo I, n° DCCXLIX). Vi ho
trovato due versi d'Ibn-Hamdîs. Su l'autore si vegga il Dozy,
Historia Abbadidarum, tomo I, p. 189 seg.
XIX. Ibn-Besckhowal (figlio cioè di Pasquale, Abu-l-Kâsim-
Khelaf) da Cordova, nella Sila fi tarîkh ec. (Dono della Storia de'
principali dottori Spagnuoli), scritta il 1140, dà la biografia di un
teologo musulmano di Sicilia, che io ho trascritto dal MS. della
Società Asiatica di Parigi, copia moderna di un codice
dell'Escuriale. Su lo autore si veggano: Ibn-Khallikân, versione del
baron De Slane, tomo I, p. 191; e Dozy, Historia Abbadidarum,
tomo I, p. 380.
XX. Edrisi (Abu-Abd-Allah-Mohammed) compilò la Geografia,
intitolata Nozhat-el-Mosctâk ec. (Sollazzo di chi brama di
percorrere le regioni), detta altresì il libro di Ruggiero, e pubblicata
il 1154, pochi mesi innanzi la morte di quel re. Avrò a trattare
largamente, nel sesto libro, di Edrisi e di questo lavoro geografico

67
È segnato col n° CCCCXLVII, e notato nel Catalogo di Stefano Assemani,
presso Mai, Scriptorum Veterum Nova Collectio, tomo IV, p. 518.
68
Nell'originale "Bodeljana". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

44
che primeggia tra tutti gli altri del medio evo. Basti qui notare che la
descrizione fattavi della Sicilia contiene dati statistici; e però è
documento importantissimo della storia. Un compendio, o piuttosto
mutilazione, del Nazhat fu pubblicato a Roma il 1592 in arabico
soltanto; e ristampato a Parigi il 1619 con la versione latina di due
Maroniti, sotto il titolo di Geographia Nubiensis. Domenico Macrì
maltese, nel 1632, voltò in italiano il capitolo della Sicilia, come lo
si trovava nel compendio; la quale versione fu rinvenuta in Palermo
tra i MSS. di Domenico Schiavo: e sì il 1764 comparve nel tomo
VIII degli Opuscoli di autori siciliani, rabberciata, annotata,
corredata di una prefazione e messovi il nome dell'autore, Scherif
Elidris. E ciò per opera di Francesco Tardìa, da me ricordato nella
Introduzione; il quale non avendo potuto aver alle mani il testo, si
sforzò a correggere almeno i nomi topografici indovinando le lettere
arabiche a traverso le trascrizioni del Macrì, e il più sovente sbagliò;
ma del resto non si mostrò digiuno di erudizione arabica. Il Di
Gregorio ristampava nel Rerum Arabicarum il detto capitolo, in
arabico e latino, con qualche correzione. Ritrovatisi intanto i MSS.
dell'opera originale, M. Jaubert, incoraggiato dalla Società
Geografica di Parigi, la traducea tutta in francese69 non senza molte
inesattezze. Adesso io ho riveduto il testo del Di Gregorio;
aggiuntavi la introduzione che appartiene di dritto alla Storia
letteraria di Sicilia, e i molti squarci dell'originale che mancano nel
compendio; e altri squarci di più che danno notizie su la Storia di
Sicilia, ancorchè si trovin fuori della descrizione geografica
dell'isola. Ho adoperato i MSS. seguenti, che denoterò per lettere
dell'alfabeto;
A. MS. della Biblioteca imperiale di Parigi, Suppl. Arabe 893, in-
fog., caratteri affricani non belli, copiato in Spagna il 1344,
designato con la stessa lettera A nella versione di M. Jaubert;
B. MS. di Parigi, Suppl. Arabe 655, in caratteri neskhi di Siria o
Egitto, designato da M. Jaubert con la medesima lettera B, corredato

69
Géographie d'Edrisi, 2 volumi in-4. Paris, 1836, 1840.

45
di belle carte geografiche e assai più corretto del primo, ma vi
mancan parecchi fogli;
C. MS. della Bodlejana (Pococke 375, catalogo, tomo I, n°
DCCCLXXXVII), mediocre copia dell'anno 1403 in caratteri
neskhi. Al par dei due precedenti contien tutta l'opera.
Il MS. della medesima Biblioteca di Oxford (Grav. 3837-42),
splendido e antico codice in grandi caratteri affricani, è il sol primo
volume. Non contien la descrizione della Sicilia, poich'esso arriva
appena alla prima parte del 3° clima: mancanza tanto più
rincrescevole, quanto questo MS. è ornato di bellissime carte
geografiche.
XXI. Abu-Hâmid (Mohammed-ibn-Abd-er-Rahîm-el-Mokri) da
Granata diè fuori, nel 1162, una mediocre compilazione geografica,
intitolata Tohfat l-Albâb ec. (Regalo agli ingegni ec.), nella quale
descrive le isole del Mediterraneo, e parla dell'Etna; ma su i detti
altrui, non avendo, a quanto ei pare, percorso la Sicilia quando vi
approdò nel 1117. Di quest'opera v'ha quattro MSS. a Parigi,
Ancien Fonds 586, e Suppl. Arabe 861, 862, 863, anche troppi per
confrontare quel po' di testo che io ne ho cavato. Su l'autore veggasi
Reinaud, Géogr. d'Aboulfeda, Introd., p. CXII.
XXII. Ibn-Zafer (Abu-Abd-Allah-Mohammed), morto il 1172,
del quale ho dato lunghi ragguagli nella Introduzione al suo Solwân
el-Motâ'70, accenna, in varii scritti, notizie della propria vita e delle
molte opere ch'ei compilò. Di queste notizie inserirò i testi nella
raccolta. Li ho cavato dai MSS. del Solwân nella Biblioteca di
Parigi, Ancien Fonds 536 e altri; del Khair el-Biscer, ibid., Suppl.
Arabe 586; e dell'Anbâ Nogiabâ el-Ebnâ, ibid., Suppl. Arabe 486,
487.
XXIII. Abd-er-Rahmân-es-Sikillî (Abu-Mohammed-ibn-
Mohammed) lasciò un'opera di teologia e morale musulmana, il cui
titolo, forse alterato, è Alfaz Zohûr el-Anwâr, MS. di Leyde 529,
copiato il 1251. Non si ritrae in qual tempo sia vivuto l'autore. Io

70
Solwân ec., ossiano Conforti Politici, di Ibn Zafer. Firenze 1851.

46
darò la breve prefazione di questo libro, del quale mi inviò alcuni
estratti il Dozy e altri ne presi io stesso a Leyde.
XXIV. Ibn-Sâhib-es-Selât (Abd-Allah-ibn-Mohammed) da
Beja, morto il 1182, nella Storia di Spagna intitolata El-Mann bil-
Imâma, ci indica una data su la impresa degli Almohadi contro
Mehdia, tenuta allora dalle armi siciliane. Di quest'opera rimane il
2° volume soltanto a Oxford (Marsh. 433, catalogo, tomo I, n°
DCCLVIII, e tomo II, p. 595), studiato dal prof. Dozy; il quale si
piacque trascrivermi quei pochi righi di testo.
XXV. Ibn-Wuedrân compilò una cronica d'Affrica, nella quale
il conquisto normanno della Sicilia si dice seguíto dopo l'anno 540
dell'egira (1145-46); e questo anacronismo fa pensar che l'autore,
che altro non so di lui, fosse vivuto alla fine del XII secolo, se non
più tardi. Nondimeno han qualche pregio gli squarci che egli
inserisce delle opere perdute di Ibn-Rekîk e Ibn-Rescîk. Il MS. di
Ibn-Wuedrân, del quale ignoro il titolo, si trova nella Giâmi-Zeitûna
di Tunis. Il sig. Honnegar, ingegnere tedesco che fece lungo
soggiorno in quella città, recommene a Parigi alcuni estratti
risguardanti la Sicilia; i quali io ho diviso in paragrafi per maggior
comodo nelle citazioni. M. Cherbonneau, professore d'arabico nel
Collegio di Costantina, ha dato una versione del capitolo su gli
Aghlabiti, nella Revue de l'Orient, Paris, décembre 1853, p.417,
seg.
XXVI. Falso Wakîdi. Il libro intitolato Fotûh es-Sciâm wa-Misr
(Conquisti in Siria e in Egitto) è fattura, come pensano i dotti, di
uno o parecchi compilatori moderni, l'epoca al giusto non si sa, i
quali mescolaron fole da romanzo ai racconti delle prime imprese
dei Musulmani; e per dar credito alla frode spacciarono questo libro
sotto il nome di Wakîdi, celebre cronista del nono secolo. Tra i
molti MSS. che ve n'ha in Europa, uno del British Museum (Bibl.
Rich., 7361) è seguíto da appendici, una delle quali tratta la prima
scorreria che fecero i Musulmani sopra la Sicilia. A me par che vi si
trovi una tradizione verace, da potersi scevrare agevolmente dalle
favole in cui è avviluppata; e credo potersi dimostrare che il

47
compilatore di questa appendice sia vivuto nella seconda metà del
XII secolo. Perciò la ho ammesso nella raccolta. I particolari si
vedranno in una nota del presente volume, p. 86
XXVII. Ibn-Scebbât (Il cadi Abd-Allah-Mohammed-ibn-Ali) da
Tauzer in Affrica, commentò un poemetto scritto nell'XI secolo da
Abd-Allah-ibn-Iahîa da Sciakâtis, castello presso Cafsa in Affrica.
Nel commento, intitolato Diwân Sila es-Semât ec., son raccolte
notizie di scrittori molto accreditati, su i conquisti di Affrica e di
Spagna, ed altri ragguagli biografici e geografici. Ibn-Scebbât par
vissuto nella seconda metà del XII secolo. M. Alphonse Rousseau,
primo interprete della Legazione francese a Tunis, mi mandò alcuni
estratti di quest'antico e bel MS. ch'ei possiede: e poi, venuto a
Parigi, mi permesse di copiarne ciò che io volessi. Così ho preso da
Ibn-Scebbât un cenno delle scorrerie dei Musulmani d'Affrica in
Sicilia e alcuni ragguagli geografici e filologici.
XXVIII. 'Imad-ed-dîn da Ispahan (Abu-Abd-Allah-
Mohammed), nato il 1125, morto il 1201, direttore di un oficio
pubblico in Mesopotamia, poi professore di università a Damasco,
ministro di Nur-ed-dîn e segretario del gran Saladino, coltivò le
lettere con ardore; ebbe alle mani immensa copia di libri; e, alla
morte di Saladino (1193), caduto in disgrazia dei nuovi principi, si
messe a dettar sue opere, tra le quali le due che cel fan qui ricordare.
La prima, intitolata Kharîdat el-Kasr etc. (La perla del palagio
ec.), è antologia dei poeti arabi del XII secolo e d'alcuni più antichi,
della quale quasi mezzo volume è destinato ai poeti siciliani. Delle
loro opere Imad-ed-dîn altre raccolse dassè, altre cavò dalle
antologie dei Siciliani Ibn-Bescirûn e Ibn-Katâ' e dello spagnuolo
Abu-s-Salt-Omeîa, dei quali si è fatta menzione nella prima parte di
questa Tavola. Negli altri volumi di Imad-ed-dîn si trovano qua a là
poesie di Siciliani o scritte in Sicilia, e fino un'elegia per la morte
d'un figliuolo di re Ruggiero. Di ciascun poeta Imad-ed-dîn dà un
cenno biografico e critico e squarci di poesie o prose rimate. Tutti
insieme, que' ricordati nella Kharîda che appartengono alla Sicilia,
son sessantotto poeti; il testo dei quali prenderebbe da 120 pagine

48
in-8°, e quel dei soli cenni biografici che mi propongo di dare, farà
sedici pagine. La Kharîda, composta di molti volumi, il numero dei
quali varia secondo le diverse copie71, va divisa in quattro parti. 1°
Poeti dell'Irak, MS. di Leyde 21 A, e MSS. di Parigi Ancien Fonds
1447 e 1373. 2° Poeti di Persia, MS. di Oxford e MSS. di Leyde 21
B e 348 Warner. 3° Poeti di Siria, rive dell'Eufrate, Asia Minore ed
Arabia. MS. di Leyde 348 Warner in parte, e di Parigi Ancien
Fonds 1414 in parte. 4° Sezione 1, Egitto, MS. di Parigi Ancien
Fonds 1374: Sezione 2, Sicilia, ed Affrica, MS. di Parigi Ancien
Fonds 1375, e MS. di Londra, British Museum, Rich. 7393, che son
l'uno e l'altro il volume XI di due copie analoghe; Sezione 3,
Spagna, MSS. di Parigi, Ancien Fonds 1376 e Suppl. Arabe 1051.
All'altra opera Imad-ed-dîn, orgogliosamente diè il titolo di El-
Feth el-Kosi fi l-Feth el-Kodsi, che sarebbe come a dire "Pezzo di
eloquenza ciceroniana sul conquisto di Gerusalemme," perocchè
Kos, vescovo cristiano contemporaneo di Maometto, era tenuto il
sommo oratore degli Arabi. L'autore in fatti, descrivendo quella
impresa di Saladino, rincalza metafore, e vocaboli insoliti, e frasi
bizzarre, e sonanti parole, oltre il solito suo stile, ch'era abbastanza
ampolloso. In questo pezzo di eloquenza occorre la non felice
espedizione dell'ammiraglio Margaritone, mandato da Guglielmo il
Buono su le costiere di Siria con l'armata Siciliana. Son due
capitoli, che ho tratto dai MSS. di Parigi Ancien Fonds 714 e 715.
Veggansi su l'autore: M. Reinaud, Extraits des Auteurs Arabes.....
relatifs aux Croisades, Introduzione, p. XVII e XVIII, e Ibn-
Khallikân, l. c.
XXIX. Malek-Mansûr principe di Hama in Siria, scrisse, il
1205, l'Akhbâr el-Molûk ... fi Tabakât es-Scio'arâ (Notizie regie su i
varii ordini di poeti), del quale la Biblioteca di Leyde possiede una
71
Ibn-Khallikân. versione di M. De Slane, tomo III, p. 306, non pubblicato per
anco, afferma che la Kharîda si componea di dieci volumi. I MSS. di Parigi e
Londra provano la inesattezza di cotesta asserzione, o che si fecero altre copie,
divise in maggior numero di volumi. A ciò conduce ancora il MS. di Parigi.
Suppl. Arabe 1051. il quale non risponde esattamente all'Ancien Fonds 1375 nè al
MS. di Londra.

49
copia contemporanea. Il prof. Dozy me ne ha mandato un breve
estratto relativo a tre poeti siciliani. Su questa opera veggasi il
catalogo del Dozy stesso, tom. II, p. 288, n° DCCCLXXXIV.
XXX. Herawi (Ali-ibn-abi-Bekr), nato a Mosûl, detto
giustamente Sâih, ossia il Pellegrinante, capitò tra i suoi viaggi in
Sicilia dopo il 1173, e morì ad Aleppo il 1215. Nell'opera intitolata
Kitâb el-Asciârât ec. (Libro che addita i luoghi di pellegrinaggio) ei
dà una notizia dell'Etna, della quale il signore Samuel Lee pubblicò
testo e versione inglese, in nota ai viaggi d'Ibn-Batuta72. Su l'autore
si vegga Reinaud, Géographie d'Aboulfeda, Introd., p. CXXVII a
CXXIX.
XXXI. Ibn-Giobair (Abu-Hosein-Mohammed-ibn Ahmed) della
tribù arabica di Kinâna, nacque a Valenza il 1145; fu di passaggio
in Sicilia da dicembre 1184 a febbraio 1185; e nel racconto dei suoi
viaggi, intitolato Rehla el-Kinâni, scrisse importanti notizie su la
condizione de' Musulmani dell'isola. Il MS. si trova nella Biblioteca
di Leyde. Avuta dal professore Dozy una copia dello squarcio che
risguarda la Sicilia, io ne diedi il testo e la versione francese nel
Journal Asiatique, IV série, tomo VI, p. 307, e tomo VII, p. 73 e
201, (1845 e 1846), e poi la sola versione italiana nell'Archivio
Storico Italiano, vol. IV, appendice n° 16, (1847). Mutò alcune
lezioni del testo e alcune frasi della versione, lo Sceikh Mohammed
Ailad-et-Tantawi, il primo arabista d'Oriente; al qual fine ei scrisse
una lettera a M. Mohl dell'Istituto di Francia, inserita nel Journal
Asiatique, IV série, tomo IX, p. 351, (1847). Il sig. W. Wright ha
testè pubblicato molto correttamente e con belle note, tutto il
viaggio d'Ibn-Giobair, del quale ci promette una versione inglese73.
XXXII. Ibn-Hammâd (il cadi Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-
Ali) affricano, nel 1220 compilò, sul Târîkh-el-Kodhâ'i e su opere
che noi non abbiamo, una Cronica, intitolata: Nabdat el-Mohtâgia fi
Akhbâr Molûk Sanhâgia (Cenno di quanto occorre sapere dei fatti
dei re sanhagiti). Il capitolo che tocca la dominazione fatemita in

72
The Travels of Ibn-Batuta, London 1829, in-4, p. 6.
73
The Travels of Ibn-Jubair, Leyden 1852, in-8.

50
Affrica, dà alcuni particolari su la storia di Sicilia. Il MS., piccolo
in-4 di scrittura affricana, appartiene a M. Cherbonneau, il quale ha
dato in parte la versione francese nel Journal Asiatique, IV série,
tomo XX, p. 470; e con somma cortesia mi ha mandato a Parigi il
MS. originale, ond'ho cavato gli squarci che fanno al nostro
argomento. M. De Sacy, non avendo veduto quest'opera, ne attribuì
a Ibn-Hammâd (Chrestomathie Arabe, tomo II, p. 296) un'altra, di
cui or si conosce il vero autore.
XXXIII. Abd-el-Wâhid (Abu-Mohammed-ibn-Ali) da Marocco,
nato il 1185, dettò nel 1224 una Cronica intitolata: El Mo'gib fi
Takhlîs Akhbâr el Moghreb (Maravigliosa Critica sugli avvenimenti
dell'Occidente), testo stampato dal Dozy74, il quale, avanti la
pubblicazione, me n'avea inviato un capitolo su la pace fermata tra
Guglielmo Secondo di Sicilia e il califo almohade Abu-Ia'kûb. Ho
fatto uso di questo e di qualche altro cenno su la storia degli
Almohadi.
XXXIV. Jakût schiavo greco vivuto in Siria, Mesopotamia e
Persia, e morto il 1229; compilò due dizionarii geografici, l'uno dei
quali, intitolato il Mosctarik etc. (Omonimie geografiche), è stato
pubblicato dall'infaticabile sig. Wustenfeld75, ed io me trarrò i
pochissimi articoli risguardanti la Sicilia. Dell'altro, che
s'addimanda Mo'gim el-Boldân (Ortografia de' nomi geografici),
v'ha due MSS. in Inghilterra, l'uno incompleto a Oxford, Catalogo,
tom. I, p. 201, ni CMXXVIII e CMXXIX, l'altro quasi compiuto al
British Museum in due volumi, ni 16,649 e 16,650. Il Mo'gim
propriamente è dizionario di erudizione relativa ai varii paesi. Per
favore del sig. W. Wright io ho avuto copia dagli articoli del MS. di
Oxford relativi alla Sicilia; e ben mi prometto di compiere cotesti
estratti col MS. del British Museum. Infine ho avuto alle mani il
noto compendio del Mo'gim che si crede fatto dall'autore medesimo
e postillato da scrittori più moderni, e porta il titolo di Merâsid el-

74
The history of the Almohades by Abdo-'l-Wáhid-el-Marrékoshi, Leyden 1817,
in-8.
75
Jacut's Moschtarik, Gottingen 1846, in-8.

51
Ittilâ' ec.76. Ne ho percorso un esemplare, quello cioè di Leyde, MS.
295, del quale la Biblioteca di Parigi ha una copia moderna, Suppl.
Arabe 891. Il professore Juynboll di Leyde ha cominciato a
pubblicarne il testo.
XXXV. Ibn-el-Athîr ('Izz-ed-dîn-Abu-l-Hasan-Ali) nacque il
1160 di nobile famiglia arabica nella città di Gezîra in
Mesopotamia; in gioventù combattè le guerre di Saladino e compiè
missioni politiche a Bagdad: ma poi amò meglio chiudersi in casa a
Mosûl, seppellirsi tra i libri, e non conversare con altri che gli
eruditi cittadini e stranieri che andavano a trovarlo. La passata vita
pubblica, il secolo delle Crociate, e, perchè no? le ruine di Ninive
ch'ei potea vedere ogni dì, inchinarono l'ingegno suo alla storia.
Morì il 1223. Scrisse varie opere; e tra quelle il Kâmil el-Tewârîkh,
o, diremmo noi, Compiuto lavoro storico.
E in vero non è indegno del titolo; e tanto esso vale per l'Oriente,
dal principio del settimo al principio del decimoterzo secolo, quanto
sarebbero per la patria nostra nel medio evo gli Annali del Muratori,
se fosse perduta la più parte del Rerum Italicarum Scriptores.
Principia il Kâmil con un succinto discorso su la dignità della
Storia; espone la cronografia seguíta dalle varie nazioni; tocca
sommariamente le dominazioni antiche: Ebrei, Persiani, Arabi,
Romani, e i primordii del Cristianesimo; e, venendo a Maometto,
prende a narrare alla distesa le geste del Profeta e dei Musulmani.
Dal principio dell'egira fino all'anno 628 (1230-31), l'autore tien
quest'ordine che, anno per anno, nota gli avvenimenti di maggiore
rilievo, in tanti capitoli separati: e registra alla fine di ciascun anno i
casi di poca importanza e le notizie necrologiche, in un capitoletto
intitolato "Ricordo di fatti diversi." Del resto, Ibn-el-Athîr non
segue il metodo cronologico sì servilmente che non raccolga nei
grandi capitoli tutte le vicende d'un medesimo fatto accadute prima
o appresso. Per esempio, il conquisto musulmano della Sicilia va
nell'anno 212 dell'egira, quando sbarcò lo esercito musulmano a
Mazara; ma il racconto incomincia con la rivolta di Eufemio, cioè
76
Veggasi Reinaud, Géographie d'Aboulfeda, Introduc. p. CXXIV, seg.

52
uno o più anni avanti, e finisce al 223. Similmente la narrazione del
conquisto normanno, posta nel 484, esordisce da quella che Ibn-el-
Athîr credea la prima cagione di decadenza del principato kelbita
nel 388; e si prolunga fino alla morte del conte Ruggiero nel 490 e
agli ordinamenti politici di re Ruggiero. Lo stesso potrebbe notarsi
in cento e cento altri luoghi.
Oltre questo eccellente metodo, dobbiamo ammirare, secondo i
tempi e i mezzi dell'autore, la diligenza e il giudizio ch'ei pose nello
scegliere, comparare e intessere le tradizioni: talchè nel medio evo
la Cristianità non ha annalista che gli possa stare a fronte. In oggi
non lo darei come modello di critica. Assai di rado cita le sorgenti, e
poco o nulla ne dice nella Introduzione. Come tanti altri Arabi e non
Arabi, trascrive qualche fiata autori più antichi, mutilandoli e non
citandoli: ma per lo più compila dassè, con stile conciso o più tosto
spolpato, imparziale o più tosto indifferente; se non che, sceso ai
proprii tempi, divenendo cronista, perde la brevità, è turbato dalle
passioni, si avviluppa nelle minuzie. Con tutti questi difetti il Kâmil
è il più vasto e ordinato lavoro che ci rimanga su i primi sei secoli
dell'islamismo, e avanza tanto gli Annali di Abulfeda, quanto questi
i magri compendii di Elmacin e Abulfaragi. L'Europa darà un gran
passo nello studio dell'Oriente, quando qualche dotta società
intraprenderà la stampa dei dodici o più volumi in quarto che ci
vogliono per lo testo e versione d'Ibn-el-Athîr.
Questo autore mi ha fornito molti ragguagli ignoti fin qui. Gli
ottanta capitoli che ne ho tolto, tra lunghi e brevi, abbracciano sei
secoli dal 31 al 625 dell'egira, e messi insieme fanno una storia
compiuta delle relazioni dei Musulmani con la Sicilia; dei quali
capitoli circa sessanta sono inediti77. Li ho copiato dai MSS.
77
Gli squarci pubblicati lo sono stati da Monsieur Des Vergers nel 1811, note a
Ibn-Kaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, a Tornberg, note al Kartas, ossia
Annales Regum Mauritaniæ, tomo II, p. 411, seg. Altri ne usciranno nel Recueil
des Historiens des Croisades publié par l'Académie des Inscriptions, tomo I, che
si stampa attualmente per cura di M. Reinaud. Il Tornberg ha pubblicato il 1850
un volume d'Ibn-el-Athîr dal 527 al 583. I signori Dozy, De Frémery e altri
orientalisti han dato in varie opere il testo e la versione di capitoli dello stesso

53
seguenti, dei quali segnerò con le lettere dell'alfabeto i tre primi, che
occorrono a ogni passo nelle citazioni.
A. MS. di Parigi, Suppl. Arabo 740, in sei volumi, dall'anno 153
al 628, con una lacuna di mezzo secolo e molte altre minori. I sei
volumi non son tutti di una mano, ma quella che ne copiò la più
parte è nitida e corretta.
B. MSS. dalla Bodlejana d'Oxford.
1. Due volumi, Marsh. 324, Catalogo, tomo I, n° DCCXXXVII,
comprendono gli anni dal 296 al 369.
2. Un volume, Pococke 346, Catalogo, tomo I, n° DCXCIII,
corre dall'anno 502 al 572, coi quali ho supplito alle lacune del MS.
A, e collazionato il resto. Gli altri quattro volumi staccati che
possiede la Bodlejana, Catalogo, tomo I, ni DCXCIV, DCXCVI,
DCCLXXXIV e DCCLXIV, mi han fornito qualche variante.
C. MS. di Parigi, Suppl. Arabe 740 bis, cinque volumi in-4, dal
principio dell'opera all'anno 621, comperati a Costantinopoli il 1846
dal barone De Slane, per conto della Biblioteca di Parigi; il primo
dei quali fatto copiare apposta, tutti riveduti da quello egregio
orientalista su i MSS. delle biblioteche di Costantinopoli. È il solo
esemplare intero che v'abbia in Occidente; non mancandovi altro
che l'anno 27 dell'egira e parecchi frammenti. Questo MS. mi è
servito a confrontare le copie che io avea già fatto su quei segnati A
e B.
Allo stesso effetto ho adoperato gli altri frammenti d'Ibn-el-Athîr
che possiede la Biblioteca Parigina, Suppl. Arabe 741, 743 e 744.
Finalmente mi ha aiutato a correggere il testo d'Ibn-el-Athîr uno
sfacciato plagiario, lo emir Bibars Mansûri, morto il 1325; il quale
nella Zobdat el Fikra fi Târîkh el Higra (Crema di riflessione su gli
annali dell'egira) copiò, scorciandoli e continuandoli, gli Annali
d'Ibn-el-Athîr; e gliene dobbiamo saper grado, perchè ebbe alle
mani buoni MSS., e ottime copie sono quelle dei due volumi della
compilazione sua che ci rimangono. Dico il V, a Parigi, Ancien

autore che non appartengono al nostro argomento.

54
Fonds 668, che corre dall'anno 252 al 322, e il VI a Oxford (Hunt.
198) che arriva con qualche lacuna al 399.
XXXVI. Boha-ed-dîn (Abu-l-Mebâsin-Iusûf-ibn-Sceddâd), n. il
1145, morto il 1235, intimo di Saladino e cadi dell'esercito suo, poi
di Gerusalemme, senza dire il nome de' Normanni di Sicilia,
accenna alla impresa loro d'Alessandria del 1174, nella Sîrat es-
Sultân ... Selâh-ed-dîn etc., ossia Vita di Saladino. Ho preso questo
squarcio dal testo pubblicato da Schultens, Leyde 1732, in-fog., p.
41; dove la impresa è raccontata assai brevemente; e ciò conferma
la osservazione di M. Reinaud78, che Boha-ed-dîn faccia più autorità
per gli ultimi anni del regno di Saladino, che per le prime imprese di
quello.
XXXVII. Tarîkh el-Hokemâ (Istoria dei Filosofi) per
Mohammed-ibn-Ali, detto Zuzeni, è compendio di una importante
opera dello stesso titolo, scritta da Gemâl-ed-dîn-Ali-el-Kifti, visir
di Aleppo, morto il 1249. Dal compendio, che si trova nelle
biblioteche di Parigi e Leyde, ho cavato le biografie d'Archimede e
di Empedocle; e l'ultima, che un Siciliano non potea trasandare, è
notevolissima per la menzione che vi si fa d'un'opera attribuita al
filosofo Agrigentino, la versione arabica della quale si trovava nel
XIII secolo a Gerusalemme. Mi son servito del MS. di Parigi,
Suppl. Arabe 672. Veggansi sul Tarîkh-el-Hokemâ, Casiri, Bibl.
Arab. Hisp., tomo II, p. 332, n° MDCCLXXIII, che lo suppone
scritto nel XII secolo; Wenrich, De Auctorum Græcorum
versionibus ec., Lipsiæ 1842, prefazione; Reinaud, Géographie
d'Aboulfeda, Introduction, p. LII, nota 4; e Dozy, Catalogo dei
Manoscritti arabi di Leyde, tomo II, p. 289, n° DCCCLXXXV.
XXXVIII. Abu-Sa'îd-Îbn-Ibrahîm, Siciliano, compilò un Kitâb
el-Mongih ec. (Felice Guida per curarsi senza medico da ogni sorta
di morbi e infermità). Quest'opera, non citata da Hagi-Khalfa, si
trova alla Bodlejana (Marsh. 173, Catalogo, tomo I, n° DLXIV, e ne
ho trascritto la prefazione. Con poche varianti, il MS. corrisponde a
quel di Parigi, Ancien Fonds 1027, intitolato Tekwîm el-Adwia el-
78
Extraits des Historiens Arabes ... relatifs aux Croisades, p. XVI.

55
Mofreda, d'Ibrahîm-ibn-abi-Sa'id-el-Maghrebi; il cui nome mostra
ch'egli era figliuolo del Medico siciliano.
XXXIX. Ahmed-ibn-Abd-es-Selâm, Sceriffo, ossia della
schiatta di Ali, Siciliano, scrisse un altro libro di medicina, MS. di
Leyde (Catalogo del 1716, n° DCCXXVII), sul quale non ho
trovato titolo; e quello che si legge nel Catalogo mi par si debba
correggere Kitâb el-Atibbâ fi l-Amrâdh min el Ferk ila el Kedem
(Libro dei medici intorno le malattie dalla cima della testa infino al
piè). Pria che io studiassi il MS., il professore Dozy mi avea
mandato copia di quel tanto che occorre metterne nella Raccolta;
cioè la prefazione e la tavola dei venti capitoli in cui va divisa
l'opera. Hagi-Khalfa tratta al certo del medesimo autore e di un libro
diverso nell'articolo seguente: «Kitâb Hifz es-Sahha ec. (Libro
d'Igiene), dello Sceriffo Ahmed-ibn-Abd-es-Selâm Siciliano,
Tunisino, compendiato da Abu-Fares-Abd-el-Azîz-ibn-Ahmed, in
ottanta capitoli79.» Nè quel bibliografo, nè altri, dà notizie del tempo
in cui visse l'autore.
XL. Ibn-el-Giuzi (Scems-ed-dîn-Abu-Mozafer-Iusûf), morto il
1256, nel Merat-ez-zemân (Specchio del secolo), MS. di Parigi,
Ancien Fonds 641, dà due brevi notizie su i Musulmani di Sicilia.
XLI. Ibn-Abbâr (Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Abd-Allah-
ibn-Abi-Bekr) da Valenza, segretario dei governatori musulmani di
quella città verso la metà del XIII secolo; poi dei Beni-Hafs di
Tunis; fu messo a morte il 1260 e bruciato il cadavere coi suoi
scritti, per accusa di stato e per un verso che gli avean trovato in
casa contro il principe Hafsita Mostanser. Ibn-Abbâr dettò, tra le
altre opere, l'Hollet Sîarâ ec. (Il Pallio striato ec.), raccolta delle
biografie dei poeti di regia schiatta, in Spagna e Affrica. Da un MS.
che ne possiede la Società Asiatica di Parigi, copia moderna d'uno
dell'Escuriale, ho cavato pregevoli notizie su gli Aghlabiti d'Affrica
e di Sicilia; poichè l'autore diligentemente raccolse e vagliò con
critica molte opere istoriche a noi non pervenute.

79
Edizione Fluegel, tomo V, p. 75, n° 10,057.

56
XLII. Abu-Sciâma-Mokaddesi80 (Scehâb-ed-dîn-Abu-
Mohammed-Abd-er-Rahmân-ibn-Ibrahîm) da Gerusalemme, come
lo mostra il nome di Mokaddesi, nato il 1202, morto il 1267, diè
fuori il Kitâb-er-Raudatein (Libro dei due Giardini), storia delle
dinastie di Nur-ed-dîn e di Saladino, nella quale copiò, oltre varii
libri a noi pervenuti, altri che non abbiamo e parecchi diplomi. Ho
preso da questo plagiario i capitoli su le espedizioni mandate da
Guglielmo il Buono in Alessandria d'Egitto e in Siria. Ho adoperato
i MSS. di Parigi, Supplément Français 2503, 13 a, copia inesatta e
recente, e l'altro Ancien Fonds Arabe 707 A, ch'è del XVII secolo.
Su l'Autore veggansi: Reinaud, Extraits des Historiens ... relatifs
aux Croisades, p. 20; e Quatremère, Histoire des Sultans Mam-
louks, par Makrizi, tomo I, parte II, p. 46.
XLIII. Ibn-Sab'în (Kotb-ed-dîn-Abu-Mohammed-Abd-el-Hakk-
ibn-Ibrahîm), nato a Murcia il 1217, morto alla Mecca di propria
mano il 1271; trovandosi a Ceuta, verso il 1240, dettò un trattato di
filosofia intitolato El-Mesâil es-Sikillîa (Quesiti Siciliani), perchè
con esso rispondeva alle tesi che avea proposto ai dotti musulmani
Federigo Secondo imperatore, re di Sicilia. Quest'opera, che si trova
alla Bodlejana di Oxford (Hunt. 534), sparge qualche lume su gli
studii che la civiltà musulmana promoveva allora in Sicilia e nella
penisola: e però appartiene al nostro argomento. Io ne ho dato un
ragguaglio nel Journal Asiatique, lo scorso anno 1853. Porrò nella
raccolta dei testi la prefazione e i quesiti di Federigo Secondo.
XLIV. Ibn-Abi-Oseib'a (Mowaffik-ed-dîn-Ahmed-ibn-Kâsem),
nato al principio del XIII secolo e morto nella seconda metà di
quello, compilò l''Oiûn el-Anbâ fi Tabakât el-Atibbâ (Sorgenti di
notizie su le classi dei medici). Quivi, nella vita di Ibn-Giolgiol
(Abu-Dâwd-Soleimân-ibn-Hasan), famoso medico della corte di
Cordova nella seconda metà del X secolo, si legge un frammento
d'Ibn-Giolgiol stesso, in cui si descrivono le fatiche fatte in Ispagna

80
Veggansi Ibn-Khaldûn, Storia dei Berberi, testo arabo stampato ad Algeri,
tomo I, p. 429, seg.; Gayangos, Mohammedan Dynasties in Spain by Makkari,
tomo II, p. 528, seg., nota 20; e Dozy, Historia Abbadidarum, tomo II, p. 46.

57
il 952 per compiere la versione di Dioscoride dal greco in arabico;
alla quale collaborò un Abu-Abd-Allah Siciliano che parlava il
greco, dice Ibn-Giolgiol, ed era pratico, alsì, in botanica e in
medicina. Darò questo squarcio e un capitoletto sopra Empedocle. Il
primo fu pubblicato in arabico e in francese da M. De Sacy sul MS.
di Parigi, Ancien Fonds 87381, al qual testo aggiungo le varianti
degli altri due MSS., Suppl. Arabe 673 e 674. Su l'autore si veggano
Sacy stesso82, e Hagi-Khalfa83.
XLV. Ibn-Sa'îd (Abu-l-Hasan-Ali) del quale feci menzione
nella prima parte di questa Tavola, n° X, lasciò, tra le altre opere, un
Mokhtaser Gighrafia (Compendio di Geografia), una copia del
quale, passata per le mani del celebre Abulfeda, or si trova nella
Biblioteca di Parigi, Suppl. Arabe 1905. Ne ho preso quel che
riguarda la Sicilia e le isole adiacenti: breve ma diligente
descrizione. Sul merito di questo lavoro geografico si consulti
Reinaud, Géographie d'Aboulfeda, Introduction, p. CXLI.
XLVI. Newâwi (Mohî-ed-dîn-Abu-Zakarîa), nato il 1253, morto
il 1277, nel Tehdsîb el-Asmâ ec. (Dizionario biografico di illustri
musulmani), cita un grammatico e filologo siciliano per nome Abu-
Hafs-Omar-ibn-Khelef-ibn-Mekki. Ho tolto questo breve passo
dalla edizione del Wüstenfeld, Gottinga, 1842-1847.
XLVII. Ibn-Khallikân (Scems-ed-dîn-Abu-l-'Abbâs-Ahmed-
ibn-Mohammed), nacque ad Arbela il 1211, morì il 1282, fu
giurista, teologo, grammatico, e cadi a Damasco e al Cairo: uomo di
molta virtù, condotto agli studii storici da Ibn-el-Athîr, col quale ei
praticava in gioventù sua. Di Ibn-Khallikân abbiamo il famoso
dizionario biografico degli uomini illustri dello islamismo intitolato
Wefiât el-'Aiân; del quale il baron De Slane ha preso a stampare il
testo e una versione inglese84, e il signor Wüstenfeld ha compiuto

81
Nell'opera: Relation de l'Egypte par Abdallatif, appendice, p. 495, seg. 549,
seg. Il professore Gayangos, The History of the Mohammedan Dynasties in Spain,
tomo I, Appendice, p. XXXV e XXXVI, ne ha dato una versione inglese.
82
Op. cit., p. 478.
83
Edizione Fluegel, tomo IV, p. 133 e 288, n° 7883 e 8640.

58
un'altra edizione del testo in autografia85. Traggo da Ibn-Khallikân
non poche vite di Siciliani, che porrò nella mia raccolta, usando,
oltre le edizioni dette, i MSS. di Parigi, Suppl. Arabe 702 e 704, e
un altro di proprietà di M. Reinaud.
XLVIII. Kazwîni, (Zakarîa-ibn-Mohammed-ibn-Mahmûd),
morto il 1283, scrisse due opere, recentemente pubblicate dal
Wüstenfeld e intitolate, l'una 'Agiâib el-Mekhlûkâi (Meraviglie del
Creato), e l'altra Athâr el-belâd (Luoghi notevoli de' paesi). Come
sopra accennai, Kazwîni cita una cronica di Sicilia che a noi non è
pervenuta. Ripete nelle dette due compilazioni varii squarci di
geografi più antichi, su la Sicilia e in particolare su l'Etna. Dà un
importantissimo fatto storico di Malta, cavato forse dalla detta
cronica; e la curiosa notizia dell'orologio a soneria, costruito per uso
di un re, probabilmente Ruggiero I di Sicilia, che fu argomento ai
versi di due poeti maltesi, un dei quali è ricordato d'altronde
nell'Antologia di Imâd-ed-dîn da Ispahan. Dell''Agiâib v'han
parecchi MSS. a Parigi, cioè Ancien Fonds 990, e Suppl. Arabe 864
a 867; e dell'Athâr, due MSS., Suppl. Arabe 658 e 915. Io ne ho
usato per notar qualche variante alle correttissime edizioni del
Wüstenfeld, che son fatte su MSS. migliori.
XLIX. Il Baiân di Ibn-'Adsâri da Marocco, fu compilato il 1299
con gran diligenza sopra libri che noi non abbiamo; e contiene molti
ragguagli novelli su la storia di Spagna, Affrica e Sicilia. MS.
unico, comperato dal Golio a Marocco; posseduto dalla Biblioteca
di Leyde (n° 67 Golius), e pubblicato, il testo, dal prof. Dozy, con
dotte note, un glossario, e una splendida introduzione intorno i
cronisti arabi di Spagna86. Sventuratamente il MS. è mutilo; nè

84
Kitâb Wafayat al Alyan, Vies ec. par Ibn-Khallikan, publiées par le B. Mac-Gu-
ckin De Slane, Paris, 1842, tomo I, in-4, testo arabo. Ibn-Khallikan's Biographic-
al Dictionary translated ec., tomo I, II, Paris, 1842, 1843. Il terzo volume non è
pubblicato; ne ho avuto alle mani parecchi fogli per cortesia del traduttore e di M.
Reinaud.
85
Ibn-Challikani, Vitæ illustrium virorum, Gottingæ, 1835, in-4.
86
Histoire de l'Afrique et de l'Espagne, intitulée Al-Bayano-'l-Mogrib, Leyde,
1848, 1851, 2 vol. in-8.

59
d'altronde il compilatore avea trovato la serie continua degli annali
dei cinque secoli che abbraccia quest'opera. Vi si contengono non
pochi squarci del compendio di 'Arîb, del quale feci menzione al n°
IX. Il Dozy prima della pubblicazione mi avea mandato gli estratti
riguardanti la Sicilia, i quali spargono nuovo lume su le relazioni
dei Musulmani con questa isola fino alla prima metà del X secolo, e
nella prima metà del XII. I quali squarci io darò secondo la edizione
del Dozy.
L. Tigiâni (Abu-Mohammed-Abd-Allah), uomo di alto stato
nella corte di Tunis, ci ha lasciato la relazione d'un viaggio ch'ei
fece in quello Stato, dal dicembre 1306 fino al luglio 1309, con
l'emir hafsita Abu-Iahîa-Zakarîa, esaltato pochi anni appresso al
trono di Tunis; lo scopo apparente del qual viaggio era di incalzare
l'assedio del castello che tenean tuttavia le armi siciliane nell'isola
delle Gerbe. Oltre le notizie che toccan questo fatto dell'istoria
siciliana, il Tigiâni ne dà delle importantissime e nuove, su i tempi
precedenti, cavate da diligenti ricerche su la storia letteraria e
politica delle città ch'ei percorrea. Tali sono molti particolari delle
imprese dei Normanni di Sicilia su la costiera d'Affrica nel XII
secolo; la vita del famoso ammiraglio siciliano Giorgio d'Antiochia;
il sublime sagrifizio di Abu-Hasan-Feriani da Sfax, novello Attilio
Regolo che spirò sul patibolo su le sponde dell'Oreto in Palermo ec.
Quest'opera, intitolata Rehla et-Tigiâni, è stata ritrovata, non è
guari, da M. Alphonse Rousseau; il quale n'ha dato una versione nel
Journal Asiatique87, ed ha donato un MS. del testo alla Biblioteca di
Parigi, Suppl. Arabe 911 bis. Dal cortesissimo M. Rousseau ebbi
alcuni estratti del testo; i quali ho accresciuto poscia sul MS. di
Parigi: e non saranno la parte men pregevole della mia raccolta.
LI. Il Kartâs, come comunemente si chiama una buona
compilazione, fatta nel reame di Marocco il 1326 e attribuita ad
Abu-Hasan-Ali-ibn-Zera', dà pochi e noti ragguagli su le guerre dei
Siciliani in Affrica nel XII secolo. È testo arabico niente raro in

87
Série IV, tomo XX (1852), e série V, tomo I, (1853). Raccolti insieme i fogli e
stampati a parte, fanno un volume di 290 pagine.

60
Europa; tradotto in tedesco dal Dombay; in portoghese dal Moura; e
recentemente pubblicato con versione latina dal professor Tornberg,
con erudite annotazioni che contengono altri squarci di testi
arabici88. Dall'edizione del Tornberg trascriverò i paragrafi relativi
alla Sicilia.
LII. Dimaski (Scems-ed-din-Abu-Abd-Allah-Mohammed), così
chiamato per essere oriundo di Damasco, morì vecchio nel 1327,
dopo aver composto il Nokhbet ed-Dahr ec. (Eletta del secolo su le
maraviglie della terra e del mare), opera geografica compilata, dice
M. Reinaud, senza molta critica, ma pregevole per molti fatti che
invano si cercherebbero altrove89. E così io ho trovato, in vero, il
capitolo su la Sicilia e altre isole del Mediterraneo, scritto, com'e'
pare, sopra osservazioni contemporanee, e, al certo, non mero
compendio di Edrisi. Tolgo questo capitolo da due MSS., cioè di
Parigi, Ancien Fonds 581, e di Leyde, 464 Warn., Catalogo del
prof. Dozy, tomo II, p. 134, n° DCCXXXV, del quale il Dozy mi
mandò un estratto.
LIII. Abulfeda ('Imâd-ed-dîn-ibn-Ali), della illustre schiatta di
Saladino, nacque a Damasco il 1272; conseguì nel 1310 il
principato di Hama, retaggio di sua casa; e morì il 1331. Come
ognun sa, le sue opere principali sono il Tekwîm el-Boldân (Tavola
sinottica dei paesi), e il Moktaser fi Akhbâr el-Biscer (Compendio
dei fatti del genere umano).
Della prima è stato pubblicato il testo dai sigg. Reinaud e De
Slane nel 1840; e il Reinaud ne dà attualmente una versione
francese, della quale è uscito il primo volume, preceduto da una
dottissima introduzione che contiene la vita di Abulfeda e la storia
della geografia appo gli Arabi.
Del compendio storico, abbiam detto come gli estratti
risguardanti la Sicilia pervenissero, tradotti in latino, allo Inveges e
al Caruso. Il Reiske pubblicò a Lipsia, il 1754, una sua versione
latina dell'opera dal principio dell'islamismo in poi; della quale si

88
Annales Regum Mauritaniæ, Upsal, 1843, 1846, 2 vol. in-4.
89
Géographie d'Aboulfeda, Introduz., p. CL e CLI.

61
servì il Di Gregorio nel Rerum Arabicarum. Una copia del testo
arabico, lasciata inedita dal Reiske, fu stampata dall'Adler con la
versione latina a riscontro90. Non dirò delle edizioni e versioni della
istoria anteislamitica e della vita di Maometto cavate dal Moktaser,
poichè son lontane dall'argomento nostro. Gli Annali di Abulfeda,
compilati in parte sopra Ibn-el-Athîr e in parte sopra altre opere, son
compendio di compendii.
Io darò uno estratto della Geografia su la edizione del testo; e gli
estratti degli Annali sul testo di Adler, confrontandolo, che ben n'è
mestieri, col MS. di Parigi, autografo di Abulfeda.
LIV. Nowairi (Scehâb-ed-dîn-Ahmed-ibn-Abd-el-Wehâb) della
tribù arabica di Bekr, detto il Nowairi o Noweiri, da un villaggio
d'Egitto in cui nacque il 1278 o 1273, morto il 1332; accozzò con le
forbici, come dicesi in Francia, tagliando una pezza di qua e una di
là, un centone enciclopedico in trenta volumi, non modestamente
intitolato Nihâiet el-Areb fi Fonûn el-Adeb, che sarebbe a dire: il
non plus ultra dell'erudizione. Va diviso in cinque parti:
Cosmografia, Nosografia, Zoologia, Botanica e Storia91; del quale
abbiam volumi staccati in varie biblioteche, segnatamente a Parigi,
Leyde, Escuriale e Roma.
Nella prima parte, il Nowairi dà un cenno geografico della
Sicilia, che io pubblicherò secondo la copia fattane gentilmente per
me dal Dozy sul MS. di Leyde, 273 Warn., Catalogo del Dozy
stesso, tomo I, p. 4, n° V.
Nell'ultima parte v'ha le istorie di Affrica e di Sicilia, compilate,
non solamente sopra Ibn-el-Athîr, ma anco sopra Ibn-Rekîk, Ibn-
Rescîk, Ibn-Sceddâd, e altri, che quell'annalista o non ebbe alle
mani o trascurò. Pertanto il Nowairi narra non di rado i medesimi
fatti con altri particolari; cimentando i quali con buona critica, se ne
può cavar partito. I racconti che toccano l'argomento nostro

90
Col titolo di Annales Moslemici, Copenhagen, 1789, 1791, 5 vol. in-4.
91
Veggansi: Hagi-Khalfa, ediz. Fluegel, tomo V, p. 397, n° 14,069; Quatremère,
Histoire des Sultans Mamlouks par Makrizi, tomo II, Parte II, p. 173; Reinaud,
Géographie d'Aboulfeda, Introduz., p. CLI.

62
contengonsi nei MSS. di Parigi 70292, e 702 A, ed Ancien Fonds
638, dai quali avean preso notizie il Cardonne, e il De Guignes;
talchè il marchese Caraccioli, lodatissimo vicerè di Sicilia, avutone
sentore da amici suoi francesi, fece opera ad ottenere il testo
arabico, per la collezione intrapresa sotto gli auspicii suoi dal Di
Gregorio. Adoperandovisi il Barthélemy, fu mandato il testo del
capitolo su la Sicilia, con la versione francese di questo e di alcuni
squarci della Storia d'Affrica per M. J-J. Caussin, padre dell'attuale
professore d'arabico M. Caussin de Perceval. Così il Di Gregorio
stampava, non senza errori, il testo, nel Rerum Arabicarum, e vi
aggiugnea con la guida della francese una traduzione latina; nella
quale talvolta volle rifare il verso a M. Caussin93; e, non essendo da
tanto, sfigurò e imbrogliò di molte frasi. L'orientalista francese ne lo
punì, pubblicando la propria versione ed alcune note, che
contengono una critica urbana, ma severa e senza replica94.
Il lavoro da me intrapreso mi portò a confrontare su i citati MSS.
la edizione del Di Gregorio, e copiare gli squarci di testo della
Storia d'Affrica tradotti dal Caussin e altri che gli erano sfuggiti.
Debbo al professor Dozy altri capitoli risguardanti scrittori siciliani,
copiati sul MS. di Leyde. Così ho potuto quasi raddoppiare i
frammenti del nostro autore dati nel Rerum Arabicarum; senza dir
dei nomi proprii e geografici che mi è occorso di correggere, nè
degli squarci non bene interpretati, dei quali ho dovuto rifare la
versione.
Debbo avvertire infine che M. Des Vergers pose la versione di
varii capitoli della Storia d'Affrica del Nowairi in appendice alla

92
Secondo la soscrizione che si legge in fine di questo MS., sarebbe autografo. Il
barone De Slane la crede bugiarda per cagion di parecchi errori del MS. La stessa
soscrizione è in uno dei MSS. di Leyde secondo il Dozy, Catalogo, I, p. 5.
93
Veggansi: Di Gregorio, Rerum Arabicarum, Prefazione al Nowairi; Airoldi,
Prefazione al Codice Diplomatico ec., dell'Abate Vella; e Scinà, Storia Letteraria
di Sicilia nel XVIII secolo, tomo III, cap. VI.
94
Histoire de Sicile, traduite de l'arabe du Novaïri par le citoyen J. J. Caussin, in
appendice al Voyages en Sicile, dans la Grande Grèce et dans le Levant, par M.
le Baron de Riedesel, Paris, an. X (1802), in-8.

63
parte di Ibn-Khaldûn pubblicata da lui; e che il baron De Slane ha
tradotto in francese la prima parte della Storia d'Affrica, inserita nel
Journal Asiatique, série III, tomo XI-XII (1841), e ristampata in
appendice alla Hist. des Berbères par Ibn-Khaldoun, tomo I, p. 313,
seg. M. De Slane ha giudicato troppo severamente il Nowairi,
incolpandolo di tutte le favole del conquisto musulmano d'Affrica,
che quegli non avea fatto che copiare da altri compilatori95.
LV. Dsehebi (Scems-ed-dîn-Abu-Abd-Allah), morto il 1347, fu
compendiatore come i contemporanei suoi Abulfeda, Nowairi, e
Scehâb-ed-dîn-Omari; se non che attese alla sola storia, e
particolarmente alla letteraria, o, per dir meglio, alle biografie degli
uomini dotti. Questo è il pregio delle opere che ci rimangono di lui.
La principale intitolata Târîkh el-Islâm è tavola cronologica, divisa
per decennii e corredata alla fine di ciascun decennio da una lunga
serie di cenni biografici. La Biblioteca di Parigi ne possiede due
volumi staccati, Ancien Fonds 626 e 646, dei quali il primo corre
dall'anno 1° al 40° dell'egira, l'altro dal 301 al 370. Un altro MS.
della stessa Biblioteca, Ancien Fonds 753, che abbraccia gli anni
dal 581 al 620, mi pare appartenente non al Târîkh, ma al
compendio che ne fece lo stesso Dsehebi, del quale v'ha esemplari a
Leyde e altrove96. Pochissime notizie ho cavato, sì da cotesti tre
volumi, sì dai due del Suppl. Arabe 746, opera dello stesso autore,
intitolata Kitâb el-'iber ec. (Avvertimenti su le geste dei trapassati).
All'incontro, ho preso una ventina di buoni cenni biografici di
Siciliani, dal MS. di Leyde, n° 654 Warn., Catalogo del Dozy, tomo
II, p. 205, n° DCCCLXXVI, compendio che fece il Dsehebi
dell'Anbâ en-Nohâ di Abu-Hasan-Ali-el-Kifti, morto alla metà del
XIII secolo.
LVI. Scehâb-ed-dîn'Omari (Abu-Abbâs-Ahmed-ibn-Iahîa),
detto Ibn-Fadhl-Allah, soprannominato anche Dimascki, da
Damasco ond'era oriundo, e 'Omari dal nome di Omar il grande, dal
quale pretendea discendere; nacque verso il 1300 di famiglia

95
Lettre à M. Hase nel Journal Asiatique, IV série, tomo IV, p. 329, (1844).
96
Catalogo del Dozy, tomo II, pag. 148, n° DCCLXIII, seg.

64
benemerita ai sultani d'Egitto; fu professore di tradizion del Profeta;
servì nelle cancellerie di Damasco e del Cairo; e morì il 1349.
Costui accozzò una enciclopedia a modo suo, intitolata Mesâlek el-
Absâr ec. (Escursioni degli sguardi sopra i varii reami della terra).
Dei ventisette volumi di tal compilazione, i pochi che ci rimangono
trattan di geografia, storia e antologia poetica. La parte geografica è
cavata da buone opere, e, tra le altre, da Abulfeda; ma l'Omari vi
aggiunse non poche notizie raccolte dassè, sia da documenti oficiali,
sia dalle relazioni di viaggiatori e mercatanti ch'egli interrogava,
ben usando le comodità che gli dava l'oficio suo. Pertanto il capitolo
su la Sicilia, che ho tolto da un MS. della Bodlejana, Pococke 191,
Catalogo tomo I, n° CM, contiene ragguagli contemporanei, anche
di fatti storici. Nel medesimo volume ho veduto una descrizione
della Calabria, porto di Taranto e altri luoghi d'Italia.
Dobbiamo saper grado, altresì, all'Omari degli squarci di poesie
d'Arabi Siciliani ch'ei ci conservò; i quali ho copiato dal MS. di
Parigi, Ancien Fonds 1372.
Allo incontro, la parte storica non può servire ad altro che a
confrontare qualche passo d'Abulfeda; i cui annali l'Omari copiò
sfacciatamente, trinciandoli di decennio in decennio, forse per
occultare il plagio. Dissi già che alcuni estratti della Storia relativi
alla Sicilia furono tradotti da un MS. dell'Escuriale, il quale poi si
perdè, probabilmente nell'incendio del 1671. Il Di Gregorio
ristampò la versione latina che ne avea fatto il Caruso su la italiana
dello Inveges, presa dalla latina di Marco Dobelio Citeron. Io ho
trovato parte del testo arabico nel MS. di Parigi, Ancien Fonds 642,
il quale corre dall'anno 541 al 744, cioè dall'ultimo capitolo della
versione del Di Gregorio in poi; nè posso rammaricarmi troppo
della perdita dei precedenti, poichè ne abbiamo il tenore originale in
Abulfeda. Nelle citazioni che mi occorrerà di farne, aggiugnerò il
nome patronimico di Omari al titolo di Scehâb-ed-dîn (Fiaccola
della Fede), ch'è comune a cento altri dottori musulmani; e però mal
si è adoperato a significare il nostro autore. Avverto poi non esser
questi il cadi Scehâb-ed-dîn-Ibn-Abi-l-Damm, da Hama, come

65
suppose il Di Gregorio97, traendo nel proprio errore il Wenrich98;
perocchè quel cadi visse un secolo innanzi l'Omari, sendo morto il
1244; e Abulfeda cita sovente l'opera sua, ch'è intitolata: Tarîkh
Mozafferi, e non Mesâlek el-Absâr99. Su Scehâb-ed-dîn-'Omari si
veggano: Quatremère, nelle Notices et Extraits des MSS., tomo
XIII, p. 151 seg.; Catalogo della Bodlejana d'Oxford, tomo II, p.
599; Catalogo de' MSS. Orientali del British Museum, parte II, p.
273, n° DLXXV; Reinaud, Géographie d'Aboulfeda, Introd., p.
CLII100.
LVII. Ibn-el-Wardi (Zîn-ed-dîn-Abu-Hafs-Omar), morto il
1348; mezzo copiò e mezzo compendiò le notizie di Edrisi e
Dimascki su la Sicilia. Quali ch'elle siano, le darò, secondo la
lezione dei MSS. di Parigi, Ancien Fonds 590, 593, 594,
confrontata col testo che ha pubblicato il Tornberg101 di questa
97
Rerum Arabicarum, p. 57.
98
Commentarii ec., §, VI, p. 8.
99
Veggasi la prefazione di Adler nel primo volume degli Annales Moslemici
d'Abulfeda, p. VIII.
100
I volumi che io conosco del Mesâlek-el-Absâr, sono i seguenti:

I. Bibl. Bodlejana, Pococke, 191, già citato. - Geografia.


III. Parigi, Ancien Fonds 583. - Altra parte di Geografia.
XIV. Parigi, Ancien Fonds 1371: British Museum, Catalogo, n°
DLXXV, parte II, p. 273. - Antichi poeti arabi.
XV. Escuriale, Catalogo di Casiri, tomo I, p. 68, n° CCLXXXV. -
Altri poeti.
XVII. Parigi, Ancien Fonds 1372, già citato. - Altri poeti.
XXIII. Parigi, Ancien Fonds 612. - Storia già citata.
XXIII. (Numero di volume sbagliato o appartenente a una copia
divisa altrimenti). Parigi, Ancien Fonds 904. - Mineralogia e Storia
antica.

Il Casiri, Catalogo, tomo II, p. 6, n° MCDXXXIV e MDCXXXV, nota un Kitâb


et-Ta'rif, altra opera del medesimo autore.
101
Stampato ad Upsal il 1839, un vol in-8.

66
mediocre compilazione geografica, intitolata Kharîdat el-'Agiâib
(Perla delle Meraviglie).
LVIII. Sefedi (Selâh-ed-dîn-Khalîl-ibn-Ibek), che morì il 1362,
compose un dizionario geografico, addimandato El-Waki bil-
Wefeiât (Il Conservatore delle Necrologie), diligente e giudiziosa
compilazione. La Biblioteca di Parigi ne possiede due volumi
staccati, Suppl. Arabe 706, che contengono le lettere dell'alfabeto
arabico dalla Kha al Sad; dalle quali ho cavato tre biografie, e, delle
tre, due sono di Cristiani: re Ruggiero, cioè, e l'ammiraglio Giorgio
d'Antiochia.
LIX. Domairi (Kemâl-ed-dîn-Abd-Allah) scrisse nel 1371
l'Haiât el-Haiwân, opera di Storia naturale; in cui, trattando dello
scorpione, l'autore cita i versi e la trista fine di un poeta del Iemen
che si trovò avviluppato in una cospirazione contro Saladino,
tramata da malcontenti egiziani con la corte normanna di Sicilia. Ho
cavato questo squarcio dal MS. di Parigi, Suppl. Arabe 873.
LX. Ibn-Khaldûn (Wâli-ed-dîn-Abu-Zeid-Abd-er-Rahmân-ibn-
Mohammed), nacque a Tunis il 1332 d'illustre famiglia, passata
dall'Arabia meridionale in Spagna ai tempi del conquisto, e
rifuggitasi in Affrica nel XIII secolo. Nobile dunque e povero,
cominciò sua carriera da calligrafo nella Segreteria dei principi
hafsiti di Tunis. Da costoro passò al servigio dei loro nemici i
Merinidi; poi, sempre da un regolo a un altro, di que' che usurpavan
oggi e cadean domani sì in Affrica e sì in Spagna: appo i quali ei fu
cortigiano, agente diplomatico, ministro, professore; or arricchito e
onorato, or imprigionato e perseguitato per gara di altri intriganti, e
sospetti che destava quel suo far da Girella. A cinquant'anni,
ristucco dell'Affrica, se n'andò in Egitto; ove diessi all'insegnamento
pubblico; toccò una pensioncella dal Sultano; salì allo uficio di cadi
di scuola malekita al Cairo: e sì balzano è l'animo degli uomini, che
quello statista di larga coscienza fu deposto della magistratura per la
rettitudine e severità ch'ei manteneva tra la corruzione degli altri
giuristi. Il caso, alfine, lo fe' trovare nel 1400 sotto le mura di
Damasco in mezzo alle orde dei Tartari e in presenza di Tamerlano;

67
al quale ei fu prodigo di adulazioni, e n'ebbe onori e profferta di
rimanere alla corte tartara; ma destramente ei se ne svincolò.
Tornato in Egitto, salito e sceso, e risalito all'oficio di cadi, moriva
il 1406. Questi particolari tolti dall'Autobiografia di Ibn-Khaldûn,
non parranno troppi, quando si pensi che discorriamo del primo
scrittore al mondo che abbia trattato di proposito la filosofia storica:
nè saprei dir se altri v'abbian levato il velo più alto di lui.
Il lavoro istorico d'Ibn-Khaldûn, composto la più parte in
Affrica, nelle brevi stagioni ch'egli ebbe di calma, è intitolato: Kîtâb
el-'Iber ec., che io, discostandomi dalle interpretazioni date fin qui,
tradurrei: "Libro dei concetti storici e raccolta delle origini e
vicenda di Arabi, Stranieri e Berberi." Va diviso in Introduzione, tre
libri, e Autobiografia; delle quali parti, la Introduzione tratta della
Storiografia e il primo libro racchiude le considerazioni generali che
noi intendiam sotto la denominazione di filosofia storica. Gli altri
due libri contengono la narrazione storica; cioè il secondo libro,
degli Arabi e altri popoli orientali ed europei; e il terzo, dei Berberi.
Disegno vasto e ben ordinato, ma colorito con man disuguale, quasi
da due uomini di varia tempra d'ingegno. Da un canto, Ibn-Khaldûn,
superiore alla età e società in cui visse, speculando su i fatti generali
della storia, arrivava a scoprirne le leggi e s'imbatteva anco in
chimere, come è avvenuto poi al Vico ed altri naviganti in quelle
regioni; e ritrovava i canoni della critica; e, maravigliosa
coincidenza col Vico, discorrendo di così fatti studii, conchiudeva
essere scienza nuova, a meno che, aggiunse modestamente, qualche
antico non ne abbia scritto, e si sian perdute le opere102. Dall'altro
canto, Ibn-Khaldûn si messe a riempire, come un volgare annalista,
i compartimenti sì bene immaginati in schiatte, dinastie, e
cronologia storica di ciascuna dinastia. In questo usò molti ottimi
materiali, e tra gli altri il Kâmil d'Ibn-el-Athîr; ma non digerì i fatti
con la critica di cui avea già dettato i principii; non serbò

102
Saggi di Schultz, inseriti nel Journal Asiatique. Questo passo si legge nella
serie I, tomo VII, (1835), pag. 293, ove il traduttore ha dato anche il testo arabico
di tal frase.

68
proporzione nei racconti; non seppe sviluppare le cagioni immediate
degli avvenimenti con la intuizione che hanno, per esempio, i Latini
e il Machiavelli: in somma fece una compilazione, e, pei tempi più
vicini, una cronica e nulla più. Il barone De Slane, che lo ha studiato
e può giudicarne, notava che Ibn-Khaldûn scrisse la filosofia storica
con chiarezza, e le narrazioni con uno stile avviluppato, saltellante e
pieno di neologismi.
Lunga sarebbe la rassegna dei lavori che si son fatti, da una
trentina d'anni in qua, su questa mirabile opera. Limitandomi a quei
che più s'avvicinano all'argomento nostro, ricorderò il testo e
versione della Storia dell'Affrica sotto gli Aghlabiti e della Sicilia,
pubblicati da M. Des Vergers; la Storia dei Berberi il cui testo si è
dato a stampa in Algeri a spese del Ministero della Guerra di
Francia e per le cure di M. De Slane, e la cui versione è stata fatta
dallo stesso orientalista, con erudite annotazioni, e n'è uscito il
primo volume. I Prolegomeni, come van chiamati comunemente la
introduzione e il primo libro, vedran la luce, tra non guari, per opera
di M. Quatremère, uomo da reggere a questo ed a maggior peso. Mi
si permetta infine che io ricordi la edizione del testo e versione
italiana della storia antica di Ibn-Khaldûn, incominciata dal nostro
compatriotta l'abate Arri da Asti nel 1840, e interrotta l'anno
appresso per la immatura sua morte103.
Ibn-Khaldûn nella Storia di Sicilia compendia Ibn-el-Athîr, sì
che appena vi si potrebbe scoprir qualche fatto attinto ad altre
sorgenti. Negli altri capitoli ci dà ragguagli più pregevoli. Da tutta
l'opera io ho cavato, per inserirli nella mia Raccolta, gli squarci
seguenti:
1. Uno dei Prolegomeni inedito; ove si tratta del navilio siciliano
sotto i Normanni. Dal MS. del British Museum, n° 9571, bel codice
in caratteri affricani.

103
Il baron De Slane, che ricorda spesso con affetto i lavori di questo valente
giovane, dice in una nota della Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, tomo I,
Introduction, p. III et IV, che si erano già stampate 108 pagine di testo e 140 della
versione, e che rimangono come carta inutile nei magazzini del tipografo.

69
2. La Storia di Sicilia. Dalla edizione di M. Des Vergers,
riveduta su i MSS. di Parigi, e confrontata con gli estratti di un buon
MS. di Tunis recatimi dal sig. Honnegar.
3. Molti squarci della Storia dei Berberi, ch'io avea copiato dal
MS. di Parigi, Suppl. Arabe 742 quater, tomo III, e che oggi ho
potuto confrontare con la edizione d'Algeri.
4. Altri squarci inediti su le prime imprese dei Musulmani nel
Mediterraneo, su la Storia dei Fatemiti, e su le Crociate; che ho tolto
dai MSS. di Parigi, 742 quinquies, tomo II, e 742 quater, tomo IV.
LXI. Zohri (Ibn o piuttosto Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-
abi-Bekr), alla fine del XIV o principio del XV secolo, compendiò
un trattato di Geografia di Kimâri, copiato o compendiato, non
sappiam quando, da un libro che avea fatto compilare il califo
Mamûn (815-835) e delineare insieme un planisfero. Tanto si ritrae
dalla prefazione del Zohri al detto Kitâb Gi'rafîa, MS. di Parigi,
Ancien Fonds 596, e dal cenno che l'autore fa a fog. 58 verso. Di
certo, il Kimâri, o lo Zohri stesso, aggiunsero qualcosa alla
compilazione del IX secolo; leggendosi qui i nomi di Mehdîa e
della Kalat-Beni-Hammâd, che furono fondate appresso. Però non si
può ben determinare l'epoca alla quale riferirsi le notizie su l'Etna e
su non pochi prodotti del suolo siciliano, che si trovano nel capitolo
della Sicilia e che io tolgo dal MS. di Parigi.
LXII. Makrizi (Taki-ed-dîn-Ahmed-ibn-Ali), nato al Cairo il
1364, morto il 1441, dotto e diligente compilatore di varie opere104,
tra le altre ne dettava tre che servono al nostro proposito. Sono:
Il Mokaffa, dizionario biografico, del quale la Biblioteca di
Parigi possiede un volume, Ancien Fonds 675, che va dagli ultimi
della lettera ta (decimasesta dell'alfabeto orientale) a parte dell'Ain;
e la Biblioteca di Leyde, n° 1366, tre volumi, che prendono l'alef,
Caf (22a lettera), lam e mim105. Però ci mancano parecchi volumi

104
Su l'autore veggansi: Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo I. p. 112, seg.; e
Quatremère, Histoire des Sultans Mamlouks de l'Egypte par Taki-Eddin-Ahmed-
Makrizi, tomo I, prefazione.
105
Catal. del Dozy, tomo II, p. 200, n° DCCCXX.

70
dell'opera. Dal MS. di Parigi ho estratto io le biografie dei Siciliani;
dai MSS. di Leyde lo ha fatto per cortesia verso di me il prof. Dozy.
Il Kitâb-es-Solûk ec. (Introduzione alla conoscenza delle
dinastie), del quale una parte è stata tradotta in francese da M.
Quatremère. Ho tolto un passo del testo arabico dal MS. di Parigi,
Ancien Fonds 673 C., tomo III, e Ancien Fonds 673, A. 2.
Il Kitâb-el-Mewâ'iz ec. (Avvertimento e riflessioni su le divisioni
territoriali e i monumenti), MS. di Parigi, Ancien Fonds 680, ove si
fa menzione d'un astronomo siciliano dell'Osservatorio del Cairo;
uno squarcio del qual testo è stato pubblicato da M. Caussin de
Perceval, nella raccolta Notices et Extraits des MSS., tomo VII, p.
45.
LXIII. Zerkesci (Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Ibrahîm),
vissuto alla fine del XV secolo, come conghiettura con buon
fondamento M. Alphonse Rousseau106, scrisse una storia dei principi
almohadi e degli hafsîti di Tunis fino all'anno 1429. Quest'accurata
compilazione, fatta su buoni materiali, mi fornisce due squarci, che
ho tolto dal MS. di Parigi, Suppl. Arabe 852.
LXIV. Soiûti (Gelâl-ed-dîn-Abu-l-Fadhl-Abd-er-Rahmân), nato
a Soiût nell'alto Egitto il 1445, e morto il 1505, fu compilatore
infaticabile ma non sempre accurato; e basta a dir che si crede abbia
scritto da trecento opere diverse.
Da quella intitolata Tarîkh-el-Kholafâ (Storia dei Califi), MSS.
di Parigi, Ancien Fonds 639 e 776, ho cavato due parole di cenno
storico;
Dall'altra, che s'addimanda Kitâb-el-Boghiat ec. (Libro di quanto
posson desiderare i raccoglitori delle Vite dei Lessicografi e
Grammatici), ho preso una ventina di biografie di Siciliani. Ho
avuto alle mani due MSS., l'uno del dottor John Lee, ch'era prestato
al prof. Dozy di Leyde in cui casa lo percorsi; l'altro acquistato
recentemente dalla Biblioteca di Parigi, ove si conserva, Suppl.
Arabe 683.

106
Journal Asiatique, série IV, tomo XIII, (1819), p. 256, seg.

71
LXV. Ibn-Aiâs (Mohammed-ibn-Ahmed), nato in Egitto,
scrissevi nel 1516 il Nescek el-Azhâr ec. (Fragranza dei fiori su le
meraviglie delle regioni), mediocrissima compilazione su l'opera di
Edrisi e altre. Nondimeno, raccogliendo tutti i testi ove si tratti della
Sicilia, non ho voluto rigettar questo, che ne dà due capitoletti. Li
ho copiato dai MSS. di Parigi, Ancien Fonds 595, e Suppl. Arabe
904.
LXVI. Makkari (Ahmed-ibn-Mohammed), nato presso
Telemsen innanzi il 1590, e morto il 1631, lasciò una voluminosa e
diligente opera su la Spagna musulmana, della quale la più parte è
stata tradotta in inglese dal professor Gayangos, e adesso danno
opera a pubblicare il testo arabico i signori Dozy, Dugat, Krehl e
Wright. Nella descrizione di Cordova occorre al Makkari di citare
versi del Siciliano Ibn-Hamdîs e darne giudizio. Porrò questo passo
e pochi altri cenni nella mia raccolta, cavandoli del MS. di Parigi,
Ancien Fonds 704.
LXVII. Hagi-Khalfa (Mustafa-ibn-Abd-Allah) da
Costantinopoli, morto il 1658, per erudizione, critica, e altezza di
ingegno, gareggia coi migliori scrittori di storia letteraria che
abbiamo in Europa. Due opere sue forniscon materiali alla storia dei
Musulmani di Sicilia; cioè:
Il celebre Dizionario bibliografico di 15,000 opere, quasi tutte
arabiche, pubblicato dal Fluëgel, testo e versione latina; dal quale
ho cavato tutti i paragrafi su opere di Siciliani, riscontrandoli per lo
più coi MSS. di Parigi107.
E il Tekwîm et-Tewârîkh, ossia Tavola cronologica, scritto in
turco e in persiano e tradotto in lingua nostra da Gian Rinaldo
Carli108. Gli estratti della versione italiana relativi alla Sicilia, furono
voltati in latino e pubblicati dal Caruso e dal Muratori, e a ragione
lasciati indietro dal Di Gregorio: tanto orribilmente il conte Carli
avea saputo sfigurare quella semplice Tavola. Ho trascritto il testo

107
Lexicon Bibliographicum et Enciclopædicum a Mustapha ... Haij-Khalfa ec.,
Lipsia e Londra. 1840, 1852, sei vol. in-4.
108
Cronologia historica di Hazi-Halifé-Mustafà ec., Venetia, 1697, in-4.

72
persiano, non avendo potuto capitare la edizione turca di
Costantinopoli, dal MS. turco di Parigi, Ancien Fonds 45; e l'ho
confrontato con una versione latina del Reiske che v'ha nella
Biblioteca di Parigi.
LXVIII. Ibn-Abi-Dinâr (Abu-Abd-Allah-Mohammed-el-
Kairewâni) scrisse il 1681 un Kitâb el-Munis etc. (Libro dilettevole
sugli avvenimenti dell'Affrica e di Tunis), che corre dai principii del
conquisto musulmano fino ai principii della dominazione ottomana
in Affrica, e contiene ragguagli topografici e di usanze: sennata e
diligente compilazione, ancorchè moderna; nella quale non di rado
si fa menzione della Sicilia. Alcuni estratti di questa opera mi
furono recati da Tunis per favore del signor Honnegar; e li ho
accresciuto notabilmente percorrendo lo esemplare che n'ha la
Biblioteca di Parigi, Suppl. Arabe 851. Di questo libro han fatto una
versione francese MM. Pellissier et Remusat, nella quale l'autore è
chiamato ordinariamente col nome etnico di Kaïrouani109: lavoro
corredato di ottime note, ma fatto, com'ei sembra, sopra un cattivo
MS.
LXIX. Teserif el-Aiâm ec. (Ornamento dei giorni e dei tempi e
vita del Malek-Mansur). Il principe di cui si parla è Kelaûn, sultano
d'Egitto verso la fine del XIII secolo: il compilatore della cronica
non si sa. La Biblioteca di Parigi n'ha il solo volume secondo,
Suppl. Arabe 810, splendidissimo MS. fatto senza dubbio per uso
della corte di Egitto. Contiene alcune notizie intorno la guerra del
Vespro Siciliano, e il testo d'un trattato politico e commerciale tra il
Sultano e i principi aragonesi Alfonso re d'Aragona e Giacomo re di
Sicilia. Io ho dato la versione italiana di cotesti squarci nella
edizione della Guerra del Vespro, Firenze 1851, Documento XXX,
p. 588 a 597. Il trattato era stato pria tradotto in francese da M. De
Sacy.

109
Historie de l'Afrique de Mohammed-ben-Abi-el-Raïni-el-Kairouani, Paris,
1845, in-4, che è il vol. VII della Exploration scientifique de l'Algérie, Sciences
historiques et géographiques.

73
LXX. Ibn-Konfûd (Abu-l-Abbâs-Ahmed-ibn-Hasan-ibn-Ali-
ibn-Khatîb) nel XIV secolo dettò la Farisîa ec., ch'è parte annali e
parte cronica della dinastia hafsita di Tunis. Alcuni squarci ne ha
pubblicato M. Cherbonneau, professore d'arabico a Costantina, nel
Journal Asiatique, IV série, tomo XII, XIII e XX, con utilissime
note. Tolgo dal detto Giornale il testo relativo a due imprese di
Cristiani sopra le Gerbe e Mehdia nel 1284. Questa e la precedente
opera son messe fuori dell'ordine cronologico, non appartenendo
propriamente alla storia dei Musulmani di Sicilia; ma come danno
ragguagli su la storia di Sicilia dei tempi susseguenti, così non mi è
parso di trascurarle.

74
LIBRO PRIMO.

CAPITOLO I.

Dai primi tempi della storia infino a noi molte genti straniere
vennero a calpestare il suolo della Sicilia: Cartaginesi, Vandali,
Goti, Bizantini, Alemanni, Francesi, Spagnuoli, a vicenda fecervi
guerra, guastarono, messer su novelle dominazioni e poi
dileguaronsi lasciando poche vestigia di sè. Tra tanti rivolgimenti
superficiali quattro conquisti mutarono radicalmente il paese: che
furono il greco, il romano, il musulmano e il normanno, o meglio
direbbesi italiano. Le colonie doriche e ionie, nell'ottavo secolo
innanzi l'era volgare, si insignorivano della Sicilia tra per la forza
delle armi e dell'intelletto; vi recavano loro schiatta, genio e
linguaggio; dirozzavano gli antichi abitatori, gente italica la più
parte e avanzo di varii popoli orientali; facean lieta l'isola di città, di
monumenti, di colti, di popolazione; fondavano Stati da rivaleggiare
con quei della madre patria; correano, come li portava lor mobile
natura, or alla libertà or alla tirannide: tra i quali continui travagli
fiorirono nella Sicilia greca i più nobili e profittevoli esercizii degli
uomini; e nacquervi, ad onor della umanità, Teocrito, Empedocle,
Archimede. Il soldato romano poi che uccideva Archimede
simboleggia pienamente il secondo conquisto, il quale, con effetto
contrario a quel che si vide nelle altre province, in Sicilia distrusse
più che non fondasse. Ma nell'ottavo secolo dopo la nascita di
Cristo, seguì il terzo rinnovamento della Sicilia, per opera dei
Musulmani, i quali avean tocco l'apice di lor subita civiltà; e
riforniron l'isola di colonie arabiche e berbere; vi portarono altra
religione, leggi, costumi, lingua, letteratura, scienze, arti, industrie,
virtù militare e genio d'independenza; in guisa da ritrarre, se non il
raffinamento e splendore, al certo l'attività dei tempi greci. Breve

75
del resto il dominio musulmano, nè arrivò a compiere la
assimilazione degli abitanti che avea trovato nell'isola. Sfasciandosi
da un canto la società musulmana in Sicilia come per ogni luogo, e
spuntando dall'altro canto la novella nazione italiana, questa trovò,
come per caso, la insegna di ventura, gli egregii esempii d'ardire e
gli ordini di guerra dei Normanni: talchè, verso la fine
dell'undecimo secolo, passò il Faro sotto la bandiera di quelli;
ripigliò la Sicilia, che le appartenea per ragione di geografia e di
schiatta; si aggregò le popolazioni cristiane rimastevi, e raccolse i
frutti delle proprie e delle altrui virtù. Perchè, sendo pochi i
Normanni che le aveano insegnato a vincere, e ad ordinare lo Stato,
la nazione italiana, per la ineluttabile maggioranza del numero,
assorbì quella forte schiatta, in guisa che a capo d'un secolo ne
rimasero appena i nomi di alcune famiglie. Quanto ai Musulmani,
parte si dileguò nel seno della società italiana di Sicilia, parte
emigrò o fu mietuta dalle spade cristiane. Ed intanto si era mandata
ad effetto, sotto gli auspicii del nuovo popolo, l'opera cominciata
dagli Arabi quattrocent'anni avanti: la Sicilia tornata a potenza e
splendore primeggiò per tutto il duodecimo secolo tra le province
italiane; s'insignorì delle parti meridionali della Penisola; e sparse in
terraferma molti semi di quel mirabile incivilimento della comune
patria nostra che pose termine al medio evo.
La storia delle colonie musulmane di Sicilia, ch'io mi son
proposto di scrivere, comprende i due detti conquisti, arabo e
normanno, le conseguenze dei quali son visibili infino ai nostri
giorni. Principierò con ritrarre le vicende della Sicilia innanzi la
venuta degli Arabi, l'origine dello impero musulmano e le
condizioni della sua provincia d'Affrica: e ciò darà argomento al
primo libro. Nei tre seguenti tratterò la dominazione dei Musulmani
su l'isola; nel quinto il conquisto normanno. Nel sesto libro
finalmente discorrerò la condizione dei vinti e i fatti ai quali
parteciparono sino alla metà del decimoterzo secolo; quando gli
ultimi avanzi loro furono trapiantati di Sicilia in Puglia, e la civiltà
italiana tramutò ancor sua sede, prima dall'isola alle parti

76
meridionali della terraferma, e poi, fuggendo i capricci dei re, alle
gloriose repubbliche ch'eran surte tra il Tevere e le Alpi.
La decadenza della Sicilia greca era cominciata, come avvenir
suole, prima della distruzione di sua potenza politica. Le città più
grosse, straziandosi in guerra tra loro e ciascuna dentro da sè stessa;
snervate dal lusso, ch'è figlio di civiltà ma uccide la madre; e
logore, sopra ogni altra cagione, da tre secoli di guerra continua
contro Cartagine, presto soggiacquero alla rozza vigoria di Roma
(anni 241-210 avanti l'era volgare). Roma usò e abusò gli
avvantaggi dell'acquisto; il primo che facesse fuor la Penisola e fin
allora il più ricco. Abbattuta tanto più agevolmente Cartagine
quanto l'aveano stracca le guerre con la Sicilia; fatto scala di
quest'isola ad altre imprese nel Mediterraneo; accattate da lei le
prime dolcezze della cultura intellettuale e del viver dilicato, i
vincitori non si saziarono che non divorassero la provincia. La
chiamarono granaio del popol romano, e sì vollero farne un gran
podere e nulla più. Per un verso o per un altro incominciò il suolo
siciliano a divenire proprietà pubblica di Roma o privata dei nobili;
incominciarono a formarsi in Sicilia come in terraferma i latifondi,
che rimasero a proprietarii romani o d'altre parti d'Italia infino al
settimo secolo, nè sparvero che al conquisto musulmano. Ma infin
dal principio della dominazione romana vasti tratti di terreno si
tennero a pascolo; prima degradazione, che si accrebbe affidandosi
gli armenti a schiavi marchiati in fronte, ignudi o coperti di ruvide
pelli; i quali armati di mazze, spiedi e bastoni, a due, a tre, poi a
frotte, si davano a ladronecci per campar la vita; poichè i padroni
lor davano, in luogo di salario o vitto, la impunità dei misfatti 110. Da
un'altra mano i cavalieri romani, o, come or diremmo, i cittadini
della classe di mezzo, presero in fitto molte terre dell'isola per
coltivarle con le braccia d'altri schiavi marchiati, incatenati, chiusi
negli ergastoli la notte, menati al lavoro con la sferza111. A tal empio
sistema d'industria agraria si aggiunse la enormità delle gravezze,

110
Diodorus Siculus, lib. XXXIV, XXXV.
111
Florus, lib. III, c. 9.

77
che prendeano il quarto, come si crede112, del ritratto delle terre,
senza contare i balzelli su le altre arti e commercii.
Così arricchiti subitamente i pochi intraprenditori stranieri,
rovinati gli indigeni che non godeano i medesimi privilegii di dritto
o di fatto, ne doveano seguitare due mali: che la proprietà ogni dì
più che l'altro si tramutasse in man dei Romani, e che andassero a
precipizio le industrie cittadinesche e sì il commercio con gli altri
popoli fuorchè i dominatori. Dal peso e dalla vergogna del giogo
nascea quella disperazione universale, che al certo attizzò la prima
guerra servile (a. 134-132 av. l'e. v.), e che spinse alla seconda (a.
103-101 av. l'e. v.) non poche popolazioni libere. Pur coteste guerre
avevano origine da più antica e profonda iniquità di cui non erano
innocenti i cittadini greci di Sicilia. Gli schiavi di tante lingue
congregati nell'isola, e forse gran parte siciliani, dopo lungo alternar
della fame con la rapina, della abiezione con gli omicidii, si
risovvennero della dignità umana, e invocando il cielo che credeano
la dovesse vendicare, si adunarono nei più rinomati santuarii, nel
tempio di Cerere ad Enna o dinanzi i tremendi altari dei Palici;
bandirono la naturale uguaglianza degli uomini; e valorosamente la
sostennero con le armi, aiutati più o meno dai cittadini, finchè
Roma, che s'intendea meglio di quella ragione, li vinse e sterminò.
E mossa dalla prudenza che accompagnava la ferocità sua,
l'aristocrazia romana volle rimediare con leggi che rendessero più
sopportabile la condizione dei Siciliani: ma non giovò, perchè tal
minuta giustizia non troncava la radice del male, e d'altronde non si
osservava, per essere elusa e soffocata a Roma dalla prepotenza dei
grandi. Già la patria era perduta; già i migliori disperavano di lei.
Diodoro, che fiorì l'ultimo tra i sommi ingegni della Sicilia greca e
fu il primo scrittore dell'antichità che abbracciasse la storia
universale, Diodoro, dopo trent'anni di viaggi e lungo soggiorno a
Roma (verso l'anno 45 av. l'e. v.), par sì rassegnato alle sventure

112
Palmieri, Somma della storia di Sicilia, vol. I, cap. 14. Ma egli non vede la
causa principale del danno là dove pare a me di trovarla, cioè nella proprietà
territoriale usurpata dai cittadini romani ai Siciliani.

78
della Sicilia, che accettava come vera guarigione un sollievo
passeggiero dovuto alla umanità del pretore Asillio. Nè volgare
animo ebbe lo storico siciliano, nè poco amore per la patria; ma
vedendola perire, par ch'ei se ne confortasse con le ineluttabili leggi
dell'umanità che gli lampeggiavano alla mente, e con risguardare
ormai il genere umano come unica famiglia, e il popol romano
come capo di quella113. Dopo la morte di Diodoro seguirono le
ultime guerre civili dei dominatori, che fecero campo di battaglia la
Sicilia (a. 43-35 av. l'e. v.), e sì la straziarono, che consunta
com'essa era dalle cause economiche e morali, non potè risorgere; le
antiche e nuove piaghe scoprironsi di un subito. La popolazione
delle cittadi scemò orribilmente; moltissime rimasero vôte
d'abitatori; abbandonata gran parte dei colti: la terra di Cerere, sì
cupidamente presa dai Romani, si era sfruttata nelle mani loro114.
Chi abbia mai percorso le splendide memorie della Sicilia greca,
o soltanto abbia notato gli avanzi di quella prosperità nelle orazioni
di Cicerone contro Verre (a. 70 av. l'e. v.) crederà a stento lo
squallore che ingombrò il paese verso il principio dell'era volgare.
Pur ne son prova i provvedimenti di Augusto, necessitato ad ovviare
alla rovina di parecchie città, e l'espresso attestato di Strabone, uom
greco, contemporaneo, sciente delle cose di Sicilia, non sospetto di
esagerarne le calamità per calor poetico dell'animo. Cominciando
dal lato di levante Strabone trovava sol quattro città: Messina,
Taormina, Catania, Siracusa; notando che le ultime due fossero
state di recente ristorate da Augusto, e Siracusa ristretta a minore
spazio presso la penisola d'Ortigia, in vece dello antico giro di

113
Diodorus Siculus, lib. V, XXXIV, XXXV, XXXVI, XXXVII. A creder mio,
Diodoro giudicò male la prima guerra servile, credendola un imperversare di
masnadieri e nulla più. Nella seconda riconosce il malo contentamento dei
Siciliani. Ma la Legge Rupilia, alla quale io ho fatto allusione di sopra, sendo
stata promulgata dopo la prima guerra, ne prova chiaramente l'indole politica.
114
Palmieri, l. c., sostiene che il grano prodotto dalla Sicilia al tempo di Verre,
non montasse che ad un milione di salme d'oggi (2,753,659 ectolitri); cioè due
terze parti della produzione attuale. Di più, crede che tutta la Sicilia allor ne desse
appena quanto il solo Stato di Siracusa sotto Gelone.

79
centottanta stadii, troppo ormai agli abitatori115. Su la costiera
meridionale, continua il geografo, v'ha Agrigento e Lilibeo e il
rimanente delle città al tutto rovinate e deserte; nè la settentrionale
abbonda di popolazione, ancorchè la si estenda più che le altre due,
e vi si veggano Alesa, Tindaro, Cefalù, Palermo colonia romana, e
lo Emporio Segestano. Delle città dentro terra ei va nominando
Etna, Centorbi ristorata altresì da Augusto, Erice col magnifico
tempio scarso ormai di sacerdoti, Enna designata sol come fortezza,
Lentini che andava a male; e le altre abbandonate tutte e date ad
abitare a pastori. Spaventevole ragguaglio confermato coi nomi
delle principali città distrutte, e col dire della grande fertilità del
suolo, ma che i prodotti di quello, grani, miele, zafferano, bestiame,
pelli, lane, tutto portavasi a Roma, fuorchè quel poco, son le parole
di Strabone, che si consuma nell'isola. A compiere il quadro egli
accenna alle antiche guerre servili che più o meno ripullulavano, e
che ai suoi tempi un Seleuro che si dicea figlio dell'Etna, avesse
levato eserciti e tenuto una parte del paese, ma poi vinto e condotto
a Roma, aggiugne romaneggiando il geografo greco, ognun l'ha
veduto nel circo, esposto in cima a un gran catafalco in figura
dell'Etna, il quale aprendosi, com'era congegnato, lasciò cadere il
ribelle nelle gabbie delle fiere116.
Ma la rivoluzione che oppresse la libertà di Roma, temperò anco
i soprusi dell'aristocrazia romana nelle province; tendendo il
principato a ragguagliar nella comune obbedienza tutte le classi dei
cittadini, e tutte le parti del territorio. Per questo mutato ordine di
cose, la Sicilia, come alcuni altri paesi, respirò alquanto; anche
mercè i pronti e materiali soccorsi di Augusto ricordati di sopra;
limosina la quale dovea accorare i Siciliani più che confortarli, e
115
Gli stadii di Strabone sono ordinariamente di 700 al grado. Il perimetro della
antica Siracusa indi torna a 11 miglia e mezzo delle italiane di cui entran 60 in un
grado. Ho seguíto in questo passo di Strabone la interpretazione di M. Letronne,
Essai critique sur la topographie de Syracuse, p. 100, seg., non quella che
erroneamente portava Siracusa ristretta da Augusto, come dei nostri tempi, alla
sola penisola.
116
Strabo, Rerum Geographicarum, lib. VI, p. 265, seg.

80
continuò, per maggior onta, sotto Tiberio e Caligola, da cui fu
riedificato alcun monumento dell'isola. Succeduta poi una serie di
buoni principi, che fecero dimenticare, con unico esempio nella
storia, i vizii del potere assoluto, la Sicilia convalescente arrivò a
partecipare di quella prospera mediocrità universale dell'impero
romano: parecchi villaggi ingrossati presero il luogo delle città
ch'erano distrutte ai tempi di Strabone, e alcuna di queste risorse, o
così potè dirsi, perchè un pugno di gente tornava ad abitar tra le
rovine. Provan ciò le opere di Plinio e di Tolomeo, e l'Itinerario
d'incerta epoca che porta il nome di Antonino: scritti che tornano a
un dipresso alla prima metà del secondo secolo. E in vero
l'Itinerario accenna novelle stazioni di posta istituite recentemente, e
i due geografi, con poco divario l'uno dall'altro, danno una lista di
città il cui numero è quadruplo di quel di Strabone e metà di quel
che si rinviene appo Stefano Bizantino, erudito di tempi più bassi,
che spigolò negli antichi scritti dei Greci117. Le quali cifre ancorchè
vadan prese ad arcata per la poca esattezza di coteste compilazioni,
pur vi si raffigura il precipizio della Sicilia negli ultimi tre secoli
che precedettero l'era volgare, e lo scarso ristoro nei primi due
secoli che la seguirono.
Scarso ristoro e non durevole; perchè indi cominciò la decadenza
universale dell'impero; perchè l'Italia si trovò peggio che le altre
province per lo flagello dei latifondi e degli schiavi di che eran
pieni; e perchè la Sicilia, divenuta del tutto italiana, fu afflitta più
che la Penisola, per essere caduta una parte maggiore delle sue terre
117
Stefano dà 122 nomi di città e castella, tra le quali alcune poste per errore in
Sicilia, ma altre ne mancano. (Stephanus, De urbibus, passim). Strabone (l. c.) ne
contava 16, tralasciando senza dubbio i luoghi meno importanti. Plinio (Historiæ
Naturalis, lib. III, cap. 14) ne ha 69, delle quali 5 colonie romane, 13 oppida, 3
popolazioni di condizione latina, e 48 tributarie. Tolomeo (Cl. Ptolomei
Geographiæ, lib. III, cap. 4) novera 64 tra città e castella, accordandosi con Plinio
in 47 nomi, e discrepando negli altri, forse perchè il Romano segue la geografia
politica, quando Tolomeo, geografo matematico, nota i luoghi non le genti.
L'Itinerario (presso Fortia d'Urban, Recueil des Itinéraires anciens, Antonini
Augusti Itinerarium, numeri XXIII a XXVII, p. 26-29) non vale in questa
esamina, perchè dà le sole stazioni di poste; tra le quali 26 in città note.

81
nelle mani dell'aristocrazia di Roma. A tal disordine sociale non
bastavano a riparare nè la prudenza di Augusto, nè la benevolenza
degli Antonini, nè l'equa amministrazione della giustizia, nè la bene
ordinata azienda. Pertanto riapparvero gli antichi sintomi nel terzo
secolo; e tra quell'universale scompiglio, che suol chiamarsi l'epoca
dei trenta tiranni, divampò nell'isola una novella guerra servile 118 (a.
259). Spenti altrove i piccioli tiranni, posata la commozione sociale
dell'isola, continuò in tutta Italia l'abbandono dell'agricoltura,
continuò lo spopolamento, non ultima cagione delle invasioni dei
Barbari. Diocleziano prolungò alquanto la vita dell'impero. Poi la
sede passò a Costantinopoli (a. 330); ripassò in Italia alla divisione
(a. 395) nella quale la Sicilia appartenne all'impero d'Occidente: ma
che potea ormai nuocere o giovare un mero mutamento di forme
amministrative alla provincia arsa ed annichilita?
Delle incursioni dei Barbari settentrionali avrò poco da dire.
Comparvero la prima fiata in Sicilia quando appena potean temersi
ai confini estremi dell'impero. Sotto il regno di Probo, una mano di
Franchi, vinti nelle Gallie e trasportati in riva al Mar Nero,
trovandovi un'armatetta romana, se ne impadroniano con disegno di
tornarsene in Ponente; e nell'arrisicato lor corso dal Bosforo allo
stretto di Gibilterra, per necessità e vendetta, saccheggiavano molti
luoghi delle costiere, e, tra gli altri, piombati sopra Siracusa, le
dettero il guasto, vi fecero una carnificina, e salvi si ridussero
finalmente alle Bocche del Reno119 (a. 278).
Dopo quel turbine passeggiero, consumata la rovina dell'impero
occidentale, Alarico, come ognun sa, morì a Cosenza quand'era in
punto di assaltare la Sicilia (a. 410); ma Genserico osteggiò
Palermo, prese Lilibeo (a. 440), e, sconfitti i suoi Vandali da
Ricimero presso Girgenti (a. 456), dopo avere più tosto depredato
che occupato l'isola, cedettela per trattato ad Odoacre (a. 476),
ritenendo solo il Lilibeo come vedetta da custodire il suo novello

118
Historiæ Augustæ Scriptores, tom. II, p. 85. Trebellii Pollionis, Galliani duo,
cap. 4.
119
Zosimus, lib. I, cap. 67, 71.

82
reame di Affrica. Odoacre poi regnò su la Sicilia per quattordici
anni; del quale ci resta il documento d'una concessione di terre
presso Siracusa120, e prova com'ei prendesse nell'isola quella che si
chiamò la parte dei Barbari. Del resto gli Eruli non passaronvi mai;
forse non vi mandarono che qualche picciol presidio: a tale
debolezza era condotta la Sicilia! Così ancora, vinto Odoacre dagli
Ostrogoti, la si diè quetamente a Teodorico; a persuasione di
Cassiodoro, ed a condizione che le città e i campi fossero salvi dalla
licenza dei vincitori, dei quali sol venisse nell'isola quel tanto che
bastava a munir le fortezze principali. Teodorico, resse l'isola assai
più umanamente che i suoi predecessori barbari e non barbari; ma
non potè far che si dimenticasse l'origine sua, nè l'eresia ariana
ond'era infetto: sì che un semplice romito di Lipari, alla morte del re
affermò averlo veduto strascinare all'isoletta di Vulcano, scinto,
scalzo, con le mani legate al dorso, ghermito dalle ombre
invendicate di papa Giovanni e del patrizio Simmaco, che il
precipitarono nel cratere ardente121.
Tal nimistà nazionale e religiosa, comune a tutta l'Italia, fe'
cadere il regno dei Goti, non guari dopo la morte di Teodorico, e
spianò la strada alla dominazione bizantina, che parea meno
straniera e che fu portata da Belisario, capitano degno al certo dei
tempi più gloriosi di Roma. Dopo l'Affrica, e prima della terraferma
d'Italia, Belisario conquistò la Sicilia entro poche settimane, con
diecimila uomini al più, per la connivenza degli abitatori: ebbe
Catania per un colpo di mano; Siracusa e altre città a patti; Palermo
sola per ostinata battaglia; e tornato a Siracusa, capitale dell'isola,
120
Marini, I Papiri Diplomatici, numeri XXXII e XXXIII, che si credono
frammenti di unico diploma dato il 489. Indi si scorge che Odoacre aveva
accordato a un Pierio, forse il conte di tal nome, 690 soldi, dei quali 450 assegnati
su certi beni a Siracusa, 200 a Malta, e che per questo diploma concedeva il
rimanente di 40 soldi e una frazione, sopra tre fondi diversi posti nella massa
Piramitana, nel territorio di Siracusa.
121
San Gregorio, che non credea certamente a tal fola, pur l'accreditava, con mille
altre somiglianti, per promuovere la superstizione; e nel presente caso anco per
aizzar la gente contro i Longobardi, barbari e tuttavia Ariani come i Goti. Vedi
Divi Gregorii Papæ Dialogi, lib. IV, cap. 30.

83
entrovvi in trionfo (a. 535), spargendo monete d'oro su la plebe, che
potea credere in vero ristorato l'onor di sua nazione, sentendo parlar
greco e latino tra i vincitori. La breve guerra di Totila (a. 549-551 )
fu l'ultima incursione dei Barbari settentrionali in Sicilia; i quali non
l'avevan tenuto più che ottant'anni; non vi avean posto colonie
militari, non vi lasciarono nè progenie, nè istituzioni, nè alcun
vestigio. Indi il governo bizantino quetamente ricominciò nell'isola
tutti gli abusi del romano, del quale riteneva il nome e le forme; e
per un secolo intero che corse dal conquisto di Belisario al regno di
Costanzo, la storia di Sicilia non ha altro fatto notabile, che la
mutata natura dei legami tra l'isola e la terraferma d'Italia.
La popolazione siciliana per otto secoli avea tenuto tal
consuetudine con quella dell'Italia centrale, qual se l'isola si fosse
venuta a porre alle foci del Tevere: tanta era la frequenza dei
negozii attenenti al governo, ai commercii, e un tempo agli studii
liberali, poi alla religione; sempre e più che ogni altra cosa alla
cultura delle terre. Le irruzioni degli stranieri infino a Totila nulla
mutarono a questo ordine di cose; avendo l'isola con rurale docilità
seguíto le sorti della terraferma, nella quale tutti i vincitori vennero
a stanziare. Ma nel sesto secolo, il conquisto bizantino e il
longobardo, accaduti con sì breve intervallo, scomposero que'
legami. Il primo trasferì a Costantinopoli i negozii dipendenti dal
governo, ch'erano molti, e importantissima tra quelli
l'amministrazione dei poderi della Corona. Il secondo (a. 568-575)
divise l'Italia in due parti, una dei vincitori, l'altra dell'impero
bizantino; la quale si componea delle isole e di brani in terraferma
frastagliati a caso come da tremuoto: la punta cioè della Penisola;
alcune strisce di costiera qua e là sovr'ambo i mari; nel centro,
Roma con varii pezzi di territorio infino all'Adriatico. Or la parte
soggiogata dai nuovi Barbari si trovò naturalmente in guerra col
governo bizantino; e più grave effetto era su l'animo d'ogni uom
romano il terrore di quegli atrocissimi principii della dominazione
longobarda; il macello dei maggiori cittadini, lo spogliamento delle
facultà, la profanazione delle chiese, le persecuzioni e sovente il

84
martirio degli ortodossi per man di quegli eretici ariani e dei loro
ausiliari idolatri; gli ordini civili distrutti; gli abitatori degradati da
ingiuriose leggi; la più parte fatti servi o poco manco. Pertanto ogni
comunicazione si chiuse tra la Sicilia e le misere regioni stanza e
preda dei Barbari. Al contrario mutaronsi poco o nulla i rapporti
materiali della Sicilia coi paesi rimasti al nome bizantino, e i morali
si strinsero ed accrebbero. E ciò intervenne per cagion dei molti
Italiani che si rifuggivano nelle isole; per la fratellanza che spirava
la comune oppressione di tutte le province occidentali dell'impero; e
sopratutto per procaccio dei papi, che ormai aveano acquistato
grandissimo séguito in Sicilia.

CAPITOLO II.
A creder le pie leggende locali, il cristianesimo ebbe precoci e
splendidi principii in Sicilia. San Pietro, dicono, s'affrettò a
mandarvi d'Antiochia (a. 44) i primi vescovi: Marciano a Siracusa,
Pancrazio a Taormina. Vennero pochi anni appresso, Berillo a
Catania, Libertino a Girgenti, Filippo a Palermo, Bacchilo a
Messina. I quali tutti perseguitati e persecutori, abbattono tempii
pagani, rintuzzano oracoli, uccidono dragoni; Marciano, ascoso nei
laberinti sotterranei della capitale, vi compone un altare con l'effigie
della Vergine ed è strangolato da' Giudei; Maria e Teja incontrano
alsì il martirio a Taormina per serbar castità; e presso lor tombe
s'innalza il primo monistero di donne dell'orbe cristiano. Cotesti
racconti, ancorchè accettati alla rinfusa nei libri della corte di Roma,
furono messi in forse pei principii del decimottavo secolo, da due
grandi eruditi siciliani, Giambattista Caruso e Giovanni di
Giovanni122. Agli argomenti loro parmi da aggiugnere, che gli Atti
122
Caruso, Memorie storiche di Sicilia, parte I, vol. II, lib. 5. Il volume che
contiene questo passo, uscì alla luce in Palermo il 1716, sotto il dominio della
casa di Savoia. Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, dissertazione 1, p. 405,
seg. Il primo volume di questa egregia opera, che non si continuò per cagion

85
degli Apostoli, narrando sì minutamente il viaggio di San Paolo a
Roma (a. 61 ) e com'egli fosse soprastato per tre dì a Siracusa123,
non fan parola, secondo lor costume, di correligionarii o amici
trovati in quella città; donde al certo non si confermano i fasti di
San Marciano. Volgendoci a un altro ordine di critica, basta
accennare che le tradizioni dette ripugnino ai fatti generali della
storia ecclesiastica del primo secolo; che ci si vegga la gerarchia,
non del primo ma del quinto o sesto secolo; anche passando sotto
silenzio quel monastero di suore e culto d'immagini. La ignoranza
poi di chi scrisse le leggende chiaro apparisce dalla poca o niuna
parte che vi si dà a San Paolo, massimo propagator del vangelo
nelle schiatte greca e latina.
Egli è probabile che non dall'Oriente ma da Roma venissero in
Sicilia i semi del cristianesimo; nè pria delle persecuzioni di
Nerone. Del rimanente si può accettare dalle leggende l'itinerario
della nuova fede nell'isola, correggendovi sì la cronologia e gli
episodii; perchè quel cammino non discorda dalle condizioni dei
Siciliani nel primo secolo, e perchè d'altronde si sa come le
agiografie contengan sempre, tra molta lega, un po' di buon metallo,
e rispettino sopra ogni altra cosa la verità delle notizie geografiche.
Il cristianesimo fu, in origine, l'incivilimento degli oppressi; ma non
tutti gli oppressi n'erano capaci allo stesso modo. Dovea precorrere
alla grossiera fede del volgo lo zelo di spiriti convinti o innamorati:
e però in Sicilia quelle speculazioni metafisiche, quei peregrini
principii di morale, quella tendenza d'associazione e di carità, non
poteano esser compresi che nelle città; dovean trovare accoglienza
tra i sottili ingegni greci, prima che nella gente latina più tenace alle
realità; doveano durare grandissima fatica a penetrar quella mista e
insalvatichita popolazione rurale. I pochi cristiani dell'isola, non

d'una acerba e sciocca persecuzione, fu stampato a Palermo il 1743. Dopo mezzo


secolo e più, il Di Gregorio (Introduzione al Diritto pubblico Siciliano) onorò la
memoria dello autore con una timida parola. Domenico Scinà l'ha poi vendicato
degnamente (Prospetto della Storia letteraria di Sicilia nel secolo XVIII), tom. I,
p. 260 e seg.
123
Acta Apostolorum, XXVIII, 12.

86
vinta per anco la forza d'inerzia delle masse, ebbero a combattere le
forze vive del principato, dell'aristocrazia e dei dotti; le quali,
vedendosi ormai minacciate dalla nuova potenza che sorgea nel
mondo, fecero ogni opera ad abbatterla. Indi per gran tratto del
terzo secolo e nei primi anni del quarto, scorreva in Sicilia il sangue
dei martiri. Si illustravano allora i nomi, rimasti sì popolari, di
Agata, Lucia, Ninfa, Euplio e molti altri; Lentini, culla un tempo
della rettorica greca, si rendea celebre per la eroica costanza e
numero dei cristiani. Nel medesimo tempo altri discendenti de'
Sicelioti si fortificavano nel culto nazionale di Cerere o di Venere
Ericina, con gli argomenti di Porfirio, capitato nell'isola per
osservare l'Etna e fattovisi a scrivere (verso il 270) un trattato a
difesa del paganesimo. Il filosofo Probo da Lilibeo, che visse in
quella età, e i molti discepoli ch'ebbe Porfirio nel suo lungo
soggiorno in Sicilia, combatterono insieme con lui questa guerra
neoplatonica contro il cristianesimo: e i sofismi loro tornarono vani
al par che i supplizii a fronte del principio morale dei novatori.
Posate le persecuzioni; succeduto alla tolleranza il favore del
governo, e al favore uno impetuoso zelo, la più parte dell'isola
confessava la fede di Cristo. I sanguinarii editti di Teodosio poi
accrebbero per forza il numero dei proseliti; fecero chiudere gli
ultimi tempii pagani; e pur non bastarono a sradicare le antiche
superstizioni della popolazione rurale. Infino agli ultimi anni del
sesto secolo, che appena si crederebbe, se ne scoprono le vestigia in
Sicilia, come in Sardegna; poichè le epistole di San Gregorio fan
parola di idolatri che il vescovo di Tindaro durasse fatica a
convertire, e di schiavi pagani, comperati dai Giudei di Catania per
iniziarli a lor setta124.
124
Quest'ultimo fatto si potrebbe spiegare altrimenti, supponendo
una tratta di schiavi stranieri; ma quel di Tindaro lascia pochissimo
dubbio, parlandosi espressamente di idolatri che non si voleano
convertire ed erano difesi dai potenti. Ciò mostra che si tratti di
contadini di Sicilia schiavi dei grandi proprietarii, e che il caso sia
simile a quel di Sardegna. Oltre i seguaci del paganesimo greco e

87
Insieme con la Chiesa Siciliana già adulta, emerse, ai tempi di
Costantino, la gerarchia. Ebbe al certo origine popolare in Sicilia
come per ogni luogo; ebbe stretto legame con la gerarchia di Roma
per la consuetudine che passava tra i due paesi: legame di fraternità
sotto la persecuzione, poi di riverenza, infine di soggezione, quando
l'ordine ecclesiastico s'informò dall'ordine amministrativo
dell'impero. Pertanto fin dai principii del quinto secolo veggiamo
chiaramente il vescovo di Roma far da metropolitano nell'isola;
consecrare i vescovi di quella; scrivere loro direttamente per gli
affari di disciplina; chiamarli a sinodo a Roma; dar licenza per la

romano, qualche famiglia balestrata in quelle provincie dalla servitù


prestava culto agli Angeli. Veggansi le epistole di S. Gregorio, lib.
II, n° 98, indiz. XI (a. 593), e lib. V, n° 132, indiz. XIV (a. 596); le
quali anco si leggono presso il Di Giovanni, Codex Siciliæ
Diplomaticus, numeri CII e CXXVII, pag. 142 e 175. Per la
missione in Sardegna riscontrinsi le epistole di San Gregorio, lib.
III, n° 23, 25 ec.
In Sardegna, oltre gli idolatri indigeni, v'era una popolazione detta
dei Barbaricini che si mantenea con le armi alla mano; coi quali si
trattava di far uno accordo, purchè si convertissero al cristianesimo.
V'ha su questo argomento altre epistole di San Gregorio, una delle
quali indirizzata al capo de' Barbaricini. Par che si tratti di Berberi,
come l'han pensato alcuni eruditi.
La tarda conversione degli abitanti delle campagne in Sicilia è
notata espressamente nel panegirico di San Pancrazio scritto nel IX
secolo, presso il Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tom. I, pag.
11; e nella raccolta dei Bollandisti, Acta Sanctorum, 3 aprile, pag.
237, seg.
In generale si riscontrino Pirro Sicilia Sacra, Gaetani, Di Giovanni, Caruso, nelle
opere citate, dal I al VI secolo, e il compendio del P. Aprile sì diligente a far
fascio d'ogni erba (Della Cronologia universale della Sicilia, pag. 442, seg.). Le
fonti della storia ecclesiastica di Sicilia nei primi tre secoli, per lo più sono i
menologi greci e i Mss. del Monastero di Cripta Ferrata e di quello del Salvatore
di Messina. Dei Mss. greci si sa quanto valgano. Gli altri puzzano spesso di XII e
XIII secolo.

88
dedicazione delle basiliche; delegare or uno or un altro all'esercizio
di sua giurisdizione nelle cause ecclesiastiche; provvedere alla
visitazione delle chiese: il quale ordinamento non fu mutato che
nell'ottavo secolo, come innanzi diremo. La riverenza del vescovo
di Roma in Sicilia s'accrebbe necessariamente a misura che quel
s'inalzava alla supremazia ecclesiastica in Occidente, e che i
conquisti dei Barbari lo rendevano protettore di tutto il clero
occidentale. E la Chiesa Siciliana seguì senza contrasto tutte le
dottrine e riti di Roma: fu provincia quieta ancorchè non ignorante;
ausiliare fedele della metropoli, ancorchè non vi sia nato alcuno
scrittore di primo ordine nè ortodosso nè eretico. Il clero non par sia
stato irreprensibile; del resto non numeroso nè turbolento: pochi al
certo i monaci, di regola forse basiliana; e vi si aggiunse una
colonia di Benedittini a Messina, se pur v'ha questo di vero in una
leggenda che ci occorrerà di esaminare nel quarto capitolo di questo
libro125.
Ma un altro vincolo fortissimo avvinse la Sicilia al papato in quei
bassi tempi; e fu la proprietà territoriale, avanzo dei vasti patrimonii
acquistati dai cittadini romani tra con le arti di Marcello e di Verre,
o raggranellati ora per gli sforzi d'onesta industria, or con l'usura.
Non prima fu lecito alle chiese di possedere beni, che lo zelo dei
nuovi convertiti, l'artifizio del clero datosi ad avviluppare le
coscienze in una rete inestricabile di peccata, il baratto dei perdoni,
l'assiduità al letto di morte sopra animi stemprati dalla infermità
agitati da tante paure, la confusione delle opere di pietà con le opere
di carità, la eloquenza e dottrina fatte retaggio esclusivo del
sacerdozio; tutti questi potenti motivi, moltiplicarono le donazioni e
i lasciti pii: e più dopo la occupazione dei Barbari, quando i beni
mondani de' vinti divennero sì precarii e sì rinvilirono. Così furono
largheggiati alle chiese italiane vasti tratti di terreno in Sicilia, che
nel linguaggio dei tempi si chiamavano fondi o masse. La Chiesa di
Milano nel sesto secolo possedea nell'isola un patrimonio di questa

125
Veggansi i particolari in Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus,
Dissertazioni II, III, IV.

89
fatta126; un altro n'ebbe la Chiesa di Ravenna 127; ed uno di gran
lunga più dovizioso la Chiesa di Roma, che d'altronde tenea tanti
altri poderi in tutta Italia e fuori. Al dir di papa Adriano I, il
patrimonio di Sicilia proveniva da donazioni non meno d'imperatori
che di privati. Vaste erano le possessioni e sì sparse in tutta l'isola,
principalmente presso Siracusa, Catania, Milazzo, Palermo,
Girgenti, che talvolta i vescovi di Roma preposero
all'amministrazione due rettori che sedeano a Siracusa e a Palermo,
come al tempo antico i questori nelle due province, siracusana e
lilibetana. Del rimanente un autore bizantino della fine dell'ottavo
secolo fa montare il ritratto in Sicilia e in Calabria a tre talenti e
mezzo d'oro128, classica e incerta cifra statistica. I poderi, come ogni
altro dell'isola, si coltivavano da conduttori e rustici, delle quali
condizioni di persone tratteremo a suo luogo; notando sol qui che la
Chiesa Romana riscuoteva una tassa nei matrimonii dei suoi rustici:
strano transatto tra l'antica ragione che avea negato il nome di
matrimonio ai congiugnimenti degli schiavi, e la nuova fede che
costituivali in sacramento. Molte altre orribili avanie anco pativano
i conduttori e rustici della Chiesa; avanie forse comuni a tutta la
popolazione rurale della Sicilia, e per lo più aggravate dalla
negligente amministrazione di mano morta, com'oggi ben si

126
Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. I, n° 80; presso il Di Giovanni, op. cit., si
trova al n° LXXIX, p. 125.
127
Tre diplomi in papiro dati il 444, risguardanti il maneggio del patrimonio di un
Lauricio in Sicilia e il danaro che il suo procuratore avea pagato ai conduttori
della Chiesa di Ravenna anche in Sicilia, presso Marini, I Papiri Diplomatici, n°
LXXIII. Divi Gregorii papæ, Epistolæ, presso Di Giovanni, op. cit., n° 211.
Agnelli, Liber Pontificalis, presso Muratori R. I., tom, II, Parte I, p. 143, ove si
dice di un Benedetto diacono, rettore del patrimonio della Chiesa Ravennate in
Sicilia. L'autore visse nella prima metà del IX secolo. Il fatto portato da Agnello
si riferisce alla metà del VII secolo, e prova la ricchezza di questo patrimonio e la
corruzione dei rettori.
128
Theophanis Chronographia, p. 631. Supponendo che si tratti di talenti attici e
ragionando il peso in oro puro, i tre talenti e mezzo varrebbero circa 300,000 lire
italiane; ragionando i prezzi delle cose, circa un milione d'oggi.

90
chiama129. Così fatti abusi furono mitigati da San Gregorio al tempo
di cui dicevamo in su la fine del capitolo precedente, ed al quale
convien che torni la narrazione.
La chiesa di Roma non si potea sottomettere di queto ai
Longobardi, flagello della gente latina, e, oltre a ciò, incapaci ad
occupare tutta la Penisola com'avean fatto i Goti. Donde, invece di
piaggiare i nuovi Barbari, dovea la Chiesa far opera a scacciarli con
le armi che fosse in poter suo di muovere, le bizantine cioè e le
italiane; dovea rinforzare le bizantine con la riputazione sua in Italia
e fuori. Sopratutto, non bastando l'impero a difendere Roma
minacciata dai Longobardi e dalla fame, dovea la Chiesa salvar
dassè sola la città eterna, le cui tradizioni politiche e religiose
faceano aspirare il vescovo al primato in Italia e in tutta cristianità.
Così fatto intento, consigliato al paro dalle passioni e dagli
interessi, ma debolmente procacciato dai papi nei primi venti anni
del conquisto longobardo, par che infiammasse l'animo di San
Gregorio. Uomo di illustre sangue, grande avere, illibati costumi,
indole gentile inchinata alla mestizia, dotta a mo' dei tempi
ancorchè nemico della letteratura classica che gli puzzava di
paganesimo, facile scrittore ancorchè inelegante, pronto parlatore,
posato e robusto ingegno, perseverante, saldo nei proponimenti,
pieghevole nei mezzi, operoso, insinuante, sottile ricercatore dei
fatti altrui, buon massaio dei denari ma non per sè stesso,
caritatevole e liberale con accorgimento anzi con astuzia, destro a
usare le altrui debolezze e fino gli altrui vizii, ma a buon fine; e
pieno il generoso petto di giustizia, di umanità, di religione e di zelo
per la Chiesa di Roma: i quali sentimenti diversi gli pareano un
solo; sì che in ultimo lo zelo ecclesiastico predominò e soffocò tutti
gli altri quando gli si opponeano. Gregorio, primo del nome tra i
papi, santo nel calendario romano e grande nella storia, fu specchio
di virtù cristiana con quelle macchie di ruggine connaturali per la
umana debolezza a tal virtù, le quali crescendo in certi tempi e in

129
Vedi le autorità citate dal Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus,
Dissertazioni V e VI.

91
certi luoghi hanno occupato e guasto tutto il terso metallo; e n'è nata
la bruttura che si chiama volgarmente gesuitismo. Gregorio, pria
che il pontificato lo abilitasse a mandar ad effetto il disegno politico
che accennai, disperando della vittoria, volle apparecchiare, com'e'
parmi, un sicuro asilo alla Chiesa ortodossa di Roma e d'Italia. La
virtù delle armate bizantine e il genio dei Longobardi, alieno
sempre dalle cose del mare, gli designarono a ciò la Sicilia.
Donde, lasciato appena l'uficio municipale di prefetto per cercare
più certa via di potenza in un chiostro di Roma (a. 575), Gregorio
fondava del proprio sette monasteri: uno in quella città e sei in
Sicilia. Tal disuguaglianza di liberalità non può apporsi a capriccio.
Sendo Gregorio nato a Roma, di famiglia romana e amorosissimo
dei concittadini suoi che viveano in necessità e angustie
spaventevoli, si è cercato di spiegare il fatto in varii modi. Altri ha
imaginato ch'ei possedesse beni nell'isola, il che non pare, nè
basterebbe. Altri che Silvia sua madre fosse siciliana130, il quale
supposto è gratuito al par che insufficiente a sciogliere l'enimma. A
me pare che il bandolo si trovi negli scritti di San Gregorio stesso.
Non prima esaltato al pontificato, lo veggiamo provvedere con
estrema sollecitudine che si raccogliessero a Messina i frati
calabresi testè cacciati in Sicilia da un novello romore d'armi
longobarde; i quali andavano per l'isola miseri e vagabondi131. Ora
ognun sa che più numero assai di Italiani s'era rifuggito in Sicilia
parecchi anni innanzi (a. 576), quando i Longobardi corsero le
province di mezzo della Penisola; nel quale scompiglio i chierici
recaron secoloro gli arredi delle chiese che poi non voleano
rendere132: e non è mestieri di citazioni per provare quanta povertà
straziasse tutti quegli esuli. Però San Gregorio non potea largire le
proprie facultà in opera più caritatevole, nè più utile all'Italia e a
Roma stessa, che di aprir loro un ospizio. Quella mente, in quella
età, non poteva imaginare altro ospizio che il monastero. I sei che

130
Pirro, Sicilia Sacra, p. 25, nota del D'Amico.
131
Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. I, n° 39, indiz. IX.
132
Ibid., lib. III, n° 15, VII, 27, VIII, 65.

92
ne fondò bastavano a ricettare, se non tutti gli esuli, almeno i più
degni e capaci a disciplinare e agguerrire questo nodo di frati che
combattessero su i dubbii confini della religione e della politica;
tenessero in Sicilia una propaganda romana contro la sede di
Costantinopoli, la quale attraea le popolazioni di linguaggio greco;
apparecchiassero séguito alla Chiesa di Roma, venendo alla dura
estremità di riparare in Sicilia cacciata dai Barbari; e potessero in
fine, secondo gli eventi, ripassare in terraferma a gridar la croce
contro gli Ariani. San Gregorio mentr'era privato, com'ei pare,
coltivò a questo medesimo intento l'amistà di ragguardevoli
famiglie siciliane133.
E quand'egli, sforzato o forse secondato dallo amor dei Romani,
salì alla cattedra di San Pietro, il disegno su la Sicilia si allargò,
come tutti gli altri della sua mente. Non è del mio subietto
discorrere di quanto momento fosse stato questo gran Romano sul
secol suo con le azioni e con gli scritti; nè ricorderò la conversione
di popoli lontani; la riverenza e terrore della religione aumentati;
l'autorità civile arrogatasi tra per la influenza che gli usi dei tempi
davano ai vescovi e per la lontananza e impotenza dell'impero
bizantino; il nome della sede romana esaltato; le arti assiduamente
adoperate a ciò or con animo sincero, or con malizia: la morale,
cioè, la filosofia, la teologia, la disciplina e ambito del clero, la
solenne liturgia, il grave canto, le leggende superstiziose; senza
lasciare intentato veruno argomento che potesse scuotere l'intelletto,
cattivare l'animo, illudere i sensi. L'effetto generale del pontificato
di San Gregorio fu che, aspirando al primato spirituale, ei si accostò
necessariamente alla dominazione temporale; dove più dove meno
secondo gli ostacoli. Così a Roma e nell'Italia di mezzo il patrocinio
suo con l'andare dei tempi divenne principato. Così in Sicilia
l'influenza ch'ei volle esercitare ebbe men libero campo, e
nondimeno lasciò tante vestigia che i papi, molti secoli appresso,
con quella loro prodigiosa tenacità, si provarono a mutarla anche in
signoria. L'influenza di San Gregorio in Sicilia passò al certo la più
133
Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. I, n° 3, indiz. IX.

93
larga misura che potesse darsi al primato ecclesiastico, e si volse a
due particolari intendimenti. Un fu lo antico, rincalzato ed esteso,
cioè di render la Sicilia cittadella del clero italiano, nella quale il
papa fosse padrone degli animi, poichè i corpi li tenea l'impero
bizantino. L'altro intendimento sembra di cattar favore, perchè
l'amministrazione del patrimonio papale, secondata dai governanti,
dagli ottimati e dall'universale, rendesse maggior frutto, da
sovvenirne largamente il popol di Roma, chè meglio si difendesse
dai Longobardi e sempre più s'affezionasse ai papi.
Quanto premessero a Gregorio le cose di Sicilia si scorge dalla
prima epistola che ci rimane di lui per la quale provvide a far
adunare ogni anno i vescovi dell'isola a Siracusa o Catania134.
Seguiron da presso un'altra ad amici suoi siciliani135, una che
confortava i vescovi siciliani a mescolarsi nelle cause secolari per
difendere i poveri136, e una che dettò profonde e diligenti riforme
nell'amministrazione del patrimonio137. Noveransi inoltre più di
dugento lettere toccanti la Sicilia, donde appariscono a chiunque i
disegni suoi, e la coscienza più sollecita dei disegni che scrupolosa
nei mezzi. Indi si vede che San Gregorio diè la caccia a qualche
avanzo di Pagani, e allettò al cristianesimo i Manichei e gli Ebrei
senza perseguitarli; anzi, quanto agli Ebrei, con una tolleranza
mondana al certo, non filosofica. Più rigore usò nelle materie
attenenti alla disciplina ecclesiastica; mostrando assai gelosia del
patriarca di Costantinopoli; commettendo apertamente ai vescovi di
tirare i popoli a passiva obbedienza verso di Roma; procacciando
appo i popoli la elezione di fidati suoi alle sedi vescovili. Intese di
più San Gregorio a riformare i costumi del clero secolare e regolare;
nel qual capo è notevole il divieto di ammettere le donne a voti
monastici avanti l'età di sessant'anni, poichè pare da più d'uno
134
Lib. I, ep. 1, indiz. IX.
135
Lib. I, ep. 3.
136
Epistola di San Gregorio del 16 marzo 591, presso Di Giovanni, Codex Siciliæ
Diplomaticus, LXVI, pag. 106, la quale manca nella edizione delle opere di San
Gregorio che ho per le mani.
137
Lib. I, ep. 42.

94
esempio che le suore giovani eran sedotte dai preti138. E sul punto
della morale pubblica, a prendere litteralmente le parole del
pontefice, l'opera sarebbe stata malagevolissima o piuttosto
disperata, arrivando la corruzione al segno, com'ei diceva, di
provocare il cielo a immediato sterminio della provincia: ma ce ne
consola l'interesse ed uso ch'egli avea di esagerare; e ne fornisce la
prova egli stesso, quando novera tra i peccati più abbominevoli i
matrimonii entro il settimo grado, che due righi di dispensa or
posson mutare d'incesto in sagramento. Quanto alla venalità degli
officiali, San Gregorio la biasimò e la alimentò, facendo lor porgere
le solite mance nei negozii del patrimonio. Con ciò patrocinava i
privati appo i magistrati, largiva limosine, sovveniva questo e
quello con pensioni, facea deporre il governatore Libertino che avea
vietato innanzi la esaltazione sua di portar grani di Sicilia a Roma;
al quale fu surrogato un Giustino, amico o ligio del papa. Più degno
uso fece San Gregorio del credito che avea a corte di
Costantinopoli, ricordando gli aggravii degli officiali dell'azienda
imperiale in Sicilia, Sardegna e Corsica, la disperata condizione di
quei popoli, e quanto errore fosse di esaurire le isole a furia di
balzelli, sperando con quel danaro carico di maladizioni alimentar la
guerra nella terraferma d'Italia. Infine la riforma
nell'amministrazione del patrimonio papale in Sicilia va lodata di
prudenza e umanità; poichè mirava ad accrescere la rendita levando
a un tempo il biasimo di molestare ingiustamente i possessori vicini
e di spolpare i proprii coloni. Noi ne discorreremo più partitamente
trattando della condizione degli abitatori delle campagne, e diremo
allora di uno errore di San Gregorio che qui vuolsi accennare. Il
quale fu che, in contraddizione coi principii del cristianesimo e con
le proprie azioni sue, mantenne in Sicilia la schiavitù, mentre

138
Questo provvedimento è contenuto nella epistola 11, del lib. III, indiz. XII. Si
è preteso che riguardasse la elezione delle badesse, non la professione delle suore,
e così anche pensa il Di Giovanni, op. cit., p. 154. Ma il testo di San Gregorio mi
par sì preciso da non dar luogo alle pie sofisticherie dei comentatori.

95
combatteala in terraferma, e limitò la libera scelta nei matrimonii
dei coloni139.
Tale è la somma delle cose operate da San Gregorio in Sicilia,
con ambito e benevolenza; e pur con grande avvantaggio dell'isola.
Ei conseguì lo effetto di trarne il danaro e il grano che aiutarono a
mantenere Roma. Conseguì parimenti una smisurata riputazione in
Sicilia per sè stesso e per la Chiesa di Roma; la fondazione di
grande numero di monasteri col danaro dei privati, stimolati dal suo
esempio; e l'aumento della dottrina e splendore della Chiesa
Siciliana. In fatti, nel corso del settimo secolo i monasteri di Sicilia
rivaleggiarono con quei di Roma per ricchezza, numero di frati e
onore degli studii; sopratutto del canto ch'era sì in voga dopo i
tempi di San Gregorio, e, com'e' pare, anco della sacra letteratura
greca che in Sicilia si potea coltivare meglio che a Roma. Pertanto
in quella età salivano al trono pontificale il pio Sant'Agatone (a.
678), il dotto e caritatevole San Leone II (a. 682), Conone (a. 686),
Sergio (a. 687), e poi Stefano IV (768), dei quali Conone educato in
Sicilia, e gli altri tutti siciliani. La Chiesa di Antiochia ebbe in quel
torno due patriarchi siciliani: Teofane abate del monastero di Baya
presso Siracusa (a. 681), e Costantino diacono della medesima città
(a. 683)140. Nè prima nè poi toccò alla Sicilia tanta partecipazione
nei negozii della Chiesa universale. L'impulso di civiltà, chè tale era
questo al certo nei bassi tempi, dato da San Gregorio, durò in Sicilia
fino al tempo che l'isola, tolta alla giurisdizione del papa, ubbidì al
patriarca di Costantinopoli. Ed allora il merito degli ecclesiastici
siciliani si fe' strada nella nuova metropoli: onde troviamo Metodio

139
Per togliere ai lettori e a me stesso la molestia di troppe citazioni, non mi
riferisco qui alla raccolta delle epistole di San Gregorio nella quale sono sparse
quelle che toccano la Sicilia, ma piuttosto alla scelta di queste ultime che si trova
presso il Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, numeri LX a CCLXVI. Vedi
anche la Diss. III del medesimo Di Giovanni; Pirro, Sicilia Sacra, nelle notizie
dei varii vescovadi dal 590 al 604; e Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tom. I,
p. 188 a 224.
140
Pirro, op. cit., p. 35 a 38; Gaetani, op. cit., tom. II, p. 1 a 4; Anastasius
Bibliothecarius, presso il Muratori R. I., tom. III, 142, 145, 147, 174.

96
siciliano salito a quella sede patriarcale; e Gregorio Asbesta
vescovo di Siracusa, San Giuseppe Innografo e altri Siciliani,
segnalarsi nelle aspre contenzioni religiose del nono secolo, sì come
innanzi dirassi.

CAPITOLO III.
Mentre San Gregorio gittava le prime fondamenta della potenza
temporale dei papi, un giovane pien di virtù meditava in Arabia su i
principii d'una novella religione. La gente ond'ei nacque era in via
d'uscire dalla barbarie. Aveva avuto, per vero, l'Arabia, in tempi
remotissimi, un periodo di potenza e anco d'incivilimento. Questi
s'erano sviluppati, a dispetto della natura, tra un clima ardente e un
suolo penuriosissimo d'acque, sì che v'era impossibile ogni
agricoltura, fuorchè in qualche lista di terreno; impossibile il
soggiorno di grosse e raccolte popolazioni; negato alla più parte
degli abitatori tutt'altra vita che la nomade. Donde non è maraviglia
se la potenza politica si dileguasse dall'Arabia forse in tempo assai
breve, come poi avvenne a quella fondata da Maometto. Dello
incivilimento rimase qualche avanzo, nelle sue sedi principali: a
settentrione cioè e tra ponente e mezzogiorno, ov'è più fecondo il
terreno e l'Oceano tempera l'aere e agevola il commercio.
Scomparvero fin anco quegli antichi popoli; dei quali altri emigrò
come i Fenicii, altri decadde e menomò, altri, sterminato per
violenta catastrofe, lasciò vaghe rimembranze di umana superbia, di
abominazioni, di provocata vendetta del cielo.
Così durante il corso delle due civiltà greca e romana, e infino al
settimo secolo dell'era volgare, l'Arabia fu poco tenuta in conto tra
le nazioni. In questo periodo veggiamo nella penisola due schiatte
principali. La più antica, detta di Kahtân dal vero o supposto
progenitore, forse il Iectan della Bibbia, occupava le parti
meridionali, ossia l'Arabia Felice degli antichi e principalmente
l'angolo tra ponente e mezzodì, il Iemen, come il chiamano gli

97
Arabi. Era schiatta mista, parlante due lingue, l'una delle quali
analoga all'arabo, e l'altra no; divisa tra la vita nomade e la vita
stabile: e le popolazioni stabili, dove date all'agricoltura, dove
raccolte in cittadi e intese al commercio, alla navigazione, ad
industrie cittadinesche; la parte più opulenta della nazione per molti
secoli soggetta dove a piccioli principi, dove ad unica monarchia, in
ultimo a due successive dominazioni straniere. Varie tribù erranti di
cotesta schiatta, dopo soggiorno più o men durevole nell'Arabia di
mezzo, come se lor indole le sforzasse ad accostarsi alla civiltà, se
ne andarono verso il settentrione. Quivi fondarono due Stati: l'uno
in Mesopotamia che si addimandò il reame di Hira, prima tributario,
poi provincia della Persia; l'altro presso la Siria. E questo ebbe per
sede Palmira; si illustrò coi nomi di Odenato e Zenobia; e, distrutta
Palmira, le tribù, senza soggiornare altrimenti in grosse città, furono
note sotto la appellazione di Ghassanidi: comandate alsì da un
principe; soggette sempre all'impero romano, il quale occupò anche
qualche città della Arabia settentrionale, Petrea, come la dissero i
dominatori. L'altra gente prese il nome da Adnân, tenuto
discendente di Ismaele. Più compatta della prole di Kahtân, parlava
unica lingua; tenea l'ingrato e vastissimo terreno delle regioni
centrali. Pastori nomadi o mercatanti di carovana, gli Ismaeliti non
ubbidirono a principi; vissero nella rozza franchigia della tribù,
anche que' ch'ebbero stanza ferma là dove il luogo ne concedea. Gli
stranieri non s'invogliarono giammai di soggiogarli; nè essi
l'avrebbero sofferto, se non che alcuna tribù riconobbe, di nome e
per poco, i monarchi del Iemen, o i Persiani.
Considerati così gli abitatori dell'Arabia secondo il legnaggio, i
due tronchi parranno dissimilissimi l'uno dall'altro; si comprenderà
perchè si oltraggiassero a vicenda; perchè la nimistà della schiatta
durasse fin sotto la potente unità dell'islamismo, fino alle remote
spiagge dell'Atlantico, ove le portò insieme la vittoria. Ma se si
riguardi ai costumi piuttosto che al sangue, si troveranno da una
banda i soli cittadini e agricoltori del Iemen, dall'altra il rimanente
di Kahtân e tutta Adnân; il grosso della nazione arabica, non ostante

98
l'antagonismo di schiatta, comparirà ridotto ad unica stampa dalla
vita nomade. La qual condizione sociale, immutabile come i deserti
ove errano le tribù, è notissima per tanti ricordi univoci, da Giobbe
infino ai viaggiatori d'oggidì: libri sacri, poesie, istorie, romanzi,
osservazioni di dotti europei. E vuolsi da noi studiare, perchè,
conoscendo gli ordini delle tribù, si spiegheranno agevolmente le
vicende della nazione arabica in tutti i tempi e in tutti i luoghi.
La tribù nomade, o, come dicon essi, beduina, che suonerebbe
appo noi campagnuola, è saldo corpo politico senz'altri legami che
del sangue, senz'altra sanzione penale che la vergogna e il timore
dell'altrui vendetta e rapacità. Quivi l'unità elementare delle società
non è l'individuo, ma sì la famiglia; nè risiede vera autorità che nel
capo della famiglia. Ei comanda assoluto ai figliuoli e a lor prole;
agli schiavi fatti in guerra o comperati; ai liberti che rimangono in
clientela; agli affidati, uomini stranieri e liberi venuti a porsi sotto la
sua protezione: ei li nutrisce, li difende dall'altrui violenza, e,
quando ne recassero ad altrui, ripara il torto o affronta la vendetta.
Nel numero e zelo de' suoi sta la forza del capo; la ricchezza nei
servigii loro, negli utensili e negli armenti: nè è mestieri autorità di
legge a mantenere insieme tal corpo.
Fuori dalla famiglia cominciano le associazioni: volontarie al
tutto; ma seguon anco la parentela. Così varie famiglie fanno un
circolo, come lo chiamano gli Arabi dall'uso di piantare in cerchio
lor tende; al quale è preposto uno sceikh, o diremmo noi anziano,
più tosto che eletto, designato senza forme di squittinio dalla
riputazione della persona e importanza della famiglia; talchè l'ufizio
spesso diviene ereditario per molte generazioni. È capo fittizio della
parentela: magistrato senza impero sopra i privati; senz'arbitrio nelle
cose comuni del circolo, nelle quali dee seguire il voto dei padri di
famiglia. Infine lo sceikh rappresenta, come oggi direbbesi, il
proprio circolo nella tribù. La quale unisce insieme varie parentele
di un medesimo legnaggio; ordinata alla sua volta come il circolo,
guidata da un capo, che vien su tra accordo e necessità come quello
del circolo, e regge le faccende comuni della tribù: mutare il campo,

99
far guerre o leghe; sempre con l'assentimento degli sceikhi,
fors'anco di altri potenti capi di famiglia. Suole altresì capitanare gli
armati della tribù nelle scorrerie e zuffe; ma talvolta, e più spesso
oggi che nei tempi andati, il condottiero è scelto a posta.
Tale è loro gerarchia, politica insieme e militare, chè mal si
distingue appo i Beduini. Ordini civili, che meritino il nome, non ve
n'ha. La forza mantiene la roba quando non vi basti il credito della
famiglia; e se la forza non può, il furto divien legittimo acquisto. Un
po' più efficace la guarentigia delle persone; perchè il circolo e la
tribù vi si sentono tenuti in onore, e più volentieri pigliano le armi a
vendicare il sangue, o contribuiscono con le facoltà a pagare il
prezzo di quello ch'abbia sparso alcun de' loro. Il quale compenso,
assurdo e iniquo in una civiltà, umano nella barbarie, è in uso da
antichissimi tempi in Arabia, come nel medio evo in Europa, ove il
portarono i nomadi del Settentrione; ma gli Arabi, men pazienti di
freno che non sieno mai stati i popoli germanici, non soleano
accettare il prezzo del sangue se non che esausti dopo lunga vicenda
di omicidii. Le multe per omicidio, troppo gravi ad una sola
famiglia, troppo fastidiose a tutta la tribù, si soglion fornire dal
circolo; il quale indi si direbbe società di assicurazione scambievole
nei misfatti: e può cacciar via gli uomini rotti; ond'essi rimangono
senza mallevadore nè protettore, veri sbanditi.
Sembra ancora che tra la famiglia e la tribù talvolta si trovino
parecchi gradi d'associazione intermediaria, per cagion della
disuguaglianza grandissima che v'ha nel numero degli uomini delle
tribù: chè se ne conta di poche centinaia, ovvero di migliaia, quasi
popolazione d'una provincia. Il corpo politico indipendente che noi
diciamo tribù, o, per prendere una similitudine molto ovvia, il ramo
staccato dall'albero, si appella in arabico con nomi diversi141,
141
Sce'b si chiama il tronco, come sarebbe Adnân; la prima diramazione si dice
Kabîla; la seconda, I'mâra; la terza, Bain; la quarta, Fekhid; la quinta, A'scîra; la
sesta, Fasîla: imperfette denominazioni e spesso confuse. Più comunemente la
tribù vien detta Kabîla. Ho seguíto in tal distinzione l'antica e pregevole opera di
Ibn-Abd-Rabbih (Kitâb-el-Ikd, Ms., tom. II, fol. 43 recto), che cita l'autorità di
Ibn-Kelbi.

100
secondo che si discosti più o meno dal tronco l'inforcatura ov'è
tagliato il ramo: poichè ogni frazione di tribù consanguinea si
accompagna alle altre o se ne spicca a suo piacimento nei liberi
campi del deserto.
Non è mestieri aggiugnere qual divario corra tra le famiglie in
punto di ricchezza; consistendo questa in proprietà mobili, e di più
mal difese contro gli uomini e peggio contro i fenomeni della
natura. La disuguaglianza del numero di uomini, avere, valore e
riputazione delle famiglie in una nazione che sta sempre in su la
guerra e osserva con tanta religione i legami del sangue, porta
necessariamente la nobiltà ereditaria. V'ha inoltre la riputazione di
nobiltà di una tribù, o circolo sopra gli altri, poichè tra loro quella
che noi diremmo cittadinanza si confonde con la parentela. La
forma di governo della tribù torna all'aristocrazia, ma larga;
temperandola il nome comune, la familiarità patriarcale, il bisogno
continuo che i grandi hanno della gente minuta, la agevolezza di
sottrarsi a un governo troppo duro, la semplicità e rozzezza
dell'ordinamento sociale. Perciò di rado si vede degenerare in
oligarchia e quasi mai in principato.
Gli ordini della tribù nomade informano le popolazioni stanziali,
nate quasi tutte da quella, poste in mezzo ai Beduini, costrette a
comporre con essi per danaro o sopportare le scorrerie, e avvezze a
chiamare in lor divisioni quegli agguerriti vicini. Le abitazioni fisse
dell'Arabia centrale sono stanze di commercio o ville di agricoltori;
concorronvi uomini di altre schiatte arabiche, concorronvi stranieri,
e il reggimento talvolta si riduce nelle mani di pochi e anco vi
prevale un solo: effetto necessario della proprietà più certa, delle
plebi vili e mescolate, della fatalità della umana natura che si
stempera quando sta in riposo. Nondimeno sendo le armi in mano
delle tribù libere, la servitù non può allignare troppo tra i cittadini.
Per le medesime cagioni le fattezze e costumi, ancorchè diversi,
pur in molti punti si rassomigliano. I figli del deserto hanno alta
statura, corpi robusti, asciutti, puri lineamenti della schiatta
caucasica in volto, barba non troppo folta, bellissimi denti, sguardo

101
sicuro, penetrante; avviluppati la persona in ampie vestimenta,
coperti la testa e il collo con bizzarra foggia di cuffia142, chè da loro
par ne venga tal voce; vanno alteri al portamento, maneggian destri
le armi, padroneggiano i cavalli, animale amico loro più che servo;
traggono vanto dalla rapina; impetuosi nell'ira, tenaci nell'odio,
ospitalissimi, leali alle promesse; ardenti nell'amore che merita il
nome; son contenti per lo più d'una sola moglie, la comprano, la
ripudiano, ma li ritiene di maltrattarla troppo il rispetto della
parentela di lei; nè tengon chiuse le donne, nè appo loro la gelosia
vieta le oneste brigate con donzelle, nè i teneri canti e i balli. Tra la
libertà della parola, l'uso alla guerra e la compagnia del sesso più
delicato, si comprende perchè i Beduini sentano sì altamente in
poesia. La gente delle città, meno schietta di sangue, anco per
cagion dei figliuoli che han da schiave negre, men forte, usa
turbanti e fogge di vestire più spedite e di pregio, e con ciò non pare
svelta nè elegante al par de' Beduini; unisce le passioni violente con
la frode; le tenere non conosce, ma la libidine; usa poligamia,
divorzii, concubine; sprezza e tiranneggia le femine, quando il può
senza pericolo; sempre le allontana da' ritrovi; cerca in vece gli
stravizzi: in ogni cosa mostra il predominio dei piaceri materiali
sopra quei dell'animo. Tali i cittadini i cui costumi più discordino
dai nomadi. Ma v'ha gradazioni tra gli uni e gli altri. Le popolazioni
mercatantesche, stando sempre in cammino, partecipano del valore
e sobrietà dei Beduini. Similmente le famiglie nobili delle città
amano a imitare i guerrieri della nazione; e alcune usano mandare a
balia i figliuoli appo le tribù del deserto, nelle quali sono educati
fino all'adolescenza. Son poi virtù comuni a tutta la schiatta arabica
la liberalità, l'ospitalità, il coraggio, l'audacia delle intraprese, la
perseveranza; vizii comuni la superstizione, la rapacità, la vendetta,
142
La Kufîa, Kefía o Keffieh, che si pronunzia in questi varii modi, è un fazzoletto
quadro legato intorno al capo con doppii giri di una funicella di pelo, e scende al
collo e alle spalle. Ordinariamente listato a verde e giallo, o tutto bianco. Il pro-
fessore Dozy, Dictionnaire des noms des vêtements ec., p. 394, sostiene che la
origine di questa voce sia italiana. Credo al contrario che gli Arabi l'abbian
portato in Italia.

102
la crudeltà; tutti han pronto ingegno, arguto parlare, inclinazione
alla eloquenza ed alla versificazione.
Riducendoci adesso al secolo che corse avanti la nascita di
Maometto, si ponga mente a ciò, che la popolazione stanziale era
meno frequente nell'Arabia di mezzo e men corrotta forse che in
oggi; che la popolazione nomade vivea a un di presso nelle
medesime condizioni presenti; e ch'entrambe riscoteansi insieme
per quell'influsso che par sorga di epoca in epoca a rinnovare le
nazioni. Lo suol rivelare al mondo il canto dei sommi poeti. Lo
ravvisa la storia, nell'alacrità e brio universale d'una generazione
innamorata d'ogni forma del bello; aspirante alle vie del sublime
vere o false che fossero; arrivata a squarciare qua e là la ruvida
scorza della barbarie che pur le resta addosso. La storia poi
facendosi a spiegar così fatto commovimento non può trovar
cagioni che appieno le soddisfacciano, e se ne sbriga con parole: ora
il moderno gergo di avvenimenti provvidenziali e uomini
provvidenziali, or la metafora della vita umana applicata bene o
male allo sviluppo dei popoli.
Varii fatti par ch'abbian portato tal periodo in Arabia. Prima
operò lentamente la industria dei mercatanti, i quali soleano
trasportare le derrate dell'Affrica meridionale alle ricche contrade
bagnate dallo Eufrate e dal Tigri, o quelle dell'India alla Siria; in
guisa che lor carovane tagliassero in croce la penisola arabica da
ponente a levante e dal mare di mezzogiorno a' confini del deserto a
settentrione. Andavano, com'eravi men penuria d'acqua, lungo le
due catene di montagne, l'una parallela143 al Mare Rosso, l'altra
perpendicolare che si spicca dalla prima nell'Hegiaz, provincia ove
sursero la Mecca e Medina. Verso il sesto secolo, sia per la
decadenza dell'impero romano, e però della navigazione nel Mare
Rosso ch'era stata aumentata dai Romani, sia per le vicende delle
guerre che difficultassero i traffichi in su l'Eufrate, il commercio
dell'India trovò più agevole che la via dei due golfi il lungo e
faticoso tragitto dell'Arabia. Si accrebbero indi i guadagni dei
143
Nell'originale "paralella". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

103
mercatanti dello Hegiaz, le comunicazioni con popoli più inciviliti,
la popolazione e attività del paese. Da un'altra mano gli Stati arabi
d'Hira e di Ghassan, intimamente uniti l'uno alla Persia, l'altro a
Costantinopoli, apprendeano molte parti di civiltà; e se ne spargea
qualche barlume nelle tribù dell'Arabia centrale, comunicanti con
Hira e Ghassan, e anco a dirittura coi due imperii, mescolandosi
talvolta nelle continue guerre di quelli. A mezzo il sesto secolo
accelerossi tal movimento per le relazioni di Giustiniano con
l'Abissinia, i conquisti di Cosroe Nuscirewan, e la venuta degli
Abissinii nel Iemen: poi il maraviglioso progredimento materiale
dello impero persiano, l'occupazione del Iemen, resero popolare in
tutta l'Arabia il nome dei Sassanidi e l'ammirazione di loro possanza
e civiltà. Ma da tempo più lontano varie colonie ebree avean
cominciato a venire in Arabia or fuggendo la dominazione straniera,
destino implacabile di lor sangue, or attirate da quel fino lor
sentimento dell'utilità commerciale. Gli Ebrei recavan seco loro il
genio dell'industria, i ricordi d'un antico incivilimento e le teorie
d'una religione spirituale; e, contro lor costume, davan opera a far
proseliti per mettere radice nel paese. Notabili anco furono i
progredimenti del cristianesimo. Non portava colonie, se non che
qualche mano di ostinati spinti dalle chiese ortodosse a cercare asilo
in estranei paesi. Ma scuoteano gli animi fortemente quel focoso
zelo dei missionarii, quei principii sì efficaci a dissodare ogni
terreno inculto, e la virtù della parola di che son lodati parecchi
Arabi cristiani; sopra ogni altro il vescovo Kos, vivuto alla fine del
sesto secolo e passato in proverbio come il più eloquente oratore
della nazione. Il cristianesimo si sparse molto più nella schiatta di
Kahtân e nelle due estremità della penisola, che nel centro e presso
la schiatta di Adnân.
Per tal modo nascea tra la rude aristocrazia degli Arabi una età
eroica che non impropriamente si è detta di cavalleria. Cominciano
ad apparire atti di magnanimità nella guerra; alcune tribù si danno
giorno e luogo al combattere; cavalieri escon dalle file a singolar
tenzone: nella rotta, nelle più crude nimistà, offron asilo inviolato ai

104
vinti le tende degli stessi vincitori; spesso in vece di mettere a morte
il nemico abbattuto, i forti gli tosano i capelli della fronte e lo
mandan via; le compensazioni degli omicidii, dopo provato il
valore, più volentieri s'accettano; è consentita una tregua di Dio in
certi tempi dell'anno. E allora le tribù nemiche seggono insieme al
ritrovo di Okâz e altri di minor fama, fiere annuali insieme e
accademie di poesia; quivi alcuna volta i guerrieri depongono le
armi presso un capo, perchè lor indole impetuosa abbia meno
incitamento alle risse; e quegli, vedendo non poter evitare la rissa,
la prima cosa si affretta a rendere le armi ai nemici della propria
tribù. Altrove quattro valorosi fanno tra loro un giuramento di
difendere gli oppressi dall'altrui violenza, senza guardare a persona;
e chiamasi dai nomi loro la lega dei Fodhûl: egregio esempio
imitato poscia alla Mecca. Così la forza cominciò a parteggiare pel
dritto. E, maggiore progredimento, si rinunziò tal volta all'uso della
forza: famiglie rivaleggianti nel principato delle tribù, anzichè
correre alle armi, venivano sostenendo lor nobiltà con dicerie e
versi; rimetteano il giudizio ad arbitri stranieri, come nelle corti
d'amore del medio evo.
Indi si vede che insieme coi costumi più generosi apparivano gli
albori della cultura intellettuale. Fa ritorno nell'Arabia centrale la
scrittura, che ormai vi si tenea com'arte ignota; ma pochissimi
l'apprendono; difficilmente si pratica su foglie di palma, liste di
cuoio, ed ossa scapolari de' montoni; si adopera a perpetuare
qualche atto pubblico, non a conservare le produzioni dell'ingegno;
le quali raccomandansi tuttavia alla memoria dei raccontatori,
prodigiosamente rafforzata dall'esercizio, e che parve per
lunghissimo tempo più comoda e sicura che le carte scritte. Avanti
questa età gli studii degli Arabi, se studio può dirsi il brancolare di
barbari ciechi dell'intelletto, non erano altro che le osservazioni
degli astri applicate empiricamente alla meteorologia e i ricordi
delle genealogie, e geste degli eroi. A poco a poco rischiarandosi ad
una medesima luce tutte le regioni intellettuali, la saviezza pratica si
affinò in filosofia morale; si cercò dietro le superstizioni qualche

105
idea astratta, fallace forse ma grande; si meditò su le origini e
arcane leggi del mondo; s'intese disputare di predestinazione, di
libero arbitrio; sursero scettici che rideansi dei numi di lor tribù e
della vita futura; si vide il poeta guerriero Imr-el-Kais gittare in
faccia all'idolo di Tebala le frecce con che gli avean fatto tirare la
sorte. Ed epicureggiavano più che niun altro i poeti: donde seguì un
bizzarro contrasto con la letteratura contemporanea dei Greci e
Latini, i quali, non sapendo ormai cavare una scintilla di genio da'
loro tesori letterarii, dettavano ponderose omelie, o scipiti inni sacri;
mentre gli Arabi ignari improvvisavano poesie spiranti la
indifferenza filosofica di Lucrezio e il sentimento estetico di Omero
e di Pindaro. Perchè prima degli altri esercizii dell'ingegno fiorì
appo di loro, come necessariamente dovea, la poesia. Ai poeti
classici dell'Arabia, nati in questo tempo, non s'agguagliò nessuno
delle età precedenti nè delle seguenti; nè la eccellenza dei pochi
imponea silenzio ai moltissimi mediocri. Per tutte le tende
suonavano in versi i vanti, così chiamarono la poesia che noi
diremmo eroica, vanti di nobil sangue, di valore, di liberalità; si
celebravano la bellezza, gli amori, le guerre, le cacce, le corse dei
cavalli; o la satira aguzzava il pungolo contro un uomo o una gente.
E cento e cento lingue andavan ripetendo i versi del poeta ch'avea il
grido: i grandi lo temeano sì da comperarne a caro prezzo il silenzio
o la lode; la tribù facea pubbliche feste quando saliva in fama il suo
cantore: alla accademia di Okâz il poema coronato, come noi lo
diremmo, si trascrive a caratteri d'oro, e si sospende alle pareti del
tempio.
Lo studio dell'eleganza nel dire, dalla poesia passò alla prosa; e
lo promossero le tenzoni di nobiltà alle quali abbiamo accennato, e i
sermoni degli Arabi cristiani; poichè il parlare in pubblico è la vera
e unica scuola dell'eloquenza. Seguì ancora il perfezionamento della
lingua e si sparse nell'universale un gusto per le bellezze della
parola, non raffinato al certo come quello degli Ateniesi nel secolo
di Demostene, ma forse non meno caldo e vivace. Così fatta
disposizione estetica degli Arabi favorì assai l'apostolato di

106
Maometto. Dagli esempii che ci avanzano, messo anche da parte il
Corano, par che i pregii della eloquenza arabica in quel tempo
fossero stati la purità della lingua, l'argutezza dei concetti, la
vivacità delle imagini, il laconismo. E gli Arabi si vantarono
sempre, tanto profonda era la loro ignoranza, di avanzare ogni altro
popolo nell'arte della parola!
Tali principii ebbe il risorgimento della schiatta arabica nel
secolo avanti Maometto. Al par che in tutte le età eroiche, la
barbarie non avea per anco ceduto il campo. Stolide millanterie,
brutali oltraggi provocano al sangue ad ogni piè sospinto; e il
sangue chiama alla vendetta. Il gioco e il vino non fan rossore agli
eroi. Appare stranissima intanto la contraddizione dei costumi nella
condizione delle donne, le quali or disputano ai sommi la palma
della poesia, reggono una casa col consiglio, e libere e adorate
spirano sentimenti da romanzo; or son avvilite da patti di
concubinaggio temporaneo, e talvolta venendo al mondo, si tengon
peso della famiglia, pericolo dell'onore di quella, e i padri le
seppelliscon vive. Allato a tanta abominazione, indovini e sibille;
consultati dalle tribù nelle più gravi fortune; presi per arbitri dalle
famiglie, anco quando ne va l'onore: l'universale crede al fascino,
adopra sortilegii; chi spia il volo degli uccelli, chi legge l'avvenire
intrecciando ramoscelli d'alberi, chi sorteggiando frecce senza
punta. Donde a leggere i ricordi dell'Arabia in questo tempo si
veggono confuse l'una con l'altra le fattezze dei periodi istorici
analoghi che meglio conosciamo: dei tempi omerici, dei primi
secoli di Roma e del medio evo. Alla cavalleria dell'Arabia non
mancarono infine nè la moltiplicità dei protettori celesti, nè una
città santa, nè il pellegrinaggio.
Le credenze religiose degli Arabi, ancorchè mal ferme, diverse
d'origine, e niente connesse tra loro, davano appicco a un
riformatore che imprendesse di ridurle ad unità. Primo avviamento a
questo la idea d'un nume supremo; antichissima tradizione semitica,
la quale appo gli Arabi mai non si dileguò, quantunque turbata dal
politeismo. Credeano a una vasta popolazione d'esseri invisibili

107
come i demonii degli antichi Greci, e chiamavanli Ginn che
risponde alla nostra voce genii. Correa tra loro altresì una vaga
speranza della immortalità dell'anima, non insegnata da metafisica
nè da teologia, ma dalla superstizione, scuola senza dispute: e
affermava che dal cerebro del trapassato escisse un gufo, il quale,
sendo stata violenta la morte, non cessasse fino alla vendetta di
mostrarsi ai parenti gridando: "ho sete, ho sete." In altre pratiche
superstiziose è agevole altresì di scoprire l'aspettativa della
risurrezione.
Molti erano gli obietti del culto: idoli di pietra o di legno in
sembianze umane, diversi nelle diverse genti; anco il sole, la luna,
le costellazioni, simboleggiate da idoli o no; credute angioli, o
com'essi diceano, le figliuole di Dio. Ma comechè amassero meglio
praticare con cotesti iddii minori, visibili e palpabili, più pronti ad
entrar nei particolari, ad ascoltare, a rispondere, ad aiutar l'uomo in
ogni aspro caso della vita, pure la unità del culto e del Dio era
serbata nella usanza antichissima che portava le tribù al
pellegrinaggio della Caaba, la quadrata, come suona tal voce; la
casa di Dio, come diceano gli Arabi anco avanti lo islamismo.
Vaghe tradizioni ne riferivano la riedificazione ad Abramo e ad
Ismaele; la prima fondazione a niuna mano mortale, poichè il rozzo
tempio scese intero dal cielo. In prova se ne mostrava, e mostrasi
tuttavia, un frammento: la pietra negra incastrata nell'angolo
orientale del santuario; e nulla toglie che la tradizione riferisca il
vero, e che la sacra pietra sia un pezzo di areolite o prodotto di
eruzioni vulcaniche, sapendosi che ne siano avvenute in varii tempi
alla Mecca. I mercatanti che fabbricavano questa città presso il
tempio, coltivarono la proficua superstizione; istituirono sacerdoti,
sagrifizii d'animali e riti di girare attorno la Caaba; e dettervi
albergo a tutti gli idoli delle tribù, sì che divenne il panteon della
nazione. E invano i cristiani abissinii, conquistatori del Iemen,
faceano venire artefici di Costantinopoli, edificavano di marmi la
splendida chiesa di Sana', mandavano la grida per invitar le tribù a
quel nuovo pellegrinaggio; e fin moveano con un esercito per

108
spiantare il rivale santuario della Mecca. Un miracolo lo salvò: fu
esterminato lo esercito cristiano, forse dal vajolo e dalla rosolia che
allor comparirono per la prima volta in Arabia. Il culto della Caaba
divenne pertanto vero legame nazionale della schiatta arabica, e ne
fe' come capitale la Mecca; i cui sacerdoti ordinarono un calendario
con le stesse denominazioni di mesi che son rimaste in uso appo i
Musulmani; regolarono la tregua annuale, primo passo all'unione
della schiatta. E vicendevolmente si ripercossero in quel centro
commerciale e religioso, le opinioni che germogliavano per tutta la
penisola, recate da culti stranieri: il giudaismo, cioè, e il
cristianesimo dei quali ho detto; e due di assai minor momento, cioè
il magismo professato da qualche tribù del Golfo Persico, e il
sabeismo, mistura d'una pretesa rivelazione e del culto de' corpi
celesti, credenza antichissima che dura fin oggi, ma par non abbia
giammai saputo accendere di zelo i settatori. Dond'egli avvenne che
mentre l'universale degli uomini aspirava al perfezionamento
morale e intellettuale appartenente ad età eroica, alcuni cittadini
della Mecca lo cercarono a dirittura nella religione. Verso la fine del
sesto secolo, un dì festivo in cui i Meccani tripudiavano intorno a
loro idoli, quattro spiriti eletti si trassero in disparte; compiansero
gli errori del volgo; diffidarono dei proprii ragionamenti, e si
promessero di andare per estranei paesi in traccia della vera fede
d'Abramo, Le non sospette tradizioni musulmane aggiungono che
que' savii in lor viaggi profondamente studiassero la Bibbia, il
Vangelo, il Talmud; conversassero coi dotti delle tradizioni
giudaica e cristiana: e che al fine tre di loro si facessero cristiani;
l'altro tornato in patria, perseguitato come novatore, spinto in esilio,
perisse dopo parecchi anni, mentre ansioso correa di nuovo alla
Mecca ad ascoltar la parola di Maometto.
Lo sviluppo di una nuova religione, apparecchiato da coteste
condizioni di cose, fu favorito dalla forma del reggimento politico
della Mecca. Questa città era stanza di parecchi rami della schiatta
di Adnân; tra i quali a poco a poco prevalse la tribù dei Koreisciti,
mercatanti, come si vuol che significhi il nome: e certo lo

109
meritavano per essere, più che niuna altra gente, solerti e
intraprendenti nei traffichi. Un Kossai, koreiscita, impadronitosi del
sacerdozio della Caaba, chiamò alla Mecca altri rami di sua tribù;
cacciò o assoggettò le vecchie genti, che di allora in poi veggiamo
sempre confederate o clienti di case koreiscite; e sì ridusse la
potestà politica in un consiglio degli anziani koreisciti detti Sâdât,
ossiano i signori144; aristocrazia, della quale ei si fe' capo, e come
principe della città. Chiara mi sembra la distinzione del potere
esecutivo e del legislativo nella rozza repubblica della Mecca;
sottile forma di reggimento, che parrà stranissima in uno Stato ove
non era potere giudiziario, nè magistrati civili o penali; ma le
costumanze universali delle tribù spiegano cotesta anomalia. Alla
morte di Kossai i discendenti di lui si contesero, e alfine si divisero
l'autorità esecutiva; talchè rimaneano ereditarii in poche famiglie gli
uficii pubblici: adunare il consiglio; dare i segni del comando ai
capitani in caso di guerra; riscuotere una contribuzione per sussidio
ai pellegrini poveri; soprantendere alla distribuzione delle acque;
tener le chiavi del tempio; promulgare il calendario, cosa di grave
momento, per cagion della tregua. Ma il reggimento non può dirsi
oligarchia, poichè, se gli uficii eran pochi e sovente cumulati, il
potere supremo risedea non in quelli ma nel consiglio. Durò tal
ordine politico finchè l'islamismo non lo ridusse a municipalità.
Negli ultimi anni intanto del sesto secolo, privati cittadini avean
riparato al difetto delle leggi penali, nella stessa guisa che avvenne
molti secoli appresso in Europa. Avendo un Koreiscita
sfacciatamente preso la roba d'un mercatante straniero, parecchi

144
Sâdât è plurale di plurale, come lo chiamano i grammatici arabi, della voce
notissima Sâid, signore. Con questo titolo significativo chiamansi i senatori della
Mecca di quel tempo nelle antiche tradizioni che raccolse Ibn-Zafer nel libro
intitolato Nogiabâ-'l-Ebnâ ossia dei «fanciulli egregii.» Se ne parla a proposito di
un aneddoto di Maometto fanciullo di dodici anni, entrato per caso nella sala del
consiglio, mentre vi si trattava un alto affare. Vedi il MS. di Parigi, Suppl. arabe
486, fol. 48 verso, e Supp. arabe 487..... La presente citazione si riferisca al solo
titolo che non credo sia dato da altro autore. La istituzione e autorità del consiglio
è nota.

110
generosi, e tra quelli si notava Maometto giovane di venticinque
anni, s'adunarono a convito, si ingaggiarono a proteggere i deboli,
cittadini o stranieri, liberi o schiavi, che ricevessero alcun torto alla
Mecca da uomini di qual famiglia che si fosse. Chiamaronsi la lega
dei Fodhûl, dal nome di quella più antica che ricordai di sopra: e
giurarono il patto, invocando l'Iddio supremo, e libando in giro una
coppa di acqua del sacro pozzo Zemzem. Questa era l'Arabia
innanzi la predicazione di Maometto, ai tempi dell'ignoranza come
opportunamente li nominarono i Musulmani.
Nacque Maometto (a. 570) della tribù koreiscita, della nobile
progenie di Kossai per Hascem, soprannome che in lingua nostra
suonerebbe Frangi-pane, e fu ricompensa data dai poveri al bisavolo
del Profeta. Unico figliuolo di giovane coppia, Maometto venne al
mondo dopo la morte del padre; perdè la madre a sei anni; poco
appresso, l'avol paterno: rimase orfanello e povero in tutela dello
zio Abu-Taleb, uomo di alto affare nella città. Secondo il costume,
era stato allevato in una tribù beduina, ove si avvezzò alla dura vita
del deserto; ma lo rimandarono a casa, credendolo indemoniato, per
insulti di epilessia. Fe' parecchi viaggi in Siria e altrove con le
carovane: e una ne condusse per conto di Khadigia, donna vedova e
giovane. Avvenente e ben complesso della persona; piacevole al
tratto; amato da tutti per probità, gravi costumi, saviezza e bel
parlare, gli altri diergli il nome di Amîn, che noi diremmo il fidato;
Khadigia invaghissene e lo sposò. Così nella tranquillità d'una
mediocre fortuna e nella pace domestica, ch'ei non prese altre mogli
mentr'ebbe Khadigia, visse infino ai quarant'anni, praticando le
virtù che appartengono ad uom privato, amando il raccoglimento e
la solitudine, senza far parlare altrimenti di sè. Non si rese chiaro
nelle armi fino alla guerra civile ch'egli accese, nella quale poi non
mostrossi gran capitano, e moltissimi l'avanzarono di fierezza e
valor nella mischia. Da meno di tutti gli altri Koreisciti, ch'eran pure
i più tristi poeti dell'Arabia, ei non fe' mai versi, non potea ripeterne
senza guastarli. Vantossi di non saper leggere nè scrivere; il che non
tolse ch'apprendesse le tradizioni nazionali e straniere, i principii

111
filosofici e i libri sacri d'altri popoli, che, tra quel fermento di
intelletti, gli tornavano da cento bocche diverse; tra gli altri da un
parente della moglie, ch'era de' quattro ricercatori della vera
religione d'Abramo.
Di quegli elementi disparati Maometto prese ciò che seppe e potè
adattare ai bisogni degli Arabi. Ne compose un sistema religioso e
politico, semplice, vasto, ottimo alla prova; poichè e rigenerò una
nazione più prontamente che non l'abbia mai fatto altra legge, e
contribuì non poco all'incivilimento d'una gran parte del genere
umano, e si regge tuttavia, nè par disposto a morire. Il disegno di tal
religione potrebbe adombrarsi in questo modo. Tolti da' Giudei e
dai Cristiani e racconci un po' all'arabica i dommi cardinali: Dio
uno, senza compagni, senza nè genitori nè figliuoli, vivente, eterno,
immateriale, onnipossente; creazione; gradazione di esseri
ragionevoli, angioli, demonii, genii, uomini; vita futura; giudizio
universale; premio ai credenti e virtuosi di soggiornare in eterno in
giardini lieti d'acque e di frutta, con modeste donzelle dagli occhi
negri; supplizio agli empii il fuoco sempiterno; predestinata da Dio
ogni cosa, fin chi crederebbe e chi no; ciò non ostante, come per
divin trastullo, messi gli uomini tra la tentazione perpetua di Satan,
e la voce dei profeti; profeti o apostoli tutti que' dell'antico
testamento e Gesù Cristo; rivelati il Pentateuco e il Vangelo; ultimo
e massimo apostolo Maometto; l'ultima edizione de' comandi del
Creatore scritta ab eterno; recitata a brani dall'angiolo Gabriele
all'apostolo illitterato, il quale venia ripetendo la rivelazione, e sì
chiamolla Korân, ossia lettura. Primissimo dovere degli uomini
verso Dio, la fede, anzi l'assoluto abbandono in lui; che ciò significa
islâm, e indi son detti musulmani i credenti, ossia abbandonati in
Dio: idea cristiana sotto nuovo nome. Il culto tra giudeo ed arabo:
frequenti preghiere, pellegrinaggio alla Mecca, digiuni, con una
lunga appendice di purificazioni da osservarsi e impurità da
scansarsi; raccomandandosi alla coscienza di ciascuno le pratiche
private, le pubbliche alla scambievole vigilanza de' cittadini. Perchè
non si istituì alcun ordine sacerdotale; le preghiere in comune

112
principiavansi dal capo politico o da ogni altro Musulmano; così
anche le concioni o sermoni pubblici; e gli stessi teologi che
nacquero ne' tempi posteriori non furono sacerdoti; i dervis e altre
fraterie non altro che accattoni e moderni. Chiamati i fedeli a servir
su la terra l'Onnipossente con la borsa e con la spada, pagando la
decima e combattendo i miscredenti: l'uno statuto giudaico; l'altro
effetto d'uno intendimento politico e della universale intolleranza
dell'età. Precetti divini anco erano i doveri degli uomini tra di loro,
dettati con forma e severità giudaica, ma ispirati dalla carità
cristiana. Infatti viene innanzi ogni altro e secondo solo alla fede,
espresso e positivo obbligo la limosina. La fratellanza tra i
Musulmani, il rispetto delle persone e delle proprietà: donde un
abbozzo di codice civile e penale, che ridusse a legge certa,
universale, applicabile dall'autorità pubblica, molte male osservate
costumanze degli Arabi; e sopra ogni altra la pena degli omicidii.
Con ciò il Profeta correggeva, ora per espresso divieto ora per
consiglio, i vizii più flagranti della società arabica: maledetto il
parricidio delle bambine; proscritti l'usura, il vino, il gioco; la
poligamia limitata; dati diritti di non lieve momento alle donne; la
schiavitù non abolita ma mitigata e menomata, consigliandosi, e in
molti casi comandandosi, la emancipazione. Da ogni parte si vede,
quando si risguardi all'ordinamento sociale, come i costumi
legassero le mani al legislatore, troppo superiore, non che alla sua
nazione, ma al suo secolo. Per lo contrario, quell'altissimo ingegno
non bastò ad improvvisare un dritto pubblico. Degli ordini politici
ei non lesse altro in cielo che la uguaglianza dei cittadini tra loro e
l'obbligo di ubbidire ciecamente a lui solo: principii stranieri
entrambi, fecondi dapprima; e poi l'uno svanì, l'altro portò alla
assurdità d'un governo assoluto senza legislatore. Questa è la
somma della nuova legge. La prova dell'autorità non potendo venir
che di lassù, Maometto con molta arte ne compose una sembianza.
A dimostrazione del suo dio allegò e ripetè senza stancarsi quanti
sapesse dei miracoli giudei e cristiani, i terrori delle tradizioni e
fenomeni dell'Arabia, la bellezza del creato, la pioggia, la

113
vegetazione, la vita, ogni beneficio che vien dalla natura, ogni
mistero che l'uomo non può spiegare. In attestato della propria
missione portò un sol prodigio: il divino stile, diceva egli, del
Corano, che intelletto d'uomo non sarebbe arrivato giammai a
comporre: e sì sfidava i miscredenti a imitarne una sola pagina.
Infatti quei che noi diciamo versi del Corano ei chiamò aiât ossia
miracoli. Gli altri prodigii che sogliono attribuire a Maometto i
Musulmani, e, più di loro, i Cristiani, nè egli mai li vantò, nè
entrano nella credenza di lor teologi: sono invenzioni di tempi più
bassi e di altre nazioni; sopratutto dei Persiani che portavano nello
islamismo lor fantasie indo-germaniche.
Le istituzioni musulmane, come ognun sa, furono dettate a poco
a poco, abrogate ed emendate secondo le circostanze: e gli Arabi si
beveano d'aver sì comodo legislatore, onnisciente e fallibile,
capriccioso ed eterno. Deriva la legge da due fonti: il Corano e la
tradizione, ossia le pratiche e parole di Maometto, notate dai
discepoli, delle quali noi abbiamo ricordi autentici e diligenti più
che non si possa aspettare in leggende religiose; emergendo non
dalle tenebre di una setta e d'una antichità remota, ma dalla storia di
pochi anni di persecuzione, che si voltò in trionfo vivendo i
persecutori e i perseguitati e ridivenuti fratelli. Quell'ampia raccolta,
ci attesta forse meglio che il Corano la sagacità, prudenza, umanità,
bontà e saviezza pratica del legislatore: ed è stata guida dei
Musulmani a private e pubbliche virtù. Il Corano, assai più studiato,
racchiude confusamente dommi, leggi generali, provvedimenti
secondo i casi, assiomi, parabole, e gli antichi racconti religiosi ai
quali accennai disopra, guasti per lo più da fallace memoria o presi
a sorgenti apocrife; e ciò tra ripetizioni, contraddizioni,
declamazioni; in stile vario, spezzato, incisivo, per lo più sublime,
talvolta monotono: un tutto incantevole agli uditori suoi, per la
proprietà e maneggio della lingua; e può ammirarsi anco da noi
ancorchè non di rado vi si desiderino l'accento, il gesto, le attualità
che doveano rendere sì efficaci quelle parole. Ma il prestigio che le
rendeva più efficaci era al certo l'universale movimento degli animi

114
in Arabia; era l'ebbrezza che spirano le idee dell'eterno e
dell'infinito assaggiate per la prima volta; era quel lampo di
giustizia che splendeva agli occhi degli uomini; il naturale amor
della uguaglianza improvvisamente soddisfatto; l'usura abolita;
l'assistenza reciproca sì efficacemente comandata; la gratitudine dei
deboli confortati; l'impeto della democrazia sorgente sotto il nome
del principato teocratico; il vasto campo che s'apriva anco alle
ambizioni dei grandi. Seguendo il cammino di quella fiamma che si
apprese a poco a poco e poi scoppiò in incendio, si vede come le
dessero alimento a volta a volta il sentimento religioso, il sociale e
il nazionale, poi tutti e tre uniti insieme.
Il Profeta incominciò a provarsi in casa. Supposta dapprima
(gennaio 611) una visione dell'angiolo Gabriele, dissene alla moglie
che gliene credette; poi ad Alî cugin suo, fanciullo di undici anni; a
Zeid liberto e figliuolo adottivo; e, in quarto, a quegli che fu dopo
lui il principale sostegno dell'islamismo, Abu-Bekr, personaggio di
grandissima saviezza. Allargandosi e prendendo forma, la nuova
religione fu derisa; e Maometto non se ne mosse: Cercò d'attirarsi i
plebei, poichè i grandi lo spregiavano. Desta la tarda gelosia del
politeismo, insospettita la nobiltà contro il novatore, fecero opera a
screditarlo; poi a vicenda lo minacciarono e vollero attirarselo con
promesse; gli fecero mille oltraggi; poser le mani addosso ai seguaci
più deboli; costrinserli a spatriare. Maometto ciò nondimeno
perseverava con mirabilissima costanza, coraggio e mansuetudine;
affidando la pericolante vita all'onor della parentela, la quale non lo
abbandonò ancor che fosse, la più parte, idolatra. Per virtù di
quell'unico legame della società arabica, poteron anco rimanere alla
Mecca pochi altri proseliti di nome. Dopo undici anni, crescendo
sempre i convertiti tra le persecuzioni, Maometto si attirò cittadini
di Iathrib che poi fu detta Medina; e mutò l'apostolato in congiura
contro la patria. Allora gli ottimati della Mecca, posposto ogni
rispetto, vollero spegnere il capo; e non potendolo fare con le leggi,
chè non ve n'erano, ogni casa patrizia mandò il suo sicario per
render comune il misfatto, e impossibile la vendetta della casa di

115
Hascem. Ma i costumi posero nuovo ostacolo non preveduto: la
schiera dei sicarii non osò violare l'asilo domestico del proscritto; si
appostò fuori la notte: ed egli accorgendosene fuggì.
La qual notte ebbero principio un pontificato, un impero ed
un'era. Questa si messe in uso diciassette anni appresso; quando, tra
gli ordini che si istituivano appo i Musulmani ad esempio delle
nazioni incivilite, parve fissare data comune agli atti pubblici,
smettendo le epoche diverse osservate in alcune parti dell'Arabia.
L'occasione è variamente riferita dai cronisti. Secondo alcuni la diè
Abu-Musa-el-Ascia'ri governator di Bassora, lagnandosi con Omar
califo, che gli avesse scritto lettere senza data. Mohammed-ibn-
Sirîn, citato da Ibn-el-Athîr, narra in vece che un Arabo
appresentatosi ad Omar gli dicesse: "Convien porre le date." "E che
è cotesto?" domandò Omar; e quegli: "È una usanza dei Barbari, i
quali scrivono: tal mese e tal anno". "Mi piace," replicò il califo:
"ponghiamo dunque le date." Onde, convocata la dieta dei
Musulmani, si disputò se fosse da prendere l'era di Alessandria, o
l'usanza dei Persiani che notavano gli anni di ciascun re; ovvero far
capo dalla missione di Maometto; o infine dalla hegira di lui, la
emigrazione cioè, la Separazione solenne, l'atto d'un uomo libero
che ripudia la società in cui sia vissuto. Fu vinto il partito della
hegira, e sanzionato da Omar; il quale contemplò quello evento
come divisione di due epoche: l'una d'errore, l'altra di verità.
Nondimeno si contò non dal giorno della fuga, ma dal principio
dell'anno in cui avvenne lasciandosi il calendario come stava, cioè
l'ordine antico dei mesi, e lunare il periodo dell'anno, come per
ignoranza lo volle Maometto145.
145
Ibn-el-Athîr, MS. C., tom. I, fol. 3 recto e verso.
Sul giorno della fuga, gli eruditi non son di accordo; ponendolo chi
in giugno e chi in settembre 622. Vedi Caussin, Essai sur l'histoire
des Arabes, tom. I, p. 16, seg.
In ogni modo il primo anno dell'egira cominciò il giovedì 15 luglio 622, secondo
gli astronomi arabi, e, secondo l'uso comune, il 16; contando gli astronomi il
principio della giornata da mezzodì, e i magistrati e il popolo dal tramonto del
sole. Vedi Sédillot, Manuel de Chronologie universelle, Paris 1830, tom. I, p.

116
Fuggissi il Profeta a Medina (622); adunò i discepoli; maneggiò
gli antichi e i nuovi da savio capo di parte; li infiammò,
promettendo bottino e paradiso; combattè con varia fortuna;
vincitore usò verso i nemici il più sovente con magnanimità; rade
volte inflessibile, rade volte assentì o comandò assassinii; fu sempre
giustissimo coi suoi partigiani; nè acquistò mai per sè stesso, ma per
loro. Alfine traendo mezz'Arabia sotto le insegne sue, gittò via la
maschera o forse il sincero proponimento della tolleranza che già gli
era parsa sì bella, quando i politeisti il perseguitavano, e i Giudei si
collegavano con essolui. E allora la repubblica aristocratica della
Mecca piegossi a patteggiare col cittadino ribelle (a. 628); poco
appresso a salutarlo principe, a confessarlo profeta, a sgomberar la
Caaba dei trecensessanta idoli, per renderla al culto del Dio uno (a.
630). Le tribù beduine, le città del Iemen, tutti gli Arabi fuorchè i
cristiani di Hira e di Ghassan ch'erano soggetti agli stranieri,
credettero, accettarono per interesse, o per forza si sottomessero;
abbattuti per ogni luogo i simulacri delle antiche divinità; sforzati a
tacersi, o a celebrare il Vincitore, i poeti che l'aveano nimicato sì
gagliardamente; accettati i luogotenenti suoi nelle province: la
nazione divenne una, e riconobbe un sol capo.
Questi intanto aspirava a cose maggiori. La religione rivelata dal
creatore del mondo non potea limitarsi a un sol popolo, e il popolo
arabo non potea restare in pace tra sè quando non portasse la guerra
in casa altrui. Pertanto il Profeta non avea mai fatto eccezione di
genti nè di luoghi alla legge di combattere gli infedeli tanto che si
convertissero o pagassero tributo. Quando gli parve certa la
sottomissione dell'Arabia, e prima anco di entrare alla Mecca, osò
mandare messaggi ai potenti della terra, richiedendoli di far
professione dell'islamismo. Dei quali il re di Persia, che si tenea
signor feudale dell'Arabia, lacerò le insolenti lettere; il che
intendendo Maometto, sclamava: «E così Dio laceri il suo reame:» e
a capo di dieci anni i Musulmani il fecero. Il re d'Abissinia non
parve ostile. Nè anco il maggior principe di cristianità, Eraclio, che

340, seg.

117
sedea sul trono di Costantinopoli; il quale onorò l'ambasciatore, e
lietamente udì la rivoluzione che s'operava in Arabia e tornava a
danno immediato dei Persiani. Pur egli si trovò esposto il primo agli
assalti de' Musulmani, poichè i suoi vassalli di Hira uccideano un
altro legato di Maometto, e questi immantinente mandava a farne
vendetta. Ancorchè oppressi dal numero alla battaglia di Muta (a.
629), gli Arabi addimostrarono in quello scontro la virtù che dovea
soggiogar tanta parte del mondo. Ucciso il capitano, dà di piglio alla
bandiera Gia'far fratello di Alî; gli è tronco un braccio, ed ei la
passa all'altra mano; mozzatagli anco questa, stringesi l'insegna al
petto coi moncherini, finchè spirò trafitto di cinquanta ferite:
nessuna a tergo. E fu rinnalzato il vessillo da un altro guerriero; e
ricondusse a Medina i gloriosi avanzi della strage.
Venuto a morte Maometto (giugno 632), mentre apprestava
nuovo esercito a vendicare la sconfitta di Muta, lasciò lo Stato in
sommo pericolo. Accesa la guerra esterna; falsi profeti sorgeano per
ogni luogo; le tribù nomadi ricusavano le decime, e scioglieansi dal
novello freno; la nobiltà cittadina vogliosa di ridividere l'Arabia in
cento e cento republichette; i discepoli dell'islamismo non scevri
d'ambizione, sospetti, e gare di parte: e, tra tutto ciò, non sapeasi chi
dovesse prender lo Stato; perchè o una frode domestica occultò il
pensiero del Profeta, o egli differì troppo a manifestarlo, ovvero, e
ciò mi pare più probabile, volle seppellir seco la profezia, e lasciare
il principato alla elezione, come portavano i costumi degli Arabi.
Ma lasciò anco il Profeta una generazione d'uomini che potea
trionfare di questi e di maggiori ostacoli. Maometto avea maturato
in veraci virtù i capricci cavallereschi della nazione. Mentre
allettava la comune degli uomini coi vili beni di questo mondo e gli
imaginarii godimenti dell'altro, avea spirato agli animi più puri lo
zelo della verità morale; ai più malinconici la fede; agli uni e agli
altri una stoica abnegazione; a tutti l'amor della patria; chè patria ed
islamismo furono per gli Arabi di quel tempo una sola idea. Io non
dirò altrimenti della magnanimità di tanti compagni del Profeta,
perch'è nota a tutti, e i nomi di Abu-Bekr, Omar, Alî, Khâled, Sa'd-

118
ibn-abi-Wakkas agguaglian forse que' degli Aristidi, de' Cincinnati
e degli Scipioni. De' sentimenti che prevaleano in tutta la nazione
voglio addurre uno esempio solo; e son le parole d'un Beduino,
diligentemente conservate dalla tradizione, e trascritte da Tabari,
che fu il primo che dettasse gli annali dell'islamismo. Tre anni
appresso la morte del Profeta, trentamila Arabi afforzandosi con
sapienti mosse tra i canali dell'Eufrate inferiore, fronteggiavano
centomila Persiani condotti dal più sperimentato capitano della
Persia. Avanti di venire alla decisiva battaglia di Cadesia, aveano
gli Arabi mandato oratori a Iezdegerd ultimo re sassanida: il quale,
sentendo parlar da conquistatori que' ch'era avvezzo a risguardar
come vassalli, sdegnosamente li domandò qual delirio spingesse gli
Arabi a provocare le armi della Persia; gli Arabi, dicea, poveri e
divisi e ignoranti e barbari più che niun altro popolo della terra. Se
disperata miseria li faceva uscir da' deserti, aggiunse il re, ei li
soccorrerebbe di vitto e di vestimento, lor darebbe alcun
governatore pien di bontà. A che tacendo gli altri per antica
riverenza, un Beduino, Mogheira per nome, così parlò: "È proprio
di gentiluomo, gli disse, rispettare la nobiltà del sangue in altrui: e
sappi, o re, che tal riguardo solo, non rossore, non paura, fa sì
dubbiosi al risponderti cotesti compagni miei, che son nati delle
case più illustri dell'Arabia. Ma esporrò io ciò ch'essi tacciono.
Dicevi il vero, o re, poveri fummo, se poveri mai v'ebbe al mondo:
giacevamo su la ignuda terra; vestivamo pel di cameli e lane, filati
da noi stessi; la fame ci portò sovente a mangiar le cavallette e i
rettili del deserto; perchè le figliuole non scemassero il cibo ai
maschi, i padri vive le seppelliano. Idolatri e ignoranti, ci
scannavamo l'un l'altro: e questa era la religione nostra. Quando,
mosso a pietà, Iddio ci mandò un profeta, uom noto, di famiglia
notissima, di tribù ch'è la prima tra gli Arabi. Ei ci guidò alla vera
religione, e noi credemmo finchè Iddio non gli diè ragione con
illuminare le nostre menti. Ed ora che seguiamo i comandamenti di
Dio, siam popol nuovo; siam diversi da quegli Arabi di pria: lo
sappia il mondo! Chiamate gli uomini al mio culto, ci ha detto

119
Iddio: chi assente, avrà i vostri dritti e doveri; sopra cui ricusa
ponete un tributo; se il dà, proteggetelo; se no, combattete
contr'esso: e a' vostri morti in battaglia è serbato il paradiso, ai
sopravviventi la vittoria. Scegli dunque, o re: paga il tributo con
umiltà, o t'apparecchia a combattere."
Pria che la nazione potesse levarsi a tant'orgoglio, ebbe a
sostenere la breve ma durissima prova, alla quale accennai, e che fu
vinta dai valorosi compagni del Profeta; indi riveriti a ragione come
santi dell'islamismo. Prevengon essi la guerra civile con senno non
minor che l'ardire; esaltano al sommo uficio Abu-Bekr: e questi con
potente mano ridusse alla unità politica e religiosa le tribù e cittadi
che tentavano di spiccarsene; e sì unite, tra per amore e per forza,
pria che potessero pensare ad altre novità, lanciolle sopra i due
imperi bizantino e sassanida, e le inebriò di vittorie (632- 634).
Abu-Bekr designò a successore Omar, che mantenne l'unità; diè
principio agli ordini pubblici; estese i conquisti (634-644), e nominò
alla sua morte sei elettori, i quali scelsero Othman. Sotto costui il
corso delle armi musulmane non si frenò perchè non si potea: la
pace interna fu distrutta; ed egli espiò col sangue la parte ch'ebbe a
tale scompiglio. Succedeagli Alî per elezione fieramente
contrastata, onde divampò quella guerra civile che esaltava al trono
Mo'âwia-ibn-abi-Sofiân, capitano dell'esercito di Siria, e rendeva
ereditario il principato in casa Omeiade. Ripigliavasi allora la
guerra straniera, sospesa alquanto per cagion della guerra civile: i
limiti dell'impero estesi entro dieci anni dopo la morte di Maometto
infino alla Persia, alla Siria e all'Egitto, arrivarono, entro un secolo,
allo stretto di Gibilterra dalla parte di ponente; dalla parte di
settentrione e di levante alla Tartaria e alla valle dell'Indo. Ma pria
di discorrere per qual modo quelle terribili armi incominciassero a
infestare la Sicilia, è mestieri particolareggiare le mutazioni
politiche e sociali che lo islamismo portò nella nazione arabica146.
146
Parendomi inutile e noiosissimo di far citazioni in un quadro
generale, mi contenterò di ricordare ai lettori le opere principali da
consultarsi su la storia degli Arabi avanti l'islamismo e nei primi

120
Il Profeta, fatto principe, non volle o non potè rendere gli uomini
uguali in società, com'eranlo per natura, diceva egli, al par dei denti
d'un pettine, senza distinzione di re nè di vassalli147. Lasciò le donne
inferiori nei dritti civili; gli schiavi affidati alla carità religiosa più
tosto che a leggi espresse: e quanto agli infedeli non è uopo dire che
li volle sudditi dei credenti. Ma tra i Musulmani liberi pose
uguaglianza assoluta: la nobiltà, che avea governato gli Arabi da
tempi immemorabili e contrastato il Profeta finchè potè, non ebbe
dritti, non ebbe nome nella legge. I congiunti di Maometto, a pro
dei quali parrebbe fatta un'eccezione, furon chiamati soltanto a
partecipare insieme con lui, con gli orfanelli, co' poveri e coi
viandanti, alla quinta parte del bottino; risguardati perciò piuttosto
indigenti privilegiati che ottimati della nazione. Morto poi
Maometto, e tenuto lo Stato per dodici anni da Abu-Bekr e Omar,
intrinsechi e vecchi compagni che appieno conosceano i suoi
intendimenti e con somma religione li applicarono e svilupparono,
la nobiltà li ebbe inflessibili avversarii. Abu-Bekr, quanto il potè in
un brevissimo regno e agitato, volle scompartire ogni acquisto della
repubblica musulmana a parti uguali tra' credenti. Omar tenne altro

tempi di quello. Sono: il Corano; le Tradizioni di Maometto, delle


quali la raccolta più compiuta che si trovi data alle stampe è il
Mishkat-ul-Masabih, versione inglese del capitano Matthews;
Pococke, Specimen historiæ Arabum; Universal history, an-
cient[Nell'originale "ancien". Nota per l'edizione elettronica Manu-
zio] part, tom. XVIII., modern part, tom. I; Caussin, Essai sur l'his-
toire des Arabes.
L'ambasceria degli Arabi a Iezdegerd si legge in Tabari, Annales regum, edizione
del Kosegarten, tom. II, p. 274 a 281, e se ne trova un compendio nel tom. III di
M. Caussin, p. 474, seg., e una versione francese di M. de Slane, Journal
Asiatique 1839, tom. VII, pag. 376, seg. Sarebbe superfluo lo avvertire ch'io non
ho composto il discorso di Mogheira, ma soltanto abbreviatolo, lasciandovi per lo
più le parole dell'originale.
147
Hariri, Mecamêt, ediz. di M. de Sacy, p. 34, edizione di MM. Reinaud e
Derenbourg, p. 39. Questa tradizione è data nel Commentario. Veggasi anche lo
aneddoto raccontato da M. Caussin, Essai, tom. III, p. 507.

121
modo. I conquisti della Persia, della Siria e dell'Egitto gli dierono
abilità a far uno ordinamento più regolare e vasto d'assai; nel quale
ebbe a scorta gli uficii d'azienda sassanidi e romani, e per sorte da
dividere le immense entrate delle città datesi a patti, che intere
cadeano nell'erario pubblico, non toccando ai combattenti altro che
quattro quinti della preda fatta con la spada alla mano. Fe'
descrivere dunque Omar, l'anno quindici dell'egira (636), nei
registri o divani, come li chiamarono con voce persiana, da una
parte le entrate pubbliche, dall'altra tutti i Musulmani. L'ordine della
lista fu che la schiatta di Adnân, donde nacque il Profeta, fosse
posta innanzi la schiatta di Kahtân; e nella prima i Koreisciti
innanzi le altre tribù; e la casa di Hascem innanzi tutt'altra dei
Koreisciti; senza eccezione, a favor del principe, il quale fattisi
mostrare i ruoli che aveano steso, e trovandovisi il primo, «Non
questo, disse, non questo io vi comandava: mettete Omar là dove
Iddio l'ha messo.» Così la sua e le altre famiglie koreiscite preser
grado secondo la consanguineità che legavale a quella del Profeta; il
rimanente delle tribù e parentele di Adnân, secondo l'anteriorità nel
professare l'islamismo; e lo stesso nelle tribù di Kahtân. Tutti
parteciparono delle entrate pubbliche, patrimonio comune dei
Musulmani, secondo i precetti di Maometto, che poi rimasero
lettera morta ne' libri di dritto, ma rigorosamente osservaronsi in
quei primi tempi in una società democratica e piena di fervore
religioso. Inoltre è da considerare che sotto i califfi Abbassidi, e
fors'anco prima sotto gli Omeiadi, noverandosi la popolazione
musulmana a milioni, e sendo sparsa su la metà del mondo
conosciuto, i divani divennero necessariamente ruoli di milizie e di
impiegati, retribuiti più o meno a piacer del padrone. Ma sotto
Omar, potendo tuttavia contarsi i Musulmani a migliaia, tutti Arabi
e soldati dell'islâm o famiglie de' soldati, il precetto con men
difficoltà mandossi ad esecuzione. Ognuno ebbe dunque in sorte
una provvisione sul tesoro pubblico, ma disuguale, variando la
somma in ragion composta del merito religioso, e dei bisogni e
valore di ciascuno. Alle vedove del Profeta, madri dei Credenti,

122
come le chiamavano, diè Omar dodicimila o diecimila dirhem148
all'anno; settemila ne toccò Abbâs zio di Maometto; cinquemila
ciascun fuggitivo della Mecca che avesse combattuto alla giornata
di Bedr, la prima vinta da' Musulmani; quattromila il rimanente dei
soldati di Bedr; e scendeasi gradatamente secondo l'anzianità nel
servigio militare, con la sola eccezione che si ragionava sempre la
quota del cavaliere più che quella del fante, e davasi un caposoldo
ai più valorosi. Quanto agli uomini di Kahtân che sì virtuosamente
combatteano allora in Siria, ebbero, come meno anziani in
islamismo, duemila, mille, cinquecento, e fino a trecento dirhem.
Alle donne furono assegnate pensioni proporzionali a quelle dei
capi di lor famiglie, da cinquecento dirhem che n'ebbero quelle de'
guerrieri di Bedr, infino a dugento. Alle altre donne e a tutti i
fanciulli, e infine anco ai lattanti, cento dirhem. Gli schiavi non
furono esclusi. Omar non volle per sè che il parco mantenimento
suo e della famiglia: domandollo ai cittadini con dir che un tempo
avea fatto il mercatante, ma avea dovuto smettere per amor dei
negozii pubblici; e ottenuta la provvisione, fieramente si adirò una
volta che gli amici tramarono di accrescergliela. Ma verso gli altri
fu prodigo sì che non lasciò mai un obolo nel tesoro; e consigliato
di serbar qualche somma per lo avvenire: «No» rispose; «sarebbe
una tentazione pei miei successori.» Il valsente delle pensioni si diè
ai poveri in derrate, ritraendosi che nelle alte regioni dell'Arabia
centrale fu dispensata da principio una porzione di vittovaglie a
148
Dirhem è corruzione della voce greca e latina drachma. Significa appo gli
Arabi un peso e una moneta di argento. Il valore della moneta così chiamata è
stato, come sempre occorre, vario ne' varii tempi e luoghi: spesso moneta di
conto, ma non effettiva. I dirhem che abbiamo dei califfi, ancorchè in tempi
posteriori ad Omar, tornano in peso d'argento a sessanta centesimi di lira italiana
più o meno. Parmi che questo sia stato anco il valore che s'intendea sotto la
denominazione di dirhem al tempo di Omar. Si può supporre che una giornata di
lavoro presso i popoli stanziali di Arabia tornasse in quel tempo circa a due
dirhem; poichè lo schiavo persiano il quale per vendetta uccise quel gran
principe, sendo ito a chiedergli giustizia contro il proprio padrone che l'obbligava
a pagare due dirhem al giorno, Omar gli avea risposto che mettendo su un molino
a vento, avrebbe potuto vivere e soddisfare quel tributo.

123
ciascuno; poi due misure di farina ogni mese, quanto Omar avea
ragionato il bisogno d'un uomo, facendo nudrire sessanta poveri per
certo spazio di tempo. Crescendo alfine la liberalità del governo, e
la delicatezza d'un popolo che pochi anni innanzi s'era cibato ed or è
tornato a cibarsi di datteri e cavallette, si diè pane in luogo di farina;
poi del pane condito con olio; poi vi si aggiunse un pezzo di cacio;
poi si fornirono due pasti al dì: mattina e sera149. Così fatti
particolari non mi sono sembrati indegni della storia, nè sì minuti
che non meritassero luogo in un abbozzo di quadro generale, perchè
valgon meglio che i giudizii degli scrittori a mostrare il súbito e
maraviglioso mutamento della società arabica in quel tempo, e la
prima forma che prese. Fu democrazia sociale come oggi si direbbe,
la quale forma ben rispondeva ai principii fondamentali
dell'islamismo: uguaglianza, e fratellanza. E si vide, con esempio
avventuratamente raro nel mondo, un popolo re nudrito per tutti i
deserti dell'Arabia a spese dei vinti, come l'altro popolo re l'era stato
entro le mura di Roma.
Pur nascea, come ognuno se ne accorge, insieme con la novella
società una gerarchia di merito civile e religioso e una disuguale
partecipazione nei comodi della repubblica; le quali condizioni
cominciarono a costituire nuov'ordine di ottimati, naturalmente
opposto all'antica nobiltà. Omar, tra per necessità e disegno, diè un
altro crollo all'antica nobiltà, mutando alquanto le associazioni per
la guarentigia del sangue, prima base della società arabica; poichè
volle che si tenessero per mallevadori, akila come diceano gli
149
Mawerdi, Ahkâm Sultânîia, lib. XVIII, ediz. Enger, p. 345 seg. Ibn-el-Athîr,
MS. C, tom. II, fol. 93, seg., sotto l'anno 15. Ibn-Khaldûn, Parte II, MS. di Parigi,
Suppl. Arabe, 742 quinquies, tom. II, fol. 171 recto. Ho seguíto a preferenza
Mawerdi, antico e rinomato scrittore di dritto pubblico. Le cifre son date con
qualche divario da Ibn-el-Athîr e dagli altri compilatori moderni. Ma si ricava da
tutti: 1° Che fossero scritti nei divani anche i fanciulli, le donne e gli schiavi; 2°
Che vi fosse un minimum come noi diremmo, al quale avea dritto ogni persona di
qualunque sesso, età e condizione. Perciò le pensioni più grosse debbono
riguardarsi in parte come retribuzione militare, o riconoscenza di meriti
particolari, e in parte come quota dei guadagni comuni, appartenente ad ogni
associato nella fraternità musulmana.

124
Arabi, non più gli uomini di una medesima parentela
esclusivamente, ma gli ascritti nel medesimo divano, i quali erano
ormai diversi dai primi, quando parte di molte tribù era rimasa in
patria, l'altra stanziava con l'esercito nei paesi vinti, e spesso
componeasi d'uomini raggranellati di varie genti.
Nondimeno l'elemento primitivo della società arabica trionfò del
silenzio di Maometto e dei divani di Omar. Impossibil era di
spezzare a un tratto gli antichissimi legami delle parentele;
impossibile di condurre gli Arabi alla guerra altrimenti che per
tribù; impossibile di dar loro capi appartenenti ad altre famiglie,
fuorchè il condottiero supremo dell'esercito. Le brigate dunque, i
reggimenti, i battaglioni, le compagnie, a modo nostro di dire,
rimasero ordinate per parentele con poche eccezioni; capitanaronle
gli antichi nobili: e tra sì rapidi conquisti il bottino accrebbe l'avere
delle famiglie; i convertiti stranieri ne accrebbero il numero,
ponendosi sotto la protezione degli uomini di maggior séguito, e
divenendo clienti, o come gli Arabi diceano, maula. Così la nobiltà
crescendo di potenza per cagion della guerra, più prestamente che
non diminuisse per l'ordinamento delle pensioni d'Omar, ruppe,
poco appresso la costui morte, il freno della legge. L'antagonismo
delle schiatte aiutò il movimento; poichè i figli di Kahtân rifatti
guerrieri e prevalenti di numero nell'esercito di Siria, non vollero
restar da meno nel grado sociale e nella distribuzione dei premii. Fu
offerta loro la occasione da M'oâwia capo della casa Omeiade, il
quale capitanava quell'esercito e per comunanza di sangue e
d'interessi trovava partigiani tra l'antica nobiltà della schiatta di
Adnân, mentre l'ambizione lo piegava a favorire la rivale stirpe di
Kahtân. Di cotesti elementi nacque una fazione che contese il poter
dello Stato alla famiglia ed a' compagni del Profeta, che è a dire al
novello ordine di ottimati religiosi. Cominciò la lotta in corte appo
Othman, che fu ucciso dai nuovi ottimati, perch'ei favoriva la parte
di Mo'âwia. Esaltato da loro Alî, gli Omeiadi vennero alle armi;
trionfarono degli avversarii che erano divisi tra loro per le
pretensioni della casa d'Alî; e così fu reso ereditario il principato in

125
casa Omeiade. Cotesta rivoluzione scompose l'ordinamento degli
ottimati religiosi, e in breve tempo li ridusse a meri dottori in legge;
dal quale grado inferiore dopo due secoli tentarono di risorgere i
discepoli loro. Da un'altra mano mentre combattean le due
aristocrazie, la democrazia surse impetuosa contro di entrambe, ma
penò tre secoli a vincere e non potè usar la vittoria. Io terrò discorso
a luogo più opportuno di cotesti partigiani della ragione contro
l'autorità religiosa e politica. Similmente aspetterò che occorra negli
avvenimenti la influenza politica dei giuristi, per descriverne i
motivi e i limiti. Per ora basti all'argomento nostro di notare le tre
divisioni ch'erano nate nella società musulmana, le quali tendeano
all'aristocrazia religiosa, all'aristocrazia militare, e alla democrazia;
mentre il principato correva in fretta verso la tirannide.
L'autorità dei primi successori di Maometto, sendo quella
medesima del Profeta, senza la profezia, restò molto indeterminata.
Solamente si sentiva alla grossa, che i Musulmani non apparteneano
ad alcun uomo, ancorchè dovessero ubbidire a un capo per lo
comun bene spirituale e temporale: cioè che componeano una
repubblica sotto un supremo magistrato che tenesse insieme del
pontefice e del capo di tribù. Questa par sia stata la mente di Abu-
Bekr e di Omar, quando, lasciate da canto le appellazioni degli
antichi re arabi e stranieri, si chiamarono con nuovi nomi, l'uno
Khalîfa (ch'è a dir successore) dell'Apostol di Dio, e l'altro anco
Emir-el-Mumenîn, ossia Comandator dei Credenti. Elettivo, come
s'è detto, il califo, vivea frugale quanto i più poveri Musulmani, del
proprio o di uno stipendiuccio; senza lista civile; senza fasto; senza
guardie: arringava il popolo; sopportava paziente le rimostranze
degli infimi come dei grandi; consultavasi d'ogni provvedimento
con gli altri compagni del Profeta, depositarii dei detti di quello, e
però di tutte le scintille dell'eterna sapienza, che non fosse piaciuto a
Dio di manifestar nel Corano. Così praticossi per dodici anni dalla
morte di Maometto a quella di Omar, tra que' primi fervori del
movimento religioso e nazionale: e molti savii ordini si fecero
fuorchè designare i limiti legali di un potere esercitato con tanta

126
civil modestia. Ma quando tal dichiarazione fu consigliata dalle
divisioni che cominciavano ad agitare la repubblica; quando gli
elettori deputati da Omar moribondo proposero patti fondamentali
ad Alî, e, vedendoli rigettare da lui, esaltarono al califfato Othman
che li accettava, allora non era più tempo a porre freno all'autorità.
Le fazioni, pigliate le armi, spinsero necessariamente i proprii capi
al potere assoluto: la nascente libertà degli Arabi perì tra le guerre
civili, al par che quella di Roma e tant'altre; oppressa dall'esercito
della fazione vincitrice, come lo sarebbe stata da quel della fazione
vinta, se a lui fosse toccata la vittoria. Reso dunque il califato
ereditario in casa Omeiade, il doge divenne czar. Una sola
guarentigia restò, cioè che il califo non potea mutare le leggi,
venendo quelle dal cielo, e non essendone permessa altra
interpretazione che la dottrinale. Ma ognuno intende quanto debole
e precario ritegno fosse la voce da' dotti ad un principe riconosciuto
da loro medesimi, come conservator della fede e arbitro delle forze
dello Stato. D'altronde la immobilità teocratica della legge nocque
molto più che non giovasse ai Musulmani, perchè attraversò le
riforme fondamentali divenute necessarie per la mutazione dei
tempi e per la vastità del territorio; e fece che tante ribellioni, tanto
sangue sparso, non portassero altro frutto che di tor via le persone
dei governanti, senza correggere il dispotismo che li rendea sì tristi.
Venendo in ultimo a considerare il momento militare dei
conquistatori, si vedran le tribù ordinate alla guerra ed esercitate fin
da tempo immemorabile: avvezzi da fanciulli a maneggiare armi e
cavalli, usi a condurre cameli, caricar bagaglio, mutare il campo,
affrontare pericoli, ubbidire ai capi nelle mosse e zuffe, andare a
torme, schiere, drappelli, secondo le suddivisioni della tribù; e i capi
a computare sottilmente le distanze de' luoghi, riconoscere o
indovinare il terreno, disegnare colpi di mano, agguati, ritirate, in
vastissimi tratti di paese. Indi pratica di strategia nei condottieri,
disciplina nei soldati: che, tra tanta ignoranza e licenza, appena si
crederebbe. Indi le prime battaglie degli Arabi contro Persiani e
Bizantini, sì superiori ad essi di numero, furono vinte meno per non

127
curanza della morte e furia a menar le mani, che per la rapidità e
precisione delle mosse; per le schiere compatte, spedite a rannodarsi
o combattere spicciolate; pei complicati disegni di guerra mandati
ad effetto con agevolezza; per l'arte, presto appresa, di afforzarsi ne'
luoghi opportuni ed a tempo ricusare o presentar la battaglia. Il
califo bandia la guerra sacra; nominava il capitano d'una impresa e
l'investia del comando, com'era antichissima costumanza appo di
loro, annodando un pennoncello in cima alla lancia del candidato.
Dato il ritrovo all'oste, accorreanvi le tribù dei contorni, intere o in
parte, con lor condottieri e capi inferiori fino a que' di dieci uomini
e anche di cinque: gente usa a vedersi in volto, a conoscere il valore
l'un dell'altro, a sostenere in ogni evento la riputazione di sua
famiglia, parentela e tribù: e spesso portavan seco loro le donne,
non consigliatrici a viltà; per l'amor delle quali o per l'onore, più
fiate gli Arabi sconfitti tornarono alla battaglia e vinsero; o quelle
difesero con le proprie mani gli alloggiamenti assaliti dal nemico.
Avean cavalli e fanti; i fanti in cammino montavan talvolta su i
cameli, talvolta v'andavan anco i cavalieri menando a guinzaglio lor
destrieri e in altri incontri togliean essi in groppa i fanti. Armati
della sottile, lunga e salda lancia arabica, spada, mazza, e altri
d'archi e frecce; ma ancorchè destri al saettare poco assegnamento
faceanvi: son colpi di sorte, diceva un famoso guerrier loro,
sbagliano e imberciano150. Copriansi di giachi di maglia e scudi. In
giusta battaglia aspettavano per lo più la carica del nemico;
sosteneanla con rara fermezza secondo il precetto del Corano e il
romano concetto di Khâled-ibn-Walîd che solea scorrer le file
esortandoli: «Ricordatevi, Musulmani, che lo star saldi è fortezza,
l'affrettarsi debolezza, e che con la costanza va la vittoria151.» Sia
150
Omar-ibn-Madî-Karib, interrogato dal califo Omar su la virtù delle varie
maniere d'armi, rispondea così per le saette; per la lancia dicea: or è tuo fratello,
or ti tradisce, ec. Egli si piccava sopratutto di maneggiar la spada e l'espresse con
una parolaccia alla quale il califfo rispose con lo staffile. Ibn-Abd-Rabbih, Kitâb-
el-I'kd, MS., tom. I, fol. 50 verso.
151
Ibn-Abd-Rabbih,op. cit., tom. I, fol. 26 verso. Tacito avea scritto: Velocitas
juxta formidinem; contatio propior constantiæ est. De Mor. Germ. Ciò che dico

128
che dessero il primo assalto, sia che ripigliassero quello del nemico,
piombavano come turbine coi loro infaticabili cavalli levando il
grido di Akbar Allah (è massimo Iddio); sparpagliavansi dopo la
carica, e d'un súbito rannodati faceano nuovo impeto sul nemico
disordinato nello inseguirli, e sì lo rompeano e laceravano;
avviluppavano e sterminavano i fuggenti. I Bizantini e i Persiani,
gravi per le armadure e per la formalità degli ordini militari ai quali
era mancata da lungo tempo l'anima e l'intendimento, mal
resistettero a tal nuova tattica: i primi inoltre uomini senza patria,
raunaticci di tante genti, tratti per forza alle armi, condotti da
capitani cui scegliea caso o favore; i secondi accolti anche di varie
nazioni e classi sociali diffidenti l'una dell'altra, anzi nemiche.
Dagli eserciti passando ai popoli di que' due imperii, li vedremo
avviliti dal dispotismo, rifiniti dalle tasse e dalla rapacità degli
officiali pubblici; scissi da assottigliamenti religiosi; i Persiani anco
dalle contese sociali de' tempi di Mazdak, dalla paura dei ricchi e
cupidigia dei poveri: e qual meraviglia se tra l'universale
scontentamento paresse manco male la falce dei conquistatori, i
quali ragguagliavano gli imi ai sommi, disarmavano la religione
dello Stato, permetteano il culto cristiano sol che si pagasse un
picciol tributo, o aprivan le braccia per accogliere i vinti nella loro
famiglia, nella loro Chiesa e nella loro repubblica? Così le vecchie
società cedeano il luogo alla giovane società dei vincitori. Così
ridivenuti nazione, spinti da delirio religioso e da interessi mondani,
allettati dal bottino, dalle pensioni, dalla fertilità delle terre, dai
mille lucri che offrian le nuove province, i popoli arabi emigravano
successivamente verso di quelle. E se non potean portare in lor
colonie nè libertà, nè quiete; se negli ordini loro si nascondea
l'antagonismo della legge coi costumi, del dispotismo con la nobiltà
e con la democrazia; questa schiatta forte, piena d'alacrità e di
speranze, operosa, industre, paziente, audace, trovandosi in
delle armi e tattica dei Musulmani nei primi secoli dell'islamismo si ricava anche
dai varii racconti di lor guerre, non meno che dai trattati di Leone il filosofo,
Leonis imperatoris Tactica, cap. 18, edizione di Meursius, p. 810, seg., e di
Costantino Porfirogenito, Constantini Tactica, ibid., p. 1398, seg.

129
condizioni geografiche favorevolissime e tirando altre schiatte alla
sua lingua e religione, dava principio a un periodo novello nella
storia dell'umanità.

CAPITOLO IV.
Se pur la fama di cotesti avvenimenti arrivò in Sicilia prima che
gli Arabi toccassero le spiagge del Mediterraneo, niuno al certo se
ne dette pensiero. Lo potean credere solito insulto de' ladroni di là
della Siria, de' Saraceni, come par che s'addimandassero in quelle
parti alcune tribù dei deserti; il qual nome i Bizantini dieron poi a
tutti gli Arabi e infine a tutti i Musulmani152. Fors'erano noti in
Sicilia, per cagion del commercio, il nome e i costumi degli Arabi, e
un capriccio di fortuna avea mostrato nell'isola le fattezze di questo
popolo balestrandovi un principe arabo, Mondsir quarto re di Hira;
il quale ribellatosi da' Sassanidi agli imperatori di Costantinopoli,
152
Gli Arabi non han preso mai il nome di Saraceni, nè altro simile; nè avvi nei
loro ricordi alcuna gente così chiamata. Questa vocabolo, scritto dai Latini
Sarraceni e da' Greci Σαρακηνοὶ, presso Plinio il vecchio, Tolomeo e Stefano
Bizantino, denota alcune tribù e picciole popolazioni; Ammiano Marcellino e
Procopio l'usano in significato più vasto; e gli scrittori occidentali dopo
l'islamismo gli danno la estensione che io ho accennato. Indi si vede come
successivamente si allargasse quella denominazione tra il primo e 'l quarto e poi
di nuovo tra il sesto e il settimo secolo dell'era volgare. L'etimologia è incerta,
ancorchè gli eruditi si siano tanto sforzati a trovarla, cominciando da San
Geronimo che facea derivare il nome dei figli di Agar da Sara; e scendendo ai
moderni, i quali han creduto raffigurar certi vocaboli arabi che suonerebbero
uomini del deserto, ladroncelli e simili baie. Secondo una opinione più plausibile,
Saraceni, sarebbe trascrizione della voce arabica sciarkiun, al genitivo (sul quale
per lo più si costruiscono i derivati in tutte le lingue) sciarkiin che significa
orientali; la qual voce i Greci e i Romani non poteano trascrivere nè pronunziare
altrimenti che sarkin o sarakin, mancando nell'alfabeto loro la lettera scin che
risponde alla ch francese e sh inglese. Veggansi Gibbon, Decline and Fall, Cap.
L, nota 30, con l'annotazione di Milman; Saint-Martin, note a Le Beau, Histoire
du Bas-Empire, lib. LVI, § 24; Reinaud, Invasions des Sarrazins en France, p.
229, 231.

130
tradì i novelli signori, e, caduto nelle mani loro, verso l'anno
cinquecento ottantadue, il clemente imperatore Maurizio non ne
prese altra vendetta che di rilegarlo con la moglie e i figliuoli in una
delle isolette adiacenti alla Sicilia153. Ma più che le rivoluzioni d'un
popolo sì oscuro e lontano, premeano ai Siciliani le guerre dei
Longobardi in Italia; e più che le une e le altre la novella eresia dei
Monoteliti, ossia sostenitori dell'unica volontà.
Disputavasi, sopra un punto di curiosità teologica sottilissimo e
oziosissimo se altro ne fu mai: se le opere del Dio fatto uomo,
movessero da due volontà, divina e umana, ovvero da una sola, che
i Monoteliti, ragionando su l'equivoco d'una parola, chiamaron
teandrica, cioè, divino-umana. Capacitossi dell'unica volontà
l'imperatore Eraclio, nel riposo ch'ebbe tra due guerre, l'una vinta
gloriosamente sopra i Persiani, e l'altra perduta assai vilmente
contro gli Arabi. Non prima il cacciaron essi dalla Siria, che il
vecchio imperatore, sperando impetrare l'aiuto del cielo con un atto
d'intolleranza, comandava che tutti i sudditi suoi credessero
nell'unica volontà di Gesù Cristo. Comandavalo, come i
predecessori suoi avean fatto delle altre dottrine onde si compose il
domma ortodosso, usando nella nuova religione l'autorità di sommo
pontefice, che appartenne già agli imperatori pagani, che gli
imperatori bizantini non abdicarono giammai, e ch'è passata con
tanti altri ordini loro nell'impero di Russia. E la sede di Roma
tentennò tra l'antica obbedienza e il dritto fondamentale della
repubblica cristiana, il quale portava che la universalità dei Fedeli
fosse giudice delle proprie credenze. Papa Onorio I tentò di sfuggire
alla vana contesa, e rispose dubbio o forse assentì; ma i successori
suoi non vollero o non poterono dissimulare. Promulgata da Eraclio
(a. 639), l'ectesi, come chiamossi l'editto imperiale che pretendea
decidere la controversia, e cominciata la resistenza dal vescovo di
Gerusalemme, Roma non declinò il pericoloso onore di farsene
153
Evagrius, Historia Ecclesiastica, lib. VI, cap. 2; Nicephorus Callistius, Eccle-
siasticæ Historiæ lib. XVIII, cap. 10; Caussin, Essai sur l'histoire des Arabes,
tom. II, pag. 133. I due scrittori greci, portando il nome del principe arabo con
l'articolo, scrivonlo Alamondar.

131
capo. Indi Costante Secondo imperatore rincalzava con un altro
editto superbamente chiamato il tipo (a. 648), e papa Martino nel
Concilio di Laterano (a. 649), ove sedè la più parte de' vescovi
d'Italia, solennemente condannò ectesi e tipo, e ogni altro scritto
monotelita. Allora la disputa si mutò in fazione politica. Costante il
quale era salito sul trono a undici anni (a. 641), e, come tanti altri
tiranni in adolescenza, avea principiato con belle dimostrazioni di
modestia civile, spiegò l'unghia del lione per far confessare da tutti i
sudditi dell'impero una opinione che nè egli nè altri comprendea.
Ma sendo più che mai deboli in Italia le armi imperiali, e
stringendosi sempre più il misero popol di Roma intorno il suo
vescovo ond'avea lucro e protezione, Costante non potè sforzare il
papa; e, volendo almen punirlo, fu necessitato a tentare un colpo da
masnadiere. Commesselo ad Olimpio, esarco di Ravenna, o vogliam
dire luogotenente dell'impero nei dominii che rimaneangli in Italia;
il quale, andato a posta a Roma, tramò lunga pezza di catturare e
dicon anche ammazzare il papa, e fallì nell'uno e nell'altro misfatto.
Secondo un pio cronista, il sicario mandato da Olimpio, mentre
levava la mano per ferire, perdè il lume degli occhi; e, maggior
prodigio, narrato il caso all'esarco, costui, pentito, svelò tutta la
pratica al papa. Aggiugne il cronista che si rappacificassero
incontanente, e che Olimpio, raccolte le genti che potea,
sopracorresse in Sicilia a combattere i Saraceni154. La corte di
Costantinopoli dal suo canto accagionò Olimpio d'alto tradimento, e
il papa di complicità con lui, di connivenza coi Saraceni, e fin
d'averli aiutato di danari155. Tra le fole del miracolo romano e le
impudenti accuse del governo bizantino, il vero mi sembra che
l'esarco, allettato dalla occasione che gli davano gli umori degli
Italiani e le condizioni generali dell'impero, seguendo il fresco
esempio del patrizio d'Affrica, abbia tentato di sciorsi anch'egli

154
Anastasius Bibliothecarius, presso Muratori R. I., tom. III, pag. 140.
155
Processo di papa Martino a Costantinopoli, presso Labbe, Sacros. Concilia,
tom. VI, pag. 63, 68, 69.

132
dall'obbedienza: a che papa Martino nè volea nè poteva far
ostacolo156. Donde Olimpio lasciava star la teologia e il papa; e
questi si pigliava quella insperata tranquillità, senza lodare forse nè
biasimare la ribellione dell'esarco, quando lo scoppio della folgore
musulmana in Sicilia li fe' stringere l'uno all'altro, sì che
provvedessero insieme al comun pericolo. Perchè Olimpio,
usurpatore o no, dovea combattere i Musulmani in Sicilia, come
Gregorio usurpatore avealo fatto in Affrica; e Martino, posposto
ogni altro rispetto, dovea aiutarlo, per salvare l'Italia dalla servitù
degl'Infedeli e sottrarre alle rapaci mani loro il patrimonio di San
Pietro nell'isola.
Nei dieci anni che la corte bizantina avea passato tra l'ectesi e il
tipo, gli Arabi, oltre quei prodigiosi loro conquisti di là dal Tigri,
s'erano impadroniti di mezzo l'impero: spintisi infino al Caucaso;
occupata tutta la costiera di Siria; preso l'Egitto (a. 639); corsa e
resa tributaria l'Affrica propria (a. 648); e, dopo avere soprastato un
istante in riva al Mediterraneo, vi si erano ormai lanciati, e tutto
l'empieano di spavento. Soprastettero già in riva al Mediterraneo,
rattenuti dai comandi di Omar, non da ripugnanza a incontrare
ignoti pericoli. Perocchè non mancavano arrisicati navigatori tra le
popolazioni marittime d'Arabia; e gli stessi guerrieri del deserto, fin
dai primi conquisti, s'erano risolutamente imbarcati sul Golfo
Persico per assaltar le costiere d'India, donde eran tornati vincitori e
carichi di preda (a. 636); i quali, se non ritentarono l'impresa, la
cagione fu che Omar aspramente rampognò il capitano, e scrissegli
che si guardasse un'altra fiata di affidare i guerrieri dell'islâm, come
vermi, a un pezzo di legno galleggiante157. In tal modo ei volle
ovviare al pericolo d'allargar troppo la guerra, o a quel di
combattere sopra un elemento ove i Cristiani fossero più pratichi de'
156
All'accusa di connivenza con Olimpio il papa rispose che non avrebbe avuto
forze da opporsi; e recriminò contro uno degli accusatori il quale s'era trovato in
condizioni simili.
157
Beladori, presso Reinaud, Fragments Arabes etc. relatifs à l'Inde, p. 182. I due
luoghi di Ibn-Khaldûn, riferiti nella nota seguente, mi inducono a tradurre in
questo modo il passo analogo del Beladori.

133
Musulmani, ch'è il concetto d'Ibn-Khaldûn. Per simili rispetti vietò
all'ambizioso Mo'âwia-ibn-abi-Sofiân d'assaltare l'isola di Cipro; se
non che, per iscusarsi del mettere ostacolo ai trionfi dello islâm, il
califo gravemente scrivea sapere che il Mediterraneo sovrastasse di
gran tratto alla terra, e dì e notte domandasse a Dio di poterla
inondare; ond'ei non amava a dar gli eserciti musulmani in balía a
tal perfido mare158. Ma non andò guari che in luogo di queste baie
tendenti a sconfortare dalle imprese navali, si trovò nelle tradizioni
di Maometto, com'avvien sempre nelle ambagi e disordine degli
scritti religiosi, un corredo compiuto di altri testi che portavano
all'effetto contrario: e diceano che a durar solo la nausea del mare
nella guerra sacra fosse merito uguale al morire in campo, bagnato
nel proprio sangue; che l'Angelo della Morte recasse su in cielo le
anime degli altri martiri, ma Dio medesimo raccogliesse quelle
degli uccisi in combattimento navale; e altre somiglianti tratte su i
tesori della vita futura159.

158
Ibn-Khaldûn, Prolegomeni, nel British Museum, MS. 9547, fol. 143 verso; e
Storia, sezione 2a, MS. di Parigi, Suppl. arabe, 742 quinquies, vol. II, fol. 180
verso. In questi due luoghi si legge in due modi alquanto diversi il motto riferito
da Beladori e citato di sopra; se non che è attribuito ad A'mr-ibn-A'si, il quale,
interrogato da Omar che fosse il Mediterraneo, rispondeva: "Una sterminata
pianura su la quale cavalcano uomini di poco cervello, piantati come vermi in un
pezzo di legno." Nei Prolegomeni lo storico arabo aggiugne riflessioni generali su
le armate dei Musulmani. Nell'altro luogo citato, che contiene la storia dei primi
califi, narra che Mo'âwia proponesse ad Omar l'impresa di Cipro; che quegli
domandasse ragguagli ad A'mr-ibn-A'si capitano d'Egitto, e che, avutane quella
risposta, vietasse l'impresa nei termini ch'io ho riferito. Il citato squarcio dei
Prolegomeni si legge in inglese, con interpretazione che non risponde del tutto
alla mia, nell'opera del Gayangos, The history of the Mohammedan Dynasties in
Spain by Al-Makkari, tom. I, p. XXXIV.
159
Le indulgenze che guadagnano i Musulmani combattendo per mare sono
annoverate nel Mesciâri'-el-Asciwâk, p. 49, seg. Le opinioni contrarie leggonsi
presso M. Reinaud, Extraits etc. relatifs aux Croisades, p. 370 e 476; e Invasions
des Sarrazins en France, p. 64 e 67. Tra le altre v'ha che i legisti teneano come
stolto, e indi incapace a far testimonianza in giudizio, chiunque avesse navigato
due o più volte per cagion di mercatura.

134
Ucciso Omar (a. 644), e uniti a capo di due anni i varii governi
delle provincie di Siria160 nelle mani di Mo'âwia, costui, che avea
tanto séguito appo il nuovo califo, agevolmente vinse il partito della
guerra navale, non ostante la opposizione di quei consiglieri che
voleano mantenere i disegni politici di Omar161. Fatto venire grande
numero di barche d'Alessandria e accozzatole con quelle della
costiera di Siria, Mo'âwia assaliva (648) Cipro; ne levava tributo;
tentava la munita isoletta di Arado; e, sendone respinto, vi tornava
l'anno appresso con maggiori preparamenti; sforzava gli abitatori ad
arrendersi e bruciava il paese. Dopo due anni i Musulmani di Siria
presero l'isola di Rodi; portaron via, fatta a pezzi, la statua colossale
d'Apollo che l'antichità avea tenuto tra le maraviglie del mondo162. E
alla nuova stagione, che fu del secentocinquantadue, quattro anni
appunto dopo la prima lor prova a metter piè sopra una barca nel
Mediterraneo, solcavanlo a golfo lanciato, volgendo le prore alla
Sicilia.
Di questa, come di tante altre imprese dei primi conquistatori
arabi nelle provincie romane, troviamo notizie molto oscure negli
annali loro, per una cagione che occorre spiegare. Presso gli altri
popoli civili che si segnalarono nel mondo, la tradizione dei fatti,
emersa una volta dalle nebbie dei tempi mitici, ha preso
successivamente tre forme, che rispondono a tre diversi gradi
dell'incivilimento, e sono: i canti eroici ripetuti a mente, le cronache
scritte e la storia propriamente detta; nè la tradizione orale in prosa
è stata altro che ausiliare, pronta, come ognun sa, a correggere o
guastare gli altri ricordi. Appo gli Arabi, al contrario, la tradizione
orale usurpò tutto il campo nei primi due secoli dell'egira. La
nazione, sendo più incivilita nell'animo che nelle forme esteriori,
non potea contentarsi oramai di racconti poetici, ma non era per
anco avvezza a ricordi scritti; e l'umile arte di leggere e scrivere
160
Ibn-Khaldûn, Storia, sezione 2a, MS. di Parigi, Suppl. arabe, 742 quinquies,
vol. II, fog. 180 verso.
161
Ibid., fog. 181 recto.
162
Gli annalisti musulmani son dubbii su queste date. Le pongo secondo i
bizantini citati da Le Beau, Histoire du Bas-Empire, lib. LIX, § 35, 36.

135
troppo scarseggiava tra que' guerrieri e improvvisatori che stavan
sempre a cavallo e in su le armi. Pertanto non ebbero altri cronisti
che i rawî, (raccontatori o direbbesi più litteralmente ritenitori), ai
quali l'uso dava una prodigiosa virtù di memoria, e serbavano
l'intero patrimonio letterario di lor gente: poesie, genealogie e fino i
detti del profeta. Costoro, raccolti i fatti il meglio che poteano dalla
bocca di questo e di quello, soleano riferirli con tutte le varianti e
coi nomi di quanti successivamente li avessero tramandato. Ma tal
diligenza accrebbe la mole e la confusione, più tosto che correggere
i vizii della tradizione orale: il difetto cioè di precisione
cronologica; lo scambio dei fatti diversi relativi a una stessa
persona; la mescolanza delle fole di millantatori e detrattori; il
pendío agli aneddoti maravigliosi; il silenzio su le imprese infelici.
Questo cumulo di materiali par che opprimesse i primi che si
provarono a scrivere, nel terzo secolo dell'egira e nono dell'era
cristiana. Dei quali altri dettò storie particolari, altri osò
intraprendere una cronica universale; ma nessuno seppe strigarsi
dalla noiosa forma della tradizione orale, e nessuno venne a capo di
chiarir bene tutti gli avvenimenti del primo secolo, ch'era più
lontano da quella età. In ultimo comparvero le compilazioni e i
compendii, che fecero andare in disuso quelle ponderose cronache
primitive; sì che, poco o punto copiate dal duodecimo secolo in qua,
non ce ne avanza che qualche volume. E per tal modo è divenuto
ormai impossibile di ristorare la tradizione di alcuni avvenimenti; e
i nostri sforzi non arriveranno a trovarne altro che qualche cenno.
Ma quell'assalto di Sicilia, di cui testè dicevamo, è reso certo dai
ricordi europei, cioè: i documenti contemporanei che leggonsi nel
processo di papa Martino163; un paragrafo della Cronografia di

163
Presso Labbe, Sacrosancta Concilia, tom. VI, p. 63, 68, 69. Il papa si
discolpava dell'accusa d'aver mandato lettere e danari ai Saraceni, allegando non
aver fatto che qualche picciola limosina a servi di Dio andati nel paese che
occupavano gli Infedeli: senza dubbio la Sicilia. Gli apponevano inoltre i
magistrati bizantini il favore dato all'esarco Olimpio che praticava contro
l'imperatore, come pare, quando, rappacificatosi col papa, passò in Sicilia.

136
Teofane164, scrittore dell'ottavo secolo; e uno ch'è tratto
manifestamente dalle memorie della Chiesa Romana e portato nelle
vite dei pontefici che van sotto il nome d'Anastasio Bibliotecario165.
Corretta la cronologia, il fatto compiutamente risponde alla
tradizione musulmana che si raccoglie a brani dal Beladori, autore
del nono secolo166, e da due compilazioni più recenti167; delle quali
una assai particolareggiata si trova in un esemplare del falso
164
Tom. I, p. 532, sotto l'anno del mondo 6155, secondo il conto suo, che, ridotto
all'era volgare, risponderebbe al 662. Il passo di Teofane, rettamente interpretato
(e posso dirlo con certezza dopo averlo messo sotto gli occhi di M. Hase), è del
tenor seguente: «Quest'anno fu occupata parte della Sicilia, e (i prigioni), a scelta
loro, furon fatti stanziare in Damasco.» La inesatta versione latina del testo
stampato ha portato alcuni compilatori moderni a sognare un volontario esilio di
Siciliani a Damasco.
165
Presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tom. III, p. 140; e Labbe,
Sacrosancta Concilia, tom. VI, p. 3, che dà più corretto questo luogo del testo.
Parlando d'Olimpio, Anastasio dice: Qui, facta pace cum sancta Dei Ecclesia,
colligens exercitum, profectus est Siciliam adversus gentem Sarracenorum, qui
ibidem habitabant. Et, peccato faciente, major interitus in exercitu romano
pervenit, et post hoc idem exarchus morbo interiit. Secondo le correzioni del Pagi
al Baronio (anno 649 e seguenti), la passata d'Olimpio in Sicilia si dee riferire al
652; la qual data è determinata con certezza dai noti casi di papa Martino, che
succedettero dopo la morte d'Olimpio. Veggasi anche lo stesso Anastasio
Bibliotecario, Historia Ecclesiastica, anno 22 di Costante.
166
Beladori, MS. di Leyde, p. 275: «Dicono che abbia osteggiato la Sicilia
Mo'âwia-ibn-Hodeig della tribù di Kinda, ai giorni di Mo'âwia-ibn-abi-Sofiân.
Egli il primo portò la guerra in quest'isola; nè posò d'allora in poi l'infestagione,
finchè gli Aghlabiti vi occuparono oltre una ventina di cittadi.»...... «Narra il
Wâkidi che Abd-Allah-ibn-Kaîs abbia fatto prigioni in Sicilia, e presovi simulacri
d'oro e d'argento incoronati di gemme, i quali mandò a Mo'âwia (il califo) che
inviolli a Bassora, a fine d'imbarcarli per l'India, e quivi farli vendere con
avvantaggio.» Come ognun vede, il Beladori non confonde queste due scorrerie,
che veramente furono distinte, ancorchè egli nol dica espresso. Aggiungasi che il
Beladori scrive l'impresa di Sicilia immediatamente innanzi quella di Rodi, su la
data della quale non v'ha dubbio. Il Wâkidi citato da lui è il cronista le cui opere
son perdute, e il nome è stato usurpato dal compilatore moderno di cui feci
menzione. Nel testo di Beladori si legge Khodeig in luogo di Hodeig, com'io l'ho
corretto, seguendo Ibn-el-Athîr, MS. C., tom. II, fol. 171, seg. E così anco ha
fatto sopra altre autorità il dotto editore del Baiân, alla p. 9.

137
Wâkidi; ma non ostante tal sospetta origine168, quando se ne tolgano
le manifeste finzioni del compilatore, contiene un ragguaglio
genuino e compie i cenni di Teofane e d'Anastasio, e però la critica
non vuol che si rigetti. In ultimo è indizio dell'impresa un nome
topografico rimasto in Siria infino al duodecimo o al decimoterzo
secolo, chiamandovisi Sicilia, o, secondo altri, Le Siciliane, una
villa in campagna di Damasco; se pur non sono due luoghi diversi.

167
La più autorevole ancorchè più recente è il Baiân, p. 9 ed 11. Quivi si
distinguono le due scorrerie di cui abbiam detto nella nota precedente; ma si
attribuisce alla prima una circostanza peculiare della seconda, cioè gli idoli
mandati a rivendere in India. Il Baiân pone la prima nel 34 (654-5) e la seconda
nel 46 (666-7): date sbagliate l'una e l'altra per lo studio di connettere queste due
imprese di Sicilia con quelle d'Affrica, con le quali non ebbero che fare. Sembra
che altri compilatori abbiano confuso in una sola le due imprese per la medesima
ragione, e perchè supposero che la espressione del Beladori «ai giorni di
Mo'âwia-ibn-abi-Sofiân» significasse mentre Mo'âwia era califo (661-680), più
tosto che nel tempo ch'ei governò la Siria (640-661). Cotesti compilatori sono il
Bekri, citato da Ibn-Scebbât, MS., p. 7; il Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum
Arabicarum, p. 1; e Ibn-abi-Dinâr, MS., fol. 10 verso, e traduzione, p. 41. Ibn-el-
Athîr non fa menzione nè dell'una nè dell'altra impresa, talchè è da supporre
qualche lacuna nel MS.
168
Dopo i lavori dell'Hamaker e d'altri orientalisti, è nota la
falsità del libro del conquisto di Siria attribuito a Wâkidi; sul quale
Okley in gran parte compilò la sua storia de' Saraceni, e trasse nel
proprio errore Gibbon e parecchi altri. Questo libro e quei dello
stesso conio su i conquisti di Egitto etc., contengono insieme
tradizioni genuine e fittizie, e son opere di uno o parecchi
compilatori. Or tra i molti MSS. del falso Wâkidi che v'hanno nelle
collezioni europee, se ne trova uno al British Museum (Bibl. Rich.
7361. N° CCLXXXVII del catalogo stampato) che contiene lunghe
appendici su i conquisti di Cipro, Rodi, Affrica, Sicilia ed Arado.
Su queste appendici è da notare in primo luogo che le non sian date,
come il rimanente del MS., a nome or del Wâkidi ed ora del rawî,
ossia raccontatore, ma sempre di quest'ultimo. In secondo luogo si
scopre in qual tempo scrisse il rawî; perchè parlando dell'Etna (fol.
118 recto) ei cita il racconto fattogli da uno sceikh siciliano per

138
Il nome è derivato al certo da donne siciliane portatevi in cattività e
probabilmente da quelle che vennervi al tempo di Mo'âwia169.
L'armamento musulmano mosse dall'estremo golfo orientale del
Mediterraneo, forse da Tripoli di Siria, e certo egli è che non
venisse dalle costiere d'Affrica donde i Musulmani s'eran ritratti tre
anni innanzi. Però era mestieri allestire grosse navi e munirle a
effetto di guerra; e ne parrà tanto più malagevole e arrisicata
l'impresa di Sicilia, più assai che quella d'India del secento trentasei,

nome Abu-l-Kâsem-ibn-Hakem, che vivea a corte del califo di


Bagdad. Per avventura il medesimo sceikh si vede citato da Abu-
Hâmid-Mohammed-ibn-Abd-er-Rahîm-el-Mokri nella compilazione
di geografia intitolata Tohfat-el-Albâb, della quale conosciam la
data, cioè l'anno 557 dell'egira (1161): e sappiamo che l'autore si
fosse trovato a Bagdad nel 1122 e nel 1160 (Reinaud, Géographie
d'Abulfeda, tom. I, Introduction, p. CXII). Abu-Hâmid dice aver
sentito di propria bocca di Abu-l-Kâsem a Bagdad le notizie ch'ei dà
su l'Etna, le quali esattamente rispondono a quelle del falso-Wâkidi
(Tohfat-el-albâb, MS. di Parigi, Ancien Fonds 586, fol. 66 recto, e
Suppl. arabe, 861, 862, 863). Mi par dunque certo che il
compilatore dell'appendice sia vivuto nel XII secolo, e ch'egli non
abbia preteso punto di attribuir l'appendice a Wâkidi, nel qual caso
non avrebbe citato il nome d'un contemporaneo, uomo assai noto.
Oltre a ciò le idee e lo stile, sì dell'opera principale e sì delle
appendici, tengon bene della esaltazione religiosa, della
esasperazione di sentimenti nazionali, e fin della moda di romanzi
cavallereschi deste in Oriente dalle Crociate. Trovo finalmente nella
appendice su la Sicilia: «Il re dei Rum ha tenuto sua sede dai tempi
più remoti infino a questi nostri giorni, in tre luoghi soli, cioè la
Sicilia, Roma, e Costantinopoli» (fog. 119 verso); la quale
asserzione s'adatta alle vicende dell'impero fino al soggiorno di
Costante a Siracusa, e risponde anco più esattamente al duodecimo
secolo, in cui i potentati delle provincie italiane e greche erano
appunto quei tre: imperatore bizantino, re normanno di Sicilia, e re
dei Romani.

139
nella quale gli Arabi aveano avuto in pronto legni e marinai della
propria lor gente, usi a tal navigazione per loro commerci. Mo'âwia-
ibn-abi-Sofiân, che già si facea strada all'impero, forse sperò con la
guerra di Sicilia d'accrescere le province ed entrate del governo suo
ed emulare il capitano d'Egitto Abd-Allah-ibn-Sa'd, che godea come
lui la grazia del califo ed avea acquistato in Affrica tanta gloria alla
religione, e ricchezza ai soldati. E forse, dall'esercito del rivale

Passando alla critica dei fatti, basta a percorrere le appendici per


accorgersi di quel miscuglio di vero e di falso che si trova in tutte le
opere dello pseudo-Wâkidi; ma è notevole che la sconfitta navale e
la uccisione di Costante, e poi il conquisto dell'Affrica, siano
raccontati con circostanze più vicine al vero, e in generale senza le
novellette che Ibn-el-Athîr e altri rinomati scrittori accettarono
come fatti storici. Che se parrebbe sospetta a prima vista la
mancanza del nome di chi capitanò questa impresa di Sicilia, ciò
può provare al contrario la diligenza del compilatore, poichè i
ricordi antichi erano divisi su tal punto, e chi dava l'onore a
Mo'âwia-ibn-Hodeig, chi ad Abd-Allah-ibn-Kais. Del rimanente
sarà agevole, a creder mio, a scevrare le finzioni dai fatti che il
compilatore tolse da autori antichi, forse dal genuino Wâkidi. Perciò
non ho avuto scrupolo ad ammettere questi ultimi nella mia
narrazione. E perchè il lettore possa rivedere il giudizio mio, gli
porrò sotto gli occhi la somma della detta appendice che è questa:
I Musulmani, levata una taglia in Affrica e ritrattisi da quella provincia, volgon la
mente al conquisto di Sicilia, una delle antiche sedi dei re romani, vasta isola e
ferace. Mo'âwia ne scrive al califo Othman, che assente. Gli Affricani, risapendo
questo, ne danno avviso in Sicilia. Il principe della quale isola s'adira del disegno,
senza prestarvi molta fede. Scioglie dalla costiera (di Siria) l'armata musulmana,
di trecento legni, e improvvisa piomba sull'isola, ove il principe dall'alto del suo
palagio la vede venire adorna di bandiere e gonfaloni e piena di guerrieri bene
armati. Il principe di Cesarea che s'era rifuggito in Sicilia, quando il cacciarono
gli Arabi, consiglia a quel di Sicilia di comporre per danaro. Quei spregia
l'avviso, dicendo aver tali forze da far testa agli Arabi in cento scontri e resister
loro per un anno intero. Nondimeno, surta che fu all'áncora l'armata musulmana,
ei mandava a parlamentare. Viene a lui un oratore musulmano che per via
d'interpreti gli propone l'islamismo, il tributo, o la guerra: lungo discorso seguíto

140
pervennero a Mo'âwia i ragguagli che spinserlo alla impresa
siciliana. Affidolla a un prode che fu poi partigiano suo nelle guerre
civili170; rinomato non meno per pietà, poichè avea visto in volto il
Profeta e ne serbava i detti171; e testè segnalatosi sotto gli auspicii
del capitan d'Egitto nella espedizione di Nubia, ove perdè un occhio
per ferita172. Ebbe nome costui Mo'âwia-ibn-Hodeig della tribù di

da una lunga e sdegnosa risposta del principe di Sicilia. Infine un patrizio


domanda all'oratore se alcun arabo voglia misurarsi con lui. "Sì lo faranno gli
infimi dell'esercito musulmano;" risponde l'oratore. Descrizione del duello, in cui
il patrizio è ucciso. Sbigottito il principe a tal esempio, si chiude in fortezza; e i
Musulmani danno il guasto a varii luoghi ed espugnano con lor macchine varie
castella. Infine si viene a giornata. Il principe rompe l'ala sinistra de' Musulmani;
ma la destra tien fermo, e la battaglia dura in fino a sera. A notte avanzata, i
Musulmani lasciano il campo, e rimontati su l'armata vanno ad infestare altre
parti dell'isola. Il principe siciliano scrive ai Romani (d'Italia) chiedendo rinforzi;
ma essi nè anco gli rispondono. Allora il principe di Cesarea gli suggerisce di
tenere a bada il capitan musulmano con simulate proposizioni di pace e mandare
per aiuto al principe di Costantinopoli: a che il Siciliano replica: "Mai noi farò
quando anche dovessi perdere l'isola." Così i Musulmani continuano a depredare
il paese, finchè il principe di Costantinopoli mandavi secento navi ben munite di
guerrieri. Avutone avviso, i Musulmani deliberano di partire immediatamente.
Lascian l'isola nottetempo; e, dopo parecchi giorni di navigazione, giungono alla
costiera di Siria; dove sbarcato il bottino e i prigioni, li arrecano a Damasco a
Mo'âwia-ibn-abi-Sofiân. Levatone la quinta, Mo'âwia la manda ad Othman,
ragguagliandolo del fatto di Sicilia, e che i Musulmani ne fossero usciti sani e
salvi. Dopo ciò, i Musulmani combattono l'isola di Arado, che fu l'ultima vittoria
loro sotto il califato di Othman, e seguì lo stesso anno della uccisione di lui.
169
Ibn-Scebbâtt, MS., pag. 50, dice: «Sikillia è anche nome di una dhía (villa o
podere addetto a beneficio militare) nella Ghûta di Damasco.» Il Merasid-el-
Ittila' MS. di Leyde, ha quest'altro breve articolo: «Sikilliât (al plurale
femminino) con tre i e la l raddoppiata, dicono sia nome di luogo in Siria.»
Questa opera è compendio del gran dizionario geografico di Jakut, e si attribuisce
il compendio allo stesso autore che vivea nel XIII secolo. Vedi Reinaud,
Géographie d'Abulfeda, tom. I, p. CXXXIII, seg.
170
Dsehebi, MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 746, tom. 1, anni 37 e 38.
171
Ibn-Abd-el-Hakem, MS. di Parigi, Ancien Fonds 655, p. 430.
172
Ibid., p. 253. Quest'impresa seguì l'anno 31 (651-52); e come altri due guerrieri
di nome riportarono la stessa ferita di Ibn-Hodeig, così gli Arabi chiamarono i

141
Kinda173 e continuò per venti anni a combattere per la fede in
Ponente, sì che tante sue geste furono confuse dai raccontatori174, e
quella di Sicilia, come meno avventurosa, restò oscura.
Sbarcarono nell'isola i Musulmani con forze non pari al
conquisto; occuparono qualche luogo su la costiera, e a lor costume
mandarono gualdane a battere il paese, le quali fean preda e
prigioni, e pur non bastavano ad espugnar le terre murate. Ma tale
debolezza del nemico non si potea scernere dai Cristiani tra i primi
spaventi di quell'assalto, non aspettato nè creduto possibile; di quel
terribil nome di Saraceni; di quelle nuove fogge, sembianti,
linguaggio e impeto di combattere. Però, giunti gli avvisi a Roma, si
strinsero l'esarco e il papa, com'abbiam detto. Passato Olimpio con
l'esercito in Sicilia, la guerra andò in lungo: combattuta debolmente
d'ambo le parti; dei Musulmani perch'eran pochi e scarsi di
preparamenti; de' Cristiani perchè valean meno in arme, e
travagliavali una moría che s'appigliò all'esercito. Indi le pratiche
mosse dall'esarco, alle quali accennano e la narrazione del falso
Wâkidi e il processo di papa Martino; le quali negoziazioni dopo la
morte d'Olimpio furon costrutte in caso di maestà a fin di
avvilupparvi il papa. Questi dal canto suo mandava aiuti di danaro
in Sicilia: limosina a qualche servo di Dio, scriveva egli poi
scusandosi, e dissimulando forse sotto tal nome il riscatto degli
inquilini del patrimonio caduti in man del nemico. In ogni modo, tra
scaramucce e pratiche si consumarono parecchi mesi; nel qual
tempo Olimpio morì della pestilenza. I Musulmani, non isperando
rinforzi, poichè non avevano altra armata in sul mare, e aspettandosi
Nubii "saettatori delle pupille."
173
Beladori, l c.; Baiân, p. 9, il quale riferisce l'impresa al 34, mentre Mo'âwia-
ibn-Hodeig era in Affrica; e però è costretto a dire ch'egli mandò ad assaltare la
Sicilia.
174
Soprattutto le tre espedizioni ch'egli capitanò nell'Affrica propria gli anni 34
(654-5), 40 (660-1), e 50 (670); l'una delle quali si scambiava con l'altra fin dal
tempo dei primi scrittori, come l'afferma Ibn-abd-el-Hakem, che visse nel IX
secolo dell'era cristiana. Veggansi Ibn-abd-el-Hakem, MS. di Parigi, Ancien
Fonds 655, p. 262, 263, e Ancien Fonds 785, fol. 109 recto e 122, e il Riadh-en-
nofûs, fol. 9 recto.

142
addosso il navilio bizantino, o avendo avvisi che venisse, non si
lasciaron chiudere nell'isola. Mo'âwia-ibn-Hodeig rimontò su le
navi in fretta, senza però abbandonare nè il bottino nè i prigioni; e,
fatto vela nottetempo, ebbe a ventura, dopo felice navigazione, di
sporre i suoi sani e salvi su le costiere di Siria. Tutto lieto il
significava a Othman il capitano della provincia, Mo'âwia-ibn-abi-
Sofiân, che già assai temea della sorte dell'armata. Mandava altresì
al califo la quinta della preda, e dividea il resto all'esercito. Par che i
prigioni, la più parte donne, rimanessero a Damasco, e presto
dimenticassero gli antichi lor signori, il paese, le famiglie, fors'anco
la religione. Perocchè la cronaca bizantina aggiugne qui
sbadatamente, che volentieri stanziassero a Damasco: nè più crudele
biasimo che questo si potrebbe esprimere in parole, contro quei
miseri schiavi non già, ma contro l'ordine civile e religioso che
affliggea la Sicilia175.
Appena allontanati dall'isola i Musulmani, Costante incalzò la
persecuzione contro il papa, e fe' compiere da un nuovo esarco
l'attentato ch'ei meditava. L'innocente e caritatevole Martino,
vegliardo, infermo, venerando per animo forte e soavi costumi, fu
preso a piè degli altari da una man di scherani (giugno 653); gittato
in una barca; condotto giù pel Tevere e per la costiera infino a
Messina; ove il tramutarono in altro legno; lo menarono qua e là per
la riviera orientale di Calabria e per le isole dell'Arcipelago: tenuto
in segreta su la nave e in terra; strapazzato, e, dopo lungo tempo,
tratto innanzi i magistrati a Costantinopoli. Quivi incrudì lo strazio
per le ingiuriose imputazioni, la insolenza dei giudici, la brutalità
dei servidori, la profanazione del nome e forme della giustizia, la
sentenza di morte pronunziata e sospesa; e sopratutto la presenza
del tiranno, dinanzi al quale gli stracciarono in dosso gli abiti
175
Riscontrinsi le citazioni che ho fatto sopra testualmente, e si giudichi se dian
prova di tutti i fatti ch'io scrivo. Veggasi del rimanente Le Beau, Histoire du Bas-
Empire, lib. LX, § 6, 36, con le correzioni del Saint-Martin. Parmi errore del
Martorana, Notizie storiche dei Saraceni Siciliani, tom. I, p. 28, e, su le orme di
lui, del Wenrich, di avere trascurato questa impresa, e tenuto come primo assalto
de' Musulmani quello del 669.

143
sacerdotali, lo condussero per la città, con un collare di ferro alla
gola, preceduto dal carnefice che brandiva la mannaia. Alfine il
tiranno commutò la sentenza in esilio perpetuo a Cherson, su le rive
settentrionali del Mar Nero; ove Martino trasse pochi mesi di vita
che gli avanzarono, torturato da' disagi e dimenticato dal clero di
Roma. Molti furono anco gastigati come ricalcitranti al tipo; e, più
barbaramente che niun altro, il dotto San Massimo, al quale
apponeano oltre le opinioni teologiche, sì sfacciato era il governo
imperiale, di aver dato ai Saraceni l'Egitto, la Pentapoli e
l'Affrica176.
E come rinforzato per trionfo in casa, Costante volle andar subito
a gastigare gli Arabi, che fatti audaci in sul mare, armavano contro
Costantinopoli stessa (655). Sorgeano all'áncora le navi o barche
loro, dugento e poche più, su le costiere della Licia, presso il monte
Fenicio in un luogo che i cronisti arabi chiamano "Le Colonne;"
senza dubbio dagli avanzi di qualche monumento dell'arte greca.
Quivi drizzò la prora Costante con sei o settecento, altri dice mille,
navigli; certo con strabocchevole superiorità di numero, mole e
munizione delle navi. Era questa la prima battaglia marittima che si
presentasse ai Musulmani. Perciò stavano in forse anco i più
valorosi: il supremo condottiero Abd-Allah-ibn-Sa'd, ch'era a terra
con le genti, domandava tre fiate ai capitani minori che si farebbe; e
tre fiate que' si guardavano in volto l'un l'altro senza rispondere:
quando si levò un guerriero, e, in luogo di disputare, recitò le parole
del Corano sopra la battaglia di Saul con Golia: «Oh quante volte
picciol drappello ha sbaragliato grosse schiere, permettendolo Iddio:
Iddio è con chi sta fermo177.» Abd-Allah allora, risoluto a morire
anzichè abbandonare l'armata al nemico, gridava: "Alle navi, in
176
Le memorie e i documenti relativi a papa Martino, dalla esaltazione infino alla
morte, si leggono presso il Labbe, Sacrosancta Concilia, tom. VI, dal principio
alla p. 70. Vedi anche Theophanes, Chronographia, tom. I, p. 526 a 531; il
Baronio, Annales, anni 649 e 651, con le correzioni del Pagi; e Le Beau, Histoire
du-Bas Empire, lib. LX, § 4, seg. La strana accusa fatta a San Massimo si scorge
dagli atti, presso il Labbe, Sacrosancta Concilia, tom. VI, p. 433.
177
Corano, II, 250.

144
nome di Dio." E alle navi corsero, seguíti da molte donne loro, che
vollero partecipare al pericolo.
Appiccata la zuffa con trar dardi e saette, gli Arabi si accôrsero
dell'errore di combatter da nave a nave; e senz'aspettare una prima
sconfitta che li ammaestrasse, vollero provarsi da uomo a uomo.
Gittano gli uncini alle galee nemiche; salgono all'arrembaggio con
le sciabole e i cangiar alla mano; e con molto sangue loro e
grandissima strage de' nemici, vinsero la giornata. Costante, che
s'era tratto addietro quando cominciarono a fischiare per l'aria le
saette, diessi a fuggire quando si venne alle armi corte; e pure a
mala pena campò. All'incontro la nobile e bella Bosaisa, moglie del
capitan musulmano, avea visto sì da presso il combattimento che il
marito le domandò: "Chi ti è parso il più valoroso?" "Quel dalla
catena" ella rispose: un guerriero che nel fitto della mischia,
vedendo la nave di Abd-Allah aggrappata e portata via da un
galeone nemico, l'avea liberata spezzando la catena. Questo prode
era A'lkama-ibn-Iezîd, che amò ardentemente Bosaisa; la domandò
in isposa; si ritrasse dall'inchiesta quando seppe che Abd-Allah
aspirava alla mano di lei; e venuto costui a morte pochi anni
appresso la battaglia delle Colonne, ottenne alfine il premio di sì
perseverante e generoso amore178.
Tornato il fuggente imperatore a Costantinopoli, incrudelì per
sospetti di stato; fe' uccidere il proprio fratello; continuò le
persecuzioni contro i sostenitori delle due volontà; e alternando
fierezza e viltà, com'è proprio de' tiranni, vezzeggiò i successori di
papa Martino, e pensò di fuggire i luoghi e il popolo che gli
ricordavano il parricidio. Indi si favoleggiò che uno spettro lo

178
Ibn-Abd-el-Hakem, MS. di Parigi, Ancien Fonds 655, p. 255 seg. Da lui solo è
riferito l'episodio di Bosaisa; Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. II, fol. 185 verso e seg., il
quale pone la battaglia sotto l'anno 31, ma dice che secondo altri seguì il 34 (654-
5), che è la vera data secondo gli scrittori bizantini, cioè: Theophanes,
Chronographia, tom. I, p. 528, seg.; Cedrenus, tom. I, p. 756. Il numero di mille
navi bizantine è dato da Ibn-Abd-el-Hakem, e da Isidoro de Beja scrittore
cristiano di Spagna dell'ottavo secolo, presso Flores, España Sacrada, tom. VIII,
pag. 282, seg., il quale riferisce la battaglia al 652.

145
inseguisse porgendogli una tazza piena di sangue, e gli dicesse:
"Bevi, fratello!" Dilungandosi dalla metropoli ove mai più non
tornò, Costante faceva atto di sputarla per odio, e per paura vi
lasciava la moglie e i figliuoli, ritenuti come pegno dal popolo
tumultuante. Egli, cercando sempre il pericolo da lunge e
fuggendolo da presso, venne in Italia (663) a far guerra ai
Longobardi; provocolli, e poi non aspettò lo scontro loro a
Benevento; e vedendo sconfitto un grosso di sue genti, in fretta
visitò Roma, raccolsevi quante cose di pregio rimaneano nelle
chiese, fino il bronzo ond'era coperto il tetto del Panteon; e,
incalzato da' Longobardi, passò in Sicilia; si chiuse con la corte e i
tesori a Siracusa. E in vero ei disegnò di porvi la sede dell'imperio;
come già Eraclio l'avol suo, prima di liberarsi con eroico sforzo da'
Persiani e dagli Avari, era stato per tramutarla in Affrica. Al quale
pensiero sembra mosso Costante dalla spaventevole forza degli
Arabi che parea dovessero occupare da un dì all'altro tutta l'Asia
Minore, mentre i popoli settentrionali incalzavano da un altro lato:
ed egli è evidente che, disperando di tenere Costantinopoli, non si
potea scegliere più sicura nè più comoda stanza alle forze vitali
dell'impero, che la fertile isola cinta dai porti di Messina, Siracusa,
Lilibeo e Palermo, donde le armate avrebbero signoreggiato il
Mediterraneo, e agevolmente si sarebbe ripigliata l'Italia. Le guerre
civili che sopravvennero tra i Musulmani allontanarono poi quel
gran pericolo; e gli avvenimenti nati in Sicilia fecero svanire al tutto
il disegno.
Perchè la rapacità di Costante aiutava a maraviglia il clero
siciliano, pieno di profondissimo odio contro di lui, per essere l'isola
devota al Pontefice di Roma, e molto accesa contro i Monoteliti.
Costante, in sei anni che soggiornò a Siracusa, fe' sentir la vicinanza
dell'augusta persona, con le strabocchevoli gravezze poste su l'isola,
e su le vicine terre di Calabria, Sardegna e Affrica: tasse su la
proprietà, tasse su la industria, tasse per l'armamento del navilio,
che a memoria d'uomo non se n'era sofferto mai tanto cumulo; e
confiscati con ciò i vasi sacri, e separati, dice la cronaca, i mariti

146
dalle mogli, i padri dai figliuoli, con che può intendersi
l'imprigionamento dei debitori del fisco, o qualche partaggio dei
coloni addetti ai poderi del patrimonio imperiale che fosse stato
venduto e distratto. I popoli d'Affrica, per minor male, chiamaron di
nuovo i Musulmani. Quei delle isole e di Calabria si credeano
condotti a inevitabil morte, come troviamo ne' ricordi ecclesiastici;
e coloro che scrissero tai parole, al certo ripeteanle a viva voce, e
con lunghi comenti, ai disperati sudditi di Costante.
E un dì, entrato il tiranno nel bagno di Dafne, un gentiluomo
della sua corte, per nome Andrea figliuolo di Troilo, che il serviva e
ungeagli il corpo con sapone, gli versò addosso un'urna d'acqua
bollente, e lo finì dandogli dell'urna in sul capo (15 luglio 668).
Trovato morto Costante nel bagno, nessuno cercò il come; i soldati
altra cura non ebbero che di gridare imperatore un nobil giovane
Armeno di nascita, per nome Mizize; e tutta l'isola applaudì179. Il
clero partecipò o esultò tanto nel regicidio, che mezzo secolo
appresso Gregorio Secondo, minacciandolo Leone Isaurico della
medesima sorte di papa Martino, rimbeccavagli si ricordasse egli di
Costante e del cortigiano, che, accertandolo i vescovi di Sicilia della
eresia dello imperatore, immantinente lo avea trucidato180.
Allato a cotesta spiegazione storica d'un papa si vuol porre quella
degli Arabi contemporanei, per mostrar come diversamente si
sciogliesse a Roma e in Oriente il noto caso: se lice uccidere re
179
Theophanes, Chronographia, p. 525, seg., il quale dice positivamente a p. 532,
che Costante si fosse deliberato a trasferire la sede dell'Impero a Siracusa;
Anastasius Bibliothecarius, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tom.
III, p. 141; Johannes Diaconus, Chronicon, presso Muratori, Rerum Italicarum
Scriptores, tom. I, parte II, p. 305. Paulus Diaconus, lib. V, cap. 5.
180
Questa è la significativa frase del papa, e vi si legge: πλησοφοσηξεὶς,
assicurato, fatto pienamente certo. Labbe, Sacrosancta Concilia, tom. VI, p. 19,
20; e Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, N. 272. L'epistola è data del 726,
o del 730. Il Gibbon perciò avea piena ragione di dire che Costante fu vittima «di
una tradigione domestica, e forse vescovile,» cap. 48. Lo zelo del clero siciliano
contro i Monoteliti si vede dal gran numero di vescovi dell'isola che assistettero al
concilio di Laterano del 649, e da una epistola di San Massimo presso Di
Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, N. 258.

147
tiranno. Narrata la battaglia delle Colonne e l'abbandono
d'Alessandria che ricadde nelle man de' Musulmani, i Romani, dice
la tradizione, sforzaron Costante a uscire con l'armata contro il
nemico: «Ma Iddio mandò sovr'essi una tempesta che affondava
tutte le navi, fuorchè quella di Costante; la quale scampò,
trasportandola i venti in Sicilia. Dove interrogato dalla gente e
narrati i casi suoi: "Hai svergognato la Cristianità," replicarongli i
Siciliani, "ed hai fatto perire i suoi campioni. Or se ci assaltino gli
Arabi, dove troveremo chi ne difenda?" E Costante rispondea:
"Quando salpammo, l'armata era forte: che volete se ci scoppiò
addosso la tempesta?" Ma i Siciliani, fatto scaldare un bagno vel
ficcano per forza, gridando egli invano: "Sciagurati! che il mare
inghiottì i vostri prodi, e voi ora ammazzate il re vostro." "Facciam
conto che sia annegato con gli altri," replicarono; e spacciaronlo:
ma lasciarono andare quanti eran venuti con lui su la nave.» Nel
quale racconto ognun può scoprire non solamente uno squarcio del
vero, ancorchè vestito alla foggia degli Arabi di quei tempi; ma
anco un vago cenno d'assalto sopra la Sicilia. E notabil è a tal
proposito lo stesso errore d'alcuni cronisti musulmani, che
affrettando di quattordici anni la morte di Costante, la pongono
l'anno trentuno dell'egira, il quale in parte risponde al
secentocinquantadue, data della prima impresa di Sicilia181.
Nè andò guari che i Musulmani riassaltarono l'isola. Parmi priva
di fondamento la supposizione moderna che ve li abbia chiamato
Mizize, perchè gli Arabi in quel tempo non potean sembrare valido
aiuto in un'isola sì lontana dalle provincia loro; nè quivi si vedea
cagione di tôrsi in casa il nemico, poichè il nerbo delle armi
bizantine stanziava nell'isola, e questa parea sicura al tutto dagli
181
Ibn-Abd-el-Hakem, MSS. di Parigi, Ancien Fonds 655, p. 258, e Ancien Fonds
785, fog. 120 recto. Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. II, fog. 186 verso, e 228 verso,
narrando il fatto due volte sotto due anni diversi, 31 e 35, nota il disparere dei
cronisti intorno la data, e cita il Tabari come colui che ponea la morte di Costante
nel 35. Veggasi anche Ibn-Khaldûn, MSS. di Parigi, Suppl. Arabe, 742 quinquies,
tom. II, fog. 180 verso. Ibn-Abd-el-Hakem, al par che Ibn-el-Athîr, dà a Costante
il nome di Costantino e lo dice figliuolo di Eraclio.

148
assalti di Costantinopoli. Ma quivi la corte, e gli officiali civili e
militari, temendo non rimanesse la sede dell'Impero in Sicilia,
arsero di zelo per lo giovinetto Costantino figliuolo di Costante.
Dondechè con maravigliosa prestezza e precisione ragunarono tanti
brani di forze terrestri e navali di Ravenna, Campania, Sardegna e
Affrica; ed ebbero tanto séguito nello esercito di Sicilia, che
appresentatosi Costantino a Siracusa in primavera del
secentosessantanove, Mizize fu abbandonato da tutti, riconosciuto
legittimo imperatore Costantino, e chiamossi ribellione il colpo di
Stato fallito. Costantino a capo di pochi mesi tornossene all'antica
capitale182. Probabil è ch'egli sguernisse di soldati la Sicilia, per tor
la voglia di crear qualche altro imperatore; e che i Musulmani i
quali tenean gli occhi aperti su la nuova sede dell'Impero nemico,
cogliessero questa occasione di spogliarla.
Vennero d'Alessandria su dugento navi, condotti da Abd-Allah-
ibn-Kais della tribù di Fezâra, arrisicatissimo condottiero che
afflisse i Cristiani del Mediterraneo in cinquanta scorrerie navali; e
alfine fu ucciso in luogo detto Marca, probabilmente in Italia 183.
Abd-Allah irruppe in Siracusa con molta strage; se non che i
cittadini rifuggivansi nelle montagne e nelle più munite rôcche
dell'isola. Dopo un mese, fatto gran cumulo di preda, prese varie
terre o piuttosto battuto il paese qua e là coi cavalli, i Musulmani si
rimbarcarono. Portaron via, dicono gli scrittori cristiani, i tesori
delle chiese e i bronzi rubati da Costante a Roma. Dicono i
Musulmani, come s'è visto sopra nel testo di Beladori, che si trovò
nel bottino gran copia d'idoli fabbricati di preziosi metalli e di
gemme: e che il califo Mo'âwia li mandò ai mercati degli idolatri

182
Theophanes, Chronographia, tom. I, 558, seg. Veggasi anche Le Beau,
Histoire du Bas Empire, lib. LXI, § 1, con le note del Saint-Martin, che crede si
debba pronunziare Megegi il luogo di Mizize.
183
Ibn-Khaldûn, MSS. di Parigi, Suppl. Ar., 742 quinquies, tomo II, fog. 181
recto, fa menzione di coteste scorrerie e della morte di Abd-Allah «nella costiera
di Marka, terra di Rûm;» cioè Italia o Grecia. Ancorchè quelle che or chiamiamo
le Marche non fossero intese allora sotto questo nome, il vocabolo Marca
appartiene piuttosto all'Italia che alla Grecia.

149
d'India, sperando che ne conoscessero e pagassero il pregio. Ma
l'universale dei Musulmani fieramente scandalizzossi di un
pontefice che rivendeva i lavorii di Satan184.
A questa impresa del secentosessantanove, un monaco
Benedettino, vivuto cinquecent'anni appresso, innestò sue fole di
sanguinosa strage nel monastero dell'Ordine a Messina, e sopratutto
di guasto a moltissime città e terre che i Benedettini possedessero in
184
Paulus Diaconus, lib. V, cap. 13, presso Muratori, Rerum
Italicarum Scriptores, tom. I, parte I, p. 481; Anastasius
Bibliothecarius, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tom.
III, p. 141; Johannes Diaconus, Chronicon, etc., presso Muratori,
Rerum Italicarum Scriptores, tom. I, parte II, p. 305. La seconda
impresa dei Musulmani, in Affrica è raccontata da Paolo dopo
questa di Sicilia nel lib. VI, cap. 10. Da coteste autorità cristiane, o
per dir meglio dall'unica tradizione che ripetono questi e altri
cronisti, si sa che l'armata musulmana venisse d'Alessandria, dopo
la partenza di Costantino Pogonato da Siracusa, che tornerebbe alla
state o autunno del 669.
Le autorità musulmane sono citate di sopra (p. 84, nota 4, e p. 85,
nota 1). Tra quelle il solo Baiân assegna una data a questa scorreria,
e la fa supporre mossa d'Affrica, per comando di Mo'âwia-ibn-
Hodeig che guerreggiasse in quella provincia. La data è del 46 (666-
7), nè si deve esitare a correggerla secondo i Cristiani; poichè que'
preziosi simulacri ci fan fede della identità della impresa. Replico
che il diligentissimo Ibn-el-Athîr non fa molto di que' primi assalti
sopra la Sicilia. Trovo soltanto ne' suoi annali, MS. C, tom. III, fog.
42 verso, sotto l'anno 49 (8 febb. 669, a 27 gennaio 670):
«Quest'anno seguì la fazione marittima d'inverno alla quale andò
O'kba-ibn-Nafi' con la gente d'Egitto.»
Debbo qui avvertire che il Rampoldi, Annali musulmani, tom. III, sotto il 668
porta la impresa di Abd-Allah-ibn-Kais, citando Nowairi, e aggiugnendo di capo
suo che i Musulmani sbarcassero al capo Pachino. Poi sotto il 673, e come per lo
più gli avviene senza citare alcuna autorità, narra il saccheggio delle campagne di
Siracusa «per una divisione della gran flotta di Mohammed Ibn Abdallah,» ch'ei
nell'anno precedente avea detto uscita «di Siria e d'Egitto» a far preda sul mare

150
Sicilia. Tal racconto si trova in una serie di leggende apocrife e falsi
documenti, con che si fece prova nel duodecimo secolo a gabbare i
principi, e carpir qualche pezzo dell'immenso patrimonio che si
fingea tolto a que' pii cenobiti. Non senz'arte, si fe' menzione dei
poderi da una mano nelle geste dei martiri, dall'altra mano nei
supposti diplomi; e tra le une e gli altri, si attribuì ai Benedettini la
proprietà di mezza Sicilia: terreni in tutti i luoghi di cui si
conoscessero i nomi nella storia antica; e intere città poste sotto la
signoria loro fin dal sesto secolo, come potean esserlo nel
duodecimo. Ma traditi sempre più dall'ignoranza, gli autori della
frode, che mi sembran parecchi, senza escluder l'Abate di Monte
Cassino a quel tempo, presero tropp'alto il volo nelle leggende:
fecero cominciare gli assalti dei Musulmani un secolo avanti
Maometto, e trucidare San Placido, con trenta tra frati e suore che
viveano nel suo monastero di Messina, proprio l'anno
cinquecentoquarantuno, da un barone agareno che lor piacque di
chiamare Mamuca, mandato con l'armata spagnuola da Abdallah,
capo di setta saracena in quelle parti, tiranno zelantissimo nel
promuovere il culto di Moloch e della stella Lucifero. Ciò tanto o
quanto potea passare nel duodecimo secolo; pur la novella non
prese allora, nè fruttò. Ma verso la fine del secol decimosesto, per
procaccio de' Gesuiti, si rifrustarono quelle memorie; si cercarono a
Messina, e, com'è naturale, si trovarono le tombe e le ossa dei
martiri, e fino il piombo, che i Barbari infedeli avean loro versato in
gola; e il dotto e scaltro Sisto Quinto, in un tempo di tanta gloria
letteraria della patria nostra, soscrisse un breve dato il tredici
novembre millecinquecento ottentotto, nel quale comandò che si

Egeo. Suppongo che il Rampoldi abbia veduto questo fatto in qualche moderna
compilazione, come credo, persiana, chè non suole egli attingere ad altre sorgenti
che a queste o a libri stampati in Europa; e forte sospetto che si tratti della
medesima scorreria del 669, portata quattr'anni appresso per errore di cronologia.
Han seguíto il Rampoldi, Martorana, Notizie storiche ec., tom. I, p. 29, citandolo,
e Wenrich, Commentarii etc., lib. I, cap. 2, § 42, senza citare nè l'uno nè l'altro; e
peggio, mettendo insieme questa impresa con una seguíta mezzo secolo appresso,
e gittandole entrambe su le spalle del Nowairi, che parla soltanto della seconda.

151
festeggiasse il giorno di quel martirio per tutto l'orbe cattolico; e
infelicemente replicò i nomi dei crudelissimi Abdallah e Mamuca,
tiranni saraceni, invasori della Sicilia al tempo di San Benedetto e di
Giustiniano. Accorati e confusi a tanto sbalzo d'anacronismo, i dotti
scrittori ecclesiastici del medesimo secolo decimosesto e dei
seguenti, se ne cavarono con accettare il fatto del martirio, e
dichiararne apocrifa la sorgente, che eran gli atti di Gordiano: il solo
frate scampato, come diceasi, alla barbarie di Mamuca. Ma mentre
la falsa leggenda rimanea così in commercio, nessuno ebbe pietà dei
documenti usciti dalla stessa fucina. Il Baronio li disse falsi, nè più
nè meno; il Pagi rincalzò con pari severità; il Mabillon,
Benedettino, sospirando ratificò il giudizio; e il siciliano Di
Giovanni li rigettò con meritato disprezzo. Tra quelli appunto si
trova una supposta lettera di papa Vitaliano per lo risarcimento dei
guasti recati da Musulmani ai poderi benedettini di Sicilia nella
scorreria del secentosessantanove. E com'ei pareva opportuno di
fare rosseggiare il sangue dei martiri, quantunque volte si trattasse
dei beni del monastero, una appendice posta alla leggenda di
Mamuca, aggiunse quell'episodio dei martirii al supposto
saccheggio del secentosessantanove. Infine la erudizione, la
ignoranza e la impudenza, sbrigliaronsi in una seconda appendice
che fe' partecipare i Benedettini delle stragi e guasti della notissima
impresa di Ibrahîm-ibn-Ahmed nel novecentotrè. Dove lo scrittore,
dopo aver detto delle immense possessioni del monastero depredate
e degli infiniti monaci uccisi in Sicilia, si ride un po' troppo dei
lettori, conchiudendo: «e chi vuol sapere le passioni di tutti quei
martiri, vada a cercarle nelle biblioteche di Costantinopoli185.»
185
Della leggenda di San Placido vi ha due compilazioni, fatte
entrambe nel XII secolo sotto gli auspicii dell'Abate di Monte
Cassino. L'una va sotto il nome del prete Stefano Aniciese, il quale
finse di tradurre un testo greco, che, com'è naturale, non si trova;
recato, diceasi, da Costantinopoli da un vecchio centenario che
capitò a Salerno il 1115, e su le prime fu ributtato dai monaci
Cassinesi, o ne fecero le viste. L'altra è di Pietro Diacono, monaco

152
CAPITOLO V.
Dopo le raccontate scorrerie del secentocinquantadue e
secentosessantanove la Sicilia ebbe a sentire il peso dei Musulmani,
non più di Levante, ma dell'Affrica, ove la schiatta arabica si
rinforzò d'una potente schiatta straniera e insieme con quella
divenne sì formidabile in tutte le parti occidentali d'Europa. Però è
mestieri toccare alquanto le condizioni di tal nuova provincia
musulmana. Il tratto di terreno che serpeggia dai confini dell'Egitto
fino allo stretto di Gibilterra tra il mare e la catena dell'Atlante o i
deserti, ubbidiva al nome bizantino, o romano, come affettavan
chiamarlo tuttavia. Distingueano gli antichi questa regione sotto
varii nomi, cominciando dalle due Mauritanie alla estremità di
Cassinese, continuatore, come ognun sa, della cronica di Leone
d'Ostia, compilatore delle vite degli illustri Cassinesi, e uomo
erudito, che fu il principale autore o strumento della impostura di
cui trattiamo. Costui dice che per comando dell'Abate ei si fe' a
ripulire e racconciare la narrazione, e in fatto v'aggiunse i due
episodii del 669 e 905. Leggonsi le due compilazioni presso il
Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tom. I, p. 172 a 184, con le
Animadversiones, p. 145 a 157, dove a p. 157 si trova per tenore il
breve di Sisto V. Lo scrittore del breve tradisce un po' il segreto,
noverando il rinvenimento delle reliquie di San Placido e Compagni
tra le grazie di Dio, quæ his calamitosis et truculentis temporibus
christiano populo in dies largitur. Il Gaetani e altri han cercato di
rattoppare i casi di San Placido e di Mamuca, dicendo che i corsari
sbarcati a Messina forse erano Vandali, Goti, Avari ec. Resterebbe a
provare come il principe di questi Barbari germanici o finnici si
chiamasse in purissimo linguaggio arabo Abd-Allah.
I supposti documenti si trovano presso il Di Giovanni, Codex Siciliæ
Diplomaticus, p. 374, seg., sotto i numeri 11 a 20 e 22, 23, 26, 27, dei diplomi
posti in appendice come dubbii o falsi. Il giudizio del Di Giovanni si vegga nelle
note ai detti documenti, e segnatamente a p. 378; que' del Baronio e del Pagi negli
Annales Ecclesiastici del primo, anno 541, § 27, 28, 29, e § 8 della Critica, an.
669, § 4; quello del Mabillon negli Annales Ordinis Sancti Benedicti, lib. XV, $
73.

153
ponente, indi Numidia, Affrica propria che prendea lo Stato odierno
di Tunis e la parte occidentale di quel di Tripoli fino al golfo della
grande Sirte, e via seguitando, Cirenaica, Marmarica e la provincia
Libica che confina con l'Egitto; Paese di vario aspetto; dove orrido e
arso, come le più inospite regioni dell'Arabia, dove lieto di
vegetazione, temperato di clima e vivificato dalla man dell'uomo.
Perchè prima i Cartaginesi e poi i Romani vi avean recato il genio
del lavoro, che creava più che la guerra e la barbarie non
guastassero; e, pur dopo l'invasione dei Vandali, v'erano rimase
importanti città e maggior tra tutte Cartagine, risorta dalle sue
rovine; e vi fioriano ancora industrie e lucrosi commerci.
Teneano l'Affrica settentrionale quattro generazioni d'uomini,
diversissime d'origine e di numero. La più moderna era un pugno di
gente germanica che alcuni autori arabi chiaman Franchi; e Leone
Affricano, Goti: senza dubbio gli avanzi dei Vandali rimasti dopo
l'impresa di Belisario186. Innanzi a loro per numero ed anzianità di
soggiorno venian le popolazioni pelasgiche, d'Italia cioè e di Grecia,
portate dalla dominazione romana: le quali gli scrittori arabi a lor
modo chiamano i Rum. In terzo poteansi noverare gli altri stranieri
gittati, direi quasi, dal mare su la costiera, forse in parte discendenti
dei Fenicii, miscuglio di tante schiatte simile a quel che oggi dicesi
nell'Algeria Mori, o Moreschi, non sapendosi qual altro nome dar
loro che uno indefinito e antico; e forse per la medesima ragione gli
Arabi li chiamarono Afârik, o Afôrika, ossia Affricani,
accorgendosi che non fossero nè Germani nè Pelasgi nè Berberi187.
186
Veggasi qui pag. 121, nota 1.[Numerazione dell'originale cartaceo: è la nota
205 di questa edizione. Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
187
Ibn-Khaldûn, MSS. di Parigi, Suppl. Arabe, 742 quinquies, tom. II, fol. 180
recto, dicendo della vera o supposta migrazione delle tribù berbere in Affrica ove
dominavano i Romani, e come gli Afârik divennero tributarii dei Berberi,
aggiugne «Gli Afârik erano come servitorame e preda dei Romani.» Da ciò si
comprende appunto quale popolazione gli Arabi designassero col nome Afârik o
Afârika. Il fatto che mutando padroni fossero divenuti vassalli dei Berberi, fu
vero in molti luoghi duranti le lotte dei Berberi contro i Romani e i Bizantini. Ve-
ggasi anche Ibn-Abd-el-Hakem presso De Slane, Histoire des Berbères par Ibn-
Khaldoun, tom. I, p. 301, in appendice; Bekri, Notices et extraits des MSS. etc.,

154
Ma i Berberi aborigeni, come debbon dirsi non vi essendo
memoria di altri abitatori innanzi a loro, vinceane di gran lunga
anche per lo numero e per la estensione del territorio tutte le razze
intruse. Stendeansi dall'Atlantico ai deserti non esplorati che
finiscono a Levante con la valle del Nilo; correano dal Mediterraneo
agli altri deserti che arrivano al Tropico e al Sûdan, o vogliam dire
paese dei Negri; dimodochè le tribù berbere più o meno sottomesse
penetravano per ogni luogo il territorio romano; e le tribù, o meglio
diremmo nazioni independenti, lo premeano dalla parte di
mezzogiorno e di ponente. La gagliarda e fiera gente berbera,
inaccessibile di tutti i tempi alla civiltà, mosse d'Oriente, come il
mostra la stampa della schiatta caucasica che ha in volto, e come il
portano le sue tradizioni serbateci dagli scrittori romani e dagli
arabi. I libri punici in fatti, consultati da Sallustio, li diceano popoli
della Media e dell'Armenia venuti in Occidente con Ercole; lo
scrittore armeno Moisè di Corene e Procopio li credettero Cananei
cacciati di lor terra da Giosuè; degli Arabi, chi li ha fatto
Himiariti188 o vogliam dire della schiatta dell'Arabia Meridionale; e
chi ha appiccato la genealogia loro anche a Canaan; tradizioni
mitiche, come ognun se ne accorge, tra le quali potran decidere i
dotti quando si sarà studiata meglio la lingua berbera, e si
conosceranno un poco certi altri antichi idiomi dell'Asia anteriore,
come sarebbero gli ariani e gli himiariti. Intanto, dalla tradizione, al
par che dal linguaggio, parecchie tribù berbere sembrano senza
dubbio d'origine semitica; ovvero, se tutta la gente berbera il sia,
quelle sembran passate in Occidente in tempi men rimoti, talchè il
dialetto loro abbia ritenuto molto più delle voci e forme semitiche.
Il nome generico di Berberi par sia stato messo in uso la prima volta

tom. XII, p. 511; e il Baiân, p. 23.


188
Prova anche questa opinione una favola che leggiamo nel Riadh-en-nofûs,
MS., fol. 2 recto, cioè che un Abd-Allah-ibn-Ziâdh-ibn-An'am asseriva aver visto
a Cartagine un sepolcro sul quale era scritto in caratteri himiariti: «Io fui Abd-
Allah-ibn-Arâsci inviato dall'apostolo di Dio Sâlih al popolo di questa città per
chiamarlo alla vera fede: chè io loro arrecava la luce; essi iniquamente mi
uccisero; e appartiene a Dio la vendetta.»

155
dagli Arabi, poichè fino ai tempi del conquisto loro la appellazione
generale di coteste schiatta fu Mauri Barbari, come troviamo in
Procopio; alla quale gli scrittori europei dei tempi più bassi ne
aggiunsero altre, d'Affricani, e, con manifesto errore, di Punici, e fin
anco Cartaginesi: oltrechè, ad accrescere la confusione, ricorre
sempre negli scritti loro la indeterminata appellazione di Saraceni.
Tra coteste false denominazioni etniche de' popoli primitivi
dell'Affrica, quella di Mori, ch'è più antica, ci è divenuta anco
familiare ne' romanzi, ne' poemi, in architettura e financo nelle
storie; ma io preferirò, come assai più determinata, la voce Berberi,
alla quale si son attenuti giustamente i dotti. È parso ad alcuni
eruditi d'Europa che gli Arabi abbian tolto di peso tal voce dalla
latina Barbari; e al contrario gli scrittori arabi traggono la
etimologia dal loro vocabolo berber, che significa borbottare, e
diconlo anche di parlare in gergo rozzo e straniero. Gli uni e gli altri
credo si appongano al vero; poichè gli Arabi conquistatori
dell'Affrica settentrionale tanto più agevolmente doveano adottare il
nome che trovarono in uso tra i popoli inciviliti del paese, quanto
avea significato nel loro proprio linguaggio, e il significato si
confaceva appunto al caso. Ma v'ha di più: il valore primitivo di
questo vocabolo nell'idioma greco, che lo comunicò a tutti gli altri
dell'Europa, è identico a quel che ritenne in arabico il verbo berber.
Come notollo il Gibbon, Barbaro nell'Iliade non è detto che di
favella rozza e aspra; nè pria de' tempi di Erodoto si vede usata
cotesta voce com'appellazione dei popoli non parlanti il greco;
donde poi si venne mutando il significato, come ognun sa, fino a
quel che ha preso nelle lingue moderne. La stessa voce borbottare,
che mi è occorsa testè traducendo il detto verbo arabico, vi
consuona tanto e sì a capello ne rende il significato, che potrebbe
riferirsi per avventura alla medesima origine189.
189
Su la origine dei Berberi e del nome loro mi riferisco alle testimonianze degli
autori dell'antichità e arabi, e alle opinioni moderne che si ritraggono dai seguenti
libri: Ibn-abi-Dinâr (detto nella versione francese el-Kaïrouani), Histoire de
l'Afrique, p. 22, 28, con le pregevoli note di M. Pelletier; Leone Africano, presso
Ramusio, Navigatione et Viaggi, p. 2; De Guignes, nella raccolta Notices et ex-

156
Tale essendo la divisione etnologica dell'Affrica Settentrionale,
non è mestieri aggiungere che facean base al governo bizantino le
schiatte nuove, frequenti nelle parti orientali più che nelle
occidentali, industri, snervate e cristiane; anzi sì zelanti nella fede,
che la Chiesa Africana ai tempi suoi levò quel grandissimo grido
che ognun sa. Al contrario i Berberi, che aveano sì ostinatamente
combattuto la dominazione di Cartagine, poi la romana, non
lasciavan tranquilla la bizantina; ma non bastavano ad abbatterla per
essere sì divisi, nimicantisi tra loro senza perchè; diversi anco di
religione, adorando chi le stelle, chi un idolo, chi un altro; e qualche
tribù giudea, altra cristiana di nome. Il reggimento bizantino
resisteva a così fatti nemici mercè la ordinata amministrazione d'una
provincia ricca, la disciplina militare, le molte fortezze, il navilio. E
queste forze eran tali, che nei principii del settimo secolo Eraclio
governatore dell'Affrica avea occupato il trono di Costantinopoli, e
che il patrizio Gregorio, deputato da lui a regger la provincia,
levossi in aperta ribellione (646) quando vide fortuneggiare l'impero
assalito dagli Arabi.
Gli Arabi non prima avean messo piè in Egitto che irruppero in
Affrica. A'mr-ibn-A'si occupò Barca, Tripoli e Zuâgha (641-643),
gli abitatori della quale si rifuggirono in Sicilia190. A'mr, levata di
quei paesi una grossa taglia, ardea d'andar oltre: quando il califfo
Omar gli comandò di ritrarsi; temendo di far troppo grande

traits des MSS., tom. II, p. 152; Pococke, Specimen historiæ Arabum, p. 56; Gib-
bon, Decline and fall, cap. LI, nota 162; Reinaud, Invasions des Sarrazins en
France, pag. 2, 3, 243; Castiglione, Mémoire géographique et numismatique sur
l'Afrikia, p. 83, e 94 e seg.; De Slane, Ibn Khallikan's Biographical Dictionary,
tom. I, p. 35; Ibn-Khaldûn, estratti nel Journal Asiatique, série II, tom. II (1828),
p. 117, seg., e lo stesso autore nel racconto del primo conquisto di Affrica, MSS.
di Parigi, Suppl. arabe, 742 quinquies, tom. II, fog. 180 recto; Caussin, Essai sur
l'histoire des Arabes, tom. I, p. 21, 67, 68; Saint-Martin, note a Le Beau, Histoire
du Bas Empire, lib. XI, § 29. Si ricordino oltre a ciò i Barbaricini di Sardegna ai
tempi di San Gregorio, dei quali si è fatto parola nel cap. I, p. 18, nota 1.
190
L'occupazione di Zuâgha, ch'è forse l'antica Sabratha, si ritrae da Tigiani,
Journal Asiatique, février-mars 1853, p. 125, con la nota dell'erudito traduttore
M. Alphonse Rousseau.

157
l'Impero, e come presago del gran sangue che dovea costare
l'Affrica. Similmente parecchi compagni del Profeta, pochi anni
appresso, dissentivano dall'impresa proposta dal novello capitano
d'Egitto al califfo Othman, che gli era fratel di latte; ma questi,
sendosela fitta in mente, pose di nuovo il partito nel consiglio, e,
vintolo, affrettò i preparamenti in persona; li aiutò coi proprii
danari; e avviò da Medina una eletta di guerrieri delle tribù
modharite e del Iemen; i quali coi rinforzi presi in Egitto
sommarono a ventimila tra cavalli e fanti. Condotti da Abd-Allah-
ibn-Sa'd, quel medesimo che pochi anni appresso guadagnò la
battaglia navale delle Colonne, mossero, non lungi dalla costiera,
infino al golfo di Hammamet, e trovarono l'esercito di Gregorio,
dentro terra, tra Sufetula e Cartagine (647). Per certo non
combatteano sotto Gregorio centoventimila uomini, come scrissero
alcuni cronisti arabi; per certo nè quegli avea promesso la man della
figliuola e centomila monete di oro a chi uccidesse Abd-Allah-ibn-
Sa'd; nè Abd-Allah-ibn-Zobeir con trenta cavalieri soli andò ad
uccider lui nel bel mezzo delle file bizantine, e prendersi la figliuola
che pugnava a cavallo con un ombrello di penne di pavone; nè pare
probabile che il pregio del bottino montasse a tal somma prodigiosa,
che, toltane la quinta, ne toccò tremila dinar ad ogni cavaliere e
mille a ogni pedone. Cotesti episodii, ignoti ai più antichi scrittori
arabi, messi innanti da quei di tempi più bassi e accettati per
necessità dagli storici europei, sono stati distrutti non è guari da un
insigne orientalista191. Ma piacemi di poter dare, in luogo di quelli,
alcuni particolari, non pubblicati per anco, e autentici come io
credo, ritraendosi da un discorso, che gli Arabi serbavano tra i lor
modelli di eloquenza. Abd-Allah-ibn-Zobeir, che fu l'Ulisse di
quella impresa, sopraccorso con rapidissimo viaggio a Medina,
191
Il barone Mac-Guckin De Slane, Journal Asiatique, série IV, tom. IV (1844),
p. 329, seg. Le autorità da cui si ritraggono le varie narrazioni son citate da lui.
Veggansi ancora Ibn-el-Athîr, MS. C., tom. II, fog. 170 recto a 172 verso; Baiân,
p. 3, seg., dalle narrazioni dei quali mi persuado che M. De Slane abbia accusato
a torto il solo Nowairi ed abbia troppo scemato il merito che torna ad Abd-Allah-
ibn-Zobeir.

158
narrava la vittoria in pubblica concione, permettendolo il califfo:
dicea che intimato agli Affricani l'islam o il tributo, e rifiutato l'un e
l'altro, i Musulmani, temporeggiarono per due settimane in faccia
all'esercito nemico: poi il capitano li esortò a combattere per la
causa di Dio e guidolli alla battaglia; la quale aspramente si
travagliò il primo giorno con molto sangue d'ambe le parti e
avvantaggio di nessuna. «Venne la notte, proseguiva Abd-Allah, e i
Musulmani a recitare il Corano, che s'udiva tra loro appena un
susurro, come il ronzio delle api; i politeisti a sbevazzare e
trastullarsi. La dimane, ripigliata la zuffa, Iddio ci fe' star saldi e ci
accordò la vittoria, verso il tramonto del sole. Grandissimo è stato il
bottino; la taglia pattuita sì grossa, che il quinto solo torna a
cinquecentomila monete: ma forse n'avremo altri due tanti. E così io
ho lasciato i Musulmani ricreati e sazii di preda, e son venuto
nunzio al principe de' Credenti192.» Il patto cui si allude era stato
chiesto da' vinti, quando videro sparse le gualdane a battere il paese
e struggere e rapire ogni cosa. Raccolto quanto tesoro potè,
l'esercito musulmano si ritrasse a capo di quindici mesi dal dì che
avea passato la frontiera d'Egitto193. Un diligente scrittore porta che
192
Ibn-Abd-Rabbih, MS. di Parigi, tom. II, fol. 161 recto, seg., dà il tenor di
questa orazione o Khotba, come la chiamano gli Arabi, in una raccolta di così
fatti componimenti; nè veggo alcuna ragione di metterne in forse l'autenticità. Ho
aggiunto la vaga parola moneta al numero che scrive l'autore, senza dir se fosse di
dirhem, ovvero dinar. Nel primo caso, la taglia posta da' vincitori sarebbe appena
arrivata a un milione e mezzo di franchi o lire italiane ragionando il dirhem a
0,60, poichè la somma totale del dividendo torna a 2,500,000. Se poi si trattasse
di dinar, contando questa moneta a lire ital. o fr. 14,50 secondo il valore
intrinseco dei dinar ben conservati e supposti di oro puro, la somma sarebbe
montata a 36 milioni circa. Leggo per conghiettura in questo non buono MS. la
parola che ho tradotto «due tanti.» La somma di danaro menzionata nel discorso
di Abd-Allah-ibn-Zobeir, sia che si ragioni in dirhem, sia anco in dinar, messa a
ragguaglio con le cifre che si danno nel racconto ordinario, presterebbe nuovi
argomenti a distrugger ciò che dicono i moderni cronisti. Uno squarcio della detta
orazione si legge anche nel Riadh-en-nofûs, MS., fol. 3 verso; ma non arriva che
alle parole «fino al tramonto del sole.»
193
Nowairi presso De Slane, Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, tom. I, p.
323 in appendice. I quindici mesi debbono contarsi come principiati nell'anno 26,

159
in questo tempo gli abitatori della penisola di Scerik, che guarda la
Sicilia, si riparassero nella lor città di Kalibia (Clypea), e di lì a
poco nella vicina isola di Pantellaria; ove alzaron fortezze e stettero
lunga stagione, finchè non andò a snidarli un'armata musulmana194.
Ma più probabile mi sembra che la fuga in Pantellaria seguisse una
ventina d'anni dopo, quando la infestagione si venne a mutare in
conquisto.
Perocchè gli Arabi saviamente audaci, non sendo per anco
cresciuti di numero con assimilarsi i popoli vinti, tennero nelle
prime vittorie uno di questi due modi. Ne' paesi ove parea loro di
stanziare, poneano un grosso campo come i Romani, e occupavano
qualche città: di che è esempio il disegno di A'mr-ibn-A'si, che si
affortificò a Fostat, presso al Cairo d'oggi, e fece d'Alessandria un
ribat, o, a modo nostro di dire, una piazza di frontiera; ove lasciò in
presidio la quarta parte delle genti da scambiarsi ogni sei mesi con
un'altra quarta parte che scorrea la costiera195, mentre le altre due
quarte rimaneano col capitano196. Al contrario nelle regioni troppo
lontane facean grosse correrie, movendo dalle piazze di frontiera e
quivi tornavansene col bottino e le taglie, come abbiam detto di
Cipro, della Sicilia e dell'Affrica. Ma sovente accadea che
l'agevolezza della vittoria, le occasioni che nasceano, e il rigoglio
delle tribù arabe presto ingrossate di clienti stranieri, allettassero ad
occupar coteste provincie, come le altre di cui si è detto.
E così appunto seguì in Affrica dopo quattro novelle guerre o
scorrerie, che s'avvicendarono dal secentocinquantaquattro al
secentosettanta197, una delle quali fu ordinata dal califo Mo'âwia a
e terminati nel 27 dell'egira, e però comprendono tutto il 647 dell'era volgare. Ibn-
el-Athîr pone il principio dell'impresa nel 26.
194
Bekri, nella raccolta Notices et extraits des MSS., tom. XII, p. 500; Tigiani,
Journal Asiatique, août-septembre 1852, p. 80.
195
Nell'originale "cotiera". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
196
Ibn-Abd-el-Hakem, MS. A, p. 258, narra cotesto ordinamento di Alessandria.
197
Ibn-Abd-el-Hakem, op. cit., p. 263, 264. L'autore distingue quattro imprese
negli anni 34 (654-5), 40 (660-1), 46 (666-7), e 50 (670), delle quali la penultima
capitanata da O'kba-ibn-Nafi', e le altre da Mo'âwia-ibn-Hodeig. Lo stesso si
ricava dal Riadh-en-nofûs, MS., fog. 3 verso, e 4 recto, e 9 recto. Quelle date e

160
chiesta di popolazioni cristiane dell'Affrica, cui la tirannide di
Costante avea mosso a ribellione. Il pensier del conquisto si dee
riferire ad O'kba-ibn-Nafi', il quale in gioventù avea capitanato i
primi cavalli arabi passati d'Egitto a infestar la terra d'Affrica, e, più
maturo, comprese che la si potea tenere facendosi strumento delle
popolazioni berbere. Mo'âwia il secondò con dargli comando
independente dal governatore dell'Egitto, l'anno cinquanta dell'egira
(670); ed ei poneasi con diecimila cavalli a Barca, ove fe' opera ad
attirarsi i Berberi dei contorni. Risoluto poi andò a piantare in
mezzo all'Affrica propria un alloggiamento che fu chiamato il
Kairewân198, ove l'esercito musulmano stesse sicuro con le famiglie
e lo avere. Elesse il sito dentro terra, a una giornata di cammino dal
porto di Susa, in terreno boschivo e sano, ove sorgea un picciol
castello romano, che gli Arabi chiamano Kamunia. Della scelta si
disputò a lungo tra il capitano e i principali dell'oste, con ragioni
non da Barbari. Volean gli altri tirarsi verso le spiagge per stare più
pronti alle offese; O'kba rispondea che era meglio assicurar la
capitale da' subiti assalti delle armate bizantine. Temeano quelli da
una vicina palude tristi esalazioni nella state e umidità nell'inverno;
ma egli mostrò ch'era forza incontrare que' disagi, poichè la palude
difendea un terreno da tenere in pascolo i cameli che servono a

nomi son confusi negli altri cronisti, cioè Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. III, p. 43
verso, seg.; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des
Vergers, p. 5 e 12; Baiân, p. 8 a 11; Nowairi, presso De Slane, op. cit., p. 327,
seg.
198
È la notissima voce caravana. I lessicografi arabi la credono di origine persiana
e che voglia dire comitiva di viandanti ed esercito. Secondo un rinomato filologo
arabo di Sicilia, Ibn-Kattâ', citato da Ibn-Khallikân (Biografical Dictionary, tom.
I, p. 35), Kairewân ha il primo di questi significati e Kairuwân il secondo. Ma
Beladori e Ibn-Abd-el-Hakem, de' quali ho già parlato, lo adoperano
evidentemente nel senso di campo permanente, come è stato notato dal barone De
Slane (Journal Asiatique, Série IV, tom. IV, p. 354, 361). Donde pare evidente
che tal vocabolo dal nono secolo, quando scrissero que' due cronisti,
all'undecimo, quando visse Ibn-Kattâ', era andato in disuso nel significato di
alloggiamento e riteneva l'altro soltanto. Forse anco alcune tribù gli davano quel
senso e altre no.

161
trasportare l'esercito nostro, diceva il capitano, e i Berberi e i Greci
la prima cosa che farebbero, sarebbe di venirceli ad ammazzare alle
porte proprio della città, con improvvisa scorreria199. Vinto così il
partito e condotte le genti là dove ei pensava fondare Kairewan,
O'kba solennemente n'espulse gli antichi ospiti. "Belve e serpenti,"
gridò "noi siamo i compagni dell'Apostol di Dio; partitevi di qui o
sarete sterminati." E le bestie a sgombrare quetamente portando
seco i lor nati, e i Berberi a convertirsi, dicon le croniche, nè v'ha
ostacolo a crederlo. Con un'altra scena troncò le dubbiezze degli
Arabi, che, messisi a fabbricar la Moschea, andavan cercando la
dirittura della Mecca, la kibla, com'essi dicono, alla quale il
Musulmano dee guardare quand'ei fa le preci. Mentre gli altri
osservavan le stelle il meglio che poteano, egli ebbe un sogno; diè
di piglio alla bandiera; seguì una voce sovrumana; e, dove quella gli
disse "resta," fisse in terra l'asta e fe' innalzar la Moschea cattedrale.
Costruirono anche il palagio del governo, le case dei grandi, gli
abituri della minor gente: di argilla la moschea, di canne le case,
dice un antico scrittore200; nè pensarono per lungo tempo a mutare in
lor uso gli avanzi d'architettura romana che offriva il luogo201. Oltre
a ciò posero alberghi, o com'essi dicono menzil, pei viandanti, a
giuste distanze lungo le strade della provincia.
In cinque anni questi ordinamenti progrediano, e O'kba portava
le armi sempre più verso ponente tra le tribù berbere; quando il
califo il depose; unì di nuovo l'Affrica all'Egitto, e un novello
capitano, per nome Abu-Mohâgir, imprigionò O'kba e smantellò il
Kairewân: pensando forse che invano si sarebbe prodigato il sangue
dei Musulmani nell'indomabile provincia, e che piuttosto era da
pigliare i Berberi con le buone. In fatti egli avea tirato a professare
l'islamismo un potente lor capo per nome Koseila, quando, salito al
199
Riadh-en-nofûs, MS., fog. 2 recto.
200
Ibn-Koteiba presso Gayangos, The history of the Mohammedan Dynasties in
Spain, by Al-Makkari, tom. I, appendice, p. LVI.
201
Il Riadh-en-nofûs, MS., fol. 4 recto, parla di due colonne rosse che rimasero
nella chiesa di Kamunia fino al tempo di Zladet-Allah (817-838) che le trasportò
nella sua novella moschea cattedrale.

162
trono Iezîd, e tornato O'kba in credito a corte e resogli il governo
d'Affrica (681-2), ristorò la sua città, ripigliò con tanto più ardore i
suoi disegni e alla sua volta mise in catene Abu-Mohâgir. Con ciò
fe' nuovi miracoli e nuove imprese: scaturir fontane quando
l'esercito era per morir di sete; debellare eserciti bizantini e orde di
Berberi; e altre ne convertì, com'ei credeva, e vittorioso trascorse
infino a Tanger e Sus dell'Atlantico, ove, spinto il cavallo nelle
acque, levando la mano verso il cielo, profferì que' noti detti che il
mare solo rattenealo dal portare il culto del vero Iddio sino agli
ultimi confini del mondo.
Pur le gonfie parole accompagnan sì raro i savii fatti, che O'kba,
pria d'andare a guazzare il cavallo nell'Oceano, non pensò a'
Bizantini che stanziavano a Cartagine e nelle altre città del
Mediterraneo troppo dure a intaccare; ma, scansandole, era ito per
la regione a mezzodì dell'Aurès, donde passò a settentrione, forse
nella provincia d'Algeri o d'Orano. Peggio fece a trattar come vinti
quei Berberi, che cominciavano a parteggiare per lui dopo essere
stati sgarati in battaglia, ma non voleano ingozzare gli oltraggi ch'ei
facea loro per superbia, o sol perchè Abu-Mohâgir aveva usato
umanamente con essi. Narrasi, tra gli altri fatti, ch'ei richiedesse
Koseila di scannare e scorticare un montone; per la cucina, dicono i
cronisti; probabilmente in sagrifizio per mangiarne e dispensarne ai
poveri, com'è uso appo i Musulmani; il che ad O'kba dovea parere
atto di carità e religione, e al principe convertito, servigio da
beccaio. Rispose non mancargli servi che il facessero. Ma il capitan
arabo persistè, minacciò e volle essere ubbidito per forza. Koseila
ubbidì: quand'ebbe finito, senza fiatare, si astergea le insanguinate
mani sulla barba, e, domandatogli il perchè, rispondea melenso: "fa
bene al pelo." Vi fu chi comprese la muta rabbia di quell'atto e ne
ragguagliò O'kba; ma il fiero vecchio se ne rise. Koseila intanto,
indettatosi coi Bizantini, si levò improvviso in arme; e corsogli
addosso O'kba impetuosamente con le poche forze che avea intorno,
finse di fuggire finchè tirò gli Arabi a Tahuda a piè dei fatali monti
Aurès, ove circondolli con infinita moltitudine di Berberi e aiuti

163
bizantini. Già gli Arabi sentian suonar l'ora estrema. Era tra loro
Abu-Mohâgir che O'kba traeasi dietro incatenato sospettandolo di
tradimento o infingendosene; il quale proruppe a recitar due versi
d'antico poeta, che avea pianto d'avere i ferri mentre i suoi
s'apparecchiavano alla battaglia. O'kba, all'intenderlo, scorda le
offese; lo fa sciorre; gli dice che salvisi con la fuga poichè non è
tenuto a combattere: e Abu-Mohâgir risponde non bramar altro che
di morire coi Musulmani; e s'arma, e ponsi al fianco del capitano.
Spezzarono i foderi delle spade, imitandoli gli altri guerrieri: e
avventatisi tra i Berberi virtuosamente caddero; campando
pochissimi dalla strage (683). Koseila tra non guari s'insignorì di
Kairewân; le reliquie degli Arabi si ritrassero di nuovo a Barca.
Questo fine ebbe la prima prova di occupazione permanente
dell'Affrica. O'kba seppe meglio imaginarla che mandarla ad
effetto: uomo di costante proponimento, e prodigioso valore in
guerra; ma poco atto a maneggiar le fila di un gran disegno, e meno
a raffrenare le proprie passioni; troppo uso a fidarsi in quel piglio
tra di fanatico e di commediante che ha accresciuto la sua fama
appo i posteri202.
Così mossi i Berberi a guerra nazionale contro gli invasori, cui
da principio avean creduto nemici dei soli Romani, il contrasto si fe'
ostinato, sanguinosissimo; ebbe fasi diverse: sospeso talvolta per
202
Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. III, fog. 43 verso, seg. e 76 recto,
seg., sotto gli anni 50 e 62; Riadh-en-nofûs, MS., fog. 4 recto a 5
verso; Baiân, p. 12 segg.; Nowairi, presso De Slane, Histoire des
Berbères par Ibn Khaldoun, tom. I, p. 327, seg.; Ibn-Khaldûn,
Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p. 10,
seg.
I quattro primi danno a un dipresso il medesimo racconto; l'ultimo lo scorcia. Ibn-
el-Athîr nota che Wâkidi, Tabari e gli scrittori Maghrebini, o vogliam dire Arabi
d'Affrica, discordavano intorno le date dei due governi di O'kba; ed ei s'appiglia
ai Maghrebini, com'anch'io ho fatto. La gloriosa morte di O'kba che Ibn-el-Athîr
narra il 62 (681-2), avvenne il 63, come s'argomenta dal Riadh-en-nofûs, MS.,
fog. 5 recto, che dice come fuggiti gli Arabi di Kairewân, ch'era stata occupata
dal vittorioso Koseila, arrivarono a Damasco il 64, dopo la morte del califo Iezîd.

164
stanchezza; ripigliato per novelle cagioni che si sviluppavano dalla
conquista; continuato fin quando le due schiatte si unirono sotto una
stessa fede e uno stesso vessillo di guerra; acceso anche in Spagna e
in Sicilia; durato sei secoli: nè finì che quando gli Arabi di
dominatori divennero soggetti. Nè l'impero dei califi, nel fior della
sua potenza, incontrò in alcun'altra provincia popoli che più
disperatamente gli resistessero: costretto suo malgrado al conquisto
dell'Affrica; ove mandò cinque eserciti203 a far vendetta l'uno
dell'altro e ad incontrar la medesima sorte.
Dirò di questa lotta assai brevemente, astenendomi dai particolari
il più che potrò. Entro pochi anni, gli Arabi vendicarono la strage di
Tahuda; ruppero gli eserciti collegati de' Berberi e Bizantini e
ammazzaron Koseila; ma intanto un'armata, allestita in Sicilia,
occupò Barca, rimasa vota di difensori (688-9); e il capitano arabo
vittorioso, Zoheir-ibn-Kais, affrettandosi alla riscossa con una
picciola schiera, non guadagnò che l'onore di entrare nella città e
morirvi con la spada alla mano204. Cinque anni appresso, escita
appena la casa Omeiade dalla guerra civile di Abd-Allah-ibn-
Zobeir, il califo comandava al capitan d'Egitto Hassân-ibn-No'mân
di pigliare tutte le entrate della provincia, tutta la gente e attrezzi da
guerra, e andare a far dell'Affrica ciò che gli paresse. Il quale, messi
insieme quarantamila uomini, tirò dritto a Cartagine (693-4); ruppe i
terrazzani e il presidio usciti a combattere; e pose tale spavento
nella città, che i principali cittadini se ne fuggirono su le navi, chi in
Sicilia e chi in Spagna; ed egli, facilmente sforzati que' che
rimaneano, saccheggiò, fe' prigioni, diè opera a tagliare li aquidotti
e diroccare frettolosamente quanto si potea; e non tardò a tornare
dentro terra contro i Berberi dell'Aurès. Tra i quali, come avvien
203
Nell'originale "esercti". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
204
Si confrontino: Riadh-en-nofûs, MS., fog. 5 recto e verso, che porta l'impresa
nel 69; Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. III, fog. 77 recto, sotto l'anno 69 (688-9); Ibn-
Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 23, che porta la data del 67 (686-
7); Baiân, p. 18; Nowairi, presso De Slane, op. cit., p. 337-338. Il Rampoldi,
Annali Musulmani, tom. II, p. 105, sotto l'anno 685, porta l'assalto dell'armata di
Sicilia non a Barca ma a Cartagine, confondendo così due imprese ben distinte.

165
sovente nei moti nazionali, correndo le eccitate imaginazioni alla
superstizione, era surta una novella Zenobia, regina della tribù di
Gerâwa, per nome Dihâ, più nota sotto l'appellazione di Kâhina che
le dettero gli Arabi, che è a dire indovina; alla cui voce profetica e
bizzarro furore, congeniale alla schiatta loro, s'erano unite le altre
tribù. Scontratasi con l'esercito di Hassân su le rive del fiume Nini
presso Bagaia, ch'oggi va nella provincia di Costantina, la Kâhina
ruppe gli Arabi con memorabile strage: e di lì a poco un patrizio
Giovanni, venuto con le forze navali di Costantinopoli e di Sicilia,
ripigliò Cartagine; Hassân con le reliquie dell'esercito fu ricacciato
di nuovo a Barca. La profetessa poi sciupò la vittoria. Da una mano
rimandò liberi i prigioni arabi, fuorchè un solo che adottò per
figliuolo, il quale la tradì mandando avvisi ad Hassân. Dall'altra
mano scatenò i suoi a guastar le città e i colti dell'Affrica propria,
per annichilare, diceva ella, que' futili beni che attiravano il nemico.
Ma fe' contrario effetto, perchè le popolazioni industri delle altre
schiatte, parte emigrarono in Spagna e nelle isole, parte mandarono
a profferire aiuto agli Arabi, i quali s'apprestavano a nuovo sforzo di
guerra.
Donde tornato Hassân con una armata e un esercito, ruppe i
Berberi, e uccisa la Kâhina nella sconfitta che avea vaticinato,
com'è uso dei profeti senza poterla evitare, le tribù dell'Aurès, ormai
spicciolate e sbigottite, si sottomessero; pattuirono di dar dodicimila
ausiliari contro i Berberi non domi e contro i Greci. Indi movea
Hassân per la seconda volta all'assedio di Cartagine; prostrava in
parecchi scontri le forze bizantine; rimanea padrone del golfo; e sì
stringea la città per mare e per terra, che il presidio finse di
domandare l'accordo profferendo il tributo, e in mezzo alle trattative
imbarcata ogni cosa di notte su le navi ch'erano in porto,
quetamente se ne fuggì. Tentato invano di resistere in altri punti
della costiera, il patrizio Giovanni con l'armata si allontanò per
sempre dall'Affrica (698): Hassân, entrato in Cartagine, compiè
l'opera della distruzione col ferro e col fuoco, lasciando picciol
presidio, come per vedetta, e fabbricovvi, scrivon gli Arabi, una

166
moschea, che è a dire serbò ed acconciò a quest'uso qualche antico
edifizio. Infine, tornato a Kairewân, si volse ad ordinar la provincia;
posevi gli uficii d'azienda, e assoggettò al tributo fondiario gli
abitatori di schiatte europee, e dei Berberi tutti quelli che non avean
fatto la professione dell'islamismo205; ma ai Berberi convertiti diè la
parte dei tributi e delle terre che lor toccava come a guerrieri
musulmani. Così gli Arabi fermarono per la prima volta il dominio

205
Si confrontino: Riadh-en-nofûs, MS., fog. 5 recto a 6 verso;
Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. IV, p. 18 recto, anno 74; Nowairi, presso
De Slane, op. cit., p. 338, seg.; Baiân, p. 18 a 23, sotto l'anno 78;
Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 24 a 28, che
non porta data della prima impresa e assegna alla seconda il 74; Ibn-
Khaldûn stesso, Histoire des Berbères, tom. I, p. 198, 208, 213,
214; Tigiani, Journal Asiatique, août-septembre 1852, p. 120, 121;
Leone Africano presso Ramusio[Nell'originale "Remusio". Nota per
l'edizione elettronica Manuzio], Navigatione et viaggi. Ho seguito
piuttosto il Riadh che le altre autorità nel racconto delle due
espugnazioni di Cartagine. Trovo nel solo Riadh la divisione del
Fei e delle terre ai Berberi musulmani. Veggansi anche
Theophanes, Chronographia, tom. I, p. 566, 567, (an. 690);
Nicephori Breviarium Historicum, p. 44, 45, (anno 696); Pagi, note
al Baronio, Ann. Eccl., anno 691 e 696, che segue Nowairi; Le
Beau, Histoire du Bas Empire, lib. LXII, § 19, seg.; e Gibbon,
Decline and fall, cap. LI, note 157, 158, 159. Gli Arabi discordano
tra loro nella cronologia, come s'è visto, e dai Cristiani intorno gli
avvenimenti principali. Io ho preso da Ibn-el-Athîr la data della
prima impresa di Hassân, e dai Bizantini quella della seconda, che
mi pare determinata con sicurezza dalla rivolta dei soldati d'armata
tornati di Cartagine, i quali giunti in Cipro, gridarono imperatore
Tiberio II. Così i Bizantini sarebbero rimasi padroni di Cartagine,
non un anno come dicono gli scrittori loro, ma tutto il tempo che
Hassân soggiornò a Barca dopo la sconfitta del fiume Nini.
Credo abbia errato il Gibbon supponendo un rinforzo di Visigoti a Cartagine, su
la sola testimonianza di Leone Africano, il quale (fog. 72 recto) dice che vi si

167
su quella parte dell'Affrica settentrionale che oggi è compresa nelle
reggenze di Tripoli, Tunis, e provincia di Costantina, senza
estendersi per anco più a ponente. Dal nome d'Affrica propria che
davano i Romani alla parte più importante di questa regione, gli
Arabi la dissero tutta Ifrikia; e secondo lor geografi si stende dalla
grande Acaba che sorge tra Barca e Alessandria, infino a Bugia. Di
lì all'Atlantico chiamarono Maghreb che suona appo noi occidente,
e diviserlo in Maghreb del mezzo tra Bugia ed Orano, ed estremo
Maghreb, da Orano in poi. E coteste loro denominazioni
geografiche noi adopreremo per lo innanzi; se non che scriveremo a
modo nostrale Affrica in luogo di Ifrikia.
Con breve intervallo succedeva ad Hâssan un grande che
rappattumò le due schiatte per qualche spazio di tempo, e legolle di
tal vincolo che non si spezzò più mai, non ostante che si
ricominciasse la lotta. Fu costui un vecchio settuagenario, Musa-
ibn-Noseir, uom di origine straniera, liberto di casa Omeiade206;
famosissimo per lo conquisto di Spagna, e degno di maggiore gloria
per l'arte di stato e di guerra con che avea prima compiuto quel
d'Affrica e del Maghreb. Esordì nel governo della provincia, come
un sommo capitano del nostro secolo, con arringare l'esercito,
accusando d'incapacità i predecessori, e dando certe le vittorie ch'ei
vedea sì chiare nella sua mente. E pagò il debito con usura. Arrivò
da Kairewân all'Oceano, domandò per ogni luogo le nazioni
berbere, stringendosele in confederazione dopo la vittoria,
pigliandosi ostaggi per guarentigia del patto; e, in vece di spingere il
cavallo in mare come O'kba, fondò la città o campo di Tanger;
ridussero «i nobili Romani e i Gotti.» Il testo Arabo di Ibn-Khaldûn ci mostra con
certezza che Leone tradusse Goti la voce Farangia; e come lo stesso testo porta
che i Farangia insieme coi Rûm furono sottoposti al tributo fondiario quando
Hassân ordinò l'azienda pubblica in Affrica, così egli è evidente che non si tratti
di soldati stranieri, ma della popolazione germanica rimasta nel paese, cioè dei
Vandali.
206
Iftitâh-el-Andalus, MS. di Parigi (in appendice a Ibn-Kutîâ), fog. 51 recto.
Questo libro, di antico autore anonimo, dice che Musa liberto degli Omeiadi
discendea da una famiglia barbara fatta schiava da Khaled-ibn-Walîd. Perciò era
oriundo di Siria o Mesopotamia.

168
posevi diciassettemila Arabi e dodicimila Berberi; e provvide a far
apprendere il Corano ai Berberi, che lo ripetessero alle più rimote e
salvatiche popolazioni di lor linguaggio. Così in breve tempo, dice
l'autore del Baiân, si vide un mutar di chiese in moschee per tutta
l'Affrica occidentale. La profession di fede era facile a fare; la
partecipazione nel bottino si comprendea bene da' nuovi convertiti;
le armi si tenean pronte a punire gli apostati. Musa le seppe rendere
più possenti, ordinando un corpo di giannizzeri, come li diremmo
dal nome che lor dettero i Turchi tanti secoli appresso; giovani
robusti, e in gran parte di nobil sangue, ch'ei comperava da' suoi
soldati, ai quali eran toccati nel partaggio del bottino; e li educava
alle armi, alla religione, a cieca ubbidienza, per farne terribile
strumento di dispotismo, e, se occorresse, d'usurpazione.
Nel vasto suo disegno Musa non tralasciò di usare lo ingegno e le
arti delle popolazioni cristiane dell'Affrica propria. La mercè di
quelle, rifabbricava di pietre e di marmi il Kairewân, che trovò di
canne e d'argilla; e intendendo, dice un cronista, da' vecchi del
paese le grandi imprese marittime di Cartagine, faceva costruire a
Tunis cento navi e pria scavare il canale dell'arsenale, con
intendimento manifesto di tenervi sicuri i legni musulmani dagli
assalti dell'armata bizantina, e da' tradimenti degli abitatori cristiani,
che eran tornati certamente a Cartagine e negli altri antichi porti.
Quando il navilio fu in punto, vi unì gli avanzi d'un'armata d'Egitto
che avea fatto naufragio su le costiere d'Affrica; bandì la guerra
sacra in sul mare; chiamovvi i più nobili guerrieri arabi, dando voce
di volerla capitanare in persona; e poi affidolla al proprio figliuolo
Abdallah (704). Per tal modo cominciò l'infestagione del
Mediterraneo occidentale: furon corse, oltre le isole Baleari, la
Sicilia e la Sardegna, come si dirà a suo luogo. Abbiamo da buone
autorità che in coteste imprese del Mediterraneo e del continente
d'Affrica fosser fatti trecentomila prigioni; incredibile cosa appo
noi, e tal anco parve a corte del califo; ove capitata una lettera di
Musa che dicea montare il quinto a trentamila, fu ridomandato se
fossevi errore: "ed errore v'ha," replicò Musa, "ma è che il

169
segretario ha scritto trenta in luogo di sessanta migliaia." Del
rimanente la maraviglia cesserà ove si pensi che gli uomini eran
forse il più lucroso bottino: gregge facile a prendere in tutti i tempi;
se non che allora nol teneano in pastura, ma subito ne facean danaro
rivendendolo, o co' riscatti207.
Musa poi sguinzagliò i suoi Arabi e Berberi su la Spagna (711);
vi sopraccorse ei medesimo, non ostante il peso degli anni, a
rivaleggiare col proprio liberto Tarik: ed avea forse valicato i
Pirenei, i suoi aveano al certo infestato la Linguadoca, ed egli
parlando de' suoi smisurati disegni correva a compierli, quando lo
raggiunse un messaggio del califo, afferrò il freno della mula ch'ei
montava, e intimògli di voltar cammino e andare a scolparsi a
Damasco. Lo accusavano di peculato. Solimano, ch'ei trovò sul
trono quando giunse alla capitale, non fe' gran caso dei discorsi del
conquistatore, che si vantava non essersi giammai, nel lungo corso
di sua milizia, chiuso in castella, nè trinceato in campo; e parlando
del valor dei soldati esaltava, sopra tutti gli Arabi, que' del Iemen;
dicea i Bizantini lioni ne' lor castelli, aquile a cavallo e donne nelle
navi; sagaci a spiar le occasioni in guerra, vilissimi dopo la rotta; i
Berberi somiglianti molto agli Arabi per forza del corpo, impeto e
ordine nel combattere, ma traditori sopra ogni altro popolo. Nè
ottenne maggior grazia mostrando al califo le primizie dei trionfi:
gli ottimati fatti prigioni in Majorca, Minorca, Sicilia e Sardegna,
vestiti de' lor più solenni addobbamenti; e donzelle spagnuole a
migliaia; e gemme preziosissime, tra le quali aveano scoperto non
so che tavola di Salomone. Il califo, picciolo d'animo, sospettoso,
207
Si confrontino: Ibn-Koteiba, presso Gayangos, The history of the Mo-
hammedan Dynasties in Spain by Al-Makkari, tom. I, pag. LIV a LXVI, in
appendice; Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. IV, fog. 42 verso, anno 89; Baiân, p. 24 a
28; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p.
29, 30; Nowairi, presso De Slane, Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, tom.
I, p. 343, seg., in appendice; Ibn-Scebbât, MS. p. 38, 39; Ibn-abi-Dinar, MS., fog.
6 recto e 14 verso, e trad. p. 14, 57, il quale riferisce con molta diligenza le varie
tradizioni su la costruzione dell'arsenale di Tunis. Al dire di Ibn-el-Athîr e di
Nowairi, Musa prese il governo d'Affrica l'89 (707-8); ma è più esatta certamente
la data del 79 (698-9) che si trova presso Ibn-Koteiba.

170
avaro, governato da invidi cortigiani, non perdonò la gloria a Musa.
Dopo prigionia e brutali maltratti, condannollo in quattro milioni di
dinar che quegli non ebbe poter di pagare; fece ammazzare a
tradimento il figliuolo, lasciato da lui a regger la Spagna; e affrettò
la morte del misero vecchio asmatico (716) con mostrargli la testa
del figliuolo imbalsamata di canfora, e domandargli se la
conoscesse208.
Mancato un tant'uomo, le cose d'Affrica andavan per pochi anni
com'ei da principio le avviò; e quasi tutte le nazioni berbere aveano
accettato l'islam, quando si raccese la lite loro con gli Arabi. Al che
dette occasione la rapacità fiscale, sofisticando e facendo opera di
assoggettare ai tributi come Infedeli i Berberi fatti Musulmani.
Ucciser essi il prefetto ch'era venuto d'Oriente con tal vezzo (720), e
il califo lor diè ragione; ma dopo alquanto tempo, ritentata la prova
da altri oficiali, nè potendosi sempre spegner questi senza
ribellione, i Berberi vi corsero audacemente. E forza fu di dare un
altro passo a che portava la rivoluzione contro un re pontefice. I
padri loro, seguaci di Koseila e della Kâhina, avean gittato il
Corano in faccia ai dominatori stranieri. La generazione presente
cresciuta in quegli ordini che si poteano dir civili rispetto all'antica
barbarie, non sapea vivere ormai senza i conforti reali ed
immaginarii dell'islamismo. Avvezza a riconoscere da Allah, giorno
per giorno, un beneficio ovvero una staffilata, la pioggia, i frutti del
suolo e degli armenti, la vittoria e la preda, ovvero la carestia, le
morie, le sconfitte; avvezza a far tante genuflessioni ogni dì
ripetendo qualche parola del Corano, o almeno il nome di
Maometto, pensò di mantenersi a un tempo gli aiuti del Cielo e
sciogliersi da chi tiranneggiava la terra in nome di quello: corse, in
vece dell'apostasia, all'eresia.
Trovò bella e fatta la riforma presso i dominatori stessi. Fin dalle
guerre civili di Alî e Mo'âwia, erano seguiti in Oriente i primi urti
208
Ibn-Koteiba, presso Gayangos, The history of the Mohammedan Dynasties in
Spain by Al-Makkari, tom. I, p. LXX a LXXXVIII; Nowairi, presso De Slane, op.
cit., p. 353 seg.; Reinaud, Invasions des Sarrazins en France, p. 4 a 12; Conde,
Dominacion de los Arabes en España, parte I, cap. 6 a 19.

171
della ragione con l'autorità; e la ragione, come suol fare,
camminando lenta e incerta, avea dato origine alle sètte che si
dissero dei Kharegi, ossiano uscenti; i quali negavano l'autorità
assoluta dei califi in punto di civil governo e impugnavano anco
alcuni dommi di religione, non potendosi far l'uno senza l'altro. Tra
quelle sètte se ne notavan due, dette, dai nomi de' fondatori, gli
Ibaditi e i Sifriti; concordi tra loro nel tener necessarie qualità del
Musulmano la fede e le opere, e però non noverare più tra i
Musulmani i colpevoli di gravi peccati, fosser anco i compagni di
Maometto e i califi stessi. A così fatti principii aggiugneano
entrambe una feroce intolleranza; e nei gradi di quella si
distingueano gli Ibaditi dai Sifriti, risguardando i primi come
Infedeli, e però rei di morte, tutti i Musulmani che non militassero
nella guerra sacra, e le loro famiglie passibili di schiavitù, e
rompersi anco i legami del sangue per cagione d'infedeltà. Così fatte
opinioni passarono con gli eserciti arabi in Occidente, ove
s'appreser tosto ai Berberi selvatici e malcontenti. I Sifriti, côlta
l'occasione che il fior della milizia araba fosse andato ad osteggiar
la Sicilia (740), levaronsi nel Maghreb, condotti da un Maisar che
avea fatto l'acquaiolo a Kairewân; presero Tanger; gridaron califo
l'acquaiolo; e accolte senza scrupolo sotto lor bandiere alcune tribù
che non professavano l'islamismo, combatterono insieme la causa
nazionale contro gli Arabi. Dettero a costoro due sanguinosissime
sconfitte, la seconda delle quali fu chiamata dagli Arabi la giornata
dei Nobili, dal grande numero che ne rimasero morti sul campo di
battaglia. Tutta la provincia si scompigliò. I Berberi presero le armi
per ogni luogo da ponente a levante, infino a Cabès. Gli Arabi si
ridussero in due sole città, Kairewân e Telemsen. E il precipizio si
sentì anco in Spagna, e vi produsse altre rivoluzioni.
A questi avvisi il califo Hesciâm, avvampando contro Berberi ed
Arabi d'Occidente, chè i secondi con loro divisioni aveano
accresciuto la calamità pubblica, minacciava farebbe sentir loro la
collera d'un Arabo di buona schiatta; porrebbe sotto ogni castello
berbero un campo di guerrieri delle tribù modharite di Kais o di

172
Temîm; manderebbe un esercito da toccare con la vanguardia il
Maghreb, mentre il retroguardo stesse ancora in Siria. Accozzò in
tutto trentamila uomini: gente sì faziosa e discorde, che si abbottinò
prima di venire alle mani coi Berberi, e che, messa insieme con
l'esercito d'Affrica, n'accrebbe le discordie; onde venuti gli Arabi
alla battaglia presso Tanger (741), qual fuggì, qual fu tagliato a
pezzi dal nemico. Ma un novello capitano per nome Hanzala-ibn-
Sefwân, ebbe tanta riputazione da unire gli Arabi; tanta fortuna o
arte da guerreggiare nell'Affrica propria presso le colonie di sua
schiatta, piuttosto che nel Maghreb. Dispersa parte delle forze
nemiche in una prima battaglia e circondato dalle altre in Kairewân,
armò i cittadini, accese in tutti il fervore religioso; passò una notte a
pregare, e la dimane, spezzato il fodero della spada con migliori
auspicii che O'kba-ibn-Nafi', uscì contro le miriadi dei Berberi. Li
vinse ad Asnam, tre miglia discosto dalla città: la quale battaglia
ricordossi tra le più strepitose dell'islamismo, e vi perirono, al dir
dei cronisti, centottantamila Berberi; al certo uno spaventevole
numero tra que' che caddero sul campo e gli uccisi di sangue freddo,
com'eretici e barbari che vincendo non soleano dar quartiere (742).
Con tal supremo sforzo la schiatta arabica ripigliò il dominio
della provincia. Fu in punto di riperderlo in due altre vaste
sollevazioni (757-771), senza, contar le minori; e lo mantenne col
pondo di due novelli eserciti, l'un di quarantamila, l'altro di sessanta
o secondo alcuni scrittori di novantamila uomini, che era il settimo
venuto in Affrica nello spazio di novant'anni, contando per primo
quello che perì con O'kba209. Alfine la popolazione de' Musulmani
orientali passata in Affrica tra cotesti travagli, le forti colonie poste
in luoghi opportuni, e gli altri ordinamenti dei vincitori, prevennero
i moti generali de' Berberi infino ai principii del decimo secolo; se
non che alcune tribù berbere fondarono tre stati indipendenti, cioè:
Fez nell'estremo occidente; sotto la dinastia araba degli Edrisiti
209
Baiân, p. 35 a 46; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M.
Des Vergers, p. 31 a 43; Nowairi, presso De Slane, op. cit., p. 356, seg. Ho cavato
alcuni particolari su la rivolta di Tanger da Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. IV, fog. 82
recto e verso, anno 117, e altri da Ibn-Kutîa, MS. di Parigi, fog. 6 recto e 7 verso.

173
(788); Segelmessa a mezzodì dell'Atlante, sotto i Midrariti, gente
berbera (783); e Taiort (che scrivon anco Tahert e Tuggurt e oggi va
nel Sahra dell'Algeria), sotto i Rostemidi, famiglia, come sembra, di
origine persiana210 (754). Le altre tribù sfogarono parteggiando nelle
guerre civili degli Arabi; finchè, affievolita la costoro schiatta, gli
indigeni rialzaron la testa e mutaron di nuovo lo stato politico
dell'Affrica e del Maghreb, sì come ci occorrerà di dire nei libri
seguenti.

CAPITOLO VI.
Dalla lotta de' conquistatori contro gli indigeni volgendoci alle
condizioni in cui vivessero i primi mentre occupavano a mano a
mano il paese, ci si presenta una considerazione preliminare. I
popoli che s'impadroniscono di territorii stranieri tengono
necessariamente uno di questi tre modi: trasferimento popolare dei
conquistatori, come quel de' Franchi, dei Longobardi e altri barbari
che non lasciavano patria dietro le spalle; colonie, come quelle dei
Greci nell'antichità e degli Inglesi in America, intraprese private che
suppongono un popolo incivilito e avvezzo alla libertà; o finalmente
occupazione militare a nome dello Stato, ch'è propria dei governi
forti in su le armi. Di cotesti modi i due ultimi si veggono talvolta
congiunti, ovvero adoperati alternativamente, da alcune nazioni che
hanno in sè istituzioni miste, come i Romani che mandavano anche
lor colonie in paesi occupati militarmente, e gli Inglesi ai quali
veggiam tenere l'Indie con la violenza delle armi e altre provincie
con le colonie.
Ma gli Arabi, vivendo in una società ove coesisteano la barbarie,
la libertà e l'autocrazia, stanziarono nei paesi vinti in un modo
composto; che cominciò con la occupazione militare a nome dello
Stato; divenne trasferimento di intere tribù; e portò a un largo
210
Veggasi su questa origine dei Rostemidi Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères,
trad. di M. De Slane, tom. I, p. 242, con le note del dotto traduttore.

174
governo coloniale e indi alla emancipazione dalla madre patria. La
emigrazione si fe' tanto più agevolmente, quanto que' popoli non usi
a soggiorno durevole nè incatenati dalla proprietà territoriale,
passavano da reame a reame con la stessa nomade alacrità con che
ne' lor deserti avean mutato le tende da un pascolo all'altro. I loro
accampamenti alla romana, dei quali dicemmo nel capitolo
precedente, si fecero grosse città entro pochi anni; traendovi le
famiglie dei guerrieri, famiglie naturali e fittizie ancora: di schiavi,
liberti, affidati; e oltre i guerrieri venivano a fruir della vittoria
officiali pubblici, giuristi, mercatanti, artigiani: gente arabica o
nativa di regioni occupate anteriormente ed arabizzata per
conversioni e clientele. Così con maravigliosa rapidità si accrebbe
la schiatta loro in Affrica dopo le ultime vittorie di Hassân-ibn-
No'mân e sotto il governo di Musa. Oltre le colonie di Barca,
Tripoli e altre sul golfo di Cabès, ed oltre Kairewân, che fu
maggiore di tutte, si vide sorger quella di Tunis ove si cominciò a
scavare il porto; poi la popolazione arabica si estese verso ponente a
Tanger, Telemsen e fors'anco Ceuta: e, domi tanto o quanto i
Berberi, il progredimento ricominciò; il centro principale della
provincia, il quale era l'odierno reame di Tunis, si circondò di
piazze di frontiera a Belezma, Tobna e altre, che guardavano i nodi
più formidabili di popolazione berbera; e la schiatta arabica
saldamente si afforzò verso la fine dell'ottavo secolo.
Vi comparve fin dai primi principii la ovvia distinzione di
militari e cittadini. I primi chiamavansi collettivamente, come in
ogni altra parte dell'impero, il giund; e talvolta questo nome si dava
a ciascuna legione, divisione o brigata, come noi diremmo, talchè si
trova adoperato in plurale presso gli scrittori arabi211. Erano i
guerrieri scritti nei ruoli; i quali, oltre la parte che loro tornava dal
bottino, aveano uno stipendio che si togliea dai tributi posti su i
popoli vinti e sopra una classe di terre dei Musulmani, e che
pagavasi per lo più assegnando al tal giund le entrate di tal

211
Il plurale è gionûd; ma adottando la voce giund, come ci occorrerà di farlo,
useremo sempre il singolare, dicendo al plurale i giund.

175
provincia o distretto; la qual maniera di concessione gli Arabi
chiamarono Iktâ', ossia scompartimento. Ordinati tuttavia secondo
le proprie parentele, come già dicemmo212, e capitanati da un
condottiero con titolo di Kâid213, eran mezzo soldati stanziali e
mezzo milizie feudali: gente agguerrita quanto i primi, e, come le
seconde, devota al proprio capo più che al principe; l'indole della
quale avea bene spiegato un savio, quando disse al califo Abd-el-
Melik, parlando di alcun rinomato capo di tribù in Oriente: "S'egli
s'adira, centomila spade s'adiran seco, senza domandargli il
perchè."214 Nel giund rimanea dunque l'aristocrazia patriarcale dei
tempi anteriori all'islam.
Nelle città appariva al contrario un avanzo della primitiva
democrazia musulmana; come sempre avvien che si sviluppi nelle
colonie qualche principio che sia stato soffocato nella madre patria.
Senza istituzioni scritte, senza magistrati riconosciuti dalla legge,
surse a Kairewân, e in altre città principali dell'Affrica, una vera
possanza municipale figlia di quel genio democratico e
dell'industria. Non le mancò il primo elemento di forza, che è il
numero de' cittadini; perocchè, giugnea a tale in Kairewân al tempo
della seconda sollevazione dei Berberi, che fornironsi in un estremo
pericolo diecimila scelti combattenti, i quali usciti insieme con le
reliquie dello esercito riportarono (741) la vittoria di Asnam215. Non
le mancò l'uso alle armi, poichè la popolazione delle città, obbligata
a combattere da un precetto religioso che andava in disuso nelle
parti centrali e tranquille dell'impero, lo osservava per necessità
nelle provincie di frontiera, ove spesso s'avea a respingere il
nemico. V'erano inoltre in così fatte provincie i ribat, di cui già
parlammo; i quali mutarono natura quando la più parte della
popolazione fu musulmana, e divennero ritrovo di birboni e oziosi,
212
Cap. III, pag. 68.
213
Kâid suona etimologicamente dux e condottiero. Poi in Spagna divenne titolo
di magistrato civile, e in Sicilia di uficio di corte e di nobiltà.
214
Ibn-Abd-Rabbih, MS., tom. I, p. 73.
215
Nowairi, presso De Slane, op. cit., pag. 363, 364; e ancora in nota a Ibn-Khal-
dûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p. 39, seg.

176
che viveano di pie oblazioni sotto specie di star pronti alla guerra
contro gli Infedeli, e prontissimi erano alle sollevazioni. Non mancò
infine l'ordinamento delle classi e la potenza di quelle superiori per
le facoltà e l'educazione, le quali classi dan sempre la pinta ai moti
delle città. Da una mano troviamo, in fatti, corporazioni d'arti216; da
un'altra cittadini proprietarii di terre, e veggiamo la efficace
influenza degli sceikhi, ossiano capi delle famiglie principali.
Uscian anco da queste gli uomini che professavan sapere e pietà,
legittimi successori dell'aristocrazia di Omar; i quali col Corano e la
tradizione del Profeta alle mani, sosteneano le larghe franchigie dei
Musulmani, poste in oblio dai moderni principi: e il popolo
naturalmente li seguiva e agitavasi alla lor voce217.
Tali essendo gli ordinamenti delle milizie e dei cittadini, fondati
su i costumi, non su le leggi, e di tanto più forti, il governo della
provincia poco teneva a quel dell'impero. In apparenza non differiva
dal reggimento d'un paese occupato militarmente; il califo di
Damasco nominava il governatore dell'esercito e del popolo
musulmano; i quali riconosceano un solo re e pontefice e una sola
legge a Kairewân come a Damasco o a Medina. Ma in sostanza la
colonia era libera. Stava la forza in mano di corpi independenti; il
califo, non che trar danaro dalla provincia, ve ne rimettea, e se
voleva almeno farsi ubbidire dovea affidare il governo a potenti
capi di tribù, dovea piegarsi alle passioni di quelli e agli umori del
popolo. Dal che nasceva un bene e un male: il bene, la forza di vita
ch'è propria delle colonie libere e che non si infonde mai negli
automi costruiti dai governi matematici; il male era la rabbia delle
fazioni, che gli Arabi aveano nel sangue, e che l'islamismo
accrescea con la frettolosa assimilazione d'ogni gente straniera. Il
male si sviluppava a misura che gli Arabi metteano radice nei paesi
216
Il Baiân, p.68, dice che Iezîd-ibn-Hâtem (771) ordinò i mercati del Kairewân,
dando un luogo separato ad ogni arte. Sappiamo d'altronde che ciascun'arte presso
i Musulmani facea corporazione, avea moschea propria e componea società di
assicurazione per le pene pecuniarie.
217
Questi fatti ricorrono a ogni momento nelle cronache dell'Affrica dal 740 in
poi, presso Ibn-Khaldûn, Nowairi, nel Baiân, ec.

177
di ponente; e mostravasi nel giund più che nelle popolazioni
cittadine. Trovandosi nel medesimo esercito le schiatte rivali di
Kahtân e di Adnân, appena si prendeano a scompartire i premii
della vittoria, cominciavano i torti, scoppiavano le ire; il
governatore favoreggiava la sua tribù e le affini a scapito delle altre;
e queste, se le mene di corte o il caso faceano succedere nel governo
della provincia un di lor gente, rendeano la pariglia; e, se no,
prendeano a farsi giustizia dassè.
Arrivò a tale l'antagonismo, che nol potè curare nè anco la spada
dei Berberi. Dopo la infelice battaglia dei Nobili (740) il califo
Hesciâm, come abbiam detto, mostrò forse minore rabbia contro i
nemici Berberi che contro la schiatta himiarita la quale prevaleva in
Affrica a quel tempo218. Gli Himiariti risposero per le rime. Come il
califo prepose al nuovo esercito un Kolthûm, modharita o vogliam
dire della schiatta di Adnân, e com'ei, tra gli altri rinforzi, mandò un
corpo di diecimila uomini della propria casa omeiade, ottomille cioè
Arabi e duemille liberti, stanziati in Siria, così ambo gli elementi
sociali della colonia si volser contro il novello esercito. La
cittadinanza di Kairewân, vergognando o temendo di sì fatti
ausiliari, chiuse loro le porte in faccia. Il rimanente delle milizie
patteggiò anche contro di essi, tanto quelle antiche d'Africa, quanto
ventimila uomini delle nuove, ch'erano stati presi qua e là, come
scrive Ibn-Kutîa, da varie nobili schiatte arabiche. Perlochè
movendo tutte le genti ad incontrare i Berberi, i condottieri non
fecero che altercare con Kolthûm; i soldati erano per venire alle
mani coi diecimila Omeîadi; e finì che costoro sul campo di
battaglia voltaron le spalle, e gli altri furono orribilmente mietuti dal
nemico. I pretoriani disertori poi, non potendo rimanere tra
218
Biscir-Ibn-Sefwân della tribù di Kelb, e però di schiatta himiarita, preposto
all'Affrica e alla Spagna l'anno 721, avea pieno quei governi di uomini suoi, che
furono aspramente perseguitati dal successore O'beida della tribù medharita di
Soleim. Un dei perseguitati mandò allora certi versi al califo, rimproverandolo
d'ingratitudine contro una gente che avea sparso il sangue per portare al trono i
maggiori di lui; e il califo depose subito il governatore. Nowairi, presso De Slane,
op. cit., p. 358; Conde, Dominacion de los Arabes en España, parte I, cap. 22.

178
l'abborrimento universale, passarono in Spagna ove accesero aspre
guerre civili: e l'Affrica si perdea, se Hesciâm, rimettendo del regio
orgoglio, non ne affidava il comando ad Hanzala-ibn-Sefwân di
chiarissimo sangue himiarita; il quale senza nuove soldatesche
d'Oriente valse a debellare i Berberi (742), come sopra dicemmo219.
Ma passeggiera era la concordia; le divisioni durevoli, diverse,
intralciate in confusione inestricabile: e un altro subito mutamento
che seguì si dee riferire agli umori avversi al governo in tutta la
provincia, e, più che altrove, nella capitale. Perchè Abd-er-Rahman-
ibn-Habîb di tribù koreiscita, uomo illustre per la gloria del bisavolo
O'kba-ibn-Nafi' e per una strepitosa fazione che avea combattuto
pochi anni innanzi sopra la Sicilia, andato poi in Spagna ad accattar
brighe e stato, e vedendosene tronca la via dalla prudenza di un
luogotenente di Hanzala, gittatosi a un partito disperato, ripassava il
mare; sbarcava a Tunis; trovava partigiani e osava assalire in
Kairewân stessa il capitano liberatore dell'Affrica. Il quale
accorgendosi delle disposizioni dei cittadini, gli rifuggì il generoso
animo dalla guerra civile: chiamò il cadì e i notabili della capitale;
lor consegnò il tesoro pubblico, presone le sole spese del viaggio
per tornarsene in Oriente; e quetamente partissi dalla colonia (744-
5). Tutta l'Affrica allor si diè all'usurpatore, quantunque ei fosse
della schiatta di Adnân; ma lo perdonavano forse al sangue
koreiscita, al casato di O'kba, fondatore della colonia, all'audacia
del misfatto, sempre ammirata dal volgo, e al merito di aver offeso
la corte di Damasco. Abd-er-Rahman usò sagacemente il comodo
che gli davano in questo tempo le rivoluzioni d'Oriente: stracciò in
pubblica adunanza il mantello d'investitura mandatogli dal califo;
scosse lungi da sè le pianelle che avea ai piedi, con dir che così
anco rigettava l'autorità del califo; e governò con animo e fortuna da
principe indipendente. Dopo dieci anni, il proprio fratel suo,
219
Ibn-Kutîa, MS. di Parigi, fog. 6 verso, 7 recto. Questo antico scrittore è quegli
che dice come il corpo di soldati omeiadi si componesse d'Arabi e di liberti. Vedi
anche Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. IV, fog. 82 recto, seg., anno 117; Baiân, p. 41,
seg.; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p.
34, seg.; Nowairi, presso De Slane, op. cit., tom. I, p. 359, seg.

179
abbracciandolo, gli passò un pugnale dalle spalle al petto; godè per
poco il premio del fratricidio; e la nascente dinastia presto fu spenta
(757). La colonia, straziata dalle proprie fazioni e dai Berberi,
riconobbe di nuovo il potere del califato, che era passato in questo
mezzo dalla casa d'Omeia a quella di Abbâs220.
Tal mutamento di dinastia mostrò come la schiatta arabica troppo
presto cominciasse a cedere il luogo ai vinti, coi quali stringeasi
nella fratellanza dell'islamismo. L'assimilazione, turbata in Affrica
dalla impazienza dei Berberi, ritardata in Egitto e in Siria dalla
desidia de' popoli, dal Cristianesimo e dalla tolleranza de'
Musulmani inverso di quello, s'era compiuta largamente nelle
regioni soggette una volta all'impero persiano. Lasciando quelle
poste tra l'Eufrate e il Tigri, nelle quali predominava il sangue
arabico, troviamo di là dal Tigri i figliuoli dei Persiani propriamente
detti e dei Parti: valorose schiatte, fattesi tanto innanzi nella civiltà
ch'eran sorti tra loro i due riformatori religiosi insieme e politici,
Mani e Mazdak. Coteste schiatte volentieri abbracciarono
l'islamismo che loro offriva una credenza meno assurda, e una
forma sociale meno ingiusta. Mentre gli emiri arabi perseguitavano
agevolmente, o tolleravan senza pericolo gli uomini più tenaci nella
credenza di Zoroastro, la parte maggiore della popolazione
alacremente si accomunò coi conquistatori. I liberi acquistavano
issofatto la cittadinanza musulmana con profferire: "Non v'ha Dio,
che il Dio e Maometto il suo profeta;" gli schiavi professando
l'islamismo agevolmente conseguivano la emancipazione, e
diveniano cittadini come ogni altro: e ciò che tuttavia mancava dopo
la cittadinanza legale, cioè il patrocinio d'una famiglia potente, i
liberi l'otteneano per clientela volontaria, i liberti per clientela
necessaria. Cotesti uomini nuovi fecero aprir gli occhi ai governanti
con la pratica ch'essi aveano in azienda pubblica; aiutarono con la
loro dottrina alla compilazione della giurisprudenza musulmana;
accesero nei popoli arabici a poco a poco il sacro fuoco delle

220
Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p.
42, seg.; Baiân, p. 47, seg.

180
scienze; e prima quello della libertà civile e religiosa, al modo che
poteasi comprendere in quelle parti. I popoli dell'impero sassanida
furono invero i maestri degli Arabi, come i Greci erano stati dei
Romani; se non che il diverso genio dei popoli, e soprattutto delle
istituzioni religiose e civili, portò che i maestri persiani
predominassero nello Stato, al che i maestri greci mai non giunsero.
Un secolo bastò a produrre i primi effetti, che apparvero nel
Khorassân, estrema provincia orientale, nella quale stanziava, come
per ogni altra parte dell'impero, un pugno d'ottimati arabi. Quivi la
lontananza di Damasco rendea il governo provinciale più insolente
a un tempo e più debole; e spingea a desiderio di novità i
Musulmani della provincia, la più parte indigeni. Vedean essi la
casa d'Omeia aggravare sempre più i torti della usurpazione con un
reggimento contrario ai principii repubblicani dell'islamismo; con
una istancabile crudeltà contro i discendenti di Alî; con la rapacità,
insolenza e discordie delle sue centinaia di principi reali, degna
progenie, potean dire i Musulmani, di quegli ostinati idolatri che
aveano combattuto il Profeta finchè il poterono, e adesso
molestavano e scannavano la sua parentela. Perchè oltre la prole
d'Alî v'era quella di Abbâs zio paterno di Maometto, capo della casa
dopo la morte di lui, e primo tra gli ottimati d'Omar, come s'è detto.
I figli di Abbâs avean séguito nella nazione, e particolarmente,
com'ei sembra, tra le case nobili stanziate nel Khorassân; ed erano
stati rispettati dagli Omeiadi; ma alfine la gelosia della casa
regnante e l'orgoglio degli Abbassidi proruppero in scambievoli
offese. Narrasi ancora, nè è inverosimile, che sia avvenuto tra i
partigiani degli Alidi e degli Abbassidi un di quegli accordi effimeri
e bugiardi, che due ambiziosi stipulano a danno d'un terzo; salvo ad
accoltellarsi tra loro dopo la vittoria. L'associazione di famiglia, che
rimaneva in piè secondo l'uso antichissimo degli Arabi, fu ottimo
espediente a promuovere e nascondere la cospirazione degli
Abbassidi; molti destri missionarii (dâi' li dicon gli Arabi e appo
noi suonerebbe chiamatori), ordinati con gerarchia e artifizio di
setta, si misero a far parte nel Khorassân, a raccorre contribuzioni

181
dai partigiani: e reggea con man maestra tutta la macchina Abu-
Moslim che un buon uomo di casa abbassida avea preso ad allevare
per carità, trovatolo in fasce esposto su la via pubblica. Quando la
congiura, allargandosi, fu scoperta, piombò la prima ira del califo
sopra Ibrahim capo della casa di Abbâs, che morì in prigione ad
Harran: ma tantosto Abu-Moslim si levò in arme nel Khorassân;
ruppe gli eserciti omeiadi; mosse verso la Mesopotamia; e il popol
di Cufa, senz'aspettarlo, gridò califo Abd-Allah fratello del morto
Ibrahim, e noto nella storia con l'atroce soprannome di El-Saffâh o
diremmo noi Il Sanguinario. E in vero si versò il sangue a fiumi tra
per comando suo e di Abu-Moslim, che il pose in trono, e che fu
immolato dal successore di Abd-Allah per saldare i conti della
dinastia. Campato sol dalla proscrizione un rampollo degli Omeiadi,
rifuggivasi in Spagna; trovava partigiani; faceasi un reame di quella
provincia, e lasciavalo ai suoi discendenti che presero il nome di
califi.
Il rimanente dello impero ubbidì senza contrasto alla casa di
Abbâs; la quale mutò ogni cosa, fuorchè il sistema del dispotismo.
Le bandiere e vestimenta degli uficiali pubblici si tinsero in negro,
colore prediletto dalla dinastia; i pretoriani furono, non più una
fazione della aristocrazia arabica, ma i partigiani della casa in
Khorassân, e poi i mercenarii turchi che consumarono la vergogna e
rovina del califato; la sede del governo passò da Damasco a
Bagdad, edificata a posta con imperiale splendore; i costumi della
corte da arabica semplicità si volsero a lusso persiano; e
l'amministrazione pubblica, tolta agli Arabi, data ai Korassaniti
divenne più inquisitiva e molesta; il che fa dire a un autore arabo221
che la casa d'Abbâs indurò il principato a modo dei re sassanidi. In
somma la schiatta persiana si impadroniva del dominio non saputo
tenere dagli Arabi222. Da ciò nacque la gloria letteraria che ha reso sì
221
Ibn-Hazm, le cui parole citate dal Baiân, p. 52, sono queste: «Tolti i diwani di
mano agli Arabi, gli stranieri del Khorassân occuparono le faccende dello Stato;
talchè si venne a una dominazione aspra e Cosroita.»
222
Oltre il ricordato passo del Baiân, e le storie generali, che non occorre di
citare, veggansi gli articoli di M. Quatremère, e del professore Dozy nel Journal

182
chiari gli Abbassidi. Perocchè i Persiani, venendo in servigio loro a
corte e per tutte le provincia dell'impero, vi recarono le scienze;
coltivaronle essi esclusivamente; messerle in voga appo i califi;
trassero con lo esempio i Musulmani delle alte schiatte, pochissimi
per altro dell'arabica. Ma scrivendo tutti nella lingua del Corano,
tornò agli Arabi la fama di sovrastare all'umano incivilimento nei
secoli più tenebrosi del medio evo223.
Non tardarono i guerrieri del Khorassân a passare fino all'altro
capo dell'impero, per fidanza o sospetto di casa abbassida; la quale
non potendo spegner tutti come Abu-Moslim, par che si provasse a
farne stromento di dominazione in Affrica. Pertanto l'esercito mosso
d'Oriente (761) per combattere i Berberi, undici anni appresso la
esaltazione della dinastia, fu composto di trentamila uomini del
Khorassân e dieci mila Arabi di Siria, che sembrano rei della
medesima colpa; e, a capo d'altri dieci anni, un novello sforzo di
sessanta mila soldati si accozzò di gente del Khorassân, di Siria, e
dell'Irak. Cotesti eserciti, che divenian colonie, come dicemmo, più
largamente e fortemente occuparono il paese: donde le città
ingrossarono; crebbene anco il numero; s'ebbero nuove terre da
dividere e più larghi tributi dai popoli che s'assuefaceano al giogo.
Al tempo stesso la schiatta persiana fu nuovo elemento di discordia
in Affrica; divenutavi dapprima tracotante per numero e favor della
corte, poi disubbidiente come le altre. Nel primo periodo furono
scelti in quella i governatori della provincia, e fin v'ebbe una
famiglia nella quale l'officio s'avvicendò per ventitrè anni: officio
usato dai Persiani non altrimenti che dai predecessori: al segno che
certe milizie di Siria, dopo trent'anni di soggiorno, furono cassate
dai ruoli del giund e ridotte alla condizione di ra'ia, ossia

Asiatique, Série II, tom. XVI (1835), p. 289, seg.; e Série IV, tom. XII (1848), p.
499 seg.
223
Il predominio esclusivo dei Persiani nelle scienze fu notato da Ibn-Khaldûn, e
si conferma con le biografie; come si scorge dal bel quadro della storia letteraria
dei Musulmani che ha delineato M. De Slane, Ibn-Khallikan's
Biographical[Nell'originale "Biografical". Nota per l'edizione elettronica
Manuzio] Dictionary, Introduzione, tom. II, p. v, seg.

183
popolaccio, per mettersi in luogo loro la gente del Khorassân.
Quando le altre schiatte si risentirono e il califo volle riparare, i capi
persiani si divisero tra loro; i più malcontenti si rivoltarono: seguì
uno scompiglio universale di Khorassaniti, Arabi Modhariti, Arabi
del Iemen, Arabi venuti di Siria sotto gli Omeîadi e venuti sotto gli
Abbassidi, Berberi ortodossi e Berberi eretici, che si contendevano
con le armi alla mano il governo e i suoi frutti. Il potere dei califi su
la provincia, di debole ch'era stato sempre, divenne precario; si
sostenne a forza di espedienti; di qualche capitano fidato; del
direttor di posta e spionaggio; e soprattutto dei centomila dinar
sprecati ogni anno tra quelle riottose milizie e tolti dalle entrate
d'Egitto. Fu in queste condizioni di cose che il magnanimo Harûn-
Rascîd piegossi a dar l'Affrica, come in appalto, a Ibrahim figliuolo
di Aghlab224.
Aghlab, nato dalla tribù modharita di Temîm, avea dato mano ad
Abu-Moslim e a casa abbassida nella rivolta contro gli Omeîadi; poi
a casa abbassida nell'uccisione d'Abu-Moslim225; ed era indi venuto
(761) con alto grado nell'esercito d'Affrica; segnalatosi nella guerra;
eletto a tener la frontiera dello Zâb contro i Berberi; fatto in ultimo
governatore di tutta la provincia; e mortovi combattendo contro un
224
Baiân, p. 61 a 81. - Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di
M. Des Vergers, p. 55 a 83. - Nowairi, presso De Slane, Histoire des Berbères
par Ibn-Khaldoun, tom. I, p. 367, seg. - La degradazione del vecchio giund di
Siria è riferita da Ibn-Kutîa, il quale dice che il giund del Khorassân rimaneva in
Affrica fino a' suoi tempi, MS. di Parigi, fog. 7 recto. Debbo qui avvertire che in
un manoscritto di Ibn-el-Athîr, MS. A, tom. I, fog. 20 recto, si dà il soprannome
di Sikilli, ossia Siciliano, ad un Abd-er-Rahman-ibn-Habîb, di schiatta koreiscita,
che fu cacciato d'Affrica per ribellione contro gli Abbassidi il 772, e andò a
morire sotto le insegne loro in Ispagna verso il 777. Costui era nipote di quel
capitano dello stesso nome che portò la guerra in Sicilia il 740, e poi usurpò
l'Affrica, come abbiam detto. Ma il nome di Siciliano, che l'avolo mai non portò e
molto meno poteva appartenere al nipote, è dato a costui per errore di copia in
luogo di Saklabi, ossia Schiavone, come gli diceano per l'alta statura e il colore
olivastro del volto: Veggasi Ibn-Kutîa, MS. di Parigi, fog. 94 verso; e Conde,
Dominacion de los Arabes en España, parte II, cap. XVIII, che sbaglia la data del
tentativo di Abd-er-Rahman in Spagna.
225
-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 9 verso.

184
capo iemenita ribelle (767). Però il figliuolo, gradito a corte e
sottentrato, com'ei pare, nella condotta delle genti che soleano
ubbidire alla sua famiglia, rimase di presidio nello Zâb, lontano
dalle discordie che ferveano a Kairewân, poco invidiato dagli
ambiziosi, e amato da' suoi marchigiani per liberalità, valore e saldo
proponimento. Occorse poi che le altre milizie si trovassero avvolte
in una generale sollevazione, nata a Tunis, compiuta a Kairewân per
assentimento della cittadinanza, e provocata dal governatore
Mohammed-ibn-Mokâtil, fratel di latte del califo; favorito
prosuntuoso e dappoco, il quale avea scemato gli stipendii,
maltrattato al paro militari e popolani e bacchettoni. Ma come
costui fu preso, perdonatagli la vita e cacciato ignominiosamente
dalla provincia, Ibrahim piombò sopra Kairewân coi suoi fidati
marchigiani; richiamò Ibn-Mokâtil; combattè il capo della
rivoluzione, congiunto suo, per nome Temmâm; col quale scambiò
rimbrotti in prosa e in versi pria di venire alle armi. Tanto duravano
i costumi cavallereschi de' Beduini nella numerosa nobiltà venuta a
stanziare in Affrica226! Ibrahim con fortuna e arte s'innalzò tra i
turbolenti compagni. Rotti i sollevati (799), mandava alcuni lor capi
incatenati a Bagdad; e, accontatosi in questo mezzo con gli altri,
scrivea a corte contro il governatore ch'egli stesso avea ristorato.
Rappresentò esser costui troppo odiato; la provincia troppo
insubordinata; richiedersi quivi altr'uomo e più pratico del paese: e
propose a dirittura sè medesimo, promettendo al califo che non
solamente non gli farebbe spender più nulla in Affrica, ma gliene
darebbe quarantamila dinar all'anno. Harûn accettò; non per
avarizia, ma perchè altro modo non v'era; perch'ei dovea piuttosto
pensare all'Oriente, base dello Impero; perchè ogni novello esercito
che avesse mandato in Affrica vi sarebbe divenuto novella colonia
di ribelli. Consigliollo anche a questo un suo fidato, che conoscea

226
Ibn-Ahbâr, MS. citato, fog. 9 verso, narra che i 40,000 uomini passati in
Affrica il 761 aveano centoventotto kâid (condottieri). S'intenda che ciascun di
costoro capitanasse una parentela, o vogliam dire frazione di tribù. Veggasi anche
il Baiân, pag. 61.

185
l'Affrica, non meno che la lealtà, il seguito e il valore d'Ibrahim-ibn-
Aghlab.
Il quale, avuto il diploma del califo (800), diè opera a crear
nuova forza su cui potesse fare assegnamento. Comperato un
terreno a tre miglia da Kairewân per fabbricare una villa di diletto,
v'innalza in vece un castello; circondalo di fossati; vi fa trasportar
sottomano le armi e attrezzi che si teneano nel palagio degli emiri a
Kairewân. Al tempo stesso blandisce il giund, ne prende cura
particolare, ne sopporta anche la insolenza, trasceglie da quello un
nodo di intimi partigiani; e da un'altra mano compera schiavi negri,
dando voce di volerli adoperare ai servigii più grossolani, e
sgravarne la nobil gente della milizia: e sì li avvezza alle armi; li
instruisce in compagnie. Quando ogni cosa fu in punto, lasciato
nottetempo il palagio di Kairewân (801), se n'andò coi famigliari,
coi fidati del giund, è gli schiavi armati nella cittadella, cui pose il
nome d'Abbâsia a onore della dinastia; ma poi la dissero El-Kasr-el-
Kadim ossia il Castel-vecchio. E rinacquero le sedizioni; la prima
delle quali mossa a Tunis da un dei notabili di schiatta arabica, per
nome Hamdîs, che par sia stato progenitore del gran poeta siciliano
del medesimo casato: ma Ibrahim ne venne sempre a capo,
chiudendosi in cittadella quando soverchiavan le forze dei sollevati;
e poi fidandosi nelle loro divisioni; fomentandole con danaro, e
adoperando talvolta anco i Berberi. Consolidò il potere; rintuzzò a
forza di danaro e tradimenti la dinastia edrisita di Fez; ebbe
riputazione anco presso i Cristiani, coi quali si mantenne in pace:
accordatosi col prefetto di Sicilia; e dimostrata molta osservanza a
Carlomagno ch'era collegato con Harûn-Rascîd, per interesse
politico e simpatia scambievole di due grandi ingegni, Carlo,
promosso all'imperio lo stesso anno che Ibrahim al governo
d'Affrica, gli mandava ambasciatori ad Abbâsia, la fortezza del
fossato, come è chiamata negli annali di Einhardo, per chiedere il

186
corpo d'un Santo sepolto a Cartagine: tesoro inutile ad Ibrahim e
tanto più volentieri accordato227.
Venuto a morte l'Aghlabita, dopo dodici anni di governo, nel
cinquantesimo sesto dell'età sua, lasciò ai figliuoli un regno sotto
nome di provincia: equivoco che dura tuttavia in parecchi Stati
musulmani, come per esempio in Egitto. Ritennero gli Aghlabiti,
come i precedenti governatori, il titolo militare di emir e quello più
generale di wâli, che appo noi suonerebbe preposto, e si dava anche
ad officii minori. Il califo mandava a ogni novello principe di quella
casa un diploma che conferivagli il governo, e con quello la
bandiera, simbolo del comando, le vestimenta e collane, segni di
famigliare liberalità: ai quali atti di regia e pontificia autorità sol
mancava di potersi esercitare in favor di un altro. Il tributo dei
quarantamila dinar presto mutossi in futili doni, e svanì. I principi
d'Affrica fecero guerre e paci, aggravarono e abolirono le tasse,
nominarono magistrati e capitani a loro arbitrio, o come portavano
le necessità in casa, non come piaceva al califo; e scrissero i loro
nomi su le monete insieme con le formole religiose della dinastia
abbassida; in guisa che di tutte le regalíe, come le intendono i
pubblicisti musulmani, rimase al califo il solo steril vanto che i
popoli d'Affrica invocassero il Cielo in favor di lui nella preghiera
del venerdì. Ma gli Aghlabiti, se usurpavano all'insù i dritti
convenzionali del principato, non poteano soffocare all'ingiù le
ragioni naturali degli uomini, sostenute dalle armi dei cittadini e del
giund,228 e più o meno dagli statuti primitivi dell'islamismo.
Quantunque mal potremmo delineare tutti i limiti che la
consuetudine poneva agli emiri aghlabiti, ne veggiam uno di gran

227
Confrontinsi, Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 9 verso a 15
recto; Baiân, p. 80 a 86; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di
M. Des Vergers, p. 59, 60, e 82 a 94; Nowairi, presso De Slane, Histoire des
Berbères par Ibn-Khaldoun, tom. I, p. 374 a 405. Intorno Abbâsia, ossia El-Kasr-
el-Kadim, si vegga Bekri, nella raccolta Notices et extraits des MSS. tom. XII, p.
477. L'ambasciata di Carlomagno a Ibrahim è portata all'anno 801 da Einhardo,
Annales, presso Pertz, Scriptores, tom. I, p. 190.
228
Veggansi Ibn-Khaldûn, Nowairi e il Baiân per tutto il tempo degli Aghlabiti.

187
rilievo, cioè il dritto di pace e di guerra esercitato dal principe
insieme con la gemâ', o diremmo noi parlamento municipale, del
Kairewân. N'è fatta menzione la prima volta a proposito d'un
accordo col patrizio di Sicilia nell'ottocento tredici; e sappiam dalle
proprie parole di un che sedea nella gemâ', come adunati dal
principe gli sceikh e i wagîh, o, come suonano in lingua nostra, gli
anziani e notabili della città, il trattato fu scritto e riletto in presenza,
loro. E ch'e' non facessero da meri testimonii, e che i partiti
liberamente si agitassero, il prova l'altra adunanza tenuta pochi anni
appresso per trattar della guerra di Sicilia, dove sedettero i cadi,
come i magistrati entrano nella camera dei pari in Inghilterra; e il
principe fu necessitato a seguire l'opinione che preponderava229.
A comprender appieno come si bilanciassero i poteri dello stato
aghlabita, convien discorrere l'autorità che presero in questo tempo i
giuristi appo l'universale dei Musulmani. Lo studio della
giurisprudenza progredendo, come ogni altro esercizio
dell'intelletto, dopo la esaltazione degli Abbassidi, stava per creare
nello Impero quasi un novello potere surrogato a quello dei
compagni del Profeta: in luogo dell'aristocrazia dei santi,
l'aristocrazia dei dottori. Costoro erano a un tempo teologi senza
sacerdozio, moralisti, pubblicisti e giureconsulti; come portava
l'unità e confusione delle leggi. Per necessaria contraddizione della
teocrazia, i dottori vollero comandare al pontefice e re: e tanto o
quanto ne vennero a capo; se non che il lione di tratto in tratto lor
dava qualche zampata. Così Abu-Hanîfa (699-767), primo tra gli
imâm della scienza, i dottori principi, a nostro modo di dire, era
morto in prigione, martire, come Papiniano, di sue dottrine e
coscienza. Ma non guari dopo Mâlek-ibn-Anas (712-795)
guadagnava tanta riverenza appo Harûn-Rascîd, animo grande e
civile, che il califo pensò dare virtù di legge al Mowattâ, come si
addimandò l'instituta di quel giureconsulto; dal che Mâlek stesso lo

229
Riadh-en-nofûs, MS., fog. 28 recto. - Di quest'altra adunata della gemâ' si dirà
nel lib. II, cap. II. Basti notar per ora che al dire di Nowairi vi sedeano i wagîh e i
fakîh, ossia notabili e giureconsulti.

188
ritenne, non sappiamo se per modestia, o perchè tal sanzione gli
paresse illegittima, e lesiva al grado della scienza. Un'altra fiata,
richiesto da Harûn di dare lezioni all'erede presuntivo della corona,
Mâlek gli rispose che la scienza, nobile sopra tutt'altra umana
possanza, non dovesse servire altrui ma essere servita; donde il
califo, scusandosi, inviò il figliuolo con gli altri giovani della città
alla moschea dove Mâlek tenea scuola. Sotto altro monarca, Ibn-
Hanbal fu vergheggiato (834) perchè contro gli editti del califo
sosteneva increato il Corano; ma il domma del califo andò giù, e
venuto a morte Ibn-Hanbal (855), dicesi che a Bagdad
accompagnassero il feretro meglio che secentomila persone, e che
ventimila tra Cristiani, Giudei e Guebri si convertissero
immediatamente all'islamismo, trasportati dal fervore del popolo
che celebrava a una voce la dottrina e virtù di quel grande. Noi
lasciamo indietro i molti esempii di virtù dei giureconsulti promossi
all'uficio di cadi, i quali sapeano affrontar l'ira dei principi quanto
niun altro eroico magistrato di cui faccia ricordo la storia d'Europa.
Nell'ordine dello Stato mantenner essi l'autorità giudiziale
independente dal principato, più e meno che noi non
l'ammetteremmo con le odierne teorie di dritto pubblico. Perchè, da
una parte i giureconsulti usurparono il potere legislativo mediante le
interpretazioni dottrinali; e dall'altro canto, non arrivarono a divider
netto la giurisdizione dei magistrati da quella del principe e dei
governatori e ministri. Oltre a ciò, i vizii dell'aristocrazia militare,
anzi la invincibile anarchia della società arabica, resero necessario
un magistrato eccezionale, come noi lo diremmo, uficio dei soprusi
lo chiamarono i Musulmani; tribunale preseduto dal principe o da
un delegato di lui, spedito nella procedura e arbitrario nelle
sentenze. Così di mano in mano l'indole del dispotismo occupava
anco l'amministrazione della giustizia; e questa in Oriente si
corruppe come ogni altra parte del governo, e presto cadde nella
condizione in che or giace. La giurisprudenza musulmana fu
compiuta nel nono secolo. L'assentimento universale dei
contemporanei e dei posteri diè l'onore di imâm a quattro professori,

189
cioè i tre già nominati, e Scia'fei che visse dopo. Concordavano le
loro scuole nei dommi, indi accettate tutte come ortodosse.
Differivano in alcuni punti di disciplina religiosa, dritto pubblico e
dritto civile, non altrimenti che in oggi le compilazioni del codice
francese, presso le varie nazioni che l'han preso per legge.
Predominarono quale in un paese quale in un altro; e così oggi
rimane in Turchia e in India la dottrina di Abu-Hanîfa, e in Affrica
quella di Mâlek, introdottavi per lo primo da Ased-ibn-Forât e da
altri suoi contemporanei, ma non fatta legge generale del paese che
ne' principii dello undecimo secolo230.
Cominciò in Affrica l'opposizione pacifica dei dottori quando
Abu-'l-Abbâs-Abd-Allah, figliuolo e successore d'Ibrahim (812-
817), pensò di mugnere i proprietarii a beneficio proprio e delle
milizie; donde avvenne che queste rimanessero chete per tutto il suo
regno. Parendogli incerte e sottili le entrate della tassa fondiaria, che
ragionavasi a dieci per cento su le raccolte e prendeasi in derrate,
Abd-Allah, a spreto degli statuti, la volle in danaro, a tanto per
aratata di terreno coltivato, senza guardare ad annata buona o
scarsa. A questi ed altri soprusi risentendosi i cittadini, andavano i
più rinomati e venerandi della provincia a trovarlo in fortezza; gli
ricordavano, così dice un cronista, «i precetti della religione e il ben
della repubblica musulmana;» e, ridendosi il despota di coteste
parole, volgean essi sdegnosamente le spalle alla reggia, quando un
230
Afferma Ibn-el-Athîr che il rito di Mâlek fosse adottato
nell'Affrica propria per comando di Moezz-ibn-Badîs, secondo
principe zeirita, MS. C, tom. V, fog. 46 verso, sotto l'anno 406.
Ho lasciato come superflue le citazioni su le vicende dei quattro dottori principi,
che sono notissime. Su la giurisprudenza musulmana veggansi le introduzioni di
D'Ohsson, Tableau général de l'Empire Ottoman; Hamilton, The Hedaya; e il
testo arabo di Mawerdi, Ahkâm-sultâniia. Il barone De Slane ha fatto un bel
quadro degli studii legali dei Musulmani nella Introduzione al primo volume della
versione inglese d'Ibn-Khallikân, p. XXIII, seg. Veggansi altresì: M. Worms, Re-
cherches sur la Constitution de la Propriété territoriale dans les pays musul-
mans, pag. 1, seg.; e M. Perron, Aperçu préliminaire al trattato di Khalîl-ibn-
Ishâk nella raccolta intitolata Exploration scientifique de l'Algérie, Sciences his-
toriques, tomo X.

190
Hafs-ibn-Hamîd, ch'era in odore di santità, s'arrestò nel cammino, e
fece sostare i compagni. Lor disse ch'era da disperare ormai delle
creature, non già del Creatore; poi fervorosamente intonò una
preghiera a Dio che punisse lo scellerato principe; e ad ogni
imprecazione gli altri in coro rispondeano: Amen. La complicità
delle milizie col principe ritenne al certo i barbassori dal passar
dalle scomuniche a più gravi fatti. E tosto s'ebbero ad allegrare di
lor propria sagacità e del credito grande che godeano in Cielo,
poichè opportunamente attaccossi un'ulcera all'orecchio di Abd-
Allah, e lo spacciò231.
Il terrore superstizioso di questo avvenimento par abbia lavorato
nella mente del novello principe Ziâdet-Allah (817), figliuolo
anch'egli d'Ibrahim, uomo nel resto di fortissima tempra di animo, il
quale, seguite un pezzo le orme del fratello232, cominciò a ritrarsene,
a spiccarsi dal giund, ad ascoltare i giuristi; e tanto s'addentrò nelle
ubbie religiose, che consultava i cadi su la misura di voluttà
concedutagli dalla religione233; e, quel ch'è peggio, parlava di

231
Baiân, p.87; ibn-Khaldûn, l. c., p. 94 a 96; e Nowairi, l. c., tomo I, p. 404.
Nowairi, il solo che dia la misura di superficie resa da me aratata, dice coppia
arante. Si tratta al certo di una misura geodetica; e però la ho resa con la voce
aratata, che non si trova nei vocabolarii, ma ch'era in uso in Sicilia fino ai
principii del nostro secolo, e indicava un po' vagamente una vasta estensione di
terreno. Ho evitato la nota voce iugero, la quale etimologicamente risponderebbe
all'arabico zeug del Nowairi, ma denota una misura agraria ben diversa. Il
jugerum era la superficie da potersi lavorare in un dì con una coppia di buoi; e
risponde a poco più di 25 ari di misura francese. Il zeug, detto oggidì in Algeria
zuigia, e anche gebda (zouidja e djebda in ortografia francese), è misura varia
secondo i luoghi, e risponde più o meno al terreno che un giogo di buoi può arare
in una stagione. Secondo i cenni che ne dà M. Worms, Recherches sur la
propriété territoriale dans les pays musulmans, p. 421-422, credo denoti una
superficie che varia dai sette ai diciotto hectares. Ciò basta a comprendere che si
potessero porre 8 dinár, ossia da 100 lire italiane, sopra ogni aratata di terreno. La
voce zeug con questo medesimo significato occorre nelle memorie siciliane del X
e del XII secolo, come a suo luogo si dirà.
232
Si scorge ciò dalle parole di Asad-ibn-Forât riferite da noi nel Libro II, cap. II,
su l'autorità del Riadh-en-nofûs.
233
Veggasi il Libro II, cap. II.

191
condanna capitale contro i poveri zindik, o diremmo noi, scettici,
ospiti pericolosi sotto un governo teocratico; i quali, insieme con le
schiatte persiane e con lo incivilimento, pullulavano già per tutto
l'Impero, e venivano a filosofare fino in Affrica234. Costui ci è
dipinto come bel parlatore, liberale coi poeti beduini e coi dotti che
veniano d'Oriente a corte sua, animoso, costante, magnifico e
giusto235. Ma ben mostrò ciò che intendesse per virtù, quando disse
fidar nella divina clemenza il dì del giudizio universale, avendo
mandato dinanzi a sè, chè questa figura usano sovente i Musulmani,
quattro opere meritorie: l'edificazione della moschea cattedrale e del
ponte della porta Rebî' a Kairewân, la costruzione della fortezza
Ribât a Susa, e la elezione di Abu-Mohriz a cadi della capitale.
Affidandosi in cotesti meriti, gli parea tanto più venial peccato il
sangue ch'ei facea spargere, mosso da sua natura feroce, dalle
necessità della tirannide, e sovente anco dal vino che bevea. Quella
indole imperiosa, non dimenticando l'antica insolenza del giund,
sdegnò di accarezzarlo, o comperarlo, come avean fatto il padre e il
fratello; volle essere ubbidito sol perch'ei comandava; e probabil mi
sembra ch'anco offendesse il giund negli averi, disdicendo la nuova
tassa di Abd-Allah. Agevole gli fu di spegnere una prima
sollevazione di Ziâd-ibn-Sahl-ibn-es-Sikillîa ovvero es-Sakalîba,

234
Rhiad-en-nofûs, MS., fog. 29 recto.
235
Così dice Sefadi, MS. di Parigi, biografia di Ziâdet-Allah. Sefadi visse nel XIV
secolo. Gli scrittori dai quali copiò tal giudizio provano che vale per tutti i popoli
il detto d'Ariosto: "Non fu sì santo nè benigno Augusto ec.," canto XXXV, st. 26.
Ibn-Werdan, MS. di Tunis, § 1. Quest'autore aggiugne che furono spesi nella
moschea di Kairewân 86,000 dinar, ossia da 1,247,000 di lire italiane. Ibn-Abbâr,
MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 30 verso, senza far menzione di ciò,
narra i particolari dell'opera: che fu abbattuta l'antica moschea; rifabbricata di
pietra, marmi e cemento; che il Mihrâb, ossia nicchia in dirittura della Mecca, era
tutto di marmo ornato di rabeschi e iscrizioni, sostenuto da colonne di bellissimo
marmo screziato bianco e nero; e che dinanzi a quello si innalzavano due colonne
rosse con fregi di vermiglio vivacissimo, che più belle non se n'eran viste al
mondo, e l'imperator di Costantinopoli le volea comprare a peso d'oro. La voce
che per analogia ho tradotto cemento, è sahn, scritta con le lettere 14, 6, e 25
dell'alfabeto arabo d'oriente.

192
che significherebbe figliuol della Siciliana, ovvero della Slava
(822). Ma surto in arme Amr-ibn-Mo'âwia della potente tribù di
Kais, e costretto ad arrendersi, Ziâdet-Allah, come l'ebbe in mano,
non seppe moderar la vendetta. Più savio di lui il giullare di corte,
domandato quel dì che nuove corressero, "Si dice che tu non uccida
Amr," gli rispose; "perchè i Kaisiti farebberti pagar caro quel
sangue." Ma egli, tanto più invogliato, correa alla prigione;
scannava di propria mano il ribelle con due figliuoli, e fatte porre le
teste sopra uno scudo, le imbandì sul desco ove si messe a bere coi
cortigiani (823). Scoppiò a tal atto di crudeltà l'ira delle milizie.
Proruppero a sedizione in Tunis; si levarono per tutta l'Affrica,
arrogandosi ognuno la signoria del distretto ove era alle stanze, e
fecero capo dell'esercito un Arabo di illustre schiatta per nome
Mansûr, detto Tonbodsi, dal nome d'un suo castello (824). Invano il
despota avviava contro costui i mercenarii e il giund suo fidato,
minacciando di mettere a morte chi voltasse le spalle nella battaglia.
Rotti da Mansûr, passarono sotto le bandiere di lui per fuggire la
vendetta del crudel signore: tutto il giund, e le milizie cittadine, e gli
stuoli che accorreano in arme da ogni luogo236, mossero sopra
Kairewân; posero il campo fuor la città (agosto 825), sollecitando i
terrazzani a seguirli; mentre Ziâdet-Allah co' mercenarii e la
famiglia s'era chiuso in cittadella. Il popolo della capitale, non
badando ai dottori che sognavano potersi camminar sempre entro i
limiti della resistenza legale, aprì le porte a Mansûr, rifabbricò con
l'aiuto di quello le mura abbattute da Ibrahim, capo della dinastia, e
tutto diessi alla rivoluzione. Poi seguì l'usato effetto tra que' piccioli
corpi feudali e municipali, ciascun dei quali avea preso a reggersi
dassè. Impotenti ad espugnare Abbâsia, si divisero; e Ziâdet-Allah,
uscito co' suoi, li ruppe (ottobre 825), pose in fuga Mansûr, riprese
Kairewân, ed abbattè le mura, ritenendolo da maggiore vendetta, chi
dice un voto ch'avea fatto a Dio mentre era stretto d'assedio in
Abbâsia, chi dice le preghiere dei due cadi; e nessuno ha pensato

236
Questo è senza dubbio il significato delle parole del Baiân, copiate al certo da
più antico scrittore: giund, eserciti (giuiusc), e turbe sopravvegnenti (wofûd).

193
che volendo domare il giund, dovea andare con riguardo verso i
cittadini, e che Mansûr, ancorchè sconfitto, era in arme, e la
provincia tutt'altro che queta. In fatti, voltata la fortuna della guerra,
Mansûr tornò a Kairewân, Ziâdet-Allah tornò a chiudersi in
Abbâsia, e già si parlava di accordo che lasciata la signoria d'Affrica
ei se ne andasse con la famiglia e lo avere in Levante, quando uno
dei suoi partigiani con audace fazione lo salvò. Costui, tolto seco un
pugno d'uomini, andò verso Castilia ai confini meridionali
dell'odierno Stato di Tunis, ove s'era mossa contro i ribelli la tribù
berbera di Nefzâwa; ond'egli accozzando i Berberi e mille Negri
armati di vanghe e di scuri, ruppe il giund di A'mir-ibn-Nafi'. Le
discordie fecero il resto. Mansûr, venuto alle armi contro A'mir, fu
morto a tradimento; A'mir tenne il fermo altri tre o quattro anni in
Tunis; e i capi minori prima di ciò a uno a uno s'eran sottomessi; e
la più parte era ita ad espiare la ribellione con la guerra sacra in
Sicilia237.
Tali erano le condizioni dell'Affrica in questo tempo. La
popolazione industriale, d'origine europea o mescolata, non avea
peso nello Stato: menomata dalle emigrazioni; sottomessa d'opere e
d'animo, e la più parte fatta musulmana, con tal precipizio, che la
Chiesa Africana, la quale levò già tanto grido in Cristianità, potea
dirsi annichilata mezzo secolo dopo il conquisto; come ce l'attestano
concordemente le cronache musulmane e i documenti ecclesiastici,
sia romani, sia alessandrini238. I Berberi, tutti oramai musulmani, tra
ortodossi e scismatici, stanchi e divisi ma non domi, ubbidivano e si
sollevavano; pronti ad accompagnar gli Arabi in guerra, non a

237
Nowairi, presso De Slane, Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, p. 405,
seg.; Riadh-en-nofûs, MS., fog. 26 recto, 28 recto e verso; Bekri, nella raccolta
Notices et extraits des MSS., tom. XII, p. 478; Ibn-el-Athîr, MS. A, fog. 120
recto, C, fog. 191 recto; Baiân, p. 88 a 95; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et
de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p. 96, 103. Ho corretto il nome di Tonbodsa
su l'ortografia che ne dà Ibn-el-Athîr.
238
Confrontinsi, Baiân, p. 28; Ibn-abi-Dinâr (el-Kaïrouani), Histoire de l'Afrique,
MS., fog. 16 recto, e traduzione francese, p. 63; Pagi, ad Baronium, ann. 696; e le
autorità citate da Gibbon, Decline and fall, ch. LI, note 207, 208, 209.

194
sopportare i pesi del dominio; meno ostili a casa aghlabita che ai
capi dei giund lor signori o vicini; ma quel sembiante di obbedienza
s'andava dileguando a misura, che le tribù si allontanavano dal
centro della provincia. Dei coloni arabi e persiani abbiam detto
abbastanza, che le passioni di quelle milizie riottose, di que'
cittadini turbolenti, di que' giuristi fanatici, eran fuoco sotterraneo
che cercava d'aprirsi uno spiraglio.
Tra vicende analoghe s'agitavano in questo medesimo tempo i
Musulmani di Spagna. Accennammo già come nei primi impeti del
conquisto (711), valicati i Pirenei, irrompessero in Linguadoca. A
capo di venti anni, fatto pianta di lor guerra quella provincia, or con
eserciti or con gualdane si spinsero fino al Rodano e alla Senna da
un lato, alla Loira e all'Oceano dall'altro, capitanati da emiri, cui
designava il califo, ovvero il governatore d'Affrica. Ma infin
d'allora svilupparonsi due serie distinte di fatti, che liberarono dal
danno presente la Francia, e dal pericolo tutta l'Europa. Da una
mano era la reazione delle popolazioni cristiane; la maravigliosa
costanza delli Spagnuoli afforzatisi tra i monti di Gallizia, delle
Asturie, della Navarra; il valore de' Franchi, e altri Germani, che
sotto Carlo Martello guadagnavano la giornata di Poitiers (ottobre
732); la resistenza di parecchi signori della Francia meridionale, e
possiamo aggiungere degli Italiani ancora, poichè le mosse di
Liutprando affrettavano la espugnazion d'Avignone (737). L'altra
serie di eventi che troncarono i passi ai conquistatori, nascea dai
vizii della società musulmana in generale, e di quella d'Affrica in
particolare, madre della colonia spagnuola. Pertanto in Spagna,
come in Affrica e peggio, i vincitori sospettosi tra loro, pronti a
straziarsi in guerra civile: Arabi contro Berberi; Modhariti contro
Iemeniti; gli antichi coloni contro i nuovi; i borghesi contro i
militari: ed ogni fortuna che corresse la dominazione dei califi in
Affrica portava un contraccolpo di là dallo Stretto.
La provincia nondimeno si rassettò, quando spiccossi dallo
Impero, per ubbidire a un principe proprio (755) della schiatta
d'Omeîa, testè cacciata dal trono dei califi. Senza potere sradicar da

195
loro montagne que' valorosi Cristiani che teneano tra ponente e
settentrione della penisola, i primi monarchi omeîadi di Spagna si
mantennero a un di presso a' limiti dei Pirenei, or avanzandosi fino
a Carcassonne (792), ora indietreggiando a Barcellona, che
perdettero per sempre (801). Ostili ai Musulmani di Affrica;
duramente contrastati dalla parte di Francia, dai primi monarchi
carolingi, che s'intendeano coi califi abbassidi, gli Omeîadi di
Spagna non si segnalarono per conquisti239, ma si detter pensiero
degli armamenti navali, più che non l'avessero mai fatto i
governatori dei califi240. Intesero altresì a ordinare lo Stato a dispetto
degli elementi di discordia accennati dianzi; e dettero principio a
quella splendida civiltà che poi sopravvisse a lor dinastia, alle
guerre civili ed alla occupazione cristiana. E perchè nel faticoso
cammino della umanità è sempre avvenuto che i principii d'ordine
fossero usurpati e contaminati dal dispotismo, e appena oggi si
comincia a vedere qua e là nel mondo qualche popolo che sappia
innestarli con la libertà, non fia maraviglia se verso la fine
dell'ottavo secolo i monarchi musulmani di Spagna, volendo dar
sesto alla società, cadessero nella tirannide, o piuttosto
intraprendessero l'opera dell'ordine e incivilimento al solo fine
incivilissimo di prevalersi senza ritegno del comando. Seguendo
l'istinto che porta i tiranni a spolpare i sudditi per ingrassare le
soldatesche stanziali, Hâkem-ibn-Hesciâm (796-822), terzo principe
omeîade di Spagna, uom prode e di forte animo, ma beone,
dissoluto e crudele, provocò di soverchio il popolo della capitale.
Aggravati col nuovo balzello della decima su le vittuaglie;
dispettosi del vedere armar legioni di schiavi comperati a posta e
rizzare fortezze e tener cavalli schierati innanzi la reggia, i cittadini
di Cordova si risentirono; rincorati dai giuristi, i quali in Spagna
come in ogni altra provincia sosteneano la primitiva libertà dei
Musulmani. Indi Hâkem a far morire i caporioni della resistenza
239
Mi riferisco per i particolari alle parti 1a e 2a dell'accurato lavoro di
di[**Nell'originale "di di"] M. Reinaud, Invasions des Sarrazins en France.
240
Veggasi Ibn-Khaldûn presso Gayangos, The history of the Mohammedan Dyn-
asties in Spain, tomo I, p. XXXV, seg.

196
legale; indi i cittadini a congiurare per deporlo dal trono; e dalle
congiure i soliti tradimenti e supplizii; finchè la rattenuta ira
scoppiava alle violenze d'uno schiavo soldato contro un cittadino.
Il borgo meridionale, frequentissimo di popolo, si levò
incontanente a romore (25 marzo 818); dove spinti da Hâkem gli
stanziali negri, il giund e sue schiere di ribaldi raunaticci, il giorno
appresso il borgo fu espugnato; messo per tre dì a ruba, a sangue ed
a fuoco; distruttevi dalle fondamenta case e moschee; trecento
cittadini dei più notabili, sgozzati e sospesi ai pali in orrida fila
lungo il Guadalquivir. Al quarto giorno, osando alla fine un
cortigiano di ricordare al tiranno che quei ribelli di cui facea
carnificina fossero pur creature di Dio, Hâkem perdonò la vita ai
superstiti che s'andavano ascondendo per la città; ma volle che
sgomberassero da Cordova e luoghi vicini, con loro donne e
figliuoli, portando seco la roba che potessero: ma le soldatesche,
postesi ai passi nella campagna, li svaligiarono. Molti indi si
rifuggivano a Toledo e altre città di Spagna; molti su le costiere
d'Affrica; e più numero andò a cercar ventura in Oriente: rimase il
borgo di Cordova desolato e disabitato per quattro secoli. Hâkem,
come se non fosse ancor sazio, sfogò il resto della rabbia ch'avea in
petto con dettare una satira contro i ribelli; esempio, credo unico,
nella storia; poichè Giuliano l'apostata, al tempo antico scrisse il
Misopogon contro i cittadini d'Antiochia, senza far torcer loro un
capello; e più d'un principe pagano e cristiano si è vendicato con
arsioni, macelli e saccheggi, senza sapere scriver satire. L'opinione
pubblica, che gastiga tai misfatti com'ella può, non perdonò al re
poeta. Il volgo chiamollo «Quel dal Borgo» e «L'Efferato» (Er-
Rabâdhi ed Abu-'l-A'si). I cronisti a gara lo infamarono e
maledissero; all'infuori d'un semplice o svergognato, che con gergo
cortigianesco appose il tumulto del borgo a prosperità soverchia del
popolo241.
241
Confrontinsi Ibn-Kutîa, MS., fog. 21 recto e verso; Baiân, tomo II, p. 78, 79,
82; Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 106 verso, e 107 recto, sotto l'anno 198; e
139 verso, sotto l'anno 206; Ibn-Khaldûn, MS. di Parigi, Suppl. Arabe 742 quater,
tomo IV, fog. 96 verso; Hollet-es-siiarâ, presso Dozy, Notices sur quelques MSS.,

197
Il grosso degli sbanditi di Cordova (i cronisti lo fan sommare a
quindicimila) si vede apparire d'un subito, otto anni dopo l'eccidio,
in Alessandria d'Egitto; onde è da supporre che fosse stato respinto
successivamente da più luoghi di Spagna e d'Affrica, ove cercava
una patria; e che Hâkem, ovvero il figliuolo, Abd-er-Rahmân, il
quale gli succedette (822), abbia fornito navi per allontanar dal
reame gente sì indocile e sì ingiuriata. Senz'armi nè danaro, e,
com'e' sembra, alla sfilata, passarono, cheti per forza, le Baleari e le
terre italiane, cui l'armata spagnuola aveva osteggiato con successi
non felici poco avanti il caso di Cordova: e si adunarono a poco a
poco nei sobborghi d'Alessandria. Non andò guari che una rissa
privata accese aspro combattimento tra cotesti Spagnuoli che nulla
possedeano, e i cittadini che li guardavano in cagnesco;e gli
Alessandrini v'ebbero la peggio: i disperati forastieri, fatti per
necessità soldati di ventura, occuparono parte della città, e dopo
orribili guasti e depredazioni vi s'afforzarono e posero sopra di loro
un condottiere. Fu questi Abu-Hafs-Omar-ibn-Scio'aib, detto El-
Ballûti da una terra presso Cordova, e il Cretese dall'isola ch'ei
poscia conquistò; Apocapso, come lo chiamano i Bizantini,
trascrivendo a lor guisa il primo dei suoi nomi. Ma, dopo le
turbolenze intestine che avean lacerato l'Egitto e favorito la
sedizione delli Spagnuoli, riordinato lo Stato da Abd-Allah-ibn-
Tâher, luogotenente del califo e poi occupatore della provincia,
questi fece intendere ad Abu-Hafs che si sottomettesse, o
s'apparecchiasse a difendersi: e bastò il nome di Tâher a piegare
Abu-Hafs all'accordo (823?). Stipularono che il governatore
d'Egitto desse un sussidio di danari, e che, allestita così
un'armatetta, gli Spagnuoli sgombrassero d'Alessandria, e

p. 38, seg.; Marrekosci, p. 13, 14; Nowairi, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 702,
fog. 72 recto; Ed-Dhobbi, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 5 verso;
Conde, Dominacion de los Arabes en España, parte II, cap. XXXVI. La
tradizione che scolpa Hâkem si legge nel Baiân, compilazione del XIII secolo. La
sorgente primitiva fu senza dubbio qualche cronica dei liberti di casa Omeîade,
scrittori la cui servilità è stata notata dal professor Dozy, editore del Baiân,
Introduzione, tomo I, p. 16, seg.

198
cercassero fortuna in alcun paese cristiano non soggetto ai
Musulmani. Elessero Creta ch'era vicina, mezzo disabitata242, e
parea facile acquisto; avendovi fatto una scorreria l'anno innanzi
Abu-Hafs medesimo o alcun altro condottiero musulmano con
poche forze. Probabil è che Abu-Hafs, sbarcando in Creta, abbia
dato alle fiamme parte de' legni rabberciati con poca spesa in
Alessandria, e non atti a novella navigazione; e ciò porse argomento
ai Bizantini a replicare nel conquisto di Creta il classico racconto
dell'armata arsa da Agatocle, quando assalì Cartagine; a fingere che
Apocapso, da lor chiamato Principe dei Credenti in Spagna,
volendo sgravare il paese conducesse quella colonia in Creta, e
cercasse di togliere ai suoi la speranza del ritorno; e
drammaticamente fanno adirare i Musulmani alla vista dell'incendio
per amor delle mogli e figliuoli che avean lasciato in Ispagna; e
fanli racchetare da Apocapso con brevi parole: che ei lor darebbe in
Creta donne più belle, dalle quali avrebbero quanta prole volessero.
I cronisti bizantini, che ambivano d'intrecciar nella storia tante
fronde di rettorica a modo greco e romano, ignoravano che
disperata gente fossero i vincitori di Creta; ma ne sapeano bene alla
prova il valore. Narrano pertanto molti fatti d'arme trascurati dai
Musulmani nello scheletro de' loro annali. Narrano, come Abu-Hafs
afforzava l'alloggiamento, che poi divenne città, e dalla voce
arabica Khandak, che suona fosso, si chiamò Candia, e diè all'isola
il nome che or porta. Dicono infine come Michele il Balbo, testè
liberatosi dalla guerra civile di Costantinopoli, mandasse due
eserciti al racquisto dell'isola, e fossero entrambi sconfitti.
Dondechè, condotta una schiera di mercenarii a quaranta monete
d'oro a capo, questa forte milizia, che i Greci chiamarono per
invidia i Tessaracontarii, o diremmo noi Quarantini, fece miglior
prova. Con un'armatetta capitanata da Orifa, che al nome par
anch'egli straniero, i Tessaracontarii liberarono dai Musulmani le
242
Ibn-el-Athîr, MS. A, tom. I, fog. 146 recto e 147 verso, anno 210; Hollet-es-
siiarâ; Ibn-Khaldûn; Nowairi, Conde, ll. cc. Veggasi ancora Renaudot, Historia
Patriarcharum Alexandrinorum, dalla p. 251 alla 270, che porta i fatti, ma sbaglia
la cronologia.

199
isolette adiacenti; Creta non già, ove la colonia si afforzò e crebbe.
Seguitavano questi eventi verso l'ottocento venticinque di
nostr'era243. I Musulmani poi di Creta, su' quali regnò la dinastia di
Abu-Hafs244, sembra che partecipassero con le popolazioni affricane
nel conquisto di Sicilia, e di certo furono principalissimi nella
infestagione della Puglia e della Calabria per tutto il nono secolo: e
per tal motivo ho voluto distendermi nei particolari della
emigrazione loro dalla Spagna,

CAPITOLO VII.
Basta a gittare uno sguardo su la carta geografica per
comprendere come, occupata l'Affrica propria dai Musulmani, la
Sicilia fu involta in continua guerra. Dapprima servì di scala alle
spedizioni con che il governo bizantino provossi a difendere
l'Affrica: in fatto s'adunavano in Sicilia le armate che ripigliarono
Barca del seicento ottantotto, e Cartagine del seicento novantasette,
come abbiamo narrato. Ma stanco l'Impero a sì pochi sforzi, e
sconfitta da Hassân-ibn-No'mân la terribile reina dei Berberi, i
Musulmani incontanente ripigliarono l'assalto, con infestar le isole
italiane. Principiarono da Cossira, ch'oggi s'addimanda Pantellaria;
isoletta ferace, spaziosa, comoda di porti, e situata, come pila d'un
ponte che dovesse congiungere la Sicilia e l'Affrica, a sessanta
miglia dalla prima e quaranta dalla seconda. Però Cossira fu, di tutti
i tempi, luogo rinomato nelle guerre che si travagliarono tra i due
243
Theophanes Continuatus, p. 73 a 77, 79 a 81, §i 20 a 23, 25 a 26 del regno di
Michele il Balbo; Symeon Magister, p. 621 a 624, §i 3, 4 del medesimo regno. -
La Continuazione di Teofane, ch'è la principale tra queste autorità bizantine,
riferisce il primo disegno dell'impresa dei Musulmani sopra Creta al principio
della guerra di Tommaso di Cappadocia, che tornerebbe all'821. Su questi e altri
riscontri vaghi al paro, i compilatori han posto la occupazione dell'isola nell'824,
e l'impresa d'Orifa nell'825. Secondo Ibn-el-Athîr, loc. cit., i Musulmani
spagnuoli non partirono d'Alessandria che l'anno 210 (aprile 825 ad aprile 826).
244
Ibn-Khaldûn, MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 742 quater, tom. IV, fog. 21 recto.

200
paesi. Molti Cristiani d'Affrica vi s'erano rifuggiti, già il dicemmo,
dalle armi musulmane, e, afforzatisi nell'isola, vissero sicuri finchè
gli Arabi di quelle parti non ebber agio di pensare alle cose del
mare. Ma verso il settecento dell'era volgare, Abd-el-Melik-ibn-
Katân, venendo forse d'Egitto, andò a gastigare que' sudditi
contumaci, come al certo li chiamavano i Musulmani; s'insignorì
dell'isola, e ne spianò le fortezze. Mandavalo, al dire di Bekri, il
califo Abd-el-Melik-ibn-Merwân245: ed è evidente che questa
fazione fosse il principio d'un gran disegno, attribuito da alcuni
scrittori a Musa-ibn-Noseir.
Ed era di rinnalzare la potenza che la schiatta semitica avea
fondato in quelle medesime regioni quindici secoli innanzi, la quale
non avea ceduto che alla virtù di Roma. Narra un de' primi cronisti
arabi che Musa, venuto a Cartagine, sentendo dir dai paesani berberi
delle antiche imprese navali di quel popolo, si deliberasse a ritentare
tal via246; sì come poi occupata la Spagna gli lampeggiò alla mente
di tornare in Oriente a traverso la terraferma di Europa; imitando e
avanzando Annibale. Altri vuole che Hassân-ibn-No'mân,
predecessore di Musa, avesse pensato già prima alla guerra navale;
sì che per comando o assentimento del califo s'era cominciato a
sgomberare il canale tra il mare e la laguna di Tunis, per acconciar
questa a porto da guerra e farvi un arsenale247: e avean messo mano

245
Bekri, nella raccolta Notices et Extraits des MSS., tomo XII, p. 500,
Quest'autore non assegna altra data che il califato di Abd-el-Melik-ibn-Merwân;
il quale durò venti anni, dal 685 al 705. Ma senza timor di errore ne possiam
togliere i primi tredici anni, quando gli Arabi aveano ben altro da fare in Affrica
che perseguitare i rifuggiti di Pantellaria. Non trovandosi ricordato in questa
fazione il nome di Musa, è probabile che seguisse prima della sua venuta in
Affrica, la data della quale per altro è dubbia. Fa cenno di questa impresa, forse
su l'autorità di Bekri, il Tigiani, Rehela, nel Journal Asiatique, août-sept. 1852, p.
80; e aggiugne essere state allora occupate le isolette vicine all'Affrica.
246
Ibn-Koteiba, Ahâdîth-el-imâma, presso Gayangos, The history of the Mo-
hammedan Dynasties in Spain, tomo I, Appendice, p. LXVI.
247
Le varie opinioni degli eruditi musulmani sono esposte da due diligenti
compilatori: Tigiani, Rehela, nel Journal Asiatique, août-sept. 1852, p. 65 a 71; e
Ibn-abi-Dinâr (el-Kaïrouani), Histoire de l'Afrique, traduzione francese, p. 1, a

201
a tai lavori, o alla costruzione delle navi, artigiani copti chiamati a
posta d'Egitto248, indifferenti o forse lieti di lavorare ai danni de' lor
antichi signori bizantini. Qual che si fosse l'autore del disegno, il
tempo in cui vi si diè principio si può circoscrivere a quattro o
cinque anni tra il seicento novantotto e 'l settecentotrè; e la
opportunità della scelta è evidente, poichè quella laguna sì
difendevole assicurava l'armata musulmana dalle superiori forze
navali dei Greci; oltrechè a Tunis non v'era sospetto, come a
Cartagine, d'una popolazione cristiana che desse aiuto o almeno
avvisi al nemico. Musa, se non cominciò, affrettò l'opera al certo;
comandò di fabbricar cento navi249; e non aspettò che fossero
fornite250, per muovere un assalto contro la Sicilia; istigandolo
invidia e cupidigia, che poteano pur troppo sul grande animo suo.
Perchè un'armata egiziana era testè venuta, quasi sotto gli occhi
del capitano d'Affrica, a far preda su le terre dei Cristiani. 'Atâ-ibn-
Rafi', della tribù di Hudseil, condottiero dell'armata, proponendosi
d'assalire la Sardegna, era entrato nel porto di Susa a far vettovaglie;
quando ebbe lettere di Musa, che l'ammonivano ad aspettar la
primavera e non affrontar le tempeste di quella stagione; ch'era,
credo io, l'autunno del settecentotrè. Odorandovi l'invidia, 'Atâ non
dette ascolto al consiglio, e salpò, e giunse ad un'isola di Silsila,
come leggiamo nel MS. unico d'Ibn-Koteiba: sia che gli Arabi

20. - Ho detto "sgomberare" e non, come gli scrittori musulmani, "scavare" il


canale, poichè noi sappiamo che questo e la laguna esistevano ne' tempi antichi.
Veggasi a tal proposito una nota del traduttore del Tigiani, M. Rousseau, op. cit.,
p. 69, 70.
248
Tigiani, op. cit., p. 69, dice che il califo comandò di inviarsi dall'Egitto ad
Hassân duemila Copti, tra uomini e donne, perchè si servisse dell'opera loro, e
che Hassân distribuì quelle famiglie tra Râdes, presso Tunis, e gli altri porti
dell'Affrica. Indi si vede manifestamente che fossero artigiani.
249
Tigiani, Rehela; Ibn-abi-Dinâr (el-Kaïrouani); e Ibn-Koteiba, Ahâdîth-el-
imâma, ll. cc.
250
Lo argomento da ciò, ch'ei mandò in Sicilia mille uomini soltanto, non ostante
il cominciato apparecchiamento di sì grande numero di legni, i quali, per piccioli
che fossero, doveano portare almeno una cinquantina d'uomini ciascuno, e però
una forza totale di 5,000 uomini o più.

202
d'allora abbian dato tal nome a Lampedusa o altra isoletta vicina;
sia, come parmi più probabile, che si tratti della Sicilia e i copisti
n'abbian guasto il nome. Gli Arabi d'Egitto fecervi grosso bottino
d'oro, argento e gemme; ma al ritorno, un turbine di vento li colse
presso le costiere d'Affrica: onde molte navi perirono, tra le quali
quella di 'Atâ; altre qua e là arenarono. E Musa, risaputolo,
mandava incontanente una man di cavalli a percorrere le spiagge;
prendere i legni e i marinai campati al naufragio; e condurre gli uni
e gli altri nell'arsenale di Tunis251. Entrato poi l'anno ottantacinque
dell'egira (13 gennaio a 31 dicembre 704) Musa bandisce la guerra
sacra sul mare; dà voce ch'ei vi andrà in persona; trasceglie i più
arrisicati e forti uomini dell'esercito e il fior della nobiltà araba, e li
fa montare su l'armata; che niuno ne rimase in terra, al dir dei
251
Ibn-Koteiba, Ahâdith-el-imâma, MS. del professor Gayangos,
fog. 69 recto e verso, e versione inglese in appendice al Makkari,
The history of the Mohammedan dynasties in Spain, tomo I, p. lxvj.
L'erudito orientalista di Madrid, mandandomi copia di questo
squarcio di testo per lettera dell'11 maggio 1854, ha corretto in
alcune parti la detta sua versione. Quanto all'isola assalita, sul nome
della quale io gli esposi i miei dubbii, egli crede doversi ritenere la
lezione del MS.; perchè pochi righi appresso la voce Sicilia vi è
scritta con lettere diverse. Nondimeno io inclino all'opinione
contraria, riflettendo che tal variante possa provenire da una delle
due sorgenti alle quali par che Ibn-Koteiba abbia attinto questo
racconto. In una di quelle il nome di Sicilia potea per avventura
essere scritto con la sin in luogo di sad e la Caf (XXII lettera) in
luogo di Kaf (XXI lettera); nella qual forma Sikilia, facilmente si
può confondere con Silsila. Io ho veduto appunto Silsila
chiaramente scritto su la Sicilia in una ottima carta geografica in
pergamena, delineata nel 1600 da Mohammed-ibn-Ali-es-Sciarfi, da
Sfax, posseduta dalla Biblioteca imperiale di Parigi.
Mi conferma nel mio supposto la Cronologia di Hagi-Khalfa, MS. di Parigi, ove
leggesi, nell'anno 82, una impresa in Sicilia di 'Attâr-ibn-Râfi'; poichè, non
trovandosi questo fatto in Ibn-el-Athîr, è verosimile che Hagi-Kalfa l'abbia tolto
da alcun MS. d'Ibn-Koteiba più corretto che quello del professor Gayangos.

203
cronisti. Quando le navi erano in punto di salpare, Musa si fe' recare
l'insegna del comando, e inaspettatamente l'annodò alla lancia che
tenea in mano Abd-Allah suo figliuolo; affidando alla fortuna del
giovane questa che fu la prima impresa navale dei Musulmani
d'Affrica, e che addimandossi la spedizione degli illustri, per la
chiara fama de' guerrieri che v'andarono. Sbarcarono del
settecentoquattro in Sicilia, ove presero una città della quale non
sappiamo il nome; ma solo che, scompartito il bottino, toccassero
cento dinâr d'oro a ciascuno, che vi si contavano tra novecento o
mille uomini252; onde la somma, aggiuntavi la quinta del principe,
torna quasi ad un milione e settecento mila lire253. Non andò guari
che Musa fe' uscir di nuovo l'armata d'Affrica sotto A'iiâsci-ibn-
Akhial, il quale irruppe in Siracusa (705), dicono i cronisti arabi,
forse nella parte della città che rimaneva in terraferma, ovvero in
qualche sobborgo, e tornossene sano e salvo e con gran preda254.
L'anno poi che principiò la guerra di Spagna (710), Musa mandò
le navi in Sardegna; all'arrivo delle quali gli abitatori della città
capitale non trovaron altro riparo che di gittare in fondo al porto
tutto il vasellame d'oro e d'argento, e nascondere il danaro e le
minutaglie più preziose nella cattedrale, tra le tegole e il soffitto.
Ma, occupata la città, un Musulmano, bagnandosi in mare,
inciampava in un piatto d'argento; un altro, saettando una colomba
che svolazzava nella chiesa, colse un'asse del soffitto, onde caddero
alquante monete d'oro: così, al dir dei cronisti musulmani, si
252
Ibn-Koteiba, fog. 69 verso, MS. del professor Gayangos, il quale, mandandomi
cortesemente copia di questo passo, ha corretto la lezione, da cui risultava un
errore nella sua versione inglese posta in appendice all'opera di Makkari, The
history of the Mohammedan Dynasties in Spain, p. LXVII, seg.; Ibn-Scebbât,
MS., p. 38 e 39, che cita, abbreviandolo in su la fine, il medesimo passo d'Ibn-
Koteiba; Ibn-abi-Dinâr (el-Kaïrouani), Histoire de l'Afrique, traduzione francese,
p. 14 e 57, e MS., fog. 6 recto, e 14 verso.
253
Ragiono il dinâr secondo il valore del metallo, il cui peso medio dà 14 lire e 50
centesimi.
254
Ibn-Koteiba; Ibn-Scebbât; Ibn-abi-Dinâr (el-Kaïrouani), ll. cc.; ed il Baiân, p.
27, citando Ibn-Katân. Ibn-Koteiba porta positivamente la data dell'86, ossia 705
dell'era volgare.

204
scopersero i tesori occultati. Stendonsi poi nel narrare le magagne
dei soldati che saccheggiando frodavano la parte del califo, del
capitano e dei compagni; onde, per timore d'esser frugati nei panni,
chi spezzò la lama della scimitarra per nasconder l'oro nel fodero,
rimettendo l'elsa al suo luogo; chi sparò la carogna d'un gatto e
ripiena di danaro la gittò dalle finestre d'un palagio, per ripigliarla
all'uscita. A tal corruzione generale mescolavansi i terrori religiosi,
e non la frenavano. Rimontati in mare i predoni, dice Ibn-el-Athîr,
udissi una spaventosa voce: "Sommergili, o Dio!" e incontanente il
mare tranghiottiva que' ribaldi; e, come ad accusarli, rigettava su la
spiaggia i cadaveri con le cinture zeppe di moneta255.
Per dieci anni l'ardente cupidigia dei soldati e dei capitani si
sfogò in Spagna; indi si volse di nuovo ai nostri paesi; poichè
sappiamo che Mohammed-ibn-Aus, oriundo di Medina256, avea fatto
preda e prigioni in Sicilia l'anno settecentoventi, quando, tornato in
Affrica, fu preposto al governo in luogo di Iezîd, ucciso dai Berberi,
come sopra accennammo. Il movimento poi di questi popoli

255
Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. IV, fog. 47 verso, anno 92; Nowairi,
MS. di Parigi, Ancien Fonds 702, fog. 10 verso, e traduzione
francese del barone De Slane, Journal Asiatique (mai 1841), p. 575,
576.
Secondo la versione italiana, del Carli, Hagi Khalfa nella Cronologia porrebbe
nel 92 la espugnazione di Calabria per Farich figlio di Said. Riscontrato il testo,
mi accorgo che si tratti della notissima impresa di Tarik in Spagna. M. Famin,
Histoire des invasions des Sarrazins en Italie, p. 60, ha seguíto così fatto errore, e
aggiuntovi del suo il nome di Tharec, e che «ses soldats exercèrent des cruautés
inouies;» e si mette francamente a particolareggiarle.
256
Nowairi, capitolo della Sicilia, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 2,
che lo chiama Mohammed-ibn-abi-Edrîs; Baiân, p. 35, secondo il quale correggo
il nome e la data. Il Nowairi, capitolo dell'Affrica, presso De Slane, Histoire des
Berbères par Ibn-Khaldoun, tomo I, p. 357, in appendice; e Ibn-Khaldûn, His-
toire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p. 31, confondendolo
con un altro governatore d'Affrica, lo chiamano Mohammed-ibn-Iezîd. Il
Rampoldi, Annali Musulmani, tomo II, p. 225, anno 720, citando il Nowairi,
aggiugne di capo suo che Mohammed sbarcasse a Marsala, e riportasse in Affrica
«alcune centinaia» di prigioni.

205
ammorzò l'impeto degli Arabi contro la Sicilia. L'isola fu assalita il
settecentoventisette da Biscir-ibn-Sefwân della tribù di Kelb,
capitano d'Affrica, il quale tornò con gran copia di prigioni257; ma
par trattasse col governatore bizantino un accordo che poi non si
fermò, o non si osservò258. Venuto a morte Biscir, e succedutogli
'Obeida-ibn-Abd-er-Rahmân della tribù di Soleim, tentava la Sicilia
con parecchie spedizioni. L'anno medesimo ch'ei capitò in Affrica,
che fu il centodieci dell'egira (15 aprile 728 a 3 aprile 729), mandò
in corso con l'armata un Othman-ibn-abi-Obeida; il quale sbarcato
in Sicilia spiccava una schiera di settecento uomini, condotta dal
proprio fratello Habîb; e questi, scontratosi col patrizio bizantino, lo
ruppe e messe in fuga. Onde 'Obeida, con maggior disegno, l'anno
appresso (4 aprile 729 a 24 marzo 730), allestiva centottanta barche,
e inviavale a dirittura in Sicilia con Mostanîr-ibn-Habhâb; il quale
per incapacità o sventura frustrò le speranze del capitano d'Affrica.
Posto l'assedio ad alcuna città, tanto aspettò che sopravvenne
l'inverno; e allora, partitosi con prosperi venti, ma assalito da una
tempesta nel tragitto, perdè per naufragio tutta l'armata, da
diciassette barche all'infuori; in una delle quali egli stesso
approdava a Tripoli. Il che risapendo 'Obeida, volle dare, dice il suo
biografo, un gastigo a Mostanîr e uno esempio agli altri. Commise a
Iezîd-ibn-Moslim, governatore di Tripoli, di mandargli incatenato
sotto buona scorta il condottiero che avea fatto perire per oscitanza i
Musulmani; e avutolo in Kairewân, lo fece frustare sopra un'asina
per la città; poi per lungo tempo vergheggiarlo ogni settimana; e sì

257
Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. IV, fog. 74 verso, anno 109; Baiân, p. 35; Ibn-Khal-
dûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p. 32; Nowairi,
capitolo della Sicilia, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 2; e capitolo
dell'Affrica, presso De Slane, Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, tomo I, p.
357, in appendice. Il Rampoldi, Annali Musulmani, tomo II, p. 229, anno 721,
citando Nowairi, aggiugne del proprio che Biscir riportava molti idoli d'argento.
258
Si argomenta dalle pratiche d'accordo dell'813, nelle quali il governatore di
Sicilia ricordava un primo trattato fatto ottantacinque anni addietro. Veggasi il
Capitolo X.

206
il tenne in prigione finch'ei resse la provincia259. Thâbit-ibn-Hathîm
di Ordûnn in Siria nel centododici (25 marzo 730 a 13 marzo 731),
e Abd-el-Melik-ibn-Katan nel quattordici (2 marzo 732 a 19
febbraio 733), vennero anco a far bottino e prigioni in Sicilia, e
salvi se ne tornarono in Affrica; al par che Abd-Allah-ibn-Ziâd, che
infestò il quattordici stesso la Sardegna. Ma l'anno appresso (20
febbraio 733 a 8 febbraio 734), Abu-Bekr-ibn-Soweid, mandato da
'Obeida in Sicilia, perdeva alquante navi, distrutte dal fuoco che
lanciaronvi i Bizantini260. Infelice al paro un'altra impresa, ordinata
il cento sedici (9 febbraio 734 a 29 gennaio 735) da 'Obeid-Allah-
ibn-Habhâb, il quale passò allora dal governo d'Egitto in Affrica, in
luogo di 'Obeida che gli avea sì crudelmente svergognato il fratello.
Le genti di 'Obeid-Allah che venivano sopra la Sicilia, imbattutesi
nell'armata greca, ebbero dura battaglia e d'esito incerto; poichè i
Greci sconfitti recaron seco loro molti prigioni musulmani; e tra gli
altri un Abd-er-Rahmân-ibn-Ziâd, il quale non fu liberato innanzi il
centoventuno (739). Del centodiciassette (735), 'Obeid-Allah facea
depredar di nuovo la Sardegna da un nipote del famoso 'Okba-ibn-
Nafi' per nome Habîb-ibn-'Obeida, chiaro anch'egli per vittorie su le
remote rive dell'Atlantico e in cuor del continente affricano, nel
Sudân261. Intanto, ingrandito l'arsenale di Tunis e apparecchiate
assai maggiori forze che per l'addietro, e fattene venire anco di
Spagna, 'Obeid-Allah le affidava ad Habîb, e scagliavale un'altra
fiata su la Sicilia, con evidente disegno di conquisto. Sendo l'Affrica
aspramente turbata a quel tempo, pare che il governatore
musulmano si fosse deliberato alla impresa allettato da pratiche che

259
Makrîzi, Dizionario biografico intitolato il Mokaffa, MS. di Parigi, Ancien
Fonds Arabe, 675, fog. 227 recto, Vita di Obeid-Allah. Il caso di Mostanîr è
narrato ancora, ma più brevemente, da Ibn-abi-Dinâr (el-Kaïrouani), Histoire de
l'Afrique, traduzione francese, p. 65, e testo manoscritto, fog. 16 verso.
Quest'autore, invece del nome patronimico di Ibn-Habhâb, dà a Mostanîr quello
di Ibn-Hârith.
260
Makrizi, Mokaffa, MS. di Parigi, Ancien Fonds Arabe, 675, fog. 227 recto,
Vita di Obeid-Allah.
261
Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. IV, fog. 81 recto, e 82 recto, anni 116 e 117.

207
avesse in Sicilia, ove Leone Isaurico tormentava troppo le coscienze
e le borse dei popoli.
Sbarcato Habîb del centoventidue (740), e afforzatosi com'ei
pare in un campo, come soleano fare i Musulmani quando
prendeano ad occupare alcun paese, mandava intorno i cavalli col
proprio figliuolo Abd-er-Rahmân; il quale ruppe quanti gli veniano
allo scontro, e corse vittorioso in Sicilia, dicono i cronisti
musulmani, più largamente che niun altro condottiero.
Appresentatosi sotto le mura di Siracusa, Abd-er-Rahmân sconfisse
le genti uscite a combatterlo; strinse d'assedio la città, e spirovvi
tanto terrore, che un dì potè cavalcare egli stesso fino ad una porta,
e percossala con la spada in atto di minaccia, lasciovvi il segno.
Calaronsi infine i cittadini a pagar una taglia. Doma la capitale,
Habîb volgeasi a soggiogare il rimanente dell'isola; quando fu
premurosamente richiamato in Affrica, ove i Berberi s'erano
sollevati di nuovo, cogliendo appunto il destro di questa impresa di
Sicilia262. L'isola dunque fu salva mercè quella ribellione.

262
Confrontinsi Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. IV, fog. 82 recto, anno 117; Ibn-
Scebbât, citato da Ibn-abi-Dinâr (el Kaïrouani), Histoire de l'Afrique, p. 67 e 68, e
MS., fog. 17 recto; Baiân, p. 38-40; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique, trad. di
M. Des Vergers, p. 34. - Lo scrittore cristiano contemporaneo, Isidoro De Beja
presso Flores, España Sagrada, tom. VIII, p. 305, dice che 'Okba (Ibn-Heggiâg),
governatore di Spagna, udita la sollevazione dei Mori in Affrica, vi passò, uccise
tutti i ribelli: «Sicque cuncta optime disponendo, et Trinacrios (portus)
pervigilando, propriæ sedi clementer se restituit.» Accettando, come par si
debba, la lezione di Trinacrios (chè v'ha le varianti Trimacrios, Tinacrios,
Patrios), le parole di Isidoro significano che qualche nave spagnuola fosse venuta
con Habîb alla impresa di Sicilia. Perchè la rivolta alla quale accenna Isidoro fu al
certo qualche movimento anteriore, represso dagli Arabi d'Affrica e di Spagna,
non il fatto dell'anno 122, che rese necessaria la ritirata dell'esercito di Sicilia, e
che, invece della strage dei ribelli, finì con la sconfitta degli Arabi. Isidoro, del
resto, non assegna data a queste fazioni, se non che vanno dopo la destinazione di
'Okba al governo di Spagna, ch'ei pone l'anno 775 dell'era spagnuola, e 18° di
Leone Isaurico, cioè il 733 dell'era volgare, ma che Ibn-Khaldûn riferisce al 117
(735), e il cronista seguíto da Conde, Dominacion de los Arabes en España, parte
I, cap. 26, all'anno appresso.

208
In mezzo alle fiere vicende che poscia intervennero in Affrica,
Abd-er-Rahmân, occupata questa provincia, come altrove s'è detto,
ripensò alla Sicilia. L'anno centotrentacinque (17 lug. 752 a 5 lug.
753), allestita un'armata e gastigati i Berberi di Telemsên, andò in
persona, o, com'altri vuole, mandò il proprio fratello Abd-Allah
all'impresa di Sicilia e poi di Sardegna; nelle quali fu fatto molto
guasto e stragi e preda e prigioni: durevoli acquisti no; non
concedendolo le deboli fondamenta della dominazione d'Abd-er-
Rahmân in Affrica. Il governo bizantino potè quindi, avvertito da tal
nuova minaccia, afforzare validamente le due isole, e massime la
Sicilia che più gli premea; rizzare un castello, così scrivono i
Musulmani, sopra ogni roccia atta a difesa; e ordinare un'armata che
guardava que' mari, e quando il potea, corseggiava sopra i
mercatanti musulmani263. Tra così fatti provvedimenti e le
turbolenze che non cessavano in Affrica, la Sicilia ebbe respitto dai
Musulmani più di mezzo secolo.
Le ultime incursioni erano state aggravate da una crudele
pestilenza. Già fino dal settecentodiciotto avea menato strage
nell'armata del califo che assediava Costantinopoli264. Proruppe indi
in Affrica dal settecentoquarantaquattro al settecentocinquanta265, e
verso il medesimo tempo in Sicilia e Calabria, donde si credè che si
appigliasse alla Grecia; e del settecentoquarantotto spopolò
Costantinopoli e il Peloponneso266, mentre non men fiera ardea tra il
263
Confrontisi Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. IV, fog. 118 recto, anno 135, e fog. 47
verso, nel capitolo della Storia di Sardegna, sotto l'anno 92; Baiân, p. 49 e 53;
Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p. 44;
Nowairi presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 2, 3.
264
Veggansi le autorità citate da Le Beau, Histoire du Bas Empire, lib. LXIII, §
22.
265
Baiân, p. 48. Quivi si dice che corressero in Affrica due specie di moria che
chiamansi in arabico webâ e tâ' un. La seconda disegna particolarmente la peste.
La prima è presa d'ordinario nello stesso significato, ma si estende alle malattie
epidemiche in generale. Veggasi una nota di M. Reinaud nel Recueil des
historiens orientaux, tomo I, p. 133.
266
Teophanes, Cronographia, tomo I, p. 651; e le altre autorità citate dal Le Beau,
Histoire du Bas Empire, lib. LXIV, § 13.

209
Tigri e l'Eufrate267. Nei paesi cristiani commossi allora dalla lite
delle immagini, non si potea far che cotesta calamità non le fosse
apposta. E perchè gli Iconoclasti, distruggendo ogni altro obietto di
culto, serbavan la sola croce, il volgo ortodosso la prese in uggia:
vide apparire, su le vestimenta, le case e i tempii, crocette negre a
migliaia, non più simbolo di riscatto, ma segno di pestilenza e
marchio dell'ira divina268.
Si rannoda infine alle scorrerie de' Musulmani nel bacino
centrale del Mediterraneo un episodio di storia letteraria, di assai
momento nella penuria di quella età. Narra una leggenda che tratta a
Damasco una torma di prigioni cristiani delle isole, mentre altri era
venduto, altri, non sappiamo perchè, serbato al patibolo, notavasi tra
loro un bel giovane italiano per nome Cosimo, al quale i miseri
compagni si gettavano ai piè, chiedendo li raccomandasse a Dio. I
Barbari, che non comprendeano perchè tanto si onorasse un uomo
di sì poca età e povero aspetto, maravigliati lo interrogavano
dell'esser suo; ai quali rispondea, sè esser frate e dotto in filosofia
cristiana ed antica: e in ciò dire gli si empiean gli occhi di lagrime.
"E perchè piangi, tu, che hai ripudiato ogni bene di quaggiù?"
domandollo allora un cittadino fattosi innanzi. E Cosimo a lui:
"Altro non m'accora," rispose, "che d'avere studiato indarno. Ho
speso la gioventù," continuava, "ad apprendere rettorica, dialettica,
morale, fisica, aritmetica, geometria, musica, astronomia, teologia
greca e teologia nostrale: ma a che pro, se or debbo morire oscuro,
senza che abbia a chi lasciare tal retaggio?" - "Datti pace, o fratello,
che ti troverò io gli eredi" replicò il cittadino, ch'era cristiano,
facoltoso, grato al califo, e padre del giovanetto Mansur, notissimo
poi sotto il nome di San Giovanni Damasceno. E il buon uomo,
comperato immantinente il prigione, lo emancipò, e affidògli il
figliuolo e un altro fanciullo che avea adottato; i quali felicemente
267
Ibn-el-Athîr, MS. C, tomo IV, anno 130, dice che infieriva la peste a Bassora;
Ibn-el-Giuzi (Jauzi, secondo l'ortografia inglese) citato da De Slane, Ibn
Khallikan's Biographical Dictionary, tomo II, p. 551, fa arrivare la mortalità a
70,000 persone in un dì, che si deve intendere forse di Bassora stessa.
268
Le Beau, Histoire du Bas Empire, lib. LXIV, § 13.

210
apparavano le dottrine del maestro, e il primo ne salì a quella fama
che ognuno sa. Tanto leggiamo nella vita del Damasceno stesa due
secoli appresso, sopra certi ricordi arabici269; e, stralciando gli
ornamenti del compilatore, non v'ha ostacolo ad accettare il fatto.
Secondo la ragion dei tempi, torna ai primi anni dell'ottavo secolo;
ond'ei pare che il monaco Cosimo fosse caduto in man dei
Musulmani in Sicilia, forse nella spedizione degli illustri ricordata
di sopra; dopo la quale ei sarebbe stato condotto al califo, tra i
sessantamila prigioni che gli mandava Musa conquistatore
dell'Occidente. Rinforzano tal supposto le frequenti comunicazioni,
e potremmo dire la promiscuità che correa tra i monasteri di Sicilia
e que' della terraferma independente dai Longobardi, negli ultimi
venticinque anni del settimo secolo.

CAPITOLO VIII.
Mentre la potenza musulmana, sviluppandosi in Affrica,
costringea gli imperatori d'Oriente a pensare alla difesa della Sicilia,
succedeano nella penisola italiana non men gravi mutamenti di
Stato. I Longobardi, tra per que' loro sciolti ordini politici e per la
pochezza del numero, s'erano rimasi ai primi conquisti, e
minacciavano le altre provincie, senza poterle opprimere. Gli
imperatori bizantini dal canto loro le reggeano senza poterle
difendere; non avendo esercito da mandare in terraferma d'Italia, nè
altro che rescritti, governatori, officiali, qualche man di scherani, e
ad ora ad ora un po' di forze navali. Pertanto tollerarono, o
promossero, l'ordinamento delle milizie cittadine; lasciaron fare i
municipii, che guadagnavan indi tutta l'autorità perduta dal
principato; e a poco a poco la schiatta italica delle dette regioni
269
Bollandisti, Acta Sanctorum, maggio, tomo II, p. 109, seg., 725, seg., testo
greco e versione della Vita di San Giovanni Damasceno scritta da un Giovanni
patriarca di Gerusalemme; e Ibidem, p. 731, seg., altro squarcio di agiografia
attribuito a un Costantino Logoteta.

211
ripigliò l'uso delle armi e della vita politica, e aperse la prima era
dei nostri comuni. Roma primeggiò tra quelli, perchè era Roma; e
perchè da San Gregorio in poi vi s'eran fatti come presidenti del
municipio i papi, la cui riputazione crescea sempre più tra la rozza
gente germanica, e toccavano quasi al primato su tutte le chiese di
Ponente.
Il novello elemento nazionale surto così in Italia, si provò contro
il governo bizantino, oppressore senz'armi, e, per giunta,
molestissimo con que' suoi ghiribizzi teologici che poco assai si
confaceano alla natura italiana. Attizzò il fuoco la Chiesa di Roma,
rivale antica di quella di Costantinopoli, e osante ormai disputare
agli imperatori l'uficio di pontefice massimo. Per tal modo lo
antagonismo nazionale tra Italiani e Greci, prese forza e sembianza
d'antagonismo religioso, ch'è tra tutti violentissimo. Ma al
Sacerdozio solo profittò; nocque all'Italia, ch'era scissa tuttavia tra
due genti: latina e longobarda; e i Latini, per loro malanno e nostro,
non vedean altra stella polare che il papa.
La resistenza cominciò da Roma, ove il popolo non avea perduto
nè la vigoría nè l'orgoglio; ma scarso, ozioso e povero, appena gli
parea vero che un magistrato eletto da lui fosse riverito ancora in
tanta parte del mondo, e ne cavasse un tributo, il frutto cioè dei
patrimonii, con che il papa nutriva gli indigenti della città,
manteneva una torma di officiali sacri e profani, ed accrescea lo
splendore dei tempii che attiravano tanti stranieri. Per la gratitudine
e interesse dei Romani, Costante avea durato fatica a compiere
l'attentato sopra papa Martino. Parecchi anni appresso, il mero
sospetto che un esarco venuto di Sicilia a Roma volesse offendere il
papa, bastò per far levare a romore le milizie della città, e accorrere
in arme quelle della Pentapoli e di Ravenna, che ai conforti del papa
poi si ritrassero (702). Ma, sguainate le spade là dov'eran tante ire,
non tardò a scorrere il sangue. Il patrizio Teodoro, passato anche di
Sicilia con l'armata a Ravenna, fece a tradimento una efferata
vendetta sopra que' cittadini; dond'essi confederaronsi coi Romani e
con le città dell'esarcato (711); e côlto il destro che l'imperatore

212
Filippico tentasse di ridestare la eresia monotelita, il senato e popol
romano, con sembianze dell'antica magnanimità, decretavano
disdirgli l'obbedienza, metter giù le effigie dello imperatore, e
ricusar la moneta battuta a suo nome (712). Nondimeno, deposto
Filippico, il movimento italiano sostò per la prudenza o debolezza
degli altri imperatori, e per la dubbiezza dei papi che ripugnavano,
come per istinto, a fondarsi in sul popolo.
Ma salito all'impero Leone Isaurico, mosso non da persuasione
teologica, nè dai consigli degli Ebrei e de' Musulmani come
scioccamente si è ripetuto, ma da saviezza d'uomo di Stato, ei si
provò a una grande riforma. Vedendo consumare l'attività dei popoli
tra le ubbie religiose, dentro i chiostri e fuori, e abbandonare
l'industria e la milizia, Leone pensò di stornarne gli animi, togliendo
dinanzi agli occhi del volgo le immagini di Santi, le quali lo
stimolavano a quelle fissazioni, e aumentavano la riputazione, i
guadagni, e però anco il numero dei frati. Così diè principio alla
eresia degli Iconoclasti; la quale meglio si direbbe guerra del
principato contro la superstizione; raro esempio nel mondo. E il
principato questa volta restò di sotto. Perchè nelle provincie
orientali, ove il clero più gli obbediva, durò la riforma un secolo e
un poco più, finchè la opinione dell'universale non strascinò teologi
e principi al suo cammino. Ma in Italia gli umori religiosi
trionfarono immediatamente, perchè li rincalzavano le condizioni
politiche; e perchè la quistione delle immagini era tale che il volgo
benissimo la comprendea, vedendo e toccando con mano i numi
tutelari che gli volea rapire un despota greco. Pertanto, promulgato
il primo editto di Leone (726), Gregorio Secondo, uomo di alti
spiriti quanto lo imperatore, destò un incendio: e i successori di
Gregorio non lo lasciarono spegnere. Diersi i papi a sollevare i
popoli; a promuovere la lega delle città italiane independenti dai
Longobardi; a chiamare in aiuto i re di questa nazione, che
volentieri colsero il destro d'ingrandirsi. La guerra si ruppe sotto
specie di difendere la religione; e i papi fecer le viste di volersi
rimanere a questo, e serbare l'obbedienza agli imperatori.

213
Ma tal finzione legale svanì dopo le prime vittorie della
confederazione italiana. Perchè, assicurati da quelle, i papi presto
dimenticarono e lo scopo della guerra, e che il Vangelo non
concedesse ai sacerdoti altr'arme che il pastorale, nè altra dote che
le limosine dei fedeli. Vollero le spoglie opime dei vinti; vollero,
non che rendite e tesori, anco il principato: e il partaggio della preda
si onestò col nome di donazione di molte città tolte ai Bizantini, che
re Luitprando offerisse ai Santi Pietro e Paolo. Poi, pentitisi i
principi longobardi di sì larghe concessioni, i successori degli
Apostoli per mantenerle, lanciarono l'Italia in uno abbisso:
impotenti con le armi, dettero principio a quella torta politica che da
indi in poi non hanno mai più smesso. Chiamarono i Franchi
ortodossi contro gli ortodossi Longobardi; li aizzarono tuttavia a
spogliare i Bizantini che desisteano dall'eresia; sciorinarono tra le
tenebre dell'ottavo secolo la falsa donazione di Costantino, per
ottener più liberali le donazioni di Pipino e di Carlomagno;
confusero ad arte con la signoria politica il dritto di proprietà di
qualche podere; e tristo quel paese ove si contasse San Pietro tra i
benestanti; che il papa stendeavi la mano a nome del principe degli
apostoli. Così San Pietro divenne re di belle e buone provincie
d'Italia; le quali, scorciate di qua, estese di là, disputategli dalle tre
possanze che si sono avvicendate poscia in Europa, dai baroni, dai
monarchi e dal popolo, lacere, frementi, insanguinate, ei tiene
ancora. Nè andò guari che compissi anco a nome di San Pietro il
terzo fatto, fatale all'Italia quanto il conquisto dei Franchi e quanto
la dominazione temporale del papa; dico la creazione
dell'imperatore d'occidente: il qual titolo per tanti secoli bastò a
tenerci divisi, attirar di qua dalle Alpi le armi straniere, e dar forza
al papato e quando gli imperatori patteggiavano per esso, e quando
lo combatteano.
L'Italia uscì da questa rivoluzione dell'ottavo secolo divisa nel
seguente modo. Tennero il settentrione i Franchi col nome di Regno
d'Italia; il papa lo Stato odierno della Chiesa, aggiugnendovi parte
della Toscana e altre città, e togliendone Roma con un po' di

214
territorio infino al mare; la quale serbò forme di repubblica, e fu
dominata di fatto dai papi e dagli imperatori d'Occidente270.
Rimasero agli imperatori bizantini la Sicilia, la Calabria, Terra
d'Otranto e una signoria nominale su le repubbliche sorte nel
movimento nazionale di quel secolo, ma non gittatesi nella
ribellione papale; come Venezia coi contorni, Napoli e poche altre
città della costiera271. Sopravvisse alla dominazione longobarda lo
Stato di Benevento che prendea il resto dell'odierno reame di
Napoli; e riconobbesi vassallo di Carlomagno, ma poi si sciolse
dall'obbedienza. La Sardegna e la Corsica272 abbandonate dai
Bizantini, infestate dai Musulmani, sperando uscire di briga, si
assoggettarono ai novelli re d'Italia; i quali dettero qualche aiuto,
poi, non potendo, le lasciarono a lor sorte: e gli abitatori di quelle
isole, poveri e valorosi, per due secoli si salvarono dal giogo degli
Arabi, non dalle infestagioni, e rimasero privi dell'incivilimento
musulmano non men che di quello che si sviluppò in Italia273.

270
: Non ho bisogno di ricordare quanto sieno incerti i limiti del territorio,
compreso nella donazione di Pipino e di Carlomagno, e come i papi non fossero
mai entrati in possesso di molte terre tra quelle che lor erano state donate senza
dubbio.
271
Costantino Porfirogenito, De administrando imperio, cap. 27, p, 995, dice che i
Longobardi aveano occupato tutta l'Italia, fuorchè Otranto, Gallipoli, Rossano,
Napoli, Gaeta, Sorrento, Amalfi. Ciò si deve intendere del tempo in cui l'impero
bizantino avea perduto lo esarcato e non ripigliato per anco la Puglia; cioè tra la
prima metà dell'VIII secolo e la seconda metà del IX.
272
Nell'originale "Corcisa". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
273
Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. IV, fog. 47 verso, sotto l'anno 92, raccogliendo in un
solo capitolo tutte le imprese dei Musulmani sopra la Sardegna, afferma che
quest'isola non fosse stata più molestata dal 135 al 323 dell'egira (752 a 935), e
che in questo intervallo avesserla tenuta i Rûm, che qui significa la schiatta
indigena italiana. Le cronache cristiane più vicine a quei tempi si accordano in
generale con tale narrazione; se non che aggiungono alcune sconfitte toccate dai
Musulmani in Sardegna e in Corsica. Quanto a questa isola, è falsa evidentemente
la dominazione musulmana supposta da alcuni annalisti dei paese. Veggansi Re-
inaud, Invasions des Sarrazins en France, pag. 69; e Wenrich, Commentarium,
ec., lib. I, cap. III, § 49 in nota.

215
Nel quadro che qui mi son provato ad abbozzare, v'ha una parte
che vuolsi descrivere più particolarmente; ed è l'ambizione dei papi
dell'ottavo secolo sopra le parti meridionali d'Italia, e sopra le isole.
Cotesto disegno fu iniziato da Adriano Primo; continuato più
occultamente da Leone Terzo; lasciato dopo la morte di
Carlomagno; ripigliato nello undecimo secolo, è pressochè mandato
ad effetto nel decimo terzo: di che resta, ultimo avanzo, ai dì nostri,
la dominazione pontificia a Benevento. Il governo bizantino di
Sicilia, s'oppose com'e' poteva a quelle usurpazioni. Io lascerò
indietro le brighe dei patrizii coi papi, che seguirono nei principii
dell'eresia iconoclastica, quando i legati di Roma agli imperatori
eran sovente ritenuti in Sicilia (a. 731-732): tiri di polizia, non di
politica. Ma venuti in Italia i Franchi, e voltisi però gli imperatori
bizantini alla lega coi principi longobardi, antichi nemici loro, il
primo partito che si presentò fu di accozzare le forze contro il
novello nemico comune. Indi l'accordo trattato (758) per lo assedio
d'Otranto, al quale doveano trovarsi le genti di re Desiderio e i
dromoni di Sicilia274. Indi la passata d'un potente navilio di
Costantinopoli, che insieme con l'armata di Sicilia (764) si mostrò
su le costiere di terraferma275, a fin di cooperare coi Longobardi; il
che poi non si mandò ad effetto. E dopo la prima impresa di
Carlomagno e la caduta del reame longobardo (774), fuggitosi
Adelchi a Costantinopoli, il patrizio di Sicilia ebbe in mano le fila
di quante pratiche ordivansi in terraferma contro la novella
dominazione. Perchè Adelchi, con lo irrequieto suo valore e ardenti
speranze, dava opera a muovere i feudatarii longobardi soggiogati;
ricordava l'onore e gli interessi del comun sangue ad Arigiso duca
di Benevento, rimaso indipendente fin allora; e stigava alla guerra la
pigra corte bizantina, mostrandosele tutto devoto e pronto a
grecizzare egli e tutti i Longobardi, tanto che per arra ei prese il
greco nome di Teodoto. Donde gli imperatori, tra la voglia e il
274
Epistola di papa Paolo Primo, a re Pipino, Codex Carolinus, edizione del
Gretser, n° XV; edizione del Cenni, n° XVIII.
275
Codex Carolinus, edizione del Gretser, n° XXIV; edizione del Cenni, n°
XXXVIII.

216
sospetto, necessariamente provvidero che il ministro loro in Sicilia
aiutasse e vegliasse que' principi cospiratori. Le pratiche si
riscaldarono quando Arigiso fu sforzato a dirsi vassallo di
Carlomagno, e papa Adriano, gustate le dolcezze dei dominio
temporale, pensò ad allargar i confini meridionali del nuovo Stato.
Perchè veggiamo che mentr'ei piativa con Carlomagno per
questa e quell'altra città dell'Italia di mezzo, noverata nella
donazione e ritenuta pure in man dei Franchi; mentre allegava qua
una ragione e là un'altra, e fin le testimonianze di vecchi centenarii,
per provare agli oficiali del re che San Pietro avesse tenuto ab
antico tale e tal possessione276, Adriano ebbe ricorso ad argomenti
più persuasivi. Con la riputazione di San Pietro, coi titoli di
proprietà del principe degli apostoli, e le armi materiali levate nel
santo suo nome, aggiuntovi solo la riputazione e un po' di rinforzi di
re Carlo, Adriano si promettea di spogliare i nefandissimi
Napoletani, i nefandissimi Beneventani e i Greci odiati da Dio, e
sgarare il nefandissimo Adalgiso e il nefandissimo patrizio di
Sicilia: chè con questi predicati, nè caritatevoli nè decenti, li vien
chiamando il vicario di Cristo, scrivendo di loro a Carlomagno277. In
una lettera a chiare note gli dicea voler soggiogare quei paesi «al
servigio del Beato Pietro principe degli apostoli, di re Carlo e suo
proprio278.» Indi è manifesto il baratto, forse una novella partizione
d'Italia, che venía proponendo quel grande intelletto di Adriano, al
grande intelletto di Carlomagno. Adriano volea dal re le altre città
pretese nell'Italia di mezzo, e gli aiuti di gente; offriagli in
contraccambio l'alta signoria delle provincie meridionali, da
occuparsi a nome e per dominio utile della sede di Roma.
E perchè Carlo, involto in tante altre guerre, non potè o non
volle, Adriano cominciò a far da sè solo, adoperando quelle armi
che seppe accozzare, e le lingue e gli orecchi dei vescovi di Napoli
276
Codex Carolinus, edizione dei Gretser, ep. LVI; edizione del Cenni, ep.
LXXII.
277
Codex Carolinus, edizione del Gretser, ep. LXIV, LXXIII, XC; edizione del
Cenni, LXV, XC; LXXXIX.
278
La prima di quelle citate nella nota precedente.

217
e di Gaeta. Sotto pretesto di ricuperare certi poderi di San Pietro nel
territorio di Napoli, confiscati tanti anni addietro dagli imperatori,
occupò nel settecento ottantasette Terracina: sì invogliato d'andar
oltre, che non volle ascoltare proposizioni di tregua; ch'ei ritenesse
cioè Terracina e accettasse quindici statichi napoletani, finchè non
si richiedessero i comandi del patrizio di Sicilia su lo affare dei
patrimonii. Alla ricusa del papa, i Napoletani erano costretti a
respingere la forza con la forza. Sopraccorso a Gaeta il patrizio di
Sicilia, le genti di lui, accozzate coi Napoletani, ripigliavano
Terracina. E perchè la spada sacerdotale, sguainata così per la prima
volta in Cristianità, minacciava da presso il Ducato di Benevento e i
dominii bizantini in Italia, i minacciati s'intesero più volentieri fra
loro. Adelchi odorando la guerra saltava pronto in que' luoghi.
Messaggi andavano e venivano ogni dì tra Arigiso duca di
Benevento, il patrizio di Sicilia e i Napoletani; e il papa seppe, o
disse di sapere, che armavano a furia per mare e per terra per
andarlo a pigliare entro Roma. Spaventato, scrisse dunque a
Carlomagno chiedendogli soccorso e forze da continuare il
conquisto; lo scongiurò di mandargli immantinenti le milizie di
Toscana, di Spoleto e gli stessi nefandissimi Beneventani279
279
Codex Carolinus, edizione del Gretser, ep. LIX e LXIV; edizione del Cenni,
LVII e LXV. La data del 780, che assegna alla seconda di queste lettere il Cenni,
è erronea, e le si dee sostituire il 787, come lo avea mostrato prima il Muratori
(Annali, anno 787), e vi assente, contro il solito suo, lo Assemani, Italicæ
Historiæ Scriptores, tomo I, p. 488-489. Le ragioni che allega il Cenni per rifare
il verso al nostro grande Annalista son futilissime, e basta a distruggerle il fatto
che nella epistola si parla dei nefandissimi Beneventani come di vassalli di
Carlomagno; il che non si potea dire innanzi la pasqua del 787. La epistola LIX
del Gretser, ancorchè riferita dal Cenni al 776, mi pare scritta poco appresso
l'altra, nello stesso anno 787. - Va errato bensì il Muratori, quand'ei scrive che
Adelchi fosse in questo tempo patrizio di Sicilia. Ciò nè si può argomentare dalla
detta epistola di papa Adriano, come lascia supporre il Muratori; nè è detto da
alcun cronista; nè è punto verosimile. Il Muratori fu ingannato dall'assonanza dei
nomi di Teodoto e Teodoro; dei quali il primo fu preso da Adelchi, come abbiam
detto, e il secondo era il nome dell'eunuco, patrizio di Sicilia, che sbarcò in Italia
con Adelchi il 788. L'Assemani[Nell'originale "Assemanni". Nota per l'edizione
elettronica Manuzio], l. c., non manca di notare questo lieve sbaglio del

218
ancorchè tentennassero. Così Adriano fallì il colpo; e pure,
stuzzicando i nemici, sforzò Carlomagno alla guerra ch'ei voleva
accendere.
Le pratiche mosse di Sicilia intanto incalzavano. Un prete di
Capua svelò al papa che Arigiso fosse stato per giurare fedeltà allo
imperatore di Costantinopoli, e fin vestirsi e tosarsi alla greca, a
condizione che gli si desse il titolo di patrizio e la investitura del
Ducato di Napoli. La cosa andò tant'oltre che due spatarii dello
imperatore veniano di Sicilia a ricevere il giuramento di Arigiso,
quand'egli inaspettatamente si morì280. Al quale succeduto il
figliuolo Grimoaldo che avea appreso a corte di Carlomagno a
simulare e aspettar tempo, si guastò la parte principale del disegno,
la quale era fondata in su le forze dello Stato di Benevento.
Grimoaldo, circondato di capitani e genti di Carlo e di spie del papa,
fu necessitato a volgere le armi beneventane contro il proprio
congiunto che veniva a liberarlo.
Perchè la fortuna tanto avea ancora arriso alla virtù di Adelchi,
che spezzatasi la pratica di matrimonio tra lo imperatore Costantino
e una figliuola di Carlomagno, e coincidendo il fatto di Terracina, la
corte di Costantinopoli si lasciò trasportare da insolita collera.
Spacciato in Ponente con soldati un Giovanni sacellario e logoteta,
ch'erano ragguardevoli uficii d'azienda, e aggiuntevi le milizie di
Sicilia capitanate dall'eunuco Teodoro, patrizio e stratego dell'isola,
l'oste sbarcò in terraferma. Adelchi vi si trovò; e mossero sopra lo
Stato di Benevento. Scontraronsi con le genti longobarde di
Benevento e di Spoleto, capitanate dai due duchi, Grimoaldo e
Ildebrando; e i Greci furono rotti con molta strage, e tra gli altri il
sacellario fatto prigione e poi ucciso281. Adelchi ebbe peggior sorte

Muratori.]
280
Codex Carolinus, edizione del Gretser, ep. LXXXVIII; edizione del Cenni, ep.
XCI.
281
Theophanes, Chronographia, tomo I, p. 718 (anno 6281); Historia Miscella,
presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte I, p. 167; Einhardus,
ed Annales Laurissenses, presso Pertz, Scriptores etc., tomo I, p. 174, 175. - Due
altre epistole di Adriano inserite nel Codice Carolino, sotto i numeri XC e XCII

219
che di restar morto in campo, com'altri ha detto282. Sopravvivuto alla
sconfitta, vide dileguare le ultime speranze di sua schiatta che
sventuratamente si fondavano sugli stranieri. Pure quella battaglia,
se non ristorò il reame longobardo, mantenne i Ducati a dispetto di
papa Adriano, per la gratitudine e fidanza di Carlo verso Grimoaldo
e Ildebrando. A capo di pochi anni venne fatto al papa di lanciar di
nuovo i Franchi verso il mezzogiorno; ma la fortuna non li aiutò:
Adriano morì indi a poco, e Carlomagno si trovò men disposto che
mai a continuare lo aggrandimento del dominio papale.
I patrizii di Sicilia in questo mezzo si esercitarono nei maneggi
diplomatici a corte di Carlomagno, con migliore fortuna che non
avessero testè fatto nella guerra. Andava a Carlo in Aquisgrana un
Teoctisto, legato di Niceta, patrizio di Sicilia (797); e, non guari
dopo (799), un Daniele mandato a lui da Michele successore di
Niceta283: la causa delle quali missioni si ignora; ma ci apporremmo
al vero supponendo che s'intendesse a distogliere il re da alcuno
assalto sopra i dominii greci in Italia, suggerito per avventura da
Leone Terzo. Certo egli è che, dell'ottocento, ito Carlomagno a
Roma per cingersi la corona imperiale, si parlò di una impresa, non
che sull'Italia meridionale, ma sopra la stessa Sicilia, sede delle
forze che manteneano ancora quelle provincie nella devozione dei
Bizantini. Questo disegno fu abbandonato al pari, perchè
Carlomagno non andava di buone gambe alle guerre meridionali, e
avea troppe brighe nel mondo e niuna forza navale, e volle
rappacificarsi con Irene; donde nacque la falsa voce del matrimonio
del Gretser, e LXXXIX e XC del Cenni, e poste dal Cenni nel 778, si debbono
riferire, come io credo, a questo tempo. Trattano entrambe delle mene di Adelchi
in Calabria; e nella seconda si dice che il patrizio di Sicilia e i due spatarii,
sbarcati con esso ad Agropoli del mese di gennaio, erano iti a trovare la vedova di
Arigiso a Salerno, e di lì eran passati a Napoli.
282
Tale supposizione è fondata nel racconto di Sigeberto, cronista dell'XI secolo,
il quale mal interpretando la Historia Miscella, credè a proposito far morire
Adelchi, protagonista da tragedia, piuttosto che il pacifico Giovanni. Non
dobbiamo oggi seguire l'errore noi che abbiamo alle mani Teofane, sul cui testo
fu fatta la versione compendiata detta Historia Miscella.
283
Annales Laurissenses, presso Pertz, Scriptores, tomo I, p. 182, 186.

220
che si trattasse tra loro284. Forse Carlomagno avrebbe tentato in
migliore occasione la Sicilia, perchè lo veggiamo accogliere in
Roma (801) un fuggitivo siciliano, uom di assai nota, Leone
Spatario, ch'ei rimandava dieci anni appresso a Niceforo
imperatore285. Ma erano pensieri vaghi e dimenticati tra cose di
gravissimo momento. Quegli che non obbliava la Sicilia era il papa.
Or col pretesto di farsi mediatore di pace tra i due imperatori
d'Oriente e d'Occidente, or di ricomporre le liti religiose che
ripullulavano dopo la morte di Irene, o di rivendicare gli infiniti
patrimonii di San Pietro, sempre trovava modo di mandare al
patrizio di Sicilia alcun suo fidato che spiasse gli umori del paese,
gli intendimenti del governo, le novelle della corte di
Costantinopoli. E com'avrebbe fatto un ministro di polizia,
puntualmente e sommessamente, il papa ne ragguagliava
Carlomagno.
Gittano un baleno di luce su coteste pratiche le epistole di papa
Leone allo imperatore, date dell'ottocento tredici, quando si temeva
in Italia un assalto dei Musulmani. Ritraggiamo da quelle che
Carlomagno avea scritto al patrizio, e mandato la lettera per mani
del nunzio papale; che il patrizio, in luogo di rispondere allo
imperator di Occidente, s'era indirizzato al papa; e che questi, senza
dissuggellare la risposta che andava a suo nome, l'avea fatto
capitare a Carlomagno; aggiugnendo gli avvisi che ritraea, dal
patrizio non già, ma dalla bocca del proprio nunzio. Di più, questi
era stato tenuto nel palagio del patrizio in custodia d'un segretario;
guardato a vista quasi parlamentario ch'entri in una fortezza
assediata. Tant'oltre andavano i sospetti o i disegni del patrizio,
ch'ei ragionando con l'uom del papa in ottobre, non raccontava
altrimenti i fatti di Costantinopoli del luglio, che con dire chiuso in
un monastero Michele Rangabe, senza far motto del successore286; e
che infino a mezzo novembre par che Gregorio si sforzasse a
284
Theophanes, Chronographia, tomo 1, pag. 736 (anno 6293).
285
Annales Laurissenses, presso Pertz, Scriptores, tomo 1, p. 198.
286
Epistola citata dell'11 novembre 813, presso il Labbe, Sacrosancta Concilia,
tomo VII, p. 1114; e presso il Cenni, Codex Carolinus, tomo II, ep. IV di Leone.

221
dissimulare al papa il mutamento di signoria assodato già nella
capitale287. Da cotesti indizii non si può ritrarre se il patrizio evitasse
di rispondere a Carlomagno per osservare alcuna formalità
diplomatica del tempo, per eludere qualche domanda che gli recava
disagio, ovvero per differire a riconoscere la esaltazione di Leone
l'Armeno, sperando, sia che il Rangabe risalisse sul trono, sia che ei
medesimo favorito dall'esercito di Sicilia potesse tentar novità. Ciò
che di certo si vede è la importanza dell'uficio di stratego e patrizio
di Sicilia in questo tempo, e la scherma di astuzie con che
combatteva contro il pontefice di Roma: bizantino contro papalino,
proprio maestri di buona scuola!
Morto di lì a poco Carlomagno (gennaio 814), e dopo due anni
anco papa Leone Terzo, e raccesa da Leone Armeno la lite delle
immagini (815), avrebbe potuto per avventura la Sicilia fare scala al
racquisto dei territorii perduti dall'Impero di Costantinopoli
nell'Italia meridionale. Le relazioni dell'isola con quella regione di
terraferma avrebbero favorito il disegno; poichè par che fossero rese
più frequenti e amichevoli dall'interesse comune dei popoli. Così
veggiamo i Napoletani, sotto il regno di Leone l'Armeno, mandar a
cercare in Sicilia un Teoctisto per farlo capitano di loro
repubblica288. Così anco i Siciliani esercitare commerci sì frequenti
in Calabria su i confini dello Stato longobardo di Benevento, che le
gabelle pagate da loro montavano a grossa somma di danaro289.
Pertanto un novello sforzo dell'impero bizantino avrebbe trovato
condizioni assai favorevoli. Ma i due soldati che regnarono
successivamente a Costantinopoli, furono distolti da altre cure.
Leone l'Armeno si travagliò aspramente in guerra contro i Bulgari
(813-815), poi contro i frati iconolatri dell'Impero. Michele il Balbo,
che l'uccise, e gli succedette (26 dicembre 820), s'ebbe a difendere
287
Epistola del 25 novembre 813, presso il Labbe, Sacrosancta Concilia, tomo
VII, p. 1117; e presso il Cenni, Codex Carolinus, tomo II, ep. X, di Leone.
288
Johannes Diaconus, Chronicon, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores,
tomo I, parte II, p. 312.
289
Anonymus Salernitanus, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo
II, parte II, p. 209.

222
da un altro vecchio commilitone, Tommaso di Cappadocia: fattosi
gridare imperatore; venuto ad assediare Costantinopoli; e spento a
grandissima fatica, dopo tre anni di guerra (823). Tennero dietro a
cotesti travagli, lo sbarco dei Musulmani a Creta; le sconfitte degli
eserciti bizantini mandativi al racquisto (823-825). Pertanto, non
che pensare alla terraferma d'Italia, Michele il Balbo, non valse a
reprimere per parecchi anni i movimenti di Sicilia, dei quali si dirà
nel seguente libro.

CAPITOLO IX.
Ho differito fin qui a toccare le condizioni interne della Sicilia
bizantina, perchè procedettero in parte dalle raccontate vicende dei
due continenti tra i quali l'isola è posta. Cominciando la
investigazione, dirò, innanzi ogni altra cosa, della schiatta ch'è
elemento sì potente nei destini dei popoli. Fermata in Sicilia la
dominazione romana, il grosso della popolazione eran Sicoli e
Greci; non rimanendo più degli altri che la memoria, e forse un po'
di gente punica nelle parti di ponente; la quale par che non tardasse
a dileguarsi. Il conquisto portò novelli abitatori italiani, tra colonie e
gente spicciolata che venía per faccende e officii; ma poche e sottili
le colonie; gli altri spesso se ne tornavano; e parmi che il più
potente effetto della signoria romana su la popolazione dell'isola sia
stato di ritirare ai costumi e linguaggio dell'Italia i Sicoli, che,
sforzati dall'incivilimento greco, stavano perdendo financo l'uso del
proprio dialetto, e diremmo anzi che l'avessero abbandonato al tutto,
se dovessimo stare alla lettera d'un passo di Diodoro290. Le torme
poi di schiavi, ragunate da tante regioni e sparse nelle campagne
della Sicilia, se non si consumavano senza prole, al certo il sangue
loro, sterile per miseria e diverso, non creò schiatta nuova da poter
contare. Gli Ebrei stanziati nelle città principali, segnalavansi meno

290
Diodorus Siculus, lib. V, cap. VI.

223
per lo numero loro, che per lo avere e per l'odio reciproco con le
altre schiatte291. I popoli settentrionali, come dicemmo, furon
turbine passaggiero. Da Giustiniano ai Musulmani il decrepito
Impero non potea mandar colonie; se non che ripararono in Sicilia i
rifuggiti d'Italia e d'Affrica dei quali abbiam detto nei capitoli
precedenti; e inoltre egli è probabile che a stilla a stilla s'accogliesse
nell'isola qualche rimasuglio degli ospiti che vi mandava il governo
bizantino: officiali pubblici, soldati delle provincie d'Europa o
dell'Asia Minore292, e relegati per cagion di Stato293. Tra gli altri
v'ebbe un corpo di mille uomini, avanzo delle soldatesche armene
sollevatesi a Costantinopoli il settecento novantadue, che furono
mandati nelle isole, sopratutto in Sicilia294, ove par che abbiano fatto
stanza, poichè troviamo nelle guerre de' Musulmani295 la
espugnazione d'un castello degli Armeni (a. 861). Dal detto fin qui
si vede che per lo spazio di mille anni non capitarono in Sicilia tante
popolazioni avventizie, che potessero mutare le schiatte esistenti.
S'accorda in ciò con le tradizioni storiche il ragguaglio statistico di
Costantino Porfirogenito, il quale trattando dei proprii suoi tempi
(911-959) o piuttosto di quelli anteriori al conquisto musulmano,
scrive essere gli isolani parte Liguri d'Italia, chiamati altrimenti
Sicoli, e parte Greci, ossiano Sicelioti296. Con denominazione più
esatta si direbbero le due schiatte, italica ed ellenica, ciascuna delle

291
Ve n'era in Palermo, Catania, Girgenti ec., come si scorge dalle epistole di San
Gregorio, lib. V, 132; VII, 24, 26.
292
A coteste famiglie di militari o impiegati venute di passaggio, e talvolta
rimaste in Sicilia, par che appartenessero alcuni uomini dei quali il caso ci ha
conservato i nomi; per esempio, Conone papa, nato in Tracia e educato in Sicilia;
Sergio papa, oriundo d'Antiochia e nato a Palermo.
293
Veggasi questo medesimo capitolo, pagg. 222 e 223.
294
Theophanes, Chronographia, tomo I, p. 727.
295
Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 33 recto; MS. C, tomo IV, fog. 221 recto.
296
Constantinus Porphyrogenitus, De Thematibus, lib. II, tomo III, p. 58. Sarebbe
da approfondire il cenno etnologico di Costantino, relativamente ai Sicoli. Non
saprei in quale scrittore antico egli abbia potuto trovare che Liguri fosse il nome
generale de' popoli di cui facean parte i Sicoli; il qual nome, secondo la opinione
del Niebuhr, non è altro che una variante di pronunzia della voce Itali.

224
quali abbracciava le genti affini a lei, sopravvenute nei due periodi
delle dominazioni romana e bizantina.
Qual delle due genti prevalesse di numero non si ritrae; e forse
erano e si mantennero più uguali che non si è pensato. Aiutandoci
con le induzioni, poichè mancano le testimonianze dirette,
troviamo, egli è vero, dal principio dell'era volgare infino al sesto
secolo, moltissime iscrizioni latine pubbliche o private anco nelle
principali città greche dell'isola, e latini negli ultimi tempi i titoli dei
magistrati municipali; ma tra ricordi letterarii, epigrafia e nomi
proprii si vede la lingua greca non aver ceduto il campo in alcun
luogo297. Un papiro del quinto secolo che dà i nomi degli affittuali di
certi poderi, ne contiene più greci che latini298: e alla fine del sesto
secolo, San Gregorio ci parla degli abitatori greci e latini299. Gli
annali ecclesiastici poi dell'isola, dal sei all'ottocento, ci mostrano la
medesima promiscuità delle due genti: dove monasteri basiliani e
dove di regole latine; esaltati alcuni Siciliani alla sede pontificale di
Roma, altri a quella d'Antiochia300; un dei papi siciliani, Leone II
(682-683), lodato per lo eloquente parlare in greco e in latino301; e
alla fine del sesto secolo la opinione pubblica in Sicilia pendere
incerta tra le Chiese di Roma e di Costantinopoli302. Finalmente,
sendo stata alla metà dell'ottavo secolo assoggettata l'isola al
patriarca costantinopolitano, scomparisce il latino, e torna su il
greco negli scritti dei frati siciliani e negli scarsi monumenti
d'epigrafia che ci avanzano di quel tempo. Così fatta vicenda non
297
Veggasi Torremuzza (G. L. Castelli), Siciliæ ... veterum Inscriptionum.
Ricordisi inoltre la venuta di Porfirio, che scrisse e diè lezioni in Sicilia verso il
300.
298
Papiro del 444, presso il Marini, I Papiri diplomatici; n° LXXIII, p. 108, seg. I
nomi sono Zosimo, Caprione, Sisinnio, Eleuterio, Eubudo.
299
Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. VII, n° LXIII, indizione 2a.
300
Pirro, Sicilia Sacra, p. 997; Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, dissert.
III, p. 423, seg.
301
Anastasius Bibliothecarius, presso il Muratori, Rerum Italicarum Scriptores,
tomo II, p. 145.
302
Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. VII, n° LXIII, indizione 2a; e notisi la
riflessione del Pirro, Sicilia Sacra, p. 34, a proposito dei matrimonii dei preti.

225
può condurre al supposto che la schiatta e la lingua greca in Sicilia,
dopo esser calate durante la dominazione romana e le barbariche,
d'un subito risalissero e occupassero tutta l'isola per virtù della
dominazione bizantina. È da conchiudere più tosto che i due popoli
si pareggiassero con poco divario per tutto il corso degli otto primi
secoli dell'era cristiana; che ambo le lingue fossero state più o meno
in uso, come ai tempi di Diodoro303, se pur il popolo non
cominciava a parlarne già una diversa da entrambe e più vicina
all'italiana; e che la influenza del governo e della Chiesa facessero
prevalere negli scritti il latino prima e il greco dopo di
Giustiniano304.
Nè tra le due schiatte si vide mai differenza di condizione legale:
chè nobili e plebei vi furono in entrambe, secondo l'antica
riputazione delle famiglie e le vicende della ricchezza e lo splendore
delle pubbliche dignità. Della condizione di nobili e plebei non dirò
altrimenti, perchè reggendosi l'isola ormai a legge romana si torna a
notissime generalità: nè occorre ripetere come da Costantino in poi
fosse sostituita all'aristocrazia di nascita la gerarchia dei servidori di
corte e officiali dello Stato, innalzati a piacimento del despota; e
come fossero al tutto ragguagliati i dritti delle persone, sì che tra gli
uomini liberi non rimase che una sola distinzione di poco momento.
Dico della curia, nella quale non godeasi altro privilegio che la
immunità da certe pene nei casi criminali; e il governo vi ascrivea
involontarii i figliuoli di militari quando non fossero validi a portare
ancor essi le armi, i proprietarii di venticinque iugeri o più di
terreno, e gli affittuali in grande dei poderi del patrimonio

303
Diodorus Siculus, lib. I, cap. III.
304
L'Assemani, trattando la presente questione nel tomo IV degli Italicæ Historiæ
Scriptores, cap. II, §i 1 a 22, ha sostenuto che sempre prevalesse in Sicilia il
linguaggio latino al greco. Ma gli esempii che allega anzi mi rafforzano nella mia
opinione. Tra gli altri, v'ha le soscrizioni greche dei vescovi di Sicilia e di
Calabria che sedettero nei Concilio di Costantinopoli dell'869-70.

226
imperiale305. Donde è manifesto che la curia non va chiamata
aristocrazia, ma veramente popolani grassi o borghesi.
Dalle città volgendoci alle campagne, veggiamo altresì oscillare
le classi della società antica, e posare alfine in una condizione di
mezzo tra la libertà e la schiavitù. A ben comprendere i ricordi che
abbiamo di tal mutamento, in Sicilia, è mestieri studiarlo prima per
generalità. Venne da due motivi d'indole diversa; la coscienza, cioè,
e l'interesse: i quali allor s'aiutarono scambievolmente, sì come par
che avvenga ad ogni novello passo della civiltà. I principii
umanitarii di filosofia pagana, attestati dalle opere di Seneca, Plinio
e Plutarco, e messi in pratica negli editti d'Adriano e degli Antonini,
cominciavano a temperare i mali della schiavitù, quando sottentrato
il Cristianesimo, che si allargava e metteva radici, incalzò la santa
opera306. Intanto la esperienza mostrava che la infeconda genía degli
schiavi scemasse sempre più; e, aggiunta a questo la inefficacia del
lavoro comandato coi supplizii, i campi con doppia celerità
deterioravano. Ma se la pace dell'Impero togliea di rifornire gli
schiavi con altre torme di vinti, la decadenza universale
apparecchiava in luogo di quelli torme di poveri, fossero i
proprietarii minori spogliati dal fisco imperiale, o le popolazioni
industriali, libere e non libere, che fuggivano per miseria dalle città.
Cercando ricetto e pane nei poderi dei ricchi, l'otteneano a prezzo di
rimanervi da coloni; e par che i proprietarii del suolo, vedendo la
utilità che ne ritraeano, s'invogliassero ad emancipare e porre nella
medesima condizione gli antichi schiavi307. Cotesto mutamento di
305
Codex Theodosianus, lib. XII, tit. XXXIII, XXXV. - Venticinque iugeri
rispondono a un di presso a sei hectares di Francia, e a tre salme e mezza di
Sicilia. Ma ricavandosi pochissimo dalla terra, si dovrà quella riguardare come
picciola possessione.
306
Veggansi le autorità citate da Gibbon e dai suoi commentatori Guizot e
Milman, cap. II, note 46 a 61.
307
Codex Justinianeus, lib. XI, tit. XLVII, legge 18. Questa legge è scritta in
greco, e posta tra quelle d'Onorio e Teodosio, ma senza ripetervisi i nomi di
questi imperatori; talchè la data rimane incerta, e si può supporre più recente.
Dice che i contadini (γεωργοι) altri sono ascrittizii (ὲναπόγραφοι), e i loro peculii
appartengono ai padroni; altri, dopo trent'anni, divengono liberi coloni (μισθωτοὶ

227
sorti par che siasi accelerato dal secondo o terzo secolo in poi;
perocchè ai tempi di Costantino il Grande si parla dei coloni come
di notissima e frequente qualità d'uomini, e si provvede tuttavia con
crudeltà a tenere obbedienti gli schiavi, ma nelle leggi dei tempi
seguenti a mano a mano il nome degli schiavi divien più raro, e
spesseggia ai contrario quel dei coloni308. Io non dirò altrimenti
della condizione degli schiavi, ch'è notissima; e ognun sa come
andasse in meglio da Costantino a Giustiniano. Quella de' coloni era
che rimaneano attaccati al suolo essi e i loro figliuoli e i nepoti
perpetuamente, e pagavano un tributo annuale per la terra assegnata;
che poteano acquistare beni mobili e stabili con la propria industria,
ma non alienarli senza permesso del padrone; che, fuggendo dal
podere, la legge dava al padrone di ridurli in schiavitù, e concedea
di ripigliarli in termine di trent'anni per gli uomini, e di venti per le
donne; e che tal prescrizione, assai più lunga di quella fissata per gli
schiavi, non si interrompea nè anco per morte, poichè, mancato il
colono, correva a pregiudizio de' figliuoli309. Tal condizione dunque
non differì dalla servitù della gleba dei tempi feudali, se non che per
la origine: la romana sempre da contratto, se tal può chiamarsi un
patto sì disuguale ed empio; la feudale talvolta da contratto, e
talvolta dalla supposta ragion di guerra, che avea generato la
schiavitù personale nel mondo antico, e nel mondo moderno si
adopera a giustificare la servitù delle nazioni.
Or la popolazione rurale della Sicilia durò a un di presso le
medesime vicende che abbiamo notato nel rimanente dell'Impero.

ὲλεύθεροι) con la roba loro, e sono obbligati a pagar canone e lavorar la terra. E
ciò, conchiude la legge, è più utile ed al signore e ai contadini. Una
testimonianza sì diretta non ha bisogno di comento.
308
Ducange, Glossarium mediæ et infimæ latinitatis, voce Colonus. Ai tempi di
Teodosio si distingueano in originarii e inquilini, cioè i nati nel podere e gli
avventizii. Sotto Giustiniano forse questa ultima classe di coloni si diceva
ascrittizii: e talvolta son chiamati tributarii ed inquilini, talvolta rustici e coloni,
Codex Theodosianus, lib. V, tit. X; lib. X, tit. XII; lib. XIII, tit. I.
309
Codex Theodosianus, lib. V, tit. IX, X, XI; Valentiniani, Novellæ, nov. IX.

228
Tolta una picciola mano di affittuali, chiamati conduttori310, i quali
nè anco è da supporre liberi in tutti i casi, coltivavano le campagne i
coloni311 e gli schiavi312, che sembrano talvolta confusi nell'uso
volgare del linguaggio, come di fatto lo erano nella abiezione e
nella miseria. Il Cristianesimo, o almeno i Cristiani di quel tempo e
di molti secoli appresso, non abborrirono la servitù men cruenta
della gleba; il clero la mantenne più tenacemente che i laici stessi
nelle sue proprietà; e un pontefice santo e grande, Gregorio I, lodato
tanto per la carità verso gli altrui schiavi nella terraferma d'Italia,
ribadì le catene dei coloni dei poderi papali in Sicilia. Smesse, egli è
vero, le taglie su i loro matrimonii; smesse i furti che l'azienda
pontificia solea fare, frodando que' miseri nel prezzo e nella misura
dei grani, obbligandoli a supplire le derrate, che, mandate a Roma,
si perdessero per fortuna di mare, e richiedendo il censo pria che si
vendessero le raccolte313. A tuttociò rimediava San Gregorio: ed era
insieme giustizia e prudenza di buon massaio. Ma quando la
coscienza gli richiedeva un atto magnanimo, entrò di mezzo la
cupidigia che già sedea presso al trono pontificale, e con lei l'altra
tentatrice a profanazione, che fu l'ambizione politica. Il sommo
vescovo si ricordò soltanto ch'era proprietario; pensò falsamente che
la libertà dei coloni di Sicilia potesse scemare le entrate e indi

310
Dei conduttori in Sicilia si fa menzione nel citato papiro del 444, Marini, I
Papiri Diplomatici, n° LXXIII, e nella epistola di San Gregorio, lib. I, n° XLII,
indizione 9a, che trovasi anco presso Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus,
num. LXIX, p. 110.
311
Divi Gregorii papæ, Epistolæ, ibidem. Oltre I conduttori distinti dai coloni, vi
si parla di rustici in modo, che questa voce par sinonimo di coloni, se pur non
comprende gli uni e gli altri insieme.
312
Dei servi dei fondi patrimoniali in Sardegna, e, come pensa Gotofredo, anche
in Sicilia e in Corsica, si fa menzione in una legge di Costantino il Grande, Codex
Theodosianus, lib. II, tit. XXV, data forse il 325. Veggasi anco Di Giovanni,
Codex Siciliæ Diplomaticus, num. IV, p. 5. In un papiro del 489, risguardante
certi poderi nel territorio di Siracusa, leggiamo inquilinos sive servos, presso
Marini, I Papiri Diplomatici, n° LXXXII e LXXXIII, p. 128 e 129.
313
Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. I, n° XLII; e presso Di Giovanni, Codex
Siciliæ Diplomaticus, n° LXIX, p. 110.

229
attraversare i disegni suoi a Roma: e vinta dal comodo presente la
logica morale, San Gregorio, non solo non disdisse la servitù della
gleba, ma vietò ai suoi coloni di maritare i figliuoli con gente d'altri
poderi314. Non debbo tacere infine che San Gregorio discordò
talvolta da' nobilissimi suoi principii in fatto della schiavitù
propriamente detta. Nell'atto di emancipazione dei due schiavi
romani Montano e Tommaso, dato del cinquecento novantasei,
seppe ei ben dire: «Che se il Redentore s'incarnò per spezzare i
ceppi dell'umanità, ottima cosa era di manomettere e rendere
all'antica franchigia gli uomini, creati liberi dalla natura e
sottomessi dal dritto delle genti al giogo della servitù315.» Seppe egli
ancora, con nobile dispregio della ragion fattizia delle leggi,
comandar che si manomettessero gli schiavi de' Giudei316. Ma non
emancipò nè punto nè poco gli schiavi del patrimonio in Sicilia; e,
quel ch'è peggio, talvolta ne donò altrui317; fece perseguitare e
minacciare di gastighi severissimi que' che fuggivano o si
nascondeano in altri poderi318; ed è manifesto ch'ei lasciasse non
uno nè pochi schiavi, ma torme intere, e che diciannove successori
suoi nel pontificato li mantenessero sotto l'abominevole giogo,
poichè ottanta e più anni dopo la morte di San Gregorio gli schiavi
erano gran parte della ricchezza della Santa Sede. E veramente
sappiamo che Giustiniano Secondo, per far cosa grata a papa
Conone, gli rimetteva (686) "la famiglia" del patrimonio di Sicilia e
di Calabria, ch'era tenuta in pegno per debiti verso il fisco319; la qual
famiglia non può significare altro che schiavi, poichè si staggiva
314
Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. X, n° XXVIII: «sed in ea massa, cui lege et
conditione ligati sunt, socientur.»
315
Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. V, n° XII.
316
Ibidem, lib. III, n° IX; lib. V, n° XXXI e XXXII.
317
Un fanciullo siciliano, per nome Acosimo, fu donato da lui il 593 al consigliere
Teodoro, che avea ben meritato della Chiesa, e non possedea schiavi. Divi
Gregorii papæ, Epistolæ, lib. II, n° XVIII, indiz, 11a.
318
Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. VII, n° XVIII, indiz. 2a.
319
Anastasius Bibliothecarius, presso Muratori, Rerum Italic. Script., tomo III, p.
147: «Itemque et aliam jussionem direxit ut restituatur familia suprascripti
patrimonii et Siciliæ, quæ in pignore a militia detinebatur.»

230
come gli armenti, e poichè la legge fiscale permettea di prendere gli
schiavi320 ai debitori, e non pretendea nulla da' lor coloni321.
Il tardo rivolgimento sociale che in dieci secoli avea fatto men
disuguali le condizioni delle persone, mutò anche un poco la
proporzione delle possessioni territoriali. Due movimenti contrarii
operavano in ciò. Tendea l'uno ad agglomerare: e nascea dal
decadimento generale; dalla menomata popolazione; dalla rovina
dei proprietarii minori, che non potean durare le gravezze e molestie
del fisco; dalla iniqua industria dei ricchi che si pigliavano i rottami
di cotesti naufragi, dopo averli affrettato con le usure; dai lasciti alle
chiese, che si moltiplicarono in Sicilia ai tempi di San Gregorio; e
infine dall'avaro dispotismo, il quale aumentava a dismisura il
patrimonio imperiale con le confiscazioni. All'incontro portavano a
spicciolare le proprietà, la legge romana su le successioni, e l'utile
pratica di dare in proprietà ai coloni le terre che coltivassero, e
mutare il tributo personale in canone su la proprietà 322. L'azienda
imperiale avea tentato lo stesso espediente con circostanze alquanto
diverse infin dal quarto secolo, quando una parte del patrimonio di
Sicilia e di Sardegna fu conceduta in enfiteusi a picciole porzioni
insieme con gli schiavi323, e poco appresso si accordò ai domini utili
di quei poderi la franchigia dalle tasse straordinarie, come la
godeano i beni tutti del patrimonio324. Qual dei due movimenti
prevalesse, sarebbe difficile a provare. Nondimeno nei soli ricordi
che abbiamo, che sono dei tempi di San Gregorio, veggiam lasciati
a chiese o monasteri di Sicilia i beni di piccioli proprietarii; e par
assurdo a supporre che non ve ne fossero molti altri nell'isola325.
320
Codex Theodosianus, lib. XI, tit. IX.
321
Codex Justinianeus, lib. XI, tit. XLVII.
322
Veggasi la legge del Codex Justinianeus, lib. XI, tit. XLVII, n° 18, citata di
sopra, p. 190.
323
Codex Theodosianus, lib. II, tit. XXV, legge di Costantino il Grande, di data
incerta, forse del 325.
324
Codex Theodosianus, lib. XI, tit. XVI, legge di Costanzo e Giuliano Cesare,
data il 359. Questa e la precedente si leggono altresì presso il Di Giovanni, Codex
Siciliæ Diplomaticus, ni IV e X, p. 5, 9.
325
Divi Gregorii papæ, Epistolæ, passim.

231
Più oscure e scarse notizie possiamo spigolare intorno l'industria
del paese. Il sol fatto che mi sembri certo è che i latifondi non
addetti a pascolo si coltivassero a picciole porzioni, e che perciò la
cultura in grande fosse finita con la dominazione romana che l'avea
recato nell'isola326. Principal prodotto del suolo fu sempre il
grano327. In secondo par che venisse la cultura della vite328. Quella
dell'ulivo, che ai tempi greci avea arricchito gli Agrigentini, sembra
abbandonata, e tornato di fatto agli abitatori dell'Affrica propria il
privilegio di fornir l'olio d'ulivo all'Italia e ad altre nazioni
occidentali. Perocchè si ritrae che, quando gli Affricani pagaron le
prime taglie ai vincitori musulmani, il capitano Abd-Allah-ibn-Sa'd,
vedendosi recare un mucchio di monete d'oro, domandava a un
cittadino come le guadagnassero, e quegli, postosi a cercare intorno,
e trovata un'uliva: "Ecco donde le caviamo," disse ad Abd-Allah; "i
Romani non hanno ulivi, e comperano l'olio nostro con
quest'oro329." La denominazione di Romani, che qui significa
abitatori d'Italia, è da estendersi nel presente caso anco alla Sicilia;
sapendosi che vi si importava olio d'Affrica nel nono secolo,
nell'undecimo, e fino al duodecimo330. Certo egli è poi che la Sicilia
326
Il papiro del 444, che ho citato più volte (Marini, I Papiri Diplomatici, n°
LXXIII), mostra che i sette poderi tra masse e fondi appartenenti in Sicilia a
Lauricio, e affittati separatamente, rendeano ogni anno soldi 753, 500, 445, 200,
144, 75, 52.
327
Divi Gregorii papæ, Epistolæ, passim.
328
Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. VIII, n° LXIII, indizione 3a (a. 600-601). Il
podere legato da una Adeodata per fondare un monistero di donne al Lilibeo,
rendea dieci soldi all'anno netti di tasse; e vi erano tre ragazzi, tre gioghi di buoi,
altri cinque schiavi, dieci giumente, dieci vacche, quattro iastulas vinearum,
quaranta pecore e altro. Si vegga anche il lib. XI, epistola XLIX, indizione 6 a
(603, 604), ove si parla della vendita del vino prodotto delle vigne della Chiesa
Palermitana.
329
Beladori, nel Journal Asiatique, série IV, tomo IV, p. 365.
330
Nell'880, come da noi si racconterà nel Libro II, cap. X, le forze navali
bizantine venute presso Palermo presero moltissime barche cariche d'olio,
certamente non esportato. Nell'XI secolo, Bekri ci attesta la esportazione degli
olii da Sfax per la Sicilia e paese dei Rûm, Notices et Extraits des MSS., tom. XII,
p. 465. Nel XII secolo si mandava grano di Sicilia in Affrica per levarne olio e

232
nei principii del nono secolo avea frequenti commerci con lo stato
degli Aghlabiti, e che parecchi mercatanti musulmani stanziavano
nell'isola331.
Se questi particolari provano che non fosse spenta al tutto la
industria in Sicilia, non mancò al certo per lo governo bizantino.
Quell'ingordigia fiscale che spogliò l'Impero prima che il facessero i
Barbari, non risparmiò le tre isole italiane poste sotto un solo
amministratore, che si chiamò il razionale delle Tre Provincie. Noi
le veggiamo sottomesse al sistema generale d'azienda: il tributo
diretto su le proprietà e su le persone; le gabelle su le merci e su le
industrie; le aggiunte straordinarie alla prima gravezza, o, come
chiamavanle, le superindizioni; le leve di soldati che si
compensavano in danaro; le leve de' marinaj; infine le estorsioni
degli officiali onde si raddoppiava il peso: delle quali maladizioni
tutte abbiamo più o meno qualche vestigio nelle memorie della
Sicilia332. I Goti nel breve dominio loro fecero un novello
censimento delle proprietà; rimessero debiti e tasse straordinarie333.
Tornaron tutti i mali con la signoria bizantina; sì che alla fine del
sesto secolo il fisco in Corsica obbligava i debitori a vendere i
proprii figliuoli; in Sardegna il giudice avea posto una taglia sul
battesimo; e in Sicilia un officiale subalterno staggiva ad arbitrio le
possessioni: e ci vorrebbe un volume, scrivea San Gregorio, a
divisar tutte le iniquità che ho risaputo di costui334. Non pochi
imperatori a volta a volta esacerbaron cotesti mali, come abbiam
detto di Costanzo e di Leone Isaurico, che aumentò d'un terzo la
tassa diretta in Sicilia e in Calabria (a. 733) per punire que' popoli
della propensione al culto delle imagini, e della gioia che provavano
a veder fallire gli sforzi suoi contro l'Italia di mezzo335.

altre derrate. Diploma del 1134, presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 975.
331
Veggasi il Lib. II, cap. II.
332
Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, n° III, IV, IX, X, XXI, XXII.
333
Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, n° XLI, XLII, XLIII, XLIV.
334
Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. IV, n° LXXVII, indizione 13a (a. 595); e
presso Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, n° CXVI.
335
Theophanes, Cronographia, tomo I, p. 631.

233
Risalendo dal popolo al governo, e lasciati da canto gli altri
ordini subalterni, che poco montano336 e non differivano da quei
delle altre provincie, dirò solo dei corpi municipali, elemento di
governo proprio del paese, conservato come inoffensivo e comodo
strumento d'amministrazione, e sopravvissuto alla dominazione che
sì lo spregiava. Le municipalità della Sicilia, avanzo delle
repubbliche greche, nei primi tempi che seguirono il conquisto
romano, ebbero condizioni disuguali secondo la importanza delle
città e i rapporti che avean tenuto con Roma nelle precedenti guerre.
Indi ne veggiamo tre maniere: confederate, immuni e vettigali; alle
quali poi se ne aggiunse una quarta, che eran le colonie romane: e la
differenza principale stava nella gravezza e nome dei tributi che
fornivano a Roma. Viveano del resto un po' più o un po' meno
largamente, secondo le proprie leggi, e sotto i proprii magistrati, che
ritennero le antiche appellazioni, dove greche, di Proagori,
Gerapoli, Anfipoli; dove latine, di Quinqueprimi, Decemprimi, e
anche di Senati per antica o novella influenza di quel linguaggio. E
dissi proprii magistrati, perchè li eleggeano i cittadini, que',
s'intenda, delle famiglie privilegiate per ricchezza e antico
soggiorno; il qual dritto di suffragio spesso diè luogo a contese e
indi a provvedimenti del governo romano che modificava a poco a
poco gli antichi statuti e li tirava a uniformità337. La decadenza poi
delle cittadi e l'accentramento della potestà politica, par che
ragguagliassero al tutto la condizione dei municipii siciliani, e
certamente mutilarono l'autorità loro. Dopo Costantino, questa era
già ristretta a una giurisdizione civile, forse non dissimile da quella
de' conciliatori o giudici di pace dei tempi nostri338, alle cure
edilizie, e all'ingrato officio di scompartire tra i cittadini il peso
delle tasse dirette, delle quali l'erario richiedeva, o per servirci della
336
Veggasi Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, diss. VII, c. IV, seg.
337
Veggansi i fatti presso Caruso, Memorie storiche di Sicilia, parte I, lib. V;
Palmieri, Somma della Storia di Sicilia, tomo I, cap. XIV; Di Gregorio, Discorsi
intorno la Sicilia, discorso XII.
338
Justiniani Novellæ, nov. 75, altrimenti 104, De præt. Siciliæ; Savigny, Histoire
du droit romain, tomo I, p. 226, e 232, cap. V, § 105, 107.

234
voce tecnica d'allora, indicea la somma ai municipii, e questi la
suddivideano in quote personali secondo i catasti e con l'arbitrio che
necessariamente v'entrò, sendo la contribuzione diretta non solo
fondiaria ma anco testatica. La gravità del quale officio portò ad
affidarlo non ai magistrati municipali propriamente detti, ma alla
curia, come chiamossi, ch'era senza dubbio il corpo degli elettori
alle cariche municipali339: infelici privilegiati, disposti forse ad
abusare il dritto loro a danno delle classi povere, ma condannati a
pagar caro l'abuso. Perocchè, dovendo sopperire del proprio le
quote che non si potessero riscuotere, furono oppressi da così fatto
peso, tra la insaziabile avarizia del governo e la universale
decadenza che facea abbandonare le terre. Indi, come ognun sa, i
decurioni fuggivano il tristo onore; si facean soldati, preti, romiti; e
il governo, mettendo tra parentesi quell'ardente e intollerante suo
zelo religioso, li facea strappare dall'altare e dal chiostro, e
ricondurre per forza a lor sedie curuli340. Così la necessità del fisco
portò a mantenere l'ordine fondamentale delle municipalità.
Rinforzolle un altro provvedimento, nato sotto l'infausto regno di
Valentino dai soprusi della burocrazia. Dico della istituzione dei
difensori eletti dalla plebe: ombra di tribunato, o a dire
propriamente, avvocati del popolo, che avean dritto a essere intesi
dai giudici, dai governatori e dal principe; il quale officio poi si
accordò anche all'ordine ecclesiastico; e, occupato infine dai
vescovi, accrebbe non poco la loro potenza civile in Occidente.
Molti documenti provano che così fatto sistema municipale fosse
pienamente osservato in Sicilia, e ci mostrano in varie città i titoli di

339
Da questo diritto nacque senza dubbio l'uso che la curia votasse a parte dal
clero e dalla plebe nella elezione dei vescovi. Due epistole di San Gregorio ci
provano tal modo di votazione in Sicilia, e sono indirizzate l'una Nobilibus
Syracusanis, l'altra Clero ordini et plebi Panormitanæ civitatis; lib. IV, n° XCI;
lib. XI, n° XXII.
340
Codex Theodosianus, lib. XII; Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. VII, n° XI,
indizione 1a, anche presso Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, n° CXLII, p.
188; Gibbon, Decline and fall, cap. XVII, con le osservazioni di Guizot e di
Milman, alle note 172 e 180.

235
possessori e curiali, di padri e primi e decemprimi, e di difensori;
cioè gli elettori, gli antichi magistrati municipali e il nuovo officio:
ai quali collettivamente son indirizzati rescritti dei principi per
negozii di giurisdizione municipale. Inoltre un rescritto imperiale,
dato alla fine del quarto secolo, attesta che le città di Sicilia,
siccome quelle d'altre provincie, ritenessero i beni lor proprii. E
come in appresso non v'ha legge che abbia innovato quegli ordini, e
li veggiamo andare innanzi bene o male per ogni luogo, non è
dubbio che le instituzioni municipali durassero nell'isola fino al
conquisto dei Musulmani341.
341
Confrontinsi i Diplomi seguenti:

del 489 presso Marini, I Papiri Diplom., n° XXXII e XXXIII.


verso il 504 pr. Di Giov., Codex Sic. Diplom., n° XXXVIII, p. 79.
del 526-527 ibid. n° XLI e XLIII, p. 82-84.
verso il 537 ibid. n° LI, p. 91.

Veggansi inoltre: Justiniani, Novellæ, nov. LXVIII; Di Giovanni,


op. cit., diss. VI, cap. III, p. 458, seg.; Savigny, Histoire du droit
romain, cap. V, § 106-108, p. 227, seg., che cita tra gli altri
documenti le epistole di San Gregorio, delle quali ho fatto parola (p.
199, nota 3); e un'altra (della quale credo errata la citazione) scritta
al vescovo di Tindaro intorno l'accettazione di certe donazioni, nella
quale si ricorda essere bisognevoli a ciò le gesta municipalia.
Intorno i beni delle città, leggasi nel Codex Theodosianus, lib. XV,
tit. I, legge 32, il rescritto di Arcadio e Onorio (anno 395)
indirizzato ad Eusebio consolare di Sicilia, nel quale, provvedendosi
alla conservazione delle città ed oppida dell'isola, è detto: De
redditibus fundorum juris reipublicæ tertiam partem publicorum
mœnium et thermarum subustioni (corretto da Gotofredo
substructioni) deputamus. Fondi appartenenti alla repubblica,
secondo il linguaggio legale che prevaleva in quel secolo, non
significa que' del patrimonio imperiale, ma appunto beni comunali,
come l'ha spiegato il Di Gregorio nel citato Discorso XII.

236
Dai corpi intermedii rivolgendoci al principato, non possiam fare
che un cenno del sistema generale dell'Impero. Questo, come ognun
sa, riteneva i vizii non la forza dell'antico reggimento dei Cesari,
spogliato d'ogni avanzo di libertà e contigiato all'asiatica; assicurato
dalla compiuta separazione dell'ordine militare dal civile; dalla
vastità di quest'ultimo; e infine dall'accordo che Costantino iniziò, e
compierono i successori, accordo col clero cristiano che prestò
all'Impero il pastorale, e n'ebbe in cambio l'aiuto della borsa e della
spada. Il qual congegno di corruzioni, ch'è servito poi di modello a
tutti i despoti dell'Europa da Teodorico infino ai giorni nostri, non
bastando a resistere all'impeto dei liberi popoli settentrionali, nè poi
degli Arabi, e sendo ormai l'Impero scorciato e aperto d'ogni dove
agli assalti, convenne riformare alla meglio le divisioni territoriali, e
rinforzare l'autorità dei governatori. Smesse perciò le suddivisioni
amministrative in prefetture, diocesi e provincie, che furon già
convenienti al mondo romano, il principato bizantino, verso l'ottavo
secolo, modestamente si scompartì in ventinove temi, come li
dissero con voce nuova: divisione militare che si confuse con la
civile, affidandosi entrambi i poteri a unica mano. La Sicilia, la
quale ai tempi di Costantino si noverava tra le diciassette provincie
d'una delle tre diocesi soggette al Prefetto del Pretorio, diè nome
adesso a un tema, in cui andaron comprese anco la Calabria, la città
di Napoli e costiera342. Il governatore dell'isola, che dopo Costantino

342
Constantinus Porphyrogenitus, De Thematibus, lib. II, them. 10 e 11; De
administrando imperio, tomo III, cap. XXVII, p. 58, 118, 121. Non occorre
avvertire che la nuova divisione in temi, ancorchè si ritragga dalle opere di
Costantino Porfirogenito, risalisce senza dubbio all'ottavo secolo. Ai tempi di
quel povero imperatore (911-959) occupata tutta l'isola dagli atei Saraceni, com'ei
li chiama, non rimanea del tema siciliano che la Calabria. Ei lo confessa
nell'opera De Thematibus, dove prudentemente passa sotto silenzio Napoli e
Amalfi ch'eran già repubbliche indipendenti. Nell'altro libro De administrando
imperio confonde i temi di Sicilia e di Longobardia, nominando sol questo
ultimo, e dicendo che dopo Costantino il Grande vi si mandassero due patrizii,
uno dei quali per la Sicilia, Calabria, Napoli e Amalfi, e l'altro che sedendo a
Benevento, reggea Pavia, Capua e il rimanente. Soggiugne più innanzi che Napoli

237
avea avuto titolo di Correttore e talvolta di Consolare, poi sotto i
Goti di Conte di Siracusa, ripigliò ai tempi di Giustiniano l'antica
denominazione di Pretore, e infine fu detto Stratego, novello nome
militare, e chiamossi patrizio, quando ei d'altronde avea tal
dignità343.
Il fatto statistico che sovrasta a ogni altro, e che spiega dassè solo
tutta la povera storia della Sicilia bizantina, è la qualità delle forze
militari raccolte nell'isola. Nella decadenza di quel tempo gli
eserciti ogni dì più che l'altro diveniano bande di mercenarii.
L'Impero, come aggregato fattizio di varie genti tenute insieme
dall'abitudine, dalla religione e dalla forza, non potea spirare ormai
ai soldati l'amore d'una patria, sepolta tanti secoli innanzi. A ciò
s'aggiunga che la popolazione della Grecia, cuor dell'Impero, la
progenie di que' forti che avean vinto il mondo sotto Alessandro,
era l'antica capitale dei patrizii; e chi comandava Napoli, comandava alla Sicilia;
e andato il patrizio a Napoli, il duca di Napoli veniva in Sicilia. Queste parole non
provan altro che l'ignoranza dell'augusto compilatore o di chi fece il lavoro per
lui. Oltre la discrepanza delle notizie date nell'opera De Thematibus, è evidente
qui che si prenda per regola generale qualche fatto particolare, e si faccia uno
strano miscuglio dei tre sistemi diversi; cioè quel di Costantino, quello dei temi e
quello intermedio adottato da Giustiniano dopo il conquisto di Belisario. Al
contrario, il nome del tema, la importanza strategica della Sicilia al tempo in cui
si adoperò la novella divisione territoriale, e qualche esempio di comandi dati dal
patrizio di Sicilia al duca di Napoli, mostrano che la parte primaria del tema fosse
l'isola, e la capitale probabilmente Siracusa. Così anche pensa l'Assemani, Italicæ
Historiæ Scriptores, tomo I, p. 356. Ciò è provato infine da una epistola di
Adriano Primo a Carlomagno, nella quale dice che i Napoletani, prima di
stipulare uno accordo col papa, voleano andare a chiederne il permesso al loro
stratego in Sicilia, Codex Carolinus, edizione del Gretser, n° LXIV, edizione del
Cenni, n° LXV.
343
Varii suggelli di piombo danno i nomi e titoli di alcuni
governatori e altri officiali pubblici di Sicilia sotto la dominazione
bizantina; donde si vede come sovente variasse il titolo del
governatore, o fosse data questa autorità provvisionalmente ad
officiali di grado inferiore. Da una faccia del suggello si trova
sempre il monogramma:

238
ora, infeminita nelle industrie e nella superstizione, rifuggiva dalle
armi; lasciavale prendere ai Barbari o agli abitatori delle frontiere,
ed ella si riscattava con danari dal servigio militare. Il disordine
dell'azienda allentava ancora i legami che debbono stringere il
soldato al paese; perocchè le entrate pubbliche, menomate insieme
col territorio e con la prosperità dei popoli, dilapidate dai ministri,
consumate per soddisfare all'orgoglio e spesare i misfatti del
principe, non più bastando al mantenimento degli eserciti, vi si

che significa Κύριε βοήζει τω̃ δούλω̣ σω̣̃ "Signore aiuta il servo
tuo;" e nell'altra faccia si leggono i nomi seguenti:

Gregorio patrizio e stratego di Sicilia.


Sergio id. id.
Giovanni id. spatario e proconsole.
Andrea consolare e stratego
Stefano id. e spatario.
Anastasio id. id.
Giovanni patrizio e protospatario.
Teodoro consolare.
Gregorio id. e protonotario.
Teodoro spatario e cartulario.
Leonzio prefetto.
Teofilo prefetto imperiale.
Leone spatario e logoteta del corso (posta).
Anatolio conte.
Sergio consolare e luogotenente.

239
trovò un comodo e pericoloso rimedio. Già fin dal quarto secolo
veggiamo che i terreni soliti a distribuirsi ai veterani si dessero col
carico di far militare i figliuoli344. Poscia, aumentandosi le strettezze
dello erario e la mollezza dei popoli, e scemando il pregio della
proprietà fondiaria, s'ebbe ricorso più sovente a cotesti beneficii
militari, e ne fu alterata l'indole. In vece di proprietà ai veterani,
accordossi l'usufrutto ai soldati in attuale servigio, e s'affidò
l'amministrazione ai capitani loro. Le terre al certo si toglieano dal
patrimonio imperiale, impinguato a furia di confiscazioni; e talvolta,
senza aspettare la incorporazione, si dava ai soldati il godimento dei
beni mobili o stabili staggiti ai debitori del fisco. Così avvenne che
pagandosi malvolentieri dal papa le tasse su i patrimonii di Calabria
e di Sicilia, gli fu presa anco la famiglia di que' poderi, e data in
pegno ai soldati, dice il cronista345, cioè conceduto loro l'usufrutto
degli schiavi, che poi il crudele Giustiniano Secondo rilasciò
gratuitamente al papa (686-7).
Il numero dei beneficii militari tanto andò crescendo, che nei
principii del decimo secolo la più parte dell'esercito era mantenuta
in tal guisa. I capitani intanto s'erano dati ad alienar le terre; a
frodare lo Stato, facendo comparir nelle file paltonieri condotti a
poco prezzo, in vece d'uomini usi alle armi: donde qual maraviglia,
sclamava l'imperatore Costantino Porfirogenito vietando
ansiosamente così fatte magagne, qual maraviglia se la repubblica
così tosto è ita a precipizio346? Ma la viltà dei soldati non sembra il
solo inconveniente del beneficio bizantino: forma di

Veggasi Torremuzza (Gabriello L. Castelli), Siciliæ veterum Inscriptionum, p.


212, seg. I cronisti usano sempre i titoli ordinarii di stratego e patrizio. In una
epistola di papa Adriano Primo a Carlomagno del 788 (Codex Carolinus,
edizione del Gretser, n° XCII; edizione del Cenni, n° XC), si legge: Cum
dioecete, quod latine Dispositor Siciliæ dicitur.
344
Codex Theodosianus, lib. VII, titoli De Veteranis e De filiis veteranorum.
345
Anastasius Bibliothecarius, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores,
tomo III, p. 147.
346
Constantini Porphyrogeniti Novellæ Constitutiones, p. 1509. De militaribus
fundis.

240
amministrazione militare scompagnata da un ordinamento sociale
che le desse alcuna virtù, come avvenne nei feudi germanici e nei
giund arabici. Il beneficio bizantino mutava i guerrieri dell'Impero
in famigliari temporanei dei capitani; cioè peggio che vassalli
feudali o socii di tribù; non contrappeso al dispotismo, ma pessimo
strumento da fare e disfare despoti; non milizie capaci di abituarsi
ad alcuna carità verso le provincie ove stanziavano, ma stranieri
sempre rinnovati e disposti ad opprimerle con fresca ingordigia. In
fine, la debolezza di tal genía di mercenarii costrinse gli imperatori
a condurre con grossi stipendii schiere di veri soldati di ventura, che
almeno sapessero menar le mani.
Sola eccezione tra la corrotta milizia fu il navilio, come affidato
a quella classe della popolazione greca e italica, cui l'aspra vita del
mare non avea lasciato agio a guastarsi. Mercè cotesta buona
schiatta il navilio bizantino mantenne infino al duodecimo secolo la
disciplina; avvantaggiossi sopra le altre genti per la pratica del
navigare e il maneggio degli ordegni di guerra; rinnovò spesso gli
esempii dell'antica virtù, e ne lasciò eredi le repubbliche italiane del
Tirreno e dell'Adriatico, e la monarchia di Sicilia. Componendosi
l'armata bizantina di due parti, imperiale, cioè, e provinciale, la virtù
di quest'ultima fu rinforzata dalla carità del municipio, ch'era ormai
la sola patria. Indi ebbero tanto valore fin dall'ottavo secolo il
navilio di Venezia e quel di Napoli, città quasi independenti; e par
che anco si segnalasse nelle fazioni di cui abbiamo ricordo il navilio
siciliano, ancorchè spesso confuso dai cronisti con quello
dell'Impero347.
Or divenuta la Sicilia, infin dal settimo secolo, come baluardo
occidentale dell'Impero e fortezza avanzata oltre la frontiera in
mezzo a due potenti nemici, i principi bizantini necessariamente vi
posero grosso presidio della milizia che abbiamo descritto, e
necessariamente dettero larga autorità militare, civile e anco politica
347
Si fa menzione particolare della annata di Sicilia nella epistola di Paolo Primo
al re Pipino, Codex Carolinus, edizione del Gretser, n° XV; edizione del Cenni,
n° XVIII; e nella epistola XXIV della prima, e XXXVIII della seconda di coteste
edizioni.

241
al capitano supremo del presidio, o vogliam chiamarlo stratego
dell'isola. E perchè coteste armi straniere soverchiavano la sola
forza propria del paese, ch'era il navilio provinciale, il popol
siciliano non partecipò alle vicende che succedeano nella sua terra,
altrimenti che come spettatore o vittima: fece plauso, maledisse,
pianse, e non si mosse. Indi veggiamo dopo la raccontata
sollevazione militare del seicentosessantotto, l'esercito di Sicilia
provarsi tre fiate nel corso di un secolo a dare un despota all'Impero.
La prima quando, stretta Costantinopoli dalle armi del califo, Sergio
stratego di Sicilia fe' gridare imperatore un Tiberio, che presto fu
spento per la virtù e fortuna di Leone Isaurico; il quale mandava a
Siracusa Paolo suo fidato ministro: e questi svolgea gli officiali
dell'esercito e l'armata di Sicilia; costringea Sergio a rifuggirsi appo
i Longobardi; troncava il capo a Tiberio; ad altri il naso, per
ignominia, o mozzava i capelli; altri vergheggiava o bandía;
perdonava ai rimagnenti; e così ponea fine (718) al pericoloso
moto348. Meno agevole a reprimere il secondo, che scoppiò mentre
la corte era agitata dall'ambizione della ortodossa e snaturata Irene.
Elpidio, uom d'alto affare, mandato al governo di Sicilia (781), per
allontanarlo dalla reggia, e colpito indi a poco d'una accusa di
maestà, cioè di resistere alla usurpazione d'Irene, cercò salvezza
nella aperta ribellione. Aiutandolo il malcontento dei Siciliani e del
presidio, prese titolo e insegne d'imperatore, e combattè le forze che
veniano di Costantinopoli ad opprimerlo: se non che, vinto in
parecchi scontri, si fuggì col tesoro pubblico in Affrica (782);
ov'ebbe onori da principe349, e le croniche musulmane cel mostrano
dodici anni appresso guerreggiante in Asia Minore contro i Greci,
sotto i vessilli del califo350. La terza rivolta militare portò in Sicilia
348
Theophanis Chronographia, p. 611, seg.
349
Theophanis Chronographia, p. 702 e 705.
350
Ibn-el-Athîr, MS. C, tom. IV, fog. 164 recto, an. 178. Il Saint-Martin, nelle
note a Le Beau, Histoire du Bas Empire, lib. LXVI, §i 27 e 36, registra due
imprese di Elpidio nell'Asia Minore, il 791 e il 794, citando per la prima
Abulfaragi, per l'altra Ibn-el-Athîr. Ma probabilmente si tratta di un sol fatto,
recato da que' due compilatori sotto date diverse.

242
la dominazione musulmana per opera di un altro condottiero che
seguì lo esempio d'Elpidio.
La prepotente massa della soldatesca fu cagione altresì che il
movimento scoppiato contro gli imperatori iconoclasti nell'Italia di
mezzo non si comunicasse alla Sicilia; ancorchè i popoli quivi non
meno tenacemente aderissero alle dottrine di Roma, e al culto delle
immagini. Anzi nei principii dell'ottavo secolo, prima che
s'intendesse parlare degli Iconoclasti, s'era suscitato in Sicilia un
nuovo bollore di zelo religioso, che movea dai monasteri
comunicanti col clero dell'Italia centrale, e che scoppiò in Catania
per provocazioni locali; forse invidia contro gli Ebrei, quivi ricchi e
potenti351. Levò grido in quest'incontro (725) il vescovo della città,
San Leone da Ravenna, detto il Taumaturgo pei molti miracoli che
gli si apposero; e tra gli altri d'avere arso vivo un miscredente,
tenendol fitto sul rogo con le proprie braccia, senza pur abbronzarsi
le vestimenta. Dell'auto-da-fè, sventuratamente, non può dubitarsi;
poichè San Giuseppe Innografo, che visse nel corso di quel secolo,
ne lodava a suo modo il Taumaturgo. Oltre la tradizione
dell'Innografo, se ne serbò un'altra, che con l'andare dei tempi
s'accrebbe di novelle puerili, ma pur vi si scoprono le radici del
mito; cioè un'ultima distruzione di monumenti dell'antichità pagana,
e la persecuzione di qualche valentuomo che si allontanasse dalle
superstizioni comuni: Eliodoro, come si chiamò quella vittima,
nobile uomo, candidato una volta alla sede vescovile, poi molesto
nemico di San Leone, e fattosi per ambizione discepolo degli Ebrei,
negromante e fabbro di idoli352. Dopo il conquisto normanno, i frati
351
La importanza della popolazione ebraica in Sicilia, alla fine del IV secolo, si
vede da due epistole di San Gregorio, presso il Di Giovanni, Codex Siciliæ
Diplomaticus, ni CXXVII e CXLVI.
352
Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 5, 28, dà le traduzioni latine
dei versi di San Giuseppe Innografo, e di tre diverse compilazioni della vita di
San Leone, le quali mi sembrano dell'XI o XII secolo, e si dicono tratte da
Manoscritti della Vaticana, del Monastero di Criptaferrata e del Salvatore di
Messina. L'Innografo non cita il nome di Eliodoro; ma sol dice arso un che
sturbava gli uditori della divina parola, e accenna a varii altri prodigii del
Taumaturgo. Gli eruditi non sono stati di accordo su la età in cui visse San Leone:

243
di Catania lavoraron tanto su quelle fole, che si trovò infine una
fattura del mago, un elefante di lava, ch'oggi adorna la piazza della
cattedrale: e il popolo puntualmente lo chiama col nome un po'
guasto di Diotro353. L'elefante d'Eliodoro fin dai principii del
decimottavo secolo regge su la schiena un monumento più prezioso,
dissepolto dalle rovine de' tremuoti, un picciol obelisco di granito,
ottagono, inciso a caratteri geroglifici, recato al certo d'Egitto sotto
la dominazione romana; il quale, con emblemi tanto sospetti, non so
come campasse dalle mani di San Leone.
Or noi mal possiamo raffigurar nella mente quale tempesta abbia
dovuto suscitare in Sicilia, in quella stagione di roghi e di miracoli,
lo editto di Leone Isaurico contro le immagini (726). I Siciliani non
dissimularono. Affrontaron dapprima la collera di Leone; la quale si
sfogò, com'abbiam detto (733), con aggravare i tributi sopra di loro
e sopra i Calabresi, che vivevano a un di presso nelle medesime
condizioni. Affrontarono indi i supplizii di Costantino Copronimo;
chè ci rimangono i nomi delle vittime più cospicue: un Antioco
governatore di Sicilia, il quale si vede tra gli ortodossi
indegnamente insultati e straziati (766) nell'ippodromo di
Costantinopoli354; e San Giacomo vescovo di Catania, fatto morir di

e alcuni, l'han tirato giù fino al 779. Ma non trovandosi tra que' prodigii alcun
cenno della eresia iconoclasta, San Leone ed Eliodoro si debbon porre senza
dubbio innanzi il 726, com'ha fatto ii Gaetani. Confrontisi D'Amico, Catana
Illustrata, parte I, p. 363 a 386. Veggansi ancora queste leggende di San Leone,
nella collezione dei Bollandisti, febbraio, tomo III, p. 222, seg. Le due epistole a
nome di Lucio governatore di Sicilia, tratte da queste fonti e pubblicate dal Di
Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, ni CCLXXIV e CCLXXV, sono
evidentemente apocrife.
353
D'Amico, Catana Illustrata, parte I, p. 363 a 386, parte III, p. 72 a 75, dice
chiamato volgarmente il monumento Liodoro. Ma in oggi tal nome si pronunzia
Diodoro, e anche Diodro e Diotro. Il Fazello, Deca I, lib. III, cap. I, dà al
supposto negromante ambo i nomi: Diodoro e Liodoro. L'innesto dell'obelisco
egiziano sull'elefante fu fatto nel 1736, come l'attestano due iscrizioni riferite dal
D'Amico, III, p. 386. Quivi si vegga il disegno dell'obelisco, che è dato altresì dal
Torremuzza, Siciliæ veterum Inscriptionum, p. 307.
354
Theophanes, Chronographia, tomo I, 631.

244
fame e di sete (772) in quella persecuzione355. Ai tempi di Michele il
Balbo e di Teofilo, il sapiente Metodio da Siracusa fu lacerato a
battiture; infrantegli le mascelle; sepolto per sette anni in un carcere
sotterraneo con due masnadieri, un de' quali venuto a morte
lasciarono putrefare accanto ai vivi il cadavere (821-836)356.
Giuseppe l'Innografo (820) andò relegato in Creta, e venti anni
appresso, in fondo delle Paludi Meotidi357. Del rimanente non
nacque alcun tumulto nell'isola; poichè il numero dei soldati e delle
fortezze vi s'aumentò in questo tempo358, non tanto forse per la
paura dei Musulmani, quanto degli ortodossi; e poichè i beni
confiscati sopra costoro erano argomento da render più che mai
leale e iconoclasta il presidio. Il popolo fremendo e sopportando,
tirò innanzi più d'un secolo; finchè non piacque agli imperatori di
ristorare le immagini: e l'impeto col quale e' festeggiò questo
avvenimento359, mostra che non fosse rattiepidita in Sicilia
l'opinione cattolica. Ma ben lo era ogni zelo per la chiesa di Roma.
Si dissipò in silenzio senza lasciar vestigio, come prima gli
imperatori360 confiscarono il patrimonio papale in Sicilia (733), e
condussero i vescovi dell'isola, senza far loro troppa forza, a
spiccarsi dal primate ribelle, accettare la istituzione d'un
arcivescovo, forse metropolitano, nell'isola, e ubbidire al patriarca

355
Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 32. Preferisco la data del 772,
seguita da questo scrittore, a quella che altri ha voluto assegnare a San Giacomo
di Catania, facendolo morire ai tempi di Leone Isaurico. Veggasi D'Amico,
Catana Illustrata, parte I, p. 361.
356
Theophanes continuatus, p. 48; Symeon magister, p. 642, seg.; Georgius mon-
achus, p. 811, seg. Si vegga anche la collezione dei Bollandisti, giugno, tomo II,
p. 960 a 963; Mongitore, Bibliotheca Sicula, tomo II, p. 66, seg.
357
Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tom. II, p. 49; Collezione dei Bollandisti,
aprile, tomo I, p. 266, 267.
358
Si vegga il Capitolo VII, p. 175.
359
Veggansi le omelie XI e XX di Teofane Cerameo, nella edizione di Scorso, p.
64, 125, 129 ec., e ciò che noi diciamo di questo sacro oratore nel Libro II, cap.
XII.
360
Theophanes, Chronographia, tomo I, p. 631.

245
di Costantinopoli361. I quali provvedimenti, presi per vendetta,
furono mantenuti per necessità, quando si compose una prima (780)
e una seconda volta (842) la lite delle immagini. E veramente il
papa occupava in Italia tanti territorii tolti direttamente o
indirettamente all'impero bizantino, che a cento doppii
compensavano i poderi confiscatigli in Sicilia e in Calabria. Oltre a
ciò, cotesti poderi, dati senza dubbio ai soldati, non si potean
ritogliere sol che si volesse. Molto meno potea la corte di
Costantinopoli rendere ai papi la giurisdizione disciplinare su la
Sicilia, cioè una salda catena da tirare il paese alla dominazione dei
Franchi. Però i papi invano dissero ch'era mestieri di quelle entrate
per accendere i moccolini a San Pietro, e invano ridomandarono la
giurisdizione, finchè il conquisto degli Arabi tolse luogo a ogni
querela362.
Dal detto fin qui si vede che per due secoli non occorsero in
Sicilia altre vicende che quelle d'una piazza di guerra, ove la
popolazione fosse un nulla rispetto al presidio. Perciò anche la
Sicilia servì di confino per casi di maestà; chè, oltre gli esempii d'un
principe arabo relegatovi nel sesto secolo363, e d'una principessa
longobarda tenutavi in ostaggio nel secol seguente364, sappiamo che
Costantino Quinto imperatore, tramando di ripigliare lo Stato (790),
avesse disegnato di farvi deportare Irene. E costei, alla sua volta,
rassodatasi nella usurpazione, mandava nell'isola, il figliuolo no,
che le parve più sicuro partito di accecarlo e tenerlo prigione nel
palagio, ma i cortigiani più intinti nella pratica365. Non guari dopo
(793). erano sbalzati in Sicilia, come dicemmo, da mille pretoriani,
361
Pirro, Sicilia Sacra, p. 611; e Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus,
dissertazione II, p. 421.
362
Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, epistola di papa Niccolò Primo
dell'860, n° CCLXXXI, p. 318, e dissertazione V, p. 452; Epistola di papa
Adriano Primo del 785, Acta Conciliorum, tom. IV, p. 93, 94.
363
Veggasi il Capitolo IV, p. 76.
364
Paolo Diacono, lib. V, c. XIV. La principessa avea nome Gisa, sorella di
Romoaldo signore di Benevento.
365
Theophanes, Chronographia, p. 719, 720. Per esattezza di cronologia conviene
notare che l'esilio dei cortigiani seguì il 790, e l'accecamento di Costantino il 797.

246
scritto pria loro in fronte a caratteri indelebili "Armeno ribelle366." È
notevole che narrando questi casi il cronista Teofane ricordi la
Sicilia come l'estrema provincia, o diremmo noi, la Siberia
dell'Impero. E a tale in vero era condotta; se non che il sole, la
fertilità del terreno e la postura in mezzo il Mediterraneo, non si
poteano confiscare dai despoti. Sopravvivea con ciò tra quella gente
greca e latina dell'isola alcuno effetto di civiltà: avanzi di industrie e
commerci, com'abbiam detto; studii ecclesiastici, di che anche s'è
fatta menzione; pittura, che vedremo esercitata da soli chierici verso
la fine del nono secolo; architettura367; e infine le materiali
delicatezze della vita, che non mancano nei tempi di decadenza. Ma
gli studii, ristretti al clero regolare e secolare, non servian che di
ausiliarii alla superstizione; la morale insegnata dal clero, traviante
lungi assai dai semplici dettami del Vangelo e intento ai proprii
interessi e ghiribizzi teologici, turbava le coscienze senza
correggere i costumi nè pubblici nè privati; il sentimento della
dignità umana, che solo può mantenere i buoni costumi, era
soffocato necessariamente in un popolo il cui intelletto gemea tra i
ceppi dei frati e dello imperatore, e il corpo sotto la sferza
dell'imperatore e dei soldati. In una parola, la Sicilia era divenuta
dentro e fuori bizantina; ammorbata dalla tisi d'un impero in
decadenza; sì che, contemplando le misere condizioni sue, non può
rincrescerci il conquisto musulmano che la scosse e rinnovò.

366
Ibidem, p. 727. Teofane spiega il modo: cioè delinear le lettere con punture e
versarvi sopra dell'inchiostro. Poco mancò che i carnefici non inventassero la
stampa!
367
Nella maggior chiesa di Mola sopra Taormina si conserva questa iscrizione,
tolta evidentemente da qualche antica fortezza: ΕΚΤΙΣΘΗ ΤΟΙΤΟ ΤΟ
ΚΑΣΤΡΟΝ ΕΠΙ ΚΟΝΣΤΑΝΤΙΝΟΥ ΠΑΤΡΙΚΓΟΥ ΣΙΚΕΛΙΑΣ. Torremuzza
(Gabriele L. Castelli), Siciliæ veterum Inscriptionum, p. 65.

247
CAPITOLO X.
Nell'ultimo secolo della dominazione bizantina in Sicilia, furono
notevoli le pratiche diplomatiche dei governatori dell'isola coi
principi aglabiti. S'era parlato di tregua tra la Sicilia e l'Affrica fin
dal cominciamento della eresia iconoclastica; quando Leone
Isaurico volea le mani libere a reprimere i popoli dell'isola, e
operare da quella su la terraferma. Stipulato un patto, com'e' pare, il
settecentoventotto; i Musulmani non tardarono a infrangerlo368 per
usare le difficoltà nelle quali si travagliava il governo bizantino;
tanto che pensarono di soggiogare la Sicilia, come s'è detto. I forti
armamenti poi dell'isola e le divisioni dei Musulmani d'Affrica,
valsero più che i trattati a mantenere la pace; finchè, surto Ibrahim-
ibn-Aghlab con quei suoi intendimenti di ordine pubblico, tornò al
partito degli accordi scritti, pei quali meglio si favoriva il
commercio, e con quello l'azienda dello stato, assicurando le
persone dei mercatanti che d'Affrica andassero a soggiornare in
Sicilia o al contrario. Pertanto, dell'ottocentocinque, Ibrahim
fermava tregua per dieci anni con Costantino patrizio di Sicilia. Ma
nè anco questa si mantenne; perocchè, succeduti varii movimenti
contro Ibrahim e in particolare a Tunis e a Tripoli, e sendo soggetta
l'Affrica occidentale alla dinastia degli Edrisiti, independente dai
califi e dai governatori di casa d'Aghlab, e però non legata dai patti
internazionali loro369, avvenne che dalla costiera uscissero navi
musulmane addosso ai Cristiani delle isole. Ne mandava anco la
368
Tra i ragguagli dell'ambasceria affricana in Sicilia dell'813, troviamo che il
patrizio rimproverava ai legati avere il governo di Sicilia pattuito con quel
d'Affrica infino da ottantacinque anni, e non si essere mai osservato l'accordo.
Indi il primo trattato torna al 728. Cotesti ragguagli leggonsi nella seconda delle
tre epistole di papa Leone Terzo a Carlomagno, date il 7 settembre, 11 e 25
novembre 813, pubblicate dal Labbe, Sacrosancta Concilia, tom. VII, p. 1114 a
1117; e nel Codex Carolinus del Cenni, tom. II, ep. VIII, IX, X, di Leone; e le
due prime anche dal Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, no. CCLXXVII,
CCLXXVIII. La indizione che vi si cita, mostra che il Labbe andò errato a riferire
l'epistola dell'11 novembre all'anno 812. Veggansi anche gli squarci di questi
documenti presso il Pagi, ad Baronium, anno 813, §i 21, 22, 23.

248
Spagna, che obbediva ad altra dinastia. Così la Sardegna e la
Corsica furono assalite or dagli Affricani or dalli Spagnuoli (806-
821); ancorchè i Musulmani sovente facessero mala prova, non
potendo congiugnere le armi loro per la nimistà ch'era tra Omeîadi,
Edrisiti e Aghlabiti, e dovendo combattere contro povera e fiera
gente, e contro le forze navali italiane, che a quando a quando vi

369
Questo mi sembra il miglior modo di spiegar le parole attribuite agli
ambasciatori musulmani nella citata epistola di Leone Terzo dell'11 novembre
813. Scusavansi delle infrazioni loro apposte dal patrizio di Sicilia, allegando che
morto il padre dell'Amiramum (principe dei credenti) e rimaso costui bambino,
era ita sossopra ogni cosa: liberatisi i servi; gli uomini liberi agognanti al poter
supremo; tutti scioltisi a mal fare, come se non avessero principe sopra di sè. Ma
in oggi, fatto adulto l'Amiramum, soggiugneano gli ambasciatori, ha ripigliato
l'autorità, e farà osservare i trattati. Or non adattandosi cotesti particolari nè ai
califi abbassidi di quel tempo, che erano signori degli Aghlabiti, nè agli Aghlabiti
stessi, è forza supporre la relazione del papa, come pur la dovea essere, mutila e
inesatta, e conviene indovinar ciò che vi manchi. A creder mio, vi manca che i
legati venivano dai due stati, aghlabita e edrisita, e che quest'ultimo avea
commesso le ostilità. Parmi infatti che per le accennate parole degli ambasciatori
non si alluda alle guerre civili di Mamûn col fratello, come ha pensato M.
Reinaud (Invasions des Sarrazins en France, p. 123, 124), ma piuttosto alle
vicende della dinastia degli Edrisiti. Il fondator di essa morendo non lasciò
figliuoli; se non che una sua donna partoriva due mesi appresso (793) un
bambino, per nome anche Edrîs, al quale i Berberi si accordarono di ubbidire; e
fu salutato imam, ossia pontefice e principe, all'età di undici anni. Al tempo
dell'ambasceria ne avea venti; avea fondato la città di Fez, e cominciato a
rassodare e allargare il dominio. A questo Edrîs convengono dunque i particolari
anzidetti. A ciò si aggiunga che Ibrahim-ibn-Aghlab dopo aver tentato, e forse
non da senno, di spegnere questa dinastia rivale dell'abbassida, avea fatto con
essa un tacito accordo, che durava ancora dell'813.

249
mandava Carlomagno370. Così anco furono infestati, com'e'pare, dai
sudditi degli Edrisiti, i territorii che ubbidivano al patrizio di Sicilia.
Ma succeduto a Ibrahim il figliuolo Abu-'l-Abbâs, inaugurò la
esaltazione con uno strepitoso armamento navale; gli appresti del
quale non poteano rimanere occulti ai mercatanti cristiani d'Affrica,
che solean dare avvisi in Sicilia. Dondechè, temendo per l'isola,
Michele Primo imperatore spacciava da Costantinopoli parecchi
spatarii ed un patrizio; il quale chiese invano rinforzi di navi ad
Antimo duca di Napoli, ma n'ebbe da Amalfi e da Gaeta; talchè, con
le navi di Sicilia, raccozzò un'armata da poter tenere in rispetto i
Musulmani371. Nel medesimo tempo, Carlomagno inviava Bernardo,
figliuolo del figliuol suo Pipino, e un cugin suo per nome Walla, a
capitanare l'esercito nel reame d'Italia, che si credea minacciato
dall'armamento affricano e alsì dalli Spagnuoli. E veramente
costoro riassaltavano (812-813) la Corsica; sconfitti al ritorno
presso Majorca dal conte d'Ampurias, rifaceano l'armata;
sbarcavano, dicono gli annali cristiani372, a Nizza, indi a
Civitavecchia. Intanto l'armata aghlabita, che sommava a cento
legni o barche, navigando alla volta di Sardegna, nel giugno
ottocento tredici era stata pressochè distrutta da una fortuna di mare,
370
Veggansi i cronisti citati da M. Reinaud, Invasions des Sarrazins
en France, p. 121 e 122, e da Wenrich, Commentarium, lib. I, cap.
III, §i 46, 47. La principale autorità, fonte delle altre, è quella
d'Einhardo, e degli Annales Laurissenses, che si veggano meglio in
Pertz, Scriptores, tom. I, dall'anno 806 all'812.
Ibn-el-Athîr, MS. A, tom. I, fog. 140, sotto l'anno 206 (5 giugno 821 a 25 maggio
822), nota una scorreria del Musulmani d'Affrica in Sardegna, ove fecero preda, e
talvolta vinsero, e talvolta furono rotti, ma alfine se ne andarono.
371
Epistola di Leone Terzo, del 7 settembre, citata a p. 224, in nota.
372
Einhardus, presso Pertz, Scriptores etc., tom. I, p. 199. Questo cronista,
copiato dai susseguenti, riferisce all'812 i raccontati avvenimenti, non esclusa la
distruzione «quasi totale» dell'armata che assalì la Sardegna. Ma l'epistola di
Leone Terzo dell'11 novembre, citata a p. 224, in nota, porta positivamente il
naufragio nel giugno della 6a indizione, che fu dell'813. D'altronde si può dubitare
se gli assalitori di Nizza fossero stati gli stessi di Civitavecchia, e gli uni o gli altri
Spagnuoli, ovvero dell'Affrica occidentale.

250
alla quale non furono abili a reggere que' piccioli scafi, mal
costrutti, mal governati e sopraccarichi di cavalli. E perchè gli
uomini si studiano a scusare la incapacità loro con gli effetti di forze
superiori, narravano i campati al naufragio, e pochi mesi appresso il
ripeteano in Sicilia i legati musulmani, che una voragine apertasi in
mare avesse tranghiottito l'armata. Confermavan cotesto annunzio
lettere d'un cristiano d'Affrica al patrizio di Sicilia; aggiugnendo
essere accaduto appunto il naufragio, quando sfolgorò in cielo una
meteora, che dalle lor parole sembra essere stata osservata in varii
punti del Mediterraneo373.
Non ostante il raccontato disastro, i Musulmani infestaron tutta la
state le nostre isole minori. Approdarono a Lampedusa con tredici
legni; oppressero sette legni sottili mandativi dal patrizio di Sicilia
ad esplorare, e uccisero le ciurme; se non che, venuto il grosso
dell'armata bizantina, furono a lor volta sopraffatti i Musulmani, e
passati a fil di spada. Di mezz'agosto poi, con quaranta legni
saccheggiavano Ponza; indi Ischia per tre dì; e si ritraeano con
grossa preda di prodotti agrarii, frati e altri prigioni, uccidendo i
proprii cavalli374 per dar luogo su le barche al bottino. Forse fu
questa l'armatetta che si spinse infino a Civitavecchia; e forse erano
Spagnuoli ovvero gente di Telemsen, sudditi degli Edrisiti;
perocchè Abu-'l-Abbas-ibn-Aghlab, mandava tantosto ambasciatori
a Gregorio patrizio di Sicilia a confermare la tregua; nè dal
ragguaglio di tal missione sembra che gli Aghlabiti avessero a
discolparsi delle recenti scorrerie. Sappiamo all'incontro che i legati,
scusandosi degli atti ostili commessi sopra la Sicilia nello spazio di
dieci anni, allegavano vicende interiori le quali convengono

373
Nella citata epistola di papa Leone dell'11 novembre, dopo essersi fatto
menzione della lettera del cristiano d'Affrica, si aggiugne: Et hoc factum est
mense junio, quando illud signum igneum, tamquam lampadam in cœlo multi
viderunt. Non si ritrae dove si trovassero quei multi, e se tutti in una stessa
regione.
374
Epistola di Leone Terzo data il 7 settembre, citata di sopra. In questa gli
assalitori son chiamati sempre Mauri. Nella epistola seguente si dà sempre il
nome di Saraceni ai Musulmani dello stato aghlabita.

251
solamente alla dinastia edrisita375. Aggiugneano non volersi rendere
mallevadori delli Spagnuoli, i quali non ubbidiano a loro; ond'essi
lasciavan libero a chiunque di combatterli, e volentieri anco
avrebbero aiutato a scacciarli dalle terre cristiane. Gli ambasciatori
stessi, mentre veniano in Sicilia sopra navi veneziane, imbattutisi in
alquanti legni spagnuoli, aveano stigato i Veneziani ad arderli; e
vantavansi di avervi messo le mani e' medesimi376. Certo gli è
dunque che gli Omeîadi di Spagna non entrarono nel patto col
patrizio di Sicilia. Pare all'incontro che fosservi inclusi gli Edrisiti; e
che ambasciatori loro fossero venuti insieme con quei di casa
d'Aghlab.
Il patto portava tregua per dieci anni, scambio dei prigioni, e
sicurtà ai mercatanti musulmani che potessero andare d'Affrica in
Sicilia e soggiornarvi per loro negozii; e volendo tornarsi a casa,
non fosse lecito di ritenerli. La quale sicurtà fu senza dubbio
reciproca a pro dei Siciliani che mercatavano in Affrica. Il patrizio
rese immantinenti i prigioni musulmani; mandò un segretario
Teopisto a ripigliare i cristiani, e procacciare la ratificazione del
trattato: il quale in fatti fu promulgato solennemente nella Dieta dei
notabili a Kairewân, come afferma uno scrittore arabo testimone
oculare di quell'adunanza, dal quale sappiamo il capitolo
commerciale testè ricordato377. Gli altri particolari delle pratiche e sì
delle scorrerie, si ritraggono da una epistola di papa Leone Terzo a
Carlomagno, data l'undici novembre dell'ottocentotredici;
importantissimo documento per più rispetti. Cotesto ragguaglio
375
Veggasi la nota 1, p. 225.
376
Secondo la epistola di Leone Terzo, gli ambasciatori erano venuti in navigio
Veneticorum, et sic veniendo combusserunt igne navigia quæ de Spania
veniebant.
377
Veggasi il presente libro, cap. VI, p. 148-149. Il narratore è un Soleimân-ibn-
Amrân, e lo squarcio della narrazione si legge nel Riadh-en-nofûs, MS., fog. 28
recto. La reciproca sicurtà dei mercatanti siciliani in Affrica si suppone dal fatto
che un di loro avea scritto al patrizio (si vegga sopra a p. 228). Non fa specie che
Soleiman taccia il patto della reciprocità, sendo stato uso costante di tutte le
tregue tra Musulmani e Cristiani, che ciascuna delle due parti promulgasse solo i
patti favorevoli ai proprii sudditi e tacesse gli obblighi contratti verso i nemici.

252
tuttavia mostra che il nunzio romano in Sicilia ebbe a superare, non
solo la diffidenza che spirava al patrizio ogni uom del papa, ma alsì
la difficoltà della interpretazione per due lingue diverse, dall'arabo,
cioè, degli ambasciatori musulmani nel greco che si parlava in
Sicilia, e dal greco nel tristo latino che il papa scriveva a
Carlomagno.
Il nunzio viaggiando da Siracusa a Roma, all'entrar di novembre
seppe che sette navi di Mori, credo pirati o gente di Spagna,
avessero testè disertato una picciola terra presso Reggio378. Par che
la infestagione delle Calabrie fosse cominciata fin dalla state di
quell'anno o rinnovata nei seguenti, poichè ci si narra che San
Fantino da Siracusa, taumaturgo del quarto secolo, vivuto da
solitario in Calabria, apparve un dì, ventiquattro luglio, tra i turbini
e le folgori su la spiaggia di Seminara per affondare una nave
musulmana venuta a corseggiare in quelle parti. E tal miracolo, di
cui si dicono testimonii i Musulmani che camparono dal naufragio,
va riferito ai tempi di Leone l'Armeno (813-820), poichè un buon
vescovo calabrese, autore della leggenda, aggiugne che sendo stato
poscia mandato a Costantinopoli dal prefetto di Sicilia per negozii
appartenenti alla provincia, l'anno terzo di Leone, San Fantino
liberollo prima da una tempesta nell'Adriatico, e poi dalla collera
dell'eretico imperatore379.
In fine la Sicilia ebbe a soffrire una incursione, della quale
sappiam solo che seguì nel dugentoquattro dell'egira (27 giugno
819, a' 15 giugno 820); che capitanò la impresa Mohammed-ibn-
378
Epistola dell'11 novembre 813, citata a p. 224, in nota.
379
Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tom. I, p. 160, seg., da un MS. greco del
monastero del Salvatore di Messina attribuito a Pietro vescovo di Tauriano che
visse sotto Leone eretico, e andò a lui, tremando di paura, il terzo anno del suo
regno. Dei tre imperatori bizantini ai quali convengono tal nome e tal ingiuria, il
Gaetani preferisce, come più antico, Leone Isaurico, senza badare a ciò che questi
nel terzo anno del suo regno non si era per anco chiarito contro le immagini.
Perciò mi par che si tratti piuttosto dell'Armeno. Il buon vescovo di Tauriano dice
aver visto il naufragio della nave musulmana, e narra dopo di quello la sua
missione a Costantinopoli. Alcuni versi di San Giuseppe Innografo, citati dal
Gaetani, dicono anche del miracolo di San Fantino contro i Musulmani.

253
Abd-Allah-ibn-Aghlab, cugin germano del principe aghlabita
Ziadet-Allah; e che i Musulmani, fatti moltissimi prigioni nell'isola,
se ne tornarono in Affrica380. Pare indi rappresaglia, o sfogo di
rabbia religiosa sotto specie di rappresaglia; poichè s'è visto che
Ziadet-Allah, nei principii del regno diè favore alla fazione dei
giuristi, che è a dire, al fanatismo musulmano. Del rimanente, chi
primo violasse la tregua noi l'ignoriamo, nè appunto il sapean essi,
non essendosi mai osservati strettamente i patti tra i due governi
d'Affrica e di Sicilia, dispotici entrambi, avari e disordinati; e tra le
due nazioni, che s'abborrivano per amor di Dio, ma il commercio le
tirava ad usare insieme. Questo pure è certo, che tali atti d'ostilità
non arrivarono al segno di tentarsi il conquisto della Sicilia innanzi
l'ottocentoventisette, com'altri ha scritto sopra vaghe tradizioni.
Dico di quelle due ripetute fin qui negli annali di Sicilia, le quali
vanno cancellate, non ostante la casuale coincidenza della data con
la impresa di Mohammed-ibn-Abd-Allah; perchè mancano di tutta
autorità, e le rende impossibili d'altronde la spaventevole guerra
civile che arse in Affrica dall'ottocentoventidue
all'ottocentoventisei. Vien la prima tradizione da Erchemperto,
lombardo, vivuto alla fine del nono secolo; il quale assai
brevemente disse: usciti «gli Agareni di Babilonia e d'Affrica» e
abitata da loro l'insigne città di Palermo, e soggiogata quasi tutta
l'isola; nel qual tempo, aggiugne, venuto a morte Lodovico
imperatore, gli succedè Lotario381. In coteste parole, chiunque le
legga ai nostri dì, vedrà manifestamente le vicende del conquisto di
Sicilia principiato l'ottocentoventisette, e s'accorgerà che il cenno
del cronista corra fino all'ottocentoquaranta, quando trapassò
Lodovico. Ma nel duodecimo secolo, stagione di crociate e di
leggende, trattandosi assai grossolanamente la storia, Leone d'Ostia
tolse di peso quel capitoletto da Erchemperto, e v'aggiunse ad
380
Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 35 recto. L'autore, non
contento di notare l'anno della egira, aggiugne che questa scorreria fu fatta circa
otto anni avanti il conquisto di Ased-ibn-Forât.
381
Erchempertus, cap. XI, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tom. II,
parte I, p. 240.

254
arbitrio la data dell'ottocentoventi, o l'aggiunsero per lui i copisti382.
Poi, dimenticato Erchemperto e sostituitogli Leone, l'errore è
passato di compilazione in compilazione infino a quelle della nostra
età383, e successivamente vi si è aggiunto che i Musulmani se ne
andassero via, e tornassero dopo sette anni; poichè le tradizioni
bizantina e musulmana li portavano sbarcati in Sicilia
l'ottocentoventisette.
Dà l'altro racconto il Fazzello; il quale accozzando quei brani che
potea trovare, buoni o tristi, delle tradizioni del tempo musulmano,
scrisse che Abramo Halbi (così guastavansi i nomi e la cronologia,
facendo regnare Ibrahim-ibn-Aghlab nell'ottocentoventisette), ai
preghi d'Eufemio, mandava in Sicilia quarantamila Saraceni,
capitanati da un Halcamo. Costui, continua il Fazzello, sbarcato a
Mazara, diè alle fiamme le proprie navi, occupò Selinunte, cui i
Saraceni in lor favella chiamarono Biled-el-Bargoth, ossia "Terra
delle pulci," e presi i cittadini, per domare a un tratto la Sicilia con
esempio atroce, li fe' cuocere in caldaie di rame. Però, le altre città
immantinenti gli si arresero; ed ei volendo apparecchiarsi ad ogni
evento, edificò un castello che da lui addimandossi Alcamo. Quivi
in fatti i Siciliani, ripreso animo, corsero ad assediarlo: ma Halcamo
valorosamente resistè; e al fine venne a liberarlo e compiere il
conquisto della Sicilia, con novello sforzo di gente, Ased-Benforat.

382
Leo Marsicanus, lib. I, cap. XXI, presso il Muratori, Rerum Italicarum
Scriptores, tomo IV, p. 296, e presso Pertz, Scriptores, tomo VII, p. 596. Nella
edizione del Pertz si nota l'errore di cronologia, e che appartenga a Leone, non ad
Erchemperto. Aggiugnerei che Leone nel cap. XX porta alcuni fatti dell'827, e
che però è possibile che i copisti trascrivendo la data in numeri romani abbiano
lasciato indietro la cifra delle unità.
383
Il Martorana par che abbia dubitato del fatto, poichè nol porta espressamente
nel testo, cap. II, tom. I, p. 30; ma sì nella nota 28, nella quale cita Leone d'Ostia
e il Curopalata (Giovanni Scylitzes). Il Wenrich confrontò e corresse coteste
citazioni. In fatti ei toglie via quella di Scylitzes, che non ha che fare qui, e
aggiugne in primo luogo l'attestato di Erchemperto. Ma, trattenendosi a mezza
strada, l'erudito tedesco adatta al racconto d'Erchemperto la falsa cronologia di
Leone, e così cade anche egli nell'errore di raddoppiare il fatto. Lib. I, cap. IV, §
51.

255
Il Fazzello cita per cotesti fatti gli annali maomettani e Leone
Affricano, ma non spiega altrimenti chi abbia scritto, chi tradotto, e
chi pubblicato quegli annali384.
Da Leone in vero egli tolse la supposta impresa di 'Alkama.]
Leone, com'è noto, fiorì nei principii del decimosesto secolo.
Nacque musulmano a Granata; rifuggitosi a Fez dopo il conquisto di
Ferdinando il Cattolico, studiò e viaggiò molto nei paesi
musulmani, finchè preso (1517) da corsari all'isola delle Gerbe, fu
recato in dono, come avrebbero fatto d'una giraffa, a papa Leone
Decimo; il quale, colto e magnifico com'egli era, l'onorò, lo
stipendiò, lo battezzò, ponendogli i proprii suoi nomi di Giovanni e
Leone, e gli fece apparare la nostra lingua e il latino. L'erudito di
Granata voltò allora ed ampliò dall'arabico in italiano, il manco
male ch'ei poteva, i suoi viaggi in Affrica ed Egitto, e scrisse in
latino notizie biografiche di parecchi medici e filosofi musulmani;
opere pregevoli, sopratutto in que' tempi: se non che l'autore, non
avendo seco i manoscritti che gli occorreano, dovea affidarsi alla
memoria o a note di taccuino; e la memoria delle cose viste con gli
occhi, in lui come in ogni altro uomo, era più tenace assai che
quella delle cose lette nei libri. Indi è che troviamo Leone sì verace
e preciso nelle descrizioni geografiche, e sì difettivo nelle notizie
storiche385 e peggio in fatto di cronologia: oltrechè, i dettati suoi
furono raccolti e pubblicati quando, venutagli a noia la città eterna e
il cristianesimo, ei se n'era tornato tra i Musulmani, e non s'era
inteso più parlare di lui in Europa. Probabile è che Leone,
384
Fazzello, Deca II, lib. VI, cap. I. Questa è la giusta ortografia al modo nostro di
trascrivere l'alfabeto arabico.
385
M. Reinaud ha notato ciò nella versione francese della Geografia d'Abulfeda,
tom. II, pag. 179. Aggiungo che tra gli strafalcioni di Leone ve n'ha uno, il quale
prova non solo che scrivesse di memoria, ma ancora che non avesse buona
memoria. Ed è che un califo fatimita d'Egitto abbia mandato Giawher a
conquistare la Barbaria; e che, ribellatosi il governatore di questa provincia, il
califo El-Kaim abbia scatenato sopra quella gli Arabi d'Egitto. Sarebbe lo stesso a
dire che Giustiniano da Roma mandò Belisario ad occupare Costantinopoli; e che
Roma fu saccheggiata dalle genti del Bastardo di Borbone per comando di
Filippo il Bello.

256
mescolando ricordanze nette ed idee dubbie e conghietture, com'egli
a Roma o anco in Barbaria avea inteso il nome di Alcamo, antica
città saracena di Sicilia, riconobbene di leggieri la origine da un
nome proprio usato dagli Arabi antichi; e supponendo che il
fondatore fosse uomo di nota vivuto nei primi tempi dei conquisto,
lo accoppiò bene o male con Ased, il solo nome che gli ricorresse
certo nella memoria, quand'ei pensava ai pochi righi che per
avventura avea letto intorno il conquisto di Sicilia. A sincerarci
ch'ei conoscesse poco assai dei fatti di Sicilia, basterà percorrere il
paragrafo in cui ne tratta per incidenza, dicendo di Kairewân e degli
Aghlabiti386, dov'ei porta come contemporanei il conquisto di Sicilia
e la fondazione di Rakkâda in Affrica che seguì mezzo secolo
appresso (877). Con simile anacronismo ei confuse il conte
Ruggiero col re del medesimo nome, e il conquisto dell'isola sopra i
Musulmani col tempo di prosperità in cui fu compilata a Palermo la
geografia di Edrisi387.
Dove poi il Fazzello leggesse lo sbarco a Selinunte, l'arsione
delle navi e lo strano supplizio dei Selinuntini, invano l'ho ricercato,
nè saprei appormivi; poichè queste favole grossiere non si leggono
appo Leone, e gli annali musulmani che il Fazzello cita come
seconda autorità mi sembrano zibaldone inedito, o forse non li vide

386
Ecco questo squarcio dell'opera geografica di Leone Africano sottoscritta di
Roma, il 10 marzo 1526, ch'io copio su la edizione del Ramusio, tom, I, p. 69
verso. Detto che sotto la dinastia degli Aghlabiti Kairewân crebbe di grandezza e
di popolo, Leone aggiunge che il signore del paese «fece fabbricare appresso
un'altra città cui pose nome Recheda, nella quale habitava egli e i primieri della
sua corte. In questo tempo fu presa Sicilia dalli suoi eserciti mandativi per mare
con un capitano detto Halcama, il quale nella detta isola edificò una piccola città
per fortezza et sicurtà della sua persona, chiamandola dal suo nome, la quale vi è
sin oggi chiamata dai Siciliani Halcama. Dapoi quest'Halcama fu quasi assediata
dalli esserciti che vennero in soccorso di Sicilia; allora il signore di Cairoan
mandò un altro essercito più grande con un valente capitano chiamato Ased, il
quale rinfrescò Halcama, et tutti si ridussero insieme et occuparono il resto delle
terre che rimaseno.» E Leone non ne dice altro.
387
Veggasi la notizia biografica che dà Leone Affricano dello Esseriph Essachali,
com'ei chiama Edrisi. Presso Fabricio, Bibliotheca Græca, tom. XIII, p. 278.

257
mai egli stesso, nè li allegò che su i detti altrui. E ben quella
appellazione di Biled-el-Bargoth mi puzza d'impostura di qualche
giudeo arabizzante, di que' che nel decimoquinto secolo fecer girare
il cervello agli archeologi di Palermo, spacciando per iscrizioni
caldaiche scolpite in pietra, poco appresso il diluvio universale, i
versetti del Corano e nomi proprii che si leggeano su certe torri
nella capitale della Sicilia. Perchè Beled-el-Borghût significa, sì, in
arabico, Terra delle pulci; ma questo sconcio nome era moderno;
era corruzione di Polluce, come or chiamano i dotti, una torre
presso le rovine di Selinunte, o piuttosto di Belgia, voce arabica, o
di Belich, nome di un picciol fiume tributario dell'Eufrate388:
dall'una o dall'altro dei quali gli Arabi chiamarono Belgia un
castello or distrutto, e un fiumicello che scorre lì presso, al quale è
rimaso il nome di Belici. In ogni modo, il villaggio che rimase
almeno fino agli ultimi del duodecimo secolo nel sito di Selinunte,
avea nome, come leggiamo in Edrisi, Rahl-el-Asnâm, il borgo cioè
degli Idoli, che non ve n'ha penuria tra le rovine di quei tempii
colossali ben chiamate i Pilieri dei Giganti. Dond'ei mi pare
evidente che l'impostore del decimoquinto o decimosesto secolo
abbia tradotto in arabico il nome volgare che sapea di quel sito; e
aggiuntevi le fiamme del navilio musulmano, e le caldaie di rame da
bollire i Selinuntini, abbia propinato la leggenda al Fazzello; il
quale se la bevve, come quelle dei giganti primi abitatori della
Sicilia, delle iscrizioni caldaiche di Palermo, e non poche altre,
sacre e profane. Nè era colpa di sì diligente e nobile scrittore se,
quand'ei visse, non si conoscea nè la paleontologia, nè l'anatomia
comparata, sì che le ossa fossili d'elefanti e ippopotami pareano
reliquie di Polifemo e di Nembrotte; se pochi o niuno in Europa
distingueano i caratteri cufici; s'erano sepolti que' materiali storici in
greco e in arabico, or sì accessibili a chiunque; e se la critica della
storia non potea germogliare in Sicilia, sotto il giogo spagnuolo, tra
i roghi del Santo Officio!

388
Belgia in arabico vuol dir crepuscolo sia mattutino sia vespertino. Su i nomi
geografici ai quali accenno, si vegga il capo I del lib. III.

258
LIBRO SECONDO.

CAPITOLO I.
Fu aperta la Sicilia ai Musulmani da una rivolta militare, della
quale si narra variamente l'origine389.
Mettendo a rassegna i cronisti, e principiando dagli italiani, il più
antico è Giovanni diacono di Napoli, che visse nella seconda metà
del nono secolo; quando passava tanta dimestichezza tra la colonia
musulmana di Sicilia e la repubblica di Napoli. Costui compilò la
cronica dei vescovi napoletani, cinquant'anni appresso il grande
avvenimento che avea spiccato la Sicilia dall'Impero: donde, se i
critici volentieri gli accordan fede nei fatti de' tempi suoi, gliene
dobbiamo anche in questo390. Raccontata la congiura di palagio che
tolse al supplizio Michele il Balbo e lo promosse al trono (26
dicembre 820), il diacono di Napoli scrive come, immediatamente
dopo la liberazione di Michele, i Siracusani, suscitati a ribellione da
un Euthimio, uccidessero Gregora lor patrizio. Indi lo imperatore
mandava possente esercito che ruppe i Siracusani. Euthimio,
rifuggitosi in Affrica con la moglie e i figliuoli, tornò in Sicilia con
un'armata di Saraceni condotta da Arcario391 lor duce (827); la quale
corse l'isola, assediò Siracusa, sforzolla a tributo, e alfine (831)
s'insignorì della provincia di Palermo. Dopo alcuni particolari di
389
Questi due righi e la esposizione delle testimonianze storiche eran già scritti,
quando si pubblicò, il 1845, il lavoro del Wenrich, dove si trova (lib. I, cap. IV, §
52) una frase che a prima vista pare poco diversa e un metodo d'esamina
somigliante al mio, ancorchè con altri fatti e altri risultamenti. Non essendo uso a
rubare gli altrui lavori, mi basta avvertire il lettore, e lascio la forma del mio
scritto com'ella stava.
390
Veggasi la prefazione del Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tom. I, parte
II, p. 287 a 289. La cronica pare scritta verso l'872, e l'autore allude a quella come
ad opera giovanile in altri opuscoli assai meno importanti ch'ei dettò verso il 902.
391
El-Kadhi: il cadi Ased-ibn-Forât.

259
quest'ultima fazione, ripigliando il filo degli eventi che succedeano
a Costantinopoli e nella terraferma d'Italia, Giovanni fa menzione
della guerra civile di Tommaso di Cappadocia (821-824); nè riparla
dei Musulmani di Sicilia che quando cominciarono a intromettersi
nelle brighe della Penisola. Da quanto ho detto, e dalle date certe
che ho aggiunto tra parentesi, ognun vede che il cronista napoletano
abbia collocato que' casi di Sicilia, a mo' d'episodio, nell'anno in cui
principiarono, e che questo, secondo lui, torni
392
all'ottocentoventuno .
Il secondo scrittore nostrale che faccia cenno dell'evento, visse
dopo cencinquanta anni, verso la fine del decimo secolo; anonimo,
ma si sa che fosse di Salerno, e forse monaco e di schiatta
longobarda. Ei suol fare fascio d'ogni erba, come notava il Muratori;
intreccia negli annali le novellette che correano di quel tempo, e
attribuisce ai personaggi della storia discorsi e sentenze di sua
fattura. Pertanto lo lasceremmo indietro, se non trovassimo nel
racconto le vestigia di alcuni particolari che abbiamo da altri autori
degni di fede, da lui non letti per certo. Senza dissimulare nel
linguaggio suo l'odio contro i Bizantini, l'anonimo di Salerno ci
narra come certo grechetto, dice egli, che reggea la Sicilia,
ingiuriasse mortalmente Eufemio, ricchissimo siciliano. Corrotto
per danari, il prefetto violentemente toglieva ad Eufemio la
fidanzata Omoniza, fanciulla di rara bellezza, per darla in braccio a
un rivale. Ed Eufemio, cercando vendetta, si imbarcava coi servi
suoi per l'Affrica; andava a profferire la signoria della Sicilia a quel
barbaro re; il quale, colmatolo di doni, lo rimandò nell'isola con un
esercito. L'ingiuriato amante, così entrato per forza d'armi in
Catania e fattavi molta strage, ammazzò tra gli altri il prefetto.
Tanto narra l'anonimo salernitano, senza recar la data; ma lavora di
rettorica a fingere le ambasce e minacce d'Eufemio393.
392
Johannes Diaconus, Chronicon etc., presso il Muratori, Rerum Italicarum
Scriptores, tom. I, parte II, p. 313.
393
Anonymi Salernitani, Paralipomena, presso Muratori, Rerum Italicarum
Scriptores, tom. II, parte II, cap. XLV, p. 163, seg.; presso Pratillo, tom. II, cap.
LI, p. 119 (che varia il numero dei capitoli), e meglio presso Pertz, Scriptores,

260
Quest'episodio erotico, preso al rovescio con farvi Eufemio
offensore invece di offeso, è quasi la sola tradizione che ci
tramandino i Bizantini su la guerra di Sicilia. Come sorgente
primitiva loro si allega la storia particolare e contemporanea di un
Teognosto: opera perduta in oggi394. Rimanda in fatti a Teognosto,
per più ampio ragguaglio del caso di Sicilia, la principale tra le
cronache bizantine che possa fare autorità per quel tempo, la
Cronografia detta di Costantino Porfirogenito imperatore, scritta per
suo comando e da lui messa in ordine e postillata, la quale va in
principio della continuazione a Teofane395. Da questa cronica, che
ha data certa della metà del secol decimo, tolsero il fatto Cedreno,
autore del duodecimo, che vi mutò appena qualche frase, e Zonara
che lo compendiò anche nel duodecimo secolo; per non dir nulla del
Curopalata Giovanni Scylitzes, il quale, come ognun sa, trascrisse
di parola in parola Cedreno senza nominarlo. Pertanto non diremo
altrimenti della testimonianza di così fatti copisti. Ma vuolsi fare
menzione d'un compendiatore del decimo secolo, Simone maestro
(che era titolo d'officio a corte)396, il quale par abbia avuto alle mani
la storia di Teognosto o altri ricordi; poichè si discosta dalla
compilazione imperiale. Mentre Michele il Balbo, dice il cronista, si
travagliava nella guerra civile di Tommaso di Cappadocia, gli
Affricani e gli Arabi occuparono Creta, Sicilia e le Cicladi, regioni
uscite «poco innanzi» dalla dominazione bizantina, pei peccati dei

tomo III, cap. LX, p. 498. Su l'autore veggansi le prefazioni del Muratori e del
Pertz. Il Muratori crede che il nome di lui sia stato Arderico.
394
Le stesse croniche bizantine denotano Teognosto come autore dei canoni
grammaticali: la sola opera che ci rimane di lui, Ξεογνοστο̃υ κάνονες presso
Cramer, Anecdota Græca, tom. II, Oxford 1835.
395
Theophanes continuatus, p. 3, in fine del titolo. A p. 81, § 26, di Michele il
Balbo, in fin della impresa di Orifa in Creta si legge: «ed ei ci lasciò la briga di
liberare l'isola dagli Agareni. Rimettasi ciò nelle mani di Dio: ma anche noi
dobbiamo darcene pensiero; e dì e notte l'animo nostro se ne travaglia.» Queste
parole non poteano esser dettate che dallo imperatore.
396
Veggasi Ducange, Glossarium mediæ et infimæ latinitatis, alla parola
Magister, e Glossarium mediæ et infimæ græcitatis, alla voce Μαγίστερ

261
popoli e la iniquità dei principi397. E allora accadde che Michele,
dicendo forse da senno a Ireneo maestro del palagio "Mi rallegro
teco; la Sicilia s'è ribellata!" que' gli replicò: "Strana contentezza è
questa, o signore;" e volto a un altro cortigiano gli sufolò
all'orecchio tre versi: "Ecco il primo disastro che dovea succedere,
preso lo stato dal dragone di Babilonia, balbuziente e amantissimo
dell'oro398." Dopo ciò, Simone racconta il primo sbarco dei
Musulmani in Creta (822?).
La compilazione imperiale, senza segnar data precisa, dà un
sincronismo diverso al fatto di Sicilia, portandolo insieme con
l'impresa di Orifa nell'Arcipelago (825?). «Tra coteste vicende, dice
la compilazione, Eufemio turmarca di milizie399 in Sicilia, invaghito
di una donzella che vivea nel chiostro, e che portava da lungo
tempo l'abito monastico, avea cerco ancor da lungo tempo di
soddisfare all'amor suo, prendendola in moglie: chè l'esempio non
era lontano, nè potea parer cosa illecita nè brutta, quando poc'anzi
l'avea praticato lo stesso imperatore Michele. Pertanto Eufemio,
397
..... λαβόντος α̉ρχὴν α̉́ρτι πρω̃τον διὰ τὰς του̃ λαου̃ άμαρτίας. κ. τ. λ.
398
Symeon Magister, nel volume Theophanes continuatus, p. 621, 622, § III, del
regno di Michele il Balbo. Su l'autore veggasi Fabricius, Bibliotheca Græca, tom.
VII, lib. V, cap. I, § 10.
399
Τουρμάρκης τελω̃ν. Τέλος, che ho tradotto milizia, è voce
generica e vaga. Non così turmarca, che risponde, negli ordini
militari d'oggi, a generale di brigata. Comandava una turma o
μὲρος, composta di tre drungæ, o μοι̃ραι, ciascuna delle quali, a un
di presso come i nostri reggimenti, variava da 1000 a 2000 uomini.
Sopra il turmarca o merarca non era che il generale in capo o
stratego: sotto venivano i drungarii o chiliarchi. Veggasi la Tattica
dell'imperatore Leone, detto il Sapiente, cap. IV del testo greco, e
nella versione francese del Maizeroi, p. 33. Veggasi anche
Ducange, Glossarium mediæ et infimæ græcitatis, alle voci
τουρμάρχης, του̃ρμα, μοι̃ραι
Al tempo di Leone, drungario e turmarca eran titoli di capitani nelle armatette
provinciali, non già nel navilio imperiale; op. cit., versione del Maizeroi, p, 146.
Il Cedreno dà ad Eufemio il vago titolo di ̉Εξηγούμενος

262
rapita la vergine dal monistero, portossela, riluttante, a casa400.» I
fratelli di lei se ne richiamavano allo imperatore; e questi
ingiungeva allo stratego di Sicilia che, sendo vero il misfatto, si
mozzasse il naso al rapitore, secondo il rigor delle leggi401. Ma
Eufemio, risaputo il pericolo, ordiva una cospirazione coi proprii
soldati e con altri turmarchi compagni suoi402; e, sottrattosi allo
stratego che andava per punirlo, rifuggissi appo il miramolino403
d'Affrica; promettendo che gli darebbe la Sicilia e pagherebbegli
largo tributo, s'ei gli concedesse di prender nome e insegne
d'imperatore, e lo aiutasse di genti. Il barbaro principe accettava il
partito, e s'insignoriva dell'isola, col favore d'Eufemio non solo, ma
sì degli altri che avean messo mano con lui alla ribellione.
Pervenuto a salti, come ognun se n'accorge, alla irruzione dei
Musulmani in Sicilia, il cronista palatino esce di briga con additare
ai lettori Teognosto; nè si sofferma che per raccontare un altro
episodio drammatico: la uccisione di Eufemio404. Parlando dello
stratego di Sicilia in quel tempo, ei non ne dà il nome; ma più sopra,
nel racconto della guerra di Creta, avea detto che Michele il Balbo
affidò il governo della Sicilia a Fotino protospatario e capitano
d'Oriente, per racconsolarlo della sventura incontrata in
400
La versione latina del padre Combefis, ristampata nella edizione del Niebuhr,
non è molto esatta in questo luogo, nè in parecchi altri. Oso correggerla,
afforzandomi dell'autorità di M. Hase, il quale, cortese quanto egli è sapiente ed
erudito, si è piaciuto rivedere e postillare la versione mia.
401
In fatti si trova minacciato questo supplizio nelle Basiliche (Βασιλικω̃ν, lib.
LX, titolo XXXVII, cap. LXXI, LXXIV, LXXV, e Liber Leonis et Constantini
AA., tit. XXVIII, cap. X, XI, XII), non solo ai seduttori delle monache, ma sì a chi
viziasse l'altrui fidanzata, o sposasse la propria comare. Indi si vede la confusione
che portavano già nella morale le ubbíe religiose, e come, tra quelle e il
dispotismo, si guastava la legge romana.
402
Συντουρμαρχω̃ν. Questa voce mal copiata o mal compresa nell'esemplare del
Curopalata (Giovanni Scylitzes) ch'ebbe alle mani il Fazzello, gli fece scrivere
che Eufemio fosse stato consigliato dalli Scythamarchi.
403
L'autore, supponendo un califo anche in Affrica, e guastando il nome di Emir-
el-Mumenin, lo chiama ̉αμεραμνουνη̃ς. Ho scritto questo titolo secondo la
elegante corruzione che ne fecero i nostri antichi.
404
Teophanes continuatus, lib. II, cap. XXVII, p. 81, 82.

263
quell'altr'isola (825), ove, mandato contro i Musulmani con grosso
esercito, i suoi avean toccato una rotta ed ei se n'era fuggito, come
pare, senza combattere405. Questo Fotino era bisavolo di Zoe
imperatrice, madre del Porfirogenito. E ciò spiega perchè la
compilazione imperiale aggravi tanto Eufemio, e non faccia parola
dei casi della ribellione, nei quali Fotino par sia stato infelice e
codardo quanto in Creta.
Venendo alla tradizione musulmana, che ha sembianze assai più
genuine, è da avvertire come noi la tenghiamo da tre scrittori: Ibn-
el-Athîr, che visse tra il duodecimo e il decimoterzo secolo;
Nowairi, del decimoterzo e decimoquarto; e Ibn-Khaldûn, della fine
del decimoquarto stesso: dei quali ho detto abbastanza nella
Introduzione. Attinsero i fatti del conquisto di Sicilia ad unica
sorgente, ignota a noi; se non che possiamo conghietturare che fosse
compilazione fatta in Sicilia o nell'Affrica propria nell'undecimo
secolo, sopra ricordi scritti ai tempi medesimi degli eventi, come
ormai portava la civiltà dei popoli musulmani. Egli è evidente che
Ibn-el-Athîr e Nowairi scorciassero entrambi quella cronica, poichè
danno il grosso dei fatti nel medesimo ordine, e sovente con le
medesime parole; ma dei particolari chi ne presceglie uno e chi un
altro, secondo il genio suo: trovandosi in maggior copia appo Ibn-
el-Athîr le cose militari e politiche, ed appo Nowairi gli aneddoti.
Quanto ad Ibn-Khaldûn, in questo capitolo abbrevia Ibn-el-Athîr,
senz'aggiugnervi una sillaba.
La tradizione musulmana corre nel tenor seguente. L'anno
dugento uno dell'egira (816-17) secondo il Nowairi, e dugento
undici (826-27) secondo Ibn-el-Athîr, il re dei Rûm prepose alla

405
Op. cit., lib. II, cap. XXII, p. 76, 77.

264
Sicilia il patrizio Costantino406 soprannominato il Suda407, voce
d'origine latina, grecizzata nei bassi tempi, che suona trincea; ed in
Creta è nome geografico, noto, com'e' pare, nella guerra dei
Musulmani. Il Trincea avendo fatto capitano dei soldati d'armata
Eufemio della nazione dei Rûm, uom prode e intraprendente,
caporione tra gli ottimati siciliani408, costui andò ad osteggiare la
costiera d'Affrica; presevi mercatanti, vi fece bottino, e lunga pezza
s'intrattenne a infestar que' mari. Poscia riseppe avere il principe
commesso al patrizio dell'isola di torgli il comando e punirlo d'una
colpa che gli era stata apposta: e datane contezza ai compagni suoi
d'arme, li accese a ribellarsi con essolui. Donde, approdata l'armata
a Siracusa, si azzuffò con le genti di Costantino, lo ruppe; una
schiera, inseguitolo infino a Catania, lo prese e ammazzò; ed
Eufemio fu gridato imperatore. Il quale chiamò al governo d'alcuna
406
Così chiaramente nei MSS. d'Ibn-el-Athîr e d'Ibn-Khaldûn, ancorchè senza
vocali brevi. Dei due MSS. di Nowairi, il più moderno (Biblioteca di Parigi,
Ancien Fonds, 702 A), omettendo al solito le vocali brevi, scrive anche k s n tin;
ma l'altro (Ancien Fonds, 702), autografo, ovvero copiato sopra un autografo, ha
una volta f s n tin, e tre volte, lasciando la prima lettera senza punti diacritici, sì
che possa leggersi f ovvero k, la fa seguire da quattro lettere - s tin, ovvero da
cinque - s n tin. La lezione f s tin potrebbe benissimo supporsi copiata dal nome
di Fotino; perocchè la s, che v'ha di più, si confonde spesso nei MSS. con un
frego di penna orizzontale che servisse di legatura tra due altre lettere. Ve n'ha
infiniti esempii nei MSS., e molti nelle iscrizioni lapidari, e in quelle ricamate su
drappi o rilevate su metalli.
407
Il Ducange, Glossarium mediæ et infimæ græcitatis, spiega la voce Σοΰδα
fossa sudibus munita, cioè fosso con palizzata. In Creta si addimandò Suda il
luogo ove posero il primo campo i Musulmani. Da χάραξ che significa lo stesso
in greco antico, prese nome un vicin promontorio. I Musulmani chiamarono il
campo loro, poi divenuto capitale, Khandak, che significa la stessa cosa.
408
Quest'ultima frase è data dal solo Nowairi. M. Caussin de Perceval, padre, che
il voltò in francese, e il Di Gregorio che lo ritradusse in latino, rendono quelle
parole un des principaux patrices ed ex præcipuis inter patricios. Ma la voce del
testo mokaddem significa precisamente "posto innanzi a tutt'altri" e indi
"condottiero, capo di parte." La parola seguente dice "dei suoi patrizii" riferendosi
il pronome relativo a Costantino. Pertanto mi par che si tratti certamente dei
patrizii siciliani. Debbo avvertire che la costruzione grammaticale del testo lascia
un po' dubbio se Eufemio fosse il caporione, ovvero uno dei caporioni.

265
provincia un de' partigiani suoi, barbaro, dicesi, di nazione
alemanna, forse Armeno409, per nome Palata410, cugino d'un Michele
che reggea la città di Palermo; ma i due congiunti, messe insieme
loro forze, disdiceano il nome d'Eufemio; movean contr'esso; e
vintolo in battaglia, uccisigli mille uomini ed entrati in Siracusa, ei
fu costretto a fuggirsi in Affrica con la gente che gli avanzava. Così

409
Ciò dal Nowairi. Il Caussin avvertì in nota che talvolta gli
scrittori arabi avessero disegnato col nome di Alemanni gli Italiani;
e allegò in esempio un passo di Abulfaragi, autore del XIII secolo.
Il Di Gregorio non ne volle altro per tradurre a dirittura quemdam
ab Italia oriundum. Ma tale interpretazione non può accettarsi. Gli
scrittori arabi chiamano ordinariamente gli Italiani Rûm, che vuol
dire anche Bizantini, e talvolta ci danno il nome di Ankabard,
talvolta di Franchi; confondendoci con le varie razze dei
dominatori. Non parlano poi dell'Italia come parte dell'Alemagna
altri scrittori che que' dei tempi di Federigo II imperatore, come
appunto Abulfaragi, ovvero più moderni, come Abulfeda. Questi
due, se non m'inganno, sono i soli autori arabi caduti in tale
equivoco, che non si può supporre affatto in uno scrittore del X o XI
secolo, come quello copiato da Nowairi. D'altronde è
probabilissimo che v'abbia un errore nel MS.; sì chè vi leggerei
Armeni, non Alemanni. I mercenarii di schiatta germanica non
aveano cominciato per anco a venire a Costantinopoli. Per lo
contrario gli Armeni erano frequentissimi nell'esercito bizantino.
Infine l'ortografia che troviamo in Nowairi non sarebbe corretta se
si trattasse di Alemanni; ma aggiugnendovi una r, lettera non legata
nella scrittura arabica e perciò facile a sfuggire, si avrebbe il nome
di Armeni.
Lo stesso errore si trova nei MSS. di Nowairi, là dov'ei dice venuto in Sicilia
l'828 col patrizio Teodoto un esercito, la più parte, di Alemanni. Quivi è evidente
che si debba leggere Armeni. Veggasi il cap. III del presente Libro.]
410
Questo nome, mancando di vocali brevi in tutti i MSS. che ho veduto, ha le
sole lettere B lât h. Credo non debba leggersi Platâh come han fatto M. Caussin e
il Di Gregorio; poichè gli Arabi non comincian mai le sillabe con due consonanti,

266
scrivono di seconda o di terza mano i citati cronisti411. Il Riadh-en-
nofûs, raccolta di biografie d'Affricani, compilata, come s'è detto
nella Introduzione, verso la fine del decimo secolo o nell'undecimo
al più tardi, sopra memorie scritte del nono, offre l'addentellato alla
riferita tradizione, e dà i nomi di Eufemio e del Palata; se non che
esclude il supposto delle incursioni d'Eufemio su la costiera
d'Affrica, o almeno porta a credere che fossero esercitate contro i
Musulmani di Spagna412.
Or i racconti che minutamente abbiamo esposto, messi al
cimento dalla critica, lungi dal contraddirsi a vicenda, s'attagliano
l'uno all'altro, meglio che non potrebbe aspettarsi in ricordi di
origine sì diversa e di una età sì povera di scritti istorici. E prima, il
nome del protagonista della rivoluzione siciliana concorda in tutti
gli autori: chè se Giovanni diacono il chiama Euthimio, questa voce
facilmente si potea confondere con Eufemio nella scrittura, e più
nella pronunzia413. Convengono alsì tutte le memorie su la
ribellione, la sconfitta, la fuga di Eufemio in Affrica: e l'Anonimo
salernitano che parrebbe men degno di fede, prova pure essergli
pervenuto qualche ragguaglio preciso, narrando la uccisione dello
stratego in Catania, che sappiam solo da Ibn-el-Athîr e da Ibn-
Khaldûn. Delle nozze con la suora o novizia, non pare nè anco da

e al certo, volendo trascrivere Plata, avrebbero messo avanti una alef, dando alla
voce la forma di Iblâtah. Del rimanente mal potremmo apporci al vero nome.
Forse è inesatta trascrizione del titolo di Curopalata, Palatino o simili. La
mutazione della b in p va bene, mancando nell'alfabeto arabico la seconda di
queste lettere.
411
Confrontinsi Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 122 verso; MS. C, tomo IV,
fog. 191 recto; Nowairi, presso Di Gregorio Rerum Arabicarum, p. 3, 4, e
versione del Caussin, p. 10, 11; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile,
trad. di M. Des Vergers, p. 103 a 105.
412
Riadh-en-nofûs, MS., nella vita di Ased-Ibn-Forât, MS., fog. 28 recto e verso.
413
Εὺφήμιος ed Εὺθὺμιος pronunziati Evfimios ed Evthimios, poichè in tutto il
medio evo, come in oggi, e anche nell'antichità, i Greci pronunziavano la η, come
la υ e l' ι; le quali lettere si trovano scambiate nella più parte dei MSS. Anche i
copisti greci soleano scrivere cotesti due nomi l'uno per l'altro, come si vede dal
Cedreno, edizione di Bonn, tom. II, p. 795.

267
dubitarsi; se non che questa va tenuta circostanza secondaria, anzi
pretesto della persecuzione d'Eufemio; poichè la corte bizantina, al
par di ogni altro governo dispotico e bacchettone, avea due misure
di morale: l'una larga pei principi e lor fautori, e l'altra rigorosa e
intollerante, adoperata quando ci entrava di mezzo il furore
teologico, la invidia o la nimistà politica. Politico del tutto fu
dunque il movimento d'Eufemio, come il dicono i due più antichi
scrittori, italiano e bizantino, Giovanni diacono e Simone maestro.
Più difficile a fissarne appunto la data. Que' due accennano
all'ottocentoventuno; e s'accorda con essi l'anno dell'egira segnato
dal Nowairi, e la probabilità grandissima che i capitani dell'esercito
siciliano si fossero sollevati, quando Tommaso di Cappadocia
chiarito ribelle in Oriente movea contro Costantinopoli; come già lo
stratego Sergio turbò l'isola quand'ei seppe Leone Isaurico assediato
dagli Arabi nella capitale. E che la ribellione di Sicilia fosse durata
cinque o sei anni, sarebbe tanto più verosimile, quanto Michele il
Balbo non ebbe mai forze da reprimerla. Nondimeno, io penso che
in quel movimento si debba supporre un intervallo nel quale la
Sicilia avesse riconosciuto il governo di Costantinopoli; poichè gli
Arabi nel loro ragguaglio sì particolareggiato e verosimile,
chiamano lo stratego ucciso da Eufemio con un nome e un
soprannome che ben s'adattano a Fotino, il quale fu promosso a
quell'officio verso l'ottocentoventisei, come si deduce dalla cronica
del Porfirogenito. E veramente nella scrittura arabica il nome di
Costantino non è molto dissimile da quell'altro; e come assai più
ovvio, dovea parer migliore lezione ai copisti. Al tempo stesso il
soprannome di Suda sembra coniato apposta per Fotino. Infine la
serie di fatti, che salta a piè pari il cronista palatino, par debba
riferirsi, come già notai, all'avolo di Zoe imperatrice.
Si potrebbe argomentare da tutto ciò che il movimento siciliano
avesse avuto due periodi; l'uno dalla esaltazione di Michele il Balbo
alla elezione di Fotino; l'altro dalla persecuzione d'Eufemio alla sua
fuga in Affrica. I quali due periodi, sì vicini tra loro, furono,
com'avvien sempre, confusi in un solo dalla tradizione verbale e dai

268
compendiatori; e in quel solo primeggiò il nome, rimase infame,
d'Eufemio: e il tempo si riferì dagli uni al principio, cioè
all'ottocentoventuno; dagli altri al fine, cioè all'ottocentoventisei.
Dall'ottocentoventuno all'ottocentoventicinque i condottieri ch'erano
arbitri della Sicilia, forse uccisero un primo patrizio Gregora o
Gregorio; forse Eufemio si prevalse, al par che gli altri capitani, di
quei turbamenti, ma non ne fu motore principale; forse i turbamenti
non trascorsero fino all'aperta ribellione; ovvero Michele il Balbo,
non potendo con un esercito, la represse con un finto perdono. Ma
Fotino mandato a dar sesto alla Sicilia, sendo favorito
dell'imperatore e spregiato dai soldati, prosontuoso e codardo, e
volendo fare ammenda della fuga di Creta con qualche grande
impresa di polizia in Sicilia, diè opera a spegnere i condottieri più
baldanzosi, tra i quali primeggiava Eufemio. In luogo di ricercare il
crimenlese, chè non si potea fare onestamente nè senza pericolo,
trovò un sacrilegio chiarito o incerto; trovò i fratelli della sposa,
tiranni domestici delusi, o pacifici cittadini ingiuriati da un soldato
che si fea lecito ogni cosa: e per tal modo, col manto della morale e
della religione, Fotino si provò a spezzar la prima verga del fascio.
Se non che l'accusato era in sull'armi; gli altri condottieri
s'accorsero dell'arte grossolana dello stratego, e videro il proprio
pericolo in quel d'Eufemio: donde raccesero immantinenti la
rivoluzione. Così mi raffiguro l'andamento dei fatti. Io pongo la
sollevazione militare contro Fotino nell'anno ottocentoventisei. La
sconfitta, la morte di costui, la effimera esaltazione di Eufemio, la
sollevazione di due altri condottieri contro di lui e il novello
combattimento di Siracusa, ond'ei fu costretto a fuggire, si debbono
credere per filo e per segno come li narrano gli Arabi, e collocare
nel medesimo anno ottocentoventisei. Soltanto aggiugnerei
ch'Eufemio, detto da Ibn-el-Athîr capitano di soldati d'armata, e da
tutti gli Arabi guerreggiante su le costiere d'Affrica, avesse dalla
parte sua le milizie siciliane che montavano l'armata dell'isola;
perchè, tra gli eventi di Costantinopoli e di Creta, non è da supporre
che venisse in Sicilia il navilio imperiale. Altri soldati del presidio,

269
stranieri e mercenarii, si sollevarono al certo con Eufemio; ma non
andò guari che i loro capitani, massime i due cugini alemanni o
armeni, non parendo loro aver guadagnato abbastanza, e corrotti
forse dall'oro imperiale, si rivoltarono contro il novello signore, e
gridarono il nome di Michele il Balbo. Riportarono la vittoria i
traditori; e nondimeno rimase ad Eufemio non poco séguito tra i
Siciliani, come lo dice espressamente la cronaca del Porfirogenito, e
come si vedrà ancora dalla narrazione degli Arabi. È indi manifesto
che i due elementi dai quali nacque il moto militare
dell'ottocentoventisei, tosto si separarono. Le armi mercenarie,
come pietra che si gitti in alto, ricaddero verso il loro centro di
gravità, ch'era il dispotismo di Costantinopoli. Le milizie siciliane
tentarono di spiccarsi dall'impero greco, sì come avean fatto un
secolo innanti quelle dell'Italia centrale; ma oppresse da forze più
ordinate, nè potendo trovar sostegno nello sfacelo della società
civile, si gittarono per disperazione al peggior partito: chiamarono
un potentato straniero; e affrettaron così la morte della nazione
greco-sicola, ch'era andata decadendo e consumandosi, ormai da
mille anni, dopo l'entrata di Marcello a Siracusa.

CAPITOLO II
In questo tempo la guerra civile posava appena nello stato
aghlabita, nè era spenta per anco a Tunis, principal porto di quello;
ma tal commozione, in luogo di portare spossamento e abbandono
come in Sicilia, avea raddoppiato l'attività della giovane colonia.
Tra gli uomini grandi che producea l'islamismo in sua virtù,
segnalavasi allora Abu-Abd-Allah-Ased-ibn-Forât-ibn-Sinân, cadi
della capitale, vecchio settuagenario. Oriundo di Nisapûr nel
Khorassân, e però di sangue straniero, era cliente costui della tribù
arabica dei Beni Soleim; era nato il centoquarantadue (759-60) ad
Harrân in Mesopotamia; e 'l padre venendo con l'esercito dei
Khorassaniti al racquisto dell'Affrica, l'avea recato bambino di due

270
anni a Kairewân. Fatto soggiorno in quella città, e indi a Tunis, e
divenuto colono, forse proprietario, Forât avea potuto dare al
figliuolo la dispendiosa educazione che s'apparteneva a
giureconsulto. Donde Ased, studiato il Corano in Affrica, ripartì a
diciott'anni per l'Arabia; ascoltò a Medina le lezioni di Malek-ibn-
Anas, famoso tra i dottori principi dell'islamismo; e venuto quegli a
morte, passò in Irak appo i discepoli di Abu-Hanîfa; e compiè poi
gli studii sotto Ibn-Kâsim, onor della scuola di Malek in Egitto414.
Pieno la mente di quegli alti pensieri dei dottori orientali, fece
ritorno Ased in Kairewân del settecento novantasette, e aprì scuola
di dritto leggendovi il Mowattâ del primo suo maestro e un comento
ch'ei par n'abbia fatto con la scorta d'Ibn-Kâsim; la quale opera, dal
nome dell'autore, fu addimandata l'Asediìa. Crebbe la sua
riputazione a tale, che in Affrica il tennero come dottore principe415.
Donde nei moti dell'aristocrazia contro Ibrahim-ibn-Aghlab (810-
811), un capo per nome Amrân-ibn-Mogiâled cercò di trarlo a sè
con lusinghe, poi con minacce; ma Ased troncò le pratiche
rispondendo ai messaggieri di Amrân, che s'egli fosse ito al campo
dei sollevati avrebbe gridato: «l'uccisore e l'ucciso cadranno
entrambi nel fuoco eterno416.» Da ciò si vede che, al par degli altri
giureconsulti d'Affrica, abborriva sì la guerra civile, ma non
parteggiava punto per Ibrahim. Ma quando Ziadet-Allah, tra' due
bocconi amari che gli eran porti, amò meglio ingozzare
l'opposizione legale dei dotti che la violenza delle milizie, chiamò
Ased-ibn-Forât l'anno dugentotrè (818-19) a cadi di Kairewân;
persuaso, dicono le biografie, dalle assidue esortazioni d'un Ali-ibn-
Homeila; e non veggono che il motivo del consigliere e del principe

414
Riadh-en-nofûs, MS., fog. 26 recto; Ibn-Abbâr, MS.,fog. 148 verso.
415
Riadh-en-nofûs, e Ibn-Abbâr, II. cc.
416
Questo fatto si ritrae da Ibn-Khaldûn, il quale con lieve anacronismo intitola
Ased cadi in quel tempo, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, ediz. di M. Des
Vergers, testo p. 35, e versione p. 92, dove mi par che debba sostituirsi la voce
minacce alla frase offrir des présents. In luogo di Mogiâled forse si dee leggere
Mokhâled, secondo il Nowairi, Conquête de l'Afrique, in appendice alla Histoire
des Berbères par Ibn-Khaldoun, trad. di M. De Slane, tomo I, p. 400 e 405.

271
era di dare un'arra di conciliazione alla parte moderata, nella quale
primeggiava di certo Ased. Ziadet-Allah, non volendo punto
deporre l'antico cadi, Abu-Mohriz-Mohammed, uom dotto e pio e
particolarmente riverito da lui, sforzato quasi a dar la suprema
magistratura ad Ased, glielo aggiunse nell'uficio; talchè si videro,
con esempio unico o rarissimo, due cadi d'una medesima scuola
nella stessa città417. Tal magistrato fu di grande momento nel nono
secolo, quando lo innalzarono a splendore le riforme di Harun-
Rascid418 e la crescente civiltà; e quando i principi musulmani non
avean per anco ministri di Stato ordinarii e permanenti, e gli
interpreti della legge divina s'arrogavano di regolare tutte le umane
faccende. Così veggiamo i due cadi del Kairewân fare or da giudici
civili e criminali, or da padri spirituali di Ziadet-Allah; da assessori
del santo ufizio che venía già in voga appo i Musulmani419, e da
consiglieri di stato. Ben avvenne che interrogati da Ziadet-Allah, sul
caso di un zindîk, o, diremmo noi, miscredente che dovea
sentenziarsi dal principe, Ased e Abu-Mohriz oppugnassero insieme
l'avviso d'un terzo giureconsulto, il quale volea a dirittura la morte
dell'accusato: e i due cadi vinsero appo Ziadet-Allah il partito di

417
Il fatto della elezione e di chi la consigliava si legge nel Riadh-en-nofûs, MS.,
fog. 28 recto. Vi si nota altresì che avanti Ased e Abu-Mohriz non si fossero mai
visti due cadi a un tempo in una capitale. Parmi che nè anco se ne incontri
esempii altrove. Vi furon bene nei tempi posteriori in una stessa città quattro cadi,
ma delle quattro scuole diverse che viveano insieme in pace. Il Baiân, tomo I, p.
89, porta anco la destinazione di Ased a cadi l'anno 205, e la novità dell'esempio.
418
Harun-Rascid riordinò la magistratura e istituì il Kadi-'l-Kodâ, ossia cadi dei
cadi, supremo giustiziere dello Stato, sedente nella capitale. Verso quel tempo i
magistrati e giuristi ebbero una divisa lor propria. Veggasi Hamilton, Hedaya,
tom. I, p. XXXIV.
419
Al dire d'Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 29 verso, il califo Mehdi, nella
fierissima sua persecuzione contro i Zindîk in Oriente, creò un inquisitore
apposta, intitolato Sâheb-ez-zenâdika, l'anno 198 (794-5). Furonvi molti mandati
al patibolo e gran copia di libri dati alle fiamme. Zindîk significa in generale
miscredente, scettico, ateo; ma par che in principio questa appellazione siasi data
ai Manichei, forse anche ai Guebri, e si vuole nata dal nome del linguaggio zend e
del libro sacro degli antichi Persiani, il Zendavesta.

272
perdonargli, pentendosi; il che quel virtuoso scettico ricusò420. Ma
del rimanente i due giuristi, poco diversi per età e dottrina e
discepoli entrambi di Malek, discordavano sempre, forse per
gelosia, certo per indole; per l'animo forte dell'uno e pauroso
dell'altro; per lo veder chiaro e lontano del primo e gli scrupoli del
secondo. Il dissoluto e crudele Ziadet-Allah richieseli una volta su
la misura di voluttà che gli fosse lecita nel bagno; e Ased pensando
che il Corano concedeva il più, non volle contendergli il meno; ma
Abu-Mohriz, con una distinzione degna del Padre Sanchez, seppe
trovar pronto il peccato e accrescere a sè medesimo la riputazione di
santo421.
Rifulse in ben altro caso la virtù di Ased. S'eran levate in arme
contro Ziadet-Allah, come già narrammo (825), tutte le milizie
d'Affrica; e capitanate da Mansûr Tonbodsi, avean messo il campo
sotto Kairewân; chiamavano i cittadini a seguirle nella ribellione.
Usciti allora a parlamentare i due cadi e condotti dinanzi a Mansûr
che sedea tra i caporioni dell'esercito: "Su," diss'egli ai cadi "siate
con noi, s'egli è vero che questo tiranno vi sembri il flagello dei
Musulmani!" "È vero: ed anco dei Giudei e dei Cristiani,"
rispondeva tremando Abu-Mohriz. Ma Ased: "Non eravate voi
stessi," proruppe "non eravate poc'anzi i suoi partigiani e fratelli?
Com'è che adesso ci richiedete di amistà contro di lui, quando nè
egli nè voi avete mutato costumi? Ah no: se noi bastammo a tenerlo
a segno quand'egli aveavi intorno, tanto meglio il faremo or ch'è
solo." A queste parole scoppiò una tempesta nel campo. I più feroci
corsero addosso ad Ased e al compagno, sì che a mala pena
420
Riadh-en-nofûs, MS., fog. 29 recto. Quivi si nota che i due cadi seguirono la
opinione dei giuristi dell'Irak e l'altro consultore quella dei giuristi di Medina.
Que' discepoli di Malek si appigliarono dunque alla decisione più mite di Abu-
Hanîfa più tosto che a quella del loro maestro. Su la prima veggasi l'Hedaya,
tomo II, lib. IX, cap. IX, p. 225. La seconda è sostenuta dal compilatore del
Riadh-en-nofûs, scrupoloso Malekita.
421
Riadh-en-nofûs, MS., fog. 28 verso. Il caso di coscienza era: an fas esset
balneum intrare cum cunctis pellicibus suis nudis. Abu-Mohriz sostenea esser
lecito al signore di guardarle da capo a piè, ma non ad esse quod vicissim
pudenda conspicerent.

273
rifuggironsi in città. E i cittadini non ascoltaron quel grande 422: tra le
ire della rivoluzione e i rancori del principe che la spense, par che
Ased per brev'ora sia venuto in uggia agli arrabbiati delle fazioni
estreme. E forse fu in questo tempo, e favellando per beffa a
qualche sciocco il quale si credea da più di lui perchè più forte
gridava, che Ased si vantò della eccellenza dei suoi nomi proprii.
"Io son Ased" disse (che significa lione), "e quale belva non cede al
lione? Figliuol son io di Forât" (così pronunziavano la voce
Eufrate), "nè altro fiume ha miglior acqua. L'avol mio appellossi
Sinân" (ch'è de' nomi della lancia), "e questa è in vero fortissima tra
le armi423." D'altronde, coteste millanterie erano in voga appo gli
Arabi, e ve le manteneano le tradizioni poetiche di lor gente. E
Ased, ancorchè d'origine straniera, n'era imbevuto, com'uom di
lettere ed erudito ch'ei fu, anche meglio che giureconsulto, come
pretende un biografo424. Più che la coltura e la dottrina, la storia dee
notare in lui il gran pensiero di racchetare l'Affrica portando la
guerra in Sicilia, e la forza d'ingegno e d'animo con che vinse tal
partito, e lo mandò ad effetto ei medesimo, a prezzo della propria
vita425.
Giunto Eufemio su la costiera d'Affrica, mandava incontanente a
Ziadet-Allah in Kairewân a chiedere aiuti, e offrirgli la sovranità
della Sicilia426; in questi termini: ch'ei medesimo tenesse l'isola con
titolo e insegne d'imperatore, e ne pagasse tributo al principe
aghlabita427. L'uscito faceva assegnamento sugli avanzi dell'armata
422
Riadh-en-nofûs, MS., fog. 28 recto.
423
Ibn-Abbâr, MS., fog. 148 verso.
424
Ibn-Abbâr, loc. cit.
425
La biografia di Ased si ritrae tutta dal Riadh-en-nofûs e da Ibn-Abbâr, che ho
citato. M. Des Vergers, in nota a Ibn-Khaldûn, p. 105, ne ha fatto un cenno preso
dalle medesime sorgenti; dal quale se io differisco in qualche parte, è che mi è
parso interpretare in altro modo i testi e i fatti. Il Conde, Dominacion de los
Arabes en España, parte I, cap. 75, ha tradotto, al solito suo con errori, lo
squarcio di Ibn-Abbâr. Tra gli altri, ei fa Ased congiunto (deudo) di Ibrahim-ibn-
Aghlab.
426
Ibn-el-Athîr, MS. A, tom. I, fog. 123 recto; MS, C, tom. IV, fog. 191 recto.
427
Theophanes continuatus, lib, II, cap. 27, p, 82.

274
siciliana che lo seguitavano, e su i molti partigiani lasciati nell'isola;
e fidavasi spezzare le armi del Palata con le armi affricane, e di
coteste poi disfarsi con quante magagne gli offrisse il caso o
l'ingegno suo. E così pensan sempre i deboli mettendosi a scherzare
coi forti; e i più avventurati, come fu Eufemio infino alla sua morte,
riescon sì ad aggiustare qualche parte di lor macchina; ma, presto o
tardi, necessariamente succede un contrattempo che fa rovinare il
tutto, e dà l'acquisto a chi ha in mano la possanza. Da un altro canto,
com'e' pare, sbarcavano in Affrica oratori del Palata, mandati a
studiare il disegno del nemico428: e Ziadet-Allah pendeva irresoluto.
Nondimeno adunò a parlamento i notabili del paese, tra i quali fu
disputato a lungo su la giustizia e utilità di quella guerra. Ingiusta
pareva ai più, reggendo tuttavia la tregua dell'ottocentotredici; ma
rispondeasi essere stata violata da' governanti della Sicilia,
ritenendo prigioni parecchi Musulmani, com'aveva affermato
Eufemio a Ziadet-Allah. Consultati su tal dubbio i due cadi, Abu-
Mohriz avvisava si pigliasse tempo a chiarir meglio il fatto; Ased,
all'incontro, volea che lì lì se ne domandasse ai medesimi oratori di
Sicilia. "E come crederemo" ripigliò Abu-Mohriz "a ciò che diran
costoro a carico o a difesa di sè stessi?" E Ased a lui: "Su le parole
degli ambasciatori fermossi già la tregua, e su lor parole si
spezzerà." E focoso continuava: "Non vi sbigottite, o Musulmani,
ha detto il sommo Iddio, non vi sbigottite; chiamate le genti
all'islam, e avrete il primato sopra di quelle! Ubbidiamo dunque al
divin precetto, in vece d'appigliarne sì tenacemente alla tregua con
gli Infedeli, e rimarremo al di sopra!" Mutato per tal modo da Ased
il centro della quistione, e messo innanzi un argomento al quale
niun Musulmano potea dir contro, Ziadet-Allah interrogò gli oratori,
tra i quali si trovava, forse da interprete, un Musulmano; i quali
risposero: "È vero, sono stati imprigionati i vostri in Sicilia, ma a

428
Si ritrae dalla discussione di dritto riferita nel Riadh-en-nofûs; poichè gli
ambasciatori dei quali vi si fa menzione non poteano esser que' di Eufemio,
sostenendo non essere stata violata la tregua dal governo di Sicilia.

275
ragione; poich'essi non se ne andarono a tempo debito429." Così non
sinceraronsi punto i dotti musulmani della infrazione della tregua,
nè cessarono di ripugnare alla guerra di Sicilia430: ma il pretesto
v'era; il fanatismo religioso e le cupidigie mondane gli dettero forza
di ragione; e il principe, i guerrieri, il popolo trovarono, senza
meno, che il solo Ased intendesse bene la legge.
Fu discorsa insieme la utilità della impresa. Messo da altri il
partito di infestare la Sicilia, senza farvi stanza nè porvi colonie,
levossi a contraddirlo un Sehnûn-ibn-Kâdim. "Quanto v'ha,"
dimandava costui "tra la Sicilia e l'Italia?" "Si va e viene due o tre
volte dal levare al tramonto del sole," gli risposero. "E tra la Sicilia
e l'Affrica?" ripigliò; e quelli: "V'ha un giorno e una notte di
viaggio." "Oh, se pur avessi l'ale, non vorrei volar su quest'isola,"
conchiudea Sehnûn; scherzando sul proprio nome che si dà in
Affrica a un uccello assai scaltrito. Quest'arguzia per altro non
giovò. I più, a una voce, deliberarono la guerra; ma d'incursione,
non di conquisto431.
Allora Ased, che non si era tanto affaticato per una scorreria,
pensò di portarla dassè al fine che si proponea, non ostanti tutti i
dottori; e indi si fece, senza rispetti, a chiedere il comando dell'oste
429
Soleiman-ibn-Amrân, presso il Riadh-en-nofûs, fog. 28 recto. Soleiman sedè
tanto in questa adunanza, quanto in quella dell'813, nella quale era stata
promulgata la tregua. Il versetto del Corano citato da Ased è il 133 della sura III;
ma il testo che corre oggidì ha una lezione inferiore d'assai alla variante di Ased,
dicendo più rimessamente: "Non vi sbigottite nè vi attristate; chè avrete il
primato, se sarete credenti." Il patto della tregua, come lo riferisce lo stesso
Soleiman (veggasi il Lib. I, cap. X, p. 229) portava assolutamente l'obbligazione
di lasciare andar liberi dalla Sicilia tutti i Musulmani che il volessero. Tuttavia è
probabile che si fosse stipolata, per reciprocità, qualche clausola analoga a quelle
della legge musulmana. Secondo questa uno straniero infedele venuto a mercatare
come Mostamîn, ossia guarentito da una permissione in buona forma, può
dimorare un anno senza molestia. Scorso il qual tempo, è costretto a pagare la
gezia come gli dsimmi, ossiano sudditi infedeli, e dopo qualche tempo può essere
al par di quelli ritenuto nel paese. Veggasi Hamilton, Hedaya, lib. IX, cap. VI.
430
Ahmed-ibn-Soleiman, presso il Riadh-en-nofûs, fog. 28 recto.
431
Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 4. Il personaggio di cui si
parla è diverso dal celebre giurista contemporaneo, Sehnûn-ibn-Sa'id.

276
che ambivano parecchi altri uomini di maggior seguito per nobiltà
di schiatta ed esperienza di guerra. E non curando Ziadet-Allah tal
novella ambizione del giurista, forse facendosene beffe, quegli si
volse al popolo, e andava brontolando: "Ve' che non mi vogliono,
perchè mi tengono uom da nulla! Han saputo ben trovar nocchieri
che governino le navi; che bisogno or hanno di chi le faccia andare
secondo il Corano e la Sunna432?" Ma tanta riputazione ebbe Ased
nell'universale dei cittadini da lui esortati e infiammati alla guerra
sacra, che Ziadet-Allah piegossi, con tutta quell'indole sua
imperiosa, e fece ammenda della passata ripugnanza.
Appresentatoglisi Ased, e chiestogli che, secondo, i sacri statuti, or
che l'avea fatto capitano, lo deponesse dal magistrato: "Non fia
mai» rispose il principe, "ch'io te ne rimuova. Ben v'aggiungo
l'officio di capitano che è di più alto grado, ma vo' che tu ritenga
anco il primo, e che sii detto cadi emiro." E così fu fatto, continua il
cronista contemporaneo Ahmed-ibn-Soleiman, nè mai s'è visto
prima nè poi nello Stato d'Affrica cumulare in una persona quelle
due dignità433.
Si allestiva in questo mentre l'armata nel porto di Susa,
ov'Eufemio fu mandato ad aspettare con le sue genti434. Quando
ogni cosa trovossi in puntò, data la posta all'esercito a Kairewân,
Ased movea con quello alla volta di Susa; e all'uscita della città
l'accompagnavano, per fargli onore, i primarii tra i dotti con la
gemâ', ossia municipalità, e tutta la corte del principe; che Ziadet-
Allah non volle che rimanesse addietro alcun de' suoi famigliari. A
Susa poi si fece la mostra dell'oste. Narra un testimonio di presenza
che Ased, commosso dal nobile spettacolo, gli squadroni schierati
in faccia, a tergo e ai fianchi, il volteggiare, delle bandiere al vento,
l'annitrio dei cavalli, il frastuono dei tamburi, fatto silenzio, orò in
queste parole: "Non v'ha altro Dio che il Dio uno, il Dio che non ha
432
Soleiman-ibn-Amrân, presso il Riadh-en-nofûs, MS., fog. 28 recto. Il Baiân,
tomo I, p. 95, dice più brevemente che Ased si presentò come candidato a Ziadet-
Allah, e fu accettato.
433
Presso il Riadh-en-nofûs, MS., fog. 28 verso.
434
Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 4.

277
compagni. Affè di Dio, valorosi guerrieri, nè avolo nè padre ebbi io
che mi lasciassero signoria435, e pur uomo al mondo non fu mai
onorato di eletto séguito al par di questo; nè lo spettacolo che ci sta
dinanzi agli occhi io l'ho visto mai, fuorchè negli scritti. Su, dunque,
sforzate alacremente gli animi, affaticate i corpi nel cercare scienza,
e fatene tesoro, nè siatene sazii giammai, nè mai vinti da' travagli
ch'ella v'arreca, e sappiate che ne conseguirete il guiderdone in
questa vita, e in quella ch'è da venire436." Nè ci danno altro della
orazione di Ased i biografi, eruditi che ne presero quel tanto che lor
pareva onorasse il mestiere; come i frati cronisti del medio evo
notavan solo dei principi il bene o il male fatto al monastero.
Duolmi pertanto non avere ricordi più larghi, e dover sopperire con
gli sforzi delle generalità, le quali se bastano a tratteggiare i tempi,
mal ci aiutano a delineare le fattezze degli uomini, in cui la natura è
sì svariata e capricciosa. E veramente da quelle parole di Ased
trapela la vanità dell'uomo nuovo e l'orgoglio del dotto, e par vedere
Cicerone pavoneggiarsi con la corazza indosso; ma son soppressi al
certo, come cosa di minor momento, gli alti sensi che resero sì
potente Ased nel tumulto degli animi della colonia, dico il fervore
religioso e militare, la virtù del primo secolo dell'islamismo, al
quale tornavan sempre col pensiero i giureconsulti di quel tempo, e
forse Ased sopra ogni altro. Notevol è che il conquisto di Sicilia,
promosso da questo grande, fu l'ultimo al tutto della schiatta
arabica, e l'ultimo dello islamismo in Ponente. In Levante, le
insegne dell'islam s'eran anco soprattenute da cento anni, nè
ripigliarono la via dei conquisti che lunga pezza appresso, in mano
della schiatta turca: sopra l'India, cioè, nello undecimo secolo, coi
Gaznevidi; sopra l'Europa, nel decimoquinto, con gli Ottomani.

435
La voce che rendo "signoria" è wilâia e welâia, che significa l'autorità del capo
di famiglia o tribù, d'indole diversa, come ognun sa, dalla signoria dei baroni nel
medio evo. Avrei tradotto "clientela," se questa voce, posta assolutamente, non ci
avesse trasportato a Roma antica, e dato così un significato assai più lontano.
436
Sceikh anonimo, citata da Abu-'l-Arab, scrittore della prima metà del X
secolo, presso il Riadh-en-nofûs, MS., fog. 28 verso.

278
CAPITOLO III.
S'era adunato al bando della guerra sacra il fior de' guerrieri
musulmani dell'Affrica: Arabi, Berberi, soprattutto della tribù di
Howâra437, rifuggiti Spagnuoli e il giund, frequentissimo di Persiani
del Khorassân438; e tra tutti notavansi molti uomini di dottrina e di
consiglio439. Sommò lo esercito a settecento cavalli e diecimila
fanti; il navilio a settanta o secondo altri cento barche, senza
noverarvi l'armatetta d'Eufemio440. Sciolsero dal porto di Susa441 il
quindici di rebi' primo dell'anno dugentododici dell'egira442, che
torna al tredici giugno ottocentoventisette; e drizzandosi alla più
vicina punta della Sicilia, posero a terra le prime navi, il sedici
giugno, a Mazara, ov'Eufemio avea partigiani, o volle schivare il
Lilibeo come città assai munita. Ased, fatti sbarcare immantinente i
cavalli, soprastette tre dì, attendendo forse il rimanente delle navi;
nè fu sturbato, se non che capitò una torma di cavalli degli aderenti
di Eufemio; i quali il cadi fece pigliare e rilasciolli poichè li ebbe
437
Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, versione di M. De Slane, tomo I, p. 277, e
testo arabico tomo I, p. 179. Vi è nominato un condottiero di questa tribù che
combattè in Sicilia, Zowâwa-ibn-Ne'am-el-Half.
438
Ciò si ricava dal fatto che ho narrato nel Lib. I, cap. VI, p. 142.
439
Baiân, tomo I, p. 95.
440
Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 4. Il Baiân, l. c., dice 700
cavalli, e grandissimo numero di fanti; Ibn-Abbâr, MS., fog. 148 verso, 10,000
uomini, dei quali 700 cavalli; Abu-'l-Arab, citato nel Riadh-en-nofûs, MS., fog.
28 verso, dà ad Ased 10,000 cavalli; Ibn-Wuedran, MS., § 1, e versione francese
di M. Cherbonneau, Revue de l'Orient, décembre 1853, p. 424, citando Ibn-
Rascîk, autore dell'XI secolo, dice che l'esercito sommò a un dipresso a ventimila
uomini; Ibn-abi-Dinâr (El-Kaïrouani), versione francese, p. 83, a un dipresso a
diecimila.
441
Abulfeda, Geographie, versione francese, tomo II, p. 199; Tigiani, nel Journal
Asiatique, août 1852, p. 104; Ibn-abi-Dinâr, loc. cit.
442
Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 4. Ibn-el-Athîr e Ibn-
Khaldûn portano la sola data del mese. Nowairi fa cadere il 15 rebi' 1° (16 è
errore corso nella versione di M. Caussin e del Di Gregorio) in giorno di sabato.
Fu veramente un giovedì. Il Rampoldi fa combattere due battaglie navali in
questo passaggio; la origine del quale errore si vegga nel capitolo seguente, p.
287, nota 2.

279
conosciuto443. Pur non fidandosi di Eufemio, quando fu ora di venire
alle mani, chiamatolo a sè, gli dicea breve: non aver mestieri di
ausiliarii; si mettesse in disparte con le sue genti; ma pigliassero una
divisa per distinguersi da' nemici, perchè i Musulmani per errore
non li offendessero. E così furono costretti a fare. Un ramoscello di
pianta salvatica, messo per fregio all'elmetto444, notò cotesti
sventurati che non avean più amici nè patria, nè altra bandiera che
della privata vendetta: messi per primo supplizio a guardare con la
braccia incrocicchiate il successo della battaglia.
Decisiva la battaglia che sovrastava; poichè trovandosi i
Musulmani su la costiera, e avendoli aspettato lungamente il Palata,
e ragunato tutte le forze dell'isola, delle due cose dovea seguir l'una,
o ch'ei li rituffasse in mare, o che sconfitto da loro lasciasse l'isola
senza difese. Capitanava cencinquanta mila uomini, dicono certi

443
Nowairi, loc. cit.
444
Riadh-en-nofûs, MS., fog. 28 verso; Ibn-Khaldûn, Histoire de
l'Afrique et de la Sicile, pag. 106. M. Des Vergers, secondo il MS.
di Parigi ha tradotto questo passo: «Les Arabes se tenaient d'abord
(par défiance) a l'écart du chef de l'île et des Grecs de son parti;
mais s'étant ensuite réunis, ils mirent en fuite Palata et son armée,
dont ils pillèrent tous les bagages.» Ma la lezione del MS. di Parigi
è manifestamente erronea, e va corretta con quella di un MS. di
Tunis, del quale io ho alcuni estratti. Indi convien tradurre: «Il
Palata venne alle mani con gli Arabi; i quali fecero mettere in
disparte il capo (Eufemio) e tutti gli altri Greci che (insieme con lui)
li avean chiamato in aiuto contro il Palata e sua fazione. Sconfitto il
Palata e i suoi, gli Arabi fecero bottino della roba loro, e il Palata
fuggissi.»
Ibn-el-Athîr e Nowairi dicon solo del comando dato di mettersi in
disparte: e l'ultimo aggiugne che Ased «non volle aiuto da lui.»
Questa è la frase che il Di Gregorio, guastando testo e versione
francese, rese in latino: eorum etenim fidem expertus non fuerat.
Secondo il Riadh-en-nofûs, la divisa fu un poco di Hascisc, che in generale
significa "erba secca," e anche pianta.

280
cronisti musulmani, per non restar di sotto agli scrittori cristiani che
lor n'han fatto uccidere trecentomila da Carlo Martello a Tours: pur
senza dubbio l'oste siciliana avanzava molto di numero quella di
Ased445. Saputo che il Palata si fosse venuto a porre in una pianura
che prese il nome da lui446 il cadi usciva in ordinanza da Mazara447
il quindici luglio448 e schierò l'oste musulmana a fronte alla greca.

445
Soleiman-ibn-Sâlem, presso il Riadh-en-nofûs, loc. cit., con la salvaguardia
d'un "si dice." Replicarono questa esagerazione. Ibn-Rascîk, citato da Ibn-
Wuedran e Ibn-abi-Dinâr che lo copia.
446
Nowairi, loc. cit. Moltissimi luoghi in Sicilia chiamansi Balata, che è la voce
latina platea, guasta dagli Arabi nel suono e nel significato, e in oggi nel dialetto
dell'isola significa "pietra da lastrico," e altresì "pietra viva e liscia, non tolta per
anco dal monte." Pertanto, non sapendosi nè donde venisse il Palata, nè a quanta
distanza l'andasse a incontrare Ased, sarebbe difficile determinare il luogo della
battaglia, anche supponendo che ritenga tuttavia il nome. Nondimeno v'ha a sei
miglia da Mazara un promontorio, detto da Edrisi Râs-el-Belât, e in oggi capo
Granitola o punta di Sorello, che si stende in una vastissima pianura in parte
paludosa, margiu, come noi diciamo in dialetto. La uscita di Ased da Mazara in
ordinanza e la ritirata dell'esercito siciliano verso Castrogiovanni convengono
benissimo ad una battaglia data in quella pianura. M. Famin, Histoire des Inva-
sions des Sarrazins en Italie, tomo I, p. 150 in nota, promette dimostrare in
appresso che la battaglia si diè a Platani, castello distrutto. Gli argomenti suoi,
che non conosciamo per anco, possono esser due: la vicinanza del luogo e la
somiglianza del nome. Ma il luogo è lontano da Mazara cinquanta miglia, e
secondo Edrisi dovrebbe dirsi 70; il che non si accorda con la marcia in
ordinanza. Il nome è diverso; poichè gli Arabi, Nowairi con gli altri, nominando
quel castello di Platani che si arrese ai Musulmani l'840, scrivono Iblâtanû, non
già Belât.
447
Il testo del Nowairi dice che Ased uscì di Mazara 'alâ ta'bia per andare a
trovare il Palata nella pianura Palata o Balata. M. Caussin, padre, prese ta'bia per
nome di luogo, e tirossi dietro il Di Gregorio, che per giunta soppresse nel testo la
preposizione 'alâ, che vuol dire: "sopra, in, in stato di." Indi tradussero, l'uno:
marcha vers Taabia; e l'altro: progressus exinde fuit ex Mazara ad Taabiam. Ma
ta'bia significa "schiera, ordinanza, ordine di battaglia;" e il Nowairi un rigo sotto
replica il verbo 'aba, dal quale viene tal voce; oltrechè se si trattasse di nome di
luogo qualunque arabo gli avrebbe messo innanzi la preposizione ila, "verso, alla
volta di," e non già 'alâ. Ibn-el-Athîr usa anch'egli in altro caso della guerra di
Sicilia la voce ta'bia nel senso di schiera, ordinanza. Però non v'ha il menomo

281
Aspettò, secondo il costume degli Arabi449, la carica de' nemici:
tutto solo innanzi le file tenendo in alto il pennon del comando,
ripetea sottovoce il capitolo Ja-Sin, il cuor del Corano, come lo
chiamò Maometto, lugubre preghiera che suolsi recitare ai
moribondi. Così tre secoli appresso stava il gran Saladino nei campi
di Siria all'appiccar della zuffa. Ma a vedere un uomo incanutito su i
libri e nel fôro incontrar sì securo le lance bizantine, dovea parer
miracolo ai guerrieri affricani. Mentre ci tremava il cuore in petto,
scrive un di loro per nome Ibn-abi-'l-Fadhl, mentre ci tremava il
cuore per Ased, ei fornì tutta la sua prece, e a un tratto volgendosi a
noi: "Son questi," disse, "i medesimi Barbari della costiera
d'Affrica; i vostri schiavi! Non li temete, o Musulmani!" E sparve il
campo di mezzo: e Ased trovossi avvolto il primo tra gli squadroni
nemici. N'uscì tutto intriso del sangue che gli scorrea per l'asta della
lancia, lungo il braccio e infino all'ascella, afferma il narratore
maravigliato dalla fierezza del vecchio cadi450. Di quella degli altri,
ch'era virtù comune tra gli Arabi, non ne fa motto alcun dei cronisti;
e descrivono questa giornata, come cento e cento altre, tutti con una
diceria: che aspra fu la mischia; che Dio dissipò i nemici; che
grandissima preda fecero i Musulmani, di cavalli, ricchezze,
bagaglio; che menarono strage degli Infedeli. Il Palata rifuggissi a
Castrogiovanni, ove, non tenendosi sicuro, passò in Calabria, e fu

dubbio alla correzione che io fo: "Indi Ased cavalcò in ordinanza da Mazara per
andare a trovare il Palata, il quale stava in una pianura che ebbe lo stesso nome di
lui."
448
Così pare, poichè sappiamo dai Musulmani lo sbarco il 13 giugno, e la
Cronica di Cambridge, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 41, porta la
occupazione dell'isola a mezzo luglio 6335, notando, com'è probabile, lo evento
più segnalato, che fu questa battaglia.
449
Oltre i molti esempii nelle battaglie, questa usanza è attestata nella Tattica
dell'imperatore Leone, versione francese, p. 122.
450
Presso il Riadh-en-nofûs, l. c. L'autore aggiugne il comento che "Barbari della
costiera" alludesse a que' che avean preso la fuga nella prima battaglia data da'
Musulmani in Affrica. Forse fu questa ricordanza che suggerì di dare 150,000
uomini al Palata, come se n'erano supposti 120,000 nell'esercito di Gregorio.

282
morto451. Donde si vede che la sconfitta, com'avviene sempre
quando il popolo diffidi dei governanti, produsse incontanente
nuove turbolenze tra le soldatesche e nelle città: ma nulla v'approdò
la parte d'Eufemio, che si era infamata chiamando i Musulmani.
Il vincitore intanto tirava a dirittura vêr la capitale. Lasciato
presidio a Mazara sotto un Abu-Zeki della tribù di Kinâna, e
occupate varie altre castella che assicurassero la linea d'operazione
dell'esercito, Ased ratto percorse la strada romana della costiera
meridionale, com'ei pare, fino alla foce del Salso o poc'oltre; donde
poi pigliò la via dei monti che mena a Siracusa per Biscari,
Chiaramonte e Palazzolo, l'antica Acri452. Quanti Siciliani non
451
La ritirata del vinto a Castrogiovanni è riferita dal Nowairi, presso Di
Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 5. Il rimanente da Nowairi stesso; Ibn-el-Athîr,
MS. A, tomo I, fog. 123 recto; MS. C, tomo IV, fog, 191; Ibn-Khaldûn, Histoire
de l'Afrique et de la Sicile, p. 106.
452
Il solo Nowairi, l. c., indica il cammino tenuto dall'esercito
musulmano pria che giugnesse ad Acri. Ei ne nomina due luoghi
soli, il primo dei quali basta al proposito nostro, poichè si dice
espressamente posto sul mare. E veramente il più breve e facile
viaggio da Mazara a Siracusa corre lungo la marina fino a
Terranova, e di là continua tra i monti quasi in linea retta. Secondo
l'Itinerario d'Antonino, questo viaggio seguirebbe in parte il primo,
e in parte il secondo dei sentieri di posta dei Romani tra Girgenti e
Siracusa; l'uno dei quali costeggiava sempre il mare, e l'altro mai
nol toccava. Il punto di ravvicinamento di questi sentieri era nelle
poste di Plaga Calvisianis del primo, ed Hybla Haerea del secondo,
situate l'una presso Terranova, e l'altra presso Chiaramonte; tra le
quali due stazioni l'Itinerario non segna strada; ma v'ha oggi, e di
certo non mancava al tempo dei Romani.
Determinata così con certezza la marcia di Ased, ci rimane a trovare
i due punti di questa linea nominati dal cronista. Dell'uno ei dice
che fu "la Chiesa di Eufemia, quella ch'è in sul mare." Qui in luogo
di Eufemia leggerei Finzia; perchè questo nome nella scrittura
arabica differirebbe poco dal primo; e sopratutto perchè la stazione
più notabile del detto viaggio era appunto Licata, l'antica Phinthia,

283
perdettero l'animo al primo disastro, avean raccolto ad Acri, credo
io453, le poche armi che rimaneano nell'isola; e speravano, tra la
fortezza del luogo e l'astuzia, intrattenere l'esercito musulmano,
tanto che si munisse Siracusa. Però, appressandosi Ased, vennero a
trovarlo oratori, dei primarii del paese, con lor fole di accordo: che
sottometterebbersi e pagherebbero la gezîa, purch'egli non andasse
oltre. E Ased, raggirato, al dir dei cronisti arabi, soprastette alquanti

fabbricata sopra una rupe ch'esce in penisola alla foce del Salso.
Il secondo nome geografico si legge in vario modo nei due MSS. di
Nowairi; dei quali il più corretto ha: "La Chiesa di elm s l kîn"
(senza vocali brevi), e l'altro di: "elsci l kîn." Invano ho cercato
nella geografia antica, arabica, o moderna, qualche nome che
somigli a cotesto. Pur dalla narrazione di Nowairi argomenterei
volentieri che il sito fosse il promontorio ch'or si chiama la Pietra di
San Nicola, tra Licata e Terranova, il quale nello Itinerario
d'Antonino è chiamato Refugium Gelæ, e posto a cinque miglia
romane a levante da Licata, e in Edrisi ha nome di Marsa-es-Sceluk
ad otto miglia arabiche dalla foce del Salso. Non manca qualche
debole assonanza tra i nomi.
La conghiettura che si trattasse di Sciacca non mi par che regga. Oltrechè questo
nome è al certo arabico, e però posteriore all'evento; e oltre ch'è assai diverso da
quello dei MSS., Sciacca si trova troppo presso al luogo donde partiva Ased, e
troppo lungi da Siracusa. D'altronde, il solo autore di quella conghiettura, M.
Caussin padre, la ritrattò nella versione francese del Nowairi, pubblicata da lui
stesso. Veggasi la p. 14 di quell'opuscolo.
453
Nella più parte dei MSS., ove si dice di questa fortezza, il nome è
scritto variamente. Dei due esemplari di Ibn-el-Athîr, il MS. A
mostra (al solito senza vocali brevi) le lettere elk râ, e in fine una
senza punti diacritici, che si potrebbe leggere b, t, ovvero th. Il MS.
C ha elk rrâth assai nitidamente; ma la chiarezza può venire
benissimo dalla ignoranza di chi scrivea questo nome geografico,
come il noto vocabolo kerrâth, che significa "porro," e ch'è altresì
nome di luogo; e tra gli altri d'un isolotto alla punta di Capo
Passaro, detto anche oggi l'isola dei Porri: nudo scoglio del quale al
certo non si tratta nel caso presente. Passando a Ibn-Khaldûn, il

284
dì454, e riscuotè una prima taglia di cinquantamila soldi d'oro, che
tornano a un di presso, in valor del metallo, a settecento mila lire
nostrali455. Forse il cadi volle anch'egli apparecchiarsi allo assedio di
Siracusa, più arduo assai che non gli era paruto da lungi: volle
aspettare l'armata; riordinare lo esercito, impedito dal bottino e dai
prigioni, assottigliato dai presidii che avea lasciato qua e là nella
lunga via, e dai predoni vaganti senza comando. Ma quand'ei vide

testo pubblicato da M. Des Vergers secondo il MS. di Parigi ha elk


râd; e quello di un MS. di Tunis (il quale mi par migliore) ha elk
rat. Questa ultima lezione anche troviamo in entrambi i MSS. del
Nowairi; sendo errore della edizione del Di Gregorio la lettera hé
(26ma) dell'alfabeto arabico d'oriente) sostituita alla t (terza lettera).
Or la lezione del Nowairi e del MS. tunisino d'Ibn-Khaldûn mi par
che renda quasi esattamente il nome di Acri: città notissima nella
Sicilia antica; rimasta in piè certamente infino al quinto secolo,
come lo mostrano lo Itinerario d'Antonino, le tavole di Peutinger e
gli emblemi cristiani trovati nel nostro secolo tra le sue rovine; e di
più, importante per lo sito, e posta proprio su la strada che dovea
fare Ased. La terminazione in arabico col suono di Kerât non
sarebbe più viziosa di tante altre che ne conosciamo di nomi
geografici greci e latini storpiati dagli Arabi, e viceversa. Per altro
ad aggiustarla basterebbe togliere la lettera l dell'articolo arabico,
ovvero aggiungere dopo quella una a, di modo che facesse Akrât
ovvero el-Akrât. La desinenza ât, appartenendo al plurale
femminino della lingua arabica, renderebbe appunto la forma
analoga Ακραι ed Acrae che usavano nel nome di questa città i
Greci e i Latini, insieme con altre meno esatte, come ̉́Ακραιαι ed
Agris.
Il Di Gregorio in nota al Nowairi, l. c., ha ricordato, a proposito di questa
fortezza, il nome di Alcharet, che leggesi in un diploma del 1082; ma poco ci
giova, poichè il sito di Alcharet si ignora, e forse si dee cercare ad Alcara delli
Fusi, su le montagne che sovrastano alla costiera settentrionale. Meno lungi da
Siracusa, ma pur troppo pel caso nostro, sarebbe Valguarnera Caropini (leggasi
Caropipi), terra presso Castrogiovanni, alla quale pensò M. Des Vergers, p. 106
della versione di Ibn-Khaldûn, credendo preferibile alle altre lezioni quella del

285
che la dimora giovava al nemico più che a lui; quando seppe che
facean diligenza ad afforzare Siracusa e le altre castella, e ridurvi i
tesori delle chiese, le vettovaglie, e ogni roba di maggior pregio
delle terre aperte; quando ebbe sentor delle pratiche d'Eufermio, il
quale sottomano confortava i cittadini a tener fermo e combattere
valorosamente per la patria; e quando i Siracusani si cominciarono a
scoprire ricusando il rimanente del denaro pattuito, il condottier
musulmano non differì a disdire la tregua. Sparse le gualdane per
ogni luogo; sforzò o schivò la fortezza d'Acri; e col novello terrore
delle stragi, delle depredazioni e de' guasti del contado, piombò
sopra Siracusa.
E alla prima occupava, dice Ibn-el-Athîr, certe enormi spelonche
intorno la città456: al certo le latomie di Paradiso, Santa Venera,
Navanteri, Cappuccini, che giacciono a distanze disuguali, in una
linea spezzata di più di un miglio, al confine meridionale dei
quartieri di Neapoli e Acradina, distrutti tanti secoli innanzi. Tra le
latomie e l'istmo giacea nel nono secolo un quartiere457, murato
senza meno dalla parte di terra dall'uno all'altro porto; sì che doveva
opporre ai Musulmani una vasta linea di fortificazioni. Pertanto
Ased, non potendo altrimenti investir la città, senza macchine, senza
grossi navigli, senz'altro che otto o novemila uomini, si accampò
nelle latomie, raccolto e minaccioso; fece accostare l'armata che
chiudesse alla meglio i due porti; diè qualche sanguinoso assalto;
bruciò navi ai nemici; fece prova a stringer la città per terra e per

MS, A di Ibn-el-Athîr, e leggendovi elk râb.


454
Ibn-el-Athîr; Ibn-Khaldûn; Nowairi, ll. cc.
455
Johannes Diaconus, Chronicon Episc. Sanctæ Neapolitanæ Ecclesiæ, presso
Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte II, p. 312, dice pagato il
tributo di 50,000 soldi dai Siracusani prima della occupazione di Palermo. Dalla
serie del fatti si vedrà che il pagamento non potè aver luogo dopo il tempo in cui
l'ho messo. Ibn-el-Athîr narra le dette pratiche in modo da far supporre che fosse
stata pagata una parte della taglia.
456
Il testo dice precisamente haul "in giro."
457
Veggasi il capo X del presente libro. Questo quartiere era stato, probabilmente,
ristorato ai tempi di Augusto.

286
mare; e s'affrettò a chiedere rinforzi d'Affrica458. Perchè la fame
cominciava a travagliare il campo, più che la città; sendo ridotte in
questa le vittuaglie del contado; nè potendo i Musulmani troppo
allargarsi a depredare. Vennero a tale penuria, che si cibaron di
cavalli, ed i soldati un dì s'abbottinarono. Scelsero ad oratore un
Ibn-Kâdim459, il quale fattosi innanzi ad Ased richiedealo di levare
l'assedio, e tornarsene in Affrica; dicendo avere l'esercito più cara la
vita di un sol Musulmano che tutti i beni della Cristianità. Al quale
il capitano brusco rispondea: "Non son io quegli che farà tornare
addietro i Musulmani usciti alla guerra sacra, mentre hanno ancor
tante speranze di vittoria." Vedendo crescere, ciò non ostante, la
insolenza dei soldati, ei rincalzò minacciando che arderebbe le
proprie navi. Indi parea che dalle parole fossero per venire ai fatti; e
Ibn-Kâdim andava dicendo: "Per manco di questo fu ucciso il califo
Othman;" quando Ased domò i malcontenti come fanciulli: sì
valoroso uomo egli era, e sì disciplinato lo esercito. Ased di mezzo
a loro fe' pigliare Ibn-Kâdim, e dargli qualche staffilata, senza
spogliarlo, com'era usanza: esempio, però, non supplizio, nè
vendetta; e meritata vergogna di chi braveggiava per voglia di voltar
le spalle al nemico. E così ebbe fine il tumulto. Il biografo chiude
questo racconto con bella semplicità, dicendo che le staffilate non
furon più di tre o quattro; ma che Ased tirò innanzi costante e
vittorioso, tanto che diè ai Greci una fiera battaglia, e ne fe' strage, li
ruppe e schiantolli dalla Sicilia460.

458
Ibn-el-Athîr, l. c., narra l'occupazione delle caverne e l'assedio di Siracusa
cominciato per terra e per mare; il Baiân, tomo I, p. 95, l'assedio per terra e per
mare, l'arsione delle navi degli assediati, e l'uccisione di lor gente. Queste due
croniche ed altre dicon che poi vennero gli aiuti d'Affrica; e mi pare evidente che
Ased li avesse richiesto.
459
Questi pare il Sehnûn-ibn-Kâdim che avea sconsigliato l'impresa. Veggasi a p.
260.
460
Riadh-en-nofûs, MS., fog. 28 verso, racconto di Soleiman-ibn-Sâlem. Quivi
non si porta data; ma la condizione dell'esercito affamato e la conchiusione del
racconto non lascian dubbio che il fatto debba riferirsi al lungo assedio di
Siracusa.

287
Perchè venian da una mano fresche genti d'Affrica insite coi
venturieri spagnuoli di Creta461; dall'altra Michele il Balbo accozzò
soldatesche, e indusse il doge Giustiniano Partecipazio a mandare in
Sicilia l'armata veneziana462. Ingrossando per tal modo la guerra, si
venne a un'altra giornata, al dire d'Ibn-el-Athîr, quando, giunti gli
aiuti d'Affrica, il governatore di Palermo uscì alla campagna con
poderoso esercito; ma non sappiamo se i Musulmani fossero
sbarcati a Mazara o a Siracusa, e se l'oste di Palermo avesse lor
tagliato la via, ovvero combattuto insieme contro essi ed Ased
congiunti sotto Siracusa463. Sentendo venirsi addosso forze
maggiori, i Musulmani si cinsero d'un largo fossato; e fuori da
quello buccherarono tutto il terreno di pozzette, ottima difesa contro
i cavalli, adoperata sovente dai Bizantini e scritta ne' loro libri di
strategia. Pur dimenticando le proprie arti, caricarono con vano
impeto i Cristiani; si avvilupparono nel mal terreno, e incespando i
cavalli e scompigliandosi gli uomini, i Musulmani ne fer macello.

461
Ibn-el-Athîr e Ibn-Khaldûn fanno menzione soltanto di rinforzi d'Affrica; ma
Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 5, e il Baiân, tomo I, p. 95,
parlano espressamente di Affricani e di Spagnuoli. Credo che questi ultimi
venissero di Creta; perchè non è probabile che gli Omeîadi di Spagna mandassero
l'armata loro insieme con l'affricana, e perchè il Marrekosci, testo arabo, edizione
di Dozy, p. 14, dice che alcuni Spagnuoli di Creta passarono in Sicilia.
462
Johannis Diaconi, Chronicon Venetum, presso Pertz, Scriptores, tomo VII, p.
16, sotto l'anno 827.
463
Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicilie, p. 43 del testo, e 106, 107
della versione, narra che, mentre Ased stava a campo a Siracusa, gli aiuti di
Affrica assediarono Palermo; che i Greci assalirono Ased e furono rotti; e che
Ased, morto del 213, fu sepolto a Palermo. Nella pagina seguente, Ibn-Khaldûn
dice presa Palermo il 217. Vi ha dunque una manifesta confusione di tempi. Il
nome di Palermo fu messo al certo per errore nella guerra del 212 e 213, e l'errore
nacque dalla menzione che Ibn-el-Athîr, o altro cronista più antico, avea fatto del
governatore di Palermo, intendendo del bizantino non già del musulmano.
L'assedio di Palermo nel 213 è inverosimile o piuttosto impossibile. Da un'altra
mano il Nowairi, senza fare menzione della battaglia, dice arrivati i navilii
d'Affrica e di Spagna, e indi rincalzato l'assedio di Siracusa. Il Riadh-en-nofûs,
all'incontro, senza parlare di aiuti, attribuisce ad Ased una seconda strepitosa
vittoria. Parrebbe da tutto ciò che la battaglia fosse combattuta sotto Siracusa.

288
Strinsero indi più fortemente Siracusa per mare e per terra464: che
ormai durava l'assedio da dieci mesi o un anno465, e si venne a tale
che i cittadini proponeano un accordo, e i Musulmani lo
ricusavano466. Non poche altre terre s'eran sottomesse, onde parea
da temere che presto le imitasse tutta l'isola467.
Quando una moría s'appiccò nello esercito; della quale, altri dice
di ferite, trapassava il grande Ased-ibn-Forât, nella state
dell'ottocento ventotto, ed era sepolto nel campo468. Lasciò desiderio
di sè nell'universale dell'esercito; e al certo vi si ricordavano a gara
le lodi che hanno scritto di lui i biografi: la sapienza, le lettere, la
prudenza, l'antica virtù, gli strepitosi fatti che operò, le famose
concioni che tenne nella guerra di Sicilia469. Mancato lui, la fortuna
voltò le spalle ai Musulmani. Gli statichi delle varie città sottomesse
fuggirono incontanente dal campo470, in alcuno scompiglio d'assalto
o sedizione; ovvero per bella audacia, volendo andare a gridare per
tutta la Sicilia ch'era tempo di togliersi d'addosso i Barbari. E tra
464
Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 123 recto e verso; MS, C, fog. 191 verso.
Veggasi anche Ibn-Khaldûn, l. c., il quale nel testo dice che gli assediati
respinsero i Greci venuti ad assalirli sotto Siracusa.
465
L'assedio par che cominciasse verso la fine di luglio 827.
466
Il Nowairi, l. c., scrive che i Siracusani chiedeano l'amân, che Ased lo voleva
accordare, e che i Musulmani si ostinarono a continuare le ostilità. Credo più
tosto un errore di questo compilatore, che mutata improvvisamente l'indole di
Ased.
467
Veggasi qui appresso la fuga degli statichi che erano nel campo musulmano. Il
Riadh-en-nofûs, MS. fog. 26 recto, nel narrare la morte di Ased, dice delle molte
vittorie riportate e città soggiogate.
468
Secondo il Riadh-en-nofûs, MS., fog. 26 recto, morì di ferite, di rebi' secondo
del 213 (tra giugno e luglio 828) e fu sepolto nel campo; lo stesso dice Ibn-
Rascik, citato da Ibn-Wuedrân, § 1, senza spiegare la causa della morte; così
anche Ibn-abi-Dinar (el-Kaïrouani), Histoire de l'Afrique, p. 85; e testo, MS., fog.
20 verso. Il Baiân, tomo I, p, 95, reca la morte dal mese di regeb (tra settembre e
ottobre); Nowairi, presso Di Gregorio Rerum Arabicarum, p. 5, di scia'bân (tra
ottobre e novembre): Ibn-Abhâr, MS,, fog. 148 verso; Ibn-el-Athîr, l. c.,; e Ibn-
Khaldûn, l. c., non portano altra data che dell'anno 213. Ibn-el-Athîr lo dice morto
della pestilenza; il Nowairi, in generale di malattia.
469
Riadh-en-nofûs, MS., fog. 26 recto.
470
Baiân, tomo I, p. 96.

289
costoro non posava la discordia; quando leggiamo che Mohammed-
ibn-el-Gewâri, succeduto ad Ased, era eletto al supremo comando,
non dal principe aghlabita, ma dall'esercito stesso471. A ciò ben si
riconoscono coloro che, pochi anni addietro, avean fatto tremare
Ziadet-Allah in Affrica, e affrontato il tiranno di Cordova.
D'altronde gli assedianti non poteano sperare nuovi aiuti
d'Affrica, dove in quel medesimo tempo gli Italiani aveano osato
portar la guerra. Bonifazio secondo, conte di Lacca, sapendo i casi
di Sicilia, o provocato da qualche insulto che avesser testè fatto
pirati musulmani in Corsica, accozzava le genti con Berengario
fratel suo, e altri conti della Toscana; allestivano un'armatetta; e,
fatto vela per la Corsica e non trovandovi il nemico, andavano a
cercarlo in Affrica. Posero a terra tra Utica e Cartagine, dicono gli
annali d'Einhardo; presso Kasr-Tûr, leggiamo, per tradizione di
Lebîdi, nel Riadh-en-nofûs; e rotti in cinque scontri i Musulmani
con molta strage, ma perduto poi per troppa temerità un po' delle
proprie genti, se ne tornarono in Italia. Così Einhardo472. Il Lebîdi
riferisce con altri particolari il medesimo successo. Narra che
Mohammed, figlio di quel Sehnûn-ibn-Sa'îd, che fu giurista di alta
fama in Affrica; andando da Kairewân a Kasr-Tûr a far la ispezione
dei posti di guardia, e sentendo gridare accorruomo dalla gente della
marina e dei villaggi assaliti dagli Italiani, occorsevi, com'era, sopra
una mula da viaggio, senza perder tempo a mandare a Susa per un
cavallo; vestì la corazza, s'armò di spada e lancia; adunò gli uomini
del castello, le guardie della costiera e una mano di Beduini; e,
caricato il nemico che s'era messo a far preda e prigioni, dopo

471
Così dicono espressamente Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum,
p. 5, e il Baiân, l. c. Ibn-el-Athîr, e Ibn-Khaldûn portano senz'altro che
Mohammed-ibn-abi-'l-Gewâri succedea nel comando. Questo nome patronimico
è dato dai migliori MSS., e in altri sbagliato. In una moneta, della quale ci
occorrerà far menzione, è scritto Ibn-el-Gewâri; e però, non ostante l'autorità dei
cronisti, mi è parso seguire questa lezione.
472
Einhardus, Annales, presso Pertz, Scriptores, tomo I, p. 217, anno 828; e
presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo II, parte I, p. 519. Veggansi
gli Annali del Muratori, sotto il medesimo anno.

290
sanguinosa zuffa, lo ruppe e sforzò a rifuggirsi su le navi 473. La
quale fazione nel cuor dello Stato aghlabita bastava a distogliere
Ziadet-Allah dalle cose di Sicilia, quand'anco avesse avuto voglia
d'aiutare l'esercito contumace, e forze da farlo, e quiete in casa474.
Soprattutto affranse gli assedianti la moría fieramente
incrudelita; e il veder arrivare in questo l'armata bizantina e
veneziana, piena di soldatesche. Risoluti a ciò d'abbandonare
l'impresa, i Musulmani risarciscono alla meglio lor legni nel porto
grande di Siracusa; e montanvi e salpano: quando le poderose forze
navali de' nemici chiusero la bocca del porto. Allora, senza far vana
prova a rompere la fila delle navi cristiane, i Musulmani, tornano
addietro a terra; brucian le proprie, anzichè lasciarle al nemico; e,
sicuri per disperazione, s'addentrano nei monti, cercando luoghi più
forti e salubri. Nessun cronista ci lasciò scritte quelle perdite
spaventevoli che patì necessariamente l'esercito, infetto d'epidemia,
trabalzato dal campo su barche, e dalle barche a terra, spinto in
fretta tra vie rotte ed alpestri, senza bagaglie, senza giumenti da
portare gl'infermi. Ibn-Khaldûn solo accenna a tante afflizioni, con
dire che i sopravvissuti non bramavano ormai che la morte475.
A una giornata di cammino da Siracusa, tra un gruppo di vulcani
estinti, sorge in cima ad eccelso monte la città476 di Mineo, ristorata

473
Riadh-en-nofûs, MS., fog. 52 verso, senza data. Il giurista Sehnûn, padre di
Mohammed, è diverso dal Sehnûn-ibn-Kâdim di cui abbiam detto. Ei si chiamava
Abu-Sa'îd-Abd-es-Selâm-ibn-Sa'îd, e gli diceano Sehnûn, per lode o ingiuria.
Debbo avvertire che secondo la biografia di Mohammed-ibn-Sehnûn, questi
nacque il 202 dell'egira (817); onde il combattimento suo con gli Italiani si
dovrebbe supporre diverso da quello dell'828. Invece di raddoppiare questo fatto,
mi par più naturale credere a uno sbaglio nella data della nascita di Mohammed.
Pare che Mohammed-ibn-Sehnûn fosse officiale delle milizie, leggendosi in fine
che da quel dì in poi montò sempre cavalli andando a far la ispezione.
474
Il ribelle 'Amer-ibn-Nafi' si difese in Tunis fino alla sua morte, che seguì di
giugno 829.
475
Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 123 verso, MS. C, tomo IV,
fog. 191 verso; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 107; Nowairi,
presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 5, 6.
476
Nell'originale "citta". [Nota per l’edizione elettronica Manuzio].

291
da Ducezio re dei Sicoli, cinque secoli innanti l'era volgare,
quand'ei cominciò sua dura lotta contro le colonie greche. Due
miglia sotto la rôcca, da un cratere vulcanico, spiccia un'acqua
torbida e puzzolente, detta nell'antichità il lago dei Palici: sede
d'oracoli e iddii vendicatori. Tra questi luoghi sostò lo stuol
musulmano, divorato dalla pestilenza, guidato da Eufemio che, in
abito e nome d'imperatore, recava seco le maledizioni di tutta la
Sicilia: e parea gli antichi numi lo attirassero in loro voragini. Nella
nuova religione la rôcca di Ducezio s'affidava alla protezione di
Sant'Agrippina, martire romana, le cui ossa trafugate da pie donne,
recate in Mineo, onorate di tempio e di culto, si teneano come
palladio della città. Pertanto una leggenda greca, del decimo o
undecimo secolo, favoleggiò che montati di notte i Barbari su per le
mura di Mineo, appariva da quelle Santa Agrippina levando in alto
una croce e mandava giù a precipizio gli assalitori, che un solo non
ne campò477. In tal mito si ristrinsero le vicende della guerra
succedute in un anno, secondo le cronache arabiche. Sappiam da
queste come i disperati Maomettani, a capo di tre dì, si
insignorissero di Mineo478, ove par si fosse dileguata da loro
477
Leggenda della traslazione del corpo di Sant'Agrippina, epitome del martirio e
canone acrostico, dei quali il Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo I, p. 18
seg., diè le versioni latine, e i Bollandisti, Acta Sanctorum, mese di giugno, tomo
IV, p. 458 seg., inserirono le versioni, col testo greco dell'epitome e del canone.
Questi al giudizio dei Bollandisti furono scritti nel X o XI secolo in Sicilia. La
critica degli stessi dotti editori ha tolto alcuni dubbi del Gaetani, correggendo il
tempo del martirio di Agrippina, e mostrando che il supposto miracolo fosse
operato contro i Musulmani e non contro gli Iconoclasti. L'epitome, dettata, come
parmi, prima del canone, è più castigata: Agareni vero, cum præsumpsissent
depredari propugnaculum templi ejus, omnigena morte interierunt (απολεία
παντελει̃ παρεδώθησαν) che meglio si renderebbe: "furono compiutamente
esterminati." Il canone, come scritto in versi, aggiugne un po' di colore, che:
Santa Agrippina come una colomba d'oro armata d'una croce distruggea gli
Infedeli che di notte assalivano il suo castello, ec.
478
Ibn-el-Athîr alla fine del capitolo su la prima guerra di Sicilia scrive i nomi
delle città più rilevanti, lettera per lettera secondo l'uso degli Arabi. L'ortografia
che assegna al nome di questa città è, mim, ia, nun, alef, waw, cioè Minâw. MS.
A, tom. I, fog. 125 verso.

292
l'epidemia, com'avvien sovente per mutar di luogo. Rinfrancati,
mandavano uno stuolo su la costiera meridionale; il quale espugnò
Girgenti, città molto decaduta sotto la dominazione romana e
bizantina. Indi intrapresero più importante fazione. Lasciato
presidio a Mineo, si spinsero nel cuor dell'isola, sotto le formidabili
rupi di Castrogiovanni. Questa è l'antica Enna, il cui nome par che
già corresse mutato e guasto nella lingua del volgo. In fatti il
Beladori, cronista arabo del medesimo secolo nono, lo scrivea Kasr-
Iânna479 che è trascrizione di Castrum Ennæ, pronunziata Ienna;
appunto com'or si direbbe in Sicilia, soprattutto a Messina, ove la
schiatta greca di Sicilia lasciò più profonde radici. Allargata poi
dagli Arabi la prima sillaba, prevalse nell'isola la forma di Iânna; e
con l'andar del tempo, massime nel duodecimo secolo, quando
sopraggiunse nuov'onda di popolazione italiana, si piegò a Ioanni o
Giovanni ch'era voce più famigliare agli orecchi, e il nome intero si
mutò com'adesso lo scriviamo. Ho notato coteste minuzie, e così
farò per lo innanzi quante volte me ne occorra, potendo servire agli
studii di linguistica, che or vanno spargendo tanto lume nella storia.
Eufemio trovò a Castrogiovanni la morte ch'ei forse bramava.
Appiccata una pratica con terrazzani o soldati, vi fu chi venne seco
ad abboccamento; finse volerne consultare in città; andovvi e tornò
ad Eufemio un'altra fiata nello stesso dì: e la conchiusione fu che i
cittadini si disponevano a fare ogni voler suo e dei Musulmani;
sarebbe disdetto il nome di Michele il Balbo, giurata fede a lui la
dimane, a tal ora, a tal luogo, a distanza onesta tra le mura e il
campo. La notte v'ascosero lor armi. Al nuovo dì, in vestimenta di
gala, servilmente lieti, comparvero al ritrovo; e venne dall'altra
parte Eufemio con picciola scorta e lasciolla anco addietro un trar
d'arco. I cittadini si prostravano dinanzi al posticcio imperatore, in
atto di adorazione, come si usava allora, nè è smessa per anco tal
vergogna. Ma due fratelli, che par fossero stati amici d'Eufemio

479
Nel MS. del Beladori della Biblioteca di Leyde, n° 772, del catalogo stampato
del Dozy, p. 275, del MS., non si vede il raddoppiamento della n; ma ce lo dà
Ibn-el-Athîr, l. c., scrivendo: kaf, sad, ra, ia, alef, nun raddoppiata, he.

293
innanzi la guerra, si spiccano dal branco degli adoratori; corrono
bramosi ad abbracciarlo: il misero, disusato da lungo tempo alle
espansioni dell'affetto, si commosse, si chinò a baciare l'un dei
fratelli; il quale amorosamente gli prende il capo con ambo le mani,
l'afferra pei capelli, lo tiene con disperato sforzo, e l'altro fratello gli
vibra un colpo su la nuca e il fa cascar morto 480. Allor la brigata diè
di piglio alle armi occultate: impuni e tripudianti i due traditori
riportarono in città il capo d'Eufemio: e forse furono paragonati alla
Giuditta, chiamati liberatori della patria, sì come poi la cronaca di
Costantino Porfirogenito li disse vendicatori dell'onore imperiale
contro un usurpatore. Questa fine ebbe il prode condottiero
siciliano, strascinato dai vizii del governo e del paese a ribellarsi
dall'uno, e dar l'altro in preda agli stranieri.
Ostinandosi con tutto ciò i Musulmani all'assedio, andava a
rinforzare la città Teodoto patrizio, testè giunto di Costantinopoli
con soldatesche di varie genti, la più parte Alemanni, come porta il
manoscritto del Nowairi, ma probabilmente si dee leggere
Armeni481. Sta Castrogiovanni in un piano scabro e inclinato che
tronca la vetta d'alto monte, di costa scoscesa da ogni lato, ripida e
superba da settentrione molto più che da mezzogiorno: le case sono
sparse a gruppi or alto or basso, come ondeggia il suolo del

480
Ho messo insieme i particolari di questo misfatto, riferiti variamente dal
Nowairi presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 6, e dalla cronica imperiale,
Theophanes continuatus, libro II, cap. XXVII, p. 82, 83. Narra più brevemente
quest'assassinio Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 123 verso, e MS. C, tomo IV,
fog. 191 verso, e l'accenna appena Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Si-
cile, p. 107. Quivi in luogo di Mazara si legga Mineo, come hanno chiaramente i
MSS. di Ibn-el-Athîr e di Nowairi. Quanto al luogo dell'uccisione d'Eufemio, ho
seguito i cronisti arabi, non il bizantino che le porta a Siracusa. Nella versione del
Nowairi si corregga la frase del Di Gregorio in terram procubuere manus ipsius
comprehensuri, e si segua quella del Caussin comme pour se prosterner devant
lui, o meglio si sostituisca: in atto di baciar la terra innanzi i suoi piè. Il
Rampoldi, Annali Musulmani, citando Nowairi, che punto nol dice, fa andare
Eufemio ad Enna «con un corpo dei suoi aderenti rinforzato da circa 1000
Affricani.»
481
Veggasi il I capitolo del presente Libro, pag. 247, nota 1.

294
rispianato; ove spiccasi in alto, verso greco, una immane rupe,
stagliata intorno intorno, coronata di grosse mura e torrioni,
provveduta di scaturigini d'acque, capace di grosso presidio:
cittadella che può dirsi inespugnabile, perch'è stata presa rarissime
volte482. Su la rupe sorgea nell'antichità il tempio di Cerere, quasi la
Dea da quella cima vegliasse sopra l'isola sua: e quivi i Bizantini
avean posto ogni speranza di difesa, afforzando il formidabil sito
con gli ingegni di lor architettura militare; e il borgo che stendeasi
nel rispianato, ov'è in oggi la città, potea sfidare anch'esso gli insulti
nemici. Era il nemico attendato alle falde del monte, credo da
mezzodì ov'è una pianura; ciò che Ibn-el-Athîr fa supporre,
scrivendo, come i due eserciti si ordinassero in fila, l'uno a fronte
dell'altro. Perocchè Teodoto, solo capitano degno del nome che
ebbero i Bizantini in questa guerra, fidandosi in sè e nel numero de'
suoi, scese giù dal monte a presentar la battaglia. E toccò una
sanguinosa sconfitta; sì che s'ebbe a rifuggire a Castrogiovanni,
lasciando al nemico moltissimi prigioni, tra i quali si noveravano
novanta patrizii, dicono le croniche musulmane483, forse giovani di
famiglie patrizie, e anco di nobiltà minore: ma pur ciò basta a
mostrare la importanza dell'esercito bizantino.
Indi l'assedio continuò; nel qual tempo tanto ordinatamente
reggeansi i Musulmani, che dell'argento preso batteron moneta. Se
ne conosce non saprei dir se due esemplari, o un solo; trovandosene
uno pubblicato dal Tychsen, ed uno posseduto dal Museo
Numismatico di Parigi, che ben potrebbe essere il medesimo. È
moneta sottile, non logora, coniata a lettere cufiche dello stesso stile
dei dirhem abbassidi contemporanei; pesa due grammi e novanta
centesimi; vale perciò da sessanta centesimi di lira italiana. Oltre le
usate formole, la faccia dritta ha nel campo una voce di tre lettere,
simbolo particolare degli Aghlabiti, poi il nome di Ziadet-Allah-
ibn-Ibrahim, e infine la stessa parola composta Ziadet-Allah nel
482
Non essendo stato giammai a Castrogiovanni, mi sono affidato alle descrizioni
altrui e alle notizie scritte dal diligentissimo D'Amico nel Lexicon
Topographicum Siciliæ.
483
Confrontinsi Ibn-el-Athîr, Ibn-Khaldûn e Nowairi, ll. cc.

295
senso proprio di "Accrescimento (dato da) Dio." Nel campo del
rovescio si legge, interpolato alla formola, come ve n'ha tanti
esempii, il nome di Mohammed-ibn-el-Gewâri; e in giro: "In nome
di Dio questo dirhem fu battuto in Sicilia l'anno dugento
quattordici484." E si deve intendere dei principii di quell'anno, ossia
della primavera dell'ottocento ventinove; nel qual tempo gli Arabi
assediavano Castrogiovanni, e mancò di vita Mohammed-ibn-el-
Gewâri.
Dopo la cui morte, rifatto capitano, per elezione dell'esercito, un
Zoheir-ibn-Ghauth485, l'avvantaggio della guerra tornò ai Bizantini.
484
Il simbolo va letto non Ali, nè in alcuno degli altri modi mal
trovati dai numismati del secolo passato, ma certamente gheleb,
verbo trilitere che significa "occupa, conquista, vince," e, preso
all'ottativo, "conquisti, vinca etc." Da questo verbo deriva
l'aggettivo Aghlab che era insieme il nome patronimico della
dinastia. Indi si capisce la etimologia di tal simbolo, il significato
particolare che dava unito alla voce Ziadet-Allah, ossia "trionfi la
fortuna accordata da Dio," e il doppio scherzo di parole contenuto
nella leggenda.
Veggasi Tychsen Additamentum I introductionis in rem
nummariam Muhammedanorum, § 1, p. 40, e 41. Nell'esemplare di
Parigi il nome el-Gewâri è preceduto dalla voce bnu (figliuolo), non
da abi come lesse il Tychsen. La formula in giro della faccia dritta è
cavata dalla sura IX, verso 33, del Corano.
Il signor Mortillaro, Opere, tomo III, p. 343, non avendo sotto gli
occhi che il disegno pubblicato dal Tychsen, credè questo dirhem
falsato e «avanzo della impostura di Vella.» Ma basta guardare il
bel conio dell'esemplare di Parigi per dileguare ogni dubbio di
falsificazione: e basta notare la esattezza delle formule e la
correzione dell'ortografia e della grammatica per sincerarsi che
l'ignorante Vella non ci ebbe che fare.
Nel Museo di Parigi non v'ha ricordi scritti nè tradizione, da poter affermare o
negare che questo esemplare fosse il medesimo di Tychsen.
485
Scrivo questo nome secondo il MS. A di Ibn-el-Athîr. Nel MS. C, si legge men
distinto. Il testo stampato d'Ibn Khaldûn ha "Ibn-'A w n" e un MS. di Tunis del

296
Perchè, uscita a far preda, com'era usanza, una gualdana degli
Arabi, Teodoto le mandò incontro genti che la combatterono e
rupperla; e la dimane, venuti a giusta giornata ambo gli eserciti,
Teodoto riportò anco la vittoria; ammazzò da mille uomini ai
Musulmani, e li cacciò infino agli alloggiamenti; dove si munirono
con fossati, e furono a lor volta assediati e chiusa loro ogni uscita.
Apprestatisi pertanto all'estremo rimedio di tentare una sortita di
notte sopra il campo bizantino, Teodoto, che lo riseppe, lasciò vôto
il luogo; si appostò nei dintorni; e quando i Musulmani aveano
occupato il campo, maravigliati del non trovarvi anima viva, il
nemico piombò improvvisamente da tutti i lati, ne fece strage: li
sbaragliati a mala pena si ritrassero a Mineo. Inseguendoli Teodoto,
li assediò nella fortezza; e alfine li condusse a tale diffalta di
vittuaglie, che doveano cibarsi de' giumenti e de' cani. A questi
avvisi il picciol presidio di Girgenti distruggea la città, leggiam
nelle cronache, forse le sole fortificazioni; e non potendo soccorrere
que' di Mineo, si ridusse a Mazara. Aumentato l'esercito bizantino, e
rincorato da un capitano di vaglia; avvezzi un po' gli abitatori
dell'isola al romore delle armi, innaspriti dalle profanazioni,
saccheggi e guasti degli Infedeli; e costoro menomati tra vittorie e
sconfitte, non fidanti nel nuovo condottiero, mancato lor anco
Eufemio, dileguati già prima i suoi partigiani: tali erano le
condizioni degli uomini che si laceravan tra loro sul desolato
terreno della Sicilia. Non rimaneva agli occupatori altro che Mazara
e Mineo, disgiunte di tutta la lunghezza dell'isola, da sentieri
difficili e popolazione ostile; e l'una tenea per non essere stata
assalita giammai; l'altra, rôcca fortissima, era per soggiacere alla
fame. Parea dunque assai vicino il termine della guerra nella state
dell'ottocento ventinove, due anni dopo lo sbarco di Ased a
Mazara486.

medesimo autore "Ibn-'A w m;" Nowairi, secondo ambo i MSS. "Z h r-ibn-
Borghuth." Ghauth è nome di tribù arabica della schiatta di Kahtân.
486
Confrontinsi Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 124 verso, e MS.
C, tomo IV, fog. 191 verso; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de

297
CAPITOLO IV.
In questo tempo capitò nei mari di Sicilia un'armatetta spagnuola
condotta da Asbagh-ibn-Wekîl, della tribù berbera di Howâra,
soprannominato Ferghalûsc487. Era gente di quella schiuma che la
società musulmana di Spagna spandea ribollendo; e il caso ne
faceva ladroni, eroi, martiri, conquistatori: come gli usciti di
Cordova in Creta; come cento altre masnade che afflissero per un
secolo e mezzo le costiere meridionali della Francia e dell'Italia di
sopra, e fino i più rimoti recessi delle Alpi. Approdato Ashagh in
Sicilia, e richiesto di soccorso da' Musulmani, par ne desse tanto da
vettovagliare Mineo; e più ne promettea, senza far ciance, vedendo
largo il campo ai guadagni. Forse giunse qualche altro aiuto
d'Affrica, ove Ziadet-Allah avea spento alfine la ribellione di
Tunis488. Dalla parte de' Cristiani la guerra allenò. L'armata
veneziana, venuta di nuovo in Sicilia l'anno ottocento ventinove, o
quel d'appresso, niente premurosa di mettersi a sbaraglio per solo
amor dello imperatore di Costantinopoli, se ne tornò, così dice un
cronista nazionale, senza trionfo489. Nè riportonne altrimenti il

la Sicile, p. 108; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum,


p. 6, 7.
Ho fissato la data ritenendo la morte d'Ibn-Gewâri nei primi del 214, come risulta
comparando la leggenda del dirhem e lo attestato di Nowairi, e pigliando dal
Baiân, il quale è molto preciso, il tempo dell'arrivo dell'armata spagnuola in
Sicilia, la quale liberò i Musulmani dall'imminente sterminio. Le vicende della
guerra, raccontate da Ibn-el-Athîr con poco divario nella cronologia, stanno
benissimo entro questi due termini.
487
Si pronunzii come se si leggesse in francese Ferghaloûch, o in inglese
Ferghalûsh. I nostri antichi lo avrebbero scritto Fergaluscio.
488
Il Baiân, più diligente in questo che le altre croniche, porta l'arrivo di Asbagh e
le sue promesse il 214, e l'aiuto efficace suo il 215. Così abbiamo il bandolo da
sviluppare i racconti contraddittorii di Ibn-el-Athîr e Nowairi; il primo dei quali
fa venire una poderosa armata d'Affrica e nel 214; il secondo, di Spagna e nel
215.
489
Johannis Diaconi, Chronicon Venetum, presso Pertz, Scriptores,
tomo VII, p. 16. È incerto l'anno di questa seconda impresa, poichè

298
patrizio Teodoto da più d'un anno che bloccava Mineo; forse men
travagliato dai nemici che dal proprio governo, dall'azienda confusa
e dilapidata, dalla marea che saliva o calava a corte; tanto più che
morto Michele il Balbo, d'ottobre dell'ottocento ventinove, gli era
succeduto Teofilo, giovane d'animo dritto e valoroso, ma poco
cervello; però capriccioso nel render giustizia, male avventurato
nella guerra, crudele in casa; e spesso si gittò, come ogni altro, ad
atti di perfidia, poichè il dispotismo è pendío da non potervisi
trattenere il piè quando si vuole.
Sopraggiunse nella state dell'ottocento trenta il poderoso rinforzo
aspettato dai Musulmani di Sicilia: trecento legni, dice un
cronista490, i quali, per piccioli che fossero, dovean portare da venti
a trenta migliaia d'uomini, se prendiamo per misura la espedizione
di Ased. Uomini diversi di schiatta, d'indole, di proponimento:
Arabi e Berberi d'Affrica mandati da Ziadet-Allah a proseguire il
conquisto491: e maggior numero d'Arabi e Berberi e fors'anco antichi

il cronista assegna data solo alla prima, cioè dell'827, e della


seconda dice che fosse mandata dal doge succeduto a Giustiniano
Partecipazio, il quale si sa d'altronde che morì l'829.
Si riscontri il Dandolo, lib. VIII, cap, II, §i 1 e 9 presso il Muratori,
Rerum Italicarum Scriptores, tomo XII, e la Cronica Altinate, nello
Archivio Storico Italiano, tomo VIII, p. 20.
Il Rampoldi, Annali Musulmani, tomo IV, p. 237, muta le due
imprese dell'827 ed 829, o 30, in due «forti combattimenti ch'ebbe a
sostenere Ased traversando da Susa a Mazara con una flotta di
Veneziani alleati dell'imperatore.» E quel ch'è peggio, egli cita
Nowairi, il quale non dice una parola di questi fatti.
Il Martorana, Notizie Storiche ec., tomo I, p. 39, fa venire il naviglio greco l'830,
sotto il comando di Teofilo, mandato dal padre Michele il Balbo (ch'era morto
l'829), e fa abbottinare contro Teofilo l'armata veneziana. Delle sue citazioni a
questo proposito l'una è inesatta, l'altra non vale.
490
Ibn-el-Athîr.
491
Ricordisi che Ibn-el-Athîr qui parla solo di aiuti d'Affrica; ma nel progresso
della guerra fa menzione delli Spagnuoli in modo da doverli supporre assai
numerosi.

299
abitatori di Spagna, intenti solo a far correrie; capitanati da Asbagh
e da altri condottieri, come il nota espressamente una cronica492; tra
i quali un'altra nomina Soleiman-ibn-'Afia da Tortosa493. Gli
Spagnuoli, che si doveano trovar assai male in arnese, diersi a
saccheggiare, menar via prigioni che si vendean come ogni altro
bottino, prender castella qua e là per taglieggiarle e lasciarle: nè
mossero all'aiuto di lor fratelli di Mineo, se prima il presidio non
stipulò che Asbagh avesse il supremo comando494, e se non furono
forniti di cavalli495, forse dagli Affricani che teneano Mazara.
Allora, occupate per via le fortezze che gli assicurassero la ritirata,
Asbagh assalì Teodoto sotto Mineo; lo ruppe e uccise; e gli avanzi
dello esercito bizantino corsero a chiudersi in Castrogiovanni: la
quale battaglia seguì tra luglio e agosto dell'ottocento trenta496.
Asbagh, diroccata e arsa l'infausta Mineo, marciò con tutto lo
esercito sopra una città che il Baiân scrive Ghalûlia o Ghallûlia, e
492
Il Baiân.
493
Nowairi.
494
Baiân.
495
Nowairi.
496
Confrontinsi Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 124 recto; e MS.
C, tomo IV, fog. 191 verso; Baiân, tomo I, p. 96; Nowairi presso Di
Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 7; Ibn-Khaldûn, Histoire de
l'Afrique et de la Sicile, p. 108; Chronicon Cantabrigiense, presso
Di Gregorio, op. cit., p. 41.
Questa sola cronica porta la morte di Teodoto, e la dice seguita l'anno dell'era
costantinopolitana 6339, quando fu presa dai Musulmani una città il cui nome nel
testo arabico si legge misawa. Il Nowairi porta la sconfitta di Teodoto sotto
Mineo, e ch'ei si rifuggisse a Castrogiovanni del mese di giumadi secondo del
215, cioè dal 25 luglio al 22 agosto 830, e però pochi giorni innanzi il principio
del 6339, che corre dal 1 settembre 830 al 31 agosto 831. Ibn-el-Athîr e il Baiân
dicono anche levato l'assedio da Mineo. Or questo nome, scritto in arabico
minâw, si può scambiare facilmente con quel della cronica di Cambridge
confondendovi le due lettere i n sì che rassomiglino ad una s. Però ho creduto di
correggere l'arbitraria lezione di Messina che si era adottata nelle versioni di detta
cronica. Si leggano con questa avvertenza i passi corrispondenti del Martorana,
tom. I, pag. 41, e del Wenrich, lib. I, cap. IV, §37. Nell'831, quand'essi registrano
la presa di Messina, gli Arabi combatteano ben lungi da quella provincia.

300
dalla somiglianza del nome e opportunità del luogo parrebbe la
Calloniana dell'Itinerario d'Antonino, posta nel sito attuale di
Caltanissetta, o non lungi497, in riva al Salso che taglia in due la
Sicilia meridionale. Quinci i Musulmani avrebbero dominato quel
che poi si chiamò val di Mazara, che si stende a ponente del fiume,
ed è la regione più aperta dell'isola; avrebbero fronteggiato
Castrogiovanni che s'innalza a greco di Caltanissetta a mezza
giornata di cammino; e il fiume li avrebbe diviso dalla provincia
che occupa l'angolo tra levante e mezzodì, montuosa e assicurata
dalle armi bizantine di Siracusa. Il sito però ottimamente era eletto.
Ma impadronitisi i Musulmani di Ghallûlia, si appresero malattie
nell'esercito; scoppiarono in fiera pestilenza, e ne morirono Asbagh
stesso e parecchi condottieri. Deliberati gli altri ad abbandonare la
città, i Bizantini che n'ebbero sentore, li assalirono nella ritirata.
Dopo lunghi e sanguinosi combattimenti, gli avanzi dell'esercito
giunsero alfine alla marina, forse di Mazara. Dove, risarciti i legni,
se ne tornarono sconsolati in Ispagna498.
Ma mentre Asbagh s'era avviato a Mineo, un altro stuolo
musulmano, la più parte Affricani, mosse, com'e' pare, da Mazara,
alla volta di Palermo; e principiò l'assedio lo stesso mese di giumadi
secondo del dugento quindici (25 luglio a 22 agosto 830) che fu
rotto Teodoto499. La occupazione di Ghallûlia assicurò gli assedianti
dalle forze bizantine che potessero venire ad assalirli da
Castrogiovanni, ovvero da Siracusa; e il disastro dell'esercito di
Asbagh tornò loro men grave, poich'e' pare che non pochi
condottieri, in vece di ritrarsi alla marina verso ponente e mezzodì
andassero al campo sotto Palermo500. Città fondata dai Fenicii
innanzi la venuta delle colonie greche in Sicilia; rinomata nelle
497
Callonianis è una delle poste di cavalli nella nuova linea che s'era aperta, al dir
dello Itinerario, tra Catania e Girgenti. Veggasi la edizione di M. Fortia d'Urbain,
Itinéraires des anciens, p. 27.
498
Baiân, tomo I, p. 97.
499
Nowairi presso Di Gregorio, op. cit., p. 7, assegna questa data al principio
dell'assedio di Palermo, e la seguo, adattandosi bene alla narrazione d'Ibn-el-
Athîr, al quale dobbiamo i particolari dello assedio.

301
guerre puniche; prosperante o meno consumata che le altre sotto la
dominazione romana; forte nel sesto secolo quando espugnolla
Belisario; popolata e ricca nel settimo, come ne fan fede le epistole
di San Gregorio; e durava la importanza sua nella rivoluzione
d'Eufemio. Ricinta da un braccio di mare e dalle lagune, la città che
occupava il centro dell'attuale, tenne il fermo per un anno contro i
Musulmani; poco o punto aiutandola l'imperatore Teofilo. Però i
cittadini si consumarono in una memorabilissima difesa: che da
settantamila che ve n'era al principio dell'assedio, verso la fine ne
avanzarono manco di tremila, e gli altri tutti perirono, se è da stare
alla testimonianza d'Ibn-el-Athîr. Che che ne sia delle cifre, tal
tradizione prova la grande mortalità, aumentata al certo dalla
pestilenza che da quattro anni serpeggiava in Sicilia. Alfine,
correndo il mese di regeb del dugento sedici (13 agosto a 11
settembre 831), il governatore s'arrese, salve le persone e la roba501:
500
Ibn-el-Athîr, come si dirà a suo luogo, fa cenno delle aspre contese che
sorgeano tra Africani e Spagnuoli dopo la reddizione di Palermo. Perciò gli
Spagnuoli eran molti; e si dee necessariamente supporre che tutti, o i più, fossero
venuti con Asbagh, e non rimasti degli aiuti Spagnuoli che accompagnarono
Ased, o sopraggiunsero all'assedio di Siracusa nell'827; dei quali pochissima
parte potea sopravvivere alla pestilenza, alle sconfitte di Castrogiovanni, e alla
fame di Mineo.
501
Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 124 recto; MS. C, tomo IV,
fog. 191 verso. La cronaca di Cambridge presso il Di Gregorio, op.
cit., p. 41, accenna la occupazione di Palermo il 6340, cioè dal 1°
settembre 831 al 31 agosto 832. Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique
et de la Sicile, p. 108, riferisce la dedizione di Palermo al 217,
scambiando questo fatto con quello di ordinarvi il governo, che
veramente seguì nel 217. Il Nowairi, presso Di Gregorio, op. cit., p.
7, prolunga la dedizione fino al mese di regeb del 220 (835), indotto
in errore, com'è manifesto, dal supporre che là città si fosse resa a
un Mohammed-ibn-Abd-Allah-ibn-Aghlab, ch'ei, per secondo
sbaglio, suppone preposto ai Musulmani di Sicilia in quell'anno.
La cronaca della Cava, nella edizione di Pratilli, Historia Principum
Langobardorum, tomo IV, p. 391, reca la presa di Palermo l'anno 832; ma questa
è manifestamente la notizia della Cronica di Cambridge interpolata dal Pratilli

302
egli, il vescovo Luca, e que' pochi che poteano abbandonare il
paese502 senza morir di fame, se n'andarono via per mare: la
popolazione del territorio fu assoggettata alla schiavitù, scrivea
Giovanni Diacono di Napoli, forse alla condizione di dsimmi, o
vogliam dire vassalli, senza lasciarsi ad alcuno il possesso di beni
stabili503. Nè è a dire se nel corso dell'assedio e dopo, quelle
mescolate masnade di Musulmani commettessero guasti, violenze,

con quella misera frode che si può sospettare dalle sue proprie parole (stesso
volume, p. 381), e che ormai è chiarita dopo le ricerche del Pertz e del Köpke,
Archiv für ältere Teutsche Geschichts Kunde.
502
Johannes Diaconus, Chronica episcoporum Sanctæ Neapol. Eccl., presso
Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte II, p. 313, dice presa la città,
e liberato col vescovo Luca e pochi altri lo spatario Simeone. Par che questi fosse
il governatore.
503
Ibn-el-Athîr, l. c., scrive che il governatore (sâheb) di Palermo
chiese ed ottenne l'amân per la propria persona e della sua gente
(ahl) e per la "sua" roba (mâl, ossia beni mobili). La vaga
significazione della voce ahl che or s'intende della famiglia o gente
di casa, or del popolo, non ci permette di definire questa prima
condizione del patto. Ma aggiungendosi che il governatore e i suoi
se ne andavano per mare, è da credere che si trattasse di pochi
ottimati, non di tutti gli abitanti. Quanto alla seconda clausola, Ibn-
el-Athîr dice assicurata la roba "sua," cioè del governatore, non la
roba "loro," come avrebbe scritto se ciò fosse stato accordato a tutti
i cittadini.
Convengono così fatte espressioni con quelle di Giovanni Diacono,
citato di sopra: Ad postremum vero capientes Panormitanam
provinciam, cunctos ejus habitatores in captivitatem dederunt.
Tantummodo Lucas ejusdem oppidi electus et Symeon spatharius
cum paucis sunt exinde liberati.
Come si debba intendere questa cattività sarà detto quando
tratteremo in generale della condizione dei Cristiani di Sicilia sotto i
Musulmani, la quale non era uguale in tutti i luoghi. Intanto si
ritenga che a que' di Palermo non fu lasciato il possesso di beni
stabili. Ciò mi par che risalti manifesto dalle parole d'Ibn-el-Athîr e

303
eccidii in tutto il paese. Però la storia può accettare dalle leggende
religiose il martirio del monaco San Filareto da Palermo e di
parecchi altri, i quali, volendo rifuggirsi in Calabria quando il
nemico occupò il territorio o la città, furon presi; messi
all'alternativa di rinnegare o morire; e virtuosamente elessero la
morte504. Su questo fatto alcuni imaginaron lor novelle, e quel ch'è
peggio fabbricaron lettere dei monaci Benedettini di Palermo
dispersi dagli Infedeli505. Fondato poi nel decimoquarto secolo, in
un sito delizioso tra i monti che sovrastano alla città, il monastero
benedettino di San Martino, il novello priore spacciò e scrisse
essere stato quel suo chiostro edificato da San Gregorio, illustrato
dalla pietà di antichi monaci e suore, e abbattuto da' perfidi Saraceni
l'anno ottocento ventisette, quand'ei li credeva entrati in Palermo506.

di Giovanni Diacono.
Il Nowairi, non badando alta importanza del passo analogo della cronica ch'egli
ebbe sotto gli occhi come Ibn-el-Athîr, dice in generale presa Palermo con
l'amân, ossia a patti. Da ciò il Di Gregorio suppose accordate tutte le solite
condizioni dello amân che si dava alle città; e ne spiegò alcune nella nota (c) al
Nowairi, nell'opera citata, p. 7. Ma le condizioni, massime in fatto di proprietà,
non erano nè poteano essere uguali in ogni luogo.
504
Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 42, vita di San Filareto; e la
stessa nella collezione dei Bollandisti, Acta Sanctorum, dì 8 aprile.
505
Veggansi presso Francesco Aprile, Della Cronologia universale della Sicilia,
pag. 487.
506
Mongitore, Palerm. santif., p. 164, che io cito su la citazione dello Aprile. Il
Mongitore cavò queste notizie da un MS, del P. Angelo Sinesio, primo abate nel
1352. Della storia del monastero dì San Martino presso Palermo v'ha un MS.
nella Biblioteca imperiale di Parigi, intitolato Chronica Monasterii S. Martini de
Scalis (Saint-Germain-des-Prés, n° 590). Questa compilazione fu fatta in Sicilia
nei principii del XVIII secolo, e indirizzata al P. Massuet della congregazione di
St. Maur.

304
CAPITOLO V.
L'occupazione di Palermo fu vero principio a quella dell'isola.
Fin qui i Musulmani non avean fatto stanza che in campo o entro
piccole castella, chè tal era anco Mazara; per quattro anni le forze
loro, ragunate di là dal mare in qualche boglimento di zelo religioso
o di cupidigia, erano state poi rifornite a stento, e con più fatica
traghettati gli aiuti nell'isola; tutti eran vivuti di rapina che si
sperpera; avean guerreggiato sotto varii capi, senz'accordo nè
disciplina. Ma la vasta e forte città, quasi vota d'abitatori, il fertile
territorio e i contadini che il coltivavano, rimasi preda al primo
occupante, allettarono la comune dei vincitori a soggiornare in
Palermo; ammoniti altresì dalle sventure passate. I più veggenti
doveano comprendere con ciò gli avvantaggi d'una colonia
moderata da governo regolare; grossa di popolazione, da fornire
uomini e materiali alla guerra; posta sì presso al cuor dell'isola, con
un porto comodo e difendevole, ove le arti di costruzione navale
non mancavano, o si poteano agevolmente ristorare.
Però da una parte si gittarono sul cadavere di Palermo le genti
affricane e spagnuole dell'esercito; piatiron tra loro, dice Ibn-el-
Athîr507 e azzuffaronsi: senza dubbio, quando si venne al parteggio
delle possessioni. Dall'altro canto Ziadet-Allah pose mano ad
ordinare la colonia. Quantunque gli Spagnuoli potessero pretestare
la sovranità del principe omeiade, prevaleva pur manifestamente in
Sicilia il dritto della casa aghlabita per lo merito della intrapresa
guerra, per la sede più vicina e le forze sue più considerevoli
nell'esercito. Pertanto l'anno medesimo dugentosedici, che ne
avanzarono cinque mesi dopo la dedizione di Palermo, Ziadet-Allah
elesse a luogotenente in Sicilia il suo cugin germano Abu-Fihr-
Mohammed-ibn-Abd-Allah-ibn-Aghlab508, segnalatosi una volta
combattendo in Sicilia, e poi con infelice lealtà egli e i suoi fratelli

507
MS. A, tomo I, fog. 124; MS. C, tomo IV, fog. 102 recto.
508
Baiân, tomo I, p. 97, nell'anno 216; Ibn-Abbar, MS., fog. 35 recto, porta la
data del 217.

305
nella guerra civile di Mansur Tonbodsi509. Con la riputazione di
principe del sangue, e anco forse con gente fidata, giunse Abu-Fihr
in Sicilia, correndo già il dugento diciassette (6 febbraio 832 a 25
gennaio 833). Costui ne cacciò, dice la cronica, Othman-ibn-
Kohreb510 non sappiam di che nazione, certamente un de' capi di
parte venuti su in que' trambusti: e leggiamo altrove che le discordie
tra Affricani e Spagnuoli si composero in questo tempo511.
Par che la colonia si ordinasse come centro di uno stato novello,
poco dipendente dall'Affrica; al che portavano quegli elementi suoi
eterogenei e turbolenti, non disposti a sottomettersi al principato
aghlabita senza larghissime franchigie. Ciò si vedrà dal progresso
degli avvenimenti. N'è segno altresì il titolo di Sâheb dato da
scrittori assai diligenti al primo governatore dell'isola; il qual titolo,
posto assolutamente senz'altra voce che lo determini, tocca al capo
d'uno Stato512; differente perciò da emir, e da wâli513. Sappiamo
inoltre che del dugento ventuno (836) moriva a Kairewân un cadi di

509
Nowairi, Conquête de l'Afrique, in appendice a Ibn-Khaldûn, Histoire des
Berbères, versione di M. De Slane, tomo I, p. 409. Veggasi anche Ibn-Khaldûn,
Histoire de l'Afrique et de la Sicile, traduz. di M. Des Vergers, p. 101.
510
Baiân, tomo I, p. 97, nel 217. Leggendosi forse in alcuna delle cronache
antiche che il primo luogotenente musulmano di Sicilia fosse stato eletto
immediatamente dopo la dedizione di Palermo, Ibn-Khaldûn, versione di Des
Vergers, op. cit. riferisce la dedizione al 217, quando venne, non al 216 quando fu
eletto, Mohammed-ibn-Abd-Allah (Abu-Fihr). Un doppio errore, di confondere
cioè le date delle elezioni e i nomi dei primi governatori, condusse il Nowairi,
presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 7, a differire la presa di Palermo, fino
al 220, e far cominciare il governo di Mohammed-ibn-Abd-Allah in quest'anno
nel quale appunto ei fu ucciso.
511
Ibn-el-Athîr, l. c.
512
Negli annali arabi il titolo assoluto di Sâheb è adoperato promiscuamente con
Malek (re), e lo dicono degli imperatori di Costantinopoli, dei re normanni di
Sicilia, ec. Determinato da una seconda voce, prende altro significato: per
esempio Sâheb-es-sciorta, "prefetto di polizia;" Saheb-el-istûl, "capitano del
navilio," ec. In origine Sâheb significa "compagno." Chi sa se non vollero
tradurre il titolo di comes?
513
Veggasi il Libro I, capitolo VI, p. 147.

306
Sicilia514; donde si argomenta che questo supremo magistrato fosse
stato posto fin dal principio delle nuove instituzioni nella colonia. A
questo tempo appartiene un dirhem, pubblicato dal Tychsen, e ch'io
non ho visto. Se non è falso, servirà a confermare che nel dugento
venti dell'egira (4 gennaio a 24 dicembre 835) Mohammed-ibn-
Abd-Allah reggea la Sicilia, e che battea moneta di argento col
nome suo e del principe d'Affrica; sì come avea fatto sei anni
innanzi Mohammed-ibn-el-Gewâri515.
Nondimeno per due anni non seguì fazione d'importanza, per
cagion delle preoccupazioni che dava ai Musulmani l'assetto delle
proprietà e d'ogni altra civil faccenda; ed anco per la riputazione di
Alessio Muscegh, nuovo patrizio di Sicilia. Questo bello e valoroso
giovane armeno era salito in subito favore appo Teofilo, sì che, tra'
suoi ghiribizzi, lo fidanzò alla propria figliuola Maria, ancorchè
bambina; lo fe' patrizio, proconsolo, maestro degli offici a corte; gli
diè titolo di Cesare, e lo destinava forse a succedergli nello impero,
quando insospettito per mene di palagio, volendo allontanarlo, lo
prepose all'esercito di Sicilia (832). E i cronisti bizantini che
514
Baiân, tomo I, p. 98-99. Non si dice il nome; ma par che si tratti dello stesso
cadi del Kairewân Abu-Mohriz, del quale si è detto di sopra; certo di un
personaggio riverito molto dal principe, e pio o grande al segno da vietare gli
onori funebri che si aspettava da costui. Tuttavia dubito di qualche errore, poichè
il Riadh-en-nofûs non fa menzione di ciò nella biografia di Abu-Mohriz.
515
Tychsen, Additamentum I introductionis in rem nummariam
Muhammedanorum, p. 43. Il rovescio è lo stesso del dirhem del
214, di cui dicemmo a p. 283, 284. Il dritto ha la medesima formola
religiosa, il nome di Mohammed-ibn-Abd-Allah, e in giro: "In nome
di Dio fu battuto questo dirhem in Sicilia l'anno 220. "Quivi il nome
dell'isola, scritto Iskilîa, premettendosi, cioè, una alef, ricorda la
pronunzia maltese, e però l'abate Vella. Nondimeno, senza veder la
moneta, non la posso dichiarare spuria; tanto più che il Vella,
com'io credo, falsificò poche monete, e molte ne finse che punto
non esisteano.
La leggenda di questo dirhem è stata ristampata dal signor Mortillaro, Opere,
tomo III, p. 344.

307
dipingono sì studiosamente ogni inezia e perfidia di corte e
confondono nell'ombra il resto de' fatti, si contentano qui
d'aggiugnere ch'Alessio egregiamente compiè i voleri dello
imperatore; potendosi al più inferire da qualche parola che, fatte
genti in Calabria, cominciasse già a ristorar la guerra nell'isola. Ma
tra i nemici che avea lasciato a Costantinopoli, e que' che l'invidia
gli suscitò d'un soffio in Sicilia, fu accusato di pratiche coi
Musulmani; di tramare ribellione: solite contraddizioni della
calunnia, che Teofilo si bevve senza esame. Donde chiamato
Alessio appo di sè (833), ed esitando quegli a ubbidire, il principe
trovò più comodo un tradimento. Mandò a persuaderlo l'arcivescovo
Teodoro Crethino, al quale fe' sacramento del gran bene che voleva
ad Alessio, e gli diè un salvocondotto soscritto di sua mano, e, più
sacro pegno, una croce ch'ei solea portare al petto; sì che l'onesto
sacerdote, ingannato, ingannò Alessio e seco il ricondusse a
Costantinopoli. Quivi il Cesare era imprigionato, vergheggiato,
confiscatigli i beni. L'arcivescovo che in una solenne cerimonia
della chiesa osò rinfacciar lo spergiuro allo imperatore, fu strappato
dagli altari, battuto, mandato in esilio. Poi Teofilo, pentito per le
rimostranze del patriarca di Costantinopoli, liberò l'uno e l'altro: ma
Alessio era ristucco sì tosto del mondo, che dei beni resigli edificò
un monastero e vi si serrò516. Così fatto imperatore, così fatto
capitano, e i soldati fiacchi, il popolo rimbambito, gli ottimati di
Sicilia sì saputi a calunniare, sì mal disposti a combattere, non erano
al certo gli uomini che poteano salvare l'isola dai Musulmani. Il solo
516
Confrontinsi: Theophanes continuatus, lib. III, cap. 18, p. 107 a 109; Symeon
Magister, nello stesso vol., p. 630 a 632; Georgius Monachus, nello stesso
volume, p. 794 a 796; e Leo Grammaticus, p. 216, 217. Il nome patronimico di
Alessio si legge Musele, Μουσελέ, ma lo correggo secondo il Saint-Martin, ch'è
autorità competente, e lo scrive Mouschegh nelle note a Le Beau, Histoire du Bas
Empire, lib. LXIX, § 21. Mi discosto dai due eruditi compilatori francesi circa il
tempo della missione di Alessio in Sicilia, che pongono nell'835; ma Symeon
Magister, molto preciso in questo racconto, riferisce la elezione all'anno terzo di
Teofilo, e il richiamo all'anno quarto, cioè agli anni 831-32 e 832-33, contandosi
alla bizantina dal primo settembre e dalla esaltazione di Teofilo, che seguì il
primo ottobre 829.

308
espediente strategico in cui si affidarono dopo la occupazione di
Palermo, fu di adunare il grosso dell'esercito a Castrogiovanni; sì
che gli scrittori musulmani dicono trasferita da Siracusa in quella
città la sede del governo517. Oggidì si chiamerebbe campo di
osservazione. Quivi sedea il capitan generale dell'isola, spettatore
ozioso d'ogni guasto che facevano i Musulmani.
Abu-Fihr andò dritto ad assalirlo ne' principii dell'anno dugento
diciannove dell'egira (15 gennaio 834 a 3 gennaio 835): uscitigli
incontro i Cristiani, li rompea dopo aspra zuffa, li ricacciava negli
alloggiamenti, e, tornatovi in primavera, lor dava una seconda
sconfitta. L'anno appresso intraprese più grossa guerra. Principiando
dal campo di osservazione, lo combattè una terza fiata (835);
espugnò gli alloggiamenti, li saccheggiò, vi fece prigioni la moglie
e un figliuolo del patrizio che capitanava lo esercito; e tornatosi egli
in Palermo, mandò un grosso di genti con Mohammed-ibn-Sâlem
infino a Taormina, su la costiera orientale, i quali fecero ricco
bottino. Altre gualdane saccheggiarono altri luoghi. Tra coteste
vittorie scoppiava contro Abu-Fihr una sollevazione militare in cui
fu ucciso, e gli omicidi si rifuggirono presso l'esercito cristiano518.
Mandato da Ziadet-Allah in Sicilia, in luogo del congiunto, un
Fadhl-ibn-Ia'kûb, segnalossi immantinente con due correrie, l'una
sopra Siracusa, l'altra forse nelle parti di Castrogiovanni; poichè
leggesi che il patrizio andò con grosso stuolo a tagliar il cammino ai
517
Confrontinsi Nowairi presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 8, e Ibn-el-
Athîr, Ibn-Khaldûn e gli altri cronisti citati nel capitolo VI del presente libro,
nella narrazione della presa di Castrogiovanni.
518
Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 124 verso, dove si dicono preposti allo stuolo
mandato a Taormina, Mohammed e Sâlem. Credendolo errore del MS., ho
corretto Mohammed-ibn-Sâlem. Una parte di cotesti avvenimenti manca nel MS.
C, tomo IV, fog. 192 recto. Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p.
108, 109, dà un cenno della terza fazione di Castrogiovanni e di quella di
Taormina. Questo nome d'altronde, che è scritto Tarmîn, si trova nel solo Ibn-
Khaldûn, e nel MS. d'Ibn-el-Athîr è lasciato in bianco. Il Baiân, tomo I, p. 98,
parla di una sola battaglia di Abu-Fihr, nel 220, e accenna in generale «molte altre
fazioni dei Musulmani in Sicilia e in Spagna, per mare e per terra, combattute il
medesimo anno.»

309
Musulmani. Se non ch'essi furono pronti ad afforzarsi in un aspro
terreno e boscaglie intricate, ove il nemico non osò assalirli.
Aspettato invano insino a sera che scendessero quelli a combattere,
le genti del patrizio, com'era l'indole delle milizie bizantine, più
neghittose che vigliacche, si partirono; sciolsero gli ordini nella
ritirata. Addandosene i Musulmani, saltavan fuori da loro rupi,
caricavano il nemico d'una carica vera, dicono gli annali, e lo
sbaragliavano: il patrizio, ferito di parecchi colpi di lancia, cadde da
cavallo, ma fu valorosamente difeso da' suoi, tanto che sel portarono
fuggendo così mal concio, abbandonando armi, arnesi, cavalli. Così
la scorreria finì in segnalata battaglia519. Seguiano coteste due
fazioni nella state dell'ottocento trentacinque; e si terminò con
quelle la missione provvisionale di Fadhl, sendo venuto all'entrar di
settembre a reggere la Sicilia un altro principe del sangue aghlabita.
Fu questi Abu-'l-Aghlab-Ibrahim-ibn-Abd-Allah-ibn-el-Aghab520,

519
Ibn-el-Athîr, MS. A, l. c., che dà al capitano greco il titolo di patrizio e Malek
(re) della Sicilia. Breve cenno in Ibn-Khaldûn, l. c.
520
Scrivo il nome secondo il Baiân, tomo I, p. 104, ove Ibrahim è
chiamato principe (sâheb) di Sicilia. A p. 98 e 99, questo libro fa
menzione di lui col solo soprannome di Abn-'l-Aghlab, che alla p.
98 si legge, al certo erroneamente, Ibn-el-Aghlab.
Il Baiân ci dà il bandolo d'una matassa in cui gli altri annalisti han
confuso questo personaggio con altri governatori di Sicilia; ed ecco
in qual modo.
Ibn-el-Athîr, citato di sopra, dà Mohammed-ibn-Abd-Allah-ibn-el-
Aghlab come già esercente la carica di governatore di Sicilia nel
220. Poi narra ch'ei fu ucciso lo stesso anno, ed eletti
successivamente dopo di lui, Fadhl-ibn-Ia'kûb ed Abu-'l-Aghlab-
Ibrahim-ibn-Abd-Allah. (MS. A, tomo I, fog. 124 verso.) In ultimo,
quasi dimenticando cotesti nomi e date, registra nel 236 la morte di
Mohammed-ibn-Abd-Allah, governatore di Sicilia, dopo 19 anni di
egregio governo; ma egli dubita di così fatta tradizione,
aggiungendo la solita frase di scappatoia: "Del resto, la verità la sa
Iddio." (MS. A, tomo II, fog. 2 recto; MS. C, tomo IV, fog. 212

310
cugin germano di Ziadet-Allah e fratello dell'ucciso Mohammed.
Uomo di grande saviezza e vedere politico, come il mostrò
promovendo le fazioni navali. Venne con una armatetta in Palermo,
capitale della Sicilia, come già la chiama un cronista, di mezzo
ramadhan del dugentoventi (11 settembre 835), campato da grave
fortuna in cui avea perduto parecchie navi per naufragio ed altre

recto.)
Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 120; Abulfeda,
Annales Moslemici, ann. 237; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum
Arabicarum, p. 8, ed Ibn-Abi-Dinâr, MS. di Parigi, fog. 20 verso e
21 recto, replicano il nome di Mohammed-ibn-Abd-Allah-ibn-el-
Aghlab, e la tradizione dei 19 anni di forte e savio governo, finito
per morte il 236 o il 237 e cominciato, come dice il Nowairi con
evidente sbaglio di computo, il 225.
Ibn-Abbâr, infine (MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 148
verso), porta il nome di Abu-'l-Aghlab-Ibrahim-ibn-Abd-Allah-ibn-
Ibrahim-ibn-el-Aghlab, che «assestò (dice egli), ed egregiamente
resse la Sicilia dall'anno 221 ch'ei vi fu mandato, per tutto il tempo
della sua vita.»
Comparando le quali testimonianze, e notando la fede che merita
ciascuna, è evidente lo errore di tutti gli altri, fuorchè il Baiân, e
Ibn-Abbâr; e che Ibn-el-Athîr, seguíto da Ibn-Khaldûn, che il vero
nome dapprima, e poi con troppa fretta ripetè lo errore altrui. Lo
errore stava nel confondere i tre anni di governo di Mohammed-ibn-
Abd-Allah (217 a 220), e i sedici di Ibrahim (220 a 236), e far dei
due fratelli un solo personaggio che avesse retto la Sicilia per 19
anni.
Chiarito or questo punto, rimarrebbe un sol dubbio, cioè se il padre di Ibrahim,
chiamato Abd-Allah, fosse stato figliuolo di quell'Aghlab, dal quale prese nome
la dinastia, ovvero del costui figliuolo Ibrahim primo principe d'Affrica; e perciò
se il governatore mandato in Sicilia il 220 fosse stato cugino germano di Ziadet-
Allah, ovvero nipote, figliuolo cioè del fratello che avea regnato prima di lui.
Rimane il dubbio, io dico, per lo nome di Ibn-Ibrahim che si legge in Ibn-Abbâr,
e ch'io ho scritto in corsivo nella citazione; ma come il MS. di Ibn-Abbâr che ho

311
presegli dai Cristiani521. Tra queste leggiamo che fosse una harrâka,
e che una squadra di legni della medesima denominazione,
capitanata da Mohammed-ibn-Sindi, uscì immediatamente alla
riscossa, e diè la caccia al nemico, finchè la notte non glielo tolse di
vista522; e nei combattimenti che seguirono indi a non molto, si fa
menzione altresì d'una harrâka523 presa dai Musulmani sopra i
Greci524. Or cotesta voce arabica significa appunto "incendiaria"; e
però denota le galee da lanciar fuoco, che i Musulmani per
avventura avean preso ad imitar dai Greci, tra il fine dell'ottavo e il
principio del nono secolo: ancorchè tal foggia di navi in Oriente si
fosse anco adoperata ad altri usi, e in Italia al commercio,
riconoscendosi quello infausto nome nella appellazione di "carraca"
e "caracca" che occorre sì sovente nei ricordi di Genova e di
Venezia525. È manifesto dunque che la colonia di Palermo tentava

sotto gli occhi è copia moderna e scorretta, così io credo si debba sopprimere
questo grado di genealogia, e stare al nome dato dal Baiân.
521
Baiân, tomo I, p. 98. La sola data dell'arrivo in Sicilia e il nome del nuovo
governatore Abu-'l-Aghlab-ibn-Ibrahim-ibn-Abd-Allah leggonsi in Ibn-el-Athîr,
MS. A, tomo I, fog. 124 verso, e Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Si-
cile, p. 109.
522
Baiân, l. c.
523
Nell'originale "harraka". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
524
Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 124 verso.
525
I Bizantini, il cui navilio fu sì formidabile per cagione dei legni
incendiarii, non chiamavanli con nome speciale. I dromoni, ch'erano
lor navi da fila, portavano uno o più tubi di metallo, onde schizzava
il fuoco greco alla guisa delle lance a fuoco d'oggidì; e gli artiglieri,
drizzando quella lingua di fiamma come voleano, ardean la nave
nemica. Aveano oltre a ciò piccioli tubi, pentole e altri artifizii di
fuoco da lanciare a mano o con macchine. Veggansi a tal proposito
le Institutions militaires de l'empereur Léon, versione francese del
Maizeroi, p. 136 seg.; e Reinaud et Favé, Du feu grégeois, pag. 103
a 112.
Presso i Musulmani il nome di (nave) incendiaria apparisce la prima
volta, credo io, verso l'813; facendosi menzione da Ibn-el-Athîr

312
già il gran problema della tattica navale del tempo, di costruire cioè
le navi incendiarie, ed a ciò adoperava le arti conosciute in Africa,
in Ispagna, e forse meglio in Sicilia, poichè di harrâke non fanno
menzione gli annali arabici, della Spagna nè dell'Affrica. Abu-'l-
Aghlab non lasciò in ozio tal novella forza. Mandate alcune navi in
una città di cui manca il nome nei Manoscritti, sia che fosse nelle
isole Eolie, o nella costiera tra Palermo e Messina, i Musulmani

d'una harrâka con la quale il califo Amîn solea andare a diporto sul
Tigri. Poi, questa denominazione occorre al tempo delle Crociate
nel significato di barca da fiume, battello, gondola; ma tuttavia
alcuni scrittori arabi la definivano: "galea con un ordegno da gittar
fuoco." Da tale contraddizione tra il nome e il fatto, è nato disparere
su la qualità di nave che si dovesse intendere sotto il nome di
harrâka; ostinandosi i dotti a credere che si trattasse sempre di una
sola qualità di nave: e le varie opinioni su tal punto si leggono nelle
note dei signori Reinaud, Extraits etc. relatifs aux Croisades, p.
415; ed E. Quatremère, Histoire des Sultans Mamlouks par Makrizi,
tomo I, p. 143, e tom. II, parte I, p. 24 e 25.
La menzione fatta delle harrâke dei Musulmani, e sopratutto d'una
dei Bizantini, nei combattimenti di Sicilia, parmi che tronchi ormai
la lite, mostrando come in varii tempi e luoghi si addimandarono
così or navi da guerra, or barche da diporto o commercio. In simil
guisa le "bombarde" dell'Italia meridionale ritengon oggi lo antico
nome, ancorchè le si adoprino a traffico di cabotaggio e siano
smesse nella guerra.
Procedendo nelle conghietture, io penso che gli Arabi abbiano
costruito navi apposta, o almeno ingegni da incendiare, quando
cominciarono ad appropriarsi quel che poteano delle scienze ed arti
de' Greci. In questo particolare, come in parecchi altri, gli Arabi
fallirono; e forse l'uso delle navi incendiarie fu abbandonato da loro,
perchè non seppero mai costruire i dromoni veloci e forti come i
Bizantini, e perchè fino al tempo delle Crociate non venne lor fatto
giammai di scoprir la vera composizione del fuoco greco. Il nome
che trovasi a Bagdad, come ho detto, nell'813, e in Sicilia nell'835,

313
combatterono un'armatetta cristiana, la vinsero, depredarono il
paese e tornarono addietro coi prigioni, ai quali Abu-'l-Aghlab fe'
mozzare il capo. Un'altra squadra approdata a Pantellaria, vi colse
un dromone526, nel quale, oltre i soldati greci, trovossi un uom
d'Affrica fatto cristiano; e tutti al paro furon messi a morte per
comando del governatore di Palermo527: crudeltà non comandata
dalla legge, fuorchè contro i rinnegati, e non solita nelle guerre
degli Arabi; onde vi si scorge lo accanimento e invidia dei vincitori
prova che il saggio fosse stato cominciato o continuato nei principii
del IX secolo. E il tentativo fatto si può argomentare anco dai
ricordi cristiani che abbiamo intorno il fuoco greco: cioè che recollo
a Costantinopoli, verso la metà del settimo secolo, Callinico
ingegnere di Siria, e che sendosi adoperato con felice successo
contro i Musulmani nei due assedii di Costantinopoli, passò tra i
segreti di Stato: e la corte spacciò che un angelo lo avesse insegnato
a Costantino il Grande; che Iddio serbasse tremendi supplizii a
chiunque lo rivelava; e che in fatti un traditore che volle darlo ai
nemici fu divorato da fiamme scese dal cielo. Come gli imperatori
non trascuravano i mezzi umani di guardare gelosamente quel
segreto, e come i chimici musulmani non seppero indovinar bene la
composizione prima del tempo delle Crociate, così i saggi di
qualche officiale subalterno che passasse dai Bizantini agli Arabi,
tornarono tutti vani. Forse le harrâke di Sicilia furono costruite con
questo mezzo, e però imperfettamente, e però si disusarono;
affidandosi meglio i Musulmani alle spade, alle lance e all'impeto e
numero con che andavano all'arrembaggio.
La voce carraca, mutata poi in caracca, carrica, carraque ec., dà esattamente il
suono della harrâka arabica, pronunziandosi anche così la h nella voce genovese
camâlo, venuta dall'arabo hammâl, e in tante altre. La etimologia da harrâka mi
pare assai più naturale che quelle imaginate fin qui, su le quali veggansi Ducange,
Glossarium mediæ et infimæ latinitatis, alle dette voci; e Jal, Archéologie navale,
tomo II, p. 211, seg.]
526
Ibn-el-Athîr scrive harrâka. Ho messo la denominazione che senza dubbio
davano i Greci.
527
Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 124 verso; Ibn-Khaldûn, Histoire de
l'Afrique et de la Sicile, p. 109. Questi non parla del luogo della prima impresa

314
contro il navilio bizantino che sì raro lor avvenia di sgarare. Al
tempo stesso, una torma di cavalli, spinta verso le falde dell'Etna e
tra le fortezze della regione orientale, arse le campagne, saccheggiò
e sparse gran sangue; ma combattendo, non scannando prigioni528.
L'anno seguente (221, 25 dicembre 835 a 12 dicembre 836) fatta
irruzione di nuovo nel paese dell'Etna, se ne tornarono i Musulmani
in Palermo con tanta preda di roba, e sopratutto di uomini, che il
prezzo degli schiavi molto rinvilì, scrive laconicamente Ibn-el-
Athîr. Un'altra schiera che mosse, credo io, lungo la costiera
settentrionale non mai prima infestata, arrivò infino a Castelluccio,
rôcca in su i monti a mezza via tra Palermo e Messina, e vi fe' anco
bottino e prigioni; ma sopraggiunta dal nemico, dopo aspro
combattimento, fu sconfitta. L'armata intanto, capitanata da Fadhl-
ibn-Ia'kûb, assaliva e spogliava le isolette adiacenti, senza dubbio le
Eolie; espugnava poi una fortezza, che volentieri leggerei Tindaro, e
parecchie altre rôcche, e vittoriosa se ne tornò a Palermo 529. Dond'è

navale dei Musulmani, ma sol dice che essi, trovata l'armata bizantina, la
saccheggiarono; la quale frase, trattandosi di navi, non è più precisa in arabico
che nelle nostre lingue. Nel MS. di Ibn-el-Athîr, al contrario, è lasciato in bianco
il nome del paese depredato dalla armata musulmana.
528
Ibn-el-Athîr, l. c., e MS. C, tomo IV, fog. 192 recto; Ibn-Khaldûn, op. cit., p.
110.
529
Confrontinsi Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 125 recto; Ibn-
Khaldûn, op. cit., p. 110; e il Baiân, tomo I, p. 99. Scrivo il nome di
Castelluccio, perchè il testo di Ibn-el-Athîr ha K st l iâsa, e tra i
tanti Castellucci, Castellacci e nomi somiglianti che si trovano nella
topografia della Sicilia, il comune chiamato oggi Castelluccio è
appunto su la via che dovea scorrere questa schiera di Musulmani.
Poichè l'annalista la dice diversa da quella che s'era spinta fino
all'Etna, cioè avea tagliato l'isola per lo mezzo; e mi pare
probabilissimo che la seconda impresa di questo anno fosse intesa
ad esplorare la costiera settentrionale, ove due anni appresso
veggiamo assediata Cefalù. M. Des Vergers ha letto questo nome
"Catania;" ma oltre l'autorità di Ibn-el-Athîr, che tratta
evidentemente della stessa città di cui Ibn-Khaldûn, i MSS. di

315
manifesto che dopo le isole Eolie avesse scorso anch'essa la costiera
di settentrione. Nel medesimo anno o piuttosto in quel d'appresso
(222, 13 dicembre 836 a 1 dicembre 837) Abu-'l-Aghlab spingeva
una grossa schiera capitanata da Abd-es-Selâm-ibn-Abd-el-Wehâb
sul territorio di Castrogiovanni; contro la quale sceso il nemico a
combattere, andarono in volta i Musulmani, lasciando assai gente
sul campo di battaglia e non pochi prigioni, e tra quelli Abd-es-
Selâm, che fu indi liberato, forse in uno scambio530. Perocchè
l'armata ch'era uscita anco questa stagione, scontratasi in quella dei
Bizantini, la ruppe, e presele nove grossi navigli e una salandra531
con tutte le ciurme; e l'esercito, per far vendetta o riavere i prigioni,
tornò più forte sotto Castrogiovanni, e vi si messe a campo.
Tra i quali travagli innoltratosi il verno, avvenne una notte che
un Musulmano scoprì un di Castrogiovanni che si riduceva in città
per viottoli ignoti; e tenutogli dietro, chetamente salì fino al
sobborgo ove erano gli alloggiamenti dell'esercito. Donde tornato in
questo secondo autore portano chiaramente K t liâna.
Il nome che ho letto Tindaro si vede scritto m d nâr nel Baiân.
Trattandosi di una fortezza importante, e su la costiera
settentrionale, poichè l'assaliva l'armata reduce dalle isole Eolie,
Tindaro mi è parso, tra tutti i nomi antichi e moderni, quel che più si
avvicina al testo del Baiân. Lo scambio della prima lettera non
sarebbe caso straordinario. Èdrisi scrive Tindaro d n dâri. Tindaro
fu città importante fino al tempo dei Musulmani, e si trova noverata
tra le sedi vescovili nel IX o X secolo. Durò anco fino al XIV,
leggendosi di un Vinciguerra Aragona signore di Tyndaris.
È da avvertire, in fine, che il Baiân non dice se questa impresa fosse stata fatta
dall'armata o dall'esercito, che la reca nel 222, quando Ibn-el-Athîr la riferisce al
221, e l'attribuisce alle forze navali. Leggiamo in questo autore essere state prese
«cittadi e fortezze;» ma la prima parola, in arabico Modonan, potrebbe essere
alterazione del detto nome geografico.
530
Confrontinsi Ibn-el-Athîr e Ibn-Khaldûn col Baiân, ll. cc., dei quali il primo
pone tutte queste fazioni nel 221, e l'ultimo tutte nel 222.
531
Legno sottile adoperato per dare avvisi, fare scoperte e simili officii. Ho dato a
questa voce la forma italiana del medio evo. I Greci scriveano Χελάνδιον; i Latini
dei bassi tempi, Chelandium; gli Arabi s l n d s.

316
fretta il Musulmano a darne avviso ai suoi, tutti s'armarono,
s'inerpicarono per quel sentiero; e, superatolo, diedero il grido
d'Akbar-allah (è massimo Iddio), e furono addosso ai nemici. Si
rifuggivan quegli entro la cittadella, abbandonato il borgo; e
fieramente indi resisteano, sicuri nella fortezza del sito. Alfine, dice
il cronista, chiesero ed ottennero l'amân; e così i Musulmani carichi
di preda se ne tornarono a Palermo532. Si deve intendere che i
Cristiani profferirono una taglia, e che i Musulmani, stando
all'assedio tra i dirupi da una parte e un grosso presidio dall'altra,
furon lietissimi di uscir dal pericolo con onore e guadagno. Ma nè
s'impadronirono della rôcca, nè rimasero nel sobborgo; perocchè
egli è certo che Castrogiovanni fa combattuta per più di venti anni
dopo questo accordo; e ognun vede che se i Musulmani vi fossero
entrati una volta, non avrebbero di leggieri lasciato sì importante
fortezza.
In questo medesimo tempo stringeano Cefalù su la costiera
settentrionale, a quarantotto miglia a levante di Palermo; il cui
nome gli Arabi scrissero Gefalûdi e Scefalûdi: e ciò mostra
ch'abbiano trovato guasta, forse da molti secoli, la pronunzia di
Kefalídion533. Così addimandarono quella terra i Greci dalla
sembianza d'una rupe ritonda, inaccessa, sporgente in mare; la quale
sovrasta alla città odierna, e sostenne l'antica oltre venti secoli,
incominciando da tempi che non hanno storia; poichè vi si trovano
532
Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 125 recto, dice espressamente che i
Musulmani occuparono il solo borgo, e che i Cristiani si difesero nella cittadella.
Ibn-Khaldûn, op. cit., p. 100, narra il fatto più brevemente e vagamente. La
ritirata nella fortezza mostra che il campo d'osservazione dei Bizantini questa
volta fosse posto nel borgo.
533
Strabone scrive Κεφαλοίδιον; Tolomeo Κεφαλοιδίς Κεφαλούδιος i ricordi
bizantini del IX secolo; Plinio Cephaloedis; altri latini Cephaludium etc. Gli
Arabi aveano non meno di quattro lettere per notare il suono della κ greca e della
c latina, la quale par abbia avuto il suono di una k, per esempio Cicero
pronunziata Kikero. Se contuttociò gli Arabi resero la prima lettera con una Gim
o una Scin, ciò prova che la sentivano pronunziare dai Siciliani con lo stesso
suono strisciante che diamo in oggi in Sicilia alla c avanti le vocali e ed i. Cefalù
era sede vescovile nel IX secolo e però città importante.

317
avanzi di mura ciclopiche. Il forte sito la rese città di qualche
momento nell'antichità e nel medio evo; e indi a prima vista alcun
potrebbe maravigliare che i Musulmani conducessero insieme ambo
le imprese di Cefalù e di Castrogiovanni, e ne potrebbe credere la
colonia di Palermo assai più potente che non fu nei primi principii.
Ma suppliva al numero dei Musulmani l'audacia loro e il terrore dei
nemici. Una schiera solea dare il guasto al contado; porsi in luogo
forte presso le mura; minacciare chiunque ne uscisse; combattere ed
opprimere chi l'osava; spiare l'occasione di qualche colpo di mano:
e questo chiamavasi assedio. E l'era, poichè sovente riduceva i
terrazzani ad arrendersi, per amor dei poderi, per noia dei disagi, per
paura di sè, della famigliuola, della roba, per tutti quei sintomi del
pacifico cittadino, come il chiamano per dileggio coloro che il
menano a verga. Nondimeno la fortezza del sito o del presidio
faceva andare in lungo l'assedio di Cefalù, quando, dell'anno
dugentoventitrè (2 dicembre 837 a 21 novembre 838),
probabilmente in primavera, giunservi grossi rinforzi per mare. Eran
costretti da quelli i Musulmani a levare l'assedio, a combattere
molte fazioni534, com'e' pare, con disavvantaggio, ritraendosi sempre
verso Palermo. Dove risaputa tra questi travagli la morte di Ziadet-
Allah, ch'era seguita in Affrica il quattordici di regeb (10 giugno
838), la colonia se ne costernò fortemente, leggiamo negli annali;
ma dileguato il primo sbigottimento, si apprestò a mostrare il viso
alla fortuna535. Donde è chiaro che si temessero nuovi rivolgimenti
in Affrica, e si disperasse indi degli aiuti che per avventura si
credevano necessarii contro il nemico sbarcato a Cefalù.
Svanirono poi que' timori per lo savio e forte reggimento di Abu-
I'kâl-Aghlab-ibn-Ibrahim; il quale succeduto tranquillamente al
fratello Ziadet-Allah, seppe contentare le milizie, raffrenare le
violenze private, tenere a freno i Berberi, ristorare nella capitale
d'Affrica que' ch'eran buoni costumi secondo le idee religiose de'
Musulmani. E tosto mandò nuove genti in Sicilia; onde la colonia

534
Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 124 verso; MS. C, tomo IV, foglio 192 recto.
535
Ibn-el-Athîr, l. c., Ibn-Khaldûn, op. cit., p. 110.

318
continuava sue correrie nel dugentoventiquattro (22 novembre 838 a
10 novembre 839), dalle quali, leggiamo che i Musulmani
tornassero in Palermo carichi di bottino536; e però si vede che la
espedizione dei Bizantini a Cefalù era finita, come le precedenti,
senza alcun frutto. Con più formidabili appresti i Musulmani
uscirono alla campagna l'anno appresso (11 novembre 839 a 29
ottobre 840) nel quale si arreser loro a patti Platani, Caltabellotta,
Corleone, e, se ben leggiamo, anco Marineo e Geraci, e molte altre
rôcche di cui gli annali non portano il nome537. Così anco del
dugento ventisei (30 ottobre 840 a 19 ottobre 841) una torma di
cavalli diè il guasto al territorio di Castrogiovanni, arse, depredò,
fece prigioni, senza che il presidio osasse uscirle incontro. Pertanto
scorrendo oltre fino alla fortezza delle Grotte, chè così
addimandavasi, scrive Ibn-el-Athîr, per trovarvisi quaranta grotte, i
Musulmani la presero e saccheggiarono538. Il sito e il nome danno a

536
Ibn-el-Athîr, l. c., (sotto l'anno 201); e MS. A, tomo I, fog. 285 verso (sotto
l'anno 223); Ibn-Khaldûn, op. cit., p. 111, 112.
537
Ibn-el-Athîr e Ibn-Khaldûn, ll. cc.; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum
Arabicarum, p. 7, 8. Lasciando indietro il secondo che non dà i nomi, è da notare
che que' di Platani e Caltabellotta si trovano presso Ibn-el-Athîr e presso il
Nowairi. Il nome di Corleone si legge distintamente in ambo i MSS. del primo; e
in que' del secondo è scritto Kârûb. Il seguente è scritto in Ibn-el-Athîr Merw
(notissima città del Khorâssan), e in Nowairi M r a con una lettera senza punti
diacritici tra la r e l'a; talchè può essere b t th n i; ed io leggo per conghiettura
Marineo, confrontandola col nome di questa terra in Edrisi. L'ultima è data dal
solo Nowairi, Harsa in un MS., Harha nell'altro; probabilmente Gerasa, o
Geragia. Si riscontrino le note del Di Gregorio in questo luogo. Io rigetto la sua
correzione di Mirta, perchè Mirto è troppo lontana dalla provincia infestata l'840.
Per la stessa ragione e per la diversità delle lettere non assento a leggere Kewârib
il nome del Nowairi che risponde al Corleone d'Ibn-el-Athîr
538
Ibn-el-Athîr, l. c.; ove si trova, il nome di Ghirân, che significa
"grotta" o "caverna", e anche il suo singolare Ghâr; talchè non resta
alcun dubbio su questa lezione; Ibn-Khaldûn, op, cit., p. 112. Il MS.
di Parigi di Ibn-Khaldûn ha Ghirûn; uno di Tunis, Ghirwân; nella
edizione di M. Des Vergers si legge Kairûn, e nella versione
Coronia.

319
credere che sia la città che or si chiama Grotte, presso Girgenti,
ancorchè parecchi altri luoghi di Sicilia abbiano la stessa
denominazione negli annali musulmani, e in Sicilia al par che in
Sardegna, in Puglia, in Affrica, in Egitto e altrove, come ognun sa,
si veggano assai frequenti coteste stanze tagliate nella roccia in
tempi antichissimi, per albergo de' vivi o tomba de' morti. I nomi
delle città arrese ai Musulmani tra l'ottocentotrentanove e il
quarantuno, bastano a mostrare che fosse ormai signoreggiato da
loro tutto il val di Mazara, e lasciato in pace fin qui il rimanente
dell'isola. Contuttociò aveano non solo portato le armi nella
terraferma d'Italia, ma, quel che più è, fattovi lega con la repubblica
di Napoli.

Il Fazzello, supponendo che il nome di ̉Ερβησσὸς ed Herbesus


derivasse da ὲ̃ρεβος, e che significasse "caverne," credette
riconoscere una delle due Erbesso dell'antica Sicilia nella terra delle
Grotte, e l'altra non lungi da Siracusa nel burrone della rupe di
Pantalica, ch'è bucherato, in fatti, di simili grotte come un alveare
(Deca I, lib. X, cap. III, e lib. IV, cap. I). Veggasi su cotesti giudizii
del Fazzello il Cluverio, Sicilia Antiqua, lib. II, cap. X e XI. Su le
grotte destinate ad abituri o sepolture in varie parti della Sicilia,
meritano di esser lette le osservazioni di M. Felix Bourquelot,
Voyage en Sicile (Paris 1848), p. 164 e segg. M. Bourquelot ne cita
a Castrogiovanni, altre presso il lago Pergusa, altre tra Piazza e
Caltagirone, a Vizzini, Spaccaforno, Monte Aperto, Avola, Licodia,
Ferla, Valle d'Ispica, e quelle infine di Pantalica, ch'ei descrive
minutamente.
Il mio amicissimo Saverio Cavallari, ingegnere e archeologo, ne ha osservato
altre a Lentini, Sortino, Palagonia, e crede importanti sopra tutte quelle dette "Le
Grotte di San Cono" presso Caltabellotta, e "Le Grotte dei Giganti" tra Bronte e
Maletto. Lo ritraggo da una lettera ch'egli ha scritto recentemente al duca di
Luynes, della quale il dotto archeologo francese si è piaciuto darmi una copia.

320
CAPITOLO VI.
Com'ai forti non manca giammai chi abbia bisogno di loro, e, per
fuggire altro pericolo più imminente, corra dassè ad avvilupparsi
nella rete; così i Musulmani di Sicilia presto trovarono amici in
terraferma. L'Italia dopo la morte di Carlomagno era rimasta a un
tempo serva, divisa e mal sicura. I principi Franchi, signori della
parte settentrionale, impediti da discordie di famiglia e dalla troppa
vastità dell'impero non pensavano ad allargare i confini nella
penisola. I papi, mezzi principi e mezzi cappellani del novello
impero, teneano senza spada l'Italia centrale, insudiciandosi in ogni
scandalo della corte di Francia. All'incontro i principi longobardi di
Benevento, liberi dal timore dei papi e dei Carlovingi e padroni
pressochè di tutta la regione meridionale, agognavano ad occupare
quella striscia di costiera, ove, con maravigliosa costanza e poche
forze, resistean loro le repubbliche di Napoli, Amalfi, Sorrento,
Gaeta. Nelle vicende di cotesta lotta disuguale, Napoli ch'era come
capo di quelle città, da Gaeta in fuori, avea promesso tributo ai
principi di Benevento. Ma l'ottocentotrentasei, volendosene
svincolare l'audace repubblica o crescendo la tracotanza del principe
Sicardo, si raccese la guerra. Disperando d'avere aiuti dagli
imperatori d'Oriente o d'Occidente, Andrea console di Napoli si
volse ai Musulmani di Sicilia. Mandatovi a quest'effetto un
segretario, i Musulmani colsero il destro: andarono a Napoli con
un'armatetta; la quale costrinse Sicardo a levare l'assedio, a fare un
trattato coi Napoletani, ed a render loro i prigioni539. Questo
539
Johannes Diaconus, Chronicon Episcop. Sanctæ Neapolit.
Ecclesiæ. presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I,
parte I, p. 314. Non cito per questo fatto, nè per altri, i Chronici
Neapolitani Fragmenta, pubblicati dal Pratilli, Historia Principum
Langob., tomo III, perchè mi sembrano più che sospetti.
Allontanandomi dalla cronologia del Muratori, Annali d'Italia, 837, ritengo che
questo assedio sia precisamente quello di cui parla l'Anonimo Salernitano; che sia
cominciato in maggio 836; e che Sicardo, levando il campo, abbia stipulato
l'accordo del 4 luglio, 14a indizione, pubblicato dal Pellegrino, e indi dal

321
principio ebbe la lega della repubblica di Napoli con gli emiri di
Sicilia, che durò mezzo secolo, fino al novecento, con tutte le
scomuniche dei papi, le minacce degli imperatori e la rapacità e
insolenza dei Musulmani. Son corsi già dieci secoli, nè la storia ci
rammenta altro intimo accordo che questo tra i due paesi, cristiani,
italiani e oppressi entrambi; sì che ben avrebbero avuto ed
avrebbero cagione di accostarsi l'uno all'altro, d'amarsi, d'aiutarsi a
vicenda!
In altro capitolo si tratterà la guerra condotta dai Musulmani in
terraferma; dove si vedranno appieno le conseguenze della detta
lega, e si scoprirà la man dei Napoletani che guidava que' pericolosi
amici su per l'Adriatico, a fine di gittarli addosso ai Longobardi e di
sviarli sempre dalla costiera occidentale. Al quale effetto
occorrendo procacciar loro un porto nel lato orientale della Sicilia
occupato dai Bizantini, si comprenderà di leggieri come la
repubblica di Napoli aiutasse i Musulmani all'assedio di Messina; se
pur non fu dessa che lo consigliò.
Andò a questa impresa con l'armata, correndo l'anno
dugentoventotto dell'egira (9 ottobre 842 a 28 settembre 843),
Fadhl-ibn-Gia'far della tribù di Hamadân; il quale, sbarcato in sul
porto, cominciò a stringere la città insieme coi Napoletani che già
gli avean chiesto l'accordo, scrive Ibn-el-Athîr. Sparse Fadhl sue
gualdane per la campagna; ma nè quei guasti, nè i frequenti e
gagliardi assalti dei Musulmani, valsero a sbigottire i Messinesi,
eroica gente in tutti i tempi. Alfine, il capitan musulmano, mandata
una parte de' suoi a girar dietro i monti e salir da quello che sovrasta
alla città, presentò la battaglia, sì com'ei solea fare, dalla marina;
attirò a quella parte tutte le forze del presidio: e in questo l'altra
schiera irrompeva in città dall'alto; feriva alle spalle i difenditori; li
scompigliava; e Messina era presa540. Pur non leggiamo che Fadhl vi
abbia sparso molto sangue. Il medesimo anno cadde in poter dei
Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo II, parte 1, p. 256. Gli assalti che, al
dir di Giovanni Diacono, ricominciava Sicardo dopo la partenza dei Saraceni,
presto si terminarono: nè Sicardo, com'io credo, fece mai altra grossa guerra alla
repubblica di Napoli.

322
Musulmani un'altra città che Ibn-el-Athîr chiama Meskân, o
Miskân541; importante al certo, poich'ei ne fe' menzione; ma non
ritrovo tal nome appo i geografi antichi, nè altrove. Se si leggesse
Mihkân, che veggiamo in Edrisi, risponderebbe ad Alimena; la
quale è terra in sito assai forte, a cavaliere su la riva del Salso e in
su la strada che mena da Palermo nel Val di Noto valicando le
Madonie a Caltavuturo: sentieri alpestri, tinti di molto sangue in
quelle guerre542.
E veramente non tardava lo esercito di Palermo ad assaltare il
Val di Noto. Espugnovvi dell'ottocento quarantacinque le rôcche di

540
Confrontinsi Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 2; MS. C, tomo
IV, fog. 212 recto; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la
Sicile, p. 118; Abulfaragi, Historia Dynastiarum, p. 237, che è la
sola menzione che vi si faccia del conquisto della Sicilia; e in fine
Hagi Khalfa, Cronologia, MS. turco di Parigi, sotto l'anno 228, e
versione del conte Rinaldo Carli, intitolata Chronologia historica di
Hazi Halifé ec., dove questo passo si corregga così: "Anno 228, gli
Aghlabiti occupano l'isola di Sicilia, cioè a dire Messina."
Dell'accordo con Napoli e degli aiuti che ne trassero i Musulmani, parla il solo
Ibn-el-Athîr. Il nome della città si legge con poca difficoltà in entrambi i MSS.,
vedendovisi esattissimi gli elementi delle lettere, ed erronei solo alcuni punti
diacritici. In ogni modo, non può rimanere dubbio su la lezione; sendo Napoli la
sola città cristiana di cui sappiamo che fosse collegata in quel tempo coi
Musulmani di Sicilia, e che abbia potuto dar loro un'armata ausiliare. Debbo
avvertire infine che secondo la lezione alquanto incerta di un altro passo nel MS.
A, l'assedio sarebbe durato oltre due anni.
541
Ibn-el-Athîr, l. c.
542
Le condizioni topografiche assegnate a Mihkân nella geografia di Edrisi, non
lascian dubbio che il sito sia lo stesso dell'Alimena d'oggidì. Un diploma latino
pubblicato dal Di Gregorio, De supputandis apud Arabes Siculos temporibus, p.
52, seg., contiene le versioni dal greco e dall'arabico di due documenti del 1175,
nei quali si legge il nome del casale Michiken, e si vede ch'era posto in quel
distretto. Al dire del D'Amico, Diction. Siciliæ Topogr., si trovano presso
Alimena rovine di antichi aquidotti e sepolcri. Tra questo indizio e tra il nome di
Mehkan o Mihkan, parmi si possa supporre in quel sito la ́Ηεμιχάρα di Tolomeo,
e Imachara di Plinio.

323
Modica543, città antica, le quali così al plurale sono ricordate nella
cronica di Cambridge; e ciò mostra che parecchi castelli
difendessero i poggi frastagliati da due burroni, ov'oggi siede la
città. Forse l'anno medesimo, i Musulmani capitanati da Abu-'l-
Aghlab-Abbâs-ibn-Fadhl-ibn-Iakûb-ibn-Fezâra, ebbero a
combattere un esercito in quella provincia. Par che alla morte di
Teofilo (20 gennaio 842) la ristorazione del culto delle immagini,
savio provvedimento poichè tanto lo sospiravano i popoli, abbia
dato riputazione alla reggenza dell'imperatrice Teodora appo i
Siciliani. Scorgiamo, in fatti, da uno scritto contemporaneo544 il
bollor delle passioni che destò in Sicilia la festa della Ortodossia,
istituita in quell'incontro, da far quasi dimenticare che i
Musulmani occupavano mezza l'isola e guastavano l'altra metà. La
reggenza, alla quale mancò la virtù ma non il ticchio della guerra,
volendo usar quello zelo popolare, apprestò allora un esercito per la
Sicilia. Mandovvi le milizie del tema di Kharsiano, così detto da
una città dell'Asia Minore, le quali si davan vanto d'essere le più
valenti dell'Impero545; ma fecero prova contraria in questo incontro.
Venute alle mani con Abbâs nelle campagne, cred'io, di Butera,
furono rotte con grandissima strage: nove o diecimila uomini uccisi,
combattendo no, ma fuggendo; perocchè i Musulmani, vogliosi di

543
Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 41
544
Veggasi il capitolo XII di questo secondo Libro.
545
Il nome di Χαρσιανιτω̃ν si riconosce facilmente nella trascrizione
arabica Kharz nîta della Cronica di Cambridge, presso di Gregorio,
Rerum Arabic., p. 42. Quantunque questo non si legga tra i temi,
ossia divisioni militari, di Costantino Porfirogenito, non è dubbio
che un corpo di truppe bizantine portasse questo nome, e che vi
fosse stato un tema di tale denominazione, probabilmente unito ad
altro al tempo del Porfirogenito. Veggasi Theophanes continuatus,
p. 181, 183, 273 e 374.
Non credo si tratti delle milizie del duodecimo tema di Oriente, il Chersoneso,
cioè, di Taurica e la Crimea d'oggi. Ma il nome di Χερσωνίται, che si dà a que'
popoli, risponderebbe ancora alla trascrizione arabica.

324
esagerare l'agevolezza di lor vittoria, ebber fronte di dire che tre soli
credenti vi avessero incontrato il martirio546.
D'allora in poi non lasciaron tranquilla quella regione. Andati
l'anno dugentotrentadue dell'egira (27 agosto 846 a 15 agosto 847)
all'assedio di Lentini, antica e notissima città, Fadhl-ibn-Gia'far, il
vincitor di Messina, che li capitanava, trovò modo di terminar
presto la impresa. Risapendo che i cittadini avessero chiesto
soccorso al patrizio il quale si chiudea con le genti a Siracusa o a
Castrogiovanni, e che quegli avesse ordinato con essoloro uno
assalto da prendere in mezzo i Musulmani, Fadhl ritorse lo
stratagemma contro il nemico. Mandato ad accender fuoco per tre
notti sopra un monte a vista della città, chè tal segnale era ordinato
per annunziare la venuta del patrizio al quarto dì, il capitano
musulmano lasciò poche genti sotto Lentini; pose le altre in
agguato; e commise alle prime che alla sortita dei cittadini facessero
sembiante di fuggire verso l'agguato. E al quarto dì i Lentinesi,
armatisi popolarmente per andare a sicura vittoria, la credettero
guadagnata ad un soffio, quando videro i Musulmani volger le
spalle: onde tutti si posero a inseguirli; nè rimase in città uom che
potesse combatter bene o male. Trapassato il luogo delle insidie, i
fuggenti rifan testa; le altre schiere avviluppano i Cristiani; li
mettono al taglio della spada: e pochissimi ne camparono in città.
Pertanto questa s'arrese, non guari dopo, salve le persone e gli
averi547.
Tornò infelice al paro una fazione tentata l'anno appresso (16
agosto 847 a 3 agosto 848) da dieci salandre bizantine, che ponean
546
Chronicon Cantabrigiense, l. c.; Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 2; e MS. C,
tomo IV, fog. 212 recto. Secondo l'una, seguì la battaglia l'anno 6354 (1
settembre 845 a 31 agosto 846); secondo l'altro, il 229 (29 settembre 843 a 16
settembre 844); ma il numero dei Bizantini uccisi che la Cronica di Cambridge
porta a 9000, e Ibn-el-Athîr a più di 10,000, non lascia dubbio su la identità del
fatto. Forse questo seguì nell'845. Ibn-el-Athîr assegna come luogo della battaglia
Sciarra, secondo il MS. A, e un nome non dissimile, ma poco leggibile nel MS.
C. Gli elementi calligrafici e la topografia mi portano alla lezione probabilissima
di Butera.
547
Ibn-el-Athîr, l. c.; Ibn-Khaldûn Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 119.

325
le genti a terra nella cala di Mondello ad otto miglia da Palermo, per
dare il guasto al contado, scrive Ibn-el-Athîr; aggiungendo che,
smarrita la via, delusi se ne tornarono alle navi. Dal qual cenno
chiunque conosca i luoghi scorgerà un disegno di maggior momento
che mera scorreria. Tra i golfi di Mondello e di Palermo s'innalza
tutto solo in una vasta pianura e sporge in mare il Pellegrino: monte
di bizzarra forma, di quindici o venti miglia di giro; ed ha una salita
aspra ma praticabile in faccia a Palermo, un'altra più malagevole
assai verso libeccio, poi due o tre sentieri arrisicatissimi; e il resto
scosceso, tagliato come a piombo: su l'alto si stendon pianure; ricchi
pascoli per ogni luogo; nè mancan acque di pozzi e cisterne. Quivi
par si fosse accampato per tre anni Amilcare Barca, nella prima
guerra punica, fronteggiando le legioni di Roma. Quivi i Bizantini
avrebbero potuto similmente, a voglia loro, tener sicuro un picciol
nodo di soldati o nudrire un esercito; minacciando Palermo, ch'è a
manco di due miglia dalla parte di scirocco. A ponente avrebbero
signoreggiato la fondura di Mondello, in oggi paludosa ma
coltivata; la quale fu mezza tra pantano e lago nel secolo ottavo; dal
nono al duodecimo fu laguna profonda abbastanza da poterlesi dare
il nome di Marsa-t-tîn ossia porto-fangoso che troviamo in Edrisi; e
tre secoli innanzi l'era volgare era stato capace porto da contenere
l'armata di Amilcare: tanto si è ritirato il mare, per alluvione o per
sollevamento del suolo, in quello e altri punti della costiera. Il
Pellegrino poteva occuparsi solamente per un colpo di mano dalla
scala di libeccio: poichè, a tentare l'altra, sarebbe stato presentare
battaglia a tutto l'esercito musulmano di Palermo. Però la fazione
era audace, non temeraria; e però, non trovata la via, i Bizantini
lasciarono ogni speranza e precipitosamente si ritrassero alle navi.
Salparono anche a furia; e in una tempesta che si levò perderon sette
salandre delle dieci548.
548
Ibn-el-Athîr, l. c. Egli dà il nome di Marsa-t-tîn che troviamo scritto con la
stessa ortografia in Edrisi. A miluogo tra Mondello e Palermo, Edrisi pone un
punto chiamato Barca; il qual nome poteva esser dato dagli Arabi, o rimaso dalla
impresa di Amilcare. In ogni modo si è dileguato dal duodecimo secolo in qua, e
quella picciola cala in oggi si chiama "La Vergine Maria."

326
Guasti adunque i campi della Sicilia in ogni estate dai
Musulmani, e l'ottocentoquarantadue anco dalle cavallette549, si patì
dell'ottocento quarantotto una fame sì cruda, da farsene ricordo tra
tante calamità550. E forse fu quella carestia che domò Ragusa, forte
castello in Val di Noto, surto o appellato, sotto la dominazione
bizantina, col medesimo nome della notissima città di Dalmazia. I
valorosi abitatori di Ragusa in Sicilia scossero poi sovente il giogo
musulmano; ma del quarantotto si arresero senza battaglia al tristo
patto di abbandonare tutta la roba ai vincitori; i quali ne presero
quant'ei si fidarono di portarne; e prima d'andar via abbatteron le
mura. Poi, del dugentotrentacinque dell'egira (25 luglio 849 a 13
luglio 850), piombarono ne' dintorni di Castrogiovanni; e dove
posero taglie, dove saccheggiarono, arsero, empierono di stragi le
campagne; e impuni si ridussero in Palermo551.
Quivi il dieci regeb dell'anno appresso (17 gennaio 851) mancò
di vita Abu-'l-Aghlab-Ibrahim, dopo sedici anni di governo. Senza
uscire giammai dalla capitale, Ibrahim tutto quel tempo avea
condotto gagliardamente la guerra per luogotenenti; disegnato con
senno le imprese; dato riputazione alle forze navali; infestato l'Italia
meridionale; corso l'isola da un capo all'altro; sì che i Cristiani
appena vi si difendeano nelle fortezze principali; e, un passo fuori
da quelle, nè persona nè roba stava sicura che non pagasse la taglia
ai Musulmani. Meritò lode non minore nelle cose della pace;
leggendosi negli autori arabi, ch'ei fortemente reggesse e con
saviezza ordinasse la colonia: e attestanlo i fatti; poichè posavano al
tempo di Ibrahim que' pertinaci movimenti ne' quali avea incontrato
la morte Mohammed suo fratello: la tranquillità in casa, la vittoria
fuori, i grossi acquisti scompartiti con equità attiravano novelle
genti; onde presto crebbe lo esercito, o vogliam dire il popolo
musulmano di Palermo, che è lo stesso ragionando di quella età.
Nelle memorie dunque della Sicilia musulmana, il nome d'Ibrahim è
549
Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabic., p. 41.
550
Ibid., p. 42.
551
Confrontinsi Ibn-el-Athîr, Ibn-Khaldûn e la Cronica di Cambridge, ll. cc. Si
crede che Ragusa occupi il sito dell'Hybla Major degli antichi.

327
degno di andar congiunto con quello di Ased-ibn-Forât: due
valorosi vecchi; dei quali il giurista con impeto e furore principiò il
conquisto, e il guerriero col senno lo assodò552.
A costui succedette un uom ferocissimo, eletto dalla colonia,
Abu-l'Aghlab-Abbâs-ibn-Fadhl-ibn-Iacûb-ibn-Fezâra, chiaro per la
vittoria sopra i Kharsianiti dell'ottocento quarantasei. E
incontanente mandò gualdane che corsero il paese de' Cristiani; li
ruppero in più scontri sanguinosi; li avvilirono, dice l'autore del
Baiân553; e riportarono il bottino ad Abbâs, come scrivono altri
annalisti554: il che mostra che lo eletto esercitasse ogni ragione di

552
Confrontinsi Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 2; MS. C, tomo
IV, fog. 212 recto; Baiân, p. 104; Ibn-Abbâr, MS., fog. 148, verso;
Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 120; Nowairi,
presso Di Gregorio, Rerum Arabic., p. 8; Abulfeda, Annales
Moslemici, an. 228 e 237.
Ho corretto il nome e la cronologia nel modo accennato di sopra, p.
301, nota 1.
Una moneta, battuta in Sicilia sotto il governo d'Ibrahim, non porta nè il suo
nome, nè quello del principe aghlabita. È di argento, del peso di grammo 1,10, e
perciò del valore di circa venticinque centesimi di lira: moneta sottilissima; e,
dove la leggenda non è logora, notabile per la picciolezza e nitidezza dei caratteri.
Il diritto ha in giro vestigia di lettere dileguate, e nel campo il simbolo aghlabita,
la leggenda religiosa, e una stelletta a sei raggi. Nel campo del rovescio è un'altra
formola religiosa; e in giro: "Nel nome di Dio fu battuto questo dirhem nella città
di Ba n rm, l'anno 239." Questa moneta appartiene al Cabinet des Medailles di
Parigi, ov'io l'ho studiato. Tychsen ne pubblicò una simile, o forse lo stesso
esemplare, nello Additamentum I Introductionis ad rem nummariam ec., p. 44. Il
signor Mortillaro ha copiato la leggenda del Tychsen nel suo catalogo, Opere,
tomo III, p. 346.
553
Confrontinsi Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 19 verso, e MS. C, tomo IV,
fog. 215 verso; Baiân, tomo I, p. 104; Ibn-Khaldûn, op. cit, p. 120; Ibn-Wuedrân,
§ 3; Ibn-abi-Dinâr (el-Kaïrouani), MS., fog. 21 recto; e versione francese, p. 84;
Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 8. Sendo morto Ibrahim di
gennaio 851, le prime fazioni di Abbâs debbonsi riferire alla primavera del
medesimo anno; quella di Caltavuturo alla state seguente.
554
Ibn-el-Athîr e Ibn-Khaldûn, ll. cc. In questa frase, secondo la più parte dei
MSS. di Ibn-el-Athîr, e di Ibn-Khaldûn che lo copia, il verbo manca dei punti

328
supremo capitano, senza aspettar beneplacito del principe d'Affrica.
Questi riconoscendo il diritto della colonia, o non potendo disdire il
fatto, mandò tosto ad Abbâs il diploma di elezione. Poi non si
mescolò altrimenti nelle faccende di Sicilia; se non che, alla
espugnazione di Castrogiovanni, si fece a scriverne lettere solenni ai
califo, e gli presentò qualche fior delle spoglie opime, avute come
in cortesia dall'emiro di Sicilia. Queste vane cerimonie avanzavano
ormai della teocrazia musulmana sì potente e accentrata; nè la
Sicilia obbediva all'Affrica, più che questa alla pontifical sede di
Bagdad!
Abbâs continuò impetuosamente la guerra. Condusse ei
medesimo l'esercito il dugento trentasette (4 luglio 851 a 21 giugno
852), affidando lo antiguardo al suo congiunto Ribbâh-ibn-Iakûb,
che sempre segnalossi per gran valore, e resse poi la Sicilia. Abbâs
dapprima assalì Caltavuturo555, forte rôcca nella giogaia delle
Madonie, com'abbiam detto; dove per certo aveano osato i Cristiani
far testa, poichè Abbâs dava il guasto al contado, ammazzava i
prigioni presi in questa correria e tornavasene alla capitale. A
primavera (852), sopraccorso in quel di Castrogiovanni, lo depredò
e arse, senza poter tirare a battaglia il patrizio bizantino che
capitanava il presidio; onde senza intoppi cavalcò gran tratto di
paese, e riportonne moltissimi prigioni, non uccisi questa fiata, ma
venduti556. Poi sendo già venuta la state, ed entrato l'anno dugento
trentotto dell'egira (22 giugno 852 a 10 giugno 853), montò su
l'armata per andare a fare una vendetta, di cui si parlerà a suo

diacritici che indichino la persona. Così resterebbe incerto, a prima vista, se il


bottino fosse presentato dai soldati ad Abbâs, o da questi al principe d'Affrica.
Nondimeno il senso generale del periodo e la tendenza degli altri fatti portano alla
prima di così fatte interpretazioni; e vi assente il solo MS. di Ibn-Khaldûn in cui
la detta voce sia fornita di punti diacritici.
555
Questo è il nome attuale; la giusta ortografia arabica data dai cronisti e da
Edrisi è Kala't-abi-Thûr ossia "Rocca di quel dal toro," soprannome che occorre
varie fiate nei ricordi arabi.
556
Ibn-el-Athîr, l. c.; veggasi anche Ibn-Khaldûn, l. c.

329
luogo557. Tornò in autunno558. Alla nuova stagione, senza uscire di
Sicilia, battè i contadi di Castrogiovanni, Catania, Siracusa, Noto,
Ragusa; tagliando gli alberi, ardendo le mèssi, facendo prigioni,
spargendo scorridori d'ogni intorno; e presa Camerina, o gli abituri
che ritenean quel classico nome, si arrestò sotto Butera, in giugno o
luglio; poichè di due diligenti cronisti l'uno pone coteste fazioni
nell'anno dugento trentotto in cui cominciarono; l'altro nel
trentanove in cui finirono (11 giugno 853 a 31 maggio 854).
Fu Butera forte città nei tempi musulmani; splendida e famosa
nei feudali, sì che diè titolo al primo pari del reame fino alla riforma
del mille ottocento quarantotto, nella quale il parlamento siciliano
abolì la paría ereditaria. Cotesto nome geografico non apparisce
innanzi il nono secolo; nè fabbriche o altri avanzi mostran abitato il
luogo in età più antica, e mutatone soltanto il nome sotto i Bizantini.
Siede la città in cima ad un colle, a poche miglia dal mare e dal
fiume Salso; domina il fertil paese che gli antichi addimandavano
Campi Geloi: in guerra, è naturale rifugio di quella popolazione
agricola; in tempi di servaggio, albergo dei suoi oppressori. Par che
alle prime scorrerie dei cavalli musulmani in Val di Noto i villici
più fiate si fossero rifuggiti in quella rôcca. Ma quest'anno ottocento
cinquantatrè, Abbâs, vedendoli affollare al solito covile, pensò
coglierveli a un tratto di rete: assediò strettamente Butera oltre
cinque mesi; alfine pattuì coi terrazzani che gli consegnassero
cinque o sei mila capi, scrivon le croniche, come se fossero capi
d'armento; e l'esercito traendosi dietro tanta torma di schiavi
tornossene in Palermo559.
557
Veggasi il capitolo VIII del presente Libro.
558
Il Baiân, tomo I, p. 104, senza nominare Castrogiovanni nè altro luogo, porta i
guasti in Sicilia il 237, e narra nel 238 l'altra impresa ch'è forza supporre in
terraferma; poichè il cronista nota che Abbâs prima mandò in Palermo le teste
degli uccisi, e poi tornò ei medesimo in Sicilia.
559
Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, Baiân, Ibn-Khaldûn, ll. cc., badando a
togliere il nome di Butera, e sostituirvi Noto, nella versione di M.
Des Vergers, p. 121, ed a sostituire, all'incontro, Butera a Thira,
nello estratto di Ibn-el-Athîr, ch'ei dà in nota a p. 122.

330
Ignoriamo or noi se orrenda necessità abbia sforzato a questo
accordo tutti gli assediati, o se i borghesi, per salvar la roba,
abbiano avviluppato con qualche nero tradimento gli inquilini delle
campagne, lor fratelli in Cristo, ospiti, o noti per lunga
consuetudine, e li abbian dato schiavi al nemico risguardandoli
come animali d'altra razza: chè il cristianesimo prima del
decimottavo secolo non era sì scrupoloso in fatto di uguaglianza.

Il nome che ho scritto Camerina si trova nel solo Baiân, guasto per
altro dalla umidità nel MS., e non facile a deciferare; come ritraggo
dal dotto amico mio, il professor Dozy di Leyde. Tuttavia vi si
scoprono le lettere s h rina, s m rina, sci m rina, o simili. Tra
coteste lezioni io ho preferito l'ultima 1° perchè la cronica dà a
questo luogo il titolo di città; 2° perchè altra non se ne trova in
Sicilia, antica nè moderna, da potersi adattare quelle lettere al suo
nome; 3° perchè Camerina giaceva a poca distanza da Ragusa; 4°
perchè, non ostante la nota distruzione di Camerina in tempi
antichissimi, sappiamo che i Romani tentarono di ripopolarla, e le
vestigia della città non sono per anco dissipate, nè il nome. Il nome
di Camerana resta oggidì alla palude, a un fiumicello e ad una torre.
Grandi avanzi di fabbriche vi erano tuttavia nel XVI secolo,
quando, al dir di Fazello, testimonio oculare, furono tolte per
costruire Terranuova. Pertanto mi pare probabile che nell'853 un po'
di popolazione soggiornasse, o fosse corsa a rifuggirsi tra quelle
rovine, difese dalla palude. Si potrebbe anco aggiungere il ricordo
di due vescovi di Camerina nei principii del VI secolo; ma è dubbio
se si tratti di Camerino nella Marca d'Ancona, come vuole l'Ughelli,
ovvero di Camerina in Sicilia: su di che si vegga il Pirro, Sicilia
Sacra, edizione del Mongitore, tomo I, p. 510.
Quanto a Butera, la Cronica di Cambridge, presso Di Gregorio, Rerum
Arabicarum, p. 42, la dice non venuta a sì tristo accordo, ma presa; nè tra l'uno e
l'altro fatto corre molto divario. La detta cronica lo porta nell'anno 6362, cioè dal
1° settembre 853 al 31 agosto 854, che risponde a un di presso alla data del 239
dell'egira che troviamo nel Baiân. Butera è stata creduta la Hybla Hærea, ovvero
il Mattorium degli antichi; ma senza buone ragioni, com'ho accennato nel testo,
giudicando la epoca delle fabbriche di Butera, su i ragguagli che ne trovo nei

331
Quanto ai vincitori, il Dio di Maometto assai più esplicitamente loro
abbandonava in anima e in corpo tutti gli uomini di religione
diversa; non che que' seimila villani. Perciò gongolando di gioia se
li divisero i coloni di Palermo, con l'altro bottino. E parmi evidente
che fossero molto ricercati gli schiavi nella colonia per coltivare le
terre del Val di Mazara. Perocchè Abbâs-ibn-Fadhl, in tutto il tempo
che resse l'isola, pose indistintamente taglie di danari e di uomini
alle terre che si calavano agli accordi560, e talvolta ricusò la moneta,
e volle più tosto gli uomini561.
E non cessò di affliggere la Sicilia ogni anno, con saccheggi,
cattività, arsioni di mèssi, rovine di edifizii, che i cronisti ripetono
noiosamente, per lo più senza nominare i luoghi. Così l'anno
dugento quaranta dell'egira (1 giugno 854 a 20 maggio 855); così
quel d'appresso (21 maggio 855 a 8 maggio 856); nel quale dippiù
leggiamo che Abbâs stette per tre mesi in uno altissimo monte,
donde mandava scorridori ogni dì a battere il contado di
Castrogiovanni, e torme di cavalli per ogni lato dell'isola. Da ciò è
manifesto che si tratti dell'Artesino, il quale giace a tramontana di
Castrogiovanni, discosto poco più d'otto miglia; l'Artesino dalla cui
sommità vien visto grandissimo tratto della Sicilia come in carta
geografica a rilievo: e di là poteva il fier capitano abbracciare con lo
sguardo la configurazione del paese; notar le principali catene di
montagne; affisare su questa e quell'altra vetta le fortezze non
espugnate per anco, e giù le ubertose pianure ove fosse da far preda.
Forse da quel sito, egli o altro condottiero, immaginò la divisione
della Sicilia in tre valli, come poi si chiamarono, i cui limiti si
libri, e su quel che ne ho inteso. In ogni modo, sono avanzi che meritano molto
studio, anche da chi vorrà conoscere la architettura dei tempi musulmani.
560
Attesta ciò il Nowairi, o per dir meglio il cronista ch'ei copiava, in un passo
non ben letto da M. Caussin De Perceval, e pessimamente tradotto dal Di
Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 8: Tum ipsemet profectus fuit, ec. Però mi par
bene dar una versione esatta di queste parole. Nowairi dice: "Ed egli (Abbâs) or
uscendo in persona, or mandando sue gualdane, straziò, afflisse, e guastò le
popolazioni e territorii nemici; se non che talvolta comperavan da lui la pace con
danari o schiavi.»
561
Veggasi qui appresso l'accordo di Kasr-Gedîd.

332
intersecavano non lungi dallo Artesino. Il medesimo anno Abbâs
mandava con l'armata un Ali suo fratello; il quale corseggiando
raccolse anch'egli e menò in Palermo gran torma di schiavi. Poi la
state del dugento quarantadue (9 maggio 856 a 28 aprile 857) Abbâs
condusse in persona un esercito più forte dell'usato; espugnò cinque
castella di cui non sappiamo altrimenti i nomi. Del quarantatrè (29
aprile 857 a 17 aprile 858), nella sâifa come chiamavano la guerra
di state, venutogli fatto di tirare a battaglia il presidio di
Castrogiovanni, lo ruppe; e passò oltre a desolare le campagne di
Siracusa, Taormina, e altre città. Indi pose il campo ad una fortezza,
ch'altri scrive El-Kasr-el-Gedîd, ossia il Castel Nuovo; altri, con
lievissima variante ortografica, Kasr-el-Hedîd, che suona il Castello
del Ferro; e io credo, per la importanza sua, sia Gagliano, nominata
dal Beladori che vivea di questo tempo a Bagdad. Gagliano fu rôcca
di momento nelle guerre siciliane del medio evo; e serba oggi il
nome con vestigia di formidabili fortificazioni di natura e d'arte.
Assediolla Abbâs per due mesi; a capo dei quali, profferta da'
terrazzani una taglia di quindicimila dinâr, o vogliam dire da
dugento diciassettemila lire, la ricusò; strinse tuttavia il castello, ed
ebbelo alfine a patti che le fabbriche fossero distrutte, che uscissero
liberi sol dugento cittadini; gli altri rimanessero schiavi: e infatti
menosseli in Palermo, e li vendè562. Lo stesso anno si arrese Cefalù
562
Confrontinsi Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 19 verso; e MS.
C, tomo IV, fog. 215 verso; Baiân, tomo I, p. 104, 105, 106; Ibn-
Khaldûn, Histoire de l'Afrique et la Sicile, p. 121, dove non parmi
esatta la versione «et s'empara même du château neuf de cette ville
(Castrogiovanni).» Beladori, MS di Leyde,p. 275, porta nel califato
di Motewakkel (an. 847 ad 861) la occupazione di Castrogiovanni e
Gagliano, ch'egli scrive appunto come Edrisi; e son queste le due
sole città prese in Sicilia, delle quali gli par doversi ricordare i
nomi.
Or io credo che il Kasr-el-Hedîd, o El-Kasr-el-Gedîd, non sia altro che un
secondo nome della fortezza di Gagliano, perchè non posso supporre che gli altri
cronisti abbiano trascurato questa notabile vittoria ricordata dal Beladori; e perchè
il detto Kasr è la sola piazza d'importanza ch'essi dicono presa nel califato di

333
la quale fu anco smantellata; ma andarono liberi tutti i cittadini:
patto men tristo secondo i tempi; accordato da Abbâs, com'egli è
manifesto, perchè Cefalù, stando in sul mare, non si potea di
leggieri ridurre per fame563.
Più fortunosi eventi segnalavano l'anno dugentoquarantaquattro
dell'egira (18 aprile 858 a 6 aprile 859). La state, uscivano a un
tempo di Palermo l'esercito condotto da Abbâs e l'armata da Ali suo
fratello: de' quali il primo depredò, senza trovare ostacolo, i contadi
di Castrogiovanni e Siracusa, e fece ritorno in Palermo. Ali trovossi
nei mari di Creta, non per assaltare la colonia musulmana com'altri
ha pensato; ma forse accadde che scorrendo le costiere di Puglia,
ove aspramente combatteano Musulmani e Cristiani, egli avesse
preso a inseguire per lo Adriatico legni bizantini, o i venti lo
avessero traportato sì lungi. S'avvenne in quaranta salandre
bizantine il cui capitano era detto il Cretese, e potrebbe essere quel
medesimo Giovanni che resse il Peloponneso nell'ottocento
ottantaquattro564, soprannominato il Cretese, forse dopo questa
battaglia, per vezzo di romaneggiare e mancanza di più segnalate

Motewakkel senza che se ne ritrovi il nome nella geografia di Sicilia. Debbo


avvertire nondimeno che Edrisi pone su la costiera tra Termini e Cefalù una
Sakhrat-el-Herîr, o, secondo il MS. d'Oxford, El-Hedîd, che significherebbe la
Rupe della Seta, o del Ferro; valida fortezza ai suoi tempi, ch'è il Castrum
Roccellæ dei diplomi siciliani del medio evo; ed oggi ne rimangono le vestigia e
il nome di Rocella, il quale si dà anco a un picciolo villaggio dentro terra, detto
altrimenti Campofelice. Ma quantunque vicina a Cefalù, che fu presa lo stesso
anno; e quantunque convengano nel suo nome le lezioni di alcuni MSS., non
credo che questa fortezza abbia potuto mai contenere la grossa popolazione che si
volea riscattare con 15,000 dinar, ec. Infine par che non si tratti di Castronovo,
che sarebbe versione della lezione El-Kasr-el-Gedîd, poichè questo nome si
trovava scritto in Edrisi Kasr-nubu.
563
Baiân, tomo I, p. 106. Il nome è scritto S l 'ûda, con errore di ortografia che
occorre anco in alcuni MSS. di Edrisi.
564
Di Giovanni detto il Cretese, prefetto del Peloponneso, si fa
menzione nella continuazione di Teofane, cap. LXII, p. 303; ma non
si vede in che occasione abbia avuto quel soprannome, nè altrove si
parla di lui.]

334
vittorie. Il Cretese, combattendo con Ali nella state dell'ottocento
cinquantotto, perdea dapprima dieci navi con tutte le ciurme; poi,
rappiccata la zuffa e voltata la fortuna, egli diè una sanguinosa rotta
ai Musulmani, lor prese dieci navi: e Ali con gli avanzi dell'armata
si ridusse nel porto di Palermo565. Sopravvenuto in questo il verno, e
andata, com'era usanza, una seconda gualdana nel contado di
Castrogiovanni a spigolar bottino e prigioni, riportò tra gli altri in
Palermo un uomo di molta nota in sua nazione566. Abbâs comandava
di metterlo a morte, ardendo tuttavia di rabbia per lo caso
dell'armata, ovvero infingendosene per cavar più grosso riscatto; o
fu che quel gentiluomo nulla valea nel mercato delli schiavi, se
povero e tristo egli era della persona come dell'animo. Fattosi costui
ad Abbâs con patrizia disinvoltura, "Lasciami la vita," gli disse, "e
darotti un avviso che fa per te." "Qual è?" domandogli l'emiro,
trattol da solo a solo; e il traditore a lui: "Ti darò in mano
Castrogiovanni. In questo verno," proseguì, "tra coteste nevi il
presidio non aspettandosi assalti, sta a mala guardia; talchè, se vuoi
565
Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 19 verso, e 20
recto; MS. C, tomo IV, fog. 215 verso; Chronicon Cantabrigiense,
presso Di Gregorio, Rerum Arabic., p. 42; Baiân, tomo I, p. 106;
Nowairi, presso Di Gregorio, op. cit., p. 9; Ibn-Khaldûn, Histoire
de l'Afrique et de la Sicile, p. 121.
La battaglia navale seguì innanzi il 31 agosto 858, poichè la Cronica
di Cambridge la nota nell'anno 6366.
Ritraendosi da Ibn-el-Athîr che il navilio combattuto di Ali appartenesse ai Rûm,
ossiano Bizantini, cade la conghiettura di M. Caussin De Perceval, Histoire de la
Sicile.... du Nowairi, p. 19, che il Cretese fosse Abu-Hafs-Omar. Pertanto
correggasi ciò che ne hanno scritto il Rampoldi, Annali Musulmani, tomo IV, p.
315; e il Martorana, Notizie Storiche dei Saraceni Siciliani, tomo I, p. 43. Il
Wenrich, Commentarii, lib. I, cap. VIII, § 79, scansa quest'errore, ma cade
nell'altro di dir seguita la battaglia navale dinanzi Siracusa; il che non si trova
punto nel testo d'Ibn-el-Athîr da lui allegato sopra una citazione di M. Des
Vergers.
566
Nowairi il dice "barbaro" che significa "non arabo," ma non se ne sogliono
servire per indicare i Rûm, ossiano Bizantini e Italiani; Ibn-el-Athîr lo chiama a
dirittura Rûmi.

335
mandar meco una parte dell'esercito, saprò io farla entrare in
Castrogiovanni." Abbâs assentiva. Trascelti mille cavalli e
settecento uomini da piè dei più valenti, li spartì in drappelli di dieci
uomini; pose un capo su ciascun drappello; apprestò segretamente
ogni altra cosa; e capitanando egli stesso le genti, uscì nottetempo
dalla capitale. Scansò, com'ei pare, la solita via di Caltavuturo,
aspra e difficilissima il verno, la quale corre quasi in filo da
Palermo a Castrogiovanni su la dirittura di sirocco levante; e seguì
l'altra più lunga e agevole che mena a Caltanissetta, città a sedici
miglia a libeccio dalla insidiata rôcca. Leggendosi che lo stuolo
musulmano sostasse a una stazione dalla montagna del lago567, del
lago Pergusa per certo, lontano cinque miglia a mezzodì da
Castrogiovanni, si dee supporre la fermata a Caltanissetta ovvero a
Pietraperzia, terra vicina. Rimasovi come in agguato col grosso
delle genti, Abbâs mandava a compiere la più ardua parte della
fazione Ribbâh, con una mano di fortissimi eletti tra que' forti: i
quali mossero senza strepito al far della notte, recando seco loro
legato il traditore cristiano; che Ribbâh sel facea camminare
dinanzi, nè gli levava gli occhi d'addosso. È manifesto che volendo
tentar la salita dond'era più difficile e però men guardata, la schiera
di Ribbâh doveasi indirizzare alla costa settentrionale del monte di
Castrogiovanni, dal qual canto torreggia la rôcca: e che Abbâs
dovea cavalcar poche ore dopo, alla volta del lago Pergusa per
montare a Castrogiovanni dalla parte meridionale ov'era il
sobborgo; e scoprirsi quando Ribbâh fosse padrone della rôcca.
Così par ch'abbian fatto gli assalitori. Ribbâh, cominciato a
inerpicarsi per l'erta come accennava il prigione, trovò una roccia
stagliata; vi appoggiò le scale apparecchiate a quest'effetto; e si
trovò alfine sotto la cittadella, cominciando a far l'alba. Ora fatale a
567
Gebel-el-Ghadir, scrive Nowairi. La voce che rendo stazione è Merhela che
risponde alla nostra "posta." La lunghezza del tratto di strada così chiamato,
variava secondo i luoghi. Edrisi conta 18 miglia tra Caltanissetta e
Castrogiovanni, e 12 tra questa e Pietraperzia. Caltanissetta poi è equidistante dal
lago Pergusa e da Castrogiovanni; ma Pietraperzia, come situata a mezzogiorno
libeccio, si avvicina più al lago che alla città.

336
tante fortezze assediate, parendo passato il pericolo con la notte: e
così le scolte della rôcca si eran date al sonno. Il traditore menò
allora i Musulmani alla bocca d'un aquidotto che s'apriva sotto le
mura568; dove ad uno ad uno si imbucarono, e rividero il cielo
ch'eran già dentro la fortezza. Si avventano impetuosi su i Bizantini;
uccidono chiunque lor si para dinanzi; e schiudon la porta. Abbâs
allora spronò a traverso il sobborgo; entrò nella rôcca che appena
spuntava il sole, all'ora della prece mattutina dei Musulmani, il
quindici scewâl dugentoquarantaquattro e ventiquattro gennaio
ottocento cinquantanove dell'era cristiana. A niuno de' soldati
cristiani si perdonò la vita. Figliuoli di principi, aggiugne la cronica,
furon fatti prigioni; e donzelle patrizie coi loro gioielli; e il
rimagnente del bottino chi il potea contare? Immantinente Abbâs
inaugurava una moschea; facea drizzarvi la ringhiera; e salitovi il
prossimo venerdì, il dì della unione, come il chiamano i Musulmani
sapendo da' lor teologi che un tal giorno si fossero uniti insieme gli
elementi del mondo, il feroce condottiero, tra le fresche stragi e 'l
pianto delle vittime e gli eccessi dei vincitori, arringava i suoi:
umile ed empio, riferiva ad Allâh la vittoria di Castrogiovanni569. La
quale si noverò tra le più notabili di quel tempo570: e tanta fu
568
Nowairi, dice un finestrino dal quale entrava l'acqua; Ibn-el-Athîr, una
porticina dalla quale entrava l'acqua e si gettavano le immondezze.
569
Confrontasi: Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 20 recto; MS. C,
tomo IV, fog. 215 verso; Chronicon Cantabrigiense, presso Di
Gregorio, Rerum Arabic., p. 42, Nowairi, ibid., p. 9, 10; Ibn-
Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de le Sicile, p. 121, 122; Abulfeda,
Annales Moslem., erroneamente sotto l'anno 237 dell'egira; Ibn-abi-
Dinâr, MS., fog. 21 recto, e versione francese, p. 85, nella quale in
luogo di Castrogiovanni si legge "il castel di Bona;" Ibn-Wuedran,
§3, con l'errore del 237 come in Abulfeda.
Ibn-el-Athîr e Nowairi, con altro errore, dicono che il giorno della occupazione
fosse stato un giovedì, quando il 15 scewal 244, al par che il 24 gennaio 859,
caddero in martedì.
570
Infatti è una delle due città prese in Sicilia, delle quali diè i nomi il
contemporaneo Beladori, MS., p. 275.

337
l'allegrezza dei Musulmani, che, obbliando lor gelosie di Stato, lo
emiro di Sicilia mandava spoglie opime al principe aghlabita
d'Affrica; e questi trascegliea donne e fanciulli prigioni per farne
presente al pontefice di sua setta a Bagdad571.
Sparso intanto il nunzio tra le popolazioni cristiane dell'isola,
soggette o no ai Musulmani, le quali per trent'anni avean guardato
alla rôcca di Castrogiovanni come a pegno di liberazione, alla prima
n'ebber tale uno spavento che gli Arabi si affrettavano a scrivere
avvilito e conculcato in quella stagione il politeismo di Sicilia. Ma
succedendo allo sbigottimento sensi più generosi, venne fatto ai
Siciliani di tirare a uno sforzo di guerra lo imperatore Michele
terzo; involto com'egli era tra crapule, libidini, scempie buffonerie,
raggiri di corte e gare di prelati. Della quale impresa tacciono i
cronisti bizantini, preoccupati572 al tutto di quelle brutture; e se ne
troviam ricordo, è dato dagli Arabi: però, breve ed incerto. I
preparamenti sembran degni di Michele l'Ubbriaco. Fatte venire le
soldatesche di Cappadocia, com'io leggerei; gittate su trecento
salandre; date a capitanare a un patrizio: che altro mancava a
ripigliar la Sicilia? Posero a terra a Siracusa, nell'autunno del
medesimo anno ottocentocinquantanove, o nella state del sessanta: e
par che tosto movessero accompagnate dall'armata, verso la costiera
settentrionale. Perchè Abbâs, al dire d'Ibn-el-Athîr, uscì di Palermo
ad incontrare il nemico; lo combattè, lo ruppe, lo inseguì fino alle
navi, gliene prese cento, fe' orribile macello degli uomini; e de' suoi
perdè tre soli, uccisi di saette, aggiugne l'annalista573, ricantando la

571
Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 116.
572
Nell'originale "preoccucupati"
573
Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 20; MS. C, tomo IV, fog. 215
verso. Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 123,
compendia il primo, e sbaglia la data. La Cronica di Cambridge,
presso Di Gregorio, Rerum Arabic., p. 42, dice soltanto: Anno 6368
descenderunt Fendanitæ; data e nome, su i quali è necessario un po'
di comento. Principiando dal nome, dirò che nel MS. è composto di
sei lettere, senza contarvi l'articolo, tra le quali non si trova che un

338
stessa fola della vittoria sopra i Kharsianiti. Pur è notevole che tal
vanto dei vincitori, certo argomento dell'altrui viltà, si dica in quelle
due sole sconfitte di eserciti venuti d'oltremare; non mai nei
combattimenti contro i Cristiani di Sicilia.
Ai quali non mancò il cuore in questo incontro. Perchè veggiamo
sollevarsi al primo comparire dei rinforzi bizantini, e non piegare
facilmente il collo dopo la sconfitta loro, molte castella dell'isola:
Platani, Caltabellotta, Caltavuturo, ricordate di sopra, e inoltre
Sutera574, una terra che non so se vada letta Ibla, Avola o Entella575,

sol punto diacritico. Perciò si può leggere in cento maniere diverse,


e le più strane sono al certo quelle a che s'appigliarono gli editori,
cioè Fendanitæ con la variante Effenditæ. Parendomi evidente che
tal nome etnico si debba cercare tra i popoli che allor militavano
sotto le bandiere bizantine, non esito a leggere k b d kia, con che
non si alterano gli elementi di alcuna lettera del MS., ma solamente
si correggono i punti diacritici, e si trova il noto nome di
Cappadocia; i soldati della quale provincia sono ricordati appunto in
questo tempo nelle guerre d'Oriente.
Quanto alla data, che corre dal 1° settembre 859 al 31 agosto 860, la va a capello
coi fatti ricordati da Ibn-el-Athîr; il quale al certo non segue rigorosamente la
cronologia, quand'ei narra lo sbarco e la sconfitta del patrizio nello stesso anno
244, di cui non avanzavan che due mesi dopo la presa di Castrogiovanni.
574
Grossa terra in Val di Mazara; oggi in provincia di Girgenti. Ha vestigia di un
forte castello poco distante dal sito attuale della città. Il nome ai trova in Edrisi
con lezione poco diversa. È evidentemente greco; forse dei tempi cristiani.
575
L'un dei MSS. di Ibn-el-Athîr ha Ab ta; l'altre Aita; potendo bensì in entrambe
mutarsi la prima a in qualsivoglia altra vocale. Cercando i nomi geografici che
possano adattarsi a quei suoni, occorre in prima la classica voce d'Ibla, chè varie
città di tal nome ebbe la Sicilia antica, nella regione tra levante e mezzodì,
ancorchè di nessuna si conosca appunto il sito. Viene poi Avola, terra presso
Siracusa, ch'è per certo l'Abola d'un diploma del 1149, e forse la Αβόλλα̉ di
Stefano Bizantino. Ma non so comprendere la sollevazione di questa sola terra in
Val di Noto, mentre tutte le altre che scossero il giogo stavano in un gruppo nel
Val di Mazara, e Caltavuturo non era troppo lontana. Però vorrei aggiugnere una
lettera, mutare i punti, e leggere Entella, fortezza antichissima di cui si veggono
gli avanzi; e i Musulmani di Sicilia nel principio del XIII secolo vi si difesero
lungamente contro Federigo II imperatore.

339
Kalat-Abd-el-Mumîn576, e altre di cui non si dicono i nomi; che tutte
avean già promesso obbedienza e tributo ai Musulmani. Abbâs
sopraccorreva immantinente a gastigarle dell'anno
dugentoquarantasei (27 marzo 860 a 15 marzo 861). Fattoglisi
incontro lo esercito cristiano, accozzato forse da quei municipii, lo
sbaragliò Abbâs con molta strage; e passando oltre, pose l'assedio a
Kalat-Abd-el-Mumîn, ed a Platani. E indarno vi si affaticava,
quando seppe esser giunto, dice Ibn-el-Athîr, un altro esercito
bizantino: gli avanzi forse dei Cappadoci, ingrossati dalle milizie
dell'isola; i quali pare che marciassero lungo la costiera
settentrionale sopra Palermo. Contro costoro si volse Abbâs,
lasciando lo assedio; valicò i monti; trovò il nemico presso Cefalù;
e dopo una zuffa ostinata, superatolo con l'usato valore, malconcio
lo rimandò a Siracusa. Egli, tornato in Palermo, fece subito ristorare
le fortificazioni di Castrogiovanni, racconciare le case, e posevi un
grosso presidio musulmano. Ciò mostra che universale e di
momento era stato lo sforzo de' Siciliani. Ma pare che la seconda
sconfitta dello esercito imperiale li abbia consigliato a posare le
armi: poichè non si intende più nulla di loro; e l'anno seguente
dell'egira (16 marzo 861 a 5 marzo 862) si vede Abbâs andare
spensierato a saccheggiar il contado di Siracusa, come solea prima
della presa di Castrogiovanni.
Al ritorno da questa scorreria, era giunto alle Grotte di
Karkana577 quando si ammalò, e trapassò al terzo giorno, il tre
576
Non trovo questo nome in Edrisi, nè alcuno somigliante, sia nei diplomi sia
nella geografia d'oggi. Dal seguito della narrazione si vede ch'era in Val di
Mazara. Significa la "Rocca di Abd-el-Mumîn" nome proprio d'uomo.
577
Il solo Ibn-el-Athîr dà il nome di queste Ghirân, ossiano "Grotte," scritto in
ambo i codici senza vocali, nell'uno coi punti diacritici, nell'altro senza; sì che nel
primo si dee leggere k r k na, nel secondo si può sostituire la f ad una delle k o ad
entrambe. Avrei letto Caucana supponendo mutata la w in r, per errore non
insolito nei MSS. arabi, se il sito dell'antica Caucana, ove stette Belisario con
l'armata prima di passare al conquisto d'Affrica, fosse più certo e non si trovasse
sulla riva del mare, che non era la strada di Abbâs reduce a Palermo. Le grotte,
ossia i gruppi di grotte scavate in parte dalla man dell'uomo, son troppo frequenti
in Sicilia perchè questa indicazione valga a determinare il luogo senza lo aiuto del

340
giumadi secondo (13 agosto 861), dopo undici anni di continua
guerra; chè non passò anno, ripetono i cronisti, che la state o il
verno, o in ambe le stagioni, non corresse i paesi cristiani della
Sicilia, e talvolta anco di Calabria e di Puglia, ove pose colonie de'
suoi. Seppellivanlo i Musulmani là dove ei morì; ma non prima
furono partiti, che i Cristiani, con vana vendetta, esumarono e
arsero il cadavere del crudel capitano, al cui nome tremavano
ancora578.

CAPITOLO VII.
Fin qui gli annali arabi ci hanno mostrato della storia uno
scheletro sì, ma non mutilo. Abbiam veduto la colonia di Palermo
occupare alcuni luoghi importanti nel centro e su la costiera
settentrionale infino a Messina; sforzare a tributo i paesi di mezzodì
e levante, eccetto le grosse città murate e qualche regione
montuosa; e non parlandosi di guasti nella maggior parte delle
provincie odierne di Palermo e Trapani, è da credere che i vincitori
tenessero quei terreni. Senza dubbio vi soggiornavano già in cittadi
nome. Perciò non si arriverà a sapere la vera lezione del nome dato dall'annalista,
che quando si studieranno questi antichissimi monumenti. Intanto le conghietture
posson cadere su le grotte presso Palazzolo, quelle tra Piazza e Caltagirone, o le
altre tra Bronte e Maletto, o quelle di Macara presso il porto Vindicari, che ben
potrebbe essere la Caucana di Procopio a 200 stadii da Siracusa. Veggansi, per le
grotte che ho nominato, il Fazzello, deca I, lib. IV, cap. II, e lib. X, cap. II; Bour-
quelot, Voyage en Sicile, p. 183, e la mia nota al capitolo precedente, p. 310-311.
578
Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 20, e MS. C, tomo IV, fog.
215 verso; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 123. Parmi errore
del MS. di Ibn-Khaldûn che Abbâs assediava Kalat-er-Rum ossia "la Rocca
(detta) dei Bizantini." Si dee leggere più tosto Kalat-lir-Rum "una rocca dei
Bizantini." Accennano senz'altro la morte di Abbâs, e alcuni con divario di data,
Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabic., p. 10; il Baiân, tomo I, p. 106;
Abulfeda, Annales Moslemici, sotto l'anno 247, § 3; Ibn-Wuedran, § 3 del testo, e
versione francese di M. Cherbonneau nella Revue de l'Orient, décembre 1853, p.
427; Ibn-Abi-Dinâr, MS., fog. 21 recto.

341
e castella: poco men che una trentina, come si ritrae dal Beladori
che vivea di quel tempo a corte di Bagdad579.
Rivolgendoci alle condizioni delle due società che si
contendeano la Sicilia, scorgiamo nell'una, oltre la virtù delle armi e
la operosità, anco l'accordo degli animi, che ben si mantenea
quando il bottino e i tributi, scompartiti con equità patriarcale,
potean soddisfare alle cupidigie. Dall'altro canto i Siciliani, avviliti
dalle ubbíe monastiche e dal dispotismo, non ripugnaron troppo al
nuovo giogo, assicurato che lor fu lo esercizio del culto, e, come
credeano, il possedimento dei beni; nè si vollero mettere a sbaraglio
per diletto di pagare il tributo all'imperatore di Costantinopoli, più
tosto che ai Musulmani di Palermo. Dei principati, poi, nel cui
nome si combattea, quel d'Affrica aiutò la colonia con lasciar fare:
chè mite animo ebbero i primi successori di Ziadet-Allah, e lieti
vedeano passare in Sicilia e in Italia gli uomini più turbolenti. Il
Basso Impero al contrario facea troppo e troppo poco in Sicilia! e
intanto mostrava al mondo infino a che assurdità, confusione e
vergogna possa giugnere il despotismo. La devota imperatrice
Teodora (842-854) lasciò all'Impero tre nuovi flagelli: la
proscrizione degli eretici Pauliciani, che si tirò dietro guerre
atrocissime; la ambizione di Barda fratello, e la mala educazione di
Michele terzo, figliuolo di lei, soprannominato l'Ubbriaco. Il quale,
cacciata di corte la madre (854), ruppe ogni freno di pudore; dièssi a
vita brutale; buffoni e ribaldi in favore; scialacquato il danaro
pubblico; trasandata o stoltamente e vilmente condotta la guerra
contro i nemici che accerchiavano l'Impero; a vicenda insultato il
579
Beladori, MS., p. 275, dice espressamente che gli Aghlabiti avessero preso in
Sicilia oltre venti città, le quali erano tuttavia in mano dei Musulmani, quando
occuparono Castrogiovanni e Gagliano. Tal numero risponde a un di presso a
quello de' nomi che ricaviamo dagli altri annalisti. Ma egli è certo che dei luoghi
ricordati da costoro, alcuni, come Mineo e Lentini fossero stati abbandonati; altri
al contrario come Platani, Ragusa, Sutera, meramente assoggettati al tributo. Però
mi sembra che non ostante la casuale coincidenza del numero, le terre di cui parla
Beladori, siano le città o castella ove faceano soggiorno i Musulmani. La
appellazione sua di città (medina) non si dee prendere qui in senso troppo
rigoroso.

342
culto cristiano, e sontuosamente edificate chiese; infine accesa con
leggerezza la gran briga del patriarcato di Costantinopoli, che fu
conteso tra Ignazio e Fozio, ossia tra le fazioni del papa e della corte
(857). Donde se d'alcuna cosa è da maravigliare negli avvenimenti
di Sicilia, non fia la impotenza, ma sì la pertinacia delle armi
bizantine. Del rimanente appaiono semplici e chiare le cagioni di
quel continuo progredimento della colonia musulmana, nei
trent'anni che corsero dalla presa di Palermo, alla morte di Abbâs-
ibn-Fadhl.
Verso quel tempo la fortuna cominciò a variare, come ce
l'attestano gli annali arabi, or confessando, e più spesso tacendo. Ma
poich'essi dicon poco, e i Bizantini nulla, gli avvenimenti ci
capitano sotto gli occhi sì interrotti, sì confusi, che sarebbe da
metterli in forse a ogni passo, se non si conoscessero le nuove
condizioni dei vincitori e dei vinti. Però è mestieri invertir l'ordine
naturale del racconto; divisar prima i fatti generali che noi possiamo
dedurre; e poi venirne con quella scorta ai fatti esteriori, alla scorza
della storia, che ritraggono i cronisti.
Incominciando dalla colonia musulmana, ei si vede che la
concordia v'era durata troppo più che non potesse. Perocchè la
prospera fortuna attirò nuovi coloni; la sottomissione dei Cristiani al
tributo menomò il bottino; le masnade, ingrossate e prive degli
acquisti che concedea la legge, si diedero a rubare non ostante gli
accordi; i Cristiani, provocati per tal modo, vennero ad atti di
disperazione; e da ciò le nuove sconfitte loro, le uccisioni, le
schiavitù; e occupati infine moltissimi poderi dai Musulmani, per
cupidigia e necessità. Dei modi della occupazione discorreremo nel
libro terzo, e basti qui notare che principalmente furon due, cioè:
ispogliare a dirittura gli antichi possessori, cacciandoli o facendoli
schiavi; ovvero ridurli a vassallaggio, e prender da loro una parte di
ciò che fruttava il terreno. Ma le entrate che ne tornavano ai
Musulmani si scompartivano in varie guise; e sempre con
inevitabile disuguaglianza; avvenendo che le terre prese or si
dividessero, or si tenessero in demanio; e che il ritratto dei poderi

343
demaniali e le contribuzioni su le terre lasciate ai Cristiani si
assegnassero ai corpi del giund, in una maniera che variava dal
mero pagamento di stipendio infino al beneficio militare. Or i corpi
del giund, consorterie autonome, civili insieme e militari,
spiccandosi dalla capitale per andare ad abitar città o castella vicine
ai poderi, diventano al tutto stati nello stato, portavan seco tutti i
vizii della feudalità; opprimeano la popolazione rurale; molestavano
i vicini musulmani o cristiani; erano per ogni verso fomiti di
turbolenze. Da un'altra mano, lo assegnamento degli stipendii o
beneficii e la divisione delle terre, per legge musulmana e natura
stessa della cosa, davan luogo ad arbitrio e ingiustizia: onde si
raccendeano le antiche ire delle schiatte, delle tribù, delle famiglie; i
Berberi si sentiano lesi dagli Arabi, gli Arabi Iemeniti dai
Modhariti, questa parentela da quella; e scorreva il sangue; si
perpetuavano le nimistà; il governo della colonia diveniva difficil
opra ogni dì più che l'altro. Tanto era avvenuto in Affrica, in
Ispagna, per ogni provincia musulmana. Io lo scrivo sì francamente
anco della Sicilia, perchè quegli elementi sociali portavano a quegli
effetti, e ne veggiamo spuntare i segni qua e là negli annali siciliani
dei tempi susseguenti.
Il principato aghlabita volle riparare a tal discordia, o trarne
partito per dominare su i coloni altrimenti che di nome. La quale
usurpazione, o ripetimento di dritti che dir si voglia; incominciò da
uno di que' monarchi, di facil natura, Mohammed-ibn-Aghlab, che
regnò, senza mai governare (841-856). Costui volendo liberarsi
dalla insolenza d'un fratello che lo tenea come prigione, cospirò con
Ahmed e Khafâgia, figliuoli di Sofiân580-ibn-Sewâda, suoi lontani
parenti581; i quali, come uomini di gran vaglia, fattogli conseguire
580
Nell'originale "Sofian". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
581
I due rami discendeano da Sâlem; l'uno per Aghlab, Ibrahim (fondatore della
dinastia), e Aghlab padre del principe regnante Mohammed; l'altro per Sofiân,
Sewâda, e Sofiân padre di Ahmed e di Khafâgia. Questa seconda genealogia è
data da Ibn-Abbâr, MS., fog. 35 verso. Veggansi, su le vicende del regno di
Mohammed, il Nowairi, Conquête de l'Afrique ec., in appendice a Ibn-Khaldûn,
Histoire des Berbères, versione di M. De Slane, tomo I, p. 417, seg.; Ibn-Abbâr, l.

344
l'intento, rimasero potentissimi appo di lui. Par che costoro non
perdesser grado, quando, morto Mohammed, succedeagli Ahmed
suo figliuolo (856 a 863). Da lui fu eletto al governo di Sicilia, a
dispetto della colonia, o almeno di una grossa fazione, Khafâgia-
ibn-Sofiân, detto di sopra; prode uom di guerra, ucciso a tradimento
dai suoi stessi, e padre d'un altro valoroso che governò dopo lui la
Sicilia, e incontrovvi lo stesso fato.
Seguì anco in questo tempo la esaltazione di Basilio Macedone
(867), il riformatore del Basso Impero. Basilio, salito men che
onestamente da povertà ed oscurità al favor della corte; guadagnato
l'animo di Michele terzo con la vergogna di sposare una concubina
ch'era venuta a noia all'imperatore e dargli in cambio la propria
sorella; associato indi allo impero in merito d'un assassinio; e
rimasto solo sul trono, per la grazia di Dio e perchè fe' scannare
sotto gli occhi suoi Michele che dormiva ubbriaco; Basilio, dico,
dopo tante brutture e misfatti, regnò con vera gloria. Riforniva lo
erario senza aggravare i sudditi; cessava gli scandali ecclesiastici;
raffrenava gli abusi dell'azienda; facea compilare un codice di leggi
che porta il suo nome; sopra tutto ristorava la milizia, riformandovi
ogni ordine, a cominciar dalle paghe, dalla leva dei soldati, dagli
esercizii di mosse e d'armeggiare, fino alla virtù della disciplina e
alla scienza strategica582. Pertanto la vittoria sotto gli auspicii suoi
tornò ai vessilli bizantini; la dinastia macedone regnò più
lungamente e quetamente che molte altre; parve rinfuso un po' di
vita nell'impero. Basilio ripigliò anco un tratto dell'Italia
meridionale, e aspramente contese la Sicilia ai Musulmani.
A questo effetto egli aiutò il moto delle popolazioni cristiane,
incominciato, come s'è detto, dopo la presa di Castrogiovanni, e
però parecchi anni innanzi la esaltazione di Basilio. Il moto era nato
nell'isola stessa dal continuo disagio e pericolo in che viveano tante
città tributarie dei Musulmani. Il caso di Castrogiovanni lo accelerò;
c.; Ibn-el-Athîr, sotto l'anno 233, capitolo degli avvenimenti diversi.
582
Questi importanti particolari della riforma dell'esercito si leggono nella
continuazione di Teofane, p. 265. Per gli altri della vita di Basilio, non occorrono
citazioni.

345
forse perchè i Musulmani, imbaldanziti, si sciolsero a maggiori
eccessi. Le popolazioni siciliane s'intesero tra loro, come trasparisce
dalle fazioni che sappiamo di quella guerra. Sgarate nella prova, par
che tentennassero; ma alla morte di Abbâs ripigliarono le armi con
novello ardire, rincorandole la divisione de' Musulmani. Ciò mi par
si tocchi con mano nei brani degli annali arabi, con la scorta dei
quali ormai torneremo al racconto.
Mentre i Cristiani provocavano, insultando al cadavere di Abbâs,
la colonia rifece capitano Ahmed-ibn-Ia'kûb, zio di lui; e il principe
aghlabita lo confermò583. Pur a capo di pochi mesi, verso il febbraio
dell'ottocento sessantadue, veggiamo deposto popolarmente Ahmed,
surrogatogli Abd-Allah figliuolo del morto Abbâs; e disapprovato lo
scambio a corte di Kairewân584. Nondimeno Abd-Allah avea dato
opera alla guerra; e, raro esempio ai tempi del padre, in luogo di
condurla in persona vi avea mandato Ribbâh, l'antico condottiero
della vanguardia, quel che primo entrò nella rôcca di
Castrogiovanni. Il quale or trovossi, per certo, a fronte di
soverchianti forze, poichè dopo qualche lieve avvantaggio fu rotto;
presegli le bandiere e le taballe che soleano stare al centro degli
eserciti; e fattogli grande numero di prigioni. Campato a stento, non
volle tornare a casa senza vendetta: espugnò la città del monte
d'Abu-Malek, di ignoto sito; menò in cattività tutti i borghesi; arse
la terra; sparse intorno le gualdane a fare i soliti guasti. La rôcca
degli Armeni, la rôcca di Mosciâri'a cadeano ancora in potere dei
Musulmani. Seguiano queste fazioni nella primavera dell'ottocento
sessantadue585. Ma il principe d'Affrica, non spuntandosi di suo
583
Baiân, tomo I, p. 106; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabic., p. 10. Ibn-
el-Athîr non fa menzione di questo breve governo.
584
Nowairi, l. c.; Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 33 recto, MS C, tomo IV,
fog.221 recto; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 124; Ibn-Abi-
Dinâr, MS., fog. 21 recto, e vers. franc., p. 85; Ibn-Wuedrân, MS., § 3, e versione
di M Cherbonneau, Revue de l'Orient, décembre 1853, p.427, Abd-Allah lasciò il
governo, dopo cinque mesi, in giumadi 1° del 248 (4 giugno a 3 luglio 882).
585
Confrontisi, Baiân, tomo I, p. 106, e Ibn-el-Athîr, l. c. Il nome e il caso di
Ribbâh sono riferiti dal solo Baiân, il quale non porta in quale provincia si
combattesse. Per certo in Sicilia; poichè il Baiân dice presa la città di Gibel-Abi-

346
proponimento, mandò a reggere la Sicilia Khafâgia-ibn-Sofiân-ibn-
Sewâda, di sangue aghlabita, di gran seguito a corte, come
dicemmo, chiaro alsì per vittorie in Affrica: il quale arrivò in
Palermo del mese di giugno586.
E con tutto l'ardore che il portava alle armi, e la furia di capitano
nuovo, come dice il proverbio siciliano, Khafâgia mandava in sua
vece alla guerra sacra il figliuolo Mahmûd: tanto ei trovò conturbata
la colonia di Palermo! Mahmûd, cavalcando il contado di Siracusa,
rapì, guastò, arse; ma, usciti i Cristiani a combattere, fu sconfitto e
costretto a tornarsene in Palermo587. Nè il padre il potè vendicare;
perchè l'anno che seguì, che fu il dugento quarantanove dell'egira
(23 febbraio 863 a 11 febbraio 864), si sa che abbia mandato
gualdane, che quelle abbiano riportato un po' di bottino; ma senza
fazioni degne che se ne faccia ricordo, scrive Ibn-el-Athîr588. In vece
Malek, il qual nome si trova appunto in Ibn-el-Athîr insieme con que' di Kalat-el-
Armenîn e Kalat-el-Mosciâri'a. Di nessuna delle tre so indovinare il sito.
586
Confrontinsi Ibn-el-Athîr, 1. c., Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la
Sicile, p. 124; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 10; Abulfeda,
Annales Moslemici, an. 247; Ibn-abi-Dinâr (el-Kaïrouani), MS.,fog. 21 recto; e
versione francese, p. 85. Ibn-Wuedrân chiama il morto Abbâs-ibn-Fadhl, sâheb
(principe) di Sicilia, e dice Khafâgia emiro venuto in Sicilia dalla parte del
principe aghlabita di Kairewân in luogo di Abd-Allah-ibn-Abbâs, che era stato
eletto dalla colonia. Il Baiân, tomo I, p. 103, narra una vittoria di Khafâgia nel
236 (850-851) sopra certi sollevati di Tunis.
587
Confrontinsi Ibn-el-Athîr e Ibn-Khaldûn, ll. cc. Il secondo dei quali dice
vincitore Mahmûd sotto Siracusa; ma parmi errore del compendio ch'egli faceva
troppo sbadatamente degli annali dell'altro; poichè in questi si legge senza
equivoco la vittoria dei Cristiani. Ibn-el-Athîr, nel medesimo luogo, nota che
secondo alcuni cronisti si arrendè, quest'anno 248, Ragusa occupata poi
certamente il 252; ond'egli è in forse se il fatto del 248 sia portato per errore di
data. Erroneo io il credo, leggendosi nella Cronica di Cambridge che Ragusa fu
occupata la prima volta l'anno 6356, che risponde a un di presso al 233 dell'egira
e 847-48 dell'era nostrale; e la seconda, l'anno 6375 che coincide in parte col 252
dell'egira e l'866-67 di Cristo. Della prima dedizione di Ragusa avea già parlato
Ibn-el-Athîr stesso, da noi citato a suo luogo.
588
MS. A, tomo II, fog. 38 recto, tra gli avvenimenti diversi del
248.
Ma parmi evidente che si debba riferire al 249.

347
delle quali troviamo cerimonie di officio: che Ziadet-Allah,
succeduto al fratello Ahmed-ibn-Mohammed, confermava Khafâgia
nel governo di Sicilia, e mandavagli i soliti abbigliamenti di
investitura589; quasi a mantenere il rigor di dritto che facea amovibili
i governatori a piacimento del principe.
Ricominciava da senno la guerra, composte come par le liti
intestine, all'entrar dell'anno dugentocinquanta (12 febbraio 864 a
31 gennaio 865), quando i Musulmani occupavano l'antica e
importante città di Noto, per tradimento di un cittadino che lor
mostrò la via di penetrar nella fortezza. Saccheggiatala, e presavi,
dicono gli annali, una bella somma di danaro, passarono a Scicli, su
la costiera di mezzogiorno, terra della quale occorre adesso il nome
per la prima volta, e fu espugnata per lungo assedio590. Intanto, se
dee starsi alla identità d'un altro nome scritto nel solo Baiân, i
Musulmani aveano abbandonato Castrogiovanni, ed era ormai
riabitata dai Cristiani, perchè si legge che il dugento cinquantuno (1
febbraio 865 a 20 gennaio 866) Khafâgia andava a guastar le mèssi
del contado, trascorrea fino a Siracusa, e combatteavi contro i
Cristiani una fazione, forse infelice, perchè senz'altro si aggiunge
ch'ei tornasse in Palermo. Donde fe' uscire una gualdana capitanata
dall'altro suo figliuolo Mohammed; la quale prese il fiero
soprannome di gualdana dei mille cavalieri; chè tanti ne uccise,
posto un agguato, com'e' parrebbe, nelle campagne di Siracusa, e
attiratovi il nemico591. Ciò mostri con che grosse forze si combattea.
589
Baiân, tomo I p. 107, sotto l'anno 249. Secondo questa cronica e quella di
Nowairi, Ziadet-Allah era fratello; secondo Ibn-Khaldûn, figliuolo del
predecessore Ahmed. Veggasi Nowairi, presso De Slane, Histoire des Berbères
par Ibn-Khaldoun, tomo I, p. 422, in appendice.
590
Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 33 recto, e MS. C, tomo IV, fog. 221 recto.
Veggasi Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 124, dove si legga
Noto in vece di Butera.
591
Baiân, tomo I, p, 107. Vi si legge, come in altri luoghi di questa compilazione,
Kasrbâna, e si dee correggere senza dubbio Kasriânna. Non si tratta di
Castelbuono, nè di Castelnuovo, nè di Castronovo; poichè la lettera su la quale
cade l'accento è una u non un'a; l'una delle quali non può confondersi con l'altra
nei MSS. Badisi che il Baiân, per evidente lacuna, tace la presa di

348
Il caso stranamente sfigurato, credo io, in qualche compilazione
persiana, portò il nostro Rampoldi a scrivere negli Annali
Musulmani, che l'ottocento sessantasette Khafâgia, volendo ritoglier
Enna ai Cristiani, era fatto prigione dopo avere ucciso di propria
mano più di mille uomini; ma il dì appresso lo riscattavano i suoi a
prezzo di trentaseimila bizantini d'oro592. La quale prigionia di
Khafâgia, non trovandosene vestigio nelle croniche arabiche scritte
da senno, va messa a fascio con l'erculea prova dei mille uccisi di
sua mano. Torna anco alla state dell'ottocento sessantacinque una
Castrogiovanni.
592
Rampoldi, Annali Musulmani, tomo IV, p. 353, senza citazioni. Il
gran lavoro del Rampoldi è a un di presso inutile, per questo vezzo
del non citare e di aggiugnere del proprio le circostanze che gli
sembravano opportune a raffazzonare gli avvenimenti. Così
leggiamo nello stesso volume IV, p. 340, sotto l'864: «Gli Aglabiti
di Sicilia, i quali già da alcuni anni si erano impadroniti di Ragusi e
di alcuni altri castelli di minor conto, vennero di colà scacciati da
Basilio, cognato dello imperatore di Costantinopoli;» la quale
impresa di Basilio, non solamente non è ricordata da alcuno, ma la
critica dee rigettarla al tutto; non essendo possibile in questo caso il
silenzio degli scrittori cortigiani di casa macedone. Poi sotto l'865 il
Rampoldi porta la occupazione di Noto, tolta dalla Cronica di
Cambridge, ancorchè senza citar questa. Infine, nell'867,
incomincia: «I Greci eseguirono un felice sbarco in Sicilia, e dopo
alcuni combattimenti, nei quali i Musulmani ebbero la peggio,
ricuperarono la forte piazza di Noto etc.,» e qui continua con lo
episodio di Khafâgia. Ma dond'ei prese questo sbarco; e donde la
occupazione di Noto; e quel numero appunto dei mille cavalli, e
quel nome di Castrogiovanni? Com'egli al certo non ebbe sotto gli
occhi il Baiân, così suppongo che abbia trovato qualche cenno
alterato del fatto nelle compilazioni persiane, sue sorgenti favorite.
Tal racconto è stato ripetuto dal Martorana, che cita il Rampoldi, Notizie ec., libro
I, cap. II, tomo I, p. 47. Il Wenrich, lib. I, cap. VIII, § 80, vergognandosi di citar
l'uno o l'altro, gittò la impresa di Basilio e la prigionia di Khafâgia su la coscienza
di Nowairi, Ibn-Khaldûn e Abulfeda, che sono innocentissimi di queste fole.

349
fazione navale, in cui i Musulmani presero quattro salandre
bizantine nel mar di Siracusa; ove par che l'armata fosse andata a
cooperare con l'esercito, sia nella impresa di Khafâgia, sia del
figliuolo593.
Ostinandosi a fiaccar la capitale nemica, l'anno dugento
cinquantadue (21 gennaio 866 a 9 gennaio 867), Khafâgia
riassaltava il contado di Siracusa, ma con poco frutto; donde tornato
per le falde dell'Etna guastando per ogni luogo le campagne,
veniano a chiedergli l'accordo oratori, di Taormina troviamo nelle
croniche, ma forse va letto Troina594. Perchè ei vi mandava ad
ultimar la cosa una moglie sua, forse schiava cristiana, col figliuolo;
e si fermò il patto: ma poi infranto dai cittadini, Mohammed
figliuolo di Khafâgia sopraccorrea con lo esercito, entrava nella
terra, e menava schiavi gli abitatori: la qual facile vittoria non va
con le note condizioni di Taormina, a quel tempo città grossa,
fortissima di sito, avvezza agli assalti e celebre poco appresso per
ostinate difese595. Mosse Khafâgia nella state del medesimo anno
sopra Noto, che, s'era sciolta dall'obbedienza; l'espugnò di nuovo596;
e verso l'autunno strinse Ragusa; la sforzò ad arrendersi, a patto che
andasse libera parte de' cittadini con loro roba e giumenti: e ogni
altra, cosa ch'era nella fortezza, anco gli animali e gli schiavi, andò

593
Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 42. Nel
testo stampato manca la parola lir-Rûm, che si trova nel MS. Però, in vece di
troncare nella versione pubblicata dal Caruso le parole cœperunt Romæi, come ha
fatto il Di Gregorio, si corregga: Captæ sunt quatuor scelandiæ Romanorum in
Syracusis.
594
In caratteri arabici questi due nomi hanno lettere comuni e altre assai
somiglianti, sì che l'uno si potea confondere con l'altro; e gli annalisti erano
portati a preferire il nome di Taormina, come meno ignoto.
595
Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 33 recto, MS. C, tomo IV, fog. 221 recto.
Veggasene il sunto in Ibn-Khaldûn, l. c., e l'anno vi si corregga 252, secondo un
MS. di Tunis, che risponde qui alla cronologia degli altri annalisti.
596
Ibn-el-Athîr, l. c.; Chronicon Cantabrigiense, l. c., che porta presa Noto la
seconda volta il 6374, il quale anno coincide col 252 dell'egira dal 21 gennaio al
31 agosto 866.

350
a monte come bottino597. Par che seguendo la costiera di
mezzogiorno giugnessero i Musulmani presso Girgenti, avendo
costretto a calarsi agli accordi il popolo di Ghirân, che io credo la
terra di Grotte: e moltissime altre castella occuparono; finchè il
capitano infermò di malattia sì grave, che fu mestieri portarlo a
Palermo in lettiga598. Ma non andò guarì che il rividero i Cristiani
nel dugento cinquantatrè (10 gennaio a 30 dicembre 867) cavalcare
i contadi di Siracusa e di Catania, distruggere le mèssi, guastar le
ville; mentre le gualdane ch'ei spiccava dal grosso dell'esercito
depredavano ogni parte dell'isola599.
Basilio, ch'era salito al trono in settembre di questo anno,
provvide immantinente a gagliardo sforzo di guerra in Sicilia. Onde
Khafâgia uscito di Palermo a dì venti di rebi' primo del dugento
cinquantaquattro (19 marzo 868), e mandato il figliuolo Mohammed
per mare con le harrâke, messosi a depredare il contado di Siracusa,
seppe giunto di Costantinopoli un Patrizio con armata ed esercito. A
duro tirocinio li avea mandato Basilio, contro tal capitano e tal
milizia, cui le vittorie dell'anno innanzi avean reso l'alacrità,
l'impeto, e, men durevole, la militar fratellanza. Scontraronsi i due
eserciti in aspra battaglia, lunga, sanguinosa. Trionfarono tuttavia i
Musulmani; uccisero al nemico parecchie migliaia d'uomini;
presero robe, armi, cavalli; e più furiosamente sbrigliatisi a guastare
i dintorni di Siracusa, tornarono in Palermo il primo regeb (26
giugno). Lo stesso dì Khafâgia fea salpare il figliuolo con l'armata
che s'era ritratta in Palermo, schivando le superiori forze navali dei
Greci. La quale andò a combattere su le costiere di terraferma, e
zeppa di bottino se ne tornò in autunno, come altrove diremo600.
Poco mancò che a mezzo il verno, Mohammed figliuolo di
Khafâgia non rinnovasse a Taormina l'audace fatto d'Abbâs-ibn-
597
Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, Ibn-Khaldûn, Chronicon Cantabrigiense, ll. cc.
Quest'ultima porta la occupazione di Ragusa il 6375, che coincide col 252
dell'egira dal 1 settembre al 31 dicembre 866.
598
Confrontinsi Ibn-el-Athîr e Ibn-Khaldûn, ll. cc., Baiân, tomo I, p. 108.
599
Ibn-el-Athîr e Ibn-Khaldûn, ll. cc.
600
Confrontinsi Ibn-el-Athîr, Baiân, ll. cc., e Ibn-Khaldûn, op. cit., p. 125.

351
Fadhl a Castrogiovanni. Offertosi uno spione a porre i Musulmani
entro la fortezza per alpestre sentiero noto a lui solo, Khafâgia
mandovvi il figliuolo; il quale del mese di sefer dugento
cinquantacinque (19 gennaio a 17 febbraio 869), cautamente
appressavasi; poi, restando addietro egli e il grosso delle genti,
mandava fanti spediti con la guida, che salsero a Taormina,
secondati dalla fortuna finchè ebbero animo e prudenza. Si
impadronirono d'una porta coi bastioni attigui, aspettando
Mohammed che dovea venire a tal ora, ed avea lor comandato
stessero raccolti senza dar mano al saccheggio. Ma que' non
volendo lasciar altrui le primizie di sì ricca città, si sparsero a far
prigioni e preda; scoprirono ch'erano un pugno d'uomini; onde i
cittadini, risentendosi dal primo stupore, li cominciarono a
incalzare: e l'ora intanto era scorsa, nè comparivano le bandiere di
Mohammed. Però temendo non il nemico gli avesse intercetto il
cammino, gli entrati in Taormina si tennero spacciati; diersi alla
fuga; e s'imbatterono nei compagni quando la città era richiusa e
fallito il colpo: nè altro partito a Mohammed restò che di tornarsi in
Palermo601.
Già la vittoria seguiva la disciplina, passava dal musulmano
campo al greco. Poco appresso il fatto di Taormina, di rebi' primo
del medesimo anno (18 febbraio a 19 marzo 869), Khafâgia movea
sopra Tiracia, com'io leggerei in Ibn-el-Athîr, e risponderebbe a
quella che poco appresso fu chiamata Randazzo602. Non si sa ch'ei la
601
Ibn-el-Athîr, l. c. Ibn-Khaldûn con minore verosimiglianza dice che entrato
Mohammed da un altro lato della città, la prima schiera lo credè aiuto che venisse
ai nemici; onde si pose in fuga.
602
In ambo i MSS. di Ibn-el-Athîr troviamo un nome senza punti diacritici, la cui
prima lettera può essere b, t, th, n, i, la seconda r, la terza s ovvero sci, alla quale
segua la terminazione femminile. Però non trovando nome antico che più si adatti
a quei caratteri, leggo Tiracia, la quale si vuol che risponda a Randazzo.
Quest'ultima è voce bizantina, probabilmente venuta da Ρ ̀ ενδάκης o Ρεντάκιος,
soprannome di un patrizio Sisinnio dei tempi di Leone Isaurico e d'un ricco
ateniese parente del patrizio Niceta sotto l'imperatore romano Lecapeno, ricordati
l'uno da Teofane, tomo I, p. 616; l'altra nella Continuazione di Teofane, lib. VI
(Romano Lecapeno), § 4, p. 399, e nei passi corrispondenti di Simeone e di

352
espugnasse. Mandata intanto fortissima schiera, col figliuolo, a
Siracusa, l'esercito cristiano uscì a incontrarla; si combattè
fieramente d'ambo le parti; quando, caduto nella mischia un de' più
valenti guerrieri musulmani, gli altri dier volta: inseguiti da' Greci e
perduta molta gente, rifuggironsi al campo di Khafâgia. Il quale a
rifarsi dell'onta marciò con tutto lo esercito a Siracusa; guastò il
contado, pose l'assedio alla città; ma accorgendosi che
gagliardamente la si difendesse, levato il campo, riprese la via di
Palermo. Fece alto in riva al Dittáino, la notte del primo regeb; e
innanzi l'aurora (15 giugno 869), mentre ognuno rimontava a
cavallo per riprendere la marcia, un Berbero del giund, per nome
Khalfûn-ibn-Ziâd della tribù di Howâra, lo trafisse d'una lancia a
tradimento, e a spron battuto si fuggì a Siracusa. Recarono il
cadavere di Khafâgia-ibn-Sofiân a Palermo, ove fu onorevolmente
seppellito603; la cui fama chiarissima rimase tra i Musulmani
d'Affrica per le vittorie guadagnate sopra i Bizantini604.
Nel compianto della colonia tacque per poco la gelosia, sì che
rifecero in luogo dell'ucciso il figliuolo di lui, Mohammed; e il
principe d'Affrica lo confermò, com'era usanza, col diploma e col
dono delle vestimenta d'uficio605. Pure non è indizio di tranquillità
che Mohammed, sì infaticabile nelle guerre del padre, promosso che
fu al sommo grado nella colonia, si rimanesse in Palermo,

Giorgio Monaco. Par che alcuno della famiglia sia passato in Sicilia poichè la
Cronica di Cambridge nell'anno 934 fa menzione di un Rendâsci governatore di
Taormina. Rhentacios era anche il nome di un monte di Macedonia, del quale si
fa menzione nelle guerre dei Patzinaci, verso la metà dell'undecimo secolo.
Veggasi Michele Attalista, recentemente pubblicato da M. Brunet de Presle, nella
nuova edizione della Bizantina, Roma 1853, p. 36.
603
Confrontinsi ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 33 recto, e MS. C, tomo IV,
fog. 221 recto; Baiân, tomo I, p. 108; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la
Sicile, p. 125; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 10; Ibn-Abi-
Dinar, MS., fog. 21 verso; Ibn-Wuedrân, MS., § 3, e versione di M. Charbonneau,
Revue de l'Orient, décembre 1853, p. 427; Abulfeda, Annales Moslemici, tomo II,
p. 206, sotto l'anno 248.
604
Autorità citate di sopra, e Ibn-Abbâr, MS., fog. 35 verso.
605
Ibn-el-Athîr, e le altre autorità della nota 1, pagina precedente.

353
mandando con le gualdane Abd-Allah-ibn-Sofiân; il quale andò a
distruggere le ricolte in quel di Siracusa, e altro non fece606. Così
anco l'anno dugento cinquantasei che seguì (8 dicembre 869 a 27
novembre 870) non fu segnalato altrimenti che per una impresa
marittima. Perocchè alquante navi affricane, capitanate da Ahmed-
ibn-Omar-ibn-Obeid-Allah-ibn-el-Aghlab, avevano occupato Malta
l'ottocento sessantanove; ma, andati i Bizantini alla riscossa,
stringeano d'assedio il presidio musulmano. Mohammed mandovvi
allora l'esercito di Sicilia; il cui arrivo i nemici non aspettarono: e
così a' ventinove agosto ottocento settanta, rimanea quell'isola in
poter della colonia siciliana607.
Pochi mesi appresso, a' tre di regeb del dugento cinquantasette
secondo l'egira (27 maggio 871), Mohammed-ibn-Khafâgia era
assassinato nel palagio; in pien giorno, da' suoi servi eunuchi; i
quali occultarono il misfatto infino al dì seguente, per aver agio a
salvarsi. La fuga li scoprì; onde furono inseguiti, presone alcuni e
messi a morte608. Indi la colonia eleggea capitano Mohammed-ibn-
Abi-Hossein; ne scrivea in Affrica, ed era disdetta dal principe
aghlabita; il quale commesse il governo a Ribbâh-ibn-Ia'kûb-ibn-
Fezâra, delle cui gesta in guerra è occorso parlare, come anco della
elezione e deposizione del suo fratello Ahmed l'ottocento

606
Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 69 recto.
607
Confrontasi Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 34; MS. C, tomo IV, fog. 221
recto; Nowairi, MS. 702, fog. 21 recto, e 702 A, fog. 52 recto, e versione francese
di M. De Slane, in appendice a Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, tomo I, p.
423; ove è sbagliato il nome del capitan affricano. Veggasi anche Ibn-Khaldûn,
Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 117. Ibn-Khaldûn, senza dir dei Bizantini,
riferisce la impresa al 255 (19 dicembre 868 a 7 dicembre 869), e però tratta del
primo sbarco. Nowairi non assegna data precisa. All'incontro quella d'Ibn-el-
Athîr, che torna all'870, esattamente riscontrasi con la data del 29 agosto 6378
che troviamo nella Cronica di Cambridge, presso Di Gregorio, Rerum
Arabicarum, p. 42.
608
Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, l. c., e anche MS. A, tomo II, fog. 81 recto; Baiân,
tomo I, p. 109; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabic., p. 10; Ibn-Abi-
Dinâr, MS., fog. 21 verso, con la erronea data del 257; Ibn-Wuedrân, con lo
stesso errore; Abulfeda, Annales Moslemici, an. 248, 255, 257.

354
sessantadue. Ma, come se il caso prendesse a mantenere gli
agitamenti della colonia quando posavano i raggiri e le tradigioni,
Ribbâh moriva tra non guari, di moharrem dugento cinquantotto (17
novembre a 16 dicembre 871)609. Seguillo alla tomba, nel mese di
sefer (17 dicembre 871 a 15 gennaio 872), il suo fratello Abd-Allah,
eletto wâli della Gran Terra, il continente cioè d'Italia, che i
Musulmani aspramente infestavano ormai da trent'anni610.

CAPITOLO VIII.
Innanzi l'impresa di Ased-ibn-Forât i Musulmani aveano
piratescamente assalito le costiere occidentali della Penisola, come
si narrò nel primo libro. Le varie fortune degli eserciti in Sicilia a
volta a volta poi rigettavano in terraferma qualche mano di
avventurieri, o troppo audaci in lor correrie, o disperati dopo alcuna
sconfitta, o costretti a fuggire per furor di parti; i quali, battezzatisi
per necessità, stanziarono, com'è probabile, presso Amalfi e
Salerno: e rimaneanvi, nè cristiani nè musulmani, fino all'ottocento
cinquanta611. Forse vissero ai soldi di quei piccoli Stati che si
rubacchiavano a vicenda; forse furon mezzani alla repubblica
napoletana, quando si volse a chiedere aiuto in Sicilia
l'ottocentotrentasei.

609
Nowairi, l. c., e p. 11. In questo nome ho aggiunto Ibn-Fezâra, ricavandosi
quest'altro grado di parentela dal nome di Abbâs-Ibn-Fadhl, nominato di sopra, p.
315 e 321.
610
Nowairi, l. c.; Baiân, tomo I, p. 109.
611
Nei capitoli della pace stipolata l'851 tra Radelchi e Siconolfo (presso
Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo II, parte I, p. 260 e seg., § XXIV) si
legge un patto reciproco di cacciare i Saraceni præter illos qui temporibus DD.
Siconis et Sicardi fuerunt Christiani si magarizati (cioè apostati) non sunt. Sicone
cominciò a regnare l'817, e Sicardo finì l'839. Citandosi questi due principi, è
manifesto che i Saraceni fossero venuti almeno due fiate diverse. Il luogo non si
ritrae, e l'ho detto per conghiettura.

355
In questo tempo la colonia di Palermo, assestata dal savio e forte
Ibrahim-ibn-Abd-Allah, avvezza ormai a fazioni navali e fatta
amica dei Napoletani, incominciò in ben altra guisa a infestare la
terraferma. Consigliata, o no, da' Napoletani, assaltò la costiera
dell'Adriatico, l'ottocento trentotto, credo io, ma non trovasi data
nella cronica. Ciò che ne sappiamo è, che i Musulmani
improvvisamente occupavano Brindisi; che Sicardo principe di
Benevento vi sopraccorrea con grosse torme di cavalli; e che
pugnossi fuor la città. I Musulmani si affidarono a uno stratagemma
adoperato già nelle guerre di Sicilia. Scelto il luogo che parve
opportuno, vi scavaron fosse, le coprirono di sarmenti e di terra, e
appressandosi l'esercito nemico, si chiusero nelle mura. Un dì,
appresso il pranzo, irrompon fuori con grande schiamazzo e fragor
di stromenti; attirano il nemico nelle insidie; e quivi, dando la carica
i cavalli di Sicardo e traboccando nei fossati, grande numero di
Beneventani, Salernitani, e altre genti rimasero morti sul campo.
Poi, come i Longobardi s'armavano a furia per ogni luogo
apprestandosi a vendicare questa strage, i Musulmani, fitto fuoco a
Brindisi, tornarono con l'armata in Sicilia. Tanto narra l'Anonimo
Salernitano che visse alla fine del secolo seguente, e pur merita fede
in questo caso, avendo avuto alle mani tanti ricordi municipali,
ignoti a cronisti più antichi di lui. Il fatto non mi sembra identico
con quel che riferisce Giovanni Diacono, l'aiuto cioè dei Musulmani
alla città di Napoli assediata da Sicardo. E veramente le circostanze
di coteste due fazioni non possono stare insieme; e disconvengono
anco i tempi, dovendo porsi l'aiuto di Napoli l'ottocento trentasei, e
il combattimento di Brindisi poco innanzi la morte di Sicardo612.
Tra questa sconfitta e la morte, il tiranno beneventano ottenne
singolar favore dal cielo, dicono i cronisti narrandoci tuttavia le
612
Anonymi Salernitani Chronicon, cap. LVII della edizione del Muratori, LXIII
del Pratilli, e LXXII del Pertz. L'autore, che non pone data, scrive il fatto dopo
l'assassinio dell'abate Alfano, e avanti la occupazione di Amalfi. Il Muratori par
abbia supposto identiche le due imprese, poichè negli Annali registra l'aiuto di
Napoli l'837, e non parla affatto di Brindisi. Il Wenrich, lib. I, cap. V, § 58, narra
questa fazione con la data certamente erronea dell'836, e lascia indietro l'altra.

356
orribilità sue: assassinii, stupri, tradimenti, ruberie, carnificine.
Avendo appreso che la superstizione potesse far ammenda dei
delitti, Sicardo mandava a cercare per ogni luogo ossami di santi;
spesso a rubarne: e n'avea raccolto un tesoro, quando gli capitò alle
mani una reliquia miracolosissima, s'altra mai ne fu. Le navi
longobarde che giravan le isole dando la caccia ai Saraceni,
l'ottocento trentotto, approdate a Lipari, trovaron bello ed intero il
corpo di San Bartolommeo, che chiuso in uno avel di marmo era
venuto a galla613 dalle foci del Gange alle isole Eolie; dove
riconosciuto, e come no? ebbe culto e altari, finchè i Musulmani
non guastarono ogni cosa. In più lieve barca viaggiarono le reliquie
da Lipari a Salerno, onde poi furono tramutate a Benevento614.
Barca, credo io, non del navilio di Sicardo, che o non n'ebbe mai, o
non avrebbe osato mandarlo sì presso alla Sicilia; ma piuttosto dei
mercatanti della costiera i quali venissero a trafficare coi
Musulmani, prendere a baratto il bottino delle chiese, e vendere
schiavi italiani615. Perciò mi sembra notevole il fatto, e perciò l'ho
ricordato.
Stanchi alfine di quella insolente tirannide, i cittadini di
Benevento uccisero Sicardo (839); e, lasciato Siconolfo fratel suo
nella prigione ove egli l'avea messo, esaltarono un Radelchi, ch'era
dei primarii oficiali dello stato. All'incontro, Salerno, Capua e altre
città, per procaccio, com'e' parmi, de' grossi feudatarii longobardi
che mal soffrivano la dominazione di Benevento, gridarono principe
613
Nell'originale "a galla a galla". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
614
Veggansi le autorità citate dal Pagi nella Critica a Baronio, Annales
Ecclesiastici, an. 840, § 13; e inoltre, Anonymi Salernitani Paralipomena, cap.
LVIII della edizione del Muratori, e LXXII di quella di Pertz; Chronicon
Monasterii Sanctæ Sophiæ Beneventi, presso Muratori, Antiquitates Italicæ, tomo
I, e Pertz, Scriptores, tomo III, p. 173; Chronici Amalphitani Fragmenta, cap. V,
presso Muratori, Antiquitates Italicæ, tomo I, p. 209; Benedicti Sanctæ Andreæ
Monachi Chronicon, presso Pertz, Scriptores, tomo III, p. 701; Leonis Ostiensis,
lib. I, cap. XXVI; Pirro, Sicilia Sacra, Notitia Ecclesiæ Lipariensis, p. 951.
615
Uno dei capitoli stipolati il 4 luglio 836 tra Sicardo e lo Stato di Napoli,
Amalfi e Sorrento, vieta ai mercatanti di questo Stato di comperare uomini dei
Longobardi e rivenderli sul mare.

357
Siconolfo, testè liberato dai suoi partigiani. La successione disputata
portò a guerra civile, che forte incrudelì mescolandovisi i
Musulmani. I quali, al saper quelle discordie, fatto un general
movimento, dice l'Anonimo Salernitano, piombarono su la
Calabria616. E prima que' di Sicilia, non aspettata pur la primavera,
occuparono Taranto; e si trovarono a un tratto signori dell'Adriatico.
Perocchè Venezia, sollecitata l'anno innanzi da Teofilo ch'era ormai
costretto a mendicare cotesti aiuti, s'era mossa a gagliardo sforzo,
tra le lusinghe dello imperatore, i danari che vi recò il patrizio
Teodosio, e il sentire già in pericolo la navigazione sua: avea
armato sessanta legni da guerra. Veleggiando, com'e' pare, alla volta
di Sicilia, s'imbatteano a Taranto nell'armata musulmana; la quale
uscita a combattere, li ruppe con orribile strage: dicono gli annali
de' Veneziani che tutta lor gente vi restasse morta o presa.
Nell'inseguire i fuggenti, spinsersi i Musulmani infino all'Istria; addì
trenta marzo ottocento quaranta saccheggiarono e arsero Osero
nell'isola di Cherso; saltarono su la riva opposta, sbarcarono alle
foci del Po presso Adria, ma senza frutto; ad Ancona fecero prigioni
e poser fuoco alle case; e poi, incrociando alle bocche
dell'Adriatico, presero molte navi mercantili di Venezia reduci di
Sicilia e d'altre regioni617. Intanto su la punta della penisola avean

616
Anonymi Salernitani Chronicon, edizione del Muratori, cap. LXVI; del
Pratilli, LXXIV; e del Pertz, LXXXI.
617
Le due autorità principali di questa guerra dell'Adriatico sono:
Johannis Diaconi Chronicon Venetum, presso il Pertz, Scriptores,
tomo VII, p. 17; e Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 185 verso, e
MS. C, tomo IV, fog. 192 verso, sotto l'anno 223. Dei quali il
Veneziano narra i fatti, l'Arabo li accenna appena; ma entrambi
convengono nella data, che l'uno porta l'anno della ecclissi solare di
maggio (che avvenne il 8 maggio 840) l'altro, l'anno 225 dell'egira,
che risponde all'840, dovendo intendersi della primavera e della
state. Ecco le parole d'Ibn-el-Athîr: «Mosse l'armata dei Musulmani
alla volta della Calabria; e vinsela. Indi, scontratisi con l'armata del
principe di Costantinopoli, i Musulmani la combatterono e ruppero;

358
espugnato parecchi luoghi e lasciatovi presidio, come va
interpretata la frase degli annali arabici, che quest'anno dugento
venticinque dell'egira (11 novembre 839 a 29 ottobre 840) i
Musulmani conquistavano la Calabria618. Nel medesimo tempo
osteggiarono la Puglia, ritraendosi che Haiâ liberto di Aghlab,
principe d'Affrica, assalisse Bari, ma ne fosse respinto619. L'armata
musulmana, l'anno appresso, mostrossi di nuovo nel golfo del
Quarnero, e di nuovo diè una sanguinosa rotta ai Veneziani, presso
l'isoletta di Sansego620. In coteste fazioni non combatteron soli i
coloni di Palermo. Per certo li rinforzava la gente venuta d'Affrica
in Sicilia l'ottocento trentanove621; e v'eran anco quegli audacissimi
corsari della colonia di Creta, che due anni appresso si veggono

ritirandosi gli avanzi di quella a Costantinopoli. E questa fu


segnalatissima vittoria.» L'attestato della cronica veneta, che Osero
fosse stata arsa il secondo giorno appresso Pasqua, ci porta a
supporre la battaglia di Taranto qualche settimana innanzi, e però i
conquisti di Calabria nel corso della primavera e della state, non già
avanti il mese di marzo e la battaglia navale, come scrive Ibn-el-
Athîr.
Ho reso vincere il verbo arabo fetah, il cui significato non può
confondersi con quello di fare incursione, che gli Arabi dicono
gheza, donde la nota voce razzia, come la pronunziano in Affrica,
che già si è introdotta nel linguaggio francese.
Veggansi anche Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des
Vergers, p. 111; e Dandolo, Chronicon Venetum, lib. VIII, cap. IV, § 6, 7, 8,
presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo XIII. Si accorda con la data
dell'840 la testimonianza di Lupo Protospatario, là dove ei nota che l'anno 919 era
l'ottantesimo della entrata degli Agareni in Italia. L'Anonimo Salernitano, l. c.,
dice che il primo effetto del «generale movimento dei Saraceni» fosse la presa di
Taranto, e poi dessero il guasto alla Puglia.
618
Ibn-el-Athîr e Ibn-Khaldûn, ll. cc.
619
Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 198 recto e verso; e MS. C, tomo IV, fog.
211 recto, non porta data; ma vale per questa il nome del principe il quale regnò
da giugno 838 a febbraio 841. Si riscontri con l'Anonimo Salernitano, l. c.
620
Johannis Diaconi Chronicon Venetum, presso Pertz, Scriptores, tomo VII, p.
18.

359
stanziare a Taranto. Affricani, Siciliani, Cretesi erano la più parte
compagnie di ventura, come quelle accorse l'ottocento trenta in
Sicilia; disposti ad operare insieme in alcuna impresa di momento, e
far le minori ciascuno per sè. E però fondarono in terraferma le
picciole colonie independenti, di cui si farà ricordo. I condottieri
usurparon titolo di principi, che gli scrittori cristiani danno talvolta
per nome proprio: così senza dubbio Sultano; così Saba, che parmi
corruzione di Sâheb. Ed è il nome attribuito all'ammiraglio che
trionfò a Taranto622.
Ma Radelchi, condotto alla stremo da Siconolfo, che gli avea
tolto la Calabria e non poca parte di Puglia623, si gittò agli aiuti dei
Musulmani. Per Pandone gastaldo di Bari, fe' chiamare un di que'
condottieri per nome Khalfûn, uom berbero, liberto della tribù araba
di Rebi'a624; le cui genti Pandone fe' accampar lungo la marina e
sotto le mura. E una notte i Baresi, che abbastanza non se ne
guardavano, videro saltare in città quelle frotte scalze, mezzo
ignude, male armate, e i più di sole canne, scrissero i Cristiani 625,

621
Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo I, fog. 185 verso, e MS. C, tomo IV, fog. 192 recto,
sotto l'anno 233.
622
Il Diacono Giovanni di Venezia, l. c., dà questo nome di Saba; e ripetonlo in
imprese susseguenti altre croniche italiane e scritti bizantini, insieme con quello
di σολδάνος, σαλδάνος, Saothan, Saogdan, Seodan, ec. Sâheb, pronunziato
volgarmente Sahb, par sia stato scritto "Saba" per le reminiscenze bibliche dei
Cristiani, e perchè la h non rincalzata da vocale sfuggiva agli orecchi stranieri. Ho
già accennato il valore della voce Sâheb. Sovente s'incontra Sâheb-el-Istûl nel
significato di "ammiraglio," poichè gli Arabi, per esprimere la novella idea di
armata navale, adottarono la voce στόλος, e stolium.
623
Erchemperti Historia, cap. XV; Historiola ign. Cassin., cap. VIII.
624
I cronisti italiani scrivono Calfon e anche Alfonses in alcuni codici men
corretti. Ritraggiamo il vero nome da Ibn-el-Athîr, il quale sbaglia la data della
presa di Bari, portandola sotto il califato di Motewakkel (847-861), MS. A, tomo
II, fog. 198 recto e verso; MS. C, tomo IV, fog. 211 recto. Non par sia questo
Khalfûn lo uccisore di Khafâgia, del quale si è detto nel capitolo precedente.
625
Obsitis quidem vestimentis et calciamentis saltem, nec tarabere succinctis, sed
solis harundinibus manibus gestantes, leggiamo nella Historiola ignoti
Cassinensis, cap. VIII. Tarabere si è spiegato da alcuni "tabarro;" altri hanno
corretto nec tara bene ec.; cioè "nè ben cinti di fascia:" che mi sembrano l'una e

360
maravigliati di quelle lor lance, di canne indiane, sottili e salde
come d'acciaro. Saccheggiarono; uccisero chi resistea: Pandone tra
gli altri fu gittate in mare, perchè volea parlare sopra il diritto delle
genti. Radelchi, non potendo far altro, li lasciò padroni di Bari; se li
tirò dietro; ed espilò i tesori delle chiese per pagar loro gli stipendii.
Mandolli una volta con Orso suo figliuolo sopra il castel di Canne o
di Canosa, chè dubbio è il nome626; dove sopraggiuntili Siconolfo, li
ruppe sì fieramente che pochi ne camparono. Khalfûn, crepatogli il
cavallo nella fuga, salvossi a piè, a mala pena, entro Bari.
Nondimeno, i Musulmani agevolmente riforniti di gente, prendean
aspra vendetta; scorrean predando e guastando infino a Capua; e
ardean la città, che fu rifabbricata di lì a pochi anni al ponte del
Casilino, non lungi dall'antico sito627.
Donde Siconolfo avvisandosi, dice Erchemperto, di spezzare con
un mal conio il mal nodo dell'albero, chiamò contro gli Agareni
libici di Radelchi gli Ismaeliti spagnuoli di Creta, capitanati da un
Apolofar628 che avea fermo le stanze a Taranto. Siconolfo li assoldò
con espilar le chiese peggio che non avesse fatto Radelchi: le due
generazioni di Musulmani a gara si godeano il denaro de' Cristiani
amici e la roba dei nemici; e mandavano a vendere in lor paesi i
prigioni d'ambo le parti. Tra loro non si sa che mai combattessero, o
il fecero come i nostri condottieri del decimo quinto secolo. Nè
anco si parla di loro alla giornata delle Forche Caudine, ove
scontratisi l'ottocento quarantatrè i due rivali longobardi, Siconolfo
sbaragliò i Beneventani con grandissima strage. L'aiutavano bensì i
l'altra zoppe interpretazioni. Parmi che si tratti di una specie di armatura,
probabilmente corazza, e potrebbe essere appunto il plurale durâri', sfigurato dai
copisti in guisa da non potersi riconoscere; ovvero la voce greca dei bassi tempi
ταραβείνα, di cui il Du Cange nel Glossario Greco.
626
Veggasi la nota di Pratilli, Historia Principum Langobardorum, tomo I, p. 98.
627
Confrontinsi: Historiola ignoti Cassinensis, cap. VIII; Erchemperti Historia,
cap. XVI. Sul sito della nuova Capua, veggasi la nota del Pratilli alla Historiola
ec., nell'opera citata, tomo I, p. 202.
628
Non abbiamo il nome di costui dai cronisti arabi. A prenderlo come lo
scrivono i Cristiani, sarebbe Abu-l-Fâr, ossia "Quel dal topo;" Abu-'l-Fares, ossia
"Quel dal cavallo ec."

361
Cretesi nelle scorrerie ch'ei più vaste assai fece dopo questa vittoria;
onde ridusse Radelchi alle due sole città di Siponto e Benevento629.
Narrasi che tornando a Salerno Siconolfo ed Apolofar, dopo
alcuna di queste fazioni, messisi per diletto a spronare a gara i
cavalli, il principe volle mostrar nuova prodezza della gente
germanica all'altro che piccino era della persona, ma destro,
animoso e baldanzoso. Smontati al palagio, mentre salivano per le
scale, Siconolfo lo levò di peso per un braccio, e ripostolo tre
gradini più su, lo abbracciò e baciò, per addolcire o aggravare tal
insolenza, E il Musulmano, quando la rabbia gli permesse di
parlare, proruppe esser finita da quel dì ogni amistade tra lui e
Siconolfo: lo giurò per Allah; nè scuse valsero a ritenerlo che con
tutti i suoi non se ne tornasse a Taranto. Di lì manda ad offerirsi a
Radelchi; corre a Benevento; fa cavalcar sue gualdane alla volta di
Salerno: le quali giunsero al fiume Tusciano, come s'addimandava,
ad otto miglia verso mezzodì; e lasciarono in quelle parti terribile
memoria del nome di Apolofar. Del quale aneddoto io non veggo
perchè si debba dubitare; stando bene quel villano scherzo a un
principe longobardo che si tediava già dei Cretesi, non avendone
più bisogno. Il Cronista poi racconta la fine di Apolofar: segnalatosi
per gran valore nella difesa di Benevento; preso a tradigione da
Radelchi; impavido e altero, sì che sputò in faccia al traditore pria
di andare alla morte630.
La tradizione popolare che troviamo in questa cronica, se pur
aggiunse qualche bel colpo di lancia, qualche arguto detto, qualche
drammatica commozione, non alterò la importanza degli
avvenimenti. Taranto fu abbandonata di certo dai Cretesi;
leggendosi negli annali arabi di Sicilia che i Musulmani la
rifornissero di presidio l'anno ottocento quarantasei: il che ben
s'attaglia con l'episodio di Apolofar, assediato in quel tempo entro
629
Confrontinsi: Historiola ignoti Cassinensis, cap. X ed XI; Erchemperti
Historia, cap. XVII; Anonymi Salernitani Chronicon, cap. LXVI della edizione
di Muratori, LXXIV di Pratilli, e LXXXI di Pertz.
630
Anonymi Salernitani Chronicon, cap. LXVI e LXVIII del Muratori, LXXIV e
LXXVI di Pratilli, e LXXXI e LXXXIII di Pertz.

362
Benevento. L'altra compagnia di Berberi e Arabi d'Affrica che tenea
Bari e aiutava Radelchi, si mantenne, ma non si segnalò, dal
quarantatrè al quarantasei, tacendone in questo tempo gli scrittori
cristiani; e allora appunto veggiamo la colonia di Sicilia travagliarsi
nell'assedio di Messina e nell'aspra guerra di Val di Noto; onde non
potea mandare rinforzi in terraferma. Mancandovi dunque quelle
armi che l'ottocento quaranta e il quarantadue erano parute sì
terribili, i due principi longobardi continuarono rabidamente a
straziarsi, ma senza frutto; che nè Siconolfo avea possa di
espugnare Benevento, nè Radelchi di ripigliare la provincia.
Con novello furore i Musulmani assalivano l'Italia meridionale
l'ottocento quarantasei. Insuperbiti per aver tagliato a pezzi
l'esercito bizantino (a. 845) in Sicilia, spinsero agli assalti, con
evidente unità di disegno, le forze della colonia siciliana e
dell'Affrica. Le prime si mostrarono a un tempo sul mare Ionio e sul
Tirreno: da una parte poneano grosso presidio a Taranto631, dall'altra
si afforzavano al capo della Licosa che termina a mezzodì il golfo di
Salerno; e occupavano Ponza, nè curavansi ormai se spiacesse ai
Napoletani. Perchè, non temendosi più nel Tirreno i Bizantini, e non
contandovi per anco le bandiere di Pisa e di Genova,
signoreggiavano quel mare la confederazione di Napoli e la colonia
di Palermo, con forze non disuguali, con interessi comuni e interessi
contrarii: fieri amici che avean riguardo, non paura l'un dell'altro;
tenean la mano all'elsa della spada, e talvolta la sguainavano, ma
presto tornavano in pace. Dopo la presa di Ponza, Sergio console di
Napoli vi approdò con le sue navi e quelle di Gaeta, Amalfi e
Sorrento; scacciò i Musulmani da quell'isola e dalla Licosa.

631
Ibn-el-Athîr nel capitolo "Delle guerre dei Musulmani in Sicilia" MS. A, tomo
II, fog. 2, e MS. C, tomo IV, fog. 212 recto, dopo la presa di Lentini scrive:
«Questo medesimo anno (232, 846-7) i Musulmani si fermarono nella città di... in
terra di Lombardia e la presero ad abitare.» Il nome della città è scritto Tâbth;
delle quali lettere sono certissime le prime due al par che l'accento sull'a; la b si
può scambiare con una n o altra, e l'ultima può essere t, th ec. Non esito ad
aggiungere una r, e leggere Târant, corrispondendo tutti gli altri elementi di
lettere a quelle con che gli Arabi scrivono tal nome.

363
Rifuggitisi in Palermo, i Musulmani tornarono con più forte armata,
occuparono il castel di Miseno sì presso a Napoli632, e pur non
furono sturbati. Probabil è che l'armata andasse ad accompagnare
gli stormi di barche usciti in questo tempo dall'Affrica per venire
sopra Roma.
Superate agevolmente le fortificazioni che pochi anni innanzi
Gregorio IV avea fatto costruire ad Ostia, del mese di agosto gli
Affricani giugneano alla città eterna. Non osando assalirla, dettersi
a saccheggiare le basiliche di San Pietro e di San Paolo, poste in
quei dì fuor le mura: ma lo stuolo che spogliava la chiesa di San
Paolo, affrontato dai contadini, fu scemato orribilmente, e tutto
l'esercito s'ebbe indi a ritrarre. Marciò verso lo Stato di Benevento,
ove potea trovare i suoi fratelli d'Affrica e di Sicilia; depredò per via
Fondi; del mese di settembre, si pose all'assedio di Gaeta: e qui fu
visto valorosamente combattere contro gli Infedeli Bertario, poi
fatto abate di Monte Cassino. A Gaeta sopraggiunsero da un lato le
genti di Lodovico, chiamate in fretta dopo l'assalto di Roma;
dall'altro, Cesario figliuolo del console di Napoli, con l'armata
napoletana e amalfitana. E i Musulmani, andati incontro ai Franchi,
rupperli in uno agguato il dieci novembre; e ne faceano sterminio,
se non era per Cesario che sbarcò co' suoi. Intanto un'altra schiera
che era giunta a un dipresso a cinque miglia dalla badia di Monte
Cassino, ardendo chiese e monasteri, fu rattenuta, dicesi, dalle
acque del Carnello, ingrossate per subito rovescio di pioggia:
miracolo di San Benedetto, come rivelò in sogno all'abate un altro
santo dell'ordine. E il santo nulla disse del pro' Cesario, quel desso
che avea fatto tornare addietro i Musulmani; e postosi indi con
l'armata nel porto di Gaeta, salvò anco questa città senza
combattere, come nota Giovanni Diacono. Perchè, innoltrandosi il
verno, e non potendo le barche affricane reggere all'aperto; i
632
Johannis Diaconi Chronicon Episcop. Sanctæ Neapolitanæ Ecclesiæ, presso il
Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte II, p. 315; dal quale è
superfluo dire che ho tolto i soli avvenimenti, non le riflessioni ch'io ne traggo. Il
cronista narra in continuazione l'assalto di Roma, ed io non so perchè il Muratori
negli Annali abbia riferito le fazioni di Ponza ec. all'845.

364
capitani pattuirono con Cesario che li raccettasse nel porto,
giurando di non far male, e, abbonacciato il mare, tornarsene in
Affrica. Cesario se ne fidò; quelli mantenner la fede: ma poi
perirono la più parte nel viaggio, non senza sospetto di un altro
miracolo633.
Rifulse di nuovo a capo a tre anni (849) la virtù di Cesario,
insieme con quella di Leone Quarto papa. Assai più forte stuolo di
Affricani s'era adunato in Sardegna per ritentare l'assalto di Roma;
mentre Leone dava opera a chiuder di mura le basiliche degli
Apostoli e i sobborghi di quella parte: e con liberalità, con indefessa
vigilanza, con processioni, benedizioni, esorcismi, riscaldava le
immaginazioni dei cittadini. Nè eran finiti per anco i lavori, quando,
saputa la mossa dei nemici, la confederazione napoletana, non
volendoli a niun patto padroni di quel mare, mandava l'armata a
Ostia; il papa vi sopraccorreva con soldati di Roma; ed accettava
l'aiuto, non prima d'avere interrogato Cesario se venisse amico o
nemico: tanto eran sospetti nelle altre parti d'Italia que' legami della
repubblica di Napoli coi Musulmani! Sincerato dell'intento, il
pontefice passava a rassegna gli Italiani di quelle varie città che non
sapeano d'avere una medesima patria: e lor venia ricordando, invece
di questo, la fratellanza del cristianesimo, i miracoli degli Apostoli,
la comune speranza in Dio. Poi celebrò la messa; comunicò i
guerrieri con le proprie mani; e, preparandosi ad ogni evento, se ne
tornò a Roma. Avvistatesi intanto a Ostia le barche affricane, i
nostri corsero alle navi con doppio ardire; appiccarono la zuffa; e
poteron credere in vero ad aiuto soprannaturale, quando, non decisa
per anco la sorte della battaglia, levossi una tempesta che sbaragliò
gli Infedeli, non usi la più parte al mare, montati su triste barche;
633
Confrontinsi: Historiola Anonymi Cassinensis, cap. IX e XIX; Johannis
Diaconi, Chronicon Episcop. Sanctæ Neapolitanæ Ecclesiæ, presso Muratori,
Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte II, p. 315, 316; Anastasii
Bibliothecarii Epitome Chronicor. Cassinens., presso Muratori, Rerum
Italicarum Scriptores, tomo II, parte I, p. 369; Prudentii Trecensis Annales,
presso Pertz, Scriptores, tomo I, p. 442; Johannis Diaconi Chronicon Venetum,
presso Pertz, Scriptores, tomo VII, p. 18, e parecchi altri.

365
mentre gli induriti navigatori di Napoli, d'Amalfi, di Sorrento, di
Gaeta, su lor provati legni non se ne moveano. Indi orribile la strage
dei Musulmani, annegati, trafitti, sbalzati a terra, ove i baroni
romani li pigliavano e li impiccavano; anche i preti osavano metter
loro le mani addosso per incatenarli. Leone ornò di loro spoglie le
chiese di Roma; fe' lavorare i prigioni alla fabbrica delle mura; e
riportonne una gloria che pochi altri papi han saputo meritare634.
Non andò guari che Lodovico Secondo, figliuol di Lotario, presa
la corona imperiate (850) vivente il padre, cominciava in persona a
combattere i Musulmani dell'Italia meridionale, contro i quali poi si
travagliò circa venticinque anni. Tra lo assalto di Roma e la
sconfitta d'Ostia, gli ausiliari di Benevento non avean dato respitto
al vicin paese. Capitanavali un Massar, come lo chiamano gli
scrittori cristiani, l'indole generosa del quale par che ripugnasse al
suo reo mestiere. Narrasi che in una scorreria di otto dì, l'autunno
dell'ottocento quarantasei, uscito di Benevento, ei desse il guasto al
monastero di Santa Maria in Cingla e a quel di San Vito presso
Isernia; abbattesse il castel di Telese; e si spingesse fino a Monte
Cassino, Aquino ed Arce, depredando e struggendo ogni cosa,
fuorchè il Monastero Cassinese: ove, non che far offesa, non lasciò
afferrare al proprio cane un'oca dei frati, gli corse dietro con lo
scudiscio, gliela trasse di bocca, e piantossi alla porta del
monastero, perchè non vi entrassero gli altri seguaci suoi, men
docili del cane. Questa forse fu lealtà verso Radelchi che non amava
a nimicarsi l'abate di Monte Cassino. Ma di giugno del
quarantasette, squassata da' tremuoti tutta la provincia e fatta Isernia
un mucchio di rovine, consigliando altri a Massar che usasse la
occasione di saccheggiare quella città, rispose: "Il Signor del creato
fa sentir quivi sua collera; e dovrò io aggravarla? No; non andrò!"635
Egli o altro condottiero, questo medesimo anno, scorrea predando
634
Anastasii Bibliothecarii, Vita di Leone IV, presso il Muratori, Rerum
Italicarum Scriptores, tomo III, parte I, p. 231, 237, seg.
635
Historiola ignoti Cassinensis, cap. XII e XIV. La data si scorge da Anastasio
Bibliotecario, che nella Vita di Leone IV porta la rovina d'Isernia nella 10a
indizione.

366
infino a Roma con Saraceni e Mori, come una cronica tedesca
denota gli Arabi e i Berberi636. Ma quelle triste masnade, quali che
si fossero i capi, non distingueano amici e nemici, maltrattavano a
Benevento anco i nobili; flagellavanli con le strisce di cuoio, dice
Erchemperto, come vili schiavi637.
Pertanto Radelchi avea a temere che i suoi un dì non lo
abbandonassero: i popoli gridavano da ogni parte; i frati
incalzavano; e i piccioli intenti politici di que' piccioli Stati mezzo
independenti, che aveano mantenuto la guerra, ora portavano a
cessarla perchè si uscisse di tanto strazio. Di più tornava comoda a
tutti la divisione dell'antico Stato di Benevento; unico modo oramai
di concordia: piaceva ai principi di Capua che si voleano spiccare
da Salerno, e poco appresso il fecero; piaceva ai Napoletani che più
non temeano dei Longobardi sì divisi, e pensavano a guardarsi dei
Musulmani. La pratica della divisione fu condotta da Guido duca di
Spoleto, francese, congiunto di Siconolfo; barattiere, dicono i
cronisti, che trasse danaro a Radelchi e al cognato, ed entrambi li
giuntò: ma certo trattava utilissim'opera. Sendo impossibile di
compierla senza l'autorità e la forza dell'imperatore, a lui si volsero
gli uomini più gravi del paese: l'abate di Monte Cassino andò a
posta in Francia e agevolmente persuase Lodovico a venire. Calò
senza grosso esercito. Ito con le genti sue e del duca di Spoleto sotto
Benevento e minacciando l'assedio, Radelchi patteggiò sottomano.
E una notte, fatti pigliare proditoriamente Massar e i suoi
Musulmani, li mandò incatenati al campo di Lodovico; ove la
vigilia della Pentecoste li uccisero di sangue freddo a colpi di
lancia, tutti, senza eccettuarne il generoso Massar. Dopo il
tradimento e la carnificina, che la necessità fe' parere gesta sante, si
fermò la pace tra Siconolfo e Radelchi; si fe' il partaggio dello Stato
in due principati, Benevento e Salerno; e tra gli altri patti si stipolò
che nè l'uno nè l'altro si collegassero con Saraceni, nè

636
Prudentii Trecensis Annales, presso Pertz, Scriptores, tomo I, p. 443.
637
Erchemperti Historia, cap. XVIII.

367
raccettasserne, fuorchè quelli venuti prima della guerra, se fatti e
rimasi cristiani638.
Abbâs-ibn-Fadhl che combatteva in questo tempo i Cristiani di
Sicilia, non potendo ignorare l'atroce caso, andò l'anno appresso con
l'armata; sbarcato in terraferma, ruppe in sanguinosi scontri i
Cristiani; mandò le teste degli uccisi in Palermo, per mostrar ch'ei
sapea vendicare il sangue musulmano: e continuò il terribil duce a
guastare i colti, correr vittorioso le campagne, far prigioni per ogni

638
Confrontinsi: Historiola ignoti Cassinensis, cap. XVIII;
Erchemperti Historia, cap. XIX; Johannis Diaconi Chronicon
Episcoporum ec., presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores,
tomo I, parte II, p, 316; Anastasii Bibliothecarii Epitome Chronicor.
Cassinen., presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo II,
parte I, p. 370; Andreæ Presbyteri Bergomatis Chronicon, § 13,
presso Pertz, Scriptores, tomo III, p. 236, ove si correggano le date;
Anonymi Salernitani Chronicon, cap. LXVI a LXXI della edizione
di Muratori, LXXV a LXXIX di Pratilli, e LXXXII, seg. di Pertz;
Adonis Archiep. Viennensis Chronicon, presso il Pertz, Scriptores,
tomo II, p. 323.
L'Anonimo Cassinese discorda dal Salernitano nei particolari e nel
nome del condottiero tradito, che secondo lui fu lo stesso Apolofar,
di cui si è detto; ma potrebbe errare l'uno il nome, l'altro il
soprannome della stessa persona, o queste esser due vittime diverse
delle stesso tradimento. La testimonianza di Anastasio che porta
precisamente la data dell'851; quella del contemporaneo Adone
arcivescovo di Vienna che segna l'anno dell'Incarnazione 850; il
titolo di imperatore dato dai più a Lodovico, e altre ragioni che
lungo sarebbe ad esporre, mi han portato ad assegnare l'851 al fatto
di Benevento, discostandomi in ciò dal giudizio del Muratori,
Annali d'Italia, che lo riferisce all'848.
Veggasi l'accordo pubblicato anche con la data dell'851 dal Muratori, Rerum
Italicarum Scriptores, tomo II, parte I, p. 260, seg., e dal Pratilli, Historia
Principum Langobardorum, tomo III, p. 214, seg.

368
luogo; coi quali tornossi in Sicilia639. Taranto, sottrattasi già ai
Musulmani, fu assediata da loro e presa per fame, s'ignora se sotto
altro condottiero innanzi il fatto di Benevento, ovvero da Abbâs-
ibn-Fadhl640. Costui partendo par abbia lasciato possenti rinforzi in
Puglia e in Calabria641; talchè, rinforzati di questi o d'altri venturieri,
i coloni di Bari continuavan soli l'infestagione per moltissimi anni.
Il condottier di Bari, per nome Mofareg-ibn-Sâlem, usurpò
autorità di principe; prese, al dir degli annali musulmani,
ventiquattro castella; fabbricò in Bari una moschea cattedrale, e salì
a tanto orgoglio che volea tener lo stato a dirittura dal califo di
Bagdad: ossia non ubbidire a niuno. A questo effetto scrivea al
governatore dell'Egitto per gli Abbassidi uno squarcio d'ipocrisia
musulmana: non sentirsi in grazia di Dio egli, nè i suoi compagni,
tenendo quella provincia senza investitura legittima; scongiurare
pertanto il pontefice che gliene conferisse il governo, e facesselo
uscire dal novero degli usurpatori. Ibn-el-Athîr, che al certo
trascrisse coteste parole da antiche memorie, aggiugne che poi la
gente di Mofareg sollevossi contro di lui; poi l'uccise; poi morì il
principe aghlabita Mohammed-ibn-Ahmed-ibn-Aghlab, nel cui
cenno biografico è inserito tutto quest'episodio di Bari; ed altro ei
non ne dice642. Mohammed salì sul trono in fin dell'ottocento
sessantaquattro, mancò di vita nei principii del settantacinque; nel
qual tempo appunto sappiamo liberato il Soldano dalle carceri di
Radelchi e tornato ai suoi, capitanati allora da un suo nemico ch'egli
639
Baiân, tomo I, p. 104, sotto l'anno 238 (22 giugno 852 a 10 giugno 853). Come
questo diligente compilatore dice positivamente che Abbâs mandò le teste in
Palermo e che poi tornò in Sicilia, così è evidente che la fazione si combattesse in
terraferma.
640
L'Anonimo Cassinese, innanzi la strage di Benevento scrive: Hoc videlicet
tempore Tarantum, fame obsessa, a Saracenis capitur. Ma non pone data, nè
vuole osservare l'ordine del tempi. Historiola ignoti Cassinensis, cap. XVII.
641
Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 20, e MS. C, tomo IV, fog. 215 verso,
narrando la morte e ricordando i meriti di Abbâs, scrive ch'egli infestò la Calabria
e la Longobardia e vi pose colonie di Musulmani. Mi par si debba riferire a
questo tempo.
642
Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 198 verso, e MS. C, tomo IV, fog. 211 recto.

369
avea bandito dalla colonia. Mofareg-ibn-Sâlem è ben dunque
l'astuto demonio di cui gli annali cristiani narran tante maraviglie, e
di cui i Musulmani tacquero la sconfitta e la prigionia. Il titolo di
Sultano ch'ei prese, o che gli davano i suoi seguaci in Italia, andava
a capello a quella dubbia sua potestà643. L'usurpazione spiega perchè
i Musulmani di Sicilia e d'Affrica l'abbandonassero quand'ei fu
condotto allo stremo dai Cristiani.
Il Sultan di Bari non tardava a correr la Puglia e la Calabria; far
ladronecci per ogni luogo; occupare qua e là castella; e osò spinger
sue gualdane infino a Napoli ed a Salerno. Allor l'abate di Monte
Cassino chiamò di nuovo l'imperatore Lodovico, che venne in
Puglia; volle ragunare le forze dei principati longobardi; fu lasciato
pressochè solo, per sospetto ch'ei non prendesse lo stato ai Cristiani
al par che ai Musulmani: donde fatto un vano tentativo sopra Bari,
borbottando se ne tornò di là dalle Alpi (853); ed ebbe a vedere
anco un feudatario contumace rifuggirsi appo il Sultano644. Il quale
indi a ripigliare l'infestagione dello Stato di Benevento; e questo
non trovò altro riparo che di venire ai patti coi Musulmani; pagar
tributo; dare ostaggi. Voltosi il Sultano alle altre provincie, diè il
guasto a' contadi di Capua e Conza e alla regione intorno Cuma,
Pozzuoli e il Lago di Patria, detta a quel tempo Leboria o Liburia, il
qual nome si estese a poco a poco a una provincia, e mutossi in
Terra di Lavoro645. Infine i Musulmani si vennero a porre in Campo
di Napoli, come si addimandavano gli orti tra porta Capuana e il
643
Il titolo di Sultano entrò molto tardi nel diritto pubblico dei Musulmani. Infino
alla metà del decimo secolo dell'era nostrale si incontra di rado negli scrittori
arabi e sempre per designare un principe di fatto. Cadendo in pezzi il califato,
questo nome si onestò verso la fine del decimo secolo; e poi Saladino lo rese
illustre.
644
Confrontinsi: Erchemperti Historia, cap. XX e XXIX; Historiola ignoti
Cassinensis, cap. XXII. La tradizione in Francia portò che Lodovico avesse già
aperto la breccia a Bari, quando per cupidigia, affinchè l'esercito non
saccheggiasse la città, differì l'assalto alla dimane; propose un accordo; e i
Musulmani la notte risarciron le mura, sì ch'ei fu costretto a partire. Fola ripetuta
in tutti i tempi per dissimulare la diffalta di simili imprese. Veggasi il Muratori,
Annali, 852, al quale anno è riferita, erroneamente, credo io, questa espedizione.

370
Sebeto646; dove furon fatte orribili stragi (a. 860?): il Soldano, dice
un contemporaneo, sedea su mucchi di cadaveri, e come uno
schifoso cane tra quelli mangiava. Riducendosi a casa da questa
correria, fu per cadere in uno agguato. Tra tanti paesi che avea
desolato dall'uno all'altro mare, si trovarono due valorosi feudatarii,
i gastaldi di Telese e di Boiano, che osarono ritentar la fortuna delle
armi; trassero secoloro il duca di Spoleto a forza di preghiere e di
danari; e con gran possa di gente appostarono lo stuolo nemico,
verso il tramonto del sole, presso Bari. Salutar consiglio
pessimamente eseguito, sclama il cronista Cassinese. Il Soldano,
addandosi di loro, soprastette e si ordinò prontamente alla zuffa. I
Longobardi e i Franchi, morti di sete, stracchi del cammino,
sparpagliati e impazienti assalivano. I Musulmani, raccolti in una
sola schiera, li ruppero, li tagliarono a pezzi ed entrarono in Bari.
Dopo questa vittoria il Sultano, incolpando di rotta fede i
Beneventani, battè di nuovo lor contadi; non lasciò terra illesa
fuorchè le grosse città; occupò Telese, Alife, Sepino, Boiano,
Isernia, Canosa, Castel di Venafro; saccheggiò San Vincenzo in
Volturno, donde rifuggitisi i frati in luogo sicuro, lor prese tremila
monete d'oro, minacciando d'ardere il monistero; e passò a Capua,
traendosi dietro le carra piene di preda, e le torme di bestiame e
prigioni. Mutò indi il campo a Teano. Quivi, mandatogli da Monte
Cassino un Reginaldo diacono, fermò il riscatto di quella badia per
altre tremila monete di oro; e si volse contro il castel di Conza che
dicono abbia assediato per quaranta giorni. Queste ultime incursioni
seguiano tra l'autunno dell'ottocento sessantacinque e la fine
dell'inverno del sessantasei. Delle precedenti invano si cercherebbe
a determinare le date, poichè i cronisti647 nè segnano gli anni, nè
osservano l'ordine degli avvenimenti648. Certo egli è che per
quattordici anni quella bella parte d'Italia fu preda di qualche
645
Veggasi la apposita Dissertazione del Pratilli, Historia Principum
Langobardorum, tomo III, p. 242, seg.
646
Veggasi la nota del Pratilli alla Historiola ignoti Cassinensis, nella citata
raccolta, tomo I, p. 222, 223.
647
Nell'originale "croninisti". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

371
migliaio di ladroni musulmani. L'amistà della colonia siciliana non
liberò Napoli dal Sultano di Bari, che avea spezzato ogni legame
con gli Aghlabiti, come sopra si disse. Il principe di Salerno si
schermì quanto potea, praticando col Sultano, onorando gli
ambasciatori suoi; che fino ne alloggiò nelle case del vescovo, e
attaccò indi una briga con questi e col papa649.
Ogni pagina della nostra storia, dalla caduta dell'impero romano
in qua, ripete lo stesso insegnamento: pur non fu mai sì flagrante la
vergogna di questa miseranda divisione in cento sminuzzoli di Stati,
che allor quando l'Italia si confessò impotente a scacciare il Sultano
di Bari. Impotente perchè le armi servivano a uccidere nemici più
odiati che i Saraceni, e tagliavan, sì, quando v'era sangue italiano da
versare: poc'anzi Benevento contro Salerno; ed or Napoli contro
Capua, Capua contro Salerno, e Capuani tra sè medesimi, e il
648
Confrontinsi: Historiola ignoti Cassinensis, cap. XXVIII, XXX,
XXXIII, le lacune della quale si suppliscano con lo squarcio
aggiunto al cap. XXX dal Tosti, Storia della Badia di Monte
Cassino, tomo I, p. 128; Erchemperti Historia, cap. XXIX;
Anastasii Bibliothecarii Epitome Chronicor. Cassinens., presso
Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo II, parte I, p. 370;
Johannis Diaconi Chronicon Episcoporum Sanctæ Neapolitanæ
Ecclesiæ, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I,
parte II, p. 316; Anonymi Salernitani Chronicon, cap. LXIX e
LXXXII, della edizione di Muratori, LXXVII, XC, di Pratilli;
Chronicon Vulturnense, presso Muratori, Rerum Italicarum
Scriptores, tomo I, parte II, p. 403.
È qui da avvertire che secondo la detta aggiunta del Tosti, la quale risponde alla
narrazione di Leone d'Ostia, lib. I, cap. XXXIV, il Monastero di San Vincenzo in
Volturno sarebbe stato arso in questa scorreria e rimasto disabitato per trentatrè
anni. Ma Erchemperto, contemporaneo e bene informato, e la Cronica speciale
del Monastero di San Vincenzo, ne portano espressamente la distruzione verso
l'882. Tra coteste due diverse tradizioni l'ultima mi pare più degna di fede; e però
suppongo una interpolazione nel MS. della Historiola, ch'ebbe alle mani Leone
d'Ostia, forse lo stesso che si conserva a Monte Cassino e ch'è servito alla detta
pubblicazione del Tosti.
649
Anonymi Salernitani, op. cit., cap. LXXXIV di Muratori, XCII di Pratilli.

372
vescovo principe di Capua contro i figli del proprio fratello. Non
potendo dunque gli sciagurati fidarsi l'un dell'altro, ebbero ricorso
per la terza fiata allo imperatore Lodovico; del quale sapeano che li
volesse mettere sotto il giogo; ma sembrò pericolo più lontano.
Riportata ch'ebbero la vittoria sotto le insegne imperiali,
scacciarono Lodovico; poi riassaltati dai Musulmani lo
richiamarono; ed egli sempre acconsentiva, sperando che
nell'altalena un dì gli verrebbe fatto di coglierli: se non che la vita
non gli bastò; e d'altronde i Bizantini a tempo rimessero il piè in
Italia per dar nuovo alimento alla discordia. Questi fatti generali,
mutati i nomi, durarono in Italia per molti secoli, forse durano
ancora: e però è debito di cittadino, quantunque volte il possa, di
squadernarli innanzi gli occhi di tutti, perchè sempre più se ne
vegga la laidezza. Ripiglio adesso i particolari della guerra.
Per un editto assai rigoroso, di che abbiamo il testo, Lodovico
appellava al servizio militare tutti i vassalli d'Italia (866); veniva a
Monte Cassino (867); sforzava Capua, che già tentennando avea
ritratto le genti dall'esercito imperiale; mostravasi nelle altre città
primarie, Salerno, Amalfi, Benevento; a Napoli no, poichè il
vescovo lo pregò, dice un cronista, che non amareggiasse i cittadini
con l'autorità imperiale; ed egli acquetovvisi e dissimulò, non
potendo sforzare. Ragunate e ordinate così le milizie del paese, fatti
venir anco rinforzi di Lorena, marciò contro il Sultano di Bari; e fu
sconfitto. Scrive Reginone, monaco tedesco, che dopo segnalate
vittorie i guerrieri di Lorena se ne tornassero alle case loro,
menomati da epidemia e dai morsi delle tarantole: caso probabile il
primo; l'altra, fola che gli oltramontani ripeterono nell'undecimo
secolo per palliar diffalte somiglianti. Questa di Lodovico è da
apporsi alla tattica dei Musulmani, che meglio di lui sapeano la
guerra spicciolata. Ma presto ei l'apparò. Ritrattosi a Benevento il
dicembre del sessantasette, uscì alla nuova stagione; arse e guastò i
contadi che ubbidivano ai Musulmani; snidolli da Matera per
tagliare gli aiuti di Taranto a Bari; occupò dal lato opposto Canosa;
ei si pose tra i monti a Venosa col grosso de' suoi; e guadagnato a

373
poco a poco il territorio in due anni di travagli, prese ad assediare la
città e batter le mura con macchine. L'assedio fu interrotto varie
fiate; e occorse del sessantanove che, ritraendosi Lodovico a
Benevento, il Sultano uscì addosso alle ultime schiere de' suoi; lor
prese gran numero di cavalli, e andò a saccheggiare il santuario di
San Michele al Monte Gargano. Poscia lo imperatore, chiestogli
aiuti da' Cristiani di Calabria e proffertogli giuramento di fedeltà e
tributo, egregiamente usava la occasione: vi mandava poche forze
che ne raccogliean molte nel paese. Così in Calabria furono sconfitti
tre emiri; tra i quali un Cincimo, che teneva Amantea, volendo
vendicare i suoi, assaltò i Cristiani; fu ricacciato in città; e uscitone
di nuovo per tentare un colpo di mano sopra il campo di Lodovico,
questi prevenne e ruppe gli assalitori650. Nondimeno, vedendo che
era niente ad assediare Bari se non si impedissero le vittovaglie e gli
aiuti dalla parte del mare, si collegò con Basilio Macedone.
Il quale non prima salito al trono (867), sapendo che i
Musulmani, di Taranto forse e di Creta, avessero preso alcune città
in Dalmazia e strettovi Ragusa, mandovvi il patrizio Niceta Orifa
con cento salandre; il cui arrivo i Musulmani non aspettarono651.
Volendo cacciarli di lor nidi su le costiere d'Italia, il Macedone
richiese o accettò la lega con Lodovico, che tenea la terra ed egli il
mare. Cooperò egli dunque con forze navali, sì sull'Adriatico e sì

650
Confrontinsi: Historiola ignoti Cassinensis, cap. V, VI, VII; Erchemperti
Historia, cap. XXXII, XXXIII; Johannis Diaconi Chronicon Episcoporum
Sanctæ Neapolitanæ Ecclesiæ, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores,
tomo I, parte II, p. 316; Reginonis Monachi Chronicon, anno 867, presso Pertz,
Scriptores, tomo I, p. 578; Andreæ Presbyteri Bergomatis Chronicon, § 14, 15,
presso Muratori, Antiquitates Italicæ, tomo I, e presso Pertz, Scriptores, tomo III,
p. 236; Adonis Archiepiscopi Viennensis Chronicon, presso Pertz, Scriptores,
tomo II, p. 323; Annales Bertiniani, presso Muratori, Rerum Italicarum
Scriptores, tomo II, parte I, p. 554.
651
Theophanes continuatus, lib. V, cap. LIII, LIV, LV, correggendovi molti
anacronismi su la venuta dei Musulmani in Italia. Credo che gli assalitori della
Dalmazia fossero stati quei di Taranto, poichè Bari era già assediata.
Constantinus Porphyrogenitus, De Admin, Imperio, cap. XXIX; e De Thematibus,
lib. II, cap. XI.

374
sul Tirreno, ove non n'era minor uopo. Perchè Mohammed, figliuolo
dello emiro di Sicilia Khafâgia, di luglio dell'ottocento sessantotto,
uscendo di Palermo con l'armata, era ito ad assediare Gaeta; ove,
sparse le gualdane nel territorio, e fattovi grandissima preda, se ne
tornò del mese d'ottobre652. In tal modo la colonia di Sicilia par che
gastigasse quella città dell'avere ubbidito allo imperatore e aiutatolo
forse con navi. Napoli, allo incontro, sembrava in quel tempo
Palermo o Affrica653, come leggesi in una epistola attribuita allo
imperatore Lodovico. I corsali di Palermo che infestavan tutta la
costiera, e specialmente gli Stati del papa, trovavano a Napoli piloti
pratici che li conducessero; vi comperavano armi e vittovaglie per
rivenderle a Bari ed a Taranto; inseguiti, si rifuggiano nel porto di
Napoli e uscian di nuovo a predare. Indarno l'imperatore ammonì, il
vescovo gridò e dolsonsi parecchi nobili cittadini: chè il console di
Napoli a Lodovico non badò; incarcerò il vescovo e poi rilasciatolo
lo costrinse a fuggire; e quanto ai suoi nobili scrupolosi, li messe in
prigione coi ferri ai piè. Lo stratego Giorgio, inviato da Basilio con
un'armatetta di salandre per assicurar quelle spiagge facea quel che
potea, ma era assai poco.
I Veneziani intanto si mossero, come e' seppero il nemico
sgomberato di Dalmazia, e forse diviso, e i Cretesi inseguiti da
Niceta Orifa. Però il doge Orso, sopraccorso con l'armata a Taranto,
cancellava (867) con una vittoria la sconfitta di sua gente del
quarantadue. Due o tre anni appresso, l'armata bizantina, rinforzata
di Schiavoni, Croati, e navi ragusee, pose a terra a Bari; diè qualche
assalto; e presto si ritrasse per discordia surta coi Franchi e

652
Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 33 recto, MS. C, tomo IV, fog. 221 recto. Il
nome di Gaeta è scritto senza punti diacritici, ma non si può sbagliare. La cagione
di quest'atto d'ostilità non detta da alcun cronista, mi sembra evidente.
653
Africa è posto qui evidentemente come nome di città. Ma la città di Mehdia
che i Cristiani chiamavano più comunemente Affrica, fu fondata nel X secolo; nè
mai si era dato tal nome a Kairewân capitale dell'Ifrikia ossia Africa propria,
sotto gli Aghlabiti. Ciò conferma il sospetto che la epistola fosse stata compilata
o almeno interpolata e infiorata a modo suo, dallo Anonimo Salernitano, al cui
tempo Mehdia era sì celebre nel Mediterraneo.

375
Longobardi: accusando questi i Bizantini di combattere per gioco;
ed essi loro di star lì, un pugno di uomini, sempre in sollazzi e
conviti, e che così mai non avrebbero espugnato la città. Niceta se
ne bisticciò con lo imperatore; poi, tornatosene a Costantinopoli, fe'
attaccare un pettegolezzo diplomatico tra Basilio e Lodovico:
recriminazioni su la condotta della guerra; cavilli su i titoli, se l'un
dovesse chiamarsi imperatore dei Franchi o imperator dei Romani,
se all'altro fosse serbata la greca appellazione di basileo; le quali
futilità provan solo che l'accordo tra i due potentati si dileguava
nella certezza della vittoria. Lodovico tuttavia con quel pugno di
allegri combattenti entrò in Bari, per forza d'armi, il due febbraio
ottocento settantuno. Fecevi grande strage; dalla quale il Soldano
campò, perchè afforzatosi entro una torre, si arrese al principe di
Benevento, obbligato a lui, dicesi, per cagion della figliuola, ch'era
stata già in man del Soldano, come ostaggio o prigione, e quegli
l'avea guardato come figlia sua propria. Lodovico lasciò genti che
stringessero Taranto e le altre castella dei Musulmani in Calabria;
mandò a infestare il territorio di Napoli, dando voce di volere
spezzata quella sacrilega amistà con gli Infedeli; e parlava di
scendere tra non guari nelle Calabrie, di passare in Sicilia: il che
vuol dire ch'ei si proponea di cogliere i frutti della vittoria, regnar di
nome e di fatto nell'Italia meridionale654.

654
Confrontinsi: Erchemperti, Historia, cap. XXXIII; Anonymi
Salernitani, Chronicon, cap. LXXXVII a CVIII della edizione del
Muratori, CI a CXVI di Pratilli; Johannis Diaconi, Chronicon
Venetum, l. c.; Johannis Diaconi, Chronicon Episcoporum Sanctæ
Neapolitanæ Ecclesiæ, l. c., Chronicon Vulturnense, l. c.; Chronica
Varia Pisana, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo
VI, p. 107; Andreæ Presbyteri Bergomatis, Chronicon, l. c.;
Constantinus Porphirogenitus, De Administrando Imperio, cap.
XXIX, e De Thematibus, lib. II, cap. XI. La Continuazione di
Teofane, con volontario anacronismo, attribuisce ai Bizantini la
presa di Bari, ch'essi occuparono parecchi anni appresso.

376
Lo zelo contro i Saraceni male occultava cotesti intendimenti di
Lodovico, compresi dai savii, evidenti anco al volgo, per la
tracotanza dei baroni oltramontani; gli aggravii; il dispregiare i
Longobardi testè loro compagni nella vittoria; la insolenza della
stessa imperatrice, della quale si racconta, rinfacciasse alle nobili
donne di Benevento che lor gente non sapea pur imbracciare lo
scudo. Pertanto Lodovico, abbandonato dagli Italiani, non potè
stringere altrimenti i Musulmani delle Calabrie. Dalle mormorazioni
poi si passò alle trame. I principi di Benevento e di Salerno s'inteser
tra loro e con Napoli; incoraggiandoli forse i capitani delle
armatette bizantine; ed aizzandoli, come la voce pubblica portò, il
Sultano prigione.
Costui, per le qualità dello ingegno proprio, e per lo
incivilimento superiore di sua gente, abbagliava que' rozzi principi
cristiani. Scrive Costantino Porfirogenito655, che lo ascoltassero
come oracolo in fatto di medicina e veterinaria; ed uno scrittore
italiano, che Adelchi, gittatosi a cospirare contro l'imperatore,
domandando consigli al Musulmano, questi dapprima l'avvertisse:
"Bada bene a quel che fai, poichè i Musulmani san ch'io vivo
ancora:" ma replicando il principe aver parecchi complici, il Sultano
conchiudea: "Quand'è così, compi il disegno, e tosto: se no, sarai
scoperto." Narransi altri aneddoti: che tutto il tempo ch'ei fu
prigione, stavasene accigliato e tetro; ma un dì, in presenza di

Ho cavato molti particolari dalla epistola di Lodovico a Basilio, inserita


dall'Anonimo Salernitano e pubblicata dal Baronio e da altri. Io ho ammesso i
fatti, quantunque l'epistola mi sembri apocrifa. Li ho ammesso perchè il
compilatore, qual ch'ei fosse, li potè avere da tradizione come tanti altri che non
cadono in dubbio; o forse que' fatti si trovavano nella epistola autentica di cui egli
dà la parafrasi. Parafrasi mi sembra poi questa, sì perchè vi è fatta menzione della
città d'Affrica come notai di sopra, e sì per le soverchie dissertazioni filologiche
che vi si trovano. Mi pare certamente apocrifa la conclusione dell'epistola, in cui
Lodovico per indurre Basilio a dargli aiuti navali, dice ch'ei si propone di ridurre
la città di Napoli e conquistare la Sicilia; delle quali la prima riconoscea tuttavia il
nome dello imperatore di Costantinopoli, e la seconda in parte era sua,
possedendovi Siracusa, Catania, e quasi tutta la regione orientale.
655
De Administrando Imperio, cap. XXIX.

377
Lodovico, diè in uno scoppio di risa, vedendo un carro andare per la
strada; e domandato della cagione, rispose: "Penso alla fortuna degli
uomini che gira come quelle ruote." Aggiungono che con suoi
lacciuoli facesse credere a Lodovico cospirazioni dei Longobardi, e
a costoro colpi di stato dell'imperatore, sì che li messe alle prese656.
Tra cotesto v'ha al certo verità e bugie: nè la dimestichezza di quei
grandi col Sultano sembra inverosimile, quando trent'anni di guerra,
accordi, leghe, traffichi, avean dissipato molti pregiudizii tra
Musulmani e Cristiani in Italia. Il che ci torna anco da altre parti.
Un Musulmano d'Affrica, il quale parecchi anni innanzi era stato
per suoi negozii a Salerno, trovandosi in patria verso questo tempo,
abbordò un mercatante amalfitano, e domandatogli se conoscesse
Guaiferio principe di Salerno, e saputo di sì, lo trasse in disparte.
"Qui s'arma," gli disse, "contro Salerno, tel giuro per lo figliuol di
Maria che voi adorate com'Iddio. Va tosto a ragguagliarne
Guaiferio; e, s'ei ti domanda da chi vien lo avviso, ricordagli che tal
dì un Musulmano sedea su la piazza di Salerno mentre il principe
tornava dal bagno; e il Musulmano gli chiese in cortesia il
fazzoletto657 ond'ei s'avvolgea la testa; e il principe gliel donò
incontanente, rispondendogli così e così, e tornossene al palagio a
capo scoperto. Quel Musulmano son io." Leggiam questo nella
cronica dell'Anonimo Salernitano, che suol affastellare episodii
presi nella tradizione popolare. Ma il caso ha apparenza di vero;
tanto più che l'Anonimo dà il nome dell'Amalfitano e del
Musulmano: Fluro l'uno; l'altro Arrane, ch'è evidentemente il nome
etnico Harrani658.

656
Confrontinsi: Erchemperti, Historia, cap. XXXIV; Anonymi Salernitani,
Chronicon, cap. CIX del Muratori, CXVII del Pratilli; Theophanes continuatus,
lib. V, cap. LVI, LVII; Constantinus Porphirogenitus, De Administrando Imperio,
l. c.
657
Fasciolam. Se n'è voluto dedurre che il principe di Salerno portasse una specie
di turbante; e non si è pensato ch'ei potesse tornare dal bagno, probabilmente di
mare, col fazzoletto che avea tenuto in testa durante il bagno.
658
Anonymi Salernitani, Chronicon, cap. CX e CXI di Muratori, e XCVIII, XCIX
di Pratilli.

378
La cospirazione si affrettò seconda il consiglio attribuito al
Sultano. Del mese di agosto ottocento settantuno, mentre i pochi
baroni di Lodovico erano sparsi qua e là per le castella dello Stato, e
l'imperatore a Benevento con un pugno di cortigiani, la gente di
Adelchi assalì il palagio: lo imperatore afforzatosi in una torre si
difese valorosamente per tre dì; alfine s'arrese prigione al proprio
vassallo, che sei mesi innanzi egli avea liberato dai Musulmani. Indi
per tutta Italia dimenticandosi, com'avviene, i torti di Lodovico, si
risguardò ai soli meriti; si lacerò la ingratitudine e perfidia del
Beneventano, anche in tristi versi latini di cui serbasi il testo659. E si
apparecchiava oltremonti la umana vendetta, quando la divina
scoppiò, dice Erchemperto, entro quaranta dì, per man dei Saraceni,
che piombaron di nuovo in Italia. Adelchi allora pensò sciorsi d'un
grave impaccio liberando lo imperatore; fattogli far sacramento di
perdonare l'offesa. Traditore quando il prese; sciocco quando il
lasciò andare; e s'ei n'uscì salvo, fu colpo di sorte660.
La colonia musulmana delle Calabrie, che mai non si spiccò
dalla madre patria, credendosi condotta agli estremi dopo la
espugnazione di Bari, par che abbia chiesto aiuti in Sicilia e in
Affrica; dove, tra il sentimento nazionale e religioso e la potenza
delle famiglie interessate, si apparecchiò la espedizione, della quale
fu avvisato il principe di Salerno. Lo scempio Signor delle Grù,
come chiamavano il principe aghlabita Mohammed-ibn-Ahmed,
erudito, vivace ingegno, buon poeta, cacciatore, beone, dissipatore,
in mezzo a' suoi sollazzi assentì un gran disegno, ordinato al certo
dagli ottimati del Kairewân; per lo quale si componeva un esercito
d'Italia di venti o trentamila uomini, e si preveniva la discordia tra
quello e il siciliano, affidandoli a due fratelli, Abd-Allah e Ribâh,
figliuoli di Ia'kûb-ibn-Fezâra, congiunti di quell'Abbâs-ibn-Fadhl di
cui abbiamo ricordato le fiere gesta in Sicilia. Però a un medesimo
659
Pubblicato dal Muratori, Antiquitates Italicæ, Dissertazione XL.
660
Confrontinsi: Erchemperti, Historia, cap. XXXIV; Anonymi Salernitani,
Chronicon, cap. CIX del Muratori, e CXVII del Pratilli; Chronicon comitum
Capuæ, cap V, presso Pratilli, Historia Principum Langobardorum, tomo III, p.
112, e le autorità citate dal Muratori, Annali d'Italia, anni 871 e 872.

379
tempo Abd-Allah e Ribâh erano nominati wâli l'uno della Gran
Terra, l'altro dell'isola661. Abd-Allah sbarcava, com'e' pare, a
Taranto: di là con tutto lo esercito entrava nel territorio salernitano,
del mese di settembre ottocento settantuno662.
Diè il guasto; s'approcciò a Salerno: i principi di questa e di
Benevento, che aveano accozzato le genti loro, vedendo non bastare
a fronteggiarlo alla campagna, si chiusero nelle metropoli; e così il
nemico anch'ei si spartì. Abd-Allah, attendatosi sotto Salerno, diessi
a stringere la città: qualche gualdana corse infino a Napoli; più forti
schiere marciarono, l'una sopra Benevento, l'altra sopra Capua:
delle quali la prima fu rotta da Adelchi, e uccisile tremila uomini; la
seconda sbaragliata dai Capuani, ne perdè mille. E in Salerno
Guaiferio valorosamente si difendea; respingeva gli assalti; opponea
macchine alle macchine; facea sortite; e guerrieri si appresentavano
dalle porte sfidando i Musulmani a duello: gagliarde prove, vere al
certo, ancorchè l'Anonimo ce le mostri con troppi ornamenti
d'epopea. Tra le altre, che par l'episodio della Gerusalemme
Liberata, ei ricorda un Landemaro calatosi dal muro con un'azza,
fattosi, tutto solo, a guastare un immane mangano663. La città
nondimeno cominciava a patir la fame, quando la ristorò di
vettovaglie, con bell'ardire, Marino duca d'Amalfi, spezzata la lega
ch'avea prima coi Musulmani. Nelle campagne orribil era il macello
dei contadini, lo sperpero delle sostanze, lo scempio delle chiese.
Abd-Allah, al dire dell'Anonimo, avea preso a soggiornare in quella
661
Gli scrittori arabi ci dicono quel soprannome e quella indole del principe
aghlabita; e, come ho già notato (cap. VII, del presente libro, p. 353, nota 3), la
elezione dei due fratelli. I Cristiani danno, con poco divario tra loro, il numero
dello esercito musulmano. Di loro, Andrea prete da Bergamo novera a 20,000
quei che combatterono a Capua, e aggiugne che i Musulmani levassero lo esercito
quando intesero la espugnazione di Bari, tenendola grande ignominia di lor gente.
Erchemperto e l'Anonimo Salernitano portano l'esercito a 30,000.
662
La data si ricava da Andrea prete di Bergamo. L'Anonimo Salernitano
espressamente dice venuto l'esercito per le Calabrie.
663
Ut machinam quam nos Petrariam nuncupamus construerent miræ
magnitudinis et valde turrim unam quæ nunc dicitur Splarata attererent, scrive
l'Anonimo Salernitano. Veggasi il capitolo seguente, p. 305.

380
di San Fortunato, e profanavala di scandali e di brutture. Fe'
stendersi il letto su l'altare664, e sovente strascinovvi fanciulle
cristiane; finchè alcuna trave caduta dal tetto liberò una bella
vergine, uccidendo il tiranno senza lei toccare: che mostravasi
ancora ai tempi del cronista il luogo onde si spiccò la trave, e tutti si
capacitavano del miracolo. La leggenda qui, tra le fole che ognun
vede, porta un fatto vero; poichè secondo gli annali musulmani
Abd-Allah, capitano della Gran Terra, morì in questo tempo, e
appunto del mese di sefer dugento cinquantotto, tra dicembre cioè
dell'ottocento settantuno e gennaio del settantadue665. I Musulmani
continuavano l'assedio di Salerno, rifatto capitano un Abd-el-
Melik666: e, stretta ormai da un anno e affamata, la città stava per
aprir le porte.
Lodovico, in questo mentre, non era uscito d'Italia. Pregato
fervidamente da' nunzii di Guaiferio e dal vescovo di Capua,
credendo il Salernitano complice del misfatto d'Adelchi, ricusò; poi
l'indole generosa, o la speranza di recare a fine l'antico disegno, il
mossero a dare aiuto. Mandò le milizie condotte dal giovinetto
Guntar suo congiunto; il quale venuto a Capua, accozzatosi coi
cittadini, chè anco preti vi s'armarono per andare a combattere,
trovò da diecimila Musulmani non lungi dalla città, in un luogo che
s'addimandava San Martino. Guntar, non ostante una fitta nebbia,
diè dentro; sbaragliò i Musulmani, e restò morto gloriosamente sul
campo. Quelli furono tutti sterminati con la spada o annegarono nel
Volturno. Un'altra schiera, inseguita dall'esercito vincitore presso a
Benevento, fu distrutta alsì; campandone pochi i quali andarono a

664
.... atque in luxuriis et variis inquinamentis fervebat in tantum, ut ille Abdila
thorum sibi parari jusserit super sacratissimum altare; ibique puellas, quas
nequiter depredoverat, opprimebat. Sed non diu etc. Ma il prete inventor di
questa leggenda non sapea che gli Orientali giacciono sui tappeti stesi in terra; e
che Abd-Allah avea sessanta o settant'anni.
665
Nowairi e il Baiân, citati di sopra, cap. VII, p. 353.
666
L'Anonimo Salernitano chiama il predecessore Abdila e costui Abemelech. Si
vede che a Salerno, per la frequenza dei commerci coi Musulmani, non si
guastavano troppo i nomi proprii.

381
spargere lo spavento nell'oste attendata sotto Salerno: e diceano
venire a grandi giornate l'imperatore in persona con tutto l'esercito
cristiano. Indarno Abd-el-Melik comandò, pregò, ricordava ai suoi
che la città già trattasse d'arrendersi. Fu preso dagli ammutinati,
messo per forza in nave; e salparono; e venne la solita meteora
ignea a suscitare una tempesta che li inghiottì. Così i Cristiani,
esagerando e contraddicendosi; poichè alcuni aggiungono che gli
avanzi dell'esercito musulmano precipitosamente si ritraessero in
Calabria667. Gli annali musulmani accennano le vittorie di Abd-
Allah sopra i nemici, e poi silenzio668. La Cronaca di Cambridge al
contrario, scritta in arabico da un cristiano di Sicilia, ricorda lo
sterminio dell'esercito musulmano a Salerno669. E però sono
alquanto dubbii i particolari, certissima la misera fine della impresa,
verso il mese d'agosto ottocento settantadue.
Tanto egli è vero che questa ultima guerra era stata combattuta
da milizie italiane, e la più parte meridionali, di Spoleto, Capua,
Salerno, Benevento, che Lodovico, dopo le fresche vittorie de' suoi,
non potè nè anco pigliar vendetta sopra Adelchi, come che ne
avesse gran voglia, e fosse ito ad assediare Benevento. Tornato
addietro, dondolatosi in opere di pietà, moriva presso Brescia, di
agosto ottocento settantacinque. Per lui non stette di cacciar d'Italia
i Musulmani, e unire sotto lo scettro imperiale la penisola dalle Alpi
allo Stretto; di che non si offerì occasione più destra ad altro
667
Confrontinsi: Erchemperti, Historia, cap. XXXV; Johannis Diaconi,
Chronicon Episcoporum Sanctæ Neapolitanæ Ecclesiæ, presso Muratori, Rerum
Italicarum, tomo II, parte I, p. 317; Anonymi Salernitani, Chronicon, ediz. del
Muratori, cap. CXI a CXXI, del Pratilli, cap. CXIX a CXXIX; Chronicon
Comitum Capuæ, cap. V, presso Pratilli, tomo III, p. 112; e presso Pertz,
Scriptores, tomo III, p. 205; Andreæ Presbyteri Bergomatis, Chronicon, cap. XV,
presso Pertz, Scriptores, tomo II, p. 236; Johannis Diaconi, Chronicon Venetum,
che porta la principale sconfitta a Terracina, e il numero degli uccisi a 11,000,
presso Pertz, tomo VII, p. 19; e le altre autorità citate dal Muratori, Annali
d'Italia, an. 871, 872, 873.
668
Baiân, tomo I, p. 109.
669
Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 42,
sotto l'anno costantinopolitano 6380 (871-2).

382
imperatore da Carlomagno a Federigo di Svevia. E veramente, al
tempo di Lodovico, deboli appariscono più che mai gli elementi
politici dell'Italia: repubbliche di qualche momento sol due, Venezia
e Napoli; i grandi feudatarii, in su dal Tevere, obbedienti; quei d'in
giù, divisi; il papato, come stanco dello sforzo che avea fatto per
arrivare alla dominazione temporale: e d'altronde il caso volle che
nol reggesse in quel tempo nè un Adriano primo, nè un Ildebrando;
e Leone IV, uom forte senza tracotanza, poco visse. Nè distoglieano
Lodovico, come avvenne ad altri, le cose d'oltremonti: ei fu prode e
costante in guerra; giusto anzi che no; uomo senza grandi vizii nè
straordinarie virtù; capacità mezzana in tutto. Perciò bastarono ad
attraversargli quel disegno i principi dell'Italia meridionale, con le
mene che ho ricordato, e i papi, ancorchè uomini mediocri
anch'essi, con la forza dell'inerzia; ritraendosi che tra tanto pericolo
dell'Italia e di Roma non profferissero mai sillaba per favorire la
crociata di Lodovico.

CAPITOLO IX.
Nel detto cenno biografico sopra il principe aghlabita
Mohammed-ibn-Ahmed scrive Ibn-el-Athîr, alla sfuggita, che
regnando costui (dicembre 864 a febbraio 875) «i Greci occuparono
parecchi luoghi della Sicilia; e che Mohammed fe' costruire fortezze
e corpi di guardia su la costiera d'Affrica;» e passa oltre l'annalista
ai casi de' Musulmani a Bari670. L'autore del Baiân, come anche
notammo, accenna che i due fratelli, capitani l'un di Sicilia, l'altro
della Gran Terra, fiaccarono gli Infedeli in aspri scontri, l'anno
dugento cinquantasette (870-71), e altro non ne dice671. Intanto
veggiamo i governatori di Sicilia avvicendarsi in fretta.
Mohammed-ibn-Hosein, scelto dalla colonia alla morte di
670
Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 198 recto; MS. C, tomo IV, fog. 211. Questi
due fatti sono ripetuti da Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 117.
671
Baiân, tomo I, p. 109.

383
Mohammed-ibn-Khafâgia, avea tenuto l'oficio per brevissimo
tempo, come dicemmo. A Ribâh-ibn-Ia'kûb-ibn-Fezâra, nominato
dal principe d'Affrica e trapassato verso la fine dell'ottocento
settantuno, era sostituito, per elezione della colonia, Abu-Abbâs-
ibn-Ia'kûb-ibn-Abd-Allah, che moriva a capo di un mese672. A
costui par tenesse dietro un Ahmed-ibn-Ia'kûb, fratel suo, o d'altra
famiglia: chè variano in ciò i cronisti673. Mancato di vita Ahmed nel
medesimo anno dugento cinquantotto dell'egira (17 nov. 871 a 5
672
Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 11. Abu-Abbâs, secondo
il nome dato dal Nowairi, non era fratello di Ribâh, poichè il Ia'kûb, padre di
quest'ultimo, è detto figliuol di Fezâra, e però sembra d'altra famiglia. Ma può
darsi che si tratti dello stesso personaggio di cui una cronica saltasse parecchi
gradi di genealogia fino al ceppo della famiglia, e un'altra cronica desse il solo
nome del padre. Di più, come Nowairi porta il casato e il Kenîe, che qui è Abu-
Abbâs, non già il nome proprio, è possibile che questo sia stato Ahmed, e il
personaggio stesso di cui fanno menzione Ibn-el-Athîr, e il Baiân, ll. cc. Il
Rampoldi, Annali Musulmani, anno 872, dice Abu-Abbâs morto di una caduta di
cavallo, e cita Nowairi, che non ne sa nulla.
673
Nowairi, l. c., dice surrogato ad Abu-Abbâs-ibn-Ia'kûb-ibn-Abd-
Allah, un fratello di cui non dà il nome, o almeno nol troviamo nei
manoscritti. Da un'altra mano, Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 81
recto, anno 257, senza far motto dei governatori ricordati da
Nowairi dopo la morte di Mohammed-ibn-Khafâgia, dice succeduto
a costui Ahmed-ibn-Ia'kûb-ibn-Modhâ-ibn-Selma, che secondo
questo scrittore «non visse a lungo, sendo morto il 258.» Il Baiân,
tomo I, p. 109, dopo Mohammed-ibn-Khafâgia porta un Ahmed-
ibn-Ia'kûb, fratello dello emiro della Gran Terra; ma non va più
oltre nella genealogia, e il dice morto il 258, e sostituitogli il
figliuolo Hosein. Abulfeda, Annales Moslemici, anno 257, porta
anche surrogato direttamente a Mohammed-ibn-Khafâgia Ahmed-
ibn-Ia'kûb.
Tra questa discrepanza di compilatori, sembra che il Nowairi, più diligente nelle
inezie, abbia notato tre governatori, trascurati da Ibn-el-Athîr e dal Baiân per
essere rimasi in uficio brevissimo tempo; e che l'Ibn-Ia'kûb, di cui Nowairi non dà
il nome proprio, sia appunto l'Ahmed di quegli altri due, come notai di sopra.
Debbo aggiungere che stando strettamente alle lezioni dei compilatori tre varie
famiglie avrebbero tenuto in men d'un anno il governo della Sicilia, quelle cioè di

384
nov. 872), era rifatto il figliuolo, per nome Hosein, ovvero, secondo
il Nowairi, un Hosein-ibn-Ribâh, cui il principe d'Affrica
confermò674, e tantosto il rimosse. Allora, che correva il mese di
scewâl dugento cinquantanove (agosto 873), venne a reggere la
Sicilia Abu-Abbâs-Abd-Allah-ibn-Mohammed-ibn-Abd-Allah, di
casa aghlabita, figliuolo del primo governatore ch'ebbe la colonia di
Palermo, uom litterato, tradizionista, poeta, poc'anzi prefetto di
Tripoli, e tornatovi non guari dopo, e poscia promosso a
ragguardevole uficio in Kairewân; donde par abbia lasciato la
Sicilia, non per disgrazia a corte, ma a chiesta sua; tardandogli forse
di uscire di quel vespaio e tornare in Affrica dond'era partito a
malincuore675. Gli fu sostituito, se è da credere al Nowairi, il
medesimo anno dugento cinquantanove, un altro congiunto della
dinastia, Abu-Malek-Ahmed-ibn-Ia'kûb-ibn-Omar-ibn-Abd-Allah-
ibn-Ibrahîm-ibn-Aghlab, soprannominato l'Abbissinio676, il quale a

Ia'kûb-ibn-Fezâra, di Ia'kûb-ibn-Abd-Allah, e di Ia'kûb-ibn-Modhâ; ma è più


probabile che vi sieno errori nei nomi o salti nelle genealogie. Dubito inoltre della
lezione di Ibn-el-Athîr, perchè Ibn-Abbâr, che in questa materia fa più autorità,
parla (MS., fog. 35 recto) di un Ia'kûb vivuto nel tempo di cui trattiamo e
figliuolo di Modhâ-ibn-Sewâda-ibn-Sofiân-ibn-Sâlem, di Sâlem, dico, padre di
Aghlab e avolo del fondatore della dinastia. Ia'kûb era dunque cugino di Kafâgia
emiro di Sicilia. Era stato anco uomo di molto séguito a corte del principe
aghlabita Mohammed-ibn-Aghlab di cui già si parlò, e i suoi discendenti furono
detti, da lui, Ja'kûbîa «Giacobini:» nome che allor non portava pericolo. Mi pare
probabilissimo che l'Ahmed nominato da Ibn-el-Athîr sia stato figliuolo di costui,
e Modhâ non figliuolo di Selma, ma bisnipote di quel Sâlem progenitor comune
di questa famiglia e degli Aghlabiti.
674
Baiân, l. c.; Nowairi, l. c.
675
Nowairi, l. c., lo chiama erroneamente Abd-Allah-ibn-Mohammed-ibn-
Ibrahim-ibn-Aghlab, facendolo supporre discendente in linea retta dal fondatore
della dinastia; quando ei non era che figliuolo del figlio del costui fratello.
Chiarisce tale genealogia Ibn-Abbâr, MS., fog. 35 recto, il quale dà anche: 1°
l'anno della elezione al governo di Sicilia, corrispondente a quello del Nowairi; 2°
la notizia de' suoi meriti letterarii e degli oficii esercitati prima e dopo del
governo di Sicilia; e 3° i versi che indirizzò a un intimo amico, dolendosi di
doverlo lasciare, quando fu promosso a tal governo.
676
Nowairi, l. c.

385
capo di quattro anni si vede anch'egli ito via677. De' quali sei o sette
capitani ch'ebbe l'isola dall'ottocento settantuno al settantatrè, si sa
in particolare una sola fazione, e mal direbbesi di guerra: che del
dugento cinquantanove (6 nov. 872 a 25 ott. 873) una gualdana,
andata infino a Siracusa, ridomandò trecento sessanta prigioni
musulmani; avuti i quali, fe' la tregua, e incontanente si tornò in
Palermo678.
Questi prigioni, queste reticenze degli annalisti musulmani,
questi governatori sì spesso morti o scambiati, danno a vedere
gravissime calamità della colonia siciliana. Dissanguata anch'essa
dalle battaglie di Capua e di Benevento; lacera tuttavia dalla
discordia civile, non potea fronteggiare le armi vincitrici di Basilio,
che par si volgessero all'isola, mentre Lodovico e' Longobardi si
travagliavano contro i Musulmani di Terraferma. Indi, non che
perdere varie città, forse interi distretti in Sicilia, i Musulmani
temeano anco per l'Affrica: afforzavano le costiere, secondo la
testimonianza già detta d'Ibn-el-Athîr, con la quale s'accorda la
Continuazione di Teofane679 Morto, tra tanto scapito dell'onor
musulmano, Mohammed-ibn-Ahmed (febbraio 875), e lasciato un
figliuolo di poca età, i grandi del Kairewân innalzavano al trono il
fratello, Ibrahîm-ibn-Ahmed. Costui datosi ad apparecchiare in
677
Veggansi qui appresso i nomi del capitano di Sicilia al tempo che fu presa
Siracusa, e degli altri che gli succedettero per venti anni. Perciò è manifesto
errore di Nowairi che l'Abbissinio reggesse la Sicilia per ventisei anni continui.
Al più si potrebbe credere deposto verso l'876, e rieletto verso l'896, quando Ibn-
el-Athîr fa menzione del suo nome.
678
Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 86 recto; Baiân, tomo I, p. 109.
679
Theophanes continuatus, lib. V, cap. LXIX, p. 309. Portando con anacronismo
l'assedio di Siracusa dopo le vittorie del capitano bizantino Nasar in Sicilia ed in
Calabria, lo scrittor palatino comincia il capitolo così: «I Barbari Cartaginesi, per
la sconfitta che avean toccato, temendo che l'armata romana non li assaltasse in
casa loro, allestirono anch'essi molte navi; e com'e' seppero che in primavera non
fossero uscite le forze imperiali, credendole distolte da altra guerra, mossero con
lor navilio alla volta di Sicilia. Giunti alla capitale dell'isola (cioè Siracusa), la
cinsero d'assedio.» Le sconfitte dei Musulmani d'Affrica, alle quali si allude, non
erano al certo quelle date da Nasar, che seguirono dopo la espugnazione di
Siracusa.

386
casa, come diremo nel terzo libro, gli stromenti dell'atrocissima
dominazione sua, volle trasviare in Sicilia gli uomini che temea
vicini; e ad un tempo far sentire a Basilio che più non regnava in
Affrica il Signor delle Grù. Tentò dunque un'impresa, fallita già ai
più illustri capitani della colonia: lanciò l'esercito sopra Siracusa680.
La state dell'ottocento settantasette, i Musulmani, capitanati da
Gia'far-ibn-Mohammed, novello governatore dell'isola, dopo
distrutte le mèssi di Rametta, Taormina, Catania e altre città di cui
non ricordansi i nomi, davano il guasto a quel di Siracusa681;
occupati i sobborghi, poneansi allo assedio della città682.
Cinquant'anni addietro l'esercito di Ased-ibn-Forât s'era
accampato alle latomie, lontano circa un miglio dall'istmo
d'Ortigia683. Adesso il capitano degli assedianti facea stanza
nell'edifizio della cattedrale vecchia fuor la città, scrive il monaco e
grammatico Teodosio, che stettevi incarcerato trenta dì. Sappiamo
anco da lui come una torre, abbattuta da' sassi che scagliavano i
nemici dalla parte di terra, fosse posta in riva al mare, sul porto
grande «nel luogo ove si stende il corno destro della città,» dice qui
il narratore684, e poi che da quel luogo fosse presa Siracusa.
680
Ancorchè gli scrittori musulmani non parlino di forze mandate dall'Affrica, si
può creder questo alla Continuazione di Teofane. Si vedrà in appresso, per
testimonianza del Baiân, che in questo tempo erano ritenuti prigioni in Palermo,
senza dubbio per comando di Ibrahim-ibn-Ahmed, due suoi congiunti.
681
Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 104 verso; e MS. di Bibars (che è copia
d'Ibn-el-Athîr) nella Biblioteca di Parigi, Ancien fonds arabe, n° 669, fog. 43
recto. Leggo chiaramente in quest'ultimo MS., e con poco dubbio nel primo, il
nome di Rametta.
682
Ibn-el-Athîr, l. c., dice «occupato alcun sobborgo» di Siracusa. La
Continuazione di Teofane, lib. V, cap. LXIX, p. 309, similmente porta dato il
guasto «alla campagna ed ai sobborghi» ([Greek: τήν κώραν καὶ τά προάστεια.])
683
Veggasi il capitolo III del presente Libro.
684
Cum turris juxta mare, ad ipsum portum majorem ædificata, ubi dextrum
cornu (κερας) oppidi protenditur ec. Così nella versione di M. Hase. La penisola
d'Ortigia è bislunga. Quel dei lati maggiori che guarda a ponente mette fuori due
braccia, l'uno dei quali dritto verso mezzodì, e ristringe l'entrata del porto
maggiore; l'altro, storcendo in su verso Maestro, forma l'istmo. Il lato di ponente
che risponde al porto maggiore va detto dunque fronte della città; e l'istmo, ala o

387
Or guardando una pianta topografica ognuno intenderà tal punta
estrema essere l'istmo che separa i due porti; e però la città, al
tempo dell'assedio, essere stata limitata, com'oggi, alla penisola
d'Ortigia. Fuor da quella rimaneano i sobborghi, o piuttosto l'antico
quartier principale della città, abbandonato da poco; quartier
principale, perchè vi era stata la chiesa metropolitana; e
abbandonato da poco, perchè quella, non diroccata per anco, offriva
comodo alloggio al condottiero musulmano. Dal che parmi assai
probabile che dopo l'assedio di Ased-ibn-Forât, comprendendo
potersi meglio difendere un istmo largo poche centinaia di passi685,
che il vasto cerchio di fortificazioni del quartiere esteriore, i
capitani bizantini facessero sgombrare il quartiere o ponessero gli
ordini opportuni a poterlo sgombrare d'un subito; e tra gli altri
ordini quello di tramutare la chiesa metropolitana in Ortigia.
D'altronde, in mezzo secolo, la popolazione di Siracusa dovea
essere crudelmente menomata per guerre, pestilenze, emigrazione,
povertà; talmentechè le abitazioni tra l'istmo e le latomie,
com'esposte a maggiori pericoli, dovean anco, senza disegni
strategici, rimaner vote d'abitatori.
Diersi dunque i Musulmani a battere le fortificazioni dell'istmo
con ogni maniera di stromenti da guerra; gareggiando tra loro, così
scrive Teodosio, a chi sapesse trovarne dei nuovi; e raddoppiando
con quegli insoliti ingegni il terrore degli assediati. Tutto il di s'avea
a ributtare assalti, aggiugne il narratore; tutta notte a guardarsi da
frodi e colpi di mano. Percoteano le mura con le elepoli686;

corno dritto.
685
L'istmo è largo circa un ottavo di miglio siciliano, ossia da 186 metri.
686
̀Ελέοπολις, nel testo. Si sa da Ammiano Marcellino ch'era una
tettoia di assi, coperta di vimini e argilla, congegnatovi sotto una
trave armata di ferro da percuotere il muro. Risponde perciò al
montone, gatto, ec., come si chiamò dalla foggia del ferro che stava
in cima alla trave. Veggasi il Thesaurus linguæ græcæ, di Enrico
Etienne, edizione di Hase e Dindorf, tomo III.

388
s'approcciavano all'aperto con le testuggini687, e sotterra con mine:
da lor mangani lanciavano immani massi o fitta gragnuola di
pietre688. In ultimo adoprarono macchine di tal possanza, che i sassi,
in luogo di far la parabola in alto, ammazzare ricadendo qualche
uomo, sfondar qualche tetto, e portare più spavento che danno,
folgoravan diritto ad aprire la breccia, come le nostre artiglierie
grosse. A che richiedendosi assai maggior momento di proiezione
che nelle baliste ordinarie, fu giocoforza d'accrescere a dismisura la
lunghezza delle vette, e con essa il volume delle macchine. Indi
quei mangani di mostruosa grandezza che pochi anni innanzi avean
fatto stupire i Longobardi di Salerno, e che, nel duodecimo secolo,
portati dagli eserciti siciliani, battean le mura di Ravello presso
Amalfi, metteano spavento ai Greci in Tessalonica, e i soldati di
Saladino li guardavano con maraviglia all'assedio di Alessandria; e
alfine nel decimoterzo secolo Carlo d'Angiò li mandava contro la
Sicilia, maneggiati da Musulmani di Lucera. Cotesto parmi dei
trovati a che allude il monaco Teodosio: nuovo, poichè, secondo gli
eruditi, i tiri delle baliste adoprati a batter mura, occorrono per la
prima volta nell'assedio di Siracusa, o meglio in quel di Salerno
dell'ottocento settantuno, in cui si sa che una petriera, come la
chiamarono gli Italiani, d'insolita grandezza, squassasse la torre
Solarata. E finchè non se ne trovino altri esempii nelle guerre dei
Musulmani innanzi il nono secolo, l'onore di tal trovato darassi a
quei d'Affrica e di Sicilia689.

687
Χελώνη, tettoia minore che gli antichi faceano talvolta con gli scudi. Qui pare
quel che poi si chiamò mantelletto per proteggere gli artefici che lavoravano a
scalzare il muro.
688
Teodosio Monaco, l. c.
689
Teodosio dice soltanto che una parte della torre sul porto grande e indi un
pezzo della cortina crollassero pei tiri dei mangani. Ciò non potea avvenire se i
proietti non correano per curva assai lieve, da potersi chiamare linea retta ove non
si parli tecnicamente. Delle macchine servite dai Saraceni di Lucera feci
menzione nella Storia del Vespro Siciliano, capitolo X, p. 226, e nota a pag. 228,
ediz. Le Monnier. Gli altri esempii ai quali ho accennato, occorrono nella
presente Storia.

389
Sopravvenute forze navali di Costantinopoli, furono oppresse a
un tratto dall'armata musulmana690; il vincitore restò padrone del
mare; distrusse le fortificazioni dette allora i braccialetti691 che
difendeano i due porti, senza dubbio quelle dei lati opposti ad
Ortigia, la punta settentrionale cioè del porto picciolo e la
meridionale del grande. Così fu tolto ai cittadini ogni aiuto di fuori.
I Musulmani provaronsi anco a dare assalti con lor grosse navi. Ma
la città sempre valorosamente si difendea.
Maggior prova fu a durare la fame, la quale si fe' sentire, incrudì,
arrivò allo strazio che riferisce il Frate Siracusano, con parole da
farci prima sorridere e poi abbrividire, «L'uccellame domestico,
dice in tanta tragedia Teodosio, era consumato; conveniva mangiar
come si potea di grasso o di magro; finiti i ceci, gli ortaggi, l'olio; la
pescagione cessata dal dì che il nemico insignorissi dei porti. Ormai
un moggio di grano, se avvenia di trovarlo, si comperava
cencinquanta bizantini d'oro692; uno di farina, dugento; due once di
pane, un bizantino693; una testa di cavallo o d'asino, da quindici a
venti; un intero giumento, trecento. I poveri, poichè mancarono loro
i salumi e le erbe solite a mangiarsi, andavano scerpando le amare e
triste su per le muraglie; masticavano le pelli fresche; raccoglieano
le ossa spolpate, e pestate e stemprate con un po' d'acqua le

690
Ibn-el-Athîr, l. c.
691
Βραχιόλιον. Teofane, nella Chronographia, usa questa voce, prima in
significato di braccialetto propriamente detto, ossia ornamento del braccio (tomo
I, p. 225 e 491); e poi (p. 541), di fortificazione attenente alla Porta d'oro di
Costantinopoli, negli assalti che diè l'armata musulmana nel famoso assedio del
673. Il testo di Teodosio dice nel presente luogo: Τὰ ὰμφὶ τοϊν λιμένοιν τείχη, α̉̀
δη βραχιόλια ὺνομάζουιν; e la versione di M. Hase: Mœnia circa utrumque
portum quæ brachiolia vocant. Parmi che τείχη si debba prender qui nel senso di
fortificazione in generale, e ὰμφι di presso piuttosto che intorno. E veramente
quelle due voci si trovano talvolta adoprate in questi significati; e basta guardare
una pianta topografica, e considerare che il porto grande gira da sette miglia, per
capacitarsi che non si tratti di muro intorno intorno.
692
Χρυσινος Ho posto il nome che dettero a questa moneta gli occidentali. Il
valsente in peso di metallo, spessissimo alterato, è di 13 lire incirca
693
Νομίσμα voce usata nello stesso significato di [Greek: Chrysinos]

390
trangugiavano; rosicavano il cuoio: poi, soverchiato dalla rabbiosa
fame ogni ribrezzo, ogni sentimento di religione e di natura, dettero
di piglio ai bambini; piangevano i cadaveri dei morti in battaglia:
sol nutrimento di cui non fosse penuria. Ingeneravasi da ciò una
epidemia crudelmente diversa; della quale chi subitamente moriva
in orribili convulsioni694; chi enfiò com'otre695; chi mostrava tutto il
corpo foracchiato di piaghe696; altri restava paralitico697.» Così per
tutto l'inverno e parte della primavera la misera cittade si travagliò;
sperando che venisse l'armata di Costantinopoli a liberarla.
Da Basilio Macedone dovea in vero sperarsi aiuto. Ma la
superstizione, le vergogne domestiche par che avessero stemprato
quell'animo di valoroso malfattore. Tenne i soldati d'armata a
edificare una chiesa di Costantinopoli698, mentre i mangani
musulmani demolivano Siracusa. Poi mandò lo ammiraglio
Adriano, uomo neghittoso o vigliacco; il quale ad agio suo salpava
di Costantinopoli; andava a riposarsi nel porto di Monembasia in
Peloponneso: e tanto aspettovvi un vento fresco col quale far vela
per Siracusa, che certi demonii che bazzicavano nella selva d'Elos,
dice gravemente la Cronica del Porfirogenito, e poi certi soldati
scampati da Siracusa sur una barca, gli dettero avviso che già vi
sventolassero le insegne musulmane. Allora corse a Costantinopoli
a serrarsi in una chiesa e domandare pietà a Basilio; il quale gli
perdonò la vita699.
Par che bloccata Siracusa per mare e per terra, il capitan
musulmano, certo ormai di sua preda, si tornasse in Palermo; e che

694
Τετανος
695
̀Ως ὰσκὸν
696
Così è da supporre, leggendosi nel testo: καὶ τοὶιοις πολιμερω̃ς διατρήσασα; e
nella versione di M. Hase: multis ex partibus terebratos.
697
Colpiti di ήμιπληξια, dice il testo qui al certo inesatto, poichè "emiplessia"
significa "paralisia di un lato." Fin qui mi riferisco sempre alla epistola di
Teodosio.
698
Georgius Monachus, De Basilio Macedone. § 11, p. 843.
699
Theophanes continuatus, lib. V, cap. LXIX, LXX, p. 309 seg.

391
in primavera andasse a incalzar con nuovo furore l'assedio700, un
Abu-I'sa, figliuolo di Mohammed-ibn-Kohreb, gran ciambellano
d'Ibrahim701. Allora fu battuta in breccia la torre del porto grande di
che si è detto di sopra. Verso la fin d'aprile un lato di quella
sconquassato crollò; a capo di cinque dì, cadde anco un pezzo della
cortina attigua: i Musulmani montavano agli assalti, ancorchè offesi
di fianco dalla torre mezzo diroccata, alla quale gli assediati aveano

700
Se meritasse maggiore fiducia la traduzione latina che pubblicò il
Gaetani di certi versi di Teodosio indirizzati a un Beato Sofronio,
che pare sia l'arcivescovo di Siracusa, si potrebbe affermare che il
grosso dell'esercito musulmano si fosse ridotto alle stanze
nell'inverno. Ma come farvi assegnamento, se la narrazione in prosa
non ne parla, e se la traduzione dei versi è del tenor seguente?

Genus Ismael ascendit


Syracusanorum in urbem,
Ambitu ambiens hanc;
Aggressus devicit (devicitur?)
Dolose supervenit extemplo
Per annum etiam navigavit
Post decem autem menses excidit
Obsidio urbem.
701
Sappiamo da Ibn-el-Athîr che l'assedio di Siracusa fa cominciato
da Gia'far-ibn-Mohammed, governatore dell'isola; e leggiamo nel
Baiân, dopo la espugnazione di Siracusa, che costui fosse ucciso in
Palermo lo stesso anno 264. Da un'altra mano, Teodosio chiama il
capitano dello esercito vincitore Busa amiræ Chagebis filius, e lo
dice diverso dall'emiro supremo ch'era in Palermo, al quale fu
condotto il narratore insieme con gli altri prigioni. Attagliandosi
l'una all'altra coteste due testimonianze, possiamo stare a quelle, e
mettere da parte il Nowairi che ne discorda. Costui nella storia di
Sicilia non parla della espugnazione di Siracusa. In quella d'Affrica,
pubblicata de M. De Slane in appendice a Ibn-Khaldûn, Histoire
des Berbères, p. 425, attribuisce la vittoria ad Ahmed-ibn-Aghlab;

392
ristorato il passaggio con una scala di legno; e impediti alsì
dall'adito malagevole e più dal disperato valore del presidio
cristiano. Battaglia da giganti, sclama Teodosio, non pensando che
quivi avessero combattuto in altri tempi i giganti della storia antica:
i repubblicani di Atene, di Cartagine e di Roma, contro quei di
Siracusa; Marcello contro Archimede! Rattratta era la città, nel
nono secolo, dal tempio di Giove Olimpico e dalle Epipoli alla
penisola; rattratto l'umano ingegno da Gelone al monaco Teodosio;
gli animi rimpiccioliti nell'obbedienza ai despoti bizantini,
nell'egoismo della bacchettoneria; la religione lor insegnava meglio
a morire che a vincere. Pur se quell'enfatico detto possa appropriarsi
al sol coraggio personale, bene sta; e Teodosio ben chiama santo il
patrizio che governò Siracusa in questo assedio, sapendo la fine che
lo aspettava; e pur durando inesorabile a proposte del nemico o
timidi consigli de' suoi; vigilante, infaticabile, esperto nelle cose di
guerra, mantenitore della disciplina, tra quindici o venti migliaia di
umane creature affamate702. Il presidio, sì come avveniva negli
eserciti bizantini, componeasi di varie genti: v'erano Mardaiti, Greci

forse senz'altra ragione che di supporlo in quel tempo governatore


della Sicilia, come abbiam notato nel presente capitolo.
Quanto al nome del vincitor di Siracusa, che Teodosio non poteva ignorare, mi
par che vada letto Abu-l'sa, figliuolo dell'hâgeb ossia ciambellano di Ibrahim-ibn-
Ahmed; poichè le due lettere latine ch sono trascrizione ordinaria della greca χ,
come questa dell'ha, 6a lettera dell'alfabeto arabico, con la quale comincia la voce
hageb; e le lettere g e b similmente rispondono alle arabiche. È maraviglia a
trovare sì intatta quella parola passata per mano di varii copisti e d'un traduttore;
poichè di questo squarcio il testo greco si è perduto. Debbo qui avvertire, per
render testimonianza al vero, che M. Famin, nella Histoire des Invasions des
Sarrazins en Italie, Paris 1843, della quale è uscito solo il primo volume, e la
quale avrò poche altre occasioni di citare, ha colto nello stesso segno mio, tirando
a un altro. La voce Châgeb gli parve corruzione del nome patronimico di
Mohammed-ibn-Kohreb; e ne disse le male parole a Teodosio, anche per aver
chiamato costui emiro, e conchiuse doversi correggere il nome Mouça fils de
l'émir Khareb; cioè Mohammed-ibn-Kohreb, che per caso si trova appunto lo
hâgeb del principe aghlabita in questo tempo.
702
Fo questo conto su quello degli uccisi quando fu presa la città.

393
del Peloponneso703, uomini di Tarso704; i Siracusani non mancarono
a sè stessi; le donne aiutarono a combattere; i preti confortavano e
pregavano. Per venti dì e venti notti fu difesa la breccia dai Cristiani
esausti già in nove mesi di assedio e di fame. Quel fatale baluardo,
detto del Malo Augurio, si coperse di cadaveri, le cui ferite descritte
ad una ad una da Teodosio, mostrano che si combattesse pur con le
spade, da corpo a corpo; un Cristiano contro cento Musulmani, dice
egli, con iperbole che dipinge il vero. Stanchi, dispettosi d'essere
trattenuti da una legione di spettri, da un mucchio di rovine, gli
assalitori allenavano un istante.
La mattina del ventuno maggio ottocento settantotto705 parea
cheta ogni cosa: il patrizio e il grosso delle genti s'erano ritirati a
prendere un po' di cibo e di riposo: rimaneva a guardare la breccia,
d'in su la torre, Giovanni Patriano con pochi soldati. Quando, alle
sei, tutte le macchine dei nemici giocano a un tratto; scoppiane
come una procella; la scala di legno, onde dalla città si comunicava
alla torre, imberciata dai massi che piombavano, si sfasciò con gran
fracasso. Il patrizio balza da mensa, corre alla breccia; seguonlo
animosi guerrieri. Ma il nemico, apponendosi al colpo fatto, s'era
avventato incontanente alla torre; avea trucidato i difenditori; e già
irrompeva in città. Una frotta di soldati che volle far testa dinanzi la
chiesa del Salvatore, pria che potesse mettersi in schiera, fu
soverchiata e tagliata a pezzi. Dan d'urto i vincitori alla porta della
chiesa; abbattonla; trovano una gran calca di cittadini, fanciulli,
vecchi, infermi, chierici, frati, schiavi: e ne fanno carnificina. Poi si
spandono per le contrade, uccidendo, predando. Il patrizio con
settanta nobili siracusani si chiude in una torre; ed è preso la

703
Theophanes continuatus, lib. V, cap. LXX, p. 511.
704
Teodosio Monaco, l. c.
705
Die prima post vigesimam mensis maij, quarta vero ab eo die quo murus
corruit; dice la versione pubblicata dal Gaetani. Ma quel quarto giorno dopo la
caduta del muro non risponde al conto fatto poco prima. Perciò credo inesatta la
versione, e che si debba intendere quarta feria, ossia mercoledì, il giorno appunto
della settimana che notano concordemente la Cronica di Cambridge e il Baiân.

394
dimane. Uno stuolo corre alla cattedrale, ove l'arcivescovo
Sofronio706 e tre preti, Teodosio era tra questi, si strappano d'indosso
gli abiti sacerdotali, sperando non essere conosciuti; in farsetto di
cuoio, si acquattano tra l'altar maggiore e il seggio vescovile;
Sofronio tuttavia promette un miracolo; gli altri si domandano
perdono scambievolmente delle offese, come in punto di morte: e
Teodosio afferma che ringraziavano Iddio di tale tribolazione. Ecco
i Musulmani nel tempio: uno brandendo la spada che stillava sangue
va dietro all'altare, trae fuori i nascosi; ma senza maltratti, nè
minaccioso piglio; e contemplato il venerabile aspetto
dell'arcivescovo, gli domandava in greco: "Chi sei tu?" Saputolo,
richiese dei vasi sacri; si fe' menare al luogo ove serbavansi, che
erano cinquemila libbre di metalli preziosi di finissimo lavoro; fe'
entrare nella stanza l'arcivescovo coi tre compagni, e ve li chiuse.
Poi chiama gli anziani di sua nazione, scrive Teodosio, al certo i
capi di famiglia ch'erano in quella schiera; li commuove a pietà; e
salva la vita ai prigioni. Uomo di nobil sangue, dice il narratore, e lo
chiama Semnoen forse Sema'ûn ch'è nome arabico. Niun soldato di
nazione incivilita usò mai più umanamente in città presa d'assalto,
nel primo impeto, verso ministri di religione avversa: nè gli eserciti
dei nostri dì possono vantare molti Sema'ûn. Questo esempio di
gentil animo del condottiero e disciplina dei soldati, accanto agli atti
d'esecranda intolleranza che dovremo narrare, prova che miscuglio
di schiatte, di costumi, di barbarie e civiltà, di cavalieri e ladroni,
fosse nell'esercito musulmano ch'espugnò Siracusa. I men tristi
sembrano i coloni di Sicilia; tra i quali va noverato Sema'ûn, poichè
parlava il greco.
Teodosio e i compagni di prigionia furono recati allo
alloggiamento del generale in capo, al vescovado vecchio, serrati in
una stanza; la cui schifa descrizione legga, chi il voglia, nella
epistola di Teodosio. Ma non può tacere la storia su le abbominevoli
crudeltà. Cessata la strage indistinta, continuarono a scannare gli

706
Questo nome non è dato da Teodosio; ma il Gaetani crede su buone ragioni
che così si chiamasse l'arcivescovo.

395
uomini d'arme, e serbare gli altri alla schiavitù 707. E perchè mal si
poteano distinguere, o intervenne qualche pia frode dei condottieri
più inciviliti, fu preso tempo a scevrare le vittime: e a capo di una
settimana, di sangue freddo, le immolarono fuor la città. Primo
l'eroe dello assedio, quel patrizio di cui Teodosio tace il nome, per
esser noto, dice egli, a chiunque: e andò alla morte a testa alta,
impavido, sereno, che il capitano che il condannò lo guardava preso
di stupore. Indi, i settanta presi nella torre col patrizio e gli altri
prigionieri furono legati; fattane una massa, contro la quale come
can villerecci, continua Teodosio, i Musulmani avventavansi: e fino
all'ultimo li ammazzarono con sassi, bastoni, lance e checchè lor
veniva alle mani; e arsero i cadaveri. Niceta da Tarso, notissimo ai
nemici pei fieri colpi che solea menare ogni dì, svillaneggiando lor
nazione e imprecando al Profeta, fu tratto in disparte; steso a terra
supino; scorticato dal petto in giù; squarciategli con cento lance le
viscere palpitanti; strappatogli il cuore: e gli empii lo dilaniarono
coi denti; lo ammaccarono a colpi di pietra708. Il numero dei morti in
tutte queste carnificine passò i quattromila, dice il Baiân; sommò a
parecchie migliaia, dice Ibn-el-Athîr, aggiugnendo che «pochi,
pochissimi camparono,» tra i quali son da noverare que' che gittatisi
in una barca arrivarono in Grecia. Montò il valsente del bottino,
secondo Teodosio, a un milione di bizantini709 che ne darebbe
tredici delle nostre lire; nè par troppo per tanta città; nè arriva a
quello che crederebbesi, leggendo negli annali musulmani non
essersi fatta mai sì ricca preda in altra metropoli di Cristianità.
Comparve, dopo la espugnazione, un'armatetta greca, contro la
quale usciti i Musulmani la messero in fuga, le presero quattro navi,
e passarono gli uomini per le armi. Per due mesi circa abbatterono
fortificazioni, spogliarono tempii e case: alfine vi messer fuoco, e
andaron via, allo scorcio del mese di dsulka'd, cioè all'entrare

707
La Continuazione di Teofane nota espressamente che fossero uccisi tutti i
soldati, e fatti schiavi i cittadini.
708
Teodosio.
709
Questo passo si trova nella parte di cui è perduto il testo greco.

396
d'agosto710. Questo fu il fine di Siracusa antica: rimase un laberinto
di rovine, senz'anima vivente711. "Nè un Teocrito v'era, nè un Ibn-
Hamdîs che piangessero l'eccidio della patria; ma vi si provò un
poeta bizantino, erede presuntivo della corona, Leone poi
imperatore, detto il Sapiente, e autore d'un trattato d'arte militare; il
quale, in vece di venire a far la vendetta, strimpellò sul doloroso
argomento due anacreontiche, così chiamolle, che si sono perdute,

710
Ibn-el-Athîr.
711
Le autorità bizantine sono: Theodosii monachi atque grammatici,
Epistola de expugnatione Siracusarum, versione latina che fece un
monaco basiliano, per nome Giosafà, sopra un MS. del monastero
del Salvatore di Messina; e fu pubblicata dal Gaetani, Vitæ
Sanctorum Siculorum, tomo II, in appendice; poi dal Pirro, ec. Il
MS. andò a male con tanti altri, perduto nei monasteri di Spagna o
sepolto nella Vaticana, ove è da sperare che un giorno si trovi.
Intanto abbiamo uno squarcio del testo in un MS. di Parigi, il quale
sventuratamente non arriva nè anco a metà della epistola; ma capitò
in ottime mani, poichè M. Hase n'ha fatto una versione latina, e
pubblicatala con l'originale greco, in appendice alla Leonis Diaconi
Caloensis Historia, Parigi, 1819; su la quale edizione fa ristampato
a Bonn, il 1828. La pubblicazione di M. Hase ci ammonisce a non
fidarci troppo della prima versione latina, che talvolta sbaglia il
significato, e per lo più si perde in parafrasi. - Theophanes
Continuatus, lib. V, cap. LXIX, LXX, p. 309, seg., oltre i cenni che
si trovano in Georgius Monachus, De Basilio Macedone, cap. XI, p.
843; Symeon Magister, idem, p. 691; Nicetæ Paphlagonii, Vita
Sancti Ignatii, presso Labbe, Sacrosancta Concilia, tomo VIII, p.
1238.
Degli autori arabi ne trattano: Ibn-el-Athîr e Nowairi, ll. cc.; Baiân,
tomo I, p. 110; aggiungasi la Cronica di Cambridge, presso Di
Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 42.
La data della espugnazione, il 21 maggio, si trova al paro in Teodosio nella
Cronica di Cambridge, e nel Baiân. L'anno 878 è determinato da queste ultime
due autorità. Manifesto l'errore di coloro che, seguendo la Continuazione di

397
nè parmi gran danno.712 Il monaco e grammatico Teodosio dettò poi
la epistola da noi sovente citata, che ben risponde ai due titoli dello
autore: piena di unzione, come si dice; diffusa, studiata, pur non
disadorna di stile; pregevole pei fatti che ricorda; e può passare tra i
buoni scritti greci del nono secolo.
Prima di sgombrar la città, i Musulmani avviavano a Palermo il
bottino e i prigioni713: gittati su le medesime bestie da soma; scortati
da brutali negri, ch'erano addetti ai servigii più bassi nello esercito;
viaggiando sei dì e sei notti, al caldo e al freddo, senza riposo.
All'alba del settimo dì, i prigioni siracusani gustavano amarezza
novella a vedere la fiorente città, di cui la fama tanto parlava, uscita
dall'antico giro delle sue mura, coronata di sobborghi, o meglio,
sclama Teodosio, forti e superbe città, «l'iniqua Palermo, che
tenendo a vile d'essere governata da un contarco, si impadronisce
già d'ogni cosa, ha messo noi sotto il giogo, e minaccia
d'assoggettare le genti più lontane, fin gli abitatori della imperiale
Costantinopoli.» Così il prigione, struggendosi d'invidia municipale,
inveiva contro un nome; confondea Palermo capoluogo di provincia
sotto i Bizantini, con Palermo capitale musulmana, «ridondante di
cittadini e di stranieri, che pareavi adunata tutta la genía saracenica
da levante a ponente et da settentrione al mare.» Un folto popolo
andò a incontrare il convoglio, tripudiando alla vista di quel bottino,
intonando versetti del Corano, che Teodosio chiama canti trionfali e
peani.
Dopo cinque dì, l'arcivescovo e i preti suoi erano addotti allo
emiro supremo, dice Teodosio, senza dubbio il wâli di Sicilia,

Teofane, han detto presa Siracusa l'880.


712
I titoli di queste due elegie sono stati rinvenuti dal dotto ellenista siciliano
Pietro Matranga. Veggasi Spicilegium Romanum, tomo IV, Romæ, 1840, p.
XXXIX.
713
I cronisti musulmani affermano precisamente che l'esercito vincitore andasse
via da Siracusa dopo due mesi. Teodosio scrive essere rimaso prigione per trenta
dì; nel qual tempo i Musulmani ardeano e guastavano la città: e poi mandarono
lui e gli altri prigioni in Palermo sotto la scorta dei negri; ma non che marciasse
con tutto lo esercito. Queste due testimonianze perciò non si contraddicono punto.

398
«sedente in trono, sotto un portico714, ascosto dietro una cortina per
tirannesca superbia.» L'emiro e l'arcivescovo fecero per interpreti
una breve disputa religiosa, nel cui tenore, dato da Teodosio, ben si
ravvisa il gergo musulmano; e vedesi che il tiranno parlava senza
orgoglio nè intolleranza; il pastore con dignità e circospezione.
Accomiatati per tornare alla prigione, attraversavano la piazza di
mezzo della città, probabilissimamente quella ch'or si chiama del
Palagio Reale, seguendoli «moltissimi Cristiani che senza
dissimulazione li compiangeano, e molti Musulmani tratti da
curiosità di vedere il rinomato arcivescovo;» dei quali Teodosio non
dice che desser su la voce a que' primi, nè profferissero ingiurie.
Furon chiusi poi nelle pubbliche carceri715, che vi si scendea per
quattordici gradini e non aveano altra finestra che la porta; dove, tra
il caldo, la oscurità, il puzzo, gli schifi insetti, erano accalcati Negri,
Arabi, Ebrei, Cristiani di Tarso, di Longobardia e Siciliani. Il
vescovo di Malta, ch'avea i ferri ai piè, levossi per abbracciare
Sofronio: si contarono a vicenda lor casi; piansero insieme; e
ringraziarono Iddio. Ma venuta la festa dei Sagrifizii,
com'esattamente la chiama Teodosio716, un fanatico dottore717 si
messe a stigare il popolazzo che per maggiore allegria facesse un
falò di quel sacerdote politeista; se non che gli uomini più
autorevoli e i magistrati calmarono il furore, mostrando vietato da
legge musulmana l'abbominevole sagrifizio718 e doversi in altra
guisa render lode a Dio della vittoria. «Così campammo, conchiude
Teodosio, scrivendo dal carcere, e pur ci minacciano la morte ogni
dì719.» Si addoppiarono forse i timori suoi ne' tumulti della capitale,
714
Solarium, nella versione; manca il testo greco.
715
Demosterium; certamente il testo portava δεσμωτήριον.
716
Si celebra il 10 del mese di dsu-'l-haggi, che quell'anno cadde nel 12 agosto
878, secondo il conto degli astronomi musulmani, e il 13, secondo il conto
comune.
717
Ex iis qui populo præerant. Qualche fakîh o sceikh.
718
Non enim hoc fas esse, leggiamo nella versione latina. I Musulmani d'altronde
non fecero mai sagrifizii umani, come par che pensasse Teodosio; e la legge
risparmiava la vita ai preti cristiani.
719
Tutto ciò da Teodosio, l. c.

399
nella guerra che si raccese con avvantaggio delle armi greche;
finchè, l'ottocento ottantacinque, erano riscattati i prigioni
siracusani720; onde l'arcivescovo e Teodosio, par che tornassero in
libertà721.

CAPITOLO X.
Lo stesso anno, se prima o appresso la espugnazione di Siracusa
non si ritrae, Gia'far-ibn-Mohammed fu ucciso in Palermo dai suoi
proprii famigliari, per trama di due principi del sangue aghlabita,
ch'eran ritenuti prigioni nel palagio dell'emiro, mandativi al certo da
Ibrahîm; l'uno, fratel di costui per nome Abu-I'kal-Aghlab-ibn-
Ahmed; l'altro, fratello del padre di Ibrahîm, e addimandavasi anco
Aghlab-ibn-Mohammed-ibn-Aghlab, soprannominato Khereg-er-
ro'ûna, come noi diremmo "La pazzia se n'andò." Aghlab, matto o
no, volle raccogliere il frutto dell'omicidio; prese lo Stato,
affidandosi in una mano di partigiani; ma non andò guari che il
popolo, sollevatosi, lo scacciò con tutti i compiici suoi, e mandolli
in Affrica722. Succedea nel governo, per elezione, com'e' pare,
720
Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 43,
dice venuto a posta un che ricomprò i prigioni di Siracusa l'anno 6393. Il
Rampoldi, Annali Musulmani, an. 886, al solito senza citare, scrive che fossero
riscattati 4253 prigioni che si trovavano «nel solo ergastolo di Siracusa,» e quasi
altrettanti al Kairewân. Ma Siracusa era distrutta; i prigioni condotti in Palermo,
come dice Teodosio, che dovea saperlo; e il numero non potea essere stato sì
grande, che il quinto appartenente al governo sommasse ad ottomila e più, quanti
si dice che ve ne fossero tra Kairewân e lo ergastolo di Sicilia. Perciò la
compilazione orientale, da cui il Rampoldi par che abbia cavato quelle cifre, o è
favolosa o erronea.
721
Il Gaetani, non trovando altra memoria di loro, chè la Cronica di Cambridge
per anco non si conoscea, e volendo accrescere il catalogo dei martiri siciliani,
suppone che Sofronio e i compagni fossero morti per la Fede.
722
Baiân, tomo I, p. 110. Quivi non leggonsi i gradi della parentela con Ibrahîm-
ibn-Ahmed, ma si argomentan dai nomi. Traduco a caso il soprannome, ch'è
scritto senza vocali, onde si potrebbe leggere Kherg-er-ro'ûna, "Nugolo di

400
d'Ibrahîm, un Hosein-ibn-Ribâh723, che pochi anni addietro avea
retto per breve tempo la colonia.
Il quale immantinenti ebbe a combattere aspra guerra coi
Cristiani. Uscito la state dell'ottocento settantanove contro
Taormina, fu sconfitto più fiate. All'ultimo trionfò in sanguinosa
battaglia, e uccisevi il capitano nemico che il Baiân chiama
patrizio724; forse quel Crisafi, la cui morte ricorda in quest'anno
medesimo la Cronica di Cambridge725: il qual nome gentilizio
ricomparisce in un diploma del duodecimo secolo, non che nei
ricordi de' tempi successivi, e rimane tuttavia in Sicilia. Da ciò si
vede che i Politeisti dell'isola, come il Baiân chiama i cittadini delle
terre non sottomesse ai Musulmani, avendo dinanzi agli occhi

pazzia." ed è suscettivo d'altre lezioni e interpretazioni. Nel Baiân quest'omicidio


è scritto dopo la presa di Siracusa. Ma ciò non prova che accadesse dopo: e le
conseguenze del misfatto, riferite dal Baiân tutte nello stesso anno, fan supporre o
ammazzato Gia'far nei principii, ovvero che l'autore non osservi rigorosamente la
cronologia.
723
Baiân, l. c. Quivi si legge Hosein-ibn-Riiâh. Correggo Ribâh per essere
famiglia illustre della colonia, e per trovarsi appo Nowairi un Hosein-ibn-Ribâh
governatore della Sicilia nell'872, come si è detto a p. 391.
724
Baiân, tomo I, p. 110.
725
Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 15. Il
nome nel MS. si trova senza punti diacritici, fuorchè su l'ultima lettera; ma credo
che gli editori si fossero bene apposti nel supplire i punti che mancano. Va
trascritto Khrîsâf. Il diploma del XII secolo al quale alludo, si legge in Pirro,
Sicilia Sacra, p. 390. Nata contesa intorno i confini di un podere nel territorio di
Cagliano, re Ruggiero, il 1142, deputò a deciderla un conte Simone e il famoso
Giorgio di Antiochia; i quali intesero varii notabili, e tra gli altri un Crisafi di
Troina. Fa anco menzione di questa famiglia il Bonfiglio, autore messinese del
XVII secolo, e dà lo stemma gentilizio di quella, presso Burmanno, Thesaurus
Antiquit. Siciliæ, tomo IX, p. 117. Un marchese Crisafi e un suo fratello, cavaliere
gerosolimitano, usciti di Messina per cagion della rivoluzione contro gli
Spagnuoli e rifuggiti in Francia, segnalaronsi dopo il 1691, sotto le bandiere
francesi, nell'America settentrionale. Dei quali il cavaliere, audace uom di guerra
e di stato, si dice sia morto di crepacuore non vedendosi punto rimeritato dalla
corte di Francia; e l'altro governò il distretto delle Trois Rivières, come si legge in
Charlevoix, Histoire de la nouvelle France, tomo II, p. 95 seg. Questa famiglia,
dopo mille anni di nobiltà, si è estinta in Messina, come mi si dice, verso il 1840.

401
quello spaventevole esempio di Siracusa, vollero piuttosto affrontar
la morte uniti in campo, che perire divisi, ciascuno entro il suo
muro. Notevol è che la medesima disperata reazione avvenne già
dopo la presa di Castrogiovanni. Or davano animo al resistere anco
le discordie dei Musulmani e gli appresti che facea Basilio per
cancellare l'onta delle armi sue.
Incalzavan la briga i frati, solito stromento di governo
nell'impero bizantino; i quali si fecero agitatori, portatori d'avvisi,
anco esploratori; affidandosi nella umiltà di loro stato, nei pretesti
che forniva e nella riverenza del popolo musulmano, ch'era sì
caritatevole verso i poveri di qualunque religione, proclive a tutte
superstizioni anco straniere, e uso a tenere in gran conto
l'abnegazione monastica. Pertanto veggiamo sopraccorrere in questo
tempo in Sicilia un valente frate, Elia da Castrogiovanni, la cui vita
tra non guari avremo a narrare. Lasciata Gerusalemme, ov'ei facea
stanza, Elia navigò alla volta d'Affrica; di lì venne sur un legno
carico di mercatanzie in Palermo; vi rivide la madre; e a capo di
pochi dì, appunto quando s'allestiva un'armata nel porto della
capitale, ei passò a Taormina; di là a Reggio, ove il popolo era tutto
sbigottito; lo rassicurò vaticinando la sconfitta degli Infedeli: e dopo
i successi che siamo per narrare, Elia ricomparisce a Taormina per
pochi dì; passa in Grecia; ov'è preso per spia dei Musulmani; indi
viene in Calabria di nuovo; va a Roma e di nuovo a Taormina.
L'intendimento di cotesti viaggi è evidentissimo. Il fatto si deve
accettare da una biografia scritta non guari dopo la morte di Elia, e
molto accurata nei nomi proprii e topografici, e negli avvenimenti
che noi d'altronde conosciamo; verosimile e semplice negli altri;
nella quale i miracoli stanno appesi come parati da festa su le mura
di un edifizio726.

726
L'autore è anonimo. La leggenda fu tradotta dal gesuita siciliano Fiorito, sopra
un MS. greco del monastero del Salvatore di Messina. Pubblicò questa versione il
Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 63, seg., e l'hanno ristampato i
Bollandisti, Acta Sanctorum, 17 agosto.

402
Il detto vaticinio d'Elia era di quelli che ognuno può fare. Dopo
gli avvantaggi riportati dalle armatette bizantine, a Napoli727 sopra i
Musulmani d'Affrica e di Sicilia, e in Levante contro quei dell'Asia
Minore e di Creta, il navilio capitanalo da Niceta Orifa, per audace
fazione, avea distrutto l'armata cretese nel golfo di Corinto; aveala
arso, affondato, fatti moltissimi prigioni, e messili a morte con
orrendi supplizii; chi scorticato vivo, chi immerso nella pece
bollente728. Oltre il terrore di questi fatti, stava pei Bizantini la
superiorità del numero; leggendosi che l'armata affricana e Siciliana
che s'accozzò in Palermo sommasse a sessanta navi729, ed a
centoquaranta la bizantina che le fu mandata incontro730, capitanata
da un Nasar, uom di Siria come lo mostra il nome; forse della fiera
gente dei Mardaiti che valorosamente combatteano contro gli
oppressori Musulmani in patria e fuori731. Come il navilio affricano
s'era messo a depredare Cefalonia, Zante e tutte quelle costiere, con
animo forse di passare in Calabria, Nasar, raccolte sue forze nel
porto di Modone, ristorata la disciplina nei soldati, rinforzatili di

727
Epistola di Giovanni VIII papa, di n° CCXL, data il 19 nov. 879, presso Labbe,
Sacrosanta Concilia, tomo IX, p. 184. Il Muratori, Annali, an. 880, confonde
questa vittoria con l'altra che siamo per narrare, significata da papa Giovanni a
Carlo il Calvo per una epistola del 30 ottobre 880, n° CCLV (stampato per errore
CCXLV).
728
Theophanes continuatus, lib. V, cap. LIX-LX-LXI, p. 298, seg. Queste fazioni
e le altre dell'armata bizantina in Sicilia e Calabria son riferite innanzi la
espugnazione di Siracusa. Ma l'anonimo compilatore confessa (cap. LXXI, p.
313) non esser punto certo della cronologia. Io l'ho corretto con la scorta delle
autorità musulmane e italiane che citerò nelle note seguenti.
729
Theophanes continuatus, lib. V, cap. LXII, p. 303. Che sia la stessa armata
veduta da Elia nel porto di Palermo mi par supposizione necessaria.
730
Baiân, tomo I, p. 110.
731
La Continuazione di Teofane dà il solo nome Nasar. Nella Vita di Santo Elia
l'ammiraglio è chiamato Basilio Nasar; ma dubito che il nome di Basilio sia
quello dell'imperatore, aggiunto a Nasar per errore del MS. o della versione.
Nasar è nome semitico. Da ciò, e dall'avere l'ammiraglio chiesto rinforzi di
Mardaiti, argomento che appartenesse a questa gente, così chiamata dagli Arabi
perchè si ribellò da loro. Erano Cristiani del Libano, della setta che si addimanda
Maronita.

403
Mardaiti e milizie del Peloponneso, uscì improvvisamente contro il
nemico. Per aspro combattimento gli bruciò o prese la più parte
delle navi, credo io, nei primi di agosto ottocento ottanta, su la
costiera occidentale della Grecia propria, Ellade, come allor si
chiamava la provincia a settentrione dell'istmo di Corinto.
Rifuggitisi in Sicilia quei pochi legni che il poterono, Basilio
comandava a Nasar di passar oltre verso Ponente. Così quegli
veniva a Reggio; e distrutto, com'e' pare, qualche avanzo dell'armata
siciliana che osava far testa, approdò non lungi di Palermo732.
732
Di questa sconfitta dell'armata musulmana d'Affrica e di Sicilia
abbiamo testimonianze diverse, che non è difficile a mettere
d'accordo.
La Continuazione di Teofane, l. c., cap. LXII, dà il numero delle
navi africane; il tempo vagamente e con errore; il luogo anche
vagamente; ma dice che il nemico scorresse i mari di Cefalonia e
Zante, e che Nasar uscisse da Modone, e tornassevi dopo la vittoria,
e poi, chieste istruzioni a Basilio, venisse in Palermo. La epistola di
Giovanni VIII, del 30 ottobre, 19a indizione (dal 1° sett. 880 al 31
ag. 881), dando a Carlo il Calvo le nuove dei Greci e Ismaeliti, dice:
quia Græcorum navigia in mari Israelitarum victorisissime
straverunt phalanges; ed è evidente che debbasi leggere
Ismaelitarum. Nella Cronica di Cambridge, presso Di Gregorio,
Rerum Arabicarum, p. 43, troviamo: «L'anno 6388 (1° settembre
879 a 31 agosto 880), i Bizantini presero le navi dei Musulmani in
un luogo che s'addimanda Ellada.» Questa voce precisamente si
legge, nel MS. con la l raddoppiata e la d con un punto diacritico,
con la quale per lo più gli Arabi trascrivono la d greca o latina,
perchè la loro d senza punto si confonde spesso con la nostra t.
Ellade è appunto il nome del tema della Grecia propria, che
stendeasi dall'uno all'altro mare, compresavi l'isola di Negroponte,
che sta a levante, ma non Cefalonia e Zante, che giacciono a
ponente; e confinava a settentrione col tema di Tessalonica, a
mezzodì con quello del Peloponneso. Tal nome è scritto
ordinariamente dai Bizantini ̀Ελλας, all'accusativo ̀Ελλάδα, con le

404
Padroni oramai del mare i Bizantini cominciarono a dar la caccia
alle navi mercantili dei Musulmani, e grande copia vi presero di
ricche merci, soprattutto d'olio, il quale fu tanto che il venderono a
un obolo la libbra733: depredazioni esiziali in quell'anno, in cui era
una spaventevole carestia in Africa734, e però molto bisogno delle
derrate di Sicilia. Al tempo stesso Nasar mandò torme di cavalli a
dare il guasto ai territorii delle città fatte tributarie dei Musulmani:

medesime lettere e accento della trascrizione arabica. Ibn-el-Athîr,


MS. A, tomo II, fog. 109 verso; e. MS. di Bihars, fog. 49 recto,
anno 266 (22 agosto 879 a 10 agosto 889), riferisce la battaglia ne'
mari di Sicilia; presa la più parte delle navi musulmane, e salvatisi
gli avanzi in Palermo. Il Baiân, tomo I, p. 110, dice portata la guerra
dal governatore di Sicilia ai Bizantini, che fecero uscire 140 navi;
scontratesi le due armate; prese le navi della musulmana; e passati i
vincitori a Palermo. Ciò nel 266. Finalmente la Vita di Santo Elia dà
allestita l'armata in Palermo contro Reggio al tempo dello
imperatore Leone; mandato da costui Basilio Nasar con 45 navi; ito
Santo Elia di Palermo a Taormina ed a Reggio, ove confortò i
cittadini che non fuggissero, e Nasar che fidasse nella vittoria;
uscito Nasar contro i Musulmani, cui ruppe, messe in fuga, affondò
in mare, o fe' prigioni. In questa narrazione può star la data dell'880,
poichè Leone, che regnava solo quando fu scritta la biografia, era
già associato al padre innanzi l'880, e probabilmente, come lo
accennai di sopra, il nome di Basilio nel testo va aggiunto a quel di
Leone, e non dato come nome di battesimo di Nasar. Però non han
luogo le conghietture cronologiche del Gaetani, op. c., p. 68, e dei
Bollandisti, vol. c., p. 483. Quanto al luogo della battaglia, o fu
confuso nella memoria di Elia che vecchio narrava questi casi, o
dalla penna dell'agiografo, ovvero seguì un novello scontro di 45
navi bizantine con gli avanzi dei Musulmani, che uscissero di
Palermo, vedendosi assaliti nelle case loro.
Dopo il detto fin qui, i fatti mi sembrano provati abbastanza. Così anche la data,
non ostante una difficoltà che non voglio tacere, cioè che Giovanni VIII avesse
differito sino al 30 ottobre a significare a Carlo il Calvo una sì importante

405
parecchi mesi durò frastornando il commercio della colonia, senza
attentarsi ad assalirla altrimenti; finchè andossene in Terraferma
ov'era più agevole a fare acquisto di territorio735. Ben ei lasciò una
squadra di salandre a Termini, o Cefalù, con soldati che
continuassero l'infestagione per terra736; e forse allor fu che Basilio,
con intento di ordinare la guerra in Sicilia, fecevi capitano
Euprassio737, e poi Musulice. Allora per certo si cominciò a
fabbricare o afforzare una città, alla quale i Bizantini poser nome di
Città del Re; com'io credo, l'odierna Polizzi738, la quale sorge sopra
sconfitta dei Musulmani seguita nei primi di agosto. Ma questa data di agosto 880
calza sì bene con tutte le memorie; e d'altronde le comunicazioni tra la Sicilia e
Roma erano sì incerte, e sopratutto sì poca la voglia di papa Giovanni a dare
quella nuova, a Carlo, dal quale sollecitava sempre aiuti contro i Musulmani, che
ben si possono supporre passati due mesi e mezzo. Infine è da considerare che il
papa non scriveva apposta quest'avviso, ma per incidenza, e rispondendo a Carlo
il Calvo che gli avea domandato, forse maliziosamente, che si dicesse dei Greci e
dei Saraceni.
733
Theophanes continuatus, lib. V, cap. LXIV, p. 304-305. L'obolo rispondeva a
1/210 del bizantino, ossia circa 0,06 di lira italiana.
734
Ibn-el-Athîr, l. c.
735
Si confrontino: Theophanes continuatus, l. c., e Baiân, tomo I, p, 110.
736
Non mi par dubbio che la divisione di quei legni sottili vi rimanesse dopo la
partenza di Nasar. Il porto dovea essere Termini o Cefalù; poichè le schiere si
spingeano su la parte delle Madonie che sta a cavaliere a quella spiaggia.
737
Si confrontino: Leonis Grammatici, Chronographia, p. 258, e Georgii
Monachi, De Basilio Macedone, cap. XX, p. 845. Secondo quest'ultimo ho
soppresso il nome di Musulice, che Leone dà anche a Euprassio, e che sembra
nome del capitano che gli succedette.
738
Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 25 recto, e MS. di Bibars, fog. 62 recto,
sotto l'anno 368 (881-882), dice presa dai Musulmani una fortezza «che i Greci
aveano fabbricato di recente, e chiamatala la Città del Re.» - "Di recente" qui si
deve intendere l'880, perchè prima erano vincitori e padroni i Musulmani in
quelle parti. Quanto a Polizzi, oltre il sito ch'è designato da tutte le fazioni di
guerra dell'882, accenna a quella città anco il nome, che necessariamente doveva
esser greco, Βασιλεόπολις o soltanto Πόλις, e Pólis esattamente si pronunziava
nel XII secolo, come il prova la trascrizione arabica di Edrisi. Però è caduto in
errore il Wenrich, il quale, lib. I, cap. XI, § 96, p. 128, ha creduto di trovare la
"Città del Re" in Castroreale, senza riflettere che il nome non potea essere latino,
e senza sapere che Castroreale fu fabbricata dagli Aragonesi nel XIV secolo,

406
un colle in mezzo alla valle principale delle Madonie, a brevissima
distanza dalle scaturigini dei due Imera, settentrionale e
meridionale, o vogliam dire fiume Grande e fiume Salso. Cotesti
fiumi, correndo in dirittura opposta, l'uno al Tirreno, l'altro al mar
d'Affrica, tagliano la Sicilia d'una linea non interrotta, la quale
segnò la divisione amministrativa sotto i Romani, e poi di nuovo nel
decimoterzo secolo; e le due provincie si chiamarono la prima volta
Lilibetana e Siracusana, poi Sicilia di là e di quà del Salso, ossia
Occidentale ed Orientale, e l'una rispondea al Val di Mazara, l'altra
a quei di Demona e Noto uniti insieme. Da quella fortezza i
Bizantini tenendo il passo delle Madonie, poteano dominare l'uno e
l'altro pendío; chiudere i Musulmani nel Val di Mazara; e assicurare
le popolazioni cristiane di Val Demone e Val di Noto. Con pari
intento il conte Ruggiero due secoli appresso affortificava Polizzi, sì
che a lui ne fu attribuita la fondazione.
Scambiato per cagion di quelle sconfitte, o forse uccisovi,
Hosein-ibn-Ribâh, e rifatto governatore della colonia Hasan-ibn-
Abbâs739, i cavalleggieri musulmani prorompeano di Palermo a
infestar tutta la Sicilia, l'anno dugento sessantasette dell'egira (11
agosto 880 a 30 luglio 881), nella state cioè dell'ottocento ottantuno;
e Hasan col grosso delle genti, attraversata risolutamente l'isola,
andava a bruciare le mèssi nel contado di Catania. Di lì passato in
quel di Taormina740, distruggeva le ricolte e tagliava gli alberi: onde
uscitogli contro Barsamio, capitano del presidio, uom di Siria come
parrebbe al nome, questi toccò una sconfitta, che il biografo di Elia
da Castrogiovanni dice predetta dal Santo741. Il vincitor musulmano,
come si scorge dal Fazzello, deca I, lib. X, cap. I, e da Amico, Lexicon
Topographicum.
739
Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 120 recto; e MS. di Bibars, fog. 59 recto,
anno 267; Baiân, tomo I, p. 111; e Ibn-abi-Dinâr, MS. di Parigi, fog. 21 verso,
con lo errore di Iliâs in luogo di Abbâs. Questo nome patronimico è scritto El-
Miâs in Ibn-Wuedrân, MS. § 6, versione francese nella Revue de l'Orient, déc.
1853, p. 429.
740
Ibn-el-Athîr, l. c.
741
Confrontinsi: Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum
Arabicarum, p. 43; e Vita di Santo Elia da Castrogiovanni, presso Gaetani, Vitæ

407
tornandosi a Palermo, dava il guasto al territorio di Bekâra, non so
bene se Vicari, ovvero un castel distrutto nelle vicinanze di Gangi,
che non son guari lontani nè l'uno nè l'altro dal luogo ov'eransi
afforzati i Bizantini. Questi dal canto loro non intermessero le
incursioni ne' territorii dei Musulmani ai quali recarono gravissimi
danni742. Così con varia fortuna si combattea.
L'anno appresso, che fu il dugento sessantotto dell'egira (31
luglio 881 a 19 luglio 882), cominciò con atroce sconfitta e
terminossi con splendide vittorie dei Musulmani. Narra Ibn-el-Athîr
che una gualdana condotta da Abu-Thûr, "Quel dal Toro," come noi
diremmo, imbattutasi nell'esercito bizantino, fu tagliata a pezzi; sì
Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 68, e presso i Bollandisti, Acta Sanctorum, 17
ag., p. 483. Nella cronica si legge sconfitto a Taormina Barsâs; la Vita di Santo
Elia dice Barsamius che mi pare migliore lezione. Infatti il nome di Barsemius,
trascrizione del siriaco Barsuma, si trova in Mesopotamia dal secondo al quinto
secolo dell'era volgare, com'io l'ho accennato nelle note al Solwân-el-Mota',
d'Ibn-Zafer, nota 44 al capitolo V, p. 336. Il Wenrich, lib. I, cap. XI, § 96, dice
uccisi 3000 Cristiani; e cita nella nota 144 Ibn-el-Athîr. Così confonde questa
fazione con quella che seguì nell'882.
742
Ibn-el-Athîr, l. c. Nel MS. si legge chiaramente Bekâra, che parrebbe
trascrizione di Biccarum, come troviamo scritto il nome dell'odierna Vicari nei
diplomi latini dell'XI secolo; ed è terra lontana 30 miglia da Palermo, e circa la
metà dalla spiaggia del Tirreno. Ma in Edrisi il nome di Vicari è trascritto Bikû,
che risponde esattamente al Βοικὸς di un diploma greco dell'XI secolo,
pubblicato da Buscemi, Giornale Ecclesiastico per la Sicilia, Palermo 1832, tomo
I, p. 212 e 213. Dippiù, Edrisi parla di un altro castello, nelle vicinanze al certo di
Gangi, terra a 14 miglia da Polizzi, il nome del quale castello nella Geographia
Nubiensis è scritto Mekâra, così anche nel MS. di Edrisi d'Oxford, e Nakâra in
uno dei MSS. di Parigi; nell'altro, che è il migliore, Bekâra: varianti, tra le quali è
da preferirsi Mekâra, supponendosi con fondamento che fosse appunto presso
Gangi la Imacara di Plinio e la Megara di Tolomeo. Posto ciò, rimane in dubbio
se vada fatta ad Ibn-el-Athîr la stessa correzione di Mekâra, ovvero debba
supporsi che la cronica nella quale ei lesse Bekâra, avesse così trascritto, in modo
diverso da Edrisi, il nome di Biccarum. È dubbio insignificante ed impossibile a
sciorre, poichè entrambi i siti di Vicari e di Gangi poteano essere occupati dai
Bizantini in quella impresa. D'altronde i nomi di Biccaro, Vaccaro, Vico, Bica
ec., doveano essere frequenti in Sicilia; e tanto più facilmente si poteano
confondere, quanto bekkâr in arabico risponde al greco βοϊκὸς e all'italiano
"boaro" e "vaccaro."

408
che ne camparon sette uomini soli743. Il nome di Caltavuturo744, che
significa la rôcca di Abu-Thûr, discosta cinque miglia da Polizzi,
addita il luogo dello scontro. La quale notizia accozzata con quel
rigo di annali è esempio dei materiali su cui ci tocca ordinariamente
a compilare questo nostro lavoro: ragguagli talvolta precisi, ma
come iscrizioni sepolcrali; nè ci dipingono le sembianze, nè ci
rivelano le passioni, i pensieri, tutto quel movimento vitale che
piace e giova intendere nella storia. Ma alle memorie storiche come
noi le vorremmo, come l'ebbero alle mani i grandi maestri dell'arte,
suppliscono un po' le leggende: almeno ci svelano in che modo allor
gli uomini delirassero, che è pur segno di vita. Un'agiografia greca
ed un'agiografia arabica s'abbattono entrambe, com'e' pare, nel
medesimo fatto di Caltavuturo; narrando le visioni di due avversarii
in alcuna sconfitta toccata dai Musulmani. Niceta Davidde di
Paflagonia, nella Vita d'Ignazio Patriarca di Costantinopoli scritta in
greco, novera questo tra i cento prodigii del patriarca: che Musulice,
stratego di Sicilia, in un'aspra battaglia contro i Saraceni, sbigottito,
nè sapendo che farsi, invocava l'anima beata d'Ignazio, e che quegli,
apparso in aria sopra un possente caval bianco, gli accennava di
muover le schiere contro la sinistra del nemico; e così fece il pio
capitano, e, contro il solito, vinse745. In luogo di un vescovo che
venisse a dimostrare arte di strategia, la leggenda musulmana fa
scendere dall'empireo le Huri dai begli occhi negri, per chiamare a
novella vita i martiri della fede unitaria. Il narratore è Abu-Hasan-
Harîri, siciliano di santissimi costumi secondo sua setta, trapassato
il novecento trentuno. «Al tempo, diceva egli in sua vecchiezza, al
tempo che questa nostra patria nudriva prodi cavalieri, non trascorsi
per anco a lacerarsi in guerra civile, io mossi con gli altri ad una
impresa contro Infedeli; nella quale scontratici col nemico, fe'
743
Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 123 recto; e MS. di Bibars, fog. 62 recto,
anno 268.
744
"Kalat-abi-Thûr," in Edrisi; "Calatabutor, Galatabutur, ec.," nei diplomi latini
dell'XI e XII secolo.
745
Nicetæ Paphlagonii, Vita Sancti Ignatii, presso il Labbe, Sacrosancta Concilia,
tomo VIII, p. 1247.

409
carnificina di noi. Tra i cadaveri trovai semivivo Abu-Abd-Selem-
Moferreg, uom virtuoso, dato ad esercizii di pietà, a dura penitenza,
e a combattere per la fede; il quale così mi parlò: "Ti giuro," ei
disse, "per Dio, che ho visto tante scale drizzate da questo campo
infino al cielo, per le quali scendeano giovanette che mai più vaghe
non ne conobbi al mondo. Tenendo alle mani uno sciugatoio di
drappo verde, ciascuna s'accostò a un dei martiri nostri, e presogli il
capo e posatoselo in grembo, gli astergeva il sangue; poi, levando
nelle sue braccia il trafitto, se ne risaliva con esso lui in cielo. Ma la
donzella che venne a me, addandosi ch'io respirassi, mi volse le
spalle tutta sconsolata, esclamando: - Oh sventura, egli vive! Oh
vergogna mia appo le compagne! - Ed ella mi lasciò," finiva
singhiozzando Moferreg, "ch'io la vidi con questi occhi miei aperti e
risentiti. Mi lasciò la dolce sorella: or come mai potrò cessare il
pianto finch'io non la ritrovi?"» Da quel dì in poi Moferreg si
profondò tanto più a meditare su la divinità e su l'altro mondo;
raddoppiò ogni più strano rigor di vita ascetica; si cibò d'erbe; e
quando alcuno gli diceva: "Smetti, o Abu-Abd-Selem746, che hai
fatto abbastanza per guadagnare il Paradiso;" ei gli dava su la voce:
"Sciagurato ch'io non ho scusa appo il mio Signore;" e ricominciava
a piangere: nel qual modo si travagliò per sei anni che gli rimaser di
vita747.
Deposto dopo la sconfitta di Caltavuturo Hasan-ibn-Abbâs, e
surrogatogli Mohammed-ibn-Fadhl, rinnovava, nella primavera
dell'ottocento ottantadue, il disegno di Hasan; spargendo le
gualdane per ogni luogo ove i Cristiani non fossero sottomessi; e
movendo egli medesimo con lo esercito sopra Catania. Andò seco
lui grande sforzo di gente, levatasi in massa alla guerra sacra, com'e'
pare dal testo d'Ibn-el-Athîr748. Dato il guasto alle mèssi in quel di
Catania, Mohammed improvvisamente si voltò contro i soldati delle
746
Parlando familiarmente, gli Arabi chiamano più tosto del soprannome che del
nome o casato.
747
Riadh-en-nofûs, MS. di Parigi, fog. 79 verso. La versione mia è fedele, non
litterale.
748
Egli adopera i due sostantivi, hesced, "ragunata," e gem', "turba."

410
salandre bizantine, i quali non si ritrae se abbiano fatto sbarco nella
costiera orientale, o, per terra, tenuto dietro all'esercito musulmano;
o se questo sia ito a trovarli su la costiera settentrionale, valicando i
monti. Mohammed li combattè e ruppe con molta strage. Poi andò a
guastare le ricolte di Taormina; e al ritorno scontrossi con più forte
esercito cristiano, accozzato forse dai municipii di Sicilia. Lo
sbaragliò; ne uccise tremila uomini, e mandò le teste in Palermo.
Usando la vittoria, assaltò poi la Città del Re, Polizzi, se regge il
mio supposto; della quale impadronissi per forza d'armi, e messe a
morte tutt'i combattenti, e ogni altra persona fe' schiava749. Così
erano sgombrati gli avanzi della espedizione di Nasar. Le forze
bizantine, bastando appena alla guerra di Calabria, abbandonavano
la Sicilia, o forse vi lasciavano pochissimi presidii. Il territorio
cristiano pertanto si ristrinse ai monti della Peloriade, all'Etna, e alla
valle ch'è di mezzo.
Quella striscia di terreno sarebbe stata poi, con lieve fatica,
soverchiata dai Musulmani, se non li avesse arrestato il peggior
nemico loro, la discordia. La quale nelle avversità suol trovare
nuov'esca; e cova sotterra; e quando poi senta rivoltare la fortuna,
s'apre spiragli, e divampa. I segni del tristo fuoco si veggono
apparire poco appresso la vittoria di Mohammed-ibn-Fadhl: sono la
debolezza e incertezza con che si sciupò la vittoria. Il dugento
sessantanove (20 luglio 882 a 9 luglio 883), Mohammed affliggea
con saccheggi, cattività, uccisioni i contadi di Rametta e Catania,
ma tornava in Palermo tra il giugno e il luglio dell'ottocento
ottantatre750, senza offendere altrimenti il nemico tutto quell'anno.

749
Ibn-el-Athîr, l. c. Il Baiân, tomo I, p, 111, sotto l'anno 268, accenna solo lo
scambio del governatore, dando esattamente gli stessi nomi del deposto e dello
eletto. La Impresa di Mohammed-ibn-Fadhl si dee riferire all'882, poichè il
guasto delle mèssi determina la stagione.
750
Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 135 verso, anno 269; e MS. di Bibars, fog.
72 recto. Questo capitoletto con alcuni altri è stato dato da M. Des Vergers, in
nota nell'Histoire de l'Afrique et de la Sicile par Ibn-Khaldoun, p. 132, seg. Vi si
sostituisca Rametta a Rita su l'autorità del MS. di Bibars. Così ancora nel
capitoletto del 271.

411
Al vittorioso condottiero, se deposto o morto non si sa, era
surrogato un Hosein-ibn-Ahmed; il quale morì l'anno dugento
settantuno (28 giugno 884 a 16 giugno 885), dopo una scorreria che
fe' fare nel territorio di Rametta, con guasti di poderi e preda di roba
e d'uomini. Poi, venuto d'Affrica a governare l'isola Sewâda-ibn-
Mohammed-ibn-Khafâgia, volendo imitare il padre e l'avolo con
gagliarde imprese, desolò non solo il contado, ma forse anco i
sobborghi di Catania751; passò a Taormina; combattè quel presidio;
guastò le mèssi; e si facea più da presso, quando venuti a chiedergli
accordo, com'ei pare, i decurioni della città, fermò la tregua per tre
mesi e lo scambio di trecento prigioni musulmani con que' di
Siracusa; ridusse lo esercito alle stanze in Palermo752; e spirata la
751
Ibn-el-Athîr, con frase vaga o mutilata dai copisti, scrive: «Mosse con grande
esercito verso la città di Catania, e distrusse quanto era in quella.»
752
Il Baiân, tomo I, p. 113, dà i soli nomi del governatore morto e
del rifatto; Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 140 recto, e MS.
Bibars, fog. 83 recto, anno 271, narra le fazioni di guerra e lo
accordo; il Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum
Arabicarum, p. 43, dice del solo accordo. Ecco le parole delle due
croniche. In Ibn-el-Athîr leggiamo: «.... e incalzava la città, quando
vennero a trovarlo oratori del patrizio dei Rûm, chiedendogli la
tregua e lo scambio dei prigioni, ec.» La Cronica di Cambridge ha:
«Il ûi ti recò il riscatto, e fe' uscire i prigioni di Siracusa;» come va
corretta la versione latina. Quel nome, ove mancano i punti
diacritici di due lettere, è stato letto Buliti, e il Di Gregorio
sagacemente ha riconosciuto in questa voce la greca Βουλευτις o
meglio Βουλευτης), che si pronunziava Vulevtis; dandosi dai Greci
il medesimo valore della nostra v alla β e alla υ. Perciò nel supplire
i punti diacritici al testo correggo Bûlebtî. Parmi sia questo il plurale
Βουλευται, che nella lingua dei mezzi tempi significava Decurioni,
ossia, collettivamente, la Curia.
Parmi che gli annali musulmani abbian mutato cotesti magistrati municipali in
oratori del capitano bizantino. Potrebbe essere ancora che il capitano del presidio
abbia fermato l'accordo, e alcuni decurioni siansi recati poi in Palermo a togliere i
prigioni cristiani, recando i musulmani, che forse non erano a Taormina. In ogni

412
tregua, riassaltò la Sicilia orientale all'entrare del dugento settandue
(17 giugno 885 a 6 giugno 886) senz'altro frutto che un po' di
bottino753.
Così per due anni allenava la guerra sacra, perchè gli animi
s'apparecchiavano alla guerra civile. Alfine, aggiugnendosi alle altre
cagioni di mal contentamento le vittorie che riportava in Calabria
Niceforo Foca e il disordine che dovean recare dalla Terraferma
nell'isola i Musulmani rifuggiti754, si venne in questa al sangue. I
Berberi e gli Arabi combatteron tra loro, il dì appunto non si sa, tra
l'autunno dell'ottocento ottantasei e la primavera dell'ottantasette: e
Sewâda con un suo fratello e tutti i partigiani, presi dal popolo di
Palermo e messi in ceppi, furono mandati in Affrica. Il popolo
rifece governatore un Abu-Abbâs-ibn-Ali755; ma par che poco
durasse in ufizio, e che il principe aghlabita riescisse a chetare i
sollevati; sì che non guari dopo rimandava in Palermo lo stesso
Sewâda.
Breve pausa di discordie, ma ben la sentirono i nemici. Morto in
questo mezzo Basilio Macedone (1 marzo 886) e venuto l'impero
nelle deboli mani di Leone, era chiamato Niceforo Foca a governar
la guerra in Asia Minore. I Musulmani di Sicilia allestivano allora
l'armata per riassaltare la Calabria, l'anno dell'egira dugento

modo, il fatto, e la voce usata da Ibn-el-Athîr, mostrano che si trattasse di


scambio, e non di mero riscatto di Cristiani.
753
Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 161 verso; MS. di Bibars, fog.
85 verso, anno 272; Baiân, tomo I, p. 113.
754
Ibn-el-Athîr e Baiân, ll. cc.
755
La guerra civile tra i Berberi e il giund, ossia le milizie arabe, si legge nella
Cronica di Cambridge, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 43; il
rimanente nel Baiân, tomo I, p. 114. In quest'ultimo, con la data del 273 (7
giugno 886 a 26 maggio 887); nella Cronica di Cambridge, del 6395 (1 settembre
886 a 31 agosto 887). Nel Rampoldi, Annali Musulmani, anno 887, si legge:
«L'autore del Nighiaristan, dice che in Sicilia ebbero luogo forti combattimenti
tra quei Cristiani e i Musulmani, con riportarne a vicenda qualche vantaggio.»
Non sarebbe impossibile che il compilatore persiano, o lo italiano, abbia così
interpretato i casi della guerra civile; o che il Rampoldi, per errore, abbia tolto
questa notizia dalla Cronica di Cambridge, e citato il Nigâristân.

413
sessantacinque (15 maggio 888 a 4 maggio 889). Allo incontro
venne da Costantinopoli a Reggio il navilio imperiale; e passato lo
stretto, che già avea preso il nome di Mar del Faro756, trovò il
nemico nelle acque di Milazzo, probabilmente in settembre
ottocento ottantotto. La battaglia finì con una strage spaventevole:
prese tutte le navi ai Cristiani; morti dei loro cinque, forse settemila,
tra di ferro e annegati: ed è da credervi, poichè al certo il vincitore
musulmano non risparmiò i prigioni, dopo quelle orribili crudeltà di
Niceta Orifa. Allo annunzio della quale sconfitta gli abitatori di
Reggio e delle altre città e castella della estrema Calabria,
fuggivano dalle case loro sentendosi sul collo la spada musulmana.
Infatti l'armata vincitrice approdò; sparse gli scorridori all'intorno, e
fatto gran bottino si ridusse in Palermo757.
Dopo la espugnazione dell'ottocento quarantatrè, il nome di
Messina ricomparisce nelle memorie musulmane in questo tempo,
sapendosi che Mogber-ibn-Ibrahîm-ibn-Sofiân fosse mandato a
capitanare «l'esercito di Messina e terra di Calabria dopo la battaglia

756
lo chiama Erchemperto.
757
Il Baiân, tomo I, p. 114, sotto l'anno 275, dice della «tremenda battaglia» vinta
dai Siciliani, e che perissero dei nemici più di 7000 ammazzati, e da 5000
annegati. Forse il compilatore lesse male i testi, che riferissero due tradizioni
diverse, ovvero portassero il numero dei morti in battaglia, e poi il totale,
compresivi i prigioni; o che so io. Si accenna inoltre la fuga dei Cristiani dalle
terre vicine ai Musulmani, che si deve intendere delle Calabrie, e sopratutto di
Reggio, secondo le testimonianze della Cronica di Cambridge e di Erchemperto.
Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 43; ove si
porta a 5000 il numero degli uccisi, la battaglia a Milazzo e la data del 6397 (1
settembre 888 a 31 agosto 889). Similmente, Ibn-Abbâr, nello squarcio di cui si
farà menzione nella nota seguente, parla della «battaglia di Milazzo.»
Erchemperto, Historia, cap. LXXXI, la suppone nello stretto di Messina. Il
Rampoldi, Annali Musulmani, anno 888, scrive così: «Terminò i suoi giorni in
Palermo l'emir Iakoub figliuolo di Ahmed, della casa di Aghlab, uno dei
comandanti generali in Sicilia, e governatore di Messina. Aaroun el Khams gli
succedette nel governo dei Musulmani di quella città.» Ignoro donde egli abbia
potuto trarre questa seconda notizia. La prima mi pare arbitraria correzione di ciò
che scrisse erroneamente il Nowairi.

414
di Milazzo;» queste sono le proprie parole del biografo758. Nel
mezzo secolo che corse tra l'uno e l'altro avvenimento, non si fa
punto menzione di759 quella città; ma si ricordano, dall'ottocento
settantasette in poi, i guasti di eserciti musulmani nel contado di
Rametta, picciola rôcca tra i monti, a ponente di Messina ond'è
lontana nove miglia in linea retta e molto più pei sentieri tanto o
quanto praticabili a tramontana e mezzogiorno. Rametta o Rimecta,
terra di nome latino, e però antica, ancorchè non se ne faccia ricordo
da storici e geografi innanzi il nono secolo; terra limitata dal sito a
mediocre prosperità; forte asilo in tempo di guerra. Così ancora per
tutto il corso del decimo secolo il nome di Messina s'udì poco, quel
di Rametta fu famoso per battaglie e assedii; finchè la città del Faro,
non molto innanzi il conquisto normanno, ripigliava l'antico lustro,
e Rametta tornava alla condizione assegnatale dalla natura. Da
cotesta vicenda parmi si debba argomentare che dopo l'ottocento
quarantatrè i principali cittadini di Messina e gran parte del popolo
si tramutassero in quelli aspri gioghi per viver liberi; e che Messina,
mezzo abbandonata, rimanesse come porto ed emporio, Rametta
divenisse l'Acropoli dell'antica patria.
Mogber, uom valoroso, della nobile schiatta di Sofiân collaterale
di casa d'Aghlab760, era stato accetto un tempo a Ibrahîm-ibn-
Ahmed, che solea per diletto armeggiar di lancia con esso lui; era
stato preposto al governo di Laribus; ma poi, allontanato d'Affrica
al par di quanti altri davan ombra al tiranno, ebbe il pericoloso
comando dell'esercito a Messina. Dove gli avvenne che andato con
poche galee a una correria in Calabria, l'armata bizantina,

758
Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 36 recto.
759
In miglia siciliane secondo la carta geografica. È notevole che Edrisi dà
appunto la stessa distanza in miglia arabiche che rispondono alle siciliane. Nel
secolo passato, la distanza si ragionava 13 miglia, certamente per altra strada
meno malagevole. In oggi, la strada del corriere, che passa per Spadafora facendo
un lungo giro, è di 24 miglia.
760
Ibrahîm suo padre era fratello di Khafâgia emiro di Sicilia, del quale si è detto.
Sofiân, ceppo di questa famiglia, era fratello di quell'Aghlab da cui prese nome la
dinastia.

415
capitanata, com'ei pare, da un ammiraglio Michele, lo fe' prigione, e
sì mandollo a Costantinopoli; ove dopo alquanti anni morì. Per
lungo tempo rimase popolare in Affrica il nome di Mogber,
recitandovisi da tutti un poemetto ch'egli avea dettato nei tristi
giorni della cattività, e mandatolo al Kairewân, del quale abbiamo
due squarci: poesia imitativa; versi così così; sensi di carità patria;
disprezzo della fortuna, e speranza che confortasse l'animo del
prigione colui che avea guardato Giuseppe dalle seduzioni,
rincorato Giobbe, liberato Abramo dal furore de' Miscredenti e dato
possanza al bastone di Mosè in faccia ai Maghi d'Egitto761.
Ma Sewâda-ibn-Mohammed, tornato in Palermo, movea l'anno
dugento settantasei (5 maggio 889 a 23 aprile 890) contro
Taormina, e invano l'assediava762; col quale par che Ibrahîm-ibn-
Ahmed abbia mandato in Sicilia milizie straniere sotto pretesto
della guerra sacra in Calabria, e in verità per mettere un freno in
bocca ai coloni. In fatti, leggiamo nella Cronica di Cambridge che
di marzo ottocento novanta i Musulmani di Sicilia si levarono in
arme contro gli Affricani e uccisero un Tâwâli, del quale altro non
si conosce che il nome o soprannome che sia763; ma quella
appellazione di Affricani e Siciliani, data qui dal medesimo scrittore
che nell'ottocento ottantasette avea parlato di Giund e Berberi,
mostra che si combattesse tra le novelle forze venute d'Affrica e gli
antichi coloni, non più tra le due schiatte di costoro764. Resse la
761
Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, l. c. Il nome dello ammiraglio
greco si trova nella Vita di Santo Elia da Castrogiovanni, presso il Gaetani, Vitæ
Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 72, se pur la vittoria dell'ammiraglio Michele fu
riportata nello stesso scontro in cui presero Mogber. Il Conde, Historia de la
Dominacion de los Árabes en España, parte II, cap. LXXV, senza citare Ibn-
Abbâr, ha dato una versione poco esatta dell'articolo biografico sopra Mogber.
762
Baiân, tomo I, p. 115, anno 276.
763
Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 43.
Questa cronica non indica al certo col nome di Siciliani i Cristiani, i quali chiama
sempre Rûm, ma sì bene i coloni di Sicilia; come tutti gli scrittori arabi dicono
Sirii, Egiziani, Spagnuoli ec., i coloni di lor gente in que' varii paesi.
764
Si conferma questo significato della voce "Affricani" dal seguente passo della
Cronica di Cambridge, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 43: «L'anno

416
Sicilia l'anno dugento settantotto (14 aprile 891 a 1 aprile 892)
Mohammed-ibn-Fadhl di già ricordato. Il dugento settantanove (2
aprile 892 a 21 marzo 893), il Baiân ripete il nome di costui e lo
dice entrato in Palermo capitale dell'isola il due sefer765 (4 maggio
892); la qual data, sì precisa, è indizio di avvenimento non
ordinario; forse un moto di fazioni; forse una battaglia. Ne fan certi
di ciò i cenni che troviamo in altri scrittori. Leggiamo nella storia
d'Affrica del Nowairi, che l'anno dugentottanta (893-894) Ibrahim-
ibn-Ahmed, rifatto hâgib, o vogliam dir ciambellano e primo
ministro766, un Hasan-ibn-Nâkid, gli conferì inoltre parecchi oficii,
tra i quali l'emirato di Sicilia, e che Hasan andò con un esercito a
combattere i popoli di Tunis e di tutta la penisola di Scerîk767, come
chiamavan la lingua di terra che si termina nel Capo Bon e dritto

6406 i Berberi assaltarono il giund, e consegnarono agli Affricani Abu-Hosein e i


suoi figliuoli.» Gli Affricani dunque non erano nè i Berberi nè gli Arabi d'Affrica
venuti in Sicilia al conquisto, e scritti nei giund, ma le soldatesche mandate da
Ibrahim-ibn-Ahmed.
765
Baiân, tomo I, p. 116, anni 278 e 279.
766
Nell'originale "ministo". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
767
Questo fatto è riferito dal solo Nowairi, nella Conquête d'Afrique, ec.,
pubblicata da M. De Slane, in appendice alla Histoire des Berbères par Ibn-
Khaldoun, tomo I, p. 428. Quivi, dopo il supplizio dello hâgib Ibn-Semsâma, si
legge: «L'officier qui le remplaça, et qui se nommait El-Hacen-ibn-Naked, avait
exercé d'autres charges, dont l'une était le gouvernement de l'île de Sicile.» Ma il
testo arabico veramente dice: E pose in sua vece Hasan-ibn-Nâkid, e unì in
persona di costui parecchi oficii, tra i quali lo emirato di Sicilia.» La frase che
rendo "unì in persona di costui" non lascia luogo a dubbio; poichè si compone del
verbo dhâf alla quarta forma, costruito con la preposizione ila; onde significa
"aggregare, congiungere." Al par di me lo aveva interpretato M. Des Vergers,
dando questo squarcio in nota a Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile,
p. 130. M. De Slane, ch'è padrone della lingua arabica e che spesso è necessitato a
correggere le espressioni inesatte di quegli scrittori, si è ingannato nel presente
caso da uomo erudito; sapendo che non si poteano esercitare a un tempo un oficio
in Affrica e il governo di Sicilia. Ma in questo appunto consistea lo abuso di
autorità narrato dal Nowairi, o piuttosto da alcun antico cronista ch'ei copiava.
Egli è evidente che Ibrahim-ibn-Ahmed voleva accentrare l'autorità in persona del
suo primo ministro; al quale dava la missione di domare la rivoluzione scoppiata
in Affrica, e sempre desta in Sicilia.

417
guarda al promontorio occidentale della Sicilia. Da un'altra mano,
tra l'ottocentonovantadue e il novantasei, non s'intende in Sicilia
d'impresa contro i Cristiani; anzi si vede fermato un patto tra loro e i
Musulmani dell'isola: fermato ai tempi di Abu-Ali, dice la Cronica
di Cambridge768; fermato coi Saraceni di Palermo che si ribellarono
dal principe d'Affrica, dice Giovanni Diacono napoletano769,
alludendo, com'e' par certo, al medesimo accordo. V'ha luogo
dunque a due supposti: o che il principe affricano abbia voluto usar
la vittoria di Mohammed-ibn-Fadhl, per togliere le franchigie della
colonia, e farla reggere dal primo ministro ch'ei si teneva allato;
ovvero che i coloni siano rimasi di sopra in alcun altro scontro, e
Ibrahim abbia commesso al primo ministro, che, doma la penisola
di Scerîk, traghettasse il mare, e andasse a domar la Sicilia, il che
poi non si effettuò. Al secondo supposto dan valore le parole di
Giovanni Diacono; talchè Abu-Ali sarebbe soprannome del capo
della rivoluzione in Palermo.
La pace, chè tal vocabolo adopran qui i cronisti contro l'uso
ordinario degli accordi coi Cristiani, non portava ai Musulmani altro
avvantaggio, che di liberar mille prigioni di lor gente. Fu stipolata
tra gli ultimi dell'ottocento novantacinque e i primi del novantasei.
Le fu posto il termine di quaranta mesi; e la colonia diè statichi da
scambiarsi ogni tre mesi, una volta Arabi e una volta Berberi770.
Tornò dunque a un compenso del riscatto di mille Musulmani col
valsente del bottino, schiavi e guasti di ricolte, che i Cristiani
avrebbero potuto patire in quattro estati; e gli ostaggi si davano dai
Musulmani ai Cristiani, perchè in tal baratto questi pagavan
contante, e quelli in credito. Accordo glorioso per quei tre o quattro

768
Chronic. Cantabrigiense, l. c. Leggiamo qui la data del 6404 (1° settembre 895
a 31 agosto 896), e nel Baiân, tomo I, p. 123, del 282 (1° marzo 885 a 17 febbraio
896). Così il fatto è limitato ai sei mesi che corsero dal 1° settembre al 17
febbraio.
769
Johannes Diaconus, Translatio Sancti Severini, presso Gaetani, Vitæ
Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 60; e presso Muratori, Rerum Italicarum
Scriptores, tomo I, parte II, p. 269.
770
Baiân, tomo I, p. 125, anno 282.

418
municipii della schiatta vinta che a mala pena si difendeano, stretti e
incalzati in un cantuccio dell'isola; troppo umile pei conquistatori
che s'eran lasciati prender tanta gente, sia in Sicilia sia in Calabria,
nè si fidavano di liberarla con la spada. Nè minore scandolo era per
loro a confessare in faccia ai Politeisti la profonda scissura della
colonia, con quello avvicendare degli statichi: Arabi e Berberi, non
più fratelli in Islam!
Pongo termine qui alla narrazione del conquisto. Io non ho
voluto arrestarmi all'ottocento settantotto alla espugnazione di
Siracusa, nè proseguire infino a quella di Taormina nel
novecentodue, che sarebbero parute l'una o l'altra epoche più esatte
secondo i fatti esteriori. Ma il gioco delle forze politiche, al quale
vuolsi risguardare piuttosto che agli accidenti delle guerre, cambiò
appunto al tempo della detta pace. Allor fu che il principato
bizantino lasciò la Sicilia come spacciata. Allora i pochi municipii
cristiani independenti cominciarono ad operare dassè. Allora la
colonia musulmana, stendendo la mano a quei generosi avanzi della
schiatta vinta, gittossi nella lotta di independenza che darà materia
al seguente libro.

CAPITOLO XI.
Travagliandosi per tal modo i Musulmani di Sicilia negli ultimi
venticinque anni del nono secolo, la guerra che conduceano in
terraferma d'Italia mutò indole e luoghi. Ciò anco venne dalle nuove
condizioni dei potentati cristiani. Maturati, siccome abbiamo
accennato, i frutti della riforma di Basilio Macedone, l'impero
d'Oriente occupava le più vicine parti della penisola, e cercava di
attirarsi con le pratiche il papa, e adescare o sforzare gli altri Stati
minori della Italia Meridionale, sì che tornassero al nome bizantino.
Da un'altra mano, l'Impero Occidentale, smisurata massa ed
eterogenea, presto s'era scissa: i varii principi del sangue di
Carlomagno, che ne avean preso chi un reame e chi un altro,

419
litigavano tra loro; e s'era spenta con Lodovico secondo, imperatore,
ogni virtù di quella schiatta. Allora quei che aspiravano al regno
d'Italia ed alla dignità imperiale, non bastando a pigliarsi la corona
con le proprie mani, cominciarono ad accattarla dal papa; il quale,
mercè la preponderanza del clero, trovava modo a governare i
suffragi dei grandi vassalli italiani. Così l'autorità imperiale avvilissi
tanto più; la papale crebbe; e non ne migliorò punto la condizione
d'Italia.
Perchè il papato, sì efficace a scommettere l'Italia, non ebbe mai
potere di unirla, anco volendo; e questo è necessario effetto d'una
ambizione senz'armi. Ciò apparve, come tante altre fiate, così al
tempo di Giovanni Ottavo (872-882); il quale si accinse a compiere,
a profitto della sede romana, i disegni di Lodovico Secondo
imperatore contro i Cristiani dell'Italia Meridionale, sotto specie che
i Musulmani aiutati da loro infestassero lo Stato della Chiesa.
Giovanni si fondava, oltre l'influenza temporale dei vescovi, su le
discordie e i timori di quei piccioli Stati e su le forze materiali ch'ei
potesse ottener dai due imperatori: da Basilio, favoreggiandolo nel
conquisto della Puglia, e accomodando la gran lite della Chiesa
Costantinopolitana; e dall'imperatore d'Occidente, in baratto della
corona. A lui non mancò ingegno, nè coraggio, nè attività, nè saldo
proponimento, nè coscienza larga: fu sempre a cavallo, o in nave; si
gittò tra le armi; scomunicò con ambo le mani in Italia; ribenedisse
Fozio in Oriente; scrisse volumi di lettere; promesse largo, e attese
corto; ingannò; ordì tradimenti; aiutò il vescovo di Napoli a un
fratricidio: e pur non conseguì lo intento suo. E tal diffalta gli
scrittori ecclesiastici non gli hanno mai perdonato. L'ira è andata sì
innanzi, che altri l'accagiona di «prudenza carnale771;» come se
Giovanni Ottavo fosse stato il solo papa ambizioso: e il cardinal
Baronio, con insipida arguzia, scrive che la femminina debolezza di
771
Severino Bini, in un'annotazione alla vita di Giovanni VIII, presso il Labbe,
Sacrosancta Concilia, tomo IX, p. 2, riprende con tal motto il papa del favore
dato a Carlo il Calvo; e con teologica baldanza afferma che Iddio nel punì,
facendogli pagar tributo ai Saraceni. Come se il tributo si fosse pagato col sangue
del papa, non col danaro dei popoli!

420
costui desse appicco alla favola della papessa Giovanna772. Così lo
feriscono, senza volergli far troppo male. Il disegno, del resto, non
fallì per timidità di Giovanni Ottavo, ma perchè i feudatarii
imperiali dal Tevere in su non avean voglia di ubbidire a un prete;
perchè dal Tevere in giù ei trovò tiepidi amici e nemici imperterriti;
i quali, minacciati da lui, si strinsero coi Musulmani, e glieli
scagliarono addosso.
Il paese, la cui sorte si giocava per tal modo tra l'impero
d'Oriente, il papa e i Musulmani, era scompartito in questa guisa. La
Calabria e Terra d'Otranto ubbidiano in parte a Costantinopoli, in
parte eran tenute dai Musulmani. Da quelle due punte della penisola
ai confini dello Stato Ecclesiastico, il principato di Benevento
occupava tutto il pendio orientale dell'Apennino. L'occidentale era
tenuto a mezzodì dal principato di Salerno, a settentrione da quel di
Capua: tra i quali si reggeano validamente, appoggiate in sul mare,
le repubbliche di Napoli, Amalfi e Gaeta. In tutto, sei Stati
agguerriti, rabbiosi, agognanti ciascuno al danno dell'altro;
sospettosi tra loro e de' potentati maggiori. Capua, spiccatasi di
recente dal principato di Salerno, confiscata dall'imperatore
Lodovico Secondo, era ricaduta nelle mani del vescovo: Landolfo,
della famiglia di quei gastaldi o conti che voglian dirsi; uom senza
legge nè fede, aborrito dai popoli e sopratutto dai frati; vacillante
altresì per le gare di non so quanti nipoti, tutti degni di lui. Uno
Stato così fatto, confinando da un lato con le repubbliche, dall'altro
coi dominii papali, dovea essere il pomo della discordia.
Stando le cose in questi termini verso l'anno ottocento
settantacinque, i Musulmani ricominciarono nell'Italia Meridionale
due serie di combattimenti, anzi due guerre al tutto diverse; nell'una
delle quali erano assaliti, nell'altra assalitori; nell'una operavano dal
golfo di Taranto per difendere dai Bizantini gli avanzi di lor
colonie; nell'altra fean base dei golfi di Salerno, Napoli e Gaeta, per
depredare tutta la Terra di Lavoro e la Campagna di Roma.
Pertanto, tratteremo separatamente i casi di coteste due guerre.
772
Annales Ecclesiastici, anno 879.

421
Principiando da quella di Calabria e di Puglia, e' si vede che,
poco prima o poco appresso la morte di Lodovico, il navilio
musulmano, di Taranto o di Creta, avea già risalito l'Adriatico
infino a Grado, e tentatala invano, al ritorno (luglio 875) arse
Comacchio. Dalla parte di terra, la colonia di Taranto, rinforzata
dalle reliquie dell'esercito di Salerno, occupò gran tratto di Calabria.
Preposto intanto al reggimento un Othmân, che il Sultano, al suo
tempo, avea bandito di Bari, Othmân riassaltava lo Stato di
Benevento. Corsero i Musulmani infino a Bari e a Canne,
depredando; ruppero tre fiate le genti di Adelchi; infestarono i
contadi di Benevento stessa, Telese, Alife, desolati tante volte nelle
passate guerre; e alfine vennero all'accordo col principe di
Benevento. Conduceano tal pratica due vecchi compagni di
prigionia del Sultano, chiamati dai cronisti Abdelbach ed Annoso;
nome certamente musulmano il primo, che va scritto Abd-el-Hakk,
e certamente latino il secondo, onde accenna un rinnegato. Adelchi
uscì di briga a buon patto, stipolando con costoro di rendere il
Sultano ad Othmân; il quale nol ridomandava, credo io, per carità
musulmana. Quantunque una cronaca narri i gravi danni che Saudan
fece ai Cristiani, libero ch'ei fu e tornato a Taranto, parmi che quivi
si parli del nuovo sultano, scambiando, al solito, il nome proprio col
titolo; poichè gli annali musulmani portano la morte di Mofareg-
ibn-Sâlem, appunto in questo tempo in cui la tradizione cristiana lo
dice consegnato ad Othmân773.
Ricominciato così il terrore dei Musulmani, e rifatto imperatore
Carlo il Calvo, che non poteva attendere all'Italia, Basilio Macedone
mandò lo stratego Gregorio con un'armata ad Otranto. Chiamato dai
cittadini di Bari, che temeano un assalto di Othmân, Gregorio andò
a Bari; la occupò a nome dell'impero bizantino (876); e, per arra di
773
Confrontinsi: Erchemperti Historia, cap. XXXV e XXXVIII; Anonymi
Salernitani Chronicon, cap. CXXXI del Pratilli; Johannis Diaconi Chronicon
Venetum, presso Pertz, Scriptores, tomo VII, p. 20; Andreæ Presbyteri
Bergomatensis Chronicon, presso Pertz, Scriptores, tomo III, p. 237; Chronicon
Vulturnense, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte II, p.
403.

422
buon governo, pigliò alcuni ottimati, e sì mandolli prigioni a
Costantinopoli. Indi i principi di Benevento, Salerno e Capua,
ancorchè fossero caldamente sollecitati da Basilio a cooperare
contro i Musulmani di Calabria, e pregati con belle parole di
religione, di cacciata dei Barbari, di benigna protezione dello
Impero, e il resto che ognun sa, pur non se ne mossero. Napoli, che
non s'era mai inchinata a Lodovico, nè spiccata dai Musulmani, si
strinse ad essi più che mai; tornarono a quell'amistà Amalfi e Gaeta
che tentennavan prima; e v'entrò lo stesso principe di Salerno774.
La Puglia e la Calabria, su le quali Basilio doveva operare ormai
con la forza delle armi e le pratiche del papa, aveano ubbidito,
prima della occupazione musulmana, al principato di Benevento. A
quanto si può scernere nella oscurità di quel tratto di storia,
predominava in quelle provincie lo elemento municipale; ma
snervato, ligio, inerte, diverso d'indole dalle repubbliche di Venezia,
Roma, Napoli, ch'aveano goduto libertà ormai da tre secoli. Erano
comuni piccioli la più parte, o se alcuno se ne notava popoloso,
come Bari, non mostrava maggior vigore che i piccini: nè la
debolezza individuale dei comuni era compensata dalla unione della
provincia, dagli ordini militari, amministrativi o politici, dalla
affezione, o almeno abitudine dei sudditi. Tanto più che, comparsi
in quelle parti i Musulmani, le aveano corso per trent'anni al par dei
Franchi, dei Longobardi di Benevento e dei Longobardi di Salerno;
e i municipii aveano piegato il collo a volta a volta dinanzi a chi più
temeano. Dopo l'875, dileguato il nome dei Franchi, e rimasi in
quelle province i sanguinosi avanzi dei Musulmani che si
risentivano, facilissimo s'offriva il conquisto alle armi bizantine.
Si dierono dunque a Basilio parecchie castella della Puglia, come
si ritrae dal confuso e alterato racconto della Continuazione di
774
Confrontinsi Erchemperti Historia, cap. XXXVIII, XXXIX; Anonymi
Salernitani Chronicon, cap. CXXXI del Pratilli, la qual cronica in questo e nei
tempi vicini è copia di Erchemperto; Chronicon Vulturnense, presso Muratori,
Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte II, p. 403, che poco ne differisce; Lupi
Protospatharii Chronicon, anno 875; Chronicon Sanctæ Sophiæ Beneventi, anno
875.

423
Teofane, compilato su le nuove ch'eran corse per le bocche di tutti a
Costantinopoli. Tra cotesti fatti leggiam sublime esempio di virtù
rinnovatosi in altri tempi e appo altre nazioni e di tanto più
credibile. Narrasi che movendo i Musulmani contro un castello
dello Stato di Benevento, e avendo i terrazzani mandato un nunzio a
chiedere soccorso a Costantinopoli, quegli, tornando con promesse
di Basilio, fu preso dai Musulmani; i quali gli profferian salva la
vita, se togliesse ai suoi ogni speranza degli aiuti greci. Quel
generoso disse di sì. È addotto dunque da una mano di soldati sotto
le mura, fa chiamare i principali cittadini, espone l'ambasciata, e
venuto alla risposta di Basilio: "Provvedete ai miei figli," gridò,
"chè a me avanzano pochi istanti di vita. Basilio già manda gli
aiuti." E incontanente il trucidarono i Musulmani; ma levarono
l'assedio. Così le castella di questa provincia tennero fermo nella
devozione dell'imperatore, conchiude la cronaca di corte775; non
contando come interruzione tre secoli di dominio longobardo,
ch'eran passati.
Nondimeno i Bizantini si travagliarono per cinque anni senza
altri segnalati avvantaggi che d'avere allontanato dalla lega
musulmana, per procaccio del papa, Salerno e poi Benevento;
finchè distrutta l'armata affricana e siciliana su le costiere di Grecia
(880), e assaliti in casa loro i coloni di Sicilia, Nasar ripassava in
Calabria, come a suo luogo accennammo. Quivi Nasar cooperando
coi fanti e i cavalli capitanati dal protovestiario Procopio e da Leone
per soprannome Apostippi, acquistò gran tratto della provincia.
Ruppe al capo di Stilo un'altra armata testè venuta d'Affrica; cacciò
i Musulmani da molte terre occupate776; ma tornato Nasar a
Costantinopoli, la invidia che Leone portava a Procopio fe' perdere
775
Theophanes continuatus, lib. V, cap. LVIII. Altrove ho notato che, alla fine dei
fatti d'Occidente, in questo tempo, lo autore confessa la incertezza della
cronologia, e, avrebbe dovuto aggiungere, anche dei particolari. Ei narra quel
generoso sacrifizio dell'ambasciatore in modo da non sapersi se si debba riferire a
un assedio di Capua o di Benevento; ma piuttosto parmi si tratti di altro castello,
il cui nome sfuggì al compilatore.
776
Theophanes continuatus, lib. V, cap. LXV.

424
una battaglia contro i Musulmani. Leone con gli avanzi delle genti
sbaragliate prese Taranto, e fe' schiavi quanti vi trovò Musulmani o
Cristiani777. Richiamato indi costui, e punitolo d'avere abbandonato
il commilitone sul campo di battaglia778, Basilio mandava in Italia
uno Stefano Massenzio, con iscelte milizie di Cappadoci e
Carsianiti, che si aggiunsero alle legioni di Tracia e Macedonia.
Questi avendo pur fallito un colpo sopra Amantea, Basilio, l'anno
ottocento ottantacinque, gli surrogò Niceforo Foca; uom d'alto stato
e grandissimo animo, avolo dell'omonimo suo che sedè sul trono di
Costantinopoli.
Niceforo, recate nuove forze del tema d'Anatolia, e alsì dei
valorosi Pauliciani ch'erano avanzati allo sterminio di lor setta in
Oriente779, ultimò il conquisto. Rotti in molti sanguinosi scontri i
Musulmani; strette d'assedio successivamente Amantea e Santa
Severina, sforzò quei presidii a dar le castella e andarsene, salva la
vita e lo avere, in Palermo e altri luoghi di Sicilia 780. Riebbe anco
Tropea; tutte le Calabrie e una parte della Puglia ridusse al nome
imperiale. A capo d'un anno, quando, morto Basilio, il vittorioso
capitano era chiamato a difendere le province dell'Asia Minore781,
Niceforo, partendo dal nostro suolo, lasciovvi gratissima memoria
di sè. Erano avvezzi in quelle guerre i soldati bizantini a far mercato
777
Confrontinsi: Theophanes continuatus, lib. V, cap. LXVI; Lupi Protospatharii,
Chronicon, anno 880; Chronicon Barense, anno 880. Secondo questa cronica, che
Lupo ha copiato, i Musulmani «uscirono di Taranto,» nè si parla di prigioni.
778
Theophanes continuatus, l. c.
779
Theophanes continuatus, lib. V, cap. LXXI.
780
Confrontinsi: Theophanes continuatus, l. c.; Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog.
161 verso; e MS. di Bibars, fog. 85 verso, anno 272; e Baiân, tomo I, p. 113. La
cronologia dei Musulmani risponde esattamente al tempo assegnato da' Bizantini
cioè gli ultimi anni della vita di Basilio. I nomi anco si riconoscono agevolmente:
Ingifûr presso Ibn-el-Athîr, e M h fûr nel Baiân, per Niceforo; o, secondo la
pronunzia greca, Nikifóro (Νικηφόρος); S b z na, per Severina; e, per Amantea,
M f nlia, che, correggendovi i punti diacritici, si può leggere benissimo Mantîia.
Debbo avvertire che questo capitoletto di Ibn-el-Athîr, cavato dal MS. A, è stato
pubblicato da M. Des Vergers, in nota ad Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de
la Sicile, p. 136.
781
Theophanes continuatus, l. c.

425
dei prigioni, che si spartivano come ogni altra maniera di bottino:
prigioni quasi tutti Italiani, abitatori delle terre che per forza
avessero ubbidito ai nemici, ovvero rapiti senza pretesto dai lor
fratelli in Cristo. Niceforo, volendo far combattere i ribaldi soldati,
non avea potuto fin qui prevenire tal misfatto; ma alla partenza il
riparò da uom savio e forte. L'esercito, ito a Brindisi per traghettare
su l'opposta costiera, si traea dietro le torme di quei miseri, per
venderli schiavi in Costantinopoli: nè fiatava Niceforo. Sol
comandò che prima dei prigioni si imbarcassero tutti i soldati; e,
quando furon su le navi, fe' sciogliere le vele, e fe' bandire ai
prigioni, ch'eran liberi. La gratitudine degli Italiani alzò su la
spiaggia un tempio dedicato al santo di cui portava il nome
quell'eroe782; in commemorazione alsì delle vittorie e della umanità
mostrata, nel breve tempo ch'ei resse la provincia, trattando bene i
sudditi e alleviando i tributi783.
Basilio aveva anch'egli dato in Italia un egregio esempio di
umanità. Tra i benefattori che dalla povertà e oscurità l'avean fatto
salire a fortuna, si notò una ricca donna per nome Danielis, vedova
di alcun condottiere slavo stanziato nel Peloponneso; dal che forse
ebbe origine il soprannome di figliuol della Slava, col quale gli
annali musulmani denotano il Macedone784. Venuta a morte la
Danielis, colma di onori da Basilio imperatore, ed avendolo fatto
erede di sue possessioni nelle quali vivea un grande numero di
schiavi, Basilio ne affrancava tremila; e mandavali a ripopolare
alcune terre di Puglia e di Calabria, desolate nella guerra dei
Musulmani785. Ma cotesti beneficii erano rimedio passaggiero che
finiva con la vita dei benefattori; e quei che loro succedeano

782
Cedrenus, vol. II, p. 354. Si allude alla moderazione civile di Niceforo nella
Tattica dell'imperatore Leone, testo greco e versione latina, § 38, p. 742, e
versione francese del Maizeroi, parte II, p. 16.
783
Leonis Imperatoris Tactica, l. c.
784
Ibn-el-Athîr lo chiama così due volte che parla di lui nei capitoli degli
avvenimenti diversi, del 268 e del 270. MS. A, tomo II, fog. 123 verso, e 128
verso, e MS. C, tomo IV, fog. 259 recto.
785
Theophanes continuatus, lib. V, cap. XI e LXXV.

426
ricadean sempre nella negligenza e soprusi del Basso Impero; e fean
maledire ai popoli italiani la dominazione novella, al par delle
antiche e delle stesse correrie e tirannidi dei Musulmani. Perciò gli
scrittori italiani di quel tempo, ritraendo le opinioni di lor nazione,
parlan dei Greci con tanto livore. Erchemperto li dice somiglianti ai
bruti nelle usanze, e bruti al tutto nell'animo; Cristiani di nome;
peggiori di costumi che gli Agareni; masnadieri, che andavano
rubando i miseri abitatori, per tenerli come schiavi e schiave, farne
traffico coi Saraceni, o mandarli qua e là a vendere in stranie
terre786. La Cronica di San Benedetto, con parole non meno aspre,
tocca la insolenza loro, le continue violenze; le donne rapite in
faccia ai mariti, il rispondere a schiaffi e nerbate a chi si lagnasse
della ingiuria787. Alla frequenza delle offese private si aggiugneano
la rapacità dei governanti, il peculato, le tasse aggravate, le angherie
col pretesto di armamenti, e mille altri soprusi dei quali ci avverrà
far menzione. Indi si comprende perchè, nelle Calabrie e nelle parti
orientali della Puglia, la dominazione bizantina sia stata sempre sì
precaria, e sia caduta al primo crollo che le diedero i Normanni. Lo
interesse comune poi dei principi e dei popoli le vietò di allignare
nelle altre province dell'odierno reame di Napoli, delle quali or
tratteremo, tornando indietro nell'ordine dei tempi.
S'accese quivi la guerra per le provocazioni di Giovanni Ottavo,
come sopra si accennò. Adriano, un secolo innanzi, s'era provato a
stender la mano sopra Napoli e tutto lo Stato di Benevento788.
Giovanni ridestò la pretensione pontificale sopra Capua, quand'ei
mercanteggiò la corona imperiale a Carlo il Calvo; e Carlo, al quale
quella città nulla costava, ne rinnovò la concessione789. Che il papa

786
Erchemperti Historia, cap. LXXXI.
787
Chronica Sancti Benedicti, presso Pertz, Scriptores, tomo III, p. 203. Questo
capitolo è di quelli che gli editori alemanni hanno aggiunto al testo pubblicato dal
Pellegrino e dal Pratilli; aggiunte cavate da un MS. Vaticano.
788
Veggasi Lib. I, cap. VIII, p. 187, seg.
789
Giovanni VIII scrivea a Landolfo vescovo di Capua, com'e' pare in settembre
876, essere stata a lui commessa particolarmente quella terra dallo imperatore;
presso Labbe, Sacrosancta Concilia, tomo IX, p. 8, epistola IX. Eutropio, prete

427
l'abbia richiesto a fin di usarla e non di riporre un'altra pergamena
negli archivii, lo provano direttamente gli atti di signoria feudale
esercitati pochi anni appresso: le scritture pubbliche, cioè, intitolate,
e la moneta battuta a Capua in suo nome 790; la repubblica di Gaeta,
fatta feudo del conte di Capua, quand'ella si calò all'autorità
temporale della Santa Sede. Per arrivare allo scopo, Giovanni usò le
divisioni interiori degli Stati meridionali e le nimistà tra l'uno e
l'altro; onde avvenne che accostandosi a lui una parte, la parte
avversa si gittò coi Musulmani, e aiutolli a loro scorrerie contro il
papa. E ciò notaron bene i contemporanei; leggendosi in
Erchemperto che Bertario, abate di Monte Cassino, e il vescovo di
Teano, si faceano ad ammonire Giovanni Ottavo che non soffiasse
nelle discordie civili di Capua, poichè il fuoco di quelle potrebbe
arrivare un dì infino a Roma791. Le quali parole Erchemperto
riferisce al tempo che si bipartì la diocesi capuana, cioè all'ottocento
ottantuno; ma s'adattano piuttosto all'ottocento settantacinque,
quando il fuoco stava per appigliarsi.
Tali essendo le disposizioni degli animi verso il tempo che Carlo
il Calvo prese la corona a Roma, si venne alle armi, com'e' pare,
nella state del settantasei. Sia che qualche corsale musulmano,
riparando nei porti di Napoli, Amalfi e Gaeta, fossene uscito a far
ladronecci alla volta d'Ostia792; sia che quelle repubbliche e il

lombardo vivuto un secolo appresso, pretese aggiungere alla dominazione di


Capua la sovranità temporale di Roma, il Sannio, le Calabrie, il Ducato di
Benevento, e Arezzo e Chiusi in Toscana. Veggasi Saint-Marc, Abrégé chronolo-
gique de l'Histoire d'Italie, a. 875.
790
Erchemperti Historia, cap. XLVII.
791
Erchemperti Historia, cap. XLVII.
792
Ciò si potrebbe inferire dalle parole di Erchemperto, cap. XXXIX, «che
Salerno, Napoli, Gaeta e Amalfi, sendo in pace coi Saraceni, gravemente
affliggevano Roma con le scorrerie marittime; onde Carlo il Calvo, presa la
corona dello impero, diè in aiuto al papa Lamberto e Guido di Spoleto, co' quali il
papa andò a Capua e a Napoli.» Ma Erchemperto suol confondere sempre l'ordine
dei tempi; e qui par che lo confonda, ritraendosi che Carlo fu coronato imperatore
a Roma il 25 dicembre 875, e sapendosi dalle epistole di Giovanni VIII, citate nel
séguito del presente capitolo, che i Musulmani infestavano la Campagna di Roma

428
principato di Salerno avessero soltanto fermato la lega coi
Musulmani, il papa con l'uno o l'altro pretesto volle far atto
d'autorità, ingiungendo a quegli Stati di sciorre il patto: che tornava
a dire disarmarsi, mentre egli da un lato e Basilio Macedone
dall'altro si apprestavano a spogliarli. Risposero con aperti atti di
ostilità. L'origine della guerra non si può comprendere in altro
modo; poichè assurdo sarebbe a pensare che quegli Stati fossero
entrati in lega sì pericolosa per mera cupidigia di preda. Assurdo
alsì che l'avessero fatto per paura dei Musulmani, i quali appena
bastavano a difendere sè stessi in Calabria, non che sforzare altrui, a
mezza costiera dal Tirreno.
Dalle querele del papa si ritrae ch'essi risalivano in barche il
Tevere; indi a piè o a cavallo correano la odierna legazione di
Velletri; osavano mostrarsi alcuna volta sotto le mura di Roma;
varcato il Teverone, depredavano la Sabina. «Corron la terra come
locuste, scrivea Giovanni, ed a narrare i guasti loro sarebbero
mestieri tante lingue quante foglie hanno gli alberi di questi paesi.
Le campagne son fatte deserti, albergo di belve; rovinate le chiese;
uccisi o imprigionati i sacerdoti; menate in cattività le suore;
abbandonate le ville e castella; rifuggiti i miseri abitatori a Roma; e
sì la ingombrano, che i monasteri della città non bastano a nudrirli.
Il senato ha dato fondo al suo avere; io non dormo nè mangio per la
sollecitudine: - e tra non guari,» aggiunse egli in una lettera del
nove settembre ottocento settantasei, «tra non guari, verranno ad
assalirci in Roma; poichè stanno armando cento legni e quindici
navi da traghettare cavalli.» Così Giovanni Ottavo lamentavasi a
Bosone vicario imperiale in Italia, poi a Carlo il Calvo, alla
imperatrice, ai vescovi possenti in corte, tra il primo di settembre
ottocento settantasei e la fine di maggio del settantasette, per
messaggi e continue lettere, sì poco svariate nella narrazione, sì
monotone nelle metafore, che sembrano stampate sopra un solo

nella state dell'876, e che il papa andò a Capua e Napoli in novembre del
medesimo anno. Perciò è probabile che le incursioni verso Ostia fossero
incominciate lo stesso anno 876, anzichè il precedente

429
studiato modello793. Diversa è bensì una epistola che il papa
indirizzava a Gregorio, capitano bizantino in Italia, a' diciassette
aprile del settantasette, che è a dire nel bel mezzo di due
lamentazioni della forma che accennai, mandate a corte di Carlo il
Calvo, il primo marzo e il venticinque maggio. Nella epistola a
Gregorio, il papa disinvolto il pregava che mandasse dieci salandre
nel porto d'Ostia, «per tenere a segno certi ladroncelli agareni, che
occultamente venivano a rubacchiare lo Stato della Chiesa, non
potendo, sì com'era noto a Gregorio, depredare apertamente.» Così
Giovanni Ottavo ci insegna a far la tara a quegli spaventevoli
racconti composti ad uso dei devoti di Francia e Allemagna.
Parlando ai capitani di Basilio Macedone, ch'eran bizantini e vicini,
non si potean dire tante bugie.
D'altronde, l'intento del papa sopra gli uni e sopra gli altri era
diverso. Dai Bizantini non altro richiedeva che esser difeso contro i
corsali; e maggiori forze gli sarebbero state a noia, come trasparisce
dalle fredde e forzate parole che aggiugneva alla lettera citata, per
mostrare a Gregorio di rallegrarsi che Basilio imperatore, figliuol
suo carissimo, intendesse mandare un altro esercito e un'altra armata
nello Stato di Benevento. Ai Franchi, per contrario, domandava
eserciti e poi eserciti, e che lo imperatore venisse in persona a
liberarlo, non solo dagli Agareni, figli di concubina, ma sì dai
Cristiani, falsi figliuoli di Sara, i quali lo molestavan al pari e
peggio; ciò che in lingua volgare significava bramar che i feudatarii
dell'Italia di sopra, e un po' anco di Francia, trottassero verso il
Garigliano e il Volturno, per allargare lo Stato della Chiesa. Ma
Carlo il Calvo non potè e non volle. Gli diè in tutto le milizie del
ducato di Spoleto, condotte dai conti Lamberto e Guido, vicini del
papa, e però nemici. Con esso loro, nei primi di novembre ottocento
settantasei, mosse Giovanni alla volta di Capua e Napoli;

793
Veggansi le epistole di Giovanni VIII, dal n° I al XXXV, presso il Labbe,
Sacrosancta Concilia, tomo IX, p. 1, seg., e presso il Duchesne, Historiæ
Francorum Scriptores, tomo III, appendice, ni I a XIV. Si riscontri Erchemperto,
l. c.

430
pretendendo venire a sciogliere l'empia lega794. Nè tardò a tirar a sè
il principe di Salerno, il quale prestandogli mano sperava
ingrandirsi a scapito degli altri Stati.
Sergio duca di Napoli tentennò, adescato dal papa con belle
parole e con far vescovo della città Atanasio, fratello del duca; ma
poi si rassodò nell'amistà musulmana, confortandolo il principe di
Benevento, e, quel che più è, Lamberto di Spoleto ch'era venuto a
Napoli come sgherro del papa. Giovanni dunque, non potendo
sforzare, scomunicò Sergio; gli lasciò in seno Atanasio, serpente
velenoso; e pien di dispetto se ne tornò a Roma. Dopo le quali
pratiche infruttuose la guerra incrudì. Napoli assaliva il principe di
Salerno, mancatore alla lega. Questi, per mostrare zelo ai novelli
amici, faceva uccidere un buon numero di Musulmani; e poi,
cadutigli nelle mani venticinque cavalieri napoletani, lor troncò la
testa, dice Erchemperto, per espresso volere del papa795.
Nondimeno, nè la tiepidezza di Carlo il Calvo, nè la nimistà del
conte di Spoleto, nè la pertinacia delle repubbliche, non spuntavano
Giovanni Ottavo dai suoi proponimenti. Quei cittadini, collegati per
necessità politica col nemico della Fede, eran pure cristiani, cattolici
e superstiziosi quanto apparteneasi a' loro tempi; e, se nel
794
Secondo il passo d'Erchemperto, già citato a p. 444, nota 3, parrebbe venuto il
papa a Napoli e Capua in primavera dell'876 al più tardi. Il Muratori, Annali
d'Italia, ha assegnato a quel viaggio la data di gennaio 877, argomentandola dalle
parole di Giovanni VIII, il quale a dì primo febbraio si dolea con Aione vescovo
di Benevento che: nostro itineri Neapolim nobis ..... nuper advenientibus non
adhæseris. Ma il nuper non si dee pigliare in senso così stretto; poichè si sa da
Erchemperto che Salerno si spiccò dai Musulmani dopo la venuta del papa a
Napoli; e da una epistola di Giovanni VIII al principe di Salerno, data il 17
novembre 876, si vede esser lui già d'accordo col papa. Perciò parmi di fissare il
viaggio alla prima metà di novembre. Ma è da avvertire che cotesti diplomi non
danno la certezza che ce ne dovremmo aspettare, poichè non sono in buon ordine
cronologico; ad alcuni manca la data del giorno e mese; a tutti quella del luogo; e
d'altronde la abituale simulazione di Giovanni VIII guasta sempre l'ordine e la
proporzione dei fatti.
795
Erchemperti Historia, cap. XXXIX. La pratica della consagrazione di Atanasio
vescovo si ritrae dalle epistole di Giovanni VIII, presso Labbe, Sacrosancta
Concilia, tomo IX, ni V e XLI, p. 5 e 35.

431
decimonono secolo il papa pontefice tien su il papa re, non fia
maraviglia che nel secol nono i Napoletani, gli Amalfitani, i Gaetani
oscillassero tra due paure: fossero disposti talvolta a lasciar la terra
al successore di San Pietro, purchè lor procacciasse un cantuccio su
in cielo. Indi prestarono ascolto a Giovanni Ottavo, nimichevole e
ambizioso e perfido quanto lo conosceano. Indi egli nella state del
settantasette ripigliò agevolmente le negoziazioni: fe' lampeggiare
agli occhi dell'uno nuove folgori di scomuniche, agli occhi dell'altro
l'oro d'uno stipendio; ad altri disse, mettendo da canto ogni pudore,
ch'ei gli farebbe o tutto il bene o tutto il male ch'ei sapesse: mai
capo di parte, fiero ed astuto, non operò con maggiore veemenza
che Giovanni Ottavo in questo tempo. Tentando l'Italia
settentrionale, invitò a un sinodo a Ravenna i vescovi e signori del
reame, per ovviare, diceva egli, ai pericoli della Chiesa lacerata
dagli Infedeli e dai mali Cristiani; ma non ostanti le minacciate
scomuniche, niuno andò a questa dieta politica, ove il papa volea
prendere il luogo dello imperatore: sì ch'egli fu necessitato a
differirla, e poi a trattarvi soltanto di disciplina ecclesiastica796.
Nell'Italia meridionale le pratiche, più vive, aiutate dalle intestine
discordie, e, com'ei parmi, dalla riputazione delle armi bizantine,
portarono il papa accosto assai al suo intento. Quasi protettore o
presidente di quel piccioli Stati, tra marzo e aprile del settantasette,
ordinava che il vescovo conte di Capua, e i reggitori di Gaeta,
Napoli e Amalfi si adunassero a Gaeta, preseduti da due cardinali
legati, per trattare lo scioglimento del patto coi Musulmani.
Differito il congresso a Traietto, andovvi il papa in persona col
principe di Salerno, del mese di luglio: e il risultamento fu un
trattato del papa con Amalfi; e una congiura a Napoli797.

796
Epistole LV, LVI, e LVII di Giovanni VIII, e Atti del Sinodo di Ravenna,
presso il Labbe, vol. c., p. 45 a 47, e 299 a 304. Il sinodo si tenne in agosto 877, e
vi fu presente il papa, come si ricava da un diploma soscritto da lui il sexto
kalendas decembris, che il Labbe giustamente corregge septembris.
797
Epistole XXXVI, XXXVIII, XXXIX, XL, LIX, LXIX, presso il Labbe, vol. c.,
p. 32, seg.

432
Il trattato portò che gli Amalfitani, rinunziando all'amistà dei
Napoletani e Musulmani, servissero il papa con forze navali;
guardassero le costiere da Traietto a Civitavecchia, spesati da lui di
diecimila mancusi d'argento all'anno798. La congiura a Napoli
scoppiò sul fin d'ottobre o principio di novembre. Atanasio vescovo
prese il proprio fratello Sergio; si fe' duca in luogo di lui, e
mandollo al Santo Padre a Roma; ove Sergio fu accecato, e poco
appresso morì in prigione. Il papa, complice ed istigatore,
liberalmente volle pagare ad Atanasio le spese della congiura; e,
non trovandosi in pronto tutta la moneta, per iscritto gli si dichiarò
debitore del rimanente, ch'erano mille e quattrocento mancusi. Con
ciò, in linguaggio scritturale, solennemente ei lodava Atanasio del
coraggio con che s'era fatto amputare un membro cancrenito del
proprio corpo; dell'ardire con che avea liberato il mondo da un
nuovo Oloferne, tiranno del popolo e persecutore di Santa Chiesa799.
Tra così fatti trionfi del vicario di Cristo, morto Carlo il Calvo
(ottobre 877), ed eletto re d'Italia Carlomanno, il papa si messe a
fargli patti per la corona imperiale, e la offriva anco a Lodovico il
Balbo, succeduto nel regno di Francia: con che tiravasi addosso
Adalberto, marchese di Toscana, e Lamberto, conte di Spoleto,
fautori di Carlomanno. Lamberto veniva a insultare il papa a Roma;
a suscitare i suoi nemici; e tra le altre cose, Giovanni lo accusò, di
febbraio ottocento settantotto, d'aver mandato messaggi e doni a
Taranto, per farne venire «falangi di Agareni.» Strigatosi poscia da
lui e scomunicatolo, se n'andò in Francia a mercanteggiare
dell'impero con altri due o tre principi800. E pria di questo, come ei
pare, nel mese di aprile del settantotto, fe' tregua coi Musulmani,

798
Ibidem, epistole LXIX, LXXIV.
799
Epistole LXVI, LXVII, presso il Labbe, 1. c. Confrontinsi: Erchemperti
Historia, l. c.; e Anonymi Salernitani Chronicon, cap. CXXXI della edizione del
Pratilli.
800
Le lagnanze contro Lamberto si veggano nelle epistole di Giovanni VIII, n i
XX, a XXVII, presso Duchesne, Historiæ Francorum Scriptores, tomo III, p.
880, seg.

433
pagando taglia di venticinquemila mancusi di argento801. Allora le
repubbliche di Napoli e di Amalfi, non volendo esser più papaline
del papa, tornarono anch'esse alla pace coi Musulmani, confacente
ai proprii interessi commerciali e politici. Ebbe fine così, con
meritata vergogna di Giovanni, il primo periodo della guerra.
Il biasimo del secondo periodo va diviso tra Giovanni Ottavo e
Atanasio vescovo di Napoli, che ambì alla sua volta di allargare i
confini di quella repubblica. Trapassato (12 marzo 879) il vescovo
di Capua, i feudi della contea erano stati divisi tra quattro nipoti di
lui, dei quali uno ebbe anco il titolo di conte di Capua 802; e, quasi
ciò non bastasse ad alimentare la discordia, sursero dalla medesima
famiglia due vescovi, tra i quali indi a poco si spartì la diocesi. Gli
sciagurati cugini, volendo spogliare l'un l'altro, chiamarono i vicini,
Salerno, Benevento e Napoli; Napoli fe' entrar nel gioco i
Musulmani; e Giovanni Ottavo vi saltò in mezzo di gran volontà,
sendo tornato in Italia senza ultimare la scelta dello Imperatore.
Andato in persona a Capua, colse il destro di esercitare la pretesa
signoria, con favorire Pandonolfo, conte di nome, il quale, per
divenirlo di fatto, assentiva a dirsi vassallo della Santa Sede803. Così
ridestaronsi le ire e i sospetti delle tre repubbliche contro il papa.
Chiudendo gli occhi quei fieri marinai, i Musulmani, che di marzo
801
Epistola di Giovanni VIII, n° LXXXIX, presso Labbe, Sacrosancta Concilia,
tomo IX, p. 74.
802
Erano tutti figliuoli dei fratelli del vescovo, per nome: Pandone,
Landone I e Landonolfo.
Pandonolfo, figliuol di Pandone, ebbe il titolo di conte e i feudi di
Teano e Caserta;
Landone, figliuolo di Landone I, ebbe Sessa e Berolais, ossia Capua
vecchia;
Landone, figliuolo di Landonolfo, ebbe Calinio e Caiazzo;
Atenolfo, figliuolo di Landonolfo, ebbe il feudo di Calvo.
Veggasi Erchemperto, cap. XL, e la genealogia dei conti di Capua per Camillo
Pellegrino.
803
Ciò è attestato da Erchemperto, cap. XLVII; e Leone d'Ostia, lib. I, cap. XLIII,
presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo IV, p. 316.

434
settantanove avean preso a infestare i dominii di Pandonolfo804, in
maggio e in giugno si mostravano nello Stato Romano; o almeno
così scrivea papa Giovanni a Carlo il Grosso, a Carlomanno e a
Lodovico il Balbo, sollecitando invano or l'uno or l'altro a venire
con gli eserciti a Roma805. Con ciò ripigliava sue pratiche appo le tre
repubbliche, per isforzarle a disdir di nuovo il patto coi Musulmani.
Ad Amalfi anco ridomandava il denaro fornito nel settantasette; il
quale non ottenendo, scomunicava la città, del mese di ottobre806: e
perchè tal'arte non valse, tornando alle lusinghe, offriva di pagare e
fin d'accrescere lo stipendio, e francar di gabelle i mercatanti
amalfitani che venissero a Ostia807. Gaeta, che dopo alquanta
resistenza ubbidì, n'ebbe in merito la perdita di sue libertà, e la
rovina del commercio; volendo il papa che riconoscesse come
signore il conte di Capua, supposto gran vassallo della Santa Sede; e
facendosi il conte a guastare il territorio e offendere i cittadini,
perchè riluttavano al nuovo giogo808. Napoli diè maggior travaglio,
come assai più forte, e governata da Atanasio, che ne sapea quanto
il papa. Schivati i pericolosi abboccamenti a che questi il volea
tirare, Atanasio temporeggiò con messaggi (aprile 879), e fin si fe'
ringraziar del suo buon volere809. Il papa poi, accortosi dello errore,
venne alle armi corte: scrisse al vescovo che gli farebbe provare a
un tempo la spada invisibile e la spada visibile810. Infatti, ei
promosse o usò l'andata di un'armata bizantina nel golfo di Napoli;
la quale vi ruppe i Musulmani in ottobre o novembre ottocento
settantanove. Non guari dopo (19 novembre 879) il papa invitava i
capitani ad andare a pigliarsi a Roma ringraziamenti e benedizioni,

804
Si scorge dalla epistola di Giovanni VIII, data il 5 aprile, 12a indizione, presso
Labbe, op. c., tomo IX, n° CLXVIII, p. 109.
805
Ibidem, ni CLXXII, CLXXVIII, CLXXIX, CLXXXVI, CXCVII, CCXVI.
806
Ibidem, ni CCIX, CCXXV, CCXXVII.
807
Ibidem, n° CCXLII.
808
Leo Ostiensis, lib. I, cap. XLIII, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores,
tomo IV, p. 316.
809
Epistole CLIX a CLXI di Giovanni VIII, presso il Labbe, vol. c., p. 105 e 106.
810
Ibidem, epistola CCXLI, p. 171.

435
così leggiamo nella epistola, e pregavali intanto di mandare
dromoni verso Ostia811. E si strinse vieppiù con Basilio, assentendo,
il medesimo anno, al concilio di Costantinopoli che riconobbe Fozio
patriarca812. Indi il pericolo della repubblica di Napoli
evidentemente si aggravò.
Ciò fu cagione ad accrescere le forze dei Musulmani in quelle
parti. In luogo dei corsali che ad ora ad ora entravano nel porto di
Napoli, Atanasio chiamò un'intera oste di Musulmani, dandole forse
le spese del viaggio, certamente stanza e occasione di far preda.
Surse per tal modo tra le mura della città e il Sebeto (880) un campo
musulmano, vero ribât o kairewân, dal quale uscian le gualdane
addosso ai nemici del vescovo di Napoli; nè costui poteva vietare
che spogliassero anco gli amici. Guastarono lo Stato di Capua, i
confini di quei di Salerno, Benevento, Spoleto813 e la campagna di
Roma: monasteri, chiese, città, borghi, villaggi, monti, colline,
isole, dice Erchemperto, furono saccheggiate a un paro814. Sovente
in loro correrie i Musulmani faceano stanza ad alcun luogo forte,
ch'indi divenia novello centro d'infestagione. Così poneansi (880)
alla Cetara, luogo marittimo tra Salerno e Amalfi, e sforzavano i
Salernitani ad uno accordo; i quali poi a tradimento li assalirono,
credendoli sprovveduti: ma i Musulmani uscirono alla zuffa,
recando nella prima fila in punta d'una lancia il trattato violato dai
nemici, e rupperli con molta strage; dettero il guasto al paese, e fino
osarono porre l'assedio a Salerno, donde poi furono cacciati per
avere pochissime forze815. Così anche uno stuolo si afforzò a
Sepiano tra Boiano e Telese: contro il quale invano mosse Guido
Terzo, novello duca di Spoleto e di Camerino; sì che fu costretto a
far pace coi Musulmani, dati reciprocamente statichi per la
811
Ibidem, epistola CCXL, p. 171.
812
Baronius, Annales Ecclesiastici, anni 879, 880.
813
I confini di Spoleto arrivavano sino a Sora e al Lago di Celano.
814
Erchemperti Historia, cap. XLIV, copiato dall'Anonimo Salernitano, cap.
CXXXVI della edizione del Pratilli. Erchemperto non porta data, ma scrive
questo fatto dopo un assedio di Capua che si dee riferire all'880.
815
Anonymi Salernitani Chronicon, cap. CXXXVI, ediz. del Pratilli.

436
osservanza816. Nel medesimo tempo, altra schiera musulmana, con
milizie di Napoli e Gaeta, andava ad assalire Castel Pilano nella
contea di Capua, e n'era respinta. L'anno appresso (881),
Musulmani e Napoletani e partigiani di Pandonolfo, chè sovente
scambiavan parte quegli arrabbiati cugini di Capua e gli amici
d'oggi diveniano nemici domani, mossero insieme alla volta di
Capua; posero l'assedio all'anfiteatro, che si guardava come
fortezza. Nello stesso anno ottocento ottantuno, il papa andò di
nuovo a Capua, a comporre o raccendere le liti817; e, partendo in due
la diocesi, consagrò vescovo un Landolfo, fratello di Pandonolfo,
nella chiesa di San Pietro, che di lì a poco fu arsa dai Musulmani
mandativi da Atanasio818. E con ciò porrò fine alle cose di Capua,
ove tutti i piccoli Stati dei contorni, tutti i potentati vicini o lontani,
feudatarii franchi di Spoleto, condottieri bizantini, Musulmani di
Sicilia, vescovi, conti, pretendenti e il papa con essi, si avvolsero
per tanti anni in un brutto laberinto di violenze e perfidie.
In questo mezzo, il papa, vergognando che il vescovo di Napoli
lo avesse tenuto a bada per due anni, adunato un sinodo a Roma, del
mese di marzo ottocento ottantuno, pronunziò contro Atanasio
l'anatema, preludio, come ognun sa, della scomunica. Notevol è in
quest'atto che il papa affermava avere profferto danari ad Atanasio,
perchè spezzasse il patto coi Musulmani; e aver quegli amato
meglio la parte che gli davano del bottino819. Ma il vescovo, niente
sbigottito, spacciati suoi segretarii in Sicilia, fe' venire più forte
816
Erchemperti Historia, cap. LXXIX; e Anonymi Salernitani Chronicon, cap.
CXLVII della edizione del Pratilli. La data si scorge dall'ordine in che questo
fatto sta con altri più noti.
817
Erchemperti Historia, cap. XLIV. L'autore non potea
dimenticare
questa data, perchè ei medesimo fu fatto prigione al castel
Pilano, preso
dai Napoletani dopo l'assedio dell'anfiteatro di Capua, il 23 agosto 881.
818
Erchemperti Historia, cap. XLVII.
819
Giovanni VIII, epistole CCLXV e CCLXX, presso il Labbe, vol. c., p. 191,
195; e la seconda anche appo il Baronio, Annales Ecclesiastici, anno 881, § 2.

437
stuolo di Musulmani; i quali con Sichaimo loro re, dice
Erchemperto, forse Soheim condottiero di tribù o masnada, si
accamparono alle falde occidentali del Vesuvio. La tradizione
serbovvi memoria di loro per lunghissimo tempo; e n'avea ben
donde: poichè, posando dalle scorrerie lontane, solean prendere
sollazzo nei contorni, sì che non vi lasciarono armi nè cavalli nè
giovanette, che non portassero al campo820.
La quale insolenza, non meno che gli anatemi del papa, scrive
l'autore contemporaneo, sospinse Atanasio a disfarsi di cotesti
ausiliarii821. Giovanni Ottavo, che già vedea i Musulmani presso
Roma, o il temeva822, incalzò sue minacce, proponendo ad Atanasio,
in prezzo della benedizione, ch'ei facesse scannare a suo potere i
gregarii musulmani, pigliare a tradimento certi condottieri, di cui
dava i nomi, e consegnarli ai legati pontificii, i quali avrebbero cura
di mandarli a Roma823. Il vescovo di Napoli, avvezzo alle perfidie,
assentì. Indettatosi con Salerno, Capua e altre città, con tutte le
forze che poterono adunare, dettero addosso improvvisamente ai
Musulmani; li cacciarono del golfo di Napoli; non però da Agropoli
presso Salerno, ove que' valorosi, difendendosi, si ridussero824.
Seguía questo evento, com'ei pare, nell'autunno dell'ottocento
ottantadue. Giovanni avealo procacciato con tutte le forze
dell'animo suo; e, si può dire, stando sempre con le armi alla mano
contro i Musulmani, com'ei figuratamente scrivea ad Alfonso Terzo,
re delle Asturie, richiedendogli una torma di cavalieri moreschi,
probabilmente apostati dell'islamismo, detti con voce arabica

820
Erchemperti Historia, cap. XLIX, copiato dall'Anonimo Salernitano, cap.
CXL, stampato per errore CL, nella edizione del Pratilli. Ritraggo la tradizione
popolare dal Caraccioli, il quale ricorda qui il proverbio che si serbava ai suoi
tempi: "Quattro sono i luoghi della Saracina: Portici, Cremano, la Torre, e
Resina."
821
Erchemperto, l. c.
822
Baronio, Annales Ecclesiastici, anno 882, § 2.
823
Giovanni VIII, epistola CCXCIV, presso il Labbe, vol. c., p. 210; e presso il
Baronio, Annales Ecclesiastici, anno 881, § 6.
824
Erchemperti, Historia, cap. XLIX.

438
Fâres825. Ma quand'ebbe conseguito lo scopo a Napoli e potea
correre innanzi al compimento degli altri disegni, il papa morì
avvelenato da' suoi famigliari, il quindici dicembre dell'ottantadue.
Atanasio, suo discepolo e rivale nelle arti di regno, gli sopravvisse
sedici anni: si provò in vece del papa ad assoggettare lo Stato di
Capua; fallì in questo come Giovanni Ottavo; e alfine, dopo tanti
misfatti, trapassò, cred'io, in odore di santità, ricordandosi di lui che
a forza di digiuni ed esorcismi sgomberasse il territorio di Napoli
dalle cavallette826.
Durarono alsì oltre la vita di Giovanni Ottavo i mali ch'egli avea
suscitato. L'attentato suo contro la libertà di Gaeta avea spinto
Docibile, primo magistrato della repubblica, a richiedere di aiuto i
Musulmani; i quali venendo lungo la marina infino al lago di Fondi,
s'eran accampati su i colli Formiani, come li chiama Leone d'Ostia,
presso Itri; donde minacciavano il territorio di Roma. Sbigottito a
ciò, Giovanni Ottavo, mostrando di pentirsi, aveva accarezzato i
cittadini di Gaeta; pregatoli a disdire l'accordo: e i semplici Gaetini
aveano ubbidito, affrontando doppio pericolo; l'ambizione cioè del
papa, e l'ira degli ingiuriati Musulmani. La morte di Giovanni li
campò del primo. Nella guerra contro i Musulmani patirono
uccisioni e cattività; e alfine furono sforzati a rifare lo accordo,
concedendo al nemico di stanziare un po' più discosto dagli Stati
papali, su certi colli che s'innalzano non lungi da Traietto dalla parte
del Garigliano, e portavano lo stesso nome della riviera. Questa fu
l'origine della temuta colonia musulmana del Garigliano827.
825
Baronio, l. c.: aliquantos utiles et optimos Mauriscos cum armis, quos Hispani
cavallos alpharaces vocant.
826
Pietro Suddiacono, continuatore di Giovanni Diacono di Napoli, presso
Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte II, p. 316.
827
Leonis Ostiensis, lib. I, cap. XLIII, presso Muratori, Rerum Italicarum
Scriptores, tomo IV, p. 316, 317. Non si sa ond'egli abbia tolto questo racconto,
d'altronde verosimile e non sospetto. Non lo cavò certo da Erchemperto, nè dalla
Cronica di San Michele in Volturno, citati per errore dal Wenrich, Commentarii,
lib. I, cap. X, § 88. Leone dice espressamente che i Musulmani venissero di
Agropoli; il che porterebbe la fermata loro a Itri verso l'autunno dell'882, e quella
al Garigliano un poco appresso, forse nell'883, dopo la morte di Giovanni VIII.

439
La quale per più di trent'anni, flagello sopra flagello, afflisse la
Terra di Lavoro, battuta anco dalle guerre civili: sì che il suolo
abbandonato dagli agricoltori, divenne foresta di pruni e sterpi, al
dire di Erchemperto, che il vedea con gli occhi proprii828. Dei
particolari di tanto strazio altro non ci si narra che la distruzione di
ricchi monasteri; perchè i frati cronisti poco si curavano del
rimanente; perchè le proprietà laiche erano state desolate già assai
prima dai Cristiani; e perchè i monasteri aveano possessioni più
vaste che niun signore. Quello di San Vincenzo in Volturno, così
detto dal sito presso la scaturigine del fiume, in diocesi d'Isernia, fu
assalito dai Musulmani, com'ei pare, l'ottocento ottantadue, mentre
stanziavano tuttavia nel golfo di Napoli; e il saccheggiarono e
arsero, con uccisione, dicesi, di parecchie centinaia di frati, i quali
in parte morirono con le armi alla mano829. Più lamentevole nei
ricordi della civiltà il fato del monastero di Monte Cassino: celebre
per la santità dello istitutore, l'antichità della fondazione, le
sterminate ricchezze, l'autorità feudale che esercitò, la pietà, la
prudenza, e, secondo i tempi, anco la dottrina dei frati suoi, ai quali
si debbono croniche e biografie del medio evo, ed esemplari di
molti scrittori dell'antichità. Al par che il monastero del Volturno,
quel di Monte Cassino era stato più volte minacciato e taglieggiato
nella prima guerra dei Musulmani. Venne adesso dal Garigliano la
feroce masnada, che il disertò, l'anno ottocento ottantatrè, in due
assalti; l'uno di settembre, l'altro di novembre: e furon arsi e rovinati
828
Erchemperti Historia, cap, LI.
829
Erchemperto, cap. XLIV, e l'Anonimo Salernitano accennano appena l'arsione
del monastero; al solito loro, senza data. La Cronica del monastero, pubblicata dal
Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte II, p. 404, seg., racconta,
com'è naturale, molti particolari; ma l'autore visse tra la fine del decimo e il
principio dell'undecimo secolo; la sua narrazione pare esagerata, almeno nel
numero dei frati uccisi, ch'ei porta a 500 o 900; e vi troviamo in due luoghi
diversi due diverse date del fatto; cioè a p. 332 l'anno undecimo di Basilio
Macedone (878), e a p. 400, l'anno 882, indizione 15a. Si vede dunque che le
memorie ch'ebbe alle mani il compilatore, com'ei medesimo confessa, non si
accordavano punto. Io mi sono appigliato alla data dell'882, sapendosi che passò
poco tempo tra la distruzione di questo monastero e quella di Monte Cassino.

440
gli edifizii, e scannato su l'altare lo abate Bertario, dicono le
croniche del duodecimo secolo, ancorchè i contemporanei non ne
facciano motto. Il monastero tosto rinacque dalle rovine; più
splendido, più ricco, più orgoglioso; cinto di fortificazioni; sede di
un abate feudatario o sovrano; capitale di uno Stato confinante col
pontificio830. Tra queste ed altre simili devastazioni passarono tre
anni fino all'ottantacinque. Intanto, tornato il vescovo di Napoli e
anco il principe di Salerno a richiedere i Musulmani, costoro,
allettati dal bottino, dimenticavano le passate tradigioni: una
schiera, seguendo Atanasio e Guaiferio, stette a campo all'anfiteatro
di Capua. Poscia, venuto un principe di schiatta aghlabita a
domandare rinforzi per le colonie musulmane di Calabria, trasse
gran gente di Agropoli e di Garigliano, e condusseli a Santa
Severina831, ove Niceforo Foca ne fe' macello, come abbiam detto.
D'allora in poi quei due campi, scemati di possanza e di
riputazione, recarono minor male al paese. Atanasio ora spingea
qualche schiera di Agropoli a danno del principe di Salerno che si
mantenne con aiuti bizantini832; or mandava i Musulmani a
osteggiare Capua833. La repubblica di Gaeta ne ritenne ai suoi soldi
cencinquanta; dei quali la più parte, andata con temeraria fazione a
830
Tra le varie date che si assegnano alla distruzione di Monte Cassino, mi sono
appigliato a quella dell'883, che risponde alla 2a indizione, notata da Leone
d'Ostia; e che d'altronde si legge nell'Anonimo Salernitano, il quale ebbe alle
mani al certo buoni esemplari di Erchemperto. La riedificazione ricominciò l'886,
secondo Erchemperto, e l'884, secondo l'Anonimo. Si confrontino: Erchemperti
Historia, cap. XLIV e LXI; Anonymi Salernitani Chronicon, cap. CXXXVI, e
CXLIV della edizione di Pratilli; Chronicon Vulturnense, presso Muratori,
Rerum Italica rum Scriptores, tomo I, parte II, p. 405; Leonis Ostiensis Historia,
lib. I, cap. XLIV, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo IV, p. 317.
Merita d'esser letta a questo proposito un'opera moderna, la Storia della Badia di
Monte Cassino, di Don Luigi Tosti, dotto monaco, il quale aggiunge alcuni
particolari cavati da una vita manoscritta di Bertario, e li abbellisce con zelo
lodevole in lui, e con pulito e dignitoso stile; tomo I, p. 65, seg.
831
Erchemperto, cap. LI.
832
Erchemperto, cap. LIV.
833
Erchemperto, cap. LVI, LVII; Anonimo Salernitano, cap. CXLII, edizione di
Pratilli.

441
Teano contro duemila e cinquecento uomini capitanati da
Landone834, fu tagliata a pezzi, campando sol cinque persone835.
Guido duca di Spoleto assalì una volta il campo di Garigliano;
ruppe una schiera ch'erane uscita a combattere836; poi, congiunto ad
Atenolfo837, marciando da Spoleto a Capua, trovò alle Forche
Caudine un Arran, fierissimo condottiero musulmano, con trecento
soldati, e tutti li passò al taglio della spada (887). Morto Carlo il
Calvo, e andato Guido in Lombardia (888), i Musulmani alla lor
volta saccheggiavano il Ducato di Spoleto838. Un'altra schiera,
superati in uno scontro i Capuani, difilata ne andò sopra il
monastero di San Martino in Marsico; ma trovò l'abate e i monaci in
arme e a cavallo; fu respinta da loro, e poi sterminata dalle milizie
di Atenolfo e Landolfo839. Pochi anni appresso, veggiamo i
Musulmani, padroni di Teano, respingere lo stratego bizantino
Teofilatto, venuto da Bari840. Veggiamo un'altra gualdana del
Garigliano assediare il castel di Rocca Monte presso Nocera; e già
ridurlo, per difetto di acque, quando una pioggia rinfrancò il
presidio, il dì di San Vito, non sappiam di quale anno841. L'ottocento
ottantotto, Napoletani, Bizantini, e Musulmani erano spinti di nuovo
da Atanasio sopra Capua: contro i quali uscito Atenolfo con le forze
ausiliari di Aione principe di Benevento e con un'altra schiera di
Musulmani, si combattè a Santo Carzio in quel d'Aversa; tra i
Cristiani soli bensì, poichè i seguaci di Maometto dall'una e
dall'altra parte si stettero842. Non andò guari che fatta una pace da
Atanasio con Capua, uniti insieme tutt'i condottieri musulmani
834
Veggasi per costui la nota 1, p. 452
835
Erchemperto, cap. LV; Anonimo Salernitano, cap. CXLII, edizione di Pratilli.
836
Erchemperto, cap. LVIII; Anonimo Salernitano, cap. CXLIII, edizione di
Pratilli.
837
Veggasi per costui la nota 1, p. 452.
838
Erchemperto, cap. LXXIX.
839
Chronicon Vulturnense, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I,
parte II, p. 407.
840
Erchemperto, cap. LXVI; Anonimo Salernitano, cap. CXLV, ediz. di Pratilli.
841
Anonimo Salernitano, cap. CXLV, edizione di Pratilli.
842
Erchemperto, cap. LXXIII.

442
assalivano a un tempo gli Stati di Napoli e di Salerno; uno stuolo
loro, rotto da Guaiferio presso Nocera, parte mettea giù le armi,
parte si disperdea tra le selve; un altro insieme coi Capuani andava a
dare il guasto al territorio di Napoli843. Chiamati poscia da Aione,
che s'era spiccato dai Greci, andarono con esso a far levare l'assedio
di Bari, ma furono rotti dal patrizio Costantino844.
Dalle quali fazioni è manifesta la condizione dei Musulmani in
quelle parti: masnade di rubatori, che faceano, quando occorrea, da
compagnie di ventura; e, quando stringeva il pericolo, s'annidavano
ad Agropoli e al Garigliano. Par che tra loro non mancasse chi si diè
al traffico, o esercitò due mestieri ad un tempo, ladrone e
mercatante; ritraendosi come in Salerno una volta si sospettò che i
Musulmani accorsi in grandissimo numero sotto specie di pace,
disegnassero qualche mal tiro; se non che furono vegliati, e poi
vietato loro di entrare con armi in città845. Tra così fatti commercii e
l'usare con le milizie di quegli Stati cristiani, con le quali andavano
in guerra e per conseguenza spartivano il bottino, i Musulmani si
addimesticarono nel paese. Quel rifiuto d'Affrica e di Sicilia, a dir
vero, non avea parti d'incivilimento da comunicare altrui; pure
arrecava qualche usanza; promovea, poco o molto, la influenza
arabica che si vide a Salerno e altrove nel decimo e undecimo
secolo. Spicciolati, menomati, assuefatti ad una certa dipendenza
dai Cristiani, e, sopra tutto, privi di aiuti della madre patria,
rimaneano come piaga inveterata ch'uom più non pensi a curare; nè
alcuno li potea temere conquistatori, fino al passaggio di Ibrahîm-
ibn-Ahmed, del quale innanzi si dirà.

843
Erchemperto, cap. LXXV, LXXVII; Anonimo Salernitano, edizione di Pratilli,
cap. CXLVII.
844
Erchemperto, cap. LXXVI; Anonimo Salernitano, edizione di Pratilli, cap.
CXLVII.
845
Questo fatto si legge nello Anonimo Salernitano, cap. CLVI, ediz. di Pratilli.

443
CAPITOLO XII.
Prendendo a studiare il popolo vinto nell'isola, la prima cosa
convien tornare alla memoria i modi e la progressione del
conquisto. Delle terre di Sicilia altre abbiam visto prese di viva
forza, ovvero a patti che guarentissero le persone e gli averi; altre
sottomettersi a tributo; altre vittoriosamente resistere. Le prime e le
seconde di raro furon distrutte; talvolta i Musulmani vi posero
colonie; più sovente le tennero suddite, abbattute pria le
fortificazioni e presi ostaggi; nè in tutte lasciaron presidii. Non
presidii nè colonie ebbero le città tributarie. Le independenti
durarono nell'antico esser loro; aggiuntovi i pericoli, la gloria e la
febbrile attività della guerra.
Quanto al cammino dei conquistatori, si è potuto notare che
s'avanzarono quasi sempre da ponente a levante. Combattuto qua e
là con varia fortuna per quattro anni (827-831) e ferme poi le stanze
in Palermo, s'insignorirono entro un decennio (831-841) del Val di
Mazara: regione piana anzi che no, abbondante di pascoli e terre da
seminato; nella quale fondarono lor prime colonie e trasportarono
gli schiavi che coltivassero i poderi occupati. Nei diciott'anni
susseguenti (841-859) fu domo con più duro contrasto il Val di
Noto: terreno feracissimo, ondulato, sparso di men alti monti e men
vaste pianure che il Val di Mazara; nè par che i Musulmani
prendessero a soggiornarvi finchè Siracusa tenne il fermo. Repressa
intanto la sollevazione cristiana dell'ottocento sessanta, che fu
comune al Val di Mazara e al Val di Noto, i vincitori si spinsero in
Val Demone: provincia formata dalla catena degli Apennini e
dall'Etna; e però tutta valli e aspre montagne, coperta d'alberi da
bosco e da giardino, e difendevole assai. In Val Demone, invero,
aveano occupato Messina ed alcun'altra città marittima; pure, entro
sessant'anni (843-902) non arrivarono a spuntar dalla difesa le
popolazioni cristiane ridotte in un triangolo, il cui vertice846 toccava

846
Nell'originale "vertrice". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

444
Catania e la base stendeasi dai monti sopra Messina infino a
Caronia, com'io credo847.
Ho seguito fin qui la divisione territoriale della Sicilia in tre
province, che chiamavansi Valli, di Mazara, Demone e Noto; la
quale durò, con qualche mutamento, infino al mille ottocento
diciotto, e la origine sua si riferisce d'ordinario ai Musulmani.
Cotesta opinione manca di prove; poichè i diplomi e le cronache dei
primi tempi normanni, quando l'azienda pubblica ritenea quasi tutte
le forme del governo precedente, fanno menzione del solo Val
Demone848. I ricordi del Val di Mazara e del Val di Noto non sono
nè sì antichi nè sì precisi849. Nondimeno io accetto il pensamento
comune, parendomi la divisione in tre province ordine antico che
tornasse su, dopo qualche innovazione temporanea; e riflettendo
inoltre che i conquistatori arabi erano necessitati a tripartire l'isola.
Volendo giovarsi degli oficii dell'azienda bizantina per la
riscossione del tributo fondiario, trovavano le due provincie,
847
Così penso, perchè al tempo di Edrisi (1154) il Val Demone arrivava a
Caronia; il qual confine va attribuito a cagione politica più tosto che a necessità di
geografia fisica. Nel XIV secolo il Val Demone fu esteso verso ponente;
assegnatogli un confine naturale, cioè l'Imera settentrionale, detto altrimenti
Fiume Grande.
848
Veggansi questi ricordi qui appresso p. 468, nota 4.
849
Le autorità citate dal Di Gregorio, Considerazioni su la Storia di Sicilia, lib. II,
cap. II, note 24, 25, 26, fanno menzione del Val di Milazzo, Val di Mazara, Val di
Noto e Val di Agrigento, oltre il Val Demone. Il Di Gregorio, che non vide chiaro
negli ordini anteriori ai Normanni, supponea che la divisione in tante valli «ch'era
forse solamente geografica» fosse stata adottata da re Ruggiero come divisione
politica. Pochi righi appresso si contraddice, affermando che re Ruggiero istituiva
i tre giustizierati di Val Demone, Val di Noto, e Val di Mazara; il che
mostrerebbe che le province di Milazzo e Agrigento non fossero entrate nella
divisione politica. A me la spiegazione più semplice pare, che la voce vallis
debba intendersi nei detti diplomi col significato indistinto di territorio, da potersi
adattare a città o distretto o provincia; come appunto la voce arabica iklîm, che
probabilmente si leggea nei registri dell'azienda pubblica, e fu tradotta bene o
male vallis. Può anche darsi che la divisione in tre province fosse stata adoperata
dagli Arabi in alcuni rami di amministrazione, e in altri rami un'altra. Per
esempio, nulla toglie che gli iklîm di Milazzo e Agrigento fossero stati due
circoscrizioni di beneficii militari, assegnate ciascuna ad un giund.

445
Lilibetana e Siracusana, divise dallo Imera Meridionale, ossia fiume
Salso; ma com'eglino non possedeano per intero la provincia
Siracusana, così doveano distinguere la parte che rimaneva ai
nemici, ch'era appunto il Val Demone, dalla parte musulmana che
giaceva a mezzodì e chiamossi Val di Noto, e da un po' di territorio
a ponente il quale confuso con la provincia Lilibetana si addimandò
Val di Mazara. Secondo tal supposto lo scompartimento in tre
province tornerebbe alla seconda metà del nono secolo850.
In quell'epoca si potrebbe trovare alsì la ragione dei nuovi nomi
delle tre province; delle quali la prima e l'ultima li presero, com'è
evidente, da città. La provincia Lilibetana andò chiamata forse di
Mazara, per esser questa la città più vicina al Lilibeo851, non
ristorato per anco col nome di Porto di Ali (Marsâ-Alî, Marsala);
ovvero perchè sedesse a Mazara il diwân dei beneficii militari,
posto fuori dalle città di Palermo e di Girgenti ch'erano circondate
di poderi allodiali. La provincia Siracusana potea ben prendere il
nome da Noto che vi primeggiava, giacendo Siracusa in rovine, nè
sendo risorta da quelle innanzi il decimo secolo. Quanto al Val
Demone, l'etimologia si è riferita ai boschi (Vallis Nemorum); si è
riferita ai demonii dell'Etna, tenuto spiraglio d'inferno (Vallis
Dæmonum); altri più saviamente l'ha tratto da un forte castello,
ricordato nelle memorie del nono secolo e abbandonato di certo nel
duodecimo. Sembrami più probabile che i nomi della provincia e
del castello fossero nati insieme dall'appellazione presa per
avventura dagli abitatori di tutta quella regione: Perduranti, cioè, o
Permanenti, nella fede, si aggiunga dell'impero bizantino. Perocchè
850
È bene qui ricordare che nella prima metà del XIII secolo, Federigo imperatore
tornò alla divisione romana in due province; la quale durò almeno fino alla
rivoluzione del Vespro. Poi veggiamo ricomparire i giustizieri delle valli di
Milazzo, Castrogiovanni e Demona. (Diploma del 1302, presso Pirro, Sicilia
Sacra, p. 410.) Nei principii del XV secolo la Sicilia fu divisa in quattro valli:
Demona, Noto, Castrogiovanni, e Girgenti. (Censo feudale del 1408, presso Di
Gregorio, Bibliot, Aragon., tomo II, p. 490.) In fine si tornò alle tre valli.
851
La mutazione del nome di Lilibeo in Porto di Ali, fa supporre che quella città
fosse stata distrutta al tempo del conquisto musulmano, o forse prima. Le città
non abbandonate, assai di rado presero novelli nomi.

446
un cronista greco del nono secolo, trattando delle città di Puglia
rimase sotto il dominio di Costantinopoli, adopera il verbo analogo
a così fatta voce852; e una delle varianti con che questa ci è
pervenuta è appunto Tondemenon che si riferisce, senza dubbio, non
al territorio ma agli abitatori853. La denominazione di valle potrebbe
essere arabica al par che latina854; nel secondo dei quali casi ben
potea convenire a un territorio compreso nella vallata tra gli
Apennini e l'Etna; nè il nome generico latino o arabico unito a una
appellazione greca, farebbe maraviglia nella Sicilia di quei tempi855.

852
Theophanes continuatus, lib. V, cap. LVIII, p. 297. Καὶ τὸ ὰπὸ τούτου
διέμειναν πιστοι βασιλει̃ τοιοὺτων έξηγούμενοι κάστρων. Questa voce si trova
anche nel Nuovo Testamento, Luca, XXII, 28.
853
Il participio presente del verbo διαμένω (permaneo, perduro) al genitivo
plurale farebbe τω̃ν διαμενόντων, che l'uso volgare forse contrasse in Ton
Demenon.
854
L'arabico welâia significa territorio, giurisdizione o uficio di wâli; e wâli si
dice di varii magistrati preposti a province, ovvero a rami speciali di
amministrazione pubblica.
855
Ecco in serie cronologica gli scritti ove occorre Demona con le
sue varianti, prima come nome di città, poi di provincia:
I. Anno 902. Assedio e presa di Dimnsac (con la terminazione nel
suono che daremmo alla s e alla c unite dinanzi una i, ossia quello
della ch in francese e sh in inglese). Veggasi Ibn-el-Athîr, MS. A,
tomo II, fog. 92 e 167 verso; MS. C, tomo IV, fog. 246 verso; e MS.
di Bibars, il solo ove si legga correttamente. Ibn-el-Athîr, ancorchè
vissuto nel XIII secolo, trascriveva in questo passo ricordi derivati
dal IX.
II. Anno 963. Nome di Dimnasc dato a una gola di monti presso
Rametta. Veggasi Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum,
p. 16, correggendo la lezione secondo uno dei MSS. di Parigi.
Valga, per l'antichità del ricordo, la stessa avvertenza che feci di
sopra per Ibn-el-Athîr.
III. Verso la fine del decimo secolo, la Biografia di San Luca, abate
del monastero di Armento in Calabria, dice costui siciliano di
Demena. Presso Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 96.

447
I Cristiani ch'erano tuttavia la maggior parte della popolazione
dell'isola, viveano in quattro condizioni diverse, cioè, indipendenti,
tributarii, vassalli e schiavi; le quali partitamente prenderemo ad
esaminare.
Le popolazioni independenti dai Musulmani chiuse nelle proprie
mura e obbedienti, più o meno, all'impero bizantino, riteneano i
magistrati e gli ordini anteriori al conquisto. Pure, nell'ultima metà

IV. Malaterra, libro II, cap. XII, scrivendo, alla fine dell'undecimo
secolo, del secondo sbarco del conte Ruggiero in Sicilia (1060)
dice: Hic Christiani in valle Deminæ manentes, sub Saracenis
tributarii erant. Presso Caruso, Bibliotheca Historica, tomo I, p.
181, e presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo V, p.
539, seg.
V. Anno 1082. Diploma, del conte Ruggiero, che concede al
vescovo di Troina ..... in valle Deminæ castrum quod vocatur
Achareth. Presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 495.
VI. Anno 1084. Altro diploma del conte Ruggiero a favor del
monastero di Sant'Angelo, de Lisico Tondemenon. Presso Pirro, op.
c., p. 1021.
VII. Anno 1093. Diploma per lo stesso monastero chiamato qui
Sancti Angeli de Lisico de valle Dæmanæ. Presso Pirro, l. c.
VIII. Anno 1096. Diploma, nel quale descrivendo i confini della
diocesi di Messina, si dice: ..... usque ad Tauromenium, et
respondet ad Messanam, et vadit usque ad Melacium, et respondet
ad Demannam, et inde vadit per maritimam usque ad Flumen
Tortum, et ascendit per flumen ec. Nello stesso diploma si ricorda la
donazione del castellum Alcariæ apud Demennam. Presso Pirro, op.
c., p. 383. È evidente che Demenna in entrambi i luoghi citati sia
nome di provincia, poichè da Milazzo in poi non si notano più i
nomi di città che sarebbero Patti, Caronía e Cefalù, ma sì il confine
della provincia, il quale si sa che terminavasi a Caronía.
IX. Diploma del 1097, per lo quale il conte Ruggiero concedette
certi beni al monastero di San Filippo di Demena. Questo diploma è
trascritto in uno di Adelasia e del conte Ruggiero Secondo, poi re,

448
del nono secolo, forza era che seguisse tra loro una vicenda analoga
alla restaurazione dei comuni nell'Italia di mezzo dopo il conquisto
longobardo. Non potendo l'impero porre presidii per ogni luogo
dell'isola, dovea tollerare, anzi procacciare che le terre forti per sito
o per numero di cittadini si difendessero dassè, come le città italiane
del settimo secolo; il che inevitabilmente accresceva autorità e
baldanza all'aristocrazia della curia, base dei corpi municipali.

dato l'anno 6618 (1110), che il Pirro pubblicò in latino, a p. 1027,


con la data erronea del 6628. Niccolò Buscemi ha corretto quella
data, stampando il testo greco con una versione italiana, nel
Giornale Ecclesiastico per la Sicilia, tomo I (1832), p. 113, seg. Ma
il Buscemi stampò male la voce Δε-Μεννα; poichè il tratto d'unione,
come lo chiamano gli oltramontani, è segno ortografico ignoto ai
Greci, e non si trova punto nell'originale, posseduto dal principe di
Trabia; diploma di belli e nitidi caratteri, del quale ho depositato un
fac-simile nella Biblioteca imperiale di Parigi.
X. Anno 1124. Diploma del medesimo Ruggiero Secondo, a favore
di detto monastero chiamato Abbatia in valle Dæmanis. Presso
Pirro, op. c., p. 1027.
XI. Anno 1131. Diploma del vescovo di Messina, che assoggetta
allo archimandrita di quella città parecchi monasteri greci della
diocesi; tra gli altri quello di Sanctum Barbarum in Demeno. Presso
Pirro, op. c., p. 974.
XII. Anno 1134. Diploma di Ruggiero Secondo, su lo stesso
argomento. Vi si noverano i monasteri assoggettati
all'archimandrita, e tra quelli Sanctum Barbarum de Demenna, e
alcuni altri independenti, tra i quali Sanctum Philippum de
Demenna. Pirro, op. c., p. 975.
XIII. Edrisi, che pubblicò la sua famosa opera geografica il 1154,
descrivendo la costiera di Sicilia a dritta di Palermo, pervenuto a
Caronía, nota che quindi cominciasse la provincia (iklîm) di
Dimnasc, come leggiamo nel migliore dei MSS. Edrisi, nella minuta
descrizione che fa della Sicilia, non parla di città o castello
nominato Dimnasc.

449
Avvezzi ormai a combattere o patteggiare coi Musulmani; a
cospirare col governo bizantino quando talvolta fossero stati
soggiogati dal nemico; ad ordinare mosse militari, di accordo coi
capitani imperiali di Castrogiovanni o di Siracusa, le città siciliane
par che a poco a poco prendessero sembianze di confederate più
tosto che suddite. Pertanto le istituzioni municipali, che in Grecia e
altrove si dileguarono sotto il forte governo di Basilio Macedone, sì
che poi Leone il Sapiente ne cancellò anco il nome, le istituzioni
municipali, io dico, doveano rinvigorire, in quel medesimo tempo,
nelle città di Val Demone che mantennero l'onor del nome cristiano
in Sicilia. Ciò confermano parecchi cenni delle cronache: come
sarebbero le pratiche dei Musulmani a Troina l'ottocento
sessantasei; la missione d'un decurione per lo riscatto dei prigioni
nell'ottantatrè; e tanti casi di guerra cessata o ripresa, nei quali è
manifesto che operassero i municipii, non gli oficiali dell'impero. I
ricordi ecclesiastici del tempo, dei quali si tratterà in questo
capitolo, danno indizio anch'essi della autorità politica assunta dagli
ottimati: senza che il sacerdozio non avrebbe con tanta rabbia
aguzzato contro costoro il pungolo della satira. L'autorità
municipale poi occupò ogni potere, ossia i comuni independenti
operarono come repubbliche, negli ultimi anni del nono e i primi del
decimo secolo; quando lo impero del tutto li abbandonò.
Pari autorità civile, con minore possanza e niuna gloria,
serbarono i municipii della seconda classe di popolazioni, vogliam
dire le tributarie. Nei principii del conquisto, tal condizione dovea
Confrontando le quali testimonianze, e avvisandomi che nei diplomi notati dal n°
VI al XII si tratti anco della provincia, io credo provata la esistenza di Demana
castello infino al decimo secolo, di Demana provincia dall'undecimo in poi; ma
parmi assai dubbio che il castello durasse fino all'undecimo secolo, e certo che a
metà del duodecimo fosse abbandonato o avesse mutato nome. Quanto al sito del
castello non abbiamo argomenti da determinarlo: se non che il nome topografico,
che si legge nella descrizione della battaglia di Rametta (963), dà indizio che
Dimnasc si trovasse a ponente di quella città. Forse a quattro o cinque miglia, là
dove è oggi Monforte: nome di castello registrato da Edrisi, e nato probabilmente
dopo il conquisto normanno; nome anco di feudo nei tempi normanni, come
leggiamo nel Dizionario Topografico del D'Amico.

450
parer comoda ai vincitori al par che ai vinti; sopratutto ai capi. E
veramente, i condottieri musulmani senza fatica imborsavano il
danaro e poteano scompartirlo con più largo arbitrio che il bottino; e
i magistrati municipali si francavan dai pericoli della guerra,
pagando agli Infedeli, poco più o poco meno, quel che soleano
mandare a Costantinopoli; poteano inoltre distribuire il peso tra' lor
miseri concittadini con maggiore ingiustizia che loro non ne
concedessero le leggi dell'impero. Nondimeno l'odio religioso, il
sentimento nazionale, e le molestie nascenti dalla licenza e
discordia dei vincitori, sturbavano sovente i raziocinii dell'interesse
materiale e spingeano l'aristocrazia municipale a spezzare i patti.
Perchè quella società non sembri troppo più generosa dell'odierna
società europea, si aggiunga lo scapito dei proprietarii, i cui servi e
coloni spesso fuggivansi dai poderi; spezzandosi le catene dello
schiavo altrui che riparasse in paese musulmano e si convertisse
all'islamismo, divenuto liberto di Dio, come dicea Maometto856.
S'aggiunga infine il bisogno che portava le colonie musulmane ad
estendersi, e si comprenderà come avvenia sì sovente che le città
tributarie si ribellassero o i Musulmani le assalissero con pretesti.
Ricadendo sotto il giogo, erano ridotte a vassallaggio: talchè il
numero delle tributarie scemò a poco a poco, e poi del tutto
mancarono.
Nel tempo che durava tal qualità di popolazioni, l'ordinamento
loro è agevole a immaginare. Come nelle città independenti, così
nelle tributarie l'autorità dovea risedere nei municipii. Del ritratto
dei beni imperiali e comunali, aggiuntevi le contribuzioni su i
cittadini, il municipio pagava il tributo detto dai Musulmani gezîa o
kharâg857; la somma del quale dipendea dai patti, e secondo le
856
Hedaya, tomo I, lib. V, cap. I, p. 435; D'Ohsson, Tableau général de l'Empire
Ottoman, tomo VI, p. 3; Kodûri, presso Rosenmuller, Analecta Arabica, § X, p. 3
del testo.
857
In sostanza era l'uno e l'altro, cioè assicurazione delle persone e delle proprietà.
Le cronache soglion dare al tributo la prima di queste appellazioni; Mawerdi lo
denota con la seconda, nel trattato di dritto pubblico intitolato Ahkâm-Sultanîia,
lib. IV, p. 83; Kodûri, op. cit., § XLVI, p. 12, lo chiama gezîa.

451
usanze musulmane si stipolava ordinariamente per dieci anni, dando
statichi per sicurtà. È probabile che s'aggiugnesse il patto di svelare
ai Musulmani le trame del governo imperiale; favorir le loro
imprese e rispettare le persone e averi loro, come veggiamo
stipolato da Mo'âwia-ibn-abi-Sofiân con gli abitatori di Cipro858.
Soggiaceano al vassallaggio le terre prese per forza d'armi o a
patti, come dicemmo. Nelle seconde per virtù del trattato, nelle
prime per umanità e interesse a non desolare il paese, i Musulmani
davano l'amân, o sicurtà, come suona in nostro linguaggio. Lasciate
indietro le condizioni occasionali o transitorie di che si è fatta
menzione nel racconto, come di consegnare un dato numero di
schiavi, abbandonare una parte dello avere e somiglianti
stipolazioni, la sostanza dello amân era questa. Cessava nel paese
l'autorità politica dei Cristiani. I beni dello Stato, fors'anco del
comune, e tutti o in parte i beni ecclesiastici, e quei dei cittadini
uccisi o usciti, passavano in proprietà della repubblica musulmana;
e insieme con le terre necessariamente andavano i servi o coloni che
soleano coltivarle sotto gli antichi signori. Il rimanente della
popolazione continuava a vivere secondo le proprie leggi e
costumanze; e tutti gli uomini liberi, qual che si fosse lor grado e
fortuna, si ragguagliavano dinanzi ai vincitori in unica condizione,
che s'addimandava in arabico dsimma e lo individuo dsimmi, che
noi diremmo umiliato o suddito. Godeano ordinariamente pieno
esercizio del dritto di proprietà859. La legge musulmana proteggea
loro persone e averi con le medesime sanzioni penali che pei
Musulmani860 e ammetteva ogni contrattazione civile tra loro e i
858
Ibn-Khaldûn, sezione II, MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 742 quinquies, tomo II,
fog. 181 recto. Il tributo annuale di Cipro, secondo Ibn-Khaldûn, sommò a 7000
dinar, quanti l'isola ne solea pagare all'impero bizantino. Le altre condizioni
rispondono in parte a quelle imposte agli dsimmi.
859
Mawerdi, Ahkâm-Sultanîia, lib. XIII e XIV, p. 238 e 255, seg.; Hedaya, tomo
II, lib. IX, cap. VIII, p. 211; D'Ohsson, Tableau général de l'Empire Ottoman,
tomo V, p. 95. Secondo Mawerdi, il dritto di proprietà lasciavasi talvolta intero,
talvolta si riduceva a mero dominio utile.
860
Hedaya, lib. XLIX, cap. II, e lib. L, nel tomo IV, p. 280 e 332. Nondimeno
questo è dei capi lasciati incerti dal Corano e dalla Tradizione, ovvero oscurati

452
Musulmani, anche i lasciti per testamento861. Oltre le condizioni
ragionevolmente chiamate essenziali; cioè che non parlassero con
irriverenza del Corano, del Profeta, nè dell'Islâm, non dicessero
villania a donne musulmane, non ingiuriassero i soldati, non
tentassero far proseliti tra i Musulmani e rispettassero i beni loro862,
gli dsimmi andavano sottoposti a tre maniere d'aggravii: di finanza,
di polizia civile e di polizia ecclesiastica.
Gli aggravii di finanza addimandavansi gezîa e kharâg; la prima
su le persone, il secondo su i beni stabili. La gezîa che suona
compensazione, aggiungasi della sicurtà data alle persone e alla
roba, era una tassa testatica di quarantotto dirhem all'anno863 su i
ricchi, ventiquattro su gli uomini di mezzane facultà, e dodici su i
nullatenenti costretti a vivere di lavoro manuale, escluse le donne, i
bambini, i frati, gli storpii, i ciechi, i mendici e gli schiavi. Kharâg
vuol dire ritratto o rendita. Si levava, come le contribuzioni
fondiarie dei tempi nostri, sul fruttato presunto, in ragion composta
della estensione del terreno e maniera della cultura: e in alcune
province musulmane fu in origine il venti per cento; ma la somma
spesso restò invariabile, talchè scemata la rendita, il dazio tornò più
grave. La gezîa cessava per conversione all'islamismo. Per
contraddizione fiscale, necessaria al mantenimento dello Stato, il
kharâg continuava non ostante che il possessore si convertisse, o
che il podere passasse in man di Musulmano864.

dalla logica dei giuristi. Così Mâlek e Sciafe'i combatteano la uguaglianza di pena
nei reati contro gli dsimmi, al dire di Beidhawi, Comento del Corano, testo arabo,
tomo I, p. 99, sul versetto 175 della sura II. Dovea parere scandaloso, in vero, che
l'uccisore d'una donna musulmana pagasse metà dell'ammenda, stabilita in prezzo
del sangue di un uomo musulmano, o dsimmi.
861
Hedaya, lib. LII, cap. I, tomo IV, p. 473.
862
Mawerdi, Ahkâm-Sultanîia, lib. XIII, p. 250, chiama coteste condizioni
mostahekk, cioè "necessarie," e nota non esser uopo di stipolarsi espressamente.
Le altre che seguono son dette da lui mostahebb, ossia "volontarie," e dipendono
da patti espressi.
863
In peso di metallo tornerebbe a lire 28, 80.
864
Tratterò largamente questa materia e il diritto di proprietà territoriale nel cap. I
del Libro III, abbozzando gli ordini della colonia musulmana di Sicilia.

453
Ingiuriosi furono e molesti gli statuti di polizia civile. Vietato
agli dsimmi di portare armi, montar cavalli, metter selle su' loro
asini o muli, fabbricare case più alte o al ragguaglio di quelle dei
Musulmani, prendere nomi proprii in uso appo i Musulmani e fin di
adoperare suggelli con leggende arabiche. Proibivasi di più che
bevessero vino in pubblico, accompagnassero i cadaveri alla
sepoltura con pompe funebri e piagnistei; e alle donne loro di
entrare nel bagno quando fosservi donne musulmane e rimanervi
quando quelle sopravvenissero. E perchè non si dimenticasse in
alcuno istante la inferiorità loro, era ingiunto agli dsimmi di tenere
un segno su le porte delle case, uno su le vestimenta, usare turbanti
d'altra foggia e colore e sopratutto portare una cintura di cuoio o di
lana. In strada eran costretti a cedere il passo ai Musulmani; stando
in brigata, a levarsi in piè quando entrasse o uscisse uom della
schiatta vincitrice865.
Parrà mirabile dopo ciò la tolleranza dei regolamenti di polizia
ecclesiastica, che limitavansi a vietare la costruzione di novelle
chiese e monasteri, ma non già la restaurazione degli edifizii
attuali866. Del rimanente era lecito alle chiese di redare867;
liberissimo lo esercizio del culto nei tempii e nelle case; ma si
inibiva di far mostra di croci in pubblico, leggere il vangelo sì alto
che lo sentissero i Musulmani, ragionare del Messia con costoro, e
suonare furiosamente campane o tabelle868. Non si intrometteano i

865
Tra le condizioni che si dicono stipolate coi figliuoli di Witiza, in premio
d'avere tradito Rodrigo alla giornata del Guadalete, si legge che andassero esenti
dall'obbligo di alzarsi alla entrata o uscita dei Musulmani. Ibn-abi-Fiadh, citato da
Ibn-Scebbât, MS. di M. Rousseau, p. 98.
866
Il dritto si stabilì in cotesti termini, non ostante che Omar avesse stipolato,
com'egli è indubitabile, il divieto della restaurazione.
867
Su questo diritto veggasi l'Hedaya, lib. LII, cap. VI, tomo IV, p. 534, seg.; e
D'Ohsson, Tableau général de l'Empire Ottoman, tomo V, p. 120, seg. È inutile
aggiungere che in oggi tutte le Chiese cristiane in Oriente posseggono beni.
868
Ho compilato questa esposizione su le autorità seguenti: Accordo
di Omar coi Cristiani di Siria, secondo Ibn-Khaldûn, sezione IV,
MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 742 quinquies, tomo IV, fog. 181

454
Musulmani nè punto nè poco nelle materie di domma, culto, o
disciplina, e proteggeano ugualmente i sudditi cristiani di
qualsivoglia setta869.
A condizioni poco diverse il califo Omar aveva accordato
l'Amân ai cittadini di Gerusalemme, il quale servì di norma in tutti i
tempi, salvo i mutamenti consigliati dalle circostanze o dall'umor
dei vincitori. I patti del vassallaggio si osservarono con rigore sotto

recto, seg.; Mawerdi, Ahkâm-Sultanîia, lib. XIII, p.250, seg.;


Kodûri e Sîdi-Ali-Hamdâni, testi arabi pubblicati dal Rosenmuller,
Analecta Arabica, p. 13, seg., il primo, e 20, seg., il secondo; Statuti
promulgati in Egitto l'anno 700 (1300), secondo Ibn-Khaldûn, l. c.;
Fetwa (ossia avviso legale), di Ibn-Nakkâsc (scritto Naqquâch),
dottore, morto al Cairo il 1362. Una versione francese di questo
fetwa è stata pubblicata da M. Belin nel Journal Asiatique, série IV,
tomo XVIII, p. 417, seg., (1851), e tomo XIX, p. 97, seg., (1852);
Hedaya, lib. IX, cap. VIII, tomo II, p. 211, seg.; D'Ohsson, Tableau
général de l'Empire Ottoman, tomo V, p. 104, seg. Ho tolto via le
condizioni di poco momento, e quelle che mi sembravano
dipendenti da circostanze locali.
Correndo tante copie diverse dello accordo di Omar, ch'è tipo di
tutti gli altri, parmi bene fare un sunto esatto del testo che ne dà Ibn-
Khaldûn nel luogo citato, il quale mi sembra più compiuto di quanti
se ne leggono qua e là, non escluso il testo di Kodûri. Lo credo
altresì degno di attenzione per la bizzarra forma diplomatica, e
perchè vi si trova il nome dei Cristiani di Egitto oltre quei di
Gerusalemme e la assimilazione degli ortodossi agli scismatici.
«Questo è uno scritto indirizzato al Servo di Dio Omar dai Cristiani
di Siria e d'Egitto. Quando veniste a noi, vi chiedemmo l'amân per
le nostre persone, figliuoli, beni e gente di nostra religione; onde
stipulammo di non fabbricare nelle nostre città o nei dintorni alcun
novello monastero, nè chiesa, nè romitaggio, nè riparare quelli che
andassero in rovina nelle strade abitate da Musulmani. Stipulammo
di più di lasciar entrare in quegli edifizii i capi e i viandanti, e dar
ospizio e vitto per tre dì ad ogni Musulmano che ce ne richiedesse.

455
i governanti duri o bacchettoni, e quando rincrudiva il fanatismo del
popolo; si trascurarono più sovente per saviezza e dispregio di chi
reggeva, e per la riputazione dei cristiani amministratori delle
entrate pubbliche, medici, segretarii, cortigiani, grossi mercatanti, o
innalzatisi in qual altro modo sappiano usare lo ingegno e l'astuzia
per domare la forza brutale. Gli Ebrei, come ognun sa, e molti ne
viveano allora in Sicilia, soggiaceano alle medesime leggi. È bene

Inoltre abbiamo pattuito di astenerci dalle cose seguenti:


Dare ricetto nelle chiese e case a spie che venissero ad esplorare le
faccende dei Musulmani;
Leggere il Corano ai nostri figliuoli;
Promuovere la nostra religione facendo proseliti;
Attraversare i nostri parenti che volessero farsi Musulmani.
Di più, permetteremo ai Musulmani di sedersi nelle nostre brigate; e
alla entrata loro ci leveremo in piè
Non imiteremo lor fogge di vestimento, berretti e turbanti.
Non piglieremo lor nomi nè soprannomi.
Non monteremo a cavallo con sella.
Non cingeremo spada nè altre armi.
Non terremo suggelli con leggende arabiche.
Raderemo i capelli su la fronte.
Riterremo le nostre attuali fogge di vestire, ove il potremo.
Cingeremo ai fianchi il zunnar (cintura di cuoio).
Non mostreremo le croci.
Non apriremo fogne nelle strade o mercati dei Musulmani.
Non suoneremo le tabelle in alcuna città abitata da Musulmani.
Non usciremo coi nostri doppieri, nè i nostri taghût (idoli).
Non faremo piagnistei pei morti.
Non li porremo presso i Musulmani.
Non accenderemo fuochi nelle strade o mercati di Musulmani.
Non prenderemo appo di noi gli schiavi appartenenti a Musulmani.
Non cercheremo di guardare entro le case dei Musulmani.
Non inalzeremo le nostre (più delle loro).»

456
di notare che quanto ho qui scritto degli dsimmi, quanto dirò degli
schiavi, si ritrae dagli esempii d'altri paesi; ma che si dee ritenere
prescritto anco in Sicilia, per la medesimità delle circostanze e la
uniformità delle costumanze musulmane. Raccoglierò in altro luogo
gli attestati risguardanti l'esercizio del culto cristiano in Sicilia, ch'è
stato messo in forse per erronei supposti e poca attenzione alle
generalità che or ora accennai.
Se dalla condizione degli dsimmi ci volgiamo alle speciali
istituzioni civili che fossero rimase loro, son da distinguere le terre
abitate da soli cristiani e quelle ove stanziasse con loro qualche
colonia musulmana. Nelle prime è probabile che fosse lasciato un
avanzo di municipalità: magistrati eletti in qualunque modo dalla
popolazione, col tristo carico di riscuotere la gezîa; con le rade cure
edilizie che potessero occorrere tra tanta miseria; e di più vegliare
su i mercati e amministrare la giustizia civile e penale nelle cause
che non toccassero uomini musulmani. La giurisdizione di
magistrati cristiani nelle terre di cui ragioniamo non può essere
dubbia, quando la si esercitava per certo nelle terre che gli
abitavano insieme coi Musulmani.
Queste erano le città o castella di maggiore importanza militare,
ovvero economica. In esse credo aboliti i municipii e commesse ad
officiali musulmani tutte le parti della polizia urbana. Ma i Cristiani
ritennero di certo le corporazioni di mestiere e di quartiere, che per
lo più coincideano l'una con l'altra nel medio evo. Così fatte
associazioni, che si trovano negli ultimi tempi del dominio
romano870, non furono distrutte al certo dagli Arabi, il cui
reggimento n'avea d'uopo, e forse le creò laddove mancassero;

Omar, lette tali proposizioni, aggiunse: che non battessero alcun Musulmano; che
stipulassero per sè e loro correligionarii (solidariamente); e che, accettato l'amân
a cotesti patti, chiunque li trasgredisse, non fosse più tenuto come dsimmi,
rimanendo fuor della legge. Di più, estese l'amân ai dissidenti (cristiani), e
scrissevi: «Omar accorda quanto chieggono.»]
869
Veggansi l'amân di Omar in fine della nota precedente, e il passo di Mawerdi
qui appresso, p. 481, nota 1.
870
Veggasi Depping, Histoire du Commerce, etc., tomo II, cap. VII.

457
perocchè la esecuzione delle leggi penali musulmane dipendea dalla
responsabilità reciproca dei membri delle tribù o consorterie. A
togliere ogni dubbio, è detto espressamente negli statuti penali che
le ammende degli dsimmi debbano pagarsi dai loro 'akila ossiano
ascritti alla medesima consorteria, e si vieta ai Musulmani di
ascriversi in quelle degli dsimmi871. La istituzione delle consorterie
necessariamente portava seco scelta di capi, vigilanza di costoro a
prevenire i delitti la cui pena sarebbe ricaduta su la comunità; e
infine, esercizio di giurisdizione civile affidata sia ai capi stessi, sia
ad altri magistrati cui designasse la corporazione. A ciò conduceva
il principio del compromesso, o vogliam dire giudizio per arbitri
scelti dalle parti: giurisdizione unica degli antichi Arabi, come
d'ogni popolo barbaro, accettata dai Musulmani, come da ogni
popolo più civile872, e necessaria agli dsimmi che non avean comuni
coi vincitori nè religione, nè costumi, nè ordini sociali, nè, per
parecchi secoli, il linguaggio. E che tale giurisdizione volontaria
fosse stata esercitata assai largamente, lo mostra un capitolo delle
istituzioni musulmane relativo ai giudizii delle liti tra gli dsimmi;
nelle quali era lasciato ad elezione delle parti di adire il giudice
cristiano, ovvero il magistrato musulmano, il quale poi decidea
secondo le proprie leggi873. Durano tuttavia così fatti ordini nelle
popolazioni cristiane d'Oriente, ove la giurisdizione conciliativa e
correzionale è attribuita per lo più alla gerarchia ecclesiastica, e la si
estende molto più che negli stati cristiani, per ripugnanza della

871
Hedaya, lib. LI, tomo IV, p. 459.
872
D'Ohsson, Tableau général etc., tomo V; Hamilton, Prefazione all'Hedaya,
tomo I, p. XXXIV.
873
«E quand'essi facciano scisma in religione, o contendano su loro ortodossia,
non siano molestati nè costretti a palesare qual credenza tenessero. Nelle cause
loro, se adiscano loro hâkim (magistrato in generale) non ne siano impediti; ma se
richieggano il nostro hâkim, questi giudichi secondo ragion musulmana, e gli
accusati subiscano le pene che fossero per meritare. Chi poi abbia violato il patto
(di vassallaggio), ne soffra le conseguenze, e sia tenuto come nemico.» Così
Mawerdi, Ahkâm-Sultanîia, lib. XIII, p. 252.

458
gente a richiedere il magistrato musulmano, e per timore delle
molestie ed estorsioni di quello874.
Venendo agli uomini di condizione servile, noi lasceremo
indietro que' che viveano nella società cristiana sotto l'antico giogo
delle leggi romane; se non che dovea mitigarsi lor sorte nelle città
independenti e tributarie, per paura che i servi e coloni non si
emancipassero rinnegando la fede, e nelle popolazioni vassalle, per
lo esempio dei signori musulmani. Appo costoro la schiavitù ebbe
origine di tre maniere diverse: uomini liberi presi in guerra; uomini
venduti da altri Musulmani o Cristiani che li avessero tolto d'altri
paesi per violenza o frode; e in ultimo, com'e' non parmi dubbio,
servi della gleba passati in proprietà dei Musulmani insieme coi
poderi. L'origine non portava divario nella condizione. I Musulmani
chiamavanli indistintamente rekîk, che vuoi dire "minuto o sottile" e
memlûk, cioè "posseduto875:" orribile parola; ma il fatto era più mite;
nè la legge tenea gli schiavi come cose più tosto che persone. Se
Gregorio il grande meritò bene della umanità pei liberali precetti,
non accompagnati sempre dallo esempio, a favor degli schiavi,
Maometto va lodato sopra di lui per avere, venti anni appresso la
morte di San Gregorio, migliorato assai più la condizione di coteste
vittime della forza e dell'avarizia. Non potendo, come già il
notammo876, cassare d'un tratto la schiavitù, fece opera ad
alleggerirla ed abbreviarla. Ora in nome dell'Eterno comandava di
usare carità agli schiavi come ai figliuoli, congiunti, orfanelli,
mendici e viandanti877, e insinuava di dar loro abilità a riscattarsi col
frutto del proprio lavoro878. Or ponea l'emancipazione d'uno schiavo
874
La giurisdizione dei consoli europei in Oriente è fondata su lo stesso principio
del compromesso. L'hanno convalidato ed esteso i trattati; nel medio evo, per
interesse commerciale; poscia, per necessità politica dei principi musulmani.
875
La voce 'abd, che si adopera in senso mistico, come sarebbe Abd-Allah (servo
di Dio), e che nel Corano designa anche gli schiavi, fu poi ristretta dall'uso ai
Negri. I Bianchi, oltre le due denominazioni che ho dato, si chiamavano talvolta
gholâm, che propriamente significa "garzone."
876
Libro I, cap. III, p. 63.
877
Corano, sura IV, verso 40.
878
Corano, sura XXIV, verso 33.

459
ad ammenda di omicidio scusabile879, voto infranto, o ritrattazione
di divorzio precipitoso880; rendea libera di dritto la schiava che
avesse partorito un figliuolo al suo signore881, e chiamava reo di
morte il padrone omicida del proprio schiavo882; comechè egli non
abbia sempre fatto osservare questa legge e che la logica dei giuristi
l'abbia del tutto annullato883. Tanto pure avanzò di quei caritatevoli
insegnamenti, che lo schiavo, secondo legge musulmana, non può
andar messo in catene884; e che la emancipazione, accordata
volentieri dai generosi, carpita quasi dalla legge agli animi duri e
taccagni, si effettuava a capo di parecchi anni di servigio; sopratutto
venendo a morte il padrone, e fattosi musulmano lo schiavo885.
Superfluo parmi d'avvertire che la schiavitù sotto gli Arabi inciviliti
del nono secolo, non va punto rassomigliata a quella appo i pirati
barbareschi, vergogna dell'Europa infino ai principii del secol
nostro. Potrebbe per avventura farsi il ragguaglio con gli Stati
cattolici e feudali del medio evo e con le due nazioni più giovani del
mondo, cristiane entrambe e modello l'una di dispotismo, l'altra di
libertà: e la bilancia penderebbe sempre a favor degli Arabi.
La somma è che la schiatta vinta in Sicilia vivea meno aggravata
sotto i Musulmani, che le popolazioni italiche di terraferma sotto i
Longobardi e i Franchi. L'ostacolo della diversa religione dovea

879
Hedaya, libro XLIX, cap. I, tomo IV, p. 277.
880
Hedaya, lib. IV, cap. VII, e lib. VI, cap. III, tomo I, p. 332 e 500.
881
Hedaya, lib. V, cap. VII, tomo I, p. 478, seg.
882
Mishcat-ul-Masabih, lib. XIV, cap. I, tomo II, p. 163.
883
Veggansi l'Hedaya, lib. XLIX[**Nell'originale "XLXIII"], cap. II, tomo IV, p.
279 e 283; e Beidhawi, Comento del Corano, testo arabico, tomo I, p. 99, sul
verso 173 della sura II, ove si legge che Maometto una volta fe' vergheggiare e
bandì per un anno un Musulmano uccisore del proprio schiavo. La ragione non
spiegata dai giuristi musulmani, mi sembra pur evidente. La legge non ammetteva
azione pubblica per l'omicidio; e l'azione privata, nel caso d'uno schiavo ucciso
dal padrone, apparteneva allo stesso omicida.
884
Hedaya, lib. XLIV, tomo IV, p. 126; D'Ohsson, Tableau général de l'Empire
Ottoman, lib. III, tomo IV, p. 276.
885
Veggasi D'Ohsson, op. c., lib. VI, tomo VI, p. 58; e su i varii modi e gradi
dell'emancipazione tutto il libro V dell'Hedaya, tomo I, p. 419, seg.

460
scemare ogni dì per le apostasie dei vassalli, e assai più degli
uomini di condizione servile, i quali per conseguire libertà si
rifuggissero appo i Musulmani dalle città independenti o tributarie;
ovvero, se schiavi di Musulmani, abbandonassero la fede dei padri
loro per le sollecitazioni dei nuovi signori, la certezza di più umani
trattamenti, la speranza dell'emancipazione e la lontananza dai
correligionarii. La distribuzione geografica delle quattro classi della
gente cristiana nel nono secolo, non mi par difficile a ritrovare. Il
Val di Mazara, sede delle colonie musulmane, era pieno di schiavi e
vassalli; e cotesti ultimi soggiornavano in città e terre insieme coi
Musulmani, più tosto che soli886. Al contrario gli abitatori del Val di
Noto, per un secolo in circa dalla metà del nono alla metà del
decimo, sembran tutti cristiani, e le città loro più tostò vassalle che
tributarie887. Tutte le città independenti, come già il dicemmo, e
alcuna tributaria, eran ristrette in Val Demone.
Dall'ordine politico e sociale or ci volgeremo alle vicende
intellettuali e morali. Avremo a scorta le memorie ecclesiastiche:
unici annali dell'uman pensiero, nei tempi che il pensiero,
incatenato dalla religione, in ciò solamente si esercitò che piacesse
alla Chiesa; e i pochi frutti che produsse andaron a beneficio e nome
di quella, com'avvien che il servo si affatichi sempre a comodo del
padrone. La unità di cotesta forza motrice della società bizantina di
Sicilia ci porta a seguire l'ordine cronologico, più tosto che la
distinzione per materie, come sarebbero opinioni religiose, passioni
pubbliche, lettere, costumi. E piacerà fors'anco al lettore a guardare,

886
Nella guerra civile del 938, si vede avvolto un gran numero di città o castella
del Val di Mazara. Indi è probabile che in ciascuna stanziassero colonie
musulmane, almen da una o due generazioni.
887
Dall'867 in poi non si leggono scorrerie dei Musulmani in Val di Noto, fuorchè
nel territorio di Siracusa; e ciò porta a supporre la condizione di vassallaggio,
parendo difficile che città tributarie non avessero tentato di spezzare il freno.
Nelle guerre civili della prima metà del decimo secolo non è nominata alcuna
città del Val di Noto; ma nella guerra civile del 969 si parla della regione di
Siracusa.

461
in vece di circoli ideologici, i ritratti degli uomini notabili del
tempo, bene o mal dipinti che fossero.
Della storia ecclesiastica propriamente detta, ci basterà ricordare
le due vicende principali; cioè la restaurazione delle Immagini e lo
scisma di Fozio. L'una accrebbe potenza al clero non meno che agli
imperatori, sendo stato il popol di Sicilia tenacissimo in quel culto.
Lo scisma di Fozio, lite nazionale più tosto che religiosa, tra Roma
e Costantinopoli, non portò scosse nell'isola, ove il papa era già
caduto in obblio. Perocchè nell'ottavo secolo, senza contrasto nè
rincrescimento dei popoli, s'era consumata la scissione della Chiesa
Siciliana dalla sede di Roma888. Ubbidì la Sicilia allora al Patriarca
di Costantinopoli. I vescovi di Siracusa e Catania ottennero grado di
metropolitani; il secondo senza suffraganei; il primo preposto a tutte
le sedi da Catania in fuori: cioè Taormina, Messina, Cefalù,
Termini, Palermo, Trapani, Lilibeo, Triocala, Girgenti, Tindaro,
Lentini, Alesa, Malta e Lipari889. Dopo il conquisto musulmano

888
S'ignora la data, che in vero non potè essere precisa. L'Assemani, Italicæ
Historiæ Scriptores, tomo III, p. 475, la riferisce al 737.
889
Non ricorderò le opinioni messe fuori dal Pirro, Disquisitio de
Patriarca Siciliæ, nella Sicilia Sacra, p. LXXV, seg., e da parecchi
altri eruditi palermitani, messinesi e di varie città, che
rabbiosamente e puerilmente si azzuffavano a proposito dei sognati
metropolitani dell'isola avanti l'VIII secolo. Veggasi bene il Di
Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, dissertazione II, p. 413, seg.
L'autore fu indegnamente perseguitato, perchè dimostrò un fatto
storico: ma oggi nella Chiesa Siciliana non vi ha chi dissenta da lui.
Il catalogo delle Chiese siciliane e il grado dei metropolitani si
ritraggono dall'editto degli imperatori bizantini, noto agli eruditi
sotto il titolo di Dispositio, e attribuito a Leone il Sapiente, ma di
certo pubblicato con vario tenore in varii tempi, dall'VIII al XIII
secolo. Io ho messo insieme i nomi che si trovano in due esemplari,
probabilmente l'uno del principio, e l'altro della fine del IX secolo,
dei quali uno si legge presso il Di Giovanni, op. c., diploma
CCXCII, p. 341, e presso l'Assemani, op. c., tomo III, p. 490, e il

462
distrutta alcuna città, altra fatta stanza dei Musulmani, parecchi
vescovadi caddero, o ne rimase il nome solo, non sappiam quali, nè
in quali anni; perocchè in vano si cercherebbero le vestigia di
cotesti mutamenti nelle copie diverse del catalogo attribuito a Leone
il Sapiente. Pure il fatto è certo, perchè necessario, e perchè le
soscrizioni dei vescovi siciliani scompariscono a poco a poco dagli
atti dei concilii; non si parla più di loro nelle croniche; e il solo di
cui si abbia memoria, verso la fine dell'undecimo secolo, è quel di
Palermo, chiamato arcivescovo; del qual cenno noi tratteremo a suo
luogo.
Aprendo i volumi delle agiografie siciliane reca maraviglia lo
scarsissimo numero dei martiri dell'epoca musulmana. A spiegar ciò
non basta la dimenticanza che necessariamente seguì nel decimo e
undecimo secolo, quando la più parte della popolazione confessava
un Dio solo e Maometto apostol di lui. Sendo rimasi tuttavia molti
Cristiani in Sicilia, e surti in Calabria novelli monasteri ove
riparavano frati siciliani, è manifesto che la tradizione non potea
perire. Martiri da un'altra mano non ne mancavano. Migliaia di
combattenti, fatti prigioni e proposta loro talvolta, a rigor del dritto

secondo nello stesso volume dell'Assemani, p. 493. L'ordine delle


città, con poche eccezioni, è nel primo diploma quello che
incontrerebbe chi girasse la costiera di Sicilia uscendo da Siracusa
per a mezzogiorno; e nel secondo diploma, al contrario, di chi
movesse per a settentrione. Nel primo, inoltre, manca Lentini, e
Triocala è detta Cronio; nel secondo non si leggono nè Lipari, nè
Trapani, e Catania va tra i suffraganei di Siracusa. Le varianti di
altri esemplari, tratte da moltissimi codici della Vaticana, si leggono
presso l'Assemani, op. c. p. 475 a 531.
Sono apocrife le notizie dei metropolitani di Messina e di Palermo
nell'ottavo e nono secolo, com'è provato dall'Assemani, l. c., p. 497
seg., e dal Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, p. 399.
Il titolo di arcivescovo di Taormina, dato in alcuni MSS. di omelie a Teofane
Cerameo, come si dirà in questo medesimo capitolo, non basta a dimostrare che
quella sede fosse stata metropolitana.]

463
di guerra, l'alternativa tra l'apostasia e la morte, eleggeano
francamente la morte; come fecero sempre e in ogni luogo i soldati
dell'impero bizantino. Ma il clero non volea santi laici, molto meno
soldati; e di certo mandava all'inferno quei martiri che innanzi non
fossero stati bacchettoni. De' suoi, il clero non ne forniva;
perdonandosi per legge musulmana la vita ai preti e ai frati fuorchè
se avessero combattuto: il che non avveniva giammai nella Chiesa
Greca. Perciò sì poche le vittime cui il martirio desse titolo di
santità. Si noverano tra quelle, nel primo impeto del conquisto, San
Filareto e altri frati di che facemmo ricordo nell'assedio di Palermo
(831): e furon presi fuggendo.
Contemporaneo di San Filareto un grande oratore sacro, Teofane
Cerameo arcivescovo di Taormina: che sembra onoranza personale,
se pure negli sconvolgimenti ecclesiastici e politici di quel tempo la
dignità metropolitana non fu accordata e tosto ritolta alla detta sede.
Di Teofane Cerameo si ha notizia per un'ampia raccolta di omelie
greche, delle quali ci avanzano da quaranta esemplari 890, la più parte
col nome di lui, altri di Gregorio Cerameo, Giovanni Cerameo,
Cerameo soltanto, e infine Filippo, chiamato poi, com'aggiugnesi
ne' manoscritti, Filagato, monaco e filosofo891. Ostinandosi a riferire
tutte le omelie a un medesimo autore, gli eruditi che le studiavano,
disputarono vanamente su l'età in cui fosse vivuto. Lo Scorso,
gesuita siciliano il quale pubblicò per lo primo a Parigi (1644) il
testo e la versione latina di sessantadue omelie, le volle tirar su tutte
al nono secolo; e infelicemente cavillò per adattare a quei tempi le
vestigia del duodecimo secolo che si toccan con mano in alcune di
890
Il Buscemi, nel lavoro di cui or ora si dirà, novera 34 MSS. in alcune
Biblioteche d'Europa. Non mi par ch'egli abbia notato tutti quelli della Biblioteca
imperiale di Parigi, che sono i seguenti: Ancien Fonds 572, 760, 772, 1021, 1183,
1184, 1185, 1185 A, 1206, 1207; Supplément grec, ni 34 e 371 del catalogo MS.
di M. Hase, e n° 277 della Bibliotheca Coisliniana. Nessuno di questi MSS. è più
antico del XIII secolo. Molti non contengono che una sola omelia. Aggiungansi i
codici della Biblioteca di Vienna, notati nel Catalogo di Nessel, parte 1, p. 163,
276, 360, 386, ni 82, 189, 257 e 279.
891
Filosofo, era titolo di oficio ecclesiastico, al par che cantore. Si trova nei
diplomi delle Chiese Siciliane del XII e XIII secolo.

464
coteste omelie892. Il dotto Guglielmo Cave, al contrario, opinò che la
raccolta appartenesse al secolo undecimo, e dovea dire
duodecimo893. Ha sostenuto questa medesima sentenza il sacerdote
Niccolò Buscemi da Palermo (1832) illustrando la materia con le
notizie di altri manoscritti, tra i quali uno di Madrid, che contiene
altre ventinove omelie inedite, e che fu rubato probabilmente alla
Sicilia894. Ma per vero si debbono riconoscere, come il pensò quel
savio monsignor Di Giovanni895, almen due autori; l'uno dei quali

892
Sapientissimi et eloquentissimi Theophanis Ceramei, Archiepiscopi
Tauromenitani, Homiliæ etc., Lutetiæ Parisiorum 1644, in-folio, greco e latino. Il
Baronio, il Gaetani e altri eruditi avean dato alcuna di coteste omelie, e alcun'altra
era tradotta, ma non pubblicata, quando lo Scorso, col favore di parecchi MSS.,
corresse e compiè la versione, e la diè alla luce insieme col testo. Le premesse
una gonfia dedica alla città di Taormina; una confusa dissertazione biografica e
critica; e sparse molta inutile erudizione nelle note.
893
Cave, Scriptorum Eccles. Historia Litteraria, tomo II, p. 132. La data del
1040, che l'autore assegna a re Ruggiero, è sbagliata d'un secolo.
894
Il Buscemi morì giovane or son pochi anni, dopo avere
pubblicato una biografia di Giovanni di Procida e molte
dissertazioni, illustrazioni di diplomi, e articoli di giornali,
aggirandosi sempre sulla storia di Sicilia del medio evo. Ricercatore
infaticabile, esperto a diciferare manoscritti, erudito nelle cose
sacre; ma ellenista così così, critico alla grossa, faccendiere,
parteggiante, e però di rado imparziale, il Buscemi recò pur molto
giovamento agli studii storici in Sicilia, se non altro perchè
rimestava i materiali.
Il suo lavoro su Teofane Cerameo, pubblicato nel Giornale Ecclesiastico di
Sicilia, Palermo 1832, n'empie le prime 48 pagine. Contiene accurate notizie
bibliografiche e un indice alfabetico dei principii delle omelie, ove sono messe
insieme le pubblicate dallo Scorso e le manoscritte di Madrid, secondo il catalogo
d'Iriarte. Del rimanente, il Buscemi non mostra nè buona critica nè gusto in
questa monografia. Son lieto d'intendere che Pietro Matranga, dotto ellenista
siciliano e Scrittore della Vaticana, abbia preso a fare ricerche e studii su le
Omelie di Teofane Cerameo. Così possiamo sperare su questo argomento un
lavoro profondo e compiuto.
895
Codex Siciliæ Diplomaticus, p. 316 e 410. Il Di Giovanni bene avvisò che il
Teofane monaco, al quale si vede indirizzata una epistola di Fozio, non poteva

465
visse di certo nel nono secolo, l'altro di certo nel duodecimo. La
prova del primo assunto si vedrà or ora. Quella del secondo è che
cinque orazioni896, come leggesi in alcuni codici, furono recitate
«nel palagio di Palermo, in Palermo dinanzi il re, nel monastero del
Salvatore di Messina897 nella chiesa di Santo Stefano in Palermo e
sul pulpito della chiesa metropolitana della stessa città.» A togliere
il dubbio che il predicatore moderno le avesse rubato tutte all'antico,
una di coteste orazioni contiene lo elogio funebre del primo cantore
del detto monastero del Salvatore898; e un'altra la più precisa
descrizione che far si possa della cappella palatina di Palermo, coi
mosaici e i marmi di che la arricchirono i principi normanni899. Par
che cotesto oratore sia appunto Filagato del quale dicemmo: e può
supporsi ch'egli abbia aggiunto del suo qua e là; composto qualche
omelia; tolto di peso le altre da antichi codici; e spacciato tutto per
roba propria. Altri probabilmente replicò il plagio, e così andrebbe
spiegata la diversità dei nomi d'autori, che s'incontrano nei varii
manoscritti900. Quanto alle omelie che non portan sì chiara la divisa
della età, molte sembrano da attribuirsi all'autore del nono secolo901.

essere l'arcivescovo di Taormina. Ma troppo facilmente ei suppone due


arcivescovi di Taormina, Teofane e Gregorio, vissuti l'un prima e l'altro dopo il
conquisto musulmano.
896
Quelle notate dallo Scorso coi ni 55, 26 e 6, e le inedite del MS. di Madrid, ni
36 e 67.
897
Fu fondato il 1094.
898
La 6a della edizione di Scorso. Il titolo di cantore si legge nel MS. di Madrid.
899
La 55a della edizione di Scorso.
900
Il Buscemi immaginò che Teofane avesse mutato nome quattro o cinque volte,
e portato successivamente tutti quelli che si leggono nei MSS. La usanza di
prendere altro nome insieme con l'abito di frate, è notissima; ma basta solo a
spiegare il primo cangiamento.
901
Secondo me, tutte quelle di cui si legge nel MS. di Madrid "Recitata dal
pulpito dell'arcivescovado," che sono ventisei pubblicate, e tre inedite. E ciò
perchè somigliante avvertenza è fatta per alcune delle omelie appartenenti senza
dubbio al IX secolo. Non saprei far conghiettura su l'epoca di molte altre. In
alcune si legge soltanto la festa in cui furono recitate; in altre, il nome della chiesa
e non della città. La inedita del MS. di Madrid, n° 79, fu recitata a Reggio. La 51a
della edizione dello Scorso fa cenno d'un Musulmano che avesse durato una

466
Senza avvilupparci in oziose questioni, chiameremo costui
Teofane, soprannominato Cerameo dalla patria o dal casato. Ei
passò, come pare, da un monastero al seggio vescovile di Taormina;
ed affrontando l'ira del governo iconoclasta, fu bandito dalla
diocesi; come lo mostra il caldo esordio d'una omelia recitata dal
pulpito di Taormina902. «Avea durato, ei dicea, lungi dai suoi
figliuoli in Cristo, la tirannide d'un amor violento; avea bramato di
rivederli come il terreno arso e screpolato brama la pioggia: e
dileguinsi, ei continuava, le rughe delle nostre fronti, poichè ci è
dato di tornar tutti insieme a venerare questa effigie di Maria non
dipinta da man d'uomo903.» Non guari dopo, quel dì stesso che si
festeggiò per tutto lo impero la restaurazione delle Immagini (842),
Teofane esponea con dire vibrato e conciso la storia degli
Iconoclasti. Certi maghi ebrei vaticinarono la futura grandezza a
Leone Isaurico; e lo spinsero a dar principio all'eresia. Serpente nato
di un dragone, succedeva all'Isaurico, nell'impero e nella empietà,
Costantino Copronimo: e rincalzava la persecuzione un altro Leone
(l'Armeno) indegno della porpora; stigandolo alla mal opra quel
falso abbate, che solea rintanarsi in un casolare, e uscir come
pipistrello su l'imbrunire del dì904. Narra poi il noto fatto di Teodora
e del giullare che la scoprì; scansa prudentemente il nome del
crudele Teofilo; e ne viene al concilio di Costantinopoli; alle lodi

tempesta insieme con l'autore nello stretto di Messina; ma così fatto


accompagnamento potea avvenire nel IX, come nel XII secolo.
902
Omelia 11a nella edizione dello Scorso. Quella del MS. di Madrid, n° 40, ha la
postilla: "Recitata dal pulpito dell'arcivescovado al ritorno in Sicilia."
903
Αχειρότευκτον. Forse si tenea venuta dal cielo; reliquia da rivaleggiare con la
lettera della Madonna ai Messinesi.
904
Accenna a Sabbatio, il cui nome troviamo presso gli scrittori bizantini. Tenea
costui lo stesso romitaggio di un altro furbo che avea presagito lo impero a Leone
l'Armeno. Consultato di nuovo l'oracolo da messaggi di Leone già fatto
imperatore, Sabbatio gli mandò a dir villania, e che non sperasse nulla di bene, fin
tanto che adorasse gli Idoli. Leone allora volle andare travestito a parlargli; e
Sabbatio, che n'avea avuto avviso da un cortigiano, gliene sciorinò tante più; si
fece credere ispirato, ec. Veggansi Theophanes continuatus, lib. I, cap. XV e
XVI; Symeon Magister, De Leone Armeno, cap. III.

467
della imperatrice che rendeva alla Chiesa le immagini, quasi tolti
ornamenti e segni di gloria; e sì esorta i fedeli a celebrare il fausto
evento, abbominando i capi e fautori dell'empietà, venerando e
baciando le immagini, non per idolatria, ma per onorare i prototipi
di quelle: e conchiude, contro le premesse, con raccomandare a tutti
carità, misericordia, penitenza905. La data dell'anno, mese e giorno è
scritta quivi a caratteri indelebili. Quella del secolo si trova in due
altre omelie, dove l'oratore volgeasi al cielo, pregando aiuto agli
ortodossi imperatori contro gli empii figli di Agar, insultatori del
culto cristiano906; e in un'altra ove discorre le voluttà dei Gentili, e
dei nostri vicini Ismaeliti, ei dice, che si scambian le mogli907.
I dubbii cronologici che abbiam toccato, e la tendenza degli
oratori sacri, come dei poeti satirici, ad abbozzare piuttosto
caricature che ritratti, ci consigliano a molta circospezione nel
dedurre dalle dette omelie i costumi della Sicilia cristiana nel nono
secolo. Esagerate sembrano invero le invettive che il nostro oratore
lanciava da petto a petto al popolo di Taormina, il dì festivo di San
Pancrazio, primo vescovo, che si supponea, della città. Tornato in
fretta di Palermo, Teofane, ancorchè spossato, com'ei dicea, dal
viaggio, montava sul pulpito a sfogar sua collera. Ponea per testo le
parole del Vangelo: "Son io la porta" (Giovanni, X, 9); e, spiegatele,
veniane alla conchiusione, che il clero farebbe opera a non imitare i
pastori mercenarii e ladri, ma i fedeli dovessero alsì fuggire
l'esempio de' capretti che corrono a precipitar nei dirupi. E passando
alle gesta del santo che si festeggiava: «In questa nostra isola, ei
905
Omelia 20a, nella edizione di Scorso. L'oratore qui fa menzione della effigie di
Maria dipinta da San Luca con la cera e i colori, che si conservava tuttavia in
Costantinopoli; p. 129. Il Baronio, Annales Ecclesiastici, anno 842, diè uno
squarcio di questa omelia.
906
Omelia 6a, p. 26, e omelia 40a, p. 288. Nella prima, il MS. di Madrid nota
essere stata recitata dal pulpito arcivescovile. Quivi la invocazione è per gli
imperatori al plurale; e nella seconda, al singolare: sembrano dunque composte,
l'una avanti, e l'altra dopo l'854.
907
Omelia 13a della edizione di Scorso, p. 80. Al tempo di re Ruggiero v'erano
tuttavia molte popolazioni musulmane in Sicilia; ma il predicatore li avrebbe
chiamato sudditi, non vicini.

468
dicea, venne Pancrazio, e in questa città di Taormina; sì, città del
toro e delle Menadi908, del furore e della mania, in questa terra ove
siam dannati a soggiornare.» Poi facendo parola degli idoli Falcone,
Lissa e Scamandro abbattuti da San Pancrazio, esortava i cittadini
«a metter giù anch'essi i loro idoli, cioè le fiere passioni dell'animo;
ad esercitarsi in buone opere; massime quei che il poteano, gli
ottimati dell'empia città, ottimati, ei ripigliò, cioè più cospicui nei
vizii909.» Il viaggio di Palermo, la perturbazione politica che si può
argomentare da quella puntata contro i grandi, accennerebbero ai
tempi della rivoluzione d'Eufemio, nei quali regnava Michele il
Balbo, nè correan troppo pericolo gli adoratori delle immagini. Si
potrebbe riferire per avventura ai principii del regno di Teofilo
un'altra omelia recitata il dì di San Pantaleone, quando il sacro
oratore rampognò gli uditori che venissero alla festa per vendere le
merci più che a sentir la parola del Signore; e provocò al certo la
potestà temporale, ricordando che Cristo avesse mandato suoi
discepoli come pecore tra i lupi, e preveduto che monarchi,
caporioni e tiranni sorgerebbero contro la predicazione del
vangelo910. Un altro grave sermone tocca particolarmente i costumi
privati. Spaventevole siccità travagliava il paese; il suolo non
poteva intaccarsi ormai con aratro nè zappa911. L'oratore, costernato,
parlando a gente costernata, descrive diffusamente, e pur con
vivezza e forza d'immagini, la pubblica calamità. Commossi gli
animi, risalisce, secondo suo mestiere, alla causa di tutti i mali, il
peccato. «E questo flagello ne percuote, ei sclamava, perchè ci
rodiamo d'invidia; perchè vogliamo superbire contro gl'infimi;
godiamo nel mal del prossimo; ne laceriamo l'un l'altro a calunnie;

908
Πόλιν ταύρον καὶ μενείας
909
Omelia 57a della edizione dello Scorso, p. 385: ́Οι τε γὰς τη̃ς ὰσεβοϊς
προέχοντες ω̃όλεος, τουτέστιν όι επὶ κακία περιφανέστεροι.
910
Omelia 58a della edizione di Scorso. Questo linguaggio non si usava
certamente dal pulpito sotto il regno di Ruggiero.
911
Ο
̀ ύτε τη̃ν σκάφησιν. Da questa voce greca par derivata la voce "scalzare" che
si pronunzia in dialetto siciliano squasari, e si usa particolarmente parlando delle
viti. Credo pertanto che l'autore qui alluda alla cultura delle vigne.

469
ci abbandoniamo a stolte cupidigie; siam rotti a lussuria912; lupi
affamati nell'avere altrui; stizzosi peggio che cameli; senza carità
pei poverelli; senza rispetto verso la Chiesa. E i ministri della
Chiesa (ei continua nell'impeto dell'orazione) non son essi i primi
agli scandali; non si ingiuriano tra loro; non si odiano; non cercan
vendetta; non si tendono insidie reciprocamente; e, vedendo il
peccato in trionfo, non stan essi mutoli? I laici poi perchè guardan
la gobba dei sacerdoti, e non la propria loro? E che! la città è piena
di vizii; odo far giuramenti ogni dì, non ostante ch'io v'abbia
ammonito a scansarli913, e vi abbia presagito la collera del cielo:
qual maraviglia dunque che vi si apparecchi tal mèsse e tal
vendemmia, e che Iddio gastighi tutti per le peccata dei pochi, e fin
gli animali e il terreno per le peccata degli uomini 914?» In tutta
questa diceria non si trova sillaba che indichi appunto i tempi.
Nondimeno quello scrupolo a far giuramenti, quella turbolenza del
clero, mi fan pensare al nono secolo più tosto che alla prima metà
del duodecimo.
Dello stile di Teofane ho dato esempio negli squarci che
precedono. Non parmi carico di ornamenti quanto portava il gusto
grosso di quei tempi. Anzi, in generale, la narrazione dei fatti
semplice, tersa, impaziente, mi torna a mente il Maurolico, vivuto
otto secoli appresso, nato com'e' pare della stessa buona schiatta
greca del Valdemone; ma l'oratore sacro di Taormina non potea
sempre mantener la sobrietà del geometra e storiografo messinese.
Suole intessere le prediche con bel metodo. Dopo breve e leggiadro
esordio pone il testo del vangelo; lo spiega nitidamente, e con
saviezza rara a quei tempi sviluppa i principii morali più volentieri
che sprofondarsi in astrazioni teologiche. Guardinsi dunque le opere
di Teofane da qualunque lato si voglia, si dovran tenere come uno
912
La decenza del nostro secolo non permette di tradurre litteralmente la frase di
"cavalli Φηλυμανεις," che è tolta da Geremia, cap. V, v. 8.
913
Infatti, nella omelia 21a della edizione di Scorso si trovi una ammonizione a
cessare i litigii, e non giurare. Nè di questa nè della omelia 62a si ritrae dove
fossero state recitate.
914
Omelia 62a della edizione di Scorso.

470
dei migliori esempii della eloquenza sacra appo i Greci dei bassi
tempi915. Lascio ad altri a indagare se appartenga a Teofane un
trattato didattico che si trova manoscritto a Torino; e chi sia l'autore
delle altre omelie diverse che possiede, anco manoscritte, la
Biblioteca di Vienna col nome di Giovanni Cerameo916.
Nel medesimo tempo altri Siciliani coglieano palme a lor modo,
gittandosi, a Costantinopoli, nel centro della mischia contro
gl'Iconoclasti. Primeggiò tra loro San Metodio, nato a Siracusa di
cospicua famiglia; avviato agli studii di grammatica, storia e
rettorica; mandato giovane a corte: ma l'ebbe a noia; e, persuaso da
un frate, vestì la cocolla, dato prima ogni suo avere per amor di Dio
ai poverelli. Così il puzzo del basso impero facea rifuggire nel
chiostro gli animi generosi, che non vi fossero stati spinti già prima
da preoccupazioni ascetiche; e la società civile perdea vigore; la
religiosa ne prendea troppo, e sfogavalo in vane contese. Metodio
pertanto si ricacciò suo malgrado tra i tumulti del mondo. Parlando
speditamente, come nato in Sicilia, il greco e il latino, fu mandato
una volta a Roma; tornò più caldo di zelo ortodosso e ardire contro
la potestà civile; parteggiò sì fieramente per Niceforo patriarca di
Costantinopoli, che, cacciato costui (814), egli fu costretto a
ripararsi a Roma; e dimorovvi fino alla morte di Leone l'Armeno
(820). Il papa allora l'inviava a nunzio appo Michele il Balbo; e
questi, tenendo ribelle il papa e più ribelle Metodio, ch'era nato
suddito suo e cadutogli tra le mani, lo fe' vergheggiare crudelmente;
poi trasportare in un isolotto detto di Sant'Andrea, o secondo altri
Antigono, nel mar di Marmara; chiuderlo in carcere sotterraneo con
due condannati per misfatti; un de' quali venne a morte, e il

915
Tale è il giudizio del Cave, Scriptorum Eccles. Historia Litteraria, tomo II, p.
132; del Fabricio, Bibliotheca Græca, tomo X, p. 232; per non dir nulla di quello
dello Scorso, che assai men vale. Pure il gesuita palermitano, scrivendo egli
stesso sì gonfio, riprendea Teofane di ampollosità.
916
Codice CCXXII della Biblioteca di Torino, e CCXXIX di quella di Vienna,
citati dal Buscemi, p. 13, dal quale tolgo questa notizia. Il MS. di Vienna or citato
si trova nel catalogo di Daniele de Nessel, parte I, p. 163. Codd. Theolog., n°
LXXXII.

471
cadavere fu lasciato coi compagni vivi. Dopo sette anni, Teofilo
aguzzando il pazzo cervello a comprender non so che scritto, a
persuasione di un cortigiano, lo mandò a Metodio; si compiacque
della interpretazione; volle appo di sè il sapiente; gli diè pensione e
stanza in corte; e poco appresso gli fe' sentir di nuovo il bastone e la
muda, poichè l'ostinato Siciliano ripigliava sotto mano sue
argomentazioni a pro del culto delle immagini. Ma liberato per
novello ghiribizzo dello imperatore, Metodio, da savio, si messe a
disputare con lui in persona; lo scosse; e certo lo stuzzicò in guisa,
che Teofilo non sapendo star senza di lui, o temendo che facesse
brogli a Costantinopoli917, sel tirava dietro quando egli andava a
scapricciarsi alla guerra. È noto come, alla morte di Teofilo,
l'imperatrice Teodora, volendo por fine alla eresia, la prima cosa
cacciava per violenza il patriarca Giovanni Lecanomante. A lui fu
surrogato Metodio, ch'era tenuto capo di parte ortodossa, per la
dottrina, la pietà, la fortezza dell'animo, e di certo ancora per quelle
pratiche già si sospette a Teofilo. Degnamente esercitò l'autorità
patriarcale. Con agevolezza confuse i nemici che l'accusavano di
violenza fatta a una donna; alla età sua, macerato e consunto come
egli era dal carcere duro degli Iconoclasti918, ove avea perduto i
denti e i capelli. Rese poscia gli estremi ufficii ai compagni di
persecuzione, facendo opera a tramutare in Costantinopoli i
cadaveri di que' ch'eran morti in esilio. E mancò l'anno appresso
(847); lasciando fama di santità, e parecchi panegirici, e scritti
disciplinari919.
917
Così pensa l'Autore della Continuazione di Teofane.
918
Metodio, al dir della Continuazione di Teofane, si difese in pien tribunale la
questo modo: Paulum se a throno subrigens, sinumque ad se colligens, verenda
nuda ostendit, miraculo arefacta. Raccontò poi il miracolo; cioè, che sendo a
Roma, e pregando San Pietro di liberarlo dagli stimoli della concupiscenza, gli
apparve l'Apostolo in sogno, ed eam tangendo partem, libidinis sensum omnem
extinxit. Sì indecenti erano que' bacchettoni!
919
Si riscontrino Theophanes continuatus, lib. II, cap. VIII; lib. III, cap. XXIV;
lib. IV, cap. III, VI, X; Symeon Magyster, De Theophilo, cap. XXII, XXIII,
XXIV, e De Michaele et Theodora, cap. I, III, IV; Georgius Monachus, De
Michaele et Theodora, cap. I, II, III; Acta Sanctorum, 14 giugno, p. 960 a 973, e

472
Succedette a Metodio un figliuolo dello imperatore Michele
Rangabe, per nome Niceta, detto Ignazio dopo la esaltazione al
patriarcato: eunuco molto pio; divenuto inaspettatamente illustre e
santo, perchè fu nemico di Fozio. Lo scisma di Fozio il quale
covava da secoli, per la rivalità delle Chiese di Roma e di
Costantinopoli, divampò per gelosia politica contro i papi, per mene
di corte a Costantinopoli: pur egli è vero che la prima scintilla fosse
stata gittata da Gregorio Asbesta, vescovo di Siracusa920. Ignazio,
contro il consiglio dei suoi più fidati, avea vietato a costui di
assistere alla sua consacrazione, come incolpato di non so che
trasgressione disciplinare; lievissima al certo, poichè non fu mai
specificata921. «Ma chi può spiegar con parole, sclama il biografo di
Santo Ignazio, quanti scandali seguitassero da ciò; quanta rabbia di
vendetta s'accendesse in petto a quel fier Siciliano922, che trovato
Fozio lo mise su e il consagrò923?» Alla dura tempra dell'animo,
audace, intollerante, superbo, Gregorio Asbesta congiungea chiaro
ingegno, parlare insinuante, gran dottrina, pietà, costumi
irreprensibili, e per colmo de' mali, ripiglia il biografo, fu anco buon

le altre autorità citate dal Mongitore, Bibliotheca Sicula, tomo II, p. 66, seg.; e Le
Beau, Histoire du Bas-Empire, lib. LXVIII, § 28; LXIX, § 24; e LXX, § 4, 5, 7,
14.
920
I documenti e scrittori papalini, i soli che abbiamo sul fatto suo, lo chiaman
sempre vescovo; non ammettendo la novella dignità metropolitana.
921
Nicetæ Paphlagonii Vita Sancti Ignatii, ec., greca e latina, presso il Labbe,
Sacrosancta Concilia, tomo VIII, p. 1199, lo dice «gravato a Costantinopoli di
qualche accusa (ὲπ̉ ενκλήμασι δὲ τισιν) e condannato da Roma per infrazione ai
canoni.» Ma la epistola di Niccolò I, del 13 novembre 866, nello stesso tomo, p.
326, smentisce la seconda asserzione. Simeone, De Michaele et Theodora, cap.
XXXII, lo dice deposto già dal patriarca Metodio, per avere ordinato (forse
vescovo di Taormina) uno Zaccaria, inviato di Metodio alla corte di Roma, e per
altri falli. E tal deposizione è smentita da Niceta, che l'attribuisce appunto al
patriarca Ignazio. Insomma, alla esaltazione di costui, Gregorio era accusato, e
non altro.
922
Niceta, op. c., p. 1199. Il gesuita tirolese Rader, che scrisse nel decimosettimo
secolo, non so per che vezzo, rendea questa frase: et improbitatem illius probi
Siculi. Il testo ha: καὶ μνησικακίαν τοΰ δεινοΰ εκείνου Σεκελοΰ.
923
Καθηγητὴς και ίεροτελεστὴς

473
dipintore924: ed abusonne in certo libello d'accusa, nel quale andò
istoriando con sette miniature quel che bramava: il suo nemico,
cioè, catturato, deposto, incatenato, messo in gogna, condannato e
condotto al supplizio925. Prima che l'arcivescovo siracusano
arrivasse a tanta rabbia, il patriarca l'avea fatto deporre in un sinodo
(854). Adescato a portare la causa al papa, Gregorio sdegnò
assoggettar di nuovo la sede siracusana alla romana onde s'era
sciolta926; ovvero non gli bastò di uscir di briga, senza vendicarsi
d'Ignazio. Non placato perchè questi or lo venisse piaggiando927,
Asbesta diessi a lacerare il suo nome per tutta la città; a far brogli
con vescovi e preti malcontenti; e s'aprì la via appo Fozio, primo
scudiero dello imperatore, chiarissimo per sangue, ingegno e
immensa dottrina, bel parlatore, uom di Stato e gradito al dotto
Cesare Barda che reggea l'imperatore e l'impero. Il santo eunuco a
questo, per ragguagliar le forze, gittatosi in braccio a papa
Benedetto III, fece approvare da Roma la condannagione del
vescovo di Siracusa928; il che Fozio e Barda tennero come caso di
maestà. La lite s'innasprì per offese private: alfine Ignazio era
cacciato dalla sede; rifatto patriarca Fozio; consagrato dal vescovo
di Siracusa (858), il quale si avvilì incalzando la persecuzione
contro il nemico caduto. Non occorre aggiugnere che il papa e il
nuovo patriarca vennero alle prese; che, per trovar pretesto a tanto
furore di rivalità mondana, si disputò sulla processione dello Spirito
Santo; che Fozio osò deporre il papa (867); che si discese anco ai
924
Ζωγράφος
925
Niceta, op. c., p. 1226. L'autore aggiugne che il volume fu poi preso in casa di
Fozio, presentato al Concilio dell'867, e dato alle fiamme.
926
Si fa menzione di questo appello nelle epistole di Niccolò I, presso Labbe, op.
c., tomo VIII, ni VII, VIII, IX, XI, p. 288, 289, 303, 320, 326, 335, 375, e in altri
atti pontificii, a p. 1274, 1283, 1295, 1332. Tutti son dati in un tempo in cui la
prima accusa contro Gregorio si confondea con quella, assai più grave, di aver
fatto parte del concilio di Costantinopoli dell'861. Veggansi anche Niceta, op. c.,
p. 1199; e Baronio, Annales Ecclesiastici, an. 854.
927
Niceta, op. c., p. 1199.
928
Questo fatto si legge nel secondo decreto del Concilio di Roma, dell'863,
presso Labbe, vol. c., p. 1322; e Baronio, Annales Ecclesiastici, an. 863.

474
pettegolezzi: lagnandosi Michele III che papa Niccolò I gli
scrivesse in idioma barbarico e scitico, e volea dire il latino; e
rimbeccandogli Niccolò ch'era da stolto a rinvilir sì quella lingua, e
volersi chiamar tuttavia imperator dei Romani929.
La fortuna subitamente voltò quando Basilio Macedone, per
togliersi d'inutile briga (867), redintegrò Ignazio nella sede930: e non
mancarono allora cento vescovi, che, adunati in Concilio,
condannavano i lor due fratelli, rei di perduta grazia del principe.
Quivi Fozio e Gregorio apparvero più grandi che prima, gettando
parole di disprezzo in faccia ai vili giudici (29 ottobre 869)931. Dieci
anni appresso, mancato Ignazio, esaltato di nuovo Fozio, diè
meritamente a Gregorio la sede metropolitana di Nicea; ove tosto
morì (878), e la sua memoria fu onorata da un elogio del patriarca di
Costantinopoli, che per dottrina superava ogni altr'uomo di quei
tempi932. Di sì gran momento furono due Siciliani nelle principali
contese ecclesiastiche che si agitarono nel nono secolo tra l'Oriente
e l'Occidente: l'una terminata per man di Metodio; l'altra accesa da
Gregorio Asbesta.
In entrambe comparve, ma non tra i primi, San Giuseppe, detto
l'Innografo, siciliano anch'egli. Nato, non sappiamo in quale città,
da un Plotino e un'Agata, riparava coi genitori nel Peloponneso per
fuggire la crudeltà dei Musulmani, dice il monaco biografo e forse
discepolo di lui; aggiugnendo vaghe frasi di stragi, rapine, cattività,
con che i Barbari affliggessero la Sicilia, isola nobilissima per la
fama di Dionisio e di San Giuseppe Innografo. Entrò questi in un
monastero di Tessalonica a quindici anni: studioso, solitario,
taciturno; si straziava d'astinenza; percoteasi il petto con pietre; a
usanza dei monachi greci si confessava gran peccatore indegno del
929
Veggasi la epistola n° VIII di Niccolò, presso Labbe, vol. c., p. 298.
930
Sarebbe inutile di accumulare citazioni sul notissimo fatto dello Scisma, che si
ricava dagli atti dei Concilii, dalla Vita di Sant'Ignazio, ec.
931
Veggansi le loro risposte nelle due diverse compilazioni degli atti di questo
Concilio, l'una greca, l'altra latina, presso il Labbe, vol. c., p. 1061 e 1307, 1311,
seg.
932
Niceta, op. c., p, 1258; Baronio, Annales Ecclesiastici, an. 878.

475
sacerdozio, al quale fu assunto, suo malgrado, da un santo, che
voleva adoperarlo a muover sedizioni contro gli Iconoclasti933.
Mandato dunque per le bisogne della fazione a Roma, cadeva in
mano di corsari musulmani, che sel recarono a Creta; e quivi
metteasi ad esortare il vescovo contro la eresia; confortava al
martirio un compagno di prigione, venuto in procinto di rinnegare la
fede cristiana. Egli, dileguatosi prodigiosamente dal carcere,
viaggiò per aria a Costantinopoli934. Indi corse in Tessaglia a
fondare un monastero in onor di San Bartolomeo, il quale, per
rendergli cortesia, gli apparve in sogno; il benedisse e il fe' poeta. E
però, conchiude il biografo, i suoi versi rendono sì svariata e celeste
armonia, calman l'ira, muovono al pianto, e ogni nazione li ha
voltato in suo linguaggio: e su, gettate via gli altri poeti e vi basti
l'Innografo!
Sciocco quanto si voglia così fatto parlare, la storia può cavarne
costrutto. La seconda favola ci attesta come l'Innografo si fosse dato
a far versi in età matura, a forza di studio; e come i Greci del nono
secolo tanto avessero preso ad imitare gli antichi, che lor era
mestieri di rimetter su l'oficio di Apollo e investirne un santo
cristiano. Cotesto movimento letterario, reminiscenza di gioventù
d'una società decrepita, s'era già manifestato nella prima metà del
secolo, come il provano le opere di Teofane Cerameo, la vita di
Metodio, l'aneddoto di Teofilo con costui, e l'altro sì noto col
matematico Leone fatto poi vescovo di Tessalonica. Par che Teofilo
stesso abbia principiato935, e il Cesare Barda compiuto, sotto il
regno di Michele Terzo, la istituzione dell'Accademia nel palagio
imperiale detto la Magnaura; ove dapprima si dettero lezioni di

933
Il biografo mette i nomi di San Gregorio Decapolita e di Leone, senza dubbio
l'Armeno. Ma questi morì prima che i Musulmani occupassero la Sicilia. Perciò,
se non è bugiardo il fatto, van corretti i nomi.
934
San Niccolò, apparsogli in sogno, gli diè a mangiare uno scritto di squisito
sapore, e di tanta virtù, che le catene si sciolsero, le mura si aprirono, e San
Giuseppe si vide trasportato per aria a Costantinopoli.
935
Così dice Symeon Magister, De Theophilo, cap. XX.

476
filosofia e scienze esatte, compresavi la musica936; e, spartiti meglio
gli studii o accresciuto il numero dei professori, si lessero filosofia,
geometria, astronomia, grammatica greca: sappiamo inoltre che
privati avessero preso già ad insegnare l'arte poetica a
Costantinopoli, e altri fosse ito ricercando i tesori dell'antica
sapienza e letteratura, qua e là, pei monasteri della Grecia937. Un
grande istorico938 ha attribuito così fatta ristorazione di studii a
voglia che avesse la corte bizantina di gareggiare coi califi; ma
questa non potea esser la sola, nè anco la primaria cagione. I
movimenti intellettuali sogliono nascere nel popolo: e la lite delle
Immagini, che agitava la cristianità da più di un secolo, aveva
aguzzato gl'ingegni, come fa ogni grande contesa. Cercavan armi
nella filosofia gli Iconoclasti; dalle cui file appunto veggiamo uscire
il primo professore della Magnaura. Gli Iconolatri, al contrario, per
necessità dello intento loro, si doveano raccomandare alla estetica;
sforzarsi a imitare la magic'arte dei classici pagani, il manco male
che potessero: nè per caso è che n'apparivano in Sicilia i primi
segni; ma perchè nell'isola più caldamente e forse con minor
pericolo si parteggiava. Indi il frate siciliano diessi a coltivare la
poesia sacra, tentata al certo innanzi di lui, ma con minore
riputazione. Ei si provò a far versi, con un po' d'orecchio in vece
d'estro: la lingua greca gli prestò parole pieghevoli e sonore; le idee
e i sentimenti suoi, che or ci promuovono il sonno, avean virtù
allora di beare gli ascoltatori: e così fece proseliti alle immagini; e
lo studio di parte, il pessimo gusto del secolo, forse la novità ch'ei
recava in quelle composizioni gli procacciarono sì gran fama.
Teofilo il bandì a Cherson in fondo al Mar Nero. Tornate le
immagini sugli altari, il patriarca Ignazio (848) l'ebbe caro e lo
deputò alla custodia dei vasi sacri d'una basilica. Dopo la morte del
quale, sia per la riputazione letteraria, sia per la scaltrezza, chè ci
936
Theophanes continuatus, lib. IV, cap. XXVI e XXVII. L'anonimo cronista
riferisce la fondazione a Barda, ma ricorda espressamente che la ristorazione
degli studii fosse cominciata prima.
937
Theophanes continuatus, lib. IV, cap. XXIX.
938
Gibbon, Decline and Fall, cap. LIII.

477
lodan l'Innografo di leggere ogni pensiero negli occhi altrui, egli
divenne intimo, dicon anche consigliere, di Fozio. Ciò nondimeno è
entrato nel catalogo dei Santi939.
Poichè ci è occorso di toccare la poesia sacra, parleremo qui di
Sergio, frate in un monastero di San Calogero, ch'era probabilmente
su la montagna di questo nome presso Sciacca. Abbiam contezza di
lui per un lungo inno e un frammento; il testo greco dei quali si
trovò nell'antico monastero di San Filippo di Fragalà in Sicilia.
L'inno fu recitato il dì della festa annuale di San Calogero, dinanzi
una calca che vi traea di monaci e popolo: e tra gravi pericoli
viveano essi al certo, poichè l'autore or innalzava una preghiera a
San Calogero che campasse il paese dalle minacce, guasti e assalti
dei nemici; or volgeasi alla madre di Cristo per impetrar la riscossa
dal giogo degli Ismaeliti, e più volte ei ritornava a quest'argomento.
Da ciò parmi che a quel tempo Sciacca fosse città tributaria; nella
qual condizione si pativano insieme il giogo e i pericoli. La
invocazione che troviamo a pro degli ortodossi imperatori non
esclude tal supposto; e ci dà un barlume per iscoprire l'epoca: i
primi dodici anni, credo io, del regno di Michele Terzo (842-854),
quando regnava per lui la madre, e molte castella della regione ov'è
Sciacca aveano fermato coi Musulmani un patto che infransero di lì
a poco940. Non sappiamo se sia vivuto in questo tempo medesimo

939
Due compilazioni v'hanno della biografia di San Giuseppe Innografo,
pubblicate, l'una dal Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 43, seg., e
dai Bollandisti, Acta Sanctorum, 3 aprile, p. 266, seg.; l'altra, dai soli Bollandisti,
l. c.; e il testo greco della prima, corretto sopra un MS. Vaticano, si trova in fin
del volume loro, p. XXXIV. L'originale si crede scritto da un diacono Giovanni,
su le notizie che gli forniva un Teofane, discepolo dell'Innografo. Oltre i miracoli,
vi ha sbagli madornali di cronologia: seguendo i quali, il P. Gaetani fe' vivere
l'Innografo 170 anni. I Bollandisti ne diffalcarono un secolo; ma tuttavia non
tolsero la contraddizione del biografo che portava Giuseppe fuggito di Sicilia
fanciullo dopo la occupazione musulmana, la quale cominciò l'827, e fatto già
sacerdote ai tempi di Leone l'Armeno, che morì l'820. La morte di San Giuseppe
Innografo è riferita per conghiettura all'883.
940
Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo I, p. 128, seg. e Bollandisti, Acta
Sanctorum, 18 giugno, tomo III (di giugno), p. 596, seg., ove leggonsi pochi

478
Costantino di Sicilia di cui ci avanza un solo epigramma, nè anco
intero941.
Più che cotesti miseri versi d'un'epoca di decadenza, ci
premerebbe di ritrovare una cronaca greca, che pare inedita e passò
sotto gli occhi di alcuni eruditi del secolo decimosesto; ma poi se
n'è perduta la traccia. La quale cronaca, attribuita ad un Giovanni di
Sicilia, principiando, al solito, dalla creazione del mondo, correa
fino all'anno ottocentoottantasei; onde si suppose che l'autore fosse
morto in quel tempo. Forse egli è il Siciliano, o pedagogo siciliano,
di cui fanno menzione il Cedreno e Giovanni Scilitze, tra gli
scrittori dell'istoria bizantina, anteriori all'undecimo secolo942. Forse
è lo stesso Giovanni di Sicilia che comentò l'arte oratoria di
Ermogene943. La cronica serbavasi nella Biblioteca Elettorale
Palatina, dove par l'abbia veduto il Sylburgius; su la fede del quale e
del Possevino, il Vossio registrò Giovanni di Sicilia tra gli storici
bizantini, e conghietturò esser passato il MS. dalla Biblioteca
Palatina nella Vaticana944. Lo Schoëll, ignoro su qual fondamento,
affermò rinvenirsi il MS. nella Biblioteca di Vienna, con una
continuazione infino al milledugento ventidue945; ma è lecito
crederlo uno sbaglio dell'illustre filologo alemanno, poichè, se nol
fosse, e i dotti editori di Bonn avrebbero pubblicato questo MS.
nella Bizantina, e lo si troverebbe nel Catalogo di Daniele de
Nessel. Rimane dunque il dubbio se il libro siasi perduto; se giaccia

frammenti del testo greco. Il Gaetani, seguíto in ciò dai Bollandisti, riferì la
composizione dell'inno all'870.
941
Schoëll, Histoire de la Littérature grecque profane, versione francese del
1824, tomo IV, p. 48.
942
Veggasi Cedrenus, edizione di Bonn, tomo I, p. 4 e nota, nel tomo II, p. 748.
Cedreno il chiama è Σικελιώτης, e un altro MS. vi aggiugne διδάσκαλος. Secondo
il luogo che gli assegna Cedreno, costui sarebbe vivuto verso la fine del X secolo.
943
Danielis de Nessel, Catalogus.... Bibl. Vindobonensis (1690), parte I, p. 14, n°
X, § 3.
944
Vossius, De Historicis Græcis (Leyde, 1650), lib. IV, cap. XXI, p. 499;
esattamente citato dal Mongitore, Bibliotheca Sicula, p. 313.
945
Histoire de la Littérature grecque profane, versione franc. del 1824, tomo VI,
p. 370.

479
dimenticato nella Vaticana; ovvero se sia pubblicato sotto altro
nome, per esempio, di Michele Glycas, ch'è è detto slmilmente
Siciliano e che fece un magrissimo compendio storico dal principio
del mondo all'anno 1118.
Lungi dalla patria e dai pericoli vissero due altri illustri Siciliani,
Atanasio vescovo di Modone e Pietro vescovo degli Argivi che
scrisse lo elogio funebre di Atanasio. Facendosi a narrare i primi
anni della costui vita, Pietro ricorda la Sicilia come figliuolo
amorevole ancorchè rettorico: e son le sole parole di carità cittadina
che troviamo negli scritti dei preti siciliani del nono secolo. «Prima
fu patria d'Atanasio il Cielo, poi Catania e la Sicilia, dice l'oratore;
quell'isola famosa di cui potrei lodare il sito, la vastità, la bellezza,
il temperamento dell'aere, la salubrità delle acque, i boschi, i folti
giardini, la sapienza, prudenza, fortezza e giustizia degli uomini, e
potrei noverare tanti illustri personaggi che vi nasceano; ma basti
dir di Sant'Agata, la verginella, le cui reliquie rattengono la lava
quando precipita dall'Etna. Ma a me non conviensi dilettarmi nelle
lodi di patria terrena, poichè Atanasio, invaghito del Cielo, sdegnò
quella come luogo d'esilio. Dalle rovine e tramonto della patria
spuntò la novella luce di tant'uomo. Le avversità cimentarongli
l'animo, come il fuoco affina l'oro, come i turbini di venti e i torrenti
straripati mettono a prova la saldezza degli edifizii. Una barbarica
genía d'Ismaeliti e Agareni era venuta a punir le nostre
prevaricazioni e ostinazione al peccato. Quasi carnefici che
vendicassero la divina giustizia, saccheggiarono e guastaron tante
cittadi; fecero strazio di borghesi e di contadini; quale uccisero col
ferro, qual fecero perire di fame o ne' flutti del mare; altri dettero a
perpetue catene di servitù; altri aggravarono di miserie
insopportabili; altri sforzarono a fuggire di Sicilia e andar vagando
in terra straniera. Tra questi ultimi furono i genitori di Atanasio, i
quali, senza mormorar contro Dio, ripararono a Patrasso in
Peloponneso, non potendo guardare ad occhi asciutti il gregge di
Cristo, la eletta dei Santi e il regio Sacerdozio calpestati dagli
empii; non comportare il superbo disprezzo e la irrisione ai nostri

480
mali.» Dopo questo esordio, che ho tradotto scorciandolo alquanto,
vien la vita religiosa: come il santo giovanetto entrasse in
monastero; come ne fosse fatto superiore; indi esaltato al seggio
vescovile di Modone; e quivi risplendesse d'ogni virtù che
s'appartenga a pastore d'anime: pio, caritatevole, forte, consolatore
degli afflitti, vendicatore degli oppressi. «Questa, sclamava
l'oratore, è la verace filosofia, non quella di Socrate;» e poi, dal
principio alla fine, andava lodando il vescovo di Modone della virtù
che Socrate gli avrebbe insegnato meglio che niun altro: la carità
civile senza ubbie religiose. Ma forse spiaceva allora al clero che i
filosofi della Magnaura parlassero troppo del sapiente Ateniese. Lo
elogio chiudeasi con una lista di miracoli operati alla tomba di
Atanasio, ch'era morto, com'e' pare, l'anno ottocento
ottantacinque946.
Dal quale scritto ognun vede che l'autore non isfuggì ai difetti
letterarii del tempo; le troppe fronde, le declamazioni su luoghi
comuni, lo sforzo a simular di fuori il calor d'affetti che mancava
nell'animo. Pietro, detto Siculo dalla patria, fuggito come tanti altri
nella guerra musulmana, andò a cercare fortuna nei monasteri di
Costantinopoli. Basilio Macedone, verso l'ottocento settanta, il
mandò a trattare il riscatto dei prigioni a Tefrica, città tra Cesarea e
Trebisonda, tra l'Eufrate e il Mar Nero, la quale oggi s'appella
corrottamente Divriki; allor era sede principale dei Pauliciani.
Questo nome avea preso una setta che stranamente innestava alla
semplicità della primitiva Chiesa cristiana, il dualismo dei
Manichei: setta allignata in Armenia e altre province dell'Asia
Minore; la quale, dopo varie vicende di persecuzione, poco mancò
che non fosse sterminata alla ristorazione delle Immagini. Le
soldatesche mandate allor da Teodora contro i Pauliciani, vantaronsi
di centomila vittime uccise tra col ferro, il fuoco e gli annegamenti;
ma gli avanzi del popolo proscritto disperatamente presero le armi;
946
Questo elogio funebre, che porta il nome dell'autore, fu tradotto in latino sul
testo greco del monastero del Salvatore di Messina, e pubblicato dal Gaetani,
Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 52, seg., e con molte correzioni dai
Bollandisti, Acta Sanctorum, 31 gennaio.

481
elessero condottieri; collegaronsi coi Musulmani: e in trent'anni di
guerre si vendicarono con usura; sì infesti e ridottati nelle finitime
provincie dell'impero, che Basilio Macedone esitò ad assalirli. Indi
l'ambasceria di Pietro Siculo; il quale non piegò alla pace que' fieri
ribelli, ma riebbe da loro i prigioni; scoprì una pratica loro coi
Bulgari; ed or disputando coi dottori eretici, or confabulando con gli
ortodossi che trovava qua e là, in nove mesi che soggiornò a
Tefrica, raccolse i materiali di una storia di quella eresia; e la scrisse
tantosto, e la dedicò al novello arcivescovo dei Bulgari.
Lucidamente spiegovvi i sei punti principali di quella eresia; la
origine, la trasformazione delle credenze; ritrasse con critica,
ordinò, espose non senz'arte i fatti materiali nati da quegli errori di
metafisica: la persecuzione, la ribellione, le guerre. Potrebbe dirsi
storia superiore a que' tempi, se non vi si notassero i vizii di forma
accennati di sopra, e quel ch'è peggio mille volte, la corruzione del
senso morale; la compiacenza teologica con che si narrano i
supplizii dei Pauliciani; la irrisione delle vittime947. Pietro, fatto
vescovo dopo questa missione, morì, com'e' pare, verso l'ottocento
novanta.
Una leggenda tratta dai menologi greci, ma non favolosa al certo,
riferisce alla stessa epoca il martirio di quattro Siciliani per nome
Giovanni, Andrea Pietro e Antonio; dei quali Andrea e i due ultimi
eran padre e figliuoli. Fatti schiavi alla espugnazione di Siracusa;
condotti in Affrica al feroce Ibrahîm-ibn-Ahmed, questi educava i
due giovanetti nelle discipline musulmane; e, vedendoli capaci e
costumati, li adoperava in oficii pubblici: Antonio collettor di
tasse948; Pietro tesoriere; il che non è inverosimile. Ma poichè essi

947
Petri Siculi Historia de Manichæis, versione latina di un MS. della Vaticana,
nella Maxima Bibliotheca Patrum, tomo XVI. Veggansi anco, su le persecuzioni
dei Pauliciani, Theophanes continuatus, lib. IV, cap. XVI; e Gibbon, Decline and
Fall, cap. LIV.
948
Nella versione pubblicata dal Gaetani si legge Genicus, e si spiega
"riscuotitore." E veramente il verbo gena ha significato di "raccogliere," e il
derivato genâia vale "multa" e "tassa in generale;" come l'ha notato il Quatre-
mère, Histoire des Sultans Mamlouks, tomo I, p. 199. Gêni significherebbe

482
serbavano in cuore la fede dei padri loro, il caso o qualche nemico li
scoprì. Ibrahim li dannò a morte come apostati: onde furono
imprigionati; lacerati a battiture; spezzate loro le ossa; sconciamente
mutilati con tanaglie roventi. Il tiranno, tra cotesti supplizii, fa
condurre il padre e gli tronca il capo egli stesso. Tratto poi Andrea
dal carcere ov'era invecchiato, gli pianta una lancia in petto; e come
quegli levava gli occhi al cielo rendendo grazie del martirio, lo finì
con un altro colpo e gli spiccò anche il capo. Così fatti particolari,
che in altro caso renderebbero assai sospetta la narrazione, la
confermano trattandosi d'Ibrahîm. Il suo nome, quel di Basilio
principe contemporaneo, la espugnazione di Siracusa, che son citati
nella leggenda, tutti le aggiungon fede949.
Di assai maggior momento nella storia i casi di Giovanni
Rachetta, detto Sant'Elia il giovane, del quale già abbiam fatto
menzione. Nacque di nobil gente a Castrogiovanni, l'anno ottocento
ventotto o ventinove950; essendo fanciullo di otto anni, i Cartaginesi,
dice la leggenda, irruppero nella città: il qual tempo risponde in
vero alla occupazione dei sobborghi di Castrogiovanni (837). I
genitori, col fanciullo e l'avanzo di loro facoltà, si rifuggirono in un
Castel di Santa Maria; e vissero tranquilli, finchè una notte parve a
Giovanni udir voce del Cielo che gli annunziasse cattività e
missione di confortare nella fede cristiana i conservi suoi. A dodici
anni, segnalandosi già nello studio delle sacre lettere, ed
esercitandosi assiduamente nella preghiera, gli si cominciò a
squarciare dinanzi agli occhi il velo del futuro: predisse come i
nemici farebbero impeto nel castello; come il tale e il tal altro
sarebbero uccisi. Ciò sembra raccontato dal Santo, provetto negli
anni e professante ormai apertamente la profezia. Forse non era
bugia del tutto: forse egli stesso avea creduto, e in parte credea,
vedere con altri sensi che i mortali. La immaginativa sua nudrita di
spavento dei Musulmani, di terrori religiosi, di calamità sovrastanti
appunto collector.
949
Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 59.
950
Il biografo dice che morisse il 904, ottuagenario; il che significa soltanto che
s'avvicinava agli ottanta.

483
e continua intervenzione del Cielo, creò un fantasma, e le parve
mandato da Dio; presentì, e le parve ispirazione; e avveratosi
talvolta il presentimento, ciò parve irrefragabil prova dell'intuizione
profetica. Avventuratosi ai vaticinii, il giovine non potea smettere;
fatto uomo maturo li vedea tornare utili a sè medesimo e ad altrui;
alle anime e ai corpi; alla Chiesa e allo impero: e mille esempii gli
permetteano d'inorpellare la verità a buon fine, senza interesse;
poichè agli uomini non pare interesse privato la vanagloria.
Ciò detto, potrò seguire fil filo la leggenda. Gli abitatori del
Castel di Santa Maria, sbigottiti alle parole del fanciullo, traevano a
lui; ed egli a riprendere i vizii, a raccomandare penitenza e carità, e
che secondo il vangelo si gettasse al foco il tristo legno. Ond'altri
meravigliava di tanta saviezza; ma gli stolti e la feccia della plebe
voltavan le spalle, dice amaramente il biografo: e parmi naturale
che i poveri non abbiano mostrato punto di zelo a difendere un
ordine sociale sì iniquo. Il virtuoso giovanetto incontrò tra i primi le
calamità che presagiva. Uscito a diporto dal castello, imbattevasi in
una torma di cavalli musulmani; era preso; venduto a un cristiano,
forse trafficante di tal merce; e imbarcato sopra un legno
musulmano, con altri dugento venti schiavi. Navigando alla volta
d'Affrica, liberolli un dromone greco uscito di Siracusa; e Giovanni,
che avea predetto anche ciò, fu reso ai parenti. Perdè il padre dopo
tre anni. Mentre lo agitavano sentimenti contrarii, la pietà della
madre e la brama di peregrinare ad esaltazione della fede, il decreto
divino si compì. Fatto prigione in più fiera scorreria dei nemici, fu
comperato anco da un cristiano; menato in Affrica; e venduto ad un
altro cristiano, ricco mercatante di cuoia; il quale, preso del bello
aspetto, modestia e integrità del giovane, gli affidò il maneggio
della casa sua.
Lasceremo indietro un episodio tolto di peso dalla storia di
Giuseppe il Giusto; non sapendo se pur vi sia di vero, vera usanza,
dico, delle cittadine cristiane d'Affrica, Sicilia o Calabria in quel

484
tempo, il rosso e il bianco951 di che si liscia il volto, il ferro952 con
che s'arriccia i capelli la moglie del mercatante, ostinata a sedurre
Giovanni. Chiaritosi innocente, ei si ricomperò coi frutti del proprio
lavoro, ch'è tra i modi di emancipazione già notati secondo legge
musulmana; i quali necessariamente veniano in uso tra i vassalli
cristiani. Poscia salì in fama appo Cristiani e Musulmani al paro,
per miracolose guarigioni di ferite e morbi: il che da molti secoli a
questa parte è intervenuto e interviene tuttavia in Oriente a chiunque
abbia una tintura di medicina, o almeno astuzia e baldanza. Dell'arte
sua, qual che si fosse, il santo usò a far proseliti, credo io, in Egitto.
Donde accusato dai barbassori musulmani o piuttosto dal clero
giacobita953, corse pericoli: ma il governatore della provincia lo fe'
uscir di prigione; ed egli non guari dopo se n'andò a Gerusalemme.
Quivi il patriarca lo onorava; gli dava l'abito monastico e con quello
il nome di Elia. Soggiornò tre anni in Gerusalemme; visitò il
Giordano, il Taborre, il Sinai; venne ad Alessandria, o forse
Alessandretta; e accingeasi a passare in Persia; ma le turbolenze
nate in quel paese lo costrinsero a sostare ad Antiochia.
La voce divina che gli solea parlare ne' sogni, al dir della
leggenda, lo visitò di nuovo in Antiochia, confortandolo a tornare in
patria. Fu voce di coscienza in un animo generoso che sapea voltata
la fortuna contro i Musulmani in Occidente; ovvero consiglio di
qualche agente bizantino; o dello stesso patriarca di Gerusalemme
951
Nella versione latina si legge fuco et cerussa. Si sa che questo è il bianco di
piombo; l'altra è espressione vaga. Se nel testo greco si trovasse, com'è probabile,
φΰκος, indicherebbe il rosso cavato da una specie d'alga.
952
Calamistrum.
953
La leggenda attribuisce l'accusa ai principali ismaeliti; dice che fu portata al
califo (ameramnem), e che contenea due rubriche, 1° dispregio del Profeta e dei
suoi vaticinii; 2° «predicare una novella religione, e sostenere il figliuol di Maria
coeterno e consustanziale a non so che Spirito e al padre.» Or questo non mi pare
nè linguaggio da Musulmani, nè invenzione del biografo. Non ostante qualche
difficoltà, che sparirebbe forse se avessimo il testo greco, l'accusa sembra scritta
dai fanatici della Chiesa Copta; e però la persecuzione seguita in Egitto. Alla
stessa conchiusione porterebbe il fatto della liberazione ordinata dal governatore
della provincia, non ostante il richiamo al califo.

485
che solea parteggiare per la corte di Roma, intesa allora a
riconciliarsi con Basilio Macedone. Elia, vissuto mezzo in Sicilia e
mezzo in paesi musulmani, ardente di zelo per la religione,
ricordevole dei parenti, e, perchè no? anco della patria, era proprio
il caso, nell'apostolato politico che dovea accompagnare le armi di
Basilio in Sicilia. Narrammo già954 com'Elia tornasse nell'isola
l'ottocento ottanta a riveder la madre; osservare le forze dei
Musulmani; incoraggiare il popolo; ed esortare alla battaglia i
capitani bizantini. Cammin facendo, avea con breve e dotto
parlare955 convertito parecchi Infedeli. Dopo lo sbarco di Nasar
presso Palermo, il frate siciliano passava da Reggio o da Palermo a
Taormina956, dove dimorato pochi giorni prese seco un giovane di
onesta famiglia, cui diè l'abito monastico e il nome di Daniele; e
presagita la sconfitta del capitano Barsamio, navigava alla volta del
Peloponneso. Il biografo ci narra tuttavia frequentissimi prodigii
operati da Elia, e che, ciò non ostante, egli e Daniele, verso
l'ottocento ottantuno957 erano tenuti spie a Botranto; imprigionati da
un Epinio governatore; e che, liberati per la morte del ribaldo, si
proponeano di andare a Roma; ma vietato loro quel viaggio,
sostavano a Corfù, albergati e onorati dal vescovo; e infine veniano
a fondare un romitaggio nella valle delle Saline, tra il Capo
dell'Armi e Pentidattolo in Calabria, a rimpetto di Taormina.
Coteste vicende, come altrove il notai, non s'adattano al mero
apostolato religioso; e par che Elia da una mano conducesse
pratiche contro i Musulmani di Sicilia; dall'altra parteggiasse coi
frati che non si acquetavano alla ristorazione di Fozio sul seggio

954
Cap. X, p. 411, seg.
955
Leggasi nella biografia citata presso il Gaetani, tomo II, pag. 67, 68.
956
Il biografo dice che Sant'Elia venne in Palermo; che, partita quinci alla volta di
Reggio l'armata musulmana, ei ritenne i Reggini i quali volean fuggire; e poi che
da Palermo andò a Taormina. Se non v'ha qualche confusione nel testo, potrebbe
supporsi ch'ei fosse tornato in Palermo, forse con l'armata bizantina, e di lì ito a
Taormina.
957
Questo fatto è dato come contemporaneo alla sconfitta di Barsamio presso
Taormina che seguì nell'881. Veggasi il Capitolo X, pag. 417.

486
patriarcale, sopratutto dopo la morte di Giovanni Ottavo (882). Elia
mandò ad effetto il viaggio di Roma al tempo di Stefano Quinto
(885-891), dopo alquanti anni passati in Calabria spargendo odore
di santità con guarigioni; vaticinii di scorrerie dei Musulmani;
comandare ai venti e alla pioggia; far miracoli anche per ischerzo; e
sempre cattar favore nel popolo; costringere a riverenza i grandi.
Ritornato ch'ei fu da Roma, predisse ai Reggini il prossimo
saccheggio della città (888); e ritrattosi opportunamente a Patrasso,
si mostrò di nuovo a Reggio, quando seppe partiti i nemici; e indi
tornò al suo romitaggio: ma per fuggire l'aura popolare, come dice il
biografo, o piuttosto il pericoloso soggiorno in su lo Stretto di
Messina, andò a fondare un monastero in altro luogo, credo io, in un
monte tra Seminara e Palmi, detto di Sant'Elia, ov'è tuttavia una
chiesa. Viaggiando spesso nella estrema Calabria, esortava per ogni
luogo i fedeli a lasciare il vino, le lascivie, le risse, se voleano
preservarsi dalle calamità di quella guerra. Gli esempii
d'Epaminonda e di Scipione ch'ei talvolta frammetteva ai suoi
ammonimenti, mostrano che tenesse la riforma dei costumi non solo
come rimedio teologico, ma sì diretto e temporale. Aggiugne la
biografia, nè stentiamo a crederlo, che un Michele capitano d'armata
in Calabria, ristorata la disciplina tra i suoi per consiglio di Elia,
riportasse vittoria in uno scontro; lieve combattimento, non
ricordato nelle cronache.
Io ho voluto sì minutamente raccontare i casi d'Elia da
Castrogiovanni, perchè parmi modello dello zelo religioso, solo
raggio di virtù che rimaneva in Sicilia. Il genio della schiatta vinta
si raffigura tanto meglio in questo frate cittadino, quanto la vita sua
durò dai primi assalti dei Musulmani sino al compimento materiale
del conquisto, la espugnazione, cioè, di Taormina. Com'ei vi
andasse, con che parole e teatrali atteggiamenti avvertisse i cittadini
del fato che loro sovrastava, il diremo nel libro terzo, trattando di
quella guerra. D'altronde Elia, o il biografo, non imaginarono nulla
di nuovo in questo incontro, in cui il santo, al solito, se ne fuggì
avanti che arrivassero i nemici. Andò ad Amalfi; tornò in Calabria;

487
operò altri miracoli; favorì un Colombo audace ribelle; lasciò
morire il capitano imperiale che gli negava la impunità di Colombo;
e la impetrò egli stesso da Leone il Sapiente, a prezzo d'andare a
visitare l'imperatore a Costantinopoli. Leone, come ognun sa, avea
deposto di nuovo Fozio per far cosa grata a Roma; blandiva e
ingrassava il clero per tenersi più tranquillamente la bella Zoe; e il
biografo ci afferma che avesse già richiesto il taumaturgo siciliano
di pregare per lo Impero, al quale effetto quegli s'era portato a
Taormina. Adesso, entrato in nave per soddisfare la novella
promessa a Leone, presentì in viaggio che morrebbe di corto; e andò
a spirare in un monastero presso Tessalonica, il diciassette agosto958
novecento quattro; comandando che si rendesse il suo corpo al
monastero di Calabria, come fu fatto; e aggiuntovi ricchi doni e
poderi dal religiosissimo imperatore, dice il biografo. Secondo
costui Elia s'appressava agli ottant'anni, il che risponde alla
cronologia dei fatti storici che si citano. Convengono altresì a quella
età decrepita la eccessiva collera e i capricci che si notano negli
ultimi fatti della sua vita959.
Ma i frati contemporanei di Elia, la più parte, preferivano
all'attività e ai rischi una sterile pietà. Tra loro si ricorda un San
Leoluca da Corleone, non educato, dice la leggenda, nè alla guerra
nè all'oziosa filosofia; il quale, stanco di pascolare gli armenti nei
campi paterni, andava a tosarsi i capelli nel monistero di San
Filippo d'Argira; ove ammonito da un vecchio frate delle calamità
che sovrastavano alla Sicilia, non le aspettò. Peregrino e mendico
fuggissi a Roma; poi fondò un monistero in Calabria: si straziò in
958
Così nel testo greco, presso i Bollandisti, agosto, tom. III, p. 508. Nella
versione latina si legge XVI kalendas augusti, che torna al 17 luglio, e si
additerebbe meglio al caso di Tessalonica, seguito pochi giorni appresso.
959
Vita anonima di Santo Elia il giovane, tradotta sopra un MS. greco del
monastero del Salvatore di Messina, e pubblicata dal Gaetani, Vitæ Sanctorum
Siculorum, tomo II, p. 63, seg., e dai Bollandisti, Acta Sanctorum, 17 agosto, p.
483, seg. Non ho atteso alle note cronologiche delle due edizioni, trovando guida
più certa nelle date della occupazione del sobborgo di Castrogiovanni e della
espugnazione di Tessalonica. Ho tralasciato la ripetizione di molti miracoli, e il
minuto ragguaglio della traslazione del corpo di Sant'Elia in Calabria.

488
cento balzane penitenze ed oficii servili, e morì, dicono gli
agiografi, nei primi anni del decimo secolo. Ma l'origine della
leggenda è sospetta; e l'autore, facendo menzione di due fughe di
Leoluca, alla venuta dei Vandali e poi dei Saraceni, non s'accorse
del miracolo grandissimo che fabbricava960.
Taccio di Santa Oliva palermitana, confinata dai parenti a Tunis;
dannata a morire tra i tormenti; uscita fresca dall'olio bollente,
intatta dal foco; uccisa alfine con la spada da Pagani, Vandali o
Musulmani, non si sa: leggenda sì assurda da non meritare esame 961.
Dello stesso conio parmi quella di Santa Venera da Gala, ricusante
di andare a marito; e uccisa, per dispetto, dai fratelli pagani962.
Nondimeno il dotto gesuita autor della raccolta, non volendo lasciar
fuori cotesti nomi sì popolari in Sicilia, e trovando troppo pochi
santi nell'epoca musulmana, destramente vi allogò le due donzelle.
Così arrivò a noverare una diecina di martiri canonizzati,
compresovi San Procopio vescovo di Taormina; la eroica morte del
quale è attestata da memorie genuine, e la narreremo nel seguente
libro, insieme con lo eccidio di quella città.
Percorse le biografie che abbiamo esposto, e ricercando qual
maniera di civiltà avanzasse nella Sicilia cristiana del nono secolo,
si troverà la sola religione; e poi si scoprirà che l'era pianta parasita
che ingombrava l'albero, gli toglieva i succhi vitali, e invece di
quello germogliava. Dell'incivilimento risguarderem solo i due
aspetti primarii; cioè la coltura dello intelletto e il legame morale
della società. Nel primo aspetto si vede che gli studii ecclesiastici,
ristorati nell'isola da San Gregorio, caduti a poco a poco, risorti
nella lotta contro gli Iconoclasti, produceano, ultimi frutti, le
prediche di Teofane Cerameo, i versi di San Giuseppe Innografo e
di Sergio, gli scritti di Teodosio monaco963 e di Pietro Siculo, la
960
Questa biografia latina, cavata da MSS. di Palermo, Mazara e Corleone fu
pubblicata dal Gaetani, Vitæ ec., tomo II, pag. 80, e dai Bollandisti, con lo aiuto
di un MS. di Roma, Acta Sanctorum, 1 marzo, pag. 27.
961
Presso Gaetani, Vitæ ec., tomo II, pag. 84, da un MS. della chiesa palermitana.
962
Op. cit., tomo II, pag. 86.
963
Veggasi il capitolo IX di questo II° Libro.

489
cultura onde si armava in sua vendetta Gregorio Asbesta, ed
aiutavano alla ristorazione delle lettere nella capitale dell'Impero:
ma niun laico s'incontra nella lista; nessuno studio profano. Il
legame morale, massimo scopo della religione come pensavano i
nostri padri latini, si vede rilasciato e inefficace. Inefficace nei
costumi, nei quali si scopre sfrenamento delle passioni brutali e
bacchettoneria, che per lo più vanno insieme. Inefficace nei rapporti
politici, poichè la più parte della Sicilia spensieratamente piegava il
collo ai Musulmani. Io non ho detto che sola causa di tanto
infiacchimento fosse stata la religione, o quella che si tenea
religione nel basso impero; ma affermo sì che la religione poco o
nulla giovò a mantenere lo Stato di cui era solo elemento vitale. E
veramente, nelle cronache e leggende dei primi tempi della guerra
non v'ha vestigio di difesa nella quale avessero partecipato
virilmente i ministri della religione; anzi veggiamo che i santi si
affrettavano a fuggire dall'isola. Aiutò solo il sentimento religioso,
quando le popolazioni disperate si sollevarono per altre cagioni;
quando l'impero bizantino rinvigorito mandò eserciti; quando un
nodo di popolazione, respirata l'aria della libertà, prese a mantenerla
da sè stesso: e in questi eventi i preti e i frati ebber sempre parte
secondaria; non surse tra loro un Pier l'Eremita nè un Savonarola.
Di tali uomini non nacquero giammai nella società bizantina; la
quale per ogni luogo traea sua vecchiezza tra i vizii che testè
abbiamo notato nella popolazione cristiana di Sicilia al nono secolo,
e che vedemmo in tutta l'isola nei tempi anteriori al conquisto. Qual
fosse stata nel medesimo tempo la società musulmana nell'isola, mi
ingegnerò a ritrarlo nel Capitolo primo del seguente libro.

490
SOMMARIO DEI CAPITOLI CONTENUTI NEL PRIMO
VOLUME.964

INTRODUZIONE

Progredimenti nello studio delle istorie musulmane. Pag.


III
Che rimase in Sicilia delle tradizioni musulmane infino IV
al XV secolo.
Che ne raccolsero Fazzello, D'Amico, e Giambattista VIII
Caruso.
Le lettere orientali prospere in terraferma d'Italia nel IX
XVII secolo e punto in Sicilia. Orientalisti siciliani:
Maggio e Tardia.
Impostura del maltese Vella. X
Zelo di Monsignor Airoldi. XII
Lavori del Di Gregorio e del Morso. XIII
Saggi storici di Scrofani, del principe di Scordia e del XV
Martorana.
Bertolotti, Mortillaro, Giuseppe Caruso. ivi
Premio dell'Istituto di Francia, accordato a M. Des XVII
Noyers. Pubblicazioni di M. Des Vergers e di M. Famin.
Opera del Wenrich. XVIII
Materiali raccolti fino al 1843. Annali del Rampoldi. XIX
Ricerche mie. Disegno della Biblioteca Arabo-Sicula, e XXI
della carta geografica comparata.
Quali ricerche rimangano a farsi. XXIII
Due notizie che van corrette. XXV
Materiali su i quali ho scritto. Sorgenti arabiche. XXVI
Sorgenti bizantine e latine. XXVI
II

964
La numerazione delle pagine si riferisce alla edizione cartacea di riferimento.
L'indice generale con i numeri di pagina aggiornati si trova a pagina 5.

491
Limiti che ho assegnato alla mia narrazione. XXX
Aiuti che riconosco dai professori di Parigi. XXXI
II
Favori altrui nelle ricerche. ivi
Soscrizione fatta nel 1844 per la stampa di questa opera. XXX
V
Tavola analitica delle sorgenti arabiche: Opere perdute. XXX
VII
Opere esistenti. XXXI
X

LIBRO PRIMO.

Capitolo I.

Varie dominazioni straniere in Sicilia. Pag. 1


Tratterò i conquisti musulmano e normanno. 3
III secolo Decadenza della Sicilia sotto i Romani. ivi
av. G. C.
II idem. Guerre servili. 5
I idem. Condizioni dell'isola al principio dell'era 7
volgare.
I secolo Migliorata sotto i primi imperatori. 8
di G. C.
III idem. Novella decadenza. 10
» Incursione dei Franchi. 11
V idem. Vandali, Eruli, Ostrogoti. ivi
VI idem. Conquisto di Belisario. 12
» Relazioni della Sicilia con la terraferma 13
d'Italia

Capitolo II.

492
I secolo. Primordii del Cristianesimo in Sicilia. 15
Leggende.
I a VI Fatti storici. 16
secolo.
IV e V Gerarchia ecclesiastica. 18
idem.
V e VI Patrimonii delle Chiese di Ravenna, Milano 20
idem. e Roma in Sicilia.
VI idem. La Chiesa di Roma e i Longobardi. 22
» San Gregorio. ivi
anno Avanti il pontificato fonda sei monasteri in 23
575. Sicilia.
590 - Influenza e disegni suoi nell'isola 25
604.
» Provvedimenti di San Gregorio. 26
VII e Splendor della Chiesa Siciliana. 28
VIII
secolo.

Capitolo III.

Antichi rivolgimenti in Arabia. 30


Schiatte di Kahtân e Adnân. 31
Cittadini e Beduini. 32
Tribù nomade. La famiglia. 33
Ordinamento politico. ivi
Leggi civili. 34
Suddivisioni delle tribù. 35
Aristocrazia. ivi
Ordine delle città. 36
Indole, costumi e usanze. ivi
VI secolo Principii d'incivilimento. 38

493
di G. C.
» Cagioni di quello: commercio, Persiani, 39
Romani, giudaismo, cristianesimo.
» Periodo eroico. 40
» Cultura intellettuale. Poesia. 41
» Eloquenza e filologia. 43
» Costumi. 44
» Opinioni metafisiche. ivi
» Culto. Novatori. 45
» Reggimento politico della Mecca. 47
an. 570 - Gioventù di Maometto. 49
611.
» Dommi e precetti dell'islamismo. 50
» Il Corano e la tradizione. 53
611 - Predicazione di Maometto. 55
622.
622. Egira. 56
622 - Guerra civile e trionfo. 57
630.
» Tentativi fuor d'Arabia. 58
632. Morte di Maometto. Virtù de' suoi discepoli. 59
632 - I primi califi e lor conquisti. 61
661.
» Democrazia e socialismo. Diwani di Omar. 63
» Nuovi ottimati. 67
» Reazione dell'antica nobiltà. 68
» Autorità dei califi. 70
» Ordini militari degli Arabi. 71
» Avvantaggi loro su i Persiani e i Bizantini. 74

Capitolo IV.

630 - Nome di Saraceni. Prime notizie che se 75

494
639. n'ebbero in Sicilia.
639 - Eresia monotelita. 76
649.
654. Papa Martino e Costante imperatore. 78
636 - Prime imprese marittime dei Musulmani. 79
647.
648. Vittorie di Cipro, Arado, Rodi. 81
652. Tradizioni del primo assalto in Sicilia. 82
» Ritratto storico di questa impresa. 88
653. Prigionia e condannagione di papa Martino. 90
655. Battaglia navale e sconfitta di Costante. 92
655 - Viene in Italia. Pon la sede a Siracusa. 93
663.
663 - Sua tirannide. 95
667.
668. È ucciso. ivi
» Tradizione arabica di questo regicidio. 96
» Mizize e Costantino Pogonato. 97
669. Abd-Allah-ibn-Kais a Siracusa. 98
» Impostura fratesca su questa scorreria. 100

Capitolo V.

Condizioni dell'Affrica Settentrionale. 103


Schiatte: Vandali, Mori, popolazioni 104
pelasgiche, Berberi.
Origine orientale dei Berberi. 105
Governo Bizantino. Ribellione del patrizio 108
Gregorio.
641 - Varie imprese degli Arabi. Fuga di abitatori 109
647. dell'Affrica in Pantellaria.
» Ordine degli Arabi nell'occupare i paesi 112
vinti.

495
670. Impresa di 'Okba-ibn-Nafi'. Fondazione di ivi
Kairewân
670 - Altri Conquisti di 'Okba. 115
682.
683. È sconfitto e morto. 116
» Lotte dei Berberi contro gli Arabi. 118
an. 683 - Zoheir-ibn-Kais. Hasan-ibn-No'man. Presa 118
694. di Cartagine. La Kahina regina dei Berberi.
694 - Domi i Berberi la seconda volta. 120
698.
699 - Musa-ibn-Noseir in Affrica. 122
704.
711 - Sue vittorie nel Mediterraneo, in Spagna e 124
716. oltre i Pirenei
720. Raccesa la guerra dei Berberi. 126
720 - Gli Ibaditi e i Sifriti, eretici musulmani. 127
740.
741 - Sconfitte e vittorie degli Arabi 128
742.
757 - Si rassoda il conquisto musulmano. 129
800.

Capitolo VI.

Varii modi di colonie. 130


670 - Quello che tennero gli Arabi in Affrica. 131
741.
» Ordini e umori delle colonie arabiche. 132
Giund.,
» Elemento democratico nelle città. 133
» Governo politico. Antagonismo di schiatte. 134
» Guerre civili che ne seguitano. 135
742 - Dominazione della casa di Habîb in Affrica. 137

496
757.
» Influenza delle schiatte persiane. 138
750. Esaltazione degli Abbâssidi al califato. 139
» Nuovi ordini del principato. Letteratura. 141
761 - I Persiani del Khorassan e gli Arabi in 142
771. Affrica.
761 - Riputazione della casa di Aghlab. 144
799.
800 - Ibrahîm-ibn-Aghlab prende il governo 146
812. d'Affrica.
» Autorità di questo novello principato. 147
Parlamenti della colonia.
» Autorità dei giuristi nell'impero musulmano. 149
812 - Opposizione legale sotto il regno di Abd- 152
817. Allah.
817 - Ziâdet-Allah. Sollevazione del giund. 153
825.
» Epilogo delle condizioni dell'Affrica. 157
711 - Eventi in Spagna. 158
755.
755 - Primi Omeîadi di Spagna. 159
796.
818. Tumulto a Cordova. 160
825. Gli usciti Spagnuoli occupan Creta. 162

Capitolo VII.

700. Gli Arabi d'Affrica si volgono contro la 165


Sicilia. Prendono Pantellaria.
» Preparamenti navali a Tunis. 166
703 - Tre prime scorrerie in Sicilia. (Vedansi le 168
705. due Aggiunte, p. 535.).
710. Assalto in Sardegna. 169

497
720 - La Sicilia infestata varie volte. 171
740.
740. Habib-ibn-'Obeida ne tenta il conquisto. 174
752. Altra scorreria. Gli imperatori bizantini 175
afforzan l'isola.
748 - Pestilenza. 176
750.
» Cosimo dotto monaco italiano. ivi

Capitolo VIII.

VII Risorgono i municipii nelle città d'Italia 178


secolo. rimase ai Bizantini.
» Umori d'independenza. 179
702 - Sollevazione in Italia. ivi
712.
726 - Iconoclasti. L'Italia si ribella dall'impero. 180
741.
741 - Brighe dei papi. Afferrano la dominazione 181
800. temporale. Carlomagno.
» Divisione territoriale dell'Italia in questo 183
tempo.
» I governatori bizantini della Sicilia dan 184
favore ai Longobardi di Benevento.
778 - Papa Adriano I agogna a stendersi nell'Italia 186
787. meridionale.
787. Resistenza che incontra. 187
788. Pratiche de' Bizantini con Benevento. 188
» Impresa di Adelchi. 189
788 - Relazioni dei governatori della Sicilia con 190
813. Carlomagno e coi papi.
815 - Impotenza dei Bizantini a ripigliare l'Italia. 192
826.

498
Capitolo IX.

Secoli Condizione della Sicilia sotto i Bizantini. 194


VII e Schiatte.
VIII.
» Proporzione tra i Greci e i Latini. 196
» Condizione sociale nelle città: Curia. 198
» Popolazione rurale: coloni; schiavi. 199
» San Gregorio, non libera in Sicilia nè gli uni 201
nè gli altri.
» Divisione della proprietà. Poderi in enfiteusi. 204
» Industria e commercio. 205
» Gravezze. 206
» Reggimento dello Stato. Municipalità. 207
» Governatori e oficiali dell'impero. 211
» Esercito; beneficii militari. 213
» Vizii di questa istituzione. 215
» Navilio provinciale. 216
» Impotenza politica del popolo. ivi
» San Leone vescovo di Catania e il mago 218
Eliodoro.
» Zelo dei Siciliani nel culto delle immagini e 220
indifferenza verso i papi.
» La Sicilia fatta luogo di confino. Epilogo 222
della sua decadenza.

Capitolo X.

728 - Trattati dei Governatori dell'isola con gli 224


812. Arabi d'Affrica.
812 - Minacciata di nuovo l'Italia. 226

499
813.
813. Fazioni nelle isole minori: ambasciatori 228
degli Aghlabiti in Sicilia.
813. Condizioni della tregua. 229
» Scorrerie in Calabria. 230
819. Altra in Sicilia. 231
» Fallacia del supporto conquisto musulmano 232
dell'820.
» E della impresa di Halcama. 233
» Origine di cotesta tradizione. Leone 234
Affricano erudito del XVI secolo.
» Altro errore del Fazzello. 236

LIBRO SECONDO.

Capitolo I.

821 - Supposte cause della rivolta d'Eufemio; 239


826. tradizione di Giovanni diacono di Napoli.
» E dell'Anonimo Salernitano. 240
» Autorità bizantine. 241
» Particolari della narrazione bizantina. 243
» Autorità musulmane. 245
» Particolari che narrano. 246
» Critica dei racconti. 248
» Indole e vicende principali di questo 250
movimento.

Capitolo II.

759 - Ased-ibn-Forât, giurista. 253


800.

500
810 - Riputazione sua. 254
819.
823. Fortezza d'animo che mostra nella guerra 256
civile.
827. Eufemio chiede aiuti in Affrica. 258
» Parlamento del Kairewân. Si disputa su la 259
giustizia dell'impresa.
» E su la utilità. Vinto il partito. 260
» Dato il comando ad Ased. 261
» Mostra dell'esercito. 262

Capitolo III.

» Sbarco a Mazara. 264


» Vittoria di Ased. 266
» Marcia sopra Siracusa. 269
» Assedio. 272
» Respinti gli aiuti bizantini. 273
828. Morte di Ased. L'esercito elegge il nuovo 275
condottiere.
» Impresa de' conti di Toscana in Affrica. 276
» I Musulmani si levan dall'assedio di 278
Siracusa.
» Fazioni di Mineo e Girgenti. Assedio di ivi
Castrogiovanni.
» Uccisione di Eufemio. 281
» Sconfitta del patrizio Teodoto. 282
829. Moneta battuta dai Musulmani nel campo. 283
» Vittoria di Teodoto. I Musulmani condotti 285
allo stremo in Mineo.

Capitolo IV.

501
829 Inaspettato aiuto di Spagna. 286
830. Nuove forze vengono di Spagna e d'Affrica. 288
Presa e abbandonata Ghallûlia.
850 - Assedio e dedizione di Palermo. 290
831.

Capitolo V.

831. I Musulmani stanziano in Palermo. 294


831 - Discordie. Governo posto nella colonia dagli ivi
832. Aghlabiti
» Poco dipendente dall'Affrica. 296
832 - Alessio Muscegh. Campo bizantino a 297
833. Castrogiovanni.
834 - Fazioni di Abu-Fihr. Ucciso da' suoi. 299
835.
835. Vittoria di Fadhl-ibn-Ia'kùb. 300
» Abu-l-Aghlab emiro in Sicilia. Armamenti e ivi
fazioni navali
836 - Scorreria sotto l'Etna e nella costiera 305
837. settentrionale dell'isola. Sconfitti i
Musulmani a Castrogiovanni, vi tornano a
campo.
837. Colpo di mano sulla città. La cittadella 306
resiste
837 - Assedian Cefalù. Cacciati verso Palermo. 307
838.
839 - Aiuti d'Affrica. S'arrendono a patto ai 309
840. Musulmani Platani, Caltabellotta, Corleone e
le Grotte: fors'anco Marineo e Gersci.

502
Capitolo VI.

856. La repubblica di Napoli chiede soccorso ai 311


Musulmani di Sicilia.
» E lor dà un navilio per l'assedio di Messina 313
842 - Espugnazione di Messina e di Alimena. ivi
843.
845. Presa Modica. Sconfitta dell'esercito 315
bizantino del tema di Kharsiano.
846 - Presa di Lentini. 316
847.
847 - Sbarco dei Bizantini a Mondello, presso 317
848. Palermo. Fallisce l'impresa.
848 - Dedizione di Ragusa. 319
849.
851. Morte dell'emir Abn-l-Aghlab 320
» Scorrerie del successore Abbâs-ibn-Fadhl. 321
852 - Combatte altre importanti fazioni. 322
853.
853. Sforza Butera a dargli seimila schiavi 323
» Considerazioni su tal patto. 324
854 - Campo al monte Artesino; scorrerie per tutta 325
857. l'isola. Prese Cagliano e Cefalù.
858. Sconfitta dell'armata musulmana di Sicilia 328
ne’ mari di Creta.
859. Presa Castrogiovanni per colpo di mano. 329
» Esercito bizantino venuto in Sicilia e 332
sconfitto
860 - I Cristiani di Val di Mazara ripigliano le 334
861. armi, e Abbâs li sforza a lasciarle.
861. Morte di Abbâs. 335

Capitolo VII.

503
841 - Stato dell'isola in questo tempo. 336
872.
» Popolazioni musulmane e cristiane. 337
Principati d'Affrica e di Costantinopoli.
» Comincia a variare la fortuna. 338
» Discordia tra i Musulmani. 339
» Il principato d'Affrica stringe il morso alla 340
colonia.
867. Basilio Macedone. 341
» Movimento dei Cristiani in Sicilia. 342
861 - Scambii d'emiri in Sicilia, e loro guerre con ivi
862. varia fortuna.
862 - Khafâgia-ibn-Sofiân. Un suo figliuolo 344
863. sconfitto a Siracusa.
864 - Occupate Noto e Scicli. Gualdana de' mille 345
865. cavalli.
866. Prese Troina, Noto di nuovo, Ragusa e 347
Ghirân.
867 - Altre fazioni. 348
868.
869. Colpo di mano fallito su Taormina. 349
» Sconfitta dei Musulmani a Siracusa. 350
Khafâgia ucciso e tradimento.
869 - Rifatto emiro il figliuolo. Occupazione dì 352
870. Malta.
871. Mohammed-ibn-Khafâgia ucciso anco a 353
tradimento. Mutazioni di altri emiri.

Capitolo VIII.

827 - Pochi venturieri musulmani nella Italia 354


837. meridionale.

504
838. I Musulmani di Sicilia prendono Brindisi e ivi
rompon Sicardo.
» Reliquie di San Bartolommeo a Lipari. 356
839 - Sconfitta dei Veneziani a Taranto. Infestato 357
840. tutto l'Adriatico.
842. I Musulmani ausiliarii di Radelchi gli 360
prendon Bari.
842 - Siconolfo chiama i Musulmani di Creta. 361
843.
843. Apolofar si spicca da lui. 362
843 - Allena la guerra in Terraferma. 363
846.
846. Nuove fazioni dei Musulmani su l'Adriatico 364
e sul Tirreno.
» Assaltano Roma. Tentan Gaeta invano. 365
849. Papa Leone IV e Cesario figlio del duca di 366
Napoli. Sconfitta degli Affricani a Ostia.
846 - Masar condottiero musulmano a Benevento. 367
847.
851. Venuta di Lodovico Secondo imperatore. 369
Accordo dei Longobardi. Presi a tradimento
i Musulmani a Benevento.
852. Vendetta dell'emir di Sicilia. Ripigliata dai 370
Musulmani Taranto e rinforzata Bari.
853 - Il sultano di Bari. 371
866.
» Guasti ch'ei reca dall'un mare all'altro. 372
866. - Chiamato nuovamente l'imperator Lodovico. 375
867.
867 - Assedio di Bari. 376
870.
» Basilio Macedone entra nella guerra. 378
871. Vittoria de' Veneziani a Taranto. Bari 379
espugnata.

505
» Disegni di Lodovico. Umori surti contro di 381
esso nell'Italia meridionale.
» Mene attribuite al soldan di Bari prigione. 382
» Lodovico preso da Adelchi e rilasciato. 383
» In Affrica è eletto un emiro della Gran Terra, 384
il quale sbarca con l'esercito a Salerno.
» Assedio di Salerno. 385
872. Sconfitte dei Musulmani. 387
875. Morte di Lodovico. 388

Capitolo IX.

864 - Vaghi cenni di vittorie dei Bizantini in 389


873. Sicilia. Frequenti scambii d'emiri.
873 - Timori dei Musulmani d'Affrica. Il nuovo 392
877. principe Ibrahîm-ibn-Ahmed comanda
d'investir Siracusa.
877. Topografia della città a quel tempo. 394
» Comincia l'assedio. 395
» Occupati i due porti. 397
877 - Fame ed epidemia. 398
878.
» Tardan gli aiuti di Costantinopoli. 399
878. Aperta la breccia. ivi
» Entrano gli assalitori. 402
» Carnificine e distruzione. 404
» I prigioni avviati in Palermo. 407
» Loro vicende. 408

Capitolo X.

878 - Congiura di palagio in Palermo. 410

506
879.
879. Fazioni contro i Cristiani che si risentivano. ivi
(Vedesi l'Aggiunta, p. 336.),
» I frati van suscitando. Sant'Elia da 411
Castrogiovanni.
880. Sconfitta dell'armata Affricana e Siciliana 412
nel mar di Grecia.
» Sbarco dei Bizantini presso Palermo. 415
Scorrerie loro per mare e per terra.
Afforzano una città, forse Polizzi.
881. Fazioni combattute dai Musulmani. 417
881 - Sconfitta loro a Caltavuturo. Miracolo 419
882. cristiano e miracolo musulmano in questa
battaglia.
882 - I Bizantini sgombran dall'isola. 421
885.
» Debole guerra fatta dai Musulmani ai 422
Cristiani che tuttavia si difendono.
887. Guerra civile degli Arabi coi Berberi in 424
Sicilia.
888. Sanguinosa sconfitta de' Bizantini nelle 425
acque di Milazzo. Dato il sacco a Reggio.
» Importanza della rôcca di Rametta in questo 426
tempo.
889. Cattività e poesia di Mogber-ibn-Ibrahîm, 427
capitano musulmano di Messina
889 - Sollevazione di Musulmani di Sicilia contro 428
894. il governo d'Affrica
894 - Pace formata da loro co' Cristiani di 431
895. Valdemone
» Fu compimento del conquisto 432

Capitolo XI.

507
875. Condizioni degli imperii d'Oriente e ivi
d'Occidente
» Disegni di papa Giovanni VIII 433
» Varii Stati in Italia 434
» Nuovamente i Musulmani vi portan la guerra 435
» Fazioni in Calabria e Puglia ivi
» I Bizantini racquistano parte del territorio 437
» Condizioni di quel paese ivi
876 - Altre fazioni dei Bizantini 439
885.
885 - Vittorie e umanità di Niceforo Foca 440
886.
» Colonie mandate da Basilio Macedone, e 441
pessima condotta dei suoi successori
875. Pratiche dei papi su la costiera del Tirreno 443
875 - Assalti dei Musulmani in quelle parti 444
876.
876. Desolazione della campagna di Roma 445
» Giovanni VIII non è sostenuto dagli 447
imperatori d'Occidente. Va a Capua e Napoli
877. Manda ad effetto una lega 448
» Ordisce una congiura contro il duca di 450
Napoli
878. È sforzato a pagar tributo ai Musulmani 451
879. Traccheggia con Atanasio vescovo di Napoli ivi
880 - Guasti dei Musulmani di Sicilia, chiamati da 454
881. Atanasio
881. Il papa pronunzia l'anatema contro di lui 456
882. I Musulmani presi a tradimento. Morte di 457
Giovanni VIII.
882 - Fatti di Gaeta 458
883.
» Colonia musulmana al Garigliano 459

508
883 - Fazioni dei Musulmani rimasi in Terraferma 461
888.
888 - Loro debolezza 463
902.

Capitolo XII.

827 - Stato dei Cristiani di Sicilia. Varie 464


900. relazioni loro coi vincitori.
» Occupazione successiva dei distretti ivi
dell'isola
» Divisione in tre valli 465
» Origine delle loro denominazioni 467
» Condizioni politiche diverse dei 469
Cristiani
» Municipii indipendenti 470
» Città tributarie 471
» Istituzioni municipali in queste ultime 473
» Dsimmi ossiano vassalli ivi
» Loro tributi 475
827 - Statuti di polizia civile. 475
900.
» Ed ecclesiastica. 476
» Amân di Omar a Gerusalemme. 478
» Istituzioni civili lasciate agli dsimmi 479
nelle terre non abitate dai Musulmani.
» E in quelle ov'erano mescolati coi ivi
vincitori.
» Schiavi. 481
» Epilogo. Distribuzione geografica delle 483
quattro classi de' Cristiani.
» Vicende intellettuali e morali. 484
» Fatti principali di storia ecclesiastica. 485

509
» Pochi martiri. 486
842. Orazioni sacre attribuite a Teofane 487
Cerameo.
» Quali appartengano al IX secolo. 490
» Allusioni ai costumi del tempo. 492
» Merito letterario di quest'oratore. 493
800 - San Metodio da Siracusa, patriarca di 496
847. Costantinopoli.
854 - Gregorio Ashesta arcivescovo di 498
878. Siracusa.
» Ultime vicende della sua vita. 501
800 - San Giuseppe l'Innografo. 502
883.
» Ristorazione delle lettere al suo tempo. 503
842 - Sergio monaco di San Calogero e 505
854. Costantino di Sicilia.
886. Cronica di Giovanni di Sicilia. 506
827 - Atanasio vescovo di Modene. 507
885.
827 - Pietro Siculo autor della Storia dei 509
890. Pauliciani.
890. Martirio di quattro Siracusani in Affrica. 511
828 - Sant'Elia da Castrogiovanni. 512
904.
» Sua cattività. 513
» Liberato, viaggia in Oriente. 514
» Torna in Sicilia. Sue opere in terraferma 515
d'Italia.
» Sua morte. 518
827 - San Leoluca da Corleone. 519
900.
» Leggende di Sant'Oliva e Santa Venera. 520
» Influenza della religione su la cadente ivi
società bizantina di Sicilia.

510
FINE DEL PRIMO VOLUME.

511
Michele Amari
Storia dei musulmani di Sicilia -
vol. 2

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TITOLO: Storia dei musulmani di Sicilia - volume 2


AUTORE: Amari, Michele
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TRATTO DA: Storia dei musulmani di Sicilia / scritta


da Michele Amari - Firenze : F. Le Monnier - volume
2, 1858 - 561 p. ; 21 cm.

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STORIA
DEI

MUSULMANI
DI SICILIA

SCRITTA

DA MICHELE AMARI.

VOLUME SECONDO.

FIRENZE.

FELICE LE MONNIER.

1858.
LIBRO TERZO.

CAPITOLO I.

Al contrario della stanca società bizantina che sgombrava di


Sicilia, la musulmana che le sottentrò, portava in seno elementi di
attività, progresso e discordia. Nel primo Libro, toccammo gli
ordini generali dei Musulmani, e come si assettarono in Affrica.
Or occorre divisare più distintamente alquanti capitoli di lor dritto
pubblico, e l'applicazione che sortirono appo la colonia siciliana.
Farem principio dal reggimento politico. Il dispotismo che
prevalse con la dinastia omeîade, e si aggravò con l'abbassida,
non era bastato ad opprimere le due aristocrazie, gentilizia e
religiosa, tanto che non prendessero parte, secondo lor potere, alla
cosa pubblica. Fecerlo in due modi; cioè con la interpretazione
dottrinale della legge, e con lo smembramento dello impero: a che
si è accennato, trattando dell'Affrica1. Secondo le teorie distillate
per man dei dottori2, dagli eterogenei elementi della legge
musulmana, lo impero, era ormai, in dritto e in fatto, debole
federazione di Stati, impropriamente chiamati province.
Troviamo in Mawerdi, egregio pubblicista del decimo secolo,
doversi tenere lo emir di provincia come delegato della
repubblica musulmana, non del califo3. Ei veramente esercitava
tutta l'autorità sovrana, fuorchè la interpretazione decisiva dei
dommi4. Allo emir di provincia era dato:
1
Veggasi il Libro I, cap. III, VI.
2
Oltre il Corano e la Sunna, ossia il supposto precetto divino e lo esempio del
Profeta, la legge si fondava sullo igtihâd, che vuol dire litteralmente "sforzo"
degli interpreti ed esecutori ad applicare lo statuto ai casi non provveduti
espressamente.
3
Mawerdi, Ahkâm-Sultanîa, lib. III, edizione di Enger, p. 51.
4
Mawerdi, op. cit., lib. I, p. 23, enumera così i dritti dello imâm, ossia califo,
pontefice e principe: 1° Conservar la fede secondo i dommi cardinali e le
interpretazioni concordi degli imâm precedenti, e ricondurre all'ortodossia i
Ordinare lo esercito, distribuire le forze nei luoghi opportuni, e
fissare gli stipendii militari, quando non lo avesse già fatto il
califo;
Vegliare all'amministrazione della giustizia ed eleggere i câdi
e gli hâkem, magistrati simili al câdi nelle città minori;
Riscuotere tutte le entrate pubbliche, pagar chi di dritto su
quelle, ed eleggerne gli amministratori;
Difendere la religione e la società;
Applicare le pene ad alcuni misfatti, nei limiti che appresso si
descriveranno;
Presedere alle preghiere pubbliche, in persona o per delegati;
Avviare e sovvenire i pellegrini della Mecca;
E, se la provincia stesse in su i confini, far la guerra ai vicini
infedeli, scompartire il bottino ai combattenti e serbarne la quinta
a chi appartenesse5.
Il popolo, dunque, di una parte del territorio musulmano
costituita in provincia e governata da un emiro, non riconosceva
il califo nè come legislatore nè com'esecutor della legge; non
vedeva altra autorità che dello emiro; e costui, alla sua volta, non
era tenuto ubbidire che alla legge ed alla propria coscienza; nè
dovea rispettare il fatto del principe, fuorchè nel caso degli
novatori, con la ragione o con la forza; 2° Far eseguire le leggi civili e
criminali; 3° Vegliare alla sicurezza interna; 4° Fare osservare i precetti
religiosi; 5° Difendere il territorio; 6° Portar guerra agli Infedeli; 7° Riscuotere
le legittime entrate pubbliche; 8° Pagare gli stipendii e spese pubbliche; 9°
Adoperare capaci e fidati ministri; 10° Trattar dassè le faccende più rilevanti.
Tolti questi due ultimi paragrafi che contengono consigli di condotta, non
ordinamenti di diritto pubblico, gli altri doveri dell'imâm non differiscono da
quei dello emiro, che nella potestà d'interpretare i dommi.
5
Mawerdi, op. cit., lib. III, p. 47, 48. Questo autore aggiunge che l'uficio di
emiro poteva essere generale ovvero speciale; sendo lecito destinare un emiro
alle cose di guerra e di polizia, come noi diremmo, e un altro all'azienda e
giurisdizione; op. cit., p. 51. Ma tal caso sembra avvenuto assai di rado.
Mawerdi stesso, p. 54, dice che nelle province conquistate di recente l'uficio di
emir, di dritto, diveniva generale; nè si potea diminuirne il territorio, nè
l'autorità. Le ragioni che ne allega Mawerdi son fondate su l'assioma, che il
ben della religione e della repubblica musulmana va anteposto al capriccio del
califo.
stipendii militari già determinati da esso. Il principe eleggeva e
rimovea d'oficio l'emiro, come il câdi, senza poter dettare all'uno i
provvedimenti, nè all'altro i giudizii; talchè tutta la
amministrazione civile, militare, ecclesiastica e giudiziale si
conducea come in oggi quella sola della giustizia negli Stati di
Europa che abbiano magistrati amovibili ad arbitrio. Bene o male,
era conseguenza logica della teocrazia. Se avvenia che il califo
sforzasse lo emiro ad alcun provvedimento con minaccia di
deposizione, ciò non costituiva norma d'ordine pubblico; era
abuso di chi comandava e viltà di chi obbediva. Similmente il
califo celava, quasi fosse colpa, la vigilanza sua sopra lo emiro,
affidandola al direttor della posta6. Alla effettiva autorità
rispondeano le apparenze, e in particolare la cerimonia della
inaugurazione, nella quale si prestava giuramento all'emiro non
altrimenti che al califo7. La moneta, nei primi due secoli
dell'islamismo, si coniava spesso col solo nome dell'emiro, per
esempio di Heggiâg-ibn-Iûsuf in Irak, di Mûsa-ibn-Noseir in
Affrica e Spagna, e di Ibrahim-ibn-Aghlab in Affrica8. Sì larga
essendo la potestà legale del governator di provincia e
impossibile di tarparla nei paesi lontani dalla metropoli, e
stanziando in quelli la nobiltà armata, ognun vede con che
agevolezza le province si poteano spiccar dall'impero, sol che le
milizie parteggiassero per l'emiro; nel qual caso tornava
inefficace la sola ragione lasciata al califo, cioè dargli lo scambio.
6
L'oficio della posta si chiamava appo gli Arabi berîd, trascrizione della voce
latina veredus. Par che i Sassanidi abbian tenuto la stessa pratica in fatto di alta
polizia; come l'accennai nella versione del Solwân d'Ibn-Zafer, nota 24 al cap.
V, p. 313, 314.
7
Il Baiân, tomo I, p. 75, e Nowâiri, Storia d'Affrica, versione francese di M.
De Slane, in appendice a Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, tomo I, p. 588,
fanno menzione del giuramento (biâ') prestato al nuovo emir di Affrica, Nasr-
ibn-Habib (791).
8
Ibrahim non era al certo independente in dritto più che gli altri emiri di
provincia. Per le monete di Heggiâg non occorre citazione. Su quelle di Mûsa,
va ricordato che la leggenda talvolta fu latina, come si scorge dalle lettere di
M. De Saulcy, Journal Asiatique, série III, tomo VII, p. 500, 540 (1839), e
tomo X, p. 389, seg. (1840).
Così nacquero le dinastie dei Taheriti in Persia, degli Aghlabiti in
Affrica, dei Tolûnidi in Egitto e non poche altre. Cotesti novelli
principi alla lor volta, se mandavano emiri nelle province
conquistate, si trovavano rispetto a quelli nelle medesime
condizioni e peggiori, che i califi verso di loro; non avendo la
dignità del pontificato, nè distinguendosi pur nel titolo dai
governatori delle proprie colonie.
Le esposte norme di dritto pubblico si osservarono in Sicilia,
infino ai tempi del tiranno Ibrahim-ibn-Ahmed, e se alcuno le
trasgredì, furono i coloni più tosto che il principe. Gli emiri
dell'isola facean da sè paci e accordi e scompartivano il bottino, a
quanto si può spigolare tra gli aridi annali musulmani; nè si
trovan vestigie di comando esercitato in Sicilia dai principi
d'Affrica. Il titolo dell'oficio or si legge emîr, or wâli, e, nei
primordii della colonia, sâheb; la qual voce par che denotasse il
fatto d'una insolita autorità, e quasi independente, come dicemmo
nel secondo Libro9. Men precisi indizii troviamo nelle monete.
Tra le poche che ce ne avanzano degli Aghlabiti, due di argento
portano il nome dello emiro siciliano insieme e del principe
aghlabita, date di Sicilia il dugentoquattordici e il dugentoventi.
Poi ne occorre una anche d'argento, del dugento trenta, ove
leggonsi i simboli religiosi, il motto di casa d'Aghlab e la data di
Palermo, senza nome nè dell'emiro nè del principe. In ultimo, un
quarteruolo d'oro del dugentotrentatrè senza il nome della Sicilia
nè del principe, ha ben quel dello emiro con la formola religiosa e
il motto aghlabita. Di lì alla fine della dinastia, qualche moneta
che si crede siciliana dalla fattura, senza che vi si legga Sicilia nè
Palermo, offre il sol nome del principe Affricano10. Da ciò si può
9
Capitolo V, p. 296.
10
La numismatica arabo-sicula finadesso può dare scarso aiuto alla Storia,
sendo pubblicate pochissime monete, e la importante collezione di Airoldi non
per anco studiata. A ciò si aggiunga, che rimangono poche speranze per l'epoca
aghlabita, perchè gran copia di monete andò al crogiuolo per la gelosia
dinastica, l'avarizia e il genio burocratico dei Fatemiti. Delle monete aghlabite
di Sicilia alcune sono state pubblicate da Tychsen, Adler, Castiglioni; alcune
dal Mortillaro, il quale compilò, utile lavoro, una lista di tutte le monete arabo-
conchiudere di certo che i primi emiri coniassero moneta; ma non
che i successori non ne coniassero. D'altronde lo esercizio di tal
dritto, che sarebbe assai significativo trattandosi di reami
cristiani, poco monta negli Stati musulmani dei primi cinque
secoli dell'egira, quando i califi lasciavan correre nelle monete,
come dicemmo, il nome degli emiri di provincia; e i veri principi
che sottentrarono ai califi ne lasciaron correre il nome; sì che
passò in proverbio «è rimasa al tale la Khotba e la zecca» per
significare un titolo senza potestà11.
Oltre la piena autorità esercitata dagli emiri di Sicilia, è da
notar che sovente i coloni non aspettaron licenza dall'Affrica per
rifar l'emiro, quando fosse venuto a morte, e sovente anco
scacciarono gli eletti o confermati dal principe12; appunto com'era
avvenuto in Spagna avanti il califato di Cordova, e in Affrica
avanti gli Aghlabiti. A così fatta usurpazione li spingea l'assioma
che lo emiro rappresentasse non il principe, ma il popolo
musulmano; e altresì la dubbia sovranità degli Aghlabiti, e la
consuetudine allo esercizio di un dritto anteriore all'islamismo e
non abrogato: cioè che tutta associazione di Arabi, grande o
picciola, tribù o circolo, sempre scegliesse il proprio capo.
Le altre parti del civile ordinamento non occorre descrivere
minutamente; sendo notissime, nè molto diverse da paese a paese.
Con l'emiro pochi magistrati eran preposti alla esecuzione della
legge. Cominciando dall'amministrazione della giustizia, si vedrà
questa intralciata e sovente arbitraria. Decidea sempre un sol
giudice; prendendo avviso legale da' muftî, assessori come noi
diremmo. V'era un sol grado di giurisdizione; e quattro maniere

sicule, conosciute da lui. Le quattro che io ho accennato nel testo, si trovano le


prime in quella lista (Mortillaro, Opere, tomo III, p. 343, seg.); ed io ne ho
dato forse più corretti ragguagli nel Libro II della presente storia, cap. III, p.
283, cap. V, p. 296, e cap. VI, p. 320, del primo volume. Le altre monete
aghlabite di Sicilia son registrate dal Mortillaro dal n° 5 al 12.
11
Fakhr-ed-dîn, presso Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo I, p. 84. Non ho
bisogno di avvertire che la Khotba sia la preghiera pubblica, in cui si ricorda il
nome del principe e pontefice.
12
Veggasi il Libro II, cap. III, V, VI, VII, IX, X.
di giudici con mal definita competenza. Primo giudice criminale
il principe o l'emiro13, che poteva applicar le pene scritte
testualmente nel Corano e non altre; ma al contrario, nella
istruzione del processo, gli era lecito lo arbitrio che si negava al
câdi. Nei misfatti di dritto divino14 l'emiro decideva o delegava la
causa; quei di dritto umano15 eran conosciuti da lui o dal câdi, a
chi si rivolgessero gli offesi16. L'emiro poteva alzar poi un
tribunale straordinario chiamato dei mezâlim o diremmo noi de'
soprusi, ov'ei sedea coi câdi, hâkim, giuristi, segretarii, testimonii
e guardie; e sì decidea, con procedura eccezionale, su i richiami
per casi qualunque, criminali, amministrativi e anche civili,
quando la potenza dell'accusato avesse tolto all'offeso d'ottenere
giustizia ne' modi soliti17. Independente dallo emiro, il câdi nelle
città maggiori e lo hâkim nelle altre, esercitava quella tutela delle
persone incapaci e opere pie che appo noi va attribuita al pubblico
ministero; e inoltre giudicava tutte cause civili e le criminali che
richiedessero interpretazione di legge o fossero delegate
dall'emiro; fuorchè le cause civili e criminali di minor momento,
alle quali era preposto il mohtesib18. I parenti del profeta aveano
magistrato speciale19. Infine il mohtesib esercitava la
giurisdizione meramente esecutiva nelle cose civili, e nelle

13
Mawerdi, op. cit., lib. III, p. 51, 52, 53; lib. XIX, p. 375, seg.
14
Come apostasia, empietà, stupro, ubbriachezza ec.
15
Come omicidii e ferite, furti, calunnie.
16
Mawerdi, op. cit., lib. III, p. 48, 51, 52, 53; lib. XIX, p. 375, seg.
17
Mawerdi, op. cit., lib. VII, p. 128, seg. Veggasi anche Sacy, Chrestomathie
Arabe, tomo I, p. 132, seg. Talvolta il principe delegava alcuno allo esercizio
di questa somma giurisdizione. Così abbiam ricordi di un wâli-l-mezâlim in
Affrica sotto gli Aghlabiti, che poi fu câdi in Palermo.
18
Mawerdi, op. cit., lib, III, p. 48, 51, 52, 53; lib. VI, p. 107, seg.; e lib. XX, p.
405 a 408. Si avverta che la giurisdizione non restò divisa nè in tutti i paesi nè
in tutti i tempi nel modo che porta il Mawerdi. Io ho voluto seguire a
preferenza questo scrittore, perchè è contemporaneo alla dominazione
musulmana in Sicilia, e ci mostra l'ordinamento normale d'allora, meglio che
nol farebbero i trattati relativi all'impero ottomano, all'Affrica ec., al giorno
d'oggi.
19
Mawerdi, op. cit., lib. VIII, p. 164, seg.
criminali quella che potremmo chiamare correzionale, se
esattamente rispondesse alla definizione dei nostri codici; e al
medesimo tempo era oficiale di polizia urbana ed ecclesiastica;
vegliava ai mercati; alla giustezza dei pesi e delle misure; allo
esercizio delle arti liberali o arti meccaniche o commercii, sì che
non nocessero ai cittadini20.
Dopo ciò, poco rimane a dire dell'amministrazione civile:
della quale dapprima ebbe carico il mohtesib; ma l'oficio in alcuni
Stati fu diviso, con diversi nomi; e rimase quel di mohtesib al
preposto dei mercati21. La sicurezza pubblica, o sicurezza del
despotismo, fu affidata, nelle capitali, a un prefetto chiamato per
lo più sâheb-es-sciorta22, del quale v'ha ricordo negli annali della
Sicilia musulmana23; e il nome rimase per lo meno infino al
decimoterzo secolo, quando i capitoli del Regno di Sicilia
chiamano Surta le pattuglie di polizia24. Il mohtesib, o come che
si addimandasse, partecipava alle cure edilizie insieme col
magistrato municipale propriamente detto, com'oggi l'intendiamo.

20
Mawerdi, op. cit., lib. XX, p. 404, seg. Veggasi ancora presso Sacy,
Chrestomathie Arabe, tomo I, p. 468 a 470, uno squarcio dei Prolegomeni di
Ibn-Khaldûn, il quale in parte copia litteralmente Mawerdi, e in parte aggiugne
fatti novelli.
21
Makkari, presso Gayangos, The Mohammedan Dynasties in Spain, tomo I, p.
105; Lane, Modern Egyptians, tomo I, p. 166.
22
Ibn-Khaldûn, Prolegomeni, presso Gayangos, op. cit., tomo I, p. XXXII; e
nello stesso volume, Makkari, p. 104, e nota a p. 398; Sacy, Chrestomathie
Arabe, tomo II, p. 184. Al Cairo fu detto wâli-l-beled, prefetto della città; in
Spagna, sâheb-el-medîna, preposto della città, sâheb-el-leil, preposto della
notte, e sâheb-es-sciorta. Gli Omeîadi aveano la grande e picciola sciorta,
come noi diremmo alta e bassa polizia.
23
Ibn-Khallikân, Wafiat-el-'Aiân, Vita di Abu-Mohammed-Iahia-ibn-Akthem,
fa menzione del sâheb-es-sciorta di Palermo sotto il principe kelbita Thikt-ed-
daula. MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 502, fog. 326 verso; e 504, fog. 234 recto.
24
Capitolo LVI di Giacomo, e XVII di Federigo di Aragona; Diploma di Carlo
d'Angiò del 24 ottobre del 1269, nella Biblioteca Comunale di Palermo, MS.
Q. q. G. 2, pei Magistri sorterii di Palermo. Dalle annotazioni di monsignor
Testa ai detti luoghi dei Capitoli del Regno, si vede usata infino ai principii del
XVIII secolo in dialetto siciliano la voce sciorta, che latinamente scriveano
sorta, surta, xurta, ec.
Scarsi quanto siano i ricordi che ci avanzan di cotesta parte di
civile reggimento negli Stati musulmani del medio evo, pur non
cade in dubbio la esistenza dei corpi municipali. Generalmente si
appellavano gemâ', che suona adunanza; come sappiamo del
Kairewân sotto gli Aghlabiti25; di tutte le città d'Affrica nei
primordii della dinastia fatemita26; del califato abbassida nel
decimo secolo27, e fino ai nostri giorni delle cittadi e tribù
dell'Affrica settentrionale28. Questo ordine, non istituito da legge
scritta, era appunto novella forma del gran consiglio di tribù e di
circolo, di che parlammo nelle istituzioni aborigene degli Arabi: e
in vero non si potrebbe comprendere che i nomadi, fatti cittadini,
avessero disusato quell'ordinamento, quando il novello lor modo
di vivere lo rendea sì necessario, se non per trattare le cose
politiche, certo per provvedere, con mezzi e volontà comuni, ai
bisogni particolari della città. La gemâ' nelle popolazioni arabiche
par sia stata composta dei capi di famiglie nobili, dei dotti,
facoltosi e capi delle corporazioni di arti, le quali assimilavansi a
famiglie e costituivano società di assicurazione reciproca nei casi
penali: perciò questo corpo municipale somigliava in parte alla
curia romana29. Non sappiamo se la sciûra, di che si fa menzione
negli annali della Spagna musulmana30, sia la gemâ' sotto altro
25
Veggansi il Lib. I, cap. VI, p. 133, seg., e p. 148; e il Lib. II, cap. II, p. 259.
26
Il Mehdi usava far leggere i suoi rescritti e avvisi di vittorie nella gemâ' di
ciascuna città. Baiân, testo, tomo I, anni 296 a 300.
27
Veggasi Mawerdi, Ahkâm-Sultanîa, lib. XX, p. 411 a 414.
28
Daumas, Le Sahara Algérien, p. 72, 290, 293; e il medesimo, Mœurs et
Coutumes de l'Algérie, p. 10.
29
Ricordinsi i wagih, sceikh e fakîh del Kairewân, di cui si fa parola nel Libro
I, cap. IV, p. 148. Mawerdi, l. c., adopera il nome generico di dsui-l-mekena,
ossia "notabili, o capaci;" i quali par non fossero i soli possessori e capitalisti,
poichè si dice che possano contribuire alle opere pubbliche, sia con danaro, sia
con lavoro. Ei nota essere così fatto obbligo non individuale ma
dell'universale, ossia gemâ' dei cittadini notabili. Lo stesso autore adopera la
voce dsui-l-mekena per denotare quella classe di persone alle quali furon date
in enfiteusi dal califo Othmân le terre demaniali del Sewâd, lib. XVII, p. 335.
30
Ibn-Khallikân, Wafiât-el-'Aiân, nella vita di Ibn-Zohr (Avenzoar) morto a
Cordova il 1130, dice che l'avolo di costui avea tenuto alto grado nella sciûra.
Veggasi la versione inglese di M. De Slane, tomo III, p. 139, ed a p. 140 la
nome, ovvero una deputazione della gemâ', un comitato
esecutivo, diremmo oggi, il quale nei tempi ordinarii
amministrasse i negozii del municipio deliberati dallagemâ'; ma
certo è che nei tempi torbidi reggeva le faccende politiche. Nei
tempi ordinarii lagemâ' era richiesta, in difetto dell'erario, di
provvedere, per contribuzioni volontarie di danaro o d'opera, alla
costruzione o restaurazione degli acquedotti, delle mura, delle
moschee cattedrali e al sovvenimento dei viandanti poveri. La
richiedeva il mohtesib; poteva obbligarla il solo principe, e nel sol
caso che la città fosse piazza di confini, onde, cadute le mura o
dispersa la popolazione, ne sarebbe tornato pericolo a tutto il
reame. La obbligazione, sempre era collettiva, non individuale:
dal che ognun vede essere stata lagemâ' corpo morale, e vero
municipio. Alla ristorazione delle moschee minori provvedeano
quei circoli o quartieri che le possedessero; e trascurandosi da
loro cotesto dovere, il mohtesib era tenuto a farne memoria31. Ciò
conferma il fatto che oltre il magistrato municipale della città ve
n'era altri di quartiere o contrada32; istituzione necessaria nelle
città musulmane, le quali, al par che le nostre del medio evo, eran
divise in quartieri, abitati per lo più da nazioni o arti diverse.

nota 12, ove questo erudito orientalista fa considerare che in Spagna e


nell'Affrica settentrionale ogni città aveva il counsel or committee che aiutasse
il governatore (e questa non parmi espressione esatta) nello esercizio del suo
oficio, e si componea dei capi dei varii quartieri, del câdi, e delle antiche e
influenti famiglie del luogo. Nel tomo II, p. 501 della stessa versione, si parla
d'un Consiglio simile a Murcia.
A Tripoli fin oltre la metà del XII secolo v'ebbe un "Consiglio dei Dieci" che
cessò al conquisto degli Almohadi; come l'afferma Tigiani, Rehela, versione
francese di M. Rousseau, p. 186, 187. (Journal Asiatique, février-mars 1853, p.
135, 136.)
Negli Stati ove è prevalso più il dispotismo, è rimase in vece della gemâ' un
sol oficiale municipale, detto sceikh-el-beled, "l'anziano del paese," mezzo tra
eletto ed ereditario; come si ritrae per l'Affrica settentrionale da M. Worms,
Recherches sur la propriètè territoriale dans les pays musulmans, p. 373, 427;
e per l'Egitto, dal Lane, Modern Egyptians, tomo I, p. 171.
31
Mawerdi, op. cit., lib. XX, p. 411, a 414.
32
Lane, Modern Egyptians, tomo I, p. 170.
Cotesti ordini dall'Affrica passarono senza dubbio nella
colonia siciliana; onde v'ha memoria della gemâ' di Palermo,
costituita come le altre a modo aristocratico; e pronta a trapassare
alla usurpazione dell'autorità politica33. La riputazione dei giuristi
che notai trattando dell'Affrica, va supposta necessariamente in
Palermo, ove fiorirono nei principii del decimo secolo gli studii
di dritto, secondo la scuola di Malek34. Contuttociò non apparisce
in Sicilia l'umor di parti di cittadini e nobiltà militare, ond'erasi
agitata l'Affrica nei principii del nono secolo. La concordia
durava per esser fresco il conquisto; e perchè nobili e cittadini di
schiatte orientali stanziavano la più parte in Palermo, uniti da
interessi comuni, dalla gelosia contro il governo d'Affrica, e dalla
brama di sopraffare i Berberi lor compagni nell'isola.
Pria di passare all'azienda son da esaminare i due ordinamenti
economici della colonia dai quali dipendea principalmente la
entrata e la spesa pubblica; cioè, il primo, la costituzione della
proprietà territoriale; il secondo, i ruoli militari. Molto si è
disputato tra i dotti europei sul dritto di proprietà nei paesi
musulmani; e manca nondimeno una verace e nitida esposizione
di tal materia; ond'è forza ch'io mi provi ad abbozzarla. Premetto
essere erronea la generalità, che si è troppo ripetuta e renderebbe
superfluo ogni esame; cioè che tutti i terreni appartengano in
proprietà a Dio, e per lui al pontefice principe 35. Gli eruditi che
33
Ibn-el-Athîr, anno 336, MS. B, p. 261; MS. C, tomo IV, fog. 350 verso, dice
dei Beni Tabari, ch'erano degli'aiân, ossia caporioni della gemâ' in Palermo.
34
Riadh-en-Nofûs, MS., fog. 79 recto, nella vita di Lokmân-ibn-Iûsuf
35
Una quarantina d'anni fa, sostenne quest'assioma il barone De Hammer, oggi
consigliere aulico dell'impero austriaco. M. De Sacy lo confutò, prima nel
Journal des Savants del 1818, poi nella terza delle sue Memorie su la proprietà
in Egitto, Mèmoires de l'Académie des Inscriptions, tomo VII, p. 55, 56. Il
Martorana, Notizie storiche dei Saraceni Siciliani, tomo II, p. 129 e 248, amò
meglio seguire il consigliere aulico, che il dotto professor di Parigi. Il signor
Benedetto Castiglia, in uno articolo di giornale che sopra ho avuto occasione di
lodare, La Ruota, Palermo, 30 agosto 1842, si appigliò a questo paradosso, e
scrivendo in fretta lo attribuì a M. De Sacy. A così fatta teoria rimangono
ormai pochi partigiani. La rigetta espressamente M. Worms nella detta opera,
Recherches sur la constitution de la propriètè territoriale dans les pays
trovarono tal paradosso, tolsero in iscambio di dichiarazione di
dritto le frasi poetiche o teologiche, come voglia dirsi,
frequentissime nel Corano: che Iddio è padrone del Cielo e della
Terra, padrone dei Mondi, e via discorrendo. Al certo i
Musulmani, ammesso un creatore, lo doveano tener signore di
sue proprie fatture; ma pensavano ch'egli avesse lasciato il
terreno, non altrimenti che l'acqua, l'aria, il fuoco, la luce, a utilità
universale delle creature; non donatolo in particolare a Maometto,
e molto manco ai pontefici che gli dovean succedere.
Tanto egli è vero non aver mai il Profeta presunto sì strano
dritto, che, secondo una tradizione sua, l'erba, unico prodotto del
suolo nella maggior parte dell'Arabia, si tenne sì come l'acqua e il
fuoco proprietà comune di tutti gli uomini36. Tali anco furono
risguardati certi minerali agevoli a raccogliere, come sale,
antimonio, nafta, antracite37.
Dal dritto nomade volgendoci a quello delle popolazioni
stanziali, è manifesto che il Corano e la Sunna riconoscano la
piena proprietà delle terre coltivate, al medesimo titolo che la
proprietà mobile. L'una e l'altra maniera di facoltà va soggetta ad
unica tassa: dieci per cento su i prodotti del suolo, e due e mezzo
su la quantità degli armenti, moneta e altri beni mobili; la quale
gravezza, ragionandosi nel primo caso su la rendita e nel secondo
sul capitale, viene a ragguaglio, o torna più lieve su le terre che su
gli altri capitali38. Maometto, imitando così le decime giudaiche,
musulmans. Nè so come M. Du Caurroi riparli di Messer Domeneddio
proprietario universale, Journal Asiatique, IVe série, tomo XII, p. 13 (1848),
senza allegar nuove autorità.
36
Mawerdi, Ahkâm-Sultanîa, lib. XVI, p. 325; Hedaya, libro LXV, tomo IV, p.
140.
37
Mawerdi, op. cit., lib. XVII, p. 341. Traduco "antracite" la voce kâr, che
secondo i dizionarii significa "pece liquida."
38
Il 10 per cento su la raccolta annuale dei grani, frutta, miele ec., si ragguaglia
al 2-1/2 per 100 su gli armenti, danaro, merci, masserizie ec., supponendo che
coteste maniere di capitali rendessero il 25 per 100. Non arrivando a sì alto
segno il fruttato dei capitali mobili, essi vengono a pagare più che i capitali
fissi delle terre. Avvertasi che il 10 si ragiona su i prodotti del suolo bagnato
da pioggie periodiche o acque sgorganti. Le terre inaffiate con macchine
ne mutò lo investimento; e con sublime idea chiamò questa tassa
sedekât o vogliam dire offerte di schietto animo, e zekât39 che
suona purificazione: purificazione, dir volle, della colpa che ha il
ricco lasciando morir di fame i poveri e mancar le entrate allo
Stato. In vero tassa di poveri è questa, non men che pubblica
contribuzione; andando tripartita per legge tra lo erario, i parenti
del Profeta e i bisognosi, fossero orfanelli, viandanti, o altri40. Le
proprietà esistenti, rispettate così dallo islamismo, si
trasmetteano, al par che i beni mobili, per vendita, donazione o
successione.
Quanto ai nuovi acquisti, Maometto non parlò che del
legittimo per eccellenza: dichiarò che chiunque renda alla vita
una terra morta, così esprimeva il dissodare un suolo inculto o
fabbricarvi sopra, ne divenga padrone assoluto; sì che nè il
principe nè altri possa togliergli il podere, finch'ei lo coltivi 41. Nei
tempi appresso restaron dubbii, secondo le varie scuole, i limiti
idrauliche, richiedendo maggiore spesa di cultura, son tassate al 5. Al
contrario, quelle irrigate con acqua di canali che mantiene lo Stato, pagano il
20; nel qual caso il doppio dazio va per censo dell'acqua.
39
Seguo l'uso generale nella trascrizione di questa, voce, la quale secondo il
modo tenuto nel resto del mio lavoro andrebbe scrittazekâ.
40
La zekât è dovuta dai soli Musulmani adulti, sani di mente e liberi, che
posseggano oltre un certo valore fissato dalla legge. Si chiama anche decima.
Il ritratto è stato sovente distolto dalla sua destinazione legale; usurpandolo i
governi, che poi si sgravavano la coscienza in opere di pietà o di carità.
Veggansi a tal proposito: Mawerdi, Ahkâm-Sultanîa, lib. XI, p. 195, seg., e lib.
XVIII, p. 366, seg.: questo dottore sciafeita riferisce il dritto come si tenea
nella propria scuola, cita le opinioni delle altre e i fatti fino al tempo e paese
suo, cioè tra il X e l'XI secolo, a Bagdad; Hedaya, lib. I, versione inglese, tomo
I, p. 1, seg., che mostra il dritto osservato in India nel XVIII secolo secondo la
scuola di Abu-Hanîfa; D'Ohsson, Tableau général de l'Empire Ottoman, tomo
II, p. 403, e tomo V, p. 15, seg., che riferisce anco il dritto hanefita, osservato
alla stessa epoca in Turchia; Khalîl-ibn-Ishâk, Précis de jurisprudence
musulmane, traduit par M. Perron, cap. III, tomo I, p. 328, seg. Quest'autore,
di scuola malekita, visse nel XV secolo. Il suo compendio, brevissimo e
oscurissimo, fa legge in Affrica. Veggasi anche Burckhardt, Voyage en Arabie
(versione francese), tomo II, p. 294, che descrive la pratica dei Wababiti,
puritani dell'islamismo ai tempi nostri. Le varie scuole ed epoche fan poca
differenza nell'applicazione degli statuti su la zekât.
che potesse porre il principe a tal dritto di primo occupante; ma la
sostanza del dritto non fu mai disputata; anzi si accordò la terra
intorno il pozzo, a chi primo lo avesse scavato in terren deserto42.
Su le proprietà stabili rapite ai vinti, Maometto non fece
provvedimento generale, perchè rado occorse ai tempi suoi; nè
parlarne troppo ei potea, proponendosi di conciliare e
amalgamare la nazione. Cominciati i conquisti fuori d'Arabia,
Omar applicò al caso qualche esempio del Profeta, e l'ordine
posto dal Corano al partaggio della preda; onde quattro quinte
andavano divise ai combattenti e una quinta serbata a utilità
pubblica, e sussidii a varie classi di persone43. Per tal modo furon
divise alcune terre ai combattenti44. Ma, in quell'età eroica, gli
41
Mishkat-ul-Masabih, lib. XII, cap. XI, tomo II, p. 45, seg. Data la tradizione
del Profeta, tralascio di citare i trattatisti, alcuni dei quali, a dir di Mawerdi, op.
cit., lib. XVII, p. 330, credettero necessaria la licenza del principe a
confermare il dritto di primo occupante. Ognun vede che ciò non torna ad
esercizio di un supremo dritto di proprietà, ma a necessaria misura di ordine
pubblico, per evitare che due o più persone si contendessero un podere. È
fondato su la medesima ragione il divieto di occupare il suolo bisognevole a
pascolo comune, strade, mercati ec., di che tratta il Mawerdi, lib. XVI, p. 322,
seg.
42
Hedaya, lib. XLV, tomo IV, p. 132.
43
Nella sura VIII, verso 42, è detto appartenere la quinta a Dio, e per lui al
Profeta, ai parenti di costui, agli orfanelli, agli indigenti e ai viandanti. La
morte di Maometto diè luogo a cavillare su questa legge. Dei dottori, chi ha
pensato doversi investire tutta la quinta in utilità pubblica; chi poterne disporre
il principe; chi doversi esclusivamente serbare ai parenti del Profeta, orfanelli
ec. Veggasi Beidhawi, comento al citato verso del Corano, edizione di M.
Fleischer, tomo I, p. 367 e 368; Mawerdi, op. cit., lib. XII, p. 239 a 242.
Koduri vuol che la quinta si divida in tre parti uguali agli orfanelli, poveri, e
viandanti; sostenendo che la quota del Profeta si fosse estinta alla sua morte;
presso Rosenmuller, Analecta Arabica, § 34.
44
Questo importante fatto è riferito da Mawerdi, op. cit., lib. XVII, p. 334, seg.
Avanti la edizione di M. Enger del 1853, che noi citiamo, questo squarcio era
stato pubblicato con una versione francese da M. Worms, Recherches sur la
constitution de la propriété, etc., p. 188, 189, e 202, seg. Ma M. Worms non
ebbe alle mani che un sol MS. del Mawerdi; non si servì delle varianti di
quello che possiede la Biblioteca di Parigi; e d'altronde non colse sempre il
segno nella versione.
Arabi si tediavan di così fatta ricchezza. Tra il genio di correre a
cavallo, combattendo, rubando e gridando Akbar-Allah; e tra
abnegazione e ignoranza, alcuni giund rinunziarono alla
repubblica la parte loro dei terreni; talchè, nella fertile provincia
del Sewâd, Omar poneva in demanio tutti i poderi della dinastia
regia di Persia, e dei privati che fossero morti o fuggiti45. Tal
nuova usanza invalse in appresso; anche non volendolo le milizie,
nell'animo delle quali i sentimenti poetici sempre più calavano
alla prosa. Come i combattenti, oltre la quota del bottino,
godeano stipendio su le entrate pubbliche; e come i conquisti
erano da attribuirsi alla potenza comune dei Musulmani, anzi che
alle armi di tale o tal altro esercito, così parve giusto, che i frutti
perenni della vittoria si godessero dallo Stato: e indi più di raro si
effettuò il partaggio dei quattro quinti delle terre46.
A ciò condusse anco il fatto che i paesi non si pigliavano quasi
mai con la spada alla mano; ma per dedizione degli abitatori,
assoluta o a patti: avvenendo che, dopo alcuna vittoria, intere
province si sottomettessero nell'uno o nell'altro modo; ovvero che
gli abitatori si facessero musulmani prima dell'occupazione. Or, a
mente del Corano, il principe disponeva ad arbitrio suo delle
persone e roba degli Infedeli arresi a discrezione 47; in caso di
accordo i patti eran legge; e in caso di conversione le terre,
secondo alcuni giuristi, rimaneano in libera proprietà ai
possessori attuali; secondo altri, il principe scegliea tra questo
partito e il sottometterle a tributo48. I principi, ad esempio di
Omar, provvidero o stipolarono in tre diversi modi, intorno la
45
Mawerdi, l. c.
46
Il dritto era, secondo Sciafei, che le terre prese con le armi si dividessero al
par che il bottino, a meno di cessione volontaria dei combattenti. Malek le
dicea proprietà perpetua della repubblica. Abu-Hanîfa rimetteva al principe di
scompartirle tra i combattenti, lasciarle agli Infedeli, con obbligo di pagare il
kharâg, ovvero dichiararle proprietà della repubblica, come gli paresse. Così
riferisce Mawerdi, lib. XII, p. 237, seg.; e lib. XIII, p. 254, seg. (anche presso
Worms, op. cit., p. 100, seg.; 103, seg.; 107, seg.). Ma i giureconsulti vissero
quando i conquisti eran cessati; onde la opinione loro non servì che a lodare o
biasimare i fatti compiuti.
47
Sura, LIX, versi 6, 7, 8.
proprietà territoriale degli Infedeli vinti. I demanii del governo
scacciato e i poderi caduti nel fisco per morte, schiavitù o fuga
dei possessori, divennero proprietà perpetua e inalienabile della
repubblica musulmana; e teneansi in economia, o si davano in
enfiteusi, per annua rendita, kharâg, come dissero vagamente gli
Arabi, cioè quel ch'esce, quel che si cava dal podere49. Le altre
terre lasciaronsi ai possessori infedeli, dove in piena proprietà, e
però con dritto di alienare, ipotecare e disporre per testamento; e
dove in dominio utile, ammettendo soltanto, com'e' pare, le
successioni; in ambo i casi a condizione di pagare un tributo, che
fu detto similmente kharâg. Questo, su le terre di piena proprietà,
tornava a tassa fondiaria, e cessava per conversione del
possessore, o passaggio del podere in man di Musulmani; e su le
terre di dominio utile era una maniera di censo, e durava in
perpetuo50. La legge riconoscea, dunque: proprietà libera di
Musulmani per possesso anteriore alla conversione, per
dissodamento o fabbrica, e per partaggio al conquisto; proprietà
piena di Infedeli, soggetta a kharâg eventuale; proprietà vincolata
di Musulmani e Infedeli, soggetta a kharâg perpetuo; e
finalmente enfiteusi di fondi demaniali. Altra origine di
possessione territoriale non v'era. Il principe potea scompartire ai
combattenti e abilitare chiunque al dissodamento; non mai
concedere terreni gratuitamente; non essendo suoi proprii, ma
della repubblica o dello esercito vincitore51.

48
Mawerdi, op. cit., lib. XIII, p. 254; e presso Worms, op. cit., p. 107 e 110. La
prima era opinione di Sciafei; la seconda di Abu-Hanîfa. L'Hedaya,
quantunque compilazione hanefita, si appiglia nel presente caso all'opinione di
Sciafei, lib. IX, cap. VII, tomo II, p. 205. Koduri, autore del decimo secolo,
sostiene la prima opinione, presso Rosenmuller, Analecta Arabica, §12.
49
Mawerdi, op. cit., lib. XVII, p. 334, 335; e presso Worms, op. cit., p. 189, e
204. Si vegga anche Koduri, presso Sacy, Mémoires de l'Académie des
Inscriptions, tomo V, p. 10.
50
Mawerdi, op. cit., lib. XII, p. 237; lib. XIII, p. 253; e lib. XIV, p. 299; i quali
squarci si veggano anche presso Worms, op. cit., p. 100, 103, 108, 111;
Koduri, presso Sacy, Mémoires de l'Académie des Inscriptions, tomo V, p. 11.
Si riscontri col lib. II, cap. XII della presente storia.
Questo fu il dritto generale infino al decimo secolo dell'era
cristiana. Nel fatto, erano già nati parecchi abusi in questa e
quell'altra provincia: e dove si vedeano proprietà demaniali
usurpate da privati52, dove, al contrario, par che i governi si
sforzassero a confondere il kharâg eventuale e il perpetuo; e ad
aggravare, come se fossero demaniali, i poderi tributarii della
prima o seconda delle classi dette di sopra: e non è dubbio che gli
abusi crebbero col tempo; sopra tutto dall'undecimo secolo in poi,
quando la schiatta turca dominò successivamente la più parte
degli Stati musulmani, e vi istituì veri beneficii militari. Dopo
dodici secoli, il viluppo cagionato da coteste vicende nella
ragione delle proprietà, è stato assai difficile a penetrare; e si è
corso rischio di scambiare il dritto con lo abuso, la eccezione con
la regola, la ragion d'un paese con la ragione d'un altro: tanto più
che la voce kharâg ha i varii significati che accennammo, e
inoltre quello di censo dell'acqua dei canali mantenuti dallo Stato,
con che si inaffiassero terre decimali, ossia di libera proprietà
musulmana53. E indi è che i trattati usciti fin qui su tal materia,
lasciano tanto a desiderare54. Quanto a
51
Mawerdi, op. cit., lib. XVII, p. 330, seg.; e presso Worms, op. cit., p. 184,
seg., e 196, seg.; alla cui versione van fatte molte correzioni. Ha errato il
Martorana, Notizie storiche dei Saraceni Siciliani, tomo II, nota 247, p. 248,
sostenendo che tutte le proprietà musulmane venissero da concessione del
principe.
52
Mawerdi, op. cit., lib. XVII, p. 335; e presso Worms, op. cit., p. 189, e 205.
53
Questo ultimo fatto si ricava dall'Hedaya, lib. IX, cap. VII, tomo II, p. 205.
54
Prima di scrivere queste parole, io ho studiato le dissertazioni di M. De
Sacy, Mémoires de l'Académie des Inscriptions, tomo I, V e VII; l'opera citata
di M. Worms, e le compilazioni legali musulmane, come l'Hedaya, D'Ohsson,
Khalîl-ibn-Ishak. Dell'opera di M. De Hammer, ne so quanto ne dicono M.
Sacy e M. Worms.
La conchiusione di M. Sacy, che le terre d'Egitto appartenessero sempre agli
antichi possessori indigeni, e fossero state usurpate in vario modo dai principi
e loro soldatesche, è giusta, a creder mio, ma non abbastanza provata, nè
applicabile a tutti i paesi musulmani.
Quanto a M. Worms, è da commendare il metodo, la sagacità, la erudizione;
non la imparzialità sua. Ponendo un'arbitraria distinzione tra le terre da
seminato e i giardini, o, com'ei dice, terre di grande culture e di petite culture,
noi, ci basta saper le teorie ammesse da Mawerdi, un secolo e
poco più, dopo il conquisto di Sicilia: e avremo compiuto il
nostro debito dimostrandone coi fatti la osservanza, se non nella
colonia siciliana, almeno in tempi vicini e paesi analoghi.
Nella quale investigazione occorre che al primo ordinamento
della colonia d'Affrica (698) furono assoggettati al kharâg i
Berberi non musulmani e gli abitatori cristiani di sangue fenicio,
pelasgico o germanico55, e ne andarono esenti i Berberi
musulmani; i quali sostennero tal franchigia con le armi (720 a
740), contro governatori troppo fiscali56. Da un'altra mano
sappiamo che il governo dei califi, dando sesto alla Spagna nei
principii del conquisto (720), divise parte delle terre ai soldati;
parte ne serbò in demanio; e parte lascionne agli antichi abitatori,

M. Worms pretende che le prime sian sempre appartenute allo Stato in tutti i
paesi musulmani, fuorchè l'Arabia. Ed io credo ch'ei si apporrebbe al vero, se
parlasse di una parte, anche della più parte, dei vasti poderi, ma che sbaglia
sostenendo esser tale la condizione di tutte le terre da cereali; e doversi tener
tali per presunzione legale, senz'altre prove. Così ei viene a negare i dritti
certissimi: 1° di dissodamento; 2° di partaggio tra i soldati; 3° di proprietà di
convertiti avanti il conquisto; e 4° di beni lasciati agli Infedeli in piena
proprietà, e indi passati in man di Musulmani. Se non altro, il numero dei wakf,
ossia lasciti pii, ch'è grandissimo in tutti i paesi musulmani, avrebbe dovuto
avvertire M. Worms della esistenza di moltissime terre libere; non potendosi
dai Musulmani fare wakf senza libera proprietà; nè supporre da Europei che
tutte le proprietà private fosser divenute lasciti pii. Qui parlo dei wakf a
moschee o altre opere; non di quello in favor della repubblica musulmana che
costituisce il demanio pubblico.
55
Si confrontino: Ibn-abd-Hâkem, citato da M. De Slane, nell'Ibn-Khaldoun,
Histoire des Berbères, tomo I, p. 312, nota 1; Ibn-Khaldûn stesso, Histoire de
l'Afrique et de la Sicile, traduzione di M. Des Vergers, p. 27; e il Baiân, tomo
I, p. 23. Ho accennato questo fatto nel lib. I, cap. V, p. 121 del primo volume.
56
Si confrontino: Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M.
Des Vergers, p. 31, 34; il Baiân, tomo II, p. 38; e Nowaîri, Storia d'Affrica, in
appendice a Ibn-Khaldoun, Histoire des Berbères, versione di M. De Slane,
tomo I, p. 159. Ho ferma opinione che M. De Slane non s'apponga al vero,
rendendo in questo luogo la voce Khammasa "fare schiavo il quinto della
popolazione." Si deve intendere più tosto "levare il quinto della rendita
territoriale" ossia porre il kharâg; come lo mostra con varii esempii il professor
Dozy, Glossaire al Baiân, tomo II, p. 16.
sotto tributo57: nè è verosimile, anzi non è possibile, che siasi
fatto altrimenti nell'Affrica propria, ond'eran mossi i conquistatori
della Spagna, ed ove la colonia arabica tollerava sì poco il
comando, non che i soprusi, dei califi. Ci accusa libera proprietà
in Affrica il fatto che Ibrahim-ibn-Aghlab, emiro, comperava dai
Beni-Tâlût (801) il terreno per fabbricare la cittadella d'Abbâsîa58.
Dei poderi soggetti al kharâg non è mestieri allegar prove. Dei
poderi demaniali, dhiâ, come chiamavanli, si fa menzione più
volte negli annali d'Affrica59.
Ove si considerino i modi e il lungo spazio di tempo in che i
Musulmani compieano il conquisto della Sicilia, non si metterà in
forse che nascesservi tutte le maniere di proprietà discorse di
sopra. Superfluo sarebbe a dire dei beni demaniali60, e di quei
57
Isidoro De Beja, cap. XLVIII, su l'autorità del quale hanno registrato questo
fatto M. Reinaud, Invasion des Sarrazins en France, p. 16; e il prof. Dozy,
Glossaire al Baiân, tomo II, p. 16.
58
Baiân, tomo I, p. 84. A questo esempio si potrebbe aggiugner quello delle
terre che pagavan decima, su le quali il secondo principe aghlabita, Abd-Allah-
ibn-Ibrahim, comandò (812) che si levasse un tanto all'anno secondo la misura
della superficie, e non più la decima in derrata. Ibrahim-ibn-Ahmed, che avea
continuato o ripigliato tale abuso, il cessò l'anno 902. Baiân, tomo I, p. 87 e
125. Nowairi, in appendice a Ibn-Khaldoun, Histoire des Berbères, versione di
M. De Slane, tomo I, p. 402. Or come decima in derrata significa
ordinariamente zekât, così le terre che ne pagavano si dovrebbero credere
libera proprietà de' Musulmani. Nondimeno si può dare che i cronisti abbian
voluto significare la doppia decima, ossia kharâg, dovuta sopra terre tributarie,
e che la ingiusta innovazione fosse stata soltanto nel modo della riscossione in
danaro, e a misura di superficie. Mi induce a tal supposto l'enormezza che
sarebbe stata a mutare la zekât in tassa fondiaria; e mi vi conferma la opinione
di alcuni giuristi, riferita da Mawerdi, op. cit., lib. XVII, p. 335, cioè che il
kharâg su le terre da seminato non potea passare il dieci per cento su la
raccolta.
59
Baiân, tomo I, p. 125, 175, 184, 273, anni 289 (902), 303 (915), 305 (917),
405 (1014).
60
Il Martorana, Notizie storiche dei Saraceni Siciliani, tomo II, p. 130, e nota
254 a p. 252, afferma potersi provare la esistenza di così fatti poderi coi nomi
di città e castella che rispondono a quelli di emiri siciliani. Ma gli esempii ch'ei
ne dà son tutti fallaci; e non lo è meno il supposto che i poderi demaniali
dovessero prendere il nome degli emiri. Nè anco posson servire di argomento i
rimasi ai Cristiani61. Quanto alle possessioni dei Musulmani,
poichè se ne conoscon tante dopo il conquisto normanno 62, non è
mestieri, provare che esistessero innanzi; ma sì indagare se al
tempo della dominazione musulmana ne fossero state delle
decimali e delle tributarie; cioè proprietà libere o vincolate. Su di
ciò non troviamo attestati positivi. Ma è verosimile, che non
mancassero le terre decimali, acquistate sia per dissodamento, sia
per partaggio. Le prime debbon supporsi rade e di poca
estensione. Il partaggio fu al certo di maggiore importanza.
Quantunque in Affrica fosse cominciata a seguirsi nel nono
secolo la scuola di Malek, la quale attribuisce allo Stato le terre
prese per forza d'armi63, pur non erano obbligatorie così fatte
teorie, nè la scuola era riconosciuta da tutti i giuristi; e inoltre i
principi aghlabiti, infino ad Ibrahim-ibn-Ahmed, poca o niuna
autorità esercitarono su le milizie di Sicilia, le quali certamente
amavano meglio il partaggio. Indi è da conchiudere che gli emiri
pigliassero in demanio quando poteano, e, quando no,
scompartissero i quattro quinti delle terre. Così credo si praticò
alla resa di Palermo; il cui territorio, e forse di gran parte della
provincia, fu tolto ai naturali, per esser tutti o fuggiti o fatti
schiavi64. E veramente a partaggio accennano le discordie che
immediatamente seguirono, composte a mala pena dagli
Aghlabiti65. La resa a discrezione o presura per forza d'armi, si

beni demaniali dei Normanni. Ma la legge, l'interesse dei governanti, e l'uso


generale degli Stati musulmani, danno tal presunzione che val meglio di ogni
prova.
61
Veggasi il Libro II, cap. XII, p. 474 del primo volume.
62
Lasciando da parte i molti diplomi del XII secolo che lo attestano, basti
allegare le Consuetudini di Palermo, cap. XXXVI, e gli Statuti di Catania
contenuti in un diploma del 1668 presso De Grossis, Catena sacra, p. 88, 89,
citato dal Di Gregorio, Considerazioni, nota 21, cap. IV del lib. I.
63
Veggasi in questo capitolo la nota 2 a p. 17.
64
Ad postremum, capientes panormitanam provinciam, cunctos ejus
habitatores captivitati dederunt. Johannes Diaconus, Chronicon Episcoporum
Neapolitanæ Ecclesiæ, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I,
parte 2a, p. 313.
65
Veggasi il Libro II, cap. V, della presente storia, vol. I, pag. 294.
rinnovò poscia in varii luoghi, onde dovea portare il medesimo
effetto. Le possessioni decimali poteano anco nascer da quelle
lasciate per avventura in piena proprietà a Cristiani i cui figliuoli
avessero professato poi l'islamismo; chè moltissimi il fecero nel
nono secolo in Val di Mazara, e nel seguente in Val di Noto e
parte del Val Demone. Nondimeno, com'è incerta la stipolazione
della piena proprietà, e come l'interesse del governo e degli
antichi Musulmani si opponeva a lasciar godere la franchigia ai
novelli convertiti, così non sapremmo supporre frequente un tal
caso. Un cenno che ne danno le cronache nei principii
dell'undecimo secolo, e che si riferirà a suo luogo, ne fa certi che
i Musulmani dettivi Siciliani, fossero progenie degli antichi
abitatori, ma non che il kharâg posto sopra di loro lo fosse stato
allora per la prima volta: e però questo fatto non può dare
argomento dell'indole della proprietà, se libera o vincolata66.
In ogni modo il conquisto musulmano cagionò profondo
rivolgimento nella costituzione e distribuzione della proprietà
territoriale in Sicilia. I poderi dei Musulmani, originati da
dissodamento o partaggio, doveano esser molti e non vasti; e a
suddividerli conducea la legge delle successioni, la quale
permette i legati infino a un terzo dell'asse ereditario, accorda
parti uguali ai figli e metà di parti alle figliuole, e chiama
all'eredità gli ascendenti, anche sendovi discendenti, e in
mancanza degli uni e degli altri ammette i collaterali 67.
Spicciolavansi altresì le terre del demanio, affittate o censite per
compartimenti68. Conferman la suddivisione della proprietà i
moltissimi nomi arabici che rimaneano ai poderi nel duodecimo
secolo, soprattutto in Val di Mazara, e ve ne rimangono tuttavia, i
quali nacquero al certo dal detto rimescolamento; poichè le
denominazioni topografiche son tenacissime, le antiche si
66
Veggasi il Libro IV, cap. VIII sul kharâg aggravato nel 1019, e il cap. IX su
le possessioni dei Musulmani d'origine siciliana e d'origine affricana.
67
Hedaya, lib. XXXIX, e LII, tomo IV, p. 1, seg.; 466, seg.; D'Ohsson,
Tableau général de l'Empire Ottoman, tomo V, lib. IV, V, p. 275, seg.
68
Si chiamavano in generale dhiâ', come notammo di sopra, e in Sicilia e
Affrica anche ribâ'.
smetton di rado per mutazione del possessore, le nuove nascon
quasi sempre da suddivisione o aggregamento dei poderi. Così il
conquisto musulmano guarì la piaga dei latifondi, la quale avea
consumato la Sicilia fino al secol nono, e riapparve con la
dominazione cristiana nel duodecimo.
Più vasto frutto della vittoria, più divisibile, e più congeniale
alla maggior parte dei primi coloni di Sicilia, era lo stipendio
militare. Godealo, in tutti gli Stati musulmani, il giund, ordine
militare propriamente detto; del quale farem parola, lasciando
indietro le altre maniere di combattenti; cioè gli schiavi e liberti
che alcuna volta si adoperavano come stanziali, e le plebi, le quali
traeano volontariamente alla guerra sacra, partecipavano al
bottino, e, finita la impresa, se ne tornavano a vivere di limosine
o dure fatiche. Nel giund si scrissero un tempo tutti i Musulmani;
poi, a misura che l'impero si allargò, i ruoli si ristrinsero,
com'abbiamo accennato nel primo Libro. Quivi anco abbiam
divisato le norme dei divani di Omar; le quali durarono e si
modificarono al par di tante altre primitive istituzioni
dell'islamismo. Nel nono secolo, gli Arabi prendean luogo
tuttavia nei ruoli sopra le schiatte straniere; e queste tra loro
secondo l'anteriorità della conversione: suddivisi gli Arabi, al par
che gli stranieri, per tribù e parentele; le quali prendean grado
secondo la consanguineità col principe; gli individui secondo la
età. Ma ormai non entrava nel giund chiunque il chiedesse, solo i
figliuoli di militari, quando fossero adulti, validi, buoni alle armi
e senz'altro mestiere; di che giudicava il principe, e potea alsì
ammettere uomini nuovi. Variava il soldo a giudizio anco del
principe o dell'emiro, secondo i bisogni, che è a dire in ragion del
numero dei figliuoli e degli schiavi, la quantità dei cavalli
mantenuti e i prezzi delle vittuaglie in ciascun paese; ma in ambo
i casi detti era limitato l'arbitrio dalla consuetudine universale e
dalla potenza delle famiglie componenti il grosso delle milizie.
Discendean esse in parte dall'antica nobiltà arabica; orgogliose di
lor tradizioni, clientele, pratica e prontezza al combattere69. Indi si
vede che il giund era tuttavia, come dissi nel primo Libro, nobiltà
armata, ordine aristocratico, temperato alquanto dalla monarchia.
Agli stipendii suoi era specialmente destinato il fei; cioè
prestazioni permanenti degli Infedeli, fossero tributi collettivi
delle popolazioni assicurate, o tributi individuali delle
popolazioni soggette, chiamati gezîa, kharâg o decima delle
merci, comprendendosi sotto la denominazione di kharâg il
ritratto dei beni demaniali70. Nel primo secolo dell'egira, epoca di
conquisti e franchige, gli Arabi avean fatto sì rigorosamente
osservare lo investimento del fei, che il califo non ne metteva ad
entrata altro che i sopravanzi; nè era lecito agli oficiali del tesoro
d'incassare materialmente la moneta, se i notabili militari e civili
che la recavano dalle province, non giurassero essere stati pria
soddisfatti coloro che avean ragione su quelle entrate,
specialmente le milizie71. Cresciute poscia nel principato le forze
69
Mawerdi, op. cit., lib. XVIII, p. 351, seg. e 355, là dove è detto che senza
ricusa di combattere o altra causa legittima non si potea togliere lo stipendio,
«sendo il giund esercito del popolo musulmano.» Si confronti col lib. III, p. 50,
onde si scorge che lo emir di provincia potea, senza permesso del califo,
accordare lo stipendio ai figliuoli di militari pervenuti ad età da portar arme.
70
Mawerdi, op. cit., lib. XII, p. 218, seg.
71
Akhbâr-Megmûa'-fi-iftitâh-el-Andalos, MS. della Biblioteca imperiale di
Parigi, Ancien Fonds, 706, fog. 99 recto. In questa importante cronica del X
secolo si legge: «Quando recavansi ai califi le entrate (gebâiât) delle città e
province, ciascuna somma era accompagnata da dieci personaggi dei notabili
del paese e del giund; nè si incassava nel tesoro (beit-el-mâl) una sola moneta
d'oro o argento, se costoro non giurassero prima per quel Dio ch'è unico al
mondo, essersi levato il denaro secondo il dritto, ed essere sopravanzo degli
stipendii dei soldati e famiglie loro nel paese, ciascun dei quali fosse stato
soddisfatto di quanto per diritto gli apparteneva. Or avvenne che si recò al
califo il kharâg d'Affrica, la quale di quel tempo non si tenea come provincia
di frontiera; e il denaro era veramente avanzo, sendosi pria soddisfatti gli
stipendii del giund e le prestazioni dovute all'altra gente. Arrivate con cotesto
danaro otto persone in presenza del califo, ch'era di quel tempo Solimano
(715-717), furono richiesti di giurare; e in fatto fecero sacramento ec.» Questo
fatto dell'VIII secolo risponde perfettamente alla massima di Mawerdi, op. cit.,
lib. III, p. 50, che l'emir di provincia mandi all'imâm gli avanzi del fei,
«quando ve ne abbia, pagati tutti gli stipendii.»
e le brame, e abbassate le milizie per la istituzione degli stanziali,
tanto pure avanzò delle costumanze antiche che il fondo degli
stipendii non si menomò72. Si pagavano oramai in molte province,
se non in tutte, per delegazione sul kharâg di un dato podere o
territorio, secondo la somma registrata nel catasto, che
s'agguagliasse a quella dello stipendio registrato nel ruolo
militare. La delegazione, oltre il kharâg, si facea sopra altre
entrate di fei. Chiamavasi iktâ'; taglio, come suona in lingua
nostra73. Portava al governo risparmio delle spese e fatiche della
riscossione; ma aggravava i contribuenti; corrompea le stesse
milizie, mutate in torme di gabellieri e concussionarii privilegiati;
e tornava alla fin fine a rovina dello Stato, per le infiacchite forze
nazionali, le entrate distratte, i popoli spolpati, e gli sciolti legami
tra le milizie e la pubblica autorità. Tanto più che alle milizie
l'iktâ' soleasi concedere a vita, e talvolta con sostituzione dei
figliuoli; quantunque i giuristi dichiarassero nullo tal modo74.
Sospetto che le concessioni per ordinario fossero state collettive
in favore di un giund: naturalissimo e pessimo espediente. Che
72
Secondo Mawerdi, l. c., mancando il danaro del fei in una provincia,
dovea supplire il tesoro del califo. Negli annali dal terzo al quinto secolo
dell'egira credo non si trovi un solo esempio di stipendii menomati.
73
Mawerdi, op. cit., lib. XVII, p. 337 a 341, enumera i varii casi e i varii pareri
dei giuristi, relativamente all'iktâ'. Non si tenea lecito trattandosi di kharâg
eventuale, cioè dovuto da Infedeli che avessero pieno diritto di proprietà, e
però andassero sciolti dal tributo come dalla gezîa, facendosi musulmani. Il
kharâg perpetuo, se dovuto in danaro e non variabile secondo il raccolto, si
potea concedere. Pare che gli iktâ' si fossero anco tentati sopra le decime
legali, ossia zekât; poichè i giuristi si sforzavano a dimostrarne la nullità.
Questo luogo di Mawerdi è stato tradotto da M. Worms, Recherches sur la
propriété etc., p. 206, seg.; la cui interpretazione non sempre mi pare esatta.
74
Mawerdi, l. c., della edizione di Enger, e p. 207, seg., della versione del
Worms, enumera gli uficii pei quali si tenea permesso lo iktâ' e le condizioni
necessarie nei varii casi. La regola generale che se ne cava, messi da canto i
dispareri dei giuristi su i punti secondarii, è: 1° di escludere le concessioni
oltre una vita d'uomo; 2° permettere le vitalizie ai soli militari; 3° permettere le
delegazioni per parecchi anni agli impiegati permanenti, come muedsin e
imâm delle moschee; e 4° limitarle a un anno pei non permanenti, come câdi,
hâkim, segretarii e impiegati d'azienda.
che ne sia, i beneficii militari, nati nella precoce decadenza della
società arabica, aiutarono, con gli altri vizii, alla rovina di sua
dominazione. La istituzione degli emiri di provincia primeggiò,
come dicemmo, tra le cause che smembravano l'impero in reami:
gli iktâ' cooperarono a rinnalzare l'abbassata aristocrazia e
spingerla all'anarchia feudale; poichè le milizie divennero come
forza privata dei capi loro; onde avvenne che alcuno occupasse il
principato, o, peggio, che molti sel contendessero. Così fu in
Spagna; così in Sicilia nello undecimo secolo.
Ordinato per tal modo che la entrata principale si applicasse al
principale bisogno dello Stato, poco rimanea per le altre spese,
che pur cresceano con lo incivilimento e con gli sforzi dei
principi tendenti al potere assoluto. Più che in niun'altra parte di
governo, apparisce nell'azienda il radical difetto della teocrazia
musulmana. Il Corano avea provveduto appena al bilancio,
com'oggi si dice, d'un misero governo di tribù. Per soddisfare alle
spese d'uno impero, convenne dunque cercare entrate fuor dalla
legge; come fu appunto il kharâg statuito da Omar; e, quando nè
anco bastò, forza fu di trapassare e legge e consuetudine. I giuristi
allora, che si arrogavano il potere legislativo mediante le
interpretazioni, si messero a tirar coi denti qualche capitolo del
Corano e della Sunna per adattarlo ai bisogni attuali, o sostennero
che non v'era modo. I principi posero balzelli a dispetto della
legge e degli interpreti; e rasparon danaro qua e là, su la quinta
del bottino, su la zekât, sul fei: su le quali entrate eran certi i dritti
dello Stato, milizie, parenti del Profeta e indigenti, ma incerte le
quote. Tolsero dal kharâg gli stipendii degli oficiali civili, oltre
quei delle milizie; serbaronsi quel che lor piacea dei beni
demaniali o ne concedettero a favoriti; talvolta consumarono il
pan dei poveri, cioè la zekât e la quinta, in opere di utilità
pubblica e di vanità pubblica e di vanità monarchica. Da ciò
nacquero frequenti contrasti tra i principi e i giureconsulti;
contrasti senza uscita legale, e però nocevolissimi: nè mai la
finanza musulmana fu regolata da unico e vasto pensiero, nè
adattata ai tempi, nè rassodata dal dritto 75. In Sicilia i balzelli
arbitrarii par che cominciassero nel decimo secolo, forse un poco
avanti, sotto il regno di Ibrahim-ibn-Ahmed. Fin allora la quinta,
e il fei, abbondanti per cagion della guerra, e la decima, bastavano
ai bisogni della colonia militare, non obbligata a mandar danaro
in Affrica76.
Dopo gli ordinamenti è da ricercare quali generazioni d'uomini
fossero venute a stanziare in Sicilia, sotto il nome di Musulmani.
Scarseggiando così fatte notizie appo i cronisti, sarà uopo aiutarci
coi nomi topografici relativi a schiatte o analoghi a quei d'altri
paesi musulmani. Cotesta via d'induzione non ripugna alla sana
critica; poichè i popoli musulmani, come tutti altri, usarono
ripetere nelle colonie i nomi della madre patria; e fu tanto, che
appo loro si compilò un dizionario apposta di omonimie
geografiche77. Nondimeno la medesimità del nome può nascere
talvolta da analogia di condizioni locali, verbigrazia Casr-el-
Hamma, il "Castel dei Bagni," che se ne trovava in Sicilia, in
Affrica e altrove; o può venire da epoche più remote, da
somiglianza casuale dei vocaboli, da altra origine ignota a noi:
per esempio, in Sicilia stessa Segesta e Mazara, i quali nomi
rispondono al Segestân, provincia della Persia, e a Mazar,
villaggio del Loristân anco in Persia78. Sendo notissime
nell'antichità quelle due città siciliane, la identità dei nomi
porterebbe per avventura a confermare la origine orientale dei
Sicani, e non sarebbe cagion di errore quanto ai tempi
75
Su le varie entrate legali e le opinioni dei giuristi, citerò in generale
Mawerdi, Ahkâm-Sultanîa, lib. XI, XII, XIII, XIV, XVII, XVIII. I fatti
generali che allego si cavano dalla storia dei primi cinque secoli
dell'islamismo.
76
Si percorrano nel Libro II le vicende della colonia infino al tempo di cui si
tratta, e si vedrà appena un dono di spoglie e prigioni di Castrogiovanni fatto
dallo emir di Sicilia al principe aghlabita, e da questi al califo.
77
Intitolato il Moscitarik, opera di Iakût, geografo del XIII secolo. Il testo
arabico è stato pubblicato a Gottinga dal dotto e infaticabile dottor Wüstenfeld.
78
Veggasi il Moscitarik, alla voce Mêzar. È noto a tutti che gli antichi
supposero il nome di Segesta, mutato per eufemismo da Egesta; ma l'autorità
degli antichi è debolissima in fatto di etimologie.
musulmani. Ma l'esempio ci ammonisce vieppiù a stare
guardinghi, e ricusare gli indizii di questa fatta che non trovino
riscontro nelle vicende istoriche.
La diversità di schiatte della colonia siciliana è attestata da
Teodosio monaco con parole enfatiche e pur veraci, là dov'ei
sclama adunarsi in Palermo la genía saracenica dei quattro punti
cardinali del mondo79: chè dovea trasecolare il prigion di
Siracusa, passando dalla monotonia d'un capoluogo di provincia
bizantina, al tumulto della crescente capitale: coloni e mercatanti
viaggiatori; e, misti ai Siciliani, ai Greci, ai Longobardi, a'
Giudei, Arabi, Berberi, Persiani, Tartari, Negri; chi avvolto in
lunghe vesti e turbanti, chi in pellicce e chi mezzo ignudo; facce
ovali, squadrate, tonde, d'ogni carnagione e profilo; barba e
capelli varii di colore e di giacitura; ragunati insieme i sembianti,
le fogge, le lingue, i portamenti, i costumi di tanti popoli abitatori
dell'impero musulmano. I nomi di tribù ricordati nel Libro
precedente, mostrano tra i coloni ambo le schiatte di Kahtân e
Adnân e sopratutto la seconda80. Scendendo alle divisioni nate
dopo l'islamismo, si ritrae che, oltre gli Arabi d'Affrica, ve n'ebbe
di Spagna81; fors'anco di Siria, Egitto e Mesopotamia82. V'ebbe al
79
Veggasi il Libro II, cap. IX, p. 407 del primo volume.
80
Alla prima apparteneano Ibn-Gauth (Libro II, cap. III, p. 285 del primo
volume), un della tribù di Hamadân (Libro II, cap. VI, p. 314 del primo
volume), i Kelbiti, che furono emiri di Sicilia nel X secolo, e fin nel XII secolo
un della tribù di Kinda, che comperò una casa in Palermo da un Berbero di
Lewâta. Della seconda nasceano gli Aghlabiti, che mandarono molti loro
congiunti in Sicilia: e si trovano inoltre i nomi delle tribù di Kinâna, Fezâra e
altre dello stesso ceppo. Tra i poeti arabi di Sicilia, che fiorirono la più parte
nell'XI e XII secolo, veggiamo tre rami soli di Kahtân e moltissimi di Adnân,
non ostante la signoria dei Kelbiti.
81
Per gli Spagnuoli veggasi il Libro II, cap. III, p. 264, e cap. IV, p. 286 e 288
del primo volume. Si potrebbe anco attribuire alli Spagnuoli il nome di
Caltabellotta "la Rocca delle Querce," identico a quello di Kalat-el-bellût,
presso Cordova. Ma ognun vede che il nome potea nascere dalla condizione
del luogo.
82
Casr-Sa'd chiamavasi secondo Ibn-Giobair (Voyage en Sicile de
Mohammed-ibn-Djobaïr, Journal Asiatique, série IV, tomo VI, 1845, p. 516, e
tomo VII, 1846, p. 75, e nota 24) un castello nelle vicinanze di Palermo,
certo la progenie dei Khorassaniti e altri Persiani passati in
Affrica nello ottavo secolo; e non fu di poco momento, vedendosi
primeggiare tra i Musulmani di Palermo, nelle guerre
d'independenza del decimo secolo, un Rakamuwêih, nome
persiano, e la potentissima famiglia dei Beni-Taberi, oriunda del
Taberistân; oltrechè nel territorio di Palermo trovansi i nomi

fondato fin dai primi tempi della dominazione musulmana. Era nome di tribù
arabica di Adnân, stanziata in Siria e in Egitto, come si ritrae da Makrizi, El-
Baiân-wa-l-I'râb, edizione del Wüstenfeld, p. 11 a 14; dalla quale tribù
vennero i nomi di quattro diversi luoghi in Oriente, che occorrono nel
Moscitarik di Iakût, p. 447, e d'un villaggio presso Mehdîa, in Affrica,
ricordato nel dizionario biografico di Sefedi, MS. di Parigi, Suppl. Arabe 706,
articolo su Khazrûn; e da Edrisi, Géographie, versione francese, tomo I, p.
277.
Belgia, secondo Edrisi, era castello sul fiume, or detto Belici, che scorre tra
Gibellina e Santa Margarita, e mette foce presso Selinunte. Il nome or del
castello e or del fiume, nei diplomi latini dall'XI al XV secolo si vede scritto
Belich, Belichi, Belice, Belix, Bilichi. In altra regione, tra Polizzi, cioè, e
Collesano, si ricorda nel XIV secolo un castel Belici. Veggansi i diplomi
presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 695, 736, 842, 843; Di Gregorio, Biblioteca
Aragonese, tomo II, p. 469, 489, 492; Del Giudice, Descrizione del tempio di
Morreale, appendice, p. 8, seg., dipl. del 1182. Fanno menzione degli stessi
nomi: Amico, Lexicon Topographicum, in Val di Mazara e Val Demone; e
Villabianca, Sicilia Nobile, tomo I, parte II, p. 23.
Il medesimo nome, sotto la forma di Belgi e Belgiân, si trova a Bassora e
presso Marw in Khorassân, secondo il Merâsid-el-Ittilâ'. Inoltre un picciol
fiume che si scarica nell'Eufrate presso Rakka, chiamato anticamente Bileka,
porta oggi il nome di Belich, o Belejich, secondo la pronunzia inglese, come si
nota nel Journal of the Royal Geographical Society, anno 1833, tomo III, p.
233.
topografici di Ain-Scindi83, Balharâ84, e Ságana85; e, un po' più
discosto, quei di Menzîl-Sindi e Gebel-Sindi86, i quali tutti van
riferiti alle schiatte dello estremo oriente. I nomi dei luoghi, al par
che gli avvenimenti storici, mostrano che gli Arabi, e altri popoli
di Levante, tenessero le parti settentrionali del Val di Mazara, nel
quale, come il dicemmo, erano ristrette le colonie musulmane nel
nono secolo. Palermo, fatta capitale dell'isola, era lor sede
83
Volgarmente Dennisinni, fonte presso Palermo, tra i palagi della Cuba e
della Zisa. In un diploma latino del 1213, presso Mortillaro, Catalogo dei
diplomi della cattedrale di Palermo, p. 55, questo nome è scritto Aynscindi; e
Aynisindi nello Anonymi Chronicon Siculum, opera del XIV secolo, presso Di
Gregorio, Biblioteca Aragonese, tomo II, p. 129. Ibn-Haukal, nel X secolo,
dava a questa fonte il nome di 'Ain-abi-Sa'id. Journal Asiatique, IV série, tomo
V, p. 90 e 99 (20 e 29 dell'estratto).
84
Del villaggio di Balharâ, fa menzione Ibn-Haukal, l. c. Il sito risponde senza
dubbio a quel di Monreale; e il nome par sia rimaso a un mercato di Palermo,
ch'era frequentato probabilmente dagli abitatori di Balharâ, il quale, nel medio
evo, fu chiamato, come attesta Fazzello, Segehallaret, e oggi, tralasciata la
voce suk o sug, "mercato," si addimanda Ballarò. Io l'ho avvertito alla nota 33
alla mia versione di Ibn-Haukal. Or in India avvi un monte detto nel medio evo
Balharâ, e scritto dagli Arabi precisamente con la stessa ortografia del testo di
Ibn-Haukal, Ne fa menzione il medesimo autore, e, seguendo lui, Ibn-Sa'id,
Moktaser-Gighrafia, MS. di Parigi, fog. 53. Balharâ era anche titolo di un
principe d'India, al dir di Masudi, Morûg-ed-dscheb, versione inglese di
Sprenger, tomo I, p. 193, e Reinaud, Mémoire sur l'Inde, p. 129.
85
Ságana, vasto podere, e un tempo feudo, tra le montagne a ponente di
Palermo. Il nome resta tuttavia. Se ne fa menzione in un diploma di Guglielmo
II, del 1176, del quale v'ha una copia in arabico nell'archivio del Monastero di
Morreale, con una versione latina contemporanea, pubblicata da Del Giudice,
Descrizione del tempio di Morreale, appendice, p. 18.
Saghâniân chiamavasi una città della Tartaria independente, al sud-est di
Samarkand; e scriveasi con le medesime lettere radicali che nel diploma di
Morreale, se non che in questo l'accento e la finale son diversi: in luogo di
Saghâniân, Sâghanû. È superfluo ricordare che nel IX secolo l'impero arabico
si estendeva alla Tartaria fino a Fergana; e che Bokhara, Samarkand e altre
città di quella provincia, furono patria di dottissimi scrittori arabi.
86
Menzîl Sindi, ricordato da Edrisi, e situato presso Corleone; e Gebel-Sindi,
vasto podere presso Girgenti, di cui si fa menzione in un diploma del 1408,
presso Di Gregorio, Biblioteca Aragonese, tomo II, p. 49. Significano l'uno "la
posta o villaggio," e l'altro "il monte" del Sindî, o vogliam dire uom del Sind.
principale; e par che lungo la costiera quelle popolazioni si
estendessero, verso ponente, infino a Trapani.
La schiatta berbera, com'è noto, accompagnò gli Arabi nel
conquisto di Sicilia; sendone venute alcune tribù nell'esercito di
Ased-ibn-Forât, altre col berbero spagnuolo Asbagh-ibn-Wekil,
altre senza dubbio nelle varie espedizioni che successero, ed alla
spicciolata. Fu parte non piccola della colonia; poichè potè
sostenere lunga guerra civile contro gli Arabi. Occupò le regioni
meridionali del Val di Mazara. E veramente tra una dozzina di
nomi berberi, su la origine dei quali non cade alcun dubbio, la più
parte si trova in quella regione, nel tratto che corre da Mazara a
Licata87. Girgenti, guerreggiante spesso contro Palermo e sempre

Il nome di Sindis, a levante di Corleone, occorre di più in un diploma presso


Pirro, Sicilia Sacra, p. 764. Mohammed-ibn-Sindi capitanò l'armatetta uscita di
Palermo contro i Bizantini nell'855. Veggasi il Libro II, cap. V, p. 302 del
primo volume.
87
Dei nomi che presentano tal certezza, sei sono vicinissimi a Girgenti; due
tra questa e Palermo; due presso Palermo; uno nei dintorni di Messina; uno in
quei di Siracusa. Ecco i nomi:

I. Andrani, casale tra Sciacca e Girgenti, da un diploma del 1239,


Constitutiones Regni Siciliæ, edizione del Carcani, p. 268. Andrani o Andarani
è l'aggettivo etnico di Andara, tribù berbera, ricordata da Ibn-Khaldûn, Storia
dei Berberi, testo arabico, tomo I, p. 108 e 178, e versione francese di M. De
Slane, tomo I, p. 170, 275.
II. Kerkûd, nome di villa in Sicilia secondo il Merâsid-el-Ittilâ' e il Mo'gim di
Iakût, MS. del British Museum, n° 16649 e 16650, nell'articolo Kerkeni
(Girgenti): forse la Karches di un diploma del 1177 a favor del vescovo di
Girgenti, negli Opuscoli di autori siciliani, tomo VIII, p. 334. Kerkûda è tribù
berbera, secondo Ibn-Khaidûn, op. cit., testo, tomo I, p. 177; versione, tomo I,
p. 274.
III. Mesisino, nome di collina nell'antica baronia di Belici presso
Castelvetrano, secondo Villabianca, Sicilia Nobile, tomo II, p. 345. Meziza è
tribù berbera, secondo Ibn-Khaldûn, op. cit., testo, tomo I, p. 153; versione,
tomo I, p. 241. La mutazione della z in s non mette in forse la etimologia.
IV. Mechinesi, antico casale sul cui sito sorge in oggi Acquaviva, secondo
Amico, Lexicon Topographicum. Miknas, o Miknasa è nome notissimo di tribù
berbera.
rivale, era senza dubbio la città più importante, e come la capitale
dei Berberi.
La moltiplicità delle schiatte invelenì al certo molte querele
private; si mescolò forse alle altre cagioni d'ira negli scambii
degli emiri; ma non potea produrre tante fazioni, quante nazioni.
Inoltre la progenie di Kahtân sembra pochissima in Sicilia
innanzi i Kelbiti, che vennero nel decimo secolo. I Persiani par

V. Minsciâr, castello, secondo Edrisi, presso il sito presente di Racalmuto; e


Muxaro (Sant'Angelo di) in oggi comune a 14 miglia da Girgenti, scritti
entrambi con varianti nei diplomi del medio evo. Minsciâr era nome di una
montagna in Affrica, appartenente alla tribù berbera dei Wezdâgia, secondo
Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione di M. Des Vergers,
testo arabo, p. 56, e versione, p. 128. Si vegga anche Edrisi, versione di M.
Jaubert, tomo I, p. 275. Il Merâsid, di Iakût, edizione di Leyde, tomo III, p.
159, nota una fortezza Minsciâr presso l'Eufrate.
VI. Modiuni si addimanda in oggi il fiume detto anticamente Selinus, presso
Selinunte. Madiûna è nome di tribù berbera, secondo Ibn-Khaldûn, Storia dei
Berberi, testo, tomo I, p. 109, e versione, tomo I, p. 172.
VII. Sanagi o Sinagia, si chiamò la sorgente del fiume Mazaro, e un podere nel
territorio di Salemi, secondo un diploma del 1408, presso Di Gregorio,
Biblioteca Aragonese, tomo II, p. 489, e Villabianca, Sicilia Nobile, tomo II, p.
396. Sanhâgia, o Sinhagia, come ognun sa, è delle principali tribù berbere.
VIII. Notissima al paro quella di Zenata. Hager ez-Zenati e Rahl ez-Zenati che
suonan "La rupe," e "il villaggio" di quel di Zenata, sono nomi di luogo presso
Corleone, ricordati nei diplomi: del 1093, presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 695 e
842; del 1150, 1155, 1301, presso Mongitore, Sacræ Domus Mansionis....
Panormi, Monumenta historica, cap. XIII; e del 1182, presso Del Giudice,
Descrizione del tempio di Morreale, Appendice, p. 11. Di quest'ultimo
diploma avvi una copia arabica nell'archivio del monastero di Morreale. Negli
altri, che son tutti latini, si legge talvolta Petra de Zineth, Raalginet,
Ragalzinet ec.
IX. Magagi in latino e Maghâghi in arabico, secondo il diploma del 1182
presso Del Giudice, l. c., è nominata una villa nel territorio dell'antica Giato,
non lungi dall'odierno comune di San Giuseppe li Mortilli. Maghâga, tribù
berbera, secondo Ibn-Khaldûn, Storia dei Berberi, testo, tomo I, p. 108;
versione, tomo I, p. 171.
X. Cutemi, Cutema, Gudemi, terra presso Vicari, sul confine delle diocesi di
Palermo e Girgenti, ricordata in un diploma del 1244, presso Pirro, Sicilia
Sacra, p. 147. Il nome deriva da Kotâma o Kutâma, tribù berbera, di cui ci
occorrerà far parola. Avvertasi che questa e Sanhagia forse non vennero in
che dimenticassero la rivalità loro contro gli Arabi, già mitigata
dal tempo in Affrica. Lo stesso avvenne agli altri sminuzzoli di
schiatte orientali, troppo deboli per far parte dassè, interessati tutti
a stringersi intorno gli Arabi di Adnân per soverchiare i Berberi.
Arabi e Berberi dunque: ecco la profonda, insanabile divisione
della colonia siciliana. Tra gli uni e gli altri non era divario di
condizione legale. Mentre in Affrica molte tribù berbere
pagavano tuttavia il kharâg e rimanean prive degli stipendii
militari, per essere state sottomesse con la forza, in Sicilia le due
genti, venute insieme a combatter la guerra sacra, vantavano
uguale dritto ai premii della vittoria. Se non che, in fatto, gli emiri
Sicilia prima del X l'una, e l'altra dello XI secolo.
XI. Cûmîa, nome di due villaggi vicino Messina, e di una tribù berbera, di cui
Ibn-Khaldûn, op. cit., testo, p. 109 ec., e versione, tomo I, p. 172 ec.
XII. Melilli, nome di città a dodici miglia da Siracusa. Melila e Melili, cittadi
d'Affrica, l'una su la costiera del Rif di Marocco, l'altra nello Zab; e Melila,
tribù berbera, di cui Ibn-Khaldûn, op. cit., testo, tomo I, p. 107 ec., e versione,
p. 170 ec. Ma il nome potrebbe esser pure origine latina.
XIII. Mesisino, nel feudo del Landro (val di Mazara), citato da Villabianca,
Sicilia nobile, tomo II, p. 345. Meziza era nome di tribù berbera, secondo Ibn-
Kaldûn, Histoire des Berbères, tomo I, p. 241 della versione, e I, 153 del testo.

Do la presente lista com'abbozzata appena; perocchè nè si trovan raccolti, nè io


tutti li so, i nomi topografici secondarii della Sicilia, di monti, poderi,
scaturigini d'acqua ec. Da un'altra mano scarseggiano le notizie su le
denominazioni etniche di second'ordine e su le topografiche relative ai Berberi
d'Affrica, e la lingua loro appena si è cominciata a studiare da Europei; ond'è
possibile che siano berberi molti nomi topografici attuali della Sicilia o di quei
ricordati nelle carte dal XII al XV secolo, la cui origine non pare arabica, nè
greca, nè latina, nè francese. Son certo che si arriverà a scoprirne col tempo
molti altri. Avverto infine che moltissimi dati anco dalla schiatta berbera non si
riconosceranno giammai; perchè gli uomini di quella prendeano sovente nomi
o soprannomi arabici. Occorrono inoltre parecchi nomi berberi tra i poeti
siciliani dell'XI e XII secolo. La storia ricorda, nell'XI secolo, Ibn-Meklâti, uno
dei regoli che si divisero l'isola, uom della tribù di Meklata, di cui Ibn-
Khaldûn, op. cit., testo, tomo I, p. 108 ec.; versione, tomo I, pag. 172 ec. L'atto
di vendita di una casa in Palermo, dato il 1132, porta il nome del venditore
Abd-er-Rahman-ibn-Omar-ibn....-el-Lewâti, cioè di Lewâta, notissima tribù
berbera; testo arabico presso Di Gregorio, De supputandis apud Arabos
Siculos temporibus, p. 44.
dell'esercito siciliano nascean di sangue arabico, al par che i
principi aghlabiti; di sangue arabico o persiano i dottori, gli
ottimati, la più parte dei cavalieri del giund; nè poteano smettere
in Sicilia l'orgoglio e cupidigia da nobili; nè dimenticare la
maggioranza della schiatta loro in Affrica. I Berberi poi non si
tenean da meno di loro: conscii del proprio numero, valore, dritti
d'islamismo e dritti di natura. Un moderno e sagace osservatore, il
generale Daumas, notando il divario ch'è tra le istituzioni sociali
degli Arabi e dei Berberi, e trattando particolarmente dei Berberi
della Kabilia Grande, come chiaman la regione tra Dellys,
Aumale, Setif e Bugia, ben ha dipinto quella nazione col motto di
"Svizzera salvatica." Cantoni e villaggi, al dir suo, fanno unità
politiche; rannodansi tra loro per leghe più o meno durevoli:
repubblichette democratiche, ove ognuno ha voce in consiglio; i
magistrati elettivi, di breve durata e poca autorità; case nobili
preposte sovente alle leghe, per ambito o riputazione, non per
dritto; e, più che ai magistrati o ai nobili, si obbedisce ai
marabuti, frateria che molto somiglia al monachismo del medio
evo: la gemâ' rende ragione in materia criminale, non secondo il
Corano ma con le antiche consuetudini del paese: l'omicida
dichiarato fuor della legge; per gli altri delitti, pene pecuniarie, e
non mai staffilate come appo gli Arabi. Pensa il lodato autore
ch'abbian ordini analoghi le altre popolazioni berbere
dell'Algeria88; ed io aggiugnerei che, si eccettuino le tribù nomadi
e alcuni periodi in cui tribù agricole, o leghe, si son governate a
monarchia, e del resto si tengano le consuetudini di civile
uguaglianza come osservate in tutta la schiatta berbera fin da
tempi remotissimi89. Dopo il conquisto musulmano ne danno
88
Mœurs et Coutumes de l'Algérie, par le général Daumas, Paris 1853, p. 148,
166, seg.; 191, seg.
89
Ibn-Khaldûn, sì veggente in filosofia storica e sì accurato compilator degli
annali dei Berberi, fa una distinzione tra i Berberi nomadi e gli agricoltori, dei
quali i primi taglieggiavano i secondi e si teneano più nobili di loro, Storia dei
Berberi, versione francese di M. De Slane, tomo I, p. 167, seg. Par che i
nomadi non solamente esercitassero quella maggioranza, come più forti, sopra
gli agricoltori, ma anco inclinassero all'aristocrazia nello ordinamento interiore
indizio quella generale inclinazione dei Berberi alle sétte
kharegite; e lo spirito d'independenza della tribù di Kotâma a
fronte dei califi fatemiti90; e i magistrati della medesima tribù e di
Zenâta nell'undecimo secolo, analoghi a quelli di cui parla il
generale Daumas ai dì nostri91: che se talvolta sursero in quel
popolo principi o dittatori, si ricordi tali usurpazioni avvenir più
agevolmente negli Stati democratici che sotto l'aristocrazia. Da
ciò si può conchiudere che le popolazioni berbere passate in
Sicilia, e non soggette a principi loro, poichè ubbidivano agli
aghlabiti, fossero informate dal genio d'uguaglianza che le dovea
vieppiù alienare dagli Arabi, e rendere intolleranti dei signorili
soprusi di quelli. Le inclinazioni economiche divideano alsì l'una
dall'altra gente: gli Arabi oziosi, i Berberi industri; gli uni pastori
di vassalli, poichè lor n'eran caduti in mano in vece di cameli e
pecore; gli altri sempre agricoltori. Doveano dunque i primi
bramar che si lasciassero le terre ai vinti siciliani; i secondi che le
di loro tribù. Quanto alla democrazia, ancorchè Ibn-Khaldûn non ne parli,
trasparisce dai fatti che io andrò accennando; e fors'anco quello storico si
accorse della diversità del reggimento politico, quando notò che i Berberi
lontani dalle grandi città e però non soggetti alla dominazione romana, vandala
o bizantina, «avean le forze, ordini, numero di genti, re, capi, reggitori (akiâl
plurale di kâil) e comandanti che lor piacessero;» poichè la diversità di cotesti
governanti, scrivendo lo autore in arabico e non in berbero, mostra differenza
non di mero titolo, ma ancora di autorità e natura del magistrato. Veggasi il
testo arabico, vol. I, p. 132; e la versione, vol. I, p. 207, che non è litterale.
90
Il califo fatemita Mo'ezz-li-din-Allah, verso il 908, apprestandosi al
conquisto di Egitto, volea porre governatori suoi e riscuotere le decime legali
nel paese della tribù di Kotâma. Rifiutaronli. Chiamati a corte alcuni sceikhi
della tribù, Mo'ezz, non li potendo intimidare, lor disse che l'avea fatto per
prova, e che si rallegrava di avere a' suoi servigi uomini di sì alti spiriti.
Veggasi Makrizi, citato da M. Quatremère, Vie du Khalife fatimite Moezz-li-
din-Allah, p. 30, 31.
91
Queste due tribù sendo state in guerra contro il principe zeirita d'Affrica,
Mo'ezz-ibn-Badis, gli mandarono il 1026 loro sceikhi a trattare uno accordo
con esso lui: Ibn-al-Athîr, MS. C, tomo V, fog. 59 recto, anno 417. Le milizie
di Kotâma, stanziate al Cairo al principio del regno di Hâkein-bi-Amr-Allah
(966), non vollero che si ingerisse nelle faccende loro altri che un proprio loro
sceikh. Veggasi Iahîa-ibn-Sa'îd, Continuazione degli annali d'Eutichio, MS. di
Parigi, Ancien Fonds, 131 A, p. 62.
si dividessero. E bastava sol questa, se fosse mancata ogni altra
cagione, a suscitar la guerra civile!
Dal detto fin qui si comprende la origine dei due movimenti
diversi, che cominciarono ad agitare la colonia di Sicilia, entro
mezzo secolo dalla fondazione sua. L'uno era sforzo della colonia
a governarsi dassè; e risolveasi in contrasti tra la nobiltà
palermitana e i principi aghlabiti, per la elezione dell'emiro.
Appartenendo all'emiro quella piena autorità che abbiam detto, e
non potendo cadere in mente del principe, nè dei coloni, nè dì
niun Musulmano, di riformare la legge; ciascuna delle due parti
cercava a por mano alla esecuzione: fare esercitare l'oficio di
emiro da uom suo, e a comodo suo. Racchiudeasi in cotesta
contesa quella di finanza: se la colonia dovesse pagar tributo o
no; poichè il principe non avea ragione, che nei sopravanzi, e
all'emiro stava di trovarne o non trovarne. Indi il principe eleggea
lo emiro, e i coloni lo scacciavano; o costoro coglieano un
pretesto di nominarlo, e il principe lo rimovea; nè potea durar la
quiete.
L'altro movimento era la lotta tra gli Arabi e i Berberi. Oltre il
partaggio delle terre al quale accennammo, oltre le vendette
private che degeneravano in vendette di tribù, nacque verso la
fine del nono secolo una causa perenne di lite. A misura che
compieasi il conquisto dell'isola, mancava il bottino e cresceva il
fei, o vogliam dire rendita militare. Per caso intervenne al
medesimo tempo che le armi della dinastia macedone sforzassero
a uscir di Calabria i Musulmani, Berberi in gran parte, come cel
mostrano i nomi dei capi. I Berberi dunque delle tribù più
turbolente, quei che non amavano a vivere di agricoltura, doveano
procacciar lo stipendio sul fei. Ma questo non si scompartiva,
come il bottino, con legge immutabile e precisa, tra tutti i
combattenti; anzi stava ad arbitrio tra dell'emiro e del principe; e
gli Arabi potean pretendere che ne fossero esclusi gli stranieri,
toccando a loro il primo luogo nei ruoli. Niun cronista fa motto di
tal contesa; ma la non potea non accadere; e ce ne conferma il
fatto che la Sicilia fu insanguinata per la prima volta in guerra
civile pochi mesi dopo il ritorno delle masnade che Niceforo Foca
scacciò dalle Calabrie92.
Quei due movimenti si frastagliavan sovente, e il secondo
cadde in acconcio al principe aghlabita che volle davvero
soggiogare la colonia. Ricapitolando i fatti che narrammo nel
Libro secondo, si scorge la lotta d'independenza principiata
proprio alla fondazione della colonia palermitana; sopita da savii
emiri di sangue aghlabita; ridesta verso l'ottocento sessantuno,
come n'è indizio il frequente scambio degli emiri. Quel valoroso e
nobilissimo Khafâgia, ucciso a tradimento da un Berbero, sembra
cadesse vittima dell'altra discordia; se pur Arabi e Berberi non
s'erano uniti per brev'ora contro le usurpazioni del poter centrale.
Così fatta resistenza durava nei principii del regno d'Ibrahim-ibn-
Ahmed, come il provano gli scambii degli emiri verso l'ottocento
settantuno. Poi entrambe le divisioni divampano al medesimo
tempo. Tra l'autunno dell'ottocento ottantasei e la primavera
dell'ottantasette, gli Arabi del giund e i Berberi vengono al
sangue: la nimistà loro, se non la aperta guerra civile, arde
tuttavia per dieci anni, sì che viene a dettare lo scandaloso patto
di torsi a vicenda dall'una e dall'altra gente gli statichi da
consegnarsi ai Cristiani (894-895). Nello stesso decennio la
tenzone della colonia col principe arriva agli estremi: ribellione
armata da una parte; dall'altra, repressione con le armi e fors'anco
violazione della legge fondamentale che affidava all'emiro il
governo della colonia. Perocchè il popolo di Palermo, mentre
guerreggia la prima fiata contro i Berberi (886-887), mette ai ferri
e caccia in Affrica lo emir Sewâda e gli dà lo scambio; tre anni
appresso (890) combatton Siciliani contro Affricani, che è a dire
contro le forze mandate dal principe; a capo di due anni un emiro
92
Veggasi il Libro II, cap. X, p. 424; e cap. XI, p. 440 del primo volume.
Secondo Ibn-el-Athîr, e il Baiân, la cacciata dei Musulmani da Amantea e
Santa Severina seguì il 272 (17 giugno 885 a' 6 giugno 886), la qual data si
riscontra con quella degli annali bizantini. La prima guerra civile tra Arabi e
Berberi in Sicilia scoppiò tra l'autunno dell'886 e la primavera dell'887,
secondo la testimonianza della Cronica di Cambridge, combinata con quella
del Baiân.
rientra per forza in Palermo; e corsi pochi mesi, nel dugento
ottanta dell'egira (893-894), l'emirato di Sicilia è conferito al gran
ciambellano che stava accanto a Ibrahim, cioè la colonia è
oppressa e spogliata di sue franchige, ovvero ha scosso il giogo; e
di certo par che l'abbia scosso tra il novantacinque e il novantasei
quando è fermata pace coi Cristiani93. Si scorge in cotesti travagli
il doppio effetto della condizione politica dei popoli e delle
passioni d'un uomo. La condizione dei Berberi rispetto agli Arabi,
e della colonia rispetto alla madre patria, avea dato principio alle
due tenzoni. Ibrahim-ibn-Ahmed le spinse al segno a che
arrivarono negli ultimi anni del nono secolo. Per domar meglio la
colonia di Palermo, aizzò i Berberi di Girgenti. Volle domar la
colonia, perchè a questo il portava sua natura esorbitante e feroce;
e per trarne danaro e adoperarlo all'altro disegno, d'abbattere e
calpestare l'aristocrazia arabica in Affrica; il che ei fece sì bene,
che distrusse la base della dinastia aghlabita, onde questa entro
pochi anni crollò.

CAPITOLO II.

Ibrahim-ibn-Ahmed non solamente avviluppò in questa guisa


la condizione politica della colonia, e poi sciolse il nodo con
orribile catastrofe, ma, non sazio di quel sangue musulmano,
venne ei medesimo in Sicilia a sterminare gli ultimi avanzi de'
Cristiani; prosegui la vittoria in Calabria; e minacciava tutta la
terraferma d'Italia, quand'ei morì com'Alarico sotto le mura di
Cosenza. Pertanto debbo dir di costui più particolarmente che non
abbia fatto degli altri principi affricani. Il voglio anche perchè
l'indole d'Ibrahim, sembra fenomeno unico nella storia morale
dell'uomo, nè si può definir con parole, nè delinear con qualche
tratto. Unico fenomeno parve a quei che il videro da presso; i
quali, facendosi a spiegarlo e non trovandovi modo con la
93
Veggasi il Libro II, cap. X, p. 429, seg., del primo volume.
psicologia del Corano, ebbero ricorso alle teorie dei materialisti
che già penetravano appo gli Arabi, miste alla filosofia greca;
supposer quest'uomo invasato di non so che bile negra:
malinconia, come la chiama tecnicamente Ibn-Rakîk94.
«Niun dee misfare fuorchè il principe. La ragione di questo è
che, ove gli ottimati e i ricchi si sentan possenti nei beni della
fortuna, uom non vivrà sicuro dalla loro insolenza e malvagità. Se
il re cessi di calcarli, ecco che si fidano; gli resistono; gli traman
contro! In vero il succo vitale del principato è la plebe95. Il signor
che lasciassela opprimere, perderebbe l'utile ch'ei ne ricava; ed
altri sel godrebbe, rimanendo a lui il sol danno96.» Così parlava
Ibrahim-ibn-Ahmed, vantandosi di abbattere la nobiltà arabica
dell'Affrica: teorie e gergo molto ovvii, che rivelan sempre il
tiranno di buona scuola. Sagacissimo fu veramente Ibrahim nelle
cose di stato; uom di mente vasta e savia, quando non l'offuscava
la sete del sangue. Ebbe genio alieno dalle scienze, dalle lettere e
dalla poesia, ch'erano state in onore appo i suoi maggiori: e
qualche versaccio ch'ei fece, come nato e cresciuto in una corte
arabica, somiglia forte a quelli di Carlo d'Angiò, per la
insipidezza e l'arroganza97. In fatto di religione si mostrò
osservatore del culto, più che delle pratiche di devozione; si ridea
94
Citato da Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, traduzione di M.
Des Vergers, p. 139. Nel testo si legge in caratteri arabici Mâlankhûnîa
(Μελαγχολία). Forse attinse alla stessa sorgente l'autore del Baiân, tomo I, p.
126, il quale, in luogo di trascrivere la denominazione della malattia, la
traduce: "bile negra."
95
Litteralmente "la materia onde cresce il re, sono i rai'a." Questa voce
arabica, come ognun sa, vuol dir gregge; ed è passata in termine tecnico per
designare il popol minuto delle città e campagne.
96
Nowairi, Storia d'Affrica, MSS. di Parigi, Ancien Fonds, 702, e 702 A, fog.
23 recto del primo, e 54 del secondo. Mi allontano alquanto dalle versioni non
precise che han dato di questo passo M. Des Vergers, e M. De Slane, il primo
in nota a Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 139, e l'altro in
appendice a Ibn-Khaldûn stesso, Histoire des Berbères, tomo I, p. 435.
97
Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 32 verso. L'autore
allega in esempio il distico d'Ibrahim:
«Astri siam noi, figli degli astri; avol nostro la luna del cielo, Abu-Nogiûm-
Tamîm;
della morale quando non gli andava a' versi; ma era sopratutto
intollerantissimo verso gli altri. Visse senz'amore, nè amicizia.
Seguì voluttadi nella prima gioventù, e presto gli vennero a tedio;
e allora incrudelì nelle donne più rabidamente che negli uomini; e
le abborrì di strano e sospetto abborrimento. Violava in tutti i
modi le leggi della natura.
A venticinque anni salì al trono per uno spergiuro.
Mohammed, suo fratello, venendo a morte, lasciava il regno al
proprio figliuolo bambino; commettea la tutela a Ibrahim;
faceagli far sacramento di non attentar mai ai dritti del nipote, nè
metter piè nel Castel Vecchio, ove quegli dovea soggiornare con
la corte. E Ibrahim, nella moschea cattedrale del Kairewân,
dinanzi gli adunati capi di famiglie di sangue aghlabita e i
magistrati e notabili della capitale, giurollo solennemente; ripetè
cinquanta fiate il tenor del giuramento, com'era usanza nelle
cause criminali. Sepolto il fratello (febbraio 875), cominciò a
regger lo Stato, ben diverso da lui, con somma forza e giustizia.
Indi i cittadini del Kairewân a pregarlo di prendere a dirittura il
regno: il che ricusò, pretestando suoi cinquanta giuramenti; e di lì
a poco, noi sappiam come si fa, i buoni borghesi tornarono a
supplicare più fervorosi, e Ibrahim non seppe dir no. Uscito di
Kairewân alla testa del popolo in arme, occupava il Castel
Vecchio; si facea gridar principe; e prestare omaggio di fedeltà
dai notabili d'Affrica e da non pochi di casa d'Aghlab. Con tutta
la bruttura dello spergiuro e della commedia che servì a

»Avola nostra il Sole. Or chi s'agguaglia a noi, discesi di due sì nobili


schiatte?»
A chi non conosce l'arabico è da avvertire che in quella lingua la luna è di
genere maschile, il sole femminino, e Abu-Nogiûm significa "padre delle
stelle."
Conde, Dominacion de los Arabes en España, parte IIa, cap. LXXV, riferisce,
senza citare sorgente, un aneddoto anacreontico, seguito forse nella prima
gioventù di Ibrahim. Certo poeta, per domandargli non so che grazia, scrivea
due versi in un pelizzino, e il nascondea, come noi facciamo nei confetti, entro
una rosa, presentata a Ibrahim mentre sedeva in un giardino tra le sue donne.
Una lesse e cantò i versi; e Ibrahim donò al poeta cento monete d'oro.
ricoprirlo, Ibrahim non va chiamato usurpatore98. Il dritto di
primogenitura non era allignato mai appo gli Arabi; la
designazione del principe antecessore, era abuso; la investitura
del califo, ormai vana cerimonia; e il popolo, che potea deporre
ed eleggere, partecipò alla tumultuaria esaltazione non sforzato,
forse mezzo raggirato e mezzo no. Gli umori delle città contro
l'aristocrazia militare, ci persuadono che la cittadinanza abbia
francamente parteggiato per Ibrahim.
Severi, ma di rigor salutare, i primordii del regno. Trattando
sempre dassè le faccende pubbliche, Ibrahim cessò i soprusi degli
oficiali e governatori di province: rendea ragione ogni lunedì e
venerdì nella moschea cattedrale del Kairewân, ascoltando con
pazienza i richiami, e provvedendo immantinenti; diè di sua
persona esempii di astinenza e pietà; ristorò la polizia
ecclesiastica; sgombrò le strade dei ladroni che le infestavano;
assicurò il commercio, spense i violenti e gli scapestrati. Si narra
di lui che obbligasse la madre al pagamento di un debito,
minacciando di lasciarla tradurre dinanzi il cadi99: la madre, sola
creatura umana rispettata da quel mostro. Attese molto alle opere
pubbliche. A comodo dei cittadini, costruì un gran serbatoio
d'acqua al Kairewân. Per magnificenza e pietà innalzò una
moschea cattedrale a Tunis; e aggrandì quella del Kairewân;
aggiuntavi inoltre una cupola che poggiava su trentadue colonne
di marmo. Circondò Susa di mura. Compiè su la costiera del
reame una linea di torri e posti di guardia, ordinata a far segnali
coi fuochi, sì che in una notte potea tramandarsi avviso da Ceuta
ad Alessandria di Egitto100. Cotesta pratica antichissima era scesa

98
Nell'originale "usarpatore". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
99
Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 92 recto; e MS. C, tomo IV,
fog. 246 verso, anno 261; Baiân, tomo I, p. 110, seg.; Ibn-Khaldûn, Histoire
de l'Afrique et de la Sicile, traduz. di M. Des Vergers, p. 126, seg.; Nowairi, in
appendice a Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, traduz. di M. De Slane, tomo
I, p. 424, seg.
100
Veggansi le autorità citate nella nota precedente; e vi si aggiungano: Bekri,
Descrizione dell'Affrica nelle Notices et extraits des MSS., tomo XII, p. 470;
Tigiani, Rehela nel Journal Asiatique, série IV, tomo XX (agosto 1852), p. 99;
con le tradizioni dell'impero infino ai Bizantini; i quali nella
prima metà del nono secolo l'adoperavano a significare i tristi casi
di lor guerre, da Tarso a Costantinopoli101. E v'ha ragioni da
credere ch'e' se ne fossero avvalsi anco in Sicilia, e che quivi
avesserla appreso gli Arabi d'Affrica102.
Innanzi ogni altra opera pubblica, Ibrahim avea costruito una
cittadella, centro di gravità della tirannide ch'ei macchinava:
fortezza ove porre sua corte e ordinar novelli pretoriani per
disfarsi degli antichi, i liberti di casa aghlabita, ridotti nel Castel
Vecchio, stati fin allora padroni del popolo e del principe. Fece
por mano a' lavori il dugento sessantatrè (23 settembre 876 a 11
settembre 877), in luogo discosto quattro miglia dal Kairewân e

e tomo XXI (febbraio 1853), p. 133; Ibn-Wuedrân, MS. arabo, § 6; e versione


di M. Cherbonneau, nella Revue de l'Orient, decembre 1853, p. 428. Il primo
parla soltanto della Moschea di Kairewân; l'ultimo di quella di Tunis, e del
serbatoio d'acqua.
101
Theophanes continuatus, lib. IV, cap. XXXV, p. 197; Constantinus
Porphyrogenitus, De Cerimoniis aulæ Byzantinæ, appendice al I° libro, p. 492;
Symeon Magister, De Michæle et Theodora, cap. XLVI, p. 681. I posti in tutto
erano nove, compreso quello di Costantinopoli. Il numero diverso dei fuochi
indicava diversi casi, come: assalto dei Musulmani, battaglia, incendio, etc.
Leone, arcivescovo di Tessalonica e professore alla Magnaura, al dire di
Symeon Magister, avea perfezionato questo sistema telegrafico, ponendo a
Tarso ed a Costantinopoli due orologi che si supponeano isocroni (εξ ίσου
κάμνοντα). L'imperator Michele l'ubbriaco fece sopprimere i segnali a vista
della capitale, perchè i sinistri avvisi non lo venissero a sturbare tra i giochi
dell'ippodromo.
102
Questa conghiettura è fondata su gli indizii seguenti. Primo, che i fuochi di
segnali usati in Sicilia fino agli ultimi anni del secolo passato per dare avviso
dei corsali barbareschi che si avvistassero, si chiamavan fáni, appunto la stessa
voce φάνος, che troviamo nei citati scrittori bizantini. Da ciò par che l'usanza
risalga ai tempi in cui il linguaggio oficiale in Sicilia era il greco. Secondo, che
la montagna ove sorgea l'antica Solunto, alla estremità orientale del golfo di
Palermo, si addimanda tuttavia Catalfano, voce scorciata da Calatalfano e
composta dall'arabico kala't (rocca) e da φάνος; il che prova che vi fosse stata
una torre da segnali al tempo della dominazione musulmana, o anche prima.
Terzo, che i segnali con fuochi furono tentati nell'847 durante lo assedio di
Lentini, come già narrammo nel Libro II, cap. VI, p. 317 del primo volume.
chiamato Rakkâda, "Sonnolenta" come suona appo noi103. Entro
un anno, fornite le mura, innalzata una torre che addimandarono
di Abu-'l-Feth104, Ibrahim inaugurolla con sanguinoso tradimento.
Era avvenuto che i liberti del Castel Vecchio tumultuassero
contro di lui per aver fatto morire un di lor gente: e allora, ito loro
addosso per comando d'Ibrahim il popolo della capitale, i liberti,
vedendosi sopraffatti, avean domandato e ottenuto perdono. Ma il
dì che dovean toccar lo stipendio, Ibrahim li chiama alla torre di
Abu-'l-Feth; li fa entrare a uno a uno; disarmare; incatenare: e diè
mano ai supplizii; ch'altri morì sotto il bastone, altri condannato a
perpetuo carcere in Kairewân; altri bandito in Sicilia105. In luogo
dei liberti, comperò schiavi in grandissimo numero; prima negri,
poi anco di schiatta slava: li vestì; li esercitò nelle armi; ne fece
un grosso di stanziali, valorosi, induriti alle fatiche106; massa di
bruti della zona torrida e del settentrione disumanati dal servaggio
e di più dalla disciplina. Così passarono i primi sei anni del
regno; lodevoli del resto a detta di tutti i cronisti, i quali tenean
forse necessaria la carnificina di Abu-'l-Feth. Poi sfrenossi a dar
di piglio nella roba e nel sangue; peggiorando di anno in anno,
come nota l'autore del Baiân107.

103
Confrontinsi: il Baiân, tomo I, p. 215; Nowairi, in appendice alla Histoire
des Berbères par Ibn-Khaldoun, versione di M. De Slane, tomo I, p. 424;
Bekri, Descrizione d'Affrica nelle Notices et Extraits des MSS., tomo XII, p.
476, 477; Ibn-Wuedrân, MS. arabo, § 6°. I due ultimi scrittori riferiscono la
fondazione di Rakkâda agli anni 273 e 274. Il nome nacque, secondo alcuni,
dall'amenità del sito che inebbriasse di voluttà e sforzasse al sonno; secondo
altri, da un gran mucchio di cadaveri che vi si trovarono a dormir l'ultimo
sonno.
104
Si pronunziino le ultime due lettere ciascuna col proprio suono, non unite
con quello della th inglese. Il nome vuol dir "Padre della vittoria."
105
M. De Slane, op. cit., p. 425, ha tradotto queste parole del Nowairi «un
certain nombre d'entr'eux parvint à se réfugier en Sicile.» Ma il testo dice
chiaramente "rilegare," e così lo ha interpretato M. Des Vergers in nota a Ibn-
Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 127.
106
Ciò è notato da Nowairi, op. cit., p. 425, e 427. Veggansi per cotesti fatti:
Nowairi, l. c.; e il Baiân, tomo I, p. 110.
107
Tomo I, p. 126.
Perchè, non bastando le entrate ordinarie dello stato a spesare
gli stanziali, le fabbriche e la guerra che sopravvenne (an. 880,
881) contro un principe d'Egitto della dinastia usurpatrice dei
Beni-Tolûn, era strascinato Ibrahim ai maltolti. L'anno dugento
settantacinque (888-889) battè nuova moneta d'argento, che,
rifiutata dai mercatanti del Kairewân, diè occasione a tumultuarie
rimostranze, imprigionamenti, sollevazione: e Ibrahim, al solito,
restò di sopra. Donde facea coniare altri dirhem e dinâr decimali,
com'ei li chiamò, perchè i primi d'argento e i secondi d'oro
stavano in valore come uno a dieci; e tolse di mezzo le buone
monete dell'impero abbassida108. Oltre questo espediente di
finanza, ponea nuove gabelle109; aumentava le tasse prediali e
riscuoteale in danaro, non più in derrate110; richiedeva i cittadini
108
Baiân, tomo I, p. 114. Quivi si fa menzione di due diverse emissioni di
moneta. L'una fu di dirhem sihâh, ossiano "schietti," come li chiamava il
principe. Così ei soppresse le ritaglie d'oro senza conio, con che si soleano
pagare le frazioni di valori, per lo scrupolo religioso di non cambiar metallo
con metallo; onde si tenea biasimevole pagando, per esempio, una merce del
valore di mezzo dinâr, dar al venditore un dinâr e riceverne mezzo dinâr in
altra moneta. Per questa ragione nei paesi musulmani i cambiatori, sirâfi, come
li dicono, erano per lo più giudei. Non sappiamo se desse luogo al malcontento
quello scrupolo di coscienza, ovvero la cattiva lega dei dirhem. Represso il
tumulto, aggiunge il Baiân, rimasero abolite per sempre in Affrica, non solo le
ritaglie (kitâ'), ma anche i nokûd, che significa buona moneta in generale, e qui
parmi si debba intendere di quella dei califi, che avea corso in tutti i paesi.
Venne dopo ciò la coniazione dei dirhem e dinâr detti 'asceri, ossia decimali.
La numismatica ci permette di aggiugnere che Ibrahim coniasse altresi quarte
di dinâr in oro; che ve n'ha pubblicate parecchie, e una ne ho veduto nel
Cabinet des Medailles di Parigi, uscita probabilmente dalla Zecca di Sicilia
l'anno 268, e del peso di un grammo e cinque centesimi, che valea da tre lire e
sessanta centesimi pria della attuale perturbazione nel pregio dell'oro.
109
Baiân, tomo I, p. 125. Quivi è usato il vocabolo kabâlât, al singolare kabâla
o gabâla, poichè la prima lettera partecipa del suon della g. Indi è agevole a
riconoscervi la nostra voce gábella. Etimologicamente significa promessa,
offerta, prestazione.
110
Baiân, l. c. Il testo porta che nel 289 Ibrahim, riformando parecchi abusi del
proprio governo «prese le decime in frumento e rilasciò il kharâg di un anno ai
possessori delle dhiâ'.» Le varie significazioni di queste voci, di che abbiamo
discorso nel capitolo precedente, lascian dubbio se le decime fosserozekât,
che apprestassero a servigio dello Stato loro schiavi e giumenti;
in cento modi li espilava per accumular tesori111.
A misura degli aggravii prorompean pure le sollevazioni; e a
misura di quelle incrudeliva Ibrahim. Ne noterò solo i fatti
rilevanti. Ribellavansi ricusando le tasse, l'anno
dugentosessantotto (881-882), le tribù berbere di Wuezdàgia,
Howâra e Lewâta: ed erano oppresse, l'una da Mohammed-ibn-
Korhob, ciambellano, le altre da Abd-Allah figliuolo d'Ibrahim,
mandatovi con gran gente di giund, liberti, leve in massa, e
ausiliarii forniti al certo da altre tribù berbere: sì fermo Ibrahim
guidava tutti i cavalli del carro, poichè s'ebbe aggiustata in mano
quella ferrea sferza degli schiavi stanziali112.
Poi surse in arme la colonia di Belezma, gente arabica della
tribù di Kais, venuta la più parte nei principii del conquisto, e
stanziata da parecchie generazioni in quella città, sul confin
meridionale dell'odierna provincia di Costantina, in mezzo alla
catena degli Aurès, donde teneva a segno la tribù berbera di
Kotâma. Gli agguerriti Arabi di Belezma ributtarono Ibrahim, ito
in persona a combatterli: ond'ei perdonò loro; attirò a Rakkâda,
prima alcuni capi sotto specie di trattar faccende, poi, con altri
pretesti, più numero di gente; lor diè splendide vestimenta, onori
quanti ne vollero e alloggiamento in uno edifizio circondato di
mura con una sola porta, nel quale settecento o mille cavalieri,
chè tanti se n'erano accolti, se pur pensavano allo esempio dei
liberti del Castel Vecchio, si fidavano al certo di affrontar chi che
si fosse. E così ogni evento delle istorie avvera la sentenza del
Machiavelli, che colui che inganna, troverà sempre chi si lascerà

ovvero tributo fondiario su i grani, e il kharâg rilasciato, questo medesimo


tributo, ovvero censo; e in fine se si tratti di dhiâ', poderi demaniali, ovvero
beneficii militari.
111
Baiân, tomo I, p. 117, anno 280 (893-894).
112
Nowairi, in appendice all'Histoire des Berbères, par Ibn-Khaldoun,
versione di M. De Slane, tomo I, p. 426; Ibn-Khaldûn stesso, Histoire de
l'Afrique et de la Sicile, versione di M. Des Vergers, p. 128. Secondo Ibn-
Khaldûn, ebbe infino a 3,000 schiavi stanziali; secondo il Baiân a 5,000, e
Nowairi dice 100,000, forse il numero totale dello esercito.
ingannare113. Il dì che le altre soldatesche toccavan la paga,
inebbriate di danaro, fors'anco di vino, Ibrahim le lanciava allo
scannatoio ov'eran serrati i guerrieri di Belezma; i quali (893-
894) valorosamente si difesero; e tutti perirono114. La pena di tal
misfatto, come spesso accade, la pagò non Ibrahim, ma la
dinastia; poichè, decadendo Belezma, la tribù di Kotâma
imbaldanzì, e condusse al trono i Fatemiti115. Più pronto gastigo
minacciava la sollevazione generale delle milizie arabiche,
scoppiata immediatamente e rinnovatasi poi varie fiate; ma
Ibrahim trionfò di tutti, mercè le mura di Rakkâda, la virtù
militare del figliuolo Abd-Allah, e gli schiavi armati; dei quali
accrebbe il numero; lor affidò la reggia; e pose capitani sopra di
loro due schiavi, Meimûn e Rescîd. Accentrò al medesimo tempo
Ibrahim grande autorità in persona di Hasân-ibn-Nâkid, nuovo
suo ciambellano, capitan di eserciti, emir di Sicilia, e rivestito di
altri oficii, scrive la cronica116, probabilmente le amministrazioni
di finanza, e il tribunale dei soprusi nelle province sollevate.
Tra i casi di questa rivoluzione seguirono non più udite
enormezze dei soldati regii, i quali, presa Tunis per battaglia,
fecero schiavi tra i Musulmani, sforzaron le donne e sparsero gran
sangue (893-894). Dato avviso della vittoria a Rakkâda per lettere
legate al collo dei colombi, Ibrahim rescrisse di caricare i
cadaveri su le carra; mandarli a Kairewân; e condurli in giro per
le strade. Comandò, non guari dopo (894-895), di mettere a morte
i nobili della tribù di Temîm, ceppo di sua famiglia, e appendere i
cadaveri alle porte di Tunis. Ministro di tai vendette era stato
Meimûn, nominato dianzi, donde venne fieramente in odio a quei
cittadini; ma Ibrahim, non prima n'ebbe sentore, che gli mandò,
diremmo noi, un bell'ordine cavalleresco: all'uso di que' tempi
collana d'oro e vestimenta di seta ricche d'oro, disegni e svariati
113
Il Principe, cap. XVIII.
114
Baiân, tomo I, p. 116; Nowairi nell'opera citata, p. 427, il quale registra
questo fatto due anni prima del Baiân, cioè nel 278.
115
Questa riflessione si legge nel Baiân, l. c.
116
Nowairi, op. cit., p. 498. Veggasi ciò che notai a questo proposito nel Libro
II, cap. X, p. 429 e 430 del primo volume.
colori; e il manigoldo in tanto sfarzo cavalcò trionfalmente in
Tunis. Un anno appresso, fattevi rizzar nuove fortezze, vi andò a
soggiornare il tiranno in persona117; meditando già la impresa di
Sicilia, o parendogli Rakkâda mal sícura senza lo scampo del
mare: o volle sfogare la superbia dell'animo suo sopra la città
ribelle, prostratagli ai piè come cadavere.
Il medesimo anno della rivolta, Ibrahim allagò di sangue la
reggia per sospetto di una congiura degli eunuchi e stanziali
schiavoni contro la vita di lui e della madre 118: dal qual tempo in
poi, aspettandosi che alcuno dei tanti che tremavano trovasse
modo ad ammazzarlo, per meglio guardarsi, consultò astrologhi e
arioli, nei quali ponea molta fede. Gli dissero dover morire di
certo per man d'un piccino; se di statura o di anni, i furbi maestri
nol discernean bene in lor arte: ond'egli visse in sospetto de'
giovani paggi schiavoni; e se gliene venia veduto alcuno audace e
fiero in volto, vago di maneggiar la spada, pensava tra sè: ecco
l'assassino; e lo facea spacciare. Quando n'ebbe ucciso molti,
temè la vendetta dei rimagnenti: onde li uccise tutti 119; e tolse
paggi negri in luogo dei bianchi; e non tardò a fare sgombero
anche di quelli, l'anno dugento ottantotto (900)120. Ma nel lungo
suo regno i domestici eccidii sovente si rinnovarono e
cominciaron prima della tirannide di fuori; bastando l'ira ad
aizzarlo quanto il sospetto, e quanto l'uno e l'altra la gelosia.
Aveva egli vietato sotto pene severe la vendita del vino a
Kairewân; la tollerava a Rakkâda121 in grazia forse dei suoi
stanziali; e beveva egli stesso senza scrupolo nei penetrali dello
117
Confrontinsi: il Baiân, tomo I, p. 117, 123; Nowairi, op. cit., p. 428, 429;
Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione di M. Des Vergers,
p. 130 a 132. - Il Baiân, dal quale tenghiamo la narrazione degli onori resi a
Meimûn, dice donategli tre sorte di vesti di seta: 1° kherz, o diremmo noi
filosella, seta grossolana dei bozzoli forati dal baco; 2° wesci, credo drappo
intessuto d'oro; e 3° dibâg, drappo operato e di varii colori. È trascrizione dal
persiano dibâh, preso alla sua volta dal greco δίβαφος.
118
Nowairi, op. cit., p. 427.
119
Baiân, tomo I, p. 116.
120
Confrontinsi: il Baiân, l. c.; e Nowairi, op. cit., p. 427.
121
Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiat. di Parigi, fog. 33 recto.
harem. Or accadde che fattosi mescer vino da una donna, nei
primi credo io del regno, e datole a tenere il fazzoletto di seta con
che si asciugava le labbra, colei lasciosselo cader di mano, e un
eunuco il trovò e nascose. Ibrahim non sapendo qual fosse costui,
tutti i trecento eunuchi che avea fe' morire122, per seppellir forse
con loro il segreto della regia intemperanza. Diversa cagione ebbe
la morte di sessanta sciagurati giovanetti ch'ei teneasi in palagio,
e, calpestando più d'uno dei precetti di sua religione, ogni sera lor
dava a ber vino, e poi non volea che troppo dimesticamente
vivesser tra loro. Avutane spia, chiamolli dinanzi a sè;
interrogolli, e confessando alcuni il fallo, e negandolo tra gli altri
audacemente un fanciullo molto amato da lui, Ibrahim gli spezzò
il cranio con una mazza di ferro: gli altri fece morire a cinque o
sei il dì, tra soffocati nella stufa e arsi nella fornace del bagno123.
Nè men geloso in punto di religione, aggravò la vergogna
degli dsimmi, come se non bastassero al suo zelo i segni esteriori
di vassallaggio che si costumavano innanzi124. Comandò Ibrahim
che portassero su le spalle una toppa bianca, con la figura, i
Giudei d'una scimmia e i Cristiani d'un maiale; e che gli stessi
animali si dipingessero in tavole confitte su le porte di lor case125.
Il martirio ch'ei diè ai quattro Siracusani si è narrato di sopra, su
la fede delle agiografie cristiane126. Non sappiam se sia dei martiri
siracusani un Sewâda, di cui scrivon le cronache musulmane che
proffertogli l'oficio di direttore della tassa fondiaria, se
rinnegasse, e rispondendo egli che non barattava la fede, Ibrahim
lo fece spaccare in due e sospender mezzo cadavere a un palo,
mezzo ad un altro, l'anno dugentosettantotto dell'egira (891-
892)127. Tuttavia gli eretici dell'islamismo poteano invidiare la
condizione de' Cristiani. Dopo le stragi d'una battaglia, vinta
122
Confrontinsi: il Baiân, tomo I, p. 116; Nowairi, op. cit., p. 436; e Ibn-
Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, traduz. di M. Des Vergers, p.
139.
123
Baiân, tomo I, pag. 127; Nowairi, op. cit., p. 437.
124
Veggasi il Libro II, cap. XII, p. 476.
125
Riadh-en-nofûs, MS. fog. 55 verso.
126
Libro II, cap. XII, p. 511.
sopra la tribù berbera di Nefûsa, l'anno dugentottantaquattro
(897-898), Ibrahim interrogò un dottore che si trovava tra i
prigioni: "Che pensi di Alì?" "Era infedele e però sta in inferno; e
chi non dice così, andravvi con lui," rispose il prigione;
scoprendosi Kharegita a questo parlare. Il tiranno allora gli
domandava se tutta la tribù di Nefûsa tenesse tal credenza, e
saputo di sì, ringraziava il Cielo d'averne fatto macello. I prigioni,
ch'eran cinquecento, se li fece recare innanzi a uno a uno: egli
assiso in alto, tenendo in mano un suo lanciotto, cercava con la
punta sotto l'ascella ove fosse il vano tra costola e costola
dell'uomo128, e poi data una spinta, andava a trovar dritto il cuore,
e facea passare un altro, finchè tutti gli trafisse. Così il Nowairi129.
L'autore del Baiân scrive che i prigioni fossero trecento, ch'ei ne
avesse fatto spacciar uno e poi trattogli il cuor con le proprie
mani, e fattolo trarre agli altri, infilzati in una funicella i trecento
cuori, e sospesi a festone su la porta di Tunisi130. Ambo le
tradizioni bene stanno ad Ibrahim-ibn-Ahmed, e possono
ammettersi insieme.
Innanzi tal pia scelleratezza, era ito Ibrahim a Tripoli (896-
897), governata per lui da un suo cugin carnale, Mohammed-ibn-
Ziadet-Allah, uomo di egregii costumi, erudito, poeta e scrittore
d'una storia di casa aghlabita: onde il tiranno ignorante l'invidiava
fin dalla gioventù, ma adoperavale per averne bisogno. Il coperto
odio divampò, quando il califo abbassida Mo'tadhed, risapendo le
enormezze di Tunis, minacciò in parole, e secondo altri scrisse a
dirittura a Ibrahim, ch'ei lo avrebbe deposto, e surrogatogli il
cugino, specchio di virtù. Pertanto non contentossi Ibrahim

127
Baiân, tomo I, p. 116. Su questa maniera di supplicio, usata nei paesi
musulmani almeno fino al XVI secolo, si veggano Sacy, Chrestomathie arabe,
tomo I, p. 468; Quatremère, arsione dell'opera di Makrizi, Histoire des Sultans
Mamlouks, tomo I, pag. 72 e 182; De Freméry, nel Journal Asiatique, série IV,
tomo III (gennaio 1844), p. 124.
128
Mi discosto in questo passo dalla versione di M. De Slane.
129
Op. cit., pag. 430.
130
Baiân, tomo I, p. 124. Ho seguíto piuttosto la cronologia di questa
compilazione che del Nowairi, il quale reca il fatto nel 281 (894-895).
d'ucciderlo; ma volle fosse appiccato il cadavere a un palo come
di malfattore131. Somiglianti sospetti di Stato lo spinsero, prima e
poi, a mandare a morte ciambellani, ministri, cortigiani, e un
povero segretario, chiuso vivo nel feretro. Otto fratelli suoi
proprii erano scannati al suo cospetto; un de' quali, obeso e
infermo che non potea reggersi, implorava gli si lasciassero quei
pochi giorni di vita; e Ibrahim rispose: "Non fo eccezioni;" e
accennò il carnefice di percuotere. Abu-l-Aghlab suo figlio ebbe
tronco il capo dinanzi a lui; dicesi per trame di Stato. Abd-Allah,
maggior tra i figliuoli, erede presuntivo della corona, folgor di
guerra che spezzava nei campi di battaglia i viluppi creati dalla
tirannide del padre, Abd-Allah ubbidiente troppo, virtuoso, dotto,
modesto, pur si sentiva ad ogni istante sul collo la scimitarra del
carnefice132.
Inviperiva Ibrahim ogni dì più che l'altro; ciascun misfatto
tirandosene dietro parecchi; incarnandosi ogni vizio con l'uso e
con la età; aggravandosi in lui l'atrabile, la monomania, la causa
qual si fosse che lo portava al sangue; su la quale decida chi mai
arriverà a penetrare l'arcano della umana volontà. Chi raccoglie i
fatti, noterà due sintomi atrocissimi. L'un che costui nelle vittime
segnalate per la costanza dell'animo, ricercava rabidamente il
cuore, sede del pensiero secondo gli Arabi; quasi il tiranno
volesse dar di piglio alla causa materiale di lor contumacia. Il
disse ei medesimo a San Procopio vescovo di Taormina,
mandandolo al supplizio (902)133. Parecchi anni innanzi avea
notomizzato il cuore di un altro valoroso, Ibn-Semsâma, suo
131
Confrontinsi: Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 35 recto;
Baiân, tomo I, p. 281; Nowairi, op. cit., p. 430.
132
Confrontinsi: il Baiân, tomo I, p. 115 a 127; Ibn-Abbâr, l. c; Nowairi, op.
cit., p. 428, 436, 437; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, fog.
139, il quale accenna appena le crudeltà del tiranno.
Ibn-el-Athîr, risoluto a lodarlo come principe forte e sostegno dell'islamismo,
salta a piè pari tatti quei misfatti, e narra solo i principii del regno e la morte di
Ibrahim; pur si lascia sfuggir dalla penna che l'eroe Abu-l-Abbas vivea in
continuo terrore della «maligna indole del padre.» MS. A, tomo II, fog. 92 e
172; MS. C, tomo IV, fog. 246 verso, e 279 recto, anni 261 e 289.
133
Veggasi in questo medesimo Libro II cap. IV.
primo ministro; il quale straziato di cinquecento battiture, non
avea detto un ahi, nè s'era mosso; e a ciò, comandando Ibrahim di
ucciderlo, s'era vantato di aprire e chiuder la mano tre fiate dopo
recisogli il capo, e avea tenuto parola134.
L'altra orribilità mi sembra un'avversione, un dispetto,
un'invidia ch'ei sentisse della perpetuità della umana schiatta.
Non dirò delle mogli e concubine che facea strangolare, murar
vive, sparar loro il corpo, se incinte: e tuttociò senza lor colpa,
forse senza gelosia. Lungo tempo così era vissuto, non parlando a
donne fuorchè la madre, la Sîda che è a dir "Signora" come
chiamavanla a corte. Costei, cercando ridurlo ad alcun sentimento
umano, un dì che le parve di umor men tetro, gli appresentò due
leggiadre donzelle, alle quali fe' recitare il Corano e cantar versi
su la chitarra e il liuto. A che parendo si compiacesse il tiranno,
rallegrato anco dal vino, la madre gli offrì in dono le due schiave;
ei le accettò, e lo seguirono. Ed entro un'ora veniva alla Sîda lo
schiavo fidato d'Ibrahim con una cesta ricoperta di ricco drappo.
Trovò le due teste; e, gittando un grido, cadde svenuta; ma
tornata in sè, le prime parole che profferì furono maledizioni
sopra il figliuolo. Pur era serbata a veder maggiore empietà. Avea
comandato Ibrahim di mettere a morte ogni figliuola che gli
nascesse; e talvolta non avea aspettato che venissero alla luce. E
la Sîda pur osava trafugare e far nudrire occultamente le bambine.
Nell'età matura del figliuolo, coltolo un'altra fiata in velleità di
clemenza, si provò a mostrargli le fanciulle cresciute come lune
di bellezza, dice la cronica; e credette aver vinto quando gliele
sentì lodare. Si fa allora più ardita; gli svela che son sua prole; gli
rassegna i nomi loro e delle madri. Il tiranno uscì dalla stanza.
134
Baiân, tomo I, p. 115. Aggiugne il cronista che Ibrahim trovò con
maraviglia il cuore confuso (leggo nel testo fânian) col fegato, e irsuto di peli.
In Sicilia si dice d'uom tristo e vendicativo ch'abbia il cuor peloso; il quale
pregiudizio o la frase può ben venire dagli Arabi. Quanto ai movimenti
convulsivi che si narrano di Ibn-Semsâma, non mi sembrano più meravigliosi
di quei che la storia ricorda di tanti altri decapitati; nè parmi strano che vi
concorra il proponimento fermatosi in mente da un uomo nell'atto di ricevere il
colpo mortale.
Chiamato un suo negro "Meimûn," dissegli, "arrecami le teste
delle donzelle che tien la Sîda." Il carnefice non si movea.
"Obbedisci, sciagurato schiavo," ripigliava Ibrahim, "o ti farò
andare innanzi, ed esse dopo." E Meimûn tornò poco stante,
avvolgendosi alle mani le sanguinose chiome di sedici teste, e le
gettò a mucchio sul pavimento135. La critica non può mettere in
forse coteste orribilità. Ancorchè noi le tenghiamo di seconda
mano, è evidente la veracità degli scrittori primitivi, cittadini del
Kairewân o d'Affrica al certo, e concordi tra loro, non avversi
punto a casa aghlabita, vissuti in tempi vicinissimi e di cultura
letteraria. D'altronde i misfatti narrati ben s'attagliano l'uno
all'altro; e molti particolari che rivelano quell'istinto d'uom tigre,
sono ricordati quasi con le medesime parole dai Musulmani e dai
Cristiani, tra i quali il diligentissimo contemporaneo Giovanni,
diacono napoletano136.

CAPITOLO III.
135
Confrontinsi il Baiân, tomo I, p. 126 e 127, e Nowairi, op. cit., pag. 436 seg.
Entrambi citano Ibn-Rakîk, cronista affricano del X secolo, e il Baiân
aggiugne aver trovato cotesti fatti anche in altri autori. Ibn-Abbâr, MS. citato
della Società Asiatica di Parigi, fog. 35 recto, solo narra il fatto delle donne
incinte sparate per cavarne il feto, dicendo che seguì l'anno 283 (896-897) e
conchiudendo con la esclamazione: «enorme peccato contro Iddio, ch'ei sia
esaltato.» Immediatamente appresso cita Ibn-Rakîk per uno aneddoto relativo
alla deposizione di Ibrahim. In generale per la vita di questo tiranno si veggano
i tre scrittori or citati e Ibn-el Athîr, Ibn-Kaldûn, e gli altri compilatori che più
o meno ripetono gli stessi fatti. La più parte del racconto di Nowairi era stata
tradotta, prima di M. De Slane, da M. Des Vergers, nelle note a Ibn-Khaldûn,
Histoire de l'Afrique et de la Sicile, pag. 138, seg.
136
Martirio di San Procopio vescovo di Taormina, cavato dalla Traslazione del
corpo di San Severino alla città di Napoli, presso Gaetani, Vitæ Sanctorum
Siculorum, tomo II, p. 60, seg.; e presso Muratori, Rerum Italicarum
Scriptores, tomo I, parte II, p. 269. L'autore è lo stesso della cronica dei
Vescovi di Napoli, come lo prova il Muratori nel tomo citato del Rerum
Italicarum, pag. 287, seg. L'altra narrazione alla quale alludo è il martirio dei
fratelli siracusani, presso Gaetani, op. cit., tomo II, p. 59.
Contro lo scellerato signore s'era levata la colonia siciliana,
Arabi e Berberi al paro; e da quattro anni tenean fermo,
succedendo a lor posta i tumulti d'Affrica, quando, l'ottocento
novantotto, non so per qual ribollimento di sangui o magagna
d'Ibrahim, tornarono i Berberi ad assalire il giund. Vedendo fitti i
coloni nell'assurdo intento di scuotere il giogo senza cessare di
straziarsi l'un l'altro, Ibrahim, ridendosene, entrò di mezzo:
scrisse ad ambe le fazioni ch'ei perdonerebbe, se tornassero alla
ubbidienza, e che sarebbe contento a gastigare i capi soli;
ch'erano, dei Berberi un Abu-Hosein-ibn-Iezîd, coi figliuoli; e del
giund un Hadhrami, oriundo, come lo mostra tal nome,
dell'Arabia meridionale. Affrettaronsi i sollevati a consegnarli di
peso alle soldatesche affricane, di presidio, credo io, a Mazara:
dalle quali furono imprigionati, imbarcati per l'Affrica, e quivi
dati al supplizio. Il Berbero, per fuggirlo, bevve un veleno che di
presente lo fe' morire; talchè non rimase ad Ibrahim che
d'appiccare il cadavere al patibolo e scannare i figliuoli del
suicida. Sfogò con nuovo argomento di tortura sopra l'Hadhrami.
Fattoselo recare innanzi, disse a un carnefice pien di facezie,
come tanti ve n'ha, che tentasse il condannato con motteggi e
buffonerie: e quando il misero cominciava a sperarne salvezza e
gli spuntava il riso in faccia, "No," proruppe Ibrahim, "non è ora
da burle:" e fe' cenno al manigoldo; il quale a colpi di bastone lo
ammazzò137.

137
Confrontinsi: il Baiân, tomo I, p. 124, anno 285 (27 gennaio 898 a 15
gennaio 899), e il Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum
Arabicarum, p. 43, anno 6406 (1° settembre 897 a 31 agosto 898).
Supponendo precise quelle due date, l'avvenimento si ristringe ai sette mesi
che corsero dalla fin di gennaio a quella d'agosto 898. Si noti che il Baiân non
spiega chi fosse il capo dei Berberi, e chi degli Arabi. Ma vi supplisce il nome
di Hadhrami; poichè l'Hadramaut è regione a levante del Iemen. Se tuttavia
rimanesse dubbio, lo toglie la Cronica di Cambridge dicendo che i Berberi,
dopo assalito il giund, consegnarono agli Affricani Abu-Hosein e i suoi
figliuoli. Quegli era dunque il lor capo. Ho corretto secondo la Cronica di
Cambridge il soprannome di costui, che nel Baiân si legge Abu-Hasan.
Mandava poi Ibrahim a reggere la Sicilia un uom di sangue
aghlabita, statovi emiro, com'e' sembra, una ventina d'anni
innanzi, per nome Abu-Mâlek-Ahmed-ibn-Omar-ibn-Abd-
Allah138. Con la riputazione del casato sperava il tiranno lusingare
o tenere in rispetto i popoli; e con la imbecillità della costui
persona si fidava governar la colonia a suo piacimento
dall'Affrica. Ma le due inveterate discordie che sopra toccammo,
non si poteano comporre sì di leggieri; e per giunta gli sdegni, i
rancori, i rimproveri, che tengon dietro ad una rivoluzione
repressa, fecer nascere nuove scissure. Donde l'anno ottocento
novantanove, tante piccole fazioni, confusamente combattendo,
empiean la Sicilia di sangue139. Per ovviare alla debolezza di
138
Veggasi il Libro II, cap. IX, p. 390 del 1° vol., nota 4. Ho scritto il nome
come si trova in Ibn-el-Athîr, anno 287, MS. A, tomo II, fog. 167 recto; e MS.
di Bibars, fog. 123 recto. Il Nowairi, Storia di Sicilia, presso di Gregorio,
Rerum Arabicarum, p. 11, dà il nome di Abu-Malek-Ahmed-ibn-Iakûb-ibn-
Omar-ibn-Abd-Allah-ibn-Ibrahim-ibn-Aghlab. Questo compilatore, che in
tutto merita minor fede, dice che Ahmed governò la Sicilia per ventisei anni
(correggasi 28), dal 259 al 287 (872 a 900); dimenticando che nella Storia
d'Affrica egli stesso avea nominato in quello spazio di tempo due altri emiri di
Sicilia. Perciò suppongo che Ahmed fosse stato scambiato una prima volta, e
rieletto, dopo molti anni, verso il 287.
139
Chronicon Cantabrigiense, presso di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 43.
La versione stampata porta: Anno 6407 commissum est prælium in Franco
Forth. Le due parole del testo, nelle quali parve di ravvisare questo nome
geografico, sono sbagliate nelle edizioni di Caruso e Di Gregorio; poichè nel
MS. originale, secondo la collazione che me ne ha fatto il cortese signor Power
bibliotecario dell'università di Cambridge, si legge chiaramente la seconda
voce mofâreka; e la prima, mancante di punti diacritici, si compone delle
seguenti lettere: 1° f, ovvero k; 2° r; 3° b, t, th, ovvero i, n; 4° h, g, ovvero kh;
5° a. Badando alle sole radicali, non esito a dire che siano f, r, g con che si
scrive il verbo fereg, "scindere, fendere;" e son certo che questa parola mal
copiata o piuttosto male scritta in arabico dall'autore, greco di Sicilia, sia il
plurale irregolare di un vocabolo che significasse "scissura;" proprio il greco
σχι̃σμα. Non lascia luogo a interpretarla altrimenti la voce precedente
mofâreka, che si accorda grammaticalmente con questa, e che è l'aggettivo
feminino cavato dalla terza forma del verbo ferek, "separare, disgregare." Si
corregga dunque la versione: «L'anno 6407 varie fazioni guerreggiaron tra
loro.»
Ahmed, dicon le croniche, o piuttosto per domare la Sicilia nel
solo modo che si poteva, Ibrahim vi mandò un esercito poderoso,
capitanato dal proprio figliuolo Abu-Abbâs-Abd-Allah, vincitor
dei ribelli d'Affrica140.
Salpò costui con centoventi navi da trasporto e quaranta da
guerra, il ventiquattro luglio del novecento; arrivò a Mazara il
primo d'agosto141; donde movea all'assedio di Trapani. A ciò
l'esercito palermitano, ch'era uscito a far guerra contro que' di
Girgenti, si ritrasse immantinente alla capitale; e inviò al campo
affricano il cadi e parecchi sceikhi, a protestare obbedienza verso
il principe, e scusarsi, bene o male, dello assalto sopra Girgenti.
Vennero al medesimo tempo messaggi di cotesta città a dolersi
dell'esorbitanza dei Palermitani: e sufolarono all'orecchio di Abd-
Allah, non si fidasse di quel popol contumace, senza legge nè
fede, nè di sua simulata e frodolenta sommessione; e che, se volea
pescare al fondo della magagna, chiamasse di Palermo il tale e il
tale, e se ne chiarirebbe. Ed ei sì chiamolli: ma ricusarono; e tutta
la città dichiarò che non andrebbero. Abd-Allah, a questo, ritien
prigioni gli oratori palermitani, rilasciato il solo cadi; e poco
appresso mandavi, a portar forse orgogliosi comandi, otto sceikhi
affricani. Gli Arabi di Palermo a lor volta li imprigionavano; e
risolveansi a tentar la sorte delle armi. Fu capo in questo periodo
di rivoluzione un Rakamûweih, uom di nome persiano. Fu emir

Occorre di aggiugnere che il nome di Francoforte o altro simile non poteva


esistere in Sicilia avanti i Normanni; e che non v'ha in oggi, nè v'è mai stato. Il
comune attuale di Francofonte, e non Francoforte, fu fondato nel XIV secolo.
140
Ibn-el-Athîr, anno 287, MS. A, tomo II, fog. 167; MS. di Bibars, fog. 123
recto. Il Nowairi, nella Storia di Sicilia presso Di Gregorio, Rerum
Arabicarum, p. 11, senza fare menzione delle guerre che seguirono, dice Abd-
Allah eletto emir di Sicilia il 287; e nella Storia d'Affrica data da M. De Slane
in appendice a Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, p. 431, lo fa andare in
Sicilia il 284, sbarcare nel mese di giumadi primo (giugno 897), espugnare
Palermo, e accordare poi l'amân. Da ciò si conferma la incertezza delle sue
compilazioni.
141
La Cronica di Cambridge dice che Abd-Allah "passò" di Affrica a Mazara il
24 luglio; Ibn-el-Athîr che "arrivò" in Sicilia il primo di scia'bân, che risponde
al primo agosto.
degli stolti, dice amaramente Ibn-el-Athîr che visse tre secoli
appresso: contemporaneo del gran Saladino, scrittor non servile,
incapricciatosi d'Ibrahim-ibn-Ahmed, per quella sua feroce
severità. Perciò doveano parere savii ad Ibn-el-Athîr coloro che di
queto si lasciasser divorare dalla tigre; perciò l'annalista metteva
in non cale i dritti dei Musulmani, le sacre franchige calpestate da
Ibrahim, valorosamente difese dal popol di Palermo!
Lascio indietro, perchè sembra error di compilazione,
l'episodio narrato da un altro storico142: che i Girgentini, dopo di
avere stigato Abd-Allah, si unissero coi Palermitani contro di lui.
Movea di Palermo il dì quindici agosto, alla volta di Trapani, lo
esercito capitanato da un Mesûd-Bâgi143. L'armata d'una trentina
di vele uscì non guari dopo: fu colta da una tempesta nella breve e
difficile navigazione ch'è da Palermo a Trapani, onde la più parte
dei legni perì; quegli scampati, senza potere altrimenti offendere
il nemico, si ridussero a casa. L'oste intanto assaliva il campo
affricano sotto Trapani: si combattea fieramente da ambo le parti
con gran sangue, e rimaneva indecisa la vittoria. Ma il ventidue
agosto, rappiccata dai Palermitani la zuffa, mantenuta con uguale
fortuna infino a vespro144, prevalse in ultimo la esperienza di
guerra di Abd-Allah, o il numero degli Affricani che arrivava al
certo a quattordici o quindici mila nomini, se si risguardi ai

142
Questi è Ibn-Khaldûn, nella Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 57 del
testo, e 134 della versione di M. Des Vergers. Non so donde abbia cavato tal
particolare l'autore, che nel resto del racconto compendia Ibn-el-Athîr.
143
Nei due MSS. di Ibn-el-Athîr si trova il secondo nome senza punti diacritici.
Credo vada letto Bâgi. Questo, a detta del Lobb-el-Lobbâb di Sojuti, edizione
del Veth, può esser nome di famiglia persiana, o nome etnico derivato da
Bâgia, chè così addimandavasi una città della penisola spagnuola (Beja in
Portogallo); un villaggio in Affrica (Bedja nell'odierno reame di Tunis, città
dentro terra a poca distanza da Tabarca); e un villaggio presso Ispahan in
Persia.
144
Traduco "vespro" la voce 'asr che indica una delle ore della preghiera, e
risponde a ventun'ora, secondo l'antico modo italiano, cioè nei primi di
settembre, e in Palermo, alle tre e mezza dopo mezzodì. Veggansi le tavole
delle ore delle preghiere musulmane alla latitudine del Cairo, presso Lane,
Modern Egyptians, tomo I, p. 302.
centoventi legni che li avean portato. Abd-Allah, usando la
vittoria, prese la via di Palermo su le orme del nemico; indirizzò a
Palermo l'armata che aveva ormai libero il mare, e poteva
assaltare la città e molestar anco l'oste che si ritraea. Lenti e
minacciosi ritraeansi i Palermitani, come quelli che sapean
difendere patria e libertà; sì che fecero far al vincitore una
sessantina di miglia in quattordici giorni; e al decimoquinto, che
fu l'otto settembre, gli presentaron la terza battaglia. Pugnarono
dieci ore continue dall'alba a vespro, in una delle due valli, credo
io, che sboccano nell'agro palermitano a dritta e a sinistra di
Baida145. Alfine menomati, rifiniti, sopraffatti, sbaragliaronsi
fuggendo verso la città vecchia: gli Affricani da vespro a sera
ferono orribil macello di loro; occuparono i sobborghi;
saccheggiaronli146, a spreto della legge che vietava di por mano
nella roba e nel sangue dei ribelli musulmani. Con tuttociò non si
fa ricordo di enormezze come quelle di Tunisi, dalle quali
rifuggia l'animo alto e gentile di Abd-Allah. Gli increbbe anco
della battaglia, se ci apponghiamo al sentimento di tre versi, che
improvvisò in Sicilia, forse quel dì stesso; nei quali, disgustato
delle stragi, incendii e distruzioni, quel prode, sospirando,
145
Il Baiân dice combattuta la giornata «alle porte della città;» il che si deve
intendere fuori i sobborghi, poichè Ibn-el-Athîr dice occupati questi dopo la
vittoria. È da ricordarsi che la strada da Trapani a Palermo infino alla metà del
XII secolo, e forse più oltre, passava per Carini, come il mostrano gli itinerarii
di Edrisi. Però dovea correre per una delle valli che fiancheggiano Monte
Cuocio, e uscire alla pianura, sia tra Bocca di Falco e Baida, sia tra questa e la
montagna di Petrazzi, lungo la linea della nuova strada da ruota di Torretta.
146
Riscontrinsi: Ibn-el-Athîr, anno 287, MS. A, tomo II, fog. 167, seg.; e MS.
di Bibars, fog. 123 recto, seg.; Baiân, tomo I, p. 125; Ibn-Khaldûn, Histoire de
l'Afrique et de la Sicile, p. 132, seg.; Chronicon Cantabrigiense, p. 43;
Giovanni Diacono di Napoli, Traslazione del corpo di San Severino, presso
Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 60, ripubblicato da Muratori,
Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte IIa, p. 269. È maraviglioso lo
accordo di Giovanni Diacono coi cronisti musulmani intorno la importanza dei
fatti; e della Cronica di Cambridge, di origine greca, con Ibn-el-Athîr, su la
data della battaglia di Palermo, che l'uno porta il 10 di ramadhân, e l'altro l'otto
di settembre, che è appunto il riscontro del calendario cristiano col
musulmano.
pensava a qualche giorno tranquillo, vivuto nei giardini di
Rakkâda, in mezzo alle sue donne e figliuoli147.
Palermo ingrossando di quartieri suburbani, stendeasi in
questo tempo dalla parte di scirocco infino alla sponda dell'Oreto;
da ponente ne saliva una catena di abituri per due miglia e più
infino al villaggio di Baida, ossia alle falde dei monti: sobborghi
sì importanti che racchiudeano da dugento moschee e però vi si
debbon supporre a un di presso due quinti di tutta la popolazione
palermitana148. Su quel vasto aggregato di ville da diletto ed umili
case della gente industriale, torreggiava la città antica, afforzata
di bastioni e di lagune, il Cassaro come l'appellarono gli Arabi,
spaziosa cittadella di figura ovale che tenea quasi il mezzo
dell'odierna città149. Occupati i sobborghi dal nemico, i cittadini si
147
Questi versi sono trascritti da Ibn-el-Athîr nella notizia biografica di Abd-
Allah, anno 289, MS. A, tomo II, fog. 172 recto; MS. C, tomo IV, fog. 279
recto; e MS. di Bibars, fog. 129 verso; e con qualche variante da Ibn-Abbâr,
MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 33 verso. Mettendo nell'ultimo verso
un punto diacritico sotto la h della voce b hâr e leggendola bigiâr, che vuol
dire accanto, in vicinanza, traduco così:
«Bevo la salutar bevanda, in terra straniera, lungi da' miei e dalla mia casa:
Ahi! soleva altre volte appressarla a' labbri, quand'io tutto olezzava di muschio
e d'aloe;
Ed or eccomi in mezzo al sangue, tra i vortici del fumo e il polverio.»
Ho reso "salutar bevanda" la voce dewâ, medicamento, farmaco.
148
Iakût nel Mo'gim el-Boldân, MS. di Oxford, articolo Palermo, trascrive uno
squarcio della descrizione d'Ibn-Haukal, nel quale si dà questo numero di
moschee e si ripete quel di 300 del resto della città, che si conoscea secondo la
descrizione da me pubblicata. Quel passo va or corretto secondo Iakût, la cui
aggiunta ne compie la sintassi che rimanea sospesa.
149
Oltre ciò che ho detto su la topografia di Palermo nei capitoli precedenti,
veggasi Ibn-Haukal, Description de Palerme, da me pubblicata nel Journal
Asiatique, IV série, tomo V, p. 94, 95; e nell'Archivio Storico Italiano,
appendice XVI, p. 22. I nomi delle porte della città antica che troviamo in Ibn-
Haukal, ci permettono di fissare il perimetro. Movendo dalla odierna
parrocchia di Sant'Antonio saliva verso libeccio per l'altura ov'è il monastero
delle Vergini, continuava per la strada del Celso fino a Sant'Agata la Guilia,
volgeasi a scirocco lungo una linea che or si tirasse dalla cattedrale allo Spedal
grande, e, ripiegandosi verso greco, toccava gli attuali monisteri dei Benfratelli
e Santa Chiara, Università degli studii, Uficio della Posta, Monistero di Santa
difesero nel Cassaro per dieci giorni e stipularono un accordo;
onde furono schiuse le porte ad Abd-Allah, il diciotto settembre.
Per patto, o innanzi che si fermasse, grandissimo numero di
cittadini con lor donne e figliuoli andavano a rifuggirsi in
Taormina; Rakamûweih e i più intinti nella rivoluzione facean
vela chi per Costantinopoli, chi per altri paesi di Cristianità, ove
mai non potesse arrivare il braccio d'Ibrahim. Dopo lo sgombro,
rimase pure uno stuolo di ottimati sospetti che Abd-Allah inviava
al padre in Affrica; forse di quelli cui non v'era pretesto ad
uccidere, poichè le croniche non parlan di supplizio loro. Così
riluce per ogni verso la umanità del vincitore150.
Sì lunghe discordie non poteano ignorarsi dai Cristiani. Que' di
Val Demone le aveano usato nella tregua dell'ottocento
novantacinque, nella quale sembra entrato, allora o poi, lo
stratego di Calabria; atteso che Giovanni Diacono di Napoli dice
provocata da cotesto accordo la guerra di Abd-Allah in quella
provincia151. Nel medesimo tempo Sant'Elia da Castrogiovanni,
ancorchè ottuagenario e infermo, si apprestava a ripassare in
Sicilia, lusingato, forse richiesto, dall'imperatore Leone il
Sapiente: Elia da Castrogiovanni, stato ausiliare di Basilio
Macedone nel tentato racquisto dell'isola venti anni innanzi; e il
vedremo tra non guari incoraggiare, a modo suo, all'estrema

Caterina, donde tornava alla chiesa di Sant'Antonio. Figura ellittica, il cui asse
maggiore coincidea con la strada del Cassaro d'oggi presa dalla cattedrale a
Sant'Antonio. A quest'asse correan quasi paralelle, d'ambo i lati, due strade che
agevolmente oggi si riconoscono, anguste e serpeggianti come tutte quelle del
medio evo; l'una dal Monastero delle Vergini alla Beccheria vecchia
(Ocidituri); l'altra dal Palagio Comunale al monastero di Santa Chiara. Non si
badi molto alla pianta del Morso, Palermo antico, che si riferisce ai tempi
normanni, e d'altronde è inesattissima.
150
Riscontrinsi: Ibn-el-Athîr; il Baiân; e Ibn-Khaldûn ai luoghi citati nella nota
2 della p. 67 del presente vol. Il Baiân dice espressamente che Abd-Allah
entrava dopo accordato l'amân il venti di ramadhân.
151
Johannis Diaconi Neapolitani, Martirio di San Procopio presso il Gaetani,
Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 60; e presso Muratori, Rerum
Italicarum Scriptores, tomo I, parte IIa, p. 269.
difesa il popolo di Taormina152. Vedrem anco novelli sforzi dei
Bizantini: un patrizio e un presidio mandati a Taormina;
grand'oste adunata a Reggio; armata venuta di Costantinopoli a
Messina. I quali fatti mostrano ad evidenza che l'impero fe'
disegno nelle guerre civili dei Musulmani e nel bisogno che avea
di lui la colonia ribelle. Dopo la occupazione di Palermo, l'impero
armò un poco; suscitò al riscatto le popolazioni cristiane
dell'isola, alla guerra quelle di Calabria; trascinato egli stesso dai
Musulmani rifuggiti a Taormina, a Costantinopoli e in Calabria, i
quali speravano gran cose al certo e molte più ne diceano.
Abd-Allah, sapesse o no coteste pratiche, dovea combattere la
guerra sacra, per dare sfogo agli agitati animi dei Musulmani di
Sicilia, per soddisfare a sè stesso, alla opinione pubblica, al padre.
Non tardò dunque a uscir di Palermo; cavalcò il contado di
Taormina; svelse le vigne; molestò il presidio con avvisaglie; e
come l'inverno s'innoltrava, sperando ridurre più agevolmente
Catania, città in pianura, la assediò; ma indarno. Perlochè, tornato
in Palermo a svernare, apparecchiò più poderosi armamenti, e,
abbonacciata la stagione, fe' salpare il navilio a' venticinque
marzo del novecento uno. Egli con l'esercito andò a porre il
campo a Demona; piantò i mangani contro le mura; le battè per
diciassette giorni; ma risaputo d'un grande sforzo di genti che i
Bizantini adunavano in Calabria, lasciò stare il presidio di
Demona buono a difendersi e non ad offendere; e volò con
l'esercito a Messina. Par che l'armata vi fosse ita innanzi, e che la
città si fosse di queto sottomessa. Abd-Allah passava
immantinenti lo stretto. Trovata l'oste sotto le mura di Reggio,
un'accozzaglia dei presidii bizantini dell'Italia meridionale e di
Calabresi che li abborrivano, i Musulmani la sbaragliaron col solo
terrore, dice Giovanni Diacono. Mentre i fuggenti correano da
ogni banda per la campagna, Abd-Allah irruppe senza ostacolo in
città il dieci giugno. Le feroci genti sue cominciarono una strage
indistinta: poi l'avarizia consigliò di far prigioni; che ne
ragunarono diciassettemila, tra i quali fu tratto in carcere, come
152
Vita di Sant'Elia, presso il Gaetani, op. cit., tomo II, p. 73.
scrive Giovanni, il venerando vescovo dal crin bianco e dalla
faccia colorita, spirante dolcezza. Immenso il cumulo della preda:
oro, argento, suppellettili; rigorosamente custodito dai vincitori,
continua il medesimo autore, e ben si riscontra con la legge
musulmana che vieta di scompartire il bottino in territorio
nemico. Vi si aggiunsero i tributi e presenti delle città vicine, le
quali si affrettavano a mandare oratori chiedendo l'amân; poichè
Abd-Allah avea dato voce di volere stanziare a Reggio. Ma
improvvisamente ei ripassa lo stretto, sapendo arrivata da
Costantinopoli a Messina un armata greca; e la coglie nel porto;
le prende trenta legni; fa diroccar le mura della città, per gastigo o
cautela. Intanto traghettavano continuamente da Reggio a
Messina le navi da carico, zeppe di roba e schiavi. Abd-Allah
condusse di nuovo l'armata su le costiere di Terraferma; combattè
altri nemici, forse gente dei duchi Franchi di Spoleto e Camerino,
condotti ai soldi dell'imperatore di Costantinopoli. In questa
impresa il principe aghlabita occupò, il venti luglio, una città di
cui non ben si legge il nome, forse Nardò153; e si ridusse alfine
con tutte le genti in Palermo, donde mandò nunzii al padre col
racconto delle vittorie e il meglio del bottino. Fino alla primavera
del novecentodue, quando andò a trovarlo ei medesimo in
Affrica, Abd-Allah soggiornò nella capitale della Sicilia,
reggendo i popoli con giustizia e bontà154.

153
Si trova nel solo Ibn-el-Athîr, in un passo di cui abbiamo tre MSS. con tre
lezioni diverse: Bartibûa, Iartînûa, e nel MS. ordinariamente più corretto,
Bartanobûa. Facendo astrazione delle vocali non accentuate, il nome si riduce
a sette lettere, alcune delle quali posson variare secondo i punti diacritici. Le
lettere sono: 1a b, i, n, t, th, e può anche rispondere alle nostre p e v; 2a r,
ovvero z; 3a t; 4a e 5a stesse lettere che la prima; 6a w, ovvero û; 7a a, la quale
potrebbe esser muta, onde la finale è anche incerta tra û e wa. Combinando le.
consonanti con varie vocali, la migliore lezione sembra Neritînû, che risponde
al nome dato dai geografi antichi ai popoli di Neritum in terra d'Otranto.
Neritum, oggi Nardò, città poco lontana dal mare, fu assai importante nel
medio evo, fatta sede vescovile nel XV secolo. Ma la mia conghiettura è tanto
più incerta, quanto sappiamo assai vagamente la regione di cui si tratti, come
diremo nella nota seguente.
Corse fama in Italia che Ibrahim, intendendo dai messaggi del
figliuolo la impresa di Reggio, prorompesse in rampogne: «Non
esser suo sangue, no, tener dalla madre, questo svenevole che
s'impietosiva dei Cristiani e tornava addietro, principiate appena
le vittorie! Se ne venisse dunque a poltrire in Affrica, chè egli,
Ibrahim-ibn-Ahmed, andrebbe a mostrare ai nemici di Dio e degli
uomini il valor vero della schiatta d'Aghlab.» A queste parole
154
Riscontrinsi: Ibn-el-Athîr, anno 287, MS. A, tomo II, fog. 167 verso; e
MS. di Bibars, fog. 123 recto, seg.; ed anno 261, MS. A, tomo II, fog. 92; MS.
C, tomo IV, fog. 246 verso; e MS. di Bibars, fog. ...; Johannes Diaconus,
Translatio corporis Sancti Severini, presso Gaetani, Vitæ Sanctorum
Siculorum, tomo II, p. 60; e presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores,
tomo I, parte IIa, p. 269, seg.; Baiân, tomo I, p. 123, anno 288; Chronicon
Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 44; Ibn-Khaldûn,
Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione di M. Des Vergers, p. 137, 138; e
il cenno che ne fa Nowairi, con errore di data, nella Storia d'Affrica, in
appendice alla Histoire des Berbères, par Ibn-Khaldoun, versione di M. De
Slane, tomo I, p. 431; Chronicon Vulturnense presso Muratori, Rerum
Italicarum Scriptores, tomo I, parte IIa, p. 415.
Più che ad ogni altro si badi a Ibn-el-Athîr, e Giovanni Diacono. Nei MSS. A e
di Bibars si legge che le navi musulmane tornavan da Reggio a Messina
cariche di roba e dakík, che vuol dir farina, ma credo vada corretto rakîk,
schiavi. La battaglia di Reggio è riferita da Ibn-el-Athîr al mese di regeb (21
giugno a 20 luglio 901), e dalla Cronica di Cambridge precisamente al 10
giugno; e questa data io ho seguito, ma forse è erronea, e si dee correggere 10
luglio, mutando una sola lettera nel testo arabico, e leggendovi iuliu in vece di
iuniu, Il Baiân in luogo di Ríwa (Reggio) ha z la, che si potrebbe supporre
Scilla, ma è alterazione del primo di questi nomi. Ibn-Khaldûn, per errore,
credo io, di memoria, frettolosamente compendiando questi annali, scrisse che
Abd-Allah, andato da Taormina a Catania, e trovandola ostinata alla difesa, se
ne tornò per ripugnanza a spargere sangue musulmano. Ciò non si legge in ibn-
el-Athîr; nè è probabile che Catania a questo tempo fosse già divenuta colonia
musulmana. Anzi, la espugnazione del vicino castello di Aci nel 902, ch'era
tenuto dai Cristiani, li fa supporre signori anco di Catania.
Adesso debbo allegar le testimonianze di quell'ultima impresa di Abd-Allah,
dopò la distruzione delle mura di Messina. Ibn-el-Athîr, abbozzando sotto
l'anno 261 una biografia di Ibrahim-ibn-Ahmed, dice che proponendosi costui
il pellegrinaggio e la guerra sacra, andò a Susa l'anno 289 (902) «e indi passò
col navilio in Sicilia, e pose il campo a Demona, Assediatala per diciassette
giorni, andò a Messina, e passò a Reggio, ove s'era adunata gran gente dei
d'ira s'aggiugneano romori contraddittorii: che Abd-Allah
segretamente sopraccorresse a corte per falso avviso della morte
del padre; che Ibrahim vistoselo accanto, in luogo di incrudelire,
gli rinunziasse il regno e ponessegli al dito il proprio anello155.
Così tra le fole si risapea la verità. Al dir d'una cronica araba,
la verità era che richiamatisi i Musulmani di Tunis appo il califo
abbassida Mo'tadhed-Billah delle enormezze che aveano a
sopportare, e mostratogli che certe schiave che Ibrahim gli avea
mandato in dono, fosser le mogli e figliuole loro, Mo'tadhed
inorridito si risovveniva d'essere pontefice e imperatore. Facea
dunque sentire in Affrica, la prima volta da un secolo, i voleri del

Rûm, Ei li combatteva alle porte della città; li sbaragliava; e prendea Reggio,


con la spada alla mano, del mese di regeb. Saccheggiatola, fece ritorno a
Messina, di cui abbattè le mura; e, trovando in porto le navi arrivate da
Costantinopoli, ne prese trenta. Andò poi a Neritînû (Bartîbû etc.), e se ne
insignori alla fine di regeb, Ei diè esempi di giustizia e di buona condotta
verso i sudditi. Andò poi a Taormina etc.,» seguendo a narrare la espugnazione
di questa città nel 902. Or lo squarcio che ho messo in carattere corsivo è
compendio esatto, e in molti luoghi trascrizione, di quello che contiene le
imprese di Abd-Allah del 901, il quale si trova sotto l'anno 287; se non che in
quest'ultimo manca la impresa di Neritînû. E evidente dunque che Ibn-el-Athîr,
o il copista, replicò nella guerra d'Ibrahim parecchi fatti di quella di Abd-Allah
dell'anno precedente. È evidente, dico, per lo assedio di Demona, vittoria di
Reggio, presura delle navi greche a Messina, e distruzione delle mura di questa
città. Mi pare probabile per la occupazione di Neritînû.
E ciò perchè Ibn-Khaldûn, il quale compendiava gli annali di Ibn-el-Athîr, e
un'altra cronica più antica, dopo tutte le imprese di Abd-Allah come noi le
abbiamo narrato, fino alla distruzione delle mura di Messina, continua: «Indi
tragittò nella vicina parte d'Italia (così va resa la denominazione di a'dwet-er-
Rûm); combattè con popoli Franchi d'oltre il mare; e tornò in Sicilia.» La città
dunque il cui nome leggiam sì male in Ibn-el-Athîr, par che giacesse nella
regione vagamente chiamata a'dwet-er-Rûm, che non si può intendere del solo
stretto di Messina, ma di tutta la costiera che guarda la Sicilia, se si ricordi il
valor della denominazione analoga di Berr-el-A'dwa in Affrica. I Franchi
combattuti da Abd-Allah non poteano esser che le genti dei duchi di Spoleto e
Camerino condotti ai soldi di Leone il Sapiente. Ritraggiamo infatti ch'egli nel
904 abbia mandato danaro ai Franchi per rinforzare l'esercito destinato contro
la Sicilia. Veggasi il cap. IV del presente Libro, p. 87, 89.
155
Johannes Diaconus Neapolitanus, l. c.
successor del Profeta. Significavali per un messaggiero; al quale
Ibrahim volle farsi incontro in attestato di riverenza, contenendo i
superbi movimenti dell'animo, con sì duro sforzo, ch'ei ne fu
colpito di malattia biliosa, e costretto a sostare alla sibkha, o
vogliam dire stagno salmastro di Tunis. Abboccatosi quivi
segretamente con l'ambasciatore, promesse di ubbidire al califo; il
quale per bocca di costui, senza comando scritto, gli ingiugnea di
risegnare il governo al figliuolo Abd-Allah e rappresentarsi in
persona a Bagdad156. Tanta modestia civile d'Ibrahim si
comprenderà meglio, considerando ch'ei già sentiva crollare il
trono aghlabita. Una sètta politica, delle tante che ne covavano
sotto la teocrazia musulmana, s'era appresa alla forte tribù berbera
di Kotâma; e scoppiava già in aperta ribellione, minacciando al
paro il principato d'Affrica e il califato. In Affrica, Arabi e
Berberi, ortodossi e scismatici, nobiltà menomata dai supplizii e
plebe spolpata sotto pretesto di farle giustizia contro i nobili, a
una voce tutti maledivan l'Empio, come il chiamarono per
antonomasia157. Minacciavalo di più, dall'Egitto, la dinastia dei
Beni-Tolûn, potentissimi di ricchezze e d'ardire, imparentati col
califo, usurpatori che per far più guadagno s'offrian sostegni alla
legittimità. Sovrastandogli dunque novella guerra civile,
156
Nowairi, Storia d'Affrica, MS. di Parigi 702 A, fog. 53 verso; e traduzione
di M. De Slane, in appendice a Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, tomo I, p.
431; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione di M. Des
Vergers, p. 138 e 139. Avvertasi che M. De Slane ha saltato il luogo del
Nowairi, ove si dice della malattia che colpiva Ibrahim in questo momento.
Quanto alla tradizione, sembra che il Nowairi l'abbia tolto da Ibn-Rekîk; al par
di Ibn-Khaldûn, il quale lo attesta espressamente. Egli è vero che Ibn-Abbâr,
MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 35 recto, riferisce aver letto nella
Storia d'Ibn-Rekîk, che Mo'tadhed minacciò di deporre Ibrahim e surrogargli,
non il figliuolo, ma il cugino Mohammed; ma questo si dee tenere come fatto
diverso, seguito appunto nell'896, prima della uccisione del detto Mohammed,
della quale abbiam fatto parola nel Capitolo precedente, p. 58. Debbo avvertire
che secondo una variante proposta dal prof. Fleischer nel testo di Nowairi,
invece di "malattia biliosa" si dovrebbe tradurre "gli si fece incontro con
vestimenta negre." Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 451, e Introduzione, p.
63. Ma non n'è certo quel dotto orientalista; nè io.
157
El-Fâsik. Questo soprannome si legge in Ibn-Abbâr, op. cit., fog. 32 verso.
complicatissima, spaventevole, senza speranze di uscirne
vincitore, ei riformò il governo e abdicò, fingendo d'ubbidire al
califo. Notevole è che un altro cronista, copiato o abbreviato nel
Baiân, senza far parola del messaggio di Mo'tadhed, attribuisce a
dirittura le riforme d'Ibrahim ai movimenti della tribù di Kotâma,
e dice che allora ei volle farsi grato all'universale, e riguadagnare
gli animi degli antichi partigiani di casa d'Aghlab158.
Pose il nome d'anno della giustizia al dugentottantanove
dell'egira (16 dicembre 901 a 4 dicembre 902) che incominciava
tra quelle vicende; abolì le gabelle; disdisse le novazioni nel
modo di riscuotere le decime159; rimesse agli agricoltori un anno
di tributo fondiario; liberò i prigioni di stato; manomesse i proprii
schiavi; cavò dalli scrigni grosse somme di danaro e dielle ai
giuristi e notabili di Kairewân per dispensarle ai bisognosi; ma
ebberle, aggiugne un cronista, quei che men le meritavano e
furono scialacquate160. Con ciò premurosamente scriveva ad Abd-
Allah di venire in Affrica; il quale, lasciato l'esercito in Palermo
ai proprii figliuoli Abu-Modhar e Abu-Ma'd, andò in fretta con
cinque galee sole161. Arrivato ch'ei fu, Ibrahim, del mese di rebi'
primo (13 febbraio a 14 marzo 902), gli risegnava il principato.
Quanto a sè, non potendo rimanere in Affrica nè volendo ire a
Bagdad, scrisse al califo ch'ei si metteva in pellegrinaggio per la
Mecca. Poi pretestò che convenia passare per l'Egitto, e che ei nol
potea senza azzuffarsi coi Beni-Tolûn; onde inviò a Bagdad
un'altra lettera: che ad evitare spargimento di sangue musulmano,
vedi s'egli era contrito, e a compiere insieme i due precetti del
pellegrinaggio e della guerra sacra, piglierebbe la via di Sicilia162.
Forse agitava in mente il pazzo disegno di andare alla Mecca per
a traverso i territorii di Cristianità, il Bosforo e l'Asia Minore,
158
Baiân, tomo I, p. 125 e 126.
159
Veggasi nel Capitolo II del presente libro la nota 2 a p. 55.
160
Riscontrinsi: il Baiân, l. c.; e Nowairi, Storia d'Affrica, nell'op. cit., p. 432.
161
Ibn-el-Athîr, anno 287, MS. A, tomo II, fog. 167 verso; e MS. di Bibars,
fog. 123 recto, seg.
162
Riscontrinsi: Nowairi, l. c.; Ibn-el-Athîr, anno 261, MS. A, tomo II, fog. 92
recto; e MS. C, tomo IV, fog. 246 verso; Baiân, tomo I, p. 126.
poich'egli non avea rinunziato al figliuolo la signoria di Sicilia, e
pensò al certo al conquisto d'Italia, e in Italia parlò di quel di
Costantinopoli163. Che che ne fosse, Ibrahim, sceso dal trono,
parea rifatto altr'uomo. Dissepolti i suoi tesori e armerie, indossò
a mo' degli anacoreti un cilicio tutto rattoppato; andò a Susa a
bandire la guerra sacra. Di lì il sedici di rebi' secondo (30 marzo)
parte per Nûba, castello in su la marina tra Susa e Iklibia
(Clypea); ove fa la mostra dei volontarii; li provvede d'armi e
cavalli; dispensa venti dinâr a ogni cavaliero e dieci a ogni fante;
e con loro fa vela per la Sicilia164.

CAPITOLO IV.

Il tiranno penitente trovò perdono e anche séguito in Sicilia.


Sbarcato a Trapani165 verso la fine di maggio166 si messe a far
gente: poi cavalcò alla volta di Palermo; giunsevi l'otto di luglio,
ma, com'ei sembra, non entrava in città167. Comandando tuttavia
163
Johannes Diaconus, Translatio corporis S. Severini, presso Gaetani, Vitæ
Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 62; e presso Muratori, Rerum Italicarum
Scriptores, tomo I, parte IIa, p. 209, seg.
164
Ibn-el-Athîr e Nowairi, ll. cc. Nella versione di M. De Slane la data della
partenza per Nuba è posta per errore di stampa in vece del 16 il 22 di rebi'
secondo, che tornerebbe al 5 aprile.
165
Trapani certamente, come scrive Ibn-Khaldûn, ancorchè nel testo di
Nowairi si legga Tripoli. Nelle opere arabiche quei due nomi son confusi
spesso. Ma qui il testo di Nowairi non lascia luogo a dubbio, portando che
Ibrahim da Nûba navigò a quella città, e che indi cavalcò per a Palermo.
166
In maggio, secondo la diligentissima Cronica di Cambridge. Secondo il
conto di Nowairi lo sbarco sarebbe avvenuto nella seconda metà di giugno,
poichè Ibrahim si intrattenea diciassette giorni a Trapani; ma questa cifra può
essere sbagliata, come lo è di certo quella del soggiorno in Palermo.
167
Giovanni Diacono napoletano espressamente nota che Ibrahim sdegnasse
d'entrare in Palermo, come casa propria. All'incontro Nowairi riferisce tanti
particolari da non potersi mettere in forse l'andata. Il detto che Ibrahim non
tenne, ma fece tenere da altri il Tribunale dei Soprusi, mi fa supporre che il
tiranno fosse rimaso fuor la città vecchia.
da re non ostante l'abdicazione, Ibrahim alzò in Palermo il
Tribunal dei Soprusi; deputò altri a presedervi; ed egli, intento
anima e corpo alla guerra sacra, conduceva a soldo marinai,
largheggiava stipendii a cavalieri; talchè tra gli Affricani che avea
seco e i Musulmani di Sicilia che arruolò, messe in punto un'oste
poderosa. Il diciassette di luglio movea con quella sopra
Taormina168.
Per fortezza di sito, numero di popolo, tradizioni, e
monumenti, era ormai questa la capitale della Sicilia bizantina,
degli aspri luoghi, cioè, tra l'Etna e la Peloriade, ne' quali un
pugno d'uomini difendeva ancora il vessillo della Croce. Non
potendo abbandonar costoro senza vergogna, Leone il Sapiente li
aiutava com'ei sapea; che è a dire, poco, tardi, e strambo. Quel
che conosciam di certo è che, sovrastando il pericolo pei
notissimi appresti d'Ibrahim, Leone teneva i soldati dell'armata a
Costantinopoli a fare i manovali nella fabbrica di due chiese e
d'un monastero di eunuchi; e ch'avea già mandato a Taormina un
presidio con Costantino Caramalo169 e Michele Characto; dei
168
Riscontrinsi: Nowairi, Storia d'Affrica, MS. di Parigi 702 A, fog. 53 verso; e
traduzione francese di M. De Slane, in appendice a Ibn-Khaldûn, Histoire des
Berbères, tomo I, p. 432; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile,
versione di M. Des Vergers, p. 142; Johannes Diaconus Neapolitanus,
Translatio corporis Sancti Severini, presso Gaetani, Vitæ Sanctorum
Siculorum, tomo II, p. 61. Non cito Ibn-el-Athîr perchè il testo è viziato, come
dissi nel capitolo precedente, nota, p. 73. Avvertasi che la versione di M. De
Slane in questo luogo del Nowairi sembra poco esatta, e v'ha qualche error di
stampa nelle date, oltre lo errore del Nowairi che Ibrahim arrivato in Palermo
il 28 regeb (8 luglio), e soggiornatovi quattordici giorni, ne fosse partito il 7
scia'bân (17 luglio). M. De Slane ha soppresso quest'ultima data, accorgendosi
che fosse sbagliata.
169
Il nome di Costantino si legge nella Vita di Sant'Elia da Castrogiovanni, e
gli è dato il titolo di patrizio. I cronisti bizantini scrivon che «fosse In
Taormina,» al tempo della espugnazione, Caramalo, come e' pare, capitano del
presidio, quantunque non gli dian titolo di patrizio, nè altro. Penso io dunque
che si tratti d'un medesimo personaggio per nome Costantino, e di casato
Caramalo. I bizantini non dicono nè anco il grado di Michele Characto, ma
ch'egli accusò di viltà e tradimento il Caramalo, quand'entrambi si rifuggirono
a Costantinopoli. Da ciò la conghiettura che il Characto fosse secondo in
quali il primo fe' mala prova; e il secondo, inferiore in grado, non
potè riparare, o almeno il diè a credere170. Al medesimo tempo
Leone richiedeva Elia da Castrogiovanni di pregare per la salute
dell'impero, dice l'agiografo, i fatti mostrano, di andare a
Taormina; ov'egli, Siciliano, con la sua fama di santità, rozza
eloquenza, e venerabile aspetto, prendesse due colombi a un favo,
come pareva alla corte bizantina: incoraggiare cioè i combattenti;
e mondarli dalle peccata, dalle quali fermamente si credea che
venisse ogni sconfitta delle armi bizantine. Elia, ottuagenario,
infermo, sostenuto in piè dall'indomabile costanza dell'animo,
passava incontanente col fidato suo Daniele, di Calabria in
Sicilia, sotto specie di venire a baciar le ossa di San Pancrazio,
primo vescovo di Taormina; e si messe all'opera con impeto.
Rinfacciava alla misera città non mancarle nessun peccato;
rampognava Costantino che non sapesse ritenere i soldati dagli
omicidii, oltraggi, gozzoviglie, dissolutezze; gli parlava
d'Epaminonda e di Scipione, uomini di sì specchiati costumi da
far arrossire i Cristiani di quei tempi corrotti; gli ricordava la
temperanza e la continenza, come necessarie virtù di chi
s'appresti alla guerra. Rincalzò, al solito, i savii consigli con la
macchina epica: vaticinò, e non era sforzo di profezia, il
passaggio imminente del fier Brachimo Affricano; il guasto, la
carnificina, l'arsione di Taormina. Giacendo infermo a casa del
cittadino Chrisione, Elia diceva all'ospite: "Vedi; qui in questo
letto si adagerà Brachimo vincitore: ed ahi quanta strage
insanguinerà queste mura!" Un'altra fiata, andando per la piazza
maggiore, s'alzava i panni a ginocchio, e richiesto del perchè,

grado, o capitanasse qualche corpo ausiliare, il quale virtuosamente avesse


combattuto contro Ibrahim. Giorgio Monaco fa supporre che Eustazio,
drungario dell'armata, fosse stato inviato a Taormina o incaricato di recarle
aiuto; il che ei non fece, e indi ne fu punito. Ma par che il cronista supponga
questa colpa, confondendola con quella che certamente commise Eustazio,
mandato contro l'armata di Leone da Tripoli di Siria.
170
Riscontrinsi: Georgius Monachus, De Leone Basilii filio, § 25, p. 861;
Theophanes continuatus, lib. VI, § 18, p. 365; Symeon Magister, De Leone
Basilii filio, § 9, p. 704; Leonis Grammatici, Chronographia, p. 274.
rispondea: "Veggo abbondare i rivi di sangue." Poi girava le
strade, in mutande171, stranamente avviluppato di catene; si
poneva un giogo di legno sul collo: per lui non restò di sbigottire
soldati e cittadini, se punto credeano a profeti viventi. Così la
religione dei Bizantini sbagliava sempre il segno. Elia, fatto
ludibrio della gente, non perdonò all'ultima cerimonia di scuoter
la polvere da' sandali, uscendo dalla città; e come Ibrahim
s'appressava, così egli navigò ad Amalfi.
Comparso il nemico, i difenditori di Taormina non si stetter
chiusi entro le mura. Scendendo, com'e' sembra, alla marina di
Giardini, presentarono la battaglia ad Ibrahim; virtuosamente la
combatterono con gran sangue d'ambo le parti: e già le schiere
musulmane balenavano; serpeggiava tra quelle un pensier di fuga;
perdeasi al vento la voce d'un che aveva intonato per rincorarli le
parole di lor sacro libro: "Sì che ti daremo segnalata vittoria,"172
quando Ibrahim lanciossi nella mischia. Volto a quel pio
guerriero: "Perchè non reciti," gli gridò, "cotesti altri versi: - Ecco
due litiganti che disputano chi sia il Signor loro. Ma agl'Infedeli
son apparecchiate vestimenta di fuoco e mazze di ferro: su le teste
loro si verserà acqua bollente, da strugger viscere e pelle."173 E
quando quegli ebbe fornito i due versi: "O sommo Iddio,"
ripigliava Ibrahim, "di te disputiamo quest'oggi io e gli Infedeli;"
e tornò all'assalto, caricando con essolui gli uomini più valorosi e
di più alto consiglio; i quali fecer impeto che spezzò l'ordinanza
nemica. Allora i Cristiani a fuggire sparpagliati; i Musulmani a
inseguirli su per le vette dei monti, dicon le croniche, e in fondo
ai burroni. Altri scampavano su le navi; e tra questi forse i due
capitani bizantini. Altri riparavansi alla città; coi quali alla rinfusa
salirono il monte ed entrarono i vincitori; e incalzaronli fino alla
171
La versione latina ha: Quippe lumbare lineum supra lumbos suos ponere.
Dunque il buon vecchio, gittata la cocolla, si mostrava con le sole mutande,
per imitare, credo io, la foggia degli schiavi. Vita Sancti Eliæ Junioris presso
Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 73 e 74; e nella collezione dei
Bollandisti, 17 agosto, p. 479, seg.
172
Corano, Sura XLVIII, verso 1.
173
Corano, Sura XXII, versi 20 e 21.
cittadella, Castel di Mola, come oggi s'addimanda, che sovrasta
all'erta di Taormina da un'erta assai più scoscesa e superba, a
distanza d'un miglio. Ibrahim pur tentò un colpo di mano:
impaziente di far macello tra la popolazione che s'era messa in
salvo nella rôcca, mentre le ultime schiere vi si ritraean
combattendo. Girata intorno intorno la costa, sparsi i suoi d'ogni
lato, Ibrahim scoprì un luogo ove gli parve ch'uom potesse
inerpicarsi con mani e piè; e a furia di promesse cacciò su per
quei dirupi un drappello de' suoi stanziali negri; i quali superaron
l'altezza, e a un tratto tuonarono agli orecchi dei guerrieri cristiani
"Akbar Allah." S'erano essi adagiati a prendere un po' di cibo,
fidandosi nel sito inespugnabile; stanchi della sanguinosa
giornata; tenendo guardie nei luoghi accessibili e negli altri no;
quando li percosse il noto grido di guerra dei nemici.
Scompigliati e confusi, non corrono a gittar a basso delle rupi
quel pugno di schiavi, non a difendere la strada del castello.
Ibrahim dunque, udito il segno de' suoi, salì senza contrasto con
le altre schiere; spezzò le porte; e comandò l'eccidio. Era la
domenica, primo d'agosto novecento due174.
Ibrahim efferatamente abusò questa vittoria. Alla prima fe'
trucidare, con gli uomini da portar armi, anco le donne, i bambini,
174
Riscontrinsi: Ibn-el-Athîr, anno 261, MS. A, tomo II, fog. 92; MS. C, tomo
IV, fog. 246 verso; e MS. di Bibars; Nowairi, Storia d'Affrica, testo nel MS. di
Parigi 702, A, fog. 53 verso, e traduzione presso De Slane, op. cit., p. 432, 433;
Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 142; Chronicon
Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 44; Johannes
Diaconus presso Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 61. Non cito i
Bizantini perchè non portano particolari del fatto, nè date. Nella Cronica di
Cambridge l'anno è sbagliato dal copista che scrisse sifta (sei) in luogo di sena
(anno), la qual voce differisce dalla prima per un sol punto diacritico. Così vi
si trova 6416 in luogo di 6410, cioè 908 in luogo di 902. Ma le altre
testimonianze storiche non lascian dubbio su la vera lezione; e a ritrovarla
basterebbe anco il calendario, perchè la Cronica di Cambridge espressamente
dice presa Taormina la domenica primo d'agosto, il qual dì incontrò in
domenica il 902, e non il 908. Il giorno designato da Ibn-el-Athîr, è il 22
scia'bân 289, che risponde esattamente al 1° agosto 902. La Cronica del
Monastero di Volturno, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I,
parte IIa, p. 415, accenna senza data la espugnazione di Taormina.
i chierici, cui la legge musulmana perdona la vita; fece porre
fuoco alla città; dar la caccia ai fuggenti per le foreste di que'
monti ed entro le caverne; addurre a sè i cattivi, perchè niuno di
cui potea comandare la morte non gli escisse di mano per umanità
o avarizia altrui. Così, recatagli una gran torma nella quale si
trovò Procopio vescovo della città, Ibrahim chiamatolo a sè:
"Cotesti tuoi capelli bianchi" gli disse "mi ti fan parlare
pacatamente. Se e' ti rendon savio, abiura la fede cristiana; e
salverai la tua vita e di tutti costoro; e ti darò tal grado, che in
Sicilia sarai secondo a me solo." Procopio sorrise senza
rispondere; e incalzandolo il Musulmano: "Ma tu non sai chi ti
parla?" replicò. "Sì; l'è il demonio per bocca tua; e indi rido."
Onde Ibrahim volto agli sgherri comandava: "Sparategli il petto,
cavategli il cuore, ch'io vo' cercarvi gli arcani di cotesta mente
superba:" linguaggio del vero conio di Ibrahim. Il santo vecchio,
dato al supplizio, finchè potè articolare la voce, imprecò contro il
tiranno, confortò i compagni al martirio. Aggiugne Giovanni
Diacono, autor della narrazione, che Ibrahim, furibondo a tal
costanza, digrignando i denti, arrivò a chiedere che gli dessero a
mangiar il cuore; e se non compì l'orrenda jattanza, fece scannare
gli altri prigioni sul cadavere del vescovo, arderli tutti insieme, e
alla fine della festa si levò mormorando: "Così sia consumato chi
mi resiste."175
Lieve opera fu alla caduta di Taormina di ridurre il rimanente
del Val Demone. Ibrahim, venduti i prigioni e il bottino, e spartito
il prezzo tra' suoi, mandava quattro forti schiere; una col nipote
Ziadet-Allah a Mico o Vico, fortissimo castello dentro terra, non

175
Johannes Diaconus, l. c. È verosimile e perciò non l'ho tolto via, quel vanto
da cannibale che Ibrahim forse non intendeva di consumare. Nel Baiân, tomo
I, p. 123, leggiamo che il 283 (896) egli avea fatto uccidere quindici persone a
Taurgha nell'odierno Stato di Tripoli, e cuocerne le teste, come se volesse
imbandirle a mensa; il che fu cagione che la più parte del proprio esercito lo
abbandonasse. Un MS. della Biblioteca di Bamberg, dello XI secolo, citato
nell'opera di Pertz, Scriptores, tomo III, p. 548, in nota alla Cronica
Salernitana, accenna il martirio di San Procopio, evidentemente compendiando
e alterando la narrazione di Giovanni Diacono.
lungi, credo io, dal Capo Scaletta176; l'altra col proprio figliuolo
Abu-Aghlab, sopra Demona177; la terza capitanata dall'altro
figliuol suo Abu-Hogir178 sopra Rametta; l'ultima contro il castel
di Aci179 condotta da un Sa'dûn-el-Gelowi. Delle quali castella, le
due prime, sendo state sgombrate già dai terrazzani alla nuova del
caso di Taormina, fruttaron solo ai Musulmani quel po' di roba
che vi era rimasta. I cittadini di Rametta offrivano di pagar la
gezîa; ma non lo assentì Abu-Hogir e volle gli abbandonassero la
rôcca; e, avutala, la smantellò, quanto potea. Similmente que'
d'Aci e delle rôcche e fortezze dei contorni, fattisi insieme a
chieder patti, non ottennero altro che la vita, fors'anco la libertà

176
Nei varii MSS. d'Ibn-el-Athîr, Ibn-Khaldûn; e Nowairi questo nome si legge
Bîkesc, Benfesc, Tîfesc, Minisc, Minis, e talvolta è scritto senza punti
diacritici. Edrisi pone tra Messina e Taormina, in luogo aspro e montuoso, a 15
miglia verso mezzodì da Monforte, una terra Mîkosc, Mîkos, Minis, secondo i
varii MSS. Non trovo in oggi nomi somiglianti; ma il luogo risponde tra il
Capo di Scaletta e il Monte Scuderi; sia Artalia, o Pozzolo Superiore, o
Giampileri ec. Castello par che non ne rimanesse nè anco al tempo di Edrisi. Il
nome mi par latino o greco, Vicus, Μυχος Μηκὰς o anche Νι̃κος. Mandanici,
che darebbe quest'ultimo nome aggiunto a quel di Μάνδρα, non risponderebbe
alla detta distanza da Monforte, che per altro può essere inesatta o sbagliata nel
MS. di Edrisi.
177
Veggasi la nota 4 a p. 468 del I Volume, lib. II, cap. XII, intorno il sito del
castel di Demona.
178
Si pronunzii come Hodjr in francese, e in inglese Hojr. Non l'ho scritto
Hogr perchè darebbe un suono diverso.
179
Certamente El-Iagi, quantunque alcun MS. porti El-Bâgi, Et-Tâgi ec.,
mutando i punti diacritici, e altro dia le lettere senza punti. Edrisi lo scrive
Liâgi, come si legge nei migliori MSS., dovendosi negli altri aggiugnere un
punto diacritico alla lettera b e mutarla così in i, Liag o Liagi in luogo di Lebag
che si è trascritta. La differenza di ortografia tra Edrisi e le memorie, di certo
anteriori a lui, su le quali compilò Ibn-el-Athîr, dà luogo a una curiosa
osservazione filologica. Nel X secolo, al quale van riferite quelle memorie, il
nome di Άκις e Acis, pronunziato in Sicilia, com'oggi Iaci, con la prima vocale
strisciante nel modo che avvertii per Enna, era scritto dagli Arabi col loro
articolo el; probabilmente perchè i Greci l'usavano anche con l'articolo. Nella
prima metà del XII secolo, in cui visse Edrisi, si dicea Li Aci con l'articolo
italiano, il che può aggiugnersi alle altre prove che la lingua nostra già si
parlasse in Sicilia.
delle persone: e uscendo dalle mura che avean sì lungamente e
gloriosamente difeso, le videro diroccar dai nemici e gittarne i
sassi in mare180. Pietro Diacono, monaco cassinese del duodecimo
secolo, su quest'eccidio di Taormina fabbricò l'apocrifa
narrazione accennata da noi nel primo Libro; nella quale affermò
che Agrigento, Catania, Trapani, Partinico, Iccara, e le distrutte
già parecchi secoli innanzi Cristo, Tindaro, Segesta, Solunto,
fossero ville della Badia di Monte Cassino, quando vennero di
Babilonia e d'Affrica innumerevoli Saraceni capitanati da Ibrahim
a rapir quei ricchi poderi, immolando le migliaia di frati che li
tenessero181.
180
Riscontrinsi: Ibn-el-Athîr, Ibn-Khaldûn, e Nowairi, ll. cc. Il racconto di
Nowairi, che in questo luogo è particolareggiato più che gli altri, dopo aver
detto di Bico, Demena e Rametta, continua: «E mandò sopra Aci, con un'altra
schiera, Sa'dûn-el-Gelowi. Tutte le popolazioni insieme si rivolsero a costui,
profferendo la gezîa; ma egli non l'accettò, nè volle altro patto che l'uscita loro
dalle fortezze. Uscironne dunque: ed egli distrusse tutte le rôcche e castella, e
ne gittò le pietre in mare.» Questo passo prova che la denominazione di Aci, al
principio del X secolo, comprendesse parecchie castella; ovvero che Aci fosse
come la capitale di quelle sparse sul fianco orientale dell'Etna. Tra i due
supposti, terrei piuttosto il primo; perchè ai tempi di Edrisi, Aci par che fosse
nominata al plurale, come dissi nella nota precedente; e in oggi v'ha infino a
sette comuni di tal nome, poco lontani l'un dall'altro. Qual fosse la fortezza
principale nel 902, non so. Forse Castel d'Aci, posto sopra un masso di basalto
in sul mare, rimpetto alli scogli de' Ciclopi, o Faraglioni come or chiamansi:
Le isole di Aci di Edrisi. Castel d'Aci è famoso nelle guerre degli Angioini
contro gli Aragonesi. Potrebbe darsi ancora che la rôcca principale fosse stata
sul vicin "Capo dei Molini" ove si trovano ruderi antichissimi; ovvero nel
quartier della odierna Acireale, detto Patané, che ha avanzi di un edifizio
romano o bizantino, e vi si è scavata una grossa pietra di lava, col noto
monogramma del motto "Gesù Cristo vince" che si solea porre nelle fortezze e
bandiere bizantine. Veggasi su le antichità dette l'erudito lavoro di Lionardo
Vigo, Notizie storiche d'Aci Reale, cap. II.
181
Veggasi il Libro I, cap. IV, p. 100, seg., e nota 1 alla pag. 102. L'episodio di
Ibrahim appartiene esclusivamente a Pietro Diacono. Si conserva manoscritto
nella Biblioteca di Monte Cassino; come ritraggo dalla lista messa in
appendice al trattato di Pietro Diacono, De viris illustribus Cassin.; presso
Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo VI. È pubblicato dal Gaetani,
Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo I, p. 181, seg., con note che condannano
qualche bugia e mostrano gli anacronismi sconci della narrazione, compilata,
Ma pervenute a Costantinopoli le infauste nuove di Taormina,
Leone gravemente se n'accorò, scrivon le cronache musulmane; e
per sette dì, ricusava di cinger la corona, dicendo non star bene ad
uom tribolato. Continuano a narrare che sorgea nell'universale il
generoso pensiero di aiutare i Cristiani di Sicilia; ma che lo
sturbò la voce che Ibrahim si apprestasse ad andar sopra
Costantinopoli; onde Leone afforzava la capitale con un esercito e
pur avviava forti schiere alla volta di Sicilia 182. Il vero è ch'egli
volle mandar danaro in Calabria per levar gente e assoldare i
feudatarii longobardi o franchi che passassero in Sicilia. Lo
ricaviamo dalle memorie bizantine che si accordano con le
musulmane nella esposizione dei sentimenti, se non de' fatti.
Leone condannò a morte il Caramalo per la viltà o tradimento suo
a Taormina; e ai preghi del patriarca di Costantinopoli, commutò
il supplizio in professione monastica: strana gradazione di pene in
una età in cui la vita monastica, assomigliata all'essere degli
angioli, si tenea com'apice di perfezione cristiana!183 Vero altresì
che si temesse a Costantinopoli l'assalto, sia d'Ibrahim stesso che
minacciava di andarvi184, sia del rinnegato Leone da Tripoli di
Siria; il quale con cinquantaquattro navi, armate in Siria stessa e
in Egitto e rinforzate di Schiavoni, nei principii della state del
come dice Pietro Diacono, su la Cosmografia di Teofane, e la "Cronologia dei
Pontefici Romani."
182
Ibn-el-Athîr, anno 261, MS. A, tomo II, fog. 92, seg.; MS. C, tomo IV, fog.
246 verso.
183
Georgius Monachus, De Leone Basilii filio, § 25, p. 860, 861; e Leo
Grammaticus, Chronographia, p. 274, dicono espressamente condannati a
morte, pel fatto di Taormina, il Caramalo ed Eustazio drungario dell'armata; e
nominano i due monasteri diversi nei quali furono mandati per commutazion di
pena. Contuttociò Giorgio Monaco nel § 29, narrando la impresa di Leone da
Tripoli che seguì due anni dopo, dice mandatovi Eustazio con tutte le forze
navali; il quale tornò, allegando non aver potuto trovare il nemico. Pare
dunque che la condanna debba riferirsi a questo secondo fatto; ma non è
inverosimile, trattandosi della corte bizantina, che dopo la prima prova sia
stato tratto Eustazio dal monastero, per affidargli di nuovo l'armata e la fortuna
dell'impero.
184
Johannis Diaconi Neapol., Translatio etc., presso Gaetani, Vitæ Sanctorum
Siculorum, tomo II, p. 62.
novecento quattro, accennò alla capitale bizantina; fe' voltar
faccia a due ammiragli; e, gittatosi sopra Tessalonica, entrovvi
dopo tre giorni d'assalto il trentuno luglio 185. Nell'occupazione
della quale città si narra un episodio che attesta e le cure di Leone
il Sapiente a favor dei Siciliani, e la scempia guisa in che si
mandavano ad effetto. Rodofilo eunuco e camerier dello
imperatole, viaggiando con cento libbre d'oro destinate
all'esercito che dovea mandarsi in Sicilia186, s'era intrattenuto a
Tessalonica per faccende, o, com'altri scrive, per malattia da
curarsi coi bagni; quando piombaron su la città i Musulmani di
Siria e di Egitto. Allora ei metteva in salvo il tesoro, inviandolo in

185
Johannes Cameniata, De Excidio Thessaloniciensi, esattamente narra tutti i
particolari di cui fu testimone oculare; e tra gli altri, al § 18, p. 512, la nazione
dei soldati capitanati dal rinnegato Leone. Perciò il Rampoldi grossolanamente
sbagliò, Annali Musulmani, scrivendo sotto l'anno 902 che i «Musulmani
Aghlabiti, radunata una flotta in Affrica e in Sicilia, prendeano Lenno, e
minacciavano Costantinopoli, comandati da Leone di Tripoli.» Lo seguì in
questo errore il Martorana, Notizie dei Saraceni Siciliani, tomo I, cap. II, p. 69;
e nota 88, p. 20; e scrisse i fatti di Lenno e Tessalonica «tra le belle gesta che
pur fecero i Saraceni Siciliani,» ingannato anche dalla concisione di Cedreno,
il quale suppone Taormina e l'isola di Lenno occupate nella medesima
impresa. Lenno fu presa dai Musulmani di Cilicia, capitanati da un altro
rinnegato per nome Damiano, l'anno 903; come si scorge dalle autorità che cita
il Le Beau, Histoire du Bas Empire, lib. LXXII, § 31; e in particolare da
Symeon Magister, De Leone Basilii filio, § 9 e 10, p. 704, il quale porta in anni
diversi i due fatti di Taormina e di Lenno. Oltre Giovanni Cameniata si
veggano per la impresa di Tessalonica, Theophanes continuatus, lib. VI, cap.
XX, p. 366, seg.; Symeon Magister, § 13, 14, p. 705; Leo Grammaticus, p.
277; Georgius Monachus, § 20, p. 862.
186
Cento libbre d'oro secondo Giorgio Monaco, la Continuazione di Teofane, e
Symeon Magister, ll. cc. Giovanni Cameniata accenna prima vagamente una
grossa somma di danaro, e poi due talenti d'oro, op. cit., § 59, p. 569. Il
secondo aggiugne che il danaro servisse agli stipendii e spese dell'esercito in
Sicilia (του̃ κατά Σικελίαν στρατου), ma si deve intendere di quello che si
pensava far passare di Calabria in Sicilia. Symeon Magister dice che le cento
libbre d'oro eran chiuse in un cestellino (κανίσκιος) per recarle ai Franchi.
Senza dubbio si tratta degli stessi Franchi di cui fa menzione Ibn-Khaldûn nel
901; e probabilmente erano i duchi di Spoleto e Camerino, che nel IX e X
secolo fecero un po' i capitani di ventura. Si vegga sopra a pag. 72, 74.
una provincia vicina; ma fatto prigione ei medesimo quand'entrò
Leone da Tripoli, questi n'ebbe spia, gliene domandò conto, e,
non credendo alla scusa che allegava, lo fe' morir sotto le verghe.
Poi s'ebbe il danaro, minacciando d'ardere Tessalonica187.
Ibrahim-ibn-Ahmed non soggiornò a lungo tra le ruine di
Taormina. Ragunate le schiere che avea mandato alle dette
fazioni, marciò sopra Messina; stettevi due dì soli; e il ventisei di
ramadhan (3 settembre) tra le preci, i digiuni, le luminarie del
mese santo e il fanatismo che ne crescea, valicò il Faro con tutto
l'esercito. Attraversò l'ultima Calabria senza trovar nemici; sostò
non lungi da Cosenza188; dove, traendo al campo ambasciadori
delle atterrite città a chieder patti, Ibrahim li intrattenne alquanti
dì; poi rispose nella insolenza della vittoria: "Tornate ai vostri e
dite che prenderò cura io dell'Italia e che farò degli abitatori quel
che mi parrà! Speran forse resistermi il regolo greco o il franco?
Così fossermi attendati qui innanzi con tutti gli eserciti!
Aspettatemi dunque nelle città vostre; m'aspetti Roma, la città del
vecchiarello Piero, coi suoi soldati germanici; e poi verrà l'ora di
Costantinopoli!"
Indi gli oratori a tornarsene frettolosi; e le città ad apprestarsi
contro l'estrema fortuna: risarcir mura, alzare bastioni, far
provigioni di vitto, ridurre ne' luoghi forti quanti arredi preziosi o
derrate fossero nelle campagne. Il terrore giunse infino a Napoli.
Tra gli altri provvedimenti, Gregorio console, Stefano vescovo e
gli ottimati della città, deliberavano di abbattere il Castel
Lucullano, come chiamavasi, a Capo Miseno: villa costruita da
187
Johannes Cameniata, op. cit., § 39 e 64, p. 569 e 576; Theophanes
continuatus, lib. VI, cap. XX, XXI, p. 366, seg.; Symeon Magister, De Leone
Basilii filio, § 13, 14, p. 705, seg.; Georgius Monachus, De Leone Basilii filio,
§ 29, 30, p. 862, seg.; Leo Grammaticus, p. 277. Veggasi anche Le Beau,
Histoire du Bas Empire, lib. LXXII, § 32, seg.
188
Ibn-el-Athîr, l. c.; Nowairi, Storia d'Affrica, MS. di Parigi, 702, A, fog. 53
verso; e la traduzione francese presso M. De Slane, op. cit., p. 433; Ibn-
Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 143, dice Ibrahim tornato in
Sicilia, e morto all'assedio di Cosenza ch'ei non sapeva essere in Calabria. Il
detto ritorno è evidente sbaglio nato dal confondere questa impresa di Ibrahim
con quella del figliuolo l'anno innanzi.
Mario; comperata e profusa di delizie da Lucullo; teatro di
laidezze e domestici misfatti degli imperatori di Roma;
vergognoso confino d'Augustolo che vissevi d'una pensione
d'Odoacre (479); mutata poscia in monastero e monumento
sepolcrale di San Severino (496); afforzata di mura, occupata dai
Musulmani di Sicilia (846): vera tavola cronologica delle
rivoluzioni della società italiana per nove secoli. I Napoletani a
ragione temeano che quelle moli non fossero occupate di nuovo
dalle navi di Sicilia per intercettare la navigazione del golfo.
Lavorarono dunque popolarmente per cinque dì a spiantarle e a
cercar tra le tombe le ossa di San Severino che volean serbare con
gli altri tesori in città; domandandole l'abate del monastero dello
stesso nome a Napoli. Trovatele, o credutolo, ruppero tutti in
lagrime di gioia: e il dì appresso, che fu il tredici ottobre, le sacre
reliquie erano condotte in processione alla città; uscendo
all'incontro i magistrati, il popolo e i chierici che salmeggiavano,
come parlavansi due lingue a Napoli, chi in greco e chi in latino.
Per una settimana gli animi s'agitavano tra così fatte
effervescenze religiose e le male nuove di Calabria, quando, a
soverchiarli di paura, scherzò nel firmamento non più vista
moltitudine di stelle cadenti, la notte del diciotto ottobre, secondo
Giovanni Diacono, del ventisette al dire del Baiân, o più fiate in
quella stagione, come par che voglia significare Ibn-Abbâr.
Aggiugne questi che si sparnazzavano a dritta e a manca a
somiglianza di pioggia. Le innocenti asteroidi, o meteore
elettriche, o che che fossero, chè la scienza per anco nol sa,
passaron tosto in buon augurio, poichè San Severino, comparso in
sogno, secondo il costume, a un fanciullo, mandò a dire ai
Napoletani che nulla ne temessero e si fidassero in lui che li
difendea nella corte del Cielo189. Risaputasi poscia la morte di
189
Giovanni Diacono, testimone oculare ed autor di questo racconto, dice che
la demolizione del castello Lucullano fu compiuta il 12 (quarto idus) d'ottobre;
il corpo di San Severino recato a Napoli il dì appresso; e le stelle cadenti viste
dopo sei dì, che tornerebbe al 18 o al 19. Il Baiân, tomo I, p. 126 e 127,
riferisce questo fenomeno al 22 del mese di dsu-l-k'ada, cioè dal tramonto del
27 al tramonto del 28 ottobre: e merita maggior fede, non solo per la solita
Ibrahim, non fu in Italia chi non credesse infallibilmente averne
dato segno le stelle cadenti. Un Tedesco, più scaltro, pensò che
questo fenomeno, non essendosi visto in Italia sola, dovea
risguardar tutti i popoli, onde probabilmente era venuto a
compiere una profezia ricordata nel vangelo di San Luca190; il che
torna all'annunzio del finimondo aspettato tante volte in
Cristianità. Gli Arabi d'Affrica, come se fossero stati meno
superstiziosi, contentaronsi a chiamar quell'anno l'anno delle
stelle: ond'ebbe tre nomi, notano i cronisti; poichè Ibrahim gli
avea voluto porre anno della giustizia e altri l'avea detto della
tirannide. Ma niun Musulmano potea far grave caso delle stelle
cadenti, sapendo dal Corano ciò che fossero appunto: demonii
curiosi, fulminati dagli Angioli, quando s'appressan troppo ad
origliare alle porte del Cielo191.
Non ostante sue minacce agli ambasciatori delle città, Ibrahim
tardò a investir Cosenza. Ei che avea saputo maneggiare
diligenza di cotesta compilazione, ma anco per l'uso degli Arabi di scrivere i
numeri alla distesa, più tosto che in cifre. D'altronde potrebbe supporsi che il
copista di Giovanni Diacono avesse notato VI in luogo di XVI o di XV i giorni
corsi dal ritrovamento delle ossa di San Severino alle stelle cadenti. Ibn-Abbâr,
MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 33 verso, ci conduce ad ammettere
l'una e l'altra data, poichè fa supporre replicato il fenomeno più o meno per
molte sere, dicendo: «In dsu-l-ka'da di quest'anno morì Ibrahim-ibn-Ahmed; e
da quel momento furon viste stelle cadenti sparnazzantisi come pioggia a
destra e a sinistra; onde fu chiamato l'anno delle stelle.» Questo squarcio è
stato tradotto inesattamente da Conde, Dominacion de los Arabes en España,
parte IIa, cap. 75.
Io mi sono intrattenuto sì lungamente ad esaminare questa data, poichè gli
scienziati osservano un periodo annuale in tal fenomeno, e che sia più notabile
verso il dieci agosto e in novembre. Col medesimo intento il barone De
Hammer ha raccolto nel Journal Asiatique, serie IIIa, tomo III (1837), p. 391,
alcuni ricordi d'autori arabi in fatto di stelle cadenti; e il baron De Slane vi ha
fatto qualche correzione nel tomo IV della medesima serie, p. 291.
190
Evangelium secundum Lucam, XXI, 25. Questa riflessione è dell'anonimo
autore d'un MS. dell'XI secolo, posseduto dalla Biblioteca di Bamberg, e citato
nella raccolta di Pertz, Scriptores, tomo III, p. 548, in nota alla Cronica
Salernitana. L'anonimo evidentemente ebbe alle mani la narrazione di
Giovanni Diacono, ch'ei compendia e guasta.
191
Corano, Sura XV, verso 18; Sura XXXVII, verso 8, seg.
quell'esercito innumerevole e discorde192, in cui fermentavano
tanti odii, era sforzato adesso di restare al retroguardo per una
dissenteria mortale; e invano si studiava ad occultare suo pericolo
con la tenacità dei tiranni. Pur fece dar mano all'assedio il primo
ottobre; accampare le genti su le sponde del Crati 193; fronteggiar
tutte le porte di Cosenza dai suoi figliuoli o uomini fidati, con
forti schiere; drizzare i mangani contro le mura: ma par ch'ei
poscia non abbia potuto esercitare nè voluto delegare il comando,
nè altri abbia osato pigliarlo. Per più di venti giorni dunque si
scaramucciò con disavvantaggio degli assedianti; ai quali cadean
le braccia, non più sentendosi reggere da quella feroce e ferma
volontà del capitano. Aggravatoglisi il morbo, perduto il sonno,
Ibrahim s'andò a chiuder tutto solo in una chiesetta 194; ove spirò il
sabato ventitrè ottobre, a cinquantatrè anni di età, dopo ventisette
anni di tirannide e sette mesi di penitenza; trapassato come un
santo, guerreggiando la guerra sacra, disponendo di tutto il
contante in limosine, degli stabili in opere pie. Non prima saputo
ch'ei boccheggiava, i capitani dell'oste, adunatisi in segreto,
cavalcarono alla tenda di Ziadet-Allah, figliuolo del suo figliuolo
Abd-Allah, e instantemente il richiesero che si mettesse alla testa
dell'esercito per ricondurlo in Affrica. Al quale segno
d'ammutinamento, il giovane, pigro, dissoluto, vigliacco,
scellerato senza il vigor dell'avolo, tentennò: volea scaricarsi del
supremo comando sopra lo zio Abu-Aghlab; ma questi gli uscì di
sotto. Capitanando dunque suo malgrado la ritirata, Ziadet-Allah
aspettava che tornassero al campo le gualdane sparse intorno a far
preda: accordava patti ai Cosentini che di nuovo ne avean chiesto,
ignorando la morte d'Ibrahim: e poi con tutto l'esercito e le rapite
192
Così lo chiama Giovanni Diacono.
193
Il Nowairi dice il fiume. Potrebbero esser due, poichè il Busento confluisce
col Crati sotto Cosenza.
194
Gli altri particolari della malattia d'Ibrahim si cavano dai cronisti
musulmani. Giovanni Diacono dice Ibrahim morto nella chiesa di San
Michele. In quella di San Pancrazio afferma la Cronica di Bari presso il
Muratori, Antiquitates Italicæ Medii Ævi, tomo I, p. 31; e il Muratori vuol
correggere chiesa di San Bertario.
ricchezze e le salmerie prendea la via di Sicilia; portando seco il
corpo dell'avolo in un feretro. Dice uno scrittore cristiano che al
ritorno gran parte delle genti perisse per naufragio. Giunto
Ziadet-Allah in Palermo, secondo Nowairi e il Baiân fuvvi
sepolto Ibrahim quarantatrè giorni dopo la morte, e innalzato un
monumento su la sua fossa. Secondo altri, lo recarono al
Kairewân: talchè s'ignora qual delle due terre sia profanata da
quelle ossa195.
La morte d'Ibrahim, avendo liberato l'Italia meridionale senza
fatica degli abitatori, vi fu tenuta necessariamente opera del
Cielo. Scrive Giovanni Diacono che mentre i Napoletani stavan
tra sì e no su l'augurio delle stelle cadenti, venne a confermar la
rivelazione di San Severino un prigione testè fuggito di Cosenza.
Narrava questi a Gregorio Console di Napoli, che, dormendo
195
Riscontrinsi: Ibn-el-Athîr, anno 261, MS. A, tomo II, fog. 92, seg.; MS. C,
tomo IV, fog. 246 verso; e MS. di Bibars; Baiân, tomo I, p. 126; Ibn-Abbâr,
MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 33 verso; Nowairi, Storia d'Affrica,
MS. di Parigi, 702, A, fog. 53 verso e 54 recto; e la traduzione francese presso
De Slane, op. cit., tomo I, p. 433, 434; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de
la Sicile, p. 143, 144; Ibn-Wuedrân, § 6; e versione di M. Cherbonneau, nella
Revue de l'Orient, décembre 1853, p. 429; Ibn-Abi-Dinâr (El-Kaïrouani), MS.
di Parigi, fog. 21 verso; e traduzione francese, p. 86; Abulfeda, Annales
Moslemici, anno 261; Johannes Diaconus, Translatio etc, presso Gaetani, Vitæ
Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 62; Chronicon Barense anno 902, presso
Muratori, Antiquitates Italica Medii Ævi, tomo I, pag. 31; e presso Pertz,
Scriptores, tomo V, p. 52; MS. di Bamberg citato nella raccolta stessa di Pertz,
Scriptores, tomo III, p. 548, in nota.
La data della morte, non scritta precisamente dall'accurato e contemporaneo
Giovanni Diacono, si ritrae dai Musulmani. La recan tutti nel mese dsu-l-ka'da
del 289, ma v'ha divario nel giorno: secondo il Baiân, il lunedì 17; secondo
Nowairi, il sabato 18; e secondo Ibn-el-Athîr, Ibn-Wuedrân, e Abulfeda, il
sabato diciannove: che tornano ai 23, 24 e 25 ottobre 902. Or poichè i giorni
della settimana coincidono nel nostro calendario e nel musulmano, e il 17 dsu-
l-ka'da 289 cominciò al tramonto del 22 e finì al tramonto del 23 ottobre,
giorno di sabato, è evidente un lieve sbaglio in tutte quelle date. Qual che fosse
stata la cagione dell'errore, mi è parso di ritenere la data del sabato 23 ottobre.
Nella versione del Nowairi, M. De Slane ha detto «quand la maladie interne
dont Ibrahim souffrait, etc.;» ma confrontando con Ibn-el-Athîr e Ibn-Abi-
Dinâr son certo che si debba sostituire "malattia viscerale."
Ibrahim nella chiesa di San Michele, gli era paruto di vedere un
vegliardo di maestoso aspetto, il quale minacciato di morte dal
tiranno perchè osava entrar nella stanza, gli scagliò un bastone
che avea alle mani e si dileguò. Destatosi, ma pur sentendosi
ferito al fianco Ibrahim, richiedea di alcun prigion latino, e,
addottogli il narratore, gli domandava se conoscesse il vecchio
Pietro di Roma, o n'avesse mai visto la effigie; e saputo che lo si
dipingea di grande statura, raso i capelli e la barba, ravvisò lo
spettro del sogno, e in breve tempo gli s'ingangrenì la ferita 196. Il
biografo di Sant'Elia da Castrogiovanni toglie l'impresa a San
Pietro per onorarne il suo protagonista; il quale, riparato ad
Amalfi, tanto pregò con lagrime, digiuni e cilizii, che il fier
Brachimo, mentre assediava Cosenza e pensava a Costantinopoli,
venne a morte197, percosso non si sa come dalla orazione del
sant'uomo. Un'altra tradizione italiana ripetuta da parecchi
cronisti, senza macchina di iddii minori, lo fe' spacciare,
all'antica, con una folgore198.

196
Johannes Diaconus, op. cit., presso Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum,
tomo II, p. 62; e presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte
IIa, p. 273.
197
Vita Sancti Eliæ Junioris, presso Gaetani, Vita Sanctorum Siculorum, tomo
II, p. 74.
198
Chronicon Barense, anno 902, presso Muratori, Antiquitates Italicæ Medit
Ævi, tomo I, p. 31; Vita di San Bertario citata quivi in nota dal Muratori; Lupi,
Protospatæ (Protospatarii) Chronicon, anno 901, presso Muratori, Rerum
Italicarum Scriptores, tomo V; presso Pratilli, Historia Princ. Langob., tomo
IV, p. 20; e presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 53; Romualdi Salernitani,
Chronicon, anno 902, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo V.
Non cito la Cronica della Cava, e la Cronica di Calabria pubblicata nella stessa
raccolta di Pratilli, tomo III e tomo IV, perchè la prima è interpolata, la
seconda apocrifa del tutto.
Il Martorana, Notizie Storiche, tomo I, cap. II, p. 60, pensò di impastare in uno
tutti i racconti delle croniche. Scrisse che «annottando l'emiro Ibrahim intorno
all'assedio, e accaduto un gran temporale con frequenti detonazioni, vi fu
colpito si malamente da un fulmine elettrico, che dovè levarsi tosto
dall'ossidione; poi morì di sfracello tra mille dolori entro al suo palazzo, nella
città di Palermo.»
CAPITOLO V.

Non bastando ormai alla storia il classico quadro dei fatti e


delle passioni umane, se non siano anco divisati gli ordini e le
opinioni che nascono da sorgenti assai remote, forza è ch'io
interrompa nuovamente la cronica di Sicilia, e torni addietro
parecchi secoli, per rintracciare in Asia le cagioni del mutamento
di dinastia che s'apparecchiava alla morte d'Ibrahim-ibn-Ahmed.
Lo apparecchiava la setta ismaeliana, della quale mi fo ad esporre
l'origine, l'indole, i progressi.
L'autorità dell'impero musulmano, si come portava sua natura
mista, fu combattuta da tre maniere di nemici: le fazioni politiche,
gli scismi religiosi, e le sètte partecipanti dell'uno e dell'altro.
Fazioni chiamo quelle che agognavano a mutare il principe non le
leggi; onde nè impugnarono durante la lotta, nè toccarono dopo la
vittoria, quegli assiomi teologici e civili che costituivano
l'islamismo ortodosso; cioè la fede che parea diritta al maggior
numero. Parecchi Stati in fatti continuarono a rispettar come
pontefice il califo, cui disubbidivano come principe. Fino gli
Omeîadi di Spagna, con lor pretensioni di legittimità, esitarono
per un secolo e mezzo a ripigliare il sacro titolo di Comandator
dei Credenti, usurpato, dicean essi, dalla casa di Abbâs, ma pure
assentitole dalla più parte dei popoli musulmani.
Al contrario nacquero di molte eresie, i cui settatori non si
proposero dominazione politica, nè vollero sostener le opinioni
con la forza delle armi; ma la ragione o l'errore, la coscienza o la
superbia dell'intelletto, li spinsero a propagar, dottrine diverse
dalle sunnite; affrontando spesso la crudeltà dei principi, il furor
della plebe, i disagi delle persecuzioni, la fatica d'una continua
lotta, il pesante biasimo delle moltitudini. Svilupossi tal
movimento tra la metà del primo e la metà del terzo secolo
dell'egira, nella Mesopotamia e province persiane; nelle quali
regioni e nel qual tempo la schiatta arabica, venendo a contatto
con genti più incivilite, apprese le speculazioni dell'umano
intelletto accumulate per sessanta secoli da panteisti, politeisti,
dualisti, unitarii, razionalisti. Dettero materia agli scismi
maomettani quelle tesi che gli uomini in tutti i tempi han
proposto sì facilmente e poi sonvisi avviluppati come in laberinto
di spine: la natura dell'Ente supremo; la influenza di quello sopra
le azioni umane e però predestinazione, libero arbitrio, grazia; il
merito della Fede e delle opere; i gastighi serbati, a chi peccasse
nell'una o nelle altre; e via discorrendo. Su cotesti argomenti
l'autorità sunnita s'era appigliata sovente al partito più ripugnante
alla ragione. Basti in esempio il domma ortodosso della eternità
del Corano, negata dai Motazeliti; i quali furono perseguitati;
finchè, persuaso alcun califo abbassida, a lor volta divennero
persecutori. Ma gli scandali, i tumulti, il sangue sparso per questa
e altre liti teologiche, non portarono a rivolgimenti politici. Dei
settantadue scismi che novera la storia ecclesiastica dei
Musulmani, una ventina si mantenne entro i detti limiti della
disputa; come i Kaderiti sostenitori del libero arbitrio; i Geberiti
dell'opera passiva dell'uomo; i Motazeliti che faceano eterna la
sola sostanza della divinità; i Sefetiti che le accomunavano nella
eternità i suoi accidenti o qualità; i pigri Morgii affidantisi tutti
nella Fede; i Nizâmiti che negavano la libera volontà di Dio, e
s'accostavano ai filosofi materialisti; e altre sètte i cui nomi e
opinioni sarebbe superfluo a ripetere199.
Avviati ch'e' furono a libero esame, i pensatori musulmani non
poteano trattenere il piè, che dalle eresie non passassero ai
razionalismo. A ciò li condusse la serena luce della scienza greca,
la quale cominciò a splendere nell'impero dei califi più presto che
non si crederebbe. Qualche libro di filosofia era stato voltato in
arabico dal greco e dal copto verso la fine del settimo secolo
dell'era cristiana, primo dell'era musulmana, per opera di Khâled-
ibn-Iezîd-ibn-Moa'wia, principe del sangue omeîade,

199
Per cotesti fatti notissimi non occorrono citazioni. I particolari si possono
vedere in Sciarestani e nelle altre opere che mi occorrerà in breve di ricordare.
soprannominato il filosofo della casa di Merwan200. Ma accelerato
l'incivilimento dai Persiani che esaltarono la casa di Abbâs201, si
diè mano a volgarizzare i pochi libri che avanzavano in Persia
della letteratura indiana e nazionale dei tempi sassanidi; si pose
maggiore studio a interpretare i libri scientifici dei Greci:
immenso beneficio che la civiltà riconosce dai califi Mansûr
(754-755) e Mamûn (813-833), e da' costui ministri della schiatta
persiana di Barmek. Le scienze greche penetrarono allora nella
società musulmana per triplice via: di Siria, di Persia e
dell'impero bizantino; perchè in quelle due province dei califi se
ne serbavano le tradizioni e qualche scritto; e dalle province
bizantine s'ebbero moltissimi libri per richiesta che ne fece
Mamûn agli imperatori di Costantinopoli
Così fiorivano nella capitale abbassida, e poscia in altre città
dell'impero, gli studii di medicina, astronomia, geografia,
matematiche, storia naturale, logica, metafisica; e correano per le
mani dei dotti le opere degli antichi filosofi, massime di
Aristotile202. Vo dir di passaggio che quelle di Empedocle
d'Agrigento o d'alcun suo discepolo furono anco studiate in
Oriente; e che nei principii del decimo secolo un Musulmano di
Spagna tentò di fondare con tai dottrine una scuola, la quale non
resse alle persecuzioni203. La filosofia greca da una mano diè armi
200
Questo fatto mi è occorso per la prima volta nel Kitâb-el-Fihrist, MS. di
Parigi, tomo II, fog. 75 verso. Molti di quei libri trattavano di veterinaria; e
forse l'amor dei cavalli fu la prima cagione che conducesse gli Arabi nel
santuario delle scienze greche.
201
Veggasi il Libro I, cap. VI, p. 141, 142 del 1° vol.
202
Veggansi in generale Hagi Khalfa nei Prolegomeni; Pococke, Specimen
historiæ Arabum; Wenrich, De auctorum græcorum versionibus etc. Il Kitâb-
el-Fikrist, MS. di Parigi, tomo II, fog. 67 verso, seg., fornisce dati importanti a
chi voglia approfondire questa epoca della storia intellettuale dell'umanità.
203
Tarîkh-el-Hokemâ, MS. di Parigi, Suppl. Ar. 672, p. 13. L'autore, che visse
nel XII secolo, afferma aver veduto in una biblioteca di Gerusalemme, tra i
libri provenienti dal lascito dello sceikh Abu-l-Feth-Nasr-ibn-Ibrahim di
Gerusalemme stessa, un trattato di Empedocle contro la immortalità delle
anime, del quale ei non dà il titolo, e nota soltanto che Aristotile l'avesse
confutato, e che altri avesse voluto scusar Empedocle supponendo allegorico il
agli eresiarchi musulmani dei quali abbiam detto di sopra;
dall'altra mano fe' nascere varie scuole di liberi pensatori che
combatteano, più o meno apertamente i principii d'ogni religione.
Tali i Bâteni che presero il nome dal significato latente, o
vogliam dire allegorico, supposto da loro nei libri sacri; ma alcuni
arrivavano a pretto ateismo; per esempio, il cieco Abu-l-'Ala da
Me'arra in Siria, il quale, in versi che parrebbero di Lucrezio,
sferzava insieme Giudei, Magi, Cristiani, Musulmani; e
conchiudea che l'uman genere va spartito in due: pensatori senza
religione, e devoti senza cervello204. Le denominazioni delle
scuole razionaliste furono sempre confuse appo i Musulmani, tra
suo linguaggio; ma l'autore aggiugne non vedervi punto allegoria. Hagi-
Khalfa, ediz. Fluegel, tomo V, p. 144, 152, ni 10,448 e 10,500, attribuisce ad
Empedocle: 1° un "Libro della Metafisica," così intitolato al par di quello
notissimo d'Aristotile, e 2° un "Libro su la resurrezione spirituale e su l'assurdo
che le anime risorgano come (si rinnovano) i corpi." Ma il Wenrich, De
auctorum græcorum versionibus etc., p. 90, li crede apocrifi entrambi, non
trovandoli in Diogene Laerzio.
Che che ne sia di questo argomento negativo, par che appartengano ad
Empedocle, o almeno ad alcun di sua scuola, i libri col nome del filosofo
agrigentino, dei quali gli Arabi possedeano le versioni. Penso così perchè le
opinioni fondamentali attribuite ad Empedocle dal Kitâb-el-Hokemâ, e più
distintamente da Sciarestani, testo arabico, p. 260, seg., ben si accordano col
panteismo che ritraggiamo dai frammenti di questo filosofo e dalle notizie che
ce ne danno gli scrittori antichi. Al dir de' due eruditi arabi, la Divinità
d'Empedocle era l'astrazione della scienza, volontà, beneficenza, potenza,
giustizia, verità ec.; non già un essere reale dotato di dette qualità e chiamato
con que' varii nomi. La nota dottrina di Empedocle su l'amore e l'odio, ossia
l'attrazione e repulsione, si vede anco chiaramente nella cosmogonia che gli
attribuisce Sciarestani.
Il filosofo spagnuolo che al dire del Kitâb-el-Hokemâ tolse sue dottrine da
Empedocle, ebbe nome Mohammed-ibn-Abd-Allah-ibn-Mesarra-ibn-Nagîh,
nato in Cordova l'883 e morto il 931. Costui, dopo avere studiato alla scuola
del proprio padre e di due altri dotti spagnuoli, fu perseguitato come zindîk,
per troppo zelo di spargere le dottrine d'Empedocle; talchè si rifuggiva in
Oriente. A capo di lunghi anni, tornato in Spagna, ricominciò a insegnare la
stessa filosofia più copertamente e cadde di nuovo in sospetto d'empietà.
Un compendio di quest'articolo del Tarîkh-el-Hokemâ si legge in Ibn-abi-
Oseibi'a, MS. di Parigi, Suppl. Ar. 673, fog. 22 recto, e Suppl. Ar. 674, fog. 40
verso
per cautela degli adetti, sforzati a nascondersi sotto i misteri e gli
equivoci di sètte men radicali, e tra per la ignoranza della comune
degli uomini e la pronta calunnia dei devoti. Appiccaron costoro
malignamente a tutti i liberi pensatori l'appellazione di zindîk,
perch'era abborrita in persona dei comunisti persiani e fatta
sinonimo d'empio, com'or si dirà. Quando poi suonarono sì
terribili in Oriente i nomi d'Ismaeliani, Karmati, Drusi, Assassini,
novelle sètte miste aiutantisi con le spiegazioni allegoriche, i
devoti colsero il destro di gridarli a gran voce Bâteni; mettendo i
filosofi a fascio con loro. E così è pervenuta la storia agli eruditi
europei del nostro secolo; i quali, con loro preoccupazioni
politiche e religiose, o non si sono accorti di quegli errori o non si
sono affrettati a chiarirli. Indi si è esagerata la parte ch'ebbe la
filosofia greca nelle sètte più odiose. Indi si è supposta tra varie
sètte quell'analogìa di modi è d'intenti che di certo non ebbero205.
E però è mestieri ch'io tratti questa materia più minutamente che
non si addica a quadro generale; ma tra due scogli mi par meno
male la digressione che l'errore.
Gran tratto innanzi i dissentimenti speculativi, s erano
mostrate nell'islamismo le sètte miste d'eresia e di fazione; i due
ceppi delle quali, suddivisi in rami secondo le opinioni
accessorie, si chiamarono Khâregi e Sciiti. Il nome dei primi
s'intese quando il califo Othmân cominciò a falsare la democrazia
musulmana. Difenditori della democrazia, i Khâregi eran uomini
di schiatte arabiche, e non pochi tra loro rinomati per virtù, sapere
e pietà206. Collegaronsi con gli ottimati religiosi207 e coi partigiani
di Ali; e tutti insieme spensero Othmân: se non che l'accordo di

204
Abulfeda, Annales Moslemici, an. 449 (1057), notando la morte di questo
gran poeta, inserisce senza scrupolo i versi che cito.
205
Sciarestani, Kitâb-el-Milel "Libro delle sètte," testo arabico, p. 147, seg.,
nota la differenza che correa tra i Bâteni antichi, ossia filosofi razionalisti, e i
Bâteni moderni, sètte miste, chiamate con varii nomi in varii paesi.
206
Makrizi, presso Sacy, Exposé de la religion des Druses, tomo I, p. XIII,
attesta questo fatto. La origine arabica si vede anche dai nomi dei capi di parte
riferiti da Sciarestani.
207
Veggasi il Libro I, cap. III, p. 69 del 1° volume.
tre fazioni, sì diverse negli intendimenti loro, si ruppe alla
esaltazione di Ali, prima che fosse abbattuto il terribile nemico
comune, ch'era l'antica nobiltà, capitanata da Mo'awia-ibn-abi-
Sofiàn. La parte più turbolenta degli ottimati religiosi levossi
contro Ali; fu sconfitta nella giornata che chiamarono del
Camelo; e i Khâregi tuttavia seguirono il vincitore su i campi di
Seffein, ov'ei si scontrò con Mo'awia. Ma posate le armi per lo
noto compromesso, i Khâregi spiccavansi da Ali, vedendolo
sospinto da' suoi partigiani alla monarchia assoluta di dritto
divino. A rintuzzare sì pericolosi principii d'usurpazione, i
Khâregi immantinente bandiscono non necessario nella
repubblica musulmana il califo; se talvolta il popolo creda
espediente di nominarne, possa sceglierlo di qualunque schiatta e
condizione, coreiscita o no, libero o schiavo; sia tenuto il califo a
governare secondo certi patti fondamentali; declinando lui dalle
vie della giustizia, il popolo possa deporlo, combatterlo, metterlo
a morte. Quanto ad Ali, per rispondere all'apoteosi che ne faceano
i suoi, i Khâregi a dirittura lo incolparono di peccato per
l'accettato compromesso; e poco stante, per cagion di questo o
d'altri atti di governo, lo chiarirono infedele in religione; alfine
pubblicamente lo maledissero, per avere, combattendo contro di
loro, messo a morte gli uomini da portar arme, fatto bottino dei
beni e menato in cattività le donne e i fanciulli: crudel rigore di
guerra, lecito solo contro Infedeli e non usato da Ali verso gli
altri nemici musulmani. Quest'ultimo fatto prova che Ali tenne i
Khâregi non solo ribelli, ma sì eretici. E veramente quei loro
assiomi sì precisi di sovranità del popolo, tornavano a scisma
secondo le idee musulmane; e a scisma tornava, secondo le idee
di tutti i popoli, il dichiarar peccatore e infedele un pontefice, e
affermare che le peccata gravi portassero a infedeltà208. Del resto
ognun vede quanto semplice, e, direi quasi, pratica sia stata
cotesta eresia, nata dalla schiatta arabica, al paragon delle sottilità

208
Sciarestani, Kitâb-el-Milel, testo arabico, p. 85, seg. L'autore nota tra i
principii comuni alle sètte kharegite che il peccato grave porti infedeltà, ma nol
ripete tra le opinioni particolari dei primi Khâregi del tempo di Ali.
straniere. Sursero poi novelle sètte kharegite più feroci in lor
teorie rivoluzionarie e più speculative e audaci in punto di eresia;
come portava da una mano la rabbia della persecuzione e la
coscienza della propria debolezza, dall'altra il miscuglio coi
forastieri. Ognun sa che Ali cadea sotto il pugnale dei Khâregi e
che due altri despoti in erba ne campavano a mala pena. Il ramo
kharegita detto dagli Azrâkiti, che poi levò tanto romore in
Oriente, disse infedele chi dissimulava in parole o in opere
trovandosi in pericolo, e chi non correva alla guerra sacra, quella
cioè di lor setta contro ogni altra; e fe' lecito di uccidere fin le
donne e bambini dei dissidenti; ma altri rami non arrivarono a tali
estremi. Quanto alle leggi estranee alla contesa politica, gli
Azrâkiti abolirono la pena di morte per stupro; altri permessero il
matrimonio con la figliuola della propria figlia e con la figlia di
fratello o sorella, e alsì il matrimonio di Musulmana con uomo
infedele; nei quali punti di scisma traspariscon le dottrine
persiane. Altre sentenze teologiche e casuistiche tolsero or dai
Motazeliti or da altri eterodossi209. Segnalaronsi le sètte kharegite
per indomito ardire contro la tirannide, sì nel campo e sì in faccia
al supplizio. Per due secoli accesero atrocissime guerre nelle
province orientali e in Affrica; e molte dure scosse dettero allo
Impero; ma alla fine gli eserciti dei califi trionfaron di loro. Tanto
ardua impresa ella era di ristorare la democrazia di Abu-Bekr e di
Omar tra masse di popolo eterogenee, ignoranti, superstiziose; e
tanto nocquero all'intento quei mezzi rabbiosi ed efferati, che al
certo discreditarono e assottigliarono i Khâregi210 più che non li
rinforzassero col terrore.
A un tempo con quei campioni della libertà erano comparsi i
settatori più frenetici che abbian mai sostenuto l'autorità, gli Sciiti
o Scî'i, come si dovrebbe scrivere, e significa Partigiani. L'erano
di Ali. Teneano: il pontificato non procedere dalla comunità
musulmana, nè potersi conferire da uomini; essere fondato su
dritto divino, che il Profeta stesso non ebbe autorità di cancellare
209
Sciarestani, op. cit., p. 87 a 102.
210
Nell'originale "Kâhregi". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
nè modificare; tramandarsi il pontificato per successione di
sangue e designazione del predecessore; appartenere
evidentemente ad Ali e sua schiatta. In ciò si accordavamo a un di
presso tutti i rami di setta sciita. Dissentivano su l'ordine della
successione d'Ali. Inoltre i Kaisaniti, ramo sciita, compendiavano
stranamente la religione nella assoluta obbedienza al pontefice211.
I Gholâ, altro ramo212, scoprirono nei pontefici alìdi non so che
ipostasi divina, non so che spirito trasmigrante da persona a
persona, e vi fu chi sostenne, dopo la morte di Ali, ch'ei fosse
salito in cielo per tornare al mondo quando che fosse a ristorar la
giustizia, e che aspettasse passeggiando su i nugoli; e sentian la
sua voce nel tuono; e vedean guizzare nelle folgori la frusta
dell'immortal cavaliero. Principii filosofici, miti, pensieri,
imagini, estranei tutti alla schiatta arabica; nei quali non è chi non
raffiguri il sogno indiano delle incarnazioni, la superstizione
tibetana del pontefice Iddio, e la trasmigrazion delle anime, e
l'aspettativa del Messia, e un mito eroico di vero conio indo-
europeo. Coteste merci straniere entrarono nell'impero
musulmano coi liberti che avean prima professato magismo,
sabeismo, giudaismo, cristianesimo, o alcuna setta di esse
religioni; e veramente un liberto di Ali per nome Kaisân diè
origine e nome al ramo sciita ricordato di sopra; un Giudeo
rinnegato, per nome Abd-Allah-ibn-Saba, fu il primo dei Gholâ;
e, vivendo Ali, aveva osato dirgli "Tu sei tu" che volea significar
"sei Dio."213 I barattieri che cercavano un capo di parte e gli
sciocchi sì correvoli ad ogni maraviglia, avean trovato bello e
pronto il soggetto del mito: Ali, cugino, fratello elettivo, genero,
compagno dall'infanzia, e impavido difensore di Maometto; il
guerriero dalla spada a due tagli, il quale mai non combattè uomo
che nol vincesse; il novello Sansone che all'assalto di Khaibar
211
Sciarestani, op. cit, p. 108, 109.
212
È plurale dell'aggettivo Ghâli, che significa "eccedente, smoderato."
213
Sciarestani, op. cit., p. 109, 132, 133; il quale rintracciando il cammino di
coteste opinioni, e ignorando l'origine indiana della incarnazione (Holûl) la
attribuisce ai Cristiani. Si vegga anche Makrizi, presso Sacy, Exposé de la
religion des Druses, tomo I, p. XIII-XIV.
avea schiantato la porta dai cardini e fattosene scudo; Ali
nobilissimo, caritatevole, liberale, e con ciò ambizioso e leggiero.
Indi l'apotéosi presto fu compiuta. Ali, che in su le prime avea
lasciato fare, s'accorse della empietà alla quale il tiravano, e
sbandì il giudeo Ibn-Saba214; poi, incalzandolo altri adoratori;
inorridito, accese il fuoco e chiamò Kanbâr, come dicea poetando
egli stesso, per significar che gli avesse fatto uccidere e ardere i
cadaveri da quel suo liberto215. Ma la superstizione non si dileguò
a tal esempio; non alla morte del semideo. La stirpe di Ali,
atrocemente proscritta, forniva alla leggenda altre pagine spiranti
tragica pietà: Hasan, avvelenato dagli Omeîadi per man della
propria moglie, le perdona dal letto di morte; Hosein con un
pugno di uomini fa testa a un esercito e cade, ultimo dei
combattenti, tra i cadaveri dei congiunti, con un fanciullo figliuol
suo trafittogli nelle braccia; i discendenti si segnalano, quali per
dottrina o valore, quali per pietà e rassegnazione, e per lo più son
vittima anch'essi dei sospetti di Stato; il glorioso nome di Ali per
sessant'anni è maledetto nella pubblica preghiera dell'impero.
Pertanto la compassione dei popoli accresceva e infocava i
partigiani della sacra schiatta, i quali le attribuivano novelli
miracoli, e correano al martirio per ristorarla in sul trono; ma
prevalendo sempre sopra di loro le armi dei califi, si ordinarono
alfine in società segreta. Fuori da quella congrega, continuò il
fanatismo delle moltitudini ad esaltare gli eroi di casa alida;
sfogossi in sedizioni contro i Sunniti; e fino a questi dì nostri
ardentissimo si manifesta in Persia e nelle popolazioni
musulmane dell'India.
La società segreta che raccolse le forze popolari e le adoprò ad
esaltare in Affrica i veri o supposti discendenti di Ali, ebbe
origine da sodalizii più antichi. Esaminando i due elementi dei
quali necessariamente si componea, cioè le dottrine e gli ordini, si
trovano entrambi nella schiatta persiana. Le dottrine nacquero, o a
dir meglio, presero forma propria e novella, nei principii dell'era
214
Quest'ultimo fatto da Sciarestani, op. cit., p. 132.
215
Makrizi, presso Sacy, Exposé de la religion des Druses, tomo I, p. XIII.
volgare e in Persia; ove il magismo avea già cominciato ad
ascoltare le teorie buddiste dell'Asia centrale, le avea trasmesso
insieme con le proprie nell'Asia anteriore, e questa gli avea
rimandato le une e le altre modificate dal cristianesimo. In fatti il
gran riformatore della setta sciita, quegli che la ordinò in società
segreta, seguiva tuttavia la scuola d'un eresiarca del secondo
secolo, rimaso incerto tra il magismo e il cristianesimo, Ibn-
Daisân, o Bardesane, come chiamasi con forma siriaca: dottore
ascetico e dualista, il quale immaginò l'uomo mediatore tra la
Luce e le Tenebre216. Ma i Daisaniti sono stati confusi spesso coi
Manichei, setta analoga che levò assai maggior grido. Mani,
come ognun sa, non contento di recar da mero profeta un libro
dettato dal Cielo, osò affermare con idea buddista e linguaggio
cristiano ch'ei chiudesse in petto lo spirito paracleto o divin
consolatore del vangelo; predicò in Persia, Tartaria e India una
novella religione accozzata di varie altre, soprattutto di magismo
e cristianesimo; dove, tra molte assurdità teologiche e molti
ottimi principii di morale, insegnò aver tutti gli uomini uguale
diritto al godimento dei beni e piaceri del mondo 217. Spento Mani
216
Su le sètte del magismo ci danno molto lume Mohammed-ibn-Ishak, autore
del Kitâb-el-Fihrist, e Sciarestani ricordato di sopra; i quali vissero l'uno nel
decimo, l'altro nell'undecimo secolo, ebbero alle mani gran copia di materiali
persiani, ed erano entrambi uomini da saperne cavare costrutto. Ciò non
ostante mancaron loro le cognizioni che a noi fornisce lo studio del buddismo,
il quale ebbe tanta influenza su le varie sètte dei magi. Per quella d'Ibn-Daisân
si vegga il Kitâb-el-Fihrist, MS. di Parigi, Suppl. Ar., 1400, tomo II, fog. 194
recto, e 211 recto e verso; e Sciarestani, op. cit., p. 194, 196. Il Kitâb-el-Fihrist
porta il cominciamento dell'eresia d'Ibn-Daisân una trentina d'anni dopo quella
dei Marcioniti, ai quali assegna il primo anno d'Antonino imperatore (138), e
alla eresia di Mani il secondo anno di Gallo (252).
217
Questa teoria sociale è attribuita a Mani nella compilazione turca della
cronica di Tabari, uno squarcio della quale, tradotto in inglese, è uscito alla
luce nel Journal of the American oriental Society, tomo I, p. 443, New-Haven,
1849. Si trova altresì nelle compilazioni orientali che compendiano Tabari e si
copian tra loro. Io presto fede a tale tradizione per la condizione politica della
Persia al tempo di Mani, e perchè Mazdak, predicatore del comunismo in
Persia, seguiva la sua scuola. Nondimeno debbo avvertire che non ne fan
motto il Kitâb-el-Fihrist, tomo II, fog. 192 verso a 212 verso, nè Sciarestani,
dai monarchi sassanidi (272), e costretti i discepoli a rifuggirsi
nella Transoxiana, ricomparvero dopo il conquisto musulmano in
Khorassân e altre province dell'impero, e fino a Bagdad; ove se
ne contava trecento nella seconda metà del decimo secolo. Or
ignorati or perseguitati, e una volta (908-932) tollerati per
intervenzione dei principi dell'Asia centrale218, i Manichei
dell'impero musulmano ordinarono una gerarchia occulta, la cui
sede era per Io più in Babilonia e nei tempi difficili la
trasportavano ove poteano219.
Surse anche sotto i Sassanidi Mazdak220, sacerdote e teologo di
scuola manichea; il quale, speculando novità su la teoria
socialista del maestro, talmente la allargò, che ne venne a bandire
il comunismo dei beni e delle donne e la licenza di soddisfare a
ogni desiderio che non nuocesse alla persona altrui: esortando,
del resto, i proseliti alla beneficenza, all'ospitalità, ad astenersi
dall'uccisione e afflizione corporale degli uomini e fin degli
animali. Per trent'anni (498-531 ) Mazdak sconvolgea l'ordine
costituito in Persia: e. arrivò a impadronirsi della autorità
pubblica e mettere in pratica alcuna di sue dottrine; finchè il
principato e la nobiltà, uniti insieme, lo spensero con uno
spaventevole eccidio de' seguaci221. Le teorie, che sopravvissero,
op. cit., p. 179 a 196, in lor dottissime analisi della religione manichea.
218
Confrontinsi il Kitâb-el-Fihrist e Sciarestani, ll, cc. Questo passo del Kitâb-
el-Fihrist è stato tradotto dà M. Reinaud, Géographie d'Aboulfeda,
Introduction, p. CCCLXI.
219
Kitâb-el-Fihrist, tomo II, fog. 203 verso e 209 recto. Quivi si dice del Râís,
ossia capo, e della Raîsa, o vogliam dire direzione centrale, de' Manichei a
Bâbel, sotto Walîd I (705-715).
220
Secondo il Kitâb-el-Fihrist tomo II, fog. 216 verso e 217 recto, v'ebbe due
personaggi nominati Mazdak. Del primo non si dice l'epoca, ma solo ch'ebbe
séguito nel Gebâl, Aderbaigian, Armenia, Deilem, Hamadân e Fars. I suoi
settatori furon detti Khorramii. Il secondo Mazdâk è quelle di cui si conosce la
istoria, e i settatori presero il nome di Mazdakiani.
221
Confrontisi: Procopio, De Bello Persico, lib. I, cap. V; Tabari, compilazione
turca, versione del barone De Hammer, nel Journal Asiatique, ottobre 1850, p.
344; Kitâb-el-Fihrist, l. c.; Sciarestani, op. cit., p. 192, seg.; Mirkond, presso
Sacy, Antiquités de la Perse, p. 353, seg.; Mogimel-et-Tewârikh, versione di
M. Mohl, nel Journal Asiatique di luglio 1852, p. 117, e di maggio 1853, p.
divamparon di nuovo, due secoli appresso, in quelle medesime
regioni signoreggiate ormai dai Musulmani.
Perchè le sètte dell'antica religione dei Persiani, incoraggiate
dall'antagonismo nazionale contro i vincitori, tentarono una serie
di movimenti religiosi a insieme politici e sociali; nei quali
apparisce sovente il lavoro di società segrete, e sempre vi
primeggia la superstizione indiana dell'ipostasi. Volle dapprima
un Khawâf, verso la metà dell'ottavo secolo, innestare il
manicheismo sull'islam; e, denunziato, com'e' pare, da una setta
rivale, fu messo a morte dal governatore musulmano a Nisapûr:
se non che i suoi proseliti lo vider salire in cielo sopra un bel
cavallo baio dorato, e lungamente poi aspettarono che tornasse
giù a far vendetta222. Nel medesimo anno o poco innanzi, Abu-
Moslim223, anch'egli del Khorassân, metteva in trono gli
Abbassidi con una cospirazione, tramata sotto forme di società
segreta: il quale ucciso poi a tradimento dagli Abbassidi (754),
moltissimi uomini del Khorâssan lo tennero non morto nè
mortale; e formarono un novello ramo di setta Mazdakiana, che fa
detto degli Abumuslimiti224. Un altro ramo si chiamò dei
Rawendi; i quali pensarono adorar come iddio il califo abbassida
Mansûr (758), ed egli molti ne imprigionò; gli altri apertamente
sollevaronsi contro il nuovo lor nume225. Non andò guari che
Mokanna, come l'appellarono gli Arabi dall'uso di andar coperto
d'una maschera di metallo, spacciava in Khorassân che lo spirito
398. Nella Introduzione al Solwân d'Ibn-Zafer, io ho toccato questo punto di
storia, mettendo in forse i racconti dei cronisti sul comunismo di Mazdak; e
penso tuttavia ch'ei non abbia mandato ad effetto tutte le sue teorie nel tempo
che tenne lo Stato. Ma la licenza di quelle teorie non si può negare dopo
l'autorevole testimonianza del Kitâb-el-Fihrist, nel quale si cita un trattato
speciale di Thelgi su questo argomento.
222
Sciarestani, op. cit., p. 187.
223
Veggasi il Libro I, cap. VI, p. 140 e 141 del 1° volume.
224
Confrontinsi: il Kitâb-el-Fihrist, tomo II, fog. 220 recto, e Sciarestani, op.
cit., p. 194. Entrambi noverano la setta di Abu-Moslim tra quelle derivate da
Mazdak.
225
Ibn-el-Athîr, anno 141, MS. C,. tomo IV, fog. 125 verso; e Abulfeda che lo
copia, Annales Moslemici, an. 141.
di Dio, trasmigrando di profeta in profeta, e, poc'anzi, in persona
d'Abu-Moslim, fosse venuto per ultimo ad albergare in lui; e
raggirava i proseliti con tiri da saltimbanco; accendeali di
fanatismo; resisteva alle armi del califo; ridotto allo stremo in una
fortezza (776), dava la morte a sè e ai compagni226. Le quali
repressioni non interruppero la propaganda occulta di tutte queste
sètte del magismo, dei Zindîk, come furono detti, con voce
generica che credesi derivata dal noto nome di Zend. Mehdi, di
casa abbassida, fieramente li perseguitava (784-785); istituiva
contro di essi un magistrato speciale detto il Preposto degli
Zindîk227, e, nell'atto di mandarne alcuno al supplizio, esortava il
figliuolo Hadi a continuare la proscrizione, succedendogli nel
califato, per essere i Zindîk, com'ei diceva, Manichei, scellerati
che vietavano di mangiar carne, viveano in ippocrita astinenza,
credeano a due principii Luce e Tenebre, praticavano schife
abluzioni, permetteano il matrimonio con le figliuole e sorelle, e
andavano rubando i bambini altrui per educarli al culto della
Luce228. Il poeta Besciâr-ibn-Bord, cieco e vecchio di novant'anni,
era stato messo a morte da Mehdi (782) nella medesima
persecuzione, la crudeltà della quale par consigliata da sospetto di
Stato, più che da fanatismo religioso229. Poi un Giân dewân230
aspirò agli onori divini; tenne la fortezza di Bedsds231
nell'Aderbaigiân; ebbevi adoratori e soldati; e spianò la via a
Babek oriundo di Medâin, assai più terribile impostore. Perchè
alla morte di Giân dewân, la moglie attestava ai partigiani aver
visto raccogliere dal giovane Babek il soffio divino reso dal
moribondo; ed essi, avendo mestieri d'un capo, credean queste e

226
Ibn-el-Athîr, anni 159 e 161, MS. C, tomo IV, fog. 148 verso e 150 verso;
Abulfeda, op. cit., an. 163. Ma seguo la cronologia d'Ibn-el-Athîr.
227
Ibn-el-Athîr, an. 168, MS. A, tomo I, fog. 29 verso.
228
Ibn-el-Athîr, an. 170, MS. A, tomo I, fog. 39 verso.
229
Abulfeda, Annales Moslemici, an. 166.
230
Questo soprannome, al dire d'Ibn-el-Athîr, significa "L'Eterno." Il nome
patronimico era Ibn-Sahl.
231
Così nel Merâsid-el-Ittila'. I cronisti la scrivono con l'articolo. Dando alla
lettera dsal il valore di semplice d si pronunzierebbe Bedd, o El-Bedd.
tante altre favole. Babek seguì necessariamente i dommi della
trasmigrazion delle anime e della divinità dei ciurmadori
antecedenti; seguì le dottrine comuniste di Mazdak, trascorrendo
sino all'incesto; ma a quel vergognoso epicureismo aggiunse i
furori dei Khâregi, il dovere di far guerra, la licenza di
commettere guasti, rapine, omicidii sopra i seguaci d'altre
credenze. La loro fu chiamata dagli Arabi la religione del
libertinaggio, e ai settatori dieron anco il nome di Khorramii, o
diremmo noi gli Sfrenati. Traendo alle bandiere di Bâbek uomini
rotti ad ogni scelleratezza, costui per venti anni (816-836)
affrontò e sovente sconfisse gli eserciti abbassidi nelle regioni
settentrionali della Persia, ove si dice abbia fatto incredibili
carnificine. In ultimo, presagli la cittadella di Bedsds, inseguito,
raggiunto in Armenia, condotto a Bagdad, messo ad orribili
supplizii, li durò fino alla morte con fortezza da eroe232.
Non guari dopo cotesti estremi sforzi della schiatta persiana,
veggiamo cominciare il movimento con altre forme nella schiatta
arabica. Ne fu autore un Abd-Allah-ibn-Meimûn, detto il Kaddâh
ossia l'Oculista, della gente di Kuzeh233 presso Ahwâz nel
Kuzistân, uom di setta deisanita al par che il padre, come sopra
accennammo234. Meimûn avea promosso un novello ramo che
prese nome da lui. Il figlio salì in maggior fama, per arte
d'indovino e prestigii di fisica e destrezza di mano 235; imbeccando
alla gente che gli bastava l'animo di passare in un baleno da un
232
Confrontinsi: Kitâb-el-Fihrist, MS. di Parigi, tomo II, fog. 217 recto, seg.;
Ibn-el-Athîr, anni 201, 220, 221, MS. C, tomo IV, fog. 191 recto, 203 verso,
205 recto, seg.; Abulfeda, Annales Moslemici, anno 226.
233
Questo nome si trova nel solo Kitâb-el-Fihrist, nè son certo della lezione di
quel mediocrissimo manoscritto.
234
Così il Kitâb-el-Fihrist, che toglie ogni dubbio. Makrizi, credendo
patronimico il nome di Deisâni, scrisse Meimûn figlio di Deisân; e M. De Sacy
sospettò qualche errore nel noto Bardesane; ma nol chiarì. Veggasi la sua
Chrestomathie Arabe, tomo II, p. 88 e 94. Ho detto della setta deisanita a pag.
109.
235
Nel Kitâb-el-Fihrist si legge Sce'âbîds, che significherebbe "giochi di
mano" o di prestidigitation, come dicono i Francesi. Mi par che qui si debba
prendere in senso più generale.
capo all'altro del mondo; e s'indettò con astrologi e intriganti e
con qualche tardo discepolo di Babek e altri rottami delle sètte dei
magi236: che par leggere le memorie di Cagliostro a quel
congegno di scienze naturali, imposture d'ogni maniera e
cospirazioni; a quel sì lontano scopo politico, pazientemente
apparecchiato ai figli dei figli. Lo scopo di Abd-Allah sembra di
far ubbidire, se non a sè medesimo almeno a sua gente e a sue
dottrine, la schiatta vincitrice, invano combattuta con le armi
persiane da Mokanna e da Babek. Perciò volle impadronirsi della
fazione sciita, sì grossa e zelante e fin allora disordinata; volle
innestar su quel robusto ceppo gli ordinamenti misteriosi dei
Persiani; onde i capi della setta lo sarebbero stati anche di una
gran parte della società arabica, e avrebbero rivoltato lo impero e
mutato la dinastia. Tra gli Sciiti, come accennammo, si notavano
varii rami, ciascun dei quali tenea legittima una diversa linea di
imâm, o vogliam dire califi, del sangue di Ali; chi i successori di
Mohammed figliuolo di Ali e di Hanefia; chi quelli di Hasan e chi
di Hosein figli di Ali e di Fatima; e nella discendenza di Hosein si
correa d'accordo infino a Gia'far, detto il Verace (a. 765), ma
poscia altri riconoscea Musa, quarto figliuolo lui, altri i figli
d'Ismaele, secondogenito premorto a Gia'far: onde i partigiani di
cotesta linea furon chiamati Ismaeliani237. Costoro par non
avessero in pronto chi mettere in trono, poichè o spacciavan
vivente tuttavia Mohammed figlio d'Ismaele, o favoleggiavano in
236
I varii racconti che correano su la origine della setta ismaeliana si leggono,
più distintamente che altrove, nel Kitâb-el-Fihrist, MS. di Parigi, tomo II, fog.
5 verso a 9 verso, dove l'autore cita un trattato speciale sopra questa setta,
scritto per combatterla, da Abu-Abd-Allah-ibn-Zorâm (o Rizâm). Non ostante
la diversità delle tradizioni, date come dubbie nel Kitâb-el-Fihrist, mi par che
molto ben si connettano insieme e che si possa accettare il grosso di tutti que'
fatti. Si veggano altresì Makrizi, presso Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo II, p.
88; Sacy stesso, Exposé de la religion des Druses, tomo I, p. LXIII e LXX,
seg. - Makrizi sostiene, e M. de Sacy ripete con incredibile semplicità, che
Abd-Allah-ibn-Meimûn fabbricasse questa gran macchina, non ad altro fine
che di propagare l'ateismo e il libertinaggio!
237
Senza moltiplicare le citazioni mi riferirò al solo Sciarestani, op. cit., testo
arabico, p. 15, 16, 127.
sua stirpe una serie di imâm mestûr, o, diremmo noi, pontefici
nascosi, che il volgo non dovea saperne nè anco i nomi. Per la
comodità di tal mistero o per altra cagione che fosse, lo straniero
Ibn-Kaddâh elesse a suoi disegni questo ramo della fazione sciita.
Dalla Persia meridionale venuto a Bassora, Ibn-Kaddâh
comínciavi sue mene; scoperto indi e costretto a fuggire,
tramutasi in Selamîa presso Emesa; vi compera poderi, e,
infingendosi d'attendere all'agricoltura, va spacciando qua e là
dâ'î, o vogliam dire missionarii, un dei quali, nel distretto di Cufa,
indettava Hamdan-ibn-Asci'ath, soprannominato il Kirmit, uom di
schiatta arabica, che parve ottimo strumento ad Abd-Allah. Ma
l'Arabo, rubatagli l'arte, si fe' capo d'una setta novella che da lui si
addimandò dei Karmati, o meglio direbbesi Kirmiti238. Dopo venti
anni (899) levaron la testa in Bahrein, provincia d'Arabia, ove la
setta s'era agevolmente propagata tra fiera e libera gente, che
poco temeva il califato lontano. Negli ordini loro si scerne il
miscuglio delle superstizioni e dottrine persiane col genio
independente della schiatta arabica: da una mano la ipostasi dello
imâm, e novelle pratiche religiose, manichee anzi che
musulmane; dall'altra qualche eccesso di comunismo mazdakiano
e tutte le virtù e i vizii della democrazia kharegita. Sembrami
error manifesto degli eruditi di noverare i Karmati tra gli
Ismaeliani, coi quali non ebbero altra comunanza che le pratiche
condotte e poi spezzate tra il Kirmit e Ibn-Kaddâh; nè altra
somiglianza che di qualche forma e qualche mistero. Del
rimanente correano per due vie opposte e come a due poli del
mondo. Gli Ismaeliani, ritennero gli ordini di associazione segreta
quando non n'era mestieri, dopo la esaltazione cioè della dinastia
fatemita (910), e dopo la ribellione di Hasan-ibn-Sabbah ad
Alamût (1090); nè disdissero mai il nome maomettano; e s'abbian
238
Kitâb-el-Fihrist, volume citato, fog. 6 recto e verso. Il nome proprio
Hamdan è dato da Ibn-el-Athîr. La pronunzia di Kirmit è determinata da
Sefedi, Dizionario biografico, MS. di Parigi, Suppl. Ar., 706, articolo sopra
Soleiman-ibn-Hasan. Varie etimologie si danno di questo soprannome che al
dir del Kitâb-el-Fihrist si riferisce a un castello. Su i fatti si vegga anche
Makrizi, presso Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo II, p. 89.
promosso il dispotismo e la superstizione lo mostrano i lor
discepoli Drusi e Assassini. I Karmati al contrario, non contenti
di calpestare l'islamismo, si risero d'ogni domma e rito, e si
tediarono di star nelle tenebre dell'associazione occulta:
costituirono uno Stato libero e forse licenzioso; ebbero non
principe semideo, ma capo politico, non altrimenti chiamato che
Kabîr, ossia superiore; e talvolta, in luogo d'uno, ubbidirono a sei
magistrati con titolo di sâid che suona signori, come que' della
Mecca avanti Maometto e delle nostre repubbliche del medio
evo239. Ognun sa che i Karmati, per tutto il decimo secolo,
fieramente combatterono dall'Arabia fino all'Egitto il califato
abbassida e poi anco il fatemita; che sparsero fiumi di sangue; che
presero la Mecca, e portaron via la sacra pietra nera della Caaba,
per rivenderla a carissimo prezzo ai devoti Musulmani; e che da
lor venne, in parte, la rovina dello impero musulmano.
La società segreta degli Ismaeliani per una trentina d'anni lenta
camminò, sotto parecchi gran maestri della schiatta di Abd-Allah-
ibn-Kaddâh, succeduti l'uno all'altro fino a Sa'îd-ibn-Hosein (874-
883) il quale incalzò la propaganda in Persia, Arabia, Siria 240, e
par abbia compiuto l'ordinamento. Era stretta gerarchia: un dâ'î
supremo, o gran maestro che noi diremmo; sotto di lui altri dâ'î di
239
Ibn-el-Athîr, anno 278, MS. C, tomo IV, fog. 269 verso, dà un lungo
ragguaglio su la origine, dottrine e riti dei Karmati; del qual capitolo la parte
meno importante fu trascritta dal Nowairi e tradotta dal Sacy, vol. cit., p. 97.
Veggasi ancora il Sacy, pag. 126 di esso volume. Il mio giudizio, formato su la
tendenza diversa degli Ismaeliani e Karmati, si conferma coi particolari d'Ibn-
el-Athîr. Notò anche questa differenza il Taylor nell'opera, The history of
Mohammedism and its sects, p. 172, quantunque ei non abbia avuto alle mani
tutti i fatti da poterla provare. L'analogia dei Karmati con gli Ismaeliani era
stata sostenuta da M. De Sacy, Exposé de la religion des Druses, p. LXIII,
seg., e da M. De Hammer, Histoire de l'ordre des Assassins, p. 47, 48, su la
fede degli autori musulmani citati da loro. Il Baiân, che allor non si conoscea,
contiene a pag. 292, seg., del 1° volume, un racconto sugli Ismaeliani e
Karmati; ove si replicano con molti particolari i fatti già noti, e tra gli altri lo
scandalo della notte lor festiva detta della Imamîa, e il nome, troppo
significativo, di figliuoli della fraternità, dato ai fanciulli che nasceano da que'
baccanali.
240
Kitâb-el-Fihrist, MS. di Parigi, tomo II, fog. 6 verso.
provincia e altri di distretti, città, villaggi, che ciascuno eleggeva
il subordinato e non conosceva altri che costui e l'immediato
superiore. I dâ'î affiliavano. Una contribuzione forniva il danaro
ai bisogni della associazione de' capi; e quando gittavan la
maschera, teneano apparecchiata una fortezza, "Casa del Rifugio"
la chiamavano in lor gergo; e quando regnarono, apriron
adunanze pubbliche in una "Casa della Sapienza" ove il dâ'î
leggea sermoni su i misteri e la morale. Tanto si ritrae con
certezza storica. Sembra che abbiano avuto varii gradi
d'iniziazione; dicono nove, dal primo vestibolo ai penetrali di un
ultimo mistero, o piuttosto fin di mistero; cioè svelar che imami e
religione e morale, tutto fosse una burla. Il dâ'î cominciava a
tentare il neofito con dubbii sopra alcuni punti dell'islamismo; si
facea giurar segreto e ubbidienza; lo conducea successivamente
fino al grado di che gli parea capace: passando dalla
confermazione dei dommi e precetti dell'islamismo, alla eredità
dello imamato negli Alidi e nella linea d'Ismaele; alla dottrina
dell'imam nascoso, noto al dâ'î supremo; alla spiegazione
allegorica del Corano: e le allegorie si assottigliavano a mano a
mano, e in ultimo si dileguavano nella incredulità. Ma
quest'ultimo stadio parmi quello del Gran Maestro, il quale
spacciando di tenere in serbo un Messia non potea veramente
credere all'islamismo nè a religione che fosse al mondo. Gli altri
gradi d'iniziazione delineano esattamente la piramide che si volea
fabbricare: tutti i Musulmani alla base; sovrappostivi gli Sciiti; a
questi i partigiani d'Ismaele; ad essi i dottori in miti manichei; e
sul vertice la famiglia persiana d'Ibn-Kaddah241.
Sa'îd-ibn-Hosein, di questa gente, tenea la fila della gran trama
in Selamîa, quando Ibn-Hausceb, dâ'î del Iemen, pensò mandar
nell'Affrica Settentrionale chi dissodasse il terreno, come diceasi
nel gergo della setta. Lavoraronvi prima un Ibn-Sofiân, indi un
241
Su l'associazione ismaeliana si veggano Sacy, Esposé de la religion des
Druses, Introduzione; Quatremère, Mémoires historiques sur les Fatimites, nel
Journal Asiatique, agosto 1835, e le autorità musulmane citate da essi. Merita
molta attenzione il racconto di Makrizi, presso Sacy, Chrestomathie Arabe,
tomo II, p. 140, seg., su gli ordini della setta trionfante nel regno dei Fatemiti.
Holwâni; alla morte del quale, Ibn-Hausceb gli surrogò uomo di
maggior polso, che per antonomasia fu detto lo Sciita. Ebbe nome
Abu-Abd-Allah-Hosein-ibn-Ahmed, da Sana'a nel Iemen; ardente
partigiano degli Alidi; stato una volta Mohtesib, ossia magistrato
di polizia, degli Abbassidi presso Bagdad; audace, dotto e
pratichissimo d'ogni via coperta ed obbliqua. Con danari della
setta, costui si reca (893) dal Iemen alla Mecca, a far proseliti tra
gli Affricani che vi attirava il pellegrinaggio; e adòcchiavi, uno
sceikh della gente di Kotâma e l'onorevole brigata che lo seguiva.
Facendo le viste d'imbattersi per caso tra costoro, Abu-Abd-Allah
si insinua, li tenta e comincia a fare e ricever visite; e conosciutili
Ibaditi, setta kharegita, come dicemmo, a poco a poco si scopre
anch'egli nemico dei califi: aver lasciato il servigio loro perchè
nulla v'era di bene; voler vivere ormai spiegando il Corano ai
giovanetti; amerebbe a farlo in Occidente, ove non gli parean
disperate le sorti del popolo musulmano. Tra lusinghe e dotto
parlare e apparenza di pietà, austerità e liberi sentimenti, si
cattivò gli animi di quegli stranieri, sì bene che il pregavano di
accompagnarli in Affrica ed aprirvi scuola; ma non rispose nè sì
nè no, lasciandosi trarre, quasi contro voglia, alle capitali dello
Egitto e dell'Affrica; ove indagò profondamente le condizioni
delle tribù berbere; e Kotâma gli parve proprio il caso. Allor,
come vinto da' preghi dei Kotamii, accetta la ospitalità e gli oficii
di imâm d'una loro moschea e di pubblico professore; ma ricusa
lo stipendio; fa vedere ai più intrinsechi un gruppo di cinquemila
dinâr; accenna alla sorgente misteriosa e inesauribile di quell'oro;
alla sacra schiatta d'Ali; alle migliaia di migliaia che cospiravano
per essa in tutta musulmanità; ai premii maravigliosi che dovea
aspettarsi in questa vita e nell'altra chiunque aiutasse alla
esaltazione del pontefice nascoso. Le quali pratiche non
piacquero a tutti tra quella gente ibadita e però nimica
all'autocrazia di Ali; ma il maggior numero odiava mille volte più
Ibrahim-ibn-Ahmed vivo, che Ali sepolto da secoli; più la
dominazione straniera, che il dispotismo; e il giogo stesso del
dispotismo tanto lor parea duro a portarlo sul collo, quanto
comodo e piacevole a metterlo addosso altrui. Ebbe dunque gran
séguito Abu-Abd-Allah; gli proffersero avere e sangue; i misteri
quanto più assurdi, tanto più furibondo accendeano lo zelo; un
capo uccise di propria mano il fratello che andava gridando
impostore Abu-Abd-Allah. A capo di sette anni, correndo il
novecento dell'era volgare, costui cominciava a scoprirsi242 presso
Setif, nei monti detti di Ikgiân, sede d'una tribù della gente di
Kotâma243.
La gente di Kotâma tenea la più parte della odierna provincia
di Costantina: un quadrilatero da Bugia e Bona su la costiera, a
Belezma e Baghaia nella catena degli Aurès: territorio montuoso,
dove coltivato dalle tribù stanziali, dove abbandonato a pascolo e
corso dalle tribù nomadi della medesima gente. Si distinguea
questa dagli altri Berberi per non so che divario di tradizioni,
usanze, dialetto; tanto che gli eruditi vi trovarono appicco a
consanguineità con la schiatta arabica. Che che ne fosse, i
Kotamii non si affratellarono punto coi vincitori, nè lor ubbidiron
altrimenti che di nome, nè si piegarono a tributo, non che
smettere lor costumi aborigeni. Com'ogni altra nazione berbera, i
Kotamii par sian vissuti in rozza confederazione, vincolo di
schiatta più che di legge; il quale se non bastava a campar le tribù
loro dalla guerra civile nè dalla dominazione straniera, potea
stringerle insieme ad un tratto in brevi ma gagliardi sforzi. Allo
entrar del decimo secolo, fortissima era la nazione kotamia per
numero totale degli uomini o relativo degli armati; poichè la
tradizione esagerando portò che ne andassero trecentomila ad
assalire Kairewân; e da più certi ricordi sappiamo quanti eserciti
kotamii corsero in quel secolo fino all'Atlantico e oltre il Nilo
sotto le bandiere dei Fatemiti: nelle quali imprese la nazione
kotamia si dissanguò; si trovò menomata a quattromila uomini
verso la metà del duodecimo secolo; nel decimoquarto, qualche
242
Confrontinsi: Warrâk, cronista spagnuolo del X secolo, citato nel Baiân,
tomo I, p. 117-118; Makrizi, presso Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo II, p.
111, seg.
243
Su questo sito si consulti una nota di M. Cherbonneau, Journal Asiatique,
décembre 1852, p. 509.
tribù che ne rimanea soffriva il giogo di Tunis, e in oggi se n'è
dileguato il nome244. Non primeggiava per vero nella
confederazione la tribù stanziata a Ikgiân. Ma la mente di Abu-
Abd-Allah, l'accentramento e ardore della setta ismaeliana le
dettero tal vigore, da soggiogare qualche tribù rivale, tirarsi dietro
le altre, e unire la nazion kotamia, anzi una gran parte della
schiatta berbera, contro i vincitori Arabi. Ibrahim-ibn-Ahmed dal
suo canto aveva arato quel terreno più che i mistici agricoltori
ismaeliani; fin avea liberato la nazione kotamia del disagio che le
davano i bellicosi Arabi di Belezma.
Ed egli stesso gittò la prima scintilla. Risaputo dal governator
di Mila come l'oscuro professore d'Ikgiân osasse accusare d'eresia
Abu-Bekr e Omar, mandò ad ammonirlo di frenare la lingua; e, se
no, vedrebbe. Abu-Abd-Allah, invece di rispondere, si mostrò in
campo (901) con giusto esercito, con simboli non più visti, scritti
su le bandiere, nei suggelli delle lettere e nel marchio dei cavalli;
ordinò gli oficii d'amministrazione militare; afforzò la casa del
rifugio a Ikgiân; diè il motto di guerra "In sella, cavalieri di Dio;"
apertamente bandì la rivoluzione politica e religiosa. Così la
società ismaeliana, compiuti i lavori a suo bell'agio tra genti
guerriere e luoghi inaccessibili alla vigilanza dei governanti, uscia
dalle tenebre improvvisamente in sembianza di Stato antico che
facesse guerra, non di moltitudine tumultuante e confusa. Sbigottì
Ibrahim a quel terribil segno. Comprese che la viva forza da lui
sciupata si stoltamente, ormai non bastava contro la ribellione
sciita: pertanto si provò a suscitar la guerra civile tra i Kotamii; a
calmare gli altri popoli con le riforme; e si affrettò
all'abdicazione. Scendendo dal trono raccomandò al figliuolo che
non assalisse mai primo gli Sciiti, si difendesse, e abbandonato
dalla fortuna si ritraesse in Sicilia245.
244
Confrontinsi: Edrisi, Geografia, versione francese di M. Jaubert, tomo I, p.
246; Ibn-Khaldûn, Storia dei Berberi, versione francese di M. De Slane, tomo
I, p. 291; Cronica di Gotha, presso Nicholson, An account of the establishment
of the Fatemite Dynasty, p. 88.
245
Confrontinsi: Baiân, tomo I, p. 118; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et
de la Sicile, versione di M. Des Vergers, p. 145-147; Makrizi, presso Sacy,
CAPITOLO VI.

S'uom potea riparare alla rovina di casa aghlabita, quel desso


era Abd-Allah, successor del tiranno. Abd-Allah par modello
dell'ottimo principe musulmano del medio evo: prode della
persona, cavaliero e schermidore perfetto, savio capitano,
bell'ingegno, poeta, dialettico, erudito, rettorico, e, quel che
monta assai più, giusto, magnanimo, benigno, temperato
nell'esercizio del comando, osservatore d'ogni precetto di sua
religione. Preso lo Stato alla abdicazione del padre246, mandò
lettere circolari da leggersi al popolo adunato, per le quali
promettea zelo nella guerra sacra, e nel governo umanità,
giustizia, amor del ben pubblico. E che non scrivesse ciance di
principe nuovo provollo coi fatti, chiamando appo di sè un
consiglio di molti savii e dotti uomini (queste son le parole d'Ibn-
el-Athîr), che lo aiutavano a condurre gli affari secondo giustizia
e proponeano i provvedimenti richiesti dalle condizioni del
popolo. Come i predecessori, sedè egli stesso nel Tribunal dei
soprusi. Volle che i magistrati ordinarii rendessero ragione, senza
contemplazion di persone, contro oficiali, cortigiani, congiunti o
figli del principe e contro lui medesimo. Eletto il novello cadi dal
Kairewân, gli commise di reprimere severamente i soprusi dei
riscuotitori delle tasse e proteggere gli oppressi. Riformò al
tempo stesso la corte: vestitosi di lana come i primi califi;

Chrestomathie Arabe, tomo II, p. 113, seg.; Ibn-Hammâd, MS. di M.


Cherbonneau, fog. 1 verso.
246
Credo il 22 rebi' primo del 289 (5 marzo 902) più tosto che a mezzo giugno
del medesimo anno. L'una e l'altra data si legge nei medesimi autori: ma forse
non è errore, e la prima va intesa dello esercizio del potere supremo, la
seconda della solenne inaugurazione per la quale forse si aspettò il diploma del
califo abbassida. Veggansi le autorità citate qui sopra a p. 77, e Ibn-Abbâr,
MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 33 verso, che porta appunto la data
del 22 rebi' primo.
sgombrati que' nugoli di pretoriani; fuggito a precipizio dalle
insanguinate castella del padre, sì che soggiornò nei primi tempi
in una casuccia di mattoni, poi ne fece acconciare una più
spaziosa, comperate entrambe del proprio. Forte di sua virtù,
sdegnando i consigli tiberiani del padre, Abd-Allah mandava
contro gli Sciiti un esercito capitanato dal proprio figliuolo, altri
dice fratello, soprannominato Ahwâl. E già la vittoria seguiva gli
auspicii del principe guerriero; e la contentezza de' popoli
promettea che la ribellione, ristretta a una tribù, presto sarebbe
spenta.
Quando un vil parricida troncò ogni speranza degli Arabi
d'Affrica. Ziadet-Allah, figliuolo di Abd-Allah, rimaso a reggere
la Sicilia dopo la morte d'Ibrahim, s'era dato a vita sozza e
bestiale con vili cortigiani che lo stigavano contro il padre perchè
sentiansi soffocare da quella severa riforma. Risapendo tai
vergogne, Abd-Allah deponea d'oficio il figliuolo; chiamavalo a
Tunis; e, arrivato ch'ei fu del mese di maggio novecentotrè, come
a fanciullo discolo, gli tolse danaro e arredi e sì il chiuse in un
appartamento del palagio, messi in prigione a parte i suoi
cagnotti. Ma le mura non furon ostacolo a una congiura di corte
che si ordì, consapevole Ziadet-Allah. Il mercoledì ventisette di
luglio247, uscito Abd-Allah dal bagno e gittatosi a dormire in parte
solitaria del palagio sopra un sofà di stuoie, tre eunuchi schiavoni
ch'ei tenea molto fidati gli si appressano; un trae pian piano la
spada di sotto il capezzale; e d'un fendente tagliò netto e collo e
barba e intaccò la stuoia. Corre un altro alla prigione di Ziadet-
Allah; scala il muro; lo saluta re; gli fa pressa di mostrarsi alla
corte: ma quei temendo doppio tradimento, risponde che, se dice
il vero, gli rechi la testa del padre: onde l'eunuco andò e tornò e
gli gittò la testa d'in sul muro. Presala in mano, raffiguratala, il
parricida balzò di gioia; fe' spezzare le porte della prigione;

247
Il mercoledì ultimo, secondo Ibn-el-Athîr, e penultimo giorno, secondo il
Baiân, del mese di sciabân 290. Indi si vede che l'uno segue il calendario
astronomico, e l'altro il conto civile, di che si è fatta parola al cap. III del Libro
I, pag. 57, del 1° volume.
assembrare i grandi di casa aghlabita; i quali sospettando, o no, il
vero, per paura degli stanziali, o perchè la virtù di Abd-Allah lor
fosse stata anco molesta, giurarono fedeltà al successore. A
cancellar sue proprie vestigia, questi fece scannare immantinente
i tre sicarii, e appendere i cadaveri al patibolo.
Pria che si risapesse il misfatto, Ziadet-Allah scrivea col
suggello del padre ad Ahwâl di venir subito a Tunis; il quale
senza sospetto, lasciò lo esercito, e per via fu preso e morto.
Uccisi al paro da trenta, tra fratelli, zii e cugini del novello
tiranno, in un isolotto248 ove li mandò sotto colore di rilegazione;
dato lo scambio a' primarii magistrati; gratificati con largo
donativo gli oficiali pubblici. Del rimanente, non curando se lo
Stato andasse bene o male, Ziadet-Allah ripassava dal sangue nel
fango: regnava sette anni trescando con sicarii, giullari, beoni,
concubine e giovani svergognati; arrivava a far batter moneta col
nome del paggio Khattâb; e quando avea mala nuova della guerra
sciita, diceva al coppiere: "Mescimi; e anneghiamola in questa
tazza."249
Abu-Abd-Allah intanto conquistava l'Affrica. Nel regno
d'Ibrahim-ibn-Ahmed avea soggiogato qualche popolazione
agricola (901) e combattuto una tribù guerriera della nazione
stessa de' Kotâmii. Venuto alla prova contro gli eserciti aghlabiti
al tempo d'Abd-Allah, il ribelle or vinse or fu vinto; e n'avea la
248
Detto Geziret-el-Kerrâth, ossia "Isola dei Porri." Così fu chiamato dagli
Arabi un isolotto a Capo Passaro in Sicilia, che ritien oggi il nome voltato in
italiano. Ma credo qui si tratti della Geziret-el-Kerrâth in Affrica, a 12 miglia
da Tunis.
249
Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 172 recto, seg., an. 289, e
MS. C, tomo IV, fog. 279, stesso anno, e fog. 286 recto, seg., an. 296, e MS.
Bibars, an. 289, fog. 129 verso; Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di
Parigi, fog. 33 verso e 34 recto; Baiân, tomo I, p. 128, 138, 139; Nowairi,
Storia d'Affrica, in appendice alla Histoire des Berbères par Ibn-Khaldûn,
versione di M. de Slane, tomo I, p. 438 a 440; Ibn-Khaldûn, Histoire de
l'Afrique et de la Sicile, versione di M. Des Vergers, p. 146 a 149; Ibn-Abi-
Dinâr, testo MS., fog. 21 verso, e traduzione, p. 87; Ibn-Wuedrân, nella Revue
de l'Orient, décembre 1853, p. 429, seg.; Cronica di Gotha, versione di
Nicholson, p. 51, 74, 75.
peggio, quando Ziadet-Allah lo cavò di briga col parricidio e il
fratricidio (903). Poscia, tra le vicende della guerra, salì pur
sempre la parte sciita. Non solo tutta la gente kotamia, ma anco
altre popolazioni berbere seguiron volentieri un capo che
promettea la venuta del Messia e quanto prima soggiogati tutti i
popoli della Terra, e fatto spuntare il sole di Ponente; e dava pur
qualche arra de' prodigii. Arra la vittoria, il bottino, la propria
temperanza, austerità, abnegazione, l'abolizione del kharâg o
diciamo tributo territoriale, antichissimo sopruso degli Arabi
sopra i Berberi: e questo ribelle, entrato a Tobna, e recatogli il
danaro pubblico, rendeva il kharâg ai possessori musulmani;
aboliva le tasse non prescritte nel Corano o nella Sunna; e
bandiva ai popoli che ormai non avrebbero ad osservare altre
leggi che i sacri testi. All'incontro i sudditi fedeli pagavan troppo
caro le vergogne di Ziadet-Allah. Gli eserciti, accozzati di
stanziali e avanzi del giund, che è a dire di tormentatori e
tormentati, marciavano di pessima voglia; e talvolta
sbaragliavansi pria di venire alle mani, non ostante gli immensi
appresti d'armi e macchine da guerra; e quali capitani lor potea
dare tal principe? Entro pochi anni, Abu-Abd-Allah minacciò la
metropoli dell'Affrica (907). Il tiranno, provatosi a far grande
armamento e montare a cavallo egli stesso, tornò addietro
spaurito a Rakkâda, rifatta sede della corte aghlabita; afforzolla
con mura di mattoni e mota250; affidò l'esercito, troppo tardi, ad
un uom di guerra di sangue aghlabita, per nome Ibrahim-ibn-abi-
Aghlab; la cui virtù non valse che a ritardare la vittoria del
nemico. Di marzo novecento nove, Ziadet-Allah, all'avviso di
un'ultima sconfitta d'Ibrahim, tenendosi spacciato e tradito da
costui, dal primo ministro, dai soldati, dai cittadini, si deliberò a
fuggire incontanente. Dà voce di riportata vittoria; fa tagliar le
teste ai miseri che teneva in carcere e condurle a trionfo per le
strade di Kairewân, come se fossero dei nemici uccisi in battaglia;

250
Rendo così la voce arabica tâbia, donde lo spagnuolo tapia e credo anco il
siciliano taju. In quest'ultima voce la b par mutata dapprima, alla greca, in v, e
poscia dileguata nell'j.
e intanto a Rakkâda, ch'era discosta a quattro miglia, entro il
palagio si caricavano trenta cameli d'arredi preziosi, oro, gioielli;
mille Schiavoni della guardia erano messi in ordinanza, e dato
loro a portar mille dinar d'oro per cadauno; le mogli e le più
gradite concubine del tiranno montavano in lettiga. Al cader del
giorno ei con la corte cavalcò in fretta alla volta di Tripoli, per
passare indi in Egitto.
Risaputa la quale fuga, tutta Rakkâda sgombrò, ch'era
soggiorno di scrivani e servidori di corte: a lume di fiaccole tante
famigliuole, con loro robe preziose, correano per la campagna su
le orme del principe. Ma il popolaccio di Kairewân, invidioso e
turbolento, piombò la dimane sopra la città regia; per sei giorni
continui frugò le case cercando tesori sepolti, e portò via
masserizie; finchè comparve la vanguardia di Kotâma, che
ricacciollo alla capitale. Dove la schifosa anarchia della paura
avea consumato, in questo mezzo, quel po' di forza vitale che
rimaneva alla schiatta arabica. Ibrahim-ibn-abi-Aghlab, usando
un attimo di favor popolare, convocò i giuristi, i capi delle
famiglie nobili della città e i principali mercatanti; lor disse, che
se Ziadet-Allah se n'era fuggito, tanto meglio; poichè la mala
fortuna se ne andrebbe con quel poltrone; or si potrebbe far la
guerra; lo aiutassero di danari ed egli saprebbe rannodare
l'esercito, salvar l'onore e la dominazione degli Arabi: per Dio
non si dessero in mano di quelle frotte di vinti rivoltati, di barbari
settatori d'un eretico, calpestatori d'ogni legge. Ma i notabili
risposero, al solito, ferocemente a chi parlava di onore e di
pericoli; conchiusero che il danaro lor serviva a ricattare dalla
schiavitù sè stessi e le famiglie; e replicando Ibrahim che si
potean togliere i capitali dei lasciti pii, l'adunanza gridò
sacrilegio. Sdegnosamente uscì Ibrahim dalla sala; e in piazza
ebbe a soffrire gli insulti della plebe che ripeteva a modo suo gli
argomenti dei barbassori, e dava mano anco ai sassi: se non che
l'Aghlabita con uno stuol di cavalli si fe' largo caricando fino alle
porte della città. Audace, anzi temerario, andò a Tripoli, sperando
di scuotere Ziadet-Allah; e per poco non incontrò la sorte del
primo ministro; il quale s'era imbarcato per la Sicilia 251, ma i venti
lo spinsero a Tripoli, nelle mani del tiranno, ch'egli avea
confortato alla difesa, e or n'ebbe in merito la morte. Ziadet-
Allah, chiesta licenza dal califo abbassida, soggiornò or in Egitto
or in Siria, sperando sempre che il califo riconquistasse l'Affrica
per lui; e mentre aspettava, rubato dai proprii servitori, ammonito
per sue infami dissolutezze dai magistrati, vilipeso da' governanti,
impoverito, invecchiato in pochissimi anni, morì (916) di malattia
o di veleno252. Così cadde dopo un secolo la dinastia d'Aghlab.
Finì con vergogna non minore la dominazione degli Arabi in
Affrica. La municipalità di Kairewân, sbrigatasi da quella molesta
virtù d'Ibrahim-ibn-abi-Aghlab, mandava in fretta oratori allo
Sciita poc'anzi scomunicato con tanta rabbia dai giuristi; il quale
era entrato a Rakkâda (26 marzo 909) con sue miriadi di Berberi.
Il vincitore accordò l'amân, distogliendo a gran fatica i capi di
tribù di Kotâma dal promesso saccheggio di Kairewân. Nè
solamente assicurò vita e sostanze al popolo della capitale, e a
quanti altri si sottomettessero, ma anco alla parentela degli
Aghlabiti e ai condottieri del giund. Prepose agli oficii pubblici
molti capi kotamii e qualche giureconsulto arabo sciita; rinnovò i
simboli della moneta, bandiere, atti pubblici, senza porvi nome di
principe; mutò due parole nell'idsân, o diremmo appello alla
preghiera253; del rimanente non molestò gli ortodossi; nè sparse
altro sangue, che degli schiavi negri soldati di casa d'Aghlab.
D'ogni parte dell'Affrica propria, gli Arabi sottometteansi ad uom
sì civile che tenea in pugno trecentomila barbari. Non che i

251
Nell'originale "Sicicilia". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
252
Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, MS. C, tomo IV, fog. 286 recto, seg., an. 296;
Ibn-Khallikân, Wefiât-el-'Aiân, versione inglese di M. De Slane, tomo I, p.
465; Baiân, tomo I, p. 133 a 147, e Cronica di Gotha, presso Nicholson, p. 83
a 91; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione di M. Des
Vergers, p. 150 a 156; Nowairi, Storia d'Affrica, in appendice alla Histoire des
Berbères par Ibn-Khaldoun, versione di M. De Slane, tomo I, p. 441 a 447;
Makrizi, presso Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo I, p. 113 a 115.
253
Secondo i Sunniti era: "Venite alla preghiera ch'è migliore del sonno." Gli
Sciiti corressero: "Venite alla preghiera ch'è l'opera migliore."
cittadini, piegavan la fronte i nobili del giund; non sentendosi
forza di salvar sè stessi e i figliuoli dalla schiavitù 254; onde
credeano uscirne a buon patto se non perdean altro che la
dominazione. E al solito avvenne che il giogo si aggravò quando
l'ebbero assestato sul collo.
Perchè lo Sciita tra non guari risegnava il comando. Sembra
che tanti anni innanzi, i capi kotamii iniziati a Ikgiân non
avessero voluto mettere a rischio vita e sostanze senza sapere per
chi; onde lo Sciita lor additava il custode del gran segreto in
Selamia di Siria. Andativi i messaggi di Kotâma, trovarono Sa'îd-
ibn-Hosein; il quale, richiesto di svelare il pontefice, rispose "son
io," aggiugnendo chiamarsi, per vero Obeid-Allah; e infilzava una
genealogia fino ad Ismaele, e da questi ad Ali e Fatima, figliuola
del Profeta. Indi l'appellazione di Fatemita che usurpò questa
dinastia persiana, detta altrimenti Obeidita, dal nome del primo
monarca. In sul trono non le mancaron poi dottori che provassero
genuina la parentela con Ali; mentre i dottori di parte abbassida la
negavano con pari asseveranza: gli argomenti pro e contro
rimasero per mantener viva la lite, tra gli eruditi musulmani più
moderni; e fin oggi dotti europei han creduto alla legittimità dei
Fatemiti255. Ma Abu-Abd-Allah lo Sciita, vero fondator del
califato d'Affrica, non mi par complice di quell'albero
genealogico falsato per tiro del Gran Maestro.

254
Confrontinsi: Baiân, tomo I, p. 137, 141 a 149, e Cronica di Gotha,
versione di Nicholson, p. 64, 92, 96, seg.; Makrizi, presso Sacy, Crestomathie
Arabe, tomo II, p; 115; Sacy, Exposé de la religion des Druses, tomo, I, p.
CCLXX , seg.
255
Veggansi le autorità citate da M. Sacy, Exposé de la religion des Druses,
tomo I, p. CCXLVII, seg., e Chrestomathie Arabe, tomo II, p. 88 a 92 e 95; e da
M. Quatremère, Journal Asiatique, août 1836, p. 99, seg., il primo dei quali
sostiene e l'altro confuta le pretensioni dei Fatemiti. Si aggiungano: Kitâb-el-
Fihrist, MS. di Parigi, tomo II, fol. 6 verso; Baiân, tomo I, p. 292, seg.; Ibn-
Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 37 verso. Non cadendo in
dubbio che Sa'îd, o vogliam dire Obeid-Allah, discendesse da El-Kaddâh, i
partigiani dei Fatemiti dovean provare la parentela di El-Kaddâh con Ali; ma
niuno l'ha fatto.
Trapelando intanto il segreto, e sendo venuto Obeid-Allah in
sospetto ai luogotenenti del califo in Siria, per quei misteriosi
andamenti e visite di stranieri, fuggissi in Egitto col giovanetto
Abu-l-Kasem, che dovea far la parte di Alida, s'ei nol potesse 256.
Apparve in questa fuga, mirabile effetto dell'affiliazione
ismaeliana: quegli occhi d'Argo che spiavan sopra le spie del
governo; quelle mani pronte e fedeli per ogni luogo; e la verga
dell'oro che veniva a sciogliere tutti i nodi. Accortosi Obeid-Allah
che gli Abbassidi lo cercassero in Egitto, lor tolse la traccia,
passando a Tripoli d'Affrica e di lì a Segelmessa, città su le falde
meridionali del Grande Atlante, in oggi decaduta e soggetta a
Marocco, allora capitale del principato dei Beni-Midrâr, berberi,
eretici di setta Sifrita e independenti degli Aghlabiti. S'appresentò
come ricco mercatante che bramasse far soggiorno nel paese;
entrò in grazia del regolo, per nome Eliseo; e si tenea sicuro,
quando Ziadet-Allah diè avviso a quei di Segelmessa che il capo
di cotesta setta sterminatrice dell'Affrica si ascondesse appo di
lui. Perciò caddero i sospetti sul mercatante straniero; e fu
sostenuto, interrogato, confrontato col figlio e coi famigliari e
costoro torturati a frustate; ma tutti negavano e parlavano a un
modo. Eliseo non s'appose al vero, finchè lo Sciita, trionfante a
Rakkâda, non gli domandava con lusinghe e promesse, la
liberazione d'Obeid-Allah. Ricusò; gittò le lettere in faccia agli
ambasciatori; e li fe' mettere a morte. Lo Sciita, dicon le croniche,
tremando per Obeid-Allah, dissimulava l'insulto; tornava a
pregare; e di nuovo gli furono uccisi i messaggi. Allor con gran
furore mosse di Rakkâda (maggio 909) sopra Segelmessa.
E forse in suo segreto il men che bramasse era di liberare
Obeid-Allah. Fin dai principii della ribellione d'Affrica, lo Sciita,
per lealtà alla verace schiatta d'Ali o ambizione propria, par si
fosse studiato a tener lungi dallo esercito l'impostore di Selamîa.
Ma nol potea disdire apertamente, avendo amici e nemici tra i

256
Questo aneddoto è narrato nel Kitâb-el-Fihrist, MS. di Parigi, tomo II, fol. 7
recto, dove Abu-l-Kasem non è detto figliuolo d'Obeid-Allah, come questi lo
spacciò e come scrivono tutti gli altri cronisti.
capi di Kotâma, padroni dell'esercito, abboccatisi con Obeid-
Allah in Oriente, entrati in quell'orditura di spionaggio, menzogne
e superstizioni, nella quale era avvolto lo stesso Sciita, e le fila,
maestre teneale in mano Obeid-Allah. Con ciò le moltitudini
cominciavano a ripetere il nome del pontefice nascoso; a saperlo
in pericolo; nè forza umana le avrebbe ritenuto. Lo Sciita, non
osando dunque spezzare l'idolo fabbricato con le proprie mani, gli
si prostrò il primo; differì i disegni; sperò che i meriti avrebbero
cancellato le offese; che il novello principe non avrebbe potuto
far senza di lui: e quando s'accorse dell'errore, mormorò, cospirò,
e fu spento.
Ed ora cavalcando alla testa dell'esercito vittorioso, vedea le
altre nazioni berbere sottomettersi di queto o sgombrargli il
passo; giugnea a Segelmessa; rompea le genti d'Eliseo, uscite a
combatterlo; ed occupava la città. Ansiosamente corre alla
prigione di Obeid-Allah, coi capi kotamii; i quali, a vederlo salvo,
proruppero in lagrime di gioia. Lo condussero al campo (20
agosto 909) con riverenza che puzzava d'adorazione: Obeid-Allah
e il figliuolo soli à cavallo, ogni altro a piè; e primo lo Sciita, che
andava gridando "Ecco il mio e il vostro Signore!" Si rinnovò tal
rito a Rakkâda (gennaio 910), quand'ei fe' la entrata trionfale
coll'esercito; uscitogli all'incontro il popolo di Kairewân co' soliti
plausi; nè mancarono poeti che lo rassomigliassero alla divinità.
Prese titolo di Comandator dei credenti e soprannome di Mehdi,
ch'è a dire "Guidato da Dio;" e così fu ricordato ogni venerdì
nella khotba. Oltre lo stato di Segelmessa, lo Sciita gli avea
conquistato poc'anzi quel di Taiort, independente dagli Aghlabiti:
onde l'impero Fatemita fin dal principio si estese a tutta l'Affrica
settentrionale, eccetto le estreme province di ponente, tenute dagli
Edrisiti257.
257
Confrontinsi: Tahîa-ibn-Sa'îd, Continuazione degli Annali d'Eutichio, MS.
di Parigi, Ancien Fonds, 131 A, fog. 87 verso, seg.; Kitâb-el-Fihrist, MS. di
Parigi, tomo II, fog. 6 verso, seg.; Ibn-el-Athîr, an. 296, MS. A, tomo II, fog.
197 verso, e MS. C, tomo IV, fog. 290; Baiân, tomo I, pag. 149, seg.; Cronica
di Gotha, versione di Nicholson, p. 100, seg.; Makrizi, presso Sacy,
Chrestomathie Arabe, tomo II, p. 114, 115. Traggo la data del 20 agosto 909
Fornite le cerimonie, il Mehdi diè opera a fabbricar le
fondamenta del nuovo impero. Alla tolleranza religiosa d'Abu-
Abd-Allah era già succeduto il fanatismo del fratello preposto
all'Affrica propria durante la guerra di Segelmessa; il quale
perseguitò molti ortodossi. Ed or il Mehdi faceva osservare più
rigorosamente le pratiche sciite nei punti di disciplina
ecclesiastica o diritto civile in che differivano dalle sunnite: le
parole mutate nell'appello; un digiuno sostituito a una preghiera;
maledire i compagni del Profeta fuorchè Ali; permettere altre
forme di divorzio; dar più larga parte alle figliuole nei retaggi; e
somiglianti novazioni, qual ridicola e qual seria, odiosissime tutte
agli Arabi d'Affrica258. Con peggior consiglio ei tentò d'incorporar
lo Stato alla setta. Ai capi berberi di Kotâma richiese il
giuramento di fedeltà "per la Verità di chi intenda i misteri:" al
qual gergo ismaeliano erano avvezzi, e passò. Ma la schiatta
arabica vide con orrore seder pro tribunali a Rakkâda una mano di
dâ'î preseduti dallo Scerif, più alto dignitario, i quali, chiamavano
i cittadini per affiliarli alla setta con lusinghe, poi con minacce; e
mandavano in carcere i ricusanti; e quattromila ne furono uccisi,
per comando del principe o brutalità dei satelliti kotamii.
Contuttociò i proseliti arabi si contarono a dito. Il Mehdi,
necessitato alfine a smetter la violenza, riempì le logge
ismaeliane come potea259. Fallì lo scopo d'imbeccare alle
moltitudini quella sua ipostasi, onde avrebbe regnato con doppio
comando, di re e d'Iddio. Trapiantata poi la sede in Egitto, i
successori rincalzarono la propaganda: il più pazzo, il più
codardo, il più crudele tra i Fatemiti, l'empio Hakem-biamr-illah,
arrivò per tal modo agli onori divini; e i Drusi l'adoran tuttavia.

da Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 38 recto.


258
Confrontinsi: Riâdh-en-nofûs, MS. di Parigi, fog. 67 verso; Ibn-el-Athîr,
MS. A, tomo II, fog. 197 verso, seg.; MS. C, tomo IV, fog. 290, seg., an. 296;
Baiân, tomo I, p. 158, 159; Makrizi, Mokaffa', MS. di Parigi, Ancien Fonds,
675, fog. 222 recto; Ibn-Hammâd, MS. di M. Cherbonneau, fog. 3 recto.
259
Confrontinsi Ibn-el-Athîr e Makrizi, ll. cc. Veggasi anche nel Riâdh-en-
nofûs, fog. penultimo, verso, un curioso aneddoto che si narra nella iniziazione
d'Ibn-Ghâzi.
Ma il Mehdi260, non potendo soggiogar le coscienze, assestò
ogni altra cosa da uom di Stato. Prodigò facoltadi, carezze, oficii
militari e civili ai Kotamii più che non avesse fatto lo Sciita; e pur
non si abbandonò tutto alle milizie loro, ordinò un esercito
stanziale di liberti e schiavi, parte di schiatta greca e italiana 261, e
parte negri. Pose diligenza e regola nell'amministrazione delle
entrate pubbliche; onde fe' sentir meno il peso ed ebbe abilità di
aggravarlo senza romore262. S'impossessò non solo dei beni degli
Aghlabiti263, ma sì dei lasciti pii e dei patrimonii pubblici d'alcune
città264; tolse le armi serbate nelle torri della costiera; abbattè i
palagi fortificati degli Aghlabiti; cancellò per le castella e
moschee i nomi dei principi fondatori, e scolpivvi il suo265. Oltre
le novazioni che accentravano l'autorità, il Mehdi come i
predecessori sedette nel Tribunal dei soprusi, e trattò dassè le
faccende pubbliche266.
Varie tribù e città berbere levaron la testa; ed ei le domò con
milizie di Kotâma capitanate dallo Sciita. Poi risapendo che
questi sparlava, che capi kotamii gli davan orecchio, e che si
mettea in forse se stesse in sul trono il verace imâm guidato da
Dio, un giorno convita Abu-Abd-Allah e il fratello; li fa
appostare all'uscita e trucidare; con ippocrita pietà recita egli

260
Nell'originale "Medhi". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
261
Iahîa-ibn-Sa'îd, continuatore di Eutichio, scrive Rûm, il qual nome si dava
ad ambe le schiatte e comprendea perciò i Siciliani. La più parte probabilmente
erano cristiani di Sicilia, convertiti o no. Uscì da questi giannizzeri fatemiti
Giawher conquistatore del Marocco e dell'Egitto, ch'è chiamato ora Rûmi ed or
Sikîlli, ossia siciliano.
262
Si legge nel Baiân, tomo I, p. 175 e 184, che il Mehdi nel 303 (915-16) fece
il catasto dei poderi tributarii (dhi'â) prendendo la media tra il massimo e il
minimo fruttato; e che nel 305 (917-18) levò una tassa addizionale sotto
pretesto di arretrati. La sottile avarizia della finanza fatemita si ritrae da tante
altre fonti.
263
Iahîa-ibn-Sa'îd, fog. 89 recto.
264
Riâdh-en-nofûs, fog. 67 verso. Il testo dice: «Prese i beni de' lasciti pii e
delle fortezze.» Quest'ultima voce significa senza dubbio le città di provincia.
265
Riâdh-en-nofûs, l. c.; Ibn-Hammâd, MS. di M. Cherbonneau, fog. 2 recto.
266
Iahîa-ibn-Sa'îd, l. c
stesso la preghiera su i cadaveri (febbraio 911); e quetamente li
seppellisce nel giardin della reggia. Spense gli altri capi di
Kotâma disaffetti. Ad un che gli domandava miracoli in prova di
sua divinità, fe' di presente troncar la testa 267. Un altro Kotamio
spacciò sentirsi addosso lo spirito divino; nol provò con la
vittoria; e fu preso e mandato al supplizio268.
Non cessavano con tutto ciò i tumulti del popolo di Kairewân
e d'altre città arabiche, la pertinace nimistà dei giureconsulti e
nobili, la petulanza degli sgherri kotamii, le ribellioni d'altre genti
berbere; tra le quali quella esaltazione del nome d'Ali provocò
novello furore delle sètte kharegite, e ne sorgeva, a capo di
parecchi anni, un terribile demagogo del ramo detto de' Nakkariti.
Il Mehdi dunque, non potendo fondarsi sopra alcuna schiatta nè
vasta opinione, ma sol su quella sua macchina di governo, dovea
metterla in salvo da un impeto degli elementi ostili, con maggior
cura che non avessero fatto gli Aghlabiti; nè parvegli acconcia
Rakkâda, sì vicina a Kairewân; nè altra città di Arabi. Con alto
consiglio volle porsi in sul mare, ove l'armata gli servisse a difesa
ed a minaccia sopra stranieri e Affricani e Siciliani impazienti del
giogo; ed ove il commercio creasse ricchezze e nuova
popolazione. Percorsa tutta la costiera a levante di Cartagine,
elesse una penisoletta ch'esce tra i golfi di Hammamet e di Kabes,
in forma di palma di mano aperta, e l'istmo raffigura il polso. Le
diè nome di Mehdîa, ma fu detta anco Affrica, come capitale.
Ampliò con maravigliose opere il porto, da renderlo capace,
dicon, di settecento galee; costruì arsenale, castelli, torri, porte di
ferro massiccio di mole non più vista, fosse di grano, cisterne
d'acqua; soprantese in persona ai lavori; sciolse problemi
meccanici269; trovò in sua astrologia il giorno e l'ora di gettar la
prima pietra, spuntando in cielo il Lione; profferì facili profezie;
267
Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, an. 296, MS. A, tomo II, fog. 198 verso, e MS.
C, tomo IV, fog. 290 verso; Ibn-Khallikân, nella vita di Abu-Abd-Allah lo
Sciita, versione inglese di M. De Slane, tomo I, p. 465; Baiân, tomo I, p. 158,
seg.; Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 38 recto; Ibn-
Hammâd, MS. de M. Cherbonneau, fog. 2 recto e verso.
268
Iahîa-ibn-Sa'îd, fog. 89 verso.
usò la scienza e impostura dei suoi veri antenati persiani, che per
esser nuova parea tanto più miracolosa in Occidente. Ed a capo di
cinque anni (920), quando vide fornita la inespugnabile capitale,
sclamò: "Or sì regneranno i Fatemiti270."

CAPITOLO VII.

La colonia siciliana, dissanguata nella guerra civile del


novecento, stette cheta o quasi, per nove anni; nel qual tempo la
ressero quattro emiri: Ziadet-Allah (902-903); Mohammed-ibn-
Siracusi, surrogatogli dal padre (maggio 903)271; e, dopo il
parricidio, Ali-ibn-Mohammed-ibn-Abi-Fewâres; e Ahmed-ibn-
abi-Hosein-ibn-Ribbâh, di nobil casa modharita, stanziata in
Sicilia da una sessantina d'anni, illustre per valorosi capitani e
governatori. Ali, al dir d'una cronica, fu deposto da Ziadet-
Allah272: probabil è che lo avesse eletto il popolo di Palermo,
quando vide insanguinato il trono dal parricidio, e ne sperò uno
scompiglio che gli desse agio a ripigliare suoi dritti.
Non prima si riseppe in Palermo la fuga di Ziadet-Allah, che il
popolo, stigato dal medesimo Ali, sollevossi all'entrar d'aprile del

269
Non si trovava modo di pesar coteste masse di ferro. Egli usò una barca da
bilancia idrostatica, caricandovi le porte e segnando ove arrivasse il pel
dell'acqua. Alle porte fu sostituita poi tanta zavorra; e questa si pesò coi modi
ordinarii.
270
Confrontinsi: Bekri, versione di M. Quatremère nelle Notices et Extraits de
MSS., tomo XII, p. 479, seg.; Iahîa-ibn-Sa'îd, Continuazione d'Eutichio, MS. di
Parigi, Ancien Fonds, 131 A, fog. 89 verso; Ibn-el-Athîr, an. 303, presso
Tornberg, Annales Regum Mauritaniæ, tomo II, p. 373; Ibn-Abbâr, MS. della
Società Asiatica di Parigi, fog. 38 recto.
271
Ibn-el-Athîr, an. 289, MS. A, tomo II, fog. 172 recto; MS. C, tomo IV, fog.
279 recto; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 146; Nowairi,
presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 11.
272
Nowairi, l. c. I fasti della famiglia Ribbâh si veggano nel Vol. I della
presente istoria, p. 321, 322, 330, 343, 353, principiando da Ia'kûb-ibn-Fezara,
padre di Ribbâh.
novecentonove: irruppe in palagio, saccheggiò la roba, prese
Ahmed, ed esaltò in suo luogo Ali273. Poscia venuti avvisi della
occupazione di Rakkâda, i Palermitani mandavano Ahmed
prigione in Affrica, e chiedeano allo Sciita la confermazione di
Ali. Concedettela; raccomandò con questo di ripigliar la guerra
sacra, smessa sotto il regno di Ziadet-Allah274; nel qual tempo i
Cristiani erano tornati ad afforzarsi in loro rôcche del Valdemone,
per incuria di chi reggea le cose in Sicilia o forse per trattato con
l'impero bizantino275. Del resto non seguì evento d'importanza
fino alla esaltazione del Mehdi. Nè altrimenti si ricorda il nome di
Sicilia che nella persecuzione di Abu-l-Kâsim-Tirazi, cadi di
Palermo sotto gli Aghlabiti; cacciato probabilmente con Ahmed e
vergheggiato in piazza pubblica di Kairewân, insieme col dotto
cadi di Tripoli, entrambi rei di costanza nel rito ortodosso276.
Ove si consideri l'esser della Sicilia in questo interregno, si
vedrà la rivoluzione del novecento d'un subito tornata a galla,
quando mancò con gli Aghlabiti la man che l'avea represso. Oltre
le forze proprie ristorate in un decennio, la colonia rinvigorì,
com'ei sembra, di nobili arabi che per avventura si fossero
rifuggiti d'Affrica nel primo terrore277 o nelle persecuzioni sempre
crescenti; la lealtà dei quali a casa d'Aghlab ormai s'accordava
con gli umori d'independenza siciliana. Ma avendo al fianco
quella piaga dei Berberi di Girgenti, l'aristocrazia palermitana,
titubante a ripigliare le armi contro l'Affrica, contentavasi di tener
lo stato con l'antico espediente d'un emiro tutto suo. Ali sembra,
in fatti, il caporione della nobiltà; sì ch'essa fece come volle
273
Confrontinsi: Nowairi, l. c., e Chronicon Cantabrigiense, p. 44, dove si
legga Ibn-Ribbâh, in luogo di Ibn-Ziagi.
274
Nowairi, l. c.
275
Si legge nella Cronica di Gotha, versione del Nicholson, p. 79, che nel 294
(906-7) Ziadet-Allah mandò ambasciatori a Costantinopoli ed accolse
onorevolmente a Rakkâda un oratore bizantino.
276
Riâdh-en-nofûs, manoscritto di Parigi, fog. 67 verso.
277
Abd-Allah-ibn-Sâigh, ultimo vizir di Ziadet-Allah, s'era imbarcato per la
Sicilia quando il principe prese la fuga. Veggasi Nowairi, Storia d'Affrica, in
appendice alla Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, versione di M. De
Slane, tomo I, p. 444. Certamente Ibn-Sâigh non fu il solo a tentar questa via.
nell'interregno. Sperando poi di raggirare il Mehdi ed appagarlo
con ubbidienza nominale, Ali chiesegli di andare a Rakkâda per
abboccarsi con lui; e il Mehdi tutto lieto assentì. Avutolo in
Affrica, lo fa imprigionare; manda a regger l'isola un uom suo,
provato in missioni così fatte, Hasan-ibn-Ahmed-ibn-Ali-ibn-
Koleïb, soprannominato Ibn-abi-Khinzîr, ch'era stato prefetto di
polizia di Kairewân sotto lo Sciita278.
Gli intendimenti del principe e le condizioni della colonia
appariscono da' primi atti d'Ibn-abi-Khinzîr. Sbarcato a Mazara il
dieci dsu-l-higgia del dugento novantasette (20 agosto 910),
deputava un suo fratello per nome Ali279 governatore a Girgenti;
del quale oficio non v'ha ricordo sotto gli Aghlabiti, e pare
trovato del Mehdi per lusingare i Berberi e attizzare la discordia
tra loro e gli Arabi. Al medesimo tempo fece cadi di Sicilia un
Ishâk-ibn-Minhâl; il primo, aggiungono gli annali, che vi sedesse
a nome del Mehdi280: e ciò mostra che per più d'un anno s'era
amministrata la giustizia secondo il dritto sunnita e da un eletto
dell'emiro. Ibn-abi-Khinzîr prepose alla azienda uomini nuovi, i
278
I fatti esteriori si ritraggono riscontrando Ibn-el-Athîr e Nowairi, ll. cc.;
Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p.
158, 159; Abulfeda, Annales Moslemici, an. 296, presso Di Gregorio, p. 78;
Scehab-ed-dîn, ibid., p. 59.
Il nome compiuto di Ibn-abi-Khinzîr si legge nel Baiân, tomo I, p. 148; al par
che l'oficio di wâli, conferito dallo Sciita, a lui nella città di Kairewân e ad un
altro fratello per nome Khalf nel Castel-vecchio. Ibn-Khaldûn, l. c., afferma
che Ibn-abi-Khinzîr fosse stato dei notabili della tribù di Kotama. Lo credo,
piuttosto dei principali della setta, ma di schiatta arabica. L'Haftariri che si
legge tra i nomi di questo governatore di Sicilia nella versione latina di
Abulfeda, è falsa lezione di Abi-Khinzîr. Questo soprannome poi del padre,
suona in lingua nostra "Quel dal cinghiale."
È bene avvertire che il Rampoldi, Annali Musulmani, an. 909, tomo V, p. 119,
123; sognò un viaggio del Mehdi in Sicilia e parecchi aneddoti della
sollevazione di Palermo contro Ahmed-ibn-abi-Hosein-ibn-Ribbâh; i quali non
sembrano errori di compilatori arabi ch'egli avesse avuto per le mani, ma
particolari aggiunti del proprio al Nowairi e agli annali chiamati di Scehab-ed-
dîn.
279
Il nome di costui si legge nel Baiân, tomo I, p. 129.
280
Ibn-el-Athîr e Ibn-Khaldûn, ll. cc.
quali furono accusati di aggravii; o forse v'istituì nuovi oficii,
secondo i voleri del principe281. Il "Preposto della Quinta" di cui
si fa ricordo poco appresso, sembra nuovo; e di certo fu posto a
scemar l'autorità dell'emiro, sia che avesse carico di spartire il
bottino e le terre prese ai vinti e serbarne la quinta all'erario, sia
che anco amministrasse il ritratto della quinta282. La primavera o
state seguente (911) l'emiro, sostando alquanto da' negozi fiscali,
conduceva l'esercito sopra Demona, ove i Cristiani avean levato
la testa: ed arse il contado, predò, fece prigioni; ma non osò
assalire la rôcca283. La qual debole fazione scopre i travagli che
aveano in casa i Musulmani di Sicilia e l'agitamento generale
della schiatta arabica contro i Fatemiti, il quale scoppiava ad ora
nelle città d'Affrica284.
Tra così fatte disposizioni d'animi, Ibn-abi-Khinzîr volle dare
un banchetto ai primarii nobili nel palagio di Palermo. I convitati
sedeano nella sala, quando alcun s'addiè, o il finse285, d'una
sinistra commozione tra gli schiavi dell'emiro; d'un luccicar di
spade che si porgessero l'un l'altro; e balzando in piedi sclamò:
"Siam traditi;" e tutti corsero alle finestre a gridare: "All'armi;
all'armi!" Fresca era la memoria dello Sciita, trucidato insiem col
fratello alle soglie del Mehdi286; Ibn-abi-Khinzîr non pareva uom
da scrupoli; l'universale degli Arabi di quel secolo ridea, certo,
come di romanzo della ospitalità cavalleresca de' lor padri
Beduini: tra tanti vizii, tra tanti odii, credibilissimo il tradimento,
e assai volentieri creduto. D'un subito, dunque, trasse il popolo in
piazza; s'affollò dinanzi il palagio; trovate chiuse le porte,

281
Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 12.
282
Idem, p. 13, e Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, p. 44.
283
Ibn-el-Athîr e ibn-Khaldûn, ll. cc.
284
Baiân, tomo I, p. 158 a 172.
285
Il solo cronista che racconti questo episodio adopera qui una voce che può
significare: "suppose o diede a credere."
286
Al dir dei cronisti, più degni di fede, lo Sciita fu assassinato di febbraio 911.
Il tumulto di Palermo accadde nella state seguente o più tardi; poichè Ibn-abi-
Khinzîr, venuto d'agosto 910, andò all'impresa di Demona nella primavera o
nella state del 911.
v'appiccò fuoco; nè si racchetò quando usciron sani e salvi i
convitati, i quali al certo non dissero che avean sognato. Ibn-abi-
Kinzîr, fattosi ad arringare il popolo, perdeva indarno il fiato; gli
troncavan le parole con minacce e villanie; finchè vistili in punto
d'irrompere nelle sue stanze, cercò scampo saltando in una casa
contigua, ma cadde, si spezzò una gamba, e fu preso e messo in
carcere. Per tal modo fallì il tradimento dell'emiro o riuscì la
calunnia dei nobili: ch'io nol so. I nobili scriveano il caso al
Mehdi; il quale perdonava ai sollevati e deponea d'oficio Ibn-abi-
Khinzîr, bastandogli che fosse posato il tumulto in Palermo e
preso il governo provvisionalmente da Khalîl, Preposto della
Quinta287. Seguiron cotesti avvenimenti innanzi il ventisette dsu-l-
higgia del dugentonovantanove (13 agosto 912), quando giunse in
Sicilia, mandato dal Mehdi, un novello emiro per nome Ali-ibn-
Omar-Bellewi288.
Vivea di questo tempo in Sicilia un Ahmed-ibn-Ziadet-Allah-
ibn-Korhob289; uom d'alto affare, di molta ricchezza, di nobil casa
arabica devota agli Aghlabiti; che dei suoi maggiori, un fu primo
ministro d'Ibrahim-ibn-Ahmed; un altro, forse il padre, espugnò
287
Sâheb-el-Khoms. Per errore del Caruso (Chronicon Cantabrigiense, an.
6421), seguito dal Di Gregorio, dal Martorana e dal Wenrich, questo titolo di
oficio fu tradotto "Signore d'Alcamo:" ed è sbaglio da non perdonarsi ad
orientalista. M. Caussin, che v'era caduto anch'egli, cercò di correggerlo nella
versione francese del Nowairi, pubblicata in Parigi, p. 24.
288
Si confrontino: Ibn-el-Athîr, an. 296, MS. A, tomo II, fog. 198 verso; MS.
C, tomo IV, fog. 290; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 12,
13; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 159. I particolari del
tumulto e il governo provvisionale di Khalîl son riferiti dal solo Nowairi. Ho
seguíto quest'ultimo per la data dell'arrivo di Ali-ibn-Omar in Sicilia.
Ibn-el-Athîr, an. 296, MS. A, tomo II, fog. 200 recto; e MS. C, tomo IV, fog.
290 verso, nel capitolo intitolato "Racconto della uccisione di Abu-abd-Allah
lo Sciita," narra la rivolta di un Ibn-Wahb in Sicilia. Riscontrandola coi
capitoli dei fatti di Sicilia posti sotto la rubrica del 296 e del 300, si vede che
quella narrazione non regge; e che fu tolta, senza molta critica, da qualche
racconto della rivoluzione d'Ibn-Korhob nel 300, nel quale erano sbagliati il
nome e la data.
289
Così in uno squarcio di A'rib, inserito nel Baiân, tomo I, p. 169. Gli altri
cronisti, accorciando, scrivono Ahmed-ibn-Korhob.
Siracusa290, e un congiunto o fratello avea tenuto poc'anzi il
governo dell'isola291. Par che il principe fatemita, non trovando
modo a maneggiar la colonia siciliana, se ne fosse consultato con
Ibn-Korhob, avversario sì, ma intero e leale; poichè sappiamo che
costui scrisse al Mehdi: «Se vuoi dar sesto al paese, mandavi
grosso esercito che lo domi e strappi la potestà di mano ai capi; se
no, la colonia rimarrà in perpetuo disubbidiente alle leggi; ad
ogni piè sospinto moverà tumulto contro gli emiri e te li
rimanderà a casa svaligiati292.» In suo laconismo, Ibn-Korhob
accennava, com'io credo, con una voce sola alle due maniere di
capi ch'erano nelle popolazioni musulmane dell'isola, i magistrati
cioè dei Berberi e i nobili degli Arabi; capi di consorterie di due
nature diverse, ma preposti in entrambe a molti negozii civili e
insieme al comando delle milizie. Tale la potestà, capitaneria,
dice litteralmente la cronica, che occorreva abolire in Sicilia.
Mettendo da parte i Berberi e risguardando agli Arabi, cotesta
espressa testimonianza, confermata da tutti i ricordi dei tempi
susseguenti, mostra cresciuto ormai e soverchiante nella colonia
un terzo male, non men grave dell'antagonismo di schiatta e, direi
quasi, del dispotismo affricano. L'insolenza dei nobili non era
apparsa per lo addietro, non essendo adulta la cittadinanza che
potesse risentirsene, come quella del Kairewân e d'altre città
d'Affrica. Però si notava degli ottimati la sola resistenza al
principato e confondeasi col sentimento di libertà coloniale; però
la plebe di Palermo parteggiava tuttavia per toro e tardò altri
trent'anni a tediarsene. Mancando dunque il popolo, altro partito
non rimaneva che sceglier tra due mali, dispotismo fatemita o
sfrenamento d'oligarchia; e ad Ibn-Korhob parve meno
intollerabile il primo. Ciò dia la misura dell'altro. E dimostri anco
290
Veggasi il Lib. II, cap. IX, tomo I, p. 400, nota.
291
Mohammed-ibn-Sirakusi eletto emir nel 903. Siracusa fu presa, distrutta e
abbandonata nell'878. Il padre dunque non poteva esser nato in quella città, e
dovea il nome di Siracusano alla vittoria.
292
Ibn-el-Athîr, an. 300, MS. A, tomo II, fog. 206 recto; MS. B, tomo IV, fog.
293 recto. Il primo MS. in vece della lezione "domi" ha "disperda." Questo
squarcio fu dato da M. Des Vergers, nello Ibn-Khaldûn, p. 161, nota.
la virtù di quel gran cittadino, ch'era nobile, ortodosso,
affezionato agli Aghlabiti e Siciliano: e diè consiglio contrario a
tutti interessi e umori di parte. Non andò guari ch'ei compiva
maggior sagrifizio, gettandosi nella voragine della rivoluzione;
non per leggerezza, non per vanità, non per ambizione, ma ad
occhi aperti, per religion d'animo generoso, quando conobbe che
v'era da tentar con un dado contro cento, la liberazione della
patria dall'Affrica insieme e dall'anarchia.
Entrando l'anno di Cristo novecento tredici, tutta la Sicilia era
levata di nuovo a romore: cacciato di Palermo il Bellewi, debil
vecchio e molesto293; cacciato di Girgenti Ali-ibn-abi-Khinzîr,
fratello di Hasan, e saccheggiatagli la casa294; ucciso a dì venzette
gennaio dai Palermitani Amrân, Preposto della Quinta295, il quale
par abbia voluto por mano al reggimento come il predecessore
Khalîl. In tal moto generale contro l'autorità fatemita, svolazzò
nelle menti il solito proponimento di concordia; tanto che Arabi e
Berberi insieme formavano di chiamare di governo dell'isola
Ahmed-ibn-Korhob. Ei che conoscea la tempra di cotesti
affratellamenti, ricusò; fuggì; corse a nascondersi in una grotta;
venuti a trovarlo i notabili di tutta la Sicilia musulmana, stette
saldo al niego e a dir che non si fidava di loro. Ma incalzando essi
nell'inchiesta, e giurandogli d'ubbidirlo infino alla morte296, si
raccomandò a Dio ed accettò. Il lunedì diciotto di maggio, il
popolo siciliano lo investiva solennemente dell'oficio di emiro297.
Esordì compiendo il primo precetto di legge musulmana, con
mandare uno stuolo in Calabria, nella state del novecentotredici;
il quale, assaliti i Cristiani, ne riportò bottino e prigioni298.

293
Ibn-el-Athîr, an. 300, MS. A, tomo II, fog. 205 verso, MS. C, tomo IV, fog.
293; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 13; Ibn-Khaldûn,
Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 159.
294
Baiân, tomo I, p. 169.
295
Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, op. cit., p. 44.
296
Baiân, l. c.
297
Ibn-el-Athîr, Baiân, Nowairi, Ibn-Khaldûn, ll. cc. La data precisa
nella sola Cronica di Cambridge, l. c.
298
Ibn-el-Athîr, l. c.
Indi Ibn-Korhob levò l'animo a maggiore impresa. Dopo la
guerra d'Ibrahim-ibn-Ahmed, i Cristiani di Valdemone aveano
ristorato, con Demona e altre castella, anco Taormina: opera di
gran momento, poichè i cronisti musulmani in questo incontro
chiamanla Taormina la Nuova. Si accingeva egli dunque ad
espugnarla un'altra fiata, con intendimento, come si vociferò, di
riporvi sue sostanze, famiglia e schiavi, ed afforzarvisi in caso di
guerra civile; ma il disegno sembra piuttosto di compiere ed
assicurare il conquisto del Valdemone. Che che ne fosse,
mandovvi il proprio figliuolo Ali con un esercito; il quale stette
per tre mesi all'assedio, finchè molte schiere, forse dei Berberi, si
abbottinaron gridando non voler combattere per mettersi un altro
giogo sul collo: ed arsero bagaglie e padiglioni del capitano; e lo
cercavano a morte, se non che fu difeso dagli Arabi. Ma la
impresa si abbandonò299.
Tentava Ibn-Korhob nel medesimo tempo300 di ordinare la
Sicilia in legittimo e stabile reggimento, con tutta quella libertà
che mai avessero imaginato i Musulmani ortodossi. Il modo,
pianissimo, era di riconoscere il nome del califo abbassida
Moktader-billah; il quale da Bagdad, nelle misere condizioni in
cui si travagliava il califato, non avrebbe potuto nè levar tributi,
nè esercitar comando di sorta, nè scegliere l'emir di Sicilia, nè
altro far che investire lo eletto dei Siciliani. Quanto all'emir, la
investitura gli veniva a dare un po' di séguito e di riverenza;
togliea qualche pretesto ai macchinatori di novità; mettea qualche
lieve intoppo allo sdrucciolo di cotesta autorità senza forza
pubblica: del rimanente non aumentava i pericoli d'una tirannide,
nè i capi riottosi potean temerne troppo rigor di giustizia. Però la
nobiltà arabica di Sicilia toccava il bello ideale del governo di
genio suo; quel che aveva ambito per lo innanzi, quel che
desiderò in appresso e mai nol potè conseguire. I Berberi faceano

299
Ibn-el-Athîr, an. 300, MS. A, tomo II, fog. 205 verso; MS. B, tomo IV, fog.
293 recto; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 159.
300
Nè la lettera nè il senso dei testi fan supporre che Ibn-Korhob abbia preso
tal partito dopo l'ammutinamento di Taormina, e per rimediarvi.
come chi si gitti in mare dalla nave che arde: vessati dal
principato d'Affrica e dagli Arabi lor compagni nell'isola,
concordaron questa volta coi più vicini301. Tutta la Sicilia dunque
a una voce assentí ad Ibn-Korhob, quand'ei messe il partito della
obbedienza agli Abbassidi. Incontanente, tolto dalla khotba il
nome del Mehdi, si pregò nelle solenni adunanze dei Credenti per
Moktader. Mandaronsi lettere e messaggi a Bagdad; ove il califo,
con sussiego pontificale, approvò, fece compilare un bel diploma
d'investitura in persona di Ahmed-ibn-Ziadet-Allah-ibn-Korhob,
e gliel'inviò, com'era usanza, per legati apposta, accompagnato
col solito dono degli emblemi del comando: bandiere negre,
toghe nere, collana d'oro e smaniglie302. Arrivò in Palermo
l'ambasceria di Bagdad poco appresso l'armata siciliana, che
tornava in porto con splendida vittoria303.
Disdetto il nome del Mehdi, s'era apprestato Ibn-Korhob a
provar sua ragione con la spada; e come prima seppe uscito un
navilio affricano ad assaltare la Sicilia, ovvero a guerreggiare
contro l'Egitto e le città d'Affrica rivoltate304, fece salpare, a' nove
luglio novecento quattordici, il navilio siciliano, condotto dal
proprio figliuolo Mohammed. Ai diciotto luglio, trovò nel porto
di Lamta, presso Medhia, l'ammiraglio nemico, Hasan-ibn-abi-
Khinzîr, quel campato a mala pena nel tumulto di Palermo; e dato
dentro, ruppe gli Affricani, arse tutte lor navi, fe' da secento
prigioni e tra gli altri Hasan. Mohammed deturpò la vittoria,
scannandolo di propria mano e facendogli mozzar mani e piè, e
mandò la testa al padre in Palermo: crudeltà provocata forse da
antiche offese in Sicilia, di certo dagli esempii di barbarie che
avean dato gli eserciti fatemiti nelle città ribelli d'Affrica e dalla
strage indistinta degli Arabi di parte aghlabita. Sopravvennero
dopo la sconfitta genti che il Mehdi mandava in fretta da
301
Di coteste riflessioni non è risponsabile alcun cronista.
302
Confrontinsi Ibn-el-Athîr, Baiân, Nowairi, Ibn-Khaldûn, ll. cc.
303
Ciò si vede dall'ordine dei fatti presso Ibn-el-Athîr e Ibn-Khaldûn.
304
Veggasi il Baiân, tomo I, anni 300 e seguenti; Ibn-Khaldûn, Storia dei
Fatemiti, in appendice alla Histoire des Berbères etc. del medesimo autore,
versione di M. De Slane, tomo II, p. 524.
Rakkâda; ma, sbarcati i Siciliani, le combatterono e vinserle con
tanta rotta, che preser tutte le bagaglie del campo. Indi l'armata
assaltò e distrusse Sfax, che si tenea pei Fatemiti; e, passando
oltre, si mostrò a Tripoli. Trovatovi El-Kâim figliuolo del Mehdi
con l'esercito che tornava d'Egitto, rivolser le prore verso la
Sicilia305.
La riputazione di tal vittoria e della investitura rincorò Ibn-
Korhob, sì che diede opera più alacremente alle cose pubbliche,
con forza e prudenza, scrive un cronista306 secondo la formola;
lasciandoci a tradurre in numeri cotesti segni d'algebra; e di più
ad imaginare le difficoltà che si paravano innanzi al novello
reggitor della Sicilia: le pretensioni contrarie de' Berberi e della
nobiltà arabica, delle antiche famiglie musulmane e dei Siciliani
convertiti, degli ottimati militari e dei giuristi; le confuse brame
del popol minuto; e quanti soprusi e dilapidazioni eran da
riparare, a quante ambizioni dovea resistere Ibn-Korhob, a quante
cedere, a quante cupidigie por freno, da quanti invidiosi
schermirsi, quanti ladroni gastigare o lusingare, quante pazze ire a
comporre, quanti calunniatori ad affrontare, quanti sciocchi a far
contenti: nelle dette condizioni della colonia, tra uomini sì mal
connessi insieme a ciascun persuaso che la rivoluzione s'era fatta
a suo beneficio particolare. Una impresa che tentò Ibn-Korhob in
Calabria, quasi dimenticando ch'aveva alle spalle i Fatemiti,
mostra ch'ei temesse molto più le divisioni interiori e quel pomo
di discordia del fei; onde si studiava ad appagare i più bramosi
col bottino della guerra sacra. L'esercito che passò il Faro,
saccheggiò, diè il guasto, afflisse gli indifesi Cristiani della punta
meridionale di terraferma307. Ma l'armata fece naufragio, il primo
settembre del medesimo anno novecento quattordici o del
seguente, a Gagliano presso il capo di Leuca, ovvero Gallico
305
Si confrontino: Chronicon Cantabrigiense, l. c., an. 6422; Ibn-el-Athîr, l. c.;
Baiân, anni 300 e 301, tomo I, p. 169 e 172; Ibn-Khaldûn, Storia d'Affrica, e
Storia dei Fatemiti, ll. cc. Le date si ritraggon dalla sola Cronica di Cambridge.
306
Baiân, tomo I, p. 169.
307
Ibn-el-Athîr, l. c. senza porre la data a ciascun fatto della rivoluzione d'Ibn-
Korhob, ch'ei narra in un fascio nel 300.
presso Reggio308. Questo fu principio della rovina d'Ibn-Korhob.
Occorso di combatter nuovamente le forze navali dei Fatemiti che
ingrossavano su la costiera d'Affrica, l'armata siciliana, scemata
da quel disastro dì Calabria, fu vinta e prese tutte le navi. Indi una
mala contentezza nei popoli; e ogni provvedimento d'Ibn-Korhob
cominciò ad andar di traverso; i turbolenti, che s'erano acquattati
per timore, alzaron le creste309.
Narra il Cedreno che Zoe, mentre reggea lo stato pel figliuolo
Costantino Porfirogenito di minore età, volendo concentrare le
forze contro i Bulgari che nuovamente minacciavano la capitale,
fermò la pace coi Saraceni di Sicilia, affinchè cessassero la
infestagione della Puglia e Calabrie racquistate dalla dinastia
macedone. Eustazio, gentiluomo di camera310, com'or si
chiamerebbe, dello imperatore e stratego di Calabria, stipolava a
questo fine con l'emir di Sicilia di pagargli tributo di ventiduemila
bizantini d'oro all'anno, che tornano a un dipresso a trecentomila
lire311. Continua l'annalista, come surrogato ad Eustazio un
Giovanni Muzalone; costui sì iniquamente governò, che i
Calabresi, ribellati all'impero, diersi a Landolfo principe di
Benevento, dopo la esaltazione di Romano Lecapeno al trono di
Costantinopoli312: i quali avvenimenti designando la data che
manca nel racconto, fan tornare la pace di Sicilia al novecento
quindici o principii del novecento sedici, e però al tempo d'Ibn-
Korhob313. Vergogna all'impero, gloria recò questo trattato alla
308
Chronicon Cantabrigiense, l. c., an. 6423. Secondo la cronologia seguita
costantemente in questa cronica, la data torna senza dubbio al 914. Ma
supporrei piuttosto uno sbaglio del cronista, che lo armamento di due navilii
siciliani al medesimo tempo, ovvero tale rapidità di movimenti dell'unica
armata, che avesse vinto il 18 luglio a Lamta, poi osteggiato Sfax e Tripoli, poi
toccato il porto di Palermo, e si fosse trovata finalmente ne' mari di Calabria il
l° settembre. Il nome di luogo è scritto nel testo senza punti diacritici.
309
Ibn-el-Athîr, l. c., il quale non parla del naufragio in Calabria.
310
Θαλαμηωόλος
311
Nel IX secolo il χρυσίον valea da 13 a 14 franchi in peso di metallo.
312
Cedreno, ediz. Niebuhr, tomo II, p. 355.
313
La guerra coi Bulgari, condotta dopo il trattato con la Sicilia, fu
combattuta il 917; Romano Lecapeno fu coronato a' 17 dicembre 919; la
colonia musulmana di Sicilia e al valente uom che la reggea. E
pur non maraviglierei, se un di o l'altro si trovasse in qualche
cronaca che i ventiduemila bizantini d'oro eran cagione di nuove
discordie tra le milizie arabiche e berbere; che le fazioni
calunniavan l'emiro d'essersi venduto agli Infedeli per
scialacquare lor moneta coi suoi sgherri.
La reazione contro Ibn-Korhob incominciò, come era da
aspettarsi, dalla schiatta berbera. Correndo l'anno trecentotrè
dell'egira (16 luglio 915, a 3 luglio 916), i Girgentini disdiceano
l'autorità sua; mandavano per lettere ad offerirsi al Mehdi;
tiravano a sè altre popolazioni, Si fe' capo della parte un Abu-
Ghofâr314. Coi principali dei sollevati, volle in persona intimare a
Ibn-Korhob, se ne andasse con dio fuor di Sicilia, poichè spiaceva
al popolo: ai quali l'emiro pacatamente rispose aver preso lo stato
richiesto e costretto da loro stessi; e ricordò il dato giuramento, e
si sforzò a persuaderli che non guastassero l'impresa ben
cominciata dai Siciliani: ma ostinaronsi; ed ei non volle cedere a
minacce. Anzi, mantenendogli molti altri la fede, s'afforzò, com'ei
pare, in Palermo e si venne alle armi. Poi, sia che l'avvantaggio
fosse rimaso ai sollevati, sia che gli rifuggisse l'animo dal
ribellione di Calabria segui nel 920 e 921. Pertanto il Le Beau, Histoire du Bas
Empire, lib, 73, cap. XIII, con buona critica ha posto il trattato di Sicilia nel
916. Un cenno di Giorgio Monaco, ediz. Niebuhr, p. 880, porterebbe questo
fatto alla 3a indizione (914-15). Ad ogni modo, come dalla state del 916 alla
primavera del 917 non v'ebbe in Sicilia alcun governo, così par che il trattato si
debba mettere avanti la ristorazione dell'autorità fatemita, e però al tempo
d'Ibn-Korhob. Posporre non si dee, sapendosi che un'armata del Mehdi assaliva
Reggio, d'agosto 918.
Ma anche lasciato da parte lo esame se il trattato si fosse fermato nel 915 nel
918 e anche 919, prima dell'esaltazione di Romano Lecapeno, egli è certo che
non si può collocare nel 928 come ha creduto il Martorana (tomo I, p. 86),
seguito dal Wenrich (lib. I, cap. XII, § 105). Il Martorana ha preso i particolari
del trattato da Cedreno e la data da Nowairi. Ma parmi evidente che questa si
debba riferire, non al trattato primitivo, ma alla rinnovazione di quello tra
Costantinopoli e i Fatemiti; come spiegherò a suo luogo, nel capitolo seguente.
314
Questo nome, dato dal solo Nowairi, è senza vocali nel manoscritto. Senza
dubbio non è patronimico, ma soprannome; e, come io lo leggo, significa
"Quel dal collo e faccia irsuti di peli."
continuar quello spargimento di sangue civile, Ibn-Korhob
deliberossi a volontario esilio in Spagna. Non è inverosimile che
gli abbia dato il tracollo quella terribil nuova dell'assedio della
colonia al Garigliano, di che potea parer causa la pace fermata coi
Bizantini315. Noleggiati dunque i legni, trasportatavi gran salmeria
delle robe proprie e de' suoi, Ibn-Korhob stava per dar le vele al
vento, il quattordici luglio del novecento sedici316. In questo una
turba ingombra la spiaggia; salta furibonda su le navi; saccheggia;
pon le mani addosso all'emiro, ai figliuoli, agli amici che
seguivan sua fortuna, tra i quali un Ibn-Khami, il cadi. Messi ai
ferri, gittati sur una barca, li mandarono, per colmo d'infamia,
all'usurpator fatemita a Susa. "E che ti mosse a sconoscere il
sacro dritto della casa d'Ali e ribellarti da noi?" dicea
superbamente il Mehdi ad Ibn-Korhob, fattosel recare incatenato.
"I Siciliani," rispose, "mi esaltarono mio malgrado, e mio
malgrado m'han deposto." Rimandollo allora in carcere, e divisò
il supplizio più che potesse insolito e ignominioso. Montato a
cavallo, menava seco i prigioni a Rakkâda, capitale tuttavia
dell'impero. E fuor la porta della Pace317, là dov'eran sepolti i
miseri avanzi di Hasan-ibn-abi-Khinzîr ucciso dopo la battaglia di
Lamta, Ibn-Korhob, i figliuoli, gli amici politici, come ladroni di
strada, eran vergheggiati a morte; mozzati loro mani e piè; e
sospesi i cadaveri a tanti pali dinanzi la tomba318.
315
Veggasi il capitolo seguente. L'assedio incominciò il 14 giugno 916.
L'accusa sarebbe stata ingiusta, perchè i ladroni del Garigliano non ubbidivano
all'emir di Sicilia. Ma quando mai l'umor di parte giudicò giusto i nemici?
316
La data precisa è nella sola Cronica di Cambridge. Rispondevi con
pochissimo divario il Baiân, ponendo l'imprigionamento d'Ibn-Korhob
nell'anno 303, che finì il 3 luglio 916, e l'arrivo a Susa nel mese di moharrem
304, cioè dal 4 luglio al 2 agosto.
317
Bab-es-selm.
318
Confrontinsi: Chronicon Cantabrigiense, an. 6424 (1° settembre 915 a 31
agosto 916), presso Dì Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 44; Baiân, an. 303 e
304, tomo I, pag. 175, 176; Ibn-el-Athîr, an. 300, MS. A, tomo II, fog. 206
recto, MS. C, tomo IV, fog. 293 recto; Nowairi, presso Di Gregorio, p. 13; Ibn-
Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 160, 161 e Storia dei Fatemiti,
in appendice alla Histoire des Berbères, etc., tomo II, p. 525. Ibn-el-Athîr, Ibn-
Insieme con lor nobili vittime i controrivoluzionarii di Sicilia
mandarono al Mehdi una petizione arrogante. Sognando di potere
rinnegare il dritto e mantenere il fatto, scriveangli non aver
bisogno dì soldati nè di alcuno aiuto da lui: nominasse un
governatore e un cadi, ed essi penserebbero al resto; aggiugnendo
altre condizioni che lo empieron di collera e di furore, scrivono i
cronisti senza particolareggiarle319. E il Mehdi che sapeva usar le
occasioni, in vece del trave della favola ch'ei bramavano, mandò
in Sicilia uno sperimentato capitano320, Abu-Sa'îd-Musa-ibn-
Ahmed, soprannominato Dhaif, ch'è a dir l'Ospite, con un'armata
e forti schiere di Kotamii, capitanate da loro sceikhi. Approdò a
Trapani il quindici agosto; dove andati a trovarlo i notabili di
Girgenti, molto li onorò, li presentò di ricche vestimenta, si studiò
a lusingarli e tirarli alle sue voglie; ma quando vide che era
niente, d'un colpo di mano fe' catturare il procace Abu-Ghofàr e
metterlo ai ceppi. A tempo fuggì un costui fratello per nome
Ahmed; corse a Girgenti a chiamare il popolo alle armi. Così i
Berberi a capo di due mesi, e pur era troppo tardi, raccesero la
rivoluzione ch'aveano spento con le proprie mani. Altre città e
castella seguiron l'esempio321.

Khaldûn che lo copia e Nowairi, pongono tutti i fatti, con error di data, nel
300.
319
Baiân, an. 304, l. c.
320
Iahia-ibn-Sa'îd, continuatore degli annali di Eutichio, MS. di Parigi, fog. 89
verse, accennando la rivoluzione d'Ibn-Korhob, la dice domata da un capitano,
del Mehdi per nome Bagana o Bogona, etc., (ch'ei non mette vocali) il quale
ridusse anche le città ribelli di Barca e Tuggurt. Non ostante la inesattezza
della narrazione, è evidente che si tratti di Abu-Sa'îd ch'avea forse quell'altro
nome, berbero, com'ei mi suona all'orecchio.
321
Confrontinsi; Chronicon Cantabrigiense, Ibn-el-Athîr, Baiân, Nowairi, Ibn-
Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, ll. cc. Il Rampoldi, tomo V, anni
914, 915, 916, 917, rimpastò e trinciò a modo suo tutti questi avvenimenti, tolti
dalla Cronica di Cambridge e da Nowairi. Il Martorana, tomo I, p. 81, e il
Wenrich, lib. I, cap. XI, § 103, han fatto d'un solo due capitani: Musa-ibn-
Ahmed, e Abu-Sa'îd-Aldhaif; e il Wenrich ha fatto venire bi Sicilia il primo
nel 913, e l'altro nel 916.
Abu-Sa'îd senza dimora andò sopra la capitale. Sapendo
intercetto il cammino da popolazioni tumultuanti, o manco difesa
la città dalla parte di mare, il condottiero affricano audacemente
imbarcò suoi Kotamii; e con l'armata entrò nel porto di Palermo a'
ventotto settembre322. La bocca del porto era quella ch'or
s'addimanda la Cala; le lagune e il gran canale, in oggi ricolmi,
penetravano assai dentro terra sino ai ripari della città vecchia;
talchè lasciavan d'ambo i lati due bracci, tutti scogli ed arene,
disabitati, com'ei sembra323. Abu-Sa'îd pose le genti su l'un dei
bracci; vi si afforzò di fronte con una muraglia tirata per traverso
dal porto alla spiaggia esteriore; assicurato ai fianchi e alle spalle
dal mare, ch'ei tenea con l'armata e sì chiudealo agli assediati 324.
322
Confrontinsi: Chronicon Cantabrigiense, Ibn-el-Athîr, ll. cc.
323
Si vegga la nota a p. 68, 69, di questo volume. Il mare dell'antico porto si è
ritirato notabilmente in pochi secoli; sia per sollevamento del suolo, sia per
alluvione del fiume Papireto, sia per l'uno e per l'altro insieme. L'anno 972,
quando venne in Palermo Ibn-Haukal, il gran porto giacea nel quartiere delli
Schiavoni (chiesa di San Domenico, contrada del Pizzuto ec.), e l'arsenale, alla
Khâlisa, cittadella fabbricata dai Fatemiti il 937; la quale, dice Ibn-Haukal, era
circondata dal mare, fuorchè dalla parte di mezzogiorno. Indi è evidente che le
acque occupavan quella che si chiama tuttavia "Piazza della marina" ancorchè
più non guardi il mare. Fazzello afferma che al principio del XVI secolo,
tirando gagliardi venti di tramontana, le onde batteano una porta della città e
allagavan la piazza contigua, e che ciò non avveniva più quand'egli scrisse,
cioè verso il 1530. (De rebus siculis deca l, lib. VII, cap. I.) In oggi il mar
grosso di greco-tramontana, che dà per dritto entro la Cala, manda appena
qualche sprazzo a piè delle case e ricaccia i rigagnoli dentro gli aquidotti della
Piazza-marina. Però io credo che al principio del X secolo i due bracci fossero
stati sì bassi da non potervisi far soggiorno. Alla punta di quel di Tramontana è
in oggi il Castello, fabbricato sopra scogli a fior d'acqua, Il braccio della Kalsa
o Gausa, come si chiama tuttavia questo quartiere ed è la Khâlisa Fatemiti si
distingue tuttavia benissimo a quella schiena che s'alza, tra la passeggiata della
marina propriamente detta e la Piazza della marina. Quivi sono il palagio
Butera, la strada dello stesso nome, la chiesa della Catena (del porto antico), la
Zecca, i Tribunali, dei quali edifizii il più antico arriva al XIV secolo; e sursevi
fino al 1821 la chiesa della Kalsa, ch'era anche del XIV o XIII.
324
Ibn-el-Athîr, l. c. Le circostanze locali ch'ei narra stan bene nell'uno e
nell'altro braccio, e la testimonianza d'Ibn-Haukal, che il porto giacea nel
quartier delli Schiavoni, non toglie il dubbio; poichè la Khâlisa avea pur
Dapprima potè far poco male alla città: sotto gli occhi suoi il
diciassette d'ottobre i Palermitani giuravan la lega con gli
ambasciatori di Girgenti e d'altre città; tra i quali si ricordano i
nomi d'Ibn-Ali ed Awa-es-Seâ'ri325. Ma par che il pericolo
comune non facesse dimenticare la nimistà, e che il rimanente
della Sicilia non mandasse aiuti; poichè gli assedianti sempre più
strinsero Palermo. In un combattimento erano sconfitti i Siciliani;
rimanea sul campo di battaglia grande numero di lor nobili; i
feroci Kutamii irrompeano nei sobborghi; metteano al taglio della
spada gli abitatori, fin le donne e i fanciulli; sforzavano le
donzelle, guastavano e saccheggiavano ogni cosa. Nondimeno la
città vecchia tenne fermo: Abu-Sa'îd chiese ed ebbe dal Mehdi
nuovi aiuti d'uomini e di navi; finchè, scarseggiando le vittuaglie,
rincarito anco il sale a poco men che una lira all'oncia326, i
cittadini si calarono agli accordi dopo sei mesi d'assedio. Si
stipulò pien perdono, fuorchè a due capi ribelli: e i cittadini con la
solita alacrità li consegnarono, e fecero entrare Abu-Sa'îd a'
dodici marzo novecento diciassette. Contro i patti, com'egli è
manifesto, svelse le porte, abbattè mura, tolse le armi e i cavalli
da battaglia, pose una taglia su la città, e, imprigionati molti
uomini di nota, li mandò in Affrica al Mehdi. Questi senza
strepito li fe' mazzerare; e poi spacciò in Sicilia una

l'arsenale, o porto militare. Anzi è probabile che il braccio settentrionale, come


più basso dell'altro e però paludoso, non fosse atto per anco a porvi un campo.
325
La data e i nomi degli ambasciatori si leggono nella cronica di Cambridge;
il cenno di Girgenti e altre città in Ibn-el-Athîr. Awa o Uwa par nome proprio
berbero.
326
Questo si legge nella sola Cronica di Cambridge. Il Caruso e gli orientalisti
che lo aiutarono alla pubblicazione, lessero Tariain e interpretarono due tari.
Ma oltrechè la voce tari si scriverebbe in arabico dirhem, il manoscritto ha
chiaramente harbatain, che va letto kharrobatain, e significa due kharrobe,
maniera di peso e di moneta, la cui denominazione pare tradotta dal latino
siliqua. La moneta torna a 1/40 di dinâr; e però 0,36 di lira italiana, L'oncia di
sale costava dunque 0,72: probabilmente l'oncia romana, che fu in uso in
Sicilia fin, dopo la dominazione musulmana e ne fa menzione Edrísi. Secondo
il valore che le dà Edrisi, non molto diverso da quello dell'antica oncia romana,
tornerebbe all'incirca a 30 grammi.
clementissima amnistia. Di settembre del medesimo anno Abu-
Sa'îd, col navilio e l'esercito, tornava in Affrica, lasciando a
reggere la Sicilia Sâlem-ibn-Ased-ibn-Râscid, affidato in una
forte schiera di Kotamii327. La rivoluzione d'independenza parve
morta e sepolta.

CAPITOLO VIII.

Tra le raccontate guerre civili dell'isola, gli Italiani di


Terraferma, arrivati, con rara vicenda di fortuna, a collegarsi per
pochi mesi, estirparono i Musulmani dal Garigliano. Durevoli
accordi poteano seguirne men che prima allo entrar del decimo
secolo, quando i feudatarii dell'Italia di sopra si fecero quasi
principi assoluti; l'autorità dell'impero occidentale calò tuttavia,
per esser piccioli e troppi i pretendenti; le armi bizantine valser nè
più nè meno quanto bastava a non poterle cacciare dall'Italia
meridionale; la tiara pontificale s'avvilì, nei misfatti, nelle
atrocità, nelle brutture, dispensata alfine per man delle Marozie e
delle Teodore. E pure, com'è capricciosa la storia, quella lega
italiana, sì giusta, sì necessaria, sì felice nel successo, ebbe
origine a Roma in mezzo di tanto vitupero; l'eroe della impresa fu
Giovanni decimo, nato di scandalo, esaltato per doppio scandalo,
sì che gli scrittori ecclesiastici te l'abbandonano.

327
Si confrontino: Chronicon Cantabrigiense, l. c., an. 6425 e 6426; Ibn-el-
Athîr, l. c.; Baiân, e 'Arîb, an. 304, tomo I, p. 176; Ibn-Khaldûn, Histoire de
l'Afrique et de la Sicile, p. 161, 162. Ibn-Khaldûn erroneamente suppone in
Trapani la guerra che fu in Palermo. Il Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum
Arabicarum, p. 13, la confonde coi fatti di Girgenti. Il nome del nuovo emiro è
scritto nella Cronica di Cambridge, Sâlem soltanto; nel Baiân, Sâlem-ibn-abi-
Râscid; in Ibn-Khaldûn, Sâlem-ibn-Râscid; nel Nowairi, Sâlem-ibn-Ased-el-
Kenâni. Credo si debba correggere Kotâmi; non essendo verosimile che il
Mehdi avesse posto un arabo della tribù di Kinâna, sopra le soldatesche della
tribù berbera di Kotâma, lasciate in Sicilia.
Quando Giovanni decimo salì al pontificato (914), que' del
Garigliano stavano in sul termine di passar da ladroni a
conquistatori. Accozzati, come narrammo, dei Musulmani che
avean guerreggiato in quelle parti al tempo di Giovanni ottavo,
inaugurarono la nuova compagnia con saccheggi di monasteri: la
sconfitta che toccarono in Calabria dell'ottocento ottantacinque li
fiaccò328; poi è verosimile che si fossero riforniti, sotto il regno
d'Ibrahim-ibn-Ahmed, di fuorusciti Affricani e sopratutto dei
Siciliani del novecento. Il passaggio d'Ibrahim (902) in Calabria
lor diè ardire e, credo, rinforzi; credo lor siasi raggiunta la più
parte della banda d'Agropoli, il cui nome sparisce dopo la fine del
nono secolo; onde, s'ei ne restò qualche drappello, stava ai soldi
della repubblica napoletana329. Cresce, all'incontro, per tutte le
croniche di questo tempo, lo spavento dei barbari del Garigliano,
cui ci dipingono infestissimi e più terribili degli Ungheri che
desolavano la Lombardia330; e pur venendo ai particolari niuno
accusa i Musulmani d'aver arso, come fecero gli Ungheri, le
centinaia di prigioni. Il vero è che i Musulmani non avanzavano i
Magiari di crudeltà, nè di numero; sì bene di sveltezza, di
perseveranza e d'ordini. Già già appariva, nel bel mezzo della
nostra costiera del Tirreno, quel nocciolo normale dello stato
musulmano: il Kairewân331. Il campo del Garigliano cominciava a
prendere aspetto di città: aveanlo afforzato di ripari e torri332; vi
tenean le donne, i figliuoli, i prigioni, il bottino333. I gioghi del
vicin colle, eran cittadella nel pericolo estremo. Il breve tronco
del fiume, navigabile a barche, rendea comoda la stanza e agevoli
gli aiuti; sedendo alla foce i confederati cristiani di Gaeta, e un
po' più lungi la repubblica di Napoli, che si facea rispettare, ma in
328
Veggasi il Lib. II, cap. XI, pag. 440 e 458, seg.
329
Probabilmente eran di questi drappelli i Musulmani che insieme coi
Napoletani uccisero trenta cittadini di Capua l'anno novecento cinque. Veggasi
Chronicon Sancti Benedicti, presso Pertz, Scriptores, ec., tomo III, p. 206.
330
Liutprando, Antapodesis, lib. II, cap. XLIV, XLV.
331
Veggasi il primo Vol., p. 113.
332
Munitiones, dice Liutprando; turres, il monaco Benedetto di Sant'Andrea.
333
Liutprando, l. c.
fondo era amica. Non si ritrae che costoro ubbidissero agli
Aghlabiti, nè poscia ai Fatemiti, nè mai agli emiri di Sicilia.
Facean corpo politico dassè, fuor della legge; come tante altre
compagnie musulmane in vari tempi e luoghi: a Creta, a Bari, a
Taranto, a Frassineto. Al par che quelle scegliean lor capo, che un
cronista italiano chiama califo334 e s'intitolava forse così.
Guardando su la carta d'Italia i nomi dei luoghi infestati, si
vedran le gualdane spiccarsi dalla stanza del Garigliano, come
raggi che vadano a ferire per tutta l'area d'un vasto semicircolo; se
non che i raggi son corti e rintuzzati tra mezzogiorno e levante,
ove incontravano Napoli e i principati longobardi; e corron lungi
assai tra ponente e tramontana per entro lo Stato Ecclesiastico.
Provocati da qualche insolito guasto di que' del Garigliano dopo
la guerra d'Ibrahim-ibn-Ahmed, i Cristiani vennero ad osteggiarli
alla sponda del fiume, di giugno del novecentotrè; e toccarono
sanguinosa sconfitta335. Atenolfo principe di Capua, testè
insignoritosi di Benevento (900), volle ritentare la sorte delle
armi, il novecento otto: trasse alla lega i Napoletani e gli
Amalfitani; raccolta gran gente, passò il Garigliano sopra un
ponte di barche a Setra, come si chiamava il luogo presso
Traietto; dove fortuneggiò in un assalto notturno dei Musulmani e
dei Gaetini lor ausiliari; ma, ristorata la battaglia, ruppe i nemici e
inseguilli fino ai ripari336. Visto poi che non bastassero le forze a
quella espugnazione, ovvero che i Napoletani balenassero nella
lega, mandò il figliuolo Landolfo a chiedere aiuti a Leone, al
quale premeva altrettanto d'assicurare i dominii bizantini in Italia.
E così la impresa si apparecchiava a Costantinopoli, quando
Landolfo ebbe a tornare a Benevento per la morte del padre
(910), e mancò di lì a poco (911) lo stesso Leone 337. Landolfo,
preso lo stato, rinnovò il novecentoundici i patti con la repubblica
334
Chronicon comitum Capuæ, presso Pertz, Scriptores, ec., tomo III, p. 208.
335
Chronica Sancti Benedicti, presso Pertz, stesso volume, p. 206.
Probabilmente vuol dire dei Longobardi di Capua e Benevento e dei
Napoletani.
336
Leo Ostiensis, lib. I, cap. L.
337
Op. cit., cap. LII.
di Napoli; la quale in parole gli promesse d'aiutarlo contro i
Musulmani come se Benevento fosse terra sua propria338; ma in
fatti par non abbia cessato quel gioco d'equilibrio incominciato
ottant'anni prima. La fortuna delle armi fu varia. I Musulmani
condotti da Alliku, come leggesi il nome nella cronica, avean
fatto una punta fino alla costiera dell'Adriatico, quando Landolfo
li raggiunse e ruppe in due scontri a Siponto339 e Canosa340.
Tornaron fuori con novelle forze; dettero il guasto a Venosa,
Frigento, Taurasi, Avellino, e al contado proprio di Benevento341.
In ultimo saccheggiarono e arsero il monastero d'Alife342.
Maggior danno recarono dalla parte di Roma. Il monastero di
Farfa, celebre nel medio evo per grandi possessioni e baldanza
contro i papi, fu distrutto in questo tempo, l'anno non si sa,
abbandonato dai frati quando si sentirono addosso i
Musulmani343. Giace Farfa nella Sabina; la qual provincia era
tutta corsa al par che la Campagna di Roma e il territorio di
Ciculi, con uccisioni, incendii, saccheggi. Si spinsero i nemici
oltre il Tevere a Nepi; salirono fino ad Orta e a Narni, nelle quali
città stanziarono344. Impadroniti così dei passi, misero grave taglia
sopra i Cristiani che andassero in pellegrinaggio alla tomba degli
Apostoli. Il contado della metropoli fu sì fattamente infestato, che

338
Il diploma di Gregorio duca di Napoli tratta anco di altri patti internazionali
con Benevento, come per esempio le leggi secondo le quali giudicarsi le liti tra
sudditi dei due Stati. È dato la 14a indizione, e trascritto in un diploma del duca
di Napoli Giovanni, presso Pratilli, Historia Principum Langobardorum, tomo
III, p. 228.
339
Oggi Manfredonia.
340
Chronicon comitum Capuæ, l. c. Questo Alliku è quel che la cronica dice
califo degli Agareni di Traietto e Garigliano.
341
Ibidem.
342
Chronicon Vulturnense, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores,
tomo I, parte II, p. 418. La cronica dice avvenuto questo fatto verso il 916.
343
Chronicon Farfense, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo
II, parte II, p. 454.
344
Benedicti Sancti Andreæ monachi Chronicon, cap. XXVII, presso Pertz,
Scriptores, ec., tomo III, p. 713.
uno storico mordace scrivea quindici anni appresso, aver tenuto
mezza città di Roma i Romani e mezza gli Affricani345.
Tra tanta calamità, appresentossi a Giovanni decimo un
Musulmano, disertore per ingiurie avute da' suoi; il quale si vantò
di rintuzzarli, sol che il papa gli desse una man di forti giovani,
armati di targa, brando, giavellotto, cinti di legger saio,
provveduti d'un po' di cibo: alla quale descrizione si ravvisa la
milizia degli almugaveri Catalani, sì famosi nelle guerre del
vespro siciliano346. Giovanni decimo gli diè una sessantina
d'uomini; coi quali il disertore, appostati gli antichi compagni, li
svaligiò in uno stretto passo. Indi i Romani a rincorarsi; ad uscire
alla campagna; a combattere con avvantaggio la guerra
spicciolata347. Un Akiprando di Rieti fece oste, con altri
longobardi e gente della Sabina, contro i Saraceni afforzati nelle
ruine di Trevi348: e li vinse e passò a fil di spade. Da un'altra
banda i terrazzani di Nepi e di Sutri felicemente combatteano gli
Infedeli a campo Baccani. Dopo le quali sconfitte, le schiere
musulmane di Narni e di Ciculi si ritrassero al Garigliano349.
Perchè il papa e Landolfo, accorgendosi ch'era niente superare
il nemico qua e là, se non lo si estirpava da' suoi ridotti, in men di
due anni aveano mandato ad effetto un abbozzo di crociata.
Ristorarono e allargarono la lega del novecento dieci: il papa vi
trasse la imperatrice Zoe, Alberico duca di Camerino, Berengario
duca dei Friuli che avea da tanti anni il titolo ed or quasi la
potenza di re d'Italia. Berengario, aiutato di danari dal papa,
veniva a Roma in su la fine del novecentoquindici: tra, plausi che
non fu uopo di comperare si cingea la corona imperiale. Alla
nuova stagione, congiunti per la prima ed ultima volta a ben
dell'Italia, il papa e l'imperatore marciarono al Garigliano. Li
seguian le milizie dei ducati di Camerino e Spoleto. Landolfo
345
Liutprando, op. cit., lib. II, cap. XLIV, XLV.
346
El-mugawer in arabico significa scorridore, o, come or dicesi, guerrigliero.
347
Liutprando, ibid., cap. XLIX, L.
348
Civitatis vetustate consumpta, (il monaco Benedetto non è scrupoloso in
fatto di concordanze) nomine Tribulana.
349
Benedicti Sancti Andreæ monachi, op. cit., cap. XXIX.
andò al ritrovo con le genti del principato di Capua e Benevento.
L'impero bizantino diè valido aiuto: l'armata, grosse schiere di
Pugliesi e Calabresi, e la greca astuzia dello stratego Niccolò
Picingli; il quale trasse alla lega il principe di Salerno, e quel che
più era, Napoli e Gaeta, lusingando i due duchi col titolo di
patrizii, e minacciando di opprimerli se favorissero tuttavia gli
Infedeli.
Del mese di giugno il navilio greco saliva su pel Garigliano; il
papa in persona e i collegati italiani stringeano dagli altri lati;
davansi fieri assalti, nei quali Alberico e Landolfo meritarono
lode di valorosi. Sforzati nei ripari, i Musulmani si rifuggirono
alle alture del monte; dove il cerchio delle armi cristiane più
stretto li rinserrò. I Bizantini innalzarono un castello a piè della
costa ripida donde gli assediati soleano far le sortite per
procacciar vettovaglia. Dopo tre mesi, perduta assai gente negli
scontri; pressati dalla fame; per segreto consiglio, come si sparse,
dei duchi di Napoli e di Gaeta, i Musulmani poser fuoco agli
alloggiamenti, e nel trambusto chi potè cercò scampo nei boschi
d'intorno, ove i Cristiani dando loro la caccia, tutti li uccisero o
fecer prigioni. Così ebbe fine la colonia del Garigliano, d'agosto
novecento sedici. Nè mancarono i frati di spacciare ch'avean visto
con gli occhi proprii San Pietro e San Paolo mescolarsi tra i
combattenti350.
La qual vittoria non liberò tutta Italia. A settentrione i
Musulmani di Frassineto, venuti di Spagna, gittatisi nelle Alpi,
350
Si confrontino: Liutprando, Antapodesis, lib. II, cap. XLIX e LIV, presso Pertz,
Scriptores, ec., tomo III, p. 297, 298; Chronicon comitum Capuæ presso Pertz,
stesso vol., p. 208; Annales Cassinatenses, ibid., p. 171; Annales Beneventani,
ibid., p. 174; Chronicon Benedicti Sancti Andreæ etc., ibid., p. 713, 714;
Chronicon Farfense, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo II,
parte II, p. 455; Chronicon Pisanum, presso Muratori, ibid., tomo VI, p. 107,
seg., an. 917; Lapo Protospatario, presso Pertz, Scriptores, ec., tomo V, p. 53;
Marangone, nell'Archivio Storico Italiano, tomo VI, parte II, pag. 4, an. 907;
Leonis Ostiensis, lib. I, cap. LII. Le autorità principali sono Liutprando e
Benedetto di Sant'Andrea, contemporanei; e Leone d'Ostia, ch'ebbe alle mani
ricordi contemporanei. La data varia; ma si determina con l'incoronamento di
Berengario.
corsero per un secolo o poco meno (889-975) l'odierno territorio
del Piemonte, non che la Svizzera e la Francia meridionale; dei
quali non dirò, sendo fuor dell'argomento propostomi 351. All'altro
capo della penisola non durò a lungo la pace. Forse il principato
fatemita non volle osservare i patti stipolati dal ribelle Ibn-
Korhob. Più certamente, l'impero bizantino non seppe guardar
quelle province con la spada, nè farvi osservare la pace, nella
condizione precaria con che le tenea.
A trattare i popoli col bastone vuolsi avere in pugno un baston
sodo e dare ad occhi aperti; ma l'impero, con sue triste
soldatesche ed amministrazione scomposta, troppo si affrettava a
spossessare ad un tempo i principi longobardi, estirpare la nobiltà
feudale, assoggettare i comuni, e spolpare e calpestare il popolo.
Dopo aver dunque racquistato, verso la fine del nono secolo, le
Calabrie e gran tratto della Puglia352, i Bizantini presero e
riperdettero entro quattr'anni (891-895) lo stato di Benevento; si
provarono indarno contro Capua e Salerno; furon costretti a
collegarsi coi principati longobardi (908-916) contro i Musulmani
del Garigliano353; non seppero nè prevenire nè reprimere la
ribellione di tante città di Puglia e di Calabria che si davano (921)
a Benevento; nè l'impero le riebbe altrimenti che per pratiche col
principe Landolfo354. In questo mentre non si pagò il tributo ai
Musulmani di Sicilia.
E per dieci anni i miseri popoli dell'Italia meridionale vider
venire di Sicilia, sotto le insegne fatemite, nuove facce di predoni
stranieri: in cambio d'Arabi, di Berberi, di Negri, più fiera genía
settentrionale. Perchè il Mehdi par non si fidasse di rendere le
armi all'universale de' Musulmani in Sicilia, non degli Arabi in
Affrica; i Kotamii suoi gli servivano a spegnere gli incendii in
casa ed a tentare il conquisto d'Egitto, massima ambizione di sua
351
I fatti de' Musulmani di Frassineto sono stati con molta critica ricercati e
lucidamente esposti da M. Reinaud nell'opera: Invasions des Sarrazins en
France etc., parte III.
352
Si vegga il lib. II, cap. XI.
353
Si vegga il capitolo precedente.
354
Cedreno, ediz. Niebuhr, tomo II, p. 355, 356.
dinastia. Adocchiò allora i giannizzeri prediletti d'Ibrahim-ibn-
Ahmed: gli Slavi, derrata di prima qualità nel commercio di
schiavi che conduceasi nel Mediterraneo dal settimo al decimo
secolo, talchè par abbian dato il nome alla cosa 355. Gente sobria
del resto; prode nelle armi, amante di libertà più che niun altro
popolo di que' tempi, nelle province europee dov'era costituita a
governo suo proprio; gente anco umana verso gli schiavi che
riteneva in casa356: ma non le parea male di vendere gli uomini
del suo stesso sangue e del germanico, presi nelle guerre e nei
ladronecci di confini357. Allora, sì com'oggi, il grosso della
schiatta slava occupava l'Europa orientale; s'addentellava coi
popoli finnici, con l'impero germanico, coi Magiari, con l'impero
bizantino: Schiavoni, Croati, Serbi ed altri rami slavi
ingombravano le regioni a levante dell'Adriatico; mettean tralci
infino al Peloponneso; frammezzati ad avanzi più o meno
frequenti delle antiche popolazioni; fatti cristiani di fresco; e dove
vicini temuti, dove tributarii, dove sudditi di Costantinopoli 358. Lo
sbocco principale di loro schiavi era l'Adriatico; gli emporii eran
tenuti da essi e dalle città latine e greche della costiera orientale; i
navigatori della costiera italiana aiutavano al trasporto; i
Musulmani del Mediterraneo, dalla Spagna alla Siria, più che altri
355
Su gli stanziali ed eunuchi slavi comperati dai principi musulmani in cotesti
tempi, si vegga Reinaud, Invasions des Sarrazins en France etc., parte IV, pag.
233, seg. - I nostri antichi non son mica esenti di biasimo nel commercio degli
schiavi. Nell'ottavo secolo i Veneziani ne cavavano gran guadagno e ne
teneano mercato anche a Roma. Il papa Zaccaria lo vietò nel 748. Veggasi
Anastasio Bibliotecario presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo
III, p. 164. Carlomagno riprese Adriano I nel 785 di tollerare questo scandalo;
e il papa si scusò dicendo che lo faceano i Greci e i Longobardi. Veggasi
Codex Carolinus, ediz. Gretser, epist. 75. Altri divieti simili ai Veneziani
nell'887 e 960 sono notati dal Muratori, Annali d'Italia, 960.
356
Leonis imperatoris, Tactica, cap. XVIII, presso Meursius, Opera, tomo IV,
e versione francese di Maizeroi.
357
Su questa promiscuità di schiatte che si menavano al mercato, veggansi le
autorità allegate da M. Reinaud, op. cit., p. 235, 236.
358
Constantini Porphyrogeniti, De administrando imperio, cap. 29, 31, 49, 50.
Si confronti con l'importante studio di Lelewel, Geographie du moyen age,
Bruxelles 1852, tomo III, capitolo Slavia.
popoli, consumavan cotesta merce, in soldati, paggi ed eunuchi. E
il Mehdi ne congegnò una macchina produttrice di novelle
derrate: il bottino, dico, e i prigioni che gli Slavi gli andassero a
buscare in terraferma d'Italia359.
La prima frotta, passata d'Affrica in Sicilia su barcacce,
piombava di notte a Reggio, nella state del novecentodiciotto;
prendea la città senza contrasto360. Sopravvenne, del novecento
ventiquattro, lo schiavo liberto slavo Mes'ud361, con venti galee; il
quale occupò la rôcca di Sant'Agata, quella, credo io, presso

359
Con queste bande di schiavi, la più parte forse non Musulmani, si poteva
eluder la legge che accorda quattro quinti della preda ai combattenti. Si vegga
più innanzi l'aneddoto del bottino d'Oria.
360
Chronicon Cantabrigiense presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 45,
an. 6246 (1° settembre 917 a 31 agosto 918). Debbo qui accennare altre fazioni
che si sono supposte. Il Rampoldi, Annali Musulmani, 919, 921 (tomo V, p.
148, 150), fa occupare da Salem-ibn-Râscid, emir di Sicilia, prima Lipari, pei
vari luoghi sul Volturno e sul Garigliano; e lo fa combattere a capo d'Anzio
contro Giovanni X. Quest'ultima è ripetizione gratuita del fatto del 916 del
Garigliano. Il nome di Salem è tolto da Nowairi; quel di Lipari non so donde;
il resto è accozzato di fantasia su qualche cenno degli annalisti italiani. Il
Martorana, tomo I, p. 84, ed il Wenrich, lib. I, cap. XII, § 104, replicano cotesti
fatti, citando Rampoldi, che ne dee rispondere veramente, e il Giannone, lib.
VII, cap. IV; il quale non recò tutte quelle favole, ma confusamente vi accennò
e v'aggiunse una novella banda saracena afforzatasi al Gargano. Così gli parve
correggere la voce Garigliano e con essa l'anacronismo di Liutprando,
Antapodesis, lib. II, cap. XLV.
Si legge nel Muratori, Annali d'Italia, e indi in quei che l'hanno compendiato o
anche combattuto. Che nel 919 Landolfo e Atenolfo riportassero non pòche
vittorie sopra i Saraceni a i Greci. La sorgente è un passo della Cronica del
monastero al Volturno, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I,
parte II, p. 418, nel quale si fa quel vago cenno senza data, dopo un documento
del 916. Ma il testo si riferisce in generale al regno di que' due principi, e però
allude alle vittorie che riportarono contro i Musulmani del Garigliano il 916 e
innanzi, e contro i Bizantini dopo il 920.
Finalmente le interpolazioni alla Cronaca della Cava e la falsa Cronica di
Calabria, portano tanti scontri dei paesani coi Musulmani; di che il Martorana
ha accettato alcuni e altri no.
361
Questo è dei nomi che i Musulmani solean porre agli schiavi.
Reggio362, e tornossene a Mehdia coi prigioni363. Assaporato il
qual guadagno, il principe apprestò maggiore espedizione,
affidata all'hâgib, o vogliam dir primo ministro, Abu-Ahmed-
Gia'far-ibn-Obeid; il quale veniva il medesimo anno con armata
poderosa a svernare in Sicilia364. Alla primavera del
novecentoventicinque passò in Calabria; s'insignorì di
Bruzzano365 e di molti altri luoghi; alfine andò ad osteggiare Oria,
in Terra d'Otranto. Fazione importantissima, sanguinosa, notata
nelle cronache cristiane con l'epigrafe: quest'anno, del mese di
luglio, Oria fu presa366; se non che oggi l'attestato d'uno scrittore
ebreo che vi fu fatto prigione dà precisamente il primo luglio367;
ed un brano d'annali musulmani ci fa argomentare che si fossero
ridotte in Oria le forze bizantine della Calabria, riparate le
popolazioni d'un gran tratto di paese, sostenuto un assedio o
almen mostrata la faccia a' nemici nell'assalto. Tanto significa il

362
In Calabria sola v'ha tre luoghi di tal nome.
363
Confrontinsi: Chronicon Cantabrigiense, l. c., an. 6432 (1° settembre 923 a
31 agosto 924), e Baiân, tomo I, p. 192, an. 310 (30 aprile 922 a 19 aprile
923).
364
Baiân, tomo I, p. 194, an. 312 (8 aprile 924 a 27 marzo 925).
365
Chronicon Cantabrigiense, l. c., an. 6433. Il nome è scritto senza punti
diacritici; ma Bruzzano par la lezione più plausibile.
366
Chronicon Barense, presso Muratori, Antiquitates Italicæ, tomo I, p. 31; e
Lupo Protospatario, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo V, p.
38; dei quali il primo attribuisce l'impresa ai Saraceni, e parla di uccisi e di
prigioni; il secondo la riferisce agli Sclavi, l'anno 924.
367
Sciabtai (o Sabbathai) Donolo, prefazione al libro Hakmoni, nella raccolta
di Miscellanee ebraiche, intitolata Melo-Sciofnayim, e pubblicata dal signor
Geiger, rabbino di Breslau, Berlino 1840, p. 31; da confrontarsi col MS.
ebraico della biblioteca imp. di Parigi, Ancien Fonds, 266. Il nome della città,
scritto senza segni vocali aur s, fece supporre una volta che si trattasse di
Aversa; ma non è dubbio che vada letto Aurias, Il giorno della occupazione è il
lunedì 9 di tammuz dell'anno ebraico 4685. Debbo cotesti ragguagli al dotto
orientalista signor Derembourg, che ha esaminato il MS. di Parigi.
Donolo (Δόμνουλος) ricomparisce medico famoso in Calabria verso la metà
del decimo secolo, e rivaleggia in sua arte col taumaturgo San Nilo il giovane.
Veggasi Vita sancti patris Nili junioris etc., greco-latina, pubblicata da Gio.
Mat. Caryophilo, Roma 1624, in-4, p. 88.
fatto che Gia'far v'uccise seimila combattenti, tra la battaglia e
dopo, s'intende; che trassene diecimila prigioni e presevi un
patrizio, il quale riscattava sè stesso e la città per cinquemila
mithkâl d'oro368, o vogliam dir settantaduemila lire italiane369. Il
capitan musulmano stipulò anco la tregua per tutta la Calabria,
datigli statichi a sicurtà del tributo, lo stratego della provincia e
un Leone vescovo di Sicilia370; coi quali ripartì per l'isola a'
diciannove di luglio371. Par si fosse fermato il trattato a Taranto;
poichè l'autore che testè citai, nato probabilmente in Calabria, il
dotto medico Sciabtai Donolo, narra che preso ad Oria con molti
altri Giudei, fu condotto a Taranto e quivi riscattato 372. Giunto in
Sicilia Gia'far significò immantinenti la vittoria al principe
fatemita; indi gli recò egli stesso il bottino a Mehdia: fece
ammonticchiare in una sala della reggia drappi di seta a disegni e
colori373, gioielli, moneta e ogni roba di pregio. Il Mehdi se li
godea con gli occhi, quando un cortigiano che gli era allato "Oh
padrone," sclamò, "non vidi mai sì gran tesoro!" e il Mehdi a lui:
"È il bottino d'Oria." Onde l'adulatore per bruciare incenso al
368
Baiân e 'Arîb, tomo I, p. 195.
369
Il mithkâl è nome di peso, e in oro equivale al dinar, ch'io ragiono a un di
presso a lire 14,50.
370
Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 46,
an. 6434 (1° sett. 925 a 31 agosto 926). La testimonianza concorde di Lupo
Protospatario, del Baiân e di Sciabtai Donolo ci fa supporre che la Cronica di
Cambridge abbia registrato il fatto nel settembre, quando forse arrivò in
Palermo Gia'far con la preda e i prigioni. Il Baiân e la detta Cronica mi è parso
che accennassero a due patti diversi; l'uno per la città d'Oria, l'altro per tutta la
Calabria; sotto il qual nome andava anco la terra d'Otranto. Di quale diocesi in
Sicilia fosse vescovo Leone non si ritrae. Non era egli al certo lo stratego di
Calabria, come ha supposto il Wenrich (lib. I, cap. XII, § 105, p. 141), male
interpretando la Cronica di Cambridge, e non riflettendo che l'impero bizantino
non affidò mai governi ai vescovi.
371
Il 25 rebi' secondo del 313. Baiân, l. c. Il testo dice positivamente che
Gia'far arrivò in Sicilia quel giorno. Le altre autorità citate mi portano a
correggere che partì per la Sicilia quel giorno.
372
Sciabtai Donolo, l. c.
373
Nel testo, dibâg, che è corruzione della voce greca δίβαφος, pervenuta agli
Arabi per mezzo dei Persiani, i quali la scrivono dibâh.
primo ministro, "Puoi chiamare uom fidato," ripigliò, "chi ti
riporta a casa tutto questo." Ma il principe avaro gli troncò la
parola: "Perdio, s'è mangiato il camélo e me ne reca gli
orecchi!"374 I prigioni furono venduti in Affrica375.
Intanto si fermava tra le corti di Mehdia e di Costantinopoli un
trattato che ratificò, a quanto parmi, i patti di Calabria e que'
d'Ibn-Korhob. Narra il Cedreno, com'apprestandosi Simeone re
dei Bulgari a nuovo assalto sopra la capitale dell'impero,
mandava a propor lega al principe d'Affrica ch'aiutasse dalla parte
sua col navilio; e l'Affricano assentiva e rinviava gli ambasciatori
bulgari insieme coi propri per ultimar la cosa, quando gli uni e gli
altri caddero in man de' Greci in Calabria e furon addotti a
Costantinopoli. Romano Lecapeno, per sturbare la lega, ritenne i
prigioni bulgari; rese gli affricani al signor loro, con doni e
profferta di soddisfare il tributo della Calabria; e sì bene condusse
la pratica, che il Fatemita fermava la pace con esso lui e gli
rimettea metà della somma promessa dalla imperatrice Zoe; onde
il tributo scemò a undicimila bizantini all'anno. E così rimase in
dritto fino alla esaltazione di Niceforo Foca (963); ma in fatto, gli
strateghi di Calabria onesti il pagavano, e i ladri si metteano il
danaro in tasca376. Tanto il Cedreno, senza data precisa e
sbagliando il nome del Mehdi377; il che non porta punto a mettere
in dubbio la cosa.
Cotesta pace e le vicende che le tenner dietro, dettero
argomento a supporre altra maggiore vergogna dell'impero
bizantino, che si è ripetuta infino ad oggi e sembra esagerata, anzi
374
Baiân, l. c.
375
Lupo Protospatario, l. c.
376
Cedreno, ediz. di Parigi, tomo II, p. 650; ediz. di Bonn, II, 356, seg.
377
Il nome nel testo è φατλου̃ν; forse dovea dire φατμου̃ν, perchè il Mehdi non
ebbe tra i suoi nomi questo di Fadhl; e, da un'altra mano, le lettere λ e μ si
scambiano assai facilmente nei manoscritti greci. Le Beau, Histoire du Bas
Empire, lib. LXXIII , § 53, pone questa negoziazione nel 923, ch'è la data d'una
delle tante imprese di Simeone contro Costantinopoli. Ma la narrazione del
Cedreno si può ben applicare ai tre anni seguenti, fino alla morte di Simeone.
D'altronde, la pratica di Simeone col Mehdi precedette forse di parecchi anni la
conchiusione della pace tra il Mehdi e Romano.
trasnaturata. Liutprando, trent'anni appresso il trattato378, scrivea
avere inteso a dire che Romano Lecapeno, quando gli si
ribellaron le Calabrie e la Puglia, non trovando modo a ripigliarle,
chiese aiuto ai Musulmani d'Affrica; ch'essi vennero in Italia con
esercito innumerevole; che, soggiogate le province, reserle ai
Greci; e fornita lor cortesia, «giraron verso Roma e s'andarono a
porre al Garigliano:» il quale anacronismo di mezzo secolo379, per
certo non aggiugne fede al racconto. Nelle altre croniche
cristiane, negli annali musulmani, non troviamo vestigia di
cotesta avventura380; a meno che il trattato riferito del Cedreno
non si voglia supporre anteriore alla fazione d'Oria, e questa
combattuta non contro le armi bizantine ma contro i ribelli: che
sarebbe far troppo lavoro di fantasia. Pertanto io tengo falsa la
tradizione; la quale nacque dal trattato di pace e dall'odio
immenso e giusto che portavano tutti gli Italiani ai Greci.
Liutprando l'accettò lietamente, non solo per quel suo
mortalissim'odio, e disprezzo e dispetto contro la corte di
Costantinopoli, ma anche per l'analogia dei fatti che seguivano al
suo tempo, quando gli strateghi bizantini di Calabria
sfacciatamente traccheggiavano con gli emiri di Sicilia. Il sol
patto tacito o espresso da sospettarsi tra il novecentoventicinque e
'l novecentotrenta, è che i Bizantini escludessero dalla tregua e
designassero ai Fatemiti le città di Calabria e Puglia che lor non
obbedivano e però non pagavan la quota del tributo musulmano.
378
Liutprando, Antapodesis, lib. II, cap. LXV, presso Pertz, Scriptores, tomo
III, p. 296. Si sa che l'autore cominciò a scrivere a Francfort verso il 958.
Pertz, vol. cit., p. 264.
379
Romano Lecapeno salì al trono il 919; regnò solo dal 920; perdè la Calabria
il 921. I Musulmani si afforzarono ai Garigliano verso l'882, e ne furono
scacciati il 916.
380
Il monaco dello stato romano Benedetto di Sant'Andrea, che scrisse negli
ultimi anni del decimo secolo una rozza cronica infiorata di romanzi, accenna
(presso Pertz, Scriptores, ec., tomo III, p. 713); le ambascerie dei Romani a
Palarmo et Africe, perchè venissero a pigliare il regno d'Italia, e dice ch'essi
andarono per tal cagione ad Amalfi e al Garigliano. Ma ciò si riferisce
evidentemente alle pratiche d'Atanasio vescovo di Napoli (879-882), e non
avvalora le parole di Liutprando, nè porta ad anacronismi.
A ciò dunque si ristringa il biasimo dei Bizantini; e si cancelli
dalla storia quella impossibilità dell'Italia meridionale racquistata
da loro con eserciti musulmani381.
Tra gli stati independenti dall'impero greco, le città che gli si
ribellavano, e gli strateghi che differivano a pagare il tributo, non
mancò occasione di preda alle soldatesche slave. Di luglio
novecento ventisei preser Siponto, capitanati, al dir d'una cronica,
da Michele re loro382, forse zupano, come si chiamava il primo
magistrato delle repubbliche slave della Dalmazia, e però venuto
a dirittura e dassè, non d'Affrica da servidore del Mehdi. Ma il
costui paggio slavo Sâin, l'anno appresso, che cadde nel
trecentoquindici della egira, passava d'Affrica in Sicilia con
quarantaquattro navi la più parte da guerra: accozzate le sue con
le genti dello emir di Sicilia, facea vela per Taranto; assediava la
città, difesa virilmente dagli abitatori; entrava d'assalto; menava
strage degli uomini da portar arme, e mandava il rimanente della
popolazione a vendere in Affrica383. Del novecentoventotto, par
che l'esercito di Sicilia e gli Slavi si fossero divisi per portar la
381
Non ci dee ritenere la grande autorità del Machiavelli, il quale accettò il
racconto di Liutprando in un quadro generale (Istorie fiorentine, lib. I, nel
paragrafo che principia "Era intanto morto Carlo imperatore"). Ognun sa che ai
tempi del Segretario Fiorentino le sorgenti della storia d'Italia erano la più
parte ignote o incerte. La stessa ragione non vale a favor del Giannone, lib.
VII, cap. IV; e molto meno del Martorana, tomo I, p. 84, cap. III, e del
Wenrich, lib. I, cap. XII, § 104, p. 139, 140.
382
Confrontinsi: Lupo Protospatario e la Cronaca di Bari, presso Pertz,
Scriptores, tomo V, p. 54; Chronicon Sanctæ Sophiæ Beneventi, presso
Muratori, Antiquitates Italicæ, tomo I, p. 253; Romualdo Salernitano, presso
Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo V, an. 926. L'indizione 15a
corregge lo sbaglio della Cronica di Bari che dà l'anno 928. Il nome d'Istachael
scritto in alcune edizioni di Lupo, va letto Michael.
383
Si confrontino: Ibn-el-Athîr, an. 313, MS. A, tomo II, fog. 234 verso; e
MS. C, tomo IV, fog. 304 recto; Baiân, tomo I, p. 199, an. 315 (7 marzo 927 a
23 febbraio 928); Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 13, 14,
an. 316; Lupo Protospatario, e Cronica di Bari, l. c., an. 927; Ibn-Khaldûn,
Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 162. Nella Cronologia historica, di Hazi
Halife (Hagi Khalfa), versione del conte Carli, Venezia 1697, p. 59, si legge
questa impresa di Taranto, che manca nel testo persiano di Parigi.
guerra in due province diverse. Il primo, andato a campo ad
Otranto, espugnavala il diciassette agosto; distruggea le case e
s'apprestava a correre altri paesi, quando una moría lo costrinse a
tornarsi in Palermo384. Sâin co' suoi Slavi assaliva i principati
longobardi dalla parte del Tirreno; prendeavi parecchie fortezze,
tra le quali le memorie musulmane notano una Ghirân ossian "Le
Grotte," ed una Kalat-el-Khesceb, ch'è a dir "La Rocca del
Legno:" nomi da non si riconoscere agevolmente nella nostra
topografia del medio evo, poi ch'è evidente che i vincitori li
posero a capriccio o li tradussero in lor linguaggio. Fatto fardello
quanto potè, Sâin si appresentava a Salerno; i cui cittadini
comperaron la pace a prezzo di danaro e drappi di seta dibâg385.
Donde passato a Napoli, la sforzava a simil patto; se non che
prese danaro e vesti, dice la cronica386: senza dubbio per significar
le pezze di tela di quel lavorío che non avea pari al mondo e facea
la ricchezza della città, com'afferma il mercatante arabo Ibn-

Debbo avvertire che la discrepanza delle croniche mi sforza ad ordinare i fatti


alla meglio, senza la certezza ch'io soglio ricercare. Per esempio, un dice che
Sâin venne con 44 navi; un altro gli dà 33 navi da guerra; chi parla delle forze
unite di Sâin e dell'emir di Sicilia, chi di Sâin solo; chi sbaglia evidentemente
le date; chi confonde in un sol anno tutte le imprese; chi pone i nomi
geografici, e chi no; chi li scrive in guisa da doversi indovinare la giusta
lezione. Ciò sia detto per tutte queste fazioni dal 927 al 929.
384
Ibn-el-Athîr e Nowairi, ll. cc. Prendo la data dalla Cronica di Cambridge, l.
c., an. 6436 (1° settembre 927 a 31 agosto 928), ove credo si debba leggere
Otranto in vece di Zarniwah, che fu messo a caso nelle edizioni precedenti.
Otranto si legge chiaramente negli altri due autori citati.
385
Si vegga la nota 3, a pag. 173 di questo volume.
386
Il Baiân, sola sorgente di questo fatto, adopera la voce thiâb, plurale di
thaub; e significherebbe vestimenta, in generale, ovvero, secondo l'uso
moderno d'Egitto, un camicione che le donne soglion mettere sopra tutti gli
altri abiti quand'escono fuor di casa: una specie di dominò. Si vegga Dozy,
Dictionnaire détaillé etc., p. 106. Ma Ibn-Haukal parlando appunto di Napoli,
come si vedrà nella nota seguente, usa la stessa voce al singolare e al plurale,
nel significato certissimo di tela di lino in pezza. Le pezze che valean da
cinque a secento lire ciascuna non faceano ingombro: e così interpretato parrà
più verosimile questo passo del Baiân.
Haukal, trovatosi a Napoli una quarantina d'anni appresso387. Sâin
riscosse anco il tributo della Calabria e fece ritorno in Palermo
col bottino e numero grandissimo di prigioni388.
Ma l'anno seguente, com'e' par che gli strateghi di Calabria
andasser sempre a rilento nel pagare, Sâin si mostrò
nell'Adriatico, con quattro navi grosse. Imbattutosi nello stratego
che n'avea ben sette, lo slavo non se la stette a pensare che l'assalì
e il vinse. Sbarcato poi, prendea Termoli nel mese di settembre o
d'ottobre; e si riducea alfine a Mehdia con dodici migliaia di
prigioni389. Fu ultima di sue scorrerie questa del
novecentoventinove. E credo che in tal tempo l'armata e le genti
slave fossero venute a svernare ogni anno in Palermo, e che parte
ve ne rimanesse a mercatare dopo la partenza di Sâin; poichè il
387
Ibn-Haukal, testo arabico, nella mia Biblioteca Arabo-Sicula, p. 10, 11, cap.
IV, § 2. Probabilmente questo infaticabile viaggiatore andò a Napoli poco
prima o poco appresso di Palermo, ove si trovò l'anno 362 dell'egira (972-3).
Ibn-Haukal dice aver veduto egli stesso a Napoli questi bellissimi tessuti di
lino, che da un'altra espression del testo possiam supporre anco ricamati
ovvero operati a damasco. Ogni thaub, lungo 100 dsira' e largo da 10 a 15, si
vendea più o meno 150 robâ'i, o vogliam dir quarteruoli d'oro. Cotesta moneta
usata in Sicilia dal X al XII secolo torna in peso di metallo a lire 3,80. La
dsira', o dra, come pronunzian oggi, vuol dir braccio; e tra le varie maniere,
che ve n'ebbe e ve n'ha in Oriente, è probabilissimo che Ibn-Haukal abbia
ragionato con quella chiamata "negra" ch'era a un di presso 0,48 metri.
S'aggiunga questo agli altri copiosi materiali che abbiamo per la storia
dell'industria italiana nel medio evo. Spieghin poi gli eruditi il lavorío di
cotesta tela sì fina, larga da 5 a 7 metri, che si vendea 570 lire la pezza di 48
metri, e dicano se si debba supporre errore nei numeri scritti da Ibn-Haukal.
388
Confrontinsi: Chronicon Cantabrigiense, l. c., an. 6437 (1° settembre 928 a
31 agosto 929), e Nowairi, l. c. La prima dice che in Lombardia non fu
espugnata da Sâin alcuna "città;" e ciò si accorda con la tradizione del Baiân,
citata di sopra. La data posta nella Cronica di Cambridge par quella del ritorno
fin Palermo sul finir della state, è però nel 928.
389
Confrontinsi: Chronicon Cantabrigiense, l. c., an. 6436 (1° settembre 929 a
31 agosto 930); Baiân; tomo I, p. 201, an. 317 (13 febbraio 929 a 1 febbraio
930). Le due croniche notano concordemente essere stata questa la terza
espedizione di Sâin. Ho scritto così il nome secondo la lezione della Cronica di
Cambridge, e di quella di Gotha. Il Nowairi ha Sâreb. Il dotto editore del
Baiân corresse Sâber.
rione più grosso della città, contiguo al porto, si addimandò il
Quartiere degli Slavi390.
Lunga pezza poi respirò l'Italia meridionale sendo stato
soddisfatto il tributo dai Bizantini fino alla morte del Mehdi391;
racceso poscia il fuoco della guerra civile in Sicilia; e nel
frattempo rivolte le forze navali dei Fatemiti contro Genova. In
que' primordii della repubblica, sembra già cresciuto il
commercio, poichè attirò gli avvoltoi, fatemiti. Abu-l-Kasem-
Mohammed, figliuolo del Mehdi, salito al trono il
novecentotrentaquattro, allestiva immantinenti un'armata di trenta
legni da guerra392; con la quale Ja'kûb-ibn-Ishak corse la riviera
ligure, sbarcò nei contorni di Genova, fecevi bottino e prigioni393.
Donde Abu-l-Kasem, ragunato novello esercito il
novecentotrentacinque, rimandavalo in quelle parti. I Musulmani
allor posero l'assedio alla città; apriron la breccia394; entrati con la
spada alla mano fecero carnificina degli uomini, preser le donne e
i fanciulli, saccheggiaron le case e i tesori delle chiese 395 e
rimontarono su lor legni. Di passaggio approdano in Sardegna;
opprimon col numero que' fieri isolani; lor ardono molte navi; fan
lo stesso gioco in Corsica396; e impuni se ne tornano a Mehdia,
390
Ibn-Haukal nella descrizione di Palermo dà questo nome topografico. In
oggi si chiama il Quartier del Capo.
391
Nowairi, l. c.
392
Dsehebi. Mi par bene dì accennare distintamente la origine dei particolari
che sappiamo di questo fatto importante della storia italiana.
393
Ibn-el-Athîr, Ibn-Khaldûn. Nel confuso racconto di Dsehebi si fa anche
cenno d'un assalto anteriore a quello in cui fa presa la città.
394
Dsehebi.
395
Liutprando: Cunctosque civitatis et ecclesiarum thesauros. Non credo si
debba intendere del comune e della chiesa, ma de' cittadini etc.
396
Così chiaramente nel manoscritto di Dsehebi. In que' d'ibn-el-Athîr si legge
chiaramente Karkesia, e così in uno de' due squarci d'Ibn-Khaldûn, ove si
aggiugne "su le spiagge di Siria." Ciò ha spinto l'erudito baron de Slane a
correggere "Cesarea;" sendo grossolano errore Karkesia. Ma ibn-Khaldûn, o il
copista, par che abbia aggiunto quella spiaggia di Siria, appunto perchè non gli
venne a mente che si trattava della Corsica. Ciò mi par certo dalla narrazione
d'Ibn-el-Athîr, il quale parla di unica espedizione a Genova, in Sardegna e in
quel terzo paese.
recando in cattività un migliaio di donne italiane397. Così
leggiamo ne' ricordi loro il lagrimevol caso di Genova398,
accennato appena dai nostri scrittori del tempo, con giunta
dell'avviso che n'avesse dato il Cielo, tingendo di sangue una
polla d'acqua399. Alla fine del decimoterzo secolo, non bastando
tal prodigio alla repubblica potente e vittoriosa, si finse una
terribile vendetta: come la gioventù genovese fosse ita fuori con
l'armata; come al ritorno, vedendo la città vota, d'un subito rivolte
le prore in caccia de' Saraceni, colseli che si godean l'acquisto in
un isolotto disabitato presso la Sardegna, ne fece un monte di
cadaveri, e riportò a casa le mogli, le sorelle, i figliuoli. Favoletta
sì semplice che par trovata pei bambini; e sta bene in bocca di chi
la compose o la ripetè: Iacopo da Varaggio, arcivescovo di
Genova, compilator della Leggenda Dorata400.

CAPITOLO IX.

Non fia lungo a narrare le vicende interiori della Sicilia da una


rivoluzione ad un'altra. Ressela per venti anni, con titolo di emir,

397
Dsehebi.
398
Si confrontino: Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum
Arabicarum, p. 46, an. 6442 (l° settembre 933 a 31 agosto 934); Ibn-el-Athîr,
MS. B, tomo I, p. 149 e 163, e MS. C, tomo IV, fog. 321 verso e 325 verso,
anni 322 (21 dicembre 933 a 9 dicembre 934), e 323 (10 dicembre 934 a 28
novembre 935); Baiân, tomo I, p. 216; Nowairi, presso Di Gregorio, op. cit.,
pag. 14; Dsehebi, Tarîkh-el-Islâm, an. 323, manoscritto di Parigi, Ancien
Fonds, 646, fog. 505 verso; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique etc., p, 162,
163, e Storia dei Fatemiti, manoscritto di Parigi 742 quater, tomo IV, fog. 18
verso, con la versione datane da M. De Slane nella Histoire des Berbères dello
stesso Ibn-Khaldûn, tomo II, p. 529, appendice.
399
Liutprando, Antapodesis, lib. IV, cap. V, presso Pertz, Scriptores ec., tomo
III, p. 316.
400
Iacopi de Varagine Chronicon, presso Muratori, Rerum Italicarum
Scriptores, tomo IX, p. 10.
quel Sâlem-ibn-Rescid, lasciatovi alla partenza d'Abu-Sa'îd401. Ma
l'autorità era mutilata. Le fazioni in Terraferma, com'abbiam
visto, si condussero per capitani mandati apposta d'Affrica; nelle
quali, se talvolta andò Sâlem, fu da ausiliare402. Il navilio
siciliano, che diè tanta briga al Mehdi al tempo d'Ibn-Korhob,
combatteva ora gli ortodossi sudditi degli Abbassidi in Egitto; i
quali ben sapeano che i Siciliani ci andassero contro voglia. E
però dopo la giornata navale che guadagnarono gli Abbassidi
fuori Rosetta (919), menati a terra i prigioni, il popolo di Misr nè
scevrò i Kotamii per ammazzarli; perdonò la vita ai Siciliani,
Tripolitani e abitatori dell'Africa propria403. Del
novecentoventisette; venne d'Affrica a por taglie404 su la Sicilia, il
figliuolo dell'emiro Sâlem, con due sceikhi405 detti il Belezmi e il
Kalesciani406; e tornovvi del trentadue, con preposti nuovi: Ibn-
Selma e Ibn-Dâia; i quali aggravaron la mano sul popolo, ma
rappresentatisi a corte l'anno appresso, caddero in disgrazia del

401
Il Martorana, tomo I, p. 86 e 215, nota 115, seguito dal Wenrich, crede
personaggi diversi Salem emiro del 917 e Salem del 937, fondandosi in su
questo, che Nowairi aggiunga nel primo caso il nome patronimico Ibn-Ased; e
Abulfeda nel secondo, Ibn-Rescîd. Tal supposto or si dilegua con l'autorità
degli altri compilatori citati nel capo VII, p. 160, e soprattutto d'Ibn-el-Athîr, il
quale scrive Sâlem-ibn-Rescîd sì nel 313 e sì nel 325 dell'egira.
402
Si vegga il Capitolo precedente, p. 170, seg., 176.
403
Eutichii, Patr. Alexandrini annales, tomo II, p. 508, 509. Questo scrittore,
poco men che contemporaneo, è il solo che narri l'episodio dei prigioni
risparmiati; tra i quali pone in primo luogo i Siciliani. Ei riferisce la battaglia al
307 dell'egira; ma Ibn-el-Athîr, MS. C, tomo IV, fog. 298 recto e verso, la
scrive nel 306 (13 giugno 918 a 1 giugno 919); e la Cronica di Cambridge nota
nel 6427 (1 settembre 918 a 31 agosto 919) la spedizione dei Fatemiti in
Alessandria.
404
Taglieggiare è versione litterale del testo arabico. Donde sappiamo questo
dazio insolito e gravoso, ma non di che natura el fosse.
405
Così la Cronica. Sceikh, vecchio, indi anziano, senatore, capo d'una
frazione di tribù, capo d'un villaggio, o semplicemente preposto o dottore.
406
Cioè il primo di Belezma, città d'Affrica che abbiam citato altrove; il
secondo, di Kalesciana a 12 miglia da Kairewân, della quale il Bekri, Notices
et Extraits des MSS., tomo XII, 479.
padrone407; parendogli forse, che del camelo, com'ei solea dire,
gliene avessero recato gli orecchi408. Veggiamo infine che Sâlem
accordava la tregua a Taormina e altre castella dei Cristiani dì
Sicilia nella state del novecentodiciannove409. Da tutto ciò è
manifesto che il Mehdi adoperasse in Sicilia l'espediente tollerato
dai pubblicisti musulmani del tempo: scindere l'emirato in due
oficii, l'un di guerra e polizia, l'altro di azienda e giurisdizione410;
e che non contento a ciò, togliesse l'occasione e le forze da far la
guerra. Un capitan generale della sbirraglia con l'antico titolo
d'emir; un presidio di Kotamii o fanti poliziotti, com'or diremmo;
pace coi Cristiani dell'isola, per lasciarvi disarmati i coloni; gli
affari d'azienda e di guerra accentrati in Affrica: con questi ordini
il Mehdi tenne la Sicilia. Usò modi somiglianti con le popolazioni
arabiche d'Affrica. In generale serbò la pace con l'impero
bizantino, e con le popolazioni berbere independenti. Meglio che
la spada, amò la penna, i raggiri fiscali, gli artifizii da gran
maestro, ai quali era stato educato. Condusse per man del
figliuolo la guerra d'Egitto, saviamente ostinandosi a quel
conquisto; ma non gli riuscì.
La morte del Mehdi, seguita il tre marzo novecentrentaquattro,
si riseppe in Sicilia il venticinque agosto; poichè il figliuolo che
gli succedette, Abu-l-Kasem-Mohammed, soprannominato El-
Kâim-biamr-illah, la occultò quanto ei potè411, temendo gli umori
ostili degli Arabi d'Affrica, le sètte karegite dei Berberi e lo
scompiglio che dovea recare nella setta ismaeliana la disparizione
del semideo. A' dieci marzo. del medesimo anno, fu morto
dinanzi il palagio di Sâlem in Palermo, un Rendasc, governatore
di Taormina412: questo sol ne sappiamo; ma il nome greco ci porta
a supporlo capitan del municipio cristiano che avesse infranto la
407
Cronica di Cambridge, op. cit., p. 45.
408
Si vegga al Capitolo VIII, p. 172, 173.
409
Cronica di Cambridge, op. cit., anno 6427.
410
Si vegga il Capitolo I di questo Libro III, p. 3 in nota.
411
Confrontinsi: Cronica di Cambridge, op. cit., p. 46, anno 6442; Ibn-el-
Athîr, anno 322, MS. B, p. 149, MS. C, tomo IV, fog. 321 verso; Baiân, tomo
I, p. 216. Questi due ultimi dicono occultato il caso più a lungo.
tregua, e caduto in mano di Sâlem fosse mandato al supplizio. Il
diciannove poi d'ottobre, ingrossati per piogge i torrenti delle
montagne che circondano Palermo, calamità troppo frequente, si
rovesciarono su la città, portaron via molte case fuori e dentro le
mura, e v'annegò della gente413. Corso poco più d'un anno,
l'undici luglio del trentasei, soffiò sopra l'isola uno scirocco sì
infocato, ch'arse le frutta in sugli alberi; nè quella stagione si potè
far vendemmia414.
Ridestossi nel trentasette la rivoluzione a Girgenti; la quale
città par che il governo fatemita non avesse disarmato nè
imbrigliato al par di Palermo, in grazia, sia del sangue berbero,
sia della pinta data a Ibn-Korhob. Ciò non togliea nè l'avarizia del
fisco, nè i soprusi degli oficiali di Sâlem; sul quale piombò l'odio
dei Girgentini, come d'ogni altro musulmano di Sicilia. Levatosi
dunque il popolo, a' diciassette aprile, contro Ibn-'Amrân ch'era
'âmil, o, diremmo noi, delegato di Sâlem in Girgenti, lo andarono
ad assalire in Caltabellotta, forte rôcca a trentadue miglia, ov'ei si

412
Cronica di Cambridge, op. cit., p. 47, anno 6442. Il nome somiglia a quel di
Randazzo, grossa città surta in Sicilia nel medio evo, che in Edrisi leggiamo
Rendag. Sembra di origine greca, poichè la Storia Miscella, presso Muratori,
Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte I, p. 150, ricorda un patrizio
Sisinnio soprannominato Rendacium, sotto Leone Isaurico; e la Continuazione
di Teofane nel regno di Romano Lecapeno, § 4, parla di un ̉Ρεντάκιος uom
dell'Attica, e forse ateniese, parente del patrizio Niceta; il qual nome è scritto
con le stesse lettere da Giorgio Monaco, e ̉Ρεντάκης da Simeone (ediz. Bonn,
p. 399, 891, 732). Nulla toglie che il governatore di Taormina fosse
appartenuto alla medesima famiglia, e che da lui o da altri fosse venuto il nome
di Randazzo. Che il caso seguisse in Palermo non mi par dubbio, Quantunque
la Cronica dica: «innanzi il palagio (Kasr) di Sâlem.» Non v'ha memona di
terra in Sicilia chiamata Kasr Sâlem (il nome attuale di Salemi è corruzione
dell'arabico Senem, idolo o statua); e la stessa Cronica, notando poi la morte
dell'emiro, aggiugne che seguì nel suo kasr. Probabilmente il palagio vecchio,
al quale rimase il nome di Salem, per essere stato l'ultimo emiro che vi
soggiornò; tramutati poi gli ofici pubblici ecc. nella Khalesa.
413
Confrontinsi: Cronica di Cambridge, ann. 6443, presso Di Gregorio, Rerum
Arabicarum, p. 47; Nowairi, op. cit., p. 14.
414
Cronica di Cambridge, l. c., anno 6444.
tenea sicuro con suoi gendarmi415; e, fatto impeto nella fortezza, il
capo fuggì; gli sgherri furono svaligiati. Al quale annunzio Sâlem
mandava Abu-Dekâk, Kotamio, con le genti di sua tribù, le
milizie siciliane, e i fanti di Meimûn-ibn-Musa, che sembran altra
caterva di gendarmi: e Abu-Dekâk s'era messo a stringere 'Asra,
terra d'incerto sito416, tra Palermo e Girgenti e rivoltata anch'essa,
quando lo sopraggiunsero i Girgentini. Appiccata la zuffa il
ventiquattro giugno, par che i soli a combattere tra i regii fossero
stati que' di Kotama; poichè di lor soli si narra la sconfitta e la
strage, nella quale cadde anco il capitano, e la prigionia dei
rimagnenti. I vincitori marciarono sopra Palermo. Dove, o che il
popolo non si fidasse per anco di levar la testa, o che il movesse
l'antica nimistà coi Girgentini, si lasciò condurre da Sâlem e da
Meimûn-ibn-Musa a combattere per gli oppressori. Scontrati i
Girgentini, il due luglio, a Mesîd-Bâlîs417, i Palermitani li ruppero
dopo fiero combattimento, e li inseguiron fino a' mulini di
Marineo418. Se fosse lecito di ristorar a conghietture le memorie
de' tempi, diremmo risolutamente che la nobiltà palermitana non
415
Il testo ha N rd barîn, che non dà significato. I primi editori lessero
Brediaræos. Probabilmente è la voce persiana Bardadâr, guardie palatine.
416
Il nome non sarebbe molto diverso da Asaro, l'antica Assorus; ma l'a scritta
con un'ain indica origine arabica; e il sito di Asaro presso Leonforte si
allontana troppo a levante dalla via tra Palermo e Girgenti. Mancando di vocali
il MS., questo nome si potrebbe leggere Osra, che significherebbe "asilo,
riparo," e sarebbe nome di luogo oggi sconosciuto.
417
La Cronica di Cambridge, la sola che fornisca questo e gli altri particolari
della guerra, dà il secondo vocabolo in guisa da potersi anco leggere Tâlis,
Nâlìs, Iâlis e Mâlis. Il primo è suscettivo della ottima lezione Mosciaiad, che
significherebbe "edifizio, monumento." Non mi sovviene di nomi topografici
antichi o moderni di Sicilia che ci aiutino a trovare il vero nome e il sito
preciso, che dovea essere molto vicino a Palermo. Ma Bâlîs è nome d'una
provincia tra il Sind e il Segestân, Geografia d'Edrisi, versione francese, I,
444, 449. Bâlis o Bâles era picciola città su la sponda occidentale dell'Eufrate.
Veggansi: Ibn-Haukal., MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 885, fog. 85 recto; Edrisi,
op. cit., I, 335; Jakût, Merâsid, ediz, di Leyde, I, 122; Abulfeda, Geografia,
testo arabo, ediz. di Parigi, p. 268. In Ispagna era città (Velez Blanco?) nella
provincia di Begiâia e porto tra Alicante e Cartagena. (Edrisi, op. cit., tomo II,
p. 14, 39.).
proseguì volentieri la guerra contro i ribelli; che cercò di
patteggiare col governo e resistergli, avendo di nuovo le armi alla
mano. Certo, che la rivoluzione non fu repressa a Girgenti, e che
a capo di due mesi divampò in Palermo.
Dove la domenica diciassette settembre sorgea contro Sâlem il
popolo condotto da un Ibn-Sebâia e un Abu-Târ419; ai quali
l'emiro fe' testa, notandosi che gli fu ucciso nella zuffa un Abu-
Nottâr, detto il Negro: qualche gran colonna della polizia al suo
tempo. Nondimeno rimase l'avvantaggio a Sâlem, poichè ei
faceva impalare parecchi ribelli il dì venti nell'arsenale. Più
poderosi stuoli corsero alle armi, il sette ottobre; ritentarono la
prova; e furono sconfitti di nuovo da Sâlem ed assediati nella
città vecchia, ov'e' si ritrassero420. Pure finì senza molto sangue.
Avea Sâlem fin dai primi movimenti scritto al principe: tutta la
Sicilia essere rivoltata; se non la volea perdere, mandasse
rinforzi; e i notabili dell'isola, titubanti nella ribellione, aveano
spacciato altre lettere nelle quali diceano voler obbedire al califfo,
ma che non poteano sopportare quel tiranno di Sâlem. Donde
Kâim, lor ne mandò un altro di tempra più fina; con possente
esercito, nel quale contavansi parecchi condottieri421, forse di
418
Lo stesso MS. ha M r nuh, Marineo, a 17 miglia da Palermo, sovrasta al
fiume di Misilmeri, appunto su la strada per la quale doveano ritirarsi i
Girgentini. Le due battaglie senza particolari di leggono in Ibn-el-Athîr, anno
325; e in Nowairi, presso Di Gregorio, p. 14, 15. Abulfeda, anno 325, dà
appena un cenno della rivoluzione.
419
Così la Cronica di Cambridge. Il Nowairi ha invece Ishâk-Bostâni (ossia il
giardiniere) e Mohammed-ibn-Hamw. Probabilmente son le medesime
persone. Ibn-Sebâia potrebbe essere il nome patronimico d'Ishâk
soprannominato Il Giardiniere; ed Abu-Târ, il soprannome di Mohammed.
Quanto al nome patronimico di quest'ultimo, forse va corretto Hammoweih, e
sarebbe d'origine persiana. Il Martorana, tomo I, p. 88, e con lui il Wenrich,
arbitrariamente danno i due primi come capi del tumulto del 17 settembre, e i
due secondi di quello del 7 ottobre.
420
Cronica di Cambridge, op. cit., p. 48, anno 6446, e ve n'ha un cenno in Ibn-
el-Athîr, anno 325, e in Nowairi, op. cit., p. 15.
421
Ibn-el-Athîr e Nowairi, ll. cc. Il secondo, che par abbia copiato qui la
cronica primitiva, dice: «con un esercito e parecchi kâid.» Perciò questa voce
non sembra adoperata nel significato generale di capitani d'esercito, ma in quel
soldatesche422 mercenarie. Il capitan supremo ebbe nome Abu-
Abbâs-Khalîl-ibn-Ishâk-ibn-Werd. Nato in Tripoli di nobile
famiglia arabica, s'era dato in gioventù agli studii, alla devozione,
alle ascetiche fantasie dei sufì; poi s'era venduto ai Fatemiti,
fattosi ministro d'espilazioni e di supplizi contro i proprii
concittadini; rimeritato con oficii d'azienda, con governi di città; e
n'abusò, sapendosi che pericolò la vita sotto l'avaro Mehdi, e che
campò per intercessione di Kâim; il quale, salito al trono, lo fe'
capitano della cavalleria d'Affrica, con giurisdizione sul giund e
sul navilio423. Questo suo fidatissimo deputò all'impresa di Sicilia.
Sembra, che parte dell'armata fosse allestita in fretta a Susa.
Poichè torna a tal tempo la leggenda affricana che, avendo i
calafati svelto i cippi del cimitero di Susa per far puntello alle
navi che si racconciavano per la spedizione di Sicilia, niuno osò
toccare la pietra sepolcrale del devoto Iehia-ibn-Omar-ibn-Iusûf,
dalla quale si vedea raggiare una portentosa luce424.
Khalîl, arrivato in Palermo a' ventitrè ottobre425, fe' buon viso
ai cittadini, che gli si appresentarono protestando lealtà al califo;
ed ascoltò lor querele contro Sâlem; le quali furono ripetute con
molte lagrime e strida dalle donne, uscite anch'esse dalla città,
menando seco i fanciulli: doloroso spettacolo che commosse
quanti il videro, scrive Ibn-el-Athîr, e ne piansero per pietà.
Ripeteano tantosto le accuse contro Sâlem i deputati delle altre
terre dell'isola, e i Girgentini medesimi che si sottomessero.
Khalîl soddisfece in apparenza ai Siciliani con deporre d'oficio gli
'âmil di Sâlem: commedia ripetuta e applaudita in tutti i tempi.
Quanto a Sâlem, nè andò via da Palermo, nè perdè il titol di
emiro, nè par gli fosse tolta altra autorità, che il comando

di condottieri di corpi minori.


422
Nell'originale "soldadatesche". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
423
Confrontinsi: Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 104
recto; e Baiân, tomo I, p. 225, anno 325.
424
Riadh-en-Nofûs, fog. 60 recto. Iehia era morto verso il 290. Però ho
supposto che si tratti di questa impresa o dell'altra del 916.
425
Così la Cronica di Cambridge, op. cit., p. 48, anno 6446. Nowairi, op. cit.,
dice alla fine del 325; il che torna allo stesso con poco divario.
dell'esercito426. Di che imbaldanziva tanto l'animo servile, da non
sapersi frenare una volta che, abboccatosi coi deputati girgentini e
punto forse da loro, rimbeccò: non ridessero poi tanto;
aspettassero, e vedrebbero se il principe non avea mandato Khalîl
a vendicare il sangue dei soldati uccisigli nella rivoluzione427.
Calmati che parvero i Siciliani, Khalîl diè opera al freno da por
loro in bocca. Il palagio o castello degli emiri in Palermo giacea
fuor la città vecchia, nel medesimo luogo ov'è adesso la reggia428.
Provano ciò le stanze dei soldati rimaste lì presso nel decimo
secolo429, e il portico, o, come lo chiamarono ai tempi normanni,
la Via coperta, che dalla cattedrale riusciva a quel sito e che per
certo, ai tempi musulmani, avea congiunto il palagio alla moschea
giâmi'; sì come a Cordova430, a Kairewân431, e ad Algeri432. Posto
dunque ad un miglio dal mare, e standovi di mezzo città sì forte e
popol sì contumace, il palagio non era bel soggiorno agli emiri
negli spessi tumulti palermitani. Al contrario, la penisola in sul
porto dove par si fosse accampato Abu-Sa'îd nell'assedio del
novecento sedici433, offeriva sito difendevole, aperto agli aiuti di
fuori, ed acconcio a vietarne ai Palermitani. Khalîl vi gettò subito
le fondamenta d'una cittadella cui diè nome El-Khâlisa, che suona
426
Si vegga qui appresso, Lib. IV, Cap. 1, p. 236. Sâlem rimase al certo in
autorità insieme con Khalîl. Senza questo non si può trovare ragione plausibile
dell'abboccamento coi Girgentini, nè dell'essere lui rimaso in palagio vecchio;
nè del titolo di emir che gli si dà alla morte.
427
Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, Nowairi e Ibn-Khaldûn, ll. cc.
428
Fazzello, Deca I, lib. VIII, cap. II, scrive del palagio reale di Palermo: Hanc
(arcem) a Sarracenis primum Panormum adeptis, super veteris arcis ruinis
excitatam literæ in eo incisæ indicant. Ma nè egli dà, nè si è mai trovata la
iscrizione, e però non allego tal testimonianza.
429
Ibn-Haukal, Description de Palerme, nel Journal Asiatique, IVe série, tomo
V, p. 95.
430
Makkari, Mohammedan dynasties in Spain, versione di Gayangos, tomo I,
p. 220; Edrisi, Geographie, vers. di Jaubert, tomo II, p. 58 seg.
431
Bekri, versione di Quatremère, Notices et Extraits, tomo XII, p. 473.
432
Bargès, descrizione della Moschea principale d'Algeri al 1830, nel Journal
Asiatique, série IIIe, tomo XI, p. 182. Quivi non si dice in vero che di una porta
di comunicazione col palagio del governatore.
433
Veggasi il cap. VII di questo Libro, p. 157, 158.
"L'eletta;" e in vero dovea rinserrare il fior dei leali: l'emiro, i
suoi mercenarii da spada e da penna; palagio, arsenale, oficii
pubblici; prigione: tutta la macchina governativa; come una
Mehdia in piccolo, circondata di mura, e molto bene afforzata434.
All'uso dei tempi, Khalîl435 risparmiò danari, sforzando la gente a
lavorarvi436; oltrechè fece abbattere le mura della città vecchia, e
toglierne un'altra fiata le porte437. I Palermitani fremevano, e non
poteano dar crollo. Ma i Girgentini, addandosi che Sâlem avea
ragione, vollero ripigliare le armi pria che Khalîl non architettasse
qualche altra cittadella in casa loro.
Onde afforzan le mura alla meglio; fanno preparamenti di
guerra: Khalîl, dal suo canto, accozzò grosso esercito, tra i
Siciliani e le forze recate d'Affrica; coi quali movea di Palermo il
nove marzo del novecentrentotto. Usciti i Girgentini allo scontro,
vinsero per sanguinosa battaglia, nella quale cadeano due capi di
gran nome tra i regii: Ibn-abi-Khinzîr, ch'è lo stesso casato
dell'emiro del novecentoundici; ed Ali-ibn-abi-Hosein della tribù
di Kelb, genero di Sâlem e ceppo della dinastia che poi regnò in
Sicilia. Pur l'esercito regio, poderoso e condotto dalla volontà
inflessibile di Khalîl, non ostante la prima sconfitta, continuò
l'assedio per otto mesi; nei quali non passò giorno che poco o
molto non si combattesse; finchè, sovrastando la stagione
piovosa, Khalîl levò il campo a' ventidue ottobre. Svernò alla
Khâlesa; fece venir d'Affrica altri Berberi, come il provano i
nomi de' capitani Wasâmâ e Ibn-Modû;438 ed attese a levar novelli
434
Ibn-Haukal, Description de Palerme, nel Journal Asiatique, série IVe, tomo
V, p. 22, 23; Nowairi, Enciclopedia, ibid., p. 104, Edrisi, Géographie, versione
di Jaubert, tomo II, p. 77.
435
Nell'originale "Kalîl". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
436
Ibn-el-Athîr, anno 325, scrive che «la gente fu molto aggravata nella
costruzione della cittadella.» I pubblicisti musulmani, principalmente
Mawerdi, ci danno il comento. Veggasi il cap. I di questo Libro, p. 10, nota 4.
437
Cronica di Cambridge, Ibn-el-Athîr e Ibn-Khaldûn, ll. cc.
438
Cotesti nomi dalla sola Cronica di Cambridge. La sillaba wa entra in
parecchi nomi berberi in vece dell'arabico ibn, figlio. Modû sembra dello
stesso conio; non arabico al certo. Si trova in Edrisi con ortografia poco
diversa il nome d'un castelletto tra Randazzo e Castiglione, che risponderebbe
tributi su le popolazioni siciliane che gli ubbidivano. Onde,
oppresse della gravezza, mosse dall'esempio e dalle istigazioni
dei Girgentini, si chiarirono ribelli tutte le castella e il popol di
Mazara, scrive Ibn-el-Athîr, particolareggiando molto i casi di
cotesta guerra. E le castella si deve intendere del Val di Mazara;
trovandosi tutti in quella provincia i nomi dei quali si fa ricordo;
nè parendo da altro indizio che fossero per anco sparse le colonie
musulmane a levante del Salso. «Misero in campo (continua Ibn-
el-Athîr) loro gualdane; la ribellione fece passi da gigante;
scrissero all'imperatore di Costantinopoli, chiedendo aiuti; il
quale mandò navi con uomini e frumenti.» A tal partito si scorge
la disperazione; ed anco all'insolito accordo che par sia stato tra
gli Arabi e i Berberi dell'isola; ed alla ostinatissima resistenza: e
vincean la prova, se Palermo voleva o potea tentare uno sforzo
estremo; se i sollevati sapeano sottomettersi ad unità di comando;
e se la carestia non combatteva anco pei Fatemiti. Khalîl, nella
primavera del novecentrentanove, cominciò la guerra ai passi
delle Madonie: espugnò Caltavuturo, Kalat-es-sirât439, Sclafani; le
quali non si ritrae che fossero state soccorse dai distretti
meridionali. Assicurate così le spalle e le vittovaglie, volse a
ponente; occupò Mazara440; indi una penisola, ch'io credo il Capo
San Marco, dove fu preso un condottiero bizantino o di schiatta
siciliana, per nome Foca o simile, cui Khalîl fe' morire tra i
tormenti441: indi mosse con tutte le genti all'assedio di
a Mojo d'oggidì.
439
Risponde a Collesano d'oggidì secondo le distanze notate da Edrisi, il quale
la dà con questo nome istesso di Kalat-es-Sirât.
440
L'ordine delle operazioni militari di Khalîl è dato dalla Cronica di
Cambridge e sta bene a martello. Il nome che scrivo Mazara è ««lb«ra, letto
dai primi traduttori Kalbara, arbitrariamente nella prima sillaba. Correggendo
Mazara non si viene ad alterare alcun dei tratti principali e si trova la
importante città nominata da Ibn-el-Athîr. Quanto a Kalbara, o come che si
legga la prima sillaba, non v'ha nome noto da potervisi adattare; e non è da
pensare nè anco per ombra alla Calabria.
441
Il fatto e il nome nella sola Cronaca di Cambridge, ove il secondo è scritto
senza vocali Fkh e si potrebbe legger Foca, o con altra vocale che fu preferita
nella version latina, e non è bello ripeterla in Italiano. Ancorchè Fikh significhi
Caltabellotta. Ebbela a patti, dopo sanguinosa battaglia vinta il
dieci luglio; nè potè fare altra impresa fino al settembre, quando
messe il campo a Platani. La quale giaceva a dieci miglia in circa
da Caltabellotta, una ventina da Girgenti e sei dal mare: antica
fortezza d'un miglio in giro, su la cima del monte chiamato in
oggi di Platanella, che sorge stagliato e dirupato d'ogni banda su
la ripa destra del fiume di Macasoli e su la sinistra del Lico, il
quale ha mutato il nome in Platani. La trovarono i Musulmani al
conquisto; la tenner anco sotto i Normanni, formidabile e munita
d'una rôcca; vi s'afforzarono nelle guerre civili al principio del
regno di Federigo Svevo, quando par siano stati smantellati i
ripari, e il villaggio conceduto coi terreni alla Cattedrale di
Palermo. Tantochè nel decimosesto secolo ne avanzavan, dice
Fazzello, mirabili rovine, ed oggi il nome di Calata attesta su le
carte geografiche il sito della rôcca442.
Indarno travagliossi Khalîl contro Platani; anzi abbandonò o
perdè Caltabellotta; a ripigliar la quale avendo spiccato parte de'
suoi, i Girgentini una notte di novembre assalivano improvvisi
l'uno e l'altro campo; sforzavano quel di Caltabellotta; lo
saccheggiavano, metteano in fuga gli assedianti. Khalîl allora
risolutamente lasciò anco l'assedio di Platani, per concentrar tutte
le forze contro Girgenti, nodo principale della guerra; per

in arabico la scienza del dritto, qui è nome d'uomo e d'un luogo che il prese da
lui; nè credo abbian gli Arabi tal nome proprio. Al contrario è noto ad ognuno
nelle istorie bizantine il casato Foca, illustre in que' tempi: e ciò mi ha
suggerito la prima lezione. Nondimeno il latino e (perchè no?) l'italiano potean
anco fornire il soprannome d'alcun cristiano di Sicilia, il cui braccio avessero
accettato i ribelli musulmani, sì come avean chiesto gli aiuti di Costantinopoli.
E in vero presso il Capo di San Marco è un luogo detto Ficana. Questo
appunto, e la coincidenza del sito presso Mazara e Caltabellotta, mi ha
persuaso che si tratti della penisola del Capo San Marco. Ho interpretato
penisola la voce gesîra del testo, che vuol dire anche isola.
442
Si vegga pel XII secolo la geografia d'Edrisi; pel XIII e XIV, i diplomi
accennati da Pirro, Sicilia Sacra, p. 136, e da Huillard-Breholles, Historia
diplomatica Frederici II imperatoris, tomo I, p. 118, 194; Mortillaro, Catalogo
dei diplomi della Cattedrale di Palermo, p. 90; e pel XVI, la descrizione di
Fazzello, Deca I, lib. X, cap. III.
chiudere quegli audaci entro lor mura, sì che non gli facessero
altra vergogna, e che sentissero più crudelmente la fame.
La quale straziava tutta l'isola; prodotta non tanto da
inclemenza di stagioni e da' guasti inevitabili della guerra, quanto
da satanic'arte di Khalîl; il quale non mentì al certo quando
vantossi d'avere spento di ferro e di fame centinaia di migliaia
d'anime in Sicilia. Ormai tutta la strategia stava nel nudrire i
proprii soldati, poichè i nemici sarebbero morti senza ferite: e il
capitano computista d'Affrica, facendo rapir ogni maniera di cibo
che potesse, conseguiva a un tratto la salute de' suoi e la
distruzion de' Siciliani. La carestia ingombrò cittadi e campagne,
scrive la cronica del paese; padri e madri mangiarono i cadaveri
dei figli; abbandonate dagli uomini, rovinarono le castella; le
terre coltivate rinsalvatichirono: una infinità di gente, aggiugne il
Baiân, fuggendo la carestia e i sicarii di Khalîl, riparò qua e là nei
paesi di Rûm, ch'è a dire Italia o Grecia; dove la più parte si
fecero cristiani. Mentre seguia nell'isola cotesto scempio, Khalîl
stava all'assedio di Girgenti: poi lasciovvi forte schiera con Abu-
Kelef-ibn-Harûn, ed egli si ridusse in Palermo, certo ormai
dell'esito. E di marzo del novecenquaranta, Platani inespugnabile
s'arrendè; Girgenti tenne il fermo finchè i più savii o avventurati
si salvarono con la fuga; i rimagnenti aprirono le porte a patto
d'uscire salvi, il venti novembre: ma Khalîl, quand'ebbeli nelle
sue forze, spezzando la fede menolli in Palermo. Le altre castella
spaventate a questo eccesso s'affrettarono a chiedere perdono,
sperando placare il tiranno: tutta la Sicilia tornò al nome dei
Fatemiti. Khalîl mandava a Kâim in Affrica le caterve dei
prigioni da vendere443; nè andò guari che parendogli queta ogni
cosa, s'imbarcò egli stesso per l'Affrica a' dieci settembre
novecenquarantuno; lasciando al governo di Palermo due
delegati, per nome Ibn-Kufi e Ibn-'Attâf della tribù di Azd444; chè
443
La Cronica di Cambridge accennando sola questo fatto, usa la espressione
sebi, che vuol dir propriamente le donne e fanciulli prigioni. Parmi qui
adoperata in significato più largo.
444
Il nome etnico di 'Attâf è dato dal solo Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et
de la Sicile, p. 165.
Sâlem era morto l'anno445 innanzi. Si tirò dietro in altro legno i
notabili di Girgenti. E in alto mare comandò di sfondare la nave;
sì che tutti perirono446.
Donde gli annalisti musulmani si scoton di loro aritmetica
impassibilità, venendo a parlare di questo Khalîl; e chi l'infama
d'aver ecceduto ogni limite di efferata barbarie, chi nota aver
costui fatto in Sicilia ciò che niun altro Musulmano osò prima nè
poi in alcun paese. Si narra che al ritorno in Mehdia, sedendo un
giorno a brigata coi primi della città, caduto il discorso su la
guerra di Sicilia, l'empio si millantava: "Non saprei giusto giusto
quanti ve ne feci morire; non furono più d'un milione, non meno
di secentomila." E fatta breve pausa, ripigliò: "Sì, per Dio,
passarono i secentomila." E una voce s'alzò, del maestro di scuola
Abu-abd-Allah, che gli rispose senza cirimonie447: "Va, Abu-l-
Abbâs, che ti basta un omicidio solo448," alludendo al grave
peccato ch'era di sparger sangue per caso di maestà449.

445
Nell'originale "l'hanno". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
446
Quest'ultimo periodo della rivoluzione si ricava in parte dalla Cronica di
Cambridge, anni 6447 a 6450, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 48,
49; in parte da Ibn-el-Athîr, anno 325. Si veggano anche il Baiân, ediz. Dozy,
tomo I, p. 223; Abulfeda, anno 325; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la
Sicile, versione, p. 164, 165. Il Nowairi, presso Di Gregorio, p. 15, accenna la
venuta e la partenza di Khalîl, senza far motto della guerra. Il Rampoldi,
Annali, tomo V, p. 213, 217, 221, 223, 230, anni 937, 938, 939, 940, 941,
aggiugne di capo suo una ribellione in Palermo in questo secondo periodo,
aiutata dai Bizantini; e che il governo d'Affrica mandasse grani in Sicilia.
447
Era modo familiare il chiamare col keniel, ossia primo soprannome, anzichè
col nome proprio o col titolo di dignità.
448
Confrontinsi: Baiân, l. c., e Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi,
fog. 104 recto.
449
Peccato, poichè i pubblicisti più accreditati non permetteano di uccidere i
ribelli presi con le armi alla mano, nè di tenerli in prigione finita che fosse la
guerra, nè di prendere i loro beni, nè di far cattive lor donne e figliuoli.
Veggasi Mawerdi, Ahkâm Sultanîa, ediz. Enger, p. 98 e seg.; The Hedaya,
versione inglese di Hamilton, lib. IX, cap. IX, nel tomo II, p. 250. Nell'impero
ottomano prevalsero poi dottrine più tiranniche, le quali si ricerchino in
D'Ohsson, Tableau de l'Empire Ottoman, tomo VI, p. 253.
Non andò guari che Khalîl n'ebbe il gastigo dalle mani degli
uomini; Minacciata Kairewân dal ribelle Abu-Iezîd, e
tentennando i cittadini tra la paura delle sfrenate sue moltitudini,
e l'odio contro casa fatemita, Kâim vi mandò il gran sicario della
dinastia con una banda di mille Negri a cavallo. Il quale,
all'usanza vecchia, cominciò a velare e maltrattare, e tentava anco
la cura della fame, spazzando il contado con orribile guasto; ma
fe' contrario effetto, poichè i cittadini mormorarono, poi
cospirarono, e, come minor male, chiamarono Abu-Iezîd.
Appressandosi l'esercito ribelle (ottobre 944), Khalîl perdè
l'animo: uscì alla battaglia quasi sforzato; fuggì pria che si
venisse alle mani; e corse a chiudersi nel palagio di Kairewân.
Dove preso dai ribelli, l'uccisero coi suoi sgherri, e appiccarono il
cadavere a un palo, alla porta chiamata di Rebi'450.]

CAPITOLO X.

Fortuneggiarono i Fatemiti in questa rivoluzione. Dicemmo


noi che le sètte kharegite ardeano ab antico tra i Berberi, or
covando, or divampando. Dal ramo degli Ibaditi si spiccò,
com'egli avviene, novella affiliazione che prese nome di
Nekkariti451; e contaminò la giustizia dello scopo con la stolta
iniquità dei mezzi; insegnando legittimi, l'omicidio, lo stupro, la
rapina su tutti i non Nekkariti; ch'era a dir quasi tutto il genere
umano. Gli ultimi proseliti par che oggidì rimangano gente
industre e tranquilla, nell'isola delle Gerbe; ove al certo fecero
gran parte della popolazione e corpo politico dassè, infino al
decimoquarto e al decimoquinto secolo452. La setta prese subito
augumento, nei principii del decimo secolo, alla esaltazione dei
450
Confrontinsi: Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 104
recto; Baiân, tomo I, p. 223; Ibn-el-Athîr, MS. C, tomo IV, fog. 343 recto,
anno 333.
451
Significa, "Que' che dicono: Non vogliam saperne nulla." Proprio come i
Know-nothings d'America.
Fatemiti; quando si vide per prova la efficacia di coteste trame
nella schiatta berbera, e quando la servile superstizione
ismaeliana insultò e provocò i liberi spiriti dei Kharegi. Surse
allora nel Gerîd tunisino, o vogliam dire regione meridionale
dell'odierno Stato di Tunis, un Abu-Iezid-Mokhalled-ibn-Keidâd
della tribù d'Ifren e nazione di Zenata; uom povero, piccino,
zoppo, deforme in volto, ma di grande intelletto e animo da
bastare a qualunque impresa; il quale, noiato di stentar la vita
insegnando il Corano ai giovanetti, si mescolò coi dottori
nakkariti che volean fare e non sapeano; divenne dei principali
della setta; osò allargarla e mutarla in cospirazione. A capo d'una
ventina d'anni d'affaticamento e persecuzioni, imprigionato dal
governatore di Tauzer, liberato da' suoi per audace colpo di mano,
si rifuggiva all'altra estremità dell'impero fatemita, tra i monti
Aurès; dove accozzatisi con esso altri rami di sètte kharegite ed
alcune tribù della nazione di Howâra, l'anno trecentrentuno (942-
43) si deliberò la ribellione: che Abu-Iezîd ne fosse capo, e che,
cacciati i Fatemiti, l'Affrica si reggesse a repubblica. Abu-Iezîd
s'intitolò democraticamente Sceikh dei Credenti; si mostrò alla
testa degli eserciti, vestito d'un rozzo saio di lana; montato sur un
asinello balzano; onde gli dissero "Il cavalier del ciuco." E con
centomila Berberi di varie tribù, di varie sètte, feroci tutti e
indisciplinati, occupò l'Affrica propria. Delle molte battaglie ch'ei
combattè con varia fortuna, sempre con valore e costanza,
ricorderemo sol due, nelle quali gli stette a fronte un Siciliano,
probabilmente di schiatta greca, per nome Boscera453, schiavo di
452
Veggasi: Tigiani nel Journal Asiat., série IVe, tomo XX, p. 171, seg.; Ibn-
Khaldûn, Histoire des Berbères, passim.
453
È voce arabica che significa "buona nuova;" un de' nomi che volentieri si
davano alli schiavi. Andrebbe meglio trascritta in francese Bochra, che non si
può rendere col nostro alfabeto. Tigiani dice costui siciliano (sikilli); il testo
d'Ibn-Khaldûn pubblicato da M. De Slane porta Schiavone (saklabi); nè so
determinar la vera lezione. La critica storica ci ricorda che tra gli schiavi e
mercenarii dei Fatemiti vi fossero al paro e Siciliani e Slavi. La differenza tra
coteste due voci in scrittura arabica è lievissima, e però il merito dei MSS. non
può servire di argomento decisivo. Nondimeno, Tigiani fu erudito più diligente
che Ibn-Khaldûn, e i MSS. delle sue opere, copiati assai men sovente che
Kâim. Aveva il califo a un tempo mandato Khalîl-ibn-Ishak a
Kairewân, e questo Boscera con un esercito a Begia, città dentro
terra tra Tunis e Bona, perchè la difendesse contro il ribelle che
s'avanzava a quella volta, l'anno quarantaquattro. Appiccata la
zuffa andavano in volta i seguaci d'Abu-Iezîd, quand'ei corso
addosso ai fuggenti, smontava dal destrier di battaglia, si facea
recare il baston da pellegrino, e l'asinello balzano; lo cavalcava
gridando: "Così fa chi vuol non fuggire, ma vincere o morire!" Li
rattestò; girò di fianco, tanto che giunse dietro gli accampamenti
di Boscera, minacciando tagliargli la ritirata. Alla quale mossa, il
capitano fatemita fe' suonare a raccolta; precipitosamente prese la
via di Tunis, inseguito da Abu-Iezîd; il quale gli uccise gran
gente; prese e messe a sacco Begia; occupò Tunis, abbandonata
anco da Boscera che indietreggiava a Susa. Quivi gli giunsero
rinforzi di Mehdia, e ordini di Kâim che ripigliasse le offese.
Onde uscito da Susa, trovandosi a fronte un luogotenente d'Abu-
Iezîd per nome Aiûb-ibn-Kheirân, combatterono ad Herkla,
com'or si chiama, in sul golfo di Hammamet; dove trionfò
Boscera con grande strage dei nemici; ma ritirossi a Mehdia pria
che lo sopraggiugnesse Abu-Iezîd, col grosso dell'esercito 454.
Così, facendo una punta quando si poteva, Kâim contese l'Affrica
ai ribelli; senza impedire che il medesimo anno cacciassero i suoi
d'ogni luogo, fuorchè Susa e Mehdia, e lo assediassero nella
capitale (gennaio 945). Occuparono tosto i sobborghi; dettero
assalti alla fortezza, un de' quali (luglio 945) recò tal paura; che
grande numero di cittadini, massime i mercatanti, rifuggivansi chi
in Tripoli, chi in Egitto, molti in Sicilia.
Nondimeno le fortificazioni di Mehdia salvarono la dinastia,
dando tempo alla dissoluzione delle forze d'Abu-Iezîd che si
componeano d'elementi eterogenei. La cittadinanza di Kairewân,
e, poco più poco meno, il rimanente della schiatta arabica, mal

quelli d'Ibn-Khaldûn, sembrano men sospetti d'errore.


454
Queste due battaglie sono raccontate da Tigiani, Journal Asiatique, série
IVe, tome XX, p. 101, seg. Si vegga anche Ibn-Khaldûn, Storia dei Berberi,
testo arabo, tomo II, p. 18, 19.
soffriva la eresia nekkarita, quantunque Abu-Iezîd per soddisfar
loro avesse ristorato in pubblico il culto ortodosso. Peggio potean
tollerare le licenze e rapine dell'esercito, e la dominazione dei
Berberi. Però la municipalità di Kairewân, quando aprì le porte ad
Abu-Iezîd, fece secolui un accordo che si chiamassero gli
Omeiadi di Spagna; ai quali furono mandati veramente oratori: e
gli Omeiadi promesser molto, ma non si venne a conchiusione455.
Intanto Abu-Iezîd, inebbriato dell'aver che fare con gentiluomini,
si vestì di seta, montò bei cavalli, e si alienò gli animi dei Kharegi
più schietti o più rozzi; de' quali un gli surse contro con le armi;
altri a poco a poco l'abbandonavano; nè gli valse allora ripigliar
l'asinello e la casacca di lana. La difficoltà dell'impresa di
Mehdia, accrebbe le discordie tra gli assedianti. Vi si aggiunse la
virtù d'Ismaele figliuolo di Kâim, giovane animoso,
eloquentissimo, attivo, dotato di sagacità politica e di gran vedere
nelle cose di guerra, al quale il padre affidò il comando supremo.
Donde Abu-Iezîd, ributtato in varii assalti, vedendo
assottigliare l'esercito da' malcontenti che se ne andavano e da'
masnadieri che correano qua e là per l'Affrica in busca di più facil
preda, partitosi di Mehdia (gennaio 946), osteggiò Susa, cui
sperava ridurre di leggieri; e gli fallì. Venuto intanto a morte
Kâim (maggio 946), Ismaele l'occultò; poi, avuti segnalati
avvantaggi sopra il ribelle, promulgò la esaltazione al trono;
preso il soprannome di Mansûr-biamr-Illah, o diremmo
"Vittorioso per voler di Dio." Continuando la guerra in persona,
incalzò Abu-Iezîd ritrattosi negli Aurès; dopo fieri combattimenti
lo assediò in un castello tra i monti di Kiâna; donde il ribelle

455
I dotti e la cittadinanza di Kairewân seguirono con molto zelo Abu-Iezîd
all'assedio di Mehdia. Chi mai scriverà questo bel tratto di storia, non
dimentichi le notizie che ne dà il Riâdh-en-Nofûs, fog. 89 verso a 91 verso.
Quivi si narra la deliberazione presa dai fakih nella Moschea giami' di
Kairewân; i dotti che s'armavano; le corporazioni che veniano in arnesi di
guerra con lor bandiere di varii colori scritte con varie leggende; i martiri
caduti in battaglia ec. Il dotto Abu-l-Arab, ch'era dei capi rivoluzionarii,
sclamava all'assedio di Mehdia: "Ho scritto di mia mano 1500 trattati; ma il
combatter qui val meglio che tanta dottrina!"
tentò una sortita: fu colpito in fronte e alle spalle; fuggì; lo
presero; e dopo pochi giorni morì di sue ferite (agosto 947). I
Nekkariti intanto erano uccisi per tutta l'Affrica alla spicciolata.
Fadhl, figliuolo di Abu-Iezîd, che rimase in su le armi dopo il
padre, fu morto a tradimento e mandata la testa a Mansûr; morto a
tradimento Aiûb, altro figliuolo rinomato scrittore di genealogie
berbere; perseguitata fieramente tutta la tribù d'Ifren.
Così ebbe fine dopo quattro anni la ribellione nekkarita. Kâim,
serrato in Mahdia, non s'era trovati altri amici fedeli che la tribù
di Kotâma e una parte della nazione di Sanhâgia che ubbidiva a
Zîri-ibn-Menâd: e da ciò venne la grandezza della casa di Zîri,
che regnò in Affrica per due secoli. Capitano e consigliere
fidatissimo di Mansûr nella medesima guerra fu Abu-l-Kâsem-
Hasan-ibn-Ali-ibn-Abi-Hosein, della tribù arabica di Kelb;
rimunerato incontanente col governo della Sicilia, che rimase per
un secolo a' suoi discendenti456. Aggiugne un diligente
compilatore, essersi dato ad Hasan tal altro carico che parrebbe
macchia ai nomi più infamati dei nostri dì; ma lo possiam credere
al decimo secolo, sì come i posteri sarà forza che credano al secol
decimonono il supplizio del bastone in Italia. Quel prode e colto
Mansûr avea fatto scorticare il cadavere d'Abu-Iezîd, imbottir di
bambagia la pelle e condurre il misero sembiante per cinque mesi
per le città principali d'Affrica, legato sopra un camelo, in mezzo
a due scimmie addestrate a schiaffeggiarlo e pelargli la barba. Or
si narra che Hasan dovesse recarlo a spettacolo in Sicilia, con
giunta della testa di Fadhl, ucciso di fresco. Se non che il legno
fece naufragio; la pelle d'Abu-Iezîd fu salvata; e si tennero

456
Il cenno che do di questa grande rivoluzione è tolto da Ibn-el-Athîr, anni
333, 334; MS. C, tomo V, fog. 343 recto a 346 recto; Baiân, tomo I, p. 200 a
228; Tigiani, Journal Asiatique, série Ve, tomo I, p. 178, seg.; Ibn-Khaldûn,
Storia dei Berberi, testo, tomo II, p. 16 a 23; Ibn-Hammâd, Journal Asiatique,
série IVe, tomo XX, p. 470, seg. Per le date, seguo a preferenza Ibn-el-Athîr. Si
veggano anche il Riâdh-en-Nofûs, fog. 89 verso, seg.; Iehia-ibn-Sa'îd,
Continuazione di Eutichio, fog. 87 verso; Ibn-Khallikân, versione di M. De
Slane, tomo I, p. 218, seg., e III, p. 185.
contenti d'appenderla a quella stessa porta di Mehdia, ov'egli era
arrivato a piantare una lancia al tempo dell'assedio457.
In Sicilia per sei anni non s'erano più udite nè guerre nè
tumulti, ma furti, soprusi, violenze private: il forte, dice la
cronica, si mangiava il debole458; accennando senza dubbio alle
enormezze dei nobili e dei condottieri berberi e mercenarii che
avea lasciato Khalîl. Nè l'abbondanza potea succedere alla fame,
là dove mancavan le braccia a coltivare il suolo, dopo la orrenda
cavata di sangue del novecenquaranta. In questo incontro un
Crinite, armeno, stratego di Calabria459, incettava frumento a
basso prezzo nella provincia e rivendealo a peso d'oro nella
Sicilia oppressa (son le parole di Cedreno) dalla fame e dalla
guerra che vi portarono i Cirenaici; nella quale guerra i Romani
dettero asilo ai fuggitivi Cartaginesi, nè lor nazione osò
ridomandarli nè esigere il tributo, temendo non i Romani
negassero le vittuaglie460. Traducendo cotesti nomi di storia antica
che i Bizantini non sapeano smettere, si ha la confermazione di
quanto ci narrano gli scrittori arabi. Si ritrae che il Crinite
continuava suo traffico almen fino al novecenquarantacinque;
poichè l'imperatore che lo spogliò dell'oficio e dei danari mal
tolti, fu Costantino Porfirogenito461.
Veramente la colonia di Sicilia in questo breve tratto era
divenuta ludibrio delle genti vicine. Ibn-'Attâf e Ibn-Kufi preposti
da Khalîl, quand'ei tornossi in Affrica, sembrano proprio il capo
457
Ibn-Hammâd. op. cit., p. 497.
458
Cronica di Cambridge, op. c., p. 49, an. 6450.
459
̉Ο Κρηνίτης Χαλδίας γεγόμενος στρατηγὸς. Nella edizione di Parigi fu
aggiunto tra parentesi παρὰ dopo il nome proprio; e fu tradotto Crenita
Chaldiæ in Calabria prefectus; la quale versione non è mutata nella edizione
di Bonn, ancorchè sia stato ridotto a miglior lezione il testo, Chaldia era nome
d'un tema bizantino, che avea per capitale Trebisonda nell'Armenia minore; e
qui indica la patria di quel barattiere, non la sua sede in Calabria, ove non fu
mai luogo di tal nome. Si vegga per Caldia, Costantino Porfirogenito, De
Thematibus, p. 30, e De administrando imperio, p. 199, 209, 226, ediz. di
Bonn.
460
Cedreno, ediz. di Bonn, tomo II, p. 357.
461
Cedreno, l. c. Costantino riprese il comando dell'impero in dicembre 944.
bargello e il capo riscotitore; nè alcuno avea titolo d'emir, come
poc'anzi Sâlem: motewalli, in fatti, li chiama la cronica siciliana,
che vuol dire "delegati" e litteralmente "pseudo-wâli."462 Forse fu
surrogato, il novecentrentaquattro, un Ibn-Asci'ath a Ibn-Kufi,
che tra i due sembra il riscotitore; forse Ibn-'Attâf, il bargello,
ebbe autorità un po' più larga il novecentrentacinque, quando il
califo fatemita pericolava in Affrica e ricominciavano le
mormorazioni in Palermo463. Ma la debolezza che i compilatori
appongono a Ibn-'Attâf era per vero la poca autorità dell'oficio, da
non poter armare la gioventù, dare gli stipendii, osteggiare gli
Infedeli, strappar loro il tributo o far colta di bottino e prigioni.
Kâim, seguendo e rincalzando la pratica del padre, avea tanto
accentrato il governo in Affrica e indebolito la colonia, da
toglierle il principio vitale della società musulmana, ch'era la
462
Cronica di Cambridge, l. c. Il cronista avea ben dato il titolo di emir a tutti i
precedenti infino a Sâlem; e nol dimentica parlando poco appresso del kelbita
Hasan-ibn-Ali.
463
Nowairi, presso Di Gregorio, p. 15, senza nominare Ibn-Kufi. Il Nowairi
direbbe secondo la versione: «Anno 334, præfectus electus fuit Mohammed
ben el Aschaat, qui usque ad annum 336 leniter gessit imperium;» ma va
corretto secondo il testo: «Fu wâli in Sicilia l'anno 334 Mohammed-ibn-
Asci'ath; e resse gli affari infino al 336 (Ibn)'Attâf.» L'oscurità di questo passo,
che mosse M. Caussin a considerare, fuor d'ogni regola grammaticale, il nome
proprio 'Attâf come sostantivo o aggettivo, viene appunto dalla dubbiezza del
compilatore; il quale, trovando due nomi di governanti nello stesso tempo,
impiastrò l'uno essere stato wâli fino al 34, e l'altro avere tenuto la somma
delle cose fino al 36. Ibn-el-Athîr, incontrata, com'ei pare, la stessa difficoltà
nelle croniche, se ne cavò col silenzio. Non disse degli altri; non disse del
tempo in cui Ibn-'Attâf prendesse il governo; ed occorrendogli di nominarlo,
non gli diè alcun titolo. Se si volesse seguire il Nowairi senza badare
all'ambiguità delle sue parole nè al silenzio della Cronica di Cambridge e
d'Ibn-el-Athîr, si potrebbe supporre che nel 34 fu fatto emiro Ibn-Asci'ath; e
dal 35 al 36 governò di nuovo Ibn-'Attâf. Il Rampoldi, tomo V, p. 256, anno
945, citato dal Martorana, tomo I, p. 217, nota 13, dice che Mohammed-ibn-
Asci'ath fosse stato precettore di Mansûr. Non credo che i compendii ch'egli
ebbe alle mani gli abbian potuto fornire tal notizia. Al suo modo di compilare
supporrei piuttosto un enorme anacronismo che l'abbia portato a confondere
questo Ibn-Asci'ath con l'autore della setta dei Karmati, del quale ho fatto
cenno nel Libro III, cap. V, p. 116 di questo volume.
guerra: perpetuo errore dei despoti a tener il popolo tra morto e
vivo per assicurarsi di lui. Il che nuoce al popolo, nuoce al
despota e non impedisce le rivoluzioni; poichè e gli oppressi
n'avran voglia sempre e l'oppressore non potrà prevenirle sempre.
Di tutte le città musulmane, Palermo avea patito minor danno
nella guerra di Khalîl. La nobiltà, i giuristi, la plebe, mal
soffrendo tanta abiezione; suscitati dalle nuove d'Affrica, dove
Abu-Iezîd tuttavia combattea, non seppero star cheti l'anno
novecenquarantasette alla fine del ramadhan, quando le pratiche
religiose e la frequenza del popolo in piazza riscaldan più le teste
ai Musulmani.
Nella festa che sorvenne del primo scewâl trecentrentacinque
(24 aprile 947), i Beni-Tabari, nobil casato d'origine persiana
ch'era dei primi nel consiglio municipale di Palermo, levano il
romore contro Ibn-'Attâf, gridando che per la costui
dappocaggine e viltà i Cristiani calpestano il nome musulmano, si
ridon dei patti e da tanti anni non pagan tributo. Il popolo li seguì:
uscito in piazza 'Attâf coi fanti del bargello, si vien alle mani;
sbaragliati i fanti e molti uccisi; prese le bandiere e le taballe di
'Attâf; sì che a mala pena arrivò a chiudersi in castello. I cittadini
se ne tornavano a lor case senza incalzarlo altrimenti. Attâf indi a
scrivere i soliti letteroni al principe che mandasse stuoli di soldati
subito subito. I capi del tumulto procacciaron dal canto loro di
ritrar come andasse la guerra d'Abu-Iezîd e che intendesse di fare
in Sicilia Mansûr. Saputo ch'egli fosse per commettere il governo
dell'isola ad Hasan-ibn-Ali, partirono per Mehdia Ali-ibn-Tabari
ed altri uomini di nota, a chiedere, in scambio di Hasan, un emiro
di lor piacimento. Il qual fine si proponeano di conseguir per
amore o per forza; raccomandando ai partigiani in Palermo che
non lasciassero entrare in città Hasan-ibn-Ali, nè sbarcare i
seguaci dalle navi; ma aspettassero le lettere ch'essi avrebbero
scritto dall'Affrica dopo l'abboccamento con Mansûr464. Cotesta

464
Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, anno 336; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et
de la Sicile, p. 165, 166, e il breve cenno del Nowairi presso Di Gregorio, p.
15. Il passo di quest'autore che Di Gregorio tradusse: «De perturbato rerum
pratica si dèe riferire alla state del novecenquarantotto, quando
Mansûr, spenti gli ultimi avanzi della ribellione in Affrica, ebbe
agio di pensare alla Sicilia465.
Diverso dagli emiri che vennero per lo addietro a ripigliar lo
stato in Sicilia, Hasan-ibn-Alî sciolse d'Affrica con poche navi:
sbarcato a Mazara senza strepito, stettevi tutto il dì, come in
quarantena; non facendosi anima vivente a dargli il benvenuto. A
notte scura comparve una man di Kotamii, d'Arabi d'Affrica 466 e
d'altre genti, scusandosi che non l'avessero osato prima per timore
dei Beni-Tabari e di loro aderenti, e ragguagliandolo
dell'ambasceria in Affrica e altre disposizioni della parte. Nè andò
guari che giunse a Mazara una brigata della parte, a speculare le
forze e intendimenti di Hasan. Vistolo sprovveduto, da poterlo
menare com'e' voleano, gli contaron fole: ed e fe' le viste di
beversele; promettendo che non moverebbe un passo da Mazara
s'e' non andassero a Palermo e tornassero con la risposta: chè
probabilmente avean pretestato doverne deliberare la gema'. Ma

Siciliensium statu, et quod in earum administratione nonnulla vitia


irrepsissent;» e M. Caussin: «La peine que lui donnaient les habitants et le
mauvais état des affaires;» si renderebbe più correttamente: «Che i Siciliani
rimbaldanzivano, e piegavano al male;» cioè si disponeano alla ribellione.
465
Ibn-el-Athîr; da cui tenghiamo i particolari di questi fatti e di quei che
seguirono all'arrivo di Hasan in Sicilia, non segna altre date che il tumulto di
Palermo a 1° scewâl 335, e la elezione di Hasan il 336 (22 luglio 947 a 9 luglio
948). La Cronica di Cambridge non porta altra data dell'arrivo di Hasan che il
6456 (1 sett. 947 a 31 ag. 948); ma un fatto che racconta dopo, ci porta a
supporre l'arrivo verso la fine dell'anno costantinopolitano. Da un'altra mano si
sa (Ibn-Hammâd citato di sopra ap. 202) che Mansûr sino alla fine di giumadi
2° del 333 (gennaio 948) facea condurre per le strade di Kairewân la pelle
imbottita di Abu-Iezîd; che poi volea mandar in Sicilia quella e la testa di
Fadhl con Hasan; e che la barca fece naufragio, ec. Infine Ibn-el-Athîr nota che
dopo l'uccisione di Fadhl, figliuolo di Abu-Iezîd, il califo tornava a Mehdia, di
ramadhan 336 (marzo ed aprile 948); ed è da supporre ch'ei non abbia pensato
alle cose di Sicilia prima di questo. Però credo che l'arrivo di Hasan in Sicilia
si debba protrarre fino a giugno o luglio 948.
466
Ibn-el-Athîr, solo narratore in questo luogo, scrive: la gente d'Affrica. Senza
il menomo dubbio accenna agli Arabi venuti di recente dall'Affrica. I coloni si
chiamavano Siciliani; i Berberi, i Kotamii, ciascuno col suo nome.
come prima seppeli partiti, cavalcò per altra via con picciolo
stuolo per andare a guadagnar loro le mosse in Palermo; dove era
manifesto che avrebbero adunato tutti i fautori e sollevato la città
contro di lui. La parte dunque consultava comodamente e rideasi
forse di Hasan, quando si sparge che il novello emiro è a Baida,
alle porte della città. L'Hâkim467, gli oficiali pubblici, tutti coloro
che bramavano il buono stato, scrive Ibn-el-Athîr, e par non
significhi questa volta i vigliacchi e i pecoroni, tutti gli vanno
all'incontro; ed Hasan ad onorarli, a informarsi delle condizioni e
bisogni della città, senza quel cipiglio sbirresco che da tanti anni
si solea vedere in volto ai governanti. Ismaele-ibn-Tabari, capo
della fazione aristocratica, sapendo che tutta la città usciva ad
accoglier l'emiro, non potè far che non andasse con gli altri; e al
par che gli altri, o forse più, fu ricambiato di cortesie. Tornato
alle sue case che si sentiva scappar di mano le fila della trama,
peggio indispettì sapendo che Hasan se n'era ito bel bello in
palagio, e che gli s'accostavano non solamente gli avversarii ma i
partigiani stessi dei Beni-Tabari. Pensando ai modi di frastornare
la opinione pubblica, il migliore gli parve una calunnia.
Un cittadino, cagnotto suo, gitta gli occhi addosso ad un negro
della guardia d'Hasan ch'avea nome d'uomo valorosissimo e
amato indi dall'emiro; gli si avvicina con bei modi; lo invita ad
entrare nelle sue stanze; quando ve l'ebbe attirato, salta fuori
gridando: "Accorrete, accorrete, questo masnadiere mi s'è ficcato
in casa e vuole sforzarmi la moglie in faccia mia." Il popolo
trasse al romore. Ismaele non mancò di cacciarsi in mezzo
borbottando: "Bel preludio! Non son padroni per anco del paese,
e ci trattan così! Che dobbiamo aspettarci quando metteranno
radice?" E suggeriva d'andare a chieder vendetta all'emiro;
supponendo ch'ei non la farebbe, e che il popolo infiammato di
sdegno romperebbesi al tumulto e ne sarebbe cacciato Hasan. La
467
Così Ibn-el-Athîr. Palermo avea un cadi; onde il titolo di Hâkim è generico
qui in significato di magistrato, ovvero è adoperato perchè vacasse l'oficio in
quel tempo, e, invece di cadi eletto dal principe, rendesse ragione un supplente.
Hâkim si addimandò, dopo il conquisto normanno, il capo della municipalità di
Malta; ma mi sembra fatto eccezionale, nato dalla dominazione cristiana.
plebe, seguendo lo zimbello che non cessava dalli schiamazzi,
trasse dinanzi all'emiro. Il quale ascolta pacatamente la querela;
risponde a quell'uomo: "Se dici il vero, giuralo dinanzi a Dio;" e
poichè lo sciagurato giurava, comandò incontanente di mozzar la
testa allo schiavo. Al quale supplizio inaspettato, rallegrossi tutta
la città: "Ecco la prima volta, sclamavano, che veggiam far la
giustizia; or si può viver sicuri in Palermo." Ismaele si
rannicchiò468.
Ed Hasan, come se nulla fosse stato, lo vezzeggiava al par che
gli altri capi della parte; la qual commedia durò sino allo scorcio
del novecenquarantotto. Dello scioglimento abbiamo due
tradizioni: la prima, riferita da Ibn-el-Athîr e scritta
evidentemente nelle croniche musulmane d'Affrica; la seconda, è
immediata testimonianza d'un Siciliano, di professione o almen
d'origine cristiano: e l'una rappresenta la sostanza del fatto; l'altra
l'apparenza che gli diè il governo. Al dir della prima, il califo, che
avea senza dubbio tenuto a bada gli ambasciatori della fazione,
sapendo ben avviate le cose di Palermo, li fe' d'un subito catturare
in Affrica: che furono Ali-ibn-Tabari, Mohammed-ibn-'Abdûn,
Mohammed-ibn-Genâ e altri di minor nome; e scrisse ad Hasan
che prendesse lor compagni; il quale, giudicando ardua cotesta
impresa, la compiè a tradimento. La cronica del paese, narra in
vece che quei di Palermo congiuravano contro Hasan; e ch'egli
addandosene «li colse alla rete:» questa è proprio la parola, la
quale si direbbe rubata ai liberti che scrivean le croniche degli
Omeiadi di Spagna e ne palliavano i delitti 469. Ma ognun vede che
le due tradizioni s'addentellano come pezzi d'antica iscrizione che
il caso abbia fatto trovare in tempi diversi. Il venticinque
dicembre del quarantotto470 Hasan mandava a dire da buon
compagnone ad Ismaele: "M'hai promesso di condurmi a diporto
468
Ibn-el-Athîr, anno 336; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p.
166. Quivi si legga sempre "Tabari" invece di "Matîr," ch'è errore del MS. sul
quale fece la versione M. Des Vergers.
469
Questo riscontro mi è suggerito dal bello studio del professore Dozy, su le
fonti della storia de' Musulmani Spagnuoli, Histoire de l'Afrique etc., intitulée
Al-Bayano-'l-Moghrib, Introduction, p. 16, seg.
nel tuo giardino; vien dunque al castello e andremo insieme."
Somigliante messaggio inviò, a nome d'Ismaele, agli altri notabili
della fazione. Entrati tutti senza sospetto, lasciando gli stuoli di
lor séguito alle porte del palagio, l'emiro li intrattenne con bei
ragionamenti e cortesie fino ad ora tarda; non traspirando fuor le
mura altro che allegrezza: poi richiese la brigata di spender quella
notte in festa secolui e che la dimane si cavalcherebbe alla villa
dei Beni-Tabari e fe' dire ai seguaci di fuori, si ritirassero a casa e
tornassero la dimane, poichè lor signorie rimanean ospiti
dell'emiro. Al sacro nome d'ospitalità niuno pensò a male. E la
dimane si videro appiccati ai pali tanti cadaveri mutili delle mani
e dei piè. Erano Ismaele-ibn-Tabari, Regiâ-ibn-Genâ un
Mohammed e parecchi altri di cui non si ricordano i nomi 471.
Tenne dietro al supplizio la confiscazion dei beni. Fatto il colpo,
crebbero i partigiani di Hasan; il reggimento piacque
all'universale dei cittadini; la colonia posò dai tumulti; ripigliò

470
La Cronica di Cambridge, che sola porta la data e il supplizio, dice:
«Venuto il giorno di mila» che fu un lunedì, l'emiro etc.» La voce che ho
trascritto dall'arabico e che è chiara nel MS., significa il Natale de' Cristiani,
sol che vi si aggiunga un d alla fine ove ho messo le virgolette. I primi editori
supplendo invece un'altra lettera scrissero Mi'âd "giorno prefisso" come si
potrebbe tradurre. Ma questa voce oltrechè sarebbe insolita, imbroglierebbe il
fatto or che Ibn-el-Athîr ci racconta l'ordine del tradimento palatino, e farebbe
mancar la data del giorno; la quale non è probabile che il cronista avesse
trascurata, mentre designava il giorno della settimana. Il Natale del 948 cadde
appunto in lunedì.
471
Debbo avvertire che Ibn-el-Athîr dal quale tenghiamo i nomi, narra il
tradimento, la cattura, la confiscazione, non il supplizio: il casato che dovrebbe
trovarsi dopo il nome di Mohammed è lasciato in bianco in uno dei MSS., e
manca al tutto negli altri due. La Cronica di Cambridge al contrario dice della
uccisione dei «côlti alla rete, tra i quali un Marisc (in inglese sarebbe Marîsh) e
i suoi compagni.» Questo nome fu scritto dal traduttore inglese, Coreish; ma il
codice dà chiarissima la iniziale m. Non l'ho scritto nel testo, parendomi
soprannome e che debba indicare il capo della fazione, cioè Ismaele-ibn-
Tabari; e ciò sembra confermato dai significati della voce Marîsc dati dal
Meminski, cioè "saetta impennata" e una specie di pomo. Marîs sarebbe dei
nomi che si danno ai leone.
animo e forze: così litteralmente le croniche472. Ed e' si
comprende come l'utile colpa sia stata approvata non solo da chi
scrisse, ma anco da chi vide e forse dalla più parte del popolo che
ne fruì. Oltre i costumi dei tempi, oltre l'ammirazione volgare
della vittoria, oltre l'invidia soddisfatta di questo e di quello, ei
non si può negare che il misfatto di Hasan tornò utile al pubblico;
poichè i Tabari, i Genâ, i nobili di Palermo e lor clientele non
erano al certo tribuni zelanti del ben pubblico, ma tirannelli che
disputavan tra loro e ad un tiranno più grande il dritto di
sopraffare la gente minuta. Donde possiam dire anche noi: bene
stia ai vinti. Nè però assolviamo il vincitore, il quale esordì a
Mazara con la menzogna: rincalzò all'entrare in Palermo col
supplizio del soldato innocente; compì l'opera con far trappola
delle proprie case e arme della giustizia il tradimento. Come
dovea navigare Hasan tra cotesti due scogli, lo lasciamo a
risolvere ai casisti. L'insegnamento che vogliamo cavarne è che
gli Stati non ordinati secondo uguaglianza e libertà, non hanno
rimedio ai mali loro che sia scevro di colpa.

CAPITOLO XI.

Terminando in questo tempo la lotta della independenza e


principiando un periodo più culto, è bene rassegnare gli elementi
civili che rimaneano.
Le vicende dei Cristiani nella prima metà del decimo secolo
mostrano ch'e' tenessero tuttavia il lato orientale dell'isola.
Ibrahim-ibn-Ahmed avea distrutto sì loro fortezze; ma le guerre
civili impedirono ai Musulmani di porre colonie in quelle parti.
Però non avvi ricordo d'alcuna terra di Valdemone o Val di Noto
nella sanguinosa storia di Khalîl, nè in altra rivoluzione della
colonia fino al novecensessantanove; però nella guerra di
Manuele Foca (964) i Bizantini sbarcarono come in luoghi amici
472
Confrontinsi: Cronaca di Cambridge, ibn-el-Athîr, Ibn-Khaldûn, ll. cc.
per tutta la costiera da Messina a Lentini. E cotesta guerra si
accese appunto, perchè i Musulmani voleano porre stanza e
possedere terreni nella Sicilia orientale473.
Regione fatta squallida e desolata, a dispetto della natura, in
quel dubbio confine di due epoche; quando la dominazione
bizantina, nell'andarsene, le avea lasciato il tristo retaggio di suoi
vizii sociali; e i Musulmani, anzichè veri padroni, eran tuttavia
nemici, liberi sì di correre la provincia. Di certo mancar dovea
l'agricoltura con la popolazione, diradata dalle stragi d'Ibrahim e
dalle emigrazioni in Calabria e altri paesi cristiani; e n'è prova la
lunga carestia, nella quale una metà dell'isola non bastava a
sfamar l'altra metà afflitta dalla guerra civile474. Con la ricchezza
e con la popolazione si dileguavan anco gli ultimi avanzi di
coltura intellettuale; talchè sparisce in questo tempo ogni vestigio
di scrittori cristiani di Sicilia475.
La stessa religione par abbia perduto nelle province orientali,
se non la speranza ch'è sua radice, certo gli effetti esteriori che
mostran viva la pianta. Mancano infatti le memorie ecclesiastiche
di quel periodo. Nessuna agiografia ne abbiamo; se non che
l'autore anonimo della Vita di San Niceforo vescovo di Mileto
vagamente parla della gran copia di "veggenti in Dio" che vissero
in Sicilia (964), dei quali nomina il solo Prassinachio; com'e'
pare, romito, stanziante in su lo Stretto di Messina; uomo
famosissimo per pietà, e per avere presagito la sconfitta di
Manuele Foca476. E quest'abbondanza di profeti è pur segno
infallibile di presente miseria, di che la ragione umana vegga
473
Si vegga il Libro IV, capitolo III.
474
Capitolo X del presente Libro, p. 203-204 di questo volume.
475
Non va in questo periodo l'autore anonimo della Vita di San Niceforo
vescovo di Mileto di cui or or si dirà. Questo autore, probabilmente siciliano,
visse nella seconda metà del decimo secolo. Il testo greco è nella Biblioteca
imperiale di Parigi, N° 1181; e M. Hase ne ha pubblicato uno squarcio in nota
a Leone Diacono, edizione di Bonn, p. 442.
476
Leonis Diaconi Caloensis, l. c. L'anonimo dice che i Veggenti per virtù
divina abbondavano in Sicilia com'ogni altro prodotto del suolo. Τὸ δὲ καὶ απὸ
τινος των ὲν τη̃ χωρα δεοπτικον (πλεονεκτει̃ γὰρ καὶ τη̃ του̃των φορα̃ τη̃ς οὺκ
̉έλαττον)
chiusa ogni uscita. Torna alla stessa, alla precedente generazione,
Ippolito vescovo di Sicilia, non sappiamo di qual città, autore di
certi vaticinii molto oscuri su la caduta della potenza musulmana,
i quali erano in voga a Costantinopoli nella seconda legazione di
Liutprando.
Nè è da lasciare inosservata cotesta strana appellazione di
vescovo di Sicilia, che comparisce a un tratto alla metà del
decimo secolo. Oltre Liutprando, l'adopera la Cronica di
Cambridge, parlando d'un Leone che fu mandato in ostaggio a
Palermo nel novecenventicinque477; dond'è evidente aver que' due
scrittori ripetuto un modo di dire che correva in Palermo e in
Costantinopoli verso il novecensessantotto, quando vissero
entrambi. I titoli canonici delle sedi siciliane non erano al certo
mutati; ma supposto che ne rimanesse in piedi una sola, il
vescovo comunemente si dovea chiamar di Sicilia, non di tale o
tal città. E fors'era quello di Taormina.
Cotesti indizii messi insieme provano il picciol numero a che
era ridotta la gente greca e italica della Sicilia orientale e la vita
che vivea di stenti, di fatiche, di pericoli. Le città independenti
eran fatte tributarie dopo la guerra d'Ibrahim-ibn-Ahmed;
spezzato pertanto ogni legame con l'impero bizantino, tanto più
dopo la pace che fermò l'impero coi califi fatemiti478. Costantino
Porfirogenito, in fatti, nella descrizione delle province, confessa
perduta l'isola di Sicilia, le cui città, dice egli, «parte son
abbandonate, parte si tengono dagli atei Saraceni.»479 Che se
rimase negli almanacchi di corte il tema di Sicilia, significava
soltanto la Calabria che una volta ne avea fatto parte;

477
Liutprandi Legatio, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo II,
parte I, p. 485. «Hippolytus quidam Siciliensis episcopus.» La Cronica di
Cambridge citata al capitolo VIII di questo Libro, p. 172, ha: «Leone vescovo
della Sicilia;» nè la costruzione arabica permette d'interpretare «uno dei
vescovi di Sicilia.»
478
Si vegga il cap. VII del presente Libro, p. 173.
479
De Thematibus, p. 58, ediz. di Bonn, tomo III, delle opere di Costantino: καὶ
τὰς λοιπὰς πόλεις τὰς μέν ηφημωμένας, τὰς δὲ κφατουμένας παφὰ
Σαρακηνων.
consolandosi la povertà bizantina con dare all'accessorio il titolo
del principale: onde il governatore si chiamò promiscuamente
stratego di Sicilia, stratego di Calabria e anche duca di
Calabria480. Le popolazioni tributarie di Sicilia reggeansi
necessariamente a municipio481; soddisfaceano il tributo quando
non poteano ricusarlo impunemente; rialzavan le mura per poco
che i Musulmani non ci badassero; e di tratto in tratto, or adescate
da occasione propizia, ora esasperate da sopruso de' vincitori,
ritentavan la prova di resistere. Taormina così; così qualche altra
rôcca di Val Demone. Del Val di Noto non si fa motto, dopo la
caduta di Siracusa e delle città dell'Etna. Forse la popolazione,
menomata delle migliaia che si menavano in schiavitù in altre
parti dell'isola482 o fuori, rimase sì poca e sparsa che nulla osò, e
niuno parlò di lei.
Mi conferma in tal supposto la sovrabbondanza di abitatori che
si notava a ponente del Salso; a spiegar la quale non basterebbero
nè le migrazioni dall'Affrica, nè il naturale accrescimento di
popolo che prosperi. Del fatto non si può dubitare. Ibn-Haukal,
venuto in Palermo il novecentosettantadue, fornisce dati da
ragionare la popolazione della capitale a più di trecentomila
anime483. Khalîl, trent'anni prima fece morire oltre secentomila
persone nel Val di Mazara, esclusa Palermo, dove l'efferato
animo non trovò pretesto a sfogarsi. A suppor dunque distrutto in
quattro anni (938-41) un terzo della popolazione della provincia
musulmana, il Val di Mazara, cioè, con Palermo, le si debbon
dare innanzi il novecentrentotto due milioni d'abitatori, quanti ne
ha adesso tutta l'isola. Men della metà erano Musulmani484.
Quanto alle schiatte, credo gran parte di tal popolazione
antichi abitatori della Sicilia tutta, ridotti in Val di Mazara; tra

480
Costantino Porfirogenito, op. cit., p. 60, e De administrando imperio, p.
225.
481
Libro II, cap. XII, p. 470, 471 del primo volume.
482
Libro II, cap. VI e IX, vol. primo, p. 323, 325, 407.
483
Journal Asiatique, série IVe, vol. V, 1845, p. 105, nota 9.
484
Veggasi il Libro IV, cap. III, su la popolazione musulmana al 962.
liberti, vassalli e schiavi, tra cristiani, rinnegati e giudei485: questi
ultimi stanziati nelle città; gli altri, in città e ville. Non occorre di
replicare ciò che dicemmo degli antichi coloni musulmani. Ma
quei venuti d'Affrica nella prima metà del decimo secolo, furono
di tre maniere: industriali, soldatesche, e rifuggiti. Pei primi non
sarebbe necessario allegare testimonianze e poche possono
rimanerne: pure abbiamo il ricordo d'un Sa'îd-ibn-Heddâd, di
famiglia artigiana come lo accenna il nome patronimico, al quale,
sotto il regno d'Ibrahim-ibn-Ahmed, morì in Sicilia un fratello
che gli lasciò quattrocento dînar, guadagnati com'ei pare, con
alcuna industria486. Dal novecento al novecentrentanove quattro
grossi eserciti erano stati mandati a ripigliar lo stato in Sicilia; un
altro (902) e parecchi stuoli minori vi erano passati andando in
Calabria. Ma di cotesta massa soldatesca di Berberi, Negri, Slavi
e milizie arabiche d'Affrica, sbarcati nell'isola in men di mezzo
secolo, chi fu spento, chi se ne tornò; picciola parte è da supporre
rimasa a soggiorno: e di ciò si ha indizio pei soli Slavi, che
diedero nome al più grosso quartier della capitale 487. Sembra di
maggiore importanza, per lo numero e per la qualità degli uomini,
la migrazione dei partigiani di casa aghlabita e dei fervidi
ortodossi che lasciavano l'Affrica, per paura o dispetto, al
mutamento della dinastia e alle varie persecuzioni che seguirono.
Ai quali la Sicilia era asilo, come paese più lontano dagli occhi
485
V'era in Palermo un borgo di Giudei. Ibn-Haukal, nel Journal Asiatique,
vol. cit., p. 97.
486
Riâdh-en-Nofûs, fog. 71 recto. Sa'îd morì il 302. Il biografo aggiugne che
costui toccò i danari per favore di Ibrahim-ibn-Ahmed; non sappiamo se per
aver tolto qualche difficoltà fiscale, ovvero per avergli fatto pagare i 400 dînar
con tratta sul tesoro di Kairewân. Sa'îd, avvezzo a vita peggio che frugale,
spese 200 dînar a fabbricarsi una casa; 50 in vestimenta; 50 in tappeti, stoviglie
e altre masserizie; e ne serbò 100 per mantenimento del resto della sua vita. Di
che riprendendolo gli amici, rispose che avea a ufo dei 100 dînar, poichè il
quarto d'un rotolo di carne gli bastava una settimana. Il primo giorno, dicea,
mangio il brodo delle ossa; il secondo quel dei tendini; dal terzo al sesto certi
piatti di bietole mescolati or a fave, or a ceci, or a pastinache; e il settimo dì la
carne!
487
Ibn-Haukal, Journal Asiatique, vol. cit., p. 93.
sospettosi dei governanti e come quello che odiava i Fatemiti e
vivea più o meno apertamente in rivoluzione.
E cresciuta la popolazione, cessate le continue guerre del
conquisto, incominciavano a metter fronde, se non per anco fiori
e frutti, gli studii; sturbati sì nelle guerre d'independenza dal
romor delle armi, ma molto più promossi dal principio civile che
accompagna i moti politici e fa lor precedere o seguire da presso
lo svegliamento degli ingegni. Favoriva anche gli studii il
contatto più familiare coi vinti, la liberale educazione e dottrina
dei rifuggiti d'Affrica e l'esempio dei giuristi mandati a tenere i
magistrati.
Per cominciar dagli avanzi dell'antica civiltà del paese,
ricorderemo l'opera che prestò un dotto siciliano nella versione
della materia medica di Dioscoride. Aveva abbozzato questo gran
lavoro a Bagdad verso la metà del nono secolo, Stefano cristiano
di Siria; il quale, sapendo la lingua meglio che la scienza,
tradusse i nomi dei semplici più ovvii, e di molti altri trascrisse la
denominazione greca senza il riscontro in arabico. Si doleano
dunque della imperfetta versione i medici che fiorirono sotto gli
Omeiadi di Spagna, quando del novecenquarantotto, trattato un
accordo tra Romano imperatore di Costantinopoli e l'omeiade
Abd-er-Rahman-Naser-lidin-illah, Romano gli inviò, tra gli altri
doni, il testo latino delle storie di Paolo Orosio ed un manoscritto
greco di Dioscoride, con belle miniature delle piante. Deste a ciò
le speranze dei dotti di Cordova, come ci narra Ibn-Giolgiol che
fu medico della corte nel regno seguente, il califo Abd-er-
Rahman richiedeva a Romano un interprete di greco e di latino; e
mandatogli del novecentocinquantuno il monaco greco Niccolò,
fu riveduta o piuttosto rifatta la versione con l'aiuto dei disegni.
Se ne dèe merito a parecchi medici arabi di Spagna, al dotto
medico giudeo Hasdai-ibn-Bescrût, all'interprete Niccolò ed al
siciliano Abu-abd-Allah, che parlava l'arabo e il greco e conoscea
la materia medica; tantochè la difficile interpretazione tecnica fu
compiuta, nè altro rimase ad appurare che una diecina di semplici
di poco rilievo. Fin qui Ibn-Giolgiol, il quale in gioventù conobbe
e praticò tutti i collaboratori. Del Siciliano altro ei non dice; ma
ben si può supporre di schiatta greca e convertito di fresco, non
avendo nome patronimico, e prendendosi sovente dagli uomini
nuovi il nome proprio di Abd-Allah, che significa servo di Dio488.
Possiamo supporre di gran momento la cooperazione sua, poichè
si narra di lui solo che unisse le nozioni tecniche alle filologiche.
Dalla medicina passiamo di sbalzo alla giurisprudenza; non
concedendo quadro più compiuto le memorie che abbiamo. Ma se
giurisprudenza vuol dir la base d'ogni civiltà; se l'incivilimento
europeo si debbe alla legge romana, più che a niun altro libro o
istituzione; lo studio del dritto ebbe nell'islamismo confini assai
più larghi e maggiore influenza civile e letteraria che
nell'Occidente pagano o cristiano. Accennammo già la
importanza politica dei giuristi musulmani dell'ottavo e nono
secolo489. Lo studio loro abbracciava tutte le scienze che noi
chiamiamo morali e politiche, trascorrea fino alla teologia,
chiamava la filologia a darle aiuto nella interpretazione del
Corano, adoperava la biografia come strumento di critica della
tradizione, arrivava alle soglie della matematica computando le
tasse legali e le frazioni nel partaggio delle eredità. Però non fa
torto all'Affrica se non coltivò con onore altra scienza che questa.
Ve la illustrarono nel nono secolo Ased-ibn-Forât, conquistatore
della Sicilia, e Sehnûn490; entrambi della scuola di Malek. Nè
tardò molto a passare in Sicilia mediante i discepoli di Sehnûn.
Fra i quali levò grido un Iehia-ibn-Omar-ibn-Iusûf morto in Susa
il novecentotrè in odore di santità491 e maestro del siciliano Abu-
488
Squarcio della vita di Ibn-Giolgiol (in francese Djoldjol) per Ibn-abi-
Oseibia, testo e versione di M. Sacy, in appendice alla Rélation de l'Egypte par
Abdallatif, p. 549, seg., e 493, seg.
489
Veggasi il Libro I, cap. VI, e Libro II, cap. II, nel volume primo, p. 149,
seg., 253, seg.
490
Questo era soprannome. Il nome intero Abu-Sa'îd-Abd-es-Selâm-ibn-Sa'îd-
ibn-Habîb-ibn-Hasân-ibn-Helâl-ibn-Bekkâr-ibn-Rebia', della tribù arabica di
Tonûkh. Così il Riâdh-en-Nofûs, fog. 39 verso. Confrontisi Ibn-Khallikân,
versione inglese, tomo II, p. 131.
491
Si vegga il cap. IX di questo III Libro nel presente volume, p. 188. La data
della morte si argomenta dal posto dato a questa biografia nel Riâdh-en-Nofûs,
Bekr-Ahmed-ibn-Mohammed-ibn-Iehia, coreiscita, devoto
492
famigerato . Più che la voce di tal discepolo, giovò una grande
opera di Iehia-ibn-Omar, intitolata ''Comandamenti della fede e
leggi dell'islâm," la quale si leggea nelle scuole di dritto di Sicilia
e d'Affrica, e chiamavanla comunemente il Libro dei Miracoli.
Vivendo l'autore, un liberto degli aghlabiti, diligentissimo
editore493, s'era venduto il giubbone per comperare pergamena
vecchia494 da copiar questa o altra opera di Iehia-ibn-Omar; e,
com'egli ebbe fornita la copia, un altro zelante e povero letterato
fe' lungo viaggio a piedi per amor di leggerla e trascriverla.
Parecchi anni appresso un giurista siciliano o stato nell'isola,
infervorato del Libro de' Miracoli sel vide in sogno tutto
illuminato d'una luce che scendea dal cielo. A tal venerazione era
giunta l'opera d'Iehia e la scienza ch'ei coltivò! In Palermo
insegnava per quattordici anni la Modawwana, celebre manuale
di dritto secondo Malek, il professore Abu-Sa'îd-Lokmân-ibn-
Iusûf, della tribù arabica di Ghassân, trapassato a Tunis il
trecentodiciotto dell'egira (930-31); martire della didascalia, s'egli

fog. 57 verso. Iehia-ibn-Omar spese seimila dînar per lo studio della


giurisprudenza. Andò in Spagna, donde fu detto Andalosi; e in Oriente, dove
fece, come tutti coloro che il poteano, un corso di lingua e poesia, dimorando
nelle tende dei Beduini in Arabia. In cotesta peregrinazione scientifica, durata
sette anni, consumò quasi il suo avere. Riâdh-en-Nofûs, l. c.
492
Riâdh-en-Nofûs, fog. 79 recto.
493
Intendo non solamente copista, come suonerebbe tal voce nel medio evo,
ma uom dotto che sovente compilava sul dettato dei maestri. Costui
segnalavasi tra gli editori d'Affrica per tenace memoria e scrupolosa esattezza.
494
Il testo dice che costui, per nome Ahmed-Kasri (ossia del Castel vecchio
presso Kairewân), non avendo da comperar carta, si vendè il giubbone e col
prezzo acquistò dei rokûk. Tal voce secondo i dizionarii è plurale di Rekk,
"carta o pergamena." La definizione è vaga, o il senso variò coi tempi e i paesi.
Ma leggiamo in Masudi, Biblioteca Arabo-Sicula, p. 2, che la pomice di Sicilia
si adoperava a radere lo scritto nei difter e nei rokûk. Indi mi par manifesto che
quest'ultima voce significava, nel X secolo, "pergamena vecchia." La voce che
ho reso carta è wark. Si comprende poi benissimo che la carta nuova dovesse
costare in Affrica assai più cara che i codici latini e greci, merce inutile, da
ripassarsi con la pomice prima di adoperarli. Quanti preziosi Manoscritti
antichi dovettero perire in questa guisa!
è vero che morì d'una piaga fattasi al costato con l'angolo della
tavola sulla quale solea scrivere e spiegare il testo. Si nota di
costui che possedette dodici rami diversi di scienze495; nè fa
maraviglia, atteso la vastità degli studii che rannodavansi al
dritto496.
Segnalossi tra i discepoli di Sehnûn, per dottrina e austera
integrità, un Abu-'Amr-Meimûn-ibn-'Amr, il quale diè alla Sicilia
bell'esempio delle virtù di magistrato. Promosso a cadi dell'isola,
da delegato ch'egli era al tribunale dei soprusi di Kairewân,
andando a Susa per imbarcarsi, Meimûn si volse alla gente che gli
dava il buon viaggio. "Cittadini," lor disse, "ecco la giubba e il
mantello che ho indosso; ecco lo zaino coi miei libri, e cotesta
schiava negra che mi fa i servigi di casa, con una giubba e un
mantello nè più nè manco di me: ponete ben mente, e vedrete in
che arnese tornerò di Sicilia." Giunto in Palermo, come poi narrò
il siciliano Sa'îd-ibn-Othman, e condotto alla casa dei cadi,
Meimûn quando la vide, ricusò d'entrarvi, dicendo non saper
come acconciarsi in sì gran palagio; e volle albergare in una
picciola casetta. Dove, senza aguzzini nè uscieri, quando alcun
picchiava alla porta, correa la negra ad aprire, rispondeva: "or ora
parlerete al cadi;" e chiamatolo, se ne tornava a filare per vendere
il refe e supplire allo scarso mantenimento del padrone. Il qual
magistrato non è a dire se fosse caro a tutta la città. Poi si
ammalò. Non vedendolo uscir di casa da tre dì, gli amici, andati a
visitarlo, lo trovarono giacente, in vece di tappeto, sopra una
stuoia di papiro, manifattura indigena 497, appoggiando il capo su

495
Riâdh-en-Nofûs, fog. 79 recto.
496
Ce ne fornisce un esempio curioso il MS. della Biblioteca di Parigi, Ancien
Fonds, 277, fog. 100 recto, seg. In questa compilazione legale del secolo XVI
si tratta tra le altre cose delle acque stagnanti delle quali fosse lecito far uso
nelle abluzioni. Come la traduzione vuol che queste acque abbian certo
volume, così il compilatore si crede obbligato a indicare i modi geodetici di
misurar la superficie delli stagni, e fa a quest'effetto un lungo trattato con
figure geometriche.
497
Aggiungo questo perchè Ibn-Haukal parla del papiro di Palermo, nel
Journal Asiatique, série IVe, tomo V, p. 98.
due cuscini imbottiti di fieno. Piangendo lor disse avere atteso
all'oficio, che n'era testimone Iddio, finchè gli eran bastate le
forze; nè li avrebbe abbandonati giammai se non fosse stato per
quella incurabile infermità che si sentiva. Volle andare a morire
in patria. E quando partì: "Che Dio vi conceda un successore
miglior di me," furon le ultime parole di Meimûn ai Palermitani;
e quelli a benedirlo ed a pregargli salute. Nè dimenticò, messo il
piè a Susa, di mostrare alla gente il sacco dei libri, le vestimenta
fatte più logore e la stessa schiava498.
Per certo le relazioni politiche con l'Affrica fruttarono alla
Sicilia un utilissimo commercio d'idee e di studii. Si novera tra i
discepoli di Sehnûn, un Diama-ibn-Mohammed, morto il
dugentonovantasette (909-910), ch'era stato cadi di Sicilia sotto
gli Aghlabiti499. Con l'insegnamento ortodosso trapelavan anco i
novelli ardimenti filosofici dei Musulmani; sapendosi che il
giureconsulto Abu-Giafar-Mohammed-ibn-Hosein-Marwazi,
com'ei pare, oriundo persiano, trapassato in Sicilia del
dugentonovantatrè (905-906) era forte sospetto di miscredenza500.
Sembrano incominciati in Sicilia nella stessa metà del decimo
secolo gli studii filologici; poichè il primo Siciliano lettor del
Corano e grammatico di cui si trovi il nome nelle raccolte
biografiche, è Abu-abd-Allah-Mohammed-ibn-Khorassân, liberto
degli Aghlabiti, nato il trecentosei (918-19), di schiatta persiana
anch'egli, se è da stare all'indizio del nome patronimico501.
498
Riâdh-en-Nofûs, fog. 77, verso. Ancorchè cotesta biografia si legga nel 316,
sembra errore da correggersi 312, secondo l'ordine cronologico che comincia
poco innanzi nel Riâdh. Secondo Dsehebi, Kitâb-el-'iber, MS. di Parigi,
Ancien Fonds, 646, tomo I, anno 320, seguì in questo anno la morte di
Meimûn, ormai centenario, paralitico e rimbambito.
499
Baiân, testo arabico, tomo I, p. 160.
500
Op. cit., p. 138. Marwazi è nome etnico che si riferisce a Merw in
Khorassân, ad un borgo di Bagdad, e fors'anco ad un villaggio. Veggasi il
Lobb-el-Lobbâb di Soiuti, ediz. di Leyde, p. 242, con la nota t.
501
Makrizi, Mokaffa, MS. di Leyde 1366, al nome Mohammed; Soiuti,
Tabakât-el-Loghawîn, MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 681, e MS. del dottor John
Lee, allo stesso nome. L'epoca e la qualità di liberto degli Aghlabiti, fan
supporre nato costui in Sicilia, ove si fossero rifuggiti i genitori. La famiglia
Appariscono al tempo stesso in Sicilia i primi esempii d'una
maniera di erudizione che fu molto in voga appo i Musulmani,
dico i racconti biografici che correano nelle scuole e ritrovi dei
dotti: officine delle effemeridi letterarie di quel tempo. Taluno li
messe in carta; poi vennero i compilatori che ci hanno serbato
cotesti materiali di Storia letteraria, chiamati per lo più Tabakât, o
vogliam dir classi, sendo ordinati i cenni biografici in classi, di
giureconsulti, grammatici, poeti, lessicografi e simili: Delle più
antiche e preziose, è il Riâdh-en-Nofûs, da noi ricordato sovente;
il quale, trattando dei giuristi e santi musulmani d'Affrica fin oltre
la metà del decimo secolo, ci dà i nomi dei Siciliani che
tramandarono parecchi aneddoti a voce o in iscritto. Indi
veggiamo che Abu-Bekr-Ahmed, citato dianzi tra i discepoli di
Iehia-ibn-Omar, lasciò ricordi, scritti com'e' pare, intorno il pio
giurista Abu-Harûn-Andalosi, vissuto in Affrica; pei quali fatti
Abu-Bekr or si dà come testimone oculare, or allega i detti
altrui502. Il medesimo Abu-Bekr, su la fede dell'altro Siciliano
Abu-abd-Allah-Mohammed-ibn-Khorassân503, riferisce aneddoti
d'un Ibn-Ghazi da Susa, devoto un tempo e rinomato lettore del
Corano per la melodia della voce, poi infame tra gli Ortodossi
perchè alla esaltazione del Mehdi lo adulò vilmente, è s'affiliò a
setta ismaeliana504. Abu-Bekr, avendo in sua giovinezza
conosciuto Iehia-ibn-Omar (m. 903) ed Abu-Harûn-Andalosi (m.
905), visse nella prima metà del decimo secolo. Contemporaneo
di lui, e al par siciliano Saîd-ibn-Othman; il quale raccontò a voce

par di origine persiana a cagion di quel nome di Korassân, quantunque non


abbia la forma di aggettivo patronimico che sarebbe Khorassânî. I Beni-
Korassân furon signori di Tunis nel XII secolo.
502
Riâdh-en-Nofûs, fog. 60 recto. L'autore Maleki, il quale non visse di certo
innanzi la fine del X o principii dell'XI secolo, cita qui con la frase: Narra
Abu-Bekr etc. Da ciò argomentiamo che Maleki avea sotto gli occhi uno
scritto, non un racconto inserito da autore più moderno, il cui nome avrebbe
citato com'ei suole.
503
Costui non è detto siciliano nel Riâdh; ma lo sappiamo d'altronde. Si vegga
a p. 224, nota 3.
504
Riâdh-en-Nofûs, fog. 107 verso.
i fatti del cadi Meimûn in Palermo505. Un altro Abu-Bekr, per
nome Mohammed-ibn-Ahmed-ibn-Ibrahim, maestro di scuola,
detto il Siciliano, forniva all'autore del Riâdh alcuni aneddoti del
devoto africano Abu-Iunis-ibn-Noseir, morto il trecentoquattro
(916-17) del quale ei fu amico ed ospite506. Il Siciliano Abu-
Hasan-Harîri, o diremmo il Setaiolo, morto il trecentoventidue
(934), che guadagnò con ascetiche stravaganze un cenno
biografico nel Riâdh, può passare anch'egli tra gli agiografi;
poichè si seppero dalla sua bocca le dolci visioni di Moferreg507,
le zuffe d'Abu-Ali da Tanger col nemico del genere umano508, e le
vicende del pellegrino Abu-Sari-Wâsil, ritrattosi in eremitaggio
presso il castello Dîmâs in Affrica509.
Per quanto si voglian supporre perduti i ricordi di quella età, la
somma è che, innanzi la dominazione kelbita, la cultura
intellettuale della Sicilia si ristringea quasi alla scienza del dritto;
nè lasciò nomi illustri. L'argomento negativo che viene dal Riâdh
e da altre compilazioni parziali, pienamente si conferma col
dizionario generale d'Ibn-Khallikân, dove si leggono le biografie
di Siciliani del duodecimo e undecimo secolo, ma nessuna ve n'ha
del decimo. Ciò non vuol dire che gli studii lontani dalla
giurisprudenza, l'erudizione, le lettere, la poesia fossero trascurati
al tutto in Sicilia, avanti i Kelbiti. Sarebbe bastata a recarveli la
sola famiglia aghlabita, che sì larga diramossi allato al regio
ceppo d'Ibrahim. Perchè nel nono secolo que' nobili rami dieron
molti emiri alla Sicilia510; una lor famiglia anco par trapiantata
505
Si vegga la p. 222.
506
Riâdh-en-Nofûs, fog. 73 verso.
507
Si vegga il Libro II, cap. X, p. 420, del primo volume.
508
Riâdh-en-Nofûs, fog. 79, verso. È da avvertire che la biografia di Abu-
Hasan-Harîri è messa il 316, ma trovandosi tra il 322 e il 323, è da supporre
uno sbaglio nella data.
509
Riâdh-en-Nofûs, fog. 61 recto. La morte di Wâsil è riportata al 294. Ho
scritto il soprannome Sari, secondo Dsehebi, MS. di Parigi, Ancien Fonds,
802, il quale avverte che un altro nome scritto in arabico con le stesse
consonanti si pronunzia Sorri.
510
Si vegga il Libro II, cap. V, VII, IX, X, vol. I, p. 300, 342, seg., 352, 391,
423, 427; Libro III, cap. III, VI, vol. II, p. 63, 64, 124.
nella colonia511: e dall'altra mano sappiamo coltivate dai
discendenti d'Aghlab logica, dialettica, astronomia o astrologia
che dir si voglia, rettorica, filologia, e lo stile peregrino di
scrivere; ne troviamo anche un che dettò cronica o storia della
casa d'Aghlab; e dei verseggiatori non v'ebbe penuria512. Ma in
Affrica coteste discipline non fiorirono mai al par del dritto, nè
salirono al ragguaglio delle letterature contemporanee dei califati
d'Oriente e di Spagna: e la colonia siciliana, che le toglieva in
prestito dalla madre patria, pur dovea rimanere più addietro. Non
si veggono Affricani nè Siciliani nel Ietimat-ed-dahr, antologia
poetica di Th'âlebi, oriundo persiano vivuto nei principii
dell'undicesimo secolo; il quale, ricercando i poeti buoni e
mediocri dell'Oriente musulmano, gittò pure uno sguardo su quei
della Spagna513.
Ci torna da tutti i lati quell'operoso commercio tra la Sicilia e
l'Affrica, che necessariamente dovea nascere dalle relazioni
politiche de' due paesi e che portava seco una somiglianza di
industrie, d'incivilimento letterario, e di costumi. Al frequente
passaggio che si è visto di uomini notabili dall'Affrica in Sicilia,
si può contrapporre il tramutamento di coloni che andavano a
tentar la sorte nella madre patria, ai quali si dava, sia per nascita,
sia per lungo soggiorno, il nome di Siciliani. Taluno salì ad alto
grado in Affrica. Leggiamo tra i governatori di Tripoli uno Scekr,
detto il Siciliano, che diè principio il dugentosessantanove (882-
83) alla fabbrica d'una cisterna monumentale, e compiè una
511
Ibn-Haukal, Journal Asiatique, IV serie, vol. V, p. 99, parla d'una miniera di
ferro presso Palermo, ch'era stata posseduta da un di casa d'Aghlab.
512
Veggasi Libro III, cap. II, p. 58 di questo volume, e Ibn-Abbâr, MS. della
Società Asiatica di Parigi, fog. 35 recto, 36 recto, 148 verso. Da quest'ultimo
luogo Casiri trasse la notizia ristampata dal Di Gregorio, Rerum Arabicarum,
p. 237, lin. 6, la quale non appartiene propriamente alla storia letteraria di
Sicilia.
513
Th'âlebi avverte (MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1370, sezione prima, lib. X,
fog. 66, recto) che del Maghreb (Affrica e Spagna) non avea alle mani
antologie, ma poesie volanti raccolte qua e là. Pure è notevole ch'ei ne dia di
molti Spagnuoli, di pochi appartenenti alla corte fatemita d'Egitto e di nessun
Affricano nè Siciliano. Un sol tripolitano che vi si trova è di Tripoli di Siria.
cupola nella moschea giami'514. Le mura della stessa città furono
ristorate ed ampliate il trecentoquarantacinque (956-957) da Abu-
l-Feth-Ziân il Siciliano, motewalli, o vogliam dire delegato al
reggimento del paese515. E poco fa ci è occorso di nominare il
capitan siciliano Boscera nelle battaglie dei Fatemiti contro Abu-
Iezîd516.
Perchè poi non mancasse alla colonia un vizio grave della
madre patria, veggonsi i Siciliani gareggiar coi fratelli d'oltremare
nei fasti dell'ascetismo musulmano. Operano le superstizioni nei
popoli come i liquori inebbrianti nel corpo umano; i quali
all'assaggiarli dan vigore e brio; poi turbano il cervello, concitano
sovente a rabbioso furore; alla fine snervan l'uomo, lo fan cadere
in letargo o senile imbecillità. La macchina soprannaturale
dell'islamismo, dopo avere aiutato a conseguire gli effetti morali,
sociali e politici, ai quali aspiravano le nazioni dell'Asia anteriore,
invasò i Musulmani d'infecondo ardore teologico e li assopì nei
vaneggiamenti delle espiazioni e propiziazioni: e così quello zelo
ch'era stato virtù giovando all'universale, si mutò in vizio, quando
portò a sanguinose discordie, o peggio, alla devota misantropia,
allo straziar sè stesso senz'altrui pro, allo sciogliersi dai legami
della famiglia e della città, allo scambiar la moneta sonante delle
virtù umane con polizze su l'altro mondo, non pur sottoscritte dal
fondator di loro religione, ma dagli interpreti di seconda e terza
mano. Percorrendo il Riâdh-en-Nofûs, si veggono comparire
successivamente tra i Musulmani d'Affrica tre tipi di perfezione
morale: nel settimo e ottavo secolo, il guerriero del conquisto,
ambizioso di martirio; nel nono secolo il giureconsulto che
impavido affronta tiranni e plebi; nel decimo il mote'abbed, uom
di santa vita diremmo noi, che si macera d'astinenza, si stempra in
lagrime, passa dì e notte pregando e ruminando fatti
soprannaturali, e di rado avvien che si levi di ginocchioni, per

514
Tigiani, Rehela, MS. di Parigi, fog. 97 Terso, seg. Traduzione francese, p.
190, seg.
515
Ibid.
516
Si vegga in questo Libro III, cap. X, p. 199.
vedere se i concittadini sian vivi o morti. Pur i bacchettoni
penaron lungo tempo a ragguagliar la devozione musulmana a
quella dell'impero bizantino, spogliandola della virtù guerriera e
della carità spirate da Maometto.
Ce ne dà esempio Mofarreg, il primo santone siciliano che si
presenti nel Riâdh, il quale, se consumò il rimanente della vita in
sterile penitenza, avea sparso prima (882?) il sangue per la
patria517. Abu-Hasan il setaiolo, autor di questo aneddoto
d'agiografia, raccontava anco i travagli di Abu-Ali, oriundo di
Tanger, nato o stanziato in Sicilia, ch'ei conobbe di persona e
passò la vita tra indefesse austerità; lontano dalle cure mondane;
assorto tutto nella preghiera. Cui soleva comparire il demonio, in
sembiante d'uomo, scongiurandolo per Dio di smetter sua dura
penitenza, "con la quale," aggiugneva il maligno spirito, "non ti
avverrà mai di sentir pace nell'animo." Ed Abu-Ali a rispondergli:
"Via di qui, Tentatore; se Dio m'aiuti, continuerò a tuo dispetto."
Ma coltolo un dì che dormiva sur una panca, Satan gli diè una
voltolata; onde cadendo a terra si spezzò la fronte; ed enfiatagli la
piaga, e prendendogli tutta la faccia, que' tornava a susurrargli:
"Smetti, e d'un subito ti guarirò." Finchè, ostinandosi il devoto a
respingerlo e a dirgli che amava meglio morire, il demonio lo
abbandonò al suo fato, che non tardò guari a compiersi 518. Di
questo Abu-Hasan setaiolo, rimase un ricordo biografico scritto
da Abu-Soleiman-Rebî'-Kattan519, erudito affricano che soleva
andare a visitarlo in casa presso la moschea d'Abu-Zarmuna,
credo a Kairewân, ov'ei gli narrava quei fatti de' devoti di Sicilia.
Par che Rebî', si fosse invogliato di conoscere il Setaiolo, per le
maraviglie che sentiva di sua pietà: un uom fitto sempre a suo
telaio; triste e silenzioso, se non che a volta a volta prorompeva in
ringraziamenti e lodi a Dio; e all'annunzio delle preghiere
canoniche, metteasi a gemere, a trascinarsi in terra, a dolersi delle
peccata, a gridare "Ahimè c'ho dissipato la vita mia negli errori!"

517
Si vegga il Libro II, capitolo X, p. 420 del primo volume.
518
Riâdh-en-Nofûs, fog. 79 verso.
519
Kattân significa tessitore o mercatante di cotone.
Il dotto giurista, mezzo devoto anch'egli, ma di zelo più robusto,
ammirava pure le ubbie di Abu-Hasan; nè seppe trattenersi dal
dirgli: "Tu mi colmi di gioia," quando gli sentì ripetere aver fitto
ormai ogni suo pensiero nella morte, nè altro bramar che l'ora di
comparire al cospetto di Dio520. Così, secondo la tempra degli
animi, variavano i sintomi della devozione, mentre si corrompea
l'islamismo. Nè mancarono superstizioni più puerili. Kazwîni,
compilatore di cosmografia e storia naturale nel decimoterzo
secolo, ci serbò, nel capitolo dell'ictiografia del Mediterraneo, il
racconto d'un buon Musulmano d'Occidente; il quale navigando
in quel mare il dugentottantotto (901) vide un giovane siciliano
ch'era seco nella barca, gittar la rete e cogliere certo pesciolino
miracoloso il quale portava, a mo' di collana, tutto il simbolo
musulmano: avea scritto su la mascella destra «Non v'ha dio che
il Dio;» nell'occipite «Maometto;» e su la mascella sinistra «è
l'apostol di Dio.»

520
Riâdh-en-Nofûs, fog. 79 verso. Zaccaria.....el-Cazwîni's, Cosmographie,
testo arabico dell''Agiâ'ib-el-Mekhlûkât pubblicato dal prof. Wüstenfeld, p.
125. L'autore dice un pesce lungo una spanna, e che la nave era presso B rtûn;
il quale non so a che luogo risponda.
LIBRO QUARTO.

CAPITOLO I.

La tribù di Kelb521, rampollo di Kodhâ'a, e però del ceppo


himiarita, diè soldati agli eserciti che passavano in occidente al
principio dell'ottavo secolo; occorrendo poco dipoi nella storia di
Affrica e Spagna emiri kelbiti di gran fama 522, dei quali Biscir-
ibn-Sefwân capitanò una correria sopra la Sicilia 523. Prevalsi poi
in Affrica gli Arabi di Adnân, i quali in ogni modo abbassarono e
calpestarono la schiatta di Cahtân, si vede tuttavia un capitano
kelbita ucciso nelle guerre civili alla fin dell'ottavo secolo,
ch'avea tenuto Mila presso Costantina524, e però nei luoghi ove
facea soggiorno la tribù di Kotama. Preso infine lo stato dalla
casa modharita d'Aghlab, si dilegua il nome kelbita dalle storie,
fino alla esaltazione dei Fatemiti; ai quali era ragione che si
accostassero gli avanzi dei nobili arabi nemici della passata
dinastia. Intanto uomini kelbiti aveano acquistato séguito, e forse
stretto parentele, nella gente di Kotama, che amava ad arabizzare;
poichè nei tempi appresso (986) veggiamo sceikh de' Kotamii in
Egitto, capo connivente a loro insolenza e non dato al certo dai
califi, un Kelbita della casa appunto degli emiri di Sicilia 525. Sia
521
Kelb, vuol dir "cane." Questo nome d'un dei progenitori della tribù fu dato
forse, come usavano gli Arabi avanti Maometto, pel caso d'essersi visto, o
sentito abbaiare, un cane alla nascita del fanciullo.
522
Libro I, capitolo VI, p. 135, nota 1, e p. 136 del primo volume. Si vegga
anche Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione di M. Des
Vergers, passim; Conde, Dominacion de los Arabes en España, parte I, cap.
22, 32, 33, 35; Makkari, Mohammedan dynasties in Spain, versione del prof.
Gayangos, tomo II, p. 41, 66.
523
Libro I, capitolo VII, p. 171 del primo volume.
524
Nowairi, Storia d'Affrica, in appendice alla Histoire des Berbères par Ibn-
Khaldoun, versione del baron De Slane, tomo I, p. 391.
525
Makrizi, citato da Sacy, Chrestomatie Arabe, tomo I, p. 137.
dunque in grazia dei Kotamii, sia della setta ismaeliana o d'altri
servigi i Beni-abi-Hosein di Kelb furono ben visti a corte del
Mehdi526; Ali di quella gente, morì a Girgenti combattendo per
Kâim527; Hasan, figlio di Ali, guadagnò nuovi meriti appo
Mansûr, come si è detto. Affidando a costui la Sicilia, Mansûr
potea fare assegnamento, non meno su la fedeltà e il valor
dell'uomo, che su le qualità della famiglia: nobile e però riverita
dal popolo; nuova in Sicilia e però sciolta d'ogni legame con la
parte aristocratica del paese.
Non occorre di esaminare la sognata concessione feudale della
Sicilia ad Hasan, che si fondava su la versione erronea del testo
d'un plagiario; e i moderni compilatori l'hanno abbandonata,
conoscendo quanto ripugnasse agli ordini musulmani528. In vece
di quella impossibilità legale, il Martorana pensò che il califo
fatemita, a un tempo con la elezione di Hasan, avesse ordinato il
governo di Sicilia con titolo più illustre ed autorità più larga,
accordando all'isola "un emirato suo proprio."529 Ma veramente,
nè il nome era nuovo, nè l'autorità. La prima cosa, l'oficio di wâli,
che il Martorana crede inferiore a quel d'emiro, è il medesimo,
semprechè si tratti d'una provincia; e vale tanto a dir wâli
d'Africa, d'Egitto, di Sicilia, o simili, quanto emiro: e ciò in

526
Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 15. La versione «tum
quod de majoribus suis optime meritus fuisset,» si corregga: ed anche per
essere stati i maggiori di Hasan, fedeli servitori degli antenati di Mansûr.» Così
evidentemente si risalisce al Mehdi.
527
Veggasi il Libro III, cap. IX, p. 191.
528
Sapendo male l'arabico e peggio il diritto musulmano, Marco Dobelio
Citeron tradusse: «dedit insulam Siciliæ in feudum ec.,» negli estratti di
Scehâb-ed-dîn-Omari, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 59. Il Di
Gregorio sospettò l'errore, ibid., nota f; e con minore incertezza lo ha
condannato il Wenrich, lib. II, cap. 230, p. 270, 271. Il fatto di cui né l'uno nè
l'altro si accorsero, è che il compilatore copiava Abulfeda, e che però abbiamo
il testo arabico, quantunque siasi perduto il MS. di Scehâb-ed-dîn. Or Abulfeda
dice meramente che Mansûr diè il waliato (ossia oficio d'emir) di Sicilia ad
Hasan. Annales Moslemici, tomo II, p. 446, anno 336. Il Martorana scansò
l'errore senza confutarlo.
529
Notizie storiche dei Saraceni Siciliani, tomo I, p. 92, II, p. 15.
linguaggio comune al par che in linguaggio legale530. In secondo
luogo, nessuno scrittore fa motto di mutati ordini al tempo di
Hasan531; nessuno serba a lui ed ai successori il titolo di emir ed ai
predecessori quello di wâli: fin dai principii del conquisto di
Sicilia, son adoperati da sinonimi, or l'uno or l'altro, come portava
l'uso della lingua e il capriccio dello scrittore; allo stesso modo
che gli Aghlabiti or son detti wâli, ed or emiri d'Affrica. In fine,
se per "emirato suo proprio" s'intenda governo che non
abbracciasse altra provincia, la Sicilia se l'ebbe sempre sotto i
Musulmani. E se voglia significarsi emirato con pien potere,
oficio di wâli o emir generate, come lo chiamano i pubblicisti, la
Sicilia l'ebbe senza interruzione fino all'ottocentosettantotto, e di
tratto in tratto, nei settant'anni che seguirono infino al
novecenquarantotto, quante volte i principi d'Affrica non poteano
calpestare i coloni a lor talento 532. In ciò si dèe dunque correggere
la sentenza. Da un'altra mano la si dèe spiegare alla più parte dei
lettori. "Governo proprio" significava in Sicilia, venti o trent'anni
addietro, un luogotenente del re di Napoli, albergato più o meno
splendidamente nella reggia di Palermo, ed un'amministrazione
civile, finanziaria e giudiziale independente dai ministri
napoletani: il qual ordine bramavano que' Siciliani che non
odiasser molto la dinastia regnante; e loro ne fu conceduta una
sembianza che durò qualche anno. Donde "emirato proprio della
530
L'ho accennato, Libro I, capitolo IV, p. 147, del primo volume, e Libro III,
cap. I, p. 5, del presente. Wâli, in rapporto di annessione con altri titoli di
magistrato, significa altro. Emir, legato alla voce "esercito," significa
meramente "capitano." In tempi più recenti si son chiamati emir tutti i
discendenti di famiglia principesca ed anche que' di Maometto.
531
Nè anco la Cronica di Cambridge, scritta al tempo dei Kelbiti. Pur fu questa
che suggerì la distinzione al Martorana, poichè Hasan è il primo emiro di cui
noti la elezione (948). Ma degli altri il cronista non la disse, ignorando forse la
data; e in ogni modo ei ben dà il titol d'emiro a Sâlem (917-937).
532
Veggansi: Libro II, cap. V, VI, VII, IX, X, e tutto il libro III. Prendendo a
caso qualche esempio in Ibn-el-Athîr, si trova il titolo di emir di Sicilia negli
anni 835, 851,882, 895, 925; frammessovi talvolta il titolo di wâli, e
chiamandosi sempre l'oficio waliato. Così negli altri annalisti musulmani. Il
Bâian dà nell'835 il titolo di Sâheb, del quale si è detto a suo luogo.
Sicilia," era frase grata a taluni e credo al Martorana, chiarissima
a tutti nel paese; e nel nostro caso, rendea, propriamente o no, una
idea giusta; poichè l'ordine del milleottocentrentadue somigliò
molto a quello del novecenquarantotto, astrazion fatta dagli
antecedenti e dalle conseguenze. Il Wenrich, non avendo alle
mani tal cemento, si appigliò alla innovazione di titolo e
d'autorità, ch'era la parte più debole del concetto di Martorana; vi
persistè non ostante gli schiarimenti datigli dalla erudizione
orientale; e con troppa fretta si cavò da cotesta esamina di dritto
pubblico533.
La quale a me par molto piana. Il dritto musulmano ammette
due forme di governo provinciale; autorità civile e militare
raccolta in unica mano, o divisa. La prima forma, obbligatoria nei
nuovi conquisti e nei paesi confinanti con Infedeli, fu adoperata
necessariamente in Sicilia, dove i coloni la tiravano a
independenza. Ibrahim-ibn-Ahmed, Mehdi e Kâim vollero provar
l'altra forma; e non bastaron fiumi di sangue a farla allignare.
Mansûr, più generoso, più savio, o che gli aprisse gli occhi la
rivoluzione d'Abu-Iezîd, rinunziò al gusto di reggere la Sicilia,
come un villaggio d'Affrica, dal suo sofà, e di espilarla a suo
talento per commissarii: le rese il governo normale di grande
provincia di confini, con mandarvi un vicerè, com'oggi si direbbe.
Il qual fatto non fu, ne poteva essere, accompagnato da novello
statuto, nè da novello titolo534.
533
Wenrich, Commentarii, lib. I, § 229, p. 269. I passi ch'ei cita dell'opera del
barone De Hammer su la Costituzione dell'impero musulmano doveano farlo
accorto del vero; tanto più che De Hammer gli forniva il nome di un emir di
Sicilia nell'880; e che egli stesso ne avrebbe potuto vedere molti altri nei testi
arabici. Ne uscì scrivendo: Utcumque vero rex se habuerit, id certe constat
dignitatem illam in Hasani Calbitæ familia, hereditario quasi jure postmodum
remansisse. E col quasi sdrucciolò su quell'altro intoppo dell'oficio rimaso per
un secolo nella medesima famiglia.
534
Lo stesso punto di diritto pubblico si trattò per l'Affrica propria nel 361
(971-72), allorchè Moezz, trapiantando la sede in Egitto, dovea non ristorare
ma instituire l'emirato nella provincia. Proffertolo ad un Gia'far-ibn-Ali di
schiatta arabica, questi domandò pien potere nella elezione dei magistrati,
nell'amministrazione della finanza e in ogni altro atto di governo; senza
Molto manco potea Mansûr istituire l'emirato ereditario. La
successione del quale oficio in una famiglia si vede sovente nelle
storie musulmane, dagli Aghlabiti d'Affrica infino agli odierni
pascià d'Egitto, ma sempre nacque di fatto e durò con le
sembianze di elezione che venisse dalla volontà del principe.
Cominciò sempre da un emir temporaneo; finì sempre col fatto di
novella dinastia independente; passando per una serie di vicende,
che da una dinastia all'altra si assomigliano come le figure simili
in geometria; procedono secondo unica legge; e danno agli occhi
lo stesso aspetto. Morto Mansûr, pochi anni appresso la elezione
di Hasan, i successori del primo non mutarono la famiglia degli
emiri in Sicilia, perchè l'era potentissima a corte e governava
l'isola tranquillamente. Quando poi i Kelbiti caddero in disgrazia
al Cairo, i califi fatemiti si accorsero di non poterli sradicare dalla
Sicilia. Perchè già era avvenuto il caso che nascea
necessariamente dagli ordini sociali e politici dei Musulmani,
come altrove accennammo. La nobiltà militare, i soldati
mercenarii, i dottori erano avvinti alla famiglia kelbita dal saldo
vincolo dell'interesse, per via degli stipendii e del patrocinio; la
plebe nudrita con le scorrerie contro i Cristiani e le limosine in
patria; l'universale soddisfatto delle entrate che s'investiano in
comodo pubblico o di privati siciliani, degli edifizii che sorgeano,
dello splendor d'una corte protettrice di begli ingegni, del
reggimento condotto secondo i bisogni o il genio dei cittadini di
Sicilia, non degli impiegati di Mehdia; soddisfatto delle colonie
che moveano dal Val di Mazara a ripopolare le città della Sicilia
obbligo di render conto dell'azienda nè di aspettare l'approvazione del califo
per mandare ad effetto i provvedimenti. Moezz gli rispose in collera che volea
farsi principe in vece di lui. Accomiatatolo, si volse al berbero Bolukkin,
fondatore della dinastia zirita; il quale domandò al contrario che il califo
eleggesse i magistrati, gli amministratori della finanza, i capitani delle milizie;
che gli affari più rilevanti si trattassero in un consiglio degli oficiali pubblici; e
ch'egli, Bolukkin, facesse eseguire le decisioni del Consiglio. Moezz scelse lo
Zirita; dicendo pure a un suo fidato, che quegli andrebbe per via più lunga allo
stesso scopo al quale Gia'far volea giugnere d'un salto. Makrizi, Kitâb-es-
Solûk, versione presso Quatremère, Vie da calife fatimite Moezz; Journal
Asiatique, (novembre 1836 e gennaio 1837), estratto, p. 87, 88.
orientale, a coltivarne le campagne o godersi i tributi di quelle
ove rimanessero i Cristiani. Però non è a domandare se i
Musulmani dell'isola volessero correre il rischio d'un governo
d'uomini nuovi, che avrebbe potuto rimutar tutto e ricondurre i
bargelli è i commissarii fiscali del tempo di Sâlem. Una volta che
il califo fatemita il tentò, acconsentendo, com'e' pare, la casa
kelbita per la promessa di maggiore stato in Egitto, i Siciliani
corsero alle armi (969); e il califo non trovò altro modo di porre
fine ai tumulti che d'inviare al più presto un emiro kelbita. In
venti anni dunque era fondata di fatto là eredità dell'emirato, la
quale premeva tanto ai Siciliani.
E però era già surto un principato di Sicilia: senza decreto nè
plebiscito che potesse registrarsi dai cronisti, ognuno ormai sel
vedeva. Ibn-Haukal, venuto in Palermo del trecentosessantadue
(972-3), parla del palagio ove albergava il Sultano; la qual voce è
usata già dagli scrittori del decimo secolo per designare principi
di fatto, riconosciuti o no dal califo: e veramente ella ha valore
radicale di violenza; e quando il tempo onestò la cosa e il nome e
mutò questo in titolo pubblico, significò impero privo della sacra
potestà dei califi535. Sia che Ibn-Haukal abbia ripetuto la voce
Sultano perchè la sentiva in Palermo, o che l'abbia detto dassè per
definire l'ordine di cose che toccava con mano, l'attestato è di
gran momento collimando con lo scopo della rivoluzione
divampata in Sicilia tre anni prima, e col ritratto delle vicende che
seguirono fino alla metà dell'undecimo secolo. Dal
novecensettanta in poi non muovon d'Affrica nè d'Egitto eserciti
che combattano in terraferma d'Italia, non che in Sicilia, insieme
coi Musulmani dell'isola. I Siciliani, quando lor pare, depongono
un emir kelbita e ne scelgono un altro nella famiglia. Che se il
535
Adopero indistintamente Sultano e Soldano che son varianti di trascrizione;
l'una secondo l'uso nostro d'oggi, l'altro come suonava agli orecchi dei nostri
padri al tempo che le repubbliche italiane teneano i commerci del Levante. I
principi ottomani seguendo le tradizioni dei principi turchi dell'Asia Minore e
delle varie dinastie d'Egitto dopo Saladino, preferiscono tuttavia il titol di
Sultano a quel di califo, ch'ebbero per cessione, al certo illegale, della seconda
dinastia abbassida.
califo manda tuttavia al designato dall'emir predecessore, o dal
popolo, un diploma, con le insegne dell'oficio e col titol sonante
di Corona dell'Impero, Spada della Fede e simili, ciò significa
soltanto che la Sicilia riconoscea pontefici i fatemiti. Nè monta il
nome loro stampato nelle monete siciliane fino alla metà dello
undecimo secolo. Abbiamo notato più volte che nel medio evo i
Musulmani tenesser poco conto di tal regalia, sì gelosamente
custodita dai principi cristiani. Inoltre il nome dei Fatemiti dava
corso più largo al conio siciliano nei frequenti commerci con
l'Affrica e l'Egitto, per la qual ragione non ebbero scrupolo a
contraffarlo o imitarlo i principi longobardi di Salerno536. Ma
niuno sosterrà che l'isola obbediva al califo fatemita Daher o
Zâhir (1021-1036) perchè v'abbian di lui e del successore tante
monete battute in Palermo537, quando i lor nomi non si ricordano
punto nè poco nella sollevazione contro i Kelbiti; nè que' califi se
ne dierono briga; nè pensò a loro la casa kelbita, nè alcuna delle
fazioni che agognavano al potere dello Stato: anzi una parte che
cercò aiuti di fuori, si volse agli emiri zîriti d'Affrica,
minacciando, s'e' ricusavano, di chiamare a dirittura i Bizantini.
Aiutaron cotesta emancipazione della Sicilia, la potenza dei
Kelbiti a corte, com'abbiam detto; il tramutamento della sede
fatemita, da Mehdia al Cairo; le guerre orientali dei primi califi
d'Egitto; la pazzia e debolezza degli altri; la emancipazione
contemporanea dell'Affrica. Pur la cagione principale fu che i
Siciliani voleano. Raro avvien che rimangano frustrati i popoli
quando fermamente si propongano e tenacemente procaccino di
scuotere il giogo: che se una generazione fallisca, per colpa
propria o fortezza del nemico, un'altra coglierà il nemico
536
Si veggan queste nell'opera di Domenico Spinelli principe di San Giorgio,
Monete cufiche etc., Napoli 1844, un vol. in-4, p. 1, seg. Ma dubito di alcune,
delle quali non mi sembrano ben trascritte le leggende.
537
Si vegga la lista in Mortillaro, Opere, tomo III, p. 377, seg. Se ne
aggiungano altre 14 che ve n'ha nella collezione del Cabinet des Médailles, a
Parigi, e tre altre pubblicate dal sig. Federigo Soret, Extrait des Memoires de
la Societé imp. d'Archéologie, Saint-Petersbourg, 1851, p. 50, 51, ni 122, 124,
125.
sprovveduto e avvolto in alcuna delle brighe che non mancano
mai agli oppressori; e vincerà, forse senza combattere. Il sangue
sparso per sessant'anni, fruttò alla Sicilia che nel
novecenquarantotto, col romor d'un tumulto, riebbe l'emir
generale; e nel novecensettanta, con breve guerra, si sciolse
dall'arbitrio del califo nelle elezioni: che è a dire salì al sommo
grado di libertà d'un popolo musulmano. E prima vi sarebbe
giunta la colonia, se non fosse stato per le divisioni etniche,
municipali e sociali, che sempre la dilaniarono.

CAPITOLO II.

Fin dalla morte del Mehdi, o vogliam dire dalla rivolta di


Girgenti, l'impero bizantino non soddisfaceva il tributo di
Calabria538; le città assicurate di Sicilia lo avean anco smesso
negli ultimi tempi. Ma, risaputo come Hasan dava sesto alla cosa
pubblica, venne tosto in Palermo un frate a recare i decorsi di tre
anni da parte di qualche città539. Altre di Sicilia o di Calabria che
nol fecero, furon punite dal novello emiro con aspre correrie;
onde chiesero aiuti a Costantinopoli540. Dove rimase
inaspettatamente padrone il Porfirogenito, gli parve indegno della
maestà imperiale pagar quel tributo ai Barbari. Sforzandosi,
quanto il poteva un picciolo ingegno ed una natura inerte, a
ristorare gli ordini della civiltà romana ch'egli avea studiato su i
libri ed affastellato in sue compilazioni, Costantino Porfirogenito
non lasciò da canto l'amministrazione militare, nè la disciplina; di
538
Cedreno, ediz. di Bonn, tomo II, p. 358.
539
Ibn-el-Athîr, anno 336, MS. C, tomo IV, fog. 350 verso; Ibn-Khaldûn,
Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 167; i quali autori parlano di Rûm, e si
deve intendere di que' soli di Sicilia, poichè Costantino ricusò di pagare il
tributo per la Calabria.
540
Ibn-el-Athîr, anno 340, C., tomo IV, fog. 353, verso. L'annalista qui dice
Rûm di Sicilia; ma par si debba intendere di Calabria e di qualche città più
forte di Sicilia, come Taormina e Rametta.
che tornò qualche frutto all'impero, ed egli molto più se ne
prometteva. E però mandava in Italia, in vece d'oratori col tributo,
que' che gli parean capitani e soldati. I quali alla prima si diedero
a maltrattare e taglieggiare i sudditi, peggio che non avrebbe fatto
il nemico541.
Hasan, dal suo canto, com'ei seppe sbarcati i Bizantini ad
Otranto, chiese rinforzi. Mandatigli da Mansûr settemila cavalli e
tremila cinquecento uomini da piè, oltre i soldati d'armata e le
navi da guerra e da carico, giugneano in Palermo, il due luglio
novecencinquanta, condotti dal liberto schiavone Farag-
Mohadded. L'esercito siciliano era in punto; sì che a' dodici luglio
poderoso sforzo mosse per mare e per terra alla volta di Messina,
sotto il comando di Hasan. Immantinenti, valicato lo stretto,
assalirono Reggio, cui trovaron vota di abitatori. Hasan spargeva
i cavalli a far preda intorno; andava egli col grosso delle genti
all'assedio di Gerace; davale indarno aspri assalti; e già la
riducea, tagliatole l'acqua da bere, quando ebbe nuove
dell'esercito bizantino che venisse a trovarlo. Perlochè, composto
coi Geracini e presone danari e statichi, raccolti i suoi, mosse
contro i Greci; i quali precipitosamente si rifuggirono ad Otranto
e Bari. Hasan, inseguendoli, poneva il campo sotto Cassano;
infestava i dintorni. Combattuta per un mese la città senza frutto,
e sopravvenuto l'inverno, fe' l'accordo come a Gerace; ripassò il
Faro; lasciò l'armata a svernare nel porto di Messina; ed ei tornò
alle stanze in Palermo542. I patti di Gerace e Cassano sembrano
541
Cedreno, l. c. È da credere, per men vergogna delle armi bizantine, che le
dette forze fossero venute parte innanzi e parte dopo la state del 950. Cedreno,
come ognun sa, non ricorda mai le date.
542
Confrontinsi: Cronica di Cambridge, anni 6459-6460, presso Di Gregorio,
Rerum Arabicarum, p. 49, 50; Ibn-el-Athîr, anni 336 e 340, MS. B, p. 263,
seg., MS. C, tomo IV, fog. 350 verso, seg., e 353 verso; Ibn-Khaldûn, Histoire
de l'Afrique et de la Sicile, versione di M. Des Vergers, p. 167, 168, dove in
vece di Sire Doghous si legga stratego; e Storia dei Fatemiti, MS. arabo di
Parigi, Suppl. Arabe, 742 quater, tomo IV, fog. 18 verso, con la traduzione di
M. De Slane in appendice alla Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, tomo
II, p. 529. È da avvertire che Ibn-el-Athîr narra i medesimi fatti con
circostanze diverse, nei due capitoli del 336 e del 340. Così anche Ibn-Khaldûn
tregua per un anno, comperata con una taglia che si pagava parte
in contanti, e si davano gli statichi in sicurtà del resto543.
S'adunavano intanto in Calabria le armi bizantine, che l'anno
innanzi o non eran tutte passate in Italia, ovvero avean osteggiato
i dominii beneventani in Puglia, ove occuparon Ascoli544.
L'armata obbediva ad un Macrojoanni, o diremmo noi Giovanni il
Lungo; l'esercito, che fu grosso se non valido, al patrizio
Malaceno, col quale si accozzarono le genti di Pasquale stratego
di Calabria545 Hasan, per comando del califo, riassaltava la
terraferma in primavera del novecencinquantadue. L'otto maggio,
che fu quell'anno tra i dì festivi alla Mecca, scontravansi i due
eserciti sotto Gerace: della quale battaglia gli annali arabici
dicono non essersi unque vista più aspra e fiera; gli annali greci
attestano averne il nemico riportata nobilissima vittoria; e par
torni a questo, che i Cristiani avean l'avvantaggio del numero, i
Musulmani degli ordini e della fiducia nel capitano546, il valore si
pareggiava. Li sbaragliati poi, sfrenatamente fuggirono;
inseguendoli i Musulmani infino a notte, con grande strage,
cattura d'uomini, preda d'armi, cavalli, bagaglie: e a mala pena
camparono il patrizio e lo stratego547. Le teste degli uccisi
mandate a trionfo nelle varie città di Sicilia e d'Affrica, come
nei due luoghi ch'io cito, il secondo dei quali contien parecchi errori. Ho
tradotto salmerie la voce che la versione latina della Cronica di Cambridge
rende cameli, aggiugnendo al testo un punto diacritico che non v'ha. In vero
questa voce arabica non ha la forma che apparterrebbe al plurale di nave
oneraria, o salmeria. Ma che andavano a fare i cameli nelle montagne e selve
di Calabria?
543
La Cronica di Cambridge dice di soli statichi, Ibn-el-Athîr di solo danaro;
nè l'una nè l'altro particolareggiano i patti.
544
La presa d'Ascoli è registrata da Lupo Protospatario, presso Pertz,
Scriptores, tomo V, p. 54. La data ch'è del 950 par si debba correggere 951.
545
Cedreno, l. c. Si vegga la nota 1 della pagina 242.
546
Cedreno dice che il capitan musulmano, innanzi la battaglia, confortò i suoi
a non temere un esercito ove i soldati erano maltrattati dai condottieri;
alludendo alle taglie e ingiurie con che il patrizio e lo stratego aveano offeso i
sudditi. Mi è parso di accettare il fatto morale, non il materiale del discorso di
Hasan; il quale sembra dettato al Cedreno dall'arte rettorica con che si è scritta
la storia per tanto tempo.
tuttavia porta il brutto costume degli Arabi. Hasan strinse
d'assedio Gerace, che di nuovo fe' bella difesa, non ostante la
mancata speranza d'aiuti. Pur Costantino mandava il segretario
Giovanni Pilato all'emir di Sicilia; il quale, notano i Bizantini,
non s'inebbriando nelle vittorie, assentì la tregua548. Fermossi
nella state del cinquantadue; e sembra limitata dapprima a
Gerace, poi resa comune a tutti i luoghi di Calabria che
obbedivano all'imperatore, e stipulatovi il solito patto del tributo e
di più la tolleranza del culto musulmano. Uno stuolo mandato da
Hasan saccheggiava intanto Petracucca, come par si chiamasse a
quel tempo una grossa terra tra i capi di Spartivento e di
Bruzzano549. Altri assalivano un'altra terra, non sapremmo dir se
547
Confrontinsi: Cronica di Cambridge, anno 6461, op. cit., p. 50; Cedreno,
Ibn-el-Athîr, Ibn-Khaldûn, ll. cc; Lupo Protospatario, anno 951 presso Pertz,
Scriptores, tomo V, p. 54, dove si legge: «Malachianus fecit prælium in
Calabria cum Saracenis et cecidit.» Il giorno della battaglia si ricava da Ibn-el-
Athîr, il quale lo dice diverso nei due racconti del 336 e del 340; che son
d'origine evidentemente diversa. Nel primo è la festa di Aráfat ossia il 9; nel
secondo quella del Dhohâ ossia il 10 di dsu-l-higgia; il qual divario vien forse
dal conto astronomico che precede il civile di mezza giornata. Il nome del
patrizio Μαλακένος, dato dal Cedreno, è trascritto nella Cronica di Cambridge
M»»l»gên o M»»l»gân e in Lupo Malachianus. Novella prova del fatto da noi
già notato, che in Sicilia il x si pronunziava c ovvero g, almen dal IX secolo in
poi. In Puglia si rendea con l'antico suon latino ch.
548
Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, e Cedreno, ll. cc. Ho notato sopra che Ibn-el-
Athîr dia due narrazioni diverse di questa impresa dal 952. Le narrazioni
differiscono anche sul modo della tregua; leggendosi nel cap. del 336 che
entrato l'anno 341 (28 maggio 952), e stando Hasan tuttavia all'assedio di
Gerace, venne a trovarlo un ambasciatore di Costantinopoli, col quale fece la
tregua e passò indi a Reggio. Lo stesso autore, nel capitolo del 340, scrive che,
assediata Gerace, fu fatta composizione per danaro, e che Hasan poscia mandò
uno stuolo alla città di Petracucca. La tregua di Gerace fu dunque per la sola
città, e si estese poi alla provincia; ovvero si fermò a Gerace per tutta la
Calabria? In quest'ultimo caso si potrebbe supporre che Pietracucca fosse stata
assalita, sia contro i patti, sia perchè non obbediva all'imperatore e però non
entrava nella tregua.
549
Il fatto è indubitabile, leggendosi nella Cronica di Cambridge e in Ibn-el-
Athîr. Il nome nella Cronica è B tra»ûka, dove si potrebbe porre un f. ovvero
un k al luogo che ho segnato con virgolette, mancandovi i punti diacritici. In
Roseto su i confini della Calabria con la Basilicata, ovvero le
isole di Tremiti, presso il Gargano550: e si nota in questo
medesimo anno saccheggiato il santuario del Gargano e infestati
parecchi luoghi dello Stato di Benevento551. I prigioni di
Petracucca e di Roseto, o Tremiti, che furon molti; andavano di
Sicilia in Affrica; e con essi, incatenato il capitano, del navilio
musulmano, per nome Abu-Mehell; il quale, giunto a Mehdia, era
punito con l'estremo supplizio. S'ignora il delitto: se infrazion
della tregua, se peculato sul bottino; che è più verosimile552.
ogni modo è inesatta la trascrizione e versione latina, dove le prime tre
consonanti furono attribuite al nome geografico e delle altre si compose un
avverbio, molto inopportuno. 1 MSS. d'Ibn-el-Athîr hanno B tr kûka. La stessa
lezione si trova nel Mo'gem-el-Boldân di Iakût, il quale trascrive un passo
d'Ibn-Haukal, che pone appunto B tr kûka tra Gerace e Reggio; e la menzione
fattane in suo breve cenno prova che nel X secolo fosse terra importante per
popolazione o commercio. Due secoli dopo Ibn-Haukal, Edrisi ha B tr kûna,
secondo i MSS. di Parigi, i quali sendo di scrittura africana, vi si può leggere
un altro k in vece della n senza far violenza al testo. Ed è nome, dice Edrisi,
d'un fiumicello che mette foce a tre miglia dal capo Gefira (Zephyrium) e sei
miglia da Bruzzano: come va corretta la versione di M. Jaubert, tomo II, p.
116, che salta queste e altre cifre di distanze. Invano ho cerco nelle carte e
descrizioni della Calabria il nome moderno di questo luogo. Il sito risponde a
Pietrapennata o Brancaleone, e si dèe supporre in monte, atteso quel nome di
Petra. Cocca, cucco, e simili son voci di bassa latinità e bassa grecità, passate
nell'idioma nostro e nei dialetti di Calabria e di Sicilia dove cucca significa
civetta, coccoveggia.
550
Nella sola Cronica di Cambridge troviamo dopo B trakûka l'altro nome
geografico Rm t sa. Rametta in Sicilia non può essere; poichè la stessa Cronica
scrive il nome altrimenti. Roseto e Tremiti mi sembrano le lezioni più
probabili; la seconda delle quali s'accorderebbe con l'assalto al Gargano.
551
Chronicon Sanctæ Sophiæ presso Muratori, Antiquitates Italicæ
Medii Ævi, tomo I, p. 253. Gli assalitori poteano esser Cretesi; ma
sembra più probabile che l'armata siciliana, dopo la tregua coi Bizantini,
abbia infestato i dominii di Benevento.
552
Cronica di Cambridge, l. c., la quale porta questi fatti nel 6461 (1 sett. 952 a
31 agosto 953) quando forse Hasan fece ritorno in Sicilia. Il Rampoldi, tomo
V, p. 284, anno 954, fa sequestrare il navilio siciliano, e condurlo in Affrica,
cioè applica ai legni ciò che la cronica scrive del Capitano. Martorana e
Wenrich lo seguono. È da avvertire che gli Annali arabici dan sempre Hasan
come capitan supremo nelle due imprese del 951 e del 952. Coteste vittorie de'
Mentre i suoi infestavano le costiere dell'Adriatico, Hasan,
ritrattossi da Gerace a Reggio, apriva 553 nel bel mezzo della città
una moschea; cospicua al minaretto spiccantesi in alto da un
angolo, perchè tutti il vedessero e ne sentissero la cantilena del
muezzin. Stipulò in fatti libero ai Musulmani l'appello alla
preghiera e ogni altro rito pubblico; che cristiano non mettesse
mai piè nella moschea; che la desse legittimo asilo ad ogni
musulmano, anche prigione di guerra ed anche fatto cristiano, al
quale paresse di rifuggirvisi. E minacciò che, sapendo tolta, non
che altro, una pietra della moschea di Reggio, farebbe diroccar le
chiese cristiane per ogni luogo di Sicilia e d'Affrica. I quali patti, i
Cristiani umilmente osservarono, scrive tutto lieto Ibn-el-Athîr;
ignorando che la moschea di Reggio non durò oltre quattro
anni554. E preoccupato del gran dispetto degli Infedeli, passò sotto
silenzio la vera importanza del fatto: il civil pensamento di Hasan
ad usar la vittoria in favore del commercio, ch'era operoso al
certo tra la Sicilia e la Calabria e molto più potea progredire con
la tolleranza dell'islamismo a Reggio. Non guari dopo l'impresa
di Calabria, venuto a morte Mansûr (marzo 953), e rifatto califo il
figliuolo Abu-Tamîn-Ma'àd, che fu soprannominato Moezz-li-
dîn-illah, l'emiro Hasan andava a corte a Mehdia; lasciato al
governo della Sicilia il proprio figlio Abu-Hasan-Ahmed. E
Moezz ratificava: il quale atto riferiscono i cronisti con parole
diverse; ma la somma è che il califo lasciò l'emirato ad Hasan con
Musulmani in Calabria sono ricordate in termini generali da Iehia-ibn-Sa'îd,
MS. di Parigi, Ancien Fonds, 131 A, fog. 87 verso.
553
Il testo dice fabbricò; par si debba intendere che acconciò ad uso di
moschea qualche edifizio della città.
554
Ibn-el-Athîr, anno 336, MS. B, p. 263; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et
de la Sicile, p. 168, 169, dove per errore di stampa è detto: «El Haçan retourna
alors à Kharadja où il bâtit etc.» In luogo di Kharadja, dèe dire Reggio, come
nel testo arabico. Terminando il racconto di queste imprese di Hasan in
Calabria, avverto averne escluso i fatti che si leggono dal 948 al 952 nella
Cronica di Arnolfo e nelle interpolazioni alla Cronica della Cava, pubblicate
l'una e le altre dal Pratilli, tomi III e IV; della quale impostura non diffidò
sempre il Martorana, nè prima di lui il De Meo, Annali... del Regno di Napoli,
tomo V, p. 288 a 325.
sostituzione d'Ahmed in caso d'assenza e di morte555.
Segnalatissimo favore, da potersi comprendere col bisogno che
avea Moezz del vincitor di Gerace per l'impresa d'Egitto, la quale
poi si differì. Dovea forse combattervi l'esercito affricano, tornato
di Calabria in Sicilia, il quale ripassò in Affrica poco dopo il
viaggio di Hasan556.
Mentre si pensava a tal conquisto, l'emiro andò ad audace
fazione in Spagna. Era occorso che spacciato un corriere di Sicilia
in Affrica con lettere per Moezz, s'imbattè in una nave di mole
non più vista in que' tempi, fatta costruire da Abd-er-Rahman
califo omeiade di Spagna e mandata a mercatare in Egitto; le
genti della quale detter di piglio piratescamente al legnetto
siciliano, nè rispettarono gli spacci. Il che risaputo da Moezz,
commetteva ad Hasan di far la vendetta con l'armata di Sicilia.
Entrato nel porto d'Almeria, l'emir bruciò quanti legni v'erano;
prese il naviglio che avea fatto l'insulto, tornato già d'Alessandria
con ricche merci e giovani cantatrici per Abd-er-Rahman; poi
sbarcò, messe Almeria a sangue ed a ruba; e salvo si ridusse a
Mebdia. Due correrie delli Spagnuoli su le costiere d'Affrica mal
rendeano la pariglia; essendosi combattuto con varia fortuna.

555
Ibn-el-Athîr, anno 340, MS. C, tomo IV, fog. 353 verso, ed Ibn-Khaldûn, l.
c., scrivono chiaramente che Hasan lasciò in luogo suo il figlio; ma è certo più
esatto il linguaggio di Abulfeda, Annales Moslemici, tomo II, p. 446, anno 336,
e di Ibn-Abi-Dinar, MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 851, fog. 37 verso, dei quali il
primo aggiugne che Moezz confermò Ahmed e il secondo, più precisamente,
che lasciato da Hasan a reggere la Sicilia in sua vece Ahmed, il califo rinnovò
l'atto di elezione in persona di costui. Abulfeda trascrive le parole d'Ibn-
Sceddad, autore del XII secolo. Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum
Arabicarum, p. 15, dice: «E Hasan chiese a Moezz che onorasse suo figlio
Abu-Hasan col titolo di wali di Sicilia etc.;» come si dèe leggere la vece
dell'erronea versione «a quo cum nobilissimus filius ejus etc.» La data esatta si
trova anche in Abulfeda; secondo il quale Hasan era rimaso in Sicilia cinque
anni e due mesi; e però la partenza per l'Affrica va posta in giugno o luglio
953.
556
Cronica di Cambridge, presso Di Gregorio, op. cit., p. 50, anno 6462 (1
sett. 953 a 31 agosto 954).
Seguì l'assalto d'Almeria l'anno trecenquarantaquattro (26 aprile
955 a 13 apr. 956)557.
Maggior guerra richiamò Hasan in Sicilia. La tregua coi
Bizantini, era stata rinnovata il cinquantaquattro forse per altri
due anni, venuto a ciò in Palermo un frate Assiropulo558. Ma
Costantino, mal soffrendo sempre il tributo, e rinfrancato dal
valore che cominciavano a mostrare i suoi contro i Musulmani
dell'Asia Minore, volle ritentar la fortuna in Italia. Mandovvi le
soldatesche di Tracia e Macedonia col patrizio Mariano Argirio, e
l'armata che ubbidiva a due capitani minori, Crambéa e
Moroleone, il novecencinquantasei559, quando spirava la tregua,
L'Argirio cominciò da Napoli, notata allora a corte come ribelle e
amica de' Musulmani per antichi e forse anco recenti patti: la
strinse per mare e per terra; bruciò il contado; ridusse i cittadini a
riconoscere la signoria bizantina finchè avessero il coltello alla
gola, Varii luoghi dei principati longobardi e di Calabria, più o
meno disubbidienti, si sottomessero del pari560; e chi sa se coi

557
Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, anno 344, MS. B, p. 286; Abulfeda, Annales
Moslemici, stesso anno, tomo II, p. 462; Ibn-Khaldûn, Storia dei Fatemiti, MS.
di Parigi, Suppl. Arabe, 742 quater, tomo IV, fog. 20 verso; Conde,
Dominacion de los Arabes etc., parte II, cap. 85; Quatremère, Vie de Moezz nel
Journal Asiatique, novembre 1836, serie III, tomo II, p. 404, dove è citato un
altro luogo di Ibn-Khaldûn. L'armata che assalì la Spagna è detta siciliana da
Ibn-Khaldûn nel primo dei passi citati. Conde scrive che vi fossero navi
d'Affrica e di Sicilia, e dà altri particolari, cavati forse da autori spagnuoli; ma
non ci possiam fidare alla sua critica nè alle sue versioni.
558
Cronica di Cambridge, anno 6462 (953-54) presso Di Gregorio, op. cit., p.
50. Il uome è Asur b l s con la prima s del suono della ç francese. Sembra
composto da Ασσύριος e που̃λος che in greco moderno è desinenza
patronimica; e però la voce intera sarebbe nome di persona o famiglia
discendente da quella che i Bizantini s'ostinavamo a chiamare classicamente
Assiria.
559
La data del 955, che va corretta 956, si trova in Lupo Protospatario. Veggasi
Muratori, Annali d'Italia.
560
Confrontinsi: Theophanes continuatus, ediz. di Bonn, p. 453, 454; e
Cedreno,. tomo II, p. 359; delle quali la prima, è cronica di corte e
contemporanea; la seconda, compilazione del XII secolo e differente dalla
cronica in molti particolari, non si sa dove attinti. Nè l'una nè l'altra metton
voti, fors'anco con pratiche, non chiamavano i Musulmani? I
quali non tardarono. 'Ammâr, fratello di Hasan, giunto d'Affrica
con l'armata il nove agosto del cinquantasei, svernò in Palermo ed
a primavera assaltò la Calabria561. Non che correre il paese, par
abbia dovuto afforzarsi 'Ammâr in qualche luogo; e chiamare in
soccorso il fratello; vedendosi chiuso a settentrione dal grosso
delle forze bizantine, mentre al suo fianco o alle spalle tentava
audecissima fazione Basilio, protocarebo, o direm noi capitan di
vascello, con un'armatetta. Sbarcato a Reggio costui distruggeva
la moschea; poi risolutamente drizzava le prore al bel mezzo della
colonia musulmana di Sicilia; prendea Termini a ventiquattro
miglia di Palermo; assaliva indi la città di Mazara. Dove
sopraccorso Hasan, l'emiro ebbe la peggio, e perdè molti de'
suoi562: pur Basilio se ne andò senza infestar l'isola altrimenti.
L'anno appresso (958), Hasan con l'armata siciliana toccava le
costiere di Calabria; congiungea le forze con 'Ammâr; e insieme
andavano ad affrontare ad Otranto l'armata bizantina, capitanata
da Mariano Argirio in persona. Dalle tre narrazioni, diverse e
mutile, che abbiam di questa fazione, si ritrae come un gagliardo
vento levatosi contro l'armata di Sicilia quando si veniva alle
mani, desse agio al patrizio d'uscir di briga senza battaglia, e di
prendere una nave musulmana imbattutasi tra le sue. Le altre,
ricacciate dalla medesima tempesta vêr la Sicilia, la più parte
fecero naufragio. I Siciliani poi si vantarono della fuga
dell'Argirio; questi impiastrò a Costantinopoli che, aiutandolo il
vento, avea distrutto e affondato tutte lor navi; un cronista
bizantino, di cui s'ignora la età, scrisse che i Musulmani

date o riscontri cronologici. Quanto alla guerra coi Musulmani di Sicilia, gli
annali arabi tacciono; nè abbiamo altra guida sicura che qualche cenno della
Cronica di Cambridge, con che potremo interpretare la vaga rettorica e spesso
bugiarda, de' due bizantini.
561
Cronica di Cambridge, anno 6464 (956-7), op. cit., p. 50; Ibn-el-Athîr, anno
345 (14 aprile 956 a 2 aprile 957), MS. B, p. 289, scrive: «Quest'anno Hasan-
ibn-Ali, sâheb di Sicilia, usci con grosso navillio contro il paese dei Rûm.»
562
Ibid. Suppongo dai fatti seguenti la dimora di Ammâr in Calabria e la
ritirata di Basilio dall'isola.
accampati a Reggio, mentre l'armata bizantina stava per passare
d'Otranto in Sicilia, presi di timor panico, se ne tornarono a furia
ed annegarono nei mari di Palermo. E in vero, se 'Ammâr avea le
stanze presso Reggio, i cittadini dovean credere precipitosa fuga
quel montar delle sue genti su le navi d'Hasan, delle quali poi si
riseppe, non l'andata ad Otranto, ma il naufragio presso la
Sicilia563.
In ogni modo, il patrizio nè assali l'isola, ne tentò altra impresa
di che si faccia memoria. Hasan in men d'un anno rifece l'armata
siciliana564. Non è inverosimile, ma nè anco provato, che in
questo tempo un'armatetta musulmana abbia osteggiato Napoli
per parecchi dì, fatto prigioni, perduto la maggior nave in un
assalto, e in fine assentito a lasciar tranquilla la città,
prendendone taglia in moneta e vasellame d'oro e d'argento: e può
credersi anco ch'alcun dei prigioni avesse visto in sogno San
Gennaro e Sant'Agrippino, i quali gli promettessero il riscatto che
poi seguì565. Da miglior fonte sappiamo che seguirono avvisaglie:
il novecensessanta preso dai Musulmani un Afrina o come che si
chiamasse, capitan greco al certo, e dai Bizantini un Ibn-Baslûs e
menato a Costantinopoli; il novecesessantuno venuto in Sicilia un
legato bizantino che portava il gran nome di Socrate, il quale
riscattò con danaro Afrina e gli altri prigioni di sua gente 566. La

563
Confrontinsi: Theophanes continuatus, ediz. di Bonn, p. 454, 455, e
Cedreno, stessa edizione, tomo II, p. 359, 360; Cronica di Cambridge, l. c.,
anni 6466, 6467 (1 settembre 957 a 31 agosto 959). La Continuazione di
Teofane dà evidentemente il rapporto oficiale del patrizio, con reticenze e
confusione di tempi. Cedreno ci ha conservato l'altra tradizione, che non si
trova nei cronisti contemporanei conosciuti da noi.
564
Cronica di Cambridge, l. c.
565
De Meo, Annali del Regno di Napoli, tomo V, p. 358, anno 958. Il solo
mallevadore è l'autore anonimo degli Atti di Sant'Agrippino. Se il fatto si può
ammettere, parmi abbia ragione il De Meo a porlo il 958 piuttosto che il 961,
com'altri avea pensato.
566
Cronica di Cambridge, l. c, anni 6468 e 6469 (i settembre 959 a 31 agosto
961). Il nome che trascrivo Afrina coi primi editori, è scritto senza punti: onde
può esser composto delle lettere seguenti: 1. a o i; 2. f, k; 3. b, t, th, n, i; 4.
idem; 5. a ovvero h aspirata.
debole guerra finì con una tregua, fermata, com'ei pare, il
medesimo anno, e durata infino all'esaltazione di Niceforo
Foca567.

CAPITOLO III.

Posate le armi, Hasan suggellò con due gravi fatti la novella


amistà tra la dinastia fatemita e la colonia siciliana;
obbedientissima ormai di contumacissima che sempre era stata.
S'affrettò a comparire a corte di Mehdia col figliuolo Ahmed e
con trenta de' primarii nobili musulmani dell'isola; i quali, al dir
d'un compilatore, prestarono giuramento a Moezz568; al dir della
cronica contemporanea, Hasan li fece entrar nella setta del
Principe dei Credenti569: ond'e' mi par manifesto che s'affiliassero
alla società ismaeliana570. Non era avvenuto mai a' Fatemiti
d'accalappiare a un tratto tanti e sì illustri proseliti. Moezz non
rifiniva571 dunque d'onorarli; presentavali di Khil'a, o vogliam
567
Cedrone, l. c.
568
Ibn-Sceddâd, dal quale è tolto questo passo d'Abulfeda, Annales Moslemici,
tomo III, p. 446, seg., anno 336. Vi si accorda Ibn-abi-Dinâr, MS. di Parigi,
fog. 37 verso. Entrambi pongono il fatto nel 347 (24 marzo 958 a 12 marzo
959), e dicono solo dell'andata di Ahmed coi trenta, senza nominare Hasan.
569
Cronica di Cambridge, anno 6469 (1° sett. 960 a 31 ag. 961), presso Di
Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 50, dicendo di Hasan e non di Ahmed. Il
divario della data non monta, o accenna viaggi diversi.
570
Il Martorana, tomo I, p. 100, e il Wenrich, lib. I, cap. XIV, § 128, p. 164,
interpretano che i trenta fossero iti a far professione di rito sciita. Ma le parole
della Cronica che ho citato portano piuttosto ad affiliazione alla setta
ismaeliana. Il giuramento non occorrea per la esaltazione del principe,
riconosciuto in Sicilia da parecchi anni. Nè giuramento poi, nè solenne
professione si facea del rito sciita; il quale, differiva dall'ortodosso in una frase
dell'appello alla preghiera e in pochi punti di dritto, e però la pratica di quello
dipendea dagli oficiali del governo, nè i privati ci avean che fare. D'altronde si
è già notato quanto agognasse la novella dinastia a far proseliti alla setta
ismaeliana. Veggasi Libro III, cap. VI, p. 136, 137.
571
Nell'originale "rifinava". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
dire sontuose sopravvesti degli opificii regii, e, con liberalità più
sustanziale, accrebbe loro gli stipendii militari572 e fors'anco
promise più larghe concessioni.
Perocchè leggiamo nella cronica che quegli ottimati
sollecitavano il califo a un'impresa sopra Taormina 573. Il qual
cenno e gli effetti seguíti l'anno appresso, mostrano che si trattò
di allargare le colonie musulmane nel Val Demone e Val di Noto,
sottoporre al kharâg, e, secondo i casi, confiscare o dividere le
terre delle due province; mutarvi la condizione dei Cristiani, da
cittadini di municipii tributarii a meri dsimmi o schiavi. Questo
sembra il vero scopo del viaggio in Affrica, e dell'affiliazione alla
setta. Moezz, guardando sempre all'Oriente e agli Abbassidi,
nemici comuni suoi e dell'impero bizantino, avea forse ricusato al
solo Hasan, assentì forse a malincuore a tutta la nobiltà siciliana
quell'impresa che metteva in pericolo la pace con Costantinopoli.
Ma non potea dir no senza ridestare i tumulti in Sicilia. Sendo
temporanea per natura la sicurtà accordata ai municipii tributarii,
non mancava ai coloni il dritto d'occupar quelli con la forza. Non
mancava loro la brama, o forse il bisogno, sendo la somma del
tributo a gran pezza minore della gezîa e del kharâg, non che del
fruttato diretto delle terre. Fu di certo Hasan l'autore e promotore
del consiglio, premendogli più che a niun altro di metter mano
sulla Sicilia orientale, per accrescere il giund, empierlo d'uomini
suoi, raddoppiare le entrate e le forze dello Stato; ad onor della
corona fatemita e profitto immediato di sè medesimo e dei
figliuoli.
Tornati in Sicilia Ahmed e i nobili574 che di gioia non capivano
nella pelle, si aprì la primavera del novecensessantadue con
572
Cronica di Cambridge, l. c. La voce che traduco "stipendii militari" si
potrebbe leggere in altro modo, e significherebbe "acquisti." Ma qui tornano a
sinonimi; perchè, non essendovi per anco terre da dividere, il principe non
potea donarne di quelle dello Stato, ma solo assegnare temporaneamente le
entrate di esse. Veggasi il Libro III, cap. I, p. 16, seg., di questo volume.
573
Cronica di Cambridge, l. c.
574
Abulfeda, e Ibn-abi-Dinâr, ll. cc. S'intende ch'essi non fanno motto dei
pensieri ch'io attribuisco a Moezz, ad Hasan ed ai nobili Siciliani.
tripudio universale dei Musulmani, dal palagio degli emiri
all'infimo tugurio. Avea bandito Moezz per tutto l'impero che il dì
della circoncisione del proprio figliuolo, sarebbero anco
circoncisi i fanciulli maturi a ciò di ciascuna famiglia, spesando
lui le feste, che soglion farsi in tal solenne passaggio dell'uomo
dal grembo della madre al consorzio della città575: chè tai
larghezze usano tuttavia i facoltosi musulmani verso lor clienti, e
i poveri del paese partecipano dei banchetti imbanditi576. Alla
nuova luna dunque di rebi' primo del trecencinquantuno (8 aprile
962), scritti innanzi tratto i fanciulli, si compiè il rito,
cominciando dal figliuolo e dai fratelli dell'emiro Ahmed, e via
scendendo ai nobili ed alla gente minuta, che in Sicilia
sommarono a quindicimila giovanetti; e da parte del califo lor
furono dispensati centomila dirhem e cinquanta some di
vestimenta e piccioli regali577. La circoncisione, ch'è uso
antichissimo degli Arabi, non precetto del Corano, non ha tempo
determinato; si fa per ordinario a sette anni, la differisce qualche
famiglia più o meno infino a' sedici. Però il numero che notammo
non ne darà con certezza quello degli abitatori musulmani di tutta
l'isola; pure servirà a ragionarlo a un di presso578.
Senza dimora, Ahmed mandava ad effetto il disegno. Mosse
del mese di maggio, con esercito di Siciliani e Affricani, sopra
Taormina; i cui cittadini, com'era manifesta la causa dell'assalto,
575
Nowairi citato da Quatremère, Vie de Moëzz nel Journal Asiatique, IIIe
série, tomo II, p. 420.
576
D'Ohsson, Tableau de l'empire ottoman, libro II, cap. 17.
577
Abulfeda e Ibn-abi-Dinâr, ll. cc.
578
Secondo le tavole di popolazione di Francia e di qualche provincia d'Italia
che ho avuto alle mani, i fanciulli maschi di 7 anni sono il centesimo della
popolazione. Supponendo metà dei 15,000 di sette anni e metà oltre gli otto, la
popolazione musulmana di Sicilia nel 972 tornerebbe a 750,000 il qual numero
non discorda dai computi che abbiam fatto con altri dati, Libro III, cap. XI,
pag. 216 di questo volume. Il Palmieri, nella Somma della Storia di Sicilia,
Palermo 1834, vol. I, p. 376, su questo medesimo dato ragiona i Musulmani
dell'isola a 300,000. E sbaglia; perchè suppone istituita allora la circoncisione
dai Fatemiti, e che si fosse praticata in Sicilia per la prima volta, e però su tutti
i fanciulli di ogni età.
s'erano apparecchiati a difendere fino agli estremi la roba e
libertà. E valorosamente il fecero; nè li sgomentaron le nuove
soldatesche di Hasan-ibn-'Ammâr, cugino d'Ahmed, venuto
d'Affrica in Palermo il primo agosto e sopraccorso al campo. Ma
quando i Musulmani tagliarono l'acqua che dava da bere alla
città, fu forza calarsi all'accordo. Ricusato ogni onesto patto da
Ahmed, che sapea quel ch'ei volea, la tortura della sete sforzò i
Taorminesi a risegnare tutto ciò che possedeano e darsi schiavi,
salva la vita sola: e così uscirono dalla rôcca il ventiquattro
dicembre, dopo sette mesi e mezzo d'assedio. Le facoltà dei vinti,
scrive Ibn-el-Athîr, divennero fei; ch'è a dire i terreni caddero nel
fisco, per investirsi in stipendii militari. L'emiro mandava a
Moezz mille settecento settanta dei prigioni579. E mettea presidio
di qualche centinaio di Musulmani nella città, mutando il nome, a
onor del califo, da Taormina in Moezzia580.
Il che dà a vedere un primo principio di colonia e fa supporre
l'ordinamento che si tentasse in tutta la regione orientale. Perchè
Moezzia non fosse una bicocca da schiavi o da liberti, fu lasciata
al certo la popolazione agricola nel contado, e la gente minuta,
mercatanti o artefici, nella città. Le terre indifese o scarse di
abitatori chiedeano al certo e otteneano l'amân, prima o dopo
Taormina; scendendo i cittadini a condizione di dsimmi e
scansando la schiavitù, fors'anco lo spogliamento dei beni privati;
e cominciò a stanziare alcun picciolo stuolo del giund nei luoghi
579
Nowairi dice 1570. Nel supposto che fosse la quinta del principe si
ragionerebbe a 9000 anime la popolazione di Taormina. Ma forse non era
luogo ad osservare la proporzione legale, perocchè Moezz potea aver mandato
soldatesche di schiavi, e prender come sua propria la parte che lor toccava dei
prigioni e del bottino.
580
Si confrontino: Cronica di Cambridge, anno 6470-71, op. cit., p. 51; Ibn-el-
Athîr, anno 351, MS. B, p. 302; Abulfeda, Annales Moslemici, anni 336 e 351,
tomo II, p. 446, seg., 478; Nowaîri, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p.
15, 16; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 170, e Storia dei
Fatemiti, MS. di Parigi, Supl. Arabe, 742 quater, vol. IV, fog. 20 verso, e
traduzione di M. De Slane in appendice alla Histoire des Berbères par Ibn-
Khaldoun, tomo II, p. 542; Ibn-abi-Dinâr, MS. di Parigi, fog. 37 verso, seg.;
Lupo Protospatario, presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 54.
più importanti. In particolare nol sappiam che di Siracusa, dove
comparisce due anni appresso debole colonia che non bastava a
difendersi da qualche galea bizantina, ma a capo d'altri cinque
anni la si scorge adulta, da farsi sentir nella guerra civile581.
Probabil è dunque che abbian messo piè nelle ruine d'Acradina e
d'Ortigia verso il novecentosessantadue; trovandovi già
raggranellato un po' di popolazione cristiana. In ogni modo, dopo
la occupazione di Taormina, tutta la Sicilia obbediva ai
Musulmani, fuorchè Rametta, solo avanzo de' municipii greci e
romani di Sicilia; antico asilo, com'io penso, dei più valorosi
cittadini di Messina582, ed or di quanti altri cristiani della
provincia amassero meglio guardar la morte in faccia che soffrire
l'ignominia del vassallaggio.
Nè veggo nelle istorie qual popol abbia mai sortito fine più
magnanima: tanta fu la saviezza dei preparamenti, la costanza
della volontà, il valor nel combattere, e con sì poca speranza
d'aiuto gettarono il guanto ai vincitori. Chè morto Romano
secondo imperatore (15 marzo 963) e succedutigli due bambini, si
disputava il comando tra la rea lor madre e un eunuco; nè potea
sapersi in Sicilia l'esito della rivoluzione militare ch'esaltò
Niceforo Foca (16 agosto 963), quando Hasan-ibn-'Ammâr
poneva il campo a Rametta l'ultimo di regeb
trecentocinquantadue (23 agosto 963); venendo a punir la
ribellione, come al solito si chiamò. Si dubitava tanto poco
dell'esito, che l'emiro Ahmed partì al tempo stesso per l'Affrica583
a compier, com'ei sembra, l'ordinamento amministrativo dell'isola
con Moezz; il quale comandò che Ibn-'Ammâr riducesse intanto
Rametta. E quegli piantò suoi mangani e 'arrâde584, a batter le
581
Si vegga per Siracusa nel 964, il séguito del presente capitolo, e nel 969 il
capitolo V di questo Libro IV. Per altre città non ho testi da poter citare.
582
Si vegga il Libro II, cap. X, pag. 426 del primo volume.
583
Si confrontino: Cronica di Cambridge, anno 6471 (962-3), op. cit., p. 51, e
Nowairi, op. cit., p. 16.
584
Cotesta voce e il fatto si trovano nel solo Nowairi. Le 'arrâde, macchine da
gitto più picciole del mangano, come le spiegano i dizionarii, erano già in uso
nel decimo secolo appo gli Arabi, facendone menzione Mawerdi, ediz. Enger,
mura; si provò ad affaticare i cittadini ogni dì con assalti; e nulla
approdava. Tanto che, pensando ridurli per fame, passò tra que'
monti l'inverno e la primavera e la state appresso, trinceato bene
il campo, e costruitovi un castello per sè e casipole ai soldati585.
Que' di Rametta intanto chiesero aiuti a Niceforo Foca, il
Domestico, come il chiamano sempre gli Arabi, dall'alto oficio
che tenne pria dell'impero e che illustrò, a danno loro, col
conquisto di Creta (maggio 961) e altre belle vittorie 586. Salito al
trono, volle levare all'Impero la vergogna del tributo che si
pagava ai Musulmani; e sperò che bastassero gli auspicii suoi e le
medesime armi a ripigliar la Sicilia col favor della popolazione
cristiana. Onde adunò poderoso esercito, dicesi più di
quarantamila uomini587, di varie nazioni: Armeni, antichissimi
difenditori dell'impero; mercenarii russi588, battezzati di fresco; e
gli eretici Pauliciani589 che, trasportati in Tracia, militavano sotto
p. 75.
585
Nowairi, l. c.
586
Secondo gli autori bizantini citati da Le Beau, Histoire du Bas Empire,
Libro LXXIV, cap. 46, ambo i califi, abbassida e fatemita, abbandonarono i
Cretesi, visto non poterli aiutare. Presso alcuni annalisti musulmani corse
l'errore che Moezz avesse mandato forze che liberaron Creta; il qual fatto M.
Quatremère notò in una compilazione persiana, e giudiziosamente lo suppose
dato per anacronismo invece della sconfitta di Costantino Gongile del 958.
Veggasi il Journal Asiatique, IIIe série, tomo II, p. 420, 421. Ma mi è avvenuto
di trovare appunto lo stesso racconto in Ibn-el-Athîr, anno 351 (962), MS. C,
tomo IV, V, e nell'altro MS. di Parigi, Supl. Arabe, 741 bis, fog. 228 verso; se
non che in un MS. si legge ben Creta, e nel secondo "l'isola di...." lasciando il
nome in bianco. Indi si potrebbe supporre che, in vece d'anacronismo, lo
sbaglio fosse nel nome. E mi è parso di farne menzione, perchè l'isola potrebbe
per avventura esser Malta.
587
Ibn-el-Athîr.
588
Nowairi.
589
Nowairi. Questo compilatore scrive Magi. Il Di Gregorio tradusse Persis;
M. Quatremère, op. cit., notò in parentesi Normands. Senza il menomo dubbio
si tratta de' Pauliciani, ai quali l'eresia manichea potea ben meritare appo i
Musulmani la volgare appellazione di Magi. Noi sappiamo che le legioni di
Tracia erano composte di Pauliciani e che aveano trionfato a Creta. Si veggano
Le Beau, op. cit., libro LXXIV, cap. 14, e Gibbon, Decline and Fall, cap. LIV,
nota 4.
le insegne dei loro persecutori con riputazione di ferocissimi
soldati: dei quali i Russi e i Pauliciani avean testè fatto buona
prova a Creta590. Si apprestarono legni di non più vista grandezza
per traghettare le genti; le navi da battaglia robuste e munite di
fuochi591; il terrore dell'oste accresciuto da grande salmeria di
macchine da gitto592; deputato a pregare il cielo in buona forma e
vigilare sì sospetta accozzaglia di costumi, lingue, e coscienze
straniere, con oficio di cappellano maggiore, come noi diremmo,
un Niceforo, uom di molta pietà e molto senno, prete di corte,
poscia vescovo di Mileto e in ultimo santo canonizzato593. Fin qui
l'imperatore provvide da vecchio soldato. Se non che elesse i
condottieri per favore e corta scaltrezza di palagio. Non uno ma
due condottieri, patrizii entrambi; dei quali il primo fratello del
protovestiario, o maggiordomo che noi diremmo, ebbe nome
Niceta; eunuco pien di religione, erudito negli scritti dei Santi
Padri, ma, sbagliata la via, si trovava in quella stagione
protospatario, che suona aiutante di campo dell'imperatore. Ebbe
costui il grado di drungario, o vice-ammiraglio, il comando
particolare del navilio594 e supremo dell'impresa595. L'altro,
Manuele figliuol naturale di Leone Foca, nipote però di Niceforo,
fatto generale della cavalleria: giovane d'animo bollente, testa
dura e cieco valore596. De' due messi insieme, pensò Niceforo
comporre un ottimo capitano, senza avere ricorso ad alcun di que'
suoi sperimentati commilitoni dell'Asia Minore, il quale andasse
in Sicilia a guadagnare nuova riputazione e poi mettersi, com'egli
stesso avea fatto, su la via del trono: e questo non gli fece veder
l'errore di porre un forzuto e fiero principe del sangue mezzo a
ragguaglio e mezzo sotto d'un soldato da tavolino. Pur a
Costantinopoli non era chi dubitasse della vittoria. Oltre la
590
Le Beau, l. c.
591
Leone Diacono Caloense.
592
Ibn-el-Athîr.
593
Vita di San Niceforo vescovo di Mileto.
594
Leone Diacono, e Vita di San Niceforo.
595
Vita di San Niceforo.
596
Leone Diacono.
potenza di tanto sforzo, n'erano pegno lor nuovi libri sibillini detti
le Visioni di Daniele, ed i vaticinii d'Ippolito vescovo di Sicilia
dei quali nessuno s'era visto fallire; e vi si leggea come il lione e
il lioncello dovessero un giorno divorare l'onagro. Parea chiaro ai
Greci che le due belve con le zanne simboleggiassero i due
imperatori di Cristianità, Niceforo e Otone, e l'altra belva del
deserto Moezz; se non che, quattr'anni dopo la sconfitta, il nostro
Liutprando si beffò di loro che non avessero capito. Otone e il
figliuolo, ei rimbeccò, veraci leoni, doveano manicarsi Niceforo,
asino selvatico vano ed incestuoso, che avea sposata la comare. E
il mordace vescovo di Cremona parlava tanto da senno, che
appose la vittoria dei Musulmani alla fidanza che n'avessero
presa, interpretando appunto come lui la profezia d'Ippolito597.
Risaputi i preparamenti del nemico, Ahmed racconciò e armò
in fretta il navilio siciliano; scrisse marinari e soldati, e chiese
immediati rinforzi a Moezz. Il quale, non perdonando a spesa,
mandava il navilio d'Affrica con molte schiere di Berberi598,
capitanate da Hasan, padre d'Ahmed. Giunti del mese di
ramadhan (11 settembre a 10 ottobre 964), Hasan avviava uno
stuolo al campo di Rametta, rimaneva egli col grosso delle genti
in Palermo, sovvenendogli dello sbarco di Basilio nella Sicilia
occidentale (957). Già l'oste bizantina, traghettato l'Adriatico,
s'era raccolta in su la punta di Calabria. Principiò il tre scewâl (12
ottobre), fornì in nove giorni il passaggio dello stretto; occupò a
prima giunta Messina; afforzolla con fossati, e risarcì le mura 599.
Intanto altri stuoli, recati al certo dall'armata, si mostravano per le
costiere di settentrione e di levante; prendeano nell'una Termini

597
Liutprando. Ognun sa la sua rabbia contro i Bizantini, come lombardo; e
contro Niceforo Foca perchè l'accolse freddamente o peggio, quando Otone
primo il mandò oratore a Costantinopoli.
598
Ibn-el-Athîr, Nowairi e gli altri Arabi. Il nome di Berberi si ricava dalla sola
Cronica di Cambridge, dove fu franteso dai primi editori e con essi dal Di
Gregorio; talchè tradussero in latino: "cum copiis Ben-Aber." In vece di questo
nome proprio, si dèe leggere senza il menomo dubbio Berâber, ch'è il plurale
di Berbero.
599
Ibn-el-Athîr, Nowairi, e gli altri Arabi.
d'assalto, ed era bene per tagliare gli aiuti di Hasan; nell'altra
vanamente sparpagliavansi tra Taormina, Lentini e Siracusa, delle
quali ebber le prime due di queto, la terza per battaglia 600.
Cotest'errore di allontanar troppa gente da Messina, pianta della
guerra, e la mala disciplina de' soldati, non isfuggirono agli
ansiosi cristiani di Sicilia. Ci si narra che Prassinachio, uom di
specchiate virtù, che s'era posto in un romitaggio in su lo Stretto
ed era tenuto lucidissimo tra i "veggenti in Dio"601 del paese,
avesse presagito la sconfitta al cappellano maggiore bizantino; il
quale non s'aspettava altro da quella marmaglia armata602 che gli
avean dato in guardia.
Mentre Niceta guazzava per trecento miglia di costiere col
grosso del navilio, Manuele Foca s'avviluppò col grosso de'
cavalli tra i precipizii dei monti Nettunii, per dare aiuto a
Rametta. La quale, a guardarla in su la carta, è vicina a nove
miglia a Messina603; ma vi si frappone erto il Dinnamare, che
guarda entrambe le acque del Ionio e del Tirreno e dalla cima
sovrasta a quelle per tremila trecento piedi. Pertanto chi cavalchi
da Messina a Rametta, dèe prender lungo giro intorno la
montagna per settentrione e ponente infino a Spadafora, o per
mezzogiorno infino a Mili, e risalir dall'una o dall'altra per le
convalli; delle quali strade la prima corre ventiquattro miglia,

600
Coteste fazioni sono accennate dal solo Leone Diacono, in mezzo a luoghi
comuni di rettorica, che mi fecero stare in forse se lo scrittore ci avesse anche
ficcato, come luogo comune di erudizione, tutti i nomi classici che gli
sovvenivano della geografia di Sicilia. Ei dà a Termini l'antico nome d'Imera,
nè fa parola di Rametta. I Siciliani non potendo difendere le città, si ritraggono
sui monti e nelle selve. I Romani, inseguendoli là dove i fronzuti rami togliean
la vista del sole, sciolgono la falange, onde son côlti dai barbari in un agguato
tra greppi e caverne, ec. Pur tra coteste frasi da scuola, le fazioni delle quattro
città nominate hanno sembianza di vero; tantopiù che sappiamo da altre fonti
che i Musulmani dopo le vittorie di Rametta e del Faro, ebbero a combattere in
varii luoghi. Perciò ammetto la testimonianza.
601
θεοπτκω̃ν.
602
Credo così render meglio che con versione litterale il testo πλείστην τω̃ν
στρατηγω̃ν. Vita di San Niceforo vescovo di Mileto.
603
Veggasi Libro III, cap. X, pag. 427 del primo volume.
l'altra più di trenta. Sboccano in una pianura ritonda di tre o
quattro miglia di diametro; in mezzo alla quale spiccasi in alto
una collina o piuttosto immane masso, che vi si poggia per un sol
viottolo aspro e faticoso di mezzo miglio; e la cima disuguale è
tutta coronata di mura. Quest'è Rametta. Il piano d'intorno sembra
l'arena di un circo apparecchiato ad eserciti per duellare a ultimo
sangue. Gli fan chiostra scoscese e spaventevoli coste, fendendosi
quanto basti ad aprir la via per settentrione a Spadafora, per
mezzogiorno a Mili; e un'altra gola verso ponente conduce a
Monforte. Dal lato orientale taglia la pianura un burrone tirato
quasi a filo per parecchie miglia da mezzodì a tramontana:
profondo squarcio di terreno siliceo, targo, precipitoso; e all'imo
fondo è talvolta stagliato come fosso di fortezza, che non dà via a
calarvi. Così lo descrivono i cronisti arabi; e mel confermavan
uomini pratichi dei luoghi, dai quali seppi quant'io ne ho scritto.
Delle tre gole fanno anco menzione gli Arabi, ma danno il nome
di quelle sole di Mikos e Demona; nell'una delle quali oggi mette
capo la via di Mili e nell'altra la via di Monforte. E
s'addimandavan così da due fortezze molto importanti in quel
tempo; onde già ci è occorso di farne parola604.
Aveva Ibn-'Ammâr dato avviso dello sbarco ad Ahmed: e
questi incontanente mosse di Palermo605; ma non potè giungere
avanti Manuele, il quale, non prima raccolte le genti a Messina, le
menò in furia a Rametta, la notte innanzi il quindici scewâl (24
ottobre). Mandò una schiera a tentare il passo di Mikos, un'altra
quel di Demona, una terza a intercettare gli aiuti su la strada di
Palermo: egli, con l'esercito spartito in sei schiere, seguì la marina
fino a Spadafora; indi poggiò alla volta di Rametta. E quivi
604
Si vegga il Libro II, cap. XII, vol. I, pag. 468, nota 4, ed il Libro III, cap. IV,
pag. 85, nota 1. I nomi topografici son dati qui dal solo Nowairi; nei due MS.
del quale, Demona si riconosce con certezza. Non così l'altro nome che ha le
lettere »»Ksc ovvero »»Ks, rimanendo molto dubbie le prime due. Preferisco la
lezione del migliore tra i MSS. di Edrisi.
605
Nowairi; ma non dice se per terra o per mare. È più probabile il primo, e che
Ahmed abbia dovuto allungare il cammino per iscansare Termini, occupata dal
nemico.
Ibn-'Ammâr avea dovuto scemarsi anco di tre schiere per
chiudere i passi di Mikos e Demona, e fronteggiare gli assediati,
se tentassero la sortita. Altro non gli rimanea dunque che un buon
nodo, tutto o la più parte d'Arabi Siciliani; col quale si fece
incontro a Manuele. All'alba appiccarono la zuffa606.
Al fragore non si stettero i cittadin di Rametta che non
facessero impeto nello stuolo musulmano messo in guardia; il
quale li ricacciò dentro le mura. Con uguale fortuna que' che
teneano i passi di mezzogiorno e di ponente respinsero i
Bizantini607. Ma gli Arabi che si erano travagliati lunga pezza
contro Manuele con grande strage del nemico e loro, imberciati
nella stretta serra, com'è sembra, dai tiri delle macchine,
cominciarono a ritrarsi negli alloggiamenti608: e i Cristiani ad
incalzarli, ad irrompere nella pianura, a circondare il campo: se li
abbiamo cacciati dal passo, che faranno or che li tenghiamo in
mezzo e lor togliamo l'aria da respirare? E per troppa certezza
della vittoria par si fossero disordinati i Bizantini. Gli altri,
certissimi ed ormai bramosi della morte609, voglion finirla a un
tratto; intonano i versi dell'antico poeta arabo:
«Indietreggiai per amor della vita; ma vita, ah, non sento in
petto se non ripiglio l'assalto!
«Che le ferite del codardo gli tingano le calcagna. A noi le
ferite piovon sangue su la punta del piè.»610
606
Confrontinsi: Ibn-el-Athîr e Nowairi. Questi, come dicemmo, non dà il
nome della strada che tenne Manuele; ma la sola che gli restava, e la più breve
delle due praticabili, era quella di Spadafora. Tal conseguenza necessaria è
confermata dal fatto della schiera posta su la via di Palermo.
607
Ibn-el-Athîr, e Nowairi.
608
I compilatori dicono che Ibn-'Ammâr andò incontro a Manuele, senza
particolareggiare il luogo dove si combattesse avanti la ritirata nel campo. Ma
è evidente che fu nella gola di Spadafora. Ibn-'Ammâr non poteva aspettar nel
piano un nemico sì superiore di numero e di cavalli.
609
Ibn-el-Athîr, Nowairi ec.
610
Cotesti versi, dati dal solo Ibn-el-Athîr, sono di Hosein-Ibn-Homâm della
tribù di Morra, e si leggono nell'antologia poetica intitolata Hamasa ossia
"della virtù in guerra," testo arabico pubblicato dal Freytag, p. 92, 93. Hosein
visse avanti l'islamismo; il poco che sappiam di lui, si vegga nel Commentario
E s'avventano con Ibn-'Ammâr: la misura del verso li unì in un
sol impeto da farsi far largo. Il capitano, visto che in vece di
morire si può vincer tuttavia, grida a tutto fiato: "Oh Dio, se
m'abbandonano i figli d'Adamo non mi lasciar tu:" e diè un'altra
carica, che scompigliò i nemici; e invano lor patrizii fecero prova
a rattestarli con le parole e coll'esempio. Manuele spronava nella
mischia con un'eletta di cavalli; rinfacciava a' suoi che si fossero
millantati tanto coll'imperatore ed or fuggissero dinanzi un pugno
di barbari. Ferì in questo dire tra i Musulmani; uccise di sua mano
un uomo; e si trovò avviluppato, picchiato di lance d'ogni banda;
ma non passavano la grave armadura. Tirano dunque al cavallo,
chi di punta, chi di taglio a' garretti; caduto a terra col suo signore
gli si abbaruffano addosso Arabi e Greci; alfine fu spacciato
Manuele e chi l'aiutò. Gli altri si sbaragliarono. Era tra mezzodì e
vespro611. Il grosso degli Arabi eran fanti, come si vede
nell'episodio di Manuele che terminò la battaglia.
Durò la caccia, la fuga, la carnificina infino a notte. A compier
l'epico terrore del caso612, un negro nembo che ottenebrava quella
chiostra di monti, scoppiando a folgori e tuoni quando fu decisa
la giornata, incrudelì sopra i fuggenti, accrescendo i pericoli degli
ignoti e rotti luoghi. Uno squadrone messosi a briglia sciolta giù
pel burrato, precipitò nella fossa; che la colmaron uomini e
cavalli, e i vincitori passaronvi su di galoppo, dicono i loro
annali, nè par mica impossibile. D'ogni lato, pe' greppi e per le
boscaglie, inseguirono gli spicciolati, li scannarono quanto loro
dell'Hamasa, l. c., e in Ibn-Doreid "Libro etimologico," testo pubblicato a
Gottinga dal Wüstenfeld, p. 186. I versi recitati dai combattenti provano che
questi fossero Arabi, e però della colonia siciliana; poichè Moezz avea
mandato d'Affrica soldatesche berbere. Il giund arabico d'Affrica, se pur ne
rimaneva in questo tempo, era ridotto a picciol numero e niente disposto a
venire in Sicilia.
611
Nowairi scrive: fin dopo la prece del Zohr, che si fa passato mezzodì; Ibn-
el-Athîr all'ora dell''Asr, che in quella stagione tornerebbe a ventun'ora e
mezza, a modo dei nostri antichi.
612
Ritraendosi cotesti particolari dagli Arabi, non v'ha il menomo sospetto di
fattura rettorica. Non è al certo in lor annali che gli Arabi dan volo
all'immaginazione.
bastavan le forze a ferire: pochi patrizii o altri uomini di nota fatti
prigioni, per avarizia del riscatto. Pochissimi camparono
fuggendo. Più di diecimila i morti; bottino infinito di cavalli,
robe, armi; tra le quali si trovò una spada ch'era passata dai
Musulmani ai Cristiani in Oriente, e quella riebbero nel
sanguinoso campo di Rametta. Su la quale era inciso in caratteri
arabici: "Indiano è questo brando; pesa censettanta mithkâl; e
molto ferì dinanzi l'apostol di Dio." Cotesta reliquia delle prime
guerre dell'islam era mandata poscia a Moezz con altre preziose
armi e piastre e maglie613; aggiuntovi una resta di capi mozzi e
dugento prigioni barbari, dice una cronica614, che sembran degli
Armeni o dei Russi.
Ma come i trofei erano recati in Palermo, uscito all'incontro
l'emiro Hasan, fu commosso, dice Ibn-Khaldûn, di tanta e sì
improvvisa gioia che gli scoppiò una febbre maligna; della quale
morì, del mese di novembre, a cinquantatrè anni615. Tacciono tal
613
Si confrontino: Ibn-el-Athîr, Abulfeda, Nowairi, Ibn-Khaldûn. Il Di
Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 18, tradusse l'ultima parte della leggenda
incisa su la spada "multum is sanguinem fadit in manibus Apostoli Dei,"
scostandosi dalla versione francese di M. Caussin; il quale (Histoire de Sicile...
du Nowairi, pag. 34, in appendice a Riedesel, Voyages en Sicile ec.) gli
rimbeccò che la frase arabica "nel mezzo delle mani" significa non già "nelle
mani" ma "in presenza." E ciò è verissimo; quantunque si potrebbe allegare a
difesa del Di Gregorio qualche raro esempio ch'egli non conoscea di certo, nel
quale la detta frase ha il significato litterale "nelle mani" ovvero "per le mani."
Ma nel caso nostro parmi dubbio essere stata cotesta spada in pugno non che di
Maometto, ma d'alcun dei primi guerrieri dell'islamismo. Litteralmente
abbiamo: "lungo (è) quanto fu percosso con esso (brando) nel mezzo delle
mani ec.;" il che si può intendere in presenza di Maometto, dalla parte sua o
dalla parte contraria. E mi appiglierei a quest'ultimo supposto anzi che ai
primo, per l'ambiguità che pare studiata, e sopratutto perchè manca la formola
(ferì) "nella via di Dio" cioè in difesa della religione. Il peso della spada torna
da sette ad ottocento grammi, variando il mithkal secondo i tempi e i luoghi.
614
Nowairi. L'appellazione 'Ilg non si dava ordinariamente ai Bizantini (Rûm)
nè ai Persiani ('Agem). Il compilatore, o forse il cronista, adoperò la stessa
voce 'ilg per designare il Palata alemanno, o piuttosto armeno, di cui nel Libro
II, cap. I, p. 247 del primo volume.
615
Confrontinsi: Abulfeda, Nowairi, Ibn-Khaldûn. La data della morte si trova
soltanto nel primo e nella Cronica di Cambridge, secondo l'uno del mese di
drammatica infermità gli altri annalisti: onde potè per avventura
immaginarsela quell'ardito e primo scrittor della Scienza
Nuova616, cercando sempre dentro la storia medesima la cagione
del fatto la quale spesse volte si trova fuori. Fu pianto da tutti
Hasan, valoroso, savio, fondator d'una dinastia e però maculato
dei vizii del mestiere, che poi spariscono nel baglior d'una corona.
I martiri di Rametta intanto bevvero infino all'ultima stilla il
calice amaro che la fortuna porgeva insieme con lor santa corona.
Tennero il fermo dopo la sconfitta dei Greci; ma lo stremo delle
vittuaglie li sforzò a mandar via le bocche inutili: mille della
povera gente, com'e' sembra, tra vecchi, donne e fanciulli.
Ibn-'Ammâr, in vece di rispingerli nella fortezza e affrettar la
dedizione di quella, li accolse e mandò in Palermo; ma fu crudo
coi rimagnenti. Fatti pelle ed ossa, tuttavia combattevano, entrato
già il novecensessantacinque; quando un giorno Ibn-'Ammâr
apparecchia le scale, dà l'assalto, lo protrae fino a notte; e allora
una mano dei suoi salì su le agognate mura di Rametta. Passati a
fil di spada gli uomini; menate in cattività le donne, i fanciulli;
saccheggiata la città, e fattovi grande bottino. Partendosi dopo un
anno e mezzo da' selvaggi luoghi illustrati con tanto sangue,
Ibn-'Ammâr lasciò nella rôcca presidio e abitatori musulmani617.
In questo mezzo Ahmed guadagnava una battaglia navale.
Saputa la rotta di Manuele mentr'ei si affrettava marciando sopra
Rametta618, tirò dritto, com'ei pare, a Messina619 per cavar la
voglia d'un novello sbarco ai Bizantini che s'eran messi in salvo a
Reggio. Seguiron poi in Sicilia tanti altri scontri620, non sappiamo
dsu-l-ka'da (8 nov. a 8 dic.), secondo l'altra in novembre.
616
Ibn-Khaldûn, sì come il nostro Vico, notò che tentava una scienza novella.
Si vegga la Introduzione nel primo volume della presente Storia, pag. LIV.
617
Ibn-el-Athîr e qualche particolare da Nowairi.
618
Nowairi.
619
I cronisti bizantini, cominciando da Leone Diacono, son sì mal informati,
che dicono preso il navilio bizantino nel porto di Messina dal nemico che
inseguiva gli avanzi delli sbaragliati di Rametta. La nuova corse al par confusa
nell'Italia di mezzo, poichè Liutprando dice ucciso Manuele e preso Niceta
nella stessa battaglia tra Scilla e Cariddi.
620
Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, Nowairi, Ibn-Khaldûn.
i luoghi; e d'un solo il nome del capitan bizantino, il maestro
Essaconte, il quale fu sconfitto con grande strage621. Donde è
manifesto che i Musulmani ripigliavano ad una ad una le terre
occupate; mentre il navilio greco pigramente stava lì a Reggio per
raccorre i presidii. Ahmed si pose alla vedetta a Messina con
quante forze potè. Quando l'armata nemica sciolse le vele per
Costantinopoli, risolutamente ei l'assalì; con tanta disparità di
preparamenti navali, che i Musulmani gittaronsi talvolta a nuoto
per appiccare il fuoco ai legni nemici622. Aspro e lungo indi il
combattimento, che ne rosseggiò il mar di sangue, scrivono gli
Arabi623 in metafora, e può passare. Compiuta fu lor vittoria nella
battaglia dello Stretto, come la chiamarono. Affondate, arse o
prese tutte le navi bizantine; fatto grandissimo numero di
prigioni, con cento patrizii e mille altri nobili, se la non è
metafora aritmetica d'Ibn-Khaldûn. Il bottino e i prigioni erano
recati in Palermo624. Tra gli altri l'eunuco ammiraglio, il quale fu
mandato a Moezz, e dimorò due anni a Mehdia625 in comoda
prigione, ingannando il tempo a copiar le omelie di San Basilio e
qualche altro pio testo greco, in più di dugento fogli di
pergamena: bel volume ch'è adesso nella Biblioteca di Parigi,
soscritto con data e nome e titoli e donazione a una chiesa di
Costantinopoli, condotto dal principio alla fine con mano uguale
e ferma, di buon calligrafo, rubriche ad oro e colori, larghi
621
Liutprando.
622
Ibn-el-Athîr, e in due luoghi Ibn-Khaldûn. Il professore Fleischer, rivedendo
le stampe della Biblioteca Arabo-Sicula, ha proposto di leggere qui "sfondare"
invece di "ardere;" i quali due verbi non differiscono in scrittura arabica che
per un punto diacritico su la prima lettera. Ma i MSS. sono uniformi nella
lezione che io seguo. E la probabilità, in una battaglia navale, mi par maggiore
per l'effetto di appiccare l'incendio gittandosi a nuoto con una fiaccola di fuoco
greco, che per quello di tuffare con un palo di ferro e lavorar su i fianchi di una
grossa galea.
623
Nowairi.
624
Confrontinsi: Ibn-el-Athîr e Ibn-Khaldûn. Entrambi dicono espressamente
che la battaglia dello Stretto seguì nel 354.
625
Leone Diacono, Liutprando, lo scrittore anonimo della Vita di san Niceforo,
e Cedreno.
margini e puliti, colonne e righi tirati a squadra e compasso, che
Temistocle e Archimede avrebbero potuto invidiare tant'arte a
Niceta626. Ahmed, toltosi costui dinanzi, spingea le gualdane
contro le città greche, com'io credo, di Calabria; le quali, visto
depredati i contadi e intercetti i commerci, altro partito non
ebbero che di far la tregua, pagando tributo ai vincitori627. Questo
fine sortì la impresa di Niceforo Foca628.
626
MS. greco, Ancien Fonds, 497, proveniente dalla biblioteca di Colbert. La
soscrizione è pubblicata dal Montfaucon, Paléographie, 45 A, e meglio da M.
Hase, in nota alla pagina 67 del testo di Leone Diacono. La soscrizione a p.
444, data nella prigione di Africa, come si chiamava anche Mehdia εν τὸ
δεςμωτηρίω ̉Αφρικη̃ς, è di settembre indizione decima (967). Niceta non vi
dimenticò i titoli di protospatario e drungario dell'armata.
627
Ibn-el-Athîr e Ibn-Khaldûn che dicono entrambi cittadi dei Rûm. Ma questi
non poteano essere di Sicilia ove i Musulmani non si contentavano al certo di
tributo che pagasse il municipio.
628
Si confrontino: Leonis diaconi Caloënsis, ec., ed. di Bonn, p. 65-67; Vita di
San Niceforo vescovo di Mileto, d'anonimo siciliano o calabrese, MS. greco di
Parigi, Ancien Fonds, 1181, squarcio dato da M. Hase in nota a Leone
Diacono, op. cit., p. 442; Cedreno, tomo II, p. 353 e 360, ediz. di Bonn;
Liutprando, Legatio, presso Pertz, Scriptores, tomo III, p. 355, 356; Lupo
Protospatario, anno 965, presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 55; Cronica di
Cambridge, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p.51, la quale è interrotta
appunto al principio di questa impresa; Ibn-el-Athîr, anno 353, MS. B, p. 308
seg., C IV, fog. 361 verso; Abulfeda, Annales Moslemici, anno 336, tomo II, p.
448; Nowairi, presso Di Gregorio, op. cit., p. 16 a 18; Ibn-Khaldûn, Histoire
de l'Afrique ec., p. 170, 171, e Storia dei Fatemiti, MS. di Parigi, Suppl. Arabe,
742 quater, tomo IV, fog. 21 recto, con la versione di M. De Slane, in
appendice alla Histoire des Berbères dello stesso Ibn-Khaldûn, tomo II, p. 529
seg.; Hagi-Khalfa, Cronologia, anno 353, nella versione italiana del Carli, p.
63; Ibn-abi-Dinâr, MS. di Parigi, Supl. Arabe, 851, fog. 26 verso, e 37 verso,
seg. Il Rampoldi, Annali Musulmani, tomo V, p. 306, 311 e 314, con
incredibile sbadataggine, fa sbarcare e morire Manuele il 963; lo fa tornare in
Sicilia il 964, e inventa nel 965 una guerra dei Cristiani di Girgenti, che
sembra replica della rivoluzione del 938. Il Quatremère, nella Vita di Moezz,
Journal Asiatique, IIIe serie, tomo III, p. 65 a 68, fa il racconto di questa
impresa su i testi di Abulfeda e di Nowairi. Una lezione erronea del secondo,
portò l'illustre orientalista a tradurre "Les Musulmans étaient animés par le
sentiment de l'honneur" in vece di "entrarono nel proprio campo" come si ha di
certo, confrontando il testo d'Ibn-el-Athîr.
CAPITOLO IV.

Due anni dopo le raccontate vittorie, correndo il


trecencinquantasei (16 dic. 966, 5 dic. 967) Moezz significò
all'emir di Sicilia la pace fermata con l'Impero, e gli ingiunse di
riattare, meglio oggi che domani, dicea lo scritto, le mura e
fortificazioni di Palermo; ordinare in ogni iklîm dell'isola una
munita città che avesse moschea giami' e pulpito; e ridurvi la
gente dell'iklîm, vietandole di soggiornare sparsa pei villaggi.
Ahmed fece metter mano immantinenti ai lavori in Palermo, e
mandò per tutta l'isola sceikhi preposti ad inurbare le province.
Tanto e non più una cronica musulmana629. Ed Ibn-Haukal,
venuto in Palermo sei anni appresso, ammirava le forti muraglie
del Cassaro e della Khâlesa; e intendea come delle nove porte del
Cassaro tre fossero state innalzate da Ahmed, una delle quali
tramutata da debole a difendevol sito630. Delle città ristorate oltre
la capitale nulla sappiam di certo631. Ma più monta indagare
l'ordine militare ed amministrativo accennati sì laconicamente dal
cronista. Ed a ciò ne proveremo; e direm poi della pace.

629
Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 19. Se avessi più osato,
avrei tradotto "preposti all'inurbamento," che sarebbe proprio la voce del testo:
'imâra. Avvertasi che la cronica copiata da Nowairi dice "fabbricare." Ma le
mura di Palermo erano al certo più antiche. Si deve intender anco "riattare" là
dove parla delle città di provincia.
630
Journal Asiatique, IVe série, tomo V, p. 92 a 95.
631
Il Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 167, diè il disegno ridotto d'una
iscrizione del castel di Termini, nella quale si leggono certamente i nomi di
Moezz-li-dîn-Allah e di Ahmed. Ma la data del 340, anche aggiuntavi una cifra
d'unità, ed anche supposta tal cifra di nove, sarebbe anteriore al fatto nostro; e
in ogni modo mancano altri compartimenti che doveano contenere "fabbricato
per comando ec. per le cure dell'emiro ec." Pertanto questa iscrizione, come
tutte le altre, è da rivedersi sul monumento, se si potrà; e per ora accerta
soltanto che il castel di Termini fu edificato nel regno di Moezz.
La prima cosa è da vedere che valga qui iklîm; la qual voce gli
Arabi tolsero del greco, al par di noi632; le serbarono il significato
che aveva in geografia fisica; e v'aggiunser quello di
circoscrizione territoriale. Così la troviamo in Affrica nel decimo
secolo633, in Sicilia nel duodecimo634 e in Egitto nel
decimoquarto635; dinotando per lo più quel tratto mezzano di
paese ch'oggi chiameremmo distretto, o cantone: nè altro vuol
dire al certo in questo rescritto di Moezz. La moschea giami' e il
pulpito non portano a supporre più vasto l'iklîm; ma solo che il
capoluogo fosse città importante, da farvisi la prece pubblica del
venerdì.
Ma la gente636 che si dovea dai villaggi ridurre nei capoluoghi,
non poteva essere l'universale degli abitatori: cristiani o
musulmani; liberi, dsimmi o schiavi; nobili e plebei. Poco men
assurdo sarebbe a intender tutti i Musulmani, non esclusi i
632
Schivando, per genio di lor lingua, due consonanti in principio di parola,
premessero a κλίμα una alef con la vocale i.
633
Ibn-Haukal, Geografia, capitolo dell'Affrica, MS. di Parigi, Suppl. Arabe,
885, p. 36, 45, 48, 51, 52, dice degli iklîm della penisola Bâsciu (oggi Dakhel),
di Susa, Setfura, Laribus, Ascîr, e Cafsa.
634
Edrisi, Geografia, nel capitolo di Sicilia, dice degli iklîm di Siracusa, Noto,
Mazara, Marsala, Trapani, Cefalà, Rahl-Menkûd; chiama Sciacca la metropoli
degli iklîm (al plurale), che prima dipendeano da Caltabellotta; anche al plurale
accenna quei di Castrogiovanni e quei di Pietraperzia: e infine dice che da
Caronía cominciasse l'iklîm di Demona. Tolto quest'ultimo, che pare risponda
al Val Demone, gli altri sono o distretti o circondarii, non mai province.
635
Presso Sacy, Description de l'Egypte par Abdallatif, appendice, p. 586 seg.
Il titolo è appunto "Dei luoghi (che si comprendono) negli iklîm d'Egitto."
Percorrendo la lista, si trova il solo iklîm di Nesterawa, e le altre circoscrizioni
sono denominate talvolta 'aml (governo), talvolta thaghr (frontiera). 'Aml
sembra, anche in Edrisi, sinonimo di iklîm, se pur non indica meramente la
circoscrizione del governo civile, quando iklîm sia riserbato alla circoscrizione
militare; il che suppongo senza poterlo affermare. Thaghr avea il valore che
diamo oggidì a "piazza," in linguaggio d'amministrazione militare. È da notare
che nel detto documento di Egitto v'ha 21 divisioni; che gli 'aml racchiudono
un numero di luoghi molto diverso, da 383 a 150 ed anche meno. I thaghr di
Alessandria, Rosetta e Damiata ne hanno molto meno; e l'iklîm di Nesterawa
sol cinque.
636
Il testo ha la voce Ahl, popolo, famiglia, gente in generale.
contadini, chè al certo ve n'erano in Val di Mazara; e quanto agli
artefici e mercatanti, non occorrea comando del principe perchè
soggiornassero nelle città. Però trattavasi della sola milizia, dei
nobili cioè con lor lunghe parentele; e chi altro era tenuto gente
nel medio evo, fosse in Cristianità o in terra d'islâm? Ignoriam
noi se nel Val di Mazara, conquistato ormai da un secolo, le
milizie fossero pagate dall'erario in moneta sonante, ovvero con
iktâ', o vogliam dire delegazioni, sul kharâg di un dato territorio,
che riscuotessero con lor proprie mani637, stanziando qua e là
nelle ville. Ma ciò seguiva necessariamente in Val Demone e Val
di Noto, per la fresca mutazione del tributo dei municipii, in
gezîa degli individui e kharâg dei poderi; mancando il tempo di
stendere i ruoli e i catasti, secondo i quali l'azienda pubblica
riscuotesse il danaro o il frumento del kharâg. E però non si eran
fatti nè anco iktâ' in buona forma; ma nulla toglie che le milizie,
con partaggio provvisionale e tumultuario assentito o non
assentito dall'emir Ahmed, avessero diviso tra loro alla grossa le
entrate mal note delle nuove province, e si fossero sparse nelle
campagne, esattori a libito e pagatori di sè medesimi. La qual
rapina permanente rovinava i sudditi cristiani, snervava lo Stato
musulmano, per le sciupate rendite presenti, la inaridita sorgente
di quelle avvenire e la sciolta disciplina militare. A cotesti danni
volle ovviare Moezz, forse in Val di Mazara, di certo nella Sicilia
orientale, con l'ordinamento novello; per lo quale par fosse
affidata a magistrati civili la riscossione, e deputati gli stessi o
altri oficiali in ciascun capoluogo a vegliare i governati, e
significar loro la parola del principe; il che si facea d'ordinario
nella khotba, e però dal pulpito, nella moschea giami'.638 Quali
fossero allora i nomi e limiti degli iklîm di Sicilia, e se mere
circoscrizioni militari, o anco di azienda, nessun ricordo di quel
tempo cel dice; nè vi si può supplire con induzioni. Sol dobbiamo
supporre che gli iklîm fossero stati adattati ai corpi del giund, non

637
Veggasi, Libro III, capitolo I, pag. 28 seg., di questo volume.
638
Nei primi tempi dell'islamismo oravano dal pulpito i califi o gli emiri delle
province. Poi si ebbero khatîb (predicatori) stipendiati.
questi a quelli: perocchè, eccettuati gli stanziali, le altre milizie
facean corpo secondo le parentele, nè agevolmente si potea
dividere un corpo, nè tranquillamente tenerne insieme due o più
di schiatte diverse. Da questo e dalla diversità delle entrate
pubbliche sopra territorii uguali in superficie639, nascea la
disuguaglianza grandissima di estensione degli iklîm, che si nota
in varii Stati musulmani; e che durava in Sicilia infino al
duodecimo secolo640.
La pace parve tempo opportuno a tale riforma
d'amministrazione militare; o forse nelle pratiche della pace l'avea
chiesta il governo bizantino, per temperare coi consigli i mali dei
Cristiani di Sicilia, che non avea saputo prevenire con le armi e
che non poteva ignorare, nè farne le viste coi frati e il clero di
Sicilia. I quali consigli, utili anco al principe musulmano, più
gratamente doveano essere ascoltati nella stretta amistà che allor
nacque tra le corti di Costantinopoli e di Mehdia da comuni
interessi. L'uno era il sospetto di Otone di Sassonia, il quale volle
regnare in Italia quanto Carlomagno e più: ubbidito ormai senza
contrasto dalle Alpi al Tevere; coronato imperatore a Roma
(962); padrone della città; fattosi giudice a gastigare o vendicare i
papi, ed arbitro di eleggerli e deporli; e si voltava già ai favori del
principe di Benevento e contro Niceforo; assaltava (968) la
Calabria, e minacciava però la Sicilia641. Ma in Oriente stringea
Moezz a Niceforo, passione più gagliarda, la brama di spogliare
altrui. Il califato abbassida, mutilo da più tempo delle estreme
province, comandava or appena, e di nome solo, a Bagdad e in

639
Non solo per la diversa ubertà del territorio; ma anche perchè lo Stato in
alcuni possedeva le terre, in altri riscoteva il dazio solo.
640
Per esempio, il territorio di Giato giugnea da una parte a Sagana presso
Palermo e dall'altra presso Calatafimi: che sono circa venti miglia siciliane di
lunghezza. Il territorio di Mazara prendea quasi tutto il distretto odierno di tal
nome e metà di quello d'Alcamo, confinando col territorio di Giato; cioè avea
da trenta miglia di lunghezza. Si vegga il diploma del 1182 presso Del
Giudice, Descrizione del real tempio.... di Monreale, appendice, p. 8, 9, 10.
All'incontro il territorio di Palermo e molti altri erano brevissimi.
641
Si vegga il capitolo VI di questo Libro.
breve cerchio. I Buidi o Boweidi teneano la Persia; la casa di
Hamdân la Mesopotamia; la dinastia d'Ikhscid la Siria e l'Egitto; i
Karmati l'Arabia, donde terribili irrompeano fuori. Lo stesso
nome di califo rimanea per ipocrisia o compassione dei vicini
usurpatori, dei ministri o capitani di ventura avvicendatisi nella
signoria della capitale, i quali vendettero gli oficii pubblici in
faccia ai successori di Omar e di Harûn Rascîd, saccheggiarono la
reggia, messer loro le mani addosso, lor fecero stentare la vita con
una pensioncella; mentre i mercenarii turchi o deilemiti e la plebe
ad ogni piè sospinto insanguinavano le strade di Bagdad. Tra
tanta rovina del califato, Niceforo Foca (962-7) trionfando
nell'Asia Minore, s'era innoltrato due volte in Siria; avea preso
Aleppo, Laodicea e molti altri luoghi, e assediato Antiochia, che
fu indi espugnata da' suoi642. Venuto così Niceforo alle mani con
gli Ikhsciditi, nemici immediati di Moezz, probabil è che si
trattasse tra l'uno e l'altro di operare d'accordo.
Tanto più che Moezz ebbe con un ambasciatore bizantino
quella famigliarità che sovente nasce tra svegliati ingegni. Costui
chiamossi Niccolò, mandatogli più volte da Costantinopoli a
Mehdia ed al Cairo643; forse il medesimo che stipulò la detta pace
del novecensessantasette, recati a Moezz splendidi doni di
Niceforo, e avutone per riscatto o in cortesia l'eunuco Niceta 644.
L'ambasciatore, sostato per viaggio in Sicilia, andava misurando
la possanza fatemita: accolto onorevolmente dal governatore
642
Veggansi per questa epoca gli Annali Musulmani d'Abulfeda, e la Storia del
Basso Impero di Le Beau.
643
Ibn-abi-Dinâr, che narra quest'aneddoto, dice precisamente "andare e venire
più volte."
644
La data della pace e i doni che recò l'ambasciatore si ritraggono da Nowairi,
presso di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 19. Al dir di Liutprando, presso
Pertz, Scriptores, tomo III, p. 356, Niceta fu riscattato con tant'oro, che niun
uomo di senno ne avrebbe dato mai per un eunuco. Mi sembra più probabile
che Moezz l'avesse reso senza riscatto, come afferma il Le Beau, Histoire du
Bas Empire, lib. LXXV, cap. XI. Ma le autorità che cita il compilatore
francese nol dicono nè punto nè poco, nè parlano della spada di Maometto che
avesse mandata Niceforo a Moezz; la quale mi par la stessa presa a Rametta, e
che Le Beau abbia confuso il fatto o rabberciatolo a modo suo.
dell'isola, e notato il bell'aspetto dell'esercito; viste poscia a Susa
le grosse schiere che v'erano apparecchiate. Ma a Mehdia il greco
si facea strada a stento nella calca dei soldati, famigliari e
cortigiani, finchè, entrato nella reggia, uno splendore lo abbagliò:
e condotto a Moezz che sedea maestosamente sul trono, gli parve
proprio il Creatore del mondo, non uomo mortale; che se si fosse
vantato di salir su in cielo gli avrebbe risposto: "è incredibile, ma
tu lo farai." Tanto si dice che confessasse Niccolò, pochi anni
dopo, al principe medesimo, il quale, chiamatolo in segreto nella
reggia del Cairo, gli avea domandato: "Ti sovviene del tal dì ch'io
ti prediceva in Mehdia saresti venuto a salutarmi re in Egitto?" -
"È vero," rispose; e Moezz: "Ci ritroveremo adesso a Bagdad; tu
ambasciatore, ed io califo." Ma il Greco stiè zitto; e, sforzato da
Moezz, gli fe' quel racconto della luce sfolgorante di Mehdia e
che adesso vedea negra di tenebre la capitale, e ammorzata nella
sua faccia quella terribile maestà; donde giudicava rovesciata e
sinistra la fortuna. Moezz abbassò gli occhi tacendo; s'ammalò; e
non guari dopo morì (975). Che che sia di cotesto dialogo, il
quale non disconviene a due adetti d'astrologia del decimo secolo,
si accetteranno i particolari della prima ambasceria che fanno
all'argomento nostro: la condizione cioè dell'esercito siciliano; e
che Moezz volentieri ragionasse di sue ambizioni orientali coi
legati di Costantinopoli645.
Già le guerre di Niceforo e le irruzioni dei Karmati in Siria
batteano la dinastia turca, fondata in Egitto da Ikhscid, capitano
degli Abbassidi, il quale avea occupato la provincia commessagli
e l'avea lasciata a' suoi. Venuto a morte (maggio 968) il loro
liberto Kafûr che tenne con man ferma lo Stato, succedettegli di
nome un Ahmed, nipote d'Ikhscid, fanciullo di undici anni, e di
645
Questo lungo aneddoto, tolto al certo da antica cronica affricana, si trova
intero in Ibn-abi-Dinâr, MS. di Parigi, fog. 28 recto, dal quale io traduco,
saltando molte parole qua e là, ma senza aggiungerne alcuna. Ibn-el-Athîr, MS.
A, tomo III, fog. 7 verso, 8 recto, lo dà quasi con le stesse parole, se non che vi
mancano l'andata in Sicilia ed a Susa. La versione dello squarcio di Ibn-el-
Athîr si vegga presso Quatremère, Vie de Moezz-li-dîn-Allah, nel Journal
Asiatique, IIIe série, tomo II, 1836, p. 131 dell'estratto.
fatto un reggente e due ministri i quali si sfamarono in rapine e
soprusi. Indi tumultuavano le soldatesche; i cittadini malcontenti
prestavano orecchio alle pratiche di Moezz; e un sensale giudeo
di Bagdad, che s'era fatto musulmano e straricco e strumento
necessario dell'azienda d'Egitto, visto che i nuovi signori
stendesser le mani a pelarlo, si rifuggì appo il Fatemita; gli svelò
le condizioni del paese e le vie di insignorirsene. La pestilenza e
la carestia che in quel tempo desolavan orribilmente l'Egitto,
aiutarono al precipizio646.
Moezz ebbe sapienza e genio di amministrazione, di che solea
trar vanto. Narrasi che una volta, per sermonare i grandi della
vezzeggiata e temuta tribù di Kotama, si fece trovare in farsetto,
nel suo studio, tra libri e dispacci: "Ed ecco," lor disse, "com'io
spendo i giorni a far di mia mano il carteggio con l'Oriente e
l'Occidente, in vece di sedere a desco profumato di muschio,
vestito di sete e pellicce, a sbevazzare al suono di strumenti
musicali e canto di belle giovani! Chi mai in questo popolo
crederebbe che il principe è serrato in camera a procacciare la
sicurezza e prosperità del paese e il trionfo vostro su i nemici?" E
finì con ricordar loro, da moralista e da medico, tutte le virtù,
anche di star contenti a una moglie; promettendo che, s'e' lo
ascoltassero, così conquisterebbero i paesi orientali, com'avean
fatto del Ponente647. E con ciò a consultare gli astrologi e più
sovente le spie; tenere mandatarii con le man piene d'oro nei
paesi agognati; e biechi bargelli su le popolazioni arabiche
d'Affrica. Ond'ei parrebbe a legger di Filippo secondo di Spagna,
se nei costumi di Moezz si notasse fanatismo ed ipocrisia, anzichè
un animo generoso e un colto ingegno, vago di poesia, vivace e
facondo, pratico in varie lingue; il berbero, il negro e lo slavo 648.
Del rimanente uom di stato non ordinò mai vasto disegno con
maggior arte, ch'egli il conquisto d'Egitto. Oltre le dette pratiche,

646
Ibn-Khallikan, Vita di Giawher, versione inglese di M. De Slane, tomo I, p.
340, seg.; Quatremère, op. cit., p. 37 seg.
647
Quatremère, op. cit., p. 22, seg., che cita Makrizi.
648
Quatremère, op. cit, p. 134, 135, anche da Makrizi.
si procacciava séguito nelle due città sante dell'Arabia; si
assicurava in Affrica; accumulava tesori; ordinava gli eserciti; e
cercava, per mandarli ai conquisto, un gran capitano
senz'ambizione.
Lo trovò o lo fece egli stesso: un Siciliano di schiatta
cristiana649, Giawher, che suona "'gioiello;" se pur questo non è il
vocabolo arabico raddolcito dalla nostra pronunzia. Figliuolo d'un
Abd-Allah, che pare schiavo rinnegato, Giawher fu comperato da
un eunuco affricano, rivenduto a un secondo e da questi a un
altro; il quale ne fece dono al califo fatemita Mansûr650. Messolo
a lavorar coi segretarii, Mansur poi l'affrancò; donde entrava,
secondo legge musulmana, nella famiglia. Era giovane di bello
aspetto, lodevoli costumi, pronto ingegno, affaticante, vigilante,
sennato scrittore e pulito, chè ne resta di lui l'editto della sicurtà
data al popolo egiziano; e molto amò la poesia e le lettere,
protesse cui le coltivasse, e salito a potenza fu largo coi poeti.
Moezz, sperimentatolo in varii oficii pubblici, lo fece vizir; poi si
consigliò di mandarlo (958) con un esercito di Berberi a ridurre le
province occidentali d'Affrica, di cui alcuna s'accostava agli
Omeîadi di Spagna: e Giawher in men di due anni occupava per
molti combattimenti l'odierno Stato di Marocco; mandava a
649
Khodhâ'i, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 761, fog. 116 recto; Ibn-el-Athîr,
anno 338, MS. C, tomo V, fog. 7 recto; Ibn-Khallikân, versione inglese di M.
De Slane, tomo I, p. 340, seg. e il Baiân, testo, tomo I, pag. 229, dicono
espressamente Giawher Rumi, che significa, come ognun sa, di schiatta greca o
latina. Nella moschea el-Azhar al Cairo, fondata da Giawher il 361 (971) è, o
era, una iscrizione trascritta da Makrizi e posta probabilmente dal
conquistatore medesimo, il quale non vi s'intitola altrimenti che "Giawher il
segretario siciliano." Perchè si legge chiaramente Sikîlli nei quattro MSS. di
Parigi, ch'io ho citato nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 669, 670, e lo
stesso nella recente edizione di Bulak in Egitto che ho notato nelle aggiunte.
Però non posso accettare la conghiettura di M. Quatremère, op. cit., p. 75, il
quale tradusse "Esclavon;" leggendo Saklabi, perchè tanti Slavi si trovavano
negli eserciti fatemiti. Ho avvertito altrove che questa voce in scrittura arabica
si confonde facilmente con Sikîlli, ma nel presente caso non è luogo a dubbio;
perchè un Rumi poteva ben essere Siciliano, e non mai Slavo.
650
Khodhâ'i e Baiân, ll. cc.; Ibn-Hammâd, MS. di M. Cherbonneau, fog. 8
recto.
Moezz i pesci e le alghe presi nell'Atlantico, e gli recava egli
stesso in gabbie di ferro i principi di Segelmessa e di Fez. Però,
deliberata, dopo la morte di Kafûr, l'impresa d'Egitto, Moezz la
commetteva al liberto siciliano; provvedeva con esso lui ad ogni
cosa, fatti financo scavar pozzi nel deserto di Barca su la strada
che dovea battere l'esercito da Sort a Faiûm. Giawher s'infermò a
morte in questo tempo; e il califo a visitarlo ed assisterlo; e sicuro
dicea: "Non morrà, poichè mi dèe conquistare l'Egitto."651
All'entrar di febbraio del novecensessantanove, ragunate le
genti nei piani di Rakkâda per muovere all'impresa, apparve più
brutta che mai l'uguaglianza del dispotismo. Giawher smontava di
sella, baciava la mano di Moezz e l'unghia del pontifical
palafreno; e alla sua volta, cavalcando con l'esercito, si vedea
camminar dinanzi a piè, per comando del califo, i costui figliuoli
e congiunti, non che i grandi del regno. I centomila uomini che
gli danno i cronisti, significano che fu possente l'esercito; i cameli
carichi d'oro gittato in forma di macine, simboleggiano, a mo'
delle Mille ed una notte, il provvedimento necessario a chi
andava a combattere in paese affamato, con giunta d'infinite
barche stivate di grano che seguivano l'armata alle bocche del
Nilo. Nei primi di giugno, non lungi da Fostat, sede del governo,
Giawher fermava un accordo coi principali cittadini652;
concedendo a tutto il popol d'Egitto la sicurtà della vita, sostanze
e famiglie, a nome del califo; il quale, mosso a pietà del paese,
avea mandato sue armi invitte a liberarli dai ladroni e dagli empii
e farvi rifiorir la giustizia. Scendendo alle realtà, promettea di
rilasciare le indebite esazioni del fisco su i retaggi; fornir le spese

651
Si confrontino Ibn-Khallikan, l. c, e gli altri autori arabi citati da M.
Quatremère, op. cit., pag. 9 ad 11, e 35. Il capitolo d'Ibn-el-Athîr su le imprese
di Giawher fino all'Oceano è stato pubblicato da M. Tornberg in nota agli
Annales Regum Mauritaniæ, (Kartâs), tomo II, p. 382. Abulfeda, Geografia,
versione di M. Reinaud, tomo II, pag. 204, indica precisamente la linea di
operazione disegnata da Moezz.
652
Confrontinsi: Ibn-Khallikan, l. c, e le autorità date da M. Quatremère, op.
cit., p. 40 seg.
necessarie alle moschee; rispettare le opinioni religiose653, e i
giudizii secondo l'usanza del paese, non contraria al Corano nè
alla sunna; e mantenere i dritti dei dsimmi654. Si recò allora in
parti la città; chi sdegnava l'accordo uscì a combattere e fu rotto;
il vincitore, confermati saviamente i patti, entrava a Fostat nei
primi di luglio. Altro non mutò dei riti che il nome del principe
nella Khotba, l'appello alle preghiere, e il color delle vestimenta
degli oficiali pubblici, di nero in bianco. Provvide all'azienda da
uom del mestiere; pose in ogni uficio un egiziano e un affricano;
amministrò rettamente la giustizia; e con rara modestia esercitò il
pien potere commessogli655. Piantato il campo presso Fostat,
disegnovvi la novella capitale, la Kâhira, ossia trionfatrice; e diè
mano immantinente a edificarla656. Quivi innalzò la moschea
Azahr, che fu compiuta entro due anni; nella quale il fondatore
volle tramandare ai posteri il nome della patria siciliana e
dell'oficio ch'era stato principio di sua grandezza657. Assicurò il
conquisto reprimendo chi si levasse nelle province; e dando una
memorabile sconfitta (971) ai Karmati, che vennero ad assalirlo
al Cairo658.
653
Il testo ha qui la voce milla, "credenza religiosa."
654
Ibn-Hammâd, MS. di M. Charbonneau, fog. 8 verso e 9 recto. Quest'atto è
segnato di scia'bân 358 da "Giawher segretario, schiavo del principe dei
Credenti ec." E l'amân è accordato a tutto il popolo del Rîf e del Sa'îd, ossia
basso ed alto Egitto. Credo che il testo risponda a quello che M. Quatremère ha
tolto dal MS. Leyde del Nowairi e datone il principio nell'op. cit., p. 41 a 43;
quantunque manchino nella versione i patti importanti di cui io fo parola. Da
questi si vede che i Fatemiti non vietavano affatto il rito sunnita, e che si
limitavano ad innovare la formola dell'appello alle preghiere, sì come ho
notato in questo volume, p. 131, 136, lib. III, cap. VI.
655
Ibn-Hammâd, fog. 8 verso; Quatremère, op. cit., p. 51, 56.
656
Quatremère, op. cit., p. 48.
657
Ecco, secondo Makrizi, l'iscrizione in giro della cupola sul primo portico:
«In nome di Dio ec. Edificata per comando del servo e amico di Dio Abu-
Temîm-Ma'dd-Moezz-li-din-Allah principe dei Credenti (sul quale e sugli
egregi suoi progenitori e discendenti siano le benedizioni di Dio), e per opera
del servo di esso principe, Giawher il segretario siciliano, l'anno 360.»
Biblioteca arabo-sicula, p. 669-670.
658
Quatremère, op. cit., p. 57, 82, seg.
Intanto il nome di Moezz era gridato alla Mecca e Medina;
capitani minori mandati da Giawher gli acquistavano parte di
Siria659; non ostante i Karmati, o forse per la paura che avean di
loro i Musulmani, parea che i popoli da Suez all'Eufrate
volesserlo riconoscere signore. Onde Giawher tanto insistè, che il
trasse a trasferir la sede in Egitto; il che se non bastò a dare ai
Fatemiti l'ambito impero musulmano, fece durar due secoli la
dinastia, la quale, rimasa in Affrica, sarebbe stata spiantata di
corto. La prodigiosa fertilità dell'Egitto; la postura che ne fa scala
del commercio tra l'Oriente e l'Occidente; la popolazione gran
parte cristiana, docile o servile e attaccata al suolo, offrian salda
base a una dominazione reggentesi sugli ordini dell'azienda, d'una
setta e d'una tribù berbera, non su popolo ed armi di sua propria
nazione: oltrechè i padroni d'Egitto, per necessità geografica,
comandaron sempre alla Siria e tennero le chiavi dell'Arabia
occidentale. In Affrica, al contrario, i Fatemiti non avean potuto
vincere la nimistà dei cittadini arabi in sessant'anni di terrore e di
sferza660, non spegnere l'antagonismo del sangue berbero racceso
dalle sètte kharegite; e mentre e' conquistavan l'Egitto, erano
necessitati raccomandarsi alla tribù di Sanhâgia per reprimere un
altro ribelle che seguía le orme di Abu-Iezîd661. Nè Sanhâgia,
condotta dalla famiglia zîrita, lor prestava le armi con sì cieca
lealtà da far serva sè stessa. Nè i Kotamii soffrivano che il califo
comandasse in casa loro662: nè d'altronde bastavano a tener

659
Quatremère, op. cit., p. 51, 63, 69, seg.
660
Si veggano i molti fatti che provan questo, nel Riâdh-en-Nofûs, fog. 92
verso, 93 verso, 98 verso ec., e le altre citazioni di questo MS. che ha fatte M.
Quatremère, op. cit., p. 13 seg. Non intendo dire delle cagioni del
trasferimento della sede in Egitto, su la quale il concetto mio è al tutto diverso.
661
Ibn-el-Athîr, MS. C, tomo V, anno 358, fog. 367 recto. Il nome del capo era
Abu-Kharz o Abu-Kherez della tribù di Zenata, e i suoi seguaci delle due sètte
sifrita e nakkarita. Nei MSS. d'Ibn-Khaldûn è chiamato Abu-Gia'far: Histoire
des Berbères, versione, tomo II, pag. 548, Appendice. Si vegga anche
Quatremère, op. cit., p. 62.
662
Per Sanhâgia si vegga Ibn-el-Athîr, MS. C, tomo V, anno 361; per Kotama,
Makrizi, citato da M. Quatremère nella detta opera, p. 30.
l'Affrica, facendo insieme da pretoriani in Egitto e un pugno anco
in Sicilia.
Moezz si deliberò dunque a sgomberare d'Affrica per sempre,
recando seco arredi, tesori, armerie e fin le ossa degli avi. Partì
d'agosto novecensettantadue; sostato alquanto a Sardegna, villa
d'Affrica che par abbia preso il nome dai Sardi che vi
soggiornarono663, con magnifica lentezza entrò al Cairo di giugno
novecensettantatrè; assestò le cose pubbliche con Giawher; poi
messe da canto l'illustre liberto, il quale morì il novantadue; e il
suo figliuolo Hosein, generalissimo del nipote di Moezz, fu
ucciso da quello a tradimento664.
Di rado ci occorrerà ormai di tornare alla storia dell'Egitto; e di
Moezz, basterà aggiugnere gli ordini politici lasciati nelle antiche
province. Presto ei depose, se pur l'ebbe mai, il pensiero di
commettere l'Affrica a un Arabo di nobil sangue, il quale, non
sarebbe stato contento a picciola autorità; nè bastante a tenere il
paese coi coloni arabi contumaci665. Si volse pertanto ai Berberi,
alla tribù di Sanhâgia, alla famiglia zîrita, al capo Bolukkîn, e, per
arabizzarlo, gli diè nome di Iûsuf-abu-l-Fotûh e titolo di Seif-ed-
dawla, ossia Spada dell'impero. Il quale gli avea prestato mano
forte contro i ribelli, come il padre al padre di lui; e sapea bene
Moezz, che, non lasciandolo governatore, quei si potea far
principe666. Bolukkîn, che il sapeva anco, non si dolse che gli
scemassero l'impaccio del governo civile: che Moezz eleggesse i
cadi, e qualche capo di milizia667; che un consiglio degli oficiali
663
Ibn-el-Athîr, l. c.; Bekri e Ibn-Khaldûn citati da M. Quatremère, stessa
opera, p. 86, nota 1. Indi è venuto, come avverte questo dotto orientalista,
l'errore di un supposto viaggio di Moezz nell'isola di Sardegna. Si vegga anche
Wenrich, Commentarii, lib. I, cap. XIII, § 113.
664
Ibn-Khallikan, versione inglese di M. De Slane, tomo I, p. 340, seg.
665
Quatremère, op. cit., p. 87, da Makrizi. Si vegga nel presente volume, pag.
237, nota 2.
666
Ibn-el-Athîr, anno 361, MS. C, tomo IV, fog. 370 recto e verso, e tomo V,
fog. 10 verso.
667
M. Quatremère, op. cit., p. 88, secondo Makrizi, dice i capi. Parmi si debba
intendere di qualche capo; poichè si trattava certamente dei mercenarii e delle
milizie arabe; non già della vera forza, cioè la tribù di Sanhâgia, la quale avea
pubblici trattasse la somma degli affari ed egli facesse eseguire le
deliberazioni668. Assentì anco a più duro taglio: che fosse posto da
Moezz un direttore sul kharâg, ed un su le tasse diverse, entrambi
mezzo independenti dal governo d'Affrica669; i quali lungo tempo
mandarono moneta in Egitto670. Ond'era proprio quel governo
bipartito che la dinastia volle porre in Sicilia e non le venne fatto.
Nè Moezz si promettea di perpetua obbedienza da Bolukkîn 671;
ma, come fan sovente gli uomini di stato, fruiva del comodo oggi
e rimetteva al domani le cure del pericolo che non si potea
cansare.

gli ordini militari suoi proprii.


668
Quatremère, l. c., da Makrizi.
669
Ibn-el-Athîr, l. c., e Ibn-Khaldûn, Storia dei Fatemiti, in appendice alla
Histoire des Berbères del medesimo autore, versione, tomo II, p. 550. Il primo
aggiugne che Moezz comandò ai due direttori di carteggiarsi con Bolukkîn.
Certamente per la forma, e per aver mano forte all'uopo. Si noti la distinzione
delle amministrazioni del kharâg e delle tasse diverse. La distinzione parmi
fatta non solo perchè eran diversi i modi di riscossione, cioè l'uno tassa
invariabile e diretta, com'oggi diciamo, e gli altri tasse mutabili e in parte
indirette, ma anche per la diversità dei territorii e delle genti. Il kharâg
principalmente si dovea trarre dall'Affrica propria, nè credo sia stato mai
consentito dalle più forti tribù berbere. Kotama nè anche volea pagare la
decima musulmana. Si vegga Quatremère, op. cit., p. 30.
670
Il Baiân, testo, tomo I, p. 238, narra, l'anno 366 (976-7) e il seguente, che
400,000 dinâr raccolti a Kairewân furono mandati in Egitto dal direttore.
Questo fatto tronca ogni dubbio.
671
Lo dice espressamente Ibn-el-Athîr. È da notare che su questi primi ordini
del governo zîrita i compilatori orientali differiscono dagli affricani. Ibn-el-
Athîr, e più di lui l'egiziano Makrizi, ristringono l'autorità di Bolukkîn. Ibn-
Khaldûn, nel luogo testè citato, riferisce in compendio gli stessi fatti; ma nella
Histoire des Berbères, versione, tomo II, p. 10, dice quasi lasciato assoluto
potere a Bolukkîn. Indi è manifesto che i primi compilavano sui cronisti
egiziani, e che Ibn-Khaldûn nella Storia dei Fatemiti copiò Ibn-el-Athîr, e in
quella dei Berberi seguì le autorità affricane, senza curarsi della
contraddizione: il che gli avvien sovente. Ognun poi vede che i cronisti
d'Egitto sotto i Fatemiti sosteneano il dritto della dinastia, e quei d'Affrica
sotto gli Zîriti, già scioltisi dall'obbedienza all'Egitto, voleano fare risalire
l'independenza fino ai primi principii del governo zîrita.
Assestata così l'Affrica fatemita con un vicerè che comandasse
dalle rive occidentali del golfo di Cabès fin dove potesse verso
l'Atlantico, il cauto Moezz eccettuò Tripoli, Adgâbîa e Sort a
mezzogiorno del golfo; commettendole ad altre mani, per aver
libero il passaggio dall'Egitto, se mai venisse in capo a Bolukkîn
di tentar novità. Eccettuò anche la Sicilia, data da tanti anni e
testè confermata ai Beni-abi-Hosein di Kelb672.

CAPITOLO V.

Moezz volle anco far prova a raccogliersi in mano il fren della


Sicilia. Del trecencinquantotto (24 nov. 968, 12 nov. 969), mentre
Giawher era in su le mosse per l'Egitto, si notò che, giunto in
Mehdia un oratore bizantino con ricchi presenti, il califo
comandava di smantellare Taormina e Rametta, ristorate poc'anzi.
Il che fu sì grave ai Musulmani dell'isola673 che l'appiccarono a
consiglio degli Infedeli: come l'odio pubblico lascia sovente le
giuste accuse, e va a trovare le più assurde. L'emiro Ahmed,
temendo peggio che parole, mandovvi con genti il fratello Abu-l-
Kasem e lo zio Gia'far; i quali, accampatisi tra le due città, le
fecero diroccare ed ardere674. Era il preludio d'un colpo di stato;
perchè Moezz lo stesso anno richiamò in Affrica Ahmed con tutti

672
Ibn-el-Athîr, anno 361, MS. C, tomo IV, fog. 370 recto, e tomo V, fog. 10
recto, con le varianti che ho notato nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 267 del
testo.
673
Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 19.
674
Nowairi, l. c. La frase che il Di Gregorio stampò erroneamente nel testo, e
tradusse ut earum edificia disficerent, va corretta "onde entrambi (Abu-l-
Kasem e Gia'far) posero il campo tra le due città." Così anche l'ha spiegato M.
Quatremère, op. cit., p. 68. È supposizione mia che si attribuisse tal
provvedimento ai doni dei Bizantini; ma se no, perchè accoppiar quei due
fatti?
i suoi675, il quale volentieri ubbidì. Ei fu preposto al navilio676, ed
il cugino Ibn-'Ammâr ad una schiera che si dovea mandare di
rinforzo a Giawher677; Mohammed, fratello d'Ahmed, rimase a
corte finch'ei visse, fidato e caro a Moezz sopra ogni altro
amico678. Manifesto egli è dunque che ai Beni-abi-Hosein fu
promesso alto stato appo il califo in Affrica o in Egitto; e che
Taormina e Rametta furono spiantate perchè le tenean gli Arabi
Siciliani, i quali era mestieri disarmare pria di offenderli. Ahmed
se ne andava dopo sedici anni e nove mesi di governo, in su la
fine del trecencinquattotto (ottobre o nov. 969). Fece uno
sgombero di casa: figliuoli, fratelli, congiunti, famigliari,
clientela, ricchezze, arredi, quanto si potea portar via; caricatone
trenta navi salpò l'emiro per Mehdia. Lasciò un solo liberto del
padre, per nome Ia'isc; al quale Moezz commise il reggimento
della Sicilia679.
Ma le tribù, leggiamo, assembrate nell'arsenale vennero a
contesa coi liberti di Kotama, li combatterono e ne fecero
strage680. Le tribù di certo significano i corpi del giund d'arabi
675
Nowairi, l. c.; Abulfeda, Annales Moslemici, an. 336; Ibn-abi-Dinâr, MS. di
Parigi, fog. 38 recto.
676
Abulfeda e Ibn-abi-Dinâr, ll. cc.
677
Quatremère, op. cit., p. 84.
678
Makrizi, Mokaffa, MS. di Leyde, tomo I, sotto il nome di Mohammed-ibn-
Hasan-ibn-Ali etc., detto il Siciliano. Il biografo aggiugne che ammalatosi
costui al Cairo, Moezz l'andava a visitare, e che venuto a morte del 363 (973-
4) lo compose egli stesso nel feretro, e recitò la prece sul cadavere. Questo
Mohammed era nato il 319 (931), e però prima della venuta del padre in
Sicilia.
679
Si confrontino: Nowairi, Abulfeda, Makrizi e Ibn-abi-Dinâr, ll. cc., ma
l'ultimo sbaglia la data. Tutti dicono Ia'isc surrogato dallo stesso Ahmed. Ma
convien meglio alla ragion del fatto la narrazione d'Ibn-el-Athîr, anno 359,
MS. C, tomo IV, fog. 368 verso, e tomo V, fog. 9 recto, che Ia'isc fosse stato
eletto da Moezz. Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione, p.
172, segue questa tradizione, ma erroneamente dice che Ahmed fosse stato
eletto dai Siciliani alla morte del padre. Si confronti il presente volume, Libro
IV, cap. II, pag. 249, nota 1.
680
Ibn-el-Athîr, anno 359, MS. C, tomo IV, fog. 368 verso, e tomo V, fog. 9
recto. Il testo ha kabâil, plurale di kabîla, che significa una delle suddivisioni
siciliani, ordinati secondo loro schiatte. Liberti di Kotama, di
certo gli stranieri Negri, Slavi, Berberi e d'altre tribù, e fors'anco
rinnegati cristiani di Sicilia o di Terraferma, che i capi di Kotama
aveano manomessi ed armati per rinforzar loro squadre, troppo
poche ormai ai bisogni della dinastia. Nè parmi abusare il dritto
d'interpretazione se aggiungo che il giund siciliano sì fieramente
nimicasse i liberti di Kotama per cagione del fei, creduto suo
proprio retaggio, del quale vedea partecipare quegli usciti di
schiavitù; e forse lor erano stati concessi gli stipendii ricaduti per
la partenza dei Kelbiti. Il tumulto par che fosse seguíto allo
scorcio del novecensessantanove681. L'arsenal di Palermo sendo
posto nella Khalesa682, e' si vede che Ia'isc, perduti i suoi sgherri
entro la stessa cittadella, non ebbe difesa contro i sollevati.
Com'avvenne sempre in Sicilia, il fuoco di Palermo si appigliò
subito alle altre città: ammazzati nelle parti683 di Siracusa i liberti
kotamii; subbugli e zuffe per tutta l'isola; rotto il freno alle
nimistà: indarno Ia'isc cercò di racchetare gli animi, sospetto
com'egli era, senz'armi nè séguito, onde niuno lo ascoltò. Le
milizie trascorsero a rapine e violenze sopra i terrazzani 684;
della tribù arabica. Gli scrittori arabi del decimo secolo che parlan dell'Affrica
usano cotesto nome generico per designare le tribù sia d'Arabi, sia di Berberi,
ed in oggi nelle province d'Algeri e di Orano (non già in tutta l'Algeria nè in
tutto il resto dell'Affrica) si chiamano Kabili, come ognun sa, i soli Berberi.
Nondimeno nel presente passo d'Ibn-el-Athîr, copiato da croniche del X o XI
secolo la voce kabâil non si può intendere altrimenti che tribù di Arabi
Siciliani; primo perchè è messa assolutamente senza appellazione etnica che la
determini; e secondo, perchè in Sicilia a quei tempo la lite non potea nascere se
non che tra i coloni arabi ed i pretoriani. I Berberi della Sicilia meridionale non
contan più dopo la guerra del 940, e non fecero mai parte della popolazione di
Palermo.
681
In novembre 969 partirono i Kelbiti, e in giugno 970 tornarono.
682
Ibn-Haukal, Description de Palerme, nel Journal Asiatique, IVe série, tomo
V, p. 93
683
Così litteralmente il testo: parti, contrada, vicinanza. Forse si tratta del
distretto o iklîm.
684
Il testo ha un vocabolo analogo e derivato dalla stessa radice che il ra'ia,
che tutti sentiamo ripetere nei fatti dei paesi musulmani d'oggidì. È però si
deve intendere principalmente dei sudditi cristiani.
dettero addosso alle città cristiane assicurate685: difendendo lor
proprii dritti, non ebbero rispetto agli altrui. La forza fatta ai
Cristiani mostra che in fondo si dolessero della distribuzione del
fei, e che pretendessero riparare l'ingiustizia. prendendoselo
dassè. Moezz, risaputo cotesto scompiglio quando forse non era
spenta la ribellione della tribù di Zenata in Affrica686, ed i
Karmati gli minacciavano il recente conquisto d'Egitto, non si
ostinò contro i Siciliani, Deposto Ia'isc, mandò nell'isola Abu-l-
Kasem-Ali-ibn-Hasan, con grado di vicario del fratello Ahmed;
per dar a vedere che non avesse mai pensato a mutare nè gli
ordini nè gli uomini. Al cui arrivo, che seguì il quindici scia'bân
del cinquantanove (22 giugno 970), posarono i tumulti; la colonia
lietissima l'accolse e docile gli ubbidì687.
Entro pochi mesi Ahmed, veleggiando con l'armata affricana
alla volta d'Egitto, s'infermava a Tripoli, dove di corto morì. E in
novembre del novecensettanta Moezz scriveva insieme ad Abu-l-
Kasem lettere di condoglianza per la morte del fratello e il

685
Questo importantissimo fatto della rivoluzione contro Ia'isc è riferito dal
solo Ibn-el-Athîr, l. c., e appena accennato da Ibn-Khaldûn, Histoire de
l'Afrique et de la Sicile, versione, p. 172.
686
Seconda Ibn-el-Athîr, anno 358, MS. C, tomo V, fog. 367 recto, il capo di
questa ribellione si sottomesse di rebi' secondo 359 (febbraio e marzo 970).
Sul nome si vegga qui innanzi la nota 2 della pag. 287.
687
Si confrontino: Ibn-el-Athîr, anno 359, MS. C, tomo IV, fog. 368 verso;
Ibn-Khaldûn, l. c.; Abulfeda, Annales Moslemici, tomo II, anno 336; Nowairi,
presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 19; Ibn-abi-Dinâr, MS. di Parigi,
fog. 38 recto. Il giorno della venuta d'Abu-l-Kasem in Palermo risponde
esattamente al computo degli anni del suo governo che fa Ibn-el-Athîr,
narrando la sua morte seguíta il 20 moharrem 372. Egli avea tenuto l'oficio, al
dir dell'annalista, 12 anni, 5 mesi e 5 giorni, che sono secondo il calendario
musulmano 4405 giorni. Si vegga Ibn-el-Athîr, anno 371, che citeremo in fin
del capitolo VI del presente libro. Abulfeda dà la stessa cifra di Ibn-el-Athîr;
Ibn-abi-Dinâr dice in numero tondo 12 anni; e il Baiân con errore 11.
diploma d'investitura ad emir di Sicilia688. Lo stato si rassodò
nelle mani di quel giusto e generoso689.
Capitò in questo tempo (972-73) in Palermo Abu-l-Kasem-
Mohammed-ibn-Haukal che ci ha lasciato una descrizione della
città690. Ibn-Haukal nato a Bagdad in mezzo all'anarchia
pontificale, viaggiò trent'anni (943-76) per genio di studiare i
paesi e gli uomini, e bisogno di mercatare; percorse la più parte
degli stati musulmani, dall'Indo alle spiagge settentrionali
d'Affrica691; e s'ei non passò in Spagna, toccò pure la terraferma
italiana a Napoli, dove traean per loro traffichi i Musulmani
d'ogni parte del Mediterraneo692. La geografia d'Ibn-Haukal,
compilata in parte su gli altrui scritti ed in parte sul taccuino di
viaggio, pecca al solito di preoccupazioni, giudizii precipitosi,
fatti facilmente creduti all'altrui ignoranza o passione: opera
d'ingegno non esercitato in scienze nè lettere; pur v'ha un tal
688
Si confrontino: Abulfeda, Annales Moslemici, an. 336, tomo II, p. 446, seg.
Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 19; Ibn-Khaldûn, Histoire
de l'Afrique et de la Sicile, versione, p. 172. Secondo il primo, Ahmed morì
negli ultimi mesi del 359 (fino al 2 nov. 970), e Moezz scrisse al fratello il 360
(dal 3 nov.).
689
Ibn-Khaldûn, l. c. La versione ha "integro" invece di "generoso," come ho
tradotto appigliandomi alla variante di un MS. di Tunis.
690
Questo capitolo della geografia d'Ibn-Haukal fu pubblicato da me con
versione francese nel Journal Asiatique del 1845, IVe série, tomo V, p. 73,
seg.; poi in italiano nell'Archivio Storico, appendice XVI (1847), p. 9, seg., con
le varianti ricavate dal MS. di Oxford. Adesso due articoli del M'ogem-el-
Roldân, di Iakût, che do nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 107 e 120 del testo
arabico, mi abilitano a correggere alcuni luoghi e supplire altre notizie le quali
mancano nelle copie d'Ibn-Haukal, che abbiamo in Europa; ma si trovavano al
certo nella edizione ch'ebbe per le mani Iakût. Le differenze che si vedranno
tra quel che scrivo adesso e le mie versioni del 1845 e 1847 vengono in parte
dalle dette correzioni e in parte da migliore riflessione, e, se mi si voglia
concedere, da un poco più di pratica nella lingua. Oltre a ciò debbo avvertire
che nella versione italiana e più nelle note corsero moltissimi errori di stampa.
La citazione d'Ibn-Haukal e Iakût valga per tutto il resto del presente capitolo.
691
Su la vita e le opere d'Ibn-Haukal si veggano: Uylenbroek, Iracæ persicæ
descriptio, Leyde, 1822, in-4°; e Reinaud, Géographie d'Aboulfeda;
introduzione, p. LXXXII, seg.
692
Si vegga il Libro III, cap. VIII, pag. 178, nota 2, di questo volume.
senno mercantile che dà nel segno discorrendo le cose pubbliche;
e se ne cavano genuini ragguagli su gli itinerarii, le usanze, le
derrate, le entrate pubbliche e gli ordini amministrativi. Della
Sicilia Ibn-Haukal altro non dice, se non essere lunga sette
giornate di cammino e larga quattro, tutta abitata e coltivata,
montuosa, coperta di rôcche e di fortezze, ed esserne Palermo
metropoli e sola città importante per numero di abitatori e fama
nel mondo. E di Palermo discorre più e meno del bisogno;
tacendo i fatti economici che suol andar notando per paesi anco
minori e che son forse perduti con un opuscolo ch'egli intitolò: "I
Pregi dei Siciliani," ovvero con un altro libercolo o capitolo della
Geografia, del quale ci è sol rimaso qualche frammento693.
La pianta di Palermo, ch'agevolmente si può delineare con
questa scorta e coi ricordi archeologici, ritrae le vicende
essenziali della Sicilia fin dal conquisto musulmano e la sorte
della colonia che si bilanciava tra una virtù e un vizio. Virtù di
accentramento e civiltà; vizio di divisione: le schiatte, le classi, le
religioni, per mutuo sospetto separate d'animi e di soggiorno;
onde ne crescea tanto più la ruggine tra loro. Che se furon tali
tutte le metropoli del medio evo, Palermo nè anco serrava i
cittadini in un muro e una fossa. Spartivasi, dice Ibn-Haukal, in
cinque regioni (hârât); ma poi chiama cittadi694 due di quelle,
come bastionate e vallate ciascuna dassè. L'una, detta Cassaro
(Kasr); la vera, ei nota, ed antica Palermo, afforzata d'alte e
robuste muraglie di pietra, fiancheggiata di torri, abitata dai
mercatanti e dalla nobiltà municipale695. L'altra, la Khâlesa, cinta
693
L'autore, ne' MS. che abbiamo in Europa, accenna il primo opuscolo in fin
della descrizione della Sicilia. Il titolo e qualche altro particolare si leggono nel
citato passo del Mo'gem-el-Boldân, di Iakût, il quale ebbe certamente alle mani
il secondo opuscolo su la Sicilia, o altra edizione più copiosa della Geografia.
694
Così nel testo che abbiamo. Nell'altra edizione di cui Iakût ci serba i
frammenti, par che Ibn-Haukal abbia chiamato anche cittadi le altre tre regioni.
695
Ibn-Haukal dice di proposito dei soli mercatanti; ma venendo a toccare la
superbia dei cittadini, come innanzi si vedrà, confessa senza volerlo che
soggiornassero nel Kasr le famiglie ragguardevoli che avean moschee proprie
e vi si davan lezioni di dritto; cioè i membri della gema', la nobiltà cittadina,
come noi diremmo.
di minor muro, soggiorno del sultano e suoi seguaci, non avea
mercati nè fondachi, ma bagni, oficii pubblici, l'arsenale, la
prigione. Più popolosa e grossa che le due solenni città del
municipio e del governo, la regione non murata detta delli
Schiavoni, dava stanza alla marineria ed ai mercatanti stranieri
che traeano in Palermo696. Eran altresì aperte, e non dissimili l'una
dall'altra, le Regioni Nuova e della Moschea, le quali
racchiudeano i mercati e le arti: cambiatori, oliandoli, venditori di
frumento, droghieri, sarti, armaiuoli, calderai, e via dicendo
ciascun mestiere dassè, diviso dal rimanente; se non che i
macellai teneano oltre cencinquanta botteghe in città697 e molte
più fuori. Due contrade, ch'Ibn-Haukal intitola regioni senza porle
nel novero delle cinque, si addimandavano dei Giudei e di Abu-
Himâz. Similmente il Me'sker, che suona Stanza di soldati, par
fosse ricinto a parte698. I sobborghi che serbavan vestigia dei
guasti durati nelle guerre dell'independenza, correano a scirocco
frammezzo ai giardini fino all'Oreto, ove si sparpagliavano su la
sponda; ed a libeccio salivano dal Me'sker in fila continua fino al
villaggio di Baida699. La postura delle regioni si ravvisa di
leggieri. Il Cassaro in mezzo, in forma di nave che volgesse la
prora a tramontana. Come ancorata per traverso, a greco, la
Khâlesa; da levante a libeccio la Regione della Moschea, la
Regione nuova e il Me'sker: gli Schiavoni, in linea paralella al
Cassaro, dal lato di ponente.
696
Ibn-Haukal non dice la condizione e nazione degli abitatori, ma che quivi
era il porto: il che basta. D'altronde sappiam che fossero in quel quartiere gli
stabilimenti dei Genovesi, infino al XVII secolo; e vi rimane tuttavia la Chiesa
di San Giorgio detta dei Genovesi. Quivi anche giacea nel XII secolo la
contrada detta degli Amalfitani, come ritrasse dai diplomi il Fazzello, il quale
aggiugne che del suo tempo v'era una chiesa di Sant'Andrea degli Amalfitani.
697
Ibn-Haukal scrive beled, che è vago quanto paese. Par che voglia dire di
tutte le cinque regioni, non delle due sole murate.
698
Lo fu di certo nel XII secolo, onde il nome che portava di halka, in cui la
prima lettera si trascrivea in modi diversi nei diplomi; sì come dirò a suo
luogo. Ibn-Haukal, senza notarlo espressamente, parla del Me'sker come di
contrada fuor la città vecchia.
699
Si vegga la pag. 68 di questo volume.
Il mare, sì come è manifesto, entrando per una stretta foce che
non è punto mutata, disgiungea la Khâlesa dalla estremità
settentrionale delli Schiavoni; e imbattendosi nella punta del
Cassaro, si fendeva in due bacini o lagune; dei quali su
l'occidentale era costruito nelli Schiavoni il porto di commercio;
su quel di levante nella Khâlesa, l'arsenale. Se mai nell'antichità
le lagune bagnarono tutti i fianchi della città, erano rattratte nel
decimo secolo al tronco e ai due bacini; di che resta, dopo
novecent'anni, il sol tronco detto la Cala700. Perchè scrive Ibn-
Haukal che parecchi grossi rivi, ciascuno da far girare due
macine, frastagliavano tutto il terreno tra il Cassaro e li
Schiavoni; e dove offrian comodo ai mulini, dove si spandeano in
laghetti, dove facean paduli che vi crescea la canna persiana o vi
si coltivavan piante d'ortaggio701. «Tra così fatti luoghi, ei dice, è
una fondura coperta del papiro da scrivere, ch'io pensai non
venisse altrove che in Egitto, ma qui ne fabbricano cordame per
le navi e quel po' di fogli che occorrono al sultano.» E però non
sembra inverosimile che sia di Sicilia, anzi che d'Egitto, il gran
papiro con lettere arabiche a mo' di marchio di manifattura, sul
700
Nel XVII secolo un Giambattista Maringo, su vaghe autorità, disegnò una
carta dell'antica Palermo, copiata poscia a colori in certi quadri, uno dei quali
passò nella Biblioteca Comunale. Il Morso fe' ridurre e incidere così fatta
pianta e vi fabbricò sopra la sua Palermo dei tempi normanni, nella quale le
navi veleggiano troppo dentro terra d'ambo i lati della città vecchia. L'attestato
d'Ibn-Haukal tronca adesso ogni lite, poich'ei ci dice quali acque separavano la
città vecchia dalli Schiavoni, e che dall'altro lato si usciva nella regione della
Moschea e dei Giudei, delle quali sappiamo il sito attuale, cioè l'oficio della
posta, la strada dei calderai, ec. Ma in vero i diplomi dell'XI e XII secolo non
concedeano al Morso di tirar sì in alto il mare. Ei lo fece arrivare fino alla
Biblioteca Comunale odierna, supponendo che gli statuti di una confraternita
della Madonna delle Naupactitesse, i quali si leggono in una pergamena greca
della cappella palatina, 1° appartenessero alla città di Palermo; 2° che vi fosse
fatta menzione di un quartiere di Naupactitessi, anzichè di un monastero di
Naupactitesse (εν τη̃ τω̃ν ναυπακτιτησσω̃ν) e 3° che questa voce significasse
"costruttori di navi" non già "donne di Lepanto" (Nαύπακτος). A suo luogo
dirò più particolarmente di cotesto diploma, ch'è stato allegato per provare la
fondazione di detta confraternita prima del conquisto normanno.
701
Ibn-Haukal precisamente dice: ottime piantagioni di zucche.
quale è scritta una bolla di Giovanni ottavo a pro dell'abbadia di
Tournus in Francia, data il primo anno di Carlo il Calvo
imperatore (875) e serbata nella Biblioteca di Parigi702. La pianta
egiziana ministra dell'antico sapere, recata forse dai Greci a
Siracusa e dagli Arabi in Palermo, crebbevi oziosa fino al secol
decimo sesto, quando, prosciugato lo stagno, gli rimase il nome e
si chiama anch'oggi il Papireto.
Invece di paduli ed umili culture, la campagna di levante
lussureggiava d'orti e giardini da diletto su le sponde dell'Oreto,
che s'addimandava Wed-Abbâs, e così infino ai tempi normanni e
svevi703; ma oggi ha ripigliato il nome classico. Salivano i giardini
e si mesceano ai vigneti presso il villaggio di Balharâ704, voce
indiana705, vinta adesso dalla latina appellazione di Monreale,
presso il quale giaceva una miniera di ferro, posseduta prima da
un di casa d'Aghlab ed or dal sultano che adoperava il metallo
alle costruzioni navali. Il fiume volgea gli altri mulini
702
Bulle de Tournus, litografiata per uso dell'École des Chartes, Paris 1835. Si
vegga anche Marini, Papiri Diplomatici, p. 26, 27, 222, 223. Questo papiro è
lungo parecchi metri, e largo 58 centimetri. La leggenda arabica, tramezzata di
qualche linea rossa, si scorge in capo del ruolo in caratteri corsivi grandi e
franchi, tratteggiati con un pennello a colore in oggi bruno, anzichè nero
d'inchiostro; ma sendo molto frusto il papiro in quella estremità, vi si può
leggere appena qualche congiunzione e preposizione, qualche sillaba interrotta,
la voce allah, ed un brano di nome Sa'îd-ibn.... Il commercio della Sicilia
musulmana con Napoli, e le note relazioni di Giovanni VIII con quella città e
coi Musulmani, dan valido argomento a supporre palermitano cotesto papiro, il
quale per altro sembra più grossolano che quei d'Egitto.
703
Abbes in un diploma del 1164, presso Mongitore, Sacræ domus
Mansionis.... Monumenta, cap. V; Habes in un diploma del 1206 presso Pirro,
Sicilia Sacra, p. 129, e Audhabes, Avedhabes, o Leudhabes in altri del 1207 e
1211, op. cit., p. 130, 136, con le note del D'Amico. Non occorre di spiegare
che Aud, Aved, Leud, sieno trascrizioni della voce arabica Wed, fiume. Abbâs è
nome proprio d'uomo.
704
Il nome agevolmente si riconosce nel Bulchar di Fazzello, Deca I, libro
VIII, cap. 1, e nel Segeballarath, ibid., come un tempo si chiamava, al dir dello
stesso autore, la piazza odierna di Ballarò. Senza dubbio era corruzione di
Sûk-Balharâ, "il mercato di Balharâ," il quale villaggio appunto s'accostava da
quel lato alla città.
705
Si vegga il Libro III, cap. I, p. 34 del presente volume.
abbisognevoli a sì gran popolo. E scende Ibn-Haukal a rassegnare
le scaturigini d'acqua della città e dei dintorni, delle quali alcuna
serba il nome706; ma egli ne tace due di nome arabico, onde
sembrano scoperte nell'undecimo secolo707. Contro l'opinion
comune, e' si vede che i Musulmani di Palermo sciupavan tanto
tesoro di acque. Ibn-Haukal, nato in sul Tigri, chiama pure il
Wed-Abbâs gran riviera, onde fa supporre che lo ingrossassero
tante polle oggi condotte ad uso della città708. Nè dimentica che
del territorio parte fosse adacquata con canali, parte delle sole
piogge si come in Siria. Fecegli maggiore meraviglia che li
abitatori della parte orientale del Cassare, della Khâlesa e dei
quartieri di quella banda, bevessero la greve acqua di lor pozzi.
Donde è manifesto che non si debba riferire alla dominazione
musulmana quella egregia economia idraulica che in oggi dà
acque correnti in tutte le parti della città, fino ai piani più alti
delle case. Risguardando alle voci tecniche dei fontanieri di
Palermo che son mescolate greche, latine ed arabiche, si scopre
l'opera comune delle tre schiatte unite sotto i Normanni: e però
differiamo a trattarne nell'ultimo libro.
Venendo ai monumenti, Ibn-Haukal notava la Moschea giâmi'
del Cassaro, una volta tempio cristiano; nella quale serbavansi, al
dire dei logici della città, le ossa d'Aristotile; ma ei non si fa

706
Ghirbâl, "cribrum," oggi Gabrieli. Il nome arabico potea ben essere il
latino del quale ha la significazione.
Fawâra, "polla d'acqua," oggi La Favara.
Ain-Abi-Sa'îd "fonte di Abu-Sa'îd," che fu un tempo, al dir d'Ibn-Haukal,
governatore del paese. Si vegga il Libro III, cap. VII, p. 157 di questo volume.
Il Fazzello trovò nei diplomi Ain-Seitim; oggi Annisinni o Dennisinni.
707
Garraffu e Garraffeddu, diminutivo siciliano del primo. Gharrâf è aggettivo
"abbondante (d'acqua)." Il sito era laguna o padule al tempo d'Ibn-Haukal,
giacendo fuor la punta settentrionale del Kasr. E però queste due fonti, o almen
la prima, furono scoperte tra il X secolo e la metà del XII, pria che si
cominciasse a dileguare il linguaggio arabico.
708
Si potrebbe aggiugnere a questa cagione la mutata o trascurata coltura delle
montagne che accresce le piene del torrenti, ma fa menomare le acque perenni.
La valle di questo fiume, là dove fa grotta nel sasso, mostra che un tempo il
letto dovea essere assai più largo e profondo del presente.
mallevadore che d'aver visto il feretro, appeso in alto, e udita la
tradizione che gli antichi Greci solessero impetrare miracoli dalle
ceneri del filosofo in tempi di siccità, pestilenze o guerra civile.
Donde è libero il campo a porre il mito e il monumento innanzi o
dopo l'èra cristiana; richiamandoci il nome all'antichità, forse al
culto d'Empedocle, ma la qualità ed uso del santuario s'adattan
meglio alla pietà cristiana; e la medesima tradizione riferita da
Bekri dà, invece d'Aristotile, il nome di Galeno, che da Roma
andasse a trovare i Cristiani in Siria, e fosse morto, in viaggio, in
Sicilia709. Nè sembra strano che alla dedizione di Palermo si fosse
pattuito di lasciare in piè tutta o parte la chiesa; e che quando la
fu mutata affatto in moschea, i nuovi padroni, tra credere e non
credere, avesser lasciato sì comodo palladio in qualche cantuccio
fuor l'edifizio; che esempii v'ha di chiese bipartite tra le due
religioni nei primi conquisti; e non meno di superstizioni
reciprocamente tolte in prestito non che tollerate, quando si
rattiepidì lo zelo710. Il Cassaro, ovale, era tagliato nell'asse
maggiore dalla strada dritta ch'oggi ne ritiene il nome, la quale
s'appellava Simât diremmo la "Fila:" chè tal era, di fondachi e
botteghe, e, raro pregio nel medio evo, tutta selciata. Avea la città
vecchia nove porte, delle quali si riconosce il sito711; ed una era
709
Ibn-Scebbât, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 210.
710
I fatti delle chiese e moschee di Damasco e di Cordova sono noti a tutti. Sa
anche ognuno che nel medio evo principi musulmani onorarono e credettero
ecclesiastici cristiani famosi per sapere o pietà o arcana vista dell'avvenire; e
similmente principi cristiani i dotti o astrologi musulmani. Secondo
l'autorevole testimonianza di Lane, Modern Egyptians, Londra 1837, vol. I, p.
322, i Musulmani e i Giacobiti d'Egitto fan tuttavia fraterno scambio di
superstizioni.
711
Ibn-Haukal nomina, 1 Bâb-el-Bahr "la porta del mare;" 2 Bâb-es-scefâ "la
porta della Medicina" così detta da una fonte vicina; 3 Bâb-Scian-taghâth "la
porta di Sant'Agata;" 4 Bab-Rûta "la porta di Rûta" dal nome d'un'altra fonte
(Rût in arabico "fiume" dal persiano Rûd e si trova il nome in Spagna); 5 Bab-
er-riâdh "la porta dei giardini" fabbricata in vece di quella, 6, detta Bab-ibn-
Korhob dal nome del noto ribelle; 7 Bab-el-ebnâ "la porta dei figli;" 8 Bab-el-
Hadî "la porta del Ferro;" 9 una porta nuova senza nome. La più parte di
cotesti nomi si trova nei diplomi del XII secolo, come ho detto nelle
annotazioni ad Ibn-Haukal nel Journal Asiatique e nell'Archivio storico
quella che, in grazia d'esotiche lettere intagliate su l'arco e in un
minaretto vicino, fu creduta infino al secol passato opera dei
fondatori ebrei o caldei di Palermo. Demolita la porta e il
minaretto da un vicerè spagnuolo; serbati da dotti del paese i
disegni dei caratteri che inghirlandavano il minaretto, ancorchè
trasposti e mutili, come s'erano mescolate e perdute in parte le
pietre, ognun vi scorge una bella e severa scrittura cufica, e se ne
può accozzare la data del quarto secolo dell'egira e tre versetti del
Corano, di quei soliti a porre nelle moschee712. La Khâlisa avea
mura senza altre porte che quattro dal lato di terra, a
italiano.
712
La porta dei Patitelli fa demolita nel 1564, e andò a male la iscrizione che
vi si vedea al tempo di Fazzello, il quale errò, credo io, a supporla diversa dalla
Bebilbachal (Bab-el-Bahr) di cui avea trovato il nome nelle scritture antiche.
La torricciuola vicina che si addimandava di Baich, divenuta, di minaretto di
moschea, abitazione d'un cittadino, fu intaccata dal lato occidentale nel 1534
per farvi certe ristaurazioni; e si cominciò allora a dislocare le pietre nelle quali
correa l'iscrizione in unica linea al sommo dell'edifizio; se non che Fazzello,
accorse, gridò, le fece rimettere, e copiò fedelmente, ma confusi, ed alcun
capovolto, i gruppi di tre quattro lettere, ch'erano intagliati in ciascuna pietra.
Ei pubblicò il disegno, in picciolo, nella sua Storia, deca I, lib. VIII, cap. I,
credendo serbare il testo caldaico scritto poco dopo il Diluvio. Nel 1564, il
vicerè spagnuolo che prolungò il Cassaro e gli diè il nome di Toledo, abbattè
senza riguardo la torricciuola; ma per le cure dell'erudito Marco Antonio
Martinez si trasportò la più parte delle pietre scolpite nel palagio di città, e se
ne trassero i disegni: ottantaquattro pietre, delle quali mancavano ventuna.
Così rimase la iscrizione, a un di presso ordinata al modo d'un lungo rigo di
caratteri da stampa che sian caduti a terra e un analfabeta li abbia rimessi
insieme in cinque o sei linee, dopo averne gittate via la quarta parte. Così la
pubblicò due secoli appresso, per la prima volta, il Torremuzza (Siciliæ etc.
Inscriptionum, 2a edizione) e indi il Di Gregorio (Rerum Arabicarum) e il
Morso (Palermo Antico). L'Assemanni accertò la natura dei caratteri; ma pochi
ne lesse. Il Tychsen vi ritrovò una cifra cronologica e il frammento d'un
versetto del Corano. Io ve n'ho letto un altro; è il resto M. Reinaud; il quale,
com'io lo consultai su la mia lezione, la confermò, e incontanente la proseguì.
Ecco la traduzione della data e dei versetti, nella quale il carattere corsivo
mostra le parole che si è arrivato ad accozzare. Accenno le linee secondo la
copia di Martinez:
Linea 3. Trecento, - Tychsen; aggiugnendo con dubbio trentuno. Mi parrebbe
più tosto, ma non lo affermo, sessanta.
mezzogiorno. Sorgeano fuor le mura, credo del Cassaro, in sul
bacino di levante i ribât, come chiamavansi nelle città di confine
le stanze dei volontarii spesati su le limosine legali o su lasciti pii,
per uscire in guerra contro gli Infedeli; la quale genía, come si
allargò e corruppe l'islamismo, somigliava ormai per la disciplina
ai ribaldi negli eserciti feudali, e per l'ozio ai frati mendicanti nei
paesi che n'han troppi. Molti ribât, dice Ibn-Haukal, sono in
Palermo in riva al mare, pieni zeppi di sgherri, scostumati, gente
di mal affare: vecchi e giovani, perversi e infingardi, mascherati
di devozione per carpir la moneta e intanto svergognar le donne
oneste, fare i mezzani e peggior brutture; riparati colà per non
aver condizione nè pan nè tetto.
A computare il numero degli abitatori, Ibn-Haukal ci dà questo
bandolo: che la moschea de' beccai, un dì che v'erano ragunati
tutti con lor famiglie e attenenti, racchiudea da settemila persone.
La quale arte stando negli odierni censimenti della città a tutta la
popolazione come uno a cento, il numero tornerebbe nel decimo
secolo a settecentomila; e, fattavi pur grossa tara per le mutate
condizioni, non si può ragionar meno di trecento o
trecencinquanta mila anime713. A ciò ben s'adatta l'altro dato
Linea 4. (Corano, sur. XXIV, v. 36.) in edifizii [i quali] permesse Dio che
fossero innalzati.
Linee 5, 6, 7, 8, 9: e che si ricordasse in quelli il suo nome, lodan lui mattino e
sera (v. 37) uomini [cui] non distoglie traffico né vendita dal ricordare Dio,
far la preghiera e pagar la limosina; tementi quel giorno in cui saranno confusi
i cuori e le viste. - Reinaud.
Linea 12. (Sur. II, v. 256.) Non [v'ha] Dio se non Lui, il Vivente, il Sempiterno.
- Tychsen.
Varie parole delle linee 4, 6, 7, 8, di Martinez rispondono alle linee 6, 7, 8, 9 di
Fazzello; e mostrano viemeglio quanto i disegni di questo storico sieno più
esatti che quelli del Martinez.
713
In numeri tondi, i beccai, i loro garzoni, gli impiegati nei macelli, e i
venditori di interiora, con le famiglie, ragionate a cinque teste per casa,
sommavano nel 1844 a 2000. La popolazione era circa 200,000. Ma la cifra di
700,000 che avremmo con tal proporzione nel 972 dèe scemarsi per le cause
seguenti: 1° la istituzione dei macelli pubblici, che diminuisce oggi il bisogno
di molte braccia; 2° la maggiore consumazione di carne da supporsi nella
capitale della Sicilia musulmana, mentre le classi meno agiate, nelle presenti
delle cinquecento moschee ch'erano in Palermo, delle quali tre
quinti nella città vecchia e grosse regioni e due quinti nei
sobborghi: moschee tutte acconce e frequentate, tra pubbliche, di
corporazioni e di privati. Nè Ibn-Haukal tante ne avea viste mai
in cittadi uguali e maggiori; nè sapea trovarne riscontro se non a
Cordova, il numero delle cui moschee gli era stato raccontato, ma
in Palermo l'avea ritratto con gli occhi suoi proprii e tutti i
cittadini gliel confermavano. Cordova in vero, decaduta nel
decimoquarto secolo, ebbe da settecento moschee714 e poco meno
Costantinopoli fino al decimosettimo secolo715.
Dalla quale sovrabbondanza Ibn-Haukal cava argomento di
riprendere i Palermitani che ciascuna famiglia per superbia e
vanità volesse la sua cappella particolare, fin due fratelli che
abitavan muro a muro. E narra che un Abu-Mohammed oriundo
di Cafsa, giurista in materia di contratti716, arrivò a fabbricare
vicino a venti passi alla propria una moschea pel figliuolo,
condizioni lagrimevoli della città, mangian carne poco o punto; 3° i giorni di
magro ai quali non erano astretti i Musulmani; 4° la poligamia, la quale, se a
lungo andare fa più mal che bene, pure in un periodo di ricchezza crescente
poteva aumentare la proporzione da 5 a 6 o 7 a famiglia, però dare minor
numero di capi di casa ossia minor numero di botteghe a numero uguale
d'individui. Per queste considerazioni pongo che il numero d'anime dell'arte,
stesse al numero d'anime della città come uno a cinquanta, non come uno a
cento ch'è in oggi; e metto in conto dalle 5 teste a famiglia anche i bambini
lattanti che Ibn-Haukal di certo non vide nelle 32 file (i numeri sono scritti non
già accennati in cifre) di circa 200 persone ciascuna, che assisteano alla
preghiera. Se dunque pecca il mio computo, non è di eccesso. L'area
dell'abitato, che ha guadagnato un poco su le acque e perduto molto dentro
terra, conferma tal giudizio. Debbo avvertire che nelle note alle due versioni
italiana e francese, posi la popolazione di Palermo 170,000 anime. Il
censimento che si fe poco appresso la mostrò molto maggiore, e così l'ho
corretto a dugentomila.
714
Gayangos nelle note a Makkari, Mohammedan Dynasties in Spain, tomo I,
p. 492.
715
D'Ohsson nel XVIII secolo contava più di 200 moschee nell'ambito di
Costantinopoli e 300 nei subborghi, aggiugnendo che non ve ne fossero più
nelle case dei nobili: quello appunto che faceva il gran numero delle Moschee
in Palermo. Tableau général de l'empire ottoman, tomo II, p. 453, seg.,
edizione di Parigi 1788, in-8.
affinchè vi desse lezioni di dritto. Notato poi che più di trecento
pedagoghi insegnavan lettere ai giovanetti, v'appicca la chiosa
che eleggean tal mestiere per iscusarsi dalla guerra sacra, anche in
caso d'irruzione del nemico; ch'e' si vantavano di probità e di
religione e facean da testimonii nei giudizii e nei contratti; ma in
fondo nulla era in essi di bello nè di buono. Nè era in alcun altro.
In fatti, il cadi Othman-ibn-Harrâr, uom timorato di Dio,
conosciuti alla prova chi fossero i suoi concittadini, avea ricusato
lor testimonianze, grave o leggiero che fosse il caso; onde s'era
messo a terminar tutte le liti con accordi; e infermatosi
gravemente ammonì chi dovea prendere il magistrato non si
fidasse d'anima vivente. Al quale succedette, continua Ibn-
Haukal, un Abu-Ibrahim-Ishak-ibn-Mâhili, che fece ridir di sè
molte scempiaggini717. Che più, se non usano la circoncisione, nè
osservano le preghiere, nè pagan la limosina legale, nè vanno in
pellegrinaggio; e appena avvien che digiunino il ramadhan e che
facciano il lavacro in un sol caso! E scaglia la sentenza: non
essere in Palermo begli ingegni, nè uomini dotti, nè sagaci, nè
religiosi; non vedersi al mondo gente meno svegliata, nè più
stravagante; men vaga di lodevoli azioni, nè più bramosa
d'apprendere vizii.
Ma si tradisce col filosofare: che la radice di tanto male è il
gran mangiar che fanno di cipolle crude, mattina e sera, poveri e
ricchi; ond'han guasto il cervello e ammorzato il senso718. In
prova, ecco, bevon dei pozzi anzichè cercar le dolci acque
correnti; al ragionar con essi t'accorgi c'han le traveggole; nel
716
Questo è il significato della voce wethâiki, che si legge trascritta altrimenti e
non tradotta nelle mie due versioni francese ed italiana. Si vegga Hagi-Khalfa,
ediz. Flüegel, VI, p. 423. N. 14, 174.
717
Ei le narrava, ma Iakût le troncò in questo passo del testo che ci ha
conservato.
718
I medici arabi del medio evo credono fermamente che la cipolla offenda il
cerebro a chi se ne cibi. Iakût, nel Mo'gem-el-Boldân, Biblioteca Arabo-Sicula,
cap. XI, p. 107 del testo, mette per comento a questo passo d'Ibn-Haukal
l'estratto d'un libro arabico di medicina, ove si spiega appunto con
l'indebolimento del cervello e dei sensi, il fatto che bevendo acqua salmastra
dopo aver mangiato cipolle, uom non senta il mal sapore dell'acqua.
guardarli vedi alla cera la complessione intristita. Ghiottoni, che
non si sgomentano a puzzo di cibi. Sudici di loro persone, da far
parer mondi i Giudei. Allato al negrume di lor case diresti bigio
un focolare. Nelle più splendide, vedi correre i polli e sconciare la
stanza e fino i guanciali del padrone. Arroge che in Sicilia il
frumento non si serba da un anno all'altro; e sovente, sì malvagio
è l'aere, inverminisce su l'aia.
Il tempo è passato che scrivendo la storia si prendea battaglia
per simili argomenti, e che la carità patria, bamboleggiando,
avvampava sol nelle inezie. Pur non debbo ricusare ai miei
concittadini musulmani di nove secoli addietro il giusto giudicio,
secondo parer mio, come farei pei Medi o i Cinesi. Dico dunque
che la storia letteraria della Sicilia dalla metà del decimo alla
metà del duodecimo secolo non mostra nè ingegni grossi nè studii
negletti; e Ibn-Haukal medesimo cel dà a vedere quando ricorda i
logici che favellavano d'Aristotile, i trecento maestri di scuola e
le tante moschee, parte delle quali serviva, come ognun sa, agli
studii ch'or diciamo universitarii. Certamente, nel secolo che
corse da Ibn-Haukal alla guerra normanna la cultura progredì
sotto i Kelbiti; ma non poteva giacer sì bassa al suo tempo. Lo
stesso penso dell'incivilimento esteriore, che pur era sì notevole
nella detta guerra e dopo, come l'attesta qualche poesia d'Ibn-
Hamdîs, al par che una geografia anonima719, e Ibn-Giobair e
Ugone Falcando e con essi tutta la storia della dominazione
normanna. Quanto alle virtù religiose secondo lor setta, le meno
importanti si son viste nelle biografie dei devoti: la primaria,
ch'era il genio guerriero, splendè in due nobilissime vittorie
riportate, l'una pochi anni innanzi a Rametta sopra l'impero
bizantino, l'altra pochi anni appresso in Calabria sopra Otone
secondo. Però l'aspra censura è accozzata, come per lo più
719
L'opera anonima intitolata Geografia, compilata di certo nel X secolo ma
interpolata appresso, cava da Ibn-Haukal alcune notizie su la Sicilia, e
aggiugne che i cittadini di Palermo si segnalassero su tutti i popoli vicini per
eleganza di arredi e di vestimenta e urbanità nel tratto ec. Ma è dubbio se la
fonte di questo passo sia del X secolo ovvero dei due seguenti. Il testo si legge
nella Biblioteca Arabo-Sicula, cap. V, p. 12 e 13.
avviene, d'errori e di verità. Errore fu d'Ibn-Haukal, che,
praticando coi mercatanti del paese, ritrasse la nobiltà, i dottori e
la plebe con tutte le sembianze che quei lor davano per invidia di
classe. Errore, ch'ei condannò come vizii fisici e morali tutte le
qualità insolite ch'ei notava in quei Musulmani misti di sangue
greco e latino; mezzo stranieri ai lineamenti del volto, alla
carnagione, alla pronunzia, agli usi, nè ben domati a tutte pratiche
dell'islamismo. Verità era il fermentar dei molti elementi
eterogenei di che si componea la popolazione della Sicilia e
sopratutto di Palermo: tante schiatte; islamismo e avanzi palesi o
latenti di cristianesimo; diritti civili disuguali, ricchezza e
miseria, violenza guerriera e industria; torre di Babele, in cui
doveano pullulare superbia, rancori, abiezione e infinite piaghe
sociali. Se molte n'esagerava nella sua mente il buon mercatante
di Bagdad, molte pur ne toccava con mano.
E in Sicilia non solo, ma in Spagna, ma in tutti gli stati
musulmani del Mediterraneo. A leggere i suoi scritti lo si direbbe
disingannato e dispettoso del non aver trovato in Ponente la virtù
civile che mancava a Bagdad; come i mali proprii s'appongon
sempre al destino, e gli altrui a chi li patisce. Similmente avviene
che giudicando gli stranieri si vegga in molte cose la superficie, si
sconoscano le virtù, ma s'imbercin diritto i vizii fondamentali; il
che mi par abbia fatto Ibn-Haukal nella descrizione generale del
Mediterraneo. Toccando quivi di Cipro e Creta: «Le tennero» ei
dice «i Musulmani, i figliuoli dei combattenti della guerra sacra;
ma l'invidia e la crudeltà invasaron cotesti popoli, al par che que'
dei Confini dell'impero, della Mesopotamia e della Siria;
proruppe tra loro il mal costume, la iniquità, l'ingordigia, la
discordia, la perfidia, l'odio scambievole; sì che costoro apriron la
strada ai nemici e serviranno d'ammonimento a chi ben consideri
gli eventi.»720 E pria di terminare il capitolo: «In oggi,» ripiglia,
«i Rûm offendono i Musulmani con ogni maniera di scorrerie su
le costiere di questo mare, e fan preda di nostre navi d'ogni
720
Ibn-Haukal, Geografia, MS. di Leyde, p. 69, e fog. 97 della copia di Parigi,
Suppl. Arabe, 885.
banda; nè abbiam chi ci aiuti nè ci difenda. Abietti si calano i
nostri principi, pieni d'avarizia e di superbia in casa; i dotti non
curano nè intendono, ti danno responsi comentando come a lor
piace, nè pensano a Dio nè alla vita futura; pessimi i mercatanti,
non rifuggon da cosa illecita nè reo guadagno; i devoti balordi,
pronti a voltar casacca, fanno cammino in ogni calamità e spiegan
la vela ad ogni vento: e però i confini e le isole rimangono in
balía dei nemici, e la terra si lagna con Dio della iniquità di cui la
tiene.»721

CAPITOLO VI.

In questo tempo l'amistà di Moezz con Niceforo par abbia


preso quella sembianza di lega che i cronisti occidentali
rinfacciano all'impero bizantino. Già da parecchi anni Otone
primo, cominciava a colorire i disegni sopra l'Italia meridionale,
come accennammo; profferiva da sovrano feudale aiuti a
Pandolfo Capo di ferro principe di Capua e Benevento contro
Niceforo rivolto al racquisto della Puglia; tentava senza frutto di
tirare a sè il principe di Salerno; d'ottobre del sessantotto correa
con incendii e rapine i confini di Calabria e dello stato
salernitano; accattava forze navali dai Pisani che poco appresso si
veggono combattere in Calabria722; di marzo del sessantanove
incalzava l'assedio di Bari tenuta dai Bizantini; e in quel torno
inviava aiuti a Pandolfo, che fu vincitore e poi vinto a Bovino 723.

721
Op. cit., p. 71 del MS. di Leyde e fog. 98 verso della copia di Parigi.
722
Del 962. Otone andò a Pisa, ove rimasero alcuni nobili tedeschi: Sardo,
Cronaca Pisana, nell'Archivio Storico italiano, tomo VI, parte II, p. 75. Del
971 furono in Calabria i Pisani: Marangone, Cronaca Pisana, nello stesso
volume dell'Archivio, p. 4, ovvero nel 969 secondo la Chronica Pisana, presso
Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo VI, p. 107, seg.
723
Si confrontino, la Cronica anonima Salernitana presso Pertz, Scriptores,
tomo III, p. 554, che non porta date precise, e Lupo Protospatario, presso Pertz,
Scriptores, tomo V, p. 55, anno 969, dove il passaggio d'Otone in Calabria è
La pratica del matrimonio del figliuolo con la principessa greca
Teofano, anzichè comporre, rinvelenì gli animi (giugno ad
ottobre 968) per la perfidia che v'odorò la corte bizantina, la
ingiuria che incontrò a Costantinopoli l'ambasciatore Liutprando,
e il vero o supposto tradimento dei Bizantini che dettero addosso
in Calabria alle genti di Otone quando liete veniano a ricever la
sposa (969). Seguirono dunque in Puglia tra le armi de' due
imperi parecchi scontri che non occorre divisar qui724. Nell'un dei
quali forse il novecensessantotto due Landolfi, fratello e figliuolo
di Pandolfo Capo di ferro, combatteano in Ordona contro i Greci
e i Musulmani uniti insieme e metteanli in fuga; ma il giovane
Landolfo vi toccò una ferita725. Atto figliuol del marchese
Trasimondo di Spoleto, del novecensettantadue, ruppe un capitan
musulmano Bucoboli, e inseguillo infino a Taranto726: forse
ausiliare mandato da Moezz pria della morte di Niceforo Foca;
forse capitan di ventura ai soldi del principe di Salerno, o della
repubblica di Napoli, la quale era stata poc'anzi (970) assalita da
Otone.
Ma Zimisce, ucciso Niceforo (11 dicembre 969) e salito sul
trono, fermò la pace con Otone e le nozze di Teofano col

riferito all'ottobre dello stesso anno in cui fu una ecclisse di sole in dicembre.
Lo stesso troviamo negli Annales Casinatenses, Pertz, Scriptores, III, 171.
L'ecclisse seguì il 22 dic. 968. Romualdo Salernitano autore del XII secolo dà i
medesimi fatti con qualche divario presso Muratori, Rerum Italicarum
Scriptores, tomo V, anno 967.
724
Si vegga Muratori, Annali d'Italia, 968 a 970.
725
Chronica Sancti Benedicti, presso Pertz, Scriptores, III, p. 209, nel cenno su
Landolfo l'Ardito che cominciò a regnare il 958 (si corregga 968).
726
Lupo Protospatario, presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 55. Ei dà il titolo di
Caytus (Kaîd) a questo Bucoboli, forse Abu-Kabâil, con 40,000 Saraceni, o
secondo altri MS. 14,000. Atto avea secondo alcuni MS. 60,000 uomini.
Queste cifre non sono da attendere nè punto nè poco; e certo si tratta d'una
piccola schiera, poichè non fan memoria di questa impresa gli annali
musulmani d'Affrica nè di Sicilia. Si vegga anche De Meo, Annali di Napoli,
tomo VI, p. 90, il quale s'affatica a mostrare che questa battaglia seguisse il
973. Lascio indietro le fazioni di Saraceni in Calabria interpolate nella Cronica
della Cava, edizione del Pratilli, anni 970, 973.
figliuolo727; talchè mancava una ragione dell'accordo tra
Costantinopoli e i Fatemiti. Svanì l'altra ragione per le vittorie di
Zimisce in Siria e di Moezz sopra i Karmati; donde tolti via i
nimici comuni, cominciarono l'un contro l'altro a digrignare728.
Morirono poi entrambi entro due settimane (24 dicembre 975, 7
gennaio 976); e ricaduto l'impero bizantino in gare di corte e
guerre civili, non seguirono altri effetti contro i Fatemiti, ma non
si rappiccò nè anco la pace. In Puglia intanto eran già venuti alle
armi. Del novecensettantacinque uno Zaccaria, che par greco al
nome, avea preso Bitonto, ucciso prima Ismaele, musulmano al
nome, condottier ausiliare o di ventura729.
L'ardimento di sbarcar non guari dopo a Messina, mostra che i
Bizantini andassero co' nuovi contro i vecchi amici. Tornano a
questo tempo i preparamenti navali di Niceforo, maestro, come
s'intitolò, di Calabria, il quale, secondo legge bizantina, fece
armare salandre a spese delle città per difender le costiere e
assaltare la Sicilia; e tanto aggravò quei di Rossano, ch'arser le
navi e ammazzarono i protocarebi; e il governatore, dopo molte
minacce, perdonò loro a intercessione di San Nilo il giovane, o
perchè non era agevol cosa a punire730. Sembra che coi Bizantini
si siano accozzati i Pisani, testè venuti in Calabria ai servigi
dell'Impero, e che abbian fatto l'impresa con forze navali soltanto.

727
Chronicon Salernitanum, presso Pertz, Scriptores, tomo III, p. 556, anno
970. Si vegga anche Le Beau, Histoire du Bas Empire, lib. LXXV, § 51.
728
I Fatemiti sul fine del 974 e il principio del 975 presero Tripoli di Sira e
Beirût, cacciati i presidii bizantini. Si vegga Quatremère, Vie de Moezz,
estratto dal Journal Asiatique, p. 126 e 128. L'ambasciatore Niccolò era
tornato a corte di Moezz poco avanti la costui morte, ma si è visto già come gli
parlava.
729
Lupo Protospatario, anno 975, presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 55.
730
Vita di San Nilo il giovane, testo greco e versione latina di Giovan Matteo
Caryophilo, Roma 1624, in-4, p. 112, seg. Questo Niceforo, che primo e solo
ebbe ebbe titolo di μάγιστρος in Calabria si dice mandato dai pii imperatori, e
però da Basilio e Costantino, e dopo la morte di Zimisce. D'altronde la data
s'adatta alla età che avea allora San Nilo, la cui vita l'agiografo tratta con
ordine cronologico; e gli avvenimenti mostrano che dal 963 sino alla fine del
secolo i Bizantini non poteano avere il ticchio di assalir la Sicilia che nel 976.
Occupavan Messina alla prima. Sopracorreavi Abu-l-Kâsem con
l'esercito siciliano e gran compagnia di dotti e virtuosi cittadini,
scrive Ibn-el-Athîr, quasi a smentire Ibn-Haukal. Del mese di
ramadhan del trecensessantacinque (mag. 976) entrava nella città,
dove i nemici non l'aspettarono. Inseguendoli pertanto di là dallo
stretto, risalì con le genti fino a Cosenza; la quale assediò
parecchi giorni; e chiestogli l'accordo per danaro, assentì; e andò
a porre la taglia nella stessa guisa alla rôcca di Cellara, indi ad
altre terre. Mandava intanto il fratello Kâsem con l'armata su le
costiere di Puglia731, commettendogli di spingere le gualdane giù
per la Calabria ov'ei guerreggiava col grosso delle genti732. I
Musulmani assaliron Gravina in Puglia, che fu indarno, al dir
731
In Ibn-el-Athîr, solo che dia il fatto, si legge b»r bûla. Ciò mi fece pensare a
Paola di Calabria; e sì proposi questa lezione nella Biblioteca Arabo-Sicula, p.
268 del testo. Poscia ho considerato che la prima voce sia da leggere barr
"terra," però la seconda bûlia, ossia Puglia, aggiugnendo una lettera dopo la l.
A ciò mi conduce anche la fazione di Gravina.
732
Si riscontrino: Ibn-el-Athîr, anno 365; MS. A, tomo III, fog. 9 verso; MS.
B, pag. 375; MS. C, tomo V, fog. 16 recto ec.; Abulfeda, Annales Moslemici,
365, tomo II, p. 524, ed Hagi-Khalfa, Cronologia, versione italiana del Carli,
p. 65. Dei MS. Ibn-el-Athîr, B, ha con le vocali Kosenta; gli altri e Abulfeda
non pongono vocali e sbagliano i punti diacritici. L'altra città è scritta Gelwa in
B, e nell'autografo d'Abulfeda, MS. della Biblioteca di Parigi, Suppl. Arabe,
750, fog. 163 verso; degli altri MS. dei due annalisti, quale ha G«lwa, quale
H«lwa. Lo scambio tra la w e la r che si vede sovente nei MS. arabi sopratutto
in caratteri affricani, ci dà animo a leggere Cellara: chè la g arabica risponde
alla nostra c, e la doppia l non si dovea scrivere ma accennare soltanto con un
segno ortografico. Cellara è picciol comune dell'odierno distretto di Cosenza
tra questa città e Rogliano. In ogni modo non si può assentire a M. Des
Vergers la lezione Caltagirone ch'ei vien proponendo nel dare questo squarcio
d'Ibn-el-Athîr, in nota a Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p.
175.
Marco Dobelio Citerone nella versione di Scehab-ed-dîn-'Omari, o alcuni degli
eruditi siciliani che la stamparono, lessero in vece di Cosenza, Catania; e in
vece di Gelwa, Avola. Indi il Wenrich, Commentarii, lib. I, cap. XV, § 131, a
supporre una rivoluzione in Catania ed Avola di Sicilia. Ma nè il testo di
Abulfeda copiato da Scehad-ed-dîn, nè il complesso dei fatti permettono
questo supposto, tanto meno perdonabile quanto il Martorana, tomo, I, p. 225,
nota 155, avea mostrato la dritta strada.
d'una cronica latina; al dir d'un'altra la presero: ma forse
s'appongono entrambe al vero, se finì con pagare la taglia733.
Sparso molto sangue, fatto gran bottino e copia di prigioni,
l'emiro e il fratello tornavano in Sicilia734.
Dove Abu-l-Kâsem, non dimenticato l'assalto di Messina,
ristorava la forte rôcca di Rametta, l'anno Trecensessantasei735 (29
agosto 976, 17 agosto 977), e vi ponea presidio capitanato da un
suo schiavo negro736. Ripassò poscia in Terraferma, investì
Sant'Agata, quella forse che s'addimanda di Reggio; tantochè i
cittadini ne uscirono per accordo, consegnatagli la rôcca e quanta
roba v'era737. Così Ibn-el-Athîr: un altro cronista arabico dice
sbarcato Abu-l-Kâsem alle "Torri'' (Abrâgia), dove messosi
l'esercito a rapire pecore e buoi e traendosene dietro una infinità
che impediva il cammino, il capitano li fece sgozzar tutti in un
luogo, al quale indi rimase infino ai dì del cronista il nome di
Monakh-el-bakar o diremmo noi la "Posata del bestiame."738
Appressandosi i Musulmani a Taranto, i cittadini sguisciaron via,
chiuse le porte in atteggiamento di difesa, per intrattenere il
nemico: e questi saliva le mura, credendo dar battaglia; se non
che, accortosi della burla, pose fuoco alla città e distrussene a suo
potere. Giunse Abu-l-Kâsem ad Otranto; corse altre città delle
quali non ci si dicono i nomi739; ma sappiam che Oria in Terra
d'Otranto e Bovino in Capitanata, furon arse entrambe, e il popol
733
Si riscontrino Lupo Protospatario, anno 976, e Romualdo Salernitano, stesso
anno, nei citati volumi di Pertz e Muratori.
734
Ibn-el-Athîr e Abulfeda, ll. cc.
735
Nell'originale "retcensessantasei". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
736
Si riscontrino Ibn-el-Athîr, l. c., e Nowairi presso il Di Gregorio, Rerum
Arabicarum, p. 19.
737
Ibn-el-Athîr, l. c.
738
Abulfeda, Annales Moslemici, tomo II, p. 450, sotto l'anno 336, trascrivendo
Ibn-Sceddâd. Perciò si deve intendere del XII secolo. Risponderebbe per
avventura al significato di Monakh-el-Bakar il nome di Vaccarizzo nella
Calabria citeriore, distretto di Rossano. Ma v'ha Bova, Bovino e tante
appellazioni della stessa etimologia nel regno di Napoli, che non si può fare
conghiettura ben fondata. Lo stesso si dica del nome topografico: Le Torri.
739
Ibn-el-Athîr, l. c.
minuto d'Oria condotto prigione in Sicilia740. Assalita per ultimo
una città che mi par da leggere Gallipoli741, e presone la taglia,
l'esercito si riduceva in Sicilia, con torme di prigioni, salmerie di
ricche spoglie, e vanto, che parea gloria, d'aver dato il guasto a sì
vasto tratto di paese che fa in oggi mezzo il reame di Napoli742. I
cronisti noverano due altre imprese d'Abu-l-Kâsem in Terraferma
tra il settantotto e l'ottantuno, senza narrarne i particolari743.
Inaspettatamente qui viene un'agiografia greca ad attestare il
gentil animo dell'emir di Sicilia. Ma principieremo da più alto,
poichè i costumi del popolo assalito, e un po' anco degli
assalitori, per tutto il decimo secolo son come l'ordito di cotesto
scritto, con trama sì discreta di soprannaturale, da non far
impedimento alla vista. Diciamo della Vita di San Nilo da
Rossano, dettata da un compagno e discepol suo alla fine del
decimo a principio dell'undecimo secolo. Nacque San Nilo verso
il novecentotrè; morì verso il novantotto. Studiò i santi padri, cioè
Antonio Saba, e Ilarione, scrive il discepolo; quantunque non gli
mancassero libri nè ingegno da apprendere negromanzia, se
l'avesse voluto744. Una febbre lo fe' pensare alla morte, giovane di
trent'anni; perilchè abbandonati i beni ed una figliuola naturale
ch'avea, si tonsurò nel monastero di San Mercurio e corse a

740
Si riscontrino Lupo Protospatario, anno 977, e Romualdo Salernitano, 976,
nei citati volumi di Pertz e Muratori.
741
Il fatto è nel solo Ibn-el-Athîr, e in tutti i MS. questo nome è quasi senza
punti diacritici. M. Des Vergers nella nota che citai propone di leggere
Gravina. Ma v'ha la differenza del tempo e del luogo, poichè Gravina fu
assalita il 976 e giace in Puglia. Oltre a ciò si dovrebbe mutare di forma
qualche lettera. Leggendo Garipoli non aggiungo altro che i punti diacritici, e
posso ben supporre che i Musulmani del X secolo pronunziassero in questo
modo Gallipoli, come i Siciliani d'oggidì. Va avvertito qui che si potrebbe
trattare per avventura d'un casale presso Catanzaro chiamato Garopoli nel
XVIII secolo. Veggasi Sacco, Dizionario geografico del regno di Napoli,
Napoli, 1795-6, in-8.
742
Ibn-el-Athîr e Abulfeda, ll. cc.
743
Nowairi, l. c., novera cinque imprese d'Abu-l-Kâsem in Terraferma, delle
quali l'ultima il 372, e la prima il 365.
744
Vita citata di San Nilo il giovane, p. 4. Il testo ha φυλακτά ed ε̉ξορκισμούς.
cercare asilo in quel di San Nazario745, dove non arrivassero le
branche del governatore bizantino, il quale lo volea sfratare e
tornare al duro giogo di decurione. Fuggendo dunque solo e a piè
in riva al mare, ecco saltargli addosso dalle fratte un barbaro
saraceno, seguito da Etiopi con occhi di bragia che avean lì tirata
loro barca. E il barbaro a interrogarlo; e, inteso che andasse a fare
i voti monastici, si messe umanamente a persuaderlo d'aspettar la
vecchiaia a lasciare il mondo. Vistolo risoluto, l'accomiatò che
tremava da capo a piè; ma pensato meglio, li corse dietro
gridando: "Fratello, aspetta aspetta;" e volle provvederlo per lo
viaggio di pani finissimi, scusandosi che non avesse in pronto
altro da mangiare. Fu costrutta poi in miracolo tal ordinaria carità
musulmana a povero viandante: fu creduto il demonio in carne e
in ossa un gentiluomo, il quale cavalcando presso San Nazario,
intendendo il proponimento del giovane, lo chiamò pazzo, poichè
se volea salvar l'anima potea far penitenza in casa senza ficcarsi
tra i frati, "avari," dicea, "pieni di vanagloria, dati tutti alla
crapula; che un caldaio di lor cucine capirebbe me ritto in piedi e
mezzo questo mio cavallo." Preso l'abito, tornato a San Mercurio
dopo un pezzo, Nilo si segnalò per obbedienza monastica,
flagellarsi, pregare, vestir ciliccio che mutava una volta ogni
anno, pazienza dello schifo e disagio; ed anche assiduità allo
studio, belle massime di carità cristiana, e mondana sagacità e
prudenza746.
Donde salì in fama di santità: riverito dai magistrati; andaron
vescovi, arcivescovi, ciambellani di Costantinopoli e i
governatori stessi di Calabria a richiederlo di vaticinii e
consigli747; fondò il monastero di Grottaferrata presso Roma;
vinse l'antipatia della schiatta italica e oltramontana a sua favella

745
Il De Meo, Annali di Napoli, tomo V, p. 257, anno 938, spiega che il
monistero di San Nazario, poi detto di San Filareto, ad un miglio da Seminara
e sei da Palma, apparteneva allo stato di Salerno e quel di San Mercurio ai
Bizantini.
746
Vita di San Nilo, pag. 5 a 37.
747
Op. cit., passim.
e greca profusione di capelli e barba748; fu onorato in sua
vecchiezza a Monte Cassino, a corte dei principi di Capua,
dall'imperatore Otone terzo e da Gregorio quinto, dai quali
impetrò grazia all'antipapa Filargato749. Pria di pervenire a tanta
altezza, avea patrocinato rei minori, come i sollevati di Rossano
di cui dicemmo, ed un giovane di Bisignano che svaligiò ed
uccise un giudeo, ed i magistrati lo volean dare in mano alla
comunità israelita750. San Nilo gareggiò a suo modo nell'arte
salutare col medico giudeo Sciabtai Donolo, uom di molta
sapienza a quel tempo in Calabria751. E come ci vengon visti nella
vita del Donolo752, così anco in quella di San Nilo i Musulmani di
Sicilia, ch'erano per fermo il flagello principale delle Calabrie,
dopo i governatori bizantini. In una spaventevole incursione,
quella, come parmi, d'Hasan del novecencinquantuno o del
cinquantadue, i monaci di San Mercurio si rifuggivan qua e là per
le castella; San Nilo rimanea nel romitaggio d'una spelonca
vicina, donde vide la polvere dei cavalli nemici; e, campato su
nella montagna, tornando, trovò che gli avean rubato fino un
sacco di cilicio, e il monastero desolato, e mancava un fedel suo
compagno. Cui volendo riavere o rimaner prigione con essolui, si
poneva all'aperto in mezzo alla strada; vedea venir dieci cavalieri
vestiti, armati e cinti le teste di fazzoletti753 alla foggia dei
Saraceni; quand'eccoli smontare, inginocchiarsi: ed erano gli
abitatori d'un castello, che così travestiti scorreano, se per far
bene o male non so, i quali lo accertarono essere salvo il
compagno754. Posate poscia le armi musulmane, seguíto il tumulto
di Rossano che narrammo, San Nilo presagì la novella tempesta.
Tornò allora a Rossano l'arcivescovo Vlatto, con molti prigioni
748
Vita di Sant'Adalberto, Acta Sanctorum, 23 aprile.
749
Vita di San Nilo, p. 124 a 155, e si confrontin le citate agiografie di
Sant'Adalberto.
750
Op. cit., p. 63.
751
Op. cit., p. 88, seg.
752
Si vegga il presente volume, p. 171-172, Libro III, cap. VIII.
753
φακιόλια
754
Vita di San Nilo, p. 54.
riscattati in Affrica, per credito della sorella ch'era moglie, come
diceano, del re dei Saraceni: qualche schiava favorita del Mehdi o
di Kâim. Dondechè proponendosi Vlatto di andar nuovamente in
Affrica a liberar altri Calabresi, San Nilo lo ammonì non si
arrischiasse in quella tana di vipere che alla fin fine l'avrebbero
morso: e in fatti, andato, mai più non tornò755. In quel medesimo
tempo si raccendea la guerra musulmana in Calabria; vaticinava
San Nilo che la non finirebbe di corto, e distogliea lo stratego
Basilio dal fabbricare una chiesa, chè gli Infedeli, dicea, la
demolirebbero immantinente occupando il paese756. Nella guerra,
forse del novecentosettantasette, riparatosi San Nilo nel castello
di Rossano, rimasero nel cenobio tre frati, che furon menati
prigioni in Sicilia757.
A riscattarli ei vendea delle canove del monastero il valsente
di cento bizantini d'oro758, e con un frate fidato e un giumento
donatogli da Basilio stratego, li mandò in Palermo, con lettere per
quel principe, dice la cronica, cui chiamano Amira, e altre ad un
segretario759, brav'uomo e cristianissimo. Il quale tradotta
l'epistola all'emiro, quei la lodava di dottrina e prudenza, e vi
raffigurava lo stile d'un amico760 di Dio: onde onorato molto il
messaggiero e regalatolo, mandava a San Nilo un presente di pelli
di cervi e aggiugneavi questa lettera: «Colpa tua, ch'ebbero
dispiacere i tuoi frati; poichè se me n'avessi richiesto, ti avrei
spacciato una cifera761 che bastava affissarla in su la piazza, e
niuno avrebbe molestato, il monastero, nè sarebbe occorso
fuggirtene via. Adesso, se non temi di venirne appo di me, potrai
soggiornare liberamente nel paese che m'obbedisce, dove sarai

755
Op. cit., p. 117, 118.
756
Op. cit., p. 123.
757
Op. cit., p. 120.
758
εκατὸν χρυσίνων
759
νοτάριον.
760
È versione litterale della voce arabica walî "eletto, amico, santo ec."
761
σημει̃ον "segno," probabilmente l''alâma, ossia motto e titolo scritto da un
segnatario a capo dei dispacci, che tenea luogo della soscrizione nostra.
rispettato ed onorato da tutti.» 762 Del quale scritto mi par genuino
il senso, e fin direi il tenore.
Morto intanto Otone primo (973), Otone secondo, che meritò
esser detto dai Romani il Sanguinario, ritentava l'impresa
dell'Italia meridionale; parendogli quivi men salda che mai
l'autorità dei fratelli della moglie, regnanti a Costantinopoli con
poca riputazione e impedimento di nuove guerre. Allo scorcio
dell'ottantuno, calato a Benevento dando voce del passaggio
contro gli Infedeli, espugnata Salerno che gli ricusava l'omaggio e
gli aiuti, Otone si apparecchiò al conquisto delle Calabrie 763. Le
quali, scrive Ditmar, uom sassone d'alto legnaggio, vescovo e
contemporaneo, eran gravemente afflitte dai Greci e dai
Saraceni764. Un altro cronista tedesco di quell'età, afferma che gli
imperatori bizantini, non potendo stogliere Otone da cotesta
impresa, condussero a soldo i Saraceni di Sicilia e altre isole, e
fin d'Affrica e d'Egitto, per lanciarglieli addosso765. Gli annali
musulmani, che maravigliosamente accordansi con Ditmar in
molti particolari, notan solo che Abu-l-Kâsem bandì la guerra
sacra, poichè il re dei Franchi movea contro la Sicilia766.
Manifesto egli è dunque che i Bizantini e i Musulmani di Sicilia,
rinnovandosi il comun pericolo, rifacessero la lega come al tempo
di Niceforo e di Moezz767. Lo stratego di Calabria assoldò forse
qualche compagnia musulmana, che stanziò in quelle parti e
militò con essolui. Ma l'esercito siciliano non operò mai insieme
coi Greci: che gli uni e gli altri combattessero contro Otone sul
medesimo campo di battaglia, è falso supposto di moderni

762
Op. cit., p. 120.
763
Metterò le citazioni alla fin del fatto, e qui le accennerò soltanto. La data
della venuta a Benevento e Salerno si trova nella Cronica di Santa Sofia e la
confermano i diplomi citati dal Muratori negli Annali.
764
Ditmar.
765
Annali di San Gallo.
766
Ibn-el-Athîr.
767
E senza ciò Abu-l-Kâsem non passava in Calabria a rischio di far unire a'
suoi danni le genti d'Otone e i Bizantini.
scrittori, i quali si fidarono alle compilazioni, mettendo da parte
le croniche originali.
In primavera dell'ottantadue, Otone venne sopra Taranto, e in
breve la espugnò, mal difesa dai Greci768. Nella poderosa oste
militavano Sassoni, Bavari e altri Tedeschi, Italiani delle province
di sopra e dei principati longobardi; condotti dai grandi vassalli
dell'Impero laici ed ecclesiastici, dal fior della nobiltà di
Germania e d'Italia769. Scarseggiando di forze navali, Otone
s'acconciò coi protocarebi di due salandre, mandate fin dai tempi
di Niceforo Foca a raccogliere le tasse di Calabria; i quali gli
prometteano d'ardere il navilio musulmano: ch'era doppio
tradimento, o quei tentennavano nella fede del signor loro, e si
disponeano a seguir Otone vincitore, e vinto abbandonarlo. Erano
navi, scrive Ditmar, di mirabile lunghezza e celerità, con doppia
fila di remi e cencinquanta uomini ciascuna; armate di quel fuoco
cui nulla spegne se non l'aceto. Due gualdane di Musulmani furon
sopraffatte dall'esercito d'Otone770; una delle quali, o una terza
che fosse, si difese in una città, credo io Rossano, poi si dette alla
fuga771.
Abu-l-Kâsem, partito con l'esercito del mese di ramadhan
trecentosettantuno (27 aprile a 26 maggio 982), saliva lungo la
costiera orientale di Calabria, dove ebbe più certi avvisi delle
forze del nemico accampato a Rossano772. Perchè non si fidando
d'assalirlo, adunati i capitani che voleano andare innanzi,
768
Ditmar. Gli Annales Lobienses presso Pertz, Scriptores, tomo I, p. 211,
dicono nel 982 che Otone celebrò il Natale a Salerno e la Pasqua a Taranto. La
data si vede anco dai diplomi citati dal De Meo. Secondo gli Annali di San
Gallo, Otone volea occupare l'Italia fino al mare Siculum et portum Traspitam
(var. Traversus) che potrebbe essere falsa lezione di Taranto. E Taranto si dèe
correggere, o Rossano, il nome che Ibn-el-Athîr scrive Mileto, e Ibn-Khaldûn
Rametta.
769
Si veggano i nomi alla fine del racconto.
770
Ibn-el-Athîr.
771
Ditmar. Quos primo infra urbem quondam clausos fugavit devictos, postque
eosdem in campo ordinato fortiter adiens etc. Il riscontro con Ibn-el-Athîr
mostra che la prima fu avvisaglia contro una picciola schiera e la seconda
giusta giornata contro l'esercito.
risolutamente ordinò la ritirata: e mandavala ad effetto con
l'esercito e il navilio, quando i legni nemici che stavano alla
vedetta, addandosene, mandarono spacci ad Otone che corresse
sopra i Musulmani sbigottiti773. Ei lascia addietro gli impedimenti
e col fior dei suoi fa tate diligenza che sopraggiugne i Siciliani il
quindici luglio774 su la marina di Stilo775. Vistili da lungi sparuti di
numero, sclama che sono masnadieri, non soldati, e, incontanente
comanda di dar dentro776. Abu-l-Kâsem, facendo alto, s'era già
messo in ordine di battaglia777.
Dopo aspro menar di mani avvenne che uno squadrone
imperiale caricando il centro de' Siciliani lo ruppe e volse in fuga.
Trapassando nell'impeto fino alle bandiere difese da Abu-1-
Kâsem con un forte nodo di nobili e prodi cavalieri, tennero il
fermo; furon tutti mietuti e l'emiro ucciso d'un colpo al sommo
della testa778: ma immolandosi strapparon la vittoria di mano
all'imperatore tedesco. Chè a quel respitto li sbaragliati si
rannodano, precipitano alla riscossa, scrive Ibn-el-Athîr,
deliberati a morire; i vincitori, scrive Ditmar, dopo breve scontro
sono soverchiati e tagliati a pezzi779: nè fa maraviglia tal subito
772
Ibn-el-Athîr. Aggiungo io Rossano perchè quivi era rimasta la imperatrice e
la corte quando Otone si messe a inseguire Abu-l-Kâsem.
773
Ibn-el-Athîr. Ditmar dice similmente di avvisi dati ad Otone dagli
esploratori.
774
Secondo Ibn-el-Athîr il venti di moharrem che risponde col conto
astronomico al 14 e col civile al 15. Ditmar, tertio idus julii, cioè il 13; le
necrologie date da Pertz, Scriptores, tomo III, p. 765, nota 59, hanno secundo
idus julii e idibus julii; e Lamberto idibus julii, cioè il 14 e il 15.
775
Presso il mare, secondo tutti. Lupo Protospatario ha nei varii MS. Cotruna,
Columnæ, Colupna etc.; Romualdo Salernitano dice Stilo, alla qual voce greca
risponde Colonna. Mi appiglio a questa tradizione perchè Rossano giace a 45
miglia da Cotrone. Il campo di battaglia dovette essere assai più lontano,
secondo i particolari della ritirata d'Abu-l-Kâsem e della fuga di Otone.
776
Annali di San Gallo.
777
Ibn-el-Athîr.
778
Ibn-el-Athîr. La morte di Bulcassimus è ricordata da Lupo Protospatario.
779
Ditmar, come Ibn-el-Athîr, dice vinta la battaglia dalla schiera sbaragliata
che si rannodò. Gli Annali di San Gallo ricorrono al trovato antichissimo d'un
agguato e delle miriadi di nemici che ne sbucassero.
scambio di sorti quando il centro de' Siciliani sconfitto rifacea
testa più addietro, e le ali rimase intere si chiudevano su le spalle
del nemico. Il rimanente dell'esercito otoniano si dileguò
fuggendo. Lasciò sul campo quattromila morti e grande numero
di ottimati prigioni780. Tra questi noverossi il vescovo di Vercelli
mandato ad Alessandria d'Egitto e riscattatosi dopo lunghi anni,
al par che tanti altri chierici e laici, i quali a poco a poco si
vedean tornar in Germania781. Degli uccisi, le croniche italiane
ricordano Landolfo principe di Capua, Atenolfo suo fratello e i
nipoti Ingulfo, Vadiperto e Guido di Sessa782; le tedesche, Arrigo
vescovo d'Augsburg, Wernher abate di Fulda, e molti altri
prelati783; e dei gran baroni un Richar, un duca Odone, i conti
Ditmar, Becelino, Gevehardo, Guntero, Bertoldo, Eccelino e un
altro Becelino fratel suo, con Burchardo, Dedone, Corrado,
Irmfrido, Arnoldo, e altri che Iddio solo conosce, scrive Ditmar, il
quale vi perdè uno zio della madre784.
Otone il Sanguinario, fuggendo a briglia sciolta col cugino
duca di Baviera, avvistò le due salandre greche presso la spiaggia,
e si tenne salvo785. Ma arrestatoglisi il destriero, un giudeo suo
fidato che lo seguiva gli grida: "Prendi il mio e dà pane ai miei
figli s'io ci muoio," onde Otone montato in sella786 spinse il
cavallo in mare; gridò e fe' cenno al nocchiero; e quei tirò dritto.
Tornato a proda, trova il giudeo, Calonimo il suo nome, che
l'attendeva ansioso di lui non di sè stesso: il cugino era ito, chè
già si vedean venire a spron battuto i Musulmani. "E che farò?"
sclamava Otone. "Ma sì ho ancora un amico!" e lanciossi di
780
Ibn-el-Athîr. Il MS. di Lupo Protospatario aggiugne un zero alla cifra dei
morti e la raggira all'esercito siciliano.
781
Annali di San Gallo.
782
Si confrontino Chronicon Sancti Benedicti, presso Pertz, Scriptores, III, p.
209, e Leone d'Ostia, lib. II, cap. 9.
783
Lamberti Annales, Annales Ottemburani.
784
Si confrontino Ditmar, Lamberto e le croniche minori presso Pertz,
Scriptores, III, p. 124, 143, e le necrologie citate quivi a p. 765, nota 59.
785
Ditmar.
786
Ibn-el-Athîr, il quale dice che il caval d'Otone si fermò, senza far menzione
del mare. Ma Ditmar scrive che Otone si gittò a nuoto col cavallo del giudeo.
nuovo nell'onda col cavallo del giudeo787. Questi fu ucciso788.
Ricettò l'imperatore l'altra salandra che passava, conoscendolo un
ofiziale schiavone789. Fatto posare dal protocarebo sul proprio
letto e interrogato, accertò sè essere Otone: lo pregò d'accostarsi a
Rossano, tanto che prendesse seco la moglie e i tesori; ch'ei non
voleva rimetter piè su l'infausta terra, ma andare a Costantinopoli,
ove i pii imperatori renderebbero merito a chi avesse tolto a
sicura morte il cognato. Il Greco assentì: navigando dì e notte
giunsero a Rossano790. Otone mandava lo Schiavone a terra, e non
guari dopo fu vista scendere alla marina la imperatrice con
Thierry vescovo di Metz ed una fila di giumenti che recavano,
come diceasi, il tesoro; a che il capitan greco gittò l'áncora.
S'accosta con barchette il vescovo; monta su la nave egli e pochi;
parla ad Otone; e questi, per accogliere onorevolmente la
imperatrice, indossa abiti di gala, arriva passeggiando al bordo: e
giù in mare d'un salto. Un della ciurma che lo volle ritenere, fu
trafitto; gli altri ricacciati indietro dagli altri famigliari saliti con
l'arme alle mani; e Otone intanto afferrava la spiaggia: talchè i
Danai truffatori d'ogni gente furono burlati, conchiude soddisfatto
Ditmar791. Nel cui racconto io non veggo nulla che rassomigli a
favola. Altri recò il caso un po' diverso, come l'andava ritraendo
la fama792; chi venne appresso v'aggiunse e tolse quanto gli

787
Ditmar.
788
Ibn-el-Athîr. Il nome dato da Ditmar farebbe supporre questo giudeo
calabrese o pugliese, parteggiante contro i Greci dei quali parlava
probabilmente la lingua.
789
Ditmar dice: ab Heinrico milite ejus qui szlavonice zolunta vocatur agnitus
intromittitur. Più sotto parlando dello stesso lo chiama binomius. Però lo credo
schiavone.
790
Ditmar: et perdiu et pernox ad condictum pertingere locum properavit.
Sembra almeno una intera giornata. Giovanni Diacono di Venezia dice che
Otone fu ritenuto su la nave tre giorni.
791
Gli Annali di San Gallo danno la somma del fatto, dicendo che Otone "a
mala pena scampò in nave ad un castello de' suoi."
792
Arnolfo, Giovanni Diacono di Venezia, dice espressamente che si salvò sa
due Zalandriæ greche.
parve793; falsarii moderni lo ricomposero a lor modo794: e in fine i
critici nauseati sono stati lì lì per rigettar tutti gli episodii in un
fascio795. I ricordi arabici convengono con Ditmar, sì nei primi
accidenti della fuga e sì nel successo, dicendo che Otone si
ridusse allo accampamento ov'era la moglie; e con lei tornossi a
Roma796.
E veramente, soggiornato alquanto a Capua, passò nell'Italia di
sopra, adunò del novecentottantatrè la dieta dell'Impero a
Verona797, s'apprestò a far vendetta sopra la Sicilia, vantossi di
gittare un ponte di barche su lo stretto di Messina798, e venne a
morire a Roma (7 dic. 983); meno avventuroso d'Abu-I-Kâsem,
ch'era caduto sul campo di battaglia. Dove la stirpe arabica pagò
alla stirpe italiana l'affitto della Sicilia, coi buon colpi che
sbarattarono un esercito germanico e fecer morire di rabbia e
disagi l'imperatore, l'Otone, passeggiante ormai su l'estrema punta
della penisola. E forse Salernitani, Romani, e Italiani d'altre
province tratti a forza sotto l'insegna imperiale, benedissero le
scimitarre orientali che loro balenavano dinanzi gli occhi.
Prepotente forza delle necessità geografiche su le vicende delle
nazioni, a vedere i Musulmani di Sicilia, guelfi innanzi tratto,
guadagnare in Calabria una prima Legnano799!

793
Hermanno Contratto, Sigeberto, ec.
794
Pratilli, nelle Interpolazioni alla Cronaca della Cava.
795
Muratori, Annali d'Italia; e Saint-Marc, Abregé chronologique de l'histoire
d'Italie.
796
Ibn-el-Athîr.
797
Ditmar. Si veggano in Muratori, Annali, le leggi promulgate in questa dieta.
Sul soggiorno a Capua si riscontri il De Meo.
798
Annali di San Gallo, Arnolfo.
799
Le autorità arabiche sono: Ibn-el-Athîr, anno 371, MS. A, tomo III, p. 33
recto; il compendio che ne fa Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile,
p. 173, 174; e i cenni di Abulfeda, Annales Mosl., anno 336, tomo, II, p. 446,
seg.; Baiân testo, tomo I, p. 248, anno 372; Nowairi, presso Di Gregorio, op.
cit., p. 20; Ibn-abi-Dinâr, MS. di Parigi, fog. 38 recto; Hagi Khalfa,
Cronologia, versione del Carli, anno 372, p. 66. Notisi che Ibn-el-Athîr e Ibn-
Khaldûn chiamano l'imperatore franco, in vece di Otone, Berdwîl, dal nome di
Baldovino che suonò tanto nelle Crociate.
Rimasti i Siciliani signori del campo, assumea le veci d'emiro
Giâber, figliuolo d'Abu-l-Kâsem; il quale immantinente fe'
suonare a raccolta, non concedendo di continuare il bottino; nè
pur di raccogliere le armi e attrezzi di guerra lasciati dal nemico
da rifornirne gli arsenali di Sicilia. Non si ritrae se fu necessità,
paura o gelosia d'affrettarsi a pigliar lo stato in Palermo; nè s'ei
pensò a recar seco il cadavere del padre. Ma alle costui virtù rese

Le autorità latine: Theitmari, Chronicon, lib. III, cap. 12, presso Pertz,
Scriptores, tomo III, p. 765, 766 (Ditmar dei conti di Waldeck, vescovo di
Mersebourg, nacque il 976 e morì il 1018); Annales Sangallenses Majores,
presso Pertz, op. cit., tomo I, p. 80 (l'autore di questa parte dice aver veduto
tornare varii prigioni riscattati); Joannis Diaconi, Chronicon Venetum, presso
Pertz, op. cit., tomo VII, p. 27 (l'autore finì di scrivere il 1008); Richari
Historiarum, presso Pertz, op. cit., t. III, p. 561 (l'autore scrisse tra il 996 e il
998, ma fa un brevissimo cenno); Lamberti, Annales, presso Pertz, op. cit.,
tomo III, p. 65 (l'autore visse alla metà dell'XI secolo); Herimanni Aug.,
Chronicon, presso Pertz, op. cit., tomo V, p. 117. (Ermanno Contratto, come fu
soprannominato, nacque il 1013, morì il 1054.) A queste croniche vanno
aggiunti i cenni di altre minori presso Pertz, op. cit., tomo I, p. 211, 242; III, p.
5, 64, 124, 143; V, p. 4. Dei cronisti latini d'Italia dell'XI e XII secolo, Lupo
Protospatario, e l'anonimo di Bari, presso Pertz, op. cit., tomo V, p. 55, dicono
meramente che Otone combattè con Bulcassimo re dei Saraceni, il 981, e
l'uccise e vi perirono 40,000 uomini; Amato, L'Ystoire de li Normant, lib. VI,
cap. 22, ricorda per le generali la sconfitta di Otone; Leone d'Ostia, lib. II, cap.
9, presso Pertz, op. cit., tomo VII, p. 635, ne dice breve ed esatto; e più
largamente Arnolfo, Gesta Episcopor. Mediol., presso Pertz, op. cit., tomo
VIII, p. 9. In fine Romualdo Salernitano, presso Muratori, Rerum Italicarum
Scriptores, tomo V, anno 981, squadernò nella seconda metà del XII secolo
che Otone vinse a Stilo e poi prese Reggio.
Il Pratilli nelle interpolazioni alla Cronica della Cava, tomo IV della sua
raccolta, pose una lunga favola su questa impresa nel 982; ed un'altra nel tomo
III nella Cronica dei Duchi di Napoli, anno 981, fingendo una battaglia navale
a Malta.
Queste sono le autorità tra buone e triste; nè ho pur notato tutte le compilazioni
dall'XI secolo in poi. Tra i compilatori assai male rabberciò cotesta guerra di
Otone II il Sigonio, Historia de Regno Italico, lib. VII, il quale suppose una
prima vittoria del 981, ed una sconfitta del 982 alla città di Basentello in
Calabria; dove da un lato combattessero Greci e Saraceni; e dall'altro lato i
Romani e i Beneventani per vendetta abbandonassero Otone. Questi due fatti li
imaginò; e si capisce. Ma non so in quale istoria o geografia abbia trovato
merito il popolo, che chiamollo "Il Martire," ed affidò alla storia
questa epigrafe: Giusto, di specchiati costumi, tutto amore ai
sudditi, affabile, elemosiniere, che non lasciò ai suoi figliuoli nè
una moneta d'oro, nè una d'argento, nè un pezzetto di terreno,
avendo legato ogni cosa ai poveri ed opere di carità800.

CAPITOLO VII.

Sì com'era incerta la elezione degli emiri tra il fatto e il dritto,


così i cronisti variamente scrissero di Giâber, qual notando che i
Musulmani di Sicilia lo esaltarono senza diploma del califo 801; e
qual che 'Azîz-billah, succeduto (975) a Moezz, in buona forma
lo nominò802. Fu l'uno e l'altro di certo. Giâber, dato a voluttà,
lasciò correre al peggio le cose pubbliche: donde i Siciliani il
deposero803, o se ne richiamarono al Cairo, dove una gelosia di
corte spianò loro la via. Perchè Ibn-Kellas, vizir del califo, si
adombrava forte di Gia'far-ibn-Mohammed della famiglia dei
Kelbiti di Sicilia, intimo di 'Azîz tanto e più che il padre
Mohammed non l'era stato di Moezz804. Avendo pensato fin dalla
morte d'Abu-l-Kâsem tôrsi d'addosso il rivale con splendido
esilio, Ibn-Kellas persuase adesso 'Azîz a farlo emir di Sicilia805 in

Basentello. Il Basente, il quale forse diè luogo all'errore, è grosso fiume di


Basilicata che sbocca nel golfo di Taranto, tra la città di questo nome e
Rossano. Il Muratori cominciò a raddrizzare così fatti errori negli Annali
d'Italia, 982, e il De Meo, Annali del Regno di Napoli, tomo VI, p. 158, seg.,
171, 174, seg., notò molte utili date. Nondimeno l'errore è durato dopo la
correzione; e fin oggi si vanno ricantando le due giornate, la fuga dei Greci al
primo scontro della seconda battaglia e il nome di Basentello.
800
Ibn-el-Athîr, e Ibn-Khaldûn, ll. cc.
801
Abulfeda, e Ibn-Abi-Dinâr, ll. cc.
802
Nowairi, l. c.
803
Ibn-Khaldûn, l. c.
804
Si vegga per questo Mohammed il Cap. V del presente libro, p. 291.
805
Abulfeda, l. c. È mio il supposto dei richiami dei Siciliani in Egitto.
Abulfeda non ne fa motto; ma Ibn-Khaldûn dice di più, come si è potuto
luogo del cugino: e chi sa quanto rincalzò le querele dei Siciliani,
e se nol fece domandar proprio da loro? Dicon gli annali arabi
che Giâber dolentissimo lasciò, e Gia'far a malincuore prese
l'oficio. Nondimeno, arrivato in Sicilia del trecentosettantatrè (14
giugno 983, 2 giugno 984), rassettò e fece prosperare il paese;
lodato anco per amore degli studii e liberalità. Morto il quale del
settantacinque (23 mag. 985, 11 mag. 986), succedettegli il
fratello Abd-Allah, che seguì il bello esempio, e in breve
anch'egli trapassò, del mese di ramadhan trecensettantanove (dic.
989); lasciato l'oficio d'emir al proprio figliuolo Abu-l-Fotûh-
Iûsuf. Così espressamente il Nowairi e Ibn-abi-Dinâr; nè vi
ripugna il dir degli altri compilatori. Aggiugne il Nowairi, che
'Azîz gli mandò poscia il rescritto d'investitura806.
Arrivò all'apice in questo tempo e repente rovinò la potenza
dei Beni-abi-Hosein a corte del Cairo. Hasan-ibn-'Ammâr, il
vincitor di Rametta, per riputazione propria nelle armi e di sua
parentela appo la tribù di Kotama, si trovò sceikh,
spontaneamente eletto, credo io, dei Kotamii stanziati in Egitto,
ch'eran tuttavolta i pretoriani di casa fatemita: ed egli a un tempo
lor patrono e fidato capitan del califo; tantochè 'Aziz, venendo a
morte (ottobre 996), gli raccomandò il figliuolo Mansûr,
soprannominato Hâkem-biamr-allah, fanciullo d'undici anni. Alla
cui esaltazione, i condottieri kotamii lo sforzarono a dare il
governo dello Stato a Ibn-'Ammâr, con oficio nuovo, che si
chiamò il Wâsita, ossia Intermediario; e vi si aggiunse il titolo di
Amîn-ed-dawla, che suona "Il Fidatissimo dell'impero." Onoranza
anche nuova a corte fatemita e di mal augurio; quando gli emîr-
el-Omrâ che posero in tanto vitupero il califato abbassida
s'addimandavano per simil forma La Colonna, La Pietra angolare,
La Spada, e che so altro, dell'impero. E per poco i Beni-abi-
Hosein non copiarono il rimanente: chè già il vecchio capitano

vedere.
806
Si riscontrino: Abulfeda, Nowairi, Ibn-Khaldûn e Ibn-abi-Dinâr, ll. cc. La
morte di Abd-Allah e successione del figlio si legge anche nel Baiân, testo,
tomo I, p. 254.
mostrava fasto e superbia da re; nella corte, nella milizia stremava
le spese per arricchire i Kutamii, e lor dava impunità d'ogni
licenza e d'ogni misfatto. Un eunuco di corte presto lo sgarò,
fondandosi in su gli stanziali turchi i quali spezzaron la boria ai
Kotamii; onde Ibn-'Ammâr fu deposto dal comando (997),
onorato e tenuto in disparte per pochi anni; finchè il pupillo, che
andava assaporando il sangue, (1000) lo fece assassinare807.
Parve cosa degna di nota che nel breve predominio
d'Ibn-'Ammâr ad un tempo reggessero, egli l'Egitto e il cugino
Iûsuf la Sicilia808: sì com'oggi vedremmo con maraviglia, due
stretti parenti, l'uno gran vizir a Costantinopoli, l'altro pascià
d'Egitto. Pertanto a tutti era già manifesta la independenza della
Sicilia; nè faceva specie che la corte fatemita, per procaccio,
com'e' sembra, d'Ibn-'Ammâr, desse a Iûsuf il privilegio di
Thiket-ed-dawla che suona "Fidanza dell'impero."809 Nè
solamente si noverava la Sicilia tra gli stati musulmani di
momento in sul Mediterraneo, ma gli altri cominciavano ad
invidiar sua sorte. Alla fama in arme che le avean dato i primi tre
emiri kelbiti, s'aggiunse la prosperità sotto i discendenti del
kelbita cortigiano Mohammed, tra i quali segnalavasi questo
Iûsuf. Leggiamo in una cronica che al suo tempo il popolo godè
ogni ben che si potesse desiderare; il governo si condusse efficace
e tranquillo; furono soggiogati parecchi paesi bizantini, e l'emiro
mostrò quella magnanimità, liberalità e giustizia, che mancava in
tanti altri principati musulmani810. Chi lodalo di fermezza insieme

807
Si confrontino: Iehîa-ibn-Sa'îd, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 131, A, p. 138,
seg.; Ibn-el-Athîr, MS. C, tomo V, fog. 33 recto, anno 386, e le autorità citate
da M. De Sacy, Chréstomathie Arabe, 2a ediz., tomo I, p. 137, 138, ed Exposé
de la Religion des Druses, p. CCLXXXIII, seg. La corte fatemita par che fino
allora non avesse dato di somiglianti titoli onorifici che a Bolukkin, vicario
d'Affrica. Si vegga Ibn-el-Athîr, citato qui innanzi a p. 288, e Ibn-Khaldûn,
Histoire des Berbères, versione, tomo II, p. 10.
808
Abulfeda, Annales Moslemici, anno 336, tomo II, p. 450, il quale trascrive
Ibn-Sceddâd, e questi probabilmente alcun più antico cronista.
809
Nowairi e Ibn-Khaldûn; ll. cc.
810
Baiân, testo, tomo I, p. 254.
e di bontà in verso i sudditi811; chi d'aver superato tutti i
predecessori in gloria e virtù812. La cultura sua e della corte ci
torna dalle biografie dei poeti contemporanei.
E prima d'Ibn-Moweddib da Mehdia, cervello strano dato
all'alchimia e alla pietra filosofale, uom di brutti costumi, cupido
e taccagno, vago d'andare qua e là per lo mondo a buscar danaro
con meschini versi; il quale, viaggiando alla volta d'un'isola
adiacente alla Sicilia, era stato preso dai Bizantini e ritenuto in
lunga cattività. Rimandato in Palermo con altri prigioni, quando
Iûsuf fermò una tregua con l'Impero, Ibn-Moweddib ringraziavalo
con un poemetto, e l'emiro lo regalava; ma non tenendosene
soddisfatto, si messe a sparlare di Iûsuf sì apertamente, che fu
ricerco dal bargello. Si nascose appo un conoscente, artigiano
dell'arsenale. Ma uscito una sera ubbriaco per comperar nuov'esca
da bere813, lo colsero; e il prefetto della città814 condusselo
immantinente a Iûsuf. Il quale lo rinfacciava: "Sciagurato, che è
questo che sento dir di te!" E il poeta a lui: "Ciarle di spioni, che
Iddio aiuti il signor emiro." - "Ma ti sovviene," riprese Iûsuf, "il
nome di chi cantò: Ecco il valentuomo messo con le spalle al
muro dai figli di male femmine?" - "Sì," rispose Ibn-Moweddib,
"il medesimo che fe' l'altro verso: L'inimicizia dei poeti, tristo chi
se l'accatta!" Alla qual pronta citazione di Motenebbi815, l'emiro
non gli disse altro; ma gli fece contare cento quartigli816 d'oro, a
811
Nowairi presso Di Gregorio, op. cit., p. 20.
812
Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione, p. 178.
813
Nakl son le frutta secche e i confetti che gli orientali sogliono mangiare
centellando col vino.
814
Sâheb-es-sciorta. Si vegga il Lib. III, cap. I, p. 9 di questo volume.
815
Dico così, perchè cercando di chi fossero cotesti due emistichii, li ho trovati
in Motenebbi, entrambi in una Kasida indirizzata a Bedr-ibn-'Ammâr. Si vegga
il diwano coi comentarii, MS. della Biblioteca di Parigi Suppl. Arabe, 1485,
fog. 448 recto. Motenebbi, che suona il profetastro, chiamato così per aver
voluto fare il profeta, è dei più celebri poeti arabi ai tempi dell'islamismo. Morì
il 351 (965).
816
Robâ'i. Altri MS. hanno dinâr. Il rebâ'i è ricordato come moneta corrente in
Sicilia nel XII secolo, e valeva un quarto di dinâr d'oro; al qual proposito si
vegga il testo d'Ibn-Giobair, edizione di Wright, p. 329, 335, e la nota
condizione di andarsene tosto della città; "perchè temo,"
aggiugnea, "che s'una volta gli ho perdonato, un'altra me la
pagherebbe cara."817
Già la fama attirava alla corte di Iûsuf non men belli ingegni e
animi più alti, come Mohammed-ibn-'Abdûn nato a Susa d'illustre
casa del Kairewân, pregiato tra i suoi per buona lingua e stile
semplice e vigoroso. Il quale avendo cantato le lodi dell'emiro, sì
gli piacque, ch'ei lo volle compagno del proprio figliuolo Gia'far
dilettante di versi818, e questi gli si strinse di cara amistà. Tanto
che volendo rimpatriare, Gi'afar, succeduto nel governo al padre
infermo819, gliel negò, ancorchè Mohammed lo chiedesse a lui ed
al padre con rime piene d'affetto. Che anzi, invaghito tanto più di
quel bello ingegno, Gia'far s'adontò che persistesse; gli vietò
d'entrare in palagio; ed a rappattumarsi furon uopo novelli versi, e
che il poeta li porgesse di furto mentre Gia'far stava a sollazzo in
un casino820. Il quale sentendosi rassomigliare alla luna e che pari
a quella si nascondesse a chi volea far ossequio, gli vennero le
lagrime agli occhi e donò al poeta un tesoro821.
Quanto fosse pagata non so, ma valea molto a lor gusto, una
Kasîda indirizzata a Iûsuf, innanzi il novecentonovantotto822, per

dell'editore a p. 23 della Introduzione.


817
Si confrontino: Ibn-Khallikân, edizione del Wüstenfeld, fasc. X, p. 28; e il
Mesâlik-el-absâr, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1372, fog. 120 verso.
818
Il testo nol dice, ma lo sappiamo d'altronde, come si dirà a suo
luogo.
819
Ciò si dee supporre dal fatto stesso, ancorchè non si legga nel testo.
820
Montezeh, luogo di diletto, casino, villa, talvolta loggia. Il nome di Gia'far
mi fa pensare al casino reale dei Normanni detto della Favara o di Maredolce,
presso Palermo; il quale par che fosse chiamato dai Musulmani Kasr-Gia'far
fino ai tempi di Guglielmo il Buono. Si vegga Ibn-Giobair, nel Journal
Asiatique, serie III, tomo VII (1846), p. 76.
821
Tigiani, Rehla, MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 911 bis, fog. 16 recto.
L'autore tolse questo squarcio da Ibn-Rescîk.
822
Quell'anno Iûsuf paralitico surrogò il figliuolo al dir delle croniche. Ma
dalla misura delle lodi che si dispensano a lui ed a Gia'far, mi sembra che
Iûsuf, senza lasciare per anco il governo, si fosse associato il figlio nel titolo
soltanto.
la festa del Sagrifizio823, da un Abd-Allah della tribù di Tonûkh,
detto Il figliuolo del cadi di Mîla, ond'ei pare oriundo d'Affrica. Il
qual poemetto ci serbò Ibn-Khallikân, che lettolo per caso su la
coperta d'un libro, lo trascrisse nelle Biografie degli uomini
illustri, temendo non andasse perduto. Come richiedea la classica
immutabilità della Kasîda, esordisce con lamenti amorosi, e
visione di belle che sembrano allegoriche, nè schiudon le labbra
se non a ricordare i riti del pellegrinaggio; talchè pervenghiamo
per lungo giro alla festa del Sagrifizio, a Iûsuf e al figliuolo. La
festa, sfarzosamente abbigliata, luccicante gli omeri del sottile
drappo dell'Irâk, venía dopo un anno a visitare Thiket-ed-dawla,
che l'ornava di collana e pendenti, e Gia'far accoglievala con lieti
augurii. Ma quale gemma più lucente che l'uno e l'altro re, nobili
rampolli della gente di Kodhâ'a?824 E chi, dato fondo al proprio
avere, sperando aiuto da Iûsuf, restò mai deluso? Quell'Iûsuf che
corse l'arringo della gloria coi principi ed ei solo toccò la meta; il
solo eroe che abbia potere di emendar il tristo secolo; il brando
sguainato contro i nemici della Fede; il forte scudo dei
Musulmani; la mente che vede ogni cosa e sa alternare
mansuetudine e forza; il guerriero armato di due spade, che son la
costanza e il fino acciaro. Ecco l'esercito inondar la terra nemica;
le lance rodeinite825 avventarsi come fieri serpi addosso ai
fuggenti; i condottieri nemici tagliati a pezzi e spiccato da' busti
capo insieme ed elmetto; nè cessa il martellar delle spade, perchè
le armature che testè luccicavano all'alba sian gialle di polvere,
anzi al polverio tutto s'oscuri il sole. Indarno sperano i
miscredenti risarcire lor guasti; indarno s'apprestano a raccogliere
le primizie dei campi, ch'ogni anno gli stuoli che tu mandi in
guerra, battono lor monti e lor pianure, lasciando vestigio
823
Il 10 del mese di dsu-l-higgia, grande solennità appo i Musulmani di rito
malekita. È anche delle feste che si celebrano alla Mecca alla fine del
pellegrinaggio, e però nel poema si dice tanto del pellegrinaggio.
824
Kodhâ'a è un dei ceppi della schiatta himiarita, alla quale appartenea la tribù
di Kelb.
825
Così chiamano i poeti le lance sottili e dritte, dal nome di Rodeina, moglie
d'un celebre armaiuolo di Bahrein.
d'ignudi cadaveri capelluti e barbuti826; e chi scampa si riman
soletto, senza la famiglia ch'è menata in cattività; e trova sì
svaligiati suoi tempii, che gli è forza smettere l'idolatria. Salve, o
Iûsuf, vigile scolta dell'islam nella notte di questa misera età.
Lieta siati la festa; lunghissimi i tuoi giorni al ben fare, al regno,
alla gloria; e perenne suoni il tuo nome dal pulpito827. Così il
poeta metteva a un paro con le veraci virtù la sanguinosa
intolleranza religiosa e lo strazio de' vicini: e fosse dileguato al
tutto tal empio errore in religioni più mansuete e popoli più civili!
Pur la corte kelbita di Palermo avea fama in Italia di quella
ch'era gentilezza secondo i tempi, come l'attesta un centone
d'istoria e romanzo, scritto, un anno più o un anno meno, al mille
di nostr'èra. L'attesta, dico, trasponendo nel passato, come
sovente si fa, le idee presenti. L'autore, monaco a Roma o nei
dintorni, narra i primi assalti dei Musulmani sopra la Terraferma
d'Italia (842) in questo modo: che Florenti re palermitano,
innamorato per fama della bella Gisa sirocchia del principe
Romualdo, per rapirla adunava sciami infiniti di Saraceni
d'Africa, Palermo e Babilonia; sbarcava ad Amalfi; aiutato dal
perfido Radalgiso, assediava Benevento; finchè Romualdo gli
uccise quarantamila uomini in una rotta, dalla quale Florenti a
mala pena campò la vita828. La qual favola è documento non solo
della possanza, ma sì della cultura dei Kelbiti allo scorcio del
826
I devoti greci del medio evo, per falsa interpretazione d'un testo, teneano a
peccato di tosarsi, onde i Longobardi e i Franchi li derideano fino al XII
secolo, come qui fa il poeta musulmano.
827
Ibn-Khallikân, edizione del Wüstenfeld, fasc. X, p. 28, seg. Questa Kasîda
ha 61 versi più che doppii de' nostri endecasillabi. Come ognuno comprende,
non ho fatto la traduzione litterale nè anche di tutti i versi che giovano
all'argomento nostro; ma ho raccolto le frasi più significative, trasponendole
talvolta, troncando molte imagini, e nessuna aggiugnendone. Debbo avvertire
che il passo "gli è forza smettere l'idolatria" risulta da una bella correzione che
ha fatta il professore Fleischer alla p. 640 della mia Biblioteca Arabo-Sicula
dove occorre il verso: "Tu li hai percosso in lor famiglie, sì che li hai fatto
rimaner soletti; e nei loro riti, sì che hanno lasciato il culto degli idoli." La
frase che ho messo in corsivo è espressa da una sola voce che avea varianti, e
nessuna plausibile, nei MS. d'Ibn-Khallikân.
decimo secolo; poichè loro si attribuisce proprio un fatto di
cavalleria829. Il cronista poi, partigiano d'Otone terzo, non
dimenticò di riferire la fondazione della terribile colonia del
Garigliano (883) alla medesima cagione alla quale si apponea la
sconfitta d'Otone secondo (982), cioè che i Bizantini avesser
mandato a Palermo ed Africa, offrendo il regno d'Italia ai
Saraceni830.
Qual che fosse stato l'accordo tra l'impero d'Oriente e i
Musulmani di Sicilia, finì con la vita d'Otone secondo. Perchè i
Bizantini, vedendo sgombrare dopo la sanguinosa giornata i
vincitori al par che i vinti, ripigliarono tranquillamente le
Calabrie e con un po' di fatica la Puglia. Dominarono da Reggio
al golfo di Policastro sul pendío occidentale d'Apennino, e sul
pendio orientale da Reggio al Tronto: posta la sede del governo a
Bari, e mandativi a lor usanza gli strateghi, i quali, verso il mille,
cominciarono a prender titolo di Catapano831. Ma non mutossi la
rapacità, corruzione e debolezza del reggimento bizantino. Dalla
ritirata dunque d'Otone alla occupazione dei Normanni, quella
provincia si travagliò tra insoffribile tirannide e impotenti sforzi a
liberarsene; e talvolta v'ebbe chi per disperazione chiamò i
Musulmani di Sicilia; i quali sempre da ausiliari o da nemici
corsero il paese, eccetto brevi tregue, di che una sola è certa e
l'anno nemmen si sa832. Lor fazioni non sono specificate dagli
annalisti arabi; i latini le pongono con ignorante brevità, date
dubbie, nomi guasti, e niuna connessione: come cicatrici di cui
828
Benedicti Sancti Andreæ Monachi Chronicon, presso Pertz, Scriptores,
tomo III, p. 700. Su l'età e l'autorità del cronista si vegga la prefazione
dell'editore a p. 695.
829
Nella detta prefazione si nota che questo Benedetto sembri il primo o tra i
primi che abbiano scritto il supposto viaggio di Carlo Magno in Terrasanta.
Siam dunque precisamente nei romanzi di cavalleria, coi trovatori, le cortesie e
i cavalieri erranti.
830
Op. cit., p. 713.
831
Corruzione di capitaneus, come avvisa il Ducange; o derivato da κατά παν,
come pensano altri dotti ellenisti.
832
Si vegga qui sopra a p. 333. Tra il 982 e il 998, poichè Iusûf non avea per
anco lasciato il governo al figliuolo.
non si sa l'origine ma non si cancellano mai nella memoria delle
genti. Ordineremo dunque gli sparsi cenni il manco male che si
possa, principiando avanti e terminando dopo il regno di Iûsuf,
perchè non son molti, e perchè non si abbiano ad interrompere nei
capitoli seguenti i successi di Sicilia.
Saccheggiata del novecentottantasei Santa Ciriaca o Gerace833;
l'anno appresso fatte altre scorrerie in Calabria; l'ottantotto,
assediata, presa e desolata Cosenza834, assaliti altresì i villaggi
presso Bari e riportatone uomini e donne prigioni in Sicilia835. Si
trovò il novantuno l'oste musulmana a Taranto; dove sopraccorso
un conte Atto con gente di Bari, cadde nella zuffa egli e parte de'
suoi836. Tornavano il novantaquattro a quelle regioni; stringeano
per tre mesi, espugnavano al quarto, Matera, che fu incendiata e
avea patito tal fame nell'assedio, che si narra d'una donna cibatasi
delle carni del figlio837. Dandosi intanto gli Italiani oppressi a
cospirare contro i Bizantini, accadde d'ottobre del novantotto che
Smagardo da Bari, accozzatosi con un condottiero Busito, che par
suoni Abu-Sa'îd, giunse chetamente alla città; gli fu aperta una
porta; ma il Musulmano, vistolo uscire da un'altra, si ritrasse
temendo tradimento, o che fosse fallito il colpo838; talchè
veramente fallì. Succeduta, com'e' sembra, la tregua per qualche
anno, fors'anco durando la tregua col catapan bizantino, ch'indi
suscitasse i Musulmani a molestare gli Stati independenti in sul
Tirreno, a dì tre agosto del mille e due si mostrarono a Benevento
con forze ch'è mestieri chiamar esercito, e presa la notte
medesima la via di Capua, posero l'assedio alla città; poi corsero
833
Lupo Protospatario, anno 986. Cito qui e appresso la edizione di Pertz,
Scriptores, tomo V, p. 55, 56.
834
Romualdo Salernitano, anno 987. Qui ed appresso da Muratori, Rerum
Italicarum Scriptores, tomo V.
835
Lupo Protospatario, 988.
836
Lupo Protospatario, 991, e Anonimo di Bari nella stessa pagina del Pertz. Il
nome ha le varianti Asto, Otho, Azzo.
837
Si riscontrino: Lupo Protospatario, 994; Anonimo di Bari, 996; Romualdo
Salernitano, 994.
838
Lupo Protospatario, e Anonimo di Bari, 998. Busito è intitolato caytus, cioè
kâid, condottiero.
infino a Napoli, con qual successo lo ignoriamo, forse di metter
grosse taglie e ritrarsi839. Di marzo mille e tre, innoltratisi dentro
terra nel golfo di Taranto, assediavano senza frutto
Montescaglioso840. Guerra, non incursione di predoni, fu l'altra
che seguì il mille e quattro, capitanando i Musulmani il kâid Safi,
rinnegato. Il quale in su l'entrar di maggio poneva il campo a
Bari, vi chiudea Gregorio catapano della provincia; e avrebbe
espugnata la capitale senza le armi dei Viniziani, pronti ad aiutar
l'impero greco quando ne andava la sicurezza dell'Adriatico.
Perchè Pietro Orseolo doge di Venezia, salpato con l'armata a
dieci agosto, approdava a Bari il sei settembre in faccia ai nemici,
che invano instrussero i cavalli su la costiera e fecero avvisaglie
con lor navi. Rifornita Bari di vettovaglie, il doge ordinò ogni
cosa per fare ad un tempo la sortita dal sobborgo e dar battaglia
navale. E per tre dì fu combattuto ad armi bianche e dardi
artifiziati con fuoco; finchè Safi vedendo averne la peggio,
chetamente levò il campo la notte del ventidue settembre841.
Minori sembran le forze e meglio giudicata la vittoria, nella
battaglia navale che si travagliò il sei agosto del mille e cinque a
Reggio; dove i Pisani, emuli ormai di Venezia, ruppero i
Musulmani842. D'agosto del mille e nove, spezzato il patto del
capitano Sato, o cred'io Sa'îd, i Musulmani occupavano un'altra

839
Si riscontrino le varie lezioni della Cronica di Santa Sofia di Benevento,
l'una delle quali porta precisamente la data di agosto 1002, XV a indizione,
presso Muratori, Antiquitates Italicæ, tomo I, p. 257; e le altre presso Pertz,
Scriptores, III, p. 177. Si vegga anche Romualdo Salernitano, 1001.
840
Lupo Protospatario ed Anonimo di Bari, 1003.
841
Si riscontrino: Giovanni Diacono di Venezia, contemporaneo, presso Pertz,
Scriptores, tomo VII, p. 35; Anonimo di Bari, anno 1003, presso Muratori,
Antiquitates Italicæ, tomo I, p. 33; Lupo Protospatario, anno 1001 (var. 1002).
La data del 1004 si trova presso Giovanni Diacono, al par che i particolari
dell'impresa. Si vegga anche il Dandolo, lib. IX, cap. I, parte 44, presso
Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo XII, p. 233, con data erronea.
842
Chronica Varia Pisana, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores,
tomo VI, p. 107 e 167; Marangone, nell'Archivio Storico Italiano, tomo VI,
parte II, p. 4. La data ch'è in tutti del 1006 si dee scemare d'un anno, cadendo
in agosto e contandosi l'anno alla pisana.
volta Cosenza843. Poi si legge che un Ismaele combatteva insieme
coi Saraceni l'anno mille undici a Montepeloso; ch'era ucciso
nella zuffa un Pasiano e che Ismaele entrava nel castel di Bari844;
nel qual testo par si debba legger Melo in luogo d'Ismaele 845: e
sarebbe il nome, se fausto o male augurato non so, al certo
venerabile e grande, del cittadin di Bari, il quale, levatosi come
Smagardo contro la tirannide bizantina, comperò indi a poco le
spade normanne. Che gli emiri kelbiti abbiano aiutato a cotesti
movimenti di Puglia non può chiamarsi in dubbio: e se ci fossero
ignote lor fazioni di guerra, basterebbe la cura che posero le
croniche pugliesi a notare le mutazioni di signoria dei Musulmani
dal mille quindici al mille e venti, tacendo al tutto quelle che
precedettero e che seguirono846.
Per cagion della rivoluzione militare del millequindici onde
furono menomate le forze dei Kelbiti, è da supporre venuti
d'Affrica, non di Sicilia, i Musulmani i quali del mille e sedici
posero a terra a Salerno; strinsero un pezzo la capitale con
l'armata e con l'esercito; alfine furono costretti abbandonare
l'impresa847. Altri narra che trovandosi per caso in Salerno
843
Lupo Protospatario, anno 1009.
844
Chronicon Barense, presso Muratori, Antiquitates Italicæ, tomo I, p. 33,
anno 1011, e le varianti del Pertz nella edizione messa a riscontro di Lupo
Protospatario.
845
Così pensa De Meo, Annali di Napoli, tomo VII, p. 12, 13, an. 1010.
846
Lupo Protospatario, ediz. di Pertz, Scriptores, tomo V, p. 57, an. 1015.
«Apparuit stella cometæ mense februarii et Samuel rex obiit et regnavit filius
ejus.... 1016. Occisus est ipse filius præfati Samuelis a suo consobrino filio
Aronis et regnavit ipse.... 1020 Descenderunt Sarraceni cum Rayca et
obsederunt Bisinianum et apprehenderunt eam et mortuus est ipse admira
(amira, amita etc.) et Melis dux Apuliæ.» L'abdicazione di Iûsuf innanzi il
1015; il fratricidio di Gia'far nel 1015; e la cacciata di costui nel 1019 che si
leggeranno nel capitolo seguente, rispondono a un di presso ai fatti accennati
da Lupo: nè monta la inesattezza dei particolari, nè lo sbaglio dei nomi.
Ritengo pertanto che la cronica intenda dire dei Kelbiti di Sicilia, non di
qualche avventuriere musulmano che avesse tentato di farsi signore in
Calabria, che sarebbe supposizione senza alcun fondamento.
847
Si confrontino: Lupo Protospatario e Anonimo di Bari, anno 1016, e gli
Annali del Monastero di Santa Sofia di Benevento, nella edizione del Pertz,
quaranta gentiluomini normanni, reduci dal pellegrinaggio di
Gerusalemme, sentendosi ribollire il sangue nelle vene alla vista
degli Infedeli baldanzosi e dei terrazzani che tremanti
s'apprestavano a pagar la taglia, chiedean armi e cavalli,
prometteano liberare i Cristiani col ferro; e lor era creduto alle
robuste persone e guerriero piglio ed aspetto: tantochè, assaliti
alla sprovveduta i nemici, li sbaragliavano con grande strage. Il
qual episodio parmi da accettare, sol che s'aggiungano al
drappello straniero i cavalli e i fanti del principato salernitano, e
che si tolga qualche zero alla cifra dei ventimila Saraceni che
leggiamo in una compilazione. I pii guerrieri ricusavano ogni
guiderdone, ripigliavano il viaggio ad onta di tutte promesse e
preghiere: onde il principe di Salerno mandò secoloro un legato
che conducesse a' suoi soldi campion più mondani, recando in
Normandia la mostra del ben di Dio che si godeva in Italia:
vestimenta di porpora, briglie di cavalli ricoperte a lamine d'oro,

Scriptores, tomo III, p. 177, stesso anno.


melarance, mandorle e noci confettate848. E gli stranieri corsero
all'esca; ma divorarono insieme la man che la porgea.
Mentre le armi normanne cominciavano con piccoli auspicii a
mostrarsi in Puglia, i ribelli avendo uopo di più forti aiuti, non
restarono di chiamare i Musulmani di Sicilia. I quali del mille e
venti, accozzatisi con un Rayca, pugliese, assediarono e presero

848
Si confrontino: Amato, L'Ystoire de li Normant, lib. I, cap. 17, 18, 19;
Leone d'Ostia, lib. II, cap. 37, presso Pertz, Scriptores, tomo VII, p. 651, 652;
nei quali è da notare che Amato, scrittore più antico, pon meno episodii da
romanzo di cavalleria: del resto si vede che entrambi attinsero ad unica fonte.
Delle circostanze importanti il divario è questo, che Amato dice giunti i
Normanni durante l'assedio e Leone d'Ostia prima; che l'uno suppone i
Saraceni venuti a riscuotere il solito tributo il quale cessò per sempre dopo
quell'impresa, e l'altro reca il fatto come un dei soliti assalti che finivano
pagando una taglia. Si accordano a un di presso nella data, dicendo l'uno avan
mille e l'altro circa sedici anni avanti il 1017. Ma come entrambi riferiscono
agli allettamenti dell'ambasciatore salernitano la venuta dei venturieri che
comparvero in Italia il 1017, così mi è parso di seguir la data di Lupo
Protospatario e della Cronica di Santa Sofia di Benevento; la quale, oltre
l'autorità di que' cronisti, convien meglio ad una pratica di questa fatta che non
potea durare sedici anni. D'altronde la data del principio del secolo poteva
essere vagamente indicata nei ricordi su i quali scrisse Amato verso il 1080, e
Leone d'Ostia nei principii del XII secolo.
Non ho fatto menzione dei compilatori successivi, per esempio Odorico Vitale
(morto il 1141), il quale dà 20,000 ai Saraceni e 100 ai Normanni, e son tra
questi Drogone ec. Al contrario, i critici moderni mi par abbiano negato troppo
facilmente l'episodio de' quaranta pellegrini, il quale, tolti gli ornamenti della
Tavola Rotonda, non ha nulla che discordi dall'indole degli uomini e dei tempi.
Debbo avvertire che nella edizione della Cronica di Santa Sofia di Benevento,
Pertz, Scriptores, III, p. 176, 177, si leggono le altre scorrerie qui appresso
notate, cavate da aggiunte della edizione di Pratilli, tomo IV, p. 358, che non si
trovano negli altri MS. Si vegga nel detto volume del Pertz, p. 173,
l'avvertimento dell'editore tedesco, il quale parmi non siasi ricordato che le
aggiunte veniano dalle stesse mani che interpolarono la Cronica della Cava,
fabbricarono quelle di Calabria e dei Duchi di Napoli ec. Però non accetto
quelle notizie come genuine:

Anno 982. Dopo la sconfitta di Otone, i Saraceni saccheggian tutta la Calabria.


(Noi sappiamo che se ne tornarono in fretta in Sicilia.)
Bisignano849: che sembra la prima impresa dell'emiro Akhal. Si
legge poi che di giugno del milleventitrè un kâid Gia'far con
Rayca pose il campo a Bari; donde partitosi il dì appresso,
espugnò Palasciano850: nel qual testo il nome va corretto forse
Abu-Gia'far e sarebbe il medesimo Akhal851. Delle altre scorrerie
di costui, delle arsioni e guasti e saccheggi in Calabria,
vagamente accennati negli annali arabici852, ignoriamo i
particolari, non avendo croniche cristiane di Calabria in questo
tempo, ma sol qualche ricordo della Puglia. Tornò ad osteggiar la
Puglia il milleventinove Gia'far, o Akhal, insieme con Rayca;
assediò il castello d'Obbiano; e si ritrasse per accordo coi
terrazzani che dessergli prigioni gli stranieri, com'ei pare, il
presidio bizantino853. Stavano per cominciare in Sicilia i
rivolgimenti che distrussero la dinastia kelbita e la dominazione
musulmana, quando di giugno milletrentuno i Musulmani
occupavan Cassano; e il tre luglio davano una rotta al catapano
Potho854.
D'allora in poi non s'intende d'assalti loro in Terraferma, nè
v'ha luogo a supporne, ove si consideri lo scompiglio dell'isola, la
Anno 1002. Prima della marcia sopra Benevento (che è nelle altre edizioni),
vengono a Bari e prendono e ardono Ascoli e il Castel di Santangelo.
Anno 1007. Nuova infestagione di Capua.
Anno 1009. Presa di Bitonto e del Castrum Natii.
Anno 1016. Durante l'assedio di Salerno, dato il guasto fino ad Agropoli e
Capaccio.
849
Lupo Protospatario, presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 57.
850
Ibidem. Il nome è scritto Iaffari, Zaffari etc. Si aggiugne criti che par da
leggere caiti.
851
Ahmed-ibn-Iûsuf, soprannominato Akhal, è chiamato sempre da Cedreno
Apollofar. Da un'altra mano gli annali musulmani ci dicono che il suo figliuolo
Gia'far rimaneva al governo in Sicilia quand'egli andava a far guerra in
Terraferma. E però il suo keniet, come lo chiamano gli Arabi, par sia stato
Abu-Gia'far, "il padre di Gia'far."
852
Si riscontrino: Ibn-el-Athîr sotto l'anno 484, MS. A, tomo IV, fog. 134
recto, seg.; Abulfeda, Annales Moslemici, tomo III, p. 274, seg.; Nowairi,
presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 22.
853
Lupo Protospatario, l. c.
854
Lupo Protospatario, l. c.
vittoria di Maniace, l'ingrossar dei venturieri normanni in Puglia e
Calabria. I Musulmani che rimasero quivi fino al conquisto della
Sicilia, erano rifuggiti o mercatanti. Tale al certo la popolazione
infedele di Reggio, la quale il millesessanta s'accozzò coi
Cristiani in una infelice fazione navale contro la patria, per
isfogare odii di parte o mostrar fede ai novelli signori855. Qualche
altro esule sventurato, qualche avventuriere di negozio o di
scienza, stanziò in questo tempo a Salerno, come sarà detto a suo
luogo. Ma il flagello che aveva afflitta per due secoli l'Italia dal
Tevere al Faro, si trovò spezzato innanzi la metà dell'undecimo.
Le battiture del quale, furono al certo più spesse e crudeli che
non ci sia venuto fatto di raccontarle su i ricordi, pochi e dispersi,
di due secoli oscurissimi; delle quali notizie alcune si trovano
senza data nè certezza di nomi topografici nelle agiografie; e però
non ci si può fare assegnamento856. Migliore testimonianza danno
i nomi che leggiam tuttavia su le carte geografiche in luoghi di
cui non fan motto gli annali cristiani nè dello islam: i quali nomi,
e tanti che ne ignoriamo, e tanti che si sono dileguati, ragion
vuole derivino dai casi del nono e decimo secolo, anzi che del
decimoterzo, quando le squadre musulmane di Federigo secondo
e di Manfredi non faceano un passo che gli scrittori guelfi
immantinenti non ne ritraessero l'orma. Nido dei Musulmani par
sia stato nel nono secolo il Monte Saraceno, come si addimanda,
su la costa meridionale del Gargano857, a settentrione del qual
promontorio, tra Viesti e il lago di Varano, è anche una Punta
Saracena. Un monte Saraceno s'innalza rimpetto al comune di

855
Amato, L'Ystoire de li Normant, lib. V, cap. XI.
856
Si veggano quelle di San Nilo, lib. IV, cap. VI, p. 317, seg., di questo
volume; e di San Vitale, San Luca di Demena e San Giovanni Therista, lib. IV,
cap. XI.
857
Leandro Alberti, Descrittione di tutta Italia, Venezia 1588, fog. 245 verso,
la dà per fatta, aggiugnendo: «Insino ad oggidì si vedono le sepolture nel sasso
cavate secondo i loro malvagi riti et profane cerimonie.» Ma i "malvagi riti"
dei Musulmani portano dì inumare i cadaveri, non già di chiuderli in avelli dì
pietra. Perciò non son questi al certo i vestigii che lasciarono sul monte
Gargano.
San Bartolomeo di Capitanata su l'altra sponda del Fortore. Un
altro in Calabria Citeriore, a ponente di Rocca imperiale. Nella
stessa provincia s'addimanda Saracena un Comune posto a
libeccio di Castrovillari a poche miglia; e sbocca nel Jonio, tra
Amendolara e la foce del Crati, il fiumicello Seracino; presso al
quale in sala marina è una Torre Saracina come la chiamano. Lo
stesso nome di Torre Saracena si scorge nelle carte del secol
decimottavo in Calabria Citeriore, tra Longobuco e Bocchigliero.
Fino nello Stato papale a poche miglia a greco da Tivoli giace la
terra di Saracinesco; a mezzogiorno della quale è l'altra detta
Siciliano: nomi lasciati per avventura nei principii del decimo
secolo dalle mansnade del Garigliano, o alla fine dell'undecimo
dai Musulmani di Sicilia, che menò seco Roberto Guiscardo, per
liberare papa Ildebrando dai Romani e dai Tedeschi.

CAPITOLO VIII.

Dopo otto anni di prospero reggimento, Iûsuf, colpito


d'emiplegía del lato sinistro, risegnò l'emirato al figliuolo Gia'far,
al quale avea già procacciato in cancelleria d'Egitto il diploma di
sostituzione858: e adesso a nome del califo Hâkem-biamr-Allah gli
erano inviate le bandiere del comando, con prerogativa di Tâg-
ed-dawla e Seif-el-milla, che suonan «Corona dell'Impero e
Spada della Fede.»859 Faccende di cancelleria, parendo che ormai
i califi fatemiti non pretendessero esercitare autorità in Sicilia, nè
eleggerne gli emiri, ma sol mantenere le cerimonie
858
Nowairi afferma la sostituzione conceduta prima della rinunzia di Iûsuf. N'è
prova anco la poesia di Abd-allah-Tonûki della quale abbiam fatto parola nel
Cap. VII, pag. 335, della quale si vegga la nota 4.
859
Si riscontrino: Ibn-el-Athîr, anno 484, MS. A, tomo IV, fog. 134 recto, e
seg.; Abulfeda, Annales Moslemici, anno 336, tomo II, p. 446, seg., ed anno
484, tomo III, p. 274; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 20;
Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 178; Ibn-abi-Dînar; MS.,
fog. 37 verso, seg.
dell'investitura, come faceano in Affrica; dove ciò non togliea che
gli emiri zîriti loro contendessero qualche città di frontiera con le
ragioni e con la spada860. E veramente nella vita di Hâkem, di che
sappiam tante minuzie, non si fa motto mai della Sicilia, nè del
reggimento nè degli emiri di quella; se non che alcun Siciliano,
nativo ovvero oriundo, comparisce nella storia politica e letteraria
dell'Egitto, non altrimenti che gli stranieri, dell'Irâk, di Siria,
d'Affrica. Di cotesti Siciliani diremo là dove cadrà in acconcio.
Da un'altra mano la corte degli emiri in Palermo del tutto si
ordinava come di principi independenti. Si veggono nel regno di
Gia'far gli oficii di vizîr e di hâgib, ossia ministro e ciambellano; i
quali mai non furono, nè il poteano, appo gli emiri di provincia. I
poeti in loro apostrofe a Iûsuf e al figliuolo chiamavanli Malek,
che suona re, titol nuovo nell'islamismo; e scrivean come se mai
non fosse stato al mondo il califato d'Egitto861.
Gia'far ebbe dal padre, insieme col principato, ciò che si potea
tramandare per liberale educazione: non le virtù dell'animo nè
della mente. Fece mediocri versi; entrò nelle antologie degli
Arabi in grazia d'un epigramma improvvisato in Egitto (1035),
dove andò a finir comodamente la vita quando il cacciarono di
Sicilia: volgare antitesi sopra due paggi che gli venner visti in
abiti di dibâg862 l'un rosso e l'altro nero; la qual freddura piacque
assai in quell'Arcadia arabica dell'undecimo e duodecimo
secolo863. Del rimanente, indole pigra, avara, crudele: nelle sue
mani casa kelbita diè la volta al comun precipizio delle dinastie
musulmane, nelle quali ad una o due generazioni di guerrieri
succedettero per lo più i Sardanapali; come se il naturale intristir
dei sangui regii s'affrettasse dentro le mura dell'harem, dove si
sciupa il padre, e la fiacca prole alla sua volta vi lascia quel po' di
spirito rimaso nella razza.

860
Si vegga qui appresso, pag. 356.
861
Si vegga la poesia citata nel cap. VII, p. 335, seg.
862
Drappo di seta, sul quale si vegga la nota 1, pag. 54, del presente volume.
863
Imâd-ed-din, Kharîda, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1376, fog. 40 verso, ed
Ibn-Khallikân, edizione del Wüstenfeld, fascicolo X, p. 32, vita 803.
Dal martire Abu-l-Kâsem in poi, gli emiri siciliani aveano
amato meglio i piaceri della reggia in Palermo che i
combattimenti di Terraferma. Così il buon Iûsuf, così Gia'far; il
quale par quel desso ch'edificò il castel di Maredolce tra le
abbondanti acque e i lieti giardini che furon poi delizia dei re
normanni864. I capitani, intanto, mandati in guerra, riportavano a
casa, con qualche poco di bottino, la vergogna della ritirata a Bari
(1004) e della sconfitta a Reggio (1005): il principe stracurato e i
ministri procaccianti aprian la strada a domestiche ambizioni.
Donde Ali, figliuolo di Iûsuf, congiurò contro il fratello coi
Berberi e gli schiavi negri; coi quali negli ultimi di gennaio del
mille e quindici, ridottosi in un luogo non lungi di Palermo, si
chiarì ribelle. Gia'far gli mandava incontro senza indugio il giund
e le milizie della capitale865: a dì trenta gennaio si venne alla
zuffa, la quale finì con molto sangue dei sollevati, e il rimanente
diessi alla fuga. Ali preso, menato al fratello; il quale comandò di
metterlo a morte, non curando le lagrime del padre paralitico:
talchè entro otto giorni il temerario giovane si giocò la testa e la
perdette. Gia'far fe' trucidar dal primo all'ultimo gli schiavi
ribellati, e i Berberi scacciò dall'isola con le famiglie loro, niuno
eccettuato; i quali si ridussero in Affrica866.

864
Ibn-Giobair, nel Journal Asiatique, serie IV, tomo VII (1846), p. 76, chiama
Kasr-Gia'far il sito regio di Maredolce. Dei tre emiri che portarono tal nome,
non veggo altri che il figliuolo di Iûsuf che abbia avuto genio e tempo da
fondare questa villa regia, della quale terremo proposito nel libro VI.
865
Secondo Ibn-el-Athîr "un giund" e secondo Nowairi un 'Asker ossia
"esercito," voce generica la quale può comprender anche le milizie municipali
oltre quella della nobiltà.
866
Si riscontrino: Ibn-el-Athîr, Nowairi e Ibn-Khaldûn, ll. cc.; il passo d'Ibn-
Khaldûn: "mais il epargna ses partisans" vien da una lezione erronea del testo,
e va corretto "cacciò i Berberi e gli schiavi negri." È da avvertire che Nowairi
dice seguita la battaglia il mercoledì sette di scia'bân 405; il qual giorno
risponde, nel conto astronomico, alla domenica 30 gennaio, e nel conto civile
al lunedì 31 gennaio 1015. Il giorno della settimana è dunque sbagliato nel
testo; o l'errore vien dall'uso ortodosso di contare il primo del mese arabico dal
dì che si fosse vista con gli occhi la luna nuova, checchè ne notasse il
calendario.
Le croniche danno un insolito barlume su la ragione degli
avvenimenti, aggiugnendo, che rimaso a Gia'far il solo giund
siciliano e menomato l'esercito, i Siciliani imbaldanzirono contro
i governanti867. Indi si vede essere stati i Negri squadre stanziali. I
Berberi, avanzo delle colonie spopolate un tempo (940) da
Khalîl-ibn-Ishak, o piuttosto delle soldatesche venute d'Affrica
sotto i due primi emiri kelbiti, sembran anco milizia stanziale:
squadre di giund che gli emiri tenessero appo di loro, pronte a
servirli in casa e fuori, stipendiate con assegnazione temporanea
di dhiâ, o vogliam dir poderi demaniali: picciola mano di gente,
poichè tornò sì agevole di cacciarla via. L'attentato di Ali fu
dunque cospirazione militare. Gia'far con le stragi e il bando volle
vendicarsi e assicurarsi; ma non pensò che, rimanendo nelle forze
di coloro che l'avean mantenuto sul trono, non potea maltrattarli
senza pericolo.
A nulla forse ei pensava se non alle vanità e voluttà del
principato; rimettendo ad altri la cura di trovar moneta che
bastasse allo spendio. Per sua mala sorte s'avvenne in un
segretario Hasan-ibn-Mohammed da Bâghâia in Affrica868, e
fecelo vizîr. Ai cui consigli Gia'far comandava che in luogo
dell'antica tassa invariabile d'un tanto ad aratata869 su i terreni, si

In ogni modo, la data del 16 febbraio che si legge nel Martorana ed è


fedelmente copiata dal Wenrich, vien da un errore corso nella edizione del Di
Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 21, nota c. Secondo il Martorana e il Wenrich
i ribelli furon parte Affricani e parte servi di Ali; ma pei primi i testi dicono
precisamente Berberi, e pei secondi 'Abîd, ossia Schiavi negri; nè s'aggiugne
che fossero schiavi di Ali, anzi il fatto li mostra soldati stanziali.
Non merita esame il fatto recato dal Rampoldi, Annali Musulmani, 1002, che
l'emiro "Thajo dawla per la sua iniquissima amministrazione e le enormi sue
crudeltà" fu deposto e sostituitogli il fratello Ahmed. È anacronismo della
rivoluzione del 1019, che l'annalista senza accorgersene replica poi a suo
luogo.
867
Ibn-el-Athîr e Nowairi, ll. cc.
868
Città su la catena degli Aurès; oggidì in provincia di Costantina.
869
El-zeug-el-baker "Coppia di buoi." Senza dubbio la superficie da lavorarsi
in una stagione con un aratro. Si vegga il Lib. I, cap. VI, primo volume, p. 153,
nota 1.
levasse il dieci per cento su i grani e le frutta; allegando l'usanza
generale degli Stati musulmani870. I terreni, s'intenda, tassati a
kharâg perpetuo: ed era arbitrario l'atto; non potendosi in giure
musulmano mutar nè la quantità nè il modo di riscossione fermati
al conquisto e diversi secondo i paesi, talchè la costumanza degli
altri luoghi, molti o pochi, non potea far legge in Sicilia 871. Che
tal novazione aumentasse il peso, non occorre dimostrarlo,
quando il ministro e l'emiro la vollero, e i possessori se ne
mossero a far quel che fecero. Il vizîr aggravò il mal tolto
trattando con modi villani e superbi i kâid e gli sceikhi, che è a
dire i capi delle nobili famiglie militari e i notabili della
cittadinanza. E l'emiro, al quale è naturale che se ne
richiamassero, parlò ed operò leonino872.
Riposava sicuro, nella severità sua e sagacità del ministro,
quando, il sei di moharrem del quattrocento dieci (13 maggio
1019), sollevatasi repente la capitale, nobili e plebei trassero al
palagio; l'assalirono, abbatterono certi casamenti esteriori e
facendosi notte intorniarono le mura come in assedio. Già già
870
Si riscontrino Ibn-el-Athîr e Nowairi, ll. cc.; il primo dei quali adopera la
voce generica ghallat "prodotti del suolo," e il secondo le due voci te'âm e
themr, delle quali l'una qui significa frumento e l'altra il frutto degli alberi o
arbusti, e però comprende le olive e le uve.
871
Ciò si ritrae chiaramente da Mawerdi, ediz. di Enger, p. 259 e 260.
Quest'autore particolareggia i casi nei quali era permesso d'accrescere o
diminuire il kharâg: cioè l'aumento o diminuzion di valore che non venisse da
fatto del proprietario. Per esempio si accresceva il kharâg, se un'acqua
inopinatamente sorgesse da inaffiare il podere, e si diminuiva se un'acqua
venisse meno; ma non si mutava, se la industria del possessore migliorasse, o
la sua incuria facesse andar a male la coltura. Si vegga anche ciò che ne
abbiam detto, Lib. III, cap. I, pag. 18, 19, del presente volume. Non si trattava
al certo di terreni decimali ossia libera proprietà di Musulmani, nel qual caso la
violazione sarebbe stata assai più grave. Non di poderi demaniali, poichè i
nobili del giund non andavano al certo a coltivarli da affittaiuoli. Non di poderi
dei Cristiani, poichè que' che se ne risentiron furono i Musulmani.
872
Si riscontrino: Ibn-el-Athîr, Abulfeda, Nowairi e Ibn-Khaldûn, ll. cc. Il
primo dice che Gia'far "oppresse i suoi fratelli (in islam) e li trattò con
superbia." Nowairi che "vilipese i Siciliani e gli sceikhi del paese, e li trattò
con superbia."
mancavan le forze ai pochi difensori; le turbe stavano per saltar
dentro, quando si vide uscire in portantina il paralitico Iûsuf; e
per carità e riverenza s'arrestarono a un tratto gli assalitori. Il
quale si studiò a calmarli con parole e promessa di far quant'e'
vorrebbono; e quelli al veder il povero vegliardo rifinito dagli
acciacchi e dall'ansietà, ruppero in lagrime: quasi supplicando si
rifecero a contargli tutte le angherie sostenute. Iûsuf rispondea
farsi mallevadore del figliuolo, e ch'ei medesimo volea gastigarlo,
e dargli lo scambio in persona di cui lor paresse. Domandarono
l'altro figliuolo Ahmed, soprannominato Akhal873; e incontanente
Iûsuf facea promulgare la deposizione di Gia'far, e la esaltazione
di Ahmed. Domandarono Hasan di Bâghâia e il ciambellano Abu-
Râfi'; i quali consegnati al popolo furono entrambi uccisi e
condotta in giro per la città la testa del vizîr, ch'era più odiato, e
arso il tronco, senza sepoltura. E ciascuno se ne tornò a casa.
Iûsuf intanto temendo non inviperissero peggio gustato il
sangue, avea fatto imbarcare Gia'far sopra un legno che sciogliea
per l'Egitto; e poco appresso in altra nave ei lo seguì. Moriron
poscia entrambi in Egitto, dove avean recato secoloro in contanti
seicento settantamila dinâr, che son circa dieci milioni di lire
italiane. I cronisti arabi, lodando a lor uso la carità e liberalità,
notano che Iûsuf possedeva in Sicilia tredici o quattordici mila
giumente, senza contarvi gli altri animali da sella e da soma, e
che venendo a morte non lasciò pure un ronzino874. Ma a
873
Akhal (le lettere k ed h qui rendono non una ma due lettere diverse) significa
uom da' cigli negrissimi da parer tinti col kohl. S'intenda dei cigli propriamente
detti, non delle sopracciglia.
874
Si riscontrino: Ibn-el-Athîr, Abulfeda, Nowairi, Ibn-Khaldûn e Ibn-abi-
Dinâr, ll. cc. Il palagio nel quale fu assediato Gia'far non sembra la cittadella
detta la Khâlesa, ma l'antico castello degli emiri nel sito della reggia attuale,
ovvero un palagio nella Khalesa. È da notare inoltre che Nowairi dice seguíto
il tumulto il lunedì sei di moharrem; ma quel giorno risponde secondo il conto
astronomico al mercoledì 13, e secondo il conto civile al giovedì 14 maggio. Il
Di Gregorio tradusse male nel Nowairi, p. 21: "et omnia pessum dabat. Tum
etiam Giafaro imputabatur quod universas populi siciliensis opes diriperet;" e
p. 22: "ab conspectu eorum non abscessurum." Questi due passi van corretti:
"accadesse che che accadesse (nel raccolto). Inoltre Gia'far mostrò dispregio
considerar meglio i fatti, quello stupendo armento, per non dir
nulla dei dieci milioni di moneta, prova la quantità dei poderi
tenuti in demanio nei regni di Iûsuf e di Gia'far. È verosimile che
costui, cacciati i Berberi ribelli del mille e quindici, abbia ritenuto
i poderi, anzichè concederli in beneficio militare ai Siciliani; e
che il dispetto di tal avarizia abbia fatto sentir più dura l'offesa
dell'aggravata tassa prediale.
Mentre germogliavano in Sicilia così fatte discordie, crebbe in
Affrica la dominazione zîrita; la cui potenza e le vicende interiori
e il crollo che le diè una nuova irruzione di Arabi, a volta a volta
si risentirono nell'isola. Bolukkîn con le armi di Sanhâgia, la
riputazione di Moezz, e gli ordini dell'antica colonia arabica,
occupò tanto o quanto il paese infino a Ceuta; raffrenò gli
Omeiadi di Spagna che tenean parte della costiera; si spinse a
mezzogiorno dell'Atlante; rintuzzò la rivale nazione di Zenata;
ebbe dal califo Azîz le città su i confini dell'Egitto, negategli nella
prima concessione: talchè, venendo a morte (984), era ubbidito
più come principe che vicario da Tripoli a Fez. Succedettegli il
figliuolo Mansûr, il quale mantenne con varia fortuna la potenza
del padre; sottopose al giogo la tribù di Kotama 875. E ch'ei si
sentisse saldo in sol trono, Io mostran le parole: "Mio padre e
l'avolo comandarono con la spada; quanto a me non adoprerò
forza se non che i benefizii." E l'altro detto: "Ho ereditato questo
reame da' miei, nol tengo in virtù d'un rescritto, nè mel farà
lasciare un rescritto876."
Furon serbate contuttociò le apparenze; sì che esaltato, alla
morte di Mansûr, il figliuolo Badîs (996), gli vennero del Cairo, a

pei Siciliani....... che non si allontanerebbe dai loro consigli." Infine nella
stessa p. 22 la frase "ego administrationis suæ rependi vicem" va spiegata più
precisamente "Vi risponderò io dei fatti suoi e lo punirò io."
875
Si riscontrino: Ibn-el-Athîr, anni 361, 365, 379, 386, MS. C, tomo V, fog.
10 verso,.... 27 verso, 34 verso; Baiân, testo arabico, tomo I, p. 222, 238, 240,
seg.; Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, versione di M. De Slane, tomo II, p.
9 a 16.
876
Baiân, testo, tomo I, p. 249.
nome di Hakem, le vestimenta, il diploma877 e il titolo di Nasr-ed-
dawla, ch'è a dir "Sostegno dell'Impero."878 Ma a capo di tre anni,
il governatore di Tripoli per Badîs, tradito il signor suo, offriva la
città alla corte fatemita; e questa, come di furto, se la prendea,
commettendola a Iânis il Siciliano, governatore di Barca, forse
liberto di sangue cristiano. Appo il quale mandando Badîs a
dolersi, rispose altero: e il principe d'Affrica, quasi il califo non ci
entrasse e fosse la contesa tra lui e Iânis, gl'inviava di Mehdia con
genti un Gia'far-ibn-Habîb; il quale pose il campo ad Agiâs tra
Cabès e Tripoli. Mandò poi a dire a Iânis che di tre partiti
scegliesse l'uno: rappresentarsi a Badîs; mostrare il diploma che
avessegli affidato il governo di Tripoli; o disporsi alla battaglia. E
Iânis gli scrivea: "Ch'io vada a corte del tuo signore, non ne
parliamo. Esibir diploma non debbo, sondo io vicario del
Principe, dei Credenti in provincia maggior di Tripoli, Dell'altro
caso, che rimane, non darti briga: aspetta dove sei, chè ci vedrem
presto." Entrambi mossero; s'affrontarono tra gli uliveti di un
villaggio detto Zânzûr. Dove Iânis fu rotto con molta strage
l'anno trecentonovanta (12 dic. 999 - 30 novembre 1000); e fatto
prigione, pregò il recassero a Gia'far, ma gliene portaron la sola
testa. Li sbaragliati s'afforzarono a Tripoli879 la quale debolmente
aiutata dal siciliano Zeidân, com'altri legge, lo schiavone
Reidân880, che reggeva allora la corte del Cairo, tornò in potere di
Badîs, dopo lunghe vicende che a noi non occorre di
raccontare881.
877
Ibn-el-Athîr, anno 386, MS. C, tomo V, fog. 34 verso.
878
Ibn-Khallikân, versione inglese di M. De Slane, tomo I, p. 248.
879
Si riscontrino Ibn-el-Athîr, anno 389, MS. A, tomo III, fog. 100 recto; e
Tigiani, Rehela, MS. di Parigi, fog. 74 recto, e 88 verso, e traduzione nel
Journal Asiatique, serie V, tomo I, (février-mars 1853), p. 104 e 132; nel
primo dei quali luoghi Tigiani riferisce la battaglia come Ibn-el-Athîr al 390, e
nel secondo al 389.
880
Baiân, testo, tomo I, p. 266, anno 392. La variante "Reidan Saklabi" si legge
nei testi citati da M. De Sacy, Exposé de la Religion des Druses, tomo I, p.
CCXCIII, dove per altro non si dice dei fatti di Tripoli.
881
Si veggano i particolari in Ibn-el-Athîr, MS. C, tomo V, fog. 40 recto, anno
393; e nel Baiân, l. c.
Fortunosa età per la schiatta berbera, la quale dopo due secoli
si sciogliea, senza ferir colpo, dalla dominazione degli Arabi,
serbando gli elementi di civiltà di quegli stranieri: religione,
leggi, scienze, lettere, industrie, ed una popolazione cittadinesca
data a cotesti esercizii, impotente ormai per numero e tenor di
vita a ripigliare il comando. Gli aborigeni del continente affricano
dal Mediterraneo al Tropico, non erano mai stati sì padroni in
casa loro, dacchè Cartaginesi, Romani, Vandali, Bizantini, Arabi
occuparono l'un dopo l'altro la regione settentrionale. Ma il
veleno della discordia c'hanno nel sangue, sempre lor tolse di
cacciare gli stranieri; e quando rimaser soli, non fe' allignar tra
loro nè fratellanza, nè amistà, nè almeno persuasione di dover
vivere insieme; ed ha negato all'universale infino a questi dì'
nostri l'incivilimento al quale gli individui parrebbero
maravigliosamente disposti. Senza dir dell'antagonismo tra i varii
rami del ceppo berbero e soprattutto dei Zenata, che furon sempre
dei più selvatichi, contro i Sanhâgia, che sembrano di più docil
natura, la divisione nacque nella stessa casa zîrita, sotto il regno
di Badîs, quando Hammâd, figliuol dell'avolo Bolukkîn, dopo
aver combattuto a pro della dinastia, ribellatosi (1014), fondò uno
Stato independente nelle odierne province di Costantina ed
Algeri882. Altre calamità piovvero su que' lacerati dalla guerra
civile.
Del trecentonovantacinque (1004-5), al dir del contemporaneo
Ibn-Rekîk, la carestia e la pestilenza si messero a gara a spopolar
l'Affrica propria; i contadini fuggirono dalle terre non trovando di
che mangiare; deserti i villaggi; consumato presto quel che
teneasi in serbo nelle città; e, in alcune tribù, i Berberi
s'ammazzaron tra loro per isfamarsi di carne umana. Ad un tempo
la peste883 mieteva a centinaia e migliaia gli abitatori delle città:
chi ha visto l'orrida scena con gli occhi suoi la raffigura nei

882
Si vegga in generale l'Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, più volte
citata, e in particolare il tomo II, p. 17 e 44.
883
Il testo ha le due voci webâ e tâ'ûn, che indicano al certo due pestilenze
diverse.
particolari narrati dal cronista. Fu tanto che a Kairewân rimasero
abbandonate moschee, forni, bagni, chi non avea da ardere,
andava a far legna nelle porte e nei tetti delle case senza padrone.
Cacciati da quei flagelli, moltissimi abitatori delle città e delle
campagne ripararono in Sicilia. La moría cessò; la carestia
mitigossi884; poi ricomparve, con le cavallette e con la guerra
civile, l'anno quattrocentosei (1015-16) e di nuovo il
quattrocentonove (1018-19) e il quattrocentotredici (1022-23), e
così di tratto in tratto885.
Morto intanto Badîs (aprile 1016) ed esaltato il figliuolo
Moezz, Scerf-ed-dawla, ossia "Gloria dell'Impero" come era
scritto nella patente del califo886, divampò in quelle parti
crudelissima proscrizione religiosa. Gli ortodossi d'Affrica,
calcati per un secolo dagli Sciiti, rimbaldanzirono alla sgombrar
della corte fatemita: ormai sì grossi e rabbiosi, che Hammâd fece
assegnamento sopra di loro per togliere mezzo il regno ai nipoti;
onde, chiaritosi ribelle, ristorò (1014) il culto sunnita, pose mano
al sangue degli eretici nelle province che gli ubbidivano, ed
entrato per forza d'armi a Bugia, tanto stigò i cittadini di Tunis
che ammazzarono popolarmente que' della setta887, degni di mille
morti, perchè non volean ripetere che Abu-Bekr ed Omar fossero
in grazia di Dio. Così la cupidigia e la vendetta prendon sempre
una maschera più brutta dello stesso ceffo loro, se lo mostrassero
scoperto. Soffiavan entro il fuoco dal Kairewân quegli indomiti
dottori di schiatta arabica; rincalzando forse gli argomenti
teologici con l'esempio delle orribilità che faceva ogni dì in Egitto
il pontefice delli Sciiti, il sanguinario e matto Hâkem, arrivato
non guari dopo al colmo d'ogni empietà, quando (1016-1021)
assentì a dirsi Iddio in una religione di suo conio, e per diletto

884
Baiân, testo, tomo I, p. 267, anno 595.
885
Si riscontrino: Ibn-el-Athîr, anni 406, 413, 432, MS. C, tomo V, fog. 46
verso, 56 verso e 74 recto; e Baiân, testo, tomo I, p. 280, anno 409 ec.
886
Ibn-el-Athîr, anno 406, vol. citato, fog. 46 recto e verso.
887
Ibn-Khaldûn, Storia dei Berberi, testo, tomo I, p. 222, e versione di M. De
Slane, tomo II, p. 44.
mise a sangue ed a fuoco la capitale888. L'opinione pubblica
trapelava, com'avviene, nella stessa reggia degli Zîriti; dove il
precettore di Moezz stillò la credenza ortodossa nell'animo
baldanzoso d'un re d'otto anni. Ond'ecco un dì (luglio 1016) che
cavalcando il fanciullo nelle vie di Kairewân, gli sfugge di bocca
una benedizione ad Abu-Bekr ed Omar; e ne scoppia repentino
scompiglio tra il popolo e i seguaci del principe che in parte erano
Sciiti. Fatti questi miseri in pezzi, cominciato a saccheggiare le
case, a ricercare per ogni luogo i sospetti di quella, e di qual si
fosse eresia, ad ammazzarli, uomini, donne e fanciulli; e ardean
poscia i cadaveri e rapivano quanto poteano. La proscrizione
tumultuaria propagossi in un attimo a Mehdia e per tutte le città
dell'Affrica propria; s'allargò nei villaggi. Fra que' che morirono
difendendosi, e quei che furono scannati come pecore,
sommarono a parecchie migliaia. Rimase il nome di "Lago di
Sangue" alla contrada ove caddero i primi tremila, e il fatto passò
in proverbio, come la Saint-Barthélemi889.
Durò almen due anni la persecuzione, mettendovi mano il
principe per risparmiar, com'ei pare, il sangue; e non stando
sempre a' patti il popolazzo. Perchè, del quattrocentonove (19
maggio 1018, 7 maggio 1019) si nota l'eccidio d'una man di Sciiti
che se n'andavan esuli in Sicilia. Da dugento uomini montati a
cavallo, e forse disarmati, i quali con lor famigliuole e lor genti di
casa viaggiavano sotto scorta di cavalleria alla volta di Mehdia,
per imbarcarsi. Pernottando alla borgata detta di Kâmil, rimorse
la coscienza ai villani de' contorni se li lasciassero andar vivi:
s'armarono; dettero addosso agli eretici non difesi da loro guardie
e tutti li trucidarono; delle donne quante eran giovani e quante lor
888
Gli atroci particolari del regno di Hâkem si leggano nello Exposé de la
Religion des Druses, di M. De Sacy, tomo I, p. CCXCII, seg. Il cominciamento
dell'spoteosi del tiranno nel 407 si legge a p. CCCLXXXIII , seg.
889
Si riscontrino: Ibn-el-Athîr, anno 407, MS. C, tomo V, fog. 53 recto; Baiân,
anni 407 e 425, testo, tomo I, p. 279 e 285; Nowairi, Storia d'Affrica, MS. di
Parigi, Ancien Fonds, 702, fog. 36 verso; e Ibn-Khaldûn, Histoire des
Berbères, versione di M. De Slane, tomo II, p. 20; i quali non differiscono in
altro che nei particolari.
parvero belle disonorarono e poscia le uccisero890. Il miserando
caso ci attesta che al par dei cacciati dalla fame del mille e
cinque, riparavano in Sicilia gli eretici perseguitati in questi due
anni, e che il governo d'Affrica sopravvedeva all'uscita, fornia
forse le navi.
Suggellossi col sangue degli Sciiti l'amistà della nuova
dinastia e delle popolazioni arabiche, ristrette ormai nelle città;
poichè prima gli Aghlabiti, poscia i Fatemiti, per corta ragion di
Stato, avean battuto e annichilato i nobili del giund stanziati nei
villaggi891. In molte città i Berberi, in alcune anche gli Afarika,
avanzi de' Cristiani del paese, soggiornavano con gli Arabi892, e
già parea che le varie genti e la novella dinastia si acconciassero a
far una nazione. Già gli Zîriti, abbandonata l'antica lor sede di
Ascîr nelle montagne di Titeri, s'eran posti a Mansuria a mezzo
miglio del Kairewân, o piuttosto dentro la stessa capitale arabica,
la quale fu poi congiunta da fortificazioni a Mansuria893.
Fiorirono in questo tempo le manifatture e i commerci, condotti
da una mano nel Mediterraneo con Sicilia, Spagna e altri paesi
marittimi894; dall'altra mano con le regioni interne del continente
890
Baiân, testo, tomo I, p. 280.
891
Si veggano nel presente volume il Lib. III, cap. II, VI. Coi Fatemiti vennero
d'Oriente a poco a poco i partigiani loro e gli affiliati alla setta, ai quali è
probabilissimo che oltre gli oficii pubblici siano state concedute pensioni
militari. In Affrica gli Sciiti erano chiamati ordinariamente Orientali.
892
Bekri, nelle Notices et Extraits des MSS., tomo XII, p. 462 e 511. Si vegga
il Lib. I, cap. V, nel 1° volume, p. 105, nota 1.
893
Bekri, Notices et Extraits des MSS., tomo XII, p. 472. Questa città,
altrimenti detta Sabra, fu fondata e prese il primo nome dal califo fatemita
Mansûr, che vi trasferì la corte da Mehdia nel 947. Si vegga anche il Baiân,
testo, tomo I, p. 222.
894
Sul commercio e industria dell'Affrica propria abbiamo le relazioni d'Ibn-
Haukal, che viaggiò quivi nella seconda metà del X secolo; e di Bekri che
scrisse nel 1067. Il primo dice del commercio di Tripoli coi porti dei Rûm
(Italia e Grecia); di Tenès ed Orano con la Spagna; di tutta l'Affrica propria
con l'Oriente, ove si mandavano schiave mulatte e schiavi negri, Rum e
Schiavoni, ambra grigia, e seta; delle manifatture di lana ad Agdabia e Tripoli;
della pesca del corallo a Tenès, Ceuta e Mersa-Kharez (Journal Asiatique, IIIe
série, pag. 362, seg.). Il secondo (Notices et Extraits des MSS., tomo XII) fa
affricano. La quale prosperità industriale si potrebbe d'altronde
argomentar dallo smodato lusso della corte zîrita in feste
pubbliche, sposalizii, funerali, doni ai califi d'Egitto; ed anche
dallo sminuito valore, o vogliasi dire cresciuta copia, dei preziosi
metalli895. Attestano i commerci con l'Affrica centrale i presenti
mandati a Mansûr dai principi del Sudân (992) e la barbarica
pompa degli Zîriti che in lor solenni cavalcate usciano con
elefanti, e giraffe, oltre le belve indigene dell'Atlante896.
Nè la potenza sembrava minore del fasto nel regno di Moezz-
ibn-Badîs, temuto da tutti per mezzo secolo, com'uomo
intraprendente e savio nei consigli e gagliardo nelle armi. Infino
agli ultimi anni, quando subita rovina lo ridusse quasi al nulla
(1053), ei fu per vero il più possente principe musulmano delle

menzione, oltre i prodotti ordinarii del suolo, delle canne da zucchero a


Kairewân, p. 484; del cotone a Malla, p. 515; dell'indago a San, o Sanab, p.
455; dei gelsi coltivati e la seta prodotta a Kabes, p. 462. Ricorda altresì le
manifatture di panni e tele di Kairewân, Susa, Kafsa, p. 488, 503; il commercio
dell'olio di Sfax con la Sicilia e paesi di Rûm, p. 465; le navi mercantili
siciliane e d'altre nazioni che ingombravano il porto di Mehdia, p. 480.
895
Il Baiân ci dà minuti ragguagli di questo lusso, ritratti da Ibn-Rekîk,
cronista contemporaneo; il quale spesso allega i detti di mercatanti sul valore
dei corredi nuziali etc. Si veggano i particolari nel testo arabico, tomo I, p. 249
a 284, anni 373 a 415. Per darne qualche esempio: mandati il 373 in presente al
califo di Egitto, cavalli, arnesi, e altre robe, del valsente d'un milione di dinâr,
p. 249; il 415, nelle nozze d'una figliuola di Badîs, i gioielli, gli arredi, i vasi
d'oro e d'argento e le ricche tende recati dalla sposa furono stimati un altro
milione di dinâr, p. 284; nel 406, in una sconfitta dei Beni-Hammâd, si
trovarono addosso a tal prigione 50,000 dinâr, a tal altro 8,000 ec. Ancorchè
alcune somme siano esagerate di certo, nol sembran tutte. Ibn-Khaldûn,
Histoire des Berbères, tomo II, p. 19, riferisce altri esempii, tolti da Ibn-Rekik,
i quali non si trovano nel Baiân.
896
Baiân, testo, tomo I, p. 256 e 258, anni 382 e 387, nel primo dei quali
luoghi si dice d'una giraffa mandata dal Sudân con gli altri doni. Donde sembra
che alla fine del decimo secolo si tenesse già un commercio diretto di caravane
tra l'Africa propria e il Sudân. Ibn-Haukal verso la metà dello stesso secolo
parla solo del commercio del Sudân con Segelmessa nello Stato odierno di
Marocco, la quale fu occupata talvolta dagli Zîriti ma non rimase in poter loro.
L'abbondanza dell'oro, che secondo i tempi ci fa tanta maraviglia, veniva forse
dal commercio col Sudân.
regioni bagnate dal Mediterraneo897. Comprendendo la comodità
che gli dava il mare ad allargar suo dominio, egli il primo di sua
schiatta, provvide a ristorare il navilio affricano, del quale non si
fa motto da che il califo fatimita Moezz mutò la sede e portò via
quanto potè in Egitto. Del mille ventitrè, Moezz-ibn-Bâdîs facea
racconciare gli arsenali di Mehdia, fabbricare attrezzi navali in
copia non più vista, costruir legni da guerra e bandire
l'arruolamento dei marinari898: ed a capo di pochi anni, l'armata
affricana, collegata con la siciliana, combattea contro i Bizantini
nell'Arcipelago; e il principe zîrita facea prova a insignorirsi della
Sicilia. Sventura dei Musulmani dell'isola ch'egli ebbe tanto
rigoglio quando cominciaron tra loro le guerre civili, e si trovò
povero e disarmato quando si fece in pezzi lo stato kelbita.

CAPITOLO IX.

Akhal cominciò con lieti auspicii. Ridotto all'obbedienza


qualche castello che se ne fosse spiccato agli avvisi della
rivoluzione899; avuto da Hâkem il titolo di Teaîd-ed-dawla
(Sostegno dell'impero), attese alle faccende pubbliche; ristorò la
tranquillità e contentezza in casa e la guerra fuori900. Nè sol
897
Si veggano i particolari del regno di Moezz in Ibn-el-Athîr, an. 415, 417,
427, 432, MS. C, tomo V, fog. 56 verso, 59 recto, 69 verso, 74 recto; Baiân,
testo, tomo I, p. 286 e 287; e ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, vers. franc.,
tomo II, p. 18 a 20.
898
Baiân, testo, tomo I, p. 282, anno 414.
899
Ibn-el-Athîr, Abulfeda e Nowairi, copiando tutti, com'è evidente, una stessa
cronica, scrivono «che ubbidirono ad Akhal tutte le rôcche di Sicilia possedute
dai Musulmani.» Da ciò argomento che alcune nei principii non gli avessero
ubbidito. In questo tempo non era in Sicilia alcuna terra che non fosse tenuta
da Musulmani.
900
Ibn-el-Athîr, anno 484, MS. A, tomo IV, fog. 134 recto; Abulfeda, Annales
Moslemici, anno 484, tomo III, p. 274, seg.; Nowairi, presso Di Gregorio,
Rerum Arabicarum, p. 22; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile,
versione, p. 179.
mandava le gualdane in Terraferma, chè sovente capitanò egli
stesso gli eserciti, favoreggiando, com'abbiam detto, i ribelli di
Puglia901.
Donde Basilio imperatore, uom d'armi, ch'avea testè rintuzzati
in Oriente e Musulmani e Russi e Bulgari, pensò, con tutti i suoi
sessantott'anni, di recar la guerra egli stesso in Sicilia. Mandò
innanzi l'eunuco Oreste, fidatissimo ciambellano ed aiutante di
campo, con grosse schiere di sudditi ed ausiliari: Macedoni,
Vallachi, Bulgari, Russi, che solean militare sotto le insegne
bizantine902; i quali cacciarono i Siciliani d'ogni luogo che
occupavano in Calabria. Reggio allora fu ristorata per le cure del
catapano Boioanni, che servisse di stanze d'inverno all'oste, la
quale per passar lo Stretto aspettava altre forze con l'imperatore 903
901
Si vegga il capitolo VII del presente Libro, p. 345, 346.
902
Si riscontrino: Cedreno, ediz. di Bonn, tomo II, p. 479, sotto l'an. 6354
(1025-6); Anonimo di Bari, presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 53, dove il
1027 senza il menomo dubbio va corretto 1025. Il Cedreno dà il nome e la
misera condizione d'Oreste; l'Anonimo i nomi delle genti che si notavano
nell'esercito, alle quali aggiugne i Vandali, che si dee leggere probabilmente
Varangi. Il nome del capitano vi è detto Ispo chitoniti e peggio in altre edizioni
Despotus Nicus, etc.; ma la giusta lezione è quella di Lupo: Oresti chetoniti,
ossia Oreste ciambellano (κοιτωνίτης). Il titolo di protospatario, ossia aiutante
di campo dell'imperatore, è dato dal Cedreno a p. 496.
Ci è occorso più volte di notare che accozzaglia di genti diverse fossero gli
eserciti bizantini. Nel comento delle poesie di Motenebbi, un autore arabo dice
che l'esercito mandato del 343 (954) contro Seif-ed-dawla della dinastia di
Hamdan, si componea di Armeni, Russi, Slavi, Bulgari e Khozari. Presso Sacy,
Chréstomathie Arabe, tomo III, p. 5, seconda edizione.
903
Si riscontrino: Ibn-el-Athîr, anno 416, (1025-6), MS. A, tomo III, fog. 193
verso, pubblicato da M. des Vergers in nota a Ibn-Khaldûn, Histoire de
l'Afrique et de la Sicile, p. 180; e Anonimo di Bari, l. c. Il nome di Reggio è
nell'Anonimo. Ibn-el-Athîr parla della cacciata dei Musulmani da quelle parti
d'Italia e della costruzione delle stanze per l'esercito bizantino: il che si deve
intendere manifestamente di Reggio; e conferma nell'Anonimo la lezione: Et
Regium restaurata est a Vulcano catepano. Delle varie edizioni di cotesta
cronica, alcuna ha al contrario che Reggio fosse distrutta; e sembra ignorante
correzione di qualche copista. In generale son pessimi i MSS. degli Annali o
Anonimo, come che voglia chiamarsi, di Bari. Il nome del catapano ha le
varianti Bulcano, Bugiano, Bagiano. Baiano, nelle quali si riconosce il
e il navilio con un suo parente904. Si differì poi l'impresa per
l'infermità di Basilio, che di corto ne morì in dicembre del
milleventicinque905.
Divulgatosi il pericolo della Sicilia, Moezz-ibn-Bâdis
profferse, ed Akhal accettò aiuti; poichè bandìssi in Affrica la
guerra sacra; alla quale l'ambizioso signore agevolmente spingea
quelle turbe sì infocate contro gli eretici. Tanto che li stivò in
quattrocento barcacce: di gennaio del milleventisei li avviò alla
volta di Sicilia, fidandosi in Dio e nella bonaccia. Presso
Pantellaria si leva un turbine di vento, ed ecco a un tratto
capovolti e affondati i legni; campando pochi uomini dal
naufragio906. Più efficaci ausiliari furono ad Akhal la
balordaggine di Costantino ottavo rimaso solo sul trono a
Costantinopoli, una dissenteria che s'apprese in Calabria
all'esercito e la niuna esperienza d'Oreste nel governare la guerra.
I Siciliani, assalitolo improvvisamente, gli diedero una
sanguinosa rotta; per vendicar la quale, Romano Argirio ch'era
succeduto a Costantino (novembre 1028) racimolò nell'Ellade e
Macedonia que' che gli pareano i migliori soldati e sì mandolli in

Βοϊωάννις, che sotto Basilio II governò felicemente la provincia, come narra


Cedreno, tomo II, p. 546, parlando d'un suo figliuolo o nipote dello stesso
nome, sconfitto in Puglia dai Normanni il 1041. Questo Boioanni, trasmutato
in Vulcano, parve ad alcuni eruditi non uomo ma vulcano che vomitasse lave
sopra Reggio; della cui distruzione indi accusarono il Vesuvio, ch'è lontano
anzi che no. Si vegga un avvertimento del Martorana, Notizie Storiche dei
Saraceni Siciliani, vol. III, p. 2 a 6.
904
Ibn-el-Athîr, l. c., dice "il figliuol della sorella dell'imperatore," nel che v'ha
anacronismo col patrizio Stefano mandato il 1038, o si tratta di qualche
figliuolo di Giovanni Orseolo che dovesse capitanare l'armata veneziana.
Giovanni Orseolo, fratel cognato dell'imperatore Romano Argirio, era morto
nel 1006.
905
Cedreno, tomo II, p. 479.
906
Ibn-el-Athîr, l. c., il quale parla di 400 kat'a, che appo gli Arabi sembra
nome generico, come noi diremmo vele. Nondimeno parmi la stessa voce
cattus e gattus che nelle cronache di Pisa e nel Malaterra (XI secolo) denota
una sorta di navi.
Italia. Ma nulla fecero907, o fuggirono dinanzi i Musulmani nelle
due ricordate battaglie del mille trentuno908.
S'arrischiaron poi gli Affricani e i Siciliani a lontane scorrerie
navali contro l'Impero. Un'armatetta musulmana, di qual nazione
non si sa, dato il guasto alle costiere d'Illiria, corseggiava infino a
Corfù: contro la quale uscito il navilio di Ragusa e il patrizio
Niceforo governatore di Nauplia, la vinsero; presero la più parte
dei legni, e quei che scamparono fecero naufragio ne' mari di
Sicilia, del milletrentuno in sul fin della state909. Del trentadue, gli
Affricani con grande sforzo infestavano le costiere ed isole di
Grecia; e il patrizio Niceforo, superatili anco in battaglia, lor fe'
cinquecento prigioni910. Affricani e Siciliani di maggio
milletrentacinque si spinsero depredando tra le Cicladi fino alla
costiera di Tracia; della quale temerità bastarono a punirli i
governatori di provincia che mandatine altri cinquecento prigioni
a Costantinopoli, impalarono i rimanenti lungo la marina d'Asia,
da Adramito a Strobilo. Nè l'esempio atterrì tanto i corsari
d'Affrica e di Sicilia che nella state un'altra armatetta loro non
tentasse la Licia e isole vicine: i quali parimenti sconfitti dal
navilio provinciale e presi, furono mazzerati, fuorchè una terza
frotta di cinquecento che portò testimonianza di vittoria alla
capitale. In questo mezzo la corte bizantina avea mandato all'emir
di Sicilia un Giorgio Probato, a trattar la pace 911, o piuttosto a
gittargli un laccio al collo. Altro oratore greco andava appo
Moezz-ibn-Bâdis con ricchi presenti di sete, arnesi e rarità912.

907
Cedreno, tomo II, p. 496, 497, senza data precisa tra il 6537 e il 6539 (1029-
31).
908
Si vegga il Cap. VIII, pag. 346.
909
Cedreno, tomo II, p. 499.
910
Cedreno, tomo II, p. 500.
911
Cedreno, tomo II, p. 513 e 514, il quale scrive la data di maggio 6543, per la
scorreria di Tracia, poi accenna l'ambasceria di Giorgio Probato ed altri fatti, e
tra gli ultimi avvenimenti dell'anno la scorreria di Licia che torna così
all'agosto.
912
Baiân, testo, tomo I, pag. 286, anno 426 (15 novembre 1034 a 3 novembre
1035).
Akhal s'era messo per un mal terreno, ch'anelando d'uscirne
prese la scorciatoia al precipizio. Narrano gli annali com'egli
stando in su le armi in terra di nimici, sovente lasciasse il
reggimento dell'isola al figliuolo per nome Gia'far, ch'era
l'opposto di lui: nè giusto nè umano coi sudditi. E senza appicco,
voltando pagina, leggiamo che Akhal, assembrati i Siciliani, dice
volerli sgravare degli Affricani partecipanti di lor paesi e
poderi913; esser disposto a cacciar quegli intrusi. A che i Siciliani
rispondeano non potersi, quando gli Affricani s'erano imparentati
con esso loro e commiste le due genti e divenute tutt'una. L'emiro
li accomiatò. Chiamati a sè gli Affricani, proponea lo stesso
partito contro i Siciliani: ed assentirono. Indi Akhal a favorire gli
Affricani: se li messe attorno; francò lor poderi e levò il Kharâg
da que' soli dei Siciliani914. Tra cotesti cenni vaghi, disparati ed a
prima vista contraddittorii, dobbiamo discernere il fatto che
scompigliò e capovolse la Sicilia musulmana.
Ne' ricordi dei due primi secoli dell'egira i giund prendono
nome ordinariamente dal paese ove soggiornano: i Sirii, gli
Egiziani, i Khorassaniti che passano di tratto in tratto in Affrica e
Spagna, son le milizie arabiche di Siria, Egitto e Khorassan,
mescolati coi proprii liberti delle schiatte vinte. Si poteano
chiamar dunque Siciliani, verso il mille, i discendenti dai primi
conquistatori arabi del paese; ed Affricani i figliuoli dei
sopravvenuti quando cadde la dinastia aghlabita (910), quando
s'innalzò la kelbita (948) infino a quei che testè avea cacciato
d'Affrica (1004-1019) la fame e la persecuzione religiosa. Ma
cimentando tal supposto con le condizioni che dà la cronica, in
parte vi si adatterebbero e in parte no. Starebbe bene a dire gli
Affricani partecipanti del paese, cioè degli oficii pubblici e
913
Questa ultima parola sì grave è nel solo Nowairi. Ibn-el-Athîr non la dà.
914
Ibn-el-Athîr, anno 484, MS. A, tomo IV, fog. 134 recto, e Nowairi presso
Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 22, trascrivono entrambi questo, come par
manifestamente, squarcio di cronica. La sola variante che rilevi è la voce
"possessioni" aggiunta da Nowairi nel luogo che notai. Abulfeda, Annales
Moslemici, 484, tomo III, p. 276, e Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la
Sicile, versione, p. 179, accennano appena il successo.
stipendii militari; si potrebbe ammettere, in significato più largo,
la partecipazione loro nella proprietà territoriale915; ma sarebbe
duro a credere che poche famiglie di rifuggiti e di avventurieri
fossero cresciute a tal numero che Akhal vi potesse far
assegnamento contro l'antica nobiltà e il popolo musulmano
dell'isola. Inverosimile parmi che un principe arabo di nobil
sangue abbassasse alla condizione di ra'ia, o plebe, il fior della
nobiltà, cancellandoli dal giund: chè a questo torna la voce
"cacciare" adoperata nel testo, non a cacciar dal paese.
Inverosimile ch'ei levasse il kharâg su i poderi dell'antica nobiltà
e condonasselo alla nuova: ingiustizia da non venire in mente a
tiranno musulmano. Ma intendendo, all'uso nostrale, Siciliani la
progenie degli antichi abitatori educata nell'islamismo, ed
Affricani la progenie del giund d'Affrica trapiantato nell'isola in
varii tempi, i nomi convengono alle origini e si decifera bene il
testo. Akhal volendo stigare i Siciliani, ricorda loro che gli intrusi
godonsi in parte il retaggio degli avi; e quand'ei passa dalle arti

915
Cioè che si fossero concedute anche a loro le terre da dividersi ai
combattenti e il dritto di occupare le terre inculte; soli modi di concession di
terre leciti ad un principe musulmano. Ma questi non poteano aver luogo o
erano rarissimi nel X secolo, quando vennero le nuove famiglie d'Affrica;
perchè il conquisto era fatto, e le terre prese nella costiera orientale che allora
fu occupata, si tennero in fei, cioè demanio pubblico, per espressa
testimonianza degli annali.
Non mi valgo del significato tecnico che potrebbe darsi al verbo, scerek,
adoperato qui alla terza forma, il quale denoterebbe, non che "partecipazione,"
ma "promiscuità." Il professor Dozy, nelle sue sagaci investigazioni su la
Spagna Musulmana, ha notato che nella prima costituzione della proprietà
territoriale verso il 719, i conquistatori si posero nelle terre dei vinti
lasciandole loro a coltivare, e si chiamarono gli uni e gli altri scerîk, ossia
"comproprietario." Si vegga il Baiân, tomo II, p. 16, nel glossario. Applicato
quest'esempio al nostro caso, troncherebbe ogni dubbio; e "i Siciliani"
sarebbero i vinti, ai quali i vincitori avrebbero preso una porzione di terre,
come in Italia si tolse "la parte dei Barbari." Ma su questo solo argomento non
si può affermare un ordine così contrario alla legge e pratica dei Musulmani; il
quale in Spagna fu eccezione, se pur non va interpretato altrimenti che il faccia
il dotto professore di Leyde.
oratorie ai fatti, distingue le proprietà916 degli uni e degli altri:
lascia o rende immuni quelle dei vincitori, aggrava quella dei
vinti, con una rivendicazione di dritti fiscali, alla quale non
avevan che rispondere i giuristi della scuola di Mâlek 917. Si
ritrova in Sicilia così la generazione d'uomini che non potea
mancarvi; quella che in Spagna si chiamò dei Mowalled ed aiutò
alla dissoluzione del califato918; quella che a capo di dieci anni da
questa novazione d'Akhal occupò lo stato nella Sicilia centrale;
gli "uomini ignobili" come li chiaman allora le croniche919.
Veramente la divisione di Affricani e Siciliani, torna a vincitori e
vinti, a nobili e popolo: come in ogni paese conquistato,
mescolandosi la schiatta, ne avanza la distinzione di classi: in
Italia, gli Italiani fatti popolo e i Longobardi nobiltà; in Francia, i
Galli e i Franchi; in Inghilterra, i Sassoni e i Normanni. Non ho
parlato del supposto che Siciliani fossero gli Arabi, ed Affricani i
916
Amlâk plurale di milk e di molk. Tra queste due voci, derivate entrambe
dalla stessa radice, si è preteso adesso porre una distinzione proveniente
dall'idea di alcuni orientalisti francesi, che il dritto musulmano non ammetta
vera proprietà fuorchè nel principe, e che ai privati, o almeno alla più parte,
non dia altro che il possesso. La quale distinzione è giusta, ma applicata troppo
facilmente e largamente; come accennai nel Lib. III, cap. I, p. 13 seg., del
presente volume. Quanto alla diversa denominazione, mi pare arbitraria,
ovvero nata di recente in Turchia, che non è la Toscana degli Arabi, nè il
modello del dritto pubblico. I pubblicisti arabi del decimo secolo non fanno
differenza nella denominazione; e Mawerdi, il quale sapea la lingua e il dritto,
non distingue altrimenti i due modi di possesso che chiamando "proprietà della
repubblica musulmana" quella delle terre il cui possessore fatto musulmano
debba pagare tuttavia il kharâg, e "proprietà d'infedeli" quella delle terre che
tornano decimali, ossia libere di kharâg, se pervenute in man di Musulmani.
Dunque la voce amlâk ci lascia al punto donde movemmo.
917
Akhal potea pretendere di rivendicare un dritto usurpato; cioè sostenere che
al conquisto quelle terre fossero state appropriate alla repubblica musulmana e
lasciate ai Cristiani sotto censo, e che poi, divenuti musulmani i possessori, per
abuso fosse stato rimesso loro il kharâg, e levata la sola decima legale.
918
Si veggano le belle osservazioni del Dozy, nella Introduzione al Baiân, § 1,
p. 6. Mowalled significa propriamente "nato in casa" e indi "arabo di sangue
misto" nato di padre arabo e madre straniera, o di madre libera e padre schiavo.
Indi la voce nostra Mulatto.
919
Si vegga il capitolo XIII del presente Libro.
Berberi, perchè sarebbe molto alieno dall'uso del linguaggio e dai
fatti della storia, i quali ci mostrano ridotta al nulla la schiatta
berbera in Sicilia920.
La nobiltà era scemata e fiaccata, come in ogni altro stato
musulmano, per la lotta contro il principato. Dopo gli Aghlabiti e
i primi Fatemiti, le diè duro crollo (948) Hasan-ibn-Ali, il
Kelbita; il figliuolo Ahmed ne accarezzò ed imbrigliò li avanzi
(966); e l'altro figliuolo Abu-l-Kâsim li trasse seco al martirio sul
campo di Stilo (982). Talchè i nobili per loro virtù nelle guerre
d'independenza e di religione, per loro vizii nei tumulti
dell'oligarchia, avean perduto il sangue vitale, mal supplendolo le
famiglie che veniano d'Affrica: menomati di numero e facoltà,
cominciarono fors'anco a tediarsi della guerra quando i Kelbiti
promossero le lettere, le cortesie e il viver lieto.
Intanto, corsi due secoli dal conquisto, era venuto su il popolo,
o cittadinanza che dir si voglia. Da una mano i Musulmani
mercatanti e artigiani che passavano d'Affrica in Sicilia e
raggranellavano danari con la industria; dall'altra mano, assai
maggior numero, i Cristiani del paese, proprietarii ed affittaiuoli
delle terre che si voltavano all'islamismo; i liberti di case nobili,
che convertiti s'avviavano agli oficii pubblici ed alla milizia; i
figliuoli degli uni e degli altri, spesati negli studii legali e fatti
notabili per sacro dritto della scienza, componeano tal classe che
per numero vincea di gran lunga la nobiltà, nè avea da invidiarle
gli avvantaggi della ricchezza nè dell'intelletto; le si accomunava
negli oficii dello stato e la superava nei consigli municipali. La
cittadinanza di Palermo comparisce adulta fin dalla metà del
decimo secolo, quando favorì Hasan contro i nobili; e la plebe,
come avvien sempre, abbandonò i nobili e seguì i popolani grassi.
Nelle città minori doveano intervenire i medesimi effetti, col
divario che portava il minor numero dei popolani oriundi
d'Affrica. I villaggi, sede della popolazione rurale, eran tenuti dai

920
Non occorre avvertire che cotesti nomi non hanno che fare con quelli simili
che dà il Cedreno ai corsari dei due stati Zîrita d'Affrica e Kelbita di Sicilia, i
quali andavano a infestare i dominii bizantini di Levante.
proprietarii minori d'origine siciliana, con poca o niuna
mescolanza di nobili. La nobiltà prevalea solo nella costiera
orientale, occupata di recente, la quale essendo abitata tuttavia da
Cristiani921, le classi inferiori non entravano nella repubblica
musulmana. Nel rimanente dell'isola la cittadinanza, favorita fin
qui dai principi kelbiti, si sentia più forte de' nobili. Pur l'invidia
non avea partorito per anco guerra civile. S'era dimenticato
l'infausto vocabolo dopo spenti i Berberi: quando si pigliavano le
armi in piazza l'era per cavar la bizzarria ad un ministro o un
emiro.
Ma il principato, per necessità o cupidigia, accese la discordia.
Le milizie siciliane erano scemate con la nobiltà; cacciati i
mercenarii (1015) non rimanea niuno a difendere la reggia
(1019), e pochi a difender lo stato. Akhal vi pose mente, riscosso
dal pericolo degli assalti bizantini e degli aiuti di Moezz (1025);
fors'anco gli piacea, com'uomo di guerra ch'ei si mostrò in
Calabria, di tirarsi dietro più grosso esercito e imitare la virtù dei
primi Kelbiti. Ma nelle presenti condizioni, l'esercito non si potea
rifornire che di mercenarii; le entrate dei poderi demaniali non
bastavano alla spesa, o egli le volea serbare alla corte; e
aggravare il kharâg non osava, dopo l'esempio del fratello. Altro
modo non avea dunque che dividere i sudditi, i quali uniti avean
cacciato Gia'far; trarre a sè una parte, e con lo aiuto di quella
strappar il danaro dalla borsa dell'altra. Le parti eran fatte; la
scelta non dubbia tra nobili e popolani: gli uni sdegnosi della
gente nuova, correvoli ai sorrisi di corte, ordinati ed usi a milizia;
gli altri intesi a loro industrie, senza storia nè legame di casati; e,
come più erano, più potean pagare. Akhal parlò all'orecchio agli
uni ed agli altri per tastarli e aizzarli, prima di venirne alla
commedia delle adunanze. Fermato bene l'intento, colta
l'occasione della guerra in Calabria o di qualche lagnanza contro
il proprio figliuolo, convocò i notabili siciliani; espose il bisogno

921
In fatti nelle rivoluzioni del 1042, la Sicilia orientale restò ai nobili, la
centrale ed occidentale ai popolani, come si vedrà nel capitolo XII di questo
Libro.
dello stato; lor diè l'eletta tra un partito impossibile e uno
spiacevole: fornir essi la gente all'esercito o la moneta. Quando
ricusarono l'uno e l'altro, ei compì il disegno, assentito già
certamente dai nobili. Bandisce che i Siciliani abbiano a pagare il
kharâg ossia, com'ei pare, la doppia decima invece del dazio
fisso: leva il danaro col braccio forte dei nobili e dei mercenarii922
che allora accozzò, chiamati in Palermo, stanziati nella Khalesa
ed altri luoghi opportuni. Così mi par da delineare il colpo di
stato di Akhal, che va messo tra il mille trentuno e il mille
trentacinque; perchè innanzi il trentuno si combattea tuttavia in
Calabria, e gli scrittori bizantini923 accennano in su lo scorcio del
sei mille cinquecenquarantatrè (1 settembre 1034 a 31 agosto
1035) il principio della guerra civile in Sicilia; gli scrittori arabici
pongono nel quattrocento venzette (4 novembre 1035 a 23 ottobre
1036) la reazione degli oppressi924.
Il biasimo ricadrebbe sopra Akhal, se i demanii bastavano alla
ristorazione dell'esercito; e, se no, andrebbe diviso tra i Siciliani,
che ricusavano il bisognevole, e l'emiro che sel prendea con
astuzia e violenza, non iscusate dallo scopo. Ma in questa, come
in cento altre vicende di maggior momento e più note e più
922
Nell’originale "mercernarii". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
923
Cedreno, tomo II, p. 514.
924
Ibn-el-Athîr e Nowairi, Abulfeda e Ibn-Khaldûn, ll. cc.
Non ho bisogno di avvertire che su questa novazione d'Akhal, principio della
rovina della Sicilia musulmana, ho tenuto presente il concetto del Martorana,
tomo I, cap. IV, p. 128, seg., al quale si conformò il Wenrich, Lib. I, cap. XVI,
§ CXL. Ma ben altra mi è parsa l'indole generale, altri i particolari del fatto;
della quale interpretazione ho spiegato largamente le ragioni.
Il Martorana e con lui il Wenrich non so perchè riferiscano ad Hasan-ibn-Iûsuf,
soprannominato Simsâm-ed-dawla, la pace con l'impero bizantino che seguì in
principio della guerra civile, e che però fu stipolata di certo da Akhal. In vero il
Cedreno, che ne fa parola, dà all'emiro di Sicilia il nome di Apolafar
Muchumet il quale non risponde nè al soprannome Akhal, nè al nome proprio
Ahmed. Ma Apolafar sembra alterazione d'Abu-Gia'far (si vegga il Cap. VII
del presente Lib., p. 345); e in ogni modo la data del Cedreno è sì precisa da
non lasciar luogo a dubbio. La Vita di San Filareto, presso Gaetani, Sanctorum
Siculorum, tomo II, p. 114, seg., e presso i Bollandisti, 1° aprile, p. 605, seg.,
conferma pienamente così fatto sincronismo.
vicine, la storia non arriva a cogliere in flagrante il primo
colpevole. Primi a prendere le armi furono i Siciliani; dei quali
par siasi fatto capo un Abu-Hafs925, fratello d'Akhal, impaziente
di torgli il regno, sì come l'avea tentato l'altro fratello Ali, contro
Gia'far e lo stesso Akhal, fattolo volontariamente o no: chè i figli
del buon Iûsuf rassomiglian forte agli Atridi. Primo a chiedere
aiuti stranieri sembra sia stato l'emiro; appo il quale venuto a
trattar la pace, dopo il maggio milletrentacinque, Giorgio Probata,
"sì destramente condusse il negozio," scrivono i Bizantini, ch'ei
tornò a Costantinopoli col figliuol dell'emiro: ed avanti la fine
d'agosto la pace era fermata; Akhal avea accettato dall'impero il
titol di Maestro; e, sendo combattuto e incalzato da Abu-Hafs,
avea chiesto aiuti al novello padrone, il quale s'apprestava a
mandargli Maniace con un esercito926. Maestro era dignità di
corte maggiore del Patrizio ed anco grado militare, come
diremmo noi Maresciallo927: onde veggiamo intitolarsi Maestri
dei militi i duchi di Napoli e alcun doge di Venezia928, capi di
stati che dipendean di nome dalla corte bizantina; e veggiam dato
da quella onor di patrizio or a dogi amici or a principi longobardi
che si piegavano a lei929. Però il titolo di Akhal non era vana
parola. Marchio di vassallaggio; vergogna a Kelbita ed a
Musulmano; ottimo pretesto ai sudditi disaffetti, ad un fratello
ambizioso e ad un potente vicino.
Le quali pratiche di Akhal e qualche successo della guerra
civile sospinsero i ribelli ad imitarlo. Dopo il quattro novembre
925
̉Απόχαψ è trascrizione esattissima nel modo che usavano i Greci. Con le
medesime lettere diedero il nome di Abu-Hafs (Omar-ibn-Scio'aib)
conquistator di Creta. Si vegga il Lib. I, cap. VI, vol. I, p. 162. Il Rampoldi,
che non badava a queste minuzie, trascrisse Abu-Kaab, e così l'han ripetuto il
Martorana e il Wenrich.
926
Cedreno, tomo II, p. 513, 514.
927
Ducange, Glossario greco, alla voce Μαγίστερ, e Gloss. Lat., 2e ediz. alle
voci Magister militum e Magister officiorum.
928
Ducange, op. cit., Magister militum.
929
Per esempio, il titolo di patrizio fu dato il 788 ad Arigiso principe di
Benevento; il 916, al duca di Napoli e al principe di Salerno; il 999, a Giovanni
figliuolo e socio in oficio di Pietro Orseolo doge di Venezia.
milletrentacinque, andavano a Moezz-ibn-Bâdîs messaggi dei
Siciliani a profferirgli l'isola, s'ei liberassela dagli insopportabili
soprusi d'Akhal; e se no, minacciavano di darsi, come uomini
disperati, all'impero bizantino. E Moezz mandò loro il figliuolo
Abd-Allah, con tremila cavalli e tremila fanti. Il quale in lunga
guerra più volte si scontrò con l'emiro, ed aveane l'avvantaggio930
con l'aiuto della parte siciliana e di Abu-Hafs, quando Leone Opo
mandato (1034) a capitanare l'esercito d'Italia in luogo d'Oreste,
passò il Faro, l'anno milletrentasette, sollecitato da Akhal, che
avea l'acqua alla gola. Leone gli fe' largo; ruppe le genti di
Moezz: poi temette, o il disse, che i perfidi Musulmani si
rappattumassero tra loro per tagliare a pezzi l'esercito battezzato;
e tornossene in Calabria, senz'altro frutto che di liberare
quindicimila Cristiani prigioni, o piuttosto abitatori di Sicilia
cacciati dalla paura di quell'atroce guerra civile931. Allora
prevalsero le armi di Moezz e de' partigiani932. Akhal non ebbe
altro rifugio che le mura della Khâlesa, dove fu assediato e alfine
ucciso. Perchè, fatta sperienza per due anni del rimedio
attossicato che sono in guerra civile cotesti aiuti stranieri,
l'universale dei Musulmani di Sicilia già se ne tediava, già
accennava di voler liberare Akhal: quando i principali della
rivoluzione li prevennero; fecero assassinare l'emiro nella sua
propria fortezza, e presentaron la testa ad Abd-Allah figliuolo di

930
Si confrontino le due narrazioni arabica e greca, la prima delle quali si legge
in Ibn-el-Athîr, Abulfeda, Nowaîri e Ibn-Khaldûn e l'altra in Cedreno, ll. cc. Il
fatto è senza ombra di dubbio lo stesso, poichè Cedreno díce che restando
vincitore Apolofar, l'altro fratello chiamò in aiuto l'emir degli emiri d'Affrica,
stipolando di dargli parte dell'isola.
931
Cedreno, tomo II, p 503, 516, 517, nell'anno 6545 (1° sett. 1036 a 31 agosto
1037), il quale dice i 15,000 prigioni romani, ossia bizantini. O si dee togliere
un zero, o supporli vassalli cristiani da Sicilia.
932
Si confrontino Cedreno, e gli annalisti arabi, ll. cc.
Moezz933. Abd-Allah era rimaso come padrone della capitale e di
tutta isola, quando gli piombò addosso Maniace934.

CAPITOLO X.

L'ultimo e men tristo sforzo dell'impero greco sopra la Sicilia,


fu ordinato da un frate eunuco, per nome Giovanni, il quale
pervenuto era al comando per magagna senza esempio: messo
innanzi un garzonaccio fratel suo, che se ne invaghisse Zoe,

933
Si confrontino: Ibn-el-Athîr, Abulfeda, Nowairi, e Ibn-Khaldûn, e il cenno
d'Hagi-Khalfa, anno 427, ch'è mal reso nella versione del Carli, p. 70. Ibn-
Khaldûn, op. c., p. 180, della versione francese, guasta fatti e date, aggiugne
nomi e cambia cifre. Un errore, com'io lo credo, del MS. di Parigi ha portato
poi M. Des Vergers a tradurre: "et citèrent en leur présence l'émir El-Akhal,
qui fut décapité par leur ordre;" in vece di: "ed assediarono il loro emiro
Akbal, il quale poi fu ucciso." La Vita di San Filareto, dianzi citata, della quale
abbiam la sola versione latina, dice che Michele Paflagone mandò l'esercito da
Sicilia «tum ab ejus provinciæ Toparca, tum a Siculis nonnullis sæpe
rogatus;» e porta il fatto come gli Arabi: «Interim vero Barbarorum tyrannus,
eo qui in Sicilia dominabatur per dolum sublato, bona illius omnia depredatus
et in regnum quod ille administrabat invadens, nemine omnino obsistente,
Panormi totiusque Siciliæ potitur;» e poi narra l'impresa di Maniace. La voce
Toparca, come ognun vede, è generica e bene appropriata secondo il
linguaggio greco a designare un principe di picciolo stato.
934
Nilo Monaco, Vita di San Filareto il giovane, presso Gaetani, Sanctorum
Siculorum, tomo II, p. 114. Il biografo intese i fatti da San Filareto che in
questo tempo avea 17 o 18 anni e morì di 50. La quale testimonianza non ebbe
sotto gli occhi il Martorana nè il Wenrich; e toglie ogni dubbio sul sincronismo
delle due serie di fatti riferite l'una dagli Arabi e l'altra da Cedreno. Notai sopra
come fossero certe d'altronde le date della prima chiamata dei due stranieri
cioè Bizantini e Zîriti. Adesso aggiungo che va cancellata, come
raddoppiamento di racconto, la chiamata dei Bizantini per Simsâm-ed-Dawla e
la seconda degli Zîriti per Abu-Kaab; e che l'emirato di Simsâm va messo, non
prima, ma dopo la guerra di Maniace. Il Martorana fu tratto in errore un po' da
Rampoldi; e il Wenrich al tutto da Martorana. Rampoldi, anni 1035 e 1036,
avea mescolato e alterato come in sogno d'infermo i racconti di Nowairi e di
Cedreno e aggiuntivi fatti di capo suo.
vicina ai cinquant'anni; fattole avvelenare Romano Argirio, e,
mentre spirava, gridar imperatore il drudo, sposarlo la dimane
dinanzi il patriarca di Costantinopoli che benedisse le nozze.
Michele Paflagone, salito al trono per tal via, mezzo scimunito e
mezzo pentito, dava il nome; Zoe stava come prigione, e
Giovanni reggea lo stato con fortezza, diligenza ed astuzia.
Ritratto lo scompiglio ch'era in Sicilia, il monaco ministro adescò
Akhal; deliberò l'impresa; ne fe' capitano Giorgio Maniace, il
quale nelle guerre di Siria avea dato prove (1030, 1034) di
grandissimo valore e pronto consiglio. Ma Giovanni, tra
nipotismo e diffidenza, prepose al navilio uno Stefano, marito
della sorella, nè uom di mare, nè di guerra, nè di alcuna virtù.
Chiamato Maniace dai confini dell'Armenia935, passaron due anni
tra andirivieni e preparamenti e ridurre a disciplina, quanto si
potesse, il nuovo esercito. Il quale ridondò al solito di stranieri:
Russi936, Scandinavi937, Italiani di Puglia e Calabria e con essi una
compagnia di ventura, di qualche cinquecento cavalli, mescolati
Italiani e Normanni, la quale s'era condotta ai soldi del principe di
Salerno e recavagli or comodo ed or molestia, sì ch'ei volentieri la
diè in prestito a Maniace938.
935
Cedreno, tomo II, p. 494, 500, 504, seg., 512, 514.
936
Gli Annales Barenses, presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 54, anno 1041,
dicono di schiere russe tornate in Puglia dalla impresa di Sicilia.]
937
I Varangi, famosi pretoriani della corte bizantina dal X secolo in poi, erano
venturieri di schiatta scandinava che capitavano a Costantinopoli per la via di
Russia. La venuta loro a questa impresa si ricava da altre autorità che quella
citata nella nota precedente, la quale accenna forse ad ausiliari sudditi dei
principi russi. Su i Varangi si vegga Gibbon, Decline and Fall, cap. LV, con le
aggiunte del Milman, ed una nota di Samuele Laing, nella versione
dell'Heimskringla di Snorro Sturleson, tomo III, p. 4. Il nome, derivato dalle
voci scandinave Wehr, vaer, o Ware, è tradotto dal Laing "the defenders."
938
Si confrontino Amato, L'Ystoire de li Normant, lib. II, cap. VIII, p. 38,
Malaterra; lib. I, cap. VII; Guglielmo di Puglia, lib. I, Plebs Lombardorum
Gallis admixta quibusdam ec.; Cronica di Roberto Guiscardo presso il Caruso,
Bibliotheca Sicula, p. 830, presso il Muratori, Rerum Italicarum Scriptores,
tomo V, e nella versione francese, lib. I, cap. IV, p. 266, del volume stesso di
Amato. Il Cedreno, tomo II, p. 545, dice circa 500 i Normanni e lor condottiero
Ardoino. Secondo Amato, e Leone d'Ostia, eran 300, capitanati da Guglielmo
Le geste dei guerrieri scandinavi del Baltico e di lor colonia di
Normandia, ci sono pervenute per due maniere di tradizione
molto diverse. Gli Scaldi di Norvegia e d'Islanda, in lor saghe
non raccomandate alla scrittura innanzi il duodecimo secolo,
raccontavano le vicende di casa loro in guisa da raffigurarsi la
cronica in mezzo al rustico fogliame rettorico; ma, quanto ai fasti
di lor gente in paesi lontani, ne prendeano il tema e lo foggiavano
in romanzo poco o punto storico. Sbrigliavansi tanto più
nell'immaginare, quanto le saghe, dettate nel proprio idioma, si
recitavano per diletto delle brigate e vi s'incastravan qua e là
frammenti ritmici. I cronisti normanni, all'incontro, cresciuti in
Francia sotto il giogo della letteratura latina, favoleggiavano con
minore licenza entro que' che parean limiti conceduti dalla storia
classica; se non che il romanzo francese di cavalleria, testè venuto
in voga, li allettava ad aggiugnere qualche bel colpo di lancia.
Tennero lo stesso metro i monaci italiani che vissero sotto i
principi normanni; sì per mal vezzo e adulazione, e sì per non
avere il più delle volte altri testimonii che quei principi e que'
guerrieri: massimamente nelle prime imprese di ventura in Italia,
scritte settanta o novanta anni dopo, su ricordi orali passati per
due generazioni. Però è da far tara diversa alle tradizioni
scandinave, ed alle normanne. Ed a ciò avremo riguardo or che ci
occorrono per la prima volta le autorità settentrionali; studiandoci
a cavarne il vero e addentellarlo nei ricordi greci e latini.
Giorgio Maniace e il patrizio Michele Doceano
soprannominato "il Fusaiolo,"939 ch'avea dato lo scambio a Leone
Opo, ragunate le genti a Reggio, passavano il Faro l'anno
milletrentotto940. Narrano gli scrittori di parte normanna come

di Hauteville. All'incontro Guglielmo di Puglia, come s'è veduto, attesta che ve


ne fosse picciol numero nella compagnia, e mi pare il più verosimile.
939
Σφόνδιλος, il verticillum dei Latini.
940
Si confrontino: Lupo Protospatario presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 58,
anno 1038; Cedreno, tomo II, p. 520, anno 6546, VIa indizione (1037-38),
Cronica di Roberto Guiscardo, ll. cc.; Nilo Monaco, Vita di San Filareto,
presso il Gaetani, Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 115, e presso i Bollandisti,
6 aprile, p. 608.
l'esercito posto a terra non lungi da Messina, lentamente marciò
in ordinanza vêr la città; donde impetuosi uscirono i Musulmani,
nulla curando il numero dei nemici. Allo scontro balenavano i
Greci, quando Guglielmo di Hauteville soprannominato Braccio
di ferro, condottiero d'uno squadrone normanno, confortati i suoi
con maschie parole, fece sonar la carica: e spronano stretti a
schiera, spezzano i nemici, li volgono in fuga, li inseguono fino ai
ripari; altri aggiugne che occupassero una porta. La città tantosto
s'arrese a Maniace941. Ma questa fazione, nella quale non abbiam
cagione di ricusare la virtù normanna, sembra mero
combattimento di vanguardia. I Musulmani in lor guerre di Sicilia
non fecero mai assegnamento sopra Messina, città cristiana; nè
mai l'afforzarono; nè tennervi presidio di momento.
Il nodo della guerra era a Rametta, dove sopraccorso, com'e'
pare, il grosso dell'esercito affricano, stava in sul collo a Maniace
da vietargli di dare un passo nell'isola. Ond'egli andatili a trovare
tra lor gole e precipizii, lor mostrò sè non essere Manuele Foca,
nè alcun sito potersi dir forte senza la virtù degli uomini. Ruppeli
con tanta strage che gli annalisti v'appiccicano l'antica metafora
del campo dilagato dai rivi del sangue942. Pur la vittoria poco
approdò, difendendosi Questo nome risponde al Rimetta, Rimecta
etc. dei diplomi dell'XI e XII secolo e alla Rimète di cui parla
l'Ystoire de li Normant, lib. V, cap. XX, nelle prime imprese del
conte Ruggiero. Il sito e i ricordi delle guerre precedenti fanno
comprendere che gli Affricani abbiano amato a decider la sorte
delle armi a Rametta più tosto che a Messina. Si spiega con pari
agevolezza il silenzio di Cedreno sul combattimento di Messina,
e dei cronisti normanni su la battaglia di Rametta; poichè il primo
941
Si confrontino: Amato, Malaterra, e Cronica di Roberto Guiscardo, i quali
non sono d'accordo nei particolari. Il primo non dà nè anco il nome di Messina,
ma dice solo: "et ont combatu à la cité et ont vainchut lo chastel de li
Sarrazin;" ma per cité par voglia significare Siracusa. Malaterra non fa cenno
della porta occupata. Cedreno non dice nè punto nè poco di questo
combattimento.
942
Cedreno, tomo II, p. 520, il quale dà ai Cartaginesi 50,000 uomini e dice
espressamente seguíta la battaglia κατὰ τὰ λεγόμενα ̉Ρηματα
scrivea delle giornate campali, senza particolareggiare le fazioni
minori; e i secondi scriveano de' trofei di lor gente, senza curarsi
del resto, o trascurandolo a bella posta. In ogni modo i due
combattimenti son distinti.] ostinatamente gli Arabi Siciliani in
lor cittadi e castella; sì che Maniace non ne occupò più di tredici
in due anni943. Della qual guerra spicciolata, non ci avanzano
ricordi storici; ma dette argomento lì su le rive del Baltico a
millanterie di veterani, invenzioni di scaldi e aggiunte di chi
venne dopo. Dico dell'Eneide a lor modo che intesson le saghe
con le imprese giovanili di Aroldo il Severo che poi fu re di
Norvegia. Rimondata delle favole, la tradizione torna a questo:
che Aroldo capitanò la squadra dei Varangi nell'esercito di
Maniace; che a lungo combattè in Sicilia contro Arabi del paese e
Berberi; che andò in nave a qualche fazione su la costiera, che
prese qualche terra per impeto d'armi e stratagemmi; e sopratutto
che fece fardello di ricco bottino, mandollo a serbare a corte di
Russia e di lì portosselo a casa. E forse ne rimane qualche
briciolo ne' musei di Copenhagen, Cristiania e Pietroburgo, tra le
monete musulmane d'oro trovate intorno il Baltico, avanzo dei
peculii che raccoglieano quegli svizzeri dell'impero bizantino944.
943
Cedreno, l. c.
944
Debbo alla cortesia del signor F. P. Broch, erudito orientalista di
Cristiania, la cognizione di questa impresa di Aroldo il Severo, e di quelle
sorgenti che io ho potuto studiare, come tradotte in latino o in inglese. Il
professore P. A. Munch, autore d'una Storia di Norvegia dettata nell'idioma
nazionale, mi ha poi favorito qualche schiarimento per mezzo del signor
Broch.
I fasti di Aroldo il Severo (Harald Haardraade) si leggono nella raccolta delle
Saghe intitolata: Scripta Historica Islandorum, tomo VI, (Copenhagen, 1835,
in 8°), p. 119 a 161, e nell'opera di Snorro Sturleson, autore islandese della fine
del XII e principio del XIII secolo, intitolata: Heimskringla or Chronicle of the
Kings of Norway, versione inglese di Samuele Laing, Londra 1844, in 8°, tomo
III, pag. 1 a 16, saga IX, cap. I a XV. Aroldo, fratello uterino di Olaf il Santo
re di Norvegia, combattè con valore, giovanetto di 15 anni, nella battaglia di
Stiklestad (1030), ove il re fu morto ed egli gravemente ferito. Nascoso da
fedeli partigiani, andò a corte di Iaroslaw 1° principe di Russia, dal quale
umanamente accolto, militò con lode su i confini di Polonia. Chiesta in isposa
Elisabetta figliuola del re, Iaroslaw gli fece intendere che forse gliela darebbe
A lungo si travagliò l'assedio di Siracusa, del quale ci si narra
il solo episodio che un condottiero ferocissimo uscito della città
quando appresentossi l'oste di Maniace, fea strazio dei Greci e dei
Longobardi, sì come il lupo suol delle pecore. Mosso a pietà dei
fratelli cristiani, Guglielmo Braccio di ferro cerca nella mischia
l'Ettore musulmano; prende del campo e lo passa fuor fuora con
la lancia; al qual colpo allibbiti que' del presidio, si rifuggono

quand'avesse acquistato terreno e danaro. Aroldo pertanto andossene a cercar


ventura con la spada. (Tuttociò sembra di buon conio. S'allega l'autorità
d'Aroldo stesso e de' contemporanei; un dei quali dicea averlo visto giovanetto
con un bel saio rosso, sembiante regio e marziale, volto pallido, folte
sopracciglia, gesti un po' violenti ma rattenuti.)
Andò a combattere in Polonia, Germania, Francia e Italia; donde passò a
Costantinopoli con una compagnia di ventura, sotto il mentito nome di
Nordbrikt; perchè gli imperatori non volean tra i Varangi uomini di sangue
reale. (Autorità vaghe o non citate. La peregrinazione da venturiere in
Germania, Francia e Italia sembra favolosa.)
Regnavano a Costantinopoli Zoe e Michele Catalacto (volean dire Calafato e si
dee correggere Paflagone, senza che vi sarebbe anacronismo), dai quali fu
mandato a combattere nel mar di Grecia. (Forse il 1035 contro gli Affricani e
Siciliani che infestavano l'Arcipelago; ma non si può affermare.)
Aroldo indi fu fatto capo dei Varangi (non generale in capo che s'intitolava
Acolutho, ma della divisione mandata in Italia), e partì con Girgir (Giorgio
Maniace) il quale girava le isole greche: e sovente combattè coi corsali.
(Maniace non v'era per certo.) Sta per venire alle mani con Girgir perchè
facendo alto l'esercito una notte, Aroldo si era attendato sur una collina
evitando i luoghi bassi insalubri in quel paese, e Girgir volea mettersi nel
medesimo sito. Finisce che si tira a sorte il luogo ed Aroldo per scaltrezza o
frode resta dov'è. (Fatto verosimile, forse vero, incorniciato di favole.)
Aroldo guerreggiando insieme coi Greci non fa mai dar dentro i Varangi; ma
quand'è solo, combatte disperatamente, e sempre riporta la vittoria. Girgir
biasimato del non guadagnar mai nulla, scarica la colpa su i Varangi; alfine
l'esercito si separa in due: Girgir coi Greci ed Aroldo coi Varangi e i Latini;
questi riporta infinite vittorie, e quegli se ne torna scornato a Costantinopoli,
abbandonato anche dai giovani greci che vogliono rimaner con Aroldo. (La
prima parte si riscontra un po' con le memorie normanne. Le altre son favole
intessute su la disgrazia di Maniace.)
Aroldo allora passa con l'armata in Affrica, detta la terra dei Saraceni; ove
conquista ottanta città o castella; vince in campo il re d'Affrica; guerreggia
parecchi anni; fa gran bottino d'oro, gioielli e altre cose preziose, e il manda in
entro le mura, amando meglio a scagliar sassi e frecce dall'alto,
che venire alle strette coi guerrieri del Nord945. Che che ne sia
della prova del Braccio di ferro, Siracusa resistè tanto che i
Musulmani rifecero l'esercito e minacciarono gli assedianti.
Con rinforzi d'Affrica Abd-Allah mise insieme parecchie
migliaia, dicon sessanta, di soldati, bene o male armati946; coi
quali si accampò nelle pianure di Traina a settentrione dell'Etna;

Russia, com'abbiam detto; poi assalta la costiera meridionale di Sicilia. (Citati


varii squarci di poesie. La immaginaria impresa in Affrica è tolta dal
combattere in Sicilia contro gli Affricani. Gli ottanta castelli son la più parte in
aria; il re d'Affrica può dinotare Abd-Allah figliuolo di Moezz, alla battaglia di
Traina.)
In una battaglia navale guadagnata da Aroldo sopra gli Affricani, i cadaveri
degli uccisi son buttati su l'arena alle spiagge meridionali della Sicilia che son
tinte di sangue. (Citata una poesia. Quest'episodio non si può affermare nè
negare.)
Aroldo va con l'armata in Blaland (questo nome danno le saghe al paese dei
Negri d'Affrica a mezzodì della Serkland, ossia Affrica Settentrionale), ove
riporta altre vittorie e torna a Costantinopoli. Zoe gli domanda una ciocca di
capelli, e che ricambio ei ne vuole si legga nella versione latina. Guarisce poi
per miracolo una pazza; libera il paese vicino d'un gran dragone; va a
combattere un'oste di Pagani ai confini dell'impero; vince con l'aiuto di
Sant'Olaf che appare sopra un cavallo bianco; e per voto fabbrica una chiesa a
Costantinopoli. (Non occorre notare che son tutte favole. Il caval bianco di
Sant'Olaf, è lo stesso di Sant'Ignazio di Costantinopoli alla battaglia di
Caltavuturo nell'882, Vol. I, p. 420, Lib. II, Cap. X, e di San Giorgio alla
battaglia di Cerami nel 1063.)
Mandato su l'armata con Girgir a saccheggiare la Sicilia, prendevi quattro città.
La prima, scavatavi sotto una mina, per la quale sbucò nel bel mezzo d'un
palagio dove allegramente si banchettava. La seconda, molto più forte, non si
potea avere per battaglia. Perciò Aroldo, visto che tanti stormi di uccelletti
volassero dalla città al bosco vicino, fa impiastrar di bitume certi alberi, e presi
gli uccelli lor fa attaccare addosso schegge di pino sparse di zolfo e cera, e
messovi fuoco lascia gli innocenti animali; sì che tornandosi a lor nidi nei tetti
di strame, appiccarono l'incendio per ogni luogo della città e la fu obbligata ad
arrendersi. (Lo stesso tiro è attribuito nelle saghe alla granduchessa Olga, ai re
di Danimarca Hadding e Fridleif ed a Gurmund pirata.) Un'altra città più
grossa, lungamente assediata, cadde con questo stratagemma: che Aroldo
s'infinse malato e poi morto, e volle farsi seppellire con sontuoso funerale in
città; dove i frati fecero a gara per averlo ciascuno in sua chiesa. Armati di
donde potea correre per la valle dell'Alcantara a Taormina o per
quella del Simeto a Catania e Siracusa. Fanti la più parte; poichè,
venendo a giornata, Abd-Allah s'affidava nei triboli di ferro
seminati a man piene in fronte dell'ordinanza, non sapendo che i
cavalli nemici, ferrati a larghe piastre, poco o nulla ne sarebbero
offesi947. Maniace ch'avea dinanzi la forte e munita Siracusa, nè

sotto e coperti di lunghe gramaglie egli e pochi Varangi recavan la bara;


mettean mano alle spade quando furono in su la porta, ed aprivano il passo a
tutto l'esercito. (Somigliante strattagemma è attribuito a Roberto Guiscardo in
Calabria, a Frode I, re di Danimarca ed a molti altri condottieri.) Infine
stringendo un castello inespugnabile, i Varangi fingono di avvicinarsi
senz'arme e giocar tra loro per beffarsi del presidio; i soldati del presidio, per
non parer da meno, fan lo stesso; e replicato lo scherzo parecchi dì, i Varangi
una volta traggono lor coltellacci nascosi ed occupano al solito la porta, con
aspro combattimento, nel quale Aroldo fece andare innanzi con la bandiera un
Haldor che fu gravemente ferito e rinfacciò il re di codardia. (Questo pare men
favoloso; oltre Haldor che tornò con una cicatrice alla guancia, v'è nominato
un Ulf-Ospaksson etc.)
Dopo diciotto battaglie vinte in Sicilia, raccolto gran bottino, Aroldo e Girgir,
che fa sempre la parte dell'Arlecchino in commedia, se ne tornano. Aroldo poi
va a conquistare coi soli Varangi Gerusalemme, a bagnarsi nel Giordano; è
imprigionato a Costantinopoli per dispetto amoroso di Zoe o gelosia del
novello suo marito Costantino Monomaco; è liberato per virtù di Sant'Olaf,
apparsogli in sogno; fuggendo rapisce e poi lascia una principessa greca, e
dopo altre avventure, sposa la Elisabetta di Russia a Novogorod, si collega col
re di Svezia per torre la corona di Norvegia a Magnus figliuol di Sant'Olaf, e
alfine regna insieme col nipote (1047).
Or il finto conquisto di Terrasanta, la Sicilia non ricordata mai come paese
musulmano, e tanti altri indizii, mostrano che la Eneide di Aroldo nel
Mediterraneo fu inventata dopo le Crociate. Dunque non è nè anco
contemporanea; nè possiam su la sua fede accettar quegli episodii che
somiglian meno a menzogna: per esempio il combattimento navale su le
costiere meridionali di Sicilia, e l'ultimo dei quattro stratagemmi narrati di
sopra. Del resto, le due autorità c'ho citato non s'accordan tra loro nei
particolari, e questi variano nelle altre saghe non tradotte, come ritraggo dal
signor Broch.
Ho fatto parola delle monete musulmane trovate nel Baltico al par che molte
dell'impero bizantino. Su la presunta origine di esse gli eruditi sono d'accordo.
Si vegga la nota del signor Laing, op. cit., tomo III, p. 4.
signoreggiava dell'isola se non che la costiera orientale948, fu
costretto tornare addietro per levarsi dalle spalle il nemico. Pose il
campo ad una quindicina di miglia a levante di Traina, là dove
furono nel duodecimo secolo una terra e un'abbadia addimandate
da lui, e il nome vi dura finoggi949. Spartito l'esercito in tre
schiere, gagliardamente ferì, aiutato da un vento che dava nel
volto ai nemici, o secondo altri dall'impeto della compagnia
normanna, talchè al primo scontro le turbe dei Musulmani
sbaragliaronsi; furono orribilmente mietute dai vincitori. Abd-

945
Si confrontino: Malaterra, lib. I, cap. VII, e la Cronica di Roberto
Guiscardo, testo e versione, ll. cc. La voce Archadius, data per nome proprio
del condottiero, è titolo, come tutti sanno, di grado militare, Kâid, più tosto che
di magistrato, Kâdhi.
946
Così Malaterra. Il monaco Nilo dice 100,000; Cedreno fa supporre molto
più, portando a 50,000 il numero degli uccisi. Da un'altra mano l'Anonimo par
non giunga al vero dando ai Musulmani soli 15,000 uomini.
Il nome della città non è dubbio: Traina in Malaterra e nell'Anonimo; Δραγι̃ναι
in Cedreno. Il campo in pianura è ricordato altresì da Cedreno e dal monaco
Nilo; se non che questo non dà il nome della città, leggendosi nella versione
non longe ab urbe, sia che i copisti avessero saltato il nome, sia che San
Filareto fosse di Traina stessa. La voce πόλις che dovea essere nel testo non si
può intendere capitale, e però Palermo, contro le testimonianze di Cedreno e
dei cronisti Normanni citati di sopra.
947
Nilo Monaco, l. c.
948
Cedreno non parla qui dell'assedio di Siracusa, anzi dice aver Maniace
soggiogato tutta l'isola. La posizione dei Musulmani a Traina lo smentisce.
949
Il nome basta a provare che vi stanziò Maniace, e conferma che il campo di
battaglia fosse stato nelle pianure tra quel luogo e Traina. La terra che
s'addimandò Maniace è descritta da Edrisi, di cui si vegga il testo nella
Biblioteca Arabo-Sicula, cap. VII, pag. 64, la versione francese del Joubert,
tomo II, e il compendio presso il Di Gregorio, Rerum Arabicarum, pag. 123.
Portava l'altro nome, al certo anteriore, di Ghirân-ed-dekîk ossia "Le grotte
della Farina." Al tempo di Fazzello ne avanzavan ruine e si chiamavano il
Casalino; De Rebus Siculis, deca I, lib. X, cap. 1. Su l'abbadia che fu in parte
distrutta dai tremuoti del 1693, si veggano, oltre il Fazzello, i diplomi del XII
secolo presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 396, 456, 977, 1004. Si riscontri
D'Amico, Lexicon Siciliæ Topograficum, tomo II, alla voce Maniacis.
Allah campava a mala pena con pochi seguaci. Seguì questa
battaglia nella primavera o nella state del millequaranta950.
Poi s'intese nel campo un bisbiglio che mosse forse a riso i
soldati. La compagnia normanna ubbidiva ad Ardoino lombardo,
valvassoro dell'arcivescovo di Milano, nobil uomo951, grande
d'intelletto e di cuore; il quale soggiornando poc'anzi in Puglia,
vedendo la gente che parlava il suo medesimo linguaggio
950
Si confrontino: Cedreno, tomo II, p. 522, Vita di San Filareto, l. c.;
Malaterra, lib. I, cap. 4; Cronica di Roberto Guiscardo, presso Caruso,
Bibliotheca Sicula, p. 832, lib. I, cap. V, p. 266, della versione francese.
Questa Cronica dà molto diversa, e manifestamente imaginaria, la postura dei
luoghi e le circostanze della battaglia. Al par che Malaterra la dice guadagnata
dai soli Normanni. La data si scorge dall'ordine in che pone questo fatto il
Cedreno nel 6548 (1039-1040) e dal ritorno del Catapano Doceano in
Terraferma di novembre 1040.
Secondo il monaco Nilo, il tiranno de' Barbari (Abd-Allah), dopo la fuga a
cavallo, se ne tornò in Africa su picciolo legno e ridusse a casa le reliquie
dell'esercito. Cedreno narra che il capitano cartaginese fuggendo giunse alla
spiaggia, donde, montato sur una barchetta riparò in Affrica; facendo mala
guardia su la costiera l'ammiraglio bizantino, cui Maniace avea raccomandato
d'impedir la fuga. Chi suppose così fatta precauzione di Maniace, ignorava al
certo che Traina giace a più di trenta miglia dal mare e che sorgevi di mezzo
l'altissima giogaia di Caronia. Da un'altra mano, gli annali arabi portano che
Abd-Allah fu cacciato in Affrica per sollevazione dei Musulmani di Palermo,
come si narrerà nel seguente Capitolo. Indi è chiaro che il biografo di San
Filareto, e molto più la tradizione bizantina riferita dal Cedreno, confusero in
un solo due fatti distinti, cioè la sconfitta di Traina che costrinse Abd-Allah a
rifuggirsi in Palermo e il tumulto di Palermo che lo cacciò in Affrica.
951
Amato lo dice: "Arduyn servicial de Saint-Ambroise archevesque de
Milan;" Leone d'Ostia "Arduinus quidam Lambardus (cioè della Lombardia
d'oggidì) de famulis scilicet Sancti Ambrosii;" Malaterra "Arduinum quendam
Italum;" Lupo Protospatario "Arduinus Lombardus;" Cedreno "Arduino....
signore independente di un certo paese (Αρδουι̃νον... χωρας τινός α̉́ρχοντα, καὶ
υπὸ μηδενὸς α̉γόμενον)." In questo medesimo passo, tomo II, p. 345, Cedreno
dice positivamente che la compagnia normanna era capitanata da Ardoino,
talchè si riscontra con Guglielmo di Paglia, lib. I, Inter collectos erat
Hardoinus etc. e col Chronicon Breve Northman., presso Muratori, Rerum
Italicarum Scriptores, tomo V, p. 278, che dice assalita la Puglia il 1041 dai
Normanni, duce Hardoino: Tutte le circostanze dei presente fatto e
dell'ordinamento a Melfi, provan lo stesso. Amato, Malaterra e gli altri scrittori
calpestata e mal soffrente il giogo e trovandosi allato milizia sì
valorosa, tra carità ed ambizione, andava meditando novità contro
i Bizantini aborriti e spregiati952. Al par di lui amava i Bizantini la
compagnia, la quale in questa guerra era stata lodata sempre in
parole da Maniace e messa innanzi nei pericoli, ma lasciata
addietro nei guiderdoni. Fattole torto nello spartir la preda dopo
la battaglia di Traina, Ardoino andò a querelarsene appo il
capitano, con aspre parole; e quegli che nulla soffriva nè temeva
al mondo, risposegli con brutali fatti: comandò di spogliarlo
ignudo e frustarlo per gli alloggiamenti con corregge di cuoio.
Patì l'ignominia Ardoino; tornossene alle stanze della compagnia;
e rattenne chi volea sciupar la vendetta pigliando l'arme
immantinenti contro tutta l'oste greca. Al contrario, s'infinge
rassegnato, ma ch'ei non può rimanere nello esercito dopo tal
onta; e così impetra da un segretario di Maniace la licenza di
tornarsi, egli solo in Terraferma. Avuto in mano lo scritto,
cavalca con tutta la gente; fa diligenza nel cammino; arriva a
Messina; passa lo Stretto, mostrando l'ordine di Maniace;, va a
trovare gli altri condottieri normanni ch'erano rimasi in

di parte normanna aman meglio a far capitano della compagnia Guglielmo


Braccio di ferro, che nel 1038 conducea probabilmente uno squadrone e che
arrivò al sommo grado nel 1043.
952
Amato, lib. II, cap. XVI e Leone d'Ostia, lib. II, cap. 66, quasi con le stesse
parole di lui, scrivono che Ardoino, preposto dai Bizantini al governo di varie
città di Puglia dopo la ingiuria ricevuta in Sicilia della quale si volea
vendicare, accarezzasse e suscitasse occultamente i popoli alla rivoluzione. Il
fatto si dee tener vero, ma si dee porre innanzi l'impresa di Sicilia; perchè è
impossibile, con tutta la corruzione del governo bizantino, che fosse stato
affidato quell'oficio ad Ardoino dopo la diserzione; e d'altronde non lascia
luogo a tal fatto il breve tempo che corse tra la fuga della compagnia
dall'esercito di Sicilia e la occupazione di Melfi. Amato, che ignorava le date e
i particolari, cadde facilmente in quest'anacronismo. Ardoino sembra della
nobiltà minore che si sollevò il 1035 contro l'arcivescovo di Milano e fu vinta.
È verosimile parimenti ch'egli ed altri rifuggiti e stranieri avessero fatto una
compagnia di ventura, e che innanzi il 1038, trovandosi ai soldi dei Bizantini,
gli fosse stato affidato il comando militare di qualche città di Puglia.
Terraferma; grida libertà ai popoli; e attacca il fuoco ch'arse come
stoppie la dominazione bizantina in Italia953.
Intanto era surta un'altra discordia. Per mala guardia del
navilio bizantino, Abd-Allah imbarcatosi a Caronia o Cefalù avea
riparato in Palermo, donde potea ricominciare la guerra954.
Maniace ne salì in tanta collera che venutogli tra i piè
l'ammiraglio, il chiamò poltrone, vigliacco, traditor dell'impero;
gli diè in sul capo due e tre volte d'un suo bastone. E Stefano se
n'andò a comporre lettere all'eunuco Giovanni: questo piglio di
principe assoluto, questa violenza contro i proprii parenti
dell'imperatore, mostrar chiaro l'animo ribelle di Maniace:
badasseci o sel vedrebbe piombare a Costantinopoli con l'esercito
pronto a seguirlo in ogni attentato955.
Era già caduta Siracusa, dove par che Maniace desse opera a
ristorare le fortificazioni, il culto e gli ordini pubblici; rimanendo
fin oggi il suo nome al castello della punta estrema di Ortigia956.
953
Si confrontino: Malaterra, lib. I, cap. VIII; Amato. lib. II, cap. XIV a XVIII;
Guglielmo di Puglia, lib. I, Cumque triumphato etc, Cronica di Roberto
Guiscardo presso Caruso, Bibliotheca Sicula, p. 832, e nella versione francese,
lib. I, cap. V; Leone d'Ostia, lib. II, cap. LXVII; Cedreno, tomo II, p. 545.
Queste autorità differiscono molto nei particolari del torto fatto alla
compagnia, ed altri ne dà la colpa a Maniace, altri a Michele Doceano,
succedutogli nel comando in Italia. Ho seguito a preferenza il Malaterra, la cui
narrazione è più verosimile e s'incatena meglio con gli altri fatti.
954
Cedreno che narra più distinto questo fatto, suppone fuggito il capitan
musulmano a dirittura verso l'Affrica, e che Maniace si adirò tanto con
l'ammiraglio perchè appunto gli avea commesso di guardar ben la costiera che
nessuno campasse da quella via. La postura di Traina, la testimonianza del
monaco Nilo e quella degli annalisti arabi che ho notato di sopra (pag. 388,
nota 1), dimostrano che la colpa fu d'averlo lasciato imbarcare in qualche
punto della costiera e navigare verso Palermo. Indi ho notato i due luoghi nei
quali più probabil è ch'egli entrasse in nave. Evidentemente Cedreno e il
monaco Nilo presero il principio e la fine della fuga d'Abd-Allah e
trascurarono i fatti intermedii, che soli possono spiegare la collera di Maniace.
955
Cedreno, tomo II, p. 522, 523.
956
Fazzello, deca I, lib. IV, cap. I, afferma senz'altra prova, che Maniace
edificò il castello, e aggiugne ch'ei fe' gittare in bronzo i due arieti i quali
stettero in su la porta del castello fino al 1448, quando piacque ad un marchese
di Geraci d'adornarne un suo palagio a Castelbuono. Confiscati per ribellione
Si narra inoltre ch'ei mandasse in un'arca d'argento a
Costantinopoli il corpo di santa Lucia, additatogli da un vecchio
cristiano; disseppellito in presenza della compagnia normanna; e
trovato intero e fresco dopo settecent'anni: come raccontava a
capo d'un altro mezzo secolo qualche veterano normanno a'
monaci di Monte Cassino, o almen quei lo scrissero957.
Similmente nelle altre città occupate, Maniace ordinò castella con
forti presidii, per cavar la voglia ai terrazzani di scuotere il giogo.
Gli acquisti si rassodavano; poco avanzava ormai perchè tutta
l'isola tornasse all'impero e al cristianesimo. Ma repente per
segreto comando della corte, il capitano vincitore fu preso,
imbarcato per Costantinopoli, gittato in fondo d'un carcere; e
commesso di ultimare la guerra a quel medesimo Stefano ed
all'eunuco Basilio Pediadite958.
Mancò Maniace all'esercito nel fortunoso momento, che
Ardoino e i Normanni levarono l'insegna della ribellione in
Puglia; donde il catapano Michele Doceano fu necessitato
ripassarvi con parte dell'esercito nell'autunno del millequaranta959.
I Musulmani di Palermo, che non era stata mai occupata960,
ripigliarono allora gli assalti. Stefano e l'eunuco, inetti entrambi e
ladri, nè seppero combattere alla campagna, nè mantenere i
presidii ordinati da Maniace; e il catapano, toccate dai Normanni
due sanguinose sconfitte (17 marzo e 4 maggio 1041), richiamò
di Sicilia, com'ultima speranza, i Calabresi, i Macedoni e i
d'un altro marchese di Geraci, gli arieti vennero in Palermo; si tramutarono
d'uno ad altro edifizio; e fino al 1848 si videro in una sala della reggia. Ma,
presa questa dal popolo, un degli arieti si trovò spezzato, com'e' par da una
palla di cannone; e il Comitato di governo collocò l'altro nel Museo
dell'Università. La fattura mi sembra antica più tosto che bizantina.
957
Amato, lib. II, cap. IX; Leone d'Ostia, lib. II, cap. LXVI.
958
Cedreno, tomo II, p. 523.
959
Secondo gli Annali di Bari, presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 54,
Doceano, reduce di Sicilia, entrò in Bari di novembre 1040. (Scritto 1041,
perchè il nuovo anno si contava dal 1° settembre.)
960
Erroneamente si è inferita la occupazione di Palermo dal verso di Guglielmo
di Puglia, lib. I, Premia militibus <f>Regina</f> solveret urbe. Il cronista
vuol dire Reggio, non "la città regia."
Pauliciani961. Pertanto dei presidii bizantini qual non fu cacciato
se ne andò dassè962. Crebbe il disordine per la mutazione di stato e
incertezza di consigli a Costantinopoli, dove, morto Michele
Paflagone (dicembre 1041), era salito al trono un altro giovinastro
che sol pensava a disfarsi di Zoe e dei ministri del predecessore: e
così Stefano e il Pediadite furono richiamati e mandato senza
forze a ristorar la guerra in Sicilia Doceano che l'avea sì
infelicemente governata in Terraferma963; il quale fece quel si
doveva aspettare da lui. All'entrar del millequarantadue, l'impero
avea riperduto l'isola, da Messina in fuori.
Tenea Messina un protospatario Catacalone, soprannominato
l'Arsiccio964, con trecento cavalli e cinquecento pedoni del tema
d'Armenia; quando venne ad osteggiarlo (1042 marzo?) una
massa di Musulmani levata popolarmente in tutta la Sicilia,
condotta, a quel ch'e' pare, da un principe kelbita, forse
Simsâm965. L'Arsiccio si serrò per tre dì nelle mura, senza dar
segno di vita, lasciando il nemico a predare e gavazzare
all'intorno e persuadersi ch'egli avesse paura. Al quarto dì,
occorrendo una festa966, raguna il presidio in chiesa; fa esortarlo
961
Annali di Bari, l. c.
962
Cedreno, tomo II, p. 523.
963
Si confrontino gli Annali di Bari, e Lupo Protospatario presso Pertz,
Scriptores, tomo V, p. 54, 58, con Cedreno, tomo II, p. 525.
964
Κεκαμένος.
965
Cedreno, solo autore di questa tradizione, dice aggiunti rinforzi cartaginesi
alla leva in massa di Sicilia e capitanata l'oste dall'emiro Apolofar. Mi
sembrano sbagli di parole: che ignorando la morte di Akhal e sapendo lì l'emir
di Sicilia, i Bizantini abbiano scritto il nome di Apolofar; vedendo i disertori
berberi, li abbiano deffinito ausiliarii cartaginesi. Leggeransi nel cap. XII i fatti
seguíti tra i Musulmani dal 1040 al 1042, pei quali credo si possa accettare
dalla tradizione di Cedreno la qualità del capitano emir di Sicilia, mutare la
persona e sopprimere la uccisione. Il Martorana, tomo I, p. 141, ben s'appose al
nome di Simsâm; se non che lo fece andare in Egitto e tornare con rinforzi del
califo fatemita, che sono sogni del Rampoldi, Annali Musulmani, 1040.
966
Cedreno scrive positivamente la Pentecoste; ma voltata qualche pagina
(tomo II, p. 538), lo dimentica, narrando che Catacalone portò egli stesso a
Costantinopoli il nunzio della vittoria di Messina, nell'atto che il popol s'era
levato a romore contro il nuovo imperatore Michele Calafato. Or, secondo lo
dal pulpito a combattere fortemente per la fede e l'impero; fa
celebrar la messa; si comunica con tutti i suoi, ed in su l'ora di
pranzo, apponendosi che gli Infedeli stessero a mala guardia,
schiuse le porte, li assaltò. Soprappresi non poterono dar di piglio
alle armi, non che ordinarsi: Catacalone li sbaragliò, ne fe'
macello, saccheggiò l'accampamento; e tornò glorioso in città,
mentre gli avanzi degli assedianti fuggivano a precipizio verso
Palermo967.
La quale vittoria giovò soltanto a differir di qualche anno, o di
qualche mese, chè l'appunto non si sa, la perdita di Messina e con
quella d'ogni speranza su la Sicilia. Perchè la rivoluzione dei
popoli e la compagnia di ventura ingrossata ogni dì più che l'altro
di Normanni e d'Italiani dell'Italia di sopra968, irresistibilmente
scacciavano i Bizantini dalla Terraferma. Maniace stesso, liberato
di prigione in un lucido intervallo della corte e rimandato in Italia
(aprile 1042) segnalossi per prudente valore in guerra, s'infamò
per crudeltà efferate contro i terrazzani, ripigliò qualche città, ma
non arrivò a vincere i Normanni. In questo, un terzo marito di
Zoe lo provocò o piuttosto sforzò a ribellarsi; tantochè fattosi
gridar imperatore, passò con l'esercito in Grecia (febbraio 1043),
azzuffossi con le genti di Costantino Monomaco, e le avea messe
in rotta, quando un colpo tirato a caso lo freddò in sul cavallo.

stesso Cedreno, la sedizione che tolse il trono al Calafato, cominciò il lunedì


della seconda settimana dopo Pasqua del 1042, e però innanzi la Pentecoste.
Della Pentecoste del 1041 non si può ragionare al certo, la quale cadde il 10
maggio, cioè quando non eran partite per anco di Sicilia le schiere dei
Macedoni, Pauliciani e Calabresi. D'altronde l'annunzio della vittoria sarebbe
stato un po' tardo. Perciò suppongo sbagliata la festa e che debba dir la
domenica delle Palme o altra.
967
Cedreno, tomo II, p. 523, 524. Lascio da canto Apollofar, ucciso nella tenda
in mezzo al vino; i soldati che non si reggeano in piè dall'ebrezza; le valli e i
letti dei fiumi pieni di cadaveri; l'oro, argento, perle e altre gemme che si
trovarono nel campo musulmano, divise a moggia (μεδίμνοις) tra i vincitori.
968
Cedreno, tomo II, p. 546, dice di cotesti aiuti degli Italiani della regione tra
il Po e le Alpi.
Pochi dì appresso Costantinopoli applaudiva ai codardi che
portavano in giro, confitta a una lancia, la testa di Maniace969.

CAPITOLO XI

Ai miseri Cristiani di Sicilia parve risorgere a vita nuova


quando fu innalberata in lor cittadi e castella la insegna della
croce col motto di: "Cristo vince." San Filareto, il quale si trovò
forse a Traina la dimane della battaglia970, solea narrar che
rendettero grazie solenni nelle chiese; che spezzarono i ceppi
messi ai piè a lor fratelli prigioni; che caduto il terrore di quel fier
tiranno affricano, respirarono in libertà971. La qual voce sappiam
che significhi quando due religioni contendon tra loro. Alla santa
esultanza del riscatto si mescolò la vendetta, l'ingiuria; nè andò
guari che costrette le armi bizantine a sgombrare di Sicilia, molti
abitatori cristiani emigrarono in Terraferma972, aspettandosi la
pariglia dai Musulmani. Il grosso della popolazione battezzata,
com'avvien sempre per amore della patria, necessità o tiepidezza
d'animo, restò lì dov'era. E così al conquisto normanno il

969
Si confrontino: Cedreno, tomo II, p. 541, 547 a 549; Michele Attallota,
Historia, pubblicata da M. Brunet-de-Presle, p. 11, 18, 19; Guglielmo di
Puglia, lib. I, Interea magno Danaum etc., sino alla fine del libro; Annali di
Bari e Lupo Protospatario, presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 54, 58, anni
1042, 1043; Chronicon Breve Northman., presso Muratori, Rerum Italicarum
Scriptores, tomo V, p. 278, anni 1042, 1043. Cedreno dà ad intendere che
Maniace ripigliò sopra i Normanni tutta l'Italia all'infuori di poche città, il che
è falso.
970
Si vegga la nota 1 della pag. 387, nel capitolo precedente. I particolari della
battaglia e del seguito che ebbe, portano a credere presente il narratore a
Traina.
971
Nilo Monaco nella Vita di San Filareto, presso Gaetani, Sanctorum
Siculorum, tomo II, p. 115, e presso i Bollandisti, tomo I, di aprile, p. 609. San
Filareto avea allora diciott'anni. Il tiranno era Abd-Allah figliuolo di Moezz.
972
Così la famiglia di San Filareto; la quale non si può supporre sola a
prendere tal partito.
Valdemone si trovò pien di Cristiani973, e sminuzzoli anche se ne
contavano per le valli di Noto e di Mazara, in Siracusa974,
Palermo975, Vicari976, Petralia977, ed altri luoghi978. Le vicende
della guerra normanna nelle quali bastarono due anni ad occupare
il Valdemone e ce ne vollero trenta a soggiogar le altre due valli,
provano similmente che nella prima regione fossero pochi
presidii musulmani nelle principali città e fortezze in mezzo a
popolazioni cristiane timide ma nemiche; e nel rimanente
dell'isola, al contrario, pochissimi Cristiani soffocati tra le turbe
dei circoncisi.
Nè mutossi la condizione legale dei Cristiani; sol è da supporre
aggravati i soprusi tra il millequarantatrè e il millesessantuno;
dapprima per la vendetta dei Musulmani che tornavan su; poscia
per la divisione loro in piccoli principati, tanto più molesti e
rapaci. Caduti gli ultimi comuni tributarii tra il

973
Mettendo da parte le memorie dei cospiratori cristiani di Messina, più
probabili che autentiche, delle quali tratteremo nel seguente libro, si veggano
pei Cristiani di Traina, Malaterra, lib. II, cap. XVIII, e la Cronica di Roberto
Guiscardo, presso Caruso, p. 838, e versione francese, lib. I, cap. XV; e per lo
rimanente del Valdemone stesso, Amato, lib. V, cap. XXI e XXV, e Malaterra,
lib. II, cap. XIV.
974
In un diploma di Tancredi conte di Siracusa, dato del 1104, si legge che il
conte Ruggiero nell'istituire il vescovato di Siracusa (1093) gli aveva
assoggettato tutto il clero greco e latino. Il primo non era venuto al certo coi
Normanni. Il poeta siracusano Ibn-Hamdîs, ricordando le sue scappate
giovanili, Biblioteca Arabo-Sicula, cap. LIX, § 1, p. 549, dice di un monistero
di donne, ov'egli ed altri scapestrati andavano a bere il vino "color d'oro."
975
Malaterra, lib. II, cap. XLV, dice dell'arcivescovo che si sforzava a
mantener la fede in Palermo pria che v'entrassero i Normanni. Avea nome
Nicodemo, secondo una bolla di Calisto II, presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 53.
976
Si vegga il diploma del 1098 pel monastero di Santa Maria di Vicari, che
citiamo nel capitolo seguente.
977
Malaterra, lib. II, c. XX, narra che gli abitatori fossero parte Cristiani e parte
Musulmani.
978
Malaterra, lib. I, cap. XVII, narrando una scorreria del conte Ruggiero da
Messina a Girgenti nota che gli si fecero incontro i Christiani provinciarum,
che deve intendersi del Valdemone e Val di Mazara. Si vegga anche il cap.
XIII di questo libro.
novecensessantadue e il sessantacinque979, da indi in poi non ne
abbiamo ricordi; nè possiamo immaginare qual necessità o caso li
avrebbe fatto risorgere. I Cristiani che sottomettonsi al conte
Ruggiero ed a Roberto Guiscardo nei principii della guerra, son
veri dsimmi980 paganti tributo, agricoltori o borghesi, ed i primi
parte possessori e parte servi della gleba981; le quali popolazioni
avean di certo lor magistrati municipali, ma non formavan corpo
politico. Di schiavi cristiani posseduti da Musulmani non
abbiamo memoria, ond'e' par non siane rimaso tanto numero da
farsi sentir tra le vicende del conquisto. Forse la più parte, per
migliorar loro condizione982, fatti Musulmani, e chi manomesso,
chi no, andavano confusi nella società dei vincitori.
Se le schiatte antiche non si sbarbicano di leggieri, i Cristiani
dell'isola eran tuttavia mescolati Greci ed Italici. A ciò par abbian
posto mente i Normanni, nelle cui croniche le genti battezzate che
abitavano la Sicilia al principio della guerra, son chiamate dove
Greci o Greci Cristiani, e dove a dirittura Cristiani; e si
distinguono i primi con l'attributo di perfidi, come portavano le
idee occidentali983. Un altro barlume ci dà lo scrittor della vita di
San Filareto, notando tra i pregi della Sicilia la carnagione bianca
e vermiglia e le belle e aperte fattezze di molti abitatori, le quali
non somigliano al sembiante del greco San Filareto, e vi si

979
Si vegga il Cap. III del presente Libro, pag. 257, seg., del volume.
980
Si veggano i luoghi di Malaterra e d'Amato, testè citati. Le condizioni
ritratte dal primo nel lib. I, cap. XIV, s'adattano appuntino agli dsimmi.
981
Si vegga il Libro V, ch'è il luogo proprio di trattarne, poichè le prove di
coteste due condizioni compariscon dopo il conquisto normanno.
982
Libro II, cap. XI, pag. 484 del primo volume.
983
Malaterra, lib. I, cap. XIV, XVIII e XX, citati di sopra, parla di Cristiani di
Valdemone, di Traina e delle province (tra Messina e Girgenti); e cap. XXIX,
dei Greci di Traina che sembran parte della popolazione cristiana di quella
città. Il Di Gregorio, Considerazioni sopra la Storia di Sicilia, lib. I, cap. I,
ritiene la stessa distinzione di schiatte e allega, note 2, 3, la stessa autorità.
Aggiugne, nota 4, un esempio di Geraci tolto dal lib. II, cap. XXIV, di
Malaterra; sul quale non voglio fare assegnamento, non essendo certo se si
tratti di Geraci in Sicilia o della città dello stesso nome in Calabria.
potrebbe per avventura raffigurar il tipo italiano984. Della
medesima schiatta sembrano i frati di San Filippo d'Argira in
Sicilia i quali nella seconda metà del decimo secolo andavano a
Roma: insolito viaggio a gente greca in quell'età985. Come i due
linguaggi, che è a dir le due schiatte, durarono insieme nel medio
evo nelle parti della penisola ch'aveano avuto colonie greche
nell'antichità, così anche rimasero in Sicilia; se non che la lingua
greca prevalea nell'undecimo secolo986. E la cagione parmi, che i
Cristiani di sangue italico e punico della Sicilia occidentale,
avean rinnegato la più parte sotto la dominazione musulmana, per
essere stati più tosto domi; se pur non si lasciaron domare più
tosto per antagonismo contro il sangue greco e il dominio
bizantino. La religione loro, fors'anco la lingua, si dileguò nella
società musulmana. La religione si mantenne insieme con la
lingua nella Sicilia orientale, sede primaria delle antiche colonie
greche.
Ci mancò nella prima metà del decimo secolo ogni memoria
d'incivilimento appo i cristiani di Sicilia987; ma nei cent'anni che
seguono ne ricomparisce qualche vestigio. Della fine del decimo
secolo abbiamo un'agiografia, scritta, com'ei sembra, da un Greco
siciliano988. Verso il milletrenta ci si parla di preti cristiani che
insegnavan lettere ai giovanetti a Castronovo in Val di Mazara989;
fors'anco a Demona990. Nella seconda metà dell'undecimo secolo
un ricco cristiano del paese, faccendiere dei Normanni e poi
984
Nilo Monaco, Vita di San Filareto, presso il Gaetani, Sanctorum Siculorum,
tomo II, p. 113, e presso i Bollandisti, 6 aprile, p. 607.
985
Si vegga qui appresso la vita di San Vitale di Demona.
986
Non v'ha un sol rigo nè un sol nome latino tra i ricordi della dominazione
normanna che possano riferirsi all'epoca precedente.
987
Si vegga il Lib. III, cap. XI, p. 213, 214 di questo volume.
988
Si veggano nel cap. III del presente Libro i ragguagli cavati dalla Vita di
San Niceforo vescovo di Mileto, e il cenno che do di questa agiografia alla fine
dello stesso capitolo, p. 273 del volume.
989
Vita di San Vitale abate, presso Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo
II, p. 86; e presso i Bollandisti, 9 marzo, p. 26.
990
Vita di San Luca di Demona, presso Gaetani, op. cit., p. 96; e presso i
Bollandisti, 13 ottobre, p. 337.
monaco, avea dato opera a raccogliere libri e dipinture in
Messina991. I quali indizii fan piena prova, quando la storia
politica mostra che dovea necessariamente avvenire così. Del
novecentodue passò sul Valdemone la sanguinosa falce
d'Ibrahim-ibn-Ahmed; poi su tutta l'isola la falce della fame; e sul
Val di Mazara quella di Khalîl-ibn-Ishak: ma la guerra civile dei
vincitori, fece respirare i Cristiani del Valdemone. Cioè la
popolazione rurale, i cui tugurii non avea potuto frugare Ibrahim,
e qualche cittadino spatriato che dopo la tempesta tornava ai
diletti luoghi, povero e feroce. Quei che ristorarono Taormina,
quei che meritarono tanta fama a Rametta, ebber sì le mani pronte
a combattere e rabberciare lor mura; la mente fitta a difender sè
ed ammazzare i Musulmani, ma non si curavano, credo, di
dipinture, nè di libri, nè dell'alfabeto: e facean bene. Sopraffatta
alfine quella virtù dalle armi kelbite, i Cristiani s'ebbero a
contentare degli umili compensi che concede il servaggio.
Assestandosi appo i Musulmani l'azienda pubblica, repressa la
rapacità delle milizie, favoriti i commerci con la Terraferma,
prosperanti le regioni occidentali dell'isola e venuti i padroni a
stanziare nella region di levante, si rinfrancò la industria degli
abitatori cristiani. Rifatti alquanto di sostanze e di numero,
risalirono a quel grado d'incivilimento dei lor fratelli di Calabria.
Chi voglia conoscere in volto i Cristiani del Valdemone di questa
età, legga in Malaterra il racconto di quei che s'appresentavano
l'anno mille sessantuno a Ruggiero nella prima scorreria grossa a
che si rischiò dentro terra. Tutti lieti gli recavano vittuaglie e altri
doni; e tosto correvano a scusarsi coi Musulmani: averlo fatto per
forza, per salvar le persone e la roba da codesti predoni992. Alla
quarta generazione gli eroi di Rametta eran fatti, come or si
direbbe, onesti e pacifici cittadini.

991
Si vegga il testamento del Prete Scolaro del 1114 presso Pirro, Sicilia Sacra,
p. 1005. Costui lasciò al Monastero del Salvatore in Messina trecento codici
greci e "bellissime immagini coperte d'oro." Ma è da avvertire che avea fatto
viaggi in Grecia e che solea comperare da mercatanti di quella nazione.
992
Malaterra, lib. II, cap. XIV. Si vegga anche Amato, lib. V, cap. XXI.
I quali in punto di religione sembrano tiepidi anzi che no.
Dopo l'impresa d'Ibrahim-ibn-Ahmed (902), si sbaragliò il clero
siciliano. Gli imperatori bizantini, egli è vero, promulgando la
lista delle sedi soggette a lor patriarca, proseguono infino al secol
decimoterzo a noverar quelle di Sicilia quali sapeansi nell'ottavo
secolo, salvo qualche errore di copia; ma dimenticano che l'isola
è stata tolta allo impero dai Musulmani ed a costoro dai
Normanni; che le sedi sono state distrutte dai primi, rifatte dai
secondi a lor modo, e rese al pontefice romano993. Però quei ruoli
di cancellaria non attestano condizioni contemporanee, più che
nol faccian oggi i titoli di vescovi d'Eraclea, d'Adana e altri largiti
dal papa. Appunto come cotesti, sembrano vescovi in partibus
quel di Catania e l'Arcivescovo di Sicilia, dei quali abbiamo le
soscrizioni in carte del decimo e dell'undecimo secolo994. Al
contrario par abbia esercitata, quando che fosse, la dignità
vescovile quel Leone che poi soggiornò in Calabria e venne in
Sicilia (925) da statico995. Esercitolla per fermo Nicodemo che i
Normanni (1072) trovarono arcivescovo in Palermo996. Egli è
verosimile che nel decimo secolo, rimaso in tutta la Sicilia un sol
993
Si vegga il Lib. II, cap. XII, nel primo volume, p. 485 e 486, nota 2.
994
Alla fin del IX secolo sembrano anche vescovi in partibus, o fuggitivi, que'
di Cefalù, Alesa, Messina e Catania, che si trovarono al Concilio di
Costantinopoli (870). Non conto nel X secolo San Procopio vescovo di
Taormina che incontrò il martirio nel 902. Non parlo del vescovo di Camerino
nelle Marche (963-967) che altri suppose di Camerina in Sicilia. Leone
vescovo di Catania è soscritto in una decretale del patriarca di Costantinopoli
del 995, di cui il Pirro, Disquisitio de Patriarca Siciliæ, § VII, n° 5. Umberto
monaco in Lorena, è sottoscritto col titolo di arcivescovo di Sicilia nel concilio
romano del 1049; sul quale si vegga il Pirro, p. 51, e le autorità citate dal
Martorana, Notizie Storiche dei Saraceni Siciliani, tomo II, p. 217, note 133,
134.
995
Si vegga il Lib. III, cap. VIII, p. 172 di questo volume. Non facciamo parola
del vescovo Ippolito, non sapendosene appunto il tempo.
996
Si veggano le autorità citate poc'anzi, p. 396, nota 5. I Normanni non fecero
conto dell'arcivescovo greco più che d'un imam di moschea; e certo non gli
dettero un titolo ch'ei non avesse. La corte di Roma non solo lo riconobbe a
Nicodemo ed agli arcivescovi normanni, ma n'avea già investito a modo suo
Umberto.
vescovo, abbia mutato e titolo997 e sede, ponendosi nella capitale
allato alla corte degli emiri per mantenere più efficacemente i
dritti spirituali e temporali del povero suo gregge; come il
patriarca giacobita d'Alessandria e il primate nestoriano di
Seleucia s'eran tramutati, l'uno al Cairo, l'altro a Bagdad. Palermo
fatta capitale dai Musulmani, lor debbe dunque, strana vicenda
della sorte, la dignità di chiesa metropolitana; la quale non fu
conceduta da Roma, nol sembra da Costantinopoli; e niuno la
sognava innanzi il decimo secolo, ma alla metà dell'undecimo
niuno la mise in forse. È chiaro che la assunse l'eletto dei Fedeli
confermato dagli emiri: pastor d'una provincia che avea avuto
sedici diocesi tra vescovili e arcivescovili, e d'una città ch'era
seconda solo a Costantinopoli e Bagdad.
Passando al clero inferiore, basterà dir che i monasteri nei
quali tutto si racchiudea, sì fiorenti dopo san Gregorio, ormai
sembrano poco men che distrutti. Quel di San Filippo d'Argira, di
regola basiliana, scomparisce verso il novecensessanta, quando le
colonie musulmane trapassavano in Valdemone998. I Normanni
trovano in Val di Mazara il monastero di Santa Maria a Vicari,
pregante per la vittoria dei Cristiani, possedente un po' di servi,
bestiame e terreni, ma negletto ed oscuro999. Trovano molte ruine
997
Si vegga il Lib. III, cap. XI, p. 214 di questo volume.
998
San Luca di Demona e San Vitale di Castronovo, dei quali or or
discorreremo le vite, presero entrambi l'abito monastico a San Filippo d'Argira;
e morirono in Calabria, l'uno il 993, l'altro, come si suppone, il 994.
Dall'agiografia di San Vitale si scorge che in gioventù egli con altri frati dal
monastero di San Filippo andò a Roma, e che, tornando dopo due anni in
Sicilia, visse da romito su l'Etna rimpetto l'antico suo chiostro. San Luca di
Demona era uscito dallo stesso monastero il 959 o poco prima. Però la cagione
della partenza di entrambi par lo sgombero del monastero, il quale
risponderebbe a un di presso ai fatti del Valdemone che narrammo nel cap. III
di questo Libro, p. 255, seg., del volume.
999
Questo mi sembra il valore del testo α̉δηλωζείσαν (μόνην), Diploma del
1098 pubblicato con versione italiana da Niccolò Buscemi, nel giornale
ecclesiastico di Palermo che s'intitolava Biblioteca Sacra, tomo I, p. 212, seg.
Il Martorana in una risposta al Buscemi, estratta dal Giornale di Scienze ec.
per la Sicilia, p. 39, si sforzò invano a distruggere l'attestato che contien questo
diploma. Il conte Ruggiero vi dice chiaramente avere confermato (ε̉πεκυρω) le
di monasteri in Valdemone1000, e di due soli abbiam certezza che
rimanessero in piè: quel di Sant'Angelo di Lisico, presso Brolo, i
cui frati s'affrettavano a far confermar dal conte Ruggiero la
proprietà dei monti, colline, acque; terreni e mobili che diceano
aver tenuto sotto gli empii Saraceni1001; e quel di San Filippo in
Demona, un frate del quale, vivuto fino al millecento e cinque,
affermava aver patito nel santo luogo gli oltraggi degli
Infedeli1002. Poco o nulla s'è perduto dei documenti di tal fatta,
gelosamente custoditi e rinnovati dall'ecclesiastica prudenza:
donde si può argomentare che alla metà dell'undecimo secolo,
appena rimanesse una mezza dozzina di monasteri con frati e di
che vivere.
Nè era comando di legge, nè effetto di costumanza generale
dei Musulmani, sotto il cui dominio durarono e durano tante sedi
vescovili e grossi monasteri in Egitto, in Siria, nelle regioni tra
l'Eufrate e il Tigri. Ma le ondate di Arabi che irruppero in
Occidente sembran più cupide e quelle popolazioni cristiane men
tenaci nella fede e disciplina ecclesiastica; e il monachismo,
pianta esotica appo noi, non resse alle intemperie sì come in
Oriente. A coteste tre cagioni unite mi par da apporre il subito
decadimento del Cristianesimo in Sicilia, al par che in Affrica e
Spagna, direi quasi al primo tocco dell'islam. Presi i beni

possessioni. Dunque il monastero esisteva, e non vivea di limosine avanti il


conquisto normanno.
1000
Non occorre citare tutti i diplomi normanni che lo attestano in varie guise.
Fra gli altri uno del 1093 presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 1016, prova che restava
in piè la chiesa soltanto nel monastero di San Michele Arcangelo in Traina.
1001
Diploma del 1144 nel quale re Ruggiero accenna il decreto del padre,
presso Pirro, Sicilia Sacra; p. 1021. Il Martorana nella risposta citata vuole
inforsare l'attestato; ma non può cancellare quel tenebant et possidebant
tempore impiorum Saracenorum, come tradusse il Lascari, e gli si può credere
ancorchè non si conosca l'originale greco.
1002
Testamento di Gregorio categumeno del monastero di San Filippo di
Demona. Il testo greco con altri diplomi del monastero fu pubblicato dal
Buscemi, op. cit., p. 381 a 388, e più correttamente dal Martorana, op,. cit., p.
60 a 64 con novella versione italiana di monsignor Crispi, valente ellenista
siciliano, morto non è guari.
ecclesiastici e sconfortato il clero, menomarono le sedi vescovili,
crebbe l'erba nei conventi; e la credenza delle popolazioni, non
riscaldata dalla voce del sacerdozio nè dalla assiduità del culto,
calò a poco a poco. Ma è mestieri pur che quella massa per
propria natura mal ritenesse il calore; poichè lo zelo dei Fedeli,
chierici e laici, avrebbe alla sua volta vivificata la gerarchia a
dispetto dei governanti e della povertà, come, per esempio,
avvenne in Siria, appo i Maroniti.
Il fervore religioso non si ridestò nell'ultima lotta delle
popolazioni cristiane di Sicilia (913-964), quando la povertà e i
pericoli allettavan poco i dignitarii ecclesiastici a tornar dalla
Calabria1003; e il popolo, venuto alle prese con la morte, chiedea
miracoli troppo biblici. Pertanto la riputazione di santità tornò
tutta ai romiti profetizzanti, clero rivoluzionario da non sbigottir
tra quelle tempeste. Tale il Prassinachio, del quale dicemmo, e gli
altri di cui non è maraviglia se ignoriamo i nomi 1004, poichè le
agiografie si scriveano nei monasteri, non per le celle dei romiti,
quando pur sapeano scrivere. Posate in Sicilia le armi e mancati i
monasteri, il clero mal si rifornì: quei che ne sentiano vocazione,
passavano in Calabria dove si parlava la stessa lingua, si
trovavano spesso i concittadini; e la dominazione greca apria
largo campo alla modesta pietà, alle fantasie riscaldate ed alle
ambizioni monacali. A legger le vite dei santi di Calabria in
questo tempo, ognun vede che si pasceano, come tutta la chiesa
greca, delle leggende degli antichi padri della Tebaide e di Siria;
se non che la natura occidentale rifuggiva da quelle orrende
penitenze, dalla perpetua solitudine, dalla oziosa contemplazione
che non si diffondesse in altrui. E però i romiti si associavano tra
loro; procacciavano seguito nelle cose mondane. L'apice della
virtù religiosa era la fondazione d'uno, anzi di parecchi monasteri,
di cui uom divenisse abate in vita e santo tutelare dopo la morte.
Ed a questo aspirò e pervenne alcun rifuggito siciliano.

1003
Si ricordi il fatto del vescovo Leone nel 925.
1004
Si vegga il cap. XI del Lib. III, e il cap. III del Lib. IV, p. 214 e 264 del
presente volume.
Correndo la prima metà del decimo secolo, nacque a
Castronovo, nel bel mezzo delle colonie musulmane e dicesi di
ricchi genitori, Sergio e Crisonica, un Vitale; il quale educato
nelle lettere sacre, ma amando poco lo studio, andò a chiudersi
nel Monastero di San Filippo d'Argira. Con altri frati passò a
Roma, dice l'agiografia, senza aggiungere il tempo nè il perchè, ai
quali noi ci possiamo apporre; e sarebbe per avventura la
raccontata vicenda del novecentosessanta, quando una man di
Musulmani avesse preso a stanziare nella patria di Diodoro
Siculo ed occupato i beni di San Filippo. Fatto per via un
miracoluccio a Terracina, e da Roma tornato addietro ad un
romitaggio presso Sanseverina di Calabria, San Vitale ripassò in
Sicilia, visse d'erbe salvatiche ben dodici anni nelle solitudini
dell'Etna, in faccia dell'antico suo chiostro. Ripigliato alfine il
cammin della Terraferma, mutò stanza otto o nove fiate tra
Calabria e Basilicata; s'abboccò ad Armento con San Luca di
Demona che levava grido in quelle parti; e fatto venir di Sicilia
un suo nipote per nome Elia, fondò un monastero presso Rapolla,
ove morì, come credesi, il nove marzo novecentonovantaquattro.
Dei molti prodigii che gli si appongono in vita e in morte, è da
notar quello del monastero di Sant'Adriano, dove piombati i
Musulmani di Sicilia, i frati fuggirono, fuorchè San Vitale; cui
fattosi incontro un Saraceno dispettoso del non aver trovato
danari nè bestiame, e tirato a tagliargli la testa, Vitale fe' il segno
della croce; una folgore strappò la scimitarra di mano al barbaro e
lo atterrò semivivo; se non che il Santo lo facea rinvenire.
Trent'anni dopo morte, il corpo di San Vitale fu rubato ai monaci
di Rapolla da quei di Turi1005, il cui vescovo recosselo in città
come palladio contro gli immondi Agareni di Sicilia che
tornavano a dare il guasto alla Basilicata. Di cotest'agiografia,
scritta da un Greco contemporaneo, abbiam la sola versione latina
che ne fece fare alla fin del duodecimo secolo Roberto vescovo di

1005
Antica sede del vescovato di Tricarico.
Tricarico; nella quale la critica può sol rigettare i fatti che
trapassano gli ordini della natura1006.
Lo stesso parrà della vita di San Luca da Demona, dettata da
un discepol di lui così semplicemente che i prodigii cadon dassè e
spicca l'opera d'un uom di questo mondo, sagace, affaticante,
animoso, ambiziosuccio, ma a buon fine. Si dice al solito nato di
parenti nobilissimi, Giovanni e Thedibia; entrato nel monastero di
San Filippo d'Argira; passato di lì a Reggio, per apprendere da un
Elia, venerabile romito, le discipline dei Santi Padri: ch'ei
compitava appena l'ofizio, ma la pratica d'Elia e particolare grazia
del Cielo, prosegue l'agiografo, gli apriron la mente ad ogni
dottrina, fino i misteri delle sottilità filosofiche. Lesse senza
nebbia nell'avvenire che s'aspettavan di nuovo i Saraceni,
strumento della vendetta celeste su la Calabria; onde uscito di sua
spelonca si messe a predicar contro i peccatori; trascorse fino a
Noja, dove soggiornò sette anni in una basilica. Rincrescendogli
poi l'aura popolare, se ne andò su le sponde dell'Agri, a fabbricare
il monastero di San Giuliano; gli raccapezzò qualche poderetto
per carità dei fedeli; fece scomparir, non si sa come, un Landolfo
possessore vicino, invidioso della prosperità dei frati; e correndo
sempre incontro alla fama, ch'ei facea le viste di fuggire, diessi ad
esorcizzare demonii, a sovvenire i poverelli, a curare i malati con
impiastri e medicine, scrive l'agiografo, per nascondere la virtù
del miracolo. Finchè, al tempo di Niceforo imperatore, calato
dalle Alpi un feroce che si messe a depredare le città greche

1006
Presso Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 86, e presso i
Bollandisti, 9 marzo, p. 96. I soli dati cronologici, oltre l'anno della versione,
sono la contemporaneità con San Luca di Demona, il titolo di Catapano di
Calabria che occorre nel racconto, e il nome del monastero di Armento, il
quale si sa fondato nella seconda metà del decimo secolo. La morte septimo
idus martii feria sexta ha portato i Bollandisti a notare l'anno 994. Si vegga
anche De Meo, Annali di Napoli, tomo VI, anno 994. I nomi dei luoghi in
Calabria ove si dice soggiornato San Vitale in romitaggio dopo il ritorno dalla
Sicilia, son Liporaco presso Cassano, Pietra di Roseto, Rappaco presso San
Quirico, Misanelli, Armento, Sant'Adriano presso Basidia, una cella presso
Turi, e infine Rapolla.
d'Italia1007, San Luca e suoi frati, e tra quelli lo scrittore,
ripararono ad un castello vicino. Poi vergognando di vivere a casa
de' laici, San Luca adocchiò tra le rupi d'Armento un sito da
potersi afforzare senza fatica, e v'innalzò un altro monastero, che
fu come l'acropoli d'una colonia basiliana, di tanti chiostri minori
e romitaggi e cappelle, sparsi nella provincia, fondati la più parte
da San Luca, lavorandoci fin di sua mano; dei quali lo
riconobbero abate, e veramente fu capitano. Perchè una volta
venuti i Musulmani di Sicilia a dare il guasto, s'erano attendati
alla pianura presso una cappella e profanavanla e scorreano i
dintorni, riportandone gran tratta di prigioni incatenati. San Luca
scortili dall'alto della rôcca, intona i salmi; ritto in su la porta del
chiostro fa la rassegna; arma i frati più gagliardi, lascia i deboli in
presidio: e con la croce in mano, conduce il bruno stuolo sopra i
nemici; i quali si sbaragliarono, gittaron le armi al súbito assalto
ed alla vista del Santo, che loro apparve sul mitico destrier
bianco, raggiante di luce. Ma ciò non tolga fede alla valente
fazione. Con pari animo andò girando ad assistere da medico e
padre spirituale i frati della colonia, mentre ardeavi spaventosa
moría. Venuta poi di Sicilia a visitarlo una sorella sua per nome
Caterina, madre di due altri santi Antonio e Teodoro, fondò
presso Armento un monistero di donne. Talchè salito San Luca al
sommo della fama claustrale, morì il tredici ottobre
novecentonovantatrè, non pur vecchio, s'egli è vero che lo
compose nella fossa quel medesimo San Saba stato suo superiore
a San Filippo d'Argira. Del quale, nè dei due nipoti di Luca, non
si fa memoria altrove, nè si sa come abbiano meritato
l'appellazione di santi1008.
1007
Otone I, come notaron bene il Gaetani e i Bollandisti. E però torna al 968 o
969 nelle scorrerie che abbiamo accennato al cap. VI del presente Libro, p. 311
del volume.
1008
Vita di San Luca di Demona, versione dal testo greco che sembra perduto,
presso il Gaetani, op. cit., tomo II, p. 96, e presso i Bollandisti, 13 ottobre
(tomo VI), p. 332. Questa seconda e recente edizione è illustrata di erudite
annotazioni. Il sant'Elia di Reggio primo maestro di San Luca, fu, al dir dei
Bollandisti, lo Speleote che dimorava a Melicocca presso Seminara, op. cit., p.
Similmente s'illustrò in Terraferma, e ci è noto per gli scritti
d'un greco di Calabria, San Filareto, del quale accennammo nella
guerra di Maniace. Nato di schiatta greca, forse a Traina 1009,
mandato a scuola appo un sacerdote, delibò degli studii quanto gli
parve abbastanza, dice l'agiografo: giovane frugale, mansueto,
assiduo in chiesa, aiutava a lavorare i poderetti paterni e vide la
liberazione e il subito precipizio dei Cristiani di Sicilia. Perchè
passata la famigliuola a Reggio, indi a Sinopoli, e messosi col
padre agli altrui servigii in campagna, gli stenti della vita, la
lontananza dalla patria profondamente sbigottirono quell'animo
tenero e malinconico. Sperando pace nel chiostro e non sapendo
lasciare il padre e la madre, egli unico figliuolo; dopo lunga
perplessità lor si fece innanzi, si gittò ginocchioni, svelò il
proponimento; ed assentitogli, ruppe in lagrime baciando mani e
piedi ai genitori. A venticinque anni proferì i voti nel monastero
di Aulina tra Seminara e Palmi, fondato da Sant'Elia di
Castrogiovanni1010, del quale poi solea leggere assiduamente e
contemplare la vita; ma nè l'indole sua, nè le condizioni delle
cose lo portavano ad imitare il missionario demagogo del nono
secolo. Nell'adunanza dei frati solennemente gli furon vestite,
dice l'agiografo, le armadure simboliche, la tunica usbergo di
carità, il mantello scudo di fede, il cappuccio elmo di speranza, il
cingolo freno contro libidine; impugnò a guisa d'asta la croce: e
mutato il nome di Filippo in Filareto, dato a tutti il bacio fraterno,
lo messero a guardare gli armenti del monastero. Durissima vita a
chi era avvezzo a qualche agio ed un po' allo studio1011. Si

333, § V. Per error di stampa nel Gaetani è recata quest'agiografia il 13


settembre, quando vi si legge tertio idus octobris, l'anno dell'Incarnazione 993
e del mondo 6493 secondo l'èra alessandrina.
1009
Si vegga il capitolo precedente, p. 387.
1010
Si vegga il Lib. II, cap. XII, 517 del primo volume.
1011
L'agiografo sclama: Ov'era in quelle solitudini il soffice letto, la pulita
stanza, il tappeto, le stuoje, i bagni, le brigate di amici, il pan fino, i pesci,
l'olio, i condimenti, le frutte, il vino, la lettura del Vecchio e del Nuovo
Testamento? Ma par ch'ei voglia accennare il contrasto con la vita di qualche
prelato di Calabria, piuttosto che con quella di San Filareto stesso in gioventù.
sobbarcò pur lietamente; fu specchio d'obbedienza monastica, di
pietà, di buoni costumi; e non fece miracoli mai: se non che due
anni dopo morte, una luce che usciva dalla sepoltura v'attirò i
devoti, indi i malati; e cominciarono le guarigioni miracolose. Era
morto Filareto di cinquant'anni, verso il millesettanta. Un piccino,
gracile, dal volto ovale, scuro e pallido, dagli occhi azzurri e poca
barba, tardo al parlare. Così lo dipinge il monaco Nilo, il quale in
tutta l'agiografia ora ripete, or dice passar sotto silenzio i
particolari che gli avea sentito raccontare, su le cose domestiche e
pubbliche al tempo di sua gioventù. Candide tradizioni, su le
quali il compilatore incollò una rettorica nè bella nè brutta, una
pietà verbosa ma non ciarlatana, che l'una e l'altra agevolmente si
staccano; e ne rimane quel buon documento storico che ci è
occorso e ci occorrerà tuttavia di citare1012.
Così gli scuri sembianti d'Ippolito e Prassinachio, lo zelo
claustrale di Luca di Demona e Vitale da Castronovo, e la
rassegnazione di Filareto rispondono alle tre vicende principali
della opinione pubblica appo i Cristiani di Sicilia dal principio del
decimo secolo alla metà dell'undecimo. Delle altre agiografie di
questo tempo, è spuria, a detta degli stessi Bollandisti, quella di
Santa Marina1013. La leggenda di San Giovanni Therista, non
regge alla critica: tanti casi da romanzo intessuti sopra un
anacronismo1014. Non meno maravigliose e pur son verosimili e
1012
Vita di San Filareto, presso il Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II,
p. 112, seg.; e presso i Bollandisti 6 aprile (tomo I), p. 605, seg., versione d'un
testo greco che sembra perduto.
1013
Si vegga il Gaetani, op. cit., tomo II, p. 109, che se la bevve; e i Bollandisti,
17 luglio (tomo IV), p. 288.
1014
Presso il Gaetani, op. cit., tomo II, p. 107; e presso i Bollandisti, 24
febbraio (tomo III), p. 479: il primo dei quali lo fa morire il 1054; e i secondi il
1129. Figliuolo d'un conte calabrese che fu ucciso nelle scorrerie dei
Musulmani di Sicilia, nacque in Palermo dalla madre condotta in schiavitù, e
sposata da un Musulmano; andò in Calabria a battezzarsi e trovare i tesori
nascosi del padre; si fece monaco sotto San Nilo (morto il 998), operò in vita
molti miracoli, e morendo risanò d'un'ulcera Ruggiero Guiscardo nipote di
Roberto, il quale diè in merito grandissimi beni al monastero. Questo Ruggiero
Guiscardo, che la storia non conosce, questo sbalzo dalla fine del X alla fine
cavate in parte da buone autorità, le avventure di San Simeone,
che nacque a Siracusa nella seconda metà del decimo secolo, di
padre bizantino e madre calabrese, e morì a Treveri il mille
trentaquattro. Soggiornò in Sicilia infino a sette anni, quando il
padre per dovere di milizia passava a Costantinopoli, dice la
leggenda; e però sembra soldato fatto prigione nella guerra di
Manuele Foca, liberato per riscatto. Forse il parlare arabico che il
fanciullo avea appreso in Sicilia, lo spinse, fatti ch'ebbe gli studii
in Costantinopoli, ad andare a Gerusalemme: ove s'infiammò
delle geste dei padri del deserto, volle vivere or frate ora romito a
Betlem, al Giordano, al Sinai, in una grotta del Mare Rosso; la
comunità del Sinai poi mandollo a riscuotere le grosse limosine
che le solea porgere Riccardo conte di Normandia. Così venne a
Rouen, dove trovando morto Riccardo (1026) e gretto il
successore, passò a Treveri; ed acconciatosi con l'arcivescovo,
mostrò a que' buoni Tedeschi esempio di penitenza orientale,
chiudendosi tutto solo nella vecchia torre di Porta Negra, ritrovo
dei dimonii. Gli assalti dei quali per tanti anni, dì e notte, respinse
con sue preci; e si comprende. Ma dopo una inondazione che
disertò il paese, accorsa la plebe co' sassi in mano chiamando a
morte il frate incantatore della torre, Simeone non se ne mosse
più che dei dimonii: proseguì a recitar l'ofizio tanto che i preti
racchetarono quel furore. Dopo morte preti e plebe a gara gli
attribuirono miracoli. Di certo col dir ch'ei facea delle calamità di
Terrasanta, e con quel suo strano tenor di vita in Normandia e in
Germania, Simeone da Siracusa fu un dei mille mantici della
Crociata1015.

dell'XI secolo, convengon bene alle avventure favolose che abbiamo appena
accennate.
1015
La vita di San Simeone da Siracusa fu scritta per ordine dell'arcivescovo di
Treveri da un Eberwin abate del monastero di San Martino, il quale avea
praticato con Simeone nella torre e l'aveva assistito a morte. Si vegga presso il
Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 101; o meglio presso i
Bollandisti, 1 giugno, p. 87, seg. Si riscontri la Cronica di Sigeberto, anno
1016, presso il Pertz, Scriptores, tomo VII, p. 555.
Dal detto fin qui si vede che il Cristianesimo si ristrinse e
rattiepidì in Sicilia sotto la dominazione musulmana; ma non ne
venne a mancare giammai1016 la credenza nè il culto palese.
L'attesta un autore arabo dell'undecimo secolo, con dir preciso
che "s'eran fatti musulmani la più parte degli abitatori."1017 Che se
Urbano secondo, nella bolla del millenovantatrè, lamentava la
religione spenta nell'isola per tre secoli, non volea significar altro
che la misera condizione della Chiesa siciliana e il picciol numero
dei Fedeli, se tali pur gli pareano quei di rito greco1018. Sembra
privo d'ogni fondamento il supposto che i Cristiani di Sicilia al
conquisto normanno fossero i venuti al tempo di Maniace, poichè
questi condusse soldati, non coloni; e i soldati, come si è detto,
non tardarono a ripassare in Terraferma1019.
1016
Si cominci dai Cristiani che compiangeano i prigioni di Siracusa (878)
nelle strade di Palermo, Lib. II, cap. IX, p. 408 del primo volume; si scenda via
via nel X secolo ai patti di Hasan in Reggio, alla guerra di Taormina e
Rametta, al segretario cristiano d'Abu-l-Kâsim, Lib. IV, cap. II, III, VI, p. 247,
257 e 320 di questo volume; e si arrivi nel presente capitolo ai fatti dell'XI
secolo, e si vedrà durar sempre il cristianesimo.
Di questa opinione sono stati quasi tutti gli scrittori delle cose ecclesiastiche di
Sicilia, come si può vedere del Mongitore, Opuscoli d'Autori Siciliani, tomo
VII, p. 119, seg. Il Di Gregorio tenne la stessa sentenza, Considerazioni su la
storia di Sicilia, lib. I, cap. I.
La sentenza contraria è stata di recente sostenuta dal Martorana, Notizie
Storiche dei Saraceni Siciliani, tomo II, p. 43 a 75; al quale rispose il sacerdote
Niccolò Buscemi, Biblioteca Sacra per la Sicilia, (Palermo 1832), vol. I, p.
195 seg., 373 seg., ed egli replicò in varii articoli del Giornale di Scienze e
Lettere per la Sicilia del 1834, raccolti poi in un volumetto, p. 17 seg., 133 seg.
Io ho citato di sopra alcuni documenti allegati dall'uno e dall'altro, e, com'è
naturale, ho tenuto presenti le ragioni pro e contra, ma non posso qui
esaminarle partitamente.
1017
Nel Mo'gem-el-Boldân di Jakût, Biblioteca arabo-sicula, testo, p. 117.
1018
Presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 617, nella notizia della Chiesa siracusana. Il
comento si trova non solo nei fatti che abbiamo esposto, ma anche in un
diploma di re Ruggiero dato il 6642 (1134), il quale attesta la sollecitudine del
padre a liberare dagli Agareni la Sicilia e i suoi abitatori cristiani; presso
Pirro, p. 975.
1019
Questo supposto è del Martorana, Notizie storiche, tomo II, p. 68 a 73; il
quale non so se vi sia stato condotto dal Rampoldi che sognò una tregua di tre
All'incontro la libertà del culto si deve intendere entro i limiti
osservati in generale negli Stati musulmani1020;] senza
persecuzione o pur insolito rigore, di che non v'ha alcun indizio in
Sicilia dal principio alla fine della dominazione musulmana. Ma
va messo in forse, come affermazione di cronica moderna e zeppa
di errori, che un principe musulmano dell'isola accordasse ai
Cristiani di celebrare pubblicamente gli oficii divini e recare
l'eucaristia ai moribondi1021. Va rigettata ritondamente la
istituzione d'una confraternita nella chiesa di San Michele del
monistero delle Naupactitesse in Palermo, l'anno mille e
quarantotto, nella quale fossero ordinate processioni ogni mese e
festa annuale ed esequie solenni dei confratelli morti. Il diploma
di rinnovazione di quegli antichi statuti, che è serbato
nell'archivio della cappella palatina di Palermo, non fa menzione
della città, nè il nome topografico che vi occorre1022 appartiene a
Palermo nè ad altra terra di Sicilia. Anzi le preghiere da farsi per
gli «ortodossi imperatori e il santissimo patriarca e
metropolitano» mostrano che il paese ubbidisse all'impero
bizantino. Forse Bari o altra città dell'Italia meridionale, dove
nelle guerre di re Ruggiero qualche capitano bibliofilo diè di

anni tra i Musulmani e i Bizantini di Sicilia, dopo la partenza di Maniace. Si


vegga la risposta del Martorana, p. 16, nota. Il Martorana cadde in errore,
credendo che l'appellazione di Greci, sì frequente in Sicilia nello XI e XII
secolo, non dinotasse i Siciliani di linguaggio greco, ma necessariamente si
dovesse riferire a gente venuta di fresco dalle province bizantine.
1020
Si vegga il Lib. II, cap. XII, p. 476 seg. del primo volume.
1021
Questa cronica in forma di lettera di Fra Corrado, priore del convento
domenicano di Santa Caterina in Palermo, ha una data che risponde al 1290. Si
vegga presso Caruso, Bibliotheca Historica regni Siciliæ, tomo I, p. 47, questo
cattivo compendio di fatti dal 1027 al 1282, del quale non conosciam tutte le
sorgenti ed alcuna si potrebbe supporre versione inesattissima dall'arabico.
Oltre gli errori madornali su i fatti e i nomi, vi si nota l'anacronismo d'un
secolo nella scorreria dello spagnuolo Meimûn-ibn-Ghania in Sicilia, ch'è
messa il 1027 in vece del XII secolo. In ogni modo, ancorchè la storia sembri
più tosto alterata da errori di compilazione o di copia che falsata a disegno, non
si può fare alcuno assegnamento su l'attestato di Fra Corrado.
1022
Girio.
piglio a questo ruolo di pergamena in capo al quale vedea
luccicare una Madonnetta bizantina su fondo d'oro1023.

CAPITOLO XII.

Siam pervenuti adesso al tratto più oscuro di queste istorie.


Dopo la esaltazione dell'emiro Iûsuf gli annali arabici della Sicilia
cambiano stile; le sorgenti impoveriscono; e pur si tien dietro al
racconto sino alla occupazione di Moezz1024. La guerra di

1023
La versione latina di questo diploma fa pubblicata dal Di Giovanni,
Codex Siciliæ diplomaticus, n° CCXCVIII, p. 347; il testo greco dal Morso,
Palermo antico, p. 321, e dal Garofalo, nel Tabularium... capellæ collegiatæ....
in regio panormitano palatio, p. 1, seg.; e tutti han creduto si trattasse d'una
confraternita in Palermo; massime il Morso, il quale vi fabbricò sopra la strana
conghiettura da noi accennata nel cap. V del III Libro, p. 298 di questo vol. in
nota.
Ma quella preghiera pel patriarca e per gli imperatori (βασιλεω̃ν) mal
conveniva ad un corpo morale esistente in Palermo nell'XI e XII secolo. Il
Martorana, Notizie ec., tomo II, p. 219, pensò doversi riferire la fondazione ai
Greci bizantini ch'ei suppone occupatori di Palermo nella guerra di Maniace; e
mise anco in forse l'autenticità del diploma. Il Mortillaro in un'aspra critica
contro Garofalo, Opere, tomo II, p. 67, seg., rincalzò cotesto sospetto.
A me non par luogo di credere apocrifa la pergamena; ma tengo certo che la
confraternita delle Naupactitesse non sia stata mai in Palermo. Dapprima i
nomi dei confratelli sottoscritti, greci la più parte, mi avean fatto pensare ad
alcuna delle città ed isole di Grecia assalite dai Normanni di Sicilia; ma
consultatone M. Hase, ha notato che tra que' nomi ve n'abbia di forma italiana,
e che il nome di un Ruggiero Nanainà ci richiami alla Puglia. Però debbo
all'autorità del maestro il pensiero che segno nel testo. Aggiungo che la voce
imperatori, al plurale, fa credere rinnovati gli statuti mentre sedea più d'uno sul
trono di Costantinopoli; e ciò, dopo il 1048 data del primo diploma, tornerebbe
al regno di Costantino Duca (1060-67), il quale si associò i figliuoli, o di questi
e della madre (1068); e sarebbe appunto prima della occupazione di Bari per
Roberto Guiscardo.
1024
Ibn-el-Athîr dà i fatti in ordine cronologico infino agli armamenti dei
Bizantini, il 416 (cap. IX di questo Libro a p. 365 del volume); e indi salta al
484 raccogliendo in un capitolo tutti gli avvenimenti dalla abdicazione di
Maniace, passata sotto silenzio dai Musulmani, si ritrae tanto o
quanto dai nemici loro. Ma nei venti anni che corsero tra la
cacciata dei Moezziani e la sconfitta d'Ibn-Thimna, il nesso degli
avvenimenti si spezza; appena v'ha un cenno dell'anarchia seguíta
in Sicilia, e più lungo racconto dell'ingiuria di Meimûna che
affrettò l'ultima catastrofe. Le notizie biografiche degli uomini di
lettere, ancorchè abbondino in quel tempo, dan poco lume su la
storia politica. È forza dunque aiutarci a conghietture; adoprare
spesso quella forma dubitativa sì spiacente nella storia, sì
audacemente scansata dai maestri antichi, per amor dell'arte.
Spento Akhal, rimasa la Sicilia ad arbitrio d'Abd-Allah-ibn-
Moezz, ed assalita al medesimo tempo da Maniace; non è dubbio
che Moezz, per difendere il nuovo acquisto v'abbia mandato
d'Affrica quante forze ei potea. Torme di Berberi, dunque, amiche
Iûsuf, il 388 (998), al compiuto conquisto dei Normanni (1091); nel quale
capitolo la data e' particolari scarseggiano da Iûsuf alla occupazione di Moezz
(1037), e mancano al tutto d'allora infino alla chiamata dei Normanni (1060).
Or appunto alla fine del X secolo, cioè al tempo di Iûsuf, giugne la cronica
d'Ibn-Rekîk (Introduzione, p. XXXVII del primo volume). Ibn-Rescîk supplì
forse i primi quarant'anni dell'XI secolo, ibid. I cenni su la seconda metà
sembrano cavati da Abu-Salt-I-Omeîa o da Ibn-Sceddâd (Introduzione, p.
XXXVIII), i quali scrivendo nel XII secolo, quando era giù la dominazione
musulmana di Sicilia, o non conobbero o non vollero raccontare tutti i
particolari della caduta.
Questo concetto si conferma a legger Abulfeda, Nowairi e Ibn-Khaldûn, nei
quali si vede manifestamente la stessa lacuna, ancorchè non abbian sempre
copiato o compendiato Ibn-el-Athîr, ed abbiano avuto in originale alcune
sorgenti. Abulfeda muta un po' la divisione della materia. D'un fiato ei dà
nell'anno 336 tutta la storia degli emiri kelbiti di Sicilia, trascritta da un autore
ch'è al certo Ibn-Sceddâd: capitolo aggiunto dopo la prima copia o edizione,
poich'è scritto di mano d'Abulfeda stesso in margine del MS. di Parigi, Suppl.
Arabe, 750. Poi nel 484 fa un capitolo compendiato, com'ei pare, sopra Ibn-el-
Athîr, dov'ei viene a ripetere alcuni fatti del capitolo del 336, non avendo
badato a cancellarli quando aggiunse lo squarcio d'Ibn-Sceddâd. Nowairi e
Ibn-Khaldûn, dividendo loro storie generali per dominazioni, non per anni,
fanno capitoli apposta su le cose di Sicilia; ma vi allogano gli stessi fatti d'Ibn-
el-Athîr, più o meno particolareggiati e sempre interrotti nel periodo che
notammo. Tutti par abbiano ignorato le storie particolari della Sicilia scritte da
Ibn-Kattâ' e da Abu-Ali-Hasan (Introduzione, p. XXXVII, n° I, V).
e non amiche a casa zîrita, adescate con un po' di denaro e molte
speranze; masnadieri senza disciplina, di quei che dieci anni
dopo, assaliti in casa loro dagli Arabi d'oltre Nilo, spulezzarono
trentamila contro tremila alla prima battaglia1025. Non fecero
miglior prova nella giornata di Traina, mescolati con gli Arabi di
Sicilia, ch'eran tratti a forza, e lor cominciava a puzzare la
dominazione affricana. La strana fuga d'Abd-Allah di fianco
verso la marina e indi per nave a Palermo, dimostra l'esercito, non
che scompigliato, ammutinato, minacciante l'infelice capitano.
Senza ciò, per codardo e inesperto che fosse costui, spronava per
la più corta alla capitale, con la speranza di rannodare le genti, in
tre o quattro giornate di cammino tra castella e luoghi fortissimi
per natura.
Scoppiaron al certo dopo la rotta di Traina nelle milizie
siciliane, nella cittadinanza di Palermo e d'altri luoghi del Val di
Mazara, le querele che gli annali arabici portan dopo la morte di
Akhal, senza l'appunto del tempo, luogo e causa prossima1026; ma
v'ha quella stampa di costernazione d'un popolo che vegga il
subisso. Altercavano i Musulmani di Sicilia, avversarii e
partigiani di Moezz, rinfacciandosi reciprocamente: "Voleste
mettervi in casa gli stranieri! Per dio! che l'è finita bella: ecco il
frutto dell'opera vostra1027!" E pentiti gli uni e gli altri, si univano
ai danni d'Abd-Allah. Si venne al sangue in Palermo, col presidio
o con alcuna schiera leale che tornasse di Traina: il figliuolo di
Moezz, perduti ottocent'uomini1028 nella zuffa, si gittò coi
rimagnenti su l'armata; e scampò in Affrica. I sollevati rifecero
1025
Nel 1052. Si vegga Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, versione di M. De
Slane, tomo I, p. 34, 35; è Ibn-el-Athîr) MS. C, tomo V, fog. 81 verso, e 82
recto, che particolareggia motto più i fatti.
1026
Sapendosi di certo dagli autori cristiani che lo sconfitto a Traina fu Abd-
Allah-ibn-Moezz, il tumulto che lo cacciò avvenne di necessità dopo la
battaglia, non immediatamente dopo la uccisione di Akhal.
1027
Traduco quasi litteralmente da Ibn-el-Athîr dove si legge "Per dio la fine
dell'opera vostra, ec.;" la qual voce fa supporre un recente e grave caso.
1028
Alcuni autori portan trecento; ma è differenza di copia, potendosi
scambiare facilmente le due voci arabiche che significano quei due numeri.
Qual dei due sia il vero nol so.
emiro Hasan, soprannominato Simsâm o Simsâm-ed-Dawla
(Brando dell'Impero), fratello di Akhal1029; forse quel desso che
cinque anni innanzi s'era ribellato coi Siciliani contro il fratello.
A salto a salto, gli annali arabici continuano dopo la
esaltazione di Simsâm, che la Sicilia si sconquassò; ch'uomini di
vil condizione, di qua, di là, detter di piglio al comando 1030. Il
Kâid Abd-Allah-ibn-Menkût s'insignoriva di Trapani, Marsala,
Mazara, Sciacca e di tutte le pianure occidentali; il Kâid Ali-ibn-
Ni'ma, soprannominato Ibn-Hawwâsci, di Girgenti,
Castrogiovanni e Castronovo con lor distretti1031. La costiera
1029
Si riscontrino: Ibn-el-Athîr, anno 484, MS. C, tomo V, fog. 109, recto, seg.;
Abulfeda, Annales Moslemici, stesso anno, tomo III, p. 274, seg.; Nowairi,
presso Di Gregorio, op. cit., p. 23; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la
Sicile, p. 181; Ibn-Abi-Dinâr, MS., fog. 37 verso, seg. Quest'ultimo è il solo
che aggiunga il compimento ed-dawla al soprannome Simsâm e mi sembra
però più corretto.
1030
Si riscontrino: Ibn-el-Athîr, Abulfeda, e Ibn-Khaldûn, ll. cc., i quali
copiano con varianti unico testo. Nowairi, l. c., non dice degli uomini di
vilissima condizione. E forse copiando come gli altri, saltò quelle parole
perchè gli parvero contraddittorie al fatto trovato nel medesimo testo, o
altrove, e dato da lui solo; cioè il governo degli Sceikhi in Palermo. Abulfeda,
in fin del capitolo su i Kelbiti ch'ei trascrive da Ibn-Sceddâd, dice che
s'impadronirono della Sicilia i Kharegi, ossia ribelli.
1031
Si riscontrino: Ibn-el-Athîr, Abulfeda, Ibn-Khaldûn e Nowairi, ll. cc. I
primi tre aggiungon al novero dei regoli Ibn-Thimna; ma Nowairi, ch'è il più
diligente di tutti in questo periodo, dice costui surto appresso: e ciò si accorda
meglio con gli altri fatti.
Ibn-Menkût sembra di schiatta arabica. Questo nome che in un sol MS. di
Nowairi si legge con la variante Metkût, non può essere diverso da quell'Ibn-
Menkud da cui si addomandò un castello appunto in Val di Mazara, ricordato
da Edrisi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 119 della versione latina.
Nacque di certo della famiglia e probabilmente fu predecessore d'un Kâid
Abu-Mohammed-Hasan-ibn-Omar-ibn-Menkûd, poeta siciliano ricordato da
Imâd-ed-dîn nella Kharida, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1375, fog. 43 recto.
Un Kaid Abd-Allah-ibn-Menkût, della stessa tribù e forse della stessa famiglia,
si vede alla corte di Tamîm, principe zîrita di Mehdia, il 481 (1088-9) presso
Ibn-el-Athîr, MS. C, tomo V, fog. 106 verso, con la variante Menkûr nel
Baiân, tomo I, p. 310 del testo arabico. E con le varianti Metkûd, Medkûr, si
trova lo stesso nome in Affrica nel XIII secolo presso Ibn-Khaldûn, Histoire
des Berbères, versione di M. De Slane, tomo II, p. 103, 222. Le dette varianti
settentrionale e l'orientale, ch'abbandonaron ultima i Bizantini,
par abbian seguíta la sorte di Palermo1032; se non che il Kâid Ibn-
Meklâti occupò Catania qualche anno appresso1033. La capitale si
resse a nome di Simsâm; poi lo cacciò via; e gli sceikhi, ch'è a
dire i notabili municipali, presero lo stato1034. Questo fu il primo
periodo dell'anarchia, cominciato con la cacciata di Abd-Allah-
ibn Moezz il quattrocentotrentuno (22 settembre 1039 a 9

son dei copisti, nè montano. Quella tra Menkût e Menkûd potrebbe venir dal
suono similissimo che hanno quelle due lettere finali nella pronunzia degli
Arabi. Infine è da avvertire che l'una e l'altra voce ha significato in arabico.
Quanto ad Ibn-Hawwâsci (le ultime tre lettere corrispondenti al ch francese e
sh inglese), questo nome si legge anche Hawâs e Giawâs; e li credo errori di
copie. Hawwâsci significherebbe "l'agitatore, il demagogo," e ben converrebbe
a quegli che Ibn-Thimna diceva appo i Normanni "servo suo rivoltato" (Leone
d'Ostia, lib. III, cap. 45); un che esmut lo peuple et lo chacerent de la cite et se
fist amiral (Amato, lib. V., cap. 8).
È da avvertire infine che in Ibn-Khaldûn leggiamo Abd-Allah-ibn-Hawwâsci
signor di Mazara e Trapani, e non si vede il nome di Ali-ibn-Ni'ma, nè si parla
di Castrogiovanni e Girgenti. Viene probabilmente da un rigo saltato nella
copia in questo modo: "a Mazara e Trapani Abd-Allah-ibn-Menkût ed a
Castrogiovanni Ali-ibn-Ni'ma detto Ibn-Hawwâsci ec."
1032
All'assalto dei Normanni, il 1062, era venuto in soccorso di Messina il
navilio palermitano. Diremo a suo luogo del navilio del principe di Sicilia che
si trovò il 445 (1053-4) a Susa rivoltata contro gli Zîriti.
1033
Nei due MSS. di Nowairi si trova Kelâbi e Meklâbi, ma la giusta lezione
data da Ibn-Khaldûn è Meklâti, che differisce dall'ultima pei punti diacritici
d'una sola lettera, e dalla prima per questi e per un picciol nodo che segna la m,
e che facilmente sfugge alla vista in una scrittura frettolosa. D'altronde Ibn, o
Ben, Meklâti, risponde al Benneclerus di Malaterra (lib. II, cap, 2, 3), il quale
scrisse probabilmente Benmecletus.
Nella Kharida d'Imâd-ed-din, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1375, fog. 36
verso, abbiamo tre lamentevoli versi del poeta siciliano, il Kâid Abu-l-Fotûh
figliuolo del Kâid Bedîr (o Bodeir) Sened-ed-dawla, Ibn-Meklâti ciambellan
del sultano. Trovandosi nel capitolo tolto da Ibn-Kattâ', erudito e filologo
siciliano che morì nel principio del XII secolo, Bedîr o il figliuolo è
probabilmente il signor di Catania. Il sultano del quale egli si intitolò Hâgib,
(ciambellano) col soprannome di "Base dell'Impero," pare Simsâm, che in sua
misera condizione tenesse corte e desse titoli.
In ogni modo Meklâta era tribù berbera e forse ramo di Kotâma, come si legge
in Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, versione di M. De Slane, tomo I, p.
settembre 1040), chiuso con la deposizione di Simsâm, com'e'
pare, l'anno quattrocentoquarantaquattro (2 maggio 1052 a 21
aprile 1053) che una cronologia assegna a termine della dinastia
kelbita di Sicilia1035.
Si narra che nel medesimo tempo, l'anno al giusto non
sappiamo, combattuta Malta dai Bizantini, ridotti i Musulmani a
tale, che il nemico volea da loro tutte le facoltà e le donne;
ragunaronsi, considerarono il numero degli schiavi ecceder quello
degli uomini liberi; e trassero l'ultimo dado. Profferiscono alli
schiavi l'emancipazione e il partaggio dei beni, s'e' vogliono
armarsi coi padroni e tutti insieme vincere e godersi la libertà, o
morire. A che assentendo gli schiavi, gli uni e gli altri in una sola
falange fecero impeto su i Bizantini; li ruppero e cacciarono
dall'isola: e dopo la vittoria si compiè la riforma promessa; il
nuovo popolo di Malta si ordinò con sì bella concordia, e indi
tanta forza in picciola massa, che i Cristiani non osarono assalirlo
mai più. Scrivea così un contemporaneo; al quale si potrebbe
credere cotesto esempio di felice prudenza senza accettarne tutti i
particolari. I nemici erano al certo schiera spiccata dall'esercito di
Maniace. Il partito fu preso pubblicamente quando i Bizantini
occupate le campagne di Malta strignessero d'assedio la città; o
piuttosto nacque in una cospirazione dei Musulmani, soggiogati
innanzi il mille quaranta, e sollevatisi appresso, ad esempio della
Sicilia1036.

172, 227, 294, e tomo II, p. 237.


1034
Nowairi, l. c. Gli altri tacciono questo fatto importante.
1035
Hagi-Khalfa, compilatore assai moderno, è il solo che porti questa data nel
Takwim-et-Tewârîkh (Cronologia), edizione di Costantinopoli, p. 60. Pur si
adatta benissimo in mezzo a quel tratto di venti anni che gli annalisti lasciano
sì oscuro. S'aggiunga che Ibn-el-Athîr, Abulfeda e Nowairi, i quali non
scrivono la data della elezione nè della deposizione di Simsâm, pongono
appunto nel 444 (1052-53) il primo passaggio dei Normanni con Ibn-Thimna,
che seguì nove anni dopo (1061). Sembra dunque che le croniche lette da loro
abbiano confuso la caduta dei Kelbiti con la chiamata dei Normanni. Ibn-
Khaldûn s'allontana da ogni probabilità, dando Simsâm cacciato di Palermo e
poi ucciso il 431 (1039-40).
Dove la cacciata dei Bizantini avea dato anco la pinta
all'ordine sociale ingiusto e mal fermo, surto dal conquisto
musulmano; ma nell'isola piccina lo si racconciò patriarcalmente
con una riforma; nell'isola grande gli elementi più complicati,
diversi secondo le regioni ed aizzati già dalla guerra civile, non
potendo accordarsi, scissero il paese in più Stati. A misura che
sgombravano i Bizantini, i Musulmani sottentrarono
confusamente. Qui la moltitudine occupò senza trar colpo il
castello afforzato e poscia abbandonato dal nemico; là avventossi
contro picciol presidio e fecelo in pezzi; a tal altro luogo corse
una frotta di disertori berberi dell'esercito di Moezz, o uno stuolo
di giund siciliano con la bandiera di Simsâm o senza. Così
dobbiamo affigurarci il racquisto della più parte dell'isola, che i
Musulmani credean fare di propria virtù, ed era la stoltezza della
corte bizantina, la quale gittò in carcere Maniace; era la mente
d'Ardoino e la spada delle compagnie italiane e normanne che
sbarattavano le schiere greche, come ripassavano il Faro ad una
ad una. I legami tra capitale e province spezzati dalla occupazione
bizantina; quei degli antichi Musulmani coi nuovi, ossia dei
nobili coi popolani, spezzati dalle arti d'Akhal e dal mutare e
rimutare i giund per sei anni continui1037, le plebi corse alle armi,
fatte conquistatrici ciascuna dassè; i corpi franchi di Berberi; la
rabbia di Siciliani ed Affricani ridesta necessariamente quando fu
scosso il giogo zîrita; quello scompaginamento sociale;
quell'autorità monarchica rimessa su in un tumulto senza forze
proprie nè entrate, toglieano ai Kelbiti ogni modo di rassettare la
cosa pubblica. La sconfitta di Simsâm, o certo dello esercito sotto

1036
Cosmografia di Kazwîni, intitolata Athâr-el-Bilâd, testo arabico, p. 383. Il
compilatore che visse nel XIII secolo, dice avvenuto il caso dopo il 440 (15
giugno 1048 a 3 giugno 1049). Il cronista di cui trascrive le parole ma non dà il
nome, fu al certo contemporaneo, perchè visse avanti l'occupazione normanna
del 1091. Forse Abu-Ali-Hasan, autore d'una storia di Sicilia, citato altrove da
Kazwini.
1037
Prima da Akhal; poi dalle due parti nella guerra civile e in ultimo da Abd-
Allah-ibn-Moezz. Nol dicono gli annalisti, ma non cade in dubbio.
le mura di Messina1038, dileguò la speranza se alcuna ne rimanea.
L'emiro che i Bizantini dicono ucciso, e per sua sventura nol fu,
perdè allora il solo dritto che dà comando nelle rivoluzioni. Che
sperar, che temere di lui? Lo stormo delli sbaragliati si sparpagliò
per tutta l'isola: ognuno s'acconciò in casa propria o nell'altrui,
non essendovi forza maggiore che lo respingesse. Questo
significano in loro stile gli annali arabici, dei quali abbiam dato il
tenore.
Come in natura ogni più strano disordine è ordinato in sè
stesso secondo le eterne leggi della materia, così in quel ribollir di
tutte le genti che altre vicende avean cacciato insieme in Sicilia,
nacquero varii grumi: e ciascuno fece uno stato; e in ciascuno si
scopre l'affinità degli elementi che gli davano principio. Lo stato
del centro, di cui fu capitale Castrogiovanni, erano territorii
agricoli fatti da lunghissimo tempo musulmani; sì che v'era
accaduta la vicenda del menomarsi la nobiltà militare, dileguarsi i
vassalli cristiani e crescere i popolani dell'antica schiatta; la parte
Siciliana come si era chiamata in principio dalla guerra civile.
Onde vi prevalsero que' che le croniche appellano uomini di vil
condizione, finchè un se ne fece signore: Ibn-Hawwasci, "Il
Demagogo," schiavo, liberto plebeo1039. Questo stato vincea di
potenza ogni altro dell'isola; come si vedrà negli avvenimenti che
seguono per quarant'anni. Ibn-Menkût, messo negli annali a
capolista degli uomini ignobili che vengon su nella rivoluzione,
comanda nella punta occidentale, paese marittimo, sede di antiche
colonie arabiche e però di molta cittadinanza d'origine
musulmana. Quivi la popolazione sta, o tentenna, tra le due
fazioni affricana e siciliana, o vogliam dir nobile e plebea: onde
v'ha poco divario con la cittadinanza palermitana; e non guari
dopo sparisce questo stato d'Ibn-Menkût, attirato da Palermo o da
Castrogiovanni. Palermo fa parte dassè. La costiera orientale,
abitata la più parte da vassalli cristiani, obbedisce a Simsâm e

1038
Si vegga il cap. X di questo Libro, p. 393, 394.
1039
Litteralmente significa "Il figlio del Demagogo." La citazione è a p. 420,
nota 2.
poscia al capo della nobiltà1040, e veggiamo i nobili prevalere nella
più illustre città di quelle parti1041; e la seconda ch'era Catania,
tenersi pria dal condottiere berbero Ibn-Meklâti, ma sottomettersi
al signor di tutta la regione orientale. In vero Ibn-Meklâti, con
que' suoi titoli di "Base dell'Impero" e ciambellan del Sultano,
rassomiglia a governatore di provincia per Simsâm1042. Guerrier di
ventura, sia delle antiche colonie berbere, sia disertore
dell'esercito moezziano, cacciatosi tra le turbolenze della Sicilia,
salito in favor della corte; dopo il naufragio della quale si provò
ad afferrare la tavola ch'avea presso. Le divisioni tornano dunque
a tre: nobiltà militare, popolo delle province, e cittadinanza della
capitale.
Avendo detto abbastanza delle due prime 1043, ci rimane ad
investigar gli umori di parte in Palermo. Ab antico, vi prevalse
come notammo1044, la nobiltà, cui seguivano docilmente popolo e
plebe difendendo le franchigie coloniali. Cresciuto il popolo di
numero, facoltà e lumi, gli rincrebbe la licenza aristocratica;
applaudì al primo emir kelbita che la raffrenava: la gemâ', nella
quale veniano mancando i nobili proscritti e sottentravano i
giuristi popolani, tendea, come un tempo quella di Kairewân, alla
costituzione dei primi califi sotto un principe elettivo; quella via
di mezzo di libertà, che la turbolenta schiatta arabica smarrì in
brev'ora e non potè ritrovarla mai più. Quando la discordia tra
nobili e popolo fu matura, quand'Akhal mutò la base del
principato dal popolo nei nobili, si parteggiò forse nella capitale,
ov'eran ambo gli elementi, e il popolare ch'era il più forte
prevalse: come il mostrano quelle soldatesche chiamate dal
principe, quell'assedio di ch'egli fu stretto nella Khalesa, ch'è a dir
la Metropoli rivolta contro la cittadella che i Fatemiti le avean
piantato in seno. Palermo ubbidì al figliuolo di Moezz per
difender lo stato dai Bizantini; lo scacciò quando s'accorse che
1040
Si vegga il cap. XV del presente Libro.
1041
A Siracusa, come si scorge dalle poesie d'Ibn-Hamdîs.
1042
Si vegga la nota 2, p. 421.
1043
Si vegga il capitolo IX di questo Libro, p. 373 del volume.
1044
Si vegga il Lib. III, cap. VIII e X, p. 146 seg., e 248 seg., di questo volume.
sapeva opprimere ma non difendere; e ristorò il principato kelbita
sola áncora di salvezza in quella tempesta. La gemâ' di Palermo
par abbia tenuto il cammin dritto, mentre guazzavano
nell'anarchia le altre popolazioni a ponente dal Salso: contadini e
cittadini delle città minori, dove sogliono essere più stizzose le
ire, più procaci gli uomini rozzi, men chiari alla vista gli interessi
pubblici. In particolare vi si dovea coltivar meno lo studio del
dritto che racchiude ogni idea politica dei Musulmani1045; e la
schiatta siciliana, assai meno mescolata con l'arabica, le si dovea
mostrare più ostile.
Per qual vicenda fosse cacciato Simsâm di Palermo si ignora.
Ma la Sicilia centrale era perduta; la regione di levante obbediva
forse di nome; questo "Brando dell'impero" non era uom di
guerra nè di stato, e volle far troppo il re in Palermo, o parve
inutile impaccio alla gemâ'. Gli dissero dunque di andarsene con
Dio, e vollero provare la repubblica; se pur non aveano esaltato e
deposto, tra i Kelbiti e la repubblica, un principe che regnasse
qualche anno o qualche mese, Abd-er-Rahman-ibn-Lûlû,
soprannominato Sceikh-ed-Dawla (Anziano dell'Impero) che
rifuggissi in Egitto1046. Si vedrà nell'ultimo capitolo, come la
capitale, bramosa tuttavia di ricomporre lo stato, abbia promosso
o accettato un re novello di schiatta nobile; il quale finì peggio
dei predecessori.

1045
È da fare eccezione per poche città marittime come Mazara, Marsala,
Trapani, le quali per la vicinanza con l'Affrica e l'antichità delle colonie,
sopratutto Mazara, doveano serbare ordini e tendenze politiche analoghi a que'
di Palermo. Il dritto non si trascurò di certo a Mazara, dove sorse il più celebre
giureconsulto del tempo.
1046
Imâd-ed-dîn, nella Kharîda, MS. di Parigi, A. F., 1375, fog. 133 recto, lo
pone tra i poeti egiziani, notando pure che si dovrebbe noverar tra quei di
Sicilia. Il titolo che gli dà di Sâheb-Sikillia, mi porta alla conghiettura che
annunzio nel testo. Pure si potrebbe supporre dimenticata qualche parola, dopo
Sâheb, per esempio, Sciorta, nel qual caso sarebbe stato prefetto di polizia in
Sicilia.
CAPITOLO XIII.

Sfasciandosi per tal modo gli ordini pubblici, facea pur la


Sicilia bella mostra al di fuori: grosse e frequenti città, valide
fortezze, monumenti, industria agraria e cittadinesca, commercio,
lusso, scienze, lettere. Le quali parti di civiltà sendosi maturate
sotto la dinastia kelbita che più o meno le promosse, noi le
verremo esponendo in questo e nel capitolo seguente, recando la
storia letteraria sino al fin della guerra normanna; e farem anco
parola dei dotti, i quali non trovando patria sotto il giogo
cristiano, vollero serbarne schietto il simulacro nell'esilio, sì che
andarono raminghi in Spagna, Affrica, Egitto ed Oriente, nella
prima metà del duodecimo secolo. Con essi porremo quei pochi
di cui s'abbiano notizie senza data certa. E serbiamo al sesto libro
i dotti musulmani, del paese o stranieri, segnalatisi in Sicilia sotto
i Normanni; e gli altri che conseguiron fama fuori l'isola dopo la
metà del duodecimo secolo.
Tra il novecensettantatrè e il millecinquantaquattro dell'èra
cristiana, tra il mercatante Ibn-Haukal che appuntava maraviglie e
vizii in qualche osteria di Palermo, e l'Edrisi prole di principi, che
stendea la descrizione dell'isola sotto gli occhi di re Ruggiero,
vissero in Sicilia due eruditi i quali ci lasciaron alcun cenno
geografico. Scrittori entrambi di storia o cronica del paese, l'uno
verso il millecinquanta per nome Abu-Ali-Hasan; l'altro, alla fine
del secolo, l'illustre filologo Ibn-Kattâ': ed entrambi ebbero alle
mani memorie più antiche. Fiorì anche nell'undecimo secolo il
geografo spagnuolo Bekri, due cenni del quale su la Sicilia si
trovano presso uno scoliasta1047. Dobbiamo i frammenti di Abu
Ali e d'Ibn-Kattâ' all'erudito Iakût; il quale pubblicò il
milledugentoventotto il Mo'gem-el-Boldân, ossia Dizionario
geografico, e par abbia tolto da loro quasi tutte le notizie che dà

1047
Lo scoliasta è Ibn-Scebbât. Gli estratti di Bekri, sono pubblicati nella mia
Biblioteca Arabo-Sicula, p. 209, seg., del testo, secondo un MS. di M.
Alphonse Rousseau.
sulla Sicilia1048. Si scoprono nel Mo'gem pochi nomi raddoppiati e
altre mende inevitabili in compilazioni di tal fatta, non gravi
errori da scemar fede all'opera.
Al dire d'un cadi Abu-Fadhl, citato da Abu-Ali, si noveravano
in Sicilia diciotto città e più di trecentoventi rôcche1049; ed Ibn-
Kattâ' attestava aver letto nelle annotazioni d'un anonimo
ch'erano nell'isola ventitrè cittadi, tredici fortezze1050 e
innumerevoli gruppi di case rurali1051. Coteste due notizie pur si
riferiscono entrambe alla seconda metà del decimo o alla prima
dell'undecimo secolo; nè fa caso il divario, quando le appellazioni
città, fortezza, o rôcca corron sì vaghe ed arbitrarie appo gli
Arabi come appo noi quelle di città, terra, o villaggio. Il numero
1048
Quest'opera di Iakût è la principale raccolta di notizie di geografia
descrittiva che ci rimanga su i paesi musulmani del medio evo. Si veggano i
ragguagli che ne dà M. Reinaud, Géographie d'Aboulfeda, Introduzione, p.
CXXIX , seg. Ormai ve ne ha in Europa varii MSS., si che si può sperar quanto
prima una buona edizione del Mo'gem. Ritraggo la data della pubblicazione dal
MS. del British Museum, 16,649. Prolegomeni, fog. 3, recto.
Gli articoli su la Sicilia e sue città e terre, che io ho dato nella detta Biblioteca,
p. 105 a 126 del testo, son tratti dai due soli MSS. di Oxford e British
Museum. I nomi stessi leggonsi nel Compendio del Mo'gem intitolato
Merasid-el-Ittilâ', pubblicato recentemente a Leyde dal professor Juynboll; ed
io li ho posti nella Biblioteca, p. 127 a 132. Iakût non conobbe forse l'opera di
Edrisi, e di certo non la usò trattando della Sicilia: la sola notizia che s'accordi
un po' con Edrisi, è quella di Catania, di cui diremo più innanzi. Oltre i
nominati nel testo, Iakût cita in due articoli Ibn-Herawi ed Abu-Hasan-Ali-Ibn-
Badîs. Infine i versi ch'ei trascrive da una satira d'Ibn-Kalakis, venuto in Sicilia
al tempo di Guglielmo il Buono; gli fornirono un sol nome geografico novello,
cioè Oliveri; e nessuna notizia importante: D'Ibn-Kalâkis diremo nel Libro VI.
1049
Mo'gem nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 115.
1050
Ibidem: ecco il passo di Iakût: «Ho veduto scritto di propria mano d'Ibn-
Kattâ' su la coperta del Târîkh-Sikillîa (Storia di Sicilia) queste parole: Trovo
in alcuna copia della Sîrat-Sikillia la nota marginale che sono in quest'isola
ventitrè città ec.» La voce sirat significa "Memoria, cronica," ma non
sappiamo se qui sia nome generico o titolo speciale del libro.
1051
Dhia' che vuol dir propriamente "podere demaniale" e in generale podere,
possessione rurale. Come ogni podere avea i suoi proprii coloni o agricoltori,
così il nome si estendeva agli abituri pochi o molti; e però il significato può
variare da Masseria o villa infino a Villaggio.
diverso delle città non prova dunque mutata la condizion delle
cose, è però diversa l'età degli eruditi che le scrissero. Quanto alle
rôcche annoverate dal primo, tornano a un di presso a quel che
oggi diremmo Comuni; perchè allora tra guerre straniere e guerre
civili, le popolazioni amaron siti forti ed alpestri, e quelle
chiamate al piano dall'agricoltura o dal traffico ebbero sempre
qualche castello su nel monte dove potersi rifuggire1052. La più
parte dunque delle rôcche d'Abu-Fadhl eran le acropoli degli
abitatori di quelle masserie e villaggi, dei quali avea perso il
conto l'annotatore citato da Ibn-Kattâ'. In oggi il numero dei
Comuni risponde a un di presso a quello d'Abu-Fadhl; ma non
sarebbe sì malagevole a noverar le borgate rurali, che scemarono
a mano a mano dalla istituzione alla abolizione della feudalità, dal
conquisto normanno al parlamento del milleottocento dodici1053.
I nomi di città notati nel Mo'gem, i quali senza troppo
discostarci dal vero possiamo supporre tolti da Abu-Ali e Ibn-
Kattâ',1054 sono in ordine alfabetico: Adornò1055, Alcamo, Boèo1056,

1052
Questo fatto fu generale in Europa nel medio evo. Ma in Sicilia, tra
istituzioni e configurazione del suolo, dura fin oggi. All'infuori di alcune
regioni dove l'agricoltura è progredita per eccezione, gli abitatori battuti e
impoveriti non hanno avuto alacrità che basti a scender dalle loro vette per
avvicinarsi alle terre da coltivare e alle strade.
1053
Il numero dei comuni attuali è di 352, cominciando da Palermo e
terminando a San Carlo che ha men di 300 anime. Secondo Abu-Ali, nell'XI
secolo si contavano almeno 340 tra città e rôcche. Spiegherò nei VI libro la
osservazione che qui accenno su la diminuzione dei villaggi.
1054
Ibn-Haukal, del quale copiò tanti squarci l'autore del Mo'gem, non dicea
forse d'altra città che Palermo.
1055
Il Mo'gem e il Merâsid hanno Ads»n»t che si dovrebbe leggere Otranto.
Ma anzichè supporre l'errore di trasferirsi quella città in Sicilia, parmi si debba
mutare la t finale in w e leggere Adsernô.
1056
Il Mo'gem, citando Abu-Ali, dice che el-B»iâwera "città" importante anzi
che no, sol promontorio occidentale, nel luogo «men coltivato e men ferace
dell'isola.» Senza dubbio dunque Lilibeo, al quale già gli Arabi davano
l'attuale forma di Boèo mutando in articolo arabico le prime due sillabe.
Occorrendo intanto il nome di Marsa-Ali (Marsala) nei fatti storici del 1040,
come dicemmo nel capitolo precedente, p. 420 di questa volume, è da supporre
che quella città, nella prima metà del secolo avesse già doppio nome, il nuovo
Bonifato1057, Carini1058, Castrogiovanni, Catania1059, Cefalù,
Corleone, Demona1060, Gelso1061, Khalesa1062, Marsala, Mazara,
Messina1063, Milazzo1064, Mineo, Palermo, Partinico, Patti,
Sciacca, Scopello1065, Siracusa, Trapani1066, che sommano a
ventiquattro; e tolto il raddoppiamento di Marsala chiamata Boèo
da Abu-Ali, farebbero appunto il numero d'Ibn-Kattâ'. 1067 Col
nome di beled (paese) Iakût aggiugne Camerata, Termini e
Girgenti, scaduta al certo nel decimo secolo dopo la ribellione.

di Porto d'Ali e l'antico mutato in Boèo, ovvero che coesistessero le due terre,
l'una crescente, e l'altra in decadenza.
1057
Così addimandasi tuttavia il monte che sovrasta ad Alcamo, nel quale il
Fazzello, Deca I, lib. VII, cap. IV, afferma che sorgea l'antica Alcamo,
tramutata nel sito attuale per comando di Federigo d'Aragona il 1332. Potrebbe
darsi che Alcamo fosse stata sempre dove è oggi. Edrisi (1154) la chiama
menzîl ossia stazione, e Ibn-Giobair (1184) beleda ossia terra: il che prova che
non era fortezza nel XII secolo. Da un'altra mano il castello sul monte si
chiama tuttavia Bonifato, e nel XII secolo era lì presso un villaggio dello
stesso nome, con 600 salme di territorio, come si scorge da un diploma del
1182 presso Del Giudice, Descrizione del Tempio di Morreale, appendice, p.
14. Posto ciò, non abbiam ragione di supporre che Iakût dia, come due città,
due nomi diversi della stessa. Rivedendo i diplomi citati dal Fazzello e dal
D'Amico nel Dizionario topografico, ricercandone altri, ed esaminando con
occhio d'archeologo i ruderi di Bonifato e le vecchie mura d'Alcamo attuale, si
potrà sciogliere il nodo.
1058
Nel testo è K»r»b»na. Non dubito che sia da aggiugnere un punto alla b
arabica, e leggere Karîna.
1059
Nel testo si legge in due articoli Katâna e Katânîa, date entrambe come
città, ed è probabile che le due notizie vengano da fonti diverse.
1060
Manca in Edrisi; e i diplomi del XII secolo non ne parlan come di città
esistente. Ragione di più per supporre che Iakût abbia preso questo nome da
Abu-Ali o da Ibn-Kattâ'. Si vegga il Lib. II, cap. XII, p. 468, seg., del I
volume.
1061
Il Mo'gem ha Giâlisuh; e un diploma arabo e latino del 1182 per la chiesa
di Morreale, ha nell'arabico Giâlisû, e nel latino (al genitivo) Jalcii: che pare
trascrizione di alcun dei chierici francesi che in quel tempo venivano a mettersi
in prelatura in Palermo. Il vero nome sembra l'italiano "Gelso" che ritien
tuttavia quel podere. Nel secolo XII si noverava tra i villaggi, come si vede dal
detto diploma. Qual maraviglia dunque che nell'XI fosse stata, come dice
Iakût, «città nello interno della Sicilia?» Il sito risponde a tramontana di
Corleone.
Chiama beleda (terra) Cinisi, Tusa e Mascali; boleida (paesetto)
Villanuova1068; kala' (rôcca) Taormina, Tripoli, Aci e Bellût
(Caltabellotta); kerîa (villaggio) Mili1069, Giattini1070 e
Sementara1071; dhia' (podere o villa) Kerkûd1072, e dà senza
qualificazione Oliveri, e Caronia1073. Ma è da notare che le terre
minori non si ricordano nel Mo'gem per la importanza loro, ma

1062
Nel X secolo era cittadella o città distinta da Palermo e contigua, come si
vede da Ibn-Haukal, p. 296 del presente volume. Gli Arabi d'Affrica teneano
città distinte Mehdia e Zawila, Kairewân e Mansuria, poco più o poco men
distanti che Palermo e la Khalesa nel X secolo. La distinzione era ragionevole,
sì per la importanza delle popolazioni, e sì per l'agevolezza di mantenersi in
una città, quando l'altra fosse occupata dal nemico. Iakût avverte che ai tempi
suoi, al dir d'un Abu-Hasan-ibn-Bâdis, la Khalesa era quartiere dentro la città
di Palermo.
1063
Messina nello stesso articolo del Mo'gem è detta prima boleida e poi
medina. Quest'ultimo in un libro attribuito falsamente a Tolomeo; il primo
senza citazione. Se si riferisse ai tempi in cui Messina par mezzo abbandonata?
Si vegga il Lib. II, cap. X, p. 427 del volume I.
1064
Mîlâs nel Mo'gem è data come villaggio; nel Merâsid come città. Vi si
legge inoltre Milâs «forte rôcca su la spiaggia» che potrebbe essere l'attuale
Mili nello Stretto di Messina, o piuttosto variante d'ortografia, come Katâna e
Katânîa.
1065
In oggi è nome d'una tonnara nel golfo di Castellamare. La ricorda come
terra abitata un diploma del 1098 presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 294: ed è detta
villaggio in due del 1170 e 1251 che cita D'Amico, Dizionario topografico,
agli articoli Cetaria e Scupellum. Cetaria, città antica secondo Tolomeo, forse
detta così dalla pesca dei tonni che vi si facea come oggi. Scopello fu colonia
di ghibellini lombardi rifuggiti in Sicilia, ai quali poi l'imperatore Federigo II
concedette la città di Corleone.
1066
Per manifesto errore, Trapani è messa due volte con ortografia diversa, e la
prima volta, con la forma Itrâbinisc è data come beleda (terra).
1067
Si noti il gran divario con la geografia di Edrisi, nella quale si dà il nome di
città alle sole: Castrogiovanni, Catania, Girgenti, Marsala, Mazara, Messina,
Noto, Palermo, Randazzo e Siracusa. Si vede bene che v'era passato per lo
mezzo il conquisto normanno e la immigrazione italiana.
1068
Billanoba, patria del poeta siciliano Billanobi, sembra distrutta pria del
conquisto normanno; non leggendosi nei tanti diplomi che abbiamo dal fine
dell'XI secolo in qua. Billanobi fiorì alla metà di quel secolo, come innanzi
diremo.
perchè occorreano nella storia letteraria degli Arabi, che l'autore
si propose d'illustrare con sì vasto dizionario geografico.
Le terre minori e villaggi che si leggono in Edrisi e altri
scrittori arabi del duodecimo secolo e nei diplomi infino al
decimoquinto, sommano quasi a novecento; dei quali se una parte
fu fondata da coloni cristiani nel secol duodecimo, altrettanta per
lo meno si dee supporre distrutta nella guerra normanna; onde lo
stesso numero si può anco ritenere innanzi il conquisto1074. I nomi
d'origine arabica, o berbera, o son prettamente arabici1075, o si
scernono per note etimologie di schiatte1076 e per voci ch'entrino
nelle appellazioni composte: ain, gar, ras, menzîl, rahl, kala'
burgi:1077 e dinotano a un di presso i novelli nodi di popolazione
1069
Si vegga la nota 7 della pagina precedente.
1070
Giattîn fu patria, secondo Iakût, di un dotto musulmano. Un diploma arabo-
latino del 1182 dà il nome in arabico Getîna e in latino Jatina.
1071
S»m»ntâr, patria d'un altro dotto, secondo Iakût. Samanteria era massa,
ossia podere, della chiesa romana in Sicilia secondo un'epistola di San
Gregorio, lib. VII, ep. 62, presso il Pirro, Sicilia Sacra, p. 32.
1072
Biblioteca Arabo-Sicula, p. 124 del testo e variante del MS. di Oxford nelle
aggiunte, p. 41 della Introduzione. Iakût scrive Kerkûr, che ho corretto
secondo Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, versione, tomo I, p. 274. Il testo
del Mo'gem, dice: "Kerkûr una delle ville di Sfax in Sicilia." Si potrebbe
intendere villaggio popolato da uomini di Sfax o meglio correggere "delle ville
di Sfax ed altra in Sicilia."
1073
Oltre a ciò nell'articolo "Sardegna" Iakût aggiugne che secondo alcuni era
anche nome di città in Sicilia; nota Saklab, quartiere di Palermo; e, con
manifesto errore, pone Taranto in Sicilia.
1074
Io ho raccolto con pazienza i nomi dei villaggi nel dizionario topografico
del D'Amico, nel Pirro, nella Sicilia nobile del Villabianca, nei diplomi delle
chiese di Palermo e Morreale, in que' della Commenda della Magione, in que'
dati dal Di Gregorio in appendice agli scrittori dell'epoca aragonese, e in altri
pubblicati qua e là. Mi propongo di porli in appendice alla versione della
Biblioteca Arabo-Sicula.
1075
Tali per esempio Godrano (ghidrân, palude), Baida (la Bianca), Abdelali
(Abd-el-Ali nome proprio), Zyet (Zeid nome proprio), Chadra e Cadara
(Khadra, la verde) ec.
1076
Si vegga il Lib. III, cap. I, p. 33, seg. di questo volume.
1077
"Fonte, grotta, capo, posata, stazione, rôcca, torre." La voce rahl entra in
cento sette nomi topografici di Sicilia. La voce kala, o kala't, in venti; la voce
formati nell'epoca musulmana da una parte dei coloni arabi e
berberi, mentre un'altra parte prendeva a stanziar nelle ville,
castella e città ch'erano in piè; onde non perdeano i nomi
antichi1078. I novelli, senza contarvi quei di fiumi, monti, cale e
capi disabitati che moltissimi pur ve n'ha d'origine arabica1079,
tornano a trecentoventotto, dei quali dugentonove in Val di
Mazara, cento in Val di Noto e diciannove in Val Demone. Se
risguardiamo all'area di ciascuna valle1080 cotesti numeri
confermano ciò che sappiam dalla storia, che i Musulmani
occupassero tutto il Val di Mazara, e avessero posto qualche
presidio in Val Demone. E dimostrano il fatto accennato soltanto
dalle croniche, dico le grosse colonie che si sparsero in Val di
Noto1081.

menzîl in diciotto.
1078
Tra i nomi delle 24 città riferiti di sopra v'ha di origine arabica le sole
Alcamo, Khalesa, Marsala e Sciacca.
1079
Per esempio Wadi-Musa (il fiume di Mosè) il Simeto; Dittaino (Wadi-t-tîn
il fiume fangoso) il Chrysas degli antichi; Marsa-s-scegira (Porto dell'albero)
la Punta di Circia presso il Pachino; Rasigelbi (Ras-el-kelb o ghelb, la Punta
del Cane) presso Cefalù; Oiûn-Abbâs (le fonti d'Abbâs) le Tre Fontane presso
Selinunte; Ras-el-Belât (il capo degli archi o del lastricato) il capo Granitola
ec.
1080
Questa è, secondo gli ultimi dati geografici, 4025 miglia quadrate di
Sicilia per le province di Palermo, Trapani, Girgenti e Caltanissetta, che
rispondono a un di presso al Val di Mazara; 2220 per quelle di Catania e Noto,
che rispondono quasi al Val di Noto; e 1180 per la provincia di Messina, che
torna all'antico Val Demone. Il quale dopo il XIII secolo fu ingrandito a
mezzodì infino a Catania ed a ponente oltre Cefalù. La proporzione dunque
della superficie dei tre valli è di 0,52, 0,31 e 0,17; e i 328 luoghi arabici vi
stanno alla ragione di 0,64, 0,30 e 0,06. La popolazione attuale (1853) è
distribuita così:

Val di
Mazara{Palermo541,326Girgenti250,795Trapani202,279Caltanissetta185,531
1,179,931Val di Noto{Catania411,822Noto254,593666,415Val
Demone{Messina384,664Totale2,231,020

Donde la proporzione della popolazione in oggi torna a 0,52, 0,30 e 0,18.


Descrizioni di città non avvene, fuorchè di Palermo per Ibn-
Haukal; pur si raccoglie qua e là qualche particolare. Sappiamo
da Bekri, e però innanzi la guerra normanna, che Siracusa, grande
città, occupava la penisola, congiunta alla spiaggia per sottile
istmo, tra il maggiore e il minor porto, tra i quali era condotto un
fosso che si varcava sopra un ponte; che l'era circondata di
triplice muro, credo io, dalla parte dell'istmo; e che il gran porto
apprestava stazione d'inverno alle navi1082. Ibn-Herawi, nel
duodecimo secolo, narrava che nelle parti orientali di Catania
rimanessero le tombe d'una trentina di martiri musulmani1083 quivi
uccisi nel primo secolo dell'egira; e che tra Catania e
Castrogiovanni fosse il sepolcro d'Ased-ibn-Forat, conquistatore
della Sicilia. D'altra sorgente, che sembra più antica, abbiamo
Catania chiamarsi anco la Città dell'Elefante, da un simulacro di
pietra in figura di questo animale, e ammirarvisi bei monumenti
dei tempi andati, e chiese con pavimenti di marmo bianco e
nero1084. Cefalù, al dir d'Abu-Ali, era forte città, guardata da un
castello sovra alta rupe a cavaliere della spiaggia1085;
Castrogiovanni, maraviglia del secolo, gran città su la vetta d'un
1081
Si vegga il cap. XI, del lib. III, e i cap. III e XI di questo Libro, p. 213, seg.,
258 e 398, seg., del volume.
1082
Da Ibn-Scebbât, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 211, 212 del testo.
1083
Mo'gem, nella Biblioteca Arabo Sicula, aggiunte al testo, p. 40 della
Introduzione. Quest'Ibn-Herawi, pare lo stesso che Ali-ibn-Abi-Bekr da Mosûl
detto Herawi come oriundo di Herat: il quale fu in Sicilia dopo il 1175. Iakût
dà come dubbia questa tradizione dei sepolcri dei Tabi', ossia Musulmani della
generazione dopo Maometto.
1084
Da Iakût, Mo'gem e Merâzid, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 123 e 131.
La notizia precedente è data con la lezione di Katânîa e la presente di Katâna,
delle quali d'altronde il compilatore riconosce l'identità. Ei non dice da chi
abbia cavato questa seconda notizia; non copiata al certo da Edrisi. Questo
autore nota il doppio nome di Città dell'Elefante, che venia dal simulacro di
pietra «messo anticamente in un eccelso edifizio, e adesso trasportato dentro la
città nella chiesa dei Monaci» (benedettini). Edrisi in vece delle chiese
lastricate di marmo, dice delle giami' e moschee, del fiume intermittente
(l'Amenano), del porto frequentato, e di altri particolari ignoti a Iakût. Su
l'elefante di lava si vegga il Lib. I, cap. IX, p. 219 del 1 volume.
1085
Mo'gem e Merâsid, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 111, e 128 del testo.
monte che fa centro all'isola, avea scaturigini abbondanti, terre da
seminato e giardini, chiusi tutti entro il muro che torreggiava lì a
mezz'aria1086. Non obliò il diligente Iakût di notare la postura
astronomica delle tre città primarie, Palermo, Messina e Siracusa,
secondo il Kitâb-el-Melhema, ossia "Libro della Divinazione"1087
attribuito a Tolomeo, composto da qualche astrologo arabo o
siriaco; il quale sapea leggere forse nei destini, ma sbagliava,
come i contemporanei, le latitudini e longitudini1088.
1086
Mo'gem, op. cit., p. 116, 123 e 130. Qui Iakût non cita Abu-Ali, ma par che
tolga le notizie da lui. Aggiugne che la giusta ortografia fosse Kasr-ianih e che
il secondo fosse nome rûmi (latino o greco) d'un uomo. Già era avvenuta la
trasformazione di cui dissi Lib. II, pag. 280 del 1° vol.
1087
Si vegga Reinaud, Géographie d'Aboulfeda, Introduzione, p. CXXXII.
1088
Mo'gem nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 112, 117, e 126 del testo. Le
longitudini, sembrano prese dalla "cupola d'Arîn" al modo di alcuni antichi
geografi arabi, su la quale si confrontino Reinaud, op. cit., p. CXL, seg.; e
Sédillot, Mémoire sur les systèmes géographiques des Grecs et des Arabes,
Paris 1842, in 4°.
Il falso Tolomeo dà a Palermo 40° di longitudine e 35° di latitudine, oroscopo
la Vergine e casa di regno a dieci gradi dell'Ariete ec.; a Messina, 39°
longitudine, 38° 40´ latitudine, oroscopo il Sagittario, casa della vita a 9° 27´
di quel segno; a Siracusa, 39° 18´ longitudine, 39° latitudine, oroscopo la
Zampa del Lione, casa della vita a 13° del Cancro, casa del regno ad altrettanti
dell'Ariete ec.
Gli errori degli Arabi su la posizione geografica di Palermo giunsero fino ai
tempi d'Abulfeda, come si vede nella costui Géographie, versione di M.
Reinaud, tomo II, p. 273, seg., dove la longitudine è notata 35° dall'isola del
Ferro; e la latitudine, 36° 10´ ovvero 36° 30´. Nondimeno Abu-Hasan-Ali,
astronomo di Marocco, segnava più correttamente latitudine 37° 30´, e più
scorrettamente longitudine 45° 20´; presso Sédillot, Instruments astronomique
des Arabes tomo II, p. 204.
Per comprendere od po' il gergo del Kitâb-el-Melhema, dirò, a chi non sta
saputo in astrologia, che la posizione si determinava su i segni del zodiaco.
Quello che spunta all'orizzonte in faccia al luogo n'è l'oroscopo principale, il
tâli' come dicono gli Arabi. Le "case" della vita del regno e degli altri destini,
rispondono ai punti dell'ecclittica divisa in dodici parti uguali facendo capo dal
tâli', in un MS. d'astrologia intitolato Kitab-en-Nogiûm, Biblioteca di Parigi,
Ancien Fonds, 1146, fog. 13 recto, la casa della vita è appunto all'oroscopo, e
quella del regno al quarto scompartimento a sinistra; il che non risponde al
sistema del falso Tolomeo. Anche le denominazioni son alquanto diverse; e il
Più sodi ragguagli ritraggiamo in questo tempo dell'Etna, sì
mal noto ai primi cosmografi arabi. Masûdi, scrivendo a Bagdad
nella prima metà del decimo secolo, aveva ignorato il gran monte
di Sicilia, o confusolo con l'Isola di Vulcano; favoleggiato che
nelle eruzioni saltasser fuori strane sembianze d'uomini mozzi del
capo; che il fuoco rischiarasse la terra e il mare oltre cento
parasanghe1089; nè conoscea bene altro prodotto vulcanico che le
pomici, adoperate a levigare le pergamene e tavolette da scrivere
e stropicciare i piè nel bagno1090. Ma Abu-Ali-Hasan vide i luoghi
e forse alcuna eruzione. «Il monte del fuoco, dic'egli, altissimo
sovrasta al mare tra Catania e Mascali, non lungi da Taormina:
gira la base tre giornate di cammino; abbondante di alberi
fruttiferi; irsuto di boschi la più parte di castagne, nocelle, pini e
cedri1091; ricoperto la cima di neve anche la state, ammantata di
nugoli; ma il verno è tutto neve dal capo al piè. Sorgongli intorno
molti edifizii e maestosi avanzi dei tempi andati, e rovine che
danno a vedere la frequenza del popolo che vi soggiornava; di che
narrasi, Tûra antico re di Taormina1092 aver messo in campo
sessantamila combattenti. In su l'alto s'aprono spiragli 1093 ond'esce
fuoco e fumo; e talvolta il fuoco scorrendo da alcun lato brucia
che che trovi, poi si fa scorie, come quelle del ferro, onde gli si dà
nome di akhbâth;1094 dove oggi non spunta fil d'erba, nè animale

campo al sistemi era libero in vero agli astrologi.


1089
Trecento miglia.
1090
Marûg-ed-Dseheb e Tenbîh nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 1, 2.
Masudi alle altre favole aggiugne che perì nell'Etna Porfirio, autor
dell'Isagoge.
1091
Il testo ha Arzen che i dizionarii arabi definiscono vagamente albero di
legno durissimo da far bastoni, ma è precisamente il cedro. Non si noverano tra
gli altri alberi le querce.
1092
Questo personaggio par favoloso. Edrisi chiama Tûr il monte di Taormina,
santuario famoso; e questo ricorda la falsa etimologia di πόλεν Ταύρου καὶ
μενύας, su la quale facea sì gravoso scherzo l'arcivescovo Teofane Ceramèo.
1093
Kazwini, trascrivendo questo passo come nel Mo'gem, aggiugne la voce
"sulfurei," ch'è giudizio forse suo proprio e non d'Abu-Ali.
1094
È il plurale di khebeth, scoria. Questa voce, non è rimasa nel dialetto
siciliano, nel quale la lava impietrata si chiama "sciara:" e parmi bella e buona
vi s'arrischia.»1095 Al tempo d'Abu-Ali spesseggiarono gli incendii
nella costa orientale, poich'egli scrive che alcuni anni il fuoco
scendea come rivo infine al mare e tanto sfolgorava, che
parecchie notti in Taormina e altre terre non si acceser lumi e si
viaggiò per que' paesi come se fosse giorno1096. Così egli ch'era
nato o avea fatto dimora in Sicilia. Un cristiano di Calabria di
quell'età, rassegnando le maraviglie della Sicilia, non descrive
conflagrazioni dell'Etna, ma ne fa supporre seguíte di recente,
poichè riflette che tanti filosofi de' tempi antichi e de' suoi proprii
avean sottilizzato su l'origine di quel fuoco senz'altra
conchiusione che d'accrescere i dubbii e provar la ignoranza dei
mortali1097. Bekri, contemporaneo e straniero, parla solo del
borkân in due isolette adiacenti, dalla parte di settentrione, al
certo Stromboli e Vulcano: prodigio di natura, dove tacendo il
vento meridionale s'udiva un terribil fragore come di tuono1098.
Altri scrivean del fuoco perenne dell'Etna al quale uom non osava
appressarsi; ed aggiungeano maravigliando che la materia ignita
tolta dal suo luogo si spegnesse incontanente1099. Le medesime
eruzioni che Abu-Ali, o alcuna più recente, vide il dotto e devoto
Siciliano Abu-l-Kâsim-ibn-Hâkim, rifuggito a Bagdad; dov'ei
narrava, forse il millecentoventidue1100, al viaggiatore Abu-Hâmid
la voce arabica scia'râ che significa propriamente "irsuta" e in sostantivo
"luogo coperto di piante" e "bosco".
1095
Presso il Mo'gem, p. 118, 119 della Biblioteca Arabo-Sicula, testo arabo. Il
medesimo passo di Abu-Ali è trascritto da Kazwini, nell'Agiâib-el-Mekhlûkât,
p. 166; e nello Athâr-el-Bilâd, p. 143, seg., dei testi pubblicati dal Wüstenfeld.
1096
Iakût e Kazwini pongono questo fatto in fin della citazione d'Abu-Ali, dopo
le parole "e dicesi esser quivi (nell'Etna) miniere d'oro; ond'è che i Rûm lo
chiamavano il monte dell'oro." Quel "dicesi" potrebbe interrompere la
citazione; il che gli Arabi dinotano ordinariamente con la voce "finisce" ma
spesso la dimenticano.
1097
Vita di San Filareto presso il Gaetani, Sanctorum Siculorum, tomo II, p.
113, e presso i Bollandisti, tomo I, di aprile, pag. 607.
1098
Presso Ibn-Scebbât, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 210.
1099
Mo'gem, op. cit., p. 116. L'autore non cita in questo luogo. Si vegga anche
Kazwini, 'Agiâib, p. 166, seg., e nell'Athâr, p. 143, seg.
1100
Abu-Hâmid si trovò in quell'anno a Bagdad. Si vegga Reinaud,
Géographie d'Aboulfeda, introduzione, p. CXII.
da Granata, il fuoco dell'Etna risplendere talvolta a dieci
parasanghe, in guisa che non occorre fiaccola nè lucerna nei
villaggi o strade di campagna. Tra le fiamme, proseguia,
scagliansi in alto massi di fuoco, somiglianti a balle di cotone, i
quali infrangendosi ricadon a terra e si fan pietra bianca, o in
mare e tornano in pietra nera e porosa, l'una e l'altra lieve da
galleggiare sull'acqua. Aggiugnea suoi prodigi: i sassi e la sabbia,
tocchi da quel fuoco, avvampar quasi bambagia, e divenir polve
negra simile all'antimonio; ma l'erbe e le vestimenta non
accendersi alla lava, che consuma soltanto le pietre e gli animali,
sì com'è scritto del fuoco della gehenna1101. Un altro barbassoro
musulmano di Sicilia affermava al viaggiatore Herawi dopo il
millecentosettantatrè, che un uccello color di piombo in forma
d'una quaglia solea svolazzare dal fuoco dell'Etna e rituffarvisi,
ed era appunto la salamandra; ma io non ho visto altro che pomici
nere, aggiugne Herawi1102. Tanto ricaviamo dagli Arabi su la
storia naturale dell'Etna: nel che non ho voluto metter da canto nè
le minuzie nè le favole, e con Herawi son giunto infino alle
eruzioni della seconda metà del duodecimo secolo, ricordate
ormai dagli scrittori latini. Notevol è che Edrisi, dicendo del
Monte del Fuoco, non faccia motto delle eruzioni, e poi descriva
minutamente, anzi che no, i fenomeni di Stromboli e Vulcano. E
ciò parmi indizio di lungo riposo dell'Etna nella prima metà del
duodecimo secolo dopo gli incendii dell'undecimo, supposti fin
qui su debolissimi argomenti1103, e provati adesso dalle
testimonianze di Abu-Ali e d'Abu-l-Kâsim-ibn-Hâkim.
Dall'Etna faremo principio alle produzioni minerali della
Sicilia, tra le quali Masûdi pone il diaspro ch'ei tenea rimedio al
1101
Tohfet-el-Albâb di Gharnati, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 74, 75.
Il passo del Corano a che allude l'autore è nel verso 22 della sura II.
1102
Kitâb-el-Asciârât di Herawi, ibid., e se ne vegga la versione inglese del
professor Samuele Lee, in appendice allo Ibn-Batuta's Travels, Londra, 1829,
in 4°, p. 6. Herawi venne in Sicilia dopo il 1173, e morì ad Aleppo il 1215. Si
vegga Reinaud, Géographie d'Aboulfeda, Introduzione, p. CXXVII, seg.
1103
Si vegga in questo periodo la Storia critica delle eruzioni dell'Etna del
canonico Giuseppe Alessi.
mal di ventre, applicandolo esteriormente; ed anche, non so
come, base del corallo1104. Del diaspro par che dica Iakût
supponendo trovarsene montagne in Sicilia1105: ch'è esagerazione,
non tutta bugia. Si cavava dall'Etna il sale ammoniaco, gran capo
di commercio con la Spagna ed altri paesi1106. Delle pomici
abbiam già detto, adoperate dagli Arabi nel bagno e nello
scrittoio1107; e Bekri supponea costruite di pomici di Sicilia le
volte del teatro romano a Susa1108. In lista con le ricchezze
minerali del Mongibello Abu-Ali ponea l'oro, argomentandolo
dalle note miniere d'Ali, ovvero da qualche pirite; ed immaginò,
non so per qual errore, l'Etna aver preso nome in lingua rûmi
dall'oro che chiudea nelle viscere1109. Con ciò narrano si cavasse
nell'isola ogni altro metallo d'uso comune, argento, rame, ferro,
piombo, mercurio1110. L'autor della vita di San Filareto parla del
cristallino e lucente salgemma di Sicilia1111. Gli Arabi
contemporanei noverano l'antimonio, l'allume e il vitriolo1112. Lo
zolfo e la nafta, adoperati allora nei fuochi da guerra e non ignoti

1104
Tenbîh, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 2.
1105
Il nome è guasto in tutti i MSS. La buona lezione mi sembra iascf (in
francese yachf) variante di iascb che adopera Masûdi. Come ognun vede, l'una
e l'altra è il latino jaspis, d'origine semitica, del quale i Francesi han fatto
jaspe. Gli Arabi rendono indistintamente con una f o una b la p che manca in
loro alfabeto. Ognun sa la copia, mole e qualità dei diaspri e soprattutto delle
agate di Sicilia. Gli antichi favoleggiavano su le proprietà mediche dell'agata,
più o meno, come Masûdi.
1106
Mo'gem nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 118.
1107
Si vegga a p. 439.
1108
Notices et Extraits des MSS., tomo XII, p. 463.
1109
Mo'gem, op. cit., p. 116, 118. L'etimologia sembra piuttosto confusa col
Πλου̃τος che ai tempi dei Pagani, come ai nostri, era il Dio dell'oro e
dell'inferno.
1110
Mo'gem, op. cit., p. 116 e 118. Si ricordi anche la miniera di ferro presso
Palermo, di cui Ibn-Haukal.
1111
Presso Gaetani, Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 113, e presso i
Bollandisti, tomo I, di aprile, p. 607.
1112
Mo'gem, op. cit., p. 118.
ai Musulmani di Sicilia nell'undecimo secolo1113, par non si
fossero cavati nell'isola che alla fine del duodecimo1114.
L'abbondanza delle acque di fonti o fiumi accennata per le
generali da Iakût1115, sembra veramente maggiore dell'attuale, ove
si risguardi alla descrizione particolareggiata che faceane Edrisi il
millecencinquantaquattro ed ai fiumi ch'ei dice navigabili a
barcacce di trasporto ed or più nol sono1116. E così dovea
intervenire per la distruzione dei boschi che s'è fatta dal
duodecimo secolo in qua1117; la quale non credo incominciata per
man degli Arabi, poichè il sapiente agricoltore rispetta i boschi, e
lo sciocco e affamato li taglia. Di notizie precise, Abu-Ali ne
fornisce su le due regioni boschive che per natura sono le
principali dell'isola: l'Etna e la catena d'Apennino. Della prima
delle quali abbiam fatto parola. Dell'altra Abu-Ali afferma, le
eccelse montagne e spaziose valli sopra Cefalù abbondar d'ogni
maniera di legname atto a costruzioni navali 1118. Il monaco Nilo
loda i cedri di Sicilia, i cipressi e i pini dritti e maestosi, i cui rami
servivan di fiaccole1119.
Vengon poscia le ubertose produzioni dei giardini, dei campi e
della pastorizia lodate da Bekri1120; le frutta d'ogni colore e sapore
che non mancavano state nè verno, scrive Iakût, forse da Abu-

1113
Ibn-Hamdîs in una poesia che ho pubblicato nella Biblioteca Arabo-Sicula,
testo, p. 565, dice de' fuochi lanciati dall'armatetta siracusana in una impresa
contro i Cristiani.
1114
Iakut non ne fa parola, nè Edrisi. Il primo che li accenni è Ibn-Scebbât,
Biblioteca Arabo Sicula, testo, p. 210, negli estratti non già di Bekri, ma del
continuatore per nome Ibn-Ghalanda.
1115
Mo'gem, op. cit., p. 115.
1116
I fiumi di Lentini, Ragusa e Mazara.
1117
I diplomi dell'XI e XII secolo dicono di foreste e boschi or distrutti, come
la foresta del monte Linario presso Messina, il bosco Adrano tra Prizzi e
Bivona ec. L'Etna perde molto dei suoi da un secolo in qua. Il Monte
Pellegrino di Palermo fu terreno boschivo fino al XV secolo. Edrisi dice della
Benît (Pineta) a ponente di Buccheri ec.
1118
Mo'gem, op. cit., p. 111.
1119
Vita di San Filareto, l. c.
1120
Squarcio dato da Ibn-Scebbât, Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 210.
Ali1121; le mèssi che coprivano la più parte dell'isola secondo Ibn-
Haukal1122; lo zafferano che vi germogliava spontaneo1123; il
cotone e il canape coltivati a Giattini1124 e altrove; il primo dei
quali sembra venuto dell'Affrica1125; gli ortaggi che parean troppi
ad Ibn-Haukal1126. Nessuno scrittore arabo fa menzione degli
ulivi, che in Sicilia comunemente si credono accresciuti in quella
età, perchè i contadini soglion chiamar saracinesco qual veggano
più possente di ceppo, e pittoresco di tronco e rami. Nel che i
contadini s'accostano forse al vero, e gli altri no. La coltura
dell'ulivo in Sicilia risalisce al quinto secolo innanzi l'era volgare,
nè mai si abbandonò, ma decadde al par che tante altre sotto i
Romani, nè rifiorì sotto gli Arabi; poichè sappiamo dell'olio che
l'Affrica vendeva alla Sicilia nel nono, undecimo e duodecimo
secolo1127. Parmi piuttosto che l'isola debba ai Musulmani le
melarance e altri agrumi ch'or son capo sì ricco di commercio 1128;
1121
Mo'gem, op. cit., p. 116.
1122
Si vegga il cap. V di questo Libro, p. 295 del volume, e un altro squarcio
d'Ibn-Haukal trascritto nel Mo'gem, op. cit., p. 119, ove leggiamo «La più parte
del terreno di Sicilia è da seminato.»
1123
Mo'gem, op. cit., p. 116. Il testo dice: "e la terra di Sicilia produce lo
zafferano." Tutto questo squarcio par si debba attribuire ad Abu-Ali.
1124
Mo'gem, op. cit., p. 110.
1125
Ibn-Haukal dice del cotone coltivato a Cartagine ed a Msila. Descrizione
dell'Affrica, versione di M. De Slane, nel Journal Asiatique, serie III, tomo
XIII.
1126
Si vegga sopra, cap. V del presente Libro, p. 299 a 307.
1127
Si vegga il Lib. I, cap. IX, p. 206 del volume I, nota 2; e il
Lib. II, cap. X, p. 415 dello stesso volume. Per l'XI secolo l'attesta Bekri;
pel XII i diplomi.
1128
Le poesie arabiche a lode del re Ruggiero, delle quali si tratterà a suo
luogo, descrivono le piantagioni di agrumi nella villa regia di Favara o
Maredolce presso Palermo. Un diploma del 1094 presso Pirro, Sicilia Sacra, p.
770, dice di una Via de Arangeriis presso Patti.
Da un'altra mano si sa che varie sorta di melarance vennero dall'India in Siria
ed Egitto dopo il principio del quarto secolo dell'egira e decimo dell'era
cristiana. Veggasi una nota di M. de Sacy all'Abdallatif, Relation de l'Egypte,
p. 117. Probabilmente la Sicilia, la Spagna, e con esse gli altri paesi in sul
bacino occidentale del Mediterraneo ebbero gli aranci e i cedri in questo
medesimo tempo dalla Siria e dall'Egitto.
ed anco la canna da zucchero1129, i datteri1130 e i gelsi, o almeno la
seta1131. Al contrario se la vite non si sbarbicò per ogni luogo, se i
poeti arabi di Sicilia lodarono il vin del paese con tal fervore
anacreontico, i vigneti scemarono contuttociò sotto la
dominazione musulmana; e sì lentamente si rifornirono in due
secoli, che la Sicilia facea venir vini da Napoli verso la fine del
decimoterzo1132.
Le razze equine di Sicilia, ricordate dagli Arabi
nell'undicesimo secolo1133, fornivano, al dir d'un autore cristiano,
animosi destrieri, d'egregie forme e vario pelo 1134; abbondavano i
muli1135 dalla zampa sicura nelle montagne, adoprati alla soma ed
al tiro1136; e con quelli, asini1137, buoi, vaste greggi di pecore1138;
nè era smessa l'antica educazione delle api. Copiosa la pesca, e
nei porti, scrive il monaco Nilo, le ostriche, e le conchiglie che
1129
La canna da zucchero, secondo Ibn-Haukal, e però nel X secolo, si
coltivava in Affrica (versione di M. De Slane, nel Journal Asiatique, III serie,
tomo XIII); secondo Ibn-Awwâm, e però nell'XI, era notissima in Spagna; un
diploma del 1176, parla di un molino da cannamele in Palermo; e però non è
dubbio che cotesta industria risalisse in Sicilia all'XI o anche al X secolo.
1130
La piantagione di datteri a San Giovanni dei Leprosi fuori Palermo, posta
accanto a un oliveto, è ricordata in un diploma del 1249 presso Mongitore,
Sacræ domus Mansionis... Monumenta, cap. IV. Fu tagliata nel XIV secolo
dall'esercito angioino che assediò Palermo.
1131
Edrisi dà il nome di Nahr-Tût "fiume Gelso" al fiume detto oggi Arena a
mezzogiorno di Mazara, e dice dell'abbondanza della seta prodotta a San
Marco in Val Demone.
1132
Si scorge da due diplomi del 1284, e dalla Cronica di D'Esclot, cap. CX,
dei quali ho fatto cenno nella Guerra del Vespro Siciliano, edizione di Firenze,
1851, cap. X, p. 209.
1133
Mo'gem, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 116.
1134
Vita di San Filareto, presso Gaetani, Sanctorum Siculorum, tomo li, p. 113,
e presso i Bollandisti, tomo I, di aprile, p. 607.
1135
Mo'gem, l. c.
1136
Vita di San Filareto, l. c. La versione latina del Padre Fiorito ha:
ad vehicula trahenda aptissimi; ma mancando il testo greco, non siam
certi se si tratti di carri o di lettighe.
1137
Mo'gem, l. c.
1138
Mo'gem e Vita di San Filareto, ll. cc. Si ricordin anco i grandi armenti
dell'emiro Iûsuf, cap. VIII del presente Libro, p. 354 del volume.
danno la porpora1139. Le foreste e montagne ripiene di
cacciagione1140. Nè vi mancan le belve, che giovano a spirare il
timor di Dio negli animi semplici, riflette il frate1141, volendo
significare al certo i lupi. Gli Arabi, avvezzi ad altro che
spauracchi da bambini, noveravano tra i pregi della Sicilia non
esservi lioni, leopardi, iene, nè grossi serpenti, e gratuitamente
aggiugneano nè vipere, nè scorpioni1142.
L'ubertà del paese non si riconoscea dalla sola matura, come
direi forse trattando d'altri tempi; chè possentemente l'aiutava la
industria degli abitatori, sulla quale dà un po' di lume il «Libro
dell'agricoltura» d'Ibn-Awwâm, spagnuolo della metà
dell'undecimo secolo, sagace compilatore degli insegnamenti
d'opere più antiche forse fin dal tempo de' Nabatei, alle quali
aggiunse le proprie osservazioni su le pratiche agrarie della
Spagna. Da lui sappiamo che il modo più acconcio di piantare gli
ortaggi, sopratutto le cipolle e i poponi, era detto alla Siciliana; e
la minuta descrizione ch'ei ne fa, risponde appunto a quel
congegno di schiene e rigagnoli che si pratica tuttavia in
Sicilia1143. Le voci arabiche d'orticultura che rimangono nel
dialetto siciliano, non lascian dubbio sul tempo in cui ebbero
origine queste e simili pratiche1144. Un fiore ch'è forse la malvetta
rosata1145, si chiamava in Spagna al tempo d'Ibn-'Awwâm Malva

1139
Vita di San Filareto, l. c.
1140
Mo'gem e Vita di San Filareto, ll. cc.
1141
Vita di San Filareto, l. c.
1142
Mo'gem, op. cit., p. 116 a 118. In Sicilia le vipere e gli scorpioni sono assai
più rari e men letali che in Affrica, Egitto ed Oriente.
1143
Libro de Agricultura, su autor.... ebn el Awam Sevillano, versione
spagnuola di Banqueri, col testo arabico, Madrid, 1802, in folio, tomo II, p.
193 e 231. Si tratta d'una specie di popone, detta in arabico Nefâq, credo quel
che in Sicilia si dicono meloni da tavola, ovvero i meloni d'inverno.
1144
"Nuara" (in arabico nowâr, secondo Ibn-'Awwâm, tomo II, p. 213) si
addimanda l'aja di poponi, zucche, cocomeri; "vaitali" (ar. batîl) il rigagnolo
dei giardini: "gebbia" (ar. giâbia), un gran serbatoio d'acqua per irrigare gli orti
ec.
1145
La malvetta rosata, come la chiamiamo in Sicilia, è il Pelargonium radula
roseum dei botanici.
siciliana, onde sembra venuto di Sicilia1146. Quinci passò in
Spagna una composizione di mostarda con miele e senape,
descritta per filo e per segno in un luogo d'Ibn-Besâl 1147. Ma
importantissima sopra ogni altra la pratica di porre il cotone in
terreni ingrati che Ibn-Fassâl citato da Ibn-'Awwâm riferisce ai
Siciliani, e la dice imitata con profitto nelle costiere di Spagna 1148.
Un altro trattato arabico d'agricoltura ricorda che i Siciliani
sarchiassero fino a dieci volte il terreno da seminare a cotone1149.
Rimase in Sicilia l'utile pianta nel duodecimo secolo1150; e infino
alla metà del decimoterzo1151; ma allo scorcio del decimoquarto se
n'era ita, seguendo quasi la schiatta arabica, in Malta, Stromboli e
Pantellaria1152: ed appena par che cominci a tornare adesso nelle
spiagge di Pachino e su le sponde del Simeto.
In fatto d'opificii abbiam ricordo del prezioso drappo, al certo
di seta, detto di Sicilia, del quale si trovò una catasta tra i tesori
d'Abda, figliuola del califo fatemita Moezz, morta in Egitto in su
la fine del decimo o principio dell'undecimo secolo1153. Che

1146
Ibn-'Awwâm, op. cit., tomo II, p. 296.
1147
Ibn-'Awwâm, op. cit., tomo II, p. 418.
1148
Ibn-'Awwâm, op. cit., tomo II, p. 104.
1149
Kitab-el-Felaha, d'Aba-abd-Allah-Mohammed-ibn-Hosein, citato da M.
Cherbonneau in una Memoria su la Culture arabe au moyen-âge negli Annales
de la Colonisation algérienne, giugno 1854.
1150
Diploma del 1140, pel quale si concedono alla Chiesa di Catania «duas
terras ad bombacea» presso De Grossis, Decacordum, tomo I, p. 77. Edrisi
nota che il cotone si coltivava in gran copia a Partinico.
1151
Ibn-Sa'id, Kitâb-el-Badi, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 137, e
Mokhtaser Gighrafia, op. cit., p. 134, con la correzione a p. 43
dell'introduzione, ove si tratta di Pantellaria.
1152
Fazzello, Deca I, lib. I, cap. 1.
1153
Abu-Mehasin, Storia d'Egitto, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 660, fog. 103
recto, facendo parola di Rascida e Abda figliuole di Moezz, nate innanzi il 972
e morte sotto il regno di Hâkem (996-1021), dice aver la prima lasciato il
valsente d'1,700,000 di dinâr, in drappi di varie sorte e profumi, e la seconda
un moggio di smeraldi, tanti quintali d'argento ec., e trentamila scikke (o
sciukke) siciliane. Questa voce significa taglio d'abito, nè sappiam se sia nome
generico ovvero appellazione speciale di questo drappo. Se in quelle cifre si
sente l'odor delle mille e una notte, il cronista ch'ebbe alle mani Abu-Mehasin,
innanzi quell'età si lavorasse la seta in Sicilia lo prova d'altronde
la biografia del pio Abu-Hasaa-Hariri1154, e v'accenna il nome di
Kalat-et-Tirazi, castello in oggi abbandonato presso Corleone1155,
non che il regio Tirâz di Palermo, avanzo dell'industria arabica
nel duodecimo secolo, di che sarà detto a suo luogo. Similmente
abbiam pochi cenni del commercio, per non curanza degli
scrittori o dispersione degli scritti. Oltre la esportazione del sale
ammoniaco testè ricordata1156, sappiamo la importazione dell'olio
da Sfax1157, e la frequente navigazione dalla Sicilia a Mehdia e
Susa1158. I patti di Hasan-ibn-Ali del novecencinquantadue1159 ci
attestano l'importanza del traffico tra l'isola e Reggio; nè picciola
parte dovea tornare alla Sicilia dalle relazioni commerciali
ch'ebbe coi Musulmani la costiera di Terraferma bagnata dal
Tirreno. Lasciando le regioni dal Tevere in su, lo conferma Ibn-
Haukal per Napoli, Salerno, Amalfi1160; lo conferma il doppio
nome di Keitona-el-Arab che ritenne il Promontorio Circeo fino
al tempo di Edrisi; nome analogo a quel che davano ad una città
nelle parti meridionali della Sardegna1161, ed a quel c'ha tuttavia la
Catona in faccia a Messina1162. Maggiore d'ogni altra prova è che
a Salerno, fors'anco a Napoli e Amalfi, si contraffacea, non per
non inventò quella maniera di drappo. D'altronde abbiam fatto cenno del gran
lusso degli Zirîti in Affrica: e le ricchezze dei despoti son talvolta di quelle
verità verissime che han sembiante di favola.
1154
Si vegga il cap. XI del Lib. III, p. 230 di questo volume.
1155
Si chiama volgarmente Calatrasi. Tirazi vuol dire artefice del tirâz, ossia
opificio regio delle vesti di seta ricamata. Si vegga su questo indizio di Kalat-
et-Tirazi una nota nell'erudita opera di M. Francisque-Michel, Récherches sur
les étoffes de soie au moyen âge, Paris, 1852, in 4°, tomo I, p. 77, al quale io
ho dato questa notizia e in cambio ne toglierò cento, spigolate nelle antiche
poesie francesi, che serviranno a illustrare questa industria siciliana nel XII e
XIII secolo.
1156
Si vegga la p. 443.
1157
Bekri, Notices et Extraits des MSS., tomo XII, p. 463.
1158
Op. cit., p. 480, 488.
1159
Si vegga il cap. II di questo Libro, p. 247, seg.
1160
Ho dato il testo di quel paragrafo nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 10.
1161
Edrisi, Géographie, versione di M. Jaubert, tomo II, pag. 266 e 69. In
quest'ultimo luogo M. Jaubert non so perchè abbia preferito la variante Fîlâna.
frode ma per bisogno del commercio, la moneta d'oro di
Sicilia1163, come infino ne' tempi nostri v'ebbero belli e buoni
colonnati di Spagna battuti in altri paesi.
Ove ponghiamo mente al genio randagio degli Arabi, alla
comunanza di leggi, usi, costumi e in gran parte anco di schiatta,
dei Musulmani che teneano il bacino occidentale del
Mediterraneo, non staremo in forse che la Sicilia partecipò delle
arti e lusso della Spagna e costiera d'Affrica, sì come è provato
che ebbe analoghe vicende politiche e cultura di lettere. Così anco
dei monumenti. Perirono nella guerra normanna quasi tutti que'
dei Musulmani; e pur non vi ha menomo dubbio del loro
splendore, quando l'autor della vita di San Filareto lodava i tempii
ed altri sontuosi edifizii delle città maggiori della Sicilia 1164; e il
conte Ruggiero, dopo averci lavorato per trent'anni con ferro e
fuoco, scrivea patetico in un diploma del millenovanta, delle
vaste e frequenti rovine delle città e castella saracene; de' vestigii
di lor palazzi, fabbricati con mirabile artifizio, adatti, non che ai
comodi, ad ogni lusso e delizia della vita1165. Nel sesto libro
toccheremo l'architettura arabica sotto i Normanni, alla quale
dobbiam tutti i monumenti che avanzano in Sicilia del medio evo,
da pochissimi in fuori. Dico due o tre, da che la iscrizione neskhi
intagliata a mo' di fregio nelle mura del palagio della Cuba, porta
il nome di re Guglielmo secondo e la data del millecentottanta1166.
1162
Keitûn nel dialetto, arabico di Siria ed Egitto, vuol dire, ripostiglio o
magazzino. Viene dal greco Κοιτὼν che, dal significato primitivo di letto,
passò a quelli di camera, albergo, e, presso i Greci del medio evo, guardaroba
e stazione di navi: i quali si veggano nella nuova edizione del Thesaurus di
Enrico Etienne.
1163
Si vegga il fine del presente capitolo.
1164
Presso Gaetani, Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 113, e presso i
Bollandisti, tomo I, d'aprile, p, 607.
1165
Presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 842.
1166
Io pubblicai questa iscrizione nella Revue Archéologique di Parigi, del
1851, p. 669, seg. Alcuni eruditi palermitani vorrebbero mantenere alla Cuba
un altro secolo o due d'antichità, supponendo l'iscrizione più moderna
dell'edifizio. Ma non riflettono che la non è incisa in lapide, ma proprio
scolpita in giro delle mura, senza vestigie di racconciamenti.
Bagni di Cefalà e il palagio della Zisa sembrano più antichi, alla
gravità della scrittura cufica che altra volta li coronò1167; e il
palagio e bagno di Maredolce, ancorchè non vi si trovino
iscrizioni, parrebbe contemporaneo; ma rimanendo sempre
incerta l'epoca, e sendo state racconce le fabbriche di poi, e la
Zisa anche abbellita dai Normanni, non vi si può fondare giudizio
su l'arte arabica di Sicilia nell'undecimo secolo. Questo sol
noterò, che le linee di prospetto del cubo allungato e dell'arco
aguzzo dei tempi normanni si trovano nelle cornici delle
iscrizioni arabiche di Sicilia dell'epoca musulmana. Qui un
rettangolo sormontato da una punta in forma di mitra
vescovile1168; lì inscritto dentro il rettangolo un arco spezzato in
tre lobi alla foggia che s'è chiamata moresca1169.
Avvien sempre che sfugga alla più cruda rabbia di guerre o
persecuzioni qualche monumento di minor mole, per trascuranza
o stanchezza delle mani vandaliche, per capriccio o gusto d'alcun
uomo: e così parecchie iscrizioni arabiche della dominazione
musulmana rimasero in Sicilia, senza contar quelle de' tempi
normanni delle quali si dirà a suo luogo. Quantunque i rami
pubblicati dal Di Gregorio sian delineati così così, e io non abbia
avuto sotto gli occhi migliori disegni delle iscrizioni inedite,
potrò pur toccare la calligrafia lapidaria, la quale col disegno
architettonico e coi rabeschi tenea luogo di tutt'arte grafica appo i
Musulmani1170. Ci occorse già far parola delle iscrizioni della
torre di Baich in Palermo1171, e del castello di Termini1172; l'una
perduta, se non che abbozzossi il disegno d'alcun brano; e l'altra
1167
Girault de Prangey, Essai sur l'architecture arabe, Paris 1841, tavola XIII,
n° 3, 4.
1168
In una colonna della cattedrale di Palermo, presso il Di Gregorio, Rerum
Arabicarum, p. 137.
1169
In due iscrizioni sepolcrali presso Di Gregorio, op. cit., p. 146, 152.
1170
V'ha l'eccezione delle effigie d'uomini e animali in qualche monumento,
come i lioni dell'Alhambra ec. Ma in Sicilia non se ne vede alcun esempio. I
mosaici d'animali nella sala della Zisa in Palermo, appartengono ai tempi
normanni.
1171
Si vegga il cap. V di questo Libro, p. 302, seg., del volume.
1172
Si vegga il cap. IV di questo Libro, p. 274.
pessimamente delineata, e temo adesso ita a male: entrambe del
decimo secolo. Alla medesima età mi par da riferire la leggenda
intagliata nel vecchio edifizio dei bagni di Cefalà, logora da lungo
tempo, e in oggi, mi si dice, dileguata del tutto 1173. Le iscrizioni
conservate sono sentenze coraniche scolpite in colonette di
marmo che si tolsero dalle moschee e si murarono nelle chiese,
ovvero epitaffii svelti dalle tombe, collocati in musei o case
private. La scrittura cufica, semplice, robusta, con poche fioriture,
e nessun ghiribizzo qual si notava nella torre di Baich1174, appar
anco nei due cippi sepolcrali del Museo di Verona1175, in altri due
di casa Calzola a Pozzuoli1176, nei tre di Marsala, Siracusa e
1173
Il Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 188, ne diè un disegno preso ad
occhio, come si usava al suo tempo, e ridotto, nel quale ei confessò non poter
leggere che qualche sillaba; ed io stento anche a questo. Si vegga, del resto, la
nota della pagina precedente. Il disegno di poche lettere che veggiamo
nell'opera citata di Girault de Prangey, Essai ec., mostra la bellezza dei
caratteri e la trascuranza di chi li avea ritratti prima. L'amico Saverio Cavallari
che mi ragguagliò qualche anno addietro della distruzione dei caratteri, n'avea
fatto altra volta un disegno che fin qui non ci è riuscito di trovare.
1174
Si ricordi che il miglior disegno è quel pubblicato dal Fazzello.
1175
Il conte Annibale Maffei vicerè di Sicilia li tolse di Palermo e recò a
Verona. Scipione Maffei pubblicò le iscrizioni nel Museo Veronese, p. 187, e
indi il Di Gregorio nel Rerum Arabicarum, p. 146 a 149. Alla interpretazione
attesero G. S. Assemani e il Tychsen. Son le solite formole e brani del Corano,
coi nomi proprii; l'uno dei quali mi par vada letto Ibrahim-ibn-Khelef-Dibâgi
(in vece di Ibrahimi filii Holaf Aldinagi), morto il 464 (1072); e l'altro è Abd-
el-Hamîd-ibn-Abd-er-Rahman-ibn-Scio'aïb, morto il 470 (1078). Secondo il
Lobb-el-Lobâb di Soiuti, l'appellazione Dibagi, vuol dire "operaio di seterie,"
ed era anche nome patronimico nella discendenza del califo Othoman-
ibn-'Affân.
1176
Presso Di Gregorio, op. cit., p. 144 e 152, il quale tolse l'interpretazione da
quelle pubblicate dall'abate De Longuerue e da Adriano Reland. La prima dà il
nome dello sceikh e giurista sagacissimo Ahmed-ibn-Sa'd-ibn-Mâlek-(ibn-
Abd?)el-'Azîz bisognoso (dell'aiuto) del Signore (non Gubernatoris jurisperiti
sapientis Ahmedis filii Saad ben el Malak potentissimi qui pauperis instar est
erga dominum suum), morto il 413, (1023); e la seconda di Mohammed-ibn-
Abi-Se'âda (non filii ebn Saadh) morto il 444 (1052 non 471, ossia 1079). Le
quali iscrizioni non ben disegnate nè ben trascritte in caratteri arabici, e però
male interpretate, o furon tolte di Sicilia o Reggio, o provano il soggiorno e
morte nei dintorni di Napoli di due Musulmani di Sicilia, Affrica o Spagna,
Messina, che non hanno data1177; in quello del Museo Daniele a
Caserta1178, e in un picciol marmo di casa Emmanuele a
Trapani1179, e un altro del Museo di Messina1180: le quali forme di
caratteri, molto svariate e pur tutte appartenenti alla classe che ho
posta, non differiscono dallo stile dei monumenti analoghi sparsi
da Cordova infino a Bagdad. Frammisto a quello si vede nella
stessa epoca in Sicilia, sì come in ogni altro paese musulmano,
con linee più tortuose e bizzarre, il cufico ornato e talvolta
intralciato di rabeschi, che si è chiamato impropriamente scrittura
carmatica. Bellissima in questo stile, nè sopraccarica di capricci è
la lapide sepolcrale di Oma-er-Rahman che si trovò pochi anni
addietro in Palermo, dove manca la data, ma sembra alla vista del
decimo o undecimo secolo1181. Similmente dell'epoca musulmana

che vi fossero andati, il primo forse per faccende pubbliche o rifuggito, e il


secondo per mercatura.
1177
Presso di Gregorio, p. 164, 165, 166. I due primi non si possono
interpretare senza più esatti disegni. Nell'ultimo, il secondo rigo, mal
deciferato dal Di Gregorio, nè ben corretto da Fraehn, Antiquités Mohammed.,
tomo I, p. 15, va letto: (Iddio vivente) "stante" e poi la sentenza del Corano,
sura XXXII, v. 21, (voi avete) "nell'inviato di Dio, un bel conforto. Questo è il
sepolcro d'Abu-Bekr..."
1178
Presso Di Gregorio, p. 171, il quale sbagliò tutto, fuorchè una formola e la
data. Va letta così: ... (Benedica) Iddio al profeta Maometto e sua schiatta.....
(Chi spende il proprio avere in servigio) di Dio, fa come l'acino di frumento,
dal quale germoglian sette spighe....... (Iddio prospera) cui vuole: immenso egli
è e sapiente [sura II, verso 263]........ (sepolcro di)...... ibn-Hosein, Rebe'i (?),
Fâresi.... morto.... l'anno 417 (1026).
1179
Presso il Di Gregorio, p. 141. La leggenda mal trascritta dal Di Gregorio è
"Nè (spero) aiuto che in Dio," sentenza tolta dal Corano, sura XI, verso 90.
1180
Pubblicata da Lanci, Trattato delle simboliche rappresentanze, tomo II, p.
25.
1181
Un lucido di questa iscrizione ch'era messa da architrave in una finestra, mi
fu mandato il 1853 dai signori Agostino Gallo e Saverio Cavallari. Sendo
inedita, mi par bene darne la versione: «In nome del Dio clemente e
misericordioso; che Iddio benedica al profeta Mohammed e sua schiatta. "Ogni
anima assaggerà la morte, nè avrete vostro guiderdone che il dì della
Risurrezione. Chi sarà campato dal fuoco e introdotto nel Paradiso, sarà allor
felice: perchè la vita di quaggiù non è altro che roba d'inganno." [Sura III, v.
182.] Questo è il sepolcro di Oma-er-Rahman (cioè la serva di Dio) figliuola di
le iscrizioni coraniche delle Chiese delle Vergini e San Francesco
d'Assisi in Palermo1182, del convento dei Francescani in
Trapani1183, che son più o meno ornate, ma di bella struttura di
caratteri; e l'altra assai logora e ignuda, nè di forme eleganti, di
una colonna nel portico meridionale della cattedrale di
Palermo1184. Un bel neskhi, o corsivo, modificato a forme
monumentali, spoglio di ornamenti e notato di punti diacritici, si
scorge in una pietra sepolcrale di Mazara, in parte logora, se il
vizio non è nella stampa ch'io n'ho alle mani1185. È scritto in
neskhi grossolano, con qualche punto diacritico e qualche errore
di grammatica, l'epitaffio mutilo che si serba nella Biblioteca
comunale di Palermo: e stava su la tomba d'un Abu-Hasan-Ali,
morto il trecencinquantanove dell'egira1186.

Mohammed, figlio di Fâs; la quale morì il primo.....»


1182
Presso Di Gregorio, op. cit., p. 138 e 140.
1183
Op. cit., p. 141. Il Di Gregorio lesse male l'ultima frase, nè credo ben
l'abbia corretta il Lanci, Trattato delle simboliche rappresentanze ec. Parigi,
1845, tomo II, p. 24, tavola XV. Parmi si debba leggere thikati Allah, "La mia
fidanza (è) Dio."
1184
Presso Di Gregorio, op. cit., p. 131. Non si può deciferare sul rame che ne
pubblicò il Di Gregorio con la interpretazione di Tychsen. Ma di certo non v'ha
una sillaba del verso 55 (si corregga 52) della sura VII, che credette leggervi il
professore di Rostock.
1185
Mi fu mandata a Parigi il 1844 dal principe di Granatelli. Il lato leggibile è
a dritta di cui guardi. Nei due primi righi son le formole; nel terzo, un
frammento della sura XXXVIII, verso 67; nel quarto ".... sepolcro del cadi
Kkidhr...;" il quinto e sesto non si scorgono bene; nel settimo ".... di Dio sopra
di lui (morto) il venerdì cinque...;" nell'ultimo: "quattro e novanta e...."
mancando il secolo che sarebbe il quarto o quinto della egira (1003, o 1100). A
destra e sinistra corrono due righi perpendicolari a mo' di cornice, che non ho
potuto leggere.
1186
Presso il Di Gregorio, op. cit., p. 154. La lezione e interpretazione di
Tychsen, date dal Di Gregorio, difettano in molte parti, e sbagliano la data ch'è
pur chiarissima. Ecco come leggo questa iscrizione, mettendo tra parentesi le
parole da supplirsi, e indicando con punti le altre che mancano: «(In nome di
Dio) clemente e misericordioso, (e benedica Iddio ec.) (Dì loro: Grave
annunzio; e voi ne ri-)fuggite [sura XXXVIII, verso 67, 68]. Questo è il
sepolcro dello sceikh........ il Kâid egregio Abu-Hasan-Ali figliuolo del....... il
giusto, e benedetto il trapassato Abu-Fadhl........ (figlio del).... e benedetto il
Farò cenno in ultimo delle monete dei Musulmani di Sicilia, su
le quali manca un lavoro compiuto, nè io potrei provarmici, nè
sarebbe da stenderlo qui1187. Mi ristringo pertanto ai risultamenti,
ritraendoli dall'accurato catalogo del Mortillaro, aggiugnendo
qualche altra notizia che s'è pubblicata appresso e le monete
inedite del Museo parigino. Degli Aghlabiti, dei quali è si povera
la numismatica, rimangono poche monete siciliane1188. Per lo
contrario abbondano le fatemite; sì che ve n'ha di tutti i califi che
regnarono di fatto o di nome in Sicilia, da Obeid-allah fondatore
della dinastia fino ad Abu-Tamim-Mostanser-Billah, o meglio al
quattrocentoquarantacinque dell'egira dopo caduta la
dominazione kelbita1189: un centinaio di monete, la più parte

trapassato Abd-Allah, figlio di Moha(mmed).... (figlio del).... e benedetto il


trapassato Ali, figlio di Tâher.... (che sia benigno) Iddio a lui. Il quale morì la
notte del giovedì, cinque del mese........ (e fu sepolto?) il venerdì, l'anno
trecento cinquantanove (969-70)... (morì attestando non esservi altro Dio) che
Allah ed essere Maometto l'inviato di Dio.» L'errore che notai nel testo è di
porre il nominativo Abu in luogo del genitivo abi nei due luoghi dove occorre.
1187
Si ricordi l'avvertenza fatta nella Introduzione, p. XVI e XXIV.
1188
Si vegga il Lib. I, cap. III, V e VI, ed il Lib. III, cap. I, p. 283, 284, 296,
297, 321 del volume I, p. 5, 6 di questo volume, e s'aggiungano le seguenti:

Oro, anno 268, (881-2) di grammi 1,05 nel Museo di Parigi. In fin della
leggenda del rovescio parmi leggere la voce robâ'i. Si confronti con quella
simile pubblicata da Castiglioni e notata da Mortillaro, Opere, tomo III, p. 352,
n° IX.
Oro, anno 295, (907-8) di grammi 4,25 nel Museo di Parigi col nome del
parricida Abu-Modhar-Ziadet-Allah.

In queste monete non si legge il nome di Sicilia, ma i dotti le credono siciliane


dall'opera. Le altre monete aghlabite di Sicilia notansi dal Mortillaro, Opere,
tomo III, p. 343, seg., n° I a XII.
1189
Si vegga il catalogo nelle opere di Mortillaro, tomo III, p. 357, seg., dal n°
XIII all'LXXXIX. Quivi l'ultima con data dell'anno e del paese è del 439,
(1047-8).

A queste 77 monete sono da aggiugnere le seguenti:

Oro, anno 343 (954-5) di grammi 1,05 nel Museo di Parigi.


d'oro, due sole d'argento e non poche di vetro di varii colori, che
sembran usate in luogo dei quattrini di rame1190. Hanno leggende
cufiche; formole fatemite, molte con data e col nome della Sicilia.
Quelle d'oro, quando se n'è fatto saggio, si son trovate di buona
lega. Son tutte del peso d'un grammo più o meno, che torna alla
quarta parte del dinâr omeiade, abbassida e fatemita: di certo il
robâ'i, ossia quartiglio, del quale si legge nei ricordi arabici della
Sicilia nel decimo e duodecimo secolo1191. Picciola e comoda

id. » 344 (955-6) » 1,05 ibid.


id. » 1,05 }
id. » 1,05 } ibid. senza data, col nome
id. » 1,05 } del califo Moezz.
id. » 396 (1005-6) indicata come quarto di dinâr da M. Soret, Lettre.
à S. E. etc. de Fraehn, Saint-Pétersbourg, 1851,
p. 50 n° 121.

Oro, anno 414 (1023-4, ovv. 424) di grammi 1,00 nel Museo di Parigi.
id. » 421 (1030) » 1,00 }
id. » 422 (1031) » 1,00 } ibid.
id. » 423 (1031-2) » 1,00 }
id. Altre otto senza nome nè data » 1,00 ibid.
id. » 422 indicata come triens da M. Soret, p. 50, n° 122.
id. » 437 (1045-6) id. p. 51, n° 124.
id. » 445 (1053-4) id. p. 51, n° 125.
1190
Il Mortillaro, vol. cit., p. 176, seg., 339, 340, citando il Tychsen ed altri, ha
sostenuto quest'uso dei vetri improntati; e mi par s'apponga al vero. Ei nota,
anche a ragione, la mancanza assoluta di monete arabiche di rame battute in
Sicilia; alla quale non credo si possa opporre la moneta pubblicata dal principe
di San Giorgio Spinelli, Monete cufiche dei principi longobardi ec., p. 31, n°
CXXX. Prima, perchè non v'ha data di anno nè di luogo; e secondo, per essere
molto dubbia la leggenda Emir-el-Mumenîn che l'autore credè scoprirvi. Resta
a trovare il paese e l'età in che fu coniata questa e altre monete di rame,
certamente musulmane, che il principe di San Giorgio dà nella tavola IV.
1191
Nei varii MSS. questa voce è scritta senza mozioni. È da leggere o la
prima vocale, come in aggettivo numerale distributivo che nel nostro caso
significa "di quei che vanno a quattro" (in un dinâr) proprio il latino quaterni.
Ho fatto già parola di questa sorta di moneta siciliana, nel cap. VII del presente
libro, p. 334 del volume. Le autorità sono, in ordine cronologico: 1° Ibn-
Haukal, Geografia, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 11, secolo X; 2°
Ibn-Khallikân nel luogo che cito al cap. VIII, p. 334, il qual autore trascrive le
moneta come gli odierni cinque franchi d'oro, coniata tuttavia
sotto i Normanni con leggende arabiche, e chiamata tari in un
diploma greco, e tareni nelle croniche e carte latine di quel
tempo1192.
Il commercio musulmano di Sicilia, non che mantener suoi
robâ'i nell'isola sotto la dominazione normanna, avea costretto ad
usarli, fin dai principii del decimo secolo, Napoli, Salerno,
Amalfi; ed a batterne in casa propria, ed anteporli a tutt'altro
conio. I diplomi latini di Napoli di quel secolo portan le vendite
in solidi bizantini e più spesso in tari1193, dei quali quattro faceano
un solido bizantino, ch'era lo stesso del dinâr arabo. Dai
medesimi atti si rileva che i solidi scarseggiavano o mancavan del
tutto alla metà del secolo, ancorchè sempre si notassero come
moneta legale; e che rimanea quasi solo conio corrente d'oro il
tari1194. Da un'altra mano i musei del regno di Napoli ci mostrano
quartigli d'oro della stessa forma e peso di que' di Sicilia, col
nome del califo fatemita Moezz (953-975); se non che

parole d'Ibn-Rescik, che visse nell'XI secolo, ma riferiva un fatto del X; 3°


Ibn-Giobair, stessa citazione, XII secolo; 4° diploma arabico di Sicilia del
1190 presso Di Gregorio, De supputandis apud arabes temporibus, p. 40, 42.
Una trentina di dinâr d'oro, tra omeiadi e abbassidi, che ho pesati nel Museo di
Parigi, sono per lo più di 4 grammi traboccanti. Dieci dinâr fatemiti d'Egitto
mi han dato lo stesso risultamento: il migliore arriva a grammi 4,35, e il più
scadente a grammi 3,45.
1192
Ne diremo più distesamente nel sesto Libro.
1193
Il singolare nei detti diplomi è tare.
1194
Regii Neapolitani Archivii Monumenta, Napoli, 1845, seg., in 4°. Il tari vi
occorre per la prima volta in un diploma di Gaeta del 909, tomo I, parte I, p. 9,
dove si vegga l'erudita nota degli editori. Poi negli atti privati stipolati a Napoli
infino al mille, i prezzi son pagati per lo più in tari d'oro. Nel documento
CCXL, anno 996, dato di Napoli, tomo II, p. 143, si legge "auri solidos XIII de
tari ana quadtuor tari per unoquoque solidos," la quale proporzione è replicata,
con più o meno errori di grammatica, nei documenti CCXXXIII, anno 993, p.
129, e CCLV, anno 977, seg., 178. Si vegga anche il diploma del 1076
dell'Archivio della Cava, citato da M. Huillard-Breholles, nelle Recherches sur
les Monuments et l'histoire des Normands etc. dans l'Italie Méridionale,
publiées par les soins de M. le duc de Luynes, p. 166, dove si fa menzione di
soldi d'oro, ciascun dei quali tornava a quattro tari di moneta d'Amalfi.
comparisce la mano straniera, al cufico men franco, e la lega men
buona, e si mostra talvolta alla scoperta, aggiugnendo in mezzo
dell'impronta arabica "Salerno" e altre lettere latine: e perfino
stampò la croce tra le sentenze unitarie dei Fatemiti, o scrisse sul
dritto il nome di Gisulfo principe di Salerno (1052-1076) e sul
rovescio quel di Moezz morto un secolo innanzi1195. Parmi non
cada in dubbio che i tari dei diplomi napoletani fossero appunto i
robâ'i di Sicilia, e le copie più o men fedeli che se ne faceano
nell'Italia meridionale. La voce tari, ignota di là del Garigliano,
ignota nelle altre province bizantine, si accosta per articolazioni
ed accento a dirhem o dirhim pronunziata velocemente dagli
Arabi trihm1196, ed al plurale terâhîm o trâhîm e trâhî,
mangiandosi l'ultima consonante e battendo l'accento sull'ì. Le
bocche italiane ne fecero tari. Nè questa è conghiettura, ove si
ricordi il tari denominazione di peso, che risponde senza dubbio
al dirhem, il quale gli eruditi di Sicilia scrissero tari-peso, ma il
popolo credo l'abbia detto sempre trappeso, rendendo nella prima
sillaba la volgare pronunzia arabica1197. Così i Napoletani e i
Siciliani del medio evo ripigliavano dagli Arabi il vocabolo
1195
Monete cufiche battute dai principi longobardi ec. interpretate.... dal
principe di San Giorgio Domenico Spinelli. Nella prefazione dell'erudito
signor Michele Tafuri, p. XXII, seg., si accenna la lega inferiore a quella di
Sicilia; e in una nota, p. 227, la differenza dei caratteri. Le monete di cui
trattiamo son le prime trenta della raccolta. Il peso varia da 18 a 23 acini di
Napoli, cioè da 0,80 ad un grammo. Debbo aggiugnere che, accettando le
conchiusioni generali dei dotti editori, non son d'accordo in tutti i particolari.
Per esempio, varie leggende non mi sembrano ben trascritte; non tengo punto
provata la cronologia che distribuisce coteste monete ai principi di Salerno; nè
che tutte sieno state coniate in Salerno. Ve n'ha forse d'Amalfi; e forse è di
Napoli il n° XXVII.
1196
Il dal arabico è suono partecipante della d e della t; e trascrivendolo in
latino o greco, si rendea sempre con la t: per esempio da dâr-es-sen'a,
"tarsianatus," donde noi abbiam fatto "arzana' e arsenale."
1197
Il dirhem, peso, parte aliquota dell'ukîa (uncia) e differente secondo i
paesi, si adoperava esclusivamente per l'argento. Dal peso in argento nacque la
denominazione di moneta ch'era usata fin dai tempi di Maometto; e rimase sola
moneta nisâb, ossia legale, in che si ragionava la decima, il prezzo del sangue
ec. Il dirhem, moneta effettiva, fu poi diverso.
drachma, che quelli aveano tolto dai Bizantini e mutato in
dirhem.

CAPITOLO XIV.

Arrivati a scoprire per quante vie s'era messo lo spirito umano


al tempo dell'antica civiltà, i popoli musulmani le tentaron qua e
là con ardore giovanile; in molte si lasciarono addietro i Cristiani
contemporanei; sovente aggiunsero lor trovati al patrimonio degli
antichi; il che non avveniva allora in Cristianità. Sopra ogni altro
lussureggiarono in due esercizii connaturali a loro società. L'arte
della parola in rima e in prosa, antico vanto degli Arabi, mutando
corso nell'islamismo e allontanandosi dalle forme del bello, si
allargò in ogni più sottile investigazione di grammatica,
lessicografia, versificazione, delle quali parteciparono i popoli
conquistati: talchè per tutta Musulmanità fu studiata la filologia
minore quanto nol fecero mai i Greci nè i Latini; e se le Muse
dessero la corona a chi più s'affatica, gli Arabi se l'avrebbero
senza contrasto. Surse dal Corano quella scienza mescolata di
teologia e dritto, la quale, sendo come il pan quotidiano dei
Musulmani, non è maraviglia che attirasse tutti gli ingegni
disposti a così fatte contemplazioni e bramosi di onori e stato. La
Or il robâ'i tornava a tre dirhem nisâb, poichè il dinâr si ragionò dodici.
Naturalmente gli Arabi di Sicilia, nel commercio, chiamavan quella moneta
d'oro "un tre dirhem," e nell'uso bastava dire trâhîm al plurale. Il vocabolo tari,
introdotto in tal modo presso gl'Italiani di Napoli e poi presso i Normanni e
Italiani di Sicilia, restò denominazione di moneta d'oro; mentre da un'altra
mano i Normanni di Sicilia, usando il sistema degli Arabi, ebbero il dirhem
moneta ed anche il dirhem, o tari, peso di argento. Indi la voce tari-peso o
trappeso. Spariti con la dinastia normanna i tari d'oro, la voce tari restò come
denominazione di peso e moneta d'argento. Gli eruditi del secolo passato
arrivarono, dopo molti errori e ricerche, a distinguere i tari dei diplomi antichi
da quei che aveano alle mani e che valeano quasi la quarta parte dei primi, cui
chiamarono per questo tari d'oro. Il dotto Conte Castiglioni sbagliò, come
parmi, negando cosiffatta etimologia della voce tari.
filologia e le scienze coraniche, per aver sì profonde radici l'una
nella schiatta arabica, le altre nella società musulmana,
occuparono quasi tutto il campo, rinvigorite dalla metafisica e
dialettica dell'Occidente; rimasero sole dopo la decadenza politica
e sociale dagli Arabi; e si possono dir vegete fino ai dì nostri
dovunque regga la legge di Maometto, dal Gange allo stretto di
Gibilterra. Ma le scienze antiche, come le chiamarono gli Arabi
per averle tolte in presto dai Greci, trovarono ostacolo nella
tenacità semitica del popolo dominatore, il quale se n'era
invaghito per ebbrezza di nuovo acquisto, e d'un subito s'arretrò,
spaventato, dal cammin che credea lo menasse all'inferno. Poi
prevalendo genti più grossiere, in Levante i Turchi, in Occidente i
Berberi; irrompendo Cristiani d'ogni banda nell'impero
musulmano, esacerbaronsi le passioni religiose, rinnegòssi il
secolo di Harûn Rascîd, e quelle sospette scienze sparvero ad una
ad una tra le tenebre ricadenti sul mondo musulmano.
Le ristorate dottrine dunque d'Aristotele, d'Euclide,
d'Ippocrate, non solo ebbero minor tratta di seguaci al tempo
della civiltà arabica, ma sendo ite in bando dalla terra d'islam,
dileguavasi dal decimoquarto secolo in poi la memoria di cui le
coltivò. I biografi tuttavia s'affaticarono a rintracciare nomi e
aneddoti di grammatici, retori, lessicografi, interpreti del Corano,
tradizionisti, giureconsulti, teologi e mistici d'ogni maniera, e
vennero a capo di trovarne molti sfuggiti alle ricerche dei
predecessori; ma fecero guarda e passa nelle altre scienze.
Similmente si smettea di copiarne i libri. Ho voluto notare cotesta
disuguaglianza nelle proporzioni della storia letteraria e le due
cause da che venne, perchè la non sembri difetto peculiare degli
Arabi Siciliani. Un pugno d'uomini, del resto, datisi alla cultura
intellettuale per qualche secolo e mezzo, soggiogati quando
coglieano il frutto, perseguitati e dispersi entro un altro secolo:
meraviglia è che ce ne rimanga qualche brano di memorie
letterarie per carità di cui accolse in casa gli esuli sconsolati. Nei
paesi rimasti musulmani, l'amor di patria o la vanagloria
municipale dei tempi di decadenza, religiosamente ragunò ogni
ricordo dei cittadini più o meno illustri. E i coloni di Spagna, più
numerosi assai dei Siciliani, pervenuti all'incivilimento dopo tre
secoli, n'ebber agio altri quattro a compiere il pio oficio pria che
sgombrassero d'Europa.
Il solo autore arabo che appositamente abbia scritto la storia
dei filosofi, matematici e medici, non ricorda altri Siciliani che un
del duodecimo, secolo e tre dell'antichità, Archimede,
Empedocle, Corace1198; su i quali dà ragguagli meno scontraffatti
che non si potrebbero aspettare così di rimbalzo; ma non
appartengono al nostro argomento. Del resto, se l'abbiano
ignorato Zuzeni al tempo di Federigo secondo ed Ibn-Khallikân
nella generazione seguente, si coltivaron pure le sciente
matematiche in Sicilia sotto la dominazione arabica. Ne fan fede
le memorie dei tempi normanni, delle quali diremo a suo luogo;
ed anco alcun cenno immediato dell'undecimo secolo. Makrizi
nella Topografia dell'Egitto, venendo a parlare dell'osservatorio
che fondò al Cairo il mecenate Afdhal l'anno cinquecento tredici
(1119-20), e il califo Amer spiantò a capo di sei anni, novera tra
gli astronomi che v'erano condotti a stipendio, il geometra
siciliano Abu-Mohammed-Abd-el-Kerîm1199, esule ch'ei sembra
dopo il conquisto normanno. Ibn-Kattâ', nell'Antologia dei poeti

1198
Tarîkh-el-Hokemâ. Ho accennato nel Libro III, cap. V, p. 100 del volume,
l'articolo sopra Empedocle. Il testo di tutti gli estratti di Zuzeni è ormai
pubblicato nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 613, seg. Nella biografia
d'Archimede, si riferisce al gran Siracusano il disegno delle dighe e ponti che
dettero abilità a coltivare gran tratto della valle del Nilo nelle inondazioni di
che fecero cenno gli antichi (veggasi Harles, Bibliotheca Græca, tomo IV, p.
172); e gli si attribuiscono molte opere genuine o spurie, e tra le seconde,
credo io, un "Discorso su gli orologi ad acqua con soneria" che Casiri
erroneamente suppone significare il bindolo, (Bibliotheca Arabico-Hispana,
tomo I, p. 383.) Di Corace si dà il noto aneddoto col discepolo non
trascrivendo il nome, ma traducendolo Ghorâb (Corbo, Κόραξ), e aggiugnendo
che egli fu greco dell'Isola di Sicilia. Archimede ed Empedocle si dicono greci
senz'altro.
1199
Kitâb-el-Mewâ'iz, ediz. di Bulâk, tomo I, p, 127, e nella Biblioteca Arabo-
Sicula, p. 669. Una versione di questo squarcio, per M. Caussin de Perceval si
legge nelle Notices et Extraits des MSS., tomo VIII, p. 33, segg.
siciliani, trascrivendo alcuni versi di Abu-Hafs-Omar-ibn-Hasan-
ibn-Kûni con due righi di cenno biografico, gli diè lode anco di
geometra ed astronomo. Il titol che aggiugne di Kâtib, ossia
segretario; mostra che quest'Omar il fu in alcun oficio pubblico,
forse nella segreteria di Stato. Del quale se i versi d'amore son
troppo geometrici, v'ha uno squarcio d'elegia che direbbesi scritto
da stoico romano anzi che da credente arabo: sì sdegnoso il
pensiero, alto senza puntello di religione; ed anco semplice e
grave nella forma; se non forse per due bisticci che il poeta
incastrò nell'ultimo verso1200. Ibn-Kattâ' similmente fa ricordo del
Segretario Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Hasan-ibn-Kereni1201,
astronomo, aritmetico e poeta1202.
Che la matematica e l'astronomia si fossero applicate in Sicilia
a studii topografici, non si può negar nè affermare. In vero
scorgiamo una bella. correzione della postura dell'isola rispetto
all'Affrica. Ibn-Haukal Bel decimo secolo supponea la Sicilia
guardare dritto Bugia, Tabarca e Marsa Kharez (La Calle); cioè la
spingea due gradi più a ponente1203. Ibn-Iûnis, il celebre
astronomo del Cairo, alla fine del decimo secolo, con errore
contrario la tirava dieci gradi a levante di Tunis1204. Ma una
notizia anonima che leggiamo in Iakût e par si debba riferire a
1200
Estratto della Dorra-Khalíra (Perla Egregia ec.) d'Ibn-Kattâ', inserito
nella Kharîda d'Imâd-ed-dîn, Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 596. I versi
leggonsi nel MSS. della Kharîda, di Parigi, Ancien Fonds, 1375, fog. 43 verso,
e del British-Museum, Rich. 7593, fog. 35 recto. Ecco i tre dell'elegia ch'io
cito, scritta non sappiamo per quale personaggio.
"Alla morte (appartien) ciò che nasce, non alla vita: l'uomo non è che ostaggio
di essa.
Diresti gli anni suoi (foglio) di cui si spieghi un lembo, finchè sopravvien la
morte e sel ravvolge.
Chi impreca al tempo non l'intacca, no; ma quand'esso scocca (suo strale) non
fallisce mai il colpo."
1201
Ovvero Kerni. L'uno e l'altro è nome di tribù; e il secondo anche etnico, da
un villaggio presso Bagdad.
1202
Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 395.
1203
Mo'gem, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 149. Questo passo serbatoci da
Iakût, manca, come tanti altri, nei MSS. d'Ibn-Haukal che abbiamo in Europa.
La carta di Istakhri lo conferma pienamente.
sorgenti siciliane dell'undecimo secolo, pone vicinissima alla
Sicilia tra le terre d'Affrica l'antica Clipea presso il Capo Bon,
aggiugnendo correr tra quella e l'isola cenquaranta miglia, ossia
due giornate di navigazione con buon vento, e, da un altro lato, lo
Stretto del Faro misurarsi due miglia, là dove l'isola più s'accosta
alla terraferma1205. Donde parmi che la correzione sopraddetta si
debba riferire ai navigatori siciliani ed affricani, non agli
astronomi; tanto più che lo sbaglio delle longitudini non si potea
riconoscere da privati senza un osservatorio fornito di quegli
smisurati stromenti che gli Arabi furon primi a costruire.
Ignoriamo in qual tempo visse chi immaginò l'isola triangolo
equilatero, misurandovi sette giornate di cammino da un vertice
all'altro1206. Ibn-Haukal s'avvalse forse delle nozioni che correano
nel paese e avvicinossi al vero quando assomigliò la Sicilia a
triangolo isoscele con la punta rivolta a ponente1207, la base di
1204
Si vegga la tavola delle longitudini e latitudini pubblicata da Lelewel
nell'Atlante della Géographie du moyen-âge, Bruxelles, 1850. Ibn-Iûnis, nella
lista delle posizioni geografiche (p. 4) segna le seguenti:

Sicilia (forse a Palermo) long. 39° lat. 39°


Tunis 29° 33°
Kairewân 31° 31° 40´
Tripoli d'Affrica 40° 40´ 33°
1205
Mo'gem, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 115 del testo dove si dà allo
Stretto il nome di Faro.
1206
Op. cit., p. 114.
1207
Ibn-Haukal, op. cit., p. 119, il qual passo si trova soltanto nel Mo'gem. Ibn-
Haukal non conoscea forse le carte greche rifatte dagli Arabi dopo Mamûn,
poichè l'opera geografica ch'egli aumentò e corresse con le proprie
osservazioni era quella d'Istakhri; della quale abbiamo il MS. pubblicato in
fac-simile dal Dottor Moëller col titolo di Liber Climatum, Gothæ, 1839, in 4°.
Quivi, a p. 39, si trova il disegno più primitivo che si possa immaginare del
Mediterraneo: lo spaccato di un orciolo, nel quale il collo affigura lo stretto di
Gibilterra e la pancia è piena di tre palle che rappresentano la Sicilia, Creta e
Cipro. Il circolo della Sicilia s'avvicina alla curva che significa la costiera
d'Affrica, ad un punto ove è scritto "Tabarca." Questa figura ridotta alla metà,
si ritrova anche nell'Atlante della Géographie au moyen-âge, del dotto
Lelewel, tavola terza. Un'altra figura vieppiù strana, a p. 25 dell'edizione di
Gotha, spinge la Sicilia a levante verso Tripoli.
quattro giornate, e ciascun lato di sette1208. Bekri ne fe' triangolo
scaleno, troppo largo alla base, di cencinquantasette miglia, con
censettantasette di lato maggiore e cinquecento di perimetro1209.
Altri diè il giro di quindici giornate1210. Infine una misura che
sembra oficiale e dell'undecimo secolo, portava undici merhele o
diremmo stazioni di posta, da Trapani a Messina, e tre giornate di
larghezza1211; onde s'argomenta che mancassero i rilievi di posta
nella riviera orientale, e le distanze perciò si ritraessero il manco
male che si potea dai viandanti. La somma è che i dotti siciliani
studiarono piuttosto la geografia descrittiva che la geografia
matematica del suolo ov'erano nati.
Lo Sceikh Abu-Sa'îd-ibn-Ibrahim, detto il Maghrebino e il
Siciliano, compilò un libro di terapeutica, del quale v'hanno due
codici, ad Oxford e Parigi. S'intitola il primo Ausiliare alla
guarigione d'ogni sorta di morbi ed acciacchi1212; e il secondo

1208
Journal Asiatique, IVe serie, tomo V (1845), p. 91, e Archivio Storico
Italiano, App. XVI, p. 21.
1209
Squarcio riferito da Ibn-Scebbât, il cui testo si vegga nella Biblioteca
Arabo-Sicula, p. 210.
1210
Mo'gem, op. cit., p. 114.
1211
Op. cit., p. 115. La merhela, "cavalcata" ossia quel tratto di strada che si
percorre d'un fiato, è misura itineraria degli Arabi, un po' vaga, e diversa
secondo i luoghi. Edrisi nella descrizione dell'isola, Biblioteca Arabo-Sicula,
p. 48 del testo, ragiona la merhela leggiera a diciotto miglia in circa. Così gli
11 rilievi da Messina a Trapani secondo il miglio di Sicilia del tempo di Edrisi
che risponde al miglio romano e all'attuale di Sicilia, tornerebbero a 198
miglia. Ma ragionando la merhela a venti miglia, quella misura sarebbe quasi
esatta, poichè gli itinerarii della posta di Sicilia del 1839, portavano 172 miglia
a cavallo da Messina a Palermo per le Marine, e 68 da Palermo a Trapani per
via rotabile, ch'è necessariamente più lunga. Secondo lo stesso Edrisi, la
giornata di cammino, diversa dalla merhela, era da 24 a 36 miglia, e in media
30. Il miglio attuale di Sicilia risponde a 1487 metri; il romano si ragiona 1481
o 1475.
1212
Catalogo della Bodlejana, n° DLXIV (Marsh. 173], MS. del 1034 dell'egira
(1624-5). La voce che traduco "Ausiliare" significa propriamente "Colui che
rende prospero un successo." La voce "acciacchi" è trascritta, non che tradotta.
Il testo ha il plurale di Sciakwa, con l'articolo as-sciakwa, donde parmi
derivato acciacco.
Taccuino1213 dei medicamenti semplici: unica opera, della quale il
manoscritto bodleiano parmi il primo dettato, e il parigino la
seconda edizione, corretta e semplificata. Considerato, che
vogliansi adattare i medicamenti alle particolarità degli individui
e dei mali; e che fin qui le opere di materia medica siano state
compilate secondo i nomi dei semplici o delle malattie, l'autore si
propone di presentar l'uno e l'altro ordine uniti insieme a colpo
d'occhio per sussidio di memoria al medico. Fa dunque un
volume di tavole sinottiche, notando nelle linee orizzontali
ciascun semplice con sue qualità ed usi, secondo le divisioni che
fanno le linee verticali o vogliam dire colonne. Pon quattro classi
di malattie; del capo, degli organi respiratorii, degli organi
digestivi e del corpo tutto; e poi nota nella linea orizzontale la
denominazione tecnica della infermità. Tratta soltanto dei
medicamenti semplici i quali son messi nell'ordine dell'antico
alfabeto detto Abuged,1214 seguíto sempre dai medici e matematici
arabi. Nella introduzione si discorrono con dotta brevità i
principii generali della materia medica1215.
1213
Trascrivo anche questa voce. Takwîm, in arabo vuol dire designazione di
prezzo, annotazione precisa e indi libretto di appunti. Questo MS. anche
moderno, ma senza data, è segnato nella Biblioteca Parigina, Ancien Fonds,
1027. Di certo s'è perduto nella nuova legatura, una trentina d'anni fa, il titolo
che si legge nel catalogo stampato e in un foglio di mano del maronita Ascari:
"Takwîm al Adouiat al Mofredat." Il nome dell'autore è scritto diverso da
quello di Oxford: Ibrahim-ben-abi-Said-al-Magrebi-al-Olaij; ma forse portava
Ibn-Ibrahim e Sikilli in vece di Olaij, come lesse Ascari.
Del rimanente non solo i due MSS. sono identici al modo di prima e seconda
edizione corretta, ma la seconda edizione corse anche sotto il titolo di
"Ausiliare pei medicamenti semplici," poichè Hagi-Khalfa, edizione Flüegel,
tomo IV, p. 182, n° 13, 145, dà appunto questo ad un'opera di cui ignorava
l'autore, la quale comincia con le stesse parole del MS. di Parigi. Il principio
dell'introduzione con le varianti dei due MSS. si legge nella Biblioteca Arabo-
Sicula, p. 694, seg., del testo.
1214
Abbicci o meglio il greco α, β, γ, δ, che era l'ordine antico degli Arabi, e in
fatti presero da quello le notazioni numerali in lettere.
1215
Ecco le rubriche delle colonne verticali nel MS. di Parigi. - 1. Nome del
medicamento. - 2. Qualità (se vegetabile ec.). - 3. Specie diverse. - 4. Quale
specie sia da scegliere. - 5. Natura (se caldo, freddo, secco ec.). - 6. Forza. - 7.
Spedito ed utile manuale, il cui linguaggio tecnico, le
divisioni, le teorie e qualche tradizione greca che s'accenna nella
introduzione, rispondono al corpo di dottrine mediche che
possedeano gli Arabi nell'undecimo secolo, qual si vede nella
famosa compilazione d'Avicenna. Il riscontro col Canone ci
conduce inoltre a supporre contemporaneo o anteriore ad
Avicenna (980-1037) il Siciliano Abu-Sa'îd, il quale afferma
niuno avere steso prima di lui tavole comparate di rimedii e
malattie; e noi le troviamo appunto nel secondo libro del
Canone1216. D'Abu-Sa'îd non avanza alcun cenno biografico.
Tuttavia nè menzogna nè plagio non son da sospettare, quand'ei
fa categorie patologiche diverse da quelle d'Avicenna; e dà un
catalogo di semplici molto minore, dove pur se ne trova di tali
che mancano nel Canone, ed è diversa la disposizione dei nomi
identici. Se imitazione v'ebbe, par dunque l'abbia fatta Avicenna
da Abu-Sa'îd, o ch'entrambi abbiano attinto alle medesime
sorgenti, e recato nelle esposizione della materia medica quel
genio simmetrico degli Arabi, senza conoscere i lavori l'uno
dell'altro in regioni si lontane. Se non che il manuale apposito del
Siciliano fu ecclissato dal trattato generale del Persiano, al quale
poi si è attribuito, come a Tolomeo, Averroès ed altri compilatori
antichi e moderni, tutto l'onor delle dottrine ch'egli coordinò ed
espose.

Indicazione nelle malattie del capo. - 8. Id. degli organi respiratorii. - 9. Id.
degli organi digestivi. - 10. Id. generali del corpo. - 11. Modo di adoperare il
medicamento. - 12. Dosi. - 13. Effetti nocivi. - 14. Come ripararvi. - 15.
Surrogati. - 16. Numero progressivo. - Le colonne 7, 8, 9, 10, sono molto più
larghe che le altre. Nel MS. di Parigi le sedici colonne prendono ambe le
facciate del libro aperto e v'ha cinque semplici, ossia cinque divisioni
orizzontali, in ciascuna. Il MS., che finisce al fog. 122 recto, ha l'ultima pagina
in bianco, sì che vi manca la conchiusione e forse alcuno degli ultimi articoli.
1216
Si vegga la bellissima edizione d'Avicenna fatta a Roma il 1593, coi
caratteri Medicei, p. 124, segg. Avicenna dà 800 semplici, Abu-Sa'îd 545.
Entrambi li pongono nell'ordine alfabetico dell'Abuged; ma l'ordine secondario
in ciascuna lettera iniziale è diverso. Del resto Avicenna compose questo
capitolo in tavole, come Abu-Sa'îd, ancorchè nella edizione romana, per
guadagnare spazio, i cenni ch'erano in colonne sian messi in continuazione.
Più che Abu-Sa'îd meritò della scienza il Siciliano Ahmed-ibn-
Abd-es-Selâm, sceriffo, ch'è a dir della stirpe d'Ali, autore d'un
trattato di medicina che serbasi a Leyde ed era intitolato: Il libro
dei medici su tutte le malattie dal capo alle piante1217.
Limitandosi ai medicamenti semplici, chè i composti, dice egli,
difficilmente riescono nè mai n'è certo lo sperimento, Ahmed
breve accenna i rimedii indicati secondo le diagnosi; non tacendo
le credenze volgari e contrapponendovi i dettami dei maestri greci
ed arabi e sovente la propria esperienza. Divide l'opera in venti
capitoli; da alcuno dei quali che ho percorso, specialmente il
paragrafo su l'idrofobia, il Libro dei medici mi sembra ricco di
osservazioni, dettato con quella saviezza sperimentale che si fa
scorta delle teorie e ch'è sola via dritta in quest'arte. Ma pieno
giudizio non se ne potrà dare, se la storia della medicina appo gli
Arabi non sia meglio studiata che al presente, e se eruditi medici
non approfondiscano quest'opera, la quale a prima vista sembra di
gran momento. Ahmed ne compose un'altra, forse d'igiene,
intitolata: Conservazione della salute; divisa in ottanta capitoli e
dedicata ad un Abu-Fâres-Abd-el-Azîz-ibn-Ahmed; della quale
tanto sol sappiamo da Hagi-Khalfa, e che l'autore si appellava
Siciliano e Tunisino1218. Di lui non troviamo cenno nelle biografie

1217
MS. della Biblioteca pubblica di Leyde, dell'anno 899 dell'egira, (1493),
n° 41, segnato nel Catalogo del 1716, n° 727, p. 440. Il titolo in arabico che
leggiamo nel catalogo non si trova più nel MS. Io l'ho pubblicato con la
introduzione e la tavola dei capitoli nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 697 del
testo.
Ecco la tavola dei capitoli: 1. Medicamenti semplici giovevoli contro la
cefalgia; 2.... contro le malattie degli occhi; 3.... degli orecchi; 4.... del naso;
5.... della bocca; 6.... della gola e del collo; 7.... del fegato e dello stomaco; 8....
degli intestini e purgativi; 9.... del sedere e tumori che vi nascono; 10.... delle
reni; 11.... della vescica; 12.... degli organi maschili; 13.... della matrice; 14....
delle articolazioni; 15.... ferite; 16.... tumori e pustole (buthûr, donde i butteri
del vaiolo); 17.... malattie polmonari; 18.... Febbri e mal'aria; 19.... Veleni e
morsicature di animali; 20.... Sostanze proficue alla sanità generale della
persona.
1218
Hagi-Khalfa, Dizionario Bibliografico, edizione di Flüegel, tomo V, p. 75,
n° 10,057.
dei medici arabi; talchè dobbiam lasciarlo tra quei d'età incerta,
non potendo affidarci ad un barlume che ci condurrebbe all'ultima
emigrazione dei Musulmani di Sicilia, sotto Federigo secondo
imperatore1219. Visse di certo nella dominazione musulmana Abu-
Abd-Allah-Mohammed-ibn-Hasan-ibn-Tazi, poeta e letterato di
gran fama in Sicilia, al quale Ibn-Kattâ' dà appellazione di
medico, senza dirne altro1220; e noi ne riparleremo tra i poeti con
l'onore e il biasimo ch'ei meritò. Del rimanente questo picciol
numero di medici, le cui notizie ci pervengono come per caso,
non prova che la scienza fosse trascurata in Sicilia.
Scarsi al paro i ricordi di cui seguì la filosofia antica, che gli
Arabi chiamarono col proprio nome greco: e diceano Kelâm ossia
"ragionamento," la metafisica e logica religiosa acconciate a lor
modo. I filosofi, spesso perseguitati in vita e dimenticati dopo
morte, non tornan a galla nella storia letteraria degli Arabi, se non
li spinge su qualche vestimento più leggiero: poesia o filologia.
Così ci vien trovato nelle biografie dei linguisti di Soiuti, un
Sa'îd-ibn-Fethûn-ibn-Mokram da Cordova, della illustre gente dei
Togibiti, grammatico, filologo e scrittor di due trattati di
versificazione; dato anche, dice Soiuti, alla filosofia. Fu costui
contemporaneo del terribil ministro Ibn-Abi-'Amir, detto
Almanzor, protettore delle lettere, persecutore delle scienze
antiche; quel che bruciò i libri di filosofia ed astronomia della
biblioteca di Cordova. Sa'îd, accusato non sappiamo se di
scetticismo o ribellione, forse senz'altra colpa che il nascer di
schiatta possente e temuta, fu chiamato da Almanzor, interrogato
severamente e messo in prigione. Poi lasciaronlo andare in esilio;

1219
Il mecenate ricordato da Hagi-Khalfa non si trova tra i principi d'Affrica nè
di Spagna; ma quel soprannome e quel nome proprio, spesseggiavano nella
dinastia hafsita di Tunis che surse in principio del XIII secolo. Si potrebbe
dunque supporre uom di quella famiglia che non avesse regnato nè lasciato
memoria di sè negli annali politici.
1220
Imâd-ed-dîn, Kharîda, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 589, del testo.
Questa notizia trovandosi nell'Antologia d'Ibn-Kattâ', il poeta fu anteriore al
principio del XII secolo.
ed elesse la Sicilia, dove passò il resto de' suoi giorni, alla fine del
decimo o principio dell'undecimo secolo1221.
Primaria scienza sacra appo loro la lettura del Corano, la quale
portando seco interpretazione, riesce a gravi conseguenze legali,
dommatiche e morali. Fu dettato il Corano quando tra gli Arabi
contavasi a dito chi sapesse scrivere; nè a grammatica si pensava
pur anco nè ad ortografia. Poscia Othmân nell'edizione canonica
eliminò i luoghi apocrifi, le frasi estranee al dialetto coreiscita,
ma non potè mettere in carta la sacra parola con segni più perfetti
che gli Arabi non ne possedessero. Cioè che notavano precise
tanto o quanto le consonanti1222, e delle vocali sol quelle
rinforzate da accento, e non pur tutte: donde l'ambiguità di tanti
vocaboli che non sono distinti se non dalle vocali, di tanti periodi
varii di significato secondo i modi grammaticali che si
accennassero leggendo1223. Il testo dunque sendo scritto, come
oggi diremmo, in cifera di stenografia, nè bastando averlo sotto
gli occhi per saperne appunto il tenore, era forza supplirvi con la
tradizione orale e con le regole della grammatica. Indi i Lettori, i
maestri di Lettura, i trattati e anche poemi didascalici, le sette
scuole principali di lettura e non so quante secondarie, gli arabici
assottigliamenti in cotesta novella scienza; e s'arrivò a notare il
Corano con segni più presto musicali che ortografici: lettere,

1221
Soiuti, Tabakât-el-Loghewîn, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 674.
Almanzor tenne l'oficio di primo ministro o piuttosto lo scettro della Spagna
dal 976 al 1001.
1222
Ognun sa che molte consonanti non si distinguono altrimenti che pei punti
messivi sopra o sotto; e che la scrittura monumentale chiamata Cufica non ha
punti, il che la rende spesso sì incerta. Ma il carattere neskhi punteggiato si usò
fin dal primo secolo dell'egira, com'or lo provano varii monumenti; nè par che
negli esemplari del Corano sia caduto mai equivoco su le consonanti.
1223
Questi si accennano con vocali e anche consonanti. Ma molte consonanti
prescritte dalle forme grammaticali non si notavano allora, come il provano gli
antichi esemplari del Corano. Si veggano i lavori di M. De Sacy, Notices et
Extraits des MSS., tomo VIII, p. 290 segg., 355 seg., e tomo IX, p. 76, seg. La
lista delle lezioni arcaiche o erronee che voglian dirsi, delle copie primitive del
Corano, è molto più lunga, come si vede nei frammenti su Pergamena che
possiede la Biblioteca di Parigi, Suppl. Arabe.
punti, lineette, sigle che si dipingeano a varii colori intorno gli
arcaici caratteri negri del testo d'Othmân, e prescrivean le pause,
le modulazioni e oficio dell'a, le articolazioni da elidere o
permutare e simili.
Fu dei più rinomati Lettori del Corano al suo tempo Abd-er-
Rahmân-ibn-Abi-Bekr-ibn-'Atîk-ibn-Khelef da Siracusa, detto
Ibn-Fehhâm (Il figlio del Carbonaro), nato il
quattrocencinquantaquattro (1062), uscito, com'è probabile, alla
presa di Siracusa, l'ottantotto (1095), e morto il cinquecento
sedici (1122-3). Andò cercando in Oriente i dottori principi della
Lettura; praticò con parecchi d'Egitto; e soggiornò, forse diè
studio, in Alessandria, essendo stato chiamato lo Sceikh
Alessandrino. Compose il Soddisfacimento a chi brami saper
bene le Sette Lezioni, e La Gemma Solitaria d'Ibn-Fehhâm su la
Lettura: com'è vezzo degli scrittori arabi di porre titoli
millantatori e avviluppati, purchè sembrino bizzarri. Si ricorda
inoltre un suo Commentario su i Prolegomeni Grammaticali
d'Ibn-Babesciâds: che grammatico ei fu anco e giurista, e poeta.
Abbiamo, solo avanzo de' suoi scritti, qualche verso, elegante di
lingua e stile, studiato di immagini, se il raccoglitore non
trascelse appunto gli squarci ampollosi per dare un bel saggio1224.
Nella poesia erotica d'Ibn-Fehhâm è tenerezza e delicatezza
d'affetto non comune1225. Il disinganno d'uom battuto dalla fortuna

1224
Si riscontrino: Imâd-ed-dîn, Kharîda, squarcio tolto da Ibn-Kattâ', nella
Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 598; Dsehebi, Anbâ-en-Nohâr, op. cit., p.
645, ed Hagi-Khalfa, edizione di Flüegel, tomo II, p, 209, n° 2472, tomo VI, p.
36, n° 12,632, e p. 70, n° 12,752. Il nome è dato diversamente, ma si vede
l'identità della persona.
Nella Kharîda troviamo dodici versi di questo autore. I primi quattro son
cavati da una elegia d'ignoto argomento; se non che vi leggiamo:
"Ed entra (il nemico o l'esercito ec.) in un deserto che ha abitatori: entra come
il mare; se non che gli manca l'onda amara.
"Vedresti lor lettighe da camelo piene di nemici che portan via la preda,
navigar quasi galee su le teste degli abitatori." MS. di Parigi, Ancien Fonds,
1375, fog. 49, v. 7, e del British Museum, fog. 37, v. 7.
1225
"Le gitto uno sguardo furtivo, temendo per lei gli appuntatori e le spie.
gli dettò un epigramma, contro il suo secolo, ma la saetta arriva
fin qui1226.
Segnalossi nella medesima scienza Abu-Tâher-Ismail-ibn-
Kelef-ibn-Sa'îd-ibn-'Amrân, autore d'un trattato in nove volumi
su le forme grammaticali1227 del Corano, e d'un sommario
intitolato Cenno su la Lettura: dov'ei messe a riscontro le Sette
Lezioni, con dettato conciso da potersi tenere a mente, facile agli
scolari, bastante anco ai dotti. Libro rinomato ai tempi d'Ibn-
Kallikân, comentato poscia da molti e rimaso in onore fino al
decimosettimo secolo, quando ne fe lode Hagi-Khalfa.
Compendiò inoltre questo Ismail un'opera, credo teologica,
intitolata L'Argomento, di Faresi. Fu noverato tra i primi letterati
dell'età sua. Ibn-Khallikân, su la fede dello spagnuola Ibn-
Baskowâl, gli dà per patria Saragozza; Soiuti lo ricorda coi due
nomi di Siciliano e Spagnuolo; ed Hagi-Khalfa alterna l'uno e
l'altro. Secondo tutti, fu Ansâri, cioè oriundo di Medina, e morì il
quattrocentocinquantacinque (1063), in Spagna, credo io, dov'egli
si fosse rifuggito, lasciando la Sicilia quando caddero i Kelbiti, o
in quel torno1228.
"E vorrei lamentarmi seco di questo immenso affetto, ma non oso; tanto è il
mio pudore!
"Quantunque ella sembri avara dell'amor suo, tutto io le dono il mio e la
candida amistà.
"E nasconderolle, quand'anco ne dovessi morire, l'incendio di dolore che m'ha
messo (in seno)." MSS. cit.
1226
"Non domandar agli uomini del secolo che operino secondo giustizia: da
ciò li scusano i costumi del secolo e degli uomini.
"E se vuoi che duri l'amistà col tuo compagno, studiati a chiudere gli occhi su
quel ch'ei fa." MSS. cit.
1227
'Irâb, è la dottrina delle mutazioni grammaticali dei vocaboli, astrazion
fatta della sintassi che si chiama Nakw.
1228
Si confrontino: Soiuti, Tabakât-el-Loghewîn nella Biblioteca Arabo-Sicula,
testo, p. 673, 674; Hagi-Khalfa, edizione Flüegel, tomo I, p. 356, n° 926, e IV,
p. 284, n° 8398; e Ibn-Khallikân, edizione del Wüstenfeld. Avvertasi che Ibn-
Besckowâl, secondo il MS, della Société Asiatique di Parigi, il solo che io
abbia potuto consultare, nol dice di Saragozza, ma soltanto spagnuolo; nè fa
menzione dell'origine di Medina. Potrebbero esser dunque due Ismail-ibn-
Khelef, l'uno spagnuolo e l'altro siciliano.
Visse nella generazione seguente, e forse uscì di Sicilia al
conquisto, Abu-Amr-Othmân-ibn-Ali-ibn-Omar da Siracusa,
discepolo d'Ibn-Fehhâm in lettura e d'altri rinomati professori in
tradizione, uomo di molta dottrina a giudizio del dotto Silefi che
usò con lui; autor di varie opere di lettura, grammatica e
versificazione, linguista inoltre e poeta, il quale tenea scuola di
lettura del Corano nella moschea d'Amru 1229 al Cairo vecchio,
verso la metà del duodecimo secolo1230. L'età non sappiamo di
Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Haiun, siciliano, che scrisse al
dir di Casiri un'appendice alla Parafrasi poetica del Corano, di cui
v'ha un codice all'Escuriale1231. Vengon poscia i Lettori che non
lasciaron opere, tra i quali si ricorda Kholûf-ibn-Abd-Allah da
Barca, dimorante in Sicilia alla metà del quinto secolo dell'egira,
dotto nelle due parti della grammatica cioè forma e sintassi, non
digiuno delle scienze filosofiche e morali, e buon poeta al dir di
Dsehebi1232. Lettore e moralista Abu-l-Kâsim-Abd-er-Rahman-
ibn-Abdel-Ghanî; lettori anco Abu-Bekr-'Atîk-ibn-Abd-Allah-
ibn-Rahmûn della tribù di Khaulân, passata in Siria e Spagna nei
primi conquisti degli Arabi, ed Abu-Hasan-Ali-ibn-Abd-el-
Gebbâr-ibn-Waddâni, il qual nome lo mostra oriundo d'Affrica.
Tutti e tre poeti e vissuti nel decimo o undecimo secolo; i pochi
versi dei quali, che trascrive Imâd-ed-dîn, mi sembran di pulite

1229
Così la chiamano gli Europei. Si pronunzierebbe più correttamente Amr.
1230
Si confrontino: Dsehebi, Anbâ-en-Nohâ nella Biblioteca Arabo-Sicula,
testo, p. 647, e Soiuti, Tabakât-el-Loghewîn, op. cit., p. 676. Ho corretto
secondo Soiuti il nome che in Dsehebi si legge Omar-ibn-Ali ec. Argomento
l'età da quella del suo maestro Ibh-Fehhâm, lodato di sopra, e del celebre
tradizionista Silefi, morto il 1180, il quale al dir di Dsehebi conobbe Omar-
ibn-Ali al Cairo Vecchio.
1231
Casiri, Bibliotheca Arabico-Hispana, tomo I, p. 501, trascritto dal Di
Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 237. Ma Casiri non dà in arabico nè il nome
dell'autore, nè il titolo del libro. Dice il primo oriundo siciliano e nato a Ceuta,
avendo letto al certo Sikilli e Sibti; che potrebbe significare "Siciliano stanziato
a Centa" o al rovescio. Duolmi che le difficoltà dell'Escuriale e le mie, mi
abbian tolto di andare a studiar questo Manoscritto, come ho fatto di tutte le
altre opere d'Arabi siciliani.
1232
Op. cit., p. 644.
forme, e battono su la instabilità delle cose umane e consolazione
delle sventure, tema grato ai Musulmani 1233. Nella prima metà
dell'undecimo secolo, levò grido il Lettore siciliano Abu-Bekr-
ibn-Nebt-el-'Orûk, sì che un valente giovane spagnuolo, che poi
meritò importanti ofici in patria, tornando dalla Mecca e
dall'Egitto dove avea compiuto gli studii, fermossi in Sicilia a
ripigliare quei di lettura coranica con questo Abu-Bekr, e del
dritto con Abd-el-Hakk-ibn-Harûn1234. Si ricorda infine tra i
Lettori il grammatico, linguista e poeta Abn-Bekr-Mohammed-
ibn-Abd-Allah che volentieri direi venuto d'Affrica in Sicilia1235,
finito pazzo, se ben m'appongo a quel che ci narran di lui. In sua
vita d'austera morale e uggiosa pietà, gli venne visto un
giovanetto figlio d'alcun capitano o regolo dell'isola; e non
osando svelare il brutto pensiero che gli nacque, trafitto di dolore,
si fece pelle ed ossa; il sangue, dirompendo dal fegato, che gli
Arabi tengon sede delle passioni, gli offese il petto, lo portò via,
scrive Dsehebi, da questo all'altro mondo, innanzi tempo. Con
altro giudizio che quel degli Arabi, si direbbe che la consunzione
gli turbò il cervello, il che pur suole avvenire, e com'uomo
nudrito negli scrupoli immaginò tal peccato ch'ei non avea. Nè
vale la sua propria confessione in eleganti versi, degni di men

1233
Imâd-ed-din, Kharîda, estratti dalla Dorra d'Ibn-Kattâ', nella Biblioteca
Arabo-Sicula, p. 597 e 592. Del primo abbiam due versi tolti da un'elegia ed
un epigramma in altri due versi; del secondo due soli versi; ed altrettanti del
terzo.
Ecco l'epigramma di 'Atîk, nella Kharîda, MS. di Parigi, fog. 46 verso, e del
British Museum, f. 35 verso.
"Non temer (il soggiorno) di un poderetto presso picciol paese; chè là dove si
respira, si mangerà."
"Iddio scompartisce il nutrimento a tutte le creature, e il tribolarsene è da
stolto."
1234
Ibn-Besckowâl, op. cit. all'articolo: Khelef-ibn-Ibrahim-ibn-Khelef,
soprannominato Ibn-Hassâr, il quale nacque il 427 e morì il 511 (1036-1117).
1235
Ancorchè le due sorgenti della sua biografia lo chiamino entrambe Sikilli,
pure Imâd-ed-dîn lo mette tra i poeti dell'Africa propria, senza spiegare il
perchè.
tristo argomento, i quali incominciano col dubbio ch'ei fosse fuor
di sè, e si chiudono con affrettare la morte1236.
I detti e pratiche di Maometto, raccontati con sommo zelo dai
contemporanei, messi in carta da quei che vennero appresso,
sono, come ognun sa, la seconda sorgente della dottrina
musulmana nelle scuole ortodosse; se non che l'ampia raccolta
non fu mai compilata in forma autentica, non porta a quel che i
Musulmani chiaman precetto divino, e i dottori, secondo lor
giudizio, ne accettano e ricusano, esercitando la critica non meno
su l'autenticità, che su la interpretazione dei vocaboli antiquati e
frasi oscure. Studio vasto che diè origine a scuole mal note l'una
all'altra, e condusse i tradizionisti a lunghe peregrinazioni qua e
là, dove fosse alcun rinomato dottore o chi aveva appreso da lui.
Fanno le tradizioni importantissimo corpo di dritto pubblico,
civile e penale, e disciplina religiosa; avvegna che proveggano
alla spicciolata a tanti casi non contemplati dal Corano: onde la
tradizione è preparamento necessario, anzi parte integrale della
giurisprudenza1237. S'ei fosse da stare ad una conghiettura
dell'erudito Iakût, avrebbe preso soprannome dalla Calabria un
Abu-Abbas, dei più antichi critici delle tradizioni: discepolo
d'Abu-Ishak-Hadhrami, e maestro di Abu-Dâwûd-Soleiman, che
dettò il Sinan, autorevole compendio. Ma Abu-Dâwûd morì
l'ottocentottantotto di nostr'èra; onde si dovrebbe supporre che
1236
Si riscontrino: Imâd-ed-dîn, Kharida, estratto della Dorra d'Ibn-Kattà',
nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 604 del testo, e Dsehebi, Anbâ-en-Nohâ, op.
cit., p. 647. Il primo dà il nome di Mohammed Ibn-Abi-Bekr, il secondo di
Abu-Bekr-Mohammed-ibn-Abd-Allah; ma la supposta causa della morte,
raccontata da entrambi con poco divario, non lascia dubbio su l'identità della
persona. I versi, che son sette, si leggono nella Kharîda. Il misero pazzo dice
che versava a un tempo lagrime e sangue; e finisce così:
"Oh! sventura, amici miei, fui ferito; e non v'accorgeste che mi fiedean le
spade di due pupille."
"Il fegato mi si è versato nel petto. E fino a quando vedrò alternar la mattina e
la sera, cruciato sempre dall'amore?" MS. di Parigi, fog. 133 recto, e del
British Museum, fog. 100 recto.
1237
Si vegga la pregevole monografia malekita di M. Vincent, intitolata Études
sur la loi musulmane, Paris, 1842, in 8°.
Abu-Abbâs-Kalawri avesse militato nelle prime squadre
musulmane, che d'Affrica, Sicilia o Creta assaltarono la
terraferma d'Italia (842). E non reggendo il supposto di Iakût
altrimenti che su l'analogia del nome etnico, nè accompagnandolo
alcun ragguaglio di biografia, ne rimarremo a questo cenno1238.
Oltre i giuristi che preliminarmente apparavano la Tradizione e
l'arte critica di quella, parecchi dotti dell'isola vi attesero
particolarmente. Fin dai primi anni del decimo secolo o poco
innanzi, il siciliano Abu-Bekr-Mohammed-ibn-Ibrahim-ibn-
Musa, della tribù di Temîm, passò in Irâk per approfondire
cotesto studio che fioriva tuttavia nella capitale abbassida e nelle
importanti città vicine. Scrisse molte opere delle quali non
sappiamo i titoli, e diè lezioni a Waset; noverandosi tra i suoi
discepoli alcun tradizionista di nome. Côlto insieme con
l'erudizione il mal vezzo del misticismo che spuntava allora tra i
dotti musulmani, frequentò le accademie di Gioneid e Nûri,
barbassori sufiti; entrò nella setta1239 e lasciovvi nome onorato1240.
Dopo l'Irâk par abbia fatto soggiorno in Egitto, anzichè tornare in
Sicilia1241.
Ignorasi l'età del cadi Abu-Hasan-Ali-ibn-Moferreg, autor di
un'opera intitolata Annotazioni del Siciliano su la Tradizione,
citato da Beka'i, nel decimoquinto secolo, tra i testi ch'egli soleva

1238
Mo'gem-el-Boldân nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 123, ed
Aggiunte a p. 40 della Introduzione. Iakût, non so su qual fondamento, vuol
che il nome "Calabria" si legga in arabico Killawria.
1239
Makrizi, Mokaffa', nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 663, il quale non
porta data; ma ce l'additano i nomi di Gioneid e Nûri, ricordati da Giami nelle
Vite dei Sufiti. Abu-l-Kasim-Gioneid da Bagdad, tenuto in suo tempo il primo
veggente o visionario dell'Irâk, sagace al certo e sentenzioso, morì il 297, 298
o 299 (909-911); ed Abu-Hosein-Ahmed-ibn-Mohammed-Nûri, che si credea
secondo solo a Gioneid, era trapassato pochi anni innanzi. Si vegga la
biografia di Gioneid, tradotta dal persiano di Giami per M. De Sacy, Notices et
Extraits des MSS., tomo XII, p. 426 a 429 con le note corrispondenti.
1240
Par desso l'Abu-Bekr Sikilli che Giami pone in lista, op. cit. p. 409.
D'altronde Makrizi nel cenno biografico non dimenticò l'appellazione di Sufita.
1241
Perchè Makrizi lo chiama Misri e Sikilli. Non è mica probabile ch'ei fosse
nato in Egitto e venuto in Sicilia.
adoperare1242. Due liberti siciliani, al certo degli schiavi cristiani
venduti in altri paesi, ebbero nome di tradizionisti a Cordova,
nella seconda metà del decimo secolo: dei quali, Derrâg, uom di
molta pietà e dottrina, fu bandito per sospetti politici e morì in
Oriente, dopo fatto il pellegrinaggio1243; e l'altro per nome Râik,
studiò tradizioni in Oriente e professolle poscia in Spagna1244.
S'applicò alla legge ed alla tradizione, tenuto uom dottissimo al
principio dell'undecimo secolo, l'emir Abu-Mohammed-'Ammâr-
ibn-Mansûr dei Kelbiti di Sicilia, di ramo collaterale ai due che
regnarono. I frammenti poetici del quale spiran l'orgoglio
guerriero della nobiltà non mansuefatto dalle elucubrazioni legali,
e ci svelano che l'autore navigasse a golfo lanciato tra i tumulti e
le trame che s'alternavano in Palermo1245.
Verso il milletrenta, si trovò in Spagna Abu-Fadhi-Abbâs-ibn-
Amr, siciliano, il quale apprese da Kâsem-ibn-Thâbit di
Saragozza la spiegazione dei vocaboli e modi disusati delle

1242
Hagi-Khalfa, edizione Flüegel, tomo IV, p. 474, n° 9271.
1243
Ibn-Besckowâl, op. cit., al nome: Derrâg. L'età si scorge da quella d'un suo
maestro in Spagna, per nome Abu-Gia'far-Ibn-'Awn-Allah, che andò in
pellegrinaggio il 342 (953).
1244
Ibn-Besckowâl, op. cit. a questo nome. Un discepolo di Râik, per nome
Sa'Id-ibn-Iûsuf da Calatayud, morì il 395 (1004).
1245
Imâd-ed-dîn, Kharîda, estratto dalla Dorra d'Ibn-Kattâ nella Biblioteca
Arabo-Sicula, testo, p. 595. Il titol di emiro si diè per cortesia a tutti i rampolli
di famiglie principesche. Mi par bene tradurre tutti i versi che abbiamo di lui,
alle allusioni dei quali non troviamo riscontro nelle croniche; ma vanno
naturalmente tra l'abdicazione di Iusûf, 998, e la caduta della dinastia.
"Ella mi dicea: Ho visto uomini prodi, ma nessuna (spada) del Iemen
agguagliò mai la tua.
"Uso tanto ai tumulti della plebe, che ormai ti credi invulnerabile a lor sassi.
"Ma fino a quando affronterai temerario i fati, offrirai il petto alle lance?
"Ed io le risposi: Di tutto ho sentito parlare fin qui, fuorchè d'un Kelbita
vigliacco."
E scrisse ad un suo cugino questo rimbrotto:
"Ti credei spada ch'io sguainassi contro il nemico, non che volgessila contro
me medesimo.
"Mi affaticai ad innalzarti ed onorarti; ed eccomi alfine sgarato (chiuso) in un
carcere, non lungi dalle tue stanze."
tradizioni ed insegnolla ad altri Spagnuoli; onde sembra stanziato
nel paese1246. Abu-Bekr-Mohammed-ibn-Sâbik, nella generazione
seguente, uscito forse in pellegrinaggio, apparò tradizione alla
Mecca da parecchi dottori, tra i quali primeggia Karîma figliuola
di Ahmed-Marwazi; e in luogo di tornare in Sicilia ove non era
oramai che guerre e stragi, aprì scuola in Granata; ma sentendovi
anco mal fermo il suolo, passò in Egitto; e quivi morì di gennaio
del mille e cento. Lasciò in Granata desiderio di sè, e fama di
gran teologo1247. Son anco ricordati com'ottimi tradizionisti il
Sementari, Ibn-Mekki, Ibn-Abd-el-Berr ed Ibn-Kattâ; del primo
dei quali diremo tra i mistici, e degli altri tra i filologi. Sopra tutti
s'innalzò il Mazari.
Così chiamato dalla città nativa e Temîmi dalla tribù, per
nome Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Ali-ibn-Omar-ibn-
Mohammed1248, giurista malekita, uom sommo, scrive Ibn-
Khallikân, nella dottrina testuale e critica delle tradizioni1249.
Celeberrimo nelle scuole musulmane il suo commentario 1250 di
tradizione intitolato Il maestro delle dottrine (contenute) nel libro

1246
Homaidi, Geswat-el-Moktabis nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 578.
L'autore, che nacque il 1029 e morì il 1097, trascrive due versi di Ahmed-ibn-
Abi-Mokâ ch'eran passati per la bocca di Abbas-ibn-Amr nel seguente modo: 1
Abu-Mohammed-Ali; 2 il cadi Ibn-Soffâr; 3 Abbas-ibn-Amr; 4 Thâbit da
Saragozza, ec. Però il soggiorno di quel Siciliano in Spagna par si debba
riferire ai primi trent'anni del secolo.
1247
Ibn-Besckowâl, Silet, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 578. Le
cagioni che lo avessero distolto dal tornare in Sicilia e dal rimanere in Granata,
non son dette dal biografo ma supposte da me.
1248
Makrizi dà il nome d'Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Mosallim, (secondo,
altri, aggiugne, Moslim) ibn-Mohammed, Koreiscita. Degli altri scrittori che
facciano parola di lui, Hagi-Khalfa segue il nome dato da Ibn-Khallikân, Soiuti
quel che ai trova in Makrizi, i rimanenti lo chiamano Mazari, o Abu-Abd-
Allah-Mohammed-Mazari.
1249
Il testo d'Ibn-Khallikan dice "la memoria delle tradizioni e il Kelâm, sopra
quelle." Kelâm, come abbiam notato altrove, era la "scolastica" il metodo delle
scuole teologiche. Però mi sono discostato dalla versione di M. De Slane "the
Manner in which be lectured on that subject."
1250
Nell’originale "comentario"
di Moslim.1251 Scrisse anco la Spiegazione dei (principii) che
occorrono nello "Argomento dei dommi,"1252 ed un commentario
sul libro intitolato Il buon indirizzo, opere entrambe di teologia
scolastica1253; un commentario sul Manuale di Mâlek che si
chiama il Mowattâ1254; quattro volumi su l'insegnamento del cadi
Abd-el-Wehhâb1255; ed altre di erudizione e belle lettere1256: ma fu
dotto in varii rami di scienze pratiche o speculative1257, fin anco in
medicina. Leggiamo in un comentario malekita come la gente
accorresse a consultar il Mazari da medico al par che giurista, dal
tempo ch'ei si diè con ardore a quello studio, punto da un medico
israelita, il quale, curandolo in grave infermità, gli rinfacciava:
"ecco il gran dottore dell'islamismo in balía d'un povero giudeo,
che se il lasciasse morire farebbe opera meritoria in sua religione
e grave danno ai Musulmani1258." E veramente per tutta l'Affrica
Settentrionale i contemporanei il tennero a luminare di
giurisprudenza; si raccontò che il Profeta gli fosse comparso in
sogno, confortandolo a scrivere, i posteri lo dissero ultimo legista

1251
Qui anche mi è parso che la voce "dottrine" renda il testo fewâid, più
precisamente che la versione litterale inglese "good passages." Di quest'opera
fan parola Ibn-Khallikân, e Makrizi; e la nota Hagi-Khalfa, edizione Flüegel,
tomo II, p. 545, n° 3908.
1252
Ibn-Khallikân e Makrizi, il quale la dice positivamente di subietto
teologico.
1253
Makrizi.
1254
Iakût, nel Moseterik, edizione di Wüstenfeld all'articolo: "Mazara."
1255
Appendice anonima ad Hagi-Khalfa, nella edizione di Flüegel, tomo VI, p.
650, n° 93.
1256
Adab, dicono gli Arabi in una parola. L'Encyclopédie des Gens du monde,
sarebbe appo loro un'opera di Adab, la qual voce racchiude la buona
educazione.
1257
Ibn-Khallikân lo dice Motefennin, ossia dotto in varii rami di sapere; il
furioso teologo Ibn-Mo'allim, MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 200, fog. 100
verso, aggiugne: "e primeggiò nella scienza del detto e dello speculato."
1258
Kharesci, Comento al Compendio di Khalîl-ibn-Ishak, Ms. di Parigi, Sup.
Ar. 405. foglio 5 verso. Debbo avvertire che simile notizia, con poco divario,
mi è stata data dall'erudito e svegliato Soleiman-Kurdi da Tunis, che ho
conosciuto a Parigi, il quale ricordava benissimo il fatto della sepoltura di
Mazari a Monastir, cavato, credo io, da Ibn-Khallikân.
inventore; e Khalîl-ibn-Ishak, compilator dell'oscuro codice che
or si osserva in Affrica, pose il Mazari e il siciliano Ibn-Iûnis tra
le quattro autorità cardinali, citate dopo la Modawwana1259, Il
Mazari seguì in teologia la dottrina asci'arita1260 o vogliamo dire
scolastica, la quale soleva adoprare la filosofia e le interpretazioni
per difendere il domma ortodosso dai duri colpi che gli traeano
scismatici e razionalisti con le medesime armi. Uscito di Sicilia,
com'ei pare, al conquisto normanno, soggiornò al Cairo vecchio,
ad Alessandria; a Mehdia; quindi ad Alessandria di nuovo, dove
insegnò tradizioni1261. Si narra che a Mehdia abbia dato, poco
appresso il mille, i primi rudimenti della scienza, a Mohammed-
ibn-Tûmert, detto poi il Mehdi: un mezzo Savonarola berbero,
che fondò l'impero almohade1262: tra il qual legame col profeta
avventurato, e la dottrina propria e l'acume dell'ingegno e la
serena virtù dell'animo, il Mazari passò tra i beati dell'islamismo.
Morto in Mehdia d'ottantatrè anni lunari, chi dice il quattro e chi
il venti ottobre, del millecentoquarantuno1263, fu sepolto sia a
1259
Kharesci, l. c. Si vegga anche la versione del Khalîl, Précis de
jurisprudence musulmane etc., traduit par M. Perron, tomo I, p. 5, e la nota del
traduttore a pag. 511. Della Modawwana abbiam fatto cenno nel Libro III,
capitolo XI, p. 222 di questo volume.
1260
Makrizi.
1261
Makrizi, il quale dà nomi d'un Ahmed-ibn-Ibrahim-Razi, maestro suo al
Cairo vecchio, e di parecchi discepoli ch'ebbe Mazari ad Alessandria.
1262
Zerkescl, Storia degli Almohadi, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p.
522. Argomento la data del soggiorno a Mehdia da quella che si assegna al
passaggio del giovane Ibn-Tûmert in detta città, cioè la fine del quinto secolo
dell'egira. Si veggano Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, versione di M. De
Slane, tomo II, p. 163, e il Kartâs, versione del professore Tornberg, intitolata
Annales Regum Mauritaniæ, tomo II, p. 150. Ibn-Tûmert comparve più zelante
asci'arita che il suo maestro Mazari; ma il maestro era dotto e galantuomo; il
discepolo spezzava strumenti di musica, sgridava nobili donne per le strade,
architettava miracoli; e suscitò nella schiatta berbera una delle più importanti
rivoluzioni che mai vi fossero avvenute.
1263
Ibn-Khallikân dice che alcuni riferissero la morte di Mazari il 18 rebi'
primo del 536, altri il lunedì 2 dello stesso mese. Questo giorno di settimana
non va bene secondo i nostri calendarii. Nel conto civile, rebi' primo di
quell'anno cominciò di sabato, e nel conto astronomico di venerdì; il che
Mernâk presso Tunis1264, sia a Monastir1265; il qual disparere su le
minuzie biografiche, mostra la grande rinomanza dell'uomo, al
par delle lodi che ne fanno tutti gli scrittori 1266. Dalla riputazione
di santità nacque una favola, ripetuta in Affrica nel decimoquinto
secolo, la quale dava al Mazari trecento tredici anni di vita1267.
Per l'intima connessione che hanno le tradizioni con la
giurisprudenza, si comprende come questa, ben avviata già in

s'aggiunga alle tante prove che i Musulmani nel medio evo contavano i mesi
non sul calendario, ma su le testimonianze legali di chi avesse vista primo la
luna nuova.
Il Baiân, testo, tomo I, p. 322, dà la morte di Mazari il 536; Makrizi il 530,
Kâresci, l. c., il 536.
1264
Villaggio ad otto miglia, O. S. O., da Tunis.
1265
Penisola alla estremità meridionale del Golfo di Hammamet, non lungi da
Mehdia. Sapendosi che Mazari morì in Mehdia, e che il cimitero di questa città
era in Monastir, non ho dubbio a leggere così in vece di Menasciin, che nella
edizione dei Wüstenfeld si dà come luogo della sepoltura di questo insigne
giurista.
1266
Si confrontino: Ibn-Khallikân, Biographical Dictionary, versione di M.
De Slane, tomo III, p. 4, e testo, tomo I, p. 681, e nella edizione del
Wüstenfeld, fascicolo VII, p. 12, biografia 628; Makrizi, Mokaffa', nella
Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 667, 668; Soiuti nel cenno biografico di
Abd-el-Kerîm-Iehia-ibn-Othman, Biblioteca Arabo-Sicula, p. 676; Zerkesci,
Hagi-Khalfa ed Ibn-Mo'allim, ll. cc. Il libro di quest'ultimo, venutomi alle
mani dopo la pubblicazione della Biblioteca Arabo-Sicula, fu scritto tra il 701
e 708 dell'egira (1302-1308) a, Damasco: una furibonda polemica asci'arita,
nella quale son levati a cielo gli ortodossi e s'invoca la spada dei principi
contro chi differisse d'un pelo dalla loro credenza. Il titolo dell'opera d'Ibn
Mo'allim è Stella del ben diretto, e lapidazione del traviato.
Debbo avvertire in ultimo che si potrebbero supporre due scrittori
contemporanei nati a Mazara entrambi e nominati Mohammed; cioè il figlio di
Alì e li figlio di Mosellim; Makrizi non solamente dà al suo Mazari questo
nome patronimico ma anche altro nome di tribù, e lo dice morto di scia'bân
530 (maggio 1136); le quali particolarità tutte differiscono da quelle che
leggiamo in Ibn-Khallikân e negli altri autori citati. Makrizi avrebbe dunque
confuso il Mazari tradizionista domiciliato in Alessandria con quello assai più
rinomato che morì in Affrica.
1267
Zerkesci, l. c.
Sicilia nella prima metà del decimo secolo1268, sia progredita nel
corso dell'undecimo.
Nel confine di que' due, chè l'anno appunto non si sa, nacque,
com'e' pare, in Palermo, Abu-Bekr-Mohammed-ibn-Abd-Allah-
ibn-Iûnis, dottore principe di scuola malekita, onorato quasi a
ragguaglio col Mazari, citato insieme con lui, come dicemmo, da
Khalîl, detto per antonomasia il Siciliano e famoso altresì per le
prodezze fatte di sua persona nella guerra sacra, quella
verosimilmente di Maniace. Trapassò Ibn-Iûnis il venti rebi'
primo del quattrocencinquantuno (5 maggio 1059)1269. Suo
discepolo il giurista malekita siciliano Abu-Mohammed-Abd-el-
Hakk-ibn-Harûn, famoso per le opere e per gli illustri discepoli
spagnuoli, Khelef-ibn-Ibrahim, detto Ibn-Hassâr, e Soleiman-ibn-
Iehia-ibn-Othmân-ibn-Abi-Dunia da Cordova; dei quali il primo,
come s'è detto, lo ritrovò in Sicilia1270 e l'altro alla Mecca, in
pellegrinaggio, e seguillo in Egitto, studiando sempre con
essolui1271. Scrisse Abd-el-Hakk la Correzione dei Quesiti, trattato
di casi legali1272; e i Detti arguti, opera filologica o di erudizione,
rimasa in voga fino al decimoquarto secolo1273. Da lui anco avea
1268
Si vegga il cap. XI del Lib. III, p. 219, segg.
1269
Karesci, l. c., il quale aggiugne che secondo altri Ibn-Iûnis mori allo
stesso giorno di rebi' secondo, cioè 20 giorni appresso.
Probabilmente è questi lo Sceikh Siciliano che veggiamo nell'antica
compilazione malekita anonima, intitolata Sciarh-el-Ahkâm, MS. di Parigi,
Ancien Fonds, 480, fog. 85 verso; e il Siciliano citato da Agihûri nell'altro
Commentario sopra Khalîl, MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 397, vol. I, fog. 390
recto. Secondo una lista messa a capo delle glose di Ahmed Zurkani all'opera
di Khalîl, MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 402, fog. 1 recto, la citazione Sikilli
indicava sempre Mohammed-ibn-Iûnis.
1270
Si vegga sopra la nota a pag. 478.
1271
Ibn-Besckowâl, op. cit., nell'articolo di Soleiman-ibn-Iehia. Costui, tornato
a Cordova, vi professava dritto malekita nel 478 (1085). Credo Abd-el-Hakk
discepolo d'Ibn-Iûnis, perchè lo Sciarh-el-Ahkâm, dà su l'autorità sua una
sentenza d'Ibn-Iûnis, l. c.
1272
Hagi-Khalfa, edizione Flüegel, tomo II, p. 479, n° 3785.
1273
Makkari, Analectes sur l'histoire ec. d'Espagne, testo arabico, tomo I, p.
917. I Detti arguti son tra le venti opere celebri che accennò in cinque versi il
letterato spagnuolo Ibn-Giâbir, morto in Aleppo il 780 (1378), delle quali
appreso il dritto in patria, Thâbit il Siciliano; il quale, rifuggito
poscia in Ispagna, ne diè quivi lezioni nella seconda metà del
secolo1274.
Oltre i giureconsulti Ibn-Fehhâm, ed 'Ammar-ibn-Mansur, e
Mazari, ed Ibn-Mekki ricordati di sopra; Abu-Bekr-Mohammed-
ibn-Hasan-ibn-Ali-Rebe'i, da Girgenti, onorato molto per sapere e
virtù, professava giurisprudenza malekita in Sicilia, indi in
Affrica ed Alessandria; e morì l'anno cinquecentotrentasette
(1142-3)1275. Forse della stessa famiglia un Ali-ibn-Othmân-ibn-
Hosein-Rebe'i, Sikilli, il quale, mercatando a Cordova, recovvi il
libro d'Ibn-Hâtim-Adsrei, intitolato Splendori sul fondamento del
dritto; e da lui l'apprese il giurista spagnuolo Abu-Ali,
Ghassâni1276. Il dottore siciliano Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-
Abd-Allah, recatosi dopo il conquisto normanno in Granata,
dievvi lezioni sul Lume di giurisprudenza d'Abu-Hasan-Lakhmi,
e quivi morì il cinquecento diciotto (1124)1277. Un Mozaffer,
siciliano o schiavone, chè spesso si scambiano nella scrittura
arabica, fu deputato nel quattrocentoquattro (1013-14) a prefetto
di Misr e del Cairo e mohtesib, l'ultimo dei quali officii richiedea
scienza. legale1278. Tenne in Egitto il sommo magistrato di cadi
dei cadi, un Ahmed-ibn-Kâsim siciliano, che Imâd-ed-dîn ricorda
Makkari dà i titoli compiuti.
1274
Ibn-Besckowâl, op. cit. all'articolo: Thâbit, Sikilli.
1275
Makrizi, Mokaffa', nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 664. Rebe'i è
nome etnico che si riferisce a famiglie di varii ceppi arabici: Nizâr, Azd,
Temîm, Kelb, ec. V'ha nella raccolta del Di Gregorio, p. 171, la iscrizione
sepolcrale d'un Rebe'i, morto il 1026.
1276
Ibn-Besckowâl, op. cit., al nome d'Ali-ibn-Othmân: Il titolo dell'opera è
Loma'-fi-Asl-el-Fikh. Il nome etnico dell'autore forse va letto "Adserbi" e
significherebbe "oriundo dell'Aderbaigiân." Ali potrebbe per avventura essere
il medesimo di cui rimanea nel Museo di Daniele l'iscrizione sepolcrale citata
nella nota precedente; dove la voce Rebe'i è preceduta da altre che mancano,
fuorchè la sillaba an, ch'è appunto la desinenza del nome patronimico Othmân.
In tal supposto, l'andata in Spagna tornerebbe nei primi venticinque anni
dell'XI secolo; nè parrebbe inverosimile che l'erudito mercatante fosse ito a
morire a Napoli, o Salerno.
1277
Ibn-Besckowâi, op. cit., a questo nome. Il titolo dell'opera è Tebsira-fil-
Fikh; la quale manca in Hagi-Khalfa, al par che la precedente.
col nome di Giusto, trascrivendo i versi ch'ei compose per Afdhal
(1093-1121). La lindura dei quali non iscuserebbe certi modi
d'adulazione, se non fossero all'usanza orientale e forse dettati da
stretta amistà1279. D'età incerta Abu-Mohammed-Hasan-ibn-Ali-
ibn-Ge'd, dottore principe al suo tempo, e diè il proprio nome alle
Porzioni Ge'dite secondo la scuola di Malek1280; porzioni
s'intenda nel partaggio delle eredità, ch'è ramo importante del
dritto musulmano. Ai giureconsulti son da aggiugnere Kattâni, "il
Sottil Grammatico," del quale diremo tra i filologi; ed Abu-Omar-
Othmân-ibn-Heggiâg da Sciacca in Sicilia, dimorante in
Alessandria, morto il cinquecento quarantaquattro (1149); il quale
era stato dei maestri del rinomato tradizionista Silefi d'Ispahan, e
lasciò parecchi libri malekiti1281. Dettò un comentario sul
Mowattâ di Malek il letterato affricano Ibn-Rescîk, emigrato in
Sicilia alla metà dell'undecimo secolo1282. Nel medesimo tempo
dava fuori opere di dritto il Sementari, col quale passiamo a

1278
Makrizi, citato da Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo I, p. 196. Su l'officio
di mohtesib, si vegga qui sopra la p. 8, Lib. III, cap. I.
1279
Kharîda, d'Imâd-ed-dîn, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 604. Un
giorno il cadi entrando nella stanza del primo ministro Afdhal, vistogli dinanzi
un calamaio d'avorio intarsiato di corallo, improvvisò:
"Per divina possanza si ammollì il ferro nelle mani di David, sì che il filò in
maglie come gli piacque.
"Ed ecco arrendevole a te il corallo, pietra che l'è, forte e schiva al tratto."
Un'altra volta, avendo fatto Afdhal condurre un canale infino al villaggio di
Karâfa presso il Cairo, il cadi che possedea quivi una casa ed un orto, gli
domandò l'acqua per la casa. Il fece in sette versi, nei quali descrivendo gli
alberi intristiti del suo giardino, conchiude così:
"All'udire il lamento del bindoli (sul canale, gli alberi) dicono con favella
d'afflitto innamorato:
"Veggo l'acqua ed ardo di sete, ma ahimè non ho modo di andarvi a bere."
V'han di lui pochi altri versi erotici.
1280
Hagi-Khalfa, edizione Flüegel, tomo IV, p. 398, n° 8978. Ibn-Ge'd è
chiamato sceikh, cioè dottore, e imâm, cioè principe, onoranza che già dai capi
di scuola scendeva ai dotti di minor nota.
1281
Mo'gem nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 114.
1282
Hagi-Khalfa, edizione di Fluëgel, tomo VI, n° 13,437, p. 265.
discorrere la nuova edizione di devoti che pullulava
nell'islamismo.
Abu-Bekr-Atîk-ibn-Ali-ibn-Dâwûd del villaggio di Sementara
in Sicilia1283, discendente, chi sa? dei coloni che possedeavi un
tempo San Gregorio, fu uomo infaticabile di corpo e d'intelletto.
Di quei devoti Siciliani, scrive Ibn-Kattâ', che faceano autorità in
giurisprudenza1284; degli asceti dell'isola, chiarissimi per sapere:
ed usò degnamente la vita di quaggiù, sciolto dalle cure mondane,
tutto intento e fitto nell'altra vita. Partì per l'Hegiâz, compiè il
pellegrinaggio; percorse poi tante regioni, Iemen, Siria, Persia,
Khorasân; praticò quivi coi servi di Dio, tradizionisti ed asceti;
raccolse lor detti e notizie e con eleganza le dettò. Scrisse a mo' di
dizionario suoi viaggi e il frutto del conversare con que' dotti
stranieri; e sul dritto e la tradizione varie opere pregiate per
ordine e lucidità; ed un gran trattato, che niuno agguagliò mai in
bellezza di stile, su la perfezione spirituale1285 e su gli esempii
degli uomini virtuosi. Così lo giudicava Ibn-Kattâ1286. L'ultima
delle opere ricordate s'intitolava: Guida dei Cercatori (della
perfezione spirituale), e prendea dieci volumi1287. Un
componimento di Sementari su l'ascestismo musulmano, dai
pochi versi che ne abbiamo, sembra anch'oggi nobile sfogo
d'intelletto sdegnoso della viltà e tristizia del secolo, invaghito
d'una immagine del giusto e del sublime, ch'uom abbozzi nella
propria coscienza e la dipinga su l'oscura tela dell'infinito 1288.
1283
Si vegga il cap. XIII di questo Libro, p. 433, nota 6.
1284
Mogtehid, come si è detto altrove, significa "dottore che cava dall'analogia
e dalla ragione novelli assiomi o corollarii dì giurisprudenza."
1285
Così traduco rekâik, plurale di rekîka, litteralmente "sottilità." Il significato
tecnico è: "virtù di intelletto, di studio e di costumi che innalza l'uomo sì che
s'avvicini alla divinità."
1286
Citato da Iakût, nel Mo'gem, articolo Sementâr che si vegga nella
Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 113, 114. Oltre Ibn-Kattâ', l'autore del
Mo'gem si riferisce ad un Mohibb-ed-dîn-ibn-Niggiâr, che alla sua volta
allegava Abn-Hasan da Gerusalemme.
1287
Mo'gem, l.c.
1288
"Discordie civili incalzanti; popolo dimentico (di sè stesso); secolo che
infierisce sul genere umano:
Morì costui il ventuno di rebi' secondo del quattrocento
sessantaquattro (15 gennaio 1072)1289 Contemporaneo di
Sementari, e sembrano usciti entrambi al crollo della dinastia
kelbita, Abu-Hasan Ali-ibn-Hamza, andato in Spagna innanzi il
quattrocento quaranta (1048), al dir d'Homaidi che il conobbe e
ascoltò; sufita, scolastico1290, dotto in ogni ramo di teologia e
d'altre scienze1291; discepolo del moralista sciafeita Abu-Tâher-
Mohammed-ibn-Ali da Bagdad1292.
I Sufiti, non contenti all'abnegazione delle cose mondane, si
provarono a distruggere ogni idea di realità, spegnere il senso,
concentrare l'uomo nella coscienza dell'essere, e farlovi con
ostinata volontà sprofondare a grado, a grado, tanto che gli
paresse toccar nel nocciolo dell'animo la Divinità, immedesimarsi
con quella, togliersi dagli occhi i veli che occultano la scienza e
l'avvenire. La qual monomania artifiziale appresterebbe
bell'argomento di studio psicologico e patologico se si giugnesse
a scernere l'allucinazione dalle ciurmerie e linguaggio allegorico
con che si è mescolata in ogni età e paese. La setta par abbia
preso nome e, forme verso la metà del nono secolo, quando ne
pullularono tante nell'islamismo; quando i devoti, incalzati dalla
"Quelle soggiornano in questo a lor agio; nè accennano d'andar via: coprono
(il mondo) tutto d'iniquità e d'errore.
"O sconsigliato procacciator di male, seguace d'ogni colpa, che mi dirai tu?
"Hai venduto la tua casa dell'eternità a vilissimo prezzo, di ben mondano che
svanirà quanto prima."
Si vegga il testo di Oxford nella Bibl. Arabo-Sicula, p. 36 della Introd.
1289
Mo'gem, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 114.
1290
Il biografo scrive che costui ietekallam, cioè litteralmente "ragionava;" ma
il significato proprio è "ragionava secondo la scuola teologica detta degli Arabi
Kelâm, che torna quasi alla nostra teologia scolastica." Si vegga Renan,
Averroës et l'Averroïsme, p. 79-80.
1291
Homaidi aggiugne ch'ei "trattava anche le scienze" (olûm): si deve
intendere dunque d'altre scienze che la teologia, e però légge, o matematiche o
filosofia.
1292
Il breve cenno biografico di costui si legge nel Gedswet-el-Moktabis di
Homaidi, MS. della Bodlejana, estratto, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 578.
Ibn-Besckowâl, Ms. della Società Asiatica di Parigi; al nome di Alî-ibn-
Hamza, copia il cenno di Homaîdi.
filosofia greca che li sforzava a ragionar sulla missione di
Maometto, si rifuggirono nel misticismo indiano. Qualche
rampollo brahmanico o buddista, che vegetasse ab antico in
Persia, s'innestò con l'ascetismo dei compagni di Maometto, e ne
spuntò questo frutto. Il nome deriva da Sûf "lana," perchè gli
adetti ne vestivano secondo l'uso dei primi Musulmani; e quando
la setta divenne quasi ordine religioso, il superiore iniziava il
neofito con porgli sulle spalle la Khirka, mantello o straccio di
lana. Durano fin oggi i Sufiti insieme con gli ordini plebei, dervis
e simili che copiarono le sembianze più goffe della setta. In
origine fu onesto ritrovo d'animi nauseati di quello scompiglio
politico del califato; teste inquiete, fors'anco intelletti sani, non
soddisfatti dall'islamismo, se non che lor parea peggio mutar di
religione o starne senza; e panteisti o scettici, si gittarono sovente
in quelle ombre mistiche per dare un ganghero ai devoti. Infatti
gli ortodossi formalisti li chiamavan empii tutti in un fascio.
Gâzeli, il terribile teologo, sentenziò atto più meritorio
l'accoppare un sufita che campar dieci uomini dalla morte1293.
1293
Si vegga la bella prefazione di M. De Sacy agli estratti delle Vite de'
Sufiti di Giâmi, dei quali diè il testo persiano e la traduzione francese,
aggiungendovi il testo arabico e versione d'un capitolo dei Prolegomeni d'Ibn-
Khaldûn, Notices et Extraits des MSS., tomo XII, p. 287, segg.
Ibn-Khaldûn sembra molto proclive alla dottrina sufita, di che riferisce
l'origine ai compagni di Maometto; e si sforza a spiegare l'estasi sufita con la
doppia sorgente delle percezioni umane dalle sensazioni esteriori e da
disposizioni interne che gli parea non dipendessero da quelle, come gioia,
tristezza ec.
M. De Sacy nota la somiglianza con alcuna setta indiana, e la probabilità che i
Musulmani avessero conosciuta questa in Persia, li primo che abbia preso
nome di Sufita si crede un Abu-Hâscim, verso la metà del secondo secolo
dell'egira ed ottavo dell'èra cristiana; ma la dottrina si sviluppò più tardi,
l'ordine forse nel X secolo, e la vestizione della Khirka alla fine, com'ei pare,
dell'XI. Argomento ciò dal trattato sufita di Sadr-ed-dîn-Kunewi, morto il 673
(1274), MS. di Parigi, Ancien Fonds, 426, poichè il mistico mantello era
pervenuto a costui, per una seguenza di nove superiori, da un Mohammed
Scîli, dal quale in su non si ricordava vestizione, ma soltanto "Sodalizio e
insegnamento;" e questo risaliva ad Ali. Giâmi, che visse nel XV secolo,
riferiva la vestizione ad Ali stesso: ed è naturale che con l'andar del tempo
Se si risguardi all'età del sufita Abu-Bekr-Mohammed1294, al
quale tennero dietro Ali-ibn-Hamza e Sementari1295, si vedrà che
l'ascetismo primitivo dei Musulmani durato in Sicilia sino alla
metà del decimo secolo1296, non tardava guari a prender la novella
foggia mistica. Dai dotti scendea già nel volgo, e la devota
commedia era in voga nella prima metà del l'undecimo secolo,
poichè Ibn-Tazi la riprende con questi versi:
"Non istà il sufismo, no, a vestir lane che rattoppi tu stesso;
non ad intenerire gli sciocchi;
Nè a stridere, saltare, scontorcerti, cadere in deliquio, come se
tu fossi impazzato.
Sta il sufismo nell'animo schietto, immacolato; nel seguir là
verità, il Corano, la fede;
Nel mostrare che temi Iddio, che ti penti di tue colpe, che ne
sei trafitto di rammarico eterno1297."
Tra gli asceti che non trascorressero a così fatte allucinazioni,
si ricorda un Abu-l-Kâsim-ibn-Hâkim, dottissimo, come dicono,
il quale nella prima metà del duodecimo secolo vivea a Bagdad in
casa, non più corte, del califo1298. Mohammed-ibn-Sâbik ed Abd-
er-Rahman-ibn-Abd-el-Ghani, nominati di sopra, furono l'un
teologo, l'altro moralista1299. Musa-ibn-Abd-Allah da Cufa, della
schiatta d'Ali, teologo, poeta ed erudito, verso la metà
dell'undecimo secolo elesse a dimora la Sicilia; donde poi passò a
combattere i Cristiani in Spagna; ed alfine fu ucciso in Affrica
crescessero le imposture della setta.
1294
Si vegga la p. 480.
1295
Il titolo del Dalîl-el-Mokâsidin "Guida dei Cercatori" sa di sufismo; poichè
"cercare", nel gergo della setta, accennava alla perfezione spirituale, allo
spirito divino che si dovea trovare in fondo dell'anima.
1296
Si vegga il Lib. III, cap. XI, p. 228 e segg. di questo volume.
1297
Nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 590 del testo, tolti dalla Kharîda d'Imâd-
ed-dîn, il quale alla sua volta li avea presi da Ibn-Kattâ'. Questo ibn-Tazî è tra i
primi nella raccolta d'Ibn-Kattâ'.
1298
Abu-Hâmid da Granata, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 74; e
Pseudo-Wakidi, op. cit., p. 199. Abu-Hâmid si trovò a Bagdad il 1122, come
notammo nel Lib. I, cap. IX, p. 85 del primo volume.
1299
Pag. 477 e 482.
(1094)1300. Lasciò un trattato di teologia Abu-Mohammed-Abd-er-
Rahman-ibn-Mohammed il Siciliano, del quale ignoriamo l'età, se
non che il manoscritto unico in Europa è copiato in Antiochia il
seicentoquarantanove dell'egira (1251). Compilazione scolastica
ed ortodossa, partita in quattro capitoli: teologia naturale, teologia
musulmana, natura e potenza del demonio, condizioni e doveri
degli uomini in società1301. Mi sembra nitida ed ordinata; logica,
quel poco che si poteva. Il capitolo sul Tentatore, assai più
particolareggiato che non soglia incontrarsi negli scolastici
musulmani, par si rannodi a quella fissazione dei devoti siciliani
ed affricani sulla fine del nono o principio del decimo secolo1302.
Ad un tempo, col progresso dalla cieca divozione al
misticismo, si notò in Sicilia, sì come in ogni altra provincia
musulmana, novello fervore per le lettere, soprattutto gli studii
filologici, come s'intendeano da ciascuno fino al decimottavo
secolo; i quali non fecero rinascere in Oriente quegli antichi poeti
arabi nè quel vivo e conciso parlare dei compagni di Maometto;
nè altro produssero che una mediocrità più generale, uno stile
luccicante, ondulante e ridondante; quel che ammiran da otto
secoli in Hariri, e che da nove o dieci secoli avviluppa presso que'
popoli il pensiero e sovente ne tien luogo. Ma tant'è, che il lungo
secento degli Arabi non mancò di pregi, come nè anco il secento
europeo del decimosettimo secolo o del decimonono. Al par che
gli Spagnuoli, Affricani, Egiziani e Sirii, i Musulmani di Sicilia
non poteano giugnere a segno più alto; ma ben toccaron quello
nell'undecimo secolo, nè furon da meno degli Spagnuoli;
superarono forse le altre province dette, nelle quali la natura non
sorrideva sì dolcemente, e le schiatte antiche, Semiti, Copti,
Berberi, non eran metallo suscettivo di tempra sì fina.
Dopo Ibn-Khorasân, grammatico siciliano della prima metà
del decimo secolo1303, ne comparisce un altro per nome Hasan-
1300
Ibn-Besckowâl, MS. della Società Asiatica di Parigi, al nome: Musa.
1301
MS. di Leyde, N° 366 dell'antico catalogo arabico. Ho pubblicato la
prefazione nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 698, 699.
1302
Lib. III, cap. XI, p. 229 di questo volume.
1303
Si vegga il Lib. III, cap. XI, p. 223 di questo volume.
ibn-Ali, il quale, andato, in pellegrinaggio, morì alla Mecca, allo
scorcio del trecentonovantuno (novembre 1001) lasciando
onorata memoria di sè nelle scuole d'Oriente1304. Qualche mezzo
secolo innanzi, era venuto a stare in Sicilia Musa-ibn-Asbagh-
Morâdi, da Cordova, al ritorno d'un viaggio in Oriente: linguista,
grammatico e, dicono, elegante poeta; ma fece in ottomila versi
una parafrasi del Mobtedâ1305, ossia «Primordii;» forse i Primordii
del mondo e racconti dei Profeti d'Abu-Hodseifa il Coreiscita 1306.
All'entrar dello undecimo secolo, visse in Sicilia il rifuggito
spagnuolo Sa'id-ibn-Fethûn che ricordammo di sopra: il quale fu
insieme linguista e compose un trattato di versificazione1307.
Le guerre civili della Spagna balestrarono anco in Sicilia Abu-
l-'Ala-Sâ'id da Mosûl, esercitatosi con lode negli studii di
filologia ed erudizione a Bagdad, buon poeta, argutissimo e
pronto di motti, piacevole al conversare, ma cortigiano,
menzognero, scroccone, scialacquatore, beone; il quale, andato a
cercare ventura in Ispagna, si rimpannucciò appo Almansor
(990), e lui mancato, venne a provare se i Kelbiti di Sicilia
fossero que' mecenati che portava la fama, e morì il quattrocento
diciassette (1026) o quattrocento diciannove1308. Torna alla stessa
età il Siciliano Abu-Iakûb-Iûsuf-ibn-Ahmed-ibn-Debbâgh, buon
poeta, autor di versi didascalici sulla grammatica, il quale, a
giudizio d'Ibn-Kattâ', avanzò ogni contemporaneo in quel che noi
diremmo studio di storia letteraria1309. Tornano alla metà
dell'undecimo secolo, Kolûf-ibn-Abd-Allah da Barca, domiciliato
1304
Soiuti, Tabakât]-el-Loghewîn, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 674.
Tralascio i nomi dei maestri e discepoli di questo Hasan-ibn-Ali, ricordati dal
biografo.
1305
Op. cit., nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 678. Il biografo dice
senz'altro il Mobtedâ.
1306
Quest'opera si trova ad Oxford, nei MSS. arabici, n° DCCCXLI. Catalogo,
tomo I, p. 182. Si vegga anche D'Herbelot, Bibliothèque Orientale, all'articolo
Mobteda.
1307
Si vegga la citazione a p. 472.
1308
Si confrontino: ibn-Khallikân, versione inglese di M. De Slane, tomo I, p.
632; Dsehebi, Anbâ-en-Nohâ; Sefedi, Wafi-fil-Wefîât; e Soiuti, Tabakât-el-
Loghewîn nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, pagine 644, 659, 675.
in Sicilia, lettor del Corano, dotto nei due rami della
grammatica1310, ornato di varia erudizione e poeta1311; Abu-Hasan-
Ali-ibn-Abd-er-Rahman il Siciliano, che diè studio di
grammatica, come sembra, a Susa1312; ed Abu-Hafs-Omar-ibn-
Hasan, grammatico di conto, linguista e poeta1313.
Più che mai genuino comparisce l'innesto di rampollo arabo su
ceppo siciliano in persona di Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-
abi-Fereg-ibn-Fereg-ibn-abi-l-Kasim, Kattâni o vogliam dire "il
Linaiolo," soprannominato il "Sottil Grammatico," nato in Sicilia
il quattrocenventisette (1035-6); dove fece tutti gli studii e ne uscì
armato da capo a piè in giurisprudenza malekita, grammatica,
lingua ed erudizione d'ogni maniera; e nelle due prime fu tenuto
uom sommo, se non che attaccandosi ad appuntar gli errori di
questo e di quello, tutti gli si volser contro e tagliarongli i
passi1314. Lasciata la Sicilia, com'e' pare alla caduta di Palermo,
andò a Bagdad nel Korasân, e a Gazna; donde passò, su le orme
dei conquistatori turchi, in India: e per ogni luogo rifaceva il
verso ai dottori ed appiccava battaglia. Avvenne un dì ch'egli
entrasse in una scuola, credo a Mêrw in Khorasân e di
teologia1315, tenuta da Mohammed-ibn-Mansûr, Sem'âni; il quale
cominciato a dettar la lezione, il Sottil Grammatico lo interruppe:
1309
Si confrontino: Dsehebi, Anbâ-en-Nohâ, e Soiuti, op. cit., nella Biblioteca
Arabo-Sicula, testo, p. 648, 678. Il secondo lo chiama Ibn-Debbâgh (il figlio
del Conciatore). Ibn-Kattâ, citato da Soiuti, dice che "costui osservava con
molta cura i libri degli antichi, e indagava ogni più riposta notizia degli
scrittori."
1310
Si vegga la p. 475, nota 3.
1311
Si vegga la citazione a p. 477.
1312
Soiuti, Tabakât-el-Loghewîn, nella biografia di Omar-ibn-Ieîsc da Susa,
Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 678. Omar, che fu discepolo del Siciliano,
dava a sua volta lezioni nel 498 (1104); la qual data mi serve di guida. V'ebbe
in Oriente al medesimo tempo un poeta siciliano dello stesso nome, del quale
diremo innanzi.
1313
Dsehebi, Anbâ-en-Nohâ, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 646.
Potrebbe essere lo stesso che il Segretario Ibn-Kûni, che ebbe il medesimo
nome, soprannome e nome patronimico. Si vegga la p. 464.
1314
Lascio indeterminato il male che gli abbian fatto. Il testo dice: "Gridarono
contro di lui, e indi non prosperò."
"Non è com'ei dice; va scritto così e così." E Sem'âni ai discepoli:
"Correggete a sua posta, ch'ei ne sa più di me:" i quali
obbedirono. Non guari dopo il Siciliano, rivolto a Sem'âni,
"Signor mio," disse, "ho sbagliato, chè menda non v'era nel tuo
dettato:" e quegli pacatamente: "Si rifaccia dunque come stava:" e
finita la lezione, trovandosi solo con gli amici, ripigliò: "Il
Magrebino1316 mi sfidava per dirmene un sacco delle sue, com'ha
fatto con gli altri; ma gli uscii di sotto; ed ecco che s'è condannato
di bocca propria." Kattâni morì a Ispahan, il cinquecento dodici
(1148-9.) Ebbe a maestro in dritto il celebre siciliano
Mohammed-ibn-Iûnis, e in grammatica un Ali-Haiûli, siciliano o
dimorante nell'isola1317.
Nella gioventù di Kattâni era trapassato in Sicilia un valente
filologo secondo que' tempi, per nome, Abu-Ali-Hasan-ibn-
Rescîk. Nacque l'anno mille a Msila d'Affrica, d'un liberto di
schiatta greca o italica1318: il quale apparando al figlio la propria
arte d'orafo, il mandò insieme a scuola; e visto il pronto ingegno
alla poesia ed alle lettere, gli assentì d'andare a quindici anni, a
Kairewân, antico emporio della cultura arabica. Dove Ibn-Rescîk
guadagnò dottrina, fama e stato. Un poema in lode di Moezz-ibn-
Badîs lo fece entrare al servigio del principe1319; tenuto poscia tra
i poeti di corte1320, e fatto segretario di guerra1321. Sino al limitare
della vecchiezza, visse prosperamente a corte, tra gli studii, tra le
1315
Il primo, perchè il padre e il figlio di Sem'âni, entrambi scrittori conosciuti,
soggiornavano in Mêrw. Si vegga Reinaud, Introduzione alla Gèographie
d'Aboulfeda, p. CX; e d'Herbelot, Bibliothèque Orientale, all'articolo:
Samaani. Suppongo la cattedra di teologia, perchè Soiuti in progresso del
racconto usa la voce Kelâm.
1316
Cioè: "di Ponente:" Africa, Sicilia e Spagna.
1317
Soiuti, Tabakât-el-Loghewîn, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 673.
1318
Rûmi.
1319
Ibn-Khallikân e Dsehebi, i quali aggiungono che altri il dicea nato a
Mehdia. Fu nominato anche Azdi, dalla tribù di Azd, dalla quale nasceva il
padrone del padre divenuto dopo l'affrancamento patrono della famiglia; ed
anche Kairewâni dalla città dove fece soggiorno.
1320
Ibn-Abbâr, Hollet-es-siarâ, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 108
verso.
amistà e nimistà letterarie ed alcun brutto costume, svelatoci dal
Siciliano Abu-Abd-Allah-ibn-Seffâr, erudito dabbene, il quale
trovandosi al Kairewân, tutto lieto d'esser fatto intimo di Ibn-
Rescîk, si trovò terzo personaggio in una strana commedia1322.
Ma al conquisto degli Arabi d'oltre Nilo, quando Moezz era
costretto a chiudersi in Mehdia (1057) e il poeta ve
l'accompagnava1323, la mala fortuna, come pur suole, accese
discordia tra i due vecchi amici. Un'armata cristiana, di Pisa forse
o di Genova, s'era appressata nottetempo a Mehdia; il principe
affaccendato in sul far dell'alba a provvedere al pericolo, leggea
gli spacci a lume d'un doppiere, quand'ecco Ibn-Rescîk entrare
nella stanza, e porgergli un poema che incominciava: "Fa' cuore;
non ti s'offuschino i pensieri nel cimento: chè già alla tua
possanza ognun piega il collo." - "E come far cuore," proruppe
Moezz, "quando tu mi vieni tra i piedi ad aiutarmi così? Perchè
mo non stai zitto!" E stracciò il poema, e bruciollo al doppiere.
Ibn-Rescîk, voltate incontanente le spalle, s'imbarcò per la
Sicilia1324, dove avea amici; sapendosi di due poeti siciliani che si
carteggiavano con esso, e rimanendoci fino i versi ch'ei scrisse
1321
Diwân di Bellanobi, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 681. Ecco i
due versi d'Ibn-Rescîk, scritti probabilmente in Sicilia, che attestano questo
fatto e insieme l'orgoglio dei liberti delle corti musulmane.
"Segretario io già fui dell'esercito dell'emir; e condussi le faccende (pubbliche)
dirittamente:
"Non tenni bottega, no, in un mercato d'arti, il cui nome conviene alla (viltà
della) cosa."
Qui si scherza sulle voci sûk "mercato e plebe" e Mihâl "arte ed astuzia."
1322
Scehab-ed-dîn-Omari, dà quest'aneddoto in tre o quattro pagine, notando
ch'ei l'abbrevia dal testo d'Ibn-Bassâm. Io l'ho pubblicato nella Biblioteca
Arabo-Sicula, testo, p. 651, 652, stralciandone molte lamentazioni erotiche, se
tali possan dirsi, in prosa e in verso. Ibn-Seffâr autore del racconto afferma che
in realità non c'era stato nulla di male: e ciò scolpi non Ibn-Rescîk, ma
l'opinione pubblica che condannava, come ognun vede, quelle sozzure.
1323
Ibn-Khallikân e Scehâb-ed-dîn-Omari. La data ch'essi non notano si legge
in Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, versione di M. De Slane, tomo II, p.
21, 22, e più precisamente in Ibn-el-Athîr, MS. C, tomo V, fog. 81 verso, e
seg., sotto l'anno 442; il quale pone in ramadhan 449 (novembre 1057), il
saccheggio di Kairewân, che seguì poco dopo la partenza di Moezz.
all'uno arrivando a Mazara e la risposta per le rime 1325. Raccolto a
grande onore dai principali della terra, lo rappattumarono con
Ibn-Scerf, poeta del Kairewân e della corte di Moezz e però suo
mortal nemico; il quale, avendo riparato in Sicilia prima di lui,
s'era messo subito a lacerarlo1326. L'ospitalità siciliana non tolse
che venuto per cagion di mercatare un legno di Mo'tadhed,
principe Abbadida di Siviglia, Ibn-Rescîk si mettesse ai panni al
padrone, pregando di menarlo seco a corte; il quale gliene
promesse e poi lo piantò. Rimaso parecchi anni tra sì e no di far il
viaggio di Spagna, venne a morte in Mazara verso il
millesettanta1327.
Il cui soggiorno tra il romor delle armi cristiane, non
promosse, credo io, le lettere, nè ad altro giovò che a tramandarci
qualche aneddoto dell'antica corte kelbita e qualche barlume su la
cultura contemporanea. Lasciando addietro le opere perdute

1324
Ibn-Bassâm, squarcio inserito da Scehâb-ed-dîn-Omari nel Mesâlik-el-
Absâr, Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 650, 651. Il testo ch'è in prosa rimata,
gonfio e voto, dice: «Non andò guari che venne un'armata di Rûm, ed all'alba il
mare apparve tutto colline minaccianti estremi fati e poggi carichi di morte
repentina ec.;» ma non aggiugne il successo dell'impresa, nè dice appunto la
nazione che avea messo a galla le terribili colline. I Bizantini da tanto tempo
non comparivano nel bacino occidentale del Mediterraneo. All'incontro i
Pisani il 1034 aveano assalito Bona e Cartagine, e nella seconda metà del
secolo osteggiarono Palermo; poi Mehdia insieme coi Genovesi ec.
1325
Imad-ed-dîn, Kharîda nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 591. Il nome
dell'uno è: Abu-Hasan-Ali-ibn-Ibrahîm-ibn-Waddâni, e dell'altro Abu-Adb-
Allah-Mohammed-ibn-Ali-ibn-Sebbâgh, il Segretario. I tre versi si leggono nel
MS. di Parigi, fog. 35 recto; e sembrano scritti dal Maggi o dallo Zappi.
1326
Ibn-Bassâm, op. cit., p. 651.
1327
Si confrontino: Ibn-Khallikân, Dizionario Biografico, versione inglese di
M. De Slane, tomo I, p. 384; Dsehebid, Anbâ-en-Nohâ, nella Biblioteca
Arabo-Sicula, testo, p. 644; Scehâb-ed-dîn-Omari, op. cit., p. 649 a 653. I due
primi riferiscono come meno autorevoli altre tradizioni che recavano la morte
d'Ibn-Rescîk nel 450 o nel 456. Si vegga anche il Baiân, edizione del Dozy,
testo, vol. I, p. 307. Abbad-ibn-Mohammed soprannominato Mo'tadhed-billah,
regnò dal 433 al 461 (1041-1069).
d'Ibn-Rescîk, in giurisprudenza1328, lingua1329, storia letteraria1330,
fatti memorabili della storia1331, ed una Cronica del Kairewân1332;
lasciando addietro le poesie, facili, vivaci e talvolta oscene1333,
noterò un trattato di poetica denominato La Colonna, nel quale la
ragion dell'arte è considerata al modo che noi abbiamo appreso
dai maestri greci; e si accenna ad alcun precetto di quelli 1334.
Onde direi cotest'opera compiuta in Sicilia da Ibn-Rescîk, con
que' pochi lumi di greche lettere che vi rimanessero: un anonimo
Siciliano ne fece poi un compendio col titolo di Preparamenti1335.
Più chiara apparisce la sorgente in due versi d'Ibn-Rescîk, coi
quali il poeta esortando, com'e' parmi, alcun regolo dell'isola a
lasciarsi menare a guinzaglio dai dotti, ricorda forse il nome
1328
Si vegga sopra a p. 490.
1329
Le Pagliucce d'oro, Ibn-Khallikan ed Hagi-Khalfa, op. cit., tomo IV, p.
509, n° 9394, ed i "Neologismi;" Ibn-Kallikan, l. c.
1330
Il Tipo, Hagi-Khalfa, op. cit., tomo I, p. 468, n° 1302. È citato anche da
Ibn-Kallikân, nella detta biografia, e in un altro luogo relativo all'aneddoto
dell'emîro kelbita Iusuf raccontato da noi nel cap. VII di questo Libro, p. 333
del volume. Si vegga anche Makkari, Analectes de l'histoire d'Espagne, testo
arabico, tomo I, p. 904, e il Mesâlik-el-Absâr, MS. di Parigi, fog. 77 recto.
1331
La bilancia delle geste, Hagi-Khalfa, op. cit., tomo VI, p. 285, N° 13,497.
1332
Hagi-Khalfa, Dizionario Bibliografico, edizione di Flüegel, tomo II, p. 142,
N° 2285.
1333
Spesso occorrono versi d'Ibn-Rescîk nelle antologie, biografie ec. Molti se
ne trovano nel Diwân di Bellanobi, che sembrano raccolti in Sicilia, come
diremo trattando di quel poeta. E quivi ho letto i versi d'Ibn-Rescîk, ai quali
alludo, nei quali le parole sono brutte quanto l'argomento.
1334
Di quest'opera, che citano Ibn-Khallikân, ibid., ed Hagi-Khalfa, edizione
Flüegel, tomo IV, p. 263, n° 8338, abbiamo due MSS. in Europa, l'uno a Leyde
(22 Golius, catalogo del Dozy, tomo I, p. 121, n° CCXXXVII, e l'altro al
British Museum, (n° 9661, Catalogo CCXXXIX E). Io ho percorso il MS. di
Londra. In principio, chè non notai il numero del foglio, Ibn-Rescîk dice che la
ragione poetica dei Iunân (Greci antichi), era fondata tutta «su gli obbietti
morali o fisici; poichè i Greci non pensarono mai a ciò che fa il principale
vanto dei poeti arabi;» con che vuol significare gli scherzi di parole, gli
enigmi, le tumide metafore ec. Non ho tradotto letteralmente, perchè non son
certo della lezione di alcune voci. Il MS., in parte è di moderna e pessima
scrittura africana, e in parte di buon neskbi del 644 dell'egira.
1335
Hagi-Khalfa, l. c.
d'Atene, e v'appicca quel della Sicilia, con una etimologia che
allor correa tra gli Arabi del paese1336.
La falsa etimologia, dico, da due vocaboli greci che significan
fico ed olivo, ripetuta dai cronisti latini di Sicilia del decimoterzo
secolo1337, scritta per lo primo da un filologo arabo che visse fino
al millecinquantotto e fu maestro d'Ibn-Kattâ'. Ebbe nome Abu-
Bekr-Mohammed-ibn-Ali-ibn-Hasan-ibn-Abd-el-Berr, della tribù
1336
Questi due versi sono dati da Ibn-Scebbât, a proposito della supposta
etimologia della voce Sicilia, e da Soiuti, nella biografia del Siciliano Ibn-Abd-
el-Berr, Biblioteca Arabo-Sicula, p. 212 e 672.
"Sorella di 'Adîna in un nome del quale non partecipò altro paese (del mondo),
e cerca (se ne trovi),
"Nome cui Dio illustrò, accennandovi in forma di giuramento; - segui (dunque
o principe) gli avvisi dei dotti; e, se nol vuoi, va pure a tentoni."
Soiuti aggiugne che le parole "cui Dio illustrò ec." si riferiscano a quel verso
del Corano (Sura XCV, vers. I), "(Giuro) per l'olivo e pel fico" deve, al dir di
alcuni comentatori, quei due alberi sono nominati per eccellenza tra tutti i
vegetabili; e secondo altri il primo allude a Gerusalemme, e il secondo a
Damasco.
Quanto a 'Adîna, parmi si debba intendere Atene. Egli è vero che gli eruditi
arabi sogliono scrivere altrimenti questo nome; egli è vero che la prima lettera
del nostro testo, cioè l'ain, sia esclusivamente semitica e non soglia adoperarsi
dagli Arabi nelle voci straniere. Ma la geografia arabica non offre altro nome
che soddisfaccia al caso; ed Atene vi si adatta appuntino: nome dato ad onore
di Minerva che recè l'olivo, onde quest'albero, in greco, si dice anco Αθηναίς.
Debbo qui avvertire che nel tradurre î due versi ho seguito la felice
interpretazione del professore Fleischer e la correzione sua al testo della
Biblioteca Arabo-Sicula, p. 212. Non così la lezione "Medina" ch'egli propone
in vece di 'Adîna; parendomi che le condizioni supposte dal poeta non
convengano punto all'antica Jathrib, poi detta Medinet-en-Nebi, ossia la città
del Profeta.
1337
Græce Sîcalea quod latine est ficum el olivam, leggesi nell'Anonymi
Chronicon Siculum, presso Di Gregorio, Biblioteca Aragonese, tomo II, p.
121, e in Bartolomeo de Neocastro, op. cit., l, 115. Questa etimologia di
Σικελία da συκη ed ὲλαία, non si trova negli scrittori greci nè anco dei bassi
tempi. Mostra grande ignoranza non solo della storia ma anche della lingua
confondendo il ι e l'υ l'ή e l'ε, come l'orecchio le rendea simili a chi non le
avesse mai lette nei libri. E però si può supporre trovato dei liberti siciliani che
sapessero dall'infanzia il greco volgare e non avessero studiato profondamente
altra letteratura che l'arabica.
di Temîm; il quale uscito di Sicilia per proseguire gli studii di
tradizioni, grammatica e lessicografia, soggiornò in Oriente, forse
a Bagdad; e tornando in patria, recò il celebre dizionario di
Gewhari; fu accolto e messo in alto stato da Ibn-Menkûd che
regnava allor in Mazara, principe d'austerissima pietà al dir del
biografo1338. Che Ibn-Abd-el-Berr abbia tolto da Ibn-Rescîk
quella falsa etimologia e la erudizione che pur vi si richiedeva,
non mi par punto verosimile. Un secolo innanti gli Arabi Siciliani
avevano aiutato alla interpretazione d'opere scientifiche dei
Greci; notaron poscia gli avanzi d'antichi monumenti; raccolsero
qualche favola delle colonie greco-sicole1339; vissero con Greci di
Sicilia culti tanto o quanto. V'ha cagione dunque di presumere
che si fosse tentato dai Musulmani dell'isola nella prima metà
dell'undecimo secolo qualche studio su la letteratura greca, rozzo
sì, ma da poter mostrare agli scrittori arabi un altro campo come
quello delle scienze filosofiche e matematiche coltivato al tempo
di Mamûn. E la Sicilia offriva ottimo terreno all'esperimento. Se
non che molto più agevole torna a trapiantare da schiatta a
schiatta le scienze che le lettere; ed ormai la virtù degli Arabi
mancava da per tutto; la colonia siciliana era lì lì per cadere sotto
il dominio straniero.
Quel soprannome d'Ibn-Kàttâ (Figliuolo del picconiere) si
dètte ad una famiglia del ceppo modharita di Temîm, ramo di
Sa'd-ibn-Zeid-Monat, la quale par venuta in Sicilia da Santarem
di Portogallo verso la metà del decimo secolo1340. Gia'far-ibn-Ali
1338
Si confrontino: Ibn-Scebbat, di Dsehebi e Soiuti, nella Biblioteca Arabo-
Sicula, p. 212, 648, e 671, 672. L'ultimo cita a proposito della detta etimologia
un passo di Ibn-abd-el-Berr, non sappiamo di quale opera, trascritto da Ibn-
Dehia, autore spagnuolo (1153-1235) nelle storie del poeti Maghrebini
intitolata il Matreb. Il primo dà l'etimologia sul Tethkîf-el-lisân, opera d'Ibn-
Kattâ', che naturalmente l'avea tolta dal maestro Ibn-Abd el-Berr. Il nome
d'Ibn-Menkût, data dal solo Dsehebi, è scritto Medkûd; su di che si vegga il
cap. XII di questo Libro, p. 420 del volume.
1339
Si vegga il Lib. III, cap. XI, e il cap. XIII di questo Libro, p. 219 e 439 del
volume.
1340
La voce Kattâ', che non è nei dizionarii, si trova nella continuazione di
Bekri, ove significa i picconieri di zolfo in Sicilia; squarcio dato da Ibn-
di tal gente, filologo di molta dottrina, rinomato nello stile
epistolare, lodato per proprietà di linguaggio e delicato gusto in
poesia, vivea fino al millecinquantotto1341, forse in un villaggio a
poche miglia di Palermo1342. Da lui nacque, il dieci sefer del
quattrocentotrentatrè dell'egira (8 ottobre 1041), illustre figliuol
d'uomo illustre, scrivono i biografi, Ali-ibn-Gia'far, detto
similmente Ibn-Kattâ', il quale ebbe a maestri in lettere e
tradizioni Ibn-Abd-el-Berr ed i primi eruditi del paese; fece versi
a tredici anni, a andò crescendo di dottrina e fama, finchè,
abbattuto l'ultimo vessillo mussulmano in Sicilia, emigrò in
Egitto: dove non fu onoranza che non gli fosse resa; anzi il
tennero come dittatore nelle lettere; e giuravano su l'Ei così disse.
Il ministro Afdhal, sì benigno agli usciti siciliani, lo volle maestro
dei proprii figliuoli1343; scriveasi a vanto nelle biografie chi gli
fosse stato amico o discepolo1344: da lui appresero gli Arabi
Scebbât, Biblioteca Araba-Sicula, p. 210. L'ho trovata anche col significato di
"tagliator di pietra" in una leggenda cristiana, MS. arabo di Parigi, Ancien
Fonds, 66, fog. 175 recto.
Ibn-Khallikân, comincia la vita di Ali-ibn-Gia'far Ibn-Kattâ' con una
genealogia che si rannoda a quella degli Aghlabiti, risalendo fino ai primi
progenitori della tribù di Temîm. Egli dice averia scritta così nella bozza del
suo dizionario biografico senza sovvenirgli onde fosse tolta; ma aver sotto gli
occhi altro albero di parentela di propria mano d'Ibn-Kattâ' nel quale non
entrano punto gli Aghlabiti. Noi ci appigliamo, com'è naturale, a questo, che
porta: Abu-l-Kasem-Ali-ibn-Gia'far-íbn-Ali-ibn-Mohammed-ibn-Abd-Allah-
ibn-Hosein, Sciantareni, Sa'di; onde si vede che corsero quattro generazioni tra
l'emigrato di Santarem, e il nato in Sicilia il 1041. Si corregga conforme a ciò
la notizia data nella Introduzione, vol. I, p. XXXVII. n° I.
1341
Dsehebi, Anbâ-en-Nokâ nella Biblioteca Arabo Sicula, testo, p. 643.
1342
Kasr-Sa'd. Si vegga il viaggio d'Ibn-Giobaîr, nel Journal Asiatique, serie
IV, tomo VII (1846), p. 42. La conghiettura è fondata su l'identità di nome
della tribù e del villaggio. D'altronde Ibn-Kattâ' essendo detto meramente
Sikilli era cittadino della capitale.
1343
Si confrontino: Imad-ed-dîn, Ibn-Khallikân, Dsehebi e Soiuti.
1344
Lo Dsehebi, nella vita di Nasrûn-ibn-Fotûh-ibn-Hosein Kherezi, e 'l Soiuti
in quella d'Isma'il-ibn-Ali-ibn-Miksciar, Biblioteca Arabo-Sicula, p. 618 e 674,
notano di quei due grammatici che fossero stati compagni d'Ibn-Kattâ'; e del
secondo si dice essere divenuto celebre la mercè del letterato siciliano. Soiuti
nelle biografie di Ased-ibn-Ali-ibn-Mo'mir, Hoseini, lo ricorda discepolo in
d'Egitto, e studiaronlo con le sue glose, il dizionario di Gewhari;
a dispetto di qualche saccente che accusavalo di non tenerne il
testo autentico, ma una copia con licenze posticce1345: che par
calunnia, poichè Ibn-Abd-el-Berr gli avea potuto insegnare quel
libro in Sicilia. Morto del mese di sefer cinquecentoquindici
(aprile e maggio 1121) al Cairo vecchio1346, lo seppellirono
accanto al legislatore Sciafe'i1347.
Com'egli primeggiò tra i letterati arabi della Sicilia, Ibn-Kattâ'
così fu quel che più scrisse delle cose patrie. Dettò una storia di
Sicilia ch'è perduta1348; sparse qua e là cenni biografici, geografici
e di varia erudizione sul paese1349; compilò un'antologia siciliana
intitolata La nobile Perla e l'eletta dei poeti dell'isola: della quale

tradizione d'Ibn-Kattâ'; e lo stesso in quella di Ali-ibn-Abd-el-Gebbâr-ibn-


Abdûn, gran filologo e tradizionista, Biblioteca Arabo-Sicula, p. 673, 677.
1345
Soluti, l. c. Ogni libro si leggea in pubblica scuola con licenza scritta
dall'autore o di chi il tenesse da lui; e così successivamente. Or i letterati
d'Egitto, a proposito del Dizionario di Gewhari, spacciarono che Ibn-Kattâ',
vedendolo mal noto e molto desiderato nel paese, avesse fabbricato la serie
della licenza: onde le sentenziarono nom di coscienza "troppo sciolta" in
questa materia. Così Soiuti; il che spiega quell'accusa di "troppa scioltezza nel
riferire" che leggiamo più vagamente in Ibn-Khalikân. Il Dizionario di
Gewhari era stato pubblicato a Nisapûr in Khorasân il 390 (1000), e l'autore
morto il 393 o 398.
1346
La biografia di Ali-ibn-Kattâ' è data da: Ibn-Khallikân, Dizionario
biografico, versione inglese di M. De Slane, tomo II, p. 265, 266; Dsehebi,
Anbâ-en-Nohâ, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 646; Soluti, Tabakât-el-
Loghewîn, op. cit., p. 676. Imad-ed-dîn, nella Kharîda, op. cit., p. 589, ne fa
anche un breve cenno, aggiugnendo aver conosciuto in Egitto chi lo avea
veduto vivente; e aver trovato una tavoletta scritta da lui il 509. Si vegga anche
Abulfeda, Annales Moslemici, anno 515, tomo III, p. 462.
1347
Soluti, op. cit., p. 677.
1348
Hagi-Khalfa, Dizionario Bibliografico, edizione Flüegel, tomo II, p, 135,
n° 2243; e Soluti, op. cit., nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 677.
L'autografo par che fosse venuto alle mani di Iakût. Si vegga la Biblioteca
Arabo-Sicula, p. 115.
1349
Si veggano nel capitolo precedente, la pag. 430; e in questo capitolo, p. 490
ec. Ibn-Kattâ' par che abbia dato l'ortografia di tutti i nomi topografici
dell'isola. Oltre quel di Sicilia citato dianzi, v'ha quel di Kosîra (Pantellaria),
nella, Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 124.
ci rimangono gli squarci che piacquero a Imâd-ed-dîn d'Ispahan;
e son di quarantatrè poeti1350, tra i censettanta che ne avea trascelti
Ibn-Kattâ'1351, e di ciascuno par abbia data la biografia, poichè vi
messe la sua propria1352. Sortirono maggior fama in Levante e
Spagna le opere di filologia e storia letteraria. Il Libro dei Verbi,
che al dire d'Ibn-Khallikân tolse il primato a quel dello spagnuolo
Ibn-Kûtîa1353; la Fabbrica dei nomi, verbi e infiniti, cioè un
quadro generale delle forme grammaticali, lodato anche da Ibn-
Khallikân, dove l'autore aggiunse forse un centinaio di nuove
forme spigolate nei glossarii e scrittori; e sembra l'ultimo suo
lavoro1354. In lessicografia lasciò il comento al Gewhari1355; la
1350
Kharîda, nella Biblioteca Arabo-Sicula, cap. LXIII, § 3, p. 589 a 598.
1351
Hagi-Khalfa, op. cit., tomo II, p. 135, n° 2243. Ne fa menzione lo stesso
autore, tomo III, p. 203, n° 4935, e Ibn-Khallikân, e Soiuti, ll. cc.
1352
Makkari, Analectes sur l'histoire d'Espagne, tomo I, p. 634 del testo
arabico, trascrive un passo dello storico Ibn-Sa'id, il quale dando
l'autobiografia si scusava con l'esempio di tre scrittori, tra i quali nomina Ibn-
Kattâ'.
1353
Ibn-Khallikân e Soiuti, ll. cc., Hagi-Khalfa, op, cit., tomo I, p. 373. N°
1025. Par che sia esemplare di quest'opera il MS. dell'Escuriale DLXXIII , che
Casiri tradusse "Liber Verborum tripartitumque", ma si tratta forse dei "verbi
triliteri"; e quivi afferma essere stato Ibn-Kattâ', Domicilio Cordubensis.
Notando poi l'opera di versificazione, della quale or or[**] faremo parola,
Casiri lo spaccia origine siculus patria Hispalensis, ed anche trascrive male il
nome. Indi gli Ebn-al-Kattaa ed Ebn-Cataa del Di Gregorio, Rerum
Arabicarum, p. 239. Il Casiri non avea punto fatto equivoco tra il padre e il
figliuolo, ma avea reso con lettere diverse lo stesso nome. Io non so, non
avendo veduto i due MSS., se vi sia qualche parola da far supporre il
soggiorno d'Ibn-Kattâ' a Cordova e Siviglia; nè sarebbe impossibile che prima
d'Egitto ei fosse andato in Ispagna. Ma Casiri suol troppo facilmente far dono
alla Spagna di scrittori che non le appartengano per niun conto.
1354
Ricordato da Ibn-Khallikân e da Soiuti. Hagi-Khalfa ebbe alle mani
quest'opera, poichè ne trascrive le prime parole, com'ei suole. Dà anche uno
squarcio della introduzione, dove Ibn-Kattâ' ricorda le 308 forme di nomi, tra
sostantivi e aggettivi, date dal celebre grammatico Sibûweih, le aggiunte
d'altri, e in fine le sue proprie. Dei masdar, ossia infiniti adoperati
sostantivamente come noi diciamo l'andare., il fare ec., si erano notate 36
forme, e Ibn-Kattâ' le condusse a 100. Compi questo trattato in regeb del 513.
Hagi-Khalfa, op. cit., tomo I, p. 146, n° 31.
1355
Soiuti, l. c. Hagi-Khalfa, op. cit., tomo IV, p. 94, n° 7714.
Correzione della lingua1356,il Libro della Spada, glossario de'
nomi e predicati che usano dar gli Arabi a quell'arme 1357; il Libro
dell'Andare e del Viaggiare anche esso in ordine alfabetico, il
quale par lista dei verbi che significan l'uno o l'altro1358; e il Libro
delle Interiezioni1359.Scrisse due trattati di versificazione1360 ed un
comentario su le poesie di Motenebbi1361. Il compendio intitolato
Kitab-el-Kisár, sembra dizionario biografico di una classe di
scrittori1362; è trattato di storia letteraria il libro dei Sali
contemporanei1363; quel dei Luccicanti Sali, è Antologia de' poeti
1356
Hagi-Khalfa, op. cit., tomo II, p. 190, n° 2429. Nondimeno Nawawi, The
Biographical Dictionary, testo arabico, pubblicato dal Wüstenfeld, p. 126,
attribuisce quest'opera all'altro siciliano Abu-Hafs-Omar-ibn-Khelef-ibn-
Mekki. Ibn-Scebbat la cita a proposito della Sicilia, Biblioteca Arabo-Sicula,
p. 212, senza dar il nome dell'autore.
1357
Hagi-Khalfa, op. cit., tomo V, p. 102, n° 10, 207.
1358
Op. cit., tomo V, p. 151, n° 10, 492.
1359
Op. cit., tomo V, p. 44, n° 9853.
1360
L'uno intitolato: Il Salutifero nella scienza della versificazione, si trova in
Hagi-Khalfa, op. cit., tomo IV, p. 7, n° 7384. L'altro è all'Escuriale col titolo
di: Eloquente prosodia in compendio che (tutto) abbraccia. Si vegga Casiri,
Biblioteca Arabo-Hispanica, tomo I, p. 82, cod. CCCXXIX.
1361
Catalogo dei MSS. arabi del British Museum, Parte II, p. 281, n° DXCVII.
1362
Hagi-Khalfa, op. cit., tomo V, p. 136, n° 10,395. Il dotto editore traduce
"Liber de Palatiis eorum nominibus et naturæ descriptione, alphabetice
dispositus," supponendo così un errore nel pronome loro ch'è replicato due
volte nel testo, e che non si può dire se non di persone; e tenendo Kisâr come
plurale di "palagio," la qual forma se pur si può ammettere, è inusitata. Inoltre
una descrizione di palagi, senza dire di qual paese, mi sembra opera troppo
aliena dagli studii d'Ibn-Kattâ'. Però mi è avviso di ritenere la lezione loro, che
trovo altresì nel MS. di Parigi, e di considerare Kisâr, come plurale di Kasîr,
"breve, corto, nom corto d'ingegno e di qualità, imperfetto" che si legge nel
Dizionario di Meninski. Sarebbe allora un dizionario biografico di "Scrittori
minori," come noi diremmo. Del resto avverto che il più delle volte è
impossibile di tradurre con certezza i titoli dei libri arabi, quando non si sappia
l'argomento, o non si abbia alle mani tutta l'opera, per comprendere quegli
enimmi.
1363
Hagi-Khalfa, op. cit., tomo IV, p. 145, n° 7901, e tomo VI, p. 109, n°
12,867. Lo cita anche l'autore del Mesâlik-el-Absâr, nella Biblioteca Arabo-
Sicula, testo, p. 656. Mi è parse bene rendere la prima voce col significato
proprio di Sali. Gli Arabi l'adoperarono a un dipresso come noi al traslato, per
Spagnuoli1364. Le quali opere quanto fossero tenute in conto appo
gli eruditi musulmani, lo mostrano la lode d'Ibn-Khallikân che lo
chiama «principe delle lettere, massime in fatto di lingua» e le
notizie che tolgono spesso da lui Ibn-Khallikân medesimo, Imâd-
ed-dîn, Iakût, Ibn-Sa'îd lo storico, l'enciclopedista Scehâb-ed-dîn-
Omari, Firuzabadi nel Kamûs1365, e varii biografi. Da questi
squarci, in vero, Ibn-Kattâ' sembra accurato e sottile filologo, ed
elegante scrittore, più sobrio che non portassero i tempi.
Mediocre poeta comparisce dai frammenti rimastici delle molte
poesie ch'ei dettò; e pur talvolta, dimenticati i bisticci e le
arguzie, si fa a ritrarre le immagini con semplicità graziosa1366.
Che se guardiamo ai precetti più che alle opere, lo diremmo
iniziato a que' primi studii delle lettere greche: qua par che
condanni il tipo della Kasîda arabica1367; qua rende espresso
omaggio alle bellezze dell'antichità1368.

significare "bellezze letterarie, espressioni vivaci ec."


1364
Ibn-Khallikân, l. cit., e tomo III, p. 190 della medesima versione inglese.
Ma Hagi-Khalfa attribuisce ad altri l'opera così intitolata, e nelle altre notizie
biografiche di Ibn-Kattâ' non se ne fa parola.
1365
Si vegga il Dizionario arabico di Freytag, tomo III, p. 170.
1366
Ibn-Khallikân, l. c., afferma che Ibn-Kattâ' lasciò molte poesie; e ne dà per
saggio tre squarci, un dei quali non si trova negli estratti che ce ne serba. Imâd-
ed-dîn nella Kharîda, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1375, fog. 20 verso a 22
recto, e MS. del British Museum, Rich. 7593. Il Soiuti, nel Tabakât-el-
Loghewîn, in fin della biografia d'Ibn-Kattâ', dà altri 13 versi, che ho copiati
dal MS. del Dottor John Lee, ma non si trovano in quel di Parigi. Abbiamo
nella Kharîda il primo verso d'una sua Kasîda a lode di Afdhal, e frammenti di
cinque altre.
1367
A ciò parmi che alludano i tre versi trascritti da Ibn-Khallikân, op. cit.,
"Consume not this life ec." nella versione inglese di M. De Slane, tomo II, p.
266.
1368
Dalla Kharîda, MS. citato di Parigi, fog. 21 verso.
"Somigliante a cotesta nostra, l'età degli antichi popoli che perirono, sfoggiava
di colori e sembianti (affé) non spregevoli.
"La diresti scatola d'oro, piena di rubini, così alla rinfusa, non legati."
A comprender meglio l'allusione, è da sapere che le due voci che ho tradotto
"alla rinfusa" e "legato" sono Nethr e Mensûm, le quali hanno anche il
significato, l'una di "prosa" e l'altra di "poesia."
Segnalaronsi in varii rami di filologia i già nominati: Ibn-Kuni
linguista1369, Abu-Bekr-Mohammed grammatico e linguista1370;
Ibn-Tazi grammatico, scrittore di epistole e poeta1371; Ibn-Fehhâm
autore d'un commentario su i Prolegomeni Grammaticali d'Ibn-
Babesciâd1372; ed Omar ovvero Othman-ibn-Ali da Siracusa
discepolo d'Ibn-Fehhâm, autore di opere su la lingua, la
grammatica e la versificazione, professore al Cairo vecchio,
maestro del filologo egiziano Abd-allah-ibn-Bera1373. Dsehebi,
senza notarne l'età, ricorda un Tâher-ibn-Mohammed-ibn-
Rokbâni, della tribù di Taghleb, siciliano, soprannominato il
vizir, l'uom più dotto del tempo suo in lingua arabica, rettorica ed
arte di scrivere in prosa e in verso, al quale riverenti accorreano,
per apprendere, i letterati d'ogni paese e trovavano un mar di
scienza1374: ma non ne rimane altro vestigio che que' quattro righi
datigli dal biografo, e due che ne serba al figliuolo Ali, poeta,
erudito in lingua, nelle antiche istorie degli Arabi e in ogni altro
studio che appartenga alle lettere1375. Con lode anco troviamo i
nomi di Ia'kûb-ibn-Ali-Roneidi filologo e poeta1376, Abu-
Mohammed, detto Dami'a grammatico, poeta e ottimo
pedagogo1377; Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Sados,
grammatico, segretario e facilissimo scrittore in prosa e in
rima1378; Abu-Fadhl-Ali-ibn-Hasan-ibn-Habîb, gran linguista e
buon poeta1379; ed Abd-Allah-ibn-abi-Malek-Mosîb della tribù di
1369
La citazione a p. 464.
1370
Id., p. 477, 478.
1371
Dsehebi, Anbâ-en-Nohâ, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 647. Si vegga
per costui l'altra citazione qui innanzi a p. 471.
1372
Id. 474.
1373
Id. 476. Il nome di Omar con la stessa genealogia e condizioni è dato da
Dsehebi, Biblioteca Arabo-Sicula, 647; quello di Othman da Makrîzi e Soiuti,
p. 663, 676.
1374
Dsehebi, op. cit., p. 645.
1375
Id. p. 646.
1376
Id. p. 648.
1377
Ibid.; e Soiuti, p. 673, citando Iakût.
1378
Dsehebi, op. cit., p. 647.
1379
Id. p. 646; e Soiuti, p. 677. Ho corretto il nome secondo Soiuti.
Kais, cima di linguista, al dir di Sefedi, poeta nato e dotto di più
in prosodia e versificazione1380; Abu-Hasan-Ali-ibn-Mohammed
di Kerkûda erudito1381; Ali-ibn-Abd-Allah di Giattini1382, Siciliani
tutti e d'epoca ignota. Avvi tra i molti comentatori di Motenebbi
nell'undecimo o duodecimo secolo un Ibn-Fûregia e un Abu-
Hasan-ibn-abi-Abd-er-Rahman, entrambi Siciliani1383.
Nel passar dalla didattica e critica al proprio effetto dell'arte,
troviamo, filologo insieme ed oratore, Abu-Hafs-Omar-ibn-
Khelef-ibn-Mekki, ricordato dianzi nei tradizionisti e giuristi1384.
Il quale, rifuggito in Affrica quando le continue vittorie dei
Normanni, forse la espugnazione di Palermo, toglieano ogni
speranza di salute, conseguì il magistrato di cadi a Tunis1385 che
allora si governava a repubblica. È attribuita ad Ibn-Mekki la
Correzione della lingua che altri riferisce ad Ibn-Kattâ'1386,e
potrebbero supporsi due opere col medesimo titolo, che Ibn-
Kattâ' avesse imitato per gareggiare con quel sommo, «il cui
valore, dice egli, celebravano e ripeteano tutte le lingue per ogni
luogo; quel che in eloquenza non cedette il vanto ad Ibn-Nobâta,
1380
Soiuti, p. 675.
1381
Mo'gem, nella Bibl. Ar. Sic. p. 124.
1382
Mo'gem, op. cit. p. 110.
1383
In un Diwan di Motenebbi, copiato il 1184 dell'èra volgare, si notano in
appendice i comentatori, e tra quelli si legge il nome d'un Sikilli-ibn-Fûregia,
(Mines de l'Orient, tomo IV, p. 112.) Una delle copie di quel diwano con
simile appendice che possiede il British Museum (Catalogo orientale, parte II,
p. 281, n° DXCVII) dà tra i comentatori. Abu-Hasan ec. Seîkillî (corr. Sikîlli)
ed Ibn-Fûregia, senza aggiugnere il nome di Siciliano. Costui scrisse a difesa
di Motenebbi due opere: L'accusa contro Ibn-Ginni, e La vittoria sopra Abu-l-
Feth. Abu-Hasan-Abd-er-Rahman, potrebbe essere il medesimo ricordato a p.
497, col nome proprio di Ali.
1384
Pag. 482 e 488.
1385
Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione de M. Des
Vergers, p. 183.
1386
Si vegga la p. 509. La Correzione della lingua, d'Ibn-Mekki è citata da
Nawawi, Biographical Dictionary, testo arabico, p. 126, a proposito delle
varianti del nome proprio Abraham, Ibrahim ec. È attribuita anche ad Ibn-
Mekki da Ibn-Khallikân, versione di M. De Slane, tomo I, p. 435, e da Soiuti; e
con una variante da Hagi-Khalfa, edizione Fluëgel, tomo III, p. 604, n° 7189.
e lasciò modelli di poesia1387.» Dsehebi anzi lo antepone al
Cicerone degli Arabi, e come raro esempio aggiugne ch'ei solea
porgere dal pulpito un sermone novello ogni venerdì1388. Ma gli
squarci dei versi d'Ibn-Mekki san troppo di predica; ritraggono
della natura umana i soli vizii, consigliano la solitudine e
l'egoismo, nè escon di vena poetica1389; ond'io dubito ch'ei n'abbia
avuta d'oratore.
All'agrume ascetico d'Ibn-Mekki va contrapposta la
spensieratezza cavalleresca del segretario Hâscem, che
argomentiamo al paro dai versi: i quali due tipi si alternano con
poco divario nei poeti arabi di Sicilia. Abu-l-Kâsim-Hascem-ibn-
Iûnis, al dir d'Ibn-Kattâ', fu lodatissimo scrittore di epistole, motti
arguti, racconti e mekâme1390:quella maniera di componimento
accademico che ha dato rinomanza ad Harîri. Perdute le prose
d'Hascem e la più parte delle poesie, ci rimangono varii tagli di
due e tre versi, e bastano pure a mostrarlo seguace della scuola
classica degli Arabi. Vi cogliamo anco una bravura, credo io, di
guerra civile: il poeta vedendo i suoi sgomentati senza consiglio,
fa testa egli solo ad un fier nemico Abu-Nasr, e il rinfaccia agli
ingrati concittadini. Altrove accenna ad avventure d'amore,
1387
Kharîda, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 597. Imad-ed-dîn non
solamente cita Ibn-Kattâ', ma par che trascriva da lui questo squarcio di prosa
rimata. Abd-er-Rahîm-ibn-Mohammed-ibn-Nobâta, fiorì in Mesopotamia nella
seconda metà del decimo secolo. Gli Arabi citano il vescovo Kos e questo Ibn-
Nobâta, come noi faremmo di Demostene e Cicerone: e in vero, serbate le
proporzioni tra l'eloquenza arabica e la greca e latina, Ibn-Nobâta si può dir
felicissimo oratore. Così parmi dalle sue khotbe, che ho percorso nel MS. della
Biblioteca Parigina, Ancien Fonds, 451. Si vegga la biografia d'Ibn-Nobâta in
Ibn-Khallikan, versione inglese, di M. De Slane, tomo I, p. 396.
1388
Dsehebi, Anbâ-en-Nohâ, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 646, 647.
A' cenni biografici di Dsehebi e della Kharîda, si aggiunga quello di Soiuti,
Biblioteca Arabo-Sicula, p. 677.
1389
Nella Kharîda, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1375, fog. 45 recto e seg.,
v'hanno dodici epigrammi d'Ibn-Mekki; su i quali è fondato il mio giudizio.
1390
Kharîda, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 595. Ho tradotto
"racconti" la voce riwâiât. Credo che già nell'XI secolo prevalesse appo gli
Arabi l'uso dei finti racconti in prosa, chiamati riwâiât al par dei racconti di
fatti veri.
millantandosi che una notte negra come vaga chioma, viaggiò
tutto solo al ritrovo, toltosi per ciambellano il brando tagliente, e
per segretario la lancia rodeinita; e somiglianti freddure1391.
Citammo già il nome d'Ibn-Tazi, lodato scrittore d'epistole1392.
Porremo in lista coi prosatori i Kâtib, o vogliamo dir Segretarii in
oficio pubblico, richiedendosi a questo appo gli Arabi non
comune erudizione letteraria, per compilare quei rescritti
tramezzati di prosa rimata, sì peregrini, sì lambiccati di lingua e
stile, da parer d'altro popolo o d'altra età che gli scritti di storia o
scienze. Levaron grido, com'ei sembra, il segretario Abu-Sewâb
da Castrogiovanni, ricordato da Iakût nella notizia geografica di
quella città1393; Abu-Hasan-Ali-ibn-abi-Isâk-Ibrahim-ibn-
Waddâni preposto ad un officio pubblico in Sicilia1394. E dei poeti
d'Ibn-Kattâ' son detti Segretarii Abu-Ali-Ahmed-ibn-
Mohammed-ibn-Kâf1395; Abu-Ali-ibn-Hosein-ibn-Kalid1396, Abu-
Bekr-Mohammed-ibn-Sahl detto Rozaik1397; Abu-Abd-Allah-
Mohammed-ibn-Ali-ibn - Sebbâgh amico d'Ibn-Rescîk1398; Abu-
Feth-Mohammed-ibn-Hosein-ibn-Kerkûdi, copioso scrittore in
rima e in prosa1399; Ibn-Kereni l'astronomo e computista1400; Abd-
el-Gebbar-ibn-Abd-er-Rahman-ibn-Sir'în1401; Ibn-Kûni filologo,

1391
Kharîda, MS. citato, fog. 40 verso, seg. Sono nove d'una Kassida; undici
d'un'altra, spezzati a due o tre versi, una stanza di sette versi brevi, e
l'epigramma che fè incidere in un pugnale.
1392
Si vegga sopra, p. 471 e 494.
1393
Mo'gem-Boldân, nella Biblioteca Arabo-Sicula, Correzioni ed aggiunte che
fan seguito alla Prefazione, p. 43.
1394
Iakût-Moscterik, edizione del Wüstenfeld all'articolo Waddân; Kharîda
nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 591.
1395
Kharîda, estratti dalla Dorra d'Ibn-Kattâ', nella Biblioteca Arabo-Sicula, p.
592.
1396
Ibid.
1397
Ibid.
1398
Op. cit., p. 591.
1399
Karîda, ecc. nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 595.
1400
Ibid. Si vegga il presente capitolo, p. 464.
1401
Op. cit., p. 595.
astronomo e geometra1402; Abu-Hafs-Omar-ibn-Abd-Allah1403; il
cadi Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Kâsim-ibn-Zeid della tribù
di Lakhm1404; Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-'Attâr1405; ed Abu-
Hasan-Ali-ibn-Hasan-ibn-Tûbi, elegantissimo prosatore e
poeta1406.
Tra tanti ingegni che onorarono la Sicilia musulmana, pochi si
volsero alla Storia. La cronica sola che ci rimanga è scritta in
arabico sì, ma pensata in altra lingua da un cristiano o figliuol di
cristiano di Palermo, che visse alla metà del decimo secolo,
famigliare forse dei principi kelbiti; chè le date
costantinopolitane, lo stile timido, la lingua scarsa, la grammatica
volgare, la reticenza dei sentimenti religiosi, la prudenza
cortigiana, la brevità in principio (827) e la diligenza in sul fine
(964), ci svelano tutte le condizioni dell'autore, fuorchè il
nome1407. La storia di Sicilia d'Ibn-Kattâ' è perduta1408. Corse per
le mani di pochi eruditi fino al decimoterzo secolo quella del
giurista Abu-Ali-Hasan-ibn-Iehia, della quale abbiamo frammenti
che illustrano la geografia1409, e sembra tolto anco da quella il
caso di Malta nella guerra di Maniace; onde l'autore tornerebbe
alla metà dell'undecimo secolo1410: siciliano è da dirsi, per nascita
o soggiorno, all'argomento ch'elesse ed alla precisione delle
1402
Op. cit., p. 596. Si vegga il presente capitolo, l. c.
1403
Op. cit., p. 598.
1404
Ibid.
1405
Ibid.
1406
Op. cit., p. 590.
1407
Cronica di Cambridge. Si vegga l'Introduzione mia nel primo volume, p.
XL, n° VII; e il cap. X del Lib. III, p. 210 dei presente volume.
1408
Pag. 507.
1409
Si veggano i particolari nel Capitolo XIII di questo libro, p. 429, seg.
1410
Capitolo XII di questo Libro, p. 422. Kazwini, che dà questo fatto senza
citazione, allega in altro luogo (Agiâib-el-Mekhlûkât, edizione del Wüstenfeld,
testo, p. 166) la Storia di Sicilia di Abu-Ali-Hasan-ibn-Iehia; nè par n'abbia
conosciuta alcun'altra. Si potrebbero anzi supporre entrambi que' passi tolti di
peso da Iakût, il quale allega sovente quella istoria nel Mo'gem-el-Boldân,
Biblioteca Arabo-Sicula, p. 109, 111, 115, 118. Nelle tre copie a me note del
Mo'gem, manca in vero l'articolo di Malta; ma si dee supporre che Kazwini
l'abbia avuto sotto gli occhi in esemplari migliori.
notizie locali. L'età nè la patria non si scorge d'Abu-Zeid-Gomari,
d'origine berbera, autore d'un'altra storia di Sicilia1411. Ali-ibn-
Tâher, mentovato di sopra, si versò nell'antica storia degli Arabi,
senza la quale mal si poteano comprendere lor poeti classici1412.
Scrisse la Storia d'Algeziras Ibn-Hamdîs da Siracusa1413.
Ma venendo ai poeti, il numero e la monotonia ci distoglie dal
trattar di ciascuno partitamente; se non che i maggiori nell'arte o
che svelino le condizioni e costumi del paese. E pria diremo di
cui si esercitò nel componimento eroico degli Arabi, la Kasîda,
che suona "Trovata:" adoperata con altro nome negli epicedii ed
elegie d'amore; poemetto sopra una sola rima, ove il poeta intesse
le lodi proprie, o di sua gente o del mecenate, con digressioni
erotiche, descrizioni, apostrofe e macchina ritraente la vita
dell'avventuroso cavaliere nomade, sì come la macchina di nostra
epopea s'adatta alle prime imprese nazionali. Nè l'effimero
accentramento del califato generò appo di loro l'epopea, quando
popol arabico propriamente non v'era. La Kasîda antislamitica
pervenne tal quale a quel brulichío di stati musulmani del decimo
e undecimo secolo; e la si udì in Palermo a corte di Iûsuf (990-8)
in bocca di poeti africani1414.
La generazione seguente s'illustrò in Sicilia per parecchi autori
di Kasîde, tra i quali va innanzi per età e virtù poetica Abu-
Hasan-Ali-ibn-Hasan-ibn-Tûbi1415, lodato altresì per eloquenti

A prima vista parrebbe che Abu-Ali-Hasân potesse identificarsi con Ibn-


Rescîk, il quale portò quei due primi nomi. Ma distruggono tal supposto il
nome patronomico Ibn-Iehia, la qualità di giureconsulto e la celebrità stessa
d'Ibn-Rescîk, poichè tra le sue opere notissime niuno annovera la storia di
Sicilia. Abu-Ali-Hasan-ibn-Iehia, s'egli è, come sembra, il narratore del caso di
Malta, scrisse tra il 1049 e il 1091, come notai a suo luogo.
1411
Hagi-Khalfa, ediz. di Flüegel, tomo II, p. 135, n° 2243.
1412
Si vegga qui innanzi a p. 511, 512.
1413
Hagi-Khalfa, ediz. di Flüegel, tomo II, p. 124, n° 2196.
1414
Cap. VII di questo Libro, p. 333 e seg. del volume.
1415
Nome derivato dal castello Tûb nell'Africa propria, del quale fosse stato
oriundo il padre, alcuno degli avi. Questo nome di luogo si trova nel Riâdh-en-
Nofûs, p. 191 della Biblioteca Arabo-Sicula, ed anche nel Lobb-el-Lobâb di
Soiuti, edizione di Leyde.
scritti in prosa, come notammo1416. Viaggiò in Oriente nei
principii dell'undecimo secolo, si versò in faccende politiche1417, e
fors'anco di amministrazione, e fu chiaro a corte di Moezz-ibn-
Badîs1418, le cui lodi si leggono in una sua Kasîda1419. Altre, e
soprattutto i versi d'amore, danno una fragranza direi quasi della
poesia di Grecia e d'Italia; v'ha un piglio di passione, una
naturalezza d'immagini che non sembrano tolti in prestito dalle
muse arabiche1420. Suol cantare la gioventù, le donne, il vino, le
stelle, i fiori; piange i diletti perduti nell'età matura, senza mai
trascorrere alla schifa licenza di tanti altri poeti arabi; poichè un
suo epigramma, sì fino da parer de' tempi d'Orazio o di
Giovenale, è satira al certo, non confessione di vizio1421. Gli
argomenti, lo stile, fin qualche concetto e qualche parola d'Ibn-
Tûbi, si ravvisano nelle rime d'Ibn-Hamdîs, che di certo il prese a
modello e l'avanzò.

1416
Pag. 516.
1417
Nel cenno d'Imad-ed-dîd, tolto probabilmente da Ibn-Kattâ', è detto, tra le
altre lodi, "Sostegno di sultani."
1418
Luogo citato.
1419
Kharîda, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1375, fog. 30 recto.
1420
Kharîda, MS. citato, fog. 30 verso.
"L'incantesimo non sforza altrimenti che le grazie di costei; l'ambra grigia non
(olezza) altrimenti che l'alito suo.
"Ignoravamo il suo soggiorno, quando ne venne fuori una fragranza che ci fe
dire: ella è qui ec."
"La morte, oh bramo la morte, s'io non debba mai stringerla al seno: chè la
virtù, onde ho vita, è il suo sembiante.
"Se mai sitibondo bevesti dell'acqua a lunghi sorsi, (sappi) che ciò è nulla al
(paragone del) mio (contento a) baciarla in bocca."
1421
Non potendo lasciare addietro le accuse contro la società di cui
ricerchiamo la storia, ho pubblicato nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 590,
quest'epigramma; e qui, a malgrado mio, lo traduco. Ma non si può affermare
che Ibn-Tûbi lo avesse scritto piuttosto in Sicilia, che in Oriente o in Affrica.
"Con questi versi descrisse un r....... eccellente in suo mestiere:
"Quel dai grandi occhi negri che torcea lo sguardo da me, mandaigli a dire
l'intento mio per un mezzano;
"Ed ecco che questi il mena seco sotto mano, cheto cheto, come flamma (di
lampada) si tira l'olio."
Fioriva in quel torno o qualche dieci anni appresso, Ibn-
Sebbâgh il segretario, amico d'Ibn-Rescîk, forse palermitano, ed
intinto nelle pratiche con Moezz-ibn-Badîs, al certo seguace di
parte siciliana nella rivoluzione d'Akhal, poichè con robusti versi,
e talvolta gonfii, loda il valor di sua gente contro i Bizantini e i
Kelbiti1422. Armoniose e gentili le rime d'amore d'un Abu-Fadhl-
Mosceref-ibn-Râscid, autore di tre o quattro Kasîde e altri
componimenti; e pur non gli manca vigor di parola nè altezza di
pensieri quand'ei tocca la guerra civile, forse i principii della
normanna, e sospira la unione della Sicilia sotto un sol capo1423.
1422
Si vegga qui sopra a p. 515. Ecco i versi che troviamo nella Kha-rîda,
tolti probabilmente da una Kasîda, dei quali ho dato il testo nella Biblioteca
Arabo-Sicula, p. 591.
"I miei son tal gente, che, quando l'unghia di destrieri leva sotto le nubi (del
cielo) nubi di polvere,
"I brandi loro lampeggiano e mandano sangue dal taglio, come scroscio di
pioggia.
"Terribili altrui, difficili a maneggiare, or s'avventano ad Himiar ed or a
Cesare:
"Difendono lor terra, ch'altri non entri a pascervi; troncano ogni mal che
sopravvenga."
Himiar, come ognun sa, è il supposto progenitore della schiatta del Iemen, alla
quale appartengono i Kelbiti. La gente del poeta sono i suoi partigiani o i
concittadini. Lo credo palermitano, perchè è chiamato Sikilli senz'altro e
perchè Ibn-Rescîk, sbarcando a Mazara, gli scrisse una breve epistola in versi
che abbiamo nella Kharîda, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1375, fog. 34 verso.
1423
Kharîda nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 593, 594. Lasciando il principio
di una Kasida data da Imâd-ed-dîn, ch'è pur bello, tradurrò i soli versi che
alludono ad avvenimenti politici. Il poeta, dopo la finzione obbligata del
viaggio d'una bella (se fosse Meimuna?) e dell'arrivo di lei alla collina, ov'era
forte proteggitore un bel cavaliero, continua così:
"Un da' grandi occhi negri, tinto le palpebre di kohl: il quale mi strappa dalla
paziente (rassegnazione) poich'è caduto in dure strette:
"Che Dio guardi le piagge dell'isola, se il principe d'un alto monte avrà in
guardia gli armenti scabbiosi che pascono in quella!
"(Principe) i cui nemici edificano castella inaccesse. Ma forse i baluardi di
Babek respinsero Ifscîn?
"Io reco la verità in mie parole, nè oso penetrare i segreti di Dio;
"Io il vidi che già s'era recata in mano la somma delle cose, il vidi un dì
bersaglio a una furia di sassi, ed ei sorrideva.
Non guari dopo, il grammatico siciliano Abu-Hasan-Ali-ibn-
Abd-er-Rahman-ibn-Biscir, dettava una Kasîda ad onore di Nâsir-
ed-dawla-Ibn-Hamadân, capitano anzi padrone del califo
d'Egitto1424, e un'altra a lode del vizir Ibn-Modebbir1425, la prima
delle quali sembrò un capo lavoro a Malek-Mansûr, principe
erudito del secolo seguente1426. Un altro Abu-Hasan-Ali-ibn-Abd-
er-Rahman, segretario e grammatico, chiamato Bellanobi dalla
patria, Ansâri dal lignaggio1427, uscito di Sicilia nella seconda
metà dell'undecimo secolo, rifuggissi al Cairo; ove perduta la
madre, piansela con una elegia piena d'affetto e d'immagini
poetiche. V'hanno inoltre componimenti, brevi e cinque Kasîde,

"Lioni in una guerra che faceva ardere nel loro costato una fiamma accesa già
dagli (antichi) odii."
Qui finisce inopportunamente lo squarcio della Kasîda, della quale ci si dà, in
grazia delle antitesi, quest'altro verso che descrive, dice Imâd-ed-dîn, i morti in
battaglia.
"Redhwân li sospingea lungi dal dolce soffio del Paradiso, e Malek li
avvicinava al fiato del fuoco (infernale)."
Non ho bisogno di avvertire che questi ultimi sono dei ministri dell'eterna
giustizia, a credere dei Musulmani. Il Babek nominato nel primo squarcio è il
ribelle comunista al quale accennai nel Lib. III, cap. V, p. 113 di questo
volume; e Ifscîn, il capitano turco che il vinse. La lezione "un alto mente" è la
sola che mi par si possa sostituire ad una voce del testo che non dà significato
(Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 593, nota 8), e si adatterebbe al signore di
Castrogiovanni. Infine i guerrieri caduti nelle mani di Redhwân e Malek,
dovrebbero essere i Cristiani.
1424
Akhbâr-el-Molûk, di Malek-Mansûr principe di Hama, nella Biblioteca
Arabo-Sicula, p.612, 613. Il nome compiuto di questo poeta si ha da Nowairi.
Il Nâsir-ed-dawla, citato qui è il secondo della casa di Hamadân, che portò
quel titolo; il quale, costretto a fare il capitano di ventura in Egitto, rinnovò al
Cairo gli esempii degli emir el-Omrâ di Bagdad, e d'Al-mansor a Cordova, e in
fine fu ucciso il 465 (1072).
1425
Nowairi, Storia d'Egitto, nella Biblioteca Arabo-Sicula, l. c., in nota. Ibn-
Modebbir entrò in officio il 453 (1061). Il riscontro del nome e del tempo mi
fan supporre che il poeta sia il grammatico del quale parla Soiuti, e il dice
maestro dello egiziano Omar-Ibn-Ie'isc, il quale alla sua volta diè lezioni in
Alessandria il 498 (1104). Biblioteca Arabo-Sicula, p. 678.
1426
Akhbâr-el-Molûk, l. c.
1427
Cioè degli Arabi di Medina.
due delle quali a lode d'una casa di Beni-Mawkifi, non sappiamo
se di Sicilia o d'Egitto1428, onde nasceva un mecenate del
Bellanobi: versi studiati, puliti e mediocri1429. Nè passò questo
segno in poesia il filologo Ibn-Kattâ', del quale abbiamo detto1430.
Par fosse uscito di Sicilia nell'adolescenza Megber-ibn-
Mohammed-ibn-Megber che studiò in Egitto e vi fece soggiorno,
tenuto in gran pregio dai critici arabi, autore di varie Kasîde, una
delle quali al Kâid-Abu-Abd-Allah, soprannominato Mamûn, ma
1428
Mawkifi, vuol dire oriundo di Mawkif borgata di Bassora. Delle due
Kasîde, ove si ricorda questa famiglia, la prima fa le lodi d'un Mohammed,
(fog. 2 recto), e la seconda d'un Abu-l-Fereg (fog. 10 recto), che ben potrebbe
essere la stessa persona. Cito la copia del MS. dell'Escuriale che mi fu donata
dal conte di Siracusa.
1429
Degli eruditi Arabi, i soli che faccian parola di Bellanobi, sono Iakût,
Mo'gem nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 108, all'articolo Billanoba, e
l'editore dei dugentotrentasei versi di questo poeta che si trovano nel codice
dell'Escuriale, CCCCLV del catalogo di Casiri. Questi lesse il nome etnico
Albalbuni, e suppose scritti i versi a lode di principi siciliani e in particolare
d'Ibn-Hamûd. Si vegga il di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 237, e la nota
scritta a capo del codice dell'Escuriale, ch'io ho pubblicato nella Biblioteca
Arabo-Sicula, p. 680, dove il detto nome è dato con tutti i segni ortografici,
Bellanobi. Quivi anche si legge che il giurista Abu-Mohammed-Abd-Allah-
ibn-Iehia-ibn-Hamûd, Hazîmi, avea recitato in Alessandria all'editore, l'anno
513 (1119), que' versi di Bellanobi sentiti di sua propria bocca, e varii squarci
d'Ibn-Rescîk e d'altri poeti non siciliani. Questo Ibn-Hamûd non era della
famiglia Alida di tal nome che regnò in Spagna e ne venne un ramo in Sicilia,
ma della tribù d'Hazîma ch'apparteneva a quella di Nahd, e però alla schiatta di
Kahtân.
Ecco alcuni versi della citata elegia:
"Ottima e santissima delle madri, m'hai gittato in seno un'arsura, che il fuoco
non l'agguaglia.
"Tra noi si frappone la distanza dell'Oriente all'Occidente; e pure giaci qui
accanto, la casa non è lungi da te!
"Oh che s'irrighi la tua zolla, ad irrigarla scendanvi perennemente nubi gravide
di pioggia,
"E mentr'esse spargeranvi stille di pianto, sorridan lì i più vaghi fiori.
"Dite all'Austro: Costei mori musulmana; accompagnaronla le preci della sera
e della mattina;
"Sosta tu dunque su la moschea Akdâm, e tira su a settentrione senza torcere a
manca ec."
nol credo dei regoli siciliani. Con altri versi, mordendo un poeta
bisognoso o avaro, ci ragguaglia del sussidio di cinque dînar al
mese che porgea la corte fatemita agli uomini di lettere. Morì
costui pria della metà del duodecimo secolo1431: l'ultimo forse dei
Siciliani che dopo il conquisto s'erano affidati alla carità fatemita.
Più franca ospitalità loro offrivano in Spagna da dodici
dinastie gareggianti a bandir corte per mostrar che da vero
regnassero; la miglior parte gentiluomini arabi, usi a far della
poesia lusso ed a tener unica virtù civile la liberalità. Sia la
frequenza dei commerci, sia il gusto delle lettere, si strinse con la
Sicilia più che ogni altro stato spagnuolo quel dei Beni-Abbâd di
Siviglia: e già al tempo di Mo'tadhed (1041-1068) s'era rifuggito
nell'isola un poeta Abu-Hafs-Omar-ibn-Hasan, di nobil gente
spagnuola, amico del principe, poscia temuto e perseguitato; il
quale tornato alfine in patria, Mo'tadhed lo fece assassinare 1432.
Ma succeduto al cupo tiranno il figliuolo Mo'tamid, che avea gran
cuore in guerra e in casa, ed altamente sentiva in poesia, la corte
di Siviglia fu asilo dei poeti Siciliani Abu-l-Arab e Ibn-Hamdîs.
Abu-l-Arab-Mos'ab-ibn-Mohammed-ibn-Ali-Forât, coreiscita
della schiatta di Zobeir, nato in Sicilia il quattrocentoventitrè
(1033) avea nome già di gran poeta, quando, occupata Palermo

La moschea Akdâm a Karâfa presso il Cairo, è ricordata da Makrîzi nella


Descrizione dell'Egitto, testo arabico, stampato di recente a Bulâk, tomo II, p.
445, dove si fa parola del cimitero di Karâfa, della incerta etimologia di quella
denominazione d'Akdâm, ec.
1430
Pag. 510.
1431
Kharîda, capitolo dei poeti egiziani, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 605 e
seg. Secondo Imad-ed-dîn, questo poeta morì avanti il 544 (1149-50); onde
mal reggerebbe il supposto che il Kâid-Mamûn fosse alcuno dei regoli di
Sicilia, i quali si intitolavano Kâid, come s'è detto. Che che ne fosse, io ho
pubblicato nella Biblioteca Arabo-Sicula tutto lo squarcio di questa Kasîda,
serbatoci da Imâd-ed-dîn. Similmente si leggono nel luogo citato e nella
prefazione, p. 77, i versi contro il poeta Moslim, il quale, non contento dei
cinque dînar, domandò un'altra pensione in merito della poesia; e gli
accrebbero il sussidio di mezzo dînar al mese. Imad-ed-dîn dà quasi un
centinaio di versi di Megber.
1432
Mesalik-el-Absar, nella Biblioteca arabo-Sicula, testo, p. 654, 655.
dai Normanni, impazienza del giogo stretta di povertà lo
sospinsero ad andar via, dicendo alla patria ch'essa l'abbandonava
non egli lei1433. Mo'tamid gli avea profferto asilo a Siviglia;
mentr'egli pur tentennava, sbigottito dai rischi del viaggio,
invecchiato a quarant'anni, aveagli mandato per le spese
cinquecento dînar: e vedendolo giugnere a corte dopo un anno o
poco meno (465, 1072-73), l'accolse lietamente, gli fu poi sempre
largo di danari e d'affetto1434; e quegli ne rendea merito coi versi;
par anco abbia militato in alcuna impresa del mecenate1435.
Sopravvisse Abu-l-Arab alla ruina di casa Abbadida una ventina
d'anni, sapendosi di lui fino al cinquecento sette (1113-14).

1433
Squarcio di poema dato da Imad-ed-dîn nella Kharîda, Biblioteca Arabo-
Sicula, testo, p. 609. I primi tre versi e il settimo, riferiti anco da Tigiani, si
leggono nella Historia Abbadidarum del Dozy, tomo II, p. 146, dei quali si può
vedere la traduzione del dotto editore. Gli altri son del tenore seguente:
"Su, alma, non tener dietro all'accidia, i cui lacci allettano, ma l'è trista
compagna.
"E tu, o patria, poichè mi abbandoni, vo' fare soggiorno nei nidi delle aquile
gloriose.
"Dalla terra io nacqui, e tutto il mondo sarà mia patria, tutti gli uomini miei
congiunti.
"Non mi mancherà un cantuccio nello spazio; se nol trovo qui, lo cerco altrove.
"Hai tu ingegno? abbi anco cuore: chè l'assente non conseguì mai suo
proposito appo colui che nol vede."
1434
Ibn-Bassâm narra che un giorno sedendo Mot'amid a brigata, recatogli un
carico di monete di argento, ne donò due borse ad Abu-l-Arab; il quale
vedendo innanzi il principe tante figurine d'ambra, e tra le altre una che fingea
un camelo ingemmata di pietre preziose, sclamò: "A portar coteste monete, che
iddio ti conservi, ci vuol proprio un camelo." E Mot'amid, sorridendo, gli
regalò la statuetta: onde il poeta lo ringraziava con versi estemporanei. Dal
Mesâlik-el-Absar, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 656, e da Tigiani,
nella Historia Abbadidarum, del Dozy, l. c.
1435
Oltre i versi di risposta all'invito di Mot'amid, che si trova nelle biografie
d'Abu-l-Arab, la Kharîda, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1376, fog. 35 recto, e
Sappi. Arabe 1411, fog. 8 recto e verso, dà squarci di altri due poemi, dei quali
il primo sembra, e il secondo è di certo, indirizzato a Mo'tamid. Quivi si
accenna ad una impresa in terra nemica, alla quale si trovava il poeta, poich'ei
dice: "Notti (gloriose) che tutte le notti tornassero a noi con le medesime
speranze ec."
Improvvisatore, poeta di gran fama, più arabo che niun altro
Arabo nel pregio della lingua, dice Ibn-Bassâm, scherzando sul
soprannome; e Scehâb-ed-din-Omari, preso d'un estro di prosa
rimata, lo esalta duce e maestro di tutti i poeti del suo secolo e
gente1436. In vero le Kasîde ed altri componimenti d'Abu-l-Arab,
dei quali non ci mancano squarci, sembrano elegantissimi di
lingua e stile; arabici pur troppo in ragion poetica, ma vi si
frammette spesso la semplicità che dianzi lodammo in Ibn-Tûbi.
Abd-el-Gebbâr-ibn-Mohammed-ibn-Hamdis nacque in
Siracusa (1056) di nobile famiglia della tribù di Azd, che prendea
nome da un Hamdîs, capo himiarita ribellatosi (802) in Affrica
contro Ibrahim-ibn-Aghlab1437. Cresciuto al romor delle armi
normanne che già infestavano il Val di Noto, Ibn-Hamdîs, più che
agli studii si diede a combattimenti, amori, festini, trincare; finchè
un successo sul quale ei tocca e passa, credo avventura amorosa

1436
La biografia di Abu-'l-Arab si ricava da: Imad-ed-dîn, Kharîda nella
Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 606; Ibn-Khallikân, Dizionario Biografico,
versione inglese di M. De Slane, tomo II, p. 277 nella vita di Ali-ibn-Abd-el-
Ghani-el-Husri; Scehâb-ed-dîn-Omari, Mesâlik-el-Absâr, nella Biblioteca
Arabo-Sicula, testo, 655 e seg. Fa cenno di lui Melik-Mansur, op. cit., p; 613.
Hagi-Khalfa, edizione di Fluëgel, tomo III, p. 314, n° 5678, nota il diwano
delle sue poesie. Non trovo in alcun autore il titolo dell'opera di arte poetica
alla quale par che voglia alludere Scehâb-ed-dîn-Omari.
1437
Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique ec., versione di M. De Vergers, p. 87,
88, e citazione di Nowairi, ibid., nota 96. Al dir di Nowairi, questo Hamdîs
discendea della tribù di Kinda, che sarebbe collaterale a quella di Azd,
entrambe del Iemen, ossia del ceppo di Kahtân. Suppongo Ibn-Hamdîs nato il
447 (1055-1056), poichè morendo il 527 (1132-3) avea circa ottant'anni,
leggendosi nel suo diwân, Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 573, i versi
seguenti, un po' senili:
"Ecco un bastone ch'io non strascino nel sentiero della vergogna; mi regge ansi
a scostarmene.
"O vogliate dir che l'impugno per correr meglio all'ottantina, non per battere
(gli alberi e raccorre) foglie al mio gregge. [Si vegga il Corano, Sura XX,
verso 19.]
"Io sembro un arco, e il bastone la corda; l'arciere v'incocca canizie e
caducità."
in nobil casato, sforzollo a fuggire1438 in Affrica il
quattrocensettantuno (1078-79). Ma sdegnando i costumi delle
tribù arabiche scatenate dall'Egitto su l'Africa propria1439, allettato
altresì dalla fama di Mo'tamid-ibn-Abbâd, andò a corte di
Siviglia, ove fu accolto con onore e liberalità 1440. In quel ritrovo
dei primi poeti contemporanei d'Occidente rifulse il genio d'Ibn-
Hamdîs; non si corruppe in corte l'animo franco, liberale, pien
1438
Le allusioni a questo fatto si raccapezzano da due Kasîde, la prima delle
quali ho data nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 552 e seg., e comincia così:
"Le sollecitudini della canizie hanno scacciato l'allegrezza della gioventù. Ah!
la canizie quando comincia a splendere la t'abbuia!
"Per un'ombra d'amore il destino mi spinse lungi; e l'ombra fuggì da me e
sparve.
...............
"Una brezza vespertina mormora, rinfresca, e sospinge soavemente (la barca).
"Ella sciolse. Evviva! E la morte facea piangere il cielo sugli estinti che
giaceano in terra.
"Il mugghio del tuono incalzava le nubi come il camelo che freme contro la
compagna ribelle.
"D'ambo i lati di lei avvampano i baleni, col lampeggiare di spade brandite.
"Passai la notte nelle tenebre. O bianca fronte dell'aurora, arrecami la
luce! . . . . . . . . . . . . . . .
"In quella (terra) è un'anima amante, che alla mia partita, mi infuse questo
sangue che scorremi nelle vene;
"Luoghi ai quali corrono furtivi i miei pensieri, come i lupi si rinselvano nella
(natia) boscaglia.
"Quivi fui compagno dei lioni alla foresta; quivi in suo covile visitai la
gazzella.
"O mare! dietro da te è il mio giardino, del quale mi ascondi le delizie non già
le miserie!
"Lì vidi sorgere una bella aurora, e lungi di quello mi coglie il vespro.
"Ahi se non m'era data la speme, quando il mare mi vietò di porvi il piede,
"Io montava, in vece di barchetta, l'arcione, e correva in quelle piagge incontro
al sagrifizio."
Ho dovuto tradurre liberamente le strane metafore che ha il testo nell'ultimo
verso. L'altra Kasîda, è scritta in risposta ad un amico che par abbia profferto
ad Ibn-Hamdis, dopo molti anni, di rappattumarlo con possente famiglia
perch'ei tornasse in Sicilia, ove i Musulmani, com'e' parmi, volean tentar
qualche sollevazione. La difficoltà di ridurre a lezione plausibile alcuni versi di
questo lungo componimento, mi distolse dal pubblicarlo nella raccolta dei
d'amore del padre, della Sicilia, degli amici, della gloria, delle
donne; d'ogni bellezza di natura e d'arte. Seguì il principe nei
campi com'uomo d'arme ch'egli era ed anco ne facea troppa
mostra nei versi. Alla battaglia di Talavera (1086) abbattuto dal
cavallo nei primi scontri che tornarono ad avvantaggio dei
Cristiani, si sviluppò gagliardamente, n'uscì con la corazza tutta
affrappata dai fendenti, più che a sè stesso pensando al figlio
giovinetto che combattea lì presso con gran valore1441. Ma quando
gli Almoravidi tornarono in Spagna da nemici; quando Mo'tamid
fu spoglio del regno e d'ogni cosa, e scannatigli due figliuoli sotto
testi. Nondimeno vi si scorge manifesta la cagione della fuga; e la famiglia
nemica par si chiamasse dei Beni-Hassân. Il poeta, già maturo e collocato a
corte di Mo'tamid, ricusa di tornar di presente nella Sicilia soggiogata dai
Normanni; ma perdona a tutti, e finisce la Kasîda sclamando:
"Lode ai viventi, lode a coloro le cui ossa giacciono nelle tombe, lode sia a
tutti!
"Lode, perchè non dura quivi il letargo; e grandi eventi ne riscoteranno anche
me."
1439
Si vegga la descrizione ch'ei fa di costoro e il paragone con gli Arabi di
Sicilia in una Kasîda che comincia: "Pascon la bianca foglia il cui frutto è
sangue (lo stipendio dei mercenarii ec.)" nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 561
e segg.
1440
Ibn-Khallikân. L'Autore dell'Akhbar-el-Molûk intitola Ibn-Hamdîs dsu-l-
wizâratein (quel dal doppio officio) che solea dirsi a vizir investito di comando
civile e militare: ma qui mi sembra allusione al genio poetico e valor guerriero
d'Ibn-Hamdîs.
Tra i molti componimenti indirizzati a Mo'tamid ve n'ha uno, nel quale,
ricordando la patria e i parenti, conchiude con effusione di gratitudine:
"Nè tu mi chiudesti la via dell'andar appo loro; ma ponesti il dono a vincolo
che mi ritenesse; "Ed una generosa amistà, la cui dolcezza spandendosi nel
mio cuore lo rinfrescò, arso ch'esso era dal cordoglio."
Di questa Kasîda ho dato uno squarcio nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p.
554. Si veggano le altre poesie indirizzate a Mo'tamid ed al costui figliuolo
Rescîd, delle quali ho dato le rubriche nella stessa raccolta, p. 567, 569, 570.
1441
Diwân d'Ibn-Hamdîs, nell'op. cit., p. 569. Il poeta tornando a Siviglia, fece
questi versi al figliuolo che avea nome Abu-Hâscim. Suppongo si tratti di
Talavera, poichè il testo dice, per antonomasia, "la battaglia." "Oh Abu-
Hâscim! le spade m'hanno sminuzzolato: ma, lode a Dio, non voltai faccia dal
taglio loro. "Ricordaimi, in mezzo a quelle, il tuo sembiante, mentre non mi
prometteano riposo alle fresche ombre."
gli occhi, e con le figlie mandato in catene ad Aghmat (1091),
Ibn-Hamdîs passava in Affrica, andava a visitarlo nella prigione:
dove fecero scambio di sante lagrime e versi mediocri1442.
Tornatosi il poeta siciliano a Mehdia1443, saputa non guari dopo la
morte di Mo'tamid (1095), soggiornò parecchi anni nelle due corti
di casa zîrita, avendo lasciato in lungo poema la descrizione d'un
palagio di Mansûr principe hammadita di Bugia, aspro nemico
degli Almoravidi1444; due Kaside in vita1445 ed un'elegia in morte
di Iehia-ibn-Temîm (1116) principe di Mehdia1446; e le lodi di Ali-
ibn-Iehia (1116-21) ed Hasan-ibn-Ali (1121-1148) saliti
successivamente a quel trono1447. Scrisse la Storia di Algeziras 1448.
Rifinito dall'età e dall'avversa fortuna, ch'ei s'assomigliava ad
aquila che più non voli e i figli le imbecchino il pasto1449, perduto
il lume degli occhi, morì di ramadhan cinquecentovenzette (luglio
1133), chi dice a Majorca, chi a Bugia, sepolto accanto al poeta
spagnuolo Ibn-Labbâna, col quale avea gareggiato nella grazia di
Mo'tamid a Siviglia e nel carcere1450.

1442
Questi versi riferiti da varii annalisti e biografi, si leggono presso Dozy,
Historia Abbadidarum, tomo I, p. 246, tomo II, p. 44. Altri ve n'ha nel Diwan
d'Ibn-Hamdîs, accennati nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 571.
1443
Nowairi, Storia di Beni-Abbâd, presso Dozy, op. cit., Il, 138, e Biblioteca
Arabo-Sicula, p. 459.
1444
Makkari, Analectes sur l'histoire etc. d'Espagne, testo arabico, tomo I, p.
321 e seg., dà in tre squarci 48 versi di questa Kasîda. Mansûr-ibn-Nâsir-
ibn-'Alennâs, regnò dai 1088 al 1104, nello stato hammadita, che già avanzava
per territorio e forze il reame del ceppo zîrita di Mehdia. Si vegga Ibn-
Khaldûn, Histoire des Berbères, versione di M. De Slane, tomo II, p. 51 e seg.,
dove si fa menzione dei sontuosi palagi edificati a Bugia da Mansûr e dal
padre.
1445
Diwân d'Ibn-Hamdîs. Le rubriche si leggono, op. cit., p. 572.
1446
Ibn-el-Athîr, anno 509; nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 280.
1447
Ve n'hanno squarci nella Kharîda, le cui rubriche si leggono nella
Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 608.
1448
Hagi-Khalfa, edizione Fluëgel, tomo II, p. 124, n° 2196.
1449
Diwân, op. cit., p. 572, 573. Ibn-Hamdîs diceva al raccoglitor del diwan,
aver letto nelle opere di Storia Naturale questa filial pietà delle aquile, e che la
non si notasse in alcun altro animale.
Ingegno felicissimo nel coglier e ritrarre le sensazioni, nel
colorirne le dipinture che veggiamo sparse a larga mano in
duemila e cinquecento versi: dipinture d'obietti materiali,
avvenimenti, passioni, costumi. Delle quali lascerem da canto ciò
che non si riferisca alla Sicilia: le geste di Mo'tamid, i suoi palagi
ed orti o del principe di Bugia, gli episodii accademici di Siviglia,
la morte d'una moglie, il naufragio d'altra sua donna nel viaggio
di Spagna ed Affrica, le cacce affricane, le descrizioni d'animali e
frutta e fiori1451, gli specchi di pece1452, le lampadi a spirito di
vino1453, il piglio feroce dei masnadieri d'oltre Nilo, cui poneva a
riscontro gli Arabi inciviliti di Sicilia. Quei compagni di sangue
chiarissimo come lo splendor delle stelle1454, coi quali in gioventù
1450
Le notizie d'Ibn-Hamdîs, si ricavano da: Ibn-Khallikân, Biographical
Dictionary, versione di M. De Slane, tomo II, p. 160 seg.; Imad ed-dîn,
Kharîda nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 607 e seg.; Malek-Mannu,
Tabakat-el-Scio'arâ, op. cit., p. 612. Scehab-ed-dîn-Omari, Mesalik-el-Absâr,
op. cit., p. 653 e seg.; e soprattutto dagli avvertimenti premessi a varie poesie,
nel Diwân di Ibn-Hamdîs dal raccoglitore anonimo, il quale lo conobbe di
persona e conversò con lui, come si ritrae da una glosa, op. cit,., p. 573. Gli
estratti cominciano dalla p. 547. Il Diwân pur non contiene tutte le poesie;
mancandovi la Kasîda pel palagio di Mansûr, dianzi citata, e altre di cui si
leggono squarci nella Kharîda, in Ibn-el-Athîr, Nowairi ec.
1451
La giraffa, il cavallo, lo scorpione, le melarance, gli anemoni, i doppier di
cera ec. Parte di coteste descrizioni, mancanti nel Diwân d'Ibn-Hamdîs, son
date da Nowairi in un volume della Enciclopedia, MS. di Leyde, n° 273, e ne
occorrono sovente in varie raccolte enciclopediche, per esempio il Giâmi'-el-
Fonûn, di Ahmed Harrâni, autor del XIII secolo, MS. di Parigi, Ancien Fonds,
367, fog. 18 verso e 39 recto.
1452
"Come se scaldi specchio di pece, (vedi) il rosso del fuoco camminar su
quella negrezza." Da Scehâb-ed-dîn-Omari nel Mesâlik-el-Absâr, volume
XVII, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1372, fog. 76 verso.
1453
La Kasida dedicata a Iehia-ibn-Temîm, principe di Mehdia, comincia con
questo verso:
"È fiamma questa che squarci le tenebre della notte, o la lampade il cui fuoco
(si alimenta con) l'acqua dell'uva?
"Ovvero sposa che comparisca alta sul seggio ec." Diwân, nella Biblioteca
Arabo-Sicula, p. 572.
1454
Nella parafrasi di queste ed altri squarci d'Ibn-Hamdîs non aggiugnerò
nulla del mio. Tradurrò fedelmente, ma scorcerò, e trasporrò, studiandomi a
solea cercare all'odorato il miglior muschio1455 dei vigneti
siracusani. Entrano di notte in un romitaggio; chiuse le porte,
gittan su le bilancette un dirhem d'argento, e la vecchia suora lor
ne rende una coppa piena di liquid'oro; poi ne menan via le
sposine: quattro anfore1456 vergini, impeciate e sepolte da lunghi
anni; elette da un tal che d'ogni succo d'uva ti sa dir patria, età e
cantina. Ma gli svelti e vaghi giovani traggono a sala illuminata
da gialli doppieri messi in file come colonne che sostenessero
eccelsa volta di tenebre; dove il signor della festa bandisce esilio
e morte alla tristezza: e già le suonatrici, cominciando a toccar le
corde, destan gioia negli animi; quella si stringe al petto il liuto,
questa dà baci al flauto: una ballerina gitta il piè a cadenza dello
scatto delle dita; gentil coppiera va in giro, mescendo rubini e
perle, avara sì delle perle che rado allarga le stringhe dal collo
della gazzella1457. Oh dolci ricordi della Sicilia, campo di mie
passioni giovanili, albergo ch'era di vivaci ingegni, paradiso dal
quale fui scacciato! e come riterreimi dal piangerlo? Quivi risi a
vent'anni spensierato; ahi che a sessanta mi rammarico di quelle
colpe; ma non le biasmar tu, accigliato censore, poichè le
cancellava il perdono di Dio1458!
Figliuoli delle Marche siam noi, cantò altrove Ibn-Hamdîs; a
noi spunta il sorriso quando la guerra aggrotta le ciglia;
divezziamo i bamboli, in mezzo all'armi, col latte di generose

rendere il manco male che io possa il colorito dell'originale.


1455
Questo vocabolo furbesco si usa tuttavia in Sicilia; e chi sa se venne dagli
Arabi? Forse nacquero da quella espressione figurata i nomi di moscato e
moscatello.
1456
Dinân, plurale di denn, orcio lungo che finisce aguzzo.
1457
Cioè l'otre di pelle di gazzella che serviva a portar l'acqua.
1458
Diwân, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 548 e seg. Questa Kasîda
comincia coi versi:
"L'anima sfogò tutte voglie in gioventù, e la canizie le ha recato suoi
ammonimenti.
"La fortuna non la piantò come virgulto in buon terreno, nè poi ne raccolse i
frutti,
"No; fui sorteggiato alle passioni che mi divisero in pezzi tra loro:
"Logorai le armi in guerra; fornii molti trascorsi alla pace ec."
giumente: rassegnaci; e quanti siamo, tanti campioni conterai che
ciascun vale una schiera. Indietreggia nostr'oste per rinnovare
l'assalto; ritraendosi, sparge la morte: no, che tutte le stelle non
sono cadute, e pur v'ha una speme in questa guerra, e siam noi. I
condottieri ci mostrano il dì della battaglia, un drappo da ricamare
con gruppi d'avvoltoi; chè i prodi ad ogni carica di lor nobili
'Awagi1459, spargon sul terreno larga pastura agli uccelli voraci.
Ecco una colomba messaggiera di strage, volar secura tra i lampi.
Sì; percotemmo i nemici della Fede entro lor focolari: piombò un
flagello su le costiere dei Rûm; navi piene di lioni solcarono il
mare, armate la poppa d'archi e dardi, lancianti nafta che
galleggia e brucia come la pece della gehenna ov'ardono i
dannati; cittadelle che vengono a combattere le città dei Barbari, a
sforzarle e saccheggiarle. E che valser quei vestiti di maglie di
ferro luccicanti, e usi a dar dentro quando pur si ritraggono i
prodi? Non piegammo noi al duro scontro; ingozzata la
coloquinta, gustammo alfine il dolce favo, e li rimandammo con
le armadure squarciate e addentellate da questo sottil filo de'
nostri brandi. Perchè l'acciaro nelle nostre mani ragiona1460, e
nelle altrui si fa mutolo. Ma dalla casa mi guardano furtivamente
begli occhi travagliati dalla vigilia e dal pianto, che il dolore dì e
notte li avea dipinti di kohl1461; una manina incantatrice muove le
dita a salutarmi. Oh dilettoso giardino, la cui sembianza viene a
visitar le pupille aggravate di sonno e le schiude
all'immaginativa! Io sospiro la mia terra; quella nel cui seno si
fan polvere le membra e le ossa de' miei, chè già se n'è ito il fior
della prima gioventù, alla quale tornan sempre le mie parole1462.

1459
Razza di cavalli rinomata nelle antiche poesie degli Arabi. Si vegga una
nota di M. De Slane nel Journal Asiatique, Serie III, tomo V, (1838), p. 467,
477.
1460
Ibn-Hamdîs, adopera altrove la stessa figura. Gli Arabi odierni d'Affrica,
come ognun sa, dicono del combattere che "parli la polvere."
1461
Antimonio o altra polvere negra con che le donne d'Oriente (ed oggi anche
ve n'ha in Europa) tingono i lembi delle palpebre e le occhiaie.
1462
Diwân di Ibn-Hamdîs nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 563 e segg.
Sotto il bel cielo di Spagna, nelle regioni temperate
dell'Affrica settentrionale, il poeta siracusano non obbliò mai quel
paese "cui la colomba diè in presto sua collana, e il pavone suo
splendido ammanto1463; dove i raggi del sole avvivan le piante
d'amorosa virtù ch'empie l'aere di fragranza1464; dove respiri un
diletto che spegne le aspre cure, senti una gioia che cancella ogni
vestigio d'avversità."1465 Pur l'alto sentimento che gli facea parer
più belle le naturali bellezze della Sicilia, lo ritenne dal tornar a
vederla serva; gli dettò versi di rampogna no, ma di compianto e
di verità, ch'è primo debito di cittadino alla patria. Ripetendo ed
esaltando in mille modi il valore delle persone1466, ricordava
sospirando, esser morta nel paese la virtù della guerra1467. E in età
più matura sclamava:
"Oh se la mia patria fosse libera, tutta l'opera mia, tutto me le
darei con immutabile proponimento.
Ma la patria come poss'io riscattarla dalla schiavitù nelle
rapaci mani dei Barbari?
(Lo potea forse, quando) il suo popolo si straziava a gara in
guerra civile, e ciascun legnaiolo vi gittava esca al foco?
(Quando) i congiunti non sentivano carità di parentela;
bagnavano le spade nel sangue dei congiunti,

1463
Mesâlik-el-Absâr nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 151.
1464
Diwân d'Ibn-Hamdîs, op. cit., p. 553, dalla Kasida che abbiam testè citato a
p. 526, nota 2.
1465
Stesso Diwân, Biblioteca Arabo-Sicula, p. 562.
1466
Nella Kasîda, della quale or or darò cinque versi nel testo, ripiglia dopo il
biasimo del popolo le lodi dei guerrieri: "uomini che quando li vedi in furore,
ameresti meglio il ratto dei lioni.... Galoppanti su snelli corsieri, a' cui nitriti
fanno eco in terra di nemici le nenie delle piagnone.... Li vedi caricare or con
la lancia or con la spada; ferir d'ambo i lati non altrimenti che il re nel giuoco
degli scacchi.... Muoion della morte del valore in mezzo alla mischia, quando i
vigliacchi spirano in mezzo alle donne dal turgido petto. Imbottiscon della
polvere de' campi i cuscini che lor si pongono sotto gli omeri nella sepoltura."
Quest'ultimo era costume dei devoti guerrieri.
1467
Diwân, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 554.
E (il popolo tutto insieme) avea lo stesso piglio d'una destra le
cui dita non giochino l'un a seconda dell'altro?"1468
A tanta altezza di poesia giunse Ibn-Hamdîs! Con soave
sentimento cantò d'amore; con leggiadria ed arte e abbondanza
d'estro sopra ogni argomento ch'ei toccava. E se l'intemperanza
orientale d'immagini, le antitesi, i bisticci, i vizii radicali della
letteratura arabica tolgono a noi di collocarlo tra i sommi poeti, i
critici di sua nazione il tenner tale 1469, e in Occidente i suoi versi
furono poco men citati che que' d'Imrolkais e di Motenebbi. Il
critico Abu-Salt-Omeîa, che l'accusò di plagii, lo dicea ladro
illustre, uso ad abbellire le idee rubate1470.
Dimorò in Affrica o Spagna il suo figliuolo Mohammed, più
poeta del padre al dir d'Ibn-Bescirûn; ma i brevi saggi che ne dà,
fan giudicare altrimenti1471. Soleiman-ibn-Mohammed da Trapani,
oriundo di Mehdia stanziatovi, esule dopo il quattrocento
quaranta (1048), erudito e scostumato, passò in Affrica, indi in
Spagna; ove s'acconciò nelle corti di principi minori, e piacquero
sue Kaside, e vi lasciò nome non oscuro1472. Più elegante poeta
Abu-Sa'îd-Othmân-ibn-'Atîk, Siciliano, forse di Palermo come
ogni altro di cui non si noti particolarmente la città natia, andò a
dirittura in Spagna al conquisto normanno, a corte del rivale di
Mo'tamid in lettere e munificenza (1054-1091), il principe

1468
Litteralmente "le falangi, delle dita, ec." op. cit., p. 558. Questa lunga
Kasîda, scritta, com'e' pare, in Affrica, lagnandosi di qualche principe zîrita,
comincia, p. 554, col verso:
"Ho vestito la pazienza com'usbergo contro i colpi della sorte. O tristo secolo,
poichè non vuoi la pace, su combattiamo."
1469
Ibn-Bassâm, Imâd-ed-dîn, Scehâb-ed-dîn-Omari, Malek-Mansûr ec., ll. cc.
1470
Nella Karîda, Biblioteca Arabo-Sicula, p. 608.
1471
Kharîda nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 608. L'autore lo pone al par che
il padre tra i poeti Spagnuoli; Ibn-Bescirûn, tra quei del Maghreb di mezzo,
che risponde presso a poco all'Algeria.
1472
Iakût nel Mo'gem, Homaidi nella Gedswa, Ibn-Kattâ' nella Dorra, Scehâb-
ed-dîn-Omari nel Mesâlik, estratti, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p.122,
377, 594, 653. Ibn-Bescowâl, Ms. della Società Asiatica di Parigi, copia il
cenno di Homaidi.
d'Almeria Mo'tasem, della illustre stirpe dei Beni-Somâdih1473.
Vissero al par nella seconda metà dello undecimo secolo poeti di
Kasîde, i segretarii Hâscem-ibn-Iunis e Ibn-Kûni e Omar-ibn-
Abd-Allah, dei quali si è detto1474; e un Ali-ibn-Abd-Allah-ibn-
Sciami1475.
Ibn-Tazi, cultor di scienze e di lettere1476, facile ingegno ed
umore bilioso, censor di vizii infangato in brutto costume egli
stesso, va lodato tra i primi poeti satirici degli Arabi per vivacità
di concetti, stile incisivo, e pur naturale, eleganza e grazia non
infrequente1477. Ci avanzan di lui, dopo che li vagliavano Ibn-
Kattâ' e Imâd-ed-dîn, da ottanta epigrammi, tra descrittivi ed
erotici, se così possan chiamarsi, e satirici; ma sol di questi
diremo. Dei quali è grave e lepido molto quel sopra i Sufiti1478;
altri con lindura riprendono vecchi che tingeano i capelli1479, facce
irsute di barba1480, e noiosi cantori1481: ed erano ridicolaggini del
tempo. Su i vizii eterni dell'umana natura lanciò arguti motti ad
avari1482. chiacchieroni1483, permalosi1484; nè perdonò ai difetti

1473
Kharîda, da Ibn-Kattâ', nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 597. Una Kasîda è
indirizzata a Mo'tasim, sui quale si vegga il Dozy, Recherches sur l'histoire
d'Espagne, tomo I, p. 116.
1474
Si vegga sopra a p. 514, 516.
1475
Kharîda, da Ibn-Kattâ', nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 596.
1476
Si vegga a p. 511, in questo capitolo.
1477
Imâd-ed-dîn, Kharîda nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 589, loda i suoi
versi come "di buon gitto e intessuti con gusto." Si vegga anche Dsehebi,
Anbâ-en-nokâ, op. cit., p. 647. I versi si trovano nella Kharîda e somman quasi
a dugento.
1478
Si vegga la p. 494, in questo capitolo.
1479
Kharîda, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1375, fog. 24 verso, e altrove.
1480
Ibid., e 25 verso. Di cotesti barbuti, l'uno chiamavasi Gia'far-ibn-
Mohammed, e l'altro Hamdûn, nomi che non troviamo nelle memorie del
tempo. Del secondo ei diceva: "La barba d'Hamdûn, è una casacca che gli
serve a ripararsi dal gran freddo. O piuttosto, quand'ei vi s'asconde in mezzo, la
ti pare un mantello da letto addosso a una scimmia."
1481
Op. cit., fog. 24 recto, 26 recto ec. Ve n'ha non men che otto, un dei quali è
di lode. A fog. 26 verso, lode d'una ballerina.
1482
Kharîda, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1375, fog. 26 recto.
fisici1485: mise il dente ove potè a lacerare con rabbia, ed arrivò a
chiamare l'umanità razza di vipere e cani 1486. Ruzaik-ibn-Sahl, già
nominato, toccò l'argomento con più misura e men poesia, nei
soli versi che ci rimangon di lui1487.
Meritano i Kelbiti particolar menzione pria di continuare la
lista dei poeti minori, perchè s'e' non arricchirono gran fatto il
Parnaso siciliano, incoraggiarono e favorirono cui v'aspirasse.
Dell'emiro Ahmed (953-969) si ricordano due mediocri versi con
che si lagnava che in età avanzata nol curasser le donne: strana
querela in bocca a principe musulmano 1488. Cantò più lietamente
d'amore Abd-er-Rahman-ibn-Hasan, intitolato emiro per onor di
famiglia e Mostakhles-ed-dawla (L'eletto dell'impero) per oficio

"Andai a fargli visita per novellare, che alla sua borsa io non pensava per
ombra.
Ma suppose che venissi a chieder danaro, e fu lì lì per morir di paura."
1483
Kharîda, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 590:
"Con le parole ti avvicina ogni cosa; richiedilo, ed ecco ch'è lontano (cento
miglia).
"L'amico non faccia assegnamento su la sua promessa; il nemico non tema mai
la minaccia."
1484
Kharîda, MS. cit., fog. 29 recto:
"Gran pezza sopportai la mal indole di costui e dicea tra me: s'emenderà forse.
"Ma or che ha tolto moglie, alla larga! ho paura delle cornate."
1485
Ad un butterato di vaiolo, e a due di fiato puzzolente, op. cit., fog. e 27
recto e 28 recto.
1486
Op. cit., fog. 24 verso: "O tu che mi biasimi del fuggire gli uomini e viver
solitario,
"(Sappi), ch'io non so star con le vipere."
Ed a fog. 29 recto: "Quand'uom ti dice villania, lascialo andare, che Dio ti
aiuti! Abbaieresti forse contro il can che t'abbaia?"
1487
Kharîda, estratto d'Ibn-Kattâ', nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 592. Ecco
i versi che leggiamo nel MS., fog. 37 verso:
"Le indoli e costumi degli uomini, variano come le qualità d'acqua che tu
conosci.
"Qui la limpida e pura, e puoi gustarla un sol giorno; e qui la torbida e
puzzolente.
"Negli uomini il bene è pozzetta invernale che (la estate) si corrompe; il male
è pozzo ridondante e inesauribile."
1488
Dal Mesâlik-el-Absâr, estratto, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 154.
ch'avesse tenuto a corte fatemita in Egitto1489, Abu-Mohammed-
Kâsim-ibn-Nizâr, detto anche emir, contemporaneo di Ahmed,
poscia prefetto di polizia a Misr, ci attesta la puntigliosa superbia
di sua gente in faccia anco al principe1490. Improvvisava l'emiro
Giafa'r-ibn-Iûsuf qualche versuccio, e faceva ai poeti le carezze
dell'asino1491. L'altro Giafa'r soprannominato Thiket-ed-dawla,
figliuolo di Akhal, si scusava in rima delle promesse non
compiute per la malignità di sua fortuna1492. Del dotto e audace
Ammâr abbiam detto e de' suoi versi1493. Abu-Kasim-Abd-Allah-
ibn-Selmân di gente Kelbita, si vantava con mediocre poesia
d'amare e proteggere la virtù, esalava lamenti erotici, e attestava
l'epoca in cui visse, dicendosi circondato da nemici che facean le
viste d'ossequiarlo1494. Avanzò ogni altro Kelbita nel pregio dei
carmi un Gia'far-ibn-Taib, che carteggiavasi con Ibn-Kattâ',
n'ebbe lodi nell'Antologia siciliana e meritolle, come provano due
squarci di Kasîda e qualche altro verso petrarchesco1495. Caduta la

1489
Kharîda, estratto d'Ibn-Kattâ', nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 592. Sendo
messo da Ibn-Kattâ' immediatamente prima d'Abu-Mohammed-Kasîm-ibn-
Nizâr, sembra anche dei Kelbiti che sgombrarono di Sicilia con Ahmed, come
notammo nel cap. IV di questo Libro, p. 291.
1490
Kharîda, estratto d'Ibn-Kattâ', op. cit., p. 592. Nel MS. son questi versi:
"Se l'amico mi fa ingiuria, regalo alle sue ciglia un allontanamento,
"Vieto all'occhio mio di vederlo: mi sia cavato l'occhio se il guarda!
"Gli ficco negli occhi il suo proprio tratto come uno stecco;
"Lo pongo giù nell'infima abside, quand'anche ei sedesse su le due stelle
polari;
"La rompo con lui, foss'egli pure Ahmed-ibn-Abi-Hosein."
1491
Si veggano il cap. VII ed VIII di questo Libro, p. 334 e 349 del volume.
1492
Si vegga il cap. IX di questo Libro, p. 368, e la Kharîda, estratto d'Ibn-
Kattâ', nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 596. È chiamato emiro. Il titolo di
Thiket-ed-dawla, sarebbe lo stesso che avea portato l'avolo Iûsuf.
1493
Si vegga in questo capitolo la p. 481.
1494
Dal Mesâlik-el-Absâr, nella Bibl. Arabo-Sicula, p. 154, 155.
1495
Kharîda, estratto da Ibn-Kattâ', nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 598.
Ecco tre versi che troviamo nel MS. di Parigi, fog. 48 verso.
"M'ange un dolore ch'io ignorava: un padrone che tiranneggia me debole, ed io
pur gli servo.
"Una sua perfida parola mi fa bramar sempre chi promette e non attende.
dinastia, que' che se ne divisero le spoglie, ambiron pur ad onori
letterarii che noi non possiamo assentire: dico, il kaid Abu-
Mohammed-ibn-Omar-ibn-Menkût1496, e il kaid Abu-l-Fotûh
figlio del kaid Bodeir-Meklâti ciambellano, soprannominato
Sind-ed-dwala, d'umor niente allegro1497. Fe versi anco Ibn-Lûlû,
detto forse per errore principe di Sicilia 1498. Nè sdegnava l'arte un
prefetto di polizia di que' tempi, per nome Abu-Fadhl-Ahmed-
ibn-Ali, coreiscita1499; nei cadi Abu-Fadhl-Hasan-ibn-Ibrahim-
ibn-Sciâmi, della tribù di Kinana1500, Abu-Abd-Allah-
Mohammed-ibn-Kâsim-ibn-Zeid, della tribù di Lakhm1501, e
Ahmed-ibn-Kâsim già ricordato1502.
Perchè il verseggiare è facile quando non si badi alla poesia
del concetto, e l'aiuti un linguaggio classico che risuona sempre
agli orecchi, una certa educazione letteraria, qual ebbero in
quell'età tutti i Musulmani che non nascessero proprio dal volgo,
e l'uso generale vi sospinga, come avvenne nei tempi della nostra
Arcadia. Di quei che trattarono argomenti morali non spiccando
altrimenti per bellezze di forma, noteremo quel solo che possa
giovarne, cioè com'intendessero la filosofia pratica della vita: gli
uni a cantare il vino, le ballerine, i passatempi, che sono Abu-
Bekr-Mohammed-ibn-Ali-ibn-Abd-el-Gebbâr oriundo di Kamûna
"Oh Dio! accresci in me il desiderio dell'amor suo, e serba sempre nel mio
cuore gli affetti che lo struggono!"
1496
Kharîda, estratto d'Ibn-Kattâ', nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 506.
Questa famiglia tenne la signoria di Mazara; ma non sappiamo se Hasan fu di
quei che regnarono, nè se fu quel medesimo Ibn-Menkût, di cui abbiam detto
in questo capitolo, p. 504.
1497
Op. cit., p, 592. Si vegga il cap. XII di questo Libro, p. 421. I versi di
costui nella Kharîda, MS., fog. 37 recto, sono:
"Non v'ha letizia al mondo; il mondo è tutto angosce,
"Che se letizia appare, è poca e non durevole.
"La eletta degli uomini lascia il mondo; chè l'una e l'altro non possono stare
insieme."
1498
Si vegga il cap. XII di questo Libro, p. 427 del volume.
1499
Kharîda, estratto d'Ibn-Kattâ', nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 595.
1500
Ibid.
1501
Op. cit., p. 598.
1502
In questo cap., p. 489.
in Affrica1503, Abu-Ali-ibn-Hasan-ibn-Khâlid, il Segretario1504,
Abu-Abbâs-ibn-Mohammed-ibn-Kâf1505; gli altri austeri, fissati
nell'altra vita e spregianti quella che fruivano di presente, come
Abu-Hafs-Omar-ibn-Hasan-ibn-Setabrîk, devoto di grido1506,
Abu-l-Kârim-Ahmed-ibn-Ibrahim Waddâni1507, e i già ricordati
Abu-Ali-Ahmed-ibn-Mohammed-ibn-Kâf il Segretario1508, Ibn-
Mekki1509, Abd-er-Rahman-ibn-Abd-el-Ghâni1510, Atîk1511, il
Siracusano Ibn-Fehhâm1512, Ali-Waddâni1513. D'altri abbiamo
descrizioncelle, epigrammi sui quali poco o nulla è da notare.
Abu-Mohammed-Abd-el-Azîz-ibn-Hâkem-ibn-Omar, della tribù
iemenita di Me'âfir, dettò qualche verso sui corpi celesti 1514. bu-l-
Feth-Ahmed-ibn-Ali-Sciâmi è lodato dall'autore dell'Antologia
siciliana, il quale gli domandò alcuni versi per metterli nella
raccolta1515; Ruzaik-ibn-Abd-Allah fu perseguitato sì
ostinatamente dalla povertà, che una volta donatagli da gran
personaggio una borsa d'oro, tornando a casa tutto lieto, trovò che
un ladro gliel'avea svaligiata, e sfogò il dolore in rime1516. Il
Segretario Ibn-Kerkûdi è detto poeta di vaglia da Ibn-Kattâ'; ma
dai versi non me ne accorgo1517. Alla lista vanno aggiunti: Abu-
Hasan-Sikilli1518, Abd-el-Azîz-Bellanobi, fratello d'Ali1519, il

1503
Kharîda, p. 597.
1504
Op. cit., p. 592.
1505
Ibid.
1506
Op. cit., p. 597.
1507
Op. cit., p. 591.
1508
Op. cit., p. 592. Questi e il precedente sì segnalano per elegante gravità nei
pochi versi che ne abbiamo. Ahmed, come ognun vede, era fratello d'Abu-
Abbâs-ibn-Mohammed citato poc'anzi.
1509
Pag. 513.
1510
Pag. 477.
1511
Ibid.
1512
Pag. 474.
1513
Pag. 477.
1514
Kharîda, op. cit., p. 591.
1515
Kharîda, op. cit., p. 598.
1516
Op. cit., p. 597.
1517
Op. cit., p. 595.
Segretario Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-'Attâr1520, Abd-el-
Wehâb-ibn-Abd-Allah-ibn-Mobârek1521, Abu-Hasan-ibn-Abd-
Allah da Tripoli o Trapani1522, Abu-Mohammed-Abd-Allah-ibn-
Mekhlûf lo Scilinguato1523, e il Segretario Ibn-Sir'în1524, dei quali
ci rimangono pochissimi versi o nessuno. Ci sono occorsi
trattando d'altri studii, e abbiam detto del merito che loro
s'attribuisca in poesia, Kholûf da Barka1525, Ibn-Abd-el-Berr1526,
Gia'far-ibn-Kattâ'1527, Dami'a1528, Ja'kûb Roneidi1529, Ali-ibn-
Hasan-ibn-Habîb1530, Ibn-Sados1531, Taher-Rokbani1532, e il costui
figlio Ali1533, Othman-ibn-Ali da Siracusa1534, Ali-ibn-
Waddani1535, Abd-Allah-ibn-Mosîb1536, Ibn-Kereni1537, ed Abu-
Bekr-Mohammed1538.
Da quanto abbiamo esposto, si può conchiudere che la poesia
rifioriva in Sicilia, dopo tredici secoli; e se non agguagliò le
bellezze dei tempi di Teocrito e Stesicoro, produssene quella
specie che concedea il Parnaso di Arabia. A noi Italiani non solo,
1518
Potrebbe essere per avventura il Bellanobi o altro Abu-Hasan. Ne abbiamo
soli cinque versi, senza cenno biografico nella Enciclopedia di Nowairi, MS. di
Leyde 273, p. 747 e 749.
1519
Iakût, Mo'gem, estratto, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 108.
1520
Kharîda, estratto d'Ibn-Kattâ', nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 598.
1521
Ibid.
1522
Op. cit., p. 597.
1523
Ibid.
1524
Op. cit., p. 595.
1525
Pag. 476, 477, in questo cap.
1526
Pag. 504, in questo cap.
1527
P. 505, in questo cap.
1528
Pag. 512, in questo cap.
1529
Ibid.
1530
Ibid.
1531
Ibid.
1532
Pag. 511.
1533
Pag. 512.
1534
Pag. 476 e 511, in questo cap.
1535
Pag. 477, in questo cap.
1536
Pag. 412, in questo cap.
1537
Pag. 464, in questo cap.
1538
Pag. 478, in questo cap.
ma a tutti Europei nudriti alla scuola dei Greci, non può sembrar
lieto soggiorno nè la sala vaporosa d'Odîn nè la tenda de' Beduini,
dove si gareggia di metafore baldanzose, descrizioni sopra
descrizioni, antitesi1539 incessanti di pensieri e di vocaboli,
paralelli bizzarri e lambiccati, lingua ricercata o morta e sepolta,
gergo nomade che ormai mal si adattava alle idee delle colonie
musulmane d'Europa, ma il culto classico comandava adoperarlo.
E però ci offendono a prima vista tutti quegli orpelli e gemme di
vetro di che s'adornavano i poeti arabi di Sicilia, come ogni altro
di lor età e linguaggio: le pupille omicide, le palpebre taglienti
come spade, le guance di fuoco su cui spunti il mirto della barba,
o guance di rose, e vi fu anche chi disse di rubino, cui mordessero
gli scorpioni d'una negra chioma inanellata, i tralci di ben1540
sormontati di lune piene, che è a dire svelti giovani dal volto
fresco e splendente, i capelli bianchi che spandan tenebre; e
infinite secenterie di simil tempra, nelle quali si compiaceano gli
stessi Ibn-Hamdîs, Ibn-Tûbi, Abu-l-Arab, Ibn-Tazi, e il
Bellanobi. Ma poi va considerato che il genio diverso delle lingue
toglie nell'una a tal espressione figurata quel sapor aspro che
abbia nell'altra: il che si noterebbe tra le lingue d'unica famiglia
che parliamo in Europa, non che tra le indo-europee e le
semitiche. Scendendo più addentro, scopriremo sovente pensieri
semplici ed alti, linguaggio spontaneo d'affetti, verace colorito,
tratteggiare risoluto, grazie non contigiate; e diremo che quelle
brune muse arabiche se si abbigliassero a foggia nostra,
passerebbero per belle. Io chieggo che nel giudicare i poeti arabi
di Sicilia dagli squarci che ho mostrati e su le intere opere che
spero sian date un giorno all'Italia, si guardi al concetto della
mente piuttosto che alla forma in cui si manifestava; e che per la
forma s'accettino, com'è ragione, i giudizii dei critici arabi ch'ho
accennato a lor luogo. Forse quei biografi ed antologisti che ci
serbarono frammenti de' poeti arabi siciliani li defraudavano delle
nostre lodi più meritate, trascrivendo appunto i versi che noi
1539
Nell'originale "antitetisi". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
1540
Salix Ægyptiaca.
avremmo messi da banda, e tralasciando come scipiti quelli che
noi avremmo trascelto1541.
Vuolsi in fine far parola dei musici che soleano cantar sul liuto
i versi dei poeti: la quale usanza gli Arabi appresero dai Persiani,
i devoti musulmani la condannavano, e quando lor venia fatto
vietavanla, ma i grandi e' ricchi tosto richiamavano nelle brigate
musici, cantatrici e ballerine. Il gran diletto che ne prendessero i
Musulmani di Sicilia, è quanto se ne travagliassero si ritrae dalle
poesie, dove spesseggiano le descrizioni dell'arte che dissipava i
tristi pensieri e movea alla gioia; nè sdegnavano i poeti di lodare,
talvolta anco biasimare i musici: Ibn-Tazi fe ad uno l'epigramma:
"Ei canta e ti gitta addosso noia e malanni; ei tocca il liuto, affè
che gliel'avresti a spezzare su le spalle."1542 Le croniche degli
Abbadidi registrano con superstizioso terrore il caso del Musico
Siciliano, così il chiamano, condotto agli stipendi di Mo'tadhed. Il
quale sendosi fitto in capo (1068) che sovrastassegli la morte e la
ruina di sua casa, volle cavar augurio dai versi che a sorte gli
fossero recitati; fatto venire il Musico Siciliano e seder seco con
grandi onori e carezze, e richiestolo di cantare, venner detti al
Siciliano cinque versi, che incominciavano: "Consumiam le notti,
sapendo ch'esse ci debbono consumare;" ed appunto a capo di
cinque giorni il principe si morì1543.
Aggiugnendo i nomi rassegnati in questo capitolo a quei che
notammo nel capitolo XI del terzo Libro, si hanno (salvo il
raddoppiamento di qualche nome che non ci sia venuto fatto di
chiarire) a un di presso centoventi Musulmani di Sicilia e una

1541
Ciò si dee pensare a priori. Lo conferma il Diwân d'Ibn-Hamdîs, che
abbiamo intero, dal quale Imâd-ed-dîn, Ibn-Khallikân, Scehâb-ed-dîn-Omari,
scelsero qualche bello squarcio e parecchi mediocri e lasciarono i migliori,
quasi sempre a rovescio del gusto nostro.
1542
Kharîda, estratti d'Ibn-Kattâ', nel MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1375, fog.
27 verso, e altri epigrammi d'Ibn-Tazi dal fog. 24 recto; altro di Moscerif-ibn-
Râscid, a fog. 30 recto; e la descrizione d'una festa d'Ibn-Hamdîs, qui innanzi a
p. 531.
1543
Ibn-Abbâr, presso Dozy, Historia Abbadidarum, tomo II, p. 62, ed estratto
nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 329.
dozzina di stranieri dimoranti nell'isola, che segnalaronsi nelle
scienze e nelle lettere sino al fin della dominazione musulmana. Il
quale abbozzo, disteso la più parte senza conoscer le opere, su i
cenni solamente di autori arabi, è imperfetto di certo; pur
adombrerà la cultura della Sicilia in quei tempi, supposta anzichè
conosciuta quand'io mi accinsi a coteste ingrate ricerche.
Pervenuti che saremo, nel sesto Libro, ai letterati e scienziati che
rimasero fino ai tempi di Federigo, mi proverò a indagare la parte
che si debba attribuire ai Musulmani nel risorgimento degli studii
in Italia.

CAPITOLO XV.

Copiose abbiam visto le sorgenti della ricchezza; coltivati i


comodi sociali; svegliati ingegni vaghi di scienze e d'ogni
maniera di lettere; gli uomini ad uno ad uno non mentire al valor
del sangue arabico, greco nè italico, non ignorar arte nè stromento
di guerra che appartenesse a que' tempi. Costumi tra buoni e tristi:
da un lato, invidia, avarizia, abbominazioni di taluno, stravizi di
tal altro, ma l'universale condannarli; dall'altro lato, carità di
figliuoli, costanti amicizie, liberalità, alti e generosi spiriti, raggi
d'amore che balenavano fin entro le mura degli harem; talchè soli
vizii profondi della società musulmana di Sicilia compariscon
due: la violenza e il sospetto. Nè era menomata di certo la fede
musulmana in Sicilia, dove non prevalsero scuole scettiche, non
si udirono scismi, non sètte kharegite, nè fanatismo di casa d'Ali:
allegri giovani beveano, dilettavansi di canti e suoni e balli, e poi
se ne pentivano; più numero assai di devoti praticava e predicava
la rigorosa disciplina, la vita ascetica, e fin le follie sufite. Il qual
doppio egoismo dei gaudenti e degli asceti, inevitabil fatto in
certe religioni, va noverato tra i sintomi non tra le cause della tabe
che consumava la Sicilia, come ogni altra colonia arabica,
senz'eccettuarne veruna. Tabe nel vincolo dello stato; quando i
corpuscoli sociali non stanno insieme per amor di patria nè forza
di comando, ma ciascun fa per sè. Dicemmo già come l'impero
arabico nacque con tal germe d'immatura morte: per l'indole dei
conquistatori, l'imperfetta assimilazione dei popoli vinti,
l'immobilità delle leggi, la necessità e impotenza insieme del
dispotismo, i mercenarii stranieri, l'ordinamento aristocratico dei
giund, la confusa democrazia municipale, le consorterie per le
multe del sangue: anarchia generale sotto sembianza di assoluta
unità religiosa e politica. Indi s'era scisso il califato; i pezzi
s'erano rinfranti; gli sminuzzoli, nello undecimo secolo, si
trituravano; e pur la forza dissolvente non restava di commuovere
e rimescolare quegli atomi di polvere. La Sicilia, spartita tra la
gemâ di Palermo, Ibn-Hawwasci, Ibn-Meklâti, ed Ibn-Menkût,
perseverò nella discordia sino all'ultimo compimento del
conquisto normanno, sendo aggravato il vizio delle istituzioni
dalla diversità delle genti. A levante, popolazioni cristiane
soggette a nobiltà arabica; nel centro, le plebi di Siciliani
convertiti all'islam; a ponente, la cittadinanza delle grosse terre;
tramezzati in tutto questo rimasugli di Berberi di non so quante
immigrazioni, e rifuggiti arabi d'Affrica e di Spagna. Era proprio
la mano simboleggiata da Ibn-Hamdîs, la quale nell'ora del
pericolo non potè impugnare la spada.
Ai fomenti di discordia s'aggiugnea l'ambizione di Moezz-ibn-
Badîs e il subito danno che la distrusse, il contraccolpo del quale
si risenti necessariamente in Sicilia. Appunto alla metà
dell'undecimo secolo, passarono in quel ch'è oggi lo stato di
Tunis gli Arabi che desolarono e ripopolarono l'Affrica
settentrionale, ov'era assottigliata e snervata la schiatta dei primi
conquistatori. La causa della quale irruzione fu che Moezz,
disdetta l'autorità pontificale de' Fatemiti, avea gridato il nome
dei califi di Bagdad; onde il ministro Iazuri, che tenea la somma
delle cose al Cairo, non potendo ripigliare la provincia con le
armi, la volle inondare di masnadieri: indettò le tribù beduine di
Hilâl e Soleim, ospiti infestissimi dell'Alto Egitto; dispensò a
ciascuno un mantello e un dinâr d'oro; e scaraventolli a ponente
del Nilo (1051). Ed entro sei anni aveano compiuta l'opera;
sospinto Moezz all'estrema riva del mare, su li scogli di Mehdia
inespugnabili, dond'ei comandava molto dubbiamente a qualche
città della costiera mercè l'armata e gli schiavi assoldati1544. In
questa guerra gli Arabi saccheggiarono il Kairewân (novembre
1057}, i cui cittadini si rifuggivano chi nelle parti più occidentali
d'Affrica, chi in Spagna e chi in Sicilia1545. Precipitando per tal
modo le cose di Moezz, veggiam calare in Sicilia la fazione che
s'era affidata a lui nel principio della guerra civile, gli si era poi
volta contro (1040), e non mi sembra inverosimile che avesse
rannodato le pratiche, afforzata ch'essa fu a Castrogiovanni e
Girgenti con Ibn-Hawwasci.
Ma cacciato di Palermo Simsâm e poi spento, par che la
repubblica di Palermo ed altri grossi municipii venuti in sospetto
di quelle pratiche si collegassero con la parte dei nobili a danno
d'Ali-ibn-Hawwasci. Perchè allor si destava novella tempesta in
Sicilia1546; sorgeva improvvisamente capo di parte un
Mohammed-ibn-Ibrahim-ibn-Thimna, dei principali ottimati, se
leggiam bene un luogo d'Ibn-Khaldûn1547, certo non uscito di
1544
Si confrontino: Ibn-el-Athîr, MS. C, tomo V, anni 435, 442, 448, 453, 455;
Abulfeda, stessi anni; Baîan, testo, tomo I, p. 288 e segg.; Ibn-Khaldûn,
Histoire des Berbères, versione di M. De Slane, tomo I, p. 31 e seg., e II, p. 21;
Tigiani nel Journal Asiatique, d'agosto 1852, p. 84 a 96; Leone Africano,
presso Ramusio, Navigatione et Viaggi, vol. I, fog. 3 recto e verso, edizione di
Venezia 1563.
1545
Marrekosci, The history of the Almohades, testo arabico, pubblicato dal
professor Dozy, p. 259.
1546
Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 24, dice che la Sicilia
di nuovo «si commosse come le onde del mare.» Il Di Gregorio pensò
correggere il testo, e tradurre «et solemnis precatio pro eo fiebat in insula,»
accennando ad Ibn-Hawwasci. Ma il testo è chiaro e senza mende.
1547
Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 181 della versione di M. Des
Vergers. Quivi si legge "l'un des principaux chefs des habitants les plus
turbulents de la ville;" e la voce che ho messo in corsivo, sarebbe traduzione
plausibile dell'arabico awghâr, come M. Des Vergers corresse il testo
dell'unico e mediocre MS. ch'egli ebbe alle mani. Quivi si legge arghâd, che
significherebbe "uomini di viver lieto;" ma non si adatta alla parola
"caporioni" che precede. Ma un MS. di Tunis, ha la variante agwâd, "nobili"
sangue plebeo1548, insignoritosi di Siracusa, non si sa come nè
quando, nè se quella fosse sua patria. Ibn-Thimna, assalito Ibn-
Meklati, kâid di Catania, che avea sposata la Meimuna sorella
d'Ali-ibn-Hawwasci, lo debellò, gli tolse la vita, lo stato e la
donna; e, dopo i termini legali di vedovanza, chiese ed ottenne la
man di lei dal fratello. Donde è chiaro che il signor di
Castrogiovanni non ebbe poter d'aiutare il cognato confederato
suo di certo, nè di ricusar la sorella all'uccisore. Nel medesimo
tempo finisce ogni ricordo dei Beni-Menkût, signori della punta
occidentale dell'isola. La più parte dell'isola obbedì a Ibn-Thimna,
che osò prendere il medesimo titolo d'un califo di Bagdad1549
Kâdir-billah, o diremmo "Possente per grazia di Dio;" e in
Palermo si fece la Khotba per lui1550. È verosimile che la gemâ' gli
abbia dato nella capitale un'autorità di nome; bensì l'abbia aiutato
all'impresa di Catania e altre città marittime col navilio, il quale
non si armò mai altrove che in Palermo. Si ristorava così
un'apparente unità di comando di guerra, se mai la Sicilia fosse
assalita. Suppongo compiute queste vicende il millecinquantatrè
dell'era cristiana, quando Moezz era con l'acqua alla gola;
ritraendosi che il quattrocentoquarantacinque dell'egira (1053-4),
mandato da lui il navilio a ridurre Susa che gli s'era ribellata,
trovò in que' mari l'armata del Sâheb di Sicilia, e temendola ostile
diè di volta1551. La quale denominazione di Sâheb s'adatta a Ibn-
Thimna e non meno la nimistà contro casa zîrita.
Durò quanto potea la concordia tra i due capi di parti, l'uno
vittorioso, sciolto d'ogni timor di fuori, l'altro umiliato; rivolti

che io seguo nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 484. Le lezioni inoltre del MS. e
del testo di M. Des Vergers, darebbero voci arcaiche o neologie; la variante del
MS. di Tunis al contrario è di uso comunissimo, e con la voce precedente fa il
senso preciso "capi dei nobili."
1548
Si vegga il passo di Leone d'Ostia che citai nel cap. XII di questo Libro, p.
421 in nota.
1549
Questi regnò, o stette sul trono dal 991 al 1031.
1550
Ibn-Khaldûn e Nowairi.
1551
Tigiani, versione, op. cit., p. 109, e testo nella Biblioteca Arabo-Sicula, p.
377, 378.
entrambi ad avvantaggiarsi con la forza neutrale ch'erano i
municipii. Il parentado diè occasione a scoprir nuovamente la
nimistà. Meimuna, donna d'indole altera, pronto ingegno e lingua
troppo più pronta, solea bisticciarsi col marito; il quale forse non
l'amava nè ella lui, forse rinfacciava l'indole plebea alla figliuola
del Demagogo. Una sera Ibn-Thimna, acceso dal vino, ricomincia
i piati domestici, trascorre alle villanie; Meimuna gliene dà di
rimando; e il feroce ubbriaco, come se avesse letto i fasti di
Caligola o di Nerone, le fa segar le vene d'ambo le braccia. Ma un
figliuolo di lui per nome Ibrahim accorreva a tempo, chiamava i
medici, ed arrestavano il sangue; si che la dimane rientrato in sè
Ibn-Thimna, andò a scusarsi dei furori dell'ebbrezza, e Meimuna
fe sembiante di perdonarlo. Dopo onesto spazio di tempo, ella il
pregava le concedesse di rivedere i parenti; quegli, o non
sospettando non curandola, o ch'ei cercasse pretesto d'attaccare
briga con Ibn-Hawwasci, le diè licenza; mandolla con onorevole
scorta e ricchi presenti a Castrogiovanni. Contò allora il caso al
fratello; quei le giurò che mai non la rimanderebbe all'efferato
signore. Indi Ibn-Thimna a rivendicar i diritti di marito e di re, a
minacciare quel che tenea vassallo e plebeo: ma Ibn-Hawwasci
non si spuntò dal niego; ed entrambi apparecchiarono le armi.
Ibn-Thimna movea all'assedio di Castrogiovanni; l'altro gli
uscì all'incontro; lacerò a brani a brani l'esercito nemico, dicon gli
annali, e lo inseguì fin presso Catania con grandissima uccisione.
Se prima o dopo della sconfitta non si sa, la Sicilia tutta da
Catania, qualche altra città all'infuori, prestava obbedienza al
vincitore, anche Palermo. Indi si scorge che la cittadinanza della
capitale e delle città maggiori, la quale avea deciso altre fiate i
litigi tra le due parti, gittandosi or con l'una or con l'altra, compiè
quest'altra rivoluzione a favor d'Ibn-Hawwasci. E in vero,
dileguato il timore delle armi di Moezz, il capo dei gentiluomini
avea dovuto aggravar la mano su la cittadinanza al par che su la
parte siciliana, e provarsi a prender in quelle regioni dell'isola
l'autorità, della quale non godeva altro che il nome. Il terzo
partito dunque, com'or si chiama, lo messe giù al par di Akhal,
del figliuolo di Moezz e di Simsâm. Ibn-Thimna condotto agli
estremi, si ricordò che v'erano in Sicilia e in Calabria i Cristiani.
Pratiche s'erano cominciate al certo tra gli uni e gli altri fin
quando si videro sventolare da Messina su l'altra sponda dello
Stretto le gloriose bandiere normanne. Il signor musulmano si
cacciò, traditore a sua schiatta e religione, tra le sante trame di chi
volea scuotere il giogo: corse a Mileto offerendo la Sicilia al
conte Ruggiero, con la solita speranza ch'ei la conquistasse per
fargliene dono1552.

1552
Si confrontino: Ibn-el-Athîr, anno 484, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p.
275, 276 del testo; Abulfeda, Annales Moslemici, tomo III, p. 274 e seg., anno
484; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione di M. Des
Vergers, p. 181 e seg.; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 23
e seg.; Ibn-Abi-Dinâr, Storia d'Affrica, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p.
533; i quali con più o men particolari ripetono unica tradizione. Si veggano
anche Amato, l'Ystoire de li Normant, Lib. V, cap. 8; l'Anonymi Chronicon-
Siculum, presso Caruso, Bibliotheca Sicula, p. 836, e versione francese nello
stesso volume di Amato, p. 278; Malaterra, lib. II, cap. 3; e Leone d'Ostia, lib.
III, cap. 45: dei quali chi dice d'Ibn-Thimna cacciato di Palermo; chi del
cognato d'Ibn-Hawwasci ucciso da lui; e da lor soli si ritrae che Ibn-Hawwasci
fosse riconosciuto principe in Palermo. I nomi storpiati pur si ravvisano. Ibn-
Thimna, è scritto Bettumenus, Vulthuminus, Vultimino ec.; Ibn-Meklati,
Belcamedas, Bercanet, Benneclerus, e in una variante del Caruso, op. cit., p.
179, Benemeclerus; d'Ibn-Hawwasci si è fatto maggiore strazio, Belchaoth,
Belchus ec. Sempre della voce ibn rimane la b, vi s'aggiugne la l dell'articolo
che segue, ed è esatta anche la prima consonante del nome patronimico; il
resto si dilegua.
Debbo aggiugnere che Ibn-Giûzi, autor del XIII secolo, dà seriamente una
favola assurda che non cavò di certo dagli annali musulmani, ma da qualche
tradizione orale o raccolta d'aneddoti. Scrive che i Franchi conquistarono la
Sicilia il 463 (1070-71), chiamati da Ibn-Ba'ba', governatore dell'isola, per
paura del califo d'Egitto il quale gli domandava il tributo ed ei non potea
pagarlo. Si legge nel Merat-ez-Zemân, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 326.
SOMMARIO DEI CAPITOLI CONTENUTI NEL SECONDO
VOLUME1553.

LIBRO TERZO.

Capitolo I.

an. 827 - Società musulmana di Sicilia. - Emir di Pag. 1


900 provincia in dritto comune.
Secondo il fatto in Sicilia. 5
Amministrazione della giustizia. 7
Amministrazione civile. 8
Municipio ossia gemâ'. 9
Proprietà delle terre in dritto comune. 12
Tassa fondiaria. Kharâg. 18
Proprietà in Affrica. 21
E in Sicilia. 22
Stipendii militari. Giund. 25
Fei. Iktâ'. 27
Altre parti dell'azienda. 29
Schiatte in Sicilia. Arabi e Persiani. 31
Berberi. 35
Antagonismo d'Arabi e Berberi. 37
Tendenza della colonia a governo proprio. 40
Contrasto interiore delle due schiatte. 41
Come l'usa Ibrahim-ibn-Ahmed. 42

1553
La numerazione delle pagine si riferisce alla edizione cartacea di
riferimento. [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
Capitolo II.

875-901. Indole d'Ibrahim. 45


Esaltazione. Primordii del regno. 46
Opere pubbliche. Fuochi di segnale. 48
Fondazione di Rakkâda. 49
Tirannide, tumulti e stragi. 50
Orribili crudeltà. 54
Parricidio su mogli, fratelli, figli e 58
figliuole.

Capitolo III.

898. Rivoluzione spenta in Sicilia. 62


899. E ridesta. 63
900. Abu-Abbas figlio d'Ibrahim viene con 64
l'esercito.
» Combattimenti. Resa di Palermo. 66
901. Guerra sopra i Cristiani in Sicilia e in 69
Calabria.
902. Abdicazione d'Ibrahim. 75

Capitolo IV.

Ibrahim in Sicilia. 78
Prende Taormina d'assalto. 81
Stragi. Martirio di San Procopio. 83
Ridotte Demona, Mico, Aci e Rametta. 85
Deboli provvedimenti di Leone il Sapiente. 87
Ibrahim passa in Calabria. 89
Terrore e miracoli a Napoli. 90
Ibrahim muore all'assedio di Cosenza. 95
Capitolo V.

Secolo Scismi musulmani. 97


VII a IX.
Promosse le scienze. Scuole scettiche. 99
Sette misto. - Kharegiti. 102
Sciiti. 105
Influenza delle antiche sètte persiane. 108
Zindîk, Khorramii ec. 111
Origine degli Ismaeliani. 114
Karmati. 116
Ordinamento di setta ismaeliana. 118
893-900. Propaganda in Affrica. 120
Abu-Abd-Allah ed i Berberi di Kotama. 122
904. Pigliano le armi contro gli Aghlabiti. 123

Capitolo VI.

902. Riforme dell'Aghlabita Abu-Abbâs. 124


903. Ucciso per pratica del figlio. 126
» Bagno di Ziadet-Allah. 127
901-908. Vittorie dello Sciita. 128
909. Fuga di Ziadet-Allah. 129
» Occupato il regno degli Sciiti. 131
» Obeid-Allah detto il Mehdi supposto 132
discendente d'Ali e Fatima
» Imprigionato a Segelmessa. 133
910. Fondazione del califato Fatemita. 135
910-920. Ordinamenti e misfatti del nuovo principe. 137
915-920. Fabbrica la città di Mehdia. 139

Capitolo VII.
902-910. Emir che succedonsi in Palermo. 140
910. Ibn-Abi-Khinzir mandato dal Mehdi. 142
912. Cacciato dal popolo. 144
» Potenza della nobiltà. 145
913. Nuova rivoluzione. Il popolo elegge emir 147
Ibn-Korhob.
» Guerra ai Cristiani. 148
914. Investitura degli Abbassidi1554. 149
» Victoria navale in Affrica. 150
915-916. Naufragio e sconfitta. 151
» Trattato coi Bizantini. 153
» Controrivoluzione. 154
916. Supplizio d'Ibn-Korhob. 156
917. Assedio e dedizione di Palermo. 157

Capitolo VIII.

882-915. Colonia dal Garigliano. 160


» Sue scorrerie. 162
» Difese di Giovanni X. 165
913. Lega contro quei Musulmani. 166
916. Distrutta la colonia. ivi
918. Condizione della Puglia e Calabria. 168
» Slavi a' soldi dei Fatemiti. ivi
918-925. Fazioni di Reggio ed Oria. 170
» Trattato dei Fatemiti coi Bizantini. 175
826-929. Scorrerie degli Schiavoni e Siciliani in 176
Terraferma.
934-935. Affricani a Genova. 179

Capitolo IX.
1554
Nell'originale "Abassidi". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
917-937. Salem emiro con scemata autorità. 184
934-936. Inondazione. Vento infocato. 184
937. Rivoluzione di Girgenti. 185
» E di Palermo. 187
» Khalîl-ibn-Ishak. 188
» Edifica la Khalesa. 189
938. Muove contro Girgenti. 191
» Stragi e fame in val di Mazara. 192
940. I Girgentini s'arrendono. 195
944. Vanti di Khalîl in Affrica e sua morte. 196

Capitolo X.

» Rivoluzione dei Nekkariti in Affrica. Abu- 197


Iezid.
» Boscera il Siciliano. 199
945. Assedio di Mehdia. 200
» Morte d'Abu-Iezid. 201
947. Carestia, bargelli ed esattori in Sicilia. 203
» Tumulto in Palermo. 204
948. Hasan primo emir kelbita. 207
» Prende lo stato in Palermo. 208
» E spegne a tradimento i capi della nobiltà. 210

Capitolo XI.

895-948. Condizione dei Cristiani in Valdemone o 212


Val di Noto.
» Popolazione del Val di Mazara. 216
895-948. Principii di cultura intellettuale. 218
951. Novella versione di Dioscoride. ivi
» Giuristi e libri malekiti. 220
» Il cadi Meimûn in Palermo. 222
» Altri giuristi. Ibn-Khorassân filologo. 224
» Raccontatori di biografie. 225
» Meno coltivati gli altri studii. 226
» Siciliani che si segnalarono fuori. 228
» Devoti e superstizioni. 229

LIBRO QUARTO.

Capitolo I.

948. Casa kelbita dei Beni-Abi-Hosein. 233


» Hasan non ebbe nuovo titolo nè autorità, se 234
non che di emîr generale, come quei del
nono secolo.
969. L'emirato di Sicilia divien di fatto 238
ereditario e independente.

Capitolo II.

950. Guerra di Hasan in Calabria. 242


952. Moschea a Reggio. Patti. 248
953. Confermato Hasan con sostituzione del 249
figliuolo Ahmed.
955. Fazione di Hasan in Spagna. ivi
956-960. Nuova guerra coi Bizantini. 250

Capitolo III.

961. Hasan e Ahmed coi nobili siciliani a corte 254


del calife Moezz.
» Disegni contro i Cristiani di Val Demone. 255
962. Feste di circoncisione in Sicilia. 256
» Presa Taormina. 257
965. Rametta sola resiste. 259
» Niceforo Foca le manda in aiuto Manuele e 260
Niceta.
964. Sbarco e fazioni dei Bizantini. 263
» Battaglia di Rametta. 264
» Morte di Hasan. 269
965. Espugnazione di Rametta. 270
» Vittoria navale dei Musulmani. 274

Capitolo IV.

967. Ristorazione di città e ordinamento degli 274


iklîm.
» Pace tra Moezz e i Bizantini. 278
» Niccolò ambasciatore greco. 279
968. Indole e arti di regno di Moezz. 281
» Giawher liberto siciliano. 282
» Reca le armi di Moezz fino all'Atlantico. 283
969. E gli conquista l'Egitto. 284
970-974. Conseguenze in Oriente. 286
972. Moezz muta la sede in Egitto. 287
» Lascia un luogotenente in Affrica, senza 288
autorità su la Sicilia.

Capitolo V.

969. I Kelbiti richiamati in Affrica. 290


» Rivoluzione in Sicilia. ivi
970. Moezz cede e manda emiro Abu-l-Kâsem- 293
Ali, kelbita.
972. Il viaggiatore Ibn-Haukal. 294
» Descrizione di Palermo. 296
» Numero approssimativo degli abitatori. 304
» Costumi e usanze. 306
» Riflessioni d'Ibn-Haukal su i Musulmani di 309
Spagna e della isole.

Capitolo VI.

968-970. Otone I nell'Italia meridionale. 310


» Lega dei Fatemiti coi Bizantini. 312
975. Spezzata. 313
976. Guerra d'Abu-l-Kâsim in Calabria. 314
977. Arse Taranto, Oria e Bovino. 315
903-950. San Nilo da Rossano. 317
951. Assalto del Monastero di S. Mercurio. 319
977. Frati presi a Rossano. ivi
» Lettera di San Nilo ad Abu-l-Kâsem. 320
984. Otone II muove contro i Bizantini e i 321
Musulmani.
982. Viene a Taranto e Rossano. 322
» Sconfitto a Stilo. Vittoria e morte d'Abu-l- 324
Kâsem.
» Fuga d'Otone. 325
» Ritirata dell'esercito siciliano. 329

Capitolo VII.

982-983. Emiri. Giâber; Gia'far. 330


985-989. Abd-Allah; e Iûsuf. 331
990-997. Potenza dei Kelbiti in Egitto. ivi
990-998. Ottimo governo di Iûsuf. 332
» Il poeta Ibn-Moweddib a corte di Palermo. 333
» E Mohammed-ibn-'Abdûn. 334
» Poema di Abd-Allah-Tonukhi a lode di 335
Iûsuf e del figliuolo.
» Fama cavalleresca della corte. 337
983-998. I Bizantini occupan la Puglia e la Calabria. 338
986- Assalti dei Siciliani in quelle province. 339
1005.
1004. Assedio di Bari. 341
1005- Altre fazioni. ivi
1011.
1016. I Normanni a Salerno. 343
1020- I Siciliani assaltano tuttavia la Puglia e la 345
1031. Calabria.
» Altre fazioni loro supposte da nomi 346
geografici.

Capitolo VIII.

998. Gia'far-ibn-Iûsuf, emiro. 348


1015. Ribellione e supplizio del fratello Ali. 350
» Nuovo ordinamento dell'esercito. 351
» Gravezze. 352
1019. Rivoluzione in Palermo. 353
» Cacciato Gia'far e surrogatogli il fratello 354
Akhal.
975-998. Dominazione degli Zîriti in Affrica. 355
999. Iânis il Siciliano. 356
» Condizione dei Berberi nell'Affrica 357
propria.
1001- Calamità ed emigrazioni d'Affrica in 358
1023. Sicilia.
1016. Moezz-ibn-Badîs lo Zîrita. 359
» Persecuzione degli Sciiti. ivi
1019. Rifuggiti in Sicilia. 361
1019- Industria e ricchezza dell'Affrica propria. 362
1052.
1023. Armamenti di Moezz. 363

Capitolo IX.

1025. Primordii d'Akbal in Sicilia. 364


» Esercito bizantino in Calabria. 365
1026. Naufragio degli Affricani. 366
1031- Scorrerie navali dei Siciliani ed Affricani 367
1035. in Grecia.
» Akbal favorisce in Sicilia la parte che si 368
chiamò degli Affricani contro la parte dei
Siciliani.
» Schiatte e condizioni delle due parti. 369
» I nobili. 372
» La cittadinanza. 373
» Intenti e modi di Akhal. 374
» Si sottomette ai Bizantini. 376
1035- I Siciliani chiamano Moezz. Guerra civile. 377
1037.
1038. Ucciso Akhal, Moezz resta padrone 378
dall'isola.

Capitolo X.

» Impresa di Maniace. 379


» Racconti dei mercenarii Scandinavi o 380
Varangi.
» Vittorie di Maniace. 381
1038- Assedio di Siracusa. 384
1039.
1040. Battaglia di Traina. 387
» Rivolta di Ardoino coi Normanni. 389
» Maniace e l'ammiraglio Stefano. 390
» Maniace si afforza in Sicilia. 391
1041. È scambiato e catturato. 392
1042. Difesa di Catacalone a Messina. 393
1043. Ribellione e morte di Maniace. 394

Capitolo XI.

1043- Condizione dei Cristiani di Sicilia. 395


1061.
» La più parte dsimmi. 397
» Di schiatta greca e italica. 398
» Studii e industria loro. 399
» Il clero. 401
» I frati. 403
» Poco zelo religioso. 404
948- San Vitale da Castronovo. 406
1061.
950-994. San Luca da Demona. 408
1020- San Filareto. 410
1070.
964- San Simeone da Siracusa. 412
1031.
827- Il Cristianesimo non mancò giammai in 414
1061. Sicilia.
» Due tradizioni rigettate. 415

Capitolo XII.

1040. Difetto di notizie storiche. 417


» Condizioni d'Abd-Allah-ibn-Moezz in 418
Sicilia.
» È cacciato e fatto emiro Simsâm-ed-dawla. 419
1040- Sorgono i regoli Ibn-Menkût, Ibn- 420
1052. Hawwasci, Ib-Meklâti, e Palermo si regge
a repubblica.
» Riforma sociale a Malta. 422
» Come cadde la dinastia kelbita. 423
» Parti. 424
» Intenti politici dei Palermitani. 426

Capitolo XIII.

XI Secolo. Prosperità materiale e lettere. 428


» Notizie geografiche d'Abu-Ali e d'Ibn- ivi
Kattâ' su la Sicilia.
» Numero delle città, rôcche e villaggi. 430
» Nomi. 431
» Distribuzione delle schiatte. 434
» Cenni su alcune città. 436
» Descrizioni dell'Etna ad eruzioni. 438
» Prodotti minerali dell'isola. 441
» Acque e boschi. 443
» Agricoltura. 444
» Pastorizia. 446
» Pratiche agrarie dei Siciliani. ivi
» Manifatture. 448
» Commercio. 449
» Architettura. 450
» Iscrizioni e calligrafia. 452
» Monete. 456
» Tari d'oro di Sicilia imitati a Napoli, 458
Salerno e Amalfi.

Capitolo XIV.
XI Secolo. Studii degli Arabi. Prevalgono le 460
scienze coraniche e le lettere.
» Fonti di storia letteraria. 462
» Astronomi e matematici siciliani. 463
» Lavori di geografia matematica. 464
» Misure itinerarie della Sicilia. 466
» Scrittori di medicina. Abu-Sa'id-ibn- 467
Ibrahim.
» Lo sceriffo Ahmed. 470
» Altri medici. 471
Verso il Studii filosofici. Sa'id-ibn-Fethûn da 472
1000. Cordova.
» Lettura del Corano. ivi
1062 - 1122. Ibn-Fehhâm. 474
m. 1063. Abu-Tâher-Isma'il. 475
Verso il Ibn-Omar e Ibn-Haiun. 476
1100.
» Altri lettori del Corano. 477
» La Tradizione di Maometto. 479
Verso l'842. Tradizionisti: il Kalawri. ivi
Verso il 900. Abu-Bekr-Temimi. 480
Verso il Ammâr principe Kelbita ed altri 481
1030. tradizionisti.
m. 1141. Mazari giurista, tradizionista, teologo e 482
medico.
m. 1059. Studii legali. Ibn-Iûnis detto il 486
Siciliano.
Verso il Abd-el-Hakk. 487
1030.
» Altri scrittori e professori di dritto. 488
m. 1072. Sementari, giurista e ascetico. 490
Verso il Ibn-Hamsa. 491
1040.
» Setta dei Sufiti. 492
X e XI Sufiti Siciliani. 493
Secolo.
» Altri ascetici e teologi. 494
» Opera di teologia d'Abd-er-Rahman- 495
Sikilli.
» Lettere. ivi
» Varii filologi e grammatici siciliani o ivi
venuti in Sicilia.
1033 - 1118. Kattâni. 498
1000 - 1070. Ibn-Rescîk. 499
» Falsa etimologia della voce Sicilia. 504
Verso il Ibn-Abd-el-Berr. ivi
1030.
» Gia'far-ibn-Kattâ'. 505
1041 - 1121. Ali suo figliuolo. ivi
» Opere d'Ali-ibn-Kattâ'. 507
» Altri filologi. 511
Verso il Ibn-Mekki giurista ed oratore. 513
1070.
» Prosatori. Hascem-ibn-Iûnis. 514
» Altri prosatori. I Segretarii. 515
X e XI Storia. Cronica di Cambridge; Abu-Ali, 516
secolo. e pochi altri.
» Poesia arabica in questo tempo. 517
Verso il Poeti eroici, ossia di Kasîde; Ibn-Tûbi. ivi
1030.
Verso il Ibn-Sebbâgh. 519
1040.
1061. Ibn-Biscir, Billanobi ed altri rifuggiti in 520
Egitto.
» Comunicazioni con la Spagna. 523
1032-1111. Abu-l-Arab. 524
1056-1133. Ibn-Hamdîs. 525
» Sua descrizione della vita dei giovani 530
nobili.
» Vanti guerrieri. 532
» Carità patria e giudizio severo su la 534
Sicilia.
» Altri poeti di Kasîde. 535
Verso il Satirici. Ibn-Tazi. 536
1050.
» E Ruzaik. 537
953-1100 Poeti di casa kelbita. ivi
» Altri principi e magistrati. 539
X e XI Poeti su argomenti morali. 540
Secolo.
» E molti altri. 541
» Come vadano giudicati i poeti arabi in 542
Sicilia.
» I musici. 544
IX e X Epilogo su gli studii dei Musulmani di 545
secolo. Sicilia fino al conquisto.

Capitolo XV.

1053-1060. Condizioni e costumi pubblici e 545


cagioni della decadenza.
1051-1057. Grande avvenimento da Affrica. 547
» Ibn-Thimna signor di Siracusa occupa 548
Catania ed è riconosciuto principe di
tutta l'isola.
1053-1054. Armata siciliana a Susa. 550
1054-1060. Meimuna moglie d'Ibn-Thimna si ivi
rifugge appo il fratello.
» Guerra tra Ibn-Thimna e Ibn-Hawwasci 551
signor di Castrogiovanni.
» Ibn-Thimna sconfitto chiama i ivi
Normanni.
FINE DEL SECONDO VOLUME.
AVVERTENZA DELL'AUTORE.

In corso di stampa del presente volume, si son pubblicati i testi


nella Biblioteca Arabo-Sicula. Mi è parso dunque, nel IV libro, di
citare la Biblioteca anzichè i MSS.; e così farò nei libri V e VI.
Per comodo dei lettori, le pagine di quei testi saranno notate nella
versione, quando m'avverrà di darla alla luce.
Pongo qui in fine qualche correzione d'error di stampa ed
alcune aggiunte1555.

Parigi, gennaio 1858.

Pa Lin.
g.
10. 1. Aghlabiti;[1] del Aghlabiti;[1] di tutte le città
califato d'Affrica nei primordii della
dinastia fatemita (a); del califato
(a) Il Mehdi usava far leggere i
suoi rescritti e avvisi di vittorie
nella gemâ' di ciascuna città.
Baiân, testo, tomo I, anni 296 a
300.
36. 11. e versione, p. e versione, p. 128. Si vegga
128. anche Edrisi, versione di M.
Jaubert, tomo I, p. 275. Il
Merâsid, di Iakût, edizione di
Leyde, tomo III, p. 159, nota una
fortezza Minsciâr presso
l'Eufrate.
37. 18. origine latina. origine latina.
1555
Le aggiunte sono già state inserite nel testo. Nota per l'edizione elettronica
Manuzio
XIII. Mesisino, nel feudo del
Landro (val di Mazara), citato da
Villabianca, Sicilia nobile, tomo
II, p. 345. Meziza era nome di
tribù berbera, secondo Ibn-
Kaldûn, Histoire des Berbères,
tomo I, p. 241 della versione, e I,
153 del testo.
59. 13. (903) (902)
75. lin. precedente, p. 58. precedente, p. 58. Debbo
ult. avvertire che secondo una
variante proposta dal prof.
Fleischer nel testo di Nowairi,
invece di "malattia biliosa" si
dovrebbe tradurre "gli si fece
incontro con vestimenta negre."
Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p.
451, e Introduzione, p. 63. Ma
non n'è certo quel dotto
orientalista; nè io.
92. 32. agosto. Col agosto e in novembre. Col
169 31. epist. 75. epist. 75. Altri divieti simili ai
. Veneziani nell'887 e 960 sono
notati dal Muratori, Annali
d'Italia, 960.
178 28. ribâ'i robâ'i
.
214 21. tratto e si dilegua tratto alla
. alla
238 6. Perchè Moezzia Perchè Moezzia non fosse una
. non fosse una bicocca, si lasciò al certo la
bicocca da popolazione agricola nel
schiavi o da contado, e la gente minuta,
liberti fu lasciata mercatanti o artefici, nella città,
al certo la da schiavi o da liberti.
popolazione
agricola nel
contado, e la
gente minuta,
mercatanti o
artefici, nella
città.
263 22. togliere tagliare
.
276 19. a kharâg e kharâg
.
302 2. cristiana. Nè cristiana; e la medesima
. tradizione riferita da Bekri dà,
invece d'Aristotile, il nome di
Galeno, che da Roma andasse a
trovare i Cristiani in Siria, e
fosse morto, in viaggio, in
Sicilia(a). Né
(a) Ibn-Scebbât, nella Biblioteca
Arabo-Sicula, testo, p. 210.
323 4. e quei o quei
.
334 30. Rebâ'i Robâ'i
.
» 31. par che valesse valeva
378 13. Maniace Maniace[4]
.
» 26. da Sicilia in Sicilia
382 26. Si 1 Si
.
417 lin. Abn-Ali Abu-Ali
. ult.
434 15. ain ain,
.
» le note 2 3 4 s'invertano così: 3 4 2
445 13. Si 1 Si
.
459 4. franca franco
.
460 19. rebâ'i robâ'i
.

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