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Danilo Ceccarelli Morolli

Il Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium


e l’Ecumenismo
Aspetti Ecumenici della Legislazione Canonica Orientale

ORIENTE CRISTIANO
Quaderni di “Oriente Cristiano”
Studi 9
Danilo Ceccarelli Morolli

Il Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium


e l’Ecumenismo
Aspetti Ecumenici della Legislazione Canonica Orientale

ORIENTE CRISTIANO 1-2/1997


Palermo 1998
A S. A. I. R. Sigismondo d’Asburgo-Lorena,
Capo della Casa Granducale di Toscana,
Gran Maestro del S. M. Ordine di S. Stefano

L’Autore
PRESENTAZIONE

La pubblicazione di questa opera giuridico-canonica orientale è giusti-


ficata da diversi dati significativi che sono: (a) il dettato del Concilio
Vaticano II, OE 24, circa «lo speciale ufficio delle Chiese orientali in
comunione con la Sede Apostolica di promuovere l’unità di tutti i cristiani,
specialmente orientali»; (b) tra i principi direttivi per la codificazione
canonica orientale si sotto-lineava il carattere ecumenico che avrebbe
dovuto ispirare il Codice; a questo proposito l’opera risponde a tale
prospettiva; (c) la lunga Nota del Pontificio Consiglio per l’Unità dei
Cristiani, del 1986, in seguito ad una riunione Plenaria, circa gli aspetti
ecumenici del nuovo Codice latino, promulgato nel 1983; (d) i due titoli,
XVII e XVIII del CCEO, trattanti questioni attinenti all’Ecumenismo; (e) la
pubblicazione del nuovo Direttorio per l’applicazione dei principi e delle
norme canoniche sull’ecumenismo, emanato dal Pontificio Consiglio per la
promozione dell’unità dei Cristiani, il 25 marzo 1993.
Tutto questo materiale giustificava dunque uno studio sistematico circa
le ampie tematiche ecumeniche presenti nella nuova codificazione orientale,
raggruppate complessivamente in quasi cinquanta canoni del CCEO.
La presente opera è uno studio rigorosamente giuridico. L’autore, at-
tualmente professore al Pontificio Istituto Orientale, non si limita a com-
mentare i canoni ma espone l’iter storico e la ratio legis della normativa, il
lungo dibattito nella Commissione per la Revisione del Codice di Diritto
Canonico Orientale e la laboriosa opera redazionale dei vari schemi dei ca-
noni, prima di giungere alla stesura definitiva dei medesimi. Lo studio segue
il metodo di un’analisi critica. Ciò permette al lettore di avere una completa
visione ed interpretazione della materia trattata, materia così delicata da non
permettere sentimentalismi e falso irenismo.
Nell’esporre, inoltre, le varie tematiche del suo oggetto, l’autore, perfet-
to conoscitore della lingua latina, ha preferito riportare i canoni nella lingua
originale latina, per maggiore fedeltà, nel suo commento, alla lettera e allo
spirito del legislatore.
Questa monografia rappresenta il primo studio sistematico che viene
pubblicato su tale materia e costituisce un validissimo contributo alla scien-
za canonica orientale ed al movimento ecumenico.
5
L’opera, dunque, di indole prevalentemente giuridica – perciò elaborata
da uno studioso di diritto canonico orientale –, presenta anche riferimenti
alla teologia cattolica ed ai principi di ecumenismo nella dottrina e discipli-
na conciliare e post-conciliare della Chiesa cattolica.
Degni di ogni lode sia l’autore che la rivista ecumenica «Oriente Cristia-
no» che ha voluto ospitare, in un apposito numero monografico, la pubbli-
cazione di questa opera.

Roma, 6 Gennaio 1998,


Festa dell’Epifania

Dimitrios Salachas
Prof. di Diritto Canonico Orientale
Membro della Commissione mista internazionale
per il dialogo cattolico-ortodosso

6
INTRODUZIONE

L’oggetto del presente studio è di indagare gli aspetti ecumenici pre-


senti nella vigente legislazione canonica comune a tutte le Chiese cattoli-
che orientali.
La scelta di questo tema è stata dettata da vari fattori. Primo fra tutti il
fatto che CCEO racchiude numerosi aspetti o “implicanze” ecumeniche che
lo rendono all’avanguardia. Inoltre, non secondario, vi è il motivo che l’ecu-
menismo appare oggi una delle tematiche più dibattute e più importanti al-
l’interno di tutte le confessioni cristiane, in particolar modo per il cattolice-
simo, che grazie all’infaticabile pontificato di Giovanni Paolo II ha veduto
copiosi frutti del dialogo ecumenico.
Dunque l’ecumenismo si presenta come una delle grandi tematiche del
nostro secolo e come un nuovo e caratteristico elemento della cultura catto-
lica che, a partire dal Concilio Vaticano II in poi, ha fatto breccia nella men-
talità, nella ecclesiologia ed ora anche nel diritto canonico. Del resto, la le-
gislazione canonica non poteva rimanere indenne dal fenomeno e tantomeno
non recepire i dettami del Concilio.
L’ambito di tale ricerca è stato volutamente ristretto al CCEO e ciò poi-
ché questo codice – che ha avuto così tanti anni di gestazione – è senza dub-
bio lo sforzo legislativo più complesso (dopo il CIC del 1917) attuato dalla
Chiesa Cattolica nel nostro secolo, dal momento che esso costituisce uno ius
commune per tutte le ventuno Chiese Orientali Cattoliche. Pertanto, questo
studio non intende essere un approfondimento teologico in materia ecume-
nica, bensì desidera essere un approfondimento giuridico, un approccio
canonistico alle tematiche ecumeniche presenti nel CCEO, quindi una
trattazione canonica del “materiale ecumenico” presente nella vigente
legislazione canonica orientale nella quale abbiamo voluto tenere conto
anche del Nuovo Direttorio per l’Applicazione dei principi e delle norme
sull’ecumenismo (25 marzo 1993), essendo oltre che un direttorio anche un
autorevole commento ai canoni del CCEO.
Pur essendo questo studio incentrato sulle norme del CCEO, si è fatto
quasi sempre riferimento – in chiave comparativistica – alla legislazione del
CIC al fine di evidenziare le differenze o le somiglianze tra i due codici. Del
resto, l’analisi comparativistica è stata auspicata in prima persona dal Ro-

7
mano Pontefice Giovanni Paolo II («Discorso del S. Padre alla presenta-
zione del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali alla XXVIII Congrega-
zione del Sinodo dei Vescovi del 25 ottobre 1990», in Nuntia 31, 1990,
20). Essendo la lingua latina, lingua ufficiale della Chiesa Cattolica si è pre-
ferito riportare i canoni in latino; inoltre si è fatto ciò anche al fine di evi-
denziare i cambiamenti subiti dai canoni nell’iter del processo di codifi-
cazione canonica orientale*.

A conclusione di queste brevi parole introduttive ci sia concesso di rin-


graziare vivamente il Rev. P. Professor Dimitrios Salachas per i suoi prezio-
si consigli e suggerimenti nonché il Diacono Paolo Gionfriddo, direttore di
Oriente Cristiano, per la stima dimostratami.

Danilo Ceccarelli Morolli

*
Con la sottolineatura dei canoni si intendono evidenziare le modifiche testuali avvenute
in fase redazionale dei medesimi.

8
ALCUNE NOTE INTRODUTTIVE

§1. Breve excursus storico sul movimento ecumenico


Tutti i manuali e quasi tutti i testi di ecumenismo, almeno quelli di ca-
rattere introduttivo, principiano col definire o con lo spiegare cosa significhi
la parola “ecumenismo” ed “ecumene”. Pertanto ci sembra opportuno inizia-
re ad introdurre il lettore alla materia tramite un breve excursus storico. Da
un punto di vista filologico1, il vocabolo “ecumene” deriva dal termine gre-
co o„koumšnh a sua volta derivato dal verbo o„kšw, da cui l’aggettivo
o„koumšnikoj2. Il termine o„koumšnh sottintendendo la parola gÁ (= terra)
significava “la terra abitata” e DEMOSTENE usava tale vocabolo per intende-
re “il mondo”, “la terra greca”; per gli antichi Greci “ecumene” significava
dunque il mondo abitato, cioè il cosìdetto “mondo civile”. Solo successiva-
mente, in contesto neo-testamentario, il nostro termine prese il valore se-
mantico lato di “universo”. Nel momento in cui la Chiesa iniziò ad inserirsi
in seno all’Im-pero Romano, e successivamente, con la cristianizzazione del
medesimo cul-minata con l’editto teodosiano, “ecumenico” assurse a signi-
ficato di “appar-tenente alla Chiesa”. Pertanto il nostro vocabolo è passato
da una sfera semantica geografico–politica, comunque socio–culturale, ad
un ambito prettamente religioso. Oggi, comunemente, “ecumenico” signifi-
ca : «(...) Ciò che riunisce o riguarda tutti i cristiani e tutte le Chiese»3.
***
Si potrebbe asserire che la storia del cristianesimo sia la storia
dell’unità più volte spezzata: la crisi ariana, il nestorianesimo, il monofisi-
mo, la rottura con Costantinopoli, la Riforma luterana, rappresentano tutti i
“momenti critici” del “sistema Chiesa” in contesto storico–religioso. Tutta-
via, dobbiamo osservare che i protagonisti delle scissioni, avvenute nel cor-
so dei due millenni di storia cristiana, si resero quasi sempre conto del dan-
no che tali divisioni provocavano o avrebbero provocato all’ecumene. Per-

1
In merito ved. W LÖSER, Ökumenismus, in Lexicon der Katholischen Dogmatic, Freiburg-Basel-
Wien 1988, 396-399; K. RAISER, Oikoumene, in Dictionary of Ecumenical Moviment, Genève
1991, 741-742; T. F. STRANSKY, Ecumenism, in The Encyclopedia of Catholicism, San Francisco
1995, 457-458.
2
L. ROCCI, Vocabolario Greco–Italiano, Milano 19527, 1312. Inoltre per uno studio storico e filolo-
gico della parola “ecumene” ved.: F. GISINGER, Oikumene, in PAULYS–WISSOWA, Real-
Encyclopädie der classischen Altertumswissenschft, t. XVII/2, 2123–2174, praesertim col. 2160 ss.;
voce o„koumenikÕj, ¾, Õn in Thesaurus Graecae Linguae, V, 1798 s. (Parisii 1842–’46).
3
J. E. DESSEAUX, Lessico Ecumenico, Brescia 1986, 42.
9
tanto, quasi paradossalmente, accanto alle spinte centrifughe – le scissioni –
vi furono anche delle forze centripete, cioè i tentativi di unione; purtroppo,
assai spesso, tali tentativi risultarono o effimeri oppure inefficaci. Così, ad
esempio, il Concilio di Firenze (1439–1443) fu un “successo nel fallimen-
to”: l’unione con i Bizan-tini fu realizzata, ma solo per un momento, infatti
ritornata in patria la delegazione greca lo scisma continuò. Anche se nel
corso dei secoli non mancarono dunque tentativi – anche se settoriali e par-
ticolari – di ricomposizione della perduta unità cristiana, l’ecumene è rima-
sta divisa (e purtroppo lo è ancora). A tale problema pensarono anche uomi-
ni illustri, il cui ingegno fu rivolto a ciò, personaggi come: Calixt (nel XVII
sec.), Zinzendorff (nel XVIII sec.) e poi Möhler (nel XIX sec.) sentendo il
problema della divisione si cimentarono per darne una soluzione.
Tuttavia fu solo a partire dalla metà del secolo scorso e poi durante il
nostro secolo che prese vita e si sviluppò ciò che oggi comunemente defi-
niamo essere il movimento ecumenico.
Le origini di questo vasto e complesso movimento sono da rintracciarsi
nell’area protestante tra la seconda metà del sec. XIX ed i primi anni del no-
stro secolo. Infatti, si iniziarono a formare movimenti internazionali, orga-
nizzati in forma di associazioni, spesso a carattere interconfessionale:
l’Alleanza Battista Mondiale (nel 1905), la Associazione di Giovani Cri-
stiani (YMCA, già nel 1844), la Associazione delle Giovani Cristiane
(YWCA, nel 1854) e la Federazione Mondiale degli Studenti Cristiani
(WSCA, nel 1895) ed il Movimento Studentesco Cristiano (SCM). Paralle-
lamente, o comunque poco dopo, anche le società missionarie iniziarono a
porsi il problema, anche se in modo ancora molto embrionale, infatti già nel
1902 in India, a Madras, durante una conferenza missionaria, fu stabilito il
principio che non si sarebbe dovuto sollevare problemi in merito alla fede
ed alla costituzione della chiesa. In sostanza stava accadendo che da un lato
le associazioni studentesche desideravano aprirsi il più possibile verso tutti i
credenti, e dall’altro le società missionarie iniziarono a rendersi conto che
portare la fede in una data regione non doveva significare “essere in concor-
renza” con gli altri missionari: tutti predicavano Cristo e la Bibbia. Tutto
questo humus di nuovi fervori e slanci, in particolar modo l’intensa attività
di conferenze missionarie, fu la base per la creazione di ciò che ben presto
fu il World Council of Churches (WCC), noto in italiano con l’appellativo di
“Consiglio Ecumenico delle Chiese” (CEC)4. Infatti, fu proprio l’attività del-
le conferenze missionarie a “dare il via” al movimento ecumenico; in parti-
4
Per uno studio sull’origine del CEC, fondamentale è W. A VISSER’T HOOFT, The genesis and forma-
tion of the World Council of Churches, Genève 1982.

10
colar modo l’assemblea di Edimburgo (svoltasi nel 1910), fu il punto di par-
tenza – come ha rilevato il NEUNER – per la “storia del movimento ecume-
nico moderno”5. Ad Edimburgo, la conferenza prese la decisione di istituire
un comitato di prosecuzione, ma la Prima Guerra Mondiale (1914-1918) in-
terruppe, purtroppo, ogni attività. Conclusosi il conflitto bellico, riprese an-
che l’attività ecumenica. Un evento appare estremamente significativo ed
importante in tale lasso di tempo: nel gennaio 1920 il Patriarcato Ortodosso
di Costantinopoli invia una lettera a tutte le chiese cristiane del mondo; que-
sta epistola, redatta dal Patriarcato e firmata dagli undici metropoliti del
Santo Sinodo in Costantinopoli unitamente dal responsabile ad interim, Do-
roteo, (dal momento che in quel periodo vi era una vacatio sedis), appare
come un documento di enorme importanza. Infatti tale epistola, proponeva
la creazione, alla stregua del modello della neonata Società delle Nazioni, di
una unione associativa di tutte le Chiese Cristiane espressa tramite undici
punti programmatici (sia teorici che pratici). Perciò molti autori e studiosi
pongono tale evento quale momento decisivo e cruciale per la storia del
movimento ecumenico6. Tale atto del patriarcato costantinopolitano non eb-
be purtroppo risultati immediati, fece solo eco un documento della comu-
nione anglicana dello stesso anno detto “Quadrilatero di Lamberth” (dal
momento che tale documento anglicano conteneva quattro punti: (a) la sacra
scrittura, (b) il symbolum fidei, (c) i sacramenti, (d) un ministero riconosciu-
to da ciascuna parte della chiesa). In merito osserva BEAUPERE: «il docu-
mento anglicano ha in comunione con quello di Costantinopoli una realtà:
entrambi hanno suscitato l’entusiasmo del mondo cristiano»7. Ma, susse-
guentemente ed in modo quasi parallelo fervevano anche i lavori di “Vita e
Azione” e “Fede e Costituzione”: il primo si riunì a Stoccolma (1925) ed a
Oxford (1937) ed il secondo a Losanna (1927) ed ad Edinburgo (1937). Par-
ticolarmente importante fu la conferenza di Edinburgo (1937) che sottolineò
ancora una volta, partendo dalla conferenza di Losanna, l’importanza
dell’indagine scientifica in merito a ciò che divide, asserendo che ciò che
unisce debba essere approfondito mentre tutto quello che divide dovrà esse-
re superato. Tuttavia i fermenti del movimento ecumenico posti ad Edinbur-
go, produssero anche altri frutti: l’arcivescovo luterano Nathan Söderblom
diede vita ad un movimento denominato Life and Work (“Vita e Azione”), il
cui carattere eminentemente basato sulla praxis pochi anni dopo si trasfor-
mò in “Consiglio Ecumenico per il Cristianesimo pratico” (1930). Nel 1937

5
P. NEUNER, Breve manuale dell’Ecumene, Brescia 1986, 103.
6
Cfr. R. BEAUPERE, L’Ecumenismo, Brescia 1993, 15–18.
7
Ibid., 19.
11
“Fede e Costituzione” insieme a “Vita e Azione” decisero di unirsi, dando
così vita al Consiglio Ecumenico delle Chiese ( = World Christian Chur-
ches; in sigla inglese WCC ed in sigla italiana CEC). L’anno seguente a U-
trecht (1938) fu elaborato uno statuto del CEC; Ginevra fu scelta quale sede
per il movimento ed il primo segretario generale fu W. A. VISSER’T HOOFT.
Il CEC ha dato vita fin’oggi a sei importantissime assemblee generali, cia-
scuna dedicata ad una singola tematica8. L’attività del CEC, a cui la Chiesa
Cattolica ancor oggi non prende parte, cioè non è membro, è stata dunque
rilevantissima per il dialogo ecumenico ed ha ottenuto un largo favore da
parte delle Chiese (basti pensare che oggi sono circa trecento le chiese
membri). Il CEC raggruppa pertanto le Chiese in virtù del concetto che tale
istituto è una «associazione fraterna di Chiese che confessano Gesù Cristo
come Dio e Salvatore secondo le Scritture e si sforzano di rispondere insie-
me alla loro comune vocazione per la gloria dell’Uni-co Dio, padre, Figlio e
Spirito Santo»9. Dunque il CEC non pretende affatto di essere una “super–
chiesa”, né tantomeno di realizzare un sinarchismo religioso e non è nem-
meno una chiesa; il CEC è semplicemente un movimento associativo che
non possiede alcun potere coercitivo sui consociati né alcuna potestà giuri-
dica sulle chiese. Infatti possono essere membri del CEC tutte quelle Chiese
che ne richiedano di farne espressamente parte e l’unica conditio imposta è
che la Chiesa che desideri diventare membro accetti la suddetta base dottri-
nale; l’accettazione avviene mediante l’assemblea generale qualora i due
terzi delle chiese già membre siano concordi su ciò. Il presidente è eletto dal
comitato generale, che si riunisce ogni sette anni, e che ha il compito di e-
leggere il comitato centrale. Il CEC estrinseca la sua attività mediante tre di-
visioni: (a) “Fede e Testimonianza”, (b) “Formazione e Rinnovamento”, (c)
“Giustizia e Servizio”; mentre “Fede e Costituzione” e la sezione di “Mis-
sione mondiale e Evangelizzazione” (derivata quest’ultima dal “Consiglio
Missionario internazionale”) nonché “Chiesa e Società” (che è stata la con-
tinuazione di “Vita e Azione”) sono attualmente dei dipartimenti interni alla
1° divisione (“Giustizia e Servizio”)10.
Come si è accennato al CEC non appartiene la Chiesa Cattolica, tuttavia
ne è membro la Chiesa Ortodossa. Tale dato è rilevante poiché essendo gli

8
Le assemblee generali del CEC sono state le seguenti: Amsterdam (1948), Evanston (1954), New
Delhi (1961), Uppsala (1968), Nairobi (1975), Vancouver (1983), Canberra (1991).
9
E’ questo il testo della “Base” o “Piattaforma dottrinale” della Assemblea Generale di New Delhi
(1961); la “Costituzione” del CEC la si può leggere in Conseil Oecuménique des Eglises, I, Signes
de l’Esprit. Rapport Officiel Septième Assemblée a.c.d. M. Wetphal, WCC, Genève 1991, 400.
10
Per quanto detto in merito al CEC si rinvia per una più dettagliata lettura a P. NEUNER, op. cit.,
111–129.

12
Ortodossi molto vicini alla teologia Cattolica, si potrebbe asserire che il ruo-
lo degli ortodossi sia una indispensabile azione anche per i cattolici.
Quanto detto in questo breve paragrafo è estremamente succinto; tutta-
via si è ritenuto opportuno descrivere brevemente la storia del movimento
ecumenico, anche se nelle sue linee generali, al fine di introdurre al meglio
l’atteggiamento della Chiesa Cattolica in materia ecumenica e soprattutto
poter poi descrivere la natura o le “qualità” ecumeniche del Codex Cano-
num Ecclesiarum Orientalium, che rappresenta l’oggetto di questa ricerca.

§2. Ecumenismo e Chiesa Cattolica: alcune brevi note

La storia della Chiesa è anche storia delle divisioni, delle eresie e degli
scismi; a tali eventi la Chiesa nel corso della sua bimillenaria esistenza ha
reagito sia in modo drastico, cioè condannando ed emarginando, sia ricer-
can-do di ristabilire l’unione spezzata; tale ambivalente atteggiamento, di
facile lettura per lo storico, ha le proprie radici nel contesto politico
dell’epoca. Tuttavia è innegabile che la stessa Chiesa si sia sempre sforzata
di ricomporre gli attriti, cercando così di superare le difficoltà. Ma, è un da-
to di fatto, il movimento ecumenico è sorto non in ambito cattolico bensì in
quello protestante. E’ interessante dunque notare l’atteggiamento della
Chiesa cattolica di fronte al movimento ecumenico e quindi ripercorrere,
anche se brevemente, le tappe che hanno portato alla formazione dei principi
cattolici sull’ecumenismo.
Da un punto di vista storico si impone una divisione cronologica alla
quale segue il mutato atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti del-
la problematica ecumenica. Possiamo così suddividere in tre periodi la ri-
flessione della Chiesa cattolica: (a) primo periodo, contrassegnato da un at-
teggiamento negativo, è questo il momento del Vaticano I e degli anni se-
guenti fino al pontificato di Giovanni XXIII; (b) un secondo periodo di a-
pertura e “recezione”, cioè il Concilio Vaticano II, che segna, senza dubbio
una svolta qualitativa e qualificante in merito alla tematica; (c) un terzo ed
ultimo periodo, che è quello attuale, cioè l’attuazione delle direttive del Va-
ticano II ed i frutti del Concilio in materia ecumenica nel campo
dell’ordinamento canonico.
Allorquando il movimento ecumenico iniziò a muovere i suoi primi passi
e via via affermarsi sempre più nella realtà ecclesiologica protestante ed an-
glicana, la Chiesa cattolica reagì in modo alquanto negativo. La Chiesa catto-
lica, ancora “ancorata” al Tridentino ed ora sostenuta nei suoi principi dal

13
Vaticano I sostanzialmente non accettò l’ecumenismo; il Concilio Vaticano
I sembrò voler ribadire, in sostanza, quel “romano-centrismo” che del resto
l’aveva contraddistinta fino allora. In merito osserva il SARTORI: «l’azione
attualizzante di Dio viene riconosciuta solo nella Chiesa Cattolica, e a parti-
re dalla sua realtà empirica»11. Del resto non dobbiamo dimenticare che in
fondo la politica, anche nei confronti degli orientali, era stata spesso intesa co-
me semplice rispetto o accondiscendenza verso i riti, e così, in una parola, si
potrebbe affermare che al Vaticano I non vi fu nessun tipo di apertura o ispira-
zione ecumenica12. Così la Chiesa Cattolica giunse “senza scosse” ad una presa
di posizione ufficiale nei confronti dell’ecumenismo con l’Enciclica Mortalium
Animos (del 6 gennaio 1928) di Pio XI, con la quale fu emesso un giudizio for-
temente negativo in merito alla questione ecumenica. Questa enciclica segnò
un po’ il punto della situazione: la Chiesa Cattolica, divisa tra “apostolato u-
nionistico” e “moti ecumenici”, scelse ancora una volta la via dell’uniatismo.
Del resto alla Mortalium Animos stanno alla base le encicliche di LEONE XIII,
Praeclara Gratulationis (del 1894) e la Satis Cognitum (del 1896), in cui tale
atteggiamento appare evidente13. Tuttavia, nonostante tutti gli studiosi di ecu-
menismo siano abbastanza critici nei confronti di questi documenti pontifici,
desideriamo ricollocare nel giusto ambito lo spirito di tali testi. Non dobbiamo
infatti dimenticare che all’epoca la Chiesa era attanagliata da due grossi pro-
blemi: il confronto con il comunismo sul piano della «dottrina sociale» e la –
ancora non conclusa – «questione romana»; così non ci deve – a nostro som-
messo avviso – stupire che la Chiesa abbia assunto in quel periodo una posi-
zione di rigidità e di intransigenza verso qualsiasi “novità” (e tra queste senza
dubbio vi era l’allora nascente movimento ecumenico, che stava muovendo i
suoi primi passi). Ad ogni modo questo atteggiamento di negatività sembra es-
sersi protratto ancora sotto il pontificato di PIO XII, che nonostante le eccelse
qualità di diplomatico e statista, nell’enciclica Mystici Corporis (del 1943), ri-
badì il vecchio principio che: “fuori della Chiesa non vi è salvezza”, dunque
occorre per gli “altri” (di nuovo) “unirsi” a Roma. Del resto alla base di tali
tendenze ufficiali risiedeva una concezione ecclesiologica assai rigida ed
ancorata ai dettami tridentini. Questa prima fase, è perciò ampiamente
contraddistinta da un moto “unionistico”14.

11
L. SARTORI, L’Unità della Chiesa. Un Dibattito e un progetto, Brescia 1989, 21.
12
Cfr. Y. CONGAR, Saggi Ecumenici. Il Movimento, gli Uomini, i Problemi, Roma 1986, 23 ss.
13
Recita chiaramente l’Enc. Mortalium Animos, asserendo: «(...) non è permesso procurare l’unità dei
cristiani se non favorendo il ritorno dei dissidenti all’unica e vera chiesa» [cioè la Chiesa Cattoli-
ca].
14
Per Tale periodo molto chiaramente spiega J. VERCRUYSSE, Introduzione alla Teologia Ecumenica,
Casale Monferrato 1992, praesertim 60–65 (per la parte antecedente al Vaticano II), (per la parte

14
Ma, come sempre accade nella storia della Chiesa, il cui divenire non
possiamo ritenere estraneo all’azione dello Spirito, nel 1949 iniziò ad appa-
rire un, seppur debole, ma importante segnale positivo nei confronti
dell’ecu-menismo. Infatti, il 20 dicembre 1949 una istruzione del S. Offizio,
De Motione Oecumenica, sembrò aprire una nuova possibilità dal momento
che riconobbe l’ecumenismo quale motus nato sotto l’ispirazione dello Spi-
rito Santo e: «(...) benché ribadisse la posizione tradizionale che “l’unica vera
unione si compie col ritorno dei dissidenti all’unica vera chiesa di Cristo”
(§13), dava ai suoi vescovi locali più grande facoltà per dare a persone quali-
ficate l’autorizzazione di intervenire ad adunanze e colloqui ecumenici»15.
Ad ogni modo è singolare ricordare che nonostante questa iniziale chiu-
sura della Chiesa cattolica verso il movimento ecumenico, agli inizi del se-
colo (nel 1908) un prete anglicano e poi divenuto cattolico, con l’appoggio
del papa celebrò l’ottavario di preghiera per il ritorno di tutti i cristiani nella
chiesa apostolica e nel 1933 padre Couturier ne trasformò lo spirito chie-
dendo che si pregasse per “l’unità che Cristo vuole, con i mezzi che egli
vorrà”; così la Settimana di Preghiera dal 18 al 25 gennaio finì per diventare
realtà liturgica sia per i cattolici che per gli altri. Questo esempio non è rife-
rito a caso, né lo riteniamo un semplice aneddoto interpolativo. Infatti, pa-
rallelamente alle posizioni ufficiali della Chiesa, alcuni teologi cattolici ini-
ziarono a prendere posizione nei confronti dell’ecumenismo, principiando a
dedicarsi a tale materia nonché intravedendo in questo movimento un qual-
cosa di indispensabile e sano per tutta la cristianità16. Ma – ritornando al
perché delle posizioni ufficiali così “negative” – dobbiamo riflettere e pro-
vare a dare una risposta al perché i Papi furono all’inizio ostili
all’ecumenismo. La risposta è, a nostro sommesso avviso, abbastanza sem-
plice; i Romani Pontefici non erano probabilmente contrari all’idea ecume-
nica in sé, e del resto ne è prova che i tentativi di ristabilimento dell’unione
vi furono, piuttosto essi erano forse contrari al movimento ecumenico e non
già al ristabilimento dell’unità. Del resto non dobbiamo dimenticare che
comunque c’era anche da parte Cattolica la coscienza della “mancata o
spezzata unità”, il problema era piuttosto quello delle modalità; dati i tempi
si preferì all’inizio continuare sulla strada delle unioni e quindi del “roma-
no-centrismo”, ma tutto ciò, riteniamo, era fatto in perfetta buona fede. Né
dobbiamo mai dimenticare che gli eventi storici e le posizioni di pensiero
inerente al Vaticano II) 65–74; ed anche ved. W. DE VRIES, Il problema ecumenico alla luce delle
unioni realizzate in Oriente, in Orientalia Christiana Periodica 27/1 (1961) 64-81.
15
J. VERCRUYSSE, op. cit., 65.
16
Così ad esempio P. Congar e poi il Card. Bea. In merito, ved. Y. CONGAR, Saggi Ecumenici – Il
movimento, gli uomini, i problemi, Roma 1986 (trad. it.), 105-154.
15
sono frutto di quel dato momento storico e che quindi è molto facile critica-
re alla luce di oggi, e dell’attuale mentalità, gli “errori” di ieri. Dunque, in
questa prima fase, più che di noluntas nei confronti dell’ecumenismo sareb-
be probabilmente più appropriato parlare di mancata prontezza verso il pro-
blema e quindi di imperfezione della risposta. Resta infine da capire perché
l’ecumenismo è nato in ambiente non–cattolico; a tale questione risponde
LOVSKY in modo molto chiaro, asserendo che «(...) più l’ecclesiologia di
una chiesa è flessibile, meno pone problemi di riconoscimento
dell’ecclesiologia di un’altra chiesa. Ora, l’ecclesiologia delle Chiese orto-
dosse e della chiesa romana è più antica, più affermata, più radicata nella lo-
ro teologia globale di quanto non lo sia nella maggior parte delle chiese pro-
testanti (...)»17.
Il Concilio Vaticano II segna senza dubbio una svolta fondamentale, i-
naugurando una “seconda fase” circa l’atteggiamento della Chiesa cattolica
verso la tematica ecumenica e non solo per essa; del resto gli storici sono
concordi nell’affermare che la portata di tale evento è stata una sorta di “ri-
voluzione copernicana” nell’ambito della Chiesa cattolica stessa. Per ciò che
concerne l’ecumenismo il Vaticano II appare di fondamentale e nevralgica
importanza; infatti il Concilio ha proceduto ad un vero e proprio radicale
cambiamento di mentalità e parallelamente all’acquisizione di nuovi ele-
menti teologici sul piano ecclesiologico, giungendo così ad una vera e pro-
pria rivisitazione dell’ecclesiologia cattolica. Procediamo con ordine, al fine
di essere il più chiari possibile. Senza dubbio fu GIOVANNI XXIII a colloca-
re la Chiesa cattolica sulla strada dell’ecumenismo, intendendo con tale vo-
cabolo-concetto una nuova metodologia e quindi “strategia” atta alla ricerca
del-l’unità18 e tramite il Vaticano II ciò fu messo in atto. Tuttavia nonostan-
te l’iniziale chiusura della Chiesa nella prima fase, parallelamente ad essa si
assiste, già prima del Concilio ad una serie di numerosi passi19 che porte-
17
F. LOVSKY, Verso l’Unità delle Chiese, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, trad. it., 1993, 87.
18
Cfr. AA. VV., La Chiesa Cattolica e il Movimento Ecumenico. Corso breve di Ecumenismo; vol. 1°,
Roma 1981 (Ed. Centro Pro Unione), 15.
19
E’ utile qui ricordare, seppur brevemente, che già prima del Vaticano II erano sorti dei “centri e-
cumenici”, quali: quello di Chevetogne (dal 1952 grazie a Don L. Beauduin) che si propose sin
dalle origini lo studio dettagliato della spiritualità orientale e della teologia orientale; Istina (Pari-
gi), fondato dal domenicano Doumond, il cui oggetto fu, ed è, lo studio delle cristianità orientali ed
in particolare di quella russa; S. Ireneo (Lione) fondato da P. R. Beauduin OP con l’annessa rivista
“Lumière et Vie”; Una Sancta (Germania), fondata dal Dr. M. J. Metzger, già prima della II Guer-
ra Mondiale; Istituto Adam Moehler, fondato, nel 1957, da Mgr. Jäger, vescovo di Paderborn. Oggi
esistono moltissime riviste ed agenzie di stampa d’interesse ecumenico, quali ad es.: Catholica
(Monaco, Paderborn); Catholica Unio (Fribourg, Swiss); La Civiltà Cattolica (Roma); Concilium
(Brescia); Diaconia (New York); Episkepsis (Chambésy-Genève); Irenikon (Chevetogne); Journal
of Ecumenical Studies (Philadelphia); Oriente Cristiano (Palermo); Service d'Information – Infor-

16
ranno copiosi frutti, frutti che saranno raccolti dal Concilio e che porteranno
al-l’enunciazione dei principi ecumenici da parte Cattolica.
Inoltre, dobbiamo ricordare che particolare importanza ebbero, al fine
di creare un humus favorevole alle istanze conciliari, anche i progressi
scientifici ottenuti in materia di studi storici, dogmatici e biblici. Infatti,
l’evoluzione della critica storica, applicata alla storia ecclesiastica ha via via
dimostrato, molto spesso, l’esistenza di fattori non-dogmatici nelle separa-
zioni; il progresso della ricerca in campo dogmatico, invece, ha messo in e-
videnza il fatto che in realtà esiste una sottile sussistenza fra le correnti della
Riforma e quel-le derivate dalla Scolastica; infine il grande sviluppo degli
studi biblici (specie grazie all’attività orientalistica di primissimo livello of-
ferta sia dall’École Biblique di Gerusalemme che dal Pontificio Istituto Bi-
blico di Roma) hanno evidenziato spesso le radici comuni dei «Figli
d’Abramo». Tali studi, dei quali non è possibile entrare qui in dettaglio,
hanno favorito e continuano a promuovere spesso la ricerca di “ciò che ci
unisce” anziché di “ciò che ci divide”; dunque anche la scienza sembra aver
influito nel processo ecumenico sia da parte Cattolica che non-Cattolica.
Ritornando al Concilio Vaticano II, non possiamo dimenticare l’azione
di GIOVANNI XXIII, il quale nel 1959 annunciò il Concilio e nel 1960 con il
Motu Proprio Supremu Dei Nutu (del 5 giugno 1960) istituì il Segretariato
per la Promozione dell’Unità dei Cristiani [= SPUC]20, che molta parte ebbe
nell’ambito della redazione del decreto conciliare sull’ecumenismo, tant’è
che alla conclusione del Vaticano II il SPUC fu perfezionato ed integrato
nella Curia Romana, divenendo l’attuale Pontificio Consiglio per la Promo-
zione dell’Unità dei Cristiani e come osserva VERCRUYSSE: «Il Concilio non
è soltanto l’insegna curiale dell’apertura ecumenica postconciliare della
Chiesa Cattolica, ma è stato piuttosto un coordinatore efficace e un interlo-
cutore ufficiale per questo impegno a livello internazionale»21.
L’importanza del Vaticano II, in materia ecumenica risiede in molti do-
cumenti conciliari, ma senza dubbio il principale è il decreto De Oecumeni-
smo detto Unitatis Redintegratio22. Il testo fu votato il 21 novembre 1964

mation Service (SCV); Servizio Informazione Chiese Orientali (SCV); Studi Ecumenici (Verona);
The Ecumenical Review (Ginevra); Unitas (Roma); Service Oecumqnique De Presse et d'Informa-
tion (Geneve), ecc.
20
Dobbiamo però rammentare che già Leone XIII il 19 marzo 1895 creò la Pontificia Commissio ad
Reconciliationem Dissidentium, pontificia commissione che però si estinse sotto Pio X. Per
l’attività di LEONE XIII, cfr. DE VRIES W., Il problema ecumenico..., op. cit., 75 s.
21
J. VERCRUYSSE, op. cit., 68-69.
22
Si ritiene opportuno dare lo schema-indice del decreto:
• Proemio §1
17
(con 2137 voti favorevoli e solo 11 contrari)23 e l’importanza di tale decreto
è senza dubbio di grande portata storica: la Chiesa Cattolica prende, final-
mente, posizione ufficiale in materia ecumenica.

§3. I principi cattolici dell’ecumenismo: alcuni punti

Con UR la Chiesa Cattolica sembra prendere coscienza che l’ecume-


nismo è considerato quale bisogno vitale e la stessa Chiesa si impegna in
mo-do ufficiale e formale sulla strada dell’ecumenismo24; ma vi è di più: la
Chiesa Cattolica si interroga sui valori esistenti nelle altre confessioni cri-
stiane e riconosce che esiste parte della Verità in loro, dunque non più “ana-
temi” o “scomuniche” ma fratellanza al fine di poter un giorno ristabilire la
koinônia. Tutto ciò sembra esser frutto, almeno iniziale, della grande visio-
ne di Giovanni XXIII, il quale molto probabilmente desiderava un legame
intimo tra la ricerca dell’unità e la riforma della Chiesa che il Concilio do-
veva attuare25; tuttavia: «Sarebbe artificiale isolare il decreto sull’ecu-
menismo dal complesso dei documenti conciliari e considerarlo come
l’unica parola della Chiesa riunita in concilio sul problema dell’unità dei
cristiani. Il decreto non può essere capito che nel contesto di sensibilità e-
cumenica che si è venuta creando progressivamente fin dalle prime battute
del concilio»26. Quindi da un lato UR rappresenta la “Magna Cartha” del
dialogo ecumenico per i cattolici e dall’altra il punto di partenza per poter
ricercare l’unità. Pertanto UR rappresenta i “principi cattolici dell’ecume-
nismo” e non già l’“ecumenismo cattolico”; ossia il Concilio ha voluto asse-

• Cap. 1: “Principi Cattolici sull’ecumenismo”: §2 Unità e unicità della Chiesa, §3 relazioni dei
fratelli separati con la chiesa Cattolica, §4 ecumenismo;
• Cap. 2° “esercizio dell’Ecumenismo”: §5 l’unione deve interessare a tutti, §6 riforma della chie-
sa, §7 la conversione del cuore, §8 l’unione nella preghiera, §9 la reciproca conoscenza, §10 la
formazione ecumenica, §11 modi di esprimere e di esporre la dottrina della fede, §12 la coopera-
zione con i fratelli separati;
• Cap. 3° “Chiese e Comunità ecclesiali separate”: §13 le varie divisioni,
• “Speciale considerazione delle chiese orientali”: §14 carattere e storia propria degli orientali, §15
tradizione liturgica e spirituale degli orientali, §16 disciplina propria degli orientali, §17 carattere
proprio degli orientali nell’esporre i misteri, §18 conclusione; II-”Chiese e Comunità ecclesiali se-
parate in occidente”: §19 condizione di queste comunità, §20 La confessione di Cristo, §21lo stu-
dio della S. Scrittura, §22 la vita sacramentale, §23 la vita con Cristo, §24 Conclusione.
23
Cfr. AA. VV., La Chiesa Cattolica e il Movimento Ecumenico. Corso breve di Ecumenismo; vol. 1°,
Roma 1981 (Ed. Centro Pro Unione), 21.
24
Cfr. P. GISMONDI, L’ecumenismo, in W. SCHULTZ - G. FELICIANI (a.c.d.), Vitam Impendere Vero –
Scritti in onore di Pio Ciprotti, «Utrumque Ius» 14, Roma 1986, 161-169.
25
Cfr. S. SPINSANTI, Ecumenismo, Roma 1982, 73.
26
Ibid., 77.

18
rire – con l’espressione de catholici oecumenismi principiis – che «(...) esi-
ste un solo ecumenismo che però ha diversi punti di partenza, perché diverse
sono le basi delle varie Chiese»27. Moltissimi sono i commenti al decreto con-
ciliare sull’ecumenismo e potremmo compiere una moltitudine di osservazioni
e riflessioni in merito; tuttavia riteniamo più opportuno (dato il carattere in-
troduttivo di questo capitolo e di questo paragrafo) soffermarci brevemente
solo su alcuni punti, precisamente su tre: i principi cattolici sull’ecumenismo,
il mutato atteggiamento della Chiesa, sia alla luce di UR che degli altri testi
conciliari verso i cd. “dissi-denti”, la visione ecclesiologica attuale ed, infine, i
principi disciplinari di UR in materia ecumenica.
Il Concilio delinea, proprio con UR, che cosa sia il movimento ecume-
nico asserendo: «A questo movimento per l’unità, chiamato ecumenico, par-
tecipano quelli che invocano la Trinità e professano la fede in Gesù signore
e salvatore, e non solo singole persone separatamente, ma anche riunite in
gruppi, nei quali hanno ascoltato il vangelo e che i singoli dicono essere la
chiesa loro e di Dio. Quasi tutti però, anche se in modo diverso, aspirano
alla chiesa di Dio una e visibile, che sia veramente universale e mandata a
tutto il mondo, perché il mondo si converta al vangelo e così si salvi per la
gloria di Dio»28.
Dunque già nel Proemio di UR l’aspetto della promozione del ristabili-
mento dell’Unità assurge a scopo principale, e poi al §4 sarà ripresa la no-
zione e la definizione di “movimento ecumenico”. La Chiesa riconosce il
fatto che vi siano state delle divisioni e che ciò contraddica la volontà di
Cristo e la causa della predicazione del Vangelo, pertanto la divisione è un
ostacolo da eliminare. Ma, il lavoro per ricercare l’unità è opera di Dio, tra-
mite lo Spirito Santo, infatti si fa esplicito riferimento a ciò che per impulso
della Grazia del-lo Spirito Santo è stato compiuto dagli altri cristiani. La
Chiesa Cattolica riconosce dunque, specie nel su citato passo conciliare, di
fatto la base dottrinale del CEC. Inoltre la Chiesa Cattolica dà al §4 – come
già accennato – la definizione vera e propria di movimento ecumenico, asse-
rendo: «Per “movi-mento ecumenico” si intendono le attività e le iniziative
che, a seconda delle varie necessità della chiesa e l’opportunità dei tempi,
sono suscitate ed ordinate a promuovere l’unità dei cristiani, come sono: in
primo luogo, tutti gli sforzi per eliminare le parole, giudizi e opere che non

27
Ibid., 88. Riteniamo l’interpretazione data dall’A. la più chiara e la più precisa, interpretazione in
merito alla quale tutti gli autori sono di fatto concordi.
28
UR Proemium 1: EV 1, 495.
19
rispecchiano con equità e verità la condizione dei fratelli separati e perciò
rendono più difficili le mutue relazioni con essi;(...)»29.
Dunque in generale il testo del decreto, può esser letto in accordo con
SPINSANTI30, in base a tre criteri di lettura.
Il primo criterio è dato dal fatto che l’ecumenismo è “definito” trami-
te il movimento ecumenico, assurgendo così a strumento dello Spirito,
più precisamente: «(...) l’ecumenismo è entrato nella coscienza responsa-
bile della Chiesa per induzione, se così si può dire, di grazie e non per
deduzione di dottrina. Esso viene “dall’arcano di Dio” ed è un dono della
sua misericordia»31.
Il secondo criterio di lettura è storico-religioso, ossia si tende a stori-
cizzare la problematica ecumenica, inserendola ed inscrivendola in modo
da sdrammatizzare le divisioni di carattere “psicologico”, cioè si tenta di
eliminare ciò che ha diviso le cristianità cercando una rilettura della sto-
ria del cristianesimo a partire dal messaggio evangelico, dando così pri-
maria importanza all’unità.
La terza chiave di lettura si incentra sul linguaggio stesso del testo con-
ciliare, linguaggio teso ad eliminare l’uso dei concetti e dei termini quali
“scisma” ed “eresia” (da notare che l’aggettivo “cattolico” è scritto in minu-
scolo e che la parola “chiesa” o “chiese” è sempre scritta in maiuscolo).
Certamente non è qui il caso di commentare tutti i singoli passi di UR,
bensì accennare soltanto all’importanza del testo che – come vedremo nei
prossimi capitoli – costituisce la base delle norme canoniche in materia ecu-
menica. Dunque, la Chiesa non solo recepisce la nozione di movimento ecu-
menico ma sembra far proprie le categorie, cioè le modalità ecumeniche; cate-
gorie e modalità che ovviamente, poi, inquadra nel proprio sistema, infatti UR
rappresenta anche il primo passo, che sarà di preludio ai Direttori Ecumenici,
per l’organizzazione stessa dell’attività ecumenica in ambito cattolico.
Il decreto conciliare si presenta quindi estremamente ben articolato ed
organizzato e la riflessione dei padri è senza dubbio ben profonda. Infatti, se
il Proemio costituisce una sorta di introduzione alla cui base sta l’unicità
della Chiesa nonostante le divisioni nate e sorte. Il Capitolo Primo “De ca-
tholicis oecumenismi principiis” (nn. 2-4) partendo proprio dalla tematica
dell’unità (nr. 2) giunge a delineare l’impegno della Chiesa Cattolica nei
con-fronti degli altri cristiani (non-cattolici) ed il concetto di communio–

29
EV 1, 509.
30
Ved. S. SPINSANTI, Corso di Teologia dell’Ecumenismo, Brescia 1985, 125-127; e per un dettagliato
commento dottrinale su UR ved. 131-335.
31
S. SPINSANTI, Corso di Teologia ..., op. cit., 125.

20
koinônia è intesa nel senso di carisma-dono e non già come un qualcosa di
giuridico-istituzionale. La Chiesa Cattolica ha la pienezza dei mezzi di sal-
vezza, ma al contempo anche le altre confessioni cristiane posseggono,
anch’esse, i doni dello Spirito ed anche loro concorrono alla salus anima-
rum, essendo i mezzi con i quali attuano ciò sono sempre quelli dello Spiri-
to. Dunque, il Concilio attua una profondo cambiamento sul piano
dell’ecclesiologia, da cui è scaturita anche una radicale riflessione del diritto
e quindi dei principi ispiratori dell’ordinamento canonico. Del resto lo Spi-
rito Santo agisce in modo a noi spesso sconosciuto, perciò non ci stupisce
che il problema dell’unità, e quindi l’ecumenismo, sia sorto in ambiente
non-cattolico. Infatti UR asserisce chiaramente, riguardo ai bona Eccle-
siae, che anche alcuni, anzi “eximia” (= parecchi) di questi si riscontrano,
quindi esistono, «extra visibilia Ecclesiae catholicae saepta», e questi
sono: la parola di Dio scritta, la vita della grazia, le virtù cardinali, «ed
altri doni interiori dello Spirito Santo ed elementi visibili: tutte queste
cose, che provengono da Cristo e a lui conducono, giustamente apparten-
gono all’unica chiesa di Cristo»32.
In estrema sintesi il testo di UR si può riassumere come segue33.
Il primo capitolo di UR, si conclude col §4 che ha per oggetto
l’ecumenismo; qui si anticipano i problemi concreti che saranno esposti nel
cap. 2° («Esercizio dell’Ecumenismo»); la categoria del “dialogo” è posta in
massimo rilievo essendo inteso come strumento metodologico per eccellen-
za e l’ecumenismo è “iniziativa”, quindi si sollecitano i fedeli tutti al dialo-
go ed all’attività ecumenica. Il capitolo secondo di UR è intitolato «De Oe-
cumenismi exercitio» delinea, invece, l’aspetto – diremmo noi – pratico
dell’impe-gno ecumenico da parte cattolica, incentrando tale impegno su tre
livelli: ecumenico spirituale, dottrinale e del servizio34; inoltre è interessante
sottolineare che “il soggetto” dell’impegno ecumenico siano tutti i cristiani
(nr. 5) per giungere ad affermare che: «Oecumenismus veri nominis sine in-
teriore conversione non datur» (UR,7). Perciò l’ecumenismo si attua: con-
vertendo i cuori, cambiando la mentalità della gente, cioè volgere lo sguardo
a ciò che unisce, conoscersi reciprocamente e quindi amarsi in senso evan-
gelico, unirsi in preghiera, che è lo strumento col quale lo Spirito agisce; da
ultimo: formarsi ecumenicamente, tramite la teologia, e cooperare con gli
altri. Il capitolo terzo di UR dimostra l’afflato ecumenico da parte cattolica,
32
EV 1, 504.
33
Si tenga presente, però, che la riflessione dataci dai Padri del Concilio sul piano ecclesiologico si
estrinseca non solo in UR ma anche in LG, OE, e – per le tematiche ecumeniche – anche in NÆ e
DH. Cfr. P. GISMONDI, op. cit., 165-169.
34
Cfr. S. SPINSANTI, Corso di Teologia..., op. cit., 199.
21
infatti dopo un passo di grande umanità circa le divisioni avute in Oriente ed
in Occidente (§13), si passa alla speciale considerazione delle Chiese Orien-
tali il cui patrimonio (storia, liturgia, spiritualità, diritto) é e deve essere ri-
spettato e protetto (qui UR sembra riprendere Orientalium Ecclesiarum).
Quindi, proseguendo l’input dato dal paragrafo 13°, si passa alle Chiese ed
alle comunità eccle-siali separate in Occidente, incentrando il problema sul-
la comune confessione in Cristo, attuata attraverso lo studio della S. Scrittu-
ra e poi attraverso i sacramenti. UR dedica quindi parole di grande amore
fraterno verso le Chiese Protestanti ed ugualmente verso quelle Ortodosse,
che ora non sono più anatemizzate come eretiche e scismatiche ma conside-
rate “sorelle” nella comune fede in Cristo e nel battesimo, che è ianua sa-
cramentorum. UR conclude (§24) con una speranza, che è anche messaggio,
di unione nella Chiesa, affinché lo scandalo della divisione possa cessare.
Dunque con UR la Chiesa Cattolica non esita ad ammettere che l’ecu-
menismo sia al contempo una vocazione ed una grazia, la cui base dottrinale
è trinitaria e cristologica (UR, nr. 1), infatti alla base vi è la grazia dello Spi-
rito che ha dato inizio al processo ecumenico (nr. 4); la fede in Cristo e nel
battesimo costituiscono con i fratelli separati, “gli altri” cristiani, una sorta
di già realizzata koinônia con la Chiesa Cattolica ed anche se tale communio
è imperfetta, cioè non-piena, tuttavia essa è autenticamente presente (n 3);
infatti il sacramento battesimale, vincolo sacramentale dell’unitas ecclesia-
stica, è solo l’incipit – l’inizio – della realizzazione della comunione (nr.
22), inoltre vi è anche un comune patrimonio con i fratelli separati ma le di-
visioni sor-te rendono difficile una piena cattolicità (nr. 4). La Chiesa Cat-
tolica riconosce dunque anche grande importanza al movimento ecumeni-
co perché esso tende al superamento degli impedimenti e degli ostacoli
per la realizzazione della unità (nr. 3) e perciò l’ecumenismo è sostenuto
da tutta la Chiesa e l’opera ecumenica s’arricchisce quotidianamente (nr.
5); occorre tuttavia una conversione interiore, una metanoia ed è necessa-
rio chiedere perdono a Dio ed ai fratelli separati (nr. 7), inoltre
l’ecumenismo si accresce con la preghiera comune (nr. 8).
***
A tutto ciò è intimamente e necessariamente connessa la tematica “ere-
sia-ortodossia”, cioè il mutato atteggiamento della Chiesa nei confronti sia
degli altri cristiani che delle altre religioni. Per secoli vi è stata di fatto una
“incomunicabilità”, che troppo spesso si è trasformata in astio religioso, i
cui frutti nefasti hanno portato non solo reciproci pregiudizi ma addirittura
tensioni (si pensi alle guerre religiose occidentali dell’età moderna, o agli

22
atteggiamenti assunti dai prìncipi cristiani in occasione delle Crociate ri-
guardo agli ortodossi, ecc.). La reciproca “negativizzazione” dell’“altro” è
stata una costante storica; la Chiesa Cattolica, da parte sua, per secoli ha a-
natemizzato, scomunicato e controbattuto le altre teologie cristiane asseren-
do che fuori della Chiesa Cattolica non vi è nessuna salvezza. Nessuna
comprensione nei confronti degli “eretici-scismatici” sia essi protestanti che
ortodossi. Invece, con il Concilio Vaticano II, assistiamo ad una vera e pro-
pria rivoluzione di pensiero: l’“altro” non è più negativizzato o ridotto a
rango di inferiore! L’Ecumenismo ha fatto breccia: sono caduti gli anatemi e
le scomuniche e gli altri cristiani vengono ora definiti come “fratelli separa-
ti”, cioè fratelli in Cristo, che per varie cause, delle quali molte storiche e
comunque indipendenti dalla loro attuale volontà, non partecipano piena-
mente alla comunione ecclesiale; tuttavia non di meno sono considerati co-
me degli avversari, bensì come “fratelli” con i quali è necessario dialogare,
poiché anche loro hanno e possiedono parte della Verità. Il riconoscere che
lo Spirito Santo agisca anche “fuori” dei limiti della Chiesa Cattolica è un
passo gigantesco, è una vera e propria metanoia, un radicale cambiamento
di mentalità, la cui portata, forse, solo oggi s’inizia a percepire in pieno. La
considerazione verso l’“altro”, che per secoli è stato considerato a tutti gli
effetti (giuridico compreso) un alieno, è di grandissima rilevanza. «D’altra
parte è necessario che i cattolici con gioia riconoscano e stimino i valori
veramente cristiani, promananti dal comune patrimonio, che si trovano
presso i fratelli da noi separati»35. Con tale affermazione si spingono inoltre
i cattolici a riflettere su quanto vi sia di buono negli ‘altri’. Circa le Chiese
Orientali, separate da Roma, viene affermato chiaramente: «Non si deve u-
gualmente passare sotto silenzio che le chiese d’oriente hanno fin
dall’origine un tesoro, dal quale la chiesa d’occidente molte cose ha prese
nel campo della liturgia, della tradizione spirituale e dell’ordine giuridico.
Né si deve sottovalutare il fatto che i dogmi fondamentali della fede cristia-
na, quali quelli della Trinità e del Verbo di Dio incarnato da Maria vergine
sono stati definiti in concili ecumenici celebrati in oriente. E per conservare
questa fede quelle chiese molto hanno sofferto e soffrono»36.
Il primo frutto concreto di tutto ciò è stata la reciproca abolizione delle
scomuniche con gli Ortodossi, avvenuta tramite la Dichiarazione comune di
Paolo VI ed Atenagora37, dopo quasi mille anni di reciproci anatemi. Tale

35
UR 4: EV 1, 515.
36
UR 14: EV 1, 544.
37
PAOLO VI, Dichiarazione comune con Atenagora I; in EV 2, 494-499. Il testo originale è in Tomos
Agapis, Rome-Istanbul 1971.
23
evento non è solo di portata storica, ma anche disciplinare ed ecclesiologica.
Infatti, l’abrogazione delle reciproche scomuniche ed anatemi ha creato una
nuova realtà; da parte cattolica38 si considera ora la Chiesa Ortodossa (Bi-
zantina) come «chiesa sorella»39 e pertanto sussiste immediata una comu-
nione sacramentale, una communicatio in sacris ed al contempo un obiettivo
su-premo che è il regno di Dio. Le implicanze, o meglio le conseguenze giu-
ridico-canoniche dell’abrogazione delle reciproche scomuniche, hanno chia-
ramente favorito il dialogo ecumenico. Ma, da un punto di vista canonico,
specie cattolico, si è assistito ad un forte rinnovamento giuridico, frutto del
mutato atteggiamento ecclesiologico. Sia la «Dichiarazione Comune», ap-
plicazione “pratica” dei principi del Concilio, che lo stesso UR hanno lar-
gamente (come vedremo nei prossimi capitoli) influenzato la norma canoni-
ca. Oggi, infatti, communicatio in sacris, matrimonia mixta, dialogo ed im-
pegno ecumenico, riconoscimento dei sacramenti degli Ortodossi e delle al-
tre Chiese Orientali, sono una realtà concreta e visibile nei Codici di diritto
canonico.
Riguardo, invece, alle Chiese separate in Occidente, il Vaticano II, sem-
bra mostrarsi più circospetto, data la difficoltà del panorama ecclesiologico,
tuttavia non meno mosso da amore, affermando: «Le chiese e le comunità
ecclesiali, che o in quel gravissimo sconvolgimento incominciato in occi-
dente già alla fine del medio evo o in tempi posteriori si sono separate dalla
sede apostolica romana, sono unite alla chiesa cattolica da una speciale af-
finità e stretta relazione, dato il lungo periodo di vita che il popolo cristiano
nei secoli passati trascorse nella comunione ecclesiastica»40.
Nonostante la Chiesa Cattolica, abbia abbandonato la strategia “unioni-
stica” ed abbia “recepito” le categorie ecumeniche, tuttavia non esita a di-
chiarare che: «Questa è l’unica chiesa di Cristo, che nel simbolo professia-
mo una, santa, cattolica e apostolica, e che il Salvatore nostro, dopo la sua
risurrezione, diede da pascere a Pietro (cf. Gv. 21.17), affidandone a lui e
agli altri apostoli la diffusione e la guida (cf. Mt. 28,18; ecc.), e costituì per
sempre la colonna e il sostegno della verità (cf. Tim. 3,15). Questa chiesa,
38
In merito alla tematica ved. E. LANNE, Eglises-sœurs. Implication ecclésiologiques du Tomos A-
gapis, in Istina 1 (1975) 35-46; J. RATZINGER, Schisme anathématique. Les conséquences ecclési-
ologiques de la levée des anathèmes, in Istina 1 (1975) 87-89. Mentre, da parte ortodossa, cfr. J.
MEYENDORFF, Eglises-sœurs. Implication ecclésiologiques du Tomos Agapis, in Istina 1 (1975) 35-
46; V. PHIDAS, Anathèmes et schisme. Conséquences ecclésiologiques de la levée des anathèmes,
in Istina 1 (1975) 75-86.
39
Si segnala un recente articolo, assai interessante, circa la visione delle Chiese Orientali acattoliche
come chiese sorelle con la Chiesa Cattolica di E. F. FORTINO, Le Chiese Ortodosse e le Chiese O-
rientali Cattoliche come Chiese Sorelle, in Oriente Cristiano 33-2 (1993) 58-66.
40
UR 19: EV 1, 556.

24
in questo mondo costituita e organizzata come una società, s u s s i s t e nel-
la chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in co-
munione con lui, ancorché al di fuori del suo organismo visibile si trovino
parecchi elementi di santificazione e di verità, che, quali doni propri della
chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica»41. Dunque secondo Lu-
men Gentium (nr. 8) la Chiesa “sussiste” nella Chiesa Cattolica, e come ha
osservato SPINSANTI: «Per l’ecclesiologia cattolica dunque, per l’indivi-
duazione dell’unica Chiesa di Cristo, che storicamente prolunga la Chiesa
de-gli apostoli, è necessaria la permanenza della struttura gerarchica, con a
capo il papa. Ne consegue che solo la Chiesa cattolica possiede l’unità per-
fetta, mentre tutte le altre chiese l’hanno perduta (...)»42. Ma, il verbo usato
da LG nr. 8 è stato “subsistere” e non “esse”; infatti subsistit significa “con-
tinuare ad esistere” e come ebbe a specificare la Congregazione per la Dot-
trina del-la Fede: «Il Concilio aveva invece scelto la parola subsistit proprio
per chiarire che esiste una sola “sussistenza” della vera Chiesa, mentre fuori
della sua compagine visibile esistono solo “elementa Ecclesiæ che – essen-
do elementi della stessa Chiesa – tendono e conducono verso la Chiesa Cat-
tolica (LG 8). Il Decreto sull’Ecumenismo esprime la stessa dottrina (UR 3-
4), la quale fu di nuovo precisata nella Dichiarazione Mysterium Ecclesiæ
n° 1 [AAS, 65, 1873, 396-398]»43. Nonostante questa spiegazione ufficiale
del verbo subsistit alcuni autori hanno mosso delle riserve nei confronti del
passo conciliare, ad esempio SPINSANTI ha osservato, commentando: «Ciò
che fa problema è che il testo sembra affermare ancora una volta l’economia
del “ritorno”, dove dice che il dialogo, nelle forme precisate, è una “via” che
“a poco a poco” porterà i cristiani a riunirsi “in quella unità dell’unica Chie-
sa che Cristo fin dall’inizio donò alla sua Chiesa” e che la Chiesa Cattolica
afferma, appunto “sussistere” in Lei. E’ da notare, al riguardo, oltre alle os-
servazioni già fatte, che l’unità-comunione di cui qui si parla è quella della
Chiesa e non della Chiesa cattolica. (...) questa comunione-unità deve essere
realizzata non nella Chiesa cattolica, ma con la Chiesa cattolica. Ed altret-
tanto non nelle ma con le Chiese non cattoliche. (...) Il che significa che nes-
suna Chiesa deve abdicare al senso profondo della fede in cui crede ed ha
identità. Neppure la Chiesa cattolica, la quale appunto, afferma per quanto
la riguarda, il “sussiste”. Ognuna, infatti, deve sapere che quest’unità non
può essere fatta a spese degli altri. Cristo non è un principio di conquista,

41
LG 8: EV 1, 305.
42
S. SPINSANTI, Ecumenismo, Roma 1982, 91.
43
AAS 71 (1985) 758-759.
25
ma Colui nel quale tutti sono chiamati, perché già in comunione con Lui,
a stare in comunione con i fratelli della fede»44.
Nonostante la problematica del subsistit – in merito alla quale non si ri-
tiene opportuno qui addentrarsi – dobbiamo osservare che nella realtà odier-
na, in cui agiscono il CIC ed il CCEO, di “uniatismo” e quindi di “assorbi-
mento” di altre Chiese o Comunità ecclesiali in seno al Cattolicesimo non se
ne parla affatto; anzi, la Chiesa Cattolica ha ufficialmente bandito tale prati-
ca riconoscendola errata e comunque passata45. Ma, al di là di questi interes-
santi ed importantissimi temi ecumenici ci preme sottolineare – per la nostra
ricerca – quanto segue.
Il decreto sull’ecumenismo rappresenta, insieme a Lumen Gentium
ovviamente, un mutato assetto dell’ecclesiologia cattolica, si è attuata
cioè una ecclesiologia di comunione, di koinônia, giungendo a considera-
re la Chiesa come “sacramento d’unità” e quindi di comunione46; nasce,
pertanto, una nuova visione ecclesiologica che non è più “esclusivista”,
bensì incentrata sui “vari gradi di comunione”. Il subsistit – ci sia con-
cesso di chiamare così la questione – fa sì che si possa ammettere la
“ecclesialità” delle altre Chiese e crea una sorta di gradiente di comunio-
ne tra gli altri cristiani ed i cattolici. Certamente non è qui il caso di
descrivere la complessa tematica dell’ecclesiologia del Vaticano II, ma si
è ritenuto opportuno accennare a tale questione, specie sul punto del sub-
sistit e su quello della communio, poiché alla base della communicatio in
sacris (che descriveremo nel capitolo terzo) risiedono profondamente tali
concetti (cioè: mutato atteggiamento e considerazione dell’”altro”, idea
della koinônia, ecc.). In sostanza, come afferma SPINSANTI: «Il decreto
ecumenico supera quella polemica di parte con cui i cristiani fanno
coincidere la separazione tra loro con la separazione di Dio. (...) l’apertura
ecumenica alimenta una sensibilità attenta e una giusta considerazione degli
elementi positivi contenuti nel Cristianesimo non cattolico. I non cattolici
non sono affatto un “nulla” dal punto di vista ecclesiale»47
Alla luce di UR, ma anche di tutto il corpus del Vaticano II, la Chiesa
non solo si è inserita nel processo ecumenico ma ha anche compiuto nume-

44
S. SPINSANTI, Corso di Teologia..., op. cit., 190-191. Circa il subsistit, fondamentale resta F. SUL-
LIVAN, Subsistit in, in One in Christ 2 (1986) 115-123; IDEM¸ In che senso la Chiesa di Cristo
“Sussiste” nella Chiesa Cattolica Romana, in a.c.d. R: Latourelle, Vaticano II: Bilancio e prospet-
tive venticinque anni dopo (1962-1987), Assisi 19882, II, 811-824.
45
E. F. FORTINO, L’uniatismo, metodo di unione del passato e la ricerca attuale della piena comunio-
ne, in Oriente Cristiano 33-2 (1993) 67-73.
46
Cfr. C. MILITELLO, Ecclesiologia, Casale Monferrato 1992, 79.
47
S. SPINSANTI, Ecumenismo, op. cit., 92-93.

26
rosi passi e progressi nel dialogo, creando degli strumenti atti a perfezionare
il cammino ecumenico. Non possiamo dimenticare il fatto che entrambi i
codici di diritto canonico (CIC e CCEO) sono ampiamente ispirati dai det-
tami conciliari, ed ugualmente il nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica,
nonché la stessa riforma della Curia Romana, attuata con la Cost. Ap. Pa-
stor Bonus (28 giugno 1988; in AAS 80, 1988, 841-934), e da ultimo il
nuovo Direttorio Ecumenico.
Il Vaticano II segna dunque, non solo per l’ecumenismo, ma per tutta
la realtà ecclesiale un mutato orizzonte, una metanoia; ma il Concilio è
stato solo il punto di partenza ed ha indicato una serie di strade, ma anco-
ra deve essere attuato in toto, ed alcuni sostengono che: «Ora il Vaticano
II è veramente entrato nella fase creatrice. La stagione attuale è molto più
importante della celebrazione del concilio. Riveste la drammaticità che
contrassegnò il mezzo secolo della tremendamente faticosa recezione di
Nicea (...). Certamente, quando era in atto la celebrazione del Vaticano
II, non si sospettava che diventasse così faticoso anche il capire e
l’interpretare il concilio (...)»48.
Infine, UR ha introdotto – come vedremo di volta in volta nei successivi
capitoli di questo studio – principi normativi in re oecumenica. Come si è
sopra accennato, tutto ciò ha portato dei frutti sia sul piano della legislazio-
ne che su quello del dialogo ecumenico. Tra i vari principi di UR, deside-
riamo sottoporre all’attenzione essenzialmente uno: quello che le altre Chie-
se hanno il diritto di reggersi secondo le proprie norme; infatti asseriva il
Concilio: «Le Chiese d’Oriente, (...) hanno la facoltà di regolarsi secondo le
proprie discipline...»49. Dunque, le Chiese d’Oriente posseggono uno ius
canonicum valido, dal momento che il loro patrimonio disciplinare è stato
per tutto l’arco del primo millennio in comune. Da ciò scaturisce il princi-
pio, generale, già sancito dal Concilio che i cristiani delle altre Chiese e
Comunità non sono tenuti alle leggi meramente ecclesiastiche (CCEO can.
1490, CIC can. 11). In merito osservava già il Segretariato per l’Unità dei
Cristiani in una sua celebre nota [= ECAS]: «The second Vatican Coucil (...)
recognise the existance, beyond the canonical frontiers of the Catholic
Curch of Churches and ecclesial communities, (Unitats Redintegratio,
pars. 15 and 19) which the Honly Spirit allows to serve as means of sal-
vation (ibid., par. 3). Hence the explicit desire to avoid imposing on other

48
L. SARTORI, Teologia Ecumenica. Saggi, Padova 1987, 120.
49
UR 17: EV 1, 552.
27
Churches and ecclesial communities laws for Catholics of Latin rite. So
what used to be the exception has today become the rule»50.
Questa prospettiva, che dal Concilio in poi è nuova, per la canonistica
cattolica, è cosa di non poco conto. Infatti, la doppia codificazione canonica
– CIC per la Chiesa Latina e CCEO per le Chiese Orientali Cattoliche – ha
essa stessa un carattere ed una dimensione ecumenica, dal momento che
mostra agli “altri” l’unità nella diversità. Del resto, gli stessi membri della
gerarchia orientale cattolica compresero ben presto l’importanza di un codi-
ce apposito per le Chiese Orientali Cattoliche, cioè la assoluta necessità di
un corpus giuridico comune alle Chiese Orientali, da utilizzare come segno
per un dialogo ecumenico con le altre Chiese d’Oriente. In merito, estrema-
mente significative fu la lettera del Patriarca Melkita MAXIMOS IV al Papa,
nella quale esprimeva che un codice comune a tutte le Chiese Cattoliche (O-
rientali e Latina) sarebbe stata un’iniziativa catastrofica per il dialogo ecu-
menico, dal momento che la disciplina che si sarebbe così formata avrebbe
mostrato «ai nostri fratelli ortodossi che la disciplina che li attende (...) non
è la loro, ma quella della Chiesa Latina»51. Le idee di S.B. MAXIMOS IV fe-
cero breccia ed oggi il CCEO, come vedremo in questo studio, si dimostra
all’avanguardia in re oecumenica, costituendo uno strumento efficace per il
dialogo ecumenico.
Certamente, il Vaticano II ancora non è stato “attuato” in pieno; ma per
ciò che concerne l’ecumenismo l’opera è già iniziata e – come vedremo – da
un punto di vista giuridico molto si è fatto e molto si sta facendo. Con UR la
Chiesa Cattolica è entrata a pieno titolo nell’ottica ecumenica, uscendo dal-
l’ambiguità e dalle reticenze; quindi si è assistito – ed assistiamo tutt’oggi –
ad una vera e propria mutazione (teologica, giuridica, pastorale) pur rima-
nendo inalterato il substrato dogmatico. Dunque il Vaticano II segna senza
dubbio un “ampliamento” del concetto ecclesiologico, vi è una mutata teo-
logia, in ambito ecumenico, e grazie all’ecumenismo, si è passati da una teo-
logia di contrasto, di dibattito, ad una di dialogo. Il Concilio, realtà ancora
non attuata al cento per cento, ha tuttavia dato già frutti, e alcuni di essi so-
no oggi visibili nel CIC e nel CCEO52; scopo di questa dissertazione e pro-
prio quello di evidenziare tali aspetti che sono – non esitiamo a dirlo – frutto
dei dettami conciliari (ma anche post-conciliari). Infatti l’attuale legislazio-
ne in larga parte risente dello spirito del concilio, spirito che speriamo possa
50
ECAS (Chap. I, 1), 58.
51
MASSIMO IV¸ Contro il progetto di un codice unico per la Chiesa orientale e per la Chiesa Occi-
dentale, in I Discorsi di Massimo IV al Concilio, Bologna 1968 (trad. it.), 468.
52
In merito all’impatto del Concilio sul diritto canonico fondamentale è lo studio di L. ÖRSY, Theo-
logy and Canon Law. New Horizons for Legislation and Interpretation, Collegeville, 1992.

28
sempre andare avanti. Certamente quanto detto rischia di essere scarso o ad-
dirittura “riduttivo”, ma senza dubbio era necessario premettere tutto ciò al
fine di poter collocare a pieno i rapporti tra ecumenismo e diritto, quali sono
espressi nell’attuale legislazione canonica delle Chiese Orientali Cattoliche.
***
Ci sia concessa una ultima parola in merito ad alcuni recenti documenti,
nei quali ancora viene trattato l’ecumenismo cattolico; questi sono le enci-
cliche Orientale Lumen e Ut Unum Sint; infine il Nuovo Direttorio Ecume-
nico. Entrambe le encicliche sono di massima utilità per meglio comprende-
re ed affrontare la tematica ecumenica in ambito del CCEO, costituendo per
noi un autorevole commento alle tematiche ecumeniche (incluse quelle del
Codice); infatti la prima enciclica, pur trattando delle Chiese orientali catto-
liche non manca di ricordarci che l’impegno ecumenico è prerogativa di tali
Chiese, mentre la seconda sembra voler quasi “perfezionare” i dettami del
Nuovo Direttorio Ecumenico. Entrambi i documenti, dovranno perciò essere
tenuti in debita considerazione allorquando si tratterà delle norme contenute
dal CCEO che hanno attinenza ecumenica. Infine, ma non da ultimo, il
NDE, pubblicato abbastanza recentemente (1993), segna un passo ulteriore
nel-l’impegno ecumenico; inoltre il medesimo, tra le sue fonti, cita i canoni
del CCEO, perciò riteniamo che anche questo documento ci sarà d’ausilio
per la nostra indagine, anche se ovviamente il NDE non è fonte del
CCEO, ma esattamente l’inverso, nondimeno ci è d’ausilio per notare gli
ulteriori passi compiuto dalla Chiesa Cattolica in materia ecumenica. In
un brillante saggio, PABLO GEFAELL analizza la complessa tematica ine-
rente al “rango delle disposizioni del Direttorio nella gerarchia delle nor-
me”53, esponendo alcune sue perplessità sotto questo aspetto del NDE, af-
fermando, infine, che: «(...) il vecchio Direttorio godeva della “massima
approvazione” pontificia, cosa che manca al nuovo Direttorio»54. In real-
tà, a nostro sommesso avviso, il problema sollevato dal GEFAELL, forse
andrebbe ridimensionato. Certamente il Direttorio non può né restringere
né ampliare la norma canonica, pur essendo un decreto generale esecuti-
vo55; tuttavia non è un documento privato, ma un atto pubblico della Chie-

53
P. GEFAELL, Il Nuovo Direttorio Ecumenico e la Communicatio in Sacris, in Ius Ecclesiae 6 (1994)
260-265.
54
Ibid., 273.
55
Cfr. E. FORTINO, The revised Ecumenical Directory: Process, Content, Supporting Principles, in
The Pontifical Council Promoting Christian Unity, Information Service 84 2/4 (1993) 138-143; ed
anche nella versione francese del bolletino del PCPUC, Service d’Information 84 II-IV (1993)
144-148.
29
sa... «Sua Santità Papa Giovanni Paolo II ha approvato il presente direttorio
il 25 marzo 1993. L’ha confermato con la sua autorità e ne ha ordinato la
pubblicazione. Nonostante qualsiasi disposizione in contrario»56. Tuttavia,
se per il vecchio Direttorio non ci sono molti dubbi in merito al fatto che sia
stato ufficialmente promulgato, infatti sono usati chiaramente i termini:
“approvare” («a approuvé»), “confermare” («il l’a confirmé»), “ordinare la
pubblicazione” («a ordonné la publication»)57. La massima del can. 7 del
CIC («Lex instituitur cum promulgantione») e del can. 1488 del CCEO
(«Leges instituuntur promulgatione»), sembra essere ottemperata anche per
il Nuovo Direttorio. Quindi, non siamo d’accordo sul fatto che il NDE man-
chi della “massima approvazione”; piuttosto siamo in sintonia con GEFAELL
sul problema della frase finale del NDE: «Nonostante qualsiasi disposizioni
in contrario», frase che senza dubbio è ambigua. Ad ogni modo, in questa
dissertazione dottorale, terremo presente il NDE, in quanto ci consentirà i
chiarire o commentare i canoni di “carattere ecumenico” del CCEO.

56
Questo è riportato nell’edizione italiana del NDE, edita a Bologna 1993, (Ed. Dehoniane), a p. 89;
il testo è perfettamente identico all’originale francese, leggibile in AAS 85 ( 1993) 766.
57
In merito a tali problematiche, fondamentale resta: P. PELLEGRINO, La pubblicazione della legge nel
Diritto Canonico, «Quaderni dell’Università degli Studi di Lecce – Studi di Diritto Pubblico» nr.
13, Milano 1984, (praesertim cap. IV).

30
I BATTEZZATI ACATTOLICI
CHE PERVENGANO ALLA PIENA COMUNIONE
CON LA CHIESA (CATTOLICA) SECONDO IL CCEO

§1. Alcune note introduttive

Il CCEO contiene 2 appositi titoli – a differenza del CIC58 – aventi per


oggetto gran parte della “materia ecumenica”; infatti, dedica appositamente
un titolo ai “battezzati acattolici” (Tit. 17°) ed un altro all’ “esercizio del-
l’ecumenismo” (Tit. 18°), tutto questo è – data la sua natura – un fatto com-
pletamente nuovo per la canonistica, essendo frutto delle riflessioni conci-
liari in merito all’ecumenismo59.
Del resto, per ciò che concerne il titolo 17° CCEO osserviamo che il
nostro tema risulta essere una “novità” propria della nostra era. Infatti, no-
nostante il fatto che il CCEO si sia ampiamente ispirato alle fonti dei sacri
canones del primo millennio60, in realtà le fonti antiche, al riguardo, sem-
brano per la maggioranza alquanto antitetiche (o comunque lontane) rispetto
alle vigenti; tuttavia anche per questo titolo – come del resto per altri del
Codice – non mancano di certo riferimenti storici o canoni antichi che pos-
sono, almeno in forma embrionale, rappresentare i prodromi di quelli mo-
derni e quindi essere considerati come fontes. Dunque, proprio per questo
motivo è interessante notare il perché il CCEO abbia dedicato un titolo spe-
cifico ai “battezzati acattolici”. La risposta a ciò la si può rintracciare nei
Praenotanda allo schema dei canoni sull’evangelizzazione delle genti e del
magistero, in cui si affermava: «Iam a primordiis, usque ad nostra tempora,
sacrorum canonum orientales collectiones nonnulla praescripta de baptiza-
tis non catholicis ad Ecclesiam redeuntibus continuisse, quae, si in pluribus
obsoleta sunt, id saltem manifestent quanto opere hic titulus traditione co-
gnoscat»61. Quindi anche per questa ragione la PCCIOR ritenne opportuno

58
Il CIC non ha alcun canone corrispondente e sembra pertanto rinviare per la materia direttamente
alle norme date dal Concilio Vaticano II.
59
Ricordiamo che la prima assemblea plenaria della PCCICOR (18-23 marzo 1974) approvò che uno
dei principi sul quale si sarebbe dovuto basare il nuovo codice orientale sarebbe stato proprio quel-
lo ecumenico (ved. cap. 3°).
60
Cfr. I. ÃUÃEK, The Ancient Oriental Sources of Canon Law and the Modern Legislation for Orien-
tal Catholics, in Kanon 1 (1973) 147-159.
61
Nuntia 12 (1981) 12.

31
inserire nel futuro codice orientale un apposito e specifico titolo concernen-
te la questione dei “battezzati acattolici”.

***
Il titolo 17° parla di “acattolici”; tale termine designa tutti quei battezzati
in una Chiesa o una Comunità ecclesiale che però non godono della piena co-
munione con la Chiesa cattolica. Precedentemente al Concilio, l’“altro” era eti-
chettato semplicemente come “eretico” o “scismatico” o “dissidente” (a secon-
da dei tempi e delle circostanze). È da sottolineare, infine, che il termine “acat-
tolico” benché comparisse già nel CIC del 191762, solo successivamente sem-
bra aver acquistato un valore semantico “positivo”.
Pur non essendo certamente questa la sede per affrontare la tematica “e-
resia-ortodossia”63, tuttavia è bene ricordare che in merito la Chiesa sembra
aver avuto sempre idee sufficientemente chiare. Infatti già il can. 6° del con-
cilio Costantinopolitano I (anno 381) diede una prima definizione di chi era
da ritenersi eretico per la Chiesa; il canone statuiva: «(...) haereticos autem
dicimus qui olim ab ecclesia abdicati sunt, et qui postea a nobis anathema-
tizati; ad haec autem et eos, qui se sanam quidem fidem confiteri prae se fe-
runt, avulsi autem sunt et abscissi et adversus canonicos nostros episcopos
congregationem faciunt»64. Dunque – in base al Costantinopolitano I – si
avevano due tipologie di eretici: quelli condannati da un precedente concilio
ecumenico e quelli che, pur non essendo formalmente anatematizzati (il ver-
bo greco è proprio ¢naqemat…zw) professavano de facto una fede differente
da quella ortodossa65. E fu sempre il Costantinopolitano I a dare direttive sul
modo di accogliere gli eretici in seno alla Chiesa; infatti il can. 7 stabiliva
modi precisi di ricevere gli eretici a secondo dell’eresia da cui provenivano,
pertanto si andava dall’abiura dell’eresia accompagnata dall’un-zione col
santo myron (¤gion màron) o con l’imposizione delle mani (ceiroton…a),
fino ai casi più gravi in cui il candidato veniva ribattezzato66. La disciplina
62
Ecco i canoni del CIC* concernenti gli acattolici: 1350 §1, 542 n. 1, cfr. 2411, 693§1, 987 n.1,
1657 §1, 1099 §2, 1140, 1152.
63
Ricordiamo che il vocabolo “haeresis” fu usato da Giuseppe Flavio, scrittore dell’età giudaico-
ellenistica, per designare i gruppi eterodossi giudaici; il vocabolo fu poi importato in ambiente cri-
stiano per designare i “separati”. In merito alla tematica cfr. M. SIMON – A. BENOÎT, Giudaismo e
Cristianesimo, Roma-Bari 1985(trad. it.), 269-287.
64
COD, 33-34.
65
Fonti di questo can. sono: can. 74 degli Apostoli; can. 12, 14, 15 del concan. di Antiochia; can. 4
del concan. di Sardica ed il can. 1 di S. Basilio
66
Ecco il testo integrale del can. 7 del concan. Costantinopolitano I: «Quomodo recipiendi sint qui ad
rectam fidem accedunt» – «Eos qui rectae fidei adiiciuntur, et parti eorum qui ex haereticis ser-
vandis, recipimus, secundum subjectam hic consequentiam et consuetudinem. Arianos quidem, et

32
antica – proprio alla luce di questo canone – sembrava voler distinguere tra
quelli già nati nell’eresia e perciò a causa di essa non validamente battezza-
ti, che quindi venivano nuovamente battezzati, ed infine coloro il cui batte-
simo era considerato comunque valido, che invece venivano unti col santo
myron o gli venivano imposte le mani67. Dunque già nei canoni della Chiesa
dei primi secoli la nozione di “eretico” era già sufficientemente chiara, al-
meno dal punto di vista pragmatico; tuttavia, nonostante il succedersi dei
secoli ed il progredire degli studi teologici non vi furono molti cam-
biamenti riguardo al concetto, anzi è sufficiente ricordare le rispettive posi-
zioni tra Bizantini e Latini in merito al grande scisma del 1054 per poter
comprendere quanto si fosse lontani dalla realtà odierna. Così per, secoli, tra
ortodossi e cattolici, tra cattolici e protestanti e tra Cattolici e Anglicani, vi è
stato un reciproco clima di astio, i cui effetti nefasti hanno fatto sì che le di-
visioni si ampliassero sempre di più, anziché ricomporsi.
Sono passati duemila anni dalla venuta di Cristo e la Chiesa cattolica,
oggi, alla luce della profonda riflessione conciliare, sembra conoscere una
nuova fase, in cui le categorie mentali vengono ad essere mutate. Infatti, at-
tualmente gli altri cristiani, non sono più definiti come “eretici” o “sci-
smatici”, ma sic et simpliciter: “acattolici”, cioè “non-cattolici”. L’uso di ta-
le lemma, ha in sé un qualcosa di prettamente rispettoso o riguardevole ver-
so gli “altri”; ora sono semplicemente, considerati, per quello che sono,
cioè: cristiani non appartenenti alla Chiesa cattolica e perciò “acattolici”.
Questo è, in senso storico-religioso, una semplice etichetta, un lemma clas-
sificatorio utilizzabile per intendersi e non più un concetto discriminante
come nel passato. Le parole del Concilio Vaticano II sono infatti illuminan-
ti: «In questa chiesa di Dio e unica sono sorte fin dai primissimi tempi al-
cune scissioni, che l’apostolo riprova con gravi parole come degne di

Macedonianos, et Sabbatianos, et Novatianos, qui dicunt se ipsos Catharos et Aristeros (hoc est,
mundos, vel sinistros), et Tessaradecatitas, sive Tetraditas, et Apollinaristas recipimus, dantes
quidem libellos, et omnem haeresim anathemaatizantes, quae non sentit ut sancta Dei catholica et
apostolica ecclesia; et signatos, sive unctos primumsancto chrismate et frontem oculos et nares et
os et aures. Et signantes diciums: Signaculum doni Spiritus Sanct. Atque Eunomianos, qui in unam
demersionem baptizantur, et Montanistas, qui hic dicuntur Phryges, et Sabellianos, qui eumdem
esse Patrem et Filum opinantur, utrumque simul confundentes, et alia gravia et indigna faciunt, et
alias omnes haereses (quoniam hic multi sunt haeretici, et maxime qui ex Galatarum regione ve-
niunt) quicumque ex his rectae fidei adscribi volunt, ut Graecos admittimus: et primo quidem die
ipsos Christianos facimus; secundo catechumenos; deinde tertio exorcizamus sive adiuramus ip-
sos, ter simul in faciem eorum et aures insufflando. Et sic eos catechizamus sive initiamus, et
curamus ut longo tempore versentur in ecclesia, et audiant scripturas; et tunc eos baptizamamus»
(COD, 35).
67
Fonti di questo canone sono i Niceno I, can. 8 e 9; can. 46, 47, 48 degli Apostoli; can. 7 e 8 del
concan. di Laodicea ed infine i cann. 1, 5, 47 di S. Basilio.

33
condanna; ma nei secoli posteriori sono nati dissensi più ampi e comuni-
tà non piccole si sono staccate dalla piena comunione della Chiesa catto-
lica, talora non senza colpa di uomini d’entrambe le parti. Quelli poi che
ora nascono e sono istruiti nella fede di Cristo in tali comunità non pos-
sono essere accusati del peccato di separazione, e la Chiesa cattolica li
abbraccia con fraterno rispetto ed amore. Quelli infatti che credono in
Cristo e hanno ricevuto debitamente il battesimo sono costituiti in una
certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica. (...) Inoltre
tra gli elementi o beni, dei quali, presi insieme nel loro complesso, la
stessa Chiesa è edificata e vivificata, alcuni, anzi parecchi e segnalati,
possono trovarsi fuori dei confini visibili della Chiesa cattolica, come la
parola di Dio scritta, la vita nella grazia, la fede, la speranza e la carità,
e altri doni interiori dello Spirito Santo ed elementi visibili: tutte queste
cose, che provengono da Cristo e a lui conducono giustamente apparten-
gono all’unica Chiesa di Cristo»68.
In effetti, tutto ciò rappresenta una vera e propria “metanoia”, un radi-
cale cambiamento, una sorta di “rivoluzione copernicana” in seno alla Chie-
sa cattolica attuata proprio tramite il Concilio Vaticano II.
Infatti, dobbiamo qui rammentare lo stesso concetto di eresia, qual è
oggi descritto dai codici di diritto canonico; proprio ispiratosi ai dettami
di UR 3, il CCEO definisce attualmente l’eretico al can. 1436, statuendo:
Ǥ1. Qui aliquam veritatem fide divina et catholica credendam dene-
gat vel eam in dubium ponit aut fidem christianam ex toto repudiat et
legitime monitus non respiscit, ut haereticus aut apostata excommuni-
catione maiore puniatur, clericus praetera aliis poenis puniri potest
non exclusa depositione. §2. Praeter hos casus, qui sustinet doctri-
nam, quae a Romano Pontifice vel Collegio Episcoporum magisterium
authenticum exercentibus ut erronea damnata est, nec legitime moni-
tus resipiscit, congrua poena puniatur» 69; infine prosegue il CCEO
col canone 1437, che asserisce: «Qui subiectionem supremae Eccle-
siae auctoritati aut communionem cum christifidelibus eidem subiectis

68
UR 5: EV 1, 503.
69
Fonti del can. 1436 sono: can. 62 degli Apostoli, can. 6 del Concan. Costantinopolitano I, can. 93
di Cartagine; inoltre numerosi cann. dei Padri: cann. 1-2 di S. Pietro Alessandrino, cann. 73 e 81 si
S. Basilio Magno, cann. 2-3 di S. Gregorio di Nissa, can. 9 di Timoteo d’Alessandria. Invece, tra le
fonti più recenti abbiamo: il tit. I (“Qua vero”) del Sinodo dei Ruteni di Zamostene (a. 1720) ed il
can. 952a del Sinodo degli Armeni (del 1911).

34
detrectat et legitime monitus oboedentiam non praestat, ut schismati-
cus excommunicatione maiore puniatur» 70.
Il CIC, da parte sua, si comporta egualmente, anche se dobbiamo notare
che procede in modo più schematico, infatti al can. 751 ci fornisce una defi-
nizione diretta di eretico, scismatico ed apostata, sancendo: «Dicitur haere-
sis, pertinax, post receptum baptismum, alicuius veritatis fide divina et ca-
tholica credendae denegatio, aut de eadem pertinax dubitatio; apostasia,
fidei christianae ex toto repudiatio; schisma, subiectionis Summo Pontifici
aut communionis cum Ecclesiae membris eidem subditis detrectatio»; pari-
menti sotto il profilo penale al can. 1364, ci ricorda che: Ǥ1. Apostata a fide,
haereticus vel schismaticus in excommunicationem latae sententiae incurrit,
firmo praescripto can. 194, §1, n. 2; clericus praetera potest poenis, de quibus
in can. 1336, §1, n. 1, 2 et 3, puniri». In merito al can. 751 CIC il PSUC com-
mentava (nella sua nota sull’ecumenismo nel codice latino): «Can. 751 defines
heresy, apostasy and schism and is to be interpreted in relation to baptized
Catholics who fall into heresy, apostasy, and schism. For other baptized Chris-
tians, the Council retains its full value in Unitatis Redintegratio, par. 3 explic-
itly resumed by no. 19 of the Ecumenical Directory (...)»71.
Tutto questo è frutto della riflessione conciliare e trova ampia eco, già
nel precedente Direttorio Ecumenico che ai nn. 19-20 asseriva: «Secondo il
decreto Sull’ecumenismo, i fratelli nati e battezzati fuori della comunione
visibile della Chiesa Cattolica, si debbono attentamente distinguere da quelli
che, battezzati nella chiesa cattolica, coscientemente e pubblicamente hanno
poi apostato da essa. (...); per questo motivo, non essendoci tale colpa, se
spontaneamente desiderano abbracciare la fede cattolica, non hanno bisogno
di assoluzione dalla scomunica, ma vengono ammessi nella piena comunio-
ne della chiesa cattolica, dopo aver fatto la professione di fede, secondo le
norme dell’ordinario del luogo (...). 20. Ciò che è stato detto per
l’assoluzione delle censure, per la medesima ragione vale anche per l’abiura
dall’eresia»72.
Osserviamo, pertanto, che vi è stata una notevole restrizione del concet-
to di eresia, sia da un punto di vista canonico che teologico ed i canoni sopra
esposti ci sembrano sufficientemente chiari in tal senso. Perciò, quanto e-
sposto e dichiarato dal Concilio si riflette, come appare evidente,
70
Fonti di questo canone sono: Canoni degli Apostoli, can. 31; Gangria, can. 6, Antiochia can. 5;
Cost. can. 6; Cartagine, cann. 10, 11, 53, 93; S. Basilio Magno, can. 1, Cost. IV, can. 10; Sinodo di
Pontedeura (a. 861), cann. 13-15.
71
ECAS (Chap. IV. 2), 64.
72
DE nn. 19-20. Ved. anche, per un commento: G. PATTARO, Per una pastorale dell’Ecumenismo.
Commento al Direttorio Ecumenico, Brescia 1984, 41-43.

35
nell’attuale legislazione ed in particolare nel 17° titolo del CCEO, che è – lo
asseriamo subito – tutto frutto delle norme conciliari ed impregnato da un
ampio spirito ecumenico. Infatti è proprio in virtù del principio che la Chie-
sa cattolica riconosce alle altre Chiese cristiane un grado di comunione –
koinônia – più o meno ampia, grazie alla quale è stato possibile redigere le
norme quali sono esposte nel nostro titolo.

***
Tuttavia, dobbiamo sottolineare un ultimo aspetto: quello terminologi-
co. Ossia, il CCEO usa l’aggettivazione «acattolico/i» alternandola con
l’espres-sione «Chiese o Comunità» che non hanno la piena comunione con
la Chiesa Cattolica (cfr. cann. 322§4, 761§§3-4). Il CCEO, sembra dunque
differenziarsi dalla terminologia adottata dai testi conciliari, per i quali le
Chiese o le Comunità ecclesiali non cattoliche erano denominate «Ecclesiae
et Commu-nitates seiunctae» (cioè “separate”) ed i loro fedeli «fratres
seiuncti»; questo linguaggio, conservato ancora dal CIC (cfr. can. 825§2)
non è presente nel CCEO73. In realtà il lemma “acattolico” è stato voluta-
mente scelto dal Coetus de Coordinatione, che tra non catholici ed acatholi-
ci ha preferito utilizzare il secondo perché – come si ha modo di apprendere
in Nuntia–: «(...) più breve e, tutto considerato, assai “neutro”. La summen-
zionata locuzione [n.d.r. non catholici], si è giudicata troppo lunga per poter
essere usata in tutti i casi che si riferiscono ai battezzati non cattolici. Per-
tanto essa si ritiene in quei canoni nei quali si vuole mettere in risalto preci-
samente la “com-munio” già esistente con la Chiesa cattolica, benché non
“ancora piena”»74. Riteniamo giusta e fondata questa motivazione; anzi da
un punto di vista filologico è senza dubbio più preciso parlare di “acattolici”
anziché di “non-cattolici”, essendo la vocale “a” una forma semantica priva-
tiva. Del resto, il legislatore ha forse desiderato soltanto “etichettare” in
qualche modo gli altri cristiani, cioè quelli che non godono – ancora – della
communio con la Sede Romana. Sarebbe, invece, forse, stato più preciso –
ma sempre da un punto di vista linguistico – specificare maggiormente, os-
sia parlare di “Cristiani acattolici” anziché “acattolici” sic et simpliciter. In
effetti, “acattolico” o “non-cattolico”, vuol dire – linguisticamente parlando
– semplicemente che non sono cattolici; dunque anche un musulmano o un
buddista potrebbe essere appellato come “acattolico”, mentre un anglicano

73
Cfr. D. SALACHAS, Implicanze ecumeniche nel “Codice dei Canoni delle Chiese Orientali”, in
«Studi Giuridici» 34, 76-105, praesertim 78 s.
74
Nuntia 21 (1985) 76-77.

36
od un ortodosso è, per noi cattolici, un cristiano che però non è in comunio-
ne ancora perfetta con il cattolicesimo, perciò è un “cristiano acattolico” e
per questo motivo il Codice molto spesso parla, giustamente, di «baptizati
acatholici». Ad ogni modo, a parte le osservazioni linguistiche, evidente-
mente il CCEO ha preferito la via della brevità e quindi, probabilmente, del-
la praticità.

***
Connesso al problema del “ritorno” degli acattolici alla Chiesa cattolica
vi è quello della “comunione”. Circa tale concetto, da un punto di vista sto-
rico dobbiamo ricordare quanto segue. La nozione di communio-koinwn…a
era già chiara ai cristiani dei primi secoli75, essendo intesa sia come commu-
nicatio in rebus spiritualibus sia come comunione tra tutte le singole chiese,
inol-tre questa comunione veniva manifestata attraverso il sacramento euca-
ristico; del resto l’opposto della communio era – ed è – l’excommunicatio,
ossia la privazione dell’Eucarestia e quindi la mancata aderenza alla Chiesa.
Ha osservato in merito CAN. G. FÜRST: «I testi antichi (...), indicano perbe-
ne, presi nel loro insieme, il doppio aspetto della communio: quello mistico-
sacramentale e quello giuridico-disciplinare. Certo, rispetto a nessuno di
que-sti due aspetti le fonti ci offrono una riflessione approfondita nel senso
moderno di riflessione teologica o giuridica. (...) Visto questo ci può basta-
re sapere che communio era, come ho già accennato sopra, una vissuta re-
altà sacramentale e giuridica, una realtà che preclude che i relativi testi
possano essere semplicemente squalificati come “lirica teologica”, ma
che precludono anche che la communio sia interpretata come un semplice
vincolo di fede e di sentimento»76.
Ma, col IV secolo – ci ricorda FÜRST – in Occidente inizia un mutamen-
to assai profondo nella struttura della Chiesa; essa, infatti, divenne sempre
più “istituzione” più che “corporazione”, «Non c’era più la communio che
formava l’elemento centrale delle strutture, ma la potestas»77. Pertanto il
concetto di communio iniziò ad ampliarsi, e nel periodo medievale, coinci-
dendo la ecclesia con la civitas, iniziò ad inglobare sempre più una realtà
che aveva più del politico che del religioso. Ma, sempre volendo rimanere,

75
Così è ad esempio sostenuto da due eminenti studiosi: L. HERTLING (negli anni quaranta; oggi il
suo celebre studio Communio und Primat, ampliato, è leggibile in Una Sancta 17, 1961, 91-125) e
da CAN. G. FÜRST (Comunione e disciplina ecclesiale nella storia; in Monitor Ecclesiasticus 116,
1991, 5-14).
76
CAN. G. FÜRST, Comunione e disciplina ecclesiale..., op. cit., 10.
77
Ibid., 11.

37
almeno per un attimo, nell’ambito della legislazione antica a proposito delle
diverse categorie di eretici, ci sembra opportuno ricordare quanto segue.
Nella Chiesa dei primi secoli, il problema fu sentito e sulla questione fece
luce la lettera di Papa Stefano (sec. III) ripresa da S. Cipriano, che senten-
ziava: «Si quis ergo a quacumque haeresi venerit ad nos, nihil innovetur ni-
si quod traditum est, ut manus illi imponatur in poenitentiam»78. Osserva in
merito SALACHAS: «I concili ecumenici Niceno I e Costantinopolitano I, nel
condannare le eresie trinitarie e cristologiche del loro tempo, formulando la
fede ortodossa nel simbolo niceno-costantinopolitano, hanno affrontato di
conseguenza nella loro legislazione i casi delle diverse categorie di eretici e
il modo con cui essi dovrebbero essere ricevuti nella Chiesa quando si con-
vertono all’ortodossia. I due concili non dettano delle leggi generali ed asso-
lute in merito, ma esaminano diversi casi separatamente. In modo generico
si può affermare che la retta fede nella Trinità, come è stata formulata dai
suddetti Concili ecumenici, è il fondamento dell’irripetibilità del battesimo.
La condanna delle diverse eresie trinitarie da parte dei suddetti Concili e-
cumenici e la formulazione della retta fede sulla Trinità sono stati i presup-
posti teologici della promulgazione di una legislazione canonica conseguen-
te a proposito delle diverse categorie di eretici, cioè a proposito del ricono-
scimento o del non-riconoscimento della validità del loro battesimo e del
modo con cui la Chiesa accoglieva nel suo seno quei cristiani, condannati
già per le loro dottrine eretiche, che volevano far parte della Chiesa una,
santa, cattolica ed apostolica»79; pertanto, l’Autore conclude asserendo che:
«(...) la legislazione di Nicea e Costantinopoli nel dettare le suddette norme
a proposito delle diverse categorie di eretici e del modo di riceverli nella
Chiesa cattolica ed apostolica, non ne dà una esplicita giustificazione, ma si
può dedurre che prevalga il criterio del loro allontanamento dalla retta fede
sulla Trinità, formulata in modo particolare nel simbolo di fede niceno-
costantinopolitano, ed inoltre il criterio del loro allontanamento dalla formu-
la ortodossa nel-l’amministrare il battesimo; grande spazio poi era lasciato,
nel considerare le diverse categorie di eretici, all’applicazione
dell’economia per facilitare proprio il più possibile il ritorno degli eretici al-
la Chiesa cattolica ed apostolica e alla fede ortodossa. È da notare infine che
il diverso modo di considerare le varie categorie di eretici era condizionato
dalla presa di posizione dottrinale dei suddetti Concili ecumenici riguardo ai
diversi eretici. La legislazione come pure l’atteggiamento pastorale della

78
CYPRIANUS, Epist. LXXIV, 1; in J. P. MIGNE, Patrologia Latina, III, 1174.
79
D. SALACHAS, La Legislazione della Chiesa antica a proposito delle diverse categorie di eretici, in
Nicolaus 2 (1982) 316-7.

38
Chiesa dipendeva dalla gravità della condanna o meno del contenuto delle
diverse dottrine antitrinitarie da parte dei Concili ecumenici e dei sinodi
provinciali»80. Tali posizioni furono poi riprese in ambiente costantinopoli-
tano dai canonisti bizantini del XII sec., che studiando e commentando i sa-
cri canones dei concili ecumenici, utilizzarono tali fonti per poter rafforzare
i propri sentimenti “anti-latini”, in ambito della controversia tra cattolici ed
ortodossi. Lo sviluppo dato dagli studi canonistici costantinopolitani del XII
sec. in materia ci induce a pensare che una tendenza più rigorista improntata
all’¢kr…beia era presente in Costantinopoli, mentre ad Alessandria ed ad
Antiochia vi era una linea di pensiero tendente all’o„konom…a81 (ciò è ben
comprensibile alla luce della situazione politica dell’epoca, in cui Costanti-
nopoli era ormai in completa rottura con Roma). In sostanza, da un punto di
vista storiografico, i canoni antichi riguardanti la cosa possono essere rias-
sunti come segue: Niceno I, can. 8 e 19; Canoni degli Apostoli82 46-47, 68;
concan. di Laodicea cann. 7 e 8; infine i cann. 1, 5, 47 di S. Basilio. In
realtà questi canoni, oggi – come si è accennato prima – sono considera-
bili come fonti obsolete cioè abbastanza antitetiche rispetto a quelle cui
soggiacciono i canoni del titolo 17° del CCEO, del resto a conforto di
questi antichi canoni anche la legislazione imperiale, in materia, dava
ampio conforto ai medesimi83.
Attualmente la Chiesa ha ampiamente rivisto il concetto di “eretico” e
di “apostata” ed ha fatto ciò proprio a partire dal Concilio Vaticano II. Infat-
ti, quanto affermato dal Concilio Vaticano II ha prodotto anche sul piano le-
gislativo, oltre che su quello ecclesiologico, numerosi cambiamenti. In par-
ticolare modo per ciò che riguarda la nostra tematica, assai rilevanti sono i
mutati concetti di “eresia” e di “scisma” che hanno non poche implicazioni
nella sfera ecumenica. Con UR 3 viene sancita chiaramente una restrizione
della categoria dell’eretico, aprendo così non solo una nuova visione eccle-
siologica, ma anche una nuova linea di pensiero che influenzerà (come ve-

80
Ibid., 327-8.
81
Cfr. D. SALACHAS, La législation de l’Eglise ancienne à propos des diverse catégories
d’hérétiques, commenté par les canonistes byzantins du XII siècle, in AA. VV., «Ευλογηµα – Stud-
ies in honour of Robert Taft SJ», «Studia Anselmiana» 100 (1993) 403-425, praesertim 424.
82
È interessante ricordare che Giovanni Scolastico incorporò tutti gli 85 canoni della collezione nella
sua Synagoge e Giustiniano li cita nelle Novelle 6 e 137; successivamente – a dimostrare la grande
importanza che ebbe questa collezione in Oriente – il concilio Trullano li cita, enumerandoli, e li
pone addirittura prima di quelli del Niceno I, nonostante il fatto che i “Canoni degli Apostoli” sia-
no databili intorno al IV sec.
83
In merito alla problematica, ved. M. P. BACCARI, Comunione e cittadinanza (a proposito della posi-
zione giuridica di eretici, apostati, giudei e pagani secondo i Codici di Teodosio II e Giustiniano
II, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 57 (1991) 264-286.

39
dremo subito) la legislazione canonica; infatti UR 3 dichiara: «(...) Quelli
infatti che credono in Cristo e hanno ricevuto debitamente il battesimo sono
costituiti in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la chiesa cattoli-
ca. (...) Nondimeno, giusitificati nel battesimo dalla fede, sono incorporati a
Cristo e perciò sono a ragione insigniti del nome di cristiani e dai figli della
Chiesa cattolica sono giustamente riconosciuti come fratelli nel Signore». A
chiarimento di quanto detto da UR 3, il precedente Direttorio Ecumenico, ai
nn. 19-20, stigmatizzava le norme conciliari (come abbiamo visto sopra).
Dunque, definitivamente. la Chiesa cattolica abbandona le vecchie “etichet-
te” e riconosce apertamente che non si può più accusare di eresia e di scisma
i cristiani che sono nati fuori della comunione cattolica. In conseguenza di
ciò, i codici di diritto canonico hanno provveduto a restringere i concetti
medesi-mi di “eresia” e di “scisma”. A prova di ciò risiedono i canoni, citati
sopra, del CCEO (1436 e 1437) e quelli del CIC (751 e 1364), da cui si e-
vince chiaramente e senza bisogno di commenti alcuni tutto ciò.
Tutto ciò ha notevole importanza per la tematica ecumenica e si riflette
sia nel Titolo 17° (ma anche nel Tit. 18°) del CCEO, ma anche su tutta la
normativa canonica orientale vigente che ha provveduto, come vedremo, ad
includere tematiche ecumeniche.

§2. I battezzati acattolici secondo il Tit. XVII del CCEO

L’odierna normativa, circa i battezzati acattolici che pervengano alla pie-


na comunione con la Chiesa cattolica è costituita dai cann. 896-901 del
CCEO84. I suddetti canoni hanno fonti nei testi del Concilio Vaticano II ed
hanno avuto un proprio sviluppo nell’iter di codificazione canonica orientale;
dunque si procederà con ordine al fine di ricostruire sia l’evoluzione che appro-
fondirne la natura, il significato, e le implicanze ecumeniche dei medesimi.
L’attuale ius vigens rappresenta il punto d’approdo di un iter durato
molti anni e che vede proprio nel Concilio una sorta di spartiacque. Infat-
ti in Nuntia (l’organo ufficiale della PCCIOR) vengono riportati i cosid-
detti “testi iniziali”; in sostanza lo schema della normativa originaria si
basava sul fatto che gli acattolici venivano accolti se non dopo aver rice-
vuto una sufficiente istruzione di fede ed inoltre si richiedeva, di fatto,
l’abiura. Si noti che i seguenti canoni costituenti i testi iniziali, pubblicati

84
Un ottimo commento a questi canoni è quello di D. SALACHAS, Implicanze ecumeniche del “Codice
dei Canoni delle Chiese Orientali”, op. cit., 93-96.

40
in Nuntia85 «(...) sono stati trovati in un unico manoscritto che sembra es-
sere proprio quello che avevano in mano i Membri della Commissione il
21 gennaio 1948 e quindi venivano approvati, in quanto tra le molte mo-
difiche introdotte da questa sessione in tutto il CICO non ve n’è alcuna
che riguardi questi canoni»86.
Come si può ben osservare tali “testi iniziali”, che preferiamo riportare
in nota87, usati per il «De recipiendis in Ecclesiam acatholicis» non corri-

85
Ved. Nuntia 3 (1976) 76-78.
86
Ibid., 77 (nota nr. 9).
87
Nuntia 3 (1976) 76-79: can. 1: «Ad amplexandam fidem catholicam nemo invitus cogatur» [n.d.r. si
noti che il canone è verbatim il can. 1351 CIC*]. Can. 2: «Patriarchae, Archiepiscopi, Episcopi
ceterique locorum Hierarchae necnon parochi acatholicos, praecipue baptizatos qui sunt eiusdem
ritus, in suis territoriis degentes, commendatos sibi in Domino habeant. §2. In locis ubi ecclesia-
stica hierarchia nondum est constituta, universa missionum cura apud acatholicos uni Sedi Apo-
stolicae reservatur». Can. 3: «Ius recipiendi in Ecclesiam catholicam baptizatos acaatholicos, sive
laicos sive clericos, firmo can. 567 bis, n.2 [n.d.r. è il can. 4 seguente], praeter quam ad Romanum
Pontificem, pertinet ad Patriarcham quod attinet ad universum patriarchatum, si ita ferat ius par-
ticulare, et ad loci Hierarcham quod spectat ad ipsius territorium». Can. 4: «In ammittendis in Ec-
clesiam catholicam iis qui ab hereticis vel schismaticis nati et in haeresi vel schismate educati sunt
vel, etsi in Ecclesia catholica baptizati, ab infantili aetate in haeresi vel schismate educati sunt: 1.
Si sint subdiaconi vel diaconi vel presbyteri, Hierarcha loci iis, quos idoneos iudicaverit, permitte-
re potest exercitium receptorum ordinum; 2. Si sint Episcopi, in Ecclesiam recipi possunt a Roma-
no Pontifice aut a suis ritus Patriarcha vel Archiepiscopo; iurisdictionem eutem episcopalem ii-
dem Episcopi exercere non possunt nisi de consensu Romani Pontificis». Can. 5: «§1. Facultatem
de qua in can. 567 [n.d.r. è il can. 2 sopra scritto], ad recipiendos laicos quod attinet Hierarcha
loci habitualiter concedat aliquibus ex prudentioribus et probatioribus suae eparchiae presbyteris.
§2. Eandem facultatem loci Hierarcha, sine iusta causa, prudenti suo iudicio aestimanda, ne de-
neget presbyteris ritus orientalis qui extra patriarchatus et archiepiscopatus curam fidelium sui ri-
tus gerant». Can. 6: «In admittendis baptizatis acatholicis in Ecclesiam catholicam: 1. Quod atti-
net ad abiurationem iuridice peragendam, serventur normae a Sede Apostolica datae et praescrip-
ta librorum liturgicorum ab Ecclesia probatorum iurisque particularis; 2. Professionem fidei emit-
tere debent iuxta statutam formulam, reprobata contraria consuetudine». Can. 7: «§1. In Eccle-
siam catholicam baptizatus acatholicus ne admittatur nisi praemissa sufficienti intructione de vera
fide; et praecipue de veritatibus, erroribus illuc usque professis, contrariis. §2. In mortis autem
periculo, quilibet sacerdos facultate potitur recipiendi acatholici baptizati in Ecclesiam, sola ca-
tholicae fidei professione ab eo emissa; qui, si convaluerit vel mortis periculum superaverit, am-
plius in fide instruatur ad normam §1». Can. 8: «§1. Impuberes e baptizatis acatholicis nati, qui ut
admittantur in Ecclesiam catholicam postulant, praemissa congrua instructione, de consensu pa-
tris, in Ecclesiam recipi possunt. §2. Si ex impuberis ad formalem et publicam fidei professionem
admissione, gravia praevideantur futura incommoda Ecclesiae vel ipsi impuberi, admissio, nisi
mortis periculum immineat, differatur et interim cura de educatione catholica impuberis complen-
da et perficienda ne intermittatur». Can. 9: «Ubi lex civilis normas circa transitum ab una ad
aliam sectam seu, ut aiut, confessionem praescribit, ut certiores sint effectus civiles, normae prae-
dictae erunt observandae deque earundem exsecutione ad Hierarcham referendum». Can. 10: «§1.
Omnia documenta quae ad admissionem baptizati acatholici in Ecclesiamcatholicam referuntur, in
archivio custodiantur. §2. 1. Parochus baptizati acatholici qui in Ecclesiam catholicam receptus
est, adnotare debet in libro baptizatorum nomen, diem, ac locum in quibus fidei professionem emi-
sit et nomen Hierarchae vel sacerdotis coram quo fidem professus est; 2. Si professio fidei nec co-

41
spondevano alle idee del Concilio Vaticano II; quindi il Coetus prepo-
sto ad hoc dalla PCCIOR elaborò nove canoni, questa volta tutti ispi-
rati ad OE ed ad UR 88.

§3. Il principio giuridico fondamentale della normativa

Il principio giuridico fondamentale della normativa riguardo agli acatto-


lici che pervengano alla piena comunione con la Chiesa cattolica è racchiu-
so dal can. 896 del CCEO, che statuisce:
Can. 896: «Eis, qui in Ecclesiis vel Communitatibus ecclesialibus
acatholicis baptizati sunt et ad plenam communionem cum Eccle-
sia catholica convenire sua sponte petunt, sive agitur de singulis
sive de coetibus, nihil ultra imponatur oneris quam ea, quae ne-
cessaria sunt»89.
***

Nell’ambito del processo di codificazione canonica orientale il can. 896


ebbe un iter abbastanza complesso. Infatti, partendo dagli schemi iniziali90
si pervenne alla formulazione di due canoni, entrambi apparsi in un primo
sche-ma91 del 1980: can. 1 «Admissio in Ecclesiam catholicam eorum qui in
aliis Ecclesiis Communitatibus ecclesialibus baptizati, in plenam commu-
nionem catholicam conveniri sua sponte petunt, sive agatur de singulis sive
de coetibus, fit ad normam canonum qui sequntur»; can. 2 «Ad communio-
nem cum Ecclesia Catholica instaurandam nemini nihil ultra imponatur o-
neris quam quae necessaria sunt (Act. 15, 28)».
Successivamente, col prosieguo dei lavori si notò – come si è già detto
– che anche le antiche collezioni canoniche orientali contenevano molte
norme in merito ai battezzati non cattolici ed anche se queste prescrizioni

ram proprio parocho neque eo praesente emissa est, sacerdos qui baptizatum acatholicum in Ec-
clesiam catholicam recepit, eiusdem, ratione domicilii, parochum certiorem faciat». Can. 11: «In
recipiendis acatholicis non baptizatis in Ecclesiam catholicam, applicentur, nisi rei natura obstet,
normae can. 567-572, firmo can. 728 [n.d.r. i cann. 576-572 sono i cann. 3-10 sopra scritti, mentre
il can. 728 è verbatim il can. 750 CIC*, ved. Nuntia, 78]». Can. 12: «Baptizati acatholici, cum ad-
mittuntur in Ecclesia catholicam, debent professionem fidei emittere iuxta statutam formulam. re-
porbata contraria consuetudine».
88
Cfr. Nuntia 11 (1980) 72.
89
Cfr. UR 18: EV 1, 555.
90
Ved. Nuntia 3 (1976) 76-79.
91
Entrambi in Nuntia 11 (1980) 73-74.

42
apparirono obsolete, manifestavano tuttavia l’importanza di tale argomento
dimostrandone anche il proprio fondamento nella tradizione. Così venne ri-
servato a tale tematica un titolo, il 16°, composto da 9 canoni, che in larga
parte ricalcavano quelli già esistenti in Nuntia 12 ed anzi si nota che lo schema
di normativa era identico (a parte il can. 93 che fu differente dal precedente,
che era in Nuntia 11 il can. 8)92. Tuttavia, anche nello schema del 1981, il no-
stro canone (oggi 896) apparve sempre articolato tramite due canoni distinti
ma, a parte la numerazione, il testo dei medesimi rimase identico93.
Il lavoro preparatorio di uno schema proseguì fino all’anno 198394, pe-
riodo in cui nei nostri canoni apparirono alcuni cambiamenti. Infatti, da un
paio di membri del Coetus venne sollevata la questione dell’inscriptio deci-
dendo però di lasciare immutata la cosa dal momento che si preferì ripren-
dere il testo conciliare di OE; in merito si legge, infatti, che: «per quanto ri-
guar-da l’inscriptio di questo titolo un Organo di consultazione non accetta
le parole “ad plenitudinem communionis ecclesiae catholicae”. Un altro vor-
rebbe la seguente dicitura: “De baptizatis plenitudinem communionis et uni-
tatis ca-tholicae restaurantibus”. Il Gruppo lascia l’inscriptio immutata
perché nella grande difficoltà (...) di trovare la migliore formulazione
possibile, si è deciso alla fine di adottare le parole precise del n. 4 del de-
creto conciliare “Orientalium Ecclesiarum” ove si legge “Baptizati... ad
plenam communionis Catholicae convenentes”...»95. I canoni 86 e 87, do-
po un dibattito all’interno del Coetus, vennero fusi; pertanto il testo del
canone apparve come segue: «Iis qui in aliis Ecclesiis vel Communitati-
bus ecclesialibus baptizati sunt et ad plenam communionem catholicam
convenire sua sponte petant, sive agatur de singulis sive de coetibus nihil
imponatur oneris quam quae necesssaria sunt»96.
Successivamente, nello Schema Codicis Iuris Orientalis, elaborato nel
1987, il testo del canone apparve come segue: can. 892: «Iis qui in aliis Ec-
clesiis vel Communitatibus ecclesialibus baptizati sunt et ad plenam com-
munionem catholicam convenire sua sponte petant, sive agatur de singulis
sive de coetibus nihil ultra imponatur oneris quam ae, quae necesssaria

92
Cfr. Nuntia 12 (1981) 12.
93
Nuntia 12 (1981) 33: can. 86 «Admissio in Ecclesiam catholicam eorum qui in aliis Ecclesiis
Communitatibus ecclesialibus baptizati sunt et ad plenam communionem catholicam conveniri sua
sponte petunt, sive agatur de singulis sive de coetibus, fit ad normam canonum qui sequntur»; can.
87 «Ad communionem cum Ecclesia Catholica instaurandam nemini nihil ultra imponatur oneris
quam quae necessaria sunt».
94
Ved. Nuntia 17 (1983) 57-62; i canoni ora sono dal 86-94.
95
Nuntia 17 (1983) 57-58.
96
Nuntia 17 (1983) 58; divenendo il can. 87 di questo secondo schema.

43
sunt»97. Un ultimo cambiamento del canone fu solo di carattere lingui-
stico; infatti Iis divenne Eis, ed il termine acatholicis viene trasferito
dopo ecclesialibus 98.
Si ritiene giusto sottolineare che l’inscriptio adottata dal titolo 17°, ap-
pare maggiormente precisa rispetto ai primi schemi (ved. supra) e più con-
veniente alle tematiche ecumeniche; tuttavia, il verbo convenire, qui usato al
participio, come ci ricorda SALACHAS: «(...) sebbene in forma mitigata, po-
trebbe far ricordare un po’ i tempi passati, quando per unità si intendeva “il
ritorno, la conversione degli acattolici scismatici ed eretici alla Chiesa catto-
lica romana”»99. SALACHAS, giustifica l’uso di questo verbo – convenire –
ricordandoci l’ecclesiologia cattolica del Concilio (citando UR 4 e LG, 8)100.
In realtà, riteniamo che il verbo convenire non potrà creare eccessivi pro-
blemi se si tiene presente che convenire in latino significa essere d’accordo
su qualcosa (convenire in aliqua re); dunque se un battezzato acattolico
richieda di partecipare alla communio catholica, è chiaro che “converrà”
pienamente con la fede cattolica e perciò susseguentemente, entrando in
essa, perverrà alla piena comunione con la Chiesa Cattolica.
Il can. 896 aprente il nostro titolo è di carattere assai generale; infatti
statuisce che coloro i quali siano stati battezzati nelle Chiese o comunità ec-
clesiali acattoliche e che desiderino pervenire alla piena comunione con la
Chiesa cattolica “non s’imponga loro altro peso fuorché le cose necessarie”.
Dunque il principio generale è ispirato alla massima apertura ed al contem-
po pragmaticità. Fonte diretta di questo canone è UR 18 che, infatti, asseri-
va: «Considerate bene tutte queste cose, questo sacro concilio inculca di
nuovo ciò che è stato dichiarato dai precedenti sacri concili e dai romani
pontefici, che cioè, per ristabilire o conservare la comunione e l’unità biso-
gna “non imporre altro peso fuorché le cose necessarie” (Atti, 15, 28)»101.
È interessante notare che il Concilio abbia voluto inserire nel testo il ri-
ferimento agli Atti degli Apostoli, indicando così la S. Scrittura quale fonte
primaria della norma. Si potrebbe asserire allora che questo canone, avente
per substrato UR, il quale a sua volta riprendente Atti 15-28, sia tutto frutto
della Tradizione e quindi intriso di quello ius che per sua natura è inalterabi-
le. Infine il canone esclude, così, da sé ogni accusa di proselitismo102; del

97
Nuntia 24-25 (1987) 160.
98
Nuntia 27 (1988) 59.
99
D. SALACHAS, L’iniziazione cristiana nei Codici Orientale e Latino, Roma-Bologna 1992, 124.
100
Ibid., p. 125.
101
EV 1, 555.
102
È da notare che il DE del 1967 al nr. 28 (nota 15) nomina il “proselitismo” dandone una chiara
spiegazione, affermando: «Hac voce “proselytismi”, hic intelligitur modus agendi non conformis

44
resto il nostro canone, così come è espresso, non entra in conflitto con quan-
to statuito dal can. 586103, che a sua volta riprende la Dignitatis Humanae
(n. 4). Chiaramente, affinché un acattolico sia ricevuto nella Chiesa cattolica
è necessario che egli sia istruito nella fede cattolica.
Come si è già accennato, all’inizio di questo paragrafo, tale titolo è
una caratteristica peculiare del CCEO, dal momento che il CIC non pos-
siede un “titolo” equivalente; anzi sembra quasi rimandare ai dettami del
Concilio Vaticano II104.
Ma chi sono dunque gli “acattolici” per il 17° titolo del CCEO? Infatti,
all’inizio del capitolo abbiamo definito gli acattolici in linea generale, ma
ora occorre specificare chi siano in questo specifico contesto del codice; in
accordo con SALACHAS105, conveniamo nell’asserire che gli acattolici qui si
debbano intendere coloro i quali essendo nati in altre chiese e comunità ec-
clesiali cristiane, e quindi non avendo alcuna “colpa”, desiderino convenire
alla piena comunione con la Chiesa cattolica. Tra le fonti di questo canone,
quindi ci sembra opportuno menzionare UR 3106 ed anche OE 25107.
Connesso al nostro canone, ma anche a tutto il titolo 17°, vi è il concet-
to stesso di “piena comunione” da un punto di vista giuridico (dal momento
che l’intestazione del titolo 17° usa la perifrasi “ad plenam communio-
nem”). Il CCEO ci dà una chiara definizione, infatti al can. 8 asserisce: «In
plena communione cum Ecclesia catholica his in terris sunt illi baptizati,
qui in eius compage visibili cum Christo iunguntur vinculis professionis fi-
dei, sacramentorum et ecclesiastici regiminis»108.
Quanto esposto dal can. 8 è di fondamentale importanza, poiché rappre-
senta la definizione di piena comunione con la Chiesa cattolica ed al con-
tempo il “punto d’arrivo” dell’acattolico che voglia convenire alla plenitudo
communionis. Inoltre, il can. 8 è di fondamentale importanza ecclesiologica
(e quindi anche giuridica) definendo il concetto stesso di piena comunione.
Il termine “piena comunione con la Chiesa” significa congiunzione a Cristo
con i vincoli: (a) della professio fidei (proposta dal Magistero della Chiesa),

spiritui evangelico, in quantum utitur rationibus inhonestis ut homines ad Communitatem suam


attrahat, abutendo v. g. illorum ignorantia vel paupertate (...)».
103
CCEO can. 586: «Severe prohibetur, ne quis ad Ecclesiam amplectendam cogatur vel artibus im-
posrtunis inducatur aut alliciatur; omens vero christifideles curent, ut vindicetur ius ad libertatem
religiosam, ne quis vexationibus ab Ecclesia detereantur».
104
Ved. in merito ECAS, 58.
105
Cfr. D. SALACHAS, L’iniziazione cristiana..., op. cit., 123.
106
«(...) non possono essere accusati di peccato di separazione, e la Chiesa cattolica li abbraccia con
fraterno rispetto ed amore».
107
«che mossi dalla grazia dello Spirito Santo convengono all’unità cattolica».
108
Medesimo canone lo si riscontra nel CIC (can. 205). Fonti del can. 8 CCEO, sono: LG 14 e UR 3.

45
(b) dei sacramenti, (c) del governo ecclesiastico. L’unità voluta da Cristo
per la sua Chiesa si realizza «per mezzo della fedele predicazione del Van-
gelo, del-l’amministrazione dei sacramenti e del governo esercitato
nell’amore da parte degli Apostoli e dei loro successori, cioè i vescovi con a
capo il successore di Pietro»109. Di conseguenza, tra i principali doveri e di-
ritti dei cattolici vi è quello di «conservare sempre, nel loro modo di agire,
la comunione con la Chiesa» (ved. CCEO can. 12§1; CIC can. 209).
A tale proposito è da sottolineare il notevole sviluppo avutosi dall’en-
ciclica Mystici Corporis110 al Vaticano II e dal Concilio al CCEO. Secondo
Mystici Corporis, la Chiesa militante è definita come il Corpo Mistico di
Cristo, il quale su questa terra è la Chiesa Cattolica; per cui i membri della
Chiesa sono quelli congiunti con i vincoli della stessa fede, degli stessi sa-
cramenti, e della stessa autorità gerarchica; i “non-cattolici” (battezzati e
dis-sidenti in buona fede) hanno con la Chiesa una relazione reale e vitale,
tuttavia rimangono fuori di essa e non sono chiamati realmente membri del-
la Chiesa e neppure membri “in voto”111. Invece, nella prospettiva del Con-
cilio Vaticano II e del CCEO, i battezzati non cattolici, ora detti “acattolici”,
pur non essendo in piena comunione con la Chiesa Cattolica, mantengono
con essa una reale, vera comunione, sebbene imperfetta, che tende dal suo
stesso dinamismo interno alla perfetta communio.
Infine, ma non da ultimo, si impone una precisazione terminologico-
giu-ridica, di grande importanza, sia sul can. 896 sia riguardo al CCEO in
generale. Il CCEO usa le espressioni «aliae Ecclesiae» e «Communitates
ecclesiales»; le due perifrasi non sono utilizzate a caso, anzi hanno un valo-
re giuridico, e terminologico, ben preciso. Infatti, per «aliae Ecclesiae»
s’inten-dono le Chiese Orientali acattoliche, sia calcedonesi che precalcedo-
nesi, mentre per «Communitates ecclesiales» s’intendono le Chiese sorte, in
Occidente, dalla Riforma; tale interpretazione o chiarimento non è persona-
le, bensì poggia su quanto esposto recentemente dal nuovo Direttorio Ecu-
menico112. Riteniamo giusto questo chiarimento, poiché in tutto il Codice si

109
Ved. UR 2; LG 14; DE 20.
110
AAS 36 (1943) 193-248.
111
Cfr. F. COCCOPALMERIO, La partecipazione degli acattolici al culto della Chiesa Cattolica nella
pratica e nella dottrina della Santa Sede dall’inizio del secolo XVII fino ai giorni nostri, Brescia
1969, 176-179 e 180-181.
112
Al riguardo, si veda quanto asserito dal NDE alla note nr. 28 e nr. 107, nelle quali, infatti, viene
affermato quanto segue. «Il termine “ortodosso” è generalmente usato per indicare le Chiese O-
rientali che accettano le decisioni dei concili di Efeso e di Calcedonia. Tuttavia, recentemente,
questo termine, per ragioni storiche, è stato riferito anche alle Chiese che non accettarono alcune
formule dogmatiche dell’uno o dell’altro dei due concili citati (cf. UR 13: EV 1, 539). Al fine di
evitare ogni confusione, in questo direttorio, l’espressione generale “Chiese orientali” sarà usata

46
attua questo distinguo, che è assai importante dal momento che tra le Chiese
Orientali Ortodosse e le Chiese della Riforma vi è, ovviamente, un differen-
te grado di comunione nei confronti della Chiesa cattolica.

§4. I battezzati acattolici orientali

Dei battezzati orientali acattolici e della loro volontà di aderire alla co-
munione della chiesa cattolica tratta il can. 897.
Can. 897: «Christifidelis alicuius Ecclesiae orientalis acatholicae
in Ecclesiam catholicam recipiendus est cum sola professione fi-
dei catholicae, praemissa praeparatione doctrinali et spirituali pro
sua cuiusque condicione»113.

***

Antecedenti del can. 897 CCEO, sono due canoni, apparsi già in un pri-
mo schema del 1980 in cui constavano però due norme separate114, come
segue: can. 3 «Ii qui in aliqua Ecclesia Orientali non Catholica baptizati
sunt, in Ecclesiam Catholicam recipiendi sunt cum sola professione fidei
catholicae». Can. 4 «Attenta cuiusque conditione, praemittenda est congrua
praeparatio tam doctrinalis quam spiritualis; vitanda tamen omnino est ae-
quiparatio candidatorum cum catechumenis. Crescens “communicatio in
sacris”, praesertim in sacramento poenitentiae et in sacris functionibus, sub
moderamine Hierarchae loci admitti potest». Entrambi i testi, apparsi in
modo identico in un secondo schema115 del 1981, ma con diversa numera-
zione (erano i cann. 88 e 89), vennero poi fusi in un unico canone nello
schema del 1983; infatti come si ha modo di leggere in Nuntia: «Nel dibatti-
to riguardante questi due canoni, tra le difficoltà, emerge soprattutto la ne-
cessità di evitare ogni accenno a possibili atteggiamenti che possano far na-
scere il sospetto che alla recezione dei battezzati non Cattolici nella Chiesa
Cattolica si premetta una specie di catecumenato con progressivo crescendo

per indicare tutte le Chiese delle diverse tradizioni orientali che non sono in piena comunione con
la Chiesa di Roma» (NDE, nota nr. 28). «In base alla precisazione contenuta negli Acta Commis-
sionis (Communicationes 5, 1983, 182), l’espressione “communitas ecclesialis” non include le
Chiese orientali che non sono in piena comunione con la Chiesa cattolica (...)» (NDE, nota nr.
107).
113
Cfr. OE 25: EV, 1/486.
114
Nuntia 11 (1980) 73.
115
Cfr. Nuntia 12 (1981) 33.

47
nella communicatio in sacris, mentre la mens dei Coetus precedenti a questo
riguardo era solo di assicurarsi che ogni individuo “attenta cuiusque condi-
tione” sia dottrinalmente e spiritualmente veramente pronto e consapevole
della sua decisione»116. Pertanto il canone risultò essere: «Baptizati in ali-
qua Ecclesia Orientali non Catholica in Ecclesiam Catholicam recipiendi
sunt cum sola professione fidei catholicae, praemissa praeparatione doctri-
nali et spirituali pro sua cuiusque conditione».Nello SCICO il canone, che
fu numerato come 893, apparve come segue: Can. 893: «Christifideles a-
licuius Ecclesiae Orientali acatholicae in Ecclesiam catholicam reci-
piendus est cum sola professione fidei catholicae, praemissa praepara-
tione doctrinali et spirituali pro sua cuiusque conditione». Dallo SCICO
al CCEO non notiamo alcuna differenza.

***
Il can 897, secondo canone del titolo 17°, fa chiaramente riferi-
mento agli ortodossi che vengano accolti nella Chiesa cattolica, stabi-
lendone le modalità precise.
Riteniamo giusto, tuttavia, definire gli “orientali acattolici”; infatti sotto
tale definizione sono comprese molte Chiese orientali, la cui importanza, sia
per il dialogo ecumenico, che per la stessa storia ecclesiastica è più che rile-
vante. Quindi, per “orientale acattolico” (o forse, meglio “cristiano orientale
acattolico”) intendiamo tutti quei cristiani appartenenti a Chiese orientali
che non siano in piena comunione con Roma. Dunque abbiamo 2 grandi
classi di orientali acattolici: (a) gli ortodossi calcedonesi, (b) gli ortodossi
precalcedonesi. Più precisamente: (a) gli ortodossi calcedonesi, sono costoro
quei cristiani che accettarono il concilio ecumenico di Calcedonia (451); so-
no questi tutti i cristiani appartenenti alla Chiesa Bizantina Ortodossa e alle
Chiese da essa direttamente derivate o dipendenti117; (b) gli ortodossi pre-
calcedonesi sono quei cristiani che non riconoscono il concilio di Calcedo-
nia, in ragione del loro credo monofisita, costoro sono infatti i monofisiti e
le loro Chiese si autodefiniscono egualmente “ortodosse”, ma non hanno

116
Nuntia 17 (1983) 59.
117
Sono queste, molte; infatti abbiamo la Chiesa Ortodosso-bizantina di Costantinopoli, o meglio il
Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, (dalla quale dipendono ancor oggi molte Chiese), il Pa-
triarcato di Antiochia, il Patriarcato di Gerusalemme, la Chiesa Ortodossa di Russia, quella di
Serbia, quella di Bulgaria, quella di Georgia, quella di Cipro, quella di Grecia, quella di Polonia,
quella d’Albania, quella delle Repubbliche Ceca e Slovacca, la Chiesa Ortodossa d’America.

48
nulla a che fare con gli ortodossi bizantini118; al ceppo dei pre-
calcedonesi rientrano anche i nestoriani, che ovviamente non riconoscono
il concilio calcedonese avendo come loro dottrina quella di Nestorio che
fu condannato al Concilio di Efeso (a. 431)119.
Ritornando al canone, il substrato di questa norma ci è dato evidente-
mente dalla riflessione conciliare. Infatti in base ad UR n. 3, si afferma chia-
ramente che: «Quelli poi che ora nascono e sono istruiti nella fede di Cristo
in tali comunità non possono essere accusati del peccato di separazione, e
la Chiesa cattolica li abbraccia con fraterno rispetto ed amore»120. Perciò
la norma canonica sancisce che il fedele cristiano appartenente ad una Chie-
sa acattolica orientale sia accolto tramite la sola professio fidei. Anche per
questo aspetto il Concilio gettò l’idea-guida, infatti in OE n. 3 si legge chia-
ramente: «Dagli orientali separati che, mossi dalla grazia dello Spirito san-
to, vengono all’unità cattolica, non si esiga più di quanto esige la semplice
professione della fede cattolica»121. In merito ci sembra opportuno riportare
la spiegazione data dal SALACHAS di questo canone, egli infatti commenta:
«Gli orientali non cattolici che vengono alla pienezza della comunione cat-
tolica oltre a non aver bisogno di assoluzione dalla scomunica, non hanno
neppure bisogno di qualche “rito liturgico”, come, invece, è richiesto per i
non cattolici appartenenti alle altre Chiese e Comunità ecclesiali di Occi-
dente. Difatti, il nuovo Rito dell’iniziazione cristiana degli adulti, incluso
nel Rituale Romano, comprende in appendice il “ rito di ammissione alla
piena comunione della Chiesa cattolica di coloro che sono già stati vali-
damente battezzati”»122. Ma, SALACHAS affronta anche un’altra spinosa
questione ecumenica: l’ortodosso che pervenga alla Chiesa cattolica è te-
nuto alla recezione del primato papale come è definito dal cattolicesimo?
L’Autore, risponde, citando RATZINGER:
«Per quanto riguarda la dottrina del primato, Roma non deve esigere
dall’Oriente più di quello che venne formulato e vissuto durante il primo
millennio. Quando, in occasione della visita del Papa al Fanar il 25 luglio
1967, il Patriarca Atenagora si rivolse a lui come “il successore di Pietro, il

118
Le Chiese di fede monofisita sono le segg.: Chiesa Apostolica Armena, Chiesa Ortodosso-Copta,
Chiesa Ortodosso-Etiopica, Chiesa Siro-Ortodossa, Chiesa Siro-Ortodossa del Malakar, e da poco
la Chiesa Ortodosso-Eritrea.
119
È questa la Chiesa Assiro-Orientale, che ebbe propaggini fino in India ed in Cina; era l’antica
Chiesa presente nell’impero persiano, che scelse la fede nestoriana. Questa è la Chiesa Assiro-
nestoriana.
120
EV, 1, 503.
121
OE 24: EV, 1, 486.
122
D. SALACHAS, L’iniziazione cristiana..., op. cit., 128-9.

49
primo in onore fra noi, quello che ha la presidenza in amore”, udimmo dalla
bocca di questa grande guida della Chiesa il contenuto essenziale della di-
chiarazione del primo millennio sul papato – e Roma non deve pretendere
più di questo. La riunione potrebbe aver luogo su questa base: da parte sua,
l’Oriente rinunci ad attaccare lo sviluppo occidentale del secondo millennio
come eretico e accetti la Chiesa cattolica come legittima e ortodossa nella
formula che ha trovato questo sviluppo; da parte sua, l’Occidente riconosca
la Chiesa dell’Oriente come ortodossa e legittima nella forma che ha con-
servato»123. Dunque, in generale, si può affermare che in realtà colui che
pervenga alla piena comunione con la Chiesa Cattolica dovrà accettare il
symbolum fidei (quindi: sacramenti, gerarchia e professio fedei in ottempe-
ranza al già citato can. 8); ma, per quanto riguarda la teologia o la visione
teologica, ciascuno sarà libero di avere le proprie idee ed opinioni, senza in-
taccare quanto concerne la communio e la dogmatica cattolica.

§5. Chi può ricevere i vescovi acattolici orientali nella Chiesa cattolica

Se i cann. precedenti hanno trattato della materia in generale, spetta al


can. 898 stabilire chi, nell’ambito della gerarchia cattolica, possa ricevere
gli acattolici. Ecco il testo della normativa:
Can. 898: Ǥ1. Episcopum alicuius Ecclesiae orientalis acatholi-
cae in Ecclesiam catholicam recipere potest praeter Romanum
Pontificem etiam Patriarcha de consensu Synodi Episcoporum
Ecclesiae patriarchalis vel Metropolita Ecclesiae metropolitanae
sui iuris de consensu Consilii Hierarcarum. §2. Ius recipiendi in
Ecclesiam catholicam quemlibet alium spectat ad Hierarcham
loci vel, si ita fert ius particulare, etiam ad Patriarcham. §3. Ius
recipiendi in Ecclesiam catholicam singulos laicos spectat quo-
que ad parochum, nisi iure particulari prohibetur».

***

123
Salachas – nel suo libro L’iniziazione cristiana..., op. cit., 130 – cita J. RATZINGER, Theologische
Prinzipienlehre zur Bausteine Fundamentaltheologie, München 1982 (trad. a.can.d. F. SULLIVAN,
Il Magistero nella Chiesa Cattolica, Assisi 1986, 135). È, infine, da notare che Salachas ha citato
una idea di Ratzinger prima che egli divenisse Cardinale Prefetto della Congr. della Dottrina della
Fede!

50
Il nostro canone apparve già nello schema del 1980, come can. 5: Can.
5 Ǥ1. Episcopum orientalem in Ecclesiam Catholicam recipere spectat,
praeter quam ad Romanum Pontificem, ad eiusdem Episcopi ritus Patriar-
cham de consensu Synodi Episcoporum vel ad Metropolitam de consensu
Consilii Hierarcharum. §2. Ius recipiendi quemlibet alium pertinet ad Hie-
rarcham loci vel, si ita fert ius particulare, ad Patriarcham quod attinet e-
tiam ad universum territorium Ecclesiae patriarchalis. §3. Facultas reci-
piendi laicos spectat quoque ad parochum nisi Hierarcha loci expresse re-
nuat»124. Il can. restò immutato, anche nello schema del 1981, a parte la
numerazione (divenne il can. 90)125. Invece, subì alcuni cambiamenti reda-
zionali nello schema del 1983, come segue: Ǥ1. Episcopum ritus orientalis
in Ecclesiam Catholicam recipere spectat, praeter quam ad Romanum Pon-
tificem, ad eiusdem Episcopi ritus Patriarcham de consensu Synodi Episco-
porum vel ad Metropolitam de consensu Consilii Hierarcharum. §2. Ius re-
cipiendi quemlibet alium pertinet ad Hierarcham loci vel, si ita fert ius par-
ticulare, ad Patriarcham quod attinet etiam ad universum territorium Ec-
clesiae patriarchalis. §3. Facultas recipiendi singulos laicos spectat quoque
ad parochum nisi Hierarcha loci expresse renuat»126. Giunse, quindi nel
SCICO: Can. 894: Ǥ1. Episcopum alicuius Ecclesiae orientalis acatholicae
in Ecclesiam catholicam recipere potest praeter Romanum Pontificem etiam
Patriarcha de consensu Synodi Episcoporum vel Metropolita Ecclesiae me-
tropolitanae sui iuris de consensu Consilii Hierarcharum. §2. Ius recipiendi
quemlibet alium spectat ad Hierarcham loci vel, si ita fert ius particulare,
ad Patriarcham. §3. Ius recipiendi in Ecclesiam catholicam singulos laicos
spectat quoque ad parochum nisi iure particulare prohibetur»127. Dallo SCI-
CO al CCEO è restato immutato.
***
Il canone 898, basato sul principio del diritto di ricevere gli acattolici in
seno alla Chiesa cattolica, mostra una natura amministrativa ma anche ricca
di significati ecumenici, infatti statuisce chi può validamente ricevere un a-
cattolico orientale; la norma prende in esame le vare “classi” di acattolici, in
ragione del loro status, cioè: vescovi, presbiteri e laici.
I vescovi orientali acattolici possono essere accolti, oltre che dal Roma-
no Pontefice, anche dal Patriarca (udito però il Sinodo dei vescovi della
Chiesa patriarcale), o dal Metropolita della Chiesa metropolitana sui iuris

124
Nuntia 11 (1980) 73.
125
Nuntia 12 (1981) 33.
126
Nuntia 17 (1983) 59-60.
127
Nuntia 24-25 (1987) 160.

51
(ottenuto il consenso del Consiglio dei gerarchi); la procedura stabilente che
in tale prassi il patriarca o il metropolita debbano richiedere il consenso dei
rispettivi organi collegiali, si spiega col fatto che i vescovi, restando tali,
dopo il proprio transito al cattolicesimo, possono diventare membri dello
stesso sinodo o del consiglio dei gerarchi128. La norma statuente che il Papa
possa accogliere i vescovi acattolici è chiara; infatti, essendo il Romano
Pontefice capo del collegio dei vescovi (cfr. can. 42 CCEO e can. 330 CIC),
risulta palese il fatto che tale compito gli spetti de iure. Invece, il Codice,
ancora una volta, evidenzia le prerogative patriarcali – ed in generale quelle
delle maggiori ecclesiae sui iuris – dando facoltà ai patriarchi di ricevere
vescovi acattolici (del resto anche i patriarchi fanno parte del collegio epi-
scopale). Dunque questo rappresenta, rispetto alla precedente legislazione,
un ampliamento dei poteri patriarcali. Tuttavia, è interessante notare che il
can. 898 non faccia distinguo alcuno in merito al vasto e complesso pano-
rama ecclesiologico delle chiese ortodosse129; quindi i vescovi di qualsiasi
Chiesa orien-tale (sia essa monofisita che nestoriana o calcedonese) possono
essere accolti nel cattolicesimo con la semplice professio fidei130.
Invece, il diritto di accogliere qualsiasi altro acattolico orientale (cioè pre-
sbitero, monaco o laico) spetta al gerarca del luogo oppure, se così è richiesto
dallo ius particulare, al patriarca. È, infine, riservato al parroco il diritto di ac-
cogliere i singoli laici, sempre che il diritto particolare lo consenta.

§6. I ministri acattolici orientali che pervengano alla comunione


ed il loro status in seno alla Chiesa Cattolica

Il codice prende in esame anche l’eventualità che dei chierici, oltre che
i laici ed i vescovi, chiedano diventare membri della chiesa cattolica; a que-
sta circostanza risponde il dettato del can. 899, che stabilisce:
Can. 899: «Clericus Ecclesiae orientalis acatholicae ad plenam
communionem cum Ecclesia catholica conveniens potest pro-
prium ordinem sacrum exercere secundum normas ab auctoritate
competenti statutas; Episcopus autem potestatem regiminis valide

128
Ved. Nuntia 17 (1983) 60.
129
Per una breve, ma esaustiva rassegna delle Chiese ortodosse (sia bizantine, che copte, che nesto-
riane) ved. R. G. ROBERSON, The Eastern Christian Chirches - A brief Survey, Rome 19955; F. PE-
RICOLI-RIDOLFINI, Oriente Cristiano, Roma 1977.
130
Cfr. D. SALACHAS, L’iniziazione cristiana..., op. cit., 132.

52
exercere non potest nisi de assensu Romani Pontificis, Collegii
Episcoporum capitis».

***

Il nostro canone apparve già nei primi due schemi, quello del 1980
(can. 6)131 ed in quello del 1981 (can. 91)132, restando però – in tutti e due
gli schemi – identico per contenuto redazionale; ecco il testo: can. 91 «Cle-
ricis Orientalibus in unitatem catholicam convenientibus facultas est pro-
prium Ordinem exercendi iuxta normas a competenti Auctoritate statutas;
Episcopi autem potestatem regiminis exercere non valent de assensu Roma-
ni Pontificis qua Capitis Collegii Episcoporum». Piccole variazioni reda-
zionali, modificarono leggermente il canone, come si ha modo di leggere
nello schema del 1983133, per poi essere riformulato come can. 895 dello
SCICO: can. 895: «Clericus alicuius Ecclesiae orientalis acatholicae ad
plenam communionem cum Ecclesia catholica conveniens potest primum
ordinem sacrum exercere secundum normas ab auctoritate competenti sta-
tutas; Episcopus autem potestatem regiminis valide exercere non potest nisi
de assensu Romani Pontificis, collegii episcoporum capitis»134.

***

Il can. 899 – quasi a completare il disposto del can. 898 – statuisce chia-
ramente che qualsiasi sacerdote di qualche chiesa orientale acattolica possa,
una volta convenuto alla piena comunione con la Chiesa cattolica, esercitare il
proprio ministero; invece il vescovo orientale acattolico, pervenuto alla pie-na
comunione con Roma, non potrà esercitare validamente la potestà di governo a
meno che non abbia ricevuto l’assenso del Romano Pontefice.
Il canone 899 è molto importante, poiché, di fatto, afferma il ricono-
scimento degli ordini sacri di tutti gli orientali acattolici135. Il fatto che il ve-
scovo debba avere l’assenso del Papa, si spiega facilmente in virtù del con-

131
Nuntia 11 (1980) 74
132
Nuntia 12 (1981) 34.
133
Nuntia 17 (1983) 59-60: «Clericis ritus orientalis in unitatem catholicam convenientibus facultas
est proprium ordinem exercendi iuxta normas a competenti auctoritate statutas; Episcopi autem
potestatem regiminis exercere non valent nisi de assensu Romani Pontificis, Collegii Episcopo-
rum Capitis».
134
Nuntia 24-25 (1987) 160.
135
In merito alla problematica fondamentale resta: I. ÃUÃEK, La giurisdizione dei vescovi ortodossi
dopo il Vaticano II, in La Civiltà Cattolica 122, 19 giugno 1971, 550-562.

53
cetto che un vescovo in mancanza della ecclesiastica communio con il Papa
– che è per il diritto il capo del Collegio dei Vescovi (CCEO can. 43; CIC
can. 331) – non potrà esercitare validamente la propria potestas regiminis
(come, del resto, al pari di ogni altro vescovo cattolico)136. Fonte primaria
del can. 899 è senza dubbio OE 25: «(...) E poiché presso di loro è stato
conservato il sacerdozio valido, il clero orientale che viene all’unità catto-
lica ha la facoltà di esercitare il proprio ordine, secondo le norme stabilite
dalla competente autorità»137. Ma, possiamo considerare anche fonte sussi-
diaria LG 22, che ci ricorda che un vescovo diviene membro del collegio ve-
scovile per mezzo della propria ordinazione episcopale e mediante la commu-
nio hierarchica col capo del collegio dei vescovi (cioè il Papa) ed i membri138.
Il riconoscimento dato dal Concilio in merito al fatto che gli orientali
posseggono, oltre che disciplina legittima propria (cfr. UR 16), anche validi-
tà del ministero, trova dunque nel can. 899 (ma anche nel precedente 898)
ampia formulazione nel CCEO.
Infine, dobbiamo sottolineare un aspetto “pratico” del titolo 17°, ossia: i
battezzati acattolici orientali che convengono alla piena comunione con la
Chiesa cattolica a quale Chiesa orientale cattolica saranno ascritti? Risponde
a ciò il disposto del can. 35, statuente: «Baptizati acatholici ad plenam
communionem cum Ecclesia catholica convenientes proprium ubique terra-
rum retineant ritum eumque colant et pro viribus observent, proinde ascri-
bantur Ecclesiae sui iuris eiusdem ritus salvo iure adeundi Sedem Apostoli-
cam in casibus specialibus personarum. communitatum vel regionum». Ciò
è ben comprensibile se si tiene conto del fatto che la Chiesa cattolica tiene
in grandissima considerazione i riti139. Dunque un Copto Ortodosso, qualora
desideri diventare cattolico entrerà a far parte della Chiesa sui iuris Copto-
Cattolica; egualmente, si applica il can. 35 ai vescovi ed ai presbiteri che
pervengano alla comunione con la Chiesa cattolica.

136
Ved. D. SALACHAS, L’iniziazione cristiana..., op. cit., 134. La potestà di governo (regiminis pote-
stas) è nel CCEO regolata dai cann. 979-995 ed infatti ci ricorda SALACHAS, ibid., 133: «La pote-
stà di governo nella Chiesa è di istituzione divina e si distingue in legislativa, esecutiva e giudizia-
le, ed è esercitata validamente da coloro che sono insigniti dell’ordine sacro, a norma delle dispo-
sizioni del diritto». Per uno studio ampio e dettagliato sulla sacra potestas, ved. A. CELEGHIN, O-
rigine e natura della potestà sacra - Posizioni postconciliari, Brescia 1987.
137
EV, 1, 486.
138
Cfr. LG 22: EV 1, 336. Nota esplicativa praevia 2.
139
Cfr.OE 4 ed anche CCEO can. 39.

54
§7. Il minore acattolico

Il Codice non tralascia neppure la possibilità che un minore acattoli-


co desideri entrare a far parte della comunione cattolica; infatti il can.
900, che asserisce:
Can. 900: Ǥ1. Qui decimum quartum aetatis annum nondum e-
xplevit, ne recipiatur renitentibus parentibus. §2. Si ex eiusdem
receptione gravia praevidentur incommoda vel Ecclesiae vel ipso,
receptio differatur, nisi periculum mortis imminet».
Il nostro canone nei primi due schemi, quello del 1980 (can. 7)140 e
quello del 1981(can. 92)141, era formulato in modo identico e pervenne così
anche nello schema del 1983 (sempre come can. 92): Ǥ1. Minores quat-
tuordecim annorum ne admittantur renitentibus parentibus. §2. Si eorundem
admissione gravia praevideantur incommoda vel Ecclesiae vel ipsis, admis-
sio differatur, nisi mortis periculum immineat».Nel can. 93 osserviamo al-
cune differenze redazionali, divenendo: «De adscriptione Ecclesiae sui iuris
et in conservatione vel mutatione ritus serventur normae canonum 14 et 16
schematis De constitutione hierarchica Ecclesiarum Orientalium»142. Nello
SCICO il nostro canone divenne il can. 896, ma di fatto rimase immutato ri-
spetto ai precedenti schemi, a parte la posposizione del lemma periculum
dinanzi a mortis: can. 896: Ǥ1. Qui decimum quartum aetatis annum non-
dum explevit, ne recipiatur renitentibus parentibus. §2. Si ex eiusdem recep-
tione gravia praevidentur incommoda vel Ecclesiae vel ipso, receptio diffe-
ratur, nisi mortis periculum imminet».

***

Il can. 900, riguardante l’accoglienza dei minorenni, è un’ulteriore ca-


none di diritto amministrativo, almeno per ciò che concerne il paragrafo
primo; mentre per il paragrafo secondo è senza dubbio di carattere eminen-
temente pastorale. Il minore che non abbia compiuto 14 anni, non potrà es-
sere accolto se i genitori si opporranno; l’età, fissata al 14° anno d’età, rical-
ca le norme date dal titolo XIX (cfr. praesertim cann. 909-910). È chiaro

140
Nuntia 11 (1980) 74, can. 7: Ǥ1. Minores quattordicim annorum ne admittantur renitentibus pa-
rentibus. §2. Si eorundem admissione gravia praevideantur incommoda vel Ecclesiae vel ipsis,
admissio differatur, nisi mortis periculum immineat».
141
Nuntia 12 (1981) 34: Can. 92 Ǥ1. Minores quattuordecim annorum ne admittantur renitentibus
parentibus. §2. Si eorundem admissione gravia praevideantur incommoda vel Ecclesiae vel ipsis,
admissio differatur, nisi mortis periculum immineat».
142
Nuntia 17 (1983) 61.

55
che nel caso in questione scattino i canoni concernenti l’adscriptio ad una
ecclesia sui iuris (cf. cann. 29-38); infatti il minore diverrà membro della
ecclesia sui iuris più affine a quella di originaria provenienza. Più interes-
sante è invece il §2 del nostro canone; qui l’accoglienza del soggetto è ri-
mandata nel caso in cui si prevedano gravi disagi per la Chiesa, a meno che
lo stesso non sia in periculo mortis. Qui si solleva una grossa problematica:
quella della libertà individuale. Il soggetto che richieda spontaneamente di
entrare a far parte della Chiesa cattolica, ed essendo istruito nella fede, in
che modo può costituire gravia incommoda, come asserisce il canone? Sen-
za dubbio questo canone ha una valenza pastorale, ma probabilmente – ed è
questa nostra personale e discutibile opinione – anche una connotazione di
carattere diplomatico. In alcuni paesi, le Chiese cattoliche orientali vivono
una difficile situazione con le altre Chiese Orientali acattoliche; pertanto il
canone prende in considerazione il caso, concreto, in cui si abbia ad esem-
pio il “passaggio” di un soggetto dalla comunione ortodossa a quella cattoli-
ca possa recare danni o al medesimo o alla Chiesa; perciò receptio differatur
– per usare la terminologia del canone – e ciò non significa che il candidato
non verrà ammesso, ma semplicemente si “prende tempo” (cosa del resto
nella quale la Chiesa è maestra, se si considera la storia della diplomazia ec-
clesiastica). Il problema della libertà individuale, allora, sembra restare dal
momento che il canone di fatto nega tale scelta, anche se pro tempore, al
soggetto; ciò sembra andare, in parte, un po’ contro le stesse direttive conci-
liari (cfr. Dignitatis Humanae); infatti la Chiesa cattolica non esita a ricono-
scere il diritto fondamentale in ordine alla libertà di adesione e di apparte-
nenza alla Chiesa di ogni individuo143. Inoltre, da un punto di vista pretta-
mente giuridico, dobbiamo ricordare il principio sancito ufficialmente
dalla Chiesa cattolica che ciascun cristiano, che sia battezzato secondo la
formula cristiana, ha il diritto di entrare a far parte della comunione cat-
tolica144. Dunque, con il secondo paragrafo del can. 900 il Codice sem-
brerebbe cadere in palese contraddizione. Probabilmente, il legislatore si
è preoccupato più di problemi pratici che di altro; comunque la norma è
senza dubbio giusta se considerata nel suo insieme e se, soprattutto, si ri-
corda che la Chiesa è eminentemente lo strumento atto a realizzare la sa-
lus animarum.

143
In merito ottimo è, a nostro avviso, lo studio di P. COLELLA, Ordinamento Canonico e principii
conciliari, in AA. VV., Teoria e Prassi delle libertà di Religione, Bologna 1975, 489-550. Ed in
generale sul tema di libertà religiosa, fondamentale resta P. BELLINI, Libertà e Dogma. Autonomia
della persona e verità di fede, Bologna 1984.
144
Cfr. UR 4; NDE 99.

56
§8. Gli acattolici appartenenti ad una Chiesa non-orientale

Il CCEO, a riprova del proprio interesse per le tematiche ecumeniche,


non tralascia neppure la possibilità di accogliere acattolici non appartenenti
ad una chiesa orientale. Dunque il can. 901. concludente il titolo, statuisce:
Can. 901: «Si acatholici, qui non ad aliquam Ecclesiam orienta-
lem pertinent, in Ecclesiam catholicam recipiuntur, servandae
sunt normae supra datae congrua congruis referendo, dummodo
sint valide baptizati».
***
Anche per quest’ultimo canone, i canoni degli schemi del 1980 e del
1981 erano identici fra loro145; ugualmente avvenne per lo schema del 1983
(sempre can. 94), in cui il can. restò immutato146. Nello SCICO fu, invece,
radicalmente modificato: can. 897: «Si acatholici, qui non ad aliquam Ec-
clesiam orientalem pertinent, in Ecclesiam catholicam recipiuntur, servan-
dae sunt normae supra datae congrua congruis referendo, dummodo sint
valide baptizati»147. Dal CICO al CCEO non vi sono state alcune modifiche.
***
Il can. 901, concludente il titolo 17° del Codice, appare assai interes-
sante; senza dubbio qui si ha una ulteriore ed ampia apertura ecumenica;
infatti, il canone si rivolge chiaramente ai battezzati delle Chiese e delle
Comunità riformate. Anche per questo canone vale il principio (ma che è
anche fons iuris), già citato, di UR 3; cioè si stabilisce il principio di “e-
quivalenza” tra cristiani acattolici ortodossi e cristiani acattolici occiden-
tali, tuttavia – date le maggiori divergenze teologiche e differente grado
di comunione tra mondo protestante e mondo cattolico – la normativa as-
serisce che «servandae sunt normae supra datae congrua congruis refe-

145
Nuntia 11 (1980) 74, can. 9 «In admissione in Ecclesiam Catholicam eorum qui Ecclesiis non O-
rientalibus vel aliis Communitatibus ecclesialibus adscripti sunt, servandae sunt normae supra
datae, congrua congruis referendo, dummodo sint certo valide baptizati». Nuntia 12 (1981) 34,
can. 94 «In admissione in Ecclesiam Catholicam eorum qui Ecclesiis non Orientalibus vel aliis
Communitatibus ecclesialibus adscripti sunt, servandae sunt normae supra datae, congrua con-
gruis referendo, dummodo sint certo valide baptizati».
146
Nuntia 17 (1983) 62: «In admissione in Ecclesiam Catholicam eorum qui Ecclesiis non Orientali-
bus vel aliis Communitatibus ecclesialibus adscripti sunt, servandae sunt normae supra datae,
congrua congruis referendo, dummodo sint certo valide baptizati».
147
Nuntia 24-25 (1987) 160.

57
rendo, dummodo sint valide baptizati». Dunque costoro vengono accolti,
ma “con gli opportuni riferimenti”, cioè quasi a ricordarci delle differenti
impostazioni di base (e grado di comunione). Ma, come ci ricorda SALA-
CHAS, commentando il nostro canone: «(...) Il problema è ancora più gra-
ve quando si tratta di ricevere nella Chiesa cattolica i ministri protestanti,
privi, come abbiamo visto, di ordinazione sacra»148.
Il fatto che il CCEO abbia dedicato un titolo alla materia, è assai lode-
vole; anzi è estremamente chiarificatore per i rapporti ecumenici intercor-
renti fra cattolici ed ortodossi, infatti anche le Chiese ortodosse posseggono
una serie di norme atte ad accogliere in seno alla propria comunione i “non-
or-todossi”, sia essi cattolici che protestanti149. Per tale materia, da un punto
di vista “pratico”, giova ricordare che la Congregazione per il culto divino
diede il “Rito dell’ammissione alla piena comunione di coloro che sono già
stati validamente battezzati” (6 gennaio 1972)150; in virtù di questa istruzio-
ne liturgica, oggi il rituale di ammissione alla Chiesa cattolica risulta essere
particolarmente impregnato di spirito ecumenico ed è frutto della riflessione
ecclesiologica del Concilio, in virtù della quale si è passati da un esclusivi-
smo ecclesiologico ad un aperto riconoscimento dei gradi di verità degli al-
tri cristiani. L’ecclesiologia cattolica, resa ora più flessibile (grazie al subsi-
stit), fa sì che oggi si possano ricevere gli acattolici il cui battesimo sia vali-
do, senza necessità di ribattezzare.
Tuttavia, resterebbe un punto da chiarire in merito al canone 901. Il
CCEO non sembra specificare se un acattolico non orientale possa transitare
in una Ecclesia sui iuris orientale di suo gradimento. Cioè se ad esempio un
anglicano, che desidera convenire alla piena comunione con la Chiesa catto-
lica, potrà divenire membro della Chiesa sui iuris Copta? Fa difficoltà qui
applicare il citato can. 35, nel senso che esso non è, forse, molto chiaro per
il nostro tipo di problema, dal momento che il canone parla esplicitamente
di “rito” e perciò sembra riferirsi più esplicitamente agli orientali acattolici
piuttosto che agli acattolici occidentali. Tuttavia, proprio in virtù del can.
35, si potrebbe ritenere che sia possibile che un anglicano, divenendo catto-
lico, entri a far parte della Chiesa Copta; ciò proprio perché il canone stabi-
lisce «salvo il diritto di ricorrere alla Sede Apostolica in casi speciali di per-

148
D. SALACHAS, L’iniziazione cristiana..., op. cit., 138. L’A. riporta, alle pp. 138-140 il “Rito della
Chiesa latina per l’ammissione alla piena comunione con la Chiesa cattolica di coloro che sono
stati validamente battezzati: conferimento della Confermazione”.
149
Ved. Mikron Euchologion, a.can.d. Chiesa Ortodossa Greca, Atene 1968; alle pp. 87-89 vi è il
“Rito della conversione alla Chiesa ortodossa dalla Chiesa latina” (in greco). Il teso integrale è ri-
portato (in it.) da D. SALACHAS, L’iniziazione cristiana..., op. cit., 141-144.
150
In EV 4, 1503-1515. Esso è posto in appendice al rito dell’iniziazione cristiana degli adulti.

58
sone, di comunità o di regioni». Infatti il “neo-cattolico” anglicano potrebbe
avere soddisfazione chiedendo alla S. Sede di esaudire il proprio desiderio.
Tuttavia, il contrasto tra il can. 35 ed il can. 901 sembra continuare a sussi-
stere. Dunque, per motivare la nostra risposta affermativa al dubbio di cui
sopra, potremmo addurre il fatto che se l’anglicano richieda di entrare a far
parte della Chiesa Copta cattolica starebbe ad indicare che in quella Eccle-
sia sui iuris egli veda l’attuazione delle sue aspirazioni spirituali nonché la
propria e personale realizzazione come fedele. A ciò s’aggiunga che la
Chiesa, per sua natura, deve favorire il bene degli uomini, tutelandone la sa-
lus animarum; inoltre il patrimonio costituito dai “riti” va incoraggiato e
sviluppato (cfr. OE 4, CCEO can. 39). Dunque, il fatto che egli sia anglica-
no, e quindi occidentale, non inficia la sua possibilità di scelta. A maggior
ragione, se egli chiede direttamente il proprio passaggio nella Chiesa Copta
farà sì che il suo transito sarà registrato nei libri parrocchiali della chiesa
Copta. Certamente, il CCEO non dà una risposta precisa al caso in questio-
ne, che per altro potrebbe essere possibile ed avverabile. Pertanto riteniamo
utile, in questa sede, il permetterci di segnalare il suddetto quesito al Ponti-
ficio Consiglio per l’Inter-pretazione dei Testi Legislativi affinché studi la
questione e, magari, pubblichi una nota esplicativa in merito.

§9. I battezzati acattolici e la conservazione dei propri riti

Il can. 35 del CCEO è assai interessante per ciò che concerne la temati-
ca inerente i battezzati acattolici che convengono alla piena comunione e la
loro relazione verso il “rito”; pertanto abbiamo ritenuto opportuno inserirlo
in questo capitolo. Infatti, esso tocca un importante aspetto ecumenico, rap-
presentando una norma corollaria ai cann. 896-901 del titolo XVII del Codi-
ce. Il can. 35 statuisce:
Can. 35: «Baptizati acatholici ad plenam communione cum Ecclesia
catholica convenientes proprium ubique terrarum retineant ritum
eumque colant et pro viribus observent, proinde ascribantur Eccle-
siae sui iuris eiusdem ritus salvo iure adeundi Sedem Apostolicam in
casibus specialibus personarum, communitatum vel regionum».

***

Il canone appare di facile comprensione: un battezzato acattolico, che de-


sideri convenire alla piena comunione con la Chiesa Cattolica, verrà ascritto

59
alla Ecclesia sui iuris del medesimo rito al quale egli appartiene. Dunque, ad
esempio, se un Copto Ortodosso, desidererà entrare a far parte della communio
cattolica, sarà iscritto alla Chiesa Cattolica sui iuris Copta. Il can. 35 sembra
quindi riferirsi espressamente agli Orientali acattolici, altrimenti perché sottoli-
neare l’importanza del loro ritus e quindi ribadire la necessità di conservare il
medesimo anche avvenuto il passaggio alla Chiesa Cattolica? Del resto il
CCEO dedica molta attenzione alla tematica dei riti151.
Ma, il punto che desideriamo sottoporre all’attenzione è un altro. Se è
chiara la questione di un orientale acattolico, il Codice – con questo canone
– non sembra essere altrettanto chiaro se il disposto del can. 35 si possa rife-
rire anche agli Occidentali acattolici. Ossia: cosa succede se un anglicano
voglia entrare a far parte della comunione cattolica desiderando di essere
ascritto ad una Chiesa sui iuris Orientale? Cioè, ad esempio, cosa accadrà
all’ipotetico Sig. John Smith, che vive per lavoro in Egitto e che è anglica-
no, qualora desideri entrare a far parte della Chiesa Cattolica Copta? Questo
è – a nostro parere – il punto giuridico. Il can. 35, infatti, pur riferendosi e-
splicitamente agli Orientali acattolici non sembrerebbe escludere a priori gli
Occidentali, ai quali il Codice indirettamente, in più punti si riferisce ai bat-
tezzati acattolici provenienti dal panorama della Riforma e
dell’Anglicanesimo152. Oltre a ciò, il disposto del can. 896, sancente il
principio che ai battezzati acattolici delle Chiese o delle Comunità Eccle-
siali desiderosi di entrare a far parte della comunione cattolica «nihil im-
ponatur oneris quam ea, quae necessaria sunt» non sembrerebbe essere
del tutto disatteso, qualora questo principio dovesse essere non applicato.
Il can. 35, a riprova della complessità della tematica, ha avuto nel pro-
cesso di codificazione canonica orientale un iter nel quale non sono mancate
discussioni e dibattiti; anzi si può asserire che il problema che qui sollevia-
mo in questo modesto scritto fu già considerato dai membri della PCCIOR.
Infatti la PCCIOR partì dal can. 11 del motu proprio Cleri Sanctitati153
per poi formulare un canone completamente diverso da quello della prece-

151
Cfr. OE 4 ed anche CCEO can. 39.
152
In molti canoni del CCEO, infatti, viene usata l’espressione battezzati o membri delle Chiese o
delle Comunità Ecclesiali. Sappiamo bene (cfr. Communicationes 5, 1983, 182) che l’espressione
“Comunità Ecclesiali” non include le Chiese orientali acattoliche bensì quelle sorte nell’ambito
della Riforma.
153
CS, can. 11: Ǥ1. Nisi baptismus collatus fuerit in ipso suo territorio, parochus exigat baptismi
testimonium ab utraque parte, vel a parte tantum catholica, si agatur de matrimonio contrahendo
cum dispensatione ab impedimento disparitatis cultus. §2. Catholici qui sacramentum chrismatis
nondum receperunt, illud, antequam ad matrimonium admittantur, recipiant, si id possint sine
gravi incommodo».

60
dente legislazione di CS ed ispirato – come si ha modo di leggere in Nun-
tia154 – dai principi di OE n° 4. Pertanto, successivamente, fu formulato un
canone a cui fu attribuito il numero 14 come segue: «Baptizati ciusvis Ec-
clesiae vel Communitatis acatholicae ad plenitudinem communionis catho-
licae convenientes, ad Ecclesiam proprii ritus adscribuntur, salvo iure reci-
piendi ad Sedem Apostolicam in casibus peculiaribus personarum, commu-
nitatum vel regionum»155. Il canone così concepito sembrava riflettere la te-
oria della separazione tra “rito” e “chiesa”, ossia la PCCIOR aveva già sot-
tolineato che il concetto di ritus era imparentato solo con la liturgia156 e non
indicava più una Chiesa orientale cattolica come prima (cfr. CS). Ma, prose-
guendo con l’iter del nostro canone, osserviamo che la PCCIOR decise di
collocare il canone tra le norme respicienti l’ascrizione ad una Ecclesia sui
iuris anziché in quelle dell’apposito titolo concernente i battezzati acattolici
che pervengano alla piena comunione con la Chiesa cattolica157. Pertanto, il
canone giunse nello Schema di Codice del 1987 (CICO can. 33) come se-
gue: «Baptizati acatholici communionem cum Ecclesia catholica convenien-
tes proprium ubique terrarum ritum eumque colant et pro viribus observent,
proinde ascribatur Ecclesiae sui iuris eiusdem ritus salvo iure adeundi Se-
dem Apostolicam in casibus specialibus personarum, communitatum vel re-
gionum»158. Come si può notare dal canone del CICO a quello del CCEO vi
sono state solo delle variazioni redazionali e linguistiche.
Tuttavia, durante l’iter del canone – come già si accennava prima – fu
sollevata la nostra questione da parte dei membri del Coetus della PCCIOR.
Infatti, sempre in Nuntia, si ha modo di leggere alcune interessanti osserva-
zioni. La prima osservazione fu sul problema del ritus dei protestanti (specie
in relazione alle problematiche dei matrimonia mixta), asserendo che il ca-
none è “inadeguato”; «(...) Si chiede se essi debbano essere considerati di
rito latino anche se hanno fino al presente derivato dalle tradizioni e usi che
definiscono questa Chiesa. Questo problema non si può lasciare insoluto, a
causa delle quotidiane necessità delle Chiese orientali del Nord-America,
dove i protestanti costituiscono la maggioranza della popolazione, e non ra-
ramente si sposano con orientali cattolici. Contraendo un tale matrimonio
essi non raramente decidono di unirsi alla parte cattolica anche per quanto

154
Ved. E. JARAWAN, Les Canons des Rites Orientaux, in Nuntia 3 (1976) 44-53, praesertim p. 51 in
cui si afferma chiaramente quanto detto sopra.
155
Nuntia 19 (1984) 22, can. 14.
156
Cfr. Proposta del 1973 della Facoltà di Diritto Canonico del Pontificio Istituto Orientale circa le
norme per la ricognizione del diritto canonico orientale, in Nuntia (1988) 110-111.
157
Nuntia 22 (1986) 31-32.
158
Nuntia 24/25 (1987) 6, can. 33.

61
riguarda la religione. Ad essi – ed a tutti gli altri cristiani – dovrebbe essere
permesso di scegliere la Chiesa “sui iuris” della parte cattolica senza nessun
altro ostacolo legale o formalità. (...)»159. Ma, forse ancor più interessante, è
la seconda osservazione: «La presunzione che tutti i protestanti abbiano una
specie di affiliazione con la Chiesa latina è molto discutibile, perché le loro
comunità ecclesiali, a differenza delle Chiese Ortodosse, hanno poca o nes-
suna somiglianza con la Chiesa latina, dalla quale si sono distaccate. Perciò
i singoli protestanti e le loro comunità dovrebbero essere liberi di scegliersi
le Chiese “sui iuris”, quando pervengono alla piena comunione con la Chie-
sa cattolica. È importante che il futuro Codice risolva tale questione poiché
negli Stati Uniti i protestanti costituiscono la maggioranza ed i matrimoni
misti non sono rari. Si domanda se, nel caso di un protestante che sposa una
cattolica e desidera diventare cattolico lui stesso, sia logico farlo ascrivere
prima alla Chiesa latina , quasi come una “fictio iuris” e solo in seguito alla
Chiesa orientale della moglie»160. Il Coetus rispose che: «In caso di matri-
monio vi si provvede al can. 31 [n.d.r. del CICO, oggi can. 33 CCEO] Circa
la questione sui protestanti in genere si consulti la dottrina canonica»161.
Il dibattito proseguì fino al 1988, in cui il significato del canone fu chia-
rito e ne fu stabilita la forma definitiva. Infatti, molti consultori espressero
del-le perplessità (assai simili a quelle sopra riportate)162, alle quali fu rispo-
sto che il canone «rispecchiava fedelmente le direttive del Concilio. La dif-
ficoltà sollevata era una delle questioni “de iure” e “de facto”. In questi casi
si è soliti rimanere spesso nel “dubium facti”. Pertanto nelle questioni “de
facto” sarebbe meglio non entrare in questa sede riservata esclusivamente
alla trattazione di quelle “de iure”»163; pertanto il nostro canone fu approva-
to a maggioranza di voti come quello dello Schema del CICO164.

***

La scelta della PCCIOR di mantenere il canone invariato dallo Sche-


ma del CICO del 1987 al Codice fu giustificata anche dal fatto che il ca-
none riprendeva le direttive conciliari di OE n° 4: «(...) i battezzati di

159
Nuntia 28 (1989) 27.
160
Ibid.
161
Ibid.
162
Ved. Nuntia 29 (1988) 48-50.
163
Così il Segretario si espresse, cfr. Nuntia 29 (1989) 50.
164
Su 27 presenti, 25 membri votarono per il mantenimento del canone quale era nel CICO “ut iacet
Schemate” e solo 2 membri diedero il loro voto negativo non placet; ved. Nuntia 29 (1989) 51.

62
qualsiasi Chiesa o comunità acattolica, che convengano alla pienezza del-
la comunione cat-tolica, mantengano dovunque il proprio rito, lo onorino
e, secondo le proprie forze, lo osservino, salvo il diritto in casi particolari
di persone, comunità o regioni, di far ricorso alla Sede Apostolica, che,
quale suprema arbitra delle relazioni inter-ecclesiali, provvederà essa
stessa alle necessità secondo lo spirito ecumenico o farà provvedere da
altre autorità con opportune norme, decreti o rescritti»165.
I canonisti hanno dato del can. 35 CCEO varie interpretazioni. Il SALA-
CHAS, nel suo commentario, prosegue sulla strada della aderenza al Concilio
Vaticano II, ricordandoci che il CCEO ha un apposito titolo per i battezzati
acattolici; tuttavia Egli non sembra fare riferimento alla questione dei prote-
stanti nel commentare il can. 35 CCEO166. Invece, FARIS167 e POSPISHIL168
argomentano che tale fattispecie viene risolta nel disposto del can. 35 ove si
dice «salvo iure adeundi Sedem Apostolicam in casibus specialibus perso-
narum, communitatum vel regionum»; dunque secondo costoro il caso di cui
sopra rientrerebbe nei casi speciali di persone e quindi dovrebbe essere de-
ferito alla Santa Sede. Una interessante opinione ci è fornita dal DE FUEN-
MAYOR, che – commentando il can. 112 del CIC – non esita ad asserire a
chiare lettere che tanto ai battezzati acattolici Orientali quanto ai Protestanti
o Anglicani viene ad essere applicabile OE n°4 e quindi il can. 35 CCEO;
infatti, egli sostiene che il CIC, pur non avendo una norma esplicita circa i
Protestanti e gli Anglicani che pervengano alla piena comunione con la
Chiesa cattolica, risolve di fatto la questione tenendo presente proprio OE
n°4169. Dunque per il DE FUENMAYOR non sembrano esserci dubbi: OE n°4 è
un principio generale valido per tutti i cristiani ed argomenta sostenendo che
la recezione dei Protestanti e degli Anglicani nelle Chiese Orientali cattoli-
che al massimo può ritenersi “illicita” e comunque non invalida170.
Dunque, pur consapevoli del fatto che la questione dovrebbe essere
maggiormente approfondita; tuttavia, riteniamo maggiormente adeguata
l’opinione del DE FUENMAYOR. Infatti, il singolo cristiano ha il diritto di
essere libero nella scelta della Chiesa a cui aderire ed appartenere. Oltre a
165
OE 4; in EV 1/460.
166
D. SALACHAS, Istituzioni di Diritto Canonico delle Chiese Cattoliche Orientali, Roma- Bologna
1993, 89-91.
167
J. D. FARIS, The Eastern Catholic Churches: Constitution and Governance. According to the Code
of Canons of the Eastern Churches, New York 1992, 175.
168
V. I. POSPISHIL, Eastern Catholic Church Law. According to the Code of Canons of the Eastern
Churces, New York 1993, 88.
169
A. DE FUENMAYOR, Reception into full communion with Catholic Church; in E. CAPARROS - M.
THÉRIAULT - J. THORN (edd.), Code of Canon Law annotated, Montréal 1993, 113.
170
Ibid.

63
ciò si deve ricordare che ai battezzati acattolici che chiedano di entrare a
far parte della communio cattolica “non si imponga altro peso fuorché le
cose necessarie” (come stabilito dal can. 896 CCEO e da UR n° 18). Ma
ad integrare il can. 35 del Codice risiede anche il disposto del can. 901,
statuente: «Si acatholici, qui non ad aliquam Ecclesiam orientalem perti-
nent, in Ecclesiam catholicam recipiuntur, servandae sunt normae supra
datae congrua congruis referendo, dummodo sint valide baptizati» (ove
per «servandae sunt normae supra datae» pensiamo si debbano intendere
i ccan. 896-900).
Perciò riteniamo che il can. 35 sia riferibile ed applicabile anche ai bat-
tezzati acattolici occidentali e che sia intimamente collegato al can. 901, dal
momento che ne completa l’interpretazione e l’applicazione. Ora, ritornando
al problema che ci si è posti sopra – cioè su un acattolico occidentale
possa divenire membro di una Chiesa cattolica orientale – riteniamo che
in effetti ciò sia possibile e lecito.
Quindi concludendo questo modesto scritto, cogliamo l’occasione – in
questa sede congressuale – per proporre al Pontificium Consilium de Legum
Textibus Interpretandis il seguente quesito circa il can. 35 CCEO: (a) il can.
35 si applica anche ai battezzati acattolici non-orientali? (b) se si, possono
costoro scegliere la Chiesa orientale cattolica sui iuris di loro gradimento?
(c) tale caso si prefigura come specialis casus personarum e quindi ricorrere
alla Sede Apostolica?

§10. Alcune riflessioni in merito al titolo 17° CCEO

I battezzati acattolici che pervengano alla piena comunione con la Chie-


sa di Roma, costituisce uno dei momenti di più significativa apertura ecu-
menica nell’ambito del diritto canonico. In questo titolo del CCEO, i detta-
mi del Concilio Vaticano II e le norme del precedente Direttorio Ecumenico
trovano ampia attuazione e svolgimento.
Infatti, la centralità del battesimo – che si è tra l’altro andata sempre più
imponendo anche nei Dialoghi internazionali171 – riveste grandissima im-
portanza perché il riconoscimento della validità del medesimo, stabilisce un
“gradiente” di comunione tra le Chiese e le Comunità Ecclesiali dell’orbe
cristiano172. Ossia, il fatto che la Chiesa Cattolica riconosca la validità del

171
Basta scorrere l’Enchiridion Oecumenicum, voll. 1 e 3.
172
Giova ricordare che la Chiesa cattolica riconosce validi quei battesimi dei cristiani conferiti nel
nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in cui il battezzando sia asperso l’acqua benedet-

64
battesimo di un acattolico, porta alla conseguenza che costui possa entrare a
far parte della communio cattolica senza dover essere ribattezzato. In virtù
di tale principio – il riconoscimento del battesimo – il can. 986 CCEO san-
cisce, riprendendo così il Concilio, che agli acattolici il cui battesimo sia va-
lido nihil imponatur ultra ea quae necessaria. Inoltre, sempre per rimanere
in quest’ambito, dobbiamo sottolineare anche la portata ecumenica del can.
1490 CCEO173, che obbliga alle leggi ecclesiastiche i soli cattolici, ribaltan-
do la vecchia concezione del CIC* (cfr. cann. 12 e 87)174 in virtù della quale
si consideravano tutti i battezzati – sia cattolici che non – tenuti alla osser-
vanza delle leggi175. Egualmente, il fatto che i cattolici siano perciò battez-
zati in Cristo spinge gli stessi alla fedeltà verso la “comunione” costituendo
il Populus Dei (cfr. can. 7§1) e quindi all’attività ecumenica (cfr. can. 902).
Infatti, da un punto di vista teologico, dobbiamo ricordare la centralità del
battesimo nella vita cristiana, essendo il sacramento battesimale non a caso
definito come ianua sacramentorum e che «Per mezzo del Battesimo noi
siamo uno in Gesù Cristo» (Gv. 3, 28). Dunque, il CCEO non esita ad af-
fermare (tramite il can. 897) che un fedele cristiano acattolico orientale ver-
rà accolto nella Chiesa cattolica tramite la sola e semplice professio fidei176.
Questo non costituisce assolutamente un’abile azione politica di proseliti-
smo, ma è la semplice conseguenza della riflessione conciliare e post-
conciliare; infatti, se noi cattolici riconosciamo la validità del battesimo de-
gli orientali cattolici, ecco che sarà sufficiente la sola professione del
symbolum fidei cattolico, per poter essere ammessi alla comunione cattolica.
Del resto, come già sostenuto dal Concilio, le Chiese orientali acattoliche

ta. Sono pertanto validi i battesimi degli Anglicani, dei Luterani, ma anche degli Ortodossi Bizan-
tini, gli Ortodossi monofisiti, e gli Ortodossi pre-calcedonesi. Il punto di partenza di tale ricono-
scimento è nel Concilio, vedasi pertanto LG 15 (EV 1, 325), UR 15 (EV 1, 549), UR 23 (EV 1,
568). Inoltre, si veda in merito, il DE che – nel capitolo II intitolato «La validità del battesimo
amministrato dai ministri delle Chiese e delle Comunità ecclesiali separate» – si dedica alla mate-
ria in modo dettagliato (nn. 9-20: EV 1, 1202-1213). Infine, per le implicanze ecumeniche circa il
battesimo cfr. ECAS, 55.
173
CCEO can. 1490: «Legibus mere ecclesiasticis tenetur mere baptizati in Ecclesia catholica vel in
eadem recepti, quique sufficienti usu rationis habent et, nisi aliter iure expresse cavetur, septi-
mum annum explevereunt».
174
CIC* can. 12: «Legibus mere ecclesiasticis non tenetur qui baptisimum non receperunt, nec bapti-
zati qui sufficienti rationis usu non gaudent, nec qui, licet rationis usum assecuti, septimum aeta-
tis annum nondum expleverunt, nisi aliud expresse cavetur»; CIC* can. 87: «Baptismate homo
constituitur in Ecclesia Christi persona cum omnibus christianoru iuribus et officiis, nisi, ad iura
quod attinet, obstet obex, ecclesiasticae communionis vinculum impediens, vel lata ab Ecclesia
censura».
175
In merito ved. D. SALACHAS, Implicanze ecumeniche ..., op. cit., 78-79. È da notare che stessa
norma vige nel CIC (can. 11). Cfr. ECAS, 57-58.

65
sono «chiese sorelle»177 Pertanto, la normativa orientale appare estrema-
mente aperta e flessibile, ed attraverso i cann. del tit. 17° CCEO, tutto ciò
appare evidente.
Un altro punto ci preme evidenziare: l’enorme apertura ecumenica circa
la recezione dei vescovi e dei presbiteri acattolici, sancita dai cann. 898 e
899 del Codice. L’accoglienza, oggi sancita giuridicamente dal CCEO,
dei vesco-vi orientali acattolici178 affonda le proprie radici oltre che nei
principi generali sull’ecumenismo di UR anche nei dialoghi internaziona-
li179; inoltre, è da rimarcare il fatto che tale normativa è del tutto nuova,
infatti manca nel CIC (ma era assente anche nel DE). L’accoglienza dei
vescovi orientali acattolici, non è cosa di poco conto, se si ricorda che
costoro non solo rimarranno intatti nella loro dignità episcopale, ma po-
tranno partecipare – al pari di tutti gli altri vescovi orientali – alle fun-
zioni di governo nella Chiesa, ottenuto però l’assenso del R. Pontefice. È
ovvio, che si necessiti dell’assenso pontificio, dal momento che il Papa è
il capo del collegio episcopale180. Tutto ciò sta a significare che la Chiesa
Cattolica riconosce la validità, oltre che del battesimo, anche degli ordini
sacri, primo fra tutti il ministero episcopale degli orientali acattolici.
Quanto detto viene genericamente definito come «reciprocità», inten-
dendo questa come reciproco riconoscimento dei sacramenti. Purtroppo, a
quanto ne sappiamo, la prassi ortodossa, in tal senso è negativa: cioè i ve-
scovi cattolici non sono riconosciuti dagli ortodossi nel momento in cui un
cattolico desideri passare alla comunione ortodossa. Probabilmente, gli or-
todossi hanno questo atteggiamento motivato dalla loro concezione
ecclesiologica (che è differente dalla cattolica); tuttavia ciò è assai negativo.
Pertanto, riteniamo si debba lavorare molto in questo senso affinché il
dialogo ecumenico possa portare reciproci frutti, altrimenti restare su di una
linea unilaterale ci pare cosa infruttuosa.
Infine, dobbiamo sottolineare che il Codice non tralascia di ricordare gli
acattolici non-orientali (can. 901). Qui l’apertura verso le Chiese o le Co-
munità ecclesiali sorte nell’ambito delle separazioni occidentali è palese;
molti anglicani, protestanti, ecc. vivono in territori ove sono presenti le

177
Questo importantissimo concetto teologico è stato, recentemente, ripreso da GIOVANNI PAOLO II in
Ut Unum Sint al n. 50 (per le Chiese calcedonesi), e nn. 62-63 (per le Chiese pre-Calcedonesi).
178
Dunque sia gli ortodossi bizantini che gli ortodossi monosifisiti, ma anche – evidentemente – i pre-
calcedonesi.
179
Ad es. si veda Enchiridion Œcumenicum, I, 2191, 2193, 2198-2216.
180
Ved. CCEO can. 42: «Sicut statuente Domino sanctus Petrus et ceteri Apostoli unum Collegium
constituunt, pari ratione Romanus Pontifex, successor Petri, et Episcopi, successores Apostolo-
rum, inter se coniunguntur».

66
Chiese Orientali; il codice, dunque, pone la propria attenzione anche a co-
storo. Tutto ciò è altamente meritorio oltre che estremamente giusto, nonché
è un ribadito impegno nei confronti del movimento ecumenico.
Ci appare opportuno compiere un’ultima riflessione, ossia trattare, sep-
pur brevemente, dell’accoglienza del minore acattolico (can. 900). In parti-
colare, ci riferiamo al disposto del §2 del can. 901, sancente il rinvio
dell’accoglienza del minore qualora si prevedano «gravia incommoda vel
Ecclesiae vel ipso». Questa norma ci appare un po’ difficile da comprende-
re, e quindi da commentare; nelle pagine precedenti abbiamo dato una spie-
gazione molto generale, dunque ora, in fase di conclusioni, ci permettiamo
di sollevare i nostri dubbi in merito alla scelta adottata dal Codice. Pur es-
sendo innegabile il fatto che la Chiesa possa decidere se ricevere o meno il
minore nel proprio seno, tuttavia ciò ci sembra in contrasto con la capacità
della libertà personale. Infatti, così come chiunque possa ricevere il battesi-
mo, purché lo richieda, allora a maggior ragione se qualcuno richiede di en-
trare a far parte della Chiesa cattolica non dovrebbe essere “tenuto in sospe-
so”. Del resto la Chiesa, non si fa problemi allorquando in caso di desiderio
del soggetto o di necessità si trovi a battezzare un bambino figlio di acattoli-
ci cristiani181. In sostanza, il can. 900§2 sembra essere un po’ in contrasto
con l’esercizio della libera volontà del minore richiedente l’ascrizione alla
Chiesa cattolica. Pertanto, a nostro sommesso avviso, resterebbe da chiarire
(magari da parte del “Pontificio Consiglio per l’interpretazione dei testi le-
gislativi”) che cosa si debba intendere per gravia incommoda vel Eccle-
siae vel ipso e soprattutto chi stabilisce le condizioni necessarie e suffi-
cienti per il verificarsi dei gravia incommoda.

181
Ved. CCEO can. 681§5: «Infans christianorum acatholicorum licite baptizatur, si parentes aut
unus saltem eorum aut is, qui legitime eorundem locum tenet, id petunt et si esi physice aut mor-
aliter impossibile est accedere ad ministrum proprium».

67
L’ECUMENISMO,
OSSIA LA PROMOZIONE DELL’UNITÀ DEI CRISTIANI
SECONDO IL CCEO

§1. Alcune note introduttive

Il titolo XVIII del CCEO è intitolato «De Oecumenismo seu de christiano-


rum unitate fovenda» e contiene, in totale, sette canoni (902-908)182. Il CCEO,
dedica pertanto all’ecumenismo un apposito ed intero titulus, a differenza del
CIC, che non assegna alla tematica alcuna sezione specifica del codice.
L’interesse ecumenico del codice orientale è facilmente spiegabile, se si
va alle radici stesse del processo di codificazione canonica orientale; infatti
già tra i principi direttivi per la revisione della legislazione orientale si ha
mo-do di apprendere il carattere ecumenico del futuro codice: «(...) 2. Nel
codice si tengano presenti in primo luogo i voti del Concilio Vaticano II che
esprime il desiderio che le Chiese Orientali Cattoliche “fioriscano ed assol-
vano con nuovo vigore apostolico la missione loro affidata” (Orientalium
Ecclesiarum, n.1), per quanto riguarda sia il bene delle anime sia “lo specia-
le ufficio di pro-muovere l’unità dei cristiani” (ibid. 24), della quale devono
essere fedeli testimoni secondo i principi del Decreto sull’Ecumenismo. 3.
In virtù dello “speciale ufficio” di cui al n. precedente, si tenga in debita
considerazione, nella revisione del CICO, l’aggiornamento a cui tendono la
Chiese Ortodosse nella speranza di una sempre maggiore unità del diritto
canonico di tutte le Chiese Orientali. 4. Perciò il Codice riguardo alle Chie-
se Ortodosse deve essere ispirato dalla parole di Paolo VI: sulle “Chiese so-
relle”, sulla “quasi piena” comunione», e sul rispetto verso i Gerarchi di
queste Chiese come “pastori a cui è stata affidata una porzione del gregge di
Cristo”, e dal testo Conciliare sul “diritto di reggersi secondo le proprie di-
scipline, come più consone all’indole dei loro fedeli e più atte a provvedere
al bene delle anime (Unitatis Redintegratio, n. 16)»183. A ciò si aggiunga
anche il fatto che la Facoltà di Diritto Canonico Orientale, presso il Pontifi-
cio Istituto Orientale, nel 1973 presentò alla PCCIOR un’articolata proposta
182
Anche per i canoni 902-908, un primo ed ottimo commento ci è dato da D. SALACHAS, Implicanze
Ecumeniche del “Codice dei Canoni delle Chiese Orientali” alla luce del Nuovo Direttorio Ecu-
menico; in «Studi Giuridici» 34, praesertim 96-102. Inoltre dobbiamo ricordare che uno studio di
carattere generale fu redatto sempre dal SALACHAS nell’opera curata da J. CHIRAMEL - K. BAHA-
RANIKULAGARA, The Code of the Eastern Churches - A Study and Interpretation, Alwaye 1992,
228-275.
183
Nuntia 3 (1976) 5.

68
circa le norme per la ricognizione della legislazione orientale, tra le quali vi
erano anche quelle di natura ecumenica; infatti al punto n. 4 (intitolato “Il
carattere ecumenico del Codice”) di tale proposta, si legge: «(...). 3) Nel
Codice si tengano presenti in primo luogo i voti del Concilio Vaticano II
che espresse il desiderio che le Chiese Orientali Cattoliche “fioriscano ed
assolvano con nuovo vigore apostolico la missione loro affidata” (“Orienta-
lium Ecclesiarum”, n.1), sia per quanto riguarda il bene delle anime sia per
quanto riguarda “lo speciale ufficio di promuovere l’unità di tutti i cristiani”
(ibid., n. 24). 4) In virtù dello speciale ufficio, di cui al n. 3, si tengano in
grande considerazione nella revisione del Codice gli ordinamenti giuridici
delle Chiese Ortodosse e l’aggior-namento a cui esse tendono, cercando di
promulgarlo, per quanto possibile, simile al diritto canonico di quelle Chiese
nella speranza di ristabilire l’auspi-cata pienezza della comunione. 5) Perciò
il Codice riguardo alla Chiese Ortodosse deve essere ispirato dalle parole di
Paolo VI sulle “chiese sorelle” già in “quasi piena” comunione riconoscen-
do i Gerarchi di queste Chiese come “pastori a cui è stata affidata una por-
zione del gregge di Cristo”. Il Codice di conseguenza riconoscerà alla Chie-
se ortodosse il diritto di reggersi secondo le proprie discipline in quanto più
consone all’indole dei loro fedeli e più adatte a provvedere al bene delle anime
(“Unitatis Redintegratio”, n. 16).»184.
Quindi la stessa PCCIOR di fatto accettò la proposta della Facoltà di
Diritto Canonico Orientale185 e si attenne a tali principi direttivi per la re-
visione del codice. Di fatti all’assemblea plenaria del 21 marzo 1974, la
riunione dei consultori della I e II Sottocommissione per la “recensio
modorum” (alla sezione “carattere ecumenico del CICO”) si espresse co-
me segue: 18 dei membri presenti votarono pronunciandosi a favore (n.
9), nessuno in sfavore e nove placet iuxta modum186. È interessante ricor-
dare, inoltre, che anche gli ortodossi furono chiamati dalla PCCIOR, in
qualità di osservatori187. Certamente, come si ha modo di leggere in Nun-
tia, i lavori furono abbastanza faticosi, data la tematica, ma ugualmente
come per le altre parti del CCEO, si giunse alla redazione dei canoni qua-
li ora appaiono188.

184
Nuntia 26 (1988) 105-106.
185
Ved. Nuntia 30 (1990) 35.
186
Ibid., 49.
187
Cfr. Nuntia 12 (1981) 13-14.
188
Per uno studio più dettagliato circa l’iter di codificazione dei canoni attuali, ved. C.G. FÜRST, L'E-
cumenismo nel progetto del Codice di diritto canonico orientale, in AA Vv. Portare Cristo
all’uomo; in «Studia Urbaniana» 23, Roma 1985, 227-233 (Atti del Congresso del ventennio del

69
Circa, infine la scelta dell’intestazione del titolo, questo inizialmente fu
denominato sic et simpliciter “De Oecumenismo”, e poi grazie all’acuta os-
servazione di un membro del Coetus, che – giustamente – vedeva nel titolo
quanto affermato da UR, fu modificato in “De Oecumenismo seu de Chri-
stianorum unitate fovenda”189.

§2. La Chiesa cattolica e l’impegno ecumenico

In merito all’impegno della Chiesa cattolica verso il movimento ecu-


menico il can. 902 detta a chiare lettere:
Can. 902: «Cum sollicitudo cunctorum christianorum unitatis in-
staurandae ad totam Ecclesiam spectet, omnes christifideles, pra-
esertim vero Ecclesiae Pastores, debent pro ea a Domino optata
Ecclesiae unitatis plenitudine orare et allaborare sollerter parti-
cipando operi oecumenico Spiritus Sancti gratia suscitato».

***

Il can. 902 CCEO, al pari degli altri canoni del Codice, ha avuto una
sua evoluzione all’interno del processo di codificazione canonica orientale.
Tutti i canoni in merito al de oecumenismo apparvero già in un primo sche-
ma del magistero ecclesiastico (parte seconda)190 per poi, progressivamente,
venire ad essere distaccati da questa sezione e collocati in un loro proprio
titolo (compreso già nello SCICO del 1987).
Per ciò che concerne l’iter dell’attuale can. 902 osserviamo quanto se-
gue. In un primo schema (del 1980) apparve come il can. 1: «Cum sollicitu-
do cunctorum christianorum unionis instaurandae ad totam Ecclesiam spec-
tet, omnes christifideles, praesertim vero Pastores, debent pro ea a Domino
optata Ecclesiae unitatis plenitudine orare et adlaborare sollerter partici-
pando operi oecumenico, Spiritus Sancti gratia favente suscitato»191.
In un secondo schema (quello del 1981), il can. restò immutato (a parte
la numerazione, divenendo il can. nr. 95);tuttavia in questo secondo schema
fu attribuito ai canoni sull’ecumenismo un titolo apposito (il 17°), intitolato

Concilio Vaticano II) ed anche ved. D. SALACHAS, L'Ecumenismo nello Schema del Codice di Di-
ritto Canonico Orientale, in Apollinaris 61 1/2 (1988) 205-227.
189
Cfr. Nuntia 17 (1983) 62.
190
Ved. Nuntia 11 (1980) 70-72.
191
Nuntia 11 (1980) 71.

70
semplicemente “De Oecumenismo”192, dal momento che fu creato per tale
materia un apposito titolo193.
Successivamente, l’intestatio tituli fu modificata, redigendo il titolo
qual’è quello odierno; infatti, come si ha modo di leggere in Nuntia: «Alla
ru-brica un Organo di consultazione osserva che essa non è soddisfacente,
dato l’uso vago che spesso si fa della parola “oecumenismus” e che sarebbe
meglio ispirarsi al titolo del decreto conciliare “Unitatis Redintegratio” o al
mo-vimento e alla azione “ad Christianorum unitatem fovendam”. (...). La
proposta si accetta in sostanza, ritenendo la parola “oecumenismus” (usata
in altri canoni), ma dandole un più chiaro significato per il Codice, con l’ag-
giunta del titolo delle parole da “seu” in poi. Il Titolo ora è il seguente: De
oecumenismo seu de christianorum unitate fovenda»194.
Il canone, giunse pertanto allo schema del CICO, ancora in forma
immutata (a parte la numerazione, divenendo il can. 898)195. Piccole mo-
difiche redazionali, hanno portato alla redazione dell’attuale canone, dal
CICO al CCEO196.
***
Il titolo XVIII principia col can. 902; è questa una norma di carattere
generale, in cui si viene a riprendere quanto enunciato già da UR che infatti
affermava: «La cura di ristabilire l’unione riguarda tutta la Chiesa, sia i fe-
deli che i pastori, e tocca ognuno secondo la propria capacità, tanto nella vi-
ta cristiana di ogni giorno quanto negli studi teologici e storici. Questa cura
già in qualche modo manifesta»197.
Ma, il can. 902 pone due punti fondamentali: (a) il ristabilimento del-
l’unità, (b) i soggetti cui spetta tale munus. La sollicitudo unitatis instau-
randae è l’oggetto, anzi il fine, a cui si deve tendere; mentre i soggetti attivi
nel compiere tale impresa sono tutti i christefideles, cioè la Chiesa stessa nel
suo insieme, anche se in tale compito i pastori della Chiesa hanno l’obbligo
(il canone usa il verbo debent) di pregare per la plenitudo unitatis. In

192
Nuntia 12 (1981) 35.
193
Nuntia 12 (1981) 13.
194
Nuntia 17 (1983) 62.
195
Nuntia 24-25 (1987) 161, can. 898: «Cum sollicitudo cunctorum christianorum unionis instauran-
dae ad totam Ecclesiam spectat, omnes christifideles, praesertim vero Pastores, debent pro ea a
Domino optata Ecclesiae unitatis plenitudine orare et allaborare sollerter participando operi oe-
cumenico, Spiritus Sancti gratia favente suscitato».
196
Al can. 898 “unionis” fu sostituito con “unitatis” e “spectat” con “spectet”, inoltre viene aggiunto
dinnanzi a “Pastores” il lemma “Ecclesiae”; cfr. Nuntia 27 (1988) 59.
197
UR 5: EV 1, 519.

71
quest’ottica, l’attività ecumenica è “suscitata dalla grazia dello Spirito San-
to”. A ciò sembra fare eco il NDE, che – quasi a commentare il can. 900 – al
nr. 9 asserisce: «Il movimento ecumenico intende essere una risposta al do-
no della grazia di Dio, chiamando tutti i cristiani alla fede nel mistero della
Chiesa, secondo il disegno di Dio che vuole condurre l’umanità alla salvez-
za e all’unità in Cristo mediante lo Spirito Santo». Pertanto, veramente tutti
sono impegnati nel-l’opera ecumenica sottintendendo quasi una sorta di do-
vere storico che ha la comunità cristiana nella ricerca dell’unità; di più: un
fine – se ad es. si tengono presenti le parole del NDE198 – escatologico poi-
ché Cristo, che è centro del mondo e della storia, sia anche centro dell’unità.
Pertanto, la riflessione teologica viene ad essere ampliata ai massimi oriz-
zonti, giungendo a chiarire il ruolo della Chiesa in relazione al problema
dell’unità ed alla voluntas Dei. Questa è la prima volta che un codice di di-
ritto canonico assegna così precisamente alla tematica ecumenica norme
e direttive. In effetti il concetto del-l’unitas è chiarito da GIOVANNI PAO-
LO II, da un punto di vista esegetico-teologico, nell’enciclica «Ut Unum
Sint»: «Credere in Cristo significa volere l’unità; volere l’unità significa
volere la Chiesa; volere la Chiesa significa volere la comunione di grazia
che corrisponde al disegno del Padre da tutta l’eternità. Ecco qual è il si-
gnificato della preghiera di Cristo: “Ut unum sint”»199. L’impegno ecu-
menico spetta dunque a tutta la Chiesa ed in primis ai pastori d’anime che
sia tramite la preghiera sia per mezzo dell’opera pratica, s’impegnano
nell’attività ecumenica200.
Il CCEO prosegue nel titolo 18° col voler delineare gli aspetti “pratici”
dell’ecumenismo – quasi a voler istituire una “ortoprassia ecumenica” – get-
ta le basi dell’azione, passando così dalla teoria generale del can. 902 per
giungere al particolare tramite i canoni 903-908, che pur restando tutti intri-
si di pastoralità, forniscono le linee dell’azione ecumenica per tutte le Chie-
se Orientali cattoliche.

§3. Le Chiese Orientali cattoliche e l’ecumenismo

Il Codice attribuisce uno speciale munus oecumenicum alle Chiese O-


rientali cattoliche, come sostenuto dal can. 903:

198
Cfr. NDE 22: «Il movimento ecumenico è una grazia di Dio, concessa dal Padre in risposta alla
preghiera di Gesù e alle suppliche della Chiesa ispirata dallo Spirito Santo».
199
Cfr. Ut Unum Sint 9.
200
Fonti dirette del can. 902 sono: UR 5, 1, 4, 8, 24; LG 13, 15; OE 30; infine, il motu proprio di LE-
ONE XIII «Optatissime» del 19 marzo 1895.

72
Can. 903: «Ad Ecclesias orientales catholicas speciale pertinet
munus unitatem inter omnes Ecclesias orientales fovendi precibus
imprimis, vitae exemplo, religiosa erga antiquas traditiones Ec-
clesiarum orientalium fidelitate, mutua et meliore cognitione, col-
laboratione ac fraterna rerum animorumque aestimatione»
***
Per ciò che concerne l’iter del can. 903, osserviamo che in un primo
schema (del 1980) il canone apparve come il seguente: can. 2: «Ad Eccle-
sias Orientales Catholicas peculiare pertinet munus orientalium praesertim
christianorum unitatem fovendi, precibus imprimis, vitae exemplis, religiosa
erga antiquas traditiones orientales fidelitate, mutua et meliore cognitione,
collaboratione ac fraterna rerum animorumque aestimatione»201. Non vi fu-
rono modifiche alcune dallo schema del 1980 a quello del 1981 (a parte la
numerazione)202. Invece, alcune modifiche redazionali, furono apportate al
testo del nostro canone nello SCICO: can. 899: «Ad Ecclesias orientales ca-
tholicas speciale pertinet munus unitatem inter omnes Ecclesias orientales
fovendi, precibus imprimis, vitae exemplo, religiosa erga antiquas traditio-
nes Ecclesiarum orientalium fidelitate, mutua et meliore cognitione, colla-
boratione ac fraterna rerum animorumque aestimatione»203. Dal CICO al
CCEO, il can. è rimasto immutato.
***
Il can. 903, indica chiaramente il compito delle Chiese Orientali cattoli-
che a cui spetta il munus speciale di promuovere l’unità di tutte le Chiese
Orientali. Substrato del canone è senza dubbio OE, anzi da un punto di vista
quasi “filologico-giuridico”, il can. 903 sembra essere identico al testo con-
ciliare (a parte qualche piccola modifica redazionale)204. Ecco quindi il ruo-
lo che hanno le Chiese Orientali cattoliche: favorire l’unità delle Chiese O-
rientali sorelle. Nel fare ciò, innanzitutto si attui la preghiera, forza invinci-
bile per il cristiano, e poi l’esempio di vita, considerato da sempre – secon-
do la tradizione cristiana – propulsore di spiritualità; ma anche: la “religiosa
fedeltà verso le antiche tradizioni delle Chiese Orientali”, senza la quale le
medesime non avrebbero luogo ad esistere, ed infine con la mutua e fraterna
201
Nuntia 11 (1980) 71.
202
Nuntia 12 (1981) 35, ora can. 96.
203
Nuntia 24-25 (1987) 161.
204
Infatti OE 24: EV 1, 485) asseriva: «Alle chiese orientali che sono in comunione con la sede apo-
stolica romana compete lo speciale compito di promuovere l’unità di tutti i cristiani, specialmente
orientali, secondo i principi del decreto “sull’ecumenismo” promulgato da questo santo concilio,
con la preghiera, l’esempio della vita, la scrupolosa fedeltà alle antiche tradizioni orientali, la mu-
tua e più profonda conoscenza, la collaborazione e la fraterna stima delle cose e degli animi».

73
collaborazione ed il reciproco rispetto. Questo canone appare di ampio re-
spiro pastorale e teologico; c’è poco di squisitamente giuridico, se per “giu-
ridico” s’in-tende apparato normativo positivo, quanto piuttosto l’obbligo
morale che hanno le Chiese Orientali cattoliche. Infatti il loro compito è
grande: andare avanti nel cammino dell’unità. Un passo significativo di O-
rientale Lumen ci aiuta a comprendere la natura del can. 901: «Il peccato di
separazione è gravissimo: sento il bisogno che cresca la nostra comune di-
sponibilità allo Spirito che ci chiama a conversione, ad accettare e ricono-
scere l’altro con rispetto fraterno, a compiere nuovi gesti coraggiosi, capaci
di sciogliere ogni tentazione di ripiegamento. Sentiamo la necessità di anda-
re oltre il grado di comunione che abbiamo raggiunto»205. In merito al no-
stro canone, SALACHAS – già durante la fase di codificazione canonica o-
rientale – ebbe a dare il seguente commento: «La fedeltà degli orientali alle
loro antiche tradizioni, comuni a quelle degli ortodossi, costituisce un sacro
dovere anche in vista del-l’unità. Ovviamente il Decreto OE non intende
presentare le Chiese Orientali Cattoliche come “il ponte per il ritorno degli
Orientali non cattolici alla Chiesa di Roma”, neanche come la “formula”, il
“modello” di unione in vista della restaurazione della piena e perfetta unità
tra la Chiesa Cattolica e le Chiese Ortodosse. Di conseguenza, il futuro Co-
dice Orientale non è da considerarsi come il “modello” per ristabilire questa
pienezza della comunione, in quanto la Chiesa cattolica intende applicare,
nella comunione cattolica, il principio “del diritto e dovere delle Chiese di
reggersi secondo le proprie discipline, commendevoli per veneranda antichi-
tà” (OE, n. 5; UR, n. 16). In questo senso certo il nuovo codice avrà delle
implicanze ecumeniche»206. Ci è sembrato opportuno riportare questa breve
riflessione di SALACHAS poiché è di grande chiarimento sia per intendere
meglio lo spirito del canone che per comprendere il vero humus ecumenico
che ispira il CCEO stesso; il legislatore non ha dunque disatteso le aspetta-
tive dei canonisti e dei fedeli tutti. Fonti del canone sono senza dubbio: OE
24 e UR 17; mentre “fonte negativa” può essere considerata la Lett. Ap. di
LEONE XIII «Orientalium» (del 30 novembre 1894).
Ma, il can. 903 ha anche delle implicanze liturgico-ecumeniche; infatti
– come è stato osservato dalla Istruzione per l’applicazione delle prescri-
zioni liturgiche – quanto statuito dal nostro can. ha valore «(...) in modo e-
minente nel campo delle celebrazioni del culto divino, perché proprio in es-

205
Orientale Lumen 17; teniamo presente che qui il Romano Pontefice parla addirittura in prima per-
sona!
206
D. SALACHAS, L’Ecumenismo nello schema del Codice di Diritto Canonico Orientale; in Apollina-
ris 61 1/2 (1988) 211.

74
so le Chiese Orientali cattoliche e ortodosse hanno conservato più integral-
mente il medesimo patrimonio. In ogni sforzo di rinnovamento liturgico si
dovrà pertanto tenere conto della prassi dei fratelli Ortodossi, conoscendola,
stimolandola ed allontanandosene il meno possibile per non accrescere le
separazioni esistenti, ma anzi intensificando gli sforzi in vista di eventuali
adattamenti, da maturare ed operare congiuntamente. Si manifesterà così
l’unità che già sussiste nel ricevere quotidianamente la stessa linfa spirituale
proveniente dal-l’esercizio del comune patrimonio»207. Dunque, il nostro
canone apre la strada anche al dialogo ecumenico in materia di liturgia; del
resto le problematiche liturgiche sono di primaria importanza, specie nel
dialogo tra Chiese Orientali Cattoliche e Chiese Orientali acattoliche, es-
sendo le Chiese Orientali tutte testimoni di antiche e comuni tradizioni (in-
cluse quelle liturgiche).
Il can. 903 CCEO ha un parallelo nel can. 755§1 del CIC: «§1. Totius
Collegii Episcoporum et Sedis Apostolicae imprimis fovere et dirigere
motum oecumenicum apud catholicos, cuius finis est unitatis redintegra-
tio inter universos christianos, ad quam promovendam Ecclesia ex volun-
tate Christi tenetur». Il CIC, da parte sua, asserisce che spetta a tutti i ve-
scovi ed alla Sede Apostolica “sostenere” e “dirigere” il movimento ecu-
menico, che ha quale fine il ristabilimento dell’unità; perciò è necessario
che sia intrapreso tale sforzo, perché il ristabilimento dell’unità è al pri-
mo posto tra gli obblighi dei cristiani.

§4. Strutture preposte all’ecumenismo in ciascuna Chiesa sui iuris

Il Codice, scendendo in dettagli ulteriori in merito alla promozione del-


l’attività ecumenica, delinea le strutture di base tramite le quali la stessa
possa essere attuata nelle Chiese Orientali cattoliche. Infatti, il can. 904 sta-
tuisce:
Can. 904: Ǥ1. Incepta motus oecumenici in unaquaque Ecclesia
sui iuris sedulo provehantur normis specialibus iuris particularis
moderante eundem motum Sede Apostolica Romana pro universa
Ecclesia. §2. Ad hunc finem habetur in unaquaque Ecclesia sui
iuris commissio peritorum de re oecumenica constituenda, si re-
207
CONGREGAZIONE PER LE CHIESE ORIENTALI, Istruzione per l’applicazione delle prescrizioni liturgi-
che del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, del 6 gennaio 1996, Città del Vaticano 1996,
nr. 21. È da notare che, in nota al passo riportato sopra, l’Istruzione citi: GIOVANNI PAOLO II, Di-
scorso ai partecipanti alla riunione sui problemi pastorali della Chiesa Cattolica di rito bizantino
in Romania (22 gennaio 1994), in L’Osservatore Romano 22 gennaio 1994, 5; Servizio Informa-
zioni per le Chiese Orientali 49 (1994) 2.

75
rum adiuncta id suadent, collatis consiliis cum Patriarchis et Epi-
scopis eparchialibus aliarum Ecclesiarum sui iuris, qui in eodem
territorio potestatem suam exercent. §3. Item Episcopis eparchia-
libus assit vel pro unaquaque eparchia vel, si visum est, pro plu-
ribus eparchiis consilium dde motu oecumenico provehendo; in
eis autem eparchiis, quae proprium consilium habere non pos-
sunt, unus saltem assit christifidelis ab Episcopo eparchiali no-
minatus cum speciali munere hunc motum provehendi».
***
L’iter di questo canone, nell’ambito della codificazione, si presenta
come segue. Il can. apparve in un primo schema (del 1980) quale can. nr. 3:
Ǥ1. In Ecclesiis Particularibus, comptetit Synodo Episcoporum vel Consi-
lio Hierarcharum incepta motus oecumenici intra fines ipsarum Ecclesia-
rum territorii provehere normisque particularibus datis eum dirigere, mo-
derante ipsum motum Sede Apostolica Romana pro universa Ecclesia. §2.
Ad hunc finem adsit Commisio peritorum de re oecumenica, constituenda,
ubi rerum adjuncta id suadeant, collatis consiliis cum aliis Ecclesiis eju-
sdem territorii vel nationis vel spatii culturalis. §3. Item adsit in unaquaque
eparchia vel, ubi visum fuerit, pro pluribus eparchis simul sumptis, consi-
lium de motu oecumenico provehendo. In iis autem eparchiis quae proprium
consilium habere non possunt, unus saltem adsit delegatus, ab Episcopo de-
signatus»208. Nello schema successivo fu variato al paragrafo primo “eccle-
siis particularibus” in “ecclesiis sui iuris”, dal momento che la PCCIOR già
aveva elaborato il complesso concetto giuridico-ecclesiologico di Ecclesia
sui iuris; tuttavia per il resto il canone rimase immutato (a parte la numera-
zione, divenendo ora il can. nr. 97)209. In seguito, al nostro canone fu modi-
ficato il §3, dando più risalto al dovere del vescovo eparchiale210, per poi
così giungere allo CICO: can. 900: «§1. Incepta motus oecumenici in un-

208
Nuntia 11 (1980) 71.
209
Ved. Nuntia 12 (1981) 35, can. 97: Ǥ1. In Ecclesiis sui iuris, comptetit Synodo Episcoporum vel
Consilio Hierarcharum incepta motus oecumenici intra fines ipsarum Ecclesiarum territorii pro-
vehere normisque particularibus datis eum dirigere, moderante ipsum motum Sede Apostolica
Romana pro universa Ecclesia. §2. Ad hunc finem adsit Commissio peritorum de re oecumenica,
constituenda, ubi rerum adiuncta id suadeant, collatis consiliis cum aliis Ecclesiis eiusdem terri-
torii vel nationis vel spatii culturalis. §3. Item adsit in unaquaque eparchia vel, ubi visum fuerit,
pro pluribus eparchis simul sumptis, consilium de motu oecumenico provehendo. In iis autem e-
parchiis quae proprium consilium habere non possunt, unus saltem adsit delegatus, ab Episcopo
designatus». Can. 98: «In opera oecumenica servanda est debita prudentia ne ipse motus oecu-
menicus damnum capiat neque fideles ob periculum falsi irenismi vel indifferentismi detrimentum
patiantur».
210
Ved. Nuntia 17 (1983) 63.

76
quaque Ecclesia sui iuris sedulo provehantur specialibus normis sui iuris
particularis moderante ipsum motum Sede Apostolica Romana pro universa
Ecclesia. §2. Ad hunc finem habeatur in unquaque Ecclesia sui iuris com-
misio peritorum de re oecumenica, constituenda, si rerum adiuncta id sua-
deant, collatis consiliis cum Patriarchis et Episcopis eparchilibus alia-
rum Ecclesiarum sui iuris, qui in eodem territorio potestatem suam exer-
cent. §3. Item Episcopis eparchialibus assit vel pro pluribus eparchis
consilium de motu oecumenico provehendo; in iis autem eparchiis quae
proprium consilium habere non possunt, unus saltem assit christifidelis
ab Episcopo eparchili nominatus cum speciali munere hunc motum pro-
vehendi»211. Dal CICO al CCEO, il can. (all’epoca 900) ebbe diverse mo-
difiche però di carattere redazionale212 che portarono poi alla formulazio-
ne dell’attuale can. 904 CCEO.
***
Il can. 904 è il più lungo di tutto il titolo213 e contiene tre paragrafi; esso
entra nel dettaglio dell’esercizio dell’ecumenismo. Infatti, al §1 dichiara a-
pertamente che le attività e le iniziative connesse al movimento ecumenico
“siano promosse assiduamente”; dunque è più di una semplice “raccoman-
dazione”, bensì una vera e propria esortazione iussiva. Di fatti, ciascuna sin-
gola Ecclesia sui iuris dovrebbe impegnarsi in tal senso, attuando e realiz-
zando norme speciali, frutto dello ius particulare, tese ad hoc ed in sintonia
con norme date dalla Sede Apostolica Romana per la Chiesa universale214.
Ciò è chiaro: qualora redatte ed entrate a far parte del cosiddetto diritto par-
ticolare; tali norme, aventi per oggetto la materia ecumenica, dovranno esse-
re in armonia con quelle già esistenti per la Chiesa universale, altrimenti vi
sarebbe una dissonanza legislativa a cui seguirebbe una errata prassi. L’im-
pegno richiesto alle Chiese Orientali, se si tiene conto delle risorse umane e
materiali di molte di esse, è assai oneroso anche per la materia ecumenica;
tuttavia, come chiaramente fa intendere il Codice, indispensabile. A tale
scopo, il CCEO al §2 del can. 904 stabilisce che dovrà essere costituita una
spe-ciale commissione di periti in re oecumenica; inoltre, “se le circostanze
lo consigliano”, quindi se vi sia necessità o desiderio particolare, che tale
commissione sia costituita d’intesa con i Patriarchi ed i vescovi eparchiali di

211
Nuntia 24-25 (1987) 162.
212
Ved. Nuntia 27 (1988) 60, 77, 93.
213
Fonte del can. 904 è senza dubbio DE 2.
214
A norma dei dettami della Cost. Ap. «Pastor Bonus» (28 giugno 1988), art. 135-138, si ritiene che
qui per “Sede Apostolica” si debba intendere il Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani.

77
altre Chiese sui iuris aventi potestà sul medesimo territorio. Pertanto, viene
ad auspicarsi chiaramente – almeno a nostro sommesso avviso – anche una
collaborazione interrituale riguardo alla problematica ecumenica. Infine, al
§3° (del can. 904) si afferma la necessità che, oltre alla predetta commissio-
ne d’esperti, vi sia anche per ciascuna eparchia o per più eparchie un apposi-
to “consiglio”; tuttavia se ciò non fosse “tecnicamente” possibile vi dovrà
essere almeno un christifidelis, nominato dal vescovo eparchiale, avente
quale speciale munus quello di portare avanti il movimento ecumenico.
Dunque il CCEO, tramite il can. 904, non lascia ombra di dubbio: pone
l’impegno ecumenico come una caratteristica delle Chiese Orientali cattoli-
che e provvede a crearne, almeno sulla carta, le strutture idonee ad hoc.
Al can. 904 fa eco il can. 755 §2 del CIC che stabilisce norme simili per
la Chiesa latina (anche se, diciamolo pure, assai meno dettagliate); infatti il
canone statuisce: «Episcoporum item est, ad normam iuris, Episcoporum
conferentiarum, eandem unitatem promovere atque pro variis adiunctorum
necessitatibus vel opportunitatibus, normas practicas impertire, attentis
praescriptis a suprema Ecclesiae auctoritate latis».

§5. Il dialogo ecumenico: principi generali

Il dialogo è senza dubbio – oltre alla preghiera – lo strumento principale


dell’attività ecumenica; infatti il can. 905 afferma a chiare lettere:
Can. 905: «In opere oecumenico persolvendo praesertim aperto
ac fidenti dialogo et inceptis cum aliis christianis communibus
servanda est debita prudentia evitatis periculis falsi irenismi, in-
differentismi necnon zeli immoderati»
***
Questo canone apparve già nel primo schema del 1980 come il can.
nr.4: can. 4: «In opera oecumenica servanda est debita prudentia ne ipse
motus oecumenicus damnum capiat neque fideles ob periculum falsi ireni-
smi vel indifferentismi detrimentum patiantur»215.
Rimasto, poi, immutato anche nello schema del 1981216 non piacque a 4
membri del Coetus «a causa del suo tenore pessimistico»217, così dopo alcu-
ni tentativi alquanto laboriosi – come si ha modo di leggere in Nuntia – il
canone venne riformulato. Infatti nello SCICO, apparve come segue: can.
215
Nuntia 11 (1980) 71.
216
Nuntia 12 (1981) 35, can. 98.
217
Ved. Nuntia 17 (1983) 64.

78
901: «In opere oecumenico persolvendo praesertim aperto ac fidenti dialo-
go et inceptis cum aliis christianis communibus servanda est debita pruden-
tia evitatis periculis falsi irenismi, indifferentismi nec non zeli immodera-
ti»218. Nessuna modifica si segnala dal CICO al CCEO.

***
Il CCEO continua nella sua articolazione giuridica del titolo 18° con un
canone particolarmente interessante: il can. 905. Tale norma non sembra a-
vere fonte nei documenti conciliari e ci appare come una esplicita indica-
zione di massima, quasi come una chiara raccomandazione. Infatti, tratta dei
“pericoli” dell’attività ecumenica, che sono: il falso irenismo, l’indifferenti-
smo e lo zelo eccessivo. In merito, significativi sono i dettami del DE asse-
rente: «In questa materia [n.d.r. l’ecumenismo] si deve usare la dovuta pru-
denza affinché il movimento ecumenico stesso non resti danneggiato ed i
fedeli non subiscano detrimento spirituale a causa del pericolo di un falso
irenismo o indifferentismo»219. Dunque, per ovviare a tali pericoli, lo ius vi-
gens raccomanda essenzialmente l’uso della prudenza. Occorre quindi, se-
condo il legislatore, conservare la dovuta accortezza e cautela al fine di non
cadere in eccessi o comunque in errori che poi sarebbe molto difficile ripa-
rare. È questo quindi un canone generale di carattere esortativo e comunque
che si rivolge alle singole Chiese, ma anche ai singoli operatori, quasi a ri-
cordare loro la difficoltà della propria opera e del proprio ufficio220.
In tutto ciò – ed in particolare nel contesto del can. 905 – si evidenzia
sia l’importanza del dialogo, come strumento d’azione ecumenica, che la
“strutturazione” del medesimo affinché i risultati siano quanto mai fruttuosi,
evitando così errori pericolosi. Del resto, come ha avuto modo di asserire il
NDE: «Il dialogo è al centro della collaborazione ecumenica e
l’accompagna in tutte le sue forme (...). La reciprocità e l’impegno vicende-
vole sono elementi essenziali del dialogo e, così pure, la consapevolezza che
gli altri sono su un piede di parità»221.
Sempre al riguardo, il NDE ha provveduto a dettare orientamenti
chiari circa il dialogo ecumenico; come ad esempio le tipologie di dialo-
ghi222, i partecipanti ai medesimi223, il metodo da utilizzare (ispirato ad

218
Nuntia 24-25 (1987), 161.
219
DE 2.
220
Oltre al DE 2, ulteriori fonti del can. 905 sono: OE 26 e UR 4 e 8.
221
NDE 172.
222
Le tipologie dei dialoghi sono essenzialmente due: “dialogo bilaterale” e “dialogo multilaterale”;
il primo si intende un dialogo in cui vi sia un solo interlocutore, mentre al secondo vi prendono

79
UR 11)224, il soggetto cioè la tematica dei dialoghi225, l’analisi dei risulta-
ti dei medesimi226, ed infine il modo di accogliere i frutti e la recezione
del dialogo ecumenico227.
Pertanto queste norme, vanno senza dubbio ad integrare quelle generali
già espresse dal CCEO e, forse, potrebbero essere magari recepite nello ius
particulare delle Chiese Orientali cattoliche.

§6. Alcuni soggetti attivi nell’azione ecumenica

L’esercizio dell’ecumenismo è attività umana, nel senso che il movi-


mento ecumenico oltre ad essere affidato allo Spirito Santo, necessita del
fatto che gli uomini attivamente lo favoriscano. Perciò il Codice provvede a
fornire alcune norme di carattere molto pratico, che evidenziano i “soggetti”
del-l’azione ecumenica. Tra queste norme spiccano nel Codice i cann. 906-
907. principiamo col can. 906.
Can. 906: «Quo clarius innotescat christifidelibus, quid reapse
doceatur et tradatur ab Ecclesia catholica et ab aliis Ecclesiis vel
Communitatibus ecclesialibus, diligenter operam dent praesertim
praedicatores verbi Dei, ii, qui instrumenta communicationis so-
cialis moderantur, atque omnes, qui vires impendunt sive ut ma-
gistri sive ut moderatores in scholis catholicis, praesertim autem
in institutis studiorum superiorum»
***
Il can. 906 in un primo schema del 1980 era stato redatto come segue
(era il can. nr. 5): Can. 5: «Quo clarius innotescant christifidelibus verae
doctrinae et traditiones tum Ecclesiae Catholicae tum aliarum Ecclesiarum
vel Communitatum Ecclesialium diligenter operam navent praesertim prae-
dicatores verbi Divini, ii qui instrumenta communicationis socialis mode-
rantur atque omnes qui vires impendunt, sive magistri sive moderatores, in

parte più interlocutori (NDE 173). Inoltre vi possono essere dialoghi “personali”, in cui i parteci-
panti vi aderiscono a titolo individuale e personale (NDE 174) e dialoghi ufficiali nei quali i dia-
loganti sono inviati dalla Chiesa cattolica.
223
Nel caso dei dialoghi “ufficiali” i partecipanti (cattolici) dovranno avere uno speciale mandato
dell’autorità ecclesiastica (ordinario del luogo o sinodo delle Chiese orientali cattoliche o addirit-
tura la S. Sede) inoltre la medesima autorità ecclesiastica dovrà dare la propria approvazione a
qualsiasi risultato ottenuto dal dialogo «prima che esso impegni ufficialmente la Chiesa» (NDE 175).
224
Ved. NDE 176.
225
Ved. NDE 177.
226
Ved. NDE 177-178.
227
Ved. NDE 179-182,

80
scholis catholicis imprimis autem in Institutis superioris educationis catho-
licae»228. Il canone ebbe solo alcune osservazioni circa l’aggettivazione “ve-
rae”, che appariva «ambigua nel contesto. Può infatti significare o le dottri-
ne vere per tutte le Chiese, oppure ciò che ciascuna Chiesa realmente inse-
gna»229, perciò si omise “verae” sostituendo “doceatur et tradatur”. Rimase
invariato fino allo Schema del 1987230; pertanto apparve nel CICO, come
can. 902: can. 902: «Quo clarius innotescat christifidelibus, quid reapse do-
ceatur et tradatur ab Ecclesia catholica et ab aliis Ecclesiis vel Communita-
tibus ecclesialibus, diligenter operam dent praesertim praedicatores verbi
Dei, ii qui instrumenta communicationis socialis moderantur, atque omnes
qui vires impendunt, sive magistri sive moderatores, in scholis catholicis
praesertim autem in institutis studiorum superiorum»231. Quindi, è giunto
senza modifiche nel CCEO.
***
232
Il canone 906 è un canone veramente di “dialogo diretto”; infatti ci
ricorda il compito aggiuntivo, oltre quello ordinario, che hanno i predicatori
della parola di Dio, i direttori degli strumenti della comunicazione sociale e
tutti coloro i quali operino come insegnanti o direttori negli istituti d’edu-
cazione cattolica; tale compito risiede nel fatto che i cristiani conoscano ed
apprendano sempre più chiaramente sia ciò che è insegnato e tramandato
dalla Chiesa cattolica sia dalle altre Chiese o Comunità ecclesiali. Del resto,
affinché si formi una generazione di persone adeguate per lavorare anche al
dialogo ecumenico ed al ristabilimento dell’unità, è necessario che costoro
siano ben istruiti sia sulla propria fede che su quella degli altri fratelli cri-
stiani; dunque è questo il compito “aggiuntivo” di alcuni operatori ecclesiali
(dai predicatori agli insegnati, ai direttori scolastici, ecc.). Il can. 906 CCEO
sembra riprendere i dettami del DE, che infatti asseriva: «È necessario che
tutti i cristiani si sentano animati da spirito ecumenico, soprattutto quelli a
cui sono stati affidati una missione e un compito particolare nel mondo e
nella società»233. A commento ulteriore del can. 906 sembra risiedere anche
quanto detto dal NDE, che infatti afferma: «La cura di ristabilire l’unione
riguarda tutta la Chiesa, sia i fedeli che i pastori, e tocca ognuno secondo la
propria capacità, tanto nella vita cristiana di ogni giorno quanto negli studi
228
Nuntia 11 (1980), p. 72.
229
Nuntia 17 (1983) 64.
230
Cfr. Nuntia 12 (1981) 36, can. 99.
231
Nuntia 24-25 (1987) 161.
232
Fonti del can. sono: UR 9-10 ed anche l’Esort. Ap. di GIOVANNI PAOLO II, «Catechesi Tradendae»,
del 16 ottobre 1989, nr. 32.
233
DE 64 (Proemium della II parte, 16 apr. 1970): EV 1, 1257.

81
teologici e storici»234. Il can. 906 sembra così ampliare quanto detto dal
Concilio in materia di ecumenismo, anzi quasi a rispondere ad esso sembra
perfezionare ora i canoni circa l’educazione cattolica, quali appaiono nel
magistero ecclesiastico (cfr. CCEO, Tit. XV, Cap. III).
Infine, è da notare che il CIC non assegna questo obbligo ai fedeli in
modo chiaro ed esplicito, piuttosto alquanto indirettamente, quasi a voler
rin-viare ai cann. 755 e 204; infatti come ha notato la celebre Nota del
SPUC: «The Code does not speak in explicit terms about the ecumenical ob-
ligation of all the faithful (...) unlike Unitatis Redintegratio 5, with explic-
itly laid this charge “on faithful and clergy alike”. However is not difficult
to deduce this form the fundamental principles of the Code. According to
can. 755, par. 1, the Church is bound “by the will of Christ” to promote the
restoration of unity between Christians. Can. 204, par.1, states that the
baptizated persons “are called, each according to his or her particular
condition, to exercise the mission which God entrusted to the Church to
fulfil in par. 1 lay people, like all Christ’s faithful, are deputed to the
apostolate by baptism and confirmation. Therefore all the faithful are
called to cooperate in implementation of unity between alla Christians
and in the ecumenical apostolate»235. Dunque il CCEO, risulta essere al-
quanto più esplicito del CIC e la norma del can. 906 ci riconduce in modo
diretto a ciò che comunemente si definisce il “sacerdozio universale” di
tutti i battezzati, imponendo loro un munus aggiuntivo, quello appunto
dell’impegno per il ristabilimento dell’unità.

§7. Ulteriori soggetti attivi nell’azione ecumenica

Il Codice, prosegue, tramite il can. 907 nello specificare i soggetti attivi


dell’azione ecumenica; infatti il can. stabilisce:
Can. 907: «Curent moderatores scholarum, nosocomiorum cete-
rorumque similium institutorum catholicorum, ut alii christiani ea
frequentantes vel ibi degentes a propriis ministris adiumentum
spirituale consequi et sacramenta suscipere possint»
***
Il canone 907 apparve già nel primo schema del 1980, come can. 6:
«Curent moderatores scholarum, nosocomiorum ceterorumque similium in-
stitutorum quae a catholicis reguntur ut alii christiani ea frequentantes vel

234
NDE 55.
235
ECAS (Chap. IV.1), 64.

82
ibi degentes a propriis ministris adjumentum spirituale et sacramentale
consequi valeant» 236. Successivamente restò immutato237 fino al CICO in
cui divenne, con alcune modifiche, il seguente: can. 903: «Curent modera-
tores scholarum, nosocomiorum ceterorumque similium institutorum, ut alii
christiani ea frequentantes vel ibi degentes a propriis ministris adiumentum
spirituale consequi et dacramenta suscipere possint»238. Anche per il can.
907 non si osserva alcuna variazione dal CICO al CCEO.

***

Il can. 907 sembra voler quasi “rispondere” quanto asserito dal dettato
del can. 906, pertanto esso ci appare come già una forma di “ecumenismo
pratico”; infatti i direttori di tutti gli istituti cattolici (dalle scuole agli ospe-
dali) procurino che gli altri cristiani (non-cattolici) siano assistiti dai propri
ministri. Dunque, il canone non dà una semplice licenza od un permesso,
cioè non asserisce “i direttori... possono far sì che...”, ma addirittura fa chia-
ramente intendere che se ad es. in un ospedale cattolico vi sia un ricoverato
ortodosso, sarà necessario che il direttore assicuri al degente ortodosso
l’assi-stenza spirituale necessaria, tramite un presbitero ortodosso. Questo è
un chiaro esempio di ecumenismo militante, un manifesto gesto di che
cosa i cattolici debbono e vogliano fare per attuare e spingere in avanti il
movimento ecumenico. Fonte di questo canone è il DE 53-54, ma – a no-
stro sommesso avviso – specie i nn. 62-63; infatti il DE affermava: «I su-
periori delle scuole e istituti cattolici curino che sia data la possibilità ai
ministri delle altre chiese di portare l’assistenza spirituale e sacramentale
ai propri fedeli che frequentano tali istituti cattolici. Questa assistenza,
secondo le circostanze può essere prestata anche all’interno dell’edificio
cattolico stesso»239. – «Negli ospedali e nelle altre istituzioni simili, rette
da cattolici, i direttori si preoccupino di avvertire tempestivamente i mi-
nistri delle chiese separate della presenza di qualche loro fedele e dia ad
essi la facoltà di visitare gli ammalati e prestare loro l’assistenza spiritua-
le e sacramentale»240.

236
Nuntia 11 (1980) 72.
237
Cfr. Nuntia 12 (1981) 36, can. 100.
238
Nuntia 24-25 (1987) 161.
239
DE 62: EV 2, 1255.
240
DE 63: EV 2, 1256.

83
§8. Ulteriore esortazione ai christifideles in merito all’impegno ecumenico

Il titolo 18° del CCEO si conclude con un ulteriore canone di carattere


esortativo circa l’impegno di tutti i fedeli verso il movimento ecumenico,
quasi a voler “ricapitolare” – da un punto di vista concettuale generale – le
norme dei cann. precedenti. Infatti, il can. 908 statuisce:
Can. 908: «Optandum est, ut christifideles catholici servatis normis
de communicatione in sacris quodvis negotium, in quo cum aliis
christianis cooperari possunt, non seorsum, sed coniunctim persol-
vant, cuiusmodi sunt opera caritatis ac socialis iustitiae, defensio
dignitatis personae humanae eiusque iurium fundamentalium, pro-
motio pacis, dies commemorationis pro patria, festa nationalia».
***
Questo canone appave già in un primo schema (del 1980), come il can.
nr. 7: «Optandum est ut catholici, servatis normis de “communicatione in sa-
cris”, quodvis negotium in quo cum aliis christianis cooperari possunt, non
seorsim sed coniunctim prersolvant, cujusmodi sunt opera caritatis ac socialis
justitiae, defensio jurium fundamentalium hominis, promotio pacis, dies com-
memorationis pro patria, festa nationalia»241. Rimasto immutato nello sche-
ma del 1981242, giunse – con una piccola modifica (al posto di “ut catholici”
fu sostituito “ut christifideles catholici”) – nel CICO, come can. 904: «Op-
tandum est ut christifideles catholici servatis normis de communicatione in sa-
cris quodvis negotium, in quo cum aliis christianis cooperari possunt, non se-
orsum sed coniunctim prersolvant, cujusmodi sunt opera caritatis ac socialis
iustitiae, defensio iurium fundamentalium hominis, promotio pacis, dies com-
memorationis pro patria, festa nationalia»243. Infine, nel can 904, si ebbe
un’ultima modifica dal CICO al CCEO: “iurium fundamentalium hominis” fu
mutato in “dignitatis personae humanae eiusque iurium fundamentalium”244.
***
Conclude il titolo 17° del Codice il can. 908245 che rappresenta un ulte-
riore esortazione, da parte del legislatore, all’incremento del movimento e-
cumenico ed all’azione ecumenica. Infatti si asserisce con molta chiarezza
che “è desiderabile” – “optandum est” dice il canone – che i fedeli cristiani,

241
Nuntia 11 (1980) 72.
242
Ved. Nuntia 12 (1981) 36, can. 101.
243
Nuntia 24-25 (1987) 162.
244
Ved. Nuntia 27 (1988) 59-60.
245
Le fonti di questo can. sono: UR 12 e DE 33.

84
osservate le norme sulla communicatio in sacris246, collaborino e cooperino
con gli altri cristiani nelle opere di carità, in quelle di giustizia sociale, in di-
fesa dei diritti fondamentali della persona umana, nella promozione della
pace ed anche insieme prendano parte attiva alle celebrazioni nazionali, ecc.
Il canone sembra riprendere il DE che al nr. 33 stabiliva: «È auspicabile che
i cattolici si riuniscano in preghiera con i fratelli separati, per qualsiasi co-
mune sollecitudine, nella quale possono e devono tra loro cooperare, ad e-
sempio, nel promuovere il bene della pace, la giustizia sociale, alla mutua
carità fra gli uomini, la dignità della famiglia, ecc. A queste circostanze si
possono equiparare le varie occasioni nelle quali o una nazione o una comu-
nità vuole comunitariamente ringraziare Dio o chiedere secondo le necessità
il suo aiuto, come nelle feste nazionali, o durante calamità e lutti nazionali,
o nel giorno commemorativo dei caduti per la patria. Questa preghiera co-
mune viene raccomandata, per quanto possibile, anche in occasione di in-
contri di studio o di attività, fra cristiani». Dunque, il can. 908 – quasi rial-
lacciandosi a quanto detto dal 903, trattante dell’exemplum vitae – esorta ad
una comune vita, una comune azione, un comune intento nella realizzazione
di cose importanti... infatti anche tutto questo è ecumenismo. In sostanza i
cann. 907-908, sembrano riprendere un po’ il capitolo dei diritti e dei doveri
dei fedeli, però ampliandolo. Infatti, ora, il Codice assegna un nuovo diritto-
dovere del christifidelis: quello dell’impegno ecumenico247.

§9. Alcune riflessioni in merito al Titolo 18° CCEO

Il titolo 18° - De Oecumenismo seu de Christianorum unitate fovenda


è senza dubbio una delle grandi novità legislative del CCEO; anzi si po-
trebbe asserire che costituisce una sorta di “sviluppo” giuridico-dottrinale
del can. 755 del CIC. Ma dobbiamo anche ricordare che il CCEO è stato
promulgato sette anni dopo il Codice latino, perciò la PCCIOR non poco
è stata avvantaggiata nella ricognizione delle tematiche ecumeniche da
inserire nel Codice.
Le Chiese orientali cattoliche ora posseggono – grazie al CCEO – nor-
me, strutture, apparati, nonché si identificano in strutture giuridico-ecclesio-
logiche che le sono proprie248. Tuttavia, tutti noi conosciamo bene la condi-
246
Cfr. CCEO, cann.: 670-671, 681§5, 685§3, 705§2, 876§1.
247
Quanto detto, che trova oggi nel CCEO la sua ampia formulazione, era già presente, seppure in
forma embrionale, anche nel CIC; cfr. ECAS, («The list of the duties and rights of the ‘Christifide-
les’» e «The duties and rights of ‘lay Christifideles’»), 59-60.
248
Cfr. M. BROGI, Prospettive pratiche nell’applicare alle singole Chiese “sui iuris” il CCEO, in Ius
in Vita et in Missione Ecclesiae – Acta Symposii Internationalis Iuris Canonici occurrente X An-

85
zione di disagio che le chiese orientale spesso si vivono attualmente; tale di-
sagio consiste nella penuria di mezzi economici, ma anche di risorse umane.
Pertanto, nonostante lo sforzo mirabile del Codice di provvedere a creare
strutture in seno alle Chiese Orientali cattoliche atte a promuovere il mo-
vimento ecumenico, ci domandiamo quanto queste possano attuarsi nella
realtà, quanto esse possano essere realizzate in modo concreto e soprat-
tutto operante. Infatti, la creazione di una commissione d’esperti in mate-
ria, prevista per ciascuna Chiesa sui iuris, nonché la formazione di un
consiglio eparchiale per l’ecumenismo – o almeno un fedele incaricato ad
hoc –, per ciascuna eparchia (ved. can. 904§§2-3), costituiscono strutture
stabili in modo presente nelle singole chiese sui iuris. Dunque, speriamo
che presto le Chiese Orientali cattoliche possano, tutte, realizzare tali
strutture. Anche nei riguardi dell’attività ecumenica – al pari di altre ma-
terie – il Codice dà ampio spazio affinché si sviluppi il cd. ius particula-
re, che provvederà così alla promozione delle iniziative aventi per fine la
promozione dell’ecumenismo (ved. can. 904§1). Ma, probabilmente,
l’elemento più importante del titolo 18° ci è fornito dal fatto che il compito
ecumenico diviene, ancor di più, uno speciale munus delle Chiese cattoliche
orientali; in effetti tale munus fu già stabilito dal Concilio Vaticano II (ved.
OE n. 24; in EV, 1, 485) ed ora, grazie al CCEO viene ribadito.
Dunque il CCEO codifica quanto espresso dal Vaticano II; prova ne
è che tra le fonti dei canoni di questo titolo non vi sono i canoni antichi,
ugualmente per il tit. 17°, essendo queste tutte “negative”, cioè alquanto
antitetiche rispetto alla realtà odierna249.

niversario promulgationis Codicis Iuris Canonici diebus 19-24 aprilis 1993 in Civitate Vaticana
celebrati (a.c.d. Pontificio Consiglio per l’Interpretazione dei Testi Legislativi), Città del Vatica-
no 1994, 739-751.
249
Nonostante il fatto che nel CCEO siano riportate anche le fonti “negative”, nondimeno si deve so-
stenere che tutte le fonti antiche siano antitetiche al Codice ed agli aspetti ecumenici in esso pre-
senti. Anzi, per quanto rigurada il CCEO, in generale osserviamo che molto il Codice si sia ispira-
to ai Sacri Canones, al fine di essere il più fedele possibile all’antica tradizione orientale, tradi-
zione che ovviamente è stata in alcuni punti (come ad es. le tematiche ecumeniche) “aggiornata”
dall’evoluzione stessa della scienza canonica. Infine, dobbiamo sottolineare che alcune fonti anti-
che, per es. taluni canoni dei Padri orientali, rintracciamo elementi di interesse o valenza ecume-
nica. Uno studio, abbastanza dettagliato, in materia dei rapporti fra ecumenismo e patrologia è
stato redatto da L. MANCA, Aspetti ecumenici nei Padri della Chiesa, «Quaderni di O Odigos»
(anno X, n. 1, 1994), Bari 1994.

86
§10. Breve excursus sugli aspetti ecumenici del CIC

Data la complementarietà dei Codici di diritto canonico e soprattutto vi-


sta l’esigenza di un attuale studio comparativo tra CIC e CCEO250, ci sem-
bra doveroso almeno accennare, seppur, molto brevemente agli aspetti ecu-
menici del CIC, prima di passare allo studio delle altre implicanze in mate-
ria esistenti nel Codice dei Canoni delle Chiese Orientali Cattoliche; tutta-
via, di volta in volta, faremo riferimento ai canoni analoghi del CIC allor-
quando si commenteranno i canoni del CCEO di nostro interesse.
Come già accennato il CIC non contiene un apposito liber per la tema-
tica ecumenica, bensì solo diversi canoni, in cui sono presenti le tematiche
ecu-meniche; primo fra tutti il 755, che statuisce: Ǥ1. Totius Collegii Epi-
scoporum et Sedis Apostolicae imprimis fovere et dirigere motum oecume-
nicum apud catholicos, cuius finis est unitatis redintegratio inter universos
christianos, ad quam promovendam Ecclesia ex voluntate Christi tenetur.
§2. Episcoporum item est, et, ad normam iuris, Episcoporum conferentia-
rum, eandem unitatem promovere atque pro variis adiunctorum necessitati-
bus vel opportunitatibus, normas practicas impertire, attentis praescriptis a
suprema Ecclesiae auctoritate latis».
Quanto sancito dal can. 755 CIC, è estremamente significativo; infatti
assegna ai vescovi della gerarchia cattolica latina lo speciale munus nei ri-
guardi dell’impegno ecumenico. È questa pertanto una norma molto genera-
le che lascia ampio spazio di applicazione nella realtà. Infatti in virtù del
can. 755 spetta ai vescovi, unitamente alle conferenze episcopali, da un lato
promuovere l’attività ecumenica e dall’altro impartirne le direttive, sempre in
armonia con le disposizioni già emanate in materia sulla “suprema autorità del-
la Chiesa”; il can. è frutto del DE (præsertim II parte), di cui ne conferma così
l’autorità251. A corollario del can. 755, risiede l’importantissimo can.
383§§3-4 del CIC.
Infatti il can. 383 ai paragrafi 3 e 4, quasi ad integrare il compito del
vescovo nell’ambito ecumenico, sancisce: «§3. Erga fratres, qui in plena
communione cum Ecclesia catholica non sint, cum humanitate et caritate se
gerat, oecumenismum quoque fovens prout ab Ecclesia intellegitur. §4.
Commendatos sibi in Domino habeat non batizatos, ut et ipsis caritas edu-

250
Cfr. Discorso del S. Padre alla presentazione del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali alla
28° Congregazione del Sinodo dei Vescovi del 25 ottobre 1990; in Nuntia 31 (1990) 20. Ed anche
ved. C. G. FÜRST, Interdipendenza del diritto canonico latino ed orientale. Alcune osservazioni
circa il diritto canonico della Chiesa cattolica; in «Studi Giuridici» 34, 13-48.
251
Ved. ECAS, (chap. IV, 1), 64.

87
ceat Christi, cuius testis coram omnibus Episcopus esse debet». Come si
può notare, il can. esorta il vescovo diocesano ad un atteggiamento ispirato
all’umanità ed alla carità nei riguardi degli altri cristiani acattolici. Interes-
sante è il §2 del canone, in cui l’apertura ecumenica sembra maggiore dal
momento che il vescovo diocesano debba considerare “commendati sibi”
anche i non-battezzati, quindi sia i cristiani acattolici che i fedeli di altre re-
ligioni. Ma, oltre al vescovo, anche il parroco e comunque i pastori d’anime
sono “coinvolti” in un certo qual modo nell’attività ecumenica252, nonostan-
te la terminologia usata dai canoni non sia molto esplicita253.
Il fatto che il CIC non abbia voluto dedicare all’ecumenismo una apposita
sezione, piuttosto abbia preferito dare un canone generale come il 755 e poi
spargere richiami ecumenici nei singoli canoni (in modo più o meno esplicito),
ci induce a ritenere che il codice per la Chiesa latina rinvii in merito diretta-
mente ai dettami del Concilio Vaticano II; infatti è lo stesso Concilio a costitui-
re fons primaria per una corretta interpretazione del CIC per ciò che concerne
l’ecu-menismo254. Del resto lo stesso Romano Pontefice, GIOVANNI PAOLO II
ha definito espressamente il CIC come l’«ultimo documento del Concilio, che
è scaturito da un’unica e medesima intenzione, quella di restaurare la vita cri-
stiana»255. Dunque, anche leggendo il CIC occorre tenere presente una chiave
di let-tura ecumenica, essendo anche codice per la Chiesa latina considerabile
come l’“ultimo” documento conciliare256. Del resto – al di là della quantità dei
canoni aventi valenza ecumenica (sicuramente minori rispetto al CCEO) –
dobbiamo sottolineare che il significato ecumenico del CIC risiede nella novità
ecclesiologica, frutto della riflessione conciliare che impregna il nuovo codice
252
Ved. CIC, cann. 364 n.6 e 771§2.
253
Cfr. W. SCHULZ, Questioni ecumeniche nel Nuovo Codice di Diritto Canonico, in W. SCHULZ - G.
FELICIANI, Vitam impendere vero. Studi in onore di Pio Ciprotti, «Utrumque Ius» 14, Città del Va-
ticano 1986, 173.
254
Cfr. R. POTZ, Oekumenische Interpretation. Zur gegenwärtigen Situation der kanonistischen Au-
slegungslehre, in Österreichisches Archiv für Kirchenrecht 35 (1985) 73. Tuttavia, osservava
SCHULZ: «Nonostante la solennità con cui l’impegno ecumenico è ricordato ai pastori della Chie-
sa, tuttavia si deve apertamente riconoscere che il nuovo Codice non ha assunto tra le sue norme il
principio affermato nell’articolo 5 del Decreto sull’Ecumenismo (...). Si possono fare soltanto del-
le speculazioni sul motivo, per cui questo importante testo non sia stato assunto nel nuovo codice.
Ma io credo che la dichiarazione programmatica circa gli scopi del movimento ecumenico, conte-
nuta nel can. 755, comprende anche l’impegno di tutti i membri della Chiesa, poiché come po-
trebbero agire i pastori se i fedeli non li seguissero?» (SCHULZ W., Questioni ecumeniche..., op.
cit., 173).
255
GIOVANNI PAOLO II, Cost. Ap. Sacrae Disciplinae Leges del 21 gennaio 1983.
256
In realtà l’ultimo sarebbe il Nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica (1992) e prima di esso il
CCEO; infatti il Nuovo Catechismo è anch’esso impregnato dei dettami conciliari e di nozioni e-
cumeniche, ma non ci sembra qui la sede opportuna per approfondire tale problematiche, che ri-
chiederebbe una trattazione monografica a sé stante.

88
di diritto canonico, essendo il movimento ecumenico una stessa «matura-
zione cristiana proprio a livello dell’approfondimento ecclesiologico»257.
Ma non si può neanche asserire che il CIC sia deficitario per gli aspetti e-
cumenici, infatti scorrendo i canoni del codice molte sono le implicanze e-
cumeniche258. Daltronde, il movimento ecumenico non esiste in modo auto-
nomo, di per se stesso, bensì sussiste in riferimento al misterium ecclesiae
affinché “il mondo creda”. Pertanto, possiamo asserire che proprio col canone
sul sacramento battesimale (can. 96), il CIC “apre” la strada all’ecumenismo;
del resto senza una comune base – il battesimo a cui è associato il concetto di
communio (cfr. can. 205) e quindi di varietà di status di comunione – come sa-
rebbe possibile un dialogo ecumenico mirante al ristabilimento dell’unità? In-
fatti, – sempre da parte cattolica – dal battesimo, discendono poi i canoni sulla
communicatio in sacris (ad es. ved. cann.: 844, 908, 861 §2, 825 §2, 1183,
1365, 1366 ecc.) nonché quelli sui matrimonia mixta (vedasi cann. 1124-
1129) che anche per il CIC costituiscono senza ombra di dubbio gli aspetti
ecumenici. Non a caso, pure per il CIC si asserisce che: «l’ispirazione ecu-
menica del Codex, sebbene ancora lontana dall’ideale, ha senz’altro tenuto
conto del mutato atteggiamento, dal momento che c’è un accentuato rispetto
e un deciso interesse per le “altre Chiese o comu-nità ecclesiali che non so-
no nella piena comunione con la Chiesa cattolica” (cn. 463, 3; cfr. 364, 6°;
884; 1124; ecc.), oltre all’interesse per altri gruppi religiosi non cristiani e
per i non credenti (cn. 364; 771; ecc.)»259.
Nonostante la presenza di numerose implicanze ecumeniche presenti nel
CIC, emerge una certa difficoltà nell’ambito del linguaggio giuridico – come
ha osservato JOOS – nel «trattare una tematica che sfugge in qualche modo alla
concreta gestione della Chiesa cattolica latina»260; questa difficoltà viene ad es-
sere superata – prosegue sempre JOOS –: «in tanti dati “germinali” e accenni
indiretti riguardo alla comprensione profonda della natura e della vita della
Chiesa. (...) il solo fatto di aver inserito nel Codice gli accenni ecumeniche vi
troviamo significa, già, un’apprezzabile e preziosa conferma nel cammino che
si dovrà ancora percorrere fino a quando si potrà vivere la comunione piena e
perfetta tra tutte le Chiese e comunità cristiane»261.

257
A. JOOS, Il movimento ecumenico e il Nuovo Codice di Diritto Canonico 1983, in Apollinaris 47
1/2 (1984) 62.
258
Fondamentale è ECAS, mentre tra gli studi – forse – più dettagliati in merito al CIC ved. W.
SCHULZ, Questioni ecumeniche..., op. cit., 171-184.
259
J. L. SANTOS, Ecumenismo (Oecumenismus), in AA. VV., Nuovo Dizionario di Diritto Canonico,
Milano 1993, 437 s.; sotto questa voce si segnala un’adeguata bibliografia.
260
A. JOOS, op. cit., 88.
261
Ibid.

89
Del resto il disposto del can. 755 (CIC) non lascia spazio per dubbi cir-
ca l’importanza dell’impegno ecumenico assunta da parte dell’intera gerar-
chia cattolico-latina, facendo chiaramente riferimento che spetta in primo
luogo al collegio episcopale tutto ed alla Sede Apostolica stessa promuovere
il movimento ecumenico262. Ma il CIC, prosegue in tal senso asserendo a
chiare let-tere che anche i legati pontifici debbano, tra i loro compiti princi-
pali, attuare l’ecumenismo (cfr. can. 364, 6°). Non solo, ma anche in materia
di magistero ecclesiastico, allorquando il Codice tratta della formazione se-
minariale dei fu-turi ministri, viene ribadita la promozione e la sollecitudine
delle tematiche ecumeniche (cfr. can. 256). Inoltre viene prospettata dal CIC
anche la figura dell’ “osservatore” presso il sinodo diocesano, indicando che
possa essere un ministro cristiano acattolico (cfr. can. 463§3). Certamente
tutto ciò rappresenta uno sforzo compiuto dal legislatore, che certamente
pur significativo, resta – a giudizio di alcuni studiosi – ancora incompleto;
per esempio sempre SANTOS, conclude asserendo che: «Nonostante lo sfor-
zo e la buona volontà dei legislatori, la normativa sull’azione ecumenica
certamente rimane assai in-completa. Si deve ancora salvaguardare il prin-
cipio del mutuo rispetto e di reciprocità, senza intaccare i principi dogmati-
ci; probabilmente l’azione ecumenica, oltre che con i mezzi spirituali, dovrà
ancora progredire attraverso altri mezzi canonici»263. Tuttavia, a conclusio-
ne di quanto detto, occorre anche ricordare – come sostenuto da PAPEÃ –
che: «(...) L’aspetto ecumenico è una delle caratteristiche della nuova nor-
mativa della Chiesa cattolica. Non si tratta di una semplice revisione del
Codice precedente in materia ecumenica, ma si tratta di un cambiamento
normativo sostanziale»264. A “riprova” di ciò risiede proprio quanto enun-
ciato dalla Nota del SPUC, che infatti asseriva: «To bring out the ecumenical
significance of the Code we must begin by emphasing its mentality: an open-
ness to jus proprium. In this sense the Code respects the particular autonomy of
each level of ecclesial authority, and leaves it to episcopal conferences. We
must see in this a respectfor various gifts of the Spirit and for the particular
character of the different milieux in which the Church of God is found, as also
for the collective charismata which represent in the Church the many forms
which consacrated religious life takes. (...)»265.
262
Per uno studio dettagliato sul can. 755 CIC, fondamentale resta S. MANNA, Délimitations et élé-
ments de la formation oecuménique (canon 755), in Studia Canonica 23/2 (1989) 299-323.
263
J. L. SANTOS, op. cit., 439.
264
V. I. PAPEÃ, La lettura ecumenica del Codice di Diritto Canonico; in Antonianum 68/1 (1993)
107. L’A. compie uno studio dettagliato, quasi ad integrare quanto detto dal Segretariato per
l’Unità dei Cristiani, cfr. ECAS, passim.
265
ECAS, (Significance of the Code from the ecumenical point of view), 54.

90
LA COMMUNICATIO IN SACRIS
ED UN BREVE EXCURSUS SUI MATRIMONI MISTI

§1. Nota introduttiva

“Communicatio in sacris” letteralmente significa “comunicazione nelle


cose sacre” ma, concettualmente questa perifrasi latina racchiude al con-
tempo due importanti concetti ecclesiali ed ecumenici: la communio, onde
il lemma communicatio e le res sacræ, cioè i sacramenti.
Della communio/koinwn…a si è già accennato precedentemente; tut-
tavia è qui opportuno ritornare su questo concetto da un punto di vista
strettamente giuridico. Infatti, giuridicamente parlando, abbiamo varie
valenze ed accettazioni del concetto di communio-comunione; abbiamo
una comunione “gerarchica”, sia essa intesa come koinônìa tra i membri
della gerarchia266, che come una comunione che viene ad instaurarsi tra
cristiani acattolici e Chiesa cattolica (ovviamente a noi, qui, interessa ai
fini della nostra tematica la seconda).
Il CCEO, al canone 8 dà chiara definizione di cosa s’intenda per “piena
comunione”: «In plena communione cum Ecclesia catholica his in terris
sunt illi baptizati, qui in eius compage visibili cum Christo iunguntur vincu-
lis professionis fidei, sacramentorum et ecclesiastici regiminis»267. Ed è
proprio tale principio che sta alla base dell’obbligo di ciascun fedele di vi-
vere nella comunione, infatti il Codice al can. 12§1, afferma: «§1. Christi-
fideles obligatione tenentur sua cuiusque agendi ratione ad communionem
semper servandam cum Ecclesia»268. Questa comunione. pertanto, si estrin-
seca sia al livello di gerarchia (cfr. CCEO can. 42 e CIC can. 330; i cann.
sono identici) sia al livello di “partecipazione” riguardo ai sacramenti. Ecco
quindi che i concetti di communio, unitas e communicatio in sacris ci ap-
paiono intimamente collegati fra loro. Infatti per communicatio in sacris
«intendiamo la partecipazione di cattolici e di cristiani non cattolici a de-
terminati beni, che possono essere profani o spirituali. Nel primo caso si
tratta di communicatio in profanis seu civilis, nel secondo caso di commu-
266
Cfr CCEO cann.: 45§2, 7§2, 49, 597§2, 600 (comunione gerarchica vera e propria); 76§2, 77§2,
92§§1-2, 152, 209 §1, 156§1, 324 (comunione ecclesiastica all’interno della ecclesia nell’ambito
della stessa gerarchia).
267
Fonti del canone sono: LG 14 e UR 3.
268
Il can. 12§1 del CCEO riprende : LG 11 e 13, GS 1, Syondus Episcoporum - “Elapso Tempore”
del 22 ottobre 1969 (in OCHOA, IV, 3791). Il CIC contiene un canone identico a quello del CCEO,
il can. 209.
91
nicatio in spiritualibus, per la quale si intende ogni forma di preghiera in
comune, l’uso di cose o luoghi sacri ed infine la vera e propria communica-
tio in sacris. Quest’ultima si ha in caso di partecipazione al culto liturgico
od anche ai sacramenti di una chiesa o comunità ecclesiale. La communica-
tio in sacris suole distinguersi in attiva o passiva: è detta attiva ove si tratti di
partecipazione di cattolici ed acattolici ad un atto di culto acattolico; è detta
passiva ove si tratti di partecipazione di cattolici ed acattolici ad un atto di cul-
to cattolico. Per communicatio in sacris activa si intende dunque una parteci-
pazione di cattolici ad un culto non cattolico, per communicatio in sacris pas-
siva si intende l’accettazione al nostro culto di un acattolico»269.
La regolamentazione della communicatio in sacris è dunque nuova alla
canonistica essendo frutto delle riflessioni conciliari e post-conciliari; infat-
ti il CIC del 1917 conteneva una legislazione essenzialmente negativa in
merito270, che era frutto delle norme tridentine. Tale legislazione è stata to-
talmente rivista dal Concilio Vaticano II ed ora appare sviluppata ed am-
pliata sia anche dal CIC che dal CCEO,a seguito del primo Direttorio (I, a.
1967, II, a. 1970); inoltre, tale tematica ecumenica è ancor più ribadita ed
accentuata dalla recente enciclica «Ut unum sint» nonché nel NDE. Tutta-
via, nel fare ciò la Chiesa cattolica non ha rinunciato alle sue prerogative o
alla sua dogmatica, bensì ha, giustamente, provveduto ad inserire un ele-
mento nuovo: la flessibilità, causata dal movimento ecumenico, che ha por-
tato conseguentemente ad una situazione ecclesiologica nuova, cioè ad una
rivisitazione ed ampliamento degli orizzonti ecclesiologici, quali erano
quelli antecedenti al Vaticano II. In effetti, la communicatio in sacris «(...)
vise d’abord au bien spirituel des personnes, il se répercute sur les relations
entre les Eglises et peut contribuer au rétabissement de la pleine commu-
nion à laquelle tous nous aspirons»271. Tutto ciò oggi è espresso dai canoni
670 e 671 del CCEO (a cui corrispondono i cann. 933 e 844 del CIC), che
espongono in linea di principio la communicatio in sacris. Nondimeno, co-

269
M. BROGI, Communicatio in Sacris tra Cattolici e Cristiani Orientali non cattolici, in Antonianum
53 1-2 (1978) 172-173; IDEM, Ulteriori possibilità di Communicatio in Sacris, in Antonianum 60
2-3 (1985) 455-477 (in cui l’A. prosegue lo studio precedentemente pubblicato); IDEM, Aperture
ecumeniche del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, in Antonianum 66 (1991) 455-568 (in
quest’ultimo saggio l’A. commenta l’attuale normativa sulla communicatio in sacris in base allo
ius vigens).
270
Il CIC* escludeva la communicatio in sacris, cfr. praesertim can. 731§2: «Vetitum est sacramenta
Ecclesiae ministrare haereticis aut schismaticis, etiam bona fide errantibus eaque petentibus...»
(inoltre ved. CIC* cc. 2316, 2261, 1060; unica “eccezione” era data dalle norme sui matrimonia
mixta, cfr. c. 1064). Riguardo a tale argomento ved. E. LANNE, La Communicatio in Sacris du
point de vue Catholique-Romain, in Kanon 8 (1987) praesertim 135-138.
271
E. LANNE, La Communicatio in Sacris..., op. cit., 148.

92
me si è già detto, la “comunicazione nelle cose sacre” è un qualcosa di
nuovo nella scienza e nella dottrina canonica. Infatti, anche per questi ca-
noni non esistono fonti canoniche antiche, essendo tale disciplina, regolamen-
tata dal Concilio Vaticano II; del resto scorrendo le fonti canoniche antiche,
queste ci appaiono fortemente negative riguardo la communicatio in sacris
per ogni tipo di sacramento272.
***
La vigente legislazione del CCEO, appare regolamentare la tematica
della communicatio in sacris tramite due canoni molto generali: il 670 ed il
671, che sono – non a caso – posti tra i canoni introduttivi del Titulus XVI -
De cultu divino et praesertim de sacramentis. Questo titolo del Codice, che
equivale al Liber IV De Ecclesiae Munere Santificandi del CIC, racchiude
in sé (al pari del Codice per la Chiesa latina) delle implicanze ecumeniche,
rintracciabili proprio all’interno della sua stessa natura. Infatti, la Chiesa, il
cui compito principale è la salus animarum, ha come fine quello di “santifi-
care” gli uomini, che sono considerati – come diceva la canonistica classica
– homines viatores. Del resto, le norme sul munus santificandi – ossia i
cann. sui sacramenti – sono fondati sull’idea, ripresa più volte dal Concilio,
che la Chiesa è un sacramento universale di salvezza nonché segno e stru-
mento di unione tra l’umanità e Dio273. Pertanto, in generale – concordando
con la Nota del SPUC – l’intera sezione dedicata dai Codici alla giuridiciz-
zazione della materia sacramentale risulta possedere nel suo insieme inte-
resse e rilevanza ecumenica274. Infatti, sempre da un punto di vista generale,
osserviamo che gli atti liturgici sono intimamente connessi ed associati
all’azione sacramentale e quindi santificante della Chiesa; d’altronde tutto
ciò trova la sua giuridicizzazione nel can. 668§1 CCEO275, a cui corrisponde
il can. 834§2 CIC276. Inoltre, i sacramenti manifestano e confermano anche

272
Al riguardo fondamentale è D. SALACHAS, La regolamentazione canonica della iniziazione cri-
stiana, in Nicolaus 8/1 (1990) 73-82; in questo studio l’A. descrive molto acutamente la posizione
della Chiesa nel periodo antico attraverso l’esposizione e lo studio dei canoni dei concili ecume-
nici, dei sinodi particolari antichi e dei Padri della Chiesa.
273
Ved LG 1,4°; UR 3; AG 5; GS 45.
274
ECAS, (Chap. V - Preliminary Remarks), 65.
275
CCEO can. 668§1: «Cultus divinus, si deferetur nomine Ecclesiae a personis legitime ad hoc de-
putatis et per actus ab auctoritate ecclesiastica approbatus, dicitur publicus; secus privatus». CIC
can. 834§2: «Huiusmodi cultus tunc habetur, cum deferatur nomine Ecclesiae a personis legitime
deputatis et per actus ab Ecclesiae auctoritate probatus».
276
È interessante notare che il CCEO non abbia un canone equivalente al can. 837§1 CIC che, forse,
rende meglio il concetto, statuendo: «Actiones liturgicae non sunt actiones privatae, sed celebra-
tionis Ecclesiae ipsius, quae est “unitatis sacramentum”, scilicet plebs sancta sub Ecclesiae per-
tinent illudque manifestant et afficiunt; singula vero membra ipsius attingunt diverso modo, pro
93
la comunione ecclesiale277, come si denota dai cann. 667 CCEO278 e 840
CIC279. Sempre rimanendo in ambito, la celebre Nota del SPUC, conclude
asserendo che: «As actions of Christ, and if the Church by institution of its
Founder, the sacraments “estabilish, strengthen and manifest ecclesiastical
communion” (can. 840). And among them all the eucharist particularly, as the
heart and source of all worship and christian life, signifies and brings about the
unity of the people of God, so that all “the other sacraments and all the apos-
tolic works of Christ are bound up with and directed to the blessed eucharistic
(can 897)»280. A tutto ciò corrisponde perfettamente il can. 698 CCEO281.
Quanto detto in quest’ultima sezione di questo paragrafo introduttivo, sarà
d’ausilio per meglio comprendere il carattere e la portata dell’azione ecumeni-
ca nei sacramenti in generale, ed in particolare nella communicatio in sacris.

§2. La “comunicazione” nel culto divino

Nel primo paragrafo di questo capitolo si è detto che la communicatio


in sacris è la “comunicazione nelle cose sacre”, cioè la partecipazione ai sa-
cramenti da parte di coloro i quali non godono ancora della piena comunio-
ne con la chiesa cattolica. Pertanto, cercheremo ora di commentare i canoni
del CCEO al fine di delineare gli aspetti ecumenici della normativa vigente.
Le norme sulla communicatio appaiono sostanzialmente identiche nei due
codici, che si differenziano solo per qualche piccola variazione di carattere

diversitate ordinum, numerum et actualis participationis». Tuttavia il CCEO pru non definendo le
actiones liturgicae semra racchiudere implicitamente il concetto nel can. 668§1.
277
ECAS, (Chap. V - Preliminary Remarks), 65.
278
CCEO can. 667: «Per sacramenta, quae Ecclesia dispensare tenetur, ut sub signo visibili mysteria
Christi communicet, Dominus noster Iesus Christus homines in virtute Spiritus Sancti sanctificat,
ut singualri modo Dei patris veri adoratores fiant, eosque sibi ipsi et Ecclesiae, suo Corpori, in-
serit; quare christifideles omnes, praesertim vero ministri sacri, eisdem sacramentis religiose ce-
lebrandis et suscipiendis praecripta Ecclesiae diligenter servent».
279
CIC can. 840: «Sacramenta Novi Testamenti, a Christo Domino instituta et Ecclesiae concredita,
utpote actiones Christi et Ecclesiae, sina exstant ac media quibus fides axprimitur et roboratur,
cultus Deo redditur et hominum sanctificatio efficitur, atque ideo ad communionem ecclesiasti-
cam inducendam, firmandam et manifestandam summopere conferunt; quapropter in iis cele-
brandis summa veneratione debitaque diligentia uti debent tum sacri ministri tum ceteri christifi-
deles».
280
ECAS, (Chap. V - Preliminary Remarks), 65.
281
CCEO can. 698: «In Divina Liturgia per ministerium sacerdotis in persona Christi super obla-
tionem Ecclesiae agentis perpetuatur virtute Spiritus Sancti, quod ipse fecit in novissima Cena
Dominus Jesus, qui discipulis dedit Corpus Suum in Cruce pro nobis offerendum Sanguinemque
Suum pro nobis effundendum, verum mysticum instaurans sacrificium, quo cruentum illud Crucis
sacrificium cum gratiarum actione commemoratur, actuatur et ab Ecclesia participatur tum obla-
tione tum communione af significandam et perficiendam unitatem popoli Dei in aedificationem
Corporis Sui, quod est Ecclesia».

94
redazionale282. Ecco il testo del primo can., statuente la comunicazione nel
culto divino da un punto di vista generale:
Can. 670: Ǥ1.Christifideles catholici iusta de causa adesse pos-
sunt cultui divino aliorum chrisitanorum et in eo partem habere
servatis eis, quae habita ratione gradus communionis cum Eccle-
sia catholica ab Episcopo eparchiali aut ab auctoritate superiore
statuta sunt. §2. Si christianis acatholicis desunt loca, in quibus
cultum divinum digne celebrent, Episcopus eparchialis usum ae-
dificii catholici vel coemeterii vel ecclesiae concedere potest ad
normam iuris particularis propriae Ecclesiae sui iuris».
***
Come di consueto, analizziamo qui di seguito l’iter del can. 670 CCEO.
La PCCIOR si è ispirata per la redazione del testo alle direttive conci-
liari283, specie OE ed al Direttorio Ecumenico (del 1967) nonché alla In-
structio de Peculiaribus casibus admittendi alios Christianos ad Commu-
nionem Eucharisticam in Ecclesia catholica (del 1972) 284. Il nostro canone
apparve come can. 4 nello schema del 1980: Ǥ1. Catholici iusta de causa a-
desse possunt cultui liturgico christianorum plenam cum Ecclesia communio-
nem non habentium vel etiam in ipso partem habere, servatis his quae ab Hie-
rarcha loci aut Synodo vel competenti Episcoporum, habita ratione gradus
communionis cume Ecclesia Catholica, statuta sunt. §2. Si christianis non ca-
tholicis desunt loca in quibus caeremonias suas rite et digne celebrent, Hierar-
cha loci susum aedificii catholici vel coemeterii vel ecclesiae concedere potest,
iuxta normas a Synodo vel Coetu competenti Episcoporum statutas»285. Suc-
cessivamente si ha modo di leggere (sempre in Nuntia) che tra le proposte
ve ne è stata una che desiderava inserire due distinti paragrafi nel can. 4
«(...) circa la partecipazione al culto: uno per quello degli ortodossi e uno
per quello dei Protestanti»286; in merito a tale proposta «(...) il Coetus, con-
siderato il Direttorio Ecumenico (specialmente i nn. 47, 50 e 59), si è con-
vinto che non sembra molto differente la disciplina riguardante la partecipa-

282
Cfr. D. SALACHAS, L’Iniziazione Cristiana nei Codici Latino ed Orientale, Roma-Bologna 1992,
24.
283
In Nuntia si ha modo di leggere: «Normae de communicatione in sacris (cann. 4 et 5) innituntur
Decreto Conciliari Orientalium Ecclesiarum nn. 26-29, Directorio de re oecumenica nn. 27-47,
55, atque Instructione de peculiaribus casibus admittendi alios Christianos ad communionem Eu-
charisticam in Ecclesia Catholica, diei 1 iunii 1972, nn. 4 et 5» [Nuntia 10 (1980) 5].
284
In AAS 64 (1972) 518-525. Dunque fonti del can. 67o CCEO, sono: (per il §1) DE 26 e 28, UR 8,
DE 50, 51, 59; (per il §2) DE 52 e 61.
285
Nuntia 10 (1980) 17-18.
286
Nuntia 15 (1982) 9.
95
zione al culto divino degli Ortodossi e Protestanti ed inoltre che nel paragra-
fo stesso si provvede al riguardo con «quae... statuta sunt”»287. Il canone re-
stò quindi immutato, a parte qualche piccola variazione redazionale nonché
vennero inserite alcune proposte ex officio al fine di concordare la termino-
logia con altre parti dello “schema”. Nello SCICO il nostro canone apparì
come segue288: can. 667: Ǥ1. Catholici iusta de causa adesse possunt cul-
tui liturgico christianorum et in ipso partem habere servatis iis, quae ha-
bita ratione gradus communionis cum Ecclesia catholica ab Episcopo
eparchiali aut a superiore auctoritate statuta sunt. §2. Si christianis aca-
tholicis desunt loca in quibus cultum divinum digne celebrent, Episcopus
eparchialis usum aedificii catholici vel coemeterii vel ecclesiae concede-
re potest secundum normam iuris particularis propriae Ecclesiae sui iu-
ris»289. Ulteriori variazioni redazionali hanno portato, in fase di ultime
modifiche, al testo attuale sia del canoni 670 che del can. 671 CCEO 290.
***
Il can. 670 (CCEO), articolato in due paragrafi, introduce la problema-
tica, fornendo le linee generali della communicatio in sacris. Infatti, esso
statuisce, al §1, che i cattolici (ovviamente, qui gli orientali) possono assi-
stere e prendere parte al “culto divino” degli altri cristiani. Tuttavia, nel fa-
re ciò, debbono essere soddisfatte tre condizioni: (a) che vi sia una giusta
causa perché un cattolico prenda parte al culto acattolico e (b) che osservi
quanto stabilito in merito dal vescovo eparchiale oppure dall’autorità supe-
riore, (c) infine, tenga conto del grado di comunione posseduto da quella
Chiesa (acattolica) nei riguardi della Chiesa cattolica. Il testo di questo
primo paragrafo che, ad una prima lettura sembrerebbe facile, evidenzia in-
vece alcuni “problemi”. Infatti, innanzitutto occorre definire cosa s’intenda
per cultum divinum; essenzialmente significa culto liturgico ossia – con le
parole del DE – «un atto di culto fatto secondo i libri, le prescrizioni o le
consuetudini di una qualsiasi chiesa o comunità, atto di culto in virtù del
suo ufficio da un ministero o da un delegato di una di queste chiese o co-
munità»291. Infatti, come già asseriva il DE: «Per comunicazione nelle
cose spirituali si intendono tutte le preghiere fatte in comunione, l’uso in
287
Ibid.
288
Si segnala qui lo studio compiuto da Salachas, che commentò i canoni del SCICO: D. SALACHAS,
La comunione nel culto liturgico e nella vita sacramentale tra la Chiesa Cattolica e le altre Chie-
se e Comunità Ecclesiali - Secondo lo “Schema Codicis Iuris Canonici Orientalis”, in Angelicum
66/3 (1989) 403-421.
289
Nuntia 24-25 (1987) 125.
290
I. ÃUÃEK, Modifiche, 75.
291
DE 31: EV 2, 1224.

96
comune di cose e luoghi sa-cri e tutto ciò che propriamente e veramente
si chiami comunicazione nelle cose sacre. Si ha comunicazione nelle co-
se sacre quando qualcuno partecipa a un qualsiasi culto liturgico o anche
a sacramenti di qualche chiesa o comunità ecclesiale»292.
I fedeli cristiani (cattolici) possono “communicare in sacris” per giusta
causa (dice il disposto del §1 del can. 670); ciò significa che tale nobile pra-
tica venga ad instaurarsi solo quando ve ne sia vera e reale necessità, cioè
al-lorquando sia validamente motivata. Dunque il legislatore sembra aver
voluto sottolineare – con l’inciso iusta causa – sia l’importanza della com-
municatio, che come tutte le cose importanti non vanno inflazionate, sia so-
prattutto il fatto che essa è cosa seria e perciò deve attuarsi solo quando ve
ne sia reale necessità o bisogno. Infatti, anche se la communicatio è ammes-
sa è necessario, sempre in virtù del disposto del can., che nel prendervi par-
te sia osservato (e quindi si ottemperi) quanto disposto dal vescovo epar-
chiale o dall’autorità superiore (cioè ad es. il Patriarca o il Sinodo dei ve-
scovi della Chiesa patriarcale o il Consiglio dei Gerarchi, ecc.). Tuttavia
l’elemento centrale sembra essere quell’habita ratione gradus commu-
nionis [i.e. illius ecclesiae] cum Ecclesia catholica, ossia: occorre tener
conto del grado di comunione che possiede quella Chiesa o comunità ec-
clesiale nei confronti della Chiesa cattolica.
Tutto ciò apre una ampia problematica: quella del grado di comu-
nione tra gli acattolici ed i cattolici, sia da un punto di vista concettuale
(e quindi, in hoc casu, ecclesiologico) che pratico. Ossia: si può stabilire
un “gradiente” di comunione? Pare di sì, infatti pur essendo il battesimo
«il vincolo sacramentale dell’unità»293, in realtà esiste un gradiente di
comunione e quindi di validi sacramenti tra Chiese acattoliche e Chiesa
cattolica; tanto per fare un esempio: tra la Chiesa Ortodossa Bizantina e
quella Luterana vi è chiaramente un differente grado di communio nei ri-
guardi della Chiesa cattolica, questo porta perciò ad un differente atteg-
giamento nella communicatio! Certamente il canone 670 è stato redatto
tenendo presenti le direttive emanate già dal DE294 e perciò al Coetus non
sembrò opportuno inserire due distinti ed appositi paragrafi circa la parteci-
pazione al culto, cioè uno riguardante quello dei protestanti ed uno per
quello degli ortodossi295; mentre invece, come sostenuto dal Salachas: «(...)
292
DE 29-30. Ulteriori fonti del can. 670 CCEO sono: (per il §1) OE 26 e 28, UR 8, DE 50-51 e 59;
(per il § 2) DE 52 e 61.
293
Come giustamente sostiene S. MANNA¸ Riconoscimento dei sacramenti delle altre Chiese da parte
della Chiesa Cattolico-Romana, in Nicolaus 13/1 (1986) 31.
294
Cfr. DE 26: EV 2, 1219.
295
Cfr Nuntia 15 (1982) 9.
97
sarebbe stato forse opportuno farlo, tenendo proprio conto del diverso loro
grado di comunione con la Chiesa cattolica»296. Sembrerebbe dunque che il
fedele dovrebbe conoscere il grado di comunione tra la Chiesa o la Comu-
nità ecclesiale a cui intenderebbe partecipare e la Chiesa cattolica orientale
a cui egli appartiene. Del resto dobbiamo ricordare, alla luce dei dettami
conciliari, che esiste una “quasi piena comunione” tra Chiesa cattolica e
Chiese Orientali acattoliche (cfr. UR 15) e che, invece, esiste una “spe-
ciale affinità e stretta relazione” con le Chiese e le chiese della Riforma
(cfr. UR 22); da ciò scaturisce una diversa legislazione, o meglio forma
legislativa297. Quindi, proprio per questa “presunta o non-presunta” co-
noscenza della materia ecumenica da parte del fedele, il legislatore ha in-
trodotto il disposto secondo cui nel comunicare nelle cose spirituali ci si
attenga alle norme date dalla propria autorità ecclesiastica, proprio onde
evitare problemi e contraddizioni spiacevoli.

Ma, proseguendo con l’analisi del nostro canone (670), il §2 attua


giustamente una sorta di specularità del principio di communicatio in sa-
cris; infatti esso tratta degli acattolici che “comunichino” con noi catto-
lici. In questi casi, al vescovo eparchiale è data facoltà di concedere
l’uso di un edificio cattolico (chiesa, cimitero, oratorio, ecc.) agli acatto-
lici, però qualora loro manchino di locali idonei ed atti a celebrare de-
gnamente il divinum cultum; in merito Salachas sostiene che il disposto
del §2 del can. 670 valga sia per gli Ortodossi che per i Protestanti298. Il
§2 del can. 670, ha nel can. 933 del CIC un suo equivalente299.

§3. La “comunicazione” nei sacramenti in generale

Il CCEO prosegue col can. 671 a fornire ulteriore direttive generali sul-
la communicatio in sacris, asserendo:
Can. 671: Ǥ1. Ministri catholici sacramenta licite solis christifi-
delibus catholicis ministrant, qui pariter eadem a solis ministris
catholicis licite suscipiunt. §2. Si vero necessitas id postulat aut

296
D. SALACHAS, L’Iniziazione Cristiana..., op. cit., 28.
297
Così ad es. già nel DE avevamo due distinte tipologie di communicatio in sacris: una per gli O-
rientali Ortodossi (DE 39-45) ed una per gli Evangelici (cfr. DE 55-63); inoltre cfr. ECAS, 65.
298
D. SALACHAS, L’Iniziazione Cristiana..., op. cit., 28
299
CIC can. 933: «Iusta de causa et licentia expressa Ordinarii loci licet sacerdoti Eucharistiam ce-
lebrare in templo alicuius Ecclesiae aut communitatis ecclesialis plenam communionem cum Ec-
clesia catholica non habenum, remoto scandalo».

98
vera spiritualis utilitas id suadet et dummodo periculum vitetur
erroris vel indifferentismi, licet christifidelibus catholicis, quibus
physice aut moraliter impossibile est accedere ad ministrum ca-
tholicum, sacramenta paenitentiae, Eucharistiae et unctionis in-
firmorum suscipere a ministris acatholicis, in quorum Ecclesiis
valida exisitunt praedicta sacramenta. §3. Item ministri catholici
licite sacramenta paenitentiae, Eucharistiae et unctionis infirmo-
rum ministrant christifidelibus Ecclesiarum orientalium, quae
plenam communionem cum Ecclesia catholica habent, si sua
sponte id petunt et rite sunt dispositi; quod etiam valet circa chri-
stifideles aliarum Ecclesiarum, quae iudicio Sedis Apostolicae, ad
sacramenta quod attinet, in pari conditione ac praedictae Eccle-
siae orientales versantur. §4. Si vero adest periculum mortis aut
de iudicio Episcopi eparchialis aut Synodi Episcoporum Eccle-
siae patriarchalis vel Consilii Hierarcharum alia urget gravis ne-
cessitas, ministri catholici licite eadem sacramenta ministrant ce-
teris quoque christianis plenam communionem cum Ecclesia ca-
tholica non habentibus, qui ad ministrum propriae Communitatis
ecclesialis accedere non possunt atque sua sponte id petunt,
dummodo circa eadem sacramenta fidem menifestent fidei Eccle-
siae catholicae consentaneam et rite sint dispositi. §5. Pro casi-
bus. de quibus §§2, 3 et 4, normae iuris particularis ne ferantur
nisi post consultationem cum auctoritate competenti saltem locali
Ecclesiae vel Communitatis ecclesialis acatholicae, cuius interest».
***
Per ciò che concerne l’evoluzione di questo canone nel processo di co-
dificazione canonica orientale, osserviamo quanto segue. In un primo sche-
ma, il can. apparve come can. 5: Ǥ1. Ministri catholici, salvis praescriptis
huius canonis §§ 2, 3 et 4 necnon canonis 12 §2, sacramenta licite solis
christifidelibus catholici administrant, qui pariter eadem a solis ministris
catholicis licite recipiunt. §2. Quoties necessitatis id postulet aut vera spiri-
tualis utilitas id suadet, et dummodo periculum vitetur erroris vel indiffe-
rentismi licet christifidelibus catholicis quibus physice aut moraliter impos-
sibile sit accedere ad ministrum catholicum, sacramenta poenitantiae, Eu-
charistiae et unctionis infirmorum petere et recipere a ministris non catho-
licis in quorum Ecclesiis valida exsistunt sacramenta. §3. Ministri catholici
licite sacramenta poenitentiae, Eucharistiae et unctionis infirmorum admi-
nistrant christifidelibus Ecclesiarum Orientalium quae plenam communio-
nem cum Ecclesia Catholica non habent, si sponte id petant et rite sint di-
99
spositi, quod etiam valet quoad christifideles aliarum Ecclesiarum iudicio
Sedis Apostoliciae in pari, ad sacramenta quod attinet, conditione ac prae-
dictae Orientales versantium. §4. Si adsit periculum mortis aut alia de iu-
dicio loci Hierarchae aut Synodi Episcoporum, urgeat gravis necessitas,
ministri catholici licite sacramenta administrant ceteris quoque christianis,
plenam communionem cum Ecclesia Catholica non habentibus, qui ad pro-
priae Communitatis ministrum accedere non valeant atque sponte id petant,
dummodo tamen fidem quoad eadem sacramenta manifestent et rite sint di-
spositi. §5. Pro casibus de quibus §§ 2, 3 et 4, Hierarchae loci aut Synodus
Episcoporum generales normas ne ferant nisi post favorabilem exitum con-
sultationis cum auctoritate competenti saltem localis Ecclesiae vel Com-
munitatis cuius interest»300.
Per questo canone, è rilevante – a nostro avviso – la proposta, poi ac-
cettata dal Coetus, di inserire nel CICO «la proibizione, fatta ai sacerdoti
cattolici, di concelebrare la Divina Liturgia con i sacerdoti ortodossi, non
sti-mando sufficiente quanto è scritto nei “Praenotanda” allo schema (Nun-
tia 10, p. 7) “haec proibitio, donec plena inter Ecclesia communio, cuius
concelebratio Divinae Liturgiae signum est supremum, restauretur, omni-
bus orientalibus perspicua est”»301. Pertanto allo schema fu apportata la se-
guente modifica: fu inserito un apposito canone (il 36 bis), che affermava:
«Sacerdotibus catholicis vetitum est cum sacerdotibus vel ministris acatho-
licis Eucharistiam concelebrare»302. Successivamente, il nostro can. nello
SCICO, divenne il can. 668: Ǥ1. Ministri catholici sacramenta licite solis
christifidelibus catholici ministrant, qui pariter a solis ministris catholicis
licite suscipiunt. §2. Si vero necessitas id postulat aut vera spiritualis utili-
tas id suadet, et dummodo periculum vitetur erroris vel indifferentismi, licet
christifidelibus catholicis, quibus physice aut moraliter impossibile est ac-
cedere ad ministrum catholicum, sacramenta poenitantiae, Eucharistiae et
unctionis infirmorum suscipere a ministris acatholicis, in quorum Ecclesiis
valida exsistunt praedicta sacramenta. §3. Item ministri catholici licite sa-
cramenta poenitentiae, Eucharistiae et unctionis infirmorum ministrant
christifidelibus Ecclesiarum Orientalium, quae plenam communionem cum
Ecclesia catholica non habent, si sponte id petunt et rite sunt dispositi;
quod etiam valet circa christifideles aliarum Ecclesiarum, quae iudicio Se-
dis Apostoliciae, ad sacramenta quod attinet, in pari conditione ac praedic-
tae Ecclesiae orientales versantur. §4. Si vero adsit periculum mortis aut

300
Nuntia 10 (1980) 18.
301
Nuntia 15 (1982) 9.
302
Ibid., 11 e a pag. 28 il can. 36 bis.

100
alia de iudicio Episcopi eparchialis aut Synodi Episcoporum vel Consilium
Hierarcharum urget gravis necessitas, ministri catholici licite eadem sa-
cramenta ministrant ceteris quoque christianis plenam communionem cum
Ecclesia Catholica non habentibus, qui ad propriae Communitatis mini-
strum accedere non possunt atque sua sponte id petant, dummodo tamen
fidem Ecclesiae catholicae consentaneam circa eadem sacramenta manife-
stent et rite sint dispositi. §5. Pro casibus de quibus §§ 2, 3 et 4, normae iu-
ris particularis ne ferantur nisi post consultationem cum auctoritate com-
petenti saltem locali Ecclesiae vel Communitatis acatholicae, cuius intere-
st»303. Dal CICO al CCEO non si osserva alcuna variazione.
***
304
Il can. 671 , che è articolato in cinque paragrafi completa le norme
circa la communicatio in sacris.
Il §1 asserisce che solo i ministri cattolici amministrano lecitamente ai
soli cattolici i sacramenti e viceversa, i fedeli cattolici, ricevono i medesimi
lecitamente solo dai ministri cattolici; dunque è questo un dato di fatto che
trova qui la sua espressione giuridica. Tutto ciò è dato a ricordare che il
soggetto ordinario capace di distribuire i sacramenti è il ministro cattolico,
così come il soggetto ricevente i medesimi è il cattolico. Dobbiamo notare
che al §1 del can. 671 CCEO, corrisponde il §1 del can. 844 CIC305. In so-
stanza, l’enunciato di questo paragrafo si fonda sulla comprensione del rap-
porto Ecclesia - Sacramentum, di cui si è già detto prima306.
Il §2 è frutto soprattutto della «Instructio de peculiaribus casibus ad-
mittendi alias Christianos ad Communionem Eucharisticam in Ecclesia Ca-
tholica» (1 gennaio 1972)307 e della «Nota del Segretariato per l’Unione
dei cristiani sulla Instructio de peculiaribus casibus admittendi alias Chri-
stianos ad Communionem Eucharisticam in Ecclesia Catholica» (17 otto-
bre 1973)308. Infatti, entrambi i documenti sono di massima utilità per capi-
re la natura del paragrafo (ma anche di tutto il canone). Il §2 insieme ai
§§3-4 derogano il principio del §1, cioè introducono delle “eccezioni”
«giustificate dalla necessità della partecipazione ai mezzi della grazia. Ma

303
Ibid.
304
Fonti di questo canone sono: (per il §1) OE 26, UR 8; (per il §2) OE 27, DE 42-44 e la Déclara-
tion del 7 gennaio 1970, 3,6; (per il §3) OE 27, UR 15, DE 39 e 46.
305
CIC can. 844§1: «Ministri catholici sacramenta licite administrant solis christifidelibus catholicis,
qui pariter eandem a solis ministi catholicis licite recipiunt, salvis huius canonis §§2. 3 et 4,
atque can. 861§2 praescritptis».
306
Ved. ECAS (Chap. V.1), 65-66.
307
In EV 4, 1626-1640.
308
In EV 4, 1641-1652.
101
queste eccezioni, ammesse a determinate condizioni, dipendono precisa-
mente dal grado di ecclesialità e sacramentalità esistenti presso le altre
Chiese e comunità cristiane»309. Dunque, il §2 del can. 671 ammette il prin-
cipio generale secondo cui anche i cattolici possono ricevere lecitamente i
sacramenti dai ministri acattolici, purché lo richieda una vera necessità op-
pure lo consigli una reale utilità spirituale oppure ancora sia impossibile
physice aut moraliter per il cattolico ricevere i medesimi da un ministro
cattolico. Nell’at-tuare tutto ciò si deve evitare il pericolo dell’errore non-
ché l’indifferentismo, infatti la vera e propria conditio apposta alla norma è
che si possa ricevere i sacramenti da ministri acattolici di quelle Chiese in
cui questi siano “validi”, cioè riconosciuti come tali dalla Chiesa cattolica.
Pertanto non abbiamo problemi per i sacramenti conferiti dalle Chiese O-
rientali acattoliche (sia ortodosse che pre-calcedonesi), dal momento che i
loro sacramenti sono, per noi cattolici, validi310; diversa è invece la casisti-
ca delle Chiese e delle Comunità Ecclesiali sorte dalla Riforma protestante,
nei riguardi delle quali «(...)vi sono importanti divergenze(...)soprattutto
d’interpretazione della verità rivelata»311. Dunque: «(...) secondo il §2 del
can. 671 del CCEO, ai cattolici è lecito ricorrere ai ministri delle Chiese
orientali, che non hanno comunione piena con la Chiesa cattolica, per ri-
cevere il sacramento della penitenza, dell’Eucarestia e dell’unzione degli
infermi (...). Invece, non è lecito ai cattolici ricorrere ai ministri apparte-
nenti alle chiese e comunità protestanti per ricevere i suddetti sacramen-
ti, poiché in esse la fede nell’Eucaristia differisce da quella della Chiesa
cattolica, e non hanno il sacramento dell’ordine; è lecito solo se il ministro
non cattolico abbia validamente ricevuto il sacramento dell’ordine»312. Al
§2 del can. 671 CCEO, corrisponde il §2 del can. 844 CIC 313.
Il §3, del can. 671, prende in esame la casistica “contraria”, cioè: gli
acattolici orientali e gli altri cristiani appartenenti ad altre Chiese o co-

309
D. SALACHAS, L’Iniziazione Cristiana..., op. cit., 32. Inoltre il DE 26 già asseriva: «(...) siccome
questi beni esposti si trovano in modi diversi fra i vari cristiani, la comunicazione nelle cose spiri-
tuali fra essi molto dipende da questa diversità. e bisogna esaminare la questione secondo la di-
versità delle persone e delle comunità» (EV 2, 1219).
310
Cfr. UR 14-15 e OE 27 ma soprattutto la Instructio de peculiaribus casibus..., op. cit., n. 5; in EV
4, 1637.
311
UR 19.
312
D. SALACHAS, L’Iniziazione Cristiana..., op. cit., 33.
313
CIC can. 844§2: «Quoties necessitas id postulet aut vera spiritualis utilitas id suadeat, et dummo-
do periculum vitetur erroris vel indifferentismi, licet christifidelibus quibus physice aut moraliter
impossibile sit accedere ad ministerium catholicum, sacramenta poenitentiae, Eucharistiae et un-
ctionis infirmorum recipere a ministris non catholicis, in quorum Ecclesia valida existunt prae-
dicta sacramenta».

102
munità ecclesiali, che a giudizio della Santa Sede si trovano in pari con-
dicione circa eadem sacramenta, possono ricevere lecitamente i sacra-
menti da un ministro cattolico.
Quanto esposto dal can. 761 al §3 costituisce l’importantissimo “princi-
pio di reciprocità”; questo principio ha incontrato un certo dibattito nel pro-
cesso di codificazione canonica orientale, infatti al riguardo in Nuntia si ha
modo di leggere: «Un organo di consultazione propone che nel §3 “per reci-
procità, principio importante nell’azione ecumenica, e per evitare ogni so-
spetto di proselitismo e in adesione allo spirito dei documenti postconcilia-
ri” si prescriva per gli Ortodossi che chiedono i sacramenti da un sacerdote
cattolico la stessa norma che vale per i Cattolici (§2) quando vogliono rivol-
gersi per avere i sacramenti ad un sacerdote ortodosso: cioè che essi non
possono fare questo se non nei casi in “quibus physice aut moraliter impos-
sibile sit accedere ad ministrum” della propria Chiesa. La proposta tuttavia
non è accettata, perché il CICO non può dar simili norme canoniche per gli
Ortodossi, mentre il ministro cattolico deve supporre che gli Ortodossi che
si rivolgono a lui osservino le prescrizioni della propria Chiesa»314. Sempre
in merito, Salachas ho mosso alcune critiche: «(...) la norma come è formu-
lata nel §3, potrebbe avere delle implicazioni ecumeniche negative nel corso
del dialogo della Chiesa cattolica con la Chiesa ortodossa. Certo, il CICO
non può dare simili norme per gli Ortodossi, ma può darle per i ministri cat-
tolici»315. Del resto – come anche sostenuto sempre dallo stesso Salachas –
il DE (al n. 46) aveva provveduto a fornire norme ai ministri cattolici al fine
di concedere agli orientali acattolici di fruire del sacramento della confes-
sione solo nel caso in cui vi fosse stata assenza o mancanza del proprio con-
fessore316. In merito, Gefaell osserva che: «È interessante notare che sia i
codici sia il nuovo Direttorio stabiliscono per gli altri cristiani non cattolici
la norma proposta dall’organo di consultazione per gli ortodossi. Infatti,
questa norma è indirizzata al ministro cattolico e non ai membri delle Con-
fessioni non cattoliche. Quindi, la ragione data dalla Commissione del
CCEO per non introdurre la proposta del suddetto organo di consultazione
non sembra sufficientemente fondata. Il Direttorio del 1993, oltre a stabilire

314
Nuntia 15 (1982) 11.
315
D. SALACHAS, La comunione nel culto liturgico e nella vita sacramentale..., op. cit., 414; l’A. ri-
prende questa sua critica anche nel recente volume L’Iniziazione Cristiana..., op. cit., 36.
316
DE 46: «Agli orientali poi sia permesso il libero accesso ai confessori cattolici, quando non ci sia-
no confessori della loro chiesa, e lo facciano spontaneamente. In simili circostanze, anche ai cat-
tolici è lecito confessarsi presso i confessori della chiesa orientale separata dalla sede romana.
Anche qui deve osservarsi la legittima reciprocità. Tuttavia, da entrambe le parti si eviti che sorga
il sospetto di proselitismo».
103
la necessità di una certa “reciprocità” nel condividere attività spirituali e ri-
sorse (n. 105), stabilisce che il ministro cattolico, in questi casi particolari,
deve avere la dovuta considerazione della disciplina delle Chiese orientali
non cattoliche per i suoi fedeli ed evitare qualsiasi apparenza di proselitismo
(n. 125). Il nuovo Direttorio non ha cambiato sostanzialmente la disciplina
codiciale a questo riguardo»317. Tuttavia, nonostante i “problemi” quali sopra
accennati, il testo del paragrafo §3 del can. 671 è, probabilmente, volutamente
generico, dando così possibilità di applicazioni future qualora muti (in seguito
al dialogo ecumenico) la situazione sacramentale di alcune “entità” cristiane
acattoliche. Anche il §3 del 671 CCEO, ha nel § 3 del can. 844 CIC il suo
corrispettivo318.
Il §4, invece, sembra essere ispirato soprattutto da elementi di carattere
pastorale, anzi quasi di misericordia cristiana; esso, infatti, stabilisce che i
ministri cattolici possono amministrare lecitamente i sacramenti a “ceteris
quoque christianis plenam communionem cum Ecclesia catholica non ha-
bentibus”, purché:
(a) vi sia periculum mortis o altra grave necessità;
(b) i suddetti richiedenti manifestino questo desiderio (cioè di commu-
nicare in sacris cum catholicis) ed ugualmente manifestino una fede sui sa-
cramenti che richiedono conforme a quella cattolica.
Dunque questo paragrafo tratta degli acattolici non-orientali ed il
CCEO sembra dunque aver voluto codificare le norme di UR (praesertim n.
13) e del DE (praesertim n. 55)319; infatti, il riferimento alle Comunità Ec-
clesiali occidentali (anglicani e protestanti) appare palese. Anche il §4 del
671 CCEO, ha nel §4 del can. 844 CIC il proprio corrispettivo320.

317
P. GEFAELL, Il Nuovo Direttorio Ecumenico e la Communicatio in Sacris, in Ius Ecclesiae 6
(1994) 272. È questo un saggio fondamentale sui rapporti fra NDE e legislazione codiciale in ma-
teria.
318
CIC can. 844§3: «Ministri catholici licite sacramenta poenitentiae, Eucharistiae et unctionis in-
firmorum administrant membris Ecclesiarum orientalium quae ad plenam communionem cum Ec-
clesia catholica non habent, si sponte id petant et rite sint disposita; quod etiam valet quoad
membra aliarum Ecclesiarum, quae iudicio Sedis Apostolicae, ad sacramenta quod attinet, in pari
condicione ac praedicatae Ecclesiae versantur».
319
Cfr. D. SALACHAS, L’Iniziazione Cristiana..., op. cit., 38.
320
CIC can. 844§4: «Si adsit periculum mortis aut, iudicio Episcopi dioecesani atu Episcoporum
conferentiae, alia urgeat gravis necessitatis, ministri catholici licite eadem sacramenta admini-
strant ceteris quoque christianis pelnam communionem cum Ecclesia catholica non habentibus,
qui ad suae communitatis ministrum accedere nequeant atque sponte id petant, dummodo quoad
aedem sacramenta fidem catholicam manifestenet et rite sint dispositi». Per un commento al can.
844§4 CIC, ved. ECAS (Chap. V.3.3.) 66.

104
Conclude il can. 671 il §5, trattante di nuovo della questione della “re-
ciprocità”321, ampliando però qui il termine da una sfera strettamente giuri-
dico-ecumenica ad una improntata al dialogo. Infatti, dice il §5, per i casi
quali quelli esposti dai §§ 2, 3, & 4 “non si emanino norme di diritto parti-
colare” se non dopo aver consultato o la competente autorità locale della
Chiesa oppure quella della comunità ecclesiale acattolica interessata. E,
come ci ricorda Salachas: «Ovviamente sarebbe auspicabile che le varie
Chiese collaborassero fraternamente, specie sul piano locale, tenendo conto
del mandato divino “che tutti siano una cosa sola”. La collaborazione ecu-
menica in materia di “communicatio in sacris” è richiesta dalla sollecitudi-
ne pastorale di ogni Chiesa verso i propri fedeli e la salvezza di tutti i cre-
denti»322. Come per gli altri paragrafi, anche il §5 del can. 671 CCEO trova
nel §5 del can. 844 CIC il proprio equivalente323. Pertanto, non vi sono, cir-
ca la materia trattata, divergenze sostanziali tra le due legislazioni.

Oltre alle norme generali sulla communicatio in sacris, quali quelle


descritte dai canoni 670-671, abbiamo nel CCEO altri “casi” di commu-
nicatio, che passiamo subito in rassegna (seppur assai brevemente) nei
successivi paragrafi.

§4. Possibilità di partecipazione alle letture nelle celebrazioni eucaristiche?

Il CCEO non possiede canoni specifici al riguardo; tuttavia, possiamo


osservare quanto segue.
Il DE (al n. 50) prevedeva esplicitamente la partecipazione di un fedele
cattolico all’officio delle letture (ottenuto il premesso dell’Ordinario del
luogo) presso una Chiesa orientale acattolica e viceversa ugualmente pote-
va fare un ortodosse (sempre dopo avere avuto il permesso dell’ordinario
del luo-go); inoltre agli altri cristiani ciò non era permesso (DE, n. 56). In-
vece, il NDE non prescrive alcun permesso da parte dell’ordinario del luogo
(o del Gerarca del luogo) quando si riferisce agli orientali acattolici (NDE

321
È da notare tuttavia, come ci ricorda Salachas che «(...) le Chiese ortodosse sono molto rigide in
materia di “communicatio in sacris”, specie per la partecipazione degli “eterodossi” alla comunio-
ne eucaristica» (D. SALACHAS, L’Iniziazione Cristiana..., op. cit., 40).
322
D. SALACHAS, L’Iniziazione Cristiana..., op. cit., 40.
323
CIC can. 844§5: «Pro casibus de quibus §§2, 3 et 4, Episcopus dioecesanus aut Episcoporum con-
ferentia generales normas ne ferant, nisi post consultationem cum auctoritate competenti saltem
locali Ecclesiae vel communitatis non catholicae, suius interest».
105
n. 126); ma, per gli altri cristiani, a certe condizioni (casi eccezionali e per
giusta causa) il vescovo diocesano può permettere che un cristiano acattoli-
co (non-orientale) assolva la funzione di lettore nell’ambito della celebra-
zione eucaristica cattolica (NDE n. 133). Pertanto, come si domanda GEFA-
ELL: «Può, dunque, ritenersi che a questo riguardo il Direttorio del 1993
abbia ampliato le leggi precedenti? Le relative disposizioni del vecchio Di-
rettorio non erano state raccolte dai codici (come conseguenza dei CIC c. 2
e CCEO c. 2), e per questa ragione si dovevano ritenere ancora come legge
in vigore. Come abbiamo visto, il vecchio Direttorio godeva della “massi-
ma approvazione” pontificia, cosa che manca nel nuovo Direttorio»324.
Il CCEO, non parla esplicitamente della cosa; il can. 403 §1, trattante
della partecipazione dei medesimi alle funzioni liturgiche325, ed il can. 670
§1 potrebbero essere suscettibili di ampliamento interpretativo, facendo
rientrare in essi la su citata norma del Direttorio, ma di quale? il vecchio o
il nuovo? Senza dubbio il vecchio Direttorio, ma anche il nuovo, potrebbe
essere applicato nonostante le titubanze espresse, giustamente, da Gefaell,
dal momento che il NDE va ad integrare quanto detto; del resto, una delle
finalità del NDE è proprio quella di raccogliere «(...) tutte le norme già fis-
sate per applicare e sviluppare le decisioni del Concilio»326.

§5. Il battesimo di un bambino acattolico da parte del ministro cattolico

Un altro caso di communicatio in sacris ci è fornito quando un bambino


acattolico sia battezzato lecitamente da un ministro cattolico, cioè ci rife-
riamo al disposto del can. 681§5 del CCEO, statuente:
«Infans christianorum acatholicorum licite baptizatur, si parentes
aut unus saltem eorum aut is, qui legitime eorundem locum tenet,
id petunt et si esi physice aut moraliter impossibile est accedere
ad ministrum proprium».
***

324
P. GEFAELL¸ Il Nuovo Direttorio Ecumenico..., op. cit.¸ 273.
325
CCEO can. 403: Ǥ1. Firmo iure et obligatione proprium ritum ubique servandi sunt laici ius ha-
bent actuose in celebrationis liturgicis ciuscumque Ecclesiae sui iuris participandi secundum o-
raesecripta librorum liturgicorum. §2. si Ecclesiae necessitates vel vera utilitas id suadent et mi-
nistri sacri desunt, possunt laicis quaendam ministrorum sarorum functiones committi ad normam
iuris».
326
NDE 6.

106
Alcuni autori, specie Salachas, interpretano la norma riferendola agli
or-todossi327; cioè un sacerdote cattolico può lecitamente conferire il sacra-
mento battesimale ad un bambino, figlio di genitori ortodossi (purché siano
rispettante le condizioni di cui al can. 681 §5, ved. nt.). È interessante notare
che esiste una differenza tra CCEO e NDE, infatti il NDE non sembra de-
scrivere tutte le possibilità di communicatio in sacris quali quelle esistenti
nel CCEO, pertanto in merito a questo canone, ci si interroga se l’omissione
del medesimo nel NDE sia stata “involontaria” oppure si deve ritenere la
norma del can. 681§5 abrogata?328
Dunque riteniamo che la questione dovrebbe essere sottoposta al Ponti-
ficio Consiglio per l’Interpretazione dei Testi Legislativi. Comunque il can.
681 §5, è un ulteriore esempio di implicanze ecumeniche; è da sottolineare, in-
fine, che il CIC al riguardo sembra tacere.

§6. La possibilità di celebrare la Divina Liturgia nelle Chiese acattoliche

Un ulteriore esempio di communicatio in sacris ci è data dal can.


705§2, sancente:
Ǥ1. Sacerdos catholicus Divinam Liturgiam celebrare potest su-
per altare cuiusvis ecclesiae catholicae. §2. Ut sacerdos Divinam
Liturgiam in ecclesia acatholicorum celebrare possit, licentia e-
get Hierarchae loci»329.
***
Il CCEO pur proibendo (al can. 702) ai sacerdoti cattolici di concele-
brare la Divina liturgia insieme a ministri acattolici330, al paragrafo secondo
del 705, introduce una apertura ecumenica: è necessaria la licenza del Ge-
rarca del luogo affinché un sacerdote cattolico possa celebrare la Divina Li-

327
Cfr. D. SALACHAS, I battezzati non cattolici e la promozione dell’unità dei cristiani alla luce del
nuovo Codice dei Canoni delle Chiese Orientali; in Andrès Gutièrrez (a.c.d.), Vitam Impendere
Magisterio. Profilo intellettuale e scritti in onore dei professori R. M. Pizzorni e G. Di Mattia,
Roma 1993, 33.
328
P. GEFAELL¸ Il Nuovo Direttorio Ecumenico..., op. cit.¸ 274. Del resto, quanto detto dall’A. in me-
rito sembra essere vero; infatti scorrendo i canoni del CCEO troviamo un quantitativo maggiore di
casi inerenti alla communicatio in sacris rispetto al NDE (cfr. I. ÃUÃEK, Index Analyticus Codicis
Canonum Ecclesiarum Orientalium, «Kanonika» 2, Roma 1992, 55 - voce “communicatio in sa-
cris”).
329
Fonte del can. 705§2 è il DE 36b e 52.
330
CCEO can. 702: «Sacerdotes catholici vetiti sunt una cum sacerdotibus vel ministris acatholicis
Divinam Liturgiam concelebrare».
107
turgia in una chiesa di acattolici331. Il paragrafo del canone esplicitamente
usa la frase “in ecclesia acatholicorum”, questa significa in una chiesa di
acattolici da un punto di vista fisico, cioè architettonico, oppure intesa come
“Chiesa-comunià ecclesiale”? Forse, si dovrebbe intendere la prima ipotesi,
dal momento che il can. 702 fa esplicito divieto di concelebrazione con a-
cattolici; inoltre per la violazione questa norma (come anche per tutte quelle
sulla communicatio in sacris) vi è un apposita pena332. Allora, in base al
can. 705 §2, un sacerdote cattolico, per varie cause, impossibilitato a dire
messa nella propria chiesa potrà celebrare la Divina Liturgia in una chiesa
acattolica, ottenuto però il consenso del Gerarca del luogo. Il can. 705 §2,
ha il suo equivalente nel can. 933 del CIC333.

§7. Il culto dei santi: mancanza di “communicatio”

Per quanto riguarda, invece, il culto dei santi non vi è nessun modo di
comunicare, infatti il can. 885, stabilisce che:
«Cultu publico eos tantum servos Dei venerari licet, qui auctori-
tate Ecclesiae inter Sanctos vel beatos relati sunt».
Identico canone lo si trova nel CIC (can. 1187). Ciò è facilmente com-
prensibile, dal momento che la Chiesa cattolica ha norme ben precise in
merito ai processi di beatificazione e santificazione; l’eventualità di questa
forma di communicatio in spiritualibus, che fin’oggi è negata al livello le-
gislativo, potrebbe in futuro essere applicata per es. alle Chiese orientali a-
cattoliche, che molto venerano i santi, ma che hanno criteri diversi di valu-
tazione; inoltre si tenga presente che le differenti ecclesiologie e imposta-
zioni teologiche influiscono non poco su tale materia334. Forse, un giorno,
in cui sarà stabilita la piena comunione con queste, allora si potrà avere una
sorta di menologio comune, ma ancora siamo lontani dal realizzare ciò.

331
CCEO can. 705§2: «Ut sacerdotes Divinam Liturgiam in ecclesia acatholicorum celebrare possit,
licentia eget Hierarcae loci».
332
Ved. CCEO can. 1440, statuente: «Quis normas iuris de communicatio in sacris violat, congra
poena puniri potest»; il can. 1440 CCEO è identico al can. 1365 CIC.
333
CIC can. 933: «Iusta de causa et de licentia expressa ordinarii loci licet sacerdoti Eucharistiam
celebrare in templo alicuius Ecclesiae aut communitatis ecclesialis plenam communionem cum
Ecclesia catholica non habentium, remoto scandalo».
334
Per una panoramica sulla canonizzazione in ambito ortodosso, ved. F. HEYER, Die Kanonisierung
der Heiligen in den orthodoxen Kirchen, in R. Coppola (a.c.d.), Incontro fra Canoni d’Oriente e
d’Occidente – Atti del Congresso Internazionale (Bari 23-29 settembe 1991), Bari 1994, II, 273-
283; E. MORINI, La Chiesa Ortodossa. Storia - Disciplina - Culto, Bologna 1996, 384-400.

108
§8. Le esequie ecclesiastiche degli acattolici

Altro punto di communicatio in sacris è rappresentato dal can. 876§1,


statuente che la possibilità di esequie ecclesiastiche per un acattolico, pur-
ché vi sia impossibilità del ministro acattolico a celebrare le esequie e il de-
funto in vita non abbia espresso esplicita volontà contraria in merito; ov-
viamente, essendo la cosa delicata, occorre che sia il Gerarca del luogo a
formulare il proprio (prudente) giudizio.
«Concedi possunt exequiae ecclesiasticae acatholicis baptizatis
de prudenti Hierarchae loci iudicio, nisi constat de contraria eo-
rum voluntate et dummodo minister proprius haberi non possit»335.
Questo canone, che ha un suo corrispettivo nel CIC (can. 1183 § 3)336,
segna senza dubbio una grande apertura ecumenica ed una marcata volontà
di communicare in sacris cum aliis. Probabilmente, qui, il legislatore ha de-
siderato ispirare la norma sulla base del concetto della carità cristiana. In
merito osserva la Nota del PCPUC: «The canons (...) [n.d.r. i cann. 1170 e
1183§3 CIC] are far from being an entire revision of artt. 50-52 and 59-61
of the Directorium Ecumenicum which deal with the same acts of worship.
Therefore, in no way are these articles to be considerd aborgated»337.

§9. Il padrino acattolico nel battesimo di un cattolico

A conclusione di questa panoramica sulla communicatio in sacris, ab-


biamo il can. 685§3 del CCEO:
«Iusta de causa licet admittere christifidelium alicuius Ecclesiae
orientalis acatholicae ad munus patrini, sed semper simul cum
patrino catholico».
Il canone, stabilisce la possibilità di ammettere come padrino del batte-
simo un acattolico orientale che però deve essere sempre “affiancato”, nel
compito, da un padrino cattolico. È da sottolineare, al riguardo, che il CIC,
nell’analogo can. 874 §2, contiene una norma simile, tuttavia restringe tale
partecipazione, sancendo chiaramente che in hoc casu l’acattolico funge so-

335
Fonte di questo paragrafo è il DE 52, 59, 60.
336
CIC can. 1183§3: «Baptizatis alicui Ecclesiae aut communitati ecclesiali non catholicae adscrip-
tis, exequiae ecclesiasticae concedi possunt de prudenti Ordinarii loci iudicio, nisi constet de
contraria eorum voluntate et dummodo minister proprius haberi nequeat».
337
ECAS (Chap. V.8), 68.
109
lo da teste338. Sia la normativa della legislazione orientale che di quella la-
tina, non hanno fonti nei canoni antichi; fonte immediata è infatti il DE che
al n. 48 asseriva: «(...) è lecito ammettere per giusto motivo un fedele orien-
tale come padrino assieme col padrino cattolico (o con la madrina cattolica)
, purché abbia provveduto alla educazione del battezzato, e consti l’idoneità
del padrino»339.
Si osservi che il CCEO, a differenza del CIC, non parla di “qualifica”
del padrino acattolico; cioè si afferma sic et simpliciter che egli può funge-
re da padrino insieme a quello cattolico. È da notare, invece, che il NDE, al
n. 98a, asserisce: «Basandosi sul battesimo comune, e a causa di vincoli di
parentela o di amicizia, un battezzato che appartiene a un’altra comunità
ecclesiale può tuttavia essere ammesso come testimone del battesimo, ma
soltanto insieme con un padrino cattolico». Ciò è significativo, poiché il
NDE allarga il diritto latino dal momento che estende la norma del CCEO
(can. 685 §3) anche ai Latini340, tuttavia – a nostro sommesso parere – ci
sembra che il NDE chiarifichi la funzione del padrino acattolico nei riguar-
di del CCEO, ribadendo il fatto che costui (o costei) è ammesso essenzial-
mente come “teste”; dunque il NDE, pur estendendo la norma ai Latini, tut-
tavia sembra, poi, voler restringere la norma stessa, altrimenti perché af-
fermare «può tuttavia essere ammesso come testimone»? Ad ogni modo –
NDE a parte – il CCEO, da parte sua, fa chiaro riferimento agli ortodossi, in
quanto asserisce che padrino possa essere un “acattolico orientale”, ma non
usa il lemma testis! Dunque da questa duplice normativa sorge un proble-
ma. Il CIC sembrerebbe escludere che un ortodosso possa fungere da padri-
no assieme ad un padrino cattolico, ma solo come teste; infatti parla di “bat-
tezzato” “ad communitatem ecclesialem”. Il NDE, in base alle note del me-
desimo 28 e 107, risolve il problema: il canone latino intende qui i prote-
stanti e non gli ortodossi. Inoltre il CCEO sembra escludere che un prote-
stante possa essere assunto come teste insieme al padrino cattolico; anche qui
la lacuna viene colmata dalla interpretazione data dal NDE. Dal confronto
dei due canoni commentati alla luce del NDE, il protestante può fungere da

338
CIC can. 874§2: «Baptizatus ad communitatem ecclesialem non catholicum pertinens, nonnisi una
cum patrino catholico, et quidem ut testis tantum baptismi, admittantur»; il CIC anche per la Con-
fermazione (al can. 893§1) rinvia alla norma suddetta, il motivo di ciò risiede nel fatto che Batte-
simo e Confermazione nella pratica sacramentale latina sono disgiunti.
339
G. PATTARO, Per una pastorale dell’Ecumenismo. Commento al Direttorio Ecumenico, Brescia
1984, 176-177.
340
P. GEFAELL¸ Il Nuovo Direttorio Ecumenico..., op. cit.¸ 275-276.

110
teste, mentre l’ortodosso può fungere da padrino però insieme al padrino
cattolico341.

§10. Cenni sulle tematiche ecumeniche presenti nella disciplina


matrimoniale secondo il CCEO

Senza dubbio la disciplina matrimoniale, qual è esposta dai canoni del


CCEO, rappresenta uno dei maggiori momenti dell’applicazione e dell’at-
tuazione delle categorie ecumeniche nell’ambito del diritto canonico orien-
tale342. La vigente legislazione, praticamente identica a quella del CIC, ap-
pare estremamente chiara e lineare; essa si presenta racchiusa dai seguenti
canoni: 780-781 e 813-816 CCEO. I cann. 780-781 sono di carattere gene-
rale e introducono la tematica dei matrimonia mixta; mentre i cann. 813-
816 trattano dettagliatamente della problematica.
Per matrimonio misto si intende, essenzialmente, un matrimonio cele-
brato tra parte cattolica (sia orientale sia latina) con una parte cristiana acat-
tolica (ortodossa, protestante, evangelica, ecc.). Tuttavia, esiste anche un
altro tipo di matrimonio, che ha implicanze ecumeniche, quello tra parte
cattolica e parte non-cristiana (p. es. un fedele musulmano, buddista, indui-
sta, ecc.); queste ultime unioni matrimoniali sono molto particolari e ven-
gono usualmente definite come matrimoni inter-confessionali (cioè attuati
per disparità di culto, per i quali s’applica il can. 803§1 CCEO e 1086§1
CIC)343. Pertanto i cann. 780-781, trattano generatim della problematica: il
780 introduce la tematica, mentre il 781 riguarda più l’aspetto pre-processuale;

341
NDE alla note nr. 28 e nr. 107 (p. 14 e 50 dell’editio italiana, Bologna 1993), nelle quali, infatti,
viene affermato quanto segue. «Il termine “ortodosso” è generalmente usato per indicare le Chie-
se Orientali che accettano le decisioni dei concili di Efeso e di Calcedonia. Tuttavia, recentemen-
te, questo termine, per ragioni storiche, è stato riferito anche alle Chiese che non accettarono al-
cune formule dogmatiche dell’uno o dell’altro dei due concili citati (cf. UR 13: EV 1, 539). Al fi-
ne di evitare ogni confusione, in questo direttorio, l’espressione generale “Chiese orientali” sarà
usata per indicare tutte le Chiese delle diverse tradizioni orientali che non sono in piena comunio-
ne con la Chiesa di Roma» (NDE, nota nr. 28). «In base alla precisazione contenuta negli Acta
Commissionis (Communicationes 5, 1983, p. 182), l’espressione “communitas ecclesialis” non in-
clude le Chiese orientali che non sono in piena comunione con la Chiesa cattolica (...)» (NDE, no-
ta nr. 107).
342
Cfr. J. ABBAS, I matrimoni misti, in AA. VV., Il matrimonio nel Codice dei canoni delle Chiese
orientali, «Studi Giuridici» 32, Città del Vaticano 1994, 187 ss.
343
È interessante notare che il CCEO usi la perifrasi matrimonium mixtum per entrambi i tipi di ma-
trimoni (sia “misti” strictu sensu, che “interconfessionali”). In merito PRADER ci ricorda che: «Nel
sinodo dei vescovi del 1967 (...) non è stata accettata la proposta di sostituire il termine “matri-
moni misti” con l’espressione “matrimoni interconfessionali” per il motivo che questo termine
sembrerebbe porre tutte le Chiese e Comunità ecclesiali su uno stesso livello» [J. PRADER, Il ma-
triomonio in Oriente e Occidente, «Kanonika» 1, Roma 1992, 131].
111
entrambi, tuttavia, sono esempi di “applicazione della legge”. L’iter di questi
canoni – come si potrà notare – è stato alquanto complesso, e del resto – data
la materia – non sarebbe potuto essere altrimenti.
***
Tuttavia, prima di procedere oltre, entrando nel dettaglio dei matrimo-
nia mixta, riteniamo doveroso compiere ulteriori considerazioni di carattere
generale circa la discipilna matrimoniale in rapporto alla res oecumenica.
Ossia, ci appare opportuno evidenziare il carattere ecumenico che già pos-
siede – anche se indirettamente – la definizione stessa di matrimonio, qual è
quella espressa dai Codici vigenti ed in essi, giuridicamente, stigmatizzata
rispettivamente dai cann. 776§1 CCEO e 1055 CIC.
CCEO 776§1: «§1. Matrimoniale fœdus a Creatore conditum
eiusque legibus instructum, quo vir et mulier irrevocabili con-
sensu personali totius inter se constituunt, indole sua naturali
ad bonum coniugum ac ad filiorum generationem et educatio-
nem ordinatur».
CIC 1055: «§1. Matrimoniale fœdus, quo vir et mulier inter se
totius vitae consortium constituunt, indole sua naturali ad bo-
num coniugnum ad prolis generationem et educationem ordina-
tum, a Christo Domino ad sacramenti dignitatem inter baptiza-
tos evectum est»344.
La succitata definizione racchiude in sé un aspetto ecumenico, o me-
glio una implicanza ecumenica. Infatti, al riguardo, come già ebbe a com-
mentare la Nota del SPUC: «It is this foedus which demands an apporach of
faith common to all followers of Christ and which is the foundation of the
“peculiar” proprieties of sacramental marriage»345.
Del resto, dobbiamo considerare che il matrimonio si fonda sul caratte-
re battesimale dei nubendi e che la loro unione matrimoniale è riflesso della
fede nella Chiesa e perciò la si paragona all’unione tra Cristo stesso con la
Chiesa346. Dunque: «The importance which the Code attaches to the sacra-
344
È interessante notare quanto ancora vi sia l’influsso dello ius romanum nello ius canonicum; la
definizione su data dai canoni dei Codici sembra, infatti, ricalcare – a parte l’elemento del diritto
divino positivo – quella data da MODESTINUS, che asseriva: «Nuptiae sunt coniunctio maris et fe-
minae, consortium omnis vitae divini et humani iuris commmunicatio» (MOD., l. 1 D. ritu nupt.,
23, 2). Per uno studio sulle influenze romane sull’istituto matrimoniale ved. O. BUCCI, Per la sto-
ria del matrimonio cristiano fra eredità giuridica orientale e tradizione romanistica; in AA. VV.,
Il Matrimonio nel Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, «Studi Giuridici» 34, Città del Vati-
cano 1994, 7-92.
345
ECAS, (Chap. VI. A), p. 68.
346
Cfr. ECAS, (Chap. VI. B), p. 68.

112
mental nature of marriage between two baptised persons can be considered
as having ecumenical significance»347. Dunque, anche da un punto di vista
generale della disciplina matrimoniale lo ius vigens qual è quello espresso
dai Codici, racchiude una densa e significativa implicanza ecumenica. Per-
tanto, passiamo ora allo studio degli aspetti ecumenici più “visibili” della
disciplina matrimoniale orientale, cioè le norme regolanti i matrimoni misti.

§10.1. Il matrimonio tra cattolico e battezzato acattolico: principi generali

Can. 780: Ǥ1. Matrimonium catholicorum, etsi una tantum pars


est catholica, regitur iure non solum divino, sed etiam canonico
salva competentia auctoritatis civilis circa effectus mere civiles
matrimonii. §2. Matrimonium inter partem catholicam et partem
baptizatam acatholicam salvo iure divino regitur etiam: 1° iure
proprio Ecclesiae vel Communitatis ecclesialis, ad quam pars a-
catholica pertinet, si haec Communitatis ius matrimoniale pro-
prium habet; 2° iure, quo pars acatholica tenetur, si Communitas
ecclesialis, ad quam pertinet, iure matrimoniali proprio caret»348.
***
La legislazione matrimoniale orientale si basava sul motu proprio
“Crebrae Allatae” [= CA] emanato da PIO XII il 22 febbraio 1949349; la
PCCIOR, pertanto è partita da questo testo ed è pervenuta dopo ampio stu-
dio e discussione alla redazione attuale dei canoni, non senza difficoltà data
la delicatezza e l’importanza della materia350. Dunque, fu creato un nuovo
canone, extra CA, il can. 5: «In matrimonio ineundo inter partem baptiza-
tam in Ecclesia Catholica vel in eandem receptam et partem baptizatam
quae ad plenam communionem cum Ecclesia Catholica non pervenerit, aut
partem non baptizatam, quod attinet ad impedimenta quae non sunt iuris
positivi divini vel naturalis, lex propria utriusque partis servetur, a qua ta-
men auctoritatis catholica dispensare potest»351. Successivamente, i con-

347
Ibid.
348
Fonti del can. sono: (per il §1) CA can. 5; (per il §2) UR 16, DH 4.
349
X. OCHOA, Leges Ecclesiae, II, n. 2029, 2567-2586.
350
Fu presa in esame la decisione del Tribuanle della Suprema Signatura Apostolica (diei 28 novem-
bris 1970) in cui si asserisce il principio di nullità per i matrimoni con gli Ortodossi qualora man-
chi il rito sacro (riportata in Nuntia 3, 1976, 42-43) ed interessanti sono anche le Disputationes
coetus consultorum “de lege matrimoniali applicanda”, relator Rv.mo Mgr. Joseph Prader (in
Nuntia 5, 1977, 52-62, praesertim 57-62). Senza dubbio Mgr. Prader ha influito non poco sulla
elaborazione dei canoni sui matrimoni misti.
351
Nuntia, 8 (1979) 9.
113
sultori pervennero alla conclusione che la materia dei matrimoni misti ve-
nisse collocata in un capitolo appositamente separato del diritto matrimo-
niale352; si discusse anche sul titolo da dare al capitolo: “de matrimoniis mi-
xtis” o “mixtae religionis”; sarà a prevalere il primo. Infine fu stabilito il prin-
cipio che avrebbe dovuto valere la stessa legge applicata dagli ortodossi con i
non-cristiani (non-battezzati), rendente il matrimonio invalido; mentre per i
Protestanti «attento iure latino, libere ineunt matrimonium cum non baptizatis
et nullo determinentur impedimento»353.
***
Per quanto concerne l’iter del can. 780 del CCEO, segnaliamo
quanto segue. Sostanzialmente si partì creando due nuovi canoni: i
cann. 118 e 119 354.
Successivamente, il nostro canone subì una riformulazione, tuttavia più
di carattere redazionale che sostanziale; eccone il testo355: can. 118 «In ma-
trimonio ineundo inter partem baptizatam non catholicam aut partem non
baptizatam, quod attinet ad impedimenta quae non sunt iuris divini, ius
proprium utriusque partis servetur, nisi iure divino contrarium sit».
Nello SCICO356 il can. apparve quale can. 775; tuttavia, osserviamo
so-lo una maggiore precisione dei termini della lingua latina, infatti: «In
matrimonio ineundo inter partem catholicam et partem baptizatam aca-
tholicam aut partem non baptizatam, quod attinet ad impedimenta, quae
non sunt iuris divini, ius proprium utriusque partis servetur, nisi iure di-
vino contrarium est».
In seguito, furono fatte delle osservazioni ed, essendo il problema e-
stremamente delicato e complesso, il Coetus pervenne, dopo attento studio,

352
Nuntia, 8 (1979) 15-16.
353
Ibid., 16.
354
Can. 118: «In matrimonio ineundo inter partem baptizatam in Ecclesia catholica vel in eandem
receptam et partem baptizatam quae ad plenam communionem cum Ecclesia catholica non perve-
nerit aut partem non baptizatam, quod attinet ad impedimenta quae non sunt iuris divini positivi
vel naturalis, lex propria utriusque partis servetur, a qua tamen auctoritatis catholica competens
dispensare potest»; can. 119: «Ubi Ecclesia debet de validitate matrimonii initi inter personas
quae legibus matrimonialibus mere ecclesiasticis non tenentur, normae sequentes servandae sunt:
1) quod attinet ad impedimenta quae non sunt iuris divini positivi vel naturalis attendendae sunt
leges quibus ipsae tenentur; 2) quod attinet ad formam celebrationis matrimonii Ecclesia agnoscit
quamlibet formam lege praecriptam vel agnitam cui partes tempore celebrationis matrimonii su-
biectae fuerint, dummodo consensus expressus sit forma publica et, ubi una saltem pars sit bapti-
zata non catholica orientalis, matrimonium ritu sacro ineatur». I cann. sono in Nuntia, 10 (1980),
41.
355
Nuntia, 15 (1982), 58-59.
356
Nuntia, 24-25 (1987), 142.

114
ad una riformulazione del can. come segue357 (inoltre, il can. 775 fu incor-
porato nel §2 del 774): «§1. Matrimonium catholicorum, etsi una tantum
pars est catholica, regitur iure non solum divino, sed etiam canonico salva
competentia civilis auctoritatis circa mere civiles matrimonii effectus. §2.
Matrimonium inter partem catholicam et partem baptizatam acatholicam
salvo iure divino regitur etiam: 1° iure proprio Ecclesiae vel Communitatis
ecclesialis, ad quam pars acatholica pertinet, si haec Communitas ius ma-
trimoniale proprium habet; 2° iure, cui pars acatholica subicitur, si Com-
munitas ecclesialis, ad quam pertinet, iure matrimoniali proprio caret».
Il canone è quindi giunto nel CCEO solo con alcune piccole modifiche358.
***
Il can. 780359 (che ha per il §1 il suo equivalente nel can. 1059 CIC),
contiene le seguenti e fondamentali enunciazioni di principio. La Chiesa ha
diritto di competenza nell’ambito del matrimonio sia allorquando sia stato
celebrato fra soli cattolici sia quando anche una sola parte sia cattolica (cfr.
can. 780 §1). In virtù di ciò ne consegue che la Chiesa rinvii alle “regole”
matrimoniali allorquando il matrimonio sia stato contratto tra parte cattolica
e parte cristiana acattolica (§2); in tali casi il matrimonio è regolamentato
anche dal diritto della Chiesa o della Comunità ecclesiale alla quale la parte
acattolica appartenga (§2, n. 1) oppure, se la parte acattolica manchi di
norme specifiche, al diritto cui la parte (acattolica) sia tenuta (§2, n. 2).
Come si nota, il canone è stato dal legislatore volutamente redatto in
modo generale al fine di poter far rientrare tutti i casi possibili.
Il principio esposto al §1 è assai denso: la Chiesa cattolica ricorda ai
fedeli che il matrimonio è di competenza ecclesiastica anche quando una
sola parte sia cattolica; del resto l’istituto matrimoniale è regolato sia
dallo ius divinum che dallo ius canonicum; perciò, essendo il matrimonio
di istituzione divina, la Chiesa cattolica non può sottrarsi a tale obbligo,
cioè non riconoscere sic et simpliciter il matrimonio, poiché ciò ledereb-
be lo ius divinum positivum.
Al §2 il legislatore, invece, dà norme su casi concreti: riconosce il di-
ritto matrimoniale delle altre Chiese o Comunità cristiane ed addirittura,
qualora questo manchi, il diritto – che qui intendiamo essere lo ius civile –
al quale si attengono le predette comunità cristiane. Questo canone, appare
dunque fondamentale; infatti, se da un lato ci ricorda che il matrimonio si
muove giuridicamente su tre coordinate: diritto divino (positivo e naturale),
357
Nuntia, 28 (1989), 104-106.
358
Ved. ÃUÃEK I, Modifiche, 86.
359
Fonti del can. 780 CCEO, sono: (per il §1) Crebrae Allatae, c. 5; (per il §2) UR, 16 e DH, 4.
115
diritto positivo ecclesiastico-canonico, diritto civile (qualora il matrimonio
sia stato celebrato in un paese ove viga il regime concordatario), dall’altro
apre la via ecumenica del matrimonio, non esitando a “riconoscere” la di-
sci-plina matrimoniale altrui, ed addirittura rinviando ad essa esplicitamen-
te. Anche questa è dunque una applicazione dei principi conciliari, fra cui
quello in virtù del quale si riconosce agli altri cristiani – specie agli orienta-
li – la facoltà di reggersi «secundum proprias normas». Ad ogni modo
queste unioni – come osservava per il CIC la Nota del SPUC – : «These
marriages, because of their particular character, embody a number of ele-
ments that it is worthwhile to assess and develop, both because of their in-
trinsic value and because of their contribution they can make to ecumenical
movement. This only true for those marriages in which the partners strive
to live a genuinely Christian life and seek to realise a reciprocal unity at
that level (Familiaris Consortio, 78)»360. Ciò comporta non pochi aspetti:
primo fra tutti il fatto che i giudici, in sede di istanza di nullità, dovranno
ben conoscere la disciplina matrimoniale comparata ed anche il diritto ma-
trimoniale civile comparato.

§10.2. Il matrimonio dei battezzati acattolici

Il Codice, prosegue nei principi generali della materia, con il can. 781,
che rappresenta uno stretto legame sia col diritto processuale che con
l’applicazione della legge. Infatti, il can. afferma:
Can. 781: «Si quando Ecclesia iudicare debet de validitate ma-
trimonii acatholicorum baptizatorum: 1° quod attinet ad ius, quo
partes tempore celebrationis matrimonii tenebantur, serveretur
can. 780, §2; quod attinet ad formam celebrationis matrimonii, Ec-
clesia agnoscit quamlibet formam iure praescriptam vel admissam,
cui partes tempore celebrationis matrimonii subiectae erant, dum-
modo consensus expressus sit forma publica et, si una saltem pars
est christifidelis alicuius Ecclesiae orientalis acatholicae, matrimo-
nium ritu sacro celebratum sit»
***
Anche questo canone ha avuto un complesso iter, anche se in misura
minore rispetto al can. 780. In uno schema del 1982, apparve come se-
gue361, can. 119: «Ubi Ecclesia iudicare debet de validitate matrimonii initi
360
ECAS, (Chap. V. B), 68-69.
361
Nuntia, 15 (1982), 58-59.

116
inter personas quae a legibus matrimonialibus mere ecclesiasticis non te-
nentur, normae sequentes servandae sunt: 1) quod attinet ad impedimenta
quae non sunt iuris divini attendendum est ius quo ipsae tenetur; 2) quod
attinet ad formam celebrationis matrimonii Ecclesia agnoscit quamlibet
formam iure praescriptam vel agnitam cui partes tempore celebrationis
matrimonii subiectae fuerint, dummodo consensus expressus sit forma pu-
blica et, ubi una saltem pars sit baptizata non catholica ritus orientalis,
matrionium ritu sacro initum fuerit». Nello SCICO362 il nostro can. divenne
il can. 776; tuttavia (al pari dell’evoluzione dell’attuale can. 780 CCEO)
osserviamo solo una maggiore precisione dei termini della lingua latina: «Si
Ecclesia iudicare debet de validitate matrimonii initi inter personas quae
legibus matrimonialibus mere ecclesiasticis non tenentur, normae sequen-
tes servandae sunt: 1) quod attinet ad impedimenta, quae non sunt iuris di-
vini, attendendum est ius, quo ipsae tenetur; 2) quod attinet ad formam ce-
lebrationis matrimonii Ecclesia agnoscit quamlibet formam iure praescrip-
tam vel admissam, cui partes tempore celebrationis matrimonii subiectae
erant, dummodo consensus expressus sit forma publica et, ubi una saltem
pars est christifidelis alicuius Ecclesiae orientalis acatholicae, matrionium
ritu sacro celebratum sit». In seguito, furono fatte delle osservazioni al can.
776 dello Schema (CICO) ed, essendo il problema estremamente delicato e
complesso, il Coetus pervenne ad una riformulazione dei cann., dopo atten-
to studio, come segue363: «Si quando Ecclesia iudicare debet de validitate
matrimonii acatholicorum baptizatorum: 1° quod attinet ad ius, quo partes
tenebantur tempore celebrationis matrimonii, servetur can. 774, §2; 2°
quod attinet ad formam celebrationis matrimonii Ecclesia agnoscit quamli-
bet formam iure praescriptam vel admissam, cui partes tempore celebra-
tionis matrimonii subiectae erant, dummodo consensus expressus sit forma
publica et, ubi una saltem pars est christifidelis alicuius Ecclesiae orienta-
lis acatholicae, matrionium ritu sacro celebratum sit». (in sostanza viene
variato solo il §1, mentre il §2 resta immutato rispetto allo schema).
Il canone è quindi giunto nel CCEO, con alcune piccole modifiche364.
***
Il can. 781, che – tra l’altro – al §1 si rifà al disposto del can. 780§2,
stabilisce che per ciò che concerne la forma, la Chiesa riconosce qualunque
forma prescritta o ammessa dal diritto a cui le parti erano soggette tempore

362
Nuntia, 24-25 (1987), 142.
363
Nuntia, 28 (1989), 104-106.
364
Ved. ÃUÃEK I, Modifiche, 87.
117
celebrationis, purché il consenso sia stato espresso pubblicamente da ambo
le parti ed il matrimonio sia stato celebrato con il “rito sacro”.
Quest’ultimo aspetto, cioè quello del «ritus sacer», rappresenta una dif-
ferenza rispetto alla legislazione del CIC365. Infatti il CCEO al can. 828 asserisce
che si ritengono validi quei matrimoni celebrati col rito sacro e che esso consta
nell’intervento del sacerdote che “assiste e benedice” i nubendi366.
Quindi da un punto di vista ecumenico i cann. 780-781 CCEO, pongo-
no una serie di interrogativi, sia di ordine pratico che di natura giuridica;
precisamente: qual è il diritto delle Chiese ortodosse (sia pre-calcedonesi
che post-calcedonesi che nestoriane)? e quello delle Comunità Ecclesiali e
delle Chiese sorte dalla Riforma (Riformati Luterani, Calvinisti, Anglicani,
ecc.)? Ovviamente è impossibile qui sunteggiare tale materia, ma è chiaro
che si dovrà vedere in ciascuna Chiesa o Comunità ecclesiale il ruolo sa-
cramentale del matrimonio (che è sacramento per tutte le chiese ortodosse,
ma nel panorama ecclesiale della Riforma ciò non sempre accade!). Inoltre,
il problema del ritus sacer: gli ortodossi, specie quelli di tradizione bizanti-
na e da essa derivati, posseggono il “rito sacro”, essendo la loro legislazio-
ne frutto di quella imperiale d’oriente (che trattò la questione, vedasi la No-
vella 89 di LEONE VI IL SAGGIO), ugualmente lo hanno le Chiese ortodosse
precalcedonesi e nestoriane, in cui il matrimonio è benedetto ed assistito
dal presbitero. Ma, le Chiese e le Comunità della Riforma, mancano di ritus
sacer perché – con le parole di LUTERO – considerano il matrimonio un
«weltlich Ding» (= “cosa secolare”). Come si può comprendere, il problema
è veramente complesso e si diversifica da caso a caso e da Chiesa a Chiesa,
da Comunità Ecclesiale a Comunità367.

365
In merito alle più significative differenze tra la disciplina matrimoniale latina ed orientale circa la
forma canonica ed il ritus sacer, ved. J. VADAKUMCHERRY, Il diritto matrimoniale nei codici o-
rientale e latino, in AA. VV., Il Diritto Canonico Orientale nell’Ordinamento Ecclesiale, «Studi
Giudridici» 34, Città del Vaticano 1995, 142-163, praesertim 157 s.; ma soprattutto fondamentali
sono le pagine scritte da Mgr. Joseph Prader, in cui con dovizia di particolari l’A. dà per ogni sin-
gola Chiesa orientale acattolca il concetto di ritus sacer ved. J. PRADER, La legislazione matrimo-
niale latina e orientale. Problemi interecclesiali - interconfessionali e interreligiosi, Roma 1993,
31-38.
366
CCEO, can. 828: Ǥ1. Ea tantum matrimonia valida sunt, quae celebrantur ritu sacro coram Hie-
rarcha loci vel parocho vel sacerdote, cui ab alterutro collata est facultas matrimonium benedi-
cendi, et duobus testibus secundum temen praescripta canonum, qui sequuntur, et salvis exceptio-
nibus, de quibus in cann. 832 et 834§2. §2. Sacer hic censetur ritus ipso interventu sacerdotis as-
sistentis et benedicantis». Per uno studio dettagliato sul ritus sacer nel matrimonio ved. D. SALA-
CHAS, Il “Ritus Sacer” nella forma canonica di celebrazione del sacramento del matrimonio se-
condo la tradizione delle Chiese Orientali, in Euntes Docete, 67/1 (1994), 15-40.
367
Per tali problematiche fondamentale resta J. PRADER, La legislazione matrimoniale latina e orien-
tale, op. cit., 51-94.

118
Entrambi i canoni rappresentano dunque una novità legislativa ed al
contempo una sostanziale innovazione, specie il can. 781 che: «colmando
una grande lacuna nel diritto matrimoniale processuale, comprende una
nuova norma positiva che stabilisce espressamente quali leggi devono esse-
re osservate qualora la Chiesa cattolica dovesse giudicare della validità di
un matrimonio di non cattolici battezzzati, ossia la capacità giuridica dei
non cattolici battezzati nel contrarre matrimonio e la forma della celebra-
zione del medesimo. Questa norma positiva era necessaria soprattutto per
ragioni giuridiche e pastorali, ma anche ecumeniche»368

§10.3. I matrimoni misti: necessità della licenza

Il CCEO, dedica un apposito articolo, (il IV) del Titolo 16°, ai matri-
moni misti, al pari del CIC (caput VI-cann. 1124-1129)369, assegnando alla
materia i cann. 813-816.
Per tali unioni matrimoniali, è necessario che sia data apposita licenza,
a norma del can. 813 CCEO, che infatti statuisce:
Can. 813: «Matrimonium inter duas personas baptizatas, quarum
altera est catholica, altera vero acatholica, sine praevia auctori-
tatis licentia prohibitum est»

***

Per quanto concerne il can. 813 CCEO, negli schemi iniziali, anch’essi
partenti dalla legislazione di CA, si osserva quanto segue370. Can. 148 (è
nuovo e parte da CA, can. 70): Ǥ1. matrimonium inter duas personas bap-
tizatas orientales quarum altera sit catholica altera veo non-catholica non-
nisi cum Hierarchae loci licentia, impletis conditionibus a iure particulari
determinatis, concessa, iniri licet. §2. Auctoritates legislative variarum Ec-
clesiarum sui iuris in eodem territorio potestatem habentes curare tenentur
ut, collatis consiliis, conditiones de quibus §1 in omnibus Ecclesiis eiusdem
territorii eaedem sint».

368
D. SALACHAS, Implicanze ecumeniche del “Codice dei canoni delle Chiese Orientali” alla luce
del Nuovo Direttorio Ecumenico, in «Studi Giuridici» 34, 86.
369
Per uno sguardo d’insieme ai matrimoni misti nel CIC ed in generale sulla disciplina latina dei
matrimoni, ved. L. ÖRSY, Marriage in canon Law. Texts and Comments Reflections and Ques-
tions, Collegeville 1990, praesertim 180-196.
370
Nuntia, 10 (1980), 47-49.
119
In un secondo tempo il Coetus riconobbe il fatto che non vi dovevano
essere sostanziali differenze fra il codice latino e quello orientale371 «(...)
che peraltro sarebbe in questa materia sommamente indesiderabile. Pertanto
il gruppo di studio riformula i cann. 148 e 149 come segue, adottando per il
secondo di essi, il can. 1079 dello schema del CIC latino»372 ed i cann. fu-
rono riformulati. Pertanto il nostro can. divenne: (can. 148) «Matrimonium
inter duas personas baptizatas quarum altera sit catholica altera vero non
catholica sine praevia auctoritatis competentis licentia prohibitum est». I-
noltre, fu introdotto un nuovo canone il 149bis, importato al can. 1080 dello
schema del codice latino: «Synodus Episcoporum vel Consilium Hierar-
charum tum modum statuat quo hae declarationes et promissiones, quae
semper requiruntur, faciendae sint, tum rationem definiat qua de ipsis et
in foro externo constet et pars non catholica certior reddatur». Nello
SCICO373, can. 808: «Matrimonium inter duas personas baptizatas qua-
rum altera sit catholica altera vero acatholica sine praevia auctoritatis
competentis licentia prohibitum est». Dallo SCICO al CCEO, abbiamo
solo piccole variazioni redazionali di carattere stilistico374, che però non
risultano essere di interesse.
***
Il can. 813 (cfr. can. 1124 CIC) sancisce l’obbligatorietà della licenza
per il matrimonio tra due battezzati dei quali uno sia cattolico e l’altro acat-
tolico, infatti senza questa è proibito. Le ragioni di tale norma sembrano af-
fondare le proprie radici nel celebre motu proprio di Paolo VI «Matrimonia
Mixta» (31 marzo 1970)375; infatti il Papa asseriva che «(...) la chiesa, con
senso di responsabilità, sconsiglia di contrarre matrimoni misti, essendo suo
vivo desiderio che i cattolici nella loro vita coniugale possano raggiungere
una perfetta coesione spirituale e una piena comunione di vita»376. In realtà,
nonostante l’apertura ecumenica della attuale legislazione latina ed orienta-
le (si pensi alla precedente normativa assai restrittiva; ved. can. 51 CA)377, è

371
Ved. Nuntia, 15 (1982), 73-74.
372
Ibid., 74.
373
Nuntia, 24-25 (1987), 47
374
Ved. ÃUÃEK I., Modifiche, 90.
375
In EV 3, 2415-2447.
376
Ibid., 2417.
377
Tra le fonti di questo can. ricordiamo anche i cann. dei sinodi orientali moderni: Sinodo Libanese
dei Maroniti (a. 1736), pars II, cap. XI, 17; Sinodo provinciale di Alba-Julia dei Rumeni (a.
1872), tit. V, cap. IX; Secondo Sinodo di Alba-Julia (a. 1882), tit. IV, sect. I, §31; Sinodo di
Sciarfe dei Siri (a. 1888), cap. V, art. XV, § 7,5; Sinodo Leopoliense dei Ruteni (a. 1891), tit. II,
cap. VII, 4; Sinodo Alessandrino dei Copti (a. 1989), sec. II, cap. III, art. VIII, §5,3,IV; Sinodo

120
interessante osservare che oggi, nonostante il CCEO, il NDE sembra voler
riprendere, in generale, la linea di Paolo VI, infatti al n. 144 afferma: «In ogni
matrimonio la principale preoccupazione della Chiesa è di conservare la soli-
dità e la stabilità del vincolo coniugale indissolubile e della vita familiare che
ne deriva. La perfetta unione delle persone e la condivisione completa della
vita, che costituiscono lo stato matrimoniale, sono più facilmente assicurati
quando i coniugi appartengono alla medesima comunità di fede (...). Per tutti
questi motivi, il matrimonio tra persone che appartengono alla stessa Comuni-
tà ecclesiale rimane l’obiettivo da raccomandare e incoraggiare».
Del resto, la preoccupazione della Chiesa, che per sua natura è volta al-
la salus animarum ed al bene degli homines viatores, è ben comprensibile;
le coppie che vivono in un matrimonio misto si trovano di fronte ad una se-
rie di problemi, che ovviamente non sussistono in coppie di coniugi della
stessa fede religiosa378. Ad ogni modo, dobbiamo anche sottolineare che la
redazione dei canoni sui matrimoni misti – in primis questo primo can. –
costituisce e rappresenta un notevole cambiamento rispetto alla legislazione
piano-benedettina per il CIC e per quella di Pio XII (CA) per la canonistica
cattolica orientale; infatti, in generale, dal vetitum del CIC*, quale era e-
spresso dal can. 1060379, ribadito poi anche dal vecchio catechismo, si è
passati alla permissione della cosa, imponendo una obbligazione di mero
tipo amministrativo (quale, appunto, la dispensa)380.

§10.4. Obblighi della parte cattolica nel matrimonio misto

Can. 814: «Licentiam iusta de causa concedere potest Hierarcha


loci; eam vero ne concedat nisi impletis condicionibus, quae se-
quuntur: 1° pars catholica declaret se paratam esse pericula a fi-
de deficiendi removere atque sinceram promissionem praestet se
omnia pro viribus facturam esse, ut omnes filii in Ecclesia catho-

degli Armeni (a. 1911), 577, n. 5. Chiramente tutti queste norme, alquanto latinizzate, appaiono
oggi assai poco ecumeniche.
378
Cfr. SALACHAS D., Implicanze ecumeniche..., op. cit., 88.
379
CIC*, can. 1060: «Severissime Ecclesia ubique prohibet ne matrimonium inaetur inter duas per-
sonas baptizatas, quarum altera sit catholica, altera vero sectae haereticae seu schismaticae a-
dscripta; quod si adsit perversionis periculum coniugis catholici et prolis, coniugum ipsa etiam
lege divina vetatur».
380
In merito, è utile ricordare che ECAS infatti asserisce: «The new Code [n.d.r. CIC] merely states
that such marriages are forbidden without permission of the competent authority. (...) It may also
be conceded that the special palce given in the new Code to “mixed marriages” is a recognition of
emphasis on religious freedom as well as the fact that in many places in the world such marriages
will form the greater number of those contracted by catholics.» (Chap. VI. 3, 68-69).
121
lica baptizentur et educentur; 2° de his promissionibus a parte
catholica faciendis altera pers tempestive certior fiat ita, ut con-
stet ipsam vere consciam esse promissionis et obligationis partis
catholicae; 3° ambae partes edoceantur de finibus et proprietati-
bus essentialibus matrimonii a neutro sponso excludendis»

***

Anche questo canone ha avuto un complesso iter; in un primo schema


apparve come il can. 149 (è nuovo e parte da CA, cann. 50-54): «§1. Ma-
trimonium inter duas personas baptizatas, quarum altera sit catholica alte-
ra vero non-catholica et non orientalis, sine praevia Hierarchae loci di-
spensatione, prohibitum est. §2. Ad impetrandam dispensationem, pars ca-
tholica declaret se paratam esse pericula a fide deficiendi removere; ea-
dem insuper gravi obligatione tenetur promissionem sinceram praestandi,
se omnia pro viribus facturam esse, ut universa proles in Ecclesia catholica
baptizetur et educetur; de his promissionibus a parte catholica faciendis,
pars non catholica tempestive certior fiat, adeo ut constet ipsam vere con-
sciam esse promissionis et obligationis partis catholicae. §3. Ambae partes
edoceantur de finibus et proprietatibus essentialibus matrimonii, a neutro
cantrahente excludendis. §4. Auctoritati legislativae uiuscuiusque Ecclesiae
sui iuris est statuere tum modum faciendae sint, tum rationem definire qua de
ipsis et in foro externo constet et pars non catholica certior reddatur»381.
Come abbiamo già detto in un secondo tempo il Coetus riconobbe il
fat-to che non vi dovevano essere sostanziali differenze fra il codice latino
e quello orientale382 ed il can. fu riformulato come segue: (can. 149) «Li-
centia concedere potest loci Hierarcha, si iusta ac rationabili causa habea-
tur; eam ne concedat nisi impletis conditionibus quae sequuntur: 1) pars
catholica declaret se paratam esse pericula a fide deficiendi removere a-
tque sinceram promissionem praestet se omnia pro viribus facturam esse ut
universa proles in Ecclesia catholica baptizetur et educentur; 2) de his
promissionibus a parte catholica faciendis altera pars tempestive certior
fiat, adeo ut constet ipsam vere consciam esse promissionis et obligationis
partis catholicae; 3) ambae partes edoceantur de finibus et proprietatibus
essentialibus matrimonii a neutro sponso excludendis». Nello SCICO383
apparve: (can. 809) «Licentia iusta de causa concedere potest Hierarchae
381
Nuntia, 10 (1980), 47-49.
382
Ved. Nuntia, 15 (1982), 73-74.
383
Nuntia, 24-25 (1987), 147.

122
loci; eam vero ne concedat nisi impletis condicionibus, quae sequnntur: 1°
pars catholica declaret se paratam esse pericula a fide deficiendi removere
atque sinceram promissionem praestet se omnia pro viribus facturam esse
ut omnes filii in Ecclesia catholica baptizetur et educentur; 2° de his pro-
missionibus a parte catholica faciendis altera pars tempestive certior fiat,
ut constet ipsam vere consciam esse promissionis et obligationis partis ca-
tholicae; 3° ambae partes edoceantur de finibus et proprietatibus essentia-
libus matrimonii a neutro sponso excludendis»
Dal CICO al CCEO non abbiamo variazioni.

***

Il can. 814 (praticamente identico al can. 1125 CIC), riguarda le condi-


zioni richieste dal diritto per ottenere la licenza; queste sono: (a) la parte
cattolica s’impegni a non abbandonare la fede (b) prometta sinceramente di
fare «quanto è in suo potere» affinché i figli siano battezzati ed educati nella
fede cattolica, (c) la parte cattolica deve informare di queste promesse l’altra
parte, al fine che quest’ultima sia ben conscia degli obblighi della parte catto-
lica, (d) entrambe le parti siano istruite sui fini e le proprietà essenziali del ma-
trimonio che non debbono essere escluse da nessuno dei due nubendi.
Come si può notare la legislazione attuale (nn. 1 & 2 del can.) sembra
imporre obblighi alla sola parte cattolica; ciò è ben comprensibile se si ri-
corda quanto disposto dal can. 1490 («legibus mere ecclesiasticis tenetur
baptizati in Ecclesia catholica...»); anche in questo caso vi è una notevole
apertura rispetto alla precedente legislazione384. È interessante osservare
che il can. sembra voler imporre alla parte cattolica solo ciò che è “possibi-
le” e, pertanto, circa l’aspetto dell’educazione della prole la parte cattolica
prometterà di “fare ciò che è in suo potere”; infatti «Nemo potest ad impos-
sibile obligari»385. Chiaramente la parte acattolica non dovrà però escludere
le proprietà essenziali ed i fini del matrimonio. Ciò è chiaro poiché anche la
parte acattolica, unendosi con un cattolico dovrà rispettare e conoscere il
significato del matrimonio per i cattolici; in sostanza, riteniamo, che il pa-

384
Cfr. can. 50 CA: «Severissime Ecclesia ubique prohibet ne matrimonium ineatur inter dua perso-
nas baptizatas, quarum altera sit catholica, altera vero sectae haereticae seu schismaticae ad-
scripta; quod si adsit perversionis periculum coniugis catholici vel prolis, coniugum ipsa etiam
lege divina vetatur» ed anche il can. 52 CA: «Coniux catholicus obligatione tenetur conversionem
coniugis acatholici prudenter curandi».
385
Regula iuris canonici, nr. 6, in VI.
123
ragrafo riguardi soprattutto il carattere indissolubile del matrimonio ed i cd.
tria bona del sacramento matrimoniale.
Dunque in questi matrimoni, il “peso” di maggiori difficoltà è riservato
alla parte cattolica. Da un punto di vista ecumenico i matrimoni misti costi-
tuiscono di certo la realizzazione pratica dell’ecumenismo; infatti qualora
riescano bene risulteranno l’esempio vivente del dialogo, senza il quale non
può esserci fratellanza ecumenica.

§10.5. Rilevanza del diritto particolare nei matrimoni misti

Can. 815: «Iure particulari uniuscuiusque Ecclesiae sui iuris sta-


tuantur modus, quo hae declarationes et promissiones, quae semper
requiruntur, faciendae sint, et modus determinetur, quo de eisdem et
in foro externo constet et pars acatholica certior fiat».
Negli schemi iniziali386 il canone si presentava come il can. 150 (è nuo-
vo e parte da CA, can. 60): «Sine praevia competentis Autoritatis dispensa-
tione, matrimonium cum non baptizatis valide contrahi nequit. §2. Si pars
tempore initi matrimonii tamquam baptizata communiter habbatur aut eius
baptismus erat dubiu, praesumenda est ad normam can. 117 validitas ma-
trimonii donec certo probetur alteram partem baptizatam esse, alteram ve-
ro non baptizatam. §3. Conditiones ad dispensationem quod attinet appli-
catur can. 149 §§ 2, 3 et 4». Nello SCICO, il nostro can. divenne387 il can.
810: «Iure particualri uniuscuiusque Ecclesiae sui iuris statuatur modus,
quo hae declarationes et promissiones, quae semper requiruntur, faciendae
sint, et modus definiatur, quo de ipsis et in foro externo constet et pars aca-
tholica certior fiat»
Il can. 815 (uguale al can. 1126 CIC), dà spazio allo ius particulare di
ciascuna Chiesa sui iuris per ciò che concerne la modalità delle dichiara-
zioni e della promessa da parte cattolica, di cui si è detto al can. 814.

§10.6. La cura pastorale nei matrimoni misti

Can. 816: «Hierarchae loci aliique pastores animarum curent, ne


coniugi catholico et filiis ex matrimonio mixto natis auxilium spi-
rituale desit ad eorum obligationes conscientiae implendas, atque
386
Nuntia, 10 (1980), 47-49.
387
Nuntia, 24-25 (1987), 147

124
coniuges adiuvent ad consortii vitae coniugalis et familiaris uni-
tatem fovendam».

***

Negli schemi iniziali, il nostro can. apparve come il can. 151 (nuo-
vo): «Locorum Hierarchae aliique animarum pastores curent, ne coniugi
catholico et filiis e matrimonio cum non-catholico natis, auxilium spiri-
tuale desit ad eorum officia conscientiae ad implenda, atque coniuges
adiuvent ad vitae coniugalis et familiaris fovendam unitatem. Qua de re,
optandum est, ut iidem pastores relationes instituant cum ministris alia-
rum communitatum religiosarum, easque sincera probitate et sapienti
fiducia conforment»388. Nello SCICO389 il can., riformulato e riordinato,
apparve – al pari dei precedenti – (sotto l’art. IV-De Matrimoniis mixtis,
come cann. 811) come il can. 811: «Hierarchae loci aliique animarum
pastores curent, ne coniugi catholico et filiis ex matrimonio mixto natis
auxilium spirituale desit ad eorum obligationes conscientiae implendas,
atque coniuges adiuvent ad vitae coniugalis et familiaris unitatem fo-
vendam» (riprende il can. 151 riportato in Nuntia, n° 10, ved. supra).

***

Il can. 816 (cfr. can. 1128 CIC) è particolarmente interessante, infatti


risulta essere una norma di carattere eminentemente pastorale dal momento
che fornisce direttive ai Gerarchi e ai pastori d’anime affinché aiutino e
supportino il coniuge cattolico al fine ch’egli adempia alle promesse di cui
al can. 814 n. 1. Tale norma è ripresa anche dal NDE, n. 146, che descrive
più in dettaglio il compito dei pastori d’anime; evidentemente il compito
dei gerarchi – descritto solo generaliter dal CCEO – è stato giustamente
oggetto di approfondimento da parte del nuovo Direttorio390.

388
Nuntia, 10 (1980), 47-49.
389
Nuntia, 24-25 (1987), 147
390
NDE 146: «Appartiene alla permanente responsabilità di tutti, ma in primo luogo dei presbiteri,
dei diaconi e di coloro che li affiancano nel ministero pastorale, offrire un insegnamento e un so-
stegno particolari al coniuge cattolico nella sua vita di fede e alle coppie dei matrimoni misti per
la loro preparazione alle nozze, durante la celebrazione sacramentale e per la vita comune che ne
consegue. Questa cura pastorale deve tener conto della concreta condizione spirituale di ogni co-
niuge, della sua educazione alla fede e della sua pratica della fede (...)».
125
§10.7. Ulteriori cenni sui matrimoni misti

Restano, infine, da trattare, seppur brevemente, i seguenti argomenti,


che sono collegati ai matrimoni misti: (a) la forma della celebrazione nel
ma-trimonio misto, (b) il caso della dispensa dalla forma canonica, (c)
proibizione della duplice celebrazione del medesimo matrimonio391.
a) Per quanto riguarda la forma della celebrazione del matrimonio mi-
sto, si deve osservare il can. 834 CCEO392 (a cui corrisponde il 1127§1
CIC). Il can. 834 CCEO, stabilisce, al pari del CIC, la norma generale de
forma canonica; tuttavia, nel caso in cui si debba celebrare un matrimonio
tra parte cattolica e parte acattolica orientale, il nostro canone ammette una
eccezione: l’osservanza della forma è necessaria ad liceitatem, mentre ad
validitatem si richiede la benedizione del sacerdote – quindi il ritus sacer –
seguendo quanto è da osservarsi per il diritto. Senza dubbio questa norma
rappresenta una notevole apertura ecumenica, specie se si rammenta la rigi-
dità della legislazione precedente393; inoltre nel can. 834 CCEO possiamo
notare un chiaro influsso dei dettami conciliari (cfr. OE n. 18)394. Il ca-
none segna dunque senza dubbio un progresso nel dialogo ecumenico
verso gli ortodossi395, dal momento che «(...) non si applica ai matrimoni
tra cattolici e i battezzati delle altre Chiese o Comunità ecclesiali separa-
te dalla Chiesa di Roma»396.

391
Per i suddetti argomenti si veda: J. ABBAS, I matrimoni misti, op. cit., 195-202; D. SALACHAS, Il
sacramento del matrimonio nel Nuovo Diritto canonico delle Chiese Orientali¸ Roma-Bologna
1994, 135-148; J. PRADER, Il matrimonio in Oriente e Occidente, op. cit., 131-143 (riguardanet
tutti gli aspetti dei matrimoni misti); IDEM, La legislazione matrimoniale..., op. cit., (“Parte II-
Problemi interconfessionali e Interreligiosi”), 51-81 (trattante dettagliatamente dei singoli casi).
392
CCEO, can. 834: Ǥ1. Forma celebrationis matrimonii iure praescripta servanda est, si saltem
alterutra pars matyrimonium celebrantium in Ecclesia catholica baptizata vel in eandem recepta
est. §2. Si vero pars catholica alicui Ecclesiae orientali sui iuris ascripta matrimonium celebrat
cum parte, quae ad Ecclesiam orientalem acatholicam pertinet, forma celebrationis matrimonii
iure praescripta servanda est tantum ad liceitzatem; ad validitatem autem requiritur benedictio
sacerdotis servatis aliis de iure servandis».
393
CA, cann. 85 e 90, che riprendevano rispettivamente a loro volta i cann. 1094 e 1099 del CIC*.
394
OE 18: in EV 1, 479: «(...) il santo concilio stabilisce che per questi matrimoni [n.d.r. tra cattolici
orientali e (cristiani) orientali acattolici] la forma canonica della celebrazione è obbligatoria sol-
tanto per la liceità, mentre per la validità basta la presenza del sacro ministro, salvi restando gli al-
tri punti da osservarsi secondo il diritto».
395
Per un esame sulla posizione ortodossa in merito alla disciplina matrimoniale, ved. U. NAVARRE-
TE, La giurisdizione delle Chiese Orientali non cattoliche sul matrimonio, in «Studi Giuridici» 32,
Città del Vaticano 1994, 105-125.
396
J. ABBAS, I matrimoni misti, op. cit., 198 ed anche ved. D. SALACHAS, Il sacramento del matrimo-
nio, op. cit., 212-214.

126
b) Il caso della dispensa dalla forma canonica è contemplato dal can.
835 CCEO397 (cui corrisponde il can. 1127 CIC). Tale dispensa, concessa
espressamente dal Patriarca o dalla S. Sede, è data solo per motivi gravi
e riguarda espressamente: due cattolici orientali (dispensa data per gravi
motivi di varia natura), matrimonio di un cattolico orientale con un pro-
testante, matrimonio tra parte orientale cattolica e parte non battezzata,
matrimonio tra orientale cattolico ed orientale acattolico – ortodosso –
qualora «gravissime difficoltà si oppongano alla benedizione nuziale di
un sacerdote, cattolico o ortodosso»398.
La doppia celebrazione del matrimonio è vietata a norma del can. 839
CCEO399 (identico canone è nel CIC, can. 1127). In sostanza il can. si op-
pone alla doppia celebrazione del matrimonio, facendone esplicito divieto;
infatti il carattere del consenso – una volta espresso – è di per sé valevole
per sempre e non occorre rinnovarlo, anzi fare ciò equivarrebbe ad un
“doppio matrimonio”. Tuttavia, questa norma, in molti paesi ove il matri-
monio cattolico non sia riconosciuto dallo stato, viene chiaramente disatte-
sa, in quanto i nubendi dovranno celebrare anche un matrimonio civile, af-
finché la loro unione abbia effetti nello stato civile. Ma, riteniamo che il
canone non desideri riguardare il diritto civile, piuttosto come commenta
SALACHAS: «La norma del can. 839 si oppone ad una forma di celebrazione
che potrebbe nuocere a un sano ecumenismo piuttosto che incoraggiarlo o
che potrebbe anche condurre a una confusione dottrinale»400.

§11. Alcune riflessioni in merito alla communicatio in sacris


e sui matrimoni misti

Il primo punto che ci preme rammentare, e commentare, è il passaggio


– radicale e di opposta tendenza – dal CIC* agli attuali codici di diritto ca-
nonico vigenti. Infatti, il CIC* al can. 731§2 stabiliva un fermo vetitum alla

397
CCEO, can. 835: «Dispensatio a forma celebrationis matrimonii iure praescripta reservetur Sedi
Apostolicae vel Patriarchae, qui eam ne concedat nisi gravissima de causa».
398
D. SALACHAS, Il sacramento del matrimonio, op. cit., 222.
399
CCEO, can. 839: «Vetita est ante vel post canonicam celebrationis alia eiusdem matrimonii
celebratio religiosa ad matrimonialem consensum praestandum vel renovandum; item vetita
est celebratio religiosa, in qua et sacerdos catholicus et minister acatholicus partium con-
sensum exquirunt».
400
D. SALACHAS, Il sacramento del matrimonio, op. cit., 229.
127
communicatio in sacris401; tutto questo – oggi – fa parte della storia, dal
momento in cui il Concilio Vaticano II ha aperto la via alla comunicazione
nelle cose sacre, che è uno dei tanti frutti della riflessione conciliare. Tutta-
via, la Chiesa si è aperta alle tematiche ecumeniche in materia matrimoniale
perché trovatasi nella necessità di farlo o perché animata dallo spirito di at-
tuazione del Concilio? Forse, tutte e due, se si tiene presente quanto detto
chiaramente nella Nota del SPUC402; la Chiesa ha riconosciuto il fenomeno
della prassi di tali unioni ed ha comunque scelto la strada della oikonomia,
ispirandosi così allo spirito del Vaticano II. Del resto, dopo il concilio, i
Codici avevano tutti gli “strumenti” per poter introdurre nelle normative gli
aggiornamenti necessari richiesti dalla realtà (“Ecclesia semper reforman-
da”!). Ad ogni modo tutto ciò va solo che ad onore della Chiesa cattolica,
che ha dimostrato di rompere con il passato intransigente – cfr. can. 1060
CIC*403– per poter attuare, anche in materia matrimoniale, lo spirito e la
teologia della carità.

***

Tra i molteplici punti che hanno maggiormente colpito il nostro interes-


se, vi è quello della mancanza di communicatio sacris in materia di culto dei
santi. Infatti, il Codice non tratta affatto della questione. Probabilmente il
can. 855 trattante del culto dei santi, ha tenuto conto solo delle differenze
giuridiche esistenti tra la Chiesa Cattolica e le Chiese Orientali acattoliche;
in effetti, il patrimonio costituito dal culto dei santi è rilevante, specie se si
pensa che per mille anni la Chiesa Romana è stata in perfetta comunione
con quella Costantinopolitana (dunque parte del sinassario è in comune)404.
Oltre a ciò si aggiunga anche i fatto che anche in tempi moderni numerosi
sono stati i martiri per la fede cristiana, a molti infatti è stata inflitta una

401
CIC* can. 731§2: «Vetitum est Sacramenta Ecclesiae ministrare haereticis aut schismaticis, etiam
bona fide errantibus eaque petentibus, nisi prius, erroribus reiectis, Ecclesiae reconciliati fue-
rint».
402
«It may also be conceded that the special palce given in the new Code to “mixed marriages” is a
recognition of emphasis on religious freedom as well as the fact that in many places in the world
such marriages will form the greater number of those contracted by catholics» (ECAS, 69).
403
CIC* can. 1060: «Severissime Ecclesia ubique prohibet ne matrimonium ineatur inter duas perso-
nas baptizatas, quarum altera sit catholica, quarum altera vero sectae haereticae seu schismati-
cae adscripta; quod si adsit perversionis periculum coniugis catholici et prolis, coniugum ipsa
etiam lege divina vetatur». Il cambiamento dal CIC del 1917 agli attuali codici è dovuto proprio
ad una nuova prospettiva ecclesiologica instauratasi dal Concilio Vaticano II.
404
Cfr. J. SCHWEIGL, De Menologio Graeco-Slavico post annum 1054, in Periodica 3 (1941) 221-
228.

128
morte o atroci sofferenze date in odium fidei. Questi martiri dell’era moder-
na, autentici confessori di Cristo, sono presenti sia nella Chiesa Cattolica
che nelle altre confessioni cristiane; si pensi ad esempio agli stermini nei
campi nazisti od ai più recenti, ma non per questo dimenticati, gulag degli
ex paesi comunisti. Questi esempi sono senza ombra di dubbio una comune
testimonianza di martirio e forse non sarebbe il caso procedere ad un rico-
noscimento “comunitario” di tali personaggi? Pertanto, noi qui ci permet-
tiamo di lanciare una proposta, indirizzata al Segretariato per l’Unità dei
Cristiani: sarebbe auspicabile redigere un calendario “ecumenico” dei santi.
Ciò faciliterebbe il dialogo ecumenico anche al livello più popolare, essendo
il culto dei santi un po’ ovunque una realtà della pietà popolare; in sostanza
si potrebbe favorire – specie tra gli ortodossi – una maggiore conoscenza re-
ciproca, inoltre le tematiche ecumeniche potrebbero fare più facilmente brec-
cia nel cuore dei fedeli.

***

Riguardo ai matrimoni misti, la Chiesa usa (tanto nella disciplina latina,


quanto in quella orientale), la massima apertura; anzi potremmo dire che
l’antico principio della oikonomia – tanto cara agli ortodossi405 – sia appli-
cato, infatti alla parte acattolica non è imposto alcun obbligo406, ed anche
alla parte cattolica gli oneri sono sensibilmente pochi («prometta quanto è in
suo potere...» cfr. can. 814 n.1). Nasce, pertanto, spontanea una domanda: la
Chiesa cattolica, ha scelto la via della marcata oikonomia perché costretta
ad adattarsi alla realtà oppure è stata ispirata da motivazioni meramente e-
cumeniche, cioè ha volutamente desiderato andare incontro a tali unioni? È
difficile rispondere, data anche la delicatezza del tema; certamente la Chiesa
ha cercato spesso di adattarsi alle esigenze della vita, rinnovandosi anche.
Senza dubbio i matrimonia mixta oggi, sono un fenomeno in aumento e ri-
teniamo che nel futuro lo saranno sempre di più (dal momento che il
mondo sembra somigliare, anche grazie alla tecnologia moderna, ad una
sorta di villaggio globale); il CCEO, dunque (al pari del CIC), ha preso
atto di questa realtà ed ha provveduto a dare norme, che tra l’altro ap-
paiono chiare e di facile interpretazione.

405
Al riguardo si vedano i segg. studi: SALACHAS D., Il principio di “Oikonimia” e di “Akribeia” nel-
la Chiesa Ortodossa, in Oriente Cristiano 14/1 (1974) 5-57; IDEM, “Oikonimia” e “Akribeia”
nella ortodossia greca odierna, in Nicolaus, IV-2 (1986) 301-340.
406
Ciò, del resto, è in perfetta sintonia con l’enunciato del can. 1490 CCEO.
129
Il fatto che esista una simile normativa, facilita non poco anche i dialo-
ghi ecumenici i cui frutti sono gli accordi su specifiche tematiche (come ad
es. nel nostro caso il matrimonio). In un recente accordo ufficiale tra Chiesa
Cattolica e Chiesa Ortodossa Siro-Malankarese (del 1993)407, viene ricono-
sciuto il matrimonio che sia celebrato o dal sacerdote cattolico o da quello
siro-malankarese. Quest’esempio, rappresenta la volontà della Chiesa, non
solo al dialogo, ma anche nell’applicare le direttive presenti nella legisla-
zione cattolica. Del resto, anche il NDE dedica ampio spazio ai matrimoni
misti, ampliando le direttive in materia di pastorale (cfr. NDE, nn.144-160).

407
Agreement between the Catholic Church and the Malankara Syrian Orthodox Church on inter-
church marriages, in Information Service 84 3/4 (1993) 159-161.

130
ULTERIORI ASPETTI ECUMENICI DEL CCEO

Oltre alle tematiche ecumeniche già analizzate, il CCEO contiene ulte-


riori norme d’interesse per la nostra indagine.
Infatti, il Codice racchiude significative implicanze ecumeniche per ciò
che concerne l’educazione ecumenica dei fedeli, la collaborazione tra catto-
lici e cristiani acattolici sul piano delle persone e delle istituzioni, infine, il
rispetto dovuto nei confronti della libertà religiosa degli altri cristiani. Tutti
questi aspetti “sparsi” nel codice, rappresentano ulteriori tematiche ecume-
niche presenti nel vigente Codice dei canoni per le Chiese orientali cattoli-
che. Pertanto, si è preferito racchiudere in un apposito capitolo questi ulte-
riori aspetti ecumenici presenti nella legislazione canonica orientale vigente.

§1. L’educazione ecumenica dei chierici e dei fedeli

Tale tematica è affrontata nel tit. X-De Clericis – cann. 350§4 e 352
§§2 e3408 – ed nel tit. XV-De magisterio Ecclesiastico (cann. 625, 634§2 e
655)409; infatti, sono queste importanti norme riguardanti l’“educazione ecu-
menica” dei futuri chierici e dei christifideles.
Principiamo, quindi, con l’educazione ecumenica dei chierici.

Tale aspetto è racchiuso dal can. 350§4, collocato nell’ambito della


«formazione ai ministeri» (tit. X, art. II); esso è estremamente rilevante per-
ché inserisce nell’ambito delle discipline teologiche l’orizzonte ecumenico.
Infatti il can. 350§4 statuisce:

«Donec unitas, quam Christus Ecclesiae suae vult, non plene in

408
Nei testi iniziali [Nuntia 3 (1976) 79-84] non sembra esserci accenno alle implicanze ecumeniche,
che però furono messe in luce subito dopo, allorquando fu elaborato un primo schema dei chierici
ed in particolare sulla formazione degli alunni nei seminari. In questa seconda fase, fu proprio P.
GEORGE NEDUNGATT SJ, ad evidenziare, giustamente, la necessità ecumenica [Nuntia 8 (1979) 68-
69]. Successivamente, nello SCICO [Nuntia 24-25 (1987) 68] i vigenti cann. 350§4 e 352 §§ 2 et
3 apparirono quali cann. 348§4 e 350 §§2 e 3; tuttavia dallo SCICO al CCEO non vi sono stati
cambiamenti significativi. Perciò si è ritenuto opportuno non riportare tutta l’evoluzione completa
dei canoni come, invece, si è fatto nei precedenti paragrafi, al fine di non appesantire troppo il te-
sto.
409
Mancano, purtroppo, ancora monografie sul magistero ecclesiastico nel CCEO; pertanto si segnala
qui l’ottimo studio comparativistico di G. NEDUNGATT, Magistero Ecclesiastico nei due Codici,
«Studi Giuridici» 34, 211-224.

131
actum deducantur, oecumenismus sit una ex necessaris rationibus
cuiuscumque disciplinae theologicae»410.

Il can. 350§4 CCEO, ha un suo corrispettivo nel 256§2 CIC411; tutta-


via, il CIC sembra essere più indirizzato all’educazione ecumenica dei
futuri pastori più che conferire, come fa il CCEO, carattere ecumenico al-
le discipline teologiche.
In sostanza il codice orientale dà una norma più generale, mentre il co-
dice latino sembra preferire scendere più nel dettaglio pratico e pastorale.
Ad ogni modo, dobbiamo ricordare che anche la normativa del CIC, sul ma-
gistero ecclesiastico, è completamente nuova rispetto alla legislazione del
CIC*; dunque i cann. sul magistero ecclesiastico si presentano in entram-
bi i Codici come l’espressione di un nuovo approccio, sia nella forma che
nella struttura, riguardo a tale tematica; pertanto, non ci stupisce che an-
che in questa materia abbia fatto breccia, seppur con modalità differenti
nei Codici, lo spirito ecumenico412.

***

Il secondo canone di interesse per noi è il can. 352, praesertim §§2-3,


trattante in dettaglio della preparazione dei futuri pastori della Chiesa catto-
lica, preparazione che deve essere formata anche sull’apostolato ecumenico
affinché la loro formazione possa essere quanto più possibile “universale”;
inoltre i medesimi debbono prepararsi al dialogo, che è lo strumento princi-
pale dell’azione ecumenica. Pertanto, ecco il testo del can. 352 (§§2,3):
Ǥ2. Instituantur alumni imprimis in arte catechetica et homileti-
ca, celebratione liturgica, administratione paroeciae, dialogo e-
vangelizationis cum non credentibus vel non christianis vel chri-
stifidelibus minus fervidis, apostolatu sociali et instrumentorum
communicationis socialis non posthabitis disciplinis auxiliaribus
sicut psycologia et sociologia pastoralis. §3. Etsi se praeparant
alumni ad ministeria in propria Ecclesia sui iuris obeunda, ad
spiritum vere universalem formentur, quo ubique terrarum in ser-
vitium animarum occurrere animo parati sint; edoceantur ideo de
410
Fonti del can. è DE 71: EV 2, 1269. Infatti, il DE al cap. III (pars altera, a. 1970), era intitolato
«La dimensione ecumenica nelle discipline teologiche in genere».
411
CIC can. 256§2: «Edoceantur alumni de universae Ecclesiae necessitatibus, ita ut sollicitudinem
habeant de vocationibus promovendis, de quaestionibus missionalibus, oecuemenicis necnon de
aliis, socialibus quoque, urgentioribus».
412
Cfr. ECAS, (Chap. IV), 63.

132
universae Ecclesiae necessitatibus et praesertim de aapostolatu
oecumenismi et evangelizationis».

Il can. 352§3 del CCEO sembra “completare” quanto detto al can.


350§4 ed appare più dettagliato rispetto alla normativa del CIC. Le fonti dei
suddetti canoni sono senza dubbio, ancora una volta, da rintracciarsi nel
Concilio Vaticano II; in particolare: Optatam totius (OT, praesertim 19-21)
e la Ratio fundamentalis institutionis sacerdotis (del 6 gennaio 1971) della
S. Congregazione per l’Educazione Cattolica413 (RF 94-99). In sostanza i
cann. 350§4 e 352 §§2-3 sembrano ricordare le parole già espresse dal DE
in merito all’insegnamento dell’ecumenismo414; l’attuale normativa, inoltre,
sembra essere approfondita e “commentata” dal nuovo Direttorio ecumeni-
co, nel-l’ambito de «La formazione all’ecumenismo nella scuola cattolica»
(NDE, parte III), che non esita, infatti, ad affermare: «La sollecitudine per
l’unità è al cuore della concezione della Chiesa. Scopo della formazione e-
cumenica è che tutti i cristiani siano animanti dallo spirito ecumenico, qua-
lunque sia la loro particolare missione e la loro specifica funzione nel mon-
do e nella società»415. Il can. 352§2-3 del CCEO, ha nel can. 256§1 e 257§2
del CIC i propri analoghi416, tuttavia il codice latino non usa il vocabolo
“ecumenismo”; infatti, come osservava la Nota del SPUC: «Worthy of men-
tion in this context is can. 256 about the ecumenical training of future
priests: they are to be “carefully instructed in whatever especially pertains
to the sacred minitry... particularly... in dealing with people, including non-
Catholics” (par. 1). Moreover “the students are to be instructed about the
needs of universal Church, so that they may have a solicitude for... ecu-
menical questions” (par. 2)»417.

413
In AAS 62 (1970) 321-384.
414
Cfr. DE 64-79: EV 2, 1257-1277.
415
NDE 58.
416
Il CIC al can. 256§1 statuisce: «Diligenter instruantur alumni in iis quae peculiari ratione ad sa-
crum ministerium spectant, praesertim in arte catechetica et homiletica exercenda, in cultu divino
peculiarique modo in sacramentis celebrandis, in commercio cum hominibus, etiam non catholi-
cis vel non credentibus, habendo, in paroecia administranda atque in ceteris muneribus adim-
plendis» ed al can. 257§1 afferma: «Alumnorum institutioni ita provideatur, ut non tantum Eccle-
siae particularis in cuius servitio incardinentur, sed universae quoque Ecclesiae sollicitudinem
habeant, atque paratos se exhibeant Ecclesiis particualribus, quarum gravis urgeat necessitas,
sese devovere».
417
ECAS, 64.

133
§2. Il carattere ecumenico della catechesi

Invece, il canone 625 CCEO, costituisce una novità legislativa, dal


momento che manca un suo equivalente o analogo nel CIC. Eccone il te-
sto:
«Rationem oecumenicam habet oportet catechesis rectam imagi-
nem aliarum Ecclesiarum atque Communitatum ecclesialium pra-
ebendo; curandum tamen omnino est, ut in tuto ponatur recta
ratio catecheseos catholicae»418.

Il canone sancisce il carattere ecumenico della catechesi, che deve esse-


re presentata fornendo una immagine obiettiva e serena delle altre Chiese o
Co-munità ecclesiali, pur mantenendo salda la catechesi cattolica.
Fonte diretta di questo canone è – come riferito dallo stesso NEDUN-
419
GATT – l’Esort. Apostolica “Catechesi Tradendae” (del 16 ottobre
1979)420, in particolare i nn. 32-33.
Questa norma trova ampia eco nel nuovo Catechismo della Chiesa Cat-
tolica, in cui in più parti si dà spazio alle tematiche ecumeniche421, quasi a
sviluppare il can. 625 CCEO, che sembra pertanto aver influito sul nuovo
Catechismo. In realtà non si può asserire che il can. 625 abbia esercitato un
influsso diretto, cioè che sia stato ripreso in qualche parte dal nuovo Cate-
chismo, tuttavia tra le fonti indicate dal Catechismo vi è anche il Codice O-
rientale; pertanto, il Nuovo Catechismo ha recepito lo “spirito ecumenico”
del CCEO. Non vi è dubbio invece, circa l’influsso di questo canone sul
NDE, che lo cita, tra le fonti, allorquando tratta dei mezzi di formazione nel-
l’ambito dell’ecumenismo nella Chiesa cattolica (NDE, n. 61 «La catechesi»).

§3. L’Ecumenismo nelle scuole cattoliche

Ma, l’attenzione del CCEO verso “gli altri” (i.e. gli acattolici), prose-
gue nell’ambito del magistero ecclesiastico, nel momento in cui tratta delle
scuole cattoliche (tit. XV, cap. III, art. I).

418
L’iter del can. 625 CCEO è rintracciabile in Nuntia; esso si presenta estremamente omogeneo,
infatti sin dalla sua prima formulazione fino all’attuale non ha presentato alcuna variazione né os-
servazioni di rilievo da parte di consultori. Ved. Nuntia 11 (1980) 61 (era il can. 9); poi in Nuntia 12
(1981) 23 (era il can. 40); restò immutato nello SCICO (Nuntia, 24-25, 1987, 117; è il can. 622).
419
G. NEDUNGATT, The Schema ‘De magisterio Ecclesiastico’ – Part II, in Nuntia 11 (1980) 55 e 59.
420
In AAS 71 (1979) 1277-1340.
421
Ved. Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano 1992, nn. 816 ss., 821, 855, 1271,
1636, in cui si tratta esplicitamente di “questioni ecumeniche”.

134
In merito, abbiamo il can. 634, statuente al §1 l’obbligo che ha la scuola
cattolica di instaurare una comunità scolastica animata ed impregnata dallo
spirito evangelico, non trascurando inoltre il riguardo dovuto gli acattolici,
infatti il can. 634 al §2 statuisce:
«Haec adiunctis propriis accomodare moderante auctoritate
competenti ecclesiastica est ipsius scholae catholicae, si maiore
ex parte ab alumnis acatholicis frequentatur»422.
Anche questo canone non sembra avere corrispettivo nel codice latino;
fonte diretta di questa norma è il Decr. conciliare Gravissimum Educationis423.

§4. Ecumenismo e strumenti di comunicazione sociale

Il CCEO non tralascia di ricordare il proprio impegno ecumenico nem-


meno nella sezione concernente gli strumenti di comunicazione sociale (tit.
XV, cap. IV), in cui il §1 del can. 655 appare, per noi, estremamente signifi-
cativo. Ecco il testo:
Ǥ1. Christifidelibus aditus ad Sacram Scripturam late pateat o-
portet; proinde aptae et rectae versiones sufficientibus explica-
tionibus instructae, ubi desunt, conficiantur cura Episcoporum
eparchialium, immo, quatenus id convenienter et utiliter fieri po-
test, communi cum aliis christianis opera»424.
È assai ragguardevole il fatto che anche in materia di sacra scrittura il
codice auspichi una collaborazione fattiva con gli altri cristiani (i.e. acattoli-
ci); fonte di quest’ultimo canone è senza dubbio la costituzione dogmatica
Dei Verbum n. 22 (in EV, 1, 905)425. Anche il CIC si è mostrato attento a
422
Il canone apparve per la prima volta – come can. 9 – in Nuntia 11 (1980) 65, ed il testo restò im-
mutato anche successivamente (cfr. Nuntia, 12, 1981, 24-25, divenne il can. 51). Tuttavia in que-
ste prime redazioni, al §2 si era inserita la frase «specie nel territorio di missioni», che fu poi o-
messa (ved. Nuntia, 17, 1983, 39, can. 51). Pertanto, il canone fu riformulato, sulla base di questo
emendamento redazionale ed entrò nel CCEO immutato rispetto alla versione del CICO (ved.
Nuntia, 24-25,1987, 119, era il can. 631).
423
Ved GE 8-9: EV 1, 837-838, 840-842.
424
Il canone apparve come can. 5§1 in Nuntia 10 (1980) 78 e successivamente come can. 75§1 in
Nuntia 12 (1981) 30. In seguito ebbe alcune variazioni redazionali, cfr. Nuntia 17 (1983) 51, di-
venne il can. 652§1 nello SCICO (ved. Nuntia 24-25, 1987, 122). Dallo SCICO al CCEO, il no-
stro canone è rimasto immutato.
425
Dei Verbum 22 asseriva: «È necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla sacra scrittura. (...)
Ma poiché la parola di Dio deve essere a disposizione di tutti in ogni tempo, la chiesa cura con
materna sollecitudine che si facciano traduzioni appropriate e corrette nelle varie lingue, a prefe-
renza dei testi originali dei sacri libri. Queste, se secondo l’opportunità e col consenso
dell’autorità della chiesa saranno fatte in collaborazione con i fratelli separati, potranno essere u-
sate da tutti i cristiani». Mentre per le altre fonti concernenti il cap. IV si ha modo di apprenderle
in Nuntia 10 (1980) 76 e Nuntia 12 (1981), 10-11. Anche in questi canoni non poco fu l’apporto

135
questa problematica, tramite il can. 825§1426, che mostra una normativa so-
stanzialmente identica al CCEO.
Quasi a commentare il can. 655 CCEO, il NDE, non esita ad incorag-
giare un lavoro comune riguardo alla Bibbia, sostenendo che: «La venera-
zione delle Scritture è un fondamentale legame di unità tra i cristiani, lega-
me che ri-mane anche quando le Chiese e le Comunità ecclesiali alle quali i
cristiani appartengono non sono in piena comunione le une con le altre. Tut-
to quello che può essere fatto perché i membri delle Chiese e delle Comuni-
tà ecclesiali leggano la parola di Dio e, se possibile, lo facciano insieme (per
esempio le “settimane bibliche”), rafforza il legami di unità già tra loro esi-
stente, li apre all’azione unificante di Dio»427. Riteniamo questo passo il-
luminante, e del re-sto, nell’ambito dello stesso paragrafo il NDE, non a
caso, cita tra le proprie fontes proprio il can. 655§1 CCEO. È chiaro in-
fatti che la lettura comune delle fonti della S. Scrittura, nonché lo studio
e la collaborazione scientifica di più persone e di diverse confessioni cri-
stiane non potrà altro che aiutare il movimento ecumenico; infatti tutto
ciò porterà sia ad un avvicinamento reciproco in merito alle posizioni, sia
ad una più approfondita indagine scientifica dalla quale scaturirà una ri-
flessione teologica più profonda.

§5. Ecumenismo e libri liturgici: un problema aperto

Una ulteriore norma di interesse per il nostro argomento ci è data dal


can. 656§1, statuente:
«In celebrationibus liturgicis adhibeantur tantum libri approba-
tione ecclesiastica praediti»428.
Come si può ben osservare, nel testo del can. non vi è un riferimento
esplicito alla materia ecumenica; tuttavia, dal momento che esso è stato fatto
oggetto di un commento redatto in chiave ecumenica dalla Congregazione
per le Chiese Orientali, si è ritenuto opportuno inserirlo in questo capitolo
circa le ulteriori tematiche ecumeniche del CCEO.
Infatti, l’Istruzione per l’applicazione delle prescrizioni liturgiche del
Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, ha provveduto a commentare il

dato sempre da padre NEDUNGATT sj. Altra fonte del can. è il Decreto del 19 marzo 1975, art. 2,2
della S. Congregazione per la Dottrina della Fede.
426
CIC can. 825§1: «Versiones sacrarum Scripturarum convenientibus explicationibus instructas,
communi etiam cum fratribus seiunctis opera, parare atque edere possunt christifideles catholici
de licentia Episcoporum conferentiae».
427
NDE 183.
428
Anche il CIC contiene una norma, di fatto, identica a quella sopra esposta; cfr. CIC cann. 826 e 838.

136
can. ponendo in relazione i libri liturgici con l’ecumenismo. Il can. 656§1
CCEO sancisce che nelle celebrazioni liturgiche si possono utilizzare sola-
mente i libri che hanno avuto l’apposita approvazione ecclesiastica. Osserva
al riguardo l’Istruzione: «Si tratta di un principio evidente, che però incontra
qualche difficoltà pratica. Alcune Chiese orientali cattoliche infatti mancano
di una propria edizione dei libri liturgici, o almeno di alcuni, ed utilizzano
necessariamente le edizioni in uso nelle Chiese ortodosse corrispondenti,
che talvolta sono oggettivamente ben curate. Tale impiego avviene tradizio-
nalmente con la tacita approvazione della Sede Apostolica o di Autorità lo-
cali. Questa necessità, esaminata ogni cosa con prudenza, può anche rivelar-
si una consuetudine preziosa, in quanto manifestazione delle comunione
parziale ma profonda ed estesa che esiste fino ad oggi tra le Chiese cattoli-
che ed ortodosse che provengono da un ceppo comune, e può essere un
germe dinamico per il ricupero della comunione piena. D’altronde non po-
che edizioni di libri liturgici curate a Roma sono talora apprezzate ed usate
dai fratelli ortodossi. (...) Si auspicano invece, nella misura del possibile, e-
dizioni comuni. (...) Tale auspicio viene ribadito nuovamente in termini ge-
nerali nel n. 187 del Direttorio Ecumenico [n.d.r. NDE] che raccomanda
l’uso di testi liturgici comuni con altre Chiese o Comunità ecclesiali perché
“quando dei cristiani pregano insieme, con una sola voce, la loro comune
testimonianza raggiunge i cieli e va intesa anche sulla terra”»429. Il passo ora
riportato ci sembra illuminante: da una norma giuridica, qual è quella del
can. 656§1, si è passati ad una interpretazione estensiva della medesima fino
a giungere quasi ad una vera e propria critica. Tuttavia, non si deve dimenti-
care che la liturgia è un aspetto nevralgico della fede e che perciò l’uso dei
libri liturgici vada circoscritto e disciplinato per impedire errori. Cionono-
stante, non possiamo non tenere conto di quanto asserito dall’Istruzione su
citata che evidenzia una problematica ecumenica molto pratica; ossia, pur
sforzandosi il Codice di legiferare in merito all’uso dei libri liturgici, la real-
tà della vita delle Chiese Orientali si presenta assai diversa da quella giuri-
dicamente statuita! Per ovviare a questa dicotomia, innanzitutto ci auspi-
chiamo che le Chiese Orientali Cattoliche possano tutte avere delle edizioni
liturgiche ufficiali ed, infine, che queste edizioni possano contenere quanti
più punti di contatto possibili con le altre Chiese; così facendo, si favorirà il
movimento ecumenico a cui le Chiese Orientali Cattoliche sono tenute a fa-
vorire (cfr. can. 903).

429
CONGREGAZIONE PER LE CHIESE ORIENTALI, Istruzione per l’applicazione delle prescrizioni
liturgiche del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, (6 gennaio 1996), Città del Vaticano
1996, 26-27.

137
§6. La collaborazione tra cattolici e acattolici sul piano delle persone e
delle istituzioni

Il CCEO contiene anche dei canoni relativi a quello che genericamente


potremmo definire la “collaborazione tra cattolici e cristiani non cattolici sul
piano delle persone e delle istituzioni”.
In questa paragrafo tratteremo perciò dei seguenti canoni: 143§4,
192§2-3, 238§3, 322§4, 586. Procediamo dunque con ordine, al fine di
evidenziare, quan-to meglio possibile i singoli aspetti contenuti da cia-
scuna delle suddette norme.

§6.1. Gli osservatori acattolici alle assemblee patriarcali ed eparchiali

Il can. 143§ 4 è una vera e propria novità legislativa, infatti stabilisce,


per quanto riguarda i convocandi all’assemblea patriarcale, che possono es-
sere invitati alcuni membri delle Chiese o della Comunità ecclesiali acattoli-
che. Il can. 143§4, statuisce che:
«Ad conventum patriarchalem etiam invitari possunt aliquot
observatores ex Ecclesiis vel Communitatibus ecclesialibus a-
catholicis»430.
Dal momento che spetta al patriarca convocare e presiedere l’assemblea
patriarcale – in virtù del can. 142 CCEO 431 – sembra logico che sia egli
stesso poi a invitare gli osservatori acattolici. La norma include dunque co-
me “osservatori” i cristiani non-cattolici, tanto gli ortodossi quanto i prote-
stanti. In virtù del can. 152, sancente il principio per cui quanto è detto per
le Chiese patriarcali e per i patriarchi vale anche per le chiese arcivescovili

430
Dobbiamo sottolineare che questo canone all’inizio del processo di codificazione canonica orien-
tale fu formulato in modo diverso. Infatti, in Nuntia (7, 1978, 42, era il can. 4§3], apparve come
“canon novus” ma con la dicitura: «personae alterius ritus ad conventum patriarchalem convoca-
ri et in eo partem habere possunt, ad normam iuris particularis». Fu modificato successivamente
«per una maggiore apertura ecumenica (...)», come si apprende in Nuntia, 22 (1986), 102; succes-
sivamente, fu riformulato divenendo il 143§4 dello SCICO: «Ad conventum eparchialem etiam
invitari possunt aliquot observatores ex Ecclesiis vel Communitatibus ecclesialibus acatholicis»,
e – come si può notare – il nostro canone non ha subito alcuna variazione rispetto allo SCICO
giungendo così nel CCEO.
431
CCEO, can. 142: Ǥ1. Patriarchae est conventum patriarchalem convocare, eidem praesse atque
eum tranferre, prorogare, suspendere et dissolvere; vice-praesidem, qui in absentia Patriarchae
conventui praeest, ipse Patriarchanominet. §2. Sede patriarchali vacante conventus patriarchalis
suspenditur ipso iure, donec novus Patriarcha de re decreverit».

138
maggiori e per gli arcivescovi maggiori432, tali osservatori potrebbero essere
invitati anche presso il consiglio della chiesa arcivescovile maggiore.
Ma, il CCEO, contiene un altro canone nuovo il can. 238§3433, riguar-
dante gli osservatori acattolici presso il consiglio eparchiale:
«Ad conventum eparchialem etiam invitari possunt aliquot observa-
tores ex Ecclesiis vel Communitatibus ecclesialibus acatholicis»434.
È da notare che il CIC, pur non prevedendo l’invito di osservatori pres-
so le conferenze episcopali, li preveda invece presso il Sinodo diocesano,
co-me disposto dal can. 463§3435.
L’origine di tali norme, che sono una chiara espressione di volon-
tà ecumenica, sono da rintracciarsi proprio nella storia conciliare; in-
fatti al Concilio Vaticano II furono invitati alcuni acattolici in qualità
di osservatori 436.
I cann. 143§4 e 238§3 del CCEO sono, dunque, un primo chiaro esem-
pio di collaborazione fattiva tra cattolici e cristiani non cattolici sul piano
delle persone e delle istituzioni.

§6.2. Collaborazione tra i gerarchi delle Chiese cattoliche ed acattoliche

Sempre sul piano delle “obbligazioni” che ha la gerarchia cattolica o-


rientale nei riguardi dell’ecumenismo, in altro canone del CCEO, appare e-
stremamente significativo: il can. 322§4
«Unus quisque conventus Hierarcharum plurium Ecclesiarum sui
iuris sua conficiat statuta, in quibus foveatur, quatenus fieri po-
test, etiam participatio Hierarcharum Ecclesiarum, quae nondum
sunt in plena communione cum Ecclesia catholica; statua, ut va-
leant, a Sede Apostolica approbari debent»437.

432
Can. 152: «Quae in iure communi de Ecclesiis patriarchalibus vel de Patriarchis dicuntur, de Ec-
clesiis archiepiscopalibus maioribus vel de Archiepiscopis maioribus valere intelleguntur, nisi a-
liter iure communi expresse cavetur vel ex natura rei constat».
433
Nella precedente legislazione gli osservatori erano del tutto assenti (ved. Cleri Sanctita-
ti can. 424).
434
Per l’iter del can. 238§3 CCEO ved. Nuntia 9 (1979) 36-37, can. 50§3; Nuntia 19 (1984) 68, can.
209§3; Nuntia 23 (1986) 52, can. 209§3; Nuntia 24-25 (1987) 44, can. 236. In realtà nessuna va-
riazione sostanziale è presente nel canone, solo la piccola modifica linguistica: fino al SCICO era
scritto “aliqui” che è stato poi sostituito da “aliquot”.
435
«Ad synodum dioecesanum Episcopus dioecesanus, si id opportunm duxerit, invitare potest uti
observatores aliquos ministros aut sodales Ecclesiarum vel communitatum ecclesialium, quae non
sunt in plena cum Ecclesia catholica communionem».
436
Cfr. H. JEDIN, Breve Storia dei Concili, Roma-Brescia 19867, 216.
437
Segnaliamo che il can. ha avuto solo delle varianti redazionali e non di natura sostanziale, perciò
rinviamo a Nuntia per vedere tali mutamenti. Ved. Nuntia 19 (1984) 90, can. 292§4; Nuntia 23

139
Questo canone che si inserisce nel Tit. IX-De conventibus Hierarcha-
rum plurium Ecclesiarum sui iuris, frutto della riflessione attuata dalla
PCCIOR sulla base di OE (praesertim n.4) e del decr. Christus Dominus
(n.38,6)438, non manca di avere una rilevante carattere ecumenico sul piano
delle istituzioni, come si evince dallo stesso paragrafo del can. sopra riporta-
to. Infatti, il paragrafo in questione sancisce chiaramente che negli statuti
delle assemblee dei gerarchi di diverse ecclesiae sui iuris «sia favorita per
quanto possibile» – «foveatur» dice il testo – la partecipazione dei Gerarchi
delle Chiese che non sono ancora nella piena comunione con la Chiesa cat-
tolica; gli statuti perché abbiano valore, e quindi valgano giuridicamente,
debbono essere approvati dalla Sede Apostolica. Il can. sembra dunque la-
sciare autonomia legislativa, in merito alla regolamentazione della
presenza di gerarchi acattolici nelle su menzionate assemblee; tuttavia, la
S. Sede si riserva di approvarne gli statuti439.
Ma chi sono i gerarchi acattolici, di cui parla il testo? Senza dubbio,
s’intendono, in primis, i patriarchi, i vescovi ed i metropoliti di tutte le
Chiese Ortodosse; tuttavia il can. parla sic et simpliciter di «gerarchi delle
Chiese che non sono ancora in piena comunione» con Roma, non specifi-
cando o inserendo il lemma “Comunità ecclesiali”; dunque si potrebbe in-
tendere anche i protestanti ed i riformati, qualora presenti in quelle regioni
(infatti anch’essi “non sono ancora in piena comunione”).
La norma è dunque da riferirsi ai gerarchi delle Chiese orientali acatto-
liche, dal momento che usa espressamente il vocabolo “Chiese”. Resta, in-
vece, da definire il “ruolo” dei gerarchi acattolici invitati; certamente in
qualità di osservatori, ma anche di eventuali consiglieri esterni... dunque per
tutto questo si rinvia espressamente agli statuti. Il fatto, però, che gerarchi
acattolici siano invitati e quindi partecipino a tali assemblee costituisce una
grande apertura ecumenica. Tale norma, infine, è del tutto nuova; infatti il
CIC non contiene nell’ambito delle Conferenze episcopali – istituto che
si potrebbe accostare per analogia alle Assemblee dei gerarchi di diverse
chiese sui iuris – norma analoga a quella del CCEO (cfr. CIC, Lib: II,
cap. IV, cann 447-459).

(1986) 103, can. 292§4; Nuntia 24-25 (1987) 61, can. 320§4 (in cui si nota il canone resta immu-
tato dal CICO al CCEO).
438
Cfr. Nuntia 19 (1984) 19.
439
Si è discusso, in fase di codificazione, sul fatto che gli statuti debbano essere approvati dalla S.
Sede; il Coetus in merito, rispose al riguardo che ciò costituisce una garanzia al fine di regolare la
partecipazione dei gerarchi acattolici [cfr. Nuntia, 28 (1989) 58].

140
§6.3. I vescovi e la loro sollecitudine verso gli “altri”

Il CCEO, proseguendo nel suo sforzo in materia ecumenica non manca


di inserire un apposita e specifica norma stabilente l’impegno del vescovo
eparchiale affinché i christifideles favoriscano l’unità fra i cristiani in ac-
cordo coi dettami della Chiesa. Infatti il can. 192§2 statuisce:
«Speciali modo curet Episcopus eparchialis, ut omnes christifide-
les suae curae commissi unitatem inter christianos foveant secon-
dum principia ab Ecclesia approbata».
Data l’importanza del can. 192§2, si ritiene opportuno dare qui di
seguito l’evoluzione nell’ambito del processo di codificazione cano-
nica orientale.
***
L’attuale canone 192§2 apparve subito come una “novità” rispetto al
motu-proprio Cleri Sanctitati; infatti in Nuntia si ha modo di apprendere che
fu istituito per la prima volta come segue (can. 16§2): «Speciali modo curet
Episcopus ut omnes christifideles suae curae commissi peculiare munus a-
dimpleant omnium Christianorum unitatem, Orientalium praesertim, foven-
di, iuxta principia ab Ecclesia adprobata, precibus imprimis, vitae exem-
plis, religiosa erga antiquas traditiones orientales fidelitate, mutua et me-
liore cognitione, collaboratione ac fraterna rerum animorumque aestima-
tione»440. Successivamente il canone venne riformulato, divenendo il can.
160§2, in modo meno ampio e più specifico, attenendosi sia a Christus Do-
minus 16, ma soprattutto riprendendo OE 24: «Speciali modo curet Episco-
pus ut omnes christifideles suae curae commissi unitatem fovendam iuxta
principia ab Ecclesia approbata»441. In seguito, fu attuata solo una piccola
modifica redazionale: dopo il vocabolo “episcopus” fu aggiunto l’aggettivo
“eparchialis”442; il nostro canone divenne nello Schema come can. 190§2:
«Speciali modo curet Episcopus eparchialis ut omnes christifideles suae cu-
rae commissi unitatem inter christianos foveant secundum principia ab Ec-
clesia approbata»443. Dal CICO al CCEO è pertanto, come si osserva, rima-
sto immutato; nel can. (§2) è evidente l’influsso esercitato da CD, 16.
Il can. 192§2, risulta essere veramente importante per delineare lo zelo
ecumenico del CCEO; il canone, inserito tra i diritti e doveri del vescovo

440
Nuntia 9 (1979) 17, can. 16§2.
441
Nuntia 19 (1984) 57, can. 160§2.
442
Nuntia 23 (1986) 17, can. 160§2: «Speciali modo curet Episcopus eparchialis ut omnes christifi-
deles suae curae commissi unitatem fovendam iuxta principia ab Ecclesia approbata».
443
Nuntia 24-25 (1987) 34, can. 190§2.

141
eparchiale, assegna dunque ai vescovi orientali uno speciale ed aggiuntivo
“munus”: quello dell’impegno ecumenico. Il testo evidenzia l’importanza di
tale compito usando, evidentemente non a caso, la perifrasi latina “speciali
modo curet” (cioè: “curi in modo speciale”, ossia “rivolga la sua particolare
attenzione” ad hoc). È interessante, infine, notare che il testo concluda asse-
rendo che la cura dell’unità dei cristiani venga attuata «secundum principia
ab Ecclesia approbata»; dunque il CCEO sembra rinviare non solo ai prin-
cipi passati, cioè alle norme già esistenti, ma sembra voler gettare un ponte
anche alle norme future, e dunque potremmo asserire che al paragrafo di
questo canone possa essere applicato il NDE (per le “applicazioni” pratiche
del canone, cfr. NDE, cap. V), che costituisce la summa delle norme cattoli-
che nell’ambito ecumenico. In sostanza, è un po’ come se il canone volesse
rinviare ai direttori ed alle altre future istruzioni in materia ecumenica. Del re-
sto, è necessario che l’azione ecumenica avvenga in modo ordinato, coordi-
nando le forze, ed in armonia con il corpus legislativo della Chiesa; senza di
ciò vi sarebbe un “falso” ecumenismo ed una crescente anarchia. Ma, il nostro
canone, di fatto, ribadisce anche l’impegno ecumenico dei fedeli cattolici o-
rientali, che così saranno coordinati dai propri vescovi al fine di promuovere
l’unità dei cristiani.
Anche il CIC contiene norma simile a quella del codice orientale, il can.
383§3 CIC che infatti statuisce:
«Erga fratres, qui in plena communione cum Ecclesia catholica
non sint, cum humanitate et caritate se gerat, oecumenismum
quoque fovens prout ab Ecclesia intellegitur».
Il CIC, assegna al vescovo diocesano l’“obbligo” ecumenico; egli infat-
ti dovrà trattare i fratelli cristiani, che ancora vivono nella incompleta co-
munione con la Chiesa cattolica, con «umanità» e «carità», inoltre dovrà fa-
vorire l’ecumenismo «prout ab Ecclesia intelligitur». Dunque paragonando
la normativa latina con quella orientale, potremmo asserire che il CCEO
ponga maggiormente l’accento sul fatto che il vescovo eparchiale solleciti i
fedeli della propria eparchia, mentre il CIC attribuisce generatim l’impegno
ecumenico al vescovo diocesano rimettendolo in prima persona al proprio
zelo. Ciò corrisponde alla scelta del Coetus coordinatore della codificazione
canonica orientale, che preferì scegliere come testo-base o fonte della norma
il n. 24 di OE, mentre la commissione per la revisione del CIC predilesse il
n. 16 di Christus Dominus444.
Infine, dobbiamo sottolineare che il can. 192 CCEO, contiene, al para-
grafo terzo, un’ulteriore importante “implicanza” ecumenica; infatti afferma
444
Ved. in merito Nuntia 9 (1979) 17.

142
chiaramente che il vescovo eparchiale consideri «affidati a se nel Signore»
anche i non-battezzati (cioè i membri di altre religioni:
CCEO can. 192§3: «Episcopus eparchialis commendatos sibi in
Domino habeat non baptizatos et curet, ut et eis ex testimonio
christifidelium in communione ecclesiastica viventium eluceat ca-
ritas Christi»445.
Questo è estremamente significativo, in quanto in modo inequivocabile
dimostra l’apertura della Chiesa – e lo fa proprio tramite i vescovi – nei con-
fronti di tutti gli uomini di qualsiasi credo o confessione religiosa. Ciò rien-
tra nella missione, nel munus, proprio di ciascun vescovo che è “padre” del-
la co-munità alla quale preside come pastore ed ugualmente, perché testi-
mone di Cristo e legittimo successore degli Apostoli, ha degli “impegni”
morali verso tutta l’umanità, essendo gli uomini – tutti – creati da Dio. Tale
esigenza è stata avvertita anche dal CIC che al can. 383§4 statuisce identica
norma per il vescovo diocesano latino446.

§7. Attività missionaria ed ecumenismo

Nell’ambito dei problemi inerenti alle missioni ed ai missionari, notia-


mo che il CCEO non tralascia, ancora una volta, di affrontare ulteriori tema-
tiche ecumeniche. Quasi a ricordarci che proprio i missionari provenienti
dalla Riforma del secolo scorso iniziarono la via ecumenica, il codice orien-
tale contiene due interessanti norme: il can. 592§2 ed il can. 593§2 (entram-
bi inseriti nel tit.14° – De evangelizatione gentium):
Can. 592: Ǥ1. Speciali cura in territoriis missionum aptae for-
mae apostolatus laicorum foveantur; instituta vitae consecratae,
ratione habita singulorum populorum ingenii et indolis, promovean-
tur; scholae et alia huiusmodi educationis christianae et progres-
sus culturalis instituta, ut opus est, constituantur. §2. Item dialogus
et cooperatio cum non christianis sedulo et prudenter foveantur»447.
Can. 593: Ǥ1. Omenes presbyteri cuiuscumque condicionis in
territoriis missionum operam praestantes utpote unum presbyte-
rium efformantes ardenter in evangelization cooperentur. §2 Ipsi

445
Fonti del paragrafo sono CD 11 e 16.
446
CIC can. 383§4: «Commendatos sibi in Domino habeat non batizatos, ut et ipsis caritas eluceat
Christi, cuius testis coram omnibus Episcopus esse debet».
447
L’iter del can. nel processo di codificazione è rintracciabile in Nuntia, come segue: Nuntia 11
(1980) 58, can. 10; Nuntia 17 (1983) 15-16, can. 10; Nuntia 24.25 (1987) 112, can. 589; Nuntia
27 (1988) 53.

143
cum ceteris missionariis christianis, ut unum pro Christo Domino
testimonium reddant, libenter collaborent ad normam can. 908»448.
Il can. 592§2 è una regola giuridica di carattere molto generale, lo stes-
so testo usa una forma esortativa e non iussiva. A noi interessa, ovviamente,
il paragrafo secondo, in cui nell’ambito delle iniziative missionarie, il
CCEO esorta ancora una volta le attività di dialogo e di cooperazione con i
non cri-stiani. Più esplicito, e meno generico, è invece il §2 del can. 593
CCEO, che di fatto impone a tutti i missionari, in particolare ai presbiteri,
una fattiva e sincera collaborazione con gli altri missionari, ricordando loro
il disposto del can. 908 CCEO. Dunque, il codice orientale pone l’accento
sugli aspetti ecu-menici nei territori di missione449. È da notare che substra-
to di questi due canoni è tutto il cambiamento avvenuto in materia di evan-
gelizzazione frutto del Concilio Vaticano II; pertanto il CCEO prende atto
del fatto che le divisioni esistenti nell’ecumene cristiana sono un vero e pro-
prio ostacolo per una buona evangelizzazione450, per poi giungere a realiz-
zare norme ispirate al più genuino senso ecumenico. Fonte del canone è
senza dubbio il Decr. Concan. Ad Gentes (in particolare AG 12, 16, 34 e
41)451. È da sottolineare, infine, che il NDE, dedica numerosi paragrafi alla
collaborazione nell’attività missionaria (ved. NDE, 205-209), in cui si espli-
cano le tematiche descritte dai nostri canoni, approfondendole e fornendo
norme ulteriori.
Tuttavia, anche il CIC, al can. 787§1 tratta la tematica, infatti asserisce:
«Missionarii, viatae ac verbi testimonio, dialogum sincerum com
non credentibus in Christum instituant, ut ipsis, ratione oerundem
ingenio et culturae aptata, aperiantur viae quibus ad evangelicum
nuntium cognoscendum adduci valeant».

In sostanza, possiamo asserire che ambo i Codici non manchino di spro-


nare al dialogo ecumenico sia la gerarchia452 che i singoli fedeli, ciascuno
impegnato nelle proprie mansioni o attività: dal vescovo eparchiale al mis-
sionario laico, tutti hanno il dovere-diritto di dedicarsi al dialogo fraterno ed
al ristabilimento dell’unità spezzata!

448
L’iter del can. nel processo di codificazione è rintracciabile in Nuntia, come segue: Nuntia 11
(1980) 58-59, can. 11; Nuntia 17 (1983) 16-17, can. 11; Nuntia, 24-25 (1987) 112, can. 590.
449
I territori di missione sono definiti dal diritto stesso come quei territori che la Sede Apostolica ha
riconosciuto come tali (can. 594 CCEO).
450
Cfr. UR 1: EV 1, 494.
451
Rispettivamente in EV 1, 1114, 1138, 1209, 1238.
452
Ved. ECAS, 57: «(...) At the service of unity which respects legitimate and necessary diversity,
Church authority has to protect and promote them according to the pastoral needs and place».

144
§8. Il rispetto della libertà religiosa altrui

A completamento delle implicanze ecumeniche presenti nella legisla-


zione canonica orientale resta un’ultima questione: il rispetto della libertà
religiosa degli altri cristiani. Abbiamo preferito trattare tale tematica da ul-
tima, anche se in linea di logicità sarebbe dovuta essere descritta per prima,
dal momento che essa risiede, in fondo, un po’ alla base di tutto
l’ecumenismo. Infatti, non può esserci vero ecumenismo senza rispetto per
la libertà individuale e per le scelte compiute dagli altri; nessun dialogo, in-
fatti, si basa sulla mancanza di rispetto. Tuttavia, si è preferito descrivere ta-
le aspetto da ultimo, perché – come si è osservato – abbiamo scelto seguire
l’ordine numerico progressivo dei canoni del CCEO, per quanto possibile
(infine come vuole la tradizione manoscritta orientale le “cose importanti”
sono sempre redatte... alla fine). Pertanto, concludiamo questo capitolo, trat-
tando – seppure brevemente – di tale, per altro fondamentale, aspetto.
I canoni del CCEO riguardanti la tematica sono i cann. 586 e 907 (di
quest’ultimo si è già trattato nel cap. II di questa tesi, perciò qui omettiamo
di ritrattarne di nuovo).
Can. 586:«Severe prohibetur, ne quis ad Ecclesiam amplecten-
dam cogatur vel artibus importunis inducatur aut alliciatur; om-
nes vero christifideles curent, ut vindicetur ius ad libertatem re-
ligiosam, ne quis iniquis vexationibus ab Ecclesia detereantur».
Il canone è estremamente importante, infatti contiene due parti norma-
tive: una iussiva, di carattere vetatorio, ed una esortativa di natura pastorale.
La prima parte è iussiva, poiché dà esplicito e chiaro divieto di costringere o
indurre con dolo qualcuno ad abbracciare la fede cattolica; la seconda parte,
invece, è esortativa perché sprona tutti i christifideles all’impegno per la ri-
vendicazione della libertà religiosa, sia questa intesa nei riguardi della Chie-
sa cattolica, sia intesa in generale.
***
L’iter di codificazione del canone 586 CCEO si presenta interessan-
te. Il canone apparve come can 5: Ǥ1. Nefas est ut quis ad Ecclesiam
amplectendam cogatur vel artibus impostunis inducatur aut alliciatur;
Hierarchae curent ut vindicetur ius Ecclesiae ne ullus iniquis vexationi-
bus ab ipsa deterreatur»453.
Successivamente al can. 5§1, vennero formulate le due seguenti propo-
ste (entrambe accettate). Prima proposta: «Poiché la difesa di un diritto fon-
damentale della persona umana, quale la libertà religiosa, compete a tutti gli
453
Nuntia 11 (1980) 57, can. 5§1.

145
uomini e perciò a tutti i fedeli, in luogo di “hierarchae” si dovrebbe dire
“omnes christifideles”» – risposta: «Si accetta, centrando la seconda parte
del §1 direttamente sullo “ius ad libertatem religiosam”». Seconda proposta:
«La parola nefas, nel §1, che può indurre a dubbi, si sostituisca con la locu-
zione “severe prohibetur” usata nel decreto “Ad gentes” n. 13 (“Ecclesia se-
vere prohibet” etcan.)» – «Si accetta». Inoltre il can. 5 conteneva anche un
secondo paragrafo, circa la recezione dei minori di 14 anni nella Chiesa; il
paragrafo fu, giustamente, eliminato perché parve una ripetizione del can.
(dello schema) sull’accoglienza dei minori454. Il canone fu pertanto riformu-
lato come segue: can. 5: «Severe prohibetur ne quivis ad Ecclesiam amplec-
tendam cogatur vel artibus impostunis inducatur aut alliciatur; omnes chri-
stifideles curent ut vindicetur ius ad libertatem religiosam ne quispiam ini-
quis vexationibus ab Ecclesia deterreatur»455. Nello SCICO, il nostro canone
ebbe solo variazioni di carattere linguistico, assumendo una strutturazione che
risulta essere identica a quella attuale, infatti: Can. 583: «Severe prohibetur, ne
quis ad Ecclesiam amplectendam cogatur vel artibus impostunis inducatur aut
alliciatur; omnes christifideles curent, ut vindicetur ius ad libertatem religio-
sam, ne quis iniquis vexationibus ab Ecclesia deterreatur»456.

Come si può notare, l’eco conciliare all’interno del can. 586 è manifesta; in-
fatti, come già rilevato, in fase di codificazione, il testo usato come fonte norma-
tiva dell’attuale canone fu proprio AG 13 che asseriva: «La chiesa proibisce seve-
ramente di costringere o di indurre e attirare alcuno con inopportuni raggiri ad
abbracciare la fede, allo stesso modo rivendica energicamente il diritto che nes-
suno con ingiuste vessazioni dalla fede stessa sia distolto»457.
Ma, oltre ad AG 13, un altro passo conciliare sembra attagliarsi al cano-
ne, costituendone la fonte diretta: DH (2 e 4), che definì la libertà (sia indi-
viduale che quella delle comunità religiose) come segue: «Questo concilio
vaticano dichiara che la persona umana ha diritto alla libertà religiosa. Tale
libertà consiste in questo, che tutti gli uomini devono essere immuni dalla
coercizione da parte di singoli, di gruppo sociali e di qualsivoglia potestà
umana, (...). Inoltre dichiara che il diritto alla libertà religiosa si fonda sulla
stessa dignità della persona (...)»458 – «La libertà o immunità da coercizione

454
Ved. Nuntia 17 (1983) 10-11.
455
Ibid., 11.
456
Nuntia 24-25 (1987) 111.
457
In EV 1, 1119.
458
DH 2: EV 1, 1045.

146
in materia religiosa, che compete alle singole persone, deve essere ricono-
sciuta ad esse anche quando agiscono comunitariamente»459.
In sostanza, il Concilio prima, ed il diritto canonico poi, prendendo atto delle
attuali e moderne esigenze, nonché del concetto stesso di libertà religiosa, pone la
stessa libertà religiosa come vero e proprio diritto naturale e fondamentale
dell’uomo (cfr. DH, 2). Dunque, il canone 586 CCEO sembra recepire proprio
quanto affermato da DH e da AG sancendo, non a caso dunque, nella seconda
parte, l’impegno dei fedeli dinanzi alla libertà religiosa, intesa sia per la libertà
della Chiesa che anche come libertà religiosa per le altre confessioni religiose. È
interessante notare, infine, che il CIC, pur contenendo un canone simile a quello
del CCEO, il can. 748§2460, non sancisce direttamente l’impegno dei fedeli in
merito. Il CCEO, dunque, sembra costituire anche per questo aspetto una novità.
§9. Breve riflessione in merito alla collaborazione sul piano delle persone
e delle istituzioni
Lo sforzo compiuto dal Codice circa la collaborazione sul piano delle
persone e delle istituzioni è, a nostro parere, uno dei momenti di maggiore
novità legislativa ed importanza ecumenica. Tra questi ultimi, spiccano – a
nostro parere – i canoni riguardanti gli observatores (cann. 143§4, 238§3,
322§4); il fatto di far partecipare, in qualità di osservatori, gli acattolici (tan-
to nel consiglio eparchiale, quanto in quello patriarcale, che nel consiglio
dei gerarchi di diverse chiese sui iuris) rappresenta un ulteriore passo nei ri-
guardi del dialogo ecumenico; pertanto ci auguriamo che tale pratica possa
sempre più frequentemente essere posta in atto. Unica “pecca”, ma solo forma-
le, del CCEO risiede nella non menzione degli altri cristiani nell’ambito delle
associazioni cattoliche. Infatti, i cann. 573-583 del CCEO non fanno menzione
di ciò, mentre invece il can. 328 del CIC contiene un chiaro riferimento alla co-
sa461, co-stituendo una notevole apertura ecumenica nonché un ampliamento
delle norme del DE (cfr. ECAS, p. 60). Evidentemente la PCCIOR ritenne già
sufficiente quanto enunciato nei cann. sull’Ecumenismo (praesertim can. 902).

459
DH 4: EV 1, 1052. L’editio cum fontibus del CCEO, ha preferito citare – nelle fonti del can. 586–
AG 13, 12 e DH 2, 4, 10; comunque ulteriore fonte del can. è anche l’Allocuz. Ap. «Evangelii
Nuntiandi», 80 dell’8 dicembre 1975.
460
CIC, can. 748: Ǥ1. Omnes homines veritatem in iis, quae Deum eiusque Ecclesiam respiciunt,
quaerere tenentur eamque cognitam amplectendi ac servandi obligatione vi legis divinae adstrin-
guntur et iure gaudent. §2. Homines ad amplectendam fidem catholicam contra ipsorum consci-
entiam per coactionem adducere nemini umquam fas est».
461
CIC can. 328: «Qui praesunt consociationibus laicorum, iis etiam quae vi privilegi apostolici erec-
tae sunt, curent ut suae cum aliis christifidelium consociationibus, ubi expediat, cooperentur, utque
variis operibus christianis, praesertim in eodem territorio existentibus, libenter auxilio sint».

147
RELAZIONI FRA DIRITTO CANONICO ED ECUMENISMO
— Alcune note per una conclusione —

§ 1. Il CCEO e l’Ecumenismo

A questo punto ci sembra opportuno compiere alcune analisi e rifles-


sioni – anche se di carattere generale – sul significato e l’importanza della
tematica inerente alla connessione tra diritto ed ecumenismo (o se si preferi-
sce tra diritto canonico orientale e tematiche ecumeniche).
Come abbiamo potuto rilevare, nel corso dei capitoli precedenti, il CCEO
contiene numerosi canoni – circa una quarantina – aventi per oggetto le te-
matiche ecumeniche o trattanti questioni ecumeniche.
Dunque, il Codice – che già nella fase di codificazione avvertì l’esigenza
ecumenica462 – ha proseguito nel suo intento sviluppando e codificando aspetti
ecumenici secondo una logica giuridica ben precisa; infatti, sembra aver voluto
delineare la materia secondo un criterio ben ordinato: assegnare alla tematica
due titoli specifici, il 17° ed il 18°, per poi trattare della communicatio in sacris
e dei matrimonia mixta (tit. 16°), quindi inserire nei singoli titoli allorquando
opportuno canoni con valenza ecumenica o respicienti la materia. Pertanto, i
titoli 17° e 18°, ed i canoni del titolo 16° (communicatio in sacris ed i matri-
moni misti), costituiscono senza dubbio i più significativi momenti di recezio-
ne delle categorie ecumeniche; tuttavia, tuttavia il Codice prosegue nel suo
“sforzo ecumenico” non tralasciando ulteriori tematiche ecumeniche inseren-
dole in appositi canoni, quali quelli esposti nelle pagine precedenti.
È da notare, infine, che il titolo stesso usato dal CCEO, racchiude in sé
una “implicazione” ecumenica463. Infatti, nel processo di codificazione, un
membro della PCCIOR, asserì che: «(...) Dato che il nuovo Codice si appli-
cherà solamente agli orientali cattolici e dato che i cristiani orientali sono in
grande maggioranza acattolici, è auspicabile che si aggiunga al titolo del
Codice la parola “Catholici” (“Codex Iuris Canonici Orientalis Catholi-
462
Ved. in merito, C. G. FÜRST, L’Ecumenismo nel progetto del Codice di Diritto Canonico Orienta-
le, in Portare Cristo all’Uomo II, Atti del Congresso del ventennio del Concilio Vaticano II,
«Studia Urbaniana» XXIII, Roma 1985, 227-233. E. EID, Presentazione del CCEO alla XXVIII
Congregazione del Sinodo dei Vescovi del 25 ottobre 1990, in Nuntia 31 (1990) 24-34. Circa gli
“intenti ecumenici” della PCCIOR per il futuro Codice i consultori: «in nonnullis titulos schema-
tum normas introduxerunt in quibus expresse de obligationibus oecumenismum fovendi agitur»
(Nuntia 12, 1981, 13).
463
Al riguardo, ved. D. SALACHAS D., The Ecumenical Significance of the New Code, in (a.c.d.) K.
Baharanikulangara - J. Chiramel, The Code of Canons of the Eastern Christian Churches. A Study
and Interpretation, Alwaye 1992, 259-260.
148
ci”)»464. Dal Coetus fu risposto che «Si ritiene opportuno che si accetti so-
stanzialmente quanto proposto sostituendo il titolo “Codex iuris canonici o-
rientalis” con il seguente nuovo titolo: “Codex Canonum Ecclesiarum O-
rientalium”. Inoltre si nota che nel “Coetus de expensione observationum”
si è proposto di aggiungere la specifica “Catholicarum” e che questa propo-
sta ha ottenuto una parità di voti. Si nota anche che il nuovo titolo si propo-
ne non solo per evitare l’impressione suaccennata, ma soprattutto perché
questo titolo (in sostanza già proposto dal Card. Sincero, Presidente della
precedente Commissione, nel 1923) è più congruente con le collezioni ca-
noniche orientali e rispecchia la considerazione nella quale sono tenuti i
“sacri canones”»465. Il can. 1 CCEO chiarifica ulteriormente la cosa preci-
sando che il CCEO è un codice per le sole Chiese Orientali Cattoliche466.
Questo canone contiene in sé anche una implicanza ecumenica. Infatti, il
voler ribadire che le norme del CCEO riguardino i soli cattolici, sembra es-
sere stato da parte del legislatore un esplicito richiamo alle direttive ecume-
niche del Concilio, dalle quali sono scaturiti i principi ispiratori del vigente
ordinamento canonico467.
***
Il CCEO ha dimostrato una particolare sensibilità verso le tematiche
ecumeniche, pertanto ci domandiamo il perché di ciò. La risposta a tale que-
sito risiede in una serie di considerazioni, che ci accingiamo a fare.
Il Codice orientale ha volutamente desiderato trattare della materia per-
ché esso è un da un lato ius vigens per tutte le Chiese orientali cattoliche e
dall’altro perché esso è frutto della riflessione conciliare. Spieghiamo questa
nostra affermazione che potrebbe, altrimenti, apparire scontata o banale. Al-
le Chiese Orientali (cattoliche) è stato riconosciuto, proprio dal Concilio
Vaticano II (OE, 24): «lo speciale compito di promuovere l’unità dei cri-
stiani, specialmente orientali, (...) in primo luogo con la preghiera,
l’esempio della vita, la scrupolosa fedeltà alle antiche tradizioni orientali, la
mutua e più profonda conoscenza, la collaborazione e la fraterna stima delle
cose e degli animi»468. Il fatto che il Concilio abbia assegnato assegni il

464
Nuntia 28 (1978) 13.
465
Ibid.
466
CCEO can. 1: «Canones huius Codicis omnes et solas Ecclesias orientales catholicas respiciunt,
nisi relationes cum Ecclesia latina quod attinet, aliud expresse statuitur».
467
In merito dobbiamo ricordare che alcuni intravedono, a ragione, in questo canone una implicanza
ecumenica dal memento che senza dubbio esso è correlabile con i cann. 7§2 ed 8 del CCEO. Al
can. 1 CCEO, corrisponde il can. 1 CIC: «Canones huius Codicis unam Ecclesiam latinam respi-
ciunt», mentre ai cann. 7§2 ed 8 CCEO corrispondono i cann. 204 e 205 CIC.
468
OE 24: EV 1, 485.
149
compito ecumenico alle Chiese Orientali, in modo così esplicito, chiaro ed
inequivocabile, costituisce una prima risposta alla nostra domanda sul per-
ché il CCEO sia così ricco di tematiche ecumeniche. L’importanza della af-
fermazione – anzi dell’esortazione quasi iussiva che diede il Concilio alle
Chiese d’oriente – è stata recepita dal Codice proprio nel titolo 18° CCEO;
infatti, il dettame conciliare è stato ripreso quasi verbatim
dall’importantissimo can. 903 CCEO. Come si può ben comprendere il fatto
che il Codice sia un complesso di norme per le Chiese Orientali e che tali
norme siano ampiamente ispirate al Concilio Vaticano II sembrano essere
aspetti della stessa questione. Dunque, entrambi i dati sono intimamente
connessi. Infatti per la materia ecumenica, i canoni del CCEO si presentano
come un punto di riflessione – e se vogliamo di “riflessione giuridica” – per
quanto detto dal Concilio in materia. Un’altra risposta, aggiuntiva, al perché
il Codice dedichi tanto spazio all’ecumenismo, potrebbe esserci data dal fat-
to che il CIC, anch’esso frutto della riflessione post-conciliare (quindi del
Concilio), in realtà presenta tematiche ecumeniche in modo meno organico
rispetto al CCEO, che così sembra colmare le “lacune ecumeniche” del CIC.
Con ciò non intendiamo asserire che il CIC sia deficitario per
l’ecumenismo, ma ha provveduto a dare minor risalto alle questioni ecume-
niche; del resto leggendo la famosa «Nota» del Segretariato per l’Unità dei
Cristiani (ECAS), si ha chiaramente l’impressione di quanto diciamo; pro-
babilmente il Codice latino ha scelto un’altra strada di codificazione delle
problematiche ecumeniche rispetto al CCEO (e ciò è ben comprensibile, se
si tengono presenti le due differenti realtà, quella occidentale e quella orien-
tale); il CIC ha preferito dare delle norme con valenza ecumenica, in modo
più “sfumato”, infatti il vocabolo «ecumenismo» compare in un solo canone
(il 755). Questa “sottigliezza filologica”, racchiude in sé – a nostro avviso –
un importante concetto; cioè il CIC pur recependo ampiamente lo spirito del
Concilio e pur essendo attento alle tematiche ecumeniche, affronta le mede-
sime – proprio da un punto di vista della logica giuridica – in modo diverso
dal CCEO. Leggendo ECAS questo risulta ben chiaro; infatti, le implican-
ze ecumeniche si presentano nei canoni (a parte la communicatio in sa-
cris ed i matrimonia mixta) in forma più implicita che esplicita. Il CCEO,
da parte sua, invece, è un monumento alla chiarezza. Quanto detto – in
relazione ad un breve confronto tra CIC e CCEO – non vuole essere una
critica negativa al Codice latino, che per altro per la Chiesa latina rappre-
senta una sostanziale innovazione, frutto (ancora una volta) del Concilio469;
469
In merito assai illuminante è J. B. BEYER, Dal Concilio al Codice. Il nuovo Codice e le istanze del
Concilio Vaticano II, Bologna 1984.
150
tuttavia queste poche riflessioni costituiscono una semplice presa d’atto del-
la realtà. Ciò è di facile comprensione se si compie un confronto tra i canoni
del CIC e quelli del CCEO aventi per oggetto tematiche ecumeniche; come
si può ben vedere appare chiaro che i canoni del CCEO sono maggiori di
quelli rispetto al CIC 470:

CCEO: CIC: CCEO: CIC:

1 1 780 –
7§2 204 781 –
8 205 813 1124
35 –
143§4 – 814 1125
n.1 1125 n.1
n.2 1125 n.2
n.3 1125 n.3
– 328
192§2 383§3 815 1126
§3 383§4, 771§2
283 – 816 1128
322§4 – 876§1 1183§3
350§4 – 896 –
352§2 256§1 897 –
§3 256§2, 257§1
592§2 – 898 –
586 748§2 899 –
593§2 – 900 –
634§2 – 901 –
655 825§2 902 755§1
670 – 903 –
671 844 904 755§2
681§5 – 905 –
685§3 874§2 906 –
705§2 933 907 –
908 –
1490 11

470
Ved. FÜRST C. G., Canones Synopse zum Codiex Iuris Canonici und Cdex Canonum Ecclesiarum
Orientalium, Freiburg-Basel-Wien 1992.
151
***
Ci sia consentita un’ulteriore riflessione: perché un Codice di diritto
canonico tratta di ecumenismo? In realtà questa domanda non è un qualcosa
di pleonastico, ma riteniamo che sia di utilità per comprendere meglio
l’ordi-namento canonico stesso.
Come è stato più volte accennato, il CCEO insieme al CIC ed alla Cost.
Ap. «Pastor Bonus» costituiscono oggi il corpus legislativo della Chiesa
(corpus che pertanto si presenta ora completo)471; infatti la Chiesa Cattolica
– a due millenni dalla propria esistenza – ha raggiunto, tramite la strada del-
la codificazione, la completezza giuridica, anche se ovviamente questo non
significa la “perfezione” è tuttavia un dato di fatto di estrema rilevanza. Og-
gi infatti si parla, giustamente, di studio interdisciplinare o comparativo tra i
codici e del resto ciò è doveroso se si tengono presenti le reciproche “inge-
renze” dei Codici di diritto canonico nelle rispettive discipline (latina ed o-
rientale)472. Ma, tutto questo non spiega il motivo del perché un Codice di
diritto canonico debba trattare di questioni ecumeniche. La risposta alla no-
stra domanda, riteniamo si possa rintracciare nell’emblematico Discorso del
Santo Padre, al Sinodo dei Vescovi, in occasione della presentazione del
CCEO; GIOVANNI PAOLO II, infatti ha asserito: «A conclusione di questa
mia “presentazione” del Codice comune a tutte le Chiese Orientali cattoli-
che, non posso fare a meno di rivolgere il mio pensiero rispettoso a tutte le
Chiese Ortodosse. Anche ad esse vorrei “presentare” il nuovo Codice, che
fin dall’inizio, è stato concepito ed elaborato su principi di vero ecumeni-
smo e prima di tutto nella grande stima che la Chiesa cattolica ha di esse
come “Chiese sorelle” già “in quasi piena comunione” con la Chiesa di Ro-
ma, e dei loro pastori come coloro a cui “è stata affidata una porzione del
gregge di Cristo”. Non vi è norma del Codice che non favorisca il cammino
dell’unità tra tutti i cristiani e vi sono chiare norme per le Chiese orientali
cattoliche su come promuovere questa unità “precibus imprimis, viatae e-
xemplo, religiosa erga antiquas traditiones Ecclesiarum orientalium fideli-
tate, mutua et meliore cognitione, collaboratione ac fraterna rerum animo-
rumque aestimatione” (Can. 903). (...) Mentre tutti i Cattolici devono atte-
nersi a queste norme, ho fiducia che si stabilisca ovunque una completa re-

471
Cfr.Discorso del S. Padre al Sinodo dei Vescovi del 25 ottobre 1990, riportato in Nuntia 31 (1990)
20 n. 8.
472
Lo studio di tale argomentazione, benché affascinante, ci porterebbe fuori tema; pertanto rinviamo
in merito all’ottimo saggio di C. G. FÜRST, Interdipendenza del Diritto Canonico Latino ed Orien-
tale. Alcune osservazioni circa il Diritto Canonico della Chiesa Cattolica, in Bharanikulangara K.
(a.c.d.), Il Diritto Canonico Orientale nell’Ordinamento Ecclesiale, «Studi Giuridici» 34, Città
del Vaticano 1995, 13-33.
152
ciprocità nel rispetto di così fondamentali valori umani e cristiani e che il
dialogo ecumenico possa essere fecondo tra fratelli che si amano in Cristo,
fino al giorno, che speriamo prossimo, in cui potremo nella piena comunio-
ne di tutte le Chiese orientali, partecipare, sul medesimo altare, al Corpo e
Sangue di Cristo, in quella unità per la quale Lui stesso ha pregato Suo Pa-
dre nell’Ultima Cena»473. Come si può ben constatare il brano pontificio è
denso di significati e ricco di concetti. Il discorso del Romano Pontefice su
citato è molto di più che una risposta alla nostra precedente domanda; esso,
infatti, rappresenta un momento significativo per il movimento ecumenico
ed in particolare per i rapporti tra cattolici ed ortodossi tutti. Benché, il testo
sia di chiara lettura ed interpretazione, ci sia consentito il compiere alcune
brevi riflessioni.
Il Romano Pontefice ribadisce la dottrina conciliare sulle Chiese Orto-
dosse (oggi “rinverdita” oltre che dal CCEO anche dal NDE), e – di fatto –
ci fornisce una motivazione concreta al perché il CCEO sia così denso di
tematiche ecumeniche; «non vi è norma nel Codice che non favorisca il
cammino dell’unità fra tutti i cristiani», asserisce il Papa, fornendo così un
commento per noi autorevolissimo essendo il Papa il supremo legislatore
della Chiesa. Infatti, il R. P. considera il CCEO come un “Codice ecumeni-
co”, rammentan-doci che fin dall’inizio il Codice fu «elaborato e concepito
su principi di vero ecumenismo»474. Per questo il CCEO contiene un nume-
ro di “tematiche” o “implicanze” ecumeniche maggiori rispetto al CIC; il
Codice per le Chiese Orientali Cattoliche, sembra dunque essere stato redat-
to – alla luce del brano pontificio sopra riportato – con una particolare at-
tenzione verso il dialogo con le Chiese Ortodosse.
Infine, dobbiamo ricordare e sottolineare il fatto che la doppia codifica-
zione (latina ed orientale) esprime anch’essa un atteggiamento della Chiesa
nei confronti dell’ecumenismo come ha osservato, ad esempio, SALACHAS:
«La promulgazione stessa di due Codici di diritto canonico, l’uno per la
Chiesa latina e l’altro per le Chiese orientali cattoliche, è l’immediata appli-
cazione del principio del Vaticano II, secondo il quale, salva restando
l’unità della fede e l’unica divina costituzione della Chiesa universale, “le
Chiese d’oriente come anche d’occidente hanno il diritto e il dovere di reg-
gersi secondo le proprie discipline particolari, poiché si raccomandano per
veneranda antichità, sono più corrispondenti ai costumi dei loro fedeli e più
473
Discorso del S. Padre al Sinodo dei Vescovi del 25 ottobre 1990, riportato in Nuntia 31 (1990) 22-
23.
474
Del resto, dobbiamo ricordare il “carattere ecumenico” del Codice auspicato dalla PCCIOR in fase
di gestazione, nonché il punto n. 3 della “Proposta della Facoltà di Diritto Canonico Orientale del
Pontificio Istituto Orientale” .
153
adatte a provvedere al bene delle loro anime»475 (n.d.r. OE 5, LG 23). Del
resto, la doppia codificazione esprime visibilmente ciò che si è soliti defini-
re come «unità nella diversità» (concetto caro al Concilio). Unità nella fede
e nella dogmatica pur esistendo – ed anzi dando ampio spazio – alle diversi-
tà, che costituiscono nella pluralità il corpo della Chiesa stessa. Dunque, an-
che in ambito ecumenico, una doppia codificazione è cosa utile e – se si ri-
cordano le parole di S. B. MAXIMOS IV476 – ne possiamo appercepire in pie-
no il vantaggio. Anzi – è questa una nostra personale opinione – il CIC po-
trebbe essere più adeguato per il dialogo con le Chiese o le Comunità occi-
dentali separate, mentre il CCEO potrà essere maggiormente utile per un
dialogo con le Chiese Orientali acattoliche. Del resto circa quest’ultimo a-
spetto, dal CCEO ed anche dal discorso papale di cui sopra, sembra emerge-
re un nuovo scenario di dialogo ecumenico con gli Ortodossi.

§2. Verso un “diritto ecumenico”?

Il CCEO sembra dunque aprire un nuovo orizzonte: quello dell’ecume-


nismo nel diritto o se vogliamo – quasi come una “provocazione” – di un
“diritto ecumenico”. Questa frontiera, occorre ammetterlo, sembra essere
stata aperta proprio dai cattolici ed infatti la volontà pontificia in tal senso
sembra essere assai chiara. Già nel precedente Direttorio Ecumenico (I par-
te, 1967-II parte, 1970), si provvide ad iniziare a “codificare” le norme del
Con-cilio in materia ecumenica477; successivamente il CIC proseguì questa
strada, quindi la maggior “giuridicizzazione” si ebbe proprio – e non a caso
– nella Cost. Ap. «Sacri Canones» (18 ottobre 1990; in AAS XXXII-11,
1990, 1033-1034), promulgante il CCEO, in cui il Papa ha fatto esplicito ri-
ferimento alla normativa trullana. Il richiamo ai canoni del Trullano è un
primo significativo passo verso un “diritto ecumenico”; infatti tutti siamo
ben consci dell’importanza di tale collezione canonica per tutte le Chiese
Ortodosse Bizantine e come ha rilevato ÃUÃEK: «(...) va da sé che questo
chiarimento ha una straordinaria importanza ecumenica, essendo un richia-
mo alle radici comuni di tutte le Chiese Orientali cattoliche ed ortodosse, al

475
SALACHAS D., Istituzioni di Diritto Canonico..., op. cit.., 12.
476
MASSIMO IV¸ Contro il progetto di un codice unico per la Chiesa orientale e per la Chiesa Occi-
dentale; in I Discorsi di Massimo IV al Concilio, Bologna 1968 (trad. it.), 468.
477
Ovviamente, con ciò non vogliamo asserire che il Concilio Vaticano II non sia una fonte giuridica;
ma, essendo il suo carattere eminentemente pastorale, preferiamo usare l’aggettivazione “giuridi-
co/a” in relazione ai canoni, e dunque – oggi – ai codici.
154
loro patrimonio disciplinare fondamentalmente uno ed unico»478 In effetti il
CCEO si basa su tre direttive codificatrici: (a) l’unitas del patrimonio fon-
damentale, (b) la varietas delle Ecclesiae sui iuris, (c) la novitas provenien-
te dalla disciplina conciliare479; ma oltre a questi aspetti, il Codice appare
intriso di un’altra direttiva: la sollecitudo oecumenica. Tale “sollecitudine”
in re oecumenica apre la strada del dialogo ecumenico, ancora di più, aven-
do ora le Chiese orientali cattoliche un corpus giuridico comune ed unitario
quale un codice. Dunque, il fatto che il CCEO abbia “giuridicizzato” forma-
liter le tematiche ecumeniche ci sembra cosa di non poco conto. Anzi, ac-
canto alle “piattaforme” dottrinali e sacramentali, sancite dai dialoghi inter-
nazionali, potrebbe apparire, negli incontri futuri, anche il Codice orientale,
al livello di testi preparatori sui quali poter modellare alcune forme di dialo-
go specifico480. Certamente, il CCEO è uno strumento umano, cioè redatto
dalla mente umana per l’uomo, dunque è solo un «mezzo per realizzare il
Regno dell’Amore»481. Ma, forse, per “Regno dell’Amore” non si potrebbe
intendere anche il ristabilimento dell’unità spezzata? Certamente si; ecco
dunque che il CCEO, pure essendo un “semplice ed umile strumento” potrà
essere d’ausilio in tal senso482. Infatti, come ha sottolineato ÃUÃEK: «(...) il
nuovo Codice non solo non costituisce un “impedimentum” bensì un poten-
ziamento di movimento ecumenico, prima di tutto perché si basa sulla sal-
vaguardia dei diritti fondamentali dell’uomo, anche per quanto riguarda le
sue libere scelte relative al “ritus”, e del diritto non solo sull’esistenza delle
Chiese orientali, ma anche a tutto ciò che è richiesto perché esse “floreant et
novo robore apostolico concreditum suum munus absolvant” (OE 1)»483.
In tutto questo, s’evidenzia maggiormente anche il ruolo dei canonisti,
il cui compito dovrebbe essere anche quello di indagare maggiormente il
substrato teologico-ecumenico dei canoni, al fine di fornire strumenti futuri
sempre più utili al teologo che si occupi di dialogo ecumenico. Dunque,
dalle norme ecumeniche del CCEO, ma anche del CIC, riteniamo si possa

478
ÃUÃEK I., Riflessioni circa la Costituzione Apostolica “Sacri Canones”, in Apollinaris LXV
1-2 (1992) 58.
479
Cfr. ÃUÃEK I., Riflessioni circa la Costituzione Apostolica “Sacri Canones”..., op. cit., 56-63.
480
Così ad esempio iniziano ad apparire documenti di accordo in materia matrimoniale; cfr. Agree-
ment between the Catholic Church and the Malankara Syrian Orthodox Church on inter-church
marriages, in Information Service 84 3/4 (1993) 159-161.
481
ÃUÃEK I., Riflessioni circa la Costituzione Apostolica “Sacri Canones”..., op. cit., 55.
482
Del resto, come sottolinea sempre ÃUÃEK: «Una dunque è la legge e cioè il “mandatum novum
diligendi sicut ipse Christus dilexit nos (Io. 13, 34)” come si esprime LG n.9, mentre i Codici
CIC, CCEO e “Pastor Bonus” ne sono solo “una particolare espressione”» (ÃUÃEK I., Riflessioni
circa la Costituzione Apostolica “Sacri Canones”..., op. cit., 56).
483
Ibid., 59-60.
155
delineare anche un nuovo campo d’azione scientifica del canonista, che
oltre ad essere dotto giurista, conoscitore esperto della realtà ecclesiale
sia in termini storici che teologici, non di meno dovrà essere anche con-
sapevole delle tematiche ecumeniche; infatti, il futuro della Chiesa risie-
derà proprio nel dialogo ecumenico e nella ricerca dell’unità, pertanto ar-
duo sarà anche il compito del giurista, che dovrà sempre più affinare i
propri strumenti per poter essere d’ausilio (sia come studioso che come
credente) per la cooperazione di questa colossale opera che è, appunto, il
ristabilimento della unità dei cristiani.

§3. Ulteriori note sulla tematica: “diritto ed ecumenismo”

Una considerazione di carattere molto generale – a nostro avviso –


s’im-pone. Il Codice affronta la tematica ecumenica, recependo lo spirito
del Con-cilio e rifacendosi spesso anche al DE, perciò sancisce la necessità,
il compito, anzi il dovere che hanno le Chiese Orientali cattoliche nei ri-
guardi del ristabilimento dell’unità spezzata; inoltre, il Codice si apre mol-
tissimo verso gli acattolici (specie) gli orientali e getta linee fondamentali
sia per la communicatio in sacris che per i matrimoni misti. Tutto ciò fa del
CCEO un codice assai sofisticato ed estremamente moderno, facendo sì che
un testo legislativo possa realmente colmare le molte lacune o mancanze
giuridiche delle precedenti legislazioni. Anzi, possiamo asserire che per ciò
che concerne le tematiche ecumeniche il CCEO sia addirittura, in parte, supe-
riore al CIC, costituendo uno strumento di eccezionale portata nonché di enor-
me importanza storica.
Tuttavia, resta – almeno a nostro parere – aperta una questione: cosa si-
gnifichi, veramente, «unità».
L’unità, in termini storico-religiosi, ma anche teologici è un qualcosa di
difficile sintesi484, specie se questa risulti spezzata. Il dovere dei singoli uo-
mini “di buona volontà” e degli “operatori di pace” è senza dubbio uno: per-
correre le “vie dell’unità”485. Il Concilio Vaticano II sancì, in modo inequi-
vocabile la caduta delle scomuniche e degli anatemi reciproci, nei confronti

484
Al riguardo ci ricorda VERCRUYSSE: «Non è facile spiegare come la Chiesa Cattolica romana vede
l’unità futura» (Introduzione alla Teologia Ecumenica, Casale Monferrato 1992, 106).
485
Moltissimo si è scritto in merito, un paio di titoli per tutti: O. CULMANN, Le vie dell’Unità Cristia-
na, Brescia 1994 (trad. it.); L. SARTORI, L’Unità della Chiesa – Un dibattito e un progetto, Bre-
scia 1989. Nei dialoghi il problema appare ma solo nella prima parte; cioè tutti riconoscono sem-
pre che l’unità è spezzata, che questo costituisce uno scandalo, che l’unità va ripristinata, ma po-
chi dicono come e nessuno dice dove. Noi non intendiamo assolutamente risolvere la questione,
ma semplicemente porla sul piano della discussione e del dibattito (qualora fosse possibile).
156
degli altri cristiani, infatti: «Quelli poi che ora nascono e sono istruiti nella
fede di Cristo in tali comunità non possono essere accusati di peccato di se-
parazione, e la Chiesa Cattolica li abbraccia con fraterno rispetto ed amo-
re»486. Dunque viene quasi sancito una sorta di “diritto naturale”: i cristiani
acattolici non possono essere accusati di apostasia o di eresia o di scisma,
poiché in effetti non furono loro “i responsabili”; la Chiesa cattolica dà un
colpo di spugna – e lo fa a giusta ragione – agli anatemi ed alle scomuniche
del passato487 (del resto le “colpe” dei padri perché mai dovrebbero ricadere
sui figli?). Anzi, il Concilio stesso riconobbe la validità delle norme canoni-
che delle Chiese Orientali (UR 16); inoltre, la Chiesa ha riconosciuto che
«parecchi doni dello Spirito Santo» sono anche posseduti dagli altri, pur
sussistendo nella Chiesa Cattolica la pienezza dei carismi488. Allora
l’ecume-nismo non potrà altro che intendersi in seno al cattolicesimo? È ve-
ramente difficile rispondere (e forse impossibile). I Codici sembrano ri-
spondere, più o meno direttamente, al nostro quesito ricordandoci ulterior-
mente che in effetti la ecclesia «sussiste» nella Chiesa Cattolica489; infatti il
CCEO al can. 7§2 ed il CIC al can. 204§2 affermano: «Haec Ecclesia in hoc
mundo ut societas constituta et ordinata subsistit in Ecclesia catholica a

486
UR 3: EV 1, 503.
487
In effetti, nel perido post-conciliare moltissimi sono stati gli incontri tra il Romano Pontefice ed i
rappresentanti massimi delle Chiese Orientali, in cui si sono prodotte delle importantissime di-
chiarazioni comuni. Celeberrima, fu la Dichiarazione comune, con conseguente abolizione delle
reciproche scomuniche, tra PAOLO VI ed il Patriarca di Costantinopoli ATHENAGORAS I del 7 di-
cembre 1965; in EV 2, 494-499. A questa è seguita una seconda dichiarazione comune tra GIO-
VANNI PAOLO II e DEMETRIO I (in EV 6, 1940-1941) Inoltre, cogliamo l’occasione per segnalare le
dichiarazioni comuni con le altre Chiese Orientali: Dichiarazione comune del Sommo Pontefice
Paolo VI e di Sua Santità Shenouda III, Papa di Alessandria e Patriarca della sede di S. Marco,
del 10 maggio 1973 [in AAS 65 (1973) 299-301]; Dichiarazione comune del Sommo Pontefice
Paolo VI e di Sua Beatitudine Mar Ignazio Jacoub III, Patriarca della Chiesa di Antiochia dei Si-
ri e di tutto l’Oriente, del 27 ottobre 1971 [in AAS 63 (1971) 814-815]; Dichiarazione comune del
Papa Giovanni Paolo II e di Sua Santità Moran Mar Ignazio Zakka I Iwas, Patriarca Siro-
ortodosso di Antiochia e di tutto l’Oriente, del 23 giugno 1984 [in Insegnamenti VII 1 (1984)
1902-1906]; Dichiarazione cristologica comune tra la Chiesa Cattolica e la Chiesa Assira
d’Oriente [ne L’Osservatore Romano, 12 novembre 1994, 4]. Infine, segnaliamo i seguenti di-
scorsi di GIOVANNI PAOLO II: Discorso agli invitati della Chiesa Copta Ortodossa, il 2 giugno
1979 [in AAS 71 (1979) 1000-1001], Discorso rivolto a Sua Santità Abuna Paulos, Patriarca della
Chiesa Ortodossa d’Etiopia, 11 giugno 1993 [ne L’Osservatore Romano, 11-12 giugno 1993, 4].
Da un punto di vista storico, segnaliamo A. BRUNELLO, Le Chiese Orientali e l’Unione, Milano
1966, praesertim 499-563.
488
Cfr. UR e LG 8.
489
In merito alla complessa questione del «subsistit», ricordiamo gli scritti di F. SULLIVAN, Subsistit
in, in One in Christ 2 (1986) 115-123; IDEM, In che senso la Chiesa di Cristo “Sussiste” nella
Chiesa Cattolica Romana, in a.c.d. R: Latourelle, Vaticano II: Bilancio e prospettive venticinque
anni dopo (1962-1987), Assisi 19882, II, 811-824.
157
successore Petri et Episcopis in communione cum eo gubernata»490. Questo
passo, così denso di significati tale da far scrivere interi libri, rappresenta
l’esempio della dogmaticizzazione della norma ed al contempo della dog-
maticità del canone. Infatti, partendo dal fatto che la Chiesa come realtà di-
vina si sia inserita nella realtà umana («in hoc mundo») e si sia organizzata
(«ut societas constituta et ordinata»)491, è vero che “questa Chiesa” continui
a vivere cioè sussista («subsistit») nella Chiesa Cattolica governata dal Suc-
cessore di Pietro e con lui i vescovi tutti che sono insieme in ecclesiastica
communio. Questo canone possiede un innegabile carattere ecumenico (cfr.
ECAS, p. 55) dal momento che è in correlazione al concetto stesso di comu-
nione e quindi di differenti gradi di essa alla quale appartengono le altre
Chiese o Comunità Ecclesiali; da ciò scaturisce tutta l’impostazione ecume-
nica statuita dall’ordinamento canonico (communicatio in sacris, matrimoni
misti, ulteriori implicanze ecumeniche, ecc.). Ad ogni modo, ritornando al
tema principale, riteniamo che il passo su citato sia già una sufficiente ri-
sposta alla domanda di cui sopra.
***
Nell’ambito della tematica “ecumenismo-diritto”, una cosa invece ap-
pare già sufficientemente chiara: il ruolo del papato nel ristabilimento
dell’unità. Ossia, da questa tematica – l’unità futura e le sue vie – scaturisce
da un lato la necessità per i cattolici di approfondire il ruolo dell’istituto del
primato e, dall’altro, negli “altri” comprendere che tale ministero possa es-
sere posto al servizio di tutti e per tutti i cristiani. Del resto, tramontato per
sempre il periodo della teocrazia e della potestas directa in temporalibus,
alle soglie del terzo millennio, si profila, anche se in lontananza, una figura
ed un ruolo di papato assai impegnata nel ristabilimento dell’Unità, e ciò
proprio perché il Romano Pontefice è il successore di Pietro, ossia il capo
del collegio episcopale. Dunque si va delineando nel tempo un ruolo sempre
più attivo ed attento del Papa, capo del collegio dei vescovi, quale mediatore
ed operatore attivo del ristabilimento dell’unità. Del resto, l’azione pontifi-
cia, iniziata già dal PAOLO VI, e instancabilmente proseguita ed ampliata
(tramite documenti, dialoghi e viaggi apostolici) da GIOVANNI PAOLO II,
490
Possiamo considerare unitario questo testo, dal momento che CIC e CCEO usano verbatim le stes-
se parole, facendo identici i paragrafi dei canoni!
491
Ciò non lascia proprio più dubbi circa il fatto che si possa parlare e quindi che esista un ordina-
mento giuridico quale quello canonico! Infatti, c’è ancora chi sostiene – ignorando il can. 7§2
CCEO ed il 204§2 CIC – di avere delle perplessità sulla legittimazione dell’ordinamento canoni-
co, riprendendo le vecchie teorie di SOHM, JHERING, IELLINEK e KELSEN, teorie che sono state am-
piamente sconfessate, già in tempi antecedenti al Concilio, da SANTI ROMANO, FEDELE, D’AVACK
e DEL GIUDICE!
158
sembra essere proprio rivolta in tal senso. Anche la rielaborazione dei cano-
ni fatta dal CIC rispetto alla legislazione del 1917 circa il Romano Pontefice
– i cann. del CIC e del CCEO sono sostanzialmente identici – sono tutti
frutto dell’ecclesiologia del Concilio492 a cui occorre guardare attentamente
per sviluppare questo speciale munus oecumenicum del Papa. Il giorno in
cui anche gli altri Cristiani rico-nosceranno pienamente tale “munus ulterio-
re” del Romano Pontefice493, allora saremo ancora meno lontani (forse sen-
sibilmente vicini) al ristabilimento completo dell’unità. Ricordiamo, il desi-
derio accorato del Romano Pontefice che un giorno si potrà nella piena co-
munione di tutte le Chiese orientali partecipare «sul medesimo altare al
Corpo e Sangue di Cristo»494. Dunque, qui si apre la questione del primato
papale: ostacolo o ponte495 per l’unità e quindi per il movimento ecumeni-
co? Stiamo assistendo, da parte cattolica a molti sforzi protesi affinché il
papato sia un ponte verso l’unità; lo stesso GIOVANNI PAOLO II, nella Sua
ultima enciclica «Ut unum sint», sembra porsi il problema dandone una ri-
sposta in chiave positiva asserendo che «Tra tutte le Chiese e Comunità ec-
clesiali, la Chiesa cattolica è consapevole di aver conservato il ministero del
Successore dell’apostolo Pietro, il Vescovo di Roma, che Dio ha costituito qua-
le “perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità»496.
E proprio il ruolo del Romano Pontefice, quale servus servorum Dei (ri-
facentesi a Lc 22,27: «Io sto in mezzo a voi come colui che serve»), quale
“garante” ed “artefice” dell’Unità, perché ispirato dallo Spirito, potrebbe es-
sere al centro di una ulteriore riflessione dogmatica, ecclesiologica e quindi
canonica. Del resto, a questo munus oecumenicum “aggiuntivo” del Romano
Pontefice497 si associa – come già evidenziato dai Codici (ved. can.192§§2-
3 CCEO; can. 383§§3-4 CIC) – tutto il collegio dei vescovi (cfr. US, 94).
Dunque, l’impegno ecumenico, la sollecitudine per il ristabilimento
dell’Unità ispira tutta la gerarchia cattolica; il problema ecumenico investe
l’ecclesio-logia e si riversa, quindi, nell’ordinamento canonico... la Chiesa

492
Ossia i cann. sul Romano Pontefice sono già canoni con forte contenuto ecumenico; cfr. ECAS, 61-62.
493
In merito alla figura papale e l’ecumenismo si ved. R. COPPOLA, Primato papale ed ecumenismo,
in Nicolaus 13 (1986) 3-28.
494
Discorso del S. Padre al Sinodo dei Vescovi del 25 ottobre 1990; in Nuntia 31 (1990) 21.
495
Al riguardo fondamentale è a parere nostro lo studio di C. GALLAGHER, Papal Primacy: obstacle
or Bridge to Unity?, in Logos: A Journal of Eastern Christian Studies 37 (1996), 189-218. In que-
sto studio dettagliato sul pensiero dei cristiani non-cattolici in merito al primato papale, l’A. com-
pie una lucida analisi della questione, proponendo di fatto alla canonistica il ruolo del papato co-
me “ponte” per il dialogo – e quindi l’azione ecumenica.
496
Ut Unum Sint 88.
497
Ved. Ut Unum Sint 99: «(...) per me, Vescovo di Roma, l’impegno ecumenico è “una delle priorità
pastorali” del mio pontificato».
159
Cattolica dopo i primi tentennamenti del secolo scorso si è ampiamente “ri-
scattata”, divenendo essa stessa punto d’avanguardia per il dialogo.
Dunque, la necessità del dialogo e la sua importanza rivestono partico-
lare rilevanza; senza dialogo, infatti non può esservi vero ecumenismo, reale
motus oecumenicus. Dal dialogo infatti, nascono i documenti ufficiali, che
sono i frutti; e non importa se questi siano di “accordo” oppure di “conver-
genza”, ciò che conta è che si realizzano, infatti ogni dialogo, ogni incontro
è una pietra in più per costruire la “casa dell’unità”.
***
Possiamo dunque, concludere che il CCEO abbia raggiunto uno dei suoi
obiettivi, cioè quello di affrontare e fissare le tematiche ecumeniche. D’ora
in poi sarà compito dei singoli all’interno della Chiesa sviluppare il dialogo
ecu-menico, la reciproca comprensione, e magari anche ulteriori mezzi per
poter giungere alla Communio intesa come Unitas.
Inoltre, il Codice getta il ponte verso un dialogo “ecumenico-giuridico”.
Infatti, il CCEO, che ha avuto oltre sessant’anni di gestazione498, si presenta
come un vero e proprio ponte tra le Chiese Cattoliche Orientali e le Chiese
Orientali acattoliche, questo ponte è anche giuridico. Ben conosciamo il “di-
sagio” degli ortodossi nei confronti del diritto canonico, dal momento che
sono ancora ancorati, in modo quasi vincolante, ai sacri canoni del primo
mil-lennio ed in particolare alla legislazione trullana499. Tuttavia nonostante
il fatto che il panorama ecclesiologico, ma anche canonico, delle Chiese O-
rien-tali acattoliche sia variegato e complesso, nondimeno avere da parte
cattolica un punto stabile – quale un codice – costituisce un punto di grande
importan-za. Infatti, se lo scopo del movimento ecumenico, consiste nel
chiamare le Chiese e le Comunità Ecclesiali al traguardo dell’unità visibile,
tangibile, rappresentata da un’unica fede e da una unica koinônia, dobbiamo
interrogarci su quale sia il compito del diritto canonico e su come le norme
giuridiche della Chiesa – oi ieroi kanones – possano recepire le categorie
ecumeniche e svilupparle. Ossia, da un lato dobbiamo investigare la rece-

498
In merito alla storia della codificazione canonica orientale ved. I. ÃUÃEK, Presentazione del Codex
Canonum Ecclesiarum Orientalium, in Monitor Ecclesiasticus, 115 (1990) 550-562; J. FARIS, La
storia della Codificazione Orientale, in K. Bharanikulangara (a.c.d), Il Diritto Canonico
nell’Ordinamento Ecclesiale, «Studi Giuridici» XXXIV, op. cit., 255-267; O. BUCCI, Il Codice di
Diritto Canonico orientale nella storia della Chiesa; in Apollinaris 55 1/2 (1982) 370-488. Men-
tre invece, per uno sguardo di insieme sulle caratteristiche del Codice, ved. D. SALACHAS, Teolo-
gia e Nomotecnica del CCEO, in Periodica de re canonica, 82-2 (1993) 317-338.
499
In merito cfr. B. PETRÀ, Tra cielo e terra. Introduzione alla teologia morale ortodossa contempo-
ranea, Bologna 1992, 61-104. Si segnala inoltre V. PERI, Orientalis Verietas. Roma e le Chiese
d’Oriente – Storia e Drititto Canonico, «Kanonika» 4, Roma 1995.
160
zione delle categorie ecumeniche nel diritto e dall’altro comprendere quale
sia la funzione del diritto nel movimento ecumenico. Tale problematica
sembra essere risolta e soddisfatta dal CCEO. Infatti, il Codice da un lato ha
recepito le categorie ecumeniche – frutto del Concilio e poi maggiormente
organizzate dal precedente Direttorio Ecumenico – e dall’altro sembra ri-
spondere, con grande generosità, alla questione inerente alla funzione del
diritto nel movimento ecumenico, stimolando e “responsabilizzando” le
Chiese sui iuris, spronando la gerarchia cattolica orientale, incitando i fedeli
ed esortando tutto il populus Dei alla preghiera ed all’azione pratica.
A conclusione di queste nostre brevi riflessioni, ci sembra doveroso e-
sprimere il nostro personale – e pertanto discutibile – parere sul CCEO.
Senza dubbio, il CCEO si presenta anche come un codice dal forte, anzi for-
tissimo, contenuto ecumenico; benché i canoni attinenti alle tematiche ecu-
meniche siano solo 36 su 1546, il loro peso e la loro portata è vasta.
L’apertura verso le Chiese Orientali acattoliche è innegabile, ugualmente
verso le tematiche ecumeniche. Concordando, pienamente, con BROGI500,
possiamo rintracciare nel CCEO tre grandi direttive: (a) il riconoscimento
dello stato attuale dei cristiani, (b) la legittimazione del loro ordinamento
giuridico, (c) la semplificazione della normativa riguardante la communi-
catio in sacris ed i matrimoni misti e – aggiungiamo noi – riconoscimen-
to dei sacramenti per gli orientali acattolici.
Come si potrà ben comprendere lo scenario instaurato dal CCEO è tutto
ancora da indagare, e soprattutto, giuridicamente parlando, da attuare nella
realtà, nella vita di ciascuna singola chiesa orientale cattolica. La strada è
senza dubbio è ardua, e le tensioni attuali non la facilitano501, tuttavia una
nuova via è stata definitivamente aperta: la via dell’ecumenismo nel diritto
canonico. Il CCEO, dunque rappresenta la marcata possibilità di avvicinarsi
di più all’unione, in particolare con le Chiese Orientali Acattoliche. In que-
sto campo molto si è fatto502, ma ancora molto è da farsi. Probabilmente il
terzo millennio, che è ormai alle porte potrà vedere i frutti di tutto ciò!

500
M. BROGI, Aperture ecumeniche del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, in Antonianum 66
(1991) 455-468.
501
«Sono per altro ben conscio che questo momento alcune tensioni tra la Chiesa di Roma ed alcune
Chiese d’Oriente rendono più difficile il cammino della Stima reciproca in vista della comunio-
ne», ha recentemente affermato GIOVANNI PAOLO II in Orientale Lumen 23.
502
Cfr. D. SALACHAS, Il Dialogo teologico ufficiale tra la Chiesa Cattolico-Romana e la Chiesa Or-
todossa. Iter e Documentazione, «Quaderni di O Odigos» (anno X, n°2, 1994), Bari 1994.
161
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170
SIGLE E ABBREVIAZIONI

AAS Acta Apostolicae Sedis.


c.(cc.); can.(cann.) canone, canoni.
CCEO Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium del 18.X.1990.
CIC* Codex Iuris Canonici del 27.V.1917.
CIC Codex Iuris Canonici del 25.I.1983.
COD AA. VV., Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Bologna 1991.
DE PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA PROMOZIONE DELL'UNITÀ
DEI CRISTIANI, Direttorio Ecumenico – Pars Prima (nn. 1-
64), in AAS 59 (1967) 574-592. [Qui l’editio italiana usata è
quella dell’EV 2, 1194-1256]. ID., Pars Altera (nn. 64-94);
in AAS 62-10 (1970) 705-724. [Qui l’editio italiana usata è
quella dell’EV 2, 1257-1292].
ECAS SECRETARIATO PER L'UNITÀ DEI CRISTIANI, Ecumenical
Aspects of the New Code of Canon Law; in Information
Service 60 1-2 (1986) 53-70.
EV = Enchiridion Vaticanum – Documenti ufficiali della Santa
Sede. Finora 12 voll., Bologna 1981-1990. [Nel citare l’EV
si è proceduto come segue: il primo numero indica il nume-
ro di volume, il secondo numero indica il riferimento del
paragrafo, cioè del num. marginale].
n.(nr.) numero.
NDE PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA PROMOZIONE DELL’UNITÀ
DEI CRISTIANI, Direttorio per l'applicazione dei principi e
delle norme sull'ecumenismo, del 25 marzo 1993 [L’editio
italiana qui utilizzata è quella pubblicata in Bologna nel
1993 dalle Edizione Dehoniane di Bologna «Collana Do-
cumenti: Santa Sede» nr. 20)].
Orientale Lumen GIOVANNI PAOLO II, Lett. Ap. Orientale Lumen del 2 mag-
gio 1995.
PCCIOR Pontificia Commissio Codicis Iuris Orientalis Recogno-
scendo.
PCPUC Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei
Cristiani.
RF S. CONGREGAZIONE PER L’ISTRUZIONE CATTOLICA, istr.
Ratio Fundamentalis Institutionis Sacerdotalis del 6 gennaio
1970.
SCICO (CICO) Schema del Codex Iuris Canonici Orientalis; in Nuntia 24-
25 (1987).

171
SPUC Segretariato per l’Unità dei Cristiani.
«Studi Giuridici» 32, AA. VV., Il Matrimonio nel Codice dei Canoni delle Chie-
se Orientali, «Studi Giuridici» 32, Città Vaticano 1994.
«Studi Giuridici» 34, = K. BHARANIKULANGARA (a.c.d.), Il Diritto Canonico O-
rientale nell’Ordinamento Ecclesiale, «Studi Giuridici» 34,
Città del Vaticano 1995.
Ut Unum Sint GIOVANNI PAOLO II, Enc. Ut Unum Sint del 25 maggio 1995.
ÃUÃEK, Index, ÃUÃEK I., Index Analyticus Codicis Canonum Ecclesiarum
Orientalium, «Kanonika» 2, Roma 1992.
ÃUÃEK, Modifiche, = ÃUÃEK I., Modifiche dello “Schema Codicis Iuris Cano-
nici Orientalis” al testo definitivo del “Codex Canonum
Ecclesiarum Orientalium”, Roma 1992 (P.I.O.).

Abbreviazioni dei documenti del Concilio Vaticano II

AA Concilio Vaticano II, Decreto su «L’Apostolato dei Laici – Apostolicam Actuositatem».


AG Concilio Vaticano II, Decreto su «L’Attività missionaria della Chiesa – Ad Gen-
tes».
CD Concilio Vaticano II, Decreto su «L’ufficio pastorale del Vescovo – Christus Domi-
nus».
DE Direttorio Ecumenico, prima parte (nn. 1-63) del 14 maggio 1967; seconda parte
(nn. 64-94) del 16 maggio 1970.
DH Concilio Vaticano II, Dichiarazione su «La Libertà Religiosa – Dignitatis Humana-
e».
DV Concilio Vaticano II, Cost. Dogmatica sulla «Divina Rivelazione – Dei Verbum».
GE Concilio Vaticano II, Dichiarazione su «L’Educazione Cristiana – Gravissimum
Educationis».
GS Concilio Vaticano II, Cost. Pastorale su «La Chiesa nel mondo contemporaneo –
Gaudium et Spes».
LG Concilio Vaticano II, Cost. Dogmatica su «La Chiesa – Lumen Gentium».
NÆ Concilio Vaticano II, Dichiarazione su «Le relazioni della Chiesa con le religioni
non cristiane – Nostra Aetate».
OE Concilio Vaticano II, Decreto su «Le Chiese Orientali Cattoliche – Orientalium
Ecclesiarum».
OT Concilio Vaticano II, Decreto su «La formazione sacerdotale – Optatam Totius».
PO Concilio Vaticano II, Decreto su «Il Ministero e la vita sacerdotale – Presbytero-
rum Ordinis».
UR Concilio Vaticano II, Decreto su «L’Ecumenismo – Unitatis Redintegratio».

172
INDICE

Presentazione a.c.d. Dimitrios Salachas 5


Introduzione 7
Alcune note introduttive
§1. Breve excursus sul movimento ecumenico 9
§2. Ecumenismo e Chiesa cattolica: alcune brevi note 13
§3. I principi cattolici dell’ecumenismo: alcuni punti 18
I battezzati acattolici che pervengono alla piena comunione
con la Chiesa (cattolica) secondo il CCEO
§1. Alcune note introduttive 31
§2. I battezzati acattolici secondo il Titolo XVII CCEO 40
§3. Il principio giuridico fondamentale della normativa 42
§4. I battezzati acattolici orientali 47
§5. Chi può ricevere i vescovi acattolici orientali nella Chiesa 50
cattolica
§6. I ministri acattolici orientali che pervengano alla comunione 52
ed il loro status in seno alla Chiesa cattolica
§7. Il minore acattolico 54
§8. Gli acattolici appartenenti ad una Chiesa non-orientale 56
§9. I battezzati acattolici e la conservazione dei propri riti 59
§10. Alcune riflessioni in merito al Titolo 17° CCEO 64
L’Ecumenismo, ossia la promozione dell’unità
dei Cristiani secondo il CCEO
§1. Alcune note introduttive 68
§2. La Chiesa cattolica e l’impegno ecumenico 70
§3. La Chiese Orientali cattoliche e l’ecumenismo 72
§4. Strutture preposte all’ecumenismo in ciascuna Chiesa sui iuris 75

173
§5. Il dialogo ecumenico: principi generali 78
§6. Alcuni soggetti attivi nell’azione ecumenica 80
§7. Ulteriori soggetti attivi nell’azione ecumenica 82
§8. Ulteriore esortazione ai christifideles 84
in merito all’impegno ecumenico
§9. Alcune riflessioni in merito al Titolo 18° CCEO 85
§10. Breve excursus sugli aspetti ecumenici del CIC 87
La communicatio in sacris ed un breve excursus
sui matrimoni misti
§1. Nota introduttiva 91
§2. La “comunicazione” nel culto divino 94
§3. La “comunicazione” nei sacramenti in generale 99
§4. Possibilità nella partecipazione alle letture nelle 106
celebrazioni eucaristiche?
§5. Il battesimo di un bambino acattolico da parte 107
del ministro cattolico
§6. La possibilità di celebrare la Divina Liturgia nelle 108
Chiese acattoliche
§7. Il culto dei santi: mancanza di “communicatio” 109
§8. Le esequie ecclesiastiche degli acattolici 109
§9. Il padrino acattolico nel battesimo di un cattolico 110
§10. Cenni sulle tematiche ecumeniche presenti nella 111
disciplina matrimoniale secondo il CCEO
§10.1. Il matrimonio tra cattolico e battezzato acattolico: 113
principi generali
§10.2. Il matrimonio dei battezzati acattolici 117
§10.3. I matrimoni misti: necessità della licenza 120
§10.4. Obblighi della parte cattolica nel matrimonio misto 122
§10.5. Rilevanza del diritto particolare nei matrimoni misti 124

174
§10.6. La cura pastorale nei matrimoni misti 125
§10.7. Ulteriori cenni sui matrimoni misti 126
§11. Alcune riflessioni in merito alla communicatio 128
in sacris e sui matrimoni misti
Ulteriori aspetti ecumenici del CCEO
§1. L’educazione ecumenica dei chierici e dei fedeli 131
§2. Il carattere ecumenico della catechesi 134
§3. L’Ecumenismo nelle scuole cattoliche 134
§4. Ecumenismo e strumenti di comunicazione sociale 135
§5. Ecumenismo e libri liturgici: un problema aperto 136
§6. La collaborazione tra cattolici e acattolici sul piano 138
delle persone e delle istituzioni
§6.1. Gli osservatori acattolici alle assemblee patriarcali 138
ed eparchiali
§6.2. Collaborazione tra i gerarchi delle Chiese cattoliche 139
ed acattoliche
§6.3. I vescovi e la loro sollecitudine verso gli “altri” 141
§7. Attività missionaria ed ecumenismo 143
§8. Il rispetto della libertà religiosa altrui 145
§9. Breve riflessione in merito alla collaborazione sul piano 147
delle persone e delle istituzioni
Relazioni fra Diritto Canonico ed Ecumenismo – Alcune
note per una conclusione –
§1. Il CCEO e l’Ecumenismo 148
§2. Verso un “diritto ecumenico”? 154
§3. Ulteriori note sulla tematica “diritto ed ecumenismo” 156
Bibliografia 162
Sigle e Abbreviazioni 171
Indice 173

175
Quaderni di
ORIENTE CRISTIANO
---------------------------------------

Studi
1. G. Valentini, Mostra d’Arte sacra bizantina, 1958, pp. 169 (esaurito).

2. P. Dumont, Teologia greca odierna, 1968, pp. 92 (esaurito).

3. N. Ferrante, Santi italo-greci nel reggino, 1974, pp. 115 (esaurito).

4. D. Como, L’Eparchia di Piana degli Albanesi, 1981, pp. 96 (esaurito).

5. D. Salachas, La normativa del Concilio Trullano, 1991, pp. 103.

6. Icone - arte e fede (Atti del Convegno di studio), 1993, pp. 206.

7. V. Peri, Dall’esaurimento dell’uniatismo alla santa Unione tra


Chiese Sorelle - Considerazioni sulla Chiesa di Dio che è in Ukrai-
na,1995/98, pp. 135.

8. T. Federici, “Resuscitò Cristo” - Commento alle Letture bibliche


della Divina Liturgia bizantina, 1996, pp. 1836, tavole f. t. 44.

9. D. Ceccarelli Morolli, Il Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium e


l’Ecumenismo - Aspetti ecumenici della Legislazione Canonica O-
rientale, 1997/98, pp. 175.

Testi
1. N. Gogol, Meditazioni sulla Divina Liturgia, a cura di P. Damiano
Como, 1973, pp. 106.

2. D. Como, Battesimo - Unzione crismale - Eucaristia, Tradizione


liturgica e spiritualità delle Chiese bizantine, 1984, pp. 175.

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