Sei sulla pagina 1di 5

Rassegna musicale/1

Kind of blue, storia del capolavoro di Miles


Davis (e Bill Evans)

di ALESSANDRO TROCINO

Bill Evans e Miles Davis

Sono passati 65 anni ed estrarlo dalla sua custodia,


appoggiarlo sul piatto, spostare la puntina, sentire il fruscio e le
prime note al pianoforte di So What, rimane un’emozione
incredibile. Chi non ha più il vinile, lo trova sulle piattaforme. Su
Spotify, per esempio, la terza traccia, Blue in Green, l’hanno
trovata e ascoltata 148 milioni di volte.
:
Kind of blue è un piccolo miracolo, con una bella storia.
Esce nel 1959, anno magico, se non irripetibile per il jazz: in
dodici mesi fanno la loro apparizione Mingus Ah Um di Charles
Mingus, Time Out di Dave Brubeck (con Take Five), The
Shape of Jazz to Come di Ornette Coleman. E Kind of Blue di
Miles Davis.

Ma non solo di Miles Davis. Nel pomeriggio di lunedì 2 marzo


1959, sette musicisti entrano nel 30th Street Studio della
Columbia Records, un’ex chiesa, per iniziare a registrare
l’album che allora si chiama Columbia Project B 43079, nome
di studio non proprio accattivante. Insieme a Davis, ci sono i
«suoi» musicisti: i sassofonisti John Coltrane e Julian
«Cannonball» Adderley, il bassista Paul Chambers, il
batterista Jimmy Cobb e il pianista Wynton Kelly. All’ultimo,
arriva un altro pianista, notizia che non entusiasma Kelly: è Bill
Evans.

Ed è proprio Evans il partner più importante del disco. Aveva


lavorato a lungo quelle tracce, prima di un burnout, causato
anche dalla malattia del padre. Poi aveva lasciato, ed ora eccolo lì,
sulla Third Avenue. Era un bianco Evans, a differenza degli
altri, e aveva una formazione classica. Anni prima, mentre
suonava al Village Vanguard, aveva alzato lo sguardo e aveva
intercettato gli occhi acuti, impenetrabili, di Miles, che lo
fissavano. Qualche tempo dopo Davis lo chiamò a collaborare.

Non era scontato. Evans era bianco e allora il jazz era


considerato roba per neri. Certo, ce n’erano stati altri e ce ne
sarebbero stati molti ancora — da Benny Goodman a Lee
Konitz, da Uri Caine a John Zorn — ma il reclutamento di
:
Bill fu accolto con molto malumore dall’ambiente. Racconta
James Kaplan su The Atlantic, che «Evans, che
era davvero bianco, occhialuto, professorale, incorse in un
risentimento immediato e diffuso tra i musicisti neri e il pubblico
nero». Anche Davis lo trattava con qualche fastidio e non
mancava di rimproverarlo ad alta voce, forse per far capire che
stava dalla parte giusta, quella dei neri: «Ehi Bill, basta, non
vogliamo opinioni bianche!». Ma era una posa, perché poi
diceva che quando si trattava di musicisti, era «daltonico».

Davis in quel periodo stava ascoltando musica diversa, voleva


provare a uscire dai sentieri classici del genere, era stufo di
standard e delle solite armonie. Era ossessionato dalla
registrazione di Arturo Benedetti Michelangeli del 1957 del
Concerto per pianoforte e orchestra in sol di Maurice
Ravel: ottavino e tromba, danze e cambi di ritmo frequenti.
Amava Aram Khachaturian e la musica asiatica. Ma poi
tornava sempre a Evans: «Ho concepito quell’album intorno
al suo pianoforte».

Intorno al suo pianoforte voleva aggiungere mondi nuovi. Gli


piaceva la kalimba, il pianoforte africano a pollice e risuonavano
ancora nella mente le voci dei cantanti gospel neri che sentiva
intorno alla fattoria dei suoi nonni, nell’Arkansas. Alla fine, Miles
non fu del tutto soddisfatto del risultato. Più avanti avrebbe
condotto le sue esplorazioni molto lontano, spostandosi senza
pace dal cool jazz all’hard bop fino al rock elettronico.
Avrebbe cambiato quattro o cinque volte direzione, conservando
lo sguardo truce, riempiendo di parolacce i giornalisti,
suonando con le spalle al pubblico in segno di disprezzo.
A un certo punto, come tutti o quasi i musicisti dell’epoca, si
:
imbattè nell’eroina. Per liberarsene, adottò la tecnica del «cold
turkey», il tacchino freddo: «Mi sdraiai sul letto e mi misi a
guardare il soffitto per dodici giorni di fila, durante i quali
imprecai contro tutti quelli che non mi piacevano. Era come avere
una grave forma di influenza, però un po’ peggio. Vomitavo tutto
quello che cercavo di mandar giù. I miei pori erano dilatati e
puzzavo come se fossi immerso in un brodo di pollo. Poi finì».

Davis veniva da una famiglia della buona borghesia


nera, che voleva elevarsi al di sopra dei «niggers», e per tutta la
giovinezza la rinnegò. Non andò ai funerali di sua madre, contestò
suo padre. Disse che uno dei primi ricordi era di «un uomo
bianco che mi correva dietro per la strada gridando
‘niggers niggers’». Come scrive Arrigo Polillo nel suo «Jazz»,
«non amava i bianchi», pensava che «non possono capire
la musica afro-americana (non il jazz, che non esiste — diceva
— è solo una parola inventata dai bianchi per i ‘niggers’)».

Sulla paternità nera del jazz ha scritto pagine interessanti Davide


Sparti, in «Suoni inauditi», dove ricostruisce le origini della
musica, ancora controverse e immerse nella leggenda: «La prima
generazione di schiavi importati in America, confluiti soprattutto
a New Orleans, proveniva per lo più dall’Africa occidentale,
perché i francesi nel cui territorio della Louisiana il jazz dette i
primi segni di vita, avevano delle preferenze per i neri provenienti
dal Dahomey. Che cosa essi importarono musicalmente è un fatto
dibattuto, ma è ovvio che non sbarcarono dalle navi dei
negrieri suonando jazz». Ci sono però alcuni elementi che si
trovano sia nella musica tradizionale africana che nel jazz delle
origini: «Una ritmica percussiva, l’accento sull’off beat, la
poliritmia (l’esecuzione contemporanea di due o più ritmi
:
eventualmente in contrasto tra loro) e l’uso di call and response
patterns». Ovvero i botta e risposta, dove la seconda frase,
suonata da un altro musicista, risponde alla prima.

Detto questo, dice Sparti, bisogna stare attenti a cadere nel


«primitivismo», che è quello per cui «solo l’aura esotica del
nero garantisce l’autenticità del jazz». Il jazz è una
musica sporca, un costrutto ambiguo, che si è trasformato
mille volte nel tempo e nello spazio. Come diceva il
trombettista Clark Terry: «A una nota non interessa chi la
suona — se sei nero, bianco, verde, marrone o opaco». Kind of
blue — frutto del lavoro e dell’improvvisazione di due geni della
musica, il fieramente nero Miles Davis e l’outsider bianco Bill
Evans — resta nella storia come qualcosa di magico e
irripetibile. Per fortuna, possiamo estrarre per la milionesima
volta il vinile dalla sua custodia e cominciare ad ascoltare le prime
note di So What.

Rassegna storico-politica

L’intellettuale furioso e il veterano lucido:


la coscienza di Israele

di GIANLUCA MERCURI
:

Potrebbero piacerti anche