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PROGETTO SOCIOLOGIA.

GUIDA ALL’IMMAGINAZIONE SOCIOLOGICA


Jeff Manza, Richard Arum, Lynne Haney (a cura di Marco Santoro)

1. Immaginazione sociologica.

1.1. L’immaginazione sociologica come può aiutarci a capire meglio il nostro mondo?
L’immaginazione sociologica è la capacità di riflettere sistematicamente su quanto le cose da noi
percepite come problemi personali siano in realtà questioni sociali ampiamente condivise da altri
individui e su quanto le nostre vite individuali sono influenzate da luoghi, tempi, persone ed espe-
rienze.
Essa ci aiuta a cogliere la molteplicità delle prospettive riguardanti un dato argomento, come ad
esempio le relazioni di intimità, e a mettere in discussione la “presunta” naturalezza delle nostre
convinzioni. Ad esempio, giudichiamo spesso sbrigativamente le differenze tra gruppi di persone e,
quando associamo tali differenze a persone reali, è facile sviluppare degli stereotipi, ossia delle cre-
denze solitamente false o esagerate relative ai membri di un gruppo, che sono alla base delle sup-
posizioni sui singoli individui che ne fanno parte. L’immaginazione sociologica ci permette di mette-
re in discussione tali stereotipi sollevando domande sulla loro origine e sui loro effetti su chi li subi-
sce e su chi li esprime.
Tutti possediamo un certo livello di immaginazione sociologica, con la quale cerchiamo di dare
senso ai mondi sociali che ci circondano, osservando quotidianamente la gente e le sue azioni e
usando informazioni sulla nostra società per formulare ipotesi realistiche sugli individui che incon-
triamo; la correttezza delle nostre ipotesi dipende in parte dall’efficacia con cui abbiamo allenta la
nostra immaginazione sociologica a guardare oltre gli stereotipi e le supposizioni. L’osservazione
delle persone o dei gruppi che ci circondano e la formulazione di generalizzazioni non rappresenta-
no, quindi, di per sé un esempio di buona immaginazione sociologica. Il contrassegno di una buona
immaginazione sociologica è, invece, la capacità di porre domande difficili anziché accettare rispo-
ste preconfezionate.
Qualunque sociologo, prima di iniziare la propria attività di ricerca, ha avuto esperienze che han-
no svelato la falsità di un certo tipo di opinione comune o di una qualche supposizione ampiamente
condivisa, e che hanno stimolato la sua immaginazione sociologica. Quando questo capita, e inizia-
mo a porci domande su quanto osserviamo, muoviamo il primo passo verso lo sviluppo
dell’immaginazione sociologica. Queste domande possono riguardare ciò che è direttamente sotto i
nostri occhi come intere società. Per trovare una risposta empirica a tali domande, i sociologi di-
spongono di teorie sociali, ossia schemi molto generali sul funzionamento del mondo sociale, e me-
todi di ricerca specifici della sociologia. Imparare a mettere in discussione l’opinione diffusa è una
componente fondamentale per riuscire a pensare seriamente al mondo che ci circonda (tuttavia,
mettere in discussione ogni cosa è certamente controproducente e senza alcun fondamento). Per
illustrare meglio quanto stiamo dicendo, possiamo portare come esempio un progetto di ricerca di
Richard Arum, nel quale seguì il percorso di più di 2000 giovani studenti di 24 college diversi, che
hanno concluso gli studi e sono pronti per iniziare a lavorare, andando a vivere con gli amici, con il

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partner o tornando dai genitori. A due anni di distanza dalla fine degli studi, il 24% del campione era
tornato a vivere con i genitori. Prendiamo in considerazione Maria e Robert. Maria ha frequentato
un college di arti liberali molto selettivo, vi è arrivata con alto punteggio nel SAT, ha presto deciso di
specializzarsi in scienze sociali, ha trascorso un semestre all’estero, si è spesso confrontata con i
professori, e ha migliorato nel corso degli anni il suo punteggio nei compiti che richiedevano pen-
siero critico e ragionamento. A due anni dalla fine degli studi, Maria vive con un’amica e guadagna
38000 $ l’anno. Robert, invece, si è iscritto ad un’università pubblica ad accesso libero, entrando
con un punteggio non particolarmente brillante, ha raramente incontrato i suoi professori fuori dal-
le lezioni e non è migliorato particolarmente nei compiti che richiedevano pensiero critico e ragio-
namento. Due anni dopo la laurea, è disoccupato e vive con i suoi genitori. Un terzo degli studenti
del campione presentava caratteristiche simili a quelle di Robert. Per comprendere questo feno-
meno, i sociologi si interrogano sui fattori sociali che incidono sulla prestazione negli studi e sul
modo in cui le relazioni sociali influiscono sull’apprendimento. Alcuni degli aspetti su cui i sociologi
conducono la propria ricerca sono i seguenti:
• Come influiscono le vite degli studenti prima dell’università sulle loro esperienze
all’università? Tornando a Maria e Robert, è possibile che le aspettative particolarmente alte dei
genitori di Maria abbiano influito sul suo rendimento accademico, mentre le aspettative più basse
dei genitori di Robert lo abbiano portato a dare più importanza aglia mici che agli studi;
• Come incide l’organizzazione social della vita universitaria sulle esperienze degli studenti? Le
università, in quanto organizzazioni, hanno le proprie strutture, logiche e regole informali, che in-
fluiscono sugli studenti e sulla formazione della loro identità sociale, culturale e politica. Probabil-
mente le diverse organizzazioni delle università frequentate da Maria e Robert hanno influito sul lo-
ro rendimento accademico e sulla loro motivazione a studiare;
• L’esperienza dell’università avvantaggia tutti in egual misura? Sappiamo che le gerarchie so-
ciali di classe e genere influiscono sulla scelta del percorso scolastico: probabilmente, coloro che di-
spongono di più risorse riescono a sfruttare maggiormente le opportunità offerte dall’università.
Anche questo potrebbe avere influito sulle vite accademiche di Maria e Robert;
• In che modo i percorsi accademici degli studenti sono influenzati dai mercati del lavoro che li
attendono dopo la laurea? L’economia dei paesi occidentale, soprattutto nei settori terziario e high-
tech, con i suoi continui cambiamenti incide sulle chances di trovare lavoro e questo influisce anche
sulle motivazioni degli studenti come Maria e Robert nel trovare in futuro un lavoro soddisfacente.
Le domande della sociologia riguardano il mondo moderno nel suo complesso, spaziando dalle uni-
tà fondamentali della vita umana alle organizzazioni di cui facciamo parte, fino a toccare l’economia
globale in rapido cambiamento.
L’immaginazione sociologica può espandersi per indagare molti aspetti della condizione umana,
anche quelli più impensabili come l’implicazione degli studi sul DNA nelle questioni politiche ed
economiche. Questo, però, non significa che si possa accettare tutte le questioni possibili. I sociolo-
gi si basano su un particolare modo di porre le domande e su una serie di teorie e di strumenti utili
per cercare le risposte a tali domande.

1.2. Perché i contesti sociali sono importanti?

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La sociologia si occupa principalmente di come i contesti sociali influiscono sugli individui. (I con-
testi sociali sono gli ambienti sociali che includono le condizioni economiche e culturali in cui ogni
individui nasce, si sviluppa e vive e dalle quali è profondamente influenzato). Esistono diversi tipi di
contesti sociali che gli individui possono trovare nel corso della loro vita: la famiglia di origine; il li-
vello di istruzione; il reddito familiare; il quartiere e la comunità locale; l’istruzione ricevuto, che si
sta ricevendo o da ricevere; i tipi di organizzazione frequentati o da frequentare; le persone che si
incontrano in tali contesti; il tipo di occupazione esercitata o da esercitare; inoltre, sono da tenere
in considerazione il paese e il periodo storico. L’individuo si trova di fatto in un mondo sociale che
ha un impatto enorme su di lui.
Generazioni di ricerca sociologica hanno sottolineato l’importanza fondamentale della famiglia
nello sviluppo degli individui, che può influenzare la costruzione della nostra identità veicolando
una particolare identità etnica e/o religiosa, insegnandoci le norme fondamentali della società, at-
traverso i luoghi in cui i nostri genitori hanno deciso di vivere, grazie alle loro risorse finanziarie e
attraverso le loro capacità cognitive ed emotive. Inoltre bisogna tenere conto anche del quartiere e
della comunità in cui cresciamo: vivere in una comunità con buone scuole e famiglie che incorag-
giano i figli ad essere ambiziosi e ad avere fiducia in sé stessi crea percorsi diversi da quelli dei bam-
bini cresciuti in quartieri impoveriti e ad alto tasso di criminalità, che, come dimostra uno studio di
Pat Sharkey, causa nei bambini un calo delle prestazioni scolastiche.
Le organizzazioni di cui facciamo parte e le istituzioni con cui veniamo in contatto plasmano le
identità a noi disponibili e incidono sul nostro modo di valutarle e sulle ragioni per cui gravitiamo
verso alcune e non verso altre. I gruppi in cui ci inseriamo influiscono sulle opportunità che ci si
possono presentare e sulla formazione delle nostre identità pubbliche e private. Persino gli aspetti
basilari come l’identità etnica cambiano a seconda delle istituzioni a cui siamo connessi, come mo-
stra il fatto che i carcerati bianchi di sesso maschile negli Stati Uniti si identifichino maggiormente
come “afroamericani”, dopo aver trascorso del tempo in prigione. (Infatti, nelle prigioni statunitensi
gli afroamericani sono notevolmente sovrarappresentati).
I contesti sociali, economici e storici della parte del mondo in cui siamo nati influenzano le op-
portunità a nostra disposizione, limitando scopi e aspirazioni o consentendoci di perseguirne mol-
teplici. Ad esempio, un afroamericano nato nel Sud degli Stati Uniti agli inizi del XX secolo affronta-
va un ambiente diverso da quello contemporaneo. A maggior ragione, oggi, con la crescente globa-
lizzazione, siamo esposti ad un numero nettamente maggiore di contesti sociali e culturali che ci in-
fluenzano.
Dunque, possiamo definire in maniera più completa la sociologia come lo studio dei diversi con-
testi attraverso cui la società influenza gli individui. Per studiare i contesti sociali è necessario fare
distinzione tra interazione sociale e struttura sociale. Per interazione sociale si intende il modo in
cui le persone agiscono insieme e modificano il proprio comportamento in risposta alla presenza
degli altri. Essa è governata da norme fondamentali che ci aiutano a sapere cosa è appropriato e
cosa non lo è in una determinata situazione, e di cui noi facciamo uso per presentare un’immagine
positiva di noi stessi. L’identità che decidiamo di assumere tra le diverse identità a nostra disposi-
zione dipende anche dal contesto in cui ci troviamo. L’importanza della componente sociale
dell’interazione sociale ci appare chiaramente quando violiamo le norme sociali con un comporta-

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mento inaccettabile; tuttavia, tendiamo ad autocensurarci, inibendo i comportamenti inaccettabili,
preoccupati delle conseguenze sociali delle nostre azioni. Le norme sviluppate dalla società vengo-
no veicolate da figure importanti, come i genitori o gli insegnanti. Sapere quali sono le norme rela-
tive ad una situazione è importante per evitare l’imbarazzo causato dalla violazione delle norme so-
ciali. Per struttura sociale, invece, si intendono tutte quelle forze esterne che incidono sui contesti
sociali e che pongono i limiti entro cui possiamo operare ma che costituiscono anche le nostre op-
portunità; le due componenti della struttura sociale sono le gerarchie sociali, ossia l’insieme di rela-
zioni sociali che fornisce a individui e gruppi differenti tipi di status, e le istituzioni, ossia le pratiche
ed organizzazioni durevoli che forniscono i modelli su cui si fonda la nostra esistenza quotidiana.
Ogni società ha al suo centro un insieme di diseguaglianze gerarchiche e il nostro ruolo in queste
gerarchie influenza chi siamo e cosa possiamo fare, ossia i nostri ruoli sono in parte determinati dal-
la nostra condizione sociale; anche le istituzioni contano poiché non cambiano facilmente, sono dif-
ficili da eludere e a esse dobbiamo rispondere frequentemente.

1.3. Quali sono le origini della sociologia e in cosa differisce dalle altre scienze sociali?
Le scienze sociali in generale si svilupparono quando un crescente numero di studiosi, nel corso
del XIX secolo, ha iniziato a riflettere su come studiare il funzionamento del mondo reale, ponendo
in modo nuovo domande difficili sul mondo, da indagare in maniera differente dalla pura specula-
zione; ma solo negli anni ’80 si è iniziata a diffondere l’idea che il mondo sociale potesse essere stu-
diato. Inizialmente, però, i confini tra le discipline scientifico-sociali erano piuttosto indistinti. Solo
tra il 1880 e il 1910 le scienze sociali iniziano a sistematizzarsi. Pur nascendo con Auguste Comte,
come la scienza fondamentale del mondo sociale che si articola in “statica sociale” (studio delle so-
cietà in un dato momento) e “dinamica sociale” (studio dello sviluppo nel tempo di una società), la
sociologia si inizia a sistematizzare per la prima volta in Francia con Emile Durkheim, che nel 1887
insegnò Scienza sociale a Bordeaux, e che nel 1889 fondò “L’année sociologique”. In America, inve-
ce, dal 1895 troviamo attiva la “scuola di Chicago”, ossia il Dipartimento di Sociologia dell’Università
di Chicago, che iniziò a studiare le città e i gruppi di persone che ivi vivevano. Furono sostanzial-
mente due gli sviluppi fondamentali che stimolarono la nascita della sociologia come scienza socia-
le: l’industrializzazione e l’urbanizzazione, strettamente collegati tra di loro. La diffusione del lavoro
in fabbrica creò occupazione che si concentravano in aree urbane, dove le persone provenienti dal-
le fattorie e dalle comunità rurali iniziarono a stanziarsi in massa, insieme agli immigrati negli Stati
Uniti, facendo sì che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento il tasso di urbanizzazione au-
mentasse notevolmente e velocemente. Le città che registrarono questa esplosione demografica
brulicavano di nuovi problemi, diversi da quelli delle società rurali, che le sole scienze naturali e bio-
logiche non potevano spiegare; in questo contesto, trovano posto la sociologia e le altre scienze so-
ciali che iniziò a cercare di comprendere le fonti dei nuovi problemi sociali.
Cosa distingue la sociologia dai suoi “fratelli”? Innanzitutto, i concetti e le teorie sociologici ri-
guardano una gamma di temi più ampia rispetto alle altre scienze sociali; a causa di tale ampiezza,
la sociologia non può essere facilmente qualificata, in quanto può muoversi in tutte le aree che so-
no “terreno” delle altre scienze sociali, definendosi in relazione ad una specifica istituzione o area
della vita presa in esame. Inoltre, le spiegazione della sociologia sull’incidenza del mondo esterno

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sul nostro comportamento abbracciano differenti unità d’analisi, ossia parti di un tema che un ri-
cercatore affronta durante il suo studio, rispetto a quelle delle altre discipline, concentrandosi sui
gruppi, sulle istituzioni e/o sulla società globale più che sugli individui. I sociologi possono focalizza-
re la loro attenzione su differenti livelli riguardo i fenomeno sociali, assumendo di volta in volta
prospettive diverse e sfaccettate. Le unità d’analisi influenzano non solo quali aspetti della realtà
possiamo vedere ma anche le spiegazione di tali aspetti che i sociologi offrono. Proprio perché lavo-
rano su diversi livelli, con differenti unità di analisi, i sociologi, generalmente, affrontano una gam-
ma di connessioni più ampia rispetto agli altri scienziati sociali. Le teorie sociologiche, mentre ten-
dono a essere più intricate e più difficili da verificare, possono anche produrre una più ampia gam-
ma di interpretazioni possibili. A un secolo di distanza dalla formazione delle scienze sociali, i confini
tra di loro stanno tornando ad essere sempre più sfumati, per la centralità che la ricerca interdisci-
plinare sta assumendo nello studio di qualunque argomento. La sociologia, per quanto ampia possa
essere, ha sempre bisogno di attingere ai risultati dello studio e della ricerca dell’economia, della
politica, della psicologia e dell’antropologia, poiché essa, da sola, non può rispondere a tutte le do-
mande che gli scienziati sociali sollevano.
Oggi sta crescendo un vasto gruppo di discipline fondamentali che prendono le mosse dalla so-
ciologia, come la criminologia, gli studi di genere, gli studi afroamericani e latinoamericani, gli studi
organizzativi o gestionali, e altri ancora, ma che da essa si sono separate, sviluppando le proprie ba-
si conoscitive e associazioni professionali.

2. Studiare il mondo sociale.

2.1. Come nascono le domande sociologiche?


Nonostante la distinzione che può essere fatta tra metodi di ricerca quantitativi basati sull’analisi
statistica dei dati e metodi di ricerca qualitativa basati sull’osservazione ed il colloquio, tutte le ri-
cerche sociologiche condividono i modi di porre domande, di accostarsi alla raccolta dei dati e di
formulare generalizzazione; una buona ricerca presta attenzione alle particolari questioni che sor-
gono in ciascuna delle fasi del processo di ricerca.
Difficilmente succede di non avere buoni temi da studiare. La difficoltà sta non nel trovare un ar-
gomento interessante, ma nel ricavare da quell’argomento una domanda su cui sia possibile con-
durre una ricerca. Nella maggior parte dei casi, ciò richiede una focalizzazione, ossia la scomposi-
zione del tema in parti diverse, da cui poi ricavarne una da cui cominciare la ricerca. In generale, le
buone domande di ricerca ci conducono a riflettere attorno ad un tema in modo più specifico e a
trasformare le nostre idee al riguardo in ipotesi di lavoro. È sempre bene, però, prima di iniziare la
ricerca, passare in rassegna la letteratura sull’argomento: ciò permette di restringere il campo degli
interessi a specifiche domande in maniera meno faticosa, ma anche di sapere se il tema di interesse
è già stato trattato.
Almeno sei interrogativi permettono di determinare la praticabilità di una possibile domanda di
ricerca:

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• Conosco già la risposta? La domanda sociologica ha lo scopo di produrre nuova conoscenza
e non semplicemente di confermare quello che già si conosce. Se già si conosce la risposta alla do-
manda, è necessario cambiare domanda di ricerca;
• La domanda può essere oggetto di ricerca? È necessario accertarsi di porre una domanda a
cui si possa realmente dare risposta: domande che si interrogano sul senso della vita o su quando ci
sarà la pace nel mondo non sono domande che possono essere oggetto di ricerca. Molte delle do-
mande meno indagabili implicano una relazione di causalità impossibile da suffragare con i dati che
ci sono accessibili;
• La domanda è chiara? Le domande chiare originano da un pensiero chiaro. Se una domanda
non è chiara, probabilmente non lo è neanche il pensiero che ne sta alla base: il problema potrebbe
derivare dalla presenza nella domanda di concetti indefiniti. Mentre precisano le loro domande, i
sociologi si assicurano di approfondire ogni assunto nascosto definitore, come i concetti o i termini
di cui non è chiaro il significato, o causale, come la relazione tra due cose che si da per scontata.
Chiedersi se si stia formulando un qualche assunto sulle relazioni tra parole in una fase iniziale del
processo permette di evitare che gli assunti nascosti indefiniti emergano in seguito,rischiando di
compromettere anche il migliore progetto di ricerca;
• La domanda ha un legame con il sapere delle scienze sociali? Quando viene posta una do-
manda di ricerca, è necessario che il sociologo passi in rassegna la letteratura sull’argomento, se-
guendo i dibattiti di suo interesse ed elaborando progetti di ricerca per risolvere alcuni aspetti di
questi dibattiti, oppure analizzando gli studi esistenti per scoprire domande ignorate dai colleghi;
• La domanda bilancia ciò che è generale e ciò che è particolare? La domanda di ricerca non
dovrebbe essere né troppo ampia e generale, poiché sarebbe impossibile tracciarne i confini e im-
maginare delle prove empiriche che possano darvi risposta, né troppo particolare e specifica, poi-
ché interesserebbe solo noi o un gruppo molto limitato di persone;
• Mi interessa la risposta? Se il sociologo per primo non è interessato alla ricerca che conduce,
probabilmente non lo saranno neanche gli altri e rischieremo di produrre risultati corretti ma poco
significativi. D’altra parte, preoccuparsi troppo della propria ricerca può portare il sociologo a non
tenere la giusta distanza dal tema e ad esserne troppo coinvolto emotivamente.
La scelta dei sociologi sui temi da indagare è influenzata da molti fattori:
• Le inclinazioni epistemologiche, ossia ciò che si pensa di poter conoscere riguardo al mondo,
ciò che si pensa di conoscere e ciò che si pensa possa avere valore di prova empirica, e all’interno
delle quali si può distinguere tra:
o Epistemologia positivista, secondo cui il solo modo di conoscere il mondo sia usare la logica
delle scienze naturali;
o Epistemologia interpretativista, secondo cui le scienze sociali seguono una logica differente
da quella delle scienze naturali, a causa della diversità dei loro oggetti, e secondo cui gli scienziati
sociali sono interpreti delle interpretazioni che le persone danno della vita, degli oggetti e dei pro-
cessi vitali;
• Le tradizioni teoriche, ossia gli schemi concettuali usati dai sociologi per crearsi un’immagine
sensata del mondo, sul solco delle quali un sociologo si inserisce e che molto spesso rimangono im-
plicite;

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• I valori, che incidono sulla motivazione di un sociologo a prendere in considerazione specifici
temi, ma che non lo rendono necessariamente meno obiettivo, se egli rimane disponibile ad ogni
tipo di risposta, anche quella che non gli piace;
• Il codice etico, ossia quell’insieme di linee guida che descrivono quale comportamento è
considerato morale ed accettabile per gli scienziati sociali, all’interno del quale troviamo norme
come il consenso informato, che richiede allo scienziato sociale di rivelarsi e di ottenere dal parteci-
pante il consenso volontario alla partecipazione allo studio, o come i principio di confidenzialità,
che garantisce la non rivelazione delle reali identità dei soggetti; questo, ovviamente, influisce su
quali tipi di studio possono essere messi in atto: ad esempio, oggi non sarebbe più possibile mette-
re in atto esperimenti come il paradigma delle scosse elettriche di Milgram o l’esperimento carcera-
rio di Stanford di Haney e Zimbardo; ciò dipende anche da come si intenda il concetto di “danno”,
che nel corso del tempo è cambiato.

2.2. Qual è il metodo migliore per condurre ricerca a partire da una domanda sociologica?
Una volta che si ha una versione provvisoria di una domanda di ricerca, bisogna scegliere un me-
todo e un disegno di ricerca, decidendo chi o che cosa studiare, dove e quando studiarlo, come
operazionalizzare ciò che si sta studiando e come misurare le variabili dipendenti e indipendenti. La
sociologia accetta differenti metodi di ricerca: inchieste campionarie, interviste approfondite, espe-
rimenti sociali, ricerca storia, oppure un’integrazione di questi metodi di ricerca. Il metodo da usare
si sceglie sulla base della domanda di ricerca. Alcune volte questa scelta è ovvia: ad esempio, se vo-
gliamo concentrarci su modelli comportamentali, è meglio puntare sull’inchiesta campionaria. Altre
volte la scelta del metodo non è così ovvia; infatti, molte ricerche vanno male perché sollevano una
domanda di ricerca chiara ma finisce per raccogliere dati con metodi sbagliati e che non aiutano a
fornire una risposta alla domanda: ad esempio, non si possono indagare le opinioni degli individui
partendo dall’osservazione del comportamento, poiché le persone spesso agiscono in maniera in-
coerente rispetto alle proprie opinioni. Pertanto, scegliere un metodo di ricerca è un processo
complicato che richiede una considerevole riflessione, buona logica e abilità analitiche per prevede-
re quale tipo di prova empirica sia necessaria allo scopo di rispondere ad una domanda di ricerca,
ed una valutazione onesta della personalità del ricercatore, poiché anch’essa influisce sul metodo
da utilizzare: ad esempio, i sociologi estremamente timidi dovrebbero evitare di condurre interviste
in profondità e faccia a faccia.

2.3. Come si raccolgono i dati?


Una volta circoscritto il campo delle domande e scelto i metodi di ricerca, i sociologi possono ini-
ziare a raccogliere i dati. Ovviamente, il processo di raccolta dei dati è diverso a seconda del meto-
do usato: se, ad esempio, si fa affidamento su dati di inchiesta si devono condurre inchieste, appun-
to, oppure perfezionare i dati già raccolti nei grandi data set, verificandone la completezza,
l’inclusività e la generalità.
I sociologi si differenziano tra di loro anche per la logica che sta alla base della loro raccolta dati:
alcuni sociologi si attengono ai classici passaggi del metodo scientifico, altri utilizzano un approccio
più flessibile, variando le fasi di ricerca, mettendo in discussione e rivedendo di volta in volta

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l’oggetto della ricerca e perfino la domanda di ricerca. Al di là di queste differenze, tuttavia, è pos-
sibile rintracciare un insieme condiviso di questioni pratiche che emergono in ogni raccolta di dati.
Una di queste questioni è quella sull’affidabilità e validità delle informazioni raccolte: esse sono af-
fidabili quando, usando la stessa tecnica di misurazione in un nuovo studio, si ripresentano in ma-
niera simile; esse sono valide quando la misurazione usata dal ricercatore riflette le sue attese su
ciò che vuole scoprire sul mondo sociale. Un’altra questione è quella del campionamento, ossia de-
cidere quanti e quali soggetti includere nel campione da analizzare. Alcuni sociologi usano il cam-
pionamento probabilistico, selezionando il campione in modo che rifletta le caratteristiche e le di-
namiche della popolazione di partenza; altri usano il campionamento casuale, nel quale ogni indivi-
duo che andrà a costituire il campione ha le stesse probabilità di essere estratto; altri ancora, so-
prattutto quando non è possibile utilizzare il campionamento casuale, usano il campionamento
rappresentativo, in cui si assicurano che le caratteristiche del proprio campione riflettano quelle
della popolazione complessiva che studiano. Le decisioni sul campionamento dipendono anche dal-
la questione dell’accessibilità ad una popolazione sufficientemente ampia: i sociologi possono im-
maginare la popolazione perfetta a cui indirizzare le proprie domande di ricerca, ma questa potreb-
be essere inaccessibile. I sociologi dunque devono lavorare con ciò che hanno a disposizione. I buo-
ni sociologi trascorrono molto tempo a raccogliere i propri dati: sia per chi si occupa di interviste,
sia per chi conduce una ricerca storica, sia per chi conduce una ricerca etnografica, il tempo utile
per la raccolta dei dati varia sensibilmente, arrivando a coprire persino anni, come nel caso di una
ricerca etnografica. Inoltre, il buon sociologo deve seguire il proprio ritmo di ricerca, facendo detta-
gliati programmi di ricerca da rispettare e prevedendo in tempo ogni possibile problema che po-
trebbe verificarsi.
Esistono differenti metodi d’indagine sociologica, che mettono in luce differenti dilemmi e speci-
fiche sfide.
Per mezzo dei metodi di ricerca storico-comparativi, il sociologo esamina un fenomeno sociale
nel corso del tempo e/o in luoghi differenti, anche se in maniera diversa dagli storici: essi infatti so-
no molto spesso specializzati in un periodo storico in una specifica località, mentre i sociologi in-
staurano comparazioni tra tempi e contesti diversi con un ottica meno specializzata. Sono possibili
diversi tipi di comparazioni storiche: ad esempio, la ricerca condotta su un singolo paese o le com-
parazioni transnazionali. Possiamo esaminare come esempi di ricerca storica comparativa “L’etica
protestante e lo spirito del capitalismo” di Max Weber e “Stati e rivoluzioni sociali” di Theda
Skocpol. Nel suo libro, Weber si interroga sul perché il capitalismo stesse attecchendo in alcune
parti dell’Europa e non in altre e si rese conto che gli stati europei “capitalisti” erano quelli dove la
presenza protestante era dominante, insieme agli Stati Uniti. All’interno del protestantesimo, so-
prattutto calvinista, l’aspetto cruciale che poteva collegarlo al capitalismo è il seguente: avere suc-
cesso economico è un modo di dimostrare il proprio valore a Dio, mentre consumare tutto ciò che
si aveva era segno che non si faceva parte della schiera eletta per il Paradiso. Dunque, per avere
una prova della propria elezione al Paradiso, le persone si mettevano a lavorare duramente, contri-
buendo alla crescita economica del paese, ma rinunciando sempre di più agli aspetti “di svago” del-
la propria vita. Weber risponde al proprio interrogativo con una sola risposta, ma la maggior parte
dei sociologi ritiene che ciò esemplifichi esageratamente la complessità di un quesito di tale entità.

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Nel proprio libro, Skocpol si chiede perché le rivoluzioni francese, russa e cinese hanno portato a
nuovi tipi di governo mentre altre rivoluzioni non ci sono riuscite; ella risponde facendo riferimento
a tre fattori che erano presenti in tutte e tre le rivoluzioni: una crisi delle istituzioni governative,
nuove pressioni internazionali sul governo a causa di guerre fallite o problemi finanziari e diffusione
delle rivolte contadine.
I sociologi che usano metodi statistici sono interessati non solo a registrare la correlazione tra
due fenomeni sociale, ma anche a trarre inferenze causali che esplichino se è verosimile che un fe-
nomeno derivi dall’altro, e questo non è facile. Infatti, molte volte le relazioni che fenomenicamen-
te osserviamo tra due fenomeni può essere una relazione spuria, ossia illusoria, in quanto, pur pre-
sentandosi contemporaneamente e muovendosi nella stessa direzione, questi fenomeni potrebbe-
ro in realtà essere causati da fattori completamente diversi. Inoltre bisogna stare attenti a non ef-
fettuare rilevazioni statistiche esclusivamente trasversali, ossia a raccogliere tutti solo nello stesso
momento; infatti, è altresì necessario per una buona analisi statistica, tenere in considerazione an-
che i dati longitudinali, ossia rilevati lungo un periodo di tempo abbastanza lungo, in quanto la sola
raccolta di dati trasversali non ci permette di inferire la relazione causale tra due fenomeni.
Esistono diverse forme di intervista (intervista con questionario, intervista in profondità, intervi-
sta della storia orale) più o meno strutturate e libere, ma tutte condividono alcuni punti di forza e di
debolezza. Il principale punto di forza delle interviste, soprattutto delle interviste in profondità, è la
capacità di scoprire come le persone danno senso al mondo. Esse permetto anche di dare voce a
gruppi che spesso sono costretti al silenzio da altri. Tuttavia, è difficile trasformare una domanda di
ricerca in una serie di domande di un’intervista che abbiano una focalizzazione precisa; è impegna-
tivo anche condurre interviste e raccogliere i dati e analizzarli. Una delle sfide più complicate per gli
intervistatori è scegliere il campione da intervistare: il campione, infatti, influenza il tipo di risultati
e le conclusioni tratti dallo studio, e campionamenti errati possono condurre a distruggere lo stu-
dio. Vi sono infinite variabili da tenere in considerazione in un campione da intervistare e
l’intervistatore deve innanzitutto tenere conto di quelle rilevanti, che diventeranno gli attributi che
il campione deve rappresentare.
Le preoccupazioni fondamentali degli etnologi sono innanzitutto trovare il sito in cui rilevare il
fenomeno da esperire, successivamente decidere chi, dove e che cosa osservare. Una delle sfide
principali degli etnologi avviene quando devono dare senso ai dati raccolti e capire come trarre da
essi generalizzazioni. Esistono molti tipi di ricerca etnografica, che si pongono su un continuum. Da
una parte, ci sono le osservazioni in contesti familiari e su questioni definite; dall’altra parte c’è
un’immersione totale in un’altra cultura per lunghi periodi di tempo. La maggior parte del lavoro
etnografico si pone a metà di questi due estremi. Mentre gli antropologi prediligono il lavoro sul
campo presso culture straniere, i sociologi sono più inclini a studiare i propri contesti culturali.
L’analisi etnografica può fornire “descrizione dense” (termine con cui Clifford Geertz indica descri-
zioni ricche e dettagliate dei modi in cui le persone danno senso alle proprie vite) delle persone, il
che vuol dire collegare le parole e le affermazioni alle azioni delle persone, scoprendo molte volte
esempi di incoerenza. Nel produrre descrizioni dense, l’etnografia può, certe volte,essere carente
sotto l’aspetto della focalizzazione analitica o della rilevanza teorica. Alcuni etnografi sembrano ri-
luttanti a concettualizzare o teorizzare a partire dai loro dati; generalizzare può essere una questio-

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ne spinosa e difficile. Oltre alla descrizione densa, esistono altre tradizioni etnografiche, come il
metodo del caso esteso.

2.4. Come danno senso i sociologi ai loro risultati?


In seguito alla raccolta dei dati, i sociologi possono passare alla fase di interpretazione delle in-
formazoni che si chiama analisi dei dati. Essa, per alcuni sociologi, avviene dopo la raccolta di tutti i
dati necessari, come per chi lavora con i dati raccolti tramite un’inchiesta; per altri sociologi, come
gli etnografi e con chi lavora negli archivi storici, è fondamentale analizzare i dati durante la raccolta
dei dati stessi, per evitare di dover far fronte ad un numero considerevole di dati alla fine del pro-
cesso di raccolta.
Vi sono molte strategie per organizzare i dati in pattern da cui trarre le conclusioni della ricerca.
Nella maggior parte dei casi, i sociologi codificano i dati, ossia li organizzano secondo categorie fon-
damentali; talvolta la codifica è già a disposizione, soprattutto nei casi in cui si utilizzano dati indi-
retti provenienti da data set; altre volte è necessario elaborare una propria codifica. Una volta che i
dati sono stati codificati, si organizzano i dati o per mezzo della presentazione grafica dei dati o per
mezzo di note di ricerca.
Alla fine si traggono le conclusioni del lavoro di ricerca, formulando proposizioni generali sulle
questioni sollevate dalle relative domande di ricerca. La generalizzazione, tuttavia, è una questione
complessa, in quanto i sociologi non vogliono limitare le proprie conclusioni allo specifico campione
che hanno studiato, ma essi devono anche assicurarsi di non estendere troppo le proprie generaliz-
zazioni. Se il campione è abbastanza ampio e selezionato in modo casuale, i sociologi si sentono si-
curi nel generalizzare, tendendo alla generalizzabilità empirica. Se invece non si è potuto o voluto
fare un campionamento casuale, i sociologi estendono le conclusioni tratte dai loro risultati a pro-
cessi sociologici più ampi, tendendo alla generalizzabilità teorica.

3. Interazione sociale.

3.1. Come sviluppiamo un senso del sé?


La capacità esclusivamente umana di avere consapevolezza di sé è il mezzo attraverso il quale
compiamo le nostre azioni, interpretando e valutando qualunque cosa incroci il nostro tragitto, in-
cluse le persone. La scuola sociologica dell’interazionismo simbolico, che prende le mosse dalle ri-
flessioni di George Herbert Mead, afferma che il sé sociale è l’unico sé che possa esistere, in quanto
il sé non è una cosa, ma un processo di interazione.
Il sé sociale è così importante che, se si ha difficoltà a svilupparlo, anche il corpo fisico ne risente.
Lo mostra una ricerca del 1945 di René Spitz, nel quale vengono comparate le condizioni di vita di
bambini piccoli in orfanotrofio e bambini piccoli che vivevano in carcere con le madri: il 40% dei
bambini piccoli in orfanotrofio morivano entro due anni dalle prime osservazioni, mentre i bambini
in carcere riuscivano a sopravvivere. Evidentemente, la possibilità per i bambini in carcere di poter
interagire con le madri, con gli altri bambini e persino con i carcerieri, che invece era preclusa ai
bambini in orfanotrofio, era letteralmente di vitale importanza. Noi, infatti, ci conosciamo solamen-

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te attraverso gli occhi degli altri. Le nostre azioni hanno un senso perché sono viste e interpretate,
non necessariamente in modo esplicito, dagli altri che, in questo modo, ci dicono chi siamo: inizian-
do da genitori e caregiver, fino ad arrivare a fratelli, amici, compagni, insegnanti, e altri. Charles
Horton Cooley nel 1902 coniò l’espressione “io riflesso” per mettere in evidenza quanto dipendia-
mo dal modo in cui gli altri ci vedono. Poiché desideriamo instaurare legami con gli altri, assumiamo
il ruolo dell’altro: ciò ci permette di conformarci alle aspettative degli altri. In questo modo, si for-
ma un complicato sistema di interazioni attraverso una rete ampia di persone in comunicazione di-
retta e indiretta.
La vita è dunque come un palcoscenico, dove tutti siamo interpreti del nostro sé sotto i riflettori
degli altri. Anche se condividiamo il fatto che viviamo come se fossimo su un palcoscenico, non sia-
mo tutti uguali, ma ognuno di noi vive in ambienti particolari, interagendo con una differente serie
di individui e aspettative. Ne deriva che siamo sempre in cambiamento e che non assumiamo sem-
pre lo stesso sé, ma che ognuno porta in qualunque situazione nuova un sé un po’ diverso da quello
di ogni altra persone e da ciò che si era prima.

3.2. Come diamo senso ai nostri mondi?


Gli esseri umani hanno specifici metodi per interagire con gli altri, e questi metodi, come afferma
Harold Garfinkel, sono universali.
Uno di questi metodi universali è considerare il contesto in modo continuo e intensivo, e parole
ed azioni non hanno un significato in sé ma le persone costruiscono il significato basandosi sempre
sul contesto sociale. Dal contesto sociale dipende anche la maniera in cui la risposta di una persona
ad una nostra domanda è esauriente e soddisfacente: una risposta è appropriata o meno a seconda
di chi pone la domanda, di chi risponde, della loro relazione e dell’occasione specifica in cui si tro-
vano.
Possiamo osservare i metodi delle persone in azione durante una conversazione. Inconsapevol-
mente, le persone si adeguano al flusso locutorio dell’altro, facendo “attenzione” a determinati
stimoli subliminari che orientano la conversazione. Emanuel Schegloff ha scoperto che anche silenzi
brevissimi sono fonte di informazioni: rispondere “sì” ad una domanda con qualche titubanza e/o
con un ritardo, rende manifesto il fatto che la reale risposta sia “no”. Questo meccanismo permette
la riformulazione della richiesta, di addolcire il rifiuto, di costruire un senso si sicurezza e solidarietà
anche quando non possiamo soddisfare le richieste altrui e di mantenere un senso del sé positivo.
Un dispositivo conversazionale molto semplice e fondamentale è l’alternanza dei turni: essa preve-
de che qualcuno in una conversazione ceda la parola entro pochi secondi dall’inizio di una sovrap-
posizione dei flussi verbali, con un meccanismo che si chiama riparazione. Dunque, l’alternanza dei
turni è il fondamento della conversazione. Sapere quando intervenire in una conversazione è fon-
damentale: chi salta il proprio turno conversazionale perde l’opportunità di creare la realtà in cui
egli/ella e gli altri vivono.
Un altro metodo impiegato dalle persone nell’interazione sociale riguarda l’uso delle emozioni,
che per i sociologi sono prestazioni che eseguiamo per scopi specifici, sebbene le loro manifestazio-
ni varino secondo il contesto. Vi sono convenzioni legate al tempo e al luogo per manifestare il
pianto, l’aggressività e il riso. Per quanto riguarda l’aggressività, i sociologi hanno notato come le

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parti avverse in un litigio siano molto attente ad accompagnare le minacce e i propri gesti con se-
gnali comprensibili. Randall Collins chiama questa serie di eventi “catene rituali dell’interazione”.
Collins ha rilevato che raramente le persone si aggrediscono fisicamente, per la paura dell’altro, ma
che nella maggioranza dei casi, i partecipanti sanno che escandescenze e rimostranze sono teatrali.
Anche il conflitto verbale è sotto il controllo delle persone. Come sostiene Jack Katz, anche ridere
insieme agli altri è sintomo di come il contesto influenzi l’emozione e le sue manifestazioni. La risa-
ta è l’unico evento in cui non vale la regola del turno alternato, poiché le persone ridono insieme,
affermando l’emozione reciproca, l’unione nel sentirla e l’innocenza della sua espressione a voce
alta e con movimenti corporei non convenzionali.
Usiamo le stesse tecniche quando la comunicazione si sposta sui media digitali e sui social me-
dia. Essi hanno di certo modificato alcuni dettagli dei modelli di interazione, ma ne mantengono in-
variate molte caratteristiche: ad esempio, modifichiamo le nostre pagine web sulla base dei feed-
back altrui, mostrando quanto desideriamo l’approvazione altrui e usiamo i social media per rag-
giungerla. Inoltre, gran parte dei messaggi che ci scambiamo sui media digitali è progettato per da-
re origine alla “compresenza”, per esempio per stabilire un appuntamento, una riunione o un in-
contro di lavoro. Dunque, esiste una compulsione alla vicinanza che fa sì che rimaniamo comunque
insoddisfatti dalle interazioni mediate digitalmente e che ricerchiamo l’occasione di un interazione
che porti con sé anche elementi non verbali che solo la compresenza può permetterci, come sorrisi
autentici e cenni del capo. Ciò sta alla base anche dell’utilizzo delle “emoticon” oppure della scrittu-
ra di vocaboli interamente in maiuscolo per esprimere rabbia e/o frustrazione.
Un’altra serie di condizioni speciali emerge quando l’interazione avviene in spazi pubblici tra
estranei. In queste situazioni, stiamo attenti ad avere contatti con persone che non conosciamo e le
cui intenzioni non sono note. Nell’interagire con gli estranei ne osserviamo il volto, ma solo per un
istante; diversamente, mostriamo interesse particolare nei confronti di qualcuno, con il rischio di
essere percepiti come una minaccia. Questo problema viene risolto con la disattenzione civile, ossia
ignorarsi reciprocamente sino ad un livello adeguato, pur notando la presenza dell’altro; essa è ciò
che rende possibile la vita sociale. Alcune volte, le nostre prestazioni pubbliche non sono perfette,
ma abbiamo delle tecniche per rimediare: se, ad esempio, facciamo cadere una pila di libri in biblio-
teca, diciamo “ops” o “cavolo”; queste semplici affermazioni segnalano che è tutto a posto, che il
mondo sta funzionando ragionevolmente e che non siamo usciti dai nostri ruoli. Un altro meccani-
smo che possiamo portare come esempio di interazione in pubblico sono i gesti di disaffiliazione:
quando non vogliamo rispondere ad un complimento o ad una domanda, lo segnaliamo con pause
o mancate risposte.

3.3. Chi conta per noi?


Alla base della costruzione del nostro sé sociale vi è l’interazione con gli altri, ma non tutti gli al-
tri ci interessano in egual modo: vi sono infatti degli individui particolari che ci sono abbastanza vi-
cini da poter avere una forte capacità motivazionale sul nostro comportamento. Questi individui
vengono indicati con il termine “altro significativo”, che originariamente doveva indicare la relazio-
ne genitore-figlio. All’interno del vasto campo dell’altro significativo, è possibile individuare partico-
lari entità che guidano il nostro comportamento in maniera implicita: innanzitutto, i gruppi di rife-

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rimento, ossia quell’insieme di persone che hanno un livello più o meno simile di importanza a cau-
sa della loro appartenenza comune ad una categoria sociale rilevante; all’interno dei gruppi di rife-
rimento, inoltre, vi sono alcune persone che fungono da modelli di ruolo, ossia particolari persone
che influenzano da sole il comportamento degli altri membri del gruppo; infine, il nostro compor-
tamento è influenzato dall’altro generalizzato, ossia l’intesa implicita tra le persone su ciò che è ap-
propriato fare e non fare, e il cui mancato rispetto può determinare una bruttissima impressione.
Attraverso il processo di socializzazione capiamo come dobbiamo comportarci nella società in gene-
rale e all’interno dei particolari ambienti sociali. I sociologi usano la parola “cultura” per indicare i
sistemi di credenze e conoscenze del mondo dati per scontati e in cui siamo stati socializzati, che
sono sempre frammentabili in “sottoculture”, ossia reti di individui che condividono preferenze e
visioni comuni e distintive del mondo sociale, che rimangono comunque parte di un gruppo più
ampio.

3.4. Quali sfide affrontiamo nello spostarci da un contesto sociale a un altro?


Poiché ci muoviamo attraverso contesti sociali differenti, è difficile molte volte decidere come
cambiare i nostri sé sociali.
Un tipo di cambiamento deriva dal fatto che, nel corso della nostra vita, entriamo in differenti
status di vita, Col termine “status” si intende una categoria sociale generata dagli altri e associata
ad set di ruoli e di comportamenti che gli altri si aspettano che seguiamo. Qualche volta però si spe-
rimenta il conflitto di ruolo, ossia una situazione in cui il rispetto di uno dei nostri ruoli è in contra-
sto con la soddisfazione delle aspettative che sono legate ad un altro; un tale conflitto ha come fine
necessaria quella di lasciare qualche “altro” deluso. Casi gravi di conflitto di ruolo possono creare
abbastanza stress psicologico da richiedere l’interevento di uno psicoterapeuta oppure da gettare
la persona nell’alcool e nella droga.
Da tempo, i sociologi si interessano alle persone cosiddette devianti da coloro che stabiliscono le
regole. Secondo la teoria dell’etichettamento, l’esistenza dei cosiddetti devianti è dovuta
all’esistenza simultanea di una persona o di un gruppo che può essere oggetto dell’etichetta “de-
viante” e di un individuo o di un’istituzione che può utilizzare questa etichetta lungo il tempo. In so-
ciologia, si parla di costruzione sociale della realtà per indicare il processo interattivo attraverso cui
il sapere è prodotto e codificato e reso specifico ad un certo gruppo o società. Secondo alcune ver-
sioni della teoria dell’etichettamento che si appoggiano sul fenomeno chiamato da Robert Merton
“profezia che si auto-avvera”, una conseguenza dell’essere etichettato sta nell’assumere di fatto la
condotta per il quale si è stati incasellati nella categoria deviante.
Siamo circondati da organizzazioni a cui dobbiamo rispondere e che hanno tutte proprie regole,
spesso implicite ma anche informali, che includono anche norme sui comportamenti individuali. Tali
regole non vengono quasi mai seguite alla lettere, ma sono soggette nella vita quotidiana
all’interpretazione dell’individuo: ad esempio, pensando al comandamento “non uccidere”,
l’interpretazione umana delle regole ci rende chiaro che essa non si riferisca al non uccidere una
zanzara o al non sparare ad un serpente a sonagli che sta per mordere un bambino. Ciò che ci rende
membri competenti della società è sapere che cosa fare nelle diverse occasioni, considerando ciò
che gli altri si aspettano da noi. Esistono persone che hanno difficoltà a prendere in considerazione

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il contesto ed insistono nel seguire alla lettera le regole, il che li rende difficili come colleghi, vicini
ed amici: Garfinkel li definisce “giudici inetti”.
Il modo in cui le persone si conformano alla propria situazione sociale ha conseguenze fonda-
mentali su come esse vivono insieme Un primo esperimento che possiamo esaminare è quello di
Solomon Asch: in questo esperimento, Asch, dopo aver mostrato ad un gruppo di otto soggetti (tra
cui sette collaboratori dello sperimentatore) un segmento su di un cartoncino, chiedeva loro di in-
dicare tra tre segmenti su un secondo cartoncino quello più simile in lunghezza al primo; dopo una
serie di prove di riscaldamento, in cui tutti fornivano la risposta corretta, i collaboratori dello speri-
mentatore cominciarono a fornire sempre la risposta sbagliata. I risultati mostrarono che il 75% dei
partecipanti si conformò almeno una volta al gruppo. Varianti successive dell’esperimento mostra-
rono che, anche se uno solo dei collaboratori fornisce una risposta diversa dal gruppo, la percentua-
le di soggetti che si conforma al gruppo diminuisce: questo mostra quanto sia importante per le
persone avere qualcuno che li sostenga. Un esperimento successivo di un allievo di Asch, Stanley
Milgram, mostra come le persone, in determinate condizioni, faranno del male ai propri simili e,
forse, potranno arrivare anche a ucciderli. Nel paradigma delle scosse elettriche di Milgram, i sog-
getti nel ruolo di “insegnanti” erano “invitati” (in realtà, costretti in maniera subliminale) a punire
un ”allievo” (in realtà, un collaboratore) con delle scosse elettriche di sempre maggior voltaggio per
ogni sua risposta sbagliata ad un test sull’apprendimento. I risultati mostrarono che circa il 60% dei
partecipanti somministrò per tre volte di seguito la scossa più forte da 450 volt. Nel 1971
l’esperimento carcerario di Philip Zimbardo ha fornito sostegno all’esperimento di Stanley Milrgam:
in questo esperimento, un gruppo di ventiquattro studenti venne diviso in “prigionieri” e “guardie”
e venne loro chiesto di vivere in un finto carcere. A sei giorni dall’inizio dell’esperimento, i soggetti
si erano talmente identificatI con i loro ruoli, che le guardie iniziarono ad assumere comportamenti
sadici nei confronti dei prigionieri e Zimbardo fu costretto a interrompere immediatamente
l’esperimento prima che degenerasse ulteriormente.

4. Struttura sociale.

4.1. Che cos’è la struttura sociale?


Per i sociologi, la personalità degli uomini è determinata non solo dalle loro azioni e dai loro
comportamenti, ma anche da un insieme di forze contestuali, che chiamano struttura sociale. Pos-
siamo immaginare la struttura sociale come la base strutturale dell’edificio “società”, le sue fonda-
menta: senza struttura sociale, la vita di tutti i giorni sarebbe impossibili; essa è essenziale in ogni
cosa che facciamo, eppure ne notiamo maggiormente l’importanza quando è assente. Una delle ca-
ratteristiche più importanti di ogni struttura è la sua durata nel tempo, anche quando altre cose
cambiano: le strutture sociali tendono a durare nel tempo, assegnando alla vita sociale una regola-
rità che essa altrimenti non avrebbe. Noi conosciamo, in un modo o nell’altro, le strutture sociali,
ma esse rimangono sempre enigmatiche perché hanno molte parti interdipendenti e perché molte
di queste componenti non sono osservabili direttamente. Possiamo dividere il concetto di struttura
sociale nelle due componenti fondamentali di “gerarchia sociale” e di “istituzione”.

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4.2. Come sono influenzate dalle gerarchie sociali le nostre scelte di vita e le nostre relazioni?
Le gerarchie sociali sono un insieme di relazioni sociale che forniscono a individui e gruppi diffe-
renti tipi di status; esse sorgono e si mantengono in qualunque situazione in cui i membri di un
gruppo siano in grado di usare il possesso di qualche risorsa o caratteristica (classe, razza, etnicità,
religione, genere, istruzione) come base per la rivendicazione di vantaggi speciali rispetto agli altri
che ne sono privi, generando in questa maniera le disuguaglianze. Le gerarchie sociali sono impor-
tanti perché influenzano la nostra esistenza, per mezzo delle posizioni che occupiamo in esse, e le
nostre vite e le nostre relazioni sociali in molti modi differenti. La nostra posizione rispetto alle ge-
rarchie sociali rilevanti della società in cui viviamo influenza le nostre possibilità di vita; i vantaggi
che ne potrebbero derivare, insieme ai nostri sforzi, determinano dove si andrà a finire nella vita.
Queste conclusioni sono documentate da numero studi sulla mobilità sociale intergenerazionale. Le
gerarchie sociali generano tensioni e conflitti all’interno della società: e laddove le gerarchie sociali
permettono ai gruppi dominanti di ottenere un bene in maggiori quantità rispetto ai gruppi subor-
dinati, questi ultimi desiderano mettere in discussione la propria esclusione. Un esempio è la meta-
fora del “soffitto di cristallo”, ossia la mancanza di progressi compiuti dalle donne nella strada che
porta all’occupazione di prestigiose posizioni dirigenziali: le aziende oggigiorno occupano le donne
ai livelli più bassi del management, ma esse rimangono svantaggiate quando arriva il momento del-
la promozione.
Le gerarchie sociali implicano il potere e il privilegio di un gruppo dominante rispetto ad un
gruppo subordinato di status inferiore; essi vengono mantenuti soprattutto per mezzo della discri-
minazione. Essa può essere attuata per mezzo di esplicite leggi e regole patentemente inique, al
punto da violare le idee fondamentali dell’uguaglianza delle moderne società democratiche; pro-
prio per questo, esse sono soggette a forti sfide da parte dei gruppi subordinati. I cambiamenti de-
rivano sia dalle proteste dei movimenti sociali sia dalle sfide politiche e sociali. La discriminazione,
però, non si attua solamente per mezzo delle esplicite restrizioni sociali, ma anche per mezzo di
mezzi informali, come gli stereotipi negativi.
Uno degli aspetti più importanti delle gerarchie sociali di qualunque società è la dimensione rela-
tiva dei suoi gruppi sociali principali e il modo in essi cambiano nel corso del tempo. La demografia
si occupa anche di analizzare le modalità attraverso cui i gruppi appartenenti ad una gerarchia so-
ciale di relazionano l’uno all’altro e i cambiamenti a cui tali relazioni danno luogo. Questi cambia-
menti influenzano le vite individuali, ma i singoli individui ne diventano pienamente consapevoli so-
lamente quando raggiungono una massa critica. Le popolazioni cambiano nel corso del tempo so-
prattutto per effetto dell’immigrazione. Inizialmente, il flusso dei migranti può essere molto limita-
to. Con l’aumentare delle persone che si stabiliscono nel paese che è oggetto del flusso migratorio,
è possibile che il gruppo nativo avverta che la presenza degli immigrati ha raggiunto una massa cri-
tica e li consideri come una minaccia per il proprio modo di vivere. L’entità numerica della popola-
zione in cambiamento può produrre da sola importanti conflitti sociali. Portando un esempio, negli
Stati Uniti d’America vi sono state due ondate di immigrazione esterna che hanno avuto partico-
larmente impatto sui mutamenti nella composizione di gruppi razziali ed etnici: l’ondata di flussi
migratori dall’Europa centrale e meridionale tra gli anni ’80 del XIX secolo e gli anni ’20 del XX seco-

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lo; la migrazione dal Messico, dall’America centrale e dall’Asia, iniziata nel 1965. Un altro principale
cambiamento demografico che ha avuto notevole impatto sulla struttura sociale statunitense è sta-
to lo spostamento di differenti gruppi di americani dal Sud al Nord America tra gli anni ’10 e gli anni
’60 del XX secolo. Con il variare della composizione demografica di città come Chicago, Detroit e
New York, crebbero le tensioni e i conflitti razziali. Questi cambiamenti demografici nella composi-
zione e nella numerosità dei gruppi sono importanti innanzitutto perché influenza i tipi di lavoro e
di occupazione disponibili; poi, anche perché influenzano le possibilità individuali di vita. Quando
gruppi disuguali in conflitto diventano per dimensioni più simili, cresce la loro competizione. Per
contro, se un gruppo subordinato o immigrato è molto piccolo, la sua minaccia nei confronti di un
gruppo dominante sarà minore, e potrà bastare un piccolo numero di misure legislative per limitar-
lo in modo efficace.

4.3. Perché le istituzioni influenzano la vita sociale?


Le istituzioni sono usanze consolidate della vita sociale, come la religione o il matrimonio, e or-
ganizzazioni formali di lunga durata, come gli enti governativi o le scuole. Esse hanno un’importanza
decisiva per le modalità di organizzazione del mondo sociale.
Le istituzioni emergono ogni volta che gruppi di persone iniziano a formalizzare le relazioni socia-
li e a garantirne la continuità nel tempo. Un esempio classico sono le religioni organizzate. Sin dagli
inizi della storia umana, le persone si sono chieste quale fosse il significato della loro esistenza, ed
alcune di loro hanno dato riposte più sistematiche a tali domande: iniziarono a sviluppare idee e
teorie sulla formazione e sulla possibile esistenza di un essere superiore. Quando iniziarono a tra-
mandare queste idee da una generazione all’altra, esse iniziarono a rafforzarsi, furono accettate e a
diffondersi. Infine, qualcuno le mise per iscritto e scelse persone e luoghi specifici dove insegnarle.
In questo modo, la religione si istituzionalizzò, sia attraverso testi religiosi sia attraverso luoghi di
culto. Ciononostante, le istituzioni non sono creazioni statiche ma possono essere reinventate nel
corso del tempo.
Le organizzazioni formali sono elementi importanti del complessivo contesto istituzionale di qua-
lunque società. Soprattutto le istituzioni governative hanno un’importanza cruciale nel determinare
la struttura sociale complessiva, poiché la politica governativa può influenzare molte altre istituzioni
in numerosi modi. I sociologi definiscono il governo come stato, ossia l’insieme di enti e ministeri
governativi, sistema legale, forze armate e costituzione. Il potere dello stato di cambiare la vita so-
ciale è facilmente riscontrabile se si pensa al governo nazista nella Germania degli anni ’30 e ’40 del
XX secolo. Le dittature sono esempi estremi, ma tutti gli stati hanno una qualche capacità di deter-
minare l’ampiezza delle differenze tra gli individui, quante a quali persone vivranno in povertà e la
facilità con cui i vantaggi possono essere trasmessi ai figli. Le politiche governative associate al wel-
fare state possono ridurre la povertà e la disuguaglianza o permetterne una presenza massiccia.
Uno stato con un buon servizio di welfare state, di solito, impone tasse più alte ai cittadini ricchi e
stabilisce alcuni limiti alla ricchezza che individui e famiglie possono accumulare; inoltre, assicura
alle famiglie povere dei contributi statali e assicurazioni sanitarie. Il welfare state cambia le stesse
condizioni di vita sociale.

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4.4. In che modo la struttura sociale è collegata all’interazione sociale?
Gli individui si definiscono attraverso le identità necessarie per le interazioni quotidiane di cui
fanno parte. I sociologi devono considerare non solo le gerarchie sociale e le istituzioni, ma anche
alcuni processi che influenzano le nostre identità e che danno forma alle nostre interazioni. Riflette-
re sulle attività di gruppo è un modo per iniziare a pensare a come la struttura e l’interazione sociali
siano collegate. Ad esempio, nel calcio vi è un insieme di regole che disciplina il gioco e all’interno
delle quali la squadra e l’allenatore organizzano il gioco, assegnando ad ogni giocatore uno specifico
ruolo da assumere. Vedendosi assegnati dei ruoli, le persone sanno quello che devono fare ogni
momento. I ruoli hanno la capacità di cambiare il nostro comportamento: con il trascorrere degli
anni, passiamo da uno stadio di vita all’altro, e in ognuno di questi stadi dobbiamo modificare il no-
stro comportamento in vista del ruolo che siamo chiamati ad assumere. Oltre ai ruoli, anche le
norme sociali vincolano il nostro essere nella realtà sociale: esse sono le regole fondamentali della
società, che trasmettono ciò che è e ciò che non è appropriato fare in qualunque situazione. Le
norme sono a volte leggi formali e iscritte, ma la maggior parte delle volte si tratta di qualcosa che
semplicemente “sappiamo”. Nonostante la loro importanza, le norme sono spesso trasgredite, cau-
sando sanzioni severe nel caso delle leggi o esclusione sociale nel caso di norme implicite e non di-
chiarate. Poiché esistono conseguenze anche per violazioni ordinarie delle norme sociali, siamo tut-
ti fortemente motivati a rispettare le regole e le norme fondamentali quasi sempre.
Attraverso la partecipazione in vari contesti istituzionali, apprendiamo e accettiamo le norme
fondamentali e le regole della società nel suo complesso. Al cuore della trasmissione di ruoli e nor-
me nelle istituzioni sta il processo di socializzazione. Questo processo di trasmissione di determinati
modelli di comportamento, inizia nelle famiglie ad opera dei genitori, per poi continuare ad ogni
stadio del corso della vita. Alcune delle idee più stimolanti sulla socializzazione sono state elaborate
da Pierre Bourdieu. Egli ha sostenuto che la socializzazione agisce principalmente attraverso lo svi-
luppo di un habitus, ossia di un insieme di abitudini specifiche, regole e norme che si radicano al
punto da diventare routinarie. Le persone, esperendo differenti processi di socializzazione, acquisi-
scono differenti habiti. Queste differenze dipendono dal retroterra familiare e dal particolare tipo di
istituzioni a cui siamo esposti. Le ricerche e le teorie di Bourdieu sullo sviluppo degli habiti hanno
esaminato specificatamente il modo in cui differenti gruppi sociali ed economici insegnano ai propri
membri differenti modi di vita. Bourdieu ha ampliato il significato delle differenze di classe così da
includere tutti quegli aspetti che sono propri dell’habitus, come i gusti, le disposizioni e il portamen-
to, e che mostrano la nostra appartenenza ad un particolare gruppo sociale.
È vero che le strutture sociali sono influenti nella nostra vita, ma non dobbiamo scordare, o smi-
nuire per questo, il ruolo del libero arbitrio, che ci rende diversi e che permette a due persone che
vivono nella stessa società di mettere in atto nella stessa situazione comportamenti molto differen-
ti. A questo punto ci si pone la domanda: in che misura il mondo e gli individui si influenzano a vi-
cenda? Vi è una prospettiva sociologica chiamata strutturalismo che enfatizza i modi attraverso cui
la struttura sociale determina radicalmente le vite ed i comportamenti individuali, sminuendo il
ruolo dell’agentività nel determinare il comportamento delle persone. Molto spesso, tali sociologi
strutturalisti tendono a concentrarsi su una particolare parte o caratteristica della struttura sociale:
ad esempio, Karl Marx riteneva che la struttura sociale più importante ed influente fosse

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l’economia. Molti altri sociologi strutturalisti, come W. E. B. Du Bois, invece, sottolineano che le no-
stre vite non sono organizzate in modo così netto da una sola struttura sociale, in quanto siamo in-
fluenzati simultaneamente da molteplici strutture sociali. La maggior parte dei sociologi comunque
si trovano a disagio sia con l’approccio strutturalista sia con una prospettiva che invece enfatizza
eccessivamente l’agentività individuale. Uno dei principali modi di conciliare queste due posizioni è
stato considerare le strutture sociali non come limiti all’azione ma anche come elementi che la ren-
dono possibile: le strutture danno ordine alla società, senza il quale l’azione sarebbe possibile. Quali
sono i limiti delle due posizioni antitetiche? Lo strutturalismo è incapace di spiegare come si realizza
il cambiamento; la prospettiva che enfatizza l’agentività individuale, invece, è incapace di giustifica-
re i motivi per cui la maggior parte delle cose tende a rimanere uguale nel tempo e a cambiare mol-
to lentamente.

4.5. Perché le strutture sociali cambiano lentamente?


Uno degli elementi distintivi delle strutture sociali è la loro resistenza o persistenza nel tempo.
Perché le strutture sociali, anche quelle considerate ingiuste, persistono e resistono lungo il tempo?
Le strutture sociali resistono per la dipendenza dal percorso: ciò che è successo nel passato sta-
bilisce i limiti a quanto è possibile oggi o sarà possibile in futuro. Essa si basa sull’idea che sia diffici-
le cambiare i percorsi una volta intrapresi. La dipendenza dal percorso è un processo profondamen-
te storico ed è collegato alle modalità, ai momenti e ai motivi per cui determinate istituzioni metto-
no radici: alcune volte i percorsi sono stabiliti per ragioni accidentali, mentre in altri casi emergono
in specifici momenti storici; qualche volta, inoltre, elementi della struttura sociale sono creati deli-
beratamente da individui o gruppi specifici, sebbene più spesso le strutture sociali si sviluppino len-
tamente nel corso del tempo, quando le persone scoprono per caso modi migliori di fare le cose.
Le strutture sociali resistono nel corso del tempo per numerose altre ragioni. Una ragione è poli-
tica: quando viene istituito un particolare elemento della struttura sociale, si generano spessi grup-
pi di interesse che si impegneranno a proteggere e ad estendere le disposizioni sociali esistenti, se
considerate vantaggiose per i propri membri. Inoltre, le strutture sociali resistono perché, spesso, le
gerarchie e le istituzioni esistenti hanno un ampio sostegno pubblico, in parte per la paura delle
conseguenze che il loro abbattimento comporterebbe, in parte perché è più facile rinforzare la
struttura sociale riformando le parti che non funzionano piuttosto che smantellarla completamen-
te, anche se in condizioni estreme o insolite questo può comunque accadere.

5. Cultura, media e comunicazione.

5.1. Che cos’è la cultura?


La storia occidentale del concetto di cultura inizia con l’aumento dei viaggi commerciali intorno
al mondo tra il XVIII e il XIX secolo, quando i commercianti europei si imbatterono nelle popolazioni
non europee, rimanendo colpiti dalle rispettive differenze fisiche e comportamentali. Gli scienziati
del XIX secolo spiegarono queste differenze comportamentali facendo riferimento al concetto di
razza, ma già verso la fine del XIX secolo, gli antropologi sostennero che la responsabilità di tali dif-

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ferenze fosse non la razza, ma la cultura. Da ciò derivarono tre conclusioni importanti: la cultura è:
una caratteristica dei gruppi, non dell’individuo; un modo per dare senso alle differenze intergruppi
e alle somiglianze intragruppo; un aspetto relativamente incostante della vita sociale, differente
dalla natura, che invece è un aspetto relativamente costante. Oggi i sociologi usano il concetto di
cultura intendendolo come un sistema di credenze e conoscenze, condiviso da un gruppo e tra-
smesso per mezzo dell’interazione sociale e come un insieme di strumenti per l’azione sociale.
Ogni società ha un insieme di simboli semplici o complessi che comunicano un significato implici-
to su un’idea, che costituisce la sua cultura. Questo concetto è stato dimostrato dall’antropologo
Clifford Geertz, studiando il combattimento dei galli nell’Indonesia degli anni ’50. Attraverso questi
studi, Geertz arrivò alla conclusione che i combattimenti dei galli hanno permesso ai balinesi di in-
terpretare collettivamente le proprie gerarchie di status e di determinare il proprio status in manie-
ra più o meno non violenta attraverso il denaro che gli osservatori del combattimento scommette-
vano su un gallo contro un altro. Clifford Geertz si rese conto che i simboli esistono sempre in speci-
fici contesti sociali, e che per comprendere i simboli bisogna calarsi all’interno dei contesti sociali
(metodo etnografico) e partecipare ai rituali che veicolano tali significati simbolici (valori comuni);
inoltre, studiare i simboli ci aiuta a comprendere aspetti della società che spesso non sono discussi,
come le distinzioni d’onore, la disuguaglianza e la competizione.
A prescindere dalla consapevolezza che ne abbiamo, la cultura influenza le decisioni che com-
piamo nelle nostre vite. Secondo alcuni sociologi, la cultura orienta il nostro comportamento dan-
doci degli obietti. In anni recenti, i sociologi hanno preferito tendere verso lo studio dell’effetto del-
la cultura sui mezzi del nostro comportamento. Pierre Bourdieu ha sostenuto che tutti noi svilup-
piamo, per mezzo dello sviluppo e delle nostre relazioni con gli altri, un insieme di assunti abitudi-
nari sul mondo e sul nostro posto al suo interno, che egli chiama habitus. Il concetto di habitus ci
aiuta a spiegare il modo in cui le scelte future e le nostre opinioni presenti sono guidate dalle nostre
esperienze passate. Tuttavia, le persone sono esposte a ogni genere di sistema culturale e a forme
di significato diverse; ciò che le orienta nell’agire, ora in un modo, ora in un altro, è la costituzione
stessa della cultura, che possiamo immaginare come una cassetta degli attrezzi: ogni persona di-
spone di un insieme di dispositivi simbolici che apprende attraverso l’ambiente culturale in cui vive
e che applica alle situazioni pratiche della sua vita. Alcune persone avranno strumenti migliori per
certe situazioni, altre per situazioni diverse. In più, persone immerse nello stesso ambiente cultura-
le tendono ad avere strumenti culturali simili ma livelli di competenza e familiarità differenti, che
dipendono anche da fattori fisiologici e/o psicologici, come l’estroversione - introversione.
Sia la cultura come sistema simbolico di significati sia la cultura come insieme di mezzi pratici di
orientamento del comportamento descrivono forme di comunicazione (= condivisione di informa-
zioni significative tra persone). Una importante forma di comunicazione è il linguaggio, con il quale
si intende un sistema coerente di parole o simboli che rappresentano concetti, strettamente colle-
gato alla cultura. Il linguaggio è un universale culturale, un tratto culturale comune a tutti gli uomi-
ni. Alcuni linguisti hanno avanzato l’ipotesi che il linguaggio sia così importante da essere la base del
pensiero: se, infatti, non si conosce la parola con cui si indica un oggetto a questo non si può lette-
ralmente pensare. Ciò implica che il linguaggio di un gruppo sia responsabile di molti dei suoi sim-
boli e delle sue pratiche culturali. D’altra parte, il fatto di parlare la stessa lingua non significa che le

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persone condividano la stessa cultura: il linguaggio influenza la cultura, ma non la determina. La
comunicazione può verificarsi sia tra singoli individui, sia in una forma generalizzata che chiamiamo
“comunciazione di massa”, che nella storia recente è avvenuta per mezzo dei mass media, ma che
in anni recenti si sta compiendo per mezzo di Internet, che ha creato un intero complesso di nuove
possibilità comunicative, soprattutto attraverso i social media, che hanno cambiato radicalmente il
modo in cui ci relazioniamo l’uno con l’altro e il modo in cui produciamo e riceviamo notizie e in-
formazioni. Manuel Castells sostiene che stiamo partecipando ad una nuova forma di comunicazio-
ne Internet-centrica, da lui chiamata “auto-comunicazione di massa”, poiché potenzialmente in
grado di raggiungere un pubblico globale, pur essendo al contempo, caratterizzata da un contenuto
che ciascuno può generare e dirigere in autonomia. Il sempre maggiore e facilitato accesso alla tec-
nologia può creare nuove divisioni nella forma della divisione digitale (o “digital divide”), ossia il di-
vario sociale, culturale ed economico tra chi ha effettivo accesso alla tecnologia dell’informazione e
chi non ha questo accesso.

5.2. Come viene influenzata la nostra identità collettiva della cultura?


Secondo i sociologi, la cultura è fondamentale per l’identità di gruppo, sia nel definirla sia nel
mantenerla; secondo alcuni studiosi, il termine cultura andrebbe utilizzato in riferimento a differen-
ze e somiglianze che formano la base dell’unione e del conflitto nei/tra i gruppi. Un modo di pensa-
re all’identità in termini culturali è dato dal concetto di stile di gruppo, ossia l’insieme di norme e
pratiche che distinguono un gruppo da un altro; dal momento che facciamo parte di molteplici
gruppi, impariamo ad adottare lo stile appropriato per ogni occasione. Lo stile di gruppo è un modo
in cui le persone comunicano appartenenza e non appartenenza; detto ciò, possiamo concludere
che la cultura è una pratica di comunicazione.
Alcuni gruppi, definiti sottoculture, si allontanano deliberatamente dalla cultura dominante, os-
sia dai sistemi di significati e strumenti culturali ampiamente condivisi all’interno di una società.
Claude Fischer ha sostenuto che per esse è più facile emergere nelle città, dove la popolazione è
numerosa e concentrata nello spazio. Sebbene le sottoculture convivano tendenzialmente in armo-
nia con la cultura dominante, alcune di esse, definite controculture, esprimono opposizione al pote-
re politico ed economico.
Le sottoculture e le controculture hanno senso soltanto quando mettono in discussione una cul-
tura dominante. Antonio Gramsci ha sostenuto che le classi dominanti di una società mantengono il
proprio ruolo manifestando la proprie egemonia, ossia incoraggiando interpretazioni morali e cultu-
rali che siano a esse favorevoli e che diventino scontate e ampiamente condivise. Dunque, i movi-
menti intenzionati a trasformare una società devono ottenere sia il potere politico sia l’egemonia
culturale. Per questo, la cultura è guerra. L’idea delle guerre culturali suggerisce la presenza di due
culture dominanti che combattono per l’egemonia: una cultura progressista, liberale o di sinistra;
una cultura conservatrice o tradizionalista. Oggi giorno, le guerre culturali sono rappresentate dai
dibattiti sul ruolo della famiglia e dei valori religiosi in determinate questioni di politica statale come
il diritto di aborto, il diritto di immigrazione e i diritti dei gay. La prospettiva delle guerre culturali
contrasta con la prospettiva del multiculturalismo, con cui si indicano credenze e o politiche che
promuovono l’integrazione e l’accettazione di differenti gruppi etnici o culturali di una stessa socie-

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tà. Storicamente, la tipica metafora dell’adattamento culturale è quella del crogiolo o melting pot:
immigrati provenienti da più retroterra culturali vengono gradualmente assimilati nella società
americana, diventando veri americani. Tuttavia, il melting pot è un esempio di etnocentrismo, ossia
di incapacità di comprendere o accettare pratiche culturali diverse dalle proprie. Nonostante sia
tutti cresciuti in specifici contesti culturali che influenzano inconsciamente il nostro pensiero,
l’etnocentrismo rende difficile una comprensione non superficiale delle altre culture, Per questo, i
sociologi tentano di praticare il relativismo culturale, valutando significati e pratiche culturali
all’interno del relativo contesto sociale.
Le pratiche culturali possono dunque aiutare a definire l’identità di gruppi molto piccoli come le
sottoculture. Ma è possibile anche definire l’identità di una cultura estesa quanto la cultura globale,
che incorpori pratiche culturali comuni a vaste regioni del mondo, grazie alla globalizzazione e
all’attuale interconnessione tra le persone del pianeta. Grazie alla globalizzazione, determinati si-
stemi culturali sono diventati davvero globali. Ad esempio, Microsoft Windows è utilizzato da centi-
naia di milioni di persone nel mondo e costituisce la base di un vocabolario tecnologico che tra-
scende il linguaggio. Inoltre, si assume che concetti come cittadinanza, sviluppo economico e diritti
umani si applichino ovunque; proprio i diritti umani non avrebbero potuto guadagnare la loro acce-
zione quasi universale se non all’interno di una cultura globale individualista, in cui avesse più im-
portanza l’individuo piuttosto che un qualche gruppo sociale più esteso come la famiglia o la nazio-
ne. Alcuni eventi e prodotti culturali, come McDonald’s, sono ora più diffusi ed omogenei, mentre
altri aspetti culturali sono più diversificati ed eterogenei: ad esempio, molte lingue indigene che
stavano per morire con la globalizzazione hanno conosciuto una rinascita. Pertanto, bisognerebbe
pensare alla cultura globale come un insieme di flussi di idee, persone e merci.
Anche nell’era della globalizzazione, tuttavia, la più importante identità di gruppo è definita dalla
nazione e dalla cultura nazionale. Sembra ovvio che il mondo debba essere diviso in nazioni ma in
realtà le nazioni sono comunità immaginate, i cui membri condividono un assunto di comune ap-
partenenza, nonostante le diverse provenienze di classe e retroterra culturale. Le comunità nazio-
nali sono sorte con l’origine del capitalismo della stampa, ossia con la produzione di massa di libri e
giornali scritti nelle lingue locali, per un consumo di massa simultaneo da parte di un pubblico sem-
pre più alfabetizzato. Anche con il declino della lettura dei quotidiani, oggi lo stesso modello è se-
guito da altre forme di consumo condiviso mediatico, come le reti informatiche, che sono general-
mente nazionali e monolingue. Molte importanti istituzioni sociali, politiche, economiche e culturali
sono organizzate a livello nazionale, e hanno effetti sistematici sul modo in cui le persone vivono le
proprie vite e sul tipo di atteggiamenti e visioni del mondo che sviluppano. Un’importante area di
ricerca è la socializzazione infantile, poiché è questa la fase del ciclo di vita in cui si formano molti
degli assunti culturali. Uno studio comparato su bambini giapponesi, cinesi e statunitensi ha rilevato
l’esistenza di ruoli molto diversi della scuola dell’infanzia nel formare le identità culturali: in Giap-
pone, gli insegnanti lasciano ai bambini molta più libertà , spingendoli a trattarsi con reciproco ri-
spetto; in Cina, è posta maggiore enfasi sulla trasmissione di ordine e disciplina, obiettivo compren-
sibile in una società con famiglie con un figlio solo, trattato come una sorta di piccolo imperatore;
negli Stati Uniti, gli asili pongono una forte enfasi sulla creatività e il rispetto per i bambini come in-
dividui.

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5.3. Che relazione esiste tra le nostre pratiche culturali e le differenze di classe e di status?
Il gusto, e più in generale la cultura, gioca un ruolo cruciale nello stabilire e mantenere le distin-
zioni di classe. Pierre Bourdieu ha sostenuto che il gusto, nelle guerre sociali, è il disgusto per il gu-
sto altrui.
Gli Stati Uniti sono una società con forti vincoli di classe: se si nasce , ad esempio, nella classe
operaia, c’è molta probabilità di rimanervi per tutta la vita. Ciò è dovuto al tipo di risorse economi-
che (capitale economico, lo chiama Bourdieu) e sociali (capitale sociale, secondo Bourdieu) che le
persone possono usare nella propria esistenza. Ma Bourdieu ha proposto un terzo tipo di capitale
che è importante nel determinare l’appartenenza ad una classe e il successo nella vita: il capitale
culturale, ossia a nostra educazione, i nostri atteggiamenti e le nostre preferenze. Nelle interazioni
quotidiane usiamo sempre inevitabilmente ed inconsapevolmente il nostro capitale culturale. An-
che se consciamente non giudichiamo i gusti altrui, inconsapevolmente è probabile che proprio essi
incidano sulla scelta delle persone con cui desideriamo stare., aiutando a mantenere i confini di sta-
tus tra differenti gruppi. Il capitale culturale richiede scarsità: le esperienze culturali e il c0onsume
di oggetti culturali accessibili a tutti non hanno valore per le distinzioni di status.
La distinzione che le persone attuano tra sé e gli altri sulla base del gusto è soltanto un tipo di
confine simbolico Due altri tipi di confine simbolico sono lo status socioeconomico e la moralità,
che molto spesso si sovrappongono insieme al gusto nelle riflessioni su status e classe, talaltra no. I
confini simbolici spesso assumono forma geografica: una persona vestita in un certo modo o con un
certo colore della pelle può apparire normale in un quartiere e strana o minacciosa in un altro della
stessa città.
Un tema importante riguardo ai temi del potere e della disuguaglianza è il processo della ripro-
duzione della classe che porta a mantenere nel tempo i confini e le distinzioni di classe. La teoria del
gusto di Bourideu prova a spiegare la riproduzione della classe nel periodo breve, mentre è più
complicato spiegare la riproduzione della classe nel lungo periodo. Lo si può fare facendo riferimen-
to alla disponibilità di denaro:; le famiglie più ricche, ad esempio, riusciranno con minori difficoltà a
pagare scuole private, lezioni preparatorie per i testi di selezione, rette universitarie, e lasceranno
ai figli somme considerevoli di eredità. Ma fare riferimento al denaro spiega una parte del fenome-
no della riproduzione della classe. Infatti, la classe si riproduce sia attraverso il denaro, sia attraver-
so la cultura. Negli anni ’70, Paul Willis ha studiato un gruppo di ragazzi provenienti da famiglie del-
la classe lavoratrice di una città industriale britannica, ribelli e che spesso si comportavano male a
scuola. Tale comportamento apparentemente improduttivo a scuola rispecchiava l’adattamento
riuscito alle proprie condizioni di classe: infatti, gli stessi atteggiamenti problematici a scuola si sono
rivelati molto utili nel lavoro di fabbrica, dove resistere all’autorità e non lavorare duramente a co-
mando aiuta gli operai a ottenere un’influenza collettiva contro i propri capi.

5.4. Chi produce cultura, e perché?


Karl Marx e Friedrich Engels hanno sostenuto che le persone più ricche e potenti di una società
sono anche quelle con le maggiori possibilità di produrre e distribuire la propria cultura e le proprie
idee. Questa tesi di Marx ed Engels ci permettere di considerare come idee e mode rispondano ai

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cambiamenti delle condizioni politiche ed economiche di una società. Oggi, con Internet e i social
media, per sapere se le persone e le classi potenti hanno ancora il controllo sulla produzione della
cultura bisogna prestare attenzione alle condizioni della produzione culturale.
Teoricamente, in una società democratica, chiunque ha la possibilità di partecipare alla vita pub-
blica; in pratica, la partecipazione pubblica è iniqui perché chi si è reso reo di un crimine è privato
del proprio diritto di voto e perché è difficile attirare un pubblico con le proprie idee o la propria ar-
te senza denaro. Jürgen Habermas chiama questo ideale “sfera pubblica”. Secondo Habermas, la
forma più alta di vita pubblica in una società capitalista è rappresentata dall’assemblea di privati
cittadini di un organismo pubblico, che si incontrano da pari per discutere insieme e generare idee
su come governare in modo collettivo. Nei moderni paesi industrializzati e democratici, la sfera
pubblica è il luogo in cui differenti gruppi sociali si organizzano per diventare attori politici e compe-
tono per avere influenza attraverso la produzione di idee finalizzate a influenzare l’opinione pubbli-
ca. Tuttavia, la teoria di Habermas ignora le differenze di potere che impediscono a tutti i cittadini
di partecipare in modo egualitario alla vita pubblica. I sociologi generalmente sostengono che ciò
che dà ad alcune persone più potere di altre nella vita privata darà loro influenza anche nella sfera
pubblica. I gruppi sociali subordinati hanno spesso costruito i propri contro pubblici, ossia sfere
pubbliche alternative attraverso le quali produrre e far circolare i propri valori, credenze e idee.
Uno studio ha descritto gli utenti di social network definendoli un pubblico interconnesso, o sfera
pubblica online; tali social network sono caratterizzati da persistenza, reperibilità, replicabilità e
pubblici invisibili, caratteristiche che rendono i pubblici interconnessi delle sfere pubbliche con una
distinta fisionomia.
I sociologi sono fortemente divisi sulla questione di chi controlli oggi la cultura popolare tra chi
considera la cultura popolare come un’industria culturale e chi considera la cultura popolare come
una sfera pubblica culturale, o democrazia culturale. Theodor Adorno ha sostenuto che la cultura
popolare che pervade la sfera pubblica alimenta un pubblico che consuma passivamente le produ-
zioni culturale, invece di partecipare attivamente e creativamente alle stesse. Dunque, secondo
questa prospettiva, la cultura popolare è un elemento di industria culturale: le persone accettano
passivamente quanto ricevono dai mass media. Altri sociologi, invece, credono che la cultura popo-
lare sia un campo di discussione sul significato della buona vita e delle condizioni per ottenerla. Tali
sociologi obiettano alla tesi di Adorno l’idea che la cultura popolare è orientata la consumatore e
alle preferenze popolari del pubblico. Secondo tale prospettiva, la cultura popolare è un elemento
di democrazia culturale, nella quale trovano posto numerosi gusti differenti, inclusi quelli delle sot-
toculture: i mass media danno alle persone ciò che esse desiderano. Ma c’è anche la possibilità del
sabotaggio culturale: le persone non accettano passivamente i prodotti culturali che ricevono, ma li
sovvertono intensionalmente per reagire all’opinione comune secondo cui le grandi aziende hanno
troppa influenza sulla vita sociale.
Secondo la teoria della comunicazione, media differenti stimolano differenti modi di comunica-
re, di organizzare il potere e di centralizzare o decentralizzare l’attività sociale; e differenti modi di
comunicare possono far vivere esperienze molto diverse anche comunicando esattamente lo stesso
contenuto. Per questa ragione, i sociologi concepiscono i media come caratterizzati da distorsioni,
come i differenti tipi di partecipazione che vengono sistematicamente incoraggiati dalle varie forme

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di comunicazione. Inoltre, a seconda dei media, le nostre idee di verità e i nostri valori cambiano;
dunque, p necessario prestare attenzione ai modelli mutevoli di consumo e partecipazione dei me-
dia. Una transizione importante è stata quella dalla tipografia alla televisione. Nell’età della tipogra-
fia dal XVI secolo al XX secolo, il discorso pubblico in Occidente si è basato sulla scrittura, che ri-
chiedeva tempi lunghi sia per la scrittura sia per la consegna, spingendo le persone a considerare
attentamente ciò che volevano dire. Nell’età della televisione, invece, il discorso pubblico è stato
caratterizzato da irrilevanza, impotenza e incoerenza e il pubblico si è abituato a ricevere passiva-
mente le informazioni senza aspettarsi di poter agire in modo significativo. La tendenza sistematica
del medium televisivo è a favore della stimolazione sensoria e dell’intrattenimento, anche a scapito
della comprensione. Oggi che la produzione culturale ha luogo online, le abitudini di consumo me-
diale sono mutate: è diminuito il numero di coloro che guardano la televisione rispetto agli anni ’80,
ma è aumentato il numero di coloro che la guardano molto; inoltre, è aumentato il numero di colo-
ro che trascorrono molto tempo su Internet. Tuttavia, molte delle tendenze tipiche dell’età della te-
levisione si sono intensificate: la lettura di opere di narrativa è molto diminuita; si trascorre meno
tempo a guardare il notiziario, nonostante si guardi più televisione; l’intrattenimento a cui si assiste
in televisione è di qualità più alta che in passato, grazie alla crescente popolarità di spettacoli ad al-
to profilo su canali specializzati e al crescente affinamento delle proposte più tradizionali sulle
grandi reti. La tendenza più importante è l’incremento del multitasking culturale. L’ambiente me-
diale contemporaneo è un flusso non stop di informazioni da cui ci stacchiamo raramente o, addirit-
tura, mai.

5.5. Qual è la relazione tra i media e la democrazia?


Nella prima metà del XX secolo, Park dell’Università di Chicago ha trattato la città come un labo-
ratorio per lo studio delle relazioni sociali. Uno dei più importanti gruppi sociali studiati è stato
quello degli immigrati, i cui giornali erano un’istituzione importante a Chicago poiché fornivano un
legame con il proprio paese d’origine e incidevano sulle esperienze dei nuovi gruppi cui gli immigra-
ti appartenevano. Nel corso del processo migratorio, infatti, gli immigrati cambiavano le loro identi-
tà e i giornali fornivano un nuovo insieme di temi e storie e un vocabolario nuovo. Park sostiene che
i giornali contribuivano a mantenere le persone aggiornate sugli eventi che le interessavano comu-
nicando notizie su eventi di importanza locale. Per avere una politica costruita sull’opinione pubbli-
ca e sul dibattito informato, il giornale deve raccontare le nostre esperienze e le nostre idee, infor-
marci su chi siamo.
Le notizie non solo riferiscono fatti al pubblico, ma contribuiscono anche a crearle e a cambiarle,
decidendo che cosa coprire e in che modo. Sia gli esponenti politici di sinistra sia gli esponenti poli-
tici di destra ritengono che i media esercitino il potere di definizione dell’agenda. È difficile dimo-
strare che i media abbiano davvero questa influenza sul corso degli eventi politici, ma un caso fa-
moso di evidente influenza dei media si è verificato durante la guerra del Vietnam. Data la forte vi-
sibilità dei media, si presume che essi siano una forza importante nella società. Secondo Micheal
Schudson, i media agiscono come sistema culturale, stabilendo il contesto che rende intelligibili gli
eventi del mondo, aiutando a costruire una comunità e una conversazione pubblica.

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Alcuni temi, come l’aborto, sono coperti molto scarsamente da parte dei notiziari, mentre altri
temi, come la desiderabilità del capitalismo, sono menzionati molto raramente. Edward Herman e
Noam Chomsky, per spiegare questo fenomeno, hanno sviluppato un modello dei media basato
sull’idea di propaganda, secondo cui il ruolo dei media è informare, intrattenere e radicare nei cit-
tadini i valori nazionali. Questo avviene sia nei paesi non democratici, in maniera evidente, sia, in
maniera più nascosta, nei paesi democratici, e Herman e Chomsky lo spiegano attraverso cinque
ragioni:
• La concentrazione dei media nelle mani di un piccolo numero di ricchi proprietari;
• Il fatto che la pubblicità sia la fonte primaria di entrate per i media;
• L’affidamento a funzionari governativi, leader di aziende e uffici di pubbliche relazioni come
fonti per la presentazione delle notizie;
• La possibilità dei governi e dei consigli d’amministrazione delle grandi imprese di punire e
minacciare i media che siano troppo critici;
• L’ubiquità del sentimento anticomunista.
Questi fattori producono un’attenzione continua da parte dei media alle vicende e alle storie fun-
zionali alle istituzioni del potere. Oggi, i sociologi sostengono sempre più spesso che le notizie siano
influenzate dal media framing: i cronisti coprono diversi temi attraverso determinate trame e narra-
tive. La spiegazione sul modo in cui il framing opera ha a che fare con fattori istituzionali e con fat-
tori personali: da una parte, i giornalisti tendono a essere economicamente conservatori, ad appar-
tenere alla classe medio – alta e ad assumere un atteggiamento liberale dal punto di vista sociale;
d’altra parte, i media sono, generalmente, aziende a scopo di profitto, e desiderano raccontare sto-
rie stimolanti per vendere giornali o attrarre telespettatori, portando a concentrare le notizie su
eventi, azioni, conflitti e drammi personali di rilievo, focalizzandosi sulle cattive notizie.
Tre tendenze del panorama mediatico statunitense suggeriscono che la relazione tra media e
democrazia si complicherà ancora di più:
• Il consolidamento: in un dato mercato, sempre meno aziende possiedono sempre più canali
mediatici, limitando la scelta del consumatore;
• La conglomerazione: un’impresa che controlla molteplici tipi di media e che utilizza la siner-
gia di questi molteplici canali mediatici per la diffusione delle notizie;
• L’ipercommercializzazione, che si manifesta in una serie di elementi quali: confini sfumati tra
pubblicità e contenuti editoriali nei giornali; presenza ubiqua di pubblicità nelle strade; diffusione di
imprese mediatiche nel settore del commercio al dettaglio; una politica di sponsorizzazioni, di cui
troviamo traccia nell’attribuzione di nomi aziendali a edifici e strutture destinati a ospitare manife-
stazioni sportive professionali.
Molti studiosi del costituzionalismo americano sostengono che i media siano necessari per crea-
re una tribuna di discussione e dare voce all’opinione pubblica. Ma la relazione tra media e demo-
crazia assume un aspetto particolare nel contemporaneo periodo di consolidamento dell’industria
mediatica e di Internet, che comporta per i media minori responsabilità verso le rispettive comunità
locali, minando così la qualità della politica democratica e della vita culturale. Allo stesso tempo, In-
ternet ha abbassato le barriere di ingresso della sfera pubblica, permettendo a persone prima iden-
tificate come spettatori/ascoltatori di far sentire la propria voce. L’attivismo democratico su Inter-

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net ha mostrato la sua incidenza più spettacolare con le sollevazioni della primavera araba del 2011
in Medio Oriente: le persone protestavano contro i loro governi, raccogliendosi numero nelle piazze
pubbliche; entro alcuni mesi, quattro governi nazionali sono stati esautorati. Le reti sociali sono sta-
te fondamentali nell’organizzazione degli attivisti, permettendo alle persone di coordinare le pro-
prie proteste e di raccogliere informazioni aggiornatissime su ciò che accadeva altrove. Sebbene,
però la Rete consenta alla gente di condividere facilmente contenuti, ciò non garantisce che le per-
sone leggano le notizie pubblica e condivise tramite Internet: la grande maggioranza delle persone
ottiene informazioni da un ristretto numero di siti, mentre una larga maggioranza di siti pratica-
mente non riceve visite. Inoltre, Internet non ha reso più semplice monitorare le attività dei potenti
e le imprese stanno cercando sempre più di sovvertire la natura apparentemente democratica dei
social media, assumendo persone che pubblichino e monitorino i contenuti.

6. Potere e politica.

6.1. Quali sono le diverse forme del potere?


Con potere si intende generalmente la capacità di realizzare cambiamenti o di impedirli. Nei con-
testi sociali e politici, gli effetti del potere sono quelli che hanno conseguenze per la vita delle per-
sone. Quando gli effetti del potere influiscono negativamente sugli interessi delle persone, il potere
è esercitato o mantenuto su di esse. Quando il potere è al servizio degli interessi altrui, si parla di
potere positivo. Si ha anche la forma del potere collettivo, finalizzato al raggiungimento di obiettivi
condivisi. È utile pensare al potere come caratterizzato da tre distinte dimensioni.
La prima dimensione del potere è la situazione più semplice in cui si verifica un conflitto tra due
o più individui o gruppi ed uno di questi prevale, ossia esercita il proprio potere sull’organismo me-
no potente. Il conflitto può: essere interpersonale; coinvolgere due organizzazioni, o parti di una
stessa organizzazione; coinvolgere differenti paesi. Qualche volta un po’ di potere può andare an-
che alla parte che ne è priva, che, dunque, può diventare in grado di esercitarlo. Il potere talvolta è
detenuto in modo legittimo, talaltra in modo illegittimo; altre volte è semplicemente difficile da
stabilirlo. Il potere spesso è esercitato seguendo le regole, ma altre volte vince chi manipola le rego-
le, attraverso la coercizione e le minacce, oppure attraverso l’offerta di incentivi speciali e bustarel-
le. A volte, l’esercizio del potere è attuato per mezzo dell’uso della forza, ma questa strategia è se-
gno di debolezza dell’organismo più potente, in quanto, se esso è costretto ad usa la forza per eser-
citare il proprio potere sullo/sugli organismo/i meno potente/i, ciò significa che non riesce a sotto-
metterlo/i ma solo a farlo/i provvisoriamente arrendere. Nella prospettiva unidimensionale del po-
tere, chi detiene il potere è una classe dominante o élite di potere: un piccolo gruppo di detentori
del potere è costantemente capace di ottenere ciò che desidera. Ma questa ipotesi è stata smentita
da uno studio sulle politiche locali di New Haven attuato negli anni ‘50 da Robert Dahl, che ha inve-
ce proposto la tesi del pluralismo: finché gruppi concorrenti hanno sufficiente potere partecipativo,
il risultato finale di ogni politica rifletterà le preferenze della maggior parte dei cittadini. Tuttavia,
tale tesi fornisce una visione troppo ristretta della natura del potere, poiché è applicabile solamen-

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te laddove vi sia un conflitto evidente. Il potere opera in modi più sottili, ed è più difficile sostenere
che esso sia distribuito equamente.
La seconda dimensione del potere è quella in cui un detentore del potere impedisce che un
gruppo o un individuo subordinato sollevi problemi capaci di mettere in discussione il suo potere; il
potere dunque consiste nella capacità di alcuni attori di impedire che posizioni alternative alle pro-
prie siano proposte o prese in considerazione. Tale potere viene esercitato per mezzo della defini-
zione dell’agenda, ossia la pratica di evitare questioni potenzialmente in grado di minacciare gli in-
teressi del gruppo dominante o dei potenti; in questo modo, le rimostranze degli esclusi o dei grup-
pi marginali possono rimanere inascoltate. Esistono molti modi per ottenere il controllo
dell’agenda: il più comune è la manipolazione effettiva dell’agenda attraverso il controllo delle pro-
cedure, che influenza quanto viene discusso e deciso. Nella seconda dimensione del potere rientra-
no non solo le questioni oggetto di aperto conflitto, ma anche quelle a cui non è permesso di dive-
nire oggetto di sfida. Tra le modalità di definizione dell’agenda si è dedicata particolarmente atten-
zione ai mezzi di comunicazione di massa: infatti, quando essi dedicano grande attenzione a una
questione particolare, diventa molto più probabile che essa riceva maggior attenzione anche da
parte dei politici; l’attenzione dei mezzi di comunicazione è oggi guidata dalla percezione degli edi-
tori di ciò che i cittadini sono più interessati a leggere e ad ascoltare, ossia di ciò che vendono. Al
contrario, i mezzi di comunicazione dedicano meno spazio alle sfide poste allo status quo e rara-
mente forniscono loro l’opportunità di diffondersi tra il pubblico. Un’altra importante fonte di con-
trollo dell’agenda è l’inattività di quegli individui o gruppi subordinati che, pur desiderando qualche
tipo di cambiamento, possono ritenerlo impossibile, scegliendo perciò di non fare nulla, che può es-
sere alla base della scarsa tendenza a mettere in discussione il potere. Talvolta, però i detentori del
potere riescono a evitare le sfide semplicemente perché nessuno gliele pone.
La terza dimensione del potere è quella in cui coloro che detengono il potere convincono quelli
che non l’hanno a ritenere accettabile tale situazione. Se il potere sugli altri consiste nell’abilità di
influenzarne gli interessi in modo negativo, tale risultato può essere raggiunto non necessariamen-
te attraverso azioni concrete ma anche attraverso la previsione di ciò che gli altri credono verrebbe
fatto dai detentori del potere se non si ottemperasse ai loro interessi. Talvolta, inoltre, le persone si
sottomettono volontariamente a chi ha il potere e ne sono persino attratte; le gerarchie di status e
le distinzioni di classe si fondano spesso su tale meccanismo. Inoltre, se l’esistenza del potere può
essere provata attraverso il suo esercizio, una tale prova implicherà l’osservazione di un conflitto
evidente in cui il detentore del potere prevale sulla parte più debole oppure la ostacola e la sop-
prime, mantenendo il conflitto nascosto; ma il fatto che la presenza del conflitto dimostri
l’esistenza del potere non implica che la presenza del conflitto sia necessaria affinché vi sia potere.
Infatti, l’uso del potere più efficace consiste proprio nell’impedire l’insorgenza del conflitto convin-
cendo la parte più debole che ogni azione di chi detiene il potere sia compiuta nel suo interesse. Ma
l’assenza di rimostranze non equivale, ovviamente, ad un genuino consenso, in quanto le opinioni e
gli atteggiamenti delle persone possono essere manipolati. I potenti, dunque, possono impedire il
cambiamento sfruttando il proprio potere per cercare di influenzare le percezioni altrui e far sì che
le persone accettino come vera ogni sorta di versione mitica e semplicistica della realtà. Laddove è
mantenuto ed esercitato, il potere può essere ingannevole e convincere le persone a sostenere

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leader o a favorire politiche che agiscono direttamente contro i propri interessi. Infine, la terza di-
mensione del potere si manifesta quando i subordinati difendono gli interessi dei potenti come se
fossero i propri.

Prima dimensione Seconda dimensione Terza dimensione


A persuade B a soste-
A crea o sfrutta ostacoli che
A ha risorse supe- nerlo o a pensare come
impediscono a B di metter-
Potere di A su B riori e vince con- lui, anche quando ciò
ne in discussione la posizio-
flitti palesi. non è nell’interesse di
ne o di sfidarlo
B.
B non riesce a far si che la
sfida rivolta ad AS sia presa B aderisce alle idee di
B ha poche risor-
Mancanza di potere seriamente in considerazio- A anche quando vanni
se per vincere
di B rispetto ad A ne; oppure B è così frustra- contro il proprio inte-
conflitti palesi.
to dalla mancanza di potere resse.
da non riuscire a sfidare A.

6.2. In quali modi uno stato distribuisce il potere all’interno di una società?
Il potere assume la sua massima rilevanza quando si esprime attraverso le principali istituzioni
politiche di una società, che costituiscono lo stato.
Con il termine “stato” si indicano tutte le istituzioni politiche formali di qualunque società, che
includono i tre poteri fondamentali dello stato (esecutivo, legislativo e giudiziario) con tutti gli ap-
parati burocratici che li affiancano e gli organo di governo locali. In generale, una delle azioni più
importanti dello stato è regolare l’economia, per cercare di offrire condizioni paritarie a tutti i par-
tecipanti; lo stato cerca di evitare che gli attori economici danneggino terze parti attraverso la rego-
lamentazione, ossia: leggi e politiche che impediscono alle grandi imprese di sfruttare le proprie
dimensioni per stabilire accordi speciali con i fornitori, o di servirsi delle stesse per estromettere dal
mercato i concorrenti più piccoli e creare monopoli non competitivi; leggi che impediscono agli
operatori del mercato azionario di usare informazioni riservate per trarne profitto; leggi che impe-
discono alle imprese di fare pubblicità ingannevoli dei propri prodotti; leggi che richiedono alle im-
prese di soddisfare standard minimi di sicurezza per i lavoratori e i consumatori; leggi che obbligano
imprese ed individui a ricompensare terze parti danneggiate dalle loro azioni. La maggior parte di
queste politiche elaborate nell’interesse della collettività sembrano semplici, ma i dettagli di tali po-
litiche hanno enormi conseguenze per la distribuzione del potere. Le imprese generalmente contra-
stano i tentativi di approvare regolamenti che proteggono i consumatori ma che potrebbero dimi-
nuire i propri margini di profitto. Ad esempio, in seguito alla crisi finanziaria e bancaria del 2008, si è
reso necessario un intervento di salvataggio da parte di molti governi, dando origine ad un periodo
di privazione economica e di insicurezza; in seguito alla crisi, molti leader di governo hanno chiesto
di porre limiti alla speculazione finanziaria e, nonostante questo avrebbe reso più difficile ottenere
profitti estremamente alti per banche e società di investimento e meno facile la bancarotte, il set-
tore finanziario si è opposto a molte di queste proposte di cambiamento.

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Le politiche e i programmi adottati e mantenuti dallo stato hanno un’enorme importanza in mol-
ti, differenti modi. Da un punto di vista economico e sociale, la distribuzione di determinate risorse
a determinati cittadini è, almeno in parte, funzione della politica di governo: ad esempio, tutti i cit-
tadini devono essere tassati affinché paghino i servizi forniti, ma non in tutti i paesi la quota dovuta
dai ricchi è maggiore di quella pagata dai poveri. Gli stati influenzano la distribuzione del potere
compiendo delle scelte in alcuni settori d’intervento: fissando o modificando le regole del gioco
all’interno del quale individui e gruppi competono per il potere; allocando una grande quantità di
risorse attraverso vari tipi di programmi di spesa, conosciuti come welfare state; decidendo a chi
tocca sostenere la spesa pubblica, attraverso le politiche fiscali; decidendo su questioni cruciali co-
me la partecipazione ad una guerra o la legalità della pena di morte. Il parlamento, i tribunali e le
burocrazie che formano lo stato sono luoghi in cui si possono manifestare tutte e tre le dimensioni
del potere, sebbene esse siano più visibili in termini di conflitto diretto e aperto sulla politica dello
stato (prima dimensione del potere) oppure in termini di questioni rese oggetto di discussione e di-
battiti pubblici (seconda dimensione del potere); il ruolo dello stato nel persuadere gli individui e i
gruppi più deboli che i loro interessi sono garantiti da politiche che, in realtà, proteggono e pro-
muovono gli interessi dei potenti (terza dimensione) è un aspetto poco visibile ma molto importan-
te dell’azione complessiva dello stato.
Due prospettive tentano di spiegare perché gli stati tendono ad adottare politiche favorevoli agli
interessi dei potenti. Secondo la teoria dello stato basato sulla sicurezza di impresa, a prescindere
dalle preferenze di chi è al governo, lo stato nel suo complesso è fortemente incentivato ad assicu-
rare che le grandi imprese abbiano la fiducia e la sicurezza necessarie per fare investimenti che
creeranno posti di lavoro e produrranno crescita economica, in quanto mantenere in patria un am-
biente economico sano è importante per scoraggiare le imprese nazionali dallo spostare le proprie
attività produttive all’estero o per incoraggiare le imprese straniere a investire sul paese in questio-
ne. Invece, secondo la prospettiva che si focalizza sul potere politico relativo posseduto da gruppi
differenti, le grandi industrie e le persone abbienti dispongono semplicemente di maggiori risorse
per influenzare la vita politica di quante ne abbiano i gruppi che rappresentano la classe operaia o
la classe media; dispongono anche di maggiori probabilità di entrare in contatto con i politici. Al di
là di queste prospettive, in realtà la propensione degli stati a sostenere gli interessi dei ricchi dipen-
de in una certa misura dall’orientamento politico dei governi in carica: in generale, i governi liberali
e conservatori tendono a favorire le forze di mercato e gli interessi di impresa, mentre i governi so-
cialdemocratici sono più attenti alle esigenze delle classi lavoratrici.

6.3. Che relazione c’è fra classe e politica?


Nei paesi democratici, le politiche dei governi tendono a riflettere, direttamente o indirettamen-
te le scelte dei cittadini, condizionate in particolare dall’insieme di valori e interessi legati alla classe
di appartenenza degli elettori. La capacità di varie classi di ottenere vantaggi dal potere politico e di
influenzare la definizione dell’agenda deriva almeno in parte dal voto di classe, ossia dalla relazione
che esiste fra le scelte elettorali dei cittadini e la loro classe di appartenenza: quanto più questa re-
lazione è forte, tanto più la struttura socio-economica di una società influenzerà la distribuzione e
l’uso del potere politico da parte dello stato.

29
Le classi sono gruppi di persone che si trovano in posizioni socio-economiche simili, hanno circa
le medesime opportunità di vita e traggono vantaggi e svantaggi dagli stessi tipi di politica governa-
tiva. Nelle società contemporanee, gli interessi di ciascuna classe trovano espressione nella sfera
politica, ma per molto tempo non è stato così. Nelle società preindustriali, tutte le disuguaglianze
erano considerate come il prodotto di qualche ordine naturale o divino. Questo stato di cose, nel
mondo occidentale, cominciò a cambiare con la nascita e lo sviluppo della società industriale, che,
attraverso le rivoluzioni politiche del XVIII secolo, contribuì a diffondere la convinzione che tutti gli
individui nascono uguali e dotati degli stessi diritti. La crescente diffusione dei regimi democratici
liberali contribuì allo sviluppo di molte forme di mobilitazione politica nelle quali trovarono espres-
sione gli interessi di tutte le classi; in particolare, i membri della classe operaia cominciarono a mo-
bilitarsi per migliorare la propria condizione di svantaggio e, a tal fine, diedero vita a organizzazioni
sindacali e partiti politici il cui obiettivo principale era la riduzione o l’eliminazione delle disugua-
glianze di classe. La lotta di classe rivoluzionaria lasciò idealmente il passo, agli ultimi decenni del
XIX secolo, alla lotta di classe democratica, ossia alla competizione elettorale intesa come strumen-
to primario delle classi per accedere legalmente al potere politico e promuovere i propri interessi
legittimi.
Il ruolo centrale assunto dalla competizione elettorale nella regolazione del conflitto fra i diversi
interessi di classe ha stimolato un’ampia attenzione per il voto di classe, le sue mutevoli manifesta-
zioni e la sua rilevanza nel determinare gli esiti delle elezioni. Tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli
anni ’70, in tutti i paesi democratici occidentali esisteva una relazione significativa fra la classe degli
individui e le loro scelte elettorali: le classi più svantaggiate mostravano una propensione a votare
per i partiti di sinistra; le classi medie e superiori erano più inclini a sostenere i partiti liberali e con-
servatori. È certo che la relazione fra classe e scelte elettorali non era ben netta e definita e la forza
di tale relazione variava da paese a paese. Nel complesso, tuttavia, le manifestazioni del voto di
classe nei paesi occidentali seguivano forme pienamente coerenti con i canoni tradizionali della lot-
ta di classe democratica. All’inizio degli anni ’80 si è ravvisato nei paesi occidentali un declino diffu-
so del voto di classe e l’esaurimento del ruolo della classe come base della mobilitazione politica:
l’avvento della società post-industriale avrebbe portato con sé una riduzione delle disuguaglianze
socio-economiche fra le classe e, quindi, delle differenze di classe in termini di interessi e opportu-
nità di vita, indebolendo così la relazione fra classe, orientamento politico e scelte elettorali. Tutta-
via il voto di classe non è diminuito allo stesso modo dappertutto. Infatti, osservando il valore as-
sunto dall’indice di Alford, che misura l’intensità del voto di classe tradizionale mediante la diffe-
renza tra la percentuale di voti attribuita ai partiti di sinistra dai membri della classe operaia e la
percentuale di voti attribuita a quegli stessi partiti dai membri di tutte le altre classi (medie e supe-
riori), in ventitré paesi europei agli del XXI secolo, si è visto come, ancora oggi, il voto di classe sia
presente, anche se non in modo omogeneo, nella maggior parte dei paesi dell’Europa, mentre esso
si manifesta in maniera opposta a quella tradizionale in Svizzera, Polonia, Estonia e Slovenia. In Ita-
lia l’indice di Alford assume un valore inferiore al 10%, significando come la persistenza del voto di
classe tradizionale nel nostro paese sia molto poco intenso.

30
7. Mercati, organizzazione e lavoro.

7.1. Come influiscono i fattori sociali sui mercati?


I mercati sono il fondamento della vita economica, ma il loro potere non è sempre stato così evi-
dente. Per gran parte del XX secolo esistevano anche dei modelli alternativi al capitalismo di merca-
to, che professavano un’adesione ideologica al comunismo ma che, in pratica, possedevano e con-
trollavano i mezzi di produzione. Nelle economie socialiste dell’Europa Orientale, il governo usava
la pianificazione centralizzata, in cui il governo decideva quali tipi di beni e di servizi sarebbero stati
prodotti e quale sarebbe stato il loro prezzo. Negli anni ’60 e ’70, si svilupparono molti dibattiti fra
gli economisti circa la superiorità del capitalismo, basato sulla proprietà privata e sugli scambi di
mercato, o del socialismo, in cui il governo possiede la proprietà e controlla la produzione. Oggi,
l’alternativa socialista è decisamente declinata come modello praticabile in alternativa al capitali-
smo di mercato: quasi tutti gli spazi della vita sociale sono ormai legati al funzionamento dei merca-
ti e vi si accede attraverso il denaro. Inoltre, gli imprenditori inventano continuamente nuovi mer-
cati per vendere beni e servizi a potenziali compratori. I mercati e le idee che ne derivano stanno
via via penetrano in aree della vita sociale un tempo considerate esterne alla loro sfera di influenza.
Ad esempio, le famiglie possono assumere persone che si curino dei loro bambini, che preparino i
pasti, che puliscano le loro case e i loro giardini e che si occupino di tutelare la loro sicurezza. Tutte
queste attività hanno a che fare con l’esistenza e il funzionamento dei meccanismi di mercato. Data
la loro pervasività, i mercati sono parte della struttura sociale che costituisce l’architettura delle so-
cietà moderne.
Definire cosa intendiamo con il termine “mercato” è complesso in quanto vi sono casi intuitivi di
mercato, come il mercato azionario, ma vi sono casi ambigui come un sito di incontri online oppure
i servizi che facilitano lo scambio della casa per le vacanze. Nelle dottrine economiche classiche, un
mercato implica uno scambio di beni o servizi tra compratori e venditori, che può avvenire istanta-
neamente, nel quale i prezzi dei beni o dei servizi sono definiti dalla domanda di ciò che si vende.
Questa definizione, che fa riferimento a quella che viene chiamata la prospettiva della scelta razio-
nale, non considera però i meccanismi sociali importanti per il funzionamento dell’economia. Le de-
finizione sociologica vede i mercati come interazioni ripetute tra persone – compratori, venditori e
produttori – che agiscono secondo regole formali e informali. Perché un mercato esista, ci deve es-
sere una definizione condivisa circa i tipi di beni che saranno scambiati, ma anche sugli agenti della
transazione e sul modo in cui gli scambi avranno luogo. Per fare sì che ciò avvenga entrano in gioco
importanti istituzioni sociali, come governi e leggi, nonché norme che definiscono i comportamenti
appropriati.
Lo studio sociologico dei mercati si è concentrato sulla combinazione di tre fattori sociali: reti so-
ciali; potere; cultura.
Quando i sociologi parlano di reti sociali intendono specialmente i legami fra persone, dovuti a
connessioni tra familiari o tramite amici, colleghi o amici di amici, che sono una parte importante
del modo in cui avvengono gli scambi di mercato. Le attività economiche, comprese quelle di mer-
cato, spesso si basano sulla famiglia o sull’amicizia, così come sulla fiducia e sulla cordialità veicola-
te dalla conoscenza interpersonale, in quanto necessitano di questi legami sociali per mantenere i

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livelli di fiducia necessari per lo svolgimento dello scambio economico. Secondo Karl Polanyi,
l’azione economica è radicata nelle interazioni sociali: lo scambio economico si sviluppa in contesti
di socializzazione. Spesso le persone fanno affari con chi già conoscono: ad esempio, al contrario di
come ci si aspetterebbe, molti imprenditori, pur venendo a conoscenza di una banca che pratica
tassi d’interesse minori di quelli che pagano, preferiscono rimanere dove sono e negoziare tassi
d’interesse più bassi; infatti, sviluppare un rapporto durevole con una specifica banca può portare
vantaggi a entrambe le parti. In altre ricerche, le reti sociali si sono dimostrate importanti per il mo-
do in cui permettono lo scambio di informazioni riguardo al funzionamento del mercato: negli anni
’70, Mark Granovetter dimostra che la possibilità di una persona di cambiare lavoro è influenzata
dai suoi contatti personali, e specialmente dai suoi legami indiretti, ossia amici di amici, piuttosto
che i legami diretti con familiari e amici: le referenze e le raccomandazioni di amici e conoscenti
hanno un ruolo molto significativo. Tale prospettiva è centrale per la comprensione dell’incontro
tra domanda e offerta di lavoro negli Stati Uniti, dove i legami sono più acquisiti e deboli e le occa-
sioni di lavoro sono beni facilmente accessibili e mutevoli, ma non in altri paesi, ad esempio in Italia,
dove i legami forti di fiducia con parenti e amici stretti svolgono un ruolo più importante e dove i
posti di lavoro sono scarsi e costituiscono beni durevoli. Infine, le reti sociali rivestono grande im-
portanza anche riguardo al modo in cui le carriere individuali si sviluppano o all’interno di una sin-
gola impresa o nel passaggio da un lavoro all’altro.
Dalla prospettiva sociologica, nei mercati si trova una certa disuguaglianza e una serie di vantag-
gi che interessano soprattutto chi è in posizione di potere. I mercati, infatti, sono influenzati dal po-
tere relativo e dallo status in una miriade di modi. Uno di essi riguarda l’importanza rivestita dalle
relazioni di potere fra imprese che operano nello stesso settore, caratterizzate da asimmetria. È no-
to che le grandi aziende riescono spesso a portare a termine affari migliori, a parità di prodotto, ri-
spetto a quelle più piccole. Casi analoghi si riscontrano nel settore della certificazione contabile. Qui
operano imprese specializzate in quella che dovrebbe essere un’analisi imparziale dei libri contabili
di un’impresa, ma in anni recenti i media hanno dato conto di un gran numero di scandali finanziari,
che ha reso evidente come le grandi imprese possano spesso manipolare le agenzie di certificazione
contabile.
Infine, i sociologi ricorrono all’idea di cultura per capire come le regole formali ed informali del
mercato vengano conosciute dalle persone e aiutino a coordinare gli scambi nei mercati. Alcune re-
gole sono formali, ossia leggi e regolamentazioni stabilite dai governi, essenziali per creare e man-
tenere i mercati. Molte altre leggi, però, sono informali e date per scontate, anche non meno rile-
vanti delle regole formali. Tali regole informali possono essere modificate dai partecipanti per crea-
re nuove opportunità. Ad esempio, Viviana Zelizer ha mostrato come l’industria delle assicurazioni
sulla vita sia decollata solo in seguito ad un cambiamento culturale sulla percezione del valore e del
significato della vita umana, legittimato dalle aziende stesse facendo riferimento al fatto che la vita
umana ha un certo tipo di valore economico e sociale per la famiglia e per gli amici.

7.2. Perché le organizzazioni sono importanti per la vita sociale ed economica?


Ogni mercato si caratterizza per un insieme di organizzazioni chiave che operano in modi più o
meno competitivi, determinando forma e confini del mercato stesso. Un’organizzazione può essere

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definita come un gruppo dedicato a una specifica attività che ha uno scopo o un proposito identifi-
cabile e una forma durevole di associazione.
Una caratteristica comune a tutte le organizzazioni è che, una volta nate, essere tendono a pre-
sistere, anche di fronte a importanti minacce alla loro esistenza. Ad esempio, l’organizzazione
March of Dimes, creata nel 1938 da Franklin Roosevelt per combattere la poliomielite, per poter
continuare a vivere dovette decidere di focalizzarsi su un nuovo scopo, che divennero le malforma-
zioni alla nascita e altre malattie dell’infanzia, allorché nel 1955 la circolazione del vaccino Salk por-
tò all’eliminazione quasi totale della poliomielite. Le organizzazioni sopravvivono anche quando il
loro scopo iniziale è finito perché le persone che vi sono coinvolte sono molto interessate alla loro
sopravvivenza, in quanto guadagnano da vivere lavorando per quella organizzazione; inoltre, le or-
ganizzazioni hanno nomi e brand che hanno un valore e che possono essere conservati anche tra-
mite l’assorbimento in o l’acquisto da un’altra organizzazione. Infine, le organizzazioni tendono a
sviluppare burocrazie, con regole scritte e ruoli specifici, che fanno sì che l’organizzazione diventi
più della somma degli individui che la compongono, rendendo “superfluo” il singolo individuo che vi
lavora.
Un esempio ci come le burocrazie si sviluppino con la crescita dimensionale delle organizzazioni
è il caso di Apple. Essa nacque dall’associazione di Steve Jobs e Steve Wozniak, che iniziarono a di-
segnare il primo computer Apple in un garage a Los Altos, in California verso la metà degli anni ’70.
In seguito alla fama raggiunta con la messa in commercio dell’Apple II, Apple fu in grado di assume-
re ingegneri e scienziati specializzati in informatica, espandendo così la propria offerta di prodotti. Il
successivo boom si ebbe con la presentazione e il crescente numero di vendite del primo Macin-
tosh: allora, Apple cominciò a trasformarsi in una multinazionale con un consiglio di dirigenti e di
manager che, contemporaneamente al lancio di Macintosh, scacciò Jobs dalla compagnia, mentre
Wozniak se ne era già andato. Senza i suoi fondatori, Apple sopravvisse per oltre dieci anni, fino a
quando alla fine degli anni ’90, Jobs fu riassunto da Apple come CEO, con la creazione di nuovi pro-
dotti di enorme successo che rilanciarono l’organizzazione. La sopravvivenza di Apple tra gli anni ’80
e ’90 è dipesa in gran parte dalla creazione di una struttura organizzativa dotata delle risorse e della
stabilità necessarie per attutire le oscillazioni di mercato nelle vendite dei suoi prodotti.
Se il processo di burocratizzazione di un’organizzazione può fornire forza e stabilità, può anche
creare nuovi e difficili problemi riguardo al modo in cui le decisioni vengono prese.
Secondo Max Weber, il passaggio di qualsiasi organizzazione alla forma burocratica è una neces-
sità dovuta alla complessità dei grandi mercati e governi che caratterizzavano le società moderne.
La burocrazia è essenzialmente caratterizzata da procedure formali e regole che devono assicurare
coerenza e responsabilità. Ciononostante, le burocrazie generano anche routine rigide e compiti ri-
petitivi, rendendo difficile l’adattamento delle organizzazioni ai cambiamenti dell’ambiente in cui
esse operano. Weber sottolinea tre caratteristiche centrali della burocrazia:
• Le burocrazie stabiliscono posizioni d’autorità gerarchicamente organizzate;
• Un insieme di regole scritte definisce l’obiettivo e le responsabilità di ciascuna posizione
all’interno della burocrazia;
• Le organizzazioni possono essere considerate burocrazie solo se i funzionari che prendono le
decisioni vi sono impegnati a tempo pieno e sono pagati per i loro lavoro.

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Tuttavia, la teoria della burocrazia di Max Weber tiene conto solo degli aspetti formali del funzio-
namento delle burocrazie, tralasciando gli aspetti informali che ne definiscono il funzionamento ef-
fettivo. Inoltre, le regole vengono spesso infrante o ignorate e, di frequente, servono solo a descri-
vere in modo vago ciò che viene svolto nell’esecuzione effettiva del lavoro. Infine, i funzionari cer-
cano spesso di aumentare la quantità di risorse a disposizione delle loro unità indipendentemente
dal fatto che ciò sia effettivamente nell’interesse dell’organizzazione, contrariamente a quanto in-
vece affermava Weber.
Le burocrazie sono spesso luoghi caotici dove è difficile prendere una decisione razionale, per la
molteplicità di persone coinvolte, al conseguente molteplicità di opzioni proposte e l’insufficienza di
informazioni a disposizioni. Il decision-making organizzativo di rado segue un percorso chiaro, pre-
ferendo invece seguire il metodo di scelta a “cestino dei rifiuti”: è come gettare in un cestino dei ri-
fiuti una serie di domande e di risposte e vedere in che modo si mescolano. Tale strategia di deci-
sione può essere mostrata con un esempio che fa riferimento alla legislatura politica, e al Parlamen-
to in particolare: quando un membro del Parlamento propone un disegno di legge, per presentarlo
alla commissione competente, deve riunire un numero sufficiente di sostenitori, che possono ri-
chiedere l’aggiunta di vari elementi; successivamente, il disegno va presentato alla Camera dei De-
putati e al Senato, prima, e all’esecutivo, dopo, per potere essere approvato e diventare legge, con
la possibilità di essere modificato per venire incontro alle necessità di un particolare parlamentare;
così la legge non è più logicamente connessa con l’intento originario, ma è emersa dal contesto di
tute le richieste e i bisogni degli individui coinvolti nel processo.
Per evitare di prendere decisioni nel modello di scelta a “cestino di rifiuti”, ci si può liberare dalle
regole e dai regolamenti del contesto istituzionale al cui interno si trova a operare attraverso la
“connessione lasca”, ossia il tentativo di decentralizzare il processo decisionale per permettere che
emergano approcci differenti. Ad esempio, le scuole, anche se sono legalmente collegate a ogni li-
vello del sistema scolastico, sono molto distanti dalla burocrazia ministeriale ciò permette loro di
operare con notevole autonomia rispetto alle normative del ministero. La connessione lasca può
essere un fenomeno deleterio, ma rende anche le istituzioni flessibili e capaci di muoversi con at-
tenzione in relazione alle necessità e ai cambiamenti dei singoli ambienti.

7.3. Qual è la relazione fra le organizzazioni e il loro ambiente?


Le organizzazioni operano nel contesto di un ambiente più ampio, costituito da altre imprese,
politiche pubbliche, competizione internazionale e molte altre realtà e forze sociali, da cui le orga-
nizzazioni dipendono per ricevere le risorse economiche, sociali e politiche necessarie alla sopravvi-
venza.
Le organizzazioni devo o possedere caratteristiche adatte al loro ambiente se vogliono rimanere
in vita e prosperare: generalmente, le organizzazioni che sopravvivono sono quelle che inizialmente
erano ben abbinate al loro ambiente e che, successivamente, si sono rese impermeabili al cambia-
mento. Tale resistenza al cambiamento viene chiamata inerzia strutturale: migliore è l’abbinamento
iniziale, maggiore sarà l’inerzia e la capacità di resistere dell’organizzazione. Ma l’inerzia strutturale
può anche impedire a un’organizzazione di sopravvivere, in quanto, una volta che
un’organizzazione è stata creata e funziona in un certo modo, tenderà ad utilizzare in modo mecca-

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nico le stesse soluzioni per nuovi problemi ed il cambiamento, anche se necessario. può essere mol-
to difficile. Inoltre, le organizzazioni devono anche sopravvivere in un’arena competitiva. Le orga-
nizzazioni che sopravvivono spesso hanno individuato e occupato una nicchia, ossia uno specifico
settore del mercato o della società, che richiede i servizi o i prodotti forniti dall’organizzazione.
Le organizzazioni appartenenti allo stesso campo organizzativo adottano comportamenti e poli-
tiche reciprocamente simili per tre tipi di motivi, riconducibili tutti al concetto sociologico di iso-
morfismo organizzativo, per cui le organizzazioni che insistono sullo stesso campo organizzativo
tendono a cambiare nel tempo per diventare sempre più simili fra loro. Le organizzazioni all’interno
di un medesimo campo organizzativo tendono a diventare più simili fra loro nel corso del tempo
perché sono costrette ad adeguarsi alle stesse norme legali o regolamenti. Quando il fenomeno si
applica a tutte le organizzazioni di un certo campo organizzativo, si parla di isomorfismo coercitivo.
Il secondo motivo per cui le organizzazioni adottano comportamenti e politiche reciprocamente si-
mili è l’isomorfismo normativo, ossia l’organizzazione reagisce alle pressioni che hanno per oggetto
la sua legittimità, come necessità e aspettative delle persone servite dall’organizzazione, adeguan-
dosi all’ambiente normativo, evitando così un conflitto con esso e una conseguente perdita di legit-
timità. Infine, l’isomorfismo mimetico si riferisce all’imitazione di altre organizzazioni visibili
nell’ambiente di appartenenza per non attirare l’attenzione negativa che potrebbe mettere in di-
scussione la legittimità dell’organizzazione.

7.4. Come è strutturata l’occupazione?


Una delle conseguenze più importanti dei mercati e delle organizzazioni consiste nel fornire op-
portunità economiche e occupazionali alle persone. Proprio come il lavoro è importante per gli in-
dividui (costituendo circa il 30% della sua vita) la divisione del lavoro in una società ne definisce in
modo significativo il sistema economico e molte caratteristiche di fondo.
Dalla metà del XIX secolo in poi, con un’accelerazione nel XX secolo, si è assistito a un aumento
vertiginoso dei tipi di lavoro che è possibile svolgere. L’aumento di produzione di beni e prodotti
per i mercati di massa nella Rivoluzione industriale si è basata sulla nascita della fabbrica come luo-
go sempre più centrale in cui svolgere l’attività economico-produttiva. Con il progresso tecnologico
e lo sviluppo di forme più sofisticate di management e supervisione, il lavoro si fece sempre più
specializzato. Di pari passo con la crescente specializzazione, all’interno delle fabbriche nacquero
rapidamente vecchie e nuove occupazioni di tipo manageriale. L’aumento del benessere portato
dalla Rivoluzione Industriale richiedeva e incentivava la creazione di impieghi che fornivano servizi e
sostenevano il settore manifatturiero, insieme ad un’enorme espansione delle Scuole e delle Uni-
versità verso la fine dell’Ottocento. La crescita dei tipi di lavori che le persone possono svolgere
continua ancora oggi, in cui si è riusciti a classificare fino a 12.000 diverse denominazioni dei lavori,
a volte ricche di distinzioni sottili ma anche eccessive.
L’esistenza di un elevato numero di lavori parrebbe implicare la necessità di un elevato livello di
specializzazione per poter svolgere adeguatamente un certo lavoro; in realtà, molti lavori vengono
realizzati all’interno di organizzazioni e sono variamente controllati da supervisori e manager. Il
processo lavorativo è il concetto che descrive tanto il controllo esercitato da manager e supervisori,
quanto l’insieme delle relazioni fra lavoratori e ruoli dirigenziali nelle imprese. L’analisi del processo

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lavorativo fa luce sui luoghi di lavoro esaminando il modo in cui i lavoratori svolgono le loro man-
sioni, e come si sviluppano le relazioni fra lavoratori e supervisori. Il processo lavorativo, secondo la
più famosa tra le prime linee di ricerca, ha origine nel tentativo di capire perché alcuni luoghi di la-
voro sono più produttivi di altri. Oggi la sociologia del lavoro si concentra su domande relative
all’organizzazione del processo lavorativo, diversamente da altri approcci come quelli alla base degli
studi Hawthorne, finalizzati a capire quali fattori potevano indurre i lavoratori a produrre di più nel
minor tempo possibile. Un importante cambiamento di prospettiva si ebbe con “Lavoro e capitale
monopolistico” di Harry Braverman, che descrisse la crescita dell’organizzazione scientifica del lavo-
ro, basata sull’idea che i manager devono capire e controllare le azioni dei lavoratori a loro sottopo-
sti, e il cui punto fondamentale è la catena di montaggio, in cui ogni compito che un lavoratore de-
ve svolgere è ricondotto a un preciso e completo insieme di istruzioni. Il luogo di lavoro secondo
Braverman era caratterizzato dalla dequalificazione, dove il management cercava di impedire che i
lavoratori potessero trarre vantaggio dalla loro migliore conoscenza delle operazioni di lavoro. Di-
versamente, alcuni sociologi sostengono che l’industrializzazione ha seguito uno schema più com-
plesso, producendo in alcuni casi dequalificazione, ma creando contemporaneamente nuovi tipi di
lavoro che richiedono più abilità. Se osserviamo lo schema generale dello sviluppo del lavoro nel
corso del tempo, appare evidente un aumento dei lavori che richiedono più capacità e più istruzio-
ne: motivo per cui la differenza di reddito tra coloro che hanno un titolo di studio universitario e
quelli che non ce lo hanno è aumentata.

7.5. Cosa fa di un lavoro un “buon” lavoro?


Nonostante non esista un chiaro consenso su cosa definisca lavora “migliori” di altri, o “buoni”
in senso assoluto, esistono alcune caratteristiche dei lavori che li rendono più o meno attraenti,
sempre all’interno della prospettiva secondo cui avere un lavoro è molto meglio che non averlo.
Gli studiosi hanno sottolineato la rilevanza di alcune dimensioni specifiche per definire un
“buon” impiego:
• Il livello della retribuzione;
• Il livello di autonomia e discrezionalità (o fiducia) sul lavoro, importante perché la soddisfa-
zione per il compito è sempre minore quanto più elevato è il controllo e monitoraggio delle azioni
da parte di terzi;
• Il livello di abilità richiesto e l’importanza attribuita ai titoli di studio, in quanto lavori in cui
sono richiesti un lungo apprendistato o credenziali scolastiche sono più difficili da ottenere, più sta-
bili e più gratificanti;
• Lo status, in quanto supervisionare gli altri è associato ad una retribuzione più eòevata e alla
possibilità di concentrarsi su compiti piacevoli o stimolanti, assegnando gli incarichi di routine o
quelli meno interessanti ad altri;
• Il grado di sicurezza, ovvero, quanto è probabile che il lavoratore possa continuare a lavora-
re in quella medesima posizione.
Nel valutare l’organizzazione del lavoro delle economie capitaliste di mercato, possono essere
presi in considerazione due fattori importanti: il livello di regolazione del lavoro, ossia il numero e
tipo di leggi e regole che proteggono i lavoratori dal rischio di perdere il posto di lavoro, e il ruolo

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dei sindacati. I due fattori sono intrecciati in maniera tal che nei paesi che tendono ad avere rego-
lamentazioni più forti del lavoro è resa più agevole la creazione di organizzazioni come i sindacati,
mentre in altri paesi il mercato decide la maggior parte delle condizioni di organizzazione del lavo-
ro. Le economie (Stati Uniti d’America, Canada) dove il mercato è pervasivo nella regolazione del
lavoro, i sindacati sono più deboli e vi è una minore regolazione del lavoro; al contrario, economie
come la Germania hanno sindacati più forti e una maggiore regolazione del lavoro; esistono anche
economie che si pongono in posizione intermedia, dove a una maggiore o minore forza dei sindaca-
ti corrisponde una minore o maggiore regolamentazione del lavoro. I sindacati svolgono molti com-
piti, tra cui: aumentare il potere negoziale dei lavoratori; monitorare e controllare le condizioni di
lavoro. Ebbinghaus e Visser (2000) hanno ricostruito l’andamento del tasso di sindacalizzazione dei
paesi dell’Unione Europea, identificando un andamento a U rovesciata, con un picco nel 1978, che
testimonia come la capacità dei sindacati di raccogliere proseliti sia andata riducendosi nel corso
del tempo. Questo andamento a livello europeo, ovviamente, non tiene conto delle differenze nei
livelli di sindacalizzazione tra i vari paesi. In generale, in quei paesi (principalmente Danimarca e
Svezia) dove i sindacati svolgono un ruolo importante nella gestione dei sussidi di disoccupazione, i
tassi di sindacalizzazione sono rimasti costanti nel corso degli ultimi due decenni o sono addirittura
cresciuto; tale ruolo dei sindacati, infatti, sembra aver permesso alle organizzazioni di lavoratori di
questi paesi di neutralizzare gli effetti negativi della crescita della disoccupazione sui tassi di sinda-
calizzazione. Con il declino dei sindacati a livello europeo, molte imprese hanno via via sviluppato
strategie di competizione sul mercato globale basate sulla produzione snella che, dal punto di vista
del management, mira ad identificare e ridurre costantemente i costi di produzione. Ciò ha portato
all’introduzione di nuove tecnologie e alla riduzione degli sprechi nel processo produttivo. Tuttavia,
una conseguenza sempre negativa della produzione snella è l’eliminazione di benefici e forme di si-
curezza dati per scontati: con una maggiore flessibilità del lavoro e dell’organizzazione, infatti, molti
benefici legati al lavoro vengono cancellati (come la copertura sanitaria e pensionistica); in casi
estremi, possono essere eliminate le pause e si può risparmiare sulla sicurezza del lavoro; inoltre, i
datori di lavoro possono ridurre i costi sostituendo i contratti di lavoro full-time con contratti part-
time che accettano paghe inferiori e pochissimi benefici, senza diritto alla pensione o
all’assicurazione sanitaria. Nel 2000, negli Stati Uniti d’America, quasi un lavoratore su cinque lavo-
rava part-time involontariamente, pur desiderando un lavoro full-time; in Italia, con la crisi del
2008, il part-time interessa poco meno 20% dei contratti stipulati, ma è cresciuta molto la quota del
part-time involontario. Un altro importante fenomeno che ha influenzato i benefici legati al lavoro è
la crescita dell’outsourcing, che si realizza quando un’impresa attribuisce funzioni come la gestione
dei pagamenti, l’amministrazione, i servizi di pulizia verso imprese esterne, a costi minori e licen-
ziando alcuni dipendenti. Un ultimo aspetto da sottolineare riguarda il sistema di protezione sociale
in cui la relazione di lavoro si inserisce. Negli Stati Uniti, le coperture sanitarie sono molto più limi-
tate e il sistema di pagamento dell’assistenza sanitaria è affidata perlopiù al datore di lavoro, che
comunque non è costretto a fornire tale assistenza. Analogamente, la maggior parte dei redditi da
pensione ricevuti dai singoli lavoratori proviene dal risparmio privato e da paini pensionistici di va-
ria natura offerti dal datore di lavoro, con evidente difficoltà per i lavoratori che percepiscono bassi
redditi. In Italia, il livello complessivo delle risorse destinate al Servizio sanitario nazionale è deter-

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minato da: entrate proprie delle aziende del SSN, in un importo definito in seguito a un’intesa tra
Stato e Regioni; fiscalità generale delle Regioni; compartecipazione delle Ragioni a statuto speciale
e delle Province autonome; risorse che provengono dal bilancio dello Stato destinate a finanziare il
fabbisogno sanitario non coperto. Tutto ciò porta ad un contesto di lavoro in cui relativamente i la-
voratori statunitensi hanno meno potere dei loro colleghi di altri paesi. Tuttavia, la stretta regola-
mentazione di molti lavori in Europa si è mostrata un’arma a doppio taglio, poiché i datori di lavoro,
sapendo di non poter licenziare facilmente e che devono pagare tasse più alte per pensioni e sanità,
sono più riluttanti ad assumere. Ciò ha spinto le imprese europee ad assumere lavoratori tempora-
nei senza pieni benefici sociali, creando una nuova divisione fra lavoratori full-time e lavoratori
part-time.

Il mercato del lavoro: concetti e misure.


Concetti principali Principali misure
Il mercato del lavoro è luogo di cambio della • Tasso di attività: rapporto tra forze lavo-
merce-lavoro, in cui gli individui offrono lavo- ro e la popolazione totale (tasso lordo) o in età
ro (offerta di lavoro) e/o le imprese lo do- lavorativa (15-65 anni circa) (tasso netto), che
mandano (domanda di lavoro), che viene misura il grado di partecipazione al mercato del
scambiato in cambio di una retribuzione che lavoro di una popolazione, ossia la sua propen-
rappresenta un reddito per gli individui (che sione a cercare un lavoro;
consente di consumare beni e servizi) e un • Tasso di disoccupazione: rapporto tra le
costo per le imprese; I rapporti tra imprendi- persone in cerca di occupazione e le forze lavo-
tori e lavoratori all’interno del mercato del ro, che indica quanti non trovano lavoro ogni tot
lavoro viene riequilibrato da un’autorità persone che lo cercano;
esterna che molto spesso è il sindacato. Le • Tasso di occupazione: rapporto tra gli
istituzioni hanno un ruolo importante nella occupati e la popolazione totale (tasso lordo) o
regolazione di questo mercato. soltanto in età lavorativa (tasso netto).

8. Stratificazione sociale, disuguaglianza e povertà.

8.1. Che cos’è la disuguaglianza?


L’analisi sociologica della stratificazione sociale studia le disuguaglianze, ossia le distribuzioni di-
seguali di beni e opportunità, tra individui e gruppi.
Nel corso della storia, la forma e il livello della disuguaglianza hanno subito ampie variazioni. Le
società primitive dedite alla caccia e alla raccolta, generalmente suddividevano i propri approvvi-
gionamenti alimentari e le altre risorse tra tutti i membri della tribù in modo più o meno equo;
dunque, c’erano possibilità relativamente scarse che emergessero grandi disuguaglianze. La schiavi-
tù è stata una delle prime forme di disuguaglianza e, sebbene producesse una forma estrema di di-
suguaglianza, il sistema dominante di disuguaglianza prima dell’avvento del capitalismo era quello
del feudalesimo: un ordine sociale in cui i feudatari, che possiedono la terra, ricevono i prodotti dei
servi, obbligati per legge a lavorare per il feudatario. Anche i mercanti dei primi insediamenti urbani

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medievali riuscivano a diventare ricchi e nelle aree urbane si cominciò a intravedere la possibilità
che reddito e ricchezza potessero essere distribuiti fra un numero maggiore di persone. In tali so-
cietà, lo strato sociale d’élite tendeva a vivere isolata dal resto della popolazione e non esistevano
significative classi medie paragonabili a quelle delle società capitalistiche odierne. Oggi il mondo
della disuguaglianza è molto più complicato. La rivoluzione industriale ha reso possibile una crescita
economica rapida e sostenuta; le società nel loro complesso sono diventate più ricche e al loro in-
terno sono emerse disuguaglianze assai maggiori: i ricchi (l’1% della popolazione totale) sono diven-
tati più ricchi e controllano un’enorme quota (il 32%) della ricchezza mondiale, mentre i poveri sono
diventati sempre più poveri e la fascia della popolazione mondiale meno abbiente (il30%) possiede
a mala pena l’1% della ricchezza totale.
Nello spiegare in quali modi specifici le società sono disuguali, gli scienziati sociali hanno concen-
trato la maggior parte della loro attenzione sulla distribuzione disuguale del reddito, con cui si in-
tende la quantità di denaro o beni percepita in un particolare periodo contabile ricavata da molte-
plici fonti di reddito (lavoro fisso, investimenti, possesso di beni immobili o imprese, trasferimenti
pubblici, trasferimenti da familiari o amici, attività illegali, e così via), e della ricchezza, con la quale
si intende il valore netto delle risorse possedute da un individuo o da una famiglia (la ricchezza più
diffusa è la proprietà immobiliare. Un sottoinsieme più limitato della popolazione possiede risorse
finanziarie nette, ossia il valore totale dei risparmi, degli investimenti e di altre risorse convertibili,
al netto dei debiti. Altre misure di disuguaglianza sono: il consumo reale, ossia ciò che gli individui e
le famiglie sono davvero in grado di comprare e consumare; la disuguaglianza di benessere, che ri-
guarda numerose dimensioni della vita, essenziali per la nostra esistenza quotidiana ma distribuite
in modo impari, tra cui troviamo la salute, l’esposizione al crimine e alla violenza, l’esposizione a ri-
schi ambientali e il livello generale di felicità, che solitamente sono associate al reddito e alla ric-
chezza.
Nella maggior parte dei paesi, e in tutti quelli occidentali, esiste un’ampia classe media che gode
di alcuni dei benefici e vantaggi offerti alla ricchezza. A prescindere dalla loro occupazione, i mem-
bri della classe media e le loro famiglie possiedono un reddito abbastanza alto da permettersi di ac-
quistare case, automobili, computer o televisori, nonché di avere risparmi e conti in banca. Nono-
stante vi sia disaccordo tra i sociologi sul modo di definire le classi, la maggior parte di essi concorda
nel ritenere che le classi siano formate da persone che:
• Condividono una condizione economica simile;
• Hanno interessi economici in conflitto con quelli delle altre classi;
• Condividono simili opportunità di vita;
• Hanno atteggiamenti e comportamenti simili;
• Costituiscono un soggetto collettivo in grado di intraprendere azioni collettive a sostegno
dei propri interessi.
L’analisi delle classi, dunque, è lo studio di come, quando e dove si collocano le classi in relazione a
queste molteplici dimensioni. Qualunque teoria delle classi che voglia descrivere compiutamente la
società contemporanea dovrà prestare attenzione alle classi medie. Per comprendere cosa ci sia di
“medio” nelle classi medie, si può fare riferimento a tre approcci all’analisi delle classi. Il primo ap-
proccio consiste nel distinguere le classi sulla base del reddito; tuttavia, l’uso del reddito nella defi-

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nizione delle classi suscita il problema della mancanza di un criterio oggettivo per stabilire confini
netti tra le fasce di reddito e le classi; Alcuni sociologi, dunque, hanno sostenuto che la fonte del
reddito sia più importante della quantità di reddito percepito: il modo in cui le persone guadagnano
da vivere permette di prevedere i loro comportamenti, le loro opinioni e i loro stili di vita. Altri so-
ciologi hanno proposto un secondo approccio che utilizza una definizione multidimensionale del
concetto di classe basata su indicatori, come l’istruzione, il reddito e l’occupazione; la posizione
dell’individuo rispetto a questi indicatori considerati congiuntamente è riflessa nel suo punteggio di
status socioeconomico: combinando i differenti attributi di ogni individuo, possiamo collocarlo cor-
rettamente in relazione agli altri e assegnarlo ad una classe specifica. Tuttavia, un’implicazione fon-
damentale della teoria delle classi è che i membri della stessa classe abbiano un contesto in cui agi-
re insieme, allo scopo di migliorare le proprie vite, e le persone con lo stesso status socioeconomico
non sempre agiscono in maniera uniforme. Per questo, è stato proposto un terzo approccio
all’analisi delle classi che si concentra esclusivamente sull’occupazione svolta dalle persone in età
adulta. A differenza dei gruppi basati sul reddito e sullo status socioeconomico, i gruppi occupazio-
nali condividono al loro interno visioni politiche simili e agiscono uniti per ottenere stipendi più alti
o cambiare le politiche governative. Lo schema di classificazione delle occupazioni più utilizzato è lo
schema di classe Erikson-Goldthrope, nel quale sono indicate cinque classi fondamentali: classe di-
rigente; classe media impiegatizia; piccola borghesia; classe operaia qualificata; classe lavoratrice.
Se la disuguaglianza caratterizza tutte le società umane, non sorprende che molti studiosi, pen-
satori e politici abbiano concluso che le disuguaglianze di reddito o di ricchezza sono sia inevitabili
sia necessarie affinché le società funzionino. Nella maggior parte delle società contemporanee le
giustificazione della disuguaglianza possono essere classificate in due categorie fondamentali:
• La giustificazione basata sull’argomento del talento sostiene che esso sia distribuito in modo
non uniforme, ossia che alcuni di noi nascono con capacità che il resto delle persone non hanno e
che le società forniscono ricompense diverse per assicurare che chi è nato con doti speciali sia mo-
tivato a svilupparle;
• La giustificazione basata sull’argomento dell’efficienza sostiene che la disuguaglianza per-
mette a ciascuno di vivere meglio, poiché la possibilità di ricompense sproporzionate motiva gli in-
dividui ad assumere rischi e a creare cose di valore.
Questi argomenti forniscono una solida giustificazione alla disuguaglianza, ma sollevano contempo-
raneamente numerose domande. In primo luogo, in riferimento alla giustificazione della disugua-
glianza basata sull’argomento del talento, una ricerca condotta da psicologi cognitivisti ha mostrato
come il talento sia qualcosa che può essere acquisito attraverso un’adeguata preparazione, più che
qualcosa con cui gli individui nascono Inoltre, sostenere che la disuguaglianza sia generalmente be-
nefica porta a chiedersi quanta disuguaglianza sia benefica: l’efficienza, infatti, appare raggiungibile
attraverso molti differenti livelli di disuguaglianza sociale, come dimostra il fatto che alcuni paesi
tendenzialmente egualitari raggiungono tassi di crescita e tenori di vita paragonabili a quelli di paesi
poco egualitari, dimostrando inoltre che non c’è bisogno di alti tassi di disuguaglianza per motivare
le persone a lavorare duramente e a massimizzare le proprie potenzialità. Infine, livelli molto alti di
disuguaglianza hanno costi rilevanti tanto quanto benefici: mentre modesti livelli di disuguaglianza

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possono essere desiderabili, alti livelli di disuguaglianza appaiono agli occhi di molti come
un’ingiustizia e, con il tempo, possono dare adito ad aspri conflitti tra i gruppi sociali.

8.2. Abbiamo tutti le stesse opportunità di successo nella vita?


Un importante tipo di disuguaglianza è quella delle opportunità, che indica i modi in cui la disu-
guaglianza influisce sulle possibilità che bambini e giovani adulti hanno di esprimere al massimo le
proprie potenzialità, tenendo conto anche del loro retroterra sociale, cioè la famiglia in cui vivono e
crescono.
Sebbene la maggior parte dei cittadini occidentali sia disposto ad accettare un certo grado di di-
suguaglianza delle condizioni di vita come caratteristica intrinseca dell’economia capitalistica, oggi
tutte le società avanzate sostengono il principio ideale dell’uguaglianza delle opportunità a prescin-
dere dal retroterra sociale dell’individuo. Non esiste in realtà un modo chiaro e diretto per deter-
minare quante opportunità abbiano realmente gli individui; tuttavia, gli scienziati sociali hanno tro-
vato una soluzione a questo problema esaminando la mobilità sociale, ossia la misura e i modi in cui
i membri di una data società si muovono all’interno dello spazio sociale nel corso della propria vita.
La mobilità sociale misura il livello di somiglianza tra le posizioni sociali ed economiche di genitori e
figli in età adulta: una società a elevata mobilità sarà una società in cui esiste un legame relativa-
mente debole tra la posizione occupata dai genitori e quella occupata dai loro figli in età adulta, av-
vicinandosi così all’ideale dell’uguaglianza delle opportunità; al contrario, quando c’è un legame re-
lativamente stretto tra le posizioni sociali dei genitori e dei loro figli adulti, la mobilità sociale è bas-
sa e, nel caso estremo, tale società immobile può diventare una società castale, dove vantaggi e
svantaggi acquisiti per nascita determinano completamente la propria posizione sociale in età adul-
ta. Esistono due tipi di mobilità sociale: ascendente, quando l’individuo ha l’opportunità di e/o rie-
sce a migliorare la propria posizione sociale; discendente, quando, nonostante le molte opportuni-
tà, individuo va in rovina. I sociologi hanno mostrato, comunque, che la mobilità non è semplice-
mente un attributo degli individui, come molte storie e molti racconti lasciano pensare: se così fos-
se, infatti, non ci sarebbe molta variazione del fenomeno tra le società. Al contrario, quando osser-
viamo le differenze tra i paesi nei tassi di mobilità, rileviamo l’esistenza di società che, rispetto ad
altre, forniscono maggiori opportunità di mobilità ascendente ai propri cittadini, indipendentemen-
te dalla loro origine sociale.
Un modo per misurare il grado di mobilità sociale di una data società consiste nello stimare la
forza della correlazione tra il reddito (o qualsiasi altra misura di posizione socioeconomica) dei geni-
tori e quello dei figli: una correlazione pari a zero implica l’assenza di qualunque legame tra il reddi-
to dei primi e quello dei secondi, dunque una perfetta mobilità; una correlazione pari a uno implica
che il reddito dei genitori determina completamente il reddito dei figli, delineando una situazione di
perfetta immobilità. Nelle società reali, la correlazione intergenerazionale è sempre compresa tra
zero e uno. Portando degli esempio concreti, si possono confrontare, tra gli altri paesi industriali
avanzati, l’Italia, con una correlazione pari al 44%, e la Norvegia, con una correlazione pari al 16%: i
bambini norvegesi ricevono una spinta o una penalizzazione modesta dai risultati ottenuti dai pro-
pri genitori e la netta maggioranza dei propri guadagni da adulti dipenderà dai risultati personal-
mente ottenuti; i bambini italiani ottengono dai propri genitori una quantità di vantaggi e/o svan-

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taggi che è poco meno del triplo di quella ereditata dai bambini norvegesi. In media, dunque, i geni-
tori contano di più in Italia che in Norvegia. Pur avendo un numero insufficiente di dati di buona
qualità sui paesi in via di sviluppo, in essi, rispetto ai paesi industriali avanzati, la correlazione inter-
generazionale dei redditi è molto più alta in paesi come Brasile, Cile e Perù, dove raggiunge valori
compresi tra il 50% e il 60%.
I fattori che influenzano la mobilità sociale sono soprattutto tre: le famiglie, perché i genitori
svolgono un notevole ruolo nell’influenzare la quantità di istruzione e di altre risorse sociali e intel-
lettuali che i figli acquisiscono e che determineranno i loro redditi; il mercato del lavoro, perché in
esso si dispiegano gli effetti economici dell’istruzione; le politiche pubbliche, perché attraverso di
essere i governi regolano sia il mercato del lavoro, sia i sistemi scolastici. Questi tre fattori sono cor-
relati con il libello di disuguaglianza delle condizioni di vita: le famiglie avvantaggiate possono inve-
stire in un’istruzione migliore per i propri figli di chi è svantaggiato; inoltre, i possessori di lauree
sono meglio retribuiti in termini economici; infine, se il governo fa poco o nulla per compensare gli
svantaggi dei bambini poveri, questi avranno assai minori opportunità di raggiungere successo da
adulti, così da rinforzare la disuguaglianza. Il livello complessivo di disuguaglianza delle condizioni di
vita presente in un dato paese è correlato con il suo livello di mobilità intergenerazionale: maggiore
è la disuguaglianza delle condizioni di vita, minore è il livello di mobilità sociale.
I sociologi hanno enfatizzato particolarmente il ruolo dell’istruzione nella formazione e riprodu-
zione della disuguaglianza sociale. Nelle società moderne, le scarse posizioni privilegiato e di status
elevato sono di rado ereditate direttamente dai figli della classe dirigente, ma sono distribuite at-
traverso i sistemi scolastici, in cui i genitori investono, nella speranza che opportunità occupazionali
simili alle loro siano concesse ai loro figli in modo indiretto. L’istruzione ha un carattere duplice ri-
spetto al raggiungimento di posizioni privilegiate: da un lato, i sistemi scolastici possono competere
con altre forme più tradizionali di distribuzione delle posizioni privilegiate, basando quest’ultima sul
principio della meritocrazia, secondo cui le ricompense e le posizioni sono distribuite in virtù delle
competenze degli individui e non della loro origine sociale o dei loro rapporti personali; dall’altro, i
sistemi scolastici possono essere utilizzati per mantenere e preservare un accesso privilegiato a po-
sizioni presenti in scarsa misura, in quanto le famiglie con più risorse sono in grado di investire in
un’istruzione maggiore o migliore per i propri figli. Una società sarà considerata “aperta”, anziché
“chiusa”, nella misura in cui il suo sistema scolastico facilita la mobilità di individui di talento da ori-
gini sociali inferiori a occupazioni privilegiate.

8.3. Quanta povertà esiste in Italia e nel mondo?


La povertà è un concetto complicato che, nei termini più semplici, è una condizione che implica
l’impossibilità di soddisfare i bisogni primari come cibo, vestiti, casa e assistenza sanitaria; tuttavia,
è difficile definire che cosa siano i “bisogni primari”, in quanto oggi anche il cellulare, l’automobile e
il computer possono essere considerati “bisogni primari”, data l’importanza dei trasporti e
dell’accesso alle informazioni e alla comunicazione, che oggi avviene prevalentemente per mezzo
del telefono cellulare e del computer. Negli Stati Uniti il governo misura la povertà definendo negli
anni ’60 la soglia di povertà, ossia una soglia di reddito minimo necessario per soddisfare le necessi-
tà primarie, che varia a seconda della dimensione della famiglia. Il problema più importante collega-

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to alla misura ufficiale della povertà statunitense, che usano una misura di povertà assoluta,che
cerca di definire la quantità minima di reddito necessario per soddisfare i bisogni primari, è che essa
non tiene in considerazione il cambiamento del tenore di vita. Pertanto, molti governi europei usa-
no una misura di povertà relativa, la cui definizione coinvolge quelle famiglie che vivono con redditi
inferiori al 50% del reddito mediano, che agisce così da parametro di riferimento per definire che
cosa è comune o tipico di una società; l’idea di povertà relativa prevede che chi guadagni meno del-
la metà del reddito mediano sia escluso dai vantaggi condivisi di una società. In Italia, ad esempio,
esiste una soglia relativa definita e aggiornata annualmente dall’Istituto nazionale di statistica. Ciò
che caratterizza l’Italia è che nel Mezzogiorno è povera una persona su tre, mentre al Nord meno di
una persona su dieci.
Un importante studio comparativo ha messo a confronto undici paesi industriali avanzati, tra cui
gli Stati Uniti, usando sia una soglia di povertà assoluta, sia una soglia di povertà relativa. Impiegan-
do una misura di povertà relativa che comprende tutti gli individui e le famiglie con redditi pari o in-
feriori al 50% del reddito mediano, gli Stati Uniti si collocano a metà classifica. Tuttavia, se calcolia-
mo tutto il reddito (proveniente da politiche di welfare e da altre fonti) disponibile alle famiglie, la
povertà negli Stati Uniti i dimostra essere più alta di quella di ogni altra nazione considerata. Anche
utilizzando tassi di povertà assoluta, gli Stati Uniti hanno una quota di povertà significativamente
più alta di quella di ogni altra nazione considerata nello studio. Una ragione importante per
l’eccesso di povertà negli Stati Uniti è lo scarso intervento della politica rispetto alla maggior parte
degli altri stati. L’Italia, insieme ai paesi dell’Europa meridionale, ha i tassi redistributivi tra i più
bassi.
Una preoccupazione importante in tema di povertà è il modo in cui essa incide sui bambini. La
povertà minorile è un predittore della povertà in età adulta perché crea un circolo vizioso che ri-
produce lo svantaggio attraverso le generazioni. I bambini poveri, solitamente, alla nascita sono
sottopeso e hanno maggiori probabilità di morire al primo anno di vita. Quando iniziano a frequen-
tare la scuola, ottengono punteggi inferiori nei test standardizzati, sono più spesso assenti e mani-
festano maggiori problemi di condotta. Gli adolescenti poveri hanno anche maggiore probabilità di
abbandonare le scuole superiori, avere a loro volta un figlio in giovane età e mettersi nei guai con la
legge. I giovani adulti concludono un minor numero di anni di istruzione, concludono un numero
minore di anni di istruzione, lavorano meno ore e hanno redditi più bassi rispetto ai giovani adulti
cresciuti in famiglie che vivono in condizioni migliori. Dunque, un bambino cresciuto in povertà ha
maggiori probabilità di ritrovarsi povero da adulto. La povertà è un male per i bambini sia per la
mancanza di sostanze nutritive fondamentali, di una casa, di vaccini e di assistenza sanitaria che
implica sia per l’enorme stress che causa, fattori assolutamente negativi per il bambino. La povertà
e relativi fattori di rischio possono influenzare nella fase evolutiva la neurobiologia del bambino in
maniera significativa. La povertà, che ha un effetto diretto sul bambino, è stressante anche per i
genitori e può influenzare l’investimento di tempo e risorse che questi dedicano alla prole, così co-
me le reciproche interazioni.
Una delle forme più estreme di povertà è l’homelessness, ossia la mancanza di una fissa dimora.
Vi sono diverse ragioni specifiche dietro la condizione di homelessness, incluse le guerre e i conflitti
violenti, ma in circostanze normali, la ragione universale è quella dell’estrema povertà. La maggior

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parte dei senzatetto non rimane in questa condizione per un tempo indeterminato, ma anche brevi
periodi senza una fissa dimora possono essere devastanti. Sebbene la homelessness sia più diffusa
tra gli uomini single, la mancanza di un domicilio regolare crea difficoltà particolarmente significati-
ve alle famiglie con bambini. Negli Stati Uniti, circa 1,5 milioni di bambini sperimentano la home-
lessness: un numero inquietante se si tiene conto della forza delle evidenze empiriche che dimo-
strano gli alti livelli di stress e turbamento che provoca tale condizione.

9. Genere e sessualità.

9.1. Da dove provengono le differenze fra uomini e donne?


Molte persone pensano che le differenze di genere nei comportamenti e nelle scelte siano biolo-
gicamente determinate e in parte ciò è vero: infatti, ad esempio, il testosterone incoraggia compor-
tamenti aggressivi e di dominanza e i livelli di comportamento aggressivo più elevati che si riscon-
trano negli uomini, in media, sono in parte causati dal fatto che i maschi hanno più testosterone
delle femmine; eppure, non v’è un rapporto causale unidirezionale dall’ormone al comportamento,
in quanto i cambiamenti nell’ambiente sociale possono mutare i livelli di testosterone. Dunque an-
che i processi sociali e la struttura sociale contribuiscono alla creazione e al sostenimento delle dif-
ferenze di genere; tali processi e tale struttura sono spesso sintetizzati con il termine “costruzione
sociale del genere”. Le società si basano su un ampio sistema di genere composto da modelli di
comportamento e interazioni sociali tra piccoli gruppi, in cui ciò che ci si aspetta da una persona e
ciò che in una persona viene premiato varia in base al genere di appartenenza, e da istituzioni che
definiscono politiche e regole distinte in base all’appartenenza al sesso maschile o femminile.
Uno dei modi in cui il genere viene costruito a livello sociale è il processo di socializzazione, at-
traverso cui un individuo viene integrato in un gruppo sociale, apprendendone norme e pratiche;
parte ciò che viene appreso durante il processo di socializzazione è costituito da convenzioni di ge-
nere. Tali convenzioni vengono apprese inizialmente tramite i genitori. Oltre i genitori, anche il
gruppo dei pari è un importante agente di socializzazione: ad esempio, i gruppi di maschi spesso
ostracizzano i ragazzi che non sono visti come sufficientemente mascolini. Un altro importante
agente di socializzazione sono i mass media, che veicolano rappresentazioni che riflettono solo una
limitata gamma di ruoli di genere, di quelli presenti nella vita reale. La socializzazione è un processo
continuo ed esteso a tutto l’arco della vita, perché gli agenti sociali che ci circondano proseguono a
influenzarci. Inoltre, Le pratiche di socializzazione cambiano e cambiano anche le convenzioni veico-
late da tali pratiche.
Il sesso di una persona è un fatto biologico. Il genere di una persona, invece, è il risultato di come
la società forma le differenze e le diseguaglianze fra uomini e donne. Il gruppo dei transessuali, cui
viene assegnato un sesso alla nascita ma che si sentono fortemente di appartenere ad un’altra ca-
tegoria ( anche se, a volte, il termine “transessuale è usato per fare riferimento a un gruppo più
ampio di persone che cambiano o mettono in tensione le categorie di sesso e genere), sfida molte
delle convinzioni sul sesso, sul genere e sull’interazione reciproca tra le due categorie, mettendo in

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discussione la convinzione secondo cui sesso e genere siano abbinati e ricadano in due sole catego-
rie.
Il genere varia secondo i diversi luoghi e gli ambienti sociali, ossia in differenti culture e persino
in diverse situazioni all’interno della stessa società; inoltre, il modo in cui la società è organizzata
lungo le linee di genere è cambiata lungo il tempo. Un esempio della variabilità sociale del genere è
dato dal fatto che gli uomini e le donne si conformano maggiormente alle norme di mascolinità e
femminilità quando sanno di essere osservati. Uno studio ha confermato ciò osservando i compor-
tamenti di due gruppi misti di studenti del college di entrambi i sessi, chiamati a giocare ad un vi-
deogame in cui dovevano difendersi ed attaccare, lanciando bombe: mentre ad un gruppo era stato
detto che sarebbero stati osservati, all’altro venne fatto credere che nessuno avrebbe osservato le
loro partite. I risultati di questo studio mostrano come nel gruppo dove i partecipanti sapevano che
le loro azioni erano monitorate gli uomini gettarono molte più bombe delle donne, mentre nel se-
condo gruppo non si verificò nessuna divergenza degna di nota tra i due sessi.
Alcune aspettative sociali sono basate su stereotipi, ovvero credenze che spesso risultano in de-
scrizioni false o esagerato del gruppo in questione. Queste credenze vengono poi applicate a singoli
membri del gruppo, per i quali possono anche non essere affatto vere. Ciò che viene detto alle per-
sone riguardo ai risultati relativi alla categoria del sesso di appartenenza ha un’influenza sulle loro
effettive performance, e ciò accade anche se la generalizzazione che viene loro comunicata è falsa.
Pertanto, stereotipi falsi tendono a produrre la realtà che sostengono, anche se a priori la differen-
za non esisteva. Inoltre, come dimostra un esperimento di Willer e collaboratori, la pressione socia-
le derivante dal dovere agire un comportamento conforme al genere di appartenenza non è la stes-
sa per maschi e per femmine: gli uomini, quando sospettano che gli altri possano mettere in dubbio
la loro mascolinità, raddoppiano gli sforzi per avere atteggiamenti che la società codifica come ma-
scolini; diversamente, le donne sembrano essere meno preoccupato di quanto femminili appaiono,
il che riflette una minor pressione sociale su di loro rispetto alla necessità di agire in modo femmini-
le. Dato che le differenze di genere variano secondo la situazione sociale e che le diseguaglianze
siano cambiate nel corso del tempo, possiamo concludere che il genere è almeno in parte social-
mente determinato.

9.2. Come sono cambiate le vite di uomini e donne negli ultimi cinquant’anni?
Negli ultimi cinquant’anni, le donne hanno iniziato ad assumere ruoli e ad intraprendere attività
prima riservate perlopiù agli uomini, in una vera e propria “rivoluzione di genere”.
Uno dei cambiamenti più rilevanti è costituito dall’aumento del numero delle donne che entrano
nel mercato del lavoro retribuito. Da qualche anno, anche dopo essersi sposate e aver avuto figli,
molte donne continuano a lavorare. Nell’arco degli ultimi decenni, in relazione all’aumento
dell’investimento scolastico da parte delle donne, in tutti i Paesi occidentali la partecipazione fem-
minile al mercato del lavoro è aumentata. Nella maggior parte dei paesi occidentali, l’occupazione
femminile comincia a crescere a partire dalla fine degli anni ’60 del secolo scorso, ma diviene un fe-
nomeno di massa solo un decennio più tardi. Negli Stati Uniti, l’occupazione femminile ha conosciu-
to un aumento drastico tra il 1962 e il 1990, mentre l’occupazione maschile è leggermente calata.
In Italia, l’aumento dell’occupazione femminile si è avuta solamente alla fine degli anni ’70, succes-

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sivamente ad un suo calo dalla fine degli anni ’60. A partire dagli anni ’90, in Europa come negli Sta-
ti Uniti, si possono osservare due tendenze inverse nell’occupazione femminile: mentre nei paesi
che facevano parte dell’Unione Europea l’occupazione femminile cresceva, nei paesi che sono pro-
gressivamente entrati a farne parte a partire dal 2003, l’occupazione sia femminile sia maschile è
diminuita fin verso il 2005, quando ha cominciato a risalire. Tale crescita dell’occupazione femmini-
le nei paesi occidentali ha alla base due ragioni di tipo economico: con l’aumento degli stipendi ne-
gli anni ’60 e ’70, crebbe anche l’incentivo per le donne a scegliere un lavoro retribuito; inoltre,
l’economia prevedeva un ampio numero di occupazioni nel settore terziario, tipicamente femmini-
le. Un risultato della crescita dell’occupazione femminile è che molte famiglie in cui è presente una
coppia adulta sono ora a doppio reddito o doppia partecipazione. Le variazioni nella partecipazione
femminile al mercato del lavoro sono da attribuire sia a fattori legati alle caratteristiche della do-
manda di lavoro, sia alle caratteristiche dell’offerta di lavoro. Uno dei fattori che più di altri ha con-
tribuito a far crescere l’occupazione femminile e a ridurre il gap di genere in molti ambiti di vita è
indubbiamente l’aumento della scolarizzazione femminile e la scomparsa della distanza
nell’istruzione tra uomini e donne.
Nei primi decenni della seconda metà del XX secolo, molte donne svolgevano lavori considerati
tipicamente femminili; alla fine degli anni ’70, un numero sempre maggiore di donne è entrato in
settori tradizionalmente maschili. Il livello di segregazione occupazionale per sesso può essere mi-
surato con un indice che va da 1, nel caso di completa segregazione, a 0 nel caso di completa inte-
grazione. Nonostante una certa integrazione di genere, però, le occupazioni continuano a essere
abbastanza segregate dal punto di vista del sesso. Ciò dipende in parte dal fatto che il processo di
socializzazione incoraggia ancora i giovani uomini e le giovani donne ad aspirare a lavori differenti.
In tutti i paesi occidentali a partire dal 1970 c’è stato un trend di progressiva desegregazione occu-
pazionale, come mostrano i dati relativi alla riduzione del divario retributivo tra uomini e donne;
tuttavia, il divario retributivo di genere persiste in tutti i Paesi occidentali, nonostante più di qua-
rant’anni di legislazione sulla parità. Una prima ragione del perché tuttora le donne guadagnano
meno degli uomini va cercata nel fatto che i datori di lavoro pagano di più chi matura una maggiore
esperienza lavorativa, e le donne hanno più frequentemente interruzioni di carriera per occuparsi
dei bambini. Inoltre, le donne sono concentrate in occupazioni meno remunerative, in quanto scel-
gono lavori meno retribuiti che richiedono pari livello di istruzione. In parte la concentrazione fem-
minile nei lavori meno retribuiti è dovuta al fatto che alcuni datori di lavoro discriminano le donne
quando assumono mansioni ben pagate, lasciandole senz’altra scelta che cercare tra quelle meno
retribuite. Un ulteriore fattore che spiega il divario retributivo tra uomini e donne è il fatto che i da-
tori di lavoro spesso stabiliscono retribuzioni inferiori per mansioni che sono prevalentemente svol-
te da donne rispetto a quelle che richiedono qualifiche scolastiche analoghe ma sono svolte in pre-
valenza da uomini. Alcuni di questi fattori che spiegano il divario salariale tra uomini e donne sono
oggi anche i fattori determinanti nel far sì che nel tempo tale differenza si sia ridotta. Se guardiamo
alla carriera lavorativa di una donna nel suo corso di vita, vediamo che è sempre meno soggetta a
interruzioni, così la media di anni di anzianità lavorativa femminile è ora simile a quella maschile.
Poiché i salari tendono a crescere all’aumentare dell’esperienza lavorativa, questa convergenza tra
anni di esperienza maschile e femminile ha ridotto il divario retributivo tra i due sessi. E gli stipendi

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femminili sono aumentati sia per la tendenza di queste a scegliere professioni tradizionalmente
maschili sia per l’applicazione delle leggi antidiscriminatorie.
È indubbio che a partire dalla seconda metà del XX secolo è avvenuto in tutti i paesi occidentali
un progressivo avvicinamento dei tempi maschili e femminili nella partecipazione al lavoro dome-
stico e familiare, a causa di una riduzione consistente del tempo dedicato dalle donne al lavoro do-
mestico e di un aumento, seppure modesto, del contributo degli uomini a tali mansioni. La parteci-
pazione maschile al lavoro domestico è cresciuta significativamente negli Stati Uniti e in Germania
ma il divario di genere resta elevato nella maggior parte dei paesi occidentali; in Svezia si osserva
una convergenza e una diminuzione sia per gli uomini sia per le donne del tempo dedicato al lavoro
domestico. Le norme sulla mascolinità sembrano essere cambiate poco e insistono sul fatto che gli
uomini sposati devono avere un lavoro; anche se l’occupazione maschile è oggi parzialmente facol-
tativa, questa opzione sarebbe impraticabile per molte coppia, in quanto le donne di norma guada-
gnano molto meno dei loro compagni, per cui i redditi familiari si ridurrebbero se gli uomini lascias-
sero i loro lavori. Con l’aumento della partecipazione femminile nel mercato del lavoro, è diminuito
il tempo che le donne possono dedicare alle attività domestiche ed è aumentata, ma in misura mi-
nore, la partecipazione maschile al lavoro domestico: le donne sono entrate in sfere tradizional-
mente maschili più di quanto gli uomini siano entrati in sfere tradizionalmente femminili. La dese-
gregazione di genere delle occupazioni e dei corsi di studio è stata prevalentemente un percorso
dove le donne si sono spostate verso settori prima soltanto maschili, mentre pochi uomini sono
passati a settori prima prevalentemente femminili. Tale fenomeno è dovuto al fatto che le occupa-
zioni femminili spesso sono retribuite in modo minore rispetto a quelle in cui predominano figure
maschili e che esiste nella nostra società una stigmatizzazione maggiore verso uomini che svolgono
mansioni tipicamente femminili che verso donne che svolgono mansioni tipicamente maschili.
Dall’osservazione dei giovani, tuttavia, si è rilevato un tipo particolare di rivoluzione di genere che
consiste nell’aumento del numero di gruppi d’amici misti. Nel complesso, i grandi cambiamenti nei
ruoli di genere degli ultimi cinquant’anni hanno portato meno uomini in settori femminili di quanto
non abbiano portato donne in settori precedentemente maschili. È stato meno attraente per gli
uomini dedicarsi ad attività femminili sia perché questi sono peggio pagati sia per via del forte ri-
schio di stigmatizzazione. Naturalmente i ragazzi si sono abituati al fatto che le femmine possono
competere con loro più apertamente nello studio, e gli uomini trovano competitrici di sesso femmi-
nile nell’ambito lavorativo e nelle stesse mansioni, e i mariti si sono abituati al fatto che le mogli la-
vorino e quasi tutti lo trovano ormai accettabile.

9.3. Come e quanto la nostra vita sessuale è plasmata dalla biologia e dalla società?
L’attrazione e i comportamenti sessuali sono influenzati sia dalla biologia sia dalla costruzione
sociale. Le norme sociali che descrivono la sessualità regolano nei minimi dettagli quali modi di ap-
parire sono considerati attraenti e quali repellenti, ma tali norme variano di società in società: in al-
cune, l’omosessualità è illegale e può essere punta con il carcere, mentre il matrimonio omosessua-
le è stato introdotto in molti paesi; rapporti sessuali e gravidanze prematrimoniali sono state stig-
matizzate in alcuni periodi storici, e lo sono ancora oggi in certe società, mentre sono molto diffusi
e accettati in altre.

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Il termine orientamento sessuale si riferisce al fatto che gli individui possono essere attratti da
membri del sesso opposto (eterosessualità), dello stesso sesso (omosessualità) o di entrambi (bi-
sessualità). Nell’origine dell’orientamento sessuale sembrano giocare un ruolo rilevante sia la di-
mensione biologica sia la dimensione sociale. I geni, pur influenzando l’orientamento sessuale, non
determinano per intero l’orientamento sessuale perché, anche fra gemelli identici, nella maggio-
ranza dei casi se uno è omosessuale, l’altro non lo è e se non hanno lo stesso orientamento sessua-
le significa che qualcosa nelle loro esperienze sociali ha prodotto tale situazione.
Una questione molto dibattuta è se gli uomini amino il sesso occasionale più degli uomini. Le
teorie dell’evoluzione dicono di sì e spiegano questa differenza di genere facendo riferimento al fat-
to che, mentre le donne in periodo di gestazione non possono aumentare il numero di figli possibili
aumentando il numero di partner, i maschi possono ingravidare molte donne nel corso dei nove
mesi necessari per la gestazione e il parto di una di loro, aumentando il numero di combinazioni di
geni possibili e aumentando la quantità di prole e la rappresentazione dei loro geni nel bagaglio ge-
netico dell’umanità futura. A favore di questa tesi, potrebbe esservi il fatto che, tra giovani della
stessa età, quelli che stanno attraversando la pubertà e hanno una produzione maggiore di alcuni
ormoni hanno più facilmente fantasie e attività sessuali. Secondo la sociologia, la tendenza degli
uomini ad amare il sesso occasionale più delle donne è dovuto anche da un doppio standard di ses-
sualità, consistente nella tendenza a giudicare le donne peggio degli uomini quando si tratta di ses-
so occasionale; a causa di questo doppio standard di sessualità, le donne sono molto più motivate
degli uomini a evitare il sesso occasionale perché danneggia maggiormente la loro reputazione. A
favore di tale tesi, potrebbe esservi il fatto che la frequenza del sesso prematrimoniale è mutata
drasticamente in molte società moderne.
Il termine “minoranza sessuale” si riferisce a chiunque non sia eterosessuale, o ai transessuali,
che hanno cambiato il loro sesso o il loro genere rispetto a quello assegnato alla nascita. Molte per-
sone che appartengono ad una minoranza sessuale spesso tengono nascosto e ritardano
l’allineamento tra la propria identità e i propri bisogni a causa dell’eteronormatività, ossia una si-
tuazione in cui la cultura e le istituzioni mandano il messaggio secondo il quale tutti sono eteroses-
suali, o quantomeno che questo è l’unico modo “normale” di essere. Chi si dichiara parte di una
minoranza sessuale spesso è deriso dai coetanei, a prescindere dal fatto che appaia femminile o
mascolino/a; alcuni datori di lavoro si rifiutano di assumere le persone che presumono essere omo-
sessuali, o le licenziano una volta che ne hanno la certezza Tali discriminazioni non sono sempre
punite dalla legge. Ciononostante, la situazione negli ultimi decenni è molto migliorata, grazie al
movimento sociale per i diritti dei gay sia a un cambiamento nell’opinione pubblica. Permangono,
tuttavia, tra i paesi differenze molto ampie in termini di accettazione e tolleranza verso la diversità
sessuale.

9.4. Come è cambiato il comportamento sessuale negli ultimi cinquant’anni?


Negli ultimi cinquant’anni il comportamento sessuale dei giovani adulti non sposati è cambiato
in modo sostanziale.
L’accettazione sociale dei rapporti prematrimoniali è cresciuta continuamente in tutti i paesi oc-
cidentali, ma esistono rilevanti differenze anche all’interno della stessa società. Negli Stati Uniti, i

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cristiani evangelici e fondamentalisti nei loro insegnamenti assumono le posizioni più ostili verso i
rapporti prematrimoniali; eppure, i giovani appartenenti a chiese conservatrici non iniziano vera-
mente più tardi la loro attività sessuale e non hanno una maggior tendenza ad aspettare il matri-
monio di quanta non ne abbiano i giovani di altri gruppi religiosi. Con l’aumento del numero di per-
sone che hanno rapporti prematrimoniali tra le fila di coloro che sono diventate maggiorenni negli
anni ’70 e ’80, l’età mediana del primo rapporto sessuale è scesa da 20 a 17 anni. Se il sesso prima
del matrimonio è diventato una pratica quasi universale, ciò che è variato nel tempo è il contesto in
cui esso generalmente avviene, che diventa sempre più informale. Sempre più giovani coppie oggi
sono coinvolte in fenomeni di convivenza. Solo negli ultimi decenni l’attività sessuale è diventata
più frequente in incontri occasionali dove non ci sono aspettative di relazione da parte di nessuna
delle due parti, definiti hook-up.
La disponibilità dei metodi anticoncezionali ha reso possibile negli anni ’60 e ’70 fare sesso
quando si era dei giovani adulti, andare al college e rimandare il matrimonio successivamente alla
laurea senza paura di una gravidanza prematrimoniale. Tutto questo ha consentito alle donne di
pensare e costruire le proprie carriere frequentando studi superiori. Le differenze di genere in ciò
che ci si aspetta nella sfera affettiva sono cambiate di poco rispetto al passato: ancora oggi, nella
maggior parte dei casi è l’uomo a farsi avanti chiedendo un appuntamento o iniziando l’attività ses-
suale. Gli hook-up portano la donna all’orgasmo meno spesso rispetto agli uomini: sia per gli uomini
sia per le donne, infatti, la probabilità di avere un orgasmo crescono quando si tratta di un partner
con cui hanno già avuto altre esperienze in passato, e tale probabilità aumenta all’interno di rela-
zioni durature, perché aumenta la sensibilità reciproca e si fa esperienza l’uno dell’altro. Il divario di
genere nell’orgasmo è molto più elevato nei primi incontri di quanto non lo sia in quelli successivi, e
si riduce nelle relazioni più continuative. Nel complesso, mentre le relazioni sessuali prematrimo-
niali sono diventate più accettabili, il cambiamento nelle aspettative di comportamento relazionale
e sessuale rispetto al genere è stato molto limitato.
A partire dagli anni ’70, con l’aumento dell’età media al matrimonio e con la maggiore diffusione
dei rapporti prematrimoniali, le nascite fuori dal matrimonio sono diventate un fenomeno mag-
giormente diffuso in tutti i paesi occidentali. È maggiormente riconosciuto che tale fenomeno è dif-
fuso soprattutto tra giovani donne e uomini provenienti da famiglie con basso reddito. La differen-
za-chiave è che coloro che hanno un livello più basso di istruzione e reddito sono meno attenti a
usare gli anticoncezionali. Inoltre, vi è una minore stigmatizzazione, rispetto al passato, per chi, re-
stando incinta, mostra di aver praticato sesso prematrimoniale.
Negli anni ’90, da un sondaggio nazionale statunitense sugli atteggiamenti e comportamenti ses-
suali degli americani adulti di tutte le età, è stato rilevato che la generazione con un’età inferiore ai
45 anni nel 1992 era la più incline ad avere rapporti prima del matrimonio e con esperienze di con-
vivenza, indicando di aver avuto da due a quattro partner sessuali durante la vita, mentre la gene-
razione con età superiore ai 45 anni nel 1992 indicavano di avere avuto un solo partner sessuale nel
corso della vita. Le principali spiegazioni per la crescita del numero di partner sono relative all’età
inferiore per la prima esperienza, a un primo matrimonio più tardivo e a un numero elevato di per-
sone che divorziano e si risposano nella generazione più giovane. Nonostante l’idea popolare che i
single facciano più sesso delle persone sposate, in realtà i coniugi e i conviventi sono quelli che più

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spesso hanno riferito un’alta frequenza di rapporti sessuali nell’anno precedente: ciò accade sem-
plicemente perché avere un partner regolare con cui si vive rende il sesso molto più accessibile.

10. Crimine, devianza e controllo sociale.

10.1. Che cos’è la devianza?


La definizione della normalità e della devianza avviene a partire dallo stabilimento dei confini dei
nostri gruppi sociali. Il primo gruppo sociale del quale facciamo parte è la famiglia e già Sigmund
Freud, in Il disagio della civiltà, ha osservato come il primo grande conflitto tra individuo e società si
origini all’interno del contesto familiare, dove il gruppo più forte (i genitori), detenenti il controllo
sociale, determinano ciò che è normale e ciò che è deviante per il gruppo più debole (i figli). I gruppi
al di fuori della famiglia, nel corso della vita di un individuo, esercitano pressioni simili volte al com-
portamento conforme, attraverso le conferme positive e negative riguardo gli atteggiamenti e i
comportamenti dei membri che definiscono i confini tra gruppo interno e gruppo esterno.
Tutti i gruppi definiscono la propria identità sulla base delle idee e dei valori simbolici attraverso
i quali essi si definiscono e vengono definiti dagli altri. Tali idee e valori costituiscono i confini sim-
bolici di un gruppo, che comportano la definizione di differenze tra autoctoni (in-group) e stranieri
(out-group). Questi confini stabiliscono i limiti del comportamento accettabile da parte dei membri
di un gruppo: agire entro tali confini significa appartenere al gruppo, mentre infrangere tali confini
comporta l’essere espulsi dal gruppo. I comportamenti devianti sono quelli che conducono a tra-
sgredire i confini simbolici (e, talvolta, anche fisici) di un gruppo, sia che a infrangerli sia un membro
interno che esce dai confini, sia che a infrangerli sia un membro esterno al gruppo che tenta di en-
trare nello spazio definito dai tali confini simbolici (e fisici).
I gruppi si danno anche delle regole che definiscono i comportamenti inaccettabili dei membri
del gruppo, che costituiscono l’altro aspetto chiave che definisce i comportamenti devianti. Tali
proibizioni forniscono all’autorità il potere di punire chi devia: l’ostracismo nei confronti dei colpe-
voli costituisce l’ultima risorsa per la tutela dei confini del gruppo. Spesso regole esplicite volte a
proibire certi tipi di comportamento sono messe per iscritto e prevedono punizioni per atti specifici:
tali leggi rivelano molte informazioni sui valori che fondano gruppi e società. Tuttavia quando le
condanne e le pene risultano bizzarre o irrazionali, sollevano questioni sulla legittimità del gruppo o
sulla società che stabilisce le regole. Grandi filosofi del XIX secolo, come Cesare Beccaria (Dei delitti
e delle pene, 1794) sostennero che era fondamentale fare sì che la punizione fosse commisurata al
reato e che le leggi e le pene inflitte fosse aperte, trasparenti e di pubblico dominio. La grande ri-
forma dei codici penali fu ispirata da questa riflessione e la codifica avvenne finalmente verso la
metà del XIX secolo, diffondendosi in molte società occidentali.
Bisogna comunque distinguere tra una devianza statistica, determinata dalla frequenza/rarità di
certi comportamenti, e una devianza sociale, determinata dalla violazione di norme scritte o impli-
cite, in quanto i due tipi di devianza non sempre coincidono: non sempre, infatti, essere devianti
socialmente significa fare cose che molte persone non fanno: il consumo di marijuana e l’adulterio
sono pratiche diffuse, ma sono comunque considerate socialmente pratiche devianti. Inoltre, par-
lando di devianza sociale, bisogna distinguere anche tra comportamenti devianti e persone devian-

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ti: infatti, il fatto di compiere un comportamento deviante non rende la persona automaticamente
deviante. Inoltre, quando tanti individui trasgrediscono la stessa norma, la reazione consueta è di
normalizzare quel comportamento deviante, ricollocandolo all’interno dei confini simbolici della
normalità.
In ogni società, oltre che leggi esplicite scritte, esistono anche molte regole implicite non scritte,
dette norme, riguardanti comportamenti che un individuo deve conoscere per evitare di apparire
deviante. Esse sono regole di base della società che aiutano a comprendere cosa è appropriato e
cosa è inappropriato fare in una determinata situazione. A un livello molto elementare, tali regole
implicite ci dicono moltissimo sul carattere e sulla natura della nostra società: una di queste è la
norma dell’impegno, che prescrive che le persone debbano essere impegnate con qualcosa o qual-
cuno. Diversamente dalle regole esplicite scritte, che hanno una storia tracciabile mediante ricerche
d’archivio nei registri storici, nei documenti giudiziari e in altre fonti, le origini delle norme sono più
oscure e spesso impossibili da individuare; tuttavia, è assodato che esse abbiano origine nei proces-
si sociali di definizione della normalità alla luce di altre considerazioni riguardanti il comportamento
accettabile, laddove i desideri e le preferenze dei gruppi dominanti si estendono a un’intera gene-
razione.

10.2. Come è definita e regolata la morale?


In ogni tempo e in ogni luogo, le società si confrontano con questioni legate al comportamento
morale, cioè su quali siano i comportamenti considerati buoni e giusti (o morali) e quali, invece, in-
giusti o cattivi (o immorali). È sempre difficile individuare quali comportamenti sono considerati
immorali dal momento che in ogni società gruppi differenti avranno costantemente idee e conce-
zioni diverse. Quando le società cercano di bandire comportamenti che prima erano diffusi, il pro-
cesso è sempre molto controverso.
Un punto utile da cui partire è la distinzione tra punizione interessata e punizione disinteressata.
Una punizione interessata deriva dal desiderio di proteggere i beni e le proprietà che una persona
possiede: ad esempio le leggi contro il furto e la frode hanno questa origine. Una punizione disinte-
ressata, invece, deriva dal tentativo di controllare la morale e il comportamento sociale delle per-
sone e hanno poco o nulla a che fare con la redistribuzione della ricchezza: ad esempio, le leggi che
regolamentano l’uso di tabacco, il consumo di alcol o di droghe, il gioco di azzardo e la prostituzione
hanno questa origine. I due tipi di punizione non sono del tutto indipendenti: infatti, nel corso della
storia il tentativo di controllare il comportamento morale di certi gruppi di basso status sociale è
stato fortemente collegato agli interessi dei potenti al mantenimento dell’ordine sociale.
Per capire meglio in che modo il comportamento morale e immorale venga definito e ridefinito
nel tempo, è utile studiare alcuni esempi storici come la campagna contro l’alcol che condusse al
Proibizionismo. Nel corso del XVIII e del XIX secolo il consumo di alcol era particolarmente diffuso
nel Stati Uniti d’America. Con l’avvio del processo di industrializzazione e di urbanizzazione e con
l’incremento dei flussi migratori dall’Europa, si assistette ad un incremento della tendenza
all’alcolismo e il consumo di alcolici cominciò a diffondersi all’interno di luoghi pubblici, taverne, bar
e saloon. Già a partire dagli anni ’50 del XIX secolo vi era stata una mobilitazione pubblica crescente
per stabilire una certa moderazione nell’uso di alcolici, ma il Movimento della Temperanza iniziò dal

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1873, quando un piccolo gruppo di donne bianche della classe media fece irruzione in un saloon in
una cittadina dell’Ohio, pregando il gestore di non servire più alcol ai propri clienti. Nell’arco di po-
chi mesi in tutto il paese chiusero numerosi locali pubblici e, da lì a qualche anno, vennero approva-
te le leggi che vietavano la vendita di alcolici sia a livello locale sia statale. Nel 1919 si giunse
all’approvazione di un emendamento costituzionale che vietava la vendita di alcolici in tutto il pae-
se. Ne seguì in inteso dibattito durato due decenni che si concluse con la presidenza di Franklin De-
lano Roosvelt, che revocò il Proibizionismo e istituì delle leggi per il consumo di alcol, con alcune re-
strizioni.
Una partita morale molto diversa su normalità e devianza si è giocata sulla questione del consu-
mo di oppio, morfina ed eroina. La morfina è stata sintetizzata dall’oppio nel primo decennio del
XIX secolo ma solo dopo il 1856, con l’invenzione della siringa ipodermica, divenne l’antidolorifico
più efficace nella storia della medicina. Essa iniziò ad essere usata soprattutto durante la Guerra Ci-
vile, per alleviare il dolore dei veterani con mutilazioni e danni fisici permanenti, ma venne ben pre-
sto sostituita dall’assunzione di sciroppo per la tosse. Tra la fine della Guerra Civile e il 1904, i regi-
stri delle farmacie indicano che il maggior uso di morfina era praticato da donne bianche di
mezz’età della classe media, che contemporaneamente conducevano la battaglia contro l’alcol,
completamente demonizzato: l’assunzione di morfina, infatti, era per lo più considerato un proble-
ma di carattere medico. Nel 1904, però, lo stato di New York introdusse il Boyd Act, che prevedeva
che i medici fossero obbligati a prescrivere i farmaci per iscritto. Nel giro di poco tempo, le sale
d’aspetto degli studi medici si trovarono ad essere assediate da pazienti che chiedevano prescrizio-
ni di morfina ed eroina; si diffuse allora la pratica di distribuire prescrizioni in massa alla gente in
coda. Il governo federale cercò di porre rimedio alla situazione stabilendo nel 1916 che le prescri-
zioni dovessero essere individuali e basate su una diagnosi medica attenta. La pratica delle prescri-
zioni di massa divenne un reato, molti finirono in prigione e si venne a creare un mercato nero per
la produzione e distribuzione di oppiacei. I consumatori di oppiacei, nel corso di due decenni, cam-
biarono da donne bianche della classe media vittime di un problema di salute a maschi soprattutto
neri della classe popolare considerati devianti. Dunque, verso la fine degli anni ’30, l’alcol era passa-
to da “demone del rum” a sostanza che alcuni sapevano gestire e altri no; gli oppiacei, d’altra parte,
erano passati dall’essere analgesici per uso medico a droghe che spingevano gli individui socialmen-
te non integrati a cercare volontariamente uno stato di ebbrezza.
La guerra contro le droghe, avviata negli Stati Uniti da Ronald Reagan nel 1985, presenta diverse
analogie con le campagne contro l’alcol e la morfina. Essa ha portato il governo statunitense a ina-
sprire il controllo e le condanne per la vendita, il possesso e il consumo di droghe, che ha portato le
carceri ad essere piene di milioni di detenuti che hanno commesso reati legati alle droghe. Questo
sensibile aumento della criminalizzazione delle droghe è legata ad alcuni fatti inconfutabili: negli
Stati Uniti, gli afro-americani arrestati e condannati per tali reati sono molti di più di quanto le sti-
me di uso di droghe sembrerebbero indicare; inoltre, sono molti più poveri a trovarsi in carcere per
tali reati. La criminalizzazione delle droghe è diventata uno strumento per sorvegliare i quartieri e le
comunità dei poveri. Anche l’entrata in vigore in Italia della legge repressiva riguardo il possesso e il
consumo di droghe del 2006 ha contribuito all’aumento della popolazione carceraria. Un’altra im-
portante crociata morale, che sembra essere fallita, è quella relativa alla limitazione

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dell’omosessualità. Nonostante il locali per omosessuali siano stati a lungo oggetto di raid da parte
delle forze dell’ordine, l’omosessualità è rimasta per lo più al di sotto dell’attenzione pubblica. Tut-
to ciò è cambiato nel 1969, quando i proprietari dello Stonewall Inn a New York, opposero resisten-
za durante un raid. Dopo tre giorni nacque il Movimento per la liberazione dei gay. Da quel momen-
to i gay hanno richiesto e ottenuto pieni diritti di cittadinanza, con la scomparsa delle leggi contro
l’omosessualità. La campagna contro l’omosessualità non ha avuto successo né nel rendere illegali
le relazioni omosessuali, né nel promuovere ostracismo sociale nei confronti degli omosessuali.
Questa evidente sconfitta proietta un’ombra di incertezza sul futuro di questo tipo di crociate mo-
rali. Un numero crescente di giovani e persone di mezz’età si dichiarano a favore della libertà di sti-
le di vita e la preferiscono a leggi e norme che prescrivono cosa la gente possa o non possa fare. La
linea di demarcazione sembra collocarsi in misura crescente laddove certi comportamenti possono
risultare dannosi per il prossimo.

10.3. Chi definisce la devianza?


La nostra prima esperienza con le idee di normalità e devianza avviene nel piccolo gruppo fami-
liare; quando cresciamo e incontriamo altri gruppi, vi sono forze ancora più forti che determinano
quale gruppo vedrà prevalere la sua idea di normalità. La prima di queste forze è data dal ruolo del
potere diretto o nascosto, che ha influito sugli esiti opposti delle campagne contro l’alcol e gli op-
piacei. In altre battaglie legate alla definizione della devianza diviene esplicito ruolo svolto dal pote-
re economico e politico nel definire la pena.
Ciò che è considerato deviante, o criminale, diversamente da ciò che dovrebbe avvenire secondo
le leggi scritte, è in qualche modo arbitrario, definito da individui che occupano posizioni di potere,
come dimostrato da molte ricerche sociologiche condotte negli anni ’60. In questo periodo emerse
una teoria interessante che metteva in discussione l’idea che vi fossero differenze oggettive tra i
comportamenti normali e i comportamenti devianti. Oggi, la maggioranza dei sociologi ritiene che il
processo attraverso cui un comportamento è definito deviante è cruciale per capire che cosa lo de-
termina, non tanto le caratteristiche del comportamento in sé. Tali riflessioni sono collegate alla
teoria dell’etichettamento della devianza, secondo cui molti tipi di comportamento sono devianti
solo perché sono definiti tali. Howard Becker sostiene che la devianza non è qualcosa di oggettivo,
ma una costruzione sociale che si evolve nel tempo. Un atto che può essere considerato normale in
un certo momento diventa deviante in un altro. Pertanto, una premessa fondamentale della teoria
dell’etichettamento consiste nel riconoscere che il controllo sociale non si limita a rispondere alla
devianza, ma la determina. La devianza, dunque, è un processo che riguarda il modo in cui il com-
portamento diventa deviante, che per essere capito occorre osservare il motivo e il modo in cui cer-
ti comportamenti e certi individui vengono etichettati come devianti ed esaminare l’impatto di que-
ste etichette sui comportamenti delle persone etichettate: infatti, una volta che un individuo è eti-
chettato come deviante potrebbe finire per comportarsi come tale.
L’introduzione da parte di Edwin Sutherland nel 1949 del concetto di crimine dei colletti bianchi
è uno degli sviluppi più importanti dello studio della devianza e della criminalità. Tale termine fa ri-
ferimento ai comportamenti immorali negli affari tenuti da individui nell’esercizio della loro attività
lavorativa. Tali reati possono avere altrettanto o peggiore impatto negativo su un maggior numero

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di persone di quanto non accadesse nel caso dei comuni reati di strada. Infatti, quando un’attività
commerciale danneggia la proprietà o il benessere di individui ignari è del tutto arbitrario assolvere
il malfattore della responsabilità penale. Storicamente, questo genere di reato era giudicato sola-
mente nei tribunali civili; oggi, invece, molti concordano sul fatto che i crimini dei colletti bianchi di
livello più basso, come l’appropriazione indebita o la frode, vanno trattati dai tribunali penali e da
quelli civili, mentre il trattamento dei reati dei colletti bianchi di livello superiore, spesso di natura
più indiretta, è più controverso.
Un esempio della nozione di crimine dei colletti bianchi e della difficoltà nel comminare delle
pene è lo scandalo della compagnia elettrica Enron nel 2001. Esse tra il 1996 e il 2000 ha apparen-
temente riportato un tasso di crescita del 652%, passando da profitti per 13,3 miliardi di dollari a
quasi 100 miliardi di dollari. Tuttavia, nell’autunno del 2001, si scoprì che questi profitti erano fasulli
e che erano basati su gigantesche truffe nella contabilità e sulla manipolazione dei prezzi. Prima
della scoperta delle sue operazioni fraudolente, la compagnia ottenne benefici grazie agli stretti le-
gami esistenti con esponenti delle istituzioni, tra cui George W. Bush: i suoi dirigenti esecutivi, infat-
ti, fornivano enormi quantità di denaro per sostenere le campagne elettorali di politici a loro favo-
revoli, in cambio di trattamenti di favore da parte di agenzie governative. Un esempio dei vantaggi
ottenuti da Enron dal suo crescente potere politico emerge dalla vendita di elettricità in California.
Nel biennio 1998-2000 i californiani pagavano 30 dollari per ogni megawatt di elettricità; nel giugno
del 2000, molte centrali vennero chiuse da Enron improvvisamente per manutenzione e il prezzo
dell’elettricità vanna portato a 120 dollari per megawatt. La situazione peggiorò quando Enron fece
in modo che risultasse una sorta di “congestione” elettrica, programmando forniture di energia che
non poteva realizzare, imponendo una speciale tassa di congestione di 750 dollari per megawatt. In
tutto questo, la compagnia di servizi Pacific Gas and Electric venne travolta e dichiarò bancarotta a
causa di un deficit di quasi 9 miliardi di dollari per la manipolazione del mercato energetico statale
da parte di Enron. La manipolazione illegale dei prezzi dell’elettricità in California costituisce, però,
solo la punta dell’iceberg: Enron, infatti, aveva anche creato falsi profitti attraverso la rendiconta-
zione di entrate fittizie da parte di compagnie off-shore inesistenti inventate dai responsabili finan-
ziari della compagnia. Quando i primi giornalisti e pubblici ufficiali iniziarono a fare domande sulla
condotta contabile della compagnia, i dirigenti di Enron iniziarono a vendere le loro azioni, rassicu-
rando gli investitori ed invitandone di nuovi, persino tra gli impiegati. Nel novembre del 2001, il va-
lore delle azioni di Enron scese da 90 dollari a pochi penny. Quando la compagnia dichiarò banca-
rotta, gli azionisti, i suoi 20.000 impiegati, le comunità nelle quali Enron operata e la compagnia
contabile di Arthur Anderson, dove lavoravano molti operatori che avevano contribuito alle frodi di
Enron soffrirono per il crollo: quest’ultima dovette anche chiudere a causa del crollo della propria
reputazione. La frode nel caso Enron fu così estrema e palese che tre suoi dirigenti finirono in car-
cere.
Un secondo esempio delle difficoltà legate ai tentativi di regolazione dei crimini dei colletti bian-
chi è offerto dalla crisi bancaria e finanziare del sistema economico mondiale del 2008, che trae ori-
gine dagli sviluppi riguardanti le politiche sui prestiti negli Stati Uniti d’America. Dopo il collasso del-
le banche americane durante la Grande Depressione degli anni ’30 del XX secolo, vennero adottati
nuovi regolamenti e leggi che stabilirono delle limitazioni ai rischi di investimento che le banche po-

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tevano affrontare. A partire dagli anni ’80, i grandi interessi bancari convinsero il Congresso statuni-
tense ad allentare tali vincoli e a permettere alle banche di correre maggiori rischi nella ricerca di
profitti più elevati. Negli anni ’90, il Congresso e Bill Clinton, sotto le pressioni del mondo finanzia-
rio, eliminarono molte delle restrizioni che erano rimaste, permettendo alle compagnie finanziarie
di perseguire in modo aggressivo nuove strategie di profitto, tra cui nuovi pacchetti di mutuo im-
mobiliare, noti come suprime loan, che avevano di norma tassi di interessi bassi all’inizio, per invo-
gliare i cittadini a comprarli, che successivamente sarebbero però saliti a tassi più alti. Le banche e
le compagnie che offrivano prestiti con il meccanismo dei subprime loan scoprirono di poter rag-
giungere grandi profitti, rivendendo i prestiti ad altri investitori che si assumevano tutti i rischi e
che, di frequente, erano istituzioni secondarie (banche, compagnie di assicurazione e agenzie di in-
vestimento) che compravano i prestiti, ricevendo continuamente assicurazioni sulla sicurezza del
processo. La crisi iniziò a scoppiare nel 2007, quando l’economia statunitense entrò in recessione, la
disoccupazione prese a salire e i prezzi delle case iniziarono a crollare nel momento in cui molti
subprime loan venivano riportati al tasso di interesse superiore. Un gran numero di cittadini, infatti,
non riusciva a pagare le rate di questi prestiti. Di conseguenza, i prestiti ai nuovi tassi andarono in
default e l’intero settore finanziario dovette affrontare una grave crisi che portò il governo federale
a fornire diversi miliardi di dollari per evitare il fallimento delle grandi banche. Il riscatto finanziario
delle banche da parte del governo federale le avrebbe tenute in affari, ma i costi della crisi del
2007-2008 si sentono ancora oggi in tutto il mondo. I tassi di disoccupazione sono saliti vertigino-
samente dopo l’inizio della crisi e l’economia statunitense ha raggiunto risultati molto bassi rispetto
agli standard precedenti. Con il successo della campagna lobbistica del Congresso, volta a ribaltare
la regolamentazione delle istituzioni finanziarie e della produzione energetica, potenti esponenti
del mondo delle grandi aziende permisero la ridefinizione di ciò che era considerato normale, de-
viante e criminale. Molti dirigenti di banche e di imprese della finanza ammisero di aver attuato
consapevolmente comportamenti volti a nascondere informazioni vitali per il loro stessi clienti sui
mutui e i subprime loan.
Le operazioni di Enron tra gli anni 1990-2000 e quelle di molti altri nel settore finanziario negli
anni 2000-2007 sono state fraudolente e hanno violato leggi federali e statali, ma il sistema di giu-
stizia penale ha fatto molta fatica a decidere se e come punirle. Tre dirigenti della Enron sono finiti
in carcere, ma quasi nessuno dei responsabili della crisi economica del 2008 sta scontando una pe-
na: anzi, ad esempio, il presidente e amministratore delegato di Countryside Financial ha patteggia-
to una multa di 47,5 milioni di dollari, per non finire in carcere. Questi esempi confermano il trat-
tamento lieve che spesso viene riservato alla criminalità dei colletti bianchi e sollevano due punti
critici: il tipo di comportamento deviante e la severità della pena dipendono dalla persona coinvol-
ta; ciò che viene percepito come un reato punibile è definito dalla distribuzione generale del pote-
re.
Il pericolo che forme complesse di criminalità pongono oggi all’economia legale, alla società e al-
la democrazia dipende dalla capacità di inserirsi nelle dinamiche della globalizzazione e di sfruttare
a proprio vantaggio le opportunità offerte da un mondo sempre più interdipendente. Tali sviluppi
hanno interessato sia i paesi del Sud del mondo, come luoghi di sfruttamento da cui attingere risor-
se essenziali, sia i paesi del Nord del mondo, come aree dove realizzare le proprie strategie e racco-

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gliere profitti. La geografia dei traffici illeciti e degli attori criminali si è andata dilatando sempre più
grazie alle opportunità offerte da alcune trasformazioni indotte dalla globalizzazione, come
l’ampliamento delle possibilità di movimento tra le frontiere, l’allargamento dei mercati finanziari,
la crescente de regolazione dei movimenti capitali e la diffusione di tecnologie dell’informazione e
della telecomunicazione. Lo sfruttamento di tali processi da parte di attori economici legali ed ille-
gali hanno portato all’allargamento dei confini dei mercati di scambio di beni e servizi illeciti, alla
possibilità di accesso anonimo ai circuiti della finanzia internazionale, alla capacità di manipolazione
dei punti di vulnerabilità dei sistemi informativi. Inoltre, le asimmetrie sociali, politiche ed economi-
che hanno finito per favorire la diffusione della criminalità organizzata transnazionale: l’adozione di
politiche neo-liberiste ha generato bisogni e desideri inevasi, rendendo più accettabile il ricorso a
comportamenti devianti e soluzioni immorali e aggravando le condizioni di vita di milioni di perso-
ne, condannate a subire processi di immiserimento massiccio in contesti caratterizzati
dall’indebolimento dei legami comunitari, dall’affievolimento dei sistemi di controllo e dalla cre-
scente dipendenza da fonti esterne di sostegno. Tale polarizzazione delle condizioni di vita ha favo-
rito la comparsa di nuove forme di disuguaglianza. Questi processi di scivolamento in pratiche ille-
gali ha interessato anche soggetti legali, determinando così zone grigie, aree di incertezza, territori
di confine caratterizzati da una legalità precaria e artificiale.
Anche i governi possono mettere in atto comportamenti devianti senza grossi rischi di venire
puniti. Nel caso della devianza di stato, i tribunali e la legge internazionale raramente emettono
sanzioni anche nel caso in cui si tratti di azioni che hanno condotto alla morte di persone innocenti.
Un esempio di devianza di stato sono le pratiche violanti le norme internazionali in materia di diritti
umani utilizzate dal governo degli Stati Uniti per la guerra al terrorismo dopo l’attacco al World
Trade Center e al Pentagono dell’11 settembre 2001. Subito dopo quest’attacco, i funzionari gover-
nativi, convinti che altre trame terroristiche e attacchi fossero imminenti, ritennero che, per sven-
tarli, fosse necessaria un’azione immediata e senza condizioni. Sulla base dei documenti prodotti
dai funzionari della Casa Bianca che sostenevano e giustificavano l’utilizzo di tattiche che non ri-
spettavano le leggi internazionali o la Costituzione statunitense, per diversi anni il governo ha iden-
tificato molte persone, anche grazie all’aiuto di autorità straniere, e le ha condotte in luoghi nasco-
sti per sottoporle a tecniche di tortura nella speranza di raccogliere informazioni. Dalle numerose
rivelazioni della stampa e dal rapporto del senato statunitense sulle tecniche di interrogatorio uti-
lizzate dalla CIA reso pubblico nel 2014, risultò che molte di queste tecniche impiegate contravveni-
vano alla Convenzione di Ginevra e che molti di coloro che sono stati sottoposti a tortura avevano
poche connessioni, o addirittura nessun legame, con attività terroristiche. Esempi di tali tecniche
sono la deprivazione sensoriale, la deprivazione del sonno, l’isolamento, percosse ripetute, umilia-
zioni, stupri, somministrazione forzosa di droghe e il waterboarding. La prima prova certa è giunta
con la pubblicazione delle fotografie degli abusi perpetrati nei confronti dei prigionieri nel carcere
di Abu Ghraib nell’aprile del 2004, ad opera di Seymour Hersh del New Yorker. Insieme a queste fo-
to, si sono raccolte interviste ai funzionari governativi e agli investigatori militari, che confermano
quanto riportato nelle fotografie. Nonostante la condanna su scala mondiale dell’uso della tortura
da parte del governo statunitense tra il 2002 e il 2005, solo pochi militari di basso grado sono stati
puniti per quanto successo ad Abu Ghraib. Visto che gli Stati Uniti d’America sono la maggiore po-

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tenza militare al mondo, non ritengono di dover seguire le stesse regole di tutti gli altri paesi. Dopo
il 2005, Bush ha posto fine all’uso della tortura negli interrogatori e Barack Obama ha reso questo
vincolo obbligatorio per l’esercito degli Stati Uniti, pubblicando nel 2009 un ordine esecutivo che la
bandisce. Ma altre politiche di guerra al terrore che sono proseguite in anni recenti hanno sollevato
questioni simili sulla devianza di stato: come l’uso di droni volanti in Afghanistan, Pakistan e Yemen
per tentare di uccidere persone sospettate di terrorismo, che ha causato la morte di centinaia di ci-
vili innocenti; nel giugno del 2012, 18 persone innocenti persero la vita a causa dei droni statuni-
tensi e, in seguito a ciò il governo statunitense ha accettato di limitare l’uso dei droni in Afghanistan
solo ai casi di autodifesa, ma tali attacchi continuanto in Pakistan e Yemen e la questione più ampia
della responsabilità dei potenti rimane aperta.

10.4. Come viene mantenuto il controllo sociale?


La società impone delle regole sul comportamento normale e su quello deviante, stabilendo del-
le leggi e dei codici penali che sanciscono cosa è deviante. Quando certi tipi di devianze diventao
reati, entrano nel regno delle istituzioni del controllo sociale, ossia polizia, tribunali e carcere.
Una dimensione fondamentale del controllo sociale si esprime attraverso le sanzioni e le ricom-
pense che i gruppi e le società stabiliscono per rendere effettive le norme. I sociologi distinguono
tra sanzioni e ricompense formali ed informali. Le sanzioni e ricompense formali sono utilizzate per
far rispettare le norme previste dalle leggi scritte e sono comminate da un gruppo di individui
espressamente destinato a farlo, come la polizia o i presidi delle scuole. Le sanzioni e le ricompense
informali, invece, includono comportamento come insulti, sguardi di disapprovazione, complimenti.
Nonostante nella maggior parte dei casi la devianza sociale produca una risposta di tipo negativo, ci
sono però alcune situazioni in cui agire in modo deviante, specialmente nei confronti delle autorità,
può riscontrare risposte positive, come nei casi delle proteste di Mahatma Gandhi e Martin Luther
King; d’altra parte, vi sono anche casi in cui conformarsi alle norme incontra risposte di tipo negati-
vo: si pensi a colo che fanno di tutto per compiacere gli altri e ottenerne l’approvazione o ai casi
estremi degli ufficiali di Adolf Hitler, che si giustificavano affermando di aver eseguito gli ordini del
führer. In queste situazioni, non è facile affermare che rispettare le regole e le norme sociali con-
durrà all’approvazione, mentre infrangerle alla disapprovazione; capire il giusto equilibrio riflette
una piena comprensione delle regole scritte e non scritte. Le ambiguità nella linea di demarcazione
fra devianza e conformità hanno creato pressioni volte a estendere le sanzioni formali. Nel mondo
di oggi, la forma principale di controllo sociale si esercita attraverso il sistema penale.
Il sistema penale comprende le leggi, le forze di polizia, che identificano e arrestano chi non le ri-
spetta, avvocati, tribunali, che valutano le prove di colpevolezza ed emettono sentenze in caso di
condanna, e carceri dove i colpevoli possono essere mandati per un certo periodo di tempo. Le so-
cietà puniscono chi contravviene alle leggi penali per quattro motivi fondamentali: per esigere la ri-
parazione per le vittime dei reati, ossia chi ha commesso un reato deve pagare per il male che ha
provocato ad altri; come deterrente per scoraggiare i colpevoli e tutti gli altri dal commettere reati
in futuro; per impedire ai colpevoli di commettere nuovi reati, facendo ricorso al carcere;per fornir-
gli, all’interno del carcere, un contesto per la riabilitazione, che consiste nel tentativo di aiutare il
colpevole a non commettere più reati attraverso la terapia, lo studio e la formazione professionale.

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Il sistema penale americano è cambiato notevolmente nel corso del tempo. Nei primi tre quarti
del XX secolo, con l’eccezione della Grande Depressione degli anni ’30, il tasso di incarcerazione, os-
sia il numero di prigionieri per abitante, è rimasto abbastanza costante: le persone che commette-
vano reati gravi venivano incarcerate, ma molti colpevoli ricevevano altri tipi di pena. A partire dagli
anni ’70, il numero di detenuti ha cominciato a crescere costantemente e ha continuato a farlo per i
successivi trent’anni, fino a stabilizzarsi nel 2005, con un aumento della popolazione carceraria in
questi 35 anni del 700%. In questo periodo, le pene sono diventate più lunghe, la possibilità di esse-
re rilasciati per buona condotta si sono ridotte e nuove categorie di devianza, soprattutto legate al-
la produzione, commercio e uso di droghe, sono divenute sempre più oggetto di criminalizzazione.
Oggi, gli Stati Uniti d’America hanno il tasso di incarcerazione più elevato al mondo, portando diver-
si studiosi a descrivere tale situazione nei termini di incarcerazione di massa. La diminuzione dei
tassi di criminalità dagli anni ’90 ad oggi e i tassi di criminalità vicini alla media di altre nazioni calco-
lati sulla base delle indagini di vittimizzazione (condotte su cittadini vittime di svariati tipi di reati,
tranne che di omicidio, per evidenti motivi) non giustificano il riferimento ad un aumento o ad
un’elevatezza dei tassi di criminalità nello spiegare l’incarcerazione di massa. Invece, pare che alla
base dell’aumento dei tassi di incarcerazione vi siano tre fattori possibili:
• La recente crociata morale contro alcuni comportamenti individuali, in particolare le droghe,
che può aver portato ad un aumento del numero di persone detenute per reati legati al possesso e
al consumo di droga;
• Il sostenimento di modifiche in materia di giustizia penale da parte di molti politici a partire
dagli anni ’70, a causa della convergenza di tre tendenze importanti: una forte reazione conserva-
trice nei confronti dei movimenti sociali e culturali degli anni ’70; un declino economico che ha pro-
dotto una corsa alla ricerca di cause e capri espiatori per i problemi sociali sorti negli anni ’70; le
proteste urbane che in quglin anni hanno reso la criminalità urbana il centro principale
dell’attenzione mediatica;
• Il ruolo del razzismo nell’influenzare la questione della criminalità e delle politiche di giusti-
zia penale e la sovrappresentazione degli immigrati e degli afro-americani come autori di reato nei
media e nelle carceri, nonostante bianchi e neri abbiano le stesse possibilità di commettere reati, e
in particolare di fare uso di stupefacenti.
L’incarcerazione di massa ha effetti non solo sui singoli individui, ma anche sulle famiglie, le co-
munità e la società nel suo complesso. I singoli individui, infatti, avendo una fedina penale sporca,
faticano a trovare un buon lavoro, guadagnano meno soldi e, probabilmente, hanno più difficoltà a
mantenere stabilmente una famiglia; da condannati diventano automaticamente ineleggibili per
una lunga lista di servizi come l’edilizia pubblica, programmi di prestito per motivi di studio e vari
programmi sociali di sostegno alla povertà; possono anche perdere la custodia dei propri figli e il di-
ritto di voto. Spesso, le famiglie ne escono distrutte: i genitori vengono separati dai figli, le coppie
vengono divise e i bambini sono pesantemente colpiti dal fatto di avere un genitore detenuto, ri-
sentendone il loro rendimento scolastico, la loro autostima e il loro stress. Inoltre, con la riduzione
progressiva dei budget del governo, i costi per costruire e mantenere un grande sistema carcerario
diventano sempre più difficili da sostenere, impedendo che quei fondi vengano investiti per altri
obiettivi importanti e gravando sulla democrazia statunitense.

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