L’adolescenza sta cambiando e a oggi dura molto più a lungo per due ragioni: da un lato si assiste a una precoce insorgenza della pubertà, dall’altro a un protrarsi del periodo per il raggiungimento dell’indipendenza economica dalla famiglia, del lavoro, della vita coniugale. Si può asserire che i bambini divengono prima adolescenti, ma gli adolescenti ci impiegano più tempo per divenire adulti. La prima osservazione sembra essere più preoccupante di quanto si pensi, perché la maturazione fisica ad un’età inferiore predispone al rischio di sviluppare disturbi fisici, mentali e comportamentali, la seconda invece potrebbe costituire addirittura un vantaggio. Alla luce di questa importante asserzione, non si può non prendere in considerazione una rilevante scoperta: il cervello dell’adolescente è dotato di grande neuroplasticità, intesa come la capacità del cervello di cambiare in base all’esperienza. Se si riteneva che il periodo 0-3 fosse il periodo di più grande plasticità per il cervello, anche in relazione al fatto che il cervello intorno ai 10 anni raggiunge le dimensioni di quello adulto, ad oggi tale assunto viene messo in discussione: e adesso diviene un dovere, come si è fatto per i bambini, rendersi responsabili dell’esperienza che si offrono agli adolescenti, perché la malleabilità del cervello può avere potenzialità sia positive che negative, a seconda delle esperienze che vengono offerte ai giovani. Va precisato che l’adolescenza è l’ultimo periodo in cui è possibile osservare tale spiccata neuroplasticità, cioè c’è più plasticità cerebrale sia rispetto ai periodi immediatamente precedente e immediatamente successivo: è questo, ad esempio, il motivo per cui è più facile trattare i disturbi psicologici in adolescenza, dato il loro progressivo consolidarsi. Steinberg osserva che gli adolescenti statunitensi presentano diverse problematiche: alcuni miglioramenti che si erano osservati nel secolo scorso (es. la riduzione delle gravidanze precoci, dei fumatori, dei consumatori di droghe) si sono stabilizzati, se non hanno addirittura invertito la loro tendenza. L’autore riporta alcuni dati: • I punteggi degli studenti ai test standardizzati non sono migliorati dagli anni 70: gli adolescenti statunitensi hanno un rendimento inferiore rispetto ai coetanei di altri paesi industrializzati che investono molto meno nell’istruzione. Lo scarso rendimento è chiaramente dispendioso perché implica che vengano frequentati programmi di recupero. Gli Stati Uniti vantavano uno dei tassi di laureati più alti al mondo, oggi non rientrano nemmeno tra i primi dieci. • Gli adolescenti statunitensi sono i più dediti al binge drinking e al consumo di sostanze stupefacenti al mondo. Gli Stati Uniti sono primi nel mondo industrializzato per gravidanze precoci, che spesso implicano anche l’abbandono degli studi. • L’aggressività è un problema assai diffuso: il tasso di violenza minorile è uno dei più elevati al mondo e non è raro registrare casi di minacce agli insegnanti che si traducono in veri e propri attacchi. • L’obesità è un problema assai rilevante, è triplicata rispetto agli anni 70. • Il tasso di suicidi è tra i più alti al mondo. Inoltre, per la sfera dei disturbi psichiatrici, ogni anno quasi la metà dei giovani tra i 19 e i 25 anni soffre di un disturbo psichiatrico diagnosticabile: non si tratta solo di ragazzi in famiglie indigenti, ma anche di studenti universitari. Nonostante siano stati gli investimenti in programmi di educazione alla salute, qualcosa non va. Le neuroscienze aiutano a capire non solo perché l’adolescenza è un periodo di vulnerabilità, ma anche perché lo sia diventata di più. I cambiamenti che avvengono a livello cerebrale rendono gli individui più inclini ad essere eccitati ed emotivi: questi cambiamenti avvengono molto prima di altre modificazioni cerebrali, come quelle che comportano la capacità di controllare pensieri, emozioni e azioni, che prende anche il nome di autoregolazione. Tanto più è ampio l’intervallo di tempo tra l’inizio dell’adolescenza, in cui il cervello diviene più suscettibile, e la fine dell’adolescenza, in cui divengono maturi i meccanismi di autoregolazione, tanto più l’adolescenza diviene un periodo in cui è possibile correre rischi e vivere squilibri. A determinare chi riesca a uscire indenne o meno da questo periodo, sembra essere l’autoregolazione stessa, che protegge da disturbi psicologici, fisici e insuccessi scolastici: è possibile asserire dunque che l’autoregolazione è il principale compito di sviluppo degli adolescenti. Diviene un dovere degli adulti cercare di difendere gli adolescenti e sorvegliarli prima che i meccanismi di autoregolazione non siano pienamente sviluppati. Molti studiosi si sono chiesti se sia più opportuno investire sul periodo 0-3 o sull’adolescenza. Secondo Steinberg, risponde a questa domanda utilizzando un’analogia molto efficace: si tratta di chiedere se sia più importante mangiare o respirare. Indubbiamente, investire sui primi tre anni di vita è fondamentale, ma se non si interviene anche dopo, si rischia di aver sperperato gli investimenti fatti in partenza perché l’adolescenza è l’unica occasione per poi indirizzare verso uno sviluppo sano.
Capitolo 2: Il cervello plastico
Una delle caratteristiche dei ricordi legati all’adolescenza è la loro vividezza, un fenomeno così diffuso che gli studiosi l’hanno definito picco di reminiscenza: gli eventi accaduti tra i 10 e i 25 anni sono rievocati più frequentemente. La ragione non è attribuibile a capacità mnemoniche superiori: se è vero che esse migliorano tra infanzia e adolescenza, la capacità di ricordare è particolarmente viva fino ai 45 anni ca., quando inizia poi il declino delle funzioni cognitive legato a una più matura età adulta. Gli studiosi si sono allora chiesti se ciò possa essere dovuto alla natura degli eventi stessi, compiendo alcune osservazioni: • In adolescenza si verificano molte “prime volte” (studi dimostrano che le cose nuove restano più impresse delle cose usuali). • Gli eventi che si verificano in adolescenza sono emotivamente densi e significativi (es. diploma). • Siccome l’adolescenza è il periodo in cui comincia a svilupparsi un senso dell’identità coerente, le persone si rifanno a tali eventi per descrivere se stessi. Tuttavia, gli studi mettono in luce come la maggior parte dei ricordi legati all’adolescenza siano relativi a eventi di scarsa importanza, banali. La risposta va dunque cercata nel modo in cui il cervello registra e codifica le esperienze durante questo periodo della vita, nella sua ipersensibilità alle esperienze. Il picco di reminiscenza non è altro, dunque, che un’altra testimonianza della neuroplasticità adolescenziale. Il termine plasticità per descrivere il cervello può essere fuorviante. Se ci si riferisce agli oggetti in materiale plastico, come una bottiglia, il ricorso al termine sembra ingiustificato: se si schiaccia una bottiglia, essa non verrà modificata in modo permanente, ma tenderà a ritornare al suo stato precedente. L’accezione che risulta molto utile in questo contesto è quella della plastica industriale, cioè prima che si indurisca e prenda una determinata forma: così è il cervello, modellabile, malleabile, prima che acquisisca una certa stabilità. La plasticità è dunque il processo attraverso cui le esperienze penetrano dentro di noi e ci cambiano: a ogni esperienza che ci modifica, corrisponde una modificazione cerebrale: questo chiaramente implica vantaggi e rischi, a seconda delle esperienze che si vivono. Si possono distinguere due tipi di plasticità: • Plasticità evolutiva: si riferisce alla malleabilità del cervello nel momento in cui esso è in costruzione: si verificano cambiamenti nello sviluppo/perdita di cellule cerebrali, o nel cablaggio del cervello, ovvero la connessione tra i neuroni. Va specificato che il cervello ha una precisa organizzazione che ne garantisce il funzionamento: i neuroni non sono connessi tra loro indiscriminatamente, ma in modo selettivo. Difatti, alla nascita, la maggior parte dei neuroni è formata; successivamente, nei primi anni di vita, il cervello non ne produce molti nuovi, ma produce molte connessioni, in un processo esuberante di produzione neuronale, su cui interviene, durante lo sviluppo, un processo di potatura, cioè di eliminazione dei collegamenti non necessari prodotti eccessivamente durante i primi momenti della vita. Le regioni cerebrali che riguardano capacità sensoriali basilari, come vista e udito, sono potate nelle prime fasi di vita, senza ulteriori grandi modificazioni. La potatura di aree che controllano funzioni cognitive più complesse richiede più tempo ed è su queste che si concentrano i cambiamenti cerebrali durante l’adolescenza.
• Plasticità adulta: si riferisce a un tipo di plasticità profondamente diverso da quella evolutiva,
poiché non altera in maniera sostanziale la struttura neurale del cervello, non c’è una malleabilità paragonabile a quella evolutiva (se prima il cervello era predisposto al cambiamento, poi diviene predisposto alla resistenza alle alterazioni) e il cervello adulto è influenzato da un minor numero di esperienze: in età evolutiva, si può essere influenzati da esperienze di cui si è consapevoli e di cui non si è consapevoli, cioè sia in maniera attiva che passiva potenzialmente da tutte le esperienze, mentre, in età adulta, è necessaria una maggiore attenzione alle esperienze perché ci condizionino. Il cervello non cresce in una volta, ma attraversa dei periodi sensibili: quelli che riguardano capacità sensoriali di base sono precoci e brevi; quelli relativi a funzioni come il linguaggio più lunghi; quelli relativi a ragionamento logico e pianificazione addirittura non raggiungono la piena maturità prima dei 25 anni. Questo non significa che le aree che governano le funzioni basilari siano insensibili all’esperienza, ma indubbiamente lo sono meno risposto ai sistemi che regolano funzioni complesse: si dice che lo sviluppo di capacità come la vista è experience expectant, cioè “presuppone l’esperienza” (se non in casi di estrema deprivazione, ogni bambino ha possibilità di guardare un oggetto o sentire voci), mentre quello di capacità più articolate è experience dependent, ovvero dipende fortemente dall’esperienza. Un elemento che bisogna ricordare è che le prime aree citate sono molto vincolate da un punto di vista biologico, mentre le seconde no, ed è per questo che possibile rintracciare una grande variabilità interindividuale nel modo in cui gli individui assumono decisioni, ad esempio. Una volta non era così importante aver raggiunto livelli molto avanzati di tali capacità, mentre, ad oggi, ci si trova di fronte a una società, improntata alla corsa al successo, in cui è essenziale esserne provvisti. La plasticità agisce, nei diversi momenti, su aree diverse del cervello, a seconda di quali sono le più malleabili in quel momento: studi su abusi sessuali hanno messo in luce come quelli avvenuti nella prima infanzia incidono negativamente sull’ippocampo, i secondi sulla corteccia prefrontale. La plasticità in adolescenza è dunque importante per dove agisce. Per comprendere la neuroplasticità, bisogna comprendere il cervello: esso funziona grazie alla trasmissione di segnali elettrici, resa possibile dalle connessioni tra i neuroni. Ogni neurone è composto da una propaggine allungata che termina in prolungamenti appuntiti, detta assone, da un corpo cellulare, e dai dendriti, ramificazioni che a loro volta si suddividono in segmenti sempre più piccoli. Nel complesso i neuroni costituiscono la materia grigia. Quando avviene la trasmissione dei segnali elettrici, gli impulsi passano dall’assone di un neurone ai dendriti di quello successivo, mediante una fessura detta sinapsi: ciò è reso possibile grazie al rilascio da parte del neurone presinaptico di neurotrasmettitori, come dopamina e serotonina, che andranno a innestarsi su specifici recettori, collocati sui dendriti del neurone postsinaptico: tale specificità garantisce l’organizzazione dei circuiti cerebrali. Oltre ai neuroni, esistono altre cellule cerebrali, che costituiscono la materia bianca, i quali proteggono i neuroni mediante una sostanza lipidica, la mielina, che garantisce che i segnali percorrano i percorsi prestabili. La mielinizzazione è fondamentale per la plasticità cerebrale, tuttavia stabilizza i circuiti già formati, non creandone di nuovi come fanno le connessioni neuronali. Con l’adolescenza, vi è un aumento di proteine che impediscono la formazione di nuove sinapsi e altre che promuovono la mielinizzazione, conducendo alla progressiva stabilità dei circuiti cerebrali. Le connessioni che presiedono alla capacità di svolgere un determinato compito si rinforzano ogni volta che esso viene svolto, per cui la plasticità cerebrale rafforza i circuiti che vengono adoperati, ma va detto che elimina quelli inutilizzati, mediante un processo, detto di potatura sinaptica (pruning), in cui le connessioni neuronali inutilizzate si indeboliscono sempre di più: gli assoni ritraggono i prolungamenti, le spine dendritiche si spengono e le sinapsi progressivamente scompaiono. Però, bisogna specificare che perché un circuito cerebrale venga stimolato, spesso non basta la ripetizione, ma serve spingere il cervello un po’ oltre ciò che esso è già in grado di fare: la chiave sta cioè nella lieve distanza tra come le cose sono e come potrebbero essere. Quindi, un buon genitore è colui che si muove nella zona di sviluppo prossimale del bambino, che stimola la crescita del bambino rafforzandone le capacità gradualmente attraverso il suo sostegno (scaffolding). Una scoperta molto interessante è che la plasticità genera futura plasticità, non solo negli stessi circuiti, ma anche in quelli ad essi prossimi: questo fenomeno ha portato a parlare di metaplasticità. Per essere più chiari, acquisire informazioni in un periodo in cui c’è un’accentuata plasticità fa sì che in futuro si possano acquisire informazioni più facilmente. Chi si espone continuamente a esperienze nuove in un periodo di maggiore plasticità potrebbe tenere aperta più a lungo la finestra temporale in cui il cervello è plastico e prolungare le sue capacità di trarre giovamento dalle esperienze proficue in futuro. Si è detto che la plasticità cerebrale agisce in maniera diversa a seconda delle aree che sono più malleabili in un determinato periodo. L’imaging funzionale, la cui grandezza sta nel permette di osservare differenze a livello di funzionamento più che di struttura del cervello adolescente, che come è noto è pressoché uguale a quello adulto, ha permesso di evidenziare i tre circuiti più interessati da cambiamenti durante l’adolescenza, le tre R dello sviluppo cerebrale adolescenziale: il circuito della ricompensa (regioni legate alla percezione di gratificazioni e punizioni), delle relazioni interpersonali e della regolazione (regioni che riguardano pensiero superiore, ragionamento, pianificazione, processi decisionali). Se quanto appena detto è testimonianza della plasticità del cervello, lo è anche un’altra osservazione: il numero di disturbi psicologici che colpiscono gli adolescenti. L’età media di insorgenza di gravi problemi di salute mentale è 14 anni: escludendo ADHD, disturbo d’ansia da separazione e disturbi dell’apprendimento e dello spettro autistico, tutti gli altri disturbi principali insorgono tra i 10 e i 25 anni: disturbi dell’umore, disturbi d’ansia, DCA, schizofrenia. Alcuni possono emergere in un intervallo temporale più ristretto, come la fobia sociale che insorge tra gli 8 e i 15 anni, altri, come il disturbo da panico, in una fascia molto ampia, tra i 16 e i 40 anni. Pochissimi disturbi compaiono prima dei 10 anni. I disturbi da abuso di sostanze sono stati di grande interesse: si è voluto verificare sui mammiferi se gli effetti prodotti da alcune sostanze varino se queste ultime siano assunte prima, durante o dopo l’adolescenza. Gli studi hanno evidenziato come l’assunzione di alcol e nicotina nella prima adolescenza influenzi in modo permanente il funzionamento del circuito della ricompensa, inducendo dipendenza. Sebbene, per ragioni etiche, non è possibile condurre questi studi sugli esseri umani, è confermato come adolescenti che inizino a fumare prima dei 15 anni abbiano più probabilità di continuare in età adulta rispetto a coloro che abbiano iniziato in tarda adolescenza. Non è possibile escludere che negli adolescenti ci siano dei tratti di personalità che li spingano a mettere in atto determinati comportamenti, ma i risultati ottenuti sugli animali sembrano essere contrari a quest’ipotesi, in quanto nei mammiferi non avviene una scelta rispetto alla sostanza da assumere. Non bisogna credere che il cervello adulto non sia plastico: gli studi confermano che negli adulti c’è una certa plasticità. L’obiettivo è stato però capire se il cervello adolescente lo fosse più di quello adulto, mediante il brain training, ovvero l’allenamento del cervello. Uno strumento molto utile per questi studi è stata la TMS. La stimolazione magnetica transcranica consiste nella stimolazione o soppressione dell’attività di alcune zone cerebrali mediante un magnete applicato in modo discontinuo sul cuoio capelluto. Siccome l’aspetto assunto dal cervello in relazione a stimolazione o soppressione è sempre il medesimo, indipendentemente dall’età, è stato possibile osservare come il cervello adolescente sia più sensibile alla TMS di quello adulto. Sebbene non sia stato dimostrato che il cervello adolescente sia più plastico del cervello durante l’infanzia, ci sono buone ragioni per crederlo: • Gli adolescenti vivono cambiamenti psicologici più intensi in relazione alle loro esperienze di quanto non avvenga nell’infanzia (basti pensare che Freud parlava di “periodo di latenza” per indicarne la staticità) e non bisogna dimenticare che ogni cambiamento esperienziale comporta un cambiamento a livello cerebrale. • L’adolescenza è un periodo di grande delicatezza (basti pensare all’insorgenza dei disturbi psicologici) • Gli adolescenti sono più sensibili a stress e a eccitazione. • L’andamento dell’attività cerebrale non è lineare, ma assume una forma ad U capovolta (in molti ambiti, c’è un andamento incrementale, ma poi decrementale dell’attività di alcune aree). • Avviene qualcosa nel cervello: la pubertà. Con l’inizio della maturazione fisica adolescenziale, i cambiamenti ormonali producono provocano modificazioni visibili e facilitano lo sviluppo sessuale ai fini riproduttivi. Gli ormoni sessuali, come testosterone ed estrogeni, trasformano profondamente il cervello, poiché promuovono pruning, mielinizzazione e sviluppo di nuovi neuroni. Sul finire dell’adolescenza, un’altra serie di alterazioni neurochimiche rende il cervello sempre meno plastico, incoraggiando la stabilità a scapito delle possibilità di cambiamento. Le ragioni dietro questa inversione di tendenza non sono note, ciò che si sa è che ciò non consista in un’alterazione degli ormoni sessuali, che avviene molto più tardi (la diminuzione di testosterone avviene ben oltre i 30 anni). Il cambiamento è probabilmente legato alle esperienze nuove ed emozionanti, che col tempo diminuiscono nell’avvicinarsi all’età adulta, connotata da una maggiore stabilità: se il cervello non è stimolato a fare di più, è privilegiata la stabilità. A questo c’è una spiegazione in termini evoluzionistici: l’adolescenza rappresenta l’ultima occasione per ottenere conoscenze e competenze fondamentali per sopravvivere abbastanza a lungo da riprodursi. Una volta che tali acquisizioni sono state raggiunte, sarebbe disadattivo mantenere la finestra temporale di plasticità e malleabilità aperta più del dovuto, con il rischio di vivere pericoli che si potrebbero evitare. Ciò però non deve indurre a demonizzare il protrarsi della transizione all’età adulta, che invece potrebbe portare più vantaggi di quanto si pensi agli individui, se esposti ad esperienze stimolanti e positive.
Capitolo 3: Il decennio più lungo
Stabilire un inizio dell’adolescenza è abbastanza facile, riferendosi alla maturazione fisica indotta dalla pubertà, caratterizzata da cambiamenti nell’aspetto esteriore, mentre stabilire una fine dell’adolescenza diviene ad oggi sempre più complesso. Esistono confini biologici tra adolescenza ed età adulta, come il momento in cui si smette di crescere o si sviluppa la capacità di procreare, ma risultano poco attendibili: in molti il picco di crescita avviene a tredici anni ma nessuno definirebbe adulto un ragazzino di tredici anni. Sembra che sia più affidabile rifarsi a degli indicatori di natura socioculturale, come, ad esempio, l’abbandono della dimora genitoriale o l’inizio di un lavoro full- time: per questa ragione molti studiosi ritengono che l’adolescenza abbia un inizio di natura biologica e una fine di natura culturale. Per valutare se l’adolescenza si è davvero allungata, tra i vari indici a cui rifarsi, il menarca e il matrimonio sembrano i più affidabili. Per la maggior parte delle donne le mestruazioni rappresentano un evento centrale, che viene inoltre registrato nelle cartelle cliniche da parte dei medici: sebbene per i maschi non ci sia un equivalente, studi dimostrano che c’è una forte correlazione tra l’età in cui i maschi e le femmine affrontano la pubertà, anche se le seconde tendenzialmente precedono i primi di uno o due anni. L’età del matrimonio è ancora più facilmente documentabile, dato che viene precisata da tempo l’età degli sposi: va specificato che tanti altri cambiamenti, come l’abbandono della casa dei genitori, l’inizio della carriera e l’avvio di un proprio nucleo familiare, sembrano fortemente legati al matrimonio, per cui se l’età media del matrimonio aumenta, anche quella dei suddetti eventi. Dal 1950 l’età di ingresso nella pubertà è scesa notevolmente, mentre quella del matrimonio salita: basti pensare che nel 2010 tra il menarca e il matrimonio passavano 15 anni. Per gli uomini, i ricercatori si sono dovuti riferire alla cosiddetta rottura della voce, ovvero il suo abbassamento: i direttori dei cori dei bambini annotano infatti da tempo tale avvenimento e se intorno agli anni 60 coincideva con i 13 anni, al momento in cui Steinberg scrive, si riscontra una diminuzione ai 10 anni e mezzo. Siccome l’abbassamento della voce maschile precede di circa tre anni la maturità fisica, ciò significa che quest’ultima si compie intorno ai 13. Anche il tasso di mortalità è un indicatore rilevante: l’età media del “picco di incidenti” che caratterizza i giovani maschi, che sono in adolescenza particolarmente aggressivi ed eccitati, si è notevolmente abbassata. Per non rifarsi a differenze di genere, ci si può sempre rifare al matrimonio che è un indicatore che prescinde dall’essere maschio o femmina: l’età in cui ci si sposta è aumentata. L’età della pubertà si è notevolmente abbassata tra il 1850 e il 1950, per poi subire un rallentamento, tanto da far credere agli studiosi che si stesse raggiungendo l’età minima di inizio della pubertà. Ci sono importanti osservazioni da fare: il menarca non coincide con l’inizio della pubertà, piuttosto compare in coincidenza con la fine della maturità sessuale: a rappresentare i primi segnali di maturità sessuali bisogna rifarsi alla comparsa del seno e dei peli pubici, che precedono di circa tre anni il menarca. Se prima il seno compariva intorno ai 13 anni, ad oggi alcuni pediatri riferiscono che il seno in alcune bambine comincia a svilupparsi già intorno ai 7/8 anni. Tuttavia, si osservano bambine in cui le mestruazioni compaiono proprio a quell’età, il che significa che la maturità sessuale avrebbe inizio durante la scuola materna. Per i maschi, il riferimento più affidabile è il cambiamento nelle dimensioni dei testicoli: in quest’ottica, studi mettono in luce che già a 6 anni si riscontra l’inizio della pubertà. A lungo si è creduto che i tempi della pubertà fossero definiti solo da vincoli biologici. Ad oggi, si sa che ad influire non sono solo i geni, ma anche fattori ambientali, tra cui le condizioni di salute e l’alimentazione. I cambiamenti che si sono registrati tra il 1850 e il 1950 sembrano essere dovuti proprio a questo: i bambini che maturavano prima erano quelli che mangiavano meglio, che godevano di una buona salute, che erano frutto di gravidanze in cui la madre aveva seguito una dieta sena. Ad oggi la ragione non sembra questa, dal momento che non ci sono stati cambiamenti in queste due dimensioni proporzionali all’effettiva riduzione dell’età di inizio della pubertà, ma bisogna chiarire quali sono i processi cerebrali chiamati in gioco nella pubertà. L’inizio della pubertà è determinato dall’incremento dei livelli di kisspeptina (sostanza così chiamata perché scoperta a Hershey in Pennsylvania, patria dei kisses, cioè i baci di cioccolato), la quale stimola ovaie e testicoli a produrre gli ormoni responsabili delle pulsioni sessuali e della possibilità riproduttiva, ma anche delle modifiche nell’aspetto esteriore caratteristiche dell’adolescenza. La kisspeptina è influenzata da due sostanze: la leptina e la melatonina. La leptina è una proteina prodotta dalle cellule lipidiche che è responsabile della regolazione dell’appetito, che segnala non solo se siamo sazi, ma anche se siamo sufficientemente grassi. La melatonina è un ormone responsabile della regolazione del ciclo del sonno: aumenta con l’avvicinarsi dell’oscurità e diminuisce con l’appropinquarsi della mattina. La melatonina si basa su un orologio biologico che può essere spostato in avanti, quando necessario, attraverso l’esposizione alla luce. La melatonina è sensibile sia alla luce naturale che artificiale ed è questo il motivo per cui è sconsigliato guardare schermi illuminati perché ciò incide sul sonno. Dunque, i geni predispongono dei tempi entro cui inizia la pubertà, ma l’aumento di cellule lipidiche e dell’esposizione alla luce possono fortemente alterarli. A parità di predisposizione genetica, chi è obeso e vive in prossimità dell’equatore raggiunge più precocemente la pubertà. La ragione per cui queste due componenti sono particolarmente rilevanti è di natura evolutiva, cioè che gli esseri umani si sono evolutivi in una condizione di scarsità di risorse, in cui concepire e mettere al mondo quanti più figli possibili era utile in senso adattivo e, siccome il numero di cicli mestruali è limitato, prima le donne attraversavano la pubertà, maggiore era la possibilità di riprodursi: una pubertà precoce si traduce dunque in più cicli mestruali e in una maggiore probabilità di procreare. Il patrimonio genetico umano non è consapevole dei cambiamenti socioculturali, per i quali oggi non ci sono più condizioni di carenza di risorse, e il cervello evolve più lentamente e risente ancora in modo rilevante di leptina e melatonina. Molti ragazzi di oggi sono obesi e passano molte ore davanti a schermi illuminati, per cui tendono a entrare precocemente in pubertà. Quanto detto è molto valido per le femmine, ma per i maschi? La risposta è che quantità di grassi e esposizione alla luce non sono gli unici fattori rilevanti, bisogna considerare infatti anche: gli interferenti endocrini (presenti in oggetti di plastica, pesticidi, carni, prodotti per la cura dei capelli, alla cui esposizione i giovani sono costantemente sottoposti), che inducono a maturare prima; il ruolo dell’insulina: i bambini sottopeso e prematuri tendono a entrare precocemente in pubertà perché gli alti livelli di insulina determinati da uno scarso peso favoriscono sia l’accumulo di grassi che la produzione di ormoni sessuali; situazioni di stress in famiglia, come il conflitto genitoriale, sembrano agire sull’aumento dei livelli degli ormoni dello stress (es. cortisolo) che stimolano un precoce sviluppo fisico. Nelle femmine, la maturazione fisica precoce sembra stimolata anche dalla presenza, in caso di divorzio, dei compagni delle madri che, in quanto figure maschili esterne alla famiglia, rilasciano feromoni a cui esse sono molto sensibili. La maturazione precoce ha delle ricadute molto rilevanti sul modo in cui chi matura precocemente è trattato e si comporta. Gli adolescenti che si sviluppano presto tendono a voler fare cose da grandi e a mettere in atto comportamenti tipici di chi è più grande di loro, come avere rapporti sessuali, marinare la scuola, assumere sostanze, bere e fumare, tali che il coinvolgimento in uno di questi sembra aumentare quello negli altri. Ciò ha una peculiare rilevanza per le femmine, che spesso si trovano a trascorrere molto tempo con ragazzi più grandi e a intrattenere relazioni con ragazzi più grandi, che spesso pretendono da loro prestazioni sessuali che non sono disposte a dare, data la loro sensibilità a livello emotivo. Tali situazioni predispongono anche a una maggiore fragilità, già assai viva in adolescenza. La pubertà precoce non è solo pericolosa in termini psicologici, ma anche fisici, aumentano il rischio di cancro alle ovaie e ai testicoli, di sindrome metabolica, di obesità. Tutti questi dati inducono a riflettere su come i genitori dovrebbero cercare di evitare che i ragazzi entrino presto nella fase puberale. D’altro canto, si assiste al protrarsi del periodo che conduce all’adultità: dato che può essere positivo o meno a seconda delle esperienze a cui gli individui sono esposti. La società posticipa l’ingresso in età adulta: si permane di più nell’ambito formativo, si dipende più a lungo dai genitori. Ad esempio, i venticinquenni che studiano sono il doppio rispetto alla generazione precedente. Le interpretazioni possono essere varie: • I giovani sono pigri e svogliati: i loro genitori li hanno coccolati e indotti a credere che abbiano talenti e potenzialità che è opportuno coltivare e che abbiano tutto il tempo del mondo per trovare la loro strada. • I giovani sono razionali: per raggiungere compensi redditizi, bisogna studiare di più e raggiungere sempre più qualifiche. Questa è una prospettiva estremamente realistica. • Bisogna concentrarsi sulle conseguenze e non sulle cause del fenomeno. • Bisogna prendere in considerazione le recenti scoperte sul cervello: la plasticità adolescenziale. Permanere nell’ambito formativo a lungo ha delle ricadute estremamente positive, che il lavoro o il matrimonio difficilmente possono offrire, inducendo a una certa stabilità, soprattutto a livello emotivo, abbastanza rapidamente. Inoltre, l’acquisizione dell’autoregolazione è un processo sempre più lungo e graduale e la capacità di autocontrollo aumenta e diminuisce a seconda delle circostanze. Alla luce di tutto questo, bisognerebbe riflettere su come si valuta l’adolescenza. Non è detto che un undicenne che si veste in un certo modo sia sessualmente precoce o che uno studente venticinquenne sia un indeciso. Bisogna assumere nuove prospettive e parametri di giudizio.
Capitolo 4: Come pensano gli adolescenti
L’adolescenza è caratterizzata da una maggiore propensione al rischio: gli adolescenti sono infatti più inclini a correre rischi sia degli adulti che dei bambini e il picco di incidenza dei rischi si riscontra poco prima dei 20 anni. Si tratta di una propensione indiscriminata verso tutti i possibili rischi, verso esperienze molto diverse fra loro, ma tutte accomunate dalla medesima volontà di rischiare. È opportuno evidenziare come non si riscontrino differenze a livello cognitivo tra adolescenti e adulti (i punteggi ai test standardizzati migliorano fino ai 16 anni per poi essere stabili per almeno trent’anni), come essi inoltre siano consapevoli dei rischi e non si credano più vulnerabili degli adulti. La risposta va dunque cercata nel cervello adolescente. In adolescenza, tutti i cambiamenti a livello cerebrale non hanno una natura accrescitiva (il cervello raggiunge le sue dimensioni massime intorno ai 10 anni), ma riorganizzativa. L’analogia con le amicizie degli adolescenti permette di restituire una fedele immagine di quanto avviene alle connessioni neuronali: all’inizio dell’adolescenza (passaggio scuola elementare-medie), i ragazzi si trovano a fare molte nuove amicizie, che progressivamente si riducono a favore della predilezione di un gruppo di persone importanti con le quali, nonostante un futuro allontanamento, la relazione resterà viva data la loro solidità. Ciò è quanto avviene nel cervello, che diviene organizzato in una rete neurale tanto consolidata da garantire un efficace comunicazione delle informazioni anche su lunghe distanze. Le regioni maggiormente interessate dallo sviluppo cerebrale in adolescenza sono il sistema limbico e la corteccia prefrontale: il primo si trova in profondità, nella zona centrale del cervello, sotto la corteccia e ha un ruolo molto importante nella produzione delle emozioni; la seconda, si trova esattamente dietro la fronte e governa i processi di autoregolazione. Il percorso attraverso cui le due aree imparano a lavorare in sinergia può essere scandito da tre fasi: • Fase uno (detta “dell’accensione dei motori”): gli adolescenti diventano molto emotivi, facilmente eccitabili e costantemente alla ricerca di esperienze emozionanti e intense (tendenza che gli studiosi chiamano sensation seeking). Siccome tale aspetto dipende dai cambiamenti ormonali, ciò si verifica nel periodo compreso tra inizio e fine della maturazione fisica. • Fase due (fino ai 16 anni circa.): gli adolescenti sviluppano un sistema frenante migliore, grazie alla maggiore organizzazione della corteccia prefrontale, tale da consentire un rafforzamento delle funzioni esecutive e una migliore capacità di prendere decisioni. Anche i genitori si rendono conto che i loro figli sono maggiormente responsabili, ragionano e dialogano di più. • Fase tre: sebbene nella fase precedente, gli adolescenti riuscissero a frenare, non era detto che sapessero sempre usare bene i freni. Vengono rafforzate le connessioni tra corteccia prefrontale e sistema limbico. Migliorano le funzioni complesse e ragionamenti e decisioni sono meno influenzati da stress o emozioni. Se i cambiamenti nella corteccia prefrontale erano iniziati molto prima per poi intensificarsi in adolescenza, i cambiamenti nel sistema limbico, che Steinberg definisce “sentinella” del cervello, si verificano proprio in adolescenza. Il sistema limbico è costituito da un insieme di aree adiacenti, con funzioni diverse, ma con un fine comune: cogliere nell’ambiente elementi rilevanti. Il sistema limbico consente di riconoscere le fonti di gratificazione e minaccia nell’ambiente ed è per questo alla base del cosiddetto “agire di istinto”. Il compito principale del sistema limbico è di generare un’emozione che provochi una reazione in risposta a quanto accade nell’ambiente: la decisione non è però mai presa in autonomia, ma sempre sulla base di un dialogo con la corteccia prefrontale, che Steinberg definisce “amministratore delegato” del cervello. Le azioni dipendono dunque da due fattori: la forza dell’emozione e la capacità di gestirla. La pubertà non solo rende il cervello più plastico, ma lo altera chimicamente, attraverso l’influenza che gli ormoni sessuali esercitano sui circuiti della dopamina, rendendo l’individuo più sensibile alle fonti di piacere e gratificazione. La dopamina ha la funzione di segnalare le esperienze di piacere e indurre a ricercarle: si genera, a fronte di un’esperienza che può generare benessere, una scarica di dopamina, che eccita, nel momento in cui si pregusta un piacere, e conduce al godimento, quando il piacere è stato ottenuto. I recettori della dopamina vivono un grande aumento durante l’adolescenza, soprattutto nei circuiti che trasportano le informazioni dal sistema limbico alla corteccia prefrontale, con una nota dolente però: data la natura molto simile delle molecole di sostanze come alcol e cocaina alla dopamina, esse possono innestarsi in tali recettori come farebbe la dopamina stessa. È questo il motivo per cui molti adolescenti sono attratti da queste sostanze che, se assunte in età adulta, causano una scarica di dopamina meno intensa e inducono più difficilmente alla dipendenza. Difatti, l’esperienza del piacere dipende soprattutto dallo sviluppo di una piccola struttura nel sistema limbico, chiamata nucleus accumbens, che cresce dall’infanzia all’adolescenza per poi rimpicciolire con l’età adulta. Questo non significa che crescendo non ci sia la ricerca del piacere, perché quest’ultima riguarda tutte le età: il punto è che gli adolescenti, che si tratti di gratificazioni concrete o di gratificazioni sociali, quali apprezzamento e approvazione, sono pronti a correre i rischi più disparati per il raggiungimento del piacere e più motivati dalle ricompense piuttosto che dalle perdite: per questo è più facile che gli adolescenti cambino comportamento se motivati da un premio piuttosto che dalla minaccia di una punizione. Il piacere dei piaceri è rappresentato dall’accoppiamento, che è per Steinberg il nodo cruciale dell’adolescenza. Al di là dei fattori di natura fisica, innescati dalla pubertà (maturazione degli organi sessuali, comparsa della pulsione sessuale), quest’ultima assolve un’altra funzione: la scarica di dopamina che si verifica dopo la pubertà fa sì che essi si sentano propensi a riprodursi proprio quando la fertilità è alta. Ad oggi questa funzione può sembrare obsoleta ed è assurdo pensare che gli adolescenti siano più sensibili alle gratificazioni per una ragione di natura unicamente riproduttiva, ma, in realtà, molti tratti persistono seppur non più adattivi. Va però specificato che gli studi sull’adolescenza hanno messo in luce come gli ormoni sessuali rendono sensibili a qualsiasi tipo di gratificazione e non solo a quella sessuale. La corteccia prefrontale è costituita da connessioni che proliferano notevolmente dalla nascita fino ai 10 anni, per poi “vivere” una graduale potatura fino ai 25 anni, con una parallela mielinizzazione delle connessioni sopravvissute. Prima dell’adolescenza, i bambini hanno scarsa capacità di pianificazione: ciò cambia quando si entra in adolescenza. Chiaramente, il cervello non cambia in un solo momento, ed è questo il motivo per cui l’autoregolazione a volte c’è e a volta non c’è. Si è osservato come, prima dell’età adulta, la capacità di autocontrollo è fortemente vincolata dalla situazione che si sta vivendo: in situazioni ideali, ove non ci sono fattori di disturbo, gli adolescenti si comporterebbero come gli adulti, differente è la situazione se essi sono sottoposti a condizioni stressanti o emotivamente significative. A determinare il consolidamento delle capacità di autoregolazione è quanto avviene dalla seconda metà dell’adolescenza: la corteccia prefrontale in età adulta non è solo migliore, ma si è organizzata attraverso connessioni stabili tra aree non adiacenti tra loro, tali che la corteccia può ricorrere a risorse supplementari quando non è in grado di affrontare da sola un determinato compito. Gli adulti mostrano una maggiore attivazione cerebrale di zone diverse rispetto agli adolescenti, che non appare disorganizzata come nei bambini, ma estremamente consolidata: il cervello infantile ha infatti molte connessioni tra zone vicine tra loro, a differenza del cervello adulto. Interesse degli studiosi è stato capire quali fossero le ragioni alla base della maggiore propensione al rischio degli adolescenti: due sono state le principali osservazioni. • In adolescenza, la sensibilità alle ricompense derivanti da scelte rischiose è maggiore, con picco intorno ai sedici anni. Ciò si osserva anche nei mammiferi, come topi e ratti (il picco è in pubertà). • I bambini decidono più impulsivamente degli adolescenti e gli adolescenti decidono più impulsivamente degli adulti. La combinazione di questi due elementi, cioè la brama di sensazioni forti e lo scarso autocontrollo rende l’adolescenza un periodo di grande vulnerabilità. Gli studi confermano la natura universale di tali fattori, seppur con differenze culturali per la sensibilità alle gratificazioni: ad esempio, in Italia si rilevano incrementi nel consumo di sostanze alcoliche assenti in Giordania, dove però il consumo di alcolici è di per sé fortemente disincentivato. Le differenze non starebbero dunque tanto negli adolescenti, quanto nei contesti in cui essi vivono. Il dato che è più rilevante in questo ambito riguarda il fatto che il circuito della ricompensa dipende fortemente dalla pubertà e della maturazione sessuale, quindi, con la diminuzione dell’età puberale, a cui si assiste ormai da tempo, si riduce anche l’età in cui la maggiore sensibilità al piacere compare, ma il circuito della regolazione no. C’è ragione di credere che l’età in cui compaiono raffinate capacità di autocontrollo non si sia ridotto e i processi che la riguardano non divenuti più rapidi. Ci si trova di fronte alla situazione in cui si è allungato il periodo in cui i giovani sono esposti alle possibili conseguenze date dall’assenza di corrispondenza tra potenza dell’acceleratore ed efficienza dei freni.
Capitolo 5: Proteggere gli adolescenti da sé stessi.
I dati dell’FBI evidenziano come la maggior parte dei crimini siano compiuti da adolescenti, in particolare nell’età compresa tra i 10 e i 18 anni, con una graduale diminuzione tra i 25 e i 30, e una quasi assenza dopo i 30. La curva del rapporto tra età e crimine (crime-age curve) è confermata anche in Regno Unito e, nonostante non siano chiare le cause (si è parlato di marginalizzazione, conflitto generazionale, povertà), nessuno contesta la veridicità di queste informazioni. Sembra che non si tratti solo di crimini: tutte le forme di comportamento imprudente e avventato seguono lo stesso andamento. Basti pensare agli annegamenti accidentali, che dovrebbero verificarsi in età avanzate, perché ipoteticamente dovuti a indebolimento fisico, ma che invece avvengono soprattutto tra gli adolescenti che sono più inclini a nuotare in situazioni di pericolo. Tra questi comportamenti, come non citare la guida spericolata: i giovani riferiscono di amare la guida ad alta velocità. Questi dati sono in controtendenza con l’estremo stato di salute fisica che caratterizza gli adolescenti: nonostante ciò, si registra infatti un aumento dei tassi di mortalità e morbilità, tra infanzia e adolescenza, tra il 200 e il 300 percento. L’elevata propensione al rischio determina alti costi per la sanità pubblica. Nel corso degli anni sono state formulate diverse ipotesi (illusorio senso di invulnerabilità, irrazionalità, carenze cognitive), che hanno indotto a impostare interventi di educazione alla salute, volti a incrementare le informazioni rispetto a determinati temi. Si tratta però di azioni che partono da presupposti poco corretti. Al di là della già riscontrata scarsa maturità delle funzioni governate dalla corteccia prefrontale e dello scarso controllo degli impulsi, un fattore chiave sta nell’ipersensibilità alle gratificazioni. È in virtù di essa che gli adolescenti sono più concentrati sui benefici che sui rischi di attività potenzialmente pericolose. Gli studi confermano che le significative differenze tra giovani e adulti si riscontrano proprio nella valutazione del rapporto costi benefici: si è osservato come, posti di fronte alla scelta di giudicare come buona o cattiva idea mettere in atto determinati comportamenti giusti e sbagliati, tutti riportassero le risposte corrette (i comportamenti giusti andavano bene e quelli sbagliati no), ma gli adolescenti impiegavano di più per esprimere giudizi su attività folli (es. nuotare con gli squali). Un fattore che è opportuno prendere in considerazione è quello dell’influenza dei pari. È noto come la presenza di coetanei in auto aumenti di circa quattro volte la probabilità di incidenti, a differenza di quando c’è un adulto, con cui le probabilità restano invariate. Molti pensano che la ragione sia da cercare nella pressione dei pari, basata sull’idea che i pari si incoraggino tra di loro per mettere in atto determinate azioni o ostracizzino coloro che non vogliano metterle in atto. Gli studi di Steinberg evidenziano come in realtà il solo sapere che ci sono pari vicini, induce gli adolescenti a mettere in atto comportamenti più temerari. Questo fenomeno viene definito peer effect (effetto dei coetanei) ed è stato scoperto per la prima volta in uno studio sulla guida spericolata. Adolescenti e adulti, accompagnati da due amici, venivano posti a un’usuale condizione di vita quotidiana da un simulatore di guida in laboratorio: passare o fermarsi al giallo del semaforo. Per tutti era previsto un compenso, ma esso sarebbe stato maggiore tanto più il tempo per fare il percorso previsto fosse stato minore. I soggetti venivano anche avvisati del rischio che, passati all’incrocio, potesse arrivare improvvisamente un’altra auto e dunque incorrere in un incidente che avrebbe fatto loro perdere tempo. Mentre gli adulti correvano gli stessi rischi se giocavano da soli o guardati dagli amici, gli adolescenti correvano più rischi se guardati dagli amici. Questi sono dati confermati nel mondo reale, dove gli adolescenti corrono più rischi se in compagnia degli altri, ma solo se teenager come loro. La pubertà modifica anche alcune aree cerebrali che governano le reazioni nei confronti degli altri: tali aree costituiscono il cosiddetto cervello sociale e si attivano quando, ad esempio, si osservano immagini di volti che esprimono emozioni, quando si chiede di pensare ad amici o a valutare se è qualcuno è stato ferito emotivamente. Durante l’adolescenza il cervello sociale è ancora in una fase di sviluppo e avvengono contemporaneamente, in una tempesta neurobiologica, vari cambiamenti: si accentua la sensazione di imbarazzo in virtù della maggiore consapevolezza di sé, vengono potenziate le aree sensibili all’approvazione, ai segnali emotivi altrui (es. espressioni del viso), le aree responsabili della comprensione degli altri. Si potrebbe dire che, parallelamente a un’ipersensibilità a ricompense e gratificazioni, si assista a un’ipersensibilità alle opinioni altrui, che può portare conseguenze negative, in virtù della sottostima di altre possibili informazioni relative a situazioni di fronte alle quali ci si può trovare. Steinberg parla di una “follia della folla” a fronte di una “saggezza della folla” che si rileva in ambito lavorativo quando un compito è portato a termine meglio in gruppo se ognuno ha l’opportunità di dare il proprio contributo: se però c’è un’eccessiva attenzione alle opinioni altrui o conformismo, il rischio è cadere nel fallimento. In adolescenza, il circuito della ricompensa e della regolazione si trovano in una dialettica in cui, se a un certo punto dell’infanzia, verso la terza elementare, l’autocontrollo riusciva a tenere a bada il circuito della ricompensa, adesso ciò non è più possibile: l’autocontrollo non è più in grado di controbilanciare il peso del circuito della ricompensa. Ci vuole tempo prima che l’autocontrollo si rafforzi, comunque con una non poca rilevanza di fattori contestuali che possano alterare l’equilibrio che viene ripristinato. Ciò che è importante in adolescenza e sembra anche dare una spiegazione rispetto al peer effect è che una particolare fonte di piacere induce il circuito della ricompensa a cercarne altre. È questo un meccanismo noto (in un negozio si cerca di mettere di buon umore, per esempio attraverso la musica, per indurre a comprare i prodotti), che nell’adolescenza trova piena concretizzazione. La sola presenza degli altri, data dall’ipersensibilità alle gratificazioni di natura sociale, rappresenta una fonte di piacere che incoraggia a qualsiasi altro tipo di gratificazione, che è perseguita a prescindere dai rischi ad essa correlati. Sembra che ad avere una preminenza siano soprattutto le gratificazioni immediate. Siccome l’aumento della sensibilità alle relazioni sociali è innescato dalla pubertà, sono stati condotti vari studi anche su altri animali: uno studio sui topi ha evidenziato come i roditori adulti bevessero uguali quantità di alcol in compagnia o meno degli altri, mentre i roditori adolescente tendessero a bere di più in compagnia. La conclusione è quindi che la presenza dei pari agisce in maniera diversa se si è adolescenti o adulti. Gli interventi fino ad oggi implementati sono stati fallimentari perché si sono sempre concentrati sulla modificazione dei pensieri degli adolescenti ma mai sulle loro azioni. Sono stati ottenuti risultati moderatamente positivi soltanto nell’area della riduzione del consumo di sigarette, ma non è detto che questo poi sia realmente legato all’efficienza delle campagne o ad altri fattori contestuali, come ad esempio l’aumento dei prezzi delle sigarette. Diviene una responsabilità dei genitori e della società quella di cercare di difendere i propri figli da se stessi, soprattutto alla luce dell’effetto che i pari possono avere su di loro, quindi cercando di mantenere viva la sorveglianza anche quando si trovano in gruppo, scoraggiando il consumo di sigarette aumentandone il prezzo, applicando con rigidità regole sull’età adatta per consumare alcolici, avviare attività di doposcuola in cui i ragazzi siano controllati, perché, quando sono soli con i coetanei, i rischi di mettere in atto determinati comportamenti crescono vertiginosamente. Fino ad ora si è cercato di modificare i giovani, quando le modifiche vanno apportate ai contesti, rendendoli a misura di adolescenti, tenendo presente che geneticamente sono predisposti al rischio e questo dato è di per sé quasi ineliminabile. Bisogna lavorare sull’autoregolazione invece che limitarsi all’informazione, secondo Steinberg. Molte cose hanno bisogno di tempo per verificarsi e tra queste ci sono proprio le capacità di discernimento e autocontrollo.
Capitolo 6: L’importanza dell’autoregolazione
Uno degli esperimenti più noti nella storia della psicologia è noto come marshmallow test o “test della caramella”: un bambino in età prescolare viene fatto sedere davanti a un tavolo su cui è posto un piatto con dentro una caramella, oppure un salatino o un biscottino. Lo sperimentatore comunica che si assenterà per un po’ (può rientrare anche dopo 15 minuti), dicendo al bambino che, qualora avesse voluto mangiare la caramella, avrebbe potuto, ma anche che, se avesse resistito fino al suo ritorno, ne avrebbe avute due. A questo punto, l’osservatore si sposta in una stanza contigua, ove osserva il bambino attraverso uno specchio unidirezionale. Scopo dello studio è valutare la gratificazione differita, aspetto molto importante dell’autocontrollo. Ciò che si è osservato è che alcuni bambini si arrendono immediatamente, un terzo circa riesce a resistere, ma la maggioranza cerca di resistere per poi cedere. Grazie a questo esperimento, è possibile distinguere i bambini in delayers e nondelayers. Cioè differitori (in grado di aspettare un quarto d’ora) e non differitori. Il primo studio di questo tipo fu condotto circa cinquant’anni fa e studi di follow-up hanno seguito negli anni successivi i due gruppi ed evidenziato come i risultati conseguiti dai differitori nei test sull’autocontrollo fossero costantemente migliori. I bambini che erano stati classificati come delayers, da adolescenti, riuscivano ad avere più alti punteggi nei test attitudinali e dimostravano migliori capacità di coping. Da giovani, completavano cicli scolastici più lunghi, gestivano meglio lo stress e avevano maggiore autostima. I nondelayers erano più inclini a presentare disturbi comportamentali di varia natura. Qualche anno fa, un gruppo di studiosi è riuscito a rintracciare alcuni dei partecipanti allo studio originario, ormai quarantenni, e li ha sottoposti a scansioni cerebrali mentre compivano test sull’autocontrollo. Nei soggetti che a quattro anni erano riusciti a differire la gratificazione si rilevava un funzionamento delle zone deputate all’autoregolazione più efficiente, a differenza degli altri. Per adolescenti e adulti, è stato utilizzato un test più adatto a queste fasce di età rispetto al test della caramella, detto test “adesso o dopo”. Steinberg con il suo gruppo di ricerca propone ai partecipanti una somma di denaro inferiore, ma subito disponibile, e una somma di denaro superiore, ma ottenibile a distanza di un anno. Se il partecipante sceglie la somma più alta, allora viene rilanciato un importo più alto per la somma immediata, in modo che la nuova somma si collochi in una posizione intermedia rispetto alle due originarie, così aumentando la desiderabilità della ricompensa immediata. Qualora la nuova somma sia accettata, allora si riabbassa il valore della consegna immediata, ponendolo tra quella rifiutata e quella appena accettata. Vengono così aggiustate le due offerte fino a raggiungere il cosiddetto punto di indifferenza, cioè il punto in cui le due offerte sono ritenute equivalenti dai partecipanti. Tutti hanno un punto di indifferenza, che è basato su una predilezione piuttosto che su una capacità (come invece nel test della caramella che coinvolge le capacità di autocontrollo), e il test valuta la disponibilità ad accettare una minore gratificazione pur di conquistarla prima. In questo test le somme sono ipotetiche, ma vari studi hanno evidenziato come, nella realtà, le persone in cui il punto di indifferenza è più basso, tendono a preferire gratificazioni immediate. È possibile fare due considerazioni sulla base di tali studi, che sono basati sul delay discounting, ovvero la svalutazione in relazione al tempo: • Il punto di indifferenza in genere aumenta tra l’infanzia e l’adolescenza, per cui i bambini sono più attratti da gratificazioni immediate degli adolescenti e questi ultimi lo sono più degli adulti. Nello specifico, nella prima parte dell’adolescenza, si assiste a una riduzione della tendenza a preferire ricompense immediate, a vantaggio di premi maggiori, seppur ottenuti più in là. • I soggetti che prediligono le ricompense immediate nel test “adesso o dopo” incontrano più ostacoli nella vita (maggiori rischi rispetto al gioco d’azzardo patologico, obesità, abuso di sostanze, comportamenti criminali). Nella vita reale, quanto osservato nei test, è confermato. Per avere successo nella vita è necessario sforzarsi di fare tante cose che nel presente si eviterebbero, ma che possono portare grandi vantaggi in futuro. Negli Stati Uniti la scuola è basata sul divertimento, differentemente da paesi stranieri in cui gli adolescenti riferiscono di amare molto meno la scuola rispetto a quanto facciano gli americani. La scuola spesso mette a dura prova la capacità di posticipare le gratificazioni, ma chi non è in grado di farlo, in un mondo in cui sono richiesti livelli di istruzione sempre più elevati, non se la cava facilmente. Ciò diviene tanto più vero con il prolungarsi dell’adolescenza, in cui si assiste a una comparsa precoce della pubertà e ad un allungamento del periodo per raggiungere la condizione adulta per guadagnare autonomamente: solo chi è dotato di un forte autocontrollo riesce con successo. Per molto tempo, si è sempre studiato il rendimento scolastico in relazione ai livelli di intelligenza degli individui: gli studenti migliori dovevano essere necessariamente più intelligenti. Le prove scientifiche hanno messo in forte discussione questa asserzione, mettendo in luce come l’intelligenza fosse responsabile solo del 25% del rendimento scolastico e questo è stato verificato sia negli studi effettuati durante l’infanzia che durante il percorso universitario. Intelligenza e talento non bastano, hanno uno scarso valore predittivo, per cui bisogna prendere in considerazione altri fattori: determinazione, tenacia, grinta. Con il termine “determinazione” non si intende solo la mera volontà o capacità di lavorare sodo, ma una vera e propria dedizione tale da permettere di mantenere la concentrazione e di perseverare anche in situazioni di difficoltà: chi è determinato è anche coscienzioso e responsabile. Essere determinati significa saper differire la gratificazione, lavorare per un obiettivo che arriverà in futuro o forse non arriverà affatto. Non c’è alcuna correlazione tra determinazione e intelligenza, abilità o talento: la determinazione in sé non sempre garantisce il successo, ma va detto che l’intelligenza o il talento, senza determinazione, non possono condurvi. La determinazione rientra all’interno di quelle che vengono chiamate abilità non cognitive, oggi ritenute fondamentali nel determinare il rendimento scolastico nei bambini tanto da indurre a una rivoluzione scolastica. Steinberg non condivide tale terminologia, motivando che la differenza non è tanto tra pensare e non pensare, cognizione e non cognizione, ma tra fattori intellettivi e motivazionali: “intelligenza” deriva dal latino “intelligere” (comprendere), mentre “motivazionale” deriva da “movere” (muovere”). L’obiettivo oggi non è facilitare la comprensione dei ragazzi, ma mettere a frutto ciò che comprendono. Steinberg non condivide neanche l’idea che siano abilità, per cui si tratta di capacità che vengono coltivate, non di abilità che sono acquisite. Resta che, nell’istruzione accademica convenzionale, tali capacità non siano sufficientemente coltivate, a differenza dei paesi asiatici, ad esempio, in cui il rendimento scolastico è più ampio dal momento che si studia perché “gli sforzi costanti verranno ripagati”. Il fatto che impegnarsi di più determini il successo acquisisce sempre più importanza per l’affermazione personale, ancor più dell’intelligenza: i datori di lavoro apprezzano tale caratteristica più di ogni altra, per questo si sente dire che diecimila ore di pratica sono alla base del successo di una persona, dal momento che chi è disposto a impegnarsi così a lungo è già un uomo di successo. La determinazione è frutto di vari fattori: motivazione, forza di volontà, tenacia, orientamento verso il futuro, ma soprattutto autoregolazione. Essere in grado di controllare pensieri, sentimenti e comportamenti è alla base del successo in ogni ambito (rendimento scolastico, vita personali, relazioni interpersonali) e gli studi lo dimostrano: chi ha maggiore autoregolazione ha minor rischio di essere coinvolto in risse, litigi e crolli emotivi, a sviluppare dipendenze, a mangiare eccessivamente. L’adolescenza diviene una fase cardine per lo sviluppo dell’autoregolazione, perché è in questo momento che ci si aspetta maggiore autonomia e indipendenza da parte dei ragazzi di quanto non se ne sia pretesa in infanzia. L’intelligenza è fortemente ancorata ai geni: dai 6 anni in poi è tendenzialmente stabile. Questo non significa che non si possa diventare più intelligenti, ma che se si è molto intelligenti a quell’età, lo si sarà con molta probabilità anche da grandi. Sicuramente non è determinata dall’influenza genetica al pari dei tratti fisici, ma è quella che più ne risente tra i tratti psicologici. Siccome, come si è evidenziato nel test della caramella, è possibile misurare l’autoregolazione molto precocemente nello sviluppo, si è pensato che anche quest’ultima fosse in larga parte determinata dai geni, ma ciò non corrisponde al vero: i geni influiscono sull’autoregolazione almeno la metà di quanto non influiscano sull’intelligenza. Questo è il motivo per cui è difficile che si possa intervenire attraverso ambienti stimolanti sull’intelligenza di ragazzi poco brillanti a livello intellettivo, mentre è più probabile che, in contesti in cui è promossa l’autoregolazione, ragazzi impulsivi possano imparare a controllarsi. Il fattore ambientale che influisce di più sull’autoregolazione è, senza dubbio, la famiglia.
Capitolo 7: Che cosa possono fare i genitori
I neonati possiedono limitate capacità di autoregolazione: è per questo che i genitori li cullano per far sì che si rilassino prima di dormire, li tranquillizzano quando sono inquieti, in un processo che deve condurli da una regolazione esterna, fornita dai genitori, a una capacità di autoregolazione. Affinché ciò avvenga è però necessario che i bambini progressivamente acquisiscano una certa sicurezza emotiva e in sé stessi e competenze tali da consentirgli di sapere come agire quando sono soli: i figli devono cioè essere calmi, sicuri e competenti e, a tal fine, ovvero per consentire che diventino autoregolati, gli studiosi concordano che i genitori debbano mantenere tre atteggiamenti precisi, ovvero essere affettuosi, risoluti e incoraggianti. Essere affettuosi: i figli hanno bisogno di affetto e di sentirsi amati: questa è una condizione base affinché possano percepire i contesti in cui si muovono come sicuri, senza temere che compaia una minaccia ad ogni angolo. I genitori freddi alimentano infatti profonde insicurezze. Non sembra che sia determinante la quantità di affetto, quanto la sensazione di essere amati, apprezzati. Steinberg fornisce alcune indicazioni dirette ai genitori: • Un figlio non si ama mai troppo: molti genitori temono che coccolare troppo i propri figli possa renderli viziati, ma ciò è sbagliato. Donare affetto è necessario affinché i figli siano sempre meno dipendenti a livello emotivo. • L’affetto va manifestato fisicamente, senza alcuna ostentazione, ma attraverso piccoli gesti che diventino parte della quotidianità: il bacio prima di uscire, una pacca sulla spalla, un abbraccio il pomeriggio. I figli hanno bisogno di percepire affetto, anche durante l’adolescenza, da più grandi. • I bisogni emotivi dei figli vanno soddisfatti, nel senso che i genitori devono adoperarsi per cercare non solo di rassicurarli e consolarli, ma di reagire adeguatamente alle loro espressioni emotive. • I figli devono percepire la casa come un luogo sicuro, nel quale possano allontanarsi dalle preoccupazioni quotidiane. È dunque una responsabilità genitoriale garantire tale visione della casa. • Non c’è fattore più predittivo per una buona salute fisica e un ottimo rendimento scolastico di sentire i propri genitori coinvolti nella propria vita. Partecipare alla vita dei figli richiede indubbiamente impegno, ma si tratta di un investimento a lungo termine per il loro benessere. Essere risoluti: la risolutezza ha a che fare con la capacità dei genitori di definire regole in modo chiaro, coerente e flessibile. Si tratta di una caratteristica fondamentale, che molti genitori tendono ad evitare, temendo di opprimere i propri figli, ma in realtà l’essere risoluti genera l’idea che ci siano delle aspettative genitoriali, la cui violazione comporta delle conseguenze. Se non ci fossero regole, i figli penserebbero di poter agire come vogliono, non avendo capacità di autoregolazione mature per gestirsi in modo totalmente autonomo. La flessibilità è centrale, perché i bambini imparano ad autocontrollarsi imponendosi di rispettare le regole stabilite dai genitori: è necessario che, parallelamente alla crescita delle capacità dei figli di imporsi norme da soli, i vincoli dei genitori divengano meno stringenti. Steinberg fornisce indicazioni ai genitori su come essere risoluti: • Aspettative e regole genitoriali devono essere chiare. Steinberg porta l’esempio di dire a un figlio di pulire la stanza. Bisogna specificare cosa significhi, in che misura vada pulita la stanza, se basta riordinare la scrivania o bisogna anche riporre i vestiti nell’armadio. Soprattutto, le volontà dei genitori devono essere chiare ai genitori stessi, altrimenti come potrebbero esserlo per i figli? • Le regole dei genitori devono essere motivate, cioè i figli devono capirne la natura. Molto utile può essere coinvolgere i figli nei processi decisionali in merito ad esse, ascoltare il loro parere li farà sentire considerati. • L’unico fattore che può incidere negativamente da solo sull’autocontrollo è un atteggiamento incostante da parte dei genitori. La costanza è necessaria: è consigliabile stabilire orari precisi in cui si svolgono determinate azioni quotidiane (ad es. cenare) e, man mano che il figlio cresce e le situazioni cambiano, anche modificare tali norme, all’insegna del fatto che la regola non è mera applicazione dell’autorità, ma ha un significato. Difatti, costanza non significa rigidità, costanza è anche flessibilità. • Punizioni troppo severe, ad esempio quelle fisiche, possono essere vissute come crudeltà senza un reale scopo, le quali rischiano di indurre a disturbi comportamentali nei figli. Secondo Steinberg, una punizione efficace dovrebbe rispettare una sequenza di cinque punti: 1) individuare azione sbagliata; 2) descrivere le conseguenze della cattiva condotta; 3) indicare una o più soluzioni alternative; 4) stabilire la natura della punizione; 5) spiegare che ci si aspetta una condotta migliore in futuro.
Essere incoraggianti: incoraggiare significa sostenere lo sviluppo dell’autonomia dei figli. I
genitori realmente incoraggianti fanno spesso ricorso allo scaffolding, ovvero forniscono sostegno ai propri figli, aumentando leggermente le loro responsabilità il tanto che basta per farne apprezzare i benefici, nel caso in cui l’esito sia positivo, e non fargli avere una percezione di estremo fallimento, in caso di esito negativo: un esempio può essere quello di aumentare gradualmente per i neopatentati le occasioni in cui possono guidare. Lo scaffolding permette di lavorare sullo scarto tra come le cose sono e come potrebbero essere, cioè tra cosa i ragazzi sono in grado di fare e cosa potrebbero fare nel futuro immediato. Anche qui, Steinberg fornisce delle indicazioni ai genitori: • I figli vanno messi nelle condizioni di riuscire, cioè stimolati a raggiungere aspettative in cui siano richiesti livelli di maturità leggermente più elevati di quelli a cui tendenzialmente ricorrono, ma che siano alla loro portata. • I figli vanno apprezzati quando raggiungono nuovi traguardi: non tanto per i risultati raggiunti, ma per la correlazione che c’è tra il risultato raggiunto e lo sforzo e l’impegno profusi. • Ai figli va data libertà di decidere e sperimentare in autonomia, affinché possano sviluppare un senso di padronanza. Vanno cioè bilanciati coinvolgimento e indipendenza. I ragazzi devono avere la possibilità di vivere, compiere scelte, spesso sbagliando, e i genitori devono permettere anche questo, abbassando la guardia, quando la tendenza sarebbe quella di proteggerli a tutti i costi. I genitori devono cercare di essere sia risoluti sia affettuosi sia incoraggianti, poiché l’impatto di ognuno di questi tre atteggiamenti è amplificato se in combinazione con gli altri. Una rilevante correlazione è quella tra fermezza e affettuosità: perché la disciplina sia efficace, è necessario che i figli percepiscano amore e affetto, altrimenti si aprono le porte a disobbedienza, ribellione e impotenza. Si potrebbe pensare che esistano infiniti modelli genitoriali a seconda della misura in cui i tre atteggiamenti sono combinati. Gli studiosi concordano del riconoscere tre stili genitoriali: Genitori autoritari: freddi e saldi nelle loro convinzioni, impongono ai figli l’autorità, preferendo alla flessibilità e ai compromessi la costanza delle regole. Si tratta di un approccio molto criticato in ambito psicologico, dato che le ripercussioni sono importanti sul piano della salute psicofisica: difficilmente metteranno in atto comportamenti sconsiderati, ma la loro autostima può essere bassa e loro meno equilibrati. Alla base di tale stile genitoriale, corrisponde l’idea che il dovere dei genitori sia quello di controllare gli impulsi dei figli: ciò è possibile tramite l’obbedienza. Genitori permissivi: i genitori permissivi sono estremamente affettuosi nei confronti dei figli, ma anche molto indulgenti. Ritengono che i loro figli siano naturalmente buoni e dotati di creatività e interessi che si rischia di sopprimere, costringendoli a rispettare le regole. Dunque, si adotta uno stile laissez-faire, a cui ai figli è concesso tutto: non è raro che i ragazzi educati sulla base di questo stile genitoriale, incorrano più facilmente in comportamenti problematici (es. consumo di alcolici e sostanze) e, soprattutto, che siano più sensibili all’influenza dei pari che dei genitori stessi. Alla base di tale stile genitoriale, corrisponde l’idea che il dovere dei genitori sia quello di rendere i figli felici. Genitori autorevoli: i genitori autorevoli stabiliscono regole e limiti, che nascono però in un contesto di affetto, in cui i figli si sentono sicuri e percepiscono le regole come una garanzia, piuttosto che come un vincolo alla libertà personale. Tale stile genitoriale è l’unico che favorisce realmente le capacità di autoregolazione dei figli: i ragazzi cresciuti in questo modo sono più equilibrati e più determinati, meno ansiosi e meno depressi, meno sensibili ai pari e a comportamenti rischiosi. I genitori autorevoli tendono a rifarsi allo scaffolding, con lo scopo di stimolare l’autonomia dei figli, che rappresenta altresì il loro dovere principale. Va detto che tale stile non riguarda solo i genitori, ma anche insegnanti e altre figure adulte.
Capitolo 8: Una nuova idea di scuole superiori
Nelle valutazioni internazionali, gli alunni americani delle elementari e delle medie ottengono punteggi superiori alla media, dato che non viene confermato per gli studenti delle scuole superiori, i cui punteggi si assestano ben sotto la media. La ragione non sembra essere legata né a errori di misurazione, né al fatto che gli insegnanti devono affrontare classi con dislivelli nelle competenze. Una possibile ragione si ritrova in uno studio che ha voluto indagare due dimensioni del coinvolgimento studentesco: partecipazione (intesa come frequenza a scuola, rispetto degli orari, misura dunque del coinvolgimento accademico) e appartenenza (quanto gli studenti si sentissero parte del corpo studentesco, misura del coinvolgimento sociale). Confrontati con studenti di quattro rivali economici degli Stati Uniti, gli studenti americani riportavano punteggi più bassi nella prima dimensione ed erano i primi per la seconda. Ciò testimonia che lo scopo primario della scuola in America è socializzare: le attività previste dalla scuola sono secondarie ed estremamente noiose. Si potrebbe pensare che questa sia una conferma del fatto che gli adolescenti trovino tutto noioso, ma a quanto pare le scuole americane sono più noiose delle altre. Nonostante gli innumerevoli investimenti economici nella scuola, se nelle scuole elementari e medie si sono riscontrati grandi miglioramenti nel rendimento scolastico, soprattutto per quanto riguarda la lettura e la matematica, nelle scuole superiori i punteggi sono rimasti invariati. Non si tratta né di scarse risorse per il personale, di inadeguata retribuzione dei docenti, né di una popolazione maggiormente varia dal punto di vista etnico: non è ciò che spiega le differenze tra le scuole superiori americane e gli istituti relativi a gradi di scolarizzazione precedenti e le equivalenti straniere. Il problema fondamentale non sembra essere nella scuola, ma fuori: se i genitori non sono in grado di crescere i figli, mantenendo alto l’interesse degli adolescenti verso le attività della scuola, essa diviene priva di significato così come gli insegnanti non si capisce chi siano. C’è una profonda differenza a livello transculturale nella cultura del rendimento: i genitori asiatici esigono molto più autocontrollo dai propri figli ad un’età molto precoce, cosicché hanno un’autoregolazione più solida da adulti. La differenza con le elementari e le medie sta nel fatto che lì è richiesta minore padronanza delle abilità non cognitive, la cui importanza aumenta proporzionalmente all’età. Negli Stati Uniti il rendimento scolastico non è incoraggiato, bensì deriso, in un periodo in cui l’influenza dei pari è centrale e le distrazioni sono tante. Si sta sviluppando sempre più nelle scuole l’idea che non si debba investire solo sulle competenze accademiche, ma su un funzionamento psicologico sano, incoraggiando competenze generali e non settoriali e specifiche, come la capacità di riflettere sule situazioni, di pensare in modo flessibile e creativo, di realizzare piani strategici e, soprattutto, di autoregolarsi: si tratta delle competenze più ricercate dai datori di lavoro. Si tratta non solo di lavorare nella direzione del miglioramento della scuola, ma anche di quei punti di forza interiore che possono proteggere da problemi psicologici, come la depressione, riuscendo ad affrontare le situazioni impreviste con maggiore prontezza. Si è evidenziato come gli stili genitoriali abbiano in ciò un ruolo fondamentale, ma essi variano a seconda dell’estrazione socioeconomica. Genitori che appartengono alla classe operaia privilegeranno uno stile educativo di natura autoritaria, enfatizzando quei tratti che sono stati a loro utili nelle mansioni rivestite da adulti, ovvero l’obbedienza al capo. Diversamente, nei ceti medi e nelle libere professioni, è più probabile che si adotti uno stile autorevole, in cui il dialogo con i figli sembra quasi una riunione di lavoro in cui si confrontano punti di vista. Le conseguenze psicologiche di uno stile autorevole coincidono proprio con le competenze richieste nel mondo del lavoro, specialmente per aver successo nelle istituzioni di alta formazione. Negli ultimi anni è nata una sensibilità verso l’incorporazione dello sviluppo caratteriale nei programmi scolastici: uno dei programmi che si è prefissato questo scopo è stato il Knowledge is Power Program (KIPP). Si tratta di un programma rivolto a bambini e adolescenti provenienti da famiglie a basso reddito, con l’obiettivo di aumentare le iscrizioni all’università, unendo all’attenzione per i fattori legati alla riuscita scolastica, come ad esempio il tempo dedicato all’istruzione, una focalizzazione sullo sviluppo di alcuni fattori caratteriali (entusiasmo, grinta, autocontrollo, ottimismo, curiosità, gratitudine e intelligenza sociale). Avviene un monitoraggio attraverso una “scheda di crescita caratteriale” e tali aspetti sono incentivati mediante discussioni in classe e insegnanti che si impegnano a dare il buon esempio agli allievi. Il KIPP ha condotto a risultati sorprendenti: gli studenti risultavano avvantaggiati nell’affrontare le scuole superiori e nell’iscrizione all’università. Tuttavia, il programma era applicato in charter schools, istituzioni con percorsi rigorosi a cui i genitori decidono di iscrivere i figli, in famiglie che pongono più attenzione al rendimento scolastico e vogliono essere più coinvolte nell’istruzione dei figli (due fattori che predicono di per sé la riuscita scolastica) rispetto ad altre famiglie che iscrivono i figli ad altre scuole. Dunque, le differenze potrebbero stare nella semplice diversità tra le famiglie. Il KIPP, inoltre, sembra aumentare solo i livelli di rendimento scolastico e non influire sullo sviluppo caratteriale. Non bastano dunque incoraggiamenti e motivazioni dagli insegnanti per intervenire sull’autoregolazione. Sono nati diversi approcci che hanno mostrato una certa efficacia nella stimolazione dell’autoregolazione: va chiarito che si tratta di approcci che non possono dirsi inequivocabilmente validi, di scoperta recente, che funzionano con soggetti e non necessariamente con altri, che hanno portato risultati incoraggianti, ma non del tutto soddisfacenti. Va, ad esempio, ancora spiegata la natura di alcune attività, in termini di numero di sessioni, durata delle sessioni di allenamento. Gli effetti sembrano essere abbastanza modesti, ma una combinazione tra loro potrebbe effettivamente aumentare l’autoregolazione. Inoltre, alcuni tipi di allenamento provocano cambiamenti a livello cerebrale, soprattutto nelle aree del funzionamento esecutivo, per cui, data la plasticità delle zone deputate all’autoregolazione, è probabile che si riscontrino effetti notevoli anche in queste. Molti approcci non sono stati testati su adolescenti, ma su adulti e bambini, per cui non è detto se siano generalizzabili o meno, però, sempre in virtù della plasticità delle regioni che governano l’autoregolazione, si può ben sperare. Si identificano cinque categorie di tentativi promettenti per sviluppare l’autoregolazione: Allenamento delle funzioni esecutive: gli approcci mirati a promuovere il funzionamento esecutivo più studiati e promettenti sono quelli improntati all’esercitazione della memoria di lavoro, responsabile del modo in cui vengono immagazzinate e usate le informazioni. La memoria di lavoro è forse la componente più critica del funzionamento esecutivo, perché è essenziale per mettere in atto operazioni, quali pianificazione, valutazione di varie opzioni e ha, soprattutto, un’importanza centrale per l’autocontrollo, perché, per trattenersi dal compiere determinate azioni, occorre avere obiettivi alternativi. Tra i vari esercizi per la memoria di lavoro, il più noto è il compito n-back, che consiste nella presentazione di una sequenza di oggetti, come le lettere, a seguito della quale bisogna dire se la lettera mostrata di volta in volta è uguale a quella apparsa n volte prima. Esercitarsi su tale compito migliora la memoria di lavoro, mentre l’eventuale influenza sull’autoregolazione è forte oggetto di dibattito: alcuni ritengono che il compito n-back incida anche su altre funzioni, come il controllo degli impulsi, mentre altri ritengono che si limiti ad agire sulla memoria di lavoro. È opportuno notare, a sostegno della prima ipotesi, che varie regioni cerebrali possono adempiere a vari fini, per cui non è atipico che l’esercizio di una medesima zona possa provocare effetti su più funzioni. Anche se i risultati fossero limitati alla memoria di lavoro, varrebbe comunque la pena continuare a esercitarla, per la forte rilevanza che ha nel rendimento nella comprensione scritta e nella matematica. Pratiche che stimolano la mindfulness (presenza mentale): per mindfulness si intende una peculiare concentrazione sull’esperienza presente, un abbandono alle proprie percezioni sensoriali che implica un evitamento di interpretazioni e giudizi. Tra queste pratiche, che potrebbe incidere sull’autoregolazione, la più nota è la meditazione, che si basa sul concentrarsi sul proprio respiro, cercando di portare l’attenzione sull’aria che entra ed esce dalle narici, sui movimenti del torace, sul suono dell’aria inspirata ed espirata. Si tratta di una pratica anche abbastanza faticosa agli inizi, ma che riduce stress e diversi disturbi psicologici, come l’ansia. È stata evidenziata anche la sua efficacia nel migliorare sonno, salute cardiovascolare e funzioni immunitarie. Esercizio aerobico: l’esercizio fisico migliora in generale la salute cerebrale, aumentando il flusso sanguigno e potrebbe perciò avere un effetto positivo sulle funzioni cognitive a prescindere dall’età. È curioso che esiste una connessione tra memoria di lavoro ed esercizio aerobico, tale che l’esercizio acuto può avere effetti positivi sul funzionamento degli adolescenti così come l’esercizio costante, a patto che, in questo caso, ci sia anche un effettivo esercizio delle funzioni esecutive richiesto dall’allenamento (ad esempio, nel gioco di squadra, quando è richiesta strategia). Attività fisica combinata a mindfulness: tale combinazione, che si ritrova nello yoga o nel taekwondo, ad esempio, pare avere effetti positivi sullo sviluppo dell’autoregolazione. Insegnamento di abilità e strategie di autoregolazione: tra i vari programmi che si concentrano sulle capacità autoregolatorie (es. controllo della collera), l’apprendimento socioemotivo è quello che è stato sicuramente maggiore oggetto di attenzione dalle scuole, tanto da essere introdotto nei programmi scolastici. Si tratti di programmi nati con l’intenzione di ridurre aggressività e delinquenza, ma che poi sono stati utilizzati in riferimento all’autoregolazione di adolescenti non problematici. In questo ambito, i programmi funzionanti hanno quattro caratteristiche, che vanno sotto la sigla SAFE: Sequenced: le attività seguono un ordine prestabilito in cui le abilità avanzate poggiano su quelle più rudimentali. Active: il soggetto coinvolto non veste i panni di un recettore passivo, ma esercita attivamente le proprie abilità. Focus: l’attenzione è posta sull’apprendimento socioemotivo, che ha un ruolo primario e non è trattato come preoccupazione secondaria al rendimento scolastico e alle abilità accademiche. Explicit: i programmi più efficaci si concentrano sullo sviluppo di una o più abilità specifiche. Altri interventi hanno cercato di lavorare sulla capacità di pianificare e porsi obiettivi a lungo termine: tra questi, la tecnica del contrasto mentale con intenzioni di implementazione (MCII) è assai nota. Essa si basa sul consolidamento della determinazione degli adolescenti, che sono incoraggiati a prefigurarsi un obiettivo, immaginarsi le conseguenze negative, pensare a un possibile ostacolo, a una strategia per superarlo e a impegnarsi in forma scritta o verbale a metterla in atto qualora servisse. Il successo nel rendimento accademico degli studenti sottoposti a MCII rispetto ad altri sembra legato al fatto che essi non solo erano invitati a pensare a un obiettivo accademico, ma anche a strategie da mettere in atto in caso di ostacoli e difficoltà. Nonostante le differenze dei trattamenti, tutti gli esercizi devono soddisfare tre requisiti per essere proficui: • Essere stimolanti, cioè l’allenamento deve rappresentare una sfida per il soggetto ed essere impegnativa. • L’allenamento deve avvalersi di strategie di scaffolding, ovvero bisogna spingere i ragazzi verso compiti che eccedano le loro capacità, ma non troppo • Le attività devono essere sostenute da una pratica ponderata. Per migliorare bisogna prendersi del tempo e il miglioramento deve avvenire gradualmente, incrementando le prestazioni, non attraverso la mera reiterazione, ma attraverso una ripetizione strutturata che preveda di alzare il livello delle difficoltà. Per l’allenamento delle funzioni esecutive, dunque, se si lavora sul compito n-back, dopo che l’individuo diviene capace di gestire con sicurezza sequenze della stessa lunghezza a cui è stato esposto più volte, è ragionevole aggiungere una lettera. Alla luce degli esercizi fisici che permettono di lavorare sull’autoregolazione, è un peccato che gli Stati Uniti abbiano ridotto, se non eliminato, l’educazione fisica dal programma scolastico, nella concezione che non fosse indispensabile per lo sviluppo intellettuale. Anche un’ora di allenamento potrebbe invece essere promettente, non solo per il miglioramento della propria salute fisica, ma anche per generare apprendimento e migliore rendimento scolastico.
Capitolo 9: Vincitori e perdenti
Il divario socioeconomico tra abbienti e non abbiente si è notevolmente allargato in tutti i paesi sviluppati e ad averlo esacerbato è stato sicuramente il prolungamento dell’adolescenza: tale legame non è però così implicito. I soggetti che vivono in migliori condizioni economiche sono in grado di sfruttare al meglio il periodo di plasticità prolungata, cogliendo i vantaggi delle situazioni stimolanti a cui sono esposti. Il vantaggio neurobiologico di cui godono i benestanti è però rilevabile molto prima dell’adolescenza. I figli di famiglie povere hanno più probabilità di manifestare deficit cognitivi, di avere punteggi più bassi nei test di intelligenza, di vivere ripercussioni a lungo termine su salute mentale e fisica, consumo di sostanze, comportamento antisociali. I fattori che influiscono sui bassi punteggi ai test di intelligenza sono vari e tra questi si deve malvolentieri evidenziarne uno: la genetica, data l’elevata ereditarietà dell’intelligenza. I geni contribuiscono molto all’insorgere di differenze a livello intellettivo, ma non si deve sottostimare il ruolo degli influssi ambientali nelle carenze intellettive: traumi, violenza domestica, disagio cronico e stress hanno conseguenze molto rilevanti su regioni cerebrali come la corteccia prefrontale, cruciale per l’affinamento delle capacità di autoregolazione. L’aspetto positivo sta nel fatto, che data la grande sensibilità all’ambiente di tale area cerebrale, si possano condurre interventi mirati a ridurre le disuguaglianze tra abbienti e meno abbienti in questo senso, non che questo sia esente da numerose difficoltà. La corteccia prefrontale è dunque molto sensibile a eventi stressogeni e non sorprende dunque che le differenze socioeconomiche sono molto pronunciate nei comportamenti che dipendono proprio da quest’area cerebrale. Anche quando lo stress influisce nell’infanzia su tale zona, non è raro che gli effetti si palesino solo in adolescenza, quando le funzioni ad essa legate sono maggiormente chiamate in causa. Lo stress precoce influisce soprattutto sulle connessioni tra sistema limbico e corteccia prefrontale, compromettendo la capacità di controllare impulsi ed emozioni: non stupisce dunque scoprire che i più poveri riescono anche meno a essere padroni di sé stessi. La disuguaglianza economica non è mai stata tanto alta come oggi e, nonostante i tanti interventi e i dispendi economici, neanche le lacune nel rendimento scolastico sono state colmate. Negli ultimi anni, le scoperte neuroscientifiche hanno condotto a spostare l’asse di tali interventi dal rendimento all’autoregolazione: qualora questi fossero efficaci, avrebbero effetti positivi non solo sui risultati scolastici, ma sulla disoccupazione, sul proseguimento degli studi, sui tassi di obesità, sulle gravidanze precoci, cioè su tutti quegli ambiti fortemente legati alla capacità di autocontrollarsi. Per quanto riguarda la criminalità, nella maggior parte dei casi, gli adolescenti che delinquono non diventano criminali reiteranti da adulti: si può verificare qualche recidiva in tarda adolescenza, ma è difficile che si vada oltre questo. Ciò è dovuto al fatto che va scemando la ricerca di sensazioni forti a favore del raffinamento dell’autoregolazione che porta a dare una svolta alla propria vita. Comprendere i fattori alla base delle differenze tra chi continua e chi si ferma nel commettere atti criminali può permettere di implementare programmi maggiormente efficaci per la prevenzione della criminalità e la riduzione della recidività. Secondo gli studiosi, quattro sono i fattori determinanti per una vita di successo: non abbandonare la scuola (almeno fino alle scuole superiori), non avere figli prima del matrimonio, non infrangere la legge e, nel caso non si vada a scuola, non sostare nell’inattività. La violazione di una di queste regole non conduce alla catastrofe, ma, se ci si attiene ad esse, le statistiche riportano che il successo è quasi assicurato. Le quattro regole sono accomunate da due caratteristiche: • fanno riferimento a scelte legate al differimento della gratificazione. • fanno riferimento a scelte che appaiono per la prima volta in adolescenza, dato che è raro che si presentino prima. Perché i bambini imparino gradualmente a differire la gratificazione e a sviluppare l’autoregolazione c’è bisogno di tener d’occhio quest’ultima. Rispetto agli abbienti, i genitori non abbienti difficilmente riescono a star dietro ai figli, per una serie di ragioni. Difficilmente metteranno in atto uno stile autorevole, che li conduca a un’autoregolazione ben consolidata: privilegiano una disciplina dura e punizioni fisiche, una certa incostanza e incoerenza, passando da eccessivo controllo a eccessiva permissività. Sebbene non sia per tutti così, i dati confermano questa tendenza. Le differenze socioeconomiche hanno diverse fonti: il contesto delle comunità in cui ci si trova è caotico, stressante e pericoloso, per cui i genitori possono esercitare rigido controllo e avere poca pazienza; le risorse sono poche e non c’è né tempo né modo di concedersi all’accudimento dei figli e , se stressati, difficilmente mantengono una certa posizione a fronte delle richieste dei figli; va anche detto che il comportamento dei genitori è in larga parte plasmato dai figli, in quello che prende il nome di “ciclo di coercizione”: i bambini con scarsa autoregolazione sono più impulsivi e inducono i genitori ad assumere un atteggiamento simile, per cui un atteggiamento rigido e incoerente dei genitori poi genera comportamenti problematici. Una strategia sarebbe compensare tali problematiche attraverso esperienze extradomestiche, ad esempio a scuola, ma le condizioni economiche spesso non permettono di accedervi: ci si trova di fronte alla paradossale situazione in cui chi ha più bisogno ha meno probabilità di soddisfare tale bisogno. I bambini più svantaggiati economicamente sono più impreparati per la pubertà e per le sue sfide neurobiologiche. L’anticipazione della pubertà determina un’accelerata attivazione del sistema limbico, ma non una maggiore efficienza della corteccia prefrontale e, con un autocontrollo scarso già dall’infanzia, ci si espone a grandi rischi. Ad aggravare la situazione è che i bambini poveri entrano ancora più precocemente in pubertà per quelle che oggi sono le ragioni dominanti: obesità infantile, esposizione alla luce artificiale, esposizione a interferenti endocrini. Tutti fattori che, presi isolatamente, sembrano innocui, ma nella loro combinazione, producono effetti a cascata negativi. Nelle famiglie indigenti, è comune che i bambini abbiano nelle loro camere da letto schermi illuminati a disposizione, che le bambine nere utilizzino prodotti per capelli molto ricchi di interferenti endocrini. Si è già detto che i bambini passano da una fase in cui sono eteroregolati ad una fase in cui imparano ad autocontrollarsi: quando tale capacità non è raffinata, il ruolo dei genitori è essenziale, poiché gli adolescenti che faticano a gestirsi da soli traggono grandi giovamenti da chi è in grado di farlo al posto loro. Tuttavia, genitori svantaggiati, per le ragioni sopracitate, non possono sorvegliare i figli, donargli calore, fermezza, vigilanza affinché sviluppino progressivamente un’autoregolazione solida. Quando non ci sono adulti, è più facile che si sia suscettibili all’influenza dei pari antisociali, che si mettano nei guai. Inoltre, gli ambienti in cui vivono sono privi di stimoli che possano aiutarli a imparare come ci si autocontrolla. L’adolescenza si è allungata per tutti, ma il punto allarmante è che se per gli abbienti ad essere accentuato è il prolungamento dell’adolescenza, per i meno abbienti è la pubertà precoce. Si tratta di una differenza significativa, perché se il prolungamento porta con sé vantaggi se i giovani sono esposti alle esperienze giuste, la precocità della fase puberale ha una natura fortemente negativa. Per comprendere pienamente i vantaggi del prolungamento per gli abbienti, bisogna rifarsi al concetto di capitale. Oltre al capitale economico, i benestanti possiedono un maggior capitale umano (l’insieme delle abilità necessarie per il successo scolastico e lavorativo), culturale (la cultura generale, la proprietà di linguaggio e abbigliamento, i segnali che indicano l’appartenenza a una classe sociale elevata), e sociale (i contatti con le persone che forniscono sostegno). È opportuno evidenziare anche il cosiddetto capitale psicologico, cioè l’insieme di quelle abilità non cognitive, fondamentali per una vita di successo, tra cui l’autoregolazione è sicuramente quello più critico. Steinberg mette in luce anche il ruolo essenziale del capitale neurobiologico, ovvero l’insieme dei vantaggi derivanti dalla prolungata plasticità del cervello, che per i più abbienti non può che rappresentare una grande opportunità. Ci si lamenta tanto dei rischi del prolungamento dell’adolescenza, ma ci si chiede poco come intervenire: bisognerebbe non solo facilitare l’accesso alle università, che spesso sono comunque precluse ai meno abbienti, ma anche favorire l’apprendistato, il servizio sociale volontario, con lo scopo di ridurre il divario tra abbienti e meno abbienti. L’obiettivo centrale resta però quello di potenziare e incentivare l’autocontrollo mediante interventi precoci, insegnando ai genitori come essere autorevoli, al fine di incentivare l’autocontrollo, e rifacendosi alle scuole per quello che le famiglie non riescono a compiere.
Capitolo 10: Cervelli a processo
Negli Stati Uniti, secondo il diritto penale, i responsabili di un medesimo reato possono avere diversi gradi di responsabilità, per cui un soggetto senza precedenti violenti, pur avendo ucciso una persona, riceverà una sanzione minore rispetto a un pluripregiudicato. Sebbene anche gli adulti possano essere irresponsabili, si presuppone che, raggiunta una certa età, le persone abbiano imparato a comportarsi in un modo socialmente consono e, dunque, non esistono attenuanti per la mancanza di discernimento. Le varianti rispetto alla norma, negli adulti, sono riferite a condizioni psicologiche o psichiatriche. La legge americana riconosce invece la differenza tra adolescenti e adulti: è per questo motivo, ad esempio, che i minori di 21 anni non possono comprare alcolici. Gli adolescenti sono ritenuti immaturi, anche da un punto di vista cerebrale, ed è ragionevole evitare condanne a vita, dato il fatto che la plasticità predispone a maggiori possibilità di riabilitazione rispetto agli atti criminosi, più di quanto non si possa dire per gli adulti. È più lecito pensare che i giovani impulsivi possano modificare il loro comportamento rispetto agli adulti. L’immaturità di un adolescente non implica l’assenza di colpevolezza, ma sicuramente una minore colpevolezza. Negli adolescenti c’è una certa propensione a rilasciare confessioni non veritiere: ciò è frutto di come i giovani siano più sensibili a certe tecniche per indurre ad ammettere azioni magari non commesse. Gli inquirenti sfruttano, ad esempio, la minimizzazione, in cui l’atto dell’interrogato viene sminuito affinché egli confessi. Si inducono gli adolescenti a credere che confessare una versione minimizzata del reato possa indurli a essere rilasciati più celermente: la maggiore sensibilità alle ricompense immediate li induce così a cadere in questi giochi. Inoltre, spesso non vengono comprese a pieno le formule giudiziarie e che le cose dette possono essere utilizzate contro se stessi. Sia gli studi sulla responsabilità penale che sulla confessione rientrano nel discorso più ampio della definizione della maggiore età legale. La definizione di un’età unica per l’ingresso nella fase adulta è efficiente, perché non si presta a interpretazioni discriminatorie. In caso contrario, il parametro più efficace sarebbe un test di maturità per ognuno, che, sul piano dell’intera popolazione, sarebbe assai gravoso da effettuare. Ogni prospettiva alternativa sarebbe irrealistica. Il problema reale dell’uso dell’età anagrafica sta nel fatto che quest’età potrebbe non essere adatta per tutti i tipi di decisioni. Le varie regioni del cervello si sviluppano in momenti diversi e non è detto che a una certa età si sia in grado di compiere tutte le decisioni allo stesso modo. Quando entra in gioco un reato, le cose diventano più complicate: gli adolescenti sono facilmente influenzabili da situazioni emotivamente dense e la loro capacità di giudizio può essere offuscata. La ricerca sullo sviluppo cerebrale adolescenziale conferma che i vari tipi di maturità vengono raggiunti tra i 15 e i 22 anni: probabilmente le capacità di decidere con calma, anche consultando gli altri, (cognizioni fredde) raggiunge una maturità adulta entro i 16 anni, mentre la stessa capacità in situazioni caratterizzate da attivazione emotiva (cognizioni calde) non prima dei 18 o addirittura dei 21 anni.
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