Esplora E-book
Categorie
Esplora Audiolibri
Categorie
Esplora Riviste
Categorie
Esplora Documenti
Categorie
Il contesto
Gli anziani presenti in questo mondo industrializzato sono tanti, soprattutto grazie all'entrata in massa nell'età avanzata
dell'estesa coorte del baby boom postbellico. Inoltre, grazie ai progressi nell'aspettativa di vita compiuti durante il 20°
secolo, oggi quando le persone giungono all’età di 65 anni possono aspettarsi di vivere in media altri 18 anni.
Anche il calo della fertilità è uno dei fattori che sta portando a questa trasformazione demografica. Quando il tasso di
natalità diminuisce, l'età mediana di un paese (valore che divide la popolazione in due, metà al di sopra e metà al di
sotto di esso) tende ad aumentare. Con il calo del tasso di fertilità verificatosi negli ultimi decenni in Europa e in Asia,
oggi l'età mediana della popolazione nella maggior parte dei paesi industrializzati ricade nella fascia della maturità
inoltrata.
La coorte del baby boom, la longevità e i bassi tassi di fertilità creano le condizioni per l'avvento di un nuovo mondo
che è più vecchio.
A Sarasota, in Florida, dove la popolazione ultra 65enne supera il 30%, a 70 anni gli abitanti sono considerati «giovani»,
non si è definiti «anziani» finché non si raggiungono gli 80 anni.
Statisticamente parlando, c'è un'enorme differenza fra essere ANZIANI GIOVANI in buona salute ed essere ANZIANI
ANZIANI con molte fragilità fisiche (o bisognosi di un deambulatore)*. Ma, pur in presenza di questa diversità, c'è
l'unanime riconoscimento delle qualità negative legate all'essere vecchi. In tutto il mondo si associa la vecchiaia al
declino fisico e mentale.
Si può dire che tutti, giovani e anziani, si rendano colpevoli di AGEISMO, una forma di pregiudizio fortemente negativo
sulla vecchiaia. In ogni epoca storica si è temuta la vecchiaia in quanto periodo della vita connotato da un
deterioramento costante e inarrestabile. Fortunatamente, si tende anche a simpatizzare con gli anziani grazie alle loro
consuete doti positive.
In un'indagine condotta negli Stati Uniti, gli adulti intervistati si dichiaravano d'accordo sul fatto che un 75enne si
dimostrerebbe superiore a un 20enne nella capacità di gestire pacatamente i conflitti. Quando a un gruppo di studenti
universitari venne chiesto di parlare delle personalità associate a voci «senili» e a voci «giovanili» ascoltate in alcune
registrazioni sonore, gli studenti giudicarono le voci «senili» come meno possenti, ma dichiararono di essere stati attratti
dagli oratori più anziani in quanto narratori valenti e saggi.
Età mediana stimata per la popolazione di alcuni paesi nel 2017 e nel 2030
I cambiamenti della memoria alla luce della teoria dell’elaborazione delle informazioni
Gli psicologi dello sviluppo che adottano l'approccio della TEORIA DELL’ELABORAZIONE DELLE INFORMAZIONI
nello studio delle funzioni cognitive considerano la memoria come un processo attivo che si svolge in vari stadi.
Il sistema di accesso, in cui l'informazione viene trasformata per poter essere immagazzinata in modo permanente, è
detto MEMORIA DI LAVORO.
La memoria di lavoro ha uno spazio limitato: c'è infatti una quantità massima di informazioni che si possono trattenere
nella nostra esperienza cosciente. La memoria di lavoro comprende un PROCESSORE ESECUTIVO che controlla
l'attenzione e contribuisce a trasformare i contenuti di questo magazzino temporaneo in materiali che possono essere
richiamati successivamente. Con la maturazione dei lobi frontali durante la fanciullezza, la capienza della memoria di
lavoro aumenta notevolmente. Purtroppo, mentre ci si inoltra nell'età adulta la memoria di lavoro funziona sempre
peggio.
Una causa di questo declino potrebbe essere una diminuzione della plasticità sinaptica nell'ippocampo, l'area del
cervello deputata a codificare i ricordi recenti. Un'altra causa potrebbe riguardare i deficit del processore esecutivo,
l’ipotetica struttura che manipola le informazioni depositandole nel magazzino permanente della memoria.
Invecchiando, le persone hanno maggiori difficoltà a focalizzare questo sistema di controllo, e di conseguenza non
riescono a prestare attenzione altrettanto bene a ciò che stanno cercando di imparare. Un sintomo di tale deficit delle
funzioni esecutive è l'estrema difficoltà delle persone anziane a svolgere compiti di attenzione divisa.
Le funzioni esecutive come l'attenzione selettiva sono associate a una particolare struttura cerebrale: secondo l'opinione
corrente, i deficit mnemonici della tarda età riflettono in buona parte il deterioramento dei lobi frontali. I neuroscienziati
possono «vedere» l'assottigliamento dei lobi frontali con la tecnica della risonanza magnetica, producendo immagini
delle strutture corticali man mano che si modificano. Queste tecniche di scansione consentono di tracciare i pattern di
attivazione neuronale associati all'esecuzione di compiti di memorizzazione.
Non è possibile avere accesso al cervello per visualizzarne le singole cellule, ma gli esperimenti condotti sugli animali
uniti alle informazioni fornite dalle tecniche di scansione confermano universalmente una perdita neuronale nel cervello
degli anziani.
La memoria episodica è di gran lunga la più fragile dei 3 sistemi. Dopo un anno è possibile ricordare ancora
informazioni che fanno parte della memoria semantica e della memoria procedurale; ma a distanza anche solo di pochi
giorni ci si può dimenticare di informazioni appartenenti alla memoria episodica. Il ricordo di qualsiasi evento isolato è
estremamente vulnerabile al passare del tempo.
Una cosa positiva è che le prestazioni degli anziani nei test di memoria semantica sono in genere altrettanto buone di
quelle dei giovani.
Il declino nella memoria episodica è ciò che le persone notano quando si rendono conto che cominciano ad avere
problemi a ricordare il nome di qualcuno che hanno incontrato a una festa o il posto in cui hanno parcheggiato la
macchina. Invece la banca dati della memoria semantica resta intatta fino all'età più avanzata, il che spiega perché in
genere gli anziani forniscono prestazioni migliori di quelle dei giovani in sfide che coinvolgono capacità verbali
cristallizzate (come la risoluzione dei cruciverba).
Coloro che sono colpiti dalla malattia di Alzheimer mantengono la memoria procedurale anche dopo che gli altri sistemi
di memoria sono in larga parte deteriorati o scomparsi. Queste persone sono in grado di camminare, vestirsi e persino di
ricordare come mettere in moto e guidare l'automobile, anche dopo aver perso la capacità di ricordare fatti
fondamentali, per esempio il loro indirizzo.
L'incredibile resilienza della memoria procedurale può spiegare perché una 85enne, che era una musicista, riesce
ancora a suonare magnificamente il piano, pur essendo incapace di ricordare i nomi dei suoi familiari.
Secondo i neuropsicologi, questo sistema è l'ultimo a smettere di funzionare perché le informazioni contenute nella
memoria procedurale risiedono in un'altra regione del cervello. Quando apprendiamo per la prima volta un'abilità
motoria complessa i nostri lobi frontali sono sottoposti a un lavoro intenso. Poi, una volta che l'apprendimento di questa
attività si è consolidato, la conoscenza diventa automatica e migra in centri cerebrali subcorticali, lasciando libera la
corteccia frontale di occuparsi di altre funzioni intellettive di livello superiore.
• USARE TECNICHE MNEMONICHE: il segreto per imprimere nella memoria una qualsiasi informazione è fare in modo
che quel materiale si distingua nettamente dal resto per la sua carica emotiva. Le TECNICHE MNEMONICHE sono
strategie per dare risalto emotivo alle informazioni. Il fatto che memorizziamo facilmente informazioni dal forte
contenuto emotivo può spiegare perché i nostri ricordi si differenzino in modo così incomprensibile.
• LAVORARE SULLA CONDIZIONE PSICOLOGICA DELLE PERSONE: etichettare un test come una «misurazione della
memoria» compromette il rendimento di un anziano in qualsiasi test cognitivo. Il pensiero di quale potrà essere il
risultato del test abbatte molto gli anziani a cui viene fatto, compromettendo poi i risultati. In uno studio dopo essere
stati informati che stava per essere somministrato loro un test sulla memoria, il 70% degli adulti più anziani ottenne un
punteggio al di sotto della soglia clinica per la malattia di Alzheimer in un classico test diagnostico, contro meno di 1
soggetto su 5 fra coloro a cui non era stata data quell’informazione. Al contrario, quando i ricercatori dissero che un
certo QI designava i soggetti dotati di saggezza, la prestazione degli anziani migliorò, anche se quel test in realtà
misurava un’abilità dell’intelligenza fluida.
Focalizzarsi sul tempo che resta da vivere: la teoria della selettività socioemotiva
L'idea che il punto a cui si è giunti nell'arco della nostra esistenza cambi i nostri obiettivi e le nostre priorità sta alla base
della TEORIA DELLA SELETTIVITÀ SOCIOEMOTIVA proposta da Laura Carstensen.
Secondo Carstensen, durante la prima metà della vita adulta il nostro impulso è a guardare avanti, verso il futuro. Siamo
ansiosi di realizzarci e di raggiungere, in un futuro imprecisato, una posizione migliore. Invecchiando e rendendoci
conto che l'orizzonte del nostro avvenire si restringe, ridefiniamo le nostre priorità, e l'ambizione principale diventa
quella di trarre il meglio dal presente. Carstensen ritiene che questa tendenza a ricavare il massimo da ogni singolo
momento spieghi perché la vecchiaia può essere potenzialmente il periodo più felice della vita.
Quando i nostri obiettivi sono tutti proiettati nel futuro, spesso sacrifichiamo i desideri dell'immediato presente in favore
di uno scopo più lontano nel tempo.
Nell'età avanzata non proviamo poi tutto questo interesse per ciò che sarà di noi. Così, ci rifiutiamo di perdere tempo in
compagnia di chi non ci piace o di metterci in situazioni ansiogene solo perché in futuro potrebbero portarci qualche
vantaggio. Inoltre, sostiene Carstensen, nel momento in cui siamo orientati soprattutto a trarre il meglio dal presente,
anche le nostre priorità sociali si modificano. Durante l'infanzia, l'adolescenza e l'adultità emergente il nostro principale
obiettivo è distaccarci dalle figure di attaccamento; desideriamo espandere i nostri orizzonti sociali, stabilire nuove
relazioni di intimità ed entrare in contatto con persone stimolanti che possano insegnarci cose nuove. Una volta
raggiunti i nostri obiettivi, siamo meno interessati a sviluppare nuovi legami di attaccamento. Abbiamo già la nostra
famiglia e una rete di amicizie consolidate; perciò focalizziamo la nostra vita sul partner, sugli amici più cari, sui figli:
cioè, sulle persone che amiamo di più.
Man mano che avanzano nell'età adulta le persone riducono le visite a vicini e conoscenti, ma non quelle ai familiari.
Questa tendenza a dedicarsi ai rapporti con la famiglia si riverbera anche nel mondo virtuale: gli anziani hanno in media
molti meno amici su Facebook di coloro che sono più giovani, e le loro reti di contatti sono costituite da un maggior
numero di amici reali. Uno studio ha mostrato che, a qualunque età, avere più amici reali rispetto a quelli di Facebook è
correlato alla sensazione di essere meno soli. Invece di essere una dimostrazione di straordinaria connessione con gli
altri, l’aver accumulato oltre 1000 conoscenti su Facebook può essere indice di isolamento e solitudine. Questa
predilezione per le relazioni strette con il prossimo si riflette anche nelle preferenze riguardo ai contenuti fruiti sui media:
gli anziani, nei film, prediligono le tematiche ad alto contenuto emotivo e centrate sulla famiglia, in particolare le storie
tenere e struggenti.
Quando diamo la priorità al momento presente, a prescindere dalla fase della vita in cui ci troviamo?
Questo spostamento delle priorità non attiene soltanto alla vecchiaia. Anche gli adulti affetti da mali incurabili hanno
espresso una netta preferenza per trascorrere una serata con un familiare o amico stretto. Lo stesso hanno fatto i soggetti
ai quali era stato chiesto di immaginare che stavano per trasferirsi da soli dall’altra parte del paese.
Secondo Carstensen, ogni volta che percepiamo il futuro come un tempo limitato, riduciamo i nostri contatti sociali e
trascorriamo il maggior tempo possibile in compagnia delle persone che amiamo di più. Come spiega la teoria della
selettività socioemotiva, quando avvertiamo il rischio di perdere una persona amata desideriamo esserle fisicamente
vicini.
• SENTIRE CHE IL TEMPO SCORRE IN FRETTA PUÒ STIMOLARE L’ESPERIENZA DI FLUSSO. Avere la sensazione che il
tempo scorra in fretta può indurre le persone a compiere azioni significative, che lascino una traccia nel mondo. Gli
anziani hanno la percezione che il tempo voli via più velocemente rispetto ai giovani; ma la cosa interessante è che
provano questa sensazione soggettiva soltanto durante le attività produttive e non per esempio quando mangiavano o
guardavano la tv. Dunque il sentimento della noia sarebbe meno comune in tarda età, poiché gli anziani sono motivati
a impegnarsi in stati di flusso stimolanti, quelli che nella vita ci fanno sentire più felici.
• LE VITE DEGLI ANZIANI SONO MENO STRESSANTI. Le persone anziane riferiscono di avere meno stress quotidiani
di quelle giovani. Il fatto, poi, che il mondo esterno le tratti con maggiore riguardo costituisce un ulteriore vantaggio.
In uno studio, quando i ricercatori chiesero a un campione di adulti come avrebbero reagito in una difficile situazione
interpersonale, i soggetti risposero che si sarebbero sottratti al confronto nel caso si fosse trattato di anziani. Dunque,
la consapevolezza che la propria vita è destinata a finire presto produce effetti sorprendentemente positivi sul piano
emotivo. Inoltre, in tarda età le persone possono concedersi di più il lusso di fare quello che vogliono, e il mondo
esterno dà loro meno fastidi.
Cosa può trasformare la vecchiaia nel periodo più infelice della vita?
Vi sono anche quelle miserabili persone anziane che il mondo non tratta in modo gentile, quei vecchi che vengono
lasciati a languire in solitudine e povertà nei loro cosiddetti «anni d'oro».
L'erosione del pensionamento come periodo della vita è destinata a peggiorare la qualità della vita emotiva in tarda età.
Poiché intrattenere relazioni sociali è una componente essenziale della felicità umana, il fatto di rimanere vedovi e di
sopravvivere agli amici deve per forza esigere un pesante tributo in termini psicologici. Se a questo si sommano i deficit
fisici che la vecchiaia porta con sé, non dovrebbe sorprendere che, mentre la felicità tocca il culmine verso i settant'anni,
la sensazione di benessere scende in picchiata quando si diventa anziani anziani.
Quindi, il paradosso del benessere si estende solo fino a un certo limite. Quando le persone sono fisicamente
compromesse, private per sempre dei loro più intimi affetti e impossibilitate a svolgere attività produttive, la vita può
perdere ogni attrattiva e significato.
Tuttavia, non si deve cadere nello stereotipo secondo cui tutti i 90enni vivono una vita deprimente, in attesa soltanto
della morte, perché alcune persone molto avanti negli anni vivono ancora in maniera eccezionalmente gratificante.
GERMANIA: IL «MODELLO MERCEDES» DEL SOSTEGNO STATALE: a causa del rapido invecchiamento della
popolazione, le preoccupazioni dei tedeschi circa il proprio pensionamento sono attualmente più forti che in passato:
infatti, il governo di questo paese potrebbe aver bisogno di tagliare i finanziamenti di cui i cittadini hanno lungamente
goduto in tarda età e che garantivano loro un reddito adeguato, in grado di assicurare un’esistenza confortevole per il
resto della vita. In Germania le pensioni sono finanziate principalmente da oneri versati sia dal lavoratore sia dal datore
di lavoro, con un sistema simile a quello adottato negli Stati Uniti. Tuttavia, diversamente da quanto accade negli Stati
Uniti, qui la filosofia di fondo è orientata a garantire ai lavoratori in pensione un buon livello economico. Quando il
tedesco tipico si ritira dall’attività lavorativa, lo Stato copre all’incirca i tre quarti dello stipendio che l’ex lavoratore
percepiva. Sorprendentemente, gli anziani in pensione si ritrovano ad avere un potere d’acquisto maggiore con il passare
degli anni.
STATI UNITI: FARCELA DA SOLI CON UN MODESTO CONTRIBUTO STATALE: il sistema pensionistico degli Stati
Uniti consente alle persone di andare avanti in qualche modo, ma senza alcuna tranquillità. Il motivo risiede nel fatto
che il sistema previdenziale pubblico SOCIAL SECURITY (previdenza sociale) funziona solo da rete di salvataggio per
impedire che gli anziani versino in condizioni di indigenza.
I fondi della Social Security (programma statale istituito dal presidente Franklin Delano Roosevelt nel 1935) provengono
dai lavoratori in attività. Sia i dipendenti sia i datori di lavoro versano contributi che servono a pagare la pensione alle
persone già collocate a riposo; poi, raggiunta a loro volta l'età del pensionamento, è il turno di questi lavoratori di essere
sostenuti, finché vivono, dagli importi versati dalla popolazione attiva.
La Social Security si è notevolmente estesa negli anni 1970 così come MEDICARE (il programma nazionale di assistenza
sanitaria agli anziani), e rappresenta per gli statunitensi in età avanzata una sorta di miracolo economico.
I FONDI PENSIONE PRIVATI (e altre risorse come i risparmi personali) rappresentano l'altro «salvagente» negli anni del
pensionamento. I lavoratori versano una quota dello stipendio che, spesso unita ai contributi versati dai datori di lavoro,
va a costituire un fondo patrimoniale netto esentasse. Al momento del pensionamento, le persone ricevono questa
somma mediante regolari versamenti o in un'unica soluzione.
La diffidenza degli statunitensi per i risvolti assistenziali di un programma di intervento statale spinge a optare per
incentivi fiscali che incoraggino i lavoratori a pianificare in prima persona il proprio pensionamento.
• LE PERSONE CERCANO DI LAVORARE PIÙ A LUNGO: alla fine del 20° secolo le persone erano ben felici di
programmare il proprio ritiro dalla vita lavorativa appena se ne presentava la possibilità. Infatti, tra il 1970 e il 1990,
negli Stati Uniti l’età media per andare in pensione è stata più vicina ai 60 che ai 65 anni. Nel 21° secolo si è assistito
a un drastico cambiamento: nel 2016 circa 2 ultra 65enni su 5 dichiaravano di lavorare ancora, pari a un aumento del
6% rispetto a quanto rilevato da un’inchiesta analoga condotta alla fine del secolo scorso.
• DOPO IL PENSIONAMENTO, LE PERSONE TORNANO A LAVORARE: più che essere una fase di transizione da una
condizione a un'altra, oggi il pensionamento è spesso un cambiamento di vita molto confuso. Alcuni fortunati
continuano a lavorare per lo stesso datore di lavoro con orari ridotti e flessibili, ma la tendenza più diffusa dopo essere
andati in pensione è quella di tornare a fare un lavoro part time. Oltre la metà dei pensionati statunitensi svolge un
cosiddetto LAVORO PONTE: ha cioè un'altra occupazione per poter integrare la pensione. Offrendo un'ampia
possibilità di organizzare il proprio tempo, l'esplosione della GIG ECONOMY favorisce appieno questa tendenza.
Ma diversamente da quanto avviene nell'Europa settentrionale, dove per le pensioni si stanziano più risorse, tanti
pensionati statunitensi optano per un lavoro ponte perché è difficile vivere con il magro contributo della previdenza
sociale; sono 3 su 5 gli anziani che ricevono la maggior parte del proprio sostentamento da Social Security, che
provvede soltanto alle necessità basilari. Per le donne invece un curriculum professionale discontinuo e le retribuzioni
inferiori rendono molto difficile, soprattutto per le donne single, versare i contributi necessari a ottenere una pensione
o poter contare su altre risorse. Anche se le donne sposate della classe medio-alta che vanno in pensione sono più
benestanti, cedono più facilmente alla tentazione di spendere i propri risparmi e finiscono con il dipendere dalla
previdenza sociale per il resto della loro vita. Di fatto, oggi una quota significativa di popolazione anziana deve
ancora faticare per arrivare alla fine del mese.
L’EFFETTO DELLA DISCRIMINAZIONE BASATA SULL’ETÀ: negli Stati Uniti la discriminazione per età è illegale. Le
persone non possono essere licenziate per il fatto di essere «troppo vecchie». Ma poiché si accetta il principio che è
lecito per un datore di lavoro liberarsi dei dipendenti più onerosi in termini economici (che solitamente sono i più
vecchi) per «motivi di lavoro», è difficile provare che I'«età» è la ragione per cui un dipendente ultra 85enne è stato
licenziato.
Incoraggiare questi dipendenti a mettersi a riposo con una sostanziosa buonuscita è una tattica usata nel mondo
occidentale dai datori di lavoro per invogliare i lavoratori ad andare in pensione senza creare problemi. Ma spesso sono
gli stessi lavoratori a non sentirsi più emotivamente coinvolti a livello professionale quando si identificano con
l'immagine stereotipata del «lavoratore anziano» e si sentono discriminati sul posto di lavoro. Uno studio finlandese ha
rivelato che la sensazione di un dipendente di essere discriminato per ragioni di età era direttamente collegata a un
maggior numero di assenze per malattia, perpetuando così lo stereotipo che solitamente si associa ai lavoratori anziani.
Altre immagini stereotipate dei lavoratori anziani li rappresentano come rigidi, inclini a fare molti errori di distrazione,
spaventati dalla tecnologia e meno adattabili. Ma sono stereotipi falsi, infatti una ricerca svedese ha dimostrato che con
l'età le persone diventano più flessibili sul lavoro e alcuni studi condotti negli Stati Uniti hanno rivelato che i lavoratori
più vecchi sono anche più rispettosi delle regole e meno propensi ad assentarsi dal lavoro per malattia, oltre al fatto di
essere più affidabili dei colleghi più giovani.
Eppure, tutti questi fatti non contano granché quando un lavoratore che è stato licenziato a 50 o 60 anni si imbatte nella
discriminazione per età mentre è alla ricerca di un nuovo lavoro. Infatti secondo molte ricerche, dovendo scegliere fra 2
ipotetiche persone in cerca di occupazione i datori di lavoro scelgono sistematicamente l'adulto più giovane.
L’EFFETTO DEL VOLER CONTINUARE A LAVORARE: però spesso il fatto di andare in pensione o di continuare a
lavorare può essere una scelta positiva. Molti di coloro che appartengono alla coorte del baby boom dicono di voler
continuare a lavorare dopo i 66 anni perché amano il proprio lavoro. Inoltre, è possibile che le persone decidano di
ritirarsi dalla vita lavorativa per entrare in una nuova, stimolante fase della propria esistenza.
Solitamente chi rimane nella forza lavoro fino a 75 o persino 85 anni è in buone condizioni di salute e ha un elevato
livello di istruzione; sono persone che, grazie al lavoro, vivono una straordinaria esperienza di flusso.
La vita da pensionati
Per i lavoratori con un buon livello di istruzione, il pensionamento può avere come effetto il miglioramento delle
condizioni di salute; d'altro canto, andare precocemente in pensione o sentirsi espulsi dal mondo lavorativo influisce
negativamente sul benessere fisico ed emotivo delle persone.
I fattori che possono aiutare a vivere la fase del pensionamento con serenità sono gli stessi che occorrono per condurre
una vita adulta soddisfacente: la tendenza a essere aperti a nuove esperienze, coscienziosi, amichevoli ed estroversi, ma
non nevrotici; essere in buona salute, felicemente sposati e avere sufficienti risorse economiche.
Il fatto di andare in pensione avendo una sorta di «vocazione», cioè un progetto di vita che induca esperienze di flusso, è
un indicatore importante. Da uno studio risultò un'ampia variabilità nelle vocazioni degli individui; ma il più delle volte
le persone desideravano svolgere attività generative dirette al prossimo.
Gli anziani entusiasti di usare questo lasso di tempo per allargare i propri orizzonti non hanno che l'imbarazzo della
scelta tra un'incredibile gamma di opzioni. Come rivelano i piani di milioni di anziani appartenenti alla coorte del baby
boom, nei paesi occidentali gli anni della vecchiaia sono considerati un periodo in cui ci si può connettere con
rinnovato vigore al mondo esterno. Tuttavia, esiste anche un altro modello culturale di senilità: quello della tradizionale
visione induista, nella quale l'ultima parte della vita è dedicata al progressivo distacco dagli interessi mondani. In tale
prospettiva le persone anziane abbracciano una vita ascetica, diventando pellegrini, rinunciando a ogni legame con le
persone care e ai piaceri terreni per prepararsi gradualmente alla morte.
• PER MOLTI ANZIANI IL RISCHIO DI CADERE IN POVERTÀ È MAGGIORE. Tra il 1960 e il 1980 gli Stati Uniti
riuscirono nell'intento di ridurre drasticamente la povertà tra gli anziani. Eppure molti anziani statunitensi vengono
lasciati drammaticamente indietro: uomini e donne che svolgono lavori a basso livello salariale e che sono privi di
tutela pensionistica; donne sole; persone che sono costrette a usare i loro sempre più magri risparmi fino ai 90 anni.
I consueti sostegni a favore di questa fascia di età, come i piani pensionistici individuali (IRA, Individual Retirement
Account), le pensioni e altri tipi di risorse, sono legati al fatto di avere un tradizionale impiego da ceto medio in
azienda.
Un’altra importante questione è quella dell’EQUITÀ INTERGENERAZIONALE, ovvero il sostanziale equilibrio delle
esigenze dei giovani e degli anziani. Dato che la popolazione anziana statunitense ha accesso ai 2 programmi
governativi di Medicare e della Social Security, e che i cittadini anziani di molti altri paesi occidentali ricevono un
sostegno ancora più consistente, è facile per i critici dell’attuale sistema sociale sostenere che le società più ricche
sovvenzionano troppo gli anziani a spese dei più giovani. Ma abbandonare questi programmi significherebbe lasciare
che le persone dipendano dalle proprie famiglie, il che andrebbe a detrimento di tutti, giovani e vecchi.
La vedovanza
Emozioni ben diverse evoca il pensiero della VEDOVANZA. In un classico studio sugli eventi stressanti, la morte del
coniuge è stato classificato come uno degli avvenimenti più traumatici della vita. Il dolore della perdita del coniuge è
ancora maggiore per la generazione precedente a quella del baby boom, costituita di persone che si sono sposate a 20
anni e hanno sempre vissuto insieme. Separati per sempre dalla propria principale figura di attaccamento, ci si sente alla
deriva, allo sbando. Si è costretti a ricostruire un'identità che fin dagli anni dell'adultità emergente si era incentrata sulla
condizione di «persona sposata».
Il lutto
Uno studio classico ha rivelato che, nei primi mesi dopo la scomparsa della persona cara, spesso chi resta vedovo è
ossessionato dal ricordo degli eventi che hanno accompagnato la sua morte. Soprattutto se la scomparsa è stata
improvvisa, i vedovi riferiscono di ritornare continuamente con il pensiero agli ultimi giorni o alle ultime ore di vita del
consorte. Inoltre, possono sentire l'impulso di cercarlo, anche se a livello razionale sanno che è del tutto insensato.
Con la vedovanza la risposta dell'attaccamento compiuto postulata da John Bowlby riemerge in tutta la sua forza.
Agli esperti non piace usare la parola "ripresa" quando descrivono l'esperienza del lutto, perché significherebbe
considerare il cordoglio, che è un normale fatto della vita, come uno stato patologico. Inoltre, dopo la perdita di un
coniuge, non si può dire semplicemente che a un certo punto «si guarisce»: in realtà, si riemerge da quell'esperienza
come esseri umani diversi e più resilienti. Dopo circa 1 anno, ci si aspetta che le persone rimaste vedove «migliorino»,
ossia che siano in grado di ricostruirsi una vita nuova e soddisfacente: pur continuando a nutrire sentimenti di profondo
affetto per il proprio caro scomparso, questa immagine mentale viene incorporata nell'identità in evoluzione del coniuge
sopravvissuto, che continua il suo percorso di vita. Vi è quindi la fase del modello operativo interno della vedovanza,
ossia la costruzione di una vita indipendente.
LA VEDOVANZA IMPLICA EMOZIONI ALTALENANTI: la vedovanza suscita emozioni contraddittorie. Nel monitorare
persone rimaste vedove, gli psicologi normalmente hanno registrato una costante e progressiva diminuzione dei sintomi
depressivi. In una ricerca, tuttavia, il grado di soddisfazione nella vita mostrava uno schema differente, abbassandosi fino
a una soglia minima in corrispondenza del 1° anniversario della morte del coniuge, per poi aumentare nel corso del 2°
anno. Altri ricercatori, controllando in modo sistematico un vasto campione di australiani adulti, trovarono che dopo
essere rimasti vedovi il loro livello di benessere aumentava.
Una possibile spiegazione è che, anche se le persone che hanno avuto la più felice esperienza matrimoniale a lungo
termine non lo sanno, sono in grado di cavarsela perfettamente da sole. Quando si scopre di potersela cavare da soli , si
acquista un incredibile senso di autoefficacia; perché i traumi della vita stimolano la nostra crescita emotiva.
Ovviamente non vanno minimizzate le conseguenze negative della vedovanza. In molti paesi infatti si registrano nei
vedovi livelli di più alti e una peggiore qualità della vita rispetto alle coppie sposate. Esiste infatti l’EFFETTO DELLA
VEDOVANZA SULLA MORTALITÀ, ovvero il rischio di morte marcatamente più elevato per chi sopravvive al proprio
coniuge.
LA SOLITUDINE RIMANE IL PROBLEMA NUMERO UNO: mentre le sensazioni di angoscia andavano dalle emozioni
scatenate da cause esterne ai rimorsi per essere stati poco gentili nei confronti del coniuge e ai problemi di ordine
pratico, il dolore più acuto era sempre causato dalla solitudine, dal fatto di essere privati della persona che più si era
amata nella vita.
IL SEGRETO È SFORZARSI DI CREARE NUOVE ABITUDINI: una soluzione alla solitudine e all’isolamento, secondo uno
studio, risiede nello sforzarsi di stabilire abitudini regolari.
LE AMICIZIE SONO MOLTO IMPORTANTI NEL DETERMINARE L’ADATTAMENTO ALLA NUOVA SITUAZIONE: un
forte sostegno da parte della famiglia o trasferirsi a casa dei figli possono alleviare la solitudine dei vedovi che vivono in
società collettiviste. Ma poiché i figli, maschi e femmine, hanno la loro vita, nei paesi ricchi capita che abbiano bisogno
di tornare alla normalità. Quindi, per reagire adeguatamente nel lungo periodo, chi rimane vedovo deve ricorrere
all'aiuto degli amici. Secondo una ricerca tedesca se «legami familiari» soddisfacenti fanno la felicità delle donne
anziane sposate, nel caso di una donna sola la serenità dipende in larga misura dal poter contare su buoni amici.
Il merito degli amici non è solo quello di offrire compagnia in attività di vario genere, ma anche la possibilità di parlare
apertamente della propria sofferenza. La tendenza a chiudersi a riccio (che riflette la volontà di non voler mettere in
imbarazzo le persone dando libero sfogo al proprio dolore) può spiegare perché i vedovi possano sentirsi soli anche in
mezzo agli altri. In un altro studio sulla solitudine, i ricercatori hanno trovato che la cura migliore consiste nel creare
rapporti di amicizia con un'altra persona rimasta vedova da poco.
Formulare previsioni su quali vedovi sono più a rischio
Ci si potrebbe aspettare che gli uomini siano più vulnerabili e inclini ad avere seri problemi dopo la morte della moglie.
Essendo più coinvolte emotivamente in ogni tipo di relazione, le donne possono fare ricorso alle amicizie più strette e di
lunga data per ricostruirsi una vita. Per le donne a pesare sono soprattutto le preoccupazioni finanziarie, per gli uomini la
solitudine. Eppure, gli uomini hanno un grande vantaggio sulle donne quando si tratta di vincere l'isolamento, ed è
rappresentato dalla maggiore facilità con cui possono trovare una nuova compagna.
Nel prevedere le reazioni alla vedovanza bisogna evitare le generalizzazioni basate sul sesso e adottare invece un
approccio fondato sulla teoria ecologica dei sistemi di sviluppo, cioè considerare numerosi fattori. Sono vari gli elementi
in grado di plasmare l’esperienza della vedovanza:
• Secondo un gruppo di ricercatori, i vedovi che mostrano un ATTACCAMENTO INSICURO sono più inclini a non
sentirsi appoggiati dagli altri anche se sono circondati dal più caloroso affetto di figli e amici.
• È possibile fare previsioni sull'adattamento di un coniuge alla nuova condizione di vedovanza considerando la
QUALITÀ DELLA VITA DEL PARTNER DECEDUTO. I ricercatori hanno scoperto che, se il marito o la moglie di chi
era rimasto vedovo era stato una persona ottimista, gioiosa e altamente soddisfatta della propria vita fino a 4 anni
prima, il coniuge che gli o le sopravviveva si dimostrava resiliente dopo la sua scomparsa. Quindi, aver avuto accanto
a sé un partner incoraggiante e affettuoso continua a sostenere emotivamente il componente della coppia che
sopravvive per il resto della sua vita.
• L’AMBIENTE nel suo complesso può fare la differenza. In una ricerca è emerso che, se gli anziani vivevano in una
zona ad alta concentrazione di persone rimaste vedove, le loro probabilità di morire dopo la scomparsa del partner
erano ridotte.
• Per le donne è di grande importanza vivere in una SOCIETÀ SOLIDALE. In uno studio comparativo, i ricercatori che
hanno raccolto le testimonianze di donne svizzere rimaste vedove nel 2011 hanno notato che queste riportavano
meno problemi sociali e finanziari rispetto alle loro omologhe nel 1979, un'epoca in cui le donne avevano meno
chance nella vita e potevano contare su aiuti più scarsi da parte dello Stato.
Dopo il lutto i figli devono necessariamente lasciare che il genitore rimasto solo abbia un nuovo legame sentimentale.
Nuove storie d'amore incorrono facilmente nella contrarietà dei figli soprattutto dopo un divorzio; tuttavia, in uno studio
condotto sul corteggiamento nell’età avanzata, quando i legami padre-figlio erano in qualche misura ambivalenti,
soprattutto le figlie erano propense a dimostrare una forte rabbia quando il padre vedovo allacciava una nuova relazione
sentimentale.