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Il principe – capitolo 25

il capitolo è il seguito ideale del XXIV, in cui l'autore ha spiegato che i sovrani
italiani hanno perso i loro Stati per "ignavia" e non a causa della fortuna, e qui
essa viene definita come l'azione del caso che influisce solo su metà delle vicende
umane, mentre per il resto il principe può opporre ad essa la "virtù" che consiste
nella capacità di prevenire ogni evenienza e di adattarsi alle diverse circostanze
mutando il proprio atteggiamento. Il passo è importante perché segna la distanza
tra Machiavelli e la cultura medievale, in cui la fortuna veniva vista come
espressione della volontà divina e del tutto separata dall'azione umana.
Secondo Machiavelli l'uomo deve saper cogliere le occasioni che la Fortuna gli
offre e poi saperle sfruttare a proprio vantaggio. Anche partendo da una
situazione potenzialmente negativa si può arrivare a qualcosa di positivo.
Un rapporto fra virtù e fortuna sempre conflittuale come in dante che fece della
fortuna una manifestazione di virtu’ angelica, in Petrarca e in Boccaccio se ne dà
una dimensione tragica. Per Machiavelli in questo capitolo sostiene che tutto il
suo sapere, tutta la sua astuzia è soggetto ai colpi della fortuna.
Egli però in uno slancio visionario, immagina la nascita di uno stato nuovo e
guardando al fine di uno stato saldo e duraturo pensa di poter fronteggiare la
fortuna. Nel capitolo finale il 26 troviamo l’esortazione al principe a prendere in
mano lo stato e portarlo vittorioso al di la dei colpi della fortuna.
In questo passo l'autore, riassumendo tutte le varie accezioni che la fortuna può
avere nella gestione di uno stato, dichiara che la fortuna diventa spesso un alibi
per lasciarsi andare agli eventi senza opporsi e senza mai prendere posizione e
contrastarla.
La fortuna definita quale capriccio del caso e non certo come espressione del
giudizio divino, influisce su metà delle azioni umane ed è quindi possibile opporsi
ad essa con la "virtù", specie prevedendo i possibili rovesci della malasorte e,
soprattutto, prendendo precauzioni per tempo.
L'autore paragona l'azione della fortuna a un fiume in piena, che quando esonda
devasta le coltivazioni circostanti, ma la cui azione distruttiva può essere mitigata
con la costruzione di argini e canali; come succede per l’Italia in cui manca
l’autentica virtù di saper variare il progetto politico al mutare degli eventi, invece
di proteggersi ed unirsi ha lasciato allo straniero la possibilità di invaderla e
occuparla.
Machiavelli esprime una visione moderna e pienamente "umanistica" della
fortuna, descritta appunto come espressione della pura casualità, e mostra tutta
la sua distanza dalla cultura medievale che considerava invece la fortuna come
intelligenza angelica, "ministra" del volere divino ed esecutrice della sua giustizia,
quindi come qualcosa cui l'uomo non poteva assolutamente opporsi.
La principale "virtù" che il principe saggio deve usare contro l'azione della fortuna
è soprattutto il sapersi adattare alle diverse circostanze, mutando la propria linea
di condotta a seconda di ciò che la situazione richiede e diventando "respettivo"
oppure "impetuoso", in base al bisogno: Machiavelli riconosce che questa capacità
è molto rara, poiché non c'è cosa più difficile per un uomo politico di cambiare
modo di fare e forzare la propria indole, eppure secondo la sua riflessione ciò è
indispensabile per ottenere buoni successi in campo politico-militare
La virtù per Machiavelli è una forza energica senza connotati morali, capace di
incidere nella realtà.
Nel finale del capitolo Machiavelli afferma che, in ogni caso, per un uomo politico
o un condottiero è meglio agire in modo impulsivo che troppo cauto e ciò perché
la fortuna "è donna" e per dominarla è necessario "batterla e urtarla", mentre in
quanto donna sarebbe più portata ad apprezzare gli uomini giovani che con più
audacia la comandano: emerge in queste parole un lato misogino del pensiero di
Machiavelli.

Nell’ultimo capitolo vi è uno stile esortativo, un incitamento agli italiani a


riprendere in mano le proprie sorti è una appassionata e retorica esortazione ai
signori di Firenze perché si mettano alla testa di un moto di riscossa nazionale e
guidino una sorta di ribellione armata contro gli eserciti stranieri che percorrono
l'Italia e ne causano, secondo la visione dell'autore, la decadenza politica e
militare, azione per cui egli vede un momento straordinariamente propizio. Il testo
ha un tono vibrante e privo del carattere analitico dei passi precedenti, con un
largo uso di immagini bibliche e religiose (a cominciare dal paragone tra la
situazione italiana e quella dei popoli ebraico, persiano e ateniese che trovarono
in Mosè, Ciro e Teseo i loro condottieri e salvatori) e assumendo a tratti un tono
profetico, che individua appunto nella "casa" medicea la famiglia in grado di
guidare gli italiani contro gli stranieri visti come "barbari" e responsabili delle
"piaghe" che affliggono il Paese, bisognoso di cure come un malato in fase
avanzata.

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