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Niccolò Machiavelli

Il Principe
Introduzione di
Filippo La Porta

EDIZIONE INTEGRALE CON NOTE


TESTO IN ITALIANO CORRENTE A FRONTE
Edizione originale: De Principatibus / Il Principe (1532)

Introduzione: Filippo La Porta


Note: Maria Rosa Brizzi

www.giunti.it

© 2023 Giunti Editore S.p.A.


Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia
Via G. B. Pirelli 30 – 20124 Milano – Italia

ISBN: 9788809931824

Prima edizione digitale: gennaio 2023


Filippo La Porta
presenta in 10 parole chiave
Il Principe
1
MACHIAVELLISMO
2
REALISMO
3
ITALIA
4
LIBERTÀ
5
FORTUNA
6
PESSIMISMO
7
BUONUMORE
8
NONDIMANCO
9
INATTUALE
10
PROFETA
Avvertenza al testo
Nell’Introduzione, i rimandi al Principe indicano il numero romano del testo ori-
ginale, seguito dal numero arabo che indica il paragrafo.
1
MACHIAVELLISMO

Anzitutto Machiavelli non coincide, come invece si con-


sidera nella vulgata, con il machiavellismo, e cioè con un’idea
della politica fatta quasi esclusivamente di inganni, bugie,
sopraffazione, cinismo, imbrogli, bassi calcoli. Anche se non
vi è del tutto estraneo. Nel Dizionario della lingua italiana
Garzanti alla voce «machiavellico» leggiamo: «astuto e privo
di scrupoli». Pochissimi altri scrittori, peraltro, hanno gene-
rato un aggettivo che non si riferisce necessariamente alla
loro opera. Forse soltanto «boccaccesco» nel senso di «licen-
zioso, sboccato». Ma non «dannunziano», che può significare
magniloquente, ricercato, estetizzante, ma sempre in riferi-
mento allo stile di D’Annunzio o di suoi imitatori.
Ora in particolare nel De Principatibus, scritto nel 1513
ma edito solo postumo nel 1532 da Antonio Blado d’Asola
col titolo Il Principe, troviamo alcuni passi in cui si rac-
comanda al politico un comportamento “amorale”, spre-
giudicato fino all’uso di mezzi spietati pur di raggiungere
l’obiettivo. E che giustificano l’espressione inglese, diffu-
sa nel periodo elisabettiano, “Old Nick”, per designare
niente meno che il diavolo. In verità la frase passata in

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proverbio – “il fine giustifica i mezzi” – non c’è nell’opera
di Machiavelli.
C’è però una pagina egualmente inquietante in cui si
dice che il principe non deve realmente possedere le qualità
di onestà, integrità, lealtà «ma è bene necessario parere d’a-
verle», e prosegue: «parere pietoso, fedele, umano, intero,
relligioso» (XVIII, 4). Anzi, in verità se si hanno sempre,
queste virtù, «sono dannose»: qui Machiavelli sembra, per
un attimo, all’altezza dell’Old Nick! Insomma, conta solo la
convenienza, e la sopravvivenza dello stato: se rispettare la
parola data mi danneggia, meglio non rispettarla. Occorre
essere grandi simulatori e dissimulatori.
Il machiavellismo è fatto di stereotipi e leggende che
nascono però da passi almeno controversi dell’opera di ser
Niccolò. Questa stessa pagina si può anche leggere come
un monologo di Groucho Marx (che nei suoi personaggi
metteva comicamente a nudo il potere, incarnandolo con
trasparente cinismo) e come smascheramento della logica
più inconfessabile del tiranno (così ha fatto sulla scena Da-
rio Fo). Resta perlomeno un margine di ambiguità nell’in-
terpretazione. Non mi dilungo sulle riflessioni intorno agli
atti necessari di crudeltà, né sull’appello all’unità del nostro
martoriato paese.
Ma il passo che forse ha ispirato la celebre sentenza
è il seguente: «nelle azioni di tutti li òmini, e massime de’
principi […] si guarda al fine»; e ancora: «Facci dunque uno
principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi sempre
saranno iudicati onorevoli» (XVIII, 5-6). Per ottenere il fine
dell’ordine e della stabilità politica, quasi precondizione di
ogni giustizia, il principe può ricorrere a mezzi violenti:
«Era tenuto Cesare Borgia crudele, nondimanco quella sua
crudeltà aveva racconcia la Romagna, unitola, ridottola in

8 Il Principe
pace e in fede» (XVII, 1). Chi realizza un ordine pacificato
si rivela più «pietoso» di chi per «troppa pietà» lascia che si
scateni un disordine pieno di «occisioni o rapine» (XVII, 1).
Anche se, beninteso, deve comunque trattarsi di qualcosa
di straordinario, a cui si è spinti dalla necessità, e cita in
proposito i versi dell’Eneide relativi a Didone.
Il concetto stesso di “moralità” tende a scolorire in quel-
lo di “efficienza” e il concetto di “virtù” in quello di “ef-
ficacia” e di “energia”: un politico “morale” è un politico
capace egualmente di prudenza e audacia («meglio essere
impetuoso che respettivo», XXV, 3), di avvedutezza e di
temperata “pazzia” (poiché la Fortuna è essa stessa pazza!).
Certo nella sterminata bibliografia sul Principe, il libro
italiano più tradotto al mondo accanto a Pinocchio di Collo-
di e alla Commedia dantesca, possiamo distinguere almeno
due filoni. C’è chi lo interpreta senz’altro come manuale per
i tiranni e i gangster (Bertrand Russell) e chi invece ritiene
che voleva solo mostrare al popolo come sono fatti i tiran-
ni, e così metterli a nudo: è la cosiddetta lettura “obliqua”,
inaugurata da Diderot e Rousseau, e continuata, tra gli al-
tri, da Althusser, che considera Il Principe rivolto al popolo
affinché diventi “nazione”. 
Soprattutto il suo disincantato realismo nell’affrontare la
politica, ma anche il suo amore repubblicano per la libertà,
influenzò i maggiori pensatori d’Occidente: Spinoza, Hob-
bes, Fichte ed Hegel che, nella Costituzione della Germa-
nia (1803), vede nel Principe l’appello a un’unità nazionale
perduta e da recuperare; Marx, secondo una genealogia ri-
costruita meticolosamente da Maurizio Tarantino; oltre al
nostro Foscolo, che nei Sepolcri ribalta l’immagine negativa
del Principe, per cui insegnando l’arte del governo ai principi
(«temprando lo scettro a’ regnatori») ci mostra di quali violen-

Le 10 parole chiave di Filippo La Porta 9


ze grondi il potere («Di che lagrime grondi e di che sangue»);
mentre per Manzoni era un «mariolo, sì, ma profondo!», come
fa dire a don Ferrante nei Promessi sposi. Infine recentemente
la Scuola di Cambridge ha letto Machiavelli come mediato-
re tra l’idea di libertà degli antichi e le moderne rivoluzioni
borghesi.
Nel Novecento molteplici sono stati i tentativi di appro-
priazione, spesso su fronti opposti: Salvemini, Mussolini,
Gramsci (il principe-partito), Croce (la celebre separazione
di politica e morale).

2
REALISMO

La riflessione di Machiavelli, che si alimenta di molti


esempi storici ed è improntata al massimo del realismo,
intende inseguire «la verità effettuale della cosa» (XV, 1) e
si sforza di considerare come si vive concretamente e non
come si dovrebbe vivere.
Dunque il bene, per trionfare, deve a volte passare per
il male, però il bene rimane bene e il male male. In lui non
troveremo mai la transvalutazione nietzschiana dei valori.
Sulla supposta trasformazione dialettica o alchemica del
male in bene non è mai ambiguo. Certo, la politica è «ac-
cettazione virile del male» (Prezzolini). E il principe può ri-
correre alla forza, e non alle leggi, se serve, ma deve sapere
che si tratta del modo proprio delle «bestie» (XVIII, 2). La
crudeltà si può usare ma, possibilmente, tutta in una volta
(di questa precisazione si dovette ricordare Lenin nel 1922)
e come stato d’eccezione. Il principe dovrebbe sempre per-
seguire il consenso, anche solo per ragioni di convenienza.

10 Il Principe
La crudeltà non è mai gratuita, fine a sé stessa. Piuttosto è
una triste, dolorosa necessità – legata al destino e alla con-
dizione umana, alla prepotenza che a volte sembra incoer-
cibile della fortuna – che Machiavelli non tenta di edulco-
rare: un’azione infame resta infame anche se necessaria. è
come se ci dicesse che la cattiveria degli uomini non è tanto
l’effetto di una caduta originaria (indimostrabile) quanto
un’ipotesi utile a chi governa.
Probabilmente il politico deve immaginare che gli uo-
mini siano cattivi, e cioè avidi ed egoisti per poter fare bene
il proprio mestiere: «a chi dispone una republica è neces-
sario presupporre tutti gli uomini rei» (terzo capitolo del
primo dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, 1513-
1519). Così il celebre motto sul “pensare male degli altri”
che sarebbe peccato ma ci fa indovinare le cose, resta una
regola ignobile nella nostra vita quotidiana ma, relegata
nello spazio della politica, potrebbe trovare una parziale ri-
abilitazione. Per un politico l’etica cristiana – compassione,
clemenza verso i nemici, disprezzo per i beni del mondo – è
controindicata.
Chi si trova a disporre di un potere, per Machiavelli deve
usarlo, non avrebbe senso astenersene: «se Francia adunque
posseva con le forze sua assaltare Napoli, doveva farlo» (III,
9); in ciò perpetuando una tradizione di pensiero che risa-
le almeno al celebre e “realistico” dialogo dei Melii e degli
Ateniesi, raccontato da Tucidide (Storie, libro V). Parlando
di Agatocle, che liberò Siracusa dai Cartaginesi, Machiavelli
ne elogia l’abilità nell’affrontare i pericoli e nel conservare il
principato, ma aggiunge che «Non si può ancora chiamare
virtù amazzare li sua cittadini, tradire li amici, essere sanza
fede, sanza pietà, sanza relligione» (VIII, 3). In questo modo
Agatocle acquistò «imperio ma non gloria», né possiamo cele-

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brarlo tra gli eccellentissimi. Nondimeno Machiavelli insiste
a più riprese sull’infinita mutevolezza della realtà.
La strategia “vincente” nel Principe, in questo senso, si
pone al di là del bene e del male che, come abbiamo visto,
restano comunque distinti tra loro e non interscambiabili,
e tende a sfociare in una capacità adattiva, camaleontica: se
uno si comporta con una certa cautela quando la cautela ser-
ve, va tutto bene ma, «se e’ tempi e le cose si mutano» (XXV,
2), allora va male. Occorre essere capaci di rimodellare il
comportamento sulle cose del mondo, che sono continua-
mente mutevoli, fluide, instabili: sembra quasi di leggere un
manuale zen per manager capaci di flessibilità, di mutare cioè
modo di procedere a seconda delle cangianti circostanze.

3
ITALIA

Insieme a Dante e Petrarca, Machiavelli è stato indicato


come uno dei padri della patria, immaginata dagli scritto-
ri molto prima dei politici. Innumerevoli i passi in cui di-
chiara la sua apprensione per l’Italia, sempre più divisa e
lacerata, in balia di eserciti stranieri, incapace di far fronte
comune: in verità si mostra un po’ ossessionato dalle que-
stioni dell’organizzazione militare, lui che era un esperto
nell’arte della guerra: «non può essere buone legge dove non
sono buone arme» (XII, 2).
Nel XXVI e ultimo capitolo parla dell’Italia che si è ri-
dotta più schiava degli ebrei, più serva dei persiani e più
dispersa degli ateniesi: «sanza capo, sanza ordine, battuta,
spogliata, lacera, corsa». Una situazione di crisi catastrofica
cui vuole trovare una qualche soluzione, aspettando chi «la

12 Il Principe
guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infisto-
lite». E aggiunge: «Vedesi come la prega Dio che le mandi
qualcuno che la redima da queste crudeltà e insolenzie bar-
bare». Il libro si conclude con i versi della canzone «Italia
mia, benché ’l parlar sia indarno» di Petrarca sull’antico
valore degli italici.
Il Principe non è tanto un trattato accademico o un ma-
nuale politico scritto da un osservatore neutrale, quanto un
pamphlet militante rivolto esplicitamente alla casata dei
Medici (affinché si faccia carico di quella missione redentri-
ce seguendo i modelli che le sono additati) e uno strumento
di lotta concepito da chi è personalmente coinvolto nella
temperie di quegli anni. Anche se, bisogna puntualizzare,
l’Italia che aveva in mente Machiavelli non coincide geo-
graficamente con la penisola, e ha dei confini molto sfumati.
In ogni caso il suo ideale resta la repubblica, dunque la li-
bertà, l’indipendenza e sovranità di uno stato e la legge, come
avrà modo di chiarire nei Discorsi sopra la prima deca di Tito
Livio, cominciati prima della stesura del Principe, interrotti
e poi ripresi. Ora, per rendere giustizia al Principe – che pe-
raltro Gobetti giudicava anacronistico, poiché scritto prima
dell’affermarsi della democrazia e dello stato moderno – va
ricordato l’accento che sempre mette sul consenso popolare,
necessario ad ogni governo che si voglia stabile: sì, temuto ma
non odiato, «la migliore fortezza che sia è non essere odiato
dal popolo» (XX, 7). In un altro punto scrive che sarebbe me-
glio governare con le leggi che con la forza ma, data la natura
umana, non sempre è concretamente possibile. Da un lato lo
stato deve mettere ordine nel caos con tutti i mezzi possibili,
dall’altro però viene riaffermata una fiducia nel valore “civi-
le” dei conflitti e dei tumulti (la libertà nasce dal dissenso),
come momento di dinamismo sociale e fattore decisivo della

Le 10 parole chiave di Filippo La Porta 13


potenza di una repubblica, la quale anche perciò è preferibile
al principato, dove invece si realizza l’“uguaglianza dei ser-
vi”: beninteso, “conflitti” regolati dalle leggi.

4
LIBERTÀ

A proposito dell’ideale della “civitas”, del bene comu-


ne cui sacrificare all’occorrenza la vita dei singoli, bisogna
però fare un doveroso chiarimento. Nella sua opera non si
contrappone tanto un’etica classica o pagana a quella cri-
stiana (“polis” vs persona, forza d’animo nelle avversità vs
rassegnazione, bene comune vs salvezza dell’anima indivi-
duale, disciplina vs carità), quanto si mostra per intero la
contraddizione tra le due diverse etiche, come ha osservato
Gennaro Sasso polemizzando con Isaiah Berlin, che pure
ha scritto pagine su Machiavelli per dimostrare che non c’è
una soluzione definitiva al problema di come debbano vi-
vere gli uomini.
La struttura dell’universo machiavelliano è profonda-
mente conflittuale, e in un certo senso sta stretta in qualsiasi
sistema etico, cristiano o pagano. Anche perciò Machiavelli
“pensa per contrari”: per lui la politica non sta dalla parte
del centro ma all’estremità, come scrive Michele Ciliberto
nell’introduzione a Tutte le opere di Machiavelli. Probabil-
mente il Bene, così come la Purezza, non abita più dentro
il mondo della Storia. Ne resta solo un sospiro, una vaga
nostalgia, un sentimento tremante, confinato nel privato,
e dunque senza vere conseguenze. Nella vita pubblica ab-
biamo invece l’esigenza della «securtà», assicurata in modi
possibilmente razionali ma anche decisi da parte dallo sta-

14 Il Principe
to. E comunque tra i «grandi», che vogliono dominare, e il
«popolo», che aspira soltanto a non essere dominato, le sim-
patie di ser Niccolò vanno decisamente al secondo.
L’idea di libertà di Machiavelli non è l’esatta prefigu-
razione di quella liberal-democratica, intesa cioè sia come
assenza di impedimenti sia come autodeterminazione del
cittadino e sua protezione contro gli abusi del potere. Cer-
to, il buongoverno ha il compito di fronteggiare ogni potere
arbitrario, però la libertà dei cittadini nella sua visione deve
soprattutto essere funzionale a uno stato forte e ordinato,
armonico nei suoi organi e capace di tenere a bada la vio-
lenza particolaristica, la fisiologica conflittualità di ogni
società, secondo il pensiero di Gennaro Sasso. È quella
forma di partecipazione che serve come antidoto contro la
tirannide, proprio perché abitua e educa i cittadini alla cura
del bene comune, per riprendere una riflessione di Gabriele
Pedullà.
Più in generale potremmo dire che l’esperienza stessa
della libertà funziona da anticorpo civile contro ogni pos-
sibile e futura tirannide: «chi diviene patrone di una città
consueta a vivere libera e non la disfacci, aspetti di essere
disfatto da quella» (V, 2); e poi uno stato che si è annesso
un altro stato può conservarlo più facilmente quando i suoi
cittadini «non sieno usi a vivere liberi» (III, 2).

5
FORTUNA

Da una parte Machiavelli sembra assumere come totalità,


come assoluto, la politica stessa (sfera non autonoma quanto
esclusiva!), la vita della “polis”, il servizio alla patria, il bene

Le 10 parole chiave di Filippo La Porta 15


comune (nel Principe: la «utilità» di tutti), che viene prima di
qualsiasi considerazione morale. Nelle lettere si sofferma su
molte cose ma è la politica il pensiero fisso. In termini webe-
riani antepone nettamente all’etica dei princìpi – nobile ma
astratta, inattuale – la più concreta etica della responsabilità.
E politica significa anzitutto la centralità del vincolo civile,
di un patto collettivo che lega tutti i cittadini e che fonda il
senso dello stato; dall’altra parte, però, assegna alla politica
dei limiti ben precisi, che coincidono con il riconoscimento
del peso della fortuna nelle nostre esistenze.
La fortuna è l’intreccio inesplicabile e ingovernabile di
eventi che forma la mappa del reale, è una potenza misterio-
sa, prepotente, minacciosa che condiziona i nostri destini, ed
è anche la parte più rigida e immutabile della nostra natu-
ra, «quella zona oscura e non virtuosa del carattere che ogni
uomo, anche il più prudente e virtuoso, racchiude di neces-
sità» (Sasso). Anche solo per questa ragione non può esservi
una vera “scienza” della politica. Occorre fare resistenza alla
fortuna, tentare di arginarla, però la sua stessa incidenza nelle
cose umane impedisce di fare previsioni o di tentare esperi-
menti riproducibili (attitudini che configurano una qualsiasi
“scienza”).
Soffermiamoci sul concetto di fortuna: alla fine del libro
(nel fondamentale capitolo XXV), c’è un colpo di scena che
potrebbe inficiarne l’intero, lungo ragionamento. Vi leggia-
mo infatti che la fortuna è «arbitre della metà delle azioni
nostre». Ora, a noi pare che la “metà” sia tantissimo e forse
ribalta perfino quel motto celebre attribuito a Machiavel-
li sul fine che giustifica i mezzi. Si potrebbe suggerire una
lettura, certamente impropria ma non del tutto abusiva, in
chiave “libertaria”, di queste pagine. Se il caso incide dav-
vero al cinquanta per cento sulle nostre azioni, basterebbe

16 Il Principe
questo a non darci mai la certezza di alcun fine. Dunque
alla luce dell’incidenza della fortuna nelle vicende politiche
non solo il fine non può giustificare i mezzi (non siamo mai
certi che il fine sarà conseguito!), ma in un certo senso, e
come ricorda di continuo il pensiero anarchico nonviolento
dall’Ottocento in poi, non ci sono che i mezzi!
Dunque conta solo la politica come azione diretta, che già
qui e ora modifica noi e l’ambiente, che già adesso ci permet-
te di sviluppare e coltivare alcune virtù civili, senza rinviare
a utopie future, come aveva capito un politico quasi sempre
“minoritario” come l’azionista e socialista Vittorio Foa nella
Gerusalemme rimandata: «Se si vuole salvare la stessa idea del
cambiamento, la stessa Gerusalemme, bisogna rileggere il
presente, scorgere in esso il futuro, non separare più il do-
mani dall’oggi, riscoprire Gerusalemme attorno a noi, dentro
di noi». Il principe non saprebbe che farsene di un consiglio
del genere. Ma siamo poi sicuri che Foa non vada conside-
rato, al contrario, “machiavellicamente” pieno di realismo e
di concretezza nel non voler rimandare indefinitamente ogni
emancipazione politica? Su questo torneremo nell’ultima pa-
rola chiave.

6
PESSIMISMO

Tra Quattrocento e Seicento, da Leon Battista Alberti e


Giordano Bruno a Shakespeare e Calderón, si afferma sem-
pre più l’idea del mondo come palcoscenico dove ognuno
recita la propria parte inseguendo unicamente l’utile, con
ogni mezzo. Quando dimostra scarsa fiducia nella bontà e
nella gentilezza come arti di governo, Machiavelli fa appel-

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lo alle «condizioni umane» (XV, 2). E poi, in vari passi, si ri-
ferisce all’instabilità della nostra natura, all’infinita varietà
delle cose del mondo.
Il suo è un irriducibile pessimismo antropologico, appa-
rentemente non lontano da quello (luterano) che è all’ori-
gine della stessa democrazia, con la sua divisione dei poteri
e il suo sistema di pesi e contrappesi. Anche se laicamente,
Machiavelli non si riferisce a un peccato originale: per lui
la malvagità umana nasce dalla Storia, dalla necessità della
vita associata, dal trovarci tutti in balia di forze perlopiù
ignote – appunto: in balia della fortuna, del caso – e soprat-
tutto dispotiche, crudeli, a cui si è costretti a rispondere
usando la crudeltà. È vero che gli uomini «generalmente»
appaiono perlopiù «ingrati, volubili, simulatori, fuggitori
de’ pericoli, cupidi di guadagno», ma lo stesso Machiavelli
usa l’espressione «generalmente» (XVII, 2).
Potremmo cioè affermare, tentando di mantenerci fedeli
allo “spirito” machiavelliano, che la natura umana risulta
così variegata, imprevedibile, capace di bassezze incredi-
bili e di slanci straordinari (come sapeva Pascal) che non
ha senso né idealizzarla oltre il dovuto e nemmeno ridurla
ai soli interessi materiali, all’angustia dell’utile personale.
Oggi potremmo correggere lievemente questo immedica-
bile pessimismo, alla luce degli studi di psicologia degli ul-
timi decenni, che assumono come “naturali”, tanto quanto
l’egoismo e la lotta per l’esistenza, anche l’istinto a coope-
rare, a collaborare (da cui dipende l’evoluzione stessa), la
compassione e l’altruismo: insomma l’etica non è tanto una
sovrastruttura storica quanto un dato biologico.
Ma c’è un punto decisivo in cui il pessimismo di Ma-
chiavelli s’incrina fatalmente e, sia detto per inciso, questo
non sarebbe potuto accadere a Lutero: ser Niccolò è non

18 Il Principe
solo un storico, un filosofo e un uomo politico ma anche
uno scrittore, un drammaturgo e un poeta. È anzi un auto-
re straordinario, capace di quella «prosa asciutta, precisa e
concisa» e «presentimento della prosa moderna» che France-
sco De Sanctis dovette lodare nella sua Storia della lettera-
tura italiana (1870). Dunque l’arte, il teatro rappresentano
per lui l’unica vera utopia, l’unico luogo dove i conflitti, e
anzi i contrari che scandiscono l’esistenza storica, possono
trovare una provvisoria composizione. L’arte è «un punto
di vista che consente di trasformare la realtà crudele e sen-
za senso di ciò che accade sotto i nostri occhi in un gioco,
in un divertimento; un riscatto crudele, che diventa però
a suo modo una esperienza di emancipazione, di libertà»
(Ciliberto).

7
BUONUMORE

Nella lettera del 31 gennaio 1515 a Francesco Vettori, in


quel momento ambasciatore a Roma, l’autore del Principe
sottolinea che lui e gli altri scrittori possono parere uomini
gravi ma in realtà sono «leggieri, incostanti, lascivi, volti a
cose vane». In ciò assai poco coerenti e “protestanti”, si po-
trebbe aggiungere.
Una volta bisognerebbe scrivere la storia del legame
segreto tra pensiero antidogmatico e umorismo, tra spiriti
liberi e ironia, da Luciano di Samosata a Montaigne, da
Voltaire a Karl Kraus. Tutte le vicende dolorose della vita
non sono riuscite a guastare il buonumore e la giovialità di
Machiavelli, che è sempre attratto dalla sfera del comico,
dalla burla e dal sorriso, dalle commedie e dalle satire. Ne

Le 10 parole chiave di Filippo La Porta 19


scrisse varie, anche a imitazione di Plauto, andate però
disperse. Ci restano la splendida Mandragola, la novel-
la Belfagor arcidiavolo e un rifacimento dell’Asino d’oro
di Apuleio con cui intratteneva i letterati degli Orti Ori-
cellari. È noto come nel suo ritiro di Sant’Andrea, prima
di indossare alla sera i panni regali e curiali per dialogare
con gli antichi (come riferisce nella lettera più famosa del-
la nostra letteratura, sempre al Vettori, del 10 dicembre
1513), amasse andare spesso all’osteria a giocare (a tric
trac, a cricca, a sbaraglino) e scherzare con mugnai e for-
naciari, con la gente del popolo, con cui si scambiava pa-
role “ingiuriose” a fini ludici.
Tale attitudine alla convivialità e al viver lieti è stretta-
mente legata alla sua vocazione di scrittore. Perfino quando
venne arrestato e torturato (con la corda), mandò due sonetti
divertiti a Giuliano di Lorenzo de’ Medici sulla vita in carce-
re: «Menon pidocchi queste parieti / bolsi spaccati, che paion
farfalle; / né fu mai tanto puzzo in Roncisvalle, / o in Sardi-
gna fra quegli alboreti / quanto nel mio sì delicato ostello».
Così quanti individuano nel Principe, pur con qualche
ragione, la forma del trattato scientifico, mostrano di non
comprenderne l’intima natura letteraria, che lo apparenta
a Montaigne. Negli Essais, pubblicati alla fine del Cinque-
cento, Machiavelli è in verità citato solo due volte, ma la
mentalità realistica di ser Niccolò, devoto alla “verità effet-
tuale”, dovette influenzare il pensatore francese, inventore
del moderno saggismo (e anche lui destinato a ricoprire ca-
riche pubbliche: divenne il sindaco di Bordeaux). E lo stes-
so vale per la struttura di molte sue opere, che rivela una
vocazione squisitamente saggistica: lo stesso Principe, al
di là della forma unitaria e monotematica (una concentrata
meditazione sull’arte di governo), si compone di riflessioni

20 Il Principe
sparse, digressioni, citazioni dai classici, esempi, ricordi,
pensieri estemporanei sulla natura umana.
La storia del “personal essay”, il saggio personale, di-
gressivo, in Italia nasce probabilmente con Machiavelli, per
proseguire, in modo carsico e frammentario, con Castiglio-
ne e Monsignor della Casa, con Guicciardini e le lettere di
Tasso, fino a sfociare nello Zibaldone leopardiano.

8
NONDIMANCO

Per certi aspetti Machiavelli, spirito anticlericale e ra-


dicalmente anticristiano (considera la religione solo come
“instrumentum regni”, e poi la sua idea di un universo
eterno confligge con la dottrina della Creazione), potrebbe
essere considerato antesignano della casistica dei gesuiti:
la tradizione di teologia morale di cui Pascal fece una sa-
tira, nel 1656-1657, nelle Lettere provinciali. O meglio: ha
mostrato come pochi altri la perversa dialettica di questa
casistica.
Si pensi a frate Timoteo nella Mandragola, che con i suoi
capziosi discorsi – deve tentare di convincere la riluttan-
te Lucrezia a commettere adulterio, in nome del bene – è
stato visto come precursore della casistica e discendente
dalla filosofia scolastica, o almeno da alcuni passi di que-
sta tradizione, in particolare il consiglio dato ai tiranni da
san Tommaso (o meglio dallo pseudo-san Tommaso, e cioè
Pietro d’Alvernia), di assumere un contegno esteriormente
religioso. Si tratta di quella inesauribile dialettica tra nor-
ma ed eccezione (teologicamente: tra natura e miracolo)
che, nella prosa di Machiavelli, si incarna in un avverbio

Le 10 parole chiave di Filippo La Porta 21


avversativo da lui prediletto: nondimanco, “nondimeno”,
“malgrado ciò”.
Quel nondimanco è il minuscolo sassolino che può in-
crinare qualsiasi sistema di regole. Carlo Ginzbug ha dimo-
strato recentemente la genealogia machiavelliana di questo
concetto: gli argomenti di frate Timoteo ricordano da vicino
le prediche di san Bernardino da Siena («il male può essere
consentito per due motivi: in primo luogo per il bene che ne
può scaturire, in secondo luogo per il male maggiore che per-
mette di evitare…»), debitore verso Gerardo da Siena, a sua
volta studioso di un testo canonista di Giovanni D’Andrea,
professore di diritto.
Ora, il padre di Niccolò, ovvero Bernardo Machiavelli,
nel 1476 comprò vari testi del D’Andrea. In particolare il
docente giustificava la scelta del male minore appellandosi
alla legge umana e divina: ad esempio l’episodio del Genesi in
cui Lot prostituì le proprie figlie per evitare un male maggio-
re, ossia la sodomia. E tutto Il Principe è imperniato su una
traiettoria che va dai princìpi generali, da una regola morale
universale alle eccezioni locali, alla deroga ai princìpi imposta
dalle circostanze. Non avrebbe senso oggi stabilire se avesse-
ro ragione i gesuiti o Pascal oppure, spostandoci ancora più
in là nel tempo, Socrate o i sofisti. Possiamo solo constatare
che in Italia il sistema delle deroghe continue e delle eccezio-
ni locali è penetrato in modo irreversibile nella politica, nella
vita quotidiana e financo nella mentalità. Può anche darsi che
renda più fluida e adattabile la convivenza civile, nondiman-
co accade che ogni paese sviluppi nei suoi cittadini il deside-
rio irresistibile di ciò che gli manca, dal punto di vista civico,
e di cui la propria tradizione è palesemente carente.

22 Il Principe
9
INATTUALE

Machiavelli è attuale in quanto inattuale. Il Principe


può essere letto come un trattatello storico-politico, per
certi versi ancora utile se però non lo separiamo dal proprio
tempo, nel quale erano “normali” il duello e l’assassinio
politico: ci troviamo appena agli inizi della modernità. Po-
tremmo dire: Machiavelli – almeno in prima battuta – non
ha nulla da insegnarci, non ha nulla da dire a noi abitatori di
una democrazia certo imperfetta, contraddittoria, perfino
esausta ma anche imprescindibile in alcune sue premesse
di fondo.
Per Machiavelli probabilmente, così come per i “ma-
chiavellici” governanti cinesi di allora, le dimissioni di
Nixon per lo scandalo del Watergate nel 1974 sarebbero
apparse inspiegabili (come ha osservato lo storico Piero
Melograni). Per mantenere il proprio potere, e conservare
la stabilità politica, l’uomo più potente del pianeta può ben
usare intercettazioni, spionaggio e sabotaggio.
Il principato di Machiavelli, nelle sue varie versioni, non
doveva essere limitato da alcuna divisione dei poteri (che
è il cuore della democrazia), né doveva tener conto dell’o-
pinione pubblica, dei giornali, di una società civile più o
meno strutturata, di fronte alla quale non possono valere
neanche ragioni di sicurezza nazionale (in un primo mo-
mento invocate da Nixon per non rendere pubbliche regi-
strazioni compromettenti). E anche perciò, almeno in un
caso, Machiavelli invita il principe a togliere di mezzo i suoi
nemici se non può indebolirli. Così hanno fatto Mosè, Ciro,
Teseo, Romolo (VI, 3) e così ha fatto Cesare Borgia, abi-
le dissimulatore, uccidendo i capi del partito degli Orsini

Le 10 parole chiave di Filippo La Porta 23


dopo averli ingannati sulle sue intenzioni: «aveva […] gittati
assai buoni fondamenti alla potenzia sua» (VII, 5).
Machiavelli era ben consapevole del conflitto tra politica
e valori e, quando raccomanda l’uso, limitato, della crudel-
tà (che non dovrebbe mai essere efferata), ci appare timo-
roso, dubbioso, ragiona più in termini di rimedi provvisori
e correttivi parziali che in termini di ricette sicure o utopie
da realizzare. Insomma, è un pensatore tragico, antidialet-
tico, lucido ma per certi versi enigmatico, scettico su qual-
siasi cammino della Storia, convinto che le contraddizioni
del vivere civile non abbiano vera soluzione, consapevole
dell’estrema precarietà delle cose umane.
Il Principe è però anche un ricettario “strategico”, un
manuale pieno di suggerimenti e istruzioni – ispirato da
una conoscenza psicologica raffinatissima – che può essere
utile a un politico di qualsiasi epoca. Ma a quale politico?
A chi intenda solo ed esclusivamente vincere. Dunque, e
al netto della crudeltà: alleanze giuste, calcoli pragmatici,
giochi di simulazione, coalizioni opportune, mosse diver-
sive, scelte spiazzanti, accorgimenti tattici favorevoli; oltre
al consiglio, che oggi ci appare quasi malizioso, di «tenere
occupati e’ populi con le feste e spettaculi» (XXI, 5).
Ora, verosimilmente, l’agire politico non è soltanto
vincere e perdere, conquistare la cittadella del potere e poi
mantenerne il controllo più a lungo possibile, ma anche tra-
sformare sé e gli altri, educare le coscienze, creare contro-
poteri, “azione diretta” e “pratica degli obiettivi” (per usare
un linguaggio certo estraneo a Machiavelli), testimonianza
personale e contagio sociale dell’esempio.

24 Il Principe
10
PROFETA

Sappiamo che Machiavelli fece sempre politica, finché


le circostanze non glielo impedirono. Discendente di una
famiglia di nobili decaduti, nel 1498, a soli ventinove anni,
venne messo a capo della Seconda Cancelleria (che dagli
affari interni si estese a quelli esteri), un ruolo equivalente
a quello di sottosegretario agli Esteri, grazie alla segnalazio-
ne del suo maestro, l’umanista Marcello Virgilio Adriani.
Poi, dopo essere stato impegnato in ambascerie varie nelle
corti italiane e straniere, fu inviato a Urbino presso Cesare
Borgia, forse il vero protagonista del Principe, che cadde in
rovina un po’ per una «estrema malignità di fortuna» (VII,
3), per una malattia (se lui «fussi stato sano», VII, 8) e un
po’ per un grave errore politico, per il non felice calcolo del-
le sue forze e possibilità, quando volle sostenere l’elezione
di papa Giulio II, nemico dei Borgia. Nel 1502, grazie al
gonfaloniere Pier Soderini, le sue missioni s’infittirono ed
ebbero modo di crescere di prestigio. Queste esperienze
formative si tradussero in vari scritti (resoconti, appunti,
rapporti), che prefigurarono il pensiero del Principe.
Il segretario fiorentino è stato un politico esemplare.
Esibì la povertà come prova di onestà. Seppe interpretare
il suo ruolo istituzionale con abnegazione e vero senso civi-
co: ai nostri occhi incarna la figura anglosassone del “civil
servant”, puntuale nel lavoro (ogni giorno nel suo grande e
freddo stanzone di Palazzo della Signoria), devoto al bene
comune ed estraneo a qualsiasi calcolo di utilità personale.
Aggiungiamo solo una considerazione laterale: riflettendo
sui due animali additati da Machiavelli come simboli dell’a-
gire politico – la volpe e il leone (l’astuzia e la forza) – se ne

Le 10 parole chiave di Filippo La Porta 25


potrebbe concludere che quando fa politica l’essere umano
non dà precisamente il meglio di sé. Deve avere successo
e quindi non può essere condizionato da scrupoli umani-
tari o di altro tipo. Sapendo di muoversi in un ambiente
inquinato da sospetti e calunnie, dovrà fondare il proprio
comportamento sul calcolo costante di ciò che gli conviene
(a volte la lealtà, altre volte la simulazione e l’inganno), su
una continua, attenta valutazione dei rapporti di forza e sul
massimo di flessibilità morale per adattarsi plasticamen-
te a ogni contesto. Ora, possiamo anche elogiarne l’intra-
prendenza ed energia, ma chiedo sommessamente, e senza
concedere nulla alla perniciosa retorica dell’antipolitica: ci
attrae frequentare un tipo umano di questo tipo?
Dopo la caduta di Pier Soderini, di cui era segretario, e
con il ritorno dei Medici dopo diciotto anni di esilio, Machia-
velli venne cacciato da Palazzo Vecchio nel 1512, arrestato e
torturato (anche se non si poté dimostrare alcuna sua diso-
nestà) perché sospettato di aver preso parte a una congiura
contro gli stessi Medici, e poi esiliato nel suo podere dell’Al-
bergaccio di Sant’Andrea in Percussina, tra Firenze e San
Casciano. Da lì – immerso in una solitudine contemplativa,
nella lettura e nello studio dei classici – venne quasi turbato
dalle lettere di Francesco Vettori, che risvegliarono l’antica
passione politica e il gusto per l’azione. D’altra parte il suo
carattere non poteva sopportare più a lungo l’ozio di quel ri-
tiro coatto. Anche per questo si mise a scrivere febbrilmente,
e a finire in pochissimo tempo, il libro del Principe.
Per poter tornare alla politica attiva voleva ingraziarsi il
favore dei Medici – era dedicato prima a Giuliano poi, dopo
la sua morte, a Lorenzo – i quali peraltro non lo degnarono
di attenzione. Nel susseguirsi convulso delle vicende poli-
tiche fiorentine, quando i Medici caddero di nuovo, a Ma-

26 Il Principe
chiavelli venne revocata l’interdizione dai pubblici uffici,
però anche in questa occasione fu accusato di collusione con
i Medici e poco dopo, nel giugno del 1527, appena un mese
dopo il sacco di Roma a opera dei Lanzichenecchi, morì
abbandonato da tutti e privo di risorse materiali, in ragione
della sua estrema onestà.
La sua figura di profeta disarmato potrebbe ricordare un
personaggio dantesco, il francese Romeo di Villanova, evoca-
to nel canto sesto del Paradiso (il sesto di ogni cantica è quel-
lo “politico”) dall’imperatore Giustiniano. Già ministro del
provenzale Raimondo Berengario IV, a seguito di calunnie fu
messo brutalmente da parte con ingratitudine. Morì vecchio
e povero, come ser Niccolò: «“indi partissi povero e vetusto
/ e se ’l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe / mendicando sua
vita a frusto a frusto, / assai lo loda, e più lo loderebbe.”» (vv.
139-142).
Machiavelli non mendicò il pane ma se il mondo sapesse
il viluppo di dedizione civile, passione disinteressata, ansia
di redenzione, amore per il bene comune, allegria fisiologica
che impronta la sua biografia assai lo loderebbe, e soprat-
tutto non lo appiattirebbe sul turpe “machiavellismo”.

Le 10 parole chiave di Filippo La Porta 27


Bibliografia di riferimento
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I. Berlin, Controcorrente. Saggi di storia delle idee, Adelphi, Milano 2000.
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velli, Tutte le opere, Bompiani, Milano 2018.
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V. Foa, La Gerusalemme rimandata, Einaudi, Torino 1985.
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G. Pedullà, Machiavelli in tumulto. Conquista, cittadinanza e conflitto nei “Di-
scorsi sopra la prima deca di Tito Livio”, Bulzoni, Roma 2011.
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zelli, Roma 2018.
G. Prezzolini, Vita di Nicolò Machiavelli fiorentino, Longanesi, Milano 1969.
G. Sasso, Niccolò Machiavelli, I vol., Il pensiero politico, Il Mulino, Bologna 1993
(nuova edizione, rivista, di un saggio pubblicato nel 1958).
M. Tarantino, Il principe nella tradizione politico-letteraria europea dell’Otto-
cento, in Il Principe di Niccolò Machiavelli e il suo tempo. 1513-2013, Treccani,
Roma 2013.
M. Viroli, La redenzione dell’Italia. Saggio sul “Principe” di Machiavelli, Laterza,
Roma-Bari 2013.

28 Il Principe
DE PRINCIPATIBUS
IL PRINCIPE
Nicolaus Maclavellus
ad Magnificum Laurentium Medicem
1

Sogliono el più delle volte coloro che desiderano acquista-


re grazia appresso a uno principe farseli incontro con quelle
cose che in fra le loro abbino più care o delle quali vegghino
lui delettarsi; donde si vede molte volte essere loro presentati
cavalli, arme, drappi di oro, prete preziose e simili ornamenti
degni della grandezza di quelli. Desiderando io adunque of-
ferirmi alla Magnificenzia Vostra con qualche testimone della
servitù mia verso di Quella, non trovando intra la mia sup-
pellettile cosa quale io abbia più cara o tanto essistimi quanto
la cognizione delle azioni delli òmini grandi, imparata con
una lunga esperienzia delle cose moderne e una continua
lezione delle antique, le quali avendo io con gran diligenzia
lungamente escogitate e essaminate, e ora in uno piccolo vo-
lume ridotte, mando alla Vostra Magnificenzia; e benché io
iudichi questa opera indegna della presenzia di Quella, ta-
men confido assai che per sua umanità li debba essere accet-
ta, considerato come da me non li possa esser fatto maggiore
dono che darle facultà di potere in brevissimo tempo inten-
dere tutto quello che io in tanti anni e con tanti mia disagi e

1
Magnificum… Medicem: quello che Machiavelli chiama Lorenzo de’ Medici
è Lorenzo di Piero de’ Medici (1492-1519), unico figlio maschio di Piero “il
Fatuo” de’ Medici e di Alfonsina Orsini e perciò nipote di Lorenzo il Ma-
gnifico. Fu signore di Firenze a ventidue anni e anche il primo e unico duca
di Urbino della dinastia Medici.

30 De Principatibus - Ad Magnificum Laurentium Medicem


Niccolò Machiavelli
al Magnifico Lorenzo de’ Medici

Di solito le persone che desiderano avere la protezione


di un principe si rivolgono a lui offrendo quanto di più
caro hanno oppure quanto pensano possa fargli piacere;
succede spesso pertanto che al principe vengano offerti in
dono cavalli, armi, tessuti preziosi e gemme, oggetti del
tutto degni della sua grandezza. Poiché dunque deside-
ro presentarmi al Magnifico con un segno che testimoni
tutto il mio rispetto, non ho trovato tra quanto posseggo
una cosa che consideri più cara o stimi di più che cono-
scere le azioni dei potenti: una conoscenza che ho impa-
rato sia attraverso la lunga esperienza maturata nel corso
di questi anni, che attraverso lo studio del mondo antico.
Ho analizzato e a lungo meditato con diligenza tali azio-
ni, le ho raccolte in poche pagine e ora le invio al Ma-
gnifico. E nonostante consideri quest’opera poco degna
d’esserle presentata, sono tuttavia fiducioso che, con gran
benevolenza, possa essere ben accolta, dato che non ho a
disposizione nien’altro da offrirle se non la possibilità di
comprendere, in tempi brevissimi, tutto quanto ho cono-
sciuto e capito io nel corso di anni e anni, in una vita piena
di pericoli e disagi. Non ho arricchito questo scritto con
un periodare ampio e solenne, carico di retorica o di qua-
lunque altra ricercatezza linguistica puramente formale,
come di solito fanno molti, per esprimersi; io ho voluto

Il Principe - Al Magnifico Lorenzo de’ Medici 31


periculi ho conosciuto. La quale opera io non ho ornata né
ripiena di clausule ample o di parole ampullose e magnifiche
o di qualunque altro lenocinio o ornamento estrinseco, con li
quali molti sogliono le loro cose descrivere e ornare, perché io
ho voluto o che veruna cosa l’onori o che solamente la varietà
della materia e la gravità del subietto la facci grata. Né voglio
sia reputata presunzione se uno omo di basso e infimo stato
ardisce discorrere e regolare e’ governi de’ principi, perché
così come coloro che disegnono e’ paesi si pongono bassi nel
piano a considerare la natura de’ monti e de’ luoghi alti, e per
considerare quella de’ bassi, si pongono alto sopra’a’ monti;
similmente, a conoscere bene la natura de’ populi bisogna
esser principe, e a conoscere bene quella de’ principi bisogna
esser populare.
Pigli adunque Vostra Magnificenzia questo piccolo dono
con quello animo che io lo mando. Il quale se da Quella fia
diligentemente considerato e letto, vi conoscerà dentro uno
estremo mio desiderio che Lei pervenga a quella grandezza
che la fortuna e le altre sue qualità li promettano. E se Vo-
stra Magnificenzia dallo apice della sua altezza qualche volta
volgerà li occhi in questi luoghi bassi, conoscerà quanto io
indegnamente sopporti una grande e continua malignità di
fortuna.

32 De Principatibus - Ad Magnificum Laurentium Medicem


che, senza altr’orpello, soltanto la novità dell’argomento e
l’importanza del soggetto rendessero la mia opera gradita.
Non voglio che sia considerata presunzione il fatto che un
uomo qualunque, di nessuna levatura sociale, pretenda di
esaminare e riconoscere le regole alla base del governo dei
principi; infatti, come chi disegna un paesaggio osserva
dal basso il profilo dei monti e tutto quanto sta in alto,
mentre osserva dall’alto tutto quanto sta in basso, così
per conoscere a fondo la natura del popolo bisogna essere
principe, mentre per conoscere la natura del principe bi-
sogna appartenere al popolo.
Accetti dunque il Magnifico questo piccolo dono con
lo stesso spirito che mi anima nel mandarglielo; se vorrà
leggerlo e considerarne accuratamente il contenuto, sa-
prà che il mio desiderio maggiore è quello che Lei possa
raggiungere, con le sue qualità e capacità, e favorito dalla
fortuna, grandi traguardi. E se il Magnifico, dall’alto dei
successi raggiunti, si degnerà di volgere qualche volta lo
sguardo verso il basso, si renderà conto di quanto io, sen-
za meritarla, debba continuare a sopportare una grande e
cattiva fortuna.

Il Principe - Al Magnifico Lorenzo de’ Medici 33

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