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Il Principe
Introduzione di
Filippo La Porta
www.giunti.it
ISBN: 9788809931824
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pace e in fede» (XVII, 1). Chi realizza un ordine pacificato
si rivela più «pietoso» di chi per «troppa pietà» lascia che si
scateni un disordine pieno di «occisioni o rapine» (XVII, 1).
Anche se, beninteso, deve comunque trattarsi di qualcosa
di straordinario, a cui si è spinti dalla necessità, e cita in
proposito i versi dell’Eneide relativi a Didone.
Il concetto stesso di “moralità” tende a scolorire in quel-
lo di “efficienza” e il concetto di “virtù” in quello di “ef-
ficacia” e di “energia”: un politico “morale” è un politico
capace egualmente di prudenza e audacia («meglio essere
impetuoso che respettivo», XXV, 3), di avvedutezza e di
temperata “pazzia” (poiché la Fortuna è essa stessa pazza!).
Certo nella sterminata bibliografia sul Principe, il libro
italiano più tradotto al mondo accanto a Pinocchio di Collo-
di e alla Commedia dantesca, possiamo distinguere almeno
due filoni. C’è chi lo interpreta senz’altro come manuale per
i tiranni e i gangster (Bertrand Russell) e chi invece ritiene
che voleva solo mostrare al popolo come sono fatti i tiran-
ni, e così metterli a nudo: è la cosiddetta lettura “obliqua”,
inaugurata da Diderot e Rousseau, e continuata, tra gli al-
tri, da Althusser, che considera Il Principe rivolto al popolo
affinché diventi “nazione”.
Soprattutto il suo disincantato realismo nell’affrontare la
politica, ma anche il suo amore repubblicano per la libertà,
influenzò i maggiori pensatori d’Occidente: Spinoza, Hob-
bes, Fichte ed Hegel che, nella Costituzione della Germa-
nia (1803), vede nel Principe l’appello a un’unità nazionale
perduta e da recuperare; Marx, secondo una genealogia ri-
costruita meticolosamente da Maurizio Tarantino; oltre al
nostro Foscolo, che nei Sepolcri ribalta l’immagine negativa
del Principe, per cui insegnando l’arte del governo ai principi
(«temprando lo scettro a’ regnatori») ci mostra di quali violen-
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REALISMO
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La crudeltà non è mai gratuita, fine a sé stessa. Piuttosto è
una triste, dolorosa necessità – legata al destino e alla con-
dizione umana, alla prepotenza che a volte sembra incoer-
cibile della fortuna – che Machiavelli non tenta di edulco-
rare: un’azione infame resta infame anche se necessaria. è
come se ci dicesse che la cattiveria degli uomini non è tanto
l’effetto di una caduta originaria (indimostrabile) quanto
un’ipotesi utile a chi governa.
Probabilmente il politico deve immaginare che gli uo-
mini siano cattivi, e cioè avidi ed egoisti per poter fare bene
il proprio mestiere: «a chi dispone una republica è neces-
sario presupporre tutti gli uomini rei» (terzo capitolo del
primo dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, 1513-
1519). Così il celebre motto sul “pensare male degli altri”
che sarebbe peccato ma ci fa indovinare le cose, resta una
regola ignobile nella nostra vita quotidiana ma, relegata
nello spazio della politica, potrebbe trovare una parziale ri-
abilitazione. Per un politico l’etica cristiana – compassione,
clemenza verso i nemici, disprezzo per i beni del mondo – è
controindicata.
Chi si trova a disporre di un potere, per Machiavelli deve
usarlo, non avrebbe senso astenersene: «se Francia adunque
posseva con le forze sua assaltare Napoli, doveva farlo» (III,
9); in ciò perpetuando una tradizione di pensiero che risa-
le almeno al celebre e “realistico” dialogo dei Melii e degli
Ateniesi, raccontato da Tucidide (Storie, libro V). Parlando
di Agatocle, che liberò Siracusa dai Cartaginesi, Machiavelli
ne elogia l’abilità nell’affrontare i pericoli e nel conservare il
principato, ma aggiunge che «Non si può ancora chiamare
virtù amazzare li sua cittadini, tradire li amici, essere sanza
fede, sanza pietà, sanza relligione» (VIII, 3). In questo modo
Agatocle acquistò «imperio ma non gloria», né possiamo cele-
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ITALIA
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guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infisto-
lite». E aggiunge: «Vedesi come la prega Dio che le mandi
qualcuno che la redima da queste crudeltà e insolenzie bar-
bare». Il libro si conclude con i versi della canzone «Italia
mia, benché ’l parlar sia indarno» di Petrarca sull’antico
valore degli italici.
Il Principe non è tanto un trattato accademico o un ma-
nuale politico scritto da un osservatore neutrale, quanto un
pamphlet militante rivolto esplicitamente alla casata dei
Medici (affinché si faccia carico di quella missione redentri-
ce seguendo i modelli che le sono additati) e uno strumento
di lotta concepito da chi è personalmente coinvolto nella
temperie di quegli anni. Anche se, bisogna puntualizzare,
l’Italia che aveva in mente Machiavelli non coincide geo-
graficamente con la penisola, e ha dei confini molto sfumati.
In ogni caso il suo ideale resta la repubblica, dunque la li-
bertà, l’indipendenza e sovranità di uno stato e la legge, come
avrà modo di chiarire nei Discorsi sopra la prima deca di Tito
Livio, cominciati prima della stesura del Principe, interrotti
e poi ripresi. Ora, per rendere giustizia al Principe – che pe-
raltro Gobetti giudicava anacronistico, poiché scritto prima
dell’affermarsi della democrazia e dello stato moderno – va
ricordato l’accento che sempre mette sul consenso popolare,
necessario ad ogni governo che si voglia stabile: sì, temuto ma
non odiato, «la migliore fortezza che sia è non essere odiato
dal popolo» (XX, 7). In un altro punto scrive che sarebbe me-
glio governare con le leggi che con la forza ma, data la natura
umana, non sempre è concretamente possibile. Da un lato lo
stato deve mettere ordine nel caos con tutti i mezzi possibili,
dall’altro però viene riaffermata una fiducia nel valore “civi-
le” dei conflitti e dei tumulti (la libertà nasce dal dissenso),
come momento di dinamismo sociale e fattore decisivo della
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LIBERTÀ
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to. E comunque tra i «grandi», che vogliono dominare, e il
«popolo», che aspira soltanto a non essere dominato, le sim-
patie di ser Niccolò vanno decisamente al secondo.
L’idea di libertà di Machiavelli non è l’esatta prefigu-
razione di quella liberal-democratica, intesa cioè sia come
assenza di impedimenti sia come autodeterminazione del
cittadino e sua protezione contro gli abusi del potere. Cer-
to, il buongoverno ha il compito di fronteggiare ogni potere
arbitrario, però la libertà dei cittadini nella sua visione deve
soprattutto essere funzionale a uno stato forte e ordinato,
armonico nei suoi organi e capace di tenere a bada la vio-
lenza particolaristica, la fisiologica conflittualità di ogni
società, secondo il pensiero di Gennaro Sasso. È quella
forma di partecipazione che serve come antidoto contro la
tirannide, proprio perché abitua e educa i cittadini alla cura
del bene comune, per riprendere una riflessione di Gabriele
Pedullà.
Più in generale potremmo dire che l’esperienza stessa
della libertà funziona da anticorpo civile contro ogni pos-
sibile e futura tirannide: «chi diviene patrone di una città
consueta a vivere libera e non la disfacci, aspetti di essere
disfatto da quella» (V, 2); e poi uno stato che si è annesso
un altro stato può conservarlo più facilmente quando i suoi
cittadini «non sieno usi a vivere liberi» (III, 2).
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FORTUNA
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questo a non darci mai la certezza di alcun fine. Dunque
alla luce dell’incidenza della fortuna nelle vicende politiche
non solo il fine non può giustificare i mezzi (non siamo mai
certi che il fine sarà conseguito!), ma in un certo senso, e
come ricorda di continuo il pensiero anarchico nonviolento
dall’Ottocento in poi, non ci sono che i mezzi!
Dunque conta solo la politica come azione diretta, che già
qui e ora modifica noi e l’ambiente, che già adesso ci permet-
te di sviluppare e coltivare alcune virtù civili, senza rinviare
a utopie future, come aveva capito un politico quasi sempre
“minoritario” come l’azionista e socialista Vittorio Foa nella
Gerusalemme rimandata: «Se si vuole salvare la stessa idea del
cambiamento, la stessa Gerusalemme, bisogna rileggere il
presente, scorgere in esso il futuro, non separare più il do-
mani dall’oggi, riscoprire Gerusalemme attorno a noi, dentro
di noi». Il principe non saprebbe che farsene di un consiglio
del genere. Ma siamo poi sicuri che Foa non vada conside-
rato, al contrario, “machiavellicamente” pieno di realismo e
di concretezza nel non voler rimandare indefinitamente ogni
emancipazione politica? Su questo torneremo nell’ultima pa-
rola chiave.
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PESSIMISMO
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solo un storico, un filosofo e un uomo politico ma anche
uno scrittore, un drammaturgo e un poeta. È anzi un auto-
re straordinario, capace di quella «prosa asciutta, precisa e
concisa» e «presentimento della prosa moderna» che France-
sco De Sanctis dovette lodare nella sua Storia della lettera-
tura italiana (1870). Dunque l’arte, il teatro rappresentano
per lui l’unica vera utopia, l’unico luogo dove i conflitti, e
anzi i contrari che scandiscono l’esistenza storica, possono
trovare una provvisoria composizione. L’arte è «un punto
di vista che consente di trasformare la realtà crudele e sen-
za senso di ciò che accade sotto i nostri occhi in un gioco,
in un divertimento; un riscatto crudele, che diventa però
a suo modo una esperienza di emancipazione, di libertà»
(Ciliberto).
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BUONUMORE
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sparse, digressioni, citazioni dai classici, esempi, ricordi,
pensieri estemporanei sulla natura umana.
La storia del “personal essay”, il saggio personale, di-
gressivo, in Italia nasce probabilmente con Machiavelli, per
proseguire, in modo carsico e frammentario, con Castiglio-
ne e Monsignor della Casa, con Guicciardini e le lettere di
Tasso, fino a sfociare nello Zibaldone leopardiano.
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NONDIMANCO
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INATTUALE
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PROFETA
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chiavelli venne revocata l’interdizione dai pubblici uffici,
però anche in questa occasione fu accusato di collusione con
i Medici e poco dopo, nel giugno del 1527, appena un mese
dopo il sacco di Roma a opera dei Lanzichenecchi, morì
abbandonato da tutti e privo di risorse materiali, in ragione
della sua estrema onestà.
La sua figura di profeta disarmato potrebbe ricordare un
personaggio dantesco, il francese Romeo di Villanova, evoca-
to nel canto sesto del Paradiso (il sesto di ogni cantica è quel-
lo “politico”) dall’imperatore Giustiniano. Già ministro del
provenzale Raimondo Berengario IV, a seguito di calunnie fu
messo brutalmente da parte con ingratitudine. Morì vecchio
e povero, come ser Niccolò: «“indi partissi povero e vetusto
/ e se ’l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe / mendicando sua
vita a frusto a frusto, / assai lo loda, e più lo loderebbe.”» (vv.
139-142).
Machiavelli non mendicò il pane ma se il mondo sapesse
il viluppo di dedizione civile, passione disinteressata, ansia
di redenzione, amore per il bene comune, allegria fisiologica
che impronta la sua biografia assai lo loderebbe, e soprat-
tutto non lo appiattirebbe sul turpe “machiavellismo”.
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DE PRINCIPATIBUS
IL PRINCIPE
Nicolaus Maclavellus
ad Magnificum Laurentium Medicem
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Magnificum… Medicem: quello che Machiavelli chiama Lorenzo de’ Medici
è Lorenzo di Piero de’ Medici (1492-1519), unico figlio maschio di Piero “il
Fatuo” de’ Medici e di Alfonsina Orsini e perciò nipote di Lorenzo il Ma-
gnifico. Fu signore di Firenze a ventidue anni e anche il primo e unico duca
di Urbino della dinastia Medici.