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Farmacologia 07/10/2021 sbob.

Bianca Nardo; Damiano Melissano; Chiara Musicò


Prof.ssa Daniela Melchiorri rev. Francesco Manes Gravina

Info utili: il programma di quest’anno sarà diviso in due parti. La prima parte riguardante le malattie del
sistema nervoso centrale, in particolar modo la terapia di alcune malattie neurodegenerative, i farmaci per la
terapia del dolore, i farmaci anestetici (sia locali che generali). La seconda parte riguarderà le malattie
psichiatriche, in particolar modo la terapia delle malattie depressive, psicotiche, i farmaci ansiolitici ed infine
la terapia dei disturbi bipolari.
L’esame consisterà in un breve elaborato scritto.

TERAPIA DELLE MALATTIE NEURODEGENERATIVE


Le principali malattie degenerative croniche sono il Morbo di Parkinson, il Morbo di Alzheimer, la
Corea di Huntington e la Sclerosi Laterale Amiotrofica. In particolare, ci concentreremo su quelle
malattie per le quali vi è una terapia farmacologica, ovvero il Morbo di Parkinson e la Demenza di
Alzheimer. In generale, per tutte le malattie neurodegenerative croniche non vi è una cura, bensì si
parla di terapia sintomatica che non è in grado di arrestare la progressione della malattia, al
massimo di rallentarla. È questo il caso di un farmaco utilizzato nella SLA che è il Riluzolo
(RILUTEK), il quale ritarda il momento in cui il paziente arriva a necessitare di una ventilazione
meccanica. Inoltre, per il Morbo di Parkinson sono in corso degli studi, in fase molto iniziale (fase 1
o 2), che hanno lo scopo di trovare una cura. Queste strategie terapeutiche volte alla cura del
Morbo sono due. La prima è la terapia con cellule staminali, trapiantate per 24 mesi ed in teoria in
grado di rigenerare i neuroni dopaminergici (che muoiono nella malattia di Parkinson). Dopo anni
di insuccessi ha portato per la prima volta, lo scorso anno, a dei risultati soddisfacenti. Questi
risultati positivi hanno riguardato un solo paziente, eppure hanno riacceso le speranze. L’altra
strategia terapeutica nel Parkinson, attualmente in studi di fase 1 e 2, è l’immunoterapia con
anticorpi rivolti contro una proteina che sembra svolgere un’azione tossica nel Parkinson.
Per la Demenza di Alzheimer si sta iniziando ad imboccare la via dell’immunoterapia, nonostante
si parli di tentativi molto agli inizi.
Cosa hanno in comune queste patologie neurodegenerative croniche?
Anzitutto sono tutte malattie caratterizzate da un accumulo di proteine, le quali nella maggior parte
dei casi sono tossiche e quindi coinvolte nella neurodegenerazione. Ad oggi la causa
dell’accumulo di queste proteine rimane largamente sconosciuta, e ciò rende conto del fatto che
ancora non vi sia una cura. Inoltre, in alcune di queste patologie le proteine incriminate sono
presenti anche in cervelli di soggetti sani e che non hanno poi sviluppato la malattia. Ciò ha
contribuito ad alimentare la confusione attorno a questo gruppo di malattie.

MORBO DI PARKINSON
Il morbo di Parkinson è prevalentemente una malattia idiopatica. Tuttavia, circa il 10% (o anche
meno) dei pazienti con Morbo di Parkinson presentano una forma familiare. L’importanza della
forma familiare, benché presente solo in una minoranza dei pazienti con Parkinson, è molto
elevata: dallo studio delle forme familiari di Parkinson si sono avute e si continuano ad avere molte
informazioni sulla fisiopatologia della malattia che valgono anche per la forma idiopatica, che
riguarda la stragrande maggioranza della popolazione malata.
Il M. di Parkinson è caratterizzato da due condizioni fondamentali:
1. Degenerazione di una particolare e selettiva popolazione neuronale, ovvero i neuroni
dopaminergici nigro-striatali, quindi neuroni che hanno il soma nella sostanza nera e
proiettano nel corpo striato.In minor parte sono coinvolte anche altre popolazioni di neuroni,
ad esempio altri neuroni dopaminergici.
2. Presenza di inclusioni proteinacee chiamate corpi di Lewy, ovvero membrane chiuse
che contengono al loro interno alcune proteine più o meno danneggiate e tutte ubiquitinate
(viene loro attaccata una coda di ubiquitina che avvia la proteina verso il proteasoma al fine
di essere degradata). Di particolare importanza è la proteina alfa-sinucleina, target dei
tentativi di immunoterapia nel M. di Parkinson.

Come si effettua diagnosi del Morbo di Parkinson?


Si hanno due criteri:
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• Responsività alla levodopa: se ad un soggetto con ipotesi di M. di Parkinson si somministra


una singola dose di levodopa, nella maggior parte dei casi questa dose risolve
temporaneamente (per la durata della dose) i sintomi. Il test alla levodopa ha un valore
predittivo che si aggira attorno all’80-90%, il che significa che in caso di positività al test il
paziente ha una probabilità fino al 90% di essere affetto da M. di Parkinson. Tuttavia, il
limite di questo test è che presenta un’elevata percentuale, circa il 40%, di falsi negativi
(bassa sensibilità), quindi di pazienti che sono effettivamente affetti dal morbo ma che non
sono responsivi al test con singola dose (questo non significa che non saranno responsivi
alla successiva terapia con più dosi di levodopa).
• Presenza dei Segni motori cardinali. Il M. di Parkinson si manifesta infatti con alterazioni
del movimento, in particolare:
1) Tremore a riposo: classico tremore distale (tremano principalmente mani e piedi), con
frequenza che va dai 3 ai 6 Hz, presente dal 70 fino al 100% dei pazienti.
2) Rigidità: comunissima, riguarda dall’89 al 99% dei pazienti.
3) Bradicinesia: ovvero la lentezza nei movimenti, che interessa il 77-98% dei pazienti e
che progredisce verso la completa acinesia in caso di Parkinson non curato.
4) Esordio asimmetrico: 70-75%.
L’instabilità posturale non è da includere nei segni motori cardinali necessari a fare
diagnosi di Parkinson, in quanto si tratta di un segno che non si manifesta precocemente
entro i 5 anni dalla diagnosi (solo un 30-35% dei pazienti la presenta precocemente).

Diagnosi differenziale
Il Parkinson entra in diagnosi differenziale con i cosiddetti Parkinsonismi, ovvero patologie che
presentano segni motori in comune con il Morbo.
1) Parkinsonismi atipici:
• Paralisi sopranucleare progressiva
• Atrofia multisistemica
• Degenerazione cortico-basale
• Malattia da corpi di Lewy diffusi

2) Sindromi Parkinsoniane secondarie a:


• Idrocefalo
• Lesioni vascolari
• Encefaliti
• Farmaci neurolettici, ovvero farmaci che si utilizzano nella terapia delle psicosi. In particolar
modo questi farmaci sono di due tipologie: i classici e quelli di seconda generazione.
Normalmente il termine “neurolettico” è utilizzato per indicare i farmaci di prima
generazione, mentre “antipsicotico” per quelli di seconda generazione.
Qual è la differenza? Entrambi agiscono bloccando i recettori dopaminergici D2, tuttavia
mentre i neurolettici attuano un potente blocco (80%), gli antipsicotici solo per un 40%, a
cui si associano ulteriori meccanismi per bloccare la psicosi.
Poiché i neurolettici bloccano significativamente i recettori dei neuroni dopaminergici,
ovvero gli stessi neuroni implicati nel Morbo, come effetto collaterale possono dare una
sindrome Parkinsoniana secondaria al farmaco.

Quindi, per precisare ulteriormente, il Morbo di Parkinson è la malattia idiopatica o su base


familiare, mentre i Parkinsonismi sono i Parkinsonismi atipici o le Sindromi Parkinsoniane
secondarie (non è corretto dire ad esempio che “un farmaco neurolettico ha indotto un Morbo di
Parkinson”, bensì un Parkinsonismo)

3) Tremore Essenziale: riguarda l’anziano e si distingue dal tremore del Parkinson in quanto si
manifesta in movimento, inoltre, al contrario del Parkinson, non è un tipo di tremore evolutivo.

Queste tre entità non rispondono, o rispondono molto poco, alla terapia con levodopa.
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La difficoltà maggiore si ha nella diagnosi differenziale tra Morbo di Parkinson e Parkinsonismi


atipici.

Parkinsonismi Atipici

Paralisi sopranucleare progressiva


Come dice il nome si tratta di una malattia progressiva, così come il Morbo di Parkinson. Vi è una
paralisi, quindi un’alterazione della capacità motoria, similmente al Parkinson. Differenza
fondamentale è l’esordio: mentre la prevalenza del Parkinson aumenta molto al di sopra dei 65
anni (fatta eccezione per alcune forme familiari), la paralisi sopranucleare progressiva esordisce
intorno ai 40 anni ed ha una prognosi infausta, portando a morte entro 10 anni dalla diagnosi.
La patologia è caratterizzata da una paralisi o rallentamento dei movimenti saccadici verticali verso
il basso. Inoltre, si presenta con una precoce instabilità posturale, con frequenti cadute all’indietro
già nel corso del primo anno dalla diagnosi. Infine, una degenerazione cognitiva e dei sintomi
psichiatrici, comune a tutti i Parkinsonismi atipici e al Parkinson (in cui però è meno precoce). In
particolare, nella paralisi sopranucleare progressiva è piuttosto frequente la depressione.
Non vi sono farmaci efficaci, sebbene un terzo dei pazienti risponda almeno all’inizio ad alte dosi di
levodopa, nei confronti della quale fortunatamente non sviluppano significativi effetti avversi.

Atrofia multisistemica
Patologia caratterizzata anzitutto da una significativa disfunzione autonomica, quindi del sistema
nervoso autonomo. In particolare, sono molto frequenti l’ipotensione ortostatica ed una disfunzione
vescicale. Inoltre, nell’atrofia multisistemica si ha il coinvolgimento del cervelletto, con danno
cerebellare che si manifesta nella forma classica dell’incoordinazione motoria che porta anche a
disartria*, quindi all’incapacità di articolare il linguaggio.
Sono presenti ovviamente i segni motori di Parkinsonismo.
Sono frequenti inoltre i sintomi respiratori, come ad esempio l’apnea notturna, e la costipazione
(con stipsi).
Quali sono le vie nervose coinvolte? In questo caso sono le striato-nigrali (opposto al Parkinson),
e le cerebello-olivo-pontine.
Nell’atrofia multisistemica, così come nel M. di Parkinson, vi sono i corpi di Lewy, che in questo
caso però si trovano negli oligodendrociti e non all’interno dei neuroni. Anche in questo caso un
ruolo fondamentale è svolto dalla alfa-sinucleina, che si accumula e forma fibrille.

*Diversa dall’afasia, incapacità di ideare il linguaggio, sintomo da danno all’area di Broca.

Degenerazione cortico-basale
Patologia pleomorfa, con varie estrinsecazioni cliniche. Anzitutto è caratterizzata da una sindrome
acinetica-ipertonica, inoltre vi sono dei segni di disfunzione corticale, in particolare l’aprassia,
ovvero incapacità di compiere movimenti finalizzati.
Esistono varie forme di aprassia: motoria, ideativa ed ideomotoria. Nella degenerazione cortico-
basale si ha un’aprassia ideomotoria: è alterata la traduzione del processo di rappresentazione
mentale del gesto in comando per determinati gruppi muscolari necessari allo svolgimento del
gesto.
Allo stesso tempo si hanno dei segni di liberazione frontale, i quali si manifestano nel caso in cui il
controllo operato dalla corteccia frontale venga meno rispetto a determinate funzioni.
I segni di liberazione frontale nella degenerazione cortico-basale sono riflessi normalmente
presenti nel bambino molto piccolo che scompaiono con la crescita, ma ricompaiono in patologie
con danno alla corteccia frontale.
Essi sono:
• Grip
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• Riflesso palmo mentoniero, per cui pigiando sul labbro superiore esso protrude come
riflesso di suzione.
• Fenomeno di Babinski, per cui in caso di sfregamento della pianta del piede dal tallone alle
dita si ha un’iperestensione anziché la fisiologica flessione.

Altri segni, caratteristici della degenerazione cortico-basale, sono i miocloni e le distonie. I miocloni
sono dei veloci spasmi della muscolatura (ad esempio il fisiologico singhiozzo o le contrazioni che
si hanno durante il sonno). Le distonie sono invece delle contrazioni muscolari lente e prolungate
che portano a torsioni lente e ripetitive del corpo. Sia per l’atrofia multisistemica che per la
degenerazione cortico basale non vi sono farmaci, per cui si utilizzano esclusivamente farmaci
sintomatici, in particolare miorilassanti che possono essere tra le benzodiazepine (saranno
affrontate nella seconda parte del programma, si tratta principalmente di ansiolitici ma funzionano
anche come miorilassanti ed antiepilettici), e gli antidepressivi, a causa del coinvolgimento
psichiatrico che può provocare depressione.

Tra le altre patologie per le quali bisogna fare una diagnosi differenziale con il morbo di Parkinson
vi è la malattia da corpi di Lewy diffusi, anche definita demenza da corpi di Lewy diffusi. In essa
vi è una forte componente di decadimento cognitivo precoce che si associa a una componente
psichiatrica dalla caratteristica fluttuante. Ciò significa che questi pazienti a distanza di tre o
quattro giorni non presentano più gli stessi sintomi. La differenza è molto eclatante: i pazienti
possono oscillare tra una condizione di alterazione psichiatrica a una condizione di quasi normalità
e ciò aiuta molto nella diagnosi.
Questa malattia è anche caratterizzata dal fatto che i pazienti sono intolleranti ai neurolettici,
quindi sebbene abbiano una componente psichiatrica, non si possono somministrare loro i farmaci
antipsicotici perché gli effetti collaterali sono molto enfatizzati. Questi pazienti, quindi, quasi non si
possono trattare con gli antipsicotici.
Per quanto riguarda il decadimento cognitivo si dà un farmaco che si chiama RIVASTIGMINA (che
abbiamo già nominato al terzo anno perché è un inibitore delle colinesterasi); è l’unico tra gli
inibitori della colinesterasi* a poter essere utilizzato nei confronti del decadimento cognitivo nei
parkinsonismi, e in particolare nella malattia da corpi di Lewy diffusi, e nel morbo di Parkinson
(vedremo poi il motivo di ciò, per il momento ci basta ricordare quanto detto).

SINTOMI PARKINSON
Abbiamo detto che uno dei segni caratteristici del Parkinson è il tremore, che si differenzia dal
tremore essenziale dell’anziano. Negli ultimi anni sono stati messi in commercio dei traccianti
radioattivi a base di iodio123 (radioattivo) che legano il DAT, ossia il trasportatore per la dopamina
che si ritrova sui dopaminergici. Questo tracciante radioattivo a base di iodio 123, da cui prende il
nome (IOFLUPANE), viene utilizzato nella scintigrafia cerebrale per visualizzare la funzionalità dei
neuroni dopaminergici del paziente. Lo ioflupane viene iniettato e colora il DAT che viene espresso
sui neuroni dopaminergici che ancora non sono morti (abbiamo detto che il morbo di parkinson è
una malattia neurodegenerativa dei neuroni dopaminergici quindi quelli che non sono morti lo
esprimeranno, quelli che sono morti no).
Questo tracciante può aiutare nella diagnosi differenziale, ciò non vuol dire che permette di fare
diagnosi ma che insieme ai sintomi motori cardinali, alla responsività alla Levodopa,
all’anamnesi del paziente, aiuta a indirizzare o meno, a seconda dei casi, verso PD. Quindi
rappresenta un ulteriore strumento diagnostico. (Ora c’è anche il generico che costa meno,
sebbene il prezzo sia comunque elevato dato che tutti i traccianti radioattivi sono costosi).
Il morbo di Parkinson è caratterizzato dalla neurodegenerazione selettiva dei neuroni
dopaminergici. Negli altri parkinsonismi atipici ci può essere un danno spiccato nei neuroni
dopaminergici (ma solitamente non è così) e non si riscontra solo in essi come nel Parkinson.
Questo ovviamente aiuta: se vedo una forte riduzione dei neuroni dopaminergici nigrostriatali non
escludo gli altri parkinsonismi, però se a questo si accompagnano i sintomi cardine e la risposta
alla Levodopa, la scintigrafia mi aiuta molto. Sicuramente aiuta a distinguere tra tremore
essenziale e tremore da Parkinson perché nel tremore essenziale i neuroni dopaminergici non
vanno incontro a morte.
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*Le colinesterasi sono gli enzimi responsabili di metabolizzare l’acetilcolina e i loro inibitori hanno
come indicazione la terapia dell’Alzheimer. La trasmissione colinergica è molto importante nella
memoria e nell’Alzheimer i primi neuroni che degenerano sono proprio quelli colinergici.
L’Alzheimer, essendo una demenza, è caratterizzata, tra le altre cose, da una forte riduzione della
memoria; per cui in questa patologia si danno dei farmaci che inibiscono il metabolismo
dell’acetilcolina e quindi favoriscono la trasmissione colinergica. Uno di questi è proprio la
rivastigmina.

Oltre ai sintomi motori precoci che sono utili per fare diagnosi, nel PD abbiamo dei sintomi non
motori. Essi si distinguono in precoci e tardivi.
Precoci vuol dire che il paziente li manifesta quando ancora non si è arrivati giunti a una vera e
propria diagnosi di Parkinson perché, ad esempio, ancora mancano i sintomi motori cardinali.
Sintomi non motori precoci:
Iposmia: cioè alterazione nella capacità di percepire gli odori. Essa ha una frequenza molto
variabile, è presente dal 25 al 97% dei pazienti che poi svilupperanno i sintomi clinici.
Fatica: più del 50% dei pazienti che poi svilupperà i sintomi clinici motori del morbo di Parkinson
accusa fatica negli anni precedenti.
Depressione: questa è una piccola percentuale, circa il 25% dei pazienti ha una depressione
prima della manifestazione dei sintomi motori clinici. Di solito colpisce dopo, ma può anche essere
presente prima della diagnosi.
Disturbi della fase REM del sonno: circa il 30% dei pazienti può presentarli molto prima della
diagnosi, addirittura anche fino a 15 anni prima. Il soggetto parla nel sonno, si muove, si agita,
addirittura si possono avere episodi di sonnambulismo: questi sono dei sintomi molto precoci.
Costipazione: nel 30% che poi svilupperà i sintomi motori del Parkinson.

Sintomi non motori tardivi: si sviluppano molti anni dopo che si è fatta diagnosi di Parkinson.
Disfagia: deriva da un’alterazione nella capacità dei movimenti e si sviluppa tardivamente se si fa
terapia perché in una prima fase i farmaci risolvono i sintomi. Compare dopo circa 15 anni.
Sintomi psichiatrici e sintomi cognitivi: sono molto frequenti in una fase più tarda della malattia.
La disfunzione cognitiva merita alcune parole perché è molto frequente: i soggetti con Parkinson
hanno un rischio sei volte maggiore rispetto alla popolazione senza morbo di Parkinson di
sviluppare demenza, in particolare Alzheimer. Quindi, il decadimento cognitivo è molto intenso e
porta nella quasi totalità dei casi, ossia nell’80% dei pazienti, a demenza dopo circa 20 anni dalla
diagnosi.
La maggior parte dei pazienti sviluppa anche anoressia e disturbi del sistema nervoso
autonomo. Molto spesso si riscontra ipotensione ortostatica e scialorrea. Per la scialorrea ci
sono dei farmaci che funzionano e che vedremo. Sempre tra i disturbi del SNA avremo anche
l’incontinenza urinaria.

Abbiamo visto fino ad ora quali sono i sintomi tipici, precoci o tardivi, motori o non motori del morbo
di parkinson. Se invece il paziente presenta dei sintomi atipici che, invece, sono comuni nei
parkinsonismi atipici, rilevarli ci permette di fare diagnosi differenziale.
La prima cosa che bisogna notare è l’eventuale presenza di instabilità posturale precoce. Se
questa si manifesta probabilmente non è Parkinson. Ugualmente, se ci sono degli episodi di
blocco motorio totale. Essi vengono indicati con il termine inglese di freezing: il paziente si
congela, si blocca e non riesce a muoversi per un periodo di tempo più o meno lungo.
Questo sintomo è presente nel Parkinson ma solitamente NON all’inizio delle manifestazioni
cliniche, esattamente come i sintomi psichiatrici e il decadimento cognitivo. Quindi se siamo in
presenza precocemente di questi sintomi dovremmo indirizzarci verso una diagnosi di tipo diverso.

PATOGENESI
In realtà non vi è una causa singola, molto probabilmente sono cause molteplici, un insieme di
fattori che concorre allo sviluppo della patologia. Sebbene negli ultimi anni abbiamo acquisito un
notevole numero d’informazioni, ancora non conosciamo come effettivamente si arrivi a sviluppare
la patologia. Abbiamo tuttavia delle informazioni su quelli che sono i principali fattori coinvolti.
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In primo luogo, il danno ossidativo, il quale si manifesta principalmente sotto forma di danno ai
mitocondri. Nel Parkinson idiopatico abbiamo un danno al complesso I dei mitocondri. Abbiamo
quest’informazione come referto autoptico. Con un danno ossidativo, principalmente ma non
esclusivamente a livello dei mitocondri, la respirazione mitocondriale è alterata. Questo tipo di
danno mitocondriale è lo stesso che viene causato da una tossina che già abbiamo nominato nel
III anno: l’MPTP, la metilfeniltetraidopiridina, oggi utilizzata per creare dei modelli animali di
Parkinson.
A che servono i modelli animali di Parkinson? Per sviluppare i farmaci. Prima di passare alla
sperimentazione sull’uomo c’è la sperimentazione animale e per sperimentare un farmaco è molto
utile riprodurre nell’animale la malattia umana. Somministrando l’MPTP, soprattutto nei primati ma
limitatamente anche nei roditori, si determinano quei danni che portano alle caratteristiche del PD.
Meccanismo d’azione:
L’MPTP viene metabolizzato dalle MAOB di tipo b e si forma lo ione mpp, molto simile alla
dopamina come struttura. Esso viene scambiato per dopamina dal nostro organismo, “inganna” il
DAT, il trasportatore della dopamina, entra nei neuroni dopaminergici, e qui danneggia i mitocondri
e in particolare il loro complesso I. C’è quindi una similitudine di danno tra questa tossina che
nell’animale da laboratorio causa danni ai neuroni dopaminergici e quello che accade nel
Parkinson idiopatico, in cui vi è un danno ai mitocondri casato principalmente da stress ossidativo.

EXCURSUS SU MPTP
I chimici Hoffman e La-Roche, ormai molto famosi, (hanno dato il nome a delle case farmaceutiche) subito
dopo la Seconda guerra mondiale tentarono di trovare delle nuove sostanze fortemente analgesiche per i
numerosi feriti presenti tra i veterani di guerra, dato che gli analgesici all’epoca disponibili erano i derivati
della morfina che, però, davano dipendenza. Si cercava, quindi, di sintetizzare dei potenti analgesici che non
dessero dipendenza. Sintetizzarono allora una sostanza che sembrava un buon analgesico ma che poi si
scoprì essere un derivato dell’eroina e quindi responsabile dello stesso potere di indurre dipendenza. Dopo
essersi resi conto che la sostanza che avevano sintetizzato, ossia la desmetilprodina, dava ugualmente
dipendenza, pubblicarono i risultati e lasciarono perdere.
La necessità di avere analgesici potenti, non oppiacei, aumentò ulteriormente dopo gli anni ‘50, a causa
della guerra nel Vietnam. Più o meno il 30% dei veterani che tornavano da lì erano dipendenti da eroina, che
assumevano come analgesico. Ci fu allora un forte aumento di eroino-dipendenti e l’eroina cominciò a
circolare nelle strade americane. Le successive guerre, in Turchia e in Afghanistan, portarono per di più a
una riduzione nella produzione dei derivati dell’oppio, dato che questi sono i paesi dove esso si coltiva. In
questa situazione un chimico intraprendente, Barry Kidston, cercò di sintetizzare delle sostanze che dessero
dipendenza, quindi che venissero abusate, allo scopo di venderne il più possibile, ma che non fossero
ancora conosciute dall’FDA americana e quindi non fossero presenti nelle liste dei farmaci narcotici vietati.
Comincia allora a sintetizzare nel garage di casa allestendo un piccolo laboratorio. Legge l’articolo di
Hoffman e La-Roche sulla desmetilprodina e prova a sintetizzarla. Essa è molto facile da sintetizzare, quindi
riesce a produrla. Decide di provarla e poiché essa genera una forte dipendenza, ne diventa dipendente.
Improvvisamente inizia a manifestare gli effetti collaterali di questa sostanza, ossia quelli di tipo
extrapiramidale: ha un blocco motorio completo, non riesce più né a muoversi né a parlare. Gli viene allora
fatta una diagnosi errata di schizofrenia catatonica, dato che lui non potendo parlare non può raccontare
l’accaduto. (È un tipo di schizofrenia in cui, come studieremo, il soggetto si isola dal mondo, non parla più
con gli altri). Kidston viene allora trattato per diversi mesi con l’elettroshock fin quando non viene formulata
l’ipotesi di un parkinsonismo. Allora gli viene somministrata la Levodopa e lui riprende a muoversi, a parlare
e raccontare. Nel suo laboratorio si scoprì che la desmetilprodina era stata contaminata da una tossina,
proprio l’MPTP.
La stessa cosa succede qualche anno dopo in California in gruppo di tossicodipendenti che si sintetizzava la
droga in casa. Questa era una sostanza leggermente diversa della desmetilprodina: era un analogo della
metilidina. Anche questo stupefacente, comunque, è molto facile da sintetizzare e si contamina molto
facilmente. Pure questa volta la contaminazione con MPTP portò questi tossicodipendenti a sviluppare
immediatamente parkinsonismo. Parliamo di parkinsonismo perché indotto da una sostanza, in questo caso
da una tossina, attualmente utilizzata nei modelli animali di parkinsonismo in laboratorio.

Il secondo fattore che contribuisce allo sviluppo del morbo di Parkinson è la COMPONENTE
GENETICA. Abbiamo detto che più o meno un 10% dei pazienti con il morbo ha un Parkinson
familiare. Con analisi di linkage sono stati individuati dei loci, chiamati PARK, associati allo
sviluppo di parkinsonismo.
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In questo campo gli studi sono in continuo progresso vengono continuamente identificati dei nuovi
geni coinvolti con le forme di Parkinson familiare.
I geni principali che sembrano avere una possibile rilevanza terapeutica, come nel caso dell’alfa-
sinucleina, sono due geni a trasmissione autosomica dominante e tre a trasmissione autosomica
recessiva.
I due geni a trasmissione dominante sono appunto l’alfa-sinucleina e il gene LRRK2 (acronimo di
chinasi 2 ricca in ripetizioni di leucina, leucine-rich repeat kinase 2). Questi sono i due geni a
trasmissione autosomica dominante che sono stati identificati e che co-segregano nel il morbo di
Parkinson familiare.
I tre geni a trasmissione autosomica recessiva sono: PARKINA, DJ-1 e il gene PINK-1.
Alfa-sinucleina:
Essa è una proteina ubiquitaria nel nostro cervello, che si trova in moltissime aree dell’encefalo
dei soggetti sani e non solo nei malati di Parkinson. Tuttavia, nel Parkinson tende ad aggregarsi in
oligomeri e fibrille e a precipitare, e in questa forma è tossica per i neuroni. Inoltre, si è visto che
i neuroni si trasmettono questa versione tossica l’un l’altro e si pensa che questo possa essere uno
dei meccanismi per cui avviene la neurodegenerazione cronica.
A che cosa serve normalmente l’alfa-sinucleina, perché ce l’abbiamo? Non si sa, o meglio, sono
state identificate alcune funzioni la cui correlazione con lo sviluppo del morbo di Parkinson tuttavia
non è chiara. La sua è una mutazione con guadagno di funzione. Si è visto che è coinvolta nella
regolazione del trafficking delle vescicole che si trovano nei terminali nervosi, le vescicole che
contengono i neurotrasmettitori. Quindi sembrerebbe che, almeno negli esperimenti in vitro
(nell’uomo non è chiaro), sia coinvolta in una regolazione di tipo negativo nel rilascio dei
neurotrasmettitori dalla vescicola sinaptica. Un guadagno di funzione significherebbe che viene
rilasciato meno neurotrasmettitore. Ricordiamo però che ciò non è stato dimostrato nel morbo di
Parkinson ma si tratta di risultati di studi di laboratorio. Quello che è stato dimostrato è che gli
aggregati di alfa-sinucleina sono tossici, portano a morte i neuroni, i neuroni si passano questi
aggregati e la proteina ubiquitinata si trova nei corpi di Lewy.
Sono attualmente in corso alcune sperimentazioni (sono stati fatti studi clinici di fase 1 che adesso
sono in fase 2), con anticorpi antialfa-sinucleina.
Due sono gli anticorpi che sono entrati in fase clinica di sperimentazione:
CINPANEMAB: è stato sperimentato nello studio SPARK. Questo studio non ha prodotto risultati
positivi, cioè non ha dimostrato l’efficacia dell’anticorpo, per cui il suo sviluppo è stato interrotto per
inefficacia.
PRASINEZUMAB: ha concluso uno studio di fase 2, lo studio PASADENA, in cui l’end point
primario non è stato raggiunto ma in cui una sottopopolazione di pazienti ha avuto un parziale
miglioramento di alcuni parametri motori. Lo studio con questo anticorpo monoclonale è stato fatto
in pazienti con un morbo in fase iniziale. I pazienti non prendevano farmaci o al massimo ne
prendevano una classe particolare: gli inibitori delle monoamino ossidasi di tipo che si danno
da soli all’inizio della manifestazione clinica della patologia. Poiché ci sono stati questi risultati in
un sottogruppo di pazienti, si è iniziato a maggio di quest’anno un secondo studio clinico di fase 2,
sempre con lo stesso anticorpo monoclonale in pazienti con un Parkinson più avanzato e in terapia
con Levodopa e altri. Questi verranno seguiti per 18 mesi, quindi fra qualche anno avremo i
risultati. Esso è l’unico studio avanzato, in corso, che utilizza anticorpi monoclonali contro una
proteina che si pensa essere coinvolta nella patogenesi della malattia, sarebbe la prima terapia
che mira a rallentare o arrestare la patologia.
LRRK2:
L’altro gene autosomico dominante codifica per la proteina LRRK2; questa ha una mutazione con
guadagno di funzione e anche in questo caso non si sa molto sul suo ruolo effettivo. Essa
appartiene alla famiglia delle proteine G monomeriche di tipo RAS. (Esistono due grandi famiglie di
proteine G, le trimeriche, accopiate ai recettori metabotropici; e le monomeriche di cui RAS fa
parte). Essa contiene al suo interno un dominio di morte in grado di innescare il processo
apoptotico. Di conseguenza un guadagno di funzione di questa proteina porterebbe a un aumento
dell’apoptosi: ciò però si è visto negli animali e in laboratorio ma non nell’uomo.
PARKINA, DJ-1, PINK-1: (autosomici recessivi)
Mutazioni della parkina sono la principale causa di Parkinson familiare a trasmissione autosomica
recessiva. Questo tipo di Parkinson ha un inizio precoce, (anche se non è ben chiaro il
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meccanismo) mentre normalmente il morbo si sviluppa prevalentemente in soggetti dopo i 60-65


anni. (Anche a seguito di mutazioni dell’alfa-sinucleina si ha esordio precoce; mutazioni di questa
proteina possono portare a duplicazione o triplicazione. Se c’è una duplicazione l’insorgenza è dai
40 anni in poi; se c’è una triplicazione è dai 20 ai 30 anni).
Più chiaro è il meccanismo alla base dell’azione di altri due geni: DJ-1 e PINK-1. Entrambe le
proteine codificate proteggono dallo stress ossidativo e quando sono alterate, o a causa di un
eccesso di stress ossidativo o perché è mutato il gene, non funzionano più e viene a mancare la
protezione dallo stress ossidativo.
Se analizziamo il significato dello studio sulla componente genetica, scopriamo che nella
patogenesi è rilevante lo stress ossidativo e che delle proteine danneggiate o mutate, se
segregano o precipitano, sono tossiche per i neuroni.
Un altro componente molto importante da tener presente è la dopamina contenuta nei neuroni
dopaminergici. Essa va incontro a metabolismo enzimatico e non enzimatico (cioè si degrada in
assenza di enzimi, da sola). Il suo metabolismo non enzimatico produce radicali liberi e questo è il
motivo per cui i neuroni dopaminergici sono particolarmente soggetti allo stress ossidativo: il loro
neurotrasmettitore degradandosi spontaneamente produce radicali liberi.
In più, abbiamo visto, che si verificano delle alterazioni che riducono la protezione del nostro
organismo nei confronti dello stress ossidativo. Quindi: più stress ossidativo e meno difese contro
di esso costituiscono un forte stimolo induttivo al danno.
Abbiamo detto poi che tra gli organelli cellulari che maggiormente risentono del danno vi sono i
mitocondri, i quali con l’avanzare dell’età sono sempre più esposti al danno. Questo è uno dei
motivi per cui la malattia si manifesta prevalentemente nei pazienti in età avanzata: proprio perché
i mitocondri sono maggiormente suscettibili al danno.
In tutto questo ragionamento a cosa servono i corpi di Lewy che ritroviamo nel parkinson?
Sembra che essi siano un tentativo della cellula di isolare le proteine danneggiate e tossiche come
l’alfa-sinucleina o le altre proteine che si trovano mutate nel PD familiare o idiopatico. Un tentativo
di isolarle all’interno di compartimenti membranacei in modo da impedire che causino tossicità,
impedendo la loro azione contro i neuroni dopaminergici.
I corpi di Lewy sono necessari perché evidentemente il sistema ubiquitina-proteasoma, che
fisiologicamente elimina le proteine danneggiate, in questi soggetti probabilmente funziona meno.
C’è un forte danno ossidativo e un’attivazione di proteine tossiche che non possono essere
eliminate come avviene nel soggetto sano perché il sistema ubiquitina proteasoma non funziona
più, l’unico modo per inattivarle e far sì che non producano danno sembra essere di contenerle in
un ambiente chiuso che potrebbero essere proprio i corpi di Lewy.

MECCANISMI NEURONALI DEL MORBO DI PARKINSON


Abbiamo detto che i sintomi motore cardine del morbo di Parkinson sono dei sintomi
extrapiramidali. Questo vuol dire che sono dei sintomi che derivano dall’alterazione non delle vie
piramidali ma di altre vie e, in particolare, derivano da alterazioni che si verificano a livello dei gangli
della base. Quali sono i gangli della base?
• Striato
• Globo pallido
• Nucleo subtalamico di Lewis
• Sostanza nera
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Prof.ssa Daniela Melchiorri rev. Francesco Manes Gravina

Nello schema soprastante è rappresentata la corteccia motoria (linea ondulata), lo striato, il globo
pallido suddiviso in due zone (globo pallido esterno, GPe, e globo pallido interno, GPi), la sostanza
nera anch’essa suddivisa in due parti (sostanza nera pars compacta, SNc, e sostanza nera pars
reticolata, SNr). I neuroni dopaminergici che degenerano nel morbo di Parkinson hanno il corpo
cellulare a livello della sostanza nera pars compacta. La degenerazione di questi neuroni
dopaminergici porta ad un’alterazione del controllo che la dopamina dei neuroni dopaminergici ha
sui neuroni dello striato.
Vediamo in cosa consiste questo controllo.
Innanzitutto, come si genera lo stimolo motorio?
Lo stimolo motorio si genera dalla corteccia motoria dove si trovano neuroni motori che proiettano
allo striato. Nello striato, i neuroni motori che provengono dalla corteccia fanno sinapsi con due
principali popolazioni neuronali (che hanno ovviamente il corpo cellulare nello striato). Come si
differenziano queste popolazioni neuronali tra di loro? Innanzitutto, sono entrambe delle popolazioni
di neuroni di proiezione. Questo vuol dire che hanno il copro cellulare nello striato ma hanno un
assone che proietta al di fuori dello striato, in un altro nucleo. Questo altro nucleo è il globo pallido.
Quindi i neuroni motori della corteccia fanno sinapsi con neuroni striatali di proiezione che proiettano
al globo pallido.
Questi neuroni striatali di proiezione sono, come abbiamo detto, suddivisi in due popolazioni e
questa suddivisione viene fatta in base al cotrasmettitore che essi contengono. Un cotrasmettitore
è un trasmettitore secondario che alcuni neuroni hanno oltre al neurotrasmettitore principale.
Entrambe le popolazioni di neuroni striatali di proiezione hanno come neurotrasmettitore principale
il GABA (principale neurotrasmettitore inibitorio del SNC). Una popolazione ha poi come
cotrasmettitore la sostanza P (neuroni SP nel disegno) mentre l’altra popolazione ha come
cotrasmettitore l’encefalina (neurone E nel disegno).

Il neurone striatale di proiezione che ha come cotrasmettitore la sostanza P viene eccitato dal
neurone motore che proviene dalla corteccia motoria. Viene eccitato perché il neurone che parte
dalla corteccia motoria ha come neurotrasmettitore il glutammato (che è il principale
neurotrasmettitore eccitatorio del SNC). Quando arriva il glutammato al neurone striatale di
proiezione questo si attiva. Il neurone striatale di proiezione che ha come cotrasmettitore la sostanza
P si eccita e comincia a scaricare al globo pallido interno, dove proietta, rilasciando sostanza P e
GABA. GABA è il neurotrasmettitore principale ed è un neurotrasmettitore inibitorio quindi l’effetto
sarà l’inibizione del globo pallido interno. Cosa c’è nel globo pallido interno che viene inibito? Ci sono
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dei neuroni anch’essi GABAergici che proiettano al talamo. Se i neuroni del globo pallido interno
vengono inibiti, rilasceranno meno GABA al talamo→l’inibizione sul talamo si riduce.
Quindi, l’effetto dell’attivazione dei neuroni striatali a sostanza P sarà una riduzione dell’inibizione
sul talamo, cioè un’attivazione del talamo. A livello del talamo ci sono dei neuroni che proiettano alla
corteccia. Questi neuroni hanno come neurotrasmettitore il glutammato→attivazione della corteccia
motoria.
Questa prima via prende il nome di via diretta. Attraverso l’attivazione della via diretta i neuroni della
corteccia motoria vengono attivati.

Veniamo adesso al neurone striatale di proiezione che ha come cotrasmettitore l’encefalina. Anche
questi neuroni ricevono le afferenze dai neuroni motori della corteccia e vengono eccitati da questi
neuroni. Dove proiettano questi neuroni dello striato che hanno l’encefalina? Proiettano al globo
pallido esterno.
Anche questi neuroni striatali hanno il GABA come neurotrasmettitore quindi anch’essi sono inibitori:
quando vengono attivati, il globo pallido esterno viene inibito.
Nel globo pallido esterno abbiamo i corpi cellulari di altri neuroni che proiettano non al talamo ma al
nucleo subtalamico. Anche questi neuroni del globo pallido esterno hanno il GABA come
neurotrasmettitore e sono quindi inibitori.
Cosa succede quindi quando vengono attivati i neuroni ad encefalina? Succede che questi neuroni
inibiscono i neuroni inibitori del globo pallido esterno (che proiettano al nucleo subtalamico) e quindi
viene tolta l’inibizione sul nucleo subtalamico. Il nucleo subtalamico quindi si attiva.
Che cosa c’è all’interno del nucleo subtalamico che si attiva? Ci sono dei neuroni eccitatori che
proiettano al globo pallido interno. Quindi se il nucleo subtalamico si attiva, si attiva anche il globo
pallido interno. I neuroni che si trovano nel globo pallido interno, come abbiamo detto, sono neuroni
inibitori che proiettano al talamo→il risultato sarà l’inibizione del talamo. Se il talamo è inibito, i
neuroni talamici scaricheranno meno sulla corteccia e poiché i neuroni talamici che proiettano alla
corteccia sono eccitatori, la corteccia sarà meno eccitata (=inibita).
Questa seconda via è la via indiretta (indiretta perché passa per il nucleo subtalamico). Attraverso
l’attivazione della via indiretta la corteccia riceve un impulso inibitorio.
La via diretta, quindi, facilita il movimento mentre la via indiretta inibisce il movimento.
Attraverso l’attivazione della via diretta e della via indiretta si ha la modulazione dello stimolo motorio.
A questo servono i gangli della base (regolazione extrapiramidale del movimento).

Non abbiamo ancora parlato di dopamina e il morbo di Parkinson è una malattia neurodegenerativa
che consiste nella degenerazione dei neuroni dopaminergici.
Come entrano in questo gioco i neuroni dopaminergici?
I neuroni dopaminergici hanno il corpo cellulare nella pars compacta della sostanza nera e proiettano
allo striato rilasciando dopamina. La dopamina rilasciata nello striato si lega ai recettori
dopaminergici attivandoli.
Ci sono due tipi di recettori dopaminergici nello striato: recettori D1 e recettori D2. Entrambi questi
recettori sono accoppiati a proteine G ma le proteine G sono diverse. I recettori D1 sono accoppiati
a proteine Gs (stimolatorie) mentre i recettori D2 sono accoppiati a proteine Gi (inibitorie).
Dove si trovano questi recettori?
I recettori D1 stanno sui neuroni di proiezione a sostanza P (quindi stanno sulla via diretta); i recettori
D2 stanno sui neuroni ad encefalina (quindi stanno sulla via indiretta).
Che cosa fa la dopamina legandosi ai suoi recettori? Legandosi al recettore D1, che è accoppiato a
proteina G stimolatoria, stimola la via diretta e quindi facilita il movimento.
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Legandosi al recettore D2, che è accoppiato a proteina G inibitoria, inibisce la via indiretta (che è la
via che inibisce il movimento) e quindi facilita ulteriormente il movimento.
Il risultato finale della dopamina che viene rilasciata dai neuroni dopaminergici nello striato è quello
di facilitare il movimento, facilitando la via diretta e inibendo la via indiretta.

Quando i neuroni dopaminergici degenerano, diminuisce la quantità di dopamina che viene rilasciata
nello striato. In carenza di dopamina la via diretta non viene attivata e la via indiretta non viene
inibita→predomina la via indiretta che frena il movimento.
I sintomi del Parkinson sono dunque la manifestazione di una regolazione negativa eccessiva del
movimento (tremori, bradicinesia, acinesia, rigidità posturale…).

Nello striato, oltre ai neuroni di proiezione vi sono anche altre popolazioni di neuroni che sono i
neuroni corti. I neuroni corti hanno sia il corpo cellulare sia l’assone all’interno dello stesso nucleo.
Sono detti interneuroni del II tipo del Golgi. Si tratta di interneuroni che hanno come
neurotrasmettitore l’acetilcolina. Anche questi neuroni ricevono le afferenze dei neuroni motori
corticali (quindi i neuroni corticali attivano sia i neuroni di proiezione che gli interneuroni ad
acetilcolina). Gli interneuroni attivati rilasciano acetilcolina nello striato che si lega a recettori
muscarinici posti sui neuroni di proiezione.
L’acetilcolina ha due tipi di recettori: recettori muscarinici (accoppiati a proteine G) e recettori
nicotinici (recettori canale).
I recettori muscarinici sono di 5 tipi e si indicano con “m” e il numero (m1-m5). Per ricordarli: i dispari
sono accoppiati a Gq e i pari sono accoppiati a Gi.
Nello striato abbiamo i recettori m4 sui neuroni a sostanza P (che hanno anche il recettore D1).
Questo recettore m4 (pari) è accoppiato a una proteina G i.
Al contrario, i recettori di proiezione che hanno l’encefalina esprimono il recettore m1. Il recettore
m1 (dispari) è accoppiato a una proteina Gq.
Cosa fa l’acetilcolina?
L’acetilcolina, legandosi ai recettori m4, che si trovano sulla via diretta e che sono accoppiati a
proteine Gi, spegne la via diretta (effetto opposto rispetto a quello della dopamina).
Legandosi ai recettori m1, che si trovano sulla via indiretta e che sono accoppiati a proteine Gq,
l’acetilcolina attiva la via indiretta (sempre effetto opposto alla dopamina).
L’azione dell’acetilcolina a livello dello striato sul movimento è opposta a quella della dopamina:
inibisce il movimento (perché attiva la via indiretta).
Fisiologicamente, i due sistemi, colinergico e dopaminergico, si equilibrano→movimento fluido e
corretto.

Se viene a mancare la dopamina (come accade nel morbo di Parkinson), l’equilibrio si sposta tutto
a favore dell’acetilcolina e ciò peggiora i sintomi. Quindi, tra i farmaci per il morbo di Parkinson
troveremo quelli che potenziano il sistema dopaminergico e quelli che inibiscono il sistema
colinergico. In realtà i farmaci che agiscono sul sistema dopaminergico sono molto più utilizzati ed
efficaci. Quelli che agiscono sul sistema colinergico servono solo a controllare i tremori e la
scialorrea.
Oltre ai recettori muscarinici dell’acetilcolina, nello striato ci sono anche i recettori nicotinici che si
chiamano recettori nicotinici neuronali. Essi sono diversi da quelli che si trovano a livello della
placca neuromuscolare (recettori nicotinici della placca neuromuscolare).
I recettori nicotinici (sia neuronali che della placca neuromuscolare) sono canali del sodio: quando
attivati fanno entrare sodio nella cellula. Entrambi i recettori sono formati da cinque subunità ma le
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subunità che formano il recettore neuronale sono soltanto di due tipi, α e β, che si associano per
formare un pentamero. I recettori nicotinici della placca neuromuscolare, invece, hanno più subunità.

Dove si trovano questi recettori nello striato? Si trovano sulle terminazioni nervose dei neuroni
dopaminergici nigro-striatali. Sono quindi in una posizione favorevole alla regolazione del rilascio di
dopamina: quando i recettori nicotinici sono attivati, essendo recettori canale, fanno entrare sodio
nella cellula. Questo costituisce uno stimolo per il rilascio di dopamina.
Questo è il motivo per cui la nicotina, legandosi a questi recettori nicotinici, favorisce il rilascio di
dopamina. La nicotina quindi, in un soggetto con morbo di Parkinson, in teoria aiuterebbe nella
riduzione dei sintomi (inducendo rilascio di dopamina). Questo non vuol dire che il fumo di sigaretta
fa bene a soggetti con il morbo di Parkinson. Il fumo di sigaretta fa comunque male perché si verifica
combustione che produce radicali liberi (milioni per ogni tiro di sigaretta) e sostanze cancerogene
(come il benzoapirene).
La nicotina, se non fosse fumata, si legherebbe ai suoi recettori senza produzione di sostanze
cancerogene e radicali liberi e favorirebbe il rilascio di dopamina.
I soggetti con Parkinson di solito non fumano quindi non ricevono nicotina in alcun modo.
Un altro recettore che si trova a livello dei gangli della base è il recettore per l’adenosina di tipo
A2A. Questo recettore si trova sulla via indiretta e ne facilita l’attivazione (opposto della
dopamina). La caffeina, così come la teofillina, sono metilxantine che agiscono bloccando i recettori
A2A dell’adenosina. Questo impedisce che l’adenosina attivi la via indiretta quindi, in teoria la
caffeina fa bene nel Parkinson. Infatti, ai pazienti con Parkinson (che normalmente non sono grandi
consumatori di caffè) viene consigliato di bere caffè (soprattutto all’inizio della manifestazione clinica
del Parkinson, quando i sintomi sono ancora lievi).
Negli USA è stato approvato un farmaco che agisce sfruttando lo stesso meccanismo della caffeina.
Questo farmaco è la istradefillina che blocca il recettore dell’adenosina A2A. In Europa questo
farmaco è stato rigettato. A settembre la ditta produttrice dell’istradefillina ha chiesto il riesame del
suo dossier. Si arriverà quindi alla decisione finale che potrà essere approvazione o rigetto.

TERAPIA
Ora che conosciamo i meccanismi neuronali alla base del Parkinson, possiamo impostare la terapia.
1.AGIRE SULLA TRASMISSIONE DOPAMINERGICA
Abbiamo visto che la prima componente è il deficit della trasmissione dopaminergica. Come si fa ad
agire su questa componente? Usando dei farmaci che potenzino la trasmissione dopaminergica. Il
primo farmaco che fa questo è la levodopa. La levodopa è un precursore della dopamina che si
somministra prevalentemente per os. Perché non si usa direttamente la dopamina? Perché la
dopamina non attraversa la BEE e per di più, rimanendo all’esterno, incontra altri recettori
dopaminergici che si trovano nel nostro organismo (nel cuore, nel rene…) dando diversi effetti
collaterali (senza dare effetti terapeutici).
Che differenza c’è tra levopoda e dopamina?
La dopamina è un’ammina mentre la levodopa è un amminoacido aromatico che ha quindi sia il
gruppo amminico sia il gruppo COOH. Avendo entrambi i gruppi, la levodopa può essere trasformata
in dopamina tramite una decarbossilazione. Questa decarbossilazione deve avvenire all’interno del
SNC.

Una seconda strategia è somministrare dei farmaci che non si trasformano in dopamina ma agiscono
sui recettori dopaminergici, attivandoli. Questo equivale a somministrare agonisti dopaminergici.
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Prof.ssa Daniela Melchiorri rev. Francesco Manes Gravina

Una terza strategia che agisce sempre sulla trasmissione dopaminergica consiste nell’inibire il
metabolismo della dopamina per far sì che la dopamina presente rimanga attiva più a lungo.
Somministriamo quindi inibitori del metabolismo della dopamina.
Ci sono attualmente due farmaci che agiscono come inibitori del metabolismo della dopamina
(inibitori enzimatici).
Un’altra strategia che abbiamo già visto è quella che prevede il blocco del recettore A 2A.

2.AGIRE SULLA TRASMISSIONE COLINERGICA


Tutte queste strategie si focalizzano sulla trasmissione dopaminergica ma ce ne sono anche altre
che si focalizzano sulla trasmissione colinergica.
La trasmissione colinergica nel Parkinson è iperattiva quindi è necessario inibirla. Questo si fa con
antagonisti muscarinici che hanno un uso limitato ma funzionano soprattutto per i tremori.

3.APPROCCIO ELETTRICO-CHIRURGICO
Un’ulteriore strategia non è farmacologica ma è di tipo elettrico-chirurgico. Questa consiste
nell’impianto di elettrodi nel nucleo subtalamico di Lewis per desensibilizzarlo ed inibire quindi la via
indiretta.

4.IMPIANTO DI CELLULE STAMINALI


La quarta strategia consiste nell’impianto di cellule staminali. Da diversi anni si prova ad
impiantare cellule staminali nei malati di Parkinson per cercare di ripristinare i neuroni dopaminergici
che muoiono. Sono stati fatti moltissimi tentativi nell’animale e pochi nell’uomo con diversi tipi di
cellule staminali.
Quali sono i principali tipi di cellule staminali che sono state utilizzate?
• Cellule staminali embrionali che derivano dalla blastocisti preimpianto (embrione prima che
si impianti). Queste sono cellule staminali pluripotenti che possono differenziarsi in qualsiasi
tipo di cellula
• Cellule staminali isolate dal mesencefalo del feto (feti di aborti) che danno cellule neurali
• Cellule staminali pluripotenti indotte (IPSC). Queste sembrerebbero aver ottenuto risultati più
promettenti. Sono cellule che vengono ricavate da cellule somatiche dello stesso paziente
che vengono prelevate mediante biopsia, trattate in vitro per farle de-differenziare e renderle
cellule staminali pluripotenti. Come? Facendo esprimere a queste cellule dei geni tipici delle
cellule staminali. Sempre in vitro, viene poi indirizzato il differenziamento di queste cellule
staminali pluripotenti verso il tipo neuronale (attraverso particolari sostanze che si
aggiungono nel mezzo di coltura).
Queste cellule vengono poi reimpiantate nel putamen del paziente.
Un paziente parkinsoniano, negli Stati Uniti, ha finanziato questa ricerca con due milioni di
dollari ed è stato l’unico su cui è stato sperimentato questo approccio. Dopo 24 mesi e due
trapianti di IPSC, non c’è stato rigetto perché le cellule sono del paziente stesso e non è stata
necessaria una cura con immunosoppressori ma soprattutto non ci sono stati effetti collaterali
tipici dei trapianti con cellule staminali, le discinesie (movimenti involontari talmente
invalidanti da portare il paziente in sedia a rotelle).
14/10/2021 Sbob: Chiara Prencipe
FARMACOLOGIA TERAPIA DEL MORBO DI PARKINSON Maura Mazzi, Giulia Manetti
Prof.ssa Melchiorri Rev: Benedetta Pitzalis

Riepilogo della lezione precedente


I farmaci che possono essere utilizzati per correggere la carenza di dopamina e che agiscono sulle vie di trasmissione
coinvolte nella patofisiologia della malattia sono: la Levodopa, gli agonisti dopaminergici, gli inibitori delle Dopa-
decarbossilasi. Si può anche agire sulle vie colinergiche, inibendole con antagonisti colinergici.
Esiste, inoltre, un antagonista del recettore dell'adenosina A2A, che è disponibile solo negli USA, non in Europa.
C’è anche una terapia alternativa non farmacologica, che consiste nell’impianto di elettrodi nel nucleo subtalamico di
Luys; infine, recentemente, si sono registrati i primi risultati veramente incoraggianti con alcune cellule staminali,
chiamate IPS.

TERAPIA CON LEVODOPA


Il farmaco cardine nella terapia del Parkinson è la Levodopa. La sua caratteristica principale è la brevissima emivita,
di circa 30-40 minuti, che renderebbe necessarie troppe somministrazioni giornaliere, se somministrata da sola; per
questo, viene assunta insieme a degli inibitori del suo metabolismo, ovvero gli inibitori della DOPA-decarbossilasi, in
modo da prolungarne l’emivita.
I due inibitori del metabolismo della Levodopa presenti in commercio sono CARBIDOPA e BENSERAZIDE.
L’associazione Levodopa + Carbidopa prende il nome commerciale di SINEMET®.
L’associazione Levodopa + Benserazide prende il nome commerciale di MADOPAR®.
I due principi attivi sono formulati insieme, cosicchè in un’unica compressa sono presenti sia la Levodopa sia l’inibitore
della Dopa-decarbossilasi. Carbidopa e Benserazide impediscono alla decarbossilasi di eliminare il gruppo -COOH alla
Levodopa (amminoacido) e, evitando la decarbossilazione, non avviene la trasformazione della Levodopa in dopamina.
Poiché i due inibitori non attraversano la BEE, la porzione di Levodopa che penetra nel SNC (attraversando la BEE,
tramite il trasportatore degli amminoacidi aromatici) viene trasformata normalmente in dopamina, mentre solo la
Levodopa che si trova fuori dal SNC non può essere decarbossilata, poiché è presente l’inibitore. Questo è un effetto
positivo per due ragioni=>
 Se la Levodopa venisse decarbossilata al di fuori del SNC, la dopamina che si formerebbe non potrebbe
attraversare la BEE ed essere attiva quindi a livello del SNC;
 La mancata decarbossilazione al di fuori del SNC riduce gli effetti collaterali derivanti dall’attivazione dei
recettori dopaminergici espressi dagli altri organi periferici.
L’obiettivo della somministrazione combinata Levodopa + inibitore è quello di allungare l'emivita della Levodopa, che
diventa, in tale modo, pari a 1-3 ore. In queste condizioni, sono di solito necessarie 4 somministrazioni di Levodopa +
inibitore nell’arco delle 24 ore.

Altre formulazioni e dosaggio


Esistono, poi, delle formulazioni a rilascio prolungato dell’associazione Levodopa + inibitore delle Dopa-decarbossilasi,
che determinano un ulteriore allungamento dell’emivita. Queste sono=>
 Levodopa + Carbidopa a rilascio controllato, chiamata SINEMET® CR, con emivita pari a 4-5 ore;
 Levodopa + Benserazide a rilascio controllato, chiamata MADOPAR® HBS, con emivita pari a 6-8 ore.
Queste formulazioni a rilascio controllato e prolungato sono utili soprattutto nelle fasi iniziali della malattia. Non
vengono assunte costantemente durante tutto l’arco della giornata, perché il loro assorbimento è erratico e ciò non
permette un buon controllo della patologia, soprattutto negli stadi più avanzati. È preferibile somministrarle come
ultima dose serale, in modo da cercare di coprire il paziente durante la notte ma anche e soprattutto al risveglio;
infatti, con il progredire della malattia, è proprio al momento del risveglio che il paziente è più spesso bloccato.
Quindi, queste formulazioni a lento rilascio vengono impiegate come terapia sintomatica soprattutto nei pazienti che
sono all’inizio delle manifestazioni cliniche del Parkinson e che hanno cominciato da poco la terapia con Levodopa;
quando poi la malattia progredisce, si utilizzano le formulazioni a rilascio immediato (sempre Levodopa + inibitore)
con 4 somministrazioni nelle 24 ore.

Oltre alla formulazione Levodopa + inibitore delle decarbossilasi, ne esistono anche delle altre=>
 Levodopa metilestere: prende il nome commerciale di LEVOMET® ed è utilizzata in aggiunta alla terapia con
Levodopa + inibitore delle decarbossilasi. Viene somministrata durante l’episodio acuto di blocco, cioè quando
il paziente, nonostante sia trattato con Levodopa + inibitore delle decarbossilasi, si blocca, non riuscendo a
muoversi. Questo tipo di Levodopa è somministrata senza inibitore, perché è una formulazione orale assunta
con un erogatore (uno spruzzo sono 0,5 ml e in 1 ml ci sono 250 mg di levodopa): in questo modo, la Levodopa
viene rapidamente assorbita e agisce immediatamente, risolvendo tempestivamente l’episodio di blocco. Non
può essere assunta per più di due volte al giorno, quindi per non più di due episodi di blocco, che si chiamano
fasi OFF. Se sono necessarie più di due somministrazioni giornaliere di Levodopa metilestere, la terapia di base
(Levodopa + inibitore DOPA-decarbossilasi) deve essere modificata, perché, evidentemente, non è efficace. È
l’unica formulazione in commercio di Levodopa senza inibitore;
 Levodopa polvere per inalazione: nome commerciale INBRIJA®; è una formulazione immessa da poco in
commercio ed è una Levodopa polvere per inalazione. Come la Levodopa metilestere, anche questa viene
somministrata al bisogno, quando il paziente si blocca, sempre in aggiunta alla terapia di base (Levodopa +
inibitore della DOPA-decarbossilasi). È la prima formulazione di Levodopa per via inalatoria. Il numero
massimo di somministrazioni giornaliere è pari a 5;
 DUODOPA®: formulazione di gel intestinale, costituita da Levodopa + Carbidopa. Viene utilizzata quando il
paziente, trovandosi in uno stadio molto avanzato della malattia, non è più in grado di deglutire e, quindi, si
rende impossibile assumere il farmaco per os, perché la bradicinesia e l’acinesia sono progredite. La Duodopa
viene somministrata attraverso PEG (gastrectomia endoscopica percutanea) direttamente nel digiuno.

Per quanto riguarda la quantità di principio attivo contenuto, sia SINEMET® sia MADOPAR® possono contenere 100
mg di Levodopa + 25 mg di inibitore delle dopa-decarbossilasi.
SINEMET® ha anche un altro dosaggio, che consiste in 250mg di Levodopa + 25mg di Carbidopa.
Nel primo dosaggio, c’è una differenza di 4 volte tra la quantità di Levodopa (100mg) e l'inibitore (25mg); nel secondo
dosaggio, c’è una differenza di 10 volte (250mg di Levodopa e 25mg di Carbidopa).
Anche per il MADOPAR® esiste un secondo dosaggio, che consiste in 200mg di Levodopa + 50mg di inibitore
enzimatico. È fondamentale che l'inibitore enzimatico sia SEMPRE di almeno 25mg, perché si è visto che
somministrare 4 dosi giornaliere ognuna di 25 mg di inibitore enzimatico (quindi 100mg totali di inibitore al giorno),
qualunque esso sia, assicura la corretta e sufficiente inibizione enzimatica in periferia, cosicchè la Levodopa rimane in
circolo per un periodo sufficiente e a livelli tali da permettere il suo assorbimento al livello del SNC. Inoltre, si è visto
che la dose di 100mg die di inibitore riduce in maniera ottimale gli effetti collaterali della levodopa dovuti al suo
metabolismo (decarbossilazione) in dopamina al di fuori del SNC, in particolare la nausea.
Da sbobina dell’anno scorso: quando si passa dal SINEMET a rilascio immediato al SINEMET a lento rilascio bisogna
aumentare la dose di circa il 30% perché la biodisponibilità è diversa; invece, quando si passa dal MADOPAR a rilascio
immediato al MADOPAR a lento rilascio, bisogna aumentare la dose del 50%, perché la biodisponibilità del rilascio
prolungato è minore.

Efficacia della Levodopa


La Levodopa è il farmaco d’elezione per la terapia del Parkinson, dato che controlla al meglio la sintomatologia; in
realtà, ciò è vero solo all’inizio delle manifestazioni cliniche del morbo, perché, successivamente, l’efficacia della
Levodopa si riduce. Infatti, quando si inizia la terapia con Levodopa i primi 4-5 anni costituiscono il cosiddetto “periodo
della luna di miele” (honeymoon), perché è il periodo di tempo in cui la Levodopa è più efficace in assoluto. Tuttavia,
poiché si tratta di una malattia neurodegenerativa cronica e la terapia è sintomatica, si verifica, con il tempo, un
peggioramento dell’efficacia della Levodopa. Questo peggioramento si manifesta con tre fenomeni=>
 il wearing off;
 le fasi on/off;
 le discinesie tardive.

Wearing off e fasi ON/OFF


Il wearing off (decremento di fine dose) consiste nella riduzione dell’efficacia terapeutica della Levodopa alla fine
dell'intervallo tra le diverse dosi giornaliere della Levodopa stessa. Normalmente, la terapia con Levodopa consiste
in 4 somministrazioni giornaliere ogni 6 ore, associata sempre all’inibitore. Quando si manifesta il wearing off, significa
che il controllo della sintomatologia da parte della Levodopa nell’intervallo tra una dose e l’altra si riduce, perché la
Levodopa non riesce più a controllare i sintomi per tutto l’arco delle 6 ore. Infatti, mentre per i primi anni si
somministra la Levodopa ogni 6 ore e il paziente è protetto dai sintomi per tutta la durata dell’intervallo tra le dosi,
quando si verifica il wearing off il paziente rimane coperto per 5 ore, poi per 4 e quindi non per tutto l’intervallo
originario delle 6 dosi. Ciò si verifica a causa dell’influenza da parte del cibo sull’assorbimento della Levodopa: il cibo
rende erratico, ovvero variabile in modo non prevedibile nello stesso soggetto, l’assorbimento della Levodopa.
Nonostante ciò, la Levodopa deve essere assunta con il cibo, perché, come anche gli agonisti dopaminergici, è emetica
e, quindi, assumendola con il cibo, ciò riduce la nausea e il vomito. La Levodopa, per essere assorbita sia a livello del
tratto gastrointestinale sia attraverso la barriera emato-encefalica, usufruisce del trasportatore degli aminoacidi
aromatici. Naturalmente, anche gli aminoacidi aromatici presenti nei pasti sono substrati di questo trasportatore e,
quindi, questi competono con la Levodopa per il legame con il trasportatore, sia a livello gastro-enterico sia a livello
della BEE. Perciò, quando si assume la Levodopa insieme al cibo, a seconda della composizione in proteine del pasto,
si ha un assorbimento erratico: per questo, si consiglia al paziente una dieta a basso contenuto proteico.

All’inizio della terapia, l'assorbimento erratico della Levodopa non è un grande problema terapeutico, perché le
concentrazioni plasmatiche della Levodopa variano anche in corrispondenza dello steady state.
Nell’immagine a sinistra, è rappresentata una
curva che ricorda quella dello steady state, in
cui le concentrazioni del farmaco, dopo alcune
somministrazioni, oscillano in un range
abbastanza stabile di concentrazioni. In realtà,
nel caso della L-DOPA, le oscillazioni delle
concentrazioni plasmatiche, dovute
all’assorbimento erratico (considerando che
sull’asse y ci sono i livelli plasmatici del
farmaco), sono abbastanza ampie anche allo
steady state. Quando ciò si verifica all’inizio
della terapia con Levodopa, non vi è un grande
problema terapeutico, perché all’inizio della
terapia ci sono ancora molti neuroni
dopaminergici nigrostriatali funzionanti,
(nonostante ne siano morti abbastanza) che
sono sufficienti per captare la Levodopa,
trasformarla in dopamina, inserirla nelle loro
vescicole sinaptiche, facendone “scorta”, e
utilizzarla al momento del bisogno. Questi
neuroni sono, quindi, meno dipendenti dalle
concentrazioni plasmatiche della dopamina, perché, se anche queste diminuissero, essi avrebbero la scorta da cui
poter attingere. Perciò, all’inizio della terapia, le variazioni delle concentrazioni plasmatiche di dopamina non
influenzano l’efficacia della terapia. Con il progredire della malattia, sempre più neuroni dopaminergici muoiono
(purtroppo, non c’è nulla, al momento, per arrestare la progressione della malattia e la progressiva morte dei neuroni)
e, quindi, si riduce moltissimo la capacità di fare scorte di dopamina per utilizzarla al bisogno, perchè si riduce il numero
di neuroni funzionanti.
Subentrano in questa fase i neuroni colinergici, presenti nello striato, in grado di captare anche essi la Levodopa, come
i neuroni dopaminergici, e sono anche in grado, esprimendo una decarbossilasi, di trasformarla in dopamina. Tuttavia,
le vescicole sinaptiche dei neuroni colinergici non sono equipaggiate per internalizzare la dopamina e accumularla,
perché in queste c’è il trasportatore per l’acetilcolina e non quello per la dopamina; di conseguenza, questa non entra
nelle vescicole e non viene rilasciata in modo quantico, cioè attraverso dei quanti rilasciati dalle vescicole sinaptiche,
ma tutta insieme. A seguito di ciò, inizialmente, poichè la dopamina viene comunque rilasciata, i sintomi sono
controllati; essendo, però, rilasciata tutta insieme, si esaurisce rapidamente e quindi il controllo dei sintomi si riduce.
È questo il motivo per cui la finestra terapeutica si riduce sempre di più con il tempo: mentre all’inizio, durante tutto
l’arco di tempo delle 6 ore, il paziente era coperto, in questa fase, progressivamente, il controllo dei sintomi si riduce
a 5 ore poi a 4 a 3 e così via, pur avendo assunto il farmaco.

Facendo riferimento al grafico della pagina precedente, la situazione appena descritta è rappresentata dalle due rette
che vanno restringendosi nel tempo, che a loro volta rappresentano la finestra terapeutica, ovvero quell’arco di tempo
in cui il paziente è in fase ON: il paziente assume il farmaco e risponde al farmaco, senza manifestare sintomi. La fase
OFF, invece, è quella fase in cui il paziente, pur avendo assunto il farmaco, manifesta i sintomi, poichè non sono
controllati dalla terapia. Nel grafico, la fase OFF corrisponde alla parte sottostante la retta inferiore e, quindi, si
identifica con le zone in cui le concentrazioni plasmatiche di Levodopa sono più basse; con il passare del tempo, la
parte del grafico che corrisponde alla fase OFF non è più caratterizzata da concentrazioni plasmatiche basse di
Levodopa, ma queste aumentano sempre più, perché, a mano a mano che la malattia avanza, si prolunga la durata
della fase OFF e diminuisce la fase ON.
Con il progredire della patologia, la funzionalità della terapia con Levodopa può peggiorare ulteriormente e possono
verificarsi fasi OFF che si manifestano in modo imprevedibile e indipendente rispetto alla fine dell’intervallo fra le dosi.
Infatti, mentre all’inizio le fasi OFF si verificano verso la fine dell’intervallo tra le dosi, con il progredire della malattia
e il prolungarsi della terapia con Levodopa (quindi è il farmaco stesso che causa ciò), la fase OFF può comparire in
qualsiasi momento: al mattino (per esempio il paziente si sveglia, assume la Levodopa ma i sintomi non vengono
controllati) o in qualsiasi altro momento della giornata.

Per risolvere o comunque attenuare il wearing off, si può provare ad aumentare il numero di somministrazioni
giornaliere di Levodopa, mantenendo invariata la dose totale di Levodopa nell’arco delle 24 ore. Invece di
somministrare 400mg di Levodopa nell’arco della giornata in 4 somministrazioni (100 mg ogni 6 ore), verificandosi il
wearing off, si può provare a somministrare sempre 400 mg die, ad esempio, ma in 6 somministrazioni, riducendo così
l’intervallo fra le dosi, contrastando quello che è wearing off, cioè la riduzione dell’effetto terapeutico nell’ultima fase
dell’intervallo di tempo fra le dosi.

Per quanto riguarda le fasi ON e OFF, l’aumento del numero delle somministrazioni non funziona e bisogna per forza
modificare la terapia, quindi si aggiungono altri farmaci, oltre alla Levodopa, oppure si cambia totalmente terapia: si
toglie la Levodopa e si passa ad un altro farmaco, ovvero un agonista dopaminergico.

Discinesie tardive
Inoltre, con il perdurare della terapia con Levodopa, possono comparire le discinesie tardive, che dipendono dal
farmaco e non dalla progressione della malattia, perché sono esattamente l’opposto dei sintomi del Parkinson. Le
discinesie sono dei movimenti fluidi, eseguiti senza alcuna difficoltà, ma involontari e patologici, non controllati dal
paziente; possono manifestarsi con movimenti bruschi e rapidi, come i tic, oppure con movimenti lenti di tipo coreo-
atetosico. Non è detto che le discinesie siano sempre invalidanti, anche se spesso lo diventano con il passare del
tempo. A volte possono essere semplicemente dei movimenti che il paziente non controlla. Si pensa che l'insorgenza
delle discinesie tardive dipenda, principalmente, dalla modalità di somministrazione della Levodopa in terapia. Infatti,
fisiologicamente, i neuroni dopaminergici nigrostriatali rilasciano dopamina in modo continuo nello striato; al
contrario, quando si somministra dopamina dall’esterno, tramite la Levodopa, la disponibilità di dopamina nello striato
non è continua, ma fasica, con dei picchi e dei nadir (diminuzioni). Nello striato, questi livelli di dopamina incostanti
nel tempo determinano un cambiamento del microambiente in cui i neuroni si trovano e da ciò deriva un adattamento
dei neuroni stessi. Questo adattamento consiste nella plasticità sinaptica; infatti, attività quali l’apprendimento o la
memoria sono possibili proprio perché i neuroni sono in grado di modificare la propria attività sinaptica in risposta a
cambiamenti dell’ambiente in cui si trovano. È ciò che ha permesso all’essere umano di evolversi e di modificarsi a
seconda delle diverse necessità che aveva e che differenzia il suo SNC da quello degli altri animali (nonostante sia
presente anche negli altri animali una certa plasticità sinaptica, ma non del grado presente nel SNC umano). In
conclusione, si pensa che l’adattamento al cambiamento dei livelli di dopamina sia la causa delle discinesie tardive;
si può dire, quindi, che le discinesie tardive siano causate dalla Levodopa stessa, perché nello striato non c’è un rilascio
e una disponibilità continui, ma fasici.

Le discinesie tardive sono molto difficili da trattare. Un possibile approccio consiste nel somministrare un agonista
dopaminergico, l’Apomorfina, che ha la particolarità di poter essere somministrato per infusione sottocutanea
continua: si posizionano, a livello dell’addome, delle pompette con un ago che rilasciano in modo continuo piccole
quantità di Apomorfina nell’arco delle 24 ore. Il paziente viene istruito a cambiarsi autonomamente la pompetta e,
così, è coperto in modo continuativo. Poiché le discinesie tardive sono dovute al rilascio fasico della dopamina durante
la terapia con Levodopa, con la somministrazione di Apomorfina per infusione continua si cerca di ottenere un livello
continuo di Levodopa e, quindi, di dopamina nello striato. Ciò riduce in parte, non totalmente, le discinesie tardive.

Effetti collaterali della Levodopa


Sono gli stessi effetti collaterali che si verificano anche con gli agonisti dopaminergici, perché il meccanismo di
azione è lo stesso. Sono dovuti al fatto che, sebbene la Levodopa venga somministrata insieme agli inibitori delle
DOPA-decarbossilasi, una certa quantità di enzimi non viene bloccata, ma rimane funzionante, nonostante la presenza
dell’inibitore, dando origine quindi alla dopamina, che potrà legare i suoi recettori espressi da molto organi periferici.
I principali effetti collaterali sono =>
 nausea (molto comune) e, in alcuni casi, vomito (per questo deve essere assunta con il cibo);
 sonnolenza;
 ipotensione ortostatica;
 in pazienti con storie di ulcera peptica, si può avere un aumento del rischio di emorragie del tratto
gastrointestinale superiore;
 insorgenza di aritmie in pazienti che hanno disturbi della conduzione degli impulsi cardiaci. La Levodopa non
deve essere associata, in questi pazienti, agli inibitori delle MAO;
 disturbo del controllo degli impulsi: molto rilevante, più frequente e importante con gli agonisti
dopaminergici. Il paziente non è più in grado di controllare i propri impulsi, che lo portano a ricercare il piacere
(fare shopping selvaggio, giocare d’azzardo, avere un’attività sessuale sfrenata, etc.). Questa è una
caratteristica nascosta del Parkinson, che si palesa con la terapia farmacologica, soprattutto con gli agonisti
dopaminergici. Nel riassunto delle caratteristiche del prodotto sia per la Levodopa sia per tutti gli agonisti
dopaminergici, è evidenziato in modo chiaro questo tipo di evento avverso ed è necessario che il medico
informi i pazienti e i loro familiari di questa possibilità.
Ciò succede perché nel Parkinson avanzato, oltre alla morte dei neuroni dopaminergici nigrostriatali, si danneggiano
e muoiono anche altri neuroni dopaminergici, in particolare quelli mesolimbici. Questi sono neuroni che hanno il
corpo cellulare nel mesencefalo e proiettano i loro assoni nel sistema limbico. La progressiva degenerazione delle fibre
dopaminergiche mesolimbiche determina una reazione dell’organismo, che consiste nel cercare di opporsi alla
neurodegenerazione iperesprimendo i recettori dopaminergici D2 nel sistema limbico. Quindi, i neuroni
dopaminergici mesolimbici rilasciano dopamina nel sistema limbico, ma, se degenerano, meno dopamina viene
rilasciata e ciò causa iperespressione dei recettori dopaminergici nel sistema limbico, nel tentativo di compensare la
carenza di dopamina con un aumento del numero di recettori. Con l'iperespressione dei recettori, la Levodopa,
trasformata in dopamina, o un agonista dopaminergico troveranno più recettori disponibili e funzioneranno
maggiormente, causando questo effetto collaterale. I neuroni mesolimbici sono importanti, perché rappresentano il
principale sistema che determina l'attivazione comportamentale volta al raggiungimento del piacere; infatti, la
trasmissione dopaminergica mesolimbica, in particolare nell'Accumbens, determina attivazione comportamentale del
soggetto, volta al raggiungimento dello stimolo che procura piacere. Ciò è lo stesso meccanismo che nei
tossicodipendenti causa attivazione comportamentale volta a procurarsi il piacere, in questo caso la droga.
Nell’Accumbens, la dopamina viene rilasciata dai neuroni dopaminergici mesolimbici, si lega ai recettori D2 che si
trovano sul secondo neurone (quello con il corpo cellulare nell’Accumbens), che è un neurone GABAergico. Poiché i
recettori D2 sono accoppiati alle proteine Gi, la dopamina spegne il neurone GABAergico e attiva la via che parte
dall’Accumbens (questa via neuronale sarà meglio tratta nella lezione della terapia del dolore). Nel Parkinson, poiché
i neuroni dopaminergici mesolimbici muoiono, c’è questa iperespressione compensatoria di recettori dopaminergici
D2 nell’Accumbens. Quindi, quando viene somministrata la Levodopa o gli agonisti dopaminergici, essi si legano di più
e causano questo effetto collaterale di disinibizione degli impulsi.

Questo disturbo è molto difficile da trattare; si può diminuire la dose di Levodopa o degli agonisti dopaminergici, con
il rischio, però, della ricomparsa dei sintomi motori.
Alternativamente, si può aggiungere un antidepressivo della classe degli SSRI, perché la serotonina è coinvolta nella
regolazione di questo sistema di attivazione comportamentale. Infatti, si è visto che è utile somministrare un
antidepressivo SSRI, perchè blocca il trasportatore della serotonina e fa aumentare la concentrazione sinaptica
extracellulare di serotonina, in aggiunta alla terapia normale, rappresentata dalla Levodopa o dagli agonisti
dopaminergici.
Un’altra possibilità è quello di utilizzare un antiepilettico, chiamato Zonisamide, che, come si è visto negli studi clinici,
ha una certa efficacia nel ridurre questo mancato controllo degli impulsi.
Queste sono le strategie terapeutiche che possono essere attuate nel tentativo di ridurre la mancanza di controllo
degli impulsi. Ciò che è fondamentale, però, è avvertire i parenti, le persone che vivono con il malato, in modo da
essere sempre vigili e rendersi conto se la situazione peggiora e se ci possono essere dei pericoli per il malato.

Sindrome neurolettica maligna


Bisogna tener presente che la terapia con Levodopa, così come quella con gli agonisti dopaminergici, non può mai
essere interrotta bruscamente. Quindi, se è necessario, per qualche motivo, interrompere la Levodopa, bisogna
scalare la dose progressivamente, altrimenti si può indurre la sindrome neurolettica maligna. Si chiama così perché è
un effetto collaterale dei farmaci antipsicotici di prima generazione, che bloccano i recettori dopaminergici D2, anche
chiamati neurolettici. Questa, oltre che essere scatenata dai farmaci neurolettici, è causata anche dall’interruzione
brusca della terapia con Levodopa o con agonisti dopaminergici. È una sindrome che comporta=>
 alterazione dello stato mentale, quindi il paziente può delirare, può entrare in letargia;
 anomalie di tipo motorio, sintomo principale della sindrome, quindi iperattività muscolare che risulta in rigidità
muscolare. Ciò causa ipertermia grave, caratterizzata da importante disidratazione. La disidratazione è la
condizione che mette in pericolo la vita del paziente, infatti può essere fatale. È necessario ricordare che la
reidratazione del paziente con ipertermia grave deve essere eseguita gradualmente e lentamente nel tempo,
perché altrimenti si peggiora la sindrome;
 iperattività del sistema nervoso autonomo, quindi tachicardia, aritmie e ipertensione.
Si interviene effettuando l’idratazione del paziente, l'abbassamento della temperatura corporea, e, allo stesso tempo,
la riduzione della rigidità muscolare, somministrando un miorilassante, il Baclofen.

AGONISTI DOPAMINERGICI
Gli agonisti dopaminergici per agire non devono essere trasformati in dopamina; attraversano la BEE e si legano ai
recettori per la dopamina direttamente. Sono indipendenti per la loro azione dal numero di neuroni dopaminergici
nigro-striatali funzionanti che ha il pz, al contrario della L-dopa che invece ne è condizionata.
Dunque, i livelli di attivazione dei recettori dopaminergici ottenuti con gli agonisti sono più costanti rispetto a quelli
ottenuti con la L-dopa e ciò significa che meno frequentemente essi causeranno discinesie tardive, perché sono in
grado di attivare i recettori in modo costante e non più in modo fasico, come invece fa la L-dopa.
D’altra parte, gli agonisti agiscono su tutti i recettori dopaminergici, sia quelli che si trovano nel SNC sia quelli in
periferia. Agendo su tutti i recettori espressi nell’organismo, avranno gli stessi AE della L-dopa nella maggior parte dei
casi, ma più intensi e frequenti. Proprio perché sono più frequenti e intensi, bisogna porre più attenzione, soprattutto
nei pz maggiormente proni a sviluppare effetti avversi da attivazione periferica dei recettori dopaminergici. Il pericolo
fondamentale di un’eccessiva attivazione è rappresentato dagli effetti a carico del cuore: tachicardia e aritmie,
soprattutto in caso di già presente cardiopatia, quindi maggiormente negli anziani (70-75aa). Dunque, un agonista
dopaminergico si tende a non somministrarlo in pz > 65-70aa di età. Viceversa, nei pz giovani, l’agonista dopaminergico
è un buono strumento terapeutico, perché è principalmente nei giovani che ritarda o riduce di molto l’insorgenza di
discinesie tardive, rispetto a quanto si potrebbe avere con la terapia iniziale rappresentata da Levodopa a dosi piene.
Infatti, anche se con la terapia a dosi piene di L-dopa il pz non presenta più sintomi, nel tempo, si ha un aumento degli
AE, soprattutto delle discinesie tardive e delle fasi OFF. Perciò, oggi si tende ad iniziare la terapia a dosi non piene di
L-dopa, se il pz è iposintomatico: si preferisce lasciare qualche sintomo che non interferisca troppo con la quotidianità
del pz, piuttosto che perdere l’efficacia della L-dopa nel tempo. Un’alternativa è quella di associare la L-dopa ad altri
farmaci, riducendo la dose di L-dopa.

Gli agonisti dopaminergici si dividono in 2 classi, a seconda del tipo di sostanza che agisce come agonista:
1) Derivati dell’ergot
2)Non derivati dell’ergot

L'ergot è prodotto da un fungo, la Claviceps purpurea, contaminante delle graminacee. È in grado di determinare
effetti tossici nelle persone che si cibano del grano contaminato; questi effetti tossici sono chiamati “ergotismo” o
“fuoco di sant'Antonio”, diverso dal fuoco di sant'Antonio dell’Herpes Zoster. L’ergotismo causa principalmente
gangrena degli arti inferiori e ciò era noto fin dall’antichità. L'ergotismo è detto anche fuoco di sant'Antonio perché,
in epoca medioevale, le guarigioni dalla gangrena che si verificavano durante i pellegrinaggi verso i santuari cristiani
(tra cui quelli di Sant’Antonio) venivano interpretate come miracoli. In realtà, era semplicemente dovuto al passaggio
da zone in cui le graminacee erano contaminate, ad altre dove il fungo non era presente. Ora la contaminazione non
si verifica più e i derivati dell’ergot non causano questo tipo di tossicità.
Differenze ERGOT/NON ERGOT
Oggi sono più utilizzati i non ergot, perché gli ergot causano molto più intensamente nausea e vomito e, per evitare
questo, necessitano di una titolazione lenta (si arriva a dosi piene dopo diverse settimane dall’inizio della terapia e in
questo periodo il pz non è controllato). I non ergot, invece, si titolano molto velocemente: nell’arco di una settimana
si arriva a dosi piene. Inoltre, gli ergot hanno ulteriori AE rispetto ai non ergot: fibrosi valvolare e versamenti pleurici
e pericardici.

DERIVATI DELL’ERGOT:
1)BROMOCRIPTINA
2)LISURIDE
3)PERGOLIDE
4)CABERGOLINA

Differiscono tra di loro per la t/2. La cabergolina ha l’emivita più lunga (70 h), mentre quello ad emivita più breve è la
lisuride (1-7h). Tutti devono essere dati in più somministrazioni giornaliere, tranne la cabergolina, che si assume con
somministrazioni settimanali.

NON ERGOT:
1)APOMORFINA
2)ROPINOROLO
Gli agonisti dopaminergici più usati nella terapia del Parkinson
3)PRAMIPEXOLO
4)ROTIGOTINA (somministrata solo come cerotto transdermico, per le fasi avanzate della malattia in cui il pz non
riesce a deglutire)

L'apomorfina, diversamente da tutti gli agonisti dopaminergici (ad eccezione della Rotigotina, che si somministra solo
come cerotto), non si somministra x OS, ma solo per via sottocutanea. Vi sono 2 modalità di somministrazione, che si
riferiscono a 2 diverse indicazioni=>
 infusione continua SC (pompette con ago che rilascia continuamente il farmaco nel SC): controlla il pz
costantemente, riduce le discinesie tardive e le fasi OFF (queste di un 60%); se aggiunta alla L-dopa, permette
una riduzione del 40% della dose della Levodopa. Lo scopo della terapia è quello di ridurre le fasi OFF e sarebbe
auspicabile anche aumentare la frequenza delle fasi ON (risultato parziale). All'inizio si somministra 1mg/h; se
non è sufficiente a garantire l’ON, si può aumentare la dose: si aumenta ogni 4h di 1mg/h fino al
raggiungimento dell’ON. Il dosaggio medio in infusione continua è di 4-8mg/h; NON si devono superare i
100mg/24h. Per non superare i 100mg die, l’infusione viene interrotta di notte.
 Rescue therapy: emergenza/in acuto, quando il pz si blocca improvvisamente in OFF (freezing). Somministrata
sempre x via SC, ma in bolo (dose maggiore in un arco di tempo ristretto): si inizia con 2mg fino a 6 mg se il pz
non si sblocca.

Eventi avversi
AE dell’Apomorfina: è la più emetica tra tutti gli agonisti dopaminergici. Quindi, non può essere somministrata senza
un antiemetico, il Domperidone. Esso agisce bloccando i recettori dopaminergici espressi a livello del centro del
vomito. Tuttavia, il Domperidone non passa la BEE e, quindi, non peggiora la sintomatologia del Parkinson, perché non
agisce sui recettori espressi a livello striatale.
Il Domperidone ha un effetto pieno a dosi abbastanza elevate (60-70mg), che, però, si associano ad un aumento del
rischio di allungamento del QTc (aritmie indotte da Domperidone). Questo evento avverso a livello cardiaco ha fatto
sì che la dose sia stata ridotta a 30mg nei pz >60aa, cioè quelli più a rischio di sviluppare aritmie. Ovviamente, con una
dose così bassa anche l’efficacia antiemetica si riduce.
Altri AE caratteristici dell’Apomorfina, oltre a quelli comuni con la Levodopa (e, quindi, condivisi con tutti gli altri
agonisti), sono: noduli sottocutanei (legati alla sua modalità di somministrazione; è necessario cambiare spesso il sito
di somministrazione/pomate al cortisone per ridurli), priapismo (erezione dolorosa mantenuta per un tempo
eccessivo) e, molto raramente, anemia emolitica (prima di iniziare la terapia e ogni 6 mesi --> screening con test di
Coombs).

AE Pramipexolo: crisi di sonno. La sonnolenza è data anche dalla L-dopa e dagli altri agonisti dopaminergici, ma il
Pramipexolo induce delle vere e proprie crisi: il pz, durante il giorno, si addormenta improvvisamente contro la sua
volontà. Se si interrompe la terapia, le crisi scompaiono.
AE Ropinirolo: in commercio esiste anche una formulazione a rilascio prolungato, ma nel pz più anziano (>70aa) non
deve essere utilizzata, perché tende ad accumularsi e a causare dispercezioni.

AE di tutti gli agonisti dopaminergici: stessi effetti collaterali della Levodopa (più frequenti e intensi), edemi AAII ed
eritromelalgia (NDR: la professoressa dice eritromegalia, ma, controllando su Internet e sui libri, ho constatato che
non esiste come parola).

Con il progredire della patologia, aumenta il rischio di sviluppare allucinazioni e psicosi; queste vanno trattate con
antipsicotici di 2° generazione, che bloccano per il 40% i recettori dopaminergici D2, ma in misura minore rispetto a
quelli di 1° generazione, che, invece, bloccano per l’80% i recettori dopaminergici D2, causando un peggioramento dei
sintomi. Tra gli antipsicotici di 2° generazione quelli più utilizzati sono la CLOZAPINA e la QUETIAPINA; tra quelli di 2°
generazione, non bisogna, invece, utilizzare la Olanzapina, perché blocca in modo significativo i recettori
dopaminergici e peggiorerebbe i sintomi del Parkinson.
I pz con Parkinson sviluppano anche decadimento cognitivo o demenza, caratterizzata da una perdita di neuroni
colinergici. In questo caso, la terapia sarebbe rappresentata dal potenziamento della trasmissione colinergica; però, il
pz con morbo di Parkinson presenta, a livello dello striato, uno sbilanciamento a favore della trasmissione colinergica,
perché quella dopaminergica si riduce. L’attivazione colinergica causa alcuni sintomi, come i tremori, che vengono
controllati con l’assunzione degli anticolinergici; questi ultimi, però, deprimono la trasmissione colinergica nel SNC in
generale e quindi causano decadimento cognitivo. Qui sorge il problema: i farmaci a disposizione per la terapia delle
demenze sono quelli che potenziano la trasmissione colinergica, ma, se si somministrano a un pz con Parkinson, si
aumenta ancora di più la trasmissione colinergica e con essa i tremori.
Fortunatamente, questa difficoltà può essere risolta con la RIVASTIGMINA, che potenzia la trasmissione colinergica,
inibendo le isoforme di acetilcolinesterasi che non si trovano nello striato. Quindi, la Rivastigmina controlla parte della
sintomatologia demenziale, ma non peggiora i tremori.

INIBITORI METABOLISMO DOPAMINA


Possiamo potenziare la trasmissione dopaminergica
inibendo/rallentando il suo metabolismo.
Sono 2 le classi degli inibitori enzimatici:
1)iMAO B (le monoamino ossidasi B metabolizzano
preferenzialmente la dopamina);
2)iCOMT (inibitori di catecol-ossi-metil transferasi)

INIBITORI DELLE MAO B


Appartengono alla classe dei iMAO B 3 farmaci:
1)SELEGILINA
2)RASAGILINA
3)SAFINAMIDE
La Selegilina e la Rasagilina possono essere utilizzate in monoterapia senza la L-dopa, oppure in associazione alla L-
dopa. In monoterapia si utilizzano all’inizio, quando i sintomi sono lievi, ritardando la somministrazione di L-dopa (per
prolungarne poi la sua efficacia nel tempo). Gli iMAO non sono molto efficaci nel controllare i sintomi, per questo si
usano in monoterapia solo all’inizio, quando i sintomi sono lievi.

Selegilina
In monoterapia, il dosaggio è diverso rispetto al dosaggio in associazione alla L-dopa:
-Selegilina in monoterapia= 10mg/die in una o due somministrazioni (a seconda del controllo della sintomatologia)
-Selegilina + L-dopa= 5-10mg/die (si inizia con 5mg, si può arrivare a 10mg)

Il metabolismo della Selegilina causa la formazione di anfetamina e metanfetamina in piccole quantità. Queste hanno
i loro AE a livello del SNC e del cuore: confusione, ansia, agitazione, cardiotossicità (palpitazioni, tachicardia, aritmie),
ipotensione* e vertigini.
*Le anfetamine causano il rilascio di noradrenalina e adrenalina (potenziano la trasmissione adrenergica); da ciò, ci si
aspetterebbe un aumento della pressione arteriosa. In questo caso, invece, come effetto collaterale, si ha ipotensione,
perché prevale l’effetto a livello del ganglio tra il I e il II neurone della via noradrenergica. La trasmissione nel sistema
nervoso simpatico ha il I neurone a livello delle corna del MS nella sostanza laterale che proietta al ganglio, dove c’è il
II neurone; a livello del ganglio ci sono dei recettori α2 inibitori, che, se attivati, inibiscono il rilascio di
neurotrasmettitore da parte del II neurone a livello del vaso --> viene inibita l’azione a livello vasale della noradrenalina
e per questo si ha ipotensione

Rasagilina
-Rasagilina in monoterapia -> 1 mg die;
-Rasagilina + levodopa -> si può iniziare con la metà, quindi 0,5 mg die, e si può aumentare fino a 1 mg al giorno.

La Rasagilina è metabolizzata dal CYP1A2; poichè il CYP1A2 è indotto dal fumo di sigaretta, è consigliabile che il
paziente che assume Rasagilina non fumi, per non ridurre ulteriormente gli effetti terapeutici, già non così ottimali,
della Rasagilina. Il CYP1A2 è inibito dalla Ciprofloxacina, un fluorochinolone, e dalla Fluvoxamina, un antidepressivo
della classe degli SSRI (inibitori selettivi del reuptake della serotonina).

Effetti collaterali della Rasagilina: emicrania e vertigini, congiuntiviti, la flatulenza (piuttosto frequente) e l’angina
pectoris.

Da sbobina dell’anno scorso: La differenza principale è tra la Selegilina e la Rasagilina, perché la seconda non è
metabolizzata in amfetamina e metamfetamina come la prima e, quindi, non dà gli effetti collaterali di agitazione e
nervosismo caratteristici della Selegilina, che la rendono poco tollerata; inoltre, la Rasagilina è più potente della
Selegilina e per questo viene somministrata a dosi più basse.

Safinamide
La Safinamide è l’ultimo degli inibitori delle MAO B che è stato messo in commercio; ha indicazione unicamente in
associazione alla levodopa: non si può somministrare in monoterapia. La Safinamide è metabolizzata dal CYP1A2,
quindi valgono le stesse considerazioni fatte per la Rasagilina. Inibisce il trasportatore per i cationi organici (OCTP), di
cui è substrato la Metformina (un antidiabetico orale): l'associazione Safinamide – Metformina, quindi, dovrebbe
essere evitata, perché la Safinamide impedisce alla Metformina di essere assorbita nel nostro organismo e quindi ne
riduce l'azione.

Inoltre, tutti e tre gli inibitori delle MAO B non possono essere associati con altri farmaci che potenziano la trasmissione
noradrenergica e serotoninergica, perché le MAO B non metabolizzano soltanto la dopamina, ma anche le altre
ammine e in parte la serotonina: l’associazione causa un’eccessiva attivazione di queste vie.
Non si devono associare gli inibitori delle MAO B con =>
 gli inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI): il rischio è quello di una sindrome serotoninergica,
molto simile alla sindrome neurolettica maligna, caratterizzata, inoltre, da forti disturbi gastrointestinali, CID
e grave acidosi metabolica, danno al muscolo può arrivare fino alla rabdomiolisi, convulsioni e danno renale
acuto a causa dell’eccesso di proteine muscolari (da sbobina dell’anno scorso);
 le ammine simpaticomimetiche -> come l’efedrina e la fenilefedrina, che spiazzano la noradrenalina dalle
vescicole e la fanno rilasciare. Le ammine simpaticomimetiche sono utilizzate, in formulazione di spray nasale,
in caso di ostruzione delle vie respiratorie superiori (congestione nasale). Queste amine simpaticomimetiche
potenziano la trasmissione noradrenergica e non devono, perciò, essere associate agli inibitori delle MAO B, a
causa del rischio di tachicardia, aritmie e ipertensione o ipotensione a seconda di quale effetto prevalga;
 antidepressivi della classe dei triciclici -> sono farmaci che aumentano la trasmissione noradrenergica e
questo, insieme all’aumento della trasmissione dopaminergica, porta a crisi ipertensive (da sbobina dell’anno
scorso);
 Tramadolo -> analgesico della classe degli oppiacei, cioè un analogo della morfina, che, analogamente agli
SSRI, potenzia la trasmissione serotoninergica.

INIBITORI DELLE COMT


Gli inibitori delle COMT, così come gli inibitori delle MAO B, aumentano la biodisponibilità della levodopa senza
aumentarne la Cmax e, quindi, non causano effetti collaterali di picco, perché non aumentano la concentrazione
massima della levodopa. L’effetto collaterale principale, derivato dal potenziamento degli effetti della levodopa, è
rappresentato soprattutto dall’insorgenza di discinesie tardive, che rende necessaria la riduzione della dose di
levodopa. Da sbobina dell’anno scorso: è sempre abbastanza complicato ridurre la dose di levodopa e di agonisti
Dopaminergici, perché, se non si riduce lentamente, il paziente presenta fatica, debolezza e altri sintomi; perciò,
bisogna sempre ridurre lentamente la dose sia di levodopa sia degli agonisti dopaminergici.

Sono due gli inibitori delle COMT: ENTACAPONE e TOLCAPONE.


Il Tolcapone è stato il primo inibitore delle COMT ad essere messo in commercio ed è anche il più efficace dei due;
tuttavia, dopo qualche tempo, è stato sospeso per tossicità epatica. È stato avviato un processo di revisione per questo
effetto collaterale e si è constatato che è un evento avverso che può essere evitato: si può interrompere la terapia con
Tolcapone prima che si sviluppi una tossicità epatica acuta, monitorando periodicamente gli enzimi epatici, per
prevenire l’evento acuto. Si è voluto studiare a fondo la tossicità epatica indotta dal Tolcapone perché è più efficace
dell’Entacapone. È stato reimmesso in commercio modificando leggermente l’indicazione, così da contenere gli effetti
collaterali: è somministrato a quei pazienti che non hanno risposto all'Entacapone, ovvero circa il 20% dei pazienti
(come se fosse una seconda linea se si trattasse di un farmaco oncologico; quindi, come prima linea bisogna utilizzare
l’Entacapone).
Per quanto riguarda la somministrazione, l’Entacapone deve essere somministrato insieme e allo stesso orario della
levodopa, mentre il Tolcapone deve essere assunto indipendentemente dalla levodopa nell’arco della giornata in
tre somministrazioni giornaliere.

Meccanismo d’azione: Tolcapone ed Entacapone aumentano la biodisponibilità di levodopa, perché le COMT sono
delle metiltransferasi che metilano la levodopa sull’ossigeno in posizione orto del catecolo, formando così la metil-
levodopa e la dopamina metilata. Questa metilazione riduce l’efficacia della levodopa e della dopamina=>
 la dopamina metilata ha una minore affinità per i suoi recettori;
 la levodopa metilata compete con la levodopa per il trasporto attraverso la barriera ematoencefalica mediante
il trasportatore degli aminoacidi aromatici -> la levodopa metilata riduce l’entrata della levodopa non metilata
nel SNC.
Quindi, gli inibitori delle COMT sono efficaci nel potenziare la terapia con levodopa.
L’Entacapone, che è quello un po’ meno efficace e che è un inibitore unicamente delle COMT periferiche (quindi, non
le COMT che si trovano nel SNC, ma solo quelle che si trovano fuori dal SNC), determina una riduzione della durata di
ciascun periodo OFF di ⅓ o in alcuni casi della metà. Tenendo conto che un paziente in terapia con levodopa ha in
media quattro finestre off che durano circa 45 minuti l’una, l’Entacapone diminuisce il periodo OFF di circa 54 minuti-
1,2 h e aumenta il periodo ON da 36 minuti a 1,2 h nell’arco di un’intera giornata. È più efficace nell’aumentare la
biodisponibilità dell’associazione Levodopa-Benserazide, rispetto alla combinazione levodopa-Carbidopa.

L’Entecapone è metabolizzato dal CYP2C9 e, quindi, bisogna fare attenzione alle interferenze con i farmaci che sono
metabolizzati da questo CYP, quali il Warfarin, che, essendo un anticoagulante a basso indice terapeutico, è sostituito
dagli anticoagulanti orali nella terapia del paziente che assume anche l’Entacapone.

Il Tolcapone, essendo molto lipofilo, interferisce con il metabolismo ossidativo dei mitocondri soprattutto epatici
(questo causa la tossicità epatica di cui si è parlato prima) e induce il sistema microsomiale epatico, causando una
diarrea molto intensa, la cosiddetta diarrea esplosiva. Anche l’Entacapone causa diarrea, ma il Tolcapone molto di più.

Gli altri effetti collaterali di entrambi gli inibitori delle COMT derivano dal potenziamento dell'attività della levodopa
e, quindi, prolungano alcuni eventi avversi causati dalla levodopa, quali la nausea, l’ipotensione ortostatica, la capacità
di indurre discinesie tardive; per cui, quando si aggiunge in terapia un inibitore enzimatico, è necessario ridurre la dose
di levodopa. Non bisogna interrompere bruscamente la terapia con gli inibitori delle COMT, perché questo può portare
all’insorgenza di ipertermia, che è uno dei sintomi della sindrome neurolettica maligna.

Da sbobina dell’anno scorso: nei pazienti con una COMT polimorfa e poco attiva è inutile somministrare gli inibitori
delle COMT, perché non è l’attività delle COMT a determinare i sintomi del Parkinson.

Infine, l’ultimo gruppo di farmaci che si utilizza nel morbo di Parkinson è rappresentato dagli anticolinergici.

ANTICOLINERGICI
Gli anticolinergici agiscono sulla trasmissione colinergica che abbiamo detto è potenziata nel morbo di Parkinson. La
trasmissione colinergica, però, è importante per la sfera cognitiva e quindi non si dovrebbero utilizzare nel paziente
anziano, perché si può peggiorare il decadimento cognitivo. Sono farmaci utili per controllare i tremori, la rigidità e la
scialorrea, ma non la bradicinesia.
Ce ne sono diversi ma quelli più utilizzati sono due: il BIPERIDENE (nome commerciale AKINETON®) e il TRIESIFENIDILE
(nome commerciale ARTANE®).

Poiché i recettori colinergici sono ampiamente espressi in molti organi del nostro organismo (data la diffusa
innervazione parasimpatica), vi è una molteplicità di effetti collaterali =>
 a livello oculare: offuscamento della vista, cicloplegia (paralisi del muscolo ciliare, che rende impossibile la
messa a fuoco degli oggetti);
 a livello dell'apparato gastrointestinale: stipsi (recettore M3 espresso, come anche a livello oculare);
 a livello dell'apparato urinario: ritenzione urinaria;
 a livello del SNC: confusione, sedazione, peggioramento delle funzioni cognitive e in alcuni casi maggiore
suscettibilità allo sviluppo di psicosi.
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LE DEMENZE
Le demenze sono delle patologie neurodegenerative che una volta che si innescano
evolvono e peggiorano nel tempo. Non esiste un farmaco per rallentarne o arrestarne la
progressione.
Come abbiamo detto per il morbo di Parkinson e per i parkinsonismi atipici, anche per le
demenze ci sono dei farmaci sintomatici, i quali purtroppo però sono efficaci solo per le
forme lievi-moderate.
La demenza è un progressivo declino della funzione intellettiva e della memoria, e si
accoppia spesso ad alterazioni della personalità e del comportamento del paziente. È
molto importante questa coesistenza tra declino progressivo delle funzioni cognitive della
memoria e alterazioni della personalità e del comportamento perché sono proprio queste
ultime ad essere le più difficili da gestire, non tanto per il paziente quanto per i familiari che
si prendono cura di lui (caregivers) negli stadi più avanzati.
Nelle demenze infatti, soprattutto nell’Alzheimer, si sviluppano delle alterazioni
psichiatriche che portano a modifiche del comportamento molto difficili da gestire: questi
sono pazienti che ad esempio si alzano nel cuore della notte e fanno cadere tutti i piatti
dalla credenza, si mettono ad urlare… risulta praticamente impossibile prendersi cura di
loro, tant’è che nelle ultime fasi della malattia diviene necessario il ricovero nelle strutture
di assistenza specializzata perché il paziente non può più essere lasciato solo e deve
essere costantemente monitorato.
Se la demenza è un declino progressivo delle funzioni superiori che si sono pienamente
sviluppate in un determinato soggetto, l’oligofrenia è invece un alterato sviluppo delle
funzioni superiori che non raggiungono mai la fisiologica maturazione (un esempio è la
malattia di Down).
Diagnosi:
La diagnosi di demenza si fa indagando alcuni domini:
1. memoria del paziente;
2. capacità di orientamento nel tempo e nello spazio;
3. capacità di giudizio e risoluzione problemi;
4. capacità di effettuare attività domiciliari (alzarsi dal letto, fare colazione...) e sussistenza
di attività ricreazionali (hobby);
5. cura della persona (si/no).
Alcuni di questi domini si relazionano direttamente alla capacità cognitiva, mentre altri
indicano l’abilità del paziente di compiere delle attività funzionali.
Il decadimento dell’attività cognitiva si riflette in maniera evidente sull’attività funzionale.
Per il paziente e per il caregivers la cosa più importante è non tanto avere dei farmaci che
migliorino la capacità cognitiva, quanto avere dei farmaci che abbiano un impatto positivo
sull’attività funzionale (che consentano quindi al paziente di andare in bagno da solo, di
vestirsi…).
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Purtroppo però i farmaci agiscono poco sull’attività funzionale, andando solo a migliorare
di poco l’attività cognitiva. L’efficacia della terapia si valuta da un punto di vista clinico
sostanzialmente sulla capacità di reintegrare le funzioni attive del paziente.
Il decadimento cognitivo secondo il DSM-5 (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi
mentali) viene indagato e diagnosticato secondo alcuni domini neurocognitivi:
1. Linguaggio:
- capacità di riconoscere degli oggetti (l’incapacità viene detta agnosia);
- capacità di riconoscere le parole (per esempio che ‘’casa’’ è l’edificio in cui vivo ecc.);
- fluenza verbale, cioè il paziente deve saper articolare un discorso;
- normale o alterata grammatica e sintassi;
- capacità di programmazione del linguaggio (il deficit è detto afasia sensoriale).
2. Apprendimento
3. Memoria
4. Riconoscimento emozioni: il paziente non riconosce le sue né quelle degli altri.
5. Attenzione complessa: la capacità di mantenere l’attenzione su un determinato
oggetto o un compito il tempo necessario per poi poter portare a termine l’azione:
- capacità di programmare (planning);
- capacità di decidere (decision making);
- working memory (memoria a breve termine finalizzata ad un’attivazione fondamentale,
per esempio leggo un numero di telefono e lo digito sullo schermo senza guardarlo perché
lo ricordo per pochi secondi, ciò mi permette di svolgere l’azione. Questo tipo di memoria
di solito è limitata a incamerare 5/6 elementi che vengono ricordati facilmente);
- capacità di rispondere ad impulsi (possono essere comandi verbali o comandi scritti);
- capacità di adattarsi all’ambiente che lo circonda (flessibilità).
6. Funzioni esecutive
7. Abilità visivo-spaziali: capacità di coordinare la percezione con il comando motorio
(es. la luce del proiettore mi da fastidio e alzo la mano sinistra per impedire che la luce mi
entri nell’occhio).
MEMORIA
La memoria è la capacità di ricordare e viene distinta in:
- memoria a breve termine: un esempio è, come detto prima, la working memory che
comprende sia aspetti esecutivi che intenzionali; ha come sedi caratteristiche la corteccia
prefrontale e quella dorsolaterale, si crea realizzando un circuito neuronale in cui
l’informazione viene veicolata sotto forma di impulso elettrico più volte, come riverberasse,
e questo permette il ricordo;

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- memoria a lungo termine: può essere recente (ricordata per lungo tempo ma acquisita
recentemente) e passata (acquisita molto tempo fa come il ricordo dell’infanzia), distinta a
sua volta in:
a. memoria dichiarativa, che si divide in:
I. episodica: fortemente contestualizzata nel tempo e nello spazio, con forte
connotazione di tipo statistico (es. se io andando a scuola alle elementari apprendo
che la capitale della Francia è Parigi perché la maestra mi fa vedere la cartina della
Francia, mi spiega che è in Europa, mi fa vedere un fiume ecc. io apprendo
l’informazione sotto forma di memoria episodica cioè ricordo la capitale della
Francia in base a riferimenti temporali e spaziali, come l’aula, il banco, la mia
compagna di banco…). Ha sede ippocampale. All’inizio ricordo tutto ma con il
passare del tempo non ricordo più come e quando ho appreso che la capitale della
Francia è Parigi perché la memoria episodica viene trasformata in semantica.
II. semantica: memoria del significato delle parole. Ha sede corticale. Man mano
che passa il tempo la memoria episodica perde la sua natura statistica e si
trasforma in memoria semantica. Ciò significa che l’ippocampo avrà trasferito le
informazioni alla corteccia cerebrale.
b. memoria procedurale, è la memoria delle procedure (es. come fare per allacciare e
slacciare le scarpe, lavare i denti, mettersi la cintura ai pantaloni). Queste sono delle
procedure che coinvolgono coordinamenti, azioni, comando muscolare, sequenzialità dei
gesti che portano a un risultato.
Nel paziente demente vale la legge di Ribot, secondo la quale la prima memoria che viene
persa è la memoria a breve termine, poi quella a lungo termine a partire da ciò che si è
acquisito di recente, per arrivare infine a ciò che si è acquisito da lungo tempo.
Quali sono le principali forme di demenza?
Sono due: le demenze vascolari e le demenze primitive.
In realtà non esiste una netta separazione tra demenze vascolari e primitive, infatti in molti
casi le caratteristiche vascolari sono presenti anche nelle demenze primitive. Inoltre, le
demenze sono malattie che molto spesso si presentano nel soggetto anziano, che ha già
un processo aterosclerotico iniziale o avanzato. È evidente, quindi, che molte forme
primitive che non sono propriamente causate da cause di tipo secondario, si associano
molto spesso a quadri di aterosclerosi. Non c’è una netta distinzione, la classificazione è
principalmente a scopo didattico.
Le demenze vascolari derivano da una malattia di tipo cardiovascolare, ad esempio
dall’aterosclerosi o da un ictus.

PRINCIPALI FORME DI DEMENZE PRIMITIVE


1) Beta-fibrillosi
Un primo grande gruppo di demenze primitive è costituito dalle beta-fibrillosi. Esse
derivano dall’accumulo di proteine che hanno struttura beta fibrillare. La struttura permette

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loro di formare dei ponti idrogeno che formano legami proteina-proteina e ponti idrogeno
all’interno della stessa proteina.
Le proteine con questa struttura tendono ad accumularsi al di fuori della cellula, a subire
un alterato ripiegamento e quindi a formare le fibrille.
Un esempio di beta-fibrillosi molto comune è l’amiloidosi. In questa malattia a formare
ponti idrogeno e ad aggregarsi è proprio la proteina amiloide. Queste patologie sono
definite patologie da misfolding, cioè da alterato ripiegamento. Sono molto numerose e tra
di loro compare l’Alzheimer, la più comune tra le demenze (rappresenta da sola il 60-70%
di tutte le demenze).
Tra le beta-fibrillosi si può includere anche la sindrome di Down, che non è una demenza
ma una oligofrenia. Ci sono anche malattie che non colpiscono il SNC ma sono
periferiche, ad esempio nel diabete mellito c'è un accumulo di proteina amiloide nel
pancreas.
DEMENZE DA PRIONI:

Alle beta-fibrillosi appartiene anche una demenza particolare, la demenza da prioni. In


questo caso, la proteina che viene alterata è la proteina prionica. Il nostro cervello
contiene la proteina prionica fisiologica che in determinate condizioni può mutare o essere
alterata per interazione con la proteina prionica patologica che proviene dall’esterno e
viene internalizzata. Questa interazione tra la proteina fisiologia e quella mutata o
patologica fa sì che si crei un processo di autocatalisi per cui la proteina fisiologica viene
alterata e propaga lei stessa l'alterazione alle altre proteine prioniche. Avviene la
cosiddetta degenerazione spongiforme dell’encefalo. La demenza da prioni è quindi
una degenerazione di tipo spongiotico dell’encefalo che si basa sull’alterazione di una
proteina e non comprende il coinvolgimento del sistema immune.
Le principali demenze da prioni sono:
- Malattia di Creutzfeldt-Jakob;
- Malattia della mucca pazza;
- Kuru;
- Insonnia fatale familiare.
La Creutzfeldt-Jakob non è altro che la forma umana della seconda. Oggi il GH viene
prodotto in forma ricombinante in laboratorio. Quando nel passato però il GH utilizzato era
quello umano estratto dall’ipofisi di cadavere, poteva capitare che ci fosse una
contaminazione e che venisse introdotta nel paziente la proteina patologica, facendo sì
che si sviluppasse la malattia.
La malattia della mucca pazza è stata al centro di un’epidemia di alcuni anni fa in
Inghilterra. La patologia si era diffusa perché ai bovini veniva dato un mangime contenente
carne di pecora. Per la patologia da prioni, per innescare un processo catalitico deve
esserci continuità tra la proteina fisiologica e quella immessa dall’esterno, e tra bovini e
ovini c’era compatibilità. Quindi avveniva una contaminazione, la mucca sviluppava la
malattia della mucca pazza, chiamata così perché le mucche non erano più in grado di
camminare e assumevano un’andatura molto strana. Spesso, prima che si sviluppassero i
sintomi nell’animale, questo veniva macellato e la carne veniva ingerita dall’uomo, ed
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essendoci una compatibilità tra la proteina bovina e quella umana si sviluppava la
patologia anche negli uomini.
Sempre a questo gruppo appartiene il Kuru. È ad oggi una patologia abbastanza rara, ma
un tempo era comune in Nuova Guinea per il consumo di carne infetta da parte di alcune
popolazioni indigene che praticavano il cannibalismo. Nella divisione delle parti del corpo
da mangiare veniva dato il cervello alle donne e ai bambini, mentre agli uomini i muscoli.
Quelli che si ammalavano erano infatti soltanto donne e bambini perché mangiavano parti
del cervello contaminate dalla proteina prionica patologica. Il kuru si caratterizza oltre che
per la demenza anche per lo sviluppo di spasmi e di paralisi.
Altra patologia appartenente a questa categoria è l’insonnia familiare fatale, una malattia
neurodegenerativa, rapidamente progressiva che porta a morte molto velocemente,
sempre associata a proteina prionica.
2) Alfa-sinucleinopatie
Quello delle alfa-sinucleinopatie è il secondo grande gruppo di demenze. Tra queste:
- Parkinson;
- Demenza a corpi di Lewy;
- Atrofia multisistemica (qui i corpi di Lewy si trovano negli oligodendrociti anzichè nei
neuroni e vengono chiamati corpi di Papp-Lantos).
L’alfa-sinucleina è una proteina normalmente espressa nel nostro cervello che in
determinate condizioni, o perché iperespressa o perché mutata, si accumula nell’ambiente
intracellulare e all’interno dei corpi di Lewy.
3) Corea di Huntington
La corea di Huntington è una patologia da espansione della tripletta CAG che codifica per
la glutammina nel gene della proteina huntingtina. La proteina mutata in questa maniera è
tossica perché si aggrega e circonda gli assoni e i dendriti interrompendo la trasmissione
sinaptica.
È una patologia da alterazione del controllo del movimento che comprende anche
alterazioni della capacità cognitiva e dell’umore.
4) Demenze fronto-temporali
Le demenze fronto-temporali sono patologie caratterizzate dalla degenerazione del lobo
frontotemporale. Rappresentano circa il 10-20% delle demenze che si sviluppano prima
dei 60 anni, e vengono infatti definite demenze del presenilium. Corrispondono al secondo
tipo di demenze più frequenti dopo l’Alzheimer, che però si sviluppa in un’età più
avanzata.
Le demenze fronto-temporali hanno una spiccata familiarità e un decorso più rapido
rispetto all’ Alzheimer, con una sopravvivenza media di circa 7 anni (nell’Alzheimer è tra i
7 e 10).
Diversamente dagli altri tipi di demenza, la fronto-temporale non ha come caratteristiche
principali le turbe del sistema cognitivo e della memoria.

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In base al tipo di caratteristica che prevale si individuano tre gruppi di demenze fronto-
temporali:
- Un primo gruppo è caratterizzato dal declino della capacità di comunicare, c’è
afasia primaria progressiva che si associa a demenza semantica. Non si riconosce
più il significato delle parole.
- Il secondo gruppo è quello caratterizzato da disturbi motori progressivi dati da una
degenerazione delle vie corticobasali, c'è il parkinsonismo ma c’è anche la
compromissione del motoneurone e quindi una patologia simile alla SLA.
- Il terzo gruppo è caratterizzato da variazioni del comportamento del paziente: il
paziente ha difficoltà ad esprimersi e a pensare e difficoltà psicomotoria, esplode
all’improvviso in crisi di rabbia, pianto, panico, ci sono alterazioni molto evidenti
della personalità. Una tipica forma è la malattia di Pick.
In tutte queste forme di demenza, con l'eccezione di quella di Alzheimer, i farmaci che
abbiamo non hanno come target il meccanismo patologico che porta alla demenza perché
esso non si conosce con esattezza. Non conoscendo bene il meccanismo che porta alla
demenza i farmaci che si utilizzano cercano di tenere sotto controllo la sintomatologia
associata (se c’è psicosi si usano gli antipsicotici, se c’è depressione gli antidepressivi, se
ci sono miocloni o spasmi si usano miorilassanti).
Una forma particolare di degenerazione fronto-temporale (e quindi demenza) è
rappresentata dal grande gruppo delle tauopatie che devono il loro nome alla proteina
TAU danneggiata in queste patologie.
La proteina TAU è una proteina aggregata ai microtubuli e ne assicura un corretto
assemblaggio e funzionamento (si immagini la proteina TAU come una struttura di
connessione tra i binari paralleli di un treno). I microtubuli, in tutte le cellule, costituiscono il
citoscheletro che nel neurone è responsabile anche del trasporto delle sostanze prodotte
nel nucleo attraverso l’assone in direzione dei terminali nervosi. I microtubuli, e di
conseguenza la proteina TAU, hanno quindi un ruolo importante nell’ambito del trasporto
assonale e pertanto alterazioni di questi elementi si riflettono in un importante danno a
carico della cellula neuronale.
Alcuni esempi di tauopatie sono:
• la malattia di Pick;
• la degenerazione corticobasale;
• la paralisi sopranucleare progressiva;
• la demenza frontotemporale associata a parkinsonismo;
• la demenza pugilistica (tipica dei pugili come prototipi di soggetti sottoposti a traumi
cranici continui che possono sviluppare un’encefalopatia traumatica cronica che
porta a demenza);
• la SLA con Parkinson e demenza.

Altri esempi di malattie che rientrano nelle demenze fronto-temporali oltre alle tauopatie
sono:
• la demenza con caratteristiche istopatologiche non definite, in cui non c’è una
particolare proteina che da il nome alla malattia;

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• la demenza da accumulo di ubiquitina, che si aggrega e diventa tossica;
• la demenza con compromissione del motoneurone, simile alla SLA.

DEMENZA DI ALZHEIMER
1. INTRODUZIONE E EPIDEMIOLOGIA
La demenza di Alzheimer deve il proprio nome al medico che per primo la descrisse,
ovvero Alois Alzheimer. La prima diagnosi di Alzheimer fu quella di Augusta D. e risale al
1906, nonostante ciò fu Kraeplin, un famoso neuropsichiatra, a dare solo qualche anno
dopo il nome alla malattia.
La demenza di Alzheimer che prevale nella popolazione è la forma sporadica, tuttavia l’1%
dei pz può avere una forma familiare (come nel caso del Parkinson). Sebbene ancora oggi
non sia noto quanto la forma sporadica e la forma familiare siano sovrapponibili in termini
di fisiopatologia e risposta alla terapia, lo studio delle forme familiari ha aiutato molto nella
comprensione della forma sporadica di malattia.
In termini epidemiologici, la prevalenza della malattia va aumentando con il passare del
tempo dal momento che sta aumentando contestualmente anche l’aspettativa di vita:
essendo questa forma di demenza legata soprattutto al progredire dell’età, più la
popolazione invecchia e più aumenta il rischio che si possa sviluppare la malattia.
Gli ultimi dati a disposizione del 2019 definiscono una prevalenza di malattia del 2%, con
400.000 maschi e 876.000 femmine e si calcola che nel 2025 si passerà dal 2% al 2,44%
e che anche l’incidenza della malattia tenderà ad aumentare: si tratta quindi di una vera e
propria emergenza sanitaria soprattutto in considerazione del fatto che non ci sono ad
oggi farmaci per il trattamento della malattia.
2. CARATTERISTICHE GENERALI ANATOMOPATOLOGICHE
Tra le caratteristiche della malattia vanno considerate:
• Placche di beta amiloide: L’Alzheimer rientra tra le beta-fibrillosi e in particolare
tra le amiloidosi. La proteina che si accumula in questo caso è la proteina beta
amiloide (BAP) che si aggrega a formare delle placche/depositi in sede
extracellulare. Le placche si identificano nel cadavere attraverso l’esame autoptico
grazie alla colazione Rosso Congo o all’uso della tioflavina S. Le placche amiloidi,
se presenti nel soggetto che aveva Alzheimer in vita, si colorano ed è possibile
identificarle. Dal momento che questa metodica si effettua sul cadavere,
ovviamente, non viene utilizzata per fare diagnosi di malattia, tuttavia fornisce una
conferma della diagnosi che eventualmente era stata fatta al pz durante la vita.
La proteina che si accumula maggiormente a formare le placche amiloidi è la BAP
1-42 che ha una lunghezza di 42 aa, mentre le altre forme di BAP con lunghezza
diversa hanno una tendenza minore ad aggregarsi.
Le placche amiloidi, chiamate anche placche senili, sono localizzate in aree
specifiche dell’encefalo quali l’ippocampo e il lobo temporale e tale caratteristica le
rende distinguibili dalle placche diffuse che, pur essendo costituite comunque da
amiloide, sono appunto diffuse in tutto l’encefalo e nel cervelletto e non sono
correlate con lo sviluppo di Alzheimer.

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• Grovigli neurofibrillari: si tratta di aggregati intracellulari di proteina tau,


nonostante l’Alzheimer sia comunque una beta-fibrillosi. Talvolta si possono anche
trovare dei grovigli apparentemente extracellulari. Questi aggregati in realtà sono
comunque localizzati all’interno delle cellule, ma essendo tossici per le cellule
stesse ne provocano la morte, e ciò ne causa il rilascio a livello extracellulare.

• Infiammazione: dovuta a una forte attivazione della microglia intorno alle sinapsi
con conseguente disfunzione sinaptica.

• Atrofia della sostanza grigia (aspecifica, comune a molte malattie del SNC):
compare soprattutto negli stati avanzati di malattia e determina una dilatazione dei
ventricoli.

3. DIAGNOSI E FATTORI DI RISCHIO


La diagnosi, non potendo sfruttare le caratteristiche anatomopatologiche, è posta sulla
base di criteri clinici (anche se ad oggi sono disponibili dei traccianti per identificare le
placche amiloidi nel pz vivo utili per confermare la diagnosi clinica).
Le caratteristiche che permettono di fare diagnosi di Alzheimer sono:
• Perdita di memoria: prima memoria a breve termine, poi memoria a lungo termine
recente.
• Alterazione dell’orientamento spazio-temporale: si perde prima l’orientamento
“esterno” e poi quello “interno”. I pz, ad esempio, in fase iniziale di malattia escono
e non ricordano più la strada di casa; in fase avanzata dimenticano anche
l’organizzazione degli spazi chiusi e non ricordano più dove è la camera o il bagno
all’interno della loro stessa casa.
• Alterazione delle capacità di giudizio
• Sintomi psichiatrici e disturbi comportamentali

La sopravvivenza, in media, va dai 7 a 10 anni.


I fattori di rischio conosciuti per lo sviluppo di Alzheimer sono:
• Età: all’aumentare dell’età aumenta il rischio di malattia (tra i 60 e 64 anni
incidenza: 0,6%, dopo i 70 anni incidenza: 3,3 %, dopo gli 80 anni incidenza: 12%,
dopo i 90 anni incidenza: 40%).

• Riserva sinaptica ridotta: capacità del cervello di creare sinapsi ed effettuare


modifiche nella plasticità sinaptica che permette all’organismo di adattarsi ai
cambiamenti e agli stimoli dell’ambiente esterno. Un aumento della plasticità
sinaptica si ha per esempio quando studiamo, viaggiamo, conosciamo persone e in
tutte quelle situazioni che pongono il cervello nella condizione di interagire
attivamente con l’ambiente esterno.
Tale fattore di rischio è stato identificato per la prima volta nel nun study, uno studio
condotto sulle suore di clausura. Questo campione è stato utilizzato poiché le
donne nel periodo precedente alla clausura sono state esposte a stimoli esterni

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“normali”, mentre con la clausura si riducono notevolmente le interazioni e i contatti
che queste possono avere con l’ambiente esterno.
Prima di entrare in clausura, le donne vengono sottoposte a dei test attitudinali
scritti al fine di indagare la capacità di sopportare un regime di clausura per molti
anni. Nel nun study vengono presi in considerazione tali test considerando
soprattutto aspetti come il grado di istruzione e cultura che le donne avevano
dimostrato nell’esecuzione del test stesso. Seguendo nel tempo questo campione
di soggetti è stato dimostrato come, a parità di limitazione di stimoli esterni
(clausura) le suore che più frequentemente sviluppavano Alzheimer con
l’aumentare dell’età erano quelle che avevano avuto, in passato, un risultato meno
brillante ai test e che quindi avevano una cultura, una capacità intellettuale e un
numero di esperienze inferiore rispetto alle altre.
In sintesi, il fatto avere una elevata riserva sinaptica come risultato di una grande
interazione con l’esterno è un fattore protettivo nello sviluppo dell’Alzheimer:
essendo la malattia caratterizzata da una disfunzione sinaptica, se c’è una riserva
sinaptica di base molto elevata sarà più difficile e più lungo il processo che porta a
sviluppare la malattia. Al contrario, se si ha una riserva sinaptica limitata, nel
momento in cui compare una disfunzione si arriva ad esaurire la disponibilità di
sinapsi “sane” e non disfunzionanti molto più velocemente e quindi sarà più facile
sviluppare la malattia.

• Assetto metabolico: è stato dimostrato che i portatori dell’isoforma delle ApoE ε4-
ε4 (omozigoti) hanno un’anticipazione dell’insorgenza della malattia; se sviluppano
Alzheimer questo tende a comparire circa 10 anni prima rispetto al resto della
popolazione.
La ApoE è una lipoproteina che trasporta colesterolo (in questo caso al cervello)
che le cellule nervose sfruttano per incorporarlo all’interno delle membrane
intracellulari. I soggetti omozigoti per questa forma di ApoE hanno una carenza
della normale funzione della lipoproteina stessa e quindi un difetto nel trasporto del
colesterolo che sembrerebbe creare un danno alle cellule nervose portando alla
comparsa di una forma più precoce di malattia. Questo fattore è stato messo in
evidenza nei primi studi ma in realtà non ha trovato grande conferma in studi
successivi: non è completamente dimostrato che questo assetto metabolico sia un
fattore di rischio per lo sviluppo di malattia.

• Familiarità: è stato dimostrato come un soggetto che ha un parente di primo grado


con Alzheimer abbia un rischio maggiore di sviluppare la malattia rispetto alla
popolazione generale.

• Fattori protettivi modificabili: attività fisica regolare, astensione dal fumo, dieta
sana, attività intellettuale e trattamento di malattie (DM, ipertensione, obesità,
malattie cardiovascolari, vanno trattate poiché il trattamento riduce il rischio di
sviluppare Alzheimer).

Un importante problema per la diagnosi di demenza da Alzheimer è legato al fatto che si


tratta di una malattia a lento sviluppo in cui le modifiche istologico-anatomopatologiche

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iniziano molti anni prima delle manifestazioni cliniche e quindi è quasi impossibile riuscire
a intercettare quei pazienti che, sebbene asintomatici, stanno iniziando a sviluppare la
malattia. Questo fenomeno si riflette nella necessità di cercare farmaci che possano
intervenire prima che la malattia diventi sintomatica e quindi che agiscano prima che il
danno dei neuroni sia già progredito: più si interviene tardi minore è la possibilità di arresto
della malattia e di recupero del pz.
Sulla base delle ultime scoperte è noto che la malattia è da intendersi come un continuum
che si sviluppa nel tempo e in cui si possono definire diverse fasi di malattia. Gli organismi
internazionali che si occupano della definizione di questi stati sono IWG (International
working group) e NIA (National Istitute of Aging and Alzheimer Association).
NIA e IWG definiscono 3 stadi di malattia con delle piccole differenze per lo stadio 2:
- STADIO 1 - Alzheimer preclinico: stadio della malattia in cui non ci sono sintomi,
ma ci sono dei biomarcatori (vedi dopo).
- STADIO 2 - NIA: lieve alterazione cognitiva dovuta ad Alzheimer (o MCI mild
cognitive impairment): decadimento cognitivo, biomarcatori, alterazioni funzionali.
MCI o decadimento cognitivo deve essere presente per definire lo stadio 2 e può
coinvolgere anche uno o più dei vari domini cognitivi (amnestico, se è coinvolta la
memoria) e deve essere oggettivato con dei test specifici a punteggio (vedi dopo).
- STADIO 2 - IWG: Alzheimer prodromico: decadimento cognitivo, biomarcatori.
Gli stadi 2 per NIA e per IWG hanno caratteristiche comuni come il decadimento cognitivo
lieve e la presenza di biomarcatori, ma differiscono tra loro sul grado di compenso che il
pz riesce ad avere e sull’assenza/presenza di alterazione funzionale.
Infatti per IWG nello stadio 2 non c’è nessuna alterazione funzionale, mentre nello stadio 2
NIA il pz ha (oltre al lieve decadimento cognitivo e biomarcatori) anche delle lievi
alterazioni funzionali che si esplicano nelle normalità quotidiane.
- STADIO 3 - demenza conclamata: il pz sviluppa clinicamente la malattia che poi
viene definita lieve, moderata o severa.
La difficoltà clinica insita in queste definizioni sta nel fatto che, pur essendo la malattia un
continuum che si articola in questi tre diversi stadi, non è detto che un pz in stadio 1
progredisca poi fino allo stadio 3 di malattia conclamata.
Solo una piccola percentuale di pz infatti, meno del 10%, con MCI sviluppa poi l’Alzheimer
e questo rende molto complesso individuare i pz da arruolare negli studi clinici.
I problemi complessivamente quindi sono 2:
• arruolare pazienti che hanno già iniziato a sviluppare la malattia, ma sono
asintomatici;
• distinguere tra tutti i pazienti quella piccola percentuale di soggetti che poi
svilupperà la malattia in stadio 3 (fase conclamata).

Questo rende ovviamente molto complesso lo sviluppo di nuovi farmaci che abbiano come
scopo quello di curare la malattia.

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4. BIOMARCATORI
I biomarcatori sono dei fattori biologici facilmente misurabili che correlano con la malattia,
col rischio di svilupparla o col suo progredimento. Un esempio di biomarcatore è la
glicemia, usata per controllare il diabete mellito, se misurata correttamente.
Perché un biomarcatore possa essere usato deve prima essere validato, ovvero bisogna
quantizzare in termini di malattia (o rischio di essa o della sua progressione) il
biomarcatore, quindi sapere correttamente la loro correlazione quantitativa (es: se il
biomarcatore ha entità 1 allora il rischio di malattia è di 2 volte, se il biomarcatore aumenta
a 2 allora il rischio aumenta a 2.5 volte). Finché il biomarcatore non è caratterizzato in
termini quantitativi, non viene utilizzato.
Negli studi effettuati sui farmaci per l’Alzheimer vengono usati biomarcatori non validati,
che hanno quindi solo una relazione di tipo qualitativo (ovvero presenza-aumento del
rischio). Vengono usati per cercare di arricchire la popolazione di pazienti sui quali si usa il
farmaco, così da selezionare la popolazione con più biomarcatori possibili per aumentare
le probabilità che essa sviluppi in breve tempo l’Alzheimer conclamato.
I farmaci non vengono direttamente usati sui pazienti con Alzheimer conclamato perché gli
studi così effettuati non hanno portato a grandi risultati.
Gli stessi farmaci attualmente in commercio hanno un’efficacia molto blanda, agendo in
maniera minima solo nello stadio iniziale lieve/moderato sul controllo dei sintomi.
Si cerca quindi di agire su pazienti in stadio preclinico o in MCI perché si ha una maggior
possibilità di arrestare il processo ma, poiché non tutti i pazienti in questi stadi non
sviluppano l’Alzheimer, non potremo dimostrare né significatività statistica né efficacia
clinica.
A luglio negli USA è stato approvato il primo dei nuovi potenziali farmaci che agiscono su
un meccanismo di danno che si pensa porti alla neurodegenerazione, ma anche in questo
caso le prove di efficacia sono molto deboli perché l’efficacia si perde sul controllo dei
sintomi clinici proprio per via del problema esposto precedentemente, ovvero la mancata
certezza dello sviluppo della malattia nei pazienti negli stadi precoci.
I trial clinici controllati randomizzati non possono essere troppo lunghi per varie ragioni:
1) perché non possiamo tenere (per un motivo etico) per un periodo troppo lungo
pazienti in trattamento e non;
2) per l’adesione, perché i pazienti abbandonano passato troppo tempo;
3) per i costi troppo elevati.
Proprio perché i trial non possono durare per troppo tempo, avremo difficoltà nell’ottenere
risultati utili e questo per lo studio dell’Alzheimer è un grosso problema.
La ricerca però deve andare avanti, altrimenti si rischia che l’industria farmaceutica
abbandoni gli studi per l’impossibilità di avere farmaci approvati e soprattutto rimborsati dal
SSN.

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I biomarcatori usati attualmente sono:
- localizzati nel liquor: la proteina beta-amiloide con lunghezza 42 aminoacidi, che
diminuisce poiché in equilibrio con quella cerebrale (che si deposita nel cervello); la
proteina tau fosforilata, non funzionante, che aumenta in modo caratteristico
nell’Alzheimer (e con essa la totale, che è però aspecifica per la malattia);
- nel cervello (attraverso la PET): il metabolismo del glucosio è minore nelle regioni
maggiormente coinvolte (temporoparietali) in cui diminuisce l’attività cellulare; le
placche di proteina beta-amiloide vengono visualizzate grazie a dei tracciatori (es.
Flobetapir), la cui positività è compatibile con una possibile diagnosi (ma non fa
diagnosi sicura) e la cui negatività ci permette di escludere la patologia;
- nel cervello (attraverso la MRI): osserviamo situazioni aspecifiche, come l’atrofia
del lobo temporale e la riduzione dell’ippocampo, della corteccia entorinale e
dell’amigdala.
- mutazioni: in presenza di Alzheimer familiare avremo delle mutazioni autosomiche
dominanti specifiche.
È attualmente in corso un progetto di ricerca, l’“Interceptor”, per studiare questi marcatori e
quantizzarli, così da avere poi dei marcatori validati che ci diano un’attendibilità maggiore.
Per fare diagnosi di Alzheimer e includere i pazienti negli studi clinici vengono usate
alcune scale del grado di compromissione cognitiva. Tra esse abbiamo:
- MMSE (minimental state examination): un “mini” questionario per esaminare lo
stato mentale (componente cognitiva e non funzionale); i punti vengono attribuiti
attraverso diversi test che servono a misurare lo spazio, l’attenzione, il linguaggio
(che prevede il riconoscimento oggetti e l’esecuzione di comandi verbali e scritti) e
la memoria (per misurare la quale si sfrutta il test di recall, che prevede
normalmente di elencare tot nomi al paziente e di chiedergli di ripeterli dopo
qualche minuto); va da 0 a 30 punti, più il punteggio è basso più la malattia è
avanzata (30 punti -› paziente sano, 27-29 -› stadio prodromico, 24-26 -› MCI, 23-
20 -› Alzheimer lieve, fino ad arrivare sotto i 10 punti all’Alzheimer severa);
- ADAS-COG 11 (Alzheimer’s disease assessment scale - cognitive): prevede 11
domini unicamente cognitivi e un punteggio che va da 0 a 70, più è alto e maggiore
è il declino cognitivo (al contrario di MMSE).

Le scale per valutare l’attività funzionale attualmente a disposizione sono poco sensibili
per valutare la risposta alla terapia. Le più usate sono:
- ADL (activity daily life): studia l’attività nella vita di tutti i giorni;
- CDR sum of boxes (somma di domini, sia cognitivi che funzionali): la più sensibile
per valutare l’azione dei farmaci.

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5. FISIOPATOLOGIA
La proteina b-amiloide, componente delle caratteristiche placche della malattia, viene
prodotta a partire da un precursore fisiologico presente nel nostro cervello, la proteina
transmembrana APP (precursore della proteina b-amiloide).
Presenta 3 isoforme principali: la 770, la 751 (entrambe ubiquitarie) e la 695 (presente
solo nei neuroni). Il gene che codifica per APP si trova sul cromosoma 21, lo stesso che fa
trisomia nella sindrome di Down, motivo per cui gli affetti da questa sindrome, avendo tre
copie del Chr. 21 e quindi del gene che produce APP hanno un maggior rischio di
sviluppare l’Alzheimer, se vivono abbastanza a lungo.
La sequenza di BAP si trova in parte nella porzione extracellulare e in parte nel doppio
strato lipidico, per cui per formare BAP entreranno in gioco alcune endopeptidasi:
- l’alfa-secretasi: taglia circa 16 aa più in basso del sito di inizio di BAP, per cui se
taglia il precursore BAP non può formarsi; ha molti substrati e la sua attività è
stimolata dall’attivazione del recettore dell’acetilcolina di tipo M1. La sua attività è
quindi protettiva, andando a impedire la formazione di BAP;
- le beta-secretasi BACE 1 e 2: due aspartilproteasi, di cui la 1 situata solo nel SNC e
la 2 ubiquitaria; BACE 1 taglia leggermente al di sopra del sito di inizio di BAP, per
cui se interviene BAP si può formare, motivo per cui si è pensato di usare dei suoi
inibitori come farmaci, ma dovrebbero essere selettivi per l’isoforma 1, visto che la 2
ha molti substrati, ma tutti i trial effettuati sono stati interrotti per l’elevata tossicità
epatica;
- la famiglia delle gamma-secretasi: operano il taglio all’interno del doppio strato
lipidico; sono molti enzimi, i più importanti sono le preseniline 1 e 2; hanno una
certa promiscuità nel sito di taglio, per cui avremo tagli a diverse altezze e quindi
BAP di diverse lunghezze (BAP 29, BAP 40, BAP 42 e BAP 43), la più tossica è la
42 poiché si aggrega più facilmente; le gamma-secretasi hanno diversi substrati, tra
cui NOTCH, che viene attivato da essa ed è fondamentale per lo sviluppo degli
astrociti e dell’omeostasi delle cellule nervose e dell’apparato vascolare, motivo per
cui non si possono inibire le gamma-secretasi (non compatibilità con la vita; tra le
patologie che causerebbe avremmo il CADASIL, un’arteriopatia cerebrale
autosomica dominante caratterizzata da infarti subcorticali e da neurodistrofia, data
appunto da una mutazione inattivante di NOTCH).

Il precursore APP 770 presenta diverse mutazioni, responsabili di circa il 2-3% delle forme
di Alzheimer familiare. Sono:
- Mutazioni swedish: mutazioni di 2 aa che precedono il sito di taglio di BACE1,
aumentandone l’attività e quindi la probabilità di formare BAP; vengono usate
anche negli studi su modelli animali;
- Mutazioni indiana e London: aumentano l’attività della gamma-secretasi e quindi
la probabilità di formare BAP 42;
- Mutazioni che non incidono sull’attività di taglio, ma sulle caratteristiche chimico
fisiche di BAP, facendo sì che si aggreghi più facilmente; non sono ancora però

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state individuate in alcuna forma di Alzheimer, ma solo nell’angiopatia amiloidotica
cerebrale, patologia mortale da deposizione di amiloide;
- Mutazioni delle preseniline 1 e 2: della 1 abbiamo circa 150 mutazioni associate a
una forma di Alzheimer a insorgenza precoce (dai 28 ai 60 anni).

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CONTINUAZIONE ALZHEIMER
L’Alzheimer rientra tra le beta-fibrillosi. La proteina che si accumula in questa patologia è la proteina beta
amiloide (BAP) che si aggrega a formare delle placche in sede extracellulare. APP è una proteina
transmembrana dal cui taglio deriva la BAP.

Le mutazioni della APP possono riguardare direttamente la sequenza della proteina oppure gli enzimi che
la tagliano, le preseniline. Queste ultime fanno parte del complesso multi-enzimatico delle gamma
secretasi che taglia l’APP in un sito interno alla membrana plasmatica. Le mutazioni delle preseniline (1 e 2)
sono moltissime: della 1 se ne conoscono più di 250, tutte associate ad Alzheimer precoce, con insorgenza
tra i 28 e i 60 anni.

Dal taglio della proteina APP, che può avvenire a diverse lunghezze, può derivare la BAP 1,42: la più tossica
perché ha maggior tendenza ad aggregarsi in foglietti beta, che sono dei ponti idrogeno che si formano sia
all’interno della proteina che tra una proteina e l’altra. Si formano oligomeri, da cui derivano le protofibrille
e da queste si formano le fibrille: il più tossico di questi aggregati è il dodecamero.

Ci sono sostanze che fungono da pro-aggreganti facilitando l’aggregazione di BAP: GAG e metalli pesanti, in
particolare rame e zinco. Ci sono farmaci, che si danno in aggiunta alla terapia di base, che impediscono
l’azione dei metalli pesanti chelandoli e riducendo in questo modo il rischio di aggregazione di BAP e quindi
il rischio di sviluppo di Alzheimer.

FUNZIONE FISIOLOGICA DI BAP 1,42

Perché si forma BAP 1,42 se è tossica? Perché in realtà ha anche una funzione fisiologica se si trova in
forma monomerica: è un modulatore allosterico positivo del recettore per l’IGF-1, cioè in forma
monomerica si lega in un sito sul recettore, diverso da quello a cui si lega l’IGF, facilitandone l’interazione
con l’IGF stesso. Va a potenziare quindi l’azione dell’IGF, ossia l’attivazione della via della fosfatidilinositolo-
3-chinasi (PI3K), con attivazione della protein-chinasi AKT, che, tra gli altri ruoli, facilita la traslocazione di
un particolare trasportatore per il glucosio, GLUT3. Quest’ultimo viene così espresso sulla membrana dei
neuroni che quindi possono nutrirsi di glucosio, da cui dipende in gran parte il loro metabolismo. Il glucosio
entra nella cellula, entra nella via glicolitica (tramite cui forma ATP), ma anche nella via delle esosammine,
che produce UDP-N-acetilglucosamina (UDP- GLCNAc), che serve per glicosilare alcuni substrati, in
particolare la proteina Tau (coinvolta nella formazione dei grovigli neurofibrillari). La glicosilazione
protegge la proteina Tau da una iperfosforilazione, che inattiverebbe la Tau, la quale si staccherebbe dai
nucleotidi e formerebbe i grovigli neurofibrillari. La protein chinasi AKP, attivata sempre dal recettore per
IGF-1, blocca un complesso multienzimatico a cui appartiene l’enzima GSK3 beta (vista con il signaling
dell’insulina). La GSK3 beta non funziona più e non può fosforilare la proteina Tau, che risulta dunque
doppiamente protetta dalla fosforilazione.

BAP 1,42 E RECETTORE M5 DEL GLUTAMMATO

BAP 1,42 interagisce con un recettore del glutammato (principale neurotrasmettitore eccitatorio del SNC
con due tipi di recettori, metabotropici e ionotropici, canali). BAP aggregata in oligomeri interagisce con il
recettore metabotropico M5, ma contemporaneamente anche con la proteina del prione fisiologica (Prpc).
Questa doppia interazione recluta una Tyr chinasi intracellulare, detta FYN, che attiva un altro recettore
del glutammato, NMDA, che favorisce l’ingresso di calcio nella cellula nervosa. Allo stesso tempo
l’attivazione di M5 (associato a proteina Gq) da parte di BAP 1,42 oligomero causa l’attivazione dell’idrolisi
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del fosfatidilinositolo-4,5-bisfosfato con produzione di inositolo-1,4,5- trisfosfato (InsP3) con conseguente


aumento del Ca2+ intracellulare. Dunque sia l’attivazione della proteina FYN, sia l’attivazione del recettore
M5 esitano in aumento del Calcio intracellulare facilitando la neurodegenerazione e l’alterazione sinaptica
(infiammazione intorno alle sinapsi, segno caratteristico di Alzheimer). L’eccessivo aumento di Calcio libero
nel citosol di una cellula neuronale porta a morte per eccitotossicità. Oltre a tutti questi meccanismi diretti
che portano a morte le cellule, la formazione dei grovigli di BAP 1,42 riduce la forma monomerica (quella
non aggregata). Ne consegue un’alterazione della funzione fisiologica di BAP con conseguente ridotta
attivazione del recettore per IGF-1: c’è una riduzione della facilitazione del trasporto glucosio, con
produzione di meno ATP (fondamentale per la trasmissione sinaptica) e aumento della fosforilazione della
proteina Tau, per il meccanismo visto precedentemente. C’è quindi una correlazione diretta tra la
formazione di oligomeri di BAP e danneggiamento della Tau, per ridotta glicosilazione e aumentata
fosforilazione, che porta poi alla formazione di grovigli.

BAP 1,42 e la via di WNT

BAP 1,42 aggiunta in vitro a colture cellulari di neuroni (cellule altamente differenziate che non proliferano)
determina un ulteriore meccanismo di danno: i neuroni entrano nel ciclo cellulare cominciando a
sintetizzare il DNA (entrano in fase S del ciclo), ma invece di usare la DNA polimerasi a, che normalmente è
usata per la sintesi del DNA, usano la b, che si differenzia dalla prima perché non ha attività di correzione di
bozze (se si sbaglia e si inserisce nel DNA una base errata questo enzima non può correggere l’errore).
Questo meccanismo attiva il sistema di difesa del p53, che in seguito agli errori inseriti nelle sequenze di
base si attiva e induce diversi geni, in particolare il gene che codifica per DIKKOPF-1, modulatore negativo
della via di Wnt (studiata a proposito del signaling del recettore dell’insulina). È fondamentale per lo
sviluppo del SNC durante l’embriogenesi e nel feto, ma anche per mantenere l’omeostasi nell’individuo
adulto. Quando la via di WNT è attiva, una delle conseguenze che ne deriva è che l’enzima GSK3 beta è
inibito. Questo enzima quando è attivo determina la sintesi del glucosio ma anche la degradazione della
beta catenina, un fattore di trascrizione di molte proteine essenziali per il trofismo cellulare. Se si attiva
DIKKOPF-1, modulatore negativo della via di Wnt, la b-catenina viene degradata e non può così agire da
fattore di trascrizione, con mancata produzione di quelle proteine necessarie per il corretto trofismo
neuronale. Non solo, ma la GSK3 b è in questo modo libera di agire e quindi aumenta la fosforilazione della
Tau, con aumento dei grovigli neurofibrillari. Quindi, con l’attivazione di DIKKOPF-1, la GSK 3 b è libera di
agire e oltre a fosforilare la b catenina e a farla degradare, fosforila anche la Tau, con aumento del rischio
di formazione dei grovigli neurofibrillari.

TAU POST-SINAPTICA

Oltre alle placche amiloidi ci sono anche i grovigli neurofibrillari composti dalla proteina Tau.
La Tau si trova fisiologicamente legata ai microtubuli, li stabilizza e permette la corretta funzione e
struttura del citoscheletro. Fisiologicamente è localizzata negli assoni dei neuroni ma si trova anche in
minore concentrazione nelle spine dendritiche (densità post-sinaptiche, la sinapsi può avvenire tra il
terminale nervoso pre-sinaptico di un neurone e i dendriti del neurone post-sinaptico). La porzione
prossimale dell’assone (vicina al soma dendritico ossia il cosiddetto AIS, axon initial segment) ha una
formazione proteica che forma una barriera di cariche che impedisce la diffusione retrograda della Tau
verso il corpo cellulare. Il soma, così come il terminale presinaptico, non ha proteina TAU. Le spine invece
hanno una piccola quantità di TAU a livello post-sinaptico, la parte delle sinapsi dove ci sono i recettori per
i neurotrasmettitori rilasciati a livello pre-sinaptico. In condizioni patologiche aumenta per sintesi diretta
tramite traduzione di mRNA per la TAU nella spina dendritica e perché viene prodotta maggiormente
tramite i microtubuli. La tau legata ai microtubuli recluta la chinasi FYN e ne partecipa all’attivazione.
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Inoltre la localizzazione aumentata di TAU nella spina dipende dal suo legame con le proteine della densità
post sinaptica PSD95. La proteina TAU partecipa anche all’attivazione dei recettori NMDA del
glutammato. NMDA è un recettore ionotropico che attivato dal Glutammato e dal co-attivatore glicina
(doppio legame) fa entrare Ca nella cellula. Come detto più volte, i livelli di Ca nella cellula devono essere
finemente regolati perché esso attiva numerosi enzimi, in quanto necessario per molte funzioni cellulari,
ma se rilasciato in modo eccessivo innesca il processo apoptotico. Poiché il recettore NMDA fa entrare il
Ca, la sua attività dev’essere regolata, in particolare è regolata da uno ione Mg nel canale che fa da “tappo”
bloccando il canale e impedendo che entri Ca nella cellula. Il Ca entra nonostante il tappo perché questo è
eliminato quando la membrana plasmatica su cui è espresso il recettore NMDA si depolarizza. Esistono dei
meccanismi che favoriscono l’apertura del recettore NMDA: il legame con proteina PSD95, proteina della
densità post-sinaptica e la presenza di oligomeri di BAP 1,42. Questa facilità di apertura porta ad una
predisposizione del danno neuronale ma la sua apertura è anche coinvolta in meccanismi positivi per la
cellula infatti, oltre a partecipare ai processi di neurotossicità, partecipa all’apprendimento associativo.

APPRENDIMENTO ASSOCIATIVO

Il recettore NMDA del glutammato è fondamentale per l’apprendimento associativo, ossia apprendimento
di uno stimolo debole (uno stimolo che ha difficoltà ad essere appreso) quando associato ad uno stimolo
forte (viene appreso facilmente). Esempio: uno stimolo forte “so che dopo la lezione vado a giocare a
calcetto”; uno stimolo debole: “so che alle 16 c’è lezione”. Lo stimolo forte può attivare da solo
meccanismi cerebrali che permettono l’apprendimento, lo stimolo debole non attiva gli stessi meccanismi,
quindi viene ricordato meno facilmente. Tuttavia se uno stimolo forte si presenta accompagnato da uno
debole, vengono appresi entrambi.

L’apprendimento associativo ha basi biologiche, date dall’associazione di alcuni recettori: uno è il NMDA,
l’altro è l’AMPA, un canale per il Na. AMPA è un recettore a bassa affinità per il glutammato, quindi perché
sia attivato serve che nella sinapsi sia rilasciato molto neurotrasmettitore. Uno stimolo forte consente il
rilascio di molto Glu nella sinapsi, quindi attiva il recettore AMPA: l’attivazione consente l’apprendimento
dello stimolo forte che quindi viene appreso anche se si presenta da solo. Lo stimolo debole non riesce a
far rilasciare nella sinapsi una quantità tale di Glutammato da essere appreso se si presenta da solo. Se
però i due stimoli si presentano insieme il forte attiva il recettore AMPA, che fa entrare il Na, la membrana
plasmatica si depolarizza, il tappo di Mg fuoriesce dal recettore NMDA e lo stimolo debole a questo punto
è in grado di far rilasciare una quantità di Glu piccola ma sufficiente per attivare il recettore NMDA che
quindi si attiva e favorisce l’apprendimento dello stimolo debole.

Questo è ciò che accade la prima volta che i due stimoli (forte e debole) vengono appresi insieme, poi però
gli stimoli devono essere ricordati, cosa che avviene tramite modifiche a livello delle sinapsi: un aumento
dell’espressione dei recettori AMPA, così che, ogni volta che si ripresenta lo stimolo debole, c’è un maggior
rilascio di Glu a livello pre-sinaptico, questo fa sì che una volta appreso, lo stimolo debole viene anche
ricordato quando si presenta da solo. L’apprendimento associativo permette di apprendere quasi tutto ciò
che è importante: è una funzione essenziale del cervello.

Il recettore NMDA è sì potenzialmente pericoloso (se fa entrare troppo Ca porta a morte), ma è


fondamentale per l’espletamento di molte funzioni nervose superiori, per cui va finemente regolato. Ci
sono diverse sostanze che intervengono per regolarlo: Mg+ e il recettore mGLU5, che è sempre accoppiato
a NMDA e lo modula in modo positivo. Esiste un rapporto scambievole di modulazione tra mGLU5 e NMDA
così che mGLU5 lo regola positivamente e NMDA fa la stessa cosa con mGLU5.
28/10/2021 sbob1: Silvia Picciolo
Farmacologia sbob2: Ludovica Martucci
Prof. Melchiorri rev: Nicola Maiorano

Nell’AD gli oligomeri di BAP 1,42 alterano la regolazione del recettore NMDA, in particolare la capacità
delle sinapsi di modificarsi durante l’apprendimento, che è detta in termini scientifici con il termine di LTP
(long term potentiation), l’opposto è la LTD (long term depression). LTP e LTD sono meccanismi molecolari
che permettono la modifica dell’attività sinaptica e la presenza di oligomeri di BAP 1,42 altera sia LTP che
LTD, mediate da recettore NMDA. L’Induzione di LTP e il conseguente aumento del recettore AMPA sulla
superficie post-sinaptica aumenta l’espressione di TAU nella densità post-sinaptica ed inoltre si è visto che
in seguito all’LTD a livello del dendrite abbiamo un ulteriore aumento della quantità di proteina TAU. La
proteina TAU diventa quindi significativamente presente a livello post-sinaptico nel pz con AD ed è
coinvolta in diversi meccanismi. La FYN (chinasi) legata alla TAU si attiva e fosforila i suoi substrati. Il
substrato di FYN è NMDA che viene fosforilato e quindi aumenta la frequenza di apertura che favorisce il
suo ancoraggio alla proteina PSD95 che potenzia l’attività del recettore NMDA. Ciò favorisce eccitotossicità
e morte cellulare. La proteina TAU iper-espressa è in grado di inibire la proteina synGAP, un inibitore della
via delle MAP chinasi, la via delle proteine che hanno attività mitogena. L’attivazione della via delle
proteine MAP favorisce il processo di eccitotossicità , dunque la TAU favorisce ancora l’eccitotossicità .

Tutto questo è stato dimostrato in vitro e in modelli animali infatti esistono modelli di animali AD dati dal
knockout di alcuni geni che mutavano nelle forme familiari, esistono diversi modelli murini di AD disponibili
per studiare i meccanismi della malattia e dei farmaci.
Esiste un modello con la mutazione indiana, con quella svedese ed esiste un triplo transgenico, molto utile,
che alberga tre mutazioni (svedese, della presenilina I accoppiate ad una mutazione TAU). Il transgenico è
uno dei modelli più usati per lo studio della terapia.
Ma si possono creare anche dei topi knockout per la TAU o topi che hanno ricevuto degli oligonucleotidi
anti-senso contro la TAU quindi che non hanno proprio la proteina TAU ed in questi non è possibile indurre
eccitotossicità somministrando Beta Amiloide e ciò dimostra i meccanismi precedentemente descritti.

DOMANDA STUDENTE: la Tau che interagisce in questo modo con le proteine di membrana è iperfosforilata
o normale?

RISPOSTA: è Tau espressa nelle varie quantità o iperfosforilata, quindi comunque in una condizione
patologica. Tutti questi meccanismi trovano riscontro nel fatto che esistono modelli murini di Alzheimer
realizzati introducendo varie mutazioni nella proteina APP (soprattutto mutazione Swedish), nella presilina
1 e nella Tau: quindi modelli murini realizzati inserendo queste mutazioni, danno un quadro nell’animale,
simile a quello che si verifica nel cervello di soggetto con Alzheimer. Non solo, ma se prendo dei topi e
tolgo loro il gene per la Tau e poi do loro la proteina beta amiloide in forma fibrillare (che dovrebbe indurre
morte per eccitotossicità), questi topi sono protetti, e non sviluppano eccitotossicità da Tau, non avendola.
Quindi il meccanismo è complesso, vi sono più “attori” che cooperano per determinare il danno e se
vogliamo avere terapie efficaci per l’Alzheimer, la cosa migliore darebbe agire su più bersagli, il che
complica molto la possibilità di avere una terapia.
28/10/2021 sbob1: Silvia Picciolo
Farmacologia sbob2: Ludovica Martucci
Prof. Melchiorri rev: Nicola Maiorano

TERAPIA ALZHEIMER

La terapia dell’Alzheimer non è molto soddisfacente, in quanto è solo sintomatica e non in grado di
arrestare o rallentare la progressione della malattia. Comprende due gruppi di farmaci:

1) INIBITORI DELLE COLINESTERASI


2) ANTAGONISTA DEL RECETTORE NMDA

INIBITORI DELLE COLINESTERASI

Nell’Alzheimer i primi neuroni che degenerano sono i colinergici, in particolare quelli coinvolti nel
meccanismo della memoria. Si tratta di neuroni ad assone lungo (con il corpo cellulare in un nucleo che
proiettano con l’assone fuori). Vi sono anche gli interneuroni colinergici, più piccoli, con assone corto e
corpo e proiezione assonale in uno stesso nucleo. Nel caso della AD quelli che degenerano sono i lunghi, in
particolare quelli che dal setto pellucido proiettano all’ippocampo, che dall’area di Broca proiettano
all’ippocampo e quelli che dal nucleo basale di Meynert proiettano alla corteccia. Degenerano per primi
nell’AD perché ci sono meccanismi che ne aumentano la suscettibilità al danno: nell’AD aumenta la
concentrazione di NGF, fattore neurotrofico e in particolare aumenta il precursore di NGF (pro-NGF). NGF
serve per il trofismo neuronale, ma i neuroni maggiormente sensibili alla sua azione sono proprio quelli
colinergici. Essi, pur dipendendone, non sono in grado di produrlo, ma gli viene dato da neuroni
glutammatergici aventi l’assone nella corteccia. I neuroni glutammatergici proiettano ai colinergici,
rilasciano l’NGF e i colinergici captano l’NGF rilasciato e con meccanismo di trasporto retrogrado (cioè dalla
terminazione assonale al soma) lo portano al soma dove lo usano per produrre proteine che
permetteranno l’espletamento delle loro funzioni. L’aumento di concentrazioni dell’NGF, in particolare
nell’ippocampo dei pz con AD è il segnale che il meccanismo di trasporto retrogrado che normalmente
permette ai colinergici di prendere NGF e trasportarlo nel nucleo, non funziona, e impedisce loro di
avvalersi dell’NGF. Questo è il motivo per cui, privi del loro fattore neurtorofico, questi neuroni colinergici
sono maggiormente soggetti al danno che si verifica nell’AD.

Poiché la prima a ridursi è proprio la trasmissione colinergica, il primo gruppo di farmaci usato sono
farmaci che potenziano la trasmissione colinergica, inibendo il metabolismo dell’Ach, trasportatore dei
neuroni colinergici. Si cerca di mantenere a un valore accettabile l’Ach inibendo gli enzimi che la
metabolizzano, così da allungare la sua emivita.

In realtà, le colinesterasi sono due: acetilcolinesterasi e butirrilcolinesterasi. La prima è responsabile del


metabolismo dell’Ach e quindi si ritrova nella sinapsi; la seconda si trova principalmente nel plasma ed è
prodotto dal fegato. Nell’AD, la butirrilcolinesterasi, che normalmente non partecipa al metabolismo
dell’Ach, si ritrova in maggiori quantità anche nel cervello, nelle sinapsi, dove metabolizza Ach insieme
all’acetilcolinesterasi (sempre presente), cosa che invece non avviene nel sano. I farmaci disponibili sono
in tutti i casi inibitori dell’acetilcolinesterasi, ma in un solo caso ce n’è uno che li inibisce entrambi
(Rivastigmina). Bisogna ricordare che l’acetilcolinesterasi è presente in 3 diverse forme:

- G4, forma tetramerica, ancorata alla membrana post-sinaptica, molto importante nel metabolismo
dell’Ach, che si trova in tutto il SNC e anche nei gangli del SNA e nei terminali del parasimpatico, nonché
nella placca neuromuscolare;
- G1, solubile, non ancorata alla membrana: si trova nel SNC ma non nello striato, per cui il farmaco che
agisce prevalentemente sulla forma G1, si può usare nelle demenze associate al Parkinson. Nelle demenze
associate al Parkinson c’è un problema di terapia, perché i farmaci normalmente usati potenziano la
28/10/2021 sbob1: Silvia Picciolo
Farmacologia sbob2: Ludovica Martucci
Prof. Melchiorri rev: Nicola Maiorano

trasmissione colinergica, e nel parkinsoniano potenziare la trasmissione colinergica nello striato causa un
danno che accentua lo sbilanciamento tra dopamina e Ach. La G1 nello striato non c’è quindi usando un
farmaco che inibisce non la G4 ma la G1 non viene potenziata la trasmissione colinergica nello striato
quindi si può usare per la demenza associata al P.
- G2, eritrocitaria, dimerica, che normalmente è monitorata nell’intossicazione da organofosforici, pesticidi
che agiscono inibendo le colinesterasi. In questo tipo di intossicazioni viene effettuato un prelievo di sangue
per monitorare l’attività dell’acetilcolinesterasi e per vedere se l’enzima è bloccato del tutto. In questo
modo si ha un’idea del grado di intossicazione. Si utilizza la forma G2 eritrocitaria per tale controllo in
quanto questa forma è la più facilmente accessibile.

DONEPEZIL e GALANTAMINA inibiscono solo l’acetilcolinesterasi e inibiscono prevalentemente e molto la


acetilcolinesterasi G4 tetramerica, mentre la RIVASTIGMINA, che inibisce anche la butirrilcolinesterasi,
inibisce quasi esclusivamente la G1. Quindi il farmaco utilizzabile nel Parkinson per la demenza è la
Rivastigmina, usata anche per la demenza a corpi di Lewy. Si può usare in tutti i casi in cui c’è demenza
associata a parkinsonismo, perché interviene su una acetilcolinesterasi che non è nello striato.

DONEPEZIL

Lunghissima emivita (50-70h), quindi somministrato una volta al giorno a una dose che va dai 5 ai 10 mg.
Tmax, cioè Il tempo che il farmaco impiega per raggiungere la Cmax, è breve ma non brevissimo (3-4h) e
questo protegge dagli effetti avversi “di picco”. Un farmaco assorbito molto velocemente dà più
frequentemente effetti avversi quando raggiunge la concentrazione plasmatica. La Tmax di 3-4h non è
molto veloce, quindi il Donepezil non dà frequentemente effetti avversi da picco plasmatico. Viene
metabolizzato dal CYP3A4 e dal CYP2D6, quindi può dare problemi di interazione con altri farmaci
metabolizzati o inibenti i suddetti CYP nei casi in cui sia in atto una politerapia (molto frequente in questi
pazienti in quanto anziani). Il CYP2D6 è anche un enzima molto polimorfo ed occorre sapere se il paziente è
un metabolizzatore lento o veloce. Nel primo caso, in particolare, la somministrazione del Donepezil può
indurre molti effetti collaterali in quanto viene metabolizzato poco e lentamente.

GALANTAMINA

La Galantamina ha un’emivita più breve rispetto a quella del Donepezil, che va dalle 5 alle 7 ore e necessita
di una doppia somministrazione giornaliera. La dose totale giornaliera va dai 12 ai 24 mg, suddivisa in 2
somministrazioni. Il T max è di circa 2/2,5 ore, più breve di quello del Donepezil, ma anche esso abbastanza
lungo da scongiurare molti effetti collaterali da picco. È anche essa metabolizzata dai CYP3D4 e CYP2D6.
Tale farmaco, oltre ad inibire l’acetilcolinesterasi, è anche un agonista colinergico. Potenzia, quindi, la
trasmissione colinergica non solo tramite l’inibizione dell’acetilcolinesterasi ma anche tramite l’attivazione
diretta dei recettori colinergici muscarinici. L’attivazione del recettore M1 muscarinico favorisce l’azione
dell’α-secretasi, enzima che riduce la possibilità di produrre BAP 1-42 dall’APP, in quanto effettua un taglio
in un sito che impedisce che venga formato il peptide ß-amiloide. Questa attivazione, quindi, impedisce una
grande produzione di BAP, in quanto si forma un peptide molto più corto.

RIVASTIGMINA

È un farmaco che inibisce selettivamente G1, in quanto non è molto affine alla forma G4; non interferisce,
quindi, con la trasmissione nello striato ed inibisce anche la butirrilcolinesterasi. Dovrebbe, per questi
motivi, teoricamente, essere più efficace ma nella pratica clinica tutti questi farmaci sono efficaci
28/10/2021 sbob1: Silvia Picciolo
Farmacologia sbob2: Ludovica Martucci
Prof. Melchiorri rev: Nicola Maiorano

esclusivamente in una forma lieve e moderata delle demenze e di Alzheimer, in quanto con il progredire
della malattia perdono di efficacia.
La Rivastigmina è caratterizzata da un’emivita di 1 ore. Essa però si accumula e viene, per questo,
somministrata due volte al giorno con la dose totale di 6-12 mg suddivisi in due somministrazioni
giornaliere. Il Tmax è molto breve, di 1 h, e sono molto frequenti gli effetti collaterali da picco plasmatico.
La somministrazione del farmaco deve essere iniziata previa titolazione e non a dosi piene, in quanto la
titolazione riduce gli effetti collaterali presenti soprattutto a livello gastrointestinale, ma anche cefalea,
vertigini, nausea, vomito. Non viene metabolizzata e per questo non dà interazioni farmacologiche, si può
associare senza problemi in politerapia.
Tale farmaco è inoltre l’unico tra i 3 inibitori delle colinesterasi a controllare, in parte, anche i disturbi
comportamentali. Nelle demenze, infatti, il più grande problema non è la perdita di memoria (soprattutto
all’inizio) ma i disturbi comportamentali che rendono difficile prendersi cura di questi pazienti. I farmaci
riguardo questo aspetto sono quasi totalmente inutili e la Rivstigmina è tra tutti il più efficace in questo.
Esistono dei polimorfismi sia della butirrilcolinesterasi sia della acetilcolinesterasi e per questo alcuni
soggetti rispondono meno degli altri agli inibitori e quindi alla terapia.

ANTAGONISTA DEL RECETTORE NMDA

MEMANTINA

Unico farmaco di questo gruppo, è un bloccante rapido dei recettori NMDA.


Gli NMDA hanno doppia funzione: eccitotossicità ed apprendimento associativo. Se uso un bloccante a
lungo termine della funzionalità del NMDA da una parte blocco l’eccitotossicità, che ha un ruolo nell’AD,
ma in contemporanea ho un peggioramento della demenza perché blocco l’apprendimento associativo. La
Memantina ha quindi la caratteristica di essere un bloccante rapido dei recettori NMDA. Li blocca per un
periodo breve, si attacca e si stacca velocemente dal recettore e questo blocco rapido impedisce i danni
associati alla funzione di NMDA nell’apprendimento e nella memoria. La Memantina è una possibile terapia
perché blocca i recettori come bloccante rapido e questo impedisce il decadimento delle funzioni
intellettive che sarebbe associato ad un blocco prolungato del recettore NMDA. Ha un’emivita superiore
alle 24 h ma avendo una cinetica multifasica (le concentrazioni all’interno del cervello non sono costanti
ma oscillano) viene somministrata 2 volte nell’arco delle 24 h con una dose totale che vai dai 5 ai 20 mg.
Nella somministrazione è necessario titolare lentamente il farmaco e anch’esso non è metabolizzato, è
esente quindi da problemi di interazione farmacocinetica.

Nei soggetti con Parkinson e demenza, la Memantina non peggiora il Parkinsonismo ma non può essere
somministrata in quanto psicotomimetico, ossia induce le psicosi. Questo effetto collaterale aumenta
molto se associato ad agonisti dei recettori dopaminergici D2, farmaci utilizzati nella terapia del morbo di
Parkinson. Tutti i bloccanti del NMDA sono psicotomimetici, infatti qualsiasi farmaco che blocca il recettore
NMDA come effetto collaterale ha la possibilità di indurre psicosi.

Nei casi di demenze causate da danno ripetuto e cronico (come la demenza pugilistica) si utilizzano i
barbiturici, in quanto molto spesso si generano anche delle convulsioni e tali farmaci sono efficaci come
anti-epilettici. In questi casi nel trattamento della demenza non si può utilizzare la Memantina in quanto
questa riduce l’efficacia dei barbiturici, aumentando la produzione di BDNF.
I barbiturici funzionano legandosi al recettore GABA A, il recettore del GABA, principale neurotrasmettitore
inibitorio del SNC. Questo dispone di 3 tipi di recettori; GABA A, GABA B e GABA C.
Il GABA A si trova disseminato nel cervello, è un recettore canale che quando attivato permette l’ingresso di
Cloro. Il Cloro, carico negativamente, causa una iperpolarizzazione della membrana e il neurone di
28/10/2021 sbob1: Silvia Picciolo
Farmacologia sbob2: Ludovica Martucci
Prof. Melchiorri rev: Nicola Maiorano

conseguenza si inibisce. I barbiturici sono modulatori allosterici del recettore GABA A, si legano all’interno
del canale e lo mantengono aperto più a lungo. In questo modo entrano più ioni cloro, la membrana si
iperpolarizza più velocemente e la cellula viene inibita e non è più eccitabile. Si ha quindi una depressione
del SNC. L’attacco epilettico consiste in una scarica eccessiva improvvisa e ipersincrona, con
l’iperpolarizzazione data dal barbiturico il neurone non può più scaricare e per questo inibisce l’iperattività
caratteristica della scossa epilettica. Quando il canale per il Cloro si apre, lo ione, presente principalmente a
livello extracellulare, entra nella cellula e iperpolarizza la membrana. L’entrata del cloro avviene,
nonostante il gradiente di carica si opponga, grazie all’elevato gradiente di concentrazione.
Queste cariche negative devono essere eliminate per mantenere alto il gradiente di concentrazione
transmembrana e permettere il funzionamento del GABA A. Per questo sulla membrana opposta vi è un
trasportatore che espelle il cloro e questo trasportatore è inibito da BDNF, il fattore neurotrofico cerebrale.
Gli ioni cloruro, quindi, non vengono portati fuori dalla cellula e questo provoca il blocco del GABA A.
Infatti, quando il GABA A si riapre, il cloro non può più fluire all’interno della cellula in quanto il suo
movimento non è sostenuto da un gradiente di concentrazione adeguato.
Questo è il motivo per cui la Memantina, aumentando il BDNF, inibisce l’azione dei barbiturici.

FARMACI DI SUPPORTO

Oltre ai farmaci fino ad ora citati, sono presenti in commercio dei farmaci di supporto che si danno in
aggiunta alla terapia di base, che hanno un’azione blanda che però si somma all’azione degli altri farmaci,
potenziando la terapia.

Fanno parte dei farmaci di supporto gli intercalatori delle fibrille, farmaci che si inseriscono tra gli
oligomeri e impediscono che questi formino le fibrille. Sono sul mercato già da molti anni per altre
indicazioni ma si è visto che funzionano anche come intercalatori di fibrille e per questo si associano ai
farmaci principali della terapia dell’Alzheimer. Tra gli intercalatori di fibrille vi sono:
- le tetracicline, in particolare la Doxiciclina e la Minociclina, utilizzate normalmente come antibiotici;
- il B-bloccante Carvedilolo;
- l’Omotaurina (nome commerciale Tramiprosato)

Oltre agli intercalatori di fibrille tra i farmaci di supporto vi sono anche i chelanti dei metalli di transizione.
Zinco e rame, infatti, facilitano l’aggregazione di BAP. Fornendo una sostanza in grado di chelare tali ioni si
ottiene un’aggregazione inferiore di BAP. L’effetto, tuttavia, è limitato anche in questo caso.
È presente un farmaco in via di sperimentazione, sia per Alzheimer che Corea di Hungtinton, chiamato
PBT2, un derivato dell’8-idrossitirolina che funziona da chelante dello zinco e del rame.

IMMUNIZZAZIONE

Nel trattamento della demenza di Alzherimer sono state sperimentati due tipi di immunizzazione:

- immunizzazione attiva con vaccino


- immunizzazione passiva con anticorpi monoclonali

La prima è ancora in fase di sperimentazione, attualmente non vi sono in commercio dei vaccini per
Alzherimer. Nelle sperimentazioni, in un primo momento, è stata tentata l’immunizzazione con vaccino
contenente le sequenze di BAP 1-42. Nei topi tale vaccino si è rivelato efficace in termine di rimozione di
placche b- amiloidi; nei topi a cui era stato somministrato si assisteva all’eliminazione di tutte le placche.
Sulla base di questi risultati incoraggianti si è passati alla sperimentazione sull’uomo, sperando che
28/10/2021 sbob1: Silvia Picciolo
Farmacologia sbob2: Ludovica Martucci
Prof. Melchiorri rev: Nicola Maiorano

l’eliminazione delle placche potesse essere d’aiuto nella manifestazione clinica della patologia di Alzheimer.
Tuttavia la sperimentazione su uomo è stata interrotta dopo la manifestazione di alcuni casi di
meningoencefalite. L’intera sequenza BAP 1-42 rendeva attivi i linfociti T citotossici e causava una risposta
immune che causava la malattia.
Nei vaccini sperimentati in seguito, quindi, non si inserisce più l’intero peptide ma solo dei frammenti, per
evitare troppi epitopi che possano scatenare l’attività dei linfociti.
In altri vaccini in via di sperimentazione vengono inseriti frammenti di proteina B-amiloide. Il problema in
quest’ultimo caso è che la proteina B-amiloide non rappresenta l’unico determinante causale della malattia
di Alzheimer, in cui i meccanismi molecolari patologici sono molteplici.
Per questi motivi la strategia più idonea potrebbe essere quella di combinare più vaccini.
È inoltre attualmente in sperimentazione un vaccino che contiene la sequenza tau che andrebbe
somministrato con un vaccino con una sequenza anti BAP.
Queste sperimentazioni sono ancora molto indietro, non è ancora vicino il momento in cui questi vaccini
possano essere commercializzati.

Il secondo tipo di immunizzazione è l’immunizzazione passiva. Questo tipo di immunizzazione prevede la


produzione di anticorpi monoclonali diretti contro dei target terapeutici, verso molecole che si presuppone
siano coinvolte nella patogenesi dell’Alzheimer. Anche in questo caso, come citato poco sopra, il problema
sussiste nella difficoltà di identificare chiaramente le cause e l’evoluzione della patogenesi della patologia
dell’Alzheimer. Si discute ancora sul ruolo di Tau e di BAP, sulla prevalenza di uno rispetto all’altro o nel loro
rapporto reciproco nella determinazione della patologia.
- Sono stati sperimentati degli anticorpi monoclonali contro BAP 1-42 di cui uno è risultato del tutto
inefficace. Il secondo anticorpo monoclonale sperimentato, il Bapineuzumab, sembrava avesse qualche
efficacia ma non si è andati avantinnella sperimentazione.
- Vi è un altro anticorpo monoclonale di nome Aducanumab, contro BAP, approvato a Luglio 2021 dall’ FDA
ed attualmente è in studio all’EMA. Dagli studi clinici è emerso che la somministrazione di questo anticorpo
monoclonale ha ridotto la deposizione di BAP 1-42 con conseguente riduzione delle placche amiloidi. Nei
pazienti non sono stati osservati, tuttavia, miglioramenti nella valutazione clinica mediante le scale,
necessari per dimostrarne l’efficacia, soltanto in un sottogruppo di pazienti è stato registrato un lievissimo
miglioramento di punteggio basandosi su alcune scale.
Nonostante le evidenze cliniche non molto positive, l’approvazione di tale anticorpo monoclonale da parte
dell’FDA è avvenuta esclusivamente sulla base della diminuzione delle placche amiloidi in seguito alla
somministrazione, che, in quanto potenziali cause della malattia, si spera possa portare anche a dei
miglioramenti clinici, sebbene non rilevati nei trial clinici.
Nelle sperimentazioni emerge anche la difficoltà di disegnare trial clinici efficaci e di arruolare una
popolazione ottimale non ad uno stadio avanzato della malattia.
28/10/2021 sbob1: Ludovica Martucci
Farmacologia sbob2: Cecilia Pizzutelli
Prof. Melchiorri rev: Nicola Maiorano

EPILESSIA
ILAE: lega internazionale contro l’epilessia, lega europea. L’ILAE fornisce le linee guida per la terapia
dell’epilessia e definisce i parametri che devono essere presi in considerazione nella terapia.
Vi è una differenza tra la crisi epilettica e l’epilessia vera e propria e una crisi epilettica di per se non
permette di fare diagnosi di epilessia.

La crisi epilettica è una manifestazione clinica di tipo parossistico (inizia all’improvviso e termina altrettanto
improvvisamente) che consegue ad una scarica neuronale anomala, eccessiva, ipersincrona, in una
popolazione di neuroni cerebrali. I sintomi che ne derivano dipendono dalla particolare area cerebrale
interessata dalla scarica.

I neuroni possono scaricare in due modi: singolarmente o in modo sincrono, scaricando insieme. La scarica
sincrona è una attività neuronale fisiologicamente importante in quanto permette l’assemblaggio delle
percezioni sensoriali con le conoscenze passate e le conoscenze a priori, già consolidate a livello della
corteccia cerebrale. Sono proprio le scariche sincrone che permettono il corretto assemblaggio e anche la
corretta traduzione nel determinato comportamento motorio che consegue alla percezione avuta.
Affinché la scarica sincrona avvenga al momento opportuno (ossia quando sottende l’elaborazione delle
percezioni e la loro traduzione in comandi motori) è presente un sistema di controllo che impedisce che la
scarica sincrona diventi scarica ipersincrona.

I neuroni interessati dalle scariche sincrone sono i neuroni piramidali della corteccia, la cui scarica è
controllata dagli interneuroni GABAergici, che mediante sinapsi con i primi rilasciano GABA e ne inibiscono
la scarica, impedendo, quindi, ai neuroni piramidali di scaricare troppo e in modo sincrono.
Sui neuroni GABAergici sono presenti vari tipi di recettori, tra cui il recettore CB1 per i cannabinoidi.
Questo recettore è accoppiato a proteine G trimeriche, in particolare a proteine Gi inibitorie. Quando
attivato, essendo recettore inibitorio, causa lo spegnimento dell’interneurone e questo, di conseguenza,
consente ai neuroni piramidali di essere liberi di scaricare.
Il recettore CB1 è attivato da sostanze prodotte dal nostro organismo, gli endocannabinoidi endogeni (che
studieremo in dettaglio con lo studio della terapia del dolore) e da sostanze esogene come la cannabis. La
cannabis contiene, infatti, vari principi attivi, di cui il principale è il delta-9-tetraidrocannabinolo che lega il
recettore CB1 ed esplica un’azione analoga a quella degli endocannabinoidi endogeni inibendo anch’esso
gli interneuroni. La differenza tra l’attivazione endogena dei recettori CB1 che avviene al bisogno e
l’attivazione esogena tramite il fumo di cannabis, è che quest’ultima causa l’attivazione eccessiva di tutti i
recettori CB1 in modo indiscriminato ed i neuroni piramidali sono improvvisamente tutti liberi di poter
scaricare.
Degno di nota è anche il fatto che tra i soggetti che da giovani hanno fumato molta cannabis, alcuni di essi,
quelli predisposti allo sviluppo della schizofrenia, in seguito al fumo della cannabis slatentizzano le psicosi,
ossia diventano schizofrenici. Non è presente una connessione diretta tra il fumo e sviluppo di schizofrenia
ma essendo quest’ultima una patologia in cui l’effetto dell’ambiente esterno si somma ad una
predisposizione interna del soggetto, nel soggetto predisposto il fumo agisce da stimolo esterno e induce la
slatentizzazione delle psicosi.
Lo stesso meccanismo è alla base dell’alterazione della scarica neuronale. Con l’alterazione del sistema di
regolazione basato sui neuroni GABergici, i neuroni piramidali della corteccia iniziano a scaricare ed
aumenta di conseguenza il rischio che generino scariche ipersincrone non volute, improvvise, anomale ed
eccessive. Queste causano la cosiddetta crisi epilettica.
28/10/2021 sbob1: Ludovica Martucci
Farmacologia sbob2: Cecilia Pizzutelli
Prof. Melchiorri rev: Nicola Maiorano

Si parla di epilessia quando si è in presenza di una patologia cronica caratterizzata da una predisposizione
persistente a sviluppare crisi epilettiche. Non basta una singola crisi epilettica per fare diagnosi di epilessia
ma è necessaria una patologia di tipo cronico che mostra nel paziente un rischio elevato di manifestare una
predisposizione duratura a sviluppare crisi epilettiche. Ad una prima crisi ne seguono quindi altre.

La prevalenza dell’epilessia è di circa 0,5/1% della popolazione, l’incidenza è di 0,1/0,5 %. L’ incidenza


massima è nell’infanzia soprattutto nel primo anno di vita. Tuttavia, pur essendo l’epilessia una patologia
che ha insorgenza prevalentemente nell’infanzia, nel 75% dei casi i bambini che hanno una epilessia di
nuova insorgenza, se trattati con una terapia adeguata, riescono a liberarsi dalle crisi (scompaiono le crisi
epilettiche ma l’epilessia non viene risolta). La terapia nei bambini porta quindi, a meno che non vi siano
delle rare sindromi epilettiche, ad uno stadio libero da crisi.

Si parla di epilessia risolta quando non vi sono più crisi epilettiche da 10 anni e si sono interrotti i farmaci
anti-epilettici da 5 anni (anche avendo interrotto la terapia il pz è rimasto libero da crisi).

A tal proposito sembra che l’epilessia, patologia cronica, ‘’prenda sostanza’’ dalle crisi stesse, ossia sembra
esistere una memoria dell’epilessia per cui le crisi alimentano le crisi successive. In questo quadro se la
terapia riesce ad interrompere le crisi e a porre il pz in uno stato libero da crisi, allora dopo un certo
periodo è possibile interrompere la terapia ed assistere alla scomparsa delle crisi.

Purtroppo, circa 1/3 di tutti i pazienti hanno un’epilessia resistente alla terapia con anti-epilettici, detta
epilessia refrattaria.

La terapia viene iniziata non in tutti i casi, ma solo dopo diagnosi di epilessia. Il rischio di avere una seconda
crisi dopo una singola crisi non provocata è piuttosto basso, circa il 40-50%. A seguito di una singola crisi,
quindi, non si fa diagnosi di epilessia e normalmente non si inizia la terapia in quanto il rischio che il pz
abbia una seconda crisi è inferiore al 50%.

DIAGNOSI DI EPILESSIA

Secondo l’ILAE si può fare diagnosi di epilessia in due casi.

Nel primo caso ci devono essere due crisi ad almeno 24 ore di distanza (se meno di 24 ore vengono
considerate parte dello stesso fenomeno). Le crisi non devono essere febbrili e non devono essere
provocate. In questo caso si può fare diagnosi di epilessia perché gli studi hanno dimostrato che se ci sono
crisi con queste caratteristiche il rischio a 4 anni di avere ulteriori crisi va dal 60 al 90%, quindi un rischio
molto alto. L’epilessia è caratterizzata da una persistente predisposizione a sviluppare crisi epilettiche e per
fare diagnosi le crisi non devono essere provocate.

La crisi provocata è dovuta ad un episodio transitorio che causa una crisi che ‘’nasce e muore lì’’. È una
diretta causa dell’episodio transitorio e non ha tendenza a ripetersi; può avvenire dopo un trauma acuto,
dopo un episodio febbrile o può avvenire negli alcolisti che cercano di disintossicarsi dall’alcool (infatti tra i
sintomi dell’astinenza da alcool c’è la crisi epilettica). Tutte queste crisi non permettono di fare diagnosi di
epilessia perché sono crisi provocate da eventi sporadici.

Al contrario rientrano nel tipo di crisi che permettono di fare diagnosi di epilessia le crisi riflesse: sono crisi
causate da determinati stimoli, come per esempio lo stimolo visivo o la luce pulsatile che in determinate
persone causa sempre delle crisi epilettiche. Le crisi riflesse sono causate da una predisposizione anomala
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e persistente nel tempo a rispondere a determinati stimoli con una crisi epilettica. Il soggetto che in
seguito ad esposizione a luce pulsatile sviluppa la crisi epilettica la svilupperà anche in seguito ad
esposizioni successive. Quindi la crisi riflessa non è considerata come una crisi provocata da un episodio
transitorio ma è una propensione continua a rispondere in quel modo allo stimolo, permette dunque di
fare diagnosi di epilessia.

Il secondo caso in cui si può fare diagnosi di epilessia è quando il paziente ha una singola crisi non
provocata e il rischio che il paziente abbia una seconda crisi nei successivi 10 anni è simile al rischio che ha
un paziente che ha avuto due crisi separate da 24 ore, cioè è almeno del 60%. Le condizioni che fanno si
che anche con una sola crisi si abbia un rischio di recidiva a 10 anni superiore al 60% sono:
-se il paziente ha avuto la prima crisi dopo un ictus: infatti se dopo l’ictus cerebrale si sviluppa una crisi
epilettica questa poi ha tendenza a ripresentarsi sviluppando epilessia;
-infezione cerebrale: nel caso in cui l’infezione cerebrale abbia causato come sintomo principale la crisi
epilettica. Ciò significa che l’infezione cerebrale ha determinato delle alterazioni nel parenchima cerebrale
tali che la propensione a sviluppare la crisi epilettica si manterrà nel tempo. Se il paziente ha un’infezione
cerebrale e come principale sintomo ha una crisi epilettica il rischio di aver sviluppato una vera e propria
epilessia è molto alto;
-se si ha una singola crisi non provocata e all’EEG si hanno dei referti epilettiformi anomali;
-singola crisi tale da fare diagnosi di sindrome epilettica.

Ricapitolando, la diagnosi di epilessia si fa quando il paziente ha avuto due crisi epilettiche separate da 24
ore, non provocate, non febbrili o in alcuni casi anche con una singola crisi se il rischio di recidiva a 10 anni
è superiore al 60%. Fare diagnosi di epilessia non significa iniziare una terapia, questo dipende da vari
fattori: dal tipo di epilessia, dall’intensità dei sintomi, dalla volontà del paziente.

C’è una differenza tra crisi e convulsione.

La crisi è la manifestazione clinica di una scarica anomala, improvvisa e ipersincrona accompagnata da


alterazioni del tracciato dell’EEG. Quindi se si parla di crisi si intende una manifestazione clinica del
paziente data dalla scarica ipersincrona e improvvisa dei neuroni rilevata dal tracciato
elettroencefalografico in cui si evidenziano alterazioni epilettiformi.

Se invece si parla di convulsioni si intende unicamente la componente motoria, quindi la manifestazione


clinica che consegue alla scarica ipersincrona in maniera indipendente dal tracciato EEG.

La crisi comiziale invece è detta così perché all’epoca degli antichi romani se uno dei partecipanti a un
comizio aveva un attacco epilettico il comizio veniva interrotto perché era considerato un segno di cattivo
auspicio. Anche il termine inglese “seizure” (crisi) viene dal latino “sacire” che significa “prendere possesso
di” proprio perché si pensava che la crisi epilettica fosse la manifestazione di un volere negativo degli dei
che prendevano possesso di quella determinata persona per un periodo.

DIAGNOSTICA STRUMENTALE

Lo strumento diagnostico principale per l’epilessia è il tracciato elettroencefalografico. Il nostro cranio è


sede di potenziali bioelettrici spontanei, con aspetto variabile in base all’attività del soggetto, che
generano impulsi visibili all’EEG. Quindi ci sono potenziali bioelettrici spontanei che si possono registrare
sul cranio, il cui aspetto varia a seconda di quello che sta facendo il soggetto e che danno origine a dei treni
di impulsi che vengono visualizzati con il tracciato.
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L’EEG si può fare:

- in condizioni basali, quando il soggetto non ha crisi;


- interictale (tra una crisi e l’altra), valuta l’attività neuronale ipersincrona che si verifica con una frequenza
stereotipata nel periodo tra le crisi. Questo monitoraggio più frequentemente evidenzia degli elementi
patologici del tracciato che indirizzano verso una diagnosi di epilessia;
- dopo induzione, ovvero si induce una crisi attraverso alcune manovre e questo si fa spesso nei bambini.
Le manovre che possono indurre la crisi sono la deprivazione del sonno, infatti se i soggetti epilettici hanno
disturbi del sonno sviluppano più frequentemente crisi, l’iperventilazione perché facendo iperventilare il
paziente l’anidride carbonica diminuisce e questo scatena la crisi se il soggetto è epilettico.
L’anno scorso sono stati trattati alcuni diuretici, gli inibitori dell’anidrasi carbonica, che hanno tra le varie
indicazioni l’epilessia perché determinano un aumento di CO2 che si oppone allo scatenamento della crisi.
Quindi l’iperventilazione è una manovra di induzione così come la stimolazione ottica, infatti la luce
pulsante è un ulteriore meccanismo che permette di indurre la crisi.

All’EEG si vedono 4 tipi di ritmi fondamentali:

-alfa : ritmo che si vede quando il soggetto è disteso con gli occhi chiusi ma sveglio. Questo ritmo è
caratterizzato da una frequenza di 8/14 hertz e da un’ampiezza data dal voltaggio di 20/50 Volt (il voltaggio
è l’ampiezza del ritmo e la frequenza è il numero nell’unità di tempo). Il ritmo alfa si vede soprattutto al
livello del lobo occipitale e se il soggetto apre gli occhi il ritmo alfa è sostituito dal ritmo beta.

-beta: ritmo di veglia. Ha una frequenza superiore al precedente, 13/14 Hertz e un’ampiezza minore pari a
5/10 Volt. Questo perché il ritmo beta è caratterizzato da assenza di sincronismo di scarica e il sincronismo
si ha quando l’ampiezza del ritmo aumenta. Quindi è un ritmo con bassa ampiezza, non è caratterizzato da
sincronismo di scarica ed è evidente nella corteccia frontale.

-theta: compare nel sonno ed è un ritmo che ha una frequenza molto bassa, di 4/7 hertz, ma un voltaggio
molto elevato, fino a 100 Volt, indice di una ipersincronizzazione fisiologica che si ha durante il sonno.
Durante il sonno infatti i nostri neuroni fisiologicamente scaricano in modo ipersincrono. Questa scarica
ipersincrona è dettata dal talamo e dalla formazione reticolare che si attivano durante il sonno e fanno sì
che alcune popolazioni di neuroni scarichino in modo ipersincrono. Il ritmo theta compare dopo alcuni
giorni dalla nascita.

-delta: ritmo del sonno, è il primo che compare nel neonato, ha una bassissima frequenza inferiore a 4
Hertz e ha un altissimo voltaggio fino a 150 Volt. E’ un ritmo caratteristico della scarica sincrona.

Da ciò si percepisce che la scarica ipersincrona fisiologicamente si manifesta molto spesso di notte, questo
è il motivo per cui molte epilessie si sviluppano durante la notte o al momento del risveglio. Le ore
notturne sono infatti critiche per i soggetti epilettici perché c’è una tendenza dei neuroni a scaricare in
modo ipersincrono.

Di patologico all’EEG si vedono due principali elementi:


-la punta che è indice di sincronismo di tipo eccitatorio;
-l’onda che è indice di un sincronismo inibitorio.
Nelle epilessie generalizzate, che coinvolgono entrambi gli emisferi, si assiste alla presenza dei complessi
punta-onda in tutte le derivazioni. Questi elementi in alcune forme di epilessia hanno delle caratteristiche
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costanti: per esempio nelle assenze, forma di epilessia generalizzata tipica dell’infanzia, si hanno complessi
punta-onda in tutte le derivazioni con una classica frequenza di circa 3 Hertz. Ci sono alcune epilessie come

l’epilessia Rolandica in cui si può fare diagnosi facilmente all’EEG perché si hanno elementi punta-onda che
si compongono in modo molto caratteristico, quindi è facile fare diagnosi diretta.
Esiste un altro elemento patologico che è una punta isolata detta PDS (Paroxysmal Depolarization Shift), è
una punta che indica che le cellule piramidali si stanno preparando a scaricare in modo sincrono, ancora
non c’è stata la crisi ma ci sarà. La presenza di PDS all’EEG insieme a una singola crisi non provocata e non
febbrile, permette di fare diagnosi di epilessia (anche in presenza di una singola crisi).

Un altro strumento di indagine è la risonanza magnetica cerebrale con campi magnetici maggiori di 3
Tesla, che serve a evidenziare delle lesioni del parenchima cerebrale che possono essere causa di alcune
forme di epilessia. Per esempio la sclerosi mediale del lobo temporale è causa di una forma di epilessia
refrattaria alla terapia. Le lesioni del parenchima che determinano un danno permanente e che causano
come manifestazione principale la crisi epilettica fanno si che si parli di epilessia. E’ un’epilessia troncata
dalla lesione ma ha le caratteristiche di costanza nel tempo che come principale manifestazione clinica ha
la crisi epilettica quindi è un tipo di epilessia secondaria. Per fare diagnosi di epilessia secondaria bisogna
andare a rintracciare la lesione nel parenchima, poi bisogna collegare la lesione ad un tipo di crisi e
all’alterazione del tracciato EEG per concludere che la lesione sia correlata alla crisi e all’alterazione del
tracciato. Quindi non basta vedere la lesione per fare diagnosi di epilessia, ci deve essere una correlazione
diretta tra la lesione e il tipo di crisi nel paziente, diversa a seconda del tipo di area lesionata nel cervello e
a seconda dell’EEG.

CLASSIFICAZIONE DELLE EPILESSIE SECONDO L’ILAE

La struttura della classificazione si basa sul tipo di crisi. Per tipo di crisi si intende il tipo di esordio della
crisi, ovvero come la crisi inizia. L’esordio può essere di tipo:
- focale: quando la scarica epilettica ipersincrona, anomala, eccessiva coinvolge solo un’area e non si
propaga, almeno in un primo momento, a tutto il cervello. Si può quindi identificare l’area in cui ha avuto
origine la scarica.
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- generalizzato: quando più reti neuronali improvvisamente cominciano a scaricare in modo ipersincrono e
non si riesce ad isolare un focolaio.
- sconosciuto: non si riesce a capire come è l’esordio della crisi.

Se oltre al tipo di esordio si hanno informazioni sulla manifestazione clinica della scarica (ci sono degli EEG
che funzionano come gli holter, misurano l’attività per 24-48 ore e sono accoppiati a telecamere che
riprendono il soggetto durante la crisi per vedere se l’alterazione del tracciato va di pari passo con la
manifestazione clinica nel soggetto) si possono classificare i tipi di epilessia:
- epilessia focale
- epilessia generalizzata
- epilessia mista, ci sono alcune forme di che hanno crisi generalizzate e crisi focali, questo è anche un
problema terapeutico perché ci sono alcuni farmaci che vanno bene per le generalizzate o per le focali ma
non per tutte e due insieme. L’epilessia con crisi miste sono difficili da trattare
- epilessia sconosciuta
- le sindromi epilettiche: tipi di epilessia con delle caratteristiche che tendono a ripresentarsi in modo
costante ogni volta che si ha un attacco epilettico nello stesso soggetto. Le sindromi epilettiche hanno delle
caratteristiche che si ripetono in maniera costante. Tra queste caratteristiche oltre al tipo di epilessia e al
tipo di crisi simili ci possono essere induttori di crisi simili o età di insorgenza simile. Ci sono alcune
sindromi epilettiche che sono tempo dipendenti, per esempio nei bambini che hanno una certa età di
insorgenza e poi sono autolimitanti, quindi dopo una certa età scompaiono. Queste caratteristiche sono
simili e identificano le sindromi epilettiche.

I vari tipi di epilessia possono avere eziologia diversa e su tale base si distinguono due gruppi fondamentali
di epilessie:

- epilessie idiopatiche (30 % di tutte le epilessie, più frequenti nell’infanzia) che includono anche le
epilessie genetiche, epilessie in cui una certa mutazione causa la malattia. Queste possono essere epilessie
idiopatiche familiari (quando c’è la conoscenza della causa genetica) o idiopatiche non familiari (quando
non si conosce il gene mutato).

- epilessie sintomatiche sono quelle più frequenti che si manifestano maggiormente negli adulti : queste
sono epilessie secondarie a un danno che si è generato nel cervello che ha come principale manifestazione
la crisi epilettica.

Queste epilessie possono avere:


-un’eziologia strutturale (danno nel parenchima) per esempio in seguito a ictus o trauma cerebrale che si
manifesta nell’epilessia. Le epilessie strutturali possono avere anche eziologia infettiva, quando il processo
infettivo causa una patologia che si manifesta principalmente con l’epilessia. L’infezione può essere
tubercolosi, HIV, toxoplasmosi cerebrale, infezione da citomegalovirus;
-eziologia metabolica come le porfirie, uremia, amminoacidopatie;
-eziologia autoimmune, aumentate negli ultimi anni perché disponiamo di test immunologici che prima
non c’erano. Un tipo di epilessia ad eziologia autoimmune molto grave è l’epilessia di Rasmussen, epilessia
che coinvolge un recettore del glutammato. E’ molto grave perché è resistente a molti farmaci e molto
spesso l’unica soluzione quando diventa invalidante (perché porta a paresi e le crisi sono frequenti) è
l’eliminazione chirurgica dell’area con grandi conseguenze soprattutto per l’adulto (perché il bambino
compensa, l’adulto no);
-eziologia sconosciuta di cui non si conosce la causa.
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Quando si parla di epilessie genetiche, quindi quando si conosce il gene che causa la malattia, non si parla
necessariamente di epilessie ereditarie perché in molti casi le mutazioni compaiono de novo, quindi
andando ad indagare in anamnesi familiare non si trovano evidenze di malattie genetiche che portano
all’epilessia. Nell’infanzia il 30/50% delle gravi encefalopatie epilettogene (forme gravi di encefalopatia che

peggiora ad ogni crisi, quindi con il susseguirsi delle crisi si genera danno al cervello che impatta sulla
funzione cognitiva e psico-comportamentale) sono causate da mutazioni de novo.
Inoltre l’ereditarietà è complessa, più geni sono coinvolti e molto spesso interagiscono con l’ambiente al
quale è esposto un determinato individuo, determinando diverse varianti di suscettibilità. Ciò significa che
un soggetto può aver avuto la mutazione di uno o due geni ma le condizioni ambientali e il numero di
mutazioni non sono state tali da far sviluppare un’epilessia. I discendenti di questo soggetto possono
ereditare le mutazioni, possono averne de novo, possono essere esposti a fattori ambientali che innescano
l’epilessia. Per questo è un’ereditarietà complessa con diversa suscettibilità all’epilessia e questo rende
difficile una diagnosi in base alla storia familiare.

Inoltre l’ILAE non classifica le sindromi epilettiche nelle linee guida, tuttavia fornisce un link online
(epilepsydiagnosis.org) impostato su criteri diagnostici in cui ci sono molte informazioni che aiutano a fare
diagnosi come filmati dei pazienti durante la crisi, tracciati dell’EEG, c’è tutto ciò che è utile per fare
diagnosi.

EPILESSIE CON ESORDIO FOCALE

Sono suddivise in due gruppi principali: a consapevolezza integra e quelle a consapevolezza


compromessa. Mentre le epilessie a esordio generalizzato propagandosi a tutto il cervello possono portare
a una perdita di consapevolezza, l’epilessia a esordio focale può non comportarne una compromissione.
Ciò vuol dire che il paziente non ricorda l’episodio in cui ha avuto la crisi perché durante la crisi perde il
contatto con il mondo esterno e non ricorda. Di solito le epilessie a esordio focale sono a consapevolezza
integra, se però l’esordio avviene in una regione del cervello ad alta integrazione (in cui si ha un’
integrazione di molteplici stimoli sensoriali) si può avere compromissione della consapevolezza.
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L’esordio focale può essere:


• esordio motorio: consiste in alcuni automatismi, gesti ripetuti non finalizzati ad uno scopo, oppure può
essere un esordio atonico in cui il paziente perde il controllo della muscolatura cadendo a terra. Il
sintomo motorio può essere caratterizzato da:
- scosse cloniche, scosse veloci della muscolatura o
- esordi di tipo tonico in cui la muscolatura si contrae -
- miocloni, spasmi della muscolatura normalmente sono bilaterali

Questi sono tutti i modi in cui l’esordio motorio può avere luogo in un’epilessia ad esordio focale. Ora si
utilizza il termina focale, prima si utilizzava il termine parziale per indicare che interessava una parte
dell’encefalo. Il termine parziale non è più una corretta terminologia, si parla di esordio focale anche se nei
riassunti delle caratteristiche dei farmaci antiepilettici in molti casi c’è scritto parziale.
• esordio non motorio: non si hanno sintomi motori ma sintomi che derivano da un’alterata attivazione
del SNA. I sintomi di un esordio di tipo autonomico possono essere bruciore di stomaco, rossori al volto,
tachicardia, piloerezione, eccitazione sessuale, tutti sintomi di attivazione del sistema simpatico. Oppure
ci può essere:
-un esordio con arresto comportamentale in cui il paziente improvvisamente si blocca e rimane fermo
-un esordio di tipo cognitivo in cui sono alterate alcune funzioni cognitive
-esordio emozionali con scoppi di ira o pianto
-esordio sensoriale con alterazioni delle percezioni (uditiva, tattile).

Le epilessie con esordio focale in alcuni casi possono avere un’evoluzione in forma generalizzata. La
generalizzazione di un’epilessia con esordio focale va verso una forma tonico-clonica bilaterale che è la
forma più evidente dell’epilessia ad esordio generalizzato.

EPILESSIE CON ESORDIO GENERALIZZATO

Nella maggior parte dei casi si ha perdita della consapevolezza, il paziente non ricorda l’episodio che ha
avuto ma nelle epilessie miocloniche a volte la consapevolezza è conservata. Le epilessie ad esordio
generalizzato si dividono in
• epilessie ad esordio motorio:
- tonico-cloniche: c’è prima una fase tonica in cui sono coinvolti i muscoli flessori con irrigidimento tonico
che dura più o meno 20 secondi. Sono coinvolti tutti i muscoli, anche i muscoli faringei, perciò l’aria che
passa attraverso la faringe produce il pianto epilettico, che è il rumore dell’aria che fatica ad uscire a causa
della contrazione tonica della muscolatura. Sono coinvolti i muscoli intercostali del diaframma, perciò si fa
fatica a respirare, c’è cianosi perché il paziente respira male e poi subentra la fase clonica. Tutto dura 1/2
minuti, questo permette di fare una diagnosi differenziale con la crisi isterica in cui il paziente può simulare
un attacco epilettico ma più lungo. Nella fase clonica si ha un’alternanza di attivazione dei muscoli flessori
ed estensori con scosse cloniche in tutto il corpo che si mantengono per un certo periodo di tempo e poi
cessano. Quando termina la crisi il paziente entra in una fase detta post-ictale in cui sprofonda in un sonno
profondo che può durare fino a un’ora, come se fosse in coma. Dopo di che se il paziente viene stimolato si
sveglia, se si lascia indisturbato può dormire per diverse ore e al risveglio ha una cefalea pulsante che è il
residuo della crisi.
-La crisi può essere clonica in cui ci sono solo scosse che possono essere monolaterali o bilaterali
asimmetriche.
-L’epilessia generalizzata può essere anche di tipo tonico in cui si ha unicamente la contrazione prolungata,
di tipo mioclonico con spasmi bilaterali e simmetrici.
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• epilessie ad esordio non motorio: caratterizzate principalmente dall’assenza. Esistono due tipi
fondamentali di assenza
-l’assenza tipica è un’epilessia generalizzata data da complessi punta-onda in tutte le derivazioni con la
classica frequenza di 3 hertz. Ci possono essere anche delle mioclonie del viso. È un tipo di epilessia molto
comune nell’infanzia, molto spesso si fa diagnosi quando il bambino inizia ad andare a scuola e si vede che
improvvisamente si isola dagli altri, perde il contatto con il mondo per alcuni secondi, poi riprende e non si
ricorda niente. Il bambino può avere tantissime assenze al giorno, anche 30/40 episodi quindi in quel caso
si possono vedere le alterazioni all’EEG abbastanza facilmente. Le assenze tipiche sono molto rapide,
hanno inizio e risoluzione molto rapide.
-l’assenza atipica ha un inizio più lento, sono meno rapide e hanno una frequenza dei complessi punta-
onda inferiore ai 2,5 hertz, sono caratterizzate da sintomi di lato (solo da un lato del corpo) e hanno spesso
scosse miocloniche.

Ci possono essere anche epilessie generalizzate non motorie con mioclonie palpebrali.

CLASSIFICAZIONE DELLE SINDROMI EPILETTICHE

Ci sono sindromi che non sono


necessariamente epilettiche perché non
per forza progrediscono in epilessia. Queste
sono le
• convulsioni febbrili: si riferiscono
all’aspetto motorio, quindi nell’EEG
possono non essere rilevate e sono
scatenate da un episodio febbrile. Le
convulsioni febbrili si dividono in:

-convulsioni febbrili semplici hanno un


esordio dagli 8 mesi ai 5 anni di età, durano
massimo 2/3 minuti, sono crisi di tipo
tonico-clonico generalizzate e sono
autolimitanti perciò si risolvono da sole
senza bisogno di terapia. Non tendono a
ripetersi nelle 24 ore ma ricorrono, perciò
in un successivo episodio febbrile si
possono avere convulsioni febbrili semplici. Se insorgono prima dei 18 mesi è consigliabile ricoverare il
bambino per 24 ore in ospedale per escludere la meningite;

-convulsioni febbrili complesse hanno una durata maggiore (circa 5 minuti) e hanno un esordio nei primi
due anni di età. Per queste convulsioni febbrili complesse è necessario fare un EEG per escludere una causa
come l’encefalite virale. Queste convulsioni hanno un rischio di progressione in epilessia che va dal 4 al
15%. Mentre le semplici sono tonico-cloniche quindi simmetriche, le complesse sono caratterizzate da
manifestazioni di lato e poiché durano di più può essere necessario interromperle con una terapia
farmacologica. Durante una crisi epilettica è impossibile somministrare qualsiasi farmaco per bocca perché
i denti sono serrati e la bocca è chiusa, quindi non si può somministrare un farmaco per OS. Esistono due
tipi di formulazioni di due benzodiazepine (miorilassanti). C’è una formulazione rettale di Diazepam che
prende il nome di MICROPAM, sono supposte somministrate per via rettale che si assorbono velocemente
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e in 3 minuti hanno effetto, quindi possono risolvere una convulsione febbrile complessa che si prolunga
troppo. Poi c’è il Midazolam per via oro-mucosale, il nome commerciale è BUCCOLAM e si mette all’interno
della mucosa della guancia, si scioglie rapidamente e viene rapidamente assorbita per porre fine alla crisi.
Normalmente la terapia con i FANS antiepilettici è una terapia profilattica che mira a prevenire le crisi e
non ad interromperle perché non si possono prendere farmaci durante le crisi. Se la crisi è prolungata deve
essere interrotta si utilizzano dei farmaci per via endovenosa.

C’è un caso in cui le conclusioni febbrili semplici fanno fare diagnosi di epilessia: sono convulsioni febbrili
plus che si manifestano dai 6 anni in poi. Queste hanno un’eziologia di tipo genetico e sono delle vere e
proprie sindromi epilettiche.
• convulsioni benigne neonatali (BNFS): sono autolimitanti, quindi recedono senza bisogno di terapia e
nella maggior parte dei casi non evolvono in epilessia. Queste convulsioni hanno una base genetica, sono
mutazioni con perdita di funzione di due geni che codificano per la corrente al potassio (KCNQ2 e
KCNQ3). Una mutazione di KCNQ1 dà la sindrome del QT lungo, se sono coinvolti i geni KCNQ2 e KCNQ3
causano le convulsioni benigne neonatali. L’età di insorgenza è nell’infanzia, dalla nascita a 2 mesi, sono
convulsioni tonico-conico generalizzate che possono anche includere dei miocloni. Le scariche possono
raggiungere il cervelletto generando una sintomatologia cerebellare detta atassia cerebellare. Tra queste
convulsioni benigne neonatali nel 10/20% dei casi c’è il rischio di evoluzione in epilessia.Anche in questo
caso se è necessario interromperle si può utilizzare il MICROPAM e il BUCCOLAM.

SINDROMI EPILETTICHE FOCALI

Focali idiopatiche non familiari, non si conosce il gene responsabile della crisi. Tra queste abbiamo:

-crisi neonatali benigne non familiari: autolimitanti, non è necessaria la terapia, insorgono nella prima
settimana di vita e sono caratterizzate da convulsioni cloniche associate ad apnea.

-epilessia autolimitantesi con punte centro temporali: all’EEG ci sono delle punte nelle regioni centro
temporali, è detta anche epilessia Rolandica perché coinvolge le aree frontali e centrali della corteccia. Una
volta veniva chiamata epilessia benigna con spike, il termine benigno ora è stato sostituito con
autolimitante perché poteva indurre a pensare che le manifestazioni cliniche fossero lievi, invece il termine
benigno significava che cessano da sole senza bisogno di terapia. Questo termine è stato sostituito perché
le manifestazioni cliniche in alcuni casi non sono lievi ma possono esserci alterazioni cognitive che
perdurano quindi non si può parlare di benigne perché evoca una sintomatologia molto lieve.
L’epilessia rolandica è più frequente nei maschi, ha un esordio tra i 3/13 anni, la crisi si verifica nel sonno o
al risveglio ed è caratterizzata da clonie orofacciali brachiali unilaterali. C’è disartria ,scialorrea (quindi i
bambini si svegliano con la bava alla bocca) e c’è amnesia perché i bambini non ricordano quello che è
successo. Può diventare un’epilessia secondaria generalizzata e questo tipo di epilessia è caratterizzata da
crisi frequenti a grappolo perché sono raggruppate in un breve periodo di tempo. L’EEG è caratterizzato da
una serie di punte o di onde appuntite seguite da onde normali (è molto caratteristico).

-epilessie occipitali autolimitantesi dell’infanzia: coinvolgono il lobo occipitale. Sono di due tipi: ad
insorgenza precoce e tardiva.
Quelle ad insorgenza precoce è detta sindrome di Panayiotopoulus, insorge tra 1/10 anni,
prevalentemente nelle femmine, il primo episodio avviene nel sonno o nel risveglio e ha
caratteristicamente una durata abbastanza prolungata, si manifesta sotto forma di clonie, c’è vomito e c’è
deviazione tonica del capo e dello sguardo insieme a fluttuazione del contatto (il bambino non reagisce e si
estrania). Il vomito può essere protratto perciò in questo caso si dà diazepam per via endovenosa. La
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Farmacologia sbob2: Cecilia Pizzutelli
Prof. Melchiorri rev: Nicola Maiorano

frequenza della crisi è rara quindi molto spesso ci sono bambini che hanno un singolo episodio, tuttavia
con queste caratteristiche si fa diagnosi di sindrome epilettica.
L’epilessia occipitale autolimitante dell’infanzia ad insorgenza tardiva è detta sindrome di Gastaut e insorge
più tardi, tra i 3/16 anni.
(Esistono due sindromi che hanno nome simile: la sindrome di Gastaut e la sindrome di Lennox Gastaut che
è una encefalopatia infettiforme epilettogena e non devono essere confuse.)
Ha insorgenza tardiva verso l’adolescenza (3/16 anni), è caratterizzata da allucinosi diurna con
allucinazioni di tipo visivo come la visione di fosfeni (lampi di luce), micropsie (si vedono oggetti più piccoli
del reale), ci può essere cecità corticale perché nel lobo temporale è processata la vista, perciò i sintomi
sono visivi. La cecità corticale può durare anche fino a 5 minuti. Non è caratterizzata da alterazioni motorie
ma alterazioni visive e non ha bisogno di terapia perché si risolve.
FARMACOLOGIA sbob 1: Fiorenza Pennacchia
04/11/2021 EPILESSIA sbob2: Bianca Nardo
Prof. Melchiorri sbob3: Chiara Musicò
rev: Domiziana Penelaggi

EPILESSIA
[La sbobina inizia continuando il discorso sulle epilessie focali trattate nella sbobina precedente]

Tornando alla classificazione delle sindromi epilettiche, avremo il gruppo delle sindromi focali che
comprende le sindromi epilettiche focali idiopatiche NON familiari, quelle per le quali non si
conosce la mutazione genica e le sindromi focali idiopatiche familiari, per cui si conoscono le
principali mutazioni geniche responsabili della sindrome.

SINDROMI FOCALI IDIOPATICHE FAMILIARI


1. Convulsioni neonatali e infantili familiari autolimitantesi.
Il gene che causa questa sindrome è il gene SCN2A, che codifica per correnti al sodio NAV 1.2.
La sindrome è frequentemente ad insorgenza neonatale e infantile. Possono insorgere da 2 giorni
fino a 6 mesi dopo la nascita. Sono autolimitantesi, cioè a risoluzione spontanea, che
normalmente avviene entro i 12 mesi. Sono convulsioni motorie (il termine convulsioni rimarca
proprio l’aspetto motorio) e caratterizzate da crisi a grappolo, cioè le crisi sono raggruppate in un
breve periodo di tempo e si sviluppano per circa 1-2 giorni consecutivi. Rispondono molto bene
ai farmaci antiepilettici, i più utilizzati sono quelli di prima generazione.
Si usano carbamazepina, acido valproico (che in commercio si
ABBREVIAZIONI
trova sotto forma di sale, indicato come valproato) e il fenobarbital. Carbamazebina = CBZ
Sui protocolli terapeutici (che ci interessano di più) e sui lavori sono di Fenobarbital = PB
uso frequente gli acronimi e molto spesso essi non indicano principio Valproato = VPA
attivo, ma la formula.

2. ADNFLE - Epilessia notturna del lobo frontale a trasmissione autosomico dominante


È una forma di epilessia del lobo frontale, notturna perché la crisi si sviluppa durante la notte o
nel momento del risveglio. L’età di insorgenza è tra i 6 e i 12 anni. Benché sia una sindrome che
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non peggiora con il tempo, essa non si risolve spontaneamente, a differenza dalle convulsioni
neonatali e infantili familiari autolimitanti. Nonostante l’intervento con gli antiepilettici, purtroppo
alla sospensione le crisi si ripresentano e non c’è una risoluzione spontanea. Il gene coinvolto
codifica per il recettore nicotinico alfa4beta2 neuronale che si trova espresso sui neuroni
gabaergici.
L’acetilcolina ha due tipi di recettori: i recettori muscarinici (sono 5, GPCA) e i recettori nicotinici
che sono canali per il sodio e sono di due tipi: i recettori per la placca motoria e i recettori neuronali
(si ritrovano a livello centrale).
Poiché il recettore nicotinico fa entrare sodio, una volta attivato, la membrana del neurone si
depolarizza e ciò consente il rilascio di GABA che è un neurotrasmettitore inibitorio. La mutazione
che causa questa sindrome porterà a perdita di funzione. La scarica epilettica, infatti, è data da
un’iperattivazione di tipo eccitatorio, quindi i neuroni gabaergici (che sono inibitori) se attivati di
meno controllano di meno le scariche dei neuroni piramidali e quindi abbiamo una maggiore
possibilità di avere una scarica di neuroni ipersincrona e anomala.
La frequenza delle crisi è molto elevata, nella notte possono addirittura arrivare a 20-30 episodi.
Le crisi sono di tipo motorie e toniche, normalmente a coscienza conservata e ci può essere aura.
AURA
L’aura, soprattutto nelle epilessie focali (quelle che originano in una rete neuronale limitata in
un’area del SNC e non in entrambe gli emisferi), è un fenomeno caratteristico che può segnare
l’inizio di una crisi. L’inizio della crisi, infatti, può verificarsi con manifestazioni disautonomiche,
per esempio crisi con iperattivazione del simpatico (sudorazione, tachicardia ecc) o con sintomi
di tipo dispercettivo o disesperenziale (come i deja vu -sensazioni di situazioni già vissute- o
jamais vu -cose che si conoscono ma che appaiono come situazioni mai vissute-). L’aura ha
particolari sintomi e in base al sintomo (visivo, uditivo, esperenziale..) caratterizza l’area della
corteccia da cui è partita questa scarica anomala. Se la crisi è a coscienza conservata e il
paziente ricorda i sintomi, ci può aiutare a fare diagnosi perché, a seconda del tipo di sintomo,
possiamo risalire all’area della corteccia che processa quello stimolo.
Nell’ADNFLE l’EEG spesso non è molto utile perché la crisi ha origine profonda, quindi sotto-
corticale, invece l’EEG registra le zone più superficiali della corteccia, quindi i neuroni corticali.
L’EEG dunque potrebbe non rilevare anomalie.
L’ADNFLE risponde alla carbamazepina (farmaco di prima generazione) e la zonisamide
(farmaco di seconda generazione). In alcuni casi si ha resistenza alla terapia farmacologica, ma,
anche se ciò succede, comunque risponde alla stimolazione vagale: si impianta un piccolo
elettrodo sottocute che stimola il ramo vagale a livello del collo. Questa stimolazione vagale in
genere risolve le crisi resistenti alla terapia farmacologica.

3. ADLTE - Epilessia del lobo temporale laterale autosomico dominante


Normalmente insorge nell’adolescenza, tuttavia può avere un’insorgenza più precoce o più
tardiva. L’arco massimo di età è tra 4 ai 50 anni. Non è molto chiara la correlazione tra la
mutazione genica e questo tipo di sindrome, sono forse più geni coinvolti. Abbiamo un gene LGI1
che è il leucine-rich glioma inactivated-1, cioè la proteina inattivata del glioma ricca in residui di
leucina di tipo 1, che si chiama così perché il gene che codifica per questa proteina si ritrova
sovente nei gliomi. È una proteina ancillare dei canali del potassio kv1.1 e questa mutazione
altera l’attività di questi canali. Un altro gene spesso mutato è il RELN che codifica per la proteina
relina, importante nella formazione del SNC, infatti durante l’embriogenesi fa da guida per i
neuroni prodotti nei ventricoli laterali che devono migrare a costituire i vari strati della corteccia.
Mutazioni della relina, dunque, esitano in malformazioni corticali.
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Le crisi caratteristiche di questa sindrome epilettica sono fortunatamente lievi e rispondono bene
a famaci, spesso di prima generazione, come Carbamazepina, fenitoina e acido valproico. Pur
essendo una sindrome epilettica focale, è comune la generalizzazzione secondaria.

SINDROMI FOCALI SECONDARIE O SINTOMATICHE


Sono tra le più frequenti nell’adulto. Quelle con una mutazione genica alla base, infatti, si
manifestano con più frequenza nei bambini o nell’adolescente. Quelle secondarie o sintomatiche
invece conseguono a qualche insulto verificatosi nel SNC.
1. Forme limbiche
Sono forme che coinvolgono il lobo temporale e in particolare l’ippocampo che è in esso
racchiuso. Quest’area è particolarmente suscettibile alle crisi epilettiche per la sua anatomia,
infatti è tra le aree del SNC più esposte a brevi carenze di ossigeno, inoltre, ci sono zone di
neurogenesi attiva, ovvero vi è un continuo rimaneggiamento neuronale, questo favorisce
l’insorgenza di malformazioni che, insieme alla carenza di ossigeno, possono causare le crisi.
ANATOMIA LOBO TEMPORALE
Il lobo temporale si divide in due aree mlto diverse strutturalmente:
- MEDIALE o MESIALE: è molto più antica filogeneticamente, è una corteccia a 3 strati (quella
più recente ha infatti 6 strati) e qui vengono processate delle funzioni che sono comparse
più precocemente nell’evoluzione animale. Il lobo temporale mesiale comprende la corteccia
paraippocampale, l’ippocampo, la corteccia entorinale e il giro detato. Sono aree in cui viene
processato l’olfatto, l’udito e la memoria e sono aree di controllo delle funzioni nervose
autonome.
- LOBO LATERALE: è costituito dalla corteccia a 6 stati e coinvolge la circonvoluzione
inferiore, l’intermedia e la superiore, e questo è sede soprattutto delle funzioni di tipo uditivo.
L’alterazione del lobo temporale mediale produce delle crisi che si differenziano da quelle del
lobo temporale laterale:
- CRISI MESIALI: sono dovute nella maggior parte dei casi a sclerosi dell’ippocampo, evento
che si verifica principalmente per anossia nel momento della nascita; ma anche a tumori;
malformazioni come displasie del parenchima e malformazioni vascolari possono portare a
questo tipo di crisi.
I sintomi delle crisi possono essere di tipo vegetativo, in particolare epigastrici, si avverte una
specie di pressione che dallo stomaco risale alla gola; di tipo esperienziale come quelli già
descritti prima, ma anche micropsia, macropsia (si vedono le cose più grandi o più piccole di
quello che sono); di tipo psichico come attacchi di rabbia, ansia, panico; di tipo sensitivo come
la percezione di sapori strani; si possono avere automatismi oro-alimentari, come in pazienti
che durante la crisi in modo non controllato deglutiscono, schioccano labbra e fanno movimenti
della bocca non controllati; ci possono anche essere alterazioni verbali.
In questo tipo di crisi bisogna investigare l’area di partenza coinvolta perché queste sindromi
epilettiche sono purtroppo molto spesso resistenti ai farmaci, quindi spesso la terapia consiste
nella resezione chirurgica con eliminazione dell’ippocampo e dell’amigdala (ovviamente da un
lato solo perché sono focali, quindi viene rimosso uno solo dei due emisferi). Spesso i pazienti
riescono a compensare con l’emisfero controlaterale e possono vivere senza ippocampo
sperimentando solo alcuni lievi problemi di memoria (non particolarmente invalidanti); tuttavia,
se è coinvolta l’aera del linguaggio, la resezione chirurgica non può essere fatto (oppure non
totalmente) perché altrimenti il soggetto poi non parla più.

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- CRISI LATERALI: hanno la stessa eziologia delle forme mesiali, ma la sclerosi dell’ippocampo
non è l’eziologia più frequente. Le manifestazioni sono principalmente di tipo acustico, ma
possono anche essere di tipo cognitivo-esperienziale con possibili automatismi motori, il
paziente si arresta all’improvviso, scoppia a piangere, si mette a correre, ci può anche osservare
l’assunzione di posture distoniche. La coscienza è compromessa. Sono epilessie che spesso
non rispondono bene ai farmaci, sono quindi farmaco-resistenti.

2. Forme meno frequenti: epilessie dei lobi frontale, parietale, occipitale:


Esistono poi sindromi epilettiche che prendono il nome da altri lobi:
- epilessia del lobo frontale: origina da neuroni localizzati nella corteccia frontale con i neuroni
motori e dunque genera sintomi motori.
- epilessia del lobo parietale: dove vengono processati gli stimoli di tipo somatosensoriali, si
manifesta con alterazioni durante la crisi che riguardano il tatto, le vibrazioni, il caldo, il freddo.
- epilessie de lobo occipitale: dove viene processata la vista, si manifestano con crisi con
alterazioni di tipo visivo (si possono vedere lampi di luci, palline e altre alterazioni visive).

3. Forme corticali: epilessia/encefalopatia di Rasmussen


Nelle forme corrticali viene classificata l’epilessia di Rasmussen, una sindrome abbastanza
frequente e severa su base autoimmune. È causata dai linfociti T citotossici che smascherano un
antigene su una subunità del recettore del glutammato AMPA, un canale per il sodio. La subunità
GLU del recettore viene trasformata in un antigene e i linfociti T citotossici si rivolgono contro
questa subunità. Le crisi sono frequentissime e ricorrenti e portano con il tempo a emiparesi con
deficit psichiatrico ingravidante che purtroppo progredisce con il tempo. È una forma
estremamente grave e può comparire sia nell’adulto che nel bambino. Gli antiepilettici non hanno
effetto, quindi quello che si fa è somministrare steroidi per contenere l’edema, gamma globuline
e interferon alfa. Se il numero delle crisi diventa così eccessivo da diventare invalidante, l’unica
soluzione per il paziente affetto è l’emisferectomia e si eliminano le connessioni tra i due emisferi.

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SINDROMI EPILETTICHE GENERALIZZATE


Il gruppo più frequente è quello delle epilessie generalizzate idiopatiche, indicate con la sigla IGE,
e rappresentano circa 1/3 di tutte le epilessie.
1. EPILESSIA CON ASSENZE DELL’INFANZIA
Le principali forme di epilessie idiopatiche generalizzate sono le epilessie con assenze
dell’infanzia, che rappresentano circa il 10-17 % di tutte le epilessie in età scolare. L’età di
insorgenza è tra i 4 e i 10 anni. È caratterizzata da: assenze tipiche con complessi punta-onda di
frequenza di circa 3 Hz in tutte le derivazioni; clonie; automatismi; e inoltre in molti casi essaa è
fotosensibile: lo stimolo luminoso intermittente può scatenare la crisi. Le comorbidità sono rare e
se presenti danno sintomi soprattutto di tipo cognitivo-comportamentali e psichiatrici. Sono diversi
i geni che si pensano essere coinvolti, di fatto sono idiopatiche (ma anche quelle su base genica
sono classificate come idiopatiche: un uso del termine idiopatico un po’ sui generis). Tra i geni
che si pensano essere coinvolti, c’è un gene che codifica per il trasportatore del magnesio o
anche un gene che codifica per le correnti al calcio di tipo t e geni che regolano la trasmissione
GABAergica. È a remissione spontanea e si tratta con antiepilettici ai quali risponde bene, quando
si prova ad interrompere la terapia l’epilessia spesso non ricompare.
Tra i farmaci antiepilettici usati, c’è un farmaco che ha come indicazione specifica le assenze
tipiche: l’etosuccimide. Nelle assenze funzionano molto bene anche altri farmaci, come il
valproato, che ha anche altre indicazioni in numerosi tipi di epilessie, e un farmaco di seconda
generazione che è lamotrigina.

2. EPILESSIA CON ASSENZE GIOVANILI


L’età di insorgenza è ciò che la differenzia dalla sindrome precedente, infatti insorge più
tardivamente, tra gli 8 e i 10 anni. Spesso il bambino ha una crisi di assenza con sguardo fisso
nel vuoto (incantato- in inglese steering: che fissa nel vuoto). È caratterizzata anche dal fatto che
il soggetto prende delle stature atoniche, con testa poggiata sul collo, testa cadente e
automatismi (schiocca le labbra o altri movimenti non controllati). Le assenze sono frequenti,
circa 2- 3 crisi al giorno. Con il tempo, però, questa forma può evolvere in convulsioni tonico
cloniche (circa nell’80% dei casi), mentre, nell’altro 20% dei casi possono comparire miocloni
sporadici. Vari sono i geni imputati in questa sindrome epilettica: geni codificanti per correnti al
calcio, al sodio o per il recettore GABA A. Non si risolve spontaneamente e spesso, se si
interrompe la terapia, si hanno delle recidive. L’epilessia risponde bene ai farmaci antiepilettici e
si usano gli stessi famaci che si usano nelle assenze dell’infanziama al posto dell’etosuccinide,
si preferisce valproato e lamotricina e soltanto in seconda battuta, se questi non funzionano, si
ricorre all’etosuccinide.

3. EPILESSIA MIOCLONICA GIOVANILE O SINDROME DI JANZ


È detta giovanile perché ha un’età di insorgenza compresa tra 8-20 anni ed è caratterizzata da
scosse miocloniche al mattino. È una forma di epilessia che normalmente viene fuori quando il
soggetto per esempio non riposa sufficientemente, tant’è vero che i ragazzi che hanno questa
sindrome epilettica spesso sviluppano la crisi in gita scolastica dove non dormono abbastanza e
se predisposti hanno la crisi sotto forma di scosse miocloniche proprio nelle prime ore del mattino.
È anche detta la sindrome del caffe-latte poiché il paziente ha le scosse al risveglio e se prende
in mano la tazza, cade il contenuto. Non è una sindrome che si risolve da sola e quando si
sospende si hanno recidive e in circa il 10% dei casi, si hanno resistenze alla terapia. Spesso,
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l’epilessia mioclonica giovanile è fotosensibile e alcuni stimoli luminosi, come le luci intermittenti,
scatenano la crisi. I farmaci che si usano sono il valproato, il fenobarbital e la lamotrigina (di
prima generazione i primi due, di seconda la lamotrigina); un altro farmaco che ha indicazione
nell’epilessia mioclonica giovanile, sempre di seconda generazione, è il levetiracetam. Poiché è
caratterizzata da miocloni, non bisogna mai somministrare carbamazepina e fenitoina
perché peggiorano i sintomi.

4. SINDROMI CON CRISI GENERALIZZATE TONICO-CLONICHE


Questa, originariamente, si chiamava epilessia con crisi tonico-cloniche al risveglio, è stato
cambiato il nome perché si è visto che c’è anche un’altra fascia oraria in cui sono presenti le crisi
tonico cloniche: il pomeriggio. Questa epilessia si manifesta con sole crisi generalizzate tonico
cloniche, è una sindrome che risponde bene a farmaci antiepilettici.

5. EPILESSIE RIFLESSE
Queste sono forme di epilessia indotte da stimoli. Il 20% di queste è scatenata da più stimoli in
soggetti particolarmente predisposti, raramente lo stimolo è uno solo. Ci possono essere stimoli:
visivi (es. la luce pulsante, la lettura…); uditivi (per esempio particolari squilli del telefono o
suonerie possono portare a crisi; il cibo può scatenare delle crisi. Le epilessie riflesse, molto
spesso, hanno tra le varie componenti anche le assenze.

6. GEFS+ (GENERALIZED EPILEPSY WITH FEBRILE SEIZURES)


Queste sono le sindromi così dette febbrili in quanto l’episodio di epilessia avviene durante la
febbre. Esse, se compaiono entro i 5 anni di età, spesso si risolvono spontaneamente e il
bambino non avrà grossi rischi di sviluppare l’epilessia da grande. Tuttavia, se compaiono dopo
i 5 anni di età, saranno delle vere sindromi epilettiche GEFS+ caratterizzate da un fenotipo
piuttosto variabile poiché, più raramente, possono essere anche afebbrili.
Tre sono i tipi di GEFS+ :
- GEFS + di tipo 1, dove ad essere mutato è la subunità beta1 delle correnti al sodio NAV,
questa è una subunità ancillare della subunità alfa che costituisce il canale del sodio, una
sua alterazione porta ad un malfunzionamento della alfa.
- GEFS + di tipo 2, con mutazione nel gene SCN1A che codifica per le subunità alfa delle
correnti al sodio.
- GEFS+ di tipo 3, con mutazione del gene che codifica per la subunità gamma 2 del recettore
GABA A. il GABA ha tre tipi di recettori (A,B,C) e il GABA A è il canale per il cloro.
Nel tipo 1 e nel tipo 2 delle GEFS+ si danno BENZODIAZEPINE (BDZ). Questi farmaci sono
sedativi e ansiolitici, ma si usano anche come antiepilettici in alcune forme di epilessia. Sono
forme di epilessia che rispondono molto bene ai trattamenti. Il tipo 3 non risponde alle BDZ perché
esse si legano al recettore GABA A coinvolgendo la subunità gamma, che in questo caso è quella
mutata, quindi è più difficile da trattare.

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7. ENCEFALOPATIE
EPILETTICHE
Sono sindromi epilettiche
molto gravi, ad insorgenza
tipicamente infantile e
molto spesso hanno una
prognosi negativa, portano
infatti a morte o comunque
a gravi alterazioni dello
sviluppo cognitivo e
psichico.

a. Sindrome di Otahara
È caratterizzatati da crisi che arrecano un danno progressivo al SNC con il progredire del
tempo e il succedersi delle crisi. Tale è il motivo per cui queste crisi sono molto invalidanti e
possono portare a morte. Questa patologia è tipicamente infantile e precoce, insorge da
qualche giorno dopo la nascita fino a qualche mese dopo ed è caratterizzata da spasmi tonici.
All’EEG avremo un quadro tipico con punte, seguito da una sospensione del pattern di scarica
(SUPPRESSION BURST PATTERN), che è comune anche nella sindrome di Lennox-Gastaut
e nella sindrome di West. Tale pattern le rende semplici da diagnosticare all’EEG. La causa
non è nota, ma si pensa che siano coinvolte delle modificazioni a livello del metabolismo del
glutammato, neurotrasmettitore eccitatorio del SNC, che può esitare in alterazioni della catena
respiratoria mitocondriale. I bambini vanno incontro spesso a morte prematura o può evolvere
in un’altra encefalopatia epilettica detta sindrome di West, anche questa estremamente grave.
La sindrome di Otahara risponde pochissimo agli antiepilettici. Si usano corticosteroidi per
cercare di ridurre l’edema e la vigabatrina, farmaco antiepilettico che agisce sulla
trasmissione gabaegica. Quest’ultimo è un farmaco estremamente tossico con pochissime
indicazioni, tra cui questa sindrome.

b. Sindrome di West
La sindrome di West è una totale ipsaritmia, cioè una totale assenza di ritmo in tutte le
derivazioni. Sono sindromi caratterizzate da spasmi particolari con flessione del capo, cioè il
bambino piega il capo in avanti (è chiamata anche sindrome del saluto arabo). Le crisi
peggiorano il quadro di danno del SNC, c’è arresto dello sviluppo del sistema psicomotorio e
porta a gravissime sequele nell’accrescimento cognitivo del bambino. La sindrome di West
probabilmente è un’interneuronopatia, cioè una patologia degli interneuroni gabaergici. Questo
non è stato dimostrato in tutti i casi, ma con certezza si è visto che in un 5 % dei pazienti vi è
mutazione del gene ARX che codifica per una proteina che sembra essere molto importante
nello sviluppo dei neuroni gabaergici corticali. Questi neuroni inibitori controllano i neuroni
piramidali corticali, così, non funzionando più, si perdono i freni inibitori.
Si usa un analogo sintetico dell’ ACTH (analoghi di struttura ma più brevi, contengono solo i
primi 24 amminoacidi dell’ACTH) che si chiama synacten, viene usato come antiedemigeno.
Si usa anche la vigabatrina, quel farmaco molto tossico che si usa in pochi casi.

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c. Sindrome di Lennox-Gastaut
La sindrome di Lennox- Gastaut ha un’insorgenza tra 1 e 7 anni di età ed è più frequente nei
maschi piuttosto che nelle femmine. Può avere diverse cause: lo sviluppo di una sindrome di
West; traumi del SNC; tumori; infezioni; idiopatica in circa il 30-35% dei casi; genetica. È
caratterizzata da crisi multiple di tipo tonico ad insorgenza notturna con assenze atipiche
(complessi punta-onda all’EEG che sono a frequenza inferiore ai 3 Hz). Le crisi sono spesso
atoniche, il bambino cade spesso per terra e per evitare ciò, si mette un caschetto. Può dare
anche miocloni e purtroppo spesso si associa ad arresto cognitivo, non maturano le funzioni
cognitive superiori e può dare importanti disturbi della personalità. Un paziente su 20 muore,
dunque ha elevata mortalità e risponde poco ai farmaci. È utile fare politerapia con antiepilettici
somministrati insieme. Ultimamente è stato approvato il cannabidiolo, l’epidiolex, un derivato
della cannabis privo dell’attività di droga, ma solo con proprietà miorilassante, viene sempre
somministrato insieme a una BDZ, chiamata CLOBAZAM. Si associano anche altri
antiepilettici, come la lamotrigina e l’acido valtroprico.

d. Sidrome di Dravet
La sindrome di Dravet è causata dalla mutazione de novo di un gene SCN1A. Tale mutazione,
a seconda del tipo di penetranza e a seconda dell’ambiente in cui si trova il soggetto, possono
dare sindromi diverse: più o meno innocue sindromi febbrili o la sindrome di Dravet.
Quest’ultima è molto grave e causa crisi febbrile prolungate di tipo generalizzato e associata
a miocloni. Molto spesso, dopo circa 6 mesi dall’insorgenza, le crisi diventano polimorfe. Ci
sono assenze atipiche e oltre alle crisi generalizzate ci possono essere crisi focali. Per questa
sindrome è stato approvato di recente un farmaco, il STIRIPENTOLO (DIACOMIT), un
antiepilettico che agisce potenziando l’azione delle BDZ sul canale GABA A e quindi deve
essere sempre somministrato con BDZ. Anche in questo caso la BDZ usata è il CLOBAZAN.
Essi sono associato ad altri antiepilettici in politerapia (valproato, levetiraceram e
topiramato, questi due sono antiepilettici di seconda generazione). Nella sindrome di Dravet
che risponde poco ai farmaci antiepilettici, si associa spesso una dieta chetogenica che deve
essere iniziata dai 3 mesi e portata avanti fino ai due anni di età e poi sospesa gradualmente.

e. Sindrome di Landau Kleffner


La sindrome è caratterizzata da afasia, che insorge tra i due e gli otto anni, e crisi motorie. Può
non esservi un riscontro elettroencefalografico quindi non sempre vi sono delle anomalie
epilettiformi, se vi sono si ritrovano in zona temporo-parietale. Molto spesso comporta delle
assenze atipiche ed è caratterizzata dalla difficoltà di apprendimento.
Si utilizzano Benzodiazepine, Valprovato e corticosteroidi (in particolare il Prednisone) a cui si
associa una dieta chetogenica.

8. EPILESSIE MIOCLONICHE PROGRESSIVE


Sindromi caratterizzate da miocloni e a prognosi.
Esempi di epilessie miocloniche progressive sono:
a. Patologie da accumulo di sostanze, come lipofuscinosi (accumulo di lipofuscina), sialidosi
(accumulo di acido sialico)
b. Malattia di Unverricht-Lundburg, nella quale è mutato il gene che codifica per la cistatina
B. La frequenza della malattia è maggiore nel baltico e nell’area mediterranea ed è una
sindrome abbastanza complessa da trattare che però risponde al Valprovato.

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c. Malattia a Corpi di Lafora, caratterizzata dalla presenza di inclusioni di poliglucosani. Il gene


mutato codifica per la proteina laforina, che partecipa al metabolismo del glicogeno che
quindi risulta alterato, con accumulo di poliglucosani. E’ la più frequente tra le epilessie
miocloniche progressive ed è caratterizzata oltre che da miocloni da crisi tonico-cloniche e
rapido peggioramento cognitivo. La diagnosi si fa con una biopsia cutanea a livello ascellare,
perché nei dotti sudoripari si ritrovano i corpi di Lafora che consentono di fare diagnosi. Esiste
anche la diagnosi prenatale. E’ una patologia che porta a morte nel 4-10% dei casi.

9. SINDROMI NEUROCUTANEE
a. Neurofibromatosi con crisi epilettiche
b. Sindromi del nevo epidermico, caratterizzate da nevi soprattutto a livello del collo e da un
severo ritardo mentale
c. Sclerosi Tuberosa, con trasmissione autosomica dominante. In questa sindrome le proteine
mutate sono due: l’amartina e la tuberina, proteine che hanno un ruolo nella crescita cellulare
e nell'oncosoppressione. A causa delle mutazioni si formano delle calcificazioni sottocorticali,
i cosiddetti “tuberi”, che possono funzionare come spine irritative trigger delle crisi epilettiche.
La patologia è caratterizzata dallo sviluppo di tumori benigni, amartomi e talvolta anche
astrocitomi. Le crisi normalmente sono atoniche (il paziente quindi cade a terra) e di tipo
gelastico (il paziente improvvisamente scoppia a ridere). E’ farmacoresistente e l’unica
terapia è la chirurgica, con asportazione dei tuberi.

SINDROMI MONOGENICHE
[dice la prof che le cita “unicamente per nostra conoscenza”]
Sono sindromi con compresenza di autismo e crisi epilettiche:
1. Sindrome di Rett
2. Sindrome dell’X fragile, è la causa più frequente di ritardo mentale su base genetica dopo la
Sindrome di Down, ed in questo caso il ritardo è causato da una mutazione della proteina FMRT,
contenuta nel cromosoma X. La mutazione porta a ritardo mentale in quanto la proteina è un
regolatore negativo della sintesi proteica nei dendriti, che quindi in questo caso avviene in
maniera incontrollata. Si utilizza la Carbamazepina che però agisce solamente sulle crisi e non
ovviamente sul ritardo mentale. Ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao

DISPLASIE CORTICALI
Sono un gruppo di patologie associate a crisi epilettiche in cui appunto l’alterata formazione della
corteccia è la causa dell’epilessia. Alcuni esempi sono:
1. lissencefalia data da mutazione del gene lis1 è una delle forme più comuni.
2. patologia più comune data da mutazione della relina, proteina che indica ai neuroni il tragitto
verso i diversi strati della corteccia durante la formazione della stessa).

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CLASSIFICAZIONE CRISI FOCALI

La classificazione differisce da quella delle crisi generalizzate in quanto le crisi focali sono
differenziate in base al mantenimento o meno della consapevolezza durante la crisi.
A questo punto bisogna capire cosa si intende per consapevolezza: distinguiamo coscienza,
consapevolezza e responsabilità. Ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao
La coscienza è il termine più omnicomprensivo, indica uno stato mentale caratterizzato da aspetti
sia oggettivi che soggettivi, comprende il senso di sé come entità unica, comprende la
consapevolezza, la reattività e la memoria.
Per consapevolezza si intende la capacità del soggetto di avere appunto coscienza di sé stesso e
dell'ambiente che lo circonda, distinguendo tra sé stesso e l'ambiente.
La responsività è la capacità di reagire in modo appropriato ad uno stimolo con determinate azioni.
La terminologia utilizzata dall’ILAE si è recentemente modificata,di seguito sono riportati alcuni
esempi del cambiamento della terminologia:

Questa nuova terminologia non è utilizzata nei riassunti delle caratteristiche dei farmaci antiepilettici,
neanche nei più nuovi (a detta della professoressa vige nel regolatorio una certa tendenza a
mantenere una terminologia più vecchia). Ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao

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FARMACOLOGIA sbob 1: Fiorenza Pennacchia
04/11/2021 EPILESSIA sbob2: Bianca Nardo
Prof. Melchiorri sbob3: Chiara Musicò
rev: Domiziana Penelaggi

MECCANISMO D’AZIONE FARMACI ANTIEPILETTICI Ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao

I farmaci antiepilettici agiscono a livello di due tipi di sinapsi: eccitatorie ed inibitorie. Questo perché
tutto il sistema si regge sui neuroni corticali piramidali eccitatori il cui firing (frequenza di scarica) è
regolato da interneuroni gabaergici. Ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao

Sinapsi eccitatorie: alcuni farmaci agiscono con un meccanismo d’azione che si esplica a livello
presinaptico, altri a livello post-sinaptico. Ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao
Livello presinaptico: un primo gruppo
agisce sulle correnti al sodio, inibendole.
Queste corrente al sodio sono mediate da
canali che si trovano espressi a livello
presinaptico. I farmaci con questo tipo di
meccanismo d’azione sono molteplici:
Acido Valproico, Carbamazepina,
Fenitoina; e quelli di seconda generazione
come il Felbamato, Rufinamide,
Lamotrigina, Lacosamide, Topiramato,
Zonisamide, sostanze simili alla
carbamazepina che sono l’Oxcarbazepina e la Eslicarbazepina. Ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao
ciao ciao ciao ciao ciao
Un secondo gruppo di farmaci antiepilettici agisce sulle correnti al calcio mediate dai canali del
calcio di tipo l. Questi sono: Gabapentina e Pregabalin, che hanno in realtà un utilizzo un po’ limitato
e sono utilizzati principalmente come antidolorifici nel dolore neuropatico. Ciao ciao ciao ciao ciao
Sempre a livello presinaptico agisce un altro farmaco antiepilettico, il Levetiracetam, il quale non si
lega a dei canali ionici ma si lega ad una proteina che si trova sulle vescicole che contengono il
neurotrasmettitore in sede presinaptica, la proteina SV2A (Synaptic Vescicle 2A). Il Levetiracepam
legandosi a questa proteina riduce la liberazione di neurotrasmettitore nello spazio sinaptico da
parte della vescicola stessa. Recentemente è stato messo in commercio un analogo che agisce con
lo stesso meccanismo: il Brivaracetam.
Livello post sinaptico: troviamo due farmaci che agiscono su due recettori del glutammato, entrambi
ionotropici: NMDA, inibito dal Felbamato, e l’AMPA, inibito dal Perampanel (antiepilettico di recente
autorizzazione).

Sinapsi inibitoria vnjcjnjdcnjndscjondsjocnodjsncojsdncdjsocndpjck<sncjsndcojdnsojcnsd


Livello presinaptico: vi sono due farmaci,
la Digabatrina e la Tiagabina, che
agiscono sul terminale del neurone
gabaergico ma anche a livello delle
cellule della glia. infatti la sinapsi è
un’entità complessa formata non solo dai
neuroni pre e post sinaptici ma anche
dalle cellule della glia che interagiscono e
modulano il livello di neurotrasmettitore
nella sinapsi.
La Digabatrina inibisce l’enzima GABA
transaminasi, che metabolizza il GABA in
semialdeide succinica, ponendo quindi fine alla sua azione come neurotrasmettitore inibitorio. La
digabatrina inibisce la GABA transaminasi sia nelle terminazioni presinaptiche che a livello della
glia, con il risultato di una riduzione del metabolismo del GABA e in ultimo aumento dei suoi livelli.
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FARMACOLOGIA sbob 1: Fiorenza Pennacchia
04/11/2021 EPILESSIA sbob2: Bianca Nardo
Prof. Melchiorri sbob3: Chiara Musicò
rev: Domiziana Penelaggi

La Tiagabina inibisce il trasportatore per il GABA che si trova a livello della terminazione nervosa
presinaptica ma anche a livello delle cellule gliali. Il trasportatore prende il GABA rilasciato dalle
sinapsi e lo riporta all’interno del neurone gabaergico oppure all’interno delle cellule gliali. Se il
neurotrasmettitore è iniziato il GABA rimane più a lungo all’interno della sinapsi e quindi può evocare
più a lungo i suoi effetti inibitori. Ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao ciao
Livello post-sinaptico: l’azione è sui canali del Cloro del recettore GABA A, recettore ionotropico
accoppiato a canali per il cloro, che quindi si aprono in seguito al legame con questo ione. Essi sono
il Felbamato, Topiramato e Zonisamide. Lo stesso tipo di meccanismo è sfruttato dalle
benzodiazepine e dai barbiturici.

Il GABA legandosi ai recettori GABA A genera dei potenziali postsinaptici di tipo inibitorio sui neuroni
del nucleo di relay e spegne il circuito. Se però i neuroni del nucleo reticolare aumentano la loro
frequenza di scarica, il GABA, che viene rilasciato in maggior quantità nel nucleo di relay, attiva i
recettori GABA B. L’attivazione di questi recettori genera un potenziale postsinaptico inibitorio di
durata maggiore rispetto a quando i neuroni scaricavano a frequenza minore. Normalmente la
durata del potenziale postsinaptico inibitorio è di 100 millisecondi ma si arriva a 300 millisecondi
quando la frequenza di scarica aumenta.
Questi potenziali postsinaptici inibitori di durata maggiore sono in grado di attivare le correnti al
calcio dei canali del calcio di tipo T. I canali del calcio di tipo T normalmente sono in uno stato inibito
perché il GABA genera un’iperpolarizzazione non sufficiente alla loro attivazione. Se però si attivano
i recettori GABA B si avrà un’iperpolarizzazione che andrà ad attivare i canali del calcio di tipo T. Il
risultato è l’impulso continua a viaggiare nel circuito talamo-corteccia-talamo.
Quindi l’aumento di scarica dei neuroni del nucleo reticolare fa si che l’impulso cominci a riverberare
e a percorrere il circuito in continuazione. Questo causa l’insorgenza delle assenze.
I canali del calcio di tipo T sono dunque fondamentali per il riverbero dell’impulso in seguito alla
iperattivazione dei neuroni del nucleo reticolare. Tutto ciò significa che farmaci in grado di bloccare
i canali del calcio di tipo T sono utili per le assenze. In realtà abbiamo un farmaco che blocca i canali
del calcio di tipo T: l’etosuccimide (nome commerciale: Zarontin). L’indicazione unica di questo
farmaco è: terapia delle assenze tipiche.
Ci sono poi dei farmaci che hanno tra i diversi meccanismi d’azione compare anche il blocco dei
canali del calcio di tipo T, esempi sono l’acido valproico e la zonisamide, per il loro meccanismo
d’azione vengono utilizzati nella terapia delle assenze.
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04/11/2021 EPILESSIA sbob2: Bianca Nardo
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Nella terapia delle assenze si possono utilizzare anche farmaci che agiscono con meccanismi
diversi rispetto al blocco dei canali del calcio di tipo T. Si può ad esempio utilizzare:
- lamotrigina che è un bloccante delle correnti al sodio, tipicamente i farmaci che bloccano le
correnti al sodio non funzionano nelle assenze, la lamotrigina invece si, perché ha un’elevata
affinità per i canali per il sodio che si trovano sulle terminazioni nervose dei neuroni corticali che
proiettano al nucleo reticolare, quando vi si lega li blocca cosicché la corteccia non attiva più i
nuclei reticolari.
- topiramato che non si sa bene perché ha effetto terapeutico sulle assenze. Il topiramato, è un
inibitore dell’anidrasi carbonica, che essendo inibita aumenta la concentrazione di CO2,
determinando una riduzione della scarica dei neuroni. Si pensa quindi che il topiramato agisca
nelle assenze proprio sfruttando questo meccanismo.
Poiché il circuito talamo-corticale è controllato dal rilascio di GABA a livello dei nuclei di relay, tutti
quei farmaci che potenziano la trasmissione GABAergica ovviamente non devono essere usati nelle
assenze! Quindi tutti quegli antiepilettici che potenziano la trasmissione GABAergica non devono
mai essere somministrati a pazienti con le assenze perché peggiorerebbero.
Tuttavia, in modo piuttosto contro intuitivo, nelle assenze si possono utilizzare le benzodiazepine
che agiscono potenziando la trasmissione GABAergica. Queste possono essere utilizzate perché
hanno una maggiore selettività per il recettore GABA A che si trova espresso sul corpo cellulare dei
neuroni del nucleo reticolare (rispetto al recettore GABA A che si trova nel nucleo di relay). Questo
recettore GABA A viene quindi preferenzialmente modulato positivamente dalle benzodiazepine.
Se il GABA A che si trova nel nucleo reticolare viene modulato positivamente, i neuroni del nucleo
reticolare vengono spentiàinterruzione circuito talamo-corticaleàbeneficio nelle assenze.
Si utilizza una benzodiazepina in particolare: il clonazepam (nome commerciale: Rivotril).

Vediamo adesso le correnti al potassio.

Quelle di interesse sono le correnti voltaggio dipendenti: Kv.


Ci sono vari tipi di Kv che sono coinvolti nella genesi di determinate forme di epilessia:
- Kv 1.1: quando c’è una mutazione nel gene che codifica per questo canale (gene KCNA1) che è
molto espresso in alcuni neuroni che controllano i movimenti e la postura si manifesta una
patologia chiamata atassia episodica di tipo 2, la quale è caratterizzata da miochimia, ovvero
la contrazione fine e costante della muscolatura e da attacchi episodici di movimenti spastici della
testa, delle braccia e delle gambe. Questi attacchi sono piuttosto frequenti potendosi verificare fino

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FARMACOLOGIA sbob 1: Fiorenza Pennacchia
04/11/2021 EPILESSIA sbob2: Bianca Nardo
Prof. Melchiorri sbob3: Chiara Musicò
rev: Domiziana Penelaggi

a 15 volte al giorno. In genere tendono a durare poco ma in alcuni casi si possono prolungare
anche per ore.
- Kv 1.7 è coinvolto in alcune forme di epilessia. Mutazioni con perdita di funzione nei geni KCNQ2
e KCNQ3 sono alla base di alcune forme di epilessia.
Pur essendo importanti nella genesi delle crisi epilettiche non abbiamo farmaci antiepilettici che
agiscano sui Kv. Una volta avevamo un farmaco, la retigabina, che agiva sui Kv 1.7 ma è stato
ritirato dal commercio perché aveva un effetto collaterale grave: la riduzione della acuità visiva.

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11/11/2021 Sbob: Fabiola Prisco, Giuseppe Pedullà,
Prof. Melchiorri Michela Nardi, Andrea Papa
Rev: Benedetta Pitzalis
ANTIEPILETTICI (continuazione della spiegazione del meccanismo d’azione)
Un ulteriore meccanismo d’azione condiviso da alcuni antiepilettici è a livello dei recettori del GABA.
Il GABA si lega a tre tipi di recettori:
- GABA A: canale ionico che, in seguito al legame con il GABA, determina il passaggio di cloro. È quello maggiormente
espresso a livello del SNC. A livello di questo recettore agiscono le Benzodiazepine e i Barbiturici;
- GABA B: recettore metabotropico GPCR (accoppiato a proteine Gi). Esiste un farmaco in commercio che lega in
maniera selettiva questo recettore: il Baclofene, ossia un miorilassante ad azione centrale;
- GABA C: canale ionico del cloro (stesso funzionamento di GABA A); è espresso a livello della retina.

Le benzodiazepine ed i barbiturici sono entrambi modulatori allosterici positivi del recettore GABA A (si legano su un
sito del recettore diverso da quello a cui si lega il ligando endogeno -il GABA- e modulano la risposta del canale al
GABA). Entrambi hanno indicazione come sedativi, ipnotici, ansiolitici e in alcuni casi come antiepilettici; tuttavia, le
benzodiazepine sono molto più utilizzate rispetto ai barbiturici perché hanno un miglior profilo di sicurezza. Le
benzodiazepine, infatti, modulano positivamente la funzionalità del recettore GABA A solamente quando questo si
lega al GABA endogeno, mentre i barbiturici ad alte dosi (es. overdose) attivano il recettore anche quando quest’ultimo
non è legato al neurotrasmettitore. Questa è una differenza molto importante in caso di sovradosaggio: un’assunzione
eccessiva di benzodiazepine molto difficilmente causa una depressione del SNC tale da portare ad una condizione di
coma/morte, in quanto l’effetto a livello dei recettori è condizionato dalla quantità di GABA endogeno, che è prodotto
in quantità limitata. Al contrario, un sovradosaggio di barbiturici causa un’attivazione dei recettori anche in assenza di
ligando endogeno e ciò facilita l’insorgenza di effetti collaterali gravi quali coma e morte: per tale motivo questi farmaci
vengono abusati dalle persone che tentano il suicidio. È importante, però, ricordare che la sicurezza delle
benzodiazepine è limitata dall’associazione con una qualsiasi altra sostanza che abbia un effetto inibitorio sul SNC (ad
esempio l’alcol), in quanto in tale situazione i rispettivi effetti inibitori si sommano e l’individuo è esposto ad un rischio
altissimo di coma e morte. In caso di intossicazione di benzodiazepine esiste un antidoto che invece non esiste in caso
di overdose da barbiturici. Questa differenza nel meccanismo d’azione, che si traduce in una diversa sicurezza e
maneggevolezza del farmaco, ha fatto sì che per gli effetti sedativo-ipnotici e per gli effetti ansiolitici oggi vengano
preferite di gran lunga le benzodiazepine. Come farmaci antiepilettici, invece, vengono utilizzati alcune
benzodiazepine e anche un barbiturico (per le sue proprietà sedative).

Il motivo per il quale i recettori GABA A presentano dei siti di legame per le benzodiazepine e per i barbiturici risiede
nel fatto che esistono delle sostanze endogene prodotte nel nostro organismo strutturalmente simili alle
Benzodiazepine (ed in particolare una sostanza simile al Valium contenuta nella patata) e ai Barbiturici. Per questi
ultimi in particolare la sostanza endogena che presenta le analogie strutturali è l’allopregnanolone.
L’allopregnanolone è un neurosteroide (presenta, cioè, un nucleo steroideo), sintetizzato a partire dal progesterone
dalle cellule della glia e anche dal corpo luteo durante la fase luteinica del ciclo ovarico.

Barbiturici e benzodiazepine hanno due differenti meccanismi d’azione=>


 I barbiturici legano un sito posto all’interno del canale ionico per il Cl- (GABA A), stabilizzano il canale nella sua
conformazione aperta e aumentano il tempo di apertura del canale.
 Le benzodiazepine, invece, hanno un sito di legame allosterico sul recettore GABA A che non è situato
all’interno del canale ionico: il legame determina un cambiamento conformazionale, stabilizza la
conformazione attiva del recettore e causano l’aumento della frequenza dell’apertura del canale stesso
(frequenza: numero di volte in cui il canale si apre nell’unità di tempo).
BARBITURICI -> aumento del TEMPO di apertura del canale
BENZODIAZEPINE -> aumento della FREQUENZA dell’apertura del canale
Le benzodiazepine hanno, inoltre, un meccanismo d’azione aggiuntivo: riducono la desensibilizzazione del recettore.
La desensibilizzazione è quel meccanismo per cui un recettore, in seguito a ripetute stimolazioni da parte di un
agonista, diminuisce o cessa del tutto la risposta all’agonista stesso. In questo caso, dunque, le benzodiazepine
mantengono il recettore attivo anche in seguito a ripetute stimolazioni, potenziando sempre la stimolazione
GABAergica.

Per quanto riguarda l’allopregnanolone, ricordiamo che è una sostanza endogena che possiede lo stesso meccanismo
d’azione dei barbiturici. Questo è il motivo per cui alcune donne che soffrono di epilessia, durante la fase finale del
ciclo ovarico (fase mestruale), possono andare incontro più facilmente a recrudescenze della sintomatologia epilettica.
Ciò è spiegato, infatti, dal calo improvviso del progesterone che avviene in questa fase del ciclo, che determina di
conseguenza anche una riduzione dell’allopregnanolone, suo derivato. Poiché quest’ultimo potenza la trasmissione
GABAergica, che a sua volta si oppone alle scariche eccitatore ipersincrone tipiche delle crisi epilettiche, una sua
riduzione favorirà la sintomatologia epilettica. Tale manifestazione viene chiamata epilessia catameniale.
Inoltre, gli estrogeni sono ormoni pro-convulsivanti; ne consegue che donne affette da epilessia non dovrebbero
assumere la formulazione contenente estrogeni della pillola anticoncezionale, in quanto questa facilita le crisi.
Inoltre, è da ricordare che ad una donna in trattamento con farmaci antiepilettici è comunque consigliata una
contraccezione meccanica, rispetto all’assunzione della pillola, per due motivi principali:
- molti farmaci antiepilettici alterano il metabolismo della pillola anticoncezionale, riducendone l’emivita e dunque
l’efficacia;
- molti farmaci antiepilettici sono teratogeni, quindi una gravidanza non programmata potrebbe risultare pericolosa
per il feto.

Il recettore GABA A funziona da canale ionico. Alla sua apertura,


entrano ioni Cl- all’interno della cellula e, contemporaneamente, esce
una piccola quantità di ioni HCO3-. Hanno entrambi carica negativa,
ma la quantità di ioni HCO3- che si trova nel versante intracellulare dei
neuroni (prodotti dall’azione dell’anidrasi carbonica di tipo 7) è
inferiore alla quantità di ioni Cl- presenti nel versante extracellulare. Ne consegue un aumento di cariche negative
all’interno della cellula e, dunque, iperpolarizzazione del neurone.
Attenzione: il fatto che il canale scambi ioni Cl - con ioni HCO3- giustifica l’utilizzo dei diuretici inibitori dell’anidrasi
carbonica (come l’Acetazolamide) nel trattamento di alcune sindromi epilettiche. Inibendo l’anidrasi carbonica, questi
farmaci determinano:
- una minor produzione di bicarbonato e quindi entra una maggior quantità di cloruri, che si traduce in una maggiore
negatività intracellulare;
- una maggior produzione di CO2, che deprime l’attività elettrica neuronale.

Ripetiamo brevemente che l’entrata degli ioni Cl - all’interno di un ambiente carico negativamente (come è appunto il
versante intracellulare) è resa possibile grazie alla presenza del trasportatore KCC2, che permette la fuoriuscita del Cl-
non appena questo entra all’interno della cellula, così da mantenere il gradiente di concentrazione ai due lati della
membrana, che altrimenti si azzererebbe. Il KCC2 è inibito dal BDNF; quindi, qualsiasi situazione in cui vi sia
un’aumentata concentrazione di BDNF causa una ridotta o assente entrata di Cl- attraverso il canale.
Un particolare tipo di epilessia, l’epilessia temporale mesiale, è particolarmente refrattaria al trattamento con farmaci
antiepilettici, in quanto il recettore GABA A è inattivato a causa del danno presente a livello della sclerosi ippocampale
e dell’elevata concentrazione di BDNF, che inibisce il KCC2.

Dalla sbobina dell’anno scorso: Quando la concentrazione del cloro intracellulare arriva ad essere maggiore di quella
esterna, l’apertura del canale del GABA A ne provoca un’uscita dal neurone. Il risultato è che ci sarà una
depolarizzazione invece che una iperpolarizzazione della membrana, con attivazione neuronale. Questo meccanismo
si attiva durante lo sviluppo: il recettore GABA A con la sua apertura fa uscire gli ioni cloro e quindi media la
depolarizzazione della cellula e il GABA diviene un neurotrasmettitore eccitatorio. Inoltre, durante lo sviluppo, vi è
un’elevata espressione del BDNF.

TERAPIA ANTIEPILETTICA
Le crisi epilettiche più frequenti sono quelle focali, che rappresentano un 60% dei casi incidenti. Anche se focali,
questo non significa che siano meno gravi; infatti, causano danni al SNC e sono spesso un indizio di una patologia più
grave delle crisi epilettiche.

Trattamento crisi epilettiche focali


- Il trattamento si basa inizialmente su una monoterapia,
che nel 50% dei casi è in grado di controllare le crisi
(paziente seizure-free).
- Se il pz non risponde, si passa ad un’altra monoterapia,
sostituendo, però, il farmaco antiepilettico con un altro.
In questo secondo caso, un 13% dei pz risponde alla
nuova terapia.
- Se il pz non ha risposto neanche al cambio della monoterapia, si aggiunge un secondo farmaco antiepilettico
(terapia add-on). In questo caso, la risposta si ottiene in un 5% dei pazienti.
- Infine, nei pazienti che non rispondono neanche alla terapia a due farmaci, si aggiungono altri farmaci, il che
permette il controllo delle crisi in un 5% dei pz.

Un 20-25% delle epilessie sono farmaco-resistenti.


È detta farmaco-resistente un’epilessia in cui il pz non risponde ad una politerapia a tre farmaci (ai massimi dosaggi
tollerati) eseguita per almeno un anno.

 Per le epilessie focali e le focali ad evoluzione bilaterale tonico-clonica, i principali antiepilettici utilizzati sono
tutti di seconda generazione, tranne uno, la Carbamazepina (CBX; è l’antiepilettico di prima generazione più
utilizzato in monoterapia per il trattamento delle epilessie focali). Vi sono inoltre dei congeneri della
Carbamazepina (molecole con struttura analoga) di più recente produzione (seconda generazione), quali:
l’Oxcarbazepina (OXC) e l’Eslicarbazepina (ESC). Inoltre, nel trattamento dell’epilessie focali e focali ad
evoluzione bilaterale tonico-clonica si utilizzano molto frequentemente anche il Levetiracetam (LEV), il
Topiramato (TPM), la Lamotrigina (LTG) e la Zonisamide (ZNS).

 Per le epilessie generalizzate primarie tonico-cloniche, i farmaci più utilizzati in monoterapia sono: l’Acido
Valproico (VPA, esiste in commercio sottoforma di sale, ossia il Valproato), il Topiramato, la Lamotrigina e la
Carbamazepina (quest’ultima meno utilizzata, poiché meno efficace). Anche la Fenitoina (PHT) ha indicazione
nelle crisi generalizzate primarie, ma si utilizza poco e prevalentemente nella formulazione iniettabile per via
endovenosa (Fosfofenitoina), per la risoluzione degli stati di male epilettico. Lo stato di male epilettico è quella
condizione in cui le crisi epilettiche si succedono senza soluzione di continuità. È questa una condizione di
estrema emergenza, che deve essere risolta tempestivamente in quanto può portare a morte (per questo sono
particolarmente indicati i farmaci a somministrazione ev che hanno effetto immediato).

 Per le assenze (forma di epilessia più frequente nell’infanzia), si esegue una monoterapia con: l’Etosuccimide
(ETS, che ha indicazione solo per le assenze tipiche), il Valproato o la Lamotrigina (che hanno indicazione sia
per le assenze tipiche che per quelle atipiche).

 Bisogna prestare particolare attenzione a quelle forme di epilessia “mista”, in cui il fenotipo della crisi può
assumere diverse caratteristiche (ad esempio si possono manifestare sia crisi tonico-clonico generalizzate che
miocloni o assenze): non tutti i farmaci sono adatti al trattamento delle diverse modalità in cui si manifesta la
crisi (tant’è che in alcuni casi non solo un determinato farmaco può non funzionare per una specifica
manifestazione clinica, ma la può addirittura peggiorare). In caso di presenza di miocloni, i farmaci efficaci
sono: il Valproato, il Levetiracetam ed il Topiramato. È, invece, assolutamente controindicato in caso di
miocloni l’utilizzo della Carbamazepina (e dei suoi congeneri) e della Fenitoina, in quanto peggiorano i
miocloni.
Attenzione: Carbamazepina e Fenitoina non vanno somministrate neanche al paziente con assenze, perché anche in
questo caso peggiorano la sintomatologia (in quanto il meccanismo d’azione di Carbamazepina e Fenitoina si
concentra esclusivamente sui canali del sodio).

Si tratterà ciascun farmaco nel dettaglio.


Innanzitutto, per qualsiasi farmaco epilettico, valgono alcune regole generali=>
 titolare la dose all’inizio della terapia (iniziare con basse dosi per poi aumentarle gradualmente), per evitare
l’insorgenza di effetti collaterali importanti e dunque una mancata tolleranza alla terapia;
 in caso di interruzione del farmaco, è importante diminuire la dose progressivamente ed evitare di
interromperlo bruscamente, per evitare esacerbazioni della patologia;
 ricordare sempre la contraccezione meccanica alle donne in terapia con antiepilettici.

FARMACI ANTIEPILETTICI DI PRIMA GENERAZIONE (Fenitoina, Carbamazepina,


Etosuccimide, Fenobarbital e Valproato)

FENITOINA
Ha indicazione=>
 nelle crisi focali e nelle focali ad evoluzione bilaterale tonico-clonica;
 nelle generalizzate primarie tonico-cloniche;
 per via endovenosa nello stato di male epilettico.

Esistono due diverse formulazioni per via orale del farmaco:


- a rilascio immediato (3 volte die; partendo da una dose di base di 300 mg (100 mg x 3) in totale al giorno per poi
titolarla sul singolo paziente fino ad un max di 5-6 mg/Kg)
- a rilascio ritardato (una sola volta al giorno).
La terapia si inizia sempre con la formulazione a rilascio immediato, che permette una precisa titolazione sul paziente,
per poi passare alla formulazione a rilascio ritardato, che migliora la compliance del paziente.

Per alcuni farmaci antiepilettici (soprattutto quelli di prima generazione), sono noti i range di concentrazione
plasmatica entro cui devono rimanere. Questo non è sempre utile, ma misurare la concentrazione plasmatica è
consigliabile quando:
- siamo in fase di titolazione, o più in generale quando si vuole aumentare la dose del farmaco, se le crisi non sono ben
controllate;
- nel caso in cui si verifichino degli effetti collaterali (per evidenziare una possibile dose-dipendenza);
- nel caso di mancata efficacia di un farmaco, per indagare un’eventuale mancanza di compliance.
L’utilità della misurazione come esame di routine, invece, è scarsa (a meno che non sia un farmaco con particolare
tossicità), in quanto spesso la correlazione tra efficacia e livelli di concentrazione plasmatica del farmaco è labile,
mentre, solitamente, è più forte la correlazione concentrazione-effetti collaterali.
Per quanto riguarda la Fenitoina, la concentrazione plasmatica alla quale abbiamo la piena efficacia del farmaco è
10 microgrammi/ml (si può salire fino a 20 microgrammi/ml nello stato epilettico, per avere un’azione più efficace e
rapida).

Il meccanismo d’azione della fenitoina si basa sull’inibizione delle correnti al sodio Nav 1.1 e 1.2.
Si somministra prevalentemente x os (anche se poco usata oggi per os) e circola molto legata alle proteine plasmatiche
(bisogna dunque fare attenzione all’interazione con farmaci che possono dare fenomeni di spiazzamento; i farmaci di
prima generazione che viaggiano molto legati alle proteine plasmatiche sono la Fenitoina e il Valproato).

È metabolizzata dal CYP2C9 e dal CYP2C19.


È inoltre un potente induttore enzimatico di molti CYP e, dunque, in caso di politerapia con farmaci antiepilettici che
vengono metabolizzati da questi, è necessario ricordare di aumentare la dose per evitare la diminuzione dell’efficacia.
Attenzione: se nel corso della terapia viene interrotta la somministrazione dell’induttore enzimatico, bisogna ricordarsi
di abbassare nuovamente il dosaggio degli altri farmaci per evitare effetti collaterali.
Inoltre, essendo la Fenitoina un farmaco molto metabolizzato, all’aumentare eccessivo della dose, gli enzimi
responsabili del suo metabolismo possono andare incontro a saturazione (cinetica saturabile) e la quota di farmaco
“in eccesso” non metabolizzata può causare l’insorgenza di effetti collaterali importanti.

Effetti collaterali della Fenitoina:


- Acuti: aritmie (la Fenitoina è in grado di agire sui canali del sodio cardiaci, ha dunque anche attività antiaritmica. Per
evitare le aritmie non bisogna superare i 50 mg/min endovena; quindi, non deve essere somministrata troppo
velocemente), ipotensione, sedazione (sempre a causa dell’inibizione dei canali Na+), depressione del SNC, disturbi
cerebello-vestibolari (alterazione nella coordinazione dei movimenti, diplopia, nistagmo, disartria). Questi ultimi due
sono effetti collaterali comuni a quasi tutti gli antiepilettici.
- Cronici: reazioni di ipersensibilità (effetti collaterali di classe degli antiepilettici, quindi molto comuni; nello specifico
della Fenitoina si hanno reazioni cutanee di tipo morbilliforme); disturbi gastrointestinali; epatotossicità,
linfoadenopatie; complicazioni più proprie della Fenitoina quali irsutismo, osteomalacia, carenza di folati e di vitamina
K (per riduzione dell’assorbimento e alterazione del metabolismo); può dare inoltre iperplasia gengivale (nel 20% dei
pazienti in trattamento con il farmaco).
A livello ormonale, determina una riduzione del rilascio di ormone antidiuretico e dell’insulina, generando iperglicemia
e glicosuria. Altro importante effetto collaterale di classe è la possibilità di slatentizzare psicosi; i pazienti che
sviluppano psicosi sono il più delle volte predisposti, cioè caratterizzati dalla presenza di una maggiore vulnerabilità
secondaria ad alterazioni metaboliche o traumi in fase peri-natale, tale che alla sovrapposizione di particolari
condizioni ambientali (come l’uso di antiepilettici) vi è una concreta possibilità di slatentizzazione di alterazioni dello
stato psichico (esempio schizofrenia). Inoltre, altro elemento comune alla classe di questi farmaci è l’aumento della
ideazione suicidaria, diversa rispetto al comportamento suicidario (la prima è circoscritta al solo pensiero dell’atto e
dunque ben più innocua del secondo che ne rappresenta la concretizzazione).

CARBAMAZEPINA (TEGRETOL®)
La carbamazepina è molto più utilizzata della fenitoina nella terapia iniziale delle epilessie focali. Le indicazioni di
questo farmaco prevedono: crisi focali e ad evoluzione bilaterale tonico-clonica e generalizzate primarie tonico-
cloniche (in quest’ultimo caso si utilizza in politerapia e non in monoterapia, perché ci sono farmaci più efficaci).
La carbamazepina è un iminostilbene, come gli antidepressivi triciclici (triciclici poiché la molecola è formata da tre
anelli), con il ciclo centrale dotato di un atomo di azoto con attività antiepilettica che sostituisce un atomo di carbonio;
da ciò, si desume che queste due classi di farmaci non possono essere somministrati insieme. Inoltre, la
carbamazepina e i TCA (antidepressivi triciclici) non devono essere somministrati neanche con gli iMAO (in particolare
gli iMAO usati come antidepressivi), perché =>
 gli iMAO, inibendo il metabolismo delle monoammine, potenziano il meccanismo di azione dei TCA (i TCA
potenziano la trasmissione noradrenergica e parimenti fanno gli iMAO), aumentando il rischio di alterazioni
della conduzione a livello cardiaco (aritmie);
 per la carbamazepina, avendo struttura simile ai TCA, non deve essere assunta con gli iMAO.

La carbamazepina può peggiorare la crisi delle assenze tipiche e atipiche e i miocloni nel contesto di attacchi misti.
Oltre che come antiepilettico, la carbamazepina si usa anche nel dolore neuropatico (dolore è prodotto dal danno al
nervo), in particolare nel caso di nevralgia del trigemino, e per lenire i sintomi della fase maniacale del disturbo
bipolare. Il disturbo bipolare consta, appunto, di due fasi: una maniacale ed una depressiva. Nella fase maniacale si
somministra come seconda scelta la carbamazepina, qualora presidi di prima scelta risultino inefficaci.
Bisogna titolare la dose all’inizio e scalarla alla fine della terapia nell’arco di sei mesi (sono necessari quindi sei mesi
per interrompere la terapia). Quando si vuole sostituire un antiepilettico, si scala quello che si sta assumendo per
introdurre “lentamente” il sostituto a basse dosi, cosicchè con il tempo arriveremo a dosi piene del nuovo farmaco
scalando il vecchio. La carbamazepina viene somministrata inizialmente a basse dosi, 100-200 mg/1-2 volte al giorno,
fino a raggiungere la dose piena di 400 mg/2-3 volte al giorno, fino ad un massimo di 1600-2000 mg/giorno se il pz
non risponde.
Esiste, inoltre, una formulazione a lento rilascio, da assumere due volte al giorno, ed una pediatrica sottoforma di
sciroppo.
Le concentrazioni plasmatiche sicure ed efficaci della carbamazepina vanno da 4-12 microgrammi/ml. E’ bene
ricordare che la contestuale assunzione di antiacidi ne riduce l’assorbimento; viaggia poco legato alle proteine
plasmatiche e dunque (a differenza della fenitoina) non dà fenomeni di spiazzamento.

E’ metabolizzata dal CYP3A4 producendo un epossido dato dalla rottura del doppio legame presente nell’anello
centrale dei 3 che la molecola possiede. L’epossido, di per sé tossico, è responsabile di alcuni effetti collaterali:
- nel bambino, affaticabilità e stanchezza con conseguente basso rendimento scolastico;
- negli adulti, provoca capogiri, vertigini, sonnolenza, atassia e diplopia.
Attenzione alla co-somministrazione di inibitori dell’epossido-idrolasi, come il VPA e quetiapina, poiché è l’unico
enzima capace di poter metabolizzare l’epossido tossico e, se venie inibito, c’è il rischio di aumentare gli effetti
collaterali della carbamazepina. Ad ogni modo, la politerapia con carbamazepina e quetiapina si riserva ad alcuni casi
di disturbo bipolare, prestando però molta attenzione ai dosaggi.
Da sbobina dell’anno scorso: La carbamazepina, come la maggior parte degli antiepilettici, è teratogena (può dare
spina bifida), a causa sempre della formazione dell’epossido che non viene adeguatamente smaltito poiché il feto
produce poca epossido-idrolasi.

La carbamazepina è un potente induttore enzimatico e, dunque, interagisce con molti farmaci: FANS, TCA, warfarin,
clonazepam (una delle benzodiazepine più utilizzate nell’epilessia, il cui metabolismo è inibito dalla carbamazepina,
determinando un aumento degli effetti avversi), etosuccimmide, felbamato, lamotrigina, oxcarbazepina, tiagabina,
topimarato e tutti quelli metabolizzati dal CYP3A4 (anche alcuni antipsicotici, come l’aloperidolo, e i contraccettivi
orali).
La co-somministrazione con levetiracetam determina un aumento della tossicità della carbamazepina; l’assunzione
con l’isoniazide aumenta la tossicità dell’isoniazide stessa; se la carbamazepina è data con il litio (usato per disturbi
bipolari) o con l’aloperidolo (dato anch’esso nei disturbi bipolari), si aumenta molto la tossicità neurologica dei farmaci.
La carbamazepina ha effetto antidiuretico, perciò se associata a diuretici può causare iponatremia; se associata ad
alcol, riduce la tollerabilità all’alcol. Inoltre, riduce l’efficacia della tiroxina, per cui è necessario aumentare la dose.

Le vere e proprie controindicazioni sono=>


 l’associazione con gli inibitori delle MAO, la cui assunzione è bene che venga sospesa due settimane prima
dell’inizio della terapia con carbamazepina per il rischio di aritmie;
 non deve essere somministrata a pazienti con porfirie epatiche, che potrebbero complicarsi con convulsioni,
iperpiressia e crisi ipotensive;
 non deve essere somministrata in pz con blocco AV (da sbobina dell’anno scorso).

Effetti collaterali: le reazioni di ipersensibilità sono particolarmente spiccate con la carbamazepina, in particolare
reazioni dermatologiche molto gravi. Esiste, a tal proposito, una associazione con alcuni aplotipi espressi soprattutto
in popolazioni asiatiche: HLA-A 3101 (tipica del Giappone e nord-Europa) e HLA-B1502 (cinesi). I pazienti che
esprimono questi aplotipi non possono assumere carbamazepina e perciò è di cruciale importanza tipizzare i pazienti
asiatici prima di prescrivere loro carbamazepina, poiché sono potenzialmente a rischio, soprattutto nei primi mesi, di
reazioni gravi, quali sindrome di Steven-Johnson, NET (necrolisi epidermica tossica) e DRESS (rash da farmaci con
eosinofilia e sintomi sistemici). Tutte queste reazioni potrebbero insorgere, a parità di condizioni, anche nel corso di
somministrazione di analoghi della carbamazepina, come la OXC, la ESC, e anche con la fenitoina (rischio di cross-
reattività del 25 30%, soprattutto con OXC; quindi, meglio non somministrare nessuno di questi farmaci se non è stata
fatta prima la tipizzazione).
Nel 10% dei pazienti ad inizio terapia si realizza una leucopenia lieve e transitoria che si risolve spontaneamente in 3-
4 mesi; ci può essere anche trombocitopenia transitoria. Nel 2% dei pz che sviluppano leucopenia, il disturbo può
persistere e ciò obbliga a sospendere la terapia. Molto raro ma possibile è il rischio di anemia aplastica (uno su 200.000
pazienti e non è certo che il monitoraggio dei globuli bianchi sia utile in questo caso, poiché il disturbo può insorgere
molto rapidamente, senza evidenza di alcuna alterazione prodromica); inoltre, si può avere agranulocitosi.
Altri E.A. sono i disturbi cerebello-vestibolari, sedazione generale a livello del sistema nervoso centrale e disturbi
gastrointestinali, tossicità epatica nel 5-10% dei casi (valutabile tramite un aumento degli enzimi epatici), aumento del
metabolismo delle vitamine (come la fenitoina), osteomalacia e effetti anticolinergici (producendo un aumento della
pressione intraoculare; perciò, bisogna somministrarla cautamente nei pz con glaucoma), allungamento del tratto PR
e slatentizzazione di psicosi.

FENOBARBITAL (LUMINAL®, GARDENALE®)


È un barbiturico molto vecchio, utilizzato come antiepilettico; agisce sui recettori GABA A ed ha come indicazione le
epilessie focali e le epilessie generalizzate primarie tonico-cloniche. Il fenobarbital, a differenza della PHT e CBZ, può
essere usato nei miocloni, ma non nelle assenze. Ha diverse formulazioni: per os, intramuscolo ed endovena; la
concentrazione plasmatica sicura ed efficace allo stato stazionario è pari a 10-30 microgrammi/ml. Viaggia poco legato
alle proteine plasmatiche; si comporta da potente induttore enzimatico ed è metabolizzato dal CYP2C9, CYP2C19,
poco dal CYP2D6 (molto polimorfo, ma la quota del fenobarbital da lui metabolizzata è piccola, perciò non vi sono
grandi problematiche in tal senso). Agendo sui recettori GABA-A, così come le BDZ, può dare fenomeni di eccitazione
paradossa, cioè, invece di inibire il sistema nervoso centrale, all’inizio della terapia soprattutto, è possibile avere
eccitazione, poiché i primi neuroni che vengono ad essere inibiti sono i neuroni GABA-ergici e, essendo loro stessi
inibitori, potremmo avere questa iper-eccitabilità che specialmente nei bambini si tradurrà in aggressività e ridotto
rendimento scolastico.
Per quanto concerne le vitamine, è presente il rischio di rachitismo nei bambini; quindi, è necessario supplementare
con vitamina D. In caso di sovradosaggio, si rischia sedazione e depressione a livello del sistema nervoso centrale. Il
Fenobarbital può dare leuco e trombocitopenia (immunosoppressione) e reazioni di ipersensibilità (anche queste due
sono di classe).

ETOSUCCIMIDE (ZARONTIN®)
La principale indicazione è il trattamento delle assenze tipiche, frequenti nei bambini. È un farmaco vecchio. Presenta
due principali posologie a seconda dell’età del bambino:
1)Per OS 500 mg al giorno, se maggiore di sei anni;
2)Per OS 250 mg al giorno, se minore di sei anni.
La concentrazione plasmatica sicura ed efficace è 40-100 microgrammi/ml e la sua attività si configura come quella di
bloccante delle correnti al calcio Cav3 (prodotte dal canale del calcio di tipo T). Non viaggia legato alle proteine
plasmatiche e non interagisce con enzimi metabolici.
Effetti avversi: disturbi gastrointestinali, discrasie ematiche, fotofobia, reazioni di ipersensibilità, effetti cerebello
vestibolari, parkinsonismo, può aumentare il rischio di LES e ideazione suicidaria (effetto di classe degli antiepilettici).
ACIDO VALPROICO (DEPAKIN®)
Esiste in due formulazioni: a rilascio immediato e a rilascio ritardato (Depakin Chrono da somministrare 1-2 volte al
giorno).
È un antiepilettico ad ampio spettro, cioè si utilizza per una vasta tipologia di epilessia e sindromi epilettiche: per
l’epilessia focale, per le generalizzate primarie tonico-cloniche, per le assenze tipiche e atipiche, per la Lennox-Gastaut
(encefalopatia epilettiche in cui le crisi aggravano il danno a carico del SNC), per i miocloni. È abbastanza efficace negli
spasmi infantili (presenti nella sindrome di West); ha indicazione anche nel disturbo bipolare e nella profilassi
dell’emicrania e della cefalea a grappolo. Questo ampio spettro di indicazioni è stato però di recente limitato, poiché
l’acido valproico è molto teratogeno, causando spina bifida con danni irreversibili. In virtù di ciò, questo farmaco viene
utilizzato per donne in età fertile solo qualora altri farmaci non abbiano avuto effetto, dunque come ultima scelta.
Le concentrazioni plasmatiche sicure ed efficaci, da mantenere allo stato stazionario, sono di 40-120 microgrammi/ml,
ponderando la dose in base al peso corporeo. In commercio esiste solo la formulazione per OS.

L’acido valproico presenta molteplici meccanismi d’azione:


1. blocca Nav1.1 e 1.2 presenti nel sistema nervoso centrale;
2. Blocca i canali T del calcio; blocca correnti Cav3, interessate nella genesi delle assenze;
3. Attiva/Potenzia la trasmissione GABA-ergica, poiché aumenta l’attività dell’enzima GAD (glutammico
decarbossilasi, che decarbossila l’acido glutammico in GABA) ed inibisce la GABA transaminasi (enzima che
metabolizza il GABA);
4. Inibisce la glicogeno sintasi kinasi 3 (GSK3-beta); questo enzima inattiva mediante fosforilazione la beta-catenina
(fattore trascrizionale). Inattivando la GSK3-beta, la beta catenina è libera, migra nel nucleo e favorisce la trascrizione
di proteine utili al trofismo cellulare (funzione utile nell’epilessia e nel disturbo bipolare);
5. Inibisce le istono de-acetilasi (HDAC) e, dunque, favorisce la trascrizione genica.

Come la fenitoina, viaggia molto legato alle proteine plasmatiche, dunque, sussiste il problema dello spiazzamento.
L’acido valproico è un acido grasso, quindi, viene metabolizzato principalmente dal fegato per beta ossidazione e ciò
spiega la tossicità epatica del farmaco (può dare steatosi microvescicolare e necrosi epatica fulminante), che è
maggiore, tra l’altro, nel bambino con meno di tre anni.
E’ anche metabolizzato dal CYP2C9 e CYP2C19, inibiti dal farmaco stesso.
È necessario porre attenzione alla co-somministrazione con la fenitoina, poiché aumenta il rischio di eventi avversi,
dal momento che entrambi i farmaci viaggiano molto legati e inoltre vengono metabolizzati dagli stessi enzimi.
Il valproato va incontro anche a reazioni di fase 2: è metabolizzato dalla UGT, che a sua volta inibisce, e, inibendola,
interagisce con un altro antiepilettico di seconda generazione, ovvero la lamotrigina, che è metabolizzata unicamente
dall’UGT. La politerapia con valproato e lamotrigina si fa in alcune epilessie ed in tal caso è necessario ridurre ad un
quarto della dose normale quella di lamotrigina, poiché l’associazione aumenta molto il rischio di reazioni tossiche di
ipersensibilità della lamotrigina.
È nota anche la capacità del valproato di inibire l’epossido idrolasi; dunque, è da evitare l’associazione con
carbamazepina.

Attenzione: gli effetti avversi non devono essere confusi con le interazioni metaboliche del farmaco, per quanto queste
seconde possano determinare in parte o comunque favorire i primi.
Gli eventi avversi sono: effetti gastrointestinali, epatotossicità, pancreatite, aumento ponderale (tutti gli antiepilettici
lo causano, il valproato più di tutti, ma non tanto quanto alcuni antipsicotici che possono far aumentare anche di 10-
20kg), alopecia, disturbi cerebello-vestibolari e tutti gli altri E.A. di classe già citati nella trattazione dei farmaci
precedenti.
BENZODIAZEPINE
Le benzodiazepine non sono classificate come farmaci antiepilettici, ma alcune vengono utilizzate nel trattamento
dell’epilessia:
1. Midazolam (BUCCOLAM®); formulazione oro-mucosale, da somministrare nelle convulsioni acute prolungate nei
bambini;
2. Diazepam; formulazione rettale (MICROPAM®, prima del BUCCOLAM® era l’unica formulazione in commercio) per
trattare le convulsioni acute prolungate nei bambini), formulazione per via parenterale (endovena/intramuscolo,
VALIUM®, per arrestare uno stato di male);
3. Lorazepam; somministrazione endovena/intramuscolo per arrestare uno stato di male;
4. Clonazepam; si utilizza per OS nelle assenze e nei miocloni;
5. Clobazam; specifico in indicazioni di sindromi epilettiche caratterizzate da spasmi infantili (sindrome di Dravet).

Il meccanismo d’azione, già visto, consta nel potenziamento del recettore GABA-A.

Gli effetti avversi nelle benzodiazepine sono: eccitazione paradossa (così come per il fenobarbital), capace di poter
produrre aggressività ed eccitabilità. Se le benzodiazepine vengono assunte cronicamente, si può sviluppare una sorta
di abitudine (intesa come resistenza nei confronti degli effetti terapeutici; quindi, se somministrate per lungo tempo,
per avere lo stesso beneficio, è necessario aumentare la dose), piuttosto che di tolleranza (intesa come resistenza nei
confronti degli effetti collaterali).
Una delle complicanze più temibili legata all’utilizzo di questi farmaci è l’arresto respiratorio secondario al
coinvolgimento dei centri bulbari tronco-encefalici (questo rischio si presenta in particolare nel contesto di
somministrazione per via endovenosa, al fine di interrompere uno stato di male epilettico).
L’utilizzo di questi farmaci genera dipendenza fisica, complicantesi in crisi di astinenza al momento della sospensione
brusca e non scalata del farmaco.

Esistono due forme di dipendenza date dall’utilizzo di sostanze di abuso:


1. DIPENDENZA PSICHICA: alla base della continua e spasmodica ricerca della sostanza (la sostanza che appunto crea
dipendenza) vi è il rilascio di dopamina a livello del nucleo accumbens;
2. DIPENDENZA FISICA: molto più frequente, in quanto ci sono alcune sostanze che danno dipendenza fisica ma non
psichica. È causata da alcuni meccanismi che si manifestano a livello del centro che controlla il sistema nervoso
autonomo, in particolare il simpatico. Questo tipo di disturbo si manifesta con la sindrome di astinenza, al momento
dell’interruzione dell’assunzione della sostanza con diversi sintomi possibili, che cambiano a seconda della sostanza
da cui si è dipendenti, perché variano i meccanismi molecolari alla base della dipendenza fisica.
Nel caso delle benzodiazepine e degli oppioidi il substrato molecolare è rappresentato dal locus coeruleus, deputato
al controllo inibitorio del sistema nervoso simpatico. Finché si assume la sostanza, questo nucleo resta inibito e dunque
rilascia meno noradrenalina (giacché il locus coeruleus contiene una buona parte di neuroni noradrenergici deputati
alla produzione di tale neurotrasmettitore). L’organismo ed il sistema nervoso centrale rispondono a questa modifica
indotta esogenamente dall’uso delle benzodiazepine esprimendo un maggior numero di recettori noradrenergici, così
da fare in modo di mantenere un discreto livello di trasmissione nervosa nonostante il blocco indotto dal farmaco. Se
si interrompe la terapia non in modo graduale, verrà improvvisamente meno il blocco sul locus coeruleus, dunque
verrà ripresa una normale trasmissione noradrenergica; contestualmente a ciò, però, risulterà la permanenza, ancora
per qualche tempo, dei neo-espressi recettori, che impiegheranno più tempo ad estinguersi. La somma di questi due
fattori determinerà in ultima istanza un eccesso di attivazione noradrenergica e del locus ceruleus, con stato di ansia
e peggioramento divento di eventuali crisi. Ecco perché è cruciale scalare gradualmente il farmaco.
Inoltre, nello stato di male epilettico è possibile somministrare congiuntamente alle benzodiazepine il propofol
(qualora le prime non fossero del tutto sufficienti), un anestetico generale, che in tal senso potenzia l’azione sul
recettore GABA A.
ANTIEPILETTICI DI SECONDA GENERAZIONE
Gli antiepilettici di seconda generazione sono stati messi in commercio poiché, come abbiamo precedentemente
accennato, non tutte le epilessie rispondevano ai farmaci. C’è stato il bisogno, quindi, di formulare dei farmaci con
meccanismi d’azione diversi, che potessero superare la farmacoresistenza. Essendo presenti già gli antiepilettici di
prima generazione, quelli di seconda generazione sono stati studiati su pazienti in add-on (ovvero non in mono terapia,
ma in aggiunta a quelli di prima generazione). Non è fattibile, quindi, avere un’indicazione in mono terapia, se lo studio
è stato effettuato in add-on, poiché non etico. Tuttavia, grazie a studi successivi, molti antiepilettici di seconda
generazione, i quali avevano originariamente come prima indicazione solo quella in add-on, ora sono utilizzati anche
in monoterapia.
Esistono epilessie farmaco resistenti sia in ambito farmacodinamico sia in ambito farmacocinetico (più frequente). Ma
qual è la differenza fra questi due tipi di resistenza?
RESISTENZA FARMACODINAMICA: la farmacodinamica è quella branca della farmacologia che si occupa delle
interazioni farmaco-recettore ed analizza tutto ciò che accade dopo che il segnale è stato trasmesso al recettore dal
legame con il farmaco. La resistenza farmacodinamica implica, quindi, delle modifiche prettamente recettoriali.
RESISTENZA FARMACOCINETICA: è caratterizzata da una modifica di tipo metabolico, che interferisce con il
raggiungimento da parte del farmaco del suo sito d’azione.

In alcuni casi, si è osservato che alcune subunità di determinati canali ionici (come del Na+ e del GABA) mutano e tutto
ciò determina una minor affinità del farmaco per il suo recettore. Questa è una resistenza di tipo farmacodinamico,
che però non è molto frequente.
La più frequente è la resistenza di tipo farmacocinetico, caratterizzata ad esempio da una mutazione della
glicoproteina P, la quale viene iperespressa a livello della barriera ematoencefalica, trasportando l’antiepilettico al di
fuori del SNC prima che il farmaco possa esplicare i suoi effetti terapeutici. Vi sono delle sostanze che inibiscono la
glicoproteina P, come il calcio-antagonista Verapamil, utilizzato (soprattutto i suoi congeneri in realtà) in alcune
epilessie farmaco resistenti, per ridurre l’effetto della glicoproteina P.
Un'altra strategia terapeutica per superare l’ostacolo della farmacoresistenza è la somministrazione contemporanea
di più farmaci per superare le resistenze.

LAMOTRIGINA (LAMICTAL®)
Si somministra solo per os ed è l’antiepilettico a titolazione più lenta in assoluto: occorrono mesi per arrivare alla dose
piena, ovvero 150-300 mg/die in due somministrazioni. Se la titolazione avvenisse rapidamente, vi sarebbero enormi
effetti collaterali, nello specifico gravissime reazioni di ipersensibilità a livello cutaneo, quali NET e sindrome di Steven-
Johnson (come avveniva inizialmente, quando non si sapeva che fosse necessaria la titolazione lenta). Questo E.A. ha
ridotto il suo uso per alcuni anni.

È un farmaco attivante, differentemente dagli altri antiepilettici che causano solitamente sedazione. Quindi, è molto
usato nei pz che, dopo un ictus, hanno sviluppato epilessie e rimangono spesso sedati.
È indicato nelle epilessie focali e ad evoluzione bilaterale, nelle generalizzate primarie tonico-cloniche, nelle assenze
tipiche ed atipiche. Ha indicazioni sia in add-on sia in mono terapia. Si usa in politerapia nella sindrome di Lennox-
Gastaut (essendo un’encefalopatia epilettica, è molto difficile da trattare e, quindi, sono necessari più farmaci).
Avendo una titolazione molto lenta, nelle fasi depressive del disturbo bipolare è utilizzata solo in profilassi e non
nell’episodio acuto depressivo.
Blocca le correnti del Na+; circola poco legata e quindi non dà fenomeni di spiazzamento. È metabolizzata dall’UGT. Ha
interazioni con il felbamato (FBM) e VPA: se si associa con questi altri due farmaci, la sua dose deve essere ridotta a
25 mg/die. C’è interazione con la pillola anticoncezionale, ma come abbiamo già detto, con tutti gli antiepilettici la
contraccezione deve essere meccanica.
Da sbobina dell’anno scorso: la pillola anticoncezionale riduce i livelli di Lamotrigina circolante del 50% ed allo stesso
modo la Lamotrigina riduce i livelli degli estroprogestinici del 50%; quindi, non va assunta insieme alla pillola
anticoncezionale
EFFETTI AVVERSI: Reazioni di ipersensibilità cutanea (i rash cutanei sono i più frequenti, nel 5-10% dei pz);
teratogenicità (labioschisi e palatosichisi); prolungamento del tratto PR dell’ECG.

FELBAMATO (TALOXA®)
Si utilizza esclusivamente in add-on per la sindrome di Lennox-Gastaut e, a causa della sua elevata tossicità, non è un
farmaco di prima scelta. Si somministra unicamente per os, 3 volte al giorno.
Il Felbamato inibisce alcuni CYP; se il paziente è in trattamento con altri antiepilettici (come carbamazepina, fenitoina
e valproato), bisogna diminuire la dose di questi ultimi al fine di evitare eventuali effetti collaterali. È uno dei pochi
antiepilettici di seconda generazione di cui si conoscono le concentrazioni plasmatiche da mantenere (32-82 μg/ml).
Per quanto riguarda il suo meccanismo d’azione, va ad inibire il recettore del glutammato NMDA e potenzia la
risposta al GABA. Si pensa che sia preponderante l’effetto sul recettore dell’NMDA, anche se questo non è stato ancora
dimostrato nei minimi dettagli.
Il Felbamato non circola legato alle proteine plasmatiche ed è metabolizzato dal CYP3A4 e CYP2E1.
Inibisce le epossi-idrolasi e quindi aumenta del 50% la carbamazepina epossido; aumenta anche la concentrazione
della PHT (dal 20% al 60%), del Fenobarbital (25%) e l’AUC dell’acido valproico (l’associazione frequente con il
valproato per il trattamento della Lennox-Gastaut deve essere caratterizzata dall’utilizzo di basse dosi di valproato).
Il Felbamato è poco utilizzato a causa di due effetti collaterali molto gravi.
La sua tossicità aumenta con l’aumentare dell’età del bambino. Mentre l’epatotossicità si verifica in un caso ogni
40000 pazienti trattati, l’anemia aplastica ha una frequenza d’ insorgenza di 250 ogni milione di pazienti trattati ed ha
una fatalità del 30%. A causa della possibile epatotossicità, bisogna monitorare gli enzimi epatici ogni due settimane.
Per l’anemia aplastica è necessario eseguire un emocromo completo ogni due settimane e, se i neutrofili sono
<1500/mm3 o le piastrine sono <150/mm3 , bisogna interrompere la terapia.
Oltre all’epatotossicità e all’anemia aplastica, il Felbamato dà anche delle reazioni di ipersensibilità piuttosto gravi;
quindi, ha uno spettro di tollerabilità non molto buono.

OXCARBAZEPINA (TOLEP®)
È un congenere della carbamazepina, come anche la Eslicarbazepina (l’ultima ad essere stata messa in commercio);
entrambi i congeneri sono degli iminostilbeni e hanno lo stesso meccanismo d’azione: blocco dei Nav
Ha indicazioni sia in monoterapia che in add-on nelle crisi focali e ad evoluzione bilaterale; non si utilizza nelle
generalizzate, nei miocloni e nelle assenze. Viene somministrata due volte al giorno; si titola partendo da una dose
iniziale di 300 mg/die fino ad arrivare ad un massimo di 3 g/die. È un profarmaco: viene rapidamente convertito in
Eslicarbazepina (il cui l’enantiomero S è la sostanza attiva) una volta immessa nell’organismo.
Il metabolismo avviene attraverso UGT, quindi attenzione all’associazione sia con la Lamotrigina sia con l’Acido
Valproico. Analogamente alla Carbamazepina, si comporta da induttore, ma più debole. Quindi, se in un paziente si
sostituisce la Carbamazepina con la Oxcarbazepina, bisogna ridurre le dosi degli altri antiepilettici associati (perché si
ha un’induzione inferiore da quella data dalla carbamazepina).
Oltre ad avere una funzione induttrice, l’Oxcarbazepina inibisce il CYP2C9, ovvero il CYP che metabolizza la Fenitoina,
per questo motivo si deve prestare attenzione a questa associazione.
Non deve essere associata con =>
Queste associazioni riducono il metabolita attivo
 inibitori delle MAO;
dell’Oxcarbazepina ed aumentano gli effetti collaterali motori
 la carbamazepina, l’eslicarbazepina; di tipo extrapiramidale
 Rufinamide.
Inoltre, tutti i farmaci sopracitati NON possono mai essere associati alla Rufinamide.

EFFETTI AVVERSI: quelli di classe, ma reazioni di ipersensibilità in misura minore rispetto alla Carbamazepina (la
tipizzazione negli asiatici, però, deve essere svolta anche per i congeneri). Non sempre dà reazione crociata con la
Carbamazepina, mentre dà maggior iponatriemia rispetto a quest’ultima, insieme ad insufficienza cardiaca e ritenzione
idrica.
ESLICARBAZEPINA (ZEBINIX®, sotto forma di sale associato)
È il più recente. L’indicazione è in add-on a partire dai sei anni di età ed in monoterapia solo negli adulti. È utilizzata
sia nelle crisi focali sia in quelle ad evoluzione bilaterale tonico cloniche.
Ha una lunga emivita ed è necessaria difatti una sola somministrazione giornaliera.
È un profarmaco che viene convertito nel metabolita attivo (enantiomero S) in maniera più rapida rispetto
all’Oxcarbazepina, perché non necessita di essere trasformato in un metabolita intermedio.
È un induttore enzimatico più debole rispetto alla carbamazepina e all’oxcarbazepina e quindi dà meno
frequentemente interazioni metaboliche, sebbene inibisca il CYP2C9, il quale metabolizza la Fenitoina, quindi per
questo motivo bisogna ridurre la dose in caso di associazione. Viene glucuronoconiugata ed ha i tipici effetti avversi
delle altre carbammidi. In ogni caso, non deve essere associata a Carbamazepina, Oxcarbazepina o Rufinamide.

TIAGABINA (GABITRIL®)
Ha indicazione esclusivamente in add-on nelle epilessie focali e ad evoluzione bilaterale e tonico cloniche dai 12 anni
di età. Non si utilizza nelle assenze (le peggiora) per il suo meccanismo d’azione.
Si somministra per os in due somministrazioni giornaliere. Il suo meccanismo di azione è il potenziamento della
trasmissione GABAergica: inibisce il trasportatore del GABA (GAT1) e fa sì che il GABA rimanga più a lungo a livello
sinaptico.
Circola molto legata alle proteine plasmatiche e, quindi, può dare frequentemente fenomeni di spiazzamento.
È metabolizzata dal CYP3A4, ma non dà particolari interazioni metaboliche note.
EFFETTI AVVERSI: capogiri, sonnolenza, tremori che compaiono specialmente all’inizio della terapia. In generale, non
è molto usato come farmaco.

VIGABATRINA (SABRIL®)
Ha due indicazioni:
-In add-on nelle crisi focali e nelle focali ad evoluzione bilaterale tonico clonica.
Deve essere usata in questi casi solo in presenza di farmacoresistenza, ovvero quando altre associazioni non
funzionano, poiché è un farmaco estremamente tossico.
-In monoterapia per la sindrome di West (spasmi infantili) dove è l’unico antiepilettico che insieme ai glucocorticoidi
e all’ACTH viene utilizzato per questa condizione.
Si somministra XOS due volte al giorno. Inibisce la GABA transaminasi in modo irreversibile, che è l’enzima che
metabolizza il GABA, interrompendo quindi la sua azione e potenziando la trasmissione GABAergica.
Non esiste una correlazione diretta tra la concentrazione plasmatica del farmaco e la sua efficacia, mentre la durata
dell’effetto dipende invece dal tempo di sintesi dalla “nuova” GABA Transaminasi, perché è un’inibizione di tipo
irreversibile, per cui il tempo di risintesi dell’enzima è la durata dell’effetto terapeutico del farmaco.

EFFETTI AVVERSI: la Vigabatrina è molto tossica. Tra i principali effetti collaterali vi sono i difetti irreversibili del campo
visivo, con restrizione concentrica del campo visivo più marcata dal lato nasale; si presenta in 1/3 dei pazienti ed
insorge dopo un periodo di tempo che va da mesi ad anni di terapia. Il difetto viene confermato dalla perimetria, unico
esame per individuarlo, ed è visibile solo a partire dai 9 anni (anche se la sindrome di West è una sindrome neonatale
e, quindi, i pazienti che assumono il farmaco possono avere anche un’età inferiore ai 9 anni). Nel caso in cui non si
possa eseguire la perimetria, la ditta farmaceutica propone di utilizzare Potenziali Evocati Visivi (PEV) per monitorare
il campo visivo, che, però, non sono effettivamente validati scientificamente per valutare la riduzione della vista.
Inoltre, serve effettuare un esame oftalmologico e del campo visivo prima di iniziare la terapia e ad intervalli di sei
mesi per tutta la durata del trattamento.
Subito dopo l’inizio del trattamento, sono stati osservati sintomi encefalopatici, che, però, sono molto rari: sedazione
intensa, stupore e confusione associati ad attività aspecifica ad onde lente all’EEG. I fattori di rischio per questi sintomi
sono: dose iniziale troppo elevata (titolazione inadeguata), titolazione troppo rapida (dose aumentata troppo
velocemente) o insufficienza renale (poiché è un farmaco principalmente ad escrezione renale). Normalmente, questi
eventi encefalopatici sono reversibili: basta ridurre la dose o nei casi più gravi interrompere il farmaco.
Nei pazienti trattati per gli spasmi infantili, si sono osservati disordini del movimento come distonia, discinesia ed
ipertonia (tuttavia non ci sono spasmi in questi casi). Non è metabolizzato, non si lega alle proteine plasmatiche e non
è un induttore di citocromi, quindi non dà interazioni metaboliche; tuttavia, riduce la concentrazione della Fenitoina
attraverso un meccanismo che ancora non è del tutto noto.

LEVETIRACETAM (KEPPRA®)
È indicato sia in monoterapia sia in add-on nelle crisi focali; solo in add-on nelle generalizzate primarie e nell’epilessia
mioclonica giovanile. Si somministra esclusivamente per os due volte al giorno.
Ha un particolare meccanismo d’azione, diverso da tutti gli altri antiepilettici: si lega alle vescicole sinaptiche, in
particolare alla proteina SVP2, regolando la trasmissione del neurotrasmettitore a livello sinaptico.
Grazie al suo particolare meccanismo d’azione, è indicato anche nelle epilessie farmacoresistenti, agendo in modo
differente dagli altri farmaci ed avendo, quindi, una maggior probabilità di risposta.
Un ulteriore vantaggio del Levetiracetam è che non si lega alla Glicoproteina P (uno dei principali meccanismi di
resistenza) e non è metabolizzato da CYP (non dà quindi interazione metabolica). È molto usato.
EVENTI AVVERSI: non sono numerosi; disturbi gastrointestinali, sonnolenza, astenia e vertigini, depressione,
prolungamento del QT. Molto raramente può causare lesione renale acuta.

BRIVARACETAM (BIVACT®, in Italia NUBRIVEO®, per evitare confusione, poiché nel nostro Paese esiste già
un altro farmaco con un nome molto simile)
È l’analogo più recente del Levetiracetam; le indicazioni prevedono somministrazione unicamente in add-on nelle
epilessie focali e focali ad evoluzione bilaterale tonico clonica dai quattro anni di età in su (possiamo quindi
considerarlo un vero e proprio farmaco pediatrico, i suoi effetti sono statti studiati e testati anche nei bambini; per
molti anni, invece, i farmaci antiepilettici in commercio, pur essendo somministrati a pz in età pediatrica off-label, non
erano testati nei bambini).
Somministrazione XOS 2 volte al giorno; esistono due dosaggi: 50 e 100 mg/die. La casa farmaceutica insiste sul fatto
che non sia importante la titolazione del farmaco, in verità si deve cominciare dalla dose più bassa di 50 mg e poi
eventualmente, se necessario, salire fino alla dose di 100mg/die. È discretamente metabolizzato dal CYP2C19.
L’interazione più rilevante fin ora conosciuta è quella che avviene nella co-somministrazione con Rifampicina, la quale
riduce del 45% l’AUC del Brivaracetam. Il Brivaracetam inibisce l’epossido idrolasi, pertanto l’associazione con
Carbamazepina può aumentare gli effetti collaterali di quest’ultima se la dose non viene ridotta.
EFFETTI AVVERSI: simili a quelli del Levetiracetam, quindi sintomi gastrointestinali, sonnolenza, vertigini ed aumento
del rischio di infezioni del tratto respiratorio superiore (quest’ultimo effetto non si osserva invece nella
somministrazione del Levetiracetam).

GABAPENTINA (NEURONTIN®)
Indicazione in monoterapia dai 12 anni di età in poi, mentre in add-on dai 6 anni su nelle focali e focali ad evoluzione
bilaterale tonico clonica. Viene spesso utilizzata anche nel dolore neuropatico periferico, in particolare nella
neuropatia diabetica e nella nevralgia post infezione da herpes virus (molto più di quanto venga utilizzata
nell’epilessia).
Si titola in tre giorni: la dose consiste in 300 mg/die per il primo giorno, mentre al secondo giorno si raddoppia 300 mg
per due volte al giorno e poi si sale a 300 mg per tre volte al giorno.
Il meccanismo d’azione è dato dal legame alla subunità alfa 2 delta dei canali del Ca 2+, in particolare a quelli di tipo
L (non si lega infatti ai canali di tipo T, i quali non sono dotati di questa subunità), inibendo il rilascio di
neurotrasmettitori di tipo eccitatorio e, quindi, riducendo la scarica. Il Pregabalin ha lo stesso meccanismo d’azione.
Poiché nel dolore neuropatico c’è un’iperespressione della subunità alfa 2 delta dei canali del Ca, questo ne giustifica
il suo utilizzo anche in quest’ambito; in realtà, come per il Pregabalin,è più usato per il dolore neuropatico che nel
grattamento delle epilessie
Non viaggia legata alle proteine plasmatiche (quindi non dà fenomeni di spiazzamento) e non è metabolizzato (quindi
non dà particolari interazioni metaboliche).
EFFETTI AVVERSI: reazioni di ipersensibilità anche molto gravi (si sono osservati casi di DRESS, di anafilassi e pancreatite
acuta). Bisogna fare attenzione all’associazione con gli oppiacei nella terapia del dolore, perché è aumentato il rischio
di depressione respiratoria (in quanto entrambi deprimono la funzione respiratoria). Ma perché bisogna prestare
attenzione a questa particolare interazione? Poiché vengono entrambi utilizzati nel dolore neuropatico (anche se in
quest’ambito gli oppioidi funzionano in minor misura e, quindi, devono essere somministrati in dosi più elevate,
aumentando di molto il rischio di depressione respiratoria). Per oppioidi non ci riferiamo solo alla Morfina, ma a tutti
i derivati dell’oppio, quindi a tutta una serie di farmaci che si utilizza del dolore, da moderato a severo. Il capostipite
di tutti questi farmaci è ovviamente la Morfina e l’associazione di quest’ultima con il Gabapentin determina un
aumento dell’AUC del Gabapentin di circa il 40%, aumentando il rischio di effetti collaterali. È uno dei farmaci più
abusati, forse per il meccanismo d’azione.

EFFETTI AVVERSI: anche con il Gabapentin si ha un aumento del rischio di infezioni delle vie respiratorie, urinarie e
virali (all’inizio della pandemia da COVID-19, era stata presa in considerazione la possibilità che l’uso di antiepilettici,
soprattutto di questi che spiccatamente aumentano il rischio di infezioni virali, potesse mettere in pericolo la vita del
paziente. Si è comunque visto che non c’è una correlazione diretta tra utilizzo di questi farmaci ed insorgenza del
COVID-19). Tra gli effetti collaterali spiccano anche i disturbi psichiatrici, come confusione mentale, instabilità emotiva,
depressione ed ostilità. Può dare anche eruzioni cutanee, edema facciale e porpora.

PREGABALIN (LYRICA®)
Ha tre diverse indicazioni=>
 Solo in add-on negli adulti nelle crisi focali e focali ad evoluzione bilaterale tonico cloniche;
 nel dolore neuropatico periferico e centrale degli adulti;
 nel disturbo d’ansia generalizzato (GAD).
Si somministra per os nella dose di 150 mg/die in due o tre somministrazioni. La titolazione è strutturata attraverso
aumenti settimanali ed al massimo possono essere raggiunti 600 mg/die.
Non viaggia legato alle proteine plasmatiche ed è scarsamente metabolizzato.

EFFETTI AVVERSI: possono verificarsi reazioni di ipersensibilità con angioedema, aumento ponderale soprattutto nei
pazienti anziani che utilizzano Pregabalin per il dolore neuropatico ed hanno anche una patologia cardiaca (in questi
ultimi aumenta anche il rischio di insufficienza cardiaca). Dà ipotensione ortostatica con rischio capogiri e cadute; può
inoltre dare sonnolenza e confusione mentale. Spesso può verificarsi nasofaringite, aumento dell’appetito,
offuscamento della vista reversibil ed insufficienza renale, anche quest’ultima di tipo reversibile, una volta sospeso il
farmaco. Come spesso accade anche per la Gabapentina, spesso se ne fa un uso spropositato. Il pregabalin può dare
anche un offuscamento della vista, che però è un effetto reversibile. Se associato agli analgesici oppioidi, il Pregabalin
combina i suoi effetti collaterali con i loro, prevalentemente a livello gastrointestinale, aumentando il rischio di stipsi,
ileo paralitico e ostruzione intestinale. Anche il pregabalin come il gabapentin viene abusato.

TOPIRAMATO E ZONISAMIDE
Sono due farmaci che, tra i vari meccanismi d’azione, condividono la capacità di inibire l’anidrasi carbonica.

TOPIRAMATO (TOPAMAX®)
È indicato=>
 nelle focali, sia in add-on sia in monoterapia;
 nella Lennox-Gastaut, solo in add-on nei bambini dai 2 anni in su;
 profilassi dell’emicrania;
 off -label nel disturbo bipolare.
La titolazione si fa aumentando la dose ogni settimana o ogni 2 con una avvertenza molto importante: bisogna idratare
in modo adeguato il paziente, perché uno degli effetti collaterale del topiramato (e anche della zonisamide) è il rischio
di nefrolitiasi, che aumenta se il paziente non è sufficientemente idratato o in tutte quelle condizioni che causano
eccesso di sudorazione, come l’esercizio fisico.
Blocca le correnti al sodio, potenzia la trasmissione GABAergica e inibisce l’anidrasi carbonica.
Non è legato da proteine plasmatiche e quindi non dà fenomeni di spiazzamento; è metabolizzato dal CYP3A4, che
induce, e inibisce CYP2C19 (che metabolizza la fenitoina).
Il topiramato è uno degli antiepilettici che più frequentemente dà disturbi dell’umore, soprattutto depressione, e,
inoltre, poiché inibisce l’anidrasi carbonica, può causare acidosi metabolica ipercloremica con gap non anionico
(diminuzione del bicarbonato sierico ma non si sviluppa alcalosi respiratoria). L’acidosi metabolica aumenta il rischio
di precipitazione di calcoli renali, soprattutto di calcio: facilitando la formazione di questo tipo di calcoli, altera
l’omeostasi del calcio e determina un rischio o un peggioramento dell’osteopenia. I pazienti con storia di nefrolitiasi e
ipercalciuria non dovrebbero essere trattati con topiramato. Sempre a causa dell’inibizione dell’anidrasi carbonica,
produce oligoidrosi (minor sudorazione).
Vi è poi un effetto collaterale controintuitivo: tra le indicazioni dei diuretici inibitori dell’anidrasi carbonica vi è l’uso
nel glaucoma, mentre topiramato e zonisamide hanno come effetti collaterali la miopia associata a glaucoma
secondario, con dolore oculare. Questo effetto collaterale si manifesta precocemente (entro un mese dall’inizio della
terapia) e, a differenza del glaucoma primario tipico dell’adulto o dell’anziano, può presentarsi anche nei bambini se
trattati. In caso di glaucoma secondario va sospeso subito e con l’uso di diuretici bisogna cercare di ridurre la pressione
intraoculare, prima che avvenga un danno del nervo ottico.
Il topiramato può anche causare alterazioni della funzione cognitiva negli adulti, il che ha fatto pensare potesse
ostacolare lo sviluppo cognitivo bambini. È un problema, in realtà, di tutti gli antiepilettici, perché nei loro trial clinici
non si riesce a capire se sussiste questa possibilità (però anche l’epilessia non trattata può portare a disfunzione
cognitiva); se ciò succede negli adulti, bisogna sospendere il farmaco o diminuire il dosaggio. A differenza degli altri
antiepilettici, non induce aumento, ma calo ponderale.

ZONISAMIDE
È Indicata nell’epilessia focale o nella focale ad evoluzione bilaterale tonico clonica, in add-on a partire dai 6 anni e in
monoterapia solo per gli adulti. Il vantaggio della zonisamide è che necessita di un'unica somministrazione giornaliera.
Inibisce, come il topiramato, le correnti al sodio, ma inibisce anche le correnti al calcio, potenzia la trasmissione
GABAergica e inibisce anidrasi carbonica.
A differenza del topiramato, è molto legato alle proteine plasmatiche e quindi dà fenomeni di spiazzamento; è un
debole inibitore della glicoproteina P, riducendone l’attività e quindi la resistenza. Viene metabolizzato dal CYP3A4,
dall’UGT, come fase 2, e dalla NAT.
La caratteristica della zonisamide è che contiene un gruppo sulfamidico, il che le permette di dare le reazioni avverse
tipiche dei sulfamidici, come reazioni di ipersensibilità, reazioni allergiche (in particolare rush cutanei), reazioni
ematologiche con riduzione delle cellule del sangue (granulocitopenia, piastrinopenia e, raramente, anemia aplastica),
e per questo va monitorata la conta cellulare.
Inibisce l’anidrasi carbonica e quindi può dare tutti quegli effetti visti prima per topiramato dovuti a questo blocco.
Da sbobina dell’anno scorso: di norma la riduzione del bicarbonato è lieve-moderata e le situazioni che predispongono
ad acidosi potenziando la riduzione dei bicarbonati sono: insufficienza renale, diarrea, intervento chirurgico, gravi
disturbi respiratori, stati di male epilettico e dieta chetogenica che si fa nelle epilessie resistenti. Il rischio di acidosi
metabolica da Zonisamide è più frequente e grave nei pazienti giovani.
Può causare una forma di miopia acuta che può svilupparsi anche dopo poche ore dall’inizio della terapia per un
glaucoma secondario; pancreatite e molto raramente si sono visti episodi di danno muscolare che causano
rabdomiolisi. Come il topiramato causa calo ponderale.

LACOSAMIDE (VIMPAT®)
Ha indicazione =>
 nelle focali in add-on, ma anche in monoterapia, dai 4 anni in su;
 nelle generalizzate IGE (epilessie generalizzate idiopatiche), dai 4 anni in su in add- on.
Si somministra per os 2 volte al giorno. È controindicato in pz con blocco AV di 2° e 3° grado, poiché causa un
prolungamento del tratto PR dose dipendente e può dare sincope e brachicardia. Ha un meccanismo d’azione sui canali
del sodio diverso da tutti gli altri antiepilettici, perché favorisce l’entrata nel ciclo di inattivazione lenta di questi
canali (quale sia poi il vantaggio dal punto di vista clinico di ciò non è ben chiaro). È un meccanismo d’azione che è
stato molto pompato, perché i canali del sodio stimolati ad alta frequenza per un lungo periodo entrano in questo
ciclo di inattivazione lenta e quindi si pensava che in una scarica epilettica venissero iperstimolati. Sulla base di questo,
si credeva che questo farmaco potesse avere un meccanismo selettivo d’azione in una scarica epilettica, ma poi i
vantaggi clinici per questo tipo di meccanismo non sono molto evidenti. Il vantaggio reale è che è poco metabolizzata
e dà poche interazioni metaboliche. Gli effetti collaterali sono abbastanza limitati e sono rappresentati soprattutto da
vertigini, quindi pericolo di cadute, reazioni di ipersensibilità e aumento degli enzimi epatici.

PERAMPANEL (FYCOMPA®)
È l’ultimo ad essere stato messo in commercio. Ha indicazione =>
 nelle focali in add-on dai 4 anni di età;
 nelle generalizzate primarie tonico cloniche in add-on dai 7 anni di età;
 nei pazienti con IGE, in add-on.
Si somministra solo in add-on, perché è un farmaco molto recente e i primi studi si fanno in add-on.
Poiché causa giramenti testa e aumento del rischio cadute, si somministra la sera prima di coricarsi.
È un antagonista non competitivo del recettore AMPA del glutammato, il quale si trova sui neuroni post-sinaptici e
fa entrare sodio quando attivato.
Viaggia molto legato a proteine plasmatiche, quindi dà fenomeni di spiazzamento; è metabolizzato dal CYP3A4 e non
va associato con CBZ, OXC e PHT per le interazioni metaboliche. La principale reazione avversa, oltre al maggior rischio
di cadute, sonnolenza e aggressività, è il rischio di reazioni gravi di ipersensibilità cutanea. Anche questo farmaco può
venire abusato.

RUFINAMIDE (INOVELON®)
Ha un’unica indicazione nella Lennox-Gastaut a partire da 1 anno di età in add-on.
La dose varia a seconda se il paziente è in terapia o meno con il valproato. Senza il valproato, si inizia con una dose di
10 mg al giorno; invece, se si usa anche il valproato, la dose deve essere 30mg/die, perché c’è una interazione tra i due
farmaci che determina la riduzione dall’AUC.
Blocca i canali del sodio; non circola legata quindi non dà spiazzamento. Non viene metabolizzata, però induce il
CYP3A4. Uno degli effetti collaterali è l’aumento, in alcuni casi, del rischio dello stato di male e può accorciare il QTc.
18 novembre 2021 S1: M. Penzo S2: M.Pizzoli S3: A.Pietropinto
Neurofarmacologia
Prof.ssa Melchiorri R: F. Milano

TERAPIA DELL’EMICRANIA E DELLA CEFALEA A GRAPPOLO

Con il termine “cefalea” si indica in modo generico un dolore al capo di qualsiasi tipo. È un disturbo
molto diffuso nella popolazione generale, in tutte le età della vita; in alcuni casi si manifesta
occasionalmente, spesso però è molto frequente e forte tanto da compromettere le capacità lavorative
e la vita familiare e sociale.

CLASSIFICAZIONE DELLE CEFALEE


L’International Headache Society (IHS) distingue le cefalee in primarie e secondarie: nelle cefalee
primarie, il dolore, eventualmente in associazione ad altri sintomi neurologici o neurovegetativi,
rappresenta la manifestazione clinica nella quale si esaurisce la patologia; quando, invece, il dolore e
i suoi sintomi (e segni) di accompagnamento conseguono a un altro stato morboso, la cefalea si
definisce secondaria.
Le cefalee si classificano in 3 gruppi principali:
1) Cefalee primarie: non hanno un origine in cause, eventi o patologie diverse ma nascono come
cefalea. A questo gruppo appartengono:
 Emicrania.
 Il gruppo delle Cefalee di tipo tensivo (TTH).
 Il gruppo delle Cefalee autonomico trigeminali (TAC) nelle quali c’è una forte
partecipazione sintomatica che deriva dall’attivazione del sistema nervoso parasimpatico.
A questo gruppo appartiene la cefalea a grappolo.
 Altre cefalee primarie che hanno una bassa prevalenza.
2) Cefalee secondarie: sono un gruppo molto eterogeno di cefalee causate da:
 Traumi o danni al cervello e al collo.
 Disordini vascolari.
 Uso di sostanze e astinenza da queste.
 Da infezioni.
 Da alterazione dell’omeostasi.
 Da disordini psichiatrici.
3) Neuropatie dolorose del cranio e il dolore facciale: si trattano fondamentalmente con FANS.

DIAGNOSI DIFFERENZIALE TRA CEFALEE PRIMARIE (Emicrania, Cefalea di tipo


tensivo, Cefalea a grappolo)

pag. 1
(Episodica o Cronica)

anno senza periodi di


remissione o con periodi di
remissione <1 mese

Una prima differenza è sulla base della familiarità, molto presente nell’emicrania, totalmente assente
nella cefalea di tipo tensivo, e riguarda un 5% dei pazienti nella cefalea a grappolo.
Distribuzione tra i sessi: c’è una chiara distinzione tra i sessi sia nell’emicrania, che è molto più
frequente nelle donne con un rapporto 3:1 rispetto agli uomini, sia nella cefalea a grappolo che, invece,
è più frequente negli uomini con un rapporto 4:1 rispetto alle donne. Una via di mezzo è rappresentata
dalla cefalea di tipo tensivo che è più frequente nelle donne, ma con rapporto 2:1.
Qualità del dolore: l’emicrania è caratterizzata da un dolore pulsante, la cefalea di tipo tensivo da un
dolore gravativo-costruttivo e, infine, il dolore della cefalea a grappolo è di tipo trafittivo ed è molto
intenso, tanto che, addirittura, può portare il paziente a desiderare la morte.
Sede: nell’emicrania, come dice il nome, la localizzazione è prevalentemente unilaterale. Costituiscono
un’eccezione i bambini e gli adolescenti, nei quali è più frequentemente bilaterale; spesso, si ha
pag. 2
alternanza di lato, da un attacco all’altro; quindi, non è sempre dallo stesso lato ma, durante un attacco
emicranico, può essere coinvolto un lato e, in un successivo attacco emicranico, un altro lato. La
cefalea di tipo tensivo, invece, è sempre bilaterale. La cefalea a grappolo è sempre unilaterale e sempre
dallo stesso lato ed è retro-orbitaria o temporale.
Intensità: media o forte nell’emicrania, forte o insopportabile nella cefalea a grappolo, lieve o media
nella cefalea di tipo tensivo.
Durata: va dalle 4 a 72 ore nell’emicrania, da 30 minuti a 7 giorni nella cefalea di tipo tensivo e da 15
minuti a 180 minuti nella cefalea a grappolo.
Sintomi di accompagnamento delle cefalee: l’emicrania è accompagnata da nausea, vomito,
fotofobia, fonofobia e osmofobia. Nella cefalea di tipo tensivo abbiamo un grado lieve di fotofobia e
fonofobia, che non sempre ci possono essere e che, soprattutto, non sono contemporanee. Nella
cefalea a grappolo, invece, ci sono sintomi che derivano dall’iperattivazione del simpatico ovvero
lacrimazione, iniezione congiuntivale, cioè iperemia congiuntivale, ptosi, miosi, congestione nasale e
rinorrea e sono omolaterali al dolore.
Comportamento del paziente: è molto importante chiedere di descrivere il comportamento del
paziente negli attacchi di emicrania precedenti perché ci può indirizzare verso una diagnosi. Per la
cefalea a grappolo il paziente ha necessità di muoversi, si muove in continuazione, fa avanti e indietro.
Nell’emicrania, il paziente cerca l’isolamento in ambiente buio e silenzioso e tende a mettersi a riposo.
Invece, la cefalea di tipo tensivo normalmente non causa importanti modificazioni del comportamento.
Periodicità del dolore: nell’emicrania è variabile e correla all’eventuale esposizione a fattori
scatenanti. L’emicrania si suddivide in una forma episodica e cronica e c’è normalmente una transizione
della forma episodica alla forma cronica con il passare del tempo. La cefalea di tipo tensivo si suddivide
in sporadica, frequente e cronica in base al numero di giorni al mese e all’anno in cui è frequente. La
cefalea a grappolo si suddivide in una forma episodica e cronica. La cefalea a grappolo episodica è
caratterizzata da periodi di cefalea con una durata variabile da settimane a mesi, i cosiddetti “grappoli”,
separati tra loro da fasi di remissione che possono essere anche molto lunghe di mesi o di anni; invece,
la forma cronica è caratterizzata da periodi di cefalea che hanno una durata superiore ad un anno che
non hanno periodi di remissione o hanno periodi di remissione della durata inferiore ad un mese.

EMICRANIA
L’emicrania è un disturbo cefalalgico primario di natura disabilitante. L’emicrania è una malattia cronica
del SNC ad andamento relapsing-remitting, laddove le relapse si riferiscono a episodi acuti di cefalea
che soddisfano i criteri diagnostici elencati nell’ICHD-3 (da “Fisiopatologia del Sistema Nervoso Centrale” Di Nuzzo-
Gradini). E’ la malattia neurologica più diffusa, tale da essere stata classificata, nel 2015, come terza
causa di disabilità a livello mondiale, sia per gli uomini che per le donne al di sotto dei 50 anni. È
caratterizzata da attacchi di cefalea di intensità moderata o forte aggravata dai movimenti, associata a
nausea, fotofobia, fonofobia e talvolta vomito.
Si classifica in due tipi principali: senza aura o con aura.
In presenza di aura, bisogna fare diagnosi differenziale con alcuni tipi di epilessia.
L’emicrania senza aura è quella maggiormente prevalente (6-9%) rispetto ad emicrania con aura (4%).
Ambedue le forme sono più frequenti nel sesso femminile. C’è una piccola percentuale di pazienti (1%)
che ha entrambe le forme.

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L’aura dell’emicrania è caratterizzata da sintomi neurologici focali transitori che precedono o, talvolta,
accompagnano la cefalea. Inoltre, in alcuni pazienti esiste una fase prodromica che si verifica ore o
giorni prima della cefalea e/o una fase postdromica che si verifica dopo la risoluzione della cefalea. I
sintomi sia prodromici che postdromici includono iperattività, ipoattività, depressione, desiderio di cibi
particolari, sbadigli, affaticamento, rigidità muscolare e dolore ai muscoli del collo. Talvolta l’emicrania
assume un andamento evolutivo e diviene quasi quotidiana: in questo caso di parla di emicrania
cronica.
Emicrania nei bambini
L’emicrania nei bambini e negli adolescenti (<18 anni) è più spesso bilaterale rispetto agli adulti; il
dolore unilaterale emerge nella tarda adolescenza o nella prima età adulta. Normalmente, la cefalea
da emicrania nei bambini è fronto-temporale. La cefalea occipitale in quest'età è rara e richiede una
certa cautela diagnostica per evitare di confonderla con altre patologie. Una piccola percentuale di
pazienti ha una localizzazione faciale del dolore, la cosiddetta “emicrania faciale” che risponde allo
stesso tipo di trattamento di tutte le altre forme di emicrania.
Emicrania nelle donne
Una minoranza (<10%) di donne ha attacchi di emicrania in associazione con la maggior parte dei cicli
mestruali (esiste, infatti, una forte associazione tra emicrania e ormoni sessuali). La maggior parte di
questi attacchi sono senza aura. Questi attacchi di emicrania durante le mestruazioni tendono ad
essere più lunghi, si accompagnano ad una nausea più grave rispetto agli attacchi al di fuori del ciclo
mestruale e quindi sono maggiormente invalidanti.

EMICRANIA SENZA AURA


E’ il tipo più frequente di emicrania.
Ci sono dei criteri per fare diagnosi di emicrania senza aura:
 Il paziente deve aver avuto almeno 5 attacchi di emicrania, se sono <5 la diagnosi è solo
probabile ma non di certezza.
 Gli attacchi devono avere la durata di 4-72 ore, per i pazienti pediatrici la durata può anche
essere di 2 ore.
 La cefalea deve avere almeno 2 delle seguenti caratteristiche:
 Localizzazione unilaterale (nei pz pediatrici può essere anche bilaterale).
 Il dolore pulsante.
 L’intensità del dolore media o forte.
 Deve essere aggravata da o/che limiti le attività fisiche usuali come camminare, salire le
scale, portare pesi.
 La cefalea deve essere associata ad almeno una delle seguenti caratteristiche:
 Presenza di nausea e/o vomito.
 Fotofobia e fonofobia; ci possono essere sintomi autonomici craniali e allodinia cutanea
che non sono necessari per la diagnosi ma che, spesso, sono frequenti.

L’ Emicrania senza aura è la malattia più prona ad una accelerazione, un peggioramento, se si usano
più frequentemente i farmaci sintomatici. Sono pazienti che tendono a prendere farmaci sintomatici per
controllare il dolore e gli altri sintomi dell’emicrania, ma l’abuso di questi farmaci aumenta la frequenza
degli attacchi (simile forma cronica); tuttavia se diminuisco i farmaci l’effetto è reversibile.
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Una percentuale di pazienti con emicrania episodica può progredire verso la forma cronica e il tasso di
progressione è di 2,5% anno, indipendentemente dall’abuso di farmaci sintomatici.

EMICRANIA CON AURA


L’aura è caratterizzata da sintomi neurologici corticali o tronco-encefalici, transitori e reversibili che si
sviluppano subito prima o all’esordio della cefalea. A differenza dell’aura epilettica, è piu lunga e non
comporta deficit motori.
L’aura tipica è caratterizzata da almeno uno dei seguenti sintomi che di solito compaiono in
successione:
 Ci sono, prima, i sintomi visivi che possono essere positivi (ad esempio vedere luci tremolanti,
macchie, linee, scotomi, ovvero dei lampi di luce, e spettri di fortificazione=visione di stelline)
e/o negativi (come la perdita della visione).
 Seguono ai sintomi visivi i sintomi sensitivi (anche questi sono completamente reversibili) che
possono essere positivi (ad esempio i pazienti sentono delle punture di spillo o di ago sul corpo,
sulla fronte) o negativi (come sensazioni di intorpidimento).
 In seguito ci sono dei disturbi del linguaggio per lo più afasia, spesso di difficile
inquadramento.
Per fare diagnosi di aura tipica dobbiamo avere la presenza di almeno 2 tra le seguenti
caratteristiche:
 Disturbi visivi e/o sensitivi unilaterali, quindi dallo stesso lato del dolore.
 Almeno un sintomo si deve sviluppare gradualmente nell’arco di almeno 5 minuti e/o diversi
sintomi si susseguono e ognuno dei sintomi deve durare almeno 5 minuti.
 Ogni sintomo deve durare da almeno 5 minuti ad un massimo di 60 minuti. In alcuni casi, l’aura
può presentarsi senza cefalea.

FORME RARE DI AURA


Vi sono forme rare di emicrania con aura che sono caratterizzate dal fatto di includere dei deficit motori
e che hanno una base familiare o non familiare.

EMICRANIA EMIPLEGICA FAMILIARE ( FHM )

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L'Emicrania emiplegica familiare è un'emicrania con aura che include deficit motorio con anamnesi
positiva per, almeno, un congiunto di primo o di secondo grado che abbia avuto in passato un’emicrania
con difetto motorio. È rara, ha una prevalenza di circa 0,002-0,003%. I sintomi motori sono debolezza
e paralisi transitoria durante l’aura.
Ci sono diverse mutazioni geniche alla base della familiare ma non esistono grandi differenze nelle
manifestazioni cliniche. In tutti gli attacchi, i deficit motori non si manifestano mai da soli, ma sono
sempre associati ad almeno un’altra manifestazione dell’aura tra quelle precedentemente elencate: più
frequentemente quelle di tipo sensitivo, visivo e disturbi dell’eloquio e, spesso, con una progressione.
In alcuni casi, ritroviamo tra i sintomi anche quelli di tipo basilare, cioè i sintomi che derivano dalle aree
di vascolarizzazione dell’arteria basilare, come vertigini, instabilità, disartria, acufeni e diplopia. La
durata dell’aura è protratta nell’emicrania emiplegica familiare. Gli attacchi con deficit motorio possono
essere severi portando, addirittura, a confusione e a coma. In alcuni casi, ci possono essere febbre,
meningismo e crisi epilettiche. Negli intervalli tra gli attacchi consecutivi la maggior parte dei pazienti
(80%) è asintomatico.
EMICRANIA EMIPLEGICA SPORADICA
È la forma in cui non ci sono congiunti di primo e secondo grado che hanno un’emicrania con aura con
deficit motorio. La prevalenza dell’emicrania emiplegica sporadica è la stessa della familiare e anche
le manifestazioni cliniche sono le stesse. I casi sporadici necessitano sempre di indagini approfondite,
anche strumentali: per escludere una pseudo-emicrania con sintomi neurologici transitori e pleiocitosi
linfocitaria bisogna fare una puntura lombare. È una condizione che prevale nei soggetti di sesso
maschile ed è, spesso, associata ad emiparesi transitoria e afasia.
EMICRANIA DI TIPO BASILARE

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È un sottotipo di emicrania in cui ci sono tutti i sintomi che derivano dal coinvolgimento del territorio
irrorato dall’arteria basilare, senza, però, i deficit motori. È caratterizzata da sintomi come: visione
sdoppiata, atassia, disartria e alterazioni della sensibilità cutanea. È un tipo di emicrania prevalente nei
soggetti giovani. La diagnosi di emicrania di tipo basilare deve essere posta solo quando siamo sicuri
che non ci siano deficit motori, in modo da differenziarla con l’emicrania emiplegica familiare, nella
quale il 60% di pazienti ha sintomi di tipo basilare.
Bisogna fare una diagnosi differenziale anche tra emicrania di tipo basilare e i TIA (attacchi ischemici
transitori) a carico del circolo posteriore, di cui fa parte l’arteria basilare; infatti, sia nei TIA che
nell’emicrania di tipo basilare c’è cefalea. La cefalea nell’emicrania di tipo basilare è molto più intensa
ed è sempre presente, anche quando i sintomi neurologici da deficit cessano; è diversa anche l’età di
insorgenza: l'emicrania basilare spesso si presenta in età giovanile, il TIA invece in età avanzata. Si
deve fare anche una diagnosi differenziale con l’epilessia, in quanto circa l’8% dei casi di emicrania
basilare può associarsi a crisi epilettiche focali o ad estensione secondariamente generalizzata. In
realtà, si dovrebbe fare sempre diagnosi differenziale con l’epilessia in presenza di emicrania con aura.
Ci sono dei quadri di epilessia che possono mimare l'emicrania basilare come: l’epilessia benigna
occipitale (che colpisce i pazienti giovani ed è caratterizzata da anomalie all’EEG anche in fase inter-
critica a livello occipitale, che compaiono quando il paziente ha gli occhi chiusi o dopo stimolazione a
luce intermittente), crisi focali semplici con aura sensitiva (che, però, è di breve durata rispetto all’aura
emicranica) e anche l’epilessia temporale può mimare l’emicrania basilare perché presenta sintomi
della stessa regione come vertigini, perdita dell’equilibrio e lo stato confusionale.
EMICRANIA CRONICA

Si manifesta quando la cefalea, che può essere di tipo tensivo o emicranico, si presenta per almeno
15 giorni al mese per almeno 3 mesi e rispetta le caratteristiche dell’emicrania senza aura o
caratteristiche dell’emicrania con aura per almeno 5 attacchi; inoltre, per almeno 8 giorni al mese per
3 mesi il paziente deve avere:
 Le caratteristiche dell’emicrania senza aura (tranne la durata).
 Le caratteristiche dell’emicrania con aura.
 La somministrazione di alcuni farmaci emicranici come i triptani e i derivati dell’ergot riescono a
risolvere i sintomi.

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NB: la causa più comune dei sintomi che suggeriscono un’emicrania cronica è l’abuso di farmaci
sintomatici. Infatti, abbiamo detto che i pazienti con emicrania sintomatica tendono ad abusare di
farmaci, ed è proprio questo abuso che può mimare un’emicrania cronica. In circa il 50% dei pazienti
che apparentemente sembrano avere un’emicrania cronica, se si interrompe o si riduce l’utilizzo di
farmaci sintomatici, si ritorna ad avere un’emicrania episodica.

MECCANISMI FISIOPATOLOGICI ALLA BASE DELL’EMICRANIA


Nell’emicrania si verifica una vasodilatazione dei vasi delle meningi. Le meningi sono innervate dal
trigemino, prevalentemente dalla branca oftalmica. Le fibre del trigemino sono fibre C amieliniche e
sottili fibre Aδ mieliniche, che vanno sia alle arterie meningee che alle arterie cerebrali. Sono fibre che
derivano da neuroni pseudo-unipolari, cioè cellule a forma di T che hanno il corpo cellulare nel ganglio
del trigemino e che hanno una branca afferente, che innerva i vasi delle meningi, e un’altra branca che
va al nucleo caudale del trigemino. Quindi con una branca ricevono afferenze da parte dei vasi e con
l’altra le veicolano al nucleo caudale del trigemino.
Le terminazioni nervose del trigemino sul lato vascolare esprimono diversi tipi di recettori, tra i quali i
recettori della serotonina 5HT1D.
A livello dell’arteria delle meningi ci sono, invece, i recettori della serotonina di tipo 5HT1B.

5HT1B meccanica, osmolarità, NO

Entrambi questi recettori della serotonina sono GPCR, accoppiati a proteine G di tipo inibitorio che:
 A livello delle terminazioni nervose del trigemino, quando attivati dalla serotonina, inibiscono il
rilascio di alcune sostanze (NO°, CGRP=peptide analogo al gene per il recettore per la
calcitonina) dalla terminazione nervosa.
 A livello dell’arteria meningea, quando attivati, determinano vasocostrizione.

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Quindi, se questi recettori sono attivati, la vasodilatazione che si verifica a livello meningeo durante un
attacco emicranico cessa. Al contrario se non sono attivati, vengono rilasciate le sostanze e si ha
vasodilatazione.

Si instaura un dialogo da parte delle terminazioni nervose del trigemino e le arterie delle meningi, che
innesca e perpetua uno stato di vasodilatazione ed infiammazione neurogena, ovvero un tipo di
infiammazione che non prevede il coinvolgimento delle cellule del sistema immunitario.
L’infiammazione neurogena è data dal fatto che alcune sostanze rilasciate dalla terminazione nervosa
del trigemino come il CGRP e il NO° (il nitrossido radicale) determinano vasodilatazione delle arterie
delle meningi e, allo stesso tempo, le arterie delle meningi dilatate rilasciano sostanze che irritano la
terminazione nervosa del trigemino e che favoriscono un ulteriore rilascio di mediatori che mantengono
la vasodilatazione. Questa irritazione delle terminazioni nervose del trigemino è trasmessa attraverso
il neurone a T (pseudo-unipolare) al nucleo caudale del trigemino e, a livello del nucleo caudale del
trigemino, vengono rilasciate sostanze come sostanza P e CGRP, neurotrasmettitori del dolore che
veicolano lo stimolo nocicettivo a livello del trigemino.
Quindi la vasodilatazione delle arterie delle meningi si traduce in una trasmissione nocicettiva percepita
a livello del nucleo caudale del trigemino che manda afferenze alle stazioni superiori del tronco
encefalico fino alla corteccia (vie ascendenti del dolore) e verso il basso al midollo spinale in particolare
alla I e II lamina del midollo spinale e alla V e alla VI lamina (vie discendenti del dolore).
Se somministro degli antagonisti dei recettori 5HT1D e 5HT1B risolvo dunque l’attacco.

TRASMISSIONE DEL DOLORE CEFALICO (VIA ASCENDENTE)

Il segnale è trasmesso dalle fibre del nucleo caudale del trigemino, in alto, verso il talamo
ventroposteromediale e ad un altro nucleo del talamo, il nucleo mediale del complesso posteriore.
A sua volta, il talamo proietta alla corteccia somato-sensoriale, all’insula e al sistema limbico (che
include amigdala e ipotalamo) integrando lo stimolo nocicettivo che proviene dal nucleo caudale del
trigemino insieme alle cognizioni, alle emozioni e alle risposte del sistema nervoso autonomo,
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formando in questo modo la cosiddetta “matrice del dolore”. Quindi lo stimolo doloroso viene integrato,
trasformato e modulato dagli aspetti cognitivi (corteccia), dalle emozioni (sistema limbico) e dalle
risposte del sistema nervoso autonomo (ipotalamo). Tutto ciò conferisce grande soggettività nella
percezione del dolore emicranico. Il talamo proietta anche al nucleo caudale del trigemino e in queste
modo collega le stazioni nervose superiori e l’ipotalamo al nucleo caudale del trigemino.

VIE DISCENDENTI DEL DOLORE


Le proiezioni discendenti che dal talamo, dall’ipotalamo e dalla corteccia (che ha ricevuto gli impulsi
dal talamo) vanno al mesencefalo e al midollo spinale formano le vie discendenti della trasmissione
nocicettiva. Le vie discendenti della trasmissione nocicettiva fanno tappa in alcuni nuclei molto
importanti che sono la sostanza grigia periacqueduttale (PAG ) e il locus coeruleus ( LC ): questi nuclei
ricevono le afferenze dai centri superiori e le inviano al midollo spinale passando per una stazione
intermedia, il nucleo rostrale ventromediale del bulbo ( RVM ), che funziona da collettore di tutte le vie
discendenti nocicettive ed è la via finale comune della trasmissione nervosa.
Il nucleo rostrale ventromediale del bulbo è formato da neuroni serotoninergici che inviano i loro assoni
al midollo spinale. Queste vie serotoninergiche discendenti dal RVM possono inibire o facilitare la
trasmissione dolorosa a seconda del tipo di recettore della serotonina che viene attivato:
 Il recettore della serotonina 5-HT3R è un recettore canale principalmente per il Na e media la
nocicezione. Questi recettori sono quelli che normalmente prevalgono.
 Il recettore 5-HT7R, invece, è un recettore metabotropico accoppiato a proteine G trimeriche
che media l’inibizione della nocicezione.
Nell’emicrania prevale la facilitazione dello stimolo doloroso e quindi le vie discendenti del
dolore veicolano in modo più efficace e facilitato lo stimolo nocicettivo.

GENESI CENTRALE DELL’ATTACCO EMICRANICO

Durante l’attacco emicranico c’è la vasodilatazione dei vasi meningei. Per quale motivo c’è una
vasodilatazione e per quale motivo le terminazioni nervose del trigemino che innervano i vasi
meningei rilasciano una maggiore quantità di neurotrasmettitori ( NO e CGRP) che causano la
vasodilatazione? Oggi si pensa che l’attacco emicranico abbia una origine centrale e, in
particolare, che sia coinvolto l’ipotalamo: un’iperattivazione dell’ipotalamo sembra essere alla
base del processo che poi scatena l’attacco emicranico. Si è arrivati a questa conclusione
osservando i sintomi prodromici che alcuni pz sviluppano; sintomi come la ricerca di determinati
cibi (“food craving”), l’affaticabilità, la nausea, l’aumento degli sbadigli, infatti, sono tutti legati a
un’iperattivazione dell’ipotalamo. Le aree ipotalamiche coinvolte nell’attacco emicranico sono 2:
l’ipotalamo anteriore e l’ipotalamo posteriore.

 La parte anteriore che comprende i nuclei sopraottico, paraventricolare, preottico e


soprachiasmatico è quella coinvolta nella genesi dell’attacco emicranico.
 La parte posteriore che comprende corpi mammillari e nuclei ipotalamici posteriori è
preposta ad integrare lo stimolo nocicettivo con l’asse dello stress.

Nell’ipotalamo, inoltre, hanno sede quei neuroni che regolano processi omeostatici interni dell’
organismo come, i ritmi circadiani, i cicli ormonali. Il ritmo giorno-notte, così come le variazioni
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ormonali, quindi, hanno una stretta correlazione con gli attacchi emicranici. L’aspetto ormonale, per
esempio, è particolarmente rilevante in alcune emicranie delle donne in cui, a volte, gli attacchi si
sviluppano in concomitanza con il ciclo mestruale. Ad oggi, considerando questi aspetti, si pensa che
oscillazioni nell’attività ipotalamica determinino delle alterazioni a livello del tronco encefalico e delle
regioni corticali e subcorticali che fanno sì che la soglia dello stimolo doloroso si abbassi e si alzi,
determinando l’inizio e la fine dell’attacco emicranico.
Ad oggi, sono in corso ancora numerosi studi che hanno lo scopo di definire meglio questi fenomeni
e non è quindi perfettamente noto il meccanismo con cui l’ipotalamo interviene nell’emicrania. Inoltre,
verosimilmente, a questi fenomeni di oscillazione dell’attività ipotalamica si associano anche altri
aspetti che concorrono alla regolazione dell’attacco emicranico. Uno dei possibili meccanismi di
propagazione dell’iperattività ipotalamica al nucleo caudale del trigemino è la cortical spreading
depression (CSD). Si è molto discusso sulla CSD, non ci sono evidenze tali da considerarla come
meccanismo principale, ma potrebbe essere uno di questi. Se il nucleo caudale del trigemino riceve
stimoli ripetuti e persistenti va incontro a sensibilizzazione, ovvero i suoi neuroni rispondono a stimoli
che hanno una soglia più bassa di quella fisiologica e allo stesso tempo aumentano i loro campi
recettivi, quindi ricevono di più. Si ha quindi la cosiddetta sensibilizzazione centrale attività
dipendente (è definita dipendente dal momento che si verifica in seguito all’attivazione del nucleo
caudale). Secondo questi cambiamenti quindi, le risposte agli stimoli dolorosi che si propagano nel
SNC sono prolungate esagerate. Questo aumento dell’eccitabilità porta dunque alla sensibilizzazione
periferica e allo sviluppo del dolore emicranico. Per CORTICAL SPREADING DEPRESSION (CSD)
si intende un’onda lenta di depolarizzazione con una velocità di 3-5 mm/min, che ha origine
dall’ipotalamo e che si diffonde accompagnata da ridotta attività all’EEG e da vasodilatazione e
iperemia. Per queste sue caratteristiche, la CSD è stata considerata come il correlato elettrofisiologico
dell’aura emicranica (modo in cui l’aura emicranica si manifesta in attività elettrica neuronale prima
dell’attacco). Studi elettrofisiologici sembrano dimostrare che la CSD sia in grado di sensibilizzare le
terminazioni nervose del trigemino sia a livello centrale sia a livello periferico. Tuttavia, questi risultati
non sono unanimi dal momento che alcuni studi definiscono la CSD come il meccanismo che
sensibilizza le terminazioni nervose del trigemino, mentre altri non sembrano confermare questa
ipotesi.

Comunque avvenga questa trasmissione, l’eccitazione del trigemino e, quindi, dei suoi terminali a
livello della dura madre, determina un aumento del rilascio di NO e CGRP che, aumentando in
concentrazione, causano vasodilatazione con fuoriuscita dai vasi di sostanze che irritano le
terminazioni nervose del trigemino, che sostengono a loro volta il rilascio di ulteriore di NO e CGRP
e infiammazione neurogena (senza coinvolgimento del sistema immune). Si genera, quindi, un
circuito che si auto-mantiene e l’irritazione viene trasmessa al nucleo caudale e tramite questo ai
centri superiori e inferiori che si trovano lungo le vie del dolore. Con il passare del tempo, nell’arco di
mesi o anni, insorgono delle modifiche adattative, ovvero delle modifiche di neuroplasticità a livello
delle vie discendenti del dolore, tali da facilitare la trasmissione nocicettiva. Si pensa che questa fase
tardiva di ulteriore sensibilizzazione centrare attività indipendente (differente dalla precedente
che, invece, è definita attività dipendente), che è dovuta a delle modificazioni adattative che si
possono instaurare nel tempo, sia alla base della conversione dell’emicrania episodica in cronica che
si può sviluppare in alcuni pz. In questa fase si sviluppa allodinia cutanea (cioè una percezione di
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stimoli non dolorosi come stimoli dolorosi, ad esempio se si fa una carezza questa viene percepita
come dolore) che inizia nell’area peri-orbitale e, successivamente, si diffonde anche a siti extra-
cefalici, a causa della sensibilizzazione dei neuroni talamici che si estende a diversi distretti. Nel
momento in cui si instaura una sensibilizzazione tardiva attività indipendente con comparsa di
allodinia si può sviluppare anche una resistenza alla terapia con i farmaci che controllano i sintomi
dell’attacco acuto, ovvero i TRIPTANI.

TERAPIA DELL’EMICRANIA

I farmaci oggi disponibili per la terapia dell’emicrania quali i triptani nell’attacco acuto, i nuovi
anticorpi monoclonali anti-CGRP in profilassi e la tossina botulinica A, non sono in grado di
attraversare la membrana ematoencefalica e quindi non possono agire direttamente a livello
centrale, ma devono agire in periferia. Questi farmaci agiscono, infatti, contrastando la
sensibilizzazione della branca efferente del trigemino e l’iperattività neuronale al livello delle
arterie meningee. Da questo livello, normalmente, la trasmissione dolorifica passa ai centri
superiori del cervello e quindi l’azione terapeutica dei farmaci in questa interfaccia neuro-
vascolare (fibre trigemino-vasi meningei) si riflette al livello centrale. Per quanto riguarda
l’approccio terapeutico:

 Se l’emicrania è presente per meno di 4 giorni al mese si può fare unicamente una terapia
sintomatica al momento dell’attacco.
 Se gli attacchi sono presenti per più di 4 giorni al mese o meno di 4 giorni al mese ma non
siano responsivi alla terapia sintomatica si può impostare una terapia di profilassi.

Oggi la strategia sintomatica più seguita è quella di individuare, prima di tutto, insieme al pz le
caratteristiche degli attacchi e valutarne l’intensità (non tutti hanno la stessa intensità) in modo da
poter scegliere il farmaco più adatto. È importante istruire il pz a riconoscere il tipo di attacco che
sta sviluppando in modo che questo possa assumere la terapia più adeguata a seconda del tipo di
attacco. Solitamente, infatti, si prescrivono più farmaci al pz in modo che questo possa scegliere
quello più adatto in base al tipo di attacco (non devono essere assunti tutti contemporaneamente,
ma è possibile variarli). La terapia sintomatica sfrutta i TRIPTANI, FANS e DERIVATI DELL’
ERGOT associati, eventualmente, agli antiemetici che, però, contrastano solo il vomito e non
trattano il dolore l’attacco emicranico. Vanno considerate delle raccomandazioni generali per la
terapia sintomatica:

 La terapia deve essere iniziata il più precocemente possibile al momento dell’attacco per
garantire il massimo dell’efficacia.
 Il farmaco deve essere assunto al minor dosaggio possibile utile a raggiungere la risoluzione
della crisi. Si può, eventualmente, aumentare la dose se non si ha la risoluzione, ma nel
momento in cui la crisi viene risolta va mantenuto il più basso dosaggio efficace (questi
farmaci sono spesso abusati quindi è importante questo aspetto).
 Si devono prescrivere delle formulazioni che contengono un solo principio attivo (esistono in
commercio formulazioni di FANS che contengono 2 o addirittura 3 principi attivi, queste si

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devono utilizzare solamente quando il paziente non risponde a formulazioni che contengono
un solo principio attivo)
 È buona norma istruire il paziente a compilare il cosiddetto “diario dell’emicrania” in cui il pz
descrive l’attacco e sintomi associati, annota l’efficacia della terapia ecc. in modo tale da aver
a disposizione uno strumento che permette di monitorare nel tempo l’andamento
dell’emicrania e la validità della terapia prescritta.

FARMACI SINTOMATICI
Sono farmaci che risolvono i sintomi dell’attacco emicranico e ne sono disponibili diversi. I più
utilizzati sono i TRIPTANI che sono farmaci che agiscono con un meccanismo specifico
differentemente dai FANS, che sono analgesici generali.
TRIPTANI
Sono agonisti dei recettori per la serotonina di tipo 5HT1B/1D. Agiscono sulle terminazioni nervose
del trigemino e al livello dei vasi (recettori 5HT1D) e sulle arterie meninge (recettori 5HT1B). Sono
farmaci di prima scelta e agiscono sia sugli attacchi moderati che sugli attacchi forti. Entrambi i
recettori attivati dai triptani sono accoppiati a proteine G inibitorie. L’attivazione di questi recettori a
livello delle terminazioni nervose del trigemino determina una riduzione del rilascio dei
neurotrasmettitori, mentre l’attivazione dei recettori a livello dei vasi delle meningi determina
vasocostrizione che si oppone alla vasodilatazione. I principali farmaci appartenenti alla classe dei
triptani sono:
 Sumatriptan (capostipite).
 Zolmitriptan.
 Rizatriptan.
 Naratriptan.
 Almotriptan.
 Frovatriptan.
 Eletriptan.
Nella maggior parte dei casi i triptani vengono somministrati per via orale sotto forma di compresse
con effetto che compare dopo 30 minuti.
Esistono poi delle formulazioni oro-solubili che si sciolgono senza acqua e formulazioni di spray
nasale (solo per Sumatriptan e Zolmitriptan, risposta rapida in 15 minuti). Queste formulazioni sono
molti utili per pz con la nausea che non riesce a prendere il farmaco per via orale. Il Sumatriptan
inoltre, esiste in commercio anche sotto forma di supposte (assorbimento ottimale e non erratico
come molte altre supposte) e può essere somministrato anche per via sottocutanea nei casi di
dolore elevato in cui è necessario mandare il farmaco in circolo molto velocemente in 10 minuti.

METABOLISMO
 Eletriptan e Naratriptan sono metabolizzati dal CYP3A4, quindi bisogna fare attenzione
nelle donne che prendono anticoncezionali sotto forma di estroprogestinici perché ci può
essere interferenza, in quanto questi anticoncezionali sono metabolizzati dallo stesso CYP e
lo inibiscono.
 Almotriptan, il Rizatriptan, il Sumatriptan e lo Zolmitriptan sono metabolizzati
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principalmente dalle MAO di tipo A e quindi dev’essere evitata l’associazione con gli inibitori
delle MAO che inibiscono il metabolismo di questi farmaci dal momento che questi altrimenti
non verrebbero metabolizzati (è come se si desse una dose eccessiva di farmaci con
aumento degli effetti collaterali). Gli IMAO in generale, sono farmaci antidepressivi (in Italia ad
oggi non più disponibile nessun inibitore delle MAO come antidepressivo), ma vanno anche considerati
tutti quei farmaci che, pur non avendo come meccanismo principale l’inibizione delle MAO,
tra i vari meccanismi d’azione, inibiscono anche le MAO (ad esempio entrambi i componenti
della classe degli Oxazolidinoni, tra cui il Linezolid e il Tedizolam). Tale associazione
aumenta di molto il rischio di effetti collaterali come la Sindrome serotoninergica
(caratterizzata da un eccesso di serotonina nel sistema nervoso centrale).
 Lo Zolmitriptan è metabolizzato, oltre che dalle MAO A anche, in parte, dal CYP1A2 che
metabolizza la teofillina che, quindi, non andrebbe associata. Se vengono associati farmaci
che inibiscono il CYP1A2 come la Ciprofloxacina (Fluorochinoloni) e la Fluvoxamina (SSRI)
bisogna somministrare una dose più bassa di Zolmitriptan (5 mg) o se possibile evitare
l’associazione.
 Per tutti i triptani, ma in particolare per il Rizatriptan, bisogna ridurre la dose se il paziente
ha funzione renale ed epatica ridotte.
 I triptani non devono essere associati tra loro, ovvero non si può fare una terapia combinata
con più triptani e non possono nemmeno essere associati a derivati dell’ergot perché
aumentano molti gli effetti collaterali.
 I triptani, agendo come agonisti serotoninergici, non vanno associati ad antidepressivi della
classe degli SSRI e SNRI nelle stesse 24 h. Il rischio è quello di sindrome serotoninergica,
che si manifesta con eccessiva attività muscolare, ipertono muscolare, grave ipertermia che
porta a sudorazione e disidratazione, acidosi metabolica, danno muscolare con rabdomiolisi,
danno renale acuto (causato dalle proteine muscolari), convulsioni e CID. Nel caso in cui si
verifichi tale sindrome, bisogna abbassare la temperatura corporea, reidratare il paziente e
somministrare un rilassante muscolare come il Dantrolene. La sindrome serotoninergica è
una evenienza clinica grave che mette a rischio la vita del paziente se non si interviene.

Tutti i triptani funzionano nel controllo dei sintomi emicranici, tuttavia sono stati fatti degli studi per
confrontare i diversi triptani tra loro. Studi di meta-analisi che hanno paragonato i triptani tra loro,
considerando il Sumatriptan come farmaco di riferimento dal momento che è stato il primo ad
essere messo in commercio, hanno dimostrato che:

 Il Sumatriptan è risultato meno efficace del Rizatriptan e del Eletriptan nel ridurre il dolore
nell’arco di 2 ore.
 Il Sumatriptan si è dimostrato più efficace del Naratriptan dell’Eletriptan e del Frovatriptan.
 Nel raggiungere l’assenza del dolore a 2 ore dall’inizio e il mantenimento nelle 24 ore la
maggiore efficacia l’hanno avuta l’Eletriptan , Almotriptan e Rizatriptan rispetto a
Sumatriptan.

In conclusione, sono molti i triptani che hanno dimostrato un’efficacia superiore a Sumatriptan,
tuttavia quest’ultimo ha il miglior profilo di tollerabilità rispetto a tutti i triptani (soprattutto rispetto al
Naratriptan e Almotriptan) e quindi si deduce che la terapia deve essere impostata nel singolo
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paziente dal momento che alcuni triptani sono effettivamente più efficaci di altri ma potrebbero
essere poco tollerati in uno specifico pz. Una certa percentuale di pazienti, dal 25 al 35%, non
risponde in modo soddisfacente alla terapia con un triptano. Se si ha una scarsa risposta ad un
triptano, escludendo un errore di diagnosi e quindi di terapia, si può considerare di cambiare la
terapia con un altro farmaco della classe dei triptani oppure si può utilizzare un FANS o in
alternativa, si può anche somministrare un triptano insieme ad un FANS. Sono stati fatti degli studi
su questa associazione che hanno osservato come questa abbia un’efficacia maggiore rispetto alla
monoterapia con il triptano. I triptani sono i farmaci utilizzati come prima scelta, tuttavia non è
dimostrato che questi siano più efficaci rispetto ai FANS, se somministrati entrambi in monoterapia.
L’unico dato che è disponibile riguarda il Sumatriptan sottocute che, con questa particolare
somministrazione, è superiore in efficacia rispetto all’aspirina.

Per quanto riguarda, invece, un confronto con la terza classe di farmaci utilizzati nell’emicrania è
dimostrato che formulazioni orali dei triptani sono superiori ai derivati dell’ergot, in particolare
all’ergotamina per via orale, che ha una bassa biodisiponibilità (meno dell’1%). Tuttavia, se
l’ergotamina è data per via rettale o iniettiva, allora è equipotente rispetto ai triptani ma ha un
numero maggiore di effetti avversi (di fatto quindi conviene dare i triptani) Tutti i triptani sono
ugualmente efficaci nel trattamento degli attacchi dell’emicrania mestruale e non è necessario
quindi preferire un triptano ad un altro in queste particolari forme di emicrania. Bisogna ricordare
che l’uso eccessivo dei triptani comporta un potenziale rischio di cronicizzazione dell’emicrania e,
quindi, non si dovrebbero assumere per più di 10 giorni al mese.

CONTROINDICAZIONI

 I triptani sono agonisti selettivi dei recettori 5HT1D della serotonina espressi sui vasi
meningei, tuttavia possono legare anche altri recettori espressi in altre sedi, come i 5HT2
espressi sulla tunica muscolare dei vasi coronarici. Agendo su questi recettori i triptani danno
vasocostrizione in una sede diversa da quella bersaglio della terapia. I pz con anamnesi
positiva per cardiopatia ischemica, per patologia coronarica, per patologia cerebrovascolare
non possono assumere i triptani.
 Nonostante non ci siano abbastanza studi disponibili sull’uso dei triptani durante la
gravidanza, si è visto come nelle donne che avevano assunto triptani nel secondo e terzo
trimestre c’era un aumento di atonia uterina e perdite ematiche dopo il parto. Quindi i triptani
non si utilizzano in gravidanza. Inoltre, sebbene ci siano pochi dati sulla sicurezza del triptani
durante l’allattamento, poiché le quantità escrete nel latte sono minime, se necessario, si
possono utilizzare questi farmaci (non sono controindicati, ma nemmeno consigliati).
 I triptani sono controindicati oltre i 65 anni per problemi cardiovascolari che possono
insorgere. Se si utilizza l’Eletriptan in caso di insufficienza renale, bisogna utilizzare dosaggio
più basso, ovvero 20 mg.

EVENTI AVVERSI

 Se il Sumatriptan viene somministrato per via sottocutanea, si può avere dolore al sito di
iniezione.

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 Se vengono dati come spray nasale (per quelli disponibili in questa formulazione) l’effetto
collaterale più comune è la sensazione di gusto amaro.
 Se sono somministrati per os è necessario avvertire il pz che potrebbe comparire costrizione
e dolore toracico, cervicale o in gola che può simulare una crisi di angina. Inoltre, ci possono
essere parestesie, mialgie, astenia, rossori al volto, vampate di calore, capogiri, sonnolenza.
 Il Naratriptan non può essere somministrato in insufficienza renale o epatica. INTERAZIONI

INTERAZIONI

 I triptani non vanno associati nelle 24h ai derivati dell’ergot (bisogna aspettare almeno 24h
per assumere un triptano dopo l’assunzione di un derivato dell’ergot e 6h se si è assunto un
triptano e si deve assumere un derivato dell’ergot).
 Non vanni associati con SSRI E NSRI.
 Bisogna inoltre fare attenzione all’utilizzo del Propranololo (antiaritmico e antiipertensivo),
perché questo aumenta la concentrazione plasmatica di Rizatriptan. Se un paziente prende
Propranololo, dev’essere somministrata la dose più bassa di Rizatriptan, ovvero 5 mg come
dose di attacco e al massimo si può salire a 10 mg 24 ore. Inoltre bisogna aspettare almeno
due ore dopo la somministrazione con Propranololo per dare il Rizatriptan.

DOMANDA: Perché funzionano i FANS?

RISPOSTA PROF: Funzionano come antidolorifici , bloccando la produzione di PG al livello dei neuroni
a T localizzati nei gangli spinali e riducono la trasmissione del dolore al livello centrale.

Il trattamento iniziale raccomandato in caso di sintomatologia da lieve a moderata si avvale di


farmaci appartenenti alla classe farmacologica dei FANS (farmaci anti-infiammatori non steroidei). I
farmaci antalgici (o analgesici), come il paracetamolo e l'acido acetilsalicilico, svolgono un'azione
antidolorifica e possono contribuire a ridurre i sintomi dell'emicrania. Nell'assumere questi farmaci è
importante seguire sempre le indicazioni mediche: andrebbero usati solo al bisogno, a stomaco
pieno e per brevi periodi, in quanto si associano a diversi effetti collaterali (come gastrite, disturbi
epatici e renali...) e, alla lunga, possono diminuire la loro efficacia. Gli analgesici tendono ad essere
più efficaci se assunti ai primi segni di un attacco di emicrania; in questo modo, infatti, possono
svolgere il loro effetto antalgico prima che si manifestino i sintomi più gravi. I FANS possono essere
prescritti in associazione agli antiemetici, in caso siano presenti anche nausea e vomito, oppure in
combinazione (ad esempio: paracetamolo e acido acetilsalicilico).

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ANALGESICI E ANTINFIAMMATORI NON STEROIDEI

Oltre ai triptani è possibile utilizzare i generici Farmaci Antinfiammatori Non Steroidei (FANS). Le
indicazioni sono rappresentate da attacchi di intensità lieve o moderata e tutti i casi in cui i triptani
sono controindicati oppure inefficaci da soli. Ci sono alcuni FANS per i quali è possibile
l’automedicazione, invece altri sono dispensabili soltanto con ricetta medica. Gli studi che
dimostrano l’efficacia e la sicurezza dell’utilizzo dei FANS nell’emicrania sono limitati rispetto a
quelli effettuati sui triptani o altri nuovi farmaci. Ci sono dati più consistenti per l’aspirina, per il
naprossene, l’ibuprofene, diclofenac e ketorolac. Non ci sono studi che valutano l’efficacia dei
FANS sui sintomi associati all’emicrania, come la fotofobia, la fonofobia, nausea e vomito, i quali
si è visto essere controllati dai triptani. L’associazione che spesso si trova in commercio tra FANS
e caffeina non è supportata da evidenze di efficacia e studi clinici di qualità elevata. Quindi, in
realtà, la caffeina associata ai FANS potrebbe aumentare leggermente l’efficacia, ma non fa
grossa differenza. Non ci sono studi di comparazione diretta tra i vari FANS, quindi non abbiamo
idea di quali siano i più efficaci. Ma come sapete la risposta varia moltissimo da paziente a
paziente, quindi bisogna tarare la terapia sul singolo paziente. Mentre, i triptani si utilizzano anche
nell’emicrania con aura, l’efficacia dei FANS in tale caso non è conosciuta. Per la
somministrazione valgono le regole generali per l’utilizzo dei FANS, ad esempio se la paziente è
in gravidanza bisogna preferire il paracetamolo (che non è un vero e proprio FANS, perché non è
un potente antinfiammatorio, ma è soprattutto un antidolorifico e un antipiretico). L’assunzione
quotidiana di FANS o comunque un'assunzione molto frequente, può portare alla cronicizzazione
dell’emicrania. L’uso è considerato eccessivo quando si superano i 15 giorni al mese per almeno 3
mesi.

Il ketorolac per via endovenosa è l’unico FANS che si è dimostrato più efficace del Sumatriptan
nella formulazione spray nasale.
CONTROINDICAZIONI

 Ipersensibilità nota ai FANS.


 Pazienti con diatesi emorragica e patologie della coagulazione.
 Gastrite, ulcera gastrica e duodenale.
 Insufficienza epatica o renale grave.
 Scompenso cardiaco.
 Gravidanza.
 Deficit della glucosio-6-fosfatodeidrogenasi e grave anemia emolitica.

I FANS devono essere somministrati con cautela a paziente anziani, non devono essere utilizzati
in gravidanza.
EVENTI AVVERSI

 E’ da notare che le percentuali di eventi avversi rilevate nei trial clinici sull’utilizzo dei FANS
nell’attacco di emicrania sono di gran lunga inferiori a quelle riportate negli studi di
somministrazione cronica.
 Tali eventi avversi, occasionali nei pazienti emicranici nel caso di assunzione saltuaria,
possono avere la stessa frequenza segnalata nell’uso cronico se vi è un’assunzione
frequente di analgesici e FANS.

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 Sintomi gastrointestinali quali gastralgia, nausea, vomito, gastrite erosive, raramente ulcera
gastrica e duodenale.
 Rash cutanei e reazioni orticarioidi, crisi asmatiche, reazioni di tipo anafilattico.
 Sonnolenza e astenia.
 Alterazioni della crasi ematica.
INTERAZIONI FARMACOLOGICHE

Le principali interazioni farmacologiche sono quelle con l’eparina e i derivati cumarolici (quindi
Warfarin). I FANS interagiscono con eparina non frazionata (non con quella a basso peso
molecolare) e con gli steroidi: quando vengono somministrati insieme a questi farmaci aumenta il
rischio di sanguinamento. Se si somministrano invece digossina, barbiturici e litio insieme ai
FANS, aumenta la concentrazione plasmatica di questi ultimi. Inoltre gli antagonisti
dell’Aldosterone e i diuretici risparmiatori di potassio e antipertensivi riducono l’efficacia dei
FANS.
I DERIVATI DELL'ERGOT

Terza classe di farmaci che si utilizza in acuto nella gestione dell’attacco emicranico sono i derivati
dell’ergot. (L'ergot è il prodotto di un fungo che è la Claviceps Purpurea che cresce sulla segale e sulle
graminacee.)
I derivati dell’ergot che si utilizzano nell’emicrania sono:
 Ergotamina tartrato, presente in commercio con il nome di Cafergot (contiene 1 mg di
Ergotamina + 100 mg di caffeina). È presente sotto forma di compresse e di supposte, al
primo attacco si danno due compresse o una supposta; se non si osserva miglioramento
entro mezz’ora si può somministrare un’altra compressa o mezza supposta e si può
ripetere questa posologia ogni mezz’ora, senza superare però la dose massima giornaliera
di 6 compresse o 3 supposte. Se il paziente risponde, ma poi ha attacchi successivi, la
dose massima settimanale di Cafergot che si può dare è di 10 compresse o 5 supposte.
 Diidroergotamina: 2 capsule al giorno durante i pasti per evitare nausea e vomito. Prima
dell’avvento dei triptani, la Diidroergotamina per via parenterale (non più disponibile in
Italia) era molto utilizzata.
Ad oggi i derivati dell’ergot sono farmaci di seconda scelta utilizzati per attacchi particolarmente
invalidanti che non rispondono a farmaci sintomatici; devono essere somministrati con una bassa
frequenza mensile (si consiglia una o due volte al mese massimo) perché hanno un potenziale
elevato rischio di abuso. Il meccanismo d’azione dei derivati dell’ergot è complesso, in particolare
nell’emicrania si pensa che la loro azione sia attraverso i recettori della serotonina e in parte della
noradrenalina, quindi hanno un’azione vasotonica agendo sui 5HT1B e 5HT1D più o meno come i
triptani. Una caratteristica farmacocinetica dei derivati dell’ergot è l’assorbimento incostante se
somministrati per via orale.
 Sempre a questa classe appartiene la Metisergide, la quale blocca i 5HT-2A e 5HT-2C ed
ha come indicazione la profilassi dell’emicrania grave ed intrattabile con disabilità
funzionale nei pazienti che non hanno risposta ad altri farmaci (che devono essere stati
somministrati per almeno 4 mesi alle massime dosi tollerate). La Metisergide ha indicazione
anche la cefalea a grappolo episodica e cronica, se almeno due classi di farmaci non
hanno funzionato.
CONTROINDICAZIONI
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I derivati dell’ergot hanno una serie di controindicazioni. Innanzitutto hanno azione ossitocica e
vasocostrittrice, per cui non possono essere dati in gravidanza, non possono essere dati
nell’ipertensione non controllata, non possono essere somministrati a pazienti con shunt veno-
atriali, in pazienti con stenosi mitralica, se c’è una patologia ischemica o cerebrovascolare e,
inoltre, non possono essere somministrati nell’insufficienza epatica o renale.
EVENTI AVVERSI

I principali effetti collaterali sono: il vomito, la nausea, dolori addominali, diarrea, crampi muscolari,
raramente si hanno delle parestesie distali. Non devono essere abusati perchè la
somministrazione cronica di derivati dell’ergot può indurre ergotismo che si può manifestare con
acrocianosi, con delle necrosi ulcerose distali, neuropatia ischemica, fibrosi pericardica, pleurica e
retroperitoneale (alcuni di questi effetti collaterali erano già stati trattati durante la spiegazione della
terapia del Parkinson con gli agonisti dopaminergici derivati dall’ergot ). L’ergotamina è teratogena quindi
non può essere data in gravidanza.
INTERAZIONI FARMACOLOGICHE

 Non possono essere somministrati insieme ai triptani: se questi ultimi sono stati
somministrati prima, bisogna aspettare 6 ore per somministrare un derivato dell'ergot; se si
è iniziato prima il derivato dell’ergot, il triptano si può dare 24 ore dopo.
 Con i beta bloccanti c’è un aumentato rischio di vasocostrizione periferica, quindi si tende a
non darli.
 I derivati dell'ergot sono metabolizzati dal CYP3A4 e quindi non devono essere associati
ad inibitori del CYP3A4, in particolare il Diltiazem (calcio-antagonista), il quale può dare un
aumento del rischio di ergotismo, se dato in associazione.
 Il Cafergot contiene caffeina la quale è metabolizzata dal CYP1A2, dunque bisogna fare
attenzione a non associare il Cafergot con inibitori del CYP1A2, come la ciprofloxacina o la
norfloxacina (appartenenti alla classe dei fluorochinoloni) perché si aumenta il rischio di
crisi ipertensive.
ANALGESICI DI COMBINAZIONE

Alcune formulazioni di analgesici contengono più FANS o più analgesici insieme. Ci sono
moltissimi studi riguardo la loro efficacia, la quale può essere maggiore o minore rispetto alla
monoterapia.
Esistono dei dati riguardo l’associazione di acido acetilsalicilico, paracetamolo e caffeina che
dimostrano l’efficacia sul dolore nei pazienti emicranici con crisi di intensità moderata e disabilità
non grave, non accompagnate da vomito. La stessa associazione funziona anche negli attacchi
emicranici associati al ciclo mestruale, anzi, purtroppo, le donne tendono ad abusare di queste
preparazioni per i dolori mestruali oltre che per l’emicrania.
Ci sono in commercio delle associazioni tra l’acido acetilsalicilico, il paracetamolo e l’indometacina
con o senza caffeina e associazione di acido acetilsalicilico, paracetamolo e propifenazone (che è
un altro antinfiammatorio non steroideo).
In Italia è diffusa anche un’associazione tra un barbiturico, il butalbital, il propifenazone e la
caffeina; è una formulazione in confetti e supposte, il nome commerciale è Optalidon che ancora
oggi ha un utilizzo elevato, efficace nella cefalea.
In commercio esiste anche il Neoptalidon da non confondere perché ha una composizione
diversa: paracetamolo, caffeina.
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Ci sono anche combinazioni indometacina-caffeina e proclorperazina (per l’azione antiemetica): il
nome commerciale di tale formulazione è Difmetre.
Purtroppo, nella popolazione con cefalea, è facile l’abuso di analgesici, ma anche di FANS. Tutti
gli analgesici in monoterapia o in combinazione con caffeina, con barbiturici o con codeina
determinano farmacodipendenza quando vengono somministrati per la cura della cefalea.
Il propifenazone è un FANS poco impiegato come antipiretico perché associato alla comparsa di
gravi reazioni di ipersensibilità cutanea, come l’orticaria, ma anche anafilassi IgE mediata, anemia
emolitica e malattia da siero.

FARMACI PER LA PROFILASSI DELL'EMICRANIA

Prima di iniziare una terapia profilattica, bisogna identificare i fattori scatenanti e i fattori
aggravanti. Per identificarli, si chiede al paziente di compilare il diario delle cefalee. Gli obiettivi
della terapia profilattica sono quelli di ridurre la frequenza degli attacchi e la disabilità che da
questi deriva. Un trattamento profilattico si considera efficace quando riduce di almeno il 50% la
frequenza degli attacchi. I benefici della terapia profilattica compaiono a distanza di tempo, sono
necessari da 1 a 3 mesi dall’inizio della terapia. In caso di resistenza a un trattamento di profilassi
si può cambiare farmaco.
Farmaci con target CGRP

La terapia in profilassi è stata rinnovata recentemente dall’arrivo sul mercato dei farmaci che
hanno come target il peptide correlato al gene della calcitonina (CGRP). Sono i primi farmaci nella
terapia della profilassi che hanno come target il principale meccanismo alla base della
vasodilatazione e sensibilizzazione del trigemino. Attualmente sono in commercio diversi farmaci
che agiscono con questo meccanismo. Questi si dividono in:
 Anticorpi anti-peptide correlato con il gene della calcitonina (CGRP): si legano e
neutralizzano l’azione del CGRP. Tra questi c'è il Galcanezumab (Emgality nome
commerciale) è indicato per la profilassi in adulti che hanno almeno 4 giorni di emicrania al
mese. Essendo un anticorpo viene somministrato per via sottocutanea una volta al mese e
la dose iniziale di carico è doppia, equivale a 240mg, e poi si danno 120mg ogni mese. Il
secondo anticorpo monoclonale anti-CGRP è il Fremanezumab, (Ajovy). Anche questo ha
lo stesso tipo di indicazione: profilassi dell’emicrania in pazienti che hanno almeno 4 giorni
di emicrania al mese. Per il fremanezumab ci sono formulazioni che contengono un
quantitativo maggiore e minore del farmaco, quella con quantitativo minore si fa una volta al
mese, quella con quantitativo maggiore ogni tre mesi. Per entrambi gli anticorpi
monoclonali, dopo 3 mesi dall’inizio della terapia, bisogna rivalutare l’efficacia e la
sicurezza e, qualora non risultassero efficaci, è necessario interromperne la
somministrazione
 Anticorpi anti-recettore CGRP: attualmente rappresentati da un solo farmaco, che è
anche il primo che è stato messo in commercio: Erenumab (Aimovig). Si dà per via
sottocutanea alla dose di 70mg ogni 4 settimane, in alcuni pazienti si può aumentare la
dose e dare 140mg sempre una volta al mese, quindi doppia dose.
Avendo lo stesso meccanismo d’azione, i tre anticorpi monoclonali condividono gli stessi effetti
avversi: dolore al sito di iniezione, vertigini, stipsi, prurito, orticaria.
Nella maggior parte dei pazienti sono reazioni di entità lieve e moderata.
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Il CGRP è un neuropeptide espresso sia nel SNC, sia in periferia, rappresentato da due isoforme,
isoforma alpha (espressa sui neuroni periferici somatosensorialie nel SNC) e l’isoforma beta
(predomina nei neuroni di moto e nel sistema nervoso enterico). Dalle evidenze di cui disponiamo
attualmente, sembra che il CGRP sia uno dei mediatori principiali dell’emicrania rilasciato dalle
terminazioni nervose del trigemino e da parte della glia. Sembra che i neuroni del trigemino
possano interagire con le cellule gliali per promuovere il processo di sensibilizzazione; il CGRP
secreto dai neuroni trigeminali può aumentare la produzione di citochine da parte dei neuroni
trigeminali stessi e da parte degli astrociti; in questo modo aumenta la produzione del CGRP e il
rilascio di quest'ultimo da parte dei neuroni. Questo aumento della produzione e del rilascio del
CGRP favorisce l’instaurarsi dello stato di sensibilizzazione e quindi l’aumento della percezione
del dolore. Si pensa che il CGRP crei un’attivazione vasculo-neuronale in grado di mantenere sé
stessa. Nel momento in cui il trigemino è ripetutamente iperstimolato dall’iperattivazione
dell’ipotalamo, abbiamo un aumento del rilascio del CGRP a livello periferico, cioè a livello vasale;
il CGRP legandosi ai suoi recettori sui vasi determina vasodilatazione e questa vasodilatazione a
sua volta determina aumento del flusso sanguigno; questo è un meccanismo che trasmette un
segnale che determina un aumento dell’attività di scarica dei neuroni. Quindi si crea un circuito
che mantiene sé stesso.

Beta bloccanti

Prima dell’avvento degli anticorpi monoclonali anti CGRP, i beta bloccanti erano farmaci di prima
scelta nella profilassi dell’emicrania; ancora oggi sono molto utilizzati e utili soprattutto nei pazienti
ipertesi. I più utilizzati sono il Propranololo, il Metoprololo e possono essere utilizzati anche
l’Atenololo, il Nadololo, il Timololo, il Bisoprololo. Quando si fa terapia con betabloccanti non
bisogna interromperla bruscamente perché questo determina cefalea da rimbalzo con aumento
della frequenza delle crisi e comparsa di sintomi di iperattività adrenergica, quindi ad esempio
aumento della pressione arteriosa.
Vantaggio: il propranololo è l’unico che può essere utilizzato nella profilassi dell’emicrania in
gravidanza con relativa sicurezza.

Controindicazioni: asma, BPCO, cardiopatia congestizia, blocco atrioventricolare, malattia


vascolare periferica, Sindrome di Raynaud, depressione (perché inducono depressione a livello
del SNC) e diabete (bisogna utilizzarli con cautela perché aumentano il rischio di ipoglicemia nei
pazienti trattati con antiglicemici).
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Effetti collaterali: affaticabilità nei pazienti giovani, riduzione del tono dell’umore, incubi notturni,
bradicardia, ipotensione ortostatica, impotenza, a livello del SNC (oltre la depressione) la
possibilità di sviluppare allucinazioni e incremento ponderale.
Calcio antagonisti

Tra questi il Verapamil è utilizzato off-label (si intende l'impiego nella pratica clinica di farmaci
somministrati al di fuori delle condizioni autorizzate dagli enti predisposti per patologia,
popolazione o posologia), ma è particolarmente efficace. In presenza di ansia e insonnia, i calcio
antagonisti sono da preferire ai betabloccanti. Il farmaco che tra i calcio antagonisti ha
l’indicazione è la Flunarizina, che si utilizza unicamente nella profilassi dell’emicrania. Anche la
Cinnarizina ha una buona azione antiemicranica, ma vi sono scarsi studi a supporto di questa
azione e inoltre dà dei fenomeni di accumulo più accentuati rispetto alla Flunarizina, per cui si
utilizza di più quest’ultima. L’effetto dei calcio antagonisti nella profilassi dell’emicrania si instaura
in maniera abbastanza graduale tanto che spesso sono richiesti diversi mesi prima di vedere
l’effetto pieno del trattamento.
Controindicazioni: depressione, malattia di Parkinson o altri disturbi extrapiramidali, gravidanza e
allattamento; la Flunarizina in particolare causa sonnolenza, astenia, incremento ponderale,
sintomi extrapiramidali nel trattamento a lungo termine e più frequentemente negli anziani.
Altri farmaci per la profilassi emicranica

Altri farmaci che si possono utilizzare nel trattamento dell’emicrania sono:


 Antidepressivi triciclici, non per gli effetti antidepressivi quanto più per gli effetti sul
dolore. Tra gli antidepressivi triciclici quello che si utilizza è l’Amitriptilina, a dosi molto più
basse rispetto a quelle che si utilizzano quando è impiegato come antidepressivo. Nella
profilassi dell’emicrania si utilizza alle dosi di 10-50mg al giorno. Gli effetti avversi
dell’Amitriptilina derivano principalmente dal blocco muscarinico, quindi effetti avversi
antimuscarinici e aumento dell’appetito.
 In alcuni casi sono utilizzati gli SSRI, che hanno meno effetti collaterali rispetto agli
antidepressivi triciclici ma ci sono pochissimi dati a supporto degli SSRI.
 Nella profilassi delle emicranie che non rispondono, si possono utilizzare degli
antiepilettici che sono molto efficaci. Tra questi il Valproato che ha il limite dell’alta
teratogenicità, quindi non dovrebbe essere utilizzato nelle donne in età fertile e l’altro
antiepilettico che si utilizza è il Topiramato.
 Infine la Tossina botulinica di tipo A, cioè il botox, in pazienti che non hanno risposto o
hanno una risposta insufficiente o ancora sono intolleranti a tutti i farmaci per la profilassi
dell’emicrania cronica (i criteri diagnostici per emicrania cronica: cefalee di durata ≥15
giorni al mese di cui almeno 8 giorni con emicrania). Il botox deve essere somministrato
attraverso delle iniezioni che vengono suddivise tra 7 aree specifiche dei muscoli della testa
e del collo; la somministrazione è per via intramuscolare e si fanno somministrazioni in 31
siti fino ad un massimo di 39 siti. I muscoli sono il corrugatore, il procero, il frontale, il
temporale, l’occipitale, il cervicale e il trapezio. Vengono somministrate da un minimo di 155
ad un massimo di 195 unità di tossina botulinica e si ripete ogni tre mesi. La
somministrazione del botox si fa nei centri per la cura delle cefalee. Si pensa che la tossina
botulinica di tipo A nell’emicrania blocchi il rilascio periferico dei trasmettitori associati alla
patogenesi del dolore, quindi il rilascio di CGRP e di sostanza P.
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Effetti avversi: quando viene utilizzato per l’emicrania cronica il botulino può causare cefalea,
emicrania a sua volta, paresi facciale, ptosi palpebrale, prurito, eruzione cutanea, raramente
dolore cutaneo, poi mialgia, dolore muscoloscheletrico, indolenzimento muscoloscheletrico,
spasmi muscolari, rigidità e debolezza, dolore nella sede di iniezione e raramente disfagia.
Il tasso di interruzione a causa degli eventi avversi negli studi di fase 3 è stato del 3,8% rispetto
all’1,2 % di placebo quindi non molto elevato.

CEFALEA A GRAPPOLO

La cefalea a grappolo appartiene al gruppo delle cefalee autonomico-trigeminali (TAC: Trigeminal


Autonomic Cephalalgias) cioè a quelle cefalee che sono caratterizzate da un’attivazione del
parasimpatico, quindi associate a sintomi accessori dati dall’attivazione del parasimpatico
craniale. La cefalea a grappolo ha una scarsa base genetica, solo il 5% dei casi ha trasmissione
autosomica dominante, però sono stati identificati polimorfismi (in particolare nel recettore
dell’ipocretina che è un neuropeptide coinvolto nella modulazione nocicettiva da parte
dell’ipotalamo) e mutazioni nel gene che codifica per la lattico deidrogenasi ADH4, che sembrano
essere associati ad un aumento del rischio di sviluppo di cefalea a grappolo. Contrariamente
all’emicrania, la cefalea a grappolo è molto più frequente nei maschi che nelle donne, il rapporto
è di 4:1. L’esordio è intorno ai 29/30 anni anche se una minore percentuale di popolazione ha
esordio dopo i 50 anni. La caratteristica della cefalea a grappolo è rappresentata da questi
attacchi di dolore molto intenso unicamente unilaterale, orbitario o sovra-orbitario oppure nella
regione temporale, con durata che va dai 15 ai 180 minuti e con una frequenza variabile da una
volta ogni due giorni a 8 volte al giorno. Si associano al dolore omolaterale alcuni sintomi da
iperattivazione del parasimpatico quali iperemia congiuntivale, lacrimazione, congestione nasale,
rinorrea, sudorazione, miosi, ptosi ed edema palpebrale. È molto frequente che i pazienti siano
molto agitati durante l’attacco e che caratteristicamente camminano avanti e indietro, non riescono
a stare fermi e a mantenere il clinostatismo. La cefalea a grappolo viene così definita perché gli
attacchi si manifestano in periodi attivi chiamati grappoli che possono durare settimane o mesi e
sono intervallati da fasi di remissione della durata di mesi o anni. Si è visto che gli attacchi si
associano ad attivazione dei nuclei dell’ipotalamo posteriore, c’è un 10-15% di pazienti che ha un
andamento cronico senza remissione. Alcuni fattori che possono scatenare gli attacchi: il consumo
di alcol che deve essere assolutamente evitato durante i periodi attivi, l’istamina e la nitroglicerina.
Terapia
Bisogna parlare molto con il paziente ed informarlo, perché la terapia della cefalea a grappolo non
ha mai successo se non si coinvolge attivamente il paziente nella cura. I pazienti spesso sono
terrorizzati, durante la fase dell’attacco il dolore è elevatissimo e quindi, al solo pensiero del
riaffacciarsi della crisi, hanno molta paura. É dunque opportuno informarli che, sebbene
attualmente non esistano terapie in grado di evitare le crisi, ci sono dei farmaci che possono
risolvere la crisi al momento in cui si presenta e quindi il paziente deve conoscerli per poter far
terminare la crisi. Inoltre devono essere conosciuti i fattori scatenanti in modo che il paziente
possa evitare di mettersi nelle situazioni che scatenano la crisi, come ad esempio l’alcool.
Per la terapia dell’attacco acuto si utilizzano i triptani, il Sumatriptan che ha l’indicazione e lo
Zolmitriptan che da noi non ha l’indicazione, ma risulta efficace; si utilizza off-label. Il Sumatriptan
si somministra sottocute 6mg, è efficace entro 15 minuti per circa il 75% dei pazienti, non va
incontro a tachifilassi e mantiene a lungo la sua efficacia. Esiste la formulazione sotto forma di

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spray nasale che non ha indicazione per la cefalea a grappolo, ma 20mg spray nasale danno
risultati in 30 minuti (è off label).
Lo Zolmitriptan (che è off label) si dovrebbe utilizzare alla dose di 10mg per os nelle forme
episodiche, ma in Italia non abbiamo il 10mg ma il 5mg; la dose giornaliera massima per lo
Zolmitriptan nelle cefalee è di 10mg. Abbiamo la formulazione spray nasale di solo 5mg in Italia.

Se necessario ossigeno per inalazione


Profilassi

La profilassi della cefalee a grappolo dovrebbe avere come obiettivo quello di ridurre la frequenza,
l’intensità e la durata delle crisi e allo stesso tempo in corso di crisi dovrebbe determinare la rapida
scomparsa della crisi stessa, risolvere quindi il grappolo. L’efficacia della profilassi della cefalea a
grappolo è abbastanza difficile da verificare (nel singolo paziente si osservano dei benefici,
spesso i pazienti riferiscono la comparsa di crisi abortive, con sintomi lievi e fugaci). È molto
difficile valutare l’efficacia del farmaco nella profilassi perché non si riesce a capire con sicurezza
se la scomparsa delle crisi sia dovuta alla cessazione del periodo attivo che si è esaurito (quindi la
crisi è cessata autonomamente) o all’efficacia della terapia. L’unico modo per essere sicuri è
valutare solo pazienti con cefalea a grappolo cronica, che non hanno l’intervallo libero da crisi
(sono fortunatamente pochi). Se si interrompe troppo precocemente la terapia, si ha una pronta
ricomparsa degli attacchi. Non ci sono dei parametri obiettivi per decidere quando sospendere la
terapia. In genere l’interruzione del trattamento di profilassi si fa gradualmente a partire da quando
il paziente è libero da crisi da almeno due settimane, sperando che non ricompaia il grappolo. Non
ci sono farmaci dedicati: si utilizzano i calcio antagonisti tra cui soprattutto il Verapamil che è
molto utilizzato nella forma episodica, ma si utilizza anche nella forma cronica, anche se in realtà
ci sono meno dati. Il beneficio si ha dopo una media di 5 settimane e le dosi sono più alte di quelle
che si utilizzano nelle forme periodiche. In un recente studio prospettico, Blau e Engel hanno
valutato 70 pazienti di cui 52 con forma episodica e 18 con forma cronica e hanno osservato che il
trattamento con Verapamil determinava una scomparsa delle crisi nel 94 % degli episodici e nel
55% dei cronici. Le dosi cumulative più comuni a cui si otteneva tale risultato erano tra i 200 e i
480mg, suddivise in tre somministrazioni giornaliere; soltanto in una minoranza di pazienti si è
arrivati fino a 960mg al giorno. Il problema fondamentale con il Verapamil è la possibilità di
insorgenza di aritmie (che si hanno in circa il 19% dei pazienti) e di bradicardia (nel 36% dei casi).
Quindi bisogna monitorare i pazienti con l’ECG per evitare il blocco atrio-ventricolare e la
bradicardia sintomatica.
Hanno indicazione per la cefalea a grappolo anche una formulazione di Cafergot orale e una
preparazione rettale. (La cefalea a grappolo viene definita istaminica in quanto scatenata proprio
dall’istamina.) Esiste anche una formulazione intramuscolare che non ha come indicazione la
cefalea a grappolo ma cefalea vasomotoria, a tensione nervosa ed emicrania essenziale.

Altro farmaco che si può utilizzare nella profilassi della cefalea a grappolo quando gli altri farmaci
non si sono rivelati efficaci, quindi di seconda linea, è il Litio. Il principio alla base dell’utilizzo del
Litio nella cefalea a grappolo è che questa è periodica, così come lo sono i disturbi bipolari: sono
patologie con andamento periodico e il Litio si è dimostrato efficace in questi casi. Sembra che
funzionino dosi che vanno dai 400mg ai 2g al giorno che corrispondo a una litiemia di 0,8-1mM. La
dose del Litio viene decisa in base alla concentrazione plasmatica; affinché esso sia efficace e gli
effetti tossici limitati, la concentrazione plasmatica del Litio deve essere mantenuta entro un range.
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Dagli studi condotti è emerso che nella cefalea a grappolo il range di efficacia e minima tossicità è
compreso tra 0,8 e 1mM. Il litio è un farmaco a basso indice terapeutico.
Si possono utilizzare nella profilassi della cefalea a grappolo anche gli antiepilettici Topiramato e
Gabapentina.

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Prof.ssa Melchiorri TERAPIA DEL DOLORE s. Anno Scorso r. Nardoni

Il dolore, secondo la IASP (International Association for the Study of Pain), è un'esperienza sensitiva ed
emotiva spiacevole correlata a un effettivo o potenziale danno tissutale o comunque descritto come
tale.
1. INTRODUZIONE ED EZIOLOGIA DEL DOLORE
Il dolore presenta due componenti:
● Una componente percettiva di tipo nocicettivo, cioè la percezione del dolore;
● Una componente esperienziale ovvero l’esperienza personale che si associa alla percezione del
dolore; ciascuno quindi avrà la propria esperienza.
L’aspetto percettivo mette in rilievo la dimensione soggettiva della percezione del dolore, influenzabile
da fattori di carattere cognitivo (attenzione, convinzione, personalità e immaginazione), emotivo
(rabbia,ansia e stress) o di carattere comportamentale in relazione alle interazioni stabilite tra
componenti di una famiglia o comportamenti riflessi.
Per quanto riguarda l’aspetto esperienziale, diverse sono le aree che sottendono la percezione, la
modulazione e la creazione dei diversi fattori che influenzano il dolore e in particolare il sistema limbico
regola la definizione emotiva dello stesso, l’ipotalamo definisce la componente endocrina, mentre tutta
la parte cognitiva del dolore viene codificata dall’ippocampo (area preposta alla collocazione
spazio-temporale del dolore) mentre l’amigdala presiede alla creazione e registrazione di sentimenti
come l’aggressività modulando il comportamento sociale dell’individuo.
I meccanismi che portano alla percezione del dolore possono essere di varia natura:
● TRAUMATICI: definiti cioè da una lesione da parte di un corpo esterno;
● FLOGISTICI: una reazione di tipo infiammatorio determina il rilascio di mediatori in grado di
stimolare terminali nervosi nocicettivi;
● SPASTICO: per l’anomala contrazione prolungata di determinati distretti muscolari.
● NEUROGENI: legati alla compressione, lesione o infezione di nervi; a sua volta la compressione
stessa può talvolta essere determinata dalla crescita di una massa neoplastica; è chiaro che quindi
il dolore neurogeno in tale dimensione ha una derivazione degenerativa-neoplastica;
● IATROGENI: in alcune situazioni l’origine del dolore è sconosciuta.

Il dolore costituisce un meccanismo fondamentale per la sopravvivenza come testimoniato dal riflesso di
evitamento che scaturisce nel momento in cui noi poniamo la mano su una superficie rovente; vengono
infatti attivate le terminazioni nervose nocicettive presenti sulla nostra mano e tale informazione viene
trasmessa alle corna dorsali del midollo spinale mediante il classico neurone a T, primo della via
nocicettiva, con il corpo cellulare nel ganglio delle radici dorsali, la branca
afferente in periferia (la mano in tale situazione) e quella efferente al midollo
stesso. Proprio al livello delle corna dorsali, attraverso un interneurone di tipo
attivante o inibitorio, in base al tipo di connessione che deve essere stabilita, lo
stimolo nocicettivo passa ai neuroni delle corna anteriori adibiti alla
contrazione della muscolatura flessoria del braccio (muscolo bicipite brachiale)
e allo stesso tempo a quelli che regolano la contrazione della muscolatura
estensoria (muscolo tricipite brachiale); nel primo caso in senso attivatorio
mentre nel secondo inibitorio finalizzati al raggiungimento dell’obiettivo del
riflesso stesso ovvero l’allontanamento del braccio dalla sorgente di dolore.
Lo stimolo nocicettivo viene contemporaneamente trasmesso mediante altre vie a centri superiori di
controllo del dolore adibiti ad una sua elaborazione più profonda. È chiaro quindi il significato protettivo

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insito nella percezione dolorifica; se però il dolore perdura nel tempo o diventa eccessivo, può portare
all’insorgenza di una patologia vera e propria.
CLASSIFICAZIONE DEL DOLORE IN BASE ALLA DURATA
● TRANSITORIO: definito cioè dall’attivazione di nocicettori senza provocare danno tissutale.
Scompare con la cessazione del dolore stesso;
● ACUTO: è un dolore nocicettivo di breve durata in cui solitamente il rapporto causa/effetto è
evidente; nel dolore acuto, per effetto di una causa esterna o interna, si ha una fisiologica
attivazione dei nocicettori. In genere si ha un danno tissutale e il dolore scompare con la
riparazione del danno;
● PERSISTENTE: la permanenza dello stimolo nocicettivo o della nocicezione rendono il dolore
"persistente";
● CRONICO: si definisce tale un dolore che persiste da più di sei mesi. È un dolore associato a
profonde modificazioni della personalità e dello stile di vita del paziente che restano persistenti
indipendentemente dall'azione dei nocicettori.
CLASSIFICAZIONE DEL DOLORE IN BASE ALL’INTENSITÀ
Siccome la componente soggettiva della percezione del dolore è fondamentale, il dolore stesso può
essere definito nella sua intensità solo dal soggetto che lo prova; esistono infatti delle scale apposite
preposte a tale compito, come ad esempio la NRS per l’adulto o la Wang Baker per i bambini, composta
di faccine con diverse espressioni correlate ciascuna all’intensità del dolore percepito.
Esistono inoltre scale apposite per neonati o bambini in età preverbale, che valutano la postura, il
comportamento, il movimento o le espressioni facciali.
È fondamentale fin da subito aver chiara la differenza sostanziale tra dolore neuropatico e nocicettivo;
quest’ultimo è definito a partire dall’irritazione del nocicettore con trasmissione dell’impulso stesso al
SNC, tende a diminuire nel tempo dal momento dell’insulto, essendo molto sensibile al trattamento con
FANS e oppioidi.
Il dolore neuropatico viceversa è definito in seguito a lesioni del sistema nervoso periferico o del sistema
nervoso centrale (p.es. dopo amputazione, paraplegia, infezioni da herpes, polineuropatia diabetica)
presentando un carattere persistente e scarsa responsività a trattamento con FANS o oppioidi (se ne
usano dosi più elevate; è riferito come un dolore sordo e molto spiacevole).
LA PERCEZIONE DEL DOLORE
La prima fase della percezione del dolore è la trasduzione del segnale
dolorifico per mezzo di nocicettori che percepiscono il segnale di alcuni
mediatori neurochimici come le prostaglandine, la bradichinina e la sostanza
P (agenti sia al livello sia periferico che al livello centrale), prodotte a seguito
del danno tissutale; tali sostanze irritano i nocicettori, aventi un ruolo
centrale nella trasmissione del dolore attraverso vie ascendenti verso centri
superiori preposti ad una funzione di elaborazione dell’informazione
ricevuta; infine c’è un’operazione di modulazione a vari
livelli da parte di vie discendenti.
Le fibre nocicettive sono di due tipi:
● Aδ → fibre mieliniche che trasmettono dolore
rapido e acuto per attivazione di nocicettori
termici a seguito di esposizione a temperature

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sopra 45°C o sotto 5°C o per attivazione di


nocicettori meccanici attivati da stimoli pressori
particolarmente intensi; queste fibre fanno sinapsi al
livello della lamine I, II, III, V delle corna dorsali del
midollo spinale.
● C → fibre più sottili delle fibre Aδ, sono amieliniche,
sono responsabili della trasmissione di un dolore
lento e diffuso facendo sinapsi al livello della lamina
I-II delle corna dorsali del midollo, e vengono
attivate da recettori polimodali, definiti così per la
grande varietà di stimoli che ne può indurre
l’irritazione (meccanici ad alta intensità, termici o chimici).
● Aβ → fibre attivate da meccanocettori, quindi non di natura nocicettiva e fanno sinapsi al livello
della lamina III-IV-V-VI e quindi attraverso il tratto neospinotalamico controlaterale e il tratto
paleospinotalamico omolaterale a stazioni superiori fino al talamo e quindi al sistema limbico, la
corteccia cingolata e somatosensoriale.
Le fibre afferenti nocicettive (C e Aδ) usano ampiamente come neurotrasmettitore il glutammato
mentre i neuropeptidi vengono usati solo da un particolare sottotipo di fibre C (fibre C peptidergiche);
siccome non esistono degli efficaci meccanismi di reuptake di tali peptidi, le fibre C peptidergiche
veicolano un segnale più diffuso e duraturo.
Esistono due classi di fibre C: oltre alle fibre C-peptidergiche che hanno come neurotrasmettitore
principale la sostanza P ed esprimono il recettore TrkA ad alta affinità per NGF, ci sono le fibre C che
legano una isolectina-B4 tramite i recettori P2X3 (attivato da ATP e accoppiato a canale ionico).
Tutte le fibre afferenti nocicettive esprimono sulla loro membrana dei nocicettori che rispondono a
stimoli meccanici chimici e termici.
Esistono diverse sottofamiglie di questi nocicettori: i TRP vanilloidi (TRPV), i TRP ankirina (TRPA) e i TRP
melastatina (TRPM).
Il TRPV1 è coespresso ai TRPA1, TRPV2, TRPV3, TRPV4, TRPM8 sui neuroni sensitivi primari nocicettivi e
media l’attività dei cannabinoidi. I cannabinoidi sono sostanze prodotte al livello endogeno che si
legano ai recettori attivati dai derivati della cannabis sativa, tra quali possiamo annoverare il
Δ9tetraidrocannabinolo (Δ9-THC), il composto psicotropico più abbondante nella cannabis, che agisce
principalmente sul TRPV2 e modula moderatamente i TRPV3, TRPV4, TRPA1 e TRPM8. Il TRPM8 è
sensibile al freddo nocivo ed al mentolo, il TRPV2 al caldo nocivo, il TRPA1 è polimodale (fumo tabacco,
acroleina, formaldeide), TRPV1 al caldo e aumento del pH extracellulare, ai derivati lipidici
(anandamide). Il TRPV4 , è sensibile alle variazioni di osmolarità e quindi allo stiramento/distensione
cellulare. L’acidità non è percepita solo dal TRPV1 (per valori di pH inferiori a 5) ma anche da specifici
canali ionici ASIC (canali ionici sensibili ad acidità) per valori tra 6-7.2 È importante considerare che i
cannabinoidi esprimono la loro azione non solo sui TRP ma anche su recettori più specifici come i CB1 e
CB2.
LA TRASMISSIONE DEL DOLORE
I nocicettori rendono possibile l’attivazione dei neuroni nocicettivi, costituendo quindi solo la primissima
tappa della trasmissione dell’impulso dolorifico; al livello periferico bisogna considerare il ruolo
strategico di alcuni mediatori chimici coinvolti nella sensibilizzazione delle terminazioni nocicettive
abbassando la soglia della percezione dello stimolo doloroso; questo è il fenomeno dell’iperalgesia o

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sensitizzazione dei nocicettori e si sviluppa a partire dal rilascio locale di mediatori.


Lo stimolo nocivo determina infiammazione del tessuto danneggiato e la flogosi attiva i mastociti che
rilasciano istamina, bradichinina, prostaglandine e serotonina; questi ultimi a loro volte agiscono sulle
terminazioni del nervo sensitivo nocicettivo attivandolo.
C’è produzione di NGF che ulteriormente attiva fibre C nocicettive che a loro volta rilasceranno
neuropeptidi (come accade nell’emicrania) favorendo, insieme all’NO neosintetizzato, un’importante
azione eccitatoria sul neurone di trasmissione. C’è da considerare inoltre l’azione sulle terminazioni
nocicettive, attraverso recettori appositi, dell’ATP e della serotonina rilasciate da piastrine attivate in
un’ottica sempre di stimolazione positiva.
Su questa trasmissione però, al livello delle corna dorsali, intervengono dei meccanismi superiori in
grado di modularla in senso negativo come il rilascio di encefalina o GABA e l’azione di rilascio della
serotonina o della noradrenalina da parte di neuroni di vie inibitorie discendenti; al livello di questa
prima stazione agiscono i FANS, gli oppioidi e i derivati della cannabis.
Dalle corna dorsali del midollo spinale quindi, l’impulso viene trasmesso attraverso le vie ascendenti ai
centri superiori del SNC; sono fondamentalmente due le vie coinvolte in questa trasmissione ovvero il
tratto neospinotalamico controlaterale e il tratto paleospinotalamico omolaterale.
Il primo veicola le informazioni sensorio discriminative del dolore e i neuroni che la costituiscono fanno
sinapsi nell’area complesso vertebrobasilare talamico e in particolare al livello del nucleo VPL del talamo
e da questo alla corteccia somatosensoriale (giro post centrale) per l’integrazione della percezione delle
componenti sensorio discriminative del dolore; attraverso il tratto paleospinotalamico omolaterale le
afferenze delle corna dorsali sono trasmesse sempre al talamo ma al livello del complesso nucleare
intralaminare e da qui proiettate alle aree limbiche tra le quali l’amigdala, area che presiede alla genesi
della paura e dell’ansia, l’ippocampo che definisce connotazione spazio temporale dell’impulso
dolorifico, l’ipotalamo che calibra lo stato ormonale alla percezione nocicettiva, il giro del cingolo e la
corteccia prefrontale.
Esiste inoltre una via discendente che modula negativamente la
percezione del dolore riducendola; essa riceve afferenze dai
centri superiori coinvolti nella trasmissione del dolore, e in
particolare la corteccia, il talamo e l’ipotalamo inviano degli
impulsi sia stimolatori che inibitori alla sostanza grigia
periacqueduttale (PAG) dove convergono tutti gli stimoli dai
centri più alti del SNC e da dove partono le principali vie
discendenti di controllo del dolore verso il nucleo bulbare del
rafe magno (NRM) e il nucleo reticolare magnocellulare (NRMC).
Da questi nuclei poi, attraverso il funicolo dorso-laterale, delle
fibre discendenti giungono al livello della sostanza gelatinosa SG
(dove stabiliscono una sinapsi eccitatoria sull’interneurone
inibitorio di cui si parlerà dopo - inoltre stabiliscono contatto
inibitorio anche sui neuroni di proiezione), nelle corna dorsali del
midollo spinale. Il PAG controlla insieme al locus coeruleus (LC),
principale nucleo del SNC per densità in termini di neuroni
noradrenergici, il nucleo reticolare paragigantocellulare,
collocato sempre nella regione pontina, che a sua volta invia
fibre al corno dorsale del midollo spinale. A questo punto i

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neuroni nocicettivi spinali vengono in maniera diretta ed indiretta controllati da queste vie indicate
sopra, in base alla teoria del cancello.
LA TEORIA DEL CANCELLO
Dopo che il primo neurone nella via di trasmissione del dolore si è
attivato, lo stimolo doloroso perviene alle corna dorsali del midollo
spinale; per capire la modalità con la quale avviene la propagazione del
segnale doloroso in questa regione è fondamentale definire la teoria del
cancello. Al livello della II lamina del midollo spinale, nota come
sostanza gelatinosa di Rolando, afferiscono fibre sensitive nocicettive Aδ
(mieliniche, specifiche per il dolore rapido puntorio) e C (amieliniche,
lente, che conducono il dolore sordo), e fibre portanti sensibilità tattile
e pressoria di maggior calibro, le Aβ.
Sia queste ultime sia le nocicettive, prima di prendere contatto con il neurone
midollare, emettono un ramo collaterale, che entra in contatto con un
interneurone produttore di un oppioide endogeno chiamato encefalina (il suo
recettore è un GPCR con Gi per cui il neurone di proiezione a cui l’encefalina si
lega verrà inibito). Le fibre su citate producono effetti diversi su questo
interneurone: le fibre Aβ ne stimolano l’attività, aumentando la produzione di
encefalina, mentre le fibre di piccolo calibro la inibiscono.
Se pertanto una fibra Aβ è attivata da uno stimolo non dolorifico, andrà a sua
volta a stimolare l’interneurone inibitorio, che quindi bloccherà la trasmissione
di eventuali segnali dolorifici fino al cervello: il cancello è chiuso, non si
percepisce dolore. Al contrario, se una fibra Aδ o C trasmette uno stimolo
dolorifico, contemporaneamente inibisce l’interneurone encefalinergico, che
non potrà a sua volta bloccare la trasmissione dell’impulso doloroso al cervello:
il cancello è aperto, il dolore viene avvertito.
Quindi, se uno stimolo dolorifico ed uno meccanico (pressorio, vibratorio)
vengono trasmessi simultaneamente (ad esempio, se si picchia il ginocchio e si
strofina la botta), il dolore sarà attenuato grazie all’azione eccitatoria della fibra
Aβ sull’interneurone encefalinergico (effetto “placebo” della pressione sullo
stimolo doloroso).
I farmaci che abbiamo a disposizione agiscono a vari livelli del sistema descritto: innanzitutto al livello
del terminale efferente del primo neurone nocicettivo (verso la periferia) agiscono i cannabinoidi, i
FANS e gli oppiacei. Agiscono al livello delle corna dorsali del midollo spinale, dei centri superiori, del
tronco e del mesencefalo i cannabinoidi e gli oppiacei.
I FANS agiscono in periferia mentre il paracetamolo anche al livello talamico; i neuroni aminergici
controllano vie discendenti di controllo del dolore al livello del tronco e delle corna dorsali. Esiste un
farmaco oppioide che agisce esprimendo un controllo sui neuroni appena indicati legando recettori ɑ2,
modulando la trasmissione monoaminergica e quindi la trasmissione nocicettiva.

2. INDICAZIONI AL TRATTAMENTO IN BASE ALLA GRAVITÀ DEL DOLORE


L’OMS ha individuato tre step nella terapia del dolore in base alla sua severità:
● Dolore lieve e limitato: NO agli oppioidi, SÌ ai FANS ± altri adiuvanti analgesici;
● Dolore lieve-moderato e cronico: SÌ agli oppioidi deboli come codeina, ossicodone, idrossicodone
e tramadolo, ± ad analgesici non oppiacei e ± adiuvanti analgesici;

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● Dolore moderato-grave: SÌ oppioidi forti come la morfina,l’idromorfone, il metadone, l’ossicodone


e il fentanyl, con maggior effetto analgesico e più effetti collaterali. ± ad analgesici non oppiacei e ±
adiuvanti analgesici.
In questa classificazione non sono presenti i derivati della cannabis, perché non esistono farmaci con
derivati della cannabis con un’approvata e registrata indicazione terapeutica nella terapia del dolore,
sebbene il loro utilizzo in quest’ambito sia abbastanza radicato.

3. OPPIOIDI
L'oppio (dal greco “succo”) è il lattice estratto per incisione dalle capsule non mature del Papaver
somniferum. Già negli scritti di Teofrasto del III secolo a.C. sono presenti riferimenti sull’impiego
dell’oppio; Galeno (III secolo d.C.) era solito affermare nei suoi scritti che la medicina senza l’oppio fosse
claudicante.
Furono i commercianti arabi però a diffonderne l’impiego, soprattutto nel trattamento della dissenteria;
durante il Medioevo ci si rese conto anche del suo potenziale come antitussivo e analgesico. La morfina
comunque venne isolata solo nel 1806 da Serturner e il suo utilizzo iniziò a diffondersi in particolare nel
trattamento del dolore post-operatorio.
Sebbene gli effetti antinocicettivi e d’abuso di morfina ed altri oppioidi fossero ben noti, le basi
molecolari delle loro azioni sono rimaste sconosciute fino ai primi anni ’70.
Nel 1973 Martin e coll. iniziano studi di binding che porteranno al clonaggio di tre tipi principali di
recettori oppioidi nel sistema nervoso centrale : μ, δ e κ.
Nel 1975 Hughes e Kosterlitz isolano, purificano e sequenziano i primi due peptidi endogeni ad attività
morfino-simile chiamati encefaline (da encefalo). Subito dopo, sono state isolate altre due classi di
peptidi oppioidi endogeni, le dinorfine e le endorfine.
Nel 1994 è stato clonato il recettore per la nocicettina/orfanina FQ.
Nel 2000, la commissione dell’Unione Internazionale di Farmacologia ha adottato i termini MOP, DOP, e
KOP per indicare i recettori dei peptidi oppioidi µ, δ e κ, rispettivamente. La commissione ha anche
raccomandato il termine NOP per il recettore N/OFQ.
ALCALOIDI DELL’OPPIO (DETTI ANCHE OPPIACEI)
L'oppio grezzo contiene circa 20 tipi di alcaloidi, di cui il più rappresentato è la morfina. Mentre con il
termine oppiacei indichiamo gli alcaloidi dell’oppio, con il termine oppioidi si indicano sia sostanze ad
origine naturale presenti nell’oppio sia derivati semisintetici o sintetici della morfina con analoghe
proprietà farmacodinamiche.
Possiamo considerare due diverse categorie di alcaloidi dell’oppio, distinte da un punto di vista
prettamente strutturale: esistono quelli di derivazione fenantrenica come la morfina, codeina (con
potenziale narcotico) e la tebaina (forte pro-convulsivante), e quelli a struttura benzilisochinolinica come
la papaverina (miorilassante utilizzato nella terapia dell’impotenza), e la noscapina (antitussivo). È
possibile poi ricavare dalla codeina il destrometorfano, tramadolo e ossicodone, e dalla morfina
l’idromorfone, il naloxone. I derivati sintetici della difenilpropilamina sono il metadone, il
destropropossifene e il tapentadolo; i derivati dalle fenilpiperidine sono peptidina, meperidina
(demerol), fentanyl e congeneri, ed infine i derivati dei benzamorfani di cui il principale è la pentazocina.
Gli oppioidi presentano numerose somiglianze strutturali con alcuni neuropeptidi endogeni come le
endorfine, le encefaline, e le dinorfine; questa peculiarità consente agli oppioidi di modulare le funzioni
dei neuroni che presentano recettori per le endorfine. A proposito di neuropeptidi oppioidi endogeni,
questi risultano essere provvisti di alcune proprietà farmacologiche assimilabili alla morfina oltre ad

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un’elevata affinità per i recettori degli oppioidi; è possibile una loro classificazione in quattro diverse
famiglie per analogie strutturali e funzionali:
● ENCEFALINE con affinità δ>µ>>k
● ENDORFINE con affinità µ>δ>k
● DINORFINE con affinità k>δ> µ
● ENDOMORFINE µ
Le prime tre sono distribuite su SNC e periferia, l’ultima ha una distribuzione più limitata.
EXCURSUS SU ENCEFALINE
Prodotte da neuroni corti in aree per controllo dolore, modulazione comportamenti affettivi e memoria,
regolazione SNA e funzione neuroendocrina; vengono inoltre prodotte nelle cellule cromaffini della
midollare del surrene e dai neuroni peptidergici del plesso mioenterico. Esistono due diverse encefaline:
● Metionina-encefalina: 5 aa = Tyr, Gly, Gly, Phe, Met.
● Leucina-encefalina: 5 aa = Tyr, Gly, Gly, Phe, Leu.
La Met-encefalina deriva dalla pre-proencefalina A e il taglio di una endopeptidasi genera 4-5 copie di
Met-encefalina e due peptidi più lunghi; mentre i neuroni che producono Met encefalina non sono in
grado di sintetizzare Leu-encefalina, quelli che sintetizzano quest’ultima avranno viceversa capacità di
sintetizzare anche Met-encefalina.
EXCURSUS SU β ENDORFINE
Vengono prodotte dallo stesso precursore dell’ACTH, POMC (proopiomelanocortina), da parte di neuroni
lunghi dotati di assoni con varicosità che originano dal n. arcuato dell’ipotalamo: ciò rende possibile il
rilascio tramite tali varicosità nel III ventricolo e nello spazio subaracnoideo (cosiddetta trasmissione di
volumi a distanza), mentre sinapticamente il rilascio avviene su talamo, PAG, VTA (area tegmentale
ventrale), giro del cingolo, e corteccia prefrontale.
Le β endorfine sono sintetizzate dai neuroni del n. tratto solitario che proiettano a locus coeruleus,
midollo spinale, nucleo magno del rafe, ma sono anche prodotte dalle cellule corticotrope
dell’adenoipofisi e dai neuroni enterici e da cellule endocrine della mucosa nel GI, esprimendo un ruolo
centrale nel controllo della motilità intestinale.
I primi 5 aa della β endorfina sono gli stessi della
meta-encefalina, non essendo però quest’ultima
prodotta dal POMC; i primi 17 aa della β endorfina
formano la ɣ-endorfina-1-17 dalla quale deriva la
ɑ-endorfina-1-16 (attività anfetamino-simile) e la
destirosin-ɣ endorfina (potenziale antipsicotico).
EXCURSUS SU DINORFINE
Derivano da proencefalina B, o prodinorfina, che
contiene al suo interno la sequenza di dinorfina
della leu-encefalina. Da questo precursore si
formano la dinorfina-A-1-17; dinorfina-A-1-8, la
dinorfina-B-1-13, le ɑ e β neoendorfine e la Leu-encefalina e hanno una distribuzione simile alle
encefaline. Sono in grado di determinare disforia (alternanza di sentimenti), mediano risposte
avversative e depressione, invece del rinforzo positivo degli altri oppioidi. Il rinforzo positivo, proprio di
sostanze d’abuso e non (come il cibo), spinge il soggetto a fare di tutto per procurarsi di nuovo la
sostanza e consumarla. In alcuni individui anche l’attività sessuale è associata a rinforzo positivo.
Da un punto di vista biologico le sostanze che determinano rinforzo positivo, inducono un massivo

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rilascio di dopamina nell’area del nucleo accumbens.


Le dinorfine come detto prima mediano risposte avversative, cioè il soggetto cercherà di evitare la
sostanza; è da attribuire ad un utilizzo cronico di etanolo e alla cocaina un rilascio massivo di dinorfine
nel nucleo striato, nel nucleo accumbens e nell’amigdala.
NOCICETTINA
Viene anche detta orfanina e deriva dalla pro-nocicettina; è un peptide di 17 aa con Phe invece di Tyr
N-terminale, quindi la mancanza di OH impedisce il legame con recettori oppioidi classici. La nocicettina
ha il suo recettore specifico ovvero il NOP ed è rintracciabile nei neuroni degli strati superficiali delle
corna dorsali del midollo spinale, nel complesso sensorio del trigemino e nella PAG e nucleo del rafe.
Viene rilasciata sotto stress, e sembra esprimere azione sedativa oltre alla capacità di sopprimere la
gratificazione da morfina e alcol e antagonizzare l’analgesia sopraspinale da morfina.
Dallo stesso precursore della nocicettina si forma anche nocistatina che ha effetti analgesici senza
interagire con R oppioidi.
EXCURSUS SU ENDOMORFINE
Esistono l’endomorfina-1 (Tyr-Pro-Trp-Phe-NH2) e l’endomorfina-2 (Tyr-Pro-Phe-Phe-NH2) e sono dei
peptidi oppioidi endogeni il cui precursore non è ancora stato rintracciato; hanno alta affinità e
selettività per il recettore MOP. Sono localizzate nelle corna dorsali, nel nucleo spinale trigemino,
talamo, PAG, accumbens e amigdala.
Una tale distribuzione neuroanatomica delle endomorfine riflette il loro potenziale ruolo endogeno in
molti processi fisiologici maggiori, come la percezione del dolore, le risposte correlate allo stress, e
funzioni complesse quali ricompensa, eccitamento e vigilanza così come l’omeostasi autonomica,
cognitiva, neuroendocrina e limbica.

3.1. MECCANISMI EFFETTORI RECETTORIALI DEGLI OPPIOIDI


I recettori per gli oppioidi sono GPCR accoppiati a Gi e quindi la loro attivazione determina un’inibizione
dell’adenilato ciclasi, l’attivazione di canali al potassio recettore-regolati con conseguente
iperpolarizzazione della membrana cellulare, e una inibizione delle correnti al calcio
voltaggio-dipendenti, con la limitazione all’ingresso del calcio stesso; la conseguenza di tutto ciò è
l’inibizione al rilascio di neurotrasmettitori coinvolti nella trasmissione del dolore.
Tuttavia, il signalling accoppiato ai recettori oppioidi è molto più complesso; attraverso la subunità β-ɣ
delle proteine G, ci sarà l’attivazione della PLC con aumento di IP3 e calcio oltre all’attivazione della PKC
che attiva la via delle MAPK (regolazione della trascrizione genica). L’inibizione dell’adenilato ciclasi da
parte della subunità ɑi potenzia l’attivazione della via delle MAPK.
Il legame dell’agonista con il recettore degli oppioidi determina
l’attivazione delle proteine GRK, della PKC, della CaMKII, che
fosforilano il recettore oppioide attirando le β arrestine che sono
responsabili di una desensibilizzazione e internalizzazione del
recettore, ed oltretutto costituiscono una via alternativa per
l’attivazione delle MAPK.
I diversi agonisti del recettore oppioide ne possono determinare una
stabilizzazione in varie conformazioni che attivano una via o l’altra di
quelle sopra indicate; la differenza quindi tra i diversi farmaci in
commercio è proprio da questo punto di vista.
3.2. LOCALIZZAZIONE RECETTORI OPPIOIDI

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I recettori oppioidi hanno sono localizzati sia al livello pre che post-sinaptico; l’attivazione dei recettori µ
κ e δ sui terminali presinaptici delle fibre afferenti nocicettive riduce il rilascio di trasmettitori eccitatori
pro-dolore (glutammato, sostanza P, etc.). L'attivazione dei recettori µ postsinaptici determinano
aumento della conduttanza al K+ favorendo l’insorgenza di potenziali postsinaptici inibitori (IPSP) e
riduzione conseguente della scarica dei neuroni diretti ai centri superiori. È necessario ricordare che i
diversi recettori oppioidi, sono ulteriormente distinguibili in diversi sottotipi: i recettori MOP, presentano
i sottotipi MOP1, MOP2, MOP3 legati ed attivati con alta affinità dalla morfina ed equamente bloccati
dal naloxone. Mentre i primi due sono ampiamente diffusi in tutto il nostro organismo, i MOP3 sono
particolarmente espressi dai linfociti; il fatto che la morfina, contrariamente alle endorfine, leghi con alta
affinità MOP3, potrebbe spiegare perché la morfina sia un inibitore del sistema immunitario
contrariamente alle endorfine.
Tutti i recettori MOP sono coinvolti nella trasmissione nocicettiva ma in particolare ai recettori MOP2,
collocati al livello spinale, mediano l’analgesia spinale; viceversa l’analgesia sovraspinale è mediata dai
recettori MOP1 posizionati soprattutto su interneuroni GABAergici inibitori al livello della formazione
reticolare e della sostanza grigia periacqueduttale. Il blocco del neurone GABAergico inibitorio, che
controlla in modo inibitorio i neuroni della via discendente della modulazione negativa dello stimolo
doloroso, esita in una diminuzione del dolore.
I recettori DOP, distinguibili nei sottotipi DOP1 e DOP2, rispondono ugualmente alla morfina ma con
un’affinità minore rispetto ai MOP, ed entrambi sono antagonizzati dal naloxone che però ha un’affinità
70 volte superiore per i MOP; insieme ai MOP sono recettori euforizzanti.
Infine i recettori COP sono distinguibili nei COP1, coinvolti nell’analgesia spinale, e i COP3, che essendo
espressi nel tronco hanno un ruolo fondamentale nell’analgesia sopraspinale, oltre ad indurre analgesia
possono determinare disforia (a differenza di MOP e DOP che sono euforizzanti).

3.3. EFFETTI COLLATERALI


I recettori degli oppioidi hanno un’ampia distribuzione su tutto il
nostro organismo e questo da ragione delle azioni endogene del
sistema oppioide endogeno, che degli effetti collaterali associati
all’uso di oppioidi esogeni.
Possiamo schematizzare tali effetti collaterali attraverso una
suddivisione anatomica delle aree interessate:
SNC
Come osservavamo in precedenza, gli oppioidi possono causare
analgesia; siccome però i recettori oppioidi sono espressi in aree
diverse della corteccia, gli oppioidi potranno indurre anche
sedazione, euforia (sistema limbico) o disforia (attivazione recettori
COP). Tali recettori si trovano anche nel pavimento del 4 ventricolo, nella chemoreceptor trigger zone,
punto nel quale la BEE è particolarmente lassa favorendo il passaggio delle sostanze disciolte nel sangue,
definendo in questo caso nausea e vomito (MOP e DOP). I recettori MOP sono espressi nel nucleo di
Edinger Westphal definendo miosi.
Di norma quindi in caso di overdose, il paziente dovrebbe presentarsi con miosi, ma questo non si
verifica sempre. Infatti l’ipossia, definita nello stato di overdose dalla depressione del drive respiratorio,
è un importante induttore di midriasi. Per determinare se il paziente in questione sia in overdose o
nell’ambito di una sindrome d’astinenza, non possiamo affidarci ad una mera misurazione del diametro
pupillare supponendo che si dovrebbe avere miosi nell’overdose e midriasi nella sindrome d’astinenza.

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Gli oppioidi agendo su centri regolatori del respiro, localizzati nel tronco encefalico (centro apneustico e
chemiotassico), determinano una riduzione della frequenza respiratoria (risposta respiratoria alla CO2,
principale regolare del drive); nell’overdose il principale meccanismo di regolazione della respirazione è
invece rappresentato dalla pressione parziale di O2 nel sangue e quando questa si abbassa troppo
verranno inviati dai chemiocettori stimoli attivatori ai centri superiori. Questo è però un meccanismo
meno sensibile del primo e concorre alla definizione di un reperto caratteristico dell’intossicazione da
oppioidi ovvero il respiro periodico.
Gli oppiodi possono determinare episodi di convulsione non solo negli epilettici, perché abbassano la
soglia di attivazione dei neuroni del SNC.
La capacità che hanno gli oppioidi di inibire l’espressione del riflesso della tosse per l’azione inibitoria su
recettori oppioidi espressi nel centro bulbare che regola tale riflesso, giustifica l’utilizzo della codeina
come antitussivo.
L’azione inibitoria che tali composti possono definire attraverso recettori oppioidi espressi al livello del
centro di regolazione della temperatura corporea, può associarsi ad ipotermia.
Il fatto che i recettori oppioidi siano ampiamente espressi nelle aree limbiche (amigdala, corteccia
prefrontale, VTA, accumbens) e al livello dell’ippocampo dimostra anche l’effetto modificativo che hanno
sulla componente affettiva e mnesica del dolore. In altre parole gli oppioidi non solo interferiscono con
la percezione dello stimolo nocicettivo, riducendo la percezione del dolore somato-discriminativo, ma
interferiscono anche sulla componente emozionale.
È infatti frequentemente riferito da pazienti oncologici con dolori cronici sotto terapia con oppioidi, il
fatto di subentrare in uno stato di maggior consapevolezza e accettazione del dolore proprio perché gli
oppioidi sopprimono la componente emozionale.
APPARATO ENDOCRINO
Aumentata secrezione di PRL per la riduzione della produzione di dopamina, aumentata secrezione di
GH e ADH (ritenzione urinaria). Diminuzione del rilascio di GnRH mediata in parte dall’aumento del GH,
diminuzione di FSH, LH (amenorrea, impotenza). Diminuito rilascio di CRF, ACTH e β endorfina
(meccanismo a feedback inibitorio).
SISTEMA RESPIRATORIO
Lieve broncocostrizione determinata dal rilascio di istamina e depressione respiratoria (vedi sopra).
SISTEMA CARDIOCIRCOLATORIO
Vasodilatazione cutanea e prurito legata all’importante liberazione di istamina. Gli oppioidi determinano
inoltre ipotensione ortostatica per vasodilatazione dei vasi di capacitanza e resistenza, con conseguente
aumento della pressione endocranica, oltre a bradicardia per azione sui centri cardiocircolatori al livello
bulbare.
TRATTO GASTROINTESTINALE
Al livello del GI l’attivazione dei recettori oppioidi determinerà una riduzione dell’attività secretoria e
nausea e vomito per la riduzione della motilità intestinale con costipazione (non recede con terapia
prolungata).
Tale costipazione indotta dagli oppioidi è sfruttata nel trattamento della diarrea con il principio attivo
Loperamide (Imodium®) che ha un’azione locale nel tratto GI, non venendo ad essere assorbito, come
agonista del recettore µ MOP. Gli oppioidi possono causare ipertono dello sfintere di Oddi con aumento
pressione vie biliari e aggravamento coliche e calcoli renali (da evitare assolutamente per questo motivo
l’uso di morfina durante attacco acuto di colica renale); è possibile inoltre considerare la contrazione
dell’uretere e dello sfintere vescicale con conseguente ritenzione urinaria, e peggioramento dei sintomi

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IPB.
AZIONE TOSSICOMANIGENA
Tolleranza. Dipendenza fisica con sindrome da astinenza. Dipendenza psichica (concetti approfonditi più
avanti).
IMMUNODEPRESSIONE Eccetto metadone e tramadolo

3.4. INTERAZIONI CON ALTRI FARMACI


La Prof. legge la tabella, aggiunge solamente “Si ricordi l’effetto sul locus coeruleus” nella riga delle
interazioni con gli antipsicotici.

3.5. INDICAZIONI TERAPEUTICHE OPPIOIDI ESOGENI


● Trattamento del dolore soprattutto su dolore moderato e severo, acuto e cronico soprattutto di
tipo viscerale, sul quale i FANS e gli analgesici, con l’eccezione del dolore mestruale, non hanno
alcun effetto;
● Premedicazione alla chirurgia;
● Edema polmonare acuto (Morfina);
● Riduzione della motilità intestinale (Loperamide);
● Controllo della tosse (Codeina).
Gli oppioidi deboli rispetto agli oppioidi forti posseggono:
● Basso potenziale di dipendenza;
● Minore depressione respiratoria;
● Minore stitichezza;
● Tetto (se il dolore non migliora può essere necessario aumentare la dose, e se continua a non

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migliorare vuol dire che si è raggiunto tale tetto, oltre il quale si traggono soltanto effetti
collaterali e nessun beneficio.).
Obiettivo della terapia con oppioidi
Mantenere la dose più bassa possibile con farmaci a lunga durata d’azione. NON SOTTODOSARE. Al
tempo stesso non bisogna dare sempre le dosi massime perchè bisogna prendere in considerazione
l’evenienza di un episodio di dolore incidente (cosiddetto “breakthrough”) per il quale occorrerebbero
farmaci ad azione rapida che devono rientrare nel conteggio massimo giornaliero; per cui avere tenersi
sempre un margine.

3.6. CRITERI DI SCELTA DI UN OPPIOIDE


Ovviamente non è possibile parlare, come per qualsiasi altro farmaco, di oppioide ideale. Ci sono però
delle linee guida da seguire quando dobbiamo iniziare tale iter terapeutico:
1. Preferire agonisti pieni rispetto ai parziali perché questi ultimi non hanno un effetto
massimale sui recettori oppioidi. La buprenorfina, oppioide maggiore agonista parziale, non è
per questo usata nel trattamento del dolore ma è usata nella disintossicazione da eroina.
2. Evitare la tolleranza: questa può essere ottenuta attraverso una rotazione degli agonisti
oppioidi, operata in particolar modo nei pazienti oncologici ad uno stadio terminale.
3. Cercare di utilizzare oppioidi con minori effetti collaterali: anche se gli oppioidi sono molto
simili da questo punto di vista, bisogna tener presente il loro metabolismo; mentre alcuni
oppioidi sono glucoroconiugati altri sono metabolizzati dal CYP450.
Gli oppiodi che vengono metabolizzati da isoenzimi polimorfi daranno problemi di accumulo o
interazione farmacologica; un polimorfismo al livello di CYP2D6, essendo quest’ultimo
responsabile del metabolismo della codeina, potrà portare alla manifestazione di effetti
collaterali legati ad un suo accumulo.
La morfina e l’idromorfone sono metabolizzati per glucuronoconiugazione e quindi interazioni
o inibizioni rispetto a UGT possono essere dannose in tal senso.
4. Utilizzare oppioidi associati ad un minor rischio di abuso: questo è un rischio abbastanza
concreto sebbene siano state messe in commercio formulazioni che cercano di contrastare
tale evenienza, molto pericolosa soprattutto nel paziente tossicodipendente.
5. Preferire oppioidi con maggiore biodisponibilità per os: la morfina, subendo un forte
metabolismo di primo passaggio, ha una biodisponibilità per os molto scarsa, per questo si
somministra più che altro per via parenterale.
6. Preferire oppioidi con lunga durata d’azione, che non presentano metaboliti attivi e che
vengono eliminati come metaboliti non attivi.

4. DOLORE LIEVE-MODERATO
Le linee guida dell’OMS ci dicono che possiamo utilizzare i farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS)
o il paracetamolo e gli oppiacei deboli (codeina, tramadolo).
Gli oppiacei deboli più utilizzati sono la Codeina e il Tramadolo.

4.1. PARACETAMOLO
Vediamo più da vicino l’azione antalgica del paracetamolo e ciò che lo rende diverso dai FANS. Il
paracetamolo nonostante sia caratteristicamente incluso, soprattutto a fini di studio, tra i FANS, in realtà
non è uno di essi, perché non ha una spiccata azione antinfiammatoria, mentre è fondamentalmente un

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analgesico e un antipiretico.
In che cosa si distingue dai FANS?
Innanzitutto, ha un pKa neutro. Ciò significa che a pH neutro il farmaco si trova per il 50% in forma
dissociata e per il 50% in forma indissociata, e quindi circola poco legato perché non ha bisogno di essere
legato alle proteine plasmatiche per poter essere disciolto nel sangue, e si distribuisce in modo
omogeneo nell’organismo. È in grado di attraversare, per queste sue caratteristiche chimiche, molto
facilmente la BEE, diversamente dai FANS che sono degli acidi deboli e che tendono ad accumularsi nei
siti a pH acido.
Può raggiungere, quindi, il suo sito bersaglio centrale che è a livello degli interneuroni GABAergici della
sostanza grigia periacqueduttale (PAG). Gli oppioidi agiscono su questi interneuroni GABAergici
spegnendoli mentre il paracetamolo ne inibisce la produzione di PGE, li spegne e quindi potenzia le vie
nocicettive discendenti, quelle che modulano in modo negativo la trasmissione del dolore.
Ovviamente, poi, come fanno i FANS, agisce sulle vie nocicettive ascendenti, in particolare a livello del
terminale efferente del primo neurone nocicettivo dove inibisce la sintesi delle prostaglandine (PG) –
abbiamo visto che le prostaglandine hanno un ruolo centrale nella sensibilizzazione del terminale
nervoso allo stimolo doloroso – e quindi riduce in questo modo l’iperalgesia e l’allodinia.
Potenzia, inoltre, l’azione degli endocannabinoidi. Gli endocannabinoidi sono sostanze prodotte dal
nostro organismo (endogene) che agiscono sui recettori cannabinoidi, cioè sui recettori ai quali si legano
i derivati della cannabis. Gli endocannabinoidi hanno una struttura lipofila e vengono prodotti a partire
dall’acido arachidonico. Ora, poiché il paracetamolo blocca l’attività della COX, cioè della ciclossigenasi
che metabolizza l’acido arachidonico, in questo modo l’acido arachidonico rimane disponibile per la
formazione degli endocannabinoidi.
Inoltre, un suo metabolita, che prende il nome di AM404, è in grado di attivare il TRPV1, che è coinvolto
nella trasmissione dello stimolo doloroso, e quindi anche attraverso questo meccanismo il paracetamolo
è in grado di inibire la trasmissione dello stimolo nocicettivo al cervello (sembra controintuitivo ma la
prof dice proprio ciò e così è scritto nelle slide).
La dose massima di paracetamolo che si può assumere nell’arco delle 24 ore è di 3g, quindi non si deve
superare: infatti, pur essendo un farmaco molto sicuro (può essere somministrato in gravidanza), può
dare tossicità epatica*.
[*“I meccanismi della tossicità epatica da paracetamolo voi li conoscete già, se non ve li ricordate
andateveli a vedere perché, ovviamente, potrei chiederveli quando parliamo del paracetamolo.”
Estratto dalla sbobina realizzata da M. Montagnoli e I. Mariani sui FANS del 03/05/20 in riferimento al
paracetamolo:
«Ha una breve emivita plasmatica e subisce un metabolismo epatico con reazioni di solfo coniugazione e
glucuro-coniugazione. Se vengono saturate queste reazioni per dosi eccessive, interviene il CYP2E1, che
causa la produzione di un radicale tossico per il fegato, la parabenzochinonimmina. Per ridurre gli effetti
tossici che possono derivare da assunzione di dosi eccessive, si usa l’N-acetilcisteina, un precursore del
glutatione che, ridotto, inattiva il radicale tossico. Per capire se siamo a rischio di tossicità epatica da
paracetamolo, usiamo l’algoritmo che si chiama Linea200; esistono inoltre delle app che ci consentono di
capire se la dose è eccessiva. Tale linea si crea con un grafico: sull’asse delle ascisse si pongono le ore
dall’ingestione e si parte da 4 ore (perché prima non è attendibile il prelievo) per arrivare fino a 15 ore;
mentre, su quella delle ordinate, si pone la concentrazione di paracetamolo fino a 200, in mg/L. Si traccia
il primo punto con (4 ore; 200mg/L) e il secondo punto (15 ore; 30 mg/L). La retta che risulta è la linea
200. Se la concentrazione che trovo in un prelievo cade sopra tale retta (nell’ora corrispondente al mio

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prelievo), il paziente è a rischio di danno epatico, quindi sarà necessaria la NAC: sarebbe preferibile
intervenire entro le 8 ore dall’ingestione, ma è accettabile anche fino alle 36 ore. Oltre a somministrare
NAC devo necessariamente anche fare una lavanda gastrica, nel caso di intossicazione da
Paracetamolo.»]

4.2. CODEINA
La codeina è un debole agonista MOP.
Gran parte della sua azione è mediata dal suo metabolismo in morfina. Infatti, il 5-10% della dose della
Codeina è metabolizzata in morfina-6-glucuronide, che è attiva, ad opera del CYP2D6. Quindi nei
pazienti che hanno un’isoforma del CYP2D6 che funziona poco si ha una perdita di attività della Codeina,
perché viene ridotto il suo metabolismo in morfina (in altri termini, polimorfismi con perdita di funzione
riducono la sua efficacia).
Poiché è spesso necessario cambiare oppioide durante la terapia analgesica nel dolore cronico è
necessario conoscere l’equivalenza tra di essi e a questo scopo i diversi oppioidi sono tutti paragonati
alla morfina, in modo da sapere, rispetto a questa, la loro potenza analgesica. La Codeina è sei volte
meno potente, come analgesico, rispetto alla morfina; ha, tuttavia, un buon effetto antitussivo e infatti è
prevalentemente utilizzata (ma non solo) come antitussivo.
È un oppioide debole, quindi ha un tetto. Esso è di 240mg nelle 24h e non si deve superare perché non si
ottiene un aumento dell’effetto analgesico, ma un incremento degli effetti collaterali.
La Codeina, diversamente dalla morfina, è più attiva per os: l’effetto analgesico con questa via di
somministrazione è circa il 60% dell’effetto che si ottiene per via parenterale in quanto ha un ridotto
metabolismo di primo passaggio rispetto alla morfina.
In commercio esistono delle formulazioni di Codeina associate al Paracetamolo, i cui nomi commerciali
sono: Tachidol®, Co-efferalgan® e Codamol®. Tutte queste formulazioni contengono 500mg di
paracetamolo e 30mg di codeina e la posologia è di 3 somministrazioni al giorno. Questo tipo di
formulazione accoppiata paracetamolo-codeina ha un’attività antalgica superiore a quella dei suoi
componenti presi singolarmente, cioè abbiamo una sinergia di effetti con prolungamento anche della
efficacia nel tempo. Si ha un’azione sinergica perché il paracetamolo agisce sui meccanismi biochimici sia
centrali che periferici del dolore, cioè sulla sintesi delle prostaglandine, mentre la codeina agisce con un
altro meccanismo d’azione, cioè lega i recettori MOP.

4.3. TRAMADOLO
Il nome commerciale è Contramal®, ed è presente in commercio anche in associazione con il
paracetamolo, nelle specialità medicinali che prendono il nome di Patrol® e Kolibri®. In entrambe
abbiamo 37,5mg di Tramadolo associato a 325mg di paracetamolo. Questa associazione tramadolo
paracetamolo ha un’efficacia simile all’associazione codeina-paracetamolo che abbiamo visto prima,
ma appare di solito meglio tollerata rispetto ad essa.
Il tramadolo è un oppioide sintetico.
Si lega ai recettori MOP come principale meccanismo d’azione, ma ha anche dei meccanismi d’azione
addizionali e cioè inibisce la ricaptazione della noradrenalina (NA) e della serotonina (5-HT1a). Quindi
potenzia in parte la trasmissione noradrenergica e serotoninergica. Ora, i neuroni discendenti delle vie
discendenti nocicettive, cioè quelli che hanno il corpo cellulare nel PAG, sono dei neuroni
serotoninergici. Essendo la serotonina un importante modulatore negativo della percezione del dolore, il
tramadolo attraverso questo meccanismo riduce la percezione del dolore. Ugualmente, i neuroni
noradrenergici del locus coeruleus hanno un ruolo nella percezione del dolore, e quindi, inibendo la

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ricaptazione della noradrenalina, il tramadolo fa sì che vi sia più noradrenalina nella sinapsi. Questa può
attivare i recettori di tipo alfa 2, che sono inibitori perché accoppiati a proteine G inibitorie, che quindi
spengono il neurone nocicettivo riducendo la trasmissione del dolore.
Dal punto di vista strutturale il tramadolo è simile a un antidepressivo che si chiama Venlafaxina, quindi
ha una lieve azione antidepressiva, così come la Venlafaxina ha una lieve azione antalgica.
Dal punto di vista della potenza il tramadolo è 5 volte meno potente della morfina e ha un tetto che
equivale a 400mg nelle 24 ore. Quindi non si deve superare questa dose perché non si aumenterebbe
l’effetto antalgico, mentre aumenterebbero gli effetti collaterali.
Come indicazioni ha il trattamento del dolore post-operatorio, l’analgesia ostetrica, quindi si può
utilizzare nell’analgesia epidurale, e il dolore neoplastico. Non è invece indicato come analgesico
nell’anestesia bilanciata perché determina un aumento dell’awareness, della consapevolezza
intraoperatoria, quindi questo determina ovviamente apprensione nel paziente. Il tramadolo è un
oppioide piuttosto sicuro sia per la funzione cardiaca che per la funzione renale, e quindi può essere
somministrato anche a pazienti che abbiano una funzione cardiaca e una funzione renale compromessa.
Può essere di utilità nel disturbo ossessivo-compulsivo in associazione agli SSRI, allo scopo di potenziare
l’azione di questi ultimi proprio perché il tramadolo determina una riduzione della captazione della
serotonina. Gli SSRI, infatti, sono gli antidepressivi che agiscono inibendo la ricaptazione della
serotonina, quindi potenziano la trasmissione serotoninergica. Il tramadolo sembra agire anche sul
recettore della serotonina che è il 5-HT1a, che è un recettore accoppiato a proteine G inibitorie che,
quando attivato, riduce il rilascio di glutammato a livello corticale. Un aumento del rilascio di
glutammato corticale sembra essere coinvolto nel disturbo ossessivo-compulsivo. Ovviamente, come
tutte le volte che si utilizza un farmaco che potenzia la trasmissione serotoninergica insieme ad un altro
farmaco con la stessa azione, il rischio è la sindrome serotoninergica, quindi bisogna stare sempre molto
attenti. Questo non deve mai essere fatto soprattutto nelle persone anziane, è molto pericoloso.
Può essere utilizzato, ma non ha l’indicazione, nell’eiaculazione precoce. In realtà esiste un farmaco che
ha invece indicazione nell’eiaculazione precoce che appartiene alla classe degli SSRI ma non è utilizzato
come antidepressivo: è la Dapoxetina, che, rispetto agli altri SSRI, ha una breve durata d’azione perché
viene velocemente eliminato, quindi va bene per l’eiaculazione precoce. Sempre per l’eiaculazione
precoce è possibile anche utilizzare uno spray topico che contiene lidocaina e prilocaina (anestetici
locali), e in questo caso bisogna assolutamente utilizzare il condom, perché altrimenti si veicolano alla
partner questi anestetici.
Il tramadolo è un farmaco molto abusato: è noto anche come “droga del combattente” perché causa
euforia e blocca l’affaticamento. Attenzione: si chiama droga del combattente perché è utilizzata in
guerra, soprattutto da eserciti “irregolari” come quello dell’ISIS, perché toglie la paura, causa euforia e fa
sentire infaticabili i combattenti. Non è, però, la cosiddetta droga dell’ISIS: questo termine viene riferito
al Captagon, che è un mix di anfetamine e caffeina, ed è stata sequestrata anche questa in grandi
quantità proprio tra le persone arruolate nell’ISIS; veniva utilizzata proprio per compiere questi atti
terroristici perché fa sì che le persone siano iperattivate e non affaticate.
Per quanto riguarda la farmacocinetica, si trova in commercio in formulazione per somministrazione
orale: vi sono delle gocce che sono molto utili per dosare il farmaco e normalmente la dose di attacco
giornaliera è di 15 – 20 gocce ogni 6 ore, quindi si inizia sempre con una dose più bassa e si titola
lentamente. La dose di mantenimento può arrivare, se necessario, a 50-100mg da somministrarsi 4 volte
al giorno. 50mg corrispondono a 29 gocce e 100mg, ovviamente, al doppio. Questa è una formulazione a
rilascio immediato, che deve sempre essere utilizzata all’inizio della terapia per stabilire la dose. Poi

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esiste una formulazione a rilascio prolungato che viene data 2 volte nelle 24 ore, sempre per os. A
questa formulazione si può passare nel momento in cui si è identificata la dose efficace per il paziente.
Esistono poi delle formulazioni per via parenterale (IM e EV) che hanno un’azione più veloce, in 2-3
minuti, rispetto alla formulazione orale che impiega invece circa 30 minuti per agire. Le formulazioni per
via parenterale normalmente vengono somministrate in dosi di 100mg ogni 4-6 ore. Nel post-operatorio
è utile la somministrazione per via endovenosa che può avvenire sotto forma di bolo lento, cioè 100mg
in 30 minuti. Il tramadolo è ampiamente assorbito quando dato per os; è, inoltre, poco legato (20%) alle
proteine plasmatiche ed ha un’emivita plasmatica di circa 6 ore. Viene metabolizzato nel fegato dal
CYP3A4 e dal CYP2D6 per demetilazione e poi viene escreto dopo essere stato coniugato con acido
glucuronico. L’eliminazione è prevalentemente renale: il 60% viene eliminato dopo essere stato
metabolizzato, il 30% è eliminato in forma immodificata, cioè non metabolizzata dal rene, e si ha un 10%
di eliminazione fecale.
Gli effetti avversi sono quelli classici degli oppioidi, ma essendo questo un oppioide minore, ne dà di
meno. Si hanno: nausea, cefalea, sonnolenza, può dare costipazione, negli anziani può dare confusione
mentale e allucinazioni e crisi epilettica. Ora, il fatto che il tramadolo abbassa la soglia delle convulsioni è
un problema, perché lo fa per dosi che sono molto molto vicine alle dosi antalgiche, quindi, nel caso di
non risposta al tramadolo, di insufficiente controllo del dolore, non conviene aumentare la dose del
tramadolo ma conviene passare ad un altro oppioide, proprio perché c’è un maggior rischio di crisi
epilettiche rispetto all’efficacia del controllo del dolore.

5. DOLORE MODERATO-GRAVE
Nel caso del dolore moderato-grave devono essere introdotti in terapia gli oppioidi forti.

5.1. MORFINA
La morfina è presente in commercio come morfina solfato e come morfina cloridrato (quest’ultima è
iniettabile). La biodisponibilità orale della morfina è molto bassa e quindi, nonostante ci siano
formulazioni per os, nel caso di dolore grave, il controllo del dolore si ottiene meglio con la
somministrazione per via parenterale. Esistono delle formulazioni per via sottocutanea che sono da
preferire rispetto all’intramuscolo, perché la somministrazione intramuscolare di morfina è
estremamente dolorosa e, inoltre, l’assorbimento non è regolare, mentre per via sottocutanea
l’assorbimento è molto più regolare. Bisogna considerare, se si passa dalla somministrazione orale alla
formulazione sottocutanea, che aumenta molto la biodisponibilità, perché la formulazione sottocutanea
bypassa il metabolismo di primo passaggio, e quindi la biodisponibilità aumenta fino all’80% rispetto alla
formulazione orale. 20-30mg per os sono equianalgesici, cioè producono lo stesso grado di analgesia, se
dati come 10mg per via sottocutanea. Esistono anche formulazioni per via endovenosa. La morfina può
essere inoltre usata per l’anestesia epidurale (non nel parto) e intratecale (in quest’ultimo caso l’effetto
dura a lungo, per 24 ore). Può essere somministrata anche per via intrarticolare.
Per os abbiamo una formulazione a rilascio immediato che prende il nome commerciale di Oramorph®.
Viene data ogni 4 ore e si utilizza per individuare la dose, ma anche nel dolore breakthrough (anche se in
realtà, per questo, vengono utilizzati prevalentemente altri farmaci). La dose che si utilizza all’inizio e in
pazienti già trattati con oppiacei deboli è di 10mg, cioè 8 gocce; nei pazienti naïves agli oppiacei, in cui è
necessario, per l’intensità del dolore, iniziare subito con un oppiaceo forte, senza aver ricevuto prima gli
oppioidi deboli, si inizia con 5mg, cioè 4 gocce, ogni 4- 6 ore. Se invece il paziente era già in terapia con
oppioidi maggiori e si vuole fare un cambio, allora ovviamente bisogna consultare le tabelle di
equivalenza analgesica del diverso oppioide. Nella fase di inizio della terapia, quando si deve individuare

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il dosaggio adatto al singolo paziente, bisogna ricalcolarlo ogni 24 ore se nella giornata lo si è aumentato,
in modo da ridistribuire il dosaggio totale nelle 6 somministrazioni giornaliere il giorno dopo. Quindi se
per esempio io ho aumentato la dose la sera e il paziente aveva preso ovviamente altre dosi la mattina e
il pomeriggio, alla fine della giornata mi ricalcolo la dose totale e la divido in modo uguale nelle 6
somministrazioni giornaliere. Una volta che è stata stabilita la dose si può passare alle formulazioni a
rilascio prolungato. Il nome commerciale del rilascio prolungato è MS Contin®, e con questa
formulazione la morfina si somministra ogni 12 ore.
Per quanto riguarda la latenza d’azione, l’inizio dell’azione analgesica si vede, con le formulazioni a
rilascio immediato dopo 15-60 minuti, con le formulazioni a rilascio prolungato dopo 60-90 minuti, se
viene somministrata per via endovenosa l’azione analgesica si vede in meno di un minuto, per via
sottocutanea in 15-30 minuti, per via intramuscolare, che però non è utilizzata, in 1-5 minuti. Il picco
dell’effetto si ha dopo circa 60 minuti per le formulazioni a rilascio immediato, dopo 1-4 ore per le
formulazioni a rilascio prolungato, endovena in 5-20 minuti, sottocute in 50-90 minuti, intramuscolo in
30-60 minuti. La durata d’azione è di 3-4 ore per il rilascio immediato, di 6-12 ore per il rilascio
prolungato, e di 2-7 ore quando data per via parenterale (IV/IM/SC).
Le indicazioni sono: dolore acuto e cronico severo e il dolore neoplastico. La morfina può essere anche
data nel dolore anginoso che non si risolve con i nitrati: in questa indicazione il dosaggio, se il paziente
non è ipoteso o comunque non è a rischio ipovolemia, è dai 2 ai 4mg per via endovenosa o per via
sottocutanea, ripetibili se il dolore non cessa. Però quando si utilizza la morfina nel dolore anginoso
bisogna stare attenti perché se in realtà il paziente sta avendo un infarto miocardico, la morfina modifica
la cinetica e l’assorbimento degli antiaggreganti orali che si utilizzano obbligatoriamente nel paziente con
sindrome coronarica acuta. Quindi il clopidogrel, il ticagrelor e il prasugrel sono metabolizzati
maggiormente in presenza di morfina e quindi si riduce il loro effetto antitrombotico. La morfina è
indicata anche nell’edema polmonare acuto per risolvere la dispnea perché vasodilata e, quindi, riduce
le resistenze periferiche.
Dal punto di vista farmacocinetico abbiamo detto che, quando somministrata per os, ha una bassa
biodisponibilità (25%) perché è soggetta a metabolismo di primo passaggio, quindi è da preferire la via
parenterale. Circola poco legata alle proteine plasmatiche (30%) e ha un’emivita plasmatica breve (2-3
ore). Il metabolismo è epatico e avviene per formazione di morfina-6-glucuronide, quindi per
glucuronazione; la morfina-6-glucuronide è attiva e poi viene ulteriormente metabolizzata in metabolita
inattivo che è la morfina-3-glucuronide. Quest’ultimo viene eliminato per via renale e soltanto il 10%
viene eliminato per via fecale.
La morfina non deve essere utilizzata per il dolore nel parto o in gravidanza perché l’UGT fetale è poco
attiva e quindi il feto può andare incontro a morte per depressione respiratoria.
È controindicata nei gravi traumi cranici perché causa aumento della pressione endocranica (aumento
della pressione nel liquido cefalorachidiano per dilatazione dei vasi cerebrali), quindi questo e in
generale quasi tutti gli oppioidi non dovrebbero essere utilizzati in questo caso.
Tra gli effetti collaterali, oltre a quelli classici che abbiamo visto degli oppioidi, la morfina è molto attiva
nel rilasciare istamina. È un meccanismo che non correla con l’attivazione dei recettori oppioidi e che
dipende dal tipo di molecola e può, proprio per questo, provocare ovviamente sia effetti locali come
l’orticaria e il prurito nel sito di iniezione, sia effetti sistemici come ipotensione, per vasodilatazione, e
broncocostrizione che può essere anche grave nei pazienti asmatici.

5.2. OSSICODONE
Nome commerciale: OxyContin®.

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È un oppioide semisintetico commercializzato da moltissimi anni, tuttavia soltanto recentemente si è


scoperto che, soprattutto le formulazioni a lento rilascio, sembrano avere meno effetti collaterali della
morfina. Agisce sia sui recettori MOP, sia sui recettori KOP. L’ossicodone è un farmaco molto abusato dai
tossicodipendenti, che frantumano le compresse e se le iniettano, oppure le sniffano, infatti viene
assorbito anche dalla mucosa nasale. Lo sballo con l’ossicodone dura circa tre ore ed è molto più rapido
ad instaurarsi rispetto a quello fornito ad esempio dall’etanolo. Causa perdita di coscienza molto
facilmente, depressione respiratoria, collasso cardiocircolatorio, atrofia neuronale (quindi con danno
permanente) quando viene iniettato e consumato come droga. La potenza di una dose somministrata
per os è di due volte quella della morfina per os.
Esiste in commercio come compresse orali a diverso dosaggio (5, 10 e 20mg). È possibile anche
somministrarlo per via endovenosa e per via sottocutanea e la dose normalmente va dai 5 agli 80mg al
giorno. È somministrabile anche per via rettale e per via nasale, ma queste formulazioni non sono in
commercio in Italia. La dose iniziale varia comunque può essere una dose accettabile quella di circa
10mg nelle 12 ore.
L’indicazione è il dolore acuto e cronico da moderato a severo, il dolore neoplastico e quello
neuropatico. In realtà tutti gli oppioidi sono attivi nel dolore neuropatico, basta salire di dose,
l’ossicodone però sembra essere tra quelli più efficaci.
L’assorbimento per via orale è dell’85%, è legato alle proteine plasmatiche per il 45-50%, e ha un’emivita
che va dalle 3 alle 4 ore e mezza. Viene metabolizzato dal CYP3A4 e dal CYP2D6, ed è eliminato dal rene.
Soltanto il 19% della dose è eliminato non modificato.
Esistono due formulazioni: una è in associazione al paracetamolo, una formulazione a rilascio
immediato, con tutte e tre le dosi di ossicodone (sia 5, sia 10, sia 20mg) associate con la stessa dose di
paracetamolo di 325 mg (nome commerciale di questa formulazione è Delpagos®); poi esiste una
formulazione con naloxone che prende il nome commerciale di Targin®. Essa è una formulazione a
rilascio prolungato che viene somministrata due volte al giorno. Il naloxone è un antagonista dei
recettori oppioidi che viene somministrato con ossicodone perché per os non è assorbito. Quindi rimane
nel tratto gastrointestinale e serve a contrastare l’effetto collaterale più antipatico e che non va in
tolleranza degli oppioidi che è la stipsi. Ovviamente se le compresse di Targin® vengono utilizzate da un
tossicodipendente che le frantuma e se le inietta, allora in quel caso il naloxone raggiunge il sistema
nervoso centrale e non solo antagonizza la dose di ossicodone ma induce la precipitazione in una crisi di
astinenza. Quindi in realtà questo tipo di formulazione non può essere abusata da parte di un
tossicodipendente.
Come effetti collaterali l’ossicodone può causare perdita di memoria, stipsi ovviamente, affaticamento,
vertigini, nausea, xerostomia (bocca secca) e poiché fa rilasciare istamina, dà prurito, può causare
disturbi visivi dovuti alla miosi, quindi alterazione dell’accomodazione, e disturbi gastrointestinali.

5.3. IDROMORFONE
È, tra i farmaci oppioidi semisintetici, il più potente. Ha una potenza pari a otto volte quella della
morfina.
In Italia, e in Europa in generale, l’idromorfone esiste nella formulazione che prende il nome
commerciale di Jurnista® che ha indicazione nel trattamento del dolore severo. Jurnista® è una
particolare formulazione che utilizza il sistema OROS, la cosiddetta tecnologia push-pull, cioè sono delle
compresse orali a rilascio prolungato controllato nelle 24 ore. Quindi si prende una sola compressa e
questa rilascia in modo costante nelle 24 ore la dose di idromorfone. La dose iniziale di Jurnista® è di
8mg nelle 24 ore. L’assorbimento per via orale è molto buono (oltre il 90% della dose è assorbita), circola

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poco legata alle proteine plasmatiche (25-30%), ha un’emivita plasmatica di 2- 3,5 ore. È metabolizzata
dal CYP3A4 e dal CYP2D6, tuttavia questa formulazione a lento rilascio riduce il metabolismo, e quindi
riduce ovviamente anche tutti i problemi legati sia alle interazioni metaboliche, sia il problema dei
polimorfismi del CYP2D6. L’eliminazione è renale, un 19% della dose è rilasciato in forma non modificata.
Gli effetti avversi sono uguali a quelli che abbiamo già visto per l’ossicodone (perdita di memoria,
costipazione, affaticamento, vertigini, nausea, bocca secca, ansia, prurito, diaforesi, disturbi visivi dovuti
alla miosi e disturbi gastrointestinali); l’idromorfone essendo molto potente non deve mai essere
associato agli inibitori delle MAO (iMAO).
Abbiamo detto che la formulazione in commercio in Europa di idromorfone utilizza un sistema osmotico
detto OROS che permette il lento rilascio del principio attivo in circolo. È interessante conoscere come è
fatto questo sistema osmotico. La compressa è formulata in questa maniera: il principio attivo è rivestito
da una membrana esterna idrofobica insolubile e semipermeabile, quindi una membrana osmotica, che
è dotata di un piccolo orifizio. Il principio attivo è all’interno, insieme ovviamente agli eccipienti
necessari per la compressione e ad un agente osmotico. Quando ingerisco il farmaco, all’esterno della
compressa si ha una concentrazione di soluti molto bassa che è quella che si trova nei fluidi biologici,
mentre all’interno si ha la soluzione concentrata del principio attivo con l’agente osmotico. Quindi
l’acqua entra per diffusione, secondo la velocità che dipende ovviamente dall’affinità per questa
membrana semipermeabile osmotica. Man mano che l’acqua entra fa aumentare all’esterno la pressione
idrostatica, perché la membrana è rigida e non può aumentare di volume, dunque aumenta la pressione
idrostatica. E poiché c’è su questa membrana un foro, appena si crea una sufficiente pressione
idrostatica, la soluzione con il principio attivo è spinta fuori alla stessa velocità con cui entra l’acqua.
Questo, appunto, permette il rilascio controllato nelle 24 ore.

5.4. TAPENTADOLO
È un oppioide completamente sintetico, ed è un amminocicloesanolo.
Il nome commerciale è Palexia®. Oltre a legarsi ai recettori MOP inibisce la ricaptazione di noradrenalina,
quindi aumenta la noradrenalina a livello delle sinapsi. Esiste in formulazioni sia a rilascio immediato, in
capsule da 50, 75 o 100mg, sia a rilascio prolungato e qui le dosi partono da 25mg e raggiungono i
250mg a compressa. La massima dose di tapentadolo nelle 24 ore che può essere somministrata sono
500mg. Le indicazioni del tapentadolo non includono il dolore neoplastico e quindi si può utilizzare nel
dolore cronico severo, nella polineuropatia diabetica periferica, nel dolore neuropatico in generale.
La somministrazione avviene due volte al giorno (normalmente si danno 100-250mg 2 volte al giorno), è
assorbita molto bene dopo somministrazione per os, è poco legato alle proteine plasmatiche, ha
un’emivita plasmatica di 5 ore ed è metabolizzato per glucuro-coniugazione. L’eliminazione è renale e
avviene nelle 24 ore successive alla somministrazione al 95%.
Il tapentadolo ha un buon profilo di tollerabilità e di sicurezza, una bassa incidenza di depressione
respiratoria e di depressione cardiaca e ha anche un basso potenziale di indurre dipendenza.

5.5. MEPERIDINA
La meperidina cloridrato, detta anche petidina, ha un’equivalenza con la morfina che è di circa 10 volte:
70-100mg orali di meperidina equivalgono a 10mg di morfina.
La meperidina è un agonista MOP che ha una breve latenza d’azione, agisce in dieci minuti. Ha un effetto
di primo passaggio e per il 60% viaggia legata alle proteine plasmatiche. Viene metabolizzata in
normeperidina, che è un metabolita che può dare tremori e favorire le convulsioni. Rilascia istamina,
causa stipsi, ma meno rispetto alla morfina, e causa anche meno ritenzione urinaria.

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Può essere utilizzato in ostetricia, quindi per il dolore del travaglio, perché non determina il rilassamento
della muscolatura uterina. È utilizzato in analgesia, può essere scelto rispetto alla morfina perché,
abbiamo detto, causa meno stipsi e meno ritenzione urinaria. Si sviluppa - e questo è ovviamente un
fatto positivo - tolleranza con l’uso della meperidina cloridrato anche per la depressione respiratoria,
però dosi cumulative possono dare una sindrome eccitatoria che è causata dalla nor-meperidina.
Congeneri della meperidina sono la Loperamide e il Difenossilato, che hanno indicazione come
antidiarroici.

5.6. FENTANIL (o anche Fentanyl)


È un oppioide totalmente sintetico derivato dalla meperidina ed è un agonista dei recettori MOP. È
molto potente: ha una potenza di circa 70 volte quella della morfina.
Ha diverse indicazioni: è indicato per la medicazione preoperatoria, per la neuroleptoanalgesia, e per
l’anestesia epidurale.
È indicato anche per il dolore cronico severo, che però deve essere stabilizzato, con rare riacutizzazioni.
In questo caso la formulazione che si utilizza è il cerotto transdermico Durogesic® che è disponibile con
diverse concentrazioni di fentanil, da 25 a 100 microgrammi che vengono rilasciati in un’ora. Questo tipo
di formulazione di fentanil può essere utilizzata soltanto nel dolore cronico severo stabilizzato, non si
può dare nel dolore acuto oppure nel dolore postoperatorio, perché non si può determinare il giusto
dosaggio nel breve termine. Quindi il paziente deve essere già in terapia con oppioidi e si deve
conoscere qual è la dose di oppioide che controlla il dolore del paziente. È molto importante anche che i
cerotti non siano esposti al calore o al sole perché questo determina un aumento del rischio di
sovradosaggio, cioè viene rilasciato più velocemente il fentanil dal cerotto.
Terza indicazione è il dolore post-chirurgico, in una formulazione a rilascio controllato direttamente dal
paziente. Questa è, ovviamente, una formulazione disponibile solo in ospedale, il cui nome commerciale
è Ionsys®. Questa formulazione permette al paziente di premere un pulsante che consente il rilascio di
40 microgrammi fino a 6 volte in 1 ora. Dopo 24 ore dalla prima dose o dopo 80 dosi il sistema smette di
funzionare. Il paziente deve essere sempre prima titolato con fentanil o morfina endovenosa per
individuare la dose di fentanil efficace. Quindi la formulazione a rilascio controllato dal paziente non si
può utilizzare come prima formulazione di fentanil o di oppioide che il paziente utilizza. Bisogna prima
conoscere la dose che funziona per controllare il dolore e per questo motivo bisogna utilizzare una
soluzione endovenosa che permette la titolazione rapida (di fentanil o morfina). Una volta che si
conosce la dose allora si può somministrare questa formulazione a rilascio controllato dal paziente.
Quarta indicazione: il fentanil può essere utilizzato per il dolore episodico intenso, il cosiddetto dolore
breakthrough, quello che insorge in un paziente che è in terapia ed è controllato dagli oppioidi ma che,
in determinati momenti della giornata, ha dei picchi improvvisi di dolore. Le formulazioni per questo tipo
di dolore sono: sotto forma di lecca-lecca, lollipop in inglese, orosolubile, o compresse effervescenti; il
nome commerciale di queste formulazioni è Actiq® ed è in commercio in dosi da 200 a 1600
microgrammi da consumare entro 15 minuti. Si inizia sempre con la dose più bassa, cioè 200
microgrammi; se dopo 15 minuti dalla fine della dose, quindi dopo 30 minuti dall’inizio della terapia, non
si è ottenuta l’analgesia, si può somministrare una seconda unità di uguale concentrazione. Il singolo
episodio di dolore breakthrough non può essere trattato con più di 2 unità di Actiq®, e nell’arco delle 24
ore non possono essere somministrate più di 4 unità di Actiq®. Il fentanil per il dolore breakthrough non
può essere dato a pazienti naïve: il paziente deve essere già, infatti, assuefatto agli oppioidi, e questo
significa che il paziente deve aver preso da almeno una settimana 60mg/die di morfina per os oppure
l’equivalente di fentanil (25 microgrammi al giorno) transdermico, oppure 80 milligrammi al giorno di

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ossicodone. Questo perché, altrimenti, c’è il pericolo di arresto respiratorio se il paziente non è già
assuefatto alla terapia con oppioidi. Esiste anche una formulazione come spray nasale, sempre con
indicazione per il dolore breakthrough. In realtà abbiamo 2 specialità medicinali in spray nasale: il
PecFent®, che è disponibile in 100 microgrammi e in 400 microgrammi per erogazione, e l’Instanyl®, che
è disponibile in 50, 100 e 200 microgrammi ad erogazione. Si possono somministrare al massimo 4 dosi
al giorno di spray a distanza di 4 ore.
Il fentanil viene rapidamente assorbito quando viene somministrato, viaggia nel sangue legato per l’80%
alle proteine plasmatiche e ha un’emivita plasmatica di 4 ore. È metabolizzato dal CYP3A4 per
dealchilazione e idrossilazione ed è eliminato prevalentemente dal rene.
Essendo un oppioide molto potente può causare depressione respiratoria (abbiamo visto che non può
essere somministrato in pazienti naïve agli oppioidi), causa vertigini, tremori, mioclonie, convulsioni,
ovviamente tutti i disturbi gastrointestinali (nausea, vomito e stipsi), e inoltre dà interazioni
farmacodinamiche con le benzodiazepine.
Poiché è molto metabolizzato dal CYP3A4 da interazioni farmacocinetiche con farmaci induttori e
inibitori, ed esso stesso può causare alterazione del metabolismo degli altri farmaci metabolizzati dal
CYP3A4.
Diversamente dalla morfina il fentanil non determina liberazione di istamina, e quindi non causa reazioni
correlate ad essa, cioè le reazioni di ipersensibilità e la vasodilatazione.
Congeneri del Fentanil sono il remifentanil, il sufentanil, e l’alfentanil. Questi fanno parte del gruppo
degli oppioidi a rapida insorgenza d’azione (rapid onset opioids, i ROO).
Il Remifentanil ha una potenza pari a due volte quella del fentanil ed è caratterizzato da un’insorgenza
rapidissima dell’analgesia, in 1 minuto. Viene somministrato in infusione endovenosa continua, per le
procedure dolorose di breve durata, e può anche essere utilizzato insieme, ovviamente, ad altri farmaci
anestetici per l’induzione o il mantenimento dell’anestesia generale. Il remifentanil ha un legame estere
nella molecola e per questo motivo viene rapidamente metabolizzato per idrolisi dalle esterasi
plasmatiche e tissutali, quindi non ha rischio di accumulo. La sua emivita è di solo 4 minuti dopo
un’infusione di 4 ore. È eliminato prevalentemente dal rene (85%) sotto forma di metabolita inattivo e
poco con la bile.
Il Sufentanil è ancora più potente: la sua potenza è 5-10 volte maggiore di quella del fentanil. Ha
indicazioni nell’anestesia bilanciata da 1 anno di età in su ed è molto spesso utilizzato come adiuvante
analgesico insieme al protossido di azoto, ma può anche essere utilizzato come unico agente anestetico
nei pazienti con ventilazione assistita. Ovviamente può essere utilizzato nell’anestesia epidurale, nel
travaglio, e nel dolore postchirurgico. Ha anche esso un rapidissimo effetto e una breve durata d’azione;
circola molto legato, quindi ha un ridotto volume di distribuzione che rende l’eliminazione del farmaco
rapida e la sua azione di breve durata. Non da accumulo neanche quando viene utilizzato in infusioni
prolungate, quindi da questo punto di vista è un farmaco sicuro. È spiccatamente vagotonico: abbiamo
visto che tutti gli oppioidi potenziano la trasmissione colinergica e inibiscono invece quella
noradrenergica. In questo caso, per evitare la bradicardia che si avrebbe, bisogna somministrare una
piccola dose endovena di un anticolinergico - di solito si utilizza l’atropina - appena prima dell’induzione
dell’anestesia. Il nome commerciale del sufentanil in formulazione sublinguale è Zalviso®, che si utilizza
per il dolore postchirurgico. Il paziente può autoerogarsi Zalviso® con un apparato di erogazione
apposito che permette l’erogazione di 15 microgrammi ogni 20 minuti per un massimo di 72 ore, poi
ovviamente smette di funzionare, questo per evitare l’overdose. Il farmaco è metabolizzato dal CYP3A4,

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quindi da ovviamente tutte le interazioni farmacocinetiche con altri farmaci metabolizzati dal CYP3A4 e
con i suoi induttori e inibitori.
L’Alfentanil ha una potenza di 5-10 volte il fentanil ed ha come indicazione l’induzione e il
mantenimento dell’anestesia nell’adulto. Viene somministrato in bolo per via endovenosa per brevi
interventi ambulatoriali perché, appunto, è caratterizzato da una rapida insorgenza ed una breve durata
d’azione. È utilizzato anche in infusione per via endovenosa per anestesie che devono durare di più.
Circola molto legato alle proteine plasmatiche ed essendo molto legato vale quello che abbiamo detto
per il sufentanil, cioè non dà luogo a fenomeni di accumulo rilevanti anche se viene somministrato per
infusioni prolungate. Anche esso è vagotonico, quindi anche in questo caso bisogna somministrare
l’atropina, e viene metabolizzato dal CYP3A4, quindi valgono tutte le interazioni farmacocinetiche del
CYP3A4.

6. EFFETTI COLLATERALI CON OPPIOIDI


Vediamo adesso alcuni problemi che si possono verificare con gli oppioidi.
6.1. OVERDOSE
Innanzitutto, l’overdose, che si verifica più facilmente nel tossicodipendente che consuma oppioidi come
droghe. La sintomatologia è: miosi con pupille areattive allo stimolo luminoso, tuttavia se c’è ipossia ci
può essere midriasi. La respirazione è superficiale, con 2-3 atti respiratori al minuto. Si ha induzione di
ipotermia, i riflessi osteo-tendinei sono ridotti o assenti, c’è danno muscolare con rabdomiolisi. Poiché
c’è insufficienza respiratoria si riscontra cianosi; a livello dell’apparato cardiovascolare hanno bradicardia
e vasodilatazione, quindi ipotensione grave; a livello del sistema nervoso centrale il problema
fondamentale è una grave depressione respiratoria, ma si ha anche un’assenza di risposta agli stimoli
esterni e anossia cerebrale. Se non si interviene rapidamente l’evoluzione è quella dell’insufficienza
cardiorespiratoria acuta con coma e morte. La terapia è con antagonisti dei recettori oppioidi.
Bisogna, ovviamente, mantenere la pervietà delle vie aeree, quindi bisogna assistere la respirazione,
somministrare ossigeno, mantenere il circolo e se ci sono convulsioni bisogna trattarle.
L’overdose abbiamo detto si verifica più frequentemente nei tossicodipendenti che abusano degli
oppioidi facendone un uso ricreazionale. L’oppioide che viene utilizzato dai tossicodipendenti è l’eroina.
L’eroina è la diacetilmorfina, che si differenzia dalla morfina perché è molto lipofila e quindi passa
velocemente la BEE e dà rapidamente gli effetti centrali. È questo il motivo per cui viene preferita alla
morfina dai tossicodipendenti. L’eroina viene deacetilata in tutti i tessuti, si forma la
6-monoacetilmorfina, che poi viene ulteriormente deacetilata nel fegato in morfina e poi subisce lo
stesso metabolismo della morfina che già conosciamo (quindi viene glucuronata a livello epatico).
La caratteristica dell’overdose da eroina è, oltre ai segni e sintomi già elencati, la facilità della
depressione respiratoria, che causa ipossia; l’ipossia determina una maggiore permeabilità capillare, con
extravaso dei liquidi con edema polmonare e ipertensione polmonare. Quindi la complicanza più temuta
è l’edema polmonare. La terapia d’urgenza è, dunque, il mantenimento della pervietà delle vie aeree
superiori: prima di tutto bisogna estendere il collo del paziente, e poi bisogna attuare l’aspirazione
naso-tracheale e somministrare il farmaco di prima scelta nell’overdose da eroina che è l’antagonista dei
recettori oppioidi, il naloxone cloridrato.
Naloxone, nome commerciale Narcan®, è un antagonista puro dei recettori per gli oppioidi. Puro
significa che se noi somministriamo il naloxone ad un soggetto che non è un tossicodipendente da
eroina o comunque da oppioidi, non succede assolutamente nulla. Se saliamo di dose ed arriviamo a 24
milligrammi per via endovenosa abbiamo semplicemente una leggera sonnolenza. Questo significa che il

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naloxone esercita le sue azioni come antagonista puro, cioè non ha altri effetti oltre il blocco del
recettore degli oppioidi. Se noi somministrassimo cronicamente il naloxone - cosa che non si fa ma si
potrebbe fare per un altro antagonista, che è il naltrexone, che però ha altre indicazioni rispetto al
naloxone - per lunghi periodi in soggetti non tossicodipendenti, quello che vedremmo è un’azione sul
rilascio degli ormoni che sono regolati dagli oppioidi. Abbiamo visto che gli oppioidi determinano
l’aumento di alcuni ormoni e l’inibizione del rilascio di altri ormoni. Allora, ovviamente, somministrando
in modo cronico il naloxone potremmo avere una differenza sul rilascio ormonale, ma non si vedono altri
effetti.
Il naloxone ha come indicazione diagnosi e trattamento dell’overdose da oppioidi, cioè se noi vogliamo
vedere se un’insufficienza respiratoria acuta è causata da un’overdose di oppioidi basta dare il naloxone,
che rapidissimamente, per via endovenosa, risolve la depressione respiratoria (la frequenza respiratoria
aumenta in 1 o 2 minuti dalla somministrazione).
Abbiamo detto che il naloxone si somministra per via endovenosa: la dose va da 0,4 fino a 2 milligrammi
ed è necessario ripeterla ad intervalli di 2 o 3 minuti fino ad un massimo di 10mg. Si somministra per via
endovenosa perché per os è soggetto ad un elevatissimo metabolismo di primo passaggio. Se noi
somministriamo 1mg di naloxone EV, questa dose è in grado di bloccare completamente gli effetti di
25mg di eroina. La durata dell’effetto è, tuttavia, breve: dura da 1 a 4 ore, e dipende dalla dose e dalla
quantità di oppioide che si è presa nell’overdose.
La distribuzione del naloxone è rapida al SNC, l’emivita plasmatica è di 30-80 minuti, il metabolismo
avviene per glucuronazione e l’escrezione avviene per via renale.
Finita l’azione, il naloxone può dare fenomeni di rimbalzo che rivertono gli effetti dell’eroina o
dell’oppioide che è stato preso dal tossicodipendente: abbiamo un rilascio di catecolamine, perché
sappiamo che gli oppioidi deprimono la trasmissione catecolaminergica, e con il naloxone abbiamo un
effetto rebound dato da un aumento del rilascio di catecolamine e quindi si può avere ipertensione ed
aritmie cardiache. Inoltre, il naloxone, sebbene abbiamo visto sia l’antidoto per il sovradosaggio da
eroina, può dare edema polmonare esso stesso, quindi bisogna stare ovviamente attenti alla dose.
Inoltre, in un soggetto dipendente da oppioidi può scatenare una sindrome da astinenza da oppioidi,
cioè è come se il tossicodipendente smettesse improvvisamente di prendere gli oppioidi. La sindrome di
astinenza da oppioidi indotta dal naloxone è diversa da quella che si realizza nel tossicodipendente che
non trova la dose, perché occorre del tempo perché si manifestino i sintomi dell’astinenza da oppioidi se
il tossicodipendente non prende una dose, mentre l’astinenza indotta da naloxone avviene nell’arco di
pochi minuti e dura due ore, quindi è di breve durata, mentre l’astinenza da oppioidi dura molto più a
lungo.
6.2. TOLLERANZA
La tolleranza a breve termine è quella che si verifica sempre dopo l’assunzione degli oppioidi e consiste,
dal punto di vista biomolecolare, nella riduzione dell’accoppiamento tra il recettore degli oppioidi e la
sua proteina G (questi sono recettori GPCR, quindi sono accoppiati a proteine G). L’accoppiamento tra
recettore e proteina G si riduce e quindi si perde la capacità di scambiare GDP con GTP e la trasduzione
del segnale intracellulare viene meno.
Nella tolleranza a lungo termine, quindi per somministrazioni ripetute, si verifica una vera e propria
desensibilizzazione o downregolazione recettoriale, cioè il recettore non solo non è più accoppiato a
proteine G ma è internalizzato dalla membrana plasmatica, si forma una vescicola di endocitosi e il
recettore, quindi, non è più espresso in membrana e questo determina una riduzione dell’efficacia,
ovviamente, del farmaco oppioide o dell’agonista oppioide che si sta assumendo. Una volta che il

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recettore è stato internalizzato, può avere due destini: uno può essere la vescicola di endocitosi, si fonde
con i lisosomi e il recettore viene degradato, oppure il recettore può essere riciclato ed espresso
nuovamente in membrana. Tra i meccanismi che si accoppiano all’internalizzazione del recettore, vi è la
capacità del recettore, internalizzato e legato alla proteina arrestina, di attivare, senza aver legato il suo
ligando (quindi senza l’agonista) la via delle MAPK, quindi si può avere un’attivazione della trascrizione
genica indipendentemente dal legame con l’agonista all’interno dell’endosoma. Questo fa sì che, per
esempio, venga espresso il gene che codifica per un particolare tipo di recettore oppioide, il recettore
DOR o DOP, che viene quindi trascritto e immesso in membrana, e il recettore DOP è coinvolto nei
meccanismi di tolleranza agli oppioidi. Inoltre, nel processo di desensibilizzazione interviene anche la
riduzione dei livelli di sodio intracellulare. Questo perché abbiamo visto che i recettori oppioidi
accoppiati a proteine G inibitorie, quando sono attivati dall’agonista, determinano un’attivazione delle
correnti al potassio attraverso la subunità β-ɣ. Il risultato è che il potassio fuoriesce dalla cellula. Nel
momento in cui il recettore oppioide va incontro a tolleranza, meno potassio uscirà dalla cellula e il
potassio che esce si scambia con il sodio che entra e quindi meno sodio entrerà nella cellula; abbiamo
una riduzione dei livelli di sodio intracellulare e quindi una riduzione dell’attività della Na+/K+ ATPasi.
Poiché la Na+/K+ ATPasi è l’enzima che mantiene il potenziale di membrana, in queste condizioni la cellula
sarà maggiormente eccitabile, che è esattamente l’opposto di quello che si verifica per attivazione dei
recettori oppioidi. Quindi, anche questo meccanismo contribuisce all’instaurarsi della tolleranza.
Ancora, nella tolleranza a lungo termine entra in azione anche un’alterazione nella sintesi delle
catecolamine. Normalmente l’attivazione dei recettori oppioidi causa una ridotta fosforilazione, quindi
ridotta attivazione della protein-chinasi A, perché sono recettori accoppiati a G inibitoria, e quindi
quando attivati diminuisce l’AMP ciclico e diminuisce l’attività della protein-chinasi A. La protein-chinasi
A, tra i vari substrati, fosforila la tirosina idrossilasi, che è l’enzima cardine per la sintesi delle
catecolamine. E dunque normalmente, quando i recettori per gli oppioidi sono attivati dall’agonista, si ha
una riduzione della sintesi delle catecolamine. Con la tolleranza si ha l’opposto, ossia la protein-chinasi A
non è più inibita, fosforila la tirosina idrossilasi e si ha un aumento della sintesi delle catecolamine. Si ha,
inoltre, un aumento della trascrizione genica, perché la protein chinasi A è attiva, perché non è più
inibita dal recettore per gli oppioidi, e va a fosforilare i fattori di trascrizione e attivando la trascrizione di
diversi geni, tra cui i recettori per la noradrenalina e per l’adrenalina.
Ulteriore meccanismo che partecipa alla tolleranza a lungo termine è la dimerizzazione tra recettori
oppioidi di tipo diverso, con delle reazioni che possono essere sinergiche o di interferenza tra i diversi
agonisti oppioidi che normalmente hanno una maggiore affinità verso un sottotipo recettoriale rispetto
ad un altro. Con la dimerizzazione tra recettori di oppioidi di tipo diverso tutto questo viene alterato.
La tolleranza si sviluppa in modo diverso per le diverse risposte fisiologiche agli oppioidi. Per esempio, la
miosi non va in tolleranza, la costipazione, la depressione respiratoria, la capacità di indurre vomito,
l’emesi, l’analgesia, la sedazione, vanno in tolleranza ma moderatamente. Mentre l’effetto degli oppioidi
che va più rapidamente in tolleranza è l’effetto euforico, quello per cui gli oppioidi vengono presi dal
tossicodipendente. In realtà, il tipo di piacere che viene indotto dagli oppioidi nel tossicodipendente che
ne fa abuso è sì un effetto euforizzante, ma molto meno rispetto a sostanze puramente euforizzanti
come per esempio le anfetamine, la cocaina. Gli oppioidi, più che altro, inducono una specie di piacere
di tipo atarassico, che deriva cioè dalla cessazione di qualsiasi tipo di stimolo nocivo per il paziente; è un
piacere derivante dall’assenza di qualsiasi tipo di dolore ed è descritto dai tossicodipendenti come molto
simile ad un orgasmo che si irradia in tutto il corpo, quindi è una sensazione di forte calore e totale
benessere.

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6.3. DIPENDENZA
Esistono 2 tipi di dipendenza: la dipendenza fisica e quella psichica. Questi due tipi di dipendenza hanno
substrati biochimici e aree di manifestazione nel nostro organismo diverse. I meccanismi biochimici che
sottendono la dipendenza fisica hanno luogo principalmente a livello del locus coeruleus. Al contrario, i
meccanismi molecolari che sottendono la dipendenza psichica hanno luogo principalmente nel sistema
limbico.
La dipendenza fisica dagli oppioidi si manifesta perché la prolungata assunzione di oppioidi esogeni
comporta innanzitutto un deficit nella secrezione degli oppioidi endogeni: il nostro organismo produce
gli oppioidi endogeni e se noi assumiamo oppioidi esogenamente, questi inibiscono il feedback negativo,
e quindi la produzione di oppioidi endogeni. Questo determina uno stato di carenza di oppioidi endogeni
nell’organismo, per cui sono necessarie dosi più elevate di oppioide esogeno che deve supplire al fatto
che non c’è più quello endogeno. Quindi l’oppioide esogeno, oltre ad agire indipendentemente sui
recettori che non erano occupati dagli oppioidi endogeni, nel momento in cui gli oppioidi endogeni non
ci sono più, deve supplire anche a quei recettori che originariamente erano occupati dagli oppioidi
endogeni. Quindi è necessario salire di dose. Allo stesso tempo, l’iperproduzione di catecolamine, il loro
rilascio e l’espressione dei recettori per esse, instaura un meccanismo di compenso per cui, a livello del
locus coeruleus, i recettori oppioidi che si trovano sui neuroni noradrenergici tendono a spegnere il
segnale dei neuroni noradrenergici. La maggior produzione di noradrenalina e la maggiore espressione
di recettori noradrenergici sul neurone postsinaptico compensa finché si prendono gli oppioidi
esogenamente, compensa l’inibizione operata dagli oppioidi sul neurone noradrenergico. Nel momento
in cui la somministrazione esogena di oppioidi si interrompe, questi meccanismi che sono alla base della
dipendenza fisica, non sono più compensati dall’assunzione esogena, e quindi l’aumentata espressione
di recettori noradrenergici e l’aumentato rilascio di noradrenalina dai neuroni del locus coeruleus (che
non sono più inibiti dagli oppioidi perché abbiamo cessato la somministrazione dell’oppioide esogeno e
gli oppioidi endogeni sono stati inibiti) risulta in un ipertono catecolaminergico, cioè si ha
un’iperattivazione del sistema nervoso simpatico. Iperattivazione del sistema nervoso simpatico che
scatena i sintomi dell’astinenza da oppioidi. Quindi la dipendenza fisica degli oppioidi si manifesta
clinicamente, soltanto se noi interrompiamo la somministrazione degli oppioidi, con la crisi di astinenza.
I sintomi della crisi di astinenza sono dovuti all’iperattivazione del simpatico e, allo stesso tempo,
all’iperattivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi surrene che è connessa all’ipertono adrenergico.
Quindi i sintomi dell’astinenza da oppioidi (la dipendenza fisica non da sintomi) sono: attivazione del
sistema nervoso simpatico con aumento della pressione, agitazione, nervosismo, tachicardia, aritmie,
iperattività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene. Abbiamo sintomi che si sviluppano abbastanza
velocemente dopo circa 8-16 ore dall’interruzione della somministrazione degli oppioidi e sono:
lacrimazione, rinorrea, sbadiglio, irritabilità, aumento della sudorazione. Dopo 24-36 ore si sviluppano:
midriasi, orripilazione, tremori e anoressia. Dopo 2 o 3 giorni i sintomi diventano massimi e sono di
intensità severa: vomito, diarrea, perdita di peso, crampi, contrazioni muscolari. E poi abbiamo i
cosiddetti sintomi prolungati che possono durare fino a due settimane caratterizzati da insonnia,
irrequietezza, iperpnea, aumento della pressione arteriosa e aumento della temperatura corporea.
Come si tratta la sindrome d’astinenza? La terapia si effettua basandosi sul meccanismo che abbiamo
visto essere all’origine della sindrome di astinenza: l’iperattivazione dei neuroni catecolaminergici a
livello del locus coeruleus, e quindi da questo la conseguente iperattivazione del sistema nervoso
simpatico in tutto il nostro organismo. Si dà, quindi, un farmaco che inibisce l’attivazione di questi
neuroni catecolaminergici. Il farmaco che si sceglie è la clonidina per via endovenosa, che è un agonista

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selettivo dei recettori alfa2 adrenergici. I recettori alfa2 adrenergici sono dei recettori GPCR, accoppiati a
proteine G inibitorie, che sono espressi dai neuroni non adrenergici del locus coeruleus. Quindi quando
io vado ad attivare i recettori alfa2 che si trovano sui neuroni noradrenergici del locus coeruleus ho
un’inibizione della trasmissione noradrenergica, e quindi il controllo dei sintomi della sindrome
dell’astinenza. La clonidina si somministra per via endovenosa per farle avere un’azione rapida; si può
anche somministrare per via orale, ed esiste una formulazione transdermica.
Il secondo tipo di dipendenza è la dipendenza psichica. Le sostanze d’abuso sono non soltanto droghe,
ma possono essere anche cibo, etanolo o l’attività sessuale. Sono caratterizzate tutte dal fatto di riuscire
ad indurre rinforzo positivo. Il rinforzo positivo è quella proprietà di una sostanza di indurre nel soggetto
che la assume un comportamento volto alla riassunzione della sostanza stessa, cioè il soggetto si attiva
per cercare di procurarsi quella determinata sostanza oppure, nel caso dell’attività sessuale, ovviamente
si attiva per cercare di avere un altro incontro. Quindi si comportano in questa maniera sostanze con
proprietà diverse. E in particolare, per quanto riguarda i farmaci d’abuso, si comportano in questa
maniera, cioè funzionano da rinforzo positivo, oltre agli oppioidi, la cocaina, l’anfetamina, l’etanolo, la
nicotina. Tutte queste sostanze, con meccanismi diversi, ottengono la stessa cosa, cioè determinano
l’aumento della concentrazione di dopamina in uno specifico nucleo del sistema limbico che è
l’accumbens. La dopamina viene rilasciata nell’accumbens da parte di neuroni dopaminergici che hanno
il corpo cellulare nell’area tegmentale ventrale (VTA), detta anche area A10, e che proiettano con il loro
assone, appunto, nell’accumbens. Questi neuroni dopaminergici hanno il compito di marcare, con il
segnale della dopamina, degli eventi che sono per il soggetto nuovi o inaspettati e allo stesso tempo
significativi, come per esempio la gratificazione, gli stimoli di allarme, o gli stimoli che generano
sorpresa. L’accumbens è suddiviso dal punto di vista funzionale in 2 aree: un’area interna, chiamata core,
che è più coinvolta nella regolazione del movimento, e un’area esterna, chiamata shell, appunto,
conchiglia, rivestimento esterno, che è la porzione ventro-mediale dell’accumbens. Quest’ultima è l’area
dove l’aumento della dopamina facilita l’apprendimento degli eventi e favorisce allo stesso tempo la
ripetizione delle esperienze in cui si è verificato l’aumento della dopamina stessa. La dopamina che
aumenta nell’accumbens si lega ai recettori dopaminergici di tipo D1 che si trovano sui neuroni di
proiezione dell’accumbens. Questi recettori di tipo D1 sono accoppiati a proteine Gs e dunque la loro
attivazione attiva i neuroni di proiezione. A livello della VTA i neuroni dopaminergici sono regolati in
modo inibitorio da degli interneuroni GABAergici. Il GABA che rilasciano si lega ai recettori GABA A che
sono espressi sul corpo del neurone dopaminergico e spegne il neurone. Questi interneuroni GABAergici
esprimono i recettori MOP per gli oppioidi. A questi neuroni si lega anche l’etanolo con un meccanismo
diverso ma l’effetto è sempre lo stesso: sia il legame degli agonisti oppioidi MOP, sia il legame
dell’etanolo agli interneuroni inibitori GABAergici spegne questi interneuroni. Se questi interneuroni si
spengono viene meno l’inibizione, il controllo inibitorio sul rilascio di dopamina a livello dell’accumbens,
e quindi aumenta la quantità di dopamina che viene rilasciata nell’accumbens. Altre sostanze d’abuso,
come ad esempio le anfetamine o la cocaina, agiscono facendo aumentare la dopamina non a livello
della VTA, ma direttamente a livello dell’accumbens. Infatti, la cocaina inibisce il trasportatore della
dopamina che è espresso sulle terminazioni nervose dei neuroni dopaminergici all’interno
dell’accumbens; l’anfetamina sostituisce la dopamina nelle vescicole sinaptiche sulle terminazioni
nervose dei neuroni dopaminergici e quindi fa sì che la dopamina venga rilasciata dalle terminazioni
nervose dopaminergiche nell’accumbens. A livello dell’accumbens, quindi, vengono rilasciate anche
dinorfine. Le dinorfine, che sono rilasciate da specifici neuroni dinorfinici, si legano ai recettori KOP che
si trovano sulle terminazioni nervose del neurone dopaminergico che fa sinapsi nell’accumbens. Il

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legame degli agonisti KOP al loro recettore determina lo spegnimento del terminale nervoso del neurone
dopaminergico, e dunque una riduzione del rilascio di dopamina nell’accumbens. Attraverso questo
meccanismo, gli oppioidi che si legano con affinità significativa ai recettori KOP determinano disforia,
cioè l’alternarsi di accensione e spegnimento del neurone dopaminergico. Di conseguenza l’aumento e la
diminuzione dei livelli di dopamina nell’accumbens inducono un momento euforia e attivazione
comportamentale alternati a depressione, tristezza, irrequietezza, nervosismo. Questo alternarsi di
sentimenti non controllati dal soggetto è la disforia, che genera, ovviamente, apprensione e uno stato di
malessere nell’organismo.
Un altro antagonista dei recettori oppioidi che si trova in commercio è il naltrexone. Nomi commerciali
sono: Nalorex®, Narcoral® e Antaxone®. Il naltrexone, diversamente dal naloxone, si somministra per os.
La dose è di 50mg al giorno o di 100mg a giorni alterni. L’assorbimento per os è di circa il 40%, è poco
legata alle proteine plasmatiche, l’emivita è di 4 ore, tuttavia viene estesamente metabolizzato nel suo
metabolita principale che è il 6-β-naltrexolo. Questo metabolita, che è attivo, ha un’emivita di circa 13
ore e quindi prolunga l’attività del naltrexone; lo stesso è poi eliminato per coniugazione principalmente
attraverso il rene. Poiché la somma del naltrexone con il suo metabolita attivo hanno un’emivita
superiore alle 10 ore, il naltrexone diversamente dal naloxone, è utilizzato non nell’overdose, ma per il
trattamento della tossicodipendenza da oppioidi, ed è utilizzato altresì per il trattamento della
dipendenza da alcool. Per utilizzare il naltrexone il paziente deve essere in astinenza, quindi bisogna
mandare in astinenza il paziente e poi si interviene somministrando in cronico per impedire gli effetti
degli oppioidi. Quindi anche se il tossicodipendente non resiste e si fa una dose di droga, questa non gli
dà nessun effetto in presenza di naltrexone. Gli effetti avversi di questo farmaco sono: nausea, vomito e
dolori addominali; abbastanza comuni sono ansia, nervosismo, irritabilità e disturbi del sonno, può
anche dare vertigini e aumento della sudorazione.
Un’ammina quaternaria analoga al naltrexone è il metilnaltrexone bromuro. Poiché è un’ammina
quaternaria ha una ridotta capacità di attraversare la BEE, dunque non penetra nel SNC ed ha effetti
soltanto periferici. Viene utilizzato in somministrazione sottocutanea per il trattamento della
costipazione in soggetti che assumono oppioidi quando la risposta ai lassativi è insufficiente. Il nome
commerciale del prodotto è Relistor®.
Metadone Il nome commerciale è Eptadone®. È un oppioide sintetico con una lunga emivita di 24- 30
ore. Il metadone viene somministrato per os nel trattamento del dolore acuto e cronico, ma soprattutto
è utilizzato nel trattamento della detossificazione o nel mantenimento della tossicodipendenza da
eroina. L’azione del metadone è quella di determinare un benessere psicofisico senza però l’instabilità
dell’umore, la disforia, che è invece presente nei tossicodipendenti che consumano eroina. L’utilizzo del
metadone blocca la recidiva e blocca il craving, cioè l’attivazione comportamentale del disperato bisogno
di somministrarsi una dose di droga. Il metadone viene somministrato al paziente in presenza del medico
o dell’operatore sanitario all’inizio. Il medico diluisce la soluzione, si forma una specie di sciroppo da
assumere per os. L’assorbimento è rapido, c’è una certa dose di farmaco, 70-80%, che viaggia legato alle
proteine plasmatiche; l’emivita plasmatica è molto lunga, di 23 ore e il metabolismo è effettuato dagli
enzimi del citocromo P450, il CYP3A4 e il CYP2D6 e consiste in una demetilazione e successiva
coniugazione. Poiché il metadone è ampiamente metabolizzato bisogna fare molta attenzione e
monitorare il paziente per effetti avversi di interazione farmacologica con altri farmaci metabolizzati dal
CYP3A4 e CYP2D6, con polimorfismi nel CYP2D6, con induttori e inibitori dei CYP. L’eliminazione è
prevalentemente renale, il 21% della dose è eliminato in forma non modificata, e c’è una parte minore di
eliminazione fecale con la bile.

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Come eventi avversi il metadone può dare depressione respiratoria, come tutti gli oppioidi, nausea,
vomito e bisogna fare attenzione perché, il metadone in particolare, può determinare allungamento del
QTc.
Come si usa il metadone per la detossificazione dell’eroinomane? Ovviamente la prima cosa da fare è
accertarsi che il tossicodipendente sia un consumatore di eroina, perché per altri tipi di droga, non
oppioidi, il metadone non funziona. Bisogna stabilire innanzitutto in modo empirico la dose utile al
paziente, e la dose iniziale di metadone è correlata al grado di assuefazione all’eroina. Quindi più il
tossicodipendente consuma dosi elevate di eroina e maggiore dovrà essere la dose iniziale. Il primo
giorno la dose di metadone serve soprattutto per alleviare i sintomi dell’astinenza in quanto il paziente
non deve prendere la droga che normalmente consuma. Successivamente si aumenta la dose fino a
raggiungere il dosaggio di mantenimento. Questo deve avvenire in modo graduale. In generale la dose
iniziale è di 10-30mg, tuttavia nei casi di tossicodipendenti che assumono grandi quantità di oppioidi la
dose deve essere, ovviamente, più elevata e si può arrivare a 25-40mg. Gli aumenti di dose devono
essere fatti con 10mg alla volta e la maggior parte dei pazienti in mantenimento richiede dai 60 ai
120mg al giorno di metadone. Per alcuni soggetti si può arrivare ad un dosaggio più alto, ma il dosaggio
massimo non dovrebbe superare i 150mg di metadone al giorno. Questo per il rischio cardiovascolare,
per il prolungamento del QT, e quindi torsioni di punta e arresto cardiaco, che si verifica più
frequentemente con intervalli di dose maggiore. La terapia con metadone deve garantire ovviamente il
benessere del soggetto che si vuole disintossicare, deve far sì che il soggetto non abbia sintomi da
astinenza, non deve creare sovradosaggi, quindi non bisogna esagerare con la dose, e deve essere in
grado di determinare la scomparsa del craving, cioè il paziente deve essere in grado di controllare i
propri comportamenti e deve scomparire questa ricerca incontrollata della droga. L’assunzione deve
essere quotidiana per os. È assolutamente obbligatorio che l’inizio della terapia e il proseguo di tutta la
prima fase della terapia avvenga con una somministrazione giornaliera in presenza del medico o del
personale paramedico. Ogni settimana bisogna controllare i metaboliti dell’eroina nelle urine: se questi
sono presenti significa che la dose di metadone va aumentata, perché non è sufficiente ad eliminare il
craving; evidentemente il tossicodipendente si fa di altre droghe e la terapia con il metadone non deve
essere mai sospesa fino a quando non sia acquisita una piena riabilitazione sociale del
tossicodipendente, quindi non soltanto l’assenza di craving e l’assenza di sintomi d’astinenza da
stabilizzazione, ma il tossicodipendente deve essere anche pienamente riabilitato socialmente, che è la
cosa più difficile da fare, fino a quando non è trascorso almeno un anno dall’uso dell’eroina (ma di solito
un anno non è assolutamente sufficiente).
Mantenimento con il metadone: quando si raggiunge uno stato di equilibrio con urine pulite per almeno
3 volte consecutive, si può prendere in considerazione un diverso sistema di somministrazione, ossia si
può valutare se, per periodi di tempo diversi, al tossicodipendente può essere data una terapia
domiciliare con metadone. Questa terapia domiciliare può essere effettuata nei seguenti modi: o gli si
dà, per esempio all’inizio, il metadone a casa soltanto la domenica, quindi la domenica lui non deve
recarsi al centro per la detossificazione ma può prendere la sua dose di metadone a casa, oppure,
addirittura per due giorni, il metadone gli si dà domiciliarmente per il week end; poi si può passare al
metadone a giorni alterni, o ancora, alla dose di metadone per l’intera settimana. Non più di una
settimana perché è appunto necessario fare la determinazione urinaria dei metaboliti dell’eroina. I
metodi attualmente disponibili per i metaboliti urinari non consentono di aspettare intervalli più lunghi.
Quindi per forza non più di una settimana. La terapia con metadone è ovviamente regolata dalla legge
sugli stupefacenti e le sostanze narcotiche che è la legge 685. C’è uno specifico articolo, il 43, che

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sancisce la prescrizione di stupefacenti per il massimo di 8 giorni. Quindi, sulla base di questo articolo
della legge 685, si può decidere di affidare una terapia domiciliare a base di metadone in base al tipo di
compliance che il paziente ha, quindi in base alla personalità, all’ambiente che circonda il paziente, che è
estremamente importante e che favorisce o non favorisce un corretto utilizzo del farmaco.
Ad un certo punto bisognerebbe cominciare a scalare il metadone: si comincia a scalare di 5mg ogni 3
giorni, a partire dalla dose iniziale, quando la dose iniziale è di 100 o 80mg, fino a raggiungere la dose di
20mg. Da questa dose in poi si riduce di 2mg ogni 3 giorni fino alla fine. Non esistono delle regole vere e
proprie sull’affrancamento da metadone. In realtà quello che succede generalmente è che c’è un’alta
percentuale di ricadute nel primo anno dopo l’assuefazione al metadone.
Inoltre, è da considerare che nella donna eroinomane il metadone ripristina i cicli mestruali che erano
stati aboliti dall’eroina, per cui è possibile una gravidanza. La gravidanza è un’indicazione specifica all’uso
del metadone a mantenimento, perché bisogna assolutamente evitare che la donna assuma dei farmaci,
delle droghe che siano tossici per il feto. La dose di metadone necessaria durante la gravidanza deve
essere tarata sulla singola paziente e deve essere sufficiente a far sì che la paziente non senta il bisogno
di craving, e quindi non consumi eroina da strada, perché questo comporta rischi per lei, ovviamente, e
rischi per il feto. Il metadone ha invece una tossicità minima per il feto, e comunque questa tossicità è
irrilevante di fronte ai rischi di overdose o di astinenza che si possono avere. Il metadone interferisce con
altri farmaci perché è estesamente metabolizzata dal CYP, quindi bisogna fare attenzione all’utilizzo di
farmaci induttori del CYP come l’alcool cronico, gli antiepilettici come la fenitoina, il fenobarbital e la
carbamazepina, alcuni antibiotici come la rifampicina e le tetracicline - in questo caso bisogna
aumentare la dose di metadone, altrimenti si rischia l’astinenza, il craving - e bisogna fare attenzione
anche a farmaci che inibiscono invece l’attività metabolica, come l’eritromicina o gli antifungini della
classe del chetoconazolo - che necessitano, invece, della riduzione delle dosi di metadone.
La detossificazione dell’eroinomane si può anche fare con un altro oppioide che è la Buprenorfina. È un
agonista parziale MOP, ha un effetto tetto che è quello di 32mg nelle 24 ore e una potenza che è 23-50
volte quella della morfina. È un agonista parziale, cioè è un composto che dopo la completa saturazione
dei recettori provoca un effetto inferiore al massimo effetto che viene evocato con un agonista puro.
La buprenorfina ha diverse indicazioni oltre alla terapia sostitutiva nella dipendenza da oppiacei. Si può
utilizzare nel dolore cronico: la specialità medicinale è Transtec® ed è un cerotto transdermico a 3
dosaggi che rilascia 35/52 o 70 microgrammi di buprenorfina l’ora e che deve essere sostituito ogni 3
giorni. Quando la buprenorfina è utilizzata sotto forma di Transtec® bisogna stare attenti a non
somministrare altri oppioidi nelle 24 ore successive alla rimozione del cerotto. La buprenorfina non può
essere utilizzata nei pazienti dipendenti da oppioidi perché, essendo un agonista parziale, precipiterebbe
in una crisi di astinenza. Altra cosa importante da sapere della buprenorfina è che è antagonizzata solo
parzialmente dal naloxone, quindi nell’overdose da buprenorfina bisogna utilizzare delle dosi maggiori di
naloxone.
Seconda indicazione della buprenorfina è il dolore acuto cronico. In questo caso la specialità medicinale
è il Temgesic® in compresse sublinguali o in soluzione iniettabile.
La buprenorfina non è molto utilizzata nella terapia del dolore, è più utilizzata nella terapia sostitutiva
nella dipendenza da oppiacei. Poiché è un agonista parziale, per evitare di far precipitare il paziente nei
sintomi da astinenza, si manda in astinenza il paziente prima di somministrarla, quindi devono essere
passate almeno 6 ore dall’ultima dose. Se il paziente sta facendo metadone, la dose del metadone deve
essere ridotta a 30mg al giorno e quando va in astinenza si può iniziare la buprenorfina. 8 milligrammi di
buprenorfina hanno un’efficacia sostitutiva simile a quella di 30mg di metadone. La buprenorfina nella

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terapia sostitutiva nella dipendenza da oppiacei si utilizza come specialità medicinale Subutex®: sono
delle compresse sublinguali ai dosaggi 0,4/2 e 8 milligrammi, oppure si utilizza come Suboxone®,
un’associazione di buprenorfina e naloxone sempre in compresse sublinguali. Il Suboxone® contiene da 2
a 8 milligrammi di buprenorfina e 0,5 o 2mg di naloxone. Il naloxone serve ad evitare l’uso improprio
endovena di buprenorfina, perché la buprenorfina endovena è più efficace dell’eroina e non fa perdere
di lucidità e quindi è facilmente abusata dal tossicodipendente, che schiaccia la pasticca e se la inietta in
vena. La dose massima di Suboxone® nelle 24 ore è 24 milligrammi di buprenorfina.
La buprenorfina da un minor rischio di depressione respiratoria, e non produce particolari effetti
euforizzanti, quindi non induce attivazione comportamentale e craving quando somministrata nella
terapia sostitutiva nella dipendenza da oppiacei.

7. LOPERAMIDE - IMODIUM
Infine, la Loperamide, nome commerciale Imodium®, è un agonista MOP che si utilizza nel trattamento
sintomatico della diarrea acuta, in aggiunta alla reidratazione, negli adulti e nei bambini al di sopra dei 4
anni, nella diarrea cronica soltanto negli adulti. Non passa la barriera e dunque non ha effetti centrali.
Bisogna fare attenzione nelle malattie epatiche e in gravidanza, dove non può essere somministrata,
inoltre c’è una controindicazione in tutte quelle condizioni nelle quali l’inibizione della peristalsi
dovrebbe essere evitata, ad esempio quando si sviluppa distensione addominale, oppure in condizioni
quali la colite ulcerosa, o la colite da antibiotici. Può dare crampi addominali, vertigini, sonnolenza,
reazioni di ipersensibilità cutanea, inclusa l’orticaria, ma può anche dare più raramente ileo paralitico e
gonfiore addominale.

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03/12/202 Sbobinatore/revisore: Melania Miele
Neurofarmacologia Piero Martino
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Terapia del dolore:


Cannabis e sistema cannabinoide endogeno
In questa seconda parte della terapia del dolore parleremo della cannabis e del sistema cannabinoide
endogeno. Le sostanze “psicotrope” (anche chiamate “psicoattive“) sono un gruppo eterogeneo di
sostanze accomunate dal fatto di avere la capacità di agire sui processi psichici alterando l’attività
mentale di chi le assume.
1. Psicofarmaci sono una classe molto ampia di farmaci ad azione psicoattiva, registrati per il
trattamento di un’ampia varietà di disturbi psichiatrici e neurologici. Esempi di psicofarmaci
sono gli antipsicotici e gli antidepressivi. Gli psicofarmaci sono psicotropi legali, tuttavia
alcuni di essi possono essere ottenuti anche illegalmente per essere usati a scopo ricreativo.
2. Sostanza stupefacente (comunemente “droga“) si intende una sostanza chimica
farmacologicamente attiva, dotata di azione psicotropa, più o meno tossica e nociva per
l’organismo e capace di indurre “stupor”: Stato di arresto completo della motilità volontaria
associato a rallentamento o torpore dell'attività ideativa e a un distacco dalla realtà esterna.
• Esempi di sostanza stupefacente sono eroina e cocaina.
• Le sostanze stupefacenti sono psicotropi illegali, tuttavia alcune sostanze stupefacenti sono
oggi usate anche a scopo terapeutico, come ad esempio la marijuana.
In Italia gli stupefacenti sono normati nel Testo Unico sugli Stupefacenti (legge 309 del 1990): tutti
gli stupefacenti e alcune sostanze psicotrope sono iscritti in cinque tabelle che vengono aggiornata
ogni qualvolta si presenti la necessità di inserire una nuova sostanza o di variarne la collocazione
nelle tabelle o di provvedere ad una eventuale cancellazione. Nelle prime quattro tabelle sono elencate
le sostanze stupefacenti e psicotrope poste sotto il controllo internazionale e nazionale, le quali sono
collegate al sistema sanzionatorio per gli usi illeciti, quindi l’uso illecito delle sostanze nelle prime
quattro tabelle del Testo Unico sugli Stupefacenti è soggetto al sistema sanzionatorio. La quinta
tabella è quella dei medicinali, nella quale sono indicati i medicinali a base di sostanze stupefacenti
e psicotrope, di corrente impiego terapeutico, ad uso umano o veterinario; è incluso anche il regime
di dispensazione ad uso di medici, farmacisti e operatori del settore farmaceutico.
*Gli allucinogeni sono
quelle sostanze in grado di
indurre allucinazioni, che
sono delle percezioni senza
oggetto, tra questi abbiamo
la dietilammide dell’acido
lisergico dell’LSD,
sostanze ricavate dai
funghetti magici, come la
psilocina e la psilocibina.
03/12/202 Sbobinatore/revisore: Melania Miele
Neurofarmacologia Piero Martino
Prof.ssa Melchiorri

Nella Tabella dei medicinali sono inserite le sostanze attive che hanno attività farmacologica e
pertanto sono usate in terapia e le relative preparazioni farmaceutiche, non tutte queste sostanze hanno
una corrispondente nella specialità medicinale; per esempio la cannabis esiste in commercio in due
specialità medicinali, che non coprono tutte le indicazioni per le quali è utilizzata la cannabis, per le
altre esistono delle cosiddette preparazioni magistrali effettuate dal farmacista, su prescrizione del
medico(tutte incluse nella tabella dei medicinali). La tabella è suddivisa in cinque sezioni indicate
con le lettere A, B, C, D ed E, dove sono distribuiti i medicinali in relazione al decrescere del loro
potenziale di abuso, quindi alla lettera A quei medicinali altamente soggetti ad essere abusati e così
via. Nelle tabelle è anche indicato il regime di dispensazione (ricetta ripetibile, non ripetibile, bianca
ecc.). Abbiamo:
• Medicinali a base di morfina e sostanze analgesiche oppiacee
• Medicinali di origine vegetale a base di Cannabis
• Barbiturici
• Benzodiazepine (diazepam, flunitrazepam, lorazepam ecc.)
*L’inserimento di medicinali di
origine vegetale a base di Cannabis
nella tabella risale al gennaio 2013.
Sono inseriti nella sezione B, secondo
posto come rischio di abuso, e sono
sostanze e preparazioni vegetali,
inclusi estratti e tinture.
Il farmacista le allestisce e le dispensa sotto forma di preparazioni magistrali, dietro presentazione di
ricetta da rinnovarsi volta per volta.

Cannabis
Le principali varietà di Cannabis utilizzate sono Sativa e Indica,
le altre esistono ma non vengono utilizzate.
Il fitocomplesso, contenuto nella pianta della Cannabis ha al suo
interno più di 550 principi attivi, ed è ottenuto da infiorescenze
femminili, prima della senescenza. Le concentrazioni dipendono
da età, varietà, condizioni di crescita e ambiente, tempo di raccolta
e stoccaggio. La pianta che nasce spontaneamente in Asia ha un
contenuto maggiore di principi attivi rispetto alle piante coltivate in Europa. Vedremo che oggi
esistono delle modalità di coltivazioni indoor, che permettono di contenere un alto contenuto di
principi attivi.
Nel fitocomplesso abbiamo gruppi di sostanze, chimicamente diverse:
• Terpeni, responsabili dell’odore acre, hanno proprietà a fine terapeutico: antinfiammatorie,
antibiotiche, analgesiche. Inducono l’effetto entourage: coadiuvano e potenziano gli effetti
delle principali sostanze attive della cannabis, che sono i cannabinoidi.
03/12/202 Sbobinatore/revisore: Melania Miele
Neurofarmacologia Piero Martino
Prof.ssa Melchiorri

All’interno della C. abbiamo più di 100 Cannabinoidi:


• Delta-9 tetraidrocannabinolo, D9-THC, psicotropo ma anche: analgesico, antinfiammatorio,
antiossidante, antiemetico. La varietà Indica contiene una percentuale più alta di THC della
Sativa.
• Cannabidiolo, CBD, non psicotropo, ansiolitico, antipsicotico, analgesico, antinfiammatorio,
antiossidante, antispastico e anticonvulsivante. Esiste in commercio una specialità medicinale
che contiene esclusivamente cannabidiolo, Epidiolex, anti-epilettico con indicazioni nella
Dravet e nella Lennox Gastaut.
I cannabinoidi sono idrocarburi aromatici contenenti ossigeno, non sono alcaloidi (come la morfina
e gli oppiacei).
Dalle infiorescenze e dalle foglie secche si ricava la cosiddetta “marijuana” che viene normalmente
consumata per uso ricreazionale. Il termine marijuana era il nome usato comunemente in Messico
(marihuana) per indicare la varietà di canapa indiana usata come sostanza stupefacente, ha avuto
un’ampia popolarità grazie ad un famoso magnate dell’editoria degli anni 30 del 900 ,William R.
Hearst, che fece un’ampia campagna stampa sulla marijuana, sul consumo e sui rischi connessi, fu
un editore estremamente famoso in America e un amante e collezionista d’arte, vi è la sua residenza,
Hearst Castle, che ricorda un castello spagnolo del 1500, in cui ha collezionato migliaia di opere
d’arte. Ora è il termine più utilizzato per definire le infiorescenze e foglie secche fumate.
Vi è una varietà di marijuana indiana, i termini Hindu sono due:
1. Ganja, 4% principi attivi
2. Sinsemilla, infiorescenza senza semi, da 7% al 12% principi attivi

Uso della Cannabis nei secoli:


• Semi di cannabis fossilizzati in una grotta in Romania (Neolitico)
• Il più antico manufatto umano ritrovato è un pezzo di stoffa di canapa risalente all’ 8000 a.C.
La cannabis fornisce da millenni un'ottima fibra tessile e per questo cominciò a essere
coltivata in epoche storiche antiche, in Asia e Medio Oriente (zone in cui cresce
spontaneamente). Produzione commerciale si iniziò in Occidente nel XVIII sec.
• La fibra di canapa è stata per centinaia di anni la materia prima per la produzione di carta, ma
dalla metà del Novecento, con l'avvento del proibizionismo, per cui la cannabis non poteva
essere coltivata e commercializzata) l'uso delle fibre della canapa è notevolmente ridotto.
• Repubbliche marinare (Genova, Venezia, Pisa e Amalfi): utilizzata per corde e vele delle flotte
di guerra.
• Tovaglie di canapa, tipiche della Romagna, nei due classici colori ruggine e verde
• Uso psicotropo: fumatori di cannabis dell'antichità furono Hindu di India e Nepal: BHANG
(varietà di preparazione), fiori e foglie
• La resina secca della pianta consumata per secoli nei paesi arabi per proprietà di alterazione
della mente, in particolare Marco Polo nel Milione ci parla degli Hashashin, in Siria, gruppo
di persone che si organizzavano in briganti per assalire e derubare i viandanti e facevano
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utilizzo di resina secca derivante dalla cannabis, dai quali prese il nome: hashish (contiene il
7-8% THC), consumato anche sotto forma di olio di hashish (20-40% THC).
• L’Hashish arriva in Occidente con le campagne napoleoniche in Egitto (l'Hashish fumato
viene assorbito 3-4 volte di più della Marijuana)
• L’uso dell'hashish in Europa si diffuse soprattutto negli ambienti artistici: a Parigi nacque il
Club des Hashischins frequentato da poeti e scrittori come V. Hugo, A. Dumas, C. Baudelaire,
Balzac, quando non se ne conosceva ancora la tossicità e l’uso era permesso.

Uso ricreazionale della Cannabis:


• Il consumo della Cannabis a scopo ricreazionale avviene sotto forma di fumo di spinelli o
canne di Marijuana (le canne contengono quantità maggiori di Cannabis rispetto agli spinelli)
e di Hashish
• Normalmente in uno spinello ci sono dai 30 ai 40 mg di THC, ma non tutto il THC viene
assorbito dall’organismo, perché più del 50% è distrutto dalla combustione, solo 1/5 viene
assorbito (8 mg THC). L’Hashish, invece, si consuma con le pipe e se ne assorbe una quantità
maggiore, circa 3-4 volte il THC
• Sono state messe in commercio delle varietà di Cannabis modificate geneticamente: esiste un
incrocio tra c. Sativa con Indica, da un innesto coltivato indoor con lampade, che forniscono
una luce che facilita la maturazione e la formazione di principi attivi, si ottiene lo SHUNK
una forma di marijuana, che contiene un’alta concentrazione, di circa 15%-25% di THC,
caratterizzato da un odore acre, infatti “skunk” significa “puzzola”. Purtroppo queste varietà
geneticamente modificate hanno invaso il mercato dell’uso ricreazionale e sono molto
pericolose perché contenendo una quantità elevata di principi attivi danno un maggior rischio
di effetti collaterali. Alcune varietà modificate di Cannabis non contengono cannabidiolo
(CBD), ma contengono solo THC. CBD è antipsicotico, blocca rilascio della dopamina
(farmaci antipsicotici sono tutti caratterizzati dal potere di bloccare la trasmissione
dopaminergica) e frena l’effetto psicotropo del THC. Queste forme di cannabis modificate
sono molto più propense a far slatentizzare delle psicosi, nei soggetti predisposti, cosa che
originariamente il fumo di spinelli e canne faceva raramente, diversamente dal consumo di
Hashish che ha una tendenza a far sviluppare psicosi, perché permette l’assorbimento di una
maggiore percentuale di THC.
• D9-THC (delta9 THC) è liposolubile, ha T/2 di distribuzione di 30 min, si accumula nel
SNC, perché molto vascolarizzato, e nel tessuto adiposo, ricco di lipidi, dal quale è dismesso
con T/2 di eliminazione di 24h.
• L’uso cronico di spinelli determina l’accumulo del THC nel nostro organismo e quindi è’
possibile ricercarlo nelle urine e nel sangue
• Metabolismo CYP3A4 nel metabolita 10-OH-D9-THC (10-idrossi-delta9-
tetraidrocannabinolo) inattivo
• Il fumo di un secondo spinello ravvicinato, a breve distanza di tempo, può intensificare
l’effetto (meccanismo di Tolleranza inversa) perché l’assorbimento del THC dal secondo
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spinello si somma al THC che viene rilasciato in circolo dal tessuto adiposo, che può tornare
al cervello.
• Dà rinforzo positivo, contesto dipendente, euforia, azione ansiolitica e analgesica. Il
rinforzo positivo è alla base della dipendenza psichica. Non tutte le sostanze che inducono
rinforzo positivo causano dipendenza psichica (il cibo o l’attività sessuale non lo fa, ad
esempio). L’assunzione di cannabis non molto spesso (a meno che non si tratti di varietà
modificate) dà abuso. Nel soggetto che assume quantità eccessive in cronico dà dipendenza
psichica e possono esserci fenomeni di abuso
• Abbiamo detto che è contesto dipendente, cioè se invece di fumare in gruppo, in compagnia,
si fuma da soli può dare effetti avversativi, malinconia.
• Hashish dà functional enhancement, aumento della percezione che le proprie capacità
funzionali siano aumentate e alterazioni delle percezioni con illusioni, cioè delle distorsioni
nella percezione di oggetti o di persone che realmente esistono (raramente allucinazioni).
• Dipendenza fisica, si vede quando si cessa l’assunzione, si scatena una sindrome di
astinenza, di breve durata, con i seguenti sintomi: ansia, irritabilità, disturbi del sonno (che
sono gli stessi, ma molto più attenuati, dell’astinenza da oppioidi e derivati dall’attivazione
del simpatico. La dipendenza fisica ha lo stesso substrato molecolare della dipendenza da
oppioidi, infatti nel locus coeruleus si ripete lo stesso meccanismo: iperespressione di recettori
noradrenergici in risposta al consumo della cannabis. Quando si interrompe il consumo,
questa espressione e aumento del rilascio noradrenergico inducono una iperattivazione del
simpatico).
• Attenzione all’uso di più sostanze che inibiscono il SNC, come insieme alcol o BDZ o oppiodi
ho una somma dell’azione inibitoria sul SNC con: riduzione attenzione, memoria,
apprendimento, forte compromissione cerebellare con incoordinazione motoria
(aumento molto il rischio di incidenti automobilistici) questo è anche il motivo per cui quando
si utilizzano in terapia è vietato guidare
• Vasodilatazione con ipotensione, perchè THC determina produzione di monoossido di azoto
radicale, a questa segue una tachicardia riflessa, ipotermia.
• Fumo cronico: sindrome amotivazionale per desensibilizzazione del sistema mesolimbico,
che viene attivato, viene rilasciata più dopamina nell’Accumbens. Questo eccessivo rilascio
può causare una desensibilizzazione dei recettori
• Se si consuma anche un allucinogeno come LSD ci possono essere dei flash back, in cui a
distanza di tempo dall’assunzione dell’LSD, l’uso di cannabis determina nel soggetto dei
flashback in cui si rivivono delle esperienze che si erano fatte durante il consumo precedente
di LSD (cioè si crea un accumulo, che genera dei fenomeni dispercettivi a distanza
dall’assunzione) e slatentizzazione delle psicosi (normalmente la cannabis non la causa)
• Riduce liberazione di FSH e LH: amenorrea, sterilità e riduce testosterone, riduzione libido
e azospermia
• Sebbene la cannabis causi broncodilatazione e quindi non dovrebbe dar problemi se a
consumarla è un pz con patologie broncocostrittive, riduce clearance mucociliare, quindi
predispone alla bronchite cronica
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• Immunosoppressione
• Aumento appetito

Smart Drug e consumi


La Cannabis presente oggi sul mercato può essere molto diversa da quella naturale. Oggi abbiamo
delle sostanze di sintesi, miscela di erbe essiccate non derivate dalla cannabis alle quali vengono
aggiunte sostanze psicoattive, create in laboratorio progettate per dare un effetto simile a quello della
Cannabis, prende il nome di “spice” ( forma di Cannabis sintetica). Nuove sostanze psicoattive
(Nps): sostanze molto potenti, spesso di origine sintetica
In generale tutti i cannabinoidi sintetici sono molto più potenti e pericolosi, la spice è venduta su
internet in modo più o meno legale e negli smart shops autorizzati a vendere prodotti a base di
cannabis con bassa concentrazione di THC.
Sempre su internet sono vendute le cosiddette “smart drugs”, “droghe furbe”, sostanze in libera
vendita, poiché non rientrano nelle tabelle legislative che proibiscono l’uso di sostanze stupefacenti
e psicotrope, anche se non mancano problemi di classificazione. Sono molto pericolose perché hanno
una tossicità che non è controllata e hanno anche un rischio di abuso.
«Semi di canapa” che sono venduti negli smart shops perché non contengono il principio attivo della
cannabis ma possono essere coltivate illegalmente per sviluppare le piante.
Tutto questo facilita il consumo e i danni dell Cannabis modificata e sintetica, che sta diventando un
problema molto serio, soprattutto tra gli adolescenti. Ultimamente è stato pubblicato uno studio:
Studio europeo Espad (European School Survey Project on Alcohol and Other Drugs) 2019 :
• La cannabis è la sostanza illecita più usata dagli studenti (15-16 a.) dei Paesi Europei. In Italia
nel 2019, le percentuali di utilizzo di cannabis sono tra le più alte in Europa.
• Studenti italiani (15-16 aa) che hanno provato cannabis almeno una volta nella vita: 27%,
secondi solo a quelli della Repubblica Ceca (28%)
• Gli utilizzatori italiani di cannabis che dichiarano di aver assunto C. nel corso dell’ultimo
mese sono il 15%, sono i primi, davanti a francesi e olandesi (13%). Milano: 1/6 dei 15enni
fa uso frequente; 1000/15.000 hanno dichiarato di aver provato l’uso di SPICE
• Anche sul fronte dell’uso ad alto rischio, in cronico, l’Italia rileva uno tra i livelli più alti
(6.2%). 1,5% ha dichiarato di aver avuto problemi di memoria, 1,4% ha dichiarato che l’uso
cronico porta a diverbi, zuffe o problemi a scuola;
• Il 3,4% degli studenti ha fatto uso almeno una volta di Nps, nuove sostanze psicoattive molto
potenti, non censite nelle tabelle ufficiali tra le droghe illegali, questo fa dedurre come la
situazione sia ad alto rischio.

Meccanismo d’azione
Thc ha dei recettori, a cui si lega nel nostro organismo, che sono i recettori cannabinoidi CB1 e CB2
sono GPCR che sono accoppiati a proteine Gi o Go dove “o” sta per “others” la cui attivazione
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determina l’apertura delle correnti al K, la chiusura dei canali VOCC del Ca e l’attivazione delle
MAPK, sono numerosi, non quanto gli oppioidi, ma simili.
Abbiamo questi recettori perché produciamo degli endocoidi dei recettori, che sono gli
endocannabinoidi (sostanze endogene prodotte dall’organismo), sono derivati di acidi grassi
polinsaturi, che hanno una struttura diversa dai cannabinoidi derivati dalla pianta di cannabis, definiti
fitocannabinoidi, per distinguerli.
I principali endocannabinoidi sono:
1. Anandamide (ananda in Sanscrito significa “stato di grazia”), N-arachidoil etanolammide.
che è un agonista che lega con una maggior affinità CB1 rispetto a CB2 (CB1>CB2);
2. 2-arachidoilglicerolo (AG) che è 100 volte più presente nel nostro organismo rispetto alla
Anandamide, è un Agonista CB1 e CB2 con simile affinità;
Il THC, prodotto dalla pianta, è in grado di legare questi recettori, ma è un agonista parziale.
Gli Endocannabinoidi sono prodotti, in modo diverso dagli altri neurotrasmettitori, in sede
postsinaptica (non in presinaptica) in seguito a depolarizzazione del neurone postsinaptico, sono
rilasciati nello spazio sinaptico e legano recettori espressi sui terminali sinaptici.
Nel SNC, sui neuroni è espresso principalmente il recettore CB1 (anche in molte altre sedi
dell’organismo). È espresso: nei gangli della base, cervelletto (azione sul movimento), ippocampo,
corteccia cerebrale (azione sulla memoria), talamo, midollo spinale e PAG (sostanza grigia
periacqueduttale: azione sul dolore). CB2 si trova sulla microglia e sulle cellule del sistema immune
(dove modula il rilascio di citochine).

Recettori poco espressi nel Ponte-Bulbo dove risiede il controllo delle funzioni cardio-respiratorie:
questo è il motivo per cui l’assunzione in acuto non da mortalità (al contrario degli oppioidi) perché
non agisce a livello dei centri di regolazione cardio-respiratoria, come fanno gli oppioidi.
Cannabinoidi legano anche i recettori TRPV (transient receptor potential vanilloid), che mediano
parte dell’attività

Recettori Vanilloidi
(TRPV1 e TRPM8)
È nota l’azione dei cannabinoidi sui recettori
TRPV1 E TRPM8. Gli endocannabinoidi sono in
grado di legarsi e attivare TRPV1:
• L’attivazione di TRPV1 sulle terminazioni
nervose del primo neurone nocicettivo fa
rilasciare dal neurone NGF, Sostanza P e
CGRP (che causano neuroinfiammazione).
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• TRPV1 è regolato dalla fosforilazione: l’iperattivazione del TRPV1 dal suo principale
agonista, la capsaicina, porta alla desensibilizzazione (è infatti un transient receptor potential
e ha la caratteristica di essere subito attivato, ma di inattivarsi rapidamente).
• Cannabinoidi endogeni attivano TRPV1 e si pensa portino a desensibilizzazione, come la
capsaicina, attraverso la calcineurina. Il TRPV1 è un canale che fa entrare calcio e sodio:
Ca2+ attiva calcineurina (fosfatasi Ca-dipendente) che defosforila il TRPV1 e ne facilita
l’inattivazione. Questo è il meccanismo attraverso il quale i cannabinoidi riducono il rilascio
di NGF, Sostanza P e CGRP, quindi hanno una modulazione negativa sulla percezione del
dolore (analgesia).
• Inoltre Anandamide ha una bassa efficacia intrinseca sul TRPV1, in presenza di una bassa
riserva recettoriale, cioè quando sono espressi sulla membrana plasmatica pochi recettori, si
comporta come agonista parziale e attiva meno i recettori, mentre, come agonista pieno se ci
sono molti recettori (è un ulteriore meccanismo attraverso il quale riduce l’attivazione del
TRPV1 e quindi determina analgesia)
• L’altro principale endocoide 2AG ha anche un’azione antagonista sul TRPM8, che insieme a
TRPV1, è attivato da diversi valori di ph, mediano il dolore da stimoli diversi; questi
meccanismi contribuiscono all’azione analgesica dei cannabinoidi.

Sintesi post-sinaptica azioni pre-sinaptica


I cannabinoidi endogeni sono prodotti in sede post-sinaptica e agiscono su quella pre-sinaptica:
• Anandamide si forma per attivazione dei
canali VOCC sul neurone post-sinaptico.
Questa attivazione è causata dal rilascio dal
neurone presinaptico di dopamina o
glutammato (DA, Glu). Questi, rilasciati
nello spazio sinaptico, si legano ai loro
recettori a livello post-sinaptico
determinando l’attivazione dei VOCC,
depolarizzazione di membrana e formazione
di anandamide. In particolare il Calcio in
entrata attiva N-acetiltransferasi (NAT) che
acetila la fosfatidiletanolamina, un
fosfolipide di membrana che presenta uno scheletro formato dal glicerolo con il primo
carbonio legato ad un acido grasso, il secondo all’acido arachidonico, il terzo al fosfato, che
è legato, a sua volta, all’etanolammina.
NAT acetila la fosfatidiletanolamina sull’azoto dell’etanolammina attaccandogli l’acido
arachidonico, si forma così l’N-arachidonil-fosfatidiletanolamina.
La PLD (fosfolipasi D) rompe la molecola di N-arachidonil-fosfatidil etanolammina e libera
N-arachidonil-etanolamide, che è l’Anandamide.
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Anandamide, una volta prodotta, non viene immagazzinata in vescicole secretorie, ma è


rilasciata dalla sede postsinaptica e va nella sinapsi a legare il recettore CB1 sul terminale
nervoso del neurone presinaptico, vi si lega e lo attiva.
Il recettore CB1 apre i canali del potassio facendolo uscire e fa chiudere le correnti al calcio:
si ha una iperpolarizzazione della membrana del neurone presinaptico e riduzione del rilascio
del neurotrasmettitore presinaptico, quindi determinano modulazione negativa del neurone
presinaptico.
• 2-arachidonilglicerolo prodotto in sede postsinaptica per attivazione di recettori GPCR
accoppiati a proteina Gq, che causano un aumento del Ca intracellulare, l’attivazione di questi
recettori attiva PLC, che attacca i fosfolipidi di membrana (in questo caso qualsiasi
fosfolipide) e forma il diacilglicerolo (DAG), a sua volta, attaccato dalla diacilglicerolo lipasi
che stacca il primo acido grasso formando il 2-arachidonilglicerolo.
• Alla fine gli endocannabinoidi rientrano all’interno del neurone e vengono metabolizzati da:
1. Ammide idrolasi degli acidi grassi (FAAH): anandamide
2. Monoacil glicerol lipasi (MGL): 2-AG

Cannabis Medica
Esiste anche una cannabis medica, cioè impiegata per usi terapeutici:
• La cannabis medica è legale in Italia dal 2015
• Prima commercializzazione effettiva si è avuta nel 2017
I tipi di cannabis per uso medico legali in Italia sono:
• Cannabis FLOS: per importazione dall’ufficio della Cannabis medica del Ministero della
Salute olandese (importazione dall’Olanda)
• Cannabis italiana, prodotta dall’Istituto chimico farmaceutico militare di Firenze, che produce
un tipo di Cannabis che si chiama FM2.
Da luglio 2018 lo stesso Istituto fornisce un secondo tipo di cannabis che si chiama FM1.
• E’ possibile importare anche una Cannabis canadese che non ha un suo nome, ma prende il
nome della varietà della pianta: la Cannabis Pedanios. Importata direttamente dal Ministero
della Salute italiano ed è disponibile per le farmacie.
Sono le farmacie che, utilizzando queste cannabis, devono preparare il medicinale con una
preparazione galenica, cioè magistrale, fatta in farmacia.
03/12/202 Sbobinatore/revisore: Melania Miele
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In Italia le sostanze stupefacenti e psicotrope


sono normate dal DPR del 9 ottobre 1990
numero 309. Questo è il testo unico delle
leggi in materia di disciplina degli
stupefacenti e sostanze psicotrope, e della
prevenzione e cura e riabilitazione dei relativi
stati di tossicodipendenza.
La legge disciplina tutti gli stadi attraverso cui
passano le sostanze considerate, dalla
coltivazione delle piante che le contengono o
dalla loro preparazione industriale per sintesi
o semisintesi, fino alla dispensazione al
pubblico attraverso le farmacie. Prevede,
inoltre, la costituzione delle strutture per la riabilitazione dei tossicodipendenti.
Questa legge impone un obbligo di autorizzazione per chiunque:

Tutti gli altri soggetti che vogliono


acquistare, detenere o impiegare
sostanze stupefacenti e psicotrope
devono essere autorizzati, i soggetti che
possono essere autorizzati sono:
produttori e distributori intermedi. Le
farmacie, invece, non hanno bisogno
dell’autorizzazione.

La Cannabis Medica è sempre la Cannabis Sativa L, dove “L” sta per Linneo e con questo termine ci
riferiamo all’originale classificazione delle piante di c fatta da Linneo. La Cannabis Sativa L
ricomprende la specie sativa e indica e deve essere coltivata secondo delle norme specificate:
• GACP (Good Agricolture and Collection Practice)
• GMP (Good Manufacturing Practice) che valgono anche per tutte le specialità medicinali
autorizzate.
03/12/202 Sbobinatore/revisore: Melania Miele
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Vengono coltivate mediante clonazione, unicamente in serre indoor e con metodica di germinazione
riportata nel DM del 9/11/15.

La Cannabis medica deve avere un contenuto in principi attivi standardizzato, e questo contenuto è
garantito dalle norme dettagliate di produzione, ogni lotto di can che è prodotta è accompagnato da
un certificato di qualità che specifica il range di principi attivi che è contenuto nel determinato lotto.
Le GMP sono dei documenti che vengono approvati e valgono per tutta l’Unione Europea, in questi
vengono descritti in modo dettagliato le modalità di coltivazione, collezione, preparazione delle
inflorescenze di Cannabis, perché per uso medico si utilizzano esclusivamente le inflorescenze, cioè
l’essiccatura.

Cannabis medica contenuto in principi attivi


Cannabis medica è titolata in principi attivi e la titolazione, cioè la quantità di principi attivi, è diversa
a seconda del tipo. I diversi tipi di Cannabis che è possibile utilizzare a scopo medico in Italia sono:
➢ Cannabis olandese, FLOS, ha diverse titolazioni:
• 22% di contenuto di THC e meno dell’1% di CBD (Bedrocan, cannabis olandese a più alto
contenuto di THC)
• 14% THC (Bedrocan) e meno dell’1% di CBD;
• 6% THC-8%CBD (Bediol);
• <1% THC-9%CBD (Bedrolite)
➢ Cannabis italiana
• FM2, THC 5%-8% e CBD 7%-12%;
• FM1, THC 13%-14% e CBD<1%

➢ Infine abbiamo la Cannabis Pedanios presente in 3 titolazioni:


• Pedanios 22/1: 22% di THC e <1% di CBD, prodotta dalla varietà sativa, come quella italiana
e olandese.
• Pedanios 8/8: 8% di THC e 8% di CBD, diversamente dalle altre è prodotta dalla varietà
indica.
• Pedanios 1/9: <1% di THC e 9% di CBD, prodotta sempre dalla varietà sativa.
03/12/202 Sbobinatore/revisore: Melania Miele
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Differenze tra FM1 e Bedrocan


FM1 fu inizialmente pensata come sostituto della Cannabis olandese, Bedrocan, a più alta titolazione
(22% THC), ma in realtà quella che è stata messa in commercio ha un contenuto di THC tra il 13% e
il 14%, quindi non equivalente alla Bedrocan. Questa è ottenuta con infiorescenze seccate ma non
triturate mentre FM1 ha le infiorescenze triturate con una granulazione fissa (la granulazione è la
grandezza dei granelli della triturazione dei fiori secchi). La triturazione causa una rapida perdita di
terpeni che sono dei coadiuvanti dei principi attivi. Nella Cannabis italiana, essendoci meno terpeni,
viene meno la loro azione che è adiuvante nei confronti del THC e del CBD che quindi funzionano
di meno.

Cannabis: modalità di prescrizione


Qualsiasi medico può prescriverla su ricettario bianco. In alcune regioni, tra cui il Lazio, la cannabis
è anche rimborsata per diverse indicazioni. Quindi può essere prescritta sul ricettario rosa del SSR e
in questo caso viene prescritta da medici specialisti del SSR. La prescrizione è su ricetta non ripetibile,
da rifare ogni volta e poiché avviene utilizzando delle preparazioni che non sono specialità medicinali,
la prescrizione deve seguire le modalità elencate nella legge Di Bella (legge 94 del 98). Questa prende
il nome dal medico che all’epoca costituì un caso perché aveva ideato una terapia nei confronti dei
tumori a base di serotonina, melatonina ed altre sostanze. Il caso fece grande scalpore all’epoca perché
non conteneva farmaci antineoplastici registrati. Questa terapia fu soggetta a sperimentazione che ne
dimostrò l’inefficacia. In realtà molti pazienti erano soddisfatti dalla cura, ma il motivo risiede nel
fatto che il dottor Di Bella seguiva in modo molto puntuale e premuroso i suoi pz, cosa che spesso
non avviene nei pz neoplastici, di frequente trascurati dai medici, cosa che voi dovete evitare di fare.
Il caso Di Bella ha fatto emergere la necessità di normare gli usi off-label dei farmaci, ovvero
l’utilizzo di un farmaco o di una sostanza non autorizzata come medicinale. Nel caso di un farmaco
03/12/202 Sbobinatore/revisore: Melania Miele
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già registrato con off-label intendiamo l’utilizzo per indicazioni non approvate, nel caso di una
sostanza non ancora autorizzata intendiamo un uso non normato dalla legge. Il medico può prescrivere
off-label in entrambi i casi quindi può prescrivere farmaci con una indicazione diversa da quella
approvata o prescrivere sostanze farmacologicamente attive che non sono specialità medicinali
secondo i casi previsti dalla legge Di Bella. In questa legge rientra la prescrizione dei preparati a base
di cannabis.

Secondo l’art.3 della legge


94/98 la prescrizione off-label è
permessa nel caso in cui, in base
a dati documentabili il pz non
possa essere trattato utilmente
con dei medicinali che hanno
quella indicazione o quella via
di somministrazione approvata.
Inoltre l’impiego di quella
determinata sostanza non
approvata o del medicinale per
un’altra indicazione deve essere
noto e conforme a lavori apparsi
su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale. Ossia ci deve essere almeno uno
studio di fase 2 pubblicato. Queste due condizioni devono essere sempre presenti affinché si possa
prescrivere la cannabis. Il medico deve, inoltre, ottenere il consenso scritto dal paziente, dopo aver
illustrato con una lingua semplice e comprensibile l’efficacia, gli effetti e gli eventi avversi che
possono essere causati dal farmaco o sostanza off-label. Il medico deve riportare nella ricetta non il
nome, ma il codice alfanumerico e deve indicare le esigenze particolari per le quali si ricorre alla
prescrizione estemporanea (per es. indicare pz che non risponde alla terapia con farmaci autorizzati
o pz che necessita di una via di somministrazione orale e non ci sono farmaci con quella via di
somministrazione ecc..).
03/12/202 Sbobinatore/revisore: Melania Miele
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Inoltre deve essere indicata la forma farmaceutica ovvero come deve essere preparata dal farmacista,
e la posologia. La validità della ricetta è di 30 giorni non ripetibile e questa ricetta può portare al
rimborso da parte del SSN.

Indicazioni
rimborsate dal SSN
(preparazioni
magistrali)
Le indicazioni rimborsate per cannabis con preparazione magistrale (non specialità medica) sono:
• l’analgesia nei pz con dolore cronico in cui il trattamento con fans, cortisonici o oppioidi si
sia rivelato inefficace, ovviamente in aggiunta.
• Nell’ analgesia in patologie che implicano spasticità associata a dolore, per esempio per
lesioni del midollo spinale (oltre al Sativex), sempre in caso di resistenza alle terapie
tradizionale.
• Come antiemetico nella nausea e nel vomito indotto dalla radio e chemioterapia o nella
terapia dell’Hiv. Nell’anoressia nervosa o in pz oncologici con cachessia, nel glaucoma, per
ridurre i movimenti involotari nella sindrome di Tourette, ovviamente sempre a patto che le
terapie tradizionali non abbiano avuto efficacia.
03/12/202 Sbobinatore/revisore: Melania Miele
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Esistono inoltre due specialità medicinali registrate in EU: Sativex ed Epidiolex. Con indicazioni più
ristrette: Epidiolex contiene solo CBD ed è indicato nella sindrome di Dravet e di Lennox-Gastaut.

Terapia del dolore: CB1 sulle vie nocicettive


I recettori per i cannabinoidi si trovano in varie sedi. A livello spinale, sul primo neurone della via
sensitiva nocicettiva, sia sulle terminazioni efferenti, cioè quelle che vanno in periferia, sia sulle
terminazioni afferenti, che proiettano al midollo spinale. Qui riducono il rilascio di neurotrasmettitori,
quindi la trasmissione dello stimolo nocicettivo. I CB2 si trovano sulla microglia e quando attivati
inibiscono rilascio di citochine infiammatorie. Molto importante è che i CB1 attivati a livello spinale
determinano l’attivazione dei recettori KOP, dunque parte dell’azione analgesica a livello spinale è
mediata da questi recettori. I cannabiniodi sono anche molto efficaci nel dolore neuropatico, tipo di
dolore dovuto ad un danno diretto ad un nervo. Infatti i CB1 predominano sulle fibre A-delta
mieliniche, che sono le fibre up regolate nel dolore neuropatico e quindi i cannabinoidi funzionano
bene. In sede sopraspinale, sono presenti nella sostanza grigia periacquiduttale, nella stessa
localizzazione dei recettori oppioidi ovvero sugli interneuroni GABAergici che inibiscono i neuroni
di proiezione serotoninergici (5-HT) che proiettano alle corna dorsali del midollo spinale. Sono tutti
recettori accoppiati a proteine G inibitorie e quindi anche l’attivazione dei CB1, cosi come i recettori
oppioidi, spegne l’interneurone gaba-ergico e toglie il freno inibitorio sulle vie nocicettive discendenti
che modulano in maniera negativa la trasmissione del dolore, riducendola. Ancora i recettori
cannabinoidi si trovano nel nucleo ventro-postero-laterale del talamo (VPLM), molto più espressi
rispetto ai recettori per gli oppioidi, quindi a livello talamico la trasmissione nocicettiva è
principalmente mediata dal CB1. Questo è il nucleo che riceve le afferenze del fascio neo-spino-
talamico, quindi la sensibilità discriminativa. Questi recettori si trovano anche nel complesso
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Neurofarmacologia Piero Martino
Prof.ssa Melchiorri

intralaminare del talamo, dove spengono la trasmissione nocicettiva di tipo emozionale ed


esperienziale. Una cosa importante è che i recettori CB1 determinano anche un aumento del rilascio
di noradrenalina dai neuroni del locus coeruleus, al livello del quale questi neuroni modulano in
maniera negativa lo stimolo nocicettivo facendo parte delle vie discendenti del dolore. Abbiamo
quindi riduzione della percezione del dolore e analgesia anche attraverso questo ulteriore
meccanismo.

Facciamo un confronto nella terapia del dolore tra l’uso degli oppioidi e l’uso dei cannabinoidi. In
generale gli oppioidi sono molto più potenti come analgesici, ma hanno anche degli effetti collaterali
diversi, questo può contribuire in alcune circostanze a fare un uso preferenziale dell’uno dell’altro
farmaco. Gli oppioidi sono PROCONVULSIVANTI ad alte dosi, mentre i cannabinoidi sono
ANTICONVULSIVANTI, c’è una specialità medicinale addirittura autorizzata come antiepilettico
(EPIDIOLEX).
Gli oppiodi causano: nausea, vomito, costipazione. I cannabinoidi hanno delle proprietà antiemetiche,
non hanno effetti sulla costipazione. Gli oppiodi causano depressione respiratoria al contrario dei
cannabinoidi dato che non ci sono recettori cannabinoidi a livello dei centri regolatori
cardiorespiratori del bulbo-ponte. Gli oppioidi possono causare iperalgesia, i cannabinoidi molto
meno, anche se c’è qualche evidenza di iperalgesia ad alte dosi. Gli oppiodi hanno un effetto pro-
angiogenico, i cannabinoidi anti-angiogenico e infine gli oppiodi inibiscono l’apoptosi, mentre i
cannabinoidi promuovono l’apoptosi.

ALTRE INDICAZIONI TERAPEUTICHE


Vediamo quali sono i meccanismi molecolari alla base delle altre indicazioni terapeutiche dei
cannabinoidi e della cannabis.
• Funzione antiemetica: vomito e nausea sono proprio delle indicazioni per cui è previsto il
rimborso dal SSN nei pazienti oncologici o in terapia per HIV. Questo perché i recettori CB1
inibiscono la trasmissione dopaminergica al centro del vomito. La dopamina rilasciata nel
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centro del vomito induce appunto vomito, i recettori CB1 determinano una riduzione del
rilascio di dopamina nel centro e quindi sono antiemetici.
• Terapia del glaucoma: i recettori CB1 nell’occhio migliorano il deflusso dell’humor acqueo,
riducendo la pressione endoculare.
• Nell’anoressia nervosa e nella cachessia dei pazienti oncologici: per determinare l’aumento
dell’appetito. La cannabis causa rinforzo positivo a livello dell’Accumbens, aumentando il
piacere collegato all’assunzione di cibo. Hanno questo effetto sia il CBD sia il THC. È bene
quindi che siano entrambi presenti nella preparazione in quantità sufficientemente elevate.
Nell’anoressia nervosa l’azione ansiolitica del CBD è preponderante perché riduce l’ansia
connessa con l’assunzione del cibo, il tipo di cannabis utilizzata deve dunque avere una
elevata concentrazione di CBD.
• Per evitare movimenti involontari del corpo e del viso nella sindrome di Tourette. Questi
movimenti involontari sono causati da una disregolazione con iperattivazione delle vie
dopaminergiche nello striato. Nello striato i recettori CB1 si oppongono alla trasmissione
dopaminergica, dunque la somministrazione di cannabis, attivando i recettori CB1, spegne
l’iperattivazione dopaminergica evitando questi movimenti.

Come si assume la cannabis


medica?
La farmacista effettua delle
preparazioni “magistrali” o
“galeniche”. Queste vengono
assunte in forma orale, sotto
forma di tisana o decotto, e in
forma inalatoria, per
vaporizzazione principalmente.
L’assunzione attraverso fumo di
sigaretta è sconsigliata, anche se
in alcuni pazienti oncologici è permesso, perché comporta dei danni dati dalla combustione che
determina oltretutto un decadimento dei principi attivi, quindi ne riduce l’assorbimento. Esistono
anche delle altre forme di somministrazione come oculare sotto forma di collirio, rettale sotto forma
di supposte e anche in forma topica o vaginale, ma noi tratteremo le 2 principali forme di
somministrazione: orale e inalatoria che sono quelle normate dal DPM.
03/12/202 Sbobinatore/revisore: Melania Miele
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Vediamo le differenze farmacocinetiche tra la via di somministrazione orale e quella inalatoria con
vaporizzatore o attraverso il fumo. L’assorbimento è lento per via orale e molto veloce per via
inalatoria, inoltre la via orale è soggetta all’ effetto di primo passaggio, cioè metabolizzazione a livello
del fegato prima che i composti attivi raggiungano la circolazione sistemica. Ovviamente l’effetto di
primo passaggio è assente nella via inalatoria. La via orale determina un basso picco ematico quindi
una bassa Cmax, mentre la via inalatoria determina immediatamente un alto picco ematico. La
velocita d‘azione è molto elevata quando la cannabis è assunta per via inalatoria, più bassa quando
somministrata per os, ma ugualmente l’eliminazione sarà veloce per via inalatoria e più lenta per via
os. Il dosaggio è riproducibile sia che si usi la via orale che inalatoria tramite vaporizzazione, non è
riproducibile, invece se si utilizza il fumo per il meccanismo della combustione precedentemente
evidenziato. La via inalatoria risulta avere minore facilità d’uso per il paziente dato che richiede una
certa manualità nella preparazione. La sicurezza è elevata sia per os sia con l’uso del vaporizzatore,
mentre nel caso del fumo ci sono tutti gli effetti avversi della combustione, compresa la formazione
di radicali dell’ossigeno, del benzoapirene e altri composti cancerogeni.
Nella somministrazione
della cannabis bisogna
tenere presente che i
principi attici THC e CBD
sono prodotti dalla pianta
sotto forma di acidi. Quindi
abbiamo il THCA
(THCACIDO) e il CBDA
(CBDACIDO). Questi
acidi una volta applicato il
calore, vengono
trasformati in cannabinoidi
neutri, si attua cosi la
decarbossilazione. Anche
gli acidi hanno una attività terapeutica ma questa può essere inferiore a quella dei corrispondenti
03/12/202 Sbobinatore/revisore: Melania Miele
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composti neutri decarbossilati. Nelle preparazioni galeniche possono già essere presenti direttamente
i composti decarbossilati in modo che il paziente possa assumere direttamene la preparazione, nel
caso contrario questa procedura di decarbossilazione deve essere svolta dal paziente stesso, attraverso
una particolare metodica.

Somministrazione Os

La via os è una di quelle più utilizzate, le preparazioni possono avere la forma di decotti o tisane, di
capsule orali decarbossilate (dal farmacista), di olio, tintura o resina anche queste già decarbossilate,
di cannabis cruda il cui uso però non è consigliato anche perché non c’è alcuna decarbossilazione.
La tisana viene preparata dal paziente utilizzando le cartine che contengono la cannabis grezza e
tramite il riscaldamento della stessa si determina la decarbossilazione della cannabis e quindi
l’attivazione del THC e del CBD. Le capsule di cannabis micronizzata e le altre preparazioni vengono
fornite già decarbossilizzate.

Tisana/decotto
Il decreto ministeriale 9/11/2015 descrive dettagliatamente la procedura per preparare la tisana o il
decotto a partire dalle cartine di cannabis preparate dalla farmacista oppure dalle capsule di cannabis
micronizzata, queste sono apribili e non devono essere ingerite, ma aperte e usate per la preparazione
della tisana o del decotto. È necessario far bollire con coperchio e lentamente la cannabis 100mg in
100ml di acqua. Una dose normalmente va dai 250mg ai 500mg di cannabis. Le capsule micronizzate
contengono cannabis non decarbossilata e devono essere utilizzate esclusivamente per la preparazione
della tisana/decotto, non vaporizzate per la presenza della maltodestrina che rovinerebbe il
vaporizzatore.
Questa preparazione indicata nel decreto ministeriale in realtà è problematica e nella pratica viene
preferita una preparazione leggermente diversa. Questo perché l’acqua ha una scarsa capacità di
estrarre i principi attivi della cannabis dato che questi sono lipofili. Inoltre la temperatura raggiunta
03/12/202 Sbobinatore/revisore: Melania Miele
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nei 15 minuti di bollitura non risulta sufficiente per avere la certezza che tutto il THC e tutto il CBD
siano decarbossilati. Altre questione è che se la tisana non è bevuta subito i cannabinoidi presenti si
appiccicano sulle pareti del recipiente e quindi il paziente non li assume. Ci sono invece numerosi
dati sperimentali che dimostrano che l’estrazione con la sola acqua è pessima e che se avviene con il
latte è molto più efficace di quella con l’acqua. L’estrazione è ancora più efficace se si utilizza la
formulazione con cannabis micronizzata in capsule apribili.

Nella pratica vi è una metodica alternativa molto utilizzata che prevede una ebollizione fino a 40
minuti in acqua e latte o solo latte, con o senza coperchio. L’ebollizione fino a 40 minuti in acqua e
latte o solo latte permette un’estrazione dei principi attivi dalle infiorescenze più o meno del 70 –
75% . Con l’ebollizione prescritta dal Decreto 2015 la percentuale estratta è molto meno, intorno al
15 – 25 % . Si fa il decotto e non si fa l’infusione (l’infusione è come la bustina di tè messa a mollo)
perché questa metodica permette un’estrazione di principi attivi molto bassa, inferiore al 5 percento .

Olio
Per via orale la cannabis può anche essere assunta sotto forma di olio di cannabis in olio di oliva, ma
anche in olio di cocco o arachide. Normalmente si sciolgono 5g cannabis in 50ml di olio d’oliva, i
principi attivi sono liposolubili, quindi non ci sono particolari problemi. L’assunzione in olio può
avvenire anche per via sublinguale, mettere alcune gocce (a seconda della prescrizione) nel latte intero
NON in acqua o succhi di frutta. Quando assunta per os occorre essere a stomaco vuoto, in modo da
migliorare l’assorbimento di principi attivi.

Resina
Per os la cannabis può essere formulata anche come resina, in questo caso viene fornita in siringhe
che avendo lo stantuffo ne facilitano l’uscita, dato che che ha una consistenza vischiosa. La resina è
normalmente di colore verde scuro per la presenza della clorofilla che conferisce anche un sapore
amaro, quest’ultima si può togliere per migliorare il sapore (operazione fatta dal farmacista).
Normalmente il dosaggio della cannabis sotto forma di resina è di mezza goccia o 1 goccia in caso di
resina più diluita.

Somministrazione per via inalatoria


Questa modalità ha bisogno di uno specifico vaporizzatore, che attraverso la vaporizzazione, cioè il
riscaldamento della cannabis senza arrivare a combustione, determina l’estrazione dei cannabinoidi
e dei terpeni che vengono rilasciati sotto forma di vapore e inalato dal paziente. Abbiamo quindi i
vantaggi della vaporizzazione senza gli svantaggi del fumo. Questa via permette un effetto molto
rapido ed è utilizzata quando è necessario un effetto clinico immediato, come nel controllo della
nausea e del dolore. Dopo tre o quattro ore dalla somministrazione l’effetto termina.
03/12/202 Sbobinatore/revisore: Melania Miele
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Il procedimento prevede che i fiori secchi vengano posti in un contenitore all’interno del
vaporizzatore che viene attivato e si produce un vapore contenenti i principi attivi estratti ad una
temperatura che va dai 190 °C ai 230 °C. Questa temperatura permette l’estrazione dei principi attivi
senza combustione e quindi senza la loro distruzione, cosa che avviene invece con lo spinello dove
la combustione degrada i principi attivi. Il vapore viene inserito in “palloni” con un boccaglio che il
paziente mette in bocca, stringe con i denti e da cui inala Il vapore prodotto. Il vantaggio della
vaporizzazione è che con una stessa dose di cannabis si possono formare 3 palloni contenenti principi
attivi e quindi 3 somministrazioni di una stessa dose che si mantiene nel vaporizzatore che si riaccende
all’utilizzo.
Svantaggio: elevato costo del vaporizzatore certificato CEE. Ci sono in commercio altri vaporizzatori
non certificati che non sempre riescono a raggiungere la temperatura ottimale (210°C)
Posologia: 1 o 2 somministrazione die a 10 min di distanza

Via Inalatoria
Il riscaldamento è una fase critica in quanto se insufficiente comporterà la presenza di una elevata
concentrazione di cannabinoidi acidi (THCA e CBDA) di efficacia minore. Un riscaldamento
eccessivo porterà invece alla decomposizione del THC in CBN (cannabinolo) con l’aumento
dell’attività sedativa.

La via inalatoria risulta preferibile per l’utilizzo in acuto, infatti con questo metodo di
somministrazione si ottiene l’effetto farmacologico in pochi minuti, si raggiungono elevati picchi
ematici e l’eliminazione è più rapida.

Collirio e gel
La somministrazione di cannabis può avvenire in forma di collirio su base oleosa che contiene un
tensioattivo per farlo aderire alla lacrima e quindi rimanere nell’occhio. In questa formulazione viene
somministrata 1 goccia per occhio, più volte al giorno. La somministrazione causa inizialmente
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bruciore, a causa dell’acidità dell’olio, ma scompare in pochi secondi e non si presenta più dopo
qualche settimana.
Sotto forma di gel transdermico la cannabis ha un elevato assorbimento di principi attivi, può
determinare arrossamento e prurito nella zona di applicazione (raro). Il problema deriva dal fatto che
il gel è molto untuoso e tende a macchiare

Effetti avversi
Gli effetti collaterali che si hanno con la cannabis medica sono:
• vasodilatazione (indotta perché i recettori degli endocannabinoidi determinano produzione e
rilascio di ossido nitrico che è un potente vasodilatatore) con ipotensione e capogiri
• tachicardia riflessa secondaria all’ipotensione
• secchezza delle fauci (xerostomia)
• bruciore e arrossamento degli occhi soprattutto in forma di collirio
• debolezza muscolare

Sativex, specialità medicinale (Centri ospedalieri e


neurologi)
E’ uno spray per mucosa orale, una singola applicazione contiene: 2,7 mg di THC e 2,5 mg di CBD.
Ha indicazione per alleviare i sintomi in pazienti adulti affetti da spasticità da moderata a grave dovuta
alla sclerosi multipla (SM) che non hanno manifestato una risposta adeguata ad altri medicinali
antispastici e che hanno mostrato un miglioramento clinicamente significativo dei sintomi associati
alla spasticità nel corso di un periodo di prova iniziale della terapia. Dunque il paziente deve essere
monitorato attentamente soprattutto all’inizio della terapia con Sativex per capire se questa ha
efficacia ed eventualmente interromperla. Può essere prescritto dai centri ospedalieri e dagli
specialisti neurologi. Sativex è sempre un trattamento in ADD-ON, ovvero in aggiunta ai trattamenti
anti-spasticità utilizzati dal paziente. Occorre titolare la dose lentamente da 1 /die fino a un massimo
di 12 applicazioni spray giornaliere, a distanza di almeno 15 min. CONTROINDICAZIONI: in pz
con storia o storia familiare nota o sospetta di schizofrenia o di altre malattie psicotiche, storia di
gravi disturbi della personalità o altri significativi disturbi psichiatrici, esclusa la depressione
associata alla malattia concomitante o durante l’allattamento.
EFFETTI AVVERSI: sono simili a quelli della cannabis capogiri da lievi a moderati, alterazioni della
frequenza cardiaca e della pressione sanguigna dopo la prima somministrazione. Sintomi psichiatrici
quali ansia, allucinazioni, cambiamento d’umore e disturbi paranoidi di entità lieve-moderata,
reversibili con la sospensione. Rischio di una maggiore incidenza di cadute in pazienti nei quali si è
avuta una riduzione della spasticità e la cui forza muscolare è insufficiente a mantenere la postura o
l’andatura. Entrambi i principi attivi THC e CBD sono metabolizzati dal CYP3A4 e dall’ UGT,
inibiscono CYP3A4 rapidamente, UGT1A9 e UGT2B7.
03/12/202 Sbobinatore/revisore: Melania Miele
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Prof.ssa Melchiorri

Epidiolex, specialità medicinale


Soluzione orale: 100 mg CBD/ml. L’indicazione è in terapia aggiuntiva, in associazione con
Clobazam per le crisi epilettiche associate a sindrome di Lennox-Gastaut (LGS) o a sindrome di
Dravet (DS) nei pazienti a partire da 2 anni di età. Il CBD riduce l’ipereccitabilità neuronale agendo
sulla modulazione del calcio intracellulare, quindi riduce il calcio intracellulare tramite il recettore
orfano GPR55 (recettore 55 accoppiato alle proteine G) e tramite il recettore TRPV1. Agisce anche
aumentando la presenza di adenosina nello spazio sinaptico mediante l’inibizione della ricaptazione
cellulare di adenosina attraverso il trasportatore nucleosidico equilibrativo di tipo 1 (ENT1).
Attraverso questi meccanismi in particolare l’adenosina nel SNC si lega a dei recettori accoppiati a
proteine Gi e spegne i neuroni sui quali si trova questo recettore. Attraverso questi meccanismi
sembrerebbe che Epidiolex determini una riduzione delle scariche epilettiche. Perché sembrerebbe?
Perché gran parte della attività di questo farmaco è data dalla interazione farmacocinetica
bidirezionale tra cannabidiolo e clobazam che si potenziano a vicenda. Una assunzione
contemporanea determina un aumento dei livelli circolanti dei rispettivi metaboliti attivi. Epidiolex è
metabolizzato da CYP3A4/2C9 e UGT1A7, UGT1A9 e UGT2B7.
EFFETTI COLLATERALI: Il CBD induce un innalzamento dose-correlato di ALT e/o AST,
abitualmente nei primi due mesi di trattamento. Ci sono dei casi di rialzo fino a 18 mesi dall’inizio
del trattamento, particolarmente in terapia combinata con il Valproato, farmaco che si può associare
nella Lennox-Gastaut e nella sindrome di Dravet. Anche l’associazione con Clobazam (necessaria
per l’effetto antiepilettico) rialza ALT e AST. In questi casi se nella terapia combinata è previsto il
Valproato, occorre ridurre la dose di questo o sospenderlo. Se la terapia prevede in aggiunta solo il
Clobazam, quest’ultimo NON si può eliminare, ma occorre ridurre la dose. Altri effetti collaterali
includono sonnolenza e sedazione, appetito ridotto, diarrea, piressia, affaticamento e vomito (effetto
strano considerando l’effetto tipicamente antiemetico della cannabis), calo ponderale. Si sono
osservati anche dei casi di riduzione dell’emoglobina e dell’ematocrito .
Neurofarmacologia Sbob1: Ilaria Pace
2/12/20 Sbob 2: Damiano Melissano
Prof. Melchiorri ANESTETICI Sbob 3: Federica Orso
Rev: Monica Pellegrino
ANESTETICI GENERALI
Gli anestetici generali hanno una struttura diversa fra di loro ma sono accomunati dal fatto di indurre uno
stato di anestesia generale.
Per anestesia generale si intende una depressione totale ma reversibile delle funzioni del SNC, che comporta
perdita di coscienza. Quest’ultima determina perdita di percezione di tutti gli stimoli esterni e perdita della
risposta a questi stimoli stimoli esterni.
Idealmente un anestetico generale dovrebbe indurre uno stato anestetico che include diverse condizioni,
non soltanto come si potrebbe pensare l’analgesia, ma anche l'amnesia, l’immobilità in risposta a stimoli
dolorosi, lo spegnimento della risposta del SNA agli stimoli dolorosi, la perdita di coscienza (ipnosi) e il
rilassamento muscolare (per facilitare l’atto chirurgico). È quindi facile intuire che un singolo farmaco
anestetico difficilmente possa garantire e indurre tutte queste condizioni.
Questo è il motivo per cui l’anestesia generale si fa con un mix di farmaci, alcuni anestetici, altri più
propriamente analgesici e altri che inducono rilassamento muscolare. Dunque, quando parliamo di indurre
l’anestesia generale pensiamo a utilizzare una combinazione di più farmaci.

A che cosa deve mirare l’anestesia?


Il problema generale con i farmaci anestetici è che questi non hanno nella stragrande maggioranza dei casi
né funzione terapeutica né diagnostica; sono pochissime le eccezioni in cui gli anestetici generali si utilizzano
con funzione terapeutica, per esempio per interrompere lo stato di male epilettico (condizione pericolosa
per la vita) si possono utilizzare degli anestetici generali. Anche in alcune forme di asma, cioè lo stato di male
asmatico (trattato con Alotano), si possono utilizzare alcuni anestetici, così come per l’angina intrattabile
(anestesia epidurale). Dunque, non avendo questi scopi, se devono essere utilizzati devono indurre il minor
rischio possibile per il pz, essendo i benefici limitati al permettere l’intervento chirurgico ma non ad altro.
Purtroppo gli anestetici generali sono farmaci a basso indice terapeutico, quindi hanno molti effetti
collaterali e alcuni di questi possono diventare pericolosi per il pz maneggiare in modo accurato e preciso gli
anestetici generali.

Quindi la pratica della anestesia generale deve mirare a:

• minimizzare i numerosi e potenziali effetti avversi degli anestetici, quindi rendere sicuro l’uso
dell’anestetico.
• sostenere l’omeostasi fisiologica dell’organismo durante la chirurgia. La chirurgia infatti altera molte
condizioni di base dell’organismo, contribuendo all’ipotermia, alla perdita di volumi, alterazione della
coagulazione, tutte condizioni che mettono in pericolo la vita del pz.
• Migliorare l’outcome post-chirurgico e quindi ridurre la risposta dell’organismo allo stress chirurgico.

Effetti avversi
La somministrazione di farmaci anestetici e il raggiungimento dello stato anestetico ha degli effetti
sull’organismo che lo riceve. Questi sono:

→Emodinamici: gli anestetici generali riducono la pressione arteriosa sistemica (perché vasodilatano),
determinano depressione cardiaca, alterano il controllodei barocettori e riducono il tono simpatico centrale.
Con l’atto chirurgico spesso si ha una riduzione di volume e gli stessi anestetici possono indurla, quindi
questo deve essere attentamente monitorato durante l’anestesia ed è particolarmente problematica nei pz
politraumatizzati. In questi ultimi la perdita di volume che deriva dal trauma è compensata dall’attivazione
del simpatico, ma nel momento in cui riceve gli anestetici generali che deprimono il simpatico e la pressione

pag. 1
Neurofarmacologia Sbob1: Ilaria Pace
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sistemica, il pz si trova in una condizione di pericolo e quindi in questo tipo di pazienti bisognerebbe ridurre
le dosi di anestetico.

→Respiratori: l’anestesia riduce l’attività respiratoria, poiché inibisce i centri respiratori. A questo si associa
anche il rilassamento muscolare, che ulteriormente inibisce la respirazione. Essendo inibiti tutti i muscoli del
nostro corpo, viene inibito anche lo sfintere esofageo inferiore; questo provoca rigurgito e quindi aumento
del rischio di polmonite ab ingestis (da aspirazione). Questo è uno dei motivi per cui i pazienti sottoposti a
chirurgia vengono intubati, poiché l’intubazione riduce molto il rischio della polmonite ab ingestis.

→Ipotermia: Parliamo di ipotermia quando la temperatura corporea è al di sotto dei 36° C. Il paziente
chirurgico ha già un rischio di ipotermia, perché vengono esposte cavità corporee durante la chirurgia,
perché la camera operatoria è un ambiente piuttosto freddo per motivi di sterilità, perché spesso i liquidi
che vengono iniettati non sono a temperatura corporea ma sono più freddi (anche se si cerca di scaldarli,
non si inietta mai un liquido freddo di frigorifero). Tutte queste condizioni già tendono ad abbassare la
temperatura contraria, in più i farmaci anestetici loro stessi riducono la temperatura corporea. Quello che
può verificarsi ad un paziente chirurgico sottoposto ad anestesia è che vi sia una alterazione del controllo
sulla termoregolazione e una alterazione della risposta a questo del metabolismo cellulare. Ricordiamo che
nell’ipotalamo abbiamo alcuni centri di controllo, tra cui il centro di controllo della temperatura corporea.
Tutto ciò determina uno spostamento del set point del centro della temperatura ipotalamico, che si abbassa.
Abbassandosi la soglia per la vasocostrizione, bastano piccole variazioni della temperatura corporea a
determinare una reazione di tipo vasocostrittivo che può portare anche a problemi cardiaci per il paziente.

→Nausea e vomito: quasi tutti gli anestetici generali sono emetici, motivo per cui bisogna astenersi dal
consumo di cibo e acqua sia prima che dopo l’intervento chirurgico. In alcuni casi vengono somministrati
anti emetici.

- Nella fase post-operatoria:


Se il dolore non è controllato da una sufficiente somministrazione di antidolorifici questo dolore attiva il
sistema nervoso simpatico, che comporta per il dolore che causa tachicardia e ipertensione (vanno quindi
somministrati antidolorifici per evitarlo). Questo deve essere evitato soprattutto in pz con malattie
coronariche poiché può causare ischemia del miocardio. Se si utilizzano oppiacei e vengono aggiunti alla
miscela che contiene i farmaci anestetici, gli oppiacei inibiscono il SN simpatico e quindi non si ha in questo
caso il problema cardiaco e cardiovascolare sopra citato.

→Inoltre il residuo dell’anestetico può rimanere nelle vie aree, e questo può causarne un’ostruzione
parziale che in alcuni casi può portare ad ipossiemia. In questo caso se il pz ha ricevuto oppioidi la situazione
peggiora, poiché questi possono peggiorare l’ipossiemia.

Dunque questi sono tutti i principali effetti avversi degli anestetici generali che devono essere tenuti sotto
controllo. Poiché i farmaci anestetici generali sono farmaci a basso indice terapeutico bisogna cercare di
adoperarli alle dosi più basse possibili e per far questo e contemporaneamente realizzare tutte quelle
condizioni che sono caratteristiche dello stato anestetico ideale si attua la cosiddetta anestesia bilanciata
che è quella pratica che si avvale sull’uso di farmaci diversi.

Quindi per massimizzare e ottimizzare lo stato anestetico riducendo i principali effetti collaterali è necessario
somministrare più farmaci anestetici in un pz chirurgico, cioè effettuare un’anestesia bilanciata.

pag. 2
Neurofarmacologia Sbob1: Ilaria Pace
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!!Nell’ anestesia bilanciata trovano posto:
- Anestetici generali somministrati per via inalatoria
- Anestetici generali somministrati per via endovenosa
- Analgesici che controllano il dolore
- Bloccanti neuromuscolari per il rilassamento

In questo modo si riduce chiaramente la dose dei farmaci anestetici perché parte delle azioni necessarie per
mantenere lo stato anestetico sono evocate da altri farmaci.

Inoltre all’anestesia si fa precedere la cosiddetta medicazione pre-anestetica, con lo scopo di:


→ sedare il pz che è già normalmente agitato per l’intervento
→ indurre amnesia : Nella pre-anestesia sono utilizzate le benzodiazepine, che hanno la caratteristica di
indurre amnesia anterograda, questo fa si che il pz al risveglio non ricordi quelle sensazioni spiacevoli che ha
provato prima dell’atto chirurgico.
→ ridurre la quantità di anestetico che verrà somministrata ma anche quello di ridurre alcuni effetti
collaterali: Per esempio si danno anticolinergici per ridurre la salivazione, per ridurre la tosse (riducendo le
secrezioni bronchiali), si danno antiemetici per ridurre il vomito e si danno dei farmaci che riducano sia il
volume che l’acidità del contenuto gastrico per evitare danni della mucosa dell’apparato gastro intestinale.

Nella medicazione pre anestetica si utilizzano:


- Benzodiazepine, che hanno sia la funzione di
sedare il pz che quella di indurre amnesia, tra cui
Midazolam, Lorazepam e Diazepam
- Antistaminici
- Analgesici come gli oppiacei
- Antiacidi, come Omeprazolo e Famotidina e
Ranitidina (quest’ultima oggi meno usata per
problemi di potenziale tossicità di alcune
formulazioni)

Il pz deve essere a digiuno solido (compreso il latte) da 6


ore prima dell’anestesia e liquido (acqua e caffè) da 2ore prima dell’anestesia.

Vie coinvolte nell’azione dei farmaci anestetici


Le vie coinvolte nell’azione dei farmaci anestetici sono le stesse vie nervose coinvolte nel sonno. Il nostro
SNC possiede un sistema attivanti le funzioni superiori e inibente le funzioni superiori. Nel sonno prevale
quella inibente, che è quella che prevale anche per azione degli anestetici generali. Il sonno è regolato
principalmente da due nuclei del SNC: Il nucleo preottico ventrolaterale dell’ipotalamo che interviene per
spegnere il SNC e il nucleo tuberomammillare che interviene per attivare la veglia.
Gli anestetici, sia quelli somministrati per via inalatoria che per ev, potenziano il principale nucleo del sistema
inibente : nucleo preottico ventrolaterale (NPVL).
Il nucleo preottico ventrolaterale inibisce quelli che sono i nuclei ascendenti della veglia. I neuroni del nucleo
preottico ventrolaterale sono infatti neuroni GABAergici, che proiettando ai nuclei ascendenti della veglia
ne determinano l’inibizione. Quindi gli anestetici attivano il nucleo preottico ventrolaterale per ottenere
questa inibizione.

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Nella foto in alto ( si consiglia di seguire la seguente trattazione facendo riferimento a questa foto), nel riquadro sulla
destra sono segnate le due grandi aree di attivazione. Queste sono le vie e i nuclei della veglia:
1) Facilitazione talamo corticale
2) Attivazione corticale
Entrambe queste vie sono inibite dalla attività del nucleo preottico ventro laterale (NPVL). Ripetiamo che
NPVL è attivato dagli anestetici generali.

Dunque, i nuclei della veglia sono costituiti da neuroni che possiamo raggruppare in due tipi fondamentali:

1) Neuroni ad acetilcolina, che determinano la facilitazione talamo corticale. Questi sono neuroni
talamici che proiettano alla corteccia e hanno come neurotrasmettitore l’acetilcolina. Queste vie di
facilitazione sono:
o Via peduncolo pontina (PPT)
o Nucleo laterodorsale tegmentale (LDT)
Quindi al talamo arrivano tutte le afferenze sensoriali del nostro organismo, e il talamo le proietta alla
corteccia. Queste sono le cosiddette vie di attivazione.

2) Poi ci sono le vie di attivazione corticale, caratterizzate dal fatto di avere diversi neuroni. I neuroni
dell’attivazione corticale, che hanno il corpo cellulare in una serie di nuclei che proiettano alla
corteccia, sono neuroni che hanno neurotrasmettitori diversi, e sono:

o Nucleo tuberomammillare, che proietta alla corteccia ed ha come neurotrasmettitore l’istamina.


Questo è il motivo per cui i farmaci che bloccano i recettori H1 dell’istamina danno sonnolenza,
poiché bloccano questa via di tipo attivatorio che dal nucleo tubero mammillare proietta alla
corteccia, attivandola.
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o Area tegmentale ventrale (DTA), è un area dopaminergica, chiamata area A10 dopaminergica, che in
parte proietta alla corteccia attivandola, e questa ha come neurotrasmettitore la dopamina.
o Neuroni attivatori corticali con un diverso neurotrasmettitore, la serotonina, che hanno il corpo
cellulare nella formazione reticolare, nel nucleo dorsale e mediano del rafe. Anche questi proiettano
alla corteccia ed attivano questa.
o Neuroni del locus coeruleus, che è il principale nucleo noradrenergico del SNC, quindi contiene i corpi
cellulari dei neuroni noradrenergici. Questi neuroni determinano attivazione corticale perché
inibiscono il nucleo preottico ventrolaterale.
o Neuroni ipotalamici, ipotalamo laterale, sempre di tipo attivatore, che hanno come
nuerotrasmettitore l’orexina, sostanza che è coinvolta nel ritmo sonno veglia, ma anche nella
regolazione della fame e nel dispendio energetico
o Infine vi è il grande gruppo del prosencefalo basale. Questo complesso è formato da neuroni
colinergici (che vengono distrutti per primi nell’Alzheimer) che hanno il corpo cellulare nei nuclei
settali mediali e che proiettano all’ippocampo e nel nucleo basale di Meynert, anch’esso un nucleo
colinergico, i cui assoni proiettano alla neocorteccia.

Tutte queste sono vie del sistema attivante, inibite durante il sonno e con intensità maggiore dall’azione
degli anestetici generali.

A che livello agiscono gli anestetici generali?


Gli anestetici generali agiscono a livello della
corteccia frontale e dell’ippocampo, e in questi
siti determinano sedazione ed amnesia
(soprattutto a livello ippocampale). Allo stesso
tempo alcuni anestetici, in particolare la
Ketamina, sempre agendo all’interno di queste
aree possono indurre delirio.
Proprio perché agiscono a questo livello, i
farmaci anestetici generali sono più pericolosi
nei pz anziani. Ci sono infatti casi di persone con
età avanzata che riportano i segni dell’anestesia
generale, come alterazioni di tipo cognitivo
psichiatrico. Molte di queste recedono, sono
reversibili, ma possono anche durare parecchi
mesi. Questo dipende appunto dal meccanismo
d’azione, soprattutto a livello della corteccia
centrale, degli anestetici generali.

La perdita di coscienza e la capacità di indurre ipnosi derivano dall’azione degli anestetici generali a livello
talamico e a livello del tronco encefalico, in particolare nella formazione reticolare. Infine, l’azione
analgesica risiede a livello del midollo spinale, dove gli anestetici determinano rilassamento muscolare.

Stadi di anestesia generale


L’anestesia generale è un processo che prosegue attraverso stadi in sequenza temporale perché i neuroni
del nostro sistema nervoso centrale sono diversamente sensibili agli anestetici generali; quindi in un primo
momento subiranno l’azione degli anestetici generali alcune popolazioni neuronali e poi, con l’aumentare
della concentrazione dell’anestetico nel nostro organismo, via via anche tutti gli altri neuroni.
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I diversi stadi sono:
• Stadio 1 (analgesia senza amnesia): il diametro pupillare, le secrezioni ghiandolari e il tono muscolare sono
ancora normali; la respirazione è regolare; il pz ha analgesia ma è cosciente. Perché abbiamo analgesia? I
primi neuroni sensibili sono quelli della sostanza gelatinosa delle corna posteriori del midollo spianale e per
questo motivo il primo stadio è caratterizzato dall’analgesia.
Questo primo stadio può essere sfruttato per interventi,piccoli, che si risolvono velocemente, di tipo
ambulatoriale dove vogliamo esclusivamente l’analgesia.
• Stadio 2 (eccitazione): è uno stadio di passaggio tra 1 e 3, potenzialmente pericoloso, che deve essere
velocemente superato; questo stadio avviene perché vengono inibiti per primi i neuroni inibitori GABAergici
e ciò determina l’opposto dell’analgesia cioè l’eccitazione. Ci può essere alterazione della respirazione
(tachipnea), midriasi a livello pupillare, movimenti involontari ed incoordinati e subentra amnesia.
Lo scopo dell’anestesia è quello di superare velocemente questo stadio, e il superamento veloce dello stadio
2 è attuato dalla medicazione pre-anestetica.
• Stadio 3 (anestesia chirurgica): può avere diversa profondità a seconda del tipo di intervento a cui deve
andare incontro il paziente; la capacità respiratoria può essere normale se la profondità è leggera, il
rilassamento muscolare non è intenso o il tono muscolare può essere addirittura normale; se è profonda, la
capacità respiratoria è compromessa per riduzione dell’attività dei muscoli intercostali che può arrivare fino
alla completa paralisi. La respirazione diventa allora solo diaframmatica e deve essere assistita.
Se la dose di anestetico somministrata è eccessiva si può arrivare fino al quarto stadio che è quello della
depressione generalizzata del SNC. In questo stadio abbiamo una depressione delle vie ascendenti della
formazione reticolare e dalla soppressione dei riflessi spinali, ed è questo lo stadio dell’anestesia chirurgica.
• Stadio 4 (depressione centri bulbari): completa abolizione dei movimenti respiratori. Se non c’è supporto
respiratorio si ha coma e morte. Durante l’anestesia generale normalmente non si arriva allo stadio 4.

Induzione, mantenimento, risveglio


➔ Induzione: tempo che intercorre tra l’inizio della somministrazione dell’anestetico e lo sviluppo
dell’effettiva anestesia chirurgica. Dipende dal singolo anestetico, alcuni hanno tempo di induzione
più breve (si preferiscono per l’induzione dell’anestesia) e altri più lungo (si preferiscono per il
mantenimento). Infatti, una volta indotta, è necessario mantenere l’anestesia per tutto il tempo
necessario all’intervento chirurgico.
➔ Mantenimento: tempo durante il quale il pz è anestetizzato in modo tale da poter subire l’intervento
chirurgico.
➔ Risveglio: tempo che intercorre tra l’interruzione della somministrazione dell’anestetico e il ritorno
di coscienza. Dipende dalla velocità con cui l’anestetico viene allontanato dal cervello.

Gli anestetici generali si dividono in 2 gruppi in base alla via di somministrazione:


1. Per via inalatoria:
- Gas alogenati, cioè gas anestetici che contengono nella loro
molecola un alogenuro;
- Protossido di azoto.
2. Per via endovenosa:
- Barbiturici;
- Propofol;
- Ketamina;
e poi dei farmaci che non sono degli anestetici ma che hanno altre azioni:
- Benzodiazepine, con azione sedativo-miorilassante;
- Antidolorifici come gli Oppiacei, anche se alcuni come Fentanil vengono usati anche come anestetici.
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1. Anestetici inalatori
Sono dei gas o liquidi volatili e vengono somministrati ai
pazienti sempre in una miscela gassosa. La forza che
spinge un anestetico nell’organismo è la sua pressione
parziale; la pressione parziale di un gas contenuto in una
miscela è una forza che dipende dalla concentrazione del
gas in quella miscela. Questo significa che se io ho un gas,
un anestetico inalatorio, presente al 5% vuol dire che la
sua pressione parziale è 5 x pressione atmosferica (1
atm= 750 mmhg) /100 = 38.
Ma quando la miscela con l’anestetico entra
nell’organismo, la pressione parziale del gas nei diversi
tessuti dell’organismo dovrà tener conto anche della
solubilità dell’anestetico in quel determinato tessuto e
questa dipende dal coefficiente di ripartizione, dato dal
rapporto della concentrazione dell’anestetico nel gas
della miscela/ concentrazione del gas nel determinato
tessuto.
Il coefficiente di ripartizione si calcola quando, si è
raggiunto l’equilibrio di distribuzione, cioè quando le
pressioni parziali dei gas sono uguali nei diversi tessuti.
Quindi quando un anestetico inalatorio è somministrato in un
paziente la sua pressione parziale non dipenderà soltanto dalla
concentrazione ma anche dalla solubilità in quel determinato
tessuto. All’equilibrio le pressioni parziali di un gas anestetico
sono uguali in tutti i tessuti e sono anche uguali alla pressione
parziale che ha l’anestetico nella miscela espirata, così come
risultano uguali alla pressione parziale dell’anestetico a livello
degli alveoli (pressione parziale a fine volume corrente).
Il monitoraggio si fa sulla pressione parziale alveolare perché
all’equilibrio è uguale alla pressione parziale del gas in tutti i
tessuti.

La solubilità di un anestetico in un determinato tessuto è importante perché sono dei farmaci che hanno
diversi gradi di solubilità, avremo farmaci più solubili nel tessuto adiposo (lipofili), altri solubili in acqua
(idrofili) e quindi più solubili nel sangue.
- Un anestetico che è poco solubile quando viene somministrato in paziente viene distribuito in una
superficie più piccola e quindi l’induzione dell’anestesia sarà più veloce così come il ricovero e
l’anestesia;
- uno molto solubile si distribuirà su una superficie più vasta e quindi l’induzione sarà più lenta così
come il ricovero e il risveglio.

Nel momento in cui somministro un farmaco anestetico generale per via inalatoria posso controllare la
velocità sia dell’induzione dell’anestesia sia del risveglio, controllando la sua pressione parziale nella miscela
di gas in cui si trova, sapendo che quest’ultima è influenzata dalla diversa solubilità nel sangue e nei tessuti
del singolo anestetico.

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In questo grafico viene mostrato come l’Alotano
(anestetico generale per via inalatoria) ha un coefficiente
di ripartizione sangue/gas = 2,4, quindi è molto più solubile
nel sangue rispetto al gas. Poiché abbiamo detto che la
solubilità influenza la velocità di induzione dell’anestesia,
l’Alotano ha una velocità di induzione dell’anestesia molto
diversa da un altro gas, il Protossido d’azoto, che ha un
coefficiente di ripartizione = 0,47 quindi molto più piccolo
dell’Alotano.
Vedendo i grafici della velocità di induzione e di risveglio in
funzione della % della concentrazione del farmaco degli
alveoli, quindi della pressione parziale del gas negli alveoli,
vedremo che maggiore è la concentrazione alveolare più veloce è l’induzione dell’anestesia e il risveglio.
Tra tutti gli anestetici inalatori quello che da un’induzione e un risveglio più veloce è il Protossido d’azoto,
ma questo non si utilizza molto per l’induzione dell’anestesia e soprattutto non da solo.

Oltre alla solubilità nei tessuti e alla pressione parziale vi sono altri fattori che concorrono a determinare la
velocità di induzione dell’anestesia sono:
- La ventilazione polmonare: la sua frequenza e profondità influenzano la velocità con cui aumenta la
pressione parziale dell’anestetico nel sangue arterioso, quindi più atti ventilatori al minuto facciamo
e maggiore è l’aumento della pressione parziale dell’anestetico nel sangue arterioso (questa viene
presa in considerazione perché l’anestetico deve andare in circolo per raggiungere il suo sito d’azione
nel SNC);
- Il flusso ematico polmonare: se aumenta va a rallentare la velocità con cui aumenta la tensione
dell’anestetico nei vasi arteriosi. Questo è particolarmente vero per gli anestetici inalatori che hanno
una solubilità medio alta, perché se il flusso ematico polmonare aumenta porta via più velocemente
l’anestetico e la pressione parziale aumenta più lentamente;
- Il gradiente di concentrazione tra il sistema delle arterie e quello delle vene (arterovenoso): dipende
dal grado di captazione dell’anestetico da parte dei singoli tessuti. Ci sono singoli tessuti che
influenzano maggiormente la fase di induzione dell’anestesia, che sono quelli maggiormente perfusi
come cervello, cuore, fegato, rene, letto splancnico. Maggiore è la differenza tra la pressione parziale
arteriosa e venosa e maggior tempo si impiega per raggiungere l’equilibrio, dove le pressioni parziali
sono uguali in tutti i compartimenti del nostro organismo.

La potenza degli anestetici inalatori viene


definita attraverso la MAC, acronimo che sta
per minima concentrazione alveolare. Il
valore di 1MAC corrisponde alla
concentrazione di anestetico negli alveoli che
è in grado di immobilizzare il 50% dei pazienti
esposti a uno stimolo doloroso.
La MAC varia per i singoli anestetici e da
un’indicazione della potenza di un anestetico,
e cioè di quanto anestetico dobbiamo dare per raggiungere lo stato anestetico. La MAC permette di
confrontare i singoli anestetici tra di loro perché le singole MAC dei diversi anestetici sono addittivi.
Poiché come detto prima lo stato anestetico si raggiunge attraverso un’anestesia bilanciata con diversi tipi
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di anestetici, questi vanno aggiunti attraverso il confronto e la somma delle loro MAC.
L’anestesia si produce quando le concentrazioni dell’anestetico nel cervello è almeno uguale alla MAC del
singolo anestetico. Il singolo anestetico per raggiungere 1MAC deve essere a una determinata
concentrazione che è diversa per ognuno di essi. Per esempio se io ho per un anestetico 1MAC=0,76 significa
che deve essere allo 0,76% per avere 1MAC.
Come misuriamo la MAC? si misura in continuum misurando la concentrazione dell’anestetico alla fine
dell’espirazione con spettroscopia di massa o ai raggi infrarossi; questa correla direttamente con la
concentrazione dell’anestetico libero al sito d’azione (SNC), perché? Perché sono all’equilibrio di
distribuzione.

Caratteristiche della MAC:


- Scarsa variabilità interindividuale nell’ambito di una stessa specie;
- Non viene modificata da sesso, altezza, peso corporeo del pz o durante l’anestesia;
- Non è modificata da stimoli nocicettivi diversi;
- La dose somministrata di un gas anestetico può essere misurata come multipli di MAC: a una MAC di 1.1
più del 95% dei pazienti sono anestetizzati, non responsivi agli stimoli dolorosi;
- Le MAC dei diversi anestetici sono additive.

Esiste anche MAC-risveglio: valore al quale i pazienti si risvegliano e recuperano la coscienza (ovvero quando
risponde a un comando vocale); il valore è inferiore rispetto a quello che serve per indurre l’anestesia ed è
compreso tra il 55%-67% del valore della MAC dei singoli anestetici. È minore perché deve ridursi la
concentrazione dell’anestetico del cervello.

Meccanismo d’azione degli anestetici inalatori


I meccanismi molecolari attraverso cui agiscono gli anestetici inalatori (AI) sono molteplici.
- La maggior parte di questi farmaci è rappresentata da modulatori
allosterici positivi del recettore GABAa quindi sono responsabili del
potenziamento della trasmissione gabaergica; è abbastanza intuitivo
che in questo modo si inibiscono le vie ascendenti e l’attività dei neuroni
del SNC.
- Molti degli AI sono inoltre dei modulatori allosterici positivi del
recettore per la glicina: la glicina, che ha un suo particolare recettore,
è il principale neurotrasmettitore inibitorio del midollo spinale (il GABAa
lo è nel cervello), distretto nel quale agisce questa tipologia di farmaci.
- Molti AI attivano i canali per il potassio, soprattutto quelli in sede post-sinaptica, iperpolarizzando i
neuroni e impedendone l’attivazione.
- Alcuni AI bloccano i recettori nicotinici a livello del SNC e attraverso questo meccanismo inducono
analgesia e amnesia.
- Vi sono poi altri meccanismi, come l’interazione (legame e inibizione) con proteine coinvolte nel
rilascio dei neurotrasmettitori. Queste ultime tuttavia sono meccanismi accessori.

Quali sono i principali AI?


I principali anestetici inalatori sono:
• protossido d’azoto;
• anestetici alogenati:
1. Alotano: è il prototipo e il più vecchio di questa categoria. In Italia non è più commercializzato
ma lo è ancora in molti paesi in via di sviluppo.
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2. Enflurano
3. Isoflurano
4. Sevoflurano
5. Desflurano
6. Metossiflurano: poco utilizzato da noi.

Questi anestetici hanno diversi coefficienti di ripartizione sangue/gas, quindi sono più o meno solubili nel
sangue; si va dal protossido d’azoto e dal desflurano che sono i meno solubili, all’alotano che è il più solubile
con un 2,3%.
Esistono anche altri coefficienti di ripartizione, come il coefficiente di ripartizione cervello/sangue, che ci
indica la solubilità nel cervello.
In aggiunta a questi
valori abbiamo la MAC
(concentrazione
alveolare minima). Il
protossido d’azoto ha
una MAC superiore al
100%: il che significa che
ha bisogno di una
concentrazione
superiore al 100% per
raggiungere il valore di
una MAC. Ciò non è
ottenibile a meno che
non si operi in condizioni
iperbariche; ma oltre al fatto che non si può operare in queste condizioni, non sarebbe comunque di
beneficio per il paziente perché significherebbe escludere l’ossigeno dalla miscela. Per queste ragioni, a
causa della sua MAC troppo elevata, il prot. d’azoto non si utilizza mai da solo per indurre l’anestesia. Il
desflurano ha una MAC tra 6 e 7, quindi estremamente più bassa; e infine l’alotano e il metossiflurano sono
quelli con le MAC minime: rispettivamente 0,75 e 0,16. Ciò significa che per l’alotano lo 0,75% di
concentrazione nella miscela di gas permette di raggiungere il valore di una MAC; in altri termini una MAC
per l’alotano è una concentrazione di alotano dello 0,75% nella miscela. Analogamente per il sevuflorano
il valore di una MAC si raggiunge a una concentrazione del 2%.

1.1. ALOTANO
Lo trattiamo perché è il prototipo di questi farmaci (sebbene non venga più utilizzato in Italia ma soprattutto
nei paesi in via di sviluppo) e perché è quello che presenta più effetti collaterali, permettendoci di entrare
a conoscenza di tutti gli effetti avversi degli anestetici inalatori.
L’alotano ha una MAC dello 0,75% e un coefficiente di ripartizione sangue/gas del 2,3. Ciò significa che è
molto più solubile nel sangue rispetto a quanto lo sia nel gas e che di conseguenza impiega un lasso di tempo
piuttosto lungo per indurre l’anestesia. Questa sua caratteristica fa sì che non venga utilizzato in questa
procedura, (analogamente a quanto accade nella grande maggioranza dei casi, salvo poche eccezioni, anche
con gli altri gas alogenati) ma nel mantenimento di quest’ultima. Ai gas alogenati si preferiscono degli
anestetici per via endovenosa - che sono molto più rapidi - nella fase di induzione.

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Effetti avversi:
→Gli anestetici generali inducono ipotensione arteriosa, riducendo la PA di circa il 20/25%.
→L’alotano agisce direttamente sul cuore e in particolare sulla disponibilità di calcio all’interno dei miociti,
diminuendo la contrattilità, la forza di contrazione e la gittata cardiaca e portando quindi a bradicardia.
Inoltre ritarda la conduzione dell’impulso nel cuore aumentando il periodo refrattario e quindi facilitando
la genesi di aritmie (in particolare aritmie da rientro). Un ulteriore effetto avverso dell’alotano, comune
anche a molti altri anestetici per via inalatoria, è quello di determinare un aumento del flusso ematico
cerebrale (perché vasodilata) e un conseguente aumento della pressione intracranica. Questa caratteristica
impedisce di utilizzare l’alotano nella neurochirurgia (controindicazione)
→L’alotano determina, come la maggior parte degli anestetici inalatori, una riduzione della respirazione
(ipoventilazione) che induce un aumento della pressione parziale di CO2, la quale a sua volta determina
attivazione del SN simpatico. Questo tipo di attivazione, nei soggetti sottoposti a chirurgia, può essere
pericolosa per le conseguenze cardiovascolari. Inoltre durante la chirurgia spesso si somministra anche
adrenalina per accelerare l’emostasi; il suo effetto, sommato all’attivazione del simpatico che si ha per
l’ipoventilazione, può peggiorare la funzione cardiaca.
→Gli anestetici per via inalatoria determinano rilassamento di tutta la muscolatura, quindi anche di quella
uterina e per questa ragione l’alotano non viene utilizzato durante il parto o come anestetico durante il
travaglio.
→Può causare insufficienza renale: abbiamo oliguria nel 40-50% dei pazienti. L’insufficienza è determinata
da una riduzione del flusso sanguigno al rene.
→E’ un farmaco emetico, quindi bisogna somministrare degli antiemetici altrimenti il paziente avverte
nausea e vomita.
→Gli anestetici generali per via inalatoria possono potenzialmente indurre un effetto collaterale molto
pericoloso: l’ipertermia maligna. Si verifica nei soggetti che hanno una mutazione del recettore RYR1 (nel
cuore abbiamo visto il RYR2) e per questo è una condizione rara in quanto queste mutazioni non sono
frequenti. Questo si trova nel muscolo scheletrico, sui calciosomi e viene attivato dal calcio. Una volta
attivato determina il rilascio del Ca2+ dai calciosomi con conseguente aumento della concentrazione nel
citosol. I soggetti con la mutazione del RYR1 hanno un recettore che funziona di più e quindi una maggiore
quantità di calcio libero nel citosol disponibile per le funzionalità cellulari. L’ipertemia si verifica nei soggetti
che hanno la mutazione e a cui vengono somministrati anestetici alogenati. Consiste in un aumento della
temperatura fino a valori molto elevati (45 °C e più), aumento del metabolismo cellulare e del tono
muscolare, rigidità muscolare; l’aumento della temperatura determina poi disidratazione: una condizione
molto pericolosa che in acuto mette in pericolo la vita del paziente e che necessita di un intervento
immediato. Oltre a questo, il danno alla muscolatura determina il rilascio di proteine muscolari che
danneggiano il rene. Il danno alla muscolatura può procedere fino alla rabdiomiolisi; si può avere
insufficienza renale, acidosi respiratoria e metabolica, e coagulazione intravasale disseminata (CID).
Come si interviene in questa situazione? Il trattamento è innanzitutto finalizzato ad abbassare la
temperatura del pz; a idratarlo, non troppo velocemente (perché potrebbe essere pericoloso), facendolo
bere; e a rilassare la muscolatura, somministrando un rilassante: il Dantrolene.
→Infine, l’effetto collaterale più grave, che ha fatto sì che in molti paesi non venga più utilizzato, è la sua
capacità di indurre necrosi epatica fulminante. Evenienza che si verifica in media in 1 paziente ogni 10000.
Questa condizione è anche nota come ‘epatia da alotano’ ed è dovuta al processo di metabolizzazione del
farmaco. Esso è estesamente metabolizzato dal fegato e contiene fluoro che, sottratto dall’alotano, viene
utilizzato per determinare la trifluoroacetilazione delle proteine epatiche; processo che avviene a causa del
metabolismo dell’etanolo e che rende le proteine epatiche antigeniche: si scatena quindi una reazione
anticorpale contro queste ultime che porta ad epatopatia e nel 40-50% dei casi a morte del pz. Inoltre la
riduzione del flusso sanguigno al fegato induce insufficienza epatica e riduce l’attività degli enzimi epatici.
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1.2 ENFLUORANO
L’enfluorano ha una MAC dell’1,6%, ciò significa che deve essere presente a tale concentrazione nella miscela
per indurre l’anestesia. Il coefficiente di ripartizione sangue/gas è dell’1,8%, quindi anche questo anestetico
è più solubile nel sangue rispetto a quanto lo sia nel gas; ciò fa sì che sia responsabile di una lenta induzione
dell’anestesia e dunque che non venga utilizzato in questa fase ma per il suo mantenimento.
E’ poco usato perché:
- abbassa la soglia per le convulsioni e quindi pone a rischio sia i pz già epilettici sia i pz che non hanno
precedentemente avuto episodi di crisi epilettiche.
- E’ nefrotossico
- E’ responsabile di una grave depressione respiratoria; a livello polmonare è un broncodilatatore
perché rilascia la muscolatura liscia.
Inoltre induce ipotensione attraverso due meccanismi: in primo luogo vasodilata; e in secondo luogo
deprime la contrattilità cardiaca; quest’effetto sulla contrattilità tuttavia non influenza la frequenza cardiaca.
Anche questo farmaco porta a un aumento della pressione intracranica, per cui non viene utilizzato in
neurochirurgia e, come l’alotano, può causare ipertermia maligna nei pazienti con mutazione del recettore
RYR1. Diversamente da questo però, che abbiamo detto essere estesamente metabolizzato, l’enfluorano
viene poco metabolizzato (2-8% della dose somministrata viene metabolizzata da CYP 2E1).
Infine pur non essendo una nozione molto importante, per nostra conoscenza ricordiamo che l’isoniazide
determina un incremento del metabolismo dell’enfluorano.

1.3 ISOFLUORANO
Ha una MAC di 1,2 e un coefficiente di ripartizione sangue/gas di 1,4; il che lo renderebbe adatto ad essere
utilizzato per l’induzione – visto che non richiede un lasso di tempo eccessivo- tuttavia a causa del suo odore
particolarmente sgradevole, pungente, che irrita la mucosa dell’albero bronchiale, non viene utilizzato per
tale procedura ma unicamente per il mantenimento.
Non è metabolizzato, viene escreto dagli alveoli per la maggior parte non modificato ed ha effetti collaterali
molto simili a quelli già visti negli altri anestetici generali trattati.
Determina ipotensione ma non altera la gittata cardiaca (diversamente dall’alotano che invece la riduce).
L’isofluorano è un anestetico generale molto utilizzato perché è in grado di ridurre il consumo di ossigeno
da parte del cuore e vasodilata le coronarie. Queste caratteristiche d’azione fanno sì che sia un anestetico
utilizzato nei pazienti ischemici e coronaropatici.
E’ sicuro e non causa danni al cuore; tuttavia può stimolare il simpatico nel caso in cui si modifichi troppo
rapidamente la sua pressione parziale, la sua concentrazione, inducendo tachicardia e ipertensione.
Come tutti gli anestetici inalatori induce depressione respiratoria; è un broncodilatatore. Il fatto che gli
anestetici inalatori inducano broncodilatazione li rende abbastanza sicuri nei pazienti asmatici, tuttavia
l’isofluorano può irritare le vie aeree e indurre tosse e laringospasmo, pur broncodilatando.
Può essere utilizzato nella neurochirurgia perchè non aumenta molto la pressione endocranica e se ciò si
verifica è comunque un fenomeno raro.
Non si può utilizzare in travaglio o al momento del parto perché determina rilassamento della muscolatura.
Può comportare una ridotta funzionalità renale e una ridotta funzionalità epatica perché diminuisce il
flusso sanguigno a questi due organi.

1.4 DESFLUORANO
E’ piuttosto frequentemente utilizzato in chirurgia ambulatoriale. Ha una MAC di 6: quindi 6% deve
essere la sua concentrazione, e ha un coefficiente di ripartizione sangue/gas di 0,45; ciò vuol dire che è
poco solubile nel sangue, induce rapidamente l’anestesia e causa un veloce risveglio. Potrebbe quindi

pag. 12
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essere utilizzato per l’induzione ma lo si preferisce usare per il mantenimento, dato che irrita la mucosa
delle vie aree inducendo tosse, ipersalivazione e broncospasmo. Poiché è veloce sia nell’induzione, sia nel
risveglio, viene utilizzato per la piccola chirurgia ambulatoriale in cui non serve una anestesia molto
duratura.
Non è metabolizzato e può dare tachicardia se utilizzato per indurre l’anestesia (questo è un altro motivo
per cui si preferisce non usarlo in questa fase).
Non si utilizza per i pazienti che vanno incontro a neurochirurgia, perché induce un aumento del flusso
ematico cerebrale e un aumento della pressione endocranica. Diversamente però da tutti gli anestetici
che abbiamo visto fino ad adesso, non causa ipertermia maligna e non causa una riduzione della funzione
renale e di quella epatica.

Bisogna a questo punto introdurre un’avvertenza che non vale solo per questo AI, ma anche per il
sevofluorano, riguardo ai sistemi di inalazione attraverso cui questi farmaci (che sono gas, liquidi volatili)
vengono somministrati. Questi sistemi consentono di riciclare l’anestetico quando fuoriesce
dall’organismo, reimmettendolo in circolo, tramite la costituzione di un circuito chiuso; inoltre contengono
dei substrati per assorbire l’anidride carbonica che si forma e che viene eliminata insieme al gas nell’aria
espirata. Tali substrati non devono mai essere disidratati perché se si seccassero la CO2 potrebbe non
essere catturata e si potrebbe formare del monossido di carbonio. Il desfluorano tende a far seccare questi
substrati ed è compito dell’anestesista evitare che non si verifichi una situazione del genere che
porterebbe a far inalare al paziente un gas tossico.

1.5 SEVOFLURANO
Il sevoflurano è un’eccezione agli anestetici per via inalatoria che abbiamo visto fino ad adesso perché si
può utilizzare anche per l’induzione e non solo per il mantenimento dell’anestesia e quindi è molto
utilizzato nelle anestesie ambulatoriali.
Ciò è determinato dal fatto che ha un coefficiente di ripartizione sangue/gas di 0,65 e una MAC del 2%,
quindi l’induzione è rapida, così come è rapido il ricovero, il risveglio dopo l’anestesia.
Non è irritante, può perciò essere dato a un paziente sveglio.
Quest’anestetico presenta una criticità addizionale rispetto a quello precedente: oltre a formare
monossido di carbonio se i substrati si seccano; nel caso in cui venga a contatto con questi substrati
seccati, può dar luogo ad esplosioni o fiammate, con il rischio di ustionare il paziente. Per di più tra le
sostanze che assorbono la CO2 spesso vi è della soda caustica che a contatto con il sevoflurano dà un
composto tossico, noto come composto A, potenzialmente tossico per il rene. Bisogna quindi fare
attenzione per far sì che la somministrazione del farmaco avvenga in modo piuttosto veloce, utilizzando
sempre dei gas freschi, che non abbiano ricircolato troppe volte, e facendo fluire rapidamente il gas in
modo che il composto A eventualmente formatosi sia eliminato velocemente. Ovviamente questi sono
tecnicismi che riguardano gli anestesisti, ma è comunque bene sapere almeno quali sono i principali pericoli
legati alla somministrazione di sevoflurano.
E’ un vasodilatatore e quindi diminuisce la pressione arteriosa e agisce anche direttamente sul cuore,
diminuendo la gittata cardiaca. Non determina però tachicardia o tachicardia riflessa e per questo può
essere utilizzato nei pazienti ischemici.
Aumenta il flusso sanguigno al cervello e quindi aumenta la pressione endocranica, tuttavia il paziente
mantiene la risposta all’ipocapnia e quindi iperventilandolo si può evitare l’aumento della pressione
endocranica inducendo la vasocostrizione. Ciò significa che sebbene non sia un anestetico di scelta per la
neurochirurgia, se il paziente lo riceve durante un intervento neurochirurgico, si può comunque evitare
l’aumento della pressione endocranica.
E’ un rilassante muscolare (miorilassante) e quindi non si utilizza per il travaglio o durante il parto; per il
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resto è un farmaco abbastanza sicuro perché non dà tossicità né renale né epatica.
Abbiamo quindi finito con gli anestetici alogenati; vediamo ora l’altro anestetico che viene somministrato
per via inalatoria.

1.6 PROTOSSIDO D’AZOTO (N2O)


E’ detto anche gas esilarante. Ha una MAC di circa il 105% e dunque non si può utilizzare per l’induzione
dell’anestesia; per questo è un debole anestetico ma ha una profonda azione come analgesico.

Meccanismo d’azione
Il meccanismo alla base dell’anestesia è diverso dal meccanismo alla base dell’analgesia:
→Il protossido d’azoto è un anestetico non perché agisce sul recettore GABAa ma perché agisce come
antagonista del recettore NMDA del glutammato, bloccandolo. L’anestesia, come già detto, diventa
profonda solo in condizioni iperbariche a causa di questa MAC così elevata, infatti induce analgesia
utilizzando solo il 20% della dose necessaria per indurre anestesia.
→agisce come analgesico poiché determina l’attivazione del sistema oppiode a livello della PAG
(sostanza grigia periacqueduttale, in cui sono presenti interneuroni gabaergici che esprimono i recettori
per gli oppioidi) e l’attivazione del locus coeruleus, importante nelle vie discendenti inibitorie della
trasmissione del dolore.

Indicazioni
È molto utilizzato negli interventi ambulatoriali (brevi e veloci) perché induce analgesia molto
rapidamente e a bassa dose, inoltre non può essere usato quando si necessita di anestesie prolungate
perché se viene utilizzato per più di un’ora, aumenta il rischio di depressione midollare.
Si utilizza di solito nella chirurgia generale ma anche negli interventi ambulatoriali a concentrazione del
50%. Non può essere mai utilizzato a una concentrazione superiore all’80% dato che elimina l’ossigeno
dalla miscela. In chirurgia non viene somministrato da solo, ma associato ad altri anestetici generali
consentendo così di ridurre la loro dose.
N.B.Quando s’interrompe l’anestesia, essendo un gas, può diffondere dal sangue ai polmoni, agli alveoli, e
diluire l’ossigeno polmonare, scambiandosi con quest’ultimo e causare così la cosiddetta ipossia
diffusionale. Per questa ragione, al risveglio del pz dall’anestesia questo AI, non bisogna somministrare
aria ma ossigeno al 100% per evitare carenze di O2.
L’N2O non viene metabolizzato e non in induce depressione cardiaca perché stimola il SN simpatico,
anche se bisogna tenere presente che l’effetto generale dipende dal secondo farmaco che viene aggiunto
alla miscela. Se si aggiunge un anestetico alogenato abbiamo un aumento della frequenza cardiaca, della
pressione e della gittata; se invece viene aggiunto un oppioide abbiamo una diminuzione della gittata e
una diminuzione della pressione. Non causa rilassamento della muscolatura scheletrica e quindi non
induce ipertermia maligna nei soggetti che hanno la mutazione di RYR1. E’ sicuro per i reni e per il
fegato.

Controindicazioni
→Non si può utilizzare nei pazienti con ipertensione polmonare perché aumenta il tono venoso
polmonare, e il tono venoso periferico. Inoltre reprime la risposta ventilatoria all’ipossia, quindi bisogna
costantemente monitorare la saturazione arteriosa di ossigeno.
→Non può essere utilizzato nella neurochirurgia perché determina un aumento del flusso ematico
cerebrale e della pressione endocranica.
→Non può essere tuttavia essere utilizzato in tutti quei pazienti che hanno all’interno dell’organismo delle

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sacche: pazienti con pneumotorace, con ostruzioni dell’orecchio medio, con emboli gassosi, con anse
intestinali ostruite. Il motivo è che si scambia con l’azoto in qualsiasi cavità in cui esso sia presente, che
contenga quindi aria; ma entrandovi più velocemente di quanto questo fuoriesca aumenta la pressione
all’interno della sacca, causandone l’espansione e incrementando il pericolo di rottura.

Effetti avversi
Se utilizzato per lunghi periodi causa alterazioni delle cellule del sangue. In particolare può determinare
anemia megaloblastica perché blocca l’azione della vitamina B12 e quindi l’azione della metionina
sintetasi; inoltre può causare neuropatia periferica, principalmente in pazienti malnutriti o che abusano di
etanolo; altera la sintesi proteica e la duplicazione del DNA sempre perché l’inibizione della metionina
sintetasi impedisce la produzione della metionina e aumenta la concentrazione di omocisteina, che causa
alterazione della sintesi proteica e della duplicazione del DNA a causa di una ridotta produzione di timidina.

2.Anestetici per via parenterale


Sono dei composti lipofili contenenti o un anello aromatico o degli eterocicli. La lipofilia permette una rapida
distribuzione all’interno del cervello e del midollo, entrambi ricchi di grassi e molto vascolarizzati.
In un primo momento questi farmaci si vanno quindi a concentrare nel cervello e nel midollo spinale, per poi
passare al tessuto adiposo. Inducono una rapida induzione dell’anestesia ma anche un rapido risveglio
proprio perché in un secondo momento si riequilibrano con il tessuto adiposo, fuoriuscendo dal SNC.
Sono rappresentati da:
- Barbiturici,
- Propofol,
- Ketamina.

Meccanismi d’azione
→I primi due, barbiturici e propofol, potenziano la trasmissione gabaergica di tipo inibitorio (così come è
potenziata dalle benzodiazepine, sebbene queste siano più dei sedativi miorilassanti che si utilizzano nella
miscela anestetica che degli anestetici veri e propri).
→la ketamina agisce sui recettori del glutammato;
→gli oppioidi agiscono sui loro recettori e possono essere somministrati per via endovenosa;
→il droperidolo che si usa, come vedremo, nella neurolettoanalgesia ha un’azione di tipo dopaminergico.

2.1 BARBITURICI:
In commercio sono contenuti in una soluzione alcalina che viene diluita ma che deve comunque rimanere a
un PH leggermente basico per evitare che il barbiturico precipiti; per questo motivo, a seguito della
somministrazione, che avviene per via endovenosa in bolo, bisogna attendere prima di somministrare altri
anestetici; in tal modo si evita che il barbiturico precipiti a seguito del contatto con miscele di anestetici a
PH più acido.

Quali sono?
Il TIOPENTALE (nome commerciale Pentotal) è in assoluto il barbiturico più utilizzato come anestetico,
sebbene ne esistano altri come il METOESITALE e il TIAMILALE (che il più potente). Hanno tutti in comune il
fatto di avere uno zolfo e un ossigeno all’interno della loro molecola.
Esiste anche un quarto barbiturico non utilizzato come anestetico: il PENTOBARBITALE (nome commerciale
Nembutal), estremamente tossico perché deprime gravemente la respirazione. E’ il farmaco utilizzato
nell’eutanasia assistita nei paesi in cui è legale e nella pena di morte nei paesi che la prevedono. In alcuni
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stati americani in cui non è prevista la sedia elettrica si utilizza un cocktail di farmaci, tra cui proprio
quest’ultimo.Tutti questi anestetici, in particolare il tiopentale, vengono utilizzati nell’induzione. Questa è
rapidissima: in 10-30 secondi si ha perdita di coscienza e altrettanto rapido è il risveglio; la durata d’azione
è di 5-8 minuti.

TIOPENTALE:
Il tiopentale si somministra unicamente in bolo, NON per infusione continua. Un farmaco con un’emivita
così breve (5-8 min), per mantenere l’anestesia, dovrebbe essere dato per infusione continua. Ciò non è
possibile in questo caso perché il tiopentale ha un metabolismo molto lento, quindi si accumula
nell’organismo e il pz impiegherebbe molto tempo per svegliarsi. A causa di queste caratteristiche il
tiopentale si usa esclusivamente per l’induzione dell’anestesia, mentre per il mantenimento si utilizzano
altri anestetici. E’ importante non iniettare il tiopentale in arteria perché in questa sede provoca necrosi e
può portare alla perdita dell’arto.

Effetti avversi
- Sul SNC i barbiturici sono farmaci sicuri, perché riducono il metabolismo cerebrale, il consumo di
ossigeno, la pressione intracranica, la pressione intraoculare e sono inoltre degli anticonvulsivanti.
Possono perciò essere dati a pazienti ischemici, coronaropatici, che devono fare interventi
neurochirurgici e oculistici.
- A livello dell’apparato cardiovascolare riducono la pressione ma aumentano la frequenza cardiaca,
esponendo al rischio di aritmia.
- Non rilassano molto la muscolatura, in particolare quella uterina, e quindi possono essere utilizzati
nel parto e nel travaglio.
- Determinano rilascio di istamina che, in alcuni soggetti, può indurre reazioni da ipersensibilità e delle
vere e proprie reazioni anafilattiche; specialmente i soggetti asmatici - già particolarmente proni a
reazioni di ipersensibilità - possono riportare affanno dopo un’anestesia a base di barbiturici.
- Tutti i barbiturici, diversamente dagli anestetici alogenati, sono privi dell’effetto avverso
dell’ipertermia maligna sebbene molto raramente possano causare attacchi di porfiria, talvolta fatali.

2.2 PROPOFOL:
E’ un anestetico per via inalatoria molto utilizzato in quanto può essere usato sia per l’induzione, sia per il
mantenimento dell’anestesia. Potenzia la trasmissione gabaergica così come fanno i barbiturici e ha il
vantaggio di essere rapidamente metabolizzato ed eliminato, non determinando accumulo nell’organismo.
E’ molto solubile nei lipidi e quindi si somministra in una miscela all’1% di olio di semi di soia con fosfolipidi
dell’uovo. Questo tipo di soluzione è molto irritante, procura dolore quando viene somministrata e per
questo si associa a un anestetico locale: la lidocaina. Circola molto legato alle proteine plasmatiche e questo
può causare fenomeni di spiazzamento.
Viene molto utilizzato sia per piccole procedure ambulatoriali veloci, in singoli boli ripetuti in modo da
dosarlo in base alle necessità, sia per interventi chirurgici più lunghi.

Effetti avversi
- E’ sicuro per il SNC in quanto non determina un aumento del flusso cerebrale e riduce il
metabolismo cerebrale. Quindi può essere utilizzato nella neurochirurgia, nei pazienti con ischemia.
E’ però un proconvulsionante, uno di quegli anestetici che abbassa la soglia delle convulsioni. Quindi
non può essere dato in pazienti che sono a rischio di convulsioni, a pazienti epilettici.
- Deprime il sistema cardiovascolare e diminuisce la pressione e ha un’azione diretta di depressione

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sul miocardio.
- Diversamente dalla maggior parte degli anestetici generali, non induce nausea e vomito. Dunque se
l’anestesia è fatta solo con il propofol non c’è bisogno di un’antiemetico.
- In sostanza si tratta di un farmaco abbastanza sicuro, si può usare anche negli asmatici perché
raramente induce broncospansmo: ha un’azione neutra sull’apparato respiratorio.
- Raramente, quando utilizzato ad alte dosi e con uso prolungato, soprattutto nei pazienti giovani o
nei pazienti che hanno avuto un trauma cranico, può dare una sindrome chiamata PRIS,
caratterizzata da acidosi metabolica; danno muscolare fino a rabdomiolisi; iperlipidemia e
ingrossamento del fegato (steatosi). Questa condizione è potenzialmente fatale, quindi sebbene sia
rara può essere pericolosa.

2.3 KETAMINA:
E’ il congenere di una droga chiamata fenclidina (anche detta polvere d’angelo). Questa è uno stupefacente
che si può sniffare o fumare ed è un precursore di alcune droghe oppiomimetiche, quindi dà effetti di tipo
psichedelico e di tipo dissociativo. Anche la ketamina dà effetti di tipo psichedelico e di tipo dissociativo, a
seconda della dose.
E’ utilizzata abbastanza frequentemente nell’anestesia di tipo ambulatoriale perché ha alcuni vantaggi:
- può per esempio essere utilizzata in modo sicuro in pz a rischio ipotensione ed essendo un
broncodilatatore si può utilizzare anche nei pazienti asmatici.
- E’ molto sicura in pediatria: più nei bambini che negli adulti, perché nei piccoli provoca meno effetti
collaterali ed è un ottimo analgesico. E’ perciò utilizzata per la sedoanalgesia, a basse dosi, nei
bambini per indurre sedazione e analgesia durante le piccole procedure chirurgiche come interventi
ambulatoriali o cucitura di piccole ferite.
- Se dosata bene dà diversi gradi di sedazione che possono essere utilizzati in diverse circostanze.
- Può essere somministrata per via endovenosa e può essere somministrata per via intramuscolare
sempre in bolo. Quando viene data per via endovenosa l’induzione avviene in 30-60 secondi e la
durata va dai 10 ai 15 minuti; quando invece viene somministrata per via intramuscolare per
l’induzione occorrono dai 15 ai venti minuti e la durata dell’anestesia diventa di circa 30 minuti.

Meccanismo d’azione
E’ diverso da quello degli altri anestetici essendo un inibitore non competitivo del recettore NMDA (non
più GABAa). L’NMDAinfatti non è coinvolto soltanto nell’apprendimento, nella memoria e nella
eccitotossicità ma ha un ruolo anche nella iperalgesia e nell’allodinia, caratteristiche del dolore
neuropatico. Il blocco del recettore NMDA da parte della ketamina, giustifica il ruolo di potente analgesico
di questo farmaco. Oltre a bloccare i recettori NMDA la ketamina determina anche un’attivazione dei
recettori per alcune ammine e quindi mimando il simpatico (questo viene anche attivato dalla Ketamina
perché determina il rilascio di adrenalina e noradrenalina) stimola il sistema cardiovascolare e in questo
modo non dà ipotensione o depressione respiratoria. Inibisce alcuni recettori colinergici e dunque non
causa nausea o vomito, anche se talvolta ci possono essere. Riduce il rilascio di NO, coinvolto nella
trasmissione dolorosa e potenzia alcuni recettori oppioidi agendo da analgesico.
Questo è anche il motivo principale che porta allo sviluppo di effetti di tipo psicotomimetico (stato morboso
con caratteri di una psicosi con anomalie del pensiero, delle percezioni, dell’emotività e del comportamento),
ovvero uno degli effetti collaterali maggiormente visibile negli adulti e, in generale, in tutti i soggetti che
assumono una dose elevata del farmaco.

Il tipo di anestesia indotta dalla Ketamina è diversa dall’anestesia indotta da tutti gli altri anestetici generali,

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è infatti un anestetico dissociativo: induce una perdita di risposta agli stimoli sensoriali (analgesia), una
perdita di risposta ai comandi e anche amnesia. Tuttavia, il paziente che riceve ketamina mantiene una
respirazione spontanea, ha gli occhi aperti e ha i movimenti involontari degli arti conservati. La Ketamina
quindi è un anestetico dissociativo cioè il paziente non è in uno stato anestetico completo, ma in uno stato
ipnotico diverso definito come stato catalettico. La Ketamina ha questo effetto perchè si comporta in modo
diverso su alcune vie di trasmissione neuronale: deprime il sistema talamo corticale - quindi impedisce che
le afferenze sensoriali arrivino dal talamo alla corteccia - però contemporaneamente stimola il sistema
limbico compreso l’ippocampo. Questa diversa azione su queste due vie del SNC provoca quello che è
indicato come disorientamento funzionale, un’anestesia dissociativa in cui il soggetto sembra sveglio, ma in
realtà si trova in uno stato catalettico.

A livello del midollo spinale la Ketamina agisce su una particolare popolazione di neuroni chiamata neuroni
ad ampia gamma dinamica (WDR, wide dynamic range), situati nelle corna dorsali del midollo spinale e
sensibili agli stimoli sensoriali. Agendo a questo livello, la Ketamina blocca la risposta a tali stimoli
mantenendo però attivi, come detto prima, i riflessi involontari (osteotendinei, ciliari, fotomotori, faringei,
laringei e di deglutizione). Inoltre provoca midriasi e nistagmo.

Effetti avversi e indicazioni


- Non induce miorilassamento ma determina un aumento della pressione arteriosa sistemica (mi e
della pressione arteriosa polmonare. I soggetti coronaropatici possono riscontrare problemi
nell’utilizzo di Ketamina poiché quest’ultima determina un aumento delle funzioni cardiache, quindi
un aumento della frequenza e della gittata cardiaca.
- Questo anestetico provoca anche un aumento della pressione endoculare, per cui non può essere
somministrato in pazienti con glaucoma.
- Si ha un aumento anche del flusso ematico cerebrale e della pressione endocranica, quindi non può
essere utilizzata per la neurochirurgia.
- Un’altra problematica tipica della ketamina è l'induzione di psicosi e di allucinazioni al risveglio, più
frequenti negli adulti (50%) che nei bambini (meno del 10%). Se negli adulti si manifestano con
eccessiva intensità vengono trattate con Midazolam. Per quanto riguarda la psicotogenesi, tali
episodi psicotici sono causati dall’attivazione dei recettori oppioidi e delle monoaminossidasi
(MAO), che determinano una ciclizzazione delle catecolamine. Tutto questo contribuisce alla genesi
delle psicosi, le quali cessano naturalmente non appena termina l’effetto della ketamina.

La ketamina è anche una droga da abuso: fa parte infatti delle cosiddette “club drugs”, ovvero il termine
inglese per le cosiddette droghe ricreazionali, tutte quelle droghe di cui si abusa non per scopi terapeutici
ma per scopi ricreazionali. Il termine “ricreazionali” non sta per divertimento, ma in realtà indica un
insieme di droghe che vengono utilizzate al di fuori del controllo medico e del bisogno terapeutico. Degli
esempi di droghe sintetiche sono: LSD, ecstasy, ketamina e il GHB (ecstasy liquida, anche detta droga dello
stupro). Le droghe dello stupro sono tutta una serie di sostanze incolori, inodori e insapori che si versano
nelle bevande e si fanno bere alla vittima senza che questa se ne accorga, di queste il GHB è una delle più
utilizzate e circola in alcuni rave party. Gli effetti della ketamina variano a seconda della dose:

- Per dosi basse, intorno a 0,2 mg/kg: determina un aumento del tono dell’umore, lievi alterazioni
cognitive, diminuzione della memoria e diminuzione dell’attenzione. Si possono fare sogni molto
vividi sia a contenuto positivo che negativo.

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- Se si aumenta la dose, oltre gli 0,2 mg/kg: subentrano delle alterazioni di tipo psichiatrico, con
allucinazioni, distorsioni della percezione del proprio corpo e perdita della percezione del tempo. I
pazienti che fanno un abuso di Ketamina, coem droga, riportano sensazioni di fusione del proprio
corpo con altri corpi od oggetti. Ad esempio, raccontano di aver sentito il proprio corpo come se
fosse fatto di gomma, di legno, o liquido come il mare, tutte sensazioni definite “di fusione”.
Inoltre, questo tipo di pazienti tende a perdere il contatto con la realtà, che è l’elemento più
pericoloso perchè, quando unito all’effetto disinibitorio, porta a commettere atti anche molto
pericolosi. In più, la Ketamina induce anche amnesia retrograda, per cui il soggetto che la consuma
non ricorda gli eventi di quando era sotto effetto della droga.
Questo è uno degli effetti che mette più a rischio la vita del soggetto perchè, perdendo il contatto con la
realtà e avendo questa forte disinibizione, può assumere comportamenti pericolosi come buttarsi da un
ponte o avere comportamenti sessuali a rischio, per poi non ricordarli. Tuttavia, dopo alcuni giorni o
settimane dall’assunzione, si possono avere dei flashback, dei ricordi improvvisi delle azioni commesse
durante l’influenza della droga.

- Se si supera la dose di 50 mg/kg (fra i 50-100 mg/kg, per ev) si ha il cosiddetto fenomeno della
pre-morte: una sensazione di terrore in cui il soggetto prova un forte sentimento di morte
imminente, il cosiddetto “K-hole” dove “k” sta per Ketamina e “hole” per buco, quindi buco nero da
Ketamina. Questa esperienza è simile al cosiddetto “bad trip” che si prova con l’LSD. Infatti, questo
allucinogeno agisce attivando in modo indiscriminato tutti i recettori per la serotonina, che nel
nostro sistema nervoso centrale fungono anche da filtro nella selezione di alcune percezioni su
altre; sono cioè quelli che ci consentono di mantenere l’attenzione su qualcosa pur avendo vari
stimoli provenienti dall’ambiente esterno. Attivandoli tutti contemporaneamente si perde questa
capacità di filtro e di selezione degli stimoli serotoninergici, arrivando quindi ad un accavallamento
delle percezioni ovvero alle cosiddette sinestesie (ad esempio musica e suoni che si vedono) e ai
cosiddetti “viaggi” o “trip”. In questi viaggi si può avere l’esperienza di trovarsi in paesi lontani o in
situazioni molto belle (“good trip”) così come, in modo del tutto casuale, si possono avere
esperienze estremamente negative (“bad trip”) che possono mettere a rischio la vita del paziente,
anche solo per il rischio d’infarto.

Allo stesso modo anche con la Ketamina, se si aumenta la dose, si possono avere queste esperienze da un
punto di vista sensoriale. In questo caso però i viaggi sono tutti negativi, quindi si ha il “k-hole” associato
ad una sensazione di morte imminente e di grande terrore e a uno stato peggiore di un attacco di panico.
Inoltre, in base a quello che riferiscono i soggetti che l’hanno utilizzata e che sono riusciti a sopravvivere a
dosaggi così elevati (poiché a volte si può arrivare alla morte), può essere percepita una separazione tra l’io
ed il proprio corpo, in cui l’io lascia il corpo e lo osserva dall’alto. In questa separazione si riconosce che il
corpo è il proprio, ma lo si percepisce come un’entità staccata dal proprio io. Si tratta di un’esperienza che
prelude la sensazione di premorte perchè, in queste condizioni, si ha la sensazione che il proprio corpo stia
per morire.La Ketamina può anche slatentizzare delle psicosi nei soggetti che sono già predisposti, cioè può
far diventare schizofrenico un soggetto che ancora non lo era o determinare delle alterazioni cognitive
permanenti.

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Finora abbiamo visto quali sono


gli anestetici generali e
nell’immagine sono riassunti tutti
i vari vantaggi e svantaggi
terapeutici che possono
presentarsi con il loro utilizzo.

NEUROLEPTOANALGESIA
La neuroleptoanalgesia è una forma di sedazione del dolore che si ottiene attraverso la somministrazione
di un oppiaceo e di un neurolettico. [I farmaci neurolettici verranno affrontati meglio nel modulo di
psichiatria]. Questo tipo di analgesia è a coscienza preservata, sebbene il paziente presenti una riduzione
della vigilanza e del contatto con l’ambiente, come se diventasse indifferente al mondo esterno. Inoltre
questa pratica induce nel paziente analgesia, amnesia, sedazione, assenza di attività motoria e
soppressione dei riflessi autonomi. Tuttavia il sistema cardiovascolare resta stabile, senza alterazioni.
Attualmente la neuroleptoanalgesia viene eseguita solamente somministrando come oppioide il
FENTANYL (o il remifentanyl) associato al DROPERIDOLO (un neurolettico), in infusione lenta e si può
associare ai due farmaci del protossido d’azoto (N₂O) per migliorare il grado di analgesia e di amnesia
(neuroleptoanestesia). Un tempo si utilizzava come oppioide il fentanyl associato al neurolettico
flunitrazepam (una benzodiazepina) ma è un’associazione che ad oggi non è più utilizzata.
Attualmente il fentanyl e il droperidolo sono somministrati in infusione endovenosa lenta

Indicazioni
Questo tipo di anestesia si utilizza in piccoli interventi chirurgici come in chirurgia oculare, in chirurgia
estetica, a volte per pratiche endoscopiche e broncoscopiche, in procedure neurodiagnostiche, nella
neurochirurgia stereotassica e, molto più raramente, nella cardiochirurgia. In particolare è molto indicata
per la neurochirurgia stereotassica (asportazioni di neoplasie o di malformazioni vascolari a carico di
alcune aree cerebrali) perché consente il risveglio intraoperatorio del paziente per controllarne lo stato
neurologico, attraverso domande, e che tutto funzioni bene.

Svantaggi:
Può dare depressione respiratoria e se si utilizzano come miorilassanti i curari (come la succinilcolina),
allora la depressione respiratoria è tale da richiedere l’intubazione del paziente. Tale depressione si
mantiene per alcune ore (3-4 h) dopo il risveglio del paziente dall’anestesia, a causa della presenza

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dell’oppioide fentanyl che è molto potente. Al fine di ridurre la depressione respiratoria e antagonizzare
l’effetto del fentanyl si può somministrare del naloxone.
Quindi la neuroleptoanalgesia è una procedura un po’ pericolosa che attualmente viene utilizzata in modo
limitato e che soprattutto non può essere eseguita in alcuni pazienti, come tossicodipendenti ed etilisti,
poiché si avrebbe una depressione troppo marcata del sistema nervoso centrale. Quindi è una procedura
molto limitata ma che continua ad esistere tutt’oggi e che quindi è necessario conoscere.

ANESTETICI LOCALI
La seconda grande classe degli anestetici è rappresentata dagli anestetici locali.L’anestesia locale si
differenzia dall’anestesia generale perché comporta la perdita della sensibilità soltanto in una regione
corporea limitata, non si ha perdita di coscienza e non ci sono alterazioni delle funzioni vitali.

Struttura
Questo tipo di anestetici contano un numero piuttosto elevato di
farmaci, che però hanno tutti una struttura chimica simile: sono
infatti tutti delle amine terziarie, leggermente basiche. La loro
molecola è formata da un anello aromatico (n.1 in figura) che
conferisce la lipofilicità e, a seconda del tipo di anestetico locale,
può essere presente o un legame esterico o più comunemente un
legame amidico (n.2). Le ammidi sono soggette a metabolismo
epatico, mentre gli anestetici locali con gruppo esterico sono
metabolizzati dalle esterasi plasmatiche. Oltre al legame amidico
o esterico è presente una catena di atomi di carbonio, cioè una catena di idrocarburi (3): più è lunga la
catena e maggiore sarà la lipofilicità. Inoltre più è lipofilo l’anestetico e maggiore sarà la sua potenza e
quindi minore la dose necessaria. Infine, alla catena di idrocarburi è legata una amina terziaria (4), che
conferisce alla molecola una certa idrofilicità, necessaria per impedire che il farmaco resti bloccato nel
doppio strato fosfolipidico.

Alla classe delle ammidi (la stragrande maggioranza


degli anestetici locali in commercio) appartengono:
- un farmaco di cui abbiamo già parlato, la
Lidocaina, che non solo è un antiaritmico ma
anche un anestetico locale.
- la Prilocaina, la Mepivacaina e la
Bupivacaina.

Agli esteri appartengono:


- La Tetracaina invece è un anestetico locale
molto potente utilizzato soprattutto per
applicazioni topich
- la Procaina ne avevamo già parlato al terzo
anno quando era stata spiegata la differenza
tra Procaina e Procainamide: la Procaina è un
estere e viene velocemente metabolizzata
dall’esterasi plasmatica, mentre la Procainamide è un amide, ha la stessa struttura della procaina
ma al posto del gruppo estereo ha un gruppo amidico (è un antiaritmico perchè non viene

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metabolizzata dall’esterasi bensì a livello epatico).

Meccanismo d’azione
Gli anestetici locali agiscono bloccando trasitoriamente e reversibilmente la conduzione assonica
dell’impulso nervoso, agendo a livello delle correnti al sodio. Quindi, mentre gli anestetici generali
agiscono a livello recettoriale, gli anestetici locali agiscono a livello della trasmissione dell’impulso nervoso.
Gli anestetici locali eliminano la sensibilità e quindi anche la percezione degli stimoli nocicettivi, solo nelle
aree corporee innervate dalla fibra bloccata.
Bloccano le correnti al sodio, legandosi sul versante interno del canale Nav. Il blocco delle correnti al sodio
dipende da quanto il nervo è stato stimolato e dipende anche dal suo potenziale di membrana a riposo.
Questo significa che vengono bloccate preferenzialmente quelle fibre nervose che sono state più
frequentemente stimolate.
Non tutte le fibre nervose hanno la stessa sensibilità agli anestetici locali. La sensibilità, infatti, dipende
dal diametro e dalla distanza tra i nodi di Ranvier. Minore è il diametro e minore è la distanza tra i nodi e
maggiore sarà la sensibilità della fibra all’anestetico. L’anestesia, infatti, avviene quando un certo numero
di nodi di Ranvier sono bloccati, quindi più questi sono vicini tra loro e più velocemente l’anestetico li
raggiunge e maggiore è la sensibilità. L’altro fattore che influenza la sensibilità è il grado di mielinizzazione,
quindi le fibre più sensibili saranno le fibre che conducono gli stimoli nocicettivi (fibre C amieliniche e le
piccole fibre Aδ mielinizzate), seguono in grado decrescente di sensibilità le fibre che veicolano la
temperatura, il tatto, la pressione e, in ultimo, le meno sensibili sono quelle che veicolano l’impulso
motorio (fibre Aβ, Aγ e Aδ). Quindi quando viene somministrato un anestetico locale le fibre che prima
rispondono al farmaco sono quelle dolorifiche.
Inoltre, la durata d’azione dell’anestesia è proporzionale al tempo in cui l’anestetico rimane a contatto con
il nervo, per questo motivo spesso si aggiunge all’anestetico locale un vasocostrittore. La vasocostrizione
impedisce l’assorbimento dell’anestetico e fa sì che il farmaco rimanga più a lungo a contatto con il nervo.
Il vasocostrittore che normalmente si utilizza è l’adrenalina.
Cominciamo a parlare dei singoli anestetici locali.

3.1 COCAINA
Il primo anestetico locale che venne scoperto è la cocaina. Oggi non si utilizza quasi più, ma le sue
proprietà anestetiche erano conosciute da noi già dalla fine del XIX secolo e dagli Aborigeni delle Ande da
molto prima. Questi ultimi assumevano cocaina masticando le foglie dell’albero di coca o estraendo questa
sostanza alcalina direttamente dalle foglie; la utilizzavano principalmente come stimolante e come
euforizzante. In Europa è stato Albert Niemann il primo ad isolare la cocaina e ad identificarne le capacità
anestetiche. Un po' di anni fa non si avevano a disposizione grandi mezzi per fare analisi sofisticate di
laboratorio, quindi Niemann scoprì queste proprietà della cocaina semplicemente perchè, dopo averla
assaggiata, notò che la punta della lingua si era un po’ addormentata. Da qui dedusse che la cocaina aveva
anche delle capacità anestetiche.

Meccanismo d’azione
La cocaina agisce inibendo il trasportatore della noradrenalina (NAT) situato in tutto il sistema nervoso. È
per questo molto tossico, che provoca non solo danni cerebrali ma anche danni a tanti altri organi
innervati da terminazioni noradrenergiche. La cocaina oggi non si utilizza più come anestetico, forse
un’unica applicazione topica che si usa ancora in qualche caso (molto raramente) è quella come
decongestionante della mucosa delle vie respiratorie superiori; una volta somministrata è in grado di
indurre vasocostrizione e di dare un’anestesia leggera (si tratta comunque di una applicazione molto rara).

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Dunque la cocaina non viene più utilizzata come anestetico locale, ma è stato il primo di questa classe ad
essere stato identificato.

3.2 LIDOCAINA
È un ammide ed è un anestetico locale molto utilizzato perché ha una rapida velocità di induzione
dell’anestesia (rapido onset) e una durata d’azione media. Si presta bene per essere utilizzata in piccoli
interventi ambulatoriali o in interventi cosmetici (ad esempio quando si fanno i tatuaggi oppure quando si
iniettano dei filler).
Formulazioni
É presente in commercio in diverse formulazioni, ad esempio come cerotto transdermico per il dolore
post-erpetico oppure associata ad altri anestetici locali:
- Lidocaina + Prilocaina: il nome commerciale di questa associazione, Emla, probabilmente lo avrete
già sentito perché molto utilizzata. Si tratta di una crema anestetica che si applica sull’area dove si
deve intervenire stendendo uno strato spesso, la si lascia agire per una mezz’ora, dopodiché l’area
è anestetizzata e si può procedere. Si può fare anche una medicazione di tipo occlusivo, ossia si
spalma la crema e poi si applica un cerotto per favorire un’azione più rapida dell’anestetico. È una
procedura molto utilizzata per i piccoli interventi.
- Lidocaina + Tetracaina: in questo caso la Tetracaina è un anestetico molto più potente e quindi
l’effetto anestetico è maggiore. Il nome commerciale è Pliagis ed è una crema/gel che si mette sulla
cute sempre per applicazione topica creando anche qui uno strato abbastanza spesso. Si forma una
pellicola che si indurisce un po’ e la si lascia agire in modo da anestetizzare l’area di interesse,
dopodichè si toglie a strappo la pellicola (come se fosse una ceretta) e si può intervenire sull’area
anestetizzata.
- Un’altra formulazione è quella di cerotto medicato a rilascio termico che prende il nome
commerciale di Radalan. È un cerotto che scalda l’area di interesse e il calore favorisce
l’assorbimento e un’azione più rapida dell’anestetico. Esiste anche una formulazione spray che è
utilizzata per pratiche odontoiatriche, ad esempio si può utilizzare quando si fa l’ablazione del
tartaro.

3.3 L-BUPIVACAINA (levogiro della bupivacaina)


Ha un’induzione dell’anestesia leggermente più lenta di quella della lidocaina (onset medio) ma ha una
durata più lunga. Questo perchè si lega al canale per il sodio e vi rimane legata più a lungo (si dissocia più
lentamente).
Come la lidocaina dà prevalentemente un blocco sensitivo, mentre il blocco motorio con questo tipo di
anestetici si ha soltanto a dosi più elevate (quindi sono abbastanza sicuri). La bupivacaina può essere
somministrata attraverso dei cateteri peridurali per l’anestesia durante il parto e anche per l’anestesia
post chirurgica. (E’ quella più utilizzata per l’anestesia epidurale). Si può fare anche un’anestesia
prolungata con la bupivacaina tramite dei cateteri quasi permanenti che possono rimanere fissi per diversi
giorni. Il problema con questo anestetico è che può dare cardiotossicità perchè, se viene assorbita, si
accumula e può portare a un blocco cardiaco non soltanto in sistole, ma anche in diastole. Predispone il
paziente ad aritmie gravi come aritmie ventricolari o depressione cardiaca e, in questi casi, è necessario
rianimare il paziente. La cardiotossicità rappresenta una problematica del trattamento con bupivacaina
soprattutto quando si fanno delle anestesie prolungate. La bupivacaina, oltre ad essere più cardiotossica
degli altri anestetici locali e a condividere con essi degli effetti avversi comuni, ha anche degli ulteriori
effetti collaterali come tinnito, disgeusia, capogiri e spasmi muscolari.

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3.4 MEPIVACAINA
La Mepivacaina è abbastanza simile alla Lidocaina perchè ha un onset rapido e una durata d’azione media,
però rispetto alla lidocaina è tossica per il neonato e non si può utilizzare in ostetricia. Il motivo è che il
feto ha un pH in media più acido rispetto a quello della madre e la Mepivacaina tende a concentrarsi in
zone a pH più basso. Queste condizioni rallentano il metabolismo del farmaco che con il tempo diventa
tossico per il feto. La Mepivacaina non si utilizza neanche per applicazioni topiche, che invece vengono
utilizzate spesso per la lidocaina e per la bupivacaina, la quale a differenza della Mepivacaina è anche
molto utilizzata in ostetricia. La mepivacaina è quindi solo a uso iniettivo, mentre non è efficace per uso
topico.

3.5 PRILOCAINA
Anche questo anestetico, come la mepivacaina, è a solo uso iniettivo, a meno che non venga combinata
nelle formulazioni con la lidocaina. La prilocaina ha un onset rapido e una durata d’azione media. Ha il
vantaggio di non essere tossica per il sistema nervoso e quindi può essere utilizzata per un particolare tipo
di anestesia locale chiamato blocco regionale EV: oggi non è molto utilizzata perchè prevede una
somministrazione endovenosa dell’anestetico locale. Per non farlo andare in circolo, si inietta l’anestetico
locale direttamente in un vaso che si dirige nella zona che si vuole anestetizzare. È una pratica anestetica
pericolosa per la potenziale messa in circolo del farmaco e per la relativa tossicità e quindi oggi si utilizza
poco. La pilocaina può causare anche una metaemoglobinemia se supera la dose di 8mg/Kg. Il rischio di un
aumento plasmatico della metaemoglobina è maggiore se la prilocaina è associata ad altri farmaci che
causano questo effetto collaterale. In caso di metaemoglobina la si tratta con blu di metilene 1-2 mg,
somministrato per via endovenosa.

3.6 ROPIVACAINA
Ha un onset rapido e una durata lunga. Si utilizza anche in ostetricia e, dal momento che è un potente
analgesico, si utilizza anche nel trattamento del dolore acuto. È più cardiotossico rispetto alla lidocaina ma
un po’ meno della bupivacaina; bisogna fare attenzione soprattutto quando la ropivacaina viene
somministrata a pazienti che seguono una terapia con amiodarone: in questo caso è necessario monitorare
la funzionalità cardiaca con l’ECG. La ropivacaina è un ammide e condivide la tossicità a livello cardiaco
anche con altri farmaci amidici come la lidocaina e la mexiletina (un antiaritmico). Per evitare questa
tossicità additiva non bisogna mai associare questi farmaci alla ropivacaina. Quindi è necessario evitare
l’associazione della ropivacaina con la lidocaina e con la mexiletina e bisogna stare attenti all’amiodarone.

3.7 TETRACAINA
Ha un onset lento e una durata lunga. È un estere che si utilizza soltanto per uso topico e solo in
associazione alla lidocaina, sia come crema sia come cerotto medicato. Esistono anche una formulazione
in gocce auricolari (+ gel lidocaina) che si utlizza per le otalgie e una formulazione in pasta gengivale per le
gengiviti. Può essere associata all’escina nella terapia per le ragadi anali e per le emorroidi.

Effetti avversi di classe


Gli anestetici locali hanno degli effetti avversi di classe, ovvero effetti che sono condivisi e che sono più o
meno intensi a seconda del singolo anestetico locale.
- Quando si somministrano delle dosi un po’ più elevate, soprattutto quando si utilizzano cateteri per
l’anestesia durante il parto, possono dare dei problemi a livello del SNC sotto forma di tremori,
agitazione e raramente di convulsioni. In questo caso si interviene dando delle benzodiazepine per
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via endovenosa.
- Sonnolenza
- La Lidocaina può dare disforia, euforia, spasmi muscolari e solo in alcuni casi può portare a perdita
di coscienza.
- Gli effetti cardiovascolari si hanno soltanto per alte concentrazioni sistemiche e solo dopo la
comparsa degli effetti sul SNC. Si tratta di effetti di inibizione della funzione cardiaca quindi effetti
di inotropismo, dromotropismo e batmotropismo negativi; si può avere anche una dilatazione
delle arteriole.
- Effetti sulla muscolatura liscia: questi farmaci deprimono la peristalsi e determinano
broncodilatazione. Quando vengono utilizzati nell’anestesia spinale ed epidurale paralizzano il
sistema nervoso simpatico e determinano un aumento del tono della muscolatura intestinale.
Tuttavia questo effetto, nel caso di piccoli interventi a livello dell’addome, non è un fattore
negativo ma anzi facilita l’atto chirurgico. Gli anestetici locali possono essere utilizzati nell’anestesia
epidurale che si fa alle donne durante il travaglio perchè non deprimono le contrazioni uterine
durante il parto.
- Rare reazioni di ipersensibilità come dermatite allergica e attacchi asmatici. Soprattutto gli esteri
come la Procaina, che ad oggi è poco utilizzata, possono dare questo tipo di reazioni.

Tipi di anestesia locale


- Anestesia locale di superficie:
A questo scopo si possono utilizzare delle soluzioni acquose di anestetico - come la Lidocaina o la
Tetracaina - che si applicano sulla cute e sulle mucose del cavo orale, della gola o del tratto genito-urinario.
La Lidocaina e la Tetracaina, in forma di soluzione acquosa, hanno un’induzione molto veloce dell’anestesia
(onset di 2-5 min) e una durata di 30-45 min. Si chiama anestesia “di superficie” perchè non raggiunge la
sottomucosa, ma è limitata esclusivamente alla mucosa. Non può essere utilizzata in presenza di lesioni
della mucosa. Esiste poi un tipo di anestesia un po’ più profonda in grado di arrivare fino a 5 mm di
profondità e che utilizza le cosidette miscele eutettiche, nominate prima (Lidocaina+ Prilocaina, Emla, o
Lidocaina+ Tetracaina, Pliagis). Cosa significa miscela eutettica? Sono miscele che hanno un punto di
fusione che è minore del punto di fusione dei singoli componenti. Le miscele fondono prima, vengono
assorbite prima e inducono l’effetto anestetico più rapidamente. Sono in commercio sotto forma di creme
che si applicano sulla superficie cutanea e danno un’anestesia leggermente più profonda.

- Anestesia locale per infiltrazione:


In questo caso l’anestetico viene iniettato nel tessuto che si desidera anestetizzare senza considerare la
ramificazione dei nervi cutanei. Quindi si infiltra il farmaco nella zona dove si deve operare
indipendentemente dalle terminazioni nervose. È un’anestesia che può avere diversi gradi di profondità,
ma ha come limite il fatto che necessita di dosi abbastanza elevate di anestetico per addormentare una
piccola superficie corporea proprio perchè l’infiltrazione non avviene nella diretta prossimità del nervo
cutaneo, ma direttamente nell’area dove si vuole operare senza tenere conto di dove sia il nervo.
L’anestetico ha bisogno di tempo per raggiungere il nervo ed è quindi necessaria una dose più elevata per
anestetizzare una superficie piccola. Per prolungare l’azione del farmaco si può aggiungere un
vasocostrittore. È un tipo di anestesia che non può essere mai fatta nelle regioni che contengono vasi
terminali (dita, orecchio, naso) perchè si avrebbe vasocostrizione vasoterminale con pericolo di gangrena.
Quali sono gli anestetici che si utilizzano per l’infiltrazione? Si possono utilizzare la Bupivacaina e la
Tetracaina. In odontoiatria si utilizzano la Lidocaina, la Mepivacaina e l’Articaina, un anestetico locale che
si utilizza prevalentemente in odontoiatria perchè ha la caratteristica di diffondere molto bene e di essere
molto liposolubile. Ha un onset molto veloce di 1-3 min e ha una durata di anestesia intermedia che
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permette la maggior parte degli interventi odontoiatrici.

- Anestesia loco regionale:


Diversamente dall’anestesia per infiltrazione, nell’anestesia loco regionale l’iniezione dell’anestetico
avviene vicino al nervo che innerva l’area dove dobbiamo operare, quindi il più vicino possibile alle
terminazioni nervose interessate. L’anestesia si ottiene nell’area distale al sito di iniezione. Poichè il
farmaco viene iniettato il più vicino possibile al nervo (senza lederlo) allora è necessaria una quantità
minore di anestetico rispetto a quella dell’infiltrazione. Dunque sicuramente ci sono meno effetti avversi
nell’anestesia loco regionale rispetto a quelli che si avrebbero nell’infiltrazione.

- Anestesia tronculare o da blocco nervoso:


Ad oggi è molto utilizzata e consiste nell’iniettare il farmaco vicino ad un fascio o plesso nervoso.
Attraverso questa tecnica si riescono ad anestetizzare delle aree molto più ampie e si può ottenere un
blocco sia sensitivo che muscolare. Per esempio, se devo operare sulle estremità superiori inietto
l’anestetico vicino al plesso brachiale; se devo operare a livello del collo, iniettoil farmaco vicino al plesso
cervicale; se devo operare nella regione al di sotto del ginocchio, inietto vicino al plesso sciatico. A seconda
del tipo di farmaco che utilizzo per l’anestesia tronculare, l’anestesia durerà più o meno a lungo. Se utilizzo
la Lidocaina o la Mepivacaina durerà 1-2 h, se utilizzo la Bupivacaina, la Rotivacaina o la Tetravacaina
durerà più a lungo, in media 6-7 h. La durata dipende anche dal dosaggio dell’anestetico.

- Anestesia regionale per via endovenosa o blocco di Bier:


Non è molto utilizzata e consiste nell’iniezione dell’anestetico direttamente nel vaso che irrora il territorio
sul quale dobbiamo operare. In questo modo il farmaco viene indirizzato verso il tronco nervoso che
innerva quella determinata area. È un’anestesia pericolosa perchè il farmaco viene iniettato in vena e
quindi attualmente non è più molto usata. Uno dei farmaci che veniva utilizzato per questa anestesia è la
Lidocaina.

- Anestesia spinale:
Ad oggi è molto utilizzata perchè l’anestetico non raggiunge mai elevati livelli nel plasma ed è quindi
un’anestesia sicura. Dove si inietta l’anestetico? Dopo la seconda vertebra lombare (L2), qui il midollo
spinale è terminato e abbiamo soltanto le radici dei nervi spinali immerse nel liquor. Pur non essendoci il
midollo spinale, si può avere, come effetto avverso, una inibizione del simpatico. Questo perchè il farmaco,
una volta che arriva nel liquor, diffonde e può risalire fino alle terminazioni nervose dei neuroni simpatici.
Per questo è molto importante che, durante l’esecuzione dell’anestesia spinale, si chieda al paziente di
assumere una determinata posizione, che in genere è sdraiato su un fianco con le ginocchia piegate verso il
petto in modo da impedire che l’anestetico risalga. È importante considerare anche la baricità
dell’anestetico, cioè la densità del farmaco rispetto alla densità del liquor.

Che cosa succede se si ha una parte di blocco simpatico? Le terminazioni nervose simpatiche sono le prime
che vengono raggiunte e regolano soprattutto il carico dei vasi, quindi se l’anestetico risale e blocca queste
terminazioni avremo vasodilatazione venosa, diminuzione del volume circolante, una riduzione della
gittata e una riduzione della perfusione degli organi. Se invece l’anestetico risale ancora di più, cioè se il
blocco è a livelli più alti, allora vengono bloccate anche le fibre cardio eccitanti. In questo caso il pericolo è
soprattutto per i pazienti che hanno un’insufficienza cardiaca cronica e per pazienti ipovolemici che
perdono il compenso del simpatico. Se durante l’anestesia spinale, per il blocco del simpatico, ho una
forte ipotensione (riduzione della pressione di almeno il 30%) allora devo somministrare Efedrina.
Perchè l’efedrina e non la noradrenalina? L’efedrina è un ammino-simpaticomimetica, cioè un’ammina che
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stimola il rilascio di noradrenalina da parte delle terminazioni nervose. Si utilizza l’efedrina in bolo perchè è
particolarmente attiva a livello del settore venoso, che è quello interessato dalla vasodilaazione. Quindi
l’efedrina porta a una costrizione del sistema venoso e, a livello del cuore, ha un effetto cronotropo
positivo compensando in modo diretto il blocco del simpatico.

L’anestesia spinale ha un effetto positivo a livello intestinale perchè diminuisce il volume intestinale,
aumenta il tono e facilita la chirurgia. Con l’anestesia spinale si può avere, molto raramente, anche la
paralisi dei muscoli intercostali e quindi una riduzione della capacità di tossire e di espellere secrezioni. Se il
paziente ha già patologie dell’apparato respiratorio, come una bronchite, si può avere dispnea. Soltanto
per livelli tossici di anestetico locale nel liquor si può avere la paralisi dei nervi frenici e quindi l’arresto
della respirazione, ma questo è molto raro.

- Anestesia epidurale:
Si ottiene quando l’anestetico locale viene iniettato nello spazio epidurale, ovvero uno spazio costante
lungo tutto il midollo spinale situato tra il legamento giallo e la dura madre. Normalmente si associa anche
un vasocostrittore come l’adrenalina, in modo da evitare che l’anestetico raggiunga delle concentrazioni
plasmatiche troppo elevate. Infatti, nello spazio epidurale è presente un ricco plesso venoso per cui
quando inietto l’anestetico, per evitare che il farmaco finisca nel sangue, aggiungo un vasocostrittore come
l’adrenalina. Un limite dell’epidurale è che, diversamente dall’anestesia spinale, iniettando direttamente il
farmaco in questo spazio tra il legamento giallo e la dura, non esiste una zona di blocco simpatico
differenziale (più in alto o più in basso) Nell’anestesia spinale se l’anestetico diffonde e risale fino alle
terminazioni simpatiche si ha il blocco del simpatico, mentre se non risale non si ha il blocco. Nell’anestesia
epidurale, invece, questo non avviene e si raggiunge una soglia che è molto vicina al blocco sensitivo del
simpatico. Il rischio di blocco del simpatico nell’anestesia epidurale è decisamente maggiore di quello
dell’anestesia spinale. I farmaci che vengono utilizzati sono principalmente la Bupivacaina ma anche la
Ropivacaina.

pag. 27
09 dicembre 2021 S1: Elisabetta Parisi; S2: Chiara Prencipe; S3: Fiorenza Pennacchia
Prof. Melchiorri
Farmacologia-Psichiatria R: Francesca Milano
Depressione

FARMACI ANTIDEPRESSIVI

I farmaci antidepressivi si utilizzano nella terapia dei disturbi dell’umore.


I disturbi dell’umore si classificano secondo il DSM5 (manuale statistico e diagnostico delle malattie
mentali) in 2 gruppi:
 DISTURBI DEPRESSIVI che comprendono:
 Disturbo Depressivo Maggiore(DDM): un tempo chiamato depressione unipolare.
 Disturbo distimico.
 Disturbo dell’umore non altrimenti specificato (es. agitazione acuta).
 DISTURBI BIPOLARI

DIAGNOSI DISTURBO DISTIMICO


È noto come disturbo depressivo di tipo “persistente” o anche distimia.
Per fare diagnosi il paziente deve aver avuto almeno due anni di umore distimico e presentare almeno 2
(ma meno di 5) dei sintomi utilizzati per la diagnosi del DDM (disturbo depressivo maggiore), in una
forma più attenuata.
Poiché la sintomatologia è attenuata, la distimia non mette a rischio la vita lavorativa, sociale e familiare
della persona, a differenza del disturbo depressivo maggiore.
Insorge solitamente tra i 18 e i 45 anni ma può avere anche esordio più precoce (<18 aa).

Disturbo Depressivo Maggiore(DDM)


La depressione maggiore è un disturbo psichiatrico che colpisce più frequentemente le donne rispetto
agli uomini (con un rapporto di circa 2:1) ed è caratterizzata da calo importante del tono dell’umore,
pensieri negativi e pessimistici, sintomi comportamentali e peggioramento del funzionamento generale
della persona.
La depressione maggiore è un disturbo psichiatrico che coinvolge sia la sfera affettiva che quella
cognitiva. Il paziente depresso infatti permane in uno stato di profonda tristezza, disperazione e apatia
per tutto il giorno, con continue rimuginazioni, cali dell’attenzione e pensieri negativi su di sé, sul proprio
futuro e il contesto sociale che lo circonda.
DIAGNOSI DDM
Per la diagnosi di disturbo depressivo maggiore (indicato anche come depressione maggiore) è
necessaria la presenza di almeno 5 sintomi su 9 per più di due settimane in modo continuativo.
I sintomi possibili sono:
❖ Alterazione del tono dell’Umore (Pessimismo, Tristezza, Ansia, Abbattimento).
❖ Anedonia: Incapacità di provare piacere, incluso quello sessuale.
❖ Anergia: Mancanza di forze, alta affaticabilità che si manifesta, spesso, come dolore
cronico.
❖ Difficoltà a concentrarsi.
❖ Incapacità a prendere decisioni.
❖ Disturbi del Sonno (Insonnia o Ipersonnia).
❖ Disturbi dell’Alimentazione (Ipofagia o iperfagia).
❖ Sentimenti di autocommiserazione e di colpa.

1
❖ Ideazione Suicidaria (il soggetto pensa costantemente al suicidio che però è diverso
dalla attuazione ovvero la messa in pratica dell’idea, anche se in alcuni casi
dall’ideazione si passa al suicidio in sé)

Per la diagnosi è importante ESCLUDERE:


➢ Che vi siano sintomi di tipo maniacale → orienterebbero la diagnosi verso il cosiddetto
“episodio misto” che rientra nel disturbo bipolare (i farmaci utilizzati per il trattamento di
quest’ultima patologia sono differenti rispetto a quelli utilizzati per il disturbo depressivo
maggiore).
 Altre condizioni mediche che possano giustificare la sintomatologia depressiva perciò
risulta necessario condurre una serie di esami di laboratorio come: emocromo, elettroliti
e TSH (è ormai risaputo che i livelli di ormoni tiroidei influenzino le funzioni psichiche del
soggetto), vitamina B12, livelli di folati.
➢ L’assunzione di sostanze che possano favorire la comparsa di questi sintomi.
➢ Il verificarsi di recente di gravi eventi di forte stress per il paziente (ad
esempio il lutto di una persona cara il quale però non invalida troppo le attività
quotidiane).

Il DDM si chiama così perché i sintomi presenti sono di una tale intensità da
compromettere le normali attività del soggetto in termini lavorativi e sociali
(altamente invalidanti).

CLASSIFICAZIONE
Il DDM viene classificato in diversi tipi a seconda della componente che prevale nella patologia:
 Depressione agitata: prevale agitazione, ansia, nervosismo.
 Depressione inibita: il soggetto si chiude in se stesso non interagendo con il mondo esterno e
presentando un appiattimento affettivo (non prova più alcun tipo di affetto verso le persone
care). Coinvolgimento sfera affettiva.
 Depressione melanconica: sintomatologia piuttosto severa e più marcata nella prima metà
della giornata, caratterizzata da un risveglio precoce, tristezza, eccessiva svalutazione di sé.
Questa forma risponde bene a quasi tutti i farmaci antidepressivi.
 Depressione pseudo-demenziale: presenta alterazione delle funzioni cognitive.
Bisogna distinguere tra disturbi cognitivi:
 Oggettivi: alterazioni dell’attenzione selettiva, della memoria di lavoro, delle funzioni
esecutive, della memoria episodica e riduzione della flessibilità cognitiva (rilevabili
mediante appositi test cognitivi predefiniti che servono per la diagnosi).
 Soggettivi: difetto degli aspetti definiti «caldi» della sfera cognitiva. Consistono
nell’inclinazione dei depressi ad elaborare le informazioni attribuendo loro una valenza
emozionale (collegano qualsiasi tipo di informazione ad emozioni per lo più negative).
Questo è comune a tutti i depressi e non determina la classificazione in depressione
pseudo-demenziale.
 Depressione psicotica: vi è una componente spiccatamente delirante.
Vi sono due tipi di deliri:
 Delirio congruo con il tono dell’umore, in cui prevale autocommiserazione, senso di
nullità e di persecuzione.
 Delirio non congruo con il tono dell’umore che è il più pericoloso perché può sfociare
nella schizofrenia con sentimenti di grandezza e iper-considerazione di sè pur essendo
depresso.
2
 Depressione atipica: cosi definita perché il soggetto risponde agli stimoli esterni (mentre la
caratteristica della depressione è quella di non rispondere agli stimoli esterni, di chiudersi in
sé stesso, non reagire). Risente dell’andamento stagionale, caratterizzata da bulimia,
ipersonnia e paralisi plumbea (ovvero senso di pesantezza degli arti e difficoltà di
movimento). Questa depressione non risponde agli antidepressivi triciclici (TCA), ma
funzionano molto bene gli Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI).

TRATTAMENTO

Il trattamento della depressione può essere suddiviso in più fasi. A seconda del tipo di depressione si
utilizzano farmaci con caratteristiche che maggiormente si adattano al controllo dei sintomi che
prevalgono:

 E’ importante sottolineare che tutti i farmaci antidepressivi presentano una latenza d’azione,
ciò vuol dire che il paziente all’INIZIO del trattamento, pur assumendo i farmaci, non
risponde alla terapia e generalmente questa fase dura in media dalle 3-4 settimane.
 In seguito, si osserva un miglioramento della sintomatologia e ciò coincide con la
REMISSIONE sintomatologica (necessita di due mesi per arrivare al pieno controllo).
 A questo punto è necessario STABILIZZARE la terapia (per un periodo minimo di 4 mesi).
 Dopo 6 mesi circa di trattamento, si tenta di ridurre gradualmente la terapia in un mese circa
(SOSPENSIONE). In questa fase, se la dose non viene scalata progressivamente si può
osservare quella che viene definita “sindrome da sospensione di antidepressivi”: è comune a
tutti i farmaci antidepressivi e regredisce con la reintroduzione dell’antidepressivo. Si
manifesta con nausea, vomito, diarrea, gastralgia, mialgie, irrequietezza, cefalea, insonnia,
disturbi dell’equilibrio, sintomi extrapiramidali.
Per evitare l’insorgenza si scala la dose del farmaco del 25% alla settimana fino alla
completa sospensione dopo 4 settimane.

Non tutti i pazienti rispondono al primo farmaco antidepressivo che viene loro dato, anzi il tasso
di remissione con la monoterapia è di circa il 50% e inoltre il 20-30% dei pazienti non risponde
ad uno specifico antidepressivo. In questo caso è necessario cambiare farmaco sperando in
una risposta clinica.

Come detto in precedenza è possibile sospendere il trattamento dopo 6 mesi di terapia, tuttavia,
esistono dei rischi di ricaduta in quanto i disturbi depressivi sono disturbi dell’umore ricorrenti. La
probabilità di ricaduta dopo 36 mesi dalla risoluzione dell’episodio depressivo è:

3
o Del 50% se c’è stato solo il 1° episodio di depressione.
o Del 70% se si sono avuti 2 episodi.
o Dell’80% con 3 episodi.
o Del 90% con 4 episodi e in questo caso la terapia antidepressiva non può essere
sospesa.

BASI ANATOMICHE DEL DDM (basi neuroanatomiche e molecolari)

Tra i sintomi che devono essere presenti per la diagnosi di disturbo depressivo maggiore vi sono,
soprattutto, l’anedonia, il dolore cronico e la mancanza di volontà. Per cercare di capire quali possono
essere le basi anatomiche del DDM è necessario soffermarsi sulle vie nervose che sono coinvolte
nell’insorgenza di questi sintomi. Queste sono:

 La trasmissione dopaminergica mesolimbica


 La trasmissione noradrenerigica
 La trasmissione serotoninergica.

La trasmissione dopaminergica mesolimbica è costituita da neuroni che hanno il


corpo cellulare nell’area del tegmento ventrale (VTA) nel mesencefalo e proiettano
all’accumbens (nucleo del sistema limbico) in cui rilasciano dopamina. Parlando delle
sostanze d’abuso è stato detto che la caratteristica costante di queste sostanze è quella
di comportarsi da rinforzo positivo: ovvero di indurre, nel soggetto che le assume, la
volontà di riassumerle e quindi l’attivazione comportamentale atta a procurarsi la
sostanza (es Cocaina). La cocaina agisce anche come anestetico locale inibendo il
trasportatore per la noradrenalina, ma, principalmente, blocca il trasportatore della
dopamina (questo normalmente permette la ricaptazione del neurotrasmettitore dallo
spazio sinaptico e lo immagazzina nel neurone presinaptico, riducendone il quantitativo
a livello della sinapsi). La cocaina quindi inibendo il DAT fa sì che la dopamina non
venga ricaptata e la sua quantità aumenti nelle sinapsi che si stabiliscono
nell’accumbens; agisce come rinforzo positivo ed è per questo una droga d’abuso. Ma
se la cocaina determina l’aumento dei livelli di dopamina a livello mesolimbico, perché
non viene utilizzata nel trattamento della depressione? Non può essere utilizzata come
antidepressivo perché, anche se la cocaina aumenta i livelli di dopamina
nell’accumbens, a lungo andare la sua assunzione determina una desensibilizzazione
dei recettori dopaminergici che quindi rispondono meno al neurotrasmettitore. Inoltre, la
cocaina presenta numerosi effetti collaterali a livello sistemico.
La seconda via è rappresentata dalla trasmissione noradrenergica. Come sappiamo
nel SNC sono presenti pochi neuroni che rilasciano noradrenalina, diversamente da
quanto accade nel SNP dove il simpatico presenta come principale neurotrasmettitore
la noradrenalina.
I neuroni noradrenergici che si trovano nel SNC hanno il corpo cellulare principalmente
nel locus coeruleus e da qui, proiettano in tre aree potenzialmente importanti nel
disturbo depressivo maggiore:

1. Alla corteccia prefrontale.


2. Alla corteccia orbitale frontale.
3. Alla corteccia del giro del cingolo anteriore.

1.Corteccia prefrontale

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Le sinapsi che formano i neuroni e la forma delle spine dendritiche nella corteccia prefrontale sono
diverse da quelle delle altre aree del SNC. Questo perché la corteccia prefrontale ha come attività
principale la guida dei pensieri e delle azioni in accordo ai propri obiettivi. È l'unica aerea nel SNC che è
capace di elaborare un pensiero senza la necessità di ricevere afferenze sensoriali. Inoltre, è implicata
in molte funzioni cognitive complesse:

➔ Pianificazione dei comportamenti cognitivi complessi.


➔ Astrazione e flessibilità cognitiva.
➔ Espressione della personalità.
➔ Presa delle decisioni.
➔ Moderazione della condotta sociale.
➔ Controllo degli impulsi antisociali (impedisce di assalire fisicamente chi ti ruba l’ultimo cornetto alla
crema).
➔ Adeguamento del comportamento alla situazione (impedisce che ci si metta a ridere davanti a una
strage).

L’area dorsolaterale della corteccia prefrontale è la sede della “working memory” che permette
l’immagazzinamento di informazioni attuali in entrata e allo stesso tempo il loro recupero e
comparazione con la memoria a lungo termine (esperienza). Permette di pianificare un’azione efficace,
che percorra strade diverse da quelle che in passato si sono rivelate sbagliate; dunque, utilizza le
informazioni attuali e le modula in base all’esperienze passate elaborando così nuove strategie
d’azione.

2. La corteccia orbitofrontale (detta anche ventro-mediale)

È coinvolta nei processi di riconoscimento emotivo e di decisione grazie al mantenimento, in memoria ,


dell’associazione tra un dato stimolo familiare e la sua risposta gratificante che lo stimolo ha suscitato
in passato. Paragona esperienze interne e quelle esterne, permettendo di compiere una valutazione
sociale che consente di agire in modo adeguato in base alle circostanze: controlla il comportamento
“sociale”, controllo degli impulsi in quanto il lobo orbitofrontale presenta molte proiezioni verso i centri
emotivi e permette la modulazione di una data reazione emotiva in base alla circostanza.

3.Giro del cingolo

Il Giro del cingolo anteriore è quell’area della corteccia che rende congruo il tono dell’umore alle
situazioni ambientali. I soggetti con DDM e disturbi cognitivi oggettivati mediante test cognitivi
presentano una ipoattività della corteccia dorsolaterale e a livello dell’ippocampo.

Tutte le aree corticali interessate dalla trasmissione noradrenergica regolano funzioni normalmente
alterate nel depresso e quindi deve esserci un coinvolgimento di questa trasmissione in questa
patologia

La trasmissione serotoninergica è costituita da neuroni con corpi cellulari a livello dei


nuclei del rafe che da qui proiettano sia alle stazioni più alte del SNC (all’ippocampo,
all’ipotalamo, alla corteccia) sia alle più basse (al midollo spinale).
Le vie discendenti, destinate prevalentemente al midollo spinale, controllano la
percezione del dolore (vie nocicettive). Il dolore cronico fa parte della sintomatologia del
disturbo depressivo maggiore.
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Le vie ascendenti sono dirette alla corteccia controllando la selezione delle percezioni di
un determinato stimolo sul rumore di fondo permettendo l’attenzione selettiva e
consentono di adeguare la funzione esecutiva allo stimolo selezionato. Che significa
questo? La nostra corteccia è bombardata da una moltitudine di stimoli sensoriali che se
non selezionati determinerebbero l’incapacità di concentrarsi su un singolo stimolo e di
mantenere l’attenzione.

I neuroni serotoninergici fanno sinapsi sui neuroni piramidali glutammatergici e sugli interneuroni
GABAergici della corteccia. Quello che succede è che uno stimolo (tra i tanti che dal talamo vanno alla
corteccia) viene selezionato sul rumore di fondo, ovvero su tutti gli altri stimoli che giungono al soggetto,
solo se contemporaneamente alle afferenze che veicolano quel determinato stimolo provenienti dal
talamo avviene anche l’attivazione di un particolare tipo di recettore serotoninergico che si trova a livello
delle cellule piramidali. Questo recettore è il 5HT2A localizzato sui neuroni piramidali: quando questi
recettori sono attivati e contemporaneamente arriva anche lo stimolo sensoriale dal neurone talamico
(mediante rilascio di glutammato che lega ,attivando, i suoi recettori AMPA sui neuroni piramidali),
allora ho la selezione dello stimolo su quelli di fondo (quindi è necessaria questa doppia attivazione per
la selezione dello stimolo) .
Questo meccanismo permette di mantenere l’attenzione selettiva e l’elaborazione dello stimolo in un
comando esecutivo (la funzione esecutiva).
Gli allucinogeni come la dietilammide dell’acido lisergico (LSD) si comportano come agonisti (agonista
parziale) del recettore 5HT2A della serotonina attivando in modo indiscriminato tutti questi recettori che
si trovano nel SNC, facendo sì che non vi sia la selezione di un singolo stimolo sul rumore di fondo ma
contemporaneamente l’attivazione di tutti i neuroni piramidali.
Dunque, tutte le percezioni vengono recepite contemporaneamente e si ha una dispercezione:
un'alterazione della percezione.
Per esempio la musica viene vista, i colori vengono percepiti con conseguente sovrapposizione delle
diverse sfere percettive (le cosiddette sinestesie): gli effetti allucinogeni dell’LSD sono condivisi con
altre sostanze come quelle derivate dai funghetti magici (che attivano direttamente tutte le cellule
piramidali legandosi ai recettori 5HT2A). I neuroni serotoninergici oltre alle sinapsi con quelli corticali
fanno sinapsi con gli interneuroni GABAergici che controllano la scarica neuronale dei piramidali (già
trattati con l’epilessia: attività di scarica dei piramidali è controllata dei GABAergici).

Le cellule piramidali ricevono delle afferenze da interneuroni GABAergici di diverso tipo.


Essenzialmente ne esistono di 2 tipi:

 Quelli che fanno sinapsi con i dendriti delle cellule piramidali che contengono il
neurotrasmettitore colecistochinina, oltre al GABA (stesso sito di sinapsi dei neuroni talamici
che veicolano le informazioni dal talamo alla corteccia).
 Gli interneuroni detti cellule a candelabro che fanno sinapsi con il cono d’emergenza
dell’assone della cellula piramidale (viste con l’epilessia).
Questi ultimi sono estremamente importanti perché regolano l’attività di scarica sincrona delle
cellule piramidali e, dunque, regolano la funzione cognitiva. Generano spettri ad elevata
frequenza, la così detta frequenza gamma, che è caratterizzata da un range di oscillazione di
30-90Hz, responsabile delle oscillazioni di network. Queste sono alla base dell’assemblaggio
e del coordinamento delle afferenze che arrivano alla sfera cognitiva. L’inibizione dei neuroni
a candelabro, da parte delle sostanze d’abuso, determina un mancato controllo sul firing
(attività elettrica neuronale) dei neuroni piramidali e quindi un’alterazione di tipo cognitivo.

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Per cercare di ridurre il deficit cognitivo che si ha in alcune forme di depressione bisognerebbe agire
potenziando l’attività dei neuroni piramidali tramite la modulazione delle sinapsi tra neuroni GABAergici
e i dendriti delle cellule piramidali dove giungono anche le fibre talamiche. Agendo a questo livello, in
teoria, si potrebbero risolvere o, perlomeno, controllare i disturbi cognitivi associati alla depressione ma
è necessario che l’attività dei neuroni a candelabro sia integra. Se vogliamo provare ad influenzare la
scarica dei neuroni piramidali quello che si deve assolutamente evitare è agire sulle cellule a
candelabro perchè vuol dire agire sul meccanismo principale che regola il firing con rischio correlato di
psicosi e allucinazioni. Dove si potrebbe agire? A livello delle sinapsi con i dendriti di cellule piramidali.
La caratteristica degli interneuroni che fanno sinapsi con i dendriti delle cellule piramidali (ovvero quelli
la cui attività dovrebbe essere regolata nella depressione) è che questi interneuroni sono gli unici ad
esprimere un tipo di recettore della serotonina che è il 5HT3 (unico recettore della serotonina ad essere
un canale, mentre gli altri 6 tipi di recettori sono tutti metabotropici accoppiati a proteine G). Per cui si è
ipotizzato che il blocco dell’attività di questo recettore permetterebbe di modulare l’attività di questi
interneuroni a livello dendritico (dove arrivano afferenze talamiche) senza alterare l’attività di scarica
delle cellule piramidali controllate dai neuroni a candelabro, escludendo, quindi, la possibilità di
generare illusioni o allucinazioni (caratteristiche della schizofrenia). Attualmente, però, non ci sono
farmaci agenti sui recettori 5HT3 che si sono dimostrati efficaci nel risolvere il deficit cognitivo che si
associa alla depressione. Per cui questa è unicamente un’ipotesi di ricerca ma è importante conoscerla
per capire a pieno il ruolo della serotonina nel disturbo depressivo maggiore.

Altre vie serotoninergiche giungono all’ippocampo dove partecipano alla contestualizzazione della
memoria (in particolare nell’adattamento alla sfera emozionale: tono dell’umore ed emotività) e alla
cognizione (memoria spazio- temporale). Le afferenze serotoninergiche all’ipotalamo controllano,
inoltre, molte funzioni neurovegetative, come la regolazione del ritmo sonno-veglia, assunzione di cibo e
temperatura corporea. La serotonina controlla anche altre componenti del tono dell’umore come, ad
esempio, l’aggressività. E’ importante ricordare che questo neurotrasmettitore si forma a partire dal
Triptofano (amminoacido essenziale che, quindi, deve essere assunto dall’esterno). Si è visto che
bloccando la sintesi di serotonina
dando ad un animale da
esperimento una dieta priva di Trp,
insieme alla p-clorofenilalanina
(inibitore della triptofano idrossilasi
che è l’enzima cardine nella sintesi
di serotonina),si provocava la
comparsa di un comportamento
iperaggressivo e di una forte
attivazione di tipo sessuale
superando sia la barriera di specie
che di genere: nei conigli maschi in
cui si inibiva la sintesi di serotonina
si osservava la tendenza ad avere
rapporti sessuali con gatti maschi
sedati. Questo ha dimostrato il
ruolo della serotonina nel regolare
l’attività sessuale e aggressività.

Nella foto si vede bene come alcuni sintomi siano controllati da tutti e tre i sistemi (es umore), altri da due
sistemi e altri ancora da uno solo. Bisogna comprendere che il controllo di determinate funzioni superiori

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richiede l’interazione di tutti e tre i principali sistemi monoaminergici del nostro organismo, quindi, tutti
sono coinvolti nella genesi della DDM.

La maggior parte degli antidepressivi in commercio agiscono potenziando le trasmissioni delle


monoamine, cioè serotonina, noradrenalina e dopamina (trasmissioni che sono evidentemente
alterate nella depressione maggiore). Indipendentemente dall’antidepressivo utilizzato, il meccanismo
d’azione rimane lo stesso: inibizione dei trasportatori dei vari neurotrasmettitori monoaminergici. Questi
ultimi, infatti, a causa del blocco dei rispettivi trasportatori non vengono ricaptati. I trasportatori, infatti,
sono proteine che, normalmente, recuperano il neurotrasmettitore dallo spazio sinaptico e lo riportano
all’interno del neurone presinaptico che l’ha rilasciato ponendo fine all’azione del neurotrasmettitore
stesso (se infatti non venisse ricaptato continuerebbe ad agire e dunque si avrebbe potenziamento della
neurotrasmissione). Gli antidepressivi hanno specificità diverse: possono bloccare un solo
neurotrasmettitore o più di uno. L’effetto è immediato, già dopo la prima somministrazione del farmaco il
trasportatore viene bloccato. Nonostante ciò, osservando l’efficacia clinica del trattamento con
antidepressivi, si può notare che è presente una certa latenza d’azione dalla durata di 3-4 settimane
circa, per cui il controllo clinico dei sintomi non avviene subito. In particolare, i farmaci che agiscono sulla
trasmissione serotoninergica richiedono un tempo più lungo (3-4settimane) rispetto ai farmaci che
agiscono sulla trasmissione noradrenergica che, invece, impiegano 2 settimane circa per agire. E’ chiaro
quindi che l’azione degli antidepressivi è più complessa di come appare. Infatti, essi non determinano
solamente il blocco del trasportatore, ma permettono anche il verificarsi di modificazioni neuro-adattative:
modificazioni recettoriali, aumento della produzione di fattori neurotrofici come il BDNF e l’aumento della
neurogenesi a livello dell’ippocampo. Dato che queste sono modificazioni che si instaurano in modo
lento, è necessario che passi del tempo e solo quando esse si saranno realizzate si potranno apprezzare
gli effetti della terapia.

Modifiche recettoriali

Analizzeremo le modifiche recettoriali che intervengono quando si utilizzano antidepressivi che agiscono
sulla trasmissione serotoninergica.
La classe principale di questi antidepressivi è rappresentata dagli inibitori selettivi della ricaptazione della
serotonina, SSRI. Il trasportatore della serotonina, chiamato SERT, si trova sulle terminazioni nervose
del neurone serotoninergico, in questo modo ricapta la serotonina quando questa è rilasciata nella
fessura sinaptica. A livello presinaptico, ci sono due tipi di recettori: il 5HT1d e il 5HT1a. Il primo si trova
sulla terminazione sinaptica, mentre il secondo si trova sui dendriti e sul corpo cellulare. In realtà,
entrambi sono due sottotipi del recettore 5HT1, quindi condividono lo stesso meccanismo di trasduzione
del segnale, cioè sono entrambi recettori metabotropici, accoppiati a proteine Gi (la loro attivazione
determina l’inibizione dei neuroni serotoninergici). Sul neurone postsinaptico sono, invece, presenti altri
sottotipi di recettori serotoninergici: il 5HT1 e il 5HT2a, recettori metabotropici accoppiati a proteine Gq.
L’effetto della serotonina dipende dal tipo di recettore con il quale interagisce: legandosi ai recettori
postsinaptici determina la trasmissione dell’impulso nervoso serotoninergico; legandosi, invece, sui
recettori presenti sul neurone presinaptico si ha lo spegnimento di quest’ultimo. Quindi all’inizio della
terapia, nonostante il blocco immediato del SERT e sebbene la serotonina rimanga più a lungo a livello
sinaptico, essa si lega ai recettori presinaptici inibitori determinando spegnimento del neurone
presinaptico, inibendo così il suo successivo rilascio. Di conseguenza, venendo rilasciata meno
serotonina, non ci sarà sufficiente neurotrasmettitore per attivare i neuroni postsinaptici, tramite il legame
con i loro recettori accoppiati a Gq; poiché la serotonina lega solamente i recettori presinaptici inibitori si
ha una riduzione dell’effetto mediato dal neurotrasmettitore. Perciò, gli antidepressivi non riescono ad
evocare i loro effetti clinici: infatti pur bloccando immediatamente il SERT non c’è un aumento della
trasmissione serotoninergica, perché il neurotrasmettitore si lega al 5HT1a e 5HT1d e spegne il neurone

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presinaptico.
Affinché si veda l’effetto clinico dell’antidepressivo SSRI è necessario aspettare che i recettori
presinaptici si desensibilizzino. In questo modo la serotonina rilasciata dal neurone presinaptico non è più
in grado di inibire il neurone stesso, venendo rilasciata in modo continuo e potendo agire così sul
neurone postsinaptico. Tuttavia, ciò non spiega la latenza clinica di 3-4 settimane che si osserva. La
desensibilizzazione recettoriale è un processo che, in seguito ad esposizioni ripetute all’antidepressivo,
avviene in modo rapido, in circa 3-4 giorni, trascorsi i quali si dovrebbe osservare l’effetto clinico dei
farmaci che invece non si apprezza. Per capire questo meccanismo bisogna introdurre il concetto di
riserva recettoriale

Nell’immagine sono schematizzati due neuroni


presinaptici. Poniamo di avere 5 recettori
serotoninergici di tipo 1 sul neurone presinaptico,
ognuno dei quali quando attivato causa il 20%
dell’effetto massimo che la serotonina può
indurre. Di conseguenza per ottenere la totalità
dell’effetto massimo, il 100%, è necessario che
questa leghi ognuno dei 5 recettori: questo è
quello che succede nel caso in cui non ci sia
riserva recettoriale. In questo caso, la serotonina legandosi a tutti i recettori presenti
ottiene l’effetto massimo. Se, però, questi sono costantemente esposti al
neurotrasmettitore, desensibilizzano velocemente e in breve tempo si ha una forte
riduzione dell’effetto della serotonina. A destra, invece, è rappresentato il caso in cui
un sistema esprime 5 recettori serotoninergici che, attivati, determinano ognuno il 50%
dell’effetto massimo della serotonina: sono quindi sufficienti 2 soli neuroni per avere
un effetto del 100%. I restanti 3 recettori non sono necessari per il raggiungimento
dell’effetto massimo e, dunque, costituiscono la riserva recettoriale. In presenza di
riserva recettoriale, dopo la somministrazione dell’antidepressivo, la serotonina
aumenta nello spazio sinaptico, si lega solo a due recettori ed ha l’effetto massimo. In
seguito ad un’esposizione prolungata essi vanno incontro a desensibilizzazione, ma il
neurotrasmettitore può legarsi a due dei tre recettori rimasti liberi in precedenza, quindi
l’effetto del neurotrasmettitore persiste. Anche questi dopo poco si desensibilizzano
ma a questo punto sono ritornati a normale attività i due recettori iniziali che si erano
desensibilizzati. In condizioni di riserva recettoriale, dunque, la desensibilizzazione
non avviene in pochi giorni, come invece si verifica quando non c’è riserva recettoriale,
ma richiede più tempo affinché si possa ottenere la desensibilizzazione di tutti i
recettori e si possa osservare l’effetto della serotonina. Ciò è quello che si verifica
nella realtà clinica, infatti, essendoci una grande riserva recettoriale di 5HT1d e 5HT1a
è necessario che passino più di 3-4 giorni, che invece in altre situazioni sono sufficienti
alla desensibilizzazione recettoriale, affinché si veda l’effetto dell’antidepressivo
triciclico. La desensibilizzazione consiste in diversi fenomeni: dal disaccoppiamento
del recettore accoppiato a proteine G fino al trasferimento all’interno della cellula del
recettore, non più espresso in membrana. Quindi si modifica l’espressione dei recettori
presinaptici di tipo 5HT1 della serotonina e questa modifica è necessaria perché si
possa vedere l’effetto dell’antidepressivo, perché in questo modo la serotonina viene
rilasciata una volta che i recettori inibitori sono stati desensibilizzati e può rimanere a
lungo nello spazio sinaptico perché il SERT è bloccato, potendo quindi attivare i
recettori post sinaptici, permettendo la trasmissione dell’impulso serotoninergico.

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Trascrizione dei fattori neurotrofici e neurogenesi

Quando la serotonina, grazie agli antidepressivi, è libera di agire a livello del neurone
postsinaptico, viene attivato un fattore di trascrizione citosolico il CREB che, attivato,
va nel nucleo e determina la trascrizione di del fattore neurotrofico cerebrale, il BDNF
che favorisce il trofismo dei neuroni ma determina anche un aumento della
neurogenesi a livello dell’ippocampo, in particolare nel giro dentato.
Domanda: Anche i recettori serotoninergici postsinaptici andranno incontro a
desensibilizzazione con il tempo?
Risposta: No, essi sono dei recettori che vanno meno frequentemente incontro a
desensibilizzazione e, quindi, permettono che la trasmissione serotoninergica sia
potenziata e che avvenga la trascrizione di nuovi geni come il BDNF. Quindi sono ,
soprattutto, i recettori presinaptici che vanno incontro a desensibilizzazione, perché la
serotonina ha una maggior affinità per i recettori presinaptici e quindi questi sono
esposti maggiormente all’azione della serotonina quando questa viene rilasciata dalla
sinapsi. I recettori postsinaptici, invece, sono di diverso tipo e hanno minor affinità per
la serotonina, la legano e trasmettono l’impulso mediato dal neurotrasmettitore. Quindi
anche questi a un certo punto si desensibilizzano ma non al punto tale da impedire
l’effetto dell’antidepressivo.
E’ noto che normalmente i neuroni non vanno incontro a fenomeni mitotici a causa
dell’estrema specializzazione di queste cellule. Però nel cervello adulto ci sono due
aree di neurogenesi attiva che permangono per tutta la vita, aree in cui si ha
formazione continua di nuovi neuroni. Esse sono particolarmente importanti e sono:
la zona sub-ventricolare e il giro dentato dell’ippocampo. Quest’ultimo riveste un ruolo
importante del DDM. Nell’ippocampo avviene la formazione di nuova memoria
contestualizzata con il tono dell’umore, oltre che con le coordinate temporo-spaziali.
Quindi è evidente che, in questa area, c’è continuamente bisogno di nuovi neuroni per
creare nuova memoria.
L’ippocampo dal punto di vista neuroanatomico è
suddiviso in varie aree: CA1, CA2, CA3 (CA=corno
d’Ammone) e il giro dentato. Queste aree sono
connesse tra di loro tramite uno specifico pattern di
proiezione: i neuroni del giro dentato proiettano
selettivamente all’area CA3, facendo sinapsi con
neuroni che rappresentano le fibre rampicanti (le
collaterali di Schaffer), le quali proiettano
direttamente all’area CA1. Inoltre, nel soggetto
depresso si può osservare una ridotta neurogenesi del giro dentato. Questa può
essere identificata tramite l’utilizzo di anticorpi specifici in quanto i nuovi neuroni
esprimono sulla membrana plasmatica proteine diverse rispetto a quelle espresse dai
neuroni maturi e proprio queste proteine saranno il bersaglio degli anticorpi. Inoltre, si
ha atrofia (morte neuronale) nell’area CA1 che può anche essere osservata in
condizioni di forti stress continuativi indotti nell’animale da laboratorio. Infatti in
condizioni sperimentali, per valutare ciò, si sottopone un animale da laboratorio, ad
esempio un ratto, ad uno stress cronico, in particolare lo si espone a stress da
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contenzione. Si pone l’animale in uno spazio molto stretto per mezz’ora, per esempio,
tutti i giorni per due settimane. Questa contenzione costituisce un forte stress per
l’animale, non potendosi muovere. Allo scadere delle due settimane, dopo aver
preparato delle fettine di cervello a livello ippocampale e averlo colorato, si osserva
riduzione della neurogenesi nell’ippocampo e atrofia a livello della CA1. Allo stesso
tempo, se si misurasse l’ormone dello stress dell’animale, il corticosterone (ratti e
animali da laboratorio non hanno il cortisolo ma il corticosterone che è equivalente) si
apprezzerà un aumento del corticosterone in seguito allo stress cronico. Quindi da ciò,
si deduce che lo stress aumenta il rilascio di corticosterone/cortisolo e che, quindi,
determina riduzione della neurogenesi nell’ippocampo e atrofia a livello della CA1.
Stessa cosa si verifica nei pazienti depressi. Infatti, c’è riduzione della neurogenesi a
livello dell’ippocampo e alterazione del cortisolo. In circa il 35% dei depressi, se
sottoposti al test di soppressione al desametasone, si osserva un’alterazione della
risposta al cortisolo. Questo test consiste nel somministrare il farmaco la sera, prima
che il paziente vada a dormire, e poi misurare la concentrazione di cortisolo al mattino
intorno alle 8, quando c’è il picco di cortisolo. Fisiologicamente, nel soggetto non
depresso il desametasone inibirà, agendo sui recettori ippocampali, per feedback
negativo il rilascio di cortisolo, da parte del sistema ipotalamo-ipofisi-surrene, quindi ci
si aspetterà l’assenza del picco di cortisolo. Nel soggetto depresso, invece, non
avviene l’inibizione del rilascio di cortisolo. Per capire questo è necessario ricordare
come avviene il feedback negativo sull’asse ipotalamo-ipofisi-surrene da parte del
cortisolo. Esso avviene tramite il legame del cortisolo a entrambi i recettori per i
glucocorticoidi: recettore MR (lega i glucocorticoidi ma anche i mineralcorticoidi) e GR
(lega solo i glucocorticoidi). Esiste quindi un nesso tra depressione e asse ipotalamo-
ipofisi-surrene, che è disregolato nel depresso. Sono particolarmente importanti i
recettori del cortisolo presenti sull’ippocampo (MR e GR), perché è tramite questi che
il cortisolo determina feedback negativo sull’ipotalamo, di conseguenza, risulteranno
permanentemente attivati essendo che la concentrazione di cortisolo permane a livelli
elevati, dato che il feedback negativo non avviene. In particolare l’attivazione cronica
da parte del cortisolo dei recettori GR causa danno a livello dei neuroni ippocampali
determinando atrofia dell’area CA1. Nel soggetto depresso, il trattamento con
antidepressivi determina: riduzione di CRH, ACTH, miglioramento della neurogenesi
e riduzione della neurodegenerazione dell’area CA1. E’ evidente che gli
antidepressivi, tra i vari effetti adattativi che inducono per poter esplicare l’effetto
terapeutico, vanno a incidere anche sulla disregolazione dell’asse dello stress, sulla
neurogenesi ippocampale e sull’atrofia. Poiché l’attivazione cronica dei recettori GR
causa danno ippocampale si è pensato di provare a somministrare come
antidepressivo un antagonista dei recettori GR: il Mifepristone, in questo modo si
dovrebbe avere riduzione del danno ippocampale. Nell’animale esso ha dimostrato
attività nei confronti della depressione, migliorando le alterazioni cognitive collegate,
ma ha dimostrato di avere molti effetti collaterali e quindi non può essere utilizzato per
lunghi periodi. Il Mifepristone non è un farmaco che può essere usato nella
depressione, tuttavia ha dimostrato che il blocco dei recettori GR contribuisce alla
risoluzione del danno cognitivo nella depressione.

Sistema dell’antireward
Per comprendere a pieno la fisiopatologia della depressione e il meccanismo d’azione
dei farmaci antidepressivi è necessario analizzare il sistema dell’antireward. Il sistema
del reward (ricompensa) è costituito da vie dopaminergiche: alcune proiettano dalla
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VTA all’Accumbens (sistema mesolimbico) determinando attivazione
comportamentale per procurarsi piacere; altre proiettano dal mesencefalo alla
corteccia prefrontale (sistema mesocorticale) dove si ha la percezione del piacere.
Oltre al sistema del reward, esiste il sistema dell’antireward, il sistema
dell’antiricompensa, che si trova a livello dell’amigdala e dei nuclei del letto della stria
terminale (BNST). L’amigdala ha la funzione di formare la memoria emozionale del
dolore e della paura. Cioè controlla la valutazione e le risposte mediate dalla paura
generata da un pericolo attuale, generando comportamenti che preservano il soggetto
dal pericolo. Il BNST (struttura sessualmente dimorfica composta da 12 e 18 sub-
nuclei), invece, media la risposta allo stress che non rappresenta un pericolo
immediato ma uno stato di apprensione sostenuta, diversamente dall’amigdala. Fa
parte, inoltre, del circuito che collega l’ippocampo al nucleo paraventricolare
dell’ipotalamo, ovvero quel circuito che media il feedback negativo sull’asse
ipotalamo-ipofisi-surrene, infatti il cortisolo che viene rilasciato dall’asse ipotalamo-
ipofisi-surrene fa feedback negativo sul proprio rilascio a livello dell’ippocampo. Grazie
al BNST, che fa quindi da tramite, il segnale di feedback dall’ippocampo arriva al
nucleo paraventricolare, che è il nucleo che rilascia gli ormoni dell’asse ipotalamo
ipofisi surrene. Il sistema dell’antireward permette la sopravvivenza: attraverso la
memoria del dolore, si fugge dalle situazioni di pericolo. Ad ulteriore dimostrazione di
questo, mentre il sistema della ricompensa va subito incontro a desensibilizzazione
(ed ecco perché le sostanze d’abuso creano dipendenza), il sistema dell’antireward
non va mai incontro a desensibilizzazione ed è sempre attivo e anzi, si sensibilizza,
moltiplica e potenzia i suoi effetti. Tuttavia, l’attivazione cronica di questo sistema può
generare l’ansia, che non è uno stimolo fisiologico che permette di fuggire i pericoli
ma è una paura senza oggetto, è patologica ed è uno dei sintomi della depressione.
Nel depresso aumenta il CRH nell’amigdala e nel BNTS, in generale nel sistema
antireward. Inoltre, l’aumento del cortisolo nel sistema dell’antireward invece di inibire
a feedback negativo la produzione di CRH la stimola, quindi il cortisolo è sempre attivo
nel sistema antireward. I due nuclei del sistema antireward contengono entrambi i
recettori del CRH: CRH1 e CRH2. Nell’animale da esperimento sono stati testati come
farmaci antidepressivi antagonisti CRH1, che hanno funzionato nell’animale, ma
nell’uomo gli studi condotti sono stati interrotti in quanto i composti testati
determinavano epatotossicità. Inoltre, mostravano efficacia solo nei pazienti con una
over espressione CRH1 in entrambi i nuclei, cosa che si verifica in alcuni pazienti
depressi ma non in tutti. Quindi ciò non può essere sfruttato per creare farmaci
antidepressivi. Tuttavia, il ruolo del CRH nella depressione è ancora in corso di studio.
[Un altro target possibile per nuovi antidepressivi è il recettore per la sostanza P.
Nell’uomo, serotonina e SP co-localizzano nei nuclei dorsali del rafe e molti 5-HT
recettori co-localizzano con i recettori NK1. L’espressione di questi recettori aumenta
nei depressi, anche nell’amigdala, ma gli antagonisti dei recettori NK1 non sono
risultati efficaci come antidepressivi.] Quindi in conclusione, nel cervello del depresso:
il cortisolo non spegne l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e quindi c’è un’iperattività
dell’asse dello stress con danno a livello dell’ippocampo; il cortisolo in eccesso agisce
a livello dell’amigdala, potenzia la trasmissione mediata dal CRH con iperattivazione
del sistema dell’antireward: genera ansia, dolore, paura; esiste una stretta
correlazione tra asse ipotalamo-ipofisi-surrene, stress e depressione e comorbidità tra
depressione e disturbi d’ansia. Ritornando al discorso sulla latenza clinica, perché un
antidepressivo agisca è necessario che:

12
 Vengano modificati alcuni recettori, per esempio nel caso degli SSRI devono
desensibilizzare i recettori 5HT;
 Avvenga una aumentata trascrizione di alcuni fattori neurotrofici come il BDNF;
 Fattori neurotrofici causino trofismo e migliorino la funzione delle cellule
nervose, permettendo un aumento della neurogenesi ippocampale e
riducendo, a livello della CA1, la neurodegenerazione;
 Venga ripristinata la risposta al cortisolo e cessi l’iperattivazione del sistema
dell’antireward.
Quindi sono tutte modifiche adattative che hanno sequenza temporale ben definita per
svilupparsi e richiedono tempo per verificarsi e ciò è il motivo per cui vi è latenza clinica
con antidepressivi.

La latenza clinica, quindi, è un problema dal punto di vista clinico perché il rischio, nel
paziente con depressione maggiore non controllato da farmaci è che egli commetta
suicidio. Quando si inizia terapia in un paziente con disturbo depressivo maggiore gli
effetti clinici non si apprezzeranno prima di un mese, però non si può lasciare il
paziente con depressione per un mese non controllato dalla terapia. Soprattutto il
rischio che egli commetta suicidio è maggiore all’inizio dalla terapia con antidepressivi,
perché essi pur non controllano immediatamente i sintomi della depressione,
determinano nel soggetto maggiore energia, che può essere sfruttata per mettere in
atto ideazioni suicidarie e arrivare di fatto al suicidio. Questo rischio sembra maggiore
in pz adulti <25 anni, arrivando ad essere massimo nei pz pediatrici (infatti vi è
controindicazione nei pazienti pediatrici) ma in generale gli antidepressivi hanno un
limite di età e non possono essere utilizzati in pazienti molto giovani. Quindi, in questi
casi, si interviene cercando di sedare il paziente impedendogli di suicidarsi,
somministrando benzodiazepine che sedano, calmano, tolgono in parte energia al pz,
in modo da ridurre il rischio di suicidio. Se è pur vero che le benzodiazepine
funzionano, esse non lo fanno totalmente per cui il rischio di suicidio rimane e i pazienti
devono essere attentamente monitorati ma, soprattutto, i familiari devono essere
informati di questo rischio, quindi è necessario mettere in atto misure precauzionali.
Una strategia terapeutica volta a superare la latenza clinica degli antidepressivi è stata
quella di bloccare/desensibilizzare i recettori 5HT1a e 5HT1d del neurone
presinaptico. Sono stati studi eseguiti con il pindololo, un farmaco β-bloccante che
somministrato a basse dosi (5mg 2 volte al gg) agisce non come β-bloccante ma come
antagonista selettivo dei recettori 5HT1. Quindi, si è provato a somministrare il
pindololo insieme agli antidepressivi sperando che il pindololo, bloccando i recettori
5HT1, permettesse agli antidepressivi di agire più rapidamente. Tuttavia, in alcuni
studi si è osservata un’efficacia del farmaco nel ridurre la latenza clinica degli
antidepressivi mentre in altri no. Questi risultati contrastanti sono probabilmente dovuti
al fatto che il farmaco viene somministrato a basse dosi per prevenire la sua azione
come β-bloccante ma, tuttavia, in alcuni soggetti queste possono essere non sufficienti
per poter permettere al farmaco di agire come antagonista del recettore
serotoninergico. Sono state studiate altre molecole con questo scopo ma nonostante
tutti i tentativi eseguiti quando si passava all’uomo i risultati non erano riproducibili,
quindi, attualmente, non si è ancora riusciti a trovare farmaci che possano ridurre la
latenza di azione degli antidepressivi, anche se la ricerca è attiva.

[Sono stati condotti altri studi, più recenti, che prevedono l’utilizzo di un farmaco che
era stato tolto dal commercio: il pipamperone che blocca il 5HT2a e anche il recettore
13
della dopamina D4. Per questa sua azione viene utilizzato come booster insieme agi
SSRI nel tentativo di ridurre la latenza d’azione in quanto il blocco del recettore
serotoninergico 5HT2a (del neurone presinaptico della corteccia prefrontale) riduce
tutti gli effetti dovuti ad una sua eccessiva attivazione in seguito alla trasmissione
serotoninergica (aggressività, irrequietezza, nervosismo,ecc..) mentre il blocco dei
recettori D4 presenti sui neuroni dopaminergici mesolimbici determina un aumento
della trasmissione dopaminergica e quindi potenzialmente favorente una risoluzione
dei sintomi propri del DDM. Tuttavia, si è visto che anche in questo caso i risultati non
sono molto entusiasmanti: si è osservata una riduzione della latenza d’azione, ossia
un aumento dell’effetto antidepressivo dopo 2 settimane di trattamento ma dopo 4
settimane non si è notata alcuna differenza tra la popolazione che aveva ricevuto il
pipamperone+SSRI e la popolazione di studio che, invece, aveva ricevuto solo SSRI.
Quindi anche questa strategia terapeutica non si è rivelata efficacie.]
Il ruolo del glutammato nella depressione

Esiste un altro neurotrasmettitore e quindi un’altra via di trasmissione nervosa, che


sembrerebbe coinvolta nel disturbo depressivo maggiore: il glutammato. Tuttavia,
attualmente non ci sono farmaci commercializzati come antidepressivi che agiscono
sui recettori del glutammato. Questo neurotrasmettitore attiva recettori ionotropici e
metabotropici attivando vie di trasduzione del segnale che portano alla produzione di
BDNF. I recettori più coinvolti nell’indurre BDNF sono gli NMDA che sono coinvolti
nella memoria, sviluppo e nella plasticità delle sinapsi. E’ quindi evidente che, dato il
ruolo da essi svolto, i recettori NMDA sono quelli maggiormente implicati nella
fisiopatologia della depressione. La ketamina, anestetico dissociativo ma anche droga
da abuso, agisce come antagonista non competitivo del recettore NMDA e se viene
somministrato a dosi sub-anestetiche ha una rapida azione antidepressiva. E’ l’unico
antidepressivo che agisce rapidamente, non ha latenza di azione. L’infusione ev 0.5
mg/kg di ketamina ha effetto dopo sole 4 ore e dura fino a 72 ore, determinando una
riduzione dei sintomi (misurati tramite la scala Hamilton) del 50%. Si è visto,
addirittura, che nel 35% dei paziente l’effetto è stato mantenuto per una settimana.
Inoltre, elimina l’ideazione suicidaria entro 24 ore dalla somministrazione e quindi può
essere utilizzata anche in acuto nei pazienti ad alto rischio di suicidio. Risulta efficace
anche nella depressione resistente che non risponde ad altri farmaci ma non può
essere usata in cronico, infatti determina effetti psicotomimetici: blocca tutti i recettori
NMDA espressi su interneuroni GABAergici della corteccia, inclusi quelli sugli
interneuroni a candelabro che regolano l’attività sincrona dei neuroni piramidali,
determinando così psicosi. Il meccanismo d’azione della ketamina è stato analizzato
nel dettaglio, nella speranza di poter identificare dei target per possibili nuovi farmaci
antidepressivi privi dell’effetto psicoticomimetico proprio della ketamina. Si è partiti
dall’osservazione che la ketamina presenta una breve emivita (T/2 3-4 ore); tuttavia
gli effetti sulla depressione durano per diversi giorni già con una singola
somministrazione, addirittura di una settimana in un sottogruppo particolare di
pazienti. Questa osservazione fa pensare alla possibile esistenza di metaboliti attivi
della ketamina a più lunga emivita, che partecipano proprio all’azione antidepressiva.
Effettivamente recentemente è stato identificato un suo metabolita, il (2S, 6S; 2R, 6R)-
HNK che attiva i recettori AMPA (sottotipo di recettori ionotropici del glutammato) con
azione antidepressiva indipendente dal blocco dei recettori NMDA.

14
Questa osservazione apre la strada allo
sviluppo di una nuova classe di farmaci
antidepressivi con meccanismo d’azione
basato sull’attivazione dei recettori AMPA.
L’attivazione di questi recettori porta a
formazione di BDNF e all’attivazione del
suo recettore, il trkB. A livello del neurone
postsinaptico, attraverso il suo metabolita,
la ketamina determina attivazione dei
recettori AMPA. Questi causano un
aumento della sintesi proteica tramite due
meccanismi: permettono la trascrizione del
gene che codifica per il BNDF, il quale una
volta prodotto, si lega al suo recettore (TrkB) e così facendo funziona da fattore di
trascrizione, determinando un aumento della sintesi proteica mediante la via di
mTOR. Il recettore AMPA può attivare direttamente la via di Mtor, determinando
dunque un aumento della sintesi proteica. Inoltre, l’attivazione del recettore AMPA
determina l’inibizione della glicogeno-sintasi-chinasi-3beta (GSK3beta), quell’enzima
che, quando attivo, inibisce la beta-catenina, un fattore di trascrizione. Quindi la
beta-catenina, che normalmente è inattivata dalla glicogeno-sintasi, se questa non è
attiva, è libera di poter agire da fattore di trascrizione favorendo anche in questo
caso un aumento della sintesi proteica per il trofismo neuronale. Dunque, la
ketamina, sembra agire nella depressione con questo meccanismo plurimo,
attraverso l’attivazione dei recettori AMPA e potrebbe essere mimata da nuovi
farmaci antidepressivi.

Recentemente è stato messo in commercio un farmaco che contiene l’enantiomero


S della ketamina, che è un racemo, con il nome commerciale di Spravato.
Indicazione: Viene utilizzato in combinazione
con altri antidepressivi (con un SSRI o un SNRI),
nei pazienti con DDM resistente al trattamento,
che non hanno quindi risposto ad almeno due
diversi trattamenti con antidepressivi nel corso
dell’attuale episodio depressivo che deve avere
un’intensità che va da moderata a grave e deve
essere controllato con l’aggiunta di Spravato. Si
pensa che questo farmaco possa aumentare il
segnale neurotrofico, quindi il segnale BDNF è
ripristinare in questo modo la funzione sinaptica nelle regioni del cervello coinvolte
nella depressione e nella disregolazione del tono dell’umore. Nell’animale, dopo la
somministrazione di Spravato, si ha aumento della trasmissione dopaminergica nelle
regioni cerebrali mesolimbiche e mesocorticali. Si pensa che abbia effetto come
antidepressivo rapidamente proprio attraverso questo meccanismo, così come nella
ketamina. Gli altri antidepressivi, infatti, hanno una latenza clinica più evidente.

L’esketamina blocca i recettori NMDA e permette l’attivazione dei recettori AMPA,


sia direttamente che indirettamente, presenti sui neuroni piramidali del V strato della
corteccia. Si ottiene, quindi, un aumento del firing di questi neuroni verso il nucleo
15
dorsale del rafe. Si ha l’attivazione dei neuroni 5-HT che proiettano alla corteccia
prefrontale (PFC). In questo modo la PFC viene attivata e ciò è importante nella
motivazione e nella capacità di provare piacere, notoriamente alterati nel DDM. La
formulazione in commercio è in spray nasale. È un dispositivo monouso che rilascia
un totale di 28 mg di esketamina in due erogazioni (una per ciascuna narice). Poiché
può causare nausea e vomito il paziente deve osservare un digiuno di almeno 2 ore
prima della somministrazione e non deve bere liquidi nei 30 minuti precedenti alla
stessa. Una sessione di trattamento prevede la somministrazione nasale di Spravato
e un periodo di osservazione post-somministrazione. Sia la somministrazione sia il
periodo di osservazione post-somministrazione di Spravato devono essere eseguiti
in contesti clinici appropriati per poter essere in grado di assistere il paziente nel
caso in cui si manifestino eventi avversi. Il meccanismo d’azione è uguale a quello
espresso precedentemente parlando della ketamina: attraverso l’antagonismo del
recettore NMDA e attivazione dei recettori AMPA si ha un aumento del segnale
neurotrofico che si pensa possano contribuire al ripristino della funzione sinaptica
nelle regioni cerebrali coinvolte nella regolazione di umore e comportamento
emotivo. Si è osservato anche un ripristino della neurotrasmissione dopaminergica
nelle regioni cerebrali coinvolte nel meccanismo di ricompensa e motivazione, con
una stimolazione delle regioni cerebrali coinvolte nell’anedonia. Tutto questo
sembrerebbe contribuire alla risposta rapida che si ha nel trattamento con la
ketamina/esketamina. Inoltre, l’esketamina aumenta anche il rilascio di DA e NA
nella PFC, attivando le proiezioni dirette all’area tegmentale ventrale (VTA) e al
locus coeruleus e determinando anche in questo caso attivazione comportamentale.
L’efficacia dello Spravato è stata valutata in diversi studi in cui si confrontavano i
suoi effetti rispetto ai pz trattati solo SSRI/SNARI. Si considerava come risposta al
trattamento una riduzione ≥50% del punteggio MADRS mentre, come remissione
della condizione depressiva il raggiungimento di un punteggio MADRS totale ≤12. La
scala MADRS (Montgomery Asberg Depression Rating Scale) valuta la gravità dei
disturbi dell'umore, della concentrazione, della condizione fisica, e disturbi del sonno
negli stati depressivi. Assegna un punteggio a ciascuno dei seguenti aspetti:
 Tristezza (manifesta e interna);
 Riduzione di: sonno, appetito, concentrazione;
 Stanchezza;
 Incapacità di provare sensazioni;
 Idee pessimistiche esuicidarie.
In media nei diversi studi si sono ottenuti questi risultati (Spravato in aggiunta vs solo
SSRI/SNARI)

 RISPOSTA AL TRATTAMENTO-> 50% vs 37%.


 REMISSIONE 33% vs 29% (o in un altro studio 46% vs28%).
 Si è osservato che lo spravato presenta una ridotta funzionalità in pz > 65
anni:
 Risposta 23% vs 12%;
 Remissione 12,3% vs 6,2%.
Effetti avversi:

 Sonnolenza;

16
 Sedazione;
 Disgeusia, nausea e vomito;
 Sintomi dissociativi, disturbi della percezione e ansia;
 Pollachiuria, disuria, urgenza urinaria, nicturia e cistite;
 Capogiri, vertigini

Devono essere, inoltre, sempre monitorati gli aumenti transitori della pressione
arteriosa sistolica e/o diastolica. Questi raggiungono il picco circa 40 minuti dopo la
somministrazione e si protraggono per circa 1-2 ore. Un sostanziale aumento della
pressione arteriosa potrebbe verificarsi dopo qualsiasi sessione di trattamento. Per
monitorare tali condizioni devono essere svolti dei controlli prima e dopo la
somministrazione:

 Prima del trattamento: misurazione della pressione arteriosa.


 Dopo la somministrazione: la pressione arteriosa deve essere rivalutata dopo
circa 40 minuti e tutte le volte in cui lo si riterrà clinicamente opportuno. A
causa della possibilità di sedazione, dissociazione e pressione arteriosa
elevata, i pazienti devono essere osservati da un operatore sanitario fino a
quando il paziente è considerato clinicamente stabile e pronto a lasciare il
contesto sanitario.
Si sono osservati casi reversibili di compromissione cognitiva e della memoria ma
solo con l’uso a lungo termine o l’abuso di ketamina.
Controindicazioni:

Nei pz in cui un aumento della pressione arteriosa o della pressione intracranica


rappresenta un rischio serio:

 Pazienti con malattia vascolare aneurismatica;


 Pazienti con anamnesi di emorragia intracerebrale.
 Evento cardiovascolare recente (nelle ultime 6 settimane), incluso infarto del
miocardio.

Bisogna sempre tenere in considerazione che la Ketamina è un medicinale per il


quale sono stati segnalati casi di abuso. Il potenziale di abuso, l’uso improprio e la
diversione di Spravato sono minimizzato dal fatto che la somministrazione ha luogo
sotto la supervisione di un operatore sanitario. Nonostante questo, anche Spravato
può essere soggetto ad abuso e diversione.
Rianimazione cardiopolmonare

Qualora dovesse essere utilizzato in pazienti con patologie cardiovascolari o


respiratorie clinicamente significative o instabili, lo Spravato deve essere
somministrato in un ambiente in cui siano disponibili attrezzature adeguate per la
rianimazione cardiopolmonare. Esempi delle condizioni che devono essere tenute in
considerazione includono (ma non sono limitate a):

 Insufficienza polmonare significativa, inclusa BPCO;


 Apnea notturna con obesità patologica (BMI ≥35);
 Pazienti con bradi- o tachiaritmie non controllate che portano a instabilità
emodinamica;
 Pazienti con una storia di infarto miocardico. Questi pazienti devono essere
clinicamente stabili e privi di sintomi cardiaci prima della somministrazione;
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 Cardiopatia valvolare emodinamicamente significativa;
 Insufficienza cardiaca (NYHA Classe III-IV).

Recettori mGlu (mGluR)

Il glutammato, oltre che sui recettori ionotropici (AMPA e NMDA), presenta dei
recettori metabotropici accoppiati a proteine G trimeriche. Questi vengono indicati
con l’acronimo mGluR e se ne conoscono 5 tipi. Sono localizzati a livello
presinaptico e sono accoppiati a proteine Gi inibitorie ad eccezione dei recettori
mGluR1 e mGluR5 che sono localizzati sia a livello pre e postsinaptico e sono
accoppiati a proteine Gq eccitatorie. Gli antagonisti dei recettori presinaptici
mGluR2/3, bloccando questi recettori che sono inibitori, causano un aumento del
rilascio di glutammato e l’attivazione dei recettori AMPA. Come la ketamina, anche
gli antagonisti dei recettori mGluR2/3 attivano anche la via mTOR determinando
sintesi proteica. I recettori mGluR5, invece, sono espressi in sede pre- e post-
sinaptica e determinano internalizzazione dei recettori AMPA (quindi de-
sensibilizzazione) quando sono attivati. Poiché i recettori AMPA sono fondamentali
nel processo della plasticità sinaptica (processi alla base del potenziamento a lungo
termine, apprendimento e memoria) l’internalizzazione dei recettori AMPA avrebbe
quindi effetti negativi. Dunque, sono stati trovati degli antagonisti del recettore
mGluR5. Questi farmaci sono stati studiati su modelli animali costatandone gli effetti
antidepressivi. Tali recettori si trovano sempre accoppiati ai recettori NMDA e si
potenziano a vicenda (Lea et al.2002). Gli antagonisti mGluR5, bloccando la
trasmissione accoppiata al recettore NMDA, hanno azione antidepressiva
nell’animale. È meglio, da un punto di vista terapeutico, non bloccare direttamente i
recettori NMDA ma modulare la loro attivazione tramite il blocco dei recettori mGluR
perché in questo modo si previene l’insorgenza di effetti psicomimetici. È stato
provato un modulatore allosterico negativo del mGlu5R, basimglurant
(RO4917523), in uno studio clinico di fase 2 in base ai dati incoraggianti dello studio
di fase 1 e i dati derivanti dagli studi sull’animale. Tuttavia, nell’uomo, il basimglurant
non è risultato efficace nella depressione resistente e lo studio è stato interrotto.
VIA DEGLI SFINGOLIPIDI

Infine alla depressione contribuiscono anche la via degli sfingolipidi e il meccanismo


dell’autofagia.
SFINGOLIPIDI

Sono componenti strutturali della membrana plasmatica e agiscono come molecole


segnale. Tra i più noti ricordiamo il ceramide, il ceramide-1-fostato, la sfingosina, la
sfingosina-1- fosfato. Ci sono farmaci, infatti, che agiscono proprio a livello di queste
molecole come lo Sfingolimod nell’artrite reumatoide, che impedisce ai linfociti T di
entrare nel sistema nervoso. Agiscono anche come molecole segnale e regolano
molti processi vitali per le cellule, come la crescita cellulare, la morte cellulare, o
l’adesione e la migrazione. Regolano anche infiammazione e angiogenesi. L’enzima
sfingomielinasi ha la funzione di metabolizzare la Sfingomielina in ceramide, in forma
di ceramaide e fosfatidilcolina. Tale enzima è collocato a livello della parete lisosomi
e sulla superfice della membrana cellulare. I lisosomi si fondono con la membrana
cellulare e la loro membrana ne diventa parte. Alcuni antidepressivi di classi diverse,
18
come la fluoxetina che è un SSRI, sono in grado, essendo delle basi lipofile, di
accumularsi nei lisosomi e di inibire la sfingomielinasi. Diversi tipi di antidepressivi
quindi sfruttano questo meccanismo, che esita nella riduzione del caramide nelle
membrane cellulari e ad un lento accumulo di sfingomielina. L’accumulo è un
processo lento perché ci sono dei meccanismi di protezione, dunque ci vuole del
tempo affinché si accumuli.
La sfingomielina, quando aumenta, causa
autofagia. Inoltre, il ceramide ha un ruolo
nella depressione, infatti si riduce e quando
viene ridotto nell’ippocampo si ha un
ripristino della neurogenesi indotta da stress.
Nell’animale da laboratorio, sottoponendolo a
stress da contenzione e bloccando la
ceramide, si può valutare nell’ippocampo un ripristino della neurogenesi. Questo
avviene in quanto si è osservato che il ceramide spiazza il colesterolo dalle
membrane impedendone l’azione. Il colesterolo, infatti, fa dimerizzare il recettore
BDNF, che è il TrkB, e permette l’attivazione per il recettore del BDNF, così gli
antidepressivi si legano al TrkB e potenziano l’azione del BDNF.
AUTOFAGIA
Inducendo il recettore del BDNF, un altro degli effetti è ancora l’attivazione
dell’autofagia. La via degli sfingolipidi, infatti, attraverso la sfingomielina determina
un lento accumulo della stessa che porta ad autofagia e ancora, attraverso la
produzione di ceramide, si ha ugualmente l’attivazione dell’autofagia. L’autofagia è
una via catabolica intracellulare che determina la digestione di alcuni suoi
componenti, è attivata da diverse condizioni quali il digiuno, l’ipossia, alcuni farmaci,
le infezioni, la carenza di fattori di crescita e lo stress ossidativo dato dai radicali
liberi. Lo scopo dell’autofagia è fornire dei nutrienti per le funzioni fondamentali della
cellula e allo stesso tempo eliminare quel materiale tossico del citosol che può
essere dannoso per la cellula (organelli danneggiati, mitocondri, aggregati proteici).
Quindi permette anche l’eliminazione degli aggregati e la limitazione della loro
tossicità. Durante lo sviluppo, l’autofagia partecipa alla regolazione di alcune vie
fondamentali del neurosviluppo come la via di Wnt e di Notch, quindi contribuisce al
differenziamento neurale attraverso Wnt e degli astrociti attraverso Notch.
Nell’adulto, l’autofagia accoppiata al sistema dei lisosomi, regola la neurogenesi.
Sembra infatti che sia necessaria per mantenere il pool di cellule staminali neurali
nel cervello; per attivare quelle quiescenti e farle differenziare in mature; per
permettere la sopravvivenza dei nuovi neuroni che si formano e il loro
differenziamento. Lo stress riduce l’autofagia neuronale. Dunque, nella depressione
si ha una riduzione dell’autofagia che si manifesta con una riduzione della
neurogenesi nel giro dentato. La ketamina, che funziona in acuto come
antidepressivo, ha un meccanismo d’azione positivo nella depressione in quanto
induce autofagia. Così come la terapia elettroconvulsiva, che si usa nelle forme di
depressione resistente ai farmaci (c’è un limite di età, l’indicazione per la terapia
elettroconvulsiva esclude i pz con più di 65 anni) e l’attività fisica, infatti nei soggetti
depressi si consiglia di praticarla. Inoltre, il litio è un farmaco che si usa spesso nel
disturbo bipolare e viene aggiunto nella DDM resistente alla terapia.

19
Concludendo, l’autofagia è uno dei processi a valle della via degli sfingolipidi e
sembra chiaramente avere un ruolo nelle alterazioni che contribuiscono a sviluppare
depressione. Dunque, i farmaci che inducono rapidamente autofagia agiscono bene
da antidepressivi con minore latenza d’azione.

Classificazione dei farmaci antidepressivi

I farmaci antidepressivi vengono classificati in base al meccanismo d’azione:


 Triciclici, farmaci più vecchi ma molto efficaci.
 SSRI, inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina.
 SNRI, inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina e della
noradrenalina.
 NARI inibitori selettivi della ricaptazione della noradrenalina.
 NASSA, anitidepressivi specificatamente noradrenergici e serotoninergici.
 NDRI, inibitori della ricaptazione della noradrenalina e dopamina.
 iMAO, inibitori delle monoaminoossidasi.
 Altri antedepressivi non classificati in nessuno di questi gruppi perché hanno
meccanismi diversi: Agomelatina, Trazodone, Vortioxetina.
Triciclici (TCA)

Sono in commercio da molti anni, sono molto efficaci nonostante i loro numerosi
effetti collaterali. Sono indicati nel disturbo depressivo maggiore ma non devono
essere utilizzati nella D. pseudodemenziale e D. atipica in quanto non funzionano.
Inoltre, non bisogna assolutamente utilizzarli nella fase depressiva del disturbo
bipolare in quanto determinano un aggravamento della patologia. Nelle fasi
depressive del disturbo bipolare si possono usare alcuni farmaci antidepressivi ma
mai quelli della classe dei TCA. I triciclici vengono così denominati perché la loro
molecola è costituita da tre cicli. La struttura molecolare è simile tra le diverse
molecole ma le proprietà farmacologiche sono differenti tra le diverse molecole.
Si dividono in composti con struttura dibenzoazepine e dibenzocicloeptadienici.
1.a DIBENZOAZEPINE

Queste molecole sono caratterizzate dai tre cicli in cui l’anello centrale ha
un azoto che è legato ad una catena laterale composta sempre da 3 atomi
di carbonio e termina sempre con un’amina che può essere secondaria o
terziaria. L’amina è terziaria quando legata a due metili o secondaria
quando è legata solo ad un metile e ad un idrogenione.

1.b DIBENZOCICLOEPTADIENICI

Ci sono sempre i tre cicli ma l’anello centrale non ha un azoto, ha un


carbonio legato con un doppio legame ad una catena laterale costituita da
3 atomi di carbonio che termina anche in questo caso con un’amina secondaria o
terziaria.
Meccanismo d’azione

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Il meccanismo d’azione principale degli antidepressivi triciclici è quello di bloccare i
trasportatori di alcune monoamine. Bloccano il NAT e SERT, quindi i trasportatori
della noradrenalina e per la serotonina. Tuttavia, le costanti di inibizione (Ki) sono
molto diverse per le diverse molecole. Il blocco quindi può essere maggiore o minore
a seconda del triciclico. Oltre a bloccare il NAT e il SERT, interagiscono anche con
una serie di recettori e questa azione a livello di una molteplicità di recettori è
responsabile di numerosi effetti avversi. Essi bloccano:
 Recettori H1 dell’istamina con conseguente sonnolenza, sedazione e
aumento ponderale per aumento del senso della fame;
 Recettori alfa-adrenergici, sia alpha1 sia alpha 2, che sono presenti sulla
muscolatura dei vasi e questo causa che quando sono bloccati, determinano
ipotensione ortostatica per cui è necessario misurare la pressione durante
l’inizio della terapia con i triciclici. La titolazione deve avvenire lentamente e
durante il processo bisogna misurare la pressione perché nel momento in cui
si verifica ipotensione significa che stiamo titolando il farmaco molto
velocemente;
 Recettori colinergici, muscarinici, iperespressi a livello sistemico. Pertanto,
causano effetti avversi molteplici: a livello oculare possono causare midriasi
per cui sono controindicati nei pazienti affetti da glaucoma rapidamente
progressivo; a livello gastrointestinale causano disturbi della digestione con
stipsi, riduzione della peristalsi; a livello urinario determinano alterazione della
minzione per cui sono controindicati nei pazienti con vescica neurologica o
affetti da ipertrofia prostatica benisgna; possono causare xerostomia; a livello
cardiaco bradicardia anche se, come vedremo, gli effetti avversi dei triciclici in
questo organo sono principalmente legati al blocco dei canali del Na per cui
presentano attività chinidino-simile causando aritmie. Pertanto, non devono
essere mai somministrati con gli antiaritmici della classe 1a.

Come abbiamo visto, i triciclici possono avere l’azoto legato a due gruppi metilici
(terziaria) o ad un solo gruppo metilico (secondaria). I primi vengono indicati come
composti metilati, mentre i secondi composti demetilati. I composti metilati hanno
una potente azione di blocco a livello del recettore per l’istamina di tipo H1: causano
quindi molta sedazione. Hanno maggiore affinità per SERT e una breve Tmax molto
breve di 1 o 2 ore, per cui impiegano poco tempo per raggiungere la concentrazione
massima risultando più tossici per il cuore e SNC rispetto ai composti demetilati. I
composti demetilati non provocano sedazione perché potenziano soprattutto la
trasmissione noradrenergica rispetto a quella serotoninergica e causano attivazione,
nervosismo, irritabilità, insonnia. Hanno minore affinità per il SERT, quindi
potenziano di meno la trasmissione serotoninergica. È indicato soprattutto nella
depressione inibita in cui si vuole cercare di attivare il paziente.

I triciclici in generale sono farmaci con Basso Indice Terapeutico: le concentrazioni


plasmatiche devono rimanere tra i 100 e 200 ng/ml. Alla concentrazione di 1
microgrammo per ml, quindi soltanto dieci-cinque volte di più rispetto della dose alla
quale sono attivi, diventano tossici: causano tremori, sintomi cardiovascolari,
convulsioni, depressione respiratoria e morte.

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Dibenzoazepine

A questo gruppo appartengono quattro farmaci, due di questi però sono stati revocati
dal commercio in Italia: l’Imipramina e la Desipramina. Sono stati due triciclici a
lungo utilizzati, ma attualmente sono stati revocati per i loro effetti avversi.
1) Imipramina (Tofranil)

Somministrato per os, è stato, insieme alla desipriamina, tra i primi triciclici messi in
commercio ma ad oggi non si utilizzano più in quanto sono stati revocati dal
commercio per la profonda sedazione che provocano, per gli effetti avversi
cardiovascolari e i disturbi della libido. Appartiene al gruppo dei triciclici metilati e la
catena laterale lega un’amina terziaria. È metabolizzata dal CY2C19 in desipramina,
ed agisce come potente bloccante del NAT. Quindi racchiude in sé la capacità di
bloccare il SERT e grazie al suo metabolita, la capacità d bloccante il NAT. E’ un
potente anticolinergico e causa sedazione, effetti cardiovascolari, disturbi sfera
sessuale e aumento ponderale: effetti collaterali abbastanza comuni ai triciclici e in
generale ai farmaci antidepressivi.
2) Desipramina (Nortimil)

Come detto in precedenza, la desipramina è stata revocata dal commercio. Essa


appartiene al gruppo dei tricicilici demetilati in quanto la catena laterale è legata ad
un’ammina secondaria. È metabolizzata dal CYP2D6 in un metabolita inattivo.
Agisce bloccando il NA, causando come effetti collaterali nervosismo, agitazione.
Viene somministrato per os.
3) Clomipramina (Anafranil)

È un triciclico piuttosto utilizzato. È una ammina terziaria e presenta una maggiore


affinità per il SERT; inoltre blocca 5-HT2a e questo ha un effetto positivo sulle turbe
del sonno e sull’orgasmo. Causa un medio blocco dei recettori H1 con conseguente
sedazione, sonno, aumento dell'appetito. Inoltre, ha un’alta affinità per i recettori
alfa1 adrenergici determinando ipotensione ortostatica; infine agisce come
anticolinergico. Viene metabolizzato dal CYP2C19 in desmetilclomipramina che è
potente inibitore del trasportatore della noradrenalina NAT, a sua volta metabolizzata
dal CYP2D6. L’eliminazione avviene per via biliare. Pur essendo un vecchio
farmaco, spesso risulta efficace già a dosaggi molto bassi (circa 30mg; si inizia con
10-25 mg/die, negli anziani con basso peso anche 5 mg/die; si mantengono bassi
dosaggi per evitare l’insorgenza di effetti collaterali 20-75 mg per 2 mesi prima di
aumentare al bisogno) riducendo così gli effetti collaterali. Rispetto agli altri TCA ha
minori effetti negativi sulla sfera sessuale, in quanto blocca anche i recettori 5HT2a
che sono maggiormente implicanti nella riduzione della libido e dell’orgasmo
allungando il tempo necessario per raggiungerlo. È efficace nella depressione
refrattaria, così come la tranilcipromina, un inibitore delle MAO che è possibile
trovare all’estero ma non più in Italia, quindi si deve ordinare all’estero. La
clomipramina inoltre è stato il primo farmaco efficace nel disturbo ossessivo-
compulsivo. Un tempo era classificato come un disturbo d’ansia, oggi è un disturbo a
sé. Al soggetto si presentano una parte ossessiva, cioè un’idea ripetitiva e sempre
uguale che gli impedisce di svolgere la normale attività quotidiana, e una parte
compulsiva, ossia il comportamento che il soggetto mette in atto per realizzare
questa idea che si manifesta in maniera preponderante affinché cessi.
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L’efficacia come antidepressivo, come validato da alcuni studi, può essere dedotta
dal minor rischio di suicidio per overdose con clomipramina nei pazienti trattati con
questo TCA. Tra le diverse modalità di suicidio esiste appunto quella di overdose da
antidepressivi. La clomipramina ha il rischio più basso, tale rischio può variare anche
di 10 volte tra le diverse molecole, perciò questo dettagli rende la clomipramina un
buon antidepressivo. Viene somministrato per os.
4) Trimipramina (Surmontil)

È un TCA metilato somministrato in compresse e anche in forma di gocce orali. È


un’ammina terziaria, blocca il SERT, ma funziona anche come antagonista 5- HT2a.
Inoltre la trimipramina agisce come antagonista D1 e D2 e se somministrato in
cronico ha anche effetto antipsicotico. Inibisce, inoltre, la secrezione di cortisolo e
quindi è efficace negli attacchi di panico, dove generalmente vengono utilizzati
principalmente gli SSRI in quanto TCA presentano maggiori effetti collaterali ad
eccezione della trimipramina. Blocca i recettori H1 e alfa1 adrenergici inducendo
sonnolenza e ipotensione. Per questo motivo viene somministrato a basso dosaggio
(10-50 mg) soprattutto nei disturbi del sonno legati a depressione e può essere
preso insieme ad altri antidepressivi, preferibilmente la sera prima di coricarsi; a
dosaggi intermedi (50-200 mg) nella depressione che si associa a inappetenza o
insonnia; a dosaggi alti (200- >300mg) viene utilizzato nella depressione psicotica in
quando a questi dosaggi agisce come antagonista dei recettori D2.
Dibenzocicloeptadienici

1) Amitriptilina (Laroxyl o Triptizol)

È il farmaco attualmente più utilizzato tra i TCA. È un’ammina terziaria che agisce
come anticolinergico, antimuscarinico e antistaminico, molto sedativo. Blocca i
recettori alfa1 adrenergico causando ipotensione e congestione nasale. Viene,
raramente, usato da solo perché risulta efficace solo ad alti dosaggi con molti effetti
collaterali. Quindi si somma ad altri antidepressivi. Si prescrive, infatti, nelle
depressioni con insonnia la sera, associato ad altri antidepressivi.
È efficacie nei pazienti con dolore neuropatico. Si utilizza nella nevralgia del
trigemino, nel dolore post-erpetico e nella neuropatia diabetica. Viene, inoltre,
utilizzata nelle profilassi dell’emicrania e nelle cefalee croniche (oggi un po’ meno). È
metabolizzata dal CYP2C19 in un metabolita attiva, la nortriptilina che è presente in
commercio anche come farmaco. Il dosaggio varia a seconda dell’indicazione
terapeutica:
 Depressione: si somministrano inizialmente 20-30 mg/die sino ad arrivare a
200-250mg/die.
 Profilassi emicrania: 30-50 mg/die. Bambini (età > 12 anni): 0,25-1 mg/kg/die.
 Dolore neuropatico: 25-150 mg/die. Iniziare con 25 mg/die alla sera, da
incrementare con cadenza settimanale per almeno 6-8 settimane.
 Insonnia in pz depressi: 10-50 mg/die prima di coricarsi.
La regola generale per tutti gli antidepressivi è quella di iniziare la terapia a dosaggi
molto bassi e titolare lentamente la dosa per evitare l’insorgenza degli effetti
collaterali.
2) Nortriptilina (Noritren, Norcapto)

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Sono famaci molto vecchi, infatti in commercio si trovano anche i generici. È
un’ammina secondaria con una più debole azione anticolinergica e anti alfa-
adrenergica più debole. Al contrario, è un potente agonista noradrenergico ed è
molto efficace nella depressione con astenia, apatia, mancanza di motivazione
agendo principalmente a livello del NAT. Può essere associata agli SSRI perché
NON potenzia trasmissione 5-HT la quale potrebbe portare alla sindrome
serotoninergica. È spesso usata infatti la combinazione con Sertralina. È un farmaco
abbastanza sicuro, infatti ha il più basso fatal toxicity index (FTI) tra gli antidepressivi
(5 morti/1 milione prescrizioni), seguito da clomipramina (12/1 milione). Viene
metabolizzata dal CYP2D6 che come il CYP2D6 presenta diversi polimorfismi.
Attenzione: clomipramina e amitriptilina sono metabolizzate dal CYP2C19 in
metaboliti attivi potenti bloccanti del NAT, che a loro volta sono inattivati dal
CYP2D6. I pazienti, per fortuna pochi, che sono dei metabolizzatori veloci CYP2C19
(5-30%) e contemporaneamente CYP2D6 lenti (10%), hanno rischio di accumulo del
metabolita attivo con conseguente tossicità. Non si dovrebbero dare a pazienti in cui
alberga sia l’isoforma veloce del CYP2C19 che lenta del CYP2D6 perché ad alto
rischio di EA.
Interazioni fra farmaci:
 Controindicata associazione con antiaritmici di tipo chinidinico, della classe
1a, in quanto sia questi ultimi sia i TCA bloccano i canali del Na+; per tale
motivo una loro associazione risulterebbe cardiotossica.
 Controindicata associazione con iMAO per la possibilità di gravi effetti
collaterali. Andando a potenziare la trasmissione monoaminergica, questi
farmaci se combinati con iMAO possono scatenare ipertermia, convulsioni,
crisi ipertensive, mioclono, agitazione, delirio,coma. L’unico iMAO
antidepressivo rimasto in commercio in Italia era il Parmodalin
(tranilcipromina + trifluperazina), per la depressione severa farmacoresistente
in cui non è indicato elettroshock. Infatti nelle depressioni farmacoresistenti si
può usare l’elettroshock ma non tutti i pazienti possono farlo, nei pz non
candidati all’elettroshock si usava il Parmodalin. Dal 2019 non è più in
commercio in Italia ma può essere importato da altri paesi ordinandolo
all’estero.
 Per passare da un TCA a un iMao (ad esempio in un pz che non risponde al
TCA) devo interrompere la terapia con TCA e dopo 2 settimane, poi posso
dare iMAO. Questa risulta essere la tecnica più sicura.
 Se un pz è in terapia con TCA da alcuni mesi e non è ben controllato, si può
aggiungere un iMAO, perché gli effetti collaterali dei TCA vanno in tolleranza
con il tempo e questo ci dà la possibilità di dare un iMAO senza esacerbare
gli effetti collaterali. Rimane tuttavia una scelta pericolosa e non consigliata.
 Se pz è in terapia con iMAO, non posso MAI aggiungere un TCA, perché e
l’aggiunta di TCA potenzia al massimo la trasmissione amminergica
(serotonina e noradrenalina) senza che questi neurotrasmettitori possano
essere metabolizzati correttamente in quanto il pz avrà le MAO bloccate. Per
cambiare, devo sospendere gli iMAO, aspettare un tempo doppio, almeno 4
settimane, e poi dare TCA. Rimane comunque un’evenienza difficile in quanto
l’unico iMAO ancora disponibile per tale terapia è indicato solo nella
depressione farmacoresistente e in cui non è attuabile l’elettroshock.
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 L’associazione con SSRI si può fare, ma preferire TCA con bassa affinità per
SERT al fine di evitare un aumento eccessivo serotonina e, con essa, il
rischio di una sindrome serotoninergica.
 Altri farmaci che potenziano la trasmissione serotoninergica sono:
 Tramadolo, oppiaceominore;
 Fentanil, oppiaceomaggiore;
 Linezolid, antibiotico debole inibitore delle MAO.
 TCA inibiscono il metabolismo epatico dei farmaci cumarinici (Warfarin e
congeneri) aumentando l’effetto anticoagulante e quindi il rischio emorragico.
TCA: effetti collaterali

Derivano proprio dal blocco recettoriale:


 Anticolinergici (legati al blocco dei recettori muscarinici): secchezza delle
fauci, sudorazione, stipsi e visione offuscata.
 Gastrointestinali (legati sia al blocco dei muscarinici sia ad altri meccanismi
del farmaco): nausea, vomito e diarrea. Quest’ultima, talvolta, si oppone alla
stipsi causata dall’effetto anticolinergico.
 Dermatologici: rash cutanei, orticaria, fotosensibilità e prurito.
 Cardiovascolari: ipotensione posturale, tachicardia riflessa (legata al blocco
muscarinico), aritmie (legate al blocco correnti Na+, sono le più pericolose) e
aumento della pressione.
 Endocrini: aumento del peso corporeo e disturbi della libido.
 Ematologici: casi isolati di leucopenia, raramente agranulocitosi,
trombocitopenia, eosinofilia e porpora.
 Psichiatrici: sonnolenza o insonnia, aumento dell'appetito, confusione
mentale (quest’ultima soprattutto nei pazienti anziani o con morbo di
Parkinson), stati ansiosi, mania, aumentano l’aggressività e causano vuoti di
memoria.
 Neurologici: vertigini, tremori, cefalee, delirio, disturbi della parola,
parestesie, debolezza muscolare, ipertonia muscolare, abbassamento soglia
convulsioni e mioclono.

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INIBITORI MAO (MONOAMMINOSSIDASI)


Nel parlare di questi farmaci bisogna prima di tutto
distinguere gli iMAO in: inibitori selettivi delle
MAOb che vengono utilizzati esclusivamente nel
morbo di Parkinson e gli iMAO non selettivi (che
quindi vanno ad inibire sia le MAOa che le MAOb)
che vengono utilizzati come antidepressivi. Questi
ultimi vanno quindi ad aumentare il tono
noradrenergico, serotoninergico e, in misura
minore, anche dopaminergico.
Le MAO di tipo A metabolizzano prevalentemente la
noradrenalina e la serotonina; dunque, la loro
inibizione potenzia la neurotrasmissione
noradrenergica e in parte quella serotoninergica.
Attualmente in Italia non sono in commercio gli inibitori delle MAO non selettivi, cioè gli antidepressivi.
Fino a poco tempo fa era in commercio la Tranilcipromina. Attualmente questa in Italia non può essere
venduta, ma, essendoci pazienti che sono ancora oggi in terapia con questo farmaco, viene importata
dall’estero, da quei paesi in cui è ancora legale la sua vendita. La Tranilcipromina è un farmaco importante
in quanto è un antidepressivo molto potente, che funziona in quei tipi di depressione resistenti alle altre
terapie.
Meccanismo d’azione
Le MAO sono delle flavoproteine che utilizzano come
cofattore la flavina-adenina-dinuclotide (FAD), sono fissate
alla membrana esterna dei mitocondri e INATTIVANO le
AMINE ENDOGENE ED ESOGENE una volta che queste
vengono rilasciate dalla vescicola sinaptica. Dunque, nel
momento in cui i neurotrasmettitori monoaminergici vengono
rilasciati dalla vescicola sono disponibili per le MAO che
possono porre fine alla loro attività prima ancora che questi
fuoriescano dalla terminazione nervosa. La diminuzione della
concentrazione citoplasmatica delle monoammine a seguito
della loro ossidazione da parte delle MAO potenzia la
liberazione spontanea delle amine, tra cui anche le amine simpaticomimetiche indirette (amfetamina e
tiramina), che vengono rilasciate in maniera non quantica, il che porta il terminale sinaptico ad “esaurire
le scorte” del neurotrasmettitore. Quindi, inibire le monoammino-ossidasi significa potenziare la
trasmissione monoaminergica.
Quando si fa uso degli iMAO non si possono abbinare sostanze come anfetamina e tiramina perché sono
riconosciute dai trasportatori sinaptici e vescicolari dell’Adr e della NA. L’Amfetamina si porta nelle
vescicole sinaptiche facendo uscire NA e Adr, determinando iperattivazione del simpatico. La Tiramina
presenta dei meccanismi analoghi ed, essendo contenuta in molti cibi (alcuni formaggi ad esempio),
necessita un’attenzione speciale per la dieta nel pz che fa uso di iMAO.

TRANILCIPROMINA
È l’unico iMAO utilizzabile nella terapia della depressione. Essa viene commercializzata in associazione
alla Trifluoperaziona (un antipsicotico utilizzato nella schizofrenia) con il nome commerciale di
Parmodalin.
Si dà x OS alla dose di 10-40 mg/die ed ha un’indicazione ristretta per quei pazienti con disturbo
depressivo maggiore non responsivi alle altre terapie disponibili e per i quali è controindicato
l’elettroshock. L’elettroshock, come già detto altre volte, è una terapia non farmacologica molto efficace

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nella depressione resistente che presenta però due controindicazioni importanti, due classi di pazienti in
cui non può essere effettuata: Pz> 65aa e pz con eventi cerebrovascolari pregressi.

Associazione iMAO e altri antidepressivi


Gli iMAO NON devono essere associati con altri antidepressivi che potenziano la trasmissione
monoaminergica per il rischio aumentato di effetti collaterali. Dunque, se un pz è in terapia con gli iMAO
e si vuole cambiare la terapia, anziché associare altri farmaci, vanno attese almeno 4 settimane da quando
si è sospeso l’iMAO (perché le MAO rimangono inibite per un certo periodo), per passare ad un altro
antidepressivo .
Non si deve mai associare agli iMAO gli SSRI e gli SNRI. Si potrebbe fare un’associazione TCA+iMAO se si
iniziano contemporaneamente, perché entrambi i farmaci hanno bisogno di un certo periodo prima di
agire e in quel lasso di tempo vanno in tolleranza gli effetti collaterali (non è comunque consigliabile
iniziare la terapia contemporaneamente). [Questi ultimi concetti, espressi già in precedenza, sono scritti
nuovamente per sicurezza]
Effetti Collaterali
-NEUROPSICHICI: essendoci un potenziamento della trasmissione serotoninergica e noradrenergica
daranno: disinibizione, aumento aggressività (nei primi giorni di terapia), tremori, eccitazione e insonnia.
In caso di sovradosaggio possono presentarsi anche convulsioni.
-CARDIOVASCOLARI: disturbi di conduzione atrio-ventricolare, e un aumento del rischio di ipertensione.
ma anche crisi ipotensive (quest’ultime causate però da meccanismi differenti dall’aumento del tono
simpatico).
-IPOTENSIONE: il potenziamento eccessivo della trasmissione noradrenergica può portare a crisi
ipertensive ma, in alcuni casi, può condurre all’esatto opposto, ovvero può indurre ipotensione. La
prevalenza di uno o dell’altro effetto dipende da quale tipo di trasmissione prevale. A livello dei gangli del
simpatico, sul neurone presinaptico, sono presenti dei recettori α2, che sono accoppiati a proteine Gi.
Dunque, se questi sono attivati, in sede presinaptica, vanno ad inibire il rilascio del neurotrasmettitore
(che ricordiamo essere per tutti i gangli l’acetilcolina, indipendentemente che sia un ganglio simpatico o
parasimpatico [non si sta parlando del neurotrasmettitore FINALE, quello che dal ganglio va a livello
periferico, ma proprio di quelli liberato nel ganglio e che poi farà partire quello finale]). L’adrenalina,
quindi, va a inibire attraverso gli α2 il rilascio di acetilcolina e si avrà anche una diminuzione del rilascio di
noradrenalina da parte dei neuroni del sistema nervoso simpatico, causando ipotensione. Si avrà, quindi,
ipertensione o ipotensione a seconda di che tipo di attivazione recettoriale predomina: se domina
l’attivazione degli α2, si avrà allora ipotensione.
-EFFETTI ATROPINO-SIMILI: legati al loro effetto di potenziamento della trasmissione noradrenergica e
quindi al calo del tono parasimpatico conseguente all’aumento di quello simpatico. Questo perché l’SNA
è in equilibrio tra le sue due branche, simpatica e parasimpatica; quindi, potenziando una branca l’altra
verrà inibita. Gli effetti più comuni di inibizione del parasimpatico sono: secchezza delle fauci
(xerostomia), offuscamento della vista e alterazione del riflesso di accomodazione, difficoltà digestiva e
stipsi, ritenzione urinaria e irrequietezza.
-CHEESE REACTION: grave crisi ipertensiva con cefalea pulsante di intensità severa e, in casi rari,
emorragia intracranica dovuta alla contemporanea assunzione di iMAO e ingestione di cibi contenenti
Tiramina come: i formaggi stagionati, cioccolata, aringhe, frutta secca, vino rosso, insaccati e conserve
sottaceto. La Tiramina è un’ammina che spiazza le monoammine dalle vescicole sinaptiche,
determinandone un aumento di concentrazione nelle sinapsi, tutto ciò equivale ad un’iperattivazione del
simpatico. Dunque, il pz che fa terapia con gli iMAO deve fare attenzione alla dieta perché se assume i cibi
contenenti Tiramina può andare incontro alla reazione detta sopra. La quantità di Tiramina contenuta in
questi cibi è molto piccola e quindi in coloro che non assumono iMAO tali effetti avversi non sono
osservabili ma, bloccando il metabolismo delle monoammine, anche il più piccolo aumento della
trasmissione monoamminergica risulta amplificato.

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INIBITORI SELETTIVI DEL RE-UPTAKE DELLA SEROTONINA (SSRI)

Gli SSRI sono un'altra classe di farmaci utilizzabili


nella terapia della depressione. Tra questi
troviamo:Fluoxetina (Prozac®: è il primo SSRI che
è stato messo in commercio. Utilizzato
moltissimo, soprattutto negli USA e anche qui in
Italia, anche dopo l’immissione in commercio
degli altri SSRI), Citalopram (Elopram®),
Fluvoxamina (Maveral®) , Sertralina (Zoloft®),
Paroxetina (Sereupin®), Escitalopram (Entact®: è
l’enantiomero S del Citalopram).

Differenze degli SSRI rispetto agli antidepressivi


triciclici.
Sono selettivi per la ricaptazione della serotonina, dunque non interferiscono significativamente con la
ricaptazione della NA e non hanno, a differenza dei triciclici, importanti interazioni con i recettori
adrenergici, istaminici, muscarinici.
Meccanismo d’azione e diversi sottotipi di recettori
Gli SSRI vanno a bloccare i SERT (trasportatore che
riporta la serotonina nel neurone presinaptico,
riducendone la presenza nello spazio sinaptico)
andando così ad aumentare il tono
serotoninergico.
La serotonina sarà quindi in grado di attivare i suoi
recettori distribuiti nei vari distretti del corpo. Sono
presenti in:
-T. Nervoso: sono ampiamente distribuiti nel SNC
ma sono presenti anche nell’SNP, in particolare a
livello del Plesso mioenterico;
-Altri tessuti: Tratto GI, piastrine (su di esse è
espresso il 5-HT2A, che media l’aggregazione
piastrinica), sui Leiomiociti vasali e bronchiali e su alcune cellule del SI.
Essendoci un’ampia distribuzione di questi recettori su vari organi è facile immaginare come questi
coprano moltissime funzioni all’interno del nostro corpo.

I recettori serotoninergici sono di vario tipo e vengono identificati con la sigla 5-HT (che corrisponde alla
IdrossiTriptamina, cioè la serotonina) seguita da un numero e una lettera (che descrive il sottotipo
recettoriale).
Nel dettaglio:
-> i recettori 5-HT 1A, 5-HT 1B, 5-HT 1D e 5-HT 5 sono associati a proteina Gi andando a inibire la PKA
causando una riduzione del cAMP. (I sottotipi del 5-HT 1 sono dall’A alla F, ma qui ne sono riportati solo
3);
-> i recettori 5-HT 2A, 5-HT 2B e 5-HT 2C sono associati a Gq con seguente aumento del Ca2+ intracellulare,
seguito da aumento del DAG e IP3 e tutte le reazioni legate alla trasduzione intracellulare del segnale;
-> i recettori 5-HT 3A e 5-HT 3B sono recettori ionotropici, che facendo entrare Na+ e, in misura minore,
Ca2+, vanno a causare una depolarizzazione della cellula (quando ciò accade si ha l’attivazione del
neurone in cui sono espressi tali recettori, a seguito della depolarizzazione). Sono, in particolare, espressi
nei neuroni dopaminergici presenti nel centro del vomito.
-> i recettori 5-HT 4, 5-HT 6 e 5-HT 7 sono invece associati a proteina Gs con successivo aumento del
cAMP.

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5-HT 1A
I recettori 5-HT 1A sono prevalentemente degli
autorecettori, ossia sono situati in sede
presinaptica, prevalentemente sul soma e sui
dendriti di neuroni che hanno lo stesso
neurotrasmettitore che è l’agonista di questi
recettori, cioè la serotonina (in breve si trovano
sui neuroni presinaptici serotoninergici). Se
attivati, gli autorecettori, essendo accoppiati a Gi, vanno a ridurre la frequenza di scarica del neurone
stesso, mostrando una chiara funzione autoregolatrice. Possono trovarsi anche in sede post-sinaptica.
Sono senza dubbio i recettori per la 5-HT più espressi in tutto il corpo e sono particolarmente presenti nel
SNC e nel Plesso Mioenterico. La loro funzione è quindi quella di ridurre la frequenza di scarica dei neuroni
serotoninergici, come detto, con conseguente depressione generale del SNC.
Esistono dei farmaci agonisti di tali recettori e prendono il nome di Pironi. Tra questi riscontriamo il
Buspirone, il Gepirone e l’Isapirone che sono tutti agonisti parziali selettivi e sono degli ansiolitici che
presentano una struttura NON benzodiazepinica (i farmaci più utilizzati per l’ansia sono le BZP, che sono
ipnotici sedativi, ansiolitici, miorilassanti e antiepilettici). I Pironi sono un’altra classe di farmaci utilizzati
come ansiolitici in quanto, essendo agonisti dei 5-HT 1A, attivando tale recettore, spengono i neuroni
serotoninergici determinando un calo dell’ansia. Anche l’Ergotamina ne è un agonista parziale non
selettivo; attualmente in Italia non è più in commercio, veniva utilizzata nella profilassi dell’emicrania.
5-HT 2
I recettori 5-HT 2 si trovano nel SNC e in particolare li
troviamo nella corteccia, sulle cellule piramidali, e nel
sistema limbico, mentre, fuori dal SNC, li troviamo su
leiomiociti vasali e piastrine. In particolare, il recettore 5-
HT2A media la selezione degli stimoli sul rumore di fondo:
quando questi recettori sono attivati sui neuroni piramidali
della corteccia, gli stimoli sensitivi che giungono a questa
stazione tramite le afferenze talamiche sono selezionati sul
rumore di fondo. I recettori 5-HT 2C si trovano
nell’ipotalamo e regolano il meccanismo della fame e della
ricerca di cibo.
Sono presenti sia sulla membrana pre che postsinaptica e, una volta attivati, vanno a facilitare il rilascio
di glutammato e GABA. Causano inoltre, essendo associati a Gq, contrazione del muscolo liscio vasale (e
dunque vasocostrizione) e aggregazione piastrinica.
Le sostanze che fungono da agonisti del recettore 5-HT2A sono: alcuni derivati dell’ergot, come l’LSD
(agonista parziale), che è un allucinogeno in quanto attivando contemporaneamente tutti i recettori 5-
HT2A fa perdere la funzione di filtro di tali recettori, dando allucinazioni; la psilocibina e la psilocina,
contenute nei funghetti (allucinogeni anch’essi) e la mescalina, prodotta da una pianta grassa, che è il
Peyote, utilizzata dagli indigeni sudamericane proprio per le sue capacità allucinogene.
Sostanze che attivano i recettori 5-HT2 si trovano anche nella cute di alcune specie di rospo e anch’esse
sono in grado di dare allucinazioni (da questo deriva la favola della principessa che baciando il rospo lo
trasforma in principe azzurro: in realtà è un’allucinazione).
Vi sono numerosi farmaci antagonisti di tali recettori: metisergide, ciproeptadina, ketanserina, pizotifene
e non selettivi come ad esempio la clozapina, antipsicotico atipico che oltre a bloccare i D2 agisce anche
su questi recettori.
5-HT3
I recettori 5-HT 3 sono ionotropici e nel 70-80% dei casi si trovano sul terminale presinaptico. Li ritroviamo
in diverse zone del SNC come il nucleo del trigemino, l’ippocampo, l’amigdala, l’area postrema ma,
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soprattutto, nella corteccia dove li riscontriamo sugli interneuroni GABAergici (che hanno anche la
colecistochinina CCK), fondamentali modulatori dell’attivazione piramidale. Sono anche presenti nel SNP
a livello del Plesso Mioenterico. Essendo ionotropici, una volta attivati, causano risposte eccitatorie
rapide. Sono coinvolti nella stimolazione sensoriale (ad esempio la nocicezione) e tendenzialmente
modulano positivamente la liberazione di neurotrasmettitori da parte del neurone che stimolano.
Per quanto riguarda la nocicezione, si ricordi che la serotonina è utilizzata principalmente dalle vie
discendenti nocicettive ed è in grado di ridurre la percezione del dolore. Se la serotonina però lega i
recettori 5-HT3, che sono attivatori (in quanto determinano l’apertura dei canali del Na+, causando
depolarizzazione e conseguente attivazione del neurone), favorisce la percezione del dolore.
La differenza tra i recettori ionotropici e metabotropici è il tempo che impiegano per generare un effetto,
perché quelli ionotropici, essendo dei canali, sono molto più veloci, in quanto basta la loro apertura o
chiusura per mediare gli effetti. I metabotropici invece, essendo associati a enzimi, richiedono più tempo
perché deve avvenire tutta la cascata enzimatica per poter generare delle risposte. I recettori 5-HT3 sono,
quindi, in grado di generare delle risposte molto rapide, per la maggior parte delle volte di tipo eccitatorio,
a differenza dei recettori metabotropici, che danno delle risposte più lente.
I 5-HT3 sono legati all’attivazione dei neuroni dopaminergici del centro del vomito al livello ipotalamico.
La dopamina qui rilasciata determina l’attivazione del centro del vomito. Sostanze agoniste di tali
recettori, quindi, non hanno alcun potere terapeutico in quanto sono ematogene e ansiogene. Poiché
questi recettori sono molto espressi nel centro del vomito, esistono farmaci con azione antagonista che
vengono utilizzati per trattare il vomito incoercibile da chemioterapici: i Setroni, tra cui annoveriamo il
Granisetrone, l’Ondansetrone e il Tropisetrone (es. terapia con Ondasetrone nella terapia antiemetica per
pz con carcinoma polmonare trattati con Cisplatino).
Su questi recettori espletano la loro azione farmaci quali: antipsicotici,
ansiolitici, antiemetici e farmaci impiegati nel trattamento della sindrome
del colon irritabile (IBS). L’IBS, infatti, a volte può essere trattata con gli
SSRI e parte dell’efficacia di tali farmaci su questa patologia è data proprio
dall’attivazione dei recettori 5-HT3 nel plesso mioenterico, nel quale sono
molto espressi.

I 5-HT 3 sono dei recettori molto polimorfi e tali polimorfismi sembrano


implicati nella predisposizione genetica verso diverse patologie quali:
-Disturbi psichiatrici (Depressione, Ansia e Schizofrenia);
-Disturbi dell’alimentazione (in particolare la Bulimia);
-Emesi;
-Nocicezione (perché se è presente un polimorfismo con guadagno di
funzione di tali recettori si ha un aumento della percezione dello stimolo
del dolore);
-Motilità Gastro-Intestinale (IBS) (un polimorfismo dei 5-HT3 può determinare un aumento della
suscettibilità per questa patologia);
-Sensibilità Viscerale.
Per tali ragioni, attualmente sono in fase di studio clinico alcuni antagonisti dei 5-HT3 con lo scopo di poter
essere utilizzati nelle patologie suddette.

5-HT 4
I recettori 5-HT 4 presentano un’attività costitutiva, cioè sono attivi anche senza che vi si leghi la
serotonina. Sono localizzati principalmente a livello del tratto gastro-intestinale e, in misura minore, nel
SNC. Se attivati a livello GI, causano principalmente una stimolazione della peristalsi; quando attivati sul
terminale presinaptico, causano un aumento del rilascio di Ach.
Due agonisti di questi recettori sono la Cisapride (attualmente non più in commercio) e la
Metoclopramide (Plasil), un procinetico che ha una molteplicità di azioni. Oltre ad essere una agonista
dei 5-HT4 è anche un’antagonista dei 5-HT 3 e dei D2 e D1 (recettori dopaminergici). Sempre la
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Metoclopramide ha un’attività procinetica a livello GI, indipendente dal vago, ma inibita comunque dagli
antagonisti muscarinici. Con la Metoclopramide, a livello gastrico e duodenale, aumentano sia il tono
della muscolatura che l’ampiezza delle contrazioni; tali aumenti si notano meno procedendo distalmente
lungo il tubo digerente. Aumenta anche il tono dei 3° medio e inferiore dell’esofago mentre si rilassano
il piloro e il bulbo duodenale con diminuzione della pressione sfinterica. Come effetto finale di tutto ciò,
si ha un’accelerazione dello svuotamento gastrico e una riduzione del reflusso duodenale verso lo
stomaco ed il duodeno. Tale farmaco per questa pletora di effetti suddetti, è buono per far cessare sia il
vomito che la nausea.

Da wikipedia azione del metoclopramide: La sua azione antiemetica è dovuta alla sua attività antagonista nei confronti dei
recettori D2 nella zona chemorecettoriale trigger (CTZ) del sistema nervoso centrale (SNC). Questa attività blocca la nausea e
il vomito innescati dalla maggior parte degli stimoli. A dosi elevate, la sua azione 5-HT3 antagonista sembra possa ulteriormente
contribuire all'effetto antiemetico.
L'attività gastroprocinetica della metoclopramide è mediata dalla sua azione muscarinica, dall'attività antagonista del recettore
D2 e dell'attività agonista del recettore 5-HT4. L'effetto gastroprocinetico stesso può ulteriormente contribuire all'azione
antiemetica.

Facendo rilasciare serotonina, che lega i recettori 5-HT4, gli SSRI determinano stipsi e quindi possono
essere utilizzati nell’IBS quando questo è associato a diarrea (l’IBS può avere due “fenotipi”, o
prevalentemente con diarrea o con stipsi). I farmaci che stimolano i 5-HT 4 possono essere anche usati
per ottenere un’azione procinetica, o per ricercare degli effetti pro-c cognitivi.

Altre funzioni della serotonina


Nelle piastrine il recettore della serotonina più
espresso è il 5HT-2A che media l’aggregazione
piastrinica, facilitando la formazione del trombo,
che può essere una fisiologica occlusione del
vaso, cioè favorisce l’emostasi, oppure in alcuni
casi può favorire un’occlusione patologica. In
seguito ad un insulto vascolare segue
l’aggregazione piastrinica che causa liberazione
di serotonina. Questa va ad attivare i suoi diversi
recettori causando effetti diversi e talvolta
contrapposti.
L’azione a livello della regolazione dell’emostasi
è mediata dalla serotonina attraverso:
- i 5-HT 2A, che danno aggregazione piastrinica
ma anche vasocostrizione, il che peggiora la
cosa perché riduce ulteriormente il calibro vasale e quindi favorisce l’occlusione.
- La serotonina attiva anche i 5-HT 1 che causano liberazione di NO dall’endotelio vasale causando
vasodilatazione e contrastando i meccanismi suddetti che portano all’occlusione del vaso leso. A
seconda di quale dei due meccanismi prevale, avremo effetti differenti.

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I recettori serotoninergici si trovano anche nel
sistema cardiovascolare. A livello cardiaco la
serotonina agisce principalmente attraverso
due recettori:
- i 5-HT 4, che sono espressi sui cardiomiociti e
la cui attivazione determina tachicardia,
- i 5-HT 1B e 5-HT1D che invece si trovano sui
neuroni simpatici, in sede presinaptica, e
inibiscono il rilascio di noradrenalina a livello
del cuore.
L’azione a livello cardiaco è bilanciata da un
aumento della frequenza, mediato da 5-HT4, e
da una riduzione della stessa, mediata invece da
5-HT1B e D.
A livello dei vasi, invece, sull’endotelio si hanno
i 5-HT 2B che, essendo accoppiati a Gq il quale determina l’aumento di Ca2+ intracellulare, determinano
l’attivazione della NOS endoteliale con produzione di NO, che essendo un gas diffonde fino alla
muscolatura liscia dei vasi inducendone il rilascio e, dunque, inducendo vasodilatazione. Quindi se sono
attivati i 5-HT2B si ha Vasodilatazione.
Invece, sulla muscolatura liscia dei vasi sono presenti:
- il 5-HT1B, che è accoppiato a Gi e che, dunque, determina vasocostrizione.
- i 5-HT2A, accoppiati a Gq, che determinano aumento del Calcio libero nelle cellule muscolari dei vasi,
portando a vasocostrizione.
La differenza tra 2A e 2B è che, pur essendo entrambi accoppiati a Gq sono situati su cellule differenti,
portando ad attivazione di pathways diversi, che conducono praticamente ad effetti opposti. L’effetto
della serotonina sui vasi, dunque, dipende da quale recettore prevale, se l’azione del 2B o quella degli 1B
e 2A. Non tutti i vasi esprimono questi recettori in egual quantità: in alcuni vasi prevalgono certi tipi e in
altri vasi ne prevalgono altri. Sulle coronarie prevalgono i 2A. Il motivo per cui i triptani non possono
essere somministrati nei pz con patologia coronarica è perché potrebbero causare vasocostrizione
legandosi ai recettori 5-HT2A. I triptani hanno una maggiore affinità per i recettori 5-HT1, ma possono
legare anche altri recettori e, se legano i 2A sulle coronarie di pz che soffrono di patologie coronariche, i
quali sono molto più sensibili anche a piccole variazioni della contrazione della muscolatura liscia, si può
provocare angina.
Ancora, la serotonina agisce come regolatore del sistema cardiovascolare, anche tramite dei recettori che
si trovano nella midollare del surrene, ovvero i 5-HT2, che sono accoppiati a Gq e che favoriscono il rilascio
di adrenalina (aumento dell’adrenalina circolante-> attivazione del simpatico).

Effetti avversi SSRI


Essendo i recettori così ampiamente distribuiti nel nostro organismo, l’utilizzo degli SSRI, nonostante sia
benefico per il trattamento della depressione, comporta diversi effetti collaterali.
Tra questi annoveriamo:
• Disturbi GI: sono i più frequenti e sono crampi addominali, nausea, disfagia, stipsi e alterazione del
transito;
• Emorragie (per azione sulle piastrine e sul calibro dei vasi, a seconda di cosa prevale). Ciò accade in
quanto le piastrine, non avendo il nucleo, non sono in grado di sintetizzare la serotonina che serve loro
per aggregarsi e quindi, per poterla utilizzare nel momento in cui sono attivate, la devono captare dal
sangue e per farlo utilizzano il SERT (quello che gli SSRI bloccano). Se un pz fa terapia con gli SSRI ha il SERT
bloccato, le piastrine non possono prendere ed immagazzinare la serotonina, non potendola così neanche
rilasciare al momento della loro attivazione. In questo modo aggregano di meno e, dunque, aumenta il
rischio di emorragia.
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• Aumento ponderale, per azione sul centro della fame ipotalamico (I triciclici determinano un maggior
aumento ponderale rispetto agli SSRI). Il recettore della serotonina localizzato in questa sede è il 5-HT2C
che, genericamente, è desensibilizzato dall’azione degli SSRI, ovvero questi farmaci con la loro azione,
aumentando la serotonina, espongono questo recettore ad una quantità eccessiva di serotonina che ne
determina una desensibilizzazione. La ridotta attivazione del 5-HT2C determina aumento ponderale, che
comunque non è molto spiccato. In un caso si avrà proprio un antagonismo con questo recettore (si vedrà
in seguito).
• L’aumento ponderale peggiora un altro effetto collaterale, che invece è molto spiccato, soprattutto per
alcuni SSRI, che è la Sindrome metabolica. Gli SSRI, infatti, determinano anche intolleranza glucosio e
alterazione del metabolismo del colesterolo, il che assieme all’aumento di peso contribuisce ad
aumentare la probabilità che si instauri una sindrome metabolica;
• Disturbi cardiovascolari: può presentarsi allungamento QT con aumento del rischio delle Torsione di
Punta (quindi rischio di aritmie molto pericolose, ovvero le ventricolari). Questo si verifica quando gli SSRI
vengono associati ad altri farmaci che determinano un allungamento del QT;
• Abbassamento soglia convulsioni (EA che tutti gli SSRI condividono) perché potenziano la trasmissione
glutammatergica;
• Inibizione dell’eiaculazione nell’uomo, anorgasmia nella donna e inibizione della libido in entrambi. Gli
effetti degli SSRI sulla sfera sessuale sono molto frequenti e propri degli SSRI. Questo tipo di EA è molto
sentito dai pz, soprattutto in coloro in cui i sintomi depressivi sono risolti dalla terapia e che quindi stanno
uscendo dalla depressione e stanno riprendono ad interessarsi alla sfera sessuale, al benessere e
all'attenzione del proprio corpo;
• Iponatremia da diluizione perché inducono il rilascio di ADH e quindi possono causare la SIADH;
•Sindrome serotoninergica, se abbinati ad altri farmaci che aumentano il tono serotoninergico oppure in
caso di overdose del farmaco. Questo è forse l’EA più grave che gli SSRI possono dare. La sindrome
serotoninergica può mettere in pericolo la vita del pz presenta delle similitudini con la sindrome
neurolettica maligna, che è scatenata dagli antipsicotici, in particolare quelli di prima generazione. In
entrambe si ha: ipertermia, ipertono muscolare, disidratazione per l’ipertermia, danno al rene per le
proteine che gli arrivano dai muscoli danneggiati, CID. Per questo motivo con gli SSRI bisogna prestare
molta attenzione a non associare altri farmaci che aumentino la serotonina.

Gli SSRI hanno diverse indicazioni:


1. In tutti i tipi di depressione compresa la depressione malinconica e la depressione atipica
2. Nei disturbi di ansia: nella GAD “disturbo d’ansia generalizzata”, nel disturbo di ansia sociale (nel
quale il pz ha paura dell’opinione che gli altri hanno su di lui, ha paura a parlare in pubblico, ad
esibirsi in diversi contesti etc) e nei disturbi da attacchi di panico. Mentre il disturbo d’ansia sociale
è un disturbo lieve, il disturbo d’attacco di panico è un disturbo grave che impatta gravemente sulla
vita del pz. In acuto l’attacco di panico si associa all’attivazione del simpatico che porta alla
comparsa di sintomi intensi per il pz che può riferire anche una sensazione di morte imminente.
3. Nel disturbo ossessivo-compulsivo che è un disturbo che precedentemente era classificato tra i
disturbi d’ansia, ad oggi nel DSM5 è invece considerato un disturbo a sé. Si caratterizza per la
comparsa di una idea ossessiva (ossessione) che prende possesso del soggetto e lo obbliga, al fine di
liberarsi dall’ossessione stessa, a mettere in atto comportamenti specifici a cui il soggetto non riesce
a sottrarsi (compulsione). Esempi di DOC sono pz che si lavano le mani 100 volte nell’arco della
giornata, pz che escono di casa e tornano indietro ripetutamente per controllare di aver chiuso il
gas o la porta di casa etc. Considerando questi esempi il DOC potrebbe sembrare un disturbo lieve
quando, in realtà, si tratta di un disturbo molto grave in cui l’ossessione può arrivare a impattare
significativamente la vita del pz che trascorre gran parte del tempo a mettere in atto i
comportamenti dettati dall’idea ossessiva.
4. Nella bulimia nervosa che è un disturbo alimentare che alterna fasi in cui il pz non mangia per poi
alternare periodi di “binge” in cui mangia moltissimo e si induce il vomito per eliminare quello che
ha mangiato. La bulimia si potrebbe definire, per queste sue caratteristiche, un disturbo a metà tra
l’ossessivo compulsivo e un’alterazione della regolazione degli impulsi. Per tale ragione, gli SSRI

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funzionano per la terapia in questo caso (in realtà si tratta di meccanismi molto complessi e non è
noto il meccanismo biomolecolare che sottende a questo disturbo e come quindi gli SSRI agiscano).
Per via di questi complessi meccanismi si possono usare gli SSRI in caso di bulimia nervosa,
nonostante abbiano tra gli effetti collaterali l’aumento ponderale.
5. Nella sindrome da pianto “CRY SYNDROM” ma sono off label. La sindrome da pianto si presenta in
soggetti che hanno avuto ictus, con crisi di pianto frequenti e non controllate, in cui i pz piangono anche
per piccole cose.
6. Sembrano funzionare anche nelle vampate di calore nelle donne in menopausa, ma in questo ambito
il loro utilizzo è limitato in quanto sono preferiti gli estrogeni o i fitoestrogeni.

1. FLUOXETINA (Prozac®)
È il primo SSRI messo in commercio, ancora oggi molto utilizzato nonostante ne siano disponibili molti
altri. Viene data per OS con una singola somministrazione giornaliera di 20 mg (dose max, anche se si può
salire a 60 mg/die se necessario). Va considerato che si inizia con basse dosi minori di 20 mg e poi si
aumenta con una titolazione lenta. Esiste anche formulazione liquida che si dosa molto bene e risponde
alla necessità di titolare lentamente la dose. Si può dare dagli 8 anni in su, ricordando sempre che gli SSRI,
così come tutti gli antidepressivi, sono complicati da gestire nel pz pediatrico perché possono aumentare
il rischio suicidiario all’inizio della terapia.
Ha una buona una biodisponibilità x os (72%) e viaggia molto legata alle proteine plasmatiche (94-97%)
quindi può dare fenomeni di spiazzamento.
All’inizio della terapia, in acuto, ha un’emivita di 1-3 giorni e con la progressione della terapia l’emivita si
allunga. La fluoxetina, infatti, è metabolizzata dal CYP2D6 che viene inibito dal farmaco stesso. In seguito a
tale fenomeno, se si fa una terapia prolungata con uso cronico del farmaco si raggiungono concentrazioni
tali da avere un’inibizione del CYP2D6 e la sua emivita diventa di 4-6 giorni. Quindi, bisogna nel tempo
ridurre la dose dando per esempio il farmaco a giorni alterni.
Il CYP2D6 metabolizza la Fluoxetina in Norfluoxetina, suo metabolita attivo, metabolizzato a sua volta
dal CYP3A4 che metabolizza molti farmaci e quindi bisogna fare attenzione alle politerapie; inoltre bisogna
porre attenzione al fatto che vi possono essere dei polimorfismi del CYP2D6 che possono alterare il
metabolismo del farmaco.
L’eliminazione è per lo più renale (80%) e in minor parte anche biliare (15%).

La fluoxetina blocca il 5HT2C che si trova nel centro della fame e quindi può dare aumento ponderale.
Il 5HT2C, (accoppiato a Gq) oltre ad essere espresso nell’ipotalamo, si trova anche sui neuroni
dopaminergici e noradrenergici della corteccia prefrontale che vengono attivati e quindi attraverso questo
meccanismo può dare anche un miglioramento dell’umore e un aumento dell’attenzione. Questo suo
effetto è molto utile nella depressione proprio perché con questa attivazione contrasta sintomi
caratteristici della depressione inibita e si dà ai pz che hanno necessità di essere attivati.
Di contro, la fluoxetina attiva anche 5HT2A dando più attivazione e conseguente nervosismo, irritabilità e
agitazione. L’irritabilità è caratteristica proprio della Fluoxetina, mentre l’acatisia (attivazione motoria,
bisogno irrefrenabile di muoversi) è più o meno indotta da quasi tutti gli SSRI. Per questi motivi la
Fluoxetina è utilizzata maggiormente nella depressione inibita e non in quella agitata.

Come per tutti gli SSRI, si deve titolare la dose all’inizio terapia e scalarla, se è necessario, interrompere
anche la terapia al fine di evitare fenomeni di rebound: presentazione improvvisa di sintomi quali nausea,
vomito, dolori addominali, insonnia, vertigini e cefalea.
In genere i sintomi di astinenza si risolvono in 2 settimane, in alcuni pz possono protrarsi anche per 2-3
mesi, e scompaiono ovviamente se si rinizia la terapia.
Grazie al fatto che viene convertita in Norfluoxetina, suo metabolita attivo, la Fluoxetina è, tra tutti gli SSRI,
quella che dà meno rebound all’interruzione. Infatti, andando a cessare bruscamente la terapia con
Fluoxetina, dal momento che questa non viene più somministrata si riattiva il CYP2D6 che metabolizza
rapidamente tutta la Fluoxetina ancora in circolo causando i fenomeni di rebound, cioè i sintomi di
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astinenza. Tuttavia, essendo ancora presente la Norfluoxetina questa mitiga gli effetti da interruzione
brusca di fluoxetina. Nonostante la ridotta intensità del rebound, si deve sempre scalare gradualmente le
dosi quando si vuol cessare la terapia.
Interazioni farmacologiche
Bisogna prestare attenzione quindi a:
1. Risperidone: antipsicotico di seconda generazione che, differentemente da quelli di prima generazione,
non agisce solo sul recettore D2 ma blocca anche il recettore 5HT2A. Gli antipsicotici di prima generazione,
bloccando prevalentemente il D2, possono provocare parkinsonismo farmacologico. Il risperidone, tra gli
antipsicotici di seconda generazione, è quello che più blocca il D2 e quindi è quello che più facilmente può
dare parkinsonismo. Viene metabolizzato dal CYP2D6. Se è associato alla fluoxetina che inibisce in
CYP2D6, e poiché entrambi sono metabolizzati da questo, il risperidone viene meno metabolizzato e può
dare parkinsonismo. Bisogna quindi ridurre le dosi.
2. Codeina: oppioide metabolizzato, e quindi attivato, dal CYP2D6 in morfina. Se associata alla fluoxetina,
si riduce la sua conversione in morfina e si riduce quindi l’effetto analgesico.
3. Farmaci che potenziano la trasmissione serotoninergica perché si rischia la sindrome serotoninergica.
Già da questo si capisce che non si associano mai due SSRI nello stesso pz. Inoltre, vi sono sia farmaci che
droghe in grado di potenziare la trasmissione serotoninergica. Tra i farmaci abbiamo alcuni oppioidi, come
il tramadolo, la meperidina, il linezolid.
La sindrome serotoninergica si manifesta inizialmente con il bruxismo per attivazione del massetere
(digrignare i denti), con brividi e sintomi gastrointestinali, con ipertono muscolare, miocloni, iperriflessia,
incoordinazione, come conseguenza dell’ipertono si ha ipertermia a cui segue disidratazione; vi può essere
danno renale causato dalle proteine muscolari che vanno al rene; nei casi più gravi si presenta la CID
(coagulazione intravasale disseminata) fino al possibile collasso circolatorio. (NB: questa interazione vale
per tutti gli SSRI e non solo per la fluoxetina, quindi non andrebbero mai associati due SSRI tra loro nello
stesso pz).
Un’altra sostanza che potenzia la trasmissione serotoninergica è l’Hypericum perforatum (un fitoterapico
acquistabile come preparato in erboristeria) che ha un lieve effetto antidepressivo ma è un potente
induttore enzimatico quindi non si dovrebbe mai assumere con fluoxetina e in generale con farmaci che
sono molto metabolizzati dai CYP.
Bisogna porre attenzione anche agli ansiolitici come buspirone o gipirone che agiscono sulla trasmissione
serotoninergica.
Tra le droghe in grado di potenziare la trasmissione serotoninergica c’è l’Ecstasy, una metanfetamina
sostituita, che agisce penetrando all’interno del neurone attraverso il SERT e, una volta entrata, si
sostituisce alla serotonina nelle vescicole sinaptiche, aumentando il rilascio dal neurone della serotonina
stessa. Questo potenziamento accade se il soggetto è già un consumatore di ecstasy e inizia poi una terapia
con SSRI, poiché aumenta di molto il tempo in cui la serotonina rimane nello spazio sinaptico ed aumenta
il rischio di sindrome serotoninergica. Se invece il pz è in terapia da tempo con SSRI e assume ecstasy solo
dopo l’inizio della terapia, il SERT è bloccato dall’SSRI quindi si riduce l’ingresso dell’ecstasy nel neurone.
Il pz quindi, non avendo gli effetti dell’ecstasy, dal momento che questa non penetra nel neurone,
potrebbe assumerne sempre di più per avere effetti e quindi si rischia overdose di ecstasy che può portare
anche danni permanenti al SNC con morte neuronale.
4. Bisogna sempre fare attenzione all’associazione con i triptani, perché essendo degli agonisti per i
recettori serotoninergici, si rischia sempre la sindrome serotoninergica.
5. Non deve essere fatta l’associazione con gli antiaggreganti dal momento che gli SSRI già aumentano il
rischio di emorragia.

2. PAROXETINA (Sereupin®)

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Si da x OS ad una dose piena di 20mg 2 volte al giorno. Tra gli SSRI è quello che ha la maggiore affinità per
il SERT e quindi è molto efficace (tra gli SSRI quello più efficace per i disturbi di panico).
Dopo somministrazione orale subisce un ampio metabolismo di primo passaggio da parte del CYP2D6 e,
come la fluoxetina, inibisce il CYP2D6. Viaggia nel sangue molto legata alle proteine plasmatiche (93-
95%). La sua emivita inizialmente è di 21 ore ma, andando ad inibire il CYP2D6 che la metabolizza, come
per la fluoxetina, con il prolungarsi della terapia la sua emivita aumenta e si devono quindi riorganizzare
le dosi somministrate.
Invece che 20 mg per 2 volte al gg, si possono somministrare 20mg per 1 volta al gg, oppure 10mg per 2
volte al gg, in base al tipo di gestione che richiede il paziente.
La paroxetina non è metabolizzata in metaboliti attivi quindi vi è, contrariamente alla Fluoxetina un alto
rischio direbound se si interrompe bruscamente la terapia ed è quindi obbligatorio scalare lentamente le
dosi.
Presenta un’eliminazione per lo più renale (65%) e in minor parte fecale (35%).
Ha un debole effetto antimuscarinico e quindi, bloccando i recettori muscarinici è meno attivante e dà
meno acatisia, rispetto alla fluoxetina.
Ha un’azione inibitoria sull’enzima NOS che sintetizza NO (vasodilatatore endogeno) e quindi può dare
impotenza nell’uomo visto che NO nelle arterie del pene favorisce la vasodilatazione che sostiene
l’erezione.
È controindicata in gravidanza come tutti SSRI (tranne la FLUVOXAMINA Maveral®) per il rischio di
malformazioni cardiovascolari. Inoltre, se assunta nell’ultimo trimestre, si ha un elevato rischio di
ipertensione polmonare.

3. FLUVOXAMINA (Maveral®)

È un antidepressivo poco potente che quindi si dà a una dose elevata di 100-150mg al giorno. Il massimo
per una singola dose è 150mg ma si può arrivare come somministrazione complessiva massima a 150mg
x2/die se necessario. Diversamente dagli altri SSRI viaggia poco legata alle proteine plasmatiche (per il 50-
70%, gli altri SSRI per il 90%) e quindi non dà fenomeni di spiazzamento. Ha una particolare caratteristica:
è un forte sedativo e per questo si usa nella depressione agitata con somministrazione la sera, prima di
dormire.
È metabolizzata da tre CYP diversi e li inibisce tutti e tre:
• CYP1A2: metabolizza la maggior parte della dose somministrata. Il CYP1A2 metabolizza anche TCA,
alcuni antipsicotici, beta bloccanti ed è inibito dalla ciprofloxacina (un fluorochinolone che quindi non
andrebbe associato) mentre viene indotto dal fumo di sigaretta (può ridurre l’efficacia della
fluvoxamina). Poiché metabolizza l’isomero R-Warfarin bisogna fare una particolare attenzione
all’associazione col warfarin per diversi motivi. In primo luogo, gli SSRI in generale aumentano il rischio
di sanguinamento e poi, considerando che la fluvoxamina inibisce il CYP1A2 che metabolizza l’isomero
R del Warfarin (non attivo) questo tenderà ad accumularsi (poiché non più metabolizzato). Il suo
accumulo porta all’inibizione del CYP2C9 che invece metabolizza l’isomero S- Warfarin che è quello
attivo. Il risultato è quindi che si accumula l’isomero S-warfarin con aumento del rischio emorragico.
• CYP3A4
• CYP2C19 che è polimorfo ma partecipa poco al metabolismo di questo farmaco

È l’unico SSRI che si può dare in gravidanza.


4. SERTRALINA (Zoloft®)
Viene data x OS ad una dose piena di 50 mg (come per gli altri SSRI si inizia da dosi più basse anche <25
mg che è la formulazione presente in commercio e poi si aumenta) ma, in caso di non controllo, si può
arrivare massimo 200mg al gg e gli aumenti sono di 50 mg ogni settimana.

Si può dare nei bambini dai 6 anni di età con la sola indicazione del Disturbo Ossessivo Compulsivo.

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La sertralina viaggia molto legata alle proteine plasmatiche (98-99%) ed ha un’emivita di circa 24 h ore e
viene metabolizzata prevalentemente da CYP3A4, e in minor misura dal CYP2B6 e CYP2C19.
È un substrato della Glicoproteina P e presenta un’eliminazione renale.
Ha una caratteristica unica tra gli SSRI poiché favorisce il rilascio di dopamina nello striato e questo
permette il suo utilizzo nei pz con Parkinson: generalmente gli SSRI sono controindicati nel paziente con
Parkinson perché la trasmissione serotoninergica inibisce la trasmissione dopaminergica nello striato
andando a peggiorare i sintomi parkinsoniani. La Sertralina invece, grazie a questa sua particolarità, è
l’unica che si può utilizzare.
Un’altra caratteristica particolare è che un inibitore del trasportatore DAT e questo è il meccanismo che
le conferisce proprietà attivanti e disinibenti al livello cognitivo soprattutto nell’anziano. Per questo è
molto utilizzata a basse dosi (si divide in 2 la cpr da 25 mg) nel pz anziano depresso con depressione inibita
e nei pz con depressione atipica (ipersonnia, paralisi plumbea, andamento stagionale) poiché ha funzione
attivante sull’ipersonnia e sulla mancanza di energia. Per questa sua caratteristica, può dare anche effetti
collaterali come agitazione e ansia e è molto facile che, per dosi troppo alte nel pz anziano, questo passi
da uno stato inibito in cui non parla e non interagisce a uno stato opposto in cui il pz ha un “non controllo
cognitivo” del linguaggio e straparla.
Durante l’uso post-marketing di sertralina, sono stati segnalati casi di prolungamento dell’intervallo QT e
casi di aritmie ventricolari, inoltre può inoltre dare come effetti collaterali anche convulsioni, disturbi della
vista e tinnito.

5. CITALOPRAM (Elopram®)
Si dà x OS con tre possibili dosi: 10, 20 e 40 mg (basse dosi, poiché è molto potente). Esiste sia in cpr sia in
una soluzione. Viaggia molto legato alle proteine plasmatiche (94-97%) e ha un’emivita di 30-35 ore. Ha
un metabolismo epatico mediato da CYP3A4, CYP2C19, CYP2D6 e, diversamente dagli altri SSRI presenta
un’eliminazione per lo più biliare (85%) e in minor parte renale (15%).

È un debole inibitore istaminergico H1 e quindi ha un effetto sedativo, prolunga il QT con rischio di aritmia.
Insieme alla paroxetina e all’escitalopram è uno degli SSRI più efficace nel disturbo di panico. È un racemo
il cui enantiomero attivo è l’S Citalopram

6. ESCITALOPRAM (Entact®)
È l’enantiomero S attivo del citalopram che è stato messo in commercio allo scadere del brevetto di
quest’ultimo. Molto usato nei disturbi d’ansia, così come il citalopram. Essendo la forma attiva del
citalopram, si danno dosi più basse da 10 a 20mg x OS e non si possono superare 20 mg/die. Viaggia legato
meno alle proteine plasmatiche (<80%) e ha un’emivita di 30-35 ore ed è metabolizzato dagli stessi enzimi
che metabolizzano il citalopram. Ha un’eliminazione biliare e renale
Tra i suoi effetti collaterali, oltre ad allungare il QT come il citalopram, presenta in modo spiccato anche
cefalea, insonnia, sonnolenza e capogiri.
NDRI (Inibitori Ricaptazione di DOPAMINA e NA)
A questa classe appartiene un unico farmaco: il BUPROPIONE che quindi è l’unico antidepressivo che
inibisce la ricaptazione della dopamina. Un’altra sostanza con un’azione analoga è la cocaina,
l’antidepressivo più potente di tutti.
Ovviamente la cocaina non viene usata come antidepressivo per i suoi effetti tossici e perché, facendo
rilasciare molta dopamina nell’accumbens, desensibilizza tutti i recettori dopaminergici nell’accumbens
stesso, alzando la soglia per la gratificazione e causando essa stessa depressione. La cocaina blocca il DAT
per il 70-80% mentre il bupropione, blocca il DAT soltanto per il 25% e non causa desensibilizzazione dei
recettori, non alza la soglia per la gratificazione e quindi non determina depressione. Il bupropione allo
stesso tempo blocca anche il NAT.
Il Bupropione è metabolizzato dal CYP2B6 che è inibito prevalentemente dal Clopidogrel (antiaggregante)
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e ciclofosfamide (antitumorale) che bisogna abbinare con attenzione al Bupropione. Il CYP2B6 è indotto
da antiepilettici quali Carbamazepina e Fenitoina o da antiretrovirali quali Ritonavir ed Efavirens.
Il Bupropione inoltre inibisce il CYP2D6, senza esserne substrato e quindi serve attenzione alla politerapia
con farmaci che invece sono metabolizzati da questo CYP.
Il Bupropione inibisce in modo competitivo il Trasportatore dei Cationi Organici 2 (OCT2) presente nella
membrana basolaterale del tubulo renale che è responsabile della secrezione di creatinina. Tale inibizione
causa lievi aumenti nella creatinina nel trattamento con buproprione, che però non sono indicativi di
danno renale ma dovuti alla competizione per il trasportatore. L’associazione con la metformina,
nonostante quest’ultima sia substrato dell’OCT2, non dà interazioni particolari quindi si può fare.
Il Bupropione ha tre indicazioni:
1) Terapia della depressione, funziona molto bene in tutti i tipi di depressione anche in quella stagionale
(che normalmente non risponde ai triciclici ma invece risponde agli SSRI). Funziona bene anche in altre
forme di depressione che sono resistenti ad altri farmaci. È principalmente usato nelle forme in cui
prevalgono l’ipersonnia, le disfunzioni cognitive e l’anedonia. Il Bupropione ha alcuni vantaggi, rispetto ad
altri antidepressivi, in quanto non induce aumento ponderale, non interferisce con la trasmissione
serotoninergica, non induce sindrome serotoninergica, non causa alterazione dei parametri lipidici e non
aumenta la glicemia e quindi è molto sicuro dal punto di vista metabolico. Esiste una formulazione a
rilascio modificato che ha indicazione nel disturbo depressivo maggiore con una dose di 150 mg/die fino
a 300 mg/die se necessario. Poiché è efficace nell’ipersonnia causa molto frequentemente insonnia (in pz
che non hanno grave ipersonnia) oltre che altri effetti collaterali meno frequenti ma ugualmente gravi.
2) Disintossicazione da nicotina (Zyban®). Viene impiegato come ausilio per smettere di fumare grazie
alla sua azione dopaminergica perché determina un aumento dei livelli di dopamina nell’Accumbens come
fa la nicotina e molte altre sostanze. Funziona quindi da “sostituto” della nicotina stimolando il rilascio di
dopamina nell’accumbens e permettendo quindi di superare la sindrome da astinenza. La terapia con
bupropione in questo caso dura 7-9 settimane. Si raccomanda di iniziare il trattamento mentre il paziente
ancora fuma e poi va fissata una data, nella seconda settimana di terapia, in cui il pz deve smettere di
fumare. Raggiunta la data stabilita, il pz deve smettere di fumare e continuare la terapia con bupropione.
Nel caso in cui non si manifesti alcun effetto alla settima settimana, il trattamento deve essere interrotto.
3) Perdita di peso (Mysimba®): è una formulazione di Bupropione in associazione al Naltrexone (antagoista
dei recettori oppiodi) che esiste sotto forma di compresse a rilascio prolungato. Mysimba è indicato, in
aggiunta a unadieta ipocalorica e una costante attività fisica, per la gestione del peso in pazienti adulti (≥
18 anni) con un indice di massa corporea (BMI) ≥ 30 kg/m2 (obesi), o 27<BMI< 30 (sovrappeso) in presenza
di una o più comorbidità correlate al peso (ad es. diabete di tipo 2, dislipidemia o ipertensione). Il
trattamento con Mysimba deve durare un periodo limitato di tempo, infatti il farmaco, considerando la
sua associazione con Naltrexone, deve essere interrotto dopo 16 settimane se i pazienti non hanno perso
almeno il 5% del loro peso iniziale.
Naltrexone (antagonista dei recettori MOP) e Bupropionehanno un particolare effetto sinergico e agiscono
influenzando due principali aree del SNC: il nucleo arcuato dell’ipotalamo e il sistema di gratificazione
dopaminergico mesolimbico. Nel nucleo arcuato dell’ipotalamo, il bupropione stimola i neuroni POMC
(ProOpioMelanoCortina, precursore dell’MSH e delle β-endorfine) che rilasciano α-MSH il quale attiva i
recettori 4 della melanocortina (MC4-R) che sono coinvolti nel controllo inibitorio dell’assunzione di cibo.
Questo si è capito grazie alla presenza di malattie genetiche associate ad alterazioni della funzione del
POMC che sono solitamente caratterizzate da grave obesità a esordio precoce, insufficienza surrenalica,
capelli rossi e cute chiara. Vi è una mutazione più rara con la sola carenza di α-MSH e non di tutto il POMC
in cui si nota principalmente l’obesità. L’osservazione di questi quadri ha messo in evidenza relazione tra
l’α-MSH e l’obesità.
Oltre all’α-MSH dal POMC si produce anche β-endorfina, agonista endogeno dei MOP. Tale recettore,
presente in diverse sedi è anche espresso sui neuroni POMC ed il legame della β-endorfina (ai MOP sui
neuroni POMC) determina, con feedback negativo, una riduzione del rilascio di α-MSH. Il blocco di questo

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feedback negativo, causato dal Naltrexone (che è un antagonista dei recettori oppioidi come i MOP),
facilita una attivazione più potente e duratura dei neuroni POMC, amplificando quindi gli effetti del
Bupropione sul bilancio energetico.
Il bupropione inoltre facendo rilasciare DA nell’Accumbens, si sostituisce al cibo, riproducendo la
gratificazione indotta dal cibo. L’aumento in generale di DA e NA contribuisce al consumo energetico,
accelerando il metabolismo.
C’è, quindi, un’azione sull’α-MSH che inibisce l’assunzione di cibo, un’azione sul potenziamento del
consumo energetico che accelera il metabolismo e, da parte del Naltrexone, un potenziamento
dell’effetto del bupropione sull’α-MSH.
Solitamente con il Mysimba si va incontro a una perdita di almeno il 5% del peso corporeo al basale. In
media un pz in terapia riesce a perdere dal 5 al 10% del suo peso. In generale, negli anni, questi farmaci
non hanno mai fatto perdere tantissimo peso. Quelli che funzionavano di più erano quelli che
potenziavano la trasmissione noradrenergica che però avevano tutti gli effetti collaterali dei farmaci
metanfetaminici e sono stati di conseguenza tolti dal commercio.

Effetti Avversi del Bupropione


 Abbassamento della soglia per le convulsioni. Questo lo fanno, seppur in modo diverso, tutti gli
antidepressivi. Il bupropione, tuttavia, lo fa in modo più spiccato e dose-dipendente.
 Non si può fare una co-somministrazione con altri medicinali che possono abbassare la soglia
convulsiva, compresi antipsicotici, antidepressivi, antimalarici, tramadolo, teofillina, steroidi sistemici,
chinoloni e antistaminici che si usano come sedativi;
 Riduzione glicemia nei pazienti con diabete. Per tale ragione nei pz diabetici in terapia, la dose di
insulina e/o antidiabetici deve essere valutata per ridurre al minimo il rischio di ipoglicemia, che può
predisporre i pazienti a convulsioni;
 Complicanze cardio-vascolari (Ischemia cardiaca);
 Effetti avversi di tipo psichiatrico, inclusa la perdita di controllo degli impulsi;
 Reazioni allergiche (dal rash cutaneo a reazioni più gravi);
 Disforia, cioè alternanza di variazioni di tono dell’umore non controllate dal soggetto;
 Insonnia, agitazione.
Inoltre, vi sono degli effetti avversi associati in modo specifico al Mysimba quali cefalea, ipertensione,
nausea, costipazione.

Disintossicazione da Nicotina
Per la disintossicazione da nicotina si utilizzano principalmente tre strategie:
1. Cerotti a base di nicotina che rilasciano tale sostanza in dosi diverse: si inizia solitamente con la dose
più alta e poi si scala. Questo elimina la componente cancerogena (benzoapirene e ROS) che è data
dalla combustione della sigaretta, anche se mantiene la nicotina e questa, di per sé, dà molti effetti
collaterali.
2. Assunzione di Bupropione che fa aumentare i livelli di dopamina a livello dell’Accumbens.
3. Assunzione di Vareniclina: sembra essere un po’ più efficace del bupropione nella disintossicazione da
nicotina. Attiva i recettori nicotinici neuronali α4β2. Tali recettori sono espressi sui neuroni
dopaminergici mesolimbici. Sono canali ionici che, una volta attivati, fanno entrare sodio e attivano i
neuroni dopaminergici mesolimbici. In seguito a ciò avremo, tra gli altri effetti, un aumento della DA
nell’Accumbens come avviene assumendo Bupropione. Meccanismo di sostituzione della gratificazione
che di solito viene data dalla nicotina da parte del rilascio di dopamina stimolato dalla vareniclina.
La Vareniclina (Champix®) ha un protocollo di somministrazione abbastanza complesso: il paziente
deve decidere una data in cui smetterà di fumare e una o due settimane prima di quella data inizierà a
prendere il farmaco che viene titolato nell’arco di una settimana fino a raggiungere la dose piena (1mg
2 volte al giorno). Quando si arriva alla data stabilita precedentemente, si cessa il fumo di sigaretta e
si continua la terapia con Vareniclina per 12 settimane. Se ci sono dei fallimenti, cioè se il soggetto

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ricomincia a fumare, la terapia con Vareniclina può essere ripresa un’altra volta. Tale peculiarità di
somministrazione è legata ai numerosi e gravi effetti avversi della stessa Vareniclina.

Effetti avversi:
 Neuropsichiatrici: Alterazioni del comportamento o del pensiero, ansia, psicosi, forti oscillazioni
dell’umore, comportamento aggressivo, depressione, idee suicidarie e comportamento suicidario e
tentativi di suicidio;
 Crisi convulsive;
 Comparsa di sintomi cardiovascolari o di un peggioramento degli stessi;
 Reazioni ipersensibilità financo all’angioedema;
 Reazioni cutanee rare ma severe, incluse la Sindrome di Stevens-Johnson e l’eritema multiforme.
 L’interruzione di Champix® è stata associata, inoltre, ad un aumento di irritabilità, desiderio
compulsivo di fumare, depressione e/o insonnia fino al 3% dei pazienti.

SNRI: inibitori del re-uptake della noradrenalina e della serotonina (Si pronuncia “snari”)
In commercio ne abbiamo ancora 2, il Nefazodone infatti non è più in commercio:
1. Duloxetina (Cymbalta® oXeristar®)
2. Venlafaxina (Efexor® o Zarelis®)
Tali farmaci, in genere, presentano una diversa selettività verso il trasportatore della serotonina e della
noradrenalina, a seconda delle dosi:
- La venlafaxina a basse dosi ha effetto prevalentemente sulla trasmissione serotoninergica (come un
SSRI); a dosi più elevate blocca anche il trasportatore della noradrenalina
- La duloxetina, invece, a dosi moderate li blocca tutti e due
Agendo su entrambi i sistemi, gli EFFETTI COLLATERALI degli SNRI sono in parte simili agli SSRI, legati
quindi all’aumento del tono serotoninergico (nausea, secchezza delle fauci, costipazione, ritenzione
urinaria, emorragie, SIADH, convulsioni), e in parte tipicamente noradrenergici (tachicardia, agitazione,
nervosismo, variazioni della pressione arteriosa, aumento di peso e dell’appetito). A seconda della dose
prevalgono gli uni o gli altri.
1. VENLAFAXINA (Efexor®)
Viene data x OS alla dose di 75-300 mg/die ma non presenta un’ottima biodisponibilità (42-70% sia del
precursore che dei metaboliti). Viaggia poco legata alle proteine plasmatiche (27% il precursore e 30%
metaboliti) e ha un’emivita di 5 ore del precursore e di 13 ore dei metaboliti.
Subisce un forte metabolismo di primo passaggio (circa 50%) ed è poi metabolizzata nel fegato dal CYP2D6
nel metabolita attivo. Presenta un’eliminazione renale (85%) mentre il 5% viene eliminato immodificato.
È indicata nel DDM e nei disturbi d’ansia. La Venlafaxina a basse dosi si comporta come se fosse un SSRI
(inibitore solo del SERT), a dosi più alte si comporta come uno SNRI. Presenta degli effetti avversi quali:
Bisogna fare molta attenzione quando si interrompe la terapia dal momento che ha un elevato rischio di
rebound: la dose deve essere scalata molto lentamente.
Gli effetti avversi sono: serotoninergici (sindrome dismetabolica), noradrenergici (ipertensione,
tachicardia, nervosismo, agitazione).

2. DULOXETINA (Cymbalta®)
La Duloxetina, diversamente dalla Venlafaxina, agisce come SNRI anche a basse dosi. È indicata nel DDM
(Disturbo Depressivo Maggiore), nel GAD (Disturbo d’Ansia Generalizzato) e nel dolore neuropatico. Viene
data x OS 60mg al giorno (unica posologia) e viene metabolizzata dal CYP1A2.
Presenta come effetti avversi: iponatriemia, dislipidemia, effetti noradrenergici (acatisia, irritabilità,
nervosismo, agitazione), serotoninergici (disturbi gastrointestinali).

NASSA: noradrenergici e specificatamente serotoninergici [ANTIDEPRESSIVI TETRACICLICI]

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MIRTAZAPINA (Remerol®)
La Mirtazapina (antidepressivo potente) è l’unico farmaco di questa classe e viene data x OS alla dose di
15-45 mg/die. Presenta una biodisponibilità del 50% e un’emivita di 20-40 ore. Presenta un metabolismo
epatico ad opera del CYP1A2, CYP2D6 e CYP3A4. Viene eliminata per lo più a livello renale (75%) e in minor
parte a livello fecale (12%).
Agisce come antagonista sui recettori α2 presinaptici (recettori inibitori accoppiati a Gi) e, bloccandoli,
facilita quindi la neurotrasmissione di 5HT e NA.
Inoltre, agisce anche sui recettori della serotonina: attiva 5HT1A mentre blocca i 5HT2A e 5HT3. L’azione
antidepressiva è mediata fondamentalmente dall’attivazione degli 5HT1A, mentre il blocco dei 5HT2A
riduce tutti quegli effetti collaterali di eccessiva attivazione (agitazione, nervosismo, acatisia) legata
all’attività degli 5HT1A. Il blocco a livello dei 5HT3 permette un effetto antiemetico.
Si dà in associazione con gli SSRI perché ne potenzia l’azione. L’associazione con gli SSRI è possibile senza
rischiare la sindrome serotoninergica perché, finché si usa una bassa dose di SSRI, l’azione sarà limitata ai
soli 5HT1A visto che gli altri recettori della serotonina sono bloccati.
Indicazioni: Disturbo Depressivo Maggiore che non è sufficientemente controllato dagli SSRI.

Effetti avversi: aumento di peso, aumento del colesterolo e dislipidemia, riduzione del numero dei
granulociti fino all’agranulocitosi, anemia aplastica (più raramente).
NARI (Inibitori Ricaptazione NA)
REBOXETINA
Essendo un antidepressivo molto potente si dà ad una dose piena di 8mg al giorno. È molto attiva e si dà
nella depressione severa e in forme di depressione molto disabilitanti in cui vi è anche un concreto
pericolo per la vita del paziente. Non è un farmaco di prima linea.
È metabolizzata dal CYP3A4.
Presenta eventi avversi ovviamente legati all’iperattivazione del simpatico (più spiccati in quanto questo
farmaco inibisce solo la ricaptazione della noradrenalina): tachicardia (per cui è controindicata nei pz
cardiopatici), agitazione, nervosismo, midriasi (è infatti controindicata nel glaucoma ad angolo aperto
rapidamente progressivo), alterazione della minzione.

ALTRI FARMACI ANTIDEPRESSIVI


1. TRAZODONE (Trittico®)
Vecchio antidepressivo ancora molto utilizzato. Esiste una formulazione a rilascio immediato e una a
rilascio modificato; quest’ultima è necessaria per evitare picchi a dente di sega della disponibilità ematica
del farmaco, ossia con aumenti e diminuzioni della concentrazione molto rapide. Si dà x OS: 150-600
mg/die a stomaco pieno. Ha anche una seconda indicazione come ipnotico alla dose di 25-150 mg. Esiste
anche formulazione in gocce molto comoda da dosare e usata come ipnotico. Si inizia con 10 gocce, quindi
una dose bassa (specie nell’anziano).
Presenta una biodisponibilità del 65% ed un’emivita di 7 ore (10 ore nelle preparazioni a lento rilascio).
Ha un metabolismo epatico ad opera del CYP3A4 che lo rende m-clorofenilpiperazina (m-CPP) metabolita
in grado di peggiorare i sintomi dell’emicrania in pz che ne soffrono. In realtà, poiché se ne forma molto
poco, tale rischio è limitato. Presenta un’eliminazione renale (70%) e fecale (20%).
Indicazioni: DDM con o senza ansia, anche in presenza di disturbi del sonno.
L’effetto terapeutico sul sonno si vede in breve tempo (circa una settimana) mentre sarà necessario più
tempo per la depressione. Non è farmaco di prima scelta nella depressione inibita con ritardo
psicomotorio, ridotta energia, ipersonnia, perdita di interesse e motivazione e si usa più che altro nella
depressione associata a insonnia e attivazione eccessiva.

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Il Trazodone è un antagonista dei recettori 5- HT2A e 5-HT2C. Se dato a dosi più alte diventa un inibitore
della ricaptazione della serotonina. L’attivazione di 5-HT2A è associata ad insonnia, ansia, agitazione
psicomotoria e alterazioni della funzione sessuale e ciò spiega impiego del Trazodone (antagonista di tale
recettore) nell’insonnia e nell’ansia.
Incrementando le dosi, compaiono altri effetti:
1) Antagonismo a carico del recettore adrenergico α1 (che giustifica la sua indicazione per la IPB,
l’impotenza e l’insonnia)
2) α2
3) istaminergico H1(insonnia);
2) Blocco del trasportatore della serotonina (SERT). L’entità di tale blocco è almeno 100 volte meno
potente rispetto a quanto avviene per il recettore 5-HT2A ma, a dosaggi adeguati (almeno 150 mg/die
nei pazienti adulti), contribuisce in modo determinante all’azione antidepressiva.
Il suo metabolita, la m-clorofenilpiperazina, è un agonista dei recettori serotoninergici e potrebbe
mitigare gli effetti del Trazodone su 5-HT2A and 5-HT2C (poiché li attiva), ma i livelli cerebrali e plasmatici
del m-CPP sono molto bassi (<10% del Trazodone) e quindi non si hanno evidenze di tale mitigazione.
Si è provata una combinazione con Citalopram o Fluoxetina e non si sono riscontrati aumenti dei livelli di
Trazodone: inoltre tale combinazione non ha causato cefalea, né sedazione diurna, affaticamento o
sindrome serotoninergica. È quindi possibile associarlo a questi SSRI. Non si deve invece mai associare agli
iMAO.
Effetti avversi:
- Patologie cardiache
- Ipotensione
- Priapismo (raro). Tuttavia, questo farmaco non può essere dato in pz con patologie che possono dare
priapismo: anemia falciforme, mieloma multiplo, leucemia, disfunzione autonomica del sistema
nervoso e stati di ipercoagulabilità o deformazioni anatomiche del pene (per es. angolazione, fibrosi
cavernosa o malattia di Peyronie);
- GI;
- Sebbene presenti indicazione, è necessario porre attenzione quando lo si utilizza nell’IPB;
- Bisogna porre attenzione al suo utilizzo anche nel pz con Glaucoma ad angoloacuto;
- Tossicità epatica con rialzo delle transaminasi. Bisogna perciò interrompere il trattamento in caso di
comparsa di ittero;
- Iponatriemia (SIADH).
L’m-CPP presenta reattività crociata con una molecola strutturalmente simile, la
metilenediossimetamfetamina (MDMA, ecstasy) e per questo l’impiego di test immunologici per lo
screening dei farmaci nelle urine può portare ad una falsa positività per l’amfetamina (e viceversa). In
questi casi, si dovranno eseguire analisi di conferma con tecniche basate sulla spettrometria di massa.
Ndr: la prof si interrompe qui nella spiegazione degli antidepressivi ma dice di completarli dalla presentazione caricata su
classroom. Seguono, quindi, le informazioni prese da questa presentazione (slides e commento audio) e dalla sbobina dello
scorso anno.

2. VORTIOXETINA (Brintellix®)
È un modulatore polimodale della trasmissione serotoninergica, quindi è:
- Antagonista dei recettori 5-HT3, 5-HT7 e 5-HT1D: attività procognitiva e regolazione de ritmi
circadiani;
- Agonista parziale dei recettori 5-HT1B;
- Agonista dei recettori 5-HT1A;
- Inibitore del trasportatore della serotonina.
Tramite l’azione su tali recettori modula anche la trasmissione noradrenalina, dopamina, istamina,
acetilcolina, GABA e glutammato.
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L’azione antidepressiva è legata all’azione sul 5-HT1A mentre l’azione sui 5-HT3, oltre all’azione
antiemetica, va a bloccare gli interneuroni GABAergici che fanno sinapsi sui dendriti dei neuroni piramidali
migliorando l’attività di questi ultimi. Tuttavia, questi effetti non sono stati dimostrati clinicamente: non
si è visto un miglioramento della cognizione nei pz con depressione e sintomi cognitivi di questo farmaco
maggiore rispetto ad altri antidepressivi.
È indicata nel DDM in pz con meno di 65 anni mentre, dopo tale età, si può usare ma solo a dose minori.
La dose nei pz <65 è di 5-10 mg x1/die fino ad un massimo di 20mg x1/die. Si inizia con 1 goccia/die,
aumentando 1 goccia ogni giorno. Non è necessario scalare la dose per la cessazione (non ha effetti di
rebound), ma è meglio ridurre la dose del 25% ogni 5 giorni.
È metabolizzata da CYP2D6 e, in misura minore, da CYP3A4/5 e da CYP2C9. Successivamente subisce una
coniugazione con acido glucuronico. Presenta un’escrezione per 2/3 nelle urine ed 1/3 nelle feci.
Effetti collaterali: nausea, prurito, sogni anomali, reazioni ipersensibilità. Più rari: agitazione, aggressività,
midriasi, emorragie, iponatriemia.
Dalle slides: Scarsi effetti collaterali sessuali o metabolici (assenti con 10 mg, lievi con 20 mg. Vantaggio
soprattutto durante la fase di mantenimento, in cui i pazienti ritrovano l’interesse per la vita sessuale e
per il mantenimento-riscoperta della forma e benessere fisico). Non ha significativa attività anticolinergica
e quindi ha un basso rischio di sintomi come xerostomia, stipsi, ritenzione urinaria (vantaggio per gli
anziani). Diversamente dagli SSRIs, non tende a dare appiattimento affettivo, non causa aumento
ponderale e ha un basso rischio di interazioni.
Funziona nei pazienti depressi con difetto di motivazione ma alle dosi più alte dosi.

3. SULPIRIDE e 4. AMISULPRIDE
Sono dei bloccanti recettori D2 e presentano azioni e indicazioni diverse a seconda della dose scelta.
1) Quando sono usati ad alte dosi (da 200mg in su) presentano un’azione antipsicotica.
2) Quando sono usati a basse dosi (50mg al giorno per entrambi) vanno a bloccare i recettori D2
presinaptici su neuroni DA e NA. Tali D2 sono accoppiati a Gi e il loro blocco potenza la trasmissione
nervosa. Per tali motivi a basse dosi sono indicati in distimia con: sintomi depressivi meno severi, presenti
per almeno 2 anni e con al massimo due mesi liberi da sintomi in un anno.

5. AGOMELATINA (valdoxan®)
L’Agomelatina si dà x OS: 25 mg/die assumere alla sera prima del riposo notturno.
Ha una breve emivita di 1-2 ore e viene metabolizzata a livello epatico da CYP1A2 e daCYP2C9. Il
metabolita formato da CYP1A2 è inattivo, ma può dare tossicità epatica (è importante monitorare gli
enzimi epatici).
È un analogo della melatonina, e quindi un agonista dei recettori MT1 e MT2; è inoltre un antagonista del
recettore 5-HT2C. I recettori MT1 e MT2 della melatonina regolano il rilascio di noradrenalina e di
dopamina, quindi l’Agomelatina, quando li lega, aumenta il rilascio di queste sostanze e potenzia la
trasmissione noradrenergica e dopaminergica.
Va assunta, come tutti gli antidepressivi, per almeno 6 mesi per mantenere gli effetti nel tempo. La
melatonina è un ormone prodotto dalla ghiandola pineale principalmente durante la notte con la funzione
principale di partecipare alla regolazione dei ritmi circadiani, cioè permette che le funzioni del nostro
corpo possano adattarsi ai ritmi sonno-veglia. La melatonina è utilizzata nel trattamento e nella
prevenzione della sindrome da jet lag. L’Agomelatina NON presenta tale indicazione.
Indicazioni: DDM nell’adulto. È controindicato nei pz con più di 75 anni.
Effetti avversi: bloccando 5-HT2C nel centro della fame, induce fame e aumentoponderale; tossicità
epatica.

Ndr: la presentazione caricata dalla prof termina con 5 slides dedicate all’Esketamina che però quest’anno è già stata trattata
nella prima lezione sugli antidepressivi (sbobina 12-Antidepressivi del 9 dicembre 2021, pagine 15-17). Le informazioni sono le
stesse e, per questo, non le ho riportate.

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1. DEFINIZIONE E CLASSIFICAZIONE DISTURBO BIPOLARE


Il disturbo bipolare è un disturbo dell’alterazione dell’umore insieme al disturbo depressivo maggiore e
alla distimia. È un disturbo ciclico, in cui vi è un’alternanza fra diverse fasi dell’umore: le fasi maniacali e
le fasi depressive.

La frequenza della presentazione degli episodi maniacali o depressivi in generale è di circa 4/7 episodi
ogni 10 anni. Ci sono pz con cicli rapidi in cui la frequenza degli episodi è nettamente più alta: 4/7 episodi
l’anno. Ci sono soggetti con i cosiddetti cicli rapidissimi con episodi che si ripresentano anche nell’arco
della stessa giornata.

Più i cicli sono rapidi più la patologia è invalidante per il pz perché passa da uno stato all’altro dell’umore
senza nessun tipo di controllo. Quindi il pz è assolutamente indifeso da questi non controllati
cambiamenti repentini del tono dell’umore, che gli impediscono qualsiasi tipo di razionale e logica
relazione con l’esterno e con gli altri ma anche con se stesso.

Il disturbo bipolare si suddivide in:

● TIPO 1: per fare diagnosi è essenziale almeno un episodio maniacale diagnosticato della durata di
una settimana o, in alternativa, un episodio misto sempre della durata di una settimana (misto
significa un episodio di mania o ipomania e depressione maggiore). La prevalenza di questo
disturbo è uguale nei due sessi.
● TIPO 2: per fare diagnosi è essenziale che sia diagnosticato l’episodio di depressione maggiore che
si accompagna ad un episodio ipomaniacale. In questo caso non c’è l’episodio di mania ma
soltanto l’episodio di ipomania, quindi la severità è attenuata. La prevalenza è maggiore nelle
donne rispetto agli uomini.
● TIPO CICLOTIMICO: sono pz con periodi prolungati (> 2 anni adulti; >1 anno bambini) di episodi
ipomaniacali (non è mania ma ipomania, perciò i sintomi sono meno gravi) ma hanno anche
disturbi depressivi che non soddisfano i criteri specifici per un disturbo bipolare 1 o 2. Quindi è
necessario, per fare diagnosi di disturbo ciclotimico, che il soggetto, nel corso della sua vita, non
abbia mai soddisfatto i criteri per l’ipomania o per la mania per il disturbo bipolare. Ci sono durate
e sintomi un po' diversi. Mai nella loro vita devono aver avuto un episodio depressivo maggiore
oppure devono aver avuto un episodio di mania o di ipomania rispettando i criteri per il disturbo
bipolare di tipo 1 e 2.
● ALTRI DISTURBI BIPOLARI che non soddisfano nessuna delle tre classificazioni precedenti e che
sono dovuti a droghe, farmaci o altre malattie. Ricadono in questa classe i pz con cicli rapidi o
ultrarapidi. Sono associati all’uso di sostanze stupefacenti come anfetamina o cocaina, uso
eccessivo di alcool o alcuni farmaci. È un disturbo bipolare molto difficile da trattare perché
caratterizzato da cicli molto rapidi e più i cicli sono rapidi più rispondono poco ai farmaci, in
particolare al Litio. Inoltre è difficile da trattare perché è associato a comorbidità, ad esempio
l’ipotiroidismo.

2. EPISODIO MANIACALE E IPOMANIACALE


L’episodio maniacale è un periodo di tempo di almeno 7 giorni nel quale si osserva un tono dell’umore
eccessivamente elevato, espanso, eccitato o irritabile e un conseguente aumento anormale ed eccessivo
delle normali attività quotidiane (che è uno dei vari possibili sintomi a cui deve accompagnarsi
l’elevazione del tono, vedi elenco). Questo è molto importante ed è stato introdotto dal DSM5 nella sua

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ultima versione: non è sufficiente l’elevazione del tono dell’umore ma a questa deve corrispondere un
conseguente aumento anormale ed eccessivo delle normali attività quotidiane. Se l’intensità dei sintomi
è tale da richiedere il ricovero ospedaliero, allora il criterio della durata di 7 giorni non è più necessario.
Qualsiasi durata che necessita di ricovero fa fare diagnosi di episodio maniacale.

Dal punto di vista dei sintomi, l’episodio maniacale si caratterizza per la presenza di almeno 3 tra questi
sintomi (4 se il cambiamento dell’umore si manifesta soltanto con l’irritabilità):

● elevata autostima e senso di grandiosità: questi sono soggetti che pensano, per esempio, di
essere persone importantissime, capaci di qualsiasi cosa, i luminari di qualche particolare campo
dello scibile umano oppure pensano di essere Napoleone. Sono soggetti che fanno ricerche in
modo eccessivo sul proprio albero genealogico e si vantano di avere titoli nobiliari;
● riduzione del bisogno di dormire: dormono poco o possono non dormire per niente. Ci sono
periodi in cui sono talmente tanto attivi che non avvertono bisogno di dormire;
● logorrea: parlano in continuazione, incessantemente. C’è anche accelerazione del pensiero e fuga
di idee: si presentano alla mente del soggetto talmente tante idee contemporanee che il pensiero
non riesce a seguirle e questo si riflette nella anormalità della parola non solo con la logorrea ma
anche con altre caratteristiche come l’ecolalia, in cui il soggetto risponde ad una domanda fatta
dall’interlocutore ripetendo la domanda stessa, oppure vengono creati dei nuovi termini, dei
termini che si rifanno all’infanzia che vengono utilizzati nella lingua di tutti i giorni;
● elevata distraibilità: il pz non è in grado di concentrarsi e si distrae facilmente;
● aumento delle attività quotidiane: aumento del tempo lavorato o delle ore di studio o agitazione
psicomotoria;
● partecipazione ad attività rischiose: come nella mancanza del controllo degli impulsi quindi spese
folli ed eccessive, investimenti rischiosi per il capitale, attività fisiche rischiose.

Quindi in ultimo per fare diagnosi di episodio maniacale si deve verificare elevazione dell’umore in modo
eccessivo e poi almeno tre dei sintomi sopraelencati per almeno 7 giorni se non trattato. Se il pz viene
ricoverato e presenta queste caratteristiche allora qualsiasi durata permette di fare diagnosi.

Per fare diagnosi di disturbo bipolare di tipo 2 è necessario che l’episodio maniacale venga sostituito
dall’episodio ipomaniacale.

Per episodio ipomaniacale si intende un episodio che si differenzia dall’episodio maniacale sia per
durata, cioè dura meno di 7 giorni, circa 4 giorni, sia per le condizioni cliniche che non rendono mai
necessario un ricovero e sono più lievi. Quindi l’episodio ipomaniacale è meno severo dell’episodio
maniacale sia per l’intensità dei sintomi sia perché l’episodio ipomaniacale non impedisce le normali
attività quotidiane del soggetto; possono essere disturbate ma non impedite completamente. Mentre la
mania impedisce completamente le attività di relazione e lavorative del soggetto e qualsiasi confronto
con l’esterno, l’ipomania no.

3. EPISODIO DEPRESSIVO
Le fasi depressive sono prevalenti nel disturbo bipolare, sia di tipo 1 che di tipo 2; sono più frequenti sia
degli episodi maniacali che di quelli ipomaniacali sempre nell’ambito dell’episodio bipolare di tipo 1 e 2.
Lasciano il pz in uno stato di frustrazione e di malattia molto più sentito rispetto alla fase maniacale. Il pz
vive quasi con gioia la fase maniacale, soprattutto se è una fase ipomaniacale, con desiderio, perché si
sente forte, si sente potente, si sente grandioso ed è nella fase depressiva che si rende conto di quello

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che ha commesso nella fase maniacale e della differenza di stato in cui si trova rispetto alla fase
maniacale, quindi soffre ovviamente molto di più. Inoltre le fasi depressive sono più refrattarie alla
terapia, mentre quelle maniacali rispondono meglio. Il primo approccio con il medico normalmente
avviene in fase depressiva. Poiché la fase depressiva si manifesta con le caratteristiche del disturbo
depressivo maggiore è molto difficile la diagnosi differenziale tra disturbo bipolare e disturbo depressivo
maggiore.

Il 20% dei pz con iniziale diagnosi di disturbo depressivo maggiore sono in realtà pz con disturbo bipolare
in quanto successivamente subentra la fase maniacale o ipomaniacale.

È difficile fare diagnosi di disturbo bipolare perché il più delle volte il pz si presenta con una fase
depressiva e all’anamnesi non ricorda l’episodio maniacale o perché ancora non l’ha avuto dato che sono
più frequenti gli episodi depressivi o perché se l’ha avuto, specie se si trattava di episodio ipomaniacale
può non essere stato avvertito dal pz come stato di malattia. L’episodio maniacale è caratterizzato da
sintomi meno evidenti dell’episodio maniacale quindi in realtà il pz sta bene durante questa fase: ha
grande stima di sé, si sente a suo agio, pensa di poter fare qualsiasi cosa e quindi lo avverte come uno
stato di benessere. Quindi se ha già avuto un episodio ipomaniacale può non riferirlo in anamnesi.

4. EZIOPATOGENESI DISTURBO BIPOLARE


Esiste una forte componente genetica/familiare del disturbo bipolare rispetto al disturbo depressivo
maggiore: la concordanza tra gemelli omozigoti è molto alta, intorno all’80%-85%, cosa che non
troviamo nella depressione maggiore. Un figlio di un genitore che ha avuto un episodio di depressione
maggiore ha un rischio di circa 3 volte maggiore rispetto a chi ha un genitore che non ha mai sofferto di
disturbo depressivo maggiore di sviluppare disturbo bipolare.

Nel disturbo bipolare la trasmissione alla progenie è del 25% da padre o madri biologiche che crescono i
loro figli, 0.21 da padre e 0.28 da madre che forniscono soltanto i geni, 0.06 da padre e 0.10 da madre
che non sono genitori biologici ma crescono soltanto i figli. Quindi c’è anche una componente
ambientale sebbene giochi un ruolo minore rispetto a quella genetica.

Fare la diagnosi del disturbo bipolare non è facile: bisogna fare una diagnosi differenziale con il disturbo
depressivo maggiore. Il disturbo depressivo maggiore è molto più frequente (5% nelle donne e 3,6%
maschi) rispetto al disturbo bipolare che è poco frequente. Inoltre il disturbo bipolare tipo 1 è meno
frequente (0,6%) rispetto al disturbo bipolare tipo 2 (1,7%). C’è chi ritiene che il disturbo depressivo
maggiore quando è refrattario alla terapia farmacologica potrebbe essere un disturbo bipolare non
diagnosticato.

Ovviamente anche la storia familiare è importante perché se il disturbo bipolare è presente nei genitori è
ovvio che questo orienta verso una diagnosi di disturbo bipolare.

La diagnosi di disturbo bipolare spesso viene fatta dopo un certo periodo che si segue il pz ovvero
quando si presenta l’episodio maniacale o ipomaniacale. Se trattiamo un bipolare con antidepressivi,
soprattutto se della classe degli antidepressivi tricicli, possiamo rendere più difficile il controllo di tutta la
patologia, indurre lo shift verso la mania e accelerare i cicli rendendoli rapidi quindi più difficilmente
trattabili e più disturbanti per il pz. Gli antidepressivi triciclici non devono mai essere utilizzati nella fase
depressiva del disturbo bipolare. L’utilizzo di questi può avvenire quindi se si fa una diagnosi sbagliata.

5. DD TRA DB E DDM

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Ci sono alcune modalità di presentazione di sintomi che orientano verso una diagnosi di bipolarità
rispetto al disturbo depressivo maggiore:

● all’inizio il bipolare tende a presentarsi con ipersonnia, o comunque un aumento dei momenti
durante la veglia in cui il pz si addormenta o fa dei pisolini, al contrario del disturbo depressivo
maggiore che inizialmente si presenta con insonnia e riduzione del sonno;
● all’inizio i bipolari hanno spesso iperfagia e correlato aumento di peso cosa che non si verifica nel
disturbo depressivo maggiore in cui spesso c’è una perdita dell’appetito e una perdita di peso;
● I bipolari possono avere la cosiddetta “paralisi plumbea” quindi gli arti inferiori pesanti e si sentono
incapaci di muoverli, mentre questo non si verifica nel DDM tranne in un particolare tipo;
● ci possono essere più frequentemente caratteristiche psicotiche nei bipolari e irritabilità, fuga di
pensieri e in generale ciò che è attribuibile alla fase maniacale è presente nel bipolare ma non è
presente o lo è poco nel DDM;
● il primo episodio di disturbo bipolare è in genere un episodio depressivo che avviene prima dei 25
anni. L’età di comparsa del disturbo bipolare è dai 13-16 anni. Il disturbo depressivo maggiore ha
un esordio più tardivo, frequentemente dopo i 25 anni;
● ovviamente la storia familiare è importante: se c’è una storia di disturbo bipolare questo orienta la
diagnosi verso il bipolarismo. Nel disturbo depressivo maggiore la familiarità non ha un ruolo così
tanto importante.

6. TERAPIA
La terapia è molto importante nei pz con disturbo bipolare perché il rischio di suicidio in questi soggetti
è maggiore rispetto a quelli con disturbo depressivo maggiore e questo proprio per il contrasto fra la
fase maniacale/ipomaniacale e quella depressiva, che è avvertita come estremamente invalidante dal pz.

La terapia del disturbo bipolare è quasi sempre una politerapia, anche se si può fare all’inizio una
monoterapia, ma non sempre il pz è controllato dalla monoterapia data la coesistenza di fasi diverse
dell’umore.

Si utilizzano stabilizzanti dell’umore, farmaci antipsicotici e farmaci antidepressivi (SSRI/SNRI, mai


TRICICLICI).

Non tutti gli psichiatri sono d’accordo sull’utilizzo dei farmaci antidepressivi nel disturbo bipolare. Gli
antidepressivi triciclici non possono mai essere utilizzati nel disturbo bipolare. Quindi se si devono
utilizzare gli antidepressivi, in questi casi si utilizzano SSRI e SNRI. Gli antidepressivi non possono mai
essere utilizzati in monoterapia ma devono essere sempre associati a stabilizzanti dell’umore perché in
questo modo si riduce la possibilità di shift verso la mania e l’accelerazione dei cicli rapidi.

I farmaci stabilizzanti dell’umore sono:

● Litio.
● ANTIEPILETTICI: Valproato, Lamotrigina e in II/ III scelta la Carbamazepina.

I farmaci antipsicotici sono:

● QUETIAPINA: più utilizzata rispetto alla seconda;


● OLANZAPINA che però ha molti effetti collaterali metabolici quali aumento del peso, dislipidemia,
intolleranza al glucosio e quindi in ultimo la sindrome metabolica.

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Questi due sono antipsicotici di II generazione. Quelli di I generazione sono dei bloccanti molto potenti
dei recettori D2 della dopamina. Quelli di II generazione bloccano meno questi recettori.

I farmaci antidepressivi:

● SSRI.
● SNARI.

6.1. COME SI TRATTA EPISODIO MANIACALE ACUTO

Il disturbo bipolare è costituito dall’alternanza di due fasi: una maniacale e una depressiva.

Si può iniziare con un singolo farmaco: Litio o Valproato (indicazione ristretta: non si deve dare in prima
linea in donne in età fertile perché è teratogeno). Entrambi sono efficaci nell’episodio maniacale. La
carbamazepina anche è efficace come stabilizzante dell’umore, ma per gli effetti collaterali non è mai
prima scelta, ma in seconda o terza linea in un pz non controllato.

Il Litio è meno efficace se ci sono i cicli rapidi quindi sarebbe meglio il Valproato. Li+ impiega 4-5 giorni
ad agire, il Valproato 3-5 giorni, perciò se il pz è molto agitato va sedato con benzodiazepine, invece se è
molto aggressivo si associa un antipsicotico di seconda generazione (Quetiapina, Paliperidone,
Risperidone, in seconda linea: Olanzapina, Ziprasidone). Il metabolita del Risperidone è 9-idrossi
risperidone che ha come nome commerciale Paliperidone, è usato come antipsicotico, nel disturbo
bipolare fase maniacale, ma non ha l’indicazione come Quetiapina e Risperidone. Di seconda scelta
abbiamo l’Olanzapina che è molto efficace ma usata solo quando il pz non è controllato. Gli antipsicotici
possono essere dati per via intramuscolare: questo è vantaggio in pz agitati che non vogliono assumere
farmaci.

Alternativamente si può fare monoterapia con un antipsicotico di seconda generazione: Quetiapina,


Paliperidone, Risperidone. Dare un antipsicotico nell’episodio maniacale significa aumentare
leggermente il rischio di convertirlo in episodio depressivo, generando così un ciclo rapido, ossia passa
più velocemente da un tipo di episodio all’altro (da maniacale a depressivo o viceversa) e quindi si ha un
aumento della frequenza dei cicli. In realtà questo rischio è basso rispetto al rischio che si ha nella fase
depressiva, se si dà un antidepressivo triciclico, di convertire la fase depressiva in fase maniacale a ciclo
rapido. Quindi gli antipsicotici hanno un rischio di shift verso la fase depressiva, ma è comunque molto
più basso rispetto al rischio degli antidepressivi triciclici verso la fase maniacale. Tra gli antipsicotici con
indicazione nel DB, l’Aripiprazolo (nome commerciale Abilify®), è quello col maggiore rischio. Se il pz è
estremamente aggressivo e bisogna intervenire tempestivamente per evitare che il pz faccia male agli
altri o a sé stesso, l’antipsicotico da usare è l’Aloperidolo, antipsicotico di prima generazione,
somministrato i.m., mai e.v. (porta anche a morte) perché allunga il QT e aumenta il rischio di aritmie e
torsioni di punta. E’ l’antipsicotico che più velocemente decorticalizza. È molto efficace nell’attacco acuto
maniacale ma è gravato da molti effetti collaterali, in particolare extrapiramidali (che peggiorano se si
associa al Litio) e quindi deve essere associato a degli antimuscarinici altrimenti il pz si blocca come se
avesse un Parkinson avanzato, e per questo motivo non è considerato un farmaco di prima scelta. Tutti
gli effetti collaterali sono aggravati se associato al Litio.

6.2. COME SI TRATTA EPISODIO DEPRESSIVO

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• Il Litio funziona anche nell’episodio depressivo ma meno rispetto alla mania, allo stesso modo
funziona anche il Valproato, il quale nelle donne in età fertile è ora considerato di seconda linea.

• Tra gli stabilizzanti dell’umore hanno indicazione nell’episodio depressivo anche:

● Quetiapina, antipsicotico di seconda generazione. Si può utilizzare anche nell’episodio


maniacale; è un farmaco che risponde velocemente, per cui viene utilizzata nell’episodio
depressivo (da slide: è indicata come prima scelta in un paziente naive).

● Lamotrigina, un antiepilettico. Ha indicazione esclusiva nell’episodio depressivo; deve


essere titolata lentamente, e quindi ha una latenza d’azione prolungata.

Se il paziente è già in trattamento con Litio ed ha episodio depressivo, si può aggiungere Quetiapina o
Lamotrigina.

• MAI usare antidepressivi triciclici perché ho un alto rischio di conversione in mania e cicli rapidi.

• MAI usare un antidepressivo SSRI/SNRI da solo, va sempre associato ad uno stabilizzante


dell’umore come il Litio, Valproato oppure ad un Antipsicotico (es: Olanzapina + Fluoxetina [SSRI],
associazione in commercio negli USA in co-formulazione; in Italia non esiste ma si può fare
somministrando i singoli farmaci) per il rischio di shift verso la mania.

Quando associo un SSRI o un SNARI? Ci sono psichiatri che non utilizzano mai antidepressivi proprio per
questo rischio di shift verso la mania e peggioramento nei cicli rapidi. Gli SSRI/SNRI hanno bisogno di
tempo per agire, almeno 2 settimane, quindi necessariamente non sono la soluzione per il trattamento
acuto dell’episodio depressivo, si usano in aggiunta se l’episodio depressivo non si risolve o nella
profilassi.

Il miglioramento dell’episodio depressivo dopo 2 settimane predice la risposta massimale. Se non c’è
miglioramento a 2 settimane allora probabilmente anche con il progredire della terapia la risposta non ci
sarà, o sarà molto lieve. L’eccezione è la Lamotrigina perché ha titolazione lenta e quindi ha bisogno di
più tempo.

6.3. LITIO
È il farmaco d’elezione perché è quello che più di tutti previene il suicidio. Il rischio di suicidio è molto
alto nei disturbi bipolari molto più che nei disturbi depressivi maggiori.

È presente in commercio nella forma di sale, Litio carbonato, sia in formulazione a rilascio immediato sia
a lento rilascio. Entrambe le formulazioni sono somministrate per os. Quella a lento rilascio viene
somministrata 1 sola volta al giorno quindi migliora la compliance del pz visto che spesso hanno difficoltà
a seguire la terapia, e riduce alcuni effetti collaterali del Litio che si manifestano al picco plasmatico
Cmax. Con la formulazione a lento rilascio si riduce il picco plasmatico dal momento che viene rilasciato
in maniera costante nel tempo. Tuttavia si ritiene che sia meglio far oscillare i livelli plasmatici del Litio
quindi utilizzare una formulazione a rilascio immediato, per non esporre sempre gli organi a
concentrazioni costanti del farmaco; infatti il Litio è un farmaco a basso indice terapeutico e ha una
tossicità cronica su vari organi.

Il Litio è un catione carico positivamente ma non contribuisce, comeNa e K, al potenziale di membrana.

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6.3.1. MECCANISMI D’AZIONE

● Riduce il rilascio di noradrenalina (NA) e dopamina (DA) dalle terminazioni nervose: questo è il
meccanismo alla base del suo effetto antimaniacale. Nella psicosi ma anche nelle manie c’è infatti
un’iperattivazione della trasmissione noradrenergica e dopaminergica. Il Litio è molto più efficace
nella fase maniacale rispetto a quella depressiva anche se agisce un po’ anche su quest’ultima.

● Aumenta il rilascio di 5-HT (serotonina): quest’azione è alla base della sua funzione
antidepressiva.

● Inibisce l’attività dei recettori GPCR accoppiati a proteine Gs e Gi: questo spiega alcuni effetti
collaterali del Litio, come l’ipotiroidismo per azione inibitoria del recettore del TSH ormone che
regola tutte le funzioni tiroidee come sintesi e rilascio degli ormoni tiroidei, che è un recettore
GPCR accoppiato a proteina Gs e quindi l’azione del TSH può essere inibita dal Litio che può indurre
ipotiroidismo. Il Litio induce, sempre soprattutto all’inizio della terapia agendo sui recettori GPCR
dell’ormone antidiuretico, poliuria e polidipsia. Se si presenta in una fase più tardiva della terapia
può portare al diabete insipido di origine renale, e questo per azione di antagonismo sul recettore
V2 dell’ADH, recettore GPCR al quale si lega l’ormone antidiuretico nel rene. Tutti i pz, i primi 3-4
giorni dall’inizio della terapia perdono elettroliti tra cui Na e K; la perdita di K attiva il rilascio di
aldosterone che quindi fa recuperare il K che si riequilibra e il Na viene ritenuto, portando a una
formazione di edemi soprattutto a livello pretibiale, molto frequenti all’inizio della terapia che però
normalmente recedono. Oltre a questo effetto precoce, si può avere raramente una tossicità
tardiva a livello renale che si manifesta in caso di terapia cronica. Essa deriva da un’interferenza
con il recettore per ADH che può portare ad insufficienza renale.

● Inibisce la trasmissione dei recettori GPCR accoppiati a Gq perché inibisce PKC (attivata dal DAG)
e inibisce l’attività dell’enzima monofosfoinositolo fosfatasi che è l’enzima che metabolizza
l’inositolo trifosfato quando questo ha già perso due fosfati. Infatti per attivazione della via di
trasduzione del segnale accoppiata a Gq sono prodotti DAG e IP3, quest’ultimo si forma dai
fosfolipidi di membrana per l’attivazione dei recettori GPCR accoppiati a Gq, si lega ai recettori per
IP3 sui calciosomi, fa uscire Ca che è libero nel citosol, e questa è la sua azione principale. Dopo
che ha agito, IP3 deve essere inattivato e per essere inattivato viene metabolizzato dalle fosfatasi
togliendogli i fosfati uno alla volta, quindi da IP3 diventa inositolo bifosfato e poi monofosfato. Il
Litio inibisce l’attività dell’ultimo enzima che toglie l’ultimo fosfato, cioè che attacca inositolo
monofosfato, si chiama appunto monofosfoinositolo fosfatasi: questo enzima, togliendo l’ultimo
fosfato all’inositolo, libera l’inositolo che quindi viene reimmesso in membrana e può ricominciare
il ciclo della via dei polifosfoinositoli, che è quella accoppiata ai recettori GPCR con Gq. Se
l’inositolo monofosfato non viene trasformato in inositolo, il ciclo si arresta e quindi l’attività del
recettore GPCR accoppiati a Gq diminuisce. La trasmissione accoppiata a Gq attraverso l’aumento
della concentrazione del Ca libero nel citosol attiva una serie di enzimi, quindi modula molte delle
funzioni metaboliche della cellula o altro come la proliferazione cellulare.

● Il Litio agisce a livello della GSK3beta, come l’insulina, e inibendo la GSK3beta impedisce che
questa fosforili la beta-catenina e ne impedisca l’azione. La beta-catenina, se c’è Litio, non viene
fosforilata dalla GSK3beta che non funziona e quindi non è avviata alla degradazione nel
proteasoma, ma rimane attiva e agisce come fattore di trascrizione e vengono trascritti dei geni

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importanti per il trofismo cellulare. Questo meccanismo sul trofismo cellulare è uno dei
meccanismi che più sembra coinvolto nell’azione nella stabilizzazione dell’umore.

● Il Litio ha un’azione antiapoptotica mediata dall’effetto sul Bcl2 e quindi inibendo l’apoptosi riduce
la morte cellulare.
6.3.2. FARMACOCINETICA

● Assorbito quasi completamente a livello del tratto gastrointestinale, ha un’emivita di 24 ore ed è


eliminato con le urine. Si scambia con il Na+ e quindi compete con il Na+ per il riassorbimento a
livello del tubulo renale. Quindi se si perde Na si aumenta la ritenzione di Litio e al contrario se
viene ritenuto Na, viene escreto il Litio. Quindi tutto ciò che fa perdere Na determina un aumento
dell’assorbimento del Litio e, poiché il Litio è un farmaco a basso indice terapeutico, piccole
variazioni di concentrazione plasmatica possono dare molti effetti collaterali. E cosa può
aumentare la perdita diNa? I diuretici, la febbre, la diarrea, patologie gastrointestinali. La
sudorazione profusa non aumenta la ritenzione di Litio perché porta alla secrezione preferenziale
di Li+ rispetto al Na+, quindi non è un problema. Attenzione quindi dopo aver fatto attività fisica e
aver sudato molto, per reintrodurre i liquidi persi viene somministrata acqua senza elettroliti, si
può avere iponatremia e quindi ritenzione di Litio con l’aumento degli effetti avversi.

● Il Litio va sempre titolato, proprio perché è un farmaco a basso indice terapeutico. Si inizia da
basse dosi e poi si aumenta gradualmente misurando la litiemia quando si raggiunge lo steady
state o stato stazionario, ossia quando siamo sicuri che in qualsiasi momento io misuri la litiemia
sotto terapia con concentrazioni costanti di Litio, questa ricada in un piccolo range. Lo steady state
si raggiunge dopo 5 emivite di durata singola 24h, quindi dopo 5 giorni, ma per essere sicuri si
allunga sempre fino a 7-8 giorni dopo l’inizio della terapia. Quindi allo steady state posso misurare
la concentrazione plasmatica del Litio sapendo che questa ormai è stabile, ovviamente se non vario
la dose. Si inizia con una dose bassa, dopo 7-8 giorni misuro la litiemia a distanza di almeno 10/12
ore dall’ultima somministrazione. Si valuta se questa rientra nel range di concentrazioni che sono
ritenute avere effetto efficace e terapeutico oppure se è troppo bassa e bisogna aumentare la
dose. Gli aumenti di dose si fanno ogni 8 giorni dopo aver misurato la litiemia finchè non si
raggiunge il range terapeutico. TUTTI I PZ IN TERAPIA CON LITIO DEVONO AVERE LA LITIEMIA
MISURATA, cioè non è possibile fare terapia con Litio se la litiemia non può essere misurata
regolarmente.

● La litiemia si misura non prima di 8 giorni e a distanza di 10-12 ore dall’ultima somministrazione. Si
deve misurare litiemia ogni settimana per il primo mese di terapia, poi per i successivi 6 mesi una
volta al mese, poi ogni 3 mesi ed infine ogni 6 mesi (quindi deve essere costantemente
monitorata). Si misura più spesso quando devo cambiare la dose se il pz non è sufficientemente
controllato, non risponde bene alla terapia o quando insorgono effetti collaterali, per vedere se
sono dati da un aumento della concentrazione plasmatica del Litio. Se la concentrazione
plasmatica risulta troppo bassa c’è un problema di compliance del pz.

● Le concentrazioni efficaci alle quali si deve mantenere il Litio sono: 0,5/0,6 - 1,25 meq/L, al sotto di
0,5 non è efficace, al di sopra di 1,25 cominciano ad aumentare gli effetti collaterali; oltre i 2 meq/L
aumentano molto gli effetti collaterali. Tuttavia alla CMax, quindi al picco plasmatico, si possono
avere degli effetti collaterali anche quando in realtà le concentrazioni plasmatiche a fine dose sono

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nell’intervallo ideale (effetti collaterali di picco). Il Litio è quindi un farmaco non eccessivamente
maneggevole ma se si monitora in modo costante ed efficiente, l’efficacia è molto buona.

● Nella terapia dell’attacco acuto le concentrazioni plasmatiche sono mantenute nell’estremo più
alto del range più alto (0,8-1,1), in profilassi nell’estremo più basso del range più basso (0,6-0,7),
alcuni pz anche a 0,5.

● La litiemia viene invece misurata solo dopo aver iniziato la terapia.

● A causa di alcuni effetti collaterali del Litio, prima di iniziare la terapia e poi regolarmente devo
controllare:

○ Creatinemia e Azotemia, per la possibile tossicità renale e per capire se il pz può tollerare la
terapia con il Litio (se ha un’insufficienza renale è più a rischio agli effetti collaterali).

○ ECG per gli effetti collaterali del Litio sul Cuore. Esso infatti ha un’azione inibitoria
sull’attività cardiaca.

○ valutazione Tiroidea (per Ipotiroidismo).


6.3.3. VANTAGGI E SVANTAGGI DEL LITIO

Il Litio è un farmaco difficile da


maneggiare ma ha diversi vantaggi: è
molto efficace come antimaniacale e
come stabilizzante dell’umore,
efficace anche nella fase depressiva
ma un po' meno, è il farmaco che più
di tutti riduce il rischio di suicidio,
possiede un’ampia esperienza clinica ed è molto economico. I vantaggi del Litio sono comuni anche agli
altri farmaci utilizzati per trattare il disturbo bipolare. Il Litio possiede una latenza di azione dovuta al suo
effetto sul rilascio dei neurotrasmettitori e sulla loro attività, sulla propagazione dei segnali intracellulari.

Avendo una latenza d’azione e raggiungendo l’efficacia dopo alcuni giorni, è necessario intervenire con
altri farmaci se ad esempio il pz è in una fase maniacale molto agitata o se in una fase depressiva con
rischio di suicidio.

Il Litio inoltre ha una minore efficacia nei cicli rapidi


6.3.4. EFFETTI COLLATERALI

Attenzione al dosaggio: se il dosaggio è accurato è un farmaco sicuro ed efficace.

Abbiamo diversi tipi di effetti collaterali:

I. Da picco plasmatico, quindi quelli che vediamo alla Cmax in cui si può avere una lieve tossicità,
nonostante le concentrazioni plasmatiche siano nel range terapeutico;

II. Tossicità acuta;

III. Tossicità cronica.

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I primi sintomi dell’intossicazione da Litio al picco plasmatico sono:

■ disturbi gastrointestinali (nausea, vomito e diarrea);

■ tremori fini (soprattutto alle mani; 33-65% dei pz, in genere recedono ma persiste nel 4-15% dei pz
in terapia di mantenimento, per il quale si usano betabloccanti e si consiglia di evitare caffè);

■ poliuria - polidipsia;

■ alcuni pz hanno anche incoordinazione e difficoltà nel parlare e per questo il Litio viene
somministrato la sera prima di dormire in modo che il picco plasmatico sia durante la notte. Esiste
una relazione dose-effetto con corrispondente aumento dose-dipendente della poliuria e del
tremore, per cui se aumento la dose aumenta la poliuria e il tremore.

La tossicità acuta (litiemia più alta del range) si manifesta con:

● disturbi gastrointestinali (nausea, vomito, diarrea profusa);

● tremori grossolani;

● disturbi cerebellari (incoordinazione motoria, dismetria, disartria e vertigini; nel giovane invece
nistagmo e diplopia);

● lieve atassia (importante anche se lieve, deve indurre sospetto), debolezza muscolare, segni
extrapiramidali.

● appiattimento o inversione delle onde T all’ECG, problema che normalmente è asintomatico, ma ci


può essere un aumento del rischio di arresto cardiaco per minime variazioni dell’equilibrio del K;

● A livello del SNC si possono avere: agitazione, confusione mentale, delirio, convulsioni e in casi
gravi coma e poi morte, se non si interviene.

La tossicità cronica è dovuta alla somministrazione elevata di dose di Litio ma non troppo da dare una
tossicità acuta:

■ Aumento ponderale (aggravato dall’associazione con antipsicotici che inducono anch’essi aumento
ponderale e vi è un effetto additivo), alterazione del metabolismo glucidico, abbiamo cioè
intolleranza al glucosio con rischio di sindrome metabolica soprattutto se associato agli
antipsicotici;

■ Cute → abbiamo lesioni maculo-papulari (lesioni piccole inferiori a 10mm), quindi reazioni
allergiche e acneiformi (non ci sono però i punti neri), non si può usare il Litio in pz con psoriasi.
Moderata perdita di capelli, quasi sempre femminile; rarissima l’alopecia;

■ GI → Pirosi gastrica, diarrea, collegati all’ora della somministrazione. Infatti sono maggiormente
inducibili in concomitanza dei pasti;

■ Cuore → ECG: appiattimento o inversione dell’onda T benigna, reversibile (20% pz). Disfunzione del
nodo del seno dose-dipendente. Bradicardia sinusale e blocchi AV solo per overdose;

■ Tiroide → Per effetto sul recettore del TSH ci può essere ipotiroidismo e/o gozzo per inibizione
dell’Adenilato Ciclasi attivata dall’ormone tireotropo. Il 7-10% dei pz presentano ipotiroidismo

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manifesto, mentre il 23% subclinico. Il rischio è 3-9 maggiore nelle donne e se si verifica
ipotiroidismo NON si interrompe la terapia con il Litio ma si fa terapia sostitutiva con T4. Il 10% dei
pz ha ipercalcemia per iperparatiroidismo (monitorare Ca2+ regolarmente);

■ Rene → all’inizio terapia, dopo le prime 24 ore, si vede un aumento dell’escrezione renale di Na+ e
K+ con polidipsia e poliuria; dopo circa 4 giorni l’escrezione del K+ si normalizza, ma si ha ritenzione
di Na+ e comparsa di edemi pretibiali (che recedono spontaneamente). Lo scambio del Li con il Na
ci impedisce l’utilizzo dei diuretici ad eccezione dei risparmiatori di K della classe dei bloccanti del
canale per il Na, essendo gli unici che agiscono in un segmento del nefrone in cui il Li non si
scambia con il Na ma lo segue. Questi diuretici facendo eliminare Na a livello del tubulo contorto
distale e dotto collettore, l’eliminazione di Na si accompagna all’eliminazione di Li e non aumenta
la litiemia. Li+ ha affinità doppia rispetto Na+ per i canali epiteliali del Na+ sulle cellule tubulari
distali e si accumula all’interno delle cellule, causando insensibilità all’ADH e questo è quello che
può succedere nella terapia cronica: diminuisce la capacità del rene di concentrare l’urina. Si ha
una poliuria tardiva che può portare a diabete insipido nefrogenico;

■ Occhio → diminuzione dell’accomodazione, riduzione del visus e diplopia;

■ Apparato respiratorio → In pz con BPCO può peggiorare il quadro clinico (però non è la tossicità
primaria del Litio); si può avere anche peggioramento dell’apnea notturna;

■ In gravidanza → quello che si tende a fare è trattare l’episodio acuto ma non fare la profilassi. Il
Litio è teratogeno e può causare una malformazione cardiaca della tricuspide che è la
malformazione di Ebstein se dato nel primo trimestre (1:2500). Bisogna fare eco di screening per
anomalie cardiovascolari, però la malformazione di Ebstein è risolvibile chirurgicamente quando il
bambino nasce. In gravidanza il Litio si somministra durante gli episodi e non nella profilassi, quindi
solo se la donna sviluppa un episodio di mania o di depressione. Inoltre il Litio aggrava la poliuria
materna: attenzione al Na+ con la dieta (non dare dieta povera di Na+) e non utilizzare diuretici. Il
bambino nato da madre trattata con Litio può manifestare gozzo, depressione SNC, ipotonia, soffio
o murmure cardiaco, tutte condizioni reversibili. È buona norma sospendere Li+ 24-48h prima del
parto per evitare un aumento tossico della litiemia per l’induzione della diuresi forzata
post-partum, e se la donna ha ancora Litio nell’organismo, ci potrebbe essere un aumento tossico
della litiemia.
6.3.5. INTERAZIONI CON ALTRI FARMACI

• I diuretici tiazidici e dell’ansa aumentano la tossicità del Litio perché il Litio, a livello del tubulo
renale, si scambia con il Na e quindi, siccome i diuretici fanno eliminare Na, fanno anche ricaptare
e ritenere Litio. Si possono somministrare invece i diuretici risparmiatori di K (Amiloride e
Triamterene) perché, a livello del dotto collettore, attraverso il canale del Na passa anche il Litio
nella stessa direzione e perciò vengono eliminati entrambi. Sono gli UNICI che si usano
nell’intossicazione da Litio. I diuretici inibitori dell’anidrasi carbonica non fanno ritenere Litio ma
non hanno un’azione sufficientemente potente da poter essere utilizzati nell’intossicazione da Litio
quindi gli unici che si utilizzano sono i risparmiatori di K che agiscono a livello del canale del Na;

• Gli antagonisti dell’aldosterone non favoriscono l’escrezione del Litio e non devono essere utilizzati
nell’intossicazione perché non sono efficaci;

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• ACE inibitori, sartani e FANS fanno ritenere Litio sempre per lo stesso motivo perché fanno
eliminare Na. I FANS determinano una diuresi a livello del rene come ACE inibitori e sartani;

• Beta-bloccanti si utilizzano per tremori ma hanno degli effetti inibitori sul cuore che possono
sommarsi alla tossicità cardiaca del Litio e stessa cosa vale per i Ca antagonisti (verapamil e
diltiazem) per i quali bisogna stare attenti alla tossicità cardiaca;

• L’associazione con Metronidazolo è controindicata perché determina un aumento della litiemia;

• Il Litio non deve essere associato agli antipsicotici di prima generazione perché aumenta gli effetti
collaterali dei neurolettici stessi, tra cui l’ipertermia maligna (contrazione della muscolatura con
aumento della temperatura, disidratazione, danno renale e alterazione del sensorio) e le
discinesie. Per cui se dobbiamo usare un antipsicotico, dobbiamo sceglierne sempre uno di
seconda generazione come quetiapina od olanzapina ma anche paliperidone e risperidone;

• Nell’associazione con SSRI è possibile ma bisogna fare attenzione perché Li+ potenzia la
trasmissione serotoninergica e gli SSRI sono antidepressivi che se necessario possono essere dati
ma bisogna fare attenzione alla dose per rischio di sindrome serotoninergica.

N.B. La sindrome serotoninergica è diversa dall’ipertermia maligna da neurolettici anche se alcuni


sintomi sono comuni. L’iperiflessia è presente solo nella sindrome serotoninergica. La terapia è
diversa perché solo nell’ipertermia maligna si somministra un agonista dopaminergico
(bromocriptina) mentre questo non ha azione nella sindrome serotoninergica. In entrambe è
necessario innanzitutto abbassare la temperatura, sostenere la respirazione e lentamente
reidratare il pz. Come miorilassante si somministra sempre dantrolene.

6.4. PROFILASSI
Ci sono circa 4-7 episodi all’anno quando i cicli non sono rapidi. Per cui, ci sono dei lunghi periodi di
tempo in cui il paziente non ha episodi.

Tuttavia, il DB è caratterizzato da un’alta percentuale di recidive ed elevato rischio di suicidio e quindi è


assolutamente importante fare profilassi. Un episodio maniacale ha rischio di recidiva dell’80-90%.

Per un sottogruppo di pazienti il DB è una malattia neuroprogressiva, nella quale le recidive sono
associate a peggioramento dei sintomi e della risposta ai farmaci, a riduzione della sostanza cerebrale
grigia e bianca, a peggioramento del funzioni cognitive e a riduzione dell’intervallo tra i cicli, quindi i cicli
diventano rapidi. In questi pazienti è importante fare profilassi, la quale deve essere iniziata subito dopo
il primo episodio. Dunque, per la profilassi, si possono utilizzare: Li+, Valproato (nelle donne in età fertile
sarebbe meglio di no), o Lamotrigina in monoterapia.

La Lamotrigina ha maggior effetto sulla profilassi della depressione (per l’episodio depressivo acuto),
però dato che sia i BP I sia II passano la maggior parte del tempo in fase depressiva, rispetto alla fase
maniacale, la Lamotrigina in profilassi è utile. L’Olanzapina non si usa normalmente in profilassi perché
ha il problema degli effetti avversi metabolici. Per tutti gli antipsicotici, invece, non sono stati osservati
benefici nella terapia profilattica più lunga di 6 mesi dopo la risoluzione dell’episodio acuto. Aripiprazolo
(antipsicotico di seconda generazione) è efficace solo nella profilassi della mania e non nella profilassi
della fase depressiva, infatti è poco utilizzato.

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1. QUADRO SINTOMATOLOGICO DELLA SCHIZOFRENIA


La schizofrenia è un disturbo cronico, con una prevalenza dell’1% nella popolazione mondiale. È una
patologia psichiatrica caratterizzata dalla presenza costante da più di un mese, di almeno due sintomi
caratteristici della “fase acuta” schizofrenica. Al termine della fase acuta permangono dei sintomi
residui per almeno 6 mesi, più sfumati rispetto a quelli acuti. È una patologia severa, impatta in modo
significativo sulla funzionalità del paziente; pertanto, nella diagnosi della schizofrenia i sintomi presenti
devono avere tutti la caratteristica di essere gravemente impattanti sulla vita quotidiana del paziente
(difficoltà relazionali, difficoltà lavorative, sfera della cura del sé e del proprio corpo).

I sintomi sono molti, e anche molto eterogenei. Nel


dettaglio si possono dividere in sintomi positivi e
sintomi negativi, i quali si accompagnano a dei deficit
cognitivi. I sintomi riflettono le alterazioni patologiche a
livello di determinate trasmissioni nervose e aree
cerebrali, a volte, in opposizione fra di loro.
SINTOMI POSITIVI

I sintomi positivi sono dovuti principalmente ad


un'alterazione del circuito mesolimbico (circuito che dal
mesencefalo va al sistema limbico, in particolare
all’accumbens ma non solo).

● Delirio: è una alterazione della logica che non è


corretta dalla critica. Ci sono vari tipi di delirio: quello di persecuzione, quello di grandiosità
(simile a quello che si vede come sintomo della mania), il delirio religioso, il delirio ipocondriaco,
il delirio nichilistico, ecc.

● Alterazione della Percezione: può prendere le forme di una allucinazione o di una illusione:

○ Illusione: percezione errata di un oggetto esistente (es. percepire come suono di voci il
rumore dell’acqua che scorre). Un’illusione può essere di tipo catatimico, ovvero con
coinvolgimento dei sentimenti (credere che una sconosciuta appena incontrata possa
essere la propria madre), oppure di tipo catanoetico, con una distorsione della percezione
dettata dalla ragione (vedere un’oasi nel deserto al posto di una duna).

○ Allucinazione: una percezione senza oggetto, non distinguibile dall’esperienza percettiva


normale, con carattere dunque di concretezza, realtà e spazialità. Nel caso della
schizofrenia le allucinazioni sono più frequentemente di natura uditiva (percezione di voci)
o di natura tattile.

● Disorganizzazione del pensiero e dell’eloquio, sia nella forma che nel contenuto. Possono essere
presenti:

○ Ecolalia, continua ripetizione di una parola o di una frase ascoltata.


○ Creazione di neologismi, vocaboli inventati per esprimere un contenuto ideativo
○ Paleologia, regressione al linguaggio dell’infanzia.

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21/12/2021 Prof. Melchiorri SCHIZOFRENIA sbob: Palma, Pontecorvo rev: Nardoni

○ Pensiero Tangenziale, il paziente non risponde all’ultima domanda dell’interlocutore, ma


alla domanda precedente.
○ Blocco del pensiero, arresto improvviso del flusso ideativo e dell’eloquio.
○ Povertà del linguaggio.

● Disorganizzazione motoria, che si può manifestare come:

○ Iperattivazione motoria, acatisia: irrefrenabile desiderio di muoversi. Questo è un sintomo


della schizofrenia ma anche un effetto collaterale della terapia, quindi bisogna distinguere
un effetto collaterale del farmaco, che può dipendere da una dose troppo elevata oppure
sintomo della schizofrenia, che può dipendere da una terapia non efficace.

○ Acquisizione di una determinata postura, catatonio, ovvero mantenimento di una


posizione fissa. Intenso impegno di opposizione negativista, che può andare dallo sforzo di
tensione muscolare al mutismo e al rifiuto di alimentarsi. Il catatono, spesso, è intervallato
da periodi di forte agitazione. Nella catamenia invece la posizione viene indotta dal
medico e mantenuta.

● Alterazione degli impulsi: soprattutto in due campi, alimentare e sessuale, sia per eccesso che
per difetto; inoltre ci può essere coprofagia, la tendenza a mangiare le proprie feci, oppure
presenza di perversioni disfunzionali o pericolose.
SINTOMI NEGATIVI

I sintomi negativi sono dati da un’alterazione nella via mesocorticale e prefrontale, cioè quei neuroni che
dal mesencefalo proiettano alla corteccia, in particolare alla corteccia pre-frontale e piriforme. Inoltre,
sono anche dati da alterazioni del circuito della gratificazione, a livello del nucleo dell’accumbens.

Inizialmente questi sintomi furono attribuiti al trattamento con farmaci antipsicotici di prima
generazione (neurolettici), in grado di indurre la sindrome neurolettica, caratterizzata da sintomi di tipo
negativo.

● Anedonia: incapacità di provare piacere.

● Abulia: mancanza di volontà.

● Incapacità di prendere decisioni.

● Appiattimento affettivo: diventano totalmente piatti, sono incapaci di avere affetto.


DEFICIT COGNITIVO

Il deficit cognitivo, che si ha nella schizofrenia, normalmente non è utilizzato per fare diagnosi ma è
presente, risponde poco ai farmaci che sono in commercio, e quindi costituisce un problema. I sintomi
cognitivi sono prevalentemente dati da alterazioni della corteccia prefrontale dorsolaterale. Fra i sintomi
cognitivi sono raggruppati alcuni sintomi che abbiamo già visto, caratteristici della schizofrenia: il
linguaggio disorganizzato, il deficit di attenzione, il deterioramento della memoria.

NB: I sintomi positivi rispondono meglio alla terapia con antipsicotici, i sintomi negativi sono più
difficili da trattare (come i sintomi cognitivi), anche se gli antipsicotici di seconda generazione riescono

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in parte a trattarli; c’è qualche antipsicotico di ultimissima generazione che dovrebbe agire
leggermente anche sui sintomi cognitivi.

L’aggressività è data da alterazioni a livello dell’amigdala e della corteccia orbitofrontale, e i sintomi


affettivi da alterazioni della corteccia prefrontale ventromediale.

Si può fare diagnosi di schizofrenia anche se è presente uno solo di questi


sintomi:

● Se il delirio è bizzarro (completamente illogico);

● Se il soggetto sente una o più voci, purché prendano possesso del suo
cervello e commentano le sue azioni.

n.d.r.: la Prof afferma ciò ma non è esattamente corretto sulla base di quanto
fatto a Psichiatria (vedi imm. a lato)

2. CLASSIFICAZIONE DELLA SCHIZOFRENIA


1. Schizofrenia paranoide: si caratterizza per la presenza predominante di sintomi positivi quali
deliri e allucinazioni, meno rappresentate le alterazioni cognitive;

2. Schizofrenia catatonica: dove prevalgono le turbe del movimento (catatono) e l’ecolalia;

3. Schizofrenia disorganizzata, dove prevalgono i sintomi della disorganizzazione del pensiero, del
comportamento e del linguaggio. Rappresenta la forma di schizofrenia più difficile da trattare;

4. Schizofrenia residua, cioè sono quei sintomi che residuano dopo una fase acuta e che
normalmente sono dei sintomi negativi;

5. Schizofrenia indifferenziata, in cui si collocano i pazienti che non rispondono ai criteri delle
forme precedentemente definite;

6. Disturbo schizofrenico: in cui la funzionalità è conservata, sintomi meno gravi. La schizofrenia


impatta notevolmente sulla vita del paziente, nel disturbo schizofrenico i sintomi sono più lievi;

7. Disturbo schizoaffettivo: si utilizzano alcuni farmaci antipsicotici. È un periodo prolungato di


malattia in cui si manifesta un episodio depressivo maggiore (o episodio maniacale), in
concomitanza con la fase acuta della schizofrenia, preceduti o seguiti da almeno 2 settimane di
deliri o allucinazioni senza preminenti sintomi dell’umore (che indicherebbero invece una
diagnosi di disturbo depressivo o bipolare con caratteristiche psicotiche). Per questo tipo di
disturbo, vi sono alcuni farmaci antipsicotici che si possono utilizzare off-label;

3. STORIA CLINICA E CARATTERISTICHE CLINICHE


La schizofrenia è una patologia del neurosviluppo, causata dall’interazione tra fattori di rischio genetici
ed eventi ambientali in un lasso di tempo temporale tra la gestazione e la tarda adolescenza (periodo
d’incubazione della schizofrenia). Per cui, esiste una predisposizione di tipo genetico familiare della
schizofrenia, ma da sola non basta, in quanto la penetranza non è assoluta, c’è bisogno dell’interazione
con l’ambiente.

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La malattia esordisce di solito durante l’adolescenza (15-25 anni nei maschi, 25-30 nelle donne) e tende
ad essere più grave nei maschi. L’inizio è dopo la pubertà in entrambi i sessi, tuttavia le donne hanno un
secondo picco che coincide con la menopausa (da ciò si evince l’importanza decisiva degli ormoni nella
patogenesi). La schizofrenia è caratterizzata da un deterioramento progressivo e dalla persistenza di
sintomi invalidanti per tutta la vita.

La malattia tende ad avere andamento cronico con ricadute, il 10% dei pazienti avrà un solo episodio in
tutta la vita, mentre un altro 10% sarà del tutto resistente al trattamento, il resto avrà una serie di
ricadute.

La prognosi della malattia è fortemente influenzata dal trattamento precoce, effettuato in concomitanza
con il primo episodio. Di solito purtroppo il paziente giunge all’attenzione dello psichiatria solo anni dopo
il primo episodio, a causa della ritrosia sociale e familiare ad ammettere la malattia. Altro fattore
importante per la prognosi è la compliance: i pazienti spesso interrompono la terapia precocemente
quando si sentono meglio. Fortunatamente esistono farmaci a rilascio ritardato, i quali migliorano la
compliance perché devono essere dati con una maggiore distanza fra le dosi.

Se i genitori sono depressi e la schizofrenia richiama sintomi depressivi (es: delirio di rovina, di
autocompatimento e disturbo dell’umore) la prognosi è migliore.
SCHIZOFRENIA IN FASE PREPRODROMICA

Esiste una componente genetica, dimostrata dal fatto che:

• In gemelli omozigoti separati alla nascita se uno dei due è schizofrenico, l’altro gemello può avere
il 50% di possibilità di sviluppare la schizofrenia;

• Se un genitore è schizofrenico (sempre con separazione alla nascita), la possibilità che il figlio
diventi schizofrenico è del 10%;

• Se entrambi i genitori sono schizofrenici, i figli hanno un rischio del 40-50%.

Sono stati individuati centinaia di geni a bassa penetranza, quelli più importanti sono:

● Mutazione della COMT (catecolossimetiltransferasi), omozigosi per la valina in posizione 105. Se il


pz assume in cronico durante l’adolescenza cannabinoidi si avrà un aumento del rischio di
schizofrenia di 10 volte;

● Recettori del glutammato: mutazione con ipofunzione (vedi dopo).

● Proteine centromero, DISC1 (alterata migrazione neuronale nei diversi strati della corteccia).

Ai fattori genetici si aggiungono le influenze ambientali.

La malattia comincia a svilupparsi nella vita intrauterina: infatti esistono varie patologie infettive virali
materne che costituiscono un fattore di rischio per la schizofrenia, come anche il diabete mellito e
l’ipossia perinatale.

Al neuroimaging il cervello schizofrenico appare con ventricoli dilatati suggestivi di atrofia della sostanza
bianca. Inoltre, si ha una lieve alterazione degli strati corticali.

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Normalmente si hanno 6 strati nella corteccia, questa organizzazione si forma durante la vita intrauterina
ad opera di una proteina chiamata Reelina (prodotta nel feto dalle cellule di Cajal-Retzius della glia
radiale). Questa proteina attiva alcune integrine sulla superficie dei precursori neuronali. La cascata del
segnale porta all’attivazione di proteine del centromero. Sono stati fatti studi su topi mutanti per la
Reelina: questi animali mostrano gravissime difficoltà di apprendimento e motorie, con uno
scompaginamento totale degli strati (nella schizofrenia l’alterazione è lieve, esistono però rare condizioni
genetiche umane che assomigliano a questi modelli animali). Nell’adulto la Reelina è prodotta da
interneuroni GABAergici esprimenti calretinina ed è essenziale per il neurotrofismo delle cellule
piramidali.
SCHIZOFRENIA IN FASE PRODROMICA

Nei soggetti predisposti vi è una successiva fase che si manifesta alla pubertà.

Durante la pubertà, si verificano:

● La mielinizzazione del SN;


● Pruning sinaptico (selezione/riduzione delle sinapsi totali nel SNC);
● Cambiamento ormonale.

Si manifestano a questo punto i cosiddetti sintomi prodromici della schizofrenia, difficili da distinguere
dalle “fisiologiche” alterazioni dell’adolescenza, ovvero:

● Cambiamento di umore, il soggetto è più ansioso, irritato, nervoso;


● Cambiamento del sonno e dell’alimentazione;
● Cambio della percezione di sé, degli altri e del mondo esterno. Questo avviene anche
nell’adolescente, anche se chiaramente in maniera maggiore nello schizofrenico. Il soggetto si
sente diverso e non riesce ad adattarsi alla realtà esterna, che a suo giudizio sta cambiando (è la
realtà che cambia e non lui). Questo è un periodo di malessere interiore che può durare in alcuni
mesi, ma anche 1-3 anni, fino allo sviluppo del delirio. È il momento in cui il soggetto adatta la
propria logica ai cambiamenti esterni (o a quelli che lui percepisce come tali): abbiamo il primo
episodio schizofrenico.

Questo tipo di esordio si può manifestare sotto forme diverse, alcuni soggetti cadranno in un delirio di
tipo religioso, sessuale (erotomanico), mistico, eroico, persecutorio, altri avranno un delirio di
commiserazione, altri di compatimento, più correlati al tono dell’umore. In generale quando il delirio è
collegato al tono dell’umore (es. delirio di compatimento dove il soggetto si sente la causa di tutti i mali
del mondo), la schizofrenia è meno grave, mentre più grave è la schizofrenia collegata ad un delirio di
tipo persecutorio, perché c’è il rischio che faccia del male a se stesso e agli altri (aggressività).

Questa fase prodromica quasi mai viene trattata dal medico poiché si tratta di soggetti giovani che
tendono a non rivolgersi al medico oppure a causa di una ritrosia della famiglia nell’ammettere la
patologia psichiatrica. A complicare le cose, molto spesso, si hanno comorbidità con disturbi del sonno,
dell’alimentazione, dell’umore, da abuso di sostanze.

Il primo episodio acuto solitamente si risolve ma possono rimanere dei sintomi residui per un certo
tempo; segue un periodo di stabilizzazione. A seguito dell’episodio acuto alcuni (10-15%) soggetti non

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sperimenteranno nuovi sintomi, un altro 10-15% di soggetti avrà episodi in continuazione, mentre il
restante 70-75% avrà altri episodi a distanza di tempo.

4. PRINCIPI DI TERAPIA DELLA SCHIZOFRENIA


I farmaci che vengono usati per la terapia della schizofrenia sono farmaci che riducono l’attività dei
recettori dopaminergici e quindi si è pensato che la schizofrenia fosse una patologia del sistema
dopaminergico. L’unica eccezione è un farmaco che, pur modulando la trasmissione dopaminergica, non
è un bloccante dei recettori. Questo farmaco, però, è entrato nella prima fase della sperimentazione e
quindi non è detto che progredirà fino all’immissione in commercio. Non si sa se avrà dimostrata attività
antipsicotica.
4.1.DOPAMINA

I sistemi dopaminergici a livello del S.N.C. principalmente sono:

1) La via mesolimbica, che ha i corpi cellulari nel mesencefalo nell’area tegmentale ventrale (VTA) e
proietta al sistema limbico, rilasciando dopamina. La sua alterazione probabilmente causa i
sintomi positivi. Nel pz schizofrenico è IPERATTIVA.

2) La via mesocorticale, dove i corpi cellulari si collocano sempre nel mesencefalo, ma gli assoni
proiettano alla corteccia prefrontale (qui è presente un recettore atipico, il D3: target di uno degli
ultimi antipsicotici messo in commercio). La sua alterazione probabilmente causa i sintomi
cognitivi e negativi. Anche se partecipano ai sintomi cognitivi anche delle altre vie, non
dopaminergiche, che vanno dalla corteccia all’ippocampo. Nel pz schizofrenico è IPOATTIVA.

3) La via nigrostriatale, coinvolta nella regolazione del movimento.

4) La via tubero-infundibolare attraverso cui i neuroni dopaminergici controllano negativamente il


rilascio di prolattina.

Poichè nella schizofrenia la mesolimbica è iperattiva e la mesocorticale è ipoattiva, i farmaci neurolettici,


bloccando la trasmissione dopaminergica, funzionano bene contro l’iperattivazione della via
mesolimbica, ma peggiorano la riduzione della via mesocorticale. Non sono stati trovati altri farmaci
antipsicotici che non blocchino i recettori dopaminergici.

I farmaci che sono attualmente in commercio sono suddivisi in due grandi gruppi:

• Neurolettici classici (antipsicotici di 1ª generazione), farmaci vecchi. Danno un blocco dei


recettori dopaminergici superiore all’80%, per cui possono causare sindrome neurolettica;

• Antipsicotici atipici (antipsicotici di 2ª generazione) più recenti. In questo caso il blocco dei
recettori dopaminergici è del 40-50%. In aggiunta a questo blocco hanno altri meccanismi
d’azione, in particolare quello che contribuisce all’effetto antipsicotico è il blocco di alcuni
recettori della serotonina.
4.2.SEROTONINA

Anche la trasmissione serotoninergica interviene nella patogenesi della schizofrenia. Il recettore che
viene bloccato e media l’azione degli antipsicotici di seconda generazione è il recettore 5-HT2A, che si

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trova sui neuroni piramidali della corteccia cerebrale. Questi neuroni piramidali della corteccia cerebrale
ricevono due tipi di afferenze:

• Ricevono afferenze sensitive glutammatergiche dal talamo (lega AMPA corticale).

• Ricevono afferenze serotoninergiche dai nuclei del rafe (questi proiettano sia in alto sulla
corteccia che in basso verso il midollo spinale).

I neuroni piramidali ricevono le percezioni che vengono veicolate loro dal talamo e le assemblano in base
alle conoscenze a priori dell’individuo, e alle conoscenze che derivano dal particolare contesto. A questo
punto i neuroni piramidali integrano le percezioni che arrivano dal talamo e riescono a modularle e, allo
stesso tempo, a elaborare la corretta risposta alle percezioni.

I neuroni piramidali ricevono migliaia di afferenze sensoriali dal talamo, ma devono selezionare bene
queste percezioni, per non essere distratti dalle stesse afferenze che arrivano contemporaneamente
come rumore di fondo. La selezione avviene attraverso i recettori 5-HT2A della serotonina.

Vengono selezionate solo le percezioni che arrivano dalla via talamo-corticale (con un rilascio di
glutammato a livello della sinapsi con il neurone piramidale) contemporaneamente all’impulso dalle
afferenze di tipo serotoninergico.

Il glutammato che viene rilasciato dal neurone talamico si lega ai recettori AMPA (che agiscono da canali
del Na) sul neurone piramidale.

La serotonina si lega a recettori per la serotonina, ovvero GPCR con Gq.

Solo l’attivazione contemporanea di queste due recettori permette al neurone corticale piramidale di
attivarsi; è come se il recettore 5-HT2A funzionasse da amplificatore del segnale mediato dal neurone
talamico e quella percezione venisse così ad essere selezionata.

Se si attivano in modo non controllato tutti i recettori 5-HT2A del nostro SNC, queste percezioni si
accavallano e si ha una dispercezione (si perde la selezione sul rumore di fondo). Questo è quello che
fanno gli allucinogeni. L’LSD è un agonista parziale dei recettori 5-HT2A, e quando viene assunto tutti i
recettori vengono attivati contemporaneamente e si ottiene la dispercezione e la sinestesia, poiché viene
meno il filtro.

Gli antipsicotici di 2ª generazione bloccando il recettore 5-HT2A, contribuiscono al controllo della


sintomatologia legata alla schizofrenia.

Tuttavia, le dispercezioni e le allucinazioni che si hanno con l’LSD, che attivano il 5-HT2A, sono di tipo
visivo, mentre le allucinazioni e le illusioni che si hanno nello schizofrenico sono prevalentemente di
tipo uditivo. Quindi il ruolo dei 5-HT2A nella schizofrenia può essere sì importante, ma non spiega da
solo la sintomatologia dello schizofrenico, per via del diverso tipo di allucinazioni ottenute rispetto a
quelle degli allucinogeni.

Tra i sintomi della schizofrenia c’è la disfunzione cognitiva, ma non è compresa tra i sintomi cardine. Ci
sono degli endofenotipi, cioè delle alterazioni subcliniche caratteristiche dei pazienti schizofrenici, ma la
alterazione cognitiva che pure si sviluppa è considerata più una conseguenza che uno dei sintomi
cardine; su questo c’è un ampio dibattito. Tuttavia, i sintomi cognitivi sono sintomi che rispondono male
agli antipsicotici, l’unico antipsicotico in grado di controllarli in parte è la Clozapina, che è un

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antipsicotico atipico molto tossico purtroppo. I sintomi cognitivi sono dovuti a disregolazioni delle
cosiddette oscillazioni di network (oscillazioni dei neuroni ovviamente).

Il segno che queste oscillazioni di network sono alterate è dato da un’alterazione del ritmo γ, che non
viene normalmente rilevato all’EEG poiché sono necessari elettrodi particolari posizionati in modo un po’
diverso. Mentre il ritmo β si ferma a 30 Hz, il ritmo γ va dai 30 agli 80 Hz ed è il ritmo caratteristico delle
oscillazioni di network e si pensa che le alterazioni di questo ritmo possano essere alla base delle
alterazioni cognitive, soprattutto, della schizofrenia.
4.3.GLUTAMMATO

La scarica sincrona di più neuroni fisiologicamente ha una precisa indicazione in alcune funzioni
essenziali come l’apprendimento e la capacità di memorizzare.

La scarica sincrona dei neuroni piramidali viene regolata negativamente da dei piccoli interneuroni
GABAergici che fanno sinapsi con i neuroni piramidali. Questi neuroni GABAergici sono di due tipi: le
cellule a candelabro e le cellule a canestro, entrambi hanno come neurotrasmettitore, oltre al GABA, la
parvalbumina e quindi sono riconoscibili alla colorazione con anticorpi anti-parvalbumina.

Sugli interneuroni GABAergici abbiamo due tipi di recettori.

• I recettori per i cannabinoidi, presenti solo sugli interneuroni a candelabro. Sono recettori di tipo
inibitorio, quando vengono attivati inibiscono i neuroni inibitori GABAergici e facilitano il firing.
Oltre a legare i cannabinoidi, si legano anche a dei composti endogeni, gli endocannabinoidi, che
sono il 2-arachidonilglicerolo e l'anandamide. Sugli interneuroni GABAergici è espresso solo CB1.
Una percentuale piuttosto elevata dei pazienti che sviluppano schizofrenia ha fatto uso in giovane
età, durante l’adolescenza, di cannabinoidi, che ha causato un’attivazione generalizzata dei CB1
(legati a proteine Gi) i quali bloccano gli interneuroni GABAergici: i neuroni piramidali, perciò, non
sono più controllati e cominciano a scaricare in modo ipersincrono;

• I recettori NMDA per il glutammato, che fanno entrare il Calcio e sono essenziali per
l’apprendimento. Mentre il CB1 è espresso solo sui neuroni a candelabro, l’NMDA è presente su
entrambi i tipi di interneuroni. Questo recettore facendo entrare il calcio determina attivazione
dei neuroni GABAergici e quindi facilitazione dell’inibizione sul firing dei neuroni piramidali. La
fenciclidina (da cui deriva la Ketamina, un anestetico generale) è l’unica sostanza che è in grado
di bloccare non competitivamente i recettori NMDA e di riprodurre la sintomatologia
schizofrenica nell’uomo. Se un soggetto assume fenciclidina, avrà delle allucinazioni di tipo
uditivo del tutto simili a delle allucinazioni che si hanno nello schizofrenico. Quindi è evidente che
il blocco dei recettori NMDA disregola la scarica di questi neuroni e quindi permette delle
scariche sincrone.

Si è cercato di controllare la funzione del recettore NMDA con


dei farmaci ma tutti i farmaci che agiscono direttamente su
NMDA non si possono utilizzare perché sono proconvulsivanti
troppo potenti e inducono morte neuronale per
eccitotossicità; per cui sono stati testati dei farmaci che
agiscono su regolatori del recettore NMDA. In particolare, il
recettore NMDA è accoppiato ad un recettore del glutammato

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(mGlu5, la “m” sta per metabotropo) accoppiato a proteina Gq, in grado di regolare il recettore NMDA
potenziando la sua azione. Nei modelli animali di psicosi questi farmaci (agonisti mGlu5) hanno
funzionato, inoltre non è stata trovata eccessiva tossicità nei soggetti sani. Non ci sono ancora studi sul
farmaco nel soggetto schizofrenico. Si è visto che una bassa espressione di mGluR5 nella corteccia
temporale e nel caudato è associata con un livello più alto di sintomi negativi, depressivi e deficit
cognitivi.

Nel neurone piramidale c’è un recettore mGlu2 accoppiato a Gi, che è associato al 5HT2A e lo inibisce.
Alcuni anni fa erano usciti dei risultati di un trial clinico su soggetti schizofrenici dove questi soggetti
avevano ricevuto un farmaco che si legava ai recettori mGlu2, con la speranza di regolare in modo
inibitorio il recettore 5HT2A. In realtà esistono già farmaci che bloccano direttamente il recettore 5HT2A,
ma presentano numerosi effetti collaterali, soprattutto a livello metabolico con un peggioramento del
profilo lipidico e aumento ponderale. I risultati del trial avevano mostrato che questo agonista di mGlu2
aveva effetti positivi molto simili a quelli di un farmaco contro la schizofrenia già in commercio
(olanzapina), usato nel braccio di controllo, mentre gli effetti avversi (profilo lipidico e aumento
ponderale) erano molti di meno. Quindi con questo nuovo meccanismo si è pensato di formulare nuovi
farmaci antipsicotici che funzionassero come farmaci antipsicotici senza effetti collaterali relativi al
blocco del recettore 5HT2A. Purtroppo gli studi successivi sono stati dei fallimenti e i risultati di questo
iniziale trial non si sono più verificati. La casa farmaceutica, che voleva mettere in commercio gli agonisti
di mGlu2 per la schizofrenia, ha interrotto la sperimentazione.

Si è pensato che i trial successivi non abbiano avuto successo perché erano stati condotti in soggetti
schizofrenici che erano già stati trattati con altri farmaci antipsicotici. Infatti, si era visto in altri
esperimenti che il trattamento con altri antipsicotici riduce l’espressione dei recettori mGlu2 e quindi
con l’espressione ridotta dei recettori mGlu2, un farmaco agonista di mGlu2 funziona di meno. Ad oggi la
sperimentazione sui recettori mGlu2 si è fermata.

Ci sono anche degli studi di base che hanno dimostrato come nei soggetti schizofrenici diminuisca
considerevolmente un metabolita del triptofano, che è un farmaco che interagisce con i recettori mGlu2.
Attualmente questo discorso è abbastanza controverso.

Poiché il recettore NMDA sembra essere così importante nella genesi della schizofrenia, si è fatto un
altro tentativo per regolare il recettore in modo diverso. Il neurotrasmettitore che attiva il recettore
NMDA è il glutammato, ma affinché questo recettore possa attivarsi, è necessario che il recettore leghi
anche la glicina. La glicina è un co-attivatore. La glicina viene rilasciata come neurotrasmettitore da
alcuni neuroni, che dopo averla rilasciata la ricaptano dallo spazio intrasinaptico tramite un
trasportatore. Sono stati effettuati trial per testare dei farmaci inibitori del trasportatore della glicina,
affinché questa rimanesse più a lungo nello spazio sinaptico e potesse legarsi più a lungo nel recettore
NMDA, potenziandone l’azione. Questi trials non hanno avuto successo.

5. ANTIPSICOTICI DI PRIMA GENERAZIONE


Il termine neurolettico si utilizza esclusivamente per i farmaci antipsicotici di prima generazione che
hanno la caratteristica di bloccare i recettori della dopamina di tipo D2 con elevata affinità per circa
l’80%. Sono detti neurolettici o di prima generazione perché inducono la cosiddetta Sindrome
neurolettica, che consiste in:

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● appiattimento affettivo;

● riduzione delle risposte riflesse agli stimoli complessi;

● riduzione dell’attivazione psicomotoria.

La sindrome neurolettica ha la seguente controparte nell’animale da laboratorio che spiega la mancanza


dei riflessi condizionati: metto un roditore in una gabbia che comunica con una seconda gabbia; la
comunicazione tra le due gabbie è regolata da un’apertura, un cancelletto che si apre a comando dello
sperimentatore. Nella prima gabbia, il pavimento è una grata in cui si può far passare uno stimolo
elettrico a comando, e c’è una lampadina che si può accendere e spegnere. Se mettiamo il topo in questa
gabbia, non facciamo passare corrente elettrica e non accendiamo la lampadina, tutto resta in uno stato
di inattività. Facciamo poi un primo tipo di esercizio: prima accendiamo la lampadina e dopo pochi
secondi facciamo passare la corrente elettrica nella grata: il topo riceve una scossa elettrica, scappa,
trovando l’apertura aperta, e va nell’altra gabbia. Se noi ripetiamo questo esercizio più volte, cioè prima
accendiamo la lampadina e poi diamo la corrente elettrica, dopo 2-3 volte, il topo invece di scappare nel
momento in cui diamo la corrente elettrica e lui riceve la scossa, scappa appena si accende la lampadina.
Ha appreso che l’accensione della lampadina precede di pochi secondi la corrente elettrica e quindi
scappa prima: questo è un riflesso condizionato complesso. Se a questo topo somministriamo un
neurolettico classico, dopo che ha imparato il meccanismo della lampadina, lui non scapperà più
all’accensione della lampadina ma continuerà a scappare nel momento in cui noi diamo la scossa, quindi
perde il riflesso condizionato: questo è il tipo di effetto che determinano i neurolettici classici, la perdita
dei riflessi condizionati.

In base alla loro struttura molecolare, i neurolettici, o antipsicotici classici, si dividono in diverse classi di
composti:

● Fenotiazine;

● Tioxanteni;

● Fenilbutilpiperidine (Butirrofenoni);

● Dibenzoxazepine;

● Benzamidi, a cavallo tra 1 e 2 generazione.

Sono tutti quanti metabolizzati dal CYP2D6 (alcuni anche dal CYP3A4).
EFFETTI COLLATERALI

I neurolettici condividono tra loro una serie di effetti collaterali che sono in parte in comuni anche con gli
antipsicotici di seconda generazione.

Sintomi extrapiramidali (EPS): essendo bloccanti dei recettori D2 essi agiranno anche a livello dello
striato. Nonostante siano molto più frequenti nei farmaci di 1a generazione, si ritrovano in parte anche
in quelli di seconda. Si distinguono sintomi ad insorgenza precoce e tardiva:

Sintomi a insorgenza precoce:

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● DISTONIE: spasmi, come il laringospasmo, l’opistotono, ecc. Compaiono molto


velocemente, già dopo un giorno dalla somministrazione e normalmente sono
autolimitanti, vanno in tolleranza; quindi, se compaiono, non è necessario
interrompere la terapia. Rispondono agli anticolinergici quindi DISIPAL, AKINETON, cioè
quelli utilizzati per i sintomi del Parkinson. Ovviamente gli anticolinergici deprimono le
funzioni cognitive: poiché nella schizofrenia, parallelamente alla compromissione
dell’ideazione e ai disturbi della psiche quasi sempre c’è anche un deficit cognitivo,
utilizzare degli anticolinergici porta con sé il rischio di una ulteriore riduzione della
capacità cognitiva in questi pazienti.
● PARKINSONISMO: bradicinesia, tremori, alterazione della postura, anche in questo
caso i sintomi rispondono agli anticolinergici. Il parkinsonismo, come tutti i sintomi
extrapiramidali, dipende dal blocco dei recettori D2 per il quale esiste una soglia: un
blocco dell’80% costituisce la soglia al di sopra della quale compaiono questi sintomi
extrapiramidali (dose-dipendente). Dunque, riducendo la dose dell’antipsicotico si
riducono in parte i sintomi extrapiramidali per il paziente non è più controllato e
questo è il motivo per cui sia associa l’anticolinergico anche per il parkinsonismo.
Questi sintomi sono precoci, ma non quanto le distonie: compaiono dopo alcuni giorni
o alcune settimane dall’inizio del trattamento. Spesso i sintomi di tipo parkinsoniano si
accompagnano anche ad un rallentamento di tipo psichico (bradipsichismo).
● ACATISIA: bisogno irrefrenabile di muoversi; il paziente compie movimenti anche
molto bruschi, non riesce a star fermo. Bisogna fare diagnosi differenziale tra
l’agitazione che è sintomo della schizofrenia e l’acatisia. L’acatisia non risponde agli
anticolinergici ma risponde al propranololo (β- bloccante) e alle benzodiazepine.
● SINDROME NEUROLETTICA MALIGNA: rara, è più frequente nel sesso maschile e nei
pazienti giovani al di sotto dei 20 anni. Va in dd con l’ipertermia da sindrome
serotoninergica e con la febbre alta causata da altri fattori. La sindrome neurolettica
maligna è rappresentata da: iperattivazione con ipertono e catatono della muscolatura
corporea, attivazione del SNA, danno ai muscoli con liberazione delle proteine
muscolari che giungono al rene danneggiandolo, ipertermia da iperattività muscolare e
quindi sudorazione, perdita di liquidi e pericolo di morte per disidratazione. In questi
casi bisogna intervenire: si idrata il paziente, si abbassa la temperatura e si cerca di
sostenere la respirazione. Bisogna sospendere il trattamento con l’antipsicotico e, per
cercare di compensare l’effetto dell’antipsicotico, si somministra un agonista
dopaminergico, la bromocriptina. In aggiunta poi si usa un miorilassante che agisce
sui canali scheletrici RYR2, il dantrolene: questo impedisce l’eccessivo rilascio di calcio
dai canali RYR.

Questa sindrome
è simile
all’ipertermia
maligna, che si
manifesta
quando si fa
terapia con

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succinilcolina, un miorilassante, in soggetti che hanno mutazione attivante a carico del


recettore per la rianodina di tipo 2 (RYR2). La mutazione a carico del RYR2 non è
coinvolta nella genesi della sindrome neurolettica maligna, si pensa che vi sia una
predisposizione genetica alla base dell’insorgenza anche di quest’ultima, seppur non vi
sia ancora alcuna dimostrazione.

La prof legge la slide e dice che è utile per differenziale le tre sindromi. [Attenzione
perché c’è un errore: la medication history della sindrome neurolettica maligna,
seconda colonna, è il blocco dei recettori, non l’agonismo.]

Sintomi ad insorgenza tardiva, che compaiono dopo diverse settimane dall’inizio della terapia:

● DISTONIE TARDIVE: più frequenti nelle donne, hanno le stesse identiche caratteristiche
delle distonie precoci solo che compaiono più tardivamente. Sono abbastanza
caratteristiche quelle a livello della lingua e del viso con protrusione della lingua,
spasmi delle labbra e del volto, tic dell’occhio. Tutte recedono alla sospensione della
terapia. Rispondono agli anticolinergici.

● DISCINESIE TARDIVE: la carenza di attivazione dei recettori dopaminergici nello striato


causata dal blocco D2 induce una ipersensibilizzazione dei recettori; se questa supera il
blocco si avranno delle discinesie. Le discinesie sono movimenti incontrollati fluidi,
molto spesso orofacciali: possono essere anche molto invalidanti perché, per esempio,
il paziente non può mangiare né deglutire o addirittura non riesce a parlare. Possono
coinvolgere anche altri muscoli del nostro corpo come quelli degli arti e del tronco.

Sono movimenti tipo coreo-atetosici, raramente hanno forma di tic, sono dose-
dipendenti e dipendono dalla durata della terapia con il neurolettico.

Si attenuano o scompaiono durante il sonno, mentre aumentano in condizioni di


tensione emotiva. Insorgono dopo alcuni anni dall’inizio del trattamento (nel 20-55% di
persone trattate per più di due anni), tuttavia vi sono casi di insorgenza molto precoce
(alcuni mesi dopo l’inizio del trattamento) e può insorgere anche dopo la sospensione
del trattamento stesso (discinesia da sospensione).

Sono molto difficili da trattare, di conseguenza, il migliore atteggiamento da adottare è


quello di prevenirle. In quanto determinate da una ipersensibilizzazione dei recettori
D2, non si somministra un’agonista dopaminergico che peggiorerebbe i sintomi. Si può
invece somministrare uno specifico antipsicotico che non causa mai discinesie tardive
(l’unico): la CLOZAPINA (di seconda generazione). La sostituzione va fatta titolando
lentamente la Clozapina e riducendo lentamente la dose del vecchio antipsicotico. Si
possono però introdurre degli accorgimenti per prevenirle:

★ Effettuare ogni 3 mesi un esame neurologico per poter identificare i primi


segnali di tale effetto, come i movimenti vermicolari della lingua (lievi
contrazioni della superficie)
★ Fare pause di 2-4 settimane, senza assumere neurolettici all’incirca ogni tre
mesi. Duranti tali pause possono comparire i primi segni di discinesia tardiva. Se
compaiono, il trattamento deve essere interrotto

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★ Evitare l’uso dei neurolettici depot: rispetto alle preparazioni orali presentano
un rischio tre volte maggiore
★ Evitare la sospensione brusca del trattamento

● RABBIT SYNDROME (sindrome del coniglio): è un tipo di discinesia che si ha a livello dei
muscoli della bocca con tremori periorali, senza movimenti della lingua (che ci sono
nelle discinesie tardive). Si tratta con ANTICOLINERGICI ed è reversibile.

Sintomi neuroendocrini:

● IPERPROLATTINEMIA: la dopamina, attraverso i recettori D2, controlla negativamente il


rilascio di prolattina; perciò, il blocco causato dai farmaci darà iperprolattinemia. In una
percentuale di pazienti si può avere l’insorgenza di microadenomi prolattinosecernenti.
L’iperprolattinemia è sintomatica: causa nel maschio ginecomastia e impotenza, nella
femmina galattorrea e amenorrea, oltre che infertilità. Diversamente da tutti gli altri
effetti collaterali, l’iperprolattinemia, non va in tolleranza: non recede con proseguo
della terapia.

● RIDUZIONE DEL GH: la carenza del GH non ha effetti sull’allungamento dell’osso, dal
momento che i soggetti sono adulti, ma sulla mineralizzazione. In aggiunta a ciò, può
portare ad effetti principalmente di tipo comportamentale: si riduce in parte la capacità
di interazione dei soggetti con l’ambiente esterno, con difficoltà nella vita sociale.
Infine, ci possono essere problemi cardiovascolari.

● RIDUZIONE DEL CRH: il CRH è il primo ormone della cascata della risposta allo stress;
dunque, una sua riduzione può determinare una diminuzione della capacità
dell’individuo di reagire a situazioni stressanti.

● POICHILOTERMIA: incapacità dell’organismo a adattarsi ai cambiamenti della


temperatura esterna: quando fa caldo l’organismo produrrà più calore e quando fa
freddo si raffredderà più velocemente. Questo si ha per disregolazione del centro di
controllo della temperatura a livello ipotalamico dove sono presenti recettori D2
regolati dalla dopamina.

● RIDUZIONE di ADH, con conseguente polidipsia e aumento dell’escrezione di urine


diluite.

● IPONATREMIA.

Altri sintomi:

● TROMBOEMBOLISMO VENOSO in piccola percentuale (<1%) con rischio di embolia


polmonare. Tutti i pazienti prima di iniziare una terapia con farmaci antipsicotici
devono fare un’accurata anamnesi per valutare il rischio di eventi tromboembolici: in
quel caso dovranno essere monitorati in modo più accurato.
● IPOTENSIONE ORTOSTATICA

Effetti avversi di classe:

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● ALLUNGAMENTO DEL QT: alcuni antipsicotici inducono problemi cardiovascolari


maggiori e possono anche determinare insufficienza cardiaca. Quindi bisogna sempre
valutare i fattori di rischio per insufficienza cardiaca e per aritmia, soprattutto quando
si fa una terapia con altri farmaci che allungano il QT o che possono deprimere la
funzione cardiaca. Bisogna monitorare il QTc con ECG almeno una volta ogni tre mesi.
Altri farmaci che determinano allungamento del QTc sono: macrolidi e Bactrim,
antimicotici della classe del ketoconazolo, fluoxetina, domperidone, metoclopramide.
Bisogna avere cautela anche con gli anestetici volatili. Nell’anestesia per cure
odontoiatriche si deve evitare la somministrazione di adrenalina.

● SINDROME NEUROLETTICA: diversa dalla maligna. Caratterizzata da sedazione,


sonnolenza, difficoltà di pensiero, apatia, confusione, insonnia. Solo quelli di prima
generazione.

● ABBASSAMENTO DELLA SOGLIA DELLE CONVULSIONI: normalmente non sono


proconvulsivanti da soli ma in associazione ad altri farmaci che hanno a loro volta lo
stesso effetto. Il pericolo si ha dunque nelle associazioni o per pazienti che abusano di
alcol e BDZ in astinenza da queste sostanze, poiché la sindrome da astinenza può dare
crisi epilettiche.

C’è soltanto un farmaco, la CLOZAPINA, che può determinare un abbassamento della soglia per le
convulsioni anche da sola e in soggetti non epilettici.

● NEUTROPENIA: chi più chi meno, alcuni farmaci la inducono molto marcatamente.
Bisogna avvertire il paziente del fatto che ci sono alcuni sintomi prodromici di una
possibile neutropenia quali la febbre, il mal di gola, le infezioni. Il paziente dovrà quindi
riferire questi sintomi al medico perché in tal caso bisogna fare immediatamente una
conta dei globuli bianchi.

● AUMENTO PONDERALE: molto più comune negli antipsicotici di seconda generazione.

5.1. FENOTIAZINE
Struttura triciclica con due anelli aromatici laterali e l’anello centrale con
uno zolfo e un azoto. L’azoto è un’ammina terziaria avente come
sostituente una catena che deve essere costituita obbligatoriamente da
3 carboni in sequenza, affinché vi sia l’effetto antipsicotico. La catena
con i 3 carboni lega un’ammina.

L’azoto può avere dei sostituti alchilici oppure può essere inglobato in un anello, o una piperidina o una
piperazina se ci sono due azoti. Si distinguono quindi:

● Fenotiazione alifatiche, tra cui l’unica che si utilizza è la Clorpromazina, la prima ad


essere stata messa in commercio. L’azoto non è nell’anello.

● Fenotiazine piperidiniche: se l’anello ha un atomo di azoto. Tutti i farmaci di questa


classe sono stati tolti dal commercio perché potenzialmente cardiotossici:
allungavano il QTc. Vi apparteneva la TIORIDAZINA e la MESORIDAZINA che però è
stata anch’essa tolta dal commercio perchè viene metabolizzata in un intermedio

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che determina molto frequentemente l’allungamento del QT; quindi, attualmente non vi sono
piperidine fenotiaziniche in commercio.

● Fenotiazine piperaziniche: se l’anello ha due atomi di azoto. Queste vengono invece


utilizzate. Nella struttura hanno due azoti e comprendono: FLUFENAZINA,
TRIFLUOPERAZINA, PERFENAZINA.

5.1.1. FENOTIAZINE ALIFATICHE: CLORPROMAZINA (LARGACTIL, PROZIN)

È presente in commercio in formulazioni per os o intramuscolo. È un antipsicotico poco potente e quindi


deve essere somministrato a dosi relativamente alte, 200-300mg 2-3 volte/die (dosi piene). Bisogna,
come sempre, iniziare con basse dosi e titolarle: si inizia con 25-75 mg/die in tre somministrazioni.

È indicata sia nella schizofrenia sia nella mania (qui poco utilizzata).

Le fenotiazine alifatiche, e quindi la Clorpromazina, agisce su diversi recettori:

1. Blocco recettori dopaminergici D2: azione antiemetica (vomito dato dal rilascio di dopamina nel
centro del vomito).

2. Bloccano anche i recettori dell’istamina di tipo H1. Questi sono molto espressi nel SNC e
mediano l’attenzione e la veglia: quando vengono bloccati l’effetto principale è la sonnolenza e la
sedazione, dunque la Clorpromazina è molto sedativa. Questo effetto collaterale può essere
anche sfruttato in terapia per trattare pazienti schizofrenici in quelle forme in cui prevalgono
sintomi positivi. Di certo non si somministra Clorpromazina ad un paziente con sintomi negativi
che già è chiuso in sé stesso, non interagisce con il mondo esterno, ha perdita di volontà ed
anedonia.

3. La Clorpromazina blocca anche i recettori adrenergici di tipo α1 e α2. Questa azione ha come
effetti collaterali: ipotensione ortostatica, riduzione della libido (blocco α2) e priapismo (blocco
α1), cioè erezione prolungata eccessiva al di là dell’atto sessuale. Se il priapismo dura più di 3 o 4
ore è necessario avvertire il paziente che in quei casi deve rivolgersi al medico perché la
sintomatologia può essere pericolosa oltre che fastidiosa.

4. Altri recettori che vengono bloccati sono tutti i recettori muscarinici. Non dà molti effetti
extrapiramidali per via di questo blocco. Tuttavia, risulta pericoloso in alcuni pazienti quali per
esempio quelli con ipertrofia prostatica benigna, vescica neurologica e turbe dell’attività
intestinale, dove non va somministrata. Il blocco può dare: xerostomia, midriasi, turbe della
visione, stipsi e ileo paralitico, disturbi della minzione, rallentamento del transito
gastro-intestinale con possibili fecalomi.

Bisogna poi monitorare i pazienti con glaucoma1 ad angolo aperto rapidamente progressivo. Se è
possibile, è preferibile scegliere un altro farmaco che non abbia come effetto collaterale il blocco dei
recettori muscarinici, però se è necessario si può dare la Clorpromazina controllando il paziente, tranne
nei casi di glaucoma rapidamente progressivo.

1
gli anti-muscarinici non possono mai essere dati a pazienti con glaucoma ad angolo aperto rapidamente
progressivo: è una situazione di emergenza in cui bisogna intervenire chirurgicamente perché l’angolo si sta
chiudendo molto velocemente e un anti-muscarinico velocizzerebbe la chiusura peggiorando la prognosi.

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21/12/2021 Prof. Melchiorri SCHIZOFRENIA sbob: Palma, Pontecorvo rev: Nardoni

La Clorpromazina ha ulteriori effetti collaterali caratteristici della molecola oltre a quelli generici dei
neurolettici:

1. Reazioni immunoallergiche quali dermatiti, ittero colestatico per ingolfamento dei canalicoli
biliari da parte degli eosinofili;

2. Fotofobia;

3. Retinite pigmentaria;

4. Danni corneali e opacizzazione del cristallino;

5. Iperglicemia e glicosuria.

Se associata al Litio può dare encefalopatia acuta e il Litio stesso può aumentare gli effetti
extrapiramidali (lo fa con tutti gli antipsicotici di prima generazione) rendendo necessaria la sospensione
della terapia. È stato segnalato un caso in cui con l’interruzione del Litio, per il verificarsi degli effetti
extrapiramidali, c’è stata fibrillazione ventricolare. Per questa difficile combinazione con il Litio non è uno
dei farmaci da preferire nella mania, per quanto vi sia indicazione.

Non deve essere somministrato a donne in gravidanza (soprattutto nel primo trimestre) né durante
l’allattamento.

5.1.2. FENOTIAZINE PIPERAZINICHE: FLUFENAZINA, TRIFLUOPERAZINA, PERFENAZINA

Sono farmaci ad alta potenza, si utilizzano a dosi 10 volte più basse, e sempre in più somministrazioni
giornaliere a causa della breve emivita (2-16 mg 3 volte/die). Bloccano i recettori D2.

Contrariamente alla Clorpromazina, le fenotiazine piperaziniche bloccano molto poco sia i recettori H1
dell’istamina, sia i recettori muscarinici. Di conseguenza non sono sedative e danno molti effetti
collaterali a livello extrapiramidale (EPS), per cui devono essere sempre associate ad anti-muscarinici,
altrimenti il paziente si blocca e non si muove più.

Sono quindi farmaci attivanti: possono essere utilizzati per facilitare il reinserimento del paziente nella
società e migliorare il rapporto con gli altri. Questo non significa che controllano i sintomi negativi, infatti
il tipo di attivazione dato dalle fenotiazine piperaziniche deriva dal fatto che non sono sedativi: il
paziente non ha sonno, anzi è più disponibile alla risposta agli stimoli esterni e anche verso gli altri, ma
non si tratta di un controllo specifico dei sintomi negativi.

Gli effetti collaterali sono tutti quelli di classe.

● Flufenazina: revocata

● Trifluoperazina (Modalina): (1-2 mg) si usa nella schizofrenia e in combinazione con


tranilcipromina nel Parmodalin con indicazione nel DDM. Ha degli effetti collaterali particolari:
agranulocitosi, trombocitopenia, pancitopenia, anemia, ittero colestatico, ipotensione (no per via
parenterale in pz con alterazioni cardiovascolare), retinopatie più frequentemente degli altri.

● Perfenazina (Trilafon): indicazione in schizofrenia e mania. Ha gli effetti collaterali di classe.

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21/12/2021 Prof. Melchiorri SCHIZOFRENIA sbob: Palma, Pontecorvo rev: Nardoni

5.2. TIOXANTENI
Non sono più in commercio. Venivano usati in pz che dovevano essere
sedati dal momento che davano molta sonnolenza.

Hanno una struttura molto simile a quella delle fenotiazine con 3 anelli di
cui 2 aromatici. Il ciclo centrale ha un atomo di zolfo, manca l’azoto, ma c’è
un carbonio che è legato ad una catena laterale da un doppio legame: i tioxanteni sono dunque degli
enantiomeri.

L’enantiomero S è 10 volte più potente dell’enantiomero R e c’è una selettività enantiomerica.

I tioxanteni si dividono in:

● Tioxanteni ALIFATICI: hanno le stesse caratteristiche delle fenotiazine alifatiche, ovvero l’essere
molto sedativi e indurre sonnolenza. Venivano utilizzati per quei pazienti che hanno bisogno di
essere sedati. Il più utilizzato era il CLORPROTIXENE.

● Tioxanteni PIPERAZINICI: hanno le stesse caratteristiche delle fenotiazine piperaziniche: attivano il


paziente. Il più usato era il TIOTIXENE.

5.3. FENILBUTILPIPERIDINE
Ne esistono due tipi:

● Mono-fenilbutilpiperidine;

● Di-fenilbutilpiperidine.

5.3.1. MONOFENILBUTILPIPERIDINE

Dette anche butirrofenoni: i rappresentanti sono l’aloperidolo e il droperidolo (usato solo come
antiemetico e nella neuroleptoanestesia).

L’ALOPERIDOLO (SERENASE® nella formulazione per os o HALDOL® nella formulazione intramuscolare o


HALDOL DECANOAS nella formulazione a lento rilascio) è un farmaco estremamente utile, un
antipsicotico potente per cui si somministra a basse dosi ed è in assoluto quello che decorticalizza il più
velocemente possibile (calma il pz agitato e pericoloso).

Viene perciò utilizzato in acuto, per pazienti pericolosi per se stessi o per gli altri. È una sostanza che è
presente sia nella formulazione in compresse sia nella formulazione in fiale per uso intramuscolare, ad
azione più veloce e viene usata per sedare velocemente il paziente. Ha anche delle formulazioni a lento
rilascio (come esistono anche per le fenotiazine piperaziniche), che non servono nell’attacco acuto ma
nella fase di mantenimento. Non deve assolutamente essere somministrato per via endovenosa perché
il rischio è l’allungamento del QT con torsioni di punta e quindi l’instaurarsi di aritmie potenzialmente
mortali. Bisogna sempre controllare ECG e monitorare gli elettroliti durante questa terapia.

Per altro è un farmaco molto comodo perché è liquido, incolore, inodore e insapore e quindi può essere
facilmente messo nell’acqua da bere dello psicotico, facendo addirittura un buco con la siringa nel tappo:
gli psicotici hanno polidipsia e non se ne accorgono. Questo aiuta la terapia antipsicotica che ha il
problema fondamentale della compliance del paziente, soprattutto durante una psicosi attiva in fase

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21/12/2021 Prof. Melchiorri SCHIZOFRENIA sbob: Palma, Pontecorvo rev: Nardoni

acuta. L’aloperidolo inibisce in parte l’enzima che lo metabolizza, il CYP2D6. È metabolizzato anche dal
CYP3A4.

L’aloperidolo non ha effetto di blocco sui recettori muscarinici e quindi determina rapidamente sintomi
extrapiramidali, per cui deve essere associato ad anticolinergici per evitare il blocco del paziente.

Non ha effetti molto marcati sull’H1 quindi induce poco sonnolenza.

Ha indicazione nella schizofrenia e nella mania, oltre che nella sindrome di Korsakoff negli etilisti (per le
allucinazioni).

Il Droperidolo è piuttosto simile all’aloperidolo e ha due indicazioni:

● Nella schizofrenia (revocato);

● Prevenzione e trattamento di nausea e vomito post-operatori o dopo morfina;

● In anestesia, associato ad altri anestetici (oppioidi): la cosiddetta neuroleptoanestesia che oggi si


fa molto poco (si tratta di una forma di anestesia in cui il paziente rimane cosciente). Rispetto
all’Aloperidolo è utilizzato molto di rado.

5.3.2. DIFENILBUTILPIPERIDINE

PIMOZIDE (ORAP®) è un bloccante D2 selettivo, non blocca né gli H1, né gli α1 α2, né i muscarinici.

Si utilizza in due indicazioni:

● schizofrenia nell’adulto per il mantenimento o nella terapia d’attacco purché l’agitazione


psicomotoria, l’aggressività, o stati ansiosi particolarmente gravi non costituiscano i sintomi
dominanti del quadro clinico;

● nei bambini con la Sindrome de La Tourette in cui i bambini dicono molte parolacce (coprolalia) o
fanno gesti osceni (coproprassia).

La pimozide non dà sedazione (non agisce sui muscarinici), anzi attiva, facilita l’interazione sociale, le
relazioni con le altre persone nei pazienti psicotici. Il problema della pimozide è che determina
allungamento del QT in modo abbastanza frequente, quindi, bisogna stare attenti quando si fa terapia e
monitorare il paziente con ECG. Poi non si deve associare assolutamente ad altri farmaci che allungano il
QT (es. Macrolidi, antifungini, antidepressivi, Amiodarone, antiaritmici di classe 1° e di classe 3°).

È necessario tipizzare il CYP2D6 prima di iniziare e, nei pz che sono metabolizzatori lenti, non bisogna
superare la dose di 4 mg/die e, qualora necessario aumentare la dose, non si deve fare prima di 14 gg.

La Pimozide è uno dei pochi antipsicotici che ha un’emivita così lunga da permettere un’unica
somministrazione giornaliera.

5.4. DIBENZOXAZEPINE
5.4.1. LOXAPINA

La loxapina non è più in commercio in Europa se non in Francia: è molto poco utilizzata. È un bloccante
esclusivamente D2.

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21/12/2021 Prof. Melchiorri SCHIZOFRENIA sbob: Palma, Pontecorvo rev: Nardoni

STACCATO LOXAPINA (ADASUVE®): formulazione di loxapina somministrata per via inalatoria,


somministrabile dal sanitario o dal paziente (che deve essere collaborativo). Non ha attività antipsicotica
ma agisce per il controllo rapido di stati di agitazione da lieve a moderato in pazienti adulti affetti da
schizofrenia o disturbo bipolare. Ovviamente non può essere un’agitazione di grado molto elevato
altrimenti il paziente non riesce ad autosomministrarselo, né collabora. È un farmaco che ha
assolutamente una certa utilità ma non tanto quanto l’aloperidolo per via intramuscolo: è difficile far
inalare il farmaco ad un paziente che non è consenziente.

Può causare broncocostrizione, immediatamente dopo o al massimo nell’ora seguente la


somministrazione. Quindi il paziente deve essere monitorato in ospedale sotto controllo medico, devono
essere disponibili broncodilatatori agonisti β2 altrimenti non si può somministrare lo staccato loxapina
perché la broncocostrizione può essere importante.

Blocca i recettori D2 ad alta affinità e i recettori 5-HT2A (coinvolti nella selezione della percezione sul
rumore di fondo). Lega anche recettori noradrenergici (ipotensione), istaminergici (H1) e colinergici
(xerostomia, visione offuscata, ritenzione urinaria).

5.5. BENZAMIDI
5.5.1. SULPIRIDE E AMISULPRIDE

Bloccano solo i recettori D2 quindi non hanno tutti gli effetti collaterali che derivano dal blocco degli altri
recettori.

Sono degli antipsicotici poco potenti, quindi vanno utilizzati a dosi elevate, circa 80mg/die.

Hanno due indicazioni:

● schizofrenia.

● distimia (forma di depressione minore), ma alla dose di 50mg/die.

La Sulpiride a basse dosi blocca esclusivamente i D2 presinaptici associati a Gi sui neuroni che dal nucleo
magno del rafe portano serotonina alla corteccia. Inibiscono, quindi, il rilascio della serotonina e
risultano efficaci nella distimia.

Il problema fondamentale di questi due farmaci è la biodisponibilità per via orale: essendo più idrofile
passano poco la BEE per cui questo ne riduce l’efficacia. Devono essere sempre assunti con il cibo perché
la biodisponibilità a digiuno si riduce.

Nel caso in cui il paziente non fosse sufficientemente controllato bisogna sempre monitorare i livelli
plasmatici; potrebbe accadere che l’assorbimento si riduca, diminuendo così il passaggio della barriera
ematoencefalica: questi farmaci potrebbero non aver raggiunto con concentrazioni sufficienti il cervello
e bisogna aumentarne la dose, il che implica un maggior rischio di effetti collaterali.

Anche questi sono dei farmaci che non sedano quindi vanno bene per quei pazienti che necessitano di
attivazione. Danno frequentemente allungamento del QT.

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28/12/2021 Sbob: Riccardo Morgia, Margherita Pauletti
Farmacologia Rev: Sarah Matteucci
Prof.ssa Melchiorri

ANTIPSICOTICI DI SECONDA GENERAZIONE (O ANTIPSICOTICI ATIPICI)

Gli antipsicotici atipici hanno come caratteristica fondamentale un grado di occupazione dei recettori D2 inferiore
rispetto a quello degli antipsicotici di prima generazione (che lo hanno circa all’80%). Ricordiamo che risulta essere
necessaria un’occupazione dei recettori pari almeno al 65% per avere un pieno effetto antipsicotico e che solo se la
soglia di occupazione supera l’80% diventano significativi gli effetti extrapiramidali.
Gli antipsicotici atipici, a dosaggi terapeutici, hanno una soglia di occupazione inferiore a questo 80%; se la hanno
invece superiore, allora si comportano come agonisti parziali, ossia regolano l’attività del recettore D2 a seconda dei
livelli di dopamina (a livelli bassi sono agonisti, a livelli alti sono antagonisti). Altra caratteristica di questa classe di
farmaci è la capacità di bloccare alcuni recettori della serotonina, in particolare il recettore 5-HT2A.

Gli antipsicotici di seconda generazione sono:


- Clozapina
- Risperidone
- Paliperidone
- Olanzapina
- Quetiapina
- Ziprasidone
- Aripiprazolo
- Brexpiprazolo
- Cariprazina
- Lurasidone

CLOZAPINA
nome commerciale: LEPONEX.
Indicazioni:
- unico antipsicotico usato come seconda linea nel trattamento della Schizofrenia farmaco resistente, ovvero la
schizofrenia non controllata nonostante la somministrazione prolungata (minimo 6 mesi) di almeno due farmaci
antipsicotici- di cui uno deve essere di seconda generazione- alle massime dosi tollerate.
- Psicosi nella malattia di Parkinson, in caso di fallimento di altre terapie.

Meccanismo d’azione: la Clozapina blocca i recettori D2 per il 45-60%, con una costante di dissociazione per i
recettori maggiore della dopamina, distaccandosi quindi più velocemente e portando ad un blocco rapido e
transitorio.
Blocca, inoltre, i recettori 5HT2A (regolatori negativi del rilascio di dopamina nella corteccia prefrontale e nello
striato), dunque riesce a controllare in minima parte i sintomi negativi della schizofrenia, a limitare gli EPS, a favorire
l’integrazione percettiva (riducendo le allucinazioni) e a ridurre la secrezione di prolattina.
È un agonista parziale dei recettori 5HT1A, localizzati sia a livello pre-sinaptico (dove controllano il rilascio di
serotonina) sia a livello post-sinaptico nei neuroni di corteccia ed ippocampo; l’attivazione di questi ultimi recettori ha
un ruolo importante sia nel controllo del tono dell’umore (con azione ansiolitica) sia nella funzionalità cognitiva.
Blocca i recettori 5HT2C, espressi soprattutto a livello ipotalamico e coinvolti nella regolazione della fame, motivo per
cui l’assunzione della Clozapina porta ad un elevato aumento di peso (talvolta fino a 20-30kg); quest’aumento
ponderale è spesso accompagnato dall’insorgenza di sindrome metabolica, per cui si monitorano costantemente i
pazienti per valutarne il rischio cardiovascolare.
Determina un aumento della sintesi dell’allopregnanolone (neurosteroide prodotto dalle cellule della glia che
modula positivamente il recettore GABA A), esercitando un’azione ansiolitica.
Aumenta l’espressione del BDNF, conferendo neuro-protezione.
Blocca i recettori adrenergici alfa1 e alfa2, determinando ipotensione ortostatica, priapismo e riduzione della libido.
Ha azione antimuscarinica, ma non determina scialorrea perché non blocca il recettore muscarinico m4 a livello delle
ghiandole salivari.
Blocca i recettori istaminici H1 e H2, portando a sedazione; è quindi assolutamente controindicato assumere alcool
dopo l’assunzione di questo farmaco.

Posologia:

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28/12/2021 Sbob: Riccardo Morgia, Margherita Pauletti
Farmacologia Rev: Sarah Matteucci
Prof.ssa Melchiorri

- Schizofrenia: il primo giorno si inizia con una dose da 12,5 mg (in somministrazione singola o divisa in due
somministrazioni), il secondo giorno la dose è di 25 mg. Se ben tollerata, la dose giornaliera può essere aumentata
gradualmente di 25-50 mg fino a raggiungere i 300 mg/die entro 2-3 settimane. Superati i 400 mg/die gli effetti
collaterali aumentano notevolmente e con essi aumenta il rischio di sviluppare convulsioni anche nel soggetto non
epilettico ( la Clozapina è infatti l’antipsicotico più pro-convulsivante).
La dose efficace è compresa fra i 200 e i 450 mg/die da somministrare in dosi frazionate, anche in modo non
uniforme durante la giornata, così da evitare la forte sedazione nei momenti in cui il paziente deve essere attivo.
La dose massima è di 900 mg/die, ma, dopo aver raggiunto il massimo beneficio terapeutico, molti pazienti vengono
efficacemente mantenuti sotto controllo con dosaggi inferiori.
Se il paziente risulta stabile già con una dose di 200 mg/die, si può scegliere di somministrare la Clozapina in un’unica
dose alla sera. Il trattamento va mantenuto per almeno 6 mesi e per interromperlo bisogna scalare le dosi nell’arco di
1-2 settimane.
- Parkinson: La dose iniziale non deve superare i 12,5 mg/die e va presa la sera; successivamente si possono
effettuare incrementi di 12,5 mg per un massimo di due incrementi a settimana fino ad arrivare ad una dose massima
di 50 mg, la quale non può però essere raggiunta prima della fine della seconda settimana. La dose media efficace è
tra i 25 e i 37,5 mg/die.
Viene somministrata preferibilmente la sera come dose singola.
Effetti avversi:
- Il più pericoloso è la neutropenia, la quale può evolvere fino all’agranulocitosi. È quindi controindicato
iniziare la terapia con Clozapina se i neutrofili sono minori di 2000/mm3 e i leucociti sono minori di 3500/mm3 ed è
invece necessario monitorare costantemente la conta dei globuli bianchi nel paziente che può iniziare la terapia.
Nello specifico vanno dosati i globuli bianchi settimanalmente per le prime 18 settimane di terapia e,
successivamente, almeno ogni 4 settimane. I controlli devono continuare fino a 4 settimane dopo la fine del
trattamento.
Qualora si scenda tra i 3500-3000 leucociti e i 2000-1500 neutrofili, i controlli vanno aumentati a due volte a
settimana; se si scende sotto i 3000 bianchi o i 1500 neutrofili, bisogna immediatamente interrompere la terapia,
somministrare il G-CSF (fattore stimolante le colonie dei granulociti) e controllare la conta ogni giorno. In questi
pazienti il farmaco non potrà mai più essere somministrato.
Qualora si verifichino sintomi prodromici di neutropenia quali febbre, faringodinia ed infezioni ricorrenti, il paziente
deve assolutamente recarsi dal medico.
Soprattutto nelle prime tre settimane di terapia può registrarsi un aumento della temperatura sopra i 38 gradi,
normalmente ciò è un sintomo benigno, ma potrebbe essere anche dovuto ad un calo dei bianchi o all’insorgenza
della sindrome neurolettica maligna (molto rara).
- Eosinofilia: la terapia va interrotta se si superano i 3000 eosinofili/mm3 e si può riprendere sotto i
1000/mm3.
- Trombocitopenia: la terapia va interrotta sotto le 50.000 piastrine /mm3. La Clozapina non va quindi
associata a farmaci trombocitopenici quali carbamazepina, cloramfenicolo, sulfonamidi e farmaci citotossici.
- Miocardite con rari casi fatali, pericardite e cardiomiopatia, che devono essere sospettate in pazienti che
avvertono tachicardia a riposo persistente, specialmente nei primi due mesi di trattamento, o in pazienti con
palpitazioni, aritmie, dolore toracico ed altri segni di insufficienza cardiaca. Nel caso di queste patologie, il
trattamento va immediatamente interrotto.
- Prolungamento del QTc.
- Infarto del miocardio.
- Ipotensione accoppiata o meno a sincope, frequente durante la titolazione (specialmente se troppo rapida).
Nel trattamento del Parkinson, si somma quindi anche il rischio di ipotensione dovuto agli altri farmaci (come la
levodopa o gli agonisti dopaminergici), per cui va sempre controllata la pressione (sia in posizione eretta sia in
posizione supina) dei pazienti in terapia.
- Nei pazienti con demenza, gli antipsicotici atipici aumentano il rischio di morte improvvisa e di eventi
cerebrovascolari avversi (di circa 3 volte in più), per cui in generale essi non dovrebbero essere somministrati a
questo tipo di pazienti.
- Tromboembolia.
- Pancreatite.

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28/12/2021 Sbob: Riccardo Morgia, Margherita Pauletti
Farmacologia Rev: Sarah Matteucci
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Metabolismo: la Clozapina è metabolizzata dal CYP1A2. Questo citocromo è inibito dalla fluvoxamina (antidepressivo,
che se associato alla clozapina ne raddoppia la biodisponibilità), dalla ciprofloxacina (stesso effetto della fluvoxamina)
e dalla caffeina; è invece indotto dal fumo di sigarette e dall'omeprazolo (che quindi ne riducono la biodisponibilità).
Nel paziente schizofrenico bisogna indagare le abitudini voluttuarie (fumo e consumo di caffè) e assicurarsi che
queste non subiscano delle modifiche nel corso della terapia, così da mantenere efficace la titolazione del farmaco
effettuata all’inizio. L’astensione dal caffè per soli 5 giorni abbassa infatti del 50% il dosaggio ematico della Clozapina,
mentre smettere di fumare improvvisamente ne aumenta la concentrazione (portando all’insorgenza di molti effetti
avversi).
Altri citocromi che metabolizzano la Clozapina sono il CYP3A4 (la fenitoina e la rifampicina sono induttori di questo
cyp, riducendo l’efficacia della Clozapina) e il CYP2D6 (che metabolizza tutti gli antipsicotici).
è inoltre bene sapere che se la Clozapina viene associata al
-Citalopram: si riscontra un aumento degli effetti avversi della Clozapina per un meccanismo non noto.
-al Litio: si riscontra un aumento del rischio di sindrome neurolettica maligna.
-al Valproato: si riscontra un aumento del rischio di convulsioni nei pazienti non epilettici e, per un meccanismo non
noto, sono stati anche osservati casi isolati di delirio.

RISPERIDONE
Nome commerciale: RISPERDAL
Indicazioni:
- Schizofrenia.
- Fase maniacale del disturbo bipolare.
- Trattamento a breve termine (fino a 6 settimane, per via degli effetti avversi) dell'aggressività persistente in
pazienti con demenza di Alzheimer quando esiste il rischio di nuocere a se stessi o agli altri.
- Trattamento sintomatico a breve termine (fino a 6 settimane) dell’aggressività persistente nel disturbo della
condotta in bambini di età superiore ai 5 anni e in adolescenti con funzionamento intellettuale al di sotto della media
o con ritardo mentale.

Meccanismo d’azione: Ha un maggior grado di occupazione dei recettori D2 rispetto agli altri antipsicotici atipici,
inoltre è un bloccante muscarinico debole, portando quindi ad un rischio maggiore di EPS rispetto agli altri
antipsicotici atipici.
Blocca i recettori 5HT2A e in minor misura i 5HT2C (con aumento ponderale fino a 4-6 kg).
Blocca inoltre i recettori alfa1 adrenergici (determinando ipotensione ortostatica) e in minor misura gli alfa2 e i
recettori H1.

Posologia:
-Schizofrenia: Nel paziente giovane si inizia con 1 mg/die ed è preferibile aumentare la dose solo dopo 2-3 giorni;
nell’anziano si inizia a dosaggio più basso con 0,5 mg/die. Le dosi di mantenimento variano tra i 2 e i 6 mg/die divisi
in due somministrazione giornaliere; sotto i 2 mg/die il farmaco non ha effetto, sopra i 6 mg/die aumentano di molto
gli effetti collaterali.
Formulazione a lento rilascio modificato
Ogni due settimane im
-Nella mania: 2 mg/die in singola somministrazione.
-Nell’Alzheimer: dose iniziale di 0,25 mg BID, dose ottimale di 0,5 mg BID.
-Nei bambini: Dose iniziale di 0,5 mg/die e dose ottimale di 1 mg/die.
- In caso di insufficienza renale o epatica: Poiché il Risperidone è escreto da rene e fegato, in caso di queste patologie
la dose iniziale e gli incrementi successivi devono essere dimezzati, con modifiche effettuate più lentamente.

Metabolismo: il Risperidone è metabolizzato dal CYP2D6 in 9-idrossi-risperidone attivo (presente anche in


commercio come Paliperidone, nome commerciale INVEGA).

Effetti avversi:
- Se associato a Furosemide aumenta il rischio di morte, per cui tale associazione è controindicata.

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28/12/2021 Sbob: Riccardo Morgia, Margherita Pauletti
Farmacologia Rev: Sarah Matteucci
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- EPS aumentati rispetto agli altri antipsicotici atipici.


- Ipotensione ortostatica, priapismo e iride a bandiera per il blocco recettoriale alfa1.
- Leucopenia e neutropenia fino allo sviluppo di agranulocitosi.
- Iperglicemia e diabete mellito.
- Iperprolattinemia, problema grave soprattutto nei bambini, che vanno quindi sempre monitorati durante il
trattamento per evitare impatti negativi sullo sviluppo sessuale.
- Prolungamento del QTc.
- il Risperidone ha potente effetto sedativo (per cui nei bambini si preferisce somministrarlo la sera per evitare
possibili conseguenze sulle capacità di apprendimento diurne).

PALIPERIDONE
Metabolita attivo del Risperidone, chiamato anche 9-idrossi-risperidone (nome commerciale INVEGA).
È presente in commercio in più formulazioni; la più prescritta, ad uso giornaliero, è quella a rilascio ritardato.
Ha lo stesso meccanismo d’azione del Risperidone: lega fortemente i recettori D2 e i 5-HT2A; inoltre, blocca i
recettori adrenergici α1 e, in misura inferiore, i recettori α2 e H1. Come il Risperidone NON ha azione sui recettori
colinergici ma, rispetto a questo, causa meno effetti collaterali.
Indicazioni:
- Schizofrenia, dai 15 anni in su;
- Disturbo schizoaffettivo, esclusivamente negli adulti. I pazienti che assumono questo farmaco devono essere
sottoposti ad attento monitoraggio poiché il trattamento con Paliperidone può favorire il passaggio dei sintomi
maniacali a sintomi di tipo depressivo;
- Utilizzato off-label nel disturbo bipolare.

Posologia: 6 mg/die in unica somministrazione (generalmente al mattino). Se necessario, aumentare la dose di 3mg
ogni 6 giorni, fino ad una dose massima di 12 mg/die. Solitamente la dose massima di 12 mg/die si utilizza nei
fenomeni di ricadute.
È fondamentale assumere il Paliperidone sempre allo stesso modo: o a digiuno (di solito prima di fare colazione) o a
stomaco pieno.
Esistono dei pazienti che possono essere controllati anche con dosi più basse del farmaco, circa 3 mg/die; ciò si
registra soprattutto nei pazienti adolescenti, nei quali bisogna dunque iniziare la terapia con quest’ultimo dosaggio.

Metabolismo e interazioni: è poco metabolizzato; contribuiscono al suo minimo metabolismo il CYP3A4 e il CYP2D6.
Non dà interazioni farmacocinetiche rilevanti.

Escrezione: è escreto dal rene. Bisogna monitorare la velocità di filtrazione, perché in caso di insufficienza renale
risulta obbligatorio modificare la dose:
- Se VFG è compresa tra 50 e 80 mL/min 🡪 ridurre la dose iniziale a 3 mg/die e, se necessario, aumentare fino a
un massimo di 6 mg/die;
- Se VFG è compresa tra 10 e 50 mL/min 🡪 ridurre la dose iniziale a 1,5 mg/die e, se necessario, aumentare fino
a un massimo di 3 mg/die.
Sempre a livello renale, questo farmaco è substrato della glicoproteina–P, dunque l’associazione con la
CARBAMAZEPINA riduce l’esposizione al Paliperidone.

Effetti avversi: simili a quelli del Risperidone


- EPS;
- Ipotensione (ortostatica);
- Leucopenia, neutropenia e agranulocitosi;
- Iperglicemia, diabete mellito;
- Iperprolattinemia;

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28/12/2021 Sbob: Riccardo Morgia, Margherita Pauletti
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- Prolungamento dell’intervallo QTc.

Formulazioni a rilascio ritardato


Somministrate unicamente per via intramuscolare.
Sono disponibili formulazioni che si somministrano ogni mese, ogni 3 mesi oppure ogni 6 mesi (recentemente messe
in commercio); si differenziano per la sede di iniezione: il Paliperidone palmitato mensile e trimestrale viene
somministrato inizialmente nel deltoide e poi nel gluteo, mentre quello semestrale viene somministrato solo nel
gluteo.

PALIPERIDONE PALMITATO PP1M, ossia a somministrazione mensile(nome commerciale XEPLION): im in deltoide o


gluteo, si utilizza nella terapia di mantenimento della schizofrenia, in pz adulti stabilizzati precedentemente con
Paliperidone o Risperidone.
Si inizia con una singola dose da 150 mg seguita poi dalla somministrazione di una dose da 100 mg una settimana
dopo (al giorno 8); entrambe le dosi vanno iniettate obbligatoriamente nel muscolo deltoide, così da ottenere in
modo rapido le concentrazioni terapeutiche (l’assorbimento a livello del muscolo deltoide è maggiore rispetto a
quello nel gluteo).
La terza dose deve essere somministrata un mese dopo e può essere iniettata sia nel deltoide sia nel gluteo; le dosi
successive, di mantenimento, si somministrano con cadenza mensile e sono generalmente di 75 mg. Anche in questo
caso però esistono pazienti che riescono ad essere controllati con dosi minori rispetto ai 75 mg standard e pazienti
che, invece, risultano controllati solo con dosi maggiori (è il caso dei pazienti in sovrappeso, che molto
frequentemente rispondono solo a dosi vicine al limite superiore del range). Il range di dosaggio del farmaco è
dunque fissato tra i 25 mg ed i 150 mg.
L’aggiustamento della dose di mantenimento avviene con incrementi/decrementi di dose mensili.
Ovviamente occorre del tempo prima che il PP1M, dato in mantenimento, esplichi pienamente il suo effetto: questo
rende conto del fatto che si tratta di un farmaco a rilascio prolungato e va preso in considerazione nel caso in cui se
ne voglia aumentare la dose. Bisogna dunque aspettare qualche mese per valutare se il precedente aumento di dose
risulta sufficiente oppure no.
Attenzione al passaggio da INVEGA a XEPLION, poiché sono stati registrati dei casi di insorgenza di mania; se ciò
avviene bisogna trattare la mania con il Li+.

PALIPERIDONE PALMITATO PP3M, ossia a somministrazione trimestrale (nome commerciale TREVICTA): im in


deltoide e gluteo. È una formulazione riservata a quei pazienti già trattati con PP1M per almeno 4 mesi, per i quali
non è richiesto un ulteriore aggiustamento della dose. Il passaggio da PP1M a PP3M viene fatto per migliorare la
compliance del pz.

PALIPERIDONE PALMITATO PP6M, ossia a somministrazione semestrale: approvato nel novembre 2021, si
somministra soltanto nel gluteo, in pazienti stabilizzati clinicamente con le formulazioni mensili o trimestrali. Anche in
questo caso, il suo utilizzo serve a migliorare ulteriormente la compliance del paziente.

In generale, gli effetti avversi sono molto simili a quelli che abbiamo visto con INVEGA:
- Aumento di peso (8,4%);
- Dolore nel sito di iniezione (7,7%);
- Cefalea (6,7%);
- Aumento delle infezioni alle vie respiratorie superiori (5,0%).
Non sono state riscontrate reazioni avverse inattese gravi in seguito a somministrazione per via parenterale.

OLANZAPINA

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28/12/2021 Sbob: Riccardo Morgia, Margherita Pauletti
Farmacologia Rev: Sarah Matteucci
Prof.ssa Melchiorri

Nome commerciale: ZYPREXA.


Antipsicotico di seconda generazione molto potente; è caratterizzato da una lunga emivita e da un’elevata efficacia,
ma presenta numerosi effetti collaterali metabolici.

Meccanismo d’azione: l’Olanzapina ha un grado di occupazione dei recettori D2 più elevato rispetto alla Clozapina,
ma compensa in parte con il blocco muscarinico, che risulta maggiore rispetto a quello di quest’ultimo farmaco;
questo fa sì che l’Olanzapina sia in grado di indurre dei sintomi extrapiramidali non eccessivi. Inoltre, blocca i
recettori 5-HT2A e 5-HT2C; il blocco di questi ultimi, in particolare, determina aumento ponderale che, insieme alla
dislipidemia e all’iperglicemia, causa purtroppo un aumento del rischio di sviluppare sindrome metabolica e problemi
cardiovascolari.
Determina un aumento della sintesi dell’allopregnalonone, che partecipa all’azione ansiolitica del farmaco; è anche
potenzialmente neuroprotettivo in quanto aumenta l’espressione del BDNF.

Indicazioni:
- Schizofrenia negli adulti;
- Trattamento e profilassi della mania negli adulti.
Non deve essere utilizzata nella demenza, a causa dell’aumento della mortalità e del rischio di eventi avversi
cerebrovascolari, come non deve essere usata neanche nel morbo di Parkinson.

Posologia: nella schizofrenia vengono somministrati 10 mg/die, fino a un massimo di 20 mg/die. Nella mania, invece,
il dosaggio iniziale è di 15 mg in unica dose giornaliera se si effettua monoterapia oppure, se l’Olanzapina è associata
ad altri farmaci per la mania, il dosaggio scende a 10 mg/die.

Metabolismo: metabolizzata da CYP1A2, CYP3A4 e CYP2D6, ossia gli stessi citocromi che metabolizzano la Clozapina,
quindi vale quello che è stato detto precedentemente parlando di quest’ultimo farmaco.

Effetti avversi: poiché l’Olanzapina è un moderato bloccante dei recettori muscarinici, bisogna porre attenzione ai
pazienti con IPB, ileo paralitico o glaucoma rapidamente progressivo. A causa di questo blocco, inoltre, l’assunzione di
questo farmaco determina stipsi ed alterazioni del transito intestinale, portando in qualche caso a formazione di
fecaloma.
Blocca poco i recettori H1, quindi dà poca sonnolenza.
Può dare neutropenia, soprattutto quando è in associazione con Acido Valproico, è quindi importante monitorare nel
paziente la conta dei bianchi.
Induce aumento ponderale; in media i pz aumentano di 5,5 kg, ma ci sono stati dei casi in cui si è registrato
addirittura un incremento di circa 25 kg. L’aumento di peso è frequentemente accompagnato da sindrome
metabolica.

Negli Stati Uniti, ma NON in Europa, è in commercio la combinazione di Olanzapina e Samidorphan, un antagonista
dei recettori oppioidi (nome commerciale LYBALVI). Il suo utilizzo è approvato sia per la schizofrenia sia per il
bipolarismo di tipo 1. In questa combinazione, il Samidorphan serve per ridurre l’aumento ponderale indotto
dall’Olanzapina; si è visto, tuttavia, che questo vantaggio non è purtroppo associato ad una riduzione del rischio di
sviluppo di sindrome metabolica.

QUETIAPINA
Nome commerciale: SEROQUEL.

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28/12/2021 Sbob: Riccardo Morgia, Margherita Pauletti
Farmacologia Rev: Sarah Matteucci
Prof.ssa Melchiorri

Si trova in commercio sottoforma di compresse (x os), ma può essere somministrato anche intramuscolo; entrambe le
formulazioni sono presenti sia a rilascio immediato sia a rilascio ritardato.
È un antipsicotico poco potente, dunque viene utilizzato a dosi abbastanza alte; risulta inoltre un forte sedativo
poiché blocca molto i recettori H1.

Indicazioni:
- Trattamento della schizofrenia;
- Trattamento e profilassi del disturbo bipolare, sia in fase maniacale sia in fase depressiva.
- Utilizzo off–label nei pz con psicosi correlate alla demenza. In merito a ciò sono stati condotti degli studi
secondo i quali l’incidenza di mortalità di questi pz a seguito dell’utilizzo di Quetiapina risulta essere del 5,5% rispetto
al 3,2% del placebo; l’aumento registrato non è particolarmente alto dunque, in casi eccezionali, questo farmaco può
essere prescritto nonostante non sia indicato.
- Altro caso in cui viene utilizzata in off–label è nella terapia dei pz con demenza a corpi di Lewy o con
Parkinsonismo.

Posologia della formulazione a rilascio immediato:


● Schizofrenia negli adulti: si inizia con 50 mg/die in due somministrazioni. La dose viene aumentata già a
partire dal secondo giorno a 100 mg/die in due somministrazioni; al terzo giorno si arriva a 200 mg/die e al quarto
giorno a 300 mg/die (sempre in due somministrazioni). Se a questo punto il pz non è ancora sufficientemente
controllato, si può continuare ad aumentare la dose fino ad un massimo di 750 mg/die. Tuttavia, la maggior parte dei
pazienti è controllata con una dose di circa 300–450 mg/die.
● Mania negli adulti: si parte da 100 mg/die, divisi sempre in due somministrazioni, per arrivare ad un
massimo di 800 mg/die.
● Episodi depressivi maggiori nel pz bipolare: si somministra una volta al giorno prima di andare a letto,
poiché, come è stato detto precedentemente, la Quetiapina ha un potente effetto sedativo. Si prescrivono 50 mg/die
per il primo giorno, 100 mg/die per il secondo giorno, 200 mg/die per il terzo e 300 mg/die per il quarto. La dose
giornaliera raccomandata è di 300 mg/die.

Ad oggi non ci sono degli studi che dimostrano un aumento degli eventi cerebrovascolari correlato all’utilizzo di
Quetiapina, il che potrebbe essere un vantaggio; tuttavia, il rischio non può essere del tutto escluso.

Posologia della formulazione a rilascio prolungato:


● Schizofrenia e mania: somministrata un’ora prima dei pasti. Si inizia con 300 mg/die il primo giorno, seguiti
poi da 600 mg/die (ossia la dose massima giornaliera raccomandata ) il secondo giorno. Tuttavia, se il pz non è
sufficientemente controllato, la dose può essere aumentata fino ad un massimo di 800 mg/die.
● Episodi depressivi maggiori nel pz bipolare: somministrata la sera, prima di coricarsi. La dose giornaliera
totale per i primi quattro giorni è: 50 mg il primo giorno, 100 mg il secondo giorno, 200 mg il terzo giorno e 300 mg il
quarto giorno. La dose giornaliera raccomandata è di 300 mg/die.

Meccanismo d’azione: Il farmaco agisce sia sotto forma di Quetiapina sia sotto forma di Norquetiapina (ossia il
metabolita della Quetiapina). Entrambi bloccano i recettori D2: la costante di dissociazione del recettore da questi
composti è maggiore rispetto a quella dalla dopamina dunque il blocco operato dalla Quetiapina e dal suo metabolita
risulta essere rapido e transitorio, diminuendo gli effetti collaterali extrapiramidali.
Si registra anche un blocco dei recettori 5-HT2A, α1, H1 e, moderatamente, degli α2.

Azioni della Norquetiapina:

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28/12/2021 Sbob: Riccardo Morgia, Margherita Pauletti
Farmacologia Rev: Sarah Matteucci
Prof.ssa Melchiorri

- Blocca i recettori muscarinici, al contrario della Quetiapina, il che compensa e limita ulteriormente la
presenza degli effetti collaterali extrapiramidali;
- Blocca il trasportatore della noradrenalina, e questo fa sì che possa essere utilizzata nella fase depressiva del
disturbo bipolare. È stati visto, infatti, che la Quetiapina è il più potente antidepressivo tra gli antipsicotici;
- È agonista parziale di 5-HT1A.

Metabolismo: avviene da parte del CYP3A4, dunque bisogna prestare attenzione alle possibili interazioni
farmacocinetiche con quei farmaci che vengono metabolizzati, che sono inibitori o che sono induttori di questo
citocromo. Inoltre, Inibisce il trasportatore della noradrenalina (NAT), dunque bisogna prestare attenzione alla
somministrazione di Quetiapina con farmaci che potenziano la trasmissione noradrenergica.
Effetti avversi:
- Sonnolenza e capogiri durante la titolazione del farmaco, in particolare entro i primi 3 giorni di trattamento;
- Apnea del sonno;
- Disfagia;
- Reazioni cutanee anche gravi;
- Neutropenia con agranulocitosi;
- Pancreatite (pochi casi).

ZIPRASIDONE
Nome commerciale: ZELDOX.
Indicazioni:
- Trattamento della schizofrenia negli adulti;
- Trattamento di episodi maniacali o misti di gravità moderata nei pz bipolari di età superiore ai 10 anni;
- La sua efficacia, tuttavia, non è stata stabilita nella profilassi degli episodi maniacali dei disturbi bipolari.

Meccanismo d’azione: blocca i recettori D2 e 5-HT2A ed è un agonista parziale dei 5-HT1A. Inoltre, inibisce la
ricaptazione della noradrenalina e della serotonina, ed è per questo che possiede anche un effetto antidepressivo.

Posologia: è un antipsicotico a potenza intermedia, dunque la dose utilizzata è solitamente di 40 mg BID (due volte al
giorno), da assumere con il cibo, fino ad un massimo di 80 mg BID. Se è necessaria una titolazione rapida, gli 80 mg,
cioè la dose piena, possono essere raggiunti in 3 giorni.
Nei bambini si inizia con una singola dose da 20 mg.

Metabolismo: Lo Ziprasidone è metabolizzato dal CYP3A4, dunque bisogna prestare attenzione alla sua
somministrazione con farmaci che inducono o inibiscono questo citocromo. In particolare, bisogna evitare
l’associazione con farmaci che inibiscono il citocromo (es. macrolidi, antifungini, farmaci antivirali usati per l’HIV etc.)
poiché vanno ad aumentare la tossicità dello Ziprasidone.

Effetti avversi:
- Agitazione, nervosismo ed insonnia;
- Allungamento del QT; è quindi necessario monitorare il pz regolarmente con ECG ed evitare l’associazione
dello Ziprasidone ad altri farmaci che determinano allungamento del QT.

ARIPIPRAZOLO
Nome commerciale: ABILIFY

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28/12/2021 Sbob: Riccardo Morgia, Margherita Pauletti
Farmacologia Rev: Sarah Matteucci
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Si trova in commercio in formulazione x os (come compresse, anche orodispersibili, o come soluzione orale) ed in
formulazione intramuscolare (a rilascio immediato e modificato).

Meccanismo d’azione: è un agonista parziale dei recettori D2 e 5-HT1A, un antagonista del 5-HT2A ed è inoltre in
grado di bloccare la ricaptazione della noradrenalina.
N.B. L’agonista parziale si differenzia dall’agonista pieno per la sua attività intrinseca, ossia la capacità del farmaco di
dare inizio alla risposta biologica.

Normalmente l’attività intrinseca è compresa tra 0 e 1:


- Gli agonisti pieni hanno attività intrinseca pari a 1;
- Gli agonisti parziali, invece, hanno un’attività intrinseca
superiore allo zero ma minore di 1.
L’azione, ovviamente, è contesto dipendente: in presenza di grandi
concentrazioni del neurotrasmettitore (in questo caso dopamina o
serotonina), l’agonista parziale si comporta da antagonista, mentre
in presenza di basse concentrazioni del neurotrasmettitore, si
comporta effettivamente da agonista.
Nel paziente schizofrenico, Il vantaggio di utilizzare farmaci con
questo comportamento è che la loro azione porta ad una riduzione
dell’attività della via mesolimbica (attività che è aumentata in maniera anomala nella schizofrenia) e, parallelamente,
ad un aumento dell’attività della via mesocorticale (che è invece ridotta in questa patologia).

Poiché le due vie sottendono sintomi diversi della schizofrenia (la via mesolimbica provoca i sintomi positivi, mentre
quella mesocorticale quelli negativi), questa caratteristica dell'Aripiprazolo lo rende adatto a risolvere anche i sintomi
negativi, che purtroppo vengono spesso controllati male dalle altre terapie.
Inoltre, l'Aripiprazolo non ha attività antimuscarinica e non blocca i recettori H1 dell’istamina; dunque, non dà
sedazione ma anzi è un farmaco attivante, in grado di correggere l’appiattimento affettivo tipico della schizofrenia.
L’unico problema di questo farmaco è che ha un’attività intrinseca per i recettori D2 di 0,3: questo valore è
abbastanza elevato, soprattutto in virtù del fatto che, non avendo attività di antimuscarinico, dà frequentemente
come effetti avversi acatisia ed agitazione.
Indicazioni:
- Schizofrenia dai 15 anni in su;
- Bipolarismo di tipo 1:
o Negli adulti sia in terapia sia in profilassi per gli episodi maniacali di grado moderato e severo;
o Negli adolescenti a partire dai 13 anni per gli episodi maniacali di grado moderato e severo (massimo 12
settimane di terapia);
- Come off–label nell’irritabilità associata al disturbo autistico e nei Tic associati alla sindrome di Tourette. Pur
non avendo indicazione specifica in questi due tipi di disturbo, il riassunto delle caratteristiche del prodotto (RCT)
riporta i dati di efficacia e di sicurezza per l’utilizzo dell'Aripiprazolo in terapia.

Posologia:
- Schizofrenia: dose iniziale che va dai 10 ai 15 mg/die con dose di mantenimento di 15 mg/die. Il farmaco
viene somministrato una volta al giorno indipendentemente dai pasti. La massima dose giornaliera non deve mai
superare i 30 mg. Negli adolescenti bisogna iniziare con una dose di 2 mg e si può arrivare ad un massimo di 10
mg/die.
- Episodi maniacali nei pz bipolari di tipo 1: dose iniziale di 15 mg/die fino ad un massimo di 30 mg/die.
Anche in questo caso negli adolescenti bisogna iniziare con 2 mg/die fino ad un massimo di 10 mg/die.

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28/12/2021 Sbob: Riccardo Morgia, Margherita Pauletti
Farmacologia Rev: Sarah Matteucci
Prof.ssa Melchiorri

Metabolismo: il farmaco è metabolizzato dal CYP2D6 e dal CYP3A4 (valgono dunque tutte le interazioni e le
avvertenze che sono state elencate precedentemente).

Effetti avversi:
- Irritabilità, nervosismo ed insonnia ( in maniera spiccata);
- Disfagia;
- Disturbo del controllo degli impulsi;
- Aumento di peso e dislipidemia SOLO nei pz adulti con DM, disturbi tiroidei o adenoma ipofisario;
- Frequente aumento ponderale nei bambini;
- È uno degli antipsicotici di seconda generazione che meno frequentemente dà sindrome metabolica.

BREXPIPRAZOLO
Dopo la messa in commercio dell’Aripiprazolo, sono stati sintetizzati degli altri antipsicotici di seconda generazione
che agiscono come agonisti parziali; tra questi troviamo appunto il Brexpiprazolo, il cui nome commerciale è RXULTI.
Ad oggi è indicato solamente nel trattamento della schizofrenia negli adulti, e in commercio si trova solo sotto forma
di compresse x os.
Meccanismo d’azione: è agonista parziale dei recettori 5-HT1A e D2 ed antagonista dei recettori 5-HT2A. La sua
caratteristica peculiare è che ha affinità molto elevata per tutti e tre questi recettori. Inoltre, agisce come antagonista
sui recettori α1(B) e α2(C), potendo quindi causare ipotensione e problemi della sfera sessuale.
Dal momento che non dà blocco muscarinico, il Brexpiprazolo risulta essere un farmaco attivante come
l'Aripiprazolo; rispetto a quest’ultimo, però, causa meno agitazione ed acatisia poiché ha un’attività intrinseca sui
recettori D2 di 0,15 (più bassa di quella dell’Aripiprazolo).
Posologia: la dose iniziale è di 1 mg una volta al giorno nei primi quattro giorni (dal giorno 1 al giorno 4). Dopodiché
si sale a 2 mg/die dal giorno 5 al giorno 7 e, se necessario, a 4 mg dal giorno 8.
Se il pz soffre di insufficienza renale o epatica di grado moderato/grave, bisogna ridurre la dose a 3 mg/die, poiché il
Brexpiprazolo è escreto sia dal rene sia dal fegato.

Metabolismo: metabolizzato dal CYP2D6 e dal CYP3A4. Nei metabolizzatori lenti per il CYP2D6 è necessario
dimezzare la dose; inoltre, se questi pazienti assumono anche dei farmaci inibitori forti o moderati del CYP3A4
bisogna ridurre ulteriormente la dose, fino ad arrivare a ¼ di quella iniziale.
Effetti avversi:
- Acatisia;
- Tremore;
- Sedazione;
- Diarrea;
- Aumento ponderale;
- Disturbo del controllo degli impulsi, compresa la propensione al gioco d’azzardo.

CARIPRAZINA
Nome commerciale: REAGILA
È uno degli ultimi antipsicotici ad essere stato messo in commercio e la sua unica indicazione è il trattamento della
schizofrenia in pazienti adulti; disponibile unicamente in compresse x os.

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28/12/2021 Sbob: Riccardo Morgia, Margherita Pauletti
Farmacologia Rev: Sarah Matteucci
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Posologia: dose iniziale di 1,5 mg/die, che si può lentamente incrementare sempre di 1,5 mg alla volta fino ad una
dose massima di 6 mg/die.
Ha una lunga emivita, di circa 7 giorni, perché viene metabolizzata in due metaboliti anch’essi attivi; per questo
motivo, per avere un pieno risultato clinico a seguito delle titolazioni, bisogna attendere diverse settimane, durante le
quali il paziente deve inoltre essere attentamente monitorato (gli effetti avversi potrebbero infatti manifestarsi in
ritardo).
La lunga emivita, se da una parte impatta negativamente sulla velocità di titolazione, dall’altra sembra essere un
vantaggio, in quanto garantisce la presenza di azione terapeutica del farmaco anche in caso di scarsa aderenza alla
terapia da parte del paziente: se un giorno il paziente si dimentica di assumere una dose, non fa niente, perché la
lunga emivita del farmaco assunto il giorno prima fa sì che esso riesca ancora ad agire sul suo organismo.

Meccanismo d’azione: è un agonista parziale dei recettori 5-HT1A, D2 e D3 (si lega a questi ultimi con elevata
affinità). Attraverso il legame con i D3 e i 5-HT1A, espressi nella corteccia prefrontale e nella corteccia piriforme, la
Cariprazina controlla i sintomi negativi, l’anedonia e i sintomi affettivi della schizofrenia. Ha un’attività intrinseca

per i recettori D2 simile a quella del Brexpiprazolo; quindi, provoca meno agitazione e meno acatisia rispetto
all’Alipiprazolo.
Ricordiamo che ci sono recettori D3 anche sulle efferenze corticali, che dalla corteccia proiettano all’ippocampo, i
quali sembra abbiano un ruolo nei sintomi cognitivi della schizofrenia (alterazione del ritmo γ), quindi sembrerebbe –
nonostante non sia stato ancora del tutto accertato – che la Cariprazina possa migliorare anche questi sintomi.
Inoltre, la Cariprazina risulta essere un antagonista dei recettori 5-HT2A, 5-HT2B e H1, ha una bassa affinità per i
5-HT2C (dà dunque minor aumento ponderale) e per i recettori α1 della noradrenalina (dà minor ipotensione). Infine,
non blocca i recettori muscarinici, quindi è attivante.

Metabolismo: è metabolizzata dal CYP3A4 in due metaboliti, la desmetil–cariprazina (DCAR) e la


didesmetil–cariprazina (DDCAR), a loro volta metabolizzati dal CYP3A4 e, in parte, dal CYP2D6.
La Cariprazina, inoltre, è un inibitore della glicoproteina–P, perciò bisogna aggiustarne la dose quando viene
somministrata con la Digossina e il Dabigatran. Infine, bisogna evitare di assumere grandi dosi di succo di pompelmo
durante la terapia (poiché inibisce il CYP3A4).
Effetti avversi:
- Cataratta nel cane, evidenziata negli studi di fase preclinica. Nell’uomo questo reperto non è stato ancora mai
riscontrato, tuttavia è bene monitorare il paziente;
- Ipotensione ortostatica e ipertensione;
- Aumento di peso (non eccessivo);
- Acatisia, parkinsonismo e disturbi extrapiramidali.

Come si fa a passare da un antipsicotico ad un altro nello stesso paziente?


Come prima cosa bisogna andare a valutare il profilo recettoriale del farmaco che il paziente sta assumendo e del
nuovo farmaco con il quale bisogna fare lo switch: se il profilo recettoriale tra i due farmaci è simile, non ci sono molti
problemi; se, invece, i profili recettoriali sono diversi, la situazione risulta più complessa.
Nonostante la presenza delle problematiche, si tende, quando si fa uno switch, a scegliere farmaci che abbiano profili
recettoriali differenti, in modo tale da poter sfruttare un diverso meccanismo d’azione, al quale – si spera – il paziente
risponda meglio.

Passaggio da un antipsicotico “x” alla Cariprazina


Esempio: se il paziente è in terapia con un farmaco anti–istaminergico e/o anticolinergico (per es.: Olanzapina,
Clozapina, Quetiapina, Clorpromazina, Promazina, Clotiapina, …) e deve passare alla Cariprazina, bisogna evitare il

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rischio di rebound dei recettori dell’istamina o dei recettori colinergici, che danno come effetti avversi nausea,
vomito, insonnia ed agitazione.
Questo avviene perché se i recettori sono bloccati per molto tempo, si sensibilizzano; nel momento in cui si
interrompe il trattamento con il bloccante recettoriale, si ha il rebound, causato proprio dall’attivazione della
trasmissione bloccata fino a quel momento.
Per evitare ciò, si somministra gradualmente la Cariprazina e, allo stesso tempo, si sospende gradualmente
l’antipsicotico che il paziente stava assumendo: di fatto si danno due antipsicotici, uno a basse dosi, la Cariprazina, e
l’altro scalando lentamente la dose in 15–20 giorni.

Se, invece, il paziente è in terapia con un farmaco anti–dopaminergico (Risperidone, Paliperidone, Aloperidolo,
Lurasidone, …) e bisogna fare lo switch con la Cariprazina, per evitare il rebound dopaminergico (che può causare
psicosi, agitazione e discinesie), lo switch può essere più veloce: si introduce la Cariprazina e si sospende il farmaco
che si assumeva prima in 7–10 giorni. Bastano pochi giorni perché, in questo caso, i recettori dopaminergici
desensibilizzano più velocemente.

LURASIDONE
Nome commerciale: LATUDA
Indicazione: unicamente nella schizofrenia nei pazienti dai 13 anni in su.

Posologia: si inizia, sia negli adulti sia negli adolescenti, con una dose di 37 mg una volta al giorno, fino ad un
massimo di 148 mg/die nell’adulto e di 174 mg/die nell’adolescente.

Metabolismo: metabolizzato dal CYP3A4. Se associato agli inibitori moderati del CYP3A4, bisogna iniziare con una
dose di 18,5 mg/die fino ad arrivare ad un massimo di 74 mg/die.
Vi è invece una totale controindicazione all’associazione del Lurasidone con i forti inibitori del CYP3A4 (Claritromicina,
inibitori delle proteasi, Itraconazolo, Ketoconazolo, Telitromicina etc.) e con i forti induttori del CYP3A4
(Carbamazepina, Fenobarbital, Fenitoina, Rifampicina, Iperico etc.).

Meccanismo d’azione: blocca i recettori D2, 5-HT2A e 5-HT7; si comporta come agonista parziale nei confronti dei
recettori 5–HT1A; blocca i recettori α adrenergici (provocando ipotensione).

AGONISTA DEI RECETTORI DELLE TRACE-AMMINE DI TIPO 1 e DEL RECETTORE 5-HT1A


Attualmente è in sperimentazione un nuovo antipsicotico che, a differenza di quelli appena elencati, non agisce
bloccando i recettori D2.
Si tratta di un agonista dei recettori delle trace–ammine di tipo 1 (TAAR1) e del recettore della serotonina 5–HT1A.
Le trace–ammine sono ammine presenti nel nostro cervello in bassissime concentrazioni (<10 nM), ma risultano
aumentate nei disturbi neuropsichiatrici. Tra queste particolari ammine ritroviamo la β-feniletilamina (β-PEA),
coinvolta nel circuito della ricompensa (reward) e del rinforzo, attivati dai farmaci psicostimolanti.
Diversamente dalle ammine che fungono da neurotrasmettitori, le trace–ammine non vengono immagazzinate in
vescicole, ma vengono immediatamente rilasciate.
Il loro recettore (TAAR1), quando è attivato, induce inibizione della ricaptazione della dopamina e, allo stesso tempo,
riduce la scarica dei neuroni dopaminergici per azione sui neuroni inibitori che controllano il firing dopaminergico;
in questo modo, si ottiene una riduzione della trasmissione dopaminergica – e quindi dell’attivazione dei recettori D2
– senza, però, agire direttamente sui recettori D2.
Questo nuovo antipsicotico è tuttavia ancora in fase precoce di sperimentazione, dunque non si sa se verrà mai
messo in commercio, né se il suo utilizzo sia efficace o sicuro.

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