Sei sulla pagina 1di 29

Il Monitoraggio Emodinamico

Il monitoraggio emodinamico costituisce parte integrante della gestione del paziente critico di Te-
rapia Intensiva (ICU). E’ uno strumento essenziale per identificare precocemente gli stati di altera-
ta funzione cardiovascolare e guidarne la gestione terapeutica.

Possiamo identificare due categorie maggiori di pazienti che necessitano di monitoraggio emodi-
namico:
1) pazienti chirurgici ad alto rischio sottoposti ad ottimizzazione emodinamica perioperatoria
2) I pazienti critici di TI in cui il monitoraggio emodinamico viene applicato come guida per tratta-
mento dei diversi quadri di insufficienza cardiovascolare con lo scopo di raggiungere e mante-
nere la stabilità emodinamica nel paziente critico
.
Per il monitoraggio emodinamico oggi ci si può avvalere di diverse tecnologie che consentono:
A. La diagnosi ed il monitoraggio dei diversi quadri di shock;
B. Il monitoraggio del flusso(gittata cardiaca,CO)
C. Il monitoraggio del precarico
D. Il monitoraggio della ScvO2, SvO2;
E. La valutazione della fluid-responsiveness
F. La diagnosi e monitoraggio dell’ipertensione polmonare primitiva, delle patologie valvolari, degli
shunts intracardiaci, del tamponamento cardiaco e dell’embolia polmonare.

Da un punto di vista fisiologico, il monitoraggio cardiovascolare può essere suddiviso in due cate-
gorie: monitoraggio del macrocircolo e del microcircolo.
Possiamo inoltre classificarlo a seconda l’invasività della tecnica.

Per ogni tecnica di monitoraggio è essenziale la conoscenza del metodo, della tecnica di misura-
zione e delle loro caratteristiche.
Attualmente, in terapia intensiva, non esistono metodi ideali di monitoraggio emodinamico in grado
di fornire informazioni accurate, riproducibili, affidabili e non invasive su tutti i parametri del sistema
cardiovascolare. Uno strumento ideale dovrebbe fornire informazioni al medico per determinare gli
aggiustamenti appropriati ai trattamenti di rianimazione come l'espansione del volume e l'uso di
inotropi o vasopressori per correggere disturbi circolatori e migliorare la salute del paziente.
In assenza di questo strumento ideale, sono disponibili una moltitudine di tecniche che possono
essere impiegate sullo stesso paziente.

Pressione Sanguigna

La pressione sanguigna è una delle prime variabili monitorate dai medici. Questo parametro aiuta
a fornire informazioni sia quantitative che qualitative. Questi numeri, infatti, vengono confrontati
con i valori soglia che possono definire uno stato di shock, permettendo una diagnosi positiva.
Vanno comunque sempre presi in considerazione insieme ad essa le condizioni cliniche del pa-
ziente ( es. diabete, ipertensione, età avanzata etc..). I dati sulla pressione arteriosa hanno inoltre
valori predittivi e rappresentano un target terapeutico nel trattamento dello shock. La pressione
fornisce anche informazioni qualitative. Infatti, con la concomitante misurazione della gittata car-
diaca e della pressione centrale (CVP), può essere utilizzata per calcolare le resistenze vascolari
periferiche, e tutti questi parametri insieme consentono una diagnosi differenziale dello shock.
La pressione sanguigna comprende quattro componenti: pressione sanguigna sistolica (SBP),
pressione sanguigna diastolica (DBP), pressione sanguigna media e la pulse pression (PP). Lo
studio combinato di questi quattro elementi viene utilizzato per definire un profilo emodinamico.
La misurazione della pressione sanguigna può avvenire in modo invasivo e non invasivo.

Misurazioni non invasive

La misurazione non invasiva della pressione una volta veniva eseguita utilizzando uno sfigmoma-
nometro con il metodo dell’auscultazione. Questo strumento prevede l’utilizzo di un bracciale, po-
sto preferibilmente sull'arteria brachiale che viene gonfiato ad una pressione superiore alla pres-
sione sistolica e poi sgonfiato lentamente. La comparsa e la scomparsa dei suoni di Korotkoff
(flusso turbolento) corrispondono rispettivamente alla SBP e alla DBP. Il metodo auscultatorio è
preferito al metodo di palpazione, che misura solo la PAS. Tuttavia questo metodo è difficile da
usare in terapia intensiva, specialmente durante le situazioni di emergenza. Inoltre, la misurazione
della PAS dipende dal flusso sanguigno locale di un flusso turbolento pulsante, responsabile dei
suoni uditi nella fase I. È quindi fortemente dipendente dal tono vasomotore distale. Pertanto, l'au-
scultazione è difficile o impossibile da misurare, specialmente durante una grave ipotensione o
uno stato di shock. Infine, l'aumento della rigidità arteriosa, come si osserva negli anziani o nei pa-
zienti affetti da aterosclerosi, può anche rendere meno comprimibile l'arteria brachiale e può altera-
re la trasmissione dei suoni di Korotkoff. Ciò porta alla sottostima della SBP misurata da uno sfig-
momanometro e alla sovrastima della DBP.
Oltre il metodo ‘ascoltatorio’ disponiamo di un metodo “oscillometrico” che misura piccole oscil-
lazioni della contropressione indotta in un vaso quando un bracciale occlusivo si sgonfia secondo
un algoritmo commercialmente protetto. Gradualmente, man mano che il bracciale si sgonfia, que-
ste oscillazioni passano attraverso un valore massimo per poi diminuire e scomparire. I dispositivi
che utilizzano questo metodo misurano solo la MAP (e calcolano sulla base di quest’ultima la SBP
e la DBP) come contropressione corrispondente alle oscillazioni massime.
Il metodo della “fotopletismografia digitale” misura le fluttuazioni cicliche del flusso sanguigno
che entra ed esce dal dito, preferibilmente l'indice, e fornisce valori corrispondenti al volume san-
guigno del dito. Questo metodo si basa sulla trasmissione della luce attraverso il dito. Un diodo
emette luce infrarossa per misurare il volume digitale. È collegato ad un sistema che assegna a
questo volume una pressione necessaria per mantenere il volume digitale e un volume arterioso
costante. Questa tecnica è nota come "volume-clamp" e consente il monitoraggio continuo della
pressione sanguigna battito per battito.
La ‘tonometria’ è un metodo utilizzato da decenni dagli oftalmologi per misurare la pressione in-
traoculare. Recentemente è stato sviluppato per misurare la pressione nelle arterie superficiali,
preferibilmente l'arteria radiale. Questo metodo prevede l'applicazione di una leggera pressione
con un trasduttore di pressione formato da un cristallo piezoresistivo sulla pelle sopra l'arteria ra-
diale e permette, superando la pressione extramurale, di misurare continuamente la pressione in-
tramurale trasmessa al sensore. La calibrazione del segnale radiale viene eseguita assumendo
che MAP e DBP siano identici tra le arterie brachiale e radiale. La curva della pressione aortica
centrale può quindi essere ricostruita utilizzando una funzione di trasferimento e validata in un'am-
pia popolazione di pazienti. Questo metodo potrebbe quindi quantificare più precisamente la com-
ponente pulsatile del postcarico del ventricolo sinistro a livello dell'aorta centrale. Tuttavia, sebbe-
ne convalidata in pazienti stabili in anestesia generale, la rilevanza di questa tecnica nei pazienti in
stato di shock resta da dimostrare.

Misurazione invasiva

La misurazione AP invasiva è preferita in tutti i casi in cui l'affidabilità della misurazione non invasi-
va è discutibile, sia per la sua scarsa precisione (ad es. in caso di aritmia o stati di estrema ipo- o
ipertenesione) sia per la mancanza di un sistema di misurazione continua che risulta necessaria
quando sono attesi cambiamenti ( ad esempio quando i pazienti stanno ricevendo farmaci vasoat-
tivi, inotropi positivi e/o trattamenti antipertensivi per via endovenosa). Le misurazioni invasive del-
la pressione sanguigna evitano distorsioni da sovra o sottostima della pressione arteriosa (princi-
palmente a scapito dei valori di SBP e DBP), che dipendono dalle caratteristiche del sistema idrau-
lico, che rappresenta il punto “più debole” della catena di misurazione. Attualmente sono disponibili
sistemi preassemblati con trasduttore di pressione elettrico per uso clinico. Questi sistemi di tra-
sduttori di pressione sanguigna monouso offrono un'accuratezza vitale nella misurazione della
pressione sanguigna. Pertanto, la MAP è un parametro preciso che viene misurato direttamente
dall'area sotto la curva della pressione sanguigna nel tempo e viene utilizzato nei casi di aritmia,
con errori di misurazione generalmente inferiori al 2%. In area critica il gold standard della misura-
zione arteriosa è tramite la via invasiva o cruenta. Questo avviene innanzitutto perché ci riporta
una valutazione rigorosa e continua della variabile fisiologica pressione. Ma il secondo motivo che
rende quasi obbligatorio il monitoraggio invasivo nel paziente critico è che noi molto spesso ab-
biamo bisogno di frequenti prelievi arteriosi per esempio per gli emogas e la presenza di una can-
nula sul torrente arterioso del malato ci permette di farlo senza dover bucare più volte l’arteria.
L’arteria radiale è l’accesso preferito perché è più superficiale e più facilmente localizzabile ma an-
che per questioni di sicurezza. Infatti una delle complicanze più temibili del posizionamento della
cannula è la trombosi. Noi approfittiamo dell’incannulazione della arteria radiale per il particolare
schema di irrorazione della mano che avviene tramite l’arteria radiale e la arteria ulnare. Quindi in
caso di trombosi della radiale la mano non subirà problematiche di perfusione con complicanze
talvolta distruenti perché esiste un circolo accessorio che vicaria quello ostruito che è appannaggio
della arteria ulnare. Il funzionamento di questo tipo di meccanismo va però verificato e questo vie-
ne fatto tramite il Test di Allen.

TEST DI ALLEN: si comprimono manualmente le due arterie del polso (radiale e ulnare) con la
mano del paziente chiusa e possibilmente in posizione rialzata o comunque oltre l'altezza del cuo-
re, a questo punto si apre la mano, il suo palmo apparirà bianco perché non irrorato, si rilascia
quindi la sola arteria ulnare e si valuta la ripresa di circolo:
– Test di Allen Positivo: se la mano diventa rosea in un tempo compreso tra i 6-7 secondi (circolo
collaterale ulnare efficace)
• se la mano riprende il colorito roseo in un tempo compreso tra gli 8 e i 14 secondi siamo in pre-
senza di un risultato dubbio, il consiglio è di considerare l'altro arto
– Test di Allen Negativo: se la mano riprende colorito in un tempo di 14 secondi il circolo collaterale
ulnare è assolutamente inefficace e mette a rischio il paziente di complicazioni sopra accennate
quindi la manovra di incanalamento radiale va evitata.

In caso di shock o condizioni di emergenza, l'arteria femorale è spesso preferito come punto da
incannulare. Le arterie brachiali e dorsalis pedis possono essere utilizzate come alternative. Si
raccomandano cateteri in teflon o poliuretano con un diametro massimo di cinque French per l'ar-
teria femorale o tre French per l'arteria radiale. Si consiglia inoltre di utilizzare un sistema di spurgo
per un flusso continuo di 2 ml/h, con la possibilità di ottenere uno spurgo manuale intermittente.
L'aggiunta di eparina non ha mostrato alcun beneficio. La complicanza più temuta del cateterismo
arterioso è la trombosi arteriosa. La prevenzione della trombosi dipende dalla scelta del materiale,
dall'esecuzione del test di Allen, dalle dimensioni del catetere e dalla durata del cateterismo. Un'al-
tra grave complicanza è l'infezione. L'applicazione di misure asettiche ne garantisce la prevenzio-
ne.

Il cateterismo arterioso è quindi la tecnica


di riferimento e gold standard per le misu-
razioni della pressione arteriosa continua
in terapia intensiva. Tuttavia, nel contesto
delle emergenze e in particolare nell'assi-
stenza preospedaliera, i metodi non inva-
sivi hanno dimostrato di essere l'unica
opzione utilizzabile nonostante la loro re-
lativa inaffidabilità, specialmente nel caso
dell'ipotensione.

Il cateterismo arterioso fornisce informa-


zioni battito per battito sui valori della
pressione sanguigna (cioè, SBP, DBP,
MAP e PP) e consente anche la visualiz-
zazione della curva della pressione arte-
riosa.
Pressione arteriosa media (MAP)

La MAP è la pressione che assicura il flusso sanguigno nel caso in cui non si tenga conto della
pulsatilità. Quindi, corrisponde alla pressione che fornisce la perfusione dell'organo, eccetto quella
del ventricolo sinistro, che è perfuso dall'arteria coronaria sinistra principalmente in diastole. La
MAP viene calcolata misurando l'area sotto la curva della pressione sanguigna e dividendo tale
valore per la durata del ciclo cardiaco (nel tempo). I dispositivi di monitoraggio della terapia inten-
siva in genere calcolano i valori della pressione sanguigna nell'arco di diversi secondi.

Quando si utilizzano uno sfigmomanometro e uno stetoscopio per misurare la pressione arteriosa,
la MAP può essere stimata con la formula:

Se si utilizza il metodo oscillometrico, il valore misurato è realmente la MAP e le componenti sisto-


lica e diastolica sono derivate matematicamente da algoritmi protetti (brevetti). Da un punto di vista
fisiologico, qualunque sia la localizzazione della misurazione (cioè brachiale, radiale, femorale e
carotide), la MAP è considerata costante.

Il flusso sanguigno è guidato dalla differenza di energia totale tra due punti. Sebbene la pressione
sia normalmente considerata la forza trainante del flusso sanguigno, in realtà è l'energia totale che
guida il flusso tra due punti. A questo proposito, lo studio del flusso non pulsatile a velocità costan-
te si basa sulla resistenza. Quando bilanciata, MAP è la pressione che fornisce teoricamente la
stessa gittata cardiaca in modalità continua (cioè non pulsata) secondo la relazione:

(MAP-MSP)-(RAP-MSP)=SVR X CO

Quindi

MAP − RAP = SVR × CO,

Dove MSP è la pressione di riempimento sistemica media, cioè la pressione teorica presente in
tutto il sistema circolatorio quando il flusso sanguigno è zero, RAP è la pressione atriale destra,
SVR è la resistenza vascolare sistemica e CO è la gittata cardiaca.

Nello shock, i trattamenti somministrati per aumentare la MAP aumentano la gittata cardiaca (cioè
la sostituzione del volume, l'inotropismo positivo) o la resistenza vascolare (vasopressore).

MSP rappresenta la pressione generata dal rinculo elastico nella circolazione sistemica durante
uno stato di assenza di flusso. La MSP non è misurabile nella pratica clinica ma può essere osser-
vata durante la morte di un paziente, pochi secondi dopo l'arresto cardiaco.

Da questa relazione ne deriva che la MAP è determinato da CO, SVR e RAP

secondo il rapporto:

MAP = (CO x SVR ) + RAP

Spesso vengono calcolate solo le resistenze vascolari sistemiche (dette anche resistenze periferi-
che totali):

SVR = MAP/CO
RAP viene trascurato quando il valore attuale è basso (<5 mmHg). Tuttavia, SVR non ha un signi-
ficato fisiologico diretto né a riposo né durante le manovre dinamiche.

SVR non è semplicemente un valore teorico. Applicando infatti la legge di Poiseuille alla circola-
zione sistemica possiamo considerare che:

dove η è la viscosità del sangue, L è la lunghezza della rete vascolare fun-


zionale e r è il raggio dei vasi sistemici funzionali. Le resistenze vascolari
sistemiche sono inversamente proporzionali alla quarta potenza del raggio
funzionale r; ciò si traduce in un significativo aumento o diminuzione della
resistenza. Lungo l'albero arterioso, la caduta di pressione media maggio-
re è osservata alle arteriole e ai capillari (vasi di resistenza). L'aorta e i
suoi rami e alcune arterie più piccole (in particolare brachiale e radiale)
hanno resistenze molto basse. I valori di MAP misurati quindi negli arti superiori e inferiori sono
rappresentazioni accurate del MAP aortico centrale.

L'autoregolazione della MAP è un elemento chiave del sistema cardiovascolare. In fisiologia, una
forte diminuzione della MAP è normalmente compensata dalla stimolazione simpatica, che porta a
tachicardia riflessa, aumento della gittata sistolica (a causa di un effetto inotropo positivo e aumen-
to del precarico correlato alla venocostrizione) e vasocostrizione arteriosa sistemica. Nei pazienti
con shock settico o vasoplegia, questi meccanismi compensatori sono spesso obsoleti o difettosi.
Pertanto, una diminuzione della MAP può essere causata da una diminuzione della gittata cardia-
ca non sufficientemente compensata dalla vasocostrizione simpatica riflessa o da una diminuzione
sproporzionata della SVR dovuta alla vasodilatazione. Di conseguenza, è essenziale che questi
pazienti siano monitorati per la gittata cardiaca per determinare con precisione le proprietà re-
sponsabili della diminuzione della pressione sanguigna.

La MAP è determinata da vari meccanismi regolatori, incluso il baroriflesso. Questo riflesso è av-
viato da meccanocettori sensibili alla deformazione. Questi recettori chiamati "barocettori" si trova-
no nelle pareti delle grandi arterie sistemiche. I barocettori ad alta pressione si trovano nel seno
carotideo, nell'arco aortico e nell'atrio destro; i barocettori a bassa pressione si trovano nei vasi
polmonari. I neuroni che costituiscono questi barocettori hanno relè nel nucleo del tratto solitario
situato nel midollo. Gli impulsi dei barocettori carotidei non vengono rilevati se la MAP è inferiore a
60 mmHg. Appaiono gradualmente con l'aumento della pressione sanguigna fino a un massimo di
180 mmHg. Quando si attivano i barocettori, l'integrazione dei segnali nel nucleo del tratto solitario
porta sia all'inibizione dei neuroni simpatici situati nel midollo ventrolaterale rostrale sia all'eccita-
zione dei neuroni vagali cardiaci situati nel nucleo ambiguo e nel nucleo vagale dorsale. Il centro
vasomotorio gestisce il segnale efferente al cuore e ai vasi sanguigni e quindi influenza l'accop-
piamento vascolare-cardiaco. La risposta baroriflessa è opposta a quella della pressione sangui-
gna. I valori di MAP nelle grandi arterie sono spesso stabili; di conseguenza, la MAP è considerata
la pressione di perfusione nella maggior parte degli organi vitali. Quando il MAP scende al di sotto
del limite inferiore del plateau di autoregolazione, il flusso sanguigno regionale diventa dipendente
dalla MAP. Il limite inferiore della piastra autoregolante è 60-70 mmHg. Questi limiti variano con la
storia cardiovascolare di ciascun paziente, l'organo considerato, la patologia, l'attività metabolica e
l'uso di vasodilatatori. L'autoregolazione del flusso sanguigno dell'organo, che è la tendenza del
flusso sanguigno dell'organo a rimanere costante nonostante i cambiamenti nella pressione di
perfusione arteriosa, è un fenomeno onnipresente. Quattro meccanismi di autoregolazione, mio-
genico, metabolico, pressorio tissutale e feedback tubuloglomerulare, sono stati riconosciuti come
potenzialmente importanti, mentre un quinto possibile meccanismo, il controllo neurale locale, è
stato notato ma gli è stato dato poco credito. L'ipotensione è definita quando la MAP <60 mmHg.
Nei pazienti con una storia di ipertensione, una diminuzione della MAP superiore a 40 mmHg, ri-
spetto alla pressione iniziale, è considerata ipotensione, anche se la pressione è superiore a 60
mmHg. Tuttavia, non esiste un MAP minimo che assicuri un'adeguata perfusione di tutti gli organi
poiché il valore critico del MAP è diverso per ciascun organo. Pertanto, ci sono solo raccomanda-
zioni, specialmente nello shock settico, in cui il MAP minimo target è di 65 mmHg per prevenire
l'ipoperfusione d'organo. Queste raccomandazioni si basano su studi clinici che hanno dimostrato
che MAP >65 mmHg non migliorano la perfusione degli organi o l'ossigenazione dei tessuti. Tutta-
via, i pazienti anziani o ipertesi richiedono livelli di MAP più elevati.

The Pulse Pressure (PP)

Le porzioni prossimali del sistema arterioso (cioè l'aorta e le sue prime divisioni) sono ricche di
elastina e sono quindi “elastiche”. Infatti, questi vasi hanno la capacità di attutire le espulsioni car-
diache assorbendo parte del volume di eiezione sistolica ed eventualmente ripristinando il volume
durante la diastole (fenomeno Windkessel). Ciò fornisce un flusso sanguigno continuo. L'impatto
del battito cardiaco e della gittata sistolica sul sistema vascolare arterioso è percepibile come
un'onda di polso. Il PP ( pulse pressure) è la differenza tra la pressione sanguigna sistolica e dia-
stolica. Il suo valore, misurato in una determinata posizione nel sistema arterioso, è dipende dal
volume di sangue espulso e della elasticità dell’arteria. La pressione sistemica del polso è appros-
simativamente proporzionale alla gittata sistolica, o alla quantità di sangue espulso dal ventricolo
sinistro durante la sistole (azione di pompaggio) e inversamente proporzionale alla compliance.del-
l’aorta.

La Pulse Pressure Variation


L’aumento della pressione intratoracica durante l’inspirazione in ventilazione meccanica determina
una riduzione del precarico (cioè del volume a fine diastole) sia del ventricolo destro che del ven-
tricolo sinistro. Quindi l’insufflazione meccanica può essere considerata un vero e proprio test di
riduzione del precarico che si ripete ad ogni ciclo respiratorio. La legge di Frank-Starling ci dice
che lo stroke volume (la gittata pulsatoria) aumenta all’aumentare del precarico e, ovviamente, si
riduce al ridursi del precarico. La relazione tra stroke volume e volume ventricolare di fine diastole
non è però lineare ma tende ad appiattirsi con l’aumentare del precarico. Spieghiamo le implica-
zioni della legge di Frank-Starling commentando la curva riprodotta qui sotto.

Se un paziente con un elevato volume di fine diastole


subisce una riduzione del precarico (passa ad esempio
da A a B), si osserva una lieve riduzione dello stroke
volume. Se invece la stessa riduzione del precarico av-
viene ad un basso volume di fine diastole (ad esempio
da C a D), la consensuale riduzione dello stroke volu-
me è molto maggiore.
Per questo motivo, quando l’inspirazione durante la
ventilazione meccanica riduce il precarico, la consen-
suale riduzione dello stroke volume sarà maggiore nei
pazienti con basso precarico rispetto a quelli con un
elevato precarico. La variazione di stroke volume du-
rante il ciclo ventilatorio è definita Stroke Volume Varia-
tion (normalmente abbreviata in SVV).
La variazione di stroke volume indotta dall’insufflazione
meccanica ha come conseguenza la variazione di pul-
se pressure (pressione pulsatoria). In numerosi studi
clinici si è evidenziato che i pazienti che hanno una elevata Pulse Pressure Variation (superiore al
12-13%) sono spesso in grado di aumentare la portata cardiaca dopo espansione volemica.
In altre parole, se il test di riduzione del precarico (cioè ogni inspirazione a pressione positiva) si
associa ritmicamente ad una elevata Pulse Pressure Variation possiamo dedurre che il paziente
ha un precarico sulla parte più ripida della curva di Frank-Starling (ad esempio, nella figura 1, un
paziente che va da C a D). Viceversa se l’insufflazione determina una piccola Pulse Pressure Va-
riation, possiamo ipotizzare che il paziente sia sulla parte meno ripida della curva di Frank-Starling
(ad esempio, nella figura 1, un soggetto che va da A a B).

( da internet, ve lo riporto per intero)


Perchè non credere alla Pulse Pressure Variation nel paziente critico.
Forse un po’ fuori dal coro, sono molto scettico sulla possibilità di utilizzare la Pulse Pressure Va-
riation per guidare la decisione di somministrare fluidi nel paziente critico (in ambito anestesiologi-
co forse potrebbe avere qualche indicazione in più). A mio parere questo uso della Pulse Pressure
Variation ha un grave peccato originale: è infatti la risposta (forse) giusta alla domanda sbagliata.
Poniamoci di fronte ad un paziente critico ipoteso. Ricordiamo la classica formula PA= CO x SVR:
ci dice che la riduzione della pressione arteriosa (PA) può essere associata alla riduzione della
portata cardiaca (CO) o delle resistenze vascolari sistemiche (SVR) (o di entrambe). In caso di ipo-
tensione arteriosa dovremmo quindi chiederci sempre se sia ridotta la portata cardiaca (cioè la
quantità di sangue pompata dal cuore in un minuto, che è uguale al prodotto di frequenza cardiaca
e stroke volume): se la portata cardiaca fosse bassa (tradizionalmente si definisce bassa portata
un indice cardiaco inferiore a 2.2 l.min-1.m-2), per prima cosa dovremmo cercare di aumentarla
per risolvere l’ipotensione. Se la portata cardiaca fosse invece normale o alta per trattare l’ipoten-
sione dovremmo in prima istanza aumentare le resistenze vascolari.
Date queste premesse, dovremmo concludere che in tutti i casi in cui non serve aumentare la por-
tata cardiaca, non dovremmo pensare di aumentare il precarico e quindi la Pulse Pressure Varia-
tion non ci serve.
Restano tutti i pazienti in bassa portata: in questi una Pulse Pressure Variation con un valore ele-
vato ci suggerisce che probabilmente l’aumento del precarico consente di incrementare la portata
cardiaca (poichè ci dovremmo trovare, come abbiamo visto sopra, sulla parte ripida della curva di
Frank-Starling). L’aumento di precarico si ottiene (a parità di pressione intratoracica) aumentando
lo stressed volume, cioè quella parte di volume ematico che genera pressione nei vasi venosi che
condizionano il ritorno venoso. L’aumento dello stressed volume può essere ottenuto in 2 modi:
somministrando un vasocostrittore per ridurre la compliance venosa (quindi la parete dei vasi ve-
nosi comprime di più la stessa quantità si sangue) o somministrando fluidi per aumentare il volume
intravascolare (quindi un maggior volume ematico esercita più pressione sulla parete dei vasi ve-
nosi). E’ ragionevole pensare che il vasocostrittore sia preferibile nei pazienti edematosi e/o in as-
senza di una riduzione del volume ematico mentre la somministrazione di fluidi possa essere di
prima scelta in tutte le condizioni in cui vi sia stata una riduzione del volume ematico. La capacità
della noradrenalina di aumentare la portata cardiaca è supportata sia da un razionale fisiologico,
come abbiamo appena visto, che da numerosi dati clinici. In sintesi, una Pulse Pressure Variation
elevata ci suggerisce di fare fluidi solo nei pazienti in bassa portata che hanno avuto una riduzione
del volume ematico. In tutti gli altri casi di elevata Pulse Pressure Variation (alta portata o bassa
portata con edema/vasodilatazione), la noradrenalina dovrebbe essere considerata nel trattamento
del paziente critico ipoteso. Come possiamo constatare, la valutazione della Pulse Pressure Varia-
tion disgiunta dalla valutazione della portata cardiaca non ha molto senso.
E se la Pulse Pression Variation fosse bassa (cioè <12%)? Posso escludere la necessità di som-
ministrare fluidi? Assolutamente no, dato che quasi la metà dei pazienti con bassa Pulse Pressure
Variation aumenta la portata cardiaca dopo un’espansione volemica. Questo dato è facile da com-
prendere se consideriamo che l’insufflazione riduce lo stroke volume tanto più quanto più aumenta
la pressione intratoracica. L’aumento di pressione intratoracica a sua volta dipende dal volume
corrente e dal rapporto tra elastanza polmonare (calcolata sulla pressione transpolmonare) ed ela-
stanza dell’apparato respiratorio (calcolata sulla pressione delle vie aeree). In altre parole, nei pa-
zienti con basso volume corrente (ad esempio < 8 ml/kg, come nella ventilazione protettiva…) o
prevalenza della rigidità polmonare sulla rigidità della gabbia toracica, l’aumento di pressione intra-
toracica (=pleurica) indotta dall’insufflazione potrebbe essere insufficiente per influenzare significa-
tivamente il precarico. Ed ovviamente la conseguenza è una bassa Pulse Pressure Variation.
Da ricordare infine un altro limite della Pulse Pressure Variation: essa ha un senso solo nei pazien-
ti senza aritimie e che non presentano alcun segno di attività respiratoria spontanea, cosa che ac-
cade piuttosto raramente nei pazienti critici.
Vediamo di tirare le somme di tutto ciò che abbiamo detto:
1) l’uso della Pulse Pressure Variation deve essere limitato a pazienti senza aritimie, senza attività
respiratoria spontanea (nemmeno il triggeraggio del ventilatore), preferibilmente ventilati con un
volume corrente non inferiore a 8 ml/kg;
2) in caso di elevata Pulse Pressure Variation è ragionevole somministrare fluidi solo nei pazienti
non edematosi in bassa portata
3) in caso di portata cardiaca normale-alta o di edema (o altri segni di sovraccarico di fluidi) è pre-
feribile aumentare la pressione arteriosa con la noradrenalina;
4) se, dopo un primo approccio empirico, il quadro clinico non migliora, non continuare a lavorare
alla cieca ma fatti guidare dal monitoraggio emodinamico per misurare la portata cardiaca.

L'aorta ha la più alta compliance nel sistema arterioso dovuto in parte a una proporzione relativa-
mente maggiore di fibre di elastina rispetto alla muscolatura liscia e al collagene. Questo ha l'im-
portante funzione di smorzare l'uscita pulsatile (pressione massima della pompa) del ventricolo
sinistro, riducendo così la pressione del polso sistolico iniziale ma aumentando leggermente la
successiva fase diastolica (un periodo piuttosto simile al tempo di permanenza). Se l'aorta diventa
rigida a causa di disturbi come l'arteriosclerosi o l'aterosclerosi, la pressione del polso sarebbe
molto alta perché l'aorta diventa meno cedevole a causa della formazione di lesioni rigide alla pa-
rete dell'aorta (altrimenti flessibile).
PP sistemica (di solito misurata nell'arteria del braccio destro superiore) = Psystolic - Pdiastolic
per esempio.
• normale 120 mmHg - 80 mmHg = 40 mmHg o 33% della pressione sistolica

• alta 160mmHg - 80mmHg = 80mmHg o 50% della pressione sistolica

La pressione del polso polmonare (cuore-polmone) (PAP) è normalmente molto più bassa della
pressione sanguigna sistemica. Viene misurata mediante cateterizzazione del cuore destro o può
essere stimata mediante ecocardiografia transtoracica (TTE). La pressione arteriosa polmonare
normale è compresa tra 8 mmHg -20 mm Hg a riposo.[5]
per esempio.
• normale 15 mmHg - 8 mmHg = 7 mmHg 46,7%

• alta 25 mmHg - 10mmHg = 15mmHg 60%


.
L’aumento della rigidità arteriosa nei pazienti anziani comporta, a parità di gittata sistolica, un au-
mento del PP associato a SBP più elevati e DBP inferiore. Pertanto, è stato osservato un PP bas-
so in un paziente anziano è probabilmente dovuto a una compromissione dello SV. Infatti, la rigidi-
tà arteriosa in questi pazienti si presume che sia alta. Infine, il monitoraggio continuo della PP in
terapia intensiva permette di seguire indirettamente le variazioni SV.

Monitoraggio del Cardiac Output (CO) e di altri parametri emodinamici

È esperienza comune che, di fronte a una grave instabilità emodinamica, il primo passo sia quello
di monitorizzare la CO (Cardiac output). La misura della CO ha un importante significato emodi-
namico nella gestione del sistema cuore-circolo periferico, e rappresenta pertanto un obiettivo pri-
mario nello studio emodinamico in area critica. Sebbene per molti anni la misura della CO sia stata
possibile solo in modo invasivo attraverso il cateterismo dell’arteria polmonare con il catetere di
Swan-Ganz, attualmente la tecnologia moderna ha messo a disposizione degli intensivisti una se-
rie di metodiche di monitoraggio non invasivo che possono essere adeguatamente utilizzati diret-
tamente al letto del malato per la misurazione in continuo della CO.

Monitoraggio della CO con metodo invasivo

Catetere polmonare arterioso


Il catetere ideato dal cardiologo Jeremy swan è dotato di un palloncino gonfiabile. Una volta gon-
fiato questi permette che il catetere sia trasportato mediante il flusso ematico venoso attraverso il
lato destro del cuore in una delle arterie polmonari. Questo principio del palloncino flottante con-
sente il cateterismo cardiaco destro al letto dl paziente senza guida fuoroscopica. Il calere è lungo
110 cm e ha un diametro esterno di 2,3 mm ( 7 French). Ci sono due canali interni: uno che emer-
ge sulla punta del catetere ( lume distale o lume AP) e l’altro a 30 cm prossimamente la punta che
dovrebbe essere posizionata nell’atrio destro (lume prossimale o lume AD). Quando il palloncino è
gonfio crea una cavità per la punta del ca-
tetere che impedisce a questa di danneg-
giare le pareti del vaso durante l’avanza-
mento. Infine vicino la punta del catetere è
presente un piccolo termistore ( un tra-
sduttore di rilevamento della temperatura).
Il catetere viene inserito per mezzo di una
guaina di introduzione di grosso calibro in
vena succlavia o in vena giugulare inter-
na. Il lume distale è collegato a un tradut-
tore di pressione per monitorare le pres-
sioni vascolari man mano che il catetere
viene fatto avanzare. Quando il catetere
viene fatto passare attraverso la guaina di
introduzione ed entra nel lume della
vena cava superiore viene visualizzato un
onda pretoria di tipo venoso. Quando ciò
si verifica viene gonfiato il palloncino con
1,5 ml di aria e viene fatto avanzare il ca-
tetere a palloncino gonfio. La posizione
della punta è determinata dai tracciati del-
la pressione registrati dal lume distale.
1)la pressione della vena cava supe-
riore è identificata da un’onda pres-
soria venosa che appare sotto forma
di oscillazione di ampiezza ridotta.
Questa pressione rimane invariata
dopo che la punta del catetere viene
fatta avanzare in atrio destro.
2)Quando la punta viene fatta avan-
zare attraverso la valvola tricuspide e
nel ventricolo destro pare una forma
pulsatile. La pressione di picco ( si-
stolica) è una funzione della forza di
contrazione del ventricolo destro e la
pressione più bassa ( diastolica) è
equivalente alla pressione in atrio
destro
3)Quando il catetere passa attraver-
so la valvola polmonare e nell’arteria
polmonare principale l’onda presso-
ria mostra un improvviso aumento
della pressione diastolica causato dal-
la resistenza al flusso nella circolazione polmonare
4) Quando il catetere viene fatto avanzare lungo l’arteria polmonare l’onda pulsatile scompare
lasciando una pressione non pulsante che di solito è allo stesso livello della pressione diastoli-
ca dell’onda pulsatile. Questa è la pressione di incuneamento della arteria polmonare. Sempli-
cemente la pressione di incuneamento è un riflesso della pressione di riempimento sul lato si-
nistro del cuore.
5) Quando viene visualizzato il tracciato della pressione di incuneamento il catetere viene lasciato
in sede. Il palloncino viene poi sgonfiato e l’onda pressoria deve ricomparire. Il catetere viene
quindi fissato in posizione e il palloncino lasciato sgonfiare.

La Pressione di incuneamento si ottiene quindi gonfiando lentamente il palloncino sulla punta del
catetere finché la pressione pulsatile non scompare. Si noti come la pressione di incuneamento è
allo stesso livello della pressione diastolica ma in caso ad esempio di ipertensione polmonare que-
sta relazione è alterata e la pressio-
ne di incuneamento risulta inferiore
alla pressione diastolica in arteria
polmonare. La pressione di incu-
neamento rappresenta la pressione
venosa sul lato sinistro del cuore. Se
andiamo a vedere il tracciato di que-
sta pressione vediamo: l’onda a pro-
dotta dalla contrazione dell’atrio sini-
stro, l’onda c prodotta dalla chiusura
della valvola mitrale ( durante la con-
trazione isometrica del ventricolo si-
nistro) e l’onda v che è prodotta dalla
contrazione sistemica del ventricolo
sinistro contro una valvola mitrale
chiusa. Queste componenti sono
spesso difficili da individuare ma una onda v elevata può essere segno i rigurgito mitralico. La
pressione di incuneamento è una misura della pressione di riempimento del ventricolo sinistro in
assenza di malattia valvola mitrale. Infatti in queste condizioni se gonfio il palloncino del catetere
per ostruire il flusso ( Q=0) , tra questi e l’atrio sinistro si crea una colonna statica di sangue e la
pressione di incuneamento sulla punta del catetere ( Pw) è equivalente alla pressione polmonare
capillare (Pc) e alla pressione
nell’atrio sinistro ( Pas ). La
pressione di incuneamento
rispecchia la pressione atriale
sinistra solo se la pressione
capillare polmonare è superio-
re a quella alveolare ( Pc >
PA). Altrimenti rispecchierà la
pressione alveolare. La pres-
sione capillare supera la pres-
sione alveolare quando la
punta del catetere arterioso
polmonare è inferiore al livello
dell’atrio sinistro o posteriore
all’atrio sinistro in posizione
supina.
Variazioni respiratorie della
pressione in incuneamento
suggeriscono che la punta del
catetere è in una regione in
cui la pressione alveolare su-
pera la pressione capillare. In questa situazione la pressione di incuneamento dovrebbe essere
misurata a fie espirazione quando la pressione alveolare è più vicina a quella atmosferica.
La pressione di incuneamento è spesso erroneamente scambiata per la pressione idrostatica nei
capillari polmonari. Come già detto la pressione di incuneamento viene misurata a flusso ematico
assente. Quando il palloncino viene sgonfiato e il flusso ricomincia la pressione nei capillari pol-
monari sarà superiore a quella nell’atrio sinistro e la differenza di pressione dipenderà dalla portata
(Q) e dalla resistenza al flusso nelle vene polmonari ( RV). Ossia :

Pc - Pas. = Q X RV

Poiché la pressione di incuneamento è equivalente alla pressione atriale sinistra

Pc - Pw. = Q X RV

Pertanto pressione di incuneamento e quella idrostatica devono essere diverse per creare un gra-
diente di pressione per il flusso venoso al lato sinistro del cuore. L’entita della differenza non è
chiara perché non è possibile determinare RV.
La pressione di incuneamento aiuta a differenziare l’edema polmonare idrostatico dalla sindrome
da distress respiratorio acuto (ARDS). Infatti una pressione di incuneamento nomale indica una
ARDS. Tuttavia poiché la pressione idrostatica capillare è superiore alla pressione di incuneamen-
to non è possibile escludere con la sola misurazione di una pressione di incuneamento normale la
diagnosi di edema polmonare idrostatico.

L’introduzione del catetere di Swan-Ganz nel circolo arterioso polmonare permette l’acquisizione di
una serie di parametri emodinamici sia diretti sia derivati, la cui interpretazione fornisce un utile
inquadramento del profilo emodinamico nel paziente critico. Applicando la tecnica della termodilui-
zione è possibile ottenere la misura della CO sia in modo estemporaneo sia in modo continuo. Il
principio della termodiluizione su cui si basa il monitoraggio della CO, sebbene postulato già nel
1954, è divenuto applicabile nella pratica clinica solo dagli anni Settanta proprio grazie all’introdu-
zione del catetere ideato dai dottori Swan e Ganz. Questo metodo permette di misurare il flusso
arterioso polmonare monitorizzando nel tempo le variazioni di temperatura che si verificano nel
sangue venoso misto dopo l’iniezione nel cuore destro di una sostanza a temperatura nota, diver-
sa da quella corporea.
Sul mercato esistono sistemi computerizzati che, opportunamente collegati al catetere di Swan-
Ganz, sono in grado di registrare le temperature del sangue in arteria polmonare, elaborarle ana-
logicamente e visualizzare su schermo la CO risultante alla fine della elaborazione della curva di
termodiluizione.
Il metodo della termodiluizione è intuitivamente semplice. Sulla punta del catetere di Swan-Ganz è
presente un sensore termico in grado di rilevare la temperatura del sangue venoso misto poiché,
quando il catetere è correttamente posizionato, la sua estremità distale è alloggiata nel cono del-
l’arteria polmonare. Se una quantità precisa (5-10 mL) di glucosata al 5% o soluzione fisiologica in
casi particolari, a temperatura nota, inferiore a quella corporea interna (ghiacciata 0-4 °C o a tem-
peratura ambiente) viene iniettata in bolo rapido dal lume prossimale del catetere di Swan-Ganz,
che alloggia in atrio destro seguendo le fasi del ciclo cardiaco tale soluzione passa nel ventricolo
destro e da questo viene eiettata in arteria polmonare. Il sangue venoso misto mescolandosi al
volume iniettato si raffredda e tale diminuzione di temperatura viene registrata dal sensore termico
quando il sangue passa in corrispondenza della punta del catetere. Il computer collegato al catete-
re di Swan-Ganz registra la temperatura corporea prima dell’iniezione e le sue successive varia-
zioni nel tempo, costruendo una curva temperatura/tempo dove la temperatura è riportata sulla
linea delle ascisse e il tempo sulle ordinate. La CO è derivata dal calcolo dell’area sottostante la
curva attraverso l’equazione modificata di Stewart-Hamilton.

dove Φ b è il flusso sanguigno, Τ b e Τ i sono le temperature del sangue e dell’indicatore rispetti-


vamente, Q i è il volume del bolo freddo iniettato, q e S rappresentano il peso specifico e il calore
dell'iniettato e la temperatura di base del sangue, e t 1 e t 2 sono il tempo di iniezione e il tempo di
fine integrazione, rispettivamente, quando il liquido freddo passa davanti al rilevatoretore.

Quando la manovra di iniezione è eseguita correttamente e la CO è normale ne risulta una curva


smussa con una rapida fase di ascesa fino a un picco massimo e una più lenta discesa fino al ri-
torno alla linea di base.

La curva della CO sale rapidamente dopo l’iniezione della soluzione fredda fino a un valore di pic-
co che corrisponde alla maggiore differenza di temperatura misurata dal sensore; segue poi una
fase di discesa più lenta fino al ritorno alla linea di base a mano a mano che l’iniettato si distribui-
sce nel circolo polmonare con il flusso sanguigno e il sangue venoso misto refluo dalle camere de-
stre riacquista la sua normale temperatura.
La CO viene misurata analogicamente dalla macchina come l’area sottesa alla curva ed è inver-
samente proporzionale a questa. In condizioni di bassa CO la curva delinea generalmente un’area
piuttosto ampia, mentre in presenza di alta portata cardiaca, l’area è piccola. Questo comporta-
mento della curva di termodiluizione è facilmente comprensibile, dato che più elevato è il flusso di
sangue che passa in contatto nell’unità di tempo con il sensore termico sulla punta del catetere di
Swan-Ganz, come in condizioni di alta portata, tanto più rapidamente varierà la temperatura del
sangue in arteria polmonare descrivendo una curva con rapida salita che circoscrive una piccola
area per il veloce allontanamento del marcatore con il flusso polmonare. Ovviamente, in presenza
di bassa portata si verifica il fenomeno contrario e l’area della curva sarà ampia come espressione
di ridotta CO.
Durante le misurazioni con la tecnica del bolo descritta, il paziente dovrebbe essere in posizione
supina o sollevata a non più di 20° sul piano del letto altrimenti la CO può essere sottostimata per
effetto del ridotto ritorno venoso dovuto alla gravità. La stabilità del profilo emodinamico durante la
misura, necessaria a ottenere una curva di termodiluizione adeguata, può essere alterata da di-
verse condizioni e meccanismi fisiopatologici. Tra questi i principali sono:
• la meccanica respiratoria: soprattutto nel paziente ventilato meccanicamente, gli atti respiratori
influenzano il ritorno venoso e quindi il preload modificando l’assetto emodinamico;
• ritmo cardiaco: nel periodo di tempo in cui avviene la registrazione si sussegue una serie di cicli
cardiaci; se il ritmo si mantiene sinusale è assicurata una regolarità di battiti che viene meno in
(a) Curva di diluizione dell!indicatore colorato. (b) Curve di termodiluizione: curva in condizioni di CO normale (A);
curva da CO bassa (B); curva da CO alta (C).

presenza di aritmie, con conseguente disturbo emodinamico e interferenza con la diluizione del-
l’indicatore termico;
• shunt intracardiaci o intrapolmonari: tutte le situazioni in cui c’è ricircolo all’interno delle camere
cardiache alterano la misurazione della temperatura in quanto il sangue venoso misto e quello ar-
terioso si mescolano non garantendo più la validità della procedura;
• insufficienza tricuspidalica o venosa polmonare: in presenza di questi vizi valvolari il sangue ve-
noso misto rientra rispettivamente in atrio destro durante la sistole e in ventricolo destro durante la
diastole con alterazione della propagazione della soluzione fredda nel senso del ciclo cardiaco in-
validando quindi il meccanismo alla base del processo di termodiluizione;
• bassa portata: la procedura della termodiluizione è meno efficace in condizioni di ridotta CO per-
ché, aumentando il tempo che la soluzione fredda impiega per passare in corrispondenza del sen-
sore termico, diminuisce la possibilità che i parametri emodinamici si mantengano stabili nel perio-
do di misurazione.
Attualmente sono disponibili sistemi computerizzati di monitoraggio che, opportunamente collegati
a cateteri di Swan-Ganz predisposti allo scopo, permettono di misurare in continuo la CO, e altri
importanti parametri emodinamici che completano lo studio del profilo emodinamico nel paziente
critico. Anche questi sistemi si basano sul principio della termodiluizione, senza però dover ricorre-
re all’iniezione di boli di soluzioni fredde. Questo garantisce maggiore sicurezza nella procedura e
riduce significativamente i rischi a essa connessi. I cateteri di Swan-Ganz predisposti per questo
tipo di monitoraggio continuo sono dotati di un filamento di materiale in grado di rilasciare calore e
riscaldare così il sangue con cui è in contatto. Pertanto il sangue venoso misto, che esce dall’atrio
destro e dal ventricolo passa all’arteria polmonare, presenta una temperatura diversa da quella
basale del paziente. Il sensore termico posto sulla punta del catetere in arteria polmonare registra
la differenza di temperatura e costruisce automaticamente una curva di CO. Il software dello stru-
mento consente alla procedura di ripetersi a intervalli regolari di 3-6 minuti. La CO misurata appare
così costantemente sul display del monitor. Ovviamente questo è un metodo non propriamente
continuo, ma più correttamente semicontinuo, in quanto la CO visualizzata sul monitor si aggiorna
ogni 3-6 minuti, ma, rispetto ai metodi di misurazione estemporanea con la tecnica della termodi-
luizione, offre degli indubbi vantaggi. Innanzitutto evita la necessità di ricorrere a iniezioni di solu-
zione fredda nelle sezioni destre del cuore con risparmio di tempo e riduzione delle possibili com-
plicanze e dei rischi di infezione; non dipende dalla manualità dell’operatore e, soprattutto, permet-
te un monitoraggio continuo dell’emodinamica del paziente critico.

È opinione condivisa che la CO rappresenta un importante indice nella valutazione emodinamica


nel paziente critico. Una misura continua della CO impedisce che importanti variazioni del profilo
emodinamico possano passare inosservate, cosa che si può verificare negli intervalli di tempo tra
una misurazione estemporanea e l’altra della CO. Sebbene sia ormai radicata negli intensivisti la
consapevolezza che la misura invasiva, soprattutto in continuo, della CO fornisce informazioni
fondamentali per la gestione emodinamica del paziente instabile, non bisogna dimenticare che
questa metodica, seppur considerata il gold standard in area critica non è scevra da complicanze
né da difetti di interpretazione. È infatti indiscutibile che, come già accennato, la presenza di alcu-
ne condizioni patologiche quali l’insufficienza tricuspidalica, alterazioni del ritmo cardiaco o la pre-
senza di significativi shunts intrapolmonari possono inficiare la corretta misurazione della CO con
metodo invasivo. La tecnica della termodiluizione, inoltre, si basa sulla registrazione in un periodo
di tempo molto piccolo del gradiente termico conseguente al riscaldamento del sangue la cui tem-
peratura aumenta rispetto a quella basale. Non bisogna inoltre trascurare una serie di limiti tecnici
propri sia del catetere di Swan-Ganz sia del metodo della termodiluizione o alcune condizioni quali
la ventilazione meccanica. In generale l’introduzione del catetere di Swan-Ganz per il monitoraggio
delle pressioni del circolo polmonare e la misura in continuo della CO sarebbe una metodica fon-
damentale da riservare a quei pazienti in cui i dati ottenuti siano interpretati alla luce delle condi-
zioni fisiopatologiche sopra descritte, la cui comprensione è possibile all’intensivista grazie all’uso
dell’ecocardiografia in un’ottica di approccio “ecodinamico”.

Il catetere arterioso polmonare fornisce altre informazioni sul la funzione cardiovascolare e il tra-
sporto sistemico di ossigeno. Vediamo altri parametri emodinamici che possono essere misurati o
derivati con il catetere AP.
Pressione venosa centrale. Se il catetere AP è posto correttamente la porta prossimale deve es-
sere situata in atrio destro e la pressione registrata corrisponde alla pressione atriale destra (RAP)
che come sappiamo è uguale alla pressione in vena cava superiore e queste pressioni collettiva-
mente sono chiamate pressione venosa centrale ( CVP) e in assenza di malattia valvolare tricu-
spidalica deve essere equivalente alla pressione teledistolica ventricolare destra ( RVEDP).

CVP= RAP= RVEDP

Il range normale per la CVP è 0-5 mmHg e può essere una pressione negativa in posizione sedu-
ta.

Pressione di incuneamento dell’arteria polmonare (PAWP). Già descritta in precedenza è la


misura della pressione atriale sinistra (LAP) equivalente alla pressione telediastolica ventricolare
sinistra ( LVEDP) quando la funzione mitrale è normale.
PAWP = LAP = LVEDP
La pressione di incuneamento è la misura della pressione di riempimento ventricolare sinistra e
l’intervallo normale è 6-12 mmHg.

Indice cardiaco è dato dal rapporto tra il cardiac output ( CO) e la superficie corporea ( BSA, in un
adulto di taglia media è 1,7mm²)

CI= CO/BSA dove BSA (m²)= altezza ( cm) + peso ( Kg) - 60/100

Il range normale del CI è 2,4-4 l/min/ m²

Indice sistolico. Si tratta di una misura della performance cardiaca sistolica durante un ciclo car-
diaco.

SI= CI / FC
Valore normale è 20-40 ml/m²

Indice di resistenza vascolare sistemica ( SVRI). La resistenza idraulica della circolazione si-
stemica non una quantità misurabile per una serie di motivi. La resistenza vascolare sistemica
(SVR) invece è una misura globale della relazione tra la pressione sismica e il flusso. La SVR è
direttamente proporzionale alla perdita di pressione dell’atrio destro ( MAP - CVP ) e inversamente
proporzionale alla gittata cardiaca.

Per cui
SVRI = (MAP - CVP) / CI

La SVRI è espressa in unità Wood ( mmHg/ L / min/ m²).

La resistenza vascolare polmonare ( PVR) ha le stesse limitazioni di quella sistemica. La PVR


è una misura globale del rapporto tra la pressione e il flusso nei polmoni ed è ricavata dalla caduta
di pressione dall’arteria polmonare all’atrio sinistro, diviso per la gittata cardiaca. Poiche la PAWP
è equivalente alla pressione atriale sinistra il gradite di pressione attraverso i polmoni può essere
espresso come differenza tra la pressione media dell’arteria polmonare e la pressione media di
incuneamento ( PAP - PAWP).

PVRI= (PAP- PAWP)/ CI

Anche questa è espressa in unità Wood.


La maggior parte dei problemi emodinamici può essere identificata osservando i modelli dei cam-
biamenti in tre parametri: la pressione di riempimento cardiaco ( CVP o PAWP) la gittata cardiaca e
la resistenza vascolare sistemica o polmonare.

Apporto di ossigeno . La velocità di traporto di ossigeno nel sangue arterioso è chiamata apporto
di ossigeno ( DO2) ed è dato da:

DO2 = CI X CaO2

La concentrazione arteriosa di ossigeno ( CaO2) è in funzione della concentrazione di Hb e della


percentuale di saturazione di quest’ultima con l’ossigeno ( SaO2)

CaO2 =1,3 x Hb x SaO2

Quindi:

DO2= CI x ( 1,3 x Hb x SaO2)

DO2 è espresso in ml /min/ m²

Consumo di Ossigeno (VO2). Si tratta della velocità alla quale l’ossigeno viene portato dai capil-
lari sistemici ai tessuti. Il VO2 è calcolato cosi:

VO2= CI x ( CaO2 - CvO2)

Dove CvO2 indica il contenuto di ossigeno sul versante venoso. Il sangue venoso in questo caso è
sangue venoso misto nell’arteria polmonare.

La stessa equazione può essere allo stesso modo scritta come :

VO2= CI x 1,3 x Hb x ( SaO2 - SvO2)

VO2 è espresso in ml/min/m².

Frazione di estrazione di ossigeno ( O2ER). Indica l’assorbimento frazionale di ossigeno dal mi-
crocircolo sistemico ed è pari al rapporto tra consumo di O2 e apporto di O2. Moltiplicando per cen-
to si esprime in percentuale

O2ER = VO2/DO2 ( x 100)

Normalmente è circa 25 %.

Lo shock clinico può essere definito come una condizione in cui l’ossigenazione dei tessuti è in-
sufficiente per le esigenze del metabolismo aerobico. Dal momento che un VO2 inferiore al norma-
le può essere utilizzato come prova indiretta del metabolismo aerobico con ossigeno limitato una
VO2 inferiore al normale può essere utilizzata come evidenza indiretta di shock clinico. E quindi
può essere usato per distinguere una insufficienza cardiogena compensata da uno schock cardio-
geno.

Saturazione venosa centrale di Ossigeno (ScvO2).

Mentre la SvO2 riflette l’ossigenazione venosa di tutto il corpo e richiede la presenza di un catetere
arterioso polmonare, la ScvO2 è a riflesso dell'ossigenazione venosa del cervello e la parte supe-
riore del corpo. La sua misurazione è possibile attraverso un catetere venoso centrale posto nel
vena cava superiore a livello dell'atrio destro.
La SvO2 è una miscela di ossigenazione di sangue venoso dai territori della vena cava inferiore,
vena cava superiore e seno coronarico. Però, la SvO2 dipende da ciascun organo e ogni organo
estrae diverse quantità di O2 .
In condizioni fisiologiche normali, la SvO2 è più alto nella parte inferiore del corpo che nella parte
superiore del corpo. In determinate condizioni patologiche questa differenza è invertita. Durante
l’anestesia generale, a causa dell'aumento del flusso di sangue cerebrale e l'uso di farmaci ane-
stetici che inducono una riduzione dell'estrazione di O2 dal cervello , la ScvO2 è spesso maggiore
della SvO2 di circa il 5%. Un effetto simile si osserva nei pazienti con trauma cranico grave trattati
con barbiturici. La tendenza degli ultimi 10 anni è stata quella di utilizzare tecniche di monitoraggio
meno invasive e quindi spostare l’attenzione dalla misurazione della SvO2 alla ScvO2. Si potrebbe
sostenere che, poiché il ScvO2 richiede un catetere venoso centrale, sia una tecnica invasiva che
espone i pazienti a complicanze come infezioni o emorragie. Tuttavia, le linee venose centrali sono
spesso richieste in pazienti critici e potrebbe quindi essere utilizzato anche per il monitoraggio del
ScvO2.

Termodiluizione transpolmonare

L'inserimento di un catetere arterioso polmonare è


risultato essere troppo cardio-invasivo. A questo
proposito, la termordiluizione transpolmonare ha
superato (in termini di numero di cateteri posiziona-
ti) l’uso di cateteri arteriosi polmonari. Questa tecni-
ca richiede una linea venosa centrale localizzato
nella porzione intratoracica e un catetere arterioso
con un termistore situato in un grande arteria (cioè
l'arteria femorale o brachiale) con una punta che si
presume non sia così lontana dal torace. La tecnica
prevede l'iniezione di un bolo freddo (<8 °C) nel ca-
tetere venoso e l’analisi della curva di temperatura
tramite il termistore sul catetere arterioso. Il CO viene calcolato secondo la l’equazione modificata
di Stewart-Hamilton.
La termodiluizione transpolmonare è un metodo affidabile e riproducibile per misurare il CO sia
negli adulti che nei bambini.
É necessaria l’iniezione di tre boli di liquido freddo (spesso NaCl 0,9%) per ottenere il valore della
gittata cardiaca. Inoltre, termodiluizione transpolmonare è meno influenzata dalla respirazione ri-
spetto al Catetere di Swan-Ganz. L'indicatore freddo iniettato dalla linea venosa centrale viene
successivamente diluita nelle camere cardiache destre, la circolazione polmonare, le camere car-
diache sinistre e l'aorta discendente. Pertanto, il CO viene calcolato utilizzando l’equazione di
Stewart-Hamilton e i volumi di distribuzione dell'indicatore freddo, per esempio il volume globale
telediastolico ( cioè la quantità totale di sangue contenuta nelle quattro camere cardiache e nel-
l’aorta discendente) e il volume di acqua polmonare extravascolare, sono determinati dall’analisi
matematica della curva di termodiluizione. Dall’analisi matematica della curva di termodiluizione, il
tempo di transito medio ( mean transit time MTt) e il tempo di discesa dell'indicatore termico ( do-
wnslope time DSt) si può valutare il il volume telediastolico globale (GEDV). Il volume di distribu-
zione dell'indicatore termico si ottiene moltiplicando la CO per il tempo medio di transito. Questo
corrisponde al volume termico intratoracico (ITTV), che comprende sia il volume ematico intratora-
cico che il volume di acqua polmonare extravascolare (EVLW). Il volume termico polmonare (PTV)
comprende a sua volta sia il volume di sangue nel polmone che il volume di acqua extravascolare
polmonare.
Il volume termico polmonare si ottiene moltiplicando la CO per il DTs. IL volume globale telediasto-
lico si ottiene quindi tramite la differenza tra ITTV e PTV.
Il valore di GEDV è tra i 600 e 800 ml/m². In realtà, il GEDV è maggiore del vero volume di sangue
del cuore. Tuttavia, dipende molto dal volume ematico ventricolare. Pertanto, il GEDV si presume
che corrisponda a un indice precarico cardiaco. L'espansione del volume aumenterà il GEDV e la
dobutamina non avrà alcun impatto sul suo valore.
Alcune malattie possono causare un GEDV anormalmente alto, come nel caso di aneurismi del-
l’aorta o dilatazione atriale, in cui il GEDV dipende dal volume del sangue tra il sito di iniezione del
bolo liquido freddo (nel catetere venoso centrale ) e il sito di rilevamento dell’indicatore (in arteria
femorale).
L’acqua polmonare extravascolare (EVLW) viene calcolata come la differenza tra il ITTV e il volu-
me ematico intratoracico. I valori normali dell'EVLW sono compresi tra 3 e 7ml/kg. Tuttavia, a cau-
sa dei limiti della tecnica di misurazione, solo un valore maggiore di 10 ml/kg è considerato patolo-
gico in caso di edema polmonare. L'EVLW ha dimostrato di essere un indice prognostico indipen-
dente nei pazienti critici. Maggiore è il valore EVLW peggiore è la prognosi. Raramente, l'EVLW
può essere inoltre utile per identificare pazienti con edema polmonare quando la diagnosi clinica di
ARDS è difficile. Il EVLW ha dimostrato poi applicabilità nei test di svezzamento dalla ventilazione
meccanica ed elimina la necessità di misurare la PAOP durante le prove di respirazione sponta-
nee.
In base al rapporto EVLW/PBV è possibile calcola automaticamente l’indice di permeabilità vasco-
lare polmonare (PVPI). Per pazienti con danno polmonare acuto e ARDS, il PVPI sarà alto. Questo
indice può essere utilizzato per distinguere tra edema polmonare infiammatorio (con aumento della
permeabilità vascolare polmonare) ed edema polmonare idrostatico cardiogeno. Quando EVLW è
maggiore di 12 ml/kg, valori PVPI maggiori di 3 indicano un meccanismo di danno alla base dell’e-
dema polmonare, con buone caratteristiche di specificità e sensibilità.

Pressione venosa Centrale

Per pressione venosa centrale (PVC) si intende un valore pressorio (espresso in mmHg o in
cmH2O ) rilevato nel tratto terminale della vena cava superiore e corrispondente alla pressione
vigente nell'atrio destro. La rilevazione della PVC avviene grazie alla posa di un catetere venoso
centrale attraverso una vena profonda di grosso calibro (vena succlavia, o giugulare, o basilica o
più raramente safena).
Il valore di PVC permette di valutare il volume ematico circolante, la funzionalità cardiaca ed il ri-
torno venoso. Il range di normalità è però ancora oggetto di discussioni. Si stima che in un sogget-
to sano a riposo la PVC sia normalmente compresa tra 3 e 8 mmHg. Il limite inferiore, secondo
diverse fonti, ha un valore da 0 a 5, mentre il limite superiore va da 7 a 12 mmHg.
Vari fattori influiscono sui valori di PVC: ipovolemia o ipervolemia (diminuzione o aumento del vo-
lume ematico circolante), insufficienza cardiaca, ostacoli meccanici alla circolazione cardiaca, alte-
razioni della pressione intratoracica (ad esempio pneumotorace), farmaci, ventilazione meccanica.
Valori superiori alla norma indicano sovraccarico di volume, insufficienza cardiaca destra, aumento
della pressione intratoracica o turbe vasomotorie.
Valori inferiori alla norma indicano perdite di volume (emorragie, vomito, diarrea, shock) o turbe
vasomotorie. La PVC è un parametro che viene rilevato frequentemente nell'ambito dei monitorag-
gi post-operatori.
La misurazione della PVC può essere effettuata manualmente o tramite il monitor paziente.
Misurazione manuale. È necessario liberare da ogni tipo di infusione il lume distale del catetere
venoso centrale, effettuare un eventuale lavaggio a goccia rapida del cvc e collegare a quest'ulti-
mo un deflussore da flebo pieno di soluzione salina; tagliare il deflussore in modo da "allungare" il
lume del CVC di circa 20 cm, inserire il tubo nell'apposito listello di plastica che presenta un solco
al centro e una scala graduata in cm di H2O; posizionare perpendicolarmente al paziente il deflus-
sore (sempre collegato al lume) e porre lo zero della scala graduata all'altezza del cavo ascellare
(corrispondente all'altezza del cuore) del paziente; posizionare il paziente supino (eliminare anche
il cuscino); sconnetterlo dal respiratore se ventilato con pressioni positive; osservare quanti centi-
metri di salina rimangono nel deflussore partendo dallo zero. Il valore ottenuto è la PVC.
Misurazione con monitor paziente. È necessario disporre di linea con trasduttore per convertire
l'impulso meccanico del lume in impulso elettrico al monitor paziente. La linea col trasduttore va
collegata distalmente al lume distale del CVC e prossimalmente a una sacca di soluzione salina da
500 ml inserita in uno spremisacca gonfiato a 300 mmHg affinché garantisca un lavaggio continuo
del lume alla velocità di circa 3-5 ml/h. Tra i due estremi della linea è presente il trasduttore che
rileva l'impulso meccanico del sangue dal lume e lo trasmette in tempo reale al monitor paziente
fornendo un valore max, uno min e uno medio, fornisce inoltre un'onda sfigmica sempre visibile a
monitor. È necessario come per la misurazione manuale posizionare il paziente supino, sospende-
re ogni infusione nel CVC considerato e disconnettere per alcuni secondi durante la misurazione il
paziente dal respiratore.
La curva della CVP comprende diverse onde:
tre deviazioni ascendenti (a, c e v) e due forme
d'onda discendenti (x e y). L'onda “a" è dovuta
alla contrazione dell'atrio destro a seguito di
stimolazione elettrica e dell'onda P dell'ECG.
L'onda “c” è attribuita alla contrazione isovolu-
metrica del ventricolo destro che induce la val-
vola tricuspide a sporgere verso atrio di destra.
L'onda "x" è attribuita alla diminuzione della
pressione nell'atrio destro, che apre la valvola
tricuspide verso il basso durante l’eiezione del
ventricolo destro. L'onda “v” è formata da aper-
tura della valvola tricuspide quando il sangue
entra nel ventricolo destro. Il punto ‘z’ è la pres-
sione atriale prima della contrazione ventricola-
re.
La pressione venosa centrale è utilizzata per stimare la pressione dell’atrio destro, struttura in cui
affluisce tutta la circolazione venosa sistemica. Durante la diastole la valvola tricuspide rimane
aperta ed il sangue può fluire liberamente dall’atrio al ventricolo destro che quindi, in questa fase
del ciclo cardiaco, si comportano come un’unica cavità. Durante la diastole atrio e ventricolo destro
hanno pressioni simili tra loro, che diventano esattamente uguali alla fine della diastole.
Quindi la pressione venosa centrale ci dà informazioni sulla pressione in atrio destro e sulla pres-
sione del ventricolo destro al termine della diastole. La pressione venosa centrale è la somma di
due pressioni: 1) la pressione che il sangue esercita sulle pareti interne di atrio e ventricolo (la
pressione che distende le cavità cardiache) e 2) la pressione che agisce sulle pareti esterne di
atrio e ventricolo, determinata dalla pressione pleurica e pericardica (la pressione che comprime le
cavità cardiache). La pressione esterna al cuore può avere un ruolo importante nel determinare la
pressione venosa centrale. Pensiamo ad esempio ad un paziente con tamponamento cardiaco: la
pressione venosa centrale aumenta per l’effetto della pressione che comprime il cuore dall’ester-
no. In questo caso il volume del ventricolo destro (RV) sarà chiaramente ridotto pur in presenza di
una elevata pressione venosa centrale.
Una situazione analoga è riscontrabile durante la ventilazione a pressione positiva. L’aumento del-
la pressione intratoracica determina un aumento della pressione venosa centrale associato alla
riduzione del volume delle cavità cardiache di destra. É inaffidabile la relazione tra pressione ve-
nosa centrale e volume cardiaco, soprattutto nei pazienti sottoposti a ventilazione a pressione po-
sitiva. E’ evidente che l’unica pressione che ha una qualche relazione diretta con il volume cardia-
co è quella pressione che distende il cuore e che in fisiologia è definita pressione transmurale. Da
un punto di vista matematico è molto semplice calcolare la pressione transmurale: si deve fare la
differenza tra la pressione venosa centrale e la pressione esterna all’atrio. Se ad esempio avessi-
mo una pressione venosa centrale di 15 cmH2O ed una pressione esterna all’atrio destro di 10
cmH2O, la pressione transmurale sarebbe di 5 cmH2O. Il calcolo della pressione transmurale è
semplice, è però difficile stimare la pressione esterna all’atrio destro. Infatti potrebbe essere un
valore assimilabile alla pressione pleurica, ma sappiamo che la pressione pericardica non è uguale
alla pressione pleurica, ed in alcuni casi può essere molto diversa da questa (come ad esempio
nel tamponamento cardiaco). In assenza di malattie pericardiche, potrebbe comunque essere for-
se un’approssimazione clinicamente accettabi-
le assumere la pressione pleurica come stima
della pressione esterna al cuore. La pressione
pleurica può a sua volta essere approssimata
alla pressione esofagea. Di approssimazione
in approssimazione potremmo quindi arrivare
a conoscere la pressione transmurale dell’atrio
destro.
Invece la pressione venosa centrale è certa-
mente utile quando la utilizziamo per quello
che è: il valore assoluto della pressione in atrio
destro. E questa è una pressione importantis-
sima che è opportuno conoscere nei pazienti critici. Infatti dobbiamo essere consapevoli che una
elevata pressione venosa centrale (ad esempio > 10 mmHg) è da evitare. Un elevato valore di
pressione venosa centrale (indipendentemente dalla pressione transmurale e dal precarico) può
essere di per sé un problema. Se la pressione venosa centrale è elevata, la pressione nel sistema
venoso periferico deve essere ancor più elevata per consentire al ritorno venoso di fluire, per diffe-
renza di pressione, verso l’atrio destro. Ed a sua volta le pressioni nel circolo capillare devono es-
sere ancor più elevate delle pressioni venose in cui il sangue capillare si scarica. Ne consegue che
l’aumento della pressione idrostatica capillare sbilancia le forze descritte nell’equazione di Starling
verso la formazione di edema tissutale e conseguente ipossia cellulare.
Quindi il nostro obiettivo clinico dovrebbe essere volto principalmente alla maggior riduzione pos-
sibile della pressione venosa centrale fino al punto in cui questo non pregiudichi una sufficiente
perfusione tissutale (ricorda che tu in questo momento hai una pressione venosa centrale vicina a
0 mmHg e stai bene).
Inoltre il riscontro di elevati valori di pressione venosa centrale deve indirizzarci verso un ragionato
processo di diagnosi differenziale. Riprendendo i concetti prima esposti, dobbiamo valutare se la
causa sia una compressione dall’esterno del cuore destro (versamento pericardico? elevata pres-
sione intratoracica?), ridotta funzione del cuore di destra (infarto destro? miocardiopatia?), aumen-
to del post-carico del ventricolo destro (ipertensione polmonare?), riduzione della compliance ven-
tricolare (disfunzione diastolica), elevato precarico (sovraccarico di fluidi o disfunzione ventricola-
re?), valvulopatia (insufficienza tricuspidale? stenosi polmonare?).
Quando la pressione venosa centrale non è alta, essa non è di per sé un problema, non crea alcun
ostacolo al ritorno venoso. In caso di shock bisogna valutare se l’aumento di pressione venosa
centrale, che può essere ottenuto con la somministrazione di fluidi o di vasocostrittore, si associ ad
un miglioramento della portata cardiaca e della perfusione periferica.

Monitoraggio della CO con metodo non invasivo

Negli ultimi anni l’impiego di tecniche non invasive o comunque meno invasive della metodica tra-
dizionale, che prevede l’uso del cateterismo arterioso polmonare per la misura della CO, ha acqui-
sito un ruolo sempre maggiore in area critica. Sebbene il catetere di Swan-Ganz rimanga senza
ombra di dubbio il gold standard per il monitoraggio emodinamico della CO nel paziente critico, la
possibilità di ricorrere a metodi che che garantiscono risultati più che attendibili a spese di un’inva-
sività indubbiamente minore è sicuramente un vantaggio non trascurabile per la gestione emodi-
namica in pazienti complicati ed emodinamicamente instabili. I sistemi di monitoraggio attualmente
in commercio sono numerosi e caratterizzati da singole specificità tecniche che li rendono utilizza-
bili in varie realtà cliniche.

Si distinguono in base all’invasività:


• tecniche semi-invasive;
• tecniche mini-invasive;
• tecniche non invasive.

Tecniche semi-invasive

Questi sistemi di monitoraggio si basano sull’analisi del contorno del polso arterioso (Pulse Con-
tour) per la misurazione in continuo della CO. È pertanto indispensabile, come base di partenza, la
monitorizzazione della pressione arteriosa sistemica attraverso la cannulazione di un’arteria perife-
rica.

L’analisi della variazione della forma dell’onda pressoria permette di quantificare lo stroke volume
(SV) battito per battito e pertanto di risalire alla misura della CO, che è data dal prodotto dello SV
per la frequenza cardiaca (FC). Queste tecniche di monitoraggio si dividono in due gruppi a se-
conda che richiedano o meno una calibrazione per il monitoraggio tramite il confronto con una mi-
sura assoluta della CO (per esempio attraverso la termodiluizione).
Tra le tecniche che richiedono la calibrazione, le più conosciute sono il PiCCO [Pulse Contour
Cardiac Output] e il LiDCO [Lithium Dilution Cardiac Output].

PiCCO Questa tecnica permette la misura della CO integrando l’analisi della forma dell’onda arte-
riosa con il meccanismo di termodiluizione transpolmonare. Per questo motivo il sistema necessita
sia di una linea arteriosa periferica per il monitoraggio della PA, sia di un catetere venoso centrale
da cui effettuare la termodiluizione. Il PiCCO analizza la sola fase sistolica dell’onda pressoria, in-
tegrando la curva di pressione dall’apertura alla chiusura della valvola aortica. La termodiluizione
transpolmonare è il metodo utilizzato per la calibrazione necessaria.

LiDCO Anche questa metodica si avvale dell’associazione di due tecniche: l’analisi della forma del-
l’onda arteriosa e il meccanismo della termodiluizione transpolmonare per cui impiega il litio. Ana-
loga al PiCCO, si distingue per dettagli tecnici relativi alla misura della variazione dello SV e per
l’impiego del litio che la controindica nei pazienti che ne fanno uso cronico.

Le tecniche basate sull’analisi del Pulse Contour sono sicuramente vantaggiose per la loro scarsa
invasività; in particolare, il LiDCO non richiede neppure una linea venosa centrale come il PiCCO,
che ha però il vantaggio di poter essere utilizzato anche in ambito pediatrico. Seppure con effica-
cia dubbia nei bambini molto piccoli.
Il principale limite di queste metodiche consiste nella scarsa attendibilità dei dati nei pazienti in cui
la forma dell’onda pressoria è modificata da fattori meccanici quali la contropulsazione aortica, o
patologici come l’insufficienza aortica, o in quelli che presentano alterazioni del ritmo cardiaco. La
necessità di una calibrazione ripetuta durante il monitoraggio, seppure in tempi molto distanziati
(circa ogni 8 ore) è un altro fattore non trascurabile. Il loro impiego nel paziente emodinamicamen-
te instabile è comunque motivato dalla loro relativamente semplice applicazione e dalla scarsa in-
vasività che garantisce un monitoraggio continuo e adeguato della CO anche nei pazienti in cui
non si possa ricorrere al cateterismo arterioso polmonare. Ovviamente le limitazioni tecniche de-
vono essere considerate sia nella scelta del paziente da monitorizzare, sia nell’interpretazione dei
dati emodinamici. Ricordiamo che, analogamente a quanto succede con il monitoraggio invasivo,
anche con questi sistemi è possibile ricavare, oltre alla CO, anche una serie di parametri emodi-
namici derivati utili alla definizione del profilo emodinamico del paziente critico.
Tra le metodiche di Pulse Contour che non richiedono calibrazione, le più comunemente usate
sono il sistema Flo trac/Vigileo e il Mostcare.

Flo Trac/Vigileo. Questo sistema calcola la CO integrando l’analisi in tempo reale effettuata ogni
venti secondi del contorno dell’onda arteriosa con dati propri del paziente quali età, sesso, altezza
e peso corporeo. Consta di un sensore di flusso inserito in una linea arteriosa periferica (flo trac) e
di un monitor a essa collegato (Vigileo) .

Mostcare. Questa metodica non richiede calibrazione né l’inserimento di dati antropometrici del
paziente, in quanto non fa riferimento a parametri precalcolati, ma si basa sulla sola analisi della
forma dell’onda arteriosa beat-to-beat. Il principio su cui si fonda la tecnica è la teoria delle pertur-
bazioni secondo cui un sistema sottoposto a una perturbazione di qualunque natura tende a modi-
ficare il suo stato con il minore dispendio energetico.

Le metodiche che non richiedono calibrazione hanno il vantaggio di essere di più semplice e rapi-
da applicazione pur garantendo risultati altrettanto attendibili. Nel caso specifico del paziente car-
diochirurgico, l’impiego del Mostcare, ha il vantaggio di poter essere applicato anche nei pazienti
sottoposti a circolazione extracorporea, assistenza ventricolare e a contropulsazione aortica, in
quanto la misura della CO non è influenzata da tali supporti emodinamici meccanici.
Il sistema Vigileo, nell’ultima generazione di sensore, promette di fornire dati di CO attendibili an-
che nel paziente con valori estremi di CO, o in supporto con contropulsazione aortica. Il Vigileo in
ambito cardiochirurgico è stato validato come un efficiente sistema di monitoraggio emodinamico,
pur con una maggiore variabilità dei dati emodinamici rispetto a quelli ottenuti con metodiche inva-
sive. Resta comunque un sistema molto semplice nell’impiego, scarsamente invasivo e di diretta
applicazione.
Per quanto riguarda l’applicazione del Mostcare nella pratica clinica, la sua capacità di derivare,
attraverso l’algoritmo PRAM, due parametri quali il dP/dt e il Cardiac Cycle Efficiency (CCE) sta
assumendo particolare importanza. Il dP/dt rappresenta la pendenza della curva pressoria durante

la fase eiettiva ed è pertanto messo in relazione con la contrattilità cardiaca e l’impedenza aortica,
mentre il CCE appare come una misura della performance cardiovascolare. Sebbene sia indubbio
il valore di questi due parametri per la definizione del profilo emodinamico del paziente instabile,
resta ancora da comprenderne più esattamente il significato. Per questo motivo, seppure molto
promettente, il loro impiego nei vari scenari clinici e la loro corretta interpretazione restano ancora
oggetto di studio e necessitano di ulteriore validazione.
È da sottolineare che tutti i sistemi che si basano sull’analisi della forma dell’onda arteriosa richie-
dono per il corretto funzionamento del meccanismo un’estrema purezza e qualità del segnale
pressorio che, purtroppo, non è sempre facilmente ottenibile nei pazienti molto instabili emodina-
micamente. Questo può rappresentare un ulteriore limite alla loro applicazione nella pratica clinica
in UTI.

Ecocardiografia

L’ecocardiografia è uno delle tecniche di monitoraggio emodinamico disponibili al capezzale del


paziente. Possiamo considerarla non invasiva per l’ecografia transtoracica e semi-invasiva per
quella transesofagea. Questa tecnica fornisce le informazioni cliniche sia sull’anatomia sia sulla
funzione del sistema cardiovascolare. Tuttavia, questa rimane dipendente dall’operatore e richiede
una formazione approfondita. L'uso dell’ecocardiografia come strumento di monitoraggio ha le sue
limitazioni. In effetti, la tecnica è una valutazione one time, e questo richiede la ripetizione di difficili
test in ambito clinico dove il medico non è sempre disponibile o non sempre è competente. Pertan-
to, l'ecocardiografia è più spesso utilizzato come strumento diagnostico o per giudicare l’effetto di
alcuni farmaci (inotropi, espansione dei fluidi) e mai usato per monitorare per lungo tempo. L'uso
pratico dell'ecocardiografia in ICU è molto diverso rispetto al suo uso nella comunità cardiologica,
sebbene la tecnica sia la stessa. In terapia intensiva, l'ecocardiografia è più focalizzato sul monito-
raggio e la diagnosi di insufficienza circolatoria per stimare la gittata cardiaca e il precarico ventri-
colare.
Tecniche Doppler. Il principio è il seguente: con l'uso dell'effetto Doppler, il profilo di flusso degli
eritrociti che riflettono gli ultrasuoni attraverso una struttura vascolare viene continuamente valuta-
to e quantificato come integrale velocità-tempo. Se ora è noto (o stimato) il diametro vascolare
(tratto di efflusso ventricolare destro/sinistro, aorta discendente), la gittata sistolica e quindi la gitta-
ta cardiaca possono essere valutati continuamente. I notevoli vantaggi sono la non invasività e la
valutazione in tempo reale/battito per battito. Tra queste consideriamo il Doppler esofageo in cui
una sonda capace di emettere ultrasuoni (US) viene inserita in esofago attraverso il naso o la boc-
ca e posizionata a circa 35 cm di distanza dalla rima dentale così da trovarsi subito dietro l’aorta
discendente. Grazie alla reciproca posizione anatomica, aorta toracica discendente ed esofago
sono contigui e decorrono praticamente paralleli. Il fascio di ultrasuoni investe il flusso aortico e
attraverso calcoli matematici deriva l’SV. Questi sistemi, grazie alla possibilità di integrare i dati
ricavati dall’analisi Doppler con il tracciato ECG, permettono l’acquisizione in tempo reale di nume-
rosi parametri emodinamici sia diretti sia derivati, permettendo anche speculazioni più avanzate
sulla performance cardiaca in termini di precarico, contrattilità e postcarico. Nonostante la relativa
invasività, queste metodiche di studio della CO sono generalmente ben tollerate dal paziente e si
adattano sia alla Terapia Intensiva sia alla sala operatoria. Non bisogna dimenticare, comunque,
che la stima della CO è generalmente sottovalutata per la mancata misurazione, a causa della po-
sizione della sonda in esofago, della quota di sangue che viene eiettata nelle coronarie e nelle ar-
terie brachio-cefaliche; inoltre, le misurazioni possono essere inficiate anche da patologie dell’aor-
ta discendente quali la presenza di dilatazione, aneurisma o comunque situazioni in cui il flusso
aortico sia alterato. Altra importante considerazione è che questo metodo non può essere impiega-
to nei pazienti che presentino patologie a carico dell’esofago.
Tra i sistemi attualmente in commercio possiamo ricordare l’Hemosonic, in cui all’effetto Doppler
viene combinato il metodo M-Mode, e il Cardio Q in cui l’M-Mode non viene utilizzato. L’M-Mode
permette di misurare il diametro aortico istante per istante e il Doppler stima il flusso aortico. Nel
Cardio Q il diametro aortico viene misurato in modo derivato tramite un algoritmo.

Impedenzografia

Per concludere l’analisi dei sistemi di monitoraggio non invasivo della CO, non si può non parlare
dell’impedenzografia toracica che, tra tutti i sistemi di monitoraggio, è sicuramente l’unico comple-
tamente non invasivo in quanto non prevede la necessità di accessi vascolari né richiede l’introdu-
zione di sonde nel paziente. Il sistema impiega elettrodi di superficie e permette la rappresentazio-
ne grafica, in continuo su monitor, di parametri emodinamici centrali e periferici. Si tratta sicura-
mente di un sistema molto più completo di monitoraggio emodinamico in quanto rileva non soltanto
la CO, ma anche una serie di importanti parametri derivati che garantiscono una valutazione in
tempo reale del profilo emodinamico e delle sue variazioni nel tempo. Ovviamente, anche questo
sistema ha dei limiti di applicazione che dipendono da alcune condizioni patologiche come la pre-
senza di versamento pleurico, quadri di bassa portata o circolo iperdinamico in cui l’attendibilità
della misurazione è minore, ma nel complesso rimane un sistema di monitoraggio valido, utilizzabi-
le in scenari diversi senza alcuna lesività o invasività per il paziente.

Prossimo futuro nel monitoraggio


La tecnologia in questo campo renderà presto disponibile una innovativa piattaforma che integrerà
tre modalità di monitoraggio: il monitoraggio basato sull’analisi del polso senza calibrazione (il si-
stema Vigileo-Flow Trac), la termodiluizione (per la misura della portata cardiaca in continuo) e
l’analisi del polso con calibrazione. Questo tipo di approccio consentirà al clinico la scelta caso per
caso del sistema più appropriato alla fisiopatologia del singolo paziente, potendo utilizzare sulla
stessa piattaforma, cioè in pratica sullo stesso monitor, anche modalità diverse integrate tra di loro
ottenendone indici di flusso, di fluid responsiveness, di saturazione centrale ecc. Il risultato è un
sistema modulare (EV 1000, Edwards), con una interfaccia friendly e di pronto impatto per il clinico
(Figura 10.14), il cui impiego sarà possibile valutare nel prossimo futuro.
Conclusioni
Il paziente cardiopatico, sia che sia stato sottoposto a intervento cardiochirurgico e che pertanto
necessiti di assistenza intensiva postoperatoria sia che, pur non essendo chirurgico venga ricove-
rato in UTI per la gravità delle sue condizioni cliniche, deve essere sottoposto a un attento monito-
raggio emodinamico fin dall’ingresso in UTI. La stabilità e l’adeguatezza emodinamica in questi
pazienti sono un target irrinunciabile della gestione clinica, e impattano sull’outcome del paziente.
La complessità del monitoraggio dipende dal quadro clinico iniziale, dalla tipologia del paziente e
dall’evoluzione delle condizioni cliniche. In un paziente che non presenti particolari problematiche
e che sia relativamente stabile, il monitoraggio dei parametri emodinamici basali, quali ECG, PA e
PVC, può essere sufficiente a informare correttamente sul suo stato emodinamico. Nel paziente
critico con grave instabilità emodinamica, è necessario ricavare una serie maggiore di informazioni
al fine di inquadrare correttamente il profilo emodinamico e le alterazioni che lo caratterizzano. A
questo proposito si è già visto che attualmente la tecnologia moderna ha messo a disposizione
degli intensivisti molti e diversi sistemi di monitoraggio, ciascuno dei quali ha caratteristiche speci-
fiche proprie che lo rendono più o meno adatto ai vari scenari clinici. Sebbene alcuni di questi si-
stemi si basino sullo stesso modello matematico e analizzino lo stesso parametro emodinamico, la
specificità nell’interpretazione e analisi dei dati offrono spesso una diversa serie di informazioni
emodinamiche o rendono il sistema più idoneo a un determinato paziente.
La scelta del sistema di monitoraggio dipende da vari fattori, tra i quali non è trascurabile la cono-
scenza e la familiarità che l’intensivista ha con quel determinato sistema piuttosto che con un altro.
Si è già detto che di fronte a una grave instabilità emodinamica che non risponde alla terapia è
mandatorio indagare il profilo emodinamico in termini di adeguato bilancio cardiocircolatorio e di
perfusione tissutale. In questi casi la sola misura dei parametri pressori non è più sufficiente. La
monitorizzazione con tecnica invasiva della CO attraverso il catetere di Swan-Ganz è senza dub-
bio il miglior sistema di approccio nel paziente critico, in quanto permette di ricavare in modo diret-
to sia la CO sia i parametri emodinamici derivati, estremamente importanti nello studio e nella ge-
stione del profilo emodinamico. Non bisogna inoltre dimenticare che il catetere di Swan-Ganz per-
mette anche la misura delle pressioni arteriose polmonari che, correttamente interpretate, hanno
un indubbio valore aggiuntivo. L’impiego di sistemi di monitoraggio della CO, non o scarsamente
invasivi, ha rappresentato un significativo passo in avanti nella gestione del paziente critico. Que-
ste metodiche, pur con i limiti che le rendono non impiegabili in tutti i pazienti e non sempre com-
pletamente attendibili, hanno permesso di estendere il monitoraggio emodinamico avanzato a una
popolazione crescente di pazienti critici. Infatti, in quegli scenari clinici in cui il cateterismo arterio-
so polmonare non è fattibile o dove la misura invasiva della CO non è attendibile per la presenza
delle condizioni già descritte, la possibilità di collegare un monitor direttamente alla linea di pres-
sione arteriosa e di visualizzare in continuo la CO è sicuramente una chance.
Si vuole inoltre sottolineare che il paziente critico arriva in UTI dalla sala operatoria dove è stato
sottoposto a una procedura chirurgica, o dalla sala di emodinamica dove è stato sottoposto a una
procedura invasiva, che spesso sono l’origine della sua instabilità emodinamica. Per questo moti-
vo, soprattutto nei pazienti complicati, il monitoraggio emodinamico dovrebbe iniziare in tali sedi e
proseguire in UTI.
Nessun sistema di monitoraggio può essere ritenuto il più valido in senso assoluto, ma ciascuno di
quelli a disposizione presenta dei limiti e degli svantaggi che devono essere ben conosciuti per
essere impiegati al meglio nel paziente critico. A tal fine i parametri emodinamici misurati devono
essere attendibili e correttamente interpretati. Pertanto è necessario riconoscere nel paziente la
presenza di condizioni che hanno un impatto negativo sulla metodica di monitoraggio, e alla luce di
tali condizioni e della fisiopatologia del paziente interpretare i dati ottenuti. Per esempio, nel pa-
ziente con insufficienza tricuspidalica severa, il valore della CO misurata con metodo invasivo (ca-
tetere di Swan-Ganz) è invalidato dal rigurgito valvolare e pertanto scarsamente attendibile. La
diagnosi di rigurgito tricuspidalico deve quindi indurre a non utilizzare il dato della termodiluizione.
Ovviamente il rigurgito tricuspidalico può insorgere a distanza dal posizionamento del catetere in
arteria polmonare per il peggioramento della funzione ventricolare destra. Questo significa che un
sistema di monitoraggio può diventare inadeguato al variare del decorso clinico del paziente. I dati
ottenuti dal monitoraggio emodinamico debbano essere sempre interpretati alla luce delle condi-
zioni cliniche, dei dati diagnostici (eco- cardiografia), e del tipo di paziente critico da gestire.
Quindi ogni tipo di monitoraggio si addice a un tipo specifico di malato per cui non dobbiamo appli-
care il massimo di monitoraggio a ogni paziente ma graduarlo a seconda del grado di compromis-
sione organica del malato stesso. Per concludere ricordare sempre che la visita al letto del pazien-
te risulta uno strumento imprescindibile nella clinica medica. Questa insieme allo studio della storia
clinica offre la possibilità di capire ‘cosa chiedere’ allo strumento del monitoraggio. Questo è il con-
cetto che deve guidare la scelta del medico.

Potrebbero piacerti anche