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La Rivoluzione Scientifica

● Rivoluzione → processo radicale.


● Cambio di paradigma (modello di riferimento) nel mondo scientifico.

Antichità e Medioevo Dal ‘600 in poi

Lo scienziato è il filosofo Lo scienziato è il fisico-matematico


sperimentalista

L’orizzonte di significato è la finalità L’orizzonte di significato è l’efficienza

La natura proviene dall’intelligenza (un La natura proviene dal caso (che è


disegno originario) comunque l’incognito)

Il sapere è di carattere speculativo, consiste Il sapere è di carattere sperimentale,


nell’intuizione di essenze (metafisiche) consiste nell’applicazione di leggi
(fisico-matematiche)

La realtà viene assunta come un complesso:


● Ordinato
● Regolamentato
● Normatizzato
Ma anche privo di:
● Qualsiasi valore
● Qualsiasi qualità antropomorfa
● Qualsiasi “perfezione”

Tutto è fondato sull’incognito, ma nulla avviene a caso, perché tutto è ordinato secondo
rapporti precisi e rigorosi (=formulabili in leggi) di causa-effetto.
Esempio:
● “Stavo camminando per strada quando, per caso, mi è caduta una tegola in testa e
sono morto.”
→ è un’antropomorfizzazione della natura, in realtà non c’è nulla di casuale, infatti:
● “La tegola è scivolata dalla grondaia per un determinato indebolimento di una
struttura di calcestruzzo. Poi, cadendo, ha acquisito una velocità pari a quella
dell’accelerazione gravitazionale terrestre. Mentre camminavo, la congiuntura
causale ha voluto che casualmente la tegola cadesse sulla mia testa,
provocandomi traumi mortali.”

L’unica causa aristotelica ammissibile nel mondo della rivoluzione scientifica è la causa
efficiente. (ciò che mette in moto il processo)

Ne consegue che si può dire di sapere qualcosa soltanto quando si è in grado di fare
qualcosa.
● La bontà di una conoscenza è certificata dal successo dell’azione
○ Determinato dalla prevedibilità del fenomeno
■ Dovuta alla scoperta della legge che lo governa.
L’attività scientifica è un esercizio di calcolo costruito su dati di natura quantitativa
=misurabili (a partire da un’unità convenzionale)
=condivisibili (a prescindere dalle sensibilità personali)

Conoscere il mondo non serve a


contemplarlo, ma a dominarlo.

L’astronomia e Galilei
Il processo della “Rivoluzione scientifica” ha inizio all’interno del campo dell’Astronomia.
La “Rivoluzione astronomica” prende le mosse dal trattato De revolutionibus orbium
coelestium (Le rivoluzioni dei corpi celesti) di Niccolò Copernico (1543).

La “Rivoluzione astronomica” consiste nel passaggio dal sistema geocentrico al sistema


eliocentrico.
Questo cambiamento deriva dall’esigenza di semplificare i calcoli matematici necessari per
prevedere in ogni momento dell’anno la posizione dei pianeti nel cielo; NON dipende da
osservazioni empiriche particolari o risultati sperimentali.

Dal punto di vista del movimento, non vi è alcuna differenza tra i due sistemi, vi è solo una
differenza nel calcolo della traiettoria/posizione dei pianeti.

Modelli dell’Universo
● Modello antico (Tolemaico):
○ L’universo è unico
○ L’universo è chiuso e finito (circoscritto)
○ L’universo è concentrico (la terra è fissa e immobile al centro; sole e pianeti
ruotano intorno alla terra)
○ L’universo è differenziato in:
■ Mondo sublunare (terrestre), costituito dai quattro elementi (terra,
acqua, aria e fuoco)
■ Mondo sopralunare (cieli), costituito dalla sola essenza eterea (la
“quint’essenza”)
● Modello Copernicano
○ L’universo è unico
○ L’universo è chiuso e finito (circoscritto)
○ L’universo è concentrico, ma il sole è fisso e immobile al centro; i pianeti e la
terra girano attorno al sole; la terra gira su se stessa generando il moto
apparente del sole; la luna gira intorno alla terra.
○ L’universo è differenziato in:
■ Elementi terrestri corruttibili ????
■ Sfere cristalline incorruttibili ????
Il modello copernicano non viene proposto come rappresentazione reale dell’universo, bensì
come modello matematico. (??)
● Modello ticonico (Tycho Brahe)
○ Universo “misto”:
■ I pianeti girano attorno al sole
■ Il sistema solare gira attorno alla terra
○ La terra è al centro dell’universo
● Modello di Keplero
○ In una prima opera, in cui esalta la bellezza, la perfezione e la
“divinità” dell’universo, vede in esso l’immagine della Trinità divina:
■ Il sole al centro, immagine di Dio Padre, che irradia luce e vita
■ Sei pianeti distribuiti attorno al sole secondo precise leggi
geometriche;
■ L’animazione dei pianeti e del sole che governa i loro
movimenti.
○ In opere successive abbandona questa prospettiva filosofica per
orientarsi verso
■ Uno sguardo esclusivamente fisico-astronomico
■ Che tuttavia conserva l’idea che la sostanza del mondo
consista nella proporzione matematica insita in tutte le cose
(neo-pitagorismo)
■ A questa convinzione si deve la scoperta delle leggi del
movimento planetario (le “leggi di Keplero”), che riguardano:
● Le orbite ellittiche, non circolari, dei pianeti
● Il rapporto tra le aree ellittiche delle orbite e il tempo di
rivoluzione planetaria
● I rapporti di grandezza tra i movimenti planetari
■ Queste scoperte confermano l’idea che la quantità matematica
sia la vera oggettività della natura.

Il Metodo (Galileiano) della Scienza


Premessa: Galilei non ha scritto di metodo, ovvero non ha elaborato come lavorasse come
scienziato. Sono gli studiosi di Galilei che hanno estrapolato la sua procedura.

Nel Saggiatore, nel Dialogo e nei Discorsi Galilei tende a presentare il metodo della scienza,
dividendolo in
● Momento risolutivo (che analizza), che a sua volta ha due parti:
○ Scomposizione del fenomeno nei suoi elementi semplici
○ Formulazione di un’ipotesi matematica che lo governa
● Momento compositivo (che mette assieme, in sintesi), che consiste nella
○ Verifica sperimentale (riproduzione del fenomeno studiato)

“Pare che quello degli effetti naturali che o la sensata esperienza ci


pone dinanzi agli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non
debba in conto alcuno esser revocato in dubbio”.
Con “sensata esperienza”, Galilei intende:
● Il momento osservativo,
● L’esperienza dei sensi
● La ricognizione dei fatti particolari
Con le “matematiche dimostrazioni” intende:
● Il momento raziocinativo
● Il ragionamento logico
● La “supposizione” (espressa in formula matematica) da verificare.

Il metodo galileiano, dunque, non è


1. né induttivista (più fiducioso nell’osservazione che nel calcolo)
2. né deduttivista (più fiducioso nel calcolo che nell’osservazione)

È indissolubilmente
INDUTTIVO/DEDUTTIVO

Secondo Galilei,
● Le sensate esperienze sono fin dall’inizio “cariche” di teoria (che indirizza
l’osservazione a selezionare i dati)
● Le matematiche dimostrazioni sono ammissibili come valide soltanto alla luce
dell’esperimento.
La matematica gioca il ruolo della nuova logica, infatti è strumento della scienza come la
logica lo era del ragionamento. Uno strumento di ipotesi, ma anche di scoperta.

C’è una distinzione tra


● Esperienza: ordinaria, immediata e talvolta ingannevole
● Esperimento; frutto di un’elaborazione teorico-matematica dei dati.

Ciò che le distingue è la procedura, intenzionalmente costruita per...


Creare le condizioni necessarie affinché un determinato
fenomeno possa prodursi e riprodursi,
Anche solo mentalmente (es. Immaginando il vuoto).

Conseguenze Filosofiche
La ricerca non deve mirare al perché dell’operato della natura, ma semplicemente al come le
cose stanno e si relazionano.
La scienza non deve pertanto “tentar l’essenza” delle cose, ma deve occuparsi solo delle
leggi che ne regolano i comportamenti, verificandole sperimentalmente per renderle
intersoggettivamente valide, ovvero

Condivisibili a prescindere da qualsiasi forma di sensibilità soggettiva.

I presupposti della validità di tale metodo sono diversi:


● La fiducia nella matematica (come nota anche a Dio)
● La distinzione antica (risalente a Democrito) tra qualità oggettive e soggettive (cioè
appartenenti effettivamente all’oggetto percepito e “date” dal soggetto percipiente)
● La credenza nella validità del rapporto causa-effetto come facente parte dell’ordine
dell’universo
● La fiducia nella verità infallibile e assoluta della scienza;

Ma, sopra e prima di tutto,

Un sostanziale realismo, cioè l’intima


persuasione della perfetta corrispondenza tra
pensiero e realtà.

Francesco Bacone
Premessa storica: Francesco Bacone, ai tempi di Giacomo I, in combutta con Lord
Buckingham, ne ha combinate di ogni.

Ma, in nome della filosofia, lasciamo perdere…

Secondo Bacone,

La scienza deve essere al servizio dell’uomo.

La scienza è valida nel momento in cui diventa tecnica, in quanto dà all’uomo il dominio
sulla natura.
Il suo “nuovo mondo”, la Nuova Atlantide, deve essere un paradiso della tecnica, un
enorme laboratorio sperimentale, i cui governanti sono gli inventori, provenienti da tutto il
mondo.

Il suo grande progetto (inconcluso) consisteva in un’enciclopedia delle scienze che avrebbe
dovuto rinnovare la ricerca scientifica, soprattutto sulla base di un nuovo metodo.
Si sarebbe dovuta realizzare una Instauratio Magna (ab imis fundamentis), non una
restaurazione, bensì una revisione completa dei fondamenti.
Di questo progetto, Bacone ha portato a termine solo la parte metodologica, il Novum
Organum (nuovo strumento).

L’obiettivo di Bacone era di interpretare la natura per dominarla.

Il vecchio Organon aristotelico, serviva per prevalere nella dialettica, impugnando le tesi
avversarie;
Il Novum Organum serve per espugnare la natura, estrapolandone i principi dinamici.
Lo scienziato diventa dunque interprete e ministro della natura.

Sapere è potere.
L’ignoranza della causa impedisce l’efficacia dell’operazione: l’uomo deve indagare la natura
per carpirne i segreti.

“Natura non, nisi parendo, vincitur”


(la natura non si vince, se non obbedendole)

Gli strumenti dell’intelligenza sono gli esperimenti, ma affinché tali esperimenti siano
efficaci, non devono essere dettati da pregiudizi e principi di autorità.
L’indagine della natura, quindi, deve essere interpretativa:

Bisogna lasciare da parte qualsiasi anticipazione, qualsiasi preconcetto.

Nella mente dello scienziato, dunque, non può essere alcun “eidòla” (idoli), ovvero forme
idolatriche di pre-conoscenza. Per lui, vi sono quattro classi di idòla:
● Idòla tribus (gli idoli della tribù): Le “deformazioni antropomorfiche” della natura
(vedere ordine e geometria dove non ci sono)
● Idòla specus (gli idoli della spelonca): le abitudini assorbite dall’ambito educativo
● Idòla fori (gli idoli della piazza): tutte le equivocità derivanti dal sentito dire (es.
proverbi)
● Idòla theatri (gli idoli del teatro): tutte le dottrine tramandate dalle “messe in scena” di
pensiero filosofiche

La verità, dunque, è filia temporis, non auctoritatis (figlia del tempo, non dell’autorità).
Questo significa che è conseguenza dell’applicazione delle tecniche estrapolate
dall’osservazione, NON della deduzione dialettica da principi vetusti e venerandi.

La via della conoscenza è dunque un processo metodico, ordinato secondo canoni di


comportamento scientifico che devono essere chiarificati una volta per tutte.

Il metodo induttivo
L’induzione comporta la collaborazione tra sensi e intelligenza. Esistono due tipi di
induzione:
● L’induzione per enumerazione, di origine aristotelica,
○ E’ fallace, perché si limita a raccogliere acriticamente i dati per metterli
insieme senza ordine, è sempre esposta al pericolo del “controesempio” (una
regola basata su supposizioni universali non funziona nel caso si scopra un
esempio contrario)
● L’induzione vera e propria, quindi scientifica.
○ Questa, invece, si fonda sulla scelta e l’eliminazione dei casi particolari sotto
il controllo di precise metodiche che assicurano l’ottenimento della verità
certa.

La seconda si articola lungo diverse fasi, che Bacone chiama tabulae e instantiae.
Nella prima Bacone individua tre gradi di “tabulazione”:
● La tabula presentiae, in cui annota tutti i casi in cui si riscontra la presenza di un
fenomeno X (es. Il calore nei raggi solari)
● La tabula absentiae, in cui annota i casi in cui la presenza del fenomeno X sarebbe
attesa ma non si registra (ad es. Il calore nei raggi lunari)
● La tabula graduum, in cui ordina secondo il grado crescente/decrescente l’intensità
del fenomeno X (es. Il calore nel fuoco, nel corpo umano, nel ghiaccio)

Una volta raccolti i dati, inizia la seconda fase del lavoro, ovvero:
● La prima vindemiatio (vendemmia di dati), al fine di filtrare le informazioni utili
● La formulazione di una prima ipotesi di lavoro
In particolare, l’ipotesi viene messa al vaglio di
● Una serie di sperimentazioni (instantiae prerogativae), consistenti in richieste di
resistenza di livello crescente
● L’instantia crucis, una prova “a tiro incrociato”, dove l’ipotesi è chiamata a resistere
contemporaneamente a diverse richieste.

Al termine della procedura, il fenomeno X viene conosciuto nella sua causa vera, che
Bacone chiama (ancora aristotelicamente) forma o natura.
Volendo decantare l’originalità del proprio metodo, egli si serve di un paragone tratto dalla
zoologia, per distinguere tre atteggiamenti metodici:
● Quello degli “empirici”, paragonabili alle formiche, che accumulano ogni tipo di
granaglie disordinatamente nei cunicoli dei loro nidi.
● Quello dei “razionalisti”, paragonabili ai ragno, che traggono da sé il filo con il quale
intessono le reti in cui catturare le proprie prede.
● Quello degli “scienziati”, paragonabili alle api, che suggono polline dai fiori, e
secernono miele e cere pregiate.

Il lavoro scientifico, dunque, deve dare il proprio frutto attraverso la combinazione dei sensi e
dell’intelligenza. Esso non approda più al riconoscimento della causa finale, ma non si
configura ancora come il processo che scopre la causa efficiente.
Per Bacone, il vero frutto della scienza è l’individuazione della Causa Formale, all’interno
della quale si intravvedono due coefficienti latenti (seminascosti):
● Lo schematismo latente, cioè l’aspetto statico e strutturale della forma del
fenomeno → essenza
● Il processo latente, cioè il risvolto dinamico e realizzante della forma del fenomeno
→ legge di produzione

Al metodo scientifico baconiano, volendone dare una valutazione in relazione allo sviluppo
delle scienze in età moderna, manca ancora la posizione di rilievo, poi divenuto cruciale,
assegnato in seguito alla matematica, la quale resta ancora relegata ai margini della ricerca.

Per molti aspetti, Bacone resta un antico; non


è ancora del tutto moderno.

Réne Descartes (Cartesio)


Il padre del Razionalismo, la corrente filosofica che considera la ragione fonte e criterio
della Verità.
Questo si oppone (storiograficamente) all’Empirismo, ovvero la corrente filosofica che
considera l’esperienza fonte e criterio di Verità.

Per capire Cartesio, sarà fondamentale chiarire due concetti:


● Il Soggetto (subiectum - sujet)
● L’Oggettività (esse obiectivum - être subjectif)

Questi hanno cambiamenti di significato. Il primo detiene quello del “soggetto psichico”, della
coscienza, dell’Io. Prima del ‘500 indicava la sostanza aristotelica.
Il secondo acquista il senso di “tramite della conoscenza”, ovvero una sorta di ponte tra il
soggetto e la realtà esterna. Sarà importante tenere questo a mente quando Cartesio
distinguerà l’essere oggettivo delle idee in contrapposizione al loro essere formale.

Cenni biografici
Cartesio si arruolò nell’esercito di Massimiliano di Baviera durante la Guerra dei Trent’Anni.
Nel 1619 si sente investito da Dio d’una grande missione di rinnovamento del sapere, della
creazione di una scientia mirabilis. Una missione filosofica, scientifica, morale e religiosa.
Dedicherà la sua intera vita a questo obiettivo. Egli cita questa esperienza nelle Regulae ad
directionem ingenii, in cui elabora la propria metodologia.
Si dedica poi agli studi di fisica scrive un trattato cosmologico dal titolo Traité de la lumière,
ma la condanna di Galilei lo convince ad abbandonare il progetto. Nel 1637 pubblica il
Discours sur la méthode, la prefazione metodologica a tre trattati, la Dioptrique, le Météores
e la Géométrie, che contengono le nozioni che Cartesio voleva mettere nel Traité de la
lumière.
Nel 1641, grazie all’aiuto dell’amico padre Mersenne, pubblica le Meditationes de prima
philosophia. Nel 1649, dopo suggestioni incorse nella corrispondenza con la principessa
Elisabetta del Palatinato, pubblica un trattato su Les passions de l’ȃme. Cedendo poi agli
inviti della regina Cristina di Svezia, lo stesso anno si trasferisce a Stoccolma, presso la sua
corte, ma il clima rigido gli è fatale, e l’anno dopo muore di polmonite.

Il metodo
Cartesio vuole ottenere un criterio sicuro per distinguere il vero dal falso. L’obiettivo della
sua speculazione, pertanto, diventa quello della ricerca di un Metodo al contempo:
● Teorico (da applicare in campo speculativo)
● Pratico (da applicare in campo morale)
Un metodo, insomma, capace di rendere l’uomo padrone e possessore della natura.

Ispiratosi alla matematica, l’unica disciplina utile svolta a scuola secondo le sue stesse
parole, redige le Regulae.
Poi, accorgendosi che le 25 regole enumerate erano troppe per un sano comportamento
teorico-pratico, decide di ridurle a 4 essenziali, facenti capo al loro presunto fondamento
ultimo, il Soggetto Pensante.
Queste regole sono:
● L’Evidenza.
Si tratta di non ammettere nessuna forma di conoscenza che non sia:
○ Chiara (priva di dubbio)
○ Distinta (senza interferenza da altre conoscenze)
Se la conoscenza risulta evidente in partenza, si è soddisfatti con essa.

Se invece qualcosa non risulta evidente, si applicano le regole successive:


● L’Analisi.
Si tratta di dividere il problema finché non si arrivi alle sue parti elementari, che
devono risultare tutte evidenti.
● La Sintesi
Ricostruzione dell’ordine complessivo del problema, partendo da composizioni
semplici per salire a livelli più elevati di composizione ordinata fino a riottenere l’unità
di partenza.
(ho 20 elementi di base dall’analisi, li metto insieme a coppia, poi unisco le coppie
etc…)

Sembrerebbe di essere arrivati al termine, avendo la visione iniziale del problema chiara e
distinta. Ma Descartes ritiene necessario aggiungere un’altra regola;
● L’Enumerazione.
Si fa una revisione generale di ciò che si è ricostruito, per assicurarsi di non avere
tralasciato nulla nell’analisi e nella sintesi.

Così abbiamo ottenuto il metodo, ma non ne abbiamo la giustificazione, la ragione. Bisogna


ancora dedurlo e legittimarlo filosoficamente.
Dunque, per fare questo, bisogna attuare una critica radicale di tutto il sapere, procedendo
per gradi. Bisogna mettere in crisi ogni forma e fonte di sapere, per arrivare al nocciolo,
applicando un dubbio metodico.
Procediamo per livelli successivi:
● Si revoca in dubbio la conoscenza sensitiva, poiché i sensi ingannano.
● Si revoca in dubbio la conoscenza intellettiva e la conoscenza matematica,
poiché Dio, nella sua onnipotenza, avrebbe potuto volere che 2+2 equivalesse 5.
L’incertezza raggiunge dunque un livello universale, un grado detto Iperbolico.
Tuttavia, questo non getta nello scetticismo più totale, ma paradossalmente offre la prima
certezza indubitabile.
Si può dubitare di tutto, infatti, ma non è possibile dubitare nel dubbio, proprio perché
quando si esercita il dubbio, si è certi di essere in dubbio.
Dubitare equivale a cogitare, o pensare, quindi, nello stato di dubbio, si può risolutamente
esclamare:

Cogito, ergo sum!


(Penso, perciò sono!)

Ciò non significa che ciò che viene pensato (tramite le idee) esista oggettivamente;
Significa, invece, che le idee (i dubbi, le cogitationes), cioè tutti i contenuti del pensiero,
esistono come tali, cioè formalmente, come i costitutivi stessi del pensiero soggettivo
(subiectum, sujet).
Cartesio, dunque, arriva a concepire se stesso, o meglio l’evidenza di se stesso, come Res
Cogitans (sostanza pensante), cioè come realtà che in quanto pensa, è ciò che pensa.
Egli ritiene che l’esistenza del soggetto pensante (delle idee pensanti) sia evidente e certa
come non lo è l’esistenza di qualsiasi delle cose pensate.
Pertanto,
● È possibile che ciò che penso non esista,
● Ma è impossibile che non esista io, che penso di pensare a qualcosa che non esiste.
Ogni altra conoscenza, quindi, potrà eventualmente essere fondata su questa evidenza di
base, l’Evidenza del Cogito.

Siamo dunque usciti dal dubbio di fondo, ora dovremo cercare di dare fondamento alla
conoscenza del mondo oggettivo. Lo potremo fare grazie a Dio.

Da Dio al Mondo
Per gettare un solido ponte tra il soggetto e il mondo esterno, di cui non possiamo ancora
provare l’esistenza, Cartesio decide di ricorrere a Dio.
L’esistenza di Dio dimostrata razionalisticamente, quindi, l’evidenza provata della sua
esistenza, potrà garantire l’evidenza mediata (anche se non immediata) del mondo esterno
al soggetto.

Dio, da entità ontologicamente necessaria, viene subordinato alla ragione e ridotto al


rango di entità necessariamente funzionale alla veridicità del discorso.

L’argomentazione su Dio non ha più il valore dialettico o epistemologico della tradizione (un
percorso della ragione che coglie l’evidenza e la necessità di un principio teologico
trascendente),
Ma acquista un ruolo gnoseologico, esclusivamente funzionale alla verità della
conoscenza.

Perciò, il percorso cartesiano è la prima


“vera e propria” dimostrazione
dell’esistenza di Dio,

...al contrario delle precedenti “dimostrazioni” che non dimostravano in modo vero e proprio
l’esistenza di Dio.

Il procedimento dimostrativo adottato è detto a priori, in quanto prende le mosse non


dall’esperienza del mondo (che non gode di evidenza), ma da ciò che è evidente: il cogito,
il contenuto del pensiero.
Procediamo, dunque, sapendo che il cogito sono le idee; e che, secondo Cartesio le idee
sono raggruppabili secondo tre ordini:
● Idee innate: le idee che rappresentano contenuti presenti dall’origine del pensiero (i
principi logici, l’idea di cosa…)
● Idee avventizie: le idee che rappresentano contenuti di pensiero provenienti dal
mondo extrasoggettivo (il sole, l’albero...)
● Idee fattizie: le idee che rappresentano contenuti di pensiero costruiti dal pensiero
stesso al proprio interno (l’ippogrifo, il lago di fuoco…)
Il dubbio in questione è quello di provare l’esistenza delle idee avventizie, e provare che
non siano veramente delle idee fattizie, costruite dal pensiero (come in un sogno).
Occorre trovare un appiglio nel cogito per superare questa incertezza. Tra le idee ce n’è
soltanto una che gode di caratteristiche tali da non poter derivare dall’opera del pensiero:

È l’idea di Dio, o meglio della sostanza


infinita, eterna, immutabile,
indipendente, onnisciente, onnipotente.

Vale l’assioma secondo il quale

La causa di un effetto deve comunque avere


almeno tanto di realtà quanto l’effetto stesso.

Quindi, l’idea di infinito non può che avere una causa infinita e, di conseguenza, non può
essere stata prodotta da una mente finita come quella del soggetto umano.
Dunque: Dio esiste, come l’origine dell’idea della sostanza infinita.

Una volta conclusa questa prova, Cartesio ne propone altre due:


● Il fatto che il pensiero si riconosce finito e limitato (come è evidente) dimostra che
esiste un essere “più” perfetto, altrimenti il pensiero si sarebbe creato con tutte le
dotazioni di perfezione che riconosce nell’idea di Dio.
● A Dio appartiene l’esistenza, in quanto è la somma di tutte le perfezioni, altrettanto
necessariamente di quanto al triangolo appartiene l’avere angoli interni uguali a due
retti.

Dimostrato Dio, Cartesio ha raggiunto il suo scopo: il criterio dell’evidenza trova la propria
garanzia. Infatti,
● Essendo Dio perfetto,
● Necessariamente non può ingannare,
● La facoltà di giudizio è dunque salvaguardata dall’errore (se adoperata rettamente)

Dio è veritiero, non inganna. Quindi, tutto ciò che appare evidente lo è veramente.
A questo punto, però, è necessario domandarsi da dove derivi l’errore, visto che Dio è
buono. La risposta di Cartesio è che l’errore deriva dalla precipitazione, ovvero dalla
forzatura che la volontà esercita sull’intelligenza, complici le passioni.
La volontà, infatti, diversamente dall’intelletto, è libera. La libertà della volontà, quindi la sua
sconfinata estensione rispetto ai limiti dell’intelligenza, implica che essa possa giudicare
anche su ciò che l’intelletto non riesce a cogliere o a dominare.
La volontà spinge a formulare un giudizio privo delle basi di chiarezza e distinzione che
-sappiamo- sono requisiti della conoscenza vera.
La volontà, quindi, induce a “indovinare” la verità, prescindendo dalla procedura metodica
che condurrebbe infallibilmente alla verità.
L’errore deriva dal libero arbitrio.
Abbiamo dunque un ponte tra il soggetto e ciò che sta “al di fuori”. Ma resta il fatto che i due
mondi si contrappongono in un radicale dualismo.
Ci siamo resi conto che accanto (o di contro) alla res cogitans esiste un’altra realtà, la res
extensa (extensio = estensione). E’ la realtà di tutte le cose corporee.
Riprendendo Democrito e Galilei, Cartesio ritiene di dover concedere alla res extensa le
cosiddette qualità primarie, escludendo perciò le qualità secondarie, che egli riferisce
risolutamente al soggetto conoscente.
Quindi:
● Forma geometrica, numero, peso… tutto ciò che è misurabile appartiene al corpo
● Colore, odore, suono… tutto ciò che non è riducibile a numero appartiene al soggetto.
In definitiva, tra res cogitans e res extensa non c’è alcuna relazione, salvo il fatto che la
prima apprende la seconda tramite le idee.
C’è dunque un Dualismo Ontologico, una radicale opposizione senza soluzione.
Resta tuttavia il problema del singolo uomo, in cui, almeno apparentemente, convivono corpo
e pensiero.
Il dualismo ontologico, dunque, si propone in maniera “devastante” a livello antropologico.
Non si può certo parlare dell’unità della persona, visto che il soggetto è chiuso nella sua
dimensione “cogitativa”, mentre il corpo appartiene a un mondo meccanico del tutto esterno
ad essa. Il problema è talmente fondamentale che Cartesio arriva a proporre una soluzione a
dir poco “fantasiosa”:
-L’unione soggetto corpo si realizzerebbe nell'epifisi, la Ghiandola Pineale.
Essa sarebbe responsabile dell’unificazione tra i sensi e il pensiero.

Il risultato di questa separazione dei due mondi è la concezione meccanicistica della realtà
fisica.
Il meccanicismo rappresenta il mondo come un enorme macchinario all’interno del quale
agisce soltanto la forza inerziale secondo una necessità logico-fisica assoluta.
Ogni fenomeno può essere dedotto aprioristicamente e matematicamente da un
ragionamento potenzialmente infallibile.
Secondo questa logica, i fenomeni naturali sono conosciuti veramente per quanto sono
raffigurabili sul piano cartesiano, ovvero delle ascisse e delle ordinate, partendo dalla
formulazione della loro equazione. Ogni fenomeno è descrivibile come un accadimento che
obbedisce a una traccia risultante dal calcolo.
Tale visione arriva ad escludere la vita come una raffigurazione antropomorfa, dato che tutti i
processi vitali sono riducibili a sequenze numeriche e a relazioni causa-effetto. Anche il
corpo umano è la macchina di cui il soggetto si serve a titolo strumentale.

Il metodo dell’evidenza si può applicare anche al comportamento morale?


La risposta di Cartesio è ambigua: provvisoriamente.
Date le nostre limitazioni, è impossibile avvalersi del metodo, perché il tempo necessario per
vagliare razionalmente le opportunità di fronte a una scelta, dovrebbe essere infinito.
In campo pratico, dunque, l'evidenza è umanamente irraggiungibile.
Se, dunque, non si può costruire una disciplina morale basata sull’evidenza, è comunque
saggio avvalersi di regole provvisorie, perché;

“Non basta, prima d’iniziare a ricostruire la casa dove si


abita, abbatterla [...] ma è pure necessario essersene
procurata un’altra, dove si possa alloggiare comodamente
durante il tempo in cui procedono i lavori.”
E dunque, le regole sono:
1. “Obbedire alle leggi e ai costumi del paese”,
osservando la religione tradizionale e regolandosi in tutto secondo le opinioni più
moderate e lontane dagli eccessi;
2. “Essere il più fermi e risoluti possibile, e seguire con costanza anche l’opinione più
dubbiosa, una volta accettata.”
3. “Vincere piuttosto se stessi che la fortuna… cambiare i propri desideri piuttosto che
l’ordine del mondo.”

Secondo Cartesio, la sintesi di queste tre regole è la sintesi della saggezza.

E le passioni?
Mentre le azioni sono libere, le affezioni sono involontarie; pertanto, non ci si può fare niente,
se non cercare di dominarle il più possibile tramite lo sforzo razionale. Se la forza d’animo
consiste nel vincere le emozioni, la debolezza consiste nel lasciarsi dominare;
Ma gioia e tristezza, le emozioni fondamentali, non sono sempre nocive, sono, piuttosto,
neutre.
Provando odio e provando amore si scoprono le realtà “sconvenienti” (da rifuggire) e le realtà
“convenienti” (da ricercare).

Ma, il dominio razionale sulle emozioni, questo è saggezza.

Spinoza
Vita e Trattati
Baruch Spinoza nasce in Olanda ed è discendente di ebrei cacciati dalla spagna. E’ libero,
ma viene perseguitato da tutti. Per questo, si concentra sulla ricerca di una felicità
indipendente dalle sue circostanze. Il suo pensiero, espresso nel Trattato su Dio, l’uomo e
la sua felicità, girerà attorno a questa ricerca.
Quasi tutte le sue opere furono pubblicate dopo la sue morte o in incognito per la
menzionata persecuzione, l’unica eccezione sono i Principi di filosofia cartesiana (Pensieri
metafisici), che testimonia il confronto con Descartes, con il quale egli dissente, nonostante
lo interpreti nel trattato.
Pubblicato anonimamente, il Tractatus theologico-politicus, condannato dalle chiese
cristiane, esprime il principio del libero pensiero e della libera espressione
La sua opera principale, circolata solo in manoscritto fino alla pubblicazione postuma, è la
Ethica, ordine geometrico demonstrata, sempre postumo. Escono anche un Trattato
sull’emendazione dell’intelletto e un Trattato politico.

Filosofia e felicità
La catarsi (purificazione) è, per Spinoza, l’esercizio proprio della filosofia, sia sotto il profilo
esistenziale che sotto quello intellettuale.
Partiamo dal Tractatus de emendatione intellectus, che viene di solito considerato il
“Discorso sul metodo” spinoziano, poiché consiste in una riflessione sulla delusione relativa
ai valori della vita (in opposizione di Cartesio, che ce l’ha sul metodo della conoscenza).

Emendatio significa “correzione”; l’intelletto è la facoltà guida dell’esistenza; l’esercizio della


filosofia è un percorso verso la salvezza, ben oltre le preoccupazioni gnoseologiche di
Cartesio.

La ricerca del vero bene discende dal disincanto rispetto ai comuni valori della vita -
ricchezze, onori, piaceri - che sono vani, poiché:
● Transitori e mutevoli
● Inappaganti, perché sempre parziali
● Fonte di inquietudine, per la brama del loro possesso e per il timore della loro perdita
Sono dunque ingannevoli, ma possono incatenare la mente.

La libidine precipita nella tristezza e ottunde l’intelligenza; l’onore costringe a vivere come
vogliono gli altri; le ricchezze inducono a mettere a rischio la stessa vita.
In buona misura, tuttavia, questi possono essere utili per la ricerca della tristezza, a
condizione che non ne impediscano il raggiungimento.

Cosa, dunque, può produrre la felicità? Soltanto

l’amore per la cosa eterna e infinita.

Con questa, Spinoza non vuole dire “Dio”, ma proprio l’eterno e l’infinito in quanto tali.
La mente si placa dalle sue inquietudini identificandosi con il cosmo infinito: ciò costituisce
gioia suprema e letizia perfetta.

Mens nostra, quatenus res vere percipit, pars est infiniti Dei
intellectus; adeoque tam necesse est, ut Mentis clarae, et distinctae
ideae verae sint, ac Dei ideae.

“La nostra mente, in quanto percepisce le cose veramente, è parte


dell’infinita intelligenza di Dio, è dunque necessario che le idee di una
mente chiara e distinta siano vere, poiché sono appunto le idee di
Dio.”

La metafisica
La metafisica di Spinoza si basa sul concetto di sostanza infinita, eterna, etc… che in
Descartes era l’idea di Dio.

L’Ethica non è un trattato di morale, ma una sorta di enciclopedia della filosofia. Questa è
sottotilata ordine geomentrico demonstrata. Ciò perché Spinoza sceglie gli Elementi di
Euclide e procede “geometricamente” nell’esposizione delle proprie teorie. L’Ethica è dunque
organizzata in modo inconsueto, non per titoli ma per definizioni, teoremi, scholii, corollari,
etc etc. Questo andamento sottolinea il rigore formale e il distacco emotivo dalle proprie
teorie, ma soprattutto dimostra che secondo Spinoza

la realtà stessa, nella sua struttura, è ordinata geometricamente,

E dunque, tutto è concatenato in una relazione sequenziale.


La realtà di Spinoza è la sostanza, intesa né come forma né come sinolo, bensì alle res
(cogitans ed extensa) di Descartes. Spinoza attribuisce l’idea stessa di sostanza a Dio.

Tuttavia, per Spinoza, non è Dio ad essere la sostanza, bensì,

Ciò che è intuito come Sostanza (o Natura) è Dio stesso.

Per substantiam intelligo id quod in se est et


per se concipitur idest id cuius conceptus non
indiget conceptu alterius rei a quo formari
debeat.

“Per sostanza, intendo ciò che è in sé e si


concepisce per sé, ovvero ciò il cui concetto
non ha bisogno del concetto di altro dal quale
essere formato.”

Le due formule in sé e per sé significano rispettivamente:


● che la sostanza è ontologicamente assoluta, cioè non è relativa a nulla, è causa sui
(essa stessa è causa di sé stessa)
● che la sostanza è nozionalmente indipendente, completamente piena ed esauriente
nel proprio significato.

Come tale, la Sostanza gode di alcune caratteristiche implicite:


● È increata (perché causa sui)
● È eterna (identica all’esistenza, come conseguenza necessaria delle propria
definizione).
● È unica (non ci possono essere due identici totali)
● È infinita (perché senza limiti)

L’osservazione più importante da fare è che, per Spinoza, la Sostanza-Dio non è un principio
trascendente, ma è la Natura stessa, che comprende tutto, anche noi.
Tutto ciò che è, è in Dio, e senza Dio nulla può essere concepito.

Nella metafisica tradizionale, Dio si distingue dal mondo perché è l’essere, diversamente dal
mondo, che ha l’essere, secondo il teorema della partecipazione.

Nella metafisica Spinoziana, l’essere appartiene implicitamente e identicamente al tutto:


Deus sive natura

“Dio, e/ovvero la natura, si identificano nell’unicità della Sostanza.”

Ora è necessario spiegare il passaggio dalla Sostanza infinita alla finitezza dei momenti
dell’esperienza.

Attributi e Modi
Dicesi attributo:
“Ciò che l’intelletto percepisce della Sostanza come costituente la sua stessa essenza.”

Questa definizione sottintende che, essendo la Sostanza infinita, infiniti ne sono gli attributi.
La Sostanza, quindi, è predicabile all’infinito in linea di diritto. In linea di fatto, però, ci sono
solo due attributi a noi noti:
● Il pensiero (cogitatio)
● Il corpo (extensio)
Anche rispetto a questa limitazione dell’intelletto, non c’è giustificazione; sta di fatto, a partire
dalla nostra esperienza, che, della Sostanza, noi conosciamo soltanto corpo e pensiero.

Occorre sottolineare il fatto che in ciascun attributo la Sostanza è presente in toto, ovvero
che è
● pienamente e interamente pensiero,
● pienamente e interamente corpo,
● pienamente e interamente qualsiasi altro degli infiniti attributi a noi inconoscibili.

Ogni attributo rispecchia, dunque, l’intero della Sostanza, non in maniera diversa, ma
semplicemente secondo una diversa prospettiva di predicazione.
La sostanza è identica in ogni attributo,
● Identicamente sviluppata,
● Secondo una ferrea necessità causale,
● Lungo le direttrici differenti,
● Di ciascun singolo attributo.
Con gli attributi siamo ancora nel campo dell’infinito.

Ora bisogna spiegare il passaggio alla realtà finita attraverso i modi.

Dicesi modo:
“L’affezione della sostanza, cioè ciò che è in altro (non in sé, come la Sostanza), per mezzo
del quale (altro) è anche concepito.”
Ovvero, ciò che si concepisce per mezzo di altro.

All’interno dell’attributo pensiero, distinguiamo


● Il modo “ragionamento”
● Il modo “fantasia”
● Il modo “sogno”
● Il modo “ipotesi”
● Qualsiasi altro modo del pensiero.
All’interno dell’attributo corpo distinguiamo
● Il modo “pietra”
● Il modo “albero”
● Il modo “animale”
● Qualsiasi altro modo del corpo.

Fin qui, i modi sono ancora dominio dell’infinito, quasi astratti, ma l’esperienza ci presenta
soltanto modi finiti:
● Nel pensiero,
○ Il “mio” ragionamento e il “tuo”,
○ La “mia” fantasia e la “tua”
○ Il “mio” sogno e il “tuo”
○ …
● Nel corpo,
○ “Questa” e “quella” pietra,
○ “Questo” e “quest’altro” albero,
○ “Questo” e “quell’altro” animale
○ …
Anche il passaggio dall’infinito al finito rimane un dato di fatto, non giustificato e non
giustificabile teoricamente.
Nell’analogia, si può paragonare la Sostanza spinoziana a un punto geometrico; privo di
dimensioni e quindi assolutamente piccolo ma anche assolutamente grande, dal quale si
diramano infinite semirette (gli attributi) in tutte le direzioni dello spazio;
Tale punto è equiparabile a una sfera geometrica (e quindi a un’infinità di sfere
concentriche), la cui superficie, che consiste della totalità dei punti equidistanti dal centro,
rappresenta e determina l’istante “globale” dello sviluppo causale della sostanza lungo le
direttrici degli infiniti attributi.
Su ogni semiretta, infinite selezioni ricorrenti di punti rappresentano i modi infiniti; ogni
punto, invece, rappresenta un modo finito, ovvero la “circostanziazione” di un modo infinito.
A completamento di quanto fin qui affermato, si può concludere che la visione monistica
spinoziana inquadra l’infinito come

Natura naturante e natura naturata


(generante e generata)

Il che significa che l’intero viene visto come


● Origine e causa di se stesso, a partire da una visione incentrata sull’origine,
● Effetto e dipendenza da se stesso, a partire da una visione che guarda all’origine da
ciascun punto del suo sviluppo.
Dunque, Dio, la Sostanza, la Natura, l’Infinito, l’Intero è nel contempo

Causa ed effetto.

La prospettiva spinoziana è dunque immanentistica; non c’è trascendenza, non c’è


creazione.
E’ data, per l’appunto, monisticamente soltanto la Sostanza come tale, nel suo totale
sviluppo, uno sviluppo libero, poiché sin dall’origine non è forzato da nulla, ma necessario,
poiché ogni sviluppo è condizionato dalla struttura geometrica del proprio articolarsi.
Libertà e necessità coincidono.
Spinoza, seguendo l’impostazione del pensiero scientifico, abolisce la causa finale,
considerando solo la geometricità della causa efficiente. Secondo Spinoza, infatti, la causa
finale:
● Considera come causa ciò che è effettivamente effetto (ma il fine viene equivocato
come “scopo”)
● Rende imperfetto ciò che è prodotto perfetto della Sostanza (tutto deve “essere
l’essere”, non “avere l’essere”)
● Deturpa la perfezione di Dio (che per l'appunto coincide con il tutto della Natura)

In parallelo, Spinoza critica qualsiasi forma di antropomorfismo teologico, rifiutando il


“personalismo” del Dio biblico.
Questa visione complessiva, peraltro, risolve il problema cartesiano del dualismo psicofisico
dell’uomo. Ogni modo finito del pensiero e ogni modo finito del corpo, infatti, rispondono alla
medesima logica di produzione dalla Sostanza e, dunque, corrispondono sempre con
perfetto parallelismo, al proprio omologo:
Al pensiero del movimento del mio dito, circostanziato mentre scrivo, corrisponde, secondo
lo stesso ordine di provenienza, il movimento corporeo del mio dito che produce la scrittura
nella medesima circostanza.
Naturalmente, tra il mio pensiero e il mio dito non esiste relazione alcuna, se non quella
dell’ordinata e geometrica derivazione dall’origine in quel preciso istante di sviluppo della
natura:

Ordo et connexio rerum idem est ac ordo et connexio


idearum;

L’ordine e la connessione causale delle cose è identico all’ordine e la


connessione causale delle idee.

Come Dio, siamo sia liberi che necessitati.

Morale e conoscenza
In Spinoza, il problema della relazione anima-corpo non si pone; non c’è infatti, una
relazione tra essi (essendo modi finiti di attributi distinti).
Le passioni, pertanto, sono interamente un fatto corporeo, e altrettanto interamente un fatto
mentale.
Inoltre, sappiamo che l’uomo fa parte della Sostanza e che non fa eccezione:
Anche il comportamento è deducibile geometricamente, quale frutto, nel contempo, di libertà
e necessità, che, come sappiamo, combaciano.
Di fronte alle passioni, quindi, in luogo della proposta di Cartesio di regole provvisorie di
comportamento per una saggezza impossibile, Spinoza invita alla catarsi della loro
comprensione, ovvero lo studio del superamento delle passioni mediante la loro
ricomprensione entro uno sguardo progressivamente sollevato verso l’identificazione con
Dio e la sua mente.
In vista di un’analisi geometrica delle passioni, che riconduca
● La schiavitù dell’uomo alla potenza delle passioni,
● La libertà dell’uomo alla potenza dell’intelletto,
Spinoza distingue gli affetti (le affezioni del corpo, le sue modificazioni) in:
● Primari, divisi in:
○ Azioni, gli affetti di cui noi siamo causa adeguata, ovvero dipendono dalle
nostre decisioni
○ Passioni, gli affetti che noi subiamo, di cui non siamo causa adeguata.
● Secondari

Nella morale spinoziana vale poi il principio di inerzia:

“Ogni cosa, per quanto sta in essa, tende a


perseverare nel proprio essere”

Nel caso dell’uomo, tale principio si esplica come


● Volontà, in riferimento alla sola mente
● Appetito, in riferimento a mente e corpo

Essenza morale dell’uomo, l’appetito è cupiditas, che si distingue in letizia per ciò che giova
allo sforzo di conservazione, e tristezza per ciò che gli nuoce.
Questi due, assieme alla cupiditas stessa, sono gli affetti primari, da cui si diramano tutti gli
affetti secondari, a partire da amore e odio.

Intuiamo che lo sforzo (conatus) di conservazione si identifica nella ricerca dell’utile, e in ciò
consiste la legge (deterministica) di comportamento di ogni vivente.
Così enunciato, tuttavia, tale principio esclude a priori il libero arbitrio, di cui i filosofi,
secondo Spinoza, hanno favoleggiato illusoriamente.
Ma Spinoza non vuole rinunciare alla libertà, che, come già detto, consiste nella “potenza
dell’intelletto”, a fronte della “potenza delle passioni”, che è schiavitù.
Quest’ultima viene definita come
“l’impotenza dell’uomo a moderare e a
reprimere gli affetti”
Perché l’uomo, sottoposto agli affetti, è in balia della fortuna.

L’uomo, tuttavia, non è solo passione, ma è anche ragione, conoscenza.


E se il comportamento passionale è sempre conseguenza di una conoscenza inadeguata,
Il comportamento razionale, al contrario, è indotto da idee chiare e distinte, grazie alle quali
si è padroni di azioni, cioè di atti di cui si può essere causa adeguata.

La libertà, quindi, viene a coincidere con un grado di conoscenza che si solleva dalla
fantasia, attraverso lo studio della conoscenza razionale e dimostrativa, verso il livello
supremo e intuitivo della conoscenza adeguata.
Quanto più conosciamo adeguatamente un affetto, tanto meno ne siamo passivamente
travolti, acquisendo l’autorità attiva sopra di esso.

La conoscenza adeguata è quel livello di consapevolezza che


● Non guarda gli eventi come il frutto di una casuale ma necessaria accidentalità,
● Ma si pone dal punto di vista dell’Assoluto e vede dunque a partire dall’origine la
necessaria, geometrica e perfetta concatenazione delle cose lungo le diramazioni
attributive della Sostanza.
La conoscenza adeguata (sollevata al livello di Dio) è in grado di pacificare l’animo
“appassionato” e di garantire la libertà nel suo identificarsi con la necessità.

Ciò è in grado di aprire la prospettiva della gioia,

l’Amor Dei Intellectualis,

O l’amore intellettuale di Dio, cioè l’amore sconfinato che nel contempo è


● L’amore verso Dio (la Sostanza come oggetto)
● L’amore di Dio (la Sostanza come soggetto)

La felicità, dunque, non consiste (cartesianamente) in una virtù intesa come “repressione”
razionale delle passioni, ma nell’identificazione intuitiva della mente nella Mente dell’Infinito,
per cui l’idea adeguata è idea di Dio.

Qui ritorna il metodo della catarsi dell’intelligenza:


● Dal livello dell’immagine,
● Al livello della scienza,
● Al livello dell’amore.

La conoscenza di primo genere:


● Consiste nella percezione o nell’immaginazione,
● Coglie la realtà in maniera parziale attraverso idee oscure e confuse,
● Rappresenta un genere di conoscenza pre-scientifica dall’inadeguatezza strutturale,
● Sul piano etico rappresenta la schiavitù delle passioni.

La conoscenza di secondo genere:


● Scaturisce dalla ragione e si fonda sulle idee “universali” (non quelle della tradizione,
ma quelle strutturali secondo la prospettiva scientifica e meccanicistica)
● Consente una visione razionale delle cose,
● Trova espressione nella scienza, connettendo rapporti di causa-effetto,
● Sul versante morale corrisponde all’esercizio della virtù, cioè alla signoria sullo sforzo
di autoconservazione.

La conoscenza di terzo genere:


● È chiamata scienza “intuitiva” ed è fondata sull’intelletto, la facoltà suprema della
conoscenza.
● Concepisce la realtà alla luce della Sostanza nell’articolazione attributi-modi,
● Consiste nell’approccio metafisico, cioè nella visione della realtà nel suo eterno
scaturire da Dio (sub specie aeternitatis, “dalla prospettiva dell’eternità”)
● Vede il tutto nella sua perfetta e necessaria unitarietà,
● Sul versante morale interpreta la libertà.
A quest’ultimo livello di conoscenza corrispondono letizia, beatitudine e perfezione
esistenziale.
Infatti, la conoscenza adeguata consente
● Di perseguire l’utile in modo razionale,
● Di vivere la vita nella migliore maniera possibile,
Rapportandosi con serenità al Tutto,

In chiave politica, infine, anche il fine dello Stato è quello di contribuire istituzionalmente al
superamento delle passioni, proprie della condizione puramente naturale, per garantire e
promuovere la libertà nel pensiero.

Thomas Hobbes
Nato a Westport, è interlocutore di Cartesio grazie al padre Mersenne. Il suo capolavoro di
sintesi si intitola:

Leviatano
(La materia, la forma e il potere di uno Stato
ecclesiastico e civile, 1651)

Pubblicato durante la Repubblica di Cromwell.


Il Leviatano è un mostro degli abissi, l’animale del caos primitivo della tradizione fenicia e
biblica. Espressione delle potenze nemiche di Dio.
Più analiticamente e ordinatamente, espone il proprio pensiero nella trilogia:
● De cive (Il cittadino - 1642)
● De corpore (Il corpo - 1655)
● De homine (L’uomo - 1658)
Il cui ordine cronologico non corrisponde all’ordine logico (corpore, homine, cive).

Avendo vissuto e sperimentato il disordine della prima rivoluzione inglese, la sua filosofia
mira a uno scopo politico:

Porre i fondamenti di una comunità ordinata e pacifica.

L’idea è quella di costruire una filosofia politica puramente razionale e naturale, a


prescindere da qualsiasi deleterio confessionalismo religioso di ispirazione soprannaturale.

Scienza e Filosofia
Alla base del suo sistema, distingue l’uomo dagli animali (per lui dotati di ragione)
mettendone in evidenza la capacità di progettare a lungo termine.
Ciò è possibile perché l’uomo è dotato di Linguaggio. Le parole, infatti, sono segni
convenzionali che indicano concetti e consentono generalizzazioni.
Su questa base, Hobbes formula la sua logica del ragionamento, che si identifica con il
Calcolo. Il ragionamento consiste nell'addizione e nella sottrazione (e quindi nel moltiplicare
e nel dividere) parole. E la sua forma generale è quella del sillogismo ipotetico, una
sequenza di addizioni/sottrazioni che conclude con la somma degli addendi/sottraendi
estremi.
● “Se è uomo, è animale” (animale + uomo)
● “Se è animale, è corpo” (corpo + animale)
● → “Se è uomo, è corpo” (corpo + uomo)
Tale è la struttura del discorso scientifico, che spiega perché una cosa è un’altra cosa, cioè
spiega l’effetto di una causa.
Peraltro, la conoscenza scientifica vera e propria, per Hobbes, è limitata ai soli prodotti
dell’uomo, i “corpi artificiali”, in quanto l’uomo, essendone l’artefice, ne è causa consapevole.
Le sole scienze dimostrative, quindi, sono le matematiche e la morale; tutti gli altri ordini di
conoscenze si limitano all’ambito della probabilità.
I fenomeni naturali la cui causa è Dio sono tali per cui possiamo soltanto supporne le cause,
senza conoscerle scientificamente.
Il vero, pertanto, coincide con il Fatto, cioè il prodotto (dall’uomo).
Si possono conoscere soltanto oggetti “generabili”, in quanto hanno una causa determinata;
Dio e le altre realtà eterne, invece, sfuggono al dominio della scienza, anche solo della
probabilità.
Ora, poiché ciò che è generabile è corporeo, sono solo i corpi gli oggetti della scienza (e
della filosofia).
Come gli Stoici dell’età ellenistica, anche Hobbes afferma che solo il corpo esiste, in quanto
può agire o subire un’azione.
Dio e l’anima sono corporei, altrimenti bisognerebbe negarne l’esistenza. Corpo e
movimento, come quello delle sensazioni e dei pensieri, sono gli unici principi dei fenomeni
naturali.

Morale
Siccome i corpi possono appartenere a due grandi classi,
● Quella dei corpi naturali,
● Quella dei corpi artificiali,
Esisteranno due filosofie,
● La naturale
● L’artificiale
Divisa in:
○ Etica
○ Politica
Nel quadro del materialismo di fondo, la filosofia morale si riduce a una valutazione di ordine
soggettivo su ciò che si desidera (il bene) e ciò che si rifugge (il male).
Quando l’alternanza di desideri opposti rappresenta le conseguenze opposte di azioni
possibili, si realizza la deliberazione, di cui la volontà è l’atto conclusivo.
Naturalmente, in questo quadro morale non si può parlare né di fine (ultimo) né di libertà in
senso proprio;
Resta semplicemente il non-impedimento all’azione che consegue all’inclinazione
necessaria di un appetito.
Il Pensiero Politico
La geometria è lo schema di riferimento, Hobbes vuole presentare la natura della società
secondo un andamento della scienza esatta, vuole elaborare una politica more geometrico:
● È convinto che la politica possa essere trattata come una scienza;
● È persuaso che, per fare ciò, si debba prescindere dal riferimento alla storia,
ragionando in astratto.
Questi, quindi, i suoi Postulati:
● L’uomo è sospinto dalla cupiditas naturalis (desiderio naturale), per la quale
necessariamente pretende di godere da solo di tutti i beni esistenti.
● L’uomo è dotato di ratio naturalis (ragione naturale, ovvero il calcolo), per la quale
necessariamente rifugge dalla morte violenta, stimata il peggiore dei mali.

In sintesi, possiamo dire che la base di partenza della teoria politica hobbesiana è
l’affermazione dell’Egoismo come connotato naturale dell’uomo.
Ovviamente, ciò contraddice ed elimina il presupposto tradizionale della socialità
connaturale all’uomo; per Hobbes è inconcepibile l’esistenza di una propensione benevola
dell'uomo verso il suo simile, qualsiasi associazione nasce o dal bisogno o dall’ambizione.

L’uomo, pertanto, vive in una condizione di timore reciprocamente diffuso in tutti.


Infatti,
● Uguaglianza di Base significa identica condizione di vulnerabilità;
● Desiderio Comune significa, nella situazione di relativa penuria dei beni,
aggressività e volontà di sottrarre agli altri ciò di cui si sente necessariamente il
bisogno.

Dunque, lo Stato di Natura, cioè la condizione naturale in cui versa l’uomo, corrisponde al

bellum omnium contra omnes,


(La guerra di tutti e di ciascuno, contro tutti e
contro ciascuno)

Tale stato di natura non si situa, per Hobbes, in un passato mitico; esso è la condizione
extratemporale (naturale) in cui nasce ogni uomo di ogni tempo.
In tale stato di natura non esistono giustizia e ingiustizia, bene e male, perché il giusto e
l’ingiusto esistono soltanto là dove c’è la legge, e la legge vige là dove c’è un potere
esercente.

Nello stato di natura, invece, vige lo

Ius omnium in omnia,


(La pretesa di tutti su tutto)

Che configura la relazione tra individui umani come rapporto brutale di aggressività:

Homo homini lupus.


(Ciascun uomo è lupo per l’altro uomo)
Ciò è necessariamente istintivo e naturalmente insopprimibile.

È dunque affermata la guerra totale per natura; e proprio per questo la condizione umana è
contraddistinta dalla paura, la paura di perdere la vita in maniera violenta a causa
dell’aggressione rapace da parte di altri.
Ma tale condizione, benché naturale, risulta insostenibile e invivibile, tanto che, altrettanto
naturalmente, si affaccia alla coscienza dell’uomo la ragione calcolatrice, che suggerisce il
fondamento della Legge Naturale.

Tale fondamento si esprime in tre precetti primari:


● Pax est querenda (si deve cercare la pace) come il bene supremo;
● Ius in omnia est retinendum (bisogna trattenersi dalla pretesa su tutto) come metodo
di sopravvivenza;
● Pacta sunt servanda (è necessario stare ai patti) come vincolo di possibile
convivenza.
Tali precetti della ragione calcolatrice inducono gli uomini a uscire dallo stato di natura per
realizzare lo Stato Civile, cioè un nuovo stato (condizione) posto in essere dalla decisione
di vivere su base razionale (secondo il calcolo delle convenienze).

Tuttavia, siccome i precetti prudenziali della ragione, per quanto naturali, non sono
necessariamente vincolanti, tale nuovo stato di sopravvivenza risulta precario, perché non
garantito da alcuna forza obbligante.
Si impone, perciò, come necessaria, la stipula di un Contratto, grazie al quale tutti, nessuno
escluso, rinunciano al proprio diritto naturale (lo ius in omnia) per trasferirlo nelle mani di un
individuo unico, che si configura come persona civile che incarna la volontà di tutti, pur
rimanendo di necessità estraneo al contratto stesso.
Tale estraneità al contratto fa esistere l’individuo unico come

Sovrano Assoluto,
(Il Leviatano, un “dio mortale”)

Come “sciolto” (ab-solutus) da qualsiasi vincolo di diritto nei confronti dei contraenti. Per
Hobbes, infatti, è proprio la sua assolutezza l’unica garanzia del fatto che egli solo possa
indiscutibilmente far valere la legge naturale, traducendola in legge positiva.

Il patto che dà origine allo Stato-Sovrano Assoluto, per Hobbes, ha tre caratteristiche
irrinunciabili:
● È irrevocabile, cioè irreversibile e unilaterale, non può mai e in nessun caso essere
messo in discussione, proprio perché deve imporsi come garanzia assoluta;
● È indivisibile, cioè non può essere ripartito o condiviso tra vari poteri/autorità;
● È matrice esclusiva della prerogativa sovrana di stabilire il giusto e l’ingiusto, cioè di
formulare e di far eseguire le leggi.
La libertà e la volontà dei singoli sono pienamente fatte proprie dal Sovrano Assoluto, il
quale istituisce la morale formulando la legge;

Il contratto, infatti, si costituisce di due momenti inscindibili ed equipollenti:


● Il pactum unionis (patto d’unione),
● Il pactum subiectionis (patto di assoggettamento)
Ciò significa che, nel momento stesso in cui gli uomini decidono la loro associazione, essi si
sottopongono a una sovranità indipendente ed altra, rinunciando completamente e
contemporaneamente a ogni prerogativa di diritto.

L’unico limite che necessariamente si impone allo stato è relativo al diritto alla vita, nel senso
che l’autorità sovrana, per Hobbes, non potrà mai imporre un comportamento autolesivo da
parte del suddito.
Naturalmente, nello stato assoluto coincidono autorità civile e autorità religiosa:
Lo Stato è anche Chiesa.

John Locke
L’Empirismo
L’empirismo è la corrente di pensiero più caratteristica della tradizione filosofica inglese.
Secondo l’empirismo, l’esperienza è fonte e criterio della verità.
Tale atteggiamento si radica già a partire dal Medioevo, con Ruggero Bacone, Guglielmo di
Ockham e, più tardi, Francesco Bacone; l’incontro con il cartesianesimo e con le istanze
della rivoluzione scientifica, poi, definiscono il carattere tipico dell’atteggiamento empirista,
cioè la tendenza a ricercare quali siano

I limiti conoscitivi entro i quali sia lecito


all’indagine razionale di muoversi senza
implicare la trasgressione in ambiti
strutturalmente inesplorabili.

Con il Saggio sull’intelletto umano di John Locke, l’empirismo attua la filosofia dello
“scandaglio”, cioè l’esplorazione dei limiti (cioè dei “fondali navigabili”) entro i quali l’indagine
razionale può muoversi senza arenarsi, pregiudicando in partenza la propria efficacia.

L'indirizzo di fondo è quindi anti-metafisico, come sforzo di attenersi alle effettive forze
dell’intelligenza. Peritandosi di trascendere in un territorio speculativo fuori portata.
Tale indirizzo troverà in seguito la propria sistemazione nella Critica della ragione di
Immanuel Kant.

Esperienza e Idee
Per Locke, la ragione non gode delle caratteristiche cartesiane:
● Non è unica;
● Non è infallibile;
● Non contiene nulla di innato, cioè non può ricavare da sé idee o principi.
Peraltro, per quanto imperfetta, la ragione è l’unica guida efficace di cui l’uomo disponga ai
fini della conoscenza.

Nell’Epistola al lettore, premessa al Saggio, Locke esplicita l’istanza da cui ha tratto origine
la stesura dell’opera:
La necessità di esaminare la capacità
d’indagine della ragione umana,

Al fine di evitare anche solo di potere prendere in considerazione oggetti di discussione


“impossibili”, cioè al di fuori della portata delle effettive energie della facoltà speculativa
umana.

Il campo di esperienza a partire dal quale la conoscenza risulta certificata nella sua origine è
quello delle Idee Semplici, cioè l’ambito in cui la mente è completamente passiva a fronte
della realtà.

Se “pensare”, come vuole Cartesio, significa “avere idee”, queste idee devono derivare
esclusivamente dall’esperienza, cioè devono essere il frutto spontaneo e automatico di un
effetto della realtà sull’intelletto.

Poiché la realtà con la quale l’intelletto ha a che fare è


● O esterna (la natura),
● O interna (l’animo),
Ne viene che le idee semplici sono
● O idee di sensazione (derivanti dal senso esterno)
○ Il giallo, il caldo, il ruvido, l’acuto, il grave…
● O idee di riflessione (derivanti dal senso interno)
○ La percezione, il dubbio, il ragionamento, il sogno…

Per Locke, avere un’idea significa immediatamente percepire e, altrettanto


immediatamente, esserne cosciente.
L’idea esiste perché è pensiero, cioè perché è pensata; nessuna idea appartiene all’intelletto
preventivamente all’esperienza, non c’è alcuna idea innata:

La mente è originariamente Tabula Rasa.

Se qualsiasi contenuto mentale deriva dall’esperienza, per conoscere i limiti entro i quali può
muoversi il ragionamento speculativo, occorrerà fornire un inventario di tutte le idee che si
rendono possibili.
L’esperienza, infatti, ci fornisce
● Idee semplici (frutto di percezione),
● Idee complesse (frutto di elaborazione mentale).
L’intelletto, infatti, possiede una capacità combinatoria rispetto alle idee, in quanto è capace
di elaborazione della conoscenza.

L’importante è comprendere che tale attività mentale non è assolutamente in grado di


inventare alcunché di nuovo, cioè di creare alcuna idea semplice, pena l’abbandonarsi a
sogni chimerici e, quindi, a inevitabili errori di valutazione e di conoscenza.

Le idee semplici, cioè quelle originarie della conoscenza, si possono solo distinguere come
idee di
● Qualità primarie, “reali”, cioè appartenenti realmente ai corpi (l’estensione, la figura,
il movimento),
● Qualità secondarie, concomitanti alla sensazione cioè “soggettive”, ovvero
sussistenti fintantoché persiste la sensazione da parte di un soggetto percipiente.

Se all’origine della conoscenza c’è la passività della mente, in un secondo momento,


tuttavia, essa diviene attiva e operativa nel riunire e organizzare variamente le idee semplici
in Idee Complesse e Idee Generali.

Le Idee Complesse
Le Idee Complesse possono essere classificate in:
● Idee di Modi, ovvero le idee di ciò che viene considerato non sussistente di per sé
ma qualità, caratteristica di altro (triangolarità, gratitudine, delittuosità…)
● Idee di Sostanze, cioè le idee di ciò che viene considerato esistente di per sé (uomo,
albero, sasso…)
● Idee di Relazioni, cioè le idee che si generano stabilendo confronti tra idee (attributo,
conseguente, premessa, causa, effetto…)

Di particolare rilevanza è l’analisi che Locke porta a termine dell’idea di Sostanza, che non è
da confondere tra le “idee di sostanze” sopra menzionate.
Tale idea, infatti, avrà una fortuna nella storia del pensiero successivo, rivestendo il ruolo di
criterio cruciale della significatività del discorso filosofico.
Locke associa l’idea complessa di sostanza (da annoverare, forse, tra le idee di modi) al
substratum della tradizione, cioè il fondamento sottostante, il subjectum di qualsiasi cosa,
ma, per parlarne, preferisce narrare la storia di quell’indiano…
In altri termini, Locke afferma che la sostanza corrisponde a quel “Non si sa che cosa” che,
al di là dell’esperienza possibile, noi presupponiamo a fondamento delle cose.

Per Locke, la sostanza esiste, ma non ne


abbiamo che un’idea vuota.

Di particolare rilievo, in relazione all’idea di sostanza, è il problema dell’identità di ciascuno,


cioè il riconoscimento di noi stessi che Locke addebita non all’idea di sostanza, incognita,
per l’appunto, ma all’idea di relazione “identità”:
L’uomo, infatti, non solo percepisce, ma percepisce di percepire, e proprio in questo
consiste il Principio di Individuazione di noi stessi.
Potremmo dire che siamo consapevoli nella misura in cui ogni giorno, al risveglio, un po’
come “all’accensione”, ricarichiamo la memoria delle nostre percezioni fino a ottenere la
“performance del sistema” pronto all’uso.

Le Idee Generali e la Conoscenza


Le Idee Generali, invece, non indicano alcuna realtà, ma consistono semplicemente in
Segni di Collezioni di percezioni.
I nomi comuni (generali) sono dunque segni di segni, cioè segni di idee generali che, a loro
volta, sono segni di insiemi somiglianti.
Usiamo un nome comune quando indichiamo un insieme di percezioni che vanno
costantemente di pari passo e ci si manifestano costantemente assieme.
All’arbitrarietà del significante, Locke associa anche l’arbitrarietà del significato, cioè ritiene
che i nomi corrispondano a selezioni intenzionali di percezioni senza alcun fondamento
reale;

I nomi delle sostanze, quindi, non corrispondono a delle realtà (la sostanza è incognita), ma
semplicemente ad abitudini percettive.
I generi e le specie, pertanto, sono soltanto strumenti di classificazione dei nostri insiemi
percettivi, senza alcuna pretesa sulla realtà.
La dottrina della conoscenza si identifica quindi nella

Semiotica.
(La dottrina dei segni)

Ogni conoscenza si richiama a una percezione.


La percezione, però, non costituisce ancora conoscenza.

La conoscenza, infatti, risulta dalla mediazione mentale delle idee, dalla percezione del loro
accordo o disaccordo. La conoscenza può essere:
● Intuitiva, cioè immediata, fondamento di ogni conoscenza;
● Dimostrativa, cioè mediata, resa evidente mediante “prove” consistenti
nell’allestimento di catene di evidenze intuitive.

Per quanto attiene alla verità della conoscenza, Locke ritiene che essa sia data dalla
corrispondenza tra idee e cose esistenti; pertanto ritiene che esistano diversi ordini di realtà,
termini di tre ordini di conoscenza:
● L’esistenza del nostro io, data intuitivamente (come il cogito cartesiano);
● L’esistenza di Dio, data dimostrativamente (tramite prove legate alla causalità);
● L’esistenza delle cose, data sensitivamente.

In quest’ultimo caso, visto che la sensazione non è ancora conoscenza, bisogna arrendersi
al fatto che l’uomo può conoscere soltanto l’esistenza delle cose attualmente oggetto di
sensazione, cioè solo e fintantoché è presente e vivace la sensazione stessa.
Cessata la sensazione, infatti, non c’è più alcuna garanzia dell’esistenza reale delle cose,
che tuttavia noi continuiamo a ritenere esistenti sulla base della pura probabilità.
Possiamo solo addurre ragioni a favore di tale probabilità, ma non prove certe; ad esempio:
● Se viene meno l’organo deputato a una certa percezione, vengono meno le idee
corrispondenti;
● Non possiamo evitare che la sensazione produca l’idea;
● Proviamo spesso piacere o dolore al prodursi di un’idea, mentre ciò non accade
quando semplicemente ricordiamo la stessa idea;
● I diversi sensi si confermano reciprocamente.
Resta comunque il fatto che la nostra certezza rispetto al mondo esterno è confinata nella
pura probabilità, ma ciò - dice Locke - è più che sufficiente per gli scopi dell’uomo.
Politica e Religione
Il motivo per cui Locke ha pensato e redatto il Saggio sull’intelletto umano è la necessità di
stabilire i limiti entro i quali fosse possibile condurre un ragionamento non fallace.
Le discussioni inconcludenti che lo hanno spinto a ciò vertevano sulla morale, sulla politica e
sulla questione della tolleranza.
Una volta, dunque, stabilito il criterio empiristico del rimando alla sensazione nella
formulazione delle idee e, di conseguenza, nella costruzione dei ragionamenti, Locke ha
dedicato la sua produzione alle questioni che lo vedevano impegnato in qualità di agente dei
preparativi della spedizione di Guglielmo di Orange, al tempo della seconda rivoluzione
inglese (1688-89).

In materia politica e religiosa scrive:


● Lettera sulla tolleranza (1689)
● Due trattati sul governo (1690)
● La ragionevolezza del cristianesimo (1695-97)

Tali opere fanno di Locke il padre del Liberalismo moderno, cioè il primo difensore di:
● La libertà dei cittadini individui,
● La tolleranza religiosa,
● La libertà delle Chiese.

Questi ideali gli paiono dimostrabili sulla base di quella ragione limitata, ma essenziale, di
cui l’uomo dispone e di cui nel Saggio ha chiarito natura e regole.

Il primo dei Due trattati è destinato alla confutazione delle tesi di Robert Filmer, che
sosteneva che il potere dei re derivasse per eredità da Adamo.

Nel secondo dei Due trattati Locke espone i propri principi politico-filosofici, incentrati
sull’idea della Legge di Natura,
Che si identifica nella Ragione,
Nella misura in cui quest’ultima ha per oggetto i rapporti tra gli uomini,
E prescrive la loro Reciprocità perfetta.

Nello Stato di Natura, come in Hobbes, regna l’uguaglianza tra gli uomini, ma, a differenza
che in Hobbes,

L’uguaglianza riguarda il diritto, non la forza.

Questo indica un non-pessimismo di fondo, al contrario di quello inerente all’egoismo di


fondo di Hobbes.
Ciò significa che

Tutti e ciascuno hanno l’identico diritto


di disporre di sé stessi e dei propri
beni.

Nello Stato di Natura, ogni uomo è


● Perfettamente libero,
● Non sottoposto ad alcun potere,
● Gode del “diritto naturale”
○ Alla vita,
○ Alla non costrizione,
○ Alla proprietà.

Tutto ciò implica che l’individuo sia anche giudice ed esecutore della legge di natura,
potendo reagire in modo proporzionato alle offese, senza peraltro applicare il criterio della
forza arbitraria, bruta.

Lo Stato di Natura, in sintesi, non è uno stato di guerra, ma di pacifica coesistenza tra
individui.
Può, però, dare spazio alla guerra nel caso in cui qualcuno ricorra alla forza per infrangere,
ad esempio, uno dei diritti naturali.

È allora che nasce lo Stato Civile, come garante del diritto di tutti di godere dei beni,
relativamente alla propria persona, senza essere insidiati da altri.
Gli uomini, associandosi, non perdono il proprio diritto (come voleva Hobbes), ma lo
assicurano, rinunciando soltanto al diritto di farsi giustizia da soli, grazie alle garanzie che lo
Stato, con il loro consenso, offre loro.
La libertà nello stato associato consiste, dunque, nel non sottostare ad alcun potere se non
a quello stabilito per consenso.
Com’è ovvio, diversamente che in Hobbes, il Sovrano è un contraente e, come tale, non si
costituisce come origine della legge, ma ne va soggetto, come tutti gli altri contraenti.
Il popolo conserva il diritto di procedere contro il Sovrano, nel caso in cui quest’ultimo metta
in pericolo la libertà e la proprietà dei sudditi.

Nella Lettera sulla tolleranza, infine, Locke mette a confronto Stato e Chiesa.
Egli individua nella tolleranza il principio di mediazione tra essi.
La salvezza individuale dell’anima è estranea agli interessi e ai compiti del potere civile e
non può essere procurata per costrizione.
Pertanto, siccome essa discende dalla fede, e siccome la fede è una scelta individuale, lo
Stato deve garantire a tutti il diritto di associarsi spontaneamente per onorare Dio e ottenere
la salvezza.

Tale diritto costituisce la Chiesa, che, a sua volta, non è interessata ed è incompetente
riguardo ciò che concerne la proprietà dei beni civili o terreni, né può avvalersi dell’uso della
forza, controproducente, tra l’altro, ancche ai fini della salvezza.
La Chiesa può espellere da sé chi non sia ritenuto compatibile con la propria professione,
ma ciò non deve costituire diminuzione alcuna nella fruizione del diritto civile.

L’unico margine alla tolleranza è, secondo Locke, quello che esclude sia gli atei (considerati
pericolosi) sia i fedeli delle religioni i cui capi siano principi stranieri, come nel caso dei
cattolici, che facendo riferimento al Pontefice Romano come loro capo supremo,
compromettono con tale atto la sovranità del loro paese.
Nella Ragionevolezza del cristianesimo, Locke difende l’idea che anche la religione abbia in
sé un carattere razionale e riconosce nel cristianesimo, debitamente spogliato delle
superstizioni di cui è in parte portatore, il migliore alleato della ragione per ciò che riguarda
la vita morale del genere umano (fuckin lmaooooo).

David Hume
Scozzese, di Edimburgo.
In Francia, negli anni ‘30 del settecento, compone il Trattato sulla natura umana
Alla fine degli anni ‘40, a Londra, esce la Ricerca sull’intelletto umano, una semplificazione
del Trattato.
Nel ‘52 pubblica la Ricerca sui principi della morale, revisione della terza parte del Trattato.
Il suo progetto, non poco ambizioso, è quello di proporsi come un Newton della natura
umana.

Vuole, dunque, edificare una scienza della


natura umana su base sperimentale.

Tale progetto, nella sua mente, risponderà esaurientemente all’analisi delle dimensioni
fondamentali dell’uomo, ragione, sentimento, morale, politica.

L’esito della sua ricerca sarà un risultato profondamente Scettico, nel senso più moderno,
negativo del termine, con connotazione rinunciataria.
Effettivamente, con Hume, celebriamo due funerali:
● Della scienza,
● Della filosofia.

Ne uscirà un pesante ridimensionamento delle pretese conoscitive dell’uomo, che susciterà,


come vedremo, la spasmodica reazione di Kant, comunque abbastanza destinata a un esito
parimenti abbastanza fallimentare.

Il Percorso della Conoscenza


Con Locke ci siamo abituati a parlare di idee semplici, di sensazione e di riflessione.
Con Hume, le Idee cambiano significato.

Alla base dell’esperienza consideriamo le Percezioni, che per Hume sono

Tutto ciò che può essere presente alla mente.

● Quando le percezioni si impongono con forza ed evidenza, le chiamiamo


Impressioni, nel senso che si imprimono nel nostro organo.
● Quando le percezioni illanguidiscono, perché viene meno la presenza della loro
origine o causa, le chiamiamo Idee (o pensieri).
L’idea è, pertanto, un’impressione illanguidita, una specie di simulacro evanescente
dell’originaria impressione, della quale ha perduto la forza originaria. È comparabile al
ricordare di aver provato un dolore intenso, ma senza provarlo direttamente di nuovo.

Siamo liberi di coniugare e di disgiungere in ogni modo possibile, mediante la fantasia (o


immaginazione), tutte le idee di cui disponiamo, ma non siamo minimamente in grado di
dare origine ad alcuna idea a prescindere da un’impressione originale.

Locke, al di là delle idee, aveva ammesso l’incognita esistenza dell’io, di Dio e delle cose;
Hume risolve l’intera realtà nella molteplicità delle idee esistenti attualmente (cioè l’insieme
istantaneamente attuale di impressioni e idee).
Per Hume, la realtà consiste nell’infinitamente segmentato fascio di sensazioni (plesso di
impressioni e idee) di cui, poi, consiste la conoscenza umana.

Da ciò, tuttavia, consegue che ogni cosa è la semplice somma dei suoi componenti, a
prescindere da qualsiasi entità sostanziale sottostante (come ammetteva Locke).
I nomi, dunque, sono solo idee particolari assunte come segni di comodo per significare altre
idee particolari.

Regina di questo processo è l’Abitudine, che agisce grazie all’immaginazione, fedele


compagna di ogni forma di attività mentale.

La connessione immaginaria tra idee, che costituisce il grosso del nostro conoscere, è
indotta da

“Una dolce forza che comunemente si


impone, facendo che la mente venga
trasportata da un’idea all’altra”.

Si tratta del Principio di Associazione, che opera secondo tre criteri:


● La somiglianza;
● La contiguità nel tempo e nello spazio;
● La causalità.

L'associazione dà luogo alle principali idee complesse:


● Spazio,
● Tempo,
● Causa/Effetto,
● Sostanza,
A cui noi siamo abituati ad attribuire consistenza oggettiva,

Ma alle quali, al contrario, Hume non ritiene che corrisponda alcuna impressione.

Lo spazio e il tempo, infatti, non sono impressioni, ma “maniere di sentire” le impressioni


stesse; questo vale anche per causa/effetto e sostanza, che sono altrettanto prive di
oggettività.
Sulla scorta di tali osservazioni, poi, Hume distingue tra le proposizioni che riguardano
● Relazioni di idee;
● Materie di fatto.

Le prime sono analitiche, cioè valide a partire solamente dai termini in cui sono espresse e
quindi basate sul principio di non contraddizione,
Le seconde, invece, sono fondate esclusivamente sull’esperienza e, pertanto, mai
effettivamente prevedibili e scontate.

La Critica del Principio di Causalità


Partiamo dal presupposto che tutti i ragionamenti sulla realtà o sui fatti si basino sul rapporto
causa/effetto.
La relazione tra causa ed effetto non può mai essere conosciuta a priori, ma è sempre frutto
di esperienza, e se applicata a prescinderne, rimane Arbitraria e del tutto priva di
oggettività.

Osserviamo una palla da biliardo che corre verso un’altra.


Che cosa immaginiamo? Ovviamente, immaginiamo che la palla, colpendone un’altra, ne
imprima un movimento.
Ma, sulla base di che cosa?

Che il corso della natura possa mutare, non è contraddittorio. La precedente conclusione
non è scontata. Per quanto ne sappiamo, la palla potrebbe rimanere ferma, o tornare
indietro.

In effetti, noi possiamo constatare i movimenti di ciascuna palla in successione, ma non


possiamo constatare in nessun modo la fantasticata “trasmissione del movimento” da una
palla all’altra.
La nostra congettura causale si affida alla sola abitudine.

La nostra abitudine, quindi, spiega soltanto il nostro comportamento congetturale e


conoscitivo, ma non il comportamento della realtà naturale.

La necessità dei fenomeni, dunque, è puramente soggettiva.

L’abitudine, pertanto, può considerarsi guida infallibile per la vita pratica, ma non può essere
principio di giustificazione razionale dei fenomeni.

Abbiamo quindi eliminato ogni pretesa della scienza.


Ogni nostra persuasione è confinata nel rango della semplice credenza e dunque non
supera il livello della mera probabilità, possiamo distinguerla dalla finzione solo attraverso la
sua riconduzione alle impressioni.

La coerenza e la costanza di certi gruppi di impressioni, peraltro, ci fanno dimenticare che le


nostre impressioni sono sempre e comunque istantanee e non continue, ma sempre,
ininterrottamente interrotte. In altre parole, la continuità delle cose è un’illusione irrazionale.
Il mondo esterno, dunque, è una credenza; anche il nostro io è una credenza. Ciò che
possiamo veritativamente affermare è soltanto l’istantaneo fascio di impressioni che ci
attraversa, null’altro. Muore anche la filosofia, il discorso razionale in generale.

Le conseguenze sulla Morale


Il problema morale, stanti le premesse, diventa una semplice questione di fatto, all’interno
della quale è il sentimento, il “gusto morale” a godere delle prerogative, non la ragione, alla
quale, semmai, spetta di giudicare irragionevole qualche comportamento nocivo.

In definitiva, l’unico criterio morale è quello dell’utilità collettiva, regolamentato dal


sentimento della Simpatia, definita come un generoso interesse per l’umanità.

Con ciò, Hume si impegna a togliere alla morale l’abito da lutto della quale l’hanno rivestita
filosofi e teologi, per mostrarla “gentile, umana, benefica, affabile, talora giocosa, allegra,
gaia.”

Col solo fine di rendere gli uomini contenti e felici… almeno per un istante.

Gottfried Wilhelm Leibniz


Leibniz è stato un uomo dagli interessi svariatissimi, non un filosofo di professione. In
sintesi, si potrebbe dire che ha fatto il diplomatico, ma si occupava di giurisprudenza come di
scienze naturali, di matematica, di filosofia e di teologia, nonché di politica e di storia.
Fu inoltre fautore della riunione tra Chiesa protestante e Chiesa cattolica, che purtroppo si
rivelò un progetto utopistico.

Tra le sue opere filosofiche più importanti vi sono:


● Il Discorso di metafisica (1686)
● I Principi della natura e della grazia fondati sulla ragione (1714)
● La Monadologia (1714)
● I Nuovi saggi sull’intelletto umano (1703-4), pubblicati postumi.
Nel 1710 furono pubblicati gli Essais de Théodicée, che contengono una serie di
osservazioni di ordine teologico sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male.

Quest’ultimo in lingua francese, poichè destinato al pubblico. Le opere di Leibniz, infatti,


saranno o in francese o in latino.

Facciamo una premessa necessaria:


Leibniz è un credente che ha cercato in tutti i modi di risollevare il discorso filosofico,
svincolandolo dalla prospettiva necessitarista dagli esiti scettici cui conducevano gli sviluppi
della rivoluzione scientifica.
Infatti, il pensiero dominante nelle multiformi attività di Leibniz è che

L’ordine del mondo non è geometricamente


determinato.
Al contrario, il mondo è organizzato da un principio spontaneo, la Libertà.

L’ordine di cui parla Leibniz è il frutto contingente di una scelta.

Peraltro, Leibniz si sforza nel ricercare quella che lui chiama Arte combinatoria, o
“caratteristica universale”, cioè una sorta di linguaggio logico fondamentale che riassuma
e riordini il sapere universale e il suo ordine.
In questa prospettiva, il suo intento filosofico si ripromette di conciliare
● Meccanicismo e finalismo,
● Materialismo e spiritualismo,
● Scienza e metafisica,
● Moderni e antichi.
In particolare, per quest’ultimo aspetto, si fa promotore di un pressante richiamo all’autentica
filosofia di Aristotele, la Philosophia perennis, come lui la chiama.
Tutto il suo discorso è imperniato sulla riscoperta della entelecheia, l’atto primo, che a suo
giudizio può reinstaurare la concordia tra scienza e filosofia.

Secondo lui, infatti, solo tramite una riscoperta della filosofia aristotelica la filosofia può
progredire e uscire dalle “paludi” dello scetticismo post-rivoluzione scientifica.

Verità di Ragione e Verità di Fatto


Le verità di ragione sono le verità necessarie, e come tali non riguardano la realtà.
Sono proposizioni “identiche”, nelle quali, cioè, soggetto e predicato sono identici:

“Il triangolo è il poligono con tre angoli”

Verissimo, ma nella realtà esiste il triangolo?


Se ci pensiamo bene… no!

Le verità di ragione poggiano sul principio di non contraddizione e sul principio di identità. È
come dire:

“Ogni cosa è ciò che è”

Le verità di ragione sono dunque innate e non derivano dall’esperienza.

L’innatismo leibniziano, tuttavia, non è come quello di Cartesio; le idee innate lo sono ma
soltanto “virtualmente”, abbisognano dell’esperienza per venire alla luce, come nella dottrina
della reminiscenza di Platone, sottratto chiaramente l’iperuranio. Sono dunque
“Des petites perceptions”,

O percezioni subliminali, percezioni originariamente oscure e confuse, di base ancestrali.

Le verità di ragione designano il mondo della pura possibilità, che è incommensurabilmente


più vasto del mondo reale.

Le verità di fatto, invece, sono contingenti, e quindi concernono la realtà. Ogni istante del
mondo reale è un istante di contingenza.
Le verità di fatto si fondano sul

Principio di Ragion Sufficiente

Il contrario di ciascuna verità di fatto è possibile.


“Il tavolo è bianco, ma non è impossibile che sia verde. Tuttavia sta di fatto che nella realtà
sia bianco.”
Nulla si verifica a caso, tutto ha una sua ragion d’essere (così com’è), ma non esiste una
causa necessitante, cioè ogni realtà può sempre essere diversamente da com'è.
C’è sempre una concatenazione logica, ma sempre aperta, in ogni istante successivo, a
infinite possibilità.

Ciò significa che ogni mondo non contraddittorio è possibile, anche se quello reale è, in ogni
istante, uno solo, per merito dell’infinita Provvidenza di Dio, che sceglie sempre il meglio,
aprendolo come possibilità dalle infinite possibilità in conseguenza di ogni libera realtà
realizzatasi.

Il principio di Ragion Sufficiente implica la causa finale.

La Sostanza Individuale
La dottrina della Sostanza Individuale è il centro della filosofia Leibniziana.
Questa è connessa al Principio di Ragion Sufficiente, poiché incarna e realizza un
“possibile”. È dunque il costitutivo del mondo reale.
Per questo, corrisponde sempre a una verità di fatto. La sostanza, infatti, è quel soggetto
che racchiude nella propria nozione tutto ciò necessario per riconoscere tutti i suoi attributi
reali.
Per esempio:
“Se conosco questo tavolo, so per quale ragione questo tavolo ora è bianco, è tondo, è
accanto al muro, etc... ma so anche che potrebbe:
● O coprirsi con una tovaglia e avvicinarsi alla finestra
● Oppure essere riverniciato e collocato in centro alla stanza
● Oppure…

...tutte possibilità (evoluzioni del reale) non contraddittorie con l’attuale momento, ma
chiaramente non “compossibili” in un momento successivo.
Davanti a una sostanza reale, dunque, si aprono infinite possibilità, tra le quali, grazie a una
scelta fondata nelle versatilità reali della sostanza stessa, una sola sarà portata a
realizzazione, e sarà quindi sufficientemente conoscibile nelle sue ragioni ordinate.

L’ordine causale, dunque, è reale, ma non necessario, bensì contingente.


Questo, tuttavia, ci deve fare riflettere sul fatto che, tale ordine causale
● Da noi, intelletti finiti e nel tempo, è conosciuto solo approssimativamente;
● Da Dio, invece, intelletto infinito ed eterno, è conosciuto perfettamente, cioè nella sua
articolazione completa.

Dio, dal di fuori del tempo, nell’eternità, conosce ogni singola sostanza individuale in tutto il
suo sviluppo possibile, cioè in tutti i modi possibili in cui potrebbe realizzarsi,
● Dall’origine e per tutta la sua esistenza,
● Di momento in momento per ogni infinito momento,
Ma senza necessitare il divenire come un destino.

Dio, infatti, è Provvidenza, e la provvidenza non è previsione, ma

Intervento assiduo e onnipotente, in ogni


istante liberamente realizzato, per creare
infinite possibilità di ulteriore sviluppo.

Ovvero: Dio, in ogni istante, crea un mondo infinito di fronte a ogni singola sostanza che si è
liberamente determinata in una certa direzione.

Peraltro, è vero che, per Dio, le verità di fatto equivalgono a verità di ragione, dato che la
sua conoscenza è perfetta ed assoluta.
Dio, cioè, “sa” nell’eternità l’intero corso di una sostanza, ma, proprio perché è eterno, non la
condiziona nel tempo.

Fisica e Metafisica, Forza e Monade

“Natura non facit saltus”


“La natura non fa salti”

È il principio con il quale Leibniz interpreta la sua visione non necessitaristica del mondo
fisico.
A suo parere, il mondo non è costituito da parti estese o atomi concatenati da ferree leggi
fisiche, vale invece la Legge del Continuo, secondo la quale, per passare dal grande al
piccolo, si deve passare attraverso infiniti gradi intermedi, senza scioglimento della
continuità.

È l’idea dell’infinitesimale.
Parimenti, Leibniz non fa propri i concetti cartesiani di estensione e movimento per spiegare
la realtà materiale, la res extensa, ma si appella al solo principio della Forza, con il quale
supera la formula cartesiana della “quantità di moto”,

p=mv
(massa per velocità),

Ed elabora il concetto di energia cinetica, espresso dal principio di conservazione del


movimento nella formula

E=1/2mv^2
(semiprodotto della massa per il quadrato
della velocità).

La Forza Viva rappresenta la possibilità, non la necessità, di produrre un determinato effetto


di movimento.

Il movimento e le sue dimensioni, lo spazio e il tempo, non sono dunque enti reali, ma
rappresentazioni di ragione (fenomeni) che esprimono coesistenza e successione.
La vera realtà dei corpi è, dunque, la Forza.

Con essa si supera la visione meccanicistica del mondo, per elevarsi a una visione
finalistica, in cui la vita cioè la forza, è il presupposto del movimento, ciò che lo fonda.
Essa deve considerarsi come
● Conatus (sforzo)
● Tendenza all’azione,
● Entelecheia
La realtà fisica, allora, si risolve in un principio incorporeo e metafisico:

Tutto è spirito,
Tutto è vita,
Perché tutto è forza.

La nozione di “sostanza individuale”, poi, si trasforma in quella di Monade delle opere più
tarde.

La Monadologia
Il concetto di sostanza individuale, nel corso del tempo, cede il posto a quello di Monade,
attraverso il quale Leibniz estende anche ai corpi materiali l’idea che siano unificati da una
forma sostanziale.

Le monadi sono
● Atomi spirituali, cioè punti indivisibili e dunque inestesi di consistenza,
● Sostanze semplici, cioè non composte di parti e perciò indistruttibili,
● Prive di estensione e figura.
Alle monadi è intimamente legato il principio di identità degli indiscernibili, che dichiara
l’impossibilità di avere due monadi uguali. Le monadi presunte identiche in relazione ad
altre, si distinguono appunto grazie a questa relazione.

Soltanto gli enti matematici possono essere uguali, infatti non esistono nella realtà (sono
verità di ragione).

Tutto ciò che è reale è indiscernibile da sé stesso; è identico soltanto a sé stesso.

Data la loro realtà immateriale, le monadi non possono influenzarsi tra loro, ed esistono tutte
e ciascuna come altrettanti mondi “chiusi”, privi di varchi attraverso i quali possa entrare o
uscire qualcosa.

Quindi, sono presenti le une alle altre soltanto attraverso la Rappresentazione (vis
repraesentativa), in virtù della quale ogni monade è uno specchio vivente e irripetibile
dell’universo.

In definitiva, ciò significa che ogni monade, cioè ogni ente reale, si configura come animato
e quindi dotato di
● Percezione (=vis repraesentativa)
● Appetizione (=capacità di tendere da una a un’altra rappresentazione).

Si distinguono, poi, dalle monadi comuni quelle che propriamente sono “anime”, dotate, in
quanto tali, di Appercezione, cioè di percezione cosciente.
C’è, dunque, una gradualità continua di perfezioni che va dai livelli infamy di percezione
(dagli enti amorfi e inerti) al livello massimo della appercezione assoluta (in Dio).

L’anima umana è al di sotto di Dio e al di sopra degli animali, è capace di appercezione ma


non va esente da percezioni “subliminali”, percepisce in pieno solo ciò su cui si concentra.

Ora, anche la materia è costituita di monadi, benché appaia come materia. I corpi materiali
sono aggregati di monadi (materie seconde) e si distinguono nelle parti grazie alle monadi
dominanti.

Gli aggregati di monadi gerarchizzati al di sotto dell’anima sono regolati nel loro agire da
leggi fisico-meccaniche, l’anima, invece, segue la legge della finalità consapevole.

Nella misura in cui agiamo, procediamo in base a percezioni consapevoli,


Quando invece subiamo, per forza di inerzia o per resistenza (materia prima), vuol dire che
agiamo in base a percezioni confuse e oscure, come degli inerti.

Armonia (Prestabilita)
La concezione monadistica dell’universo pone il problema della consistenza dell’insieme.
Sappiamo, infatti, cche
● Le monadi sono “senza finestre”, senza collegamenti ad altro,
● Ciascuna monade è un’irripetibile e indiscernibile rappresentazione del mondo intero
(più o meno chiara, a seconda della sua posizione gerarchica),
● Le monadi agiscono esclusivamente al proprio interno.

Com’è dunque possibile che il mondo intero, cioè l’insieme delle infinite monadi, sia
coerente e consistente?
E, inoltre, com’è possibile il rapporto tra il corpo e l’anima, la monade dominante nell’uomo?

Non è possibile pensare a una reciproca influenza, perché implicherebbe la relazione


esterna tra le monadi;
Non è possibile pensare che Dio “sincronizzi” continuamente le infinite monadi come un
orologiaio nel suo laboratorio;

Allora, non resta che risolversi a pensare a una Armonia tra le monadi, stabilita da Dio
all’atto della creazione.
Ciò, tuttavia, non deve far immaginare a un’iniezione di determinismo nelle creature; si deve
qui ricordare di nuovo il concetto di Provvidenza, l’onnipotenza di Dio che abita l’eternità e
non il tempo, e che, pertanto, può comunque seguire “dall’esterno” lo sviluppo del mondo e
presenziare all’infinità degli atti liberi che, momento dopo momento, vanno a realizzare uno
degli infiniti mondi possibili, e può costantemente aprire infinite e nuove possibilità di
sviluppo, senza condizionarle.
Tutto, dunque, è innato in ogni monade, ma in maniera “virtuale”, a livello di potenzialità, che
man mano si sviluppa e assurge a conoscenza mediante l’esperienza.

L’esperienza, dunque, è fonte di conoscenza, ma non come vogliono gli empiristi, cui Leibniz
risponde riformulando l’antico adagio scolastico:

Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in


sensu,
Excipe: nisi ipse intellectus.

Problemi di “teodicea”
Circa l’esistenza di Dio, Leibniz sostiene due tipi di prove, l’una a posteriori e l’altra a priori.

Con la prima, argomenta a partire dal rapporto tra possibile e necessario attraverso l’uso del
principio di ragion sufficiente.
Vediamone i passaggi:
1. Il mondo esistente non contiene in sé la propria ragion d’essere;
2. Ma esso esiste tra innumerevoli mondi possibili parimenti candidati all’esistenza
perché non contraddittori;
3. Deve dunque esistere la sua ragion sufficiente, che non può che identificarsi;
a. In un intelletto che la le idee di tutti i mondi possibili
b. In una volontà che ne sceglie uno

Dio, dunque, è la prima ragione delle cose e del mondo, di quello reale e di quelli possibili,
fonte della realtà e delle essenze.
Con la seconda prova, elabora l’argumentum unum di Anselmo d’Aosta, interpretandolo a
partire, sempre dalla categoria del possibile:

Se Dio è possibile, allora necessariamente


esiste.

Il che significa che, soltanto ciò che può essere pensato possibile a prescindere da qualsiasi
ombra di contraddittorietà (=di impossibilità, di limite e di negazione),
Questo si deve affermare a priori che non può non esistere, cioè che esiste
necessariamente.
La possibilità stessa di Dio ne implica la necessità e la realtà.

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