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ANCHILOSTOMIASI

L'anchilostomiasi è una parassitosi molto diffusa nei Paesi tropicali a clima caldo-umido, ma presente anche
nelle regioni temperate, dovuta ad infestazione da Ancylostoma duodenale o da Necator americanus.
Si caratterizza clinicamente da anemia ipocromica, disturbi gastroenterici, talvolta anche con manifestazioni
cutanee e turbe nervose.
Epidemiologia
Gli agenti che possono causare l'anchilostomiasi sono Ancylostoma duodenale e Necator americanus. Il primo
è diffuso soprattutto nell'area settentrionale dell'Africa, nel bacino del Mediterraneo, in Estremo Oriente e
in Cina. Il Necator americanus si sviluppa soprattutto in America, in Africa centrale e meridionale, in Asia
meridionale.
In Europa, Italia compresa, la parassitosi è diminuita notevolmente grazie alle migliori condizioni igieniche
generali, ma può colpire ancora i minatori, i lavoratori in galleria, fornaciai, risaioli, i contadini.
Eziologia
L'Ancylostoma duodenale è un nematode, parassita obbligato dell'uomo. Il maschio misura 10-12 x 0,4-0
mm, la femmina è lunga 15–18 mm. L'estremità cefalica, fortemente ripiegata dorsalmente (il che fa
assumere al parassita una forma ad uncino, e ne giustifica il nome del genere) è dotata di una capsula buccale
ampia in cui sono riconoscibili due piccoli fori, sbocco delle ghiandole cefaliche secernenti sostanze tossiche,
con 4 denti aguzzi piegati ad uncino. La porzione cefalica è inoltre dotata di altri apparati ghiandolari deputati
alla secrezione di sostanze anticoagulanti;
Il Necator americanus è anch'esso un nematode, parassita obbligato dell'uomo, ma di dimensioni un po'
inferiori rispetto all'A. duodenale. È dotato di una capsula buccale ampia con due lamine chitinose a forma
di uncino.
Ciclo biologico
Il ciclo biologico si compie in un unico ospite, con stadi di vita libera nell'ambiente esterno. I parassiti adulti
vivono nel duodeno adesi alla mucosa per mezzo delle strutture buccali. Il numero di vermi adulti presenti in
unico ospite può variare da 500 a 3000. Il verme ha una vita di circa 5 anni.
Avvenuta la fecondazione, la femmina depone mediamente 9000 uova al giorno per il N. americanus e circa
25000 per l'A. duodenale aventi una tipica morfologia ellissoidale, delimitate da una membrana sottile di
circa 60-40 micrometri, contenenti 4-8 blastomeri.
Se le uova, eliminate con le feci, giungono in terreni favorevoli (elevata umidità, temperatura tra 25 e 30 °C,
protezione dai raggi solari diretti), continuano nell'ambiente la propria evoluzione formando l'embrione che
fuoriesce dal guscio e si trasforma in larva.
Le larve rabditoidi, una volta schiuse dall'uovo, si accrescono nel terreno nutrendosi di detriti organici; esse
maturano nel tempo in larve strongiloidi, che attuando un fenomeno detto di "elmintassi negativa" risalgono
attraverso il suolo verso la superficie, stimolate dalla temperatura e dalle concentrazioni di anidride
carbonica. Larve strongiloidi a contatto con la cute dell'ospite definitivo attuano una penetrazione
percutanea: la larva attraversa la cute, in genere a livello delle mani e dei piedi, e per via ematica giunge al
cuore destro e al circolo polmonare, dove attua un meccanismo di escape dalla risposta immunitaria
dell'ospite comune a molti elminti, ossia l'"effrazione" dei capillari polmonari: la larva, aumentata di volume,
rompe la parete endoteliale passando negli alveoli, e da qui nell'albero bronchiale risalendolo sospinto anche
dall'attività delle ciglia vibratili dell'epitelio, nella faringe fino ad essere deglutita per passare nell'esofago,
nello stomaco, e infine nel duodeno a livello del quale si fissa alla mucosa divenendo adulta dopo altri due
stadi larvali. L'adulto si nutre del sangue che sgorga dalle recise arteriole dei villi intestinali.
Tra la penetrazione della larva e l'inizio della deposizione delle uova decorrono circa 5-6 settimane.
È stato osservato, in donne in allattamento, il fenomeno noto come "ipobiosi" ossia le larve di A. duodenale
migrano alle ghiandole mammarie, passando nel latte e infettando il lattante.
L'infezione può essere agevolmente prevenuta osservando semplici accorgimenti igienici: adozione di latrine
i cui liquami non inquinino il terreno, impiego di stivali e guanti di gomma.
Trattamento
Il trattamento farmacologico più comunemente utilizzato prevede l'utilizzo di albendazolo o mebendazolo.
Anchilostomi e malattie infiammatorie dell'intestino
È stato rilevato che l'infestazione da anchilostomi affina la risposta immunitaria dell'organismo e può causare
quindi benefici nella cura di alcune malattie autoimmuni come asma, malattia di Crohn, celiachia.

DENGUE
La febbre dengue, più conosciuta semplicemente come dengue, è una malattia infettiva tropicale causata dal
virus Dengue. Il virus esiste in quattro sierotipi differenti (DENV-1, DENV-2, DENV-3, DENV-4) e generalmente
l'infezione con un tipo garantisce un'immunità a vita per quel tipo, mentre comporta solamente una breve e
non duratura immunità nei confronti degli altri. L'ulteriore infezione con un altro sierotipo comporta un
aumento del rischio di complicanze gravi.
La malattia è trasmessa da zanzare del genere Aedes, in particolar modo la specie Aedes aegypti. Si presenta
con febbre, cefalea, dolore muscolare e articolare, oltre al caratteristico esantema simile a quello del
morbillo. In una piccola percentuale dei casi si sviluppa una febbre emorragica pericolosa per la vita, con
trombocitopenia, emorragie e perdita di liquidi, che può evolvere in shock circolatorio e morte. Non
esistendo una vaccinazione efficace, la prevenzione si ottiene mediante l'eliminazione delle zanzare e del
loro habitat, per limitare l'esposizione al rischio di trasmissione.
La terapia è di supporto e si basa sull'idratazione in caso di una forma lieve-moderata di malattia e, nei casi
più gravi, sulla somministrazione endovenosa di liquidi e sull'emotrasfusione. La prima descrizione della
malattia è del 1779 e la sua eziologia è stata dimostrata nei primi anni del XX secolo. L'incidenza della dengue
è cresciuta molto rapidamente a partire dagli anni Sessanta, con circa 50-100 milioni di persone infettate
ogni anno, e risulta endemica in 110 paesi.
Epidemiologia e cenni storici
Le origini del termine dengue non sono note, ma una delle teorie più accreditate vuole che derivi dalla frase
in lingua swahili Ka-dinga pepo, che descrive una malattia causata da uno spirito maligno. Il termine swahili
dinga potrebbe derivare dalla parola spagnola dengue, che significa fastidioso, attento, termini che
descrivono l'andatura di una persona che soffre il caratteristico dolore osseo dovuto alla malattia. È tuttavia
possibile che sia il termine spagnolo a derivare da una parola simile in lingua swahili. Gli schiavi delle Indie
Occidentali erano chiamati dandy (damerino in italiano) a causa della postura e dell'andatura, pertanto la
malattia è conosciuta anche come febbre dandy. Il termine febbre spaccaossa fu invece utilizzato per la prima
volta durante l'epidemia del 1789-90 a Filadelfia. Il termine dengue divenne il più utilizzato solo a partire dal
1828.
Storia
Il primo caso di dengue mai documentato risale probabilmente all'enciclopedia medica cinese realizzata
durante la Dinastia Jìn, tra il 265 e il 420, in riferimento a un "veleno acquoso" associato a insetti volanti.
Numerose epidemie sono state descritte durante il XVII secolo, ma la prima documentata è quella che, tra il
1779 e il 1780 colpì Africa, America Settentrionale e gran parte dell'Asia. Nel 1906 fu confermata la
trasmissione della malattia mediata da zanzare del genere Aedes e, nel 1907, la dengue divenne la seconda
malattia dopo la febbre gialla dove fosse stata dimostrata un'eziologia virale.
Fino agli anni Quaranta del XX secolo, le epidemie furono infrequenti. La grande diffusione della dengue
durante e dopo la Seconda guerra mondiale è stata attribuita al dissesto ecologico causato dalla guerra
stessa, che portò alla diffusione della malattia in varie aree del mondo prima risparmiate e alla comparsa
della sua forma emorragica. Questa forma fu descritta per la prima volta nelle Filippine nel 1953, diventando,
a partire dagli anni Settanta, una delle principali cause di mortalità infantile nelle Americhe e nelle isole
dell'oceano Pacifico. Nel 1981 si venne a sviluppare un'epidemia da virus DENV-2 in pazienti dell'America
Centrale e Meridionale che avevano contratto il DENV-1 diversi anni prima e fece per la prima volta la sua
comparsa lo shock caratteristico della fase critica della malattia.
Epidemiologia
La maggior parte di chi contrae la dengue si riprende senza problemi, mentre la mortalità è dell'1–5% qualora
non venga instaurato alcun regime terapeutico e inferiore all'1% nel caso di trattamento adeguato. Tuttavia,
le forme più gravi della malattia conducono a morte nel 26% dei casi. La dengue è endemica in 110 paesi e
infetta dai 50 ai 100 milioni di individui ogni anno, con circa mezzo milioni di persone che necessitano di
ospedalizzazione e 12.500-25.000 decessi. La dengue, oltre a essere la più comune malattia virale trasmessa
da artropodi, ha un impatto sulla popolazione valutabile in 1600 DALY ogni milione di abitanti, del tutto simile
a quello della tubercolosi. Come malattia tropicale la dengue è ritenuta seconda in importanza solo alla
malaria, e l'Organizzazione mondiale della sanità la considera una delle sedici malattie tropicali neglette.
Tra il 1960 e il 2010, l'incidenza della dengue è aumentata di circa trenta volte, si crede in conseguenza
dell'urbanizzazione, della crescita della popolazione e dei movimenti migratori. La distribuzione geografica
della malattia è nella zona equatoriale, dove vive il 70% dei due miliardi e mezzo di persone che abitano nelle
aree endemiche dell'Asia e dei paesi che si affacciano sull'oceano Pacifico. Negli Stati Uniti il tasso di infezione
presso gli individui di ritorno da un soggiorno in un paese endemico è del 2.9–8.0%, secondo solamente a
quello per la malaria. Fino al 2003 si è ritenuto che la dengue potesse rappresentare una potenziale arma
biologica, ma studi successivi hanno rigettato questa possibilità, poiché si ritiene che il virus sia troppo difficile
da trasferire e dal momento che la malattia grave si presenta in una percentuale relativamente piccola di
popolazione.
Eziologia
Quello responsabile della febbre dengue è un virus a RNA appartenente alla famiglia delle Flaviviridae, genere
Flavivirus. Di questa famiglia fanno parte numerosi altri virus responsabili di febbre emorragica, tra cui quelli
responsabili della febbre gialla, dell'encefalite di Saint-Louis, dell'encefalite giapponese e al virus del Nilo
occidentale. Tutte queste malattie sono trasmesse da artropodi, soprattutto zanzare e zecche, e i virus
responsabili sono anche conosciuti come Arbovirus, dall'acronimo in lingua inglese arthropod borne virus
(virus portato da artropodi).
Come molti arbovirus, il virus della dengue permane in natura perché utilizza vettori ematofagi e ospiti
vertebrati, mantenendosi soprattutto nelle foreste del Sud-est asiatico e dell'Africa. Nelle zone rurali la
trasmissione avviene solitamente tramite puntura da parte di Aedes aegypti e altre del genere Aedes, tra le
quali Aedes albopictus (zanzara tigre), mentre nelle città avviene quasi esclusivamente tramite Aedes aegypti,
che risulta molto addomesticata. Il ciclo vitale del vettore nelle aree urbane è generalmente limitato all'area
in questione, ma la crescita incontrollata delle città nelle aree endemiche per la dengue ha portato a un
aumento delle epidemie e della quantità di virus circolante, permettendone la diffusione anche in zone
originariamente risparmiate e potrebbe, in futuro, rappresentare una minaccia per l'Europa.
Il genoma del virus contiene 11.000 paia di basi e codifica per tre proteine che formano il virione (C, prM, E)
e sette diverse proteine che si ritrovano nella cellula ospite e sono necessarie per la replicazione virale (NS1,
NS2a, NS2b, NS3, NS4a, NS4b, NS5). Il virus esiste in quattro diversi sierotipi, denominati DENV-1, DENV-2,
DENV-3 e DENV-4, ciascuno dei quali può essere ugualmente causa della malattia. Si ritiene che l'infezione
con un sierotipo conferisca un'immunità a vita per il sierotipo in questione, ma solo a breve termine nei
confronti degli altri. La forma severa della malattia in caso di infezione secondaria avviene in particolar modo
per gli individui esposti a DENV-1 che contraggano l'infezione da DENV-2 o DENV-3, oppure in persone
esposte prima a DENV-3 e poi a DENV-2.
Trasmissione
Il Dengue virus è trasmesso soprattutto dalle zanzare del genere Aedes, in particolar modo la specie Aedes
aegypti, che si trovano normalmente a una latitudine compresa tra il 35º parallelo nord e il 35º parallelo sud
e a un'altitudine inferiore ai 1000 metri s.l.m., nutrendosi soprattutto durante il giorno. Altre zanzare in grado
di trasmettere la malattia sono Aedes albopictus, Aedes polynesiensis e Aedes scutellaris. Gli esseri umani
sono gli ospiti primari del virus, il quale può però essere rinvenuto anche in altri primati; l'infezione può
essere trasmessa con una singola puntura da parte del vettore.
Una femmina di zanzara che acquisisca sangue umano infetto diventa a sua volta infetta, con il virus
localizzato a livello dell'apparato digerente. Circa 8-10 giorni dopo il virus invade e colonizza le cellule di altri
tessuti, in particolar modo le ghiandole salivari, dalle quali è espulso insieme alla saliva. L'infezione non
sembra avere effetti sulla zanzara, che rimane portatrice della malattia per il resto della propria vita. Aedes
aegypti, a differenza delle altre, preferisce vivere e deporre le proprie uova in stretto rapporto con gli esseri
umani, che rappresentano la sua fonte preferenziale di nutrimento rispetto ad altri vertebrati.
La dengue può essere trasmessa anche tramite infusione di emocomponenti o emoderivati e attraverso il
trapianto di organi. In paesi dove la malattia è endemica, come nel caso di Singapore, il rischio di infezione è
compreso tra 1.6 e 6 ogni 10.000 trasfusioni di sangue, mentre la trasmissione verticale durante la gravidanza
o l'allattamento è stata documentata.
Altre modalità di trasmissione interumana sono state descritte, ma sono tuttavia estremamente rare.
Patogenesi
Quando la zanzara infetta punge un essere umano, il virus penetra la cute insieme alla saliva dell'insetto. Una
volta all'interno dell'organismo, si lega ai leucociti, vi penetra e si riproduce al loro interno. In particolare, il
virus dengue lega le cellule di Langerhans, entrandovi tramite endocitosi mediata dall'interazione tra
proteine virali e specifiche proteine di membrana della cellula, la lectina DC-SIGN, CLEC5A e il recettore per
il mannosio. Il leucocita si sposta verso il linfonodo più vicino, mentre al suo interno il virus replica, in
vescicole legate al reticolo endoplasmatico, dove il genoma virale viene copiato e vengono prodotte le
proteine virali. Il virione immaturo si sposta dunque all'apparato di Golgi dove avviene la maturazione
definitiva grazie alla glicosilazione delle proteine virali ed esce dalla cellula mediante esocitosi. Oltre alle
cellule di Langerhans, altri leucociti che vengono infettati sono i monociti e i macrofagi.
I leucociti infetti rispondono con la produzione di numerosi fattori, tra cui l'interferone, responsabili della
maggior parte delle manifestazioni cliniche, quali la febbre, il dolore e gli altri sintomi simil-influenzali. La
produzione di interferone fa parte del sistema immunitario innato e aumenta il livello di difesa da infezioni
virali, favorendo la produzione di proteine del sistema di trasduzione mediato da JAK; alcuni sierotipi di
dengue virus sembrano avere la capacità di inibire questo segnale. La produzione di interferone attiva anche
la produzione di anticorpi diretti contro antigeni virali, che mediano l'attivazione dei linfociti T contro le
cellule infette. Gli anticorpi permettono l'opsonizzazione e la conseguente fagocitosi da parte di cellule
specializzate; alcuni di essi però, non legando ottimamente l'antigene, trasportano il virus lontano dai
lisosomi del fagocita, in modo che esso non sia distrutto ma possa, bensì, continuare a replicare.
Nelle infezioni gravi la replicazione virale è molto aumentata, avviene anche in organi quali il fegato e il
midollo osseo, e causa il passaggio di liquidi dal torrente circolatorio alle cavità corporee, attraverso
l'endotelio dei piccoli vasi sanguigni in conseguenza di una sua disfunzione. Ciò causa una riduzione del
sangue circolante e la conseguente riduzione della pressione arteriosa, che può rivelarsi non sufficiente per
le necessità dell'organismo e portare a uno stato di shock ipovolemico. D’altro canto, la replicazione virale a
livello del midollo osseo causa una disfunzione dell'emopoiesi, cui consegue la piastrinopenia responsabile
delle emorragie tipiche della dengue; la morte delle cellule infette a livello di questi organi può portare a un
grande rilascio di citochine e fattori fibrinolitici, che peggiorano il quadro emorragico e favoriscono
ulteriormente il danno endoteliale. Non è del tutto chiaro perché un'infezione secondaria dovuta a un diverso
sierotipo del virus porti a sviluppare un rischio sensibilmente aumentato di forma grave della malattia.
L'ipotesi maggiormente condivisa si basa su un potenziamento mediato da anticorpi che si suppone possa
essere causato dallo scarso legame di anticorpi non neutralizzanti e un direzionamento dei virioni verso il
compartimento cellulare errato nei globuli bianchi che hanno fagocitato il virus per permetterne la
distruzione. Si ritiene tuttavia che questo possa non essere l'unico meccanismo patogenetico delle forme
gravi di dengue; altri possibili fattori che potrebbero avere un ruolo sono i linfociti T, alcune citochine e
proteine del sistema del complemento.
In alcuni pazienti la malattia progredisce in una fase critica, successiva alla normalizzazione della temperatura
corporea, che dura tipicamente uno o due giorni. Durante questa fase si può presentare un accumulo di
liquidi nel torace (versamento pleurico) e nell'addome (ascite) in conseguenza dell'aumento della
permeabilità dei capillari. Questo può generare una condizione di ipovolemia e di scarsa perfusione degli
organi vitali, spesso associata a disfunzione organica ed emorragie, in particolar modo digestive. La
condizione di shock o di febbre emorragica si manifesta in meno del 5% dei pazienti e sono in particolar modo
quelli infettati una seconda volta da un diverso sierotipo del dengue virus a essere a rischio.
Complicanze
La forma grave della malattia è più comune nell'infanzia e, a differenza di molte altre malattie infettive, si
presenta in bambini relativamente ben nutriti. Le donne sono più colpite degli uomini e la malattia può
risultare particolarmente pericolosa in individui affetti da malattie croniche, quali il diabete mellito e l'asma
bronchiale.
Occasionalmente il Dengue virus può infettare altri organi, sia in concomitanza al corteo sintomatologico
classico, sia come unica manifestazione clinica. Nello 0.5-6% si può presentare una riduzione dello stato di
coscienza, imputabile a un'encefalite virale o, indirettamente, come conseguenza di un'insufficienza epatica.
Altre complicanze sono la mielite trasversa e la sindrome di Guillain-Barré, mentre le miocarditi sono rare.
Il polimorfismo di alcuni geni umani risulta correlato a maggior rischio di malattia grave. Tra questi sono
compresi mutazioni del TNFα, del CTLA-4, del TGFβ e particolari forme alleliche del complesso maggiore di
istocompatibilità; la carenza di glucosio-6-fosfato deidrogenasi, molto comune nei paesi africani, sembra
anch'essa aumentare i rischi.
Clinica
La classificazione stilata nel 2009 dall'Organizzazione mondiale della sanità divide la dengue in due gruppi:
non complicata e grave. Questa sostituisce la classificazione del 1997, stilata dalla stessa organizzazione, che
necessitava di maggior semplificazione essendo ritenuta troppo restrittiva (ma ancora utilizzata
diffusamente). Essa prevedeva la suddivisione della malattia in febbre indifferenziata, febbre dengue e
febbre emorragica dengue. La forma emorragica era a sua volta suddivisa in quattro gradi di gravità: il grado
I, caratterizzato da ecchimosi e positività alla prova del laccio in un paziente con febbre; il grado II, per pazienti
con emorragia spontanea a carico di cute o altri organi; il grado III in presenza di shock; il grado IV in caso di
shock grave con polso e pressione arteriosa non rilevabili. I gradi III e IV sono definiti "sindrome da shock
dengue".
Segni e sintomi - Manifestazioni cliniche della dengue
Tipicamente i soggetti infettati con il virus della dengue sono asintomatici (80%) oppure hanno solo
manifestazioni cliniche leggere, quale la febbre non complicata. Circa il 5% dei pazienti va incontro a una
forma più grave della malattia e solo in una piccola parte di essi la dengue può essere pericolosa per la vita.
Il periodo di incubazione dura tra i 3 e i 14 giorni, ma è solitamente compreso tra i 4 e i 7 giorni; per questo
motivo è possibile escludere la presenza della malattia in pazienti che manifestino sintomi oltre due
settimane dopo il ritorno da un soggiorno in un'area endemica. I bambini presentano sintomi simili a quelli
del raffreddore comune e della gastroenterite (vomito e diarrea), generalmente meno importanti rispetto
agli adulti, sebbene siano maggiormente suscettibili a complicanze gravi.
La presentazione clinica tipica della dengue include febbre a esordio improvviso, cefalea tipicamente
retrooculare, mialgia, artralgia e esantema. Il decorso della malattia può essere suddiviso in tre fasi: febbrile,
critica e di recupero.
La fase febbrile è caratterizzata da febbre elevata, spesso superiore ai 40 °C, associata a dolore generalizzato
e cefalea e dura solitamente tra i 2 e i 7 giorni. Durante questa fase, il 50-80% dei pazienti con sintomi
presenta un esantema cutaneo, che inizia tipicamente durante il 1º o 2º giorno di sintomi come un eritema,
per assumere tra il 4º e il 7º giorno un aspetto morbilliforme. A questo punto possono comparire petecchie
e si possono verificare piccoli episodi emorragici alla mucosa del naso e della bocca. La febbre ha
classicamente un andamento bifasico, ripresentandosi per un paio di giorni dopo la risoluzione iniziale, anche
se il fenomeno ha una durata e delle tempistiche molto variabili.
Esami di laboratorio e strumentali
La prima alterazione visibile agli esami di laboratorio è il ridotto numero di globuli bianchi, condizione spesso
seguita da riduzione del numero di piastrine e acidosi metabolica. Nella forma grave la perdita di liquidi porta
a emoconcentrazione, con aumento dell'ematocrito, e a riduzione dell'albumina circolante. Versamento
pleurico e ascite possono essere rilevati clinicamente solo quando importanti, mentre l'ecografia permette
una diagnosi più precoce, anche se il suo utilizzo è limitato dalla scarsa disponibilità delle apparecchiature in
alcuni paesi.
La dengue può essere diagnosticata anche mediante esami microbiologici, in particolar modo tramite
l'isolamento del virus su terreni di coltura, rilevamento del RNA virale dopo espansione tramite PCR, esami
sierologici per la rilevazione di antigeni virali o anticorpi diretti verso di essi. L'isolamento del virus e del suo
genoma sono test più accurati di quelli sierologici, ma non sono diffusamente disponibili per via del loro costo
elevato, mentre quest'ultimo e la PCR sono più accurati in particolar modo nella prima settimana di malattia,
anche se tutti gli esami possono rivelarsi negativi nelle fasi precoci.
Tutti questi esami di laboratorio hanno un valore diagnostico solamente durante la fase acuta della malattia,
eccezion fatta per la sierologia. La ricerca delle IgG e IgM, normalmente prodotto 5-7 giorni dopo l'infezione,
può essere utilizzata per confermare la diagnosi di dengue anche nelle fasi tardive. Il titolo più elevato di IgM
è rilevato dopo l'infezione primaria, ma esse sono prodotte anche in caso di infezione secondaria o terziaria;
diventano non rilevabili 30-90 giorni dopo l'infezione primaria, ma, in caso di infezioni successive,
scompaiono più rapidamente. Le IgG invece rimangono rilevabili per più di sessant'anni, anche in assenza di
sintomi, è quindi risultano un ottimo indicatore di infezioni pregresse. Dopo l'infezione primaria raggiungono
il loro picco dopo 2-3 settimane, mentre in corso di infezioni successive il picco è raggiunto prima e il titolo è
solitamente più alto. Sia le IgG, sia le IgM provvedono all'immunità nei confronti di un determinato sierotipo.
In laboratorio queste immunoglobuline possono legare altri Flavivirus, come quello della febbre gialla,
rendendo difficile l'interpretazione dell'esame. La rilevazione unicamente delle IgG non è considerata
diagnostica a meno che il loro titolo non quadruplichi in campioni di sangue raccolti ad almeno due settimane
di distanza dalla precedente raccolta. In una persona sintomatica, la rilevazione delle sole IgM è considerata
diagnostica.
Diagnosi differenziale
La diagnosi di dengue è solitamente clinica, basata sui sintomi riferiti e sull'esame obiettivo; questo è vero in
particolar modo per le aree endemiche. Tuttavia, nelle fasi precoci è difficile da distinguere da altre infezioni
virali. La diagnosi è probabile se vengono rilevati in un paziente residente in un'area endemica, oltre alla
febbre elevata, due tra i seguenti: nausea e vomito, esantema, dolore generalizzato, leucopenia, positività
alla prova del laccio e uno qualsiasi dei segnali d'allarme riportati in tabella. I segnali d'allarme si presentano
tipicamente prima dell'esordio della forma grave di dengue. La prova del laccio, particolarmente utile quando
non sono disponibili esami di laboratorio, si esegue con l'applicazione per cinque minuti di uno
sfigmomanometro al braccio e tramite la conta delle emorragie petecchiali che si presentano. Maggiore è il
loro numero, più probabile è la diagnosi di malattia.
La dengue entra in diagnosi differenziale in ciascun individuo che manifesti febbre entro due settimane da
un soggiorno in aree tropicali e subtropicali. È difficilmente distinguibile dalla chikungunya, una malattia
virale simile alla dengue sia per manifestazioni cliniche, sia per localizzazione delle aree endemiche. Spesso
l'iter diagnostico è orientato a escludere altre malattie simili, quali malaria, leptospirosi, febbre tifoide e
meningite meningococcica.
Trattamento
Non esistono terapie specifiche per la dengue. Le modalità di trattamento dipendono dalle manifestazioni
cliniche, e possono andare dalla semplice idratazione orale a domicilio al ricovero con somministrazione di
liquidi per via parenterale o emotrasfusioni. La necessità di ricovero viene normalmente determinata sulla
base dei segnali di allarme, soprattutto in presenza di comorbilità.
L'idratazione endovenosa si rende necessaria di solito per un paio di giorni e la quantità di liquido da
infondere è calcolato per garantire un'eliminazione renale di 0.5-1 mL/kg/h di urina, segni vitali stabili e una
normalizzazione dell'ematocrito. Procedure più invasive quali l'inserimento di un sondino nasogastrico,
l'iniezione intramuscolare e le punture arteriose devono essere evitate a causa del rischio di sanguinamento.
Il paracetamolo viene utilizzato per il trattamento sintomatico della febbre e del dolore, mentre i FANS come
l'aspirina o l'ibuprofene vanno evitati per non peggiorare il rischio di emorragia. La trasfusione di sangue è
richiesta precocemente nei pazienti con segni vitali instabili e a fronte di una tendenza dell'ematocrito a
calare. Sebbene l'ematocrito non sia un indicatore dell'entità dell'emorragia buono quanto la concentrazione
di emoglobina, si preferisce utilizzare questo indicatore piuttosto che attendere che l'emoglobina raggiunga
un valore soglia per iniziare la trasfusione. Possono essere somministrati sangue intero o globuli rossi
concentrati, mentre non sono normalmente utilizzate trasfusioni di piastrine o di plasma fresco congelato.
Durante la fase di recupero dalla malattia la terapia idratante viene di solito sospesa per evitare una
condizione di ipervolemia; in caso si presenti tale condizione il trattamento prevede, in presenza di segni
vitali stabili, la sola sospensione della somministrazione di liquidi eventualmente associata a un diuretico
dell'ansa quale la furosemide.
Prognosi
La fase di recupero, che dura circa 2-3 giorni, è caratterizzata dal riassorbimento dei liquidi e dal ripristino
della volemia. Il miglioramento è spesso sorprendente, ma si possono presentare bradicardia e prurito
importante, oltre a un'eruzione cutanea maculo-papulare o di aspetto vasculitico, con successiva
desquamazione cutanea. Durante questa fase si può manifestare una condizione di sovraccarico di liquidi
che, qualora evolva in edema cerebrale, può comportare alterazioni dello stato di coscienza e convulsioni.
Una condizione di affaticamento può permanere anche per settimane dopo la risoluzione clinica della
malattia.
Prevenzione
Mutazioni del recettore della vitamina D e del frammento cristallizzabile delle IgG sembrano avere effetti
protettivi, in particolar modo nelle forme gravi da infezione secondaria.
Non esistono vaccini approvati per il Dengue virus e la prevenzione della malattia si basa quindi sul controllo
della popolazione della zanzara vettrice e sulla protezione dal contatto dei residenti delle zone endemiche.
L'OMS raccomanda l'adozione di un programma integrato di controllo del vettore basato su cinque punti:
1. Patrocini, mobilitazioni sociali e legislazione al fine di assicurare il rinforzo degli organismi sanitari
pubblici e delle comunità;
2. Collaborazione tra Sanità e altri ambiti, pubblici e privati;
3. Approccio integrato al controllo della malattia per ottimizzare l'utilizzo delle risorse;
4. Decisioni basate sull'evidenza clinica in modo da garantire che gli interventi siano mirati e
appropriati;
5. Rafforzamento delle capacità per garantire una risposta adeguata alla situazione locale.

Il principale metodo di controllo di Aedes aegypti consiste nell'eliminazione del suo habitat. Questa può
essere ottenuta nelle aree endemiche mediante lo svuotamento dei contenitori di acqua e l'utilizzo di agenti
di controllo, ovvero specie animali la cui presenza riduca quella del vettore, o di insetticidi, anche se la
spruzzatura di organofosfati o piretroidi non risulta efficace. La riduzione delle raccolte di acqua all'aria
aperta attraverso interventi ambientali è il metodo più utilizzato, date le preoccupazioni per eventuali effetti
negativi sulla salute da parte degli insetticidi e le maggiori difficoltà logistiche per l'uso gli agenti di controllo.
La popolazione può prevenire le punture da parte del vettore utilizzando abiti che coprano completamente
la cute, zanzariere o repellenti per insetti, in particolar modo il dietiltoluamide che si è rivelato essere il più
efficace.
Ricerca scientifica
Gli sforzi della ricerca scientifica per prevenire e trattare la dengue si basano sulla creazione di metodi di
controllo del vettore, sullo sviluppo di un vaccino efficace e sullo studio di farmaci antivirali.
Per quanto riguarda il controllo del vettore sono stati sviluppati nuovi metodi per ridurre il numero di zanzare,
ad esempio mediante l'introduzione nelle raccolte di acqua di Poecilia reticulata o Copepoda che si nutrono
delle loro larve. Sono in corso tentativi di infettare la popolazione di zanzare con batteri del genere
Wolbachia, che sembrano rendere le zanzare parzialmente resistenti al virus.
Ci sono programmi in corso sullo sviluppo di un vaccino in grado di coprire tutti e quattro i sierotipi del dengue
virus. Uno dei problemi è che un vaccino potrebbe aumentare il rischio di malattia grave attraverso il
meccanismo del potenziamento mediato da anticorpi. Il vaccino ideale dovrebbe essere sicuro, accessibile e
conveniente in termini di costo-beneficio, efficace dopo una o due somministrazioni, facile da trasportare e
immagazzinare, non attivare il meccanismo del potenziamento mediato da anticorpi e coprire tutti i sierotipi.
A partire dal 2009, una serie di vaccini sono entrati in una fase di studio e sperimentazione e si ritiene il primo
possa essere introdotto in commercio a partire dal 2015.
Oltre al controllo del vettore e alla creazione di un vaccino efficace, sono presenti sforzi per sviluppare nuovi
farmaci antivirali che siano efficaci nel trattamento della dengue e nella prevenzione delle forme gravi. La
determinazione della struttura delle proteine virali potrebbe essere d'aiuto nella realizzazione di farmaci
efficaci. Tra le possibili molecole bersaglio vi è la RNA polimerasi RNA-dipendente, codificata dal gene NS5 e
responsabile della duplicazione del genoma virale. Altri approcci includono la creazione di specifici inibitori
della proteasi vitale, codificata da NS3 e responsabile dello splicing delle proteine virali, di farmaci che
inibiscano l'ingresso del virione nella cellula o di inibitori del processo di rivestimento in 5', necessario per la
replicazione virale.

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