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TEORIA E DIDATTICA DEI MEDIA DIGITALI

Introduzione
Il termine “MEDIA” deriva dal greco metaux, quando utilizziamo tale termine indichiamo un mezzo che
rende possibile la percezione sensibile del mondo esterno.
Dal “metaux” si passa al termine “medium”, che rientra all’interno del lessico filosofico ed è inteso come un
insieme di supporti di materiali che si utilizzano per visualizzare delle immagini e delle tecniche che
possono essere esercitate su tali supporti.
Il medium influenza la percezione che abbiamo delle immagini.

Per molti anni le rappresentazioni assunsero forme differenti come rettangoli, cerchi e ovali ma a metà
degli anni 90 del 400 (1494) entra in gioco una nuova figura, quella del QUADRO, ovvero, un pezzo di parete
tra due finestre destinato ad essere una affresco.
Successivamente si diffonderà la pittura su tela ritagliata in qualsiasi forma e anche la stampa nata per
l’esigenza di lavorare con testi e illustrazioni quadrate.
Nasceranno le botteghe di dimensioni più piccole e luoghi in cui si stabiliva il valore dell’opera diffondendo
il commercio di quadri.
Grazie a Monet abbiamo l’invenzione della dimensione quattro terzi 4:3, questa dimensione corrispondeva
al campo visivo umano e veniva utilizzato dagli impressionisti, dopo si passò dal 4:3 ai 16:9, ad oggi, invece,
abbiamo varie forme di modifica quadrata 1:1 o 1,9:1.

I media da un lato influenzano il modo in cui noi percepiamo la realtà e dall’altro modificano i meccanismi
di autenticazione dell’esperienza, Benjamin, riteneva che nel mondo odierno si assiste alla perdita
dell’essenza dell’arte per via dell’infinita riproducibilità della medesima.

DEWEY
Alla fine degli anni 90 dell’800 (1897) Dewey scrive “il mio credo pedagogico” e agli inizi del 900 (1916)
scrive “Democrazia educazione”, in cui l’educazione viene percepita come una ricostruzione continua
dell’esperienza.
Secondo Dewey è fondamentale passare sempre da un fare, all’agire a un’azione, poiché, in caso contrario
non si potrà tramandare le diverse conoscenze e le diverse informazioni da una persona all’altra.
Parla di due tipologie di conoscenze

• Conoscenza AUTENTICA, quando l’esperienza estetica avviene sempre e continuamente, in quanto,


vi è una relazione tra organismo e ambiente
• Conoscenza NON AUTENTICA, quando non avviene nessuna esperienza estetica e l’interazione tra
organismo e ambiente si disperde

La profondità e l’ampiezza dell’esperienza dipende dalla maturità della persona ma è anche importante non
soffermarci a lungo su un determinato tema sennò si va incontro a delle patologie.

I protagonisti del PRAGMATISMO furono DEWEY, JAMES e PEARCE, in particolare tenne delle lezioni in
memoria di James e durante queste si interroga su ciò che rende un atto espressivo.
Questo ATTO ESPRESSIVO avviene

-Tramite l’unione tra esperienze passate e condizioni presenti


-Nel bambino l’atto espressivo è limitato a causa della poca esperienza vissuta

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Oggi, in particolare, assistiamo sempre più a questa estetica diffusa, presente in contesti non più solo
d’arte.
C’è però un RISCHIO, quello di attribuire il valore estetico a qualsiasi esperienza e di non poter parlare
quindi più di arte come esperienza, ma di esperienza come arte.
Ogni azione è uno scambio di emozioni e sensazioni, Dewey, critica chi separa l’arte dalla vita e ritiene
che ci sia una sorta di continuità tra arte e fatti normali.
L’esperienza estetica, non è quindi, legata solo al piacere e non c’è alcuna differenza tra ESPERIENZA
COMUNE ed ESTETICA.
L’idea di Dewey e del pragmatismo è che il concetto di verità e libertà sono legati a qualcosa di
positivo.
Si parla di un impegno civile del pragmatismo americano, che caratterizza la concezione filosofica di
Dewey e si sposa con l’attivismo pedagogico. L’Idea che i bambini siano liberi e possano costruire
socialmente un loro sapere più l’importanza di essere cittadini.

La sua filosofia si configura su alcune posizioni

✓ ANTI ESSENZIALISMO (non vi è un’unica realtà)


✓ ANTI FONDAZIONALISMO
✓ FALIBILISMO (una certa teoria può essere giudicata sulla base dell’effettivo funzionamento,
una teoria può essere sperimentabile e fallibile)
✓ ANTISCETTICISMO (non vi è nessuna forma di verità, ma solo rappresentazioni provvisorie)

La posizione di Dewey è una posizione pragmatista, aperta a una idea utile di verità legata alle
conseguenze reali, che le azioni hanno sulla società.
Il riferimento alle azioni e alle pratiche attraverso cui gli esseri umani sviluppano il loro rapporto con il
mondo e con i loro simili.

NB: *Padri pragmatismo Peirce/Dewey/James. Secondo il pragmatismo ogni azione, ogni agire, ha un suo
valore, no separazione tra intelletto e azione, ma diretta continui

BAMBINI E TECNOLOGIA DIGITALE


I dispositivi mobili hanno modificato profondamente la vita e il modo di interagire delle persone, i
dispositivi digitali appaiono essere presenti già nei primi anni di vita del bambino.
I tablet, i cellulari e i computer permettono al bambino di superare le barriere linguistiche e di accedere ai
contenuti digitali, vivendo, in tale modo, esperienze che alcuni anni fa erano impensabili.
I bambini non sanno né leggere, né scrivere ma possono interagire con la tecnologia molto prima rispetto
al passato.
Infatti, un’indagine che si fece negli Stati Uniti, mostra come nel 2015 una grande percentuale di bambini al
di sotto di un anno interagivano con gli smartphone.
Nel 2001 nasce una nuova espressione coniata da PRENSKI, ovvero, I NATIVI DIGITALI.
I nativi digitali a differenza dei digital immigrants, cioè quelle persone che sono nate in una società in cui
non erano ancora disponibili i dispositivi interattivi, sono quegli individui nati dopo il 1985 e si tratta di una
generazione nata e cresciuta insieme ad internet.

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IN CHE MODO GLI STRUMENTI DIGITALI POSSONO MODIFICARE IL MODO DI APPRENDERE, AGIRE, DI
FARE ESPERIENZA??
Vengono svolti alcuni studi a proposito

o GEIST, cerca di studiare attraverso delle osservazioni partecipate le interazioni spontanee tra i
bambini di 2-3 anni e il tablet nei vari contesti familiari e educativi.
Emerge che i bambini interagiscono facilmente e in modo naturale con il dispositivo.
La loro capacità di esplorare e usare il tablet è maggiore rispetto l’uso del pc.
I bambini imparano ad usare le app osservando gli adulti e i coetanei, tramite azioni mimetiche,
tentavi di errore.
Secondo Geist è inutile limitare l’accesso e l’suo ma bisogna comprendere come utilizzare i
medesimi per potenziare il potenziale cognitivo.

o YELLAND, svolge una ricerca su un gruppo di bambini di età compresa tra i 2-6 anni in 3 diversi
contesti per la prima infanzia.
Lo scopo è quello di descrivere quali sono le strategie utilizzate dal bambino per esplorare ed
emerge che il tablet spesso aiuta a creare contesti che hanno incoraggiato l’interazione e la
collaborazione tra bambini.
È importante che educatori, insegnanti, prendano tempo ad acquisire familiarità con le app rivolte
ai bambini, in modo da comprenderne i limiti, le potenzialità e capire come queste possano essere
una risorsa utile per supportare l’apprendimento nei contesti educativi scolastici.

o SMITH, è una importante studiosa di psicologia cognitiva, che seleziona un gruppo di bambini dai 6
ai 10 mesi, notando come non ci siano associazioni negative fra uso tablet e sviluppo del linguaggio
e motricità, ma vede come le nuove generazioni si stanno adattando all’ambiente mediale.

Quali sono le app per bambini?


Le parole chiavi sono giocare, creare e leggere e le migliori app si suddividono in
-INSTRUCTIONAL (educative) in cui abbiamo un’interazione già definita, vi è una risposta giusta o sbagliata.
Il bambino segue semplicemente le istruzioni date. (ha un ruolo passivo)
-MANIPOLAZIONE le quali consentono una scoperta guidata ed una sperimentazione ma non vi è del tutto
una libera possibilità di esplorare e aggiungere magari degli elementi aggiuntivi.
-COSTRUTTIVE in cui emerge il tema della costruttività. (ha un ruolo passivo)
Il costruttivismo prevede che il modo in cui percepiamo la realtà venga costruito socialmente.
La realtà non è assoluta ma è una realtà costruita e non vi è uno scopo ben preciso ma l’esplorazione è
molto attiva. Es: scratch (non ha un ruolo passivo in quanto permette all’utente di poter creare e sviluppare
contenuti autonomi)

È importante educarsi alla e nella cultura digitale.


La diffusione dei dispostivi e il concetto di nativi digitali crea una sorta di equivoco, ovvero si credeva che il
bambino immerso in questo ambiente, sviluppasse competenze per utilizzarle in maniera innata, naturale.
Ciò in parte può essere vero, ma la competenza non è solo saper fare, ma saper fare con consapevolezza e
padronanza.
Si deve essere capaci di mettere in connessione competenze, conoscenze di vari ambiti.
Avere competenza digitale non significa avere solo dimestichezza, ma si deve essere in grado di
padroneggiare più in profondità le caratteristiche dei dispositivi.

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Ci si interroga e ci si è interrogati sul ruolo dei SERVIZI EDUCATIVI 0-6 anni rispetto l’utilizzo di tecnologie,
possiamo così parlare di 3 APPROCCI:

• PROIBIZIONISTICO: Caratteristico delle scuole digital free, scuole che non utilizzano tecnologie.
• AFFASCINATO: Idea che il digitale incentivi forme di learning by doing. Si mettono i bambini a
contatto con tecnologie per naturalizzarli.
• MEDIA EDUCATIVO: Da un lato cercano di non esaltare l’uso delle tecnologie tendendo ad uso
ecologico, quindi, ina maniera ragionata.

Alcune ricerche ci dicono che i bambini al di sotto dei due anni debbano evitare totalmente l’esposizione a
schermi.
Nel Reggio Emilia Approach, ad esempio, non c’è proprio l’esposizione agli schermi, ma si punta a creare
ambienti immersivi, sfruttando il potenziale del digitale.
L’OMS, lancia una raccomandazione rivolta ai genitori, vietando l’uso di dispositivi ai bambini >2 perché
questi hanno una influenza negativi sul ciclo sonno veglia e le competenze attentive.

APPROCCIO EDUCATIVO REGGIANO


Alla fine degli anni 60 a Reggio Emilia nacque l’Atelier, uno spazio in cui i bambini sperimentano diversi
saperi.
E’ un luogo in continuo cambiamento aperto all’innovazione e alla sperimentazione.
L’Atelier permette di esprimersi attraverso una pluralità di linguaggi.
E’ presente una figura professionale chiamata ATELIERISTA che ha permesso il superamento di una vecchia
concezione scolastica e dell’insegnante ed è in relazione con le altre figure professionali.
L’ATELIER E’ DUNQUE UN LUOGO DI DIALOGO CON GLI ALTRI SPAZI.
La cultura dell’atelier valorizza le differenti forme che ogni soggetto dà alle sue idee e alle sue conoscenze,
in modo che nessun bambino perda il coraggio e il piacere dell’elaborazione della conoscenza.

Il SISTEMA PUBBLICO INTEGRATO 0-6, è caratterizzato da una MOLTEPLICITA’ DI GESTIONI:

- Comune: scuole comunali


- Scuole statali
- Scuole della Fism
- Cooperative educative
Tutti gli asili comunali a Reggio Emilia sono basati sul “Reggio Emilia approach” in cui le principali
tematiche sono
La centralità dei diritti dei bambini
Strutture educative di collettività
Una flessibilità degli orari di funzionamento dei servizi
Al centro del PROGETTO EDUCATIVO dei nidi e delle scuole dell’infanzia il bambino è capace di costruire in
maniera autonoma le proprie conoscenze attraverso l’interazione con l’ambiente e con la realtà.

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Vi sono degli elementi fondamentali tra prendere in considerazione

• L’AMBIENTE → Gli spazi interni ed esterni del nido e della scuola sono stati pensati ed organizzati
appositamente per offrire luoghi di convivenza e ricerche.
L’ambiente interagisce e si modifica prendendo forse diverse in base alle esperienze di
apprendimento in un dialogo costante tra architettura e pedagogia.
Le caratteristiche principali dell’ambiente sono la
-Complessa morbidezza, cioè offre molte possibilità di interazione
-Normalità ricca, cioè, deve avere diversi materiali che costituiscono normalità scolastica
-Polisensorialità e luce
-Multisensorialità e colore
E’ essenziale la presenza di un PARCO poiché è un ambiente che viene vissuto in tutte le stagioni.
Abbiamo anche la presenza di una CUCINA INTERNA gestita da un personale qualificato che
prepara quotidianamente il pranzo e le merende per i bambini, seguendo una dieta bilanciata.
Il personale di cucina è parte del gruppo di lavoro della scuola e del nido, partecipa agli
aggiornamenti settimanali, contribuisce ad arricchire le esperienze educative offerte i bambini,
incontri di sezione, le occasioni di partecipazione e di incontro tematico per i genitori.
• UN APPROCCIO → Parliamo di un approccio alla conoscenza di ricerca con gli altri, di scambio, che
mette al centro l’apprendimento del bambino nel e con il gruppo e non un approccio di
trasmissione, insegnamento.
• UNA DOCUMENTAZIONE → La documentazione è un tratto fondamentale, tutto il lavoro che
viene svolto deve essere documentato poiché ciò permette di progettare l’azione didattica.
I documenti diventano
-Materiale per l’aggiornamento
-Strumenti di lavoro
-Oggetto di scambio comunicativo con le famiglie
-Materiale per lo scambio formativo in Italia e all’estero
In ogni nido e scuola si scelgono e si utilizzano modalità, strategie, strumenti, molteplici e
differenti: agende quotidiane, quaderni tematici, pubblicazioni, immagini fotografiche, video.
Ogni strategia documentativa permette ai genitori di cogliere alcuni frammenti della quotidianità e
di conversare con i propri figli sulle esperienze rese visibili e condivisibili.
• UNA PROGETTAZIONE → La progettazione è fondamentale in quanto l'azione educativa prende
forma attraverso la progettazione della didattica, degli ambienti, della partecipazione, della
formazione del personale, e non mediante l'applicazione di programmi predefiniti.
La progettazione si realizza attraverso una stretta collaborazione tra l’organizzazione del lavoro e
ricerca educativa.
• LA PARTECIPAZIONE → Quando parliamo di partecipazione ci rivolgiamo alla partecipazione degli
insegnanti, dei bambini e dei genitori coinvolti nella costruzione del progetto educativo.
La partecipazione è un’opportunità che viene data a tutti i genitori e attraverso diverse occasioni,
ognuno di esso, può essere informato sul proprio bambino.

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I CENTO LINGUAGGI
Il bambino come essere umano possiede cento linguaggi, cento modi di pensare ed esprimersi.
Con cento linguaggi parliamo delle potenzialità straordinarie dei bambini, è compito del nido e della scuola
valorizzare tutti i linguaggi verbali e non verbali con pari dignità.
L’adulto deve ascoltare questi cento linguaggi, riconoscerli e valorizzarli.
L’ascolto dei linguaggi è fondamentale perché è il medesimo a rendere possibile la comunicazione e il
dialogo.
Ogni bambino è soggetto di diritti ed è un costruttore di esperienze a cui è capace di attribuire senso e
significato.
Il processo di apprendimento privilegia le strategie di ricerca.
La RICERCA è fondamentale nella vita degli adulti e dei bambini, è un potente strumento di rinnovo e di
educazione.
La ricerca, resa visibile attraverso la documentazione costruisce apprendimento, riformula saperi, fonda la
qualità professionale, si propone a livello nazionale e internazionale come elemento di innovazione
pedagogica.

Nelle scuole e nidi di Reggio Emilia:


-Gli adulti sono curiosi e in ascolto dei modi di conoscere i bambini
-Si valorizza il lavoro a piccolo, medio, grande gruppo
-Atelier che introduce una varietà di saperi, linguaggi espressivi empatici. È un approccio interdisciplinare,
partecipato in cui trovano sviluppo i cento linguaggi che appartengono fin dalla nascita, come dotazione
genetica a tutti gli esseri umani
-Documentazione come modalità per rendere visibili i processi creativi di conoscenza dei bambini e degli
adulti
-Aggiornamento settimanale collegiale, luogo interdisciplinare che vede la presenza di tutte le
professionalità coinvolte nella scuola.
Qui la documentazione diventa oggetto di formazione di tutto il personale

NB: Il passaggio dei bambini dal nido alla scuola dell'infanzia viene accompagnato da un colloquio fra
insegnanti e, dove il gruppo dei bambini che passa una scuola è consistente, dalla partecipazione
all'incontro di sezione del nido da parte degli insegnanti di scuola.
Anche nel passaggio dalla scuola dell'infanzia alla scuola primaria viene realizzato un colloquio tra le
insegnanti sulla base di uno strumento costruito da una commissione cittadina, composta dai
rappresentanti dei diversi gestori delle scuole della città e degli istituti scolastici.

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METODI PER INCENTIVARE A LEGGERE e L’IMPORTANZA DEL DIGITALE
Secondo la tesi della “RI-MEDIAZIONE” i nuovi media non sostituiscono, ma “ri-mediano” quelli
tradizionali, implicando:

- trasformazioni
- ripensamenti
- integrazioni costanti.
All’interno dei servizi educativi 0-6 anni, occorre pensare ad una logica, la logica dell’integrazione. Una
logica che fa sì che quei linguaggi digitali vengano padroneggiati in modo più efficace da adulti e bambini.
La lettura non è una attività conservatrice, utile per “resistere” in un’epoca sempre più caratterizzata dal
digitale, ma si può pensare a quali strategie siano utili per promuovere il “piacere di leggere” e per
valorizzare le potenzialità che la lettura offre ai bambini nei primi anni di vita.

Sono in particolare quattro le direzioni nelle quali il digitale può contribuire a espandere l’esperienza della
lettura nella prima infanzia

o LA PROIEZIONE, si fa riferimento alla possibilità di collegare il tablet o altri dispositivi ad un video


proiettore, ma si possono utilizzare anche strumentazioni simili
o LA TRASFORMAZIONE, si sottolinea la possibilità che le nuove tecnologie offrono d’interagire in
modo sempre più attivo con i testi
o LA MULTIMEDIALITA’, si parla della possibilità che oltre alla parola e oltre alle immagini, si
possano abbinare anche altri linguaggi per arricchire la narrazione
o LA SCRITTURA DIGITALE, in quanto attraverso il digitale la realizzazione di un libro diventa sempre
più semplice ed immediata, così i bambini possono diventare autori ed editori di contenuti

Nel nido e nella scuola dell’infanzia l’organizzazione degli spazi tiene spesso conto dell’importanza della
lettura, tanto che in molte strutture vengono dedicate stanze o angoli per favorire l’ascolto da parte dei
bambini mentre l’educatrice narra una storia con l’ausilio delle immagini.

Quali potenzialità offre il digitale per la lettura e la narrazione al nido?


Attraverso la proiezione, che amplia la grandezza delle immagini, può avvenire una lettura che guida con
più calma e con maggiore partecipazione dei bambini all’interpretazione delle immagini, consentendo con
lo zoom di concentrarsi sui dettagli.
Con i bambini più grandi (nella scuola dell’infanzia) è possibile riflettere su quali differenze vi siano tra la
lettura fatta su carta o quella fatta attraverso uno schermo, notando le possibilità dei nuovi media, ma
anche evocando il fascino della carta, che ha un odore, si piega, si strappa, si ripara.
Se opportunamente usato, il digitale può rappresentare una risorsa anche per le dimensioni ludiche e
motorie, due aspetti particolarmente rilevanti nella fascia di età zero-sei anni.
Servirsi della proiezione su schermo o su parete può favorire la creazione di un contesto alternativo, in cui i
piccoli “lettori” siano liberi di muoversi all’interno dello spazio.

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DEWEY: ARTE COME ESPERIENZA
Nel 1934, Dewey, pubblica “Arte come esperienza” dando il suo più grande contributo sula riflessione
dell’esperienza estetica.
L’idea centrale dell’opera è che esiste un rapporto tra L’ESPERIENZA ORDINARIA e quella CREATIVA ed
ARTISTICA.
L’arte è quindi l’attività umana che meglio realizza l’esperienza.
L’esperienza coinvolge elementi diversi

 IO-MONDO
 SOGGETTO-OGGETTO
 RAGIONE-EMOZIONI
Non sono separati, ma si parla di un paradigma unitario.
Al centro c’è l’importanza del processo processuale.
In tale esperienza il risultato non è separato dal processo che lo determina, ma conta tanto l’esito
raggiunto quanto il cammino fatto.
Secondo Dewey esiste un fondamento naturale dell’attività estetica, che serve per sottolineare come i
modi dell’esperienza si inaugurano con una sorte di separazione, SCISSIONE tra emozione-ragione (Arte
valore emotivo, deve suscitarci emozioni, ma c’è anche un aspetto cognitivo nell’apprezzamento dell’arte),
attività pratiche e intellettuali, lavoro e cultura, io e mondo.
Dewey prova a riportare in connessione questi elementi, che nella modernità vengono invece letti come
elementi separati tra loro.
Questa scissione, infatti, rendeva difficile una fruizione dell’opera d’arte, spesso infatti è confinata in musei
e gallerie ed isolata dal proprio legame con il mondo e con le forze che l’hanno prodotta e resa vitale.

Il termine ESPERIENZA è un termine complesso, MATTEUCCI, ritiene che la contrapposizione tra io-mondo,
sia una separazione fittizia, non c’è questa separazione ma questi si trovano in un rapporto di
corrispondenza, siamo noi stessi ambiente.
È proprio questa idea di azione ristretta tra io e mondo, soggetto, oggetto che portò alla presenza di
ambienti trasparenti.
es: Scuola che ha una vetrata che collegava la piazza e l’atelier.

CAPITOLO 3 : “FARE ESPERIENZA”


L’esperienza accade continuamente e spesso non è del tutto compiuta in quanto vi può essere distrazione,
cioè, non avviene un accordo tra ciò che osserviamo e tra ciò che pensiamo.
La vera esperienza si ha nel momento in cui si porta a compimento il proprio percorso.
Ad esempio, quando un lavoro è compiuto in modo ottimale, un gioco è stato portato a termine o una
situazione è completata in modo che la sua conclusione è un perfezionamento e non una cessazione come
scrivere un libro o consumare un pasto.

L’EMPIRISMO è un pensiero filosofico che ha origini antiche e


-pone l’esperienza come l’unica vera fonte valida di conoscenza
-riconosce che ogni verità può e deve essere messa alla prova, controllata ed eventualmente modificata
Gli empiristi hanno parlato di esperienza in generale, nel pensiero antico l’empirismo è rappresentato
soprattutto dagli epicurei e dagli storici, nell’età moderna da Bacon, Locke (idee su cui si fonda la nostra
conoscenza non sono innate, ma vedono la loro provenienza nella sensazione e nella riflessione) e Hume.

Secondo Dewey, quando parliamo di “linguaggio parlato”, parliamo di esperienze che sono singolari e
ognuna è dotata di un proprio inizio e di una propria fine.
L’esperienza è definita da quelle situazioni e da quegli episodi a cui ci riferiamo immediatamente
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indicandoli come “vere esperienze”; da quelle cose di cui diciamo, ricordandole, “quella è stata
un’esperienza”.
Al tempo stesso non si sacrifica l’identità specifica delle parti.
(Esempio pratico: una particolare tempesta che si è incontrata attraversando l’atlantico, quella tempesta
che nella sua furia, per come se ne è fatta esperienza, è parsa riassumere in sé tutto ciò che può essere
tempesta, in se stessa compiuta, che spicca perché si distingue da ciò che è successo prima e da ciò che è
venuto dopo.)
Nessun pensatore può dedicarsi alla sua occupazione se non è affascinato e gratificato da esperienze che
siano dotate di valore.
Senza di esse non saprebbe mai che cosa bisogna davvero pensare e non riuscirebbe affatto a distinguere il
pensiero vero da un pensiero falso.

Dewey parla anche di psicoanalisi e in particolare di Jung, nel 900 entrò a contatto con Freud e aderì
all’associazione psicoanalitica internazionale, successivamente rompe i rapporti con Freud e chiamò la
propria teoria PSICOLOGIA ANALITICA.
Secondo Dewey «Le idee sono fasi, distinte emotivamente e praticamente, di una qualità sottostante in
sviluppo; ne sono le variazioni dinamiche, non separate e indipendenti come le cosiddette idee e
impressioni di Locke e di Hume, essendo invece sfumature sottili di una tinta pervasiva e in divenire».
Locke e Hume distinguono le idee e impressioni, mentre per Dewey NON c’è una distinzione tra
impressioni e idee, ma c’è invece una variazione dinamica, una unitarietà.
Quando parliamo di un’esperienza di pensiero, diciamo che raggiungiamo o traiamo una conclusione.
In un’esperienza di pensiero le premesse emergono solo quando una conclusione si manifesta.
Una “conclusione” non è una cosa separata e indipendente; è il perfezionamento di un movimento.

Una esperienza di pensiero ha la sua propria qualità estetica, viene distinta da quelle esperienze che sono
riconosciute come estetiche, ma solo per i suoi materiali.
L’estetico non può essere nettamente distinto dall’esperienza intellettuale dal momento che
quest’ultima deve avere un marchio estetico per essere in sé completa.
Solitamente si parla di esperienza estetica quando si parla di belle arti, ma anche altre esperienze possono
avere qualità estetica: un pranzo a Parigi, tempesta, e anche l’esperienza intellettuale,
La medesima affermazione resta valida per un agire che si svolga su un piano prevalentemente pratico,
cioè, la medesima affermazione resta valida non solo quando facciamo esperienze intellettuali, ma anche
pratiche possiamo parlare di esperienze di tipo estetico.

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IL TEMA DEL BUON COMPORTAMENTO
Quando facciamo delle azioni, anche quelle normali, che possono avere qualità estetiche, spesso vi è
anche una dimensione ANESTETICA perché si svolge un compito senza davvero farlo con passione e ciò
mostra la dimensione anestetica.
In buona parte della nostra esperienza non ci curiamo della connessione di evento con ciò che è accaduto
prima e con ciò che viene dopo, ciò è il modo di vivere anestetico.
Ciò che è anestetico è chiudo entro due confini

o Il primo è che l’esperienza anestetica non inizia in un luogo particolare e non finisce in un luogo
particolare
o Il secondo è che l’esperienza subisce una sorta di arresto in quanto vi sono delle parti che hanno
tra loro sono una connessione meccanica

I NEMICI dell’estetico non sono né il pratico e neanche l’intellettuale ma sono la


-Monotonia
-Fini vaghi, quindi, non vi è una finalità specifica
-Sottomissione a convenzioni nella prassi e nel processo intellettuale

Aristotele ritiene che la perfezione sta nel MEDIO PROPORZIONALE.


Ogni esperienza completa si muove verso una conclusione, verso una fine, in quanto cessa solo quando le
energie attive al suo interno hanno svolto la propria opera.
Questa chiusura di un circuito d’energia è l’opposto dell’arresto, della stasi.
Si può godere anche di lotta e conflitto, sebbene portino dolore, quando li si sperimenta come mezzi per
sviluppare un’esperienza, anche la lotta, il conflitto e il dolore possono essere elementi estetici.
In ogni esperienza c’è un elemento di patimento, di sofferenza in senso lato.
Poche esperienze estetiche intense che sono interamente gioiose.

IL TEMA DELLA DIMENSIONE EMOTIVA


Le emozioni quando sono significative sono una qualità di esperienza complessa che si muove e cambia.
L’esperienza è emotiva ma in essa non ci sono cose separate chiamate emozioni, per diventare emozioni, i
riflessi automatici devono diventare parti di una situazione complessiva e duratura che include un
interesse per gli oggetti e i loro esiti.
L’esperienza, quindi, assume un carattere estetico anche se non è prevalentemente esperienza estetica.
Secondo Dewey ci sono
-schemi comuni in diverse esperienze
-condizioni che vanno soddisfatte senza le quali non può formarsi l’esperienza
Vi è interazione anche tra soggetto e ambiente, l’esperienza del bambino può essere intensa ma a causa
della carenza dell’esperienza passata, l’esperienza vissuta nel presente può non avere una grande
profondità.
Anche gli adulti però vivono questi limiti quando vivono in un ambiente umano frettoloso e impaziente.
Il soggetto cerca di fare il maggior numero di cose nel tempo più breve.

Dewey, quindi, sostiene che l’estetico è lo sviluppo dei tratti che appartengono ad ogni esperienza.
Arte significa processo fattivo e creativo e ciò è valido sia per la bella arte che per l’arte tecnologica.
La parola “estetico” si riferisce all’esperienza in quanto valutativa, percettiva e fruitiva.
Quindi parliamo del punto di vista di chi consuma e non di chi produce.
Si tratta del GUSTO.

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Esempio: È come nel cucinare, in cui è chiaro che l’azione abile ricade dalla parte del cuoco che prepara
mentre il gusto ricade dalla parte di chi consuma.
Quando la soddisfazione sensoriale di occhio e orecchio è estetica, essa è tale perché non è a sé stante ma
è legata all’attività di cui è conseguenza.

CAPITOLO DIODATO: IMMAGINE ARTE E VIRTUALITA’


Oggi, esistono varie definizioni di arte, non dobbiamo chiederci cos’è, ma piuttosto come si manifesta, non
ne esiste un’unica manifestazione ma si manifesta attraverso vari elementi:

- Creare una relazione con l’immagine (immagini in cui noi stessi ci relazioniamo)
- La potenza dell’immaginazione
- La forza dell’immaginario (l’immagine è qualcosa di collettivo, che condividiamo)
BOHME, in particolare, ritiene che il modo in cui noi percepiamo ci esonera dall’obbligo secondo cui è
necessario fondare su qualche sostanza tutto ciò che esiste in forma relazionale o mediale.

Oggi l’esperienza avviene anche negli ambienti mediali, ciò dunque non si fonda su una sostanza fisica, ma
su una percettiva.

Diodato, a partire da questa considerazione riprende una distinzione tra:

REALTA’ EFFETTUALE (Ciò che è effettivamente reale nella percezione)


REALTA’ FISICA (È reale solo ciò che si dà percezione)

Questa tende a privare le relazioni della virtualità, assimilandole a puri fenomeni.

Secondo Dewey, c’era una coincidenza fra arte ed esperienza.


Questa coincidenza ci interessa perché secondo Diodato è parallela a ciò che avviene nella realtà virtuale.

Abbiamo una CONVERGENZA stretta e determinata tra ESTETICA (ciò che percepiamo) e ONTOLOGIA (ciò
che è la realtà), per la quale appunto convergono in unità l’arte come questa opera e l’arte come questa
esperienza.
Questa convergenza può valere a 2 LIVELLI:

• PARTICOLARE
• GENERALE
Secondo Diodato l’esperienza estetica è perfezione e comprensione.
Si passa anche da una INTERAZIONE a una TRANSIONE, l’esperienza è una sintesi di materia e atto e tale
sintesi è la transizione.

Dewey quando parla di “ESPERIENZA IN GENERE” parla di una sorta di interazione tra organismo e
ambiente dalla quale risulta un adattamento.
Dewey si riferiva ad un mondo in cui le tecnologie non esistevano, il cosiddetto ambiente naturale, oggi il
nostro attuale comune ambiente ha dei tratti dell’immaginario mediale.

Le nuove tecnologie consentono di intervenire sulla carenza adattiva tipicamente umana e la tecnica può
essere utilizzata come protesi naturale.
E’ utile fare riferimento
-Alla metafora della deterritorializzazione
-Al concetto di video sfera
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Secondo Diodato, per comprendere la relazione tra arte e nuove tecnologie è necessario esaminare i
concetti di:
- VIRTUALE
- CORPO VIRTUALE, Si intende un ambiente relazione interattivo

Quando parliamo di ontologia del corpo virtuale, parliamo di CARATTERISTICHE che determinano lo stesso
corpo virtuale. QUALI?

INTERMEDIARIETA’ (Corpo intermediario, ci dà accesso ad un ambiente terzo)


VIRTUALITA’ (Concetto molto antico)
I corpi virtuali sono realtà intermediari per due ragioni fondamentali:
-Il corpo ambiente-virtuale in quanto si fenomenizza nell’interattività sfugge alla scissione tra
“interno” ed “esterno”
-Non è né un prodotto cognitivo della coscienza, non è immagine della mente

Il corpo virtuale è un ente che esiste in quanto incontro tra una scrittura digitale e un corpo reso a essa
sensibile, e quindi come interattività costitutiva, e ciò induce a concepire la relazione (l’incontro) come in
sé costitutiva di entità e quindi distinta dalle proprietà relazionali, e a costruire un’ontologia, ancora in
gran parte inedita, delle relazioni, riconoscente ampliamento dell’arredo del mondo (Nuovo modo di
abitare il mondo).

HUSSERL, è tra i fondatori della fenomenologia, e parla di:

- MONDO DELLA VITA: Esperienza pura


- DOXA: Immagini che ci creiamo del mondo tramite la conoscenza sensibile.
È una forma di esperienza che è sapere, un sapere che dà forma all’esperienza quotidiana.
Ci orienta al modo in cui ci muoviamo nella vita.
La doxa è connessa a dispositivi interagenti, che sono oggi tecnologie complesse, da esaminare
nella loro struttura e per i loro effetti.
L’emergere della tecnologia porta ad una revisione della fenomenologia.
La fenomenologia è il modo in cui facciamo esperienza in maniera fonemica.

Le tecnologie oggi non sono strumenti, ma sono il nostro eco-ambiente, l’ambiente naturale e sociale
della nostra vita.

Le tecnologie della comunicazione sono essenzialmente potenti, poiché l’essere umano è per essenza una
relazione comunicativa. Il termine medium, come ha perfettamente visto Benjamin, indica il modo
secondo cui si organizza la percezione umana.

NB: Secondo Diodato Per rendere l’esperienza estetica è fondamentale la RELAZIONE PARTECIPATIVA

BENJAMIN, parla di RIPRODUCIBILITA’ DELL’OPERA (Più persone ne fruiscono), la questione della


riproducibilità dell’opera è connessa alla relazione tra opera ed esperienza.
Siamo di fronte a una sostanziale novità, dal momento che l’opera d’arte virtuale non è intrinsecamente
riproducibile, perché incorpora, in quanto interattiva, in modo inedito l’azione del fruitore, ovvero perché
l’azione del fruitore costituisce l’essere dell’opera, la sua struttura ontologica, proprio in relazione alla sua
essenza virtuale.
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L’aspetto “fondamentale” dell’interattività introduce sia nell’opera sia nella fruizione dell’opera un
elemento di imponderabilità (Non è prevedibile il modo in cui ci muoviamo negli spazi), tale da far sì che
l’essenza digitale, cioè numerica, e quindi “programmatica” dell’opera, immetta una componente di
indeterminismo.

Si cita MONTANI, che ci dice che «L’interattività destinata a prendere il posto della cooperazione
interpretativa è tale solo quando venga autorizzata (o si autorizzi da sola) alla modifica, per espansione o
per alterazioni, del testo (audiovisivo o di altro tipo) di partenza. Il testo (Testo di un’opera, la sua
struttura), in tal modo, perde i requisiti dell’opera per assumere quelli di un processo evolutivo aperto».
Es: Installazione che riguarda il tema della musica, si attiva se c’è una interazione degli utenti con lo spazio
(Spazio musicale in questo caso).

La parola filosofica per indicare l’imprevedibilità è CONTINGENZA: si dà interattività se l’ambiente è


contingente, e circolarmente l’ambiente è contingente se si dà realmente interattività.

L’ambiente virtuale non è che l’attualizzazione del contenuto di una memoria digitale, la messa in scena
di un algoritmo elaborato in sistema binario, si articola in modo inedito il rapporto tra àisthesis
(percezione) e nòesis (elemento soggettivo dell’esperienza: immaginazione/ giudizio).

Il corpo virtuale pare possedere almeno una qualità differente rispetto ai corpi che siamo soliti chiamare
reali, in quanto il corpo virtuale sfugge in modo più chiaro rispetto ai corpi cosiddetti reali alla scissione
esterno-interno: data la sua origine digitale e la sua natura interattiva il corpo virtuale coincide con la sua
storia, è un processo, ma non è soltanto la somma di fasi numericamente differenti in quanto la trama del
corpo dipende dall’interattività, si svolge come azione per un soggetto e da tale attività acquista
un’identità relativa, fluttuante in quanto dipendente.
I corpi reali esistono anche senza interazione/quelli virtuali esistono solo in una dimensione interattiva.
Il corpo-ambiente virtuale include l’esperienza dell’utente.
In esso la possibilità per l’utente di manipolare la propria prospettiva facendola diventare luogo di
esperienza si coniuga alla possibilità di apprendere per immersione, fino a consentire, per gradi differenti,
l’appropriazione di punti di vista propri di altri utenti.

Se supponiamo di considerare a questo livello l’esperienza estetica come relazione con ciò che un certo
sistema di prassi e di valori indica essere opera d’arte, e quindi all’interno di una variegata ma riconoscibile
tradizione, allora dovremmo pensare l’esperienza estetica privandola della distanza, che è stata condizione
di possibilità di una forma rilevante del valore artistico, e di pensarla piuttosto nella dimensione del
risucchio, dell’ingresso da parte del fruitore nel corpo dell’opera e insieme dell’opera nel proprio corpo, o
immaginario.

Le opere d’arte che siano dei corpi-ambienti virtuali, non sono ancora state create ma sono state create le
prime sperimentazioni, cioè

• INSTALLAZIONE “OSMOSE” DI CHARLOTTE DAVIES DEL 1995, si esce dalla percezione che di solito
abbiamo nel nostro corpo, siamo immersi in un altro ambiente.
• CHALKROOM DI LAURIE ANDERSON, possiede un certo carattere tattile, sembra quasi uno spazio
fatto a mano, è l’opposto di come normalmente appare la realtà virtuale, è un viaggio in un
ambiente sono e verbale
• “CARNE Y ARENA” DI ALEJANDRO INARRITU, venne realizzata in tre luoghi differenti, tra cui
Milano, Inarritu è un regista che colloca l’utente tra un gruppo di migranti che tenta di oltrepassare
il confine tra il Messico e gli Stati Uniti.
Parliamo di un’empatia dello spavento, un tratto traumatico che viene percepito da chi sa di

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partecipare ad un pericolo senza essere preparato. “NAUFRAGIO CON SPETTATORE”

Se la tecnologia venisse utilizzata per altre esperienze estetiche artistiche e non solo per marketing
potremmo affrontare diverse esperienze di socializzazione, condivisione.
Parliamo di esperienze che servono per costruire l’identità unica di appartenenza.
In questa visione vediamo gli artisti come attivi costruttori dello spazio pubblico partecipativo.

Si è impegnata in questo senso la ricerca di Studio Azzurro:


Si tratta di pensare al futuro e al passato personale e collettivo per farlo diventare un progetto.
Nel caso del progetto di “PORTATORI DI STORIE” le persone possono fermare con una mano le persone che
si vedono nelle immagini e chiedere di raccontare la propria storia.
( lo spettatore tocca il corpo virtuale con la propria mano)

Le opere di Studio Azzurro, da un punto di vista iconografico, si rifanno in gran parte alla complessa e
illusoria scenotecnica delle composizioni barocche, dunque a opere che, secondo Benjamin, sono alla base
di una visione ottica. Il livello immersivo dell’installazione video comporta già di per sé un tipo di
percezione corporea da parte dello spettatore; tale approccio
fisico del fruitore aumenta naturalmente negli ambienti sensibili grazie all’utilizzo del dispositivo
interattivo che aumenta il gradiente tattile.
I bambini, in questo contesto di indagine dal vero, trasformano gli strumenti tecnologici in un invito a
soffermarsi dove di solito l’occhio non guarda e la mente non si posa, in alleati per dilatare il tempo
dell’ascolto, della scoperta e dell’immaginazione. L’idea di indagine grafica può rinnovare la nostra idea di
materia segnica, apre una riflessione sulla natura del segno.

Dov’è che i bambini possono incontrare e costruire segni? La grafica 3d che proponiamo esce
dallo spazio bidimensionale e incontra l’ambiente: lo spazio, l’architettura, gli oggetti tridimensionali e i
corpi dei bambini. Dare la possibilità ai bambini di rappresentare nello spazio tridimensionale un soggetto
vivente è capire e condividere con lui il suo contesto di vita, la sua ombra, il suo riflesso, il suo
orientamento strutturale nell’ambiente.

A queste tematiche si legano gli ambienti digitali realizzati nel REGGIO EMILIA APPROACH

SPIEGAZIONE AMBIENTE DIGITALE INIZIATIVA REALIZZATA IN COLLABORAZIONE TRA REGGIO EMILIA


APPROACH E L’UNIVERSITA’ DI MILANO BICOCCA.
Partono con l’idea di condividere e approfondire esperienze e sperimentazioni in cui le tecnologie digitali
contribuiscono ad aumentare ed arricchire contesti didattici in cui i cento linguaggi dei bambini possano
trovare un luogo e un modo di espressione.
Gli insegnanti, attraverso la partecipazione alla “tre giorni reggiana” hanno avuto modo di comprendere
come utilizzare i dispositivi tecnologici a favore dello studente.
A scuola la tecnologia entra nel quotidiano, non si sostituisce a nulla, è un qualcosa in più, crea un
ambiente in cui i bambini possono socializzare in modo diverso.

Negli ambienti digitali che stiamo esplorando, come tutti i contesti educativi della scuola e del nido, i
bambini agiscono come autori e costruttori del proprio sapere e dei propri immaginari individuali e
collettivi.
Mettono fuori gioco un’idea di tecnologia anestetica e accentratrice e ne rendono visibile un’altra,
amplificatrice e generativa, in dialogo con il profumo del muschio e del crescere della vita.

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Monitor, web cam, proiezioni, oggetti e materiali di molte qualità, costituiscono i piccoli set interattivi
che possono ricreare, ingrandire, proiettare immagini cariche di visionarietà.
Le proiezioni negli spazi riportano un esterno interpretato dai visitatori, dalle immagini e dai pensieri scelti
per costruire ambienti, decostruirli, ricostruirli, reinventarli e nei quali immergersi. Le proiezioni si posano
su diversi materiali e oggetti che accolgono la luce, la riflettono, la oscurano…
Oggetti e materiali che costruiscono giochi di luce e proiezioni mettendo in evidenza altre

RIASSUNTO SEMPLICE DA IMPARARE!!!!!!


-Si passa da un approccio anatropo-centrico ad un approccio ecologico, quindi dalla visuale dell’uomo
come al centro dell’universo ad una visuale in cui l’uomo è una specie in relazione con altre
-Aderire alle tecnologie digitali e alle modalità conoscitive spontanee dei bambini
-Coabitazione tra analogico e digitale
-I materiali tecnologici non provengono dalla natura ma vengono estratti e poi portati in un ambiente
naturale
-Mescolanza tra natura e artificio
-Mescolanza tra materialità e immaterialità
-Differenza tra la percezione multi dimensionale e relazionale

IL CONTINUO DI DIODATO
Arte come occasione di esperienza collettiva e partecipativa orientata al futuro, a forme e linguaggi non
standardizzati che invitano al superamento dei cliché (luoghi comuni) percettivi e cognitivi, che avviene
quanto più saprà dialogare con quelle tendenze aperte della progettazione urbanistica e territoriale.

Questa questione della progettazione urbanistica e territoriale è posta con chiarezza da Nicolas Bourriaud:
«L’arte è il luogo di produzione di una partecipazione sociale specifica; resta da vedere qual è lo statuto di
questo spazio nell’insieme degli “stati d’incontro” proposti dalla Città».

Un’arte centrata sulla produzione di tali modalità di convivialità. Per pensare quale sia “lo statuto di questo
spazio” di partecipazione sociale nell’insieme degli stati d’incontro proposti dalla Città” è necessaria
un’idea di CITTA’.

*Città luogo in viene data vita a elementi generali di senso.


Non è uno spazio-ambiente, ma uno SPAZIO-PAESAGGIO.

Ciò che Diodato chiama paesaggio, urbano e non urbano, non è di per sé riducibile alla realtà fisica di un
ambiente, e nemmeno a un ecosistema. Non una porzione circoscritta di spazio, contenente una somma di
elementi capaci di manifestarsi nella forma di una totalità omogenea e staticamente identitaria, ma un
sistema complesso in continuo divenire.

Un sistema complesso in grado di accompagnare e implementare, realizzare un’identità culturale


conservandone e trasformandone la memoria, e così da consentire l’abitare umano, che è stare e, insieme,
oltrepassare. Il paesaggio come finitezza aperta: un dispiegarsi di potenzialità immaginative, condizione di
possibilità di relazioni, di luoghi di incontro e costituzione di processi identitari.

Parliamo di una prospettiva sistemica, in cui la città si configura come un insieme maggiore della somma
degli elementi che la compongono, un insieme aperto che produce nelle relazioni che esso stesso consente
e che ne costituiscono la natura, un’emergenza di senso continuamente variabile.

*La totalità degli elementi non sono sola la somma, ma danno vita a qualcosa di più.

È opportuno tener conto del modo di esistere degli elementi che la costituiscono e dei modi della loro
intervenienza.

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Ma un elemento come il museo, oppure un elemento come il quartiere, come possono interagire tra loro
e con altri modi di essere della e nella città?

Possono interagire ripensando agli spazi della città come luoghi educativi. (Es. “Scuola diffusa” Reggio
Emilia).

Proprio dell’idea di sistema aperto è di essere proiettabile sugli elementi: il museo, il quartiere, le altre
istituzioni, qualsiasi persona che le abiti e le viva immaginandone l’esistenza e quindi rendendole possibili,
ciascuno di questi elementi di per sé preso è infatti un sistema complesso.

Melvin Webber, che già negli anni Sessanta, nel saggio The Urban Place and the Nonplace Urban Realm,
trattava di “ambito urbano delocalizzato”, ambito privo di centro, che minaccia la possibilità
dell’orientamento sensitivo, e quindi la stessa idea di spazio, al punto da richiamare per analogia l’idea di
labirinto, che corrisponde per definizione all’assenza di centralità».

Nell’epoca della disarticolazione temporale dell’esistenza, l’accesso pubblicitario al sistema delle merci e il
linguaggio dei consumi acquistano perciò rilievo notevole per la costituzione dell’identità
poiché creano micronarrazioni del sé, apparecchiano la frammentazione in un ritmo sufficientemente
armonico da poter essere apprezzato. *Dewey ritiene che l’epoca
dell’industrializzazione di massa richiami all’idea di frammentazione e all’impossibilità, dunque, di fare
esperienze profonde.

Le serie televisive, le pagine personali su Facebook e su Instagram, la pratica del selfie si articolano come
procedure di costituzione di identità fluttuanti che divengono discorsi, possibilità intersoggettive di
narrazione. *Oggi le identità e la loro costituzione non avviene solo tramite un solo canale, ma tramite
varie identità, anche digitali che passano tramite la mediazione di vari canali.

Ora è in questo ineludibile spazio-tempo che dobbiamo concepire forme-valore relazionali: paesaggi,
atmosfere, complessità sistemiche.

Spazio che è insieme appartenenza e mobilità, che in quanto fisico-storico genera dinamismi che mediano
tra collettivo e singolare, e stringono insieme natura e cultura.

Connettere la ricerca sul senso della località, della spazialità sensata, con la ricerca sulle mutazioni
dell’àisthesis in epoca neo-tecnologica e infine con le sperimentazioni artistiche che, coinvolgendo i
territori, aprono prospettive di espressione innovativa dell’immaginazione e costruzione di un immaginario
relazionale.

Elaborare forme attive di relazione non solo è possibile ma necessario per evitare che la dimensione
estetica si riduca alla ripetizione dello stesso, a processi di simulazione sempre più raffinati e pervasivi.
Spesso le tecnologie dissimulano ambienti reali, in questo senso la città, può diventare un laboratorio di
scrittura in cui la memoria singolare e culturale diventa progetto.

L’esperienza estetico-artistica è strutturalmente relazionale.


Si spalanca grazie all’esperienza estetica una temporalità enigmatica e rischiosa che prende la forma della
ricerca e la potenza dell’immaginazione: esperienza come viaggio, dal quale potremmo ritornare esperti
almeno di dimensioni dell’esistere insospettabili a uno sguardo totalizzante e sedativo, che pretende di
tradurre l’esperienza in formule definite e definitive.
*Progetti conoscitivi come viaggio e rischio, che vale la pena correre in quanto potremmo ritornare esperti.
L’esperienza estetica come naufragio dei nostri cliché percettivi, non solo le nostre idee sul mondo, anche
se i cliché percettivi sono assai più difficili da trasformare delle idee, perché sono radicati nel corpo e
sembrano massimamente naturali.
*Esperienza legata a tecnologie come modo di modificare idee e cliché percettivi
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(Esperimento con visori, ad esempio, in cui la percezione della realtà è differente, non riusciamo a vedere
guardando dall’alto al basso il nostro corpo).

IL CONTRIBUTO DI DEWEY
L’uomo vede nei dispositivi tecnici, negli oggetti, aspetti che vengono percepiti tramite l’immaginazione.
Prima ancora di potersi specializzare in qualcosa che assomiglia all’arte (per es. alla pittura rupestre) la
sensibilità umana si sarebbe esercitata creativamente nell’invenzione tecnica.
In altri termini: una creatività finalizzata alla progettazione e alla produzione di utensili e sostenuta da una
sensibilità che si riconosce e si prolunga in quegli utensili dev’essere considerata come più originaria
rispetto a quella creatività che si esercita più o meno liberamente, e comunque in assenza di scopi
determinati, in ciò che la modernità ha chiamato “arte”.
La qualità delle prestazioni dell’aisthesis all'orizzonte della tecnica dev'essere ulteriormente esplorata, con
particolare riferimento alle situazioni che potrebbero interferire con il suo standard "fisiologico"
deprimendone il tenore elaborativo.

ll pragmatismo di Dewey è infatti una filosofia militante, che non si sottrae alla responsabilità di definire
ciò che appare più meritevole di essere elevato a dignità di oggetto di riflessione. In particolare, ciò vale sul
concetto di ESPERIENZA, che riposa su un'assiologia (ovvero una dottrina dei valori, che distingue ciò che è
una semplice realtà di fatto, da ciò che noi consideriamo più o meno importante), del tutto esplicita,
relativa alle specifiche condizioni di sussistenza e di autocomprensione della vita biologica dell'essere
umano, a cominciare dalle modalità, non generalizzabili, del suo adattamento tipicamente contrassegnato
da:

- espansione e trasformazione, Secondo Dewey noi abitiamo il mondo dando vita a processi di espansione e
trasformazione.

È sotto questo profilo che Dewey può arrivare a determinare i connotati di un'esperienza genuina,
contrapponendoli a quelli di un esperire inautentico o anestetico.
Quella di Dewey è un'estetica che pone al centro della riflessione l'interazione tra la peculiare sensibilità
del corpo umano:

• PULSIONALITA’
• PERCEZIONE
• IMMAGINAZIONE
• EMOZIONI
• SENSO DEL POSSIBILE
• BISOGNO DI CONDIVISIONE
• CIO’ CHE QUESTA SENSIBILITA’ RICEVE, ELABORA E TRASFORMA

Quello che l’aisthesis umana riconosce nell’ambiente è una indeterminata e ricca molteplicità di stimoli da
cui estrapolare di volta in volta le proprietà che fanno dell’ambiente reale un ambiente che appare
disponibile.

LA PROPRIETA’ SOPRAVVENIENTE
La differenza più importante discende proprio dalla distinzione tra salienza e sopravvenienza e si può
cogliere nel carattere concentrato e intenso della prestazione creativa che l'immaginazione ha dovuto
impegnare ipotizzando l'emergenza di una regola non immediatamente visibile (non "saliente", appunto)
nell'atto di ispezionare un oggetto o un materiale.

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Un ambiente che coopera con le esigenze della vita solo in forza di continue riorganizzazioni del rapporto
interattivo.
Ma anche un ambiente che preserva ampie zone di irriducibilità all'azione organizzante dell'essere umano.
Se così non fosse, del resto, l'esperienza umana perderebbe ogni autentica creatività.
L'apertura filosofica dell'estetica di Dewey è particolarmente idonea a fungere da termine di confronto
rispetto ad alcuni eventi tecno-estetici che caratterizzano il nostro tempo, a come quest'ultima sia
diventata, da qualche decennio in qua, oggetto di profonde trasformazioni che hanno comportato il
profilarsi di nuovi paradigmi concettuali e disciplinari (dalla bioetica alla biopolitica, per fare solo due
esempi) e oggetto di una crescente progettazione tecnica (dalle biotecnologie alle protesi della sensibilità).

L'estetico allo stato grezzo, secondo Dewey, è una qualità che traspare dall'operare tecnico dell'uomo e
dai suoi artefatti quando questi si mostrino dotati della capacità di far sentire l'espansione della vita in
forme di organizzazione dotate di coerenza e di unità. Una capacità che, secondo la tesi centrale e
caratterizzante del libro di Dewey, si manifesta nelle opere d'arte in modo sviluppato.

Da questo punto di vista, l'arte è una modalità di esperienza "ben formata" la quale esibisce sé stessa,
senza altri scopi, nel suo organico procedere verso una
"consummation", una sanzione di compimento che non coincide con la conclusione del processo
esperienziale perché, piuttosto, è incorporata nell'opera stessa, è l'opera stessa in quanto modello di un
"buon" esperire.

Ma non bisogna dimenticare - anche se Dewey è spesso incline a farlo - che un "buon" esperire è,
innanzitutto, un modo di accertare che l'espansione della vita umana si avvale "naturalmente" di
artefatti tecnici.

La seconda conseguenza dell'opzione teorica di fondo dell'estetica filosofica deweyana è la seguente: il


fatto che l'adattamento della creatura vivente umana sia caratterizzato da espansione e trasformazione
non garantisce che la sensibilità dell'uomo sia sempre all'altezza della prestazione creativa connaturata al
suo esperire.

È vero, piuttosto, che può capitare all'uomo di volersi sottrarre alla ricchezza e alla complessità della
stimolazione sensibile cui è aperto e che il suo modo di interagire con l'ambiente si indebolisca, si
contragga e si irrigidisca in schemi ripetitivi perdendo, in ultima analisi, proprio il suo carattere interattivo.

È un tema che Dewey esprime, per esempio, in questa notevole riflessione: "L'esperienza è il risultato, il
segno e la ricompensa di quella interazione tra organismo e ambiente che, quando raggiunge la pienezza, si
trasforma in partecipazione e comunicazione. Poiché gli organi sensoriali, con il relativo apparato motorio
che vi è connesso, sono i mezzi di questa partecipazione, ogni e qualsiasi loro indebolimento, sia pratico
che teorico, è al tempo stesso effetto e causa di un'esperienza di vita ridotta e offuscata”.
«Le opposizioni tra mente e corpo, anima e materia, spirito e carne hanno tutte origine fondamentalmente
nella paura di ciò che la vita può produrre. Sono segni di contrazione e di arretramento».

Altrove Dewey parla, a questo proposito, di "esperienze anestetiche", e le caratterizza da un lato come
esperienze frammentate e inconcludenti, incapaci di legarsi organicamente in un tutto. Dall'altro le
caratterizza come esperienze congelate e irrigidite, incapaci di rompere il rassicurante protocollo di una
connessione puramente meccanica.
Bisogna qui aggiungere che senza una qualche parziale anestetizzazione l'esperienza dell'uomo, proprio
in forza del suo peculiare radicamento in una sensibilità aperta a tutti gli stimoli, risulterebbe, per così
dire, sovraesposta, frastornata e disorientata dalla molteplicità dei segnali ricevuti.

Cosicché una delle funzioni dell'arte sarebbe proprio quella di costituirsi come una zona franca in cui a
questa pluralità si potesse dare libero corso, con l'obiettivo di esibire il lavoro con cui essa riesce
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comunque ad accedere alla sanzione di una forma compiente.
O addirittura a mancarla, mostrando tuttavia le motivazioni di questo fallimento - cioè mettendole in
forma.

La conclusione è che la riflessione di Dewey deve indurci a porre sotto osservazione il dosaggio tra quanto
di estetico e quanto di anestetico è necessario che intervenga nella relazione tra organismo e ambiente
affinché questa salvaguardi il suo genuino carattere interattivo e a domandarci se nella determinazione di
questo dosaggio i dispositivi tecnici a cui la creatura vivente umana delega parti crescenti della sua
aisthesis non rivestano un ruolo particolarmente incisivo.

L'estetica di Dewey, dunque, legittima il dubbio che un eccesso di delega nei confronti dei dispositivi
tecnici nei quali si prolunga la sensibilità umana comporti un'interruzione del carattere genuinamente
interattivo della nostra relazione con l'ambiente trasformandola in una relazione tendenzialmente
autoreferenziale, nella quale ciò che definiamo "ambiente" avrebbe perduto precisamente il tratto
dell'imprevedibilità e della contingenza e dunque non presenterebbe più, tendenzialmente, alcun
elemento di sopravvenienza.
Se così fosse, infatti, esso avrebbe perduto proprio quella capacità di opporre resistenza nella quale risiede
la motivazione principale dei processi di elaborazione e riorganizzazione creativa nei quali Dewey vede, a
buon diritto, le premesse necessarie di un esperire autentico in quanto adattamento per espansione.
Bisogna dunque porre sotto osservazione i processi di tecnicizzazione della vita che, da sempre attivi, hanno
assunto nel nostro tempo connotati particolarmente vistosi, anche se ancora inadeguatamente chiarificati.
In particolare, le tecnologie della sensibilità, che oggi si servono di protesi mediali sempre più pervasive,
performative ed economicamente accessibili.

È difficile sottrarsi alla conclusione che l'orientamento complessivo della progettazione tecnica della
sensibilità si sia largamente orientato, fin qui, nella direzione opposta al concetto deweyano di
esperienza estetica, e abbia per lo più operato in direzione di un livellamento, di una contrazione e di una
potente canalizzazione del sentire. Insomma: in una direzione prevalentemente anestetica.

L'estensione del campo di influenza delle tecnologie della sensibilità in funzione vicaria non coincide, come
riteneva almeno in parte Dewey, con un dispiegamento e un'intensificazione dell'aisthesis, e si presenta,
invece, come una vasta operazione prevalentemente anestetica che tende a selezionare e a mantenere
attivi solo quei segmenti di sensibilità che possono essere canalizzati su oggetti particolari.

CASI ESEMPLARI
-Videogiochi
-Mappe interattive
-Operazioni militari eseguite su ambienti reali riprodotti in simulazione elettronica

Il compimento, la "consummation, dell’esperienza può arrivare a coincidere con la sua ottimizzazione: che
si tratti di una destinazione raggiunta col minimo dispendio di tempo e di esitazioni, o di un, azione militare
"chirurgica, affidata a un "drone, telecomandato, o di un nuovo record da iscrivere nella lista degli score di
un videogame.

Nella linea evolutiva potenzialmente dischiusa (sviluppo no definito), dalle nuove protesi tecnologiche della
sensibilità sono presenti opzioni di sviluppo che vanno nella direzione opposta a quella anestetica che si è
sostanzialmente imposta negli ultimi vent'anni.

Vorrei ora chiedermi in che cosa l'estetica di Dewey possa aiutarci nel definire meglio l’ambito di
espansione di questa possibile controtendenza?

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Montani, risponde, riprendendo da 2 CONCETTI:

- l'interazione tra organismo e ambiente (Dimensione interattiva).


È un rapporto in cui i collaboranti sono due, e che comporta, come sottolinea spesso Dewey, non
solo attività e passività ma anche il pieno coinvolgimento dei due contraenti, quindi organismo e
ambiente, in un movimento che li trascende entrambi e che non può mai essere interamente
dominato né dall’uno né dall’ altro.
- l'idea di un compimento unitario e armonico del processo esperienziale esemplarmente esibito
dall’opera d’arte.
Le arti contemporanee, soprattutto quelle che si avvalgono di nuove tecnologie, hanno spesso
enfatizzato l'idea di interattività.
Un punto che è rimasto fin qui non sufficientemente chiarificato, tuttavia, riguarda proprio il
carattere duplice dell’interazione.

Se fossimo ancora disposti a considerare l'interpretazione deweyana dell'esperienza come un modello


dotato di adeguatezza empirica, in quali esperienze particolari ci aspetteremmo di poterlo trovare?

Possiamo trovarla:

• agli ambienti associati all'invenzione tecnica vengano restituite le proprietà che fanno di un
ambiente qualcosa di non calcolabile e di non programmabili
(Ambiente in cui permane qualcosa di non calcolabile e programmabile).
Solo in questo modo una aisthesis delegata a protesi tecniche potrebbe autenticamente interagire
con un ambiente simulato e dar luogo a esperienze autentiche.
In questo quadro è facile concludere non solo che il concetto di esperienza elaborato da Dewey
resterebbe del tutto valido, ma anche che le forme specifiche di cui si potrebbe avvalere per
lasciarsi esibire sono ancora ben lontane dall'essere state esplorate e chiarificate.
• La seconda considerazione mette l'accento sulla discontinuità e sulle differenze.
ll problema relativo alla capacità delle nuove tecnologie dell'immagine di dar vita a processi di
elaborazione di carattere non linguistico (o non solo linguistico).
*Immagini hanno valore sempre più importante rispetto al linguaggio verbale.

Questa questione della dimensione rilevante delle immagini può essere presa in considerazione da 2
VETTORI:

 Il primo, che si potrebbe definire ipermediale, riguarda la progettazione puramente sensazionale


dell'immagine, la sua totale indifferenza per ogni sua possibile prestazione critica ed elaborativa
integralmente sopraffatta dalla potenza delle sensazioni. (Immagine pensata solo per imprimere
impressione sullo spettatore (il cosiddetto marketing esperienziale), e suscitare desideri emulativi
di simulazione). *Esagerazione della dimensione sensazionale.
 Il secondo, che si potrebbe definire ipomediale, è sicuramente meno appariscente ma, a giudizio
di Montani, molto più incisivo e sempre più pervasivo. È il caso, per più versi paradigmatico, delle
forme di condivisione impostate dai principali social network, nei quali chiunque può riversare
frammenti di vita configurati grazie alla tecnologia digitale.
*Diminuzione dimensione sensazionale.

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CONCLUSIONE: QUALE RUOLO GIOCANO LE IMMAGINI OGGI NEL SOGGETTO LE NUOVE DIREZIONI
DELL’IMMAGINAZIONI?

Nel prendere congedo da Dewey, resta ancora da precisare quale possa essere il ruolo delle arti
nell'ambito d'azione di un'immaginazione interattiva istruita tecnicamente.

ULTIMO CAPITOLO: ARTE IN SENSO ESTETICO


L'arte come la intendiamo da circa mezzo millennio ha progressivamente indebolito la sua parentela con la
tecnica lasciando uno spazio sempre più ampio a una diversa interpretazione - quella "estetica", appunto
della sua natura e della sua funzione.

L'immaginazione interattiva quale si presenta nella prospettiva di Montani «non ha nulla di meramente
procedurale o di semplicemente ludico, anche se l'aspetto ludico tipicamente connesso con un'estetica dei
valori espositivi non va in nessun modo sottovalutato, come già Benjamin aveva messo in evidenza in una
delle varianti del saggio sull'opera d'arte.

Si tratta, piuttosto, di un'interattività selezionata da principi e da regole esplicitabili e come tale del "modo
di esistenza", delle immagini tecniche e, per tramite dei processi di riorganizzazione dello spazio che vi si
realizzano, anche della loro facoltà di permettere autentici processi di elaborazione.

«L'evoluzione delle immagini tecniche pone la questione della possibilità di stabilire un autentico processo
elaborativo, oppure dell’appiattimento su pratiche semplificate ed effimere.
Abbiamo già cominciato a percorrere un crinale che potrebbe dividere verticalmente le due prospettive.
Un compito non rinviabile quello di rafforzare, con analisi approfondite e con un gran numero di libere
sperimentazioni, il tenore critico della nostra immaginazione interattiva».

AMBIENTI MEDIALI MAIELLO “L’AMBIENTE LUDICO, MEDIA DIGITALI E TECNOLOGIE INTERATTIVE”


Oggi viviamo un processo di mediazione radicale imposta dalle tecnologie contemporanee, il saggio
prende in esame 2 aspetti principali

• Il carattere ludico delle interazioni autorizzate dai media digitali, quello che generalmente viene
indicato sotto il nome di “Gramification”
• Dall’altro, mette in relazione questa qualità dell’interazioni digitali con quella che l’autrice
definisce come “interattività aptica”, che significa che oggi i dispositivi e i software coinvolgono
sempre più il corpo dell’utente.
es: nell’estate del 2015, coca cola, ha lanciato la nuova compagna.
Si tratta di un’evoluzione della popolare e ben riuscita strategia di marketing Share a Coke: al noto
brand viene associato un nome proprio, attivando un processo di personalizzazione del prodotto
che diventa, in questo modo, un efficace elemento di condivisione attraverso le forme di
partecipazione online.
Con la nuova grazie a un’azione congiunta di più attori dell’innovazione digitale, tra cui Google,
l’installazione video permette un più articolato processo di interazione che ha lo scopo dichiarato
di creare “un ponte tra il mondo reale e il mondo digitale”. L’utente twitta il proprio nome
utilizzando l’hashtag #CokeMyName e nel giro di poco meno di un minuto questo viene
visualizzato su uno degli schermi di Times Square insieme a un aneddoto, un fatto, una statistica
relativi a esso.
Se “la storia” legata al nome viene generata automaticamente, facendo ricorso al server di Clear
Channel, un individuo in carne e ossa, invece, risponderà all’utente che ha twittato ringraziandolo
e inviando una foto scattata automaticamente da una telecamera posta in un edificio di fronte
all’installazione nella quale viene catturato il momento in cui lo schermo ha mostrato il suo nome.
L’installazione di Coca-Cola istituisce un peculiare ambiente che si sviluppa, per usare le parole di

21
tra ciò che tradizionalmente consideriamo il mondo fisico, il reale e un dispositivo della visione che
restituisce in una forma percettiva il risultato della nostra interattività. Si configura una
reversibilità tra il vedente e il visibile: lo schermo, da dispositivo della visione, si trasforma in un
“quasi-soggetto” (ci racconta una storia legata al nostro nome) implicando così la trasformazione
in “quasi immagine” dell’utente/consumatore. *Racconto, dunque, non slegato da noi, ma c’è
una interazione diretta.

L’installazione della coca cola times square si presenta come un’efficace esemplificazione di ciò che si può
definire MIXED REALITY, il mixed reality si contrappone a quello della realtà virtuale perché non va a
teorizzare una realtà simulacrale (finta), ma descrive quello che Hansen definisce l’interpretazione di
ambienti a cui si può avere accesso attraverso una percezione incarnata.
Questo paradigma prevede di spostare l’attenzione teorica dai contenuti proposti dai media e dai
dispositivi alla modalità di accesso e all’ambiente ibrido che essi istituiscono. La nostra attenzione non è
posta solo sui contenuti, ma anche sulle modalità di accesso.

Secondo Maiello, la via d’accesso all’ambiente istituito dai media digitali è innanzitutto una via ludica, che
si fonda proprio sulla capacità degli oggetti tecnici digitali di sollecitare in modo specifico la nostra
sensibilità e la nostra percezione, attraverso forme di interattività aptica.

Per poter sviluppare queste tesi è necessario, partire dal tentativo di individuare i confini del concetto di
ludico. Lo spettro concettuale (il vasto ambito di concetti legato al gioco), legato al gioco si è ulteriormente
complicato quando, con l’avvento del digitale, abbiamo assistito ad una proliferazione e intensificazione di
prassi ludiche molto diverse tra di loro.

L’affermazione del videogame, nelle sue molteplici declinazioni dalle consolle alle app, quale nuovo
formato interattivo dell’audiovisivo, ha comportato una progressiva rimediazione dei formati audiovisivi
che l’hanno preceduto, come ad esempio il cinema: sempre più spesso rinuncia alla sua ormai classica
linearità narrativa per ricorrere ad una logica ricorsiva mutuata proprio dal nuovo formato interattivo.
È sempre in questo contesto di ampliamento della cultura ludica che va inquadrata anche la massiccia
diffusione dei social network e quindi di quelle prassi mediali che caratterizzano il nostro ambiente
sempre mediato, ovvero la nostra mixed reality. Nell’ambito della progettazione della user experience e
della user interaction sempre più spesso vengono impiegate soluzioni che non appartengono direttamente
all’ambito del game design; tutto ciò va sotto il nome di gamification.

Cosa dobbiamo intendere, allora, se sosteniamo che l’accesso alla mixed reality avviene innanzitutto
attraverso l’elemento ludico, e che quindi l’ambiente mediale in cui viviamo è essenzialmente un
ambiente ludico?

Le tecnologie interattive aprono la strada a una nuova forma di ludicità fondata su un’inedita continuità
tra la vita vera e la vita giocata, tra lo spazio e il tempo del gioco e lo spazio e il tempo della vita
ordinaria.

Se in molte delle trattazioni sul gioco, come ad esempio in quella di Huizinga, il gioco viene presentato
come un allontanamento della vita ordinaria “per entrare in una sfera temporanea di attività con finalità
tutta propria”, le nuove prassi mediali, e il paradigma della mixed reality che è loro sotteso, sembrano aver
inaugurato una nuova frontiera della ludicità: oltre a giocare in senso proprio, utilizziamo modelli ludici per
affrontare le situazioni più disparate.

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QUALI SONO I MODELLI LUDICI INAUGURATI DALLA CONTEMPORANEITA’?
Maiello riprende le tesi del saggio «Homo Ludens 2.0: Play, Media and Identity». Nel saggio, muovendo
vengono declinate le caratteristiche dell’elemento ludico alla luce di quelle che vengono definite
“tecnologie ludiche”: “la ludicità non risiede in una singola caratteristica, bensì deve essere intesa come un
insieme di caratteristiche che possono comparire in un’ampia varietà di combinazioni più o meno
sovrapposte.

La tesi di Maiello è che la ludicità dell’ambiente ibrido in cui viviamo si fonda principalmente sulla
combinazione di 4 elementi:
• REGOLE → Ogni gioco ha le sue regole che vanno a determinare ciò che varrà dentro quel mondo
temporaneo delimitato dal gioco stesso ma le medesime si possono modificare e se ne possono
creare delle nuove.
• CONDIVISIONE → Il gioco crea una comunità che spesso dura ben oltre il momento del gioco
stesso.
Grazie ai social le pratiche di condivisione non sono più ristrette, non parliamo più di interazioni
che avvengono uno ad uno ma parliamo di condivisioni che avvengono su scala globale.
La condivisione diventa la finalità stessa dell’interazione ludica online.
Ogni contenuto può generare “Surplus cognitivo”.
Il surplus cognitivo è molto più della mera somma delle capacità e delle expertise di ciascun
utente, ma è il prodotto massimamente
potenziato di tale insieme, che risulta dalla condivisione collettiva occasionata da specifici eventi
mediali. Riserva massimamente potenziata di diverse conoscenze ed esperienze, risorse, risposte,
soluzioni, intorno a cui si costruiscono vere e proprie comunità
• SIMULAZIONE → Nel suo testo Huizinga individua nel “fare finta” uno dei principali elementi che
definiscono un gioco e che quindi lo collocano al di fuori della vita ordinaria.
L’ambiente ludico istituito dai media digitali mette in crisi la separazione della vita ordinaria da
quella ludica, perché, come sostiene Richard Grusin, la vita ordinaria è sempre già mediata, ovvero
si articola già sempre attraverso le regole e le dinamiche della mediazione.
È proprio nell’idea del “come se” che trova fondamento l’interattività tipica dell’ambiente ibrido in
cui viviamo, inteso:
-non come creazione di un’altra realtà rispetto a quella ordinaria.
-ma in quanto simulazione del mondo che, attraverso il processo di connessione tra ambienti,
tipico della mixed reality, risulta così aumentato.
Questo processo di simulazione si basa su un circolo sensomotorio, un continuo scambio di
informazioni tra l’interno e l’esterno, che sollecita radicalmente e in forme inedite la nostra
sensibilità.
• PIACERE APTICO→ Proprio come i giochi più tradizionali anche la ludicità della mixed reality
configura un sistema di ricompensa e competizione che agisce sul piano della visibilità e
dell’approvazione da parte di un gruppo.
Il piacere della ludicità oggi va ricercato principalmente nella configurazione tattile propria della
simulazione resa possibile dai dispositivi digitali, (interattività aptica).
Non è solo un caso che la massiccia diffusione delle pratiche dei social network abbia coinciso con
23
la diffusione su scala globale dei dispositivi mobile touch, come smartphone e tablet.
Nell’interazione ludica con i nostri dispositivi viene esposta quella particolare sensibilità alla
tecnicità degli oggetti, che attiva un circolo di apprendimento senso-motorio tra l’oggetto e il
nostro corpo.
Nella manipolazione tecnica del dispositivo digitale touch e nelle pratiche a esso connesse,
facciamo esperienza del nostro stesso corpo e del fatto che la sensibilità umana è direttamente
coinvolta nelle operazioni e nelle pratiche tecniche e interattive, che sono sempre forme di
cooperazione o interazione incarnate.
Il piacere del gioco diventa il piacere dell’interazione e della reversibilità tra ciò che gioca e ciò che
è giocato, e quindi tra ciò che media e ciò che è mediato. Se è vero che la realtà è sempre “mixed”,
e cioè che la predisposizione dell’uomo ad esternalizzarsi in protesi tecniche è condizione
dell’esperienza stessa e che proprio questa sua creatività tecnica risulta decisiva per la propria
sopravvivenza di specie è altresì vero che il preciso momento tecnologico che stiamo vivendo
contiene una sua specificità.
Tale specificità consiste nel sollecitare la nostra interattività aptica, nel «provocare il corpo a
scoprire il mondo». Tale scoperta assume, per lo più, le sembianze di un gioco.

BALZOLA, LA FORMAZIONE E IL RUOLO DELLA PRATICA ARTISTICA CON I MEDIA


DIGITALI
*Docente presso Accademia di belle arti di Brera e fra i fondatori di studio azzurro. In questo articolo parla
di alcune caratteristiche della pratica artistica al fine dell’innovazione del sistema educativo.
Questo articolo parte dall’assunto, condiviso da molti riformatori della pedagogia, che ci sia un nesso
profondo e vitale tra l’apprendimento e la creatività, tra lo sviluppo dell’intelligenza e la stimolazione
multisensoriale mediante la pratica dei linguaggi espressivi, oggi potenziata dalle tecnologie digitali
interattive. In questa prospettiva, l’autore, oltre all’analisi teorica, riferisce e propone alcune metodologie e
sperimentazioni didattiche connesse all’ambito artistico dei linguaggi multimediali.
Indicando come queste esperienze possano contribuire a innovare le teorie e le pratiche didattiche, non
solo nei limiti disciplinari dell’“educazione artistica”.
Viceversa, nell’offerta e nella consuetudine scolastiche, i linguaggi espressivi sono ancora oggi tristemente
marginalizzati quando non addirittura inibiti o cancellati dal percorso formativo, in quanto considerati non
fondamentali rispetto alla tradizionale gerarchia delle discipline di studio.
Si parte da un assunto condiviso da parecchi psicologi, filosofi, nesso profondo e vitale tra l’apprendimento
e la creatività, tra lo sviluppo dell’intelligenza e la stimolazione multisensoriale mediante la pratica dei
linguaggi espressivi, oggi potenziata dalle tecnologie digitali interattive.
*Nesso alla base dell’approccio educativo reggiano!

La creatività possa essere di grande aiuto per sostenere ed innovare tutte le metodologie didattiche, non
solo in un ambito limitato all’ “educazione artistica”.
I linguaggi espressivi sono ancora oggi tristemente marginalizzati quando non addirittura inibiti o cancellati
dal percorso scolastico, in quanto considerati non fondamentali rispetto alla tradizionale gerarchia delle
discipline di studio.
Howard Gardner, che con i suoi celebri studi sull’intelligenza (esistono molti tipi di intelligenza, non solo
cognitiva), ha sottolineato l’esigenza pedagogica di riconoscere la differenziazione delle forme di
intelligenza e quindi la naturale diversità di approcci possibili all’apprendimento, conferma le intuizioni di
Maria Montessori nel primo Novecento.
*Continuità tra Gardner/Montessori/Malaguzzi...

L’educazione nel corso dei primi anni di vita dovrebbe offrire a tutti l’opportunità di pensare e di operare
usando un linguaggio artistico. L’artista intreccia appunto l’intelletto col fare, agisce con tutti sensi, pensa
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anche con le mani.
L’apprendimento attraverso il corpo, il movimento e l’uso di tutti i sensi è fondamentale, perché
l’intelligenza è dinamica e interattiva.
La creatività forse non può essere insegnata, ma può essere favorita e stimolata oppure inibita e soffocata,
il nostro sistema scolastico fin dalla scuola primaria ha scelto e persegue, anche inconsapevolmente, la
seconda opzione: le materie artistiche hanno spazi minimi, sono considerate superflue o di puro
intrattenimento.

MORIN, scrive che nel diciannovesimo secolo (1800), è cominciata una dissociazione, divenuta oggi
disgiunzione, tra due componenti della cultura, quella scientifica e quella umanistica. Oltre alla
disgiunzione citata fra cultura scientifica e umanistica, esiste infatti anche un’altra disgiunzione molto
rischiosa, quella tra “i bisogni della tecnologia” e “la tecnologia dei bisogni”.

Nel primo caso, l’evoluzione della società in tutti i suoi settori si avvale della spinta all’innovazione
tecnologica, nel secondo caso l’economia di mercato, che è diventata ormai una “dittatura globale” del
mercato, innesta dei bisogni artificiali sui bisogni reali, per garantire e tenere sotto pressione costante il
consumo dei prodotti industriali e finanziari.
Il bisogno di tecnologia si è così trasformato in una tecnologia del bisogno alimentato artificialmente per
via mediatica dall’industria hi-tech, con incessanti novità, reali e simulate, che ha creato una dipendenza
collettiva e un automatismo del consumo senza precedenti nella storia umana del rapporto fra uomo e
oggetto.
Si può ripensare l’approccio educativo partendo dalle esigenze e dalla realtà concreta dei bambini, dei
ragazzi, i cosiddetti “nativi digitali” che hanno intuizioni, abilità e competenze che, se ignorate,
pregiudizialmente osteggiate o usate solo strumentalmente come forme di auto-intrattenimento

dei propri figli, creano derive de-socializzanti o aggregazioni devianti, percorsi paralleli e incomunicabili di
auto-apprendimento, alternativi o in contrasto con i sistemi di apprendimento tradizionali.
I bambini vivono in un habitat che mescola la dimensione reale dei corpi viventi, degli spazi naturali o
artificiali, degli oggetti, con la dimensione virtuale delle immagini e dei suoni trasmessi costantemente e
ovunque dai dispositivi tecnologici, particolarmente coinvolgenti quando sono interattivi.

Oggi stiamo sperimentando una nuova forma di sinestesia (sin: con/estesia: sensi), che non è più soltanto
la stimolazione percettiva simultanea di più sensi, ma la percezione congiunta di oggetti reali e virtuali:
quando noi usiamo un touchscreen, stiamo toccando nello stesso tempo un oggetto materiale e
un’immagine o un suono immateriali.

Questa mescolanza, facilmente discernibile per un adulto, nel bambino non può essere spiegata e valutata
razionalmente, perciò è vissuta come un’esperienza integrata, certo anche il bambino piccolo sa
riconoscere una presenza reale da una virtuale, ma può accadere che la sua esperienza del mondo virtuale
sia più gratificante e più avvincente di quella del mondo reale.

Ci sono due aspetti che si compenetrano nell’interesse del virtuale:

• una negativa, che induce alla passività, derivata soprattutto dall’effetto ipnotico dell’immagine
elettronica
• un’altra ambivalente, che nella relazione interattiva con il dispositivo stimola alcune abilità
particolari come la concentrazione, la velocità dei riflessi, il coordinamento motorio ed anche il
temperamento, la volontà, la facoltà di scelta.

Nel videogioco tutta la potenza archetipica del racconto è amplificata e intensificata dal fatto che il
soggetto non si limita a leggere o guardare l’avventura, ma la può vivere in prima persona, come
protagonista, determinandone con le sue abilità l’andamento, il successo o la sconfitta.
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Combinazione di 3 fattori:
-la curiosità e il coinvolgimento emotivo per la narrazione
-il capovolgimento del punto di vista in punto d’azione, cioè il passaggio dalla dimensione passiva del
lettore-spettatore alla condizione attiva dell’attore
-la sfida dell’apprendimento delle abilità necessarie per la gestione e la soluzione dell’impresa virtuale.
Ci si può domandare quando, nell’ordinaria vita quotidiana, il bambino o l’adolescente contemporaneo si
trovi a poter sperimentare simultaneamente l’insieme di queste condizioni. Può accadere in alcune
esperienze didattiche, in particolare quando sono utilizzate creativamente le nuove tecnologie.

Balzola, considera l’istituzione formativa come laboratorio, mentre secondo Morin, si deve imparare ad
imparare: partendo dall’istinto naturale della curiosità e dell’auto-apprendimento, riconoscere il valore, la
forza e anche i limiti della conoscenza umana, disponendo degli strumenti utili che l’evoluzione della
tecnica ha generato fino al momento attuale.

Apprendere a manifestare i propri interessi attraverso l’apertura relazionale e le facoltà espressive e


creative.

Tutti i bambini hanno straordinarie risorse per l’apprendimento e per la comunicazione, mediante il gioco
prendono progressivamente possesso del loro corpo, della loro mente e del mondo che li circonda.
Secondo Balzola il gioco è, insieme alla mimesi (azione mimetica), il medium primario
dell’apprendimento.

Si fa riferimento ad un volume di Gray, volume in cui sintetizza la tipologia dei giochi umani in gioco

• fisico,
• verbale,
• esplorativo,
• costruttivo,
• di fantasia,
• sociale,
identificandone 5 principali caratteristiche:

1) il gioco viene scelto e diretto dai giocatori


2) il gioco è un’attività in cui i mezzi giustificano il fine
3) il gioco ha una struttura o delle regole dettate non dalla necessità fisica ma dalla mente dei giocatori
4) il gioco è fantasioso, metaforico, mentalmente scisso dalla vita “reale” o “seria”
5) il gioco prevede una condizione mentale attiva, vigile, ma non stressata.

Queste caratteristiche fanno del gioco, secondo Balzola, non solo uno strumento dell’apprendimento
infantile, ma anche un modello possibile per la formazione permanente. Simulazione e gioco non sono la
stessa cosa, ma hanno molte affinità, che i nuovi dispositivi digitali interattivi fanno emergere e
potenziano. Possibilità di trasformare l’aula in un laboratorio di progettazione e simulazione creativa.

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Già la rivoluzione pedagogica montessoriana aveva dimostrato come la memorizzazione e l’assimilazione
consapevole avvenga in modo più efficace tramite le esperienze sensoriali, i metodi procedurali e l’uso di
strumenti concreti. Gli strumenti digitali, in particolare quelli interattivi che coinvolgono e sollecitano più
ampie esperienze motorie e sensoriali, possono aggiornare e in taluni casi potenziare questi processi di
apprendimento per sensibilizzazione.

Ne sono esempio concreto alcune opere di artisti, come il “micropaesaggio interattivo per bambini”
realizzato nel 2011 da Studio Azzurro: la Pozzanghera è “una videoinstallazione interattiva costituita da più
proiezioni sul pavimento che reagiscono al passaggio delle persone e dei bambini, suscitando nuove visioni
e piccole sorprese. Di quest’esperienza resta sicuramente traccia nella memoria emotiva del bambino.

In questa prospettiva sarebbe sicuramente fruttuoso raccogliere e integrare nel rinnovamento dei
modelli educativi le ricerche artistiche con le nuove tecnologie interattive, come quelle avviate
pionieristicamente in Italia, fin dai primi anni Novanta, da Studio Azzurro o dall’associazione internazionale
Ars Technica, che anima il PAV (Parco d’Arte Vivente) in una grande area verde e dismessa di Torino, dove
artisti di tutto il mondo realizzano opere viventi con elementi naturali, installazioni artistico ambientali e
laboratori creativi di formazione.
Molte istituzioni museali hanno recepito la loro portata innovativa, chiamando molti artisti, a partire
proprio da Studio Azzurro, apripista anche in questo settore (Studio Azzurro, 2011), a trasformare i
tradizionali allestimenti e le comunicazioni museali mediante percorsi o aree multimediali, dove lo
spettatore non si limita più a una fruizione passiva ma è sollecitato a entrare in una narrazione
multisensoriale che lo sorprende e lo coinvolge sul piano emotivo oltre a trasmettergli informazioni e
saperi utili.
A tali prospettive si lega l’idea di concepire l’istituzione formativa come un laboratorio, uscendo al di fuori
del mondo dell’arte per contribuire a ripensare il territorio e le istituzioni. Balzola discute poi il metodo
operativo e il processo creativo sperimentati nella formazione artistica applicabili negli altri ambiti
educativi.
Nell’ambito della progettazione multimediale il termine inglese concept, non perfettamente traducibile in
italiano, è particolarmente significativo perché racchiude tre aspetti:
• il concetto astratto,

• l’idea creativa,
• la sintesi comunicativa di quest’idea

L’OGGETTO ATTUALMENTE PIU’ IMPORTANTE DELL’ESTETICA.


BENJAMIN, IL CINEMA E IL MEDIUM DELLA PERCEZIONE SOMAINI
Benjamin, nel 1935, scrive che l’oggetto più importa è il cinema ed è considerato al centro del saggio di
Somaini.
L’estetica negli anni 20 e negli anni 30 era chiamata a render conto di come la percezione sensibile fosse
profondamente condizionata da un’apparecchiatura tecniche sempre più complessa.
Parliamo di tre termini tedeschi
-Medium
-Apparat
-Apparatur
E’ soltanto analizzando questi 3 termini che è possibile comprendere il ruolo attribuito da Benjamin al
cinema nel quadro della sua idea estetica e della sua teoria dei media.
Il termine Medium, nell’uso che ne fa Benjamin, ha un senso molto particolare che dovremo approfondire:
il Medium o «Medium della percezione» è per Benjamin l’ambiente, la regione ontologica intermedia o,

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potremmo dire facendo ricorso a un altro termine che ha un’importante storia alle spalle, il milieu in cui
ha luogo la percezione sensibile.

Alla base della concezione benjaminiana del cinema come «oggetto attualmente più importante
dell’estetica» vi è dunque l’idea secondo cui l’estetica è: lo studio delle forme che assume la correlazione
tra la storia dell’Apparatur tecnica e la storia del Medium in cui la percezione ha luogo.
Estetica e teoria dei media sono quindi in Benjamin strettamente connesse. Entrambe hanno come
presupposto la tesi secondo cui la percezione sensibile, in tutte le sue forme (visiva, acustica, ecc.), ha una
sua storicità.

Ma come comprendere in che termini si possa parlare di una storicità, di una variabilità storica della
visione, e più in generale della percezione sensibile e dell’esperienza?

Il medium è il luogo, il contesto, l’ambiente in cui la percezione si verifica.

Alcuni autori di debito nei confronti di due storici dell’arte della Scuola di Vienna:
-Franz WICKHOFF
-Aloïs RIEGL

Entrambi sostenevamo che all’evoluzione storica era legata un’evoluzione dei modi di vedere. RIEGL
applica una distinzione tra:

- VISIONE OTTICA, a distanza


- -VISIONE APTICA, ravvicinata e simile al tatto

COSA FARA’ BENJAMIN?

Inverte la successione storica tra le due forme di visione, se in Riegl la storia dell’arte mostra
un’evoluzione dall’aptico all’ottico, in Benjamin accade piuttosto il contrario: le avanguardie storiche
artistiche cambiano la natura dell’arte (Es. Dadaismo vengono raffigurati non solo soggetti ma nuove
forme di arte (Collage).
Emerge una dimensione di choc, di relazione diretta, arte come proiettile.

Da dimensione auratica (Arte che aveva una dimensione spirituale, funzione religiosa, valore di culto) a
Dimensione choc.

Il termine Medium non viene usato da Benjamin per parlare:

• della fotografia, del cinema, della radio o del grammofono, ma piuttosto per indicare il milieu sensoriale
su cui essi agiscono in quanto apparecchi tecnici.

Occorre prendere in considerazione:

- Da un lato l’originalità della posizione di Benjamin nel contesto delle teorie dell’arte, della
fotografia e del cinema degli anni ’20 e ’30.
- Dall’altro la sua scelta di ricollegarsi a una genealogia lessicale e concettuale ben precisa: la
genealogia dei media diaphana teorizzati dall’ottica medievale e moderna

Il termine Medium non viene mai usato per indicare la fotografia o il cinema negli scritti in tedesco di
autori come Balázs, Moholy-Nagy, Kracauer e Arnheim.

I termini usati sono:

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-Apparat («apparecchio»)
-Mittel («mezzo»)
a cui si affiancano di volta in volta altri termini come Technik («tecnica») Material («materiale») Maschine
(«macchina»).

Nel caso di BALAZS Medium usato per nominare:

• le «atmosfere»
• le «tonalità emotive» che caratterizzano affettivamente gli spazi
• l’Aura che solo il cinema sa captare, registrare e rivelare sullo schermo
Al cinema Balázs assegna un ruolo storico determinante: quello di aver saputo imprimere alla cultura degli
anni ’20 una svolta verso il visivo che l’ha trasformata in una vera e propria «cultura visuale» segnata da
una riscoperta proprio di quel Medium auratico, atmosferico, nebuloso.

In MOHOLY-NAGY, troviamo una distinzione tra Apparat e Mittel da un lato, e Medium dall’altro.

In Produktion-Reproduktion (1922) il testo fondativo della teoria dei media dell’artista e teorico ungherese
si distingue nettamente:

• tra un uso meramente riproduttivo dei media


• e un uso produttivo, creativo e sperimentale, capace di produrre un’estensione del nostro campo
percettivo

Il termine Apparat (apparato), come accade anche in Benjamin che parla di Wahrnehmungsapparat,
«apparato percettivo», è usato:

• sia per parlare degli «apparecchi tecnici»,


• sia per parlare degli «apparati funzionali» dell’uomo: quell’insieme di funzioni organiche e sensoriali su
cui intervengono gli Apparate tecnici modificandole, plasmandole, formandole e nei migliori dei casi
estendendole verso direzioni ancora inesplorate.

Nel libro Pittura Fotografia Film uscito come ottavo libro della serie dei Bauhausbücher, MoholyNagy
non usa mai l’espressione Medium per parlare della pittura, della fotografia e del cinema, ma piuttosto
termini come Mittel («mezzo») e Apparat («apparecchio»).

L’arte, l’uso artistico dei media, è per Moholy-Nagy il terreno su cui viene effettuata questa «formazione»,
delle facoltà sensoriali umane: una trasformazione volta, attraverso un’incessante ricerca su tutte le
possibili «configurazioni produttive» del sensibile, a far emergere «nuove relazioni, finora sconosciute» tra
fenomeni ottici e acustici.
All’estensione dell’apparecchio tecnico, secondo Moholy-Nagy, corrisponde necessariamente una
estensione dei sensi.
In Moholy-Nagy, così come Benjamin, l’uso del termine Apparat per parlare sia degli apparecchi tecnici
che dell’apparato percettivo sembra indicare una predisposizione all’incontro del tecnico con l’organico,
una predisposizione all’uso protesico degli strumenti tecnici: la loro capacità di innestarsi – Benjamin,
come vedremo, parlerà di «innervazione» – sugli organi sensoriali umani prolungandone e

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riconfigurandone l’azione.
Un tema che sarà in seguito al centro della teoria mcluhaniana dei media, come ricorda il sottotitolo stesso
della sua opera più nota: Understanding media.
The Extensions of Man (1964).
Se fotografia e cinema sono nominati con i termini Apparat e Mittel, ad essere qualificata come Medium
da parte di Moholy-Nagy è invece la luce: un Medium esteso, leggero e immateriale, che viene plasmato
dai dispositivi ottici in sempre nuove «configurazioni di luce» al fine di dar vita a una nuova «cultura della
luce», evidenziando ancora una volta, come sottolinea Benjamin, la storicità del visibile.

Termini come Apparat, Mittel e Technik ricorrono anche nel saggio di Kracauer sulla fotografia del 1927
così come nei saggi di Arnheim sul cinema e sulla fotografia degli Anni ’20 e nella prima edizione, in
tedesco, di Film come arte. Individuarne la specificità in quanto arte: «film art» Questa specificità del
cinema risiede nella scelta di limitarsi a lavorare sulle proprie “particularities as a medium”, quelle
particolarità che rendono l’immagine cinematografica: la sua bidimensionalità, la sua inquadratura
all’interno di margini ben definiti.

Un analogo uso del termine medium per parlare della specificità delle diverse forme artistiche lo troviamo
in Art as Experience di John Dewey, pubblicato nel 1934, un anno dopo la traduzione inglese del libro di
Arnheim. Qui Dewey afferma che se da un lato la nostra esperienza ordinaria avviene attraverso più
“media” simultaneamente – e per “media” sembra intendere sia i diversi “organi” o “tentacoli” con cui
entriamo in contatto sensoriale con il mondo (la vista, l’udito, il tatto…), sia gli oggetti delle loro sensazioni
(le forme e i colori, i suoni e i rumori, le superfici e le loro qualità) – il compito assegnato all’arte è quello
di concentrare questa esperienza di contatto sensoriale con il mondo all’interno di un unico “medium”.

Medium: vale a dire di un unico organo di senso e dei suoi specifici oggetti la sua inquadratura all’interno
di margini ben definiti, nettamente diversa dalla nostra percezione ordinaria delle cose, con una “welcome
divergence from nature”.

• In ambito tedesco il termine Medium non viene usato per parlare della fotografia, del cinema o
della radio (per cui vengono usati piuttosto termini come Apparat, Mittel, Material, Technik o Maschine),

• In ambito inglese il termine medium circola ampiamente negli anni ’30 in espressioni come «the
medium of film» e «the medium of painting», proponendo diverse interpretazioni della natura del
medium.

In Film as Art di Arnheim, il medium è la convergenza di uno strumento tecnico (la cinepresa) e di un
supporto fisico (la pellicola) per produrre immagini che si riferiscono a un unico “canale” sensoriale, la vista
(la stessa tesi viene formulata da Arnheim a proposito della radio e della sua relazione specifica ed esclusiva
con l’udito).

In Art as Experience di Dewey, medium indica la corrispondenza specifica tra un organo (l’occhio) e la
materia, il colore, con cui opera prioritariamente quell’arte che si rivolge esclusivamente al senso della
vista, la pittura.

L’uso da parte di Benjamin del termine Medium deve essere inquadrato in questo doppio contesto storico,
in Germania e nel mondo anglofono, per poterne comprendere la specificità e per comprendere come è
sul gioco reciproco tra i due termini Medium e Apparat.

Su questa relazione si fonda la sua teoria estetica dei media intesa come studio della correlazione tra storia
dell’Apparatur tecnica e storia delle modificazioni che questa introduce nel Medium della percezione.

L’espressione «Medium della percezione» rinvia però anche a un altro contesto, che trascende
ampiamente i confini temporali della teoria della fotografia, del cinema e della pittura degli anni ’20 e ’30.
30
Il contesto di una genealogia che ha le sue origini nella teoria aristotelica della percezione e che prosegue
nei trattati medievali e moderni sull’ottica, e in tutta una metaforica “mediale” ampiamente diffusa nella
letteratura e nella filosofia tedesche a cavallo tra fine del XVIII e inizio del XIX secolo.

La genealogia è quella dei cosiddetti media diaphana, ovvero di quelle sostanze trasparenti o semi-
trasparenti (aria, acqua, vetro, etere, in tutti i loro stati) che secondo l’ottica di tradizione aristotelica
costituiscono la condizione di possibilità perché la visione abbia luogo.
All’inizio di questa tradizione si trova il diaphanes o «trasparente» che Aristotele nel secondo libro del De
Anima considera come un «mezzo» [metaxu] dotato di una sua materialità (possono essere considerati
come diaphanes l’aria, l’acqua, e corpi solidi come il cristallo o il ghiaccio) e capace di passare, come ogni
cosa nell’ontologia aristotelica, da uno stato in potenza a uno stato in atto.

Se l’oscurità è lo stato del diaphanes in potenza, la luce [fos] è il passaggio del diaphanes dalla potenza
all’atto grazie all’azione del colore: «Non si vede senza la luce, giacché l’essenza del colore è […] di essere
capace di muovere il trasparente in atto, e l’atto del trasparente è la luce».

Nel quadro della sua teoria della visione, con una mossa che sarà decisiva per la genesi del concetto di
medium, Aristotele qualifica il diaphanes come un «mezzo» senza il quale i colori non possono agire sul
«sensorio» [aistheterion]. La presenza necessaria di questo metaxu introduce una distanza imprescindibile
tra vedente e visto.

Nella sua traduzione e nel suo commento al De Anima i Sentencia Libri de Anima del 1267-68 e le
Quaestiones de Anima del 1269 d’Aquino tradurrà con «medium» il «metaxu» aristotelico, introducendo
definitivamente nel lessico filosofico occidentale quel termine che, attraverso tutta una serie di passaggi
e portando con sé una polivocità che continua a sussistere ai nostri giorni, diventerà il termine-chiave
della nostra teoria contemporanea dei “media”.

La frase del De Anima che afferma che, perché abbia luogo la visione, «è necessario che esista un mezzo
[metaxu]», verrà tradotta e commentata da Tommaso d’Aquino con «necesse est aliquod esse medium». A
Tommaso poi si deve l’estensione del medium al di là del campo della visione in cui Aristotele inquadrava il
metaxu.
Il medium in Tommaso è ciò nel quale ha luogo tutta l’esperienza sensibile, non solo la visione.

Nella tradizione dell’ottica medievale il diaphanes aristotelico si trasforma nella pluralità dei media
diaphana, la cui presenza è necessaria perché l’occhio entri in relazione con le qualità sensibili dell’oggetto
a cui si rivolge: senza questa mediazione, senza la presenza di una materia trasparente o semi-trasparente
che viene attraversata dai raggi provenienti dall’occhio o diretti verso l’occhio, a seconda che si tratti di
teorie ottiche estroiettive o introiettive, la vista non ha luogo.

La fase di questa lunga genealogia dei media diaphana ci porta più vicino all’uso di Medium negli scritti di
Benjamin, è quella che riguarda la metaforica
“mediale” che si diffonde in Germania tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, in quella cultura
romantica tedesca a cui Benjamin dedica il suo lungo studio del 1919: Il concetto di critica nel
romanticismo tedesco.

Secondo la ricostruzione proposta da Stefan Hoffmann nel suo Geschichte des


Medienbegriffs, una storia delle occorrenze e delle accezioni del termine Medium tra il XVI e il XIX secolo con
una particolare attenzione alla tradizione tedesca, nei testi di figure come Herder, Novalis, Brentano, Wilhelm
von Humboldt, Wieland, Ritter, Schelling, Feuerbach, Schleiermacher, così come nella Fenomenologia dello
spirito di Hegel, il termine Medium compare in una serie di espressioni che rinviano alla tradizione dei media
diaphana e che descrivono la variabilità delle condizioni in cui ha luogo la percezione.

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Il Medium, nell’uso che ne viene fatto in questi testi, è una sostanza analoga all’aria limpida o alla nebbia,
al vetro liscio o al prisma rifrangente, alla lente deformante o al filtro colorato, al cristallo brillante o al
fluido viscoso, ed è di volta in volta trasparente o opaco, chiaro o scuro, colorato o privo di colore, puro o
impuro, strumento di chiarificazione o di confusione, fonte di illuminazione o di perturbamento, di verità o
di inganno.

Sebbene le sue caratteristiche siano di volta in volta diverse, in tutta la metaforica “mediale” che troviamo
in questi scritti del periodo della Romantik tedesca e dell’idealismo di Fichte, Schelling e Hegel: il Medium
non è mai qualcosa di neutro e di passivo, bensì sempre qualcosa di attivo e di efficace, qualcosa che
condiziona la percezione e la conoscenza.

-Herder, nelle sue Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit (1784-91) descrive un mondo
interamente attraversato da Medien i cui effetti riusciamo a cogliere solo in parte, data la limitatezza dei
nostri organi sensoriali.

-Schelling, nelle Ideen zu einer Philosophie der Natur (1797), teorizza una natura attiva, attraversata dalle
forze del magnetismo, dell’elettricità e del chimismo, e postula l’esistenza di «fluidi» elastici e onnipresenti
come l’aria, «quel Medium nel quale noi stessi viviamo, che tutto circonda, tutto compenetra, e che
ovunque è presente».

-Un uso metaforico di Medium lo troviamo invece nel romanzo Godwi (1800) di Clemens von
Brentano, in cui la metaforica dei media diaphana viene impiegata per definire l’essenza del «romantico»,
un atteggiamento mediato nei confronti del mondo che può essere paragonato all’azione svolta da una
lente di «cannocchiale» [Perspectiv] dotata di un «vetro colorato» che avvicina gli oggetti ma al tempo
stesso li tinge del proprio colore.

Introduzione alla Fenomenologia dello spirito (1807) Hegel prenda le distanze da tutte quelle posizioni
filosofiche che considerano la conoscenza come «una sorta di medium passivo attraverso cui giungerebbe
fino a noi la luce della verità» Hegel basa le diverse figure in cui si incarna lo spirito nel suo percorso verso
la piena autoconsapevolezza dello «spirito assoluto» sull’idea che il duplice motore di questo percorso, la
negazione e la rimozione [Aufhebung], non siano altro che delle forme continue di mediazione
[Vermittlung] fra tesi e antitesi che richiedono incessantemente di essere dialettizzate e superate.

Benjamin, che alla filosofia della Romantik tedesca dedica il suo studio Il concetto di critica nel
romanticismo tedesco (1919), elabora la propria concezione del Medium al contatto con i testi di autori
come Friedrich Schlegel e Novalis, contemporanei di Clemens von Brentano, di Schelling e di Hegel, e le
tracce di tutta la genealogia e la metaforica dei media diaphana affiorano nell’uso che fa del termine
Medium nel saggio sull’opera d’arte e in altri testi.

OCCORRENZE E SIGNIFICATI DI “MEDIUM” NEGLI SCRITTI DI BENJAMIN


Nello scritto giovanile L’arcobaleno. Dialogo sulla fantasia (1915), ad essere qualificati come Medium
sono il «colore» e la «fantasia».
Il «colore» viene qui presentato come «puro accidente privo di sostanza», estensione senza forma, entità
sfumata e nebulosa.
Dialogando con il Goethe della Farbenlehre e con gli artisti del Blaue Reiter, con Kandinskij e Klee così
come con Jean Paul, Novalis e il Baudelaire del saggio sul colore nel Salon del 1846, il giovane Benjamin
presenta qui il Medium del colore come un mondo sfumato, «alonato», volatile, metamorfico, in cui il
soggetto perde la sua separatezza e si dissolve.
Un Medium inteso come mondo diafano in cui le forme si disfano e si ricompongono incessantemente in
un continuo alternarsi di «formazione» e «deformazione», Gestaltung ed Entstaltung), proponendosi come
materiale su cui opera la «fantasia», a sua volta Medium in cui ha luogo la creazione propriamente

32
artistica.
Due anni dopo, nel saggio Sulla pittura, ovvero Zeichen e Mal (1917)55, Benjamin rielabora queste idee
distinguendo nettamente tra la sfera dello Zeichen (significa segno, il segno prodotto dalla linea grafica, la
linea del disegno) e quella del Mal (significa dipingere, pitturare, la macchia colorata che «emerge, viene in
luce»).
Contemplata come puro mondo di colori, senza distinzione tra figura e sfondo, la pittura [Malerei] è
anch’essa Medium: «Il Medium della pittura può essere definito come il Mal nel senso più stretto: infatti
la pittura è un Medium, un Mal siffatto, poiché non conosce né fondo né linea grafica».

Un’ulteriore accezione di Medium negli scritti giovanili di Benjamin la troviamo nel lungo studio Il concetto
di critica nel romanticismo tedesco (1919), in cui il concetto di Medium rinvia non tanto alla tradizione
dell’ottica e dei media diaphana.
Nel suo studio Benjamin si concentra sull’analisi dei fondamenti filosofici, gnoseologici, del concetto di
«critica» negli scritti di Friedrich Schlegel e Novalis, nei quali trova le tracce di un dialogo serrato con la
filosofia di Fichte. Una volta individuato nell’idea di «riflessione» [Reflexion], di un pensiero che riflette
infinitamente su sé stesso, il fondamento filosofico dell’idea romantica di critica, Benjamin arriva a una
conclusione.
Questa riflessione è al tempo stesso «mediazione» [Vermittlung], in quanto infinita elaborazione di
«connessioni», e «immediatezza» [Unmittelbarkeit], in quanto rapporto immediato del pensiero con sé
stesso che si svolge nella forma di una infinita «autocompenetrazione [Selbstdurchdringung] dello spirito».
Prodotto di questa riflessione intesa come «mediazione», come elaborazione di connessioni, è
l’«assoluto»: «la riflessione – scrive Benjamin nella sua interpretazione del pensiero di Schlegel –
costituisce l’assoluto e lo costituisce come un medium», un «medium della riflessione» [Medium der
Reflexion] che si manifesta esemplarmente nell’arte.
L’arte a sua volta è concepita come creazione di opere che, in quanto tessuto di connessioni, sono «centri
viventi di riflessione»: «L’opera d’arte è un centro vivente della riflessione. Centri di riflessione sempre
nuovi si formano nel Medium della riflessione, nell’arte».

Il compito della critica romantica, secondo l’interpretazione di Benjamin, non è quello di giudicare, di
valutare l’opera, quanto di estendere il più possibile le connessioni che le opere già contengono in sé.
«La critica è il Medium in cui la limitatezza della singola opera si rapporta metodicamente all’infinità
dell’arte e, infine, viene trasferita in essa, poiché l’arte, in quanto medium della riflessione, è infinita».

Emergono diverse concezioni di medium negli scritti di Benjamin:

1. Medium come:
• mondo sfumato, metamorfico, indistinto, nonoggettivo del colore,
• come riflessività di uno sguardo che vede e si vede,
• come superamento della distinzione tra soggetto e oggetto in una dissoluzione reciproca dei due
poli l’uno nell’altro

2. Medium come:
• manifestazione superficiale (le diverse declinazioni del Mal, di una trascendenza, in un’accezione
non lontana da quella con cui a partire dalla seconda metà del XIX secolo, nell’ambito
dell’occultismo, viene usato il termine medium per indicare colui che comunica con l’aldilà, con il
regno dei morti o degli spiriti.

3. Medium come:

33
• plesso ontologico di cose e linguaggio, come tendenza delle cose all’espressione e come forza
creativa del nome

4. Medium come «Medium della riflessione», infinita elaborazione di connessioni da parte di un


pensiero che riflette su sé stesso, e che lo fa esemplarmente nell’arte e nella critica.

5. Medium come: cortina nebulosa che circonda un’opera d’arte e che ne condiziona la ricezione da
parte dei propri contemporanei e delle epoche successive, perdendo gradualmente di spessore e di
densità con il passare del tempo.

Le cinque diverse declinazioni dell’idea di Medium che compaiono negli scritti giovanili di Benjamin degli
anni 1915-20 stanno alla radice dei significati che Benjamin attribuirà a questo termine nelle poche ma
significative occasioni in cui lo utilizzerà nei suoi testi successivi:

• Piccola storia della fotografia (1931): Medium è l’aura che circondava i volti ritratti nelle prime
fotografie: dei volti che «erano circondati da un’aura, da un Medium, il quale conferiva al loro
sguardo, che vi penetrava, la pienezza e la sicurezza»
• La facoltà mimetica e Dottrina della similitudine (1933): ad essere definito come Medium, con
evidenti richiami al saggio Sulla lingua in generale, e sulla lingua dell’uomo (1916) è il linguaggio.

• Saggio sull’opera d’arte


• Tesi sul concetto di storia (1940): importante sviluppo del nesso tra Medium, storia e temporalità
a cui fa riferimento, che consente di ritornare alla temporalità del «Medium della percezione» così
come essa viene descritta nel paragrafo IV del saggio sull’opera d’arte.

Il termine Medium viene convocato per denominare «il modo secondo cui si organizza la percezione
umana», sotto l’azione di quell’Apparatur tecnica che pervade interamente le forme di vita nella
modernità.

«La vista sulla realtà immediata è diventata il fiore azzurro nel paese della tecnica». Con questa frase, che
riprende il simbolo romantico del blaue Blume descritto da Novalis nello Heinrich von Ofterdingen (1802),
Benjamin sintetizza la propria concezione dell’età a lui contemporanea come di un mondo interamente
attraversato dalla presenza di un’Apparatur.

«Di questa penetrazione profonda dell’Apparatur nella realtà, lo studio cinematografico era per Benjamin
un esempio emblematico.

Il cinema era per Benjamin non solo una manifestazione emblematica dell’onnipresenza dell’Apparatur,
ma anche lo strumento grazie a cui sarebbe stato possibile contenere i rischi derivanti da questa
onnipresenza – rischi che si erano manifestati con tutto il loro potenziale distruttivo nel caso della Prima
guerra mondiale – grazie a una particolare forma di “esercizio”.

«Il cinema serve a esercitare l’uomo in quelle appercezioni e reazioni determinate dall’uso di
un’apparecchiatura il cui ruolo cresce quasi quotidianamente nella sua vita».

«L’obiettivo di questo esercizio, come leggiamo in tutta una serie di passi del saggio sull’opera d’arte che
saranno poi eliminati dalla versione del 1939, era quello di trasformare il cinema e più in generale il
complesso dell’Apparatur tecnica della modernità in un sistema di dispositivi pienamente «innervati»
sugli organi di senso dell’individuo moderno e della collettività nel suo complesso.
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Questa «innervazione» [Innervation] – un termine di origine biologicofisiologica che descrive la crescita
dei nervi attraverso i tessuti della pelle e dei muscoli, e che Benjamin riprende dagli scritti di Münsterberg
e Freud – poteva aver luogo secondo Benjamin attraverso delle forme di «training» che riguardavano sia
lo spettatore che l’attore cinematografico.

Considerato dal lato dello spettatore, questo «training» riguardava principalmente la vista e consisteva
nell’abituarsi ad assorbire gli choc sensoriali prodotti dai raccordi di montaggio e a cogliere il senso
dell’«inconscio ottico» che il cinema e la fotografia, penetrando «profondamente nel tessuto dei dati»
come il bisturi di un chirurgo nel corpo del paziente, stavano rivelando grazie a mezzi come il primo piano,
l’ingrandimento, il ralenti.

ll cinema, in quanto «oggetto attualmente più importante dell’estetica», aveva secondo Benjamin come
obiettivo quello di «creare l’equilibrio tra l’uomo e l’apparecchiatura» e di mostrare come questa stessa
apparecchiatura potesse consentire l’apertura di uno «spazio di gioco» [Spielraum] ancora tutto da
esplorare.

L’estetica che Benjamin delinea in questo testo costituisce il nucleo della sua teoria dei media: una teoria
che studia le implicazioni epistemiche, antropologiche e politiche delle trasformazioni indotte
dall’Apparatur tecnica nel «Medium della percezione»

• Passagenwerk: In cui Benjamin fa riferimento a quell’idea di linguaggio come Medium conoscitivo


basato sull’elaborazione di connessioni che viene formulata nel saggio sulla critica romantica e poi
in Dottrina della similitudine e La facoltà mimetica.

Nella Tavola 1 dell’Atlas Mnemosyne, Benjamin sembra qui cercare gli eredi, nella modernità, di quelle
forme di conoscenza arcaiche che nel passato avevano cercato quelle “similitudini non sensibili” che
sussistono tra fenomeni a prima vista eterogenei e distanti.
Se Warburg aveva trovato nel montaggio di immagini, ossia nella disposizione spaziale delle riproduzioni
fotografiche all’interno delle tavole del suo atlante, il procedimento capace di far emergere queste
“similitudini non sensibili”, nel suo caso le diverse manifestazioni nel corso della storia delle arti di alcune
Pathosformeln ricorrenti, Benjamin troverà questo procedimento piuttosto nel montaggio letterario che
sarà alla base del Passagenwerk.

APPROFONDIMENTO SU DIODATO 1 CAPITOLO


Nella premessa cita Benjamin e in particolare il Kaiserpanorama, panorama che si viveva in quell’epoca:
“Se pioveva, non dovevo sostare presso i manifesti sui quali, su due colonne, erano elencate con precisione
le cinquanta immagini – Entravo all’interno e qui nei fiordi e sulle palme da cocco ritrovavo la medesima
luce che a sera, mentre facevo i compiti, rischiarava il mio scrittoio. A meno che un qualche guasto
dell’illuminazione non causasse all’improvviso quella strana penombra in cui il colore svaniva nel
paesaggio. Allora se ne stava riservato sotto un cielo di cenere; ed era come se avessi ancora potuto
percepire il vento e le campane, se solo fossi stato più attento”.

Questo era il “panorama imperiale” nella descrizione di Benjamin in Infanzia berlinese (volume in cui
racconta della sua infanzia); si trattava di una materia, per dir così, una struttura, quella frequentata da
Benjamin, di legno, circolare, attrezzata di stereoscopi entro cui si susseguivano immagini. L’assenza di
suono, l’assenza di movimento interno alle immagini, provocava la strana sensazione di risucchio
contemplativo espressa da Benjamin, differente da quella esercitata dal cinema. *Immagini che gli
suscitano altre percezioni sensoriali.
Diodato fa questa citazione perché suscita un’immagine in cui emerge una potenza mimetica e
fantasmagorica in grado di favorire la fantasia.

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*Fantasgomarie proiezioni fatte nell’800 in Francia, prime proiezioni di immagini fatte con giochi di luci
(Prima forma di cinema, il cinema proviene dalla fantasgomaria, immagini in stanze buie proiettate che poi
si muovevano. Secondo Diodato rendono oggi possibili i corpi-virtuali).

Un’immagine non decomposta della fantasia, una forma peculiare di partecipazione, che suscita
sensazioni, non è dissimile da una potenza mimetica e fantasmagorica, a quella che renderanno possibili i
corpi-immagini virtuali.
Per definire, analizzare quelli che sono corpi-virtuali, riprende la nozione di SISTEMA, quale elemento
costitutivo. Il primo capitolo prende il nome di SISTEMA E RELAZIONE.

COSA INTENDIAMO PER SISTEMA?


Diodato fa riferimento ad uno studioso, biologo austriaco Karl Ludwig von Bertalanffy che ha dato il via
alla TEORIA GENERALE DEI SISTEMI. Teoria che prevede di non soffermarsi su un singolo elemento e
studiarlo separatamente dagli altri, ma prende in considerazione gli elementi come parte di un sistema.
*Sistema educativo reggiano si fa riferimento a questa concezione di sistema! Cosa ci dice Von
Bertalanffy? Che si «Si ha una filosofia dei sistemi, e cioè un nuovo orientamento del pensiero e
dell’elaborazione di un’immagine del mondo che segue all’introduzione del “sistema” inteso come nuovo
paradigma scientifico (in contrasto con il paradigma analitico, meccanicista e dotato di una causalità
unidirezionale, paradigma che è caratteristico della scienza classica)».

Non c’è solo una relazione causa effetto, ma una relazione più ampia tra gli elementi.
Bertalanffy sviluppa la riflessione operata in sede di antropologia culturale da Benjamin Whorf, secondo la
quale osservatori diversi «non sono affatto condotti, dalla stessa evidenza fisica, a una stessa immagine
dell’universo».
Whorf sottolineava così l’importanza degli schemi linguistici (ci permettono di instaurare relazioni) e in
particolare dell’appartenenza a una lingua madre, come condizione dell’accadere di un particolare ritaglio
del mondo, di una peculiare segmentazione dell’esperienza di ciò che chiamiamo natura.

Possiamo ritenere certamente che il nostro linguaggio catturi la nostra esperienza della realtà, mentre
esige cautela l’affermazione che il nostro linguaggio catturi la realtà nella sua verità simpliciter o sia
immediatamente e mediatamente traducibile in una formalizzazione che possa coglierla, poiché altre
forme di linguaggio colgono esperienze di realtà altrettanto evidenti, eppure tanto differenti.
La realtà sembra così mostrarsi più complessa, e interessante, di quanto i nostri linguaggi riescano a
esprimere.
Le nostre percezioni sensibili «non debbono necessariamente rispecchiare il mondo “reale” [ma] debbono
però essere isomorfe a esso a un grado tale da consentire l’orientamento e, quindi, la sopravvivenza [...] Il
problema di quali siano i tratti della realtà che noi riusciamo ad afferrare con i nostri sistemi teorici è
arbitrario in senso epistemologico, ed è determinato da fattori biologici, culturali e, probabilmente,
linguistici».
È a partire da queste premesse che la nozione generale di sistema, così potente per l’attuale ricerca
scientifica e filosofica, diventa interessante.
Una filosofia dei sistemi è insomma un «orientamento del pensiero e dell’elaborazione di un’immagine del
mondo che segue all’introduzione del “sistema” inteso come nuovo paradigma scientifico (in contrasto
con il paradigma analitico, meccanicista e dotato di una causalità unidirezionale, paradigma che è
caratteristico della scienza classica)».

36
Questa conseguenza insita nell’idea stessa di sistema. Questa idea di sistema emerge nel 1°volume di
Edgar Morin.
Questa concezione di sistema permette l’abbandono della “monarchia dell’oggetto sostanziale e
dell’unità elementare” alla quale conduce una lettura della realtà consolidata dalle nostre quotidiane
percezioni, grazie alle quali «entriamo in contatto con oggetti che ci sembrano autonomi nel loro
ambiente, esterni al nostro intelletto, dotati di una propria realtà».
Morin cerca di trovare o costruire una definizione di “sistema”, ispirandosi da un lato a Von Bertalanffy
che afferma che un sistema è un insieme di unità in reciproca interazione, dall’altro a Maturana e Varela,
secondo cui sistema è “ogni insieme definibile di componenti”.
A partire da queste considerazioni Morin avvia una prospettiva di ricerca epistemologica e scientifica che
mostra il fatto che il significato di elemento è alternativo e contrastante a quello di sistema.

Si apre una prospettiva filosoficamente interessante (ma forse non radicale), che avvia una visione
complessa della realtà: “sistema” è una pluralità di elementi relazionati, tale che i rapporti tra gli elementi
costituiscano un tutto, una “unità globale organizzata”, che comporta performance eccedenti le possibilità
offerte dalle parti considerate in isolamento.

Pensare così il sistema, fondamentalmente come “unità composta da elementi in relazione”:

• apre una prospettiva in grado di cogliere limiti e lacune, o comunque dimensioni problematiche e aperte,
di un’ontologia analitica;

• non permette però a pensare l’idea di sistema nella sua peculiarità.


• Diodato intende “relazione” per differenza a “proprietà relazionale”: relazione senza la quale non si dà
identità e quindi esistenza

*Relazione non solo fra le parti, ma in sé

Idea che elementi separati entrano in relazione, secondo Diodato senza relazioni gli elementi stessi non
esisterebbero.
Noi esistiamo in quanto in relazione con un ambiente, non siamo separati. Centralità di
relazione/interdipendenza.
Malaguzzi crede che il bambino sia un soggetto in relazione di interdipendenza con l’ambiente e la
comunità.

DIODATO CAPITOLO 1 PARAGRAFO 4: PROCESSI DI INDIVIDUAZIONE


Diodato si sofferma sulla figura di Gilbert Simondon, filosofo francese, scrisse “l’individuo e la sua genesi
psico-biologica. Emerge in questo volume una parola chiave quella di PREINDIVIDUALE, in cui viene
elaborata una nozione che concepisce una dimensione dell’esistente concreta ed efficace, idea che
l’individuo non sia solo il frutto di una interazione, ma bensì c’è una formazione

di un individuo naturale o tecnico che non implica in alcun caso la connessione di una forma e di una
materia.

I complessi rapporti tra struttura materiale della forma e struttura formale della materia sono in continua,
reciproca circolazione e co-appartenza, in un processo di differenziazione che si sviluppa in un campo di
tensioni transindividuali senza limiti prestabiliti, indefinitamente in evoluzione. *No connessione di una
forma e materia come se fossero due entità separate, ma sono due dimensioni in continua e reciproca
circolazione e coappartenenza. Principio dell’individuazione come principio della conoscibilità dell’ente
singolo, in genere definito nel rapporto tra materia e forma, ma in Simondon definiti come elementi co-
appartenenti.
37
In tale campo sistemico e pre-individuale «ogni operazione, e ogni relazione in un’operazione, consiste in
un’individuazione che sdoppi o sfasi l’essere pre-individuale, ponendo in correlazione i valori estremi,
ordini di grandezza originariamente privi di mediazioni». L’individuazione è un processo che implica una
correlazione di vari valori.

Per Diodato tale considerazione è importante perché permette di conferire «una dimensione ontologica
alle relazioni». Relazione no evento che consegue al processo di individuazione, ma è una dimensione
ontologica.

In Simondon, con il termine “relazione” non si intende «un accidente in rapporto ad una sostanza (2
elementi separati che entrano in contatto), bensì una condizione costitutiva, energetica e strutturale, che
si prolunga nell’esistenza degli esseri costituiti».

Nel “processo” di individuazione accade che siano le relazioni a costituire ciò che indichiamo come
“individuo”, definito efficacemente da Simondon «teatro di una relazione interattiva».
*Questa relazione interattiva, richiama idea di Malaguzzi, che elabora idea di bambino come non individuo
separato dal contesto, ma soggetto in appartenenza di relazione.
Simondon ci invita a non accordare un privilegio ontologico all’individuo costituito (individuo no un ente
slegato dal contesto), ma a considerare l’individuo stesso come risultato di processo di individuazione,
come struttura temporale, ma non quale successione causale lineare.

*Segue il pensiero di DELEUZE (Filosofo francese, autore di un volume celebre “Differenza e ripetizione”).

A partire dalla riflessione di Simondon, viene affrontato il tema del virtuale.

In una pagina celebre di Differenza e ripetizione Deleuze scrive: «Il virtuale non si oppone al reale, ne fa
parte, ma soltanto all’attuale. (La realtà di per sé incorpora sempre una dimensione di possibilità,
virtualità).
Il virtuale possiede una realtà piena in quanto virtuale».
«Il virtuale va anche definito come una parte integrante dell’oggetto reale come se l’oggetto avesse una
delle sue parti nel virtuale e vi si immergesse come in una dimensione oggettiva».
Deleuze, sottolineando che «il virtuale possiede una piena realtà, in quanto virtuale», ci spinge a riflettere
sulla realtà della potenza (potenza intesa come possibilità di cambiamento, una possibilità, una
potenzialità) una potenza che non precede la forma, ma che ha una sua propria realtà. Ogni oggetto ha in
sé una potenzialità che può essere esplorata e resa reale.
In Deleuze il virtuale, come già in Bergson (altro pensatore francese) dal quale l’idea di virtuale deleuziana
deriva, «deve essere definito come una parte dell’oggetto reale», e quindi, come è stato opportunamente
notato «il virtuale è immanente all’oggetto, ne fa già parte, ad ogni oggetto in senso lato, di cui
costituisce una “parte”.
Da qui si può parlare della radice virtus che sta alla base della virtualità, per cui «il processo del virtuale è il
processo del farsi del fatto», irriducibile al fatto e ai suoi nessi di compossibilità.

*Dimensione di realizzazione dentro una dimensione temporale allo stesso tempo irriducibile ad un fatto
in sé, perché rimane sempre aperta.

Questa idea, è un punto questo di interesse per la comprensione del corpo virtuale, se colleghiamo il
virtuale come idea fantastica al concetto simondoniano di individuazione.

Deleuze interpreta il concetto di preindividuale di Simondon come virtuale.

La rilevanza dell’idea di virtuale per il percorso filosofico di Deleuze è testimoniata dal fatto che quello che
è il suo ultimo scritto si intitoli “L’attuale e il virtuale”. In questo scrive «Il piano di immanenza comprende
contemporaneamente il virtuale e la sua attualizzazione, senza che tra i due possa esserci limite assegnabile
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*Il divenire realtà di una possibilità no dimensione separata dal realizzarsi della virtualità, lettura sempre
relazionale.
Non c’è più inassegnabilità dell’attuale e del virtuale ma una indiscernibilità tra i due termini che si
scambiano».
Al di là delle intenzioni di Deleuze, Diodato ritiene che la tecnologia abbia portato a esperienza tale
indiscernibilità.
Questa indiscernibilità, quindi questa impossibilità di separare nettamente l'oggetto dal soggetto
l'ambiente e questa dimensione ontologica relazionale di cui è costituita la realtà in questa lettura, è resa
esperibile dalle tecnologie digitali. Questo è il punto di Diodato, cioè, dice, queste riflessioni teoretiche,
teoriche, che sono state svolte prima dell'emergere delle tecnologie digitali, oggi sono esperibili grazie ad
esse perché viene appunto a crearsi una sorta di dimensione relazionale.
Simondon procede nella sua analisi, ripresa poi da Deleuze facendo riferimento ad un altro filosofo
francese, esponente della fenomenologia: Merleau-Ponty, che riprende il concetto di natura elaborato da
Whitehead.
Whitehead parla di relazioni di sopravanzamento e di relazioni di estensione, intese come fondamento
dello spazio e del tempo, così come della loro unione.
Merleau-Ponty, riprende la critica di Whitehead alla temporalità seriale e alla definizione di materia e
natura attraverso il presente, ritiene che in esse (materia e natura) si trattenga “un presente delle cose
passate” e “un presente delle cose future”.
La natura diviene così tempo-luogo vivente.
Non esiste propriamente la Natura, ma sempre il “divenire della natura”, in quanto «la Natura è puro
divenire.
Essa è paragonabile all’essere di un’onda, la cui realtà è solo globale e non parcellare.
Questa concezione della natura secondo Diodato, ci offre la possibilità di entrare (ingresso teoretico) a una
concezione profonda della virtualità in senso ampio: onda, memoria, esigenza, realtà.

Una situazione ontologica a partire dalla quale possiamo ripensare alcune entità che esibiscono uno
statuto squisitamente relazionale, tra quelle prima segnalate, e procedere verso una più articolata e
complessa concezione del rapporto tra relazione e virtuale.

CAPITOLO DUE: LA PERSONA E LA SUA IMMAGINE


Con il termine latino “persona”, traduzione di prosopon, termine che assume una connotazione
spiccatamente relazionale, indicando la sussistenza di una relazione nella sua esemplarità. *Prosopon era
la maschera degli attori

Il termine “persona” si presta a significare l’identità, ciò che ciascuno di noi significa, nel suo aspetto non
oggettivabile, e così è stato in realtà pensato con accenti differenti sia nella tradizione fenomenologica sia
in quella personalistica.

Da queste prospettive emerge l’identità relazionale che istituisce la persona.

Ciò ci porta ad interrogarci sul tema “Immagine e relazione”

L’immagine è una strana entità, peculiarmente relazionale perché

• L’immagine si dice “di”, di questo o quello, di qualcosa di altro da sé


• Sembra essere un ente esistente quale relazione

Dall’immagine procede l’immaginazione

• viceversa, l’immaginazione produce l’immagine;


39
• dall’immaginazione l’immaginario (insieme coerente di molte immagini) e viceversa,
• quella produzione umana che gli uomini chiamano arte è espressione dell’immaginario e in esso si radica.
Immagine si dice in molti modi: c’è (o non c’è?) notevole differenza tra un’immagine mentale e una figura-
immagine, per esempio un dipinto o una fotografia? E si può “pensare senza immagini”?

Mìmesis è termine che nasce nei riti e nei misteri del culto dionisiaco, dove indicava il fare rituale
composto di danza, musica, canto.
Soltanto più tardi, nel V secolo, mìmesis comincia a indicare la riproduzione della realtà, e quindi a essere
applicata anche alla pittura e alla scultura.
Mìmesis significa, e non solo in Pindaro ma anche nella tradizione pitagorica e in Empedocle, non
riprodurre la realtà, ma aderire compiutamente a essa, in modo quasi da restituirla intensificata.

CAPITOLO 9 DEWEY “ARTE COME ESPERIENZA”, LA SOSTANZA COMUNE DELLE


ARTI
Il capitolo si apre con un interrogativo: Quale contenuto è appropriato all’arte? Ci sono materiali
intrinsecamente adatti e altri non adatti? Oppure nessun materiale è volgare e impuro dal punto di vista
dell’elaborazione artistica?

Nonostante la teoria formale e i canoni della critica, si è verificata una di quelle rivoluzioni da cui non si
torna indietro. L’impulso a oltrepassare tutti i limiti imposti dall’esterno è insito nella natura stessa
dell’opera dell’artista.
«Appartiene al carattere stesso della mente creativa di protendersi verso qualsiasi materiale che lo solleciti
e di afferrarlo così che il valore di quel materiale possa essere spremuto fuori e diventare la materia di una
nuova esperienza».
«Una delle funzioni dell’arte è indebolire la soggezione moralistica che spinge la mente a rifuggire da certi
materiali e a riportarli sotto la luce della coscienza percettiva». Molti materiali ad oggi non sono esplorati
nei vari ambiti (tecnologie possono essere materiali con potenzialità espressiva, che spesso vengono
evitate)
Dimostrare che il movimento storico dell’arte ha abolito restrizioni del proprio contenuto che un tempo
erano giusti.
La comunanza di forma che si è riscontrata in differenti arti comporta implicitamente una corrispondente
comunanza di sostanza.
Ogni opera d’arte ha un medium particolare che, tra le altre cose, sostiene il pervasivo intero qualitativo.
(sostiene l’emergere di una qualità).
In ogni esperienza noi tocchiamo il mondo attraverso un particolare tentacolo. Noi portiamo avanti il nostro
rapporto con il mondo, e il mondo assume rilievo per noi, per il tramite di un organo specifico (sensi).

L’intero organismo opera con tutto il suo carico di acquisite e molteplici risorse, ma opera attraverso un
particolare medium, quello dell’occhio, quando interagisce con occhio, orecchio e tatto. Le belle arti
sfruttano questa circostanza e la spingono fino al massimo di significatività.
In qualsiasi comune percezione visiva si vede per mezzo della luce; si distingue per mezzo di colori riflessi.
Medium diviene il solo colore (linea, punto, superficie), e poiché ora il colore da solo deve veicolare le
qualità di movimento, tocco, suono ecc.
Ruolo e il rilievo che hanno i media per l’arte: a prima vista non sembra degno di nota che ogni arte abbia

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un medium suo proprio.
Nell’arte bella (belle arti) “medium” indica il fatto che questa specializzazione e individualizzazione di un
organo particolare dell’esperienza è portata fino al punto in cui vengono sfruttate tutte le sue possibilità.
“Medium” significa anzitutto intermediario. Il significato del termine “mezzo” è lo stesso. Sono le cose di
mezzo, che intervengono, attraverso le quali si fa accadere qualcosa che ora è lontano. Tuttavia, non tutti i
mezzi sono media.

Ci sono due tipi di mezzi:

• quelli di un tipo sono esterni a ciò che viene realizzato; questi mezzi esterni o, meri mezzi, come
propriamente li definiamo, di solito sono di tal genere da poter essere sostituiti da altri; *No necessari,
sono un’impalcatura. Quelli particolari che vengono impiegati sono determinati da qualche considerazione
estrinseca, come l’economicità

• quelli dell’altro si assimilano alle conseguenze prodotte e restano a loro immanenti. Ma quando
parliamo di “media” ci riferiamo a mezzi che sono incorporati nell’esito. I colori sono il dipinto; i suoni sono
il brano musicale. Gli effetti estetici appartengono intrinsecamente al loro medium: quando vi si sostituisce
un altro medium si ottiene un virtuosismo invece di un oggetto artistico.

La differenza tra operazioni estrinseche e intrinseche vale per tutte le faccende della vita. Uno studente
studia per superare un esame, per essere promosso (estrinseco). Per un altro il mezzo, l’attività
dell’apprendere, si identifica completamente con i risultati che ne derivano. La conseguenza, l’istruzione, la
chiarezza, è tutt’uno con il processo: mezzo e fine si fondono (intrinseco).
Se passiamo in rassegna mentalmente un certo numero di casi del genere, ci accorgiamo rapidamente
come tutti quelli in cui mezzi e fini sono tra loro estrinseci risultino non-estetici. Questa estrinsecità può
anche essere considerata una definizione del non-estetico.

I mezzi, dunque, sono media quando non sono solo propedeutici o preliminari. In quanto medium, il colore
funge da intermediario tra i valori deboli e dispersi nelle esperienze comuni e la nuova percezione
concentrata occasionata (resa sperimentabile) da un dipinto. Un disco fonografico è nient’altro che il
veicolo di un effetto. Anche la musica che ne viene fuori è un veicolo, ma è qualcosa di più; è un veicolo che
diventa una sola cosa con ciò che porta; si fonde con ciò che trasmette.
Usare artisticamente un medium significa escludere aiuti irrilevanti e utilizzare in modo concentrato e
intenso una sola qualità sensoriale per svolgere il lavoro solitamente svolto in modo approssimativo con
l’aiuto di molte qualità sensoriali (Usare medium significa concentrarsi solo su una qualità). Ciò che fa di un
materiale un medium è il venir usato per esprimere un significato diverso da ciò che esso è in virtù della sua
mera esistenza fisica: il significato non di ciò che fisicamente è, ma di ciò che esprime.
Quando si esamina lo sfondo qualitativo dell’esperienza (la qualità dell’esperienza svolta) e il medium
particolare attraverso il quale su di esso si proiettano significati e valori diversi, ci si trova in presenza di
qualcosa di comune nella sostanza delle arti.
I media sono diversi nelle diverse arti.
Ma è di tutte le arti avere un medium. Altrimenti non sarebbero espressive, né potrebbero avere una
forma senza questa sostanza comune.

CAPITOLO 12 DEWEY: LA SFIDA DELLA FILOSOFIA


L’esperienza estetica è immaginativa.
Questo fatto, unito a una concezione sbagliata della natura dell’immaginazione, ha messo in ombra un fatto

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più ampio: che tutta l’esperienza cosciente possiede di necessità un certo grado di qualità immaginativa.
Infatti, mentre le radici di ogni esperienza si trovano nell’interazione di una creatura vivente con il suo
ambiente, quell’esperienza diviene cosciente, materia di percezione, solo quando vi entrano significati che
sono derivati da esperienze precedenti.
In ogni opera d’arte, tuttavia, questi significati prendono effettivamente corpo in un materiale che diventa
pertanto il medium della loro espressione. Questo fatto costituisce la peculiarità di ogni esperienza che sia
chiaramente estetica.
La sua qualità immaginativa è dominante poiché mediante le espressioni, anche se non mediante un
oggetto fisicamente efficace in relazione ad altri oggetti, vengono realizzati significati e valori più ampi e
profondi del particolare qui e ora a cui essi sono ancorati.
*Si da forma a qualità immaginativa ancora in esperienza anche passate non solo al qui e ora!
A differenza della macchina (esito di una immaginazione, ma non agisce immaginativamente), l’opera
d’arte non è però solo l’esito dell’immaginazione, ma anche agisce immaginativamente piuttosto che nel
regno delle esistenze fisiche.
Quel che fa è concentrare e ampliare un’esperienza immediata. In altri termini, la materia formata
dell’esperienza estetica esprime direttamente i significati che sono evocati immaginativamente.
L’opera d’arte è quindi una sfida a effettuare un atto simile di evocazione e organizzazione, attraverso
l’immaginazione, da parte di colui che ne fa esperienza. Questo fatto determina l’unicità dell’esperienza
estetica, e questa unicità è a sua volta una sfida al pensiero. In particolare, è una sfida a quel pensiero
sistematico che si chiama filosofia.
Infatti, l’esperienza estetica è esperienza nella sua integrità.
Essa è infatti esperienza liberata dalle forze che ostacolano e confondono il suo sviluppo in quanto
esperienza; liberata, cioè, da fattori che subordinano un’esperienza così come essa viene fatta
direttamente a qualcosa posto al di là di essa. È all’esperienza estetica, dunque, che deve rifarsi il filosofo
per comprendere che cos’è l’esperienza.

Esempio L’esperienza che ha dato origine a un’opera come la Joie de Vivre di Matisse è altamente
immaginativa; questo è un esempio straordinario a favore della teoria dell’arte come sogno.
La teoria per cui l’arte è gioco è simile alla teoria dell’arte come sogno. Essa, però, si avvicina di un passo
alla realtà dell’esperienza estetica perché riconosce la necessità dell’azione, di fare qualcosa.

Si dice spesso che i bambini fingono quando giocano. Ma i bambini che giocano sono quanto
meno impegnati in azioni che danno una manifestazione esteriore al loro immaginario;
mentre giocano idea e azione sono completamente fuse.
Gli elementi di forza e di debolezza di questa teoria si possono scorgere rilevando un ordine di
progressione che contraddistingue forme di gioco. Col maturare dell’esperienza, le attività di
gioco sono sempre più regolate da un fine da conseguire; lo scopo diventa un filo che si snoda
attraverso una successione di azioni; le trasforma in una vera e propria serie, in un segmento
di attività che ha un determinato inizio e un movimento costante verso una meta.
C’è anche una transizione graduale, tale per cui il gioco comporta non soltanto che si ordinino
attività in vista di un fine, ma anche che si ordinino dei materiali. Il bambino diventa cosciente
del significato dei suoi impulsi e dei suoi atti attraverso la differenza che essi producono su
materiali oggettivi. Esperienze passate conferiscono in misura crescente significato a ciò che
viene fatto.
Tali giochi non solo regolano la selezione e la sequenza degli atti eseguiti, ma vengono a
esprimere valori dell’esperienza. Il gioco come evento è ancora immediato. Ma il suo
contenuto consiste in una mediazione di materiali presenti mediante idee tratte
dall’esperienza passata. Questa transizione (esperienza passata/immediata) genera una
trasformazione del gioco in opera.

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Ogni attività diventa infatti opera quando è diretta dalla realizzazione di un determinato risultato
materiale, ed è lavoro solo quando le attività sono gravose, e vengono vissute come meri mezzi con cui
ottenere un risultato (intrinseca). Il prodotto dell’attività artistica si chiama significativamente opera
d’arte. La verità della teoria dell’arte come gioco sta nel suo sottolineare il carattere non forzato
dell’esperienza estetica, non nel suo alludere a una qualità presente nell’attività che sarebbe priva di
regole relativamente all’oggetto.
Le implicazioni filosofiche della teoria del gioco si rivelano nel suo contrapporre libertà e necessità,
spontaneità e ordine. Tale contrapposizione risale allo stesso dualismo tra soggetto e oggetto che affligge
la teoria della finzione. La sua nota di base è l’idea che l’esperienza estetica sia una liberazione e una fuga
dalla pressione della “realtà”.
L’esistenza stessa di un’opera d’arte prova che non c’è una contrapposizione del genere tra la spontaneità
del sé e ordine e legge oggettivi. In arte l’atteggiamento ludico diventa interesse per la trasformazione del
materiale utile allo scopo di un’esperienza in sviluppo.
Desiderio e bisogno possono essere soddisfatti solo mediante materiale oggettivo, e in tal senso la ludicità
è anche interesse per un oggetto.

PROSPETTIVA SULL’APPRENDIMENTO VISUALE (PAG 201)


AMBIENTI MEDIALI, IMMAGINI VIRTUALI ED ESTETICHE NELL’ERA DIGITALE

Si riprende il concetto di interattività e ci si sofferma sul fatto che il dibattito che caratterizza le prospettive
attuali dell’estetica offre diversi elementi per discutere la relazione che stabiliamo con le immagini (In
inglese differenza tra Pictures e images). *Sempre più spesso esperienze delle immagini in ambienti
mediali che hanno una articolazione interattiva, in cui sia i dispositivi che oggetti analogici sono coinvolti.

Distinzione tra esperienza di/esperienza con. Esperienza con può generare un campo esperienziale che
può essere qualificato esteticamente. Possiamo fare riferimento ad alcuni elementi: imprevedibilità,
invenzione creativa e utilizzo di facoltà immaginative. Si escludono forme di recezione passiva delle
immagini.
La radice etimologica del termine medium, inteso come spazio di relazione e di scambio. La questione degli
aspetti estetici legati alla tecnologia digitale riguarda il processo continuo di trasformazione operato da tali
dispositivi tramite le differenti interfacce con cui interagiamo.
La possibilità di percepire l’ambiente che ci circonda non come oggetto di contemplazione passiva, ma
come un vasto campo di azione e interazione in cui siamo coinvolti tramite la mediazione anche di
immagini digitali.
E in questo senso il concetto di interattività digitale è strettamente legato all'esperienza estetica e alla
sfera estetica, proprio perché tiene in conto in considerazione immagini creativi che sono disponibili al
soggetto nel processo di identificazione delle possibilità performative, che le tecnologie digitali esprimono
in contesti interattivi. Permettendo al soggetto di elaborare diverse strategie attive di esplorazione.

Affinché tale processo si verifichi si sviluppi, è necessario progettare ambienti in cui l'interazione tra il
soggetto e il device e i diversi dispositivi tecnologici può evolvere in direzioni non previste.

*Esperienza Close ending (serie di azioni limitate, già prestabilite) /Open ending (Possibilità di ristabile le
regole: Gioco di finzione può evolvere in situazione e direzioni non prestabilite.)

Ma alcune esperienze esplorative di ambienti immersivi, non intesi in senso di utilizzo dei visori, come nel
caso delle esperienze che abbiamo visto altre volte, ma ambienti immersivi, nel senso che c'è una
dimensione di proiezione, di immagine che diventa ambiente, è stata appunto realizzata nell'ambito di
questo atelier scintille (è stata fatta una selezione di materiali non strutturati e tramite il device operata
una reinterpretazione visiva, una immagine immersiva, sono così esplorate nuove potenzialità espressive.

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Esempio di esperienza: Triplo viso strano

Riguarda le esplorazioni di materiale fisici e digitali realizzate da bambini e ragazzi intorno al tema del
gioco e dell'apprendimento in relazione al tema specifico della trasformazione.
Questo è anche una proposta didattica. Cioè ad esempio di decidere di concentrarsi sul tema della
trasformazione e utilizzare tecnologie digitali, ma anche strumenti e materiali analogici per poter esplorare
in senso open ending, quindi aperto e lasciando i bambini la possibilità appunto di decidere su cosa
concentrarsi.
Generando appunto situazioni di gioco, ludiche, di apprendimento ed è stato proposto un ambiente che
prevedeva alcuni device digitali e quindi l'effetto caleidoscopico che abbiamo visto nell'immagine interno
del PDF e alcuni materiali non strutturati.
Quando si fa un atelier solitamente si inizia con l’elaborazione di una domanda di ricerca o di più domande
di ricerca che vengono proposte ai partecipanti degli enti. *Asili nido educatori, pedagogisti, propongono
delle domande di ricerca che non condividono con il bambino, ma diciamo l'esperienza atelieristica di per
sé prevede quasi sempre la definizione di domande di ricerca.

In questo caso le domande erano appunto, cosa vuol dire trasformare? Cosa si può trasformare, quali cose
possono essere trasformate?
L'invito è stato quello di esplorare e materiali nello spazio e questo bambino Gregorio e affascinato dalla
scomposizione della proiezione del suo volto su alcuni materiali presenti sul tavolo. Resa possibile in questo
caso da un iPad e da un'applicazione appunto con

effetto caleidoscopico. L'immagine caleidoscopica del proprio viso viene poi video proiettata su alcuni
materiali.
C'è una dimensione di stupore, che questa potenzialità espresse dalla tecnologia suscita.
Da questa applicazione digitale si passa invece un'esplorazione analogica, quindi a provare a realizzare un
effetto caleidoscopico tramite l’utilizzo di alcuni specchi.

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