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LAVORO" –
• La prima, più orientata alla teoria e alla conoscenza dei fatti e dei processi
La psicologia del lavoro e delle organizzazioni si basa sullo studio dei comportamenti delle
persone nei contesti lavorativi e nello svolgimento delle diverse attività professionali. È una
disciplina che utilizza molti approcci metodologici, modelli e teorie della psicologia e li applica
all’ambiente di lavoro con lo scopo di promuovere il benessere delle persone che lavorano e di
favorire il massimo vantaggio per l’organizzazione.
Oltre a favorire la comprensione del comportamento umano in ambito organizzativo, è
importante anche per impostare pratiche gestionali su basi sicure (es. adottare procedure di
selezione innovative).
Il processo di ricerca empirica. Ogni ricerca è caratterizzata da un obiettivo, che può essere
definito e formulato in termini di ipotesi.
Il processo di ricerca si articola in 5 fasi principali (domanda della ricerca, disegno della ricerca,
misurazione delle variabili, analisi dei dati) con un momento conclusivo (conclusioni della
ricerca) che costituisce un feedback ricco di informazioni per quanti vorranno sviluppare
ulteriormente la ricerca.
1. La domanda della ricerca. Le domande di ricerca si basano sulla conoscenza esistente
del problema (intuizioni del ricercatore o teorie già note per esempio). Una teoria è un
assunto che ha la funzione di spiegare le relazioni tra fenomeni di interesse. La sequenza
che inizia con la raccolta dei dati e conduce all’elaborazione delle teoria viene definita
“metodo induttivo” (nel “metodo deduttivo”, invece, il ricercatore prima elabora una
teoria e poi la mette alla prova raccogliendo e analizzando i dati). La ricerca può essere
applicata e pura:
• La ricerca pura comporta l’elaborazione e la verifica di teorie e di
ipotesi che non hanno un’immediata utilità per risolvere
problematiche contingenti.
• La ricerca applicata nasce dall’esistenza di risolvere problemi
emersi sul campo e che richiedono soluzioni concrete per
rispondere a specifiche esigenze organizzative.
La ricerca-intervento (o ricerca-azione) si propone di contribuire al cambiamento del sistema
organizzativo mediante il coinvolgimento diretto degli attori che partecipano con il ricercatore
allo studio. Il principale obiettivo è quello di produrre cambiamenti (in termini di qualità della
vita) all’interno dei contesti lavorativi e di valorizzare le potenzialità degli individui che ne fanno
parte. Le informazioni vengono raccolte in modo empirico e interpretate dagli stessi individui sui
quali si vuole indagare. Questi sono i “partecipanti” della ricerca e i momenti di riflessione li
spingono ad essere consapevoli delle problematiche relative al proprio contesto organizzativo e
arrivano alla progettazione di interventi specifici. Il cambiamento prosegue tramite
l’implementazione di queste soluzioni.
Uno studio condotto in ambito organizzativo è basato su un’intenzione esplicita o su una
specifica domanda di ricerca (generalmente una relazione tra 2 o più variabili). Spesso gli studi
sono disegnati per mettere alla prova ipotesi che sono derivate da altre ricerche precedenti
(studi esplicativi). Vi sono anche “studi descrittivi” che sono finalizzati a raccogliere osservazioni
riferite al contesto studiato. Gli studi descrittivi forniscono informazioni soltanto su quello che è
successo mentre gli studi esplicativi spigano perché oppure come è successo.
Quindi, la domanda di ricerca viene indagata utilizzando metodologie e metodi: un metodo può
essere definito come la tecnica o lo strumento di ricerca utilizzato per raccogliere dati (es.
questionario), mentre la metodologia si riferisce alla “filosofia” del processo di ricerca (il modo
di formulare ipotesi ecc.)
2. Il disegno di ricerca. Un disegno di ricerca è un piano per condurre uno studio. Le
strategie di ricerca possono essere paragonate secondo diverse dimensioni, in
particolare in base al livello di naturalità del setting di ricerca e il grado di controllo del
ricercatore sullo studio. Il livello di naturalità e il grado di controllo influenzano sia la
validità interna (grado in cui i risultati ottenuti possono essere attribuiti alle variabili
investigate) sia la validità esterna della ricerca (grado in cui i risultati di una ricerca
condotta su un gruppo di soggetti possono essere generalizzati ad altri contesti).
• Disegni sperimentali e quasi sperimentali. L’esperimento si differenzia da altri tipi
di disegno per l’assegnazione casuale dei partecipanti alle diverse condizioni
della variabile indipendente. Gli esperimenti in laboratorio sono condotti in
ambienti predisposti o artificiali e il ricercatore ha un alto grado di controllo sulla
conduzione dello studio. Un quasi esperimento è uno studio che si avvicina a un
esperimento, ma non ha un’assegnazione casuale dei partecipanti e questo
accade perché c’è una sola condizione nello studio o perché i partecipanti non
sono stati assegnati casualmente alle diverse condizioni (una situazione
quasisperimentale è quella dei disegni con gruppo non equivalente in cui non c0è
un processo di assegnazione casuale, ma i partecipanti si trovano in differenti
condizioni di trattamento in seguito ad altre ragioni. Anche la valutazione delle
stesse variabili ripetute nel tempo sono disegni quasi sperimentali: il più semplice
è il disegno di gruppo singolo pre test-post test in cui i partecipanti sono valutati
prima e dopo un certo evento -> disegno debole perché vi sono altre alternative
per spiegare i risultati. Il disegno multi gruppo è funzionale a risolvere il problema
in quanto prevede un gruppo di controllo sul quale si verificano le stesse
combinazioni di partenza).
• Disegni non sperimentali. È un disegno nel quale il ricercatore raccoglie solo
osservazioni di variabili che già esistono. Un esempio è il disegno osservazionale,
che prevede osservazioni di qualche evento su un campione di soggetti. Uno o
più osservatori valutano alcune caratteristiche delle persone o della loro
situazione di lavoro, utilizzando griglie e schemi valutativi più o meno strutturati
(è possibile un approccio non intrusivo senza che il soggetto ne sia consapevole).
Un problema di questo metodo è la possibile influenza della soggettività del
ricercatore. Per controllare questo bias ci si può servire di 2 o più persone che
svolgono le stesse osservazioni indipendentemente per poi compararle. Le
inchieste sono una delle procedure più diffuse nel condurre la ricerca sul campo
nell’ambito della psicologia del lavoro e vi sono diverse modalità di attuazione,
ma il questionario è il metodo più diffuso per condurre ricerche, in quanto
economico ed efficiente per la raccolta dei dati. Anche se di
solito i questionari servono per ottenere informazioni autoriferite, essi possono
essere usati per avere informazioni riguardo a terzi. È possibile servirsi di
interviste, anche se richiedono un maggior dispendio di tempo, ma permettono di
ottenere maggiori informazioni. I disegni a più fonti combinano i dati provenienti
dal questionario con quelli provenienti da altre fonti. I disegni non sperimentali
possono implicare la valutazione di tutte le variabili per ogni soggetto nello
stesso momento (trasversali -> che però non consente di trarre conclusioni
casuali, ma si può concludere che le variabili siano correlate l’una all’altra)
oppure in momenti diversi (longitudinali -> implicano misurazioni ripetute nel
corso del tempo, spesso sulle stesse variabili. Richiedono un grande dispendio di
tempo e risorse economiche).
• L’approccio qualitativo. Molti studi in ambito organizzativo utilizzano metodi e
tecniche di rilevazione di tipo non standardizzato, a volte chiamato “etnografia
organizzativa” e si riferisce a forme di ricerca qualitativa con queste
caratteristiche: enfasi sull’esplorazione della natura di un particolare fenomeno
organizzativo; tendenza ad operare con dati non strutturati, cioè che non sono
stati codificati al momento della raccolta nei termini di una serie di categorie
analitiche; investigazione di un esiguo numero mdi casi; analisi delle azioni delle
persone in forma di descrizioni e spiegazioni verbali. I metodi qualitativi più
utilizzati nello svolgimento delle ricerche in ambito organizzativo: 1) intervista in
profondità -> consente al ricercatore di effettuare liberamente con l’intervistato
tutti gli approfondimenti che possono rivelarsi d’interesse per gli obiettivi delle
ricerca. È rilevante anche il modo di formulare le risposte, il linguaggio utilizzato,
le reazioni emotive dell’intervistato ecc. 2)la storia di vita -> il filo conduttore
dell’interazione sociale, tra intervistato e intervistatore, non è costituito dagli
elementi proposti dall’intervistatore, ma dal racconto destrutturato da parte
dell’intervistato. Vengono narrati fatti ed episodi vissuti in prima persona. 3)
l’osservazione partecipante –> consiste nell’osservazione dell’ambiente
organizzativo, dell’aspetto, del comportamento e delle interazioni sociali dei
soggetti nel corso di una normale attività lavorativa. 4) focus group -> è un
metodo per la raccolta di dati collettivi durante una discussione di gruppo
focalizzata intorno ad alcuni temi predeterminati. Mediante questa tecnica il
ricercatore propone l’argomento di discussione, interviene, pone domande,
richiama l’attenzione del gruppo sull’obiettivo di pervenire a un giudizio il più
possibile condiviso.
3. La misurazione delle variabili. Prima di effettuare l’analisi dei dati, il ricercatore deve
rilevare e misurare le variabili di interesse. Le variabili quantitative sono numeriche; le
variabili qualitative non lo sono, ma possono essere “codificate” con numeri. Le variabili
possono essere indipendenti quando sono manipolate o comunque controllate dal
ricercatore, le variabili dipendenti sono l’oggetto di interesse (es. motivazione). Quanto
più i punteggi della prima vengono utilizzati per predire i punteggi della seconda, le
variabili vengono definite rispettivamente “predittore” e “criterio”.
L’operazionalizzazione delle variabili consiste nel quantificare ciascuna variabile di uno
studio.
4. L’analisi del dati. La psicologia del lavoro di avvale frequentemente di metodi statistici
per l’analisi dei dati raccolti. Il modo più elementare per condurre le analisi è quello
descrittivo, attraverso cui si studia la forma della distribuzione dei dati e si ottengono
misure della tendenza centrale e della variabilità. Gran parte della ricerca, nella
psicologia del lavoro, è di tipo non sperimentale e di natura quantitativa, con variabili
valutate lungo un continuum. Questo permette di usare la correlazione e metodi
parametrici basati sulla correlazione (regressione multipla che è un procedure usata per
verificare se è possibile attribuire la relazione di due variabili ad altre variabili). La
correlazione può indicare solo la presenza di relazione tra due variabili (entità della
relazione). Per quanto riguarda l’elaborazione dei dati qualitativi possono invece essere
citate l’analisi del contenuto (tecnica per la descrizione oggettiva, sistematica del
contenuto manifesto della comunicazione) e l’analisi delle corrispondenze (lo scopo è di
studiare i legami tra le modalità di due o più caratteri di classificazione rilevanti per
evidenziare associazioni tra le caratteristiche analizzate).
5. Conclusioni della ricerca. Vi sono molti fattori che influiscono sulla generalizzabilità
dei risultati di una ricerca, tra cui: soggetti utilizzati nella ricerca, grado di congruenza
tra le caratteristiche dei soggetti e il compito che si chiede loro di svolgere ecc. Le
conclusioni tratte da uno studio possono modificare le conoscenze individuali del
problema e dunque possono indirizzare la ricerca futura.
Problemi legati all’interpretazione dei risultati.
Alcune difficoltà che si possono incontrare nell’interpretazione dei risultati riconducibili
all’impostazione del processo di ricerca:
• La causalità: rimane spesso difficoltoso pronunciarsi riguardo alla causalità delle relazioni. I
comuni metodi di correlazione fanno sì che l’individuare una correlazione tra due variabili
non assicura che la relazione trovata sia di natura causale. Vi sono difficoltà nel stabilire la
causalità per diversi motivi, il più importante dei quali riguarda il fatto che le teorie
possono non essere in grado di isolare le cause reali, in quanto vi possono essere altre
cause possibili che non possono essere controllate.
• Tipi di errore: è possibile commettere errori nella spiegazione dei risultati ottenuti e quindi
nella conclusione di una ricerca. I principali errori sono riconducibili a 4 categorie: 1) errori
dovuti a una scorretta operazionalizzazione dei concetti, ovvero le misure non sono
sufficientemente oggettive e affidabili oppure i concetti esaminati non sono
adeguatamente misurati; 2) errori nell’analisi statistica dei dati; gli errori di primo tipo (in
cui l’esistenza del fenomeno, causa o relazione sono erroneamente provate), gli errori del
secondo tipo (si conclude che il fenomeno non esiste quando è reale); 3) errori dovuti a
insufficiente validità interna, essa si riferisce a quanto i risultati possano essere realmente
attribuiti ai fattori ritenuti responsabili; 4) errori dovuti all’inappropriata generalizzazione
dei risultati. Ricerca e problemi etici.
Molte associazioni nazionali di psicologi possiedono un codice etico che deve essere rispettato
da tutti i ricercatori. I codici etici sono creati per tutelare i diritti dei soggetti e per evitare la
possibilità che figure professionali non qualificate improvvisino ricerche. Fra le responsabilità
dei codici vi è il “consenso informato”, la privacy, il rispetto il rispetto dei diritti umani ecc.
Tuttavia, lo psicologo del lavoro ha il dovere di prendere in considerazione sia il benessere
dell’individuo sia le necessità organizzative che attendono risposte dalla ricerca. Per questo lo
psicologo può sperimentare un dilemma etico tra le richieste in conflitto tra loro.
Salute e sicurezza.
Il lavoro è una parte integrante della vita di ciascun individuo, sia come strumento di
sostentamento, ma anche come messo per la soddisfazione dei bisogni di autorealizzazione ed
espressione di sé. Nonostante l’elevata automatizzazione in tutti i settori, il fattore umano
rimane ancora l’elemento fondamentale di ciascuna attività lavorativa e spesso e l’elemento
chiave per determinare il successo di un’organizzazione.
La normativa italiana in materia di sicurezza. Nel corso degli ultimi anni l’attuazione di leggi ha
contribuito a migliorare le condizioni di lavoro negli Stati membri e a ridurre gli infortuni e le
malattie professionali. La Commissione Europea ha previsto che tra il 2007-2012 il tasso
d’incidenza degli infortuni scendesse del 25%: gli interventi proposti sono rivolti a migliorare e
semplificare la legislazione vigente, a mettere a punto metodi per l’individuazione e
valutazione di nuovi rischi e a promuovere un mutamento dei comportamenti dei lavoratori. In
Italia, la Legge 626 definisce un sistema preventivo d’impresa centrato su nuove figure
professionali di prevenzione, nuove responsabilità e una specifica valutazione dei rischi;
valutazione dei rischi da parte del datore di lavoro, obbligo per l’azienda di avere un
Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS) e un Responsabile del servizio di
Prevenzione e Protezione (RSPP) e l’obbligo di avere un Servizio di Prevenzione e Protezione
che si occupi della valutazione dei rischi, individuazione dei pericoli e attuazione delle misure di
prevenzione.
L’ergonomia e la sicurezza sul lavoro.
Ergonomia e fattori umani. L’ergonomia offre un contributo in tema di lavoro e sicurezza, in
quanto si basa sull’esperienza e la conoscenza attraverso la ricerca scientifica condotta in
laboratorio, sul campo e attraverso il lavoro pratico svolto in organizzazioni in collaborazione
con dirigenti, esperti e addetti. L’ergonomia ha scopi sia sociali (la salute, il benessere, la
sicurezza) sia economici (le prestazioni del sistema, la produttività, la competitività), considera
gli aspetti fisici e quelli psicologici dell’essere umana e mira alla progettazione di soluzioni di
natura tecnica e organizzativa.
Ciò che differenzia l’ergonomia dalla psicologia, le scienze mediche, antropologia e scienze
cognitive, è il fatto che il suo principale proposito sia la “progettazione”; gli ergonomi
contribuiscono alla progettazione e valutazione di mansioni, attività, prodotti, ambienti e sistemi
al fine di renderli compatibili ai bisogni, abilità e limitazioni dell’essere umano.
Infortuni sul lavoro e malattie professionali. Fattori nocivi dell’ambiente di lavoro: fattori generici
(luce, rumore, temperatura ecc.), fattori tipici della produzione (polveri, gas, radiazioni ecc.),
fattori relativi alla fatica fisica e psicofisica (ritmi eccessivi, monotonia, stress ecc.).
Attualmente la legge italiana non definisce l’infortunio in modo preciso, ma ne fissa i requisiti in
un articolo: l’infortunio è l’evento avvenuto per causa violenta in occasione di lavoro (mette in
evidenza il nesso di causa effetto), da cui sia derivata la morte o un’inabilità permanente al
lavoro, assoluta o parziale, ovvero un’inabilità temporanea assoluta che comporti astensione dal
lavoro per più di 3 giorni.
La malattia professionale è un evento dannoso che incide sulla capacità lavorativa della persona
e trae origine da cause connesse allo svolgimento della prestazione lavorativa. I datori di lavoro
devono assicurare contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali tutti i lavoratori. Tale
assicurazione è gestita dell’INAIL (istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro) e
l’obiettivo è quello di garantire, in caso di infortunio o di malattia professionale, prestazioni
sanitarie relative alle prime cure, prestazioni economiche e forniture di apparecchi di protesi.
L’errore umano come causa di incidenti sul lavoro. Ancora oggi ci sono condizioni lavorative di
completa illegalità, con impiego di manodopera al di fuori di regole e situazioni in cui le misure
preventive non vengono quasi mai rispettate. Inoltre, si ritrova frequentemente
un’organizzazione del lavoro distante da un visione della sicurezza come fattore intrinseco al
lavoro stesso.
Le prime teorie sull’analisi degli incidenti sono state avanzate negli anni ’60 e facevano
riferimento a un modello che può essere definito “tecnico-ingegneristico-normativo”,
secondo cui gli incidenti sono il risultato di un fallimento della tecnologia e dalla devianza da
quanto prescritto dalle norme. In quegli anni ci si focalizzava sugli aspetti tecnico-normativi per
spiegare gli eventi, e quindi vi era l’obiettivo fi migliorare l’affidabilità degli strumenti. Negli
anni ’70 si è passati a un modello di analisi centrato sulla “persona”, spostando il focus dalla
macchina all’uomo. La componente umana diventa uno degli elementi rilevanti come causa nel
terminare l’incidente (stress, abbassamento dell’attenzione).
A partire dagli anni ’90 è nato il modello “organizzativo-socio-tecnico” il cui punto centrale è
che gli incidenti non devono più essere considerati come fallimento solo tecnico o umano, ma
come causati da più componenti: tecnologica, umana, organizzativa, in riferimento al contesto.
Tipologie di errore. Nell’ambito delle teorie sviluppate per lo studio dell’errore, il
comportamento dell’uomo è stato suddiviso in 3 tipologie: 1) comportamento basato sulle
abilità -> rappresenta comportamenti automatici messi in atto in una determinata situazione;
2) comportamento basato sulle regole -> vengono messi in atto comportamento che sono
definiti da regole precise ritenute adatte per determinate circostanze; 3) comportamento basato
sulla conoscenza -> sono comportamenti messi in atto quando ci si trova di fronte a una
situazione sconosciuta e di deve attuare un piano per farvi fronte.
Reason distingue 3 tipologie di errore: 1) errori di esecuzione che si riscontrano a livello di
abilità (slips) -> sono azioni svolte in modo diverso da quello pianificato; 2) errori di esecuzione
causati da un venir meno della memoria (lapses) -> a differenza degli slips, i lapsus non sono
direttamente osservabili; 3) errori che non vengono commessi durante la realizzazione pratica
dell’azione (mistakes) -> sono errori che nascono durante la pianificazione di strategie (questi
errori possono essere: 1) ruled-based:si utilizza una procedura che non permette il
conseguimento di quello specifico obiettivo; 2) knowledge-based: sono errori commessi in
riferimento alla conoscenza posseduta che può essere insufficiente).
Percezione del rischio. La percezione del rischio determina il grado di consapevolezza per cui un
lavoratore avverte che svolgere la propria attività o utilizzare un dato strumento mette la
sicurezza in pericolo. Alcuni importanti fattori nella percezione del rischio riguardano la
valutazione delle probabilità e delle conseguenze di un pericolo.
Gli studi hanno messo in evidenza che i comportamenti orientati alla sicurezza crescono in
funzione dell’aumento del rischio percepito.
Probabilmente i lavori non si attengono alle norme di sicurezza perché non percepiscono alcun
rischio associato alla situazione di lavoro. È stato evidenziato che un senso di “irrealistico
ottimismo” rispetto alla probabilità di essere coinvolti in un incidente cresce in proporzione
all’esperienza.
Va ricordato che il ragionamento umano di fronte a eventi incerti (come il rischio) non segue
una logica razionale, ma utilizza euristiche e regole più generiche per decidere se qualcosa è
possibile che accada o meno.
Alcuni studi hanno riportato che lavoratori orientati esternamente (attribuiscono il loro
comportamento a cause esterne) sono più soggetti a incidenti.
Le condizioni di lavoro.
Ambiente di lavoro. L’ambiente ha un effetto importante sulle condizioni di vita e di lavoro.
Progettare un ambiente di lavoro ergonomico significa conoscere il contesto nel quale si svolge
l’attività lavorativa, quindi gli aspetti fisico-dimensionali, ambientali e organizzativi. Creare un
posto di lavoro centrato sulle esigenze dell’uomo significa prendere in considerazione le
caratteristiche biomeccaniche, fisiologiche, antropometriche e psicologiche dell’uomo.
• L’antropologia fa si che il posto di lavoro sia ben dimensionato e allestito in modo che vi
sia spazio sufficiente per permettere cambianti di posizione e movimenti operativi.
• Gli esperti di fisiologia del lavoro e biomeccanica si occupano dei costi energetici del
lavoro e particolare rilievo assume la valutazione dello sforzo muscolare e della fatica
associati a posture statiche e dinamiche.
• Gli aspetti psicologici, che spaziano da quelli cognitivi (attenzione, memoria, percezione),
a quelli motivazionali, relazioni, di dinamiche di gruppo o atteggiamenti.
La qualità del lavoro dipende dall’integrazione di tutti questi elementi.
Tra i fattori “esterni” che condizionano un ambiente di lavoro vi sono:
I. Il microclima -> è quell’insieme di parametri ambientali che regolano le condizioni
climatiche di un luogo di vita o di lavoro determinanti per il benessere termico di un
individuo. Per valutare questi parametri va considerata la tipologia del lavoro svolto e i
fattori soggetti legati all’individuo (età, peso, genere ecc.)
II. Illuminazione -> la conformità ai parametri ottimali di luminosità ambientale è
determinata da una corretta esposizione alla luce, sia di giorno che di notte. Tuttavia, la
percezione di confort relativo alla luminosità dipende dalle caratteristiche fisiche della
persona, dalle attività svolte, dagli aspetti strutturali, ma anche da fattori socioculturali e
di abitudine.
III. Il rumore -> può essere definito come un qualsiasi suono che arrechi disturbo. Esistono
norme di legge che forniscono delle linee guida relative al problema acustico e al rumore
negli ambienti di lavoro. Il rumore può causare danni all’apparato uditivo e rappresenta
una delle principali cause di patologie professionali.
IV. Il carico di lavoro fisico -> è necessario valutare che ciò che viene richiesto non sia
superiore alle capacità di lavorare in uno specifico contesto. I disturbi muscoloscheletrici
sono un gruppo di affezioni a carico delle strutture ossee, muscolari, tendinee e delle
borse articolari. I fattori di rischio sono: la forza richiesta per eseguire il compito, la
postura tenuta, la ripetitività dei gesti, l’inadeguato rilassamento dei segmenti
muscoloscheletrici coinvolti nell’esecuzione del compito.
V. Il sollevamento manuale dei carichi -> si riferisce all’azione di sollevare, deporre,
spingere, tirare o spostare un carico che comporta rischi di lesioni dorso-lombari. È stato
stabilito il massimo di 30 kg per gli uomini e 20 kg per le donne; soglie che se superate
creano i presupposti per un rischio fisico. I rischi vanno valutati in riferimento alle
caratteristiche del carico, le posizioni di sollevamento, lo sforzo fisico eccessivo e le
caratteristiche dell’ambiente.
VI. Le posture fisse prolungate -> una postura di lavoro mantenuta constante nel tempo
viene definita fissa, mentre se è frequentemente modificata viene chiamata dinamica. I
lavori statici sono più logoranti rispetto a quelli dinamici e possono causare l’insorgere di
disturbi muscoloscheletrici.
VII.La ripetitività -> la ripetitività è legata alla necessità di disporre di adeguati tempi di
recupero. Vi è una proporzionalità tra intensità dello sforzo muscolare e durata del tempo
di recupero necessario.
VIII. La fatica mentale -> è la diminuzione reversibile delle prestazioni e delle funzioni
dell’organismo legata a una diminuzione della soddisfazione verso il lavoro e a un
aumento dello sforzo effettuato per compiere il lavoro stesso. Il concetto di fatica
mentale va distinto d quello di carico mentale: il carico mentale di lavoro è la quantità di
lavoro con impegno mentale che il lavoratore deve svolgere. La fatica mentale nasce
dall’interazione fra i requisiti di un compito di lavoro, le circostanze in cui è effettuato e
le abilità, i comportamenti e le percezioni dell’operatore. La ridotta efficienza funzionale
si manifesta attraverso sensazioni di stanchezza, rapporti meno favorevoli tra
prestazione e sforzo, tipo e frequenza di errori ecc.
IX. Misurazione della fatica mentale -> il Draft ISO è un proposta di misurazione della fatica
mentale e considera 4 criteri di valutazione: 1) soggettivi -> fanno riferimento all’uso di
questionari di autovalutazione dei sintomi della fatica; 2) comportamentali -> si basa su
test di memoria, su test di reattività e di capacità di mantenere l’attenzione ecc.; 3)
fisiologici -> possono essere valutati altri indicatori di fatica come i ritmi cerebrali,
frequenza cardiaca ecc.; 4) biochimici -> il lavoro mentale può alterare i parametri
biochimici attraverso cambiamenti del livello di uropepsina nelle urine e di catecolamine
nel sangue. Una volta individuate le caratteristiche del sistema da indagare e analizzati i
bisogni dei lavoratori, è possibile adottare le modalità valutative più opportune.
La psicologia del lavoro parte dal presupposto che le differenze individuali possono essere
utilizzate per prevedere esiti lavorativi quali il successo nella professione e la soddisfazione
lavorativa. Inizialmente venne studiata e misurata in ambito organizzativo l’abilità cognitiva
tramite la quale le persone acquisiscono conoscenze e risolvono problemi, anche detto fattore
“G” (abilità mentale generale). A partire dal fattore “G” si è passati ad una valutazione di una
più ampia varietà di differenze individuali quali le abilità fisiche, mentali, psicofisiche, la
personalità e le motivazioni alla base del comportamento. Il solo fattore “G” è di scarsa utilità
nella previsione della prestazione lavorativa, mentre risulta utile poter misurare una serie più
ampia di attributi. (I prossimi paragrafi trattano le principali caratteristiche individuali).
• Abilità fisiche
• Abilità percettivo-motorie
Il contributo di Fleishman è importante in quanto ha preso in considerazione anche aspetti fisici
e percettivo-motori che possono influire sui comportamenti lavorativi.
Gli studiosi ritengono che pur essendo “G” necessario per la comprensione del comportamento
lavorativo, esso da solo non risulta efficiente, in quanto indispensabili sono anche altre abilità
più specifiche e riferibili alle diverse tipologie di lavoro.
Abilità fisiche. Vi sono mansioni il cui svolgimento richiede determinate caratteristiche fisiche.
Secondo Fleishman esisterebbero 11 abilità motorie di base (tra cui il tempo di reazione e la
destrezza manuale) e 9 abilità fisiche (es. la forza statica).
Hogan identificò 7 abilità fisiche alla base di molte abilità lavorative, raggruppabili in 3
macrocategorie superiori: la forza muscolare, la resistenza cardiovascolare e la qualità del
movimento. Sono state riscontrate corrispondenze tra il modello di Hogan e quello di Fleishman
e Reily.
Abilità sensoriali. In campo lavorativo, le abilità sensoriali che sono state più frequentemente
prese in considerazione sono quelle visive e uditive.
Modello big five. Secondo il modello big five è possibile descrivere la personalità in base a 5
fattori principali (coscienziosità, energia, amicalità, stabilità emotiva e apertura mentale),
ciascuno dei quali comprende due tratti più specifici.
Barrick e Mount hanno affermato che per la maggior parte delle professioni è la coscienziosità a
essere maggiormente correlata con il successo lavorativo. Altri affermano una correlazione
positiva con lo sviluppo della carriera, con il livello retributivo e con la soddisfazione lavorativa.
Critiche alla teoria del big five: 1) secondo alcuni autori non sono sufficienti i 5 fattori di base
per spiegare la complessità umana nell’ambito lavorativo (es. Tellegen e Waller hanno aggiunto
2 dimensioni: “valenza positiva” che include caratteristiche descrittive come notevole,
straordinario, e “valenza negativa” comprende aspetti come crudele, cattivo e strano); 2) la
seconda critica riguarda il fatto che la coscienziosità non sarebbe correlata in maniera
significativa ai comportamenti organizzativi; 3) una combinazione dei fattori consentirebbe una
migliore previsione della performance rispetto a quella resa possibile da ogni fattore
isolatamente considerato.
L’utilizzo del modello big five in ambito lavorativo consente di rilevare la diversità tra persone
prese in esame ed eventualmente di migliorare l’integrazione individuo-organizzazione
attraverso un reciproco allineamento.
• Autostima: è il grado di fiducia che le persone hanno in se stesse e nelle loro capacità.
• Gli interessi: gli interessi possono essere definiti come la preferenza manifestata da una
persona verso particolari ambienti professionali o attività lavorative. L’interesse può
esercitare un potere notevole sul comportamento se una persona svolge un lavoro non
conforme ai propri interessi è più probabile che ottenga livelli di prestazione scarsi
rispetto a quelli che potrebbe raggiungere svolgendo un lavoro percepito come più
interessante.
Un altro modello per lo studio degli interessi professionali è quello di Kuder, secondo cui
ogni persona manifesta un ineteresse prevalente per attività che possono essere così
caratterizzate: lavori all’aperto, tecnici, contabilità, scientifica, ecc.
• Il test di orientamento motivazionale che costituisce una delle motivazioni che orientano
il comportamento in ambito organizzativo secondo 4 direttrici: orientamento all’obiettivo,
all’innovazione, alla leadership e alla relazione.
• La scala dei valori professionali che consente di individuare l’orientamento della persona,
la tipologia a cui si avvicina (creativa, tranquilla ecc.).
I valori: sono le convinzioni in virtù delle quali una persona ritiene giusto o sbagliato
agire in un certo modo piuttosto che in un altro. Si tratta di elementi in grado di
influenzare gli atteggiamenti e i comportamenti messi in atto. I valori sono il prodotto di
apprendimenti e di esperienze di vita condotte dall’individuo all’interno del contesto
culturale di appartenenza.
• Valori terminali, che riflettono la preferenza del soggetto per 3 determinati obiettivi finali
da raggiungere nel corso della vita.
• Valori strumentali, sono i mezzi attraverso cui le persone perseguono gli obiettivi
terminali.
Un’altra classificazione dei valori è quella descritta da Allport che individuò 6 categorie:
valori teoretici, economici, estetici, sociali, politici e religiosi.
E’ evidente che il comportamento lavorativo delle persone sia imputabile alle differenze
individuali, senza trascurare di segnalare l’influenza delle situazioni contingenti: il migliore
approccio per apprendere il comportamento delle persone sul lavoro è quello di considerare
l’azione simultanea delle variabili individuali e situazionali.
CAP.5 LA MOTIVAZIONE
Il costrutto di soddisfazione lavorativa è stato usato nella psicologia del lavoro fin dagli anni ’30.
Definizione ed evoluzione del costrutto di soddisfazione lavorativa.
La soddisfazione lavorativa è considerata come un atteggiamento e questo significa esaminare
3 componenti (emotiva, cognitiva e comportamentale) che si ritrovano anche nella definizione
di Locke: uno stato emotivo positivo e piacevole (emozione) risultante dalla percezione
(cognizione) della propria attività lavorativa (comportamento). L’origine degli studi sulla
soddisfazione lavorativa è stata facilitata da 2 fenomeni:
• Il movimento delle human relations che ha ipotizzato che i lavoratori soddisfatti saranno
anche i più motivati
• Il movimento di misurazione degli atteggiamenti che si è occupato di rendere
quantificabili le variabili psicologiche, tra le quali la soddisfazione stessa.
Anche i primi studi sulla soddisfazione del cliente e tutto il conseguente filone della ricerca di
marketing, evidenziano come un cliente soddisfatto del prodotto più probabilmente ne
comprerà un altro, hanno contribuito a confermare la visione in base alla quale ad un
incremento di soddisfazione lavorativa corrisponderà un miglioramento delle prestazioni e
quindi dei risultati dell’organizzazione. Questa visione è stata rafforzata dal modello del “total
quality management” (TOM) che ha riconosciuto al lavoratore lo status del cliente:
l’organizzazione deve adottare strategie per monitorare e migliorare la soddisfazione del
cliente: un lavoratore soddisfatto non lascia l’organizzazione, pone maggior attenzione al
proprio cliente ed è stimolato a proporre suggerimenti per migliorare l’organizzazione.
Tuttavia, le ricerche sul campo per verificare la relazione tra soddisfazione e produttività hanno
ottenuto risultati discordanti (tanto che si ritiene vi siano più variabili e che il concetto di
“soddisfazione lavorativa” vada sostituito con “benessere psicologico”).
Questo tema ha suscitato interesse perché a tutti è capitato di percepire un senso di
soddisfazione o insoddisfazione per un proprio lavoro; la soddisfazione è stata resa misurabile e
quantificabile mediante l’uso dei questionari; infine dagli studi sulla soddisfazione è possibile
trarre indicazioni operative per migliorare la qualità della vita lavorativa.
I contenuti della soddisfazione lavorativa.
La soddisfazione può essere intesa come un atteggiamento globale (soddisfazione generale) o
come somma di atteggiamenti parziali (soddisfazione relativa). Tuttavia non esiste alcuna
classificazione dei contenuti (componente) della soddisfazione che abbia ottenuto pieno
riconoscimento dalla comunità scientifica. Le ricerche sul campo si sono infatti avvalse di
modelli estremamente differenti in termini di numero e caratteristiche delle componenti
analizzate. Teorie e modelli.
Principali modelli che hanno contribuito allo studio della soddisfazione lavorativa:ù
• Modelli cognitivi. Tra la metà degli anni ’60 e la metà degli anni ’70 vi sono stati studi
che hanno focalizzato l’aspetto cognitivo della soddisfazione lavorativa, proponendosi di
individuare le modalità che porterebbero i soggetti a soppesare tutti gli elementi in gioco
per poi decidere il proprio livello di soddisfazione. Il “facet model” di Lawler indica
l’origine della soddisfazione nel confronto tra ricompense ricevute e ricompense attese
(se quanto ricevuto sarà inferiore a quanto atteso vi sarà insoddisfazione ecc.). La stima
delle ricompense attese viene effettuata dall’individuo in base a 3 elementi: il livello di
abilità e esperienza che ritiene di offrire, il confronto tra l’input offerto e ricompense
ricevute da altri soggetti, infine le caratteristiche del lavoro in sé (difficoltà,
responsabilità …).
Il modello di Lawler approfondisce la componente relazionale dell’atteggiamento, ma
non va dimenticata la soggettività del processo percettivo, che seleziona e distorce gli
stimoli presenti nel contesto.
• Modello delle caratteristiche del lavoro. È un modello proposto da Hackman e Oldham
con l’obiettivo di precisare le relazioni tra caratteristiche del lavoro, reazioni individuali
dei lavoratori e soddisfazione lavorativa. Nel modello ci sono 5 dimensioni che portano a
3 stati psicologici (significato del lavoro, responsabilità e conoscenza dei risultati) i quali,
a loro volta producono risultati in termini di soddisfazione, motivazione ed efficacia
lavorativa. I collegamenti tra dimensioni del lavoro e stati psicologici e tra stati
psicologici e i risultati sono moderati dal “bisogno di crescita” percepito da ciascun
lavoratore. Quanto più i 3 stati psicologici sono presenti e quanto sono più intensi, tanto
più sarà probabile che il soggetto sviluppi atteggiamenti di soddisfazione lavorativa e di
soddisfazione per lo sviluppo professionale insieme ad un incremento della motivazione
e a un senso di efficacia.
Il potenziale motivazionale (MPS) di un’attività lavorativa può essere calcolato
combinando i punteggi attribuiti a ciascuna delle 5 caratteristiche:
MPS = (identità del compito+ varietà + importanza) x autonomia x feedback
• Modelli disposizionali. Secondo Judge, Locke, Ducham e Kwger un’influenza sulla
soddisfazione lavorativa e sulla vita in generale è esercitata dalla “core selfevaluation”,
costrutto determinato dall’autostima, autoefficacia assenza di pessimismo e locus of
control interna. Di recente è stato proposto un modello più generale in cui la core self
evaluation è messa in relazione con le caratteristiche dell’obiettivo di lavoro, che è un
fattore che influenza la soddisfazione lavorativa.
• Modelli basati sulle emozioni. La teoria di Weiss e Cropanzano pone l’accento
sull’influenza esercitata dagli eventi quotidiani sulle emozioni che accompagnano la
soddisfazione /insoddisfazione. I risultati delle ricerche ispirate alla teoria di Weiss e
Cropanzano evidenziano come gli eventi negativi abbiano un effetto sulle emozioni
notevolmente superiore agli eventi positivi, producendo uno stato di insoddisfazione che
è all’origine dei comportamenti controproducenti con i quali un dipendente danneggia
l’organizzazione (sabotaggi, furti …). Le esperienze positive sul lavoro contribuiscono a
produrre soddisfazione.
Sono state formulate 3 ipotesi sulla relazione tra soddisfazione lavorativa e soddisfazione
per la vita in generale (life satisfaction):
• Ciò che viene vissuto nell’ambiente lavorativo compensa ciò che è esterno ad esso
(compensation).
• Ciò che accade in un ambiente si riversa nell’altro (spillover).
• Tra i due aspetti non c’è un legame (segmentation).
Nuove ricerche hanno confermato la validità dello spillover.
Misure analitiche generali. Molti ricercatori che utilizzano misure analitiche, effettuano una
misura “composta” della soddisfazione generale e, cioè, una somma di punteggi delle
differenti sottoscale. Secondo alcuni autori la misura composta è una procedura errata in
quanto omette delle componenti di soddisfazione che l’individuo ritiene importanti nel
formulare il proprio giudizio di soddisfazione ed include componenti che non ritiene
importanti.
Una misura della soddisfazione complessiva è l’utilizzo della single-item (Quanto si ritiene
soddisfatto del suo lavoro e della sua organizzazione?) . L’utilizzo della single item è
vantaggioso poiché riduce i tempi e i costi della somministrazione ed incrementa la validità
di facciata dello strumento, senza che il soggetto sia infastidito dalla presenza di molte
domande simili.
CAP.7 LA COMPETENZA
La competenza a vivere.
Prima di parlare di competenza professionale, parliamo di competenza a vivere. La competenza
non può essere ridotta a una sola descrizione, poiché è estremamente plastica, contraddittoria
e articolata; é allo stesso tempo un processo e una struttura poliformica.
La struttura e il processo. Il nucleo fondante la competenza umana è rintracciato nella capacità
di produzione ed interpretazione di segni e simboli e nella nostra competenza semeiotica ed
ermeneutico-narrativa. Alcuni studiosi individuano nell’uso del linguaggio e nella costruzione di
significati la conditio sine qua non della possibilità di sviluppare competenza e di produrre
conoscenza. La caratteristica della competenza umana è la relazionalità che si esprime nella
dimensione ermeneutica e sociale. La dimensione ermeneutica e narrativa della competenza si
esprime nello stabilire legami, nel ritrovare e scoprire i nessi possibili di significati (non dotiamo
di senso una cosa in sé, ma il rapporto con qualcos’altro: il significato è legato ad altri
significati), ma richiama un altro livello di relazione: questa è necessaria nella costruzione della
competenza e quindi conoscenza di sé e del mondo attraverso processi interattivi nei quali si
quali si impara, mediante comunicazioni intenzionali, a interpretare le vicende esperite e a
negoziare i significati di eventi, situazioni, condividendo un sistema di regole proprie della
cultura di appartenenza.
Il secondo nucleo della competenza a vivere è paradigmatico, ordinatorio e conativo che
individua una competenza a progettare e attuare piani d’azione. L’ipotesi è che tale
competenza progettuale sia espressione di una struttura cognitiva incorporata in un repertorio
di mappe cognitive, schemi e programmi, posseduto e usato dall’attore per concepire, mettere
in atto e governare le proprie azioni e comportamenti. In questo modo, le azioni e
comportamenti, anche quelli apparentemente più automatici, sarebbero sempre progettati, cioè
riferiti ad una mappa.
Competente è chi è capace di progettare e realizzare corrispondenze tra l’intenzione e i risultati
dell’azione, e di scoprire e correggere gli errori, o le eventuali mancate corrispondenze. Il
processo è struttura. La competenza è il processo mosso da 2 orientamenti: uno
individualeconversazionale (è un processo di costruzione di competenza arcaico, originato dalla
conoscenza tacita. Comprende mappe “antiche”, “naturali”, che durante l’evoluzione sono state
portate a un livello sempre più profondo e sono iscritte nella biologia dell’individuo) e l’altro
“sociale e culturale“ (è un processo più recente, originato dalla conoscenza esplicita, che
assume le forme della logica, del ragionamento ipotetico-deduttivo, tende all’astrazione e alla
razionalità. Le mappe di questa seconda modalità sono più superficiali ed devono essere
richiamate con uno sforzo consapevole).
CAP. 8 LA CARRIERA
Lavoro e benessere.
Nel passato veniva analizzato lo studio dei fattori di rischio di tipi fisico, chimico e biologico sui
lavoratori per quanto riguarda il rapporto tra lavoro e benessere. Solo di recente l’attenzione si
è spostata sulle variabili che possono incidere sul benessere psicologico, come lo stress
occupazionale, il fenomeno del mobbing e la sindrome del burnout. Questo è dovuto al fatto che
è cambiato il concetto di salute, in quanto non si intende più solo quella fisica, ma anche quella
psicologica e sociale.
La prima spinta in questa direzione è stata quella degli studi di Mayo, che dimostrò l’influenza
della dimensione psicosociale sui comportamenti lavorativi e affrontò gli effetti sul benessere
psicologico del contesto sociale e organizzativo.
Negli anni ’80 l’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha definito il concetto di “rischio
psicosociale” come l’insieme delle interazioni fra le variabili riferibili da una parte al contenuto,
alla gestione e all’organizzazione del lavoro; dall’altra alle competenze e alle esigenze dei
lavoratori.
Si sviluppa l’idea che le persone che “si sentono bene”, oltre ad avere benefici in termini di
longevità e salute, lavorano anche in modo più produttivo, incrementando il livello complessivo
di “benessere organizzativo”.
Raymond e coll. hanno proposto una nuova materia interdisciplinare, denominata “psicologia
della salute organizzativa”, finalizzata allo studio degli aspetti organizzativi orientati al
miglioramento del benessere fisico, psicologico e sociale delle persone. Tale filone di studi
propone di intervenire sulle aree organizzative disfunzionali, promuovendo il benessere
psicologico nei luoghi di lavoro e pone l’attenzione su 3 fattori di rischio psicosociali quali:
stress, mobbing e burnout. Lo stress occupazionale.
Principali modelli teorici. Il termine stress ha un’origine etimologica legata all’ambito
ingegneristico, in quanto faceva riferimento agli effetti subiti dai materiali metallurgici
sottoposti a forte pressione.
• Il primo studioso ad aver applicato il concetto di stress agli esseri viventi è stato Hans
Selye che ideò l’approccio response-based in cui lo stress viene identificato nella risposta
fisiologica aspecifica manifestata dall’organismo nei confronti di diverse tipologie di
stimoli ambientali (modello poco valido in quanto si focalizza esclusivamente sulle
risposte manifestate dall’organismo)
• Il modello successivo, definito stimulus-based è basato sugli stimoli prendenti nel luogo
di lavoro (è un approccio limitato alla descrizione di una sola componente del fenomeno,
quella riferita alle caratteristiche del luogo di lavoro)
• L’approccio “interattivo” pone il focus sull’interazione tra stimoli ambientali e risposte
individuali (parzialmente inadeguato)
• Il più attuale moderno modello sullo stress è quello “transazionale” (Lazarus) che
suggerisce come lo stress sia il risultato di un processo constane e continuo di scambio
di interazione tra individuo e ambiente. Vengono prese in considerazione le
caratteristiche individuali e gli stili di coping. Le valutazione cognitive attuate dai
soggetti relativamente alle richieste ambientali sono suddivise in 2 tipologie: (1)
valutazione primaria –> gli individui cercano di attribuire un significato alla situazione e
valutano ciò che per loro è sostenibile in termini di risorse personali; (2) valutazione
secondaria -> riguarda la percezione del soggetto di possedere o meno le strategie di
coping adatte ad affrontare la situazione avversa.
(stress= intero processo transazionale; stressor= le situazioni stimolo; strain=le risposte
fisiologiche, psicologiche e comportamentali agli stressor)
Stressor organizzativi. Stressor principali: eccessivo rumore, temperature insostenibili,
esposizione a vibrazioni elevate, scarsa illuminazione e turni di lavoro prolungati soprattutto se
distribuiti nelle fasce orarie notturne (-> quest’ultimo è maggiormente presente nei Paesi
sviluppati a causa un’alterazione dei ritmi circadiani e interferisce con la vita familiare e
sociale). Altri stressor:
1. Ambiguità di ruolo -> mancanza specificità del proprio lavoro
2. Conflitto di ruolo -> generato da richieste incompatibili all’interno dello stesso ruolo o
alla presenza di differenti ruoli ricoperti dallo stesso individuo
3. Sovraccarico lavorativo -> se è di tipo “quantitativo” genera insoddisfazione, se è
“qualitativo” genera abbassamento dell’autostima, della soddisfazione e della
motivazione
4. Scarsa qualità delle relazioni interpersonali sul luogo di lavoro può determinare reazioni
psicologiche negative
5. Stile di leadership è una possibile fonte di strain per i lavoratori, in particolare una
leadership esclusivamente orientata al compito o eccessivamente punitiva o un
atteggiamento passivo da parte del leader.
Supporto sociale: la presenza di una rete funzionale di supporto sociale all’interno
dell’organizzazione sarebbe in grado di alleviare la percezione di strain da parte dei lavoratori.
Conseguenze. Le conseguenze sul singolo lavoratore dello stress occupazionale coinvolgono il
piano fisiologico, psicologico e comportamentale:
• Piano fisiologico -> l’esposizione protratta agli stressor può alterare il normale
funzionamento del sistema cardiovascolare che comporta aumento della pressione
sanguigna e di livello ematico di colesterolo, sino all’insorgenza di patologie cardiache.
• Piano psicologico -> i sintomi associati allo stress sono: insoddisfazione lavorativa, ansia
e disturbi dell’umore
• Piano comportamentale -> lo strain può determinare abuso di sostane e incremento di
azioni sociali negative
Gli esiti dello stress occupazionale possono influenzare l’intero sistema organizzativo:
diminuzione dei profitti dovuta al calo della produttività, costi supplementari derivanti dalla
sostituzione di macchinari danneggiati a seguito di incidenti e la perdita di clienti/utenti dovuta
alla diminuzione della qualità dei servizi erogati.
Variabili in grado di moderare la relazione stressor-strain. Lo studio dello stress occupazionale si
occupa della valutazione delle variabili disposizionali, situazionali e sociali che possono
esercitare una relazione stressor-strain.
Le variabili disposizionali o individuali includono l’analisi dei modelli comportamentali di tipo A
(include le caratteristiche di personalità quali competitività, ambizione, pressione temporale,
aggressività, rabbia e ostilità -> ultime 2 possono condurre a significativi aumenti di stress),
l’affettività negativa (bassa autostima e stati emotivi negativi, per questo sono più inclini a
concentrarsi sugli aspetti negativi di sì e dell’ambiente circostante e a sperimentare alti livelli di
strain), autostima e autoefficacia (alti livelli di autoefficacia personale correlano con riduzione
delle conseguenze negative dello stress. Alti livelli di autostima sono più reattivi agli stimoli
esterni), percezione di controllo sugli eventi (mantiene uno stati di benessere e stimola il senso
di autoefficacia. Le modalità di espressione del controllo sono collegate agli stili di coping:
coping focalizzato sul problema – strategie per affrontare le difficoltà ambientali, coping
focalizzato sulle emozioni – sforzi messi in atto per limitare il disturbo emotivo.
Supporto sociale modera la relazione stressor-strain, soprattutto se fornito dai superiori.
Valutazione. La maggior parte delle attuali ricerche finalizzate alla comprensione dello stress
occupazionale considerano il fenomeno in un’ottica transazionale, fondata sull’idea di
adattamento dinamico tra persona e ambiente. Tale modello è diffuso e accettato a livello
teorico, ma a livello pratico di privilegia il modello interattivo dello stress -> considera le
componenti del processo come costrutti statici, non esaminano il fenomeno nel suo insieme e
viene accentuato il ruolo passivo dell’individuo rispetto alle fonti di stress.
La prospettiva transazionale comporta l’indagine di un numero elevato di variabili, aspetto che
rende questa metodologia poco economica.
La ricerca sullo stress in ambito organizzativo ha privilegiato l’utilizzo di strumenti self-report,
quindi misurazioni di tipo soggettivo che valutano il significato psicologico attribuito
dall’individuo all’esposizione agli eventi ambientali. Le misurazioni obiettive, che misura i
parametri fisiologici, potrebbero spiegare maggiormente la reale esperienza di stress.
Interventi. Gli interventi finalizzati alla prevenzione e alla riduzione dei livelli di stress
occupazionale possono essere classificati all’interno delle seguenti 3 categorie: primari,
secondari e terziari.
• Gli interventi primari hanno lo scopo di ridurre il più possibile gli agenti in grado di
sollecitare risposte di stress attraverso azioni quali la riprogettazione delle attività
lavorative, la ristrutturazione dei ruoli e l’instaurazione di un clima organizzativo
orientato alla cooperazione tra colleghi. Sono interventi che richiedono un costo elevato
ma permettono di ottenere i risultati migliori.
• Gli interventi secondari soni rivolti agli individui con lo scopo di modificare le reazioni
verso gli stressor occupazionali (es. tecniche di rilassamento e biofeedback) hanno un
costo limitato e sono efficaci a breve termine.
• Interventi terziari sono indirizzati alla cura e alla riabilitazione del lavoratore che
manifesta effetti derivanti dallo stress, prevedono professionisti specializzati nel
trattamento dei sintomi da stress.
Le organizzazioni privilegiano gli interventi secondari e terziari, mentre i più efficaci sono i
primari. Il mobbing.
Caratteristiche principali. Il mobbing si verifica quando una persona, nel contesto lavorativo, è
continuamente oggetto di azioni sociali negative da parte di uno o più aggressori, con la
conseguenza per la vittima di sviluppare disturbi psicosomatici e dell’umore, e in alcuni casi
anche danno alla salute psicofisica. I principali modelli relativi al fenomeno sono quello di
Leyman (che descrive 4 fasi del fenomeno: conflitto quotidiano, inizio del mobbing, errori e
abusi da parte dell’ente Risorse umane e esclusione dal mondo del lavoro) e quello di Ege che
aggiunge al modello di Leymann una pre-fase definita “condizione zero”, che indica la presenza
di quello stato di conflittualità tipica del nostro Paese (è una condizione caratterizzata
dall’intenzione di predominare sugli altri).
Metodologie di valutazione. 3 metodi di ricerca sul mobbing:
• Metodi interni -> focalizzati sull’autopercezione del fenomeno (questionari, interviste)
• Metodi esterni -> riferiti al contesto e prevede la regolare osservazione del lavoratore nel
suo ambiente di lavoro e la raccolta di informazioni ottenute attraverso interviste o
questionari proposti ai colleghi, infine registrazioni audio o video o consultazione di
documentazione riservata.
• Metodi integrati -> che si avvalgono sia di metodi interni che esterni.
Vengono privilegiati i metodi di autovalutazione. Lo strumento italiano per la valutazione del
mobbing è il Questionario di Autopercezione del Mobbing, finalizzato alla misurazione delle
percezioni soggettive riferite alle caratteristiche del contesto lavorativo e alle percezioni
personali connesse alla situazione di lavoro.
Antecedenti individuali, sociali e organizzativi. 3 ipotesi esplicative sulle cause del mobbing:
• Ipotesi disposizionale -> sarebbero le caratteristiche di personalità della vittima e
dell’aggressore la principale cause del fenomeno. Il mobber presenta instabilità
dell’autostima, eccessiva invidia e debole competenza sociale. La vittima ha bassi livelli
di autostima e d’assertività; fattori che limitano le capacità difensive.
• Ipotesi sociale -> in base alla quale le dinamiche del gruppo di lavoro possono influire
sulla natura, la forma e la frequenza del mobbing
• Ipotesi situazionale -> fondata sulla convinzione che le determinanti della violenza
psicologica in ambito professionale siano da rintracciare in una scorretta organizzazione
delle attività lavorative.
Conseguenze. L’esposizione prolungata a comportamenti aggressivi di natura psicologica
comporta anche una serie di effetti negativi a livello organizzativo; il mobbing può portare a
fenomeni di assenteismo, turover, diminuzione della produttività eventuali spese di tipo legale.
Interventi. Gli interventi sono a livello individuale, di gruppo e organizzativo:
• Interventi a livello individuale: hanno maggiore di successo se realizzati nelle fasi iniziali
del fenomeno (valutazioni diagnostiche precoci e impostare brevi terapie di supporto
psicologico o forme di counseling)
• Interventi a livello di gruppo: utilizza, per gestire il conflitto, l’identificazione e la
mediazione delle situazioni critiche. Un’altra strategia di intervento è il mobbing group
che consiste in un training specifico finalizzato a favorire l’acquisizione di competenze di
gestione dei conflitti.
• A livello organizzativo ci si pongono obiettivi come l’istituzione di chiare politiche
antimobbing, valutazioni periodiche dei fattori di rischio, promozione di attività di
informazione sul fenomeno.
Il bunout.
Introduzione. In letteratura vi sono 2 orientamenti di studio che identificano il fenomeno
come una “situazione di processo”:
• Le definizioni di stato si focalizzano sui sintomi del burnout, caratterizzato da un disagio
che comprende: 1) esaurimento emotivo; 2) depersonalizzazione; 3) ridotta realizzazione
professionale e personale.
• Le definizioni di processo concepiscono il burnout come un fenomeno che si sviluppa in
diverse fasi. Edelwich e Brodsky descrivono il burnout come articolato in 4 fasi: 1)
entusiasmo idealistico- aspettative di successo e miglioramento del proprio status; 2)
stagnazione- l’operatore si rende conto che i risultati del suo impegno sono incerti; 3)
frustrazione – in cui predominano sentimenti di impotenza; 4) apatia – totale chiusura in
se stessi.
La sindrome è riferibile a qualsiasi categoria professionale. Può essere considerato come un
continuum psicopatologico che si snoda lungo un asse che da una condizione di stress positivo
porta a condizioni disadattative (di stress) attraversando aree marginali / disturbo
dell’adattamento.
Cause di insorgenza del burnout. Nella genesi della sindrome da burnout sono implicati fattori
individuali e organizzativi che interagiscono tra loro:
• Fattori individuali: l’insorgenza e gli effetti del burnout possono essere modulati da
aspetti individuali: le persone rispondono in maniera diversa alle situazioni stressanti.
• Fattori organizzativi 3 aree in cui si esplicano le condizioni di lavoro significative per il
problema: 1) ruoli lavorativi, ossia la distribuzione dei compiti e degli impieghi che se
incompatibili con le capacità e i valori degli operatori faciliterebbero in loro un
atteggiamento di ritiro; 2) la struttura di potere, che riguarda i processi decisionali e di
controllo nell’ambito lavorativo. In particolare, una struttura gerarchica di potere può
causare burnout poiché riduce la libertà di espressione e limita la possibilità di controllo
sugli eventi lavorativi; 3) il clima relazionale dell’organizzazione, cioè la qualità dei
rapporti all’interno del gruppo di lavoro, che incide sulla capacità di tollerare e affrontare
il disagio.
Conseguenze del burnout. Conseguenze in 3 ambiti:
• Personale: il burnout si manifesta attraverso somatizzazioni, dispersione di risorse,
frustrazione e sottoutilizzo di capacità personali;
• Interpersonale: il contatto con soggetti in uno stato di burnout può risultare frustrante,
inefficace e dannoso.
• Organizzativo: le conseguenze del burnout possono compromettere la qualità delle
prestazioni, con diminuzioni della soddisfazione dei clienti/utenti.
Valutazione del burnout. Negli anni ’80 sono stati sviluppati alcuni strumenti di misura del
burnout, tra questi il “Malasch Burnout Inventory (MBI) che si fonda sull’ipotesi che il
burnout sia una sindrome da stress cronico caratterizzata da 3 dimensioni: esaurimento
emotivo, depersonalizzazione e ridotto senso di riuscita personale e che sia caratteristico
delle professioni a intenso contatto con clienti e utenti. Attualmente il burnout lavorativo non
è concepito esclusivamente in riferimento alle professioni che richiedono un contatto diretto
con utenti. Recentemente è stato sviluppato un altro strumento di misura del burnout:
l’Organizational Checkup System (OCS) che rappresenta un’evoluzione rispetto all’MBI per 3
ragioni: 1) il concetto del burnout viene esteso a tutte le attività professionali; 2) la
misurazione non si limita alla fase diagnostica iniziale; 3) rivolge la propria attenzione non
solo all’individuo, ma anche all’organizzazione nel suo complesso.
Il burnout si contrappone all’engagement, cioè uno stato di spiccata attivazione energetica,
forte senso di coinvolgimento e percezione di alti livelli di efficacia personale. L’OCS è un
questionario composto da 68 item con modalità di risposta su scala Likert, finalizzato alla
misurazione di: le 3 dimensioni del burnout, le aree della vita lavorativa, la percezione dei
soggetti riguardo ai cambiamenti avvenuti nell’organizzazione, i processi di gestione
presenti nell’organizzazione (leadership, sviluppo delle competenze e coesione di gruppo).
Interventi. Gli interventi sono riferibili a 3 livelli:
• Livello individuale per prevenire il burnout è richiesta una revisione dei sistemi di
reclutamento, inserimento lavorativo e formazione, che dovrebbero basarsi in analisi
delle motivazioni e delle caratteristiche personali. Una volta inserito nell’organizzazione,
il lavoratore dovrebbe essere gestito con una supervisione orientata al potenziamento
delle sue risorse individuali, per sviluppare la capacità di affrontare efficacemente le
eventuali situazioni problematiche. Ci dovrebbero essere programmi di assistenza
attraverso interventi di counseling e di formazione alla gestione dello stress, in grado di
sviluppare motivazione, autostima e autoefficacia.
• Interventi di tipo sociale emerge di grande rilevanza il ruolo svolto dal sistema delle
relazioni interpersonali e dal sostegno sociale nel fornire adeguata prevenzione del
disagio e dell’insorgenza del burnout.
• A livello organizzativo non si può prescindere da un’analisi dell’organizzazione e dal
prendere in considerazione gli stili di management, il funzionamento dei gruppi di lavoro,
le caratteristiche del clima interno e della cultura organizzativa.
Conclusioni. Il lavoratore oggi è chiamato a investire una crescente quota di energie nell’attività
che svolge, questo perché c’è una maggiore competizione e concorrenza fra le organizzazioni.
Per questo motivo a un decremento della patologia da lavoro tradizionale a eziologia
monofattoriale (esposizione a polveri, fumi, gas e vapori) si accompagna un significativo
aumento delle patologie da lavoro aspecifiche aventi un’origine multifattoriale. La ricerca e gli
interventi nell’ambito della prevenzione dei rischi psicosociali nei luoghi di lavoro dovrebbero
muoversi non esclusivamente nella direzione della prevenzione del malessere, bensì in quella
più completa della promozione dei fattori in grado di incrementare il benessere, l’efficacia e la
soddisfazione delle persone.
Modelli di relazione tra valori e valori lavorativi. La letteratura distingue tra valori
generali e valori riguardanti alcuni specifici ambiti della vita (come i valori lavorativi). Vi
sono diverse posizioni riguardo la relazione tra valori generali e valori lavorativi:
• Valori lavorativi come indipendenti. Tale approccio porta a descrivere i valori come una
specifica area all’interno dei valori generali, rilevabile e misurabile mantenendo la
struttura relativa alla modalità e al focus. Le 3 sfaccettature che distinguono i valori
sono: 1) la modalità alcuni valori (materiale) hanno dirette conseguenze pratiche, altri
(affettivi) riguardano l’espressione dei sentimenti ecc.; 2) il focus l’attenzione di alcuni
valori (concentrati) può essere dedicata a un tema specifico, mentre quella di altri
(diffusi) può riferirsi a un ambito più generale; 3) le aree della vita permette di
distinguere tra l’area specifica del lavoro e quella più ampia della vita in generale.
• Valori lavorativi come origine. La concezione che i valori lavorativi siano la fonte dello
sviluppo di altri valori è vicina ai modelli dell’acculturazione psicologica e della
socializzazione organizzativa. L’acculturazione psicologica si riferisce al cambiamento
che gli individui attivano nel loro comportamento manifesto e nei tratti interiori quando si
trovano a vivere un’esperienza collettiva (quindi i valori lavorativi vengono appresi
attraverso l’esperienza professionale). Gli elementi della socializzazione organizzativa
che gli individui apprendono come prezzo dell’appartenenza riguardano valori, norme,
modelli di comportamento che è necessario che siano assimilati da tutti i membri
dell’organizzazione. (Dunque, l’adozione dei valori lavorativi può modificare la struttura
generale dei valori posseduti dagli individui).
• Valori lavorativi come interrelati. Roe e Ester propongono un modello in cui sono presenti
3 livelli corrispondenti alla società (il Paese), al gruppo (professionale, demografico ecc.)
e all’individuo. In ogni livello vi sono legami tra valori generali, lavorativi e l’attività
lavorativa. Il modello prevede anche una serie di connessioni tra gli elementi
corrispondenti ai 3 livelli. Questo modello permette di descrivere tutte le variabili che
entrano in campo quando si studiano i valori e i valori lavorativi.
Per quanto riguarda lo studio dei valori lavorativi, vi sono 2 ridultatiprodotti dalla ricerca WIS: 5
orientamenti valoriali e 6 tipi valoriali.
I 5 orientamenti valoriali spiegano le differenze tra singoli soggetti e/o diversi gruppi: 1)
orientamento materialistico concezione utilitaristica del lavoro (valori correlati: guadagni,
prestigio, autorità); 2) orientamento al sé concezione del lavoro come mezzo di
autoespressione (valori correlati: supporto personale, raggiungimento risultati, creatività ecc.);
3) orientamento agli altri mette in evidenza l’importanza del lavoro come strumento di
relazione (valori correlati: altruismo, interazione sociale, attività fisica ecc.); 4)orientamento
all’indipendenza sottolinea l’importanza data all’indipendenza e all’autonomia (valori correlati:
stile di vita, sviluppo personale ecc.); 5)orientamento alla sfida fa riferimento alla competizione
(valori correlati: rischio, autorità, attività fisica ecc.).
I 6 tipi valoriali corrispondono a 6 gruppi di soggetti definiti dalla cluster analisys (il cretivo, il
tranquillo, rampante, il duro, il battitore libero e il sociale). Ciascun gruppo si distingue dagli
altri perché dà più importanza a certi valori rispetto ad altri.
Valori e culture organizzative. È importante per ciascuna organizzazione coniugare i valori della
propria cultura con i valori personali dei collaboratori, in quanto la performance individuale e
collettiva è migliore quando i soggetti condividono gli stessi valori. Nella società post-moderna,
il venir meno di un fondamento stabile dei valori comporta il riconoscimento di diverse
soggettività. Weick definisce “mancanza di confini” la situazione in cui l’organizzazione è
scarsamente strutturata e gli obiettivi poco chiari, per cui si crea un ambiente molto più
favorevole all’effetto dei valori individuali sui comportamenti lavorativi.
Valori e ruoli lavorativi. 1)Influenza dei propri valori sul comportamento agito dai soggetti
nell’esercizio del proprio ruolo i valori dei manager influenzano le scelte che essi prendono:
coloro che privilegiamo valori filantropici tendono a dare maggiore importanza ai risultati di tipo
sociale e politica per es. 2)Corrispondenza tra valori e scelta dei ruoli lavorativi nelle
organizzazioni, gli orientamenti al sé e all’indipendenza risultano espressi dai dirigenti e, in
maniera progressivamente decrescente, da impiegati e operai. I giornalisti sono mossi dai valori
dell’onestà, dell’imparzialità ecc.
Strumenti di misurazione dei valori. Sono attività di orientamento, di selezione, di valutazione
delpotenziale, del counseling. Tra gli inventari: es. WIS.
Aspetti critici e prospettive. È tutt’ora aperta la questione se convenga cercare di integrare i
differenti approcci allo studio dei valori, considerandoli complementari, oppure se convenga
conformarsi alle metodologie di impianto quantitativo. Da qualche tempo si sta delineando la
psicologia del lavoro come una psicologia diversa da quella che studia il comportamento e la
razionalità umana.