Sei sulla pagina 1di 44

RIASSUNTO "PSICOLOGIA DEL

LAVORO" –

Piergiorgio Argentero, Claudio G. Cortese


CAP.1 STORIA, SVILUPPO E PROSPETTIVE PROFESSIONALI IN PSICOLOGIA DEL
LAVORO
Il 1913 è la data in cui si fa risalire la nascita della psicologia del lavoro, anno in cui lo psicologo
Hugo Munsterberg pubblica il volume “The Psychology and Industrial Efficiency”. Il primo
laboratorio di psicotecnica fu realizzato nel 1885 a Friburgo da Munsterberg e, nel 1889 a
Modena fu fondato il primo laboratorio italiano di psicotecnica.
Sin dall’inizio si vanno però definendo 2 prospettive, 2 impostazioni di lavoro spesso tra loro in
contrasto:

• La prima, più orientata alla teoria e alla conoscenza dei fatti e dei processi

• La seconda, all’azione e alla soluzione concreta dei problemi


L’oggetto di studio di questa di questa disciplina è l’uomo inserito nell’ambiente lavorativo, in
cui trascorre larga parte della propria vita.
Dalla psicotecnica alla psicologia delle risorse umana.
• La psicotecnica è un termine risalente al 1910 usato per definire la scienza “che si
propone di applicare la psicologia alla tecnica del lavoro umano e da tale definizione il
suo dominio e i suoi limiti sono chiaramente determinati”. In Italia questo termine è stato
sostituito negli anni ’50 da “psicologia industriale”(per un errore tipografico fu
trasformato in “psicologia individuale”.
• “Psicologia dell’occupazione” è un termine utilizzato soprattutto nei paesi anglosassoni.
• “Psicologia del lavoro” è il termine utilizzato in Europa e negli Stati Uniti.
• Negli anni ’70 si inizia a parlare di “psicologia dell’organizzazione” per approfondire i
temi di carattere più sociale della psicologia del lavoro. Distinzione psicologia del lavoro
e delle organizzazioni: con la psicologia del lavoro l’attenzione è rivolta all’interazione
uomo-macchina-ambiente, all’analisi del lavoro, alla progettazione del contesto,
all’orientamento professionale e alla selezione, agli interessi, alle motivazioni, agli
atteggiamenti verso il lavoro, nonché all’interazione tra vita lavorative e extralavorativa.
La psicologia delle organizzazioni considera, invece, le persone “in quanto membri di gruppi”, il
funzionamento dei team e le organizzazioni come costruzioni collettive e come artefatti sociali.
L’attenzione è posta sulle percezioni sociali reciproche, sui meccanismi di influenza sociale,
sulle comuni, sulle relazioni intergruppi ecc. gli analizzati sono: rapp. Uomo-lavoro; rapp.
Uomo-ambiente sociale; relazione individuo-organizzazione.
• L’oggetto di interesse della “psicologia delle risorse umane” è la gestione delle persone,
il contratto psicologico, il coinvolgimento. L’attenzione è rivolta sulle fasi dell’interazione
individuo-organizzazione.
La psicologia del lavoro: la sua storia. Secondo Gabassi, la psicologia del lavoro ha avuto origine
alla fine del 1800, quando il capitalismo andava trasformando il proprio spirito e si
preannunciava quella che sarebbe stata la Seconda Rivoluzione Industriale.
• Va tenuto conto che agli inizi del XIX sec in Inghilterra nacquero le organizzazioni
sindacali, vi furono i primi provvedimenti legislativi a tutela dei lavoratori (factory act) e
la discesa in campo politico dei movimenti socialisti che troveranno nel “manifesto” una
chiara definizione.
• Nella seconda metà dell’800 vi furono i pionieri della psicologia tra cui Taylor che riuscì a
cogliere una serie di temi legati ai lavoratori, e la costituzione negli Stati Uniti di quello
che poi diventerà il Ministero del Lavoro.
• La fine dell’800 vede la nascita dell’American Psychological Association, la prima grande
associazione di psicologia.
• Gli inizi del 900 -> fu un periodo proficuo per lo sviluppo della psicologia e vi è un forte
sviluppo della psicologia del lavoro che si prepara ad inserirsi nella sfida per la
produttività industriale. In Europa, in questi anni, vengono condotti nella fabbriche di
armi i primi studi sulla fatica, sullo stato fisico dei lavoratori e sulla durata del lavoro
(questo ambito di ricerca era stato precedentemente di matrice medica e
ingegneristica). L’attenzione degli psicologi è rivolta alle cause degli infortuni, della
mortalità sul lavoro e alle conseguenze psicologiche dei lavori alienanti e monotoni.
Gemelli elaborò test psicofisici per la selezione dei candidati all’aviazione e con
interventi diretti all’assistenza e all’organizzazione delle truppe. Nel 1917 ad Harvard, gli
psicologi sperimentali realizzarono 2 test divenuti famosi per la selezione: il test A (per
persone in grado di leggere e scrivere) e il test B (per gli analfabeti).
• Il primo dopoguerra -> la psicologia del lavoro, che ha come obiettivo la riumanizzazione
dell’industria, trova in questo clima culturale, un terreno fertile per il suo sviluppo. Nel
1919 Vittorio Benussi, in Italia, fonda il laboratorio di ricerche psicologiche e viene
istituita la cattedra di psicologia sperimentale nella facoltà di filosofia (Benussi voleva
che la psicologia fosse inserita nelle facoltà scientifiche). Alla morte di Benussi, fu
Musatti a prendere la direzione del laboratorio di Padova e a tenere l’insegnamento della
psicologia sperimentale (Musatti e Gemelli sono i “traghettatori” della psicologia dalla
difficile situazione pre-bellica alla nuova fase di sviluppa della disciplina nella seconda
metà del secolo). Tuttavia, il fervore di questi anni si arresta con l’avvento dei regimi
totalitari in Europa, che ostacolarono lo sviluppo della disciplina. Nel 1922 negli Stati
Uniti la psicologia del lavoro entra a far parte dei servizi del personale.
In Italia vi era una forte opposizione alla psicologia: ostacolata dalle reazioni della cultura
ufficiale, impregnata di filosofia idealistica; le leggi pronunciate in materia di lavoro, che
attribuiscono allo stato la gestione dei rapporti tra imprenditore e lavoratore,
comportano l’eliminazione delle tecniche di selezione, di orientamento e organizzazione
aziendale. Al pesante clima italiano si contrappone il rapido progredire, negli Stati Uniti,
della psicologia industriale.
• 1929: cambia il concetto di uomo al lavoro -> la crisi del 29 ha svolto un ruolo decisivo in
molti Paesi per lo sviluppo delle discipline centrate sull’uomo. Sono gli anni in cui la
psicoanalisi contribuisce a sottolineare, anche nel mondo del lavoro, l’esistenza di
comportamenti inconsci o irrazionali. In Italia, la crisi di fa sentire qualche tempo più
tardi rispetto agli Stati Uniti, ma l’industria italiana presta minore attenzione al ruolo che
il fattore umano svolge nelle dinamiche economiche e non si impegna in tale prospettiva
per lo sviluppo. La psicologia industriale non riesce a trasformarsi da psicotecnica in
psicologia a causa della mancanza delle condizioni sociali e politiche che avrebbero
potuto consentire tale trasformazione. In questi anni la psicologia americana conquista la
leadership nel mondo. Il concetto di “uomo psicologico”, al quale si riconosce la valenza
di sentimenti, emozioni e opinioni in ambito lavorativo, si afferma negli anni che
precedono lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, e lo stesso concetto di lavoro
subisce l’influsso sia della scuola psicoanalitica sia della psicologia sociale.
• Il secondo dopoguerra -> in Italia, la psicologia del lavoro è spesso ancora trascurata e
non considerata come scienza: non ritenendo che l’uomo possa essere misurato, la
cultura italiana rigetta la scientificità della psicologia (non solo quella del lavoro). Nel
1965 viene istituito il primo insegnamento italiano di psicologia del lavoro alla cattolica di
Milano (nella facoltà di economica). Il nuovo clima culturale che si viene a creare dopo le
agitazioni studentesche del 68 e le lotte operaie e sindacali, è molto più favorevole alle
problematiche psicologiche. Infatti, 2 anni dopo, è stata istituita la laurea in psicologia a
Roma e Padova. Nel 1989 viene istituito l’albo degli psicologi e nel 98 approvato il codice
deontologico.
La psicologia del lavoro: le sue peculiarità. La psicologia del lavoro è una disciplina fortemente
centrata sul contesto e sulle sue problematiche, piuttosto su modelli concettuali. Per questi
motivi, la disciplina viene talora criticata in quanto considerata un insieme di tecniche e
procedure operative non sempre collegate a un sistema teorico complessivo.
Il compito del ricercatore è reso più complesso dal dover agire direttamente sul campo,
all’interno delle specifiche realtà organizzative, avendo così minori possibilità di controllo e
spesso in presenza di vincoli temporali che gli impongono soluzioni rapide.
La ricerca in ambito lavorativo si caratterizza per
• La complessità dei problemi
• Ampiezza e incertezza delle situazioni che non possono essere definite in modo univoco
I vari contributi non possono essere generalizzati in Paesi con culture diverse, né le varie
tecniche metodologiche possono essere trasferite da un contesto all’altro ritenendo di ottenere
risultati altrettanto validi e affidabili. Per essere efficace, ogni situazione deve essere
individuata in rapporto alle diverse situazioni e alle loro caratteristiche.
La metodologia, in psicologia del lavoro, è prescrittiva e normativa: fissato un obiettivo occorre
individuare gli strumenti per raggiungerlo, i contesti per i quali vanno proposte procedure di
soluzione efficaci e scientificamente validate, anche facendo ricorso ad approcci teorico-
metodologici differenti.
La psicologia del lavoro può essere intesa come l’ambito più adeguato per lo studio e la
comprensione dell’interazione tra le persone e il mondo dei prodotti-servizi. Vanno valorizzate
entrambe le “anime” della psicologia del lavoro:
• Quella conoscitiva, che punta sulla descrizione e spiegazione del comportamento in
ambito lavorativo
• Quella dell’applicazione controllata del sapere prodotto per orientarlo alla soluzione di
problemi concreti
Prospettive del nostro paese. I mercati del lavoro stanno subendo importanti e profonde
trasformazioni: la globalizzazione impone alle imprese e alle organizzazioni un continuo
aggiornamento per sviluppare e mantenere la competitività. Gli addetti necessitano di
formazione continua e di riqualificazione; la flessibilità e i nuovi stili di vita si espandono in tutti i
settori e si sviluppano nuove forme contrattuali soprattutto riguardo ai giovani, alle donne agli
immigrati; inoltre, viene auspicata e perseguita da più parti una maggiore condivisione
organizzativa.
• I servizi e l’immateriale. La post industrializzazione ha determinato il passaggio da un
livello di produzione che privilegiava la quantità dei beni durevoli da immettere sul
mercato a una fase in cui la qualità dei servizi, l’interazione e le tecnologie
d’informazione dominano la quotidianità e guidano l’economia. Il servizio viene definito
come attività o vantaggio che una parte può scambiare con un’altra, la cui natura sia
intangibile e non implichi la proprietà di alcunchè. Nel settore dei servizi la maggior parte
del lavoro si sviluppa attorno all’informazione, ai saperi e agli affetti. 5 dimensioni del
settore: 1)elementi strutturali (comfort, grandezza dell’ambiente, presenza del
personale); 2) affidabilità (capacità di erogare il servizio in maniera affidabile e
accurata); 3) capacità di risposta (desiderio di aiutare il cliente fornendogli un servizio
rapido); 4) sicurezza (competenza e cortesia degli impiegati e capacità di trasmettere
fiducia e riservatezza); 5) empatia (capacità di prestare cura e attenzione
individualizzata ai propri clienti).
Caratteristiche delle imprese di servizi: 1) immaterialità; 2) contestualità tra produzione
e consumo (le prime 2 determinano un’innovazione largamente “necessitata”, la possibilità di
imitazione e la sovrapposizione delle attività di produzione, commercializzazione e distribuzione,
facendo spesso coincidere il luogo di erogazione con quello di fruizione); 3) impossibilità di
immagazzinare (comporta dei vincoli al dimensionamento della capacità produttiva e l’assenza
di svolte riduce le possibile di gestire le fluttuazioni della domanda); 4) partecipazione del
cliente (grazie alla quale risulta più facile la progettazione del servizio); 5) importanza delle
risorse umane (risulta fondamentale al fine di interpretare e soddisfare le esigenze dei fruitori).
Anche in Italia, come negli altri Paesi, è in atto una migrazione dal settore secondario a quello
terziario, comportando un cambiamento della richiesta e del livello di formazione (il settore dei
servizi è in espansione in tutto il mondo tecnologicamente avanzato). Da una parte, i nuovi
modelli di consumo, stili di vita e cambiamenti demografici tendono a produrre un aumento
della domanda di servizi da parte delle persone e delle famiglie; dall’altra, il progresso tecnico, i
mutamenti organizzativi e la crescente integrazione internazionale tra imprese comportano la
nascita di nuovi settori produttivi e la crescita della domanda di servizi anche da parte delle
aziende stesse. Valorizzare le differenze.
Sono le persone a determinare il successo e la competitività dei servizi a livello nazionale e
internazionale.
Il femminile: obiettivo 60%. Nel corso degli anni le identità lavorative si sono modificate e la
donna ha progressivamente occupato rilevanti attività professionali, anche se il tasso medio di
occupazione femminile (In Italia) resta inferiore a quello maschile.
Al fine di incrementare il lavoro femminile, il Consiglio Europeo tenutosi a Lisbona nel 2000 ha
sviluppato una strategia volta a far aumentare del 60% il tasso di occupazione femminile, entro
il 2010, in tutti i Paesi europei.
La forma contrattuale maggiormente riferita alle donne, oltre il contratto a tempo determinato,
è quella del part-time. Anche la differenza di retribuzione resta rilevante.
Lavoro flessibile e lavoro atipico. La flessibilità dell’attuale mercato del lavoro facilita la
diffusione di particolari tipologie di occupazione e di contratti, sia per scelte e necessita
individuali dei lavoratori, sia per esigenze organizzative.
Secondo altri autori, la tipologia del contratto di lavoro di ripercuote sia sul benessere
individuale che organizzativo: l’eventuale malessere del singolo lavoratore che da un contratto
a tempo indeterminato, potrebbe estendersi all’interna organizzazione (peggioramento delle
relazioni tra colleghi ecc.).
Tuttavia, la categoria dei lavoratori atipici è caratterizzata principalmente da giovani, che quindi
manifestano minori livelli di disturbi psicosomatici, stress e conflitti di ruolo.
Il contratto atipico, infatti, può influenzare negativamente la sicurezza lavorativa, lo stile
partecipativo di problem solving, il sovraccarico di ruolo e il conflitto di ruolo, che a loro volta
potrebbero ripercuotersi sullo strain.
Alcuni autori sostengono che i lavoratori atipici proverebbero una minore soddisfazione e un
minor benessere rispetto agli altri colleghi, a causa della maggiore insicurezza propria di queste
forme di contratto. Altri autori sostengono che i lavori atipici proverebbero una soddisfazione
maggiore, alimentata dalla speranza di venire assunti. Recenti contributi invitano a considerare
le variabili psicologiche soggettive nel determinare la soddisfazione lavorativa.
• Commitment “continuativo”: difficoltà della persona nel trovare alternative professionali
-> accade che un lavoratore atipico abbia la voglia di entrare a far parte stabilmente
dell’organizzazione.
• Commitment “affettivo”: fa parte di chi sceglie un lavoro atipico ed è grato all’azienda
per il proprio lavoro.
Il multiculturale. Nel nostro Paese, gli immigrati sono una componente sempre più rilevante nel
mercato occupazionale. Il fenomeno immigratorio ha le seguenti caratteristiche: 1) presenza
rilevante con un ritmo d’incremento sostenuto; 2) policentrismo etnico-culturale; 3) collettività
provenienti da vari Paesi del mondo; 4) distribuzione differenziata ma diffusa sull’intero
territorio nazionale; 5) crescente richiesta di spazi di partecipazione.
La disabilità. Gli eventi traumatici e le malattie possono comportare la riduzione o la perdita
permanente della capacità di svolgere le principali attività quotidiane e limitare il grado di
autonomia personale. In Italia, la legge 68/99 sull’inserimento e l’integrazione lavorativa delle
persone disabili tutela il loro inserimento nel mondo del lavoro e la loro autonomia economica.
In Europa il tasso di inattività delle persone disabili è doppio rispetto a quello delle persone non
disabili, e questo indica sia bassi livelli di reinserimento dopo un PSLDD (problema di solute di
lunga durata o una disabilità) sia bassi livelli di formazione generale e professionale. Per far
fronte all’intergrazione delle persone disabili, l’Unione Europea ha varato un Piano d’Azione
Europeo (PAD), da realizzare tra il 2004-2010, con 3 obiettivi:
• Piena applicazione della direttiva sull’uguaglianza in materia di occupazione
• L’integrazione della questione della disabilità nelle politiche comunitarie
• Il miglioramento dell’accessibilità per tutti
La condivisione organizzativa. Per una migliore precisazione degli obiettivi organizzativi è
necessario coinvolgere i lavoratori nella governance dell’organizzazione, colmare il gap
formativo e renderli partecipi nelle decisioni, potenziare l’occupazione femminile e promuovere
la centralità della persona e dei suoi valori. La propensione alla formazione in Italia è bassa
rispetto agli altri Paesi europei. Il motivo fornito dalle imprese italiane per questa mancanza di
formazione è quella che il personale impiegato possiede le conoscenze sufficienti per svolgere il
proprio lavoro. Questo non produce la necessità di sviluppo e competitività.
Nel corso degli anni è cresciuto il rilievo delle donne nel mondo del lavoro ed è aumentato il
peso delle loro decisioni. Anche se si continua a parlare di “soffitti di cristallo” che limitano
l’assunzione si posizioni di responsabilità per le donne, vi sono, in varie parti del mondo, donne
al vertice in molti settori (soprattutto nelle amministrazioni pubbliche, nelle organizzazioni
senza scopo di lucro e piccole iniziative produttive). Con “womenomics” si indica l’attenzione
della ricerca economica all’accresciuto ruolo delle donne all’esterno della famiglia. Da un
indagine è emerso che le donne si distinguono professionalmente dagli uomini:
• Gli uomini sono più concentrati sui problemi specifici e su soluzioni tecnico-operative
rapide ed efficaci
• Le donne prestano una maggiore attenzione all’organizzazione di appartenenza e alle
persone destinatarie dei servizi dell’organizzazione
• Le donne si identificano maggiormente con le strutture in cui lavorano e hanno un minor
interesse per le ricompense concrete rispetto agli uomini
• Le donne privilegiano la qualità delle relazioni interpersonali e il sostegno offerto dai
colleghi e superiori
Benessere organizzativo. Per benessere organizzativo si intende la capacità dell’organizzazione
di promuovere e mantenere il benessere fisico, psicologico e sociale dei lavoratori. Vanno
considerate le seguenti determinanti:
• Clima organizzativo -> si riferisce alle percezioni sviluppate dalle persone nei riguardi del
proprio ambiente di lavoro
• Cultura organizzativa -> designa i valori dominanti, le norme che vigono, i modelli di
comportamento, le regole che i nuovi assunti devono apprendere ecc.
• Conflitto organizzativo -> deriva dalla percezione di incompatibilità tra diverse differenze
comportamentali, dalla limitatezza delle risorse rispetto agli obiettivi e il confronto tra
valori e atteggiamenti di persone diverse.
• Percezione di supporto organizzativo -> è la percezione di sostegno, supporto da parte
dell’organizzazione ai suoi componenti.
• Efficacia collettiva -> è la convinzione, condivisa, dei componenti di un gruppo di essere
capaci di organizzare ed eseguire comportamenti necessari per produrre determinati
risultati.
• Stress -> si sviluppa a partire dalla percezione di potenziali fonti di tensione
nell’ambiente (stressor)fino a determinare conseguenze individuali e organizzative.
• Sicurezza e ambiente -> si riferisce alla sicurezza, comfort e salubrità degli ambienti di
lavoro.
Conseguenze delle determinanti:
• Soddisfazione lavorativa -> sentimento di piacevolezza derivante dalla percezione che
l’attività professionale svolta consente di soddisfare importanti valori personali.
• Commitment organizzativo -> consiste nell’impegno dei dipendenti dei confronti
dell’organizzazione
• Altruismo
• Strain -> sforzo psicofisiologico eccessivo di fronte a una situazione stressante che
determina conseguenze indesiderate sia a livello individuale che organizzativo
• Burnout -> stato di esaurimento fisico, emozionale e mentale che si verifica in seguito a
una protratta esposizione a situazioni lavorative difficili da gestire
• Mobbing -> azione ostile e non etica rivolta generalmente contro un singolo
• Turnover -> decisione del dipendente di abbandonare l’organizzazione
La promozione e lo sviluppo del benessere organizzativo rappresentano aspetti determinanti per
l’efficienza e l’efficacia organizzativa.
Il Dipartimento della Funzione Pubblica ha emanato la direttiva ministeriale del 2004 relativa
alle misure finalizzare al miglioramento del benessere organizzativo nelle pubbliche
amministrazioni. Con essa si intende sostenere la capacità delle strutture di attivarsi per
realizzare e mantenere il benessere psicofisico delle persone, attraverso la costruzione di
ambienti e relazioni di lavoro che contribuiscano al miglioramento della qualità della vita e delle
prestazioni dei lavoratori.
Prevenzione e sicurezza: rischi psicosociali. Con l’espressione rischio psicosociale si intende
l’insieme delle variabili organizzative, gestionali, ambientali e relazionali che possono causare
un danno psicologico, sociale o fisico alle persone e determinare effetti negativi in termini di
efficienza e di immagine a livello organizzativo, economico, sociale e ambientale. Rischi
psicosociali: lunghe ore di lavoro, intensificazione del lavoro, sensazione di insicurezza del posto
di lavoro ecc. La Commissione Europea propone una strategia per la promozione della salute e
della sicurezza sul luogo di lavoro dal 2007 al 2012, con lo scopo di conseguire una riduzione
degli infortuni sul lavoro e di malattie professionali con l’obiettivo di creare una cultura generale
che riconosca il valore della salute e della prevenzione dei rischi.
Attività dello psicologo del lavoro.
Lo psicologo del lavoro è un esperto di fattori umani, valuta le capacità, le potenzialità e le
motivazioni delle singole persone, per pianificare strategie e interventi di valorizzazione, in
riferimento sia alle esigenze sia alle finalità proprie delle strutture organizzative. Dal punto di
vista dei singoli, lo psicologo accompagna l’individuo lungo tutto il percorso che compie
all’interno dell’organizzazione, ma anche in relazione alla sua famiglia, all’ambiente sociale e ai
propri valori. Dal punto di vista organizzativo, l’azione dello psicologo è mirata a intervenire per
migliorare l’efficienza e l’efficacia organizzativa, la comunicazione, la qualità di prodotti e
servizi.
È importante che lo psicologo sappia rendere conoscibili e ben valutabili i problemi complessi,
come la percezione e la prevenzione dei rischi connessi all’attività lavorativa e la promozione
del benessere organizzativo.
L’azione dello psicologo del lavoro si rivolge anche all’esterno, in particolare ai destinatari
specifici a cui i servizi e prodotti si rivolgono: azioni di sensibilizzazione attuate con strumenti
del marketing e della comunicazione servono per attrarre nuovi clienti.
La “formazione continua” e “l’autoformazione” svolgono un ruolo fondamentale per raggiungere
gli obiettivi organizzativi: l’approfondimento delle conoscenze e delle competenze sono
necessarie per rispondere ai bisogni dei singoli e dell’organizzazione, al fine di renderla
competitiva e in grado di raggiungere i risultati attesi.

CAP.2 METODI E TECNICHE DI RICERCA IN PSICOLOGIA DEL LAVORO

La psicologia del lavoro e delle organizzazioni si basa sullo studio dei comportamenti delle
persone nei contesti lavorativi e nello svolgimento delle diverse attività professionali. È una
disciplina che utilizza molti approcci metodologici, modelli e teorie della psicologia e li applica
all’ambiente di lavoro con lo scopo di promuovere il benessere delle persone che lavorano e di
favorire il massimo vantaggio per l’organizzazione.
Oltre a favorire la comprensione del comportamento umano in ambito organizzativo, è
importante anche per impostare pratiche gestionali su basi sicure (es. adottare procedure di
selezione innovative).
Il processo di ricerca empirica. Ogni ricerca è caratterizzata da un obiettivo, che può essere
definito e formulato in termini di ipotesi.
Il processo di ricerca si articola in 5 fasi principali (domanda della ricerca, disegno della ricerca,
misurazione delle variabili, analisi dei dati) con un momento conclusivo (conclusioni della
ricerca) che costituisce un feedback ricco di informazioni per quanti vorranno sviluppare
ulteriormente la ricerca.
1. La domanda della ricerca. Le domande di ricerca si basano sulla conoscenza esistente
del problema (intuizioni del ricercatore o teorie già note per esempio). Una teoria è un
assunto che ha la funzione di spiegare le relazioni tra fenomeni di interesse. La sequenza
che inizia con la raccolta dei dati e conduce all’elaborazione delle teoria viene definita
“metodo induttivo” (nel “metodo deduttivo”, invece, il ricercatore prima elabora una
teoria e poi la mette alla prova raccogliendo e analizzando i dati). La ricerca può essere
applicata e pura:
• La ricerca pura comporta l’elaborazione e la verifica di teorie e di
ipotesi che non hanno un’immediata utilità per risolvere
problematiche contingenti.
• La ricerca applicata nasce dall’esistenza di risolvere problemi
emersi sul campo e che richiedono soluzioni concrete per
rispondere a specifiche esigenze organizzative.
La ricerca-intervento (o ricerca-azione) si propone di contribuire al cambiamento del sistema
organizzativo mediante il coinvolgimento diretto degli attori che partecipano con il ricercatore
allo studio. Il principale obiettivo è quello di produrre cambiamenti (in termini di qualità della
vita) all’interno dei contesti lavorativi e di valorizzare le potenzialità degli individui che ne fanno
parte. Le informazioni vengono raccolte in modo empirico e interpretate dagli stessi individui sui
quali si vuole indagare. Questi sono i “partecipanti” della ricerca e i momenti di riflessione li
spingono ad essere consapevoli delle problematiche relative al proprio contesto organizzativo e
arrivano alla progettazione di interventi specifici. Il cambiamento prosegue tramite
l’implementazione di queste soluzioni.
Uno studio condotto in ambito organizzativo è basato su un’intenzione esplicita o su una
specifica domanda di ricerca (generalmente una relazione tra 2 o più variabili). Spesso gli studi
sono disegnati per mettere alla prova ipotesi che sono derivate da altre ricerche precedenti
(studi esplicativi). Vi sono anche “studi descrittivi” che sono finalizzati a raccogliere osservazioni
riferite al contesto studiato. Gli studi descrittivi forniscono informazioni soltanto su quello che è
successo mentre gli studi esplicativi spigano perché oppure come è successo.
Quindi, la domanda di ricerca viene indagata utilizzando metodologie e metodi: un metodo può
essere definito come la tecnica o lo strumento di ricerca utilizzato per raccogliere dati (es.
questionario), mentre la metodologia si riferisce alla “filosofia” del processo di ricerca (il modo
di formulare ipotesi ecc.)
2. Il disegno di ricerca. Un disegno di ricerca è un piano per condurre uno studio. Le
strategie di ricerca possono essere paragonate secondo diverse dimensioni, in
particolare in base al livello di naturalità del setting di ricerca e il grado di controllo del
ricercatore sullo studio. Il livello di naturalità e il grado di controllo influenzano sia la
validità interna (grado in cui i risultati ottenuti possono essere attribuiti alle variabili
investigate) sia la validità esterna della ricerca (grado in cui i risultati di una ricerca
condotta su un gruppo di soggetti possono essere generalizzati ad altri contesti).
• Disegni sperimentali e quasi sperimentali. L’esperimento si differenzia da altri tipi
di disegno per l’assegnazione casuale dei partecipanti alle diverse condizioni
della variabile indipendente. Gli esperimenti in laboratorio sono condotti in
ambienti predisposti o artificiali e il ricercatore ha un alto grado di controllo sulla
conduzione dello studio. Un quasi esperimento è uno studio che si avvicina a un
esperimento, ma non ha un’assegnazione casuale dei partecipanti e questo
accade perché c’è una sola condizione nello studio o perché i partecipanti non
sono stati assegnati casualmente alle diverse condizioni (una situazione
quasisperimentale è quella dei disegni con gruppo non equivalente in cui non c0è
un processo di assegnazione casuale, ma i partecipanti si trovano in differenti
condizioni di trattamento in seguito ad altre ragioni. Anche la valutazione delle
stesse variabili ripetute nel tempo sono disegni quasi sperimentali: il più semplice
è il disegno di gruppo singolo pre test-post test in cui i partecipanti sono valutati
prima e dopo un certo evento -> disegno debole perché vi sono altre alternative
per spiegare i risultati. Il disegno multi gruppo è funzionale a risolvere il problema
in quanto prevede un gruppo di controllo sul quale si verificano le stesse
combinazioni di partenza).
• Disegni non sperimentali. È un disegno nel quale il ricercatore raccoglie solo
osservazioni di variabili che già esistono. Un esempio è il disegno osservazionale,
che prevede osservazioni di qualche evento su un campione di soggetti. Uno o
più osservatori valutano alcune caratteristiche delle persone o della loro
situazione di lavoro, utilizzando griglie e schemi valutativi più o meno strutturati
(è possibile un approccio non intrusivo senza che il soggetto ne sia consapevole).
Un problema di questo metodo è la possibile influenza della soggettività del
ricercatore. Per controllare questo bias ci si può servire di 2 o più persone che
svolgono le stesse osservazioni indipendentemente per poi compararle. Le
inchieste sono una delle procedure più diffuse nel condurre la ricerca sul campo
nell’ambito della psicologia del lavoro e vi sono diverse modalità di attuazione,
ma il questionario è il metodo più diffuso per condurre ricerche, in quanto
economico ed efficiente per la raccolta dei dati. Anche se di
solito i questionari servono per ottenere informazioni autoriferite, essi possono
essere usati per avere informazioni riguardo a terzi. È possibile servirsi di
interviste, anche se richiedono un maggior dispendio di tempo, ma permettono di
ottenere maggiori informazioni. I disegni a più fonti combinano i dati provenienti
dal questionario con quelli provenienti da altre fonti. I disegni non sperimentali
possono implicare la valutazione di tutte le variabili per ogni soggetto nello
stesso momento (trasversali -> che però non consente di trarre conclusioni
casuali, ma si può concludere che le variabili siano correlate l’una all’altra)
oppure in momenti diversi (longitudinali -> implicano misurazioni ripetute nel
corso del tempo, spesso sulle stesse variabili. Richiedono un grande dispendio di
tempo e risorse economiche).
• L’approccio qualitativo. Molti studi in ambito organizzativo utilizzano metodi e
tecniche di rilevazione di tipo non standardizzato, a volte chiamato “etnografia
organizzativa” e si riferisce a forme di ricerca qualitativa con queste
caratteristiche: enfasi sull’esplorazione della natura di un particolare fenomeno
organizzativo; tendenza ad operare con dati non strutturati, cioè che non sono
stati codificati al momento della raccolta nei termini di una serie di categorie
analitiche; investigazione di un esiguo numero mdi casi; analisi delle azioni delle
persone in forma di descrizioni e spiegazioni verbali. I metodi qualitativi più
utilizzati nello svolgimento delle ricerche in ambito organizzativo: 1) intervista in
profondità -> consente al ricercatore di effettuare liberamente con l’intervistato
tutti gli approfondimenti che possono rivelarsi d’interesse per gli obiettivi delle
ricerca. È rilevante anche il modo di formulare le risposte, il linguaggio utilizzato,
le reazioni emotive dell’intervistato ecc. 2)la storia di vita -> il filo conduttore
dell’interazione sociale, tra intervistato e intervistatore, non è costituito dagli
elementi proposti dall’intervistatore, ma dal racconto destrutturato da parte
dell’intervistato. Vengono narrati fatti ed episodi vissuti in prima persona. 3)
l’osservazione partecipante –> consiste nell’osservazione dell’ambiente
organizzativo, dell’aspetto, del comportamento e delle interazioni sociali dei
soggetti nel corso di una normale attività lavorativa. 4) focus group -> è un
metodo per la raccolta di dati collettivi durante una discussione di gruppo
focalizzata intorno ad alcuni temi predeterminati. Mediante questa tecnica il
ricercatore propone l’argomento di discussione, interviene, pone domande,
richiama l’attenzione del gruppo sull’obiettivo di pervenire a un giudizio il più
possibile condiviso.
3. La misurazione delle variabili. Prima di effettuare l’analisi dei dati, il ricercatore deve
rilevare e misurare le variabili di interesse. Le variabili quantitative sono numeriche; le
variabili qualitative non lo sono, ma possono essere “codificate” con numeri. Le variabili
possono essere indipendenti quando sono manipolate o comunque controllate dal
ricercatore, le variabili dipendenti sono l’oggetto di interesse (es. motivazione). Quanto
più i punteggi della prima vengono utilizzati per predire i punteggi della seconda, le
variabili vengono definite rispettivamente “predittore” e “criterio”.
L’operazionalizzazione delle variabili consiste nel quantificare ciascuna variabile di uno
studio.
4. L’analisi del dati. La psicologia del lavoro di avvale frequentemente di metodi statistici
per l’analisi dei dati raccolti. Il modo più elementare per condurre le analisi è quello
descrittivo, attraverso cui si studia la forma della distribuzione dei dati e si ottengono
misure della tendenza centrale e della variabilità. Gran parte della ricerca, nella
psicologia del lavoro, è di tipo non sperimentale e di natura quantitativa, con variabili
valutate lungo un continuum. Questo permette di usare la correlazione e metodi
parametrici basati sulla correlazione (regressione multipla che è un procedure usata per
verificare se è possibile attribuire la relazione di due variabili ad altre variabili). La
correlazione può indicare solo la presenza di relazione tra due variabili (entità della
relazione). Per quanto riguarda l’elaborazione dei dati qualitativi possono invece essere
citate l’analisi del contenuto (tecnica per la descrizione oggettiva, sistematica del
contenuto manifesto della comunicazione) e l’analisi delle corrispondenze (lo scopo è di
studiare i legami tra le modalità di due o più caratteri di classificazione rilevanti per
evidenziare associazioni tra le caratteristiche analizzate).
5. Conclusioni della ricerca. Vi sono molti fattori che influiscono sulla generalizzabilità
dei risultati di una ricerca, tra cui: soggetti utilizzati nella ricerca, grado di congruenza
tra le caratteristiche dei soggetti e il compito che si chiede loro di svolgere ecc. Le
conclusioni tratte da uno studio possono modificare le conoscenze individuali del
problema e dunque possono indirizzare la ricerca futura.
Problemi legati all’interpretazione dei risultati.
Alcune difficoltà che si possono incontrare nell’interpretazione dei risultati riconducibili
all’impostazione del processo di ricerca:
• La causalità: rimane spesso difficoltoso pronunciarsi riguardo alla causalità delle relazioni. I
comuni metodi di correlazione fanno sì che l’individuare una correlazione tra due variabili
non assicura che la relazione trovata sia di natura causale. Vi sono difficoltà nel stabilire la
causalità per diversi motivi, il più importante dei quali riguarda il fatto che le teorie
possono non essere in grado di isolare le cause reali, in quanto vi possono essere altre
cause possibili che non possono essere controllate.
• Tipi di errore: è possibile commettere errori nella spiegazione dei risultati ottenuti e quindi
nella conclusione di una ricerca. I principali errori sono riconducibili a 4 categorie: 1) errori
dovuti a una scorretta operazionalizzazione dei concetti, ovvero le misure non sono
sufficientemente oggettive e affidabili oppure i concetti esaminati non sono
adeguatamente misurati; 2) errori nell’analisi statistica dei dati; gli errori di primo tipo (in
cui l’esistenza del fenomeno, causa o relazione sono erroneamente provate), gli errori del
secondo tipo (si conclude che il fenomeno non esiste quando è reale); 3) errori dovuti a
insufficiente validità interna, essa si riferisce a quanto i risultati possano essere realmente
attribuiti ai fattori ritenuti responsabili; 4) errori dovuti all’inappropriata generalizzazione
dei risultati. Ricerca e problemi etici.
Molte associazioni nazionali di psicologi possiedono un codice etico che deve essere rispettato
da tutti i ricercatori. I codici etici sono creati per tutelare i diritti dei soggetti e per evitare la
possibilità che figure professionali non qualificate improvvisino ricerche. Fra le responsabilità
dei codici vi è il “consenso informato”, la privacy, il rispetto il rispetto dei diritti umani ecc.
Tuttavia, lo psicologo del lavoro ha il dovere di prendere in considerazione sia il benessere
dell’individuo sia le necessità organizzative che attendono risposte dalla ricerca. Per questo lo
psicologo può sperimentare un dilemma etico tra le richieste in conflitto tra loro.

CAP.3 AMBIENTE E SICUREZZA SUL LAVORO

Salute e sicurezza.
Il lavoro è una parte integrante della vita di ciascun individuo, sia come strumento di
sostentamento, ma anche come messo per la soddisfazione dei bisogni di autorealizzazione ed
espressione di sé. Nonostante l’elevata automatizzazione in tutti i settori, il fattore umano
rimane ancora l’elemento fondamentale di ciascuna attività lavorativa e spesso e l’elemento
chiave per determinare il successo di un’organizzazione.
La normativa italiana in materia di sicurezza. Nel corso degli ultimi anni l’attuazione di leggi ha
contribuito a migliorare le condizioni di lavoro negli Stati membri e a ridurre gli infortuni e le
malattie professionali. La Commissione Europea ha previsto che tra il 2007-2012 il tasso
d’incidenza degli infortuni scendesse del 25%: gli interventi proposti sono rivolti a migliorare e
semplificare la legislazione vigente, a mettere a punto metodi per l’individuazione e
valutazione di nuovi rischi e a promuovere un mutamento dei comportamenti dei lavoratori. In
Italia, la Legge 626 definisce un sistema preventivo d’impresa centrato su nuove figure
professionali di prevenzione, nuove responsabilità e una specifica valutazione dei rischi;
valutazione dei rischi da parte del datore di lavoro, obbligo per l’azienda di avere un
Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS) e un Responsabile del servizio di
Prevenzione e Protezione (RSPP) e l’obbligo di avere un Servizio di Prevenzione e Protezione
che si occupi della valutazione dei rischi, individuazione dei pericoli e attuazione delle misure di
prevenzione.
L’ergonomia e la sicurezza sul lavoro.
Ergonomia e fattori umani. L’ergonomia offre un contributo in tema di lavoro e sicurezza, in
quanto si basa sull’esperienza e la conoscenza attraverso la ricerca scientifica condotta in
laboratorio, sul campo e attraverso il lavoro pratico svolto in organizzazioni in collaborazione
con dirigenti, esperti e addetti. L’ergonomia ha scopi sia sociali (la salute, il benessere, la
sicurezza) sia economici (le prestazioni del sistema, la produttività, la competitività), considera
gli aspetti fisici e quelli psicologici dell’essere umana e mira alla progettazione di soluzioni di
natura tecnica e organizzativa.
Ciò che differenzia l’ergonomia dalla psicologia, le scienze mediche, antropologia e scienze
cognitive, è il fatto che il suo principale proposito sia la “progettazione”; gli ergonomi
contribuiscono alla progettazione e valutazione di mansioni, attività, prodotti, ambienti e sistemi
al fine di renderli compatibili ai bisogni, abilità e limitazioni dell’essere umano.
Infortuni sul lavoro e malattie professionali. Fattori nocivi dell’ambiente di lavoro: fattori generici
(luce, rumore, temperatura ecc.), fattori tipici della produzione (polveri, gas, radiazioni ecc.),
fattori relativi alla fatica fisica e psicofisica (ritmi eccessivi, monotonia, stress ecc.).
Attualmente la legge italiana non definisce l’infortunio in modo preciso, ma ne fissa i requisiti in
un articolo: l’infortunio è l’evento avvenuto per causa violenta in occasione di lavoro (mette in
evidenza il nesso di causa effetto), da cui sia derivata la morte o un’inabilità permanente al
lavoro, assoluta o parziale, ovvero un’inabilità temporanea assoluta che comporti astensione dal
lavoro per più di 3 giorni.
La malattia professionale è un evento dannoso che incide sulla capacità lavorativa della persona
e trae origine da cause connesse allo svolgimento della prestazione lavorativa. I datori di lavoro
devono assicurare contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali tutti i lavoratori. Tale
assicurazione è gestita dell’INAIL (istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro) e
l’obiettivo è quello di garantire, in caso di infortunio o di malattia professionale, prestazioni
sanitarie relative alle prime cure, prestazioni economiche e forniture di apparecchi di protesi.
L’errore umano come causa di incidenti sul lavoro. Ancora oggi ci sono condizioni lavorative di
completa illegalità, con impiego di manodopera al di fuori di regole e situazioni in cui le misure
preventive non vengono quasi mai rispettate. Inoltre, si ritrova frequentemente
un’organizzazione del lavoro distante da un visione della sicurezza come fattore intrinseco al
lavoro stesso.
Le prime teorie sull’analisi degli incidenti sono state avanzate negli anni ’60 e facevano
riferimento a un modello che può essere definito “tecnico-ingegneristico-normativo”,
secondo cui gli incidenti sono il risultato di un fallimento della tecnologia e dalla devianza da
quanto prescritto dalle norme. In quegli anni ci si focalizzava sugli aspetti tecnico-normativi per
spiegare gli eventi, e quindi vi era l’obiettivo fi migliorare l’affidabilità degli strumenti. Negli
anni ’70 si è passati a un modello di analisi centrato sulla “persona”, spostando il focus dalla
macchina all’uomo. La componente umana diventa uno degli elementi rilevanti come causa nel
terminare l’incidente (stress, abbassamento dell’attenzione).
A partire dagli anni ’90 è nato il modello “organizzativo-socio-tecnico” il cui punto centrale è
che gli incidenti non devono più essere considerati come fallimento solo tecnico o umano, ma
come causati da più componenti: tecnologica, umana, organizzativa, in riferimento al contesto.
Tipologie di errore. Nell’ambito delle teorie sviluppate per lo studio dell’errore, il
comportamento dell’uomo è stato suddiviso in 3 tipologie: 1) comportamento basato sulle
abilità -> rappresenta comportamenti automatici messi in atto in una determinata situazione;
2) comportamento basato sulle regole -> vengono messi in atto comportamento che sono
definiti da regole precise ritenute adatte per determinate circostanze; 3) comportamento basato
sulla conoscenza -> sono comportamenti messi in atto quando ci si trova di fronte a una
situazione sconosciuta e di deve attuare un piano per farvi fronte.
Reason distingue 3 tipologie di errore: 1) errori di esecuzione che si riscontrano a livello di
abilità (slips) -> sono azioni svolte in modo diverso da quello pianificato; 2) errori di esecuzione
causati da un venir meno della memoria (lapses) -> a differenza degli slips, i lapsus non sono
direttamente osservabili; 3) errori che non vengono commessi durante la realizzazione pratica
dell’azione (mistakes) -> sono errori che nascono durante la pianificazione di strategie (questi
errori possono essere: 1) ruled-based:si utilizza una procedura che non permette il
conseguimento di quello specifico obiettivo; 2) knowledge-based: sono errori commessi in
riferimento alla conoscenza posseduta che può essere insufficiente).
Percezione del rischio. La percezione del rischio determina il grado di consapevolezza per cui un
lavoratore avverte che svolgere la propria attività o utilizzare un dato strumento mette la
sicurezza in pericolo. Alcuni importanti fattori nella percezione del rischio riguardano la
valutazione delle probabilità e delle conseguenze di un pericolo.
Gli studi hanno messo in evidenza che i comportamenti orientati alla sicurezza crescono in
funzione dell’aumento del rischio percepito.
Probabilmente i lavori non si attengono alle norme di sicurezza perché non percepiscono alcun
rischio associato alla situazione di lavoro. È stato evidenziato che un senso di “irrealistico
ottimismo” rispetto alla probabilità di essere coinvolti in un incidente cresce in proporzione
all’esperienza.
Va ricordato che il ragionamento umano di fronte a eventi incerti (come il rischio) non segue
una logica razionale, ma utilizza euristiche e regole più generiche per decidere se qualcosa è
possibile che accada o meno.
Alcuni studi hanno riportato che lavoratori orientati esternamente (attribuiscono il loro
comportamento a cause esterne) sono più soggetti a incidenti.
Le condizioni di lavoro.
Ambiente di lavoro. L’ambiente ha un effetto importante sulle condizioni di vita e di lavoro.
Progettare un ambiente di lavoro ergonomico significa conoscere il contesto nel quale si svolge
l’attività lavorativa, quindi gli aspetti fisico-dimensionali, ambientali e organizzativi. Creare un
posto di lavoro centrato sulle esigenze dell’uomo significa prendere in considerazione le
caratteristiche biomeccaniche, fisiologiche, antropometriche e psicologiche dell’uomo.
• L’antropologia fa si che il posto di lavoro sia ben dimensionato e allestito in modo che vi
sia spazio sufficiente per permettere cambianti di posizione e movimenti operativi.
• Gli esperti di fisiologia del lavoro e biomeccanica si occupano dei costi energetici del
lavoro e particolare rilievo assume la valutazione dello sforzo muscolare e della fatica
associati a posture statiche e dinamiche.
• Gli aspetti psicologici, che spaziano da quelli cognitivi (attenzione, memoria, percezione),
a quelli motivazionali, relazioni, di dinamiche di gruppo o atteggiamenti.
La qualità del lavoro dipende dall’integrazione di tutti questi elementi.
Tra i fattori “esterni” che condizionano un ambiente di lavoro vi sono:
I. Il microclima -> è quell’insieme di parametri ambientali che regolano le condizioni
climatiche di un luogo di vita o di lavoro determinanti per il benessere termico di un
individuo. Per valutare questi parametri va considerata la tipologia del lavoro svolto e i
fattori soggetti legati all’individuo (età, peso, genere ecc.)
II. Illuminazione -> la conformità ai parametri ottimali di luminosità ambientale è
determinata da una corretta esposizione alla luce, sia di giorno che di notte. Tuttavia, la
percezione di confort relativo alla luminosità dipende dalle caratteristiche fisiche della
persona, dalle attività svolte, dagli aspetti strutturali, ma anche da fattori socioculturali e
di abitudine.
III. Il rumore -> può essere definito come un qualsiasi suono che arrechi disturbo. Esistono
norme di legge che forniscono delle linee guida relative al problema acustico e al rumore
negli ambienti di lavoro. Il rumore può causare danni all’apparato uditivo e rappresenta
una delle principali cause di patologie professionali.
IV. Il carico di lavoro fisico -> è necessario valutare che ciò che viene richiesto non sia
superiore alle capacità di lavorare in uno specifico contesto. I disturbi muscoloscheletrici
sono un gruppo di affezioni a carico delle strutture ossee, muscolari, tendinee e delle
borse articolari. I fattori di rischio sono: la forza richiesta per eseguire il compito, la
postura tenuta, la ripetitività dei gesti, l’inadeguato rilassamento dei segmenti
muscoloscheletrici coinvolti nell’esecuzione del compito.
V. Il sollevamento manuale dei carichi -> si riferisce all’azione di sollevare, deporre,
spingere, tirare o spostare un carico che comporta rischi di lesioni dorso-lombari. È stato
stabilito il massimo di 30 kg per gli uomini e 20 kg per le donne; soglie che se superate
creano i presupposti per un rischio fisico. I rischi vanno valutati in riferimento alle
caratteristiche del carico, le posizioni di sollevamento, lo sforzo fisico eccessivo e le
caratteristiche dell’ambiente.
VI. Le posture fisse prolungate -> una postura di lavoro mantenuta constante nel tempo
viene definita fissa, mentre se è frequentemente modificata viene chiamata dinamica. I
lavori statici sono più logoranti rispetto a quelli dinamici e possono causare l’insorgere di
disturbi muscoloscheletrici.
VII.La ripetitività -> la ripetitività è legata alla necessità di disporre di adeguati tempi di
recupero. Vi è una proporzionalità tra intensità dello sforzo muscolare e durata del tempo
di recupero necessario.
VIII. La fatica mentale -> è la diminuzione reversibile delle prestazioni e delle funzioni
dell’organismo legata a una diminuzione della soddisfazione verso il lavoro e a un
aumento dello sforzo effettuato per compiere il lavoro stesso. Il concetto di fatica
mentale va distinto d quello di carico mentale: il carico mentale di lavoro è la quantità di
lavoro con impegno mentale che il lavoratore deve svolgere. La fatica mentale nasce
dall’interazione fra i requisiti di un compito di lavoro, le circostanze in cui è effettuato e
le abilità, i comportamenti e le percezioni dell’operatore. La ridotta efficienza funzionale
si manifesta attraverso sensazioni di stanchezza, rapporti meno favorevoli tra
prestazione e sforzo, tipo e frequenza di errori ecc.
IX. Misurazione della fatica mentale -> il Draft ISO è un proposta di misurazione della fatica
mentale e considera 4 criteri di valutazione: 1) soggettivi -> fanno riferimento all’uso di
questionari di autovalutazione dei sintomi della fatica; 2) comportamentali -> si basa su
test di memoria, su test di reattività e di capacità di mantenere l’attenzione ecc.; 3)
fisiologici -> possono essere valutati altri indicatori di fatica come i ritmi cerebrali,
frequenza cardiaca ecc.; 4) biochimici -> il lavoro mentale può alterare i parametri
biochimici attraverso cambiamenti del livello di uropepsina nelle urine e di catecolamine
nel sangue. Una volta individuate le caratteristiche del sistema da indagare e analizzati i
bisogni dei lavoratori, è possibile adottare le modalità valutative più opportune.

CAP.4 LE DIFFERENZE INDIVIDUALI

Le differenze individuali e la psicologia del lavoro.


Le differenze individuali hanno un’influenza sui comportamenti che le persone manifestano nel
corso della loro esperienza professionale. L’inizio dell’interesse per lo studio scientifico delle
differenze tra gli individui può essere attribuita a Wundt che cercò di individuare i principi
generali in grado di spiegare il comportamento umano.

La psicologia del lavoro parte dal presupposto che le differenze individuali possono essere
utilizzate per prevedere esiti lavorativi quali il successo nella professione e la soddisfazione
lavorativa. Inizialmente venne studiata e misurata in ambito organizzativo l’abilità cognitiva
tramite la quale le persone acquisiscono conoscenze e risolvono problemi, anche detto fattore
“G” (abilità mentale generale). A partire dal fattore “G” si è passati ad una valutazione di una
più ampia varietà di differenze individuali quali le abilità fisiche, mentali, psicofisiche, la
personalità e le motivazioni alla base del comportamento. Il solo fattore “G” è di scarsa utilità
nella previsione della prestazione lavorativa, mentre risulta utile poter misurare una serie più
ampia di attributi. (I prossimi paragrafi trattano le principali caratteristiche individuali).

Le abilità cognitive e psicomotorie.


Fleishman elaborò una complessa tassonomia comprendente 52 abilità rispetto alle quali gli
individui si differenziano tra loro e che, secondo l’autore, risultano determinanti nella
performance lavorativa. Esse sono riconducibili a 3 macro categorie:

• Intelligenza e abilità cognitive

• Abilità fisiche
• Abilità percettivo-motorie
Il contributo di Fleishman è importante in quanto ha preso in considerazione anche aspetti fisici
e percettivo-motori che possono influire sui comportamenti lavorativi.

Intelligenza e abilità cognitive. L’intelligenza è la capacità di ragionamento, di progettazione e di


problem solving, di pensare in modo astratto e apprendere dall’esperienza. Relativamente allo
studio dell’intelligenza in ambito lavorativo, vi è il quesito riguardante l’esistenza esclusiva di
“G” oppure anche di altre sottostanti capacità cognitive. La maggior parte degli psicologi è
concorde nel sostenere che, sebbene il valore di “G” sia positivamente correlato a
comportamenti lavorativi di successo, esistono altre abilità cognitive utili per le varie tipologie
di lavori. Rispetto a quante e quali abilità ci siano non è data una risposta univoca. Per esempio
Carroll ha ipotizzato un modello gerarchico secondo il quale l’intelligenza sarebbe articolata in 3
livelli di abilità cognitive: il livello più alto è “G”, il successivo include 7 abilità specifiche e il
terzo comprende abilità strettamente legate a quelle dello strato superiore (es. l’abilità di
individuare relazioni spaziali si connette alla percezione visiva).

Gli studiosi ritengono che pur essendo “G” necessario per la comprensione del comportamento
lavorativo, esso da solo non risulta efficiente, in quanto indispensabili sono anche altre abilità
più specifiche e riferibili alle diverse tipologie di lavoro.

Abilità fisiche. Vi sono mansioni il cui svolgimento richiede determinate caratteristiche fisiche.
Secondo Fleishman esisterebbero 11 abilità motorie di base (tra cui il tempo di reazione e la
destrezza manuale) e 9 abilità fisiche (es. la forza statica).

Hogan identificò 7 abilità fisiche alla base di molte abilità lavorative, raggruppabili in 3
macrocategorie superiori: la forza muscolare, la resistenza cardiovascolare e la qualità del
movimento. Sono state riscontrate corrispondenze tra il modello di Hogan e quello di Fleishman
e Reily.

Abilità sensoriali. In campo lavorativo, le abilità sensoriali che sono state più frequentemente
prese in considerazione sono quelle visive e uditive.

Abilità psicomotorie. Si riferiscono alla coordinazione, alla destrezza e ai tempi di reazione


dell’individuo. Sono abilità che rivestono un’importanza cruciale soprattutto per determinate
professioni (musicista, chirurgo ecc.)

La personalità. Esistono collegamenti tra tratti di personalità e comportamenti lavorativi. La


personalità è la variabile in grado di spiegare le ragioni per cui gli individui si comportano in
determinati modi, intraprendono determinati percorsi di carriera, risultano o meno soddisfatti,
raggiungono determinati livelli di prestazione. Un modello per la descrizione della personalità è
quello del “big five” o “modello dei 5 fattori”.

Modello big five. Secondo il modello big five è possibile descrivere la personalità in base a 5
fattori principali (coscienziosità, energia, amicalità, stabilità emotiva e apertura mentale),
ciascuno dei quali comprende due tratti più specifici.

I 5 fattori possono descrivere la personalità ed il comportamento delle persone senza far


riferimento ad altre variabili quali età, genere e back ground socio-culturale. Ciascun tratto deve
essere inteso come disposto lungo un continuum, quindi rispetto a ognuno di essi una persona
può collocarsi sopra la media, nella media, sotto la media o in altro qualsiasi punto del
continuum stesso.

Barrick e Mount hanno affermato che per la maggior parte delle professioni è la coscienziosità a
essere maggiormente correlata con il successo lavorativo. Altri affermano una correlazione
positiva con lo sviluppo della carriera, con il livello retributivo e con la soddisfazione lavorativa.
Critiche alla teoria del big five: 1) secondo alcuni autori non sono sufficienti i 5 fattori di base
per spiegare la complessità umana nell’ambito lavorativo (es. Tellegen e Waller hanno aggiunto
2 dimensioni: “valenza positiva” che include caratteristiche descrittive come notevole,
straordinario, e “valenza negativa” comprende aspetti come crudele, cattivo e strano); 2) la
seconda critica riguarda il fatto che la coscienziosità non sarebbe correlata in maniera
significativa ai comportamenti organizzativi; 3) una combinazione dei fattori consentirebbe una
migliore previsione della performance rispetto a quella resa possibile da ogni fattore
isolatamente considerato.

L’utilizzo del modello big five in ambito lavorativo consente di rilevare la diversità tra persone
prese in esame ed eventualmente di migliorare l’integrazione individuo-organizzazione
attraverso un reciproco allineamento.

Altri tratti di personalità d’interesse lavorativo.

• Self-concept: è l’immagine che si ha di sé che influenza le modalità dell’individuo di


interazione con il mondo esterno. Il self-concept rimane fisso e stabile, tale per cui, nel
momento in cui il soggetto percepisce la presenza di una minaccia alla propria
immagine, mette in atto comportamenti difensivi.

• Locus of control: fa riferimento al fatto che persone diverse percepiscono di possedere


un diverso grado di controllo sulle situazioni. Chi possiede un locus esterno ritiene di
avere uno scarso controllo sugli eventi. Chi possiede un locus interno attribuisce a sé,
alle proprie capacità e all’impegno sia i successi che i fallimenti.

• Self monitoring: è il grado in cui le persone riescono a controllare il modo in cui si


presentano agli altri. Gli individui con elevati livelli di self-monitoring mettono in atto
comportamenti socialmente accettabili e manifestano atteggiamenti adatti alle diverse
situazioni.

• Autostima: è il grado di fiducia che le persone hanno in se stesse e nelle loro capacità.

• Autoefficacia: è la convinzione che il soggetto ha in merito alle proprie possibilità di


riuscita in determinati compiti. Quando un soggetto presenta alti livelli di autoefficacia
tende ad ottenere il successo in svariati compiti, oltre a una serie di vantaggi quali la
riduzione dell’ansia, maggiore tolleranza al dolore. Al contrario, le persone con
aspettative di autoefficacia basse sviluppano ciò che è noto come “inettitudine
acquisita”: la convinzione di non poter esercitare alcun controllo sull’ambiente
circostante conduce a fallimenti nel raggiungimento degli obiettivi prefissati.

• Personaità di tipo A e di tipo B: riferibili a 2 tipologie di personalità: la personalità A è


competitiva, motivata al successo, dominata da un senso di urgenza e impazienza. La
personalità B è rilassata, ha un approccio più semplice ai problemi della vita. Il tipo A è
ideale quando l’organizzazione si trova in una situazione per ci è necessario raggiungere
gli obiettivi specifici in tempi brevi, ma non è in adatto in situazioni in cui è richiesta una
continua e prolungata interazione con altre persone.

• Bisogno di riuscita, affiliazione e potere: sono 3 tratti presenti in ogni persona, ma in


misura diversa. Questi 3 bisogni possono essere richiesti in misura diversa dalle varie
attività professionali.

• Gli interessi: gli interessi possono essere definiti come la preferenza manifestata da una
persona verso particolari ambienti professionali o attività lavorative. L’interesse può
esercitare un potere notevole sul comportamento se una persona svolge un lavoro non
conforme ai propri interessi è più probabile che ottenga livelli di prestazione scarsi
rispetto a quelli che potrebbe raggiungere svolgendo un lavoro percepito come più
interessante.

Il modello di Holland, denominato RIASEC individua 6 tipologie di interessi: realistici,


intellettuali, artistici, sociali, intraprendenti e convenzionali. Le 6 dimensioni si possono
immaginare come collocate ai vertici di un esagono dove le distanze tra i vertici
rispecchiano le distanze tra le aree di interessi professionali.
Un altro strumenti di studio degli interessi professionali è quello di Strong, il cui principio
di base consiste nel fatto che ogni occupazione corrisponde ad uno specifico pattern di
interessi, perciò la situazione ideale è quella in cui una persona che svolge una
determinata professione presenti i corrispondenti interessi ai livelli massimi.

Un altro modello per lo studio degli interessi professionali è quello di Kuder, secondo cui
ogni persona manifesta un ineteresse prevalente per attività che possono essere così
caratterizzate: lavori all’aperto, tecnici, contabilità, scientifica, ecc.

Tra gli strumenti più recenti:

• Il questionario di interessi professionali, che si rivolge agli adolescenti

• Il test di orientamento motivazionale che costituisce una delle motivazioni che orientano
il comportamento in ambito organizzativo secondo 4 direttrici: orientamento all’obiettivo,
all’innovazione, alla leadership e alla relazione.

• La scala dei valori professionali che consente di individuare l’orientamento della persona,
la tipologia a cui si avvicina (creativa, tranquilla ecc.).

I valori: sono le convinzioni in virtù delle quali una persona ritiene giusto o sbagliato
agire in un certo modo piuttosto che in un altro. Si tratta di elementi in grado di
influenzare gli atteggiamenti e i comportamenti messi in atto. I valori sono il prodotto di
apprendimenti e di esperienze di vita condotte dall’individuo all’interno del contesto
culturale di appartenenza.

Rokeach sostiene la possibilità di suddividere i valori in 2 categorie, ciascuna delle quali


ne include 18 specifici:

• Valori terminali, che riflettono la preferenza del soggetto per 3 determinati obiettivi finali
da raggiungere nel corso della vita.

• Valori strumentali, sono i mezzi attraverso cui le persone perseguono gli obiettivi
terminali.

Un’altra classificazione dei valori è quella descritta da Allport che individuò 6 categorie:
valori teoretici, economici, estetici, sociali, politici e religiosi.

Un concetto importante in ambito organizzativo è la congruenza: quando le persone sono


chiamate a collaborare con colleghi aventi valori simili a loro, esprimono emozioni positive.
E’ stato dimostrato che quando le persone hanno l’opportunità di svolgere lavori allineati
con i propri valori e quando condividono questi ultimi con i propri responsabili, sono in grado
di incrementare la produttività aziendale.

Conclusioni: i test sono un ausilio indispensabile per la conoscenza e la valutazione delle


persone inserite nell’organizzazione. La misurazione delle differenze individuali in
azienda rende possibile impostare piano di intervento che consentano alle persone di
crescere personalmente e professionalmente.

E’ evidente che il comportamento lavorativo delle persone sia imputabile alle differenze
individuali, senza trascurare di segnalare l’influenza delle situazioni contingenti: il migliore
approccio per apprendere il comportamento delle persone sul lavoro è quello di considerare
l’azione simultanea delle variabili individuali e situazionali.

CAP.5 LA MOTIVAZIONE

È l’energia investita dagli individui nella prestazione lavorativa e nell’appartenenza


all’organizzazione e, oltre ad essere un ambito di riflessione teorica presente sin dalle origini
della psicologia del lavoro, è anche un area di intervento in cui le organizzazioni sono
costantemente impegnate al fine di ricercare percorsi per promuovere la motivazione. Che
cos’è la motivazione.
Motivazione deriva dal latino “motus” (“moto”) e rimanda all’insieme di processi psicologici alla
base delle azioni volontarie dirette verso un obiettivo.
Molti autori sono concordi nell’individuare un campo semantico in cui la motivazione viene
concepita come un’energia che alimenta i comportamenti e li orienta verso una meta, e può
essere analizzata in termini di attivazione (condizione di avvio del comportamento), direzione
(obiettivo a cui si rivolge), intensità (forza dell’investimento energetico) e persistenza
(disponibilità a insistere nel tentativo di conseguire l’obiettivo anche a fronte di difficoltà e
ostacoli).
In riferimento al lavoro in organizzazione, Quaglino ha distinto tra comportamenti diretti a fare
delle attività e a stare in organizzazione (motivazione come energia che si investe nella
relazione tra individuo e organizzazione).
Si può inoltre distinguere tra attività intrinsicamente motivanti (dove la motivazione è legata
all’attività di lavoro in sé) e attività compiute in funzione di una motivazione estrinseca (legata
alla ricompensa che si riceve). Le teorie motivazionali.
I differenti modelli teorici sul tema della motivazione, che sono stati proposti tra gli anni 50 e la
prima metà degli anni 70, sono, alcuni orientati verso l’analisi dei contenuti della motivazione,
altri sono orientati verso l’individuazione delle variabili che ne influenzano l’espressione. Le
teorie di contenuto. Tra le teorie di contenuto troviamo: il modello gerarchico proposto da
Maslow, che individua 5 bisogni di base e li colloca lungo la scala evolutiva, le teorie a 3 vertici,
che riconoscono la compresenza di differenti istante motivazionali, il contributo di Herzberg che
si interroga sull’effetto motivazionale di alcune specifiche caratteristiche dell’organizzazione.
▲ La teoria di Maslow. Secondo Maslow la motivazione è caratterizzata da 5 bisogni di base
collocati in una gerarchia rappresentabile come una piramide in cui i bisogni sono posti
in sequenza. Alla base della piramide vi sono i bisogni primari: quelli fisiologici, che
corrispondono all’esigenza di conservazione di sé e della specie (cibo, riparo ecc.), i
bisogni di sicurezza (protezione, evitamento del dolore ecc.) che richiamano gli elementi
che tutelano la propria integrità fisica.
I bisogni secondari sono così chiamati perché sono bisogni di tipo psicologico ed
evidenziano una variabilità interpersonale più ampia -> al livello più basso dei bisogni
secondari ci sono i bisogni di affetto, ovvero di amore, amicizia, approvazione, seguiti dai
bisogni di stima (da un lato forza, successo, adeguatezza –bisogni che fanno riferimento
all’autostima- e dall’altro rispetto, importanza, dignità –che fanno riferimento alla stima
da parte degli altri-). Al vertice della piramide vi sono i bisogni di autorealizzazione,
corrispondenti al massimo sviluppo e all’utilizzo completo delle possibilità individuali.
Tra gli elementi che indicano la gratificazione di questi bisogni Maslow indica
l’accettazione di sé, la spontaneità, la capacità di vivere esperienze profonde e rapporti
umani positivi, la creatività e la ricerca di trascendenza.
I bisogni di ordine superiore non sono considerati importanti da un individuo fino a
quando i bisogni di livello inferiore non sono stati parzialmente soddisfatti: questo è il
principale assunto del “principio di dinamismi gerarchico”, che Maslow formula per
spiegare come sono regolate le reazioni tra i 5 bisogni.
▲ La teoria di McClelland. Gli studi di McClelland prendono le mosse dal “bisogno di
riuscire”, considerato un carattere fondamentale e distintivo delle società occidentali, ed
approvano a una teoria generale della motivazione che individua 3 elementi:
• Motivazione al potere (e all’evitamento della dipendenza), ovvero l’orientamento
a influenzare le persone e a modificare le situazioni secondo le proprie intenzioni.
In ambito lavorativo, le persone in cui prevale questo bisogno desiderano
esercitare un “forte” impatto sugli altri individui, sulle decisioni e sulle procedure.
• Motivazione all’affiliazione (e all’evitamento dell’isolamento), ovvero
l’orientamento a creare un’ampia e fitta rete di legami sociali. Nel contesto
lavorativo, queste persone tendono a scegliere i propri partner professionali tra
loro che si mostrano amichevoli, poiché desiderano sviluppare relazioni
confidenziali e supportive.
• La motivazione al successo (e all’evitamento del fallimento), ovvero
l’orientamento a raggiungere le mete desiderate, realizzare le proprie capacità e
migliorare le proprie prestazioni. Nei confronti del lavoro, il bisogno di successo
porta a ricercare obiettivi sfidanti e a desiderare di raggiungere l’eccellenza
professionale.
McClelland aggiunge a queste istanze la motivazione alla competenza, ovvero
l’orientamento a sviluppare continuamente le proprie abilità e a svolgere i compiti
assegnati mantenendo standard di elevata qualità. In ambito lavorativo gli individui
motivati alla competenza cercano la piena padronanza delle proprie attività,
traggono insegnamenti dall’esperienza e affrontano le situazioni nuove in modo
creativo.
Tra le differenti motivazioni non esiste alcun rapporto di gerarchia/subordinazione:
tutte le istanze possono ottenere espressione nei comportamenti oppure vi possono
essere situazioni in cui prevale un’istanza rispetto all’altra.
▲ La teoria di Herzberg. Herzberg indica l’esistenza di due tipi di fattori capaci di incidere
sulla motivazione delle persone: i fattori di igiene (la retribuzione, la condizioni di
lavoro, la sicurezza, la supervisione tecnica e le relazioni interpersonali con i pari e con i
superiori) e i fattori motivazionali (il riconoscimento, l’attribuzione di responsabilità, le
opportunità di carriera e le possibilità si apprendimento e di crescita nel ruolo). I primi
fattori sono i prerequisiti per la costruzione di contesti lavorativi motivanti, ma solo
dando la possibilità di soddisfare il secondo gruppi di fattori è possibile agire
direttamente a sostegno della motivazione.
Herzeberg propone di rendere i contesti di lavoro flessibili e “plastici” rispetto ai
differenti desideri e alle attese dei propri attori: per motivare non valgono le forme
prestabilite, ma è necessario moltiplicare le opportunità in funzione delle differenze
individuali.
Le teorie di processo. Si propongono di chiarire quali siano le variabili che mediano la relazione
tra un certo insieme di bisogni e un certo insieme di condotte.
▲ La teoria di Vroom. Per Vroom, il processo motivazionale comprende tre elementi distinti:
la sequenza comportamentale, cioè il corso d’azione che tende a un certo obiettivo; la
motivazione, cioè l’insieme di energie mobilitate per il compimento del corso d’azione; la
ricompensa, cioè l’ammontare dei benefici che si ottengono raggiungendo l’obiettivo.
La forza della motivazione associata a ciascuna sequenza comportamentale è l’esito
della combinazione di 3 variabili:
• La valenza (V) cioè l’attrattività della ricompensa, quanto una ricompensa
“piace” all’individuo. Può avere valore positivo, negativo o pari a zero (da -1 a
+1).
• L’aspettativa (A) cioè la probabilità che il corso d’azione consenta il
raggiungimento dell’obiettivo (da 0 a +1)
• La strumentalità (S) che è la possibilità che il raggiungimento dell’obiettivo
consenta di ottenere la ricompensa prevista (da -1 a +1 -> a seconda che
l’ottenimento della ricompensa sia considerata associato (+), svincolato (0)
oppure ostacolato dal raggiungimento dell’obiettivo (-).
La formula motivazione di Vroom (che definisce la forza della motivazione)= V x A x
S -> se una delle variabili ha un valore vicino allo zero, la motivazione risulta
indebolita; quando la valenza o la strumentalità assumono un valore negativo, si
genera una vera e propria motivazione a evitare quel corso di azioni.
▲ La teoria di Adams. Secondo Adams, l’equità percepita, cioè la valutazione soggettiva del
livello di equità presente nel proprio contesto lavorativo, è la principale variabile a
intervenire nel processo motivazionale. La valutazione dell’equità implica 2 verifiche: (1)
dell’equità interna, mediante il confronto tra il risultato ottenuto e il contributo fornito;
(2) dell’equità esterna, mediante il confronto tra se stessi e gli altri.
Secondo Adams, quando gli individui percepiscono una sufficiente equità interna saranno
disposti a mantenere il livello di motivazione espresso fino a quel momento. Viceversa,
quando percepiscono iniquità si attiveranno per ridurla: se l’iniquità è negativa, cioè il
contributo superiore ai risultati o situazione di svantaggio rispetto agli altri, potranno
diminuire il contributo, tentare di incrementare i risultati, abbandonare il campo o
riformulare le proprie valutazioni; se l’iniquità è positiva, potranno lavorare di più p con
maggior scrupolo, rinunciare ad alcune ricompense, sollecitare gli altri a prendere
maggiori ricompense o riformulare le proprie valutazioni.
Gli individui differiscono nella propria sensibilità all’equità: alcuni sono benevoli,
tolleranti verso l’iniquità negativa a proprio svantaggio; altri sono sensibili, attenti al
rispetto delle norme di reciprocità e all’eliminazione delle ingiustizie; altri aventi diritto
sono per nulla preoccupati di risolvere situazioni di iniquità positiva.
▲ La teoria di Locke. Ha messo a fuoco il tema degli obiettivi che a suo parere costituiscono
una variabile capace di influenzare i comportamenti attraverso caratteristiche (degli
obiettivi) quali:
• La consapevolezza, ovvero il riconoscimento dell’obiettivo in quanto tale
• La forza, ovvero il valore attribuito all’obiettivo
• L’aspettativa di successo, cioè il senso di “potercela fare”
• La specificità, cioè la chiarezza e la vicinanza dell’obiettivo
• La difficoltà, ovvero il grado di sfida che l’obiettivo sollecita
La più significativa ricaduta operativa della teoria del goal setting di Locke si può
ritrovare nel sostegno offerto dalla formula della “gestione per obiettivi”
(Menagment by Objectives).
Motivazione e personalità -> sul piano sperimentale, Wang e Erdheim hanno registrato
correlazioni significative tra la presenza di alcune dimensioni di personalità analizzate dal test
Big Five e l’intensità della motivazione espressa dagli individui in termini di orientamento al
risultato: gli individui con maggiore apertura mentale tenderebbero a essere più propensi ad
acquisire nel tempo uno stile comportamentale orientato ai risultati, evidenziando un buon
livello di motivazione.
Tuttavia, il legame tra personalità e motivazione non va assunto in modo deterministico: se è
vero che una buona indagine di personalità può rivelarsi utile a prevedere il potenziale
motivazionale, l’effettiva realizzazione di questo potenziale è fortemente legata alle
caratteristiche del lavoro in sé e del contesto in cui l’individuo è inserito.
Come motivare.
Vi sono autori che hanno messo a punto delle classificazioni di “buone pratiche” organizzative e
gestionali indirizzate a sostenere e promuovere la motivazione. 2 approcci che fanno
riferimento a tale ambito di studi:
• Progettazione del lavoro. L’approccio si basa sulla convinzione che il lavoro in sé
l’elemento chiave che influisca sulla motivazione degli individui. Gia Herzberg
evinziò il potenziale di motivazione intrinseca presente nel lavoro e sottolineò
come a volte questo potenziale venga limitato da errori nella progettazione dei
compiti assegnati. Per rimediare a questi errori Herzberg e altri hanno proposto di
riprogettare le attività lavorative assegnate all’individuo seguendo 3 strategie:
• Job enlargement, un’interazione “orizzontale” che comporta l’attribuzione di più
compiti con contenuti professionali differenti, ma uguali caratteristiche di
discrezionalità.
• Job enrichment, un’integrazione “verticale” mediante l’acquisizione di
discrezionalità e responsabilità rispetto al compito in precedenza attribuito a
livello gerarchico superiore.
• Job rotation, un’integrazione “per fasi successive” che si realizza nel corso del
tempo mediante l’assegnazione a posizioni organizzative differenti che
prevedono compiti con caratteristiche di discrezionalità analoghe e richiedono
competenze più simili per essere svolti.
Una versione più attuale degli studi di Herzberg e Argyris è il Job Characteristics
Model: i fattori intrinseci motivanti di una mansione sono costituiti dal significato del
lavoro (l’individuo deve percepire il proprio lavoro come importante), dalla
responsabilità (l’individuo deve essere certo di rispondere personalmente dei risultati
ottenuti) e dalla conoscenza dei risultati (l’individuo deve sapere se gli esiti del
lavoro sono soddisfacenti oppure no). Le attività assegnate a una posizione
organizzativa devono essere progettate secondo alcune indicazioni: (1) combinare i
compiti – i compiti elementare devono essere raggruppati originandone uno più
complesso; (2) organizzare unità di lavoro naturali – non è opportuno frammentare le
attività che possiedono al loro interno un senso compiuto; (3) stabilire una relazione
con i clienti – consente ai lavoratori di percepire l’utilità di ciò che fanno e ottenere
un feedback sulla prestazione; (4) attribuire responsabilità personali – gli individui
devono sentirsi responsabili dei risultati del proprio lavoro; (5)incrementare la
discrezionalità – è importante attribuire agli individui potere decisionale e possibilità
di controllo delle risorse; (6) aprire diversi canali di feedback – il feedback può essere
intrinseco all’esecuzione del compito oppure provenire da altri, in modo diretto
(incontri) o indiretto (rapporto di qualità).
Un più recente filone di ricerche sul tema job design mette a fuoco aspetti legati
all’organizzazione del tempo lavorativo e all’orario di lavoro -> Robbins ha definito
alcuni dispositivi in grado di sollecitare il potenziale di motivazione intrinseca
presente nelle attività di lavoro: la settimana di lavoro compressa (3/4 giorni di
lavoro ricoprono tutte le ore del contratto), l’orario flessibile (si sceglie il proprio
orario di lavoro all’interno di un’ampia disponibilità quotidiana offerta
dall’organizzazione), il job sharing (2 individui che si impegnano a coprire l’orario in
modo complementare) e il telelavoro (per 2/2 giorni la settimana, il lavoratore esegui
le proprie attività a casa).
Il Management by Objectives (MBO). È un Sistema che implica la puntuale definizione degli
obiettivi affidati a ciascun attore organizzativo, unita a un attento monitoraggio e a una
sistematica valutazione, prevedendo al tempo stesso la partecipazione del dipendente a
ciascuna fase di questo processo (Drucker). Tale formula trova ancora applicazione, anche
grazie alle politiche di compensation che, accanto alla retribuzione fissa, prevedono una quota
di retribuzione variabile legata alla misura in cui gli obiettivi vengono raggiunti. Passaggi per
compiere una politica di MBO:
• Individuazione condivisa degli obiettivi a partire da un confronto al quale concorrono sia i
capi che i collaboratori
• La specificazione in termini misurabili del risultato atteso (consegna del prodotto entro
24 ore)
• L’assegnazione di un traguardo temporale entro il quale l’obiettivo deve essere
raggiunto
• Il monitoraggio a intervalli seguito da un feedback che consenta agli individui di
modificare le modalità di lavoro
Vi sono 2 tipi di obiettivi: gli obiettivi di contributo (hanno a che fare con le prestazioni che il
collaboratore deve fornire e possono riguardare sia il risultato ottenuto con la prestazione sia le
sue modalità di svolgimento) gli obiettivi di competenza (riguardano l’acquisizione di
conoscenze e capacità importanti per raggiungere gli obiettivi di contributo – tali competenze
fanno parte del “modello” definito dall’organizzazione: attenzione al cliente, gestione del tempo
ecc. non vanno definito obiettivi di crescita per tutte le competenze, ma solo per quelle
realmente significative per un certo individuo in un certo momento.
Giustizia organizzativa. La ricerca in ambito della giustizia organizzativa, che prende le mosse
dalla teoria di Adams, si propone di promuovere la percezione di equità all’interno dei contesti
di lavoro. Il senso di giustizia può essere suddiviso in 3 componenti:
• Giustizia distributiva, che riguarda l’equità con cui le ricompense vengono assegnate;
l’individuo mette in relazione la ricompensa e la prestazione
• Giustizia procedurale, relativa al processo mediante il quale tali ricompense vengono
assegnate; gli individui valutano le regole seguite per operare la distribuzione
• Giustizia interazionale, inerente al qualità della relazione tra coloro che hanno funzioni di
controllo e valutazione e coloro che vengono controllati e valutati; le persone
considerano l’onestà, il rispetto ecc.
È stato evidenziato che la prestazione lavorativa è associata positivamente sia alla giustizia
distributiva sia alla giustizia procedurale, ma quest’ultima permette di prevedere meglio i
risultati. Le 3 forme di giustizia correlano positivamente con la motivazione e negativamente
con l’intenzione di lasciare l’azienda e il turn over.
Partecipazione. McGregor invitò, 50 anni fa, i manager e i progettisti organizzativi a cambiare al
propria concezione di individuo al lavoro, abbandonando una “filosofia X”, secondo cui gli esseri
umani sono bisognosi di direzione e controllo, a favore di una “filosofia Y” che assume che le
persone siano orientate alla crescita, desiderino assumersi responsabilità e siano disponibili a
contribuire al raggiungimento degli obiettivi organizzativi; passare da uno stile gestionale di tipo
autoritario a uno stile gestionale di tipo partecipativo.
Vi sono differenti aree di attività in cui è possibile realizzare una più alta partecipazione: •
La trasformazione degli obiettivi generali in obiettivi specifici
• La presa di decisione
• L’individuazione, analisi e soluzione dei problemi
• La definizione di valori e politiche
• L’attuazione e il monitoraggio degli interventi di cambiamento
• Il controllo sulle risorse
La forma più nota di partecipazione è rappresentata dai circoli di qualità: gruppi di lavoro,
formati da 5-10 colleghi istituiti al fine di discutere dei problemi di qualità relativi al processo in
questione: diagnosticare le cause, individuare le soluzioni, mettere in atto interventi correttivi e
valutare gli esiti.
Un altro esempio sono i gruppi di lavoro autogestiti: unità produttive con una composizione
relativamente stabile, responsabili di un intero processo di lavoro o di un segmento significativo
di esso, in grado di prendere decisioni in modo autonomo circa le modalità e le regole di
esecuzione del lavoro.
Negli ultimi anni il tema della partecipazione è legato a quello di empoverment, che è sinonimo
di un orientamento gestionale volto a valorizzare le risorse umane dell’organizzazione,
consentendo loro di avere una reale influenza sui processi e sui contesti di lavoro.
La ricerca per la diagnosi e l’intervento organizzativo.
La letteratura ha proposto differenti costrutti che offrono una definizione operativa della
motivazione e possono essere utilizzati nell’ambito della ricerca organizzativa tra i quali:
• Job involvement è l’attaccamento al proprio lavoro, il grado con cui un individuo si
identifica con il proprio lavoro. Indicatori di job involvement: centralità e importanza del
lavoro nella propria vita, il senso del dovere e la disponibilità a fare sacrifici.
• Organizational commitment è l’attaccamento alla propria organizzazione. 3 forme di
attaccamento all’organizzazione: (1) attaccamento effettivo all’organizzazione (affective
commitment) – quando prevale gli individui restano nell’organizzazione perché lo
vogliono; (2) una percezione di convenienza in termini di costi-benefici a non
interrompere il rapporto con l’organizzazione (continuance commitment) – quando
prevale gli individui restano nell’organizzazione perché ne hanno bisogno; (3) un obbligo
morale a rimanere nell’organizzazione (normative commitment) – gli individui restano
nell’organizzazione perché si sentono obbligati.
• Organizational citizenship (cittadinanza organizzativa) qualifica i comportamenti che nel
loro insieme favoriscono l’efficacia dell’organizzazione pur non essendo specificati o
imposti dal contratto di lavoro, né riconosciuti dal sistema di ricompense formali. 5
componenti dell’OCB proposte da Organ: (1) coscienziosità – si riferisce a quei
comportamenti che indicano una particolare cura nello svolgimento del proprio lavoro;
(2) virtù civica – include i comportamenti che evidenziano un forte senso di
responsabilità nei confronti dell’organizzazione; (3) sportività – manifestazioni di
atteggiamento positivo e lealtà nei confronti dell’azienda; (4) altruismo – i
comportamenti che esprimono disponibilità ad aiutare i colleghi nello svolgimento dei
loro compiti; (5) cortesia – comprendere le azioni che dimostrano una particolare
premura nell’istaurare relazioni improntate alla gentilezza e alla cooperazione.
• Engagement indica la propensione degli individui a essere “pienamente presenti”
nell’organizzazione. Più recentemente, Rutledge ha definito l’engagement come la
disponibilità degli individui ad agire in modo da seguire gli interessi dell’organizzazione,
sentendosi attratti (voglio fare questo lavoro), dediti (mi impegno per il successo del mio
lavoro), ed entusiasti (mi piace quello che faccio nel corso del mio lavoro). All’estremo
opposto vi sono i comportamenti che esprimono “disengagement”: in modo passivo
(chiusura in se stessi, reticenza) in modo attivo (trascuratezza nelle prestazioni, critica
continua).
Il caso caterpillar. Il caso caterpillar non offre solo un buon esempio di gestione della ricerca
organizzativa, ma evidenzia anche il valore della ricerca stessa come guida e monitoraggio
di un processo di cambiamento capace di risultare pienamente efficace.
Caterpillar ha attuato un percorso di ricerca-intervento sul tema della motivazione finalizzato
a verificare il livello di engagement espresso dai propri attori, individuare i fattori che
ostacolano l’espressione dell’engagement e producono disengagement e infine progettare
interventi tesi a promuovere l’espressione di engagement. Tra i risultati sono stati descritti
due tipi di ostacoli all’espressione di engagement: 1) ostacoli visibili –tra cui le modalità di
comunicazione, i sistemi di valutazione, i modelli di leadership, i sistemi di rinforzo e
ricompensa; 2) ostacoli invisibili – tra cui alcuni rituali, i valori e le norme, i simboli del
potere, la struttura, i ruoli e le modalità di attribuzione delle responsabilità.

CAP.6 LA SODDISFAZIONE LAVORATIVA

Il costrutto di soddisfazione lavorativa è stato usato nella psicologia del lavoro fin dagli anni ’30.
Definizione ed evoluzione del costrutto di soddisfazione lavorativa.
La soddisfazione lavorativa è considerata come un atteggiamento e questo significa esaminare
3 componenti (emotiva, cognitiva e comportamentale) che si ritrovano anche nella definizione
di Locke: uno stato emotivo positivo e piacevole (emozione) risultante dalla percezione
(cognizione) della propria attività lavorativa (comportamento). L’origine degli studi sulla
soddisfazione lavorativa è stata facilitata da 2 fenomeni:
• Il movimento delle human relations che ha ipotizzato che i lavoratori soddisfatti saranno
anche i più motivati
• Il movimento di misurazione degli atteggiamenti che si è occupato di rendere
quantificabili le variabili psicologiche, tra le quali la soddisfazione stessa.
Anche i primi studi sulla soddisfazione del cliente e tutto il conseguente filone della ricerca di
marketing, evidenziano come un cliente soddisfatto del prodotto più probabilmente ne
comprerà un altro, hanno contribuito a confermare la visione in base alla quale ad un
incremento di soddisfazione lavorativa corrisponderà un miglioramento delle prestazioni e
quindi dei risultati dell’organizzazione. Questa visione è stata rafforzata dal modello del “total
quality management” (TOM) che ha riconosciuto al lavoratore lo status del cliente:
l’organizzazione deve adottare strategie per monitorare e migliorare la soddisfazione del
cliente: un lavoratore soddisfatto non lascia l’organizzazione, pone maggior attenzione al
proprio cliente ed è stimolato a proporre suggerimenti per migliorare l’organizzazione.
Tuttavia, le ricerche sul campo per verificare la relazione tra soddisfazione e produttività hanno
ottenuto risultati discordanti (tanto che si ritiene vi siano più variabili e che il concetto di
“soddisfazione lavorativa” vada sostituito con “benessere psicologico”).
Questo tema ha suscitato interesse perché a tutti è capitato di percepire un senso di
soddisfazione o insoddisfazione per un proprio lavoro; la soddisfazione è stata resa misurabile e
quantificabile mediante l’uso dei questionari; infine dagli studi sulla soddisfazione è possibile
trarre indicazioni operative per migliorare la qualità della vita lavorativa.
I contenuti della soddisfazione lavorativa.
La soddisfazione può essere intesa come un atteggiamento globale (soddisfazione generale) o
come somma di atteggiamenti parziali (soddisfazione relativa). Tuttavia non esiste alcuna
classificazione dei contenuti (componente) della soddisfazione che abbia ottenuto pieno
riconoscimento dalla comunità scientifica. Le ricerche sul campo si sono infatti avvalse di
modelli estremamente differenti in termini di numero e caratteristiche delle componenti
analizzate. Teorie e modelli.
Principali modelli che hanno contribuito allo studio della soddisfazione lavorativa:ù
• Modelli cognitivi. Tra la metà degli anni ’60 e la metà degli anni ’70 vi sono stati studi
che hanno focalizzato l’aspetto cognitivo della soddisfazione lavorativa, proponendosi di
individuare le modalità che porterebbero i soggetti a soppesare tutti gli elementi in gioco
per poi decidere il proprio livello di soddisfazione. Il “facet model” di Lawler indica
l’origine della soddisfazione nel confronto tra ricompense ricevute e ricompense attese
(se quanto ricevuto sarà inferiore a quanto atteso vi sarà insoddisfazione ecc.). La stima
delle ricompense attese viene effettuata dall’individuo in base a 3 elementi: il livello di
abilità e esperienza che ritiene di offrire, il confronto tra l’input offerto e ricompense
ricevute da altri soggetti, infine le caratteristiche del lavoro in sé (difficoltà,
responsabilità …).
Il modello di Lawler approfondisce la componente relazionale dell’atteggiamento, ma
non va dimenticata la soggettività del processo percettivo, che seleziona e distorce gli
stimoli presenti nel contesto.
• Modello delle caratteristiche del lavoro. È un modello proposto da Hackman e Oldham
con l’obiettivo di precisare le relazioni tra caratteristiche del lavoro, reazioni individuali
dei lavoratori e soddisfazione lavorativa. Nel modello ci sono 5 dimensioni che portano a
3 stati psicologici (significato del lavoro, responsabilità e conoscenza dei risultati) i quali,
a loro volta producono risultati in termini di soddisfazione, motivazione ed efficacia
lavorativa. I collegamenti tra dimensioni del lavoro e stati psicologici e tra stati
psicologici e i risultati sono moderati dal “bisogno di crescita” percepito da ciascun
lavoratore. Quanto più i 3 stati psicologici sono presenti e quanto sono più intensi, tanto
più sarà probabile che il soggetto sviluppi atteggiamenti di soddisfazione lavorativa e di
soddisfazione per lo sviluppo professionale insieme ad un incremento della motivazione
e a un senso di efficacia.
Il potenziale motivazionale (MPS) di un’attività lavorativa può essere calcolato
combinando i punteggi attribuiti a ciascuna delle 5 caratteristiche:
MPS = (identità del compito+ varietà + importanza) x autonomia x feedback
• Modelli disposizionali. Secondo Judge, Locke, Ducham e Kwger un’influenza sulla
soddisfazione lavorativa e sulla vita in generale è esercitata dalla “core selfevaluation”,
costrutto determinato dall’autostima, autoefficacia assenza di pessimismo e locus of
control interna. Di recente è stato proposto un modello più generale in cui la core self
evaluation è messa in relazione con le caratteristiche dell’obiettivo di lavoro, che è un
fattore che influenza la soddisfazione lavorativa.
• Modelli basati sulle emozioni. La teoria di Weiss e Cropanzano pone l’accento
sull’influenza esercitata dagli eventi quotidiani sulle emozioni che accompagnano la
soddisfazione /insoddisfazione. I risultati delle ricerche ispirate alla teoria di Weiss e
Cropanzano evidenziano come gli eventi negativi abbiano un effetto sulle emozioni
notevolmente superiore agli eventi positivi, producendo uno stato di insoddisfazione che
è all’origine dei comportamenti controproducenti con i quali un dipendente danneggia
l’organizzazione (sabotaggi, furti …). Le esperienze positive sul lavoro contribuiscono a
produrre soddisfazione.

Antecedenti e conseguenze della soddisfazione lavorativa.


Gli antecedenti. Ciò che influenza la soddisfazione lavorativa fa parte di 2 categorie: le
caratteristiche del lavoro e le caratteristiche individuali. Aspetti del lavoro:
• Il ruolo l’ambiguità di ruolo (incertezza circa le proprie responsabilità) e il conflitto di
ruolo (l’incompatibilità tra le differenti richieste che si ricevono) correlano negativamente
con la soddisfazione lavorativa.
• Il controllo sul proprio lavoro la percezione di libertà nel prendere decisioni
sull’esecuzione e sull’organizzazione del proprio lavoro correla positivamente con la
soddisfazione lavorativa.
• Gli orari “l’orario lungo” (10.12 ore per 3 -4 giorni alla settimana) ed il part-time
correlano positivamente con la soddisfazione lavorativa.
• Il conflitto lavoro-famiglia i dipendenti che sperimentano alti livelli di conflitto tendono a
riportare bassi livelli di soddisfazione.
L’ammontare della retribuzione, il carico di lavoro e il lavoro notturno non correlano
significativamente con la soddisfazione.
Le ricerche hanno portato i ricercatori a sostenere la tesi che i soggetti siano predisposti a
sviluppare atteggiamenti positivi/negativi verso il lavoro. I tratti di personalità ritenuti
maggiormente legati alla soddisfazione lavorativa sono:
• Il locus of control interno (si sente in grado di influenzare gli eventi che lo riguardano)
correla con una maggiore soddisfazione.
• L’affettività negativa (prova emozioni spiacevoli, quali ansia e depressione, in differenti
situazioni) correla con una soddisfazione più bassa sia per le cause dirette (la persona
prova sentimenti meno positivi anche rispetto al lavoro), sia indirette (l’individuo compie
scelte meno vantaggiose, ha meno successo e, quindi, meno soddisfazione).
• Le conseguenze. La prima conseguenza studiata è stata la prestazione, poi le ricerche di
comportamenti di ritiro, cioè assenteismo e turnover: l’assenteismo riporta correlazioni
modeste o assenti (quando le assenze sono controllate dall’individuo possono favorire la
soddisfazione per il lavoro); il turnover è il risultato dell’insoddisfazione lavorativa. Vi è
correlazione anche tra soddisfazione e intenzione di lasciare il lavoro. Tra gli esiti della
soddisfazione lavorativa vi sono il burnout (è uno stato emotivo che si manifesta come
senso di esaurimento, depersonalizzazione e ridotta efficacia personale), la salute e il
benessere psicologico.

Sono state formulate 3 ipotesi sulla relazione tra soddisfazione lavorativa e soddisfazione
per la vita in generale (life satisfaction):
• Ciò che viene vissuto nell’ambiente lavorativo compensa ciò che è esterno ad esso
(compensation).
• Ciò che accade in un ambiente si riversa nell’altro (spillover).
• Tra i due aspetti non c’è un legame (segmentation).
Nuove ricerche hanno confermato la validità dello spillover.

Strumenti per misurare la soddisfazione lavorativa.


Le ricerche sul campo si avvalgono di strumenti quantitativi, cioè questionari, ma vi sono
anche studi di tipo esplorativo realizzati a partire da un approccio qualitativo (interviste e
focus group), con lo scopo di indagare gli aspetti della relazione tra individui e
organizzazione che influenzano il senso di soddisfazione).
Esempi di questionari. Gli strumenti “monodimensionali” misurano il livello di soddisfazione
generale; gli strumenti “multidimensionali” misurano il livello di soddisfazione relativa a
differenti aspetti della vita di lavoro e questi si dividono in generalisti (utilizzabili per
qualunque attività di lavoro in organizzazione) e dedicati (utilizzabili per specifiche attività
es. medici, insegnanti ecc.)
Esempi di strumento monodimensionale Job in general scale
Esempio di strumento multidimensionale generalista Job satisfaction survey (sottoscale:
retribuzione, promozione…).
Esempio di strumenti multidimensionali dedicati Mc Closkey/Mueller satisfaction scale
(viene utilizzata per la misurazione del lavoro nel settore infermieristico).
Tra gli adattamenti italiani c’è l’Occupational stress indicator (OSI) di Cooper, Sioan e
Williams, che contiene una scala di soddisfazione lavorativa che valuta la carriera, il lavoro
in sé, le relazioni interpersonali e la struttura organizzativa.

Misure analitiche generali. Molti ricercatori che utilizzano misure analitiche, effettuano una
misura “composta” della soddisfazione generale e, cioè, una somma di punteggi delle
differenti sottoscale. Secondo alcuni autori la misura composta è una procedura errata in
quanto omette delle componenti di soddisfazione che l’individuo ritiene importanti nel
formulare il proprio giudizio di soddisfazione ed include componenti che non ritiene
importanti.
Una misura della soddisfazione complessiva è l’utilizzo della single-item (Quanto si ritiene
soddisfatto del suo lavoro e della sua organizzazione?) . L’utilizzo della single item è
vantaggioso poiché riduce i tempi e i costi della somministrazione ed incrementa la validità
di facciata dello strumento, senza che il soggetto sia infastidito dalla presenza di molte
domande simili.

Nuove frontiere della ricerca.


Tra i settori in cui gli studi sulla soddisfazione lavorativa stanno riscuotendo molto interesse
sono quelli del lavoro interinale e del personale infermieristico.
• Lavori interinali il lavoro interinale è una situazione in cui per il lavoratore vi sono 2
organizzazioni di riferimento (l’agenzia interinale e l’agenzia in cui presta il proprio
lavoro). E’ posta attenzione sull’importanza di attivare politiche di gestione delle
risorse umane attente a non creare discriminazioni e iniquità tra i lavoratori interinali
e permanenti. Bisogna distinguere tra interinali volontari e involontari: chi lavora
come interinale per scelta percepisce maggiore soddisfazione rispetto a chi considera
il lavoro interinale come un ripiego. In Italia Argentero, Dal Corso e Vidotto hanno
realizzato una ricerca in cui vengono studiati gli effetti sulla soddisfazione lavorativa
della motivazione al lavoro interinale, delle opinioni verso il lavoro interinale e della
soddisfazione per l’operatore dell’agenzia interinale. I risultati spiegano come la
soddisfazione lavorativa è determinata dal legame tra lavoratore e società di
appartenenza e non dalle caratteristiche delle aziende in cui viene prestata la propria
attività lavorativa.
• Personale infermieristico e soddisfazione lavorativa. La carenza di personale
infermieristico affligge non solo il nostro Paese, ma è un problema diffuso a livello
globale. Sono stati condotti numerosi studi finalizzati a comprendere le ragioni
dell’uscita volontaria del personale infermieristico dalle organizzazioni sanitarie,
individuare i soggetti a maggior rischio e identificare esempi di buone pratiche in
grado di contrastare il fenomeno. Tra questi il progetto NEXT ha individuato un
insieme di variabili in grado di influenzare il turnover del personale infermieristico,
tra le quali la soddisfazione lavorativa occupa un ruolo di primo piano. In Italia Cortesi
ha individuato 5 fattori che favoriscono la soddisfazione lavorative degli infermieri:
1)caratteristiche dell’attività di lavoro; 2) relazioni con i colleghi; 3)
responsabilizzazione, autonomia e crescita professionale; 4) relazioni con i pazienti e
i familiari; 5) relazioni con il coordinatore.
I risultati di ricerche di questo tipo consentono a chi opera nelle risorse umane, di
mettere a punto piani per promuovere la soddisfazione lavorativa.

CAP.7 LA COMPETENZA

La competenza a vivere.
Prima di parlare di competenza professionale, parliamo di competenza a vivere. La competenza
non può essere ridotta a una sola descrizione, poiché è estremamente plastica, contraddittoria
e articolata; é allo stesso tempo un processo e una struttura poliformica.
La struttura e il processo. Il nucleo fondante la competenza umana è rintracciato nella capacità
di produzione ed interpretazione di segni e simboli e nella nostra competenza semeiotica ed
ermeneutico-narrativa. Alcuni studiosi individuano nell’uso del linguaggio e nella costruzione di
significati la conditio sine qua non della possibilità di sviluppare competenza e di produrre
conoscenza. La caratteristica della competenza umana è la relazionalità che si esprime nella
dimensione ermeneutica e sociale. La dimensione ermeneutica e narrativa della competenza si
esprime nello stabilire legami, nel ritrovare e scoprire i nessi possibili di significati (non dotiamo
di senso una cosa in sé, ma il rapporto con qualcos’altro: il significato è legato ad altri
significati), ma richiama un altro livello di relazione: questa è necessaria nella costruzione della
competenza e quindi conoscenza di sé e del mondo attraverso processi interattivi nei quali si
quali si impara, mediante comunicazioni intenzionali, a interpretare le vicende esperite e a
negoziare i significati di eventi, situazioni, condividendo un sistema di regole proprie della
cultura di appartenenza.
Il secondo nucleo della competenza a vivere è paradigmatico, ordinatorio e conativo che
individua una competenza a progettare e attuare piani d’azione. L’ipotesi è che tale
competenza progettuale sia espressione di una struttura cognitiva incorporata in un repertorio
di mappe cognitive, schemi e programmi, posseduto e usato dall’attore per concepire, mettere
in atto e governare le proprie azioni e comportamenti. In questo modo, le azioni e
comportamenti, anche quelli apparentemente più automatici, sarebbero sempre progettati, cioè
riferiti ad una mappa.
Competente è chi è capace di progettare e realizzare corrispondenze tra l’intenzione e i risultati
dell’azione, e di scoprire e correggere gli errori, o le eventuali mancate corrispondenze. Il
processo è struttura. La competenza è il processo mosso da 2 orientamenti: uno
individualeconversazionale (è un processo di costruzione di competenza arcaico, originato dalla
conoscenza tacita. Comprende mappe “antiche”, “naturali”, che durante l’evoluzione sono state
portate a un livello sempre più profondo e sono iscritte nella biologia dell’individuo) e l’altro
“sociale e culturale“ (è un processo più recente, originato dalla conoscenza esplicita, che
assume le forme della logica, del ragionamento ipotetico-deduttivo, tende all’astrazione e alla
razionalità. Le mappe di questa seconda modalità sono più superficiali ed devono essere
richiamate con uno sforzo consapevole).

Dalla competenza di vivere alla competenza professionale.


Aspetti e temi della competenza che si esprime nei sistemi sociali complessi e organizzati
orientati ad un fine, le organizzazioni appunto.
La competenza linguistica di Chomsky. La nozione della competenza elaborata da Chomsky
muove dallo studio del linguaggio: la competenza di un parlante è definita dalla competenza
“grammaticale” cioè dalla conoscenza della grammatica e trasformazione del linguaggio. Per
analogia con questo modello, la competenza professionale viene concettualizzata come un
insieme di capacità o proprietà interne all’autore e si presuppone l’esistenza di regole
generative e strutture cognitive per generare routine d’azione efficaci. Queste strutture
cognitive non portano direttamente all’azione, in quanto ci riferiamo a un “modello di agente
ideale” analogo al “leader speaker” di Chomsy, cioè di un soggetto astratto che sembra subire i
condizionamenti socio-culturali e quindi porta a un concetto di competenza che tiene conto dei
contesti in cui viene esercitata.
La competenza tacita di Polanyi. La prospettiva di Polanyi muove dal presupposto dell’esistenza
di una dimensione di conoscenza personale che mette in discussione il falso ideale delle scienze
esatte, dell’oggettività completa e della razionalità assoluta. La conoscenza personale e la
competenza professionale sono articolabili su 2 livelli di consapevolezza:
• La consapevolezza focale consente di osservare e verificare il raggiungimento
dell’obiettivo nell’attività che il soggetto sta svolgendo.
• La consapevolezza sussidiaria è l’osservazione e la categorizzazione delle sensazioni e
delle attività che vengono sviluppate circa l’utilizzo degli strumenti per raggiungere il
risultato dell’attività professionale. Nella nostra competenza è contenuto molto di più di
quanto possiamo esprimere; essa è in parte tacita, in parte espressa. Il concetto di
conoscenza tacita consente di comprendere perché le persone nelle organizzazioni
spesso non siano in grado di spiegare perché e come fanno le cose, e quali siano i
presupposti che guidano le loro azioni. La consapevolezza sussidiaria consente di svelare
il significato e le relazioni sottostanti l’azione.

La competenza riflessiva di Schön. Le università alimentano la dicotomia fra conoscenza


“forte” (della scienza e del sapere) e conoscenza “debole” (dell’abilità artistica e della
semplice opinione). Il passo per comprendere e operare con la competenza, e con il
personale, è verso una teoria della conoscenza che gli aiuti nella comprensione della
competenza professionale concepita come azione e riflessione sulla pratica.
Nell’ambito della razionalità tecnica, la pratica professionale è riduttivamente interpretata
come un ordinario processo di soluzione di problemi. Vengono però ignorati gli aspetti
relativi alla definizione del problema e al processo attraverso cui si arriva alla soluzione da
prendere. Schön muove nella direzione di un’epistemologia della riflessione nel corso delle
azioni mediante la quale i professionisti possono affrontare le situazioni connotate da
incertezza, instabilità, unicità e conflitti di valore.
Il professionista che riflette conduce un esperimento volto a generare una nuova
comprensione dei fenomeni e un mutamento nella situazione; riflettendo nel corso
dell’azione diventa un ricercatore operante nel contesto della pratica e costruisce una nuova
teoria del caso unico. La sua indagine non è limitata a una decisione sui mezzi, ma è
dipendente da un preliminare consenso sui fini.
Un secondo elemento della competenza riflessiva della pratica è rappresentato dalla
sorpresa, che è il vero precursore nell’innovazione. Quando otteniamo i risultati attesi, non
tendiamo a rifletterci sopra. Finché la pratica si mantiene stabile, cioè sottopone gli stessi
tipi di casi e problemi, un professionista è sempre meno soggetto a sorpresa e. quindi, il suo
conoscere è sempre più automatico. La riflessione, invece, può rappresentare un nuovo ciclo
di apprendimento e sviluppo delle competenze.
La “capacità negativa: Lanzara. Per sviluppare il suo costrutto di competenza, Lanzara si
avvale dei concetti di programma per l’azione, capacità negativa e sensibilità al contesto,
sostenendo sempre il versante sociale che la caratterizza. Le interazioni tra soggetto e
ambiente vengono progettate mediante programmi per l’azione, e “meta progetti”, che
forniscono le regole per la programmazione di azioni per intere classi di situazioni. I
programmi per l’azione sono costruiti sulla base di esperienze d’azione che la cultura e le
esperienze sociali accettano come valide. (Sono utili nelle situazioni in cui non c’è tempo o
materiale per progettare ex novo). La nostra attività professionale rileva il grado di
compliance che riusciamo a costruire tra i programmi d’azione e l’ambiente in cui essi si
esplicano. E’ cruciale la flessibilità dei programmi e la capacità di modificare rapidamente il
nostro corso di azioni e decisioni sulla base della situazione contingente.
La competenza o “capacità negativa” si esprime nella capacità di andare oltre al noto,
sostenere nell’incertezza per promuovere una possibilità per il nuovo ed esplorare l’ignoto
(restando impassibili di fronte all’assenza di senso, senza volere a tuttii costi e rapidamente
pervenire a fatti o motivi certi).
Le competenze, inoltre, sono riconducibili come tali e sono riproducibili sono all’interno di un
sistema di relazioni e di pratiche socialmente e culturalmente riconosciute. Con la
mediazione della comunità, la persona apprende tutta una serie di elementi che situano e
organizzano socialmente la competenza.
La competenza professionale: i modelli.
La competenza viene considerata, dagli stessi economisti, insieme alle altre risorse
immateriali, la risorsa organizzativa critica per eccellenza: critica perché chiave di successo
dirimente per l’uso di tutte le altre, e perché definisce il vantaggi competitivo e la possibilità
di sopravvivere delle organizzazioni. Dal modello di competenze scelto e definito in
un’organizzazione sulla base della sua filosofia gestionale, derivano gli interventi connessi a
ciascuno dei sottoprocessi della valorizzazione delle persone: selezione, formazione,
valutazione, sviluppo e retribuzione.
Il modello di competenze è un insieme di conoscenze e capacità, distintive degli attori
organizzativi, ed è uno strumento di intermediazione tra competenza a vivere e i processi e
le relazioni di una specifica organizzazione. E’ un descrittore della competenza professionale
espressa nel linguaggio proprio dei processi, dei valori e della cultura di un’organizzazione.
(E’ espresso con un linguaggio ed il gergo tipico di un’organizzazione; contiene desideri e
valori di un singolo contesto).
Uno sguardo oltre oceano. La proposta di Boyatzis del 1982 è diventata una sorta di
dizionario condiviso grazie al quale la comunità di professionisti della funzione del personale
e di società di consulenza organizzativa trovano un modo per intendersi quando dialogano,
circa la definizione, analisi e valutazione della competenza, della prestazione o del
potenziale.
Le competenze individuali rappresentano le capacità che le persone introducono nella
situazione di lavoro. Quando la responsabilità di un’attività di lavoro richiede la messa in
atto di specifiche azioni, è necessario che le persone, per farvi fronte, esprimano le loro
personali risorse individuali.
Il contributo di Boyatzis, così come quello di Spencer e Spencer, rientra nella scuola di
pensiero inaugurata da McCleland, che focalizza il ragionamento sul soggetto e sulle sue
caratteristiche, in relazione alla possibilità di ottenere prestazioni eccellenti. Boyatzis
considera la competenza una caratteristica (cioè un tratto, un’abilità) della persona che
determina una prestazione lavorativa efficace o superiore. Tali caratteristiche non sono
direttamente osservabili, ma la competenza può manifestarsi in molte forme di
comportamento o in una grande varietà di differenti azioni.
Il modello di competenze proposto da Boyatzis ha 2 dimensioni che distinguono differenti
tipi di competenza che vengono misurati e valutati:
• La prima dimensione descrive i tipi di competenze che sono associati a diversi aspetti del
comportamento umano e delle capacità delle persone in grado di spiegare le azioni e i
comportamenti. (Es. accurata autovalutazione, memoria, interesse per le relazioni ecc.)
• La seconda dimensione del modello di competenze descrive il livello di ciascuna
competenza. Boyatzis ipotizza che tra la persona e il suo contesto vi sia una dinamica,
rappresentata come un campo di forze, in cui l’interazione tra persona e ambiente è resa
evidente dall’azione ed il comportamento. Ogni volta che un’azione è compiuta c’è un
effetto, un esito sulle competenze della persona.
• I costrutti utilizzati da Boyatzis sono:
1. Motivi includono pensieri correlati a particolari obiettivi o temi. La motivazione, poi,
guida, dirige il comportamento della persona;
2. Tratti sono disposizioni o modi caratteristici con i quali la persona risponde a un
insieme di stimoli equivalenti. I tratti si attivano in modo più immediato rispetto alla
motivazione;
3. L’immagine di sé è la valutazione della percezione di sé ed è anche una definizione
dell’immagine in un contesto di valori: i valori hanno origine dalle credenze passate
dell’individuo, da quelle attuali o da quelle proposte dall’ambiente nel quale lavora;
4. I ruoli sociali un ruolo sociale rappresenta il punto di vista dell’individuo circa il suo
inserimento in relazione alle aspettative degli altri;
5. Skill è l’abilità dimostrata in un sistema e in una sequenza di azioni funzionalmente
correlata a un obiettivo di prestazione (l’uso di una skill non è riconducibile ad una
singola azione).
Uno sguardo europeo e italiano. La scuola di tradizione francofona propone un modello d’analisi
delle competenze centrato sul legame professionalizzazione e qualificazione, mestiere e
organizzazione. La competenza è la capacità di mobilitare tutti i saperi in una situazione
professionale. Le Boterf definisce la competenza come la capacità di saper mobilitare le risorse
che sono risorse sia personali che esterne al soggetto (informazioni, tecnologie). La competenza
è letta in funzione delle finalità e dell’utilità che essa rappresenta per l’organizzazione.
Le pratiche del “bilancio di competenze” e della “validazione delle acquisizioni professionali”
propongono al centro delle analisi delle competenze, le capacità del soggetto di ricostruire il
proprio patrimonio di esperienze e di riconoscerlo attraverso una continua operazione di
autovalutazione e recupero di feedback passati e recenti.
Nel nostro panorama è presente anche un orientamento ispirato all’interazionismo e al
costruttivismo: la competenza non può essere isolata dalle relazioni sociali.
In questa area di pensiero rientrano numerosi studi sull’expertise e sulla competenza esperta.
Ciò che distingue l’esperto dal principiante è la presenza di programmi d’azione più complessi,
differente capacità di tollerare l’incertezza, maggiore capacità negativa.

CAP. 8 LA CARRIERA

Gli studi psicologici sulla carriera.


Nel senso più comune del termine, la carriera è intesa come carriera lavorativa o professionale,
intesa come un percorso a gradini. Nei primi contributi teorici, il focus viene posto
sull’organizzazione e sui contenuti del lavoro, sui livelli di responsabilità assegnati e sulle
ricompense offerte dall’organizzazione, tutti elementi osservabili e descrivibili dall’esterno. Con
il tempo l’interesse si sposta sul rapporto individuo-organizzazione, volgendo l’attenzione al
momento della scelta professionale e al processo di mutuo adattamento tra la persona e
l’organizzazione.
Un altro filone di studi psicologici sulla carriera è inaugurato da Super che sostituisce il termine
“career pattern” con quello di “life stage”, ossia fasi della vita o stadi di sviluppo. La teoria di
Super apre le porte alla psicologia dello sviluppo e del cisclo di vita poiché la carriera è intesa
come “carriera di vita” poiché prende in considerazione i diversi contesti (famiglia, scuola,
azienda ecc.) con cui il soggetto interagisce prima, dopo e durante la scelta lavorativa. La
tendenza ad indagare nella carriera il punto di vista soggettivo, i processi di costruzione di sé e
del mondo esterno caratterizzano l’approccio costruttivista e socio-costruzionista. La tendenza
degli studi più recenti della carriera la raffigurano come un processo di autoformazione e self
mangement gestito individualmente.
Teorie a confronto.
Le teorie che si collocano nel quadro della psicologia dello sviluppo e del ciclo di vita: teoria di
Super delle transizioni biografiche e quella sviluppo-contesto. Poi teorie costruttivista e
sociocostruzionista e quella socio-cognitiva.
La teoria di Super. Riguardo al tema carriera, i contributi teorici della psicologia del ciclo di vita,
sono volti a comprendere come le persone integrano il lavoro nelle loro vite e come lo sviluppo
si nutra anche dell’esperienza di crescita professionale. Nelle prime sue formulazioni della
teoria, negli anni ’60, Super concepisce la carriera come un processo decisionale che porta a
scelte professionali che rappresentano l’attivazione di un concetto di sé relativo alla
professione. Poiché il concetto di sé cambia a seguito delle varie interazioni con le situazioni, la
carriera si sviluppa mediante scelte che si avvicinano all’integrazione tra sé e l’ambiente
lavorativo. Negli anni ’80 la teoria di Super si evoluta ampliando lo sguardo al corso della vita
nel suo insieme –prima e dopo la carriera lavorativa- e all’articolazione dei diversi ruoli sociali
che un individuo ricopre.
2 dimensioni della vita:
• Dimensione life-pan (arco di vita) che denota le diverse tappe di sviluppo nel corso della
vita;
• Dimensione life-space (spazio di vita) che denota i diversi ruoli assunti dall’individuo nel
corso dell’esistenza (bambino, studente, lavoratore ecc.).
La maturità di carriera di un individuo dipenderà dalla sua capacità di realizzare un
compromesso tra i diversi ruoli che ricopre, tra i diversi concetti di sé, le diverse realtà con
cui si confronta, tra i compiti di sviluppo che ci si aspetta da lui e le risorse cognitive e
affettive a sua disposizione per affrontarli.
Le transizioni biografiche e professionali. Negli anni ’80 al modello stadiale subentra una
visione dello sviluppo meno lineare che rappresenta la vita come una “traiettoria” non
legata ad un valore progressivo. La configurazione della traiettoria dipende dagli eventi e
dai momenti di rottura che il soggetto incontra nel corso della vita e dalle risposte individuali
a quegli eventi.
Per quanto concerne le transizioni professionali o di carriera, esse sono state studiate
focalizzando inizialmente l’attenzione sui tipi di transizione, fasi e modalità di
fronteggiamento delle stesse, quindi sull’intreccio tra le transizioni professionali e il resto
della vita.
La prima transizione studiata è stata quella dell’ingresso in una nuova situazione lavorativa,
poi Nicholson ha proposto un “ciclo di transizione” per l’analisi di ogni transizione lavorativa
4 fasi: 1) la fase preparatoria che precede l’assunzione di ruolo ed è caratterizzata da
preoccupazione e aspettative irrealistiche; 2) la fase di “incontro” che vede il soggetto
impegnato nell’attribuzione di significato a fronte di un vissuto di disorientamento o rifiuto;
3) la fase di aggiustamento in cui il soggetto trova il modo di svolgere il lavoro; 4) la fase di
stabilizzazione il soggetto si concentra sulla prestazione e progetta un ulteriore passaggio di
ruolo.
Sclossberg spiega le fasi dell’intero ciclo professionale e si concentra anche sulle transizioni
intrapsichiche: le transizioni lavorative o di carriera possono avere un impatto sugli altri
ambiti dell’esistenza e sulla vita delle persone con le quali si entra in contatto.
L’approccio sviluppo-contesto. Von Dracek e coll. hanno focalizzato il loro interesse sul
percorso che conduce l’adolescente a compiere determinate scelte professionali. Cioè
hanno rivolto l’attenzione alle cause antecedenti l’ingresso nel mondo del lavoro. Von
Draceck riprende i livelli del modello di Bronfenbrenner:
• Il microsistema (i contesti più prossimi all’individuo): la famiglia è un microsistema
fondamentale in quanto la formazione delle intenzioni future circa il lavoro è influenzata
sia dalle caratteristiche strutturali, materiali e fisiche della famiglia, sia dalla qualità delle
relazioni parentali.
• Il mesositema (interazioni tra microsistemi): simultanea appartenenza a diversi contesti
(famiglia, lavoro, scuola)
• Esosistemi: sono i contesti ambientali a cui l’individuo non partecipa direttamente o
continuativamente come il mercato del lavoro, ma che influenzano lo sviluppo
professionali.
• Macrosistema: sono il sistema socioeconomico e i quadri ideologici che sostengono le
diverse culture. Questi influenzano le scelte professionali attraverso le rappresentazioni
sociali delle professioni.
Lo sviluppo resta un contesto dotato di plasticità perché il soggetto dà forma al suo mondo e
allo stesso tempo risponde alle richieste ambientali.
Il costruttivismo e il socio-costruzionismo. Il costruttivismo si interessa alla costruzione del
mondo psichico e sociale attraverso i processi cognitivi individuali e intrapsichici. Anche se il sé
e i processi cognitivi si formano nelle relazioni sociali, il costruttivismo presta poca attenzione
alle interazioni sociali e si concentra se come l’individuo costruisce il proprio sé e dà significato
alla propria esperienza attraverso lo spazio, il tempo e i contesti. L’approccio costruttivistico si è
concentrato sul “significato” della carriera e la narrazione la forma in cui quel significato si
esprime e può essere colto. Attraverso la narrazione gli individui danno senso alle loro carriere.
Il sociocostruzionismo, invece, sostiene che il mondo psichico e sociale siano costruiti nelle
interazioni sociali e nelle pratiche discorsive. La conoscenza che il soggetto ha di sé e del
mondo è sostenuta dai processi sociali. La carriera è quindi il processo della cultura (per
esempio i maschi non vogliono fare lavori “da donna”).
Il sociocognitivismo. La teoria sociocognitiva applicata allo studio delle carriere risale agli anni
’80 con Hacjett e Betz e agli anni ’90 con Lent, Brown e Hackett. Questi contributi descrivono un
soggetto attivo nel raggiungimento degli obiettivi e analizzano la relazione tra soggettività e
condotte di orientamento. Hackett e Betz furono i primi ad applicare la teoria sociocognitiva di
Bondura (che considera comportamento, ambiente e persona i 3 fattori che contribuiscono allo
sviluppo psiologico) ponendo l’enfasi sul ruolo della self-efficacy (autoefficacia) che gioca nelle
decisioni e scelte di carriera (l’autoefficacia è il sapere di “essere in grado”).
Lent, Brown e Hackett hanno utilizzato il costrutto di self-efficacy come componente centrale
della loro social-cognitive career theory (SCCT). La SCCT cerca di comprendere il processo
attraverso cui:
• Il percorso di carriere si sviluppa
• Le scelte di carriera sono portate avanti
• Le prestazioni lavorative sono realizzate.
Questa teoria è stata realizzata con successo per comprendere e predire le scelte di carriera
lavorativa, le aspirazioni manageriali e le scelte scolastiche degli studenti delle superiori e
universitari. La SCCT evidenzia come la self-efficacy, le aspettative, le credenze circa i propri
risultati e l’intenzione di portare avanti gli obiettivi interagiscono con il contesto socio-culturale
e le variabili personali per predire gli interessi e il percorso di carriera scolastica e lavorativa. I
termini “barriere” e “supporti” indicano i fattori ambientali che possono influenzare i tratti
cognitivi e possono rappresentare opportunità o vincoli nelle proprie esperienze.
Il buon adattamento tra persona e ambiente. L’assunto implicito della teoria di Holland è che le
scelte di carriera sono espressione della personalità individuale e che le persone che operano in
un medesimo contesto professionale hanno strutture di personalità simili. Holland descrive 6 tipi
di personalità (realistica, artistica, intellettuale ecc.) che rispecchiamo i diversi interessi
professionali. Ogni individuo non corrisponde ad un tipo “puro”, ma può avere un tipo
dominante e tipi secondari. Anche gli ambienti di lavoro possono essere caratterizzati da uno o
più dei 6 tipi poiché raggrupperà persone selezionate con la stessa struttura di personalità e
quindi le persone, allo stesso tempo, scelgono quegli ambienti in cui possono coltivare i loro
interessi.
La teoria di adattamento al lavoro (TWA) di Dawis e Lofquist. A differenza della teoria di Holland
che si concentra sul momento della scelta professionale, la TWA è maggiormente interessata ai
processi di adattamento dell’individuo sul posto di lavoro. Il soggetto cerca una relazione
armoniosa tra le proprie esigenze e il proprio ambiente di lavoro. Questa corrispondenza si
realizza su 2 registri: 1) il registro delle attività, cioè l’insieme delle capacità che l’individuo
possiede; 2) il registro dei valori, cioè l’insieme dei bisogni di cui l’individuo è portatore.
• La corrispondenza tra le abilità possedute e quelle richieste genera la soddisfazione
organizzativa, sulla base della quale gli individui possono essere promossi, trasferiti o
licenziati.
• La corrispondenza tra i valori dell’individuo e le risposte dell’organizzazione genera la
soddisfazione individuale sulla base della quale gli individuo decideranno se restare o
licenziarsi.
Se l’incongruenza supera una certa soglia l’individuo potrà attivare 2 strategie: modificare
le condizioni ambientali o modificare se stesso.
(La perseveranza è il costrutto che descrive quanto a lungo un individuo, dopo aver notato
l’incongruenza si cimenta in strategie di adattamento prima di cambiare la situazione
lavorativa).
Le ancore di carriera. Schein descrive la carriera come un processo di socializzazione
caratterizzato dall’influenza reciproca e dalla continua negoziazione tra individuo e
organizzazione. La carriera è un elemento della relazione individuo-organizzazione.
Van Maanen e Schein elaborano il concetto di “ancore di carriera”: sono un insieme di
autopercezioni basate sui successi lavorativi, sull’autovalutazione e sul feedback di terzi che
l’individuo ha rispetto a talenti, motivazioni, bisogni, valori e interessi basati sull’incontro tra
sé e l’organizzazione e che guidano e determinano le decisioni relative al percorso di
carriera. Le ancore di carriera evolvono attraverso il processo di sviluppo della carriera in cui
l’individuo sperimenta e consolida, attraverso l’esperienza, i suoi talenti, bisogni e valori
(Schein: 5 ancore + 3 aggiunte da De Long: es. competenza manageriale, competenza
tecnica, identità…).
Nuovi scenari e nuove sfide.
Con i cambiamenti culturali, tecnologici e demografici sono stati modificate le organizzazioni
e, quindi, i percorsi di carriera (sviluppo, direzione e esiti). Questo scenario ha portato alla
necessità di ridefinire il concetto di carriera. Tradizionalmente, la carriera era vista e
descritta come una progressione lineare di responsabilità lavorative che si svolgeva
all’interno di pochi contesti organizzativi. Oggi la carriera è considerata nella sua
complessità dinamica e evoluzione non lineare in cui gioca un ruolo fondamentale l’influenza
reciproca tra individuo ed organizzazione.
In questo scenario si colloca la carriera boundaryless (senza confini) come struttura che
caratterizza le nuove organizzazioni. Un elemento distintivo delle carriere senza confine è la
capacità di adattamento, intesa come abilità a rispondere in modo efficace ai cambiamenti
che generano nuove opportunità professionali. Si può parlare di boundaryless career in
termini di “successo psicologico” con riferimento agli obiettivi personali raggiunti
dall’individuo piuttosto che a quelli convenzionalmente imposti da terzi (genitori,
organizzazioni, società ecc.). Per consolidare il successo psicologico gli individui devono
trovare il senso dei loro cambiamenti di lavoro ed integrare la varietà delle esperienze
affinché il percorso di carriera non appaia priva di senso. Protean career è un termine
associato a quello di boundaryless career e il termine protean deriva da Proteo, divinità del
mare in grado di cambiare forma a piacere. La carriera proteiforme può assumere diversi
aspetti.

CAP.9 I RISCHI PSICOSOCIALI

Lavoro e benessere.
Nel passato veniva analizzato lo studio dei fattori di rischio di tipi fisico, chimico e biologico sui
lavoratori per quanto riguarda il rapporto tra lavoro e benessere. Solo di recente l’attenzione si
è spostata sulle variabili che possono incidere sul benessere psicologico, come lo stress
occupazionale, il fenomeno del mobbing e la sindrome del burnout. Questo è dovuto al fatto che
è cambiato il concetto di salute, in quanto non si intende più solo quella fisica, ma anche quella
psicologica e sociale.
La prima spinta in questa direzione è stata quella degli studi di Mayo, che dimostrò l’influenza
della dimensione psicosociale sui comportamenti lavorativi e affrontò gli effetti sul benessere
psicologico del contesto sociale e organizzativo.
Negli anni ’80 l’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha definito il concetto di “rischio
psicosociale” come l’insieme delle interazioni fra le variabili riferibili da una parte al contenuto,
alla gestione e all’organizzazione del lavoro; dall’altra alle competenze e alle esigenze dei
lavoratori.
Si sviluppa l’idea che le persone che “si sentono bene”, oltre ad avere benefici in termini di
longevità e salute, lavorano anche in modo più produttivo, incrementando il livello complessivo
di “benessere organizzativo”.
Raymond e coll. hanno proposto una nuova materia interdisciplinare, denominata “psicologia
della salute organizzativa”, finalizzata allo studio degli aspetti organizzativi orientati al
miglioramento del benessere fisico, psicologico e sociale delle persone. Tale filone di studi
propone di intervenire sulle aree organizzative disfunzionali, promuovendo il benessere
psicologico nei luoghi di lavoro e pone l’attenzione su 3 fattori di rischio psicosociali quali:
stress, mobbing e burnout. Lo stress occupazionale.
Principali modelli teorici. Il termine stress ha un’origine etimologica legata all’ambito
ingegneristico, in quanto faceva riferimento agli effetti subiti dai materiali metallurgici
sottoposti a forte pressione.
• Il primo studioso ad aver applicato il concetto di stress agli esseri viventi è stato Hans
Selye che ideò l’approccio response-based in cui lo stress viene identificato nella risposta
fisiologica aspecifica manifestata dall’organismo nei confronti di diverse tipologie di
stimoli ambientali (modello poco valido in quanto si focalizza esclusivamente sulle
risposte manifestate dall’organismo)
• Il modello successivo, definito stimulus-based è basato sugli stimoli prendenti nel luogo
di lavoro (è un approccio limitato alla descrizione di una sola componente del fenomeno,
quella riferita alle caratteristiche del luogo di lavoro)
• L’approccio “interattivo” pone il focus sull’interazione tra stimoli ambientali e risposte
individuali (parzialmente inadeguato)
• Il più attuale moderno modello sullo stress è quello “transazionale” (Lazarus) che
suggerisce come lo stress sia il risultato di un processo constane e continuo di scambio
di interazione tra individuo e ambiente. Vengono prese in considerazione le
caratteristiche individuali e gli stili di coping. Le valutazione cognitive attuate dai
soggetti relativamente alle richieste ambientali sono suddivise in 2 tipologie: (1)
valutazione primaria –> gli individui cercano di attribuire un significato alla situazione e
valutano ciò che per loro è sostenibile in termini di risorse personali; (2) valutazione
secondaria -> riguarda la percezione del soggetto di possedere o meno le strategie di
coping adatte ad affrontare la situazione avversa.
(stress= intero processo transazionale; stressor= le situazioni stimolo; strain=le risposte
fisiologiche, psicologiche e comportamentali agli stressor)
Stressor organizzativi. Stressor principali: eccessivo rumore, temperature insostenibili,
esposizione a vibrazioni elevate, scarsa illuminazione e turni di lavoro prolungati soprattutto se
distribuiti nelle fasce orarie notturne (-> quest’ultimo è maggiormente presente nei Paesi
sviluppati a causa un’alterazione dei ritmi circadiani e interferisce con la vita familiare e
sociale). Altri stressor:
1. Ambiguità di ruolo -> mancanza specificità del proprio lavoro
2. Conflitto di ruolo -> generato da richieste incompatibili all’interno dello stesso ruolo o
alla presenza di differenti ruoli ricoperti dallo stesso individuo
3. Sovraccarico lavorativo -> se è di tipo “quantitativo” genera insoddisfazione, se è
“qualitativo” genera abbassamento dell’autostima, della soddisfazione e della
motivazione
4. Scarsa qualità delle relazioni interpersonali sul luogo di lavoro può determinare reazioni
psicologiche negative
5. Stile di leadership è una possibile fonte di strain per i lavoratori, in particolare una
leadership esclusivamente orientata al compito o eccessivamente punitiva o un
atteggiamento passivo da parte del leader.
Supporto sociale: la presenza di una rete funzionale di supporto sociale all’interno
dell’organizzazione sarebbe in grado di alleviare la percezione di strain da parte dei lavoratori.
Conseguenze. Le conseguenze sul singolo lavoratore dello stress occupazionale coinvolgono il
piano fisiologico, psicologico e comportamentale:
• Piano fisiologico -> l’esposizione protratta agli stressor può alterare il normale
funzionamento del sistema cardiovascolare che comporta aumento della pressione
sanguigna e di livello ematico di colesterolo, sino all’insorgenza di patologie cardiache.
• Piano psicologico -> i sintomi associati allo stress sono: insoddisfazione lavorativa, ansia
e disturbi dell’umore
• Piano comportamentale -> lo strain può determinare abuso di sostane e incremento di
azioni sociali negative
Gli esiti dello stress occupazionale possono influenzare l’intero sistema organizzativo:
diminuzione dei profitti dovuta al calo della produttività, costi supplementari derivanti dalla
sostituzione di macchinari danneggiati a seguito di incidenti e la perdita di clienti/utenti dovuta
alla diminuzione della qualità dei servizi erogati.
Variabili in grado di moderare la relazione stressor-strain. Lo studio dello stress occupazionale si
occupa della valutazione delle variabili disposizionali, situazionali e sociali che possono
esercitare una relazione stressor-strain.
Le variabili disposizionali o individuali includono l’analisi dei modelli comportamentali di tipo A
(include le caratteristiche di personalità quali competitività, ambizione, pressione temporale,
aggressività, rabbia e ostilità -> ultime 2 possono condurre a significativi aumenti di stress),
l’affettività negativa (bassa autostima e stati emotivi negativi, per questo sono più inclini a
concentrarsi sugli aspetti negativi di sì e dell’ambiente circostante e a sperimentare alti livelli di
strain), autostima e autoefficacia (alti livelli di autoefficacia personale correlano con riduzione
delle conseguenze negative dello stress. Alti livelli di autostima sono più reattivi agli stimoli
esterni), percezione di controllo sugli eventi (mantiene uno stati di benessere e stimola il senso
di autoefficacia. Le modalità di espressione del controllo sono collegate agli stili di coping:
coping focalizzato sul problema – strategie per affrontare le difficoltà ambientali, coping
focalizzato sulle emozioni – sforzi messi in atto per limitare il disturbo emotivo.
Supporto sociale modera la relazione stressor-strain, soprattutto se fornito dai superiori.
Valutazione. La maggior parte delle attuali ricerche finalizzate alla comprensione dello stress
occupazionale considerano il fenomeno in un’ottica transazionale, fondata sull’idea di
adattamento dinamico tra persona e ambiente. Tale modello è diffuso e accettato a livello
teorico, ma a livello pratico di privilegia il modello interattivo dello stress -> considera le
componenti del processo come costrutti statici, non esaminano il fenomeno nel suo insieme e
viene accentuato il ruolo passivo dell’individuo rispetto alle fonti di stress.
La prospettiva transazionale comporta l’indagine di un numero elevato di variabili, aspetto che
rende questa metodologia poco economica.
La ricerca sullo stress in ambito organizzativo ha privilegiato l’utilizzo di strumenti self-report,
quindi misurazioni di tipo soggettivo che valutano il significato psicologico attribuito
dall’individuo all’esposizione agli eventi ambientali. Le misurazioni obiettive, che misura i
parametri fisiologici, potrebbero spiegare maggiormente la reale esperienza di stress.
Interventi. Gli interventi finalizzati alla prevenzione e alla riduzione dei livelli di stress
occupazionale possono essere classificati all’interno delle seguenti 3 categorie: primari,
secondari e terziari.
• Gli interventi primari hanno lo scopo di ridurre il più possibile gli agenti in grado di
sollecitare risposte di stress attraverso azioni quali la riprogettazione delle attività
lavorative, la ristrutturazione dei ruoli e l’instaurazione di un clima organizzativo
orientato alla cooperazione tra colleghi. Sono interventi che richiedono un costo elevato
ma permettono di ottenere i risultati migliori.
• Gli interventi secondari soni rivolti agli individui con lo scopo di modificare le reazioni
verso gli stressor occupazionali (es. tecniche di rilassamento e biofeedback) hanno un
costo limitato e sono efficaci a breve termine.
• Interventi terziari sono indirizzati alla cura e alla riabilitazione del lavoratore che
manifesta effetti derivanti dallo stress, prevedono professionisti specializzati nel
trattamento dei sintomi da stress.
Le organizzazioni privilegiano gli interventi secondari e terziari, mentre i più efficaci sono i
primari. Il mobbing.
Caratteristiche principali. Il mobbing si verifica quando una persona, nel contesto lavorativo, è
continuamente oggetto di azioni sociali negative da parte di uno o più aggressori, con la
conseguenza per la vittima di sviluppare disturbi psicosomatici e dell’umore, e in alcuni casi
anche danno alla salute psicofisica. I principali modelli relativi al fenomeno sono quello di
Leyman (che descrive 4 fasi del fenomeno: conflitto quotidiano, inizio del mobbing, errori e
abusi da parte dell’ente Risorse umane e esclusione dal mondo del lavoro) e quello di Ege che
aggiunge al modello di Leymann una pre-fase definita “condizione zero”, che indica la presenza
di quello stato di conflittualità tipica del nostro Paese (è una condizione caratterizzata
dall’intenzione di predominare sugli altri).
Metodologie di valutazione. 3 metodi di ricerca sul mobbing:
• Metodi interni -> focalizzati sull’autopercezione del fenomeno (questionari, interviste)
• Metodi esterni -> riferiti al contesto e prevede la regolare osservazione del lavoratore nel
suo ambiente di lavoro e la raccolta di informazioni ottenute attraverso interviste o
questionari proposti ai colleghi, infine registrazioni audio o video o consultazione di
documentazione riservata.
• Metodi integrati -> che si avvalgono sia di metodi interni che esterni.
Vengono privilegiati i metodi di autovalutazione. Lo strumento italiano per la valutazione del
mobbing è il Questionario di Autopercezione del Mobbing, finalizzato alla misurazione delle
percezioni soggettive riferite alle caratteristiche del contesto lavorativo e alle percezioni
personali connesse alla situazione di lavoro.
Antecedenti individuali, sociali e organizzativi. 3 ipotesi esplicative sulle cause del mobbing:
• Ipotesi disposizionale -> sarebbero le caratteristiche di personalità della vittima e
dell’aggressore la principale cause del fenomeno. Il mobber presenta instabilità
dell’autostima, eccessiva invidia e debole competenza sociale. La vittima ha bassi livelli
di autostima e d’assertività; fattori che limitano le capacità difensive.
• Ipotesi sociale -> in base alla quale le dinamiche del gruppo di lavoro possono influire
sulla natura, la forma e la frequenza del mobbing
• Ipotesi situazionale -> fondata sulla convinzione che le determinanti della violenza
psicologica in ambito professionale siano da rintracciare in una scorretta organizzazione
delle attività lavorative.
Conseguenze. L’esposizione prolungata a comportamenti aggressivi di natura psicologica
comporta anche una serie di effetti negativi a livello organizzativo; il mobbing può portare a
fenomeni di assenteismo, turover, diminuzione della produttività eventuali spese di tipo legale.
Interventi. Gli interventi sono a livello individuale, di gruppo e organizzativo:
• Interventi a livello individuale: hanno maggiore di successo se realizzati nelle fasi iniziali
del fenomeno (valutazioni diagnostiche precoci e impostare brevi terapie di supporto
psicologico o forme di counseling)
• Interventi a livello di gruppo: utilizza, per gestire il conflitto, l’identificazione e la
mediazione delle situazioni critiche. Un’altra strategia di intervento è il mobbing group
che consiste in un training specifico finalizzato a favorire l’acquisizione di competenze di
gestione dei conflitti.
• A livello organizzativo ci si pongono obiettivi come l’istituzione di chiare politiche
antimobbing, valutazioni periodiche dei fattori di rischio, promozione di attività di
informazione sul fenomeno.

Il bunout.
Introduzione. In letteratura vi sono 2 orientamenti di studio che identificano il fenomeno
come una “situazione di processo”:
• Le definizioni di stato si focalizzano sui sintomi del burnout, caratterizzato da un disagio
che comprende: 1) esaurimento emotivo; 2) depersonalizzazione; 3) ridotta realizzazione
professionale e personale.
• Le definizioni di processo concepiscono il burnout come un fenomeno che si sviluppa in
diverse fasi. Edelwich e Brodsky descrivono il burnout come articolato in 4 fasi: 1)
entusiasmo idealistico- aspettative di successo e miglioramento del proprio status; 2)
stagnazione- l’operatore si rende conto che i risultati del suo impegno sono incerti; 3)
frustrazione – in cui predominano sentimenti di impotenza; 4) apatia – totale chiusura in
se stessi.
La sindrome è riferibile a qualsiasi categoria professionale. Può essere considerato come un
continuum psicopatologico che si snoda lungo un asse che da una condizione di stress positivo
porta a condizioni disadattative (di stress) attraversando aree marginali / disturbo
dell’adattamento.
Cause di insorgenza del burnout. Nella genesi della sindrome da burnout sono implicati fattori
individuali e organizzativi che interagiscono tra loro:
• Fattori individuali: l’insorgenza e gli effetti del burnout possono essere modulati da
aspetti individuali: le persone rispondono in maniera diversa alle situazioni stressanti.
• Fattori organizzativi 3 aree in cui si esplicano le condizioni di lavoro significative per il
problema: 1) ruoli lavorativi, ossia la distribuzione dei compiti e degli impieghi che se
incompatibili con le capacità e i valori degli operatori faciliterebbero in loro un
atteggiamento di ritiro; 2) la struttura di potere, che riguarda i processi decisionali e di
controllo nell’ambito lavorativo. In particolare, una struttura gerarchica di potere può
causare burnout poiché riduce la libertà di espressione e limita la possibilità di controllo
sugli eventi lavorativi; 3) il clima relazionale dell’organizzazione, cioè la qualità dei
rapporti all’interno del gruppo di lavoro, che incide sulla capacità di tollerare e affrontare
il disagio.
Conseguenze del burnout. Conseguenze in 3 ambiti:
• Personale: il burnout si manifesta attraverso somatizzazioni, dispersione di risorse,
frustrazione e sottoutilizzo di capacità personali;
• Interpersonale: il contatto con soggetti in uno stato di burnout può risultare frustrante,
inefficace e dannoso.
• Organizzativo: le conseguenze del burnout possono compromettere la qualità delle
prestazioni, con diminuzioni della soddisfazione dei clienti/utenti.
Valutazione del burnout. Negli anni ’80 sono stati sviluppati alcuni strumenti di misura del
burnout, tra questi il “Malasch Burnout Inventory (MBI) che si fonda sull’ipotesi che il
burnout sia una sindrome da stress cronico caratterizzata da 3 dimensioni: esaurimento
emotivo, depersonalizzazione e ridotto senso di riuscita personale e che sia caratteristico
delle professioni a intenso contatto con clienti e utenti. Attualmente il burnout lavorativo non
è concepito esclusivamente in riferimento alle professioni che richiedono un contatto diretto
con utenti. Recentemente è stato sviluppato un altro strumento di misura del burnout:
l’Organizational Checkup System (OCS) che rappresenta un’evoluzione rispetto all’MBI per 3
ragioni: 1) il concetto del burnout viene esteso a tutte le attività professionali; 2) la
misurazione non si limita alla fase diagnostica iniziale; 3) rivolge la propria attenzione non
solo all’individuo, ma anche all’organizzazione nel suo complesso.
Il burnout si contrappone all’engagement, cioè uno stato di spiccata attivazione energetica,
forte senso di coinvolgimento e percezione di alti livelli di efficacia personale. L’OCS è un
questionario composto da 68 item con modalità di risposta su scala Likert, finalizzato alla
misurazione di: le 3 dimensioni del burnout, le aree della vita lavorativa, la percezione dei
soggetti riguardo ai cambiamenti avvenuti nell’organizzazione, i processi di gestione
presenti nell’organizzazione (leadership, sviluppo delle competenze e coesione di gruppo).
Interventi. Gli interventi sono riferibili a 3 livelli:
• Livello individuale per prevenire il burnout è richiesta una revisione dei sistemi di
reclutamento, inserimento lavorativo e formazione, che dovrebbero basarsi in analisi
delle motivazioni e delle caratteristiche personali. Una volta inserito nell’organizzazione,
il lavoratore dovrebbe essere gestito con una supervisione orientata al potenziamento
delle sue risorse individuali, per sviluppare la capacità di affrontare efficacemente le
eventuali situazioni problematiche. Ci dovrebbero essere programmi di assistenza
attraverso interventi di counseling e di formazione alla gestione dello stress, in grado di
sviluppare motivazione, autostima e autoefficacia.
• Interventi di tipo sociale emerge di grande rilevanza il ruolo svolto dal sistema delle
relazioni interpersonali e dal sostegno sociale nel fornire adeguata prevenzione del
disagio e dell’insorgenza del burnout.
• A livello organizzativo non si può prescindere da un’analisi dell’organizzazione e dal
prendere in considerazione gli stili di management, il funzionamento dei gruppi di lavoro,
le caratteristiche del clima interno e della cultura organizzativa.

Conclusioni. Il lavoratore oggi è chiamato a investire una crescente quota di energie nell’attività
che svolge, questo perché c’è una maggiore competizione e concorrenza fra le organizzazioni.
Per questo motivo a un decremento della patologia da lavoro tradizionale a eziologia
monofattoriale (esposizione a polveri, fumi, gas e vapori) si accompagna un significativo
aumento delle patologie da lavoro aspecifiche aventi un’origine multifattoriale. La ricerca e gli
interventi nell’ambito della prevenzione dei rischi psicosociali nei luoghi di lavoro dovrebbero
muoversi non esclusivamente nella direzione della prevenzione del malessere, bensì in quella
più completa della promozione dei fattori in grado di incrementare il benessere, l’efficacia e la
soddisfazione delle persone.

CAP. 10 I VALORI PERSONALI IN AMBITO LAVORATIVO

Specialmente nell’attuale cultura occidentale, i comportamenti individuali e collettivi sono


orientati sempre meno da valori ritenuti oggettivi, permanenti, veri, riconosciuti tali dalla
ragione o dalla fede, e sempre più dalle opinabili differenze, dalla soggettiva attribuzione di
valori a determinati fini o scopi che si intende raggiungere. L’oscillazione tra valori eteronomi
della nostra tradizione e i valori che autonomamente la società post-moderna si pone, influenza
la concezione che oggi abbiamo per i valori.
Costrutto di valore: significato e storia.
Principali riferimenti concettuali prodotti dalle discipline psicologiche sul tema “valori”:
- valori come credenza. La concezione di valore come “credenza”, viene sviluppata da Allport e
presuppone l’assunto secondo cui le persone agiscono in base alla preferenza verso qualcosa.
Nello studio di Allport, Vernon e Lindsey vengono individuate le tipologie secondo cui ogni
genere di comportamento privato e sociale può essere categorizzato come:
• Teorico (orientato alla ricerca della verità)
• Economico (orientato all’utilità)
• Estetico (orientato alla bellezza)
• Sociale (orientato agli altri)
• Politico (orientato al potere)
• Religioso (orientato alla trascendenza).
Secondo tale approccio le persone posseggono in diversa misura i singoli valori e il profilo che
ne emerge può essere utilizzato per comprendere le scelte che quotidianamente il soggetto
compie. I valori vengono qui intesi come elementi stabili e tra loro distinti. Poi c’è stata
l’evoluzione a una concezione del valore secondo la quale gli individui creano proprie gerarchie
di valori, personali e flessibili (è stata facilitata da Rokeach).
Distinzione tra valori e alcuni costrutti ad essi affini:
• Valori e atteggiamenti: i valori sono delle determinanti degli atteggiamenti. Il valore
trascende le situazioni contingenti, mentre l’atteggiamento si riferisce all’organizzazione
di molte credenze nei confronti di uno specifico oggetto o situazione.
• Valori e norme sociale: le norme sociali si riferiscono ai modi di comportarsi in specifiche
situazioni e vi si aderisce col consenso; i valori sono personali, più interni e trascendono
le situazioni.
• Valori e bisogni: i bisogni possono essere non espressi, o negati, ma lo stesso non può
accadere per i valori.
• Valori e tratti: i tratti sono considerati una caratteristica umana piuttosto stabile e non
soggetta a modificazioni, mentre i valori possono essere sia mutevoli che stabili.
• Valori e interessi: gli interessi sono una manifestazione dei valori e ne mantengono
alcune caratteristiche.
• Sistemi di valori e orientamenti valoriali: l’orientamento valoriale viene descritto tramite
la presenza/assenza di alcuni specifici fattori, mentre il sistema dei valori implica il loro
posizionamento lungo il continuum tra 2 poli costituiti dai valori rispettivamente finali e
strumentali. Attraverso lo strumento “Valve Survey” (Rokeach) vengono misurati e
descritti 2 sistemi di valori: 1) il sistema dei valori finali (composto da vita confortevole,
vita eccitante, senso di realizzazione, libertà, finalità, sicurezza ecc.), 2)il sistema dei
valori strumentali (fa riferimento all’essere ambizioso, tollerante, allegro, coraggioso,
utile, onesto, gentile ecc.). secondo tale formulazione teorica gli antecedenti dei valori
personali sono rintracciabili nella cultura, nella società, nelle istituzioni e nella
personalità, mentre le conseguenze dei valori si manifestano in fenomeni osservabili nel
comportamento.
• Valori come obiettivi. Donald Super delinea una concezione secondo la quale i valori
vengono intesi non più come sistemi di credenze o preferenze, ma come scopi che il
soggetto intende raggiungere. Questo autore definisce il valore come uno scopo
ricercato, un obiettivo, una relazione o una condizione materiale che una persona cerca
di conseguire.
• Valori come stati desiderabili. Secondo Schwartz i valori sono “stati desiderabili, obiettivi,
scopi o comportamenti (…) che sono applicati come standard normativi per giudicare e
scegliere tra modi alternativi di comportamento” che si strutturano in relazioni
conflittuali. La conflittualità in cui si rintracciano e differenti valori riguardano i bisogni
dell’esistenza umana: la natura della relazione tra individuo e gruppo, i comportamenti
accettati per il mantenimento del tessuto sociale e la relazione tra genere umano e,
natura e il mondo sociale. Attraverso 2 tensioni bipolari (1. aperura al cambiamento
versus conservatorismo, 2. autoaffermazione vs. autotrascendenza) vengono evidenziate
le principali dimensioni della conflittualità psicologica o sociale:
1) accentramento sul sé e stimolazione contro conformismo, tradizione e sicurezza; 2)
universalismo e benevolenza contro successo e potere; 3) edonismo contro
conformismo e tradizione.
Le 2 dimensioni bipolari e l’insieme dei conflitti permettono a Schwartz di individuare “10
tipi motivazionali di valori” (potere, successo, sicurezza ecc.) rappresentazione grafica:
Valori e valori lavorativi.

Modelli di relazione tra valori e valori lavorativi. La letteratura distingue tra valori
generali e valori riguardanti alcuni specifici ambiti della vita (come i valori lavorativi). Vi
sono diverse posizioni riguardo la relazione tra valori generali e valori lavorativi:
• Valori lavorativi come indipendenti. Tale approccio porta a descrivere i valori come una
specifica area all’interno dei valori generali, rilevabile e misurabile mantenendo la
struttura relativa alla modalità e al focus. Le 3 sfaccettature che distinguono i valori
sono: 1) la modalità alcuni valori (materiale) hanno dirette conseguenze pratiche, altri
(affettivi) riguardano l’espressione dei sentimenti ecc.; 2) il focus l’attenzione di alcuni
valori (concentrati) può essere dedicata a un tema specifico, mentre quella di altri
(diffusi) può riferirsi a un ambito più generale; 3) le aree della vita permette di
distinguere tra l’area specifica del lavoro e quella più ampia della vita in generale.
• Valori lavorativi come origine. La concezione che i valori lavorativi siano la fonte dello
sviluppo di altri valori è vicina ai modelli dell’acculturazione psicologica e della
socializzazione organizzativa. L’acculturazione psicologica si riferisce al cambiamento
che gli individui attivano nel loro comportamento manifesto e nei tratti interiori quando si
trovano a vivere un’esperienza collettiva (quindi i valori lavorativi vengono appresi
attraverso l’esperienza professionale). Gli elementi della socializzazione organizzativa
che gli individui apprendono come prezzo dell’appartenenza riguardano valori, norme,
modelli di comportamento che è necessario che siano assimilati da tutti i membri
dell’organizzazione. (Dunque, l’adozione dei valori lavorativi può modificare la struttura
generale dei valori posseduti dagli individui).
• Valori lavorativi come interrelati. Roe e Ester propongono un modello in cui sono presenti
3 livelli corrispondenti alla società (il Paese), al gruppo (professionale, demografico ecc.)
e all’individuo. In ogni livello vi sono legami tra valori generali, lavorativi e l’attività
lavorativa. Il modello prevede anche una serie di connessioni tra gli elementi
corrispondenti ai 3 livelli. Questo modello permette di descrivere tutte le variabili che
entrano in campo quando si studiano i valori e i valori lavorativi.

• Valori lavorativi come correlati. La ricerca internazionale Meaning og Work (MOW) ha


permesso di delineare la centralità del lavoro nella vita delle persone (l’indice di
centralità del lavoro). Secondo Schwartz il peso che il lavoro ha nella vita delle persone
è correlato positivamente in quelle società in cui i valori di supremazia e di gerarchia
sono l’espressione dei valori generali nel contesto dell’ambiente lavorativo.
• Orientamenti valoriali e tipi. Il progetto internazionale, denominato WIS, nasce alla fine
degli anni ’70 ad opera di Donald Super. I paesi coinvolti sono: Australia, Belgio, Canada,
Croazia, Israele, Italia, Giappone, Polonia, Portogallo, Sud Africa e Stati Uniti. Gli obiettivi
del progetto sono: 1) comprendere l’importanza che il ruolo lavorativo ha nella vita delle
persone, in relazione agli altri ruoli della vita; 2) rilevare a cosa giovani e adulti
danno importanza (cioè aquali valori intendono realizzare) in tali ruoli. Il “modello
gerarchico della rilevanza del lavoro” viene definito per lo studio dell’importanza
attribuita al ruolo lavorativo. Committent (coinvolgimento emotivo), partecipazione
(tempo effettivo e impegno) e conoscenza sono considerati fondamentali: una loro
combinazione è presente in ogni uolo della vita. L’involvement, l’interest e l’engagement
costituiscono il secondo livello e sono generati dalla combinazione di committent,
partecipazione e conoscenza. Infine, l’importanza del ruolo lavorativo è dato dalla
combinazone di Involvement, interest ed enagement.

Per quanto riguarda lo studio dei valori lavorativi, vi sono 2 ridultatiprodotti dalla ricerca WIS: 5
orientamenti valoriali e 6 tipi valoriali.
I 5 orientamenti valoriali spiegano le differenze tra singoli soggetti e/o diversi gruppi: 1)
orientamento materialistico concezione utilitaristica del lavoro (valori correlati: guadagni,
prestigio, autorità); 2) orientamento al sé concezione del lavoro come mezzo di
autoespressione (valori correlati: supporto personale, raggiungimento risultati, creatività ecc.);
3) orientamento agli altri mette in evidenza l’importanza del lavoro come strumento di
relazione (valori correlati: altruismo, interazione sociale, attività fisica ecc.); 4)orientamento
all’indipendenza sottolinea l’importanza data all’indipendenza e all’autonomia (valori correlati:
stile di vita, sviluppo personale ecc.); 5)orientamento alla sfida fa riferimento alla competizione
(valori correlati: rischio, autorità, attività fisica ecc.).
I 6 tipi valoriali corrispondono a 6 gruppi di soggetti definiti dalla cluster analisys (il cretivo, il
tranquillo, rampante, il duro, il battitore libero e il sociale). Ciascun gruppo si distingue dagli
altri perché dà più importanza a certi valori rispetto ad altri.

Valori ruoli e ambiti lavorativi.

Valori e culture organizzative. È importante per ciascuna organizzazione coniugare i valori della
propria cultura con i valori personali dei collaboratori, in quanto la performance individuale e
collettiva è migliore quando i soggetti condividono gli stessi valori. Nella società post-moderna,
il venir meno di un fondamento stabile dei valori comporta il riconoscimento di diverse
soggettività. Weick definisce “mancanza di confini” la situazione in cui l’organizzazione è
scarsamente strutturata e gli obiettivi poco chiari, per cui si crea un ambiente molto più
favorevole all’effetto dei valori individuali sui comportamenti lavorativi.
Valori e ruoli lavorativi. 1)Influenza dei propri valori sul comportamento agito dai soggetti
nell’esercizio del proprio ruolo i valori dei manager influenzano le scelte che essi prendono:
coloro che privilegiamo valori filantropici tendono a dare maggiore importanza ai risultati di tipo
sociale e politica per es. 2)Corrispondenza tra valori e scelta dei ruoli lavorativi nelle
organizzazioni, gli orientamenti al sé e all’indipendenza risultano espressi dai dirigenti e, in
maniera progressivamente decrescente, da impiegati e operai. I giornalisti sono mossi dai valori
dell’onestà, dell’imparzialità ecc.
Strumenti di misurazione dei valori. Sono attività di orientamento, di selezione, di valutazione
delpotenziale, del counseling. Tra gli inventari: es. WIS.
Aspetti critici e prospettive. È tutt’ora aperta la questione se convenga cercare di integrare i
differenti approcci allo studio dei valori, considerandoli complementari, oppure se convenga
conformarsi alle metodologie di impianto quantitativo. Da qualche tempo si sta delineando la
psicologia del lavoro come una psicologia diversa da quella che studia il comportamento e la
razionalità umana.

CAP. 11 EVOLUZIONE DI PROFESSIONALITA’ E TIPOLOGIE LAVORATIVE

Scenari dell’evoluzione professionale e tipologie lavorative.


Il ciclo di vita del mondo del lavoro può essere articolato in 6 fasi che possono essere
considerate o come rappresentazioni di specifiche epoche storiche o come rappresentazioni dei
modelli di cultura.
1. Primi del novecento, primo dopoguerra: fase espansiva del ciclo produttivo (soprattutto
nel settore privato) il modello di cultura professionale è di tipo protoindustriale e
arcaico. Le sfide lavorative sono connesse alla quantità della produzione e non vi sono
modelli di professionalità specialistici.
2. Secondo dopoguerra, l’azione dell’impresa pubblica: fase espansiva del ciclo dei servizi
(soprattutto nel settore pubblico) il modello di cultura professionale è quello del posto
fisso, cioè dell’attività lavorativa gestita dall’imprenditore pubblico. lo stato, le province,
le regioni diventano enti di offerta lavorativa per tipologie professionali in risposta alla
classe media in espansione.
3. Boom economico (1960-75), l’azione dell’impresa privata: fase espansiva del ciclo
privato (sviluppo domanda /offerta) l’industria privata si espande per qualità ed è ricca
di innovazione (made in Italy). La manodopera è sempre più qualificata e specializzata.
Le aziende si espandono per progettazione, produzione e distribuzione su target specifici
di domanda/offerta.
4. Processi di innovazione e declino produttivo e competitivo privato: fase del grane
cambiamento (delocalizzazione industriale del sistema produttivo e competitivo privato)
si assiste a un rapido declino delle concentrazioni industriali private e a una
delocalizzazione degli impianti produttivi nei paesi dell’est europeo o paesi asiatici. I
sistemi produttivi industriali si orientano in 2 direzioni: sistemi produttivi fortemente
sottoposti a innovazione di prodotto, di gestione e marketing e sistemi produttivi
sottoposti a declino e marginalità di prodotto e di gestione.
5. Fase della transizione del sistema produttivo pubblico (aziendalizzazione e
privatizzazione del sistema burocratico pubblico) dal 1990 a oggi nelle aziende
pubbliche che si occupano del terziario viene introdotto un orientamento al lavoro per
obiettivi, controlli dell’efficienza e dell’efficacia e monitoraggio dei sistemi di qualità,
sicurezza e benessere lavorativo.
6. Processi di transizione del concept di lavoro, professionalità autonome, lavoro intangibile,
transizione a nuove contrattualità, pacchetto Treu 1997 e legge 30/2004 (dal 1997 a
oggi); fase post-moderna, post-globalizzazione, ricerca dello sviluppo sostenibile, della
de-materializzazione dell’impresa, del network di rete, della grande flessibilità/
precarietà.

Le contraddizioni e le opportunità dell’evoluzione di professionalità.


La psicologia del lavoro ha, nella transizione dell’ultimo secolo, favorito l’affermazione
dell’attività di impresa come un sistema in costante movimento. La transizione ha consentito di
razionalizzare le contraddizioni del passato e del presente, che, una volta superate, offrono
nuove opportunità nell’evoluzione di professionalità: il contesto competitivo pone alle risorse
umane sfide profonde mai avvertite prima. Ecco perché l’autodiagnosi del proprio profilo
professionale diventa un metodo sistematico di self-empowerment finalizzato alla promozione,
progettazione e revisione. Il successo dell’impresa corrisponde allo sviluppo professionale delle
risorse che partecipano al suo ciclo di crescita, ecco perché la progettazione del miglioramento
professionale delle risorse umane è leva strategica per il successo in un contesto di
empowerment costante.
La comunità di pratica.
Nel contesto della psicologia del lavoro applicata ai contesti professionali, si è diffusa la
prospettiva delle comunità di pratica, cioè gruppi di persone che condividono un interesse e
approfondiscono la questione mediante interazioni continue. Attraverso le attività della
comunità di pratica si costituisce un repertorio condiviso di risorse, si elaborano convergenti stili
di azione; è una forma di autoapprendimento delle organizzazioni. La finalità della comunità di
pratica è il miglioramento collettivo e la co-costruzione del significato tramite le competenze
individuali e collettive messe in campo.
Modelli di self-assessment e self-empowerment per l’evoluzione delle professionalità. Al
fine di favorire nel soggetto un efficace processo di consapevolezza di sé sia sui temi di
autovalutazione sia di autoarricchimento professionale, sono stati ideate procedure di
selfassessment e self-empowerment, ovvero training di sviluppo professionale.
Transizioni legislative, evoluzione di professionalità e tipologie lavorative.
Le trasformazioni avvenute nell’ultimo decennio, che sinteticamente vengono chiamate
pacchetto Treu e legge Bianchi, configurano una serie di vantaggi e criticità sullo scenario
dell’evoluzione di professionalità e rispetto alle tipologie lavorative che da questa nuova
legislazione si affacciano sul mercato del lavoro.
Vantaggi:
• Adeguamento degli standard italiani a quelli europei
• Maggiore flessibilità contrattuale nel rapporto tra domanda e offerta di lavoro
• Tutele per i lavoratori flessibili
• Più opportunità di ingresso per le donne lavoratrici ecc.
Criticità:
• Inapplicabilità di alcuni istituti per inadeguatezza dell’organizzazione aziandale
• Ritardo nello sviluppo culturale di patti sociali tra i soggetti coinvolti (impresa, sindacato
e lavoratori)
• Mancata conoscenza dei dispositivi legislativi e diffidenza verso le sue applicazioni da
parte del sistema sociolavorativo ecc.
Qualifiche e comunità di pratica: attualità e prospettive dei modelli di qualificazione
professionale.
Nell’attuale scenario italiano dello sviluppo delle professioni, possiamo individuare profonde
trasformazioni in tema di politiche di lavoro che, attraverso il pacchetto Treu e l’applicazione
della legge Biagi, ha visto l’introduzione di nuove tipologie contrattuali. Questa innovazione
legislativa ha assecondato e promosso una relazione più flessibile relativamente alle necessità
dei sistemi economici e del mercato del lavoro nella relazione tra domanda e offerta. Questi
presupposti possono essere ricondotti ad un progressivo sviluppo dell’economia nel settore
terziario, all’emergere di nuovi sistemi di progettazione, distribuzione e consumo incentrati sulla
flessibilità e sulla qualità del processo e del prodotto, nonché all’utilizzazione di tecnologie
informatiche applicate ai settori del marketing management e della segmentazione dei
comportamenti di consumo. Tali trasformazioni accelerano il processo di diffusione di nuove
figure professionali e modificano il concetto di qualifica professionale (Si intende il
raggiungimento di uno standard di conoscenza, abilità e competenze, relativamente a una
figura professionale). L’ambito della qualifica professionale è un concetto ancora inadeguato ed
è stato proposto, al suo posto, il concetto di comunità professionali o comunità di pratica.
Qualifiche e offerta formativa.
I progetti di sviluppo professionale necessitano di prevedere adeguati interventi formativi, in
particolare rispetto al sistema di istruzione e di formazione professionale. Si tratta di percorsi di
specializzazione coerenti ai titoli conseguiti e definiscono un ciclo dello sviluppo professionale
continuo.
L’impianto o offerta formativa corrisponde ai livelli previsti dall’European Credit Transfert
System (ECTS), cioè un sistema europeo di accumulazione e trasferimento dei crediti incentrato
sul soggetto e basato sul carico di lavoro richiesto per raggiungere gli obiettivi di un corso di
studio (obiettivi espressi in termini di risultati di apprendimento e di competenze da acquisire).
La prospettiva europea in tema di evoluzione professionale.
Negli ultimi anni, l’aspetto che più degli altri ha interessato il contesto nazionale e europeo è
quello relativo alla mobilità dei cittadini. In tale prospettiva i Paesi e le Istituzioni europee hanno
individuato e messo a punto politiche e strategie volte ad offrire ai cittadini strumenti e servizi
per valorizzare il patrimonio di esperienze e conoscenze, e favorire la mobilità geografica e
professionale. Si è giunti all’adozione di un “quadro unico per la trasparenza delle competenze e
delle qualifiche” denominato Europass. L’Europass raccoglie 5 dispositivi europei:
• Curriculum vitae
• Portfolio delle lingue (comprendente il panorama della conoscenza delle lingue)
• Supplemento al diploma (attestato del termine di corsi di studi del corso universitario o
di istruzione superiore)
• Europass-mobilità (consente alla persona di presentare le competenze che ha acquisito
durante singole esperienze all’estero)
• Supplemento del certificato (permette di chiarire le competenze maturate a seguito di
uno specifico percorso di formazione professionale)
Questi strumenti si propongono di rendere più chiare e trasparenti le competenze acquisite e
quindi dovrebbero facilitare la mobilità nell’occupazione, sia tra i Paesi sia tra i settori.
Aspetti psicologici, psicosociali e organizzativi del lavoro che cambia: prospettive di ricerca e
nuova contrattualistica.
Viviamo il passaggio da un’economia di scala caratterizzata dalla presenza di grandi imprese
con manodopera stabile e con garanzie e tutele sindacali verso un’economia della
flessibilità, caratterizzata da aziende-rete con rapporti contrattuali diversificati. La relazione
domanda/offerta nel mercato del lavoro non è più posizionata sulla polarità stabilità/
precarietà, ma su un continuum tra stabilità/flessibilità/precarietà. Le imprese rispondono
alla competizione globale con un processo di ristrutturazione per adattarsi alle necessità
mobili dei mercati e investono in innovazione tecnologica, di prodotto e di servizio. Il
rapporto domanda/offerta tende a distinguersi in 2 tipologie di soggetti:
• Soggetti forti sul mercato del lavoro mostrano elevata qualificazione tecnica,
sperimentano facilmente diverse forme di lavoro atipico, scelgono forme flessibili come
occasione di continuo sviluppo professionale.
• Soggetti deboli sul mercato del lavoro vivono la flessibilità come una minaccia, il lavoro
è pensato nelle forme tradizionali della stabilità e della sicurezza, apprezzano la
continuità normativa e contrattuale.
Tipologie di cambiamento in atto nella contrattualistica:
• Il part-time è un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato o indeterminato e
si caratterizza per un orario inferiore all’orario di lavoro normale.
• Lavoro a progetto permette al lavoratore di partecipare alla realizzazione di uno o più
progetti specifici.
• Lavoro a chiamata un lavoratore si mette a disposizione di un datore di lavoro che può
utilizzare la sua prestazione lavorativa in modo discontinuo o intermittente, con
antecedente chiamata al lavoratore che dovrà essere rintracciabile con un preavviso non
inferiore ad un giorno lavorativo
• Appalto si applica quando il commissario (committente) chiede a un imprenditore
(appaltatore) servizi o prodotti in cambio di remunerazione. Il committente intervenire
sulle modalità operative dell’appaltatore. ecc.

CAP.12 LA COVIVENZA ORGANIZZATIVA

Perché occuparsi do convivenza


Il XII congresso europeo di psicologia del lavoro e delle organizzazioni (2005) è stato
dedicato al tema della convivenza nelle organizzazioni e nella società-
Il costrutto di convivenza.
Il termine convivenza fa riferimento al “vivere con”, al processo di condivisione di
un’esperienza esistenziale per un cero periodo di tempo ed entro uno spazio comune
definito. Il concetto è articolato in funzione di 3 diversi livelli di relazione sociale:
• Affettivo le relazioni di convivenza riguardano i rapporti nell’ambito della famiglia di
origine, le relazioni di coppia ecc. gli studi sulla convivenza affettiva affrontano il tema
delle relazioni tra genitori e figli, le motivazioni del successo/fallimento delle relazioni di
coppia ecc.
• Sociale le relazioni di convivenza riguardano l’ambito della società civile. Gli studi sulla
convivenza civile si occupano soprattutto dell’incontro tra diverse etnie, culture,
orientamenti politici.
• Organizzativo le relazioni di convivenza riguardano i rapporti all’interni di un luogo di
lavoro. Gli studi si concentrano per es. su alcune questioni specifiche di discriminazione
all’interno della comunità lavorativa a causa delle differenze soggettive. La convivenza
organizzativa.
E’ stata descritta come quel “vivere insieme” che si realizza nei luoghi di lavoro. La
convivenza organizzativa negli ultimi anni è mutata poiché si è dimostrato fragile il concetto
di gerarchia come strumento di governo della convivenza. Sulla base dei dati raccolti, i
soggetti quando pensano alla convivenza all’interno di contesti di lavoro, fanno riferimento
alla tolleranza e al perseguimento di obiettivi comuni. Considerano importanti il rispetto
reciproco, la capacità di accettare opinioni e idee diverse dalla propria e la capacità di
collaborare per il perseguimento di obiettivi comuni.
La ricerca intervento sulla convivenza organizzativa.
Si suggerisce la somministrazione di questionari, dopo una precedente definizione degli
scopi della ricerca, terminata la compilazione c’è uno spazio di debreefing, a chiusura
dell’esperienza e che fornisce ulteriori informazioni. I dati possono essere analizzati sia in
riferimento all’intera organizzazione, sia riguardo a specifiche aree. La lettura dei dati ha lo
scopo di produrre conoscenza sull’organizzazione, individuando punti di forza della
convivenza organizzativa e possibili aree di miglioramento.
CAP. 13 LA PSICOLOGIA DELL’IMPRENDITORIALITA’

L’imprenditorialità è uno stato mentale (qualità individuale), un processo volto a creare e


sviluppare l’attività economica. L’ Europa deve promuovere lo spirito imprenditoriale.
L’imprenditorialità è un fattore di crescita economica, concorrenzialità e creazione di posti di
lavoro.
La ricerca psicologica sull’imprenditorialità.
La ricerca psicologica sull’imprenditorialità ha mostrato che ci sono cause multiple alla base
della nascita e dello sviluppo di imprese personali, interpersonali, organizzative e
socioeconomiche. L’imprenditorialità è un fattore umano. Riguarda la visione, l’intenzione e
l’azione per trasformare idee imprenditoriali in prodotti e servizi, in imprese.
La ricerca psicologica sull’imprenditorialità ha concentrato l’attenzione originaria allo studio
della personalità e delle motivazioni dell’imprenditore.
La ricerca sull’imprenditorialità sta mostrando che ci sono variabili complesse (personali,
organizzative, culturali e socioeconomiche) che interagiscono tra loro e che contribuiscono alla
creazione e allo sviluppo di imprese. Si va delineando una più chiara visione del processo
imprenditoriale che prende l’avvio dalla generazione di un’idea imprenditoriale, alla costruzione
di un’intenzione, alla successiva trasformazione dell’idea in un progetto alla creazione
dell’impresa fino alla sua gestione e sviluppo.
Intenzione e la scelta imprenditoriali.
L’intenzione e la scelta imprenditoriale considerata come una delle condizioni essenziali, e
come una fase del processo, fondamentale alla creazione e allo sviluppo di nuove imprese. I
più significativi modelli sulle intenzioni imprenditoriali, che si propongono come obiettivo
principale di delineare, comprendere e spiegare come si creino le intenzioni a intraprendere,
quali siano i fattori che le determinano e in quali condizioni possano condurre un’azione
imprenditoriale.
• Il modello sulle aspirazioni imprenditoriali di Scott e Twomey. Si prefigge di individuare i
fattori che determinano la nascita delle aspirazioni individuali, una fase ancora
precedente alla nascita dell’intenzione. I fattori, considerati avere un impatto prioritario
sull’evoluzione delle preferenze professionali, sono classificati in 2 gruppi: (1) i fattori di
predisposizione -> come la percezione della propria realtà, la personalità che si sviluppa
negli anni, le esperienze lavorative, l’esperienza personale ecc.; (2) i fattori scatenanti >
come la ricerca di un’occupazione, l’esperienza, lo stato della disoccupazione ecc. a
questi 2 gruppi di fattori deve aggiungersi il fattore della precisa idea imprenditoriale, la
chiave per far emergere le aspirazioni per una carriera imprenditoriale. Le persone
possono sviluppare un’aspirazione per un’attività imprenditoriale causata direttamente
da fattori predisposizionali o scatenanti, oppure tali fattori favoriscono la nascita di
un’idea imprenditoriale. L’idea imprenditoriale può influire sulla nascita di aspirazioni
imprenditoriali ma anche fornire una spinta indipendente verso l’imprenditorialità. I 3
fattori agiscono sia singolarmente che congiuntamente nel formare le aspirazioni di
carriera.
• Il modello dell’intenzionalità imprenditoriale si fonda sul fatto che l’intenzione
imprenditoriale viene considerata come la determinante fondamentale per l’avvio e lo
sviluppo dell’attività imprenditoriale.
Il modello dell’intenzionalità imprenditoriale di Bird prendo lo spunto dalla
considerazione che esistono complesse relazioni tra le idee imprenditoriali e i
conseguenti risultati di implementazione e realizzazione di queste idee. Secondo questo
modello la formulazione dell’intenzione emerge dall’interazione di fattori personali e
ambientali con 2 tipologie di pensiero: analitico-relazionale e olistico-intuitivo. Il processo
intenzionale origina dai bisogni personali, dai valori, dai desideri, dalle credenze e dalle
abitudini dell’aspirante imprenditore.
• Il modello sull’autoefficacia e sulle intenzioni imprenditoriali di Boyd e Vozikis si fonda
sull’importanza attribuita ai contesti personali e sociali per lo sviluppo dell’intenzionalità
imprenditoriale. Questi autori introducono la self-efficacy (la credenza di una persona
nella sua capacità di eseguire un compito) considerata avere un ruolo nello sviluppo
delle intenzioni e delle azioni imprenditoriali. Il modello si fonda sul fatto che il
comportamento umano sia influenzato da scopi, piani, obiettivi o intenzioni che si
formano sulla percezione che gli individui hanno del loro ambiente fisico e sociale, come
anche sulle anticipazioni dei risultati futuri dei loro comportamenti. le intenzioni si
trasformano in azioni solo in presenza di una autoefficacia elevata rispetto alle richieste.
I modelli teorici si fondano su un approccio interazionista che vede nell’incontro e
nell’interazione di differenti fattori la più probabile origine del comportamento imprenditoriale.
L’approccio della personalità nell’imprenditorialità.
A partire dagli anni 60, molti ricercatori hanno cercato di individuare quei tratti di personalità
che caratterizzano gli imprenditori cercando di tracciare un profilo.
Sono state delineate caratteristiche imprenditoriali significative: bisogno di realizzazione, locus
of control interno, tendenza alla creatività e moderata propensione al rischio.
Sono state associate, all’imprenditore, moltissime caratteristiche, tanto che Gartner afferma che
l’imprenditore può essere considerato un “everyman” considerando le sue molte descrizioni.
L’approccio del processo imprenditoriale.
Esistono differenti modelli che cercano di descrivere e spiegare il processo imprenditoriale, ma
la maggior parte si concentra su 3 aspetti: 1) tutti i modelli convergono sulle principali fasi del
processo; 2) i modelli di processo sono convergenti sulle maggiori categorie di variabili che
giocano un ruolo in ciascuna fase del processo imprenditoriale; 3) gli attuali modelli di processo
imprenditoriale concordano sul fatto che l’importanza di specifiche variabili è relativa e fluttua
attraverso le fasi del processo.
Il processo imprenditoriale non ha un inizio chiaro e definito poiché l’idea di avviare una nuova
impresa e assumere il ruolo di imprenditore spesso si sviluppa gradualmente nella mente e
nelle azioni di un individuo così da rendere difficile una sia identificazione precisa nel tempo. Si
può dividere il processo in 3 fasi: pre-lancio (comprende le attività svolrte prima della creazione
della nuova impresa), lancio o start up (comprende le attività di avvio della nuova impresa) e il
post-lancio (comprende le attività che si svolgono dopo un periodo di start-up). La suddivisione
in fasi non deve indurre a pensare che possano essere definiti chiaramente i limiti tra le varie
fasi e che in ciascuna di esse si possano individuare le specifiche attività, poiché molte di
queste ultime iniziano in una fase e si sviluppano nelle altre.
Il processo imprenditoriale implica un’ampia gamma di attività, eseguite lungo un periodo
esteso di tempo, determinate da una moltitudine di variabili. L’insieme delle variabili può essere
raccolto nelle 3 consolidate categorie: livello individuale, interpersonale o di gruppo e livello del
contesto sociale.

Potrebbero piacerti anche