Sei sulla pagina 1di 164

L’ATTACCO DI HAMAS E LA

REAZIONE DI ISRAELE
Contesto e storia della questione israeliano-palestinese
L'ATTACCO DI HAMAS E LA REAZIONE DI ISRAELE
Contesto e storia della questione israeliano-palestinese
Senza alcuna apparente avvisaglia, all'alba del 7 ottobre scorso dalla Striscia
di Gaza è partita una pioggia di razzi che ha colpito il sud e il centro di Israele (Tel
Aviv e Gerusalemme comprese), mentre dai territori palestinesi penetravano in terri-
torio israeliano, via aria e via mare, decine di miliziani armati di Hamas che hanno
fatto strage e preso ostaggi. A seguire, la rapida e durissima reazione dell’esercito
israeliano ancora in corso. Il bilancio delle vittime da una parte e dall'altra è già molto
pesante.
È cominciata così una nuova e imprevedibile fase nella lunga storia del con-
flitto israelo-palestinese. La comunità internazionale è preoccupata per il possibile
allargamento del conflitto, soprattutto all’Iran; la Santa Sede, in particolare, si è messa
a disposizione per la liberazione degli ostaggi israeliani e per non far dimenticare la
sorte e i diritti delle centinaia di migliaia di palestinesi in fuga da Gaza.
Mentre gli eventi sono drammaticamente in corso, al fine di offrire il conte-
sto prossimo e meno prossimo di questa nuova crisi, La Civiltà Cattolica ripropone una
lista degli articoli dedicati negli ultimi anni alla questione israelo-palestinese.

◘ Hamas e la questione palestinese (3 ottobre 2009).


◘ La questione israeliano-palestinese (19 giugno 2010).
◘ La fondazione dello Stato di Israele e il problema dei profughi palestinesi
(15 gennaio 2011).
◘ Le guerre israelo-libanesi e lo sviluppo di Hezbollah (19 febbraio 2011).
◘ La Santa sede e lo stato di Palestina (11 luglio 2015).
◘ A cinquant’anni dalla Guerra dei sei giorni (4 maggio 2017).
◘ Gerusalemme città sacra e città aperta (17 maggio 2018).
◘ Popolo di Israele, terra di Israele, Stato di Israele (17 settembre 2020).
◘ Israele e il Golfo: pace o soltanto prosperità? (15 ottobre 2020).
◘ Il conflitto Israele-Striscia di Gaza (3 giugno 2021).
◘ Ripensare la ripartizione della Palestina? (19 novembre 2022).
◘ Gli ebrei di cultura araba (4 maggio 2023).
Hamas e la questione palestinese

La letteratura storica su Hamas fa coincidere lo scoppio della


prima Intifada (8 dicembre 1987) con la fondazione, da parte dello
sceicco Ahmad Yassin, del movimento islamista, che fino ad allora
aveva rappresentato la branca palestinese, sebbene con una fisiono-
mia ideologico-politica ben precisa, del variegato mondo dei Fratelli
Musulmani1. L’implicazione propagandistica di tale coincidenza, in
realtà un poco forzata anche in sede di ricostruzione storica, consi-
steva nel far coincidere la sollevazione popolare anti-israeliana con la
decisione della fratellanza di passare alla lotta armata di liberazione.
Di fatto, la riunione che diede origine ad Hamas si svolse il giorno
successivo alla sollevazione, mentre il relativo «comunicato

1 Il movimento dei Fratelli Musulmani fu fondato in Egitto nel 1928 dall’ideo-

logo islamista H. al Banna. Esso fin dall’origine si caratterizzò come un movimento


transnazionale per cui branche della fratellanza furono costituite in diversi Paesi mu-
sulmani. La branca palestinese fu fondata nel 1945 grazie all’opera dell’allora ven-
tenne S. Ramadan, genero di al Banna e padre di due intellettuali islamici oggi molto
noti, Hani’ e Tariq Ramadan. Cfr N. Introvigne, Hamas, fondamentalismo islamico e ter-
rorismo suicida in Palestina, Torino, Elledici, 2003; F. Montessoro (ed.), Lo Stato islamico.
Teoria e prassi nel mondo contemporaneo, Milano, Guerini e Associati, 2005; G. De Rosa,
Islàm e Occidente. Un dialogo difficile ma necessario, Torino, Elledici, 2005.
4

fondativo» fu distribuito l’11 dicembre a Gaza e tre giorni dopo in Ci-


sgiordania2. In realtà lo scoppio dell’Intifada del 1987 colse di sorpresa
le organizzazioni politiche presenti sul territorio, compresa l’Organiz-
zazione per la Liberazione della Palestina (Olp) e, insieme, sia quelle
laiche o di sinistra, sia quelle islamiste si impegnarono con tutte le loro
forze nella lotta, cavalcando la protesta popolare, anche nella spe-
ranza di guadagnare il sostegno della maggioranza dei palestinesi.
La prima Intifada non fu una ribellione armata: si sviluppò dal
«basso», quasi spontaneamente, e fu preceduta da scioperi, serrate e
da proteste violente, anche se non militarizzate, contro le forze israe-
liane di occupazione. Le armi di questa prima sollevazione furono, da
parte palestinese, esclusivamente sassi, abbondanti nella regione, e
bottiglie motolov. Per questo motivo essa fu chiamata dalla stampa
internazionale filopalestinese «rivolta delle pietre». La prima Intifada
durò a fasi alterne fino al 1993, cioè fino agli accordi di Oslo tra l’Olp
e Israele, che diedero vita per la prima volta a una forma di autogo-
verno palestinese a Gaza e in Cisgiordania. Il casus belli fu offerto dalla
morte di un colono israeliano ucciso in un attentato del Jihad islamico
e dalla successiva sanguinosa reazione israeliana dell’8 dicembre (4
morti e 9 feriti). Le cause della prima Intifada furono molteplici, anche
se variamente concatenate tra loro: escalation di violenza da parte degli
occupanti, rabbia crescente dei palestinesi per le umiliazioni subite,
scontento popolare nei confronti della strategia diplomatica dell’Olp
di Arafat e altro. Secondo alcuni analisti, fino a questo momento la
strategia seguita dal partito di Arafat – che aveva assunto la leadership
politica e morale del movimento di liberazione – consisteva in una
sorta di scambio tacito con l’occupante «assenza di attivismo politico
contro lavoro»3. Infatti ogni giorno centinaia di migliaia di palestinesi
uscivano dai «territori occupati» per lavorare in Israele, dove scarseg-
giava la manodopera in settori vitali come l’edilizia e l’agricoltura.
Insomma Hamas fu fondata dai Fratelli Musulmani nel mo-
mento in cui la situazione nei territori palestinesi era diventata

2 Cfr M. Tesseler, «Intifada 1987-1992», in Encyclopedia of Palestinians, New

York, Factus on File, 2000, 182-190.


3 R. Guolo, Il fondamentalismo islamico, Roma – Bari, Laterza, 2002, 150.
5

esplosiva, e la stessa popolazione chiedeva ai dirigenti una politica


più ferma e indirizzata verso la lotta di liberazione contro l’occupa-
zione israeliana. Proprio in quel tempo tra i Fratelli Musulmani era in
atto un dibattito interno sul modo di intervenire nei confronti dell’oc-
cupazione e di quella che essi consideravano la minaccia sionista.
All’interno del movimento c’erano due tendenze diverse. La prima
premeva per una svolta politica indirizzata alla resistenza armata con-
tro l’occupante (come aveva già fatto il piccolo ma attivissimo gruppo
islamista dell’organizzazione islamista Jihad Islamico fondata nel 1980
da F. Shiqaqi, che minacciava di sottrarre membri ai Fratelli, accusati
di essere inattivi e poco efficaci sul piano politico)4, superando l’im-
postazione tradizionale del movimento, secondo il quale bisognava
innanzitutto islamizzare la società e successivamente passare alla fase
operativa. La seconda, di impronta tradizionalista, affermava al con-
trario che era compito della fratellanza preparare le generazioni alla
lotta futura. Essa sosteneva, inoltre, che nel 1967 gli eserciti arabi
erano stati sconfitti da Israele perché costituiti da musulmani tiepidi
e guidati da comandanti secolarizzati o atei; tale tendenza, più in ge-
nerale, individuava la debolezza del mondo musulmano nell’allonta-
namento dai precetti dell’islàm e nella mancata applicazione della sha-
ria da parte dei Governi. In ogni caso con lo scoppio dell’Intifada gli
esponenti della linea dura finirono per imporre il loro punto di vista
a tutto il movimento.
Nel ventennio tra il 1967 e il 1987 i Fratelli Musulmani palesti-
nesi ottennero cospicui risultati nel loro progetto di re-islamizzazione
della società palestinese; le moschee da loro dirette passarono in Ci-
sgiordania da 400 a 750, mentre nella Striscia di Gaza addirittura tri-
plicarono, passando da 200 a 600. Essi inoltre controllavano l’Univer-
sità islamica di Gaza e il Fondo islamico, costituito dalle donazioni
religiose (wafq), guadagnando affiliati sia nel mondo delle professioni

4 Questo movimento radicale si inserisce nel progetto di una rivoluzione isla-


mica globale (panislamismo); superando la divisione tra sunniti e sciiti ritiene, come
al Qaeda, che sia compito dei veri credenti combattere in ogni parte del mondo i ne-
mici dell’islàm. Esso, cioè, si prefigge di estendere il jihad oltre i confini delle aree
geopolitiche interessate. Hamas, al contrario, è un movimento su base nazionale, con
un programma di lotta diretto contro l’occupazione israeliana della Palestina in nome
dei princìpi islamici.
6

liberali sia nella piccola borghesia cittadina. Crearono, inoltre, centri


di assistenza di vario tipo (culturale, medico, di distribuzione di beni
e di servizi ecc.) capillarmente presenti in ogni parte del territorio: at-
tività queste molto apprezzate dalla popolazione palestinese e in
molti casi capaci di andare incontro alle necessità materiali e morali
della povera gente e al loro senso di impotenza e frustrazione.
Dal canto loro gli israeliani si disinteressarono dell’attività assi-
stenziale e religiosa svolta in quegli anni dalla fratellanza; anzi esse
furono guardate dagli occupanti favorevolmente, in quanto facevano
concorrenza ai Comitati giovanili controllati dai laici del partito di Fa-
tah, che in quel tempo esercitava l’egemonia politica. Sul piano poli-
tico Yassin, preoccupato che la crescita del suo movimento e delle sue
numerosissime iniziative assistenziali fossero ostacolate dagli israe-
liani, evitò appelli espliciti alla resistenza armata contro l’occupante.
La pratica visibile della fratellanza, secondo R. Guolo, era quella «neo-
tradizionalista», consistente nella reislamizzazione della società attra-
verso i princìpi dell’islàm e l’assistenza ai più bisognosi5. In ogni caso,
dopo la prima Intifada la fratellanza si «palestinizzò», facendo preva-
lere – alla luce dell’esperienza iraniana del 1979 – il messaggio di libe-
razione nazionale, anche mediante la lotta armata, su quello tradizio-
nalista di matrice religiosa.
Per capire il programma ideologico-politico di Hamas è neces-
sario esaminarne lo statuto del 18 agosto 1988. Da quella data nel mo-
vimento sono cambiate molte cose; l’assunzione di responsabilità di
governo nel 2006 ha fatto sì che alcuni princìpi contenuti nella Carta,
all’inizio ampiamente utilizzati nella propaganda, venissero successi-
vamente un poco sfumati o reinterpretati. Ancora oggi, però, tale testo
rimane un punto di riferimento imprescindibile per chi voglia com-
prendere a fondo la natura e il progetto politico di Hamas, parola che

5 «La fratellanza – scrive Guolo – mette al servizio di una popolazione che vive
in situazione di estremo disagio risorse spirituali ma anche sociali: in campo sanitario,
culturale e ricreativo. La Fratellanza gestisce, oltre ad ambulatori e ospedali, una
banca del sangue, asili, scuole, biblioteche, associazioni sportive. I servizi offerti per-
mettono di entrare in contatto con centinaia di migliaia di persone, accumulando un
capitale di stima che tornerà utile quando la fratellanza si darà un’organizzazione
politica»: R. Guolo, Il fondamentalismo islamico, cit., 1.
7

significa «fervore», ed è insieme acronimo di «movimento di resi-


stenza islamico». All’art. 2 Hamas si definisce come branca palestinese
del movimento dei Fratelli Musulmani, che è considerato una orga-
nizzazione internazionale. Di fatto in esso, quando si parla di identità
del nuovo movimento, è ripreso quasi alla lettera lo slogan della Fra-
tellanza: «Hamas – è detto all’art. 8 – ha Allah come scopo, il Profeta
come capo, il Corano come costituzione, il Jihad come metodo, e la
morte per la gloria di Allah come il più caro desiderio»6. Secondo lo
statuto la lotta per la liberazione della Palestina è obbligo religioso per
«ogni musulmano, in qualunque Paese egli viva» (art. 14), perché la
Palestina è terra sacra, «terra islamica affidata alle generazioni
dell’islàm fino al giudizio finale» (art. 11). Inoltre, recita lo stesso arti-
colo, la Palestina è terra islamica dal fiume Giordano fino al mar Me-
diterraneo, e nessuno ha il diritto «di disporre o di cedere anche un
singolo pezzo di essa»; chi lo farà ne risponderà davanti ad Allah nel
giorno del giudizio. Sulla base di questo principio, Hamas rifiuta di
partecipare a iniziative diplomatiche di pace o a conferenze interna-
zionali che implichino la creazione o il riconoscimento di due Stati
(uno ebraico, l’altro palestinese) sul sacro suolo dell’islàm. Per il fu-
turo lo statuto prevede la creazione di una società islamica in Palestina
facente parte della umma musulmana, finalmente restaurata sotto la
guida di un califfo. Alcune parti dello statuto fanno riferimento a vi-
cende storiche legate alla storia di Israele, palesemente false e prese a
prestito dai Protocolli di Sion, testo ormai screditato in Occidente, ma
considerato affidabile dagli islamisti7.
Dal punto di vista organizzativo Hamas è divisa in due rami:
uno politico, l’altro militare; quest’ultimo, sebbene goda di autono-
mia, è sottoposto alle scelte operate dall’organo politico. L’organizza-
zione armata iniziò le sue operazioni a partire dal 1988. Sino a quel
momento il Governo israeliano e l’Occidente non avevano compreso
la vera natura di Hamas e consideravano il suo braccio militare alla
stregua di una polizia interna con scopi morali-educativi. Essi

6 Le citazioni sono tratte da M. Introvigne, Hamas, fondamentalismo islamico e

terrorismo suicida in Palestina, cit., 85-124. Nell’appendice di questo testo è contenuto


lo statuto di Hamas.
7 Cfr B. Lewis, Semiti ed antisemiti, Milano, Rizzoli, 2003, 232.
8

continuavano ad attribuire ai laici dell’Olp, in particolare ad al Fatah,


il ruolo di nemico principale di Israele, sebbene Arafat nei suoi viaggi
in Europa avesse avvertito i Governi della pericolosità di Hamas e
suggerito di agire presto contro questa organizzazione islamista. Nes-
suno però, allora, prese sul serio tali affermazioni, che furono inter-
pretate come una manovra intesa ad alleggerire la pressione interna-
zionale sull’Olp. Soltanto dopo la «guerra dei coltelli», con la quale il
braccio militare di Hamas tentò di eliminare tutti gli informatori pa-
lestinesi, considerati traditori ed empi, che da anni lavoravano per i
servizi segreti israeliani di Tsahal, ci si rese conto della natura della
nuova organizzazione islamista. Israele come reazione fece arrestare
260 militanti, tra i quali i capi dell’organizzazione, Yassin e Shehadeh.
Con la partecipazione di Hamas all’Intifada la lotta per la libe-
razione della Palestina compie un salto di qualità. La direzione della
lotta non è più in mano agli shebab (che lanciano pietre), ma a capi
carismatici, convinti della bontà della causa per cui combattono. Essi
appartengono a una generazione che nei decenni precedenti è stata
«indottrinata» dai religiosi della fratellanza e ora ottengono il soste-
gno non soltanto di una parte della popolazione, beneficata in vario
modo nei centri di assistenza, ma anche dalla borghesia religiosa, dai
commercianti e da molti professionisti. Da questo momento in avanti
Hamas assume il controllo, in luogo del Jihad Islamico che non ha se-
guito popolare, della lotta armata contro l’«occupante sionista», in
una posizione di antagonismo, anche se non di lotta, con i laici
dell’Olp, considerati dagli occidentali i soli rappresentanti della causa
della liberazione della Palestina. Dallo statuto di Hamas risulta chiara
la distanza ideologica e strategica in ordine alla lotta di liberazione
che esiste tra l’organizzazione islamista e l’Olp. Mentre questo porta
avanti la propria lotta a partire da una prospettiva laica e secolarista,
mutuando dall’Occidente l’armamentario ideologico dei partiti di
stampo socialista e comunista, Hamas al contrario intende instaurare
in Palestina uno Stato islamico, fondato sulla sharia. Per l’Olp la causa
palestinese è una questione anzitutto politica e nazionale, per Hamas
essa è soprattutto un fatto religioso e, quindi, non negoziabile. Anche
la prospettiva politica concreta tra i due partiti risultò irrimediabil-
mente diversa.
9

L’Olp, sia pure tra alti e bassi, e con qualche ambiguità, accettò
a partire dall’accordo di Algeri del 1988 (al quale non parteciparono
né Hamas né il jihad) l’idea della coesistenza in Palestina di due Stati,
uno ebraico e l’altro palestinese, secondo lo spirito della Risoluzione
Onu del 1947. L’Olp accettò di costruire questo Stato, «con capitale
Gerusalemme», in Cisgiordania e a Gaza e non nel territorio della Pa-
lestina storica, occupata ormai da Israele. Nella dichiarazione, inoltre,
si parlava anche di ripudio del terrorismo in ogni sua forma, anche se
veniva difeso il diritto dei palestinesi a lottare contro l’occupazione
straniera. In tal modo l’Olp, accettando il punto di vista occidentale
sulla soluzione della questione palestinese, ebbe il sostegno dei Go-
verni e delle cancellerie occidentali e non solo di queste. Hamas, al
contrario, denunciava l’Onu come il principale strumento del com-
plotto ebraico internazionale e considerava peccaminoso acconten-
tarsi, come aveva fatto l’Olp, di qualunque soluzione che non contem-
plasse l’eliminazione dello Stato ebraico e la costituzione di uno Stato
islamico unitario dal Giordano fino al Mediterraneo. Tale prospettiva
incontrava in quel momento il sostegno di buona parte della popola-
zione palestinese. Alcuni analisti hanno comunque posto in evidenza
che le posizioni politiche di Hamas, pur tenendo fermi i princìpi sopra
esposti, erano (già prima del 2006) in qualche modo improntati a un
certo realismo politico. Lo stesso leader storico di Hamas, lo sceicco
Yassin, fece ricorso in alcune occasioni alla categoria islamica di
hudna, cioè tregua o armistizio, per giustificare un cessate il fuoco o
favorire un colloquio o un’intesa fra le parti in lotta. Una hudna è sol-
tanto un accordo per interrompere le ostilità, non un trattato di pace
che comprenda anche concessioni reciproche; essa inoltre era limitata
a un preciso periodo di tempo stabilito dai belligeranti. «Potremmo
firmare un armistizio per dieci o vent’anni – affermò Yassin nel 1993
– a condizione che Israele abbandoni senza condizioni la Cisgiorda-
nia, Gaza e Gerusalemme Est, ritorni ai confini del 1967 e lasci al po-
polo palestinese piena libertà di autodeterminarsi e decidere del suo
futuro». In effetti, è stato notato, in tale richiesta è contenuto lo spirito
degli accordi di Algeri firmati da Arafat, soltanto che una hudna non
impegna le parti come un armistizio o un accordo internazionale,
10

anche se va sottolineato che in un lasso temporale molto vasto molte


cose nella pratica possono cambiare8.

Tra processo di pace e Intifada


La crisi dell’Olp alla fine degli anni Ottanta fu dovuta non sol-
tanto a fattori interni (dichiarazione di Algeri, voci di corruzione che
coinvolsero i principali collaboratori di Arafat), ma anche a fatti
esterni, come il crollo dell’impero sovietico, che era il principale al-
leato e referente dell’Olp in ambito internazionale, e le vicende legate
alla prima guerra del Golfo. Mentre Hamas dopo l’invasione irachena
del Kuwait scelse di assumere un atteggiamento defilato e di basso
profilo, l’Olp, invece, si schierò in favore di Saddam Hussein contro
gli Stati Uniti e i suoi alleati, compresi molti Stati arabi. Con la guerra
del 1990 Arafat non solo perse i ricchi finanziamenti dei Paesi arabi
del Golfo, ma il suo prestigio internazionale fu duramente compro-
messo e fu isolato da quegli Stati che fino ad allora lo avevano soste-
nuto.
Intanto nel 1991, alla rinnovata repressione israeliana, Hamas
rispose con la fondazione dei «Battaglioni di ‘Izz al Din al Qassam»,
che rappresentò un vero salto di qualità nella strategia della lotta ar-
mata contro l’occupante. Essi all’inizio operarono soltanto a Gaza; dal
1992 sono presenti anche in Cisgiordania spostando così il centro di
attenzione della lotta armata dagli odiati collaborazionisti palestinesi
ai coloni ebrei che vivevano nei «territori», utilizzando come stru-
mento di lotta l’autobomba. Questa divenne subito il simbolo per
molti palestinesi della possibilità di continuare la lotta armata, nel mo-
mento in cui Arafat iniziava, dietro la spinta della comunità interna-
zionale, a negoziare una soluzione del problema palestinese. Gli anni
1991-92 furono cruciali nei rapporti tra israeliani e palestinesi. La vera
svolta si ebbe, però, con la vittoria del laburista Rabin alle elezioni
israeliane; questi infatti era intenzionato a portare fino in fondo il

8 Cfr M. Introvigne, Hamas, fondamentalismo islamico e terrorismo suicida in Pale-

stina, cit., 42; P. Caridi, Hamas. Che cos’è e cosa vuole il movimento radicale palestinese,
Milano, Feltrinelli, 90, 2009; A. Nusse, Muslim Palestine. The Ideology of Hamas, Am-
sterdam, Harwood Academic Publishers, 1998, 180.
11

negoziato secondo la formula «pace in cambio di terra». Le trattative,


prima segrete, si svolsero a Oslo e si conclusero con una Dichiarazione
di princìpi, che prevedeva il ritiro, secondo fasi diverse, di Israele dai
territori; la costituzione di una Autorità Nazionale Palestinese che go-
vernasse su un territorio determinato (auto-amministrazione). Allo
stesso tempo era però esclusa la proclamazione dell’indipendenza
della Palestina prima che fosse concluso interamente il processo ne-
goziale (previsto in 5 anni), che riguardava, fra l’altro, la sistemazione
dei confini, la questione degli insediamenti e lo status di Gerusa-
lemme. Si prevedeva, inoltre, lo svolgimento di libere elezioni politi-
che nei territori sottoposti all’amministrazione palestinese9.
Gli accordi di pace, come è noto, furono osteggiati in Israele
dalla destra religiosa e in Palestina soprattutto da Hamas, che assunse
la direzione del «fronte del rifiuto». Gli islamisti, però, dovevano te-
ner conto degli umori della popolazione, stanca della guerra e delle
violenze e, inoltre, non voleva perdere l’opportunità di un lavoro red-
ditizio in Israele, considerato che ogni sviluppo economico nei «terri-
tori» era stato bloccato dagli occupanti. Sul fronte militare Rabin diede
prova di forza contrastando con determinazione gli islamisti. In se-
guito ad attentati che provocarono la morte di alcuni militari israe-
liani, fu organizzata una maxi retata con la quale furono arrestati 1.600
militanti di Hamas; 415 dirigenti palestinesi nel dicembre del 1992 fu-
rono deportati nel sud del Libano. Tale fatto, come vedremo, si rivelò
poi come un vero e proprio boomerang nei confronti di Israele. Ciò in-
fatti rese possibili contatti più stretti tra i fondamentalisti sunniti pa-
lestinesi e quelli sciiti libanesi del movimento Hezbollah, che a partire
dagli inizi degli anni Ottanta avevano lanciato la nuova strategia del
terrorismo suicida. L’indignazione popolare per la deportazione,

9 Nel settembre 1993 israeliani e palestinesi raggiunsero un accordo definitivo:

questa volta Arafat riconosceva il diritto di Israele a esistere in pace e in sicurezza,


accettando le Risoluzioni dell’Onu su tale materia; prometteva, inoltre, di far cessare
l’Intifada iniziata nel 1987. L’accordo fu firmato a Washington davanti al presidente
degli Stati Uniti, Clinton; Arafat ottenne anche la liberazione di Yassin. Nel settembre
del 1995, come previsto, l’accordo detto di Oslo II, impose il ritiro dell’esercito israe-
liano dalle città palestinesi, con l’eccezione di Hebron, e l’elezione nei territori di un
«parlamentino» e di un presidente. Cfr R. Guolo, Il fondamentalismo islamico, cit., 166
s.
12

scrive Massimo Introvigne, «offre il quadro politico ed emotivo all’in-


terno del quale Hamas passa […] dagli attentati ad alto rischio per il
terrorista che li compie a quelli che escludono in via di principio la
sua sopravvivenza, i veri e propri attentati suicidi»10. Questi iniziano
ad essere utilizzati come strategia di attacco a partire dall’aprile del
1994, dopo che un colono israeliano il 25 febbraio aprì il fuoco contro
musulmani in preghiera a Hebron, uccidendone 29. Dopo tale fatto
Hamas giurò che avrebbe vendicato ogni attacco condotto dagli israe-
liani contro civili palestinesi. Per Hamas inizia l’era dei martiri suicidi.
Essi godettero subito del favore e della venerazione popolare, dando
alla lotta di liberazione nuove valenze di carattere simbolico ed emo-
zionale. Intorno alla figura del martire suicida (shahid) si sviluppò una
ritualità di carattere sacro: mai come in questo momento l’elemento
politico e quello religioso si compenetrarono e si potenziarono a vi-
cenda11.
Gli attacchi suicidi non riguardavano più soltanto i «territori»,
ma furono portati questa volta «dentro» lo Stato di Israele; ciò rappre-
sentò un fatto di enorme importanza nello sviluppo della lotta tra
israeliani e palestinesi. L’obiettivo di Hamas era di terrorizzare il ne-
mico nel suo territorio. Gli attacchi suicidi contro autobus di linea o in
altri luoghi della vita comune (discoteche, bar, ristoranti) creavano pa-
nico e paura tra la popolazione civile. Prima del 1994 le aggressioni di
Hamas erano dirette soltanto contro «obiettivi militari legittimi». La
decisione di includere anche i civili tra gli obiettivi, pur con la giusti-
ficazione di vendicare la morte di altri civili (palestinesi), è stata una
scelta significativa per la strategia del movimento islamista. Secondo
K. Hroub, «sfidando le violente rappresaglie israeliane, riassunte
nella strategia delle “eliminazioni mirate”, volte a uccidere i leader
del movimento, Hamas ha incrementato negli anni il ricorso a questo
tipo di operazione. Si è reso conto che, a scapito di una perdita dei
consensi sul piano internazionale […], questa strategia conferiva al

10 M. Introvigne, Hamas, fondamentalismo islamico e terrorismo suicida in Pale-

stina, cit., 50.


11 Cfr F. Khosrokhavar, I nuovi martiri di Allah, Milano, Bruno Mondadori,

2003, 128; G. Kepel, Jihad. Ascesa e declino, Roma, Carocci, 132, 2008.
13

movimento un’aura di forza e popolarità tra i palestinesi»12, che ve-


dono in Hamas un’organizzazione capace di opporsi con determina-
zione all’occupante. In questi anni, tale strumento di lotta è stato di-
verse volte sospeso da Hamas (concordando una tregua con i rappre-
sentati dell’Olp), soprattutto per facilitare il «processo di pace» già av-
viato e ottenere dalla controparte concessioni favorevoli ai palestinesi,
ma mai completamente abbandonato. Nel gennaio 1996 nei territori
palestinesi si svolsero le prime elezioni politiche della sua storia, alle
quali non parteciparono né Hamas né il Jihad in quanto considerate
elezioni non libere, perché imposte dai contestati accordi di Oslo di
quattro anni prima. Arafat, candidato unico, fu eletto presidente
dell’Autorità Nazionale. I movimenti islamisti, da parte loro, conti-
nuarono la loro strategia di lotta, alla quale l’esercito israeliano e i ser-
vizi segreti rispondevano con determinazione, cercando soprattutto
di eliminare i capi di tali organizzazioni «terroristiche».
La seconda Intifada scoppiò all’indomani degli incontri di
Camp David, dove i colloqui tra israeliani e palestinesi – patrocinati
dal presidente degli Stati Uniti Clinton – fallirono per l’intransigenza
mostrata in quella occasione da Arafat sulla questione di Gerusa-
lemme, sul ritorno dei profughi e su altre importanti questioni; in
realtà il leader dell’Olp non si sentiva sufficientemente appoggiato
nella sua azione e aveva timore che qualsiasi accordo fatto in quel mo-
mento con il nemico potesse scatenare tra i palestinesi una guerra ci-
vile. La seconda Intifada, scoppiata nel settembre del 2000, fu provo-
cata dalla nota «passeggiata» sulla Spianata delle Moschee dell’allora
leader del Likud, A. Sharon, il quale successivamente divenne capo
del Governo israeliano, avendo il suo partito vinto le elezioni. Essa
aveva l’intento di affermare in questo modo «stravagante» la sovra-
nità di Israele su uno dei luoghi più sacri dell’islàm. Tale fatto fu per-
cepito dai palestinesi come un atto apertamente provocatorio. Diver-
samente dalla prima, la seconda Intifada fu combattuta dai palestinesi
non con le pietre, ma con le armi da fuoco e con gli attentati suicidi.
Sullo stesso fronte si trovarono questa volta a combattere, seppure con
motivazioni e metodi diversi, sia i miliziani di al Fatah sia quelli di

12K. Hroub, Hamas, fondamentalismo islamico e terrorismo suicida in Palestina, Mi-


lano, Bruno Mondadori, 2006, 66.
14

Hamas. Da entrambe le parti la lotta fu portata avanti senza esclusione


di colpi; agli attacchi suicidi dei «martiri» di Hamas, si opposero le
cosiddette «eliminazioni mirate» dei capi delle organizzazioni «terro-
ristiche» palestinesi, condotte dagli israeliani. Il 22 marzo 2004 fu uc-
ciso (insieme ad altri nove palestinesi) da un razzo lanciato da un ve-
livolo israeliano il fondatore e leader spirituale di Hamas, Yassin,
mentre era in preghiera in una moschea di Gaza City.
Eppure negli anni precedenti egli aveva avuto un ruolo mode-
ratore all’interno del movimento: era stato lui a suggerire l’idea di una
hudna perché si raggiungesse tra le parti in lotta un accordo sul cessate
il fuoco; era stato lui a scongiurare in diversi momenti lo scoppio di
una guerra civile tra fondamentalisti religiosi e laici dell’Autorità Pa-
lestinese, con la quale, anzi, aveva stretto un «accordo di amicizia»,
impegnandosi a non combattersi a vicenda; anche se, soprattutto su
pressione israeliana, l’Olp dovette in diverse occasioni agire con pu-
gno di ferro contro le organizzazioni fondamentaliste. Per Israele,
dopo lo scoppio della seconda Intifada, era arrivato ormai il momento
di portare avanti la lotta contro Hamas con determinazione, cercando
in tutti i modi di mettere fuori gioco i capi delle milizie fondamenta-
liste. Il raggiungimento di tale obiettivo era considerato dagli israe-
liani di primario interesse sia per garantire la sicurezza dei cittadini
israeliani, sempre più impauriti dagli attacchi terroristici, sia per aiu-
tare i moderati a riprendere i colloqui di pace, ormai interrotti.

La svolta del 2006


La grande svolta per Hamas avvenne nel gennaio del 2006,
quando, inaspettatamente, esso vinse le elezioni per il rinnovo del
Consiglio legislativo dell’Autorità Nazionale Palestinese, aggiudican-
dosi oltre il 60% dei seggi nel «parlamentino». Questa vittoria portava
il movimento alla ribalta della scena internazionale: tale fatto fu vis-
suto con stupore e incredulità da parte dei Governi e delle cancellerie
occidentali, che consideravano Hamas come una semplice organizza-
zione terroristica (di fatto già dal 1993 Israele aveva fatto inserire Ha-
mas nella «lista nera» messa a punto dagli Stati Uniti e sostanzial-
mente accolta dagli alleati europei), mentre da al Fatah – il partito che
per 40 anni aveva avuto la leadership del movimento di liberazione –
15

fu avvertito come una completa disfatta della propria linea politica13.


Per chi aveva seguito da vicino le vicende di Hamas, tale vittoria in-
vece non fu una sorpresa, anzi essa fu considerata come inevitabile:
di fatto Hamas mieteva a tempo opportuno ciò che in tanti anni di
militanza dal basso aveva seminato attraverso la sua rete di moschee
e le sue numerose opere assistenziali, e veniva premiata anche per il
sostegno dato alla lotta armata per la liberazione della Palestina. I capi
dell’organizzazione, inoltre, in quegli anni di preparazione si erano
fatti la fama di «incorruttibili» e di uomini interamente dedicati alla
causa del popolo palestinese: tutto questo garantì al movimento isla-
mista l’appoggio sia degli strati meno abbienti della popolazione, sia
della borghesia urbana.
Va sottolineato che non tutti coloro che hanno votato per Hamas
devono essere considerati membri dell’organizzazione: metà dei so-
stenitori ha votato il partito islamista perché ne condivideva il pro-
gramma politico e per gli obiettivi dichiarati, mentre l’altra metà ha
voluto semplicemente esprimere un «voto di protesta» nei confronti
del partito di Governo, sia per la corruzione di alcuni suoi membri,
sia per il fallimento del processo di pace e la crescente e sempre più
intensa brutalità dell’occupazione israeliana. Questa, non va dimenti-
cato, è andata aumentando nella misura in cui intendeva rispondere
alla logica degli attacchi suicidi portati nel cuore delle città israeliane
e, negli ultimi tempi, al lancio dalla Striscia di Gaza di missili di corta
gittata, nel territorio israeliano, creando nella popolazione civile insi-
curezza e paura. Il tema della sicurezza, infatti, per Israele è diventato
negli ultimi tempi il problema più importante sotto il profilo sia

13 L’Unione Europea ha vincolato la prosecuzione del sostegno al nuovo Go-

verno palestinese a tre condizioni. 1) Hamas deve riconoscere il diritto di Israele a


esistere; 2) deve rinunciare alla lotta armata e alle azioni di terrorismo; 3) deve ap-
poggiare chiaramente il processo di pace nel Vicino Oriente in base agli accordi di
Oslo. Attualmente, a seguito di una serie di scontri con l’organizzazione rivale al Fa-
tah (praticamente allontanata da Gaza), Hamas ha assunto il controllo della sola Stri-
scia di Gaza, mentre la zona cisgiordana è tornata sotto il controllo di al Fatah, cioè di
Abu Mazen. Quest’ultimo, come presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, è di
fatto divenuto l’interlocutore ufficiale dei Paesi occidentali, pur non avendo vinto le
consultazioni elettorali del 2006, alle quali però parteciparono soltanto gli abitanti dei
«Territori» e non i milioni di profughi che vivono fuori della Palestina.
16

politico sia strategico-militare per contenere l’avanzata di Hamas e


degli altri movimenti islamisti, che dicono di avere come scopo la di-
struzione dello Stato israeliano.
Ma ci chiediamo se nella pratica Hamas sia realmente intenzio-
nato a raggiungere tale scopo. Di fatto nelle dichiarazioni fatte da Ha-
mas, dopo la sua vittoria politica, e indirizzate alla comunità interna-
zionale non si fa più accenno alla distruzione dello Stato di Israele,
sebbene non risulti che su questo punto il movimento abbia cambiato
idea; ciò, però, sta a significare che le responsabilità di governo, anche
se limitate alla sola Gaza, hanno fatto crescere nei dirigenti di Hamas
una maggiore attenzione ai meccanismi della politica internazionale
e alle necessità della realpolitik14. Un altro tema importante passato in
seconda linea, e che pure era molto presente nella letteratura fonda-
zionale del movimento, è quello della creazione dello Stato islamico e
dell’applicazione della sharia. Ma se Hamas non ha l’obiettivo di fon-
dare uno Stato islamico palestinese, allora a che cosa mira? Stando alle
sue dichiarazioni formali, il compito del movimento islamista sarebbe
quello della liberazione totale del territorio storico della Palestina. Ma
è veramente così?
Uno studioso del problema palestinese, vicino alle posizioni di
Hamas, a tale riguardo commenta: «Alla stessa stregua del sogno uto-
pistico religioso di instaurare uno Stato islamico, questo programma
di edificazione nazionale, ugualmente utopistico, tende ad essere
menzionato sempre meno nei documenti e nelle dichiarazioni del mo-
vimento. Più il tempo passa, meno Hamas sembra interessato a obiet-
tivi di lungo termine, concentrandosi invece su una strategia che per-
segua obiettivi immediati di medio termine. Durante il processo che
ha portato alla presa di potere, dopo le elezioni del 2006, Hamas ha
incentrato la propria propaganda pre e post-elettorale sul concetto
esplicito di resistenza all’occupazione israeliana, accettando esplicita-
mente, se pur con riluttanza, il principio dei due Stati. Non è stato
posto l’accento né sullo Stato ebraico, né sulla totale liberazione della
Palestina. Gli obiettivi finali sono stati in questo modo rimpiazzati con

14Cfr P. Caridi, Hamas. Che cos’è e cosa vuole il movimento radicale palestinese,
Milano, Feltrinelli, 2008, 235.
17

obiettivi a medio termine, più impellenti e più realistici»15. Tale posi-


zione, alla luce delle vicende più recenti, ci sembra piuttosto ottimi-
stica e benevola nei confronti di Hamas, anche se contiene innegabili
elementi di verità. Va infatti ricordato che, soprattutto negli ultimi
tempi, la posizione di Hamas si è andata ulteriormente irrigidendo
sotto il profilo politico-ideologico, facendo spesso appello, per tenersi
stretto il proprio fronte di consenso, alle sue idee fondazionali. Essa
negli ultimi anni ha dovuto combattere su due fronti diversi: quello
interno, cioè contro il concorrente politico di sempre (al Fatah), che ne
intralciava in tutti i modi il cammino, anche in ambito internazionale,
e quello esterno, cioè contro Israele, il quale non le riconosceva lo sta-
tus di legittimo rappresentante degli interessi palestinesi, poiché tale
organizzazione era considerata terroristica.
In conclusione, riteniamo doveroso affermare che non sembra
possibile cercare oggi una soluzione al problema palestinese, a cui sta
lavorando il presidente Obama, escludendo dal tavolo delle trattative
Hamas con tutto ciò che tale movimento rappresenta, o impegnarlo
preliminarmente, come da più parti viene sostenuto, su posizioni che
dovrà far proprie in un processo di crescita e di confronto, come è
stato in passato per l’Olp di Arafat. In ogni caso, la tesi che impegna
le parti a un riconoscimento reciproco prima di sedersi al tavolo delle
trattative, da alcuni interpreti è ritenuta opinabile: infatti nel recente
passato è stata più volte sconfessata, come è avvenuto nel dialogo in-
ter-cipriota e in quello fra le due Coree. Non sembra neppure di osta-
colo a un tavolo negoziale condiviso da tutte le parti il fatto che Ha-
mas sia registrata come organizzazione terroristica. Va ricordato in-
fatti che tale lista è stata compilata unilateralmente dagli Stati Uniti,
sebbene il suo valore sia stato riconosciuto da molti Paesi occidentali.
Essa infatti non ha un valore giuridico vincolante, ma soltanto politico
e orientativo, suscettibile di essere modificato.
In ogni caso, la sicurezza di Israele e in particolare il suo diritto
a non subire attacchi «terroristici» o suicidi sul proprio territorio na-
zionale è valore molto grande che merita il riconoscimento dovuto;

15 K. Hroub, Hamas, fondamentalismo islamico e terrorismo suicida in Palestina, cit.,


37.
18

allo stesso modo, però, anche i palestinesi hanno diritto a una loro
patria e ad essere sostenuti dalla comunità internazionale in tale giu-
sta aspirazione. Hamas, come si è detto, dovrà su questo punto fare
un passo avanti coraggioso e chiarificatore.
La questione israeliano-palestinese

Tempio di s. Giovanni Battista sul fiume Giordano (iStock/rvbox)

Sviluppo storico della tesi bistatuale


L’ipotesi di una spartizione della Palestina storica tra ebrei e pa-
lestinesi fu accolta per la prima volta in un documento ufficiale nel
luglio del 1937, quando la Commissione Peel – istituita dal Governo
inglese un anno prima per indagare le cause della rivolta araba e per
regolarizzare l’immigrazione di ebrei nel territorio palestinese – in-
dicò come soluzione del difficile problema la divisione tra le due co-
munità presenti nel territorio palestinese. I commissari, oltre ad au-
spicare al più presto, nell’interesse della Gran Bretagna, la fine del
Mandato, proposero la creazione di due Stati confinanti: uno palesti-
nese, costituito dal 75% del territorio del mandato, e l’altro, ebraico,
notevolmente più piccolo e comprendente il 20% del Paese, cioè la Ga-
lilea e una parte della costa. La Commissione, inoltre, raccomandava
che la parte araba fosse congiunta alla Transgiordania, in modo che
venisse creato, sotto il sovrano hashemita, un grande regno capace di
confrontarsi con le altre monarchie della regione. Gerusalemme e Bet-
lemme sarebbero rimaste sotto il dominio inglese.
Per esaminare tale proposta fu immediatamente convocato a
Zurigo un Congresso internazionale sionista. Esso, dopo una lunga e
contrastata discussione, decise a maggioranza di due terzi di accettare
20

il principio della spartizione: David Ben-Gurion, presidente


dell’Agenzia ebraica, e il leader del movimento Chaim Weizmann,
svolsero un ruolo importante nell’orientare i congressisti verso tale
soluzione. Proposero però di negoziare con gli inglesi la quota loro
riservata, che era ritenuta troppo esigua per accogliere un numero
considerevole di ebrei che avevano chiesto il trasferimento in quella
terra, e in ogni caso ingiustificata sul piano storico e religioso. Ricor-
diamo, inoltre, che nella relazione presentata dalla Commissione Peel
la spartizione del territorio andava di pari passo con il progetto di tra-
sferimento di popolazioni da una zona all’altra. «Siamo incoraggiati –
è scritto nel testo – dal precedente storico della dislocazione obbliga-
toria di 1.300.000 greci dall’Asia Minore alla Tessaglia e alla Macedo-
nia e di 400.000 turchi nella direzione inversa. Il tutto è stato realizzato
in 18 mesi e da allora le relazioni tra Grecia e Turchia sono miglio-
rate»1. Questa – raccomandava il testo – è la soluzione ideale, perché
non lascia minoranze che possono causare frizioni o rivolte nei nuovi
Stati. Tanto più che il numero di arabi da trasferire dalla zona control-
lata dagli ebrei – 300.000 persone – non sembrava troppo elevato.
Naturalmente non tutti i leader sionisti erano d’accordo con la
soluzione formulata a Zurigo; ad esempio, Zeev Jabotinsky sostenne
che la proposta della Commissione Peel offriva «meno di una goccia
nell’oceano delle sofferenze degli ebrei; nel mare della loro fame di
territorio». Criticò la speranza, espressa da Ben-Gurion, che il mini-
Stato ebraico potesse diventare il «Piemonte ebreo», un trampolino di
lancio per un’espansione futura. Le grandi potenze e i Paesi arabi, a
suo avviso, non avrebbero permesso la «dilatazione» dello Stato
ebraico né attraverso la guerra, né attraverso la costruzione di nuovi
insediamenti pacifici. Con il passare degli anni e con l’aumento della
conflittualità e dei casi di violenza tra le due comunità, e con l’inizio
della persecuzione degli ebrei nell’Europa nazista, la riflessione sui
trasferimenti (volontari o forzati) degli arabi dai territori controllati
dagli ebrei fece un salto di qualità: divenne una realtà non più ipote-
tica, ma attuale2.

1 Riportato in B. Morris, Due popoli una terra, Milano, Rizzoli, 2008, 67.
2 Cfr ivi, 71.
21

In ogni caso delle proposte della Commissione Peel non si fece


nulla: esse furono respinte sia dal Governo britannico sia dai leader
del mondo arabo-palestinese, che non erano disposti a dare un centi-
metro di terra islamica al nemico sionista, il quale avrebbe dovuto ri-
durre la presenza di ebrei in Palestina, bloccando le immigrazioni (ri-
tenute illegali anche dal Governo mandatario) e, quindi, accettare la
protezione di un Governo islamico, oppure affrontare una guerra di
liberazione con i Paesi arabi circostanti. Cosa che di fatto avvenne
dieci anni dopo.
Il 2 agosto 1947 il Parlamento inglese in sessione speciale, dopo
la difficile situazione creatasi nei mandati alla fine della seconda
guerra mondiale, decise di abbandonare senza ulteriori indugi la Pa-
lestina. L’amministrazione del mandato passò quindi, come già si era
convenuto nel febbraio di quell’anno, alle Nazioni Unite, la cui As-
semblea Generale nell’aprile-maggio 1947 aveva nominato una Com-
missione ad hoc per studiare la situazione, il Comitato Speciale per la
Palestina (Unscop). Il 29 novembre 1947 le Nazioni Unite, sulla base
della relazione presentata da tale Commissione, votarono a maggio-
ranza assoluta la spartizione della Palestina tra israeliani e palestinesi.
La Risoluzione n. 181 non fu però accettata dai Paesi arabi, che dife-
sero il principio della intangibilità del territorio islamico, fondato sul
diritto concesso da Allah ai palestinesi di occupare tutta la terra dal
Giordano fino al Mediterraneo. Insomma, la soluzione bistatuale (due
popoli due Stati indipendenti), proposta in ambito internazionale fin
dal 1937, alla fine si impose.
Fin dalla nascita di Israele (maggio 1948), le discussioni sulla
spartizione del territorio si sono concentrate sulla possibilità di una
coesistenza tra lo Stato di Israele, territorialmente definito (e ampliato
rispetto alla Risoluzione Onu) entro i confini stabiliti dagli accordi di
armistizio seguiti alla guerra del 1948-49, e uno Stato arabo-palesti-
nese che sarebbe dovuto sorgere nella maggior parte della Cisgiorda-
nia e sulla Striscia di Gaza. La soluzione bistatuale, a partire dalla fine
della seconda guerra mondiale, è stata privilegiata dalla comunità in-
ternazionale, in particolare dalle potenze occidentali, e negli anni pas-
sati è stata posta come base di partenza nelle trattative tra le due parti.
Il raggiungimento di tale obiettivo è ancora ufficialmente lo scopo
22

principale delle politiche sia del Governo di Israele, sia dell’Autorità


Nazionale Palestinese, guidata dal presidente Abu Mazen.
I fondamentalisti islamici, sia Hamas (che amministra la Striscia
di Gaza), sia il Jihad islamico – come anche gli Hezbollah filo-iraniani
del Libano – sostengono al contrario la vecchia tesi monostatuale, ri-
vendicando il possesso di tutta la Palestina agli arabi musulmani3;
perciò essi combattono per l’eliminazione dello Stato di Israele e per
la costituzione di un unico Stato palestinese, governato secondo i
princìpi della sharia. In realtà, tale principio, che oggi è presente nello
statuto fondativo di Hamas, fino a pochi anni fa era fissato anche nella
Carta Nazionale Palestinese; e su tale principio era stata formata, fino
agli anni Novanta, un’intera generazione di attivisti dell’Olp, che sol-
tanto a malincuore e senza troppa convinzione successivamente, per
motivi di opportunità politica, si convertirono con il loro leader Yas-
ser Arafat al principio «occidentale» del bistatualismo strategico.
Di fatto, la soluzione bistatuale, adottata nel 1947 dalla Risolu-
zione Onu numero 181 e appoggiata dalle cancellerie occidentali, fu,
come si è detto, immediatamente respinta dai Paesi arabi, principal-
mente, ma non soltanto, per motivi di carattere ideologico-religioso.
Se la sera del 14 maggio 1948, subito dopo la dichiarazione di indipen-
denza dello Stato di Israele proclamata da Ben-Gurion al museo di Tel
Aviv, il Gran Muftì di Gerusalemme, Muhammad Amin al-Husseini,
avesse rilasciato una dichiarazione simile – non importa quanto pole-
mica, ostile o critica nei confronti della Risoluzione Onu – procla-
mando l’indipendenza dello Stato palestinese, la storia del Medio
Oriente sarebbe stata molto diversa. Non avremmo, infatti, assistito a
mezzo secolo di conflitti sanguinosi e attentati terroristici che hanno
portato morte, insicurezza e povertà in quella regione e non soltanto

3 In questo articolo si parla soltanto di palestinesi musulmani, perché la per-

centuale dei palestinesi cristiani negli ultimi decenni è considerevolmente diminuita


passando dal 10% del 1947 al 4/5% di oggi. Di fatto i cristiani palestinesi lasciano la
Terra Santa dove sono vissuti da sempre (come, ad esempio, a Betlemme) ed emi-
grano in Occidente. Purtroppo le cause di tale scelta sono da addebitare sia agli ec-
cessi del fondamentalismo islamico, sia alla violenza del conflitto in atto, che crea
insicurezza soprattutto nelle minoranze e rende difficile la convivenza tra fedi e po-
polazioni diverse.
23

in essa, come ne è prova la propaganda del terrorismo transnazionale,


che strumentalizza tale conflitto per attaccare Israele e l’Occidente cri-
stiano, ritenuto suo alleato. Fatto sta che il leader religioso palestinese,
anziché reagire con realismo e pragmatismo, come fece il suo collega
israeliano, approfittando della congiuntura internazionale e dell’esi-
stenza di un pronunciamento della maggiore autorità internazionale
riconosciuta (l’Onu), si lasciò coinvolgere dalle faide interne esistenti
tra le grandi famiglie palestinesi e dai giochi politici e dagli antagoni-
smi dei Paesi arabi circostanti. Così perse un’occasione importante per
dare uno Stato ai palestinesi, o almeno per attivare le proprie rivendi-
cazioni di carattere territoriale a partire da quanto già riconosciuto in
sede internazionale. La soluzione bistatuale, come si è visto, fu uffi-
cialmente rifiutata per (apparenti) motivazioni di ordine ideologico-
religioso e a partire da tale momento la questione israelo-palestinese
si andò complicando in modo inestricabile, soprattutto in seguito alle
guerre del 1948-49 e del 1967, che rafforzarono Israele.
Parte della responsabilità, nella mancata attuazione del princi-
pio bistatuale nel lungo periodo, va però attribuita anche agli israe-
liani. Secondo lo storico Sergio Della Pergola, se la sera dell’11 giugno
1967, al termine della clamorosa vittoria israeliana sugli eserciti arabi,
la dirigenza israeliana non avesse pronunciato la fatidica frase :
«Aspettiamo una telefonata del re Hussein», intendendo con ciò la
prova del riconoscimento politico di parte araba, in cambio del quale
Israele avrebbe restituito i territori conquistati, e se quella telefonata
l’avesse fatta essa stessa, «forse i successivi 40 anni del rapporto tra
Israele e Palestina sarebbero stati meno segnati da sanguinosi avveni-
menti»4. È vero che la storia non si fa con i «se», ma gli avvenimenti
del passato, comprese le occasioni mancate, servono per comprendere
meglio il presente e, soprattutto, per non ripetere gli errori commessi.

La tesi monostatuale e i suoi critici


La tesi monostatuale, sostenuta apertamente dai fondamentali-
sti islamici, in questi ultimi anni ha guadagnato terreno tra alcuni

4S. Della Pergola, Israele e Palestina. La forza dei numeri, il conflitto mediorientale
tra demografia e politica, Bologna, il Mulino, 2007, 249.
24

studiosi e osservatori della realtà mediorientale. Tra questi troviamo


non solo alcuni politologi palestinesi, che vivono e lavorano in Occi-
dente, ma persino importanti studiosi ebrei. La prima intellettuale che
negli ultimi tempi ha inaugurato tale tendenza è stata l’attivista pale-
stinese Ghada Karmi, che vive in Gran Bretagna. Essa parla di un pro-
cesso graduale di integrazione tra i due popoli che vivono nella Pale-
stina e ipotizza che si potrebbe iniziare con una «politica formale di
binazionalismo», che «potrebbe alla fine anche spianare la strada alla
creazione di uno Stato democratico laico nella Palestina storica»5.
L’autore che ha maggiormente influito sulla messa a punto di tale tesi
è stato però il politologo palestinese (statunitense) Rashid Khalidi, il
quale nel suo volume The Iron Cage del 2006, ha delineato le caratteri-
stiche generali della questione6.
Secondo Khalidi, negli ultimi anni è cresciuta tra gli osservatori
la consapevolezza che la soluzione bistatuale, proposta dalle Nazioni
Unite con la celebre Risoluzione n. 181 del 1947, col passare degli anni
è diventata improponibile. Tale consapevolezza è maturata indipen-
dentemente dai meriti o demeriti della soluzione accennata, ma sem-
plicemente per la constatazione della sua inapplicabilità. «In questa
prospettiva – scrive il politologo palestinese – l’inesorabile consolida-
mento del controllo israeliano sui territori occupati della Cisgiordania
e di Gerusalemme Est ha reso dubbia la possibilità della creazione di
ciò che potrebbe essere legittimamente chiamato Stato palestinese, a
fianco di quello israeliano»7. Per Stato palestinese si intende uno Stato
sovrano e indipendente, in grado di funzionare su una porzione di
territorio che corrisponde a quel 22% di Palestina stabilita all’epoca
del mandato britannico e che oggi è costituito dai territori palestinesi
occupati da Israele nella guerra dei sei giorni nel 1967.
Tale stato di cose, secondo l’Autore, ha promosso una rinnovata
considerazione della vecchia teoria monostatuale, intesa o come il ri-
sultato ideale di un processo storico o come l’esito comunque più

5 G. Karmi, «Uno Stato democratico laico nella Palestina storica: un’idea per

cui tempi sono maturi?», in Al-Adab, Libano, luglio 2002.


6 Cfr R. Khalidi, The Iron Cage. The Story of the Palestinian Struggle for Statehood,

Boston, Beacon Press, 2006.


7 Ivi, 206.
25

probabile per risolvere l’intricata questione israeliano-palestinese. Al-


cuni infatti ritengono che poco alla volta ci si stia muovendo verso
una strisciante annessione de facto della Cisgiordania e di Gerusa-
lemme Est da parte dello Stato israeliano: ciò produrrà quella che a
tutti gli effetti sarà una singola entità politica, dominata da Israele ed
estesa a quasi tutta la Palestina storica, con un’approssimativa parità
demografica tra arabi e israeliani, che nel giro di poco tempo si risol-
verà a tutto vantaggio della parte araba della popolazione. «In questo
scenario, secondo alcuni, col tempo si dimostrerà impossibile mante-
nere i due popoli segregati in un’unica sottile striscia di terra, o man-
tenere questa entità sotto il dominio ebraico, proprio come alla fine
divenne impossibile mantenere il dominio bianco sul Sudafrica»8.
Khalidi, sebbene condivida l’analisi dei commentatori monostatuali-
sti, non nasconde la difficoltà di tale percorso; egli infatti ritiene che
sia gli israeliani, sia gli statunitensi non sarebbero disposti a smantel-
lare lo Stato ebraico (anche in vista della costituzione di un nuovo
Stato binazionale laico e democratico) fondato su una Risoluzione
Onu e riconosciuto dalla comunità internazionale.
La teoria monostatuale ha ripreso forza in ambito palestinese
dopo il fallimento dei negoziati di pace intrapresi nel 2000 da Arafat
e Barak, sotto la benevola protezione del presidente statunitense Bill
Clinton. Il fallimento di quegli accordi e la situazione di conflitto e di
continua provocazione che ne è derivata hanno certamente favorito
l’ala intransigente del movimento islamista. Di fatto nelle elezioni po-
litiche del gennaio 2006 Hamas ottenne la maggioranza dei suffragi:
come è noto il movimento è contrario in linea di principio a tutti gli
accordi di pace e sostiene la teoria della indivisibilità della Palestina
storica, quindi la tesi monostatuale. La vittoria dei fondamentalisti
non fu riconosciuta dalle potenze occidentali, che accordarono la loro
fiducia al partito di al-Fatah, il quale si professava favorevole alla so-
luzione bistatuale e disponibile, almeno a parole, al dialogo con la
controparte israeliana. A partire dal 2007 Hamas controlla il territorio
di Gaza, sgomberato due anni prima dagli israeliani e sottoposto
all’amministrazione indipendente palestinese.

8 Ivi, 210.
26

La tesi monostatuale, come si è detto, è stata di recente appro-


fondita da un gruppo di studiosi statunitensi, guidati dal politologo
Tony Judt. Secondo questo studioso di origine ebraica, l’idea stessa di
Stato-nazione, dopo le guerre iugoslave degli anni Novanta, è entrata
in crisi. Lo Stato ebraico, fondato dopo la seconda guerra mondiale, si
è strutturato secondo un modello tardo-ottocentesco, ormai superato
nei fatti. Almeno concettualmente, sostiene Judt, lo Stato-nazione è
morto «e l’idea stessa di uno Stato ebraico, radicata in un altro tempo
e in un altro spazio, è un anacronismo […]. In un mondo dove le na-
zioni e i popoli sono sempre più amalgamati e imparentati; dove gli
impedimenti culturali e nazionali alla comunicazione sono quasi com-
pletamente superati; dove un numero sempre crescente di noi ha mol-
teplici identità scelte da sé; in un mondo come questo, Israele è dav-
vero un disfunzionale anacronismo»9. A questa critica di tipo storico-
concettuale l’Autore ne aggiunge un’altra, ancora più incalzante, di
carattere politico. Il processo di pace israeliano-palestinese iniziato
con gli accordi di Oslo degli anni Novanta e basato sul principio della
coesistenza di due Stati per due popoli, a suo dire, è sostanzialmente
fallito a causa dell’ostruzionismo israeliano. Oggi, considerando la
realtà dei fatti, è impossibile riproporre la soluzione bistatuale, anche
perché la realtà demografica poco alla volta sta cambiando la compo-
sizione etnica del Paese. Tra due decenni tra il Giordano e il Mediter-
raneo, a dire degli esperti di demografia, ci saranno più arabi che
ebrei. In tal modo, continua Judt, per continuare a governare la Pale-
stina, gli ebrei dovranno scegliere o di espellere una parte degli arabi,
in modo da assicurare la connotazione ebraica del loro Stato-nazione,
oppure istituire un regime di apartheid, ma ciò sarebbe inconciliabile
con i valori su cui si fonda e crede la società israeliana.
Insomma, nessuna di queste due opzioni, indirizzate a conser-
vare il carattere ebraico dello Stato di Israele, ma ambedue antidemo-
cratiche, sembrerebbero praticabili. L’unica alternativa, continua pro-
vocatoriamente lo studioso, sarebbe quella di ritirarsi dai territori oc-
cupati nel 1967 (cioè la Cisgiordania) e consentire che i palestinesi co-
stituiscano un loro Stato nazionale in tale territorio. Ma ciò, afferma

9 T. Judt, «Israel: The Alternative», in New York Review of Books, 23 ottobre 2003.
27

Judt, non può accadere a motivo del numero troppo alto di insedia-
menti (sviluppatisi nel territorio a macchia di leopardo) e di coloni
ebrei (circa 400.000) che vivono in tale lembo di terra; essi infatti non
accetterebbero mai di abbandonare la terra «dei loro padri», né di vi-
vere in uno Stato arabo-palestinese, e d’altronde nessun leader israe-
liano probabilmente avrà la forza o il coraggio di riportare in patria
un numero così elevato di coloni, senza dare inizio a una guerra civile,
devastante per la sopravvivenza di Israele. Quale dovrebbe essere,
quindi, per Judt la soluzione dell’intricatissimo problema? A suo av-
viso, potrebbe consistere «nella creazione di un singolo Stato binazio-
nale integrato di ebrei e arabi, israeliani e palestinesi». Tale soluzione
sarebbe non soltanto possibile, ma anche desiderabile, perché in sin-
tonia con lo spirito dei tempi moderni. A tale riguardo, egli infatti ipo-
tizzava l’aiuto della comunità internazionale e, in particolare, degli
Stati Uniti. «Una forza internazionale potrebbe, inoltre, garantire la
sicurezza sia degli arabi sia dei palestinesi e, in ogni caso, per uno
Stato binazionale legittimamente costituito sarebbe molto più facile
sorvegliare i militanti di ogni tipo all’interno dei suoi confini»10.
Come era prevedibile, la posizione di Judt, divulgata dai suoi
allievi in varie pubblicazioni, fu fortemente criticata da molti polito-
logi, in particolare da quelli di origine israeliana. Il primo autore che
ha replicato alle audaci tesi di Judt dalle colonne della New York Re-
view of Books è stato Omer Bartov, che lo ha accusato di scrivere con la
stessa prospettiva di chi discute della delicata questione israeliano-
palestinese «in un caffè parigino o in un pub londinese». Secondo lo
studioso israeliano il modello monostatuale e binazionale proposto da
Judt sarebbe assurdo, per il semplice fatto che né gli israeliani né i
palestinesi lo vogliono; essi infatti vorrebbero abitare e governare uno
Stato proprio, fondato sulle loro tradizioni culturali e religiose. Da
parte araba, scrive Bartov, i fondamentalisti islamici considerano
l’ipotesi di condividere la sovranità con gli ebrei come una maledi-
zione, e i moderati sanno che uno Stato binazionale significherebbe
una guerra civile, che condurrebbe a un continuo spargimento di san-
gue, creando così nel giro di poco tempo una situazione insostenibile.

10 Ivi.
28

«Quella dei due Stati, forse anche separati da un’orribile muro di si-
curezza, sarebbe un’ipotesi di gran lunga migliore e auspicabile»11.
Dello stesso avviso è anche il politologo dell’Università di Prin-
ceton, Michael Walzer. «Liberare il mondo dagli Stati-nazione – scrive
provocatoriamente – è un’idea interessante, se non nuova. Ma perché
iniziare proprio da Israele? Perché non dalla Francia?»12. Il vero pro-
blema, egli prosegue, è che la tesi di Judt non si muove secondo una
prospettiva indirizzata alla costituzione di uno Stato binazionale. Essa
infatti avrebbe come effetto quello di sostituire uno Stato-nazione con
un altro, dato che in un decennio, o giù di lì, come si è detto, tra il
Giordano e il Mediterraneo ci sarebbero più arabi che ebrei, e ciò con-
durrebbe semplicemente alla costituzione di uno Stato arabo-palesti-
nese, come da sempre è nell’ambizione dei fondamentalisti islamici.
Sarebbe poi inutile, anzi dannosa, la presenza di una forza internazio-
nale di interposizione con il compito di mantenere la sicurezza. Nes-
suno Stato, inoltre, manderebbe i suoi soldati a farsi ammazzare per
una causa impossibile. La conseguenza di tale stato di cose, conclude
Walzer, sarebbe che gli israeliani, in particolare la classe media e gli
intellettuali laici, lascerebbero immediatamente la loro patria e cerche-
rebbero altrove lavoro e sicurezza.
Altri studiosi accusano Judt di essere poco realista e di porre
sullo stesso piano concetti diversi: una cosa è infatti pensare a un’al-
ternativa «per Israele», altra cosa è proporre un’alternativa «all’esi-
stenza stessa di Israele». In ogni caso, essi sostengono, chi ci assicura
che tale nuova entità statuale a maggioranza araba anziché uno Stato
democratico non si tramuti in uno Stato terrorista, come di fatto è ac-
caduto a Gaza? La prospettiva avanzata dagli ideologi monostatuali,
secondo Leon Wieseltier, è davvero sconcertante. «È davvero possi-
bile – egli si chiede – che il ritorno degli ebrei a essere un popolo senza
patria, la rivendicazione del radicalismo palestinese e l’intensificarsi

11 O. Bartov, «An Alternative Future: An Exchange», in New York Review of

Books, 4 dicembre 2003.


12 M. Walzer, in New York Review of Books, 7 dicembre 2003.
29

della violenza tra le due comunità vengano ritenuti preferibili alla


creazione di due Stati per due nazioni?»13.
Va inoltre ricordato che anche tra i sostenitori della tesi mono-
statuale ci sono diversi studiosi che non nascondono le gravi difficoltà
insite in tale soluzione sia per la parte israeliana, sia per quella pale-
stinese. Siccome tale tesi si fonda sul presupposto che lo Stato bina-
zionale debba essere democratico e laico e riconosca a tutti i cittadini
gli stessi diritti, ci si chiede se tale progetto è oggi realmente proponi-
bile alla parte araba. Infatti, scrive Virginia Tilley, oggi le preferenze
di molti arabi-palestinesi vanno verso la costituzione di «uno Stato
etnico-religioso basato sul concetto che gli arabi e i musulmani sono
la popolazione indigena del Paese, uno Stato come quello che sta
prendendo piede a Gaza». Tuttavia, ritiene la studiosa, una soluzione
monostatuale risulta inevitabile a causa delle «irreversibili azioni
espansionistiche» poste in essere in questi decenni dagli israeliani e
che hanno impedito di dare attuazione a una soluzione bistatuale
della complicata questione israeliano-palestinese. Essa però, come
molti altri studiosi, non dispera che un’autentica democrazia possa
essere poco alla volta costruita in quella terra, «gettando un ponte tra
i due popoli e le loro storie» V. Tilley, «The One-State Solution» in
London Review of Books, 6 november 2003., come nel recente passato
di fatto è avvenuto in altri Paesi.

La posizione dei nuovi storici israeliani


In ogni caso la tesi monostatuale, nelle sue diverse e a volte
acute formulazioni, a giudizio della maggior parte degli osservatori
politici e degli studiosi dei problemi mediorientali, avrebbe poche
possibilità di successo, anche perché i presupposti su cui si fonda (in-
staurazione di uno Stato democratico, fondato sul riconoscimento dei
diritti delle persone e sul principio di laicità) non sono accettati o ri-
conosciuti dalle componenti più intransigenti o militanti di entrambe
le parti. In ogni caso il problema israeliano-palestinese e la sua solu-
zione nelle attuali circostanze storiche meritano di essere analizzati

13L. Wieseltier, «Israel, Palestine, and the Return of the Bi-National Fantasy:
What is not be Done?», ivi, 27 ottobre 2003.
30

anche dal punto di vista pratico, mettendo a fuoco le soluzioni possi-


bili e quindi praticabili.
Secondo lo storico israeliano Benny Morris, uno dei maggiori
conoscitori della materia, «è un problema di scienza politica relativo
al miglior modo possibile di ordinare una società umana – o due so-
cietà umane – in un dato spazio, tenendo ben presente la demografia,
la geografia, la politica, le realtà economiche, gli aspetti culturali e così
via»14. Per Morris e secondo buona parte degli storici «revisionisti» e
degli intellettuali israeliani, la soluzione bistatuale sarebbe allo stato
dei fatti l’unica praticabile. I problemi iniziano quando si tratta di dare
contenuti specifici a tale opzione di principio. Secondo essi, ad esem-
pio, la proposta di spartizione della Palestina storica con l’assegna-
zione del 79% del territorio agli ebrei e il 21% agli arabi palestinesi
non potrebbe non lasciare negli arabi un profondo senso di delusione
e di ingiustizia, creando un senso di ribellione e di risentimento anche
nei moderati. In ogni caso, uno Stato palestinese che comprendesse la
Cisgiordania (in qualche misura mutilata al fine di tutelare i coloni
israeliani), la Striscia di Gaza e forse una parte di Gerusalemme, sa-
rebbe semplicemente un abbozzo di Stato; esso infatti non sarebbe in
grado di funzionare soprattutto sul piano economico-sociale: come fa-
rebbe uno Stato così piccolo e povero ad andare incontro alle necessità
materiali di una popolazione così numerosa, considerando, inoltre,
che molti profughi che ora vivono nelle miserabili periferie di molte
città arabe degli Stati che li accolgono verrebbero spinti (anche contro
la loro volontà) a ritornare nel loro Paese? Tale Stato, spinto da neces-
sità di ordine economico, demografico e politico, sarebbe tentato di
espandersi, creando situazioni di conflitto e di insicurezza per tutta
l’area, verso i Paesi confinanti, in particolare verso lo Stato di Israele
e la Giordania, dove circa il 70% della popolazione è di origine pale-
stinese.
Considerando tutto questo è improbabile che un accordo bista-
tuale sul modello proposto ai palestinesi nel 2000 da Barak e Clinton,
abbia la minima possibilità di funzionare, qualora un accordo simile
fosse, per necessità di cose, riproposto. Ciò nonostante – scrive lo

14 B. Morris, Due popoli una terra, cit., 27.


31

storico israeliano Zeev Sternhell – l’idea bistatuale rimane l’unica so-


lida base morale e politica per una soluzione che offra un po’ di giu-
stizia, e quindi una possibilità di pace, per entrambi i popoli. «L’ipo-
tesi di un unico Stato non soltanto porta all’eliminazione dello Stato
ebraico, ma apre la strada a conflitti sanguinosi per generazioni. Due
Paesi, fianco a fianco, fondati su uguali diritti per entrambi i popoli,
questa è la strada giusta e necessaria: ogni altra scelta condurrebbe o
al colonialismo o alla eliminazione di Israele in uno Stato binazio-
nale»15. Ma l’attuazione di tale principio, considerate le contingenze
del momento, diventa con il passare del tempo sempre più ardua.
Una possibile via per una soluzione bistatuale che potrebbe ipo-
teticamente raccogliere un vasto appoggio tra l’opinione pubblica
araba – a giudizio di Morris – sarebbe la costituzione di una «confe-
derazione di Stati mediorientali», meglio se ristretta ai soli Paesi inte-
ressati; in essa entrerebbero Israele, la Cisgiordania, la Striscia di Gaza
e la Giordania. Tale soluzione naturalmente condurrebbe a un gra-
duale ma inevitabile avvicinamento tra il popolo palestinese e quello
giordano, ponendo le basi per una futura ridefinizione dell’area anche
in termini politico-statuali. Una confederazione di questo tipo, scrive
Morris, risolverebbe molti problemi oggi sul tappeto: «Verrebbe a ri-
solvere la probabile incapacità di funzionare dello Stato palestinese
formato dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza, nonché i problemi
di una Giordania che oggi non ha sbocchi sul Mediterraneo e la cui
popolazione, come si detto, è in gran parte palestinese»16.
D’altro canto, tale progetto non è per nulla nuovo, ma più volte
– a partire dagli anni Trenta – è stato proposto da leader sia sionisti
sia palestinesi. Va però detto che tale soluzione, sebbene caldeggiata
da alcuni intellettuali israeliani, verrebbe respinta con forza da parte
dei fondamentalisti islamici (cioè da Hamas), che oggi controllano la
Striscia di Gaza e hanno un forte consenso tra la popolazione palesti-
nese nel suo complesso. Essi sono sostenitori dell’integrità e intangi-
bilità del territorio storico della Palestina e quindi non disposti ad

15 Z. Sternhell, Nascita di Israele. Miti, storia, contraddizioni, Milano, Baldini Ca-

stoldi Dalai, 2002, 43.


16 B. Morris, Due popoli una terra, cit., 195.
32

accettare l’idea di condividere tale territorio (dal fiume Giordano fino


al Mediterraneo) con gli israeliani. Insomma, nonostante gli sforzi
della diplomazia internazionale per risolvere il conflitto israeliano-pa-
lestinese, esso appare oggi ancora più complesso e aggrovigliato di
quanto non lo fosse nel recente passato. Da parte dei palestinesi, al-
meno di coloro che appoggiano la politica del presidente Mahmoud
Abbas (meglio conosciuto come Abu Mazen), e da parte dei dirigenti
israeliani, appoggiati dalla comunità internazionale, c’è ancora la vo-
lontà, nonostante i frequenti incidenti di percorso, di andare avanti
nelle trattative di pace, consapevoli che la strada da percorrere sarà
dura e in ogni caso tutta in salita.
La fondazione dello Stato di Israele
e il problema dei profughi palestinesi

Jaramana Refugee Camp, Damascus, Syria (1948)

L’ipotesi di una spartizione della Palestina tra ebrei e palestinesi


fu per la prima volta seriamente discussa e presa in considerazione
dai leader del movimento sionista nel 1936-37. Furono sostanzial-
mente due i motivi che spinsero i sionisti verso tale soluzione: le con-
tinue proteste degli arabi contro gli insediamenti ebraici in Palestina,
fortemente osteggiati per motivazioni di ordine nazionale, religioso e
culturale dai capi arabi e anche (per ragioni politico-strategiche) dai
dominatori britannici, ma soprattutto la violenza antisemita che in
quegli anni si stava acutizzando in alcuni Paesi europei, in particolare
nella Germania nazista.
I leader sionisti compresero che era necessario in quel momento
dare un «focolare nazionale» a quanti intendevano fuggire da
34

situazioni non più tollerabili, dove era messa a rischio la vita di centi-
naia di migliaia di ebrei europei, ai quali le potenze occidentali ave-
vano chiuso le porte. Da qui la loro consapevolezza della necessità di
creare uno Stato nazionale ebraico, anche in una parte soltanto del ter-
ritorio da essi occupato, lasciando così cadere l’idea, accarezzata da
ormai 50 anni, della fondazione di uno Stato ebraico nell’intera Pale-
stina storica, cioè dal Giordano fino al Mediterraneo. La maggior parte
degli attivisti del movimento sionista internazionale, dopo attente e
dolorose deliberazioni (come, ad esempio, al Congresso di Zurigo del
1937), concluse che per salvare gli ebrei europei e tutelare gli interessi
di quelli già residenti, bisognava accettare l’idea di una spartizione tra
le due comunità della Terra Santa. Dieci anni dopo, in un contesto in-
ternazionale completamente diverso, l’idea di una spartizione della
Palestina tra ebrei e palestinesi divenne una realtà ufficialmente san-
cita dalla maggiore autorità internazionale esistente: l’Assemblea Ge-
nerale delle Nazioni Unite.
Nel febbraio 1947 il Governo britannico decise di rinunciare al
mandato sulla Palestina e di lasciare alle Nazioni Unite il compito di
far fronte alla difficile situazione creatasi nel frattempo anche a causa
dei frequenti attentati condotti contro gli occupanti inglesi dall’Haga-
nah e dall’Irgun, cioè dalle organizzazioni clandestine sioniste. Parti-
colare clamore suscitò in ambito internazionale l’attentato dinami-
tardo, posto in essere dall’Irgun il 22 luglio contro l’hotel King, dove
era ospitato il quartier generale militare e amministrativo della Gran
Bretagna. L’attentato provocò la morte di 91 persone, la maggioranza
delle quali inglesi. Dopo questo ne accaddero altri, sempre contro
obiettivi inglesi, meno spettacolari ma altrettanto disastrosi e cruenti.
La motivazione che spinse il Regno Unito ad abbandonare il mandato
non fu però la provocazione e la violenza degli attacchi sionisti o pa-
lestinesi, ma la difficile situazione economica e sociale in cui versava
il Paese dopo la seconda guerra mondiale, e l’impossibilità di tenere
sotto controllo un impero coloniale così vasto e percorso ovunque da
movimenti di indipendenza nazionale.
Il 2 agosto 1947 il Parlamento inglese in sessione speciale decise
di abbandonare la Palestina senza ulteriori indugi. Il cosiddetto pro-
blema palestinese passò quindi alle Nazioni Unite, la cui Assemblea
35

Generale già nell’aprile-maggio 1947 aveva nominato una Commis-


sione ad hoc per studiare la situazione. Il Comitato Speciale per la Pa-
lestina (Unscop), su richiesta araba, ebbe anche la competenza di oc-
cuparsi del problema dei «profughi ebrei» e fu incaricato di dare in-
dicazioni sul loro eventuale trasferimento. La Commissione fu costi-
tuita da rappresentanti di undici Stati (Olanda, Svezia, Cecoslovac-
chia, Iugoslavia, Uruguay, Iran, Canada, Australia, India, Perù, Gua-
temala), e la presidenza fu attribuita al giurista svedese Emil
Sandstrom. Gli Stati arabi furono soddisfatti di tale composizione, ri-
tenendo questo organismo nel suo insieme favorevole alle loro riven-
dicazioni.
Il Presidente propose che la Commissione iniziasse i propri la-
vori trasferendosi per cinque mesi in Palestina. Mentre i rappresen-
tanti della comunità ebraica accolsero favorevolmente e in modo ospi-
tale i membri dell’Unscop (mettendo a loro disposizione interpreti e
altro), quelli palestinesi al contrario li accolsero con ostilità e scortesia.
Ufficialmente l’Alto Comitato arabo non accettò di incontrare i mem-
bri dell’Unscop, anche se poi ufficiosamente alcuni leader del mondo
arabo ebbero con essi incontri riservati e presentarono alla Commis-
sione Onu alcune relazioni. I membri dell’Unscop, come era accaduto
a quelli della precedente Commissione d’inchiesta anglo-americana,
furono favorevolmente colpiti dallo sviluppo economico delle zone
controllate dagli ebrei e dalla modernità dei suoi insediamenti agricoli
e industriali. La comunità ebraica fu da essi giudicata «europea in
senso pieno, moderna, dinamica: insomma uno Stato in gestazione»;
al contrario furono sfavorevolmente colpiti dallo stato di arretratezza
e dalle cattive condizioni igieniche dei centri amministrati dagli arabi.
Dopo questi fatti il Comitato si trasferì in Europa per interrogare
i profughi ebrei, i quali, condizionati dai sionisti, all’unanimità dichia-
rarono di voler emigrare in Palestina. L’Unscop, terminati i lavori,
presentò il 1° settembre 1947 alle Nazioni Unite due relazioni: una di
maggioranza, votata da otto membri del Comitato e una di mino-
ranza. Ambedue i testi furono unanimi nel richiedere la fine del man-
dato inglese sulla Palestina. La relazione di maggioranza propose la
spartizione del territorio palestinese in due Stati: uno ebraico, l’altro
arabo. Essi avrebbero formato un’unione economica, la Gran Bretagna
36

avrebbe continuato ad amministrare il Paese per altri due anni, per


evitare guerre tra i due nuovi Stati e incoraggiare la cooperazione eco-
nomica; inoltre, in questo lasso di tempo, sarebbe stata consentita
l’immigrazione di altri 150.000 ebrei. Per quanto riguarda la questione
dei luoghi santi e, in particolare, di Gerusalemme e Betlemme, si pro-
pose di sottoporli a un’amministrazione fiduciaria internazionale.
Tale proposta era stata caldeggiata anche dalla Santa Sede. La rela-
zione della minoranza proponeva l’indipendenza della Palestina
come Stato federale, nel quale però la comunità araba manteneva
l’egemonia demografica e politica.
Immediatamente negli Stati Uniti i sionisti organizzarono una
forte campagna a sostegno della proposta della maggioranza (molto
favorevole nei confronti di Israele), premendo sul presidente Truman,
il quale aveva bisogno per la nuova campagna presidenziale sia dei
soldi sia dei voti degli ebrei. Truman, inoltre, già nell’ottobre del 1946
aveva dato parere positivo alla creazione di uno Stato ebraico: era im-
possibile che su una materia così delicata facesse marcia indietro,
tanto più che nel frattempo anche l’Unione Sovietica si era schierata
in favore della «spartizione». Va ricordato però che non tutti nell’am-
ministrazione statunitense la pensavano come il Presidente; nel Di-
partimento di Stato sia il ministro della Difesa J. Forrestal, sia il sotto-
segretario di Stato G. C. Marshall e altri sostenevano la necessità di
mantenere buoni rapporti con i Paesi arabi anche a motivo delle for-
niture di petrolio, e consigliavano un atteggiamento prudente o neu-
trale sulla materia.
Alla fine Truman, timoroso di inimicarsi la potente lobby
ebraica, non soltanto accettò di sostenere il progetto di spartizione
della Palestina, ma si impegnò anche ufficiosamente a far pressione
sui Paesi filoamericani ancora incerti (ad esempio, Haiti, Filippine,
Grecia) affinché in sede Onu votassero la proposta della maggioranza,
la quale, per essere approvata, doveva avere i due terzi dei suffragi
dell’Assemblea. Prima del voto dell’Assemblea Generale, il Diparti-
mento di Stato fece alcuni tentativi per modificare alcuni punti del
progetto di maggioranza; ad esempio, propose che il deserto del Ne-
gev fosse incorporato nello Stato arabo-palestinese; soltanto la deter-
minazione di alcuni leader sionisti e l’intervento personale di
37

Weizmann presso Truman riuscirono a bloccare tale manovra, che


avrebbe modificato di molto la configurazione dello Stato ebraico.
Essi però dovettero acconsentire ad alcuni aggiustamenti territoriali
nelle zone di confine.
Con tali modifiche il futuro Stato israeliano avrebbe occupato
«il 55% della Palestina, con un popolazione israelita di circa 500.000
persone e una minoranza araba vicina alle 400.000 persone»1. La vo-
tazione sulla spartizione della Palestina, dopo lunga e faticosa prepa-
razione, si svolse il 29 novembre 1947; essa fu approvata, grazie all’in-
tervento degli Stati Uniti, da 33 Paesi, e fu respinta da 13 Paesi arabi,
i quali non le riconobbero alcun valore. Gli astenuti, tra cui la Gran
Bretagna, furono 10. Come è possibile, scrisse a tale riguardo uno sto-
rico palestinese, che il 37% della popolazione (cioè gli ebrei) avesse
ottenuto il 55% del territorio, del quale fino a quel momento aveva
posseduto soltanto il 7%? I palestinesi «non capivano perché si faces-
sero pagare a loro i conti dell’Olocausto […]. Non capivano perché
fosse ingiusto che gli ebrei restassero minoranza in uno Stato palesti-
nese unitario, e invece fosse giusto che quasi la metà degli arabi pale-
stinesi diventasse dalla sera alla mattina una minoranza soggetta a un
potere straniero»2. I delegati arabi dichiararono apertamente che qua-
lunque tentativo di applicare la Risoluzione dell’Onu avrebbe dato
origine a una guerra: i capi sionisti lo sapevano e di fatto iniziarono a
organizzarsi per lo scontro finale.
Dagli occidentali la Risoluzione 181 dell’Onu fu accolta in modo
favorevole; essa fu considerata come un gesto riparatore della civiltà
europea nei confronti dell’orrore dell’Olocausto, «il pagamento di un
debito da parte di nazioni consapevoli che avrebbero dovuto impe-
dire, o almeno limitare, la portata della tragedia degli ebrei durante la

1 B. Morris, Due popoli una terra, Milano, Rizzoli, 2008, 34. Secondo il Ministero
degli Esteri inglese la popolazione araba che viveva nella parte riservata agli ebrei era
di circa 512.000 persone. Cfr T. G. Fraser, Il conflitto arabo-israeliano, Bologna, il Mu-
lino, 2004, 44; G. Rulli, Lo Stato d’Israele. Democratico, intransigente, provvidenziale, am-
biguo, Bologna – Roma, Edb – La Civiltà Cattolica, 1998, 9 s.
2 Cfr W. Khalidi, All That Remains: The Palestinian Villages Occupied and Depop-

ulated by Israel in 1948, Washington, Institute for Palestine Studies, 1992.


38

seconda guerra mondiale»3. I sionisti avevano saputo abilmente sfrut-


tare, in tutte le sedi internazionali, il senso di colpa dell’Occidente per
la Shoah, per gettare le basi di un proprio Stato. In ogni caso ai capi
sionisti spettava ora realizzare la trasformazione dell’astratta garan-
zia di uno Stato nazionale, riconosciuta dalla più alta autorità interna-
zionale esistente, in un possesso effettivo e concreto del territorio as-
segnato, ma essi sapevano che questo sarebbe accaduto dopo una
guerra combattuta sia con le popolazioni native sia con i Paesi arabi
confinanti, che consideravano una profanazione del sacro suolo isla-
mico la fondazione di uno Stato che si definiva apertamente ebraico
ed era governato da ebrei. Nei villaggi e negli insediamenti ebraici
(cioè nell’yishuv) il voto all’Onu fu seguito attraverso apparecchi radio
in diretta e fu poi rumorosamente festeggiato tutta la notte con danze
nelle strade. Nelle sue memorie, ricordando l’evento, Ben-Gurion
scrisse: «Non potei ballare né cantare quella notte. Guardavo gli altri
che danzavano per la felicità, e non riuscivo a non pensare che la
guerra era già lì ad aspettarli»4. Di fatto così accadde.

La prima guerra arabo-israeliana


La prima guerra arabo-israeliana ebbe due fasi distinte: la prima
fu una vera e propria guerra civile (con tutte le atrocità che spesso
caratterizzano questo genere di conflitti), mentre la seconda fu una
guerra condotta secondo i metodi tradizionali. La prima iniziò, come
si è detto, alla fine di novembre 1947 e durò fino alla partenza
dell’esercito britannico dalla Palestina, avvenuta il 14 maggio
dell’anno seguente. Essa sostanzialmente consistette in episodi di
guerriglia, alcuni dei quali molto violenti e devastanti, tra lo yishuv e
la comunità arabo-palestinese. La guerra convenzionale iniziò invece
il 15 maggio 1948, cioè lo stesso giorno della proclamazione della na-
scita dello Stato di Israele (sulla base della Risoluzione delle Nazioni
Unite) e durò fino all’inizio del 1949. In questo periodo il giovane
Stato di Israele dovette rispondere agli attacchi simultanei, anche se

3 Ph. Mattar, The Mufti of Jerusalem, New York, Columbia University Press,

1988, 165.
4 Citato in L. Collins – D. Lapierre, Jerusalem!, Great Britain, History Book Club,

1972, 41.
39

scoordinati sul piano strategico, di diversi eserciti arabi, e cioè quelli


della Siria, dell’Egitto, della Giordania, del Libano e dell’Iraq, ai quali
si aggiunsero alcuni contingenti armati provenienti dallo Yemen e
dall’Arabia Saudita.
Intanto durante l’inverno del 1947-48 l’Agenzia ebraica aveva
trasformato la Haganah da forza clandestina in una sorta di esercito
regolare nazionale. Furono create sei brigate alle quali fu assegnato il
controllo del territorio, per un totale di 15.000 effettivi; ad essi vanno
aggiunte alcune migliaia di uomini che militavano nei gruppi indi-
pendenti dell’Irgun e del Lehi. Le linee guida delle azioni dei sei bat-
taglioni erano fissate dall’Agenzia nel cosiddetto «Piano Dalet» o sem-
plicemente Piano D, che consisteva in una serie di ordini finalizzati
alla difesa dell’area assegnata al futuro Stato ebraico dalle Nazioni
Unite e alla protezione degli insediamenti ebraici che si trovavano
nella zona assegnata agli arabi5. L’esigenza di proteggere questi ultimi
fece aumentare negli arabi l’erronea convinzione che tale piano fosse
rivolto all’occupazione dell’intera Palestina; ciò rese più accanita e fe-
roce la battaglia tra i due fronti. In proposito basta ricordare l’efferato
massacro del villaggio di Deir Yassin, che aveva precedentemente sti-
pulato con l’Haganah un patto di non aggressione. Il 9 aprile un
gruppo congiunto dell’Irgun e del Lehi (probabilmente sostenuti
dall’Haganah), per rompere l’assedio di Gerusalemme ovest, salda-
mente in mano agli arabi, attaccò quel villaggio massacrando circa 100
civili6. Nonostante la condanna dell’Agenzia ebraica, l’episodio segnò
un nuovo livello di efferatezza nella lotta. La rappresaglia araba ar-
rivò infatti subito dopo: un convoglio medico che faceva la spola tra
Gerusalemme e il monte Scopus fu attaccato, e furono uccise 77 per-
sone, in maggioranza medici e infermieri. Intanto le forze dell’Haga-
nah avevano guadagnato terreno su diversi fronti: a metà aprile la bri-
gata Golani aveva occupato Tiberiade e altre città della Galilea. Il 22
aprile la brigata Carmeli si assicurò l’importante porto di Haifa e negli
ultimi giorni del mandato altre brigate occuparono Giaffa, città in cui
vivevano 70.000 arabi, ma che, secondo gli strateghi, si trovava troppo

5 Cfr T. G. Fraser, Il conflitto arabo-israeliano, cit., 50.


6 Cfr A. Gresh, Israele, Palestina. La verità di un conflitto, Torino, Einaudi, 2004,
75.
40

vicina alla città ebraica di Tel Aviv. Tutte queste operazioni ebbero
come effetto immediato la fuga o l’allontanamento forzato di decine
di migliaia di arabi dalle zone di operazione militare. Come previsto,
gli inglesi, i quali si erano tenuti ben in disparte dai combattimenti e,
nonostante le proteste della comunità internazionale, avevano impe-
dito alla Commissione Onu – incaricata di dare esecuzione alla Riso-
luzione 181 – di entrare in Palestina, abbandonarono il territorio man-
datario il 14 maggio 1948.
Il giorno successivo, bruciando i tempi e le eventuali proteste
della comunità internazionale, Ben-Gurion e i capi sionisti si riuni-
rono nel museo di Tel Aviv e proclamarono la nascita dello Stato di
Israele, che sarebbe stato aperto a tutti gli ebrei del mondo e avrebbe
garantito a tutti, ebrei e arabi, gli stessi diritti di cittadinanza. Presi-
dente della nuova Repubblica fu nominato Chaim Weizmann, e la ca-
rica di capo di Governo fu attribuita a Ben-Gurion. Nonostante qual-
che difficoltà, il nuovo Stato israeliano fu immediatamente ricono-
sciuto sia dagli Stati Uniti sia dall’Unione Sovietica. Tale fatto fu molto
importante anche per l’andamento della guerra: Israele da questo mo-
mento in poi combatté come Stato sovrano, riconosciuto dalle grandi
potenze, su un piano di parità con i Paesi arabi, che già il 15 maggio,
come era prevedibile, avevano inviato i loro eserciti contro Israele.
Gli eserciti di sei Paesi della Lega Araba attaccarono Israele con
motivazioni differenti e senza essere coordinati tra loro. Quattro di
essi – il libanese, il siriano, l’iracheno e in ultimo il saudita – compi-
rono poche azioni offensive, anche se tennero impegnata una parte
dell’esercito israeliano. Gli altri due invece, cioè quello egiziano e
giordano (comandato da ufficiali britannici), provvisti di armamenti
pesanti e di supporti aerei, misero in seria difficoltà il giovane esercito
israeliano, che però, nonostante la sua iniziale debolezza sul piano de-
gli armamenti, era molto motivato nella sua azione e ben preparato
sul piano strategico.
Intanto le Nazioni Unite riuscirono a negoziare, attraverso il
proprio inviato, il conte svedese Folke Bernadotte, una tregua che en-
trò in vigore l’11 giugno. Essa fu accolta da entrambe le parti in lotta
con sollievo: dopo due settimane di aspro combattimento non era in-
fatti ancora chiaro per quale parte si prospettasse la vittoria. Israele
41

approfittò di tale periodo, violando i termini della tregua, per acqui-


stare dalla Cecoslovacchia una grande quantità di materiale bellico,
rimasto inutilizzato dopo la seconda guerra mondiale, compresi al-
cuni caccia Messerschmidt. Quando la guerra riprese l’8 luglio, l’eser-
cito israeliano, utilizzando le nuove forniture europee (e statunitensi),
nel giro di pochi giorni ebbe il sopravvento sugli eserciti arabi, che, a
motivo delle rivalità interne, non erano riusciti a coordinare la loro
azione e a far fronte alle dure offensive dell’esercito israeliano. In que-
sto modo furono occupati molti villaggi arabi e le città di Lydda e
Ramle, che secondo il piano di spartizione appartenevano alla zona
araba, mentre i centri abitati dai drusi e dai cristiani (come Nazareth)
furono risparmiati.
Nella memoria dei palestinesi l’occupazione della città di
Lydda, e la conseguente «pulizia etnica» praticata dagli occupanti
(pare infatti che siano stati espulsi circa 70.000 abitanti), rimane un
fatto doloroso e indelebile. Secondo alcuni storici, l’ordine di espul-
sione della popolazione araba di Lydda fu dato personalmente da
Ben-Gurion il 12 luglio durante un incontro del capo del Governo con
il comando dell’esercito israeliano. Il viaggio che i profughi fecero
verso Ramallah, ricordato come «la marcia della morte», nel caldo
estivo, costò la vita a numerosi bambini e vecchi, che morirono du-
rante il viaggio per disidratazione, fame e stanchezza7.
Dopo dieci giorni di ostilità fu approvata una seconda tregua,
che entrò in vigore il 18 luglio. Nel frattempo il delegato dell’Onu,
Bernadotte, per porre termine al conflitto preparò una bozza di ac-
cordo, i cui termini erano i seguenti: Israele avrebbe mantenuto la Ga-
lilea, ma abbandonato una parte del Negev e restituito le città di
Lydda e Ramle agli arabi. Per quanto riguardava il problema dei pro-
fughi, che era diventato un problema umanitario molto grave, lo Stato
di Israele si doveva impegnare ad assicurarne il rientro in sicurezza.
Il giorno successivo alla consegna del suo piano alle Nazioni Unite,
Bernadotte fu ucciso da alcuni membri del Lehi. Naturalmente il Go-
verno israeliano condannò l’uccisione del diplomatico svedese. La

7Cfr M. Palumbo, The Palestinian Catastrophe, London, Quartet Books, 1987, 69;
A. Gresh, Israele, Palestina. La verità di un conflitto, cit., 77.
42

proposta però rimaneva ancora valida: per evitare che la comunità in-
ternazionale costringesse il Governo di Tel Aviv a scendere a patti sul
piano territoriale, il 15 ottobre l’esercito israeliano mosse in forze
verso il Negev, occupandone i punti strategici. Gli egiziani furono bat-
tuti sul campo e alla fine conservarono la striscia di Gaza soltanto per-
ché gli Stati Uniti imposero a Israele – che aveva abbattuto cinque cac-
cia inglesi che stavano portando aiuto agli arabi – di porre fine alla
guerra. I negoziati per gli accordi di armistizio tra Israele e l’Egitto
furono avviati a Rodi, sotto l’abile guida dell’inviato delle Nazioni
Unite, Ralph Bunche; l’accordo fu concluso il 24 febbraio 1949 e di-
venne il modello per quelli con la Siria, col Libano e con la Giordania,
con cui furono definiti i confini con Israele, almeno fino al giugno del
1967. La firma degli armistizi rappresentò la fine ufficiale della prima
guerra arabo-israeliana, anche se il rispetto delle sue disposizioni da
ambedue le parti fu più apparente che reale.

La catastrofe palestinese. La «Nakba»


La prima guerra arabo-israeliana non aiutò certo a risolvere l’in-
tricata «questione palestinese» nella linea dettata dalle Nazioni Unite;
essa però consentì agli israeliani di fissare i confini del proprio Stato e
addirittura di allargarli. Uno degli effetti più disastrosi prodotti da
questa guerra, che peserà moltissimo nelle future trattative arabo-
israeliane, fu il problema dei profughi palestinesi, i quali abbandona-
rono, alcuni volontariamente altri forzatamente, i loro villaggi o quar-
tieri per sfuggire alla guerra e a volte anche ai massacri rifugiandosi
in Cisgiordania, oppure nei Paesi arabi limitrofi (Libano, Siria, Gior-
dania ed Egitto). Sta di fatto che alla fine della guerra meno della metà
della popolazione palestinese si trovava ancora nella terra nativa:
meno di 150.000 arabi in Israele, circa 400.000 nella West Bank e circa
60.000 nella striscia di Gaza. Sul numero dei profughi si è molto di-
scusso in passato: gli israeliani parlavano di circa 500.000 profughi, i
palestinesi invece di circa un milione di persone espulse. Secondo gli
storici contemporanei il numero dei profughi si aggirerebbe intorno
ai 700.000-800.000.
La domanda che da ormai mezzo secolo si pone la comunità in-
ternazionale, e che allo stesso tempo interpella gli Stati, gli operatori
43

umanitari e anche gli storici, è la seguente: come mai un numero così


grande di persone nel giro di pochi mesi ha dovuto abbandonare la
propria terra, andando incontro a un futuro di miseria e di emargina-
zione sociale? La tesi ufficiale sostenuta da Israele è che i palestinesi
abbandonarono «volontariamente» il loro territorio, sotto la pressione
degli eserciti dei Paesi arabi, per spianare loro la strada per l’invasione
del 15 maggio, cioè dopo il ritiro delle truppe inglesi. I palestinesi, al
contrario, hanno sempre sostenuto che i profughi erano stati espulsi
in modo sistematico e premeditato dall’esercito israeliano dai luoghi
da questo occupati; perciò, facendo appello alla comunità internazio-
nale, rivendicano il diritto di rientrare nei propri villaggi e di ripren-
dere possesso dei loro beni; proposta che lo Stato di Israele, almeno in
questi termini, ha sempre respinto.
In ambito palestinese il primo storico che ha confutato la vul-
gata israeliana è stato Walid Khalidi, nel suo libro All That Remains8;
egli, consultando gli archivi palestinesi e raccogliendo la memoria dei
testimoni, ha ricostruito in modo analitico – riportando l’elenco esatto
dei villaggi distrutti – la «catastrofe», cioè la Nakba, vissuta dal suo
popolo. Tale studio ebbe poca eco tra gli storici occidentali, e si conti-
nuò ancora per anni a ripetere la vulgata israeliana dell’«esilio volon-
tario dei palestinesi». Negli anni Ottanta in Israele una nuova corrente
storica (i cosiddetti «nuovi storici»), si dedicò allo studio di quegli
eventi in modo critico, partendo dalla documentazione disponibile:
generalmente si trattava di documentazione diplomatica o prodotta
negli ambienti militari, e anche dalla letteratura storica pubblicata in
ambito palestinese. Tra i maggiori rappresentati di questo indirizzo è
certamente lo storico Benny Morris, che ha dedicato a tale materia di-
versi saggi9. A suo parere il «trasferimento» della popolazione pale-
stinese avvenne in diverse fasi e secondo progetti e strategie politico-
militari differenti.
La prima fase si svolse tra il dicembre 1947 e il marzo del 1948,
quando gli arabi delle classi medio-alte (probabilmente 75.000

8 Cfr W. Khalidi, All That Remains…, cit. Si veda anche Id., Identità palestinese.

La costruzione di una moderna coscienza nazionale, Torino, Bollati Boringhieri, 2003.


9 Cfr B. Morris, Vittime, cit.; Id., 1948: Israele e Palestina tra guerra e pace, cit.; Id.,

Due popoli una terra, cit.


44

persone) impaurite dalla guerra civile abbandonarono le città e si tra-


sferirono in posti più sicuri, spesso nei Paesi arabi confinanti. Questo
implicò la chiusura di scuole, uffici pubblici e ospedali, ma anche di
piccole industrie e di cantieri, creando tra le classi popolari disoccu-
pazione e povertà. Fu questo lo sfondo in cui avvenne la seconda fase,
quando una buona parte della popolazione abbandonò i propri quar-
tieri e villaggi di volta in volta occupati dall’esercito israeliano. I do-
cumenti della Haganah, afferma Morris, rilevano il diffondersi in que-
sto periodo tra la popolazione palestinese di una «psicosi della fuga».
«L’eco del massacro degli abitanti di Deir Yassin, accresciuta dalle
atrocità vere o immaginarie che la propaganda araba collegò all’epi-
sodio, fu il simbolo e insieme la causa del fenomeno». Nella maggior
parte dei villaggi non fu necessario ricorrere all’espulsione diretta: al
primo crepitio delle mitragliatrici israeliane gli arabi abbandonavano
case e terreni. Sempre secondo Morris, nella prima fase «non si può
parlare di una politica sionista volta ad espellere gli arabi», anche se,
per molti ebrei, «più arabi facevano le valigie meglio era». Fu l’effetto
della politica delle rappresaglie adottata dall’Haganah a spingere
molti palestinesi ad abbandonare il territorio.
Nella seconda fase, «anche se non ci fu una politica sistematica
di espulsione, l’adozione del Piano D ebbe senza dubbio per conse-
guenza un nuovo esodo di massa. I comandanti militari furono auto-
rizzati a svuotare degli abitanti molti villaggi e quartieri arabi, e a di-
struggere le abitazioni. Inoltre molti comandanti fecero proprio
l’obiettivo di far nascere uno Stato ebraico con una minoranza araba,
la più limitata possibile»10. L’invasione panaraba del 15 maggio ac-
crebbe, poi, la durezza dell’atteggiamento israeliano verso i civili pa-
lestinesi, per ragioni sia militari sia politiche. I comandanti, senza il
consenso del Governo, ordinarono di contrastare con la forza il ritorno
degli arabi nei loro villaggi. Anzi questi, una volta svuotati, furono
spesso rasi al suolo o bruciati. «Nella terza e quarta fase dell’esodo,
nel giugno e nell’ottobre-novembre 1948, circa 300.000 altri arabi ac-
crebbero la schiera dei profughi; tra essi i 60.000 di Lydda e Ramla
espulsi dalle truppe dell’Idf». Eppure, conclude Morris, nonostante le

10 Id., Vittime, cit., 324.


45

atrocità commesse dalle milizie israeliane, «ancora non sarebbe esatto


parlare di una sistematica politica di espulsione. Per quanto se ne sa,
una politica siffatta non fu mai discussa, o decisa negli incontri del
Governo con lo stato maggiore dell’Idf»11.
Tale lettura, che da molti studiosi conservatori è considerata re-
visionista, è stata di recente confutata da un altro storico israeliano,
Ilan Pappe. Nel suo libro La pulizia etnica della Palestina, sostiene, do-
cumenti alla mano, che il progetto di espulsione dei palestinesi dai
territori occupati dall’esercito israeliano fu pianificato in un incontro
che si tenne il 10 marzo 1948 a Tel Aviv (nella «casa rossa», a quel
tempo sede dell’Haganah) tra politici sionisti e militari. In quell’occa-
sione fu messa a punto l’ultima versione, la quarta, del celebre Piano
D, che stabiliva il progetto che i sionisti avevano in serbo per la Pale-
stina e per la sua popolazione nativa. «Gli ordini erano accompagnati
da una minuziosa descrizione dei metodi da usare per cacciare via la
popolazione con la forza: intimidazione su vasta scala; assedio e bom-
bardamento di villaggi e centri abitati; incendi di case, di proprietà, di
beni; espulsioni, demolizioni, e infine collocazione delle mine tra le
macerie per impedire agli abitanti espulsi di fare ritorno»12. Tali ordini
furono poi trasmessi alle singole brigate che avrebbero provveduto a
metterli in atto: il piano, insomma, secondo Pappe, era il prodotto ine-
vitabile della determinazione sionista ad avere un’esclusiva presenza
ebraica in Palestina, e questo poteva essere realizzato soltanto elimi-
nando la presenza dei nativi dal territorio. «Nel creare il proprio Stato
nazionale – continua lo studioso – il movimento sionista non condusse
una guerra che “tragicamente ma inevitabilmente” portò all’espul-
sione di parte della popolazione nativa, ma fu l’opposto: l’obiettivo
principale era la pulizia etnica di tutta la Palestina, che il movimento

11 Ivi, 325.
12 I. Pappe, La pulizia etnica della Palestina, Roma, Fazi, 2008, 4. Il Piano D sulla
pulizia etnica stabiliva: «Queste operazioni potranno essere svolte in uno dei seguenti
modi: o distruggendo i villaggi (incendiandoli o facendoli saltare in aria e poi met-
tendo delle mine nelle macerie), soprattutto i centri abitati che sono difficili da con-
trollare in modo permanente; oppure con operazioni di setacciamento e controllo con
le seguenti modalità: si accerchia il villaggio e si fanno perquisizioni. Se c’è resistenza,
le milizie armate dovranno essere eliminate e la popolazione espulsa al di fuori dei
confini dello Stato» (ivi, 108).
46

ambiva per il suo nuovo Stato»13. Pulizia che fu iniziata durante la


guerra civile e completata con successo durante la guerra con i Paesi
arabi nell’autunno del 1948. Questa vicenda, scrive ancora Pappe, «la
più decisiva della storia moderna della Palestina», è stata da allora
sistematicamente negata, e ancora oggi non è ufficialmente ricono-
sciuta come fatto storico e tantomeno è considerata dalla comunità in-
ternazionale come un crimine contro l’umanità.
La maggior parte dei profughi palestinesi che hanno vissuto
quelle drammatiche esperienze sono ormai morti; i loro figli e nipoti,
che ancora vivono nei «campi» in condizione di miseria e di degrado
umano, o che occupano le periferie di alcune grandi città arabe, sono
considerati anch’essi palestinesi, come stabilisce la Carta fondamen-
tale adottata nel 1964 dal Consiglio Nazionale Palestinese. Essi perciò
hanno diritto a un doveroso riconoscimento morale e a una giusta ri-
parazione materiale. Tale questione, come è noto, è stata da sempre
oggetto di rivendicazione da parte dei leader palestinesi nell’affron-
tare l’intricatissima questione palestinese; oggi, anche per il fatto che
tale popolazione è quasi triplicata, essa è divenuta di difficile solu-
zione. D’altro canto, come viene spesso ripetuto, lo Stato di Israele, se
intende mantenere la propria identità di Stato ebraico, non può acco-
gliere nel suo seno una quantità così numerosa di popolazione pale-
stinese. In realtà, il problema va seriamente affrontato nelle compe-
tenti sedi internazionali in modo più globale e senza pregiudizi di
sorta, tenendo presenti le prospettive e gli interessi differenti delle
parti direttamente coinvolte: l’interesse dei profughi a ritornare nella
loro patria ed essere considerati a pieno titolo cittadini, come gli ebrei,
di uno Stato nazionale, e ad avere reali prospettive di sviluppo econo-
mico e sociale; l’interesse di Israele a conservare uno Stato in cui la
maggior parte dei suoi cittadini siano ebrei; ciò – considerando anche
le recenti vicende legate al terrorismo (la maggior parte dei kamikaze
palestinesi, infatti, provengono dai campi profughi) – è richiesto an-
che da comprensibili ragioni di sicurezza interna.
Tali difficoltà, anche se reali, vanno affrontate con realismo e ri-
solte nell’interesse, innanzitutto, delle parti lese. Va anche ricordato,

13 Ivi, 9.
47

infatti, che tale problema è stato a volte utilizzato strumentalmente sia


dai palestinesi sia dai Paesi arabi per ricattare Israele e per far naufra-
gare possibili negoziati di pace. Dal canto loro i leader israeliani non
possono opporre un netto rifiuto a ogni progetto di trattativa che ri-
guardi una decorosa sistemazione del problema dei profughi, come
anche, d’altra parte, è necessario che i leader palestinesi riconoscano
senza doppiezza lo Stato di Israele e il diritto degli ebrei a vivere in
sicurezza. La questione, ripetiamo, va trattata in sede internazionale,
dove al tavolo delle trattative siano presenti tutte le parti interessate
alla soluzione della questione, nella consapevolezza che probabil-
mente non esiste una proposta che accontenti tutti, ma che, pur attra-
verso progetti differenziati, si inizino a operare scelte rivolte a risol-
vere uno dei problemi più complicati che la tormentata storia del No-
vecento ci ha lasciato in eredità.
Le guerre israelo-libanesi e la crescita di Hezbollah

Bandiere di Hezbollah nel sud del Libano (iStock/shnooj)


La prima invasione del Libano da parte degli israeliani avvenne
nell’estate 19821, anche se già l’anno precedente c’era stato un mici-
diale raid aereo su Beirut da parte dell’aviazione israeliana, accompa-
gnato da azioni di guerriglia nel sud del «Paese dei cedri»: qui a par-
tire dal 1970, dopo gli accordi del Cairo, si era installato il comando
generale dell’Olp, mentre un gran numero di profughi palestinesi si
era insediato in parte nella periferia di Beirut, in parte nella zona sud
del Libano, territorio tradizionalmente abitato da contadini sciiti. Gli
israeliani, con la distruzione dell’Olp e della sua infrastruttura poli-
tico-militare, miravano, da un lato, ad annullare sul campo l’organo
di rappresentanza politica dei palestinesi e le sue formazioni armate,
considerate alla stregua di organizzazioni terroristiche; dall’altro lato,
a normalizzare la situazione in Cisgiordania e a Gaza in senso favore-
vole agli interessi israeliani, portando a termine l’annessione dei

1 L’operazione «Pace in Galilea» iniziò il 6 giugno 1982 in risposta sia al tenta-

tivo di assassinio posto in essere da «terroristi» dell’Olp nei confronti dell’ambascia-


tore del Regno Unito in Israele Shlomo Argov, sia ai frequenti attacchi con l’artiglieria
condotti da militanti di al Fatah, rifugiati in Libano, contro aree popolate nel nord
della Galilea. Cfr H. Cobban, The Palestinian Liberation Organization: People Power and
Politics, Cambridge, University Press, 1984, 54; A. Bregman, Israel’s Wars: A History
since 1947, London, Routledge, 20022, 78; G. Rulli, Libano. Dalla crisi alla «pax siriana»,
Torino, Sei, 1996, 96-137.
49

territori occupati nella guerra dei Sei Giorni (1967). Tale strategia, in
quel momento, era sostenuta soprattutto dagli Stati Uniti. Essi infatti
non avevano simpatia per l’Olp, per il suo programma rivoluzionario
e per i suoi legami con i movimenti radicali e di sinistra europei o con
i regimi antimperialisti del Terzo Mondo. Il movimento palestinese,
insomma, era considerato dall’amministrazione statunitense come un
anello importante del circuito della «sovversione comunista interna-
zionale».

Beirut e gli israeliani


Nessun serio ostacolo fu posto dai Paesi occidentali agli israe-
liani, intenzionati a colpire i membri dell’Olp ovunque si trovassero.
Così, Beirut, allora la capitale politica e culturale più importante del
mondo arabo, fu assediata, assetata e distrutta senza pietà dall’arti-
glieria e dall’aviazione israeliana, senza che la comunità internazio-
nale intervenisse per frenare il massacro. La città fu divisa in due parti
dalla cosiddetta «linea verde», presidiata da micidiali cecchini che
sparavano sui nemici2.
Nella parte est, quella cristiana, viveva la borghesia filocciden-
tale e cosmopolita; nella parte ovest, quella musulmana, vivevano in
condizioni precarie, a volte misere, soprattutto sciiti, drusi e i nuovi
arrivati palestinesi. Gli israeliani, insieme al progetto di eliminare gli
attivisti dell’Olp, con il pretesto della lotta contro il terrorismo inter-
nazionale, sotto lo sguardo impassibile e colpevole del mondo intero
– in particolare con la complicità di alcuni Paesi arabi – operarono nel
contempo la liquidazione di quel poco che ancora rimaneva del vec-
chio nazionalismo arabo antimperialista, che fino a poco tempo prima

2 Cfr F. Khosrokhavar, I nuovi martiri di Allah, Milano, Feltrinelli, 2003. Secondo

questo autore, il cecchino, il miliziano e il martire sono tre figure fondamentali nei
conflitti intra-etnici libanesi. «Il cecchino è l’incubo degli abitanti di Beirut. In città si
sviluppa una psicosi, basata sul fatto che è impossibile sfuggirgli una volta che si è
nel suo mirino […]. Ogni cecchino uccide in media dieci vittime al giorno. È efficace
nell’arco compreso tra 250 e 500 metri e le opportunità di sfuggire sono infinitesimali.
Il cecchino non aderisce a nessuna ideologia, si vende al miglior offerente. Il suo ruolo
è separare ermeticamente l’est dall’ovest della città e tracciare così una linea di con-
fine insuperabile tra la comunità cristiana e quella musulmana» (p. 169).
50

aveva animato le piazze delle principali capitali arabe e allevato un’in-


tera generazione di politici e militari carismatici, capaci di tenere testa
alle richieste o alle pretese dell’Occidente.
L’attacco israeliano fu fermato dagli alleati americani soltanto
dopo 70 giorni di assedio ininterrotto. Tra le tante stragi compiute,
soltanto quelle più note di Sabra e Chatila (16 settembre 1982) riusci-
rono ad attirare l’attenzione del mondo intero.
L’esercito israeliano, che occupò il sud del Libano dal 1982 al
1985, in effetti permise (o non ostacolò) la nascita e lo sviluppo di mi-
lizie sciite fondamentaliste, nonché il riarmo dei palestinesi in questa
regione. Per quale motivo? La strategia portata avanti a tale riguardo
fu di favorire la divisione, e quindi la discordia, tra i gruppi indigeni,
per poter controllare meglio la situazione e intervenire a tempo op-
portuno. A Beirut ovest, già dal febbraio 1984, fu la milizia sciita
(laica) di Amal a imporsi come forza dominante, una volta che la VI
brigata dell’esercito libanese fu distrutta dai bombardamenti israe-
liani su quella parte della città. I soldati sciiti appartenenti ad essa,
subito dopo il conflitto, la abbandonarono per unirsi alla milizia di
Amal. In quel periodo, nella parte sud del Libano e nella periferia di
Beirut, iniziarono a organizzarsi gruppi di islamisti radicali, chiamati
Hezbollah (cioè «partito di Dio»). Essi erano finanziati dagli iraniani e
controllati e indottrinati dai guardiani della rivoluzione.
In alcuni mesi, scrive Geoges Corm, «la metà del Paese posto a
sud della strada da Beirut a Damasco, che era stata durante i decenni
precedenti un luogo di nutrito panarabismo laico e socialisteggiante,
si trasformò quasi in una repubblica islamica di tipo iraniano, e vi si
vedevano sempre più turbanti»3. Ben presto in questa regione iniziò
la caccia ai comunisti, e cominciò ad essere formulata la richiesta di
installare in Libano una Repubblica islamica sul modello dell’Iran. Gli
islamisti poco alla volta presero il sopravvento sui «fratelli laici» delle
milizie di Amal. I frequenti rapimenti di cristiani che si trovavano
nella zona sud di Beirut, ormai controllata dagli sciiti, provocò l’esodo
di migliaia di essi nell’altra parte della città; la parte sud, poco alla

3G. Corm, Il mondo arabo in conflitto. Dal dramma libanese all’invasione del Kuwait,
Milano, Jaca Book, 2005, 106.
51

volta, si andò così svuotando della presenza non gradita di occiden-


tali.

Il Libano trampolino per l’Iran e la Siria


Secondo Corm, il Libano «divenne per l’Iran un trampolino ec-
cezionale, come era stato per i palestinesi alcuni anni prima»4. Muo-
vendo da questa regione, così importante nelle vicende mediorientali,
l’Iran tesserà la sua politica di influenza su tutta l’area e diventerà ne-
gli anni successivi uno degli attori più significativi della politica me-
diorientale.
La guerra tra drusi e sciiti a Beirut ovest nel marzo 1987 offrì alla
Siria l’occasione per entrare in Libano, al fine, affermava la propa-
ganda di Damasco, di aiutare la popolazione civile musulmana terro-
rizzata dalla violenza. In realtà i siriani non intendevano lasciare
campo libero ad altre potenze (come l’Iran); essi volevano raccogliere
i frutti di quanto avevano seminato negli anni precedenti e assicurarsi
una parte non secondaria nella contesa politica; a tale scopo appog-
giarono l’azione di Hezbollah nel sud del Paese. Tale progetto fu ulte-
riormente rafforzato dal giovane figlio del presidente Hafez al Assad,
morto nel 1999, Bashir, il quale fece di Hezbollah il suo maggior alleato
in Libano.
Il «Partito di Dio» nel corso degli anni diventò, nella parte sud
del Libano, un vero e proprio movimento militare di massa, dipen-
dente dagli ayatollah sciiti, finanziato ed equipaggiato dall’Iran e dalla
Siria. Nel 2000, dopo atti di guerriglia logorante, esso costrinse le forze
di occupazione israeliane ad abbandonare definitivamente il Paese
dei cedri: tale fatto diventerà in tutto il mondo islamico, e non soltanto
sciita, il simbolo della «resistenza libanese», non più incarnata dalla
lotta dei palestinesi. Ciò accrescerà di molto il prestigio di Hezbollah
libanese, che diventerà uno dei protagonisti più significativi nel com-
plicato e variabile mondo mediorientale. I generosi sussidi iraniani gli
consentivano, inoltre, di essere presente sul territorio, portando
avanti un’opera di assistenza molto attiva nei confronti degli ambienti

4 Ivi.
52

sciiti più poveri; questo gli attirò la simpatia e il sostegno di gran parte
della popolazione musulmana. Investì, però, anche sulle nuove tecno-
logie legate alla comunicazione, facendo della propria antenna televi-
siva, Al Manar (il faro), la maggior concorrente di Al-Jazeera nel mondo
islamico radicale.
Gli sciiti libanesi, nonostante i successi politici di Hezbollah, fu-
rono chiaramente penalizzati nella nuova strutturazione della compa-
gine istituzionale dello Stato. Gli accordi di Taëf del 1989, che fissa-
vano gli equilibri politici emersi dalla guerra civile, da un lato, ratifi-
cavano l’indebolimento della parte cristiana (alla quale veniva conser-
vata la presidenza della Repubblica) nella gestione dello Stato; dall’al-
tro, trasferivano gran parte del potere effettivo ai sunniti, grazie a una
rivalutazione della funzione e del ruolo del primo ministro. Agli sciiti,
benché fossero una parte consistente della popolazione libanese, fu
assegnata una rappresentanza politica molto inferiore alla loro forza
e al peso politico che stavano assumendo nel Paese: ciò negli anni suc-
cessivi creò notevole instabilità e screditò l’azione del Governo, rite-
nuto troppo succube degli interessi occidentali. Negli ultimi anni
molti sciiti che abitavano la parte sud del Libano, sia per sfuggire agli
orrori della guerra, sia per cercare fortuna nella città, si erano trasferiti
nella periferia sud di Beirut, dove la maggior parte viveva, accanto ai
profughi palestinesi, in villaggi improvvisati e in condizioni di asso-
luta miseria. In tale contesto gli attivisti di Hezbollah trovarono mili-
tanti e simpatizzanti: essi fornirono un’espressione politica nuova a
una popolazione che viveva in condizioni di vita deplorevoli, sotto-
rappresentata nelle istanze del confessionalismo ufficiale.

Il conflitto interno libanese e l’affermazione di Hezbollah


La questione politica, legata agli assetti di potere creati con gli
accordi di Taëf, esplose nel 2004, quando il capo dello Stato, Émile
Lahoud, spalleggiato dai siriani, chiese al Parlamento la proroga del
suo mandato. Ora, tra il primo ministro Rafiq Hariri, appartenente a
una delle più ricche famiglie sunnite del Libano, e il capo dello Stato,
da anni si era aperta una contesa politica: Hariri, amico della Francia
e degli Stati Uniti, in tutte le capitali arabe e occidentali aveva presen-
tato il capo dello Stato libanese come il protettore di Hezbollah – che
53

dopo l’11 settembre 2001 era nella lista nera statunitense delle orga-
nizzazioni terroristiche – e degli interessi siriani. Insomma, nell’opi-
nione pubblica occidentale il primo ministro Hariri passava per essere
un moderato filo-occidentale, mentre il presidente Lahoud al contra-
rio era considerato un sostenitore convinto degli interessi iraniani e
siriani in Libano. Inoltre, aveva fatto sempre resistenza a cedere alle
richieste statunitensi di disarmare Hezbollah o almeno di ritirare le sue
milizie dalla frontiera con Israele. Nella lotta contro il Presidente, il
capo del Governo aveva dalla sua parte Walid Joumblatt, il capo
druso, e alcune personalità del mondo maronita5.
In ambito internazionale fu soprattutto la Francia a fare di tutto
per ostacolare il reincarico al presidente Lahoud. Nel settembre 2004
il presidente Chirac sottopose a Washington il progetto di far adottare
al Consiglio di Sicurezza dell’Onu una Risoluzione che impedisse al
Parlamento libanese la riconferma del Presidente uscente. Tale pro-
getto fu prontamente accolto dall’amministrazione statunitense, che
rimproverava alla Siria il mancato sostegno in occasione della guerra
contro l’Iraq. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nella Riso-
luzione 1559, votata il 2 settembre 2004, chiedeva al Parlamento liba-
nese di non emendare la Costituzione, così da permettere il prolunga-
mento del mandato presidenziale, ma, allo stesso tempo, invocava il
ritiro immediato di tutte le truppe siriane dal Libano, il disarmo di
Hezbollah, il dispiegamento dell’esercito libanese lungo la frontiera
con Israele, il disarmo dei campi palestinesi. Tale Risoluzione fu ac-
colta con esultanza dai sostenitori del primo ministro Hariri e fu in-
vece molto contestata da coloro che appoggiavano il presidente La-
houd, in particolare da Hezbollah e dai siriani. Secondo alcuni osserva-
tori internazionali, tale Risoluzione rappresentava una grave intro-
missione negli affari interni di uno Stato membro dell’Onu; perciò
sotto il profilo del diritto internazionale fu considerata illegittima6.

5 Cfr ivi, 323.


6 Cfr ivi, 234.
54

L’assassinio di Rafiq Hariri


Nel contesto, creato dalla Risoluzione Onu 1559 e caratterizzato
da un’ondata di ostilità senza precedenti nei confronti della Siria e del
presidente Lahoud, avvenne l’assassinio di Rafiq Hariri. Egli fu vit-
tima di un attentato terroristico nel centro di Beirut il 14 febbraio 2005:
oltre al primo ministro rimasero uccisi il ministro dell’Economia, che
si trovava con lui in macchina, e altre 18 persone, tra guardie del corpo
e passanti. Il fatto provocò un’indignazione internazionale senza pre-
cedenti, paragonabile a quanto era avvenuto in Italia nel 1978 con l’as-
sassinio di Aldo Moro e in Svezia nel 1986 per la morte di Olof Palme.
Naturalmente i media di mezzo mondo videro dietro questo attentato
la mano della Siria. In Libano l’attentato fece esplodere tutta l’ostilità
nutrita da una buona parte della popolazione nei confronti dell’occu-
pante siriano, che per lunghi anni aveva agito da padrone e da arbitro
della situazione. Furono soprattutto i giovani sunniti, cristiani e drusi,
a scendere in piazza in quel momento per manifestare e per chiedere
il ritiro dei siriani dal territorio libanese. Tali manifestazioni esprime-
vano anche il malessere sociale ed economico in cui versava il Paese:
i giovani non riuscivano a trovare lavoro, a entrare nel mondo delle
professioni liberali; inoltre si contestava alla manodopera siriana di
fare concorrenza (tenendo sottocosto le retribuzioni) ai nativi, nonché
l’invasione sul mercato di prodotti siriani a basso prezzo. «La Siria
diventa così il capro espiatorio di tutti i mali del Libano, il che con-
sente di cancellare di colpo tutte le responsabilità che gravano sui
nuovi eroi della libertà, benché costoro in passato siano stati i più fe-
deli sostenitori dell’egemonia siriana sul Libano e gli ideatori di reti
di corruzione»7.

La manifestazione di Hezbollah
Di fronte all’ampiezza di tale mobilitazione, Hezbollah decise di
far sentire ai libanesi e al mondo il peso della sua forza politica e
chiamò i suoi sostenitori a una grande manifestazione in favore della
Siria e per denunciare la Risoluzione 1559 dell’Onu. Il 17 marzo,
piazza Riad El-Solh – vicino alla piazza dei Martiri dove si era tenuta

7 Ivi, 330.
55

la manifestazione del partito di Hariri – diventò il luogo di raduno di


circa mezzo milione di persone, appartenenti a varie correnti politiche
e a diverse confessioni religiose, tutte favorevoli a mantenere i legami
con la Siria. Il capo di Hezbollah vi prese la parola e denunciò il com-
plotto internazionale di cui era stato vittima il Libano, espresse poi il
suo sostegno alla Siria per i sacrifici fatti per salvaguardare l’unità del
Paese, contrastare l’aggressione israeliana e fermare la guerra civile
nel sud Libano. In risposta a tale manifestazione, a un mese dalla
morte del primo ministro Hariri, fu organizzato un raduno grandioso,
al quale parteciparono da cinquecentomila a un milione di persone:
questa volta la maggior parte erano sunniti. La manifestazione ebbe
uno spiccato carattere anti-siriano e soprattutto anti-Hezbollah; da
molti fu definita «la primavera di Beirut» e fu posta in parallelo con la
rivoluzione arancione avvenuta in quel tempo in Ucraina.

Il Governo di Siniora
Dopo il ritiro siriano della primavera del 2005, il Libano fu go-
vernato da una coalizione filo-occidentale, sotto la guida del primo
ministro sunnita Fouad Siniora, uomo di fiducia dell’ex-primo mini-
stro ucciso Rafid Hariri. Tale maggioranza era appoggiata dai sunniti,
dai drusi e da una parte della dirigenza cristiana maronita. Questa
composita alleanza riuniva ex-nemici che, nel corso degli ultimi de-
cenni, si erano combattuti con accanimento e crudeltà, come, ad esem-
pio, drusi e maroniti. L’opposizione al Governo era guidata dagli sciiti
(cioè dalle milizie di Amal e da Hezbollah) e dalla Corrente patriottica
libera, composta essenzialmente da cristiani guidati dal generale ma-
ronita Michel Aoun. Questi, ex-capo del Governo, nel 1989 aveva con-
dotto, con l’appoggio di Saddam Hussein, una lotta senza quartiere
contro la presenza siriana in Libano, senza ottenere alcun risultato.
Finito il mandato, lasciò il Paese e si trasferì in Francia. Ritornato a
Beirut, procedette, dopo il ritiro delle forze siriane, a un capovolgi-
mento delle alleanze, fenomeno molto comune nella recente storia li-
banese, avvicinandosi alle milizie di Amal e di Hezbollah. Questa si-
tuazione apparentemente curiosa è spiegabile tenendo presente due
fattori: 1) L’indebolimento delle forze cristiane, private della loro po-
sizione tradizionalmente dominante, dopo che gli accordi di Taëf del
56

1989 aveva indotto i capi maroniti a cercare la protezione dei musul-


mani. 2) Le grandi famiglie dei notabili filo-occidentali, come i Ge-
mayel, scelsero di allearsi con i sunniti capeggiati dalla ricca famiglia
degli Hariri; altri, come il generale Aoun, strinsero alleanza con gli
sciiti, sottorappresentati a livello istituzionale, ma forti dal punto di
vista elettorale. Il calcolo di Aoun (che contava sull’appoggio delle
masse maronite meno abbienti e sui greco-ortodossi) consisteva nel
cercare un avvicinamento e quindi un’alleanza politica con un’altra
minoranza confessionale, capace di far fronte alla marea sunnita, e la
individuò nei suoi nemici di un tempo, cioè gli sciiti. Ciò, inoltre, a
suo modo di vedere, avrebbe permesso di preservare la specificità del
Libano, come un Paese formato da un insieme di minoranze religiose.
La lista del generale Aoun ottenne la maggioranza dei deputati cri-
stiani eletti in Parlamento nel 2005.
Uscita di scena la Siria8, il campo antioccidentale fu interamente
occupato dal partito-milizia Hezbollah, che assunse la funzione di prin-
cipale oppositore alla politica filoccidentale in Libano. Alla fine, la cac-
ciata dell’esercito siriano dal Libano fece il gioco dell’Iran, che si av-
vantaggiò moltissimo del nuovo stato di cose. In tale circostanza la
seconda guerra israelo-libanese dell’estate del 2006 rappresentò per il
«partito di Dio» l’occasione propizia per travalicare la propria base
sciita e rivestire di nuovo i panni della resistenza per antonomasia a
Israele e per apparire, in tandem con il suo alleato siriano, «l’eroe di
tutte le cause antimperialiste, sostituendosi nell’immaginario collet-
tivo anche alla resistenza palestinese, la cui immagine era stata offu-
scata dalla sconfitta della seconda Intifada e dagli scontri fratricidi tra
i nazionalisti di al-Fatah e gli estremisti di Hamas»9.

La guerra dei trentatré giorni


La seconda guerra israelo-libanese, chiamata anche «dei trenta-
tré giorni» (in riferimento alla durata del conflitto) o «guerra dell’esta-

8 Cfr G. Kepel, Oltre il terrore e il martirio, Milano, Feltrinelli, 2009, 85. Sulla

situazione politica attuale del Libano si veda L. Larivera, «Tutto fermo in Libano», in
Civ. Catt. 2009 III 532-541.
9 G. Kepel, Oltre il terrore e il martirio, cit., 55.
57

te», scoppiò il 12 luglio 2006, quando militari Hezbollah, dopo aver lan-
ciato razzi in territorio israeliano, vi entrarono attaccando due veicoli
militari. Tre soldati israeliani furono uccisi durante l’attacco, due fu-
rono feriti e altri due catturati e condotti in Libano (successivamente
si seppe della loro morte). Il giorno seguente, il comando militare
israeliano ordinò attacchi fulminei contro obiettivi militari e civili,
considerati di interesse strategico. La guerra, nonostante le devasta-
zioni compiute nel Paese dei cedri, si concluse, come vedremo, con un
mezzo disastro dal punto di vista strategico-militare per Israele. La
comunità internazionale, con la sola eccezione degli Stati Uniti, nel
suo insieme condannò l’intervento sia a motivo della durezza deva-
stante dell’attacco (tra i più micidiali condotti dall’esercito della stella
di Davide), sia a causa della «sproporzione» – questa fu la parola
chiave che girò in quell’estate nelle cancellerie arabe e occidentali –
della risposta israeliana rispetto alla provocazione di Hezbollah.
In realtà, il Governo israeliano, secondo alcuni osservatori, colse
tale occasione per attaccare, seppure indirettamente, l’Iran, conside-
rato potenza nemica e oltremodo pericoloso per i propri interessi (so-
prattutto dopo la nomina a capo del Governo dell’islamista radicale
Ahmadinejad), e lo fece iniziando a colpire con determinazione Hez-
bollah, considerato la quinta colonna iraniana in terra libanese. Israele
insomma, mal calcolando la forza militare e il radicamento nel terri-
torio del movimento fondamentalista, intendeva far piazza pulita del
«partito di Dio» e dei suoi sostenitori nel giro di poche settimane. La
pericolosità di Hezbollah, in realtà, era già stata più volte sottolineata
negli anni passati da alcuni leader moderati del mondo arabo.
Nell’autunno del 2004 il re Abdullah II di Giordania aveva messo in
guardia l’Occidente contro «il pericolo di una mezzaluna sciita che si
estendesse dall’Iran al Libano, passando per l’Iraq e il Bahrein, dove
gli sciiti erano maggioritari, come pure per le minoranze sciite
dell’Arabia Saudita e della Siria». Anche il rais egiziano Mubarak, in
un’intervista a una televisione di Dubai, aveva dichiarato che gli sciiti
dei Paesi arabi, qualunque fosse la loro nazionalità, «erano fedeli in
primo luogo all’Iran e ai suoi ayatollah». In tal modo si accreditava la
vecchia tesi secondo la quale essi rappresentavano una sorta di quinta
colonna persiana all’interno del mondo arabo, specialmente di quello
58

sunnita, secondo un’idea che risaliva al conflitto tra persiani e arabi di


dieci secoli prima.
A partire dal 12 luglio, e per 33 giorni ininterrottamente, gli ae-
rei israeliani bombardarono il sud del Libano, dove furono distrutti o
rasi al suolo 235 villaggi, e la parte ovest di Beirut, mettendo fuori uso
gran parte delle maggiori infrastrutture del Paese, compreso l’aero-
porto internazionale, e provocando l’esodo di circa un milione di per-
sone, che si spostarono verso la capitale e il nord del Paese: fu una
catastrofe umanitaria pari a quella della prima guerra israelo-liba-
nese, ma si sviluppò in un arco di tempo molto più limitato. In tal
modo Israele intese far pagare, all’insieme dei libanesi, le conse-
guenze della politica antisionista di Hezbollah, spingendoli così a ribel-
larsi contro di esso.
Sotto il profilo umanitario la guerra fu micidiale e screditò in
tutto il mondo la superpotenza israeliana, che marciava in forze, uti-
lizzando la tecnologia bellica più avanzata, contro una delle regioni
più povere del Medio Oriente, sebbene, come si è detto, Hezbollah
fosse armato fino ai denti con materiale bellico di ultima generazione,
inviato dall’Iran e dalla Siria. In ogni caso si trattò di una guerra
«asimmetrica» e di un attacco «sproporzionato», considerato l’alto nu-
mero delle vittime libanesi, tra le quali fu difficile distinguere fra civili
e Hezbollah (poiché molti di questi non indossavano divise): secondo
una statistica di fonte governativa, il numero di libanesi uccisi fu di
1.400; il numero dei feriti di 3.628, e quello degli sfollati di 973.334.
Inoltre, il 30% delle vittime furono bambini sotto i 12 anni10.

I massacri
Particolare emozione in tutto il mondo civile provocò il cosid-
detto «massacro di Cana», piccolissimo villaggio, che si usa identifi-
care con quello nel quale, secondo il Vangelo di Giovanni, Gesù du-
rante una festa di nozze aveva trasformato l’acqua in vino. L’avia-
zione israeliana, sulla base di informazioni errate, il 30 agosto – quindi

Cfr W. Charara – F. Domont, Hezbollah. Storia del partito di Dio e geopolitica del
10

Medio Oriente, Roma, Derive e Approdi, 2006, 136.


59

dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco – colpì un edificio abitato


da 63 civili; sotto le macerie morirono 28 persone, tra cui 16 bambini11.
Tale massacro fu considerato da tutti i media arabi e occidentali come
un crimine di guerra, e la responsabilità morale di esso fu addebitata
al comando militare israeliano. Invece, i civili israeliani uccisi durante
il conflitto dai razzi a media e lunga gittata lanciati da Hezbollah dalle
sue postazioni sul confine libanese, furono 43 (compresi quattro morti
per attacchi cardiaci a motivo delle incursioni). I soldati israeliani uc-
cisi in combattimento variano, a seconda delle fonti, da 116 a 120;
mentre il numero dei feriti sarebbe di 45012.

Un’occasione mancata per gli israeliani


Anche per il Governo israeliano la «guerra dei trentatré giorni»
fu considerata come una partita persa e una preziosa occasione man-
cata. Nove mesi dopo il conflitto, i capi militari furono posti sotto in-
chiesta dalla Commissione Winograd, nominata dalla Knesset, per
fare luce sugli errori di conduzione dell’operazione. Si mise in evi-
denza che lo stato maggiore aveva organizzato l’attacco secondo il
modello dell’offensiva statunitense del 2003 in Iraq. Su tale base, si era
utilizzata in maniera massiccia l’aviazione, senza riuscire ad annien-
tare le linee difensive della milizia sciita, occultate in un dedalo di sot-
terranei e rifugi. In più, la popolazione si era mobilitata in favore di
Hezbollah, rendendo più difficile l’avanzata: per cui fu dato l’ordine di
evacuare tutto il territorio e di fare terra bruciata intorno. I civili fu-
rono invitati, attraverso volantini lanciati dagli elicotteri, ad abbando-
nare la zona di guerra. Anche i servizi segreti erano stati presi in con-
tropiede, ignorando che Hezbollah beneficiava di una vasta riserva di
missili a lunga gittata, che, dal confine libanese furono puntati sulla
parte nord del territorio israeliano, colpendo perfino la periferia della
città di Haifa. Tali missili puntati contro villaggi e città israeliane fu-
rono giudicati dalle autorità governative e militari, ma anche da gran
parte dalla popolazione israeliana, come una minaccia insostenibile e

11 Ivi, 134.
12 Il grosso delle truppe israeliane abbandonò il Libano soltanto il 1° ottobre,
anche se le ultime truppe continuarono a occupare il villaggio di confine di Ghayar
fino al 3 dicembre 2006.
60

un attacco alla sopravvivenza e alla sicurezza dello Stato. La guerra,


da parte israeliana, e anche da una parte dei media occidentali, appa-
riva perciò giustificata. La cessazione dell’attacco israeliano – che av-
venne per intermediazione delle Nazioni Unite ed entrò in vigore a
partire dal 14 agosto13 – nell’intero mondo arabo fu celebrata come un
trionfo sul nemico sionista, e il «partito di Dio» ne ricavò una riso-
nanza destinata a riflettersi sul suo protettore, l’Iran. La «vittoria di-
vina» fu attribuita dagli organi di propaganda del partito al coman-
dante di Hezbollah, Hassan Nasrallah, che divenne per gli islamisti ra-
dicali di tutto il mondo musulmano un «eroe della causa di Allah».

L’«apparente» vittoria di Hezbollah


In ogni caso la vittoria dell’«invincibile Hezbollah» contro
l’«esercito sionista» celebrata in toni trionfalistici in molte parti del
mondo islamico, fu più apparente che reale. In realtà, sottolinea il po-
litologo Gilles Kepel, «il cessate il fuoco si era tradotto in un rafforzato
spiegamento delle truppe Onu della Unifil, la forza di interposizione
in Libano, e dell’esercito libanese alla frontiera israelo-libanese, ren-
dendo disagevole, per il futuro, ogni eventuale e surrettizia offensiva
del partito di Dio, contro lo Stato ebraico»14. Ma nel mondo islamico
l’effetto simbolico dell’impasse di Tsahal (l’esercio israeliano) ebbe il
sopravvento sulle considerazioni di carattere politico-strategico sul
post-conflitto. In ogni caso una delle maggiori conseguenze che la
guerra dei trentatré giorni provocò nella regione fu il rafforzamento
dell’asse Teheran-Hezbollah e, in Libano, uno slittamento del rapporto
di forze a detrimento del campo filo-occidentale per le elezioni presi-
denziali del 2007, chiave di volta dei nuovi equilibri politici.
Come mai gli israeliani, così attenti (e soprattutto informati) a
cogliere il momento opportuno per portare avanti un attacco mirato,

13 L’11 agosto 2006 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approvò la


Risoluzione 1701 per far cessare le ostilità. Essa fu approvata nei giorni seguenti sia
dal Governo israeliano sia da Hezbollah, e stabiliva il ritiro delle truppe israeliane dal
Libano e il conseguente dispiegamento di una forza internazionale di interposizione
Onu al confine libanese, nonché il disarmo completo di Hezbollah, che di fatto non
fu mai attuato.
14 G. Kepel, Oltre il terrore e il martirio, cit., 56.
61

intrapresero un conflitto che già dai primi giorni si prospettava di dif-


ficile esito? Secondo G. Kepel il fatto è che, dopo la delusione dell’av-
ventura statunitense in Iraq, avevano deciso – per limitare gli effetti
disastrosi di quella guerra che aveva diviso la comunità internazio-
nale e l’opinione pubblica mondiale – di assumere in prima persona
l’iniziativa militare per garantire la propria sicurezza. Nella prospet-
tiva di uno scontro con l’Iran di Ahmadinejad, che minacciava in ogni
momento di cancellare Israele dalla carta geografica mediorientale e
continuava a reclamare l’accesso all’energia nucleare (sebbene dicesse
di farlo a scopi civili), essi pensavano di indebolire la Repubblica degli
ayatollah, annientando la capacità bellica di Hezbollah15. In tal modo
si intendeva lanciare un segnale forte anche ad Hamas, che in quel pe-
riodo monopolizzava con la sua proposta radicale la scena politica nei
territori occupati, inasprendo e radicalizzando lo scontro sociale.
Attraverso l’azione di Hezbollah l’Iran gradualmente estese la
propria ingerenza in questioni che erano fuori della propria influenza
e portata politica, in quanto tradizionalmente riservate alla dirigenza
araba sunnita: cioè la questione palestinese. L’intrusione di Teheran si
rafforzò dopo il 25 gennaio 2006, quando il Governo formato da Ha-
mas, che aveva vinto le recenti elezioni politiche, fu privato dei sussidi
che venivano versati all’Autorità Palestinese dalla Comunità europea,
dagli Stati Uniti e dagli Stati arabi del fronte filo-occidentale. In tal
modo si voleva costringere il partito di Governo a riconoscere lo Stato
di Israele, sottoscrivendo gli accordi presi dai precedenti Governi e a
rinunciare alla violenza come strumento di lotta politica. Ma la situa-
zione degenerò in lotta aperta tra i due maggiori partiti palestinesi,
che finirono per dividersi il territorio in due zone di influenza: Hamas
fece di Gaza il proprio quartier generale, cacciando praticamente i
componenti di al-Fatah, i quali, con l’aiuto dell’Occidente, assunsero il
controllo di parte della Cisgiordania16.
In questo periodo di grande difficoltà, soprattutto economica,
l’Iran, attraverso l’azione di Ahmadinejad, andò in soccorso di Hamas

15 Cfr Ivi, 59.


16 Cfr G. Sale, «Hamas e la questione palestinese», in Civ. Catt. 2009 IV 30-43;
P. Caridi, Hamas. Che cos’è e cosa vuole il movimento radicale palestinese, Milano, Feltri-
nelli, 2009, 228.
62

– considerato un’organizzazione islamista sorella, impegnata nella


lotta contro il nemico comune, cioè lo Stato di Israele – impegnandosi
a versare 250 milioni di dollari all’anno per aiutare il Governo islami-
sta a pagare gli stipendi ai funzionari.
Va anche ricordato che l’esperienza e il metodo di lotta adottato
in Libano dal partito di Dio, come per esempio le «azioni martirio»,
minuziosamente preparate per uccidere i nemici della causa islamica,
ebbero un grande influsso su Hamas, sebbene questo fosse un movi-
mento sunnita, nato all’interno della tradizione dei Fratelli Musul-
mani egiziani; anzi fu considerato il ramo palestinese di tale movi-
mento. Esso, nel giro di poco tempo, assunse tale metodo, quello cioè
del «suicidio-offensivo», come strumento estremo di lotta politica, ter-
rorizzando in questo modo il nemico, cioè Israele, che si trovò senza
difese nei confronti di tale nuova forma di aggressione. A partire dagli
ultimi anni assistiamo da parte sia di Hezbollah, sia di Hamas, a un
cambiamento di strategia di lotta e anche di programma politico. A
differenza di altre organizzazioni dell’islamismo radicale (come
quelle legate ad al-Qaeda o ai talebani), queste si stanno lentamente
organizzando come veri e propri partiti politici con un marcato carat-
tere comunitario (cioè con un forte radicamento nella popolazione e
nella realtà sociale), nei quali l’elemento nazionalista sta prendendo,
poco alla volta, il sopravvento su quello religioso fondamentalista17.
I nuovi capi di questi partiti, molti dei quali si sono formati in
università occidentali, hanno maturato la consapevolezza dell’impos-
sibilità di edificare, sia in Libano sia in Palestina, uno Stato confessio-
nale (come si riteneva fino a pochi anni prima); ciò li sta portando a
ripensare il loro programma politico e di azione.

17 Cfr W. Charara – F. Domont, Hezbollah. Storia del partito di Dio e geopolitica del

Medio Oriente, cit., 128; K. Hroub, Hamas, fondamentalismo islamico e terrorismo suicida
in Palestina, Milano, Bruno Mondadori, 2006, 37.
La Santa Sede e lo Stato di Palestina

Papa Francesco e i Presidenti Shimon Peres e Mahmoud Abbas nei


Giardini Vaticani (Vatican Media)

Nel mese di maggio 2015 la Santa Sede in diverse occasioni ha


trattato in modo specifico il tema della Palestina e dei palestinesi. Il 13
maggio, la Santa Sede ha annunciato che l’accordo globale con «lo
Stato di Palestina» stava per essere presentato alle rispettive autorità
per l’approvazione e la firma, dopo che i negoziati bilaterali tra le due
parti avevano raggiunto il loro obiettivo. Il 16 maggio, il presidente
Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha fatto visita a Papa Francesco ed è
stato ricevuto come capo di Stato. Il 17 maggio 2015, Papa Francesco
ha canonizzato i primi due santi palestinesi dei tempi moderni, la car-
melitana Maria di Gesù Crocifisso (Mariam Bawardi) e Marie-Al-
phonsine Ghattas, fondatrice delle Suore del Rosario.
Alcuni hanno gioito con i palestinesi, interpretando questi passi
come un importante progresso nel riconoscimento della loro soffe-
renza e dei loro legittimi diritti. Altri sono rimasti preoccupati per le
conseguenze che questi eventi potrebbero avere sulle relazioni con lo
Stato d’Israele e per le implicazioni riguardo al dialogo con gli ebrei.
È importante inquadrare gli eventi recenti in una prospettiva storica,
64

comprendendo lo sviluppo della posizione della Chiesa cattolica sul


conflitto israelo-palestinese, che essa stessa segue attentamente da de-
cenni.

La posizione della Santa Sede dal Vaticano II a Giovanni


Paolo II
Dopo il 1948, la Santa Sede ha espresso ripetutamente profonda
preoccupazione sia per lo stato dei Luoghi Santi, sia per il destino dei
cristiani palestinesi, molti dei quali hanno perso la casa lottando a
fianco dei loro connazionali musulmani nella prima guerra arabo-
israeliana del 1948. Quando Papa Paolo VI visitò la Terra Santa nel
1964, incontrando le autorità politiche sia israeliane sia giordane, non
fece esplicita menzione dello Stato di Israele o dei palestinesi. Fu il
Concilio Vaticano II a inaugurare una nuova era di dialogo con gli
ebrei, con la Dichiarazione Nostra aetate, in cui si dice che «la Chiesa,
che condanna tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore
del patrimonio comune con gli Ebrei, e mossa non da motivi politici, ma
da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni, le ma-
nifestazioni di antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e
da chiunque» (n. 4; corsivo nostro). Il documento non faceva riferi-
mento alle realtà politiche contemporanee in Terra Santa.
Non appena il dialogo con il popolo ebraico cominciò a svilup-
parsi, gli ebrei chiesero insistentemente alla Chiesa di riconoscere lo
Stato di Israele. Tuttavia la Chiesa sottolineò che, seppure risulti ac-
quisito «il vincolo religioso che affonda le sue radici nella tradizione
biblica», i cattolici non devono fare «propria una interpretazione reli-
giosa particolare di tale relazione». «Per quanto si riferisce all’esi-
stenza dello Stato di Israele e alle sue scelte politiche, esse vanno viste
in un’ottica che non è di per sé religiosa, ma che si richiama ai princìpi
comuni del diritto internazionale»1.
Fu Paolo VI il primo Papa ad affermare in modo esplicito che i
palestinesi erano un popolo, piuttosto che un semplice gruppo di

1 Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, Note per una corretta pre-

sentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica
(24 giugno 1986), VI, 1.
65

rifugiati. Nel 1975, durante il suo messaggio di Natale, disse: «Benché


coscienti della tragedia ancora recente che ha condotto il popolo
ebraico a cercare una protezione sicura in un suo Stato sovrano e in-
dipendente, noi vorremmo chiedere ai figli di questo popolo di rico-
noscere i diritti e le aspirazioni legittime di un altro popolo che ha
anch’esso sofferto per lungo tempo, il popolo palestinese».
Nel 1987, Papa Giovanni Paolo II nominò per la prima volta un
arabo palestinese come Patriarca latino di Gerusalemme, la più alta
autorità cattolica in Terra Santa. Il Patriarca Michel Sabbah divenne
una voce schietta, all’interno della Chiesa, nel proclamare le ingiusti-
zie che il suo popolo aveva sofferto per la continua occupazione, da
parte dello Stato d’Israele, delle terre palestinesi. In una lettera pasto-
rale del 1993, egli scrisse: «Dobbiamo forse essere vittime della nostra
stessa storia della salvezza, che sembra privilegiare il popolo ebraico
e condannare noi? È proprio questa la volontà di Dio, alla quale do-
vremmo piegarci inesorabilmente, senza appello e senza discussione,
e che ci chiederebbe di lasciare tutto a favore di un altro popolo?»2.
Sotto la guida di Sabbah, la Chiesa locale in Terra Santa ha par-
lato in modo forte e chiaro dei problemi dell’occupazione del territo-
rio palestinese e della discriminazione nei confronti dei cittadini arabi
nello Stato di Israele. Inoltre si è reso evidente come i cattolici fossero
divisi nelle loro posizioni: alcuni, ricordando la tragedia catastrofica
della Shoah, avevano maggiore comprensione per gli ebrei ed espri-
mevano solidarietà con Israele, mentre altri hanno evidenziato l’in-
giustizia fino a quel momento inflitta ai palestinesi e la necessità di
riconoscere i loro diritti. La Chiesa ha continuato a riflettere e a for-
mulare un discorso che potesse rimanere fedele al percorso di ricon-
ciliazione e di dialogo con gli ebrei, e nello stesso tempo promuovere
la giustizia per i palestinesi.
Papa Giovanni Paolo II, nel 1987, ricevette in udienza privata il
presidente Yasser Arafat, capo dell’Organizzazione per la Liberazione
della Palestina (Olp). Nei primi anni Novanta, l’inizio del processo di
pace tra israeliani e palestinesi fece sì che la Santa Sede stabilisse

2 M. Sabbah, Leggere la Bibbia oggi nella Terra della Bibbia (1° novembre 1993), n.
7.
66

relazioni sia con lo Stato di Israele (nel 1993), sia con l’Olp (nel 1994).
Sembrava quindi che il conflitto stesse per finire e che presto le due
parti si sarebbero accordate sui confini permanenti – e riconosciuti a
livello internazionale – dei due Stati, Israele e Palestina. Purtroppo le
cose non andarono così.

Accordo fondamentale tra Santa Sede e Stato d’Israele


In occasione della firma dell’Accordo fondamentale tra la Santa
Sede e lo Stato di Israele, nel 19933, il documento, pur sottolineando il
nuovo rapporto tra la Chiesa e il popolo ebraico, affermava chiara-
mente che la Chiesa non accettava alcuna interpretazione religiosa ri-
guardo alle pretese territoriali: «La Santa Sede, fatto salvo in ogni caso
il diritto a esercitare il proprio magistero morale e spirituale, ritiene
opportuno richiamare che, a motivo del suo stesso carattere, è solen-
nemente impegnata a rimanere estranea a qualsiasi conflitto pura-
mente temporale; tale principio è valido in particolare per i territori
disputati e le frontiere non definite»4.
Prima che le speranze per una soluzione del conflitto israelo-
palestinese fossero ancora una volta deluse, con l’ingresso del primo
ministro Ariel Sharon nella Spianata delle Moschee e l’inizio della se-
conda Intifada nel settembre 2000, un accordo di base fu firmato dalla
Santa Sede e dall’Olp nel febbraio 2000. L’accordo richiamava a una
pacifica soluzione del conflitto Palestinese-Israeliano, che avrebbe do-
vuto «realizzare i legittimi e inalienabili diritti e le aspirazioni del Po-
polo Palestinese, e assicurare a tutta la popolazione della regione pace
e sicurezza sulla base del diritto internazionale, delle risoluzioni delle
Nazioni Unite e del suo Consiglio di Sicurezza e dei principi di giu-
stizia e di equità»5.

3 Cfr G. Caprile, «La Santa Sede e lo Stato d’Israele», in Civ. Catt. 1991 I 352-
360.
4 Accordo fondamentale tra la Santa Sede e lo Stato di Israele (30 dicembre 1993), n.
11.
5 Accordo fondamentale tra la Santa Sede e l’Organizzazione di Liberazione della Pa-
lestina (15 febbraio 2000), Preambolo.
67

Nel marzo 2000, la visita di Giovanni Paolo II in Terra Santa fu


pionieristica, in quanto furono messi in atto gesti che sarebbero state
poi ripetuti dai Pontefici successivi. Giovanni Paolo II era desideroso
di esprimere i grandi risultati raggiunti nel dialogo con gli ebrei,
frutto della Nostra aetate, senza dimenticare la preoccupazione della
Chiesa per i palestinesi e l’impegno a lavorare per la giustizia e la
pace. Il Papa non visitò soltanto i leader israeliani e palestinesi, i san-
tuari ebrei e musulmani, ma andò anche a Yad Vashem, il monumento
che commemorava le vittime della Shoah, e al campo profughi di
Aida, dove i palestinesi soffrivano dal 1948.
Al suo arrivo a Betlemme, Giovanni Paolo II disse: «La Santa
Sede ha sempre riconosciuto che il popolo palestinese ha il diritto na-
turale ad avere una patria e il diritto a poter vivere in pace e tranquil-
lità con gli altri popoli di quest’area. A livello internazionale, i miei
Predecessori ed io abbiamo ripetutamente proclamato che non si sa-
rebbe potuto porre fine al triste conflitto in Terra Santa senza salde ga-
ranzie per i diritti di tutti i popoli coinvolti, sulla base della legge interna-
zionale e delle importanti risoluzioni e dichiarazioni delle Nazioni
Unite»6.
Papa Benedetto XVI, durante la sua visita nel 2009, ha svilup-
pato ulteriormente e chiarificato concettualmente la dottrina della
Chiesa sul conflitto che affligge la Terra Santa da quasi sette decenni.
In modo fermo, ha evocato di nuovo la vocazione della Chiesa a co-
struire ponti piuttosto che muri. Ha affrontato in modo diretto la de-
solante realtà della Terra Santa, dove i muri risaltano più dei ponti, ed
ha affermato: «Sia universalmente riconosciuto che lo Stato di Israele
ha il diritto di esistere e di godere pace e sicurezza entro confini inter-
nazionalmente riconosciuti. Sia ugualmente riconosciuto che il Po-
polo palestinese ha il diritto a una patria indipendente sovrana, a vi-
vere con dignità e a viaggiare liberamente. La “soluzione di due Stati”
diventi realtà e non rimanga un sogno»7.

6 Giovanni Paolo II, s., Discorso all’arrivo all’eliporto di Betlemme, 22 marzo 2000,

n. 2, in www.vatican.va
7 Benedetto XVI, Discorso all’aeroporto Ben Gurion, 15 maggio 2009.
68

Papa Francesco, seguendo le orme dei suoi predecessori, è an-


dato in Terra Santa nel maggio 2014. Nel suo discorso al presidente
palestinese Abbas, ha ribadito ancora una volta la posizione della
Santa Sede: «Nel manifestare la mia vicinanza a quanti soffrono mag-
giormente le conseguenze di tale conflitto, vorrei dire dal profondo
del mio cuore che è ora di porre fine a questa situazione, che diventa
sempre più inaccettabile, e ciò per il bene di tutti. Si raddoppino dun-
que gli sforzi e le iniziative volte a creare le condizioni di una pace
stabile, basata sulla giustizia, sul riconoscimento dei diritti di ciascuno
e sulla reciproca sicurezza. È giunto il momento per tutti di avere il
coraggio della generosità e della creatività al servizio del bene, il co-
raggio della pace, che poggia sul riconoscimento da parte di tutti del
diritto di due Stati ad esistere e a godere di pace e sicurezza entro con-
fini internazionalmente riconosciuti»8.
Quella stessa sera, all’aeroporto Ben Gurion, ha ripetuto le me-
desime parole nel discorso ai leader israeliani: «Pertanto rinnovo l’ap-
pello che da questo luogo rivolse Benedetto XVI: sia universalmente
riconosciuto che lo Stato d’Israele ha il diritto di esistere e di godere
pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti. Sia
ugualmente riconosciuto che il Popolo palestinese ha il diritto ad una
patria sovrana, a vivere con dignità e a viaggiare liberamente. La “so-
luzione di due Stati” diventi realtà e non rimanga un sogno»9.
A Betlemme, Papa Francesco ha guadagnato i titoli di testa della
stampa, quando ha fatto riferimento al Paese che lo ospitava come allo
«Stato di Palestina», piuttosto che riferirsi ad esso semplicemente
come al «Popolo palestinese». Rivolgendosi al presidente Abbas, ha
detto: «Il recente incontro in Vaticano con Lei e la mia odierna pre-
senza in Palestina attestano le buone relazioni esistenti tra la Santa
Sede e lo Stato di Palestina, che mi auguro possano ulteriormente in-
crementarsi per il bene di tutti»10.

8 Papa Francesco, Discorso nell’incontro con le autorità palestinesi, Betlemme, 25

maggio 2014.
9 Id., Discorso all’aeroporto Ben Gurion, 24 maggio 2014.
10 Id., Discorso nell’incontro con le autorità palestinesi, cit.
69

Tuttavia questa non era una novità, ma piuttosto una conse-


guenza del sostegno dato dalla Santa Sede alla decisione, del 29 no-
vembre 2012, delle Nazioni Unite di ammettere «lo Stato di Palestina»
come membro osservatore. L’espressione «Stato di Palestina» è ap-
parsa anche nei comunicati della Commissione bilaterale tra la Santa
Sede e lo Stato di Palestina.
Accordo globale tra Santa Sede e Stato di Palestina
Questo accordo globale, che attende la ratifica, riguarda la vita
e l’attività della Chiesa cattolica nel territorio della Palestina. In un’in-
tervista all’Osservatore Romano del 14 maggio 2015, mons. Antoine Ca-
milleri, sotto-segretario per i Rapporti con gli Stati e capo della dele-
gazione della Santa Sede nella Commissione bilaterale, ha spiegato:
«Il testo ha un preambolo e un primo capitolo sui princìpi e le norme
fondamentali che sono la cornice in cui si svolge la collaborazione tra
le parti. In essi si esprime, ad esempio, l’auspicio per una soluzione
della questione palestinese e del conflitto tra israeliani e palestinesi
nell’ambito della Two-State Solution e delle risoluzioni della comu-
nità internazionale, rinviando a un’intesa tra le parti. Segue un se-
condo importante capitolo sulla libertà religiosa e di coscienza, molto
elaborato e dettagliato. Ci sono poi altri capitoli su diversi aspetti della
vita e dell’attività della Chiesa nei Territori palestinesi: la sua libertà
di azione, il suo personale e la sua giurisdizione, lo statuto personale,
i luoghi di culto, l’attività sociale e caritativa, i mezzi di comunica-
zione sociale. Un capitolo è infine dedicato alle questioni fiscali e di
proprietà. Insomma, diversi aspetti dell’attività della Chiesa»11.
In questa importante intervista, mons. Camilleri ha anche indi-
cato il parallelo sviluppo dei negoziati con lo Stato di Israele: «I nego-
ziati con lo Stato di Israele hanno avuto uno sviluppo significativo a
partire dal luglio 1992 e dalla costituzione, anche in questo caso, di
una commissione bilaterale di lavoro tra le parti. Questa ha portato
all’elaborazione e alla successiva firma dell’accordo fondamentale tra
le parti nel dicembre 1993, cui è seguito lo stabilimento delle relazioni
diplomatiche nel giugno 1994. In esso erano previste ulteriori intese

11«Per il bene di tutta la società della Chiesa. Intervista al sotto-segretario per


i Rapporti con gli Stati», in Oss. Rom., 14 maggio 2015, 2.
70

per affrontare alcune questioni concrete. C’è stato poi un Accordo


sulla personalità giuridica delle istituzioni cattoliche (Legal Personality
Agreement), firmato nel novembre 1997. E poi, dal marzo 1999, sono in
corso i negoziati in vista della conclusione del cosiddetto Accordo eco-
nomico, che è quasi pronto e che mi auguro possa essere presto fir-
mato a beneficio di ambo le parti. Trattandosi di diverse questioni tec-
niche piuttosto dettagliate, nelle quali sono implicati diversi dicasteri,
le trattative hanno preso più tempo del previsto, anche perché a volte
i lavori sono stati rallentati da altri fattori»12.
Mons. Camilleri ha messo in risalto il contesto storico in cui si è
sviluppato il supporto della Chiesa alla «soluzione di due Stati». Ha
sottolineato che la risoluzione 181, del 29 novembre 1947, dell’Assem-
blea Generale delle Nazioni Unite «prevedeva la creazione di due
Stati, di cui finora uno solo ha visto la luce». Ha spiegato che «il rife-
rimento allo Stato di Palestina e quanto affermato nell’accordo sono
dunque in continuità con quella che è stata allora la posizione della
Santa Sede». Ha anche detto che la Santa Sede auspica che questi pro-
gressi nei rapporti bilaterali possano «in qualche modo aiutare i pale-
stinesi nel vedere stabilito e riconosciuto uno Stato della Palestina in-
dipendente, sovrano e democratico che viva in pace e sicurezza con
Israele e i suoi vicini, nello stesso tempo incoraggiando in qualche
modo la comunità internazionale, in particolare le parti più diretta-
mente interessate, a intraprendere un’azione più incisiva per contri-
buire al raggiungimento di una pace duratura e all’auspicata solu-
zione di due Stati»13.
La Santa Sede ha messo a punto la sua posizione nel corso degli
ultimi decenni, sviluppando un’importante riflessione sul conflitto tra
israeliani e palestinesi: una riflessione che tiene conto dell’impegno
della Chiesa per la Terra Santa e per i suoi Luoghi Santi, per la comu-
nità cristiana che vive lì, per una comprensione teologica della tradi-
zione biblica, per il dialogo sia con gli ebrei sia con i musulmani e per
la missione della Chiesa nel promuovere giustizia e pace. La Chiesa

12 Ivi.
13 Ivi.
71

continua a cercare un modo per proclamare i valori evangelici di giu-


stizia e di pace, di riconciliazione e di perdono in Israele e Palestina.
Questo potrebbe davvero essere il momento per far rivivere le
parole che Papa Francesco ha pronunciato quando ha ospitato i presi-
denti Peres e Abbas in Vaticano, nella Pentecoste del 2014: «Per questo
siamo qui, perché sappiamo e crediamo che abbiamo bisogno
dell’aiuto di Dio. Non rinunciamo alle nostre responsabilità, ma invo-
chiamo Dio come atto di suprema responsabilità, di fronte alle nostre
coscienze e di fronte ai nostri popoli. Abbiamo sentito una chiamata,
e dobbiamo rispondere: la chiamata a spezzare la spirale dell’odio e
della violenza, a spezzarla con una sola parola: “fratello”. Ma per dire
questa parola dobbiamo alzare tutti lo sguardo al Cielo, e riconoscerci
figli di un solo Padre»14.

Papa Francesco, Invocazione per la pace, Giardini Vaticani, 8 giugno 2014, in


14

www.vatican.va
A cinquant’anni dalla Guerra dei sei giorni

foto: IsraeliGPO

In occasione del cinquantesimo anniversario della Guerra dei


sei giorni del 1967, combattuta tra lo Stato di Israele e i Paesi arabi
limitrofi (Egitto, Siria e Giordania), è opportuno ripercorrere le vi-
cende che hanno portato a quel conflitto, che ha modificato la storia
moderna del Medio Oriente e sancito l’affermarsi di Israele come vera
e propria potenza regionale. Questo fatto è stato vissuto nell’immagi-
nario del mondo arabo come una sconfitta non soltanto militare, ma
anche politica e culturale. A tale proposito si è anche parlato di «sin-
drome dell’infelicità araba»1 e del rancore nei confronti dei sionisti e
dei loro alleati occidentali.
Fino all’affermarsi del cosiddetto «Stato Islamico» (2014), la
lotta contro il nemico sionista era stato uno dei punti centrali dei pro-
grammi dei movimenti dell’islamismo radicale e del terrorismo trans-
nazionale (come al Qaeda). Con l’Isis questo elemento è passato in se-
condo piano. Ciò non significa, però, che sia cessato. Esso, infatti, può
essere propagandisticamente riattivato in ogni momento dai movi-
menti radicali – come è avvenuto nel recente passato – per compattare
le piazze arabe.

1 Cfr S. Kassir, L’infelicità araba, Torino, Einaudi, 2006, 48 s.


73

I precedenti della Guerra dei sei giorni


Nasser, all’apice della sua popolarità e del suo prestigio, si era
fatto paladino della causa palestinese e difensore della «nazione»
araba in funzione antioccidentale e antisraeliana. Secondo alcuni sto-
rici, quella che la dirigenza israeliana definì «Guerra dei sei giorni» –
chiamata dagli arabi semplicemente «Guerra di giugno» – andrebbe
compresa nel contesto delle manovre diplomatiche e militari di Nas-
ser che facevano pensare alla preparazione di un conflitto armato.
Secondo lo storico israeliano Benny Morris, la guerra fu il risul-
tato «di errori e fraintendimenti di entrambe le parti»2. Una settimana
prima, il servizio segreto delle forze armate israeliane, nel suo esame
della situazione strategica nazionale, aveva segnalato che «un con-
flitto nell’immediato futuro era altamente improbabile». Inoltre aveva
affermato che per il momento non era interesse dell’Egitto intrapren-
dere una guerra contro Israele, e che gli altri Paesi limitrofi, in parti-
colare la Siria, non si sarebbero mossi senza l’aiuto massiccio dell’eser-
cito egiziano3. E questo nonostante le iniziative egiziane contro
Israele.
Il 13 maggio 1967 i sovietici informarono ufficialmente l’Egitto
che Israele stava ammassando delle truppe in vista dell’invasione
della Siria: si parlava di un contingente di 10-12 brigate, e del 17 mag-
gio come probabile data dell’attacco. Lo stesso giorno il ministro della
Difesa siriano, Hafiz al Asad, chiese all’Egitto di prendere misure di
deterrenza nei confronti di Israele. Questi, che non aveva spostato
truppe verso il confine e neppure mobilitato i riservisti, invitò

2 B. Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Milano, Rizzoli,


2003, 382.
3 Di fatto, i rapporti tra Siria e Israele si fecero sempre più tesi, anche a motivo

della recrudescenza, a partire dal 1965, degli attentati terroristici contro obiettivi
israeliani. In varie occasioni missili siriani vennero lanciati dalle Alture del Golan
verso il territorio di Israele, che rispondeva con azioni di ritorsione soprattutto nei
confronti della Giordania. Il 7 aprile 1967, nel corso di una breve battaglia aerea sul
lago di Tiberiade, l’aviazione israeliana abbatté sei Mig 21 siriani. La Russia accusò
Israele di voler colpire il regime filosovietico di Damasco, mentre l’Egitto, strategica-
mente, non intervenne, e questo fatto non fu certo gradito dai Paesi coinvolti nel con-
flitto. Diverse circostanze spinsero subito dopo Nasser ad agire con forza nei con-
fronti dei «sionisti», al fine di riaffermare la sua leadership sul mondo arabo.
74

l’ambasciatore sovietico a ispezionare la zona. Egli però declinò l’in-


vito. Il capo di Stato maggiore egiziano Mohamed Fawzi fece un so-
pralluogo sul confine, e stilò poi una relazione, nella quale diceva:
«Non ho trovato nessun dato concreto a sostegno delle informazioni
ricevute. Al contrario, le fotografie aeree scattate dai ricognitori siriani
non rivelavano alcuno spostamento di reparti dalla disposizione nor-
male»4.
Perché l’Unione Sovietica accese la miccia della contesa e, so-
prattutto, perché, nonostante la relazione informativa stilata da
Fawzi, Nasser continuò i preparativi di guerra? Pare che il leader egi-
ziano non volesse la guerra con Israele, e in ogni caso non in quel mo-
mento, in cui una parte del suo esercito era impegnato nel conflitto
con lo Yemen (in appoggio alle forze repubblicane) al fine di contra-
stare l’espansione dell’Arabia Saudita nella regione.
Le dimostrazioni di forza del mese di maggio avevano, in realtà,
un valore più propagandistico (interpretando i sentimenti anti-sioni-
sti presenti nel mondo arabo) che strategico-militare. Nasser sperava
che le pressioni internazionali, da una parte, e le minacce egiziane,
dall’altra, avrebbero intimorito Israele e favorito una convergenza di-
plomatica, come era avvenuto nella crisi di Suez nel 19565. Di fatto le
cose andarono diversamente, perché sia l’Unione Sovietica sia gli Stati
Uniti non erano intenzionati a entrare nel conflitto, sebbene Mosca fa-
cesse di tutto per «impelagare» Washington nel ginepraio mediorien-
tale.
Il 14 maggio Nasser decretò lo stato di emergenza nazionale e
ordinò l’assembramento di truppe nella penisola del Sinai. Le forze
armate in assetto di guerra vennero fatte sfilare davanti all’ambasciata
statunitense. Il 20 maggio Nasser chiese al segretario dell’Onu U
Thant di ritirare le forze di interposizione presenti nel Sinai e a Gaza,
cosa che egli fece immediatamente. La partenza dei caschi blu
dall’Egitto fu interpretata dalla comunità internazionale come un

4 B. Morris, Vittime…, cit., 415.


5 Cfr M. Campanini, Storia del Medio Oriente 1798-2005, Bologna, il Mulino,
2006, 146.
75

segnale negativo. Gli israeliani pensavano, però, che sull’orlo del pre-
cipizio Nasser si sarebbe fermato.
La situazione si fece seria quando il 23 maggio Nasser annunciò
la chiusura degli stretti di Tiran alle navi israeliane. Questi stretti met-
tevano in comunicazione, attraverso il golfo di Aqaba, il porto israe-
liano di Eilat con il Mar Rosso. Poiché essi si trovano davanti alle coste
della penisola del Sinai, Nasser sosteneva che si trattava di acque ter-
ritoriali egiziane, mentre gli israeliani dichiaravano che erano acque
internazionali. Questa posizione era stata sostenuta già dal 1956 anche
dagli Stati Uniti6.
La reazione di Israele a questa decisione fu molto forte. Alla riu-
nione dello Stato maggiore delle Forze di difesa israeliane (Idf), uno
dei suoi capi affermò che in questo caso non si trattava di una que-
stione di libertà di navigazione, ma della sopravvivenza stessa di
Israele. «Se Israele non reagisce – disse –, perderà ogni credibilità, e
l’Idf ogni potere di deterrenza; gli Stati arabi vedranno nella debo-
lezza di Israele un’occasione per mettere in forse la sua sicurezza e la
sua stessa sopravvivenza»7.
Questa posizione era sostenuta da tutti i capi militari e politici
del Paese. Gli Stati Uniti, pur avendo condannato la chiusura degli
stretti, avevano comunicato a Israele la loro ferma opposizione ad
ogni azione unilaterale da parte sua. Washington propose allora di
formare una flotta internazionale per forzare il blocco egiziano, e
quindi di portare la questione su un piano più generale. Ma per Israele
il problema centrale non era questo.
Intanto Egitto e Siria stipularono un trattato di reciproca difesa,
al quale il 31 maggio aderì anche il re di Giordania. Con esso il so-
vrano hashemita accettava che le sue forze armate passassero sotto il
comando di un generale egiziano e che sul proprio territorio venissero
dislocate truppe irachene e saudite.

6 Cfr J. L. Gelvin, Il conflitto israelo-palestinese. Cent’anni di guerra, Torino, Ei-

naudi, 2007, 222.


7 B. Morris, Vittime…, cit., 382.
76

I media mediorientali erano unanimemente orientati alla


guerra, e le trasmissioni radiofoniche trasmettevano proclami belli-
cosi antisraeliani, richiamando tutti alla battaglia contro il «nemico
sionista». Questo tipo di propaganda non lasciò indifferente la mag-
gior parte della popolazione israeliana, che temeva di vivere un se-
condo Olocausto, e ciò spinse la classe dirigente e i militari ad agire.
Il 1° giugno il capo del Governo, Levi Eshkol, per far fronte alla grave
situazione, formò un nuovo Governo di coalizione nazionale, nomi-
nando ministro della Difesa il «falco» Moshe Dayan e come ministri
senza portafoglio due esponenti dell’opposizione di destra, uno dei
quali era Menachem Begin.
Il giorno successivo, in una riunione segreta tra lo Stato mag-
giore militare e il nuovo Governo, si optò per la guerra, ma senza fis-
sare alcuna data precisa. Il 4 giugno il Governo autorizzò le forze ar-
mate a intervenire quando lo avessero ritenuto opportuno. Il capo del
Governo, che fino a quel momento era rimasto esitante, si lasciò per-
suadere sulla necessità dell’attacco immediato da Meir Amit, direttore
dell’agenzia di intelligence del Mossad, il quale, di ritorno da Washing-
ton, affermava che l’amministrazione statunitense avrebbe appog-
giato qualsiasi operazione militare che avesse «disarcionato Nasser».
I servizi segreti statunitensi, infatti, erano convinti che l’esercito israe-
liano sarebbe stato in grado di sconfiggere in breve tempo quello della
coalizione araba. Sembra che il presidente Lyndon B. Johnson, in un
primo tempo contrario alla guerra, si fosse lasciato convincere sull’op-
portunità dell’attacco da alcuni amici e consiglieri ebrei durante un
fine settimana (31 maggio) trascorso nel suo ranch texano8.

La Guerra dei sei giorni


Il 5 giugno mattina i caccia israeliani, con un attacco preventivo,
colpirono a terra l’80% dell’aviazione da guerra egiziana, successiva-
mente il 70% di quella siriana e quasi integralmente quella giordana.
Dopo il blitz aereo ci fu l’offensiva di terra, diretta sulla Striscia di

8 Cfr ivi, 393.


77

Gaza e sul Sinai9. L’Egitto si trovò così a combattere contro il «nemico


sionista» – che seppe sapientemente coordinare gli attacchi di terra
con la potente copertura aerea – con i soli mezzi corazzati disponibili.
Il 7 giugno, nel cuore della penisola del Sinai si ebbe lo scontro
diretto tra i due eserciti: dopo la Seconda guerra mondiale, questa è
stata la più grande battaglia di mezzi blindati (più di mille carri armati
per ciascuna parte). L’indomani, l’esercito israeliano10 raggiunse Suez
e si impadronì di Sharm El Sheikh, e nello stesso tempo occupò Gaza.
La mattina del 9 giugno tutto il Sinai era caduto nelle mani degli israe-
liani11.
Uno dei punti di forza della strategia israeliana era che il coman-
dante in capo dell’Idf, Moshe Dayan, aveva fatto di tutto per tenere
ben distinti i diversi fronti di guerra, cioè quello egiziano, quello gior-
dano e quello siriano. E così di fatto avvenne. Re Hussein si impegnò
a fondo per difendere la Cisgiordania, e in particolare Gerusalemme
Est. La battaglia di Gerusalemme fu certamente tra le più difficili per
gli israeliani. Essi combatterono casa per casa, impegnando molti

9 Intorno alle 7, 30 della mattina 183 caccia israeliani si alzarono in volo e si


diressero verso il Mediterraneo; dopo 18 minuti di volo, facendo una inversione a U,
volarono il più basso possibile per non essere intercettati dai radar egiziani, pren-
dendo di mira 11 basi aeree egiziane. Furono bombardate innanzitutto le piste di at-
terraggio, rendendole inutilizzabili; subito dopo furono colpiti i Mig allineati sulle
piste o ancora chiusi negli hangar, distruggendone 189, più 8 in scontri aerei. La se-
conda ondata, che partì qualche ora dopo, ne distrusse altri 107. In tutto furono colpiti
304 aerei da guerra egiziani, su un totale di 419, mentre l’Idf ne perse soltanto 9. La
terza ondata, intorno alle 12, 45, attaccò la Siria, la Giordania e l’Iraq, i cui aerei ave-
vano iniziato a colpire obiettivi israeliani. L’intera aviazione di guerra giordana fu
distrutta (28 caccia): mentre di quella siriana ne fu colpita la metà (53 caccia). Verso
le 11, 00, Ezer Weizman, capo delle operazioni dello Stato maggiore, telefonò alla mo-
glie e le disse: «Abbiamo vinto la guerra». Cfr ivi, 402.
10 L’esercito israeliano (Idf) comprendeva circa 250.000 uomini, dei quali tre

quarti erano riservisti e un quarto coscritti. Gli eserciti arabi (formati da professioni-
sti) erano di gran lunga più numerosi, ma con uno scarso livello di addestramento e
di meccanizzazione. Tra i due schieramenti, secondo Morris, c’era un’indiscutibile
differenza di motivazione: mentre i soldati arabi combattevano per il loro Paese con-
tro Israele, quelli israeliani combattevano non solo per la sopravvivenza dello Stato,
ma anche per quella delle loro famiglie e di ciò che avevano di più caro. Cfr ivi, 393.
11 Cfr E. Barnavi, Storia d’ Israele. Dalla nascita dello Stato all’assassinio di Rabin,

Milano, Bompiani, 2002, 183.


78

uomini, e senza la copertura aerea, per non distruggere la città antica.


La sera del 7 giugno Gerusalemme Est era stata interamente conqui-
stata. Il giorno successivo l’amministrazione ebraica della parte Ovest
della città venne estesa anche a Gerusalemme Est, dando così luogo
alla sua annessione di fatto.
Il fronte siriano rimaneva ancora aperto. Esso in realtà era
quello più delicato, perché la Siria era considerata alleata di Mosca.
Secondo alcuni studiosi, infatti, c’era il pericolo che un attacco alle Al-
ture del Golan potesse scatenare una guerra ben più ampia e impe-
gnativa. Dayan, nonostante questo rischio, di propria iniziativa (e
sulla base degli ampi poteri conferitigli dal Governo), il 9 giugno ini-
ziò i combattimenti sul Golan. Va ricordato che dal 1948 i siriani da
quelle Alture lanciavano ogni tanto razzi contro Israele, mantenendo
così sempre alta l’ostilità tra i due Paesi. Occupando le Alture, si vo-
leva far cessare «lo stillicidio dei bombardamenti e ottenere così il con-
trollo totale della più importante riserva idrica del Paese, cioè il lago
di Tiberiade»12.
Il 10 giugno il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite intimò
alle parti in lotta il cessate il fuoco, che divenne praticamente opera-
tivo soltanto due giorni dopo, quando l’esercito israeliano aveva or-
mai conquistato le Alture del Golan.
In sei giorni, quindi, l’esercito israeliano aveva conquistato
manu militari la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza (appartenenti
all’Egitto), nonché le Alture del Golan (appartenenti alla Siria) e l’in-
tera Cisgiordania e Gerusalemme Est (appartenenti alla Giordania),
aumentando di tre volte e mezzo l’estensione del Paese. La guerra
aveva provocato una nuova ondata di profughi (circa 300.000), che si
riversarono nei Paesi arabi limitrofi, andando così ad aggiungersi a
quelli (500.000) della guerra del 194813. Non è chiaro quanti fra quelli
che abbandonarono il Paese furono minacciati dai soldati israeliani e
quanti invece se ne andarono spontaneamente o per paura dei com-
battimenti. «Alcuni indizi suggeriscono – scrive Morris – che soldati

12 M. Emiliani, Medio Oriente. Una storia dal 1918 al 1991, Bari – Roma, Laterza,

2012, 172.
13 Cfr I. Pappé, La pulizia etnica della Palestina, Roma, Fazi, 2008, 227.
79

israeliani muniti di megafono abbiano obbligato i residenti palestinesi


a lasciare la Cisgiordania»14.
La Guerra dei sei giorni, iniziata con un sorprendente blitz aereo
e terminata in un lasso di tempo molto breve, dal punto di vista mili-
tare fu una grande vittoria per Israele, che divenne la maggiore po-
tenza militare della regione. Ma, dal punto di vista politico, allora ini-
ziarono per il giovane Stato i problemi legati alla difficile gestione del
dopoguerra. Infatti un milione di palestinesi, che abitavano in Ci-
sgiordania e a Gerusalemme Est, dall’oggi al domani si ritrovarono
sotto occupazione militare, e Israele scoprì, come conseguenza della
guerra, di essere la nazione mediorientale con il più alto numero di
palestinesi al suo interno.
La guerra ebbe conseguenze disastrose nel mondo arabo. Segnò
la fine della parabola nasseriana (il leaderegiziano chiese di abbando-
nare tutti gli incarichi pubblici, anche se le folle lo costrinsero a rima-
nere ancora al potere) e del cosiddetto «socialismo panarabo», che
aveva caratterizzato gli anni Cinquanta e Sessanta15. Dopo la guerra
si diffuse nel mondo arabo un senso di frustrazione e di impotenza
che ebbe ricadute notevoli in ambito politico e sociale16.
La Guerra dei sei giorni fu una sconfitta anche per l’Unione So-
vietica che, dopo aver acceso la miccia del conflitto, non era interve-
nuta per sostenere i propri alleati. In realtà essa appoggiò gli arabi più
per la logica di opposizione all’avversario (in quanto Israele era con-
siderato alleato degli Usa) che per convinzione ideologica17. A partire
da quel momento Mosca perse per molto tempo ogni tipo di influenza

14 B. Morris, Vittime…, cit., 451.


15 Cfr A. Gresh, Israele, Palestina. Le verità su un conflitto, Torino, Einaudi, 2004,
85.
16 Al fine di riconquistare i territori perduti nella Guerra dei sei giorni, l’Egitto

e la Siria nel 1973, in occasione della festa ebraica dello Yom Kippur, lanciarono con-
tro Israele un attacco congiunto (6-25 ottobre) dal Sinai e dalle Alture del Golan. Dopo
i primi successi la situazione volse a favore dell’esercito israeliano, colto di sorpresa
dall’attacco e numericamente inferiore. In ogni caso, l’Egitto riuscì a riprendere il con-
trollo del canale di Suez, il che non era poca cosa. Gli accordi di Camp David del 1978
portarono in seguito alla normalizzazione dei rapporti tra Israele ed Egitto. L’Egitto
è stata la prima nazione araba a riconoscere l’esistenza dello Stato israeliano.
17 Cfr M. Campanini, Storia del Medio Oriente 1798-2005, cit., 151.
80

politica all’interno del mondo arabo. Gli Stati Uniti, che a quanto pare
avevano incoraggiato Israele (senza però aiutarlo militarmente), dopo
la guerra decisero di sostenerlo in ambito internazionale, e negli anni
successivi finanziarono il suo riarmo in funzione anti-araba.
La Guerra dei sei giorni cambiò radicalmente la natura stessa
dei rapporti tra arabi e israeliani. In precedenza la questione di fondo
era stata l’esistenza stessa di Israele come entità statale, che Nasser
aveva definito «un insanabile scandalo»; dopo la guerra le posizioni
si capovolsero e la posta in gioco fu la restituzione dei territori occu-
pati dagli eserciti israeliani. Il che, come è stato ricordato, divenne un
vero problema per Israele, che era disposto a ritirarsi, tramite accordi
di pace, dal Sinai, dalle Alture del Golan e dalla Cisgiordania, ma non
da Gerusalemme Est, nella quale si trova il Muro del Pianto, il centro
religioso del mondo ebraico. Dayan, contro il parere di molti rabbini,
assicurò ai musulmani l’accesso alla Spianata delle moschee e volle
che Gerusalemme rimanesse aperta a tutti i credenti delle grandi reli-
gioni monoteiste, che in quel luogo avevano i loro principali luoghi di
culto.
Per quanto riguarda la Cisgiordania, Israele propose a re Hus-
sein un progetto di spartizione, conosciuto come il «piano Allon».
Questo prevedeva la cessione di gran parte del territorio conquistato
alla Giordania, mentre Israele avrebbe tenuto il controllo soltanto di
una fascia di terra lungo la valle del Giordano. Prevedeva, inoltre, che
in Giordania fossero create colonie ebraiche per motivi di sicurezza.
In questo modo Israele si sarebbe «liberato» di gran parte della popo-
lazione palestinese che viveva nella regione e che, a suo avviso, sa-
rebbe stata fonte di instabilità.
Il progetto, che fu di volta in volta aggiornato, da parte israe-
liana rimase in vigore fino al 1977; «segnò l’inizio di quel processo di
colonizzazione dei Territori occupati, e divenne uno degli ostacoli più
duri alla pace tra israeliani e palestinesi»18.

18 M. Emiliani, Medio Oriente. Una storia dal 1918 al 1991, cit., 184.
81

La risoluzione dell’Onu n. 242 del 1967


La comunità internazionale intervenne subito per risolvere la
difficile situazione che si era creata in seguito alla guerra e che vedeva
schierati su fronti opposti arabi e israeliani. La risoluzione del Consi-
glio di Sicurezza n. 242 del 22 settembre 1967 fissò princìpi chiari, in
linea con il diritto internazionale, anche se poi essi vennero interpre-
tati in modo differente dalle varie parti. La redazione del testo fu affi-
data all’ambasciatore inglese all’Onu, Lord Caradon19.
Il testo, nella parte generale, ribadiva «l’inammissibilità dell’ac-
quisizione di territori mediante la guerra e l’esigenza di operare per
una pace giusta e duratura», affinché tutti gli Stati dell’area potessero
vivere in sicurezza. Nella parte dispositiva, fissava due princìpi: da
un lato, imponeva a Israele «il ritiro delle forze armate dai territori
occupati»; dall’altro, chiedeva il «riconoscimento della sovranità,
dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica di tutti gli Stati
dell’area e del loro diritto a vivere in pace entro confini certi e ricono-
sciuti».
Israeliani, egiziani e giordani accettarono subito la risoluzione
dell’Onu, mentre la Siria la accolse soltanto nel 1973. I palestinesi
dell’Olp, invece, non l’accettarono, in quanto essa non li considerava
come parte in causa: la risoluzione trattava di loro soltanto nella parte
che riguardava i diritti dei profughi; in ogni caso, non riconosceva
l’Organizzazione come portavoce del popolo palestinese. Soltanto con
l’accordo di Oslo del 1993 (che riconosceva i diritti nazionali dei pale-
stinesi) l’Olp di Arafat accettò integralmente la risoluzione dell’Onu
del 196720.
Nell’agosto del 1967 gli Stati arabi si riunirono a Khartum, in
Sudan, per negoziare una soluzione unitaria. In quella sede i capi
arabi optarono per i famosi tre «no»: no a negoziati con il vincitore del
conflitto; no al riconoscimento dello Stato israeliano; no alla pace con
Israele. Ma, secondo alcuni studiosi, la posizione che essi assunsero
era meno intransigente di quanto potesse apparire. Gli Stati arabi

19Cfr T. G. Fraser, Il conflitto arabo-israeliano, Bologna, il Mulino, 2004, 93 s.


20Cfr A. Gresh, Israele, Palestina. Le verità su un conflitto, cit., 94; H. Laurens, La
Question de la Palestine. I. L’invention de la Terre Sainte, Paris, Fayard, 1999.
82

furono d’accordo sull’unificare gli sforzi per «eliminare gli effetti


dell’aggressione», e non, come in passato, per sopprimere Israele.
I loro capi, inoltre, convennero di non negoziare con Israele, ma
di avviare negoziati per altra via. Cosa che di fatto avvenne in base al
cosiddetto «modello Rodi»21, cioè ricorrendo alla mediazione delle
grandi superpotenze. Ora, poiché l’Unione Sovietica non aveva rap-
porti diplomatici con Israele, di fatto soltanto gli Stati Uniti per de-
cenni hanno avuto il ruolo di mediatori riconosciuti tra le due parti.
Ciò ha accresciuto considerevolmente il peso e il prestigio politico de-
gli Usa in tutta la regione mediorientale, rendendoli in qualche modo
arbitri della situazione.
La Guerra dei sei giorni ebbe anche importanti conseguenze in
ambito culturale e religioso. Secondo molti imam, la sconfitta degli
eserciti arabi fu dovuta non tanto a motivi militari quanto a motivi
religiosi: essa rappresentava una punizione di Dio perché lo Stato si
era secolarizzato, nonché per l’apostasia dei suoi governanti, in parti-
colare Nasser, che aveva fatto imprigionare molti Fratelli musulmani,
fautori di un islam politico e sociale.
Intanto gli scritti di Sayyid Qutb, che era stato impiccato nel
1966, iniziarono a circolare dopo la guerra, ponendo le basi ideologi-
che del cosiddetto «islamismo radicale», che predicava il jihad contro
l’Occidente. L’islamismo degli anni Settanta può essere certamente
considerato come un frutto avvelenato di questo conflitto. «Caduti i
miti del liberalismo – scrive Campanini –, del socialismo e del nazio-
nalismo arabo, molti sentirono che l’autentica alternativa era l’islam,
e alcuni decisero di vivere questa alternativa in modo radicale, addi-
rittura violento»22.
Nello stesso periodo, anche in Israele iniziò ad affermarsi, so-
prattutto per opera dei rabbini, un tipo di fondamentalismo ebraico
che, basandosi sulla cosiddetta «teologia della terra», sosteneva che
non erano state le armate dell’Idf a conquistare i Territori, ma che Dio
stesso li aveva liberati per il popolo eletto, e che quindi essi non

21 Cfr J. L. Gelvin, Il conflitto arabo-palestinese. Cent’anni di guerra, cit., 229.


22 M. Campanini, Storia del Medio Oriente 1798-2005, cit., 152.
83

dovevano essere in nessun modo restituiti ai palestinesi. Questa posi-


zione, fatta propria dai partiti religiosi, e in parte anche dal Likud
(oggi partito di Governo), ebbe un ruolo fondamentale nel contrastare
il principio «terra in cambio di pace», proposto per lungo tempo dalla
dirigenza israeliana (di sinistra) per risolvere la difficile questione.
Questo principio fu posto alla base degli accordi di Oslo del
1993, che, sebbene in parte siano falliti, hanno rappresentato il tenta-
tivo più serio di riportare la pace nel conflitto israelo-palestinese. Ma
tale argomento non rientra nell’oggetto di questo studio.

Conclusione
La Guerra dei sei giorni ha dato origine a tre tipi di problemi,
che per decenni hanno avvelenato i rapporti tra israeliani e palesti-
nesi: quello degli insediamenti ebraici in Cisgiordania; quello dei pro-
fughi palestinesi accolti nei Paesi arabi limitrofi (ai quali fu promesso
in diverse occasioni il ritorno in patria); e quello di Gerusalemme
(«unita e indivisa»), dichiarata nel 1980 dal Parlamento di Israele
(Knesset) «capitale eterna di Israele».
A cinquant’anni dalla guerra, tali questioni, che per decenni
sono state oggetto di contesa, di lotta e di accordi internazionali, sono
ancora aperte, anzi sul piano politico sembrano tuttora irrisolvibili.
Fatto sta che i coloni israeliani, in questi cinquant’anni, hanno allar-
gato i loro insediamenti con il consenso ora implicito ora esplicito dei
vari Governi che si sono succeduti.
Su questa «rampante annessione» veglia l’esercito, che ha
spesso il doppio ruolo di protettore e di complice. Il 7 febbraio 2017
laKnesset si è pronunciata in favore di una legge retroattiva che espro-
pria legalmente migliaia di proprietà private palestinesi. Qualcuno ha
giustificato tale iniziativa dicendo che la Corte Suprema avrebbe poi,
come in passato, annullato questa decisione come anticostituzionale.
Intanto la dirigenza israeliana intendeva dare un segnale politico
chiaro in direzione dell’annessione delle proprietà già occupate.
Va sottolineato che questa decisione è stata resa possibile anche
dall’elezione, come nuovo Presidente degli Stati Uniti, di Trump che,
84

nel corso della campagna elettorale, si era pronunciato a favore degli


israeliani23. Egli aveva anche annunciato di voler trasferire l’amba-
sciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, città ancora contesa
tra israeliani e palestinesi. Ora, se Trump dovesse dare corso a tale
progetto, questa decisione rinfocolerebbe in un colpo solo due con-
flitti, cioè quello arabo-israeliano e quello israelo-palestinese, con il
rischio di conseguenze imprevedibili.
Oggi la Cisgiordania, sulla base degli accordi di Oslo, è divisa
in tre zone: quella «A», che è sotto il controllo palestinese e dove si
trovano le città più importanti e popolose come Ramallah e Gaza;
quella «B», sottoposta a un controllo misto; e quella «C», che è la più
estesa (comprende i due terzi dell’intero territorio) e nella quale è con-
centrata gran parte delle colonie. In questa zona vivono circa mezzo
milione di coloni israeliani (altri 200.000 vivono a Gerusalemme),
mentre i residenti palestinesi sono soltanto 100.000.
Secondo lo scrittore Abraham Yehoshua, il Governo israeliano
dovrebbe concedere i diritti politici e civili ai palestinesi che vivono in
questa zona, che peraltro sono svantaggiati rispetto ai loro connazio-
nali che abitano nelle zone «A» e «B», dovendo subire quotidiana-
mente le prepotenze della maggioranza israeliana. Questa proposta
presenta però molti rischi sotto il profilo politico24: in pratica, infatti,
si adotterebbe la «soluzione binazionale» (con israeliani, che per il mo-
mento sono la maggioranza, e palestinesi, che convivono in uno stesso
Stato nazionale con uguali diritti e doveri) in luogo di quella dei «due
Stati» indipendenti e sovrani, come – in osservanza della risoluzione
dell’Onu del 1947 sulla spartizione della Palestina – è stato sempre
richiesto dalla comunità internazionale.

23 Prima che scadesse il suo mandato, Obama aveva lasciato che il rappresen-

tante statunitense al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non ponesse, come di
solito, il veto (ma scegliesse l’astensione) a una risoluzione che condannava l’occupa-
zione di nuove aree abitative nei Territori palestinesi da parte del Governo Neta-
nyahu. Questi ha «gridato» al complotto del Presidente uscente contro Israele, mentre
Trump ha immediatamente twittato che con la sua presidenza le cose sarebbero cam-
biate.
24 Cfr B. Valli, «Palestina. Cinquant’anni dopo la guerra dei Sei giorni lo Stato

e la pace restano un’illusione», ne la Repubblica, 14 febbraio 2017, 12.


85

Oggi però la situazione politica mediorientale è molto cambiata.


Israele non è più isolato in Medio Oriente come lo era dopo la Guerra
dei sei giorni: infatti, ha dalla sua parte l’Arabia Saudita, con la quale
non ha rapporti diplomatici, anche se entrambi i Paesi sono alleati de-
gli Stati Uniti. La contrapposizione tra mondo sunnita e mondo sciita,
per conquistare la leadership del mondo islamico, ha cambiato gli
schieramenti in lotta: Israele e Arabia Saudita condividono lo stesso
nemico regionale, cioè l’Iran degli ayatollah25.
Questo avvicinamento tra Israele e il mondo sunnita, secondo
alcuni osservatori, potrebbe favorire la soluzione della questione
israelo-palestinese. Secondo fonti non ufficiali, l’Arabia Saudita infatti
starebbe spingendo per la soluzione dei «due Stati» che, se divenisse
effettiva, «toglierebbe all’Iran – ha dichiarato un funzionario vicino ai
Sa’ud – qualunque pretesto per fornire aiuti economici ai gruppi ter-
roristici della regione»26, in particolare agli hezbollah. Questi ultimi, fo-
raggiati fino a poco tempo fa dalle ricche monarchie del Golfo, sono
tra i vincitori nella lotta contro lo Stato Islamico e contro l’Isis.
Insomma, la situazione è più complessa di quanto alle volte ap-
paia e la risoluzione del conflitto israelo-palestinese, soprattutto a mo-
tivo degli insediamenti nei Territori, sembra purtroppo sempre più
difficile da raggiungere in sede negoziale.

25 Cfr ivi, 13.


26 «La strana alleanza tra Arabia Saudita e Israele», in www.internazionale.it
| 26 luglio 2016.
Gerusalemme città sacra e città aperta

foto: krystianwin

Il 14 maggio di quest’anno ricorreva l’anniversario della fonda-


zione dello Stato di Israele, avvenuta nel 1948 in ottemperanza alla
risoluzione delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947, che stabiliva la
nascita, nel territorio della Palestina, ex mandato inglese, di due Stati
indipendenti e sovrani: quello ebraico e quello palestinese. Questa ri-
soluzione, a causa dell’opposizione dei Paesi arabi alla cosiddetta
«spartizione», non è stata mai attuata. Nella ricorrenza di tale anni-
versario, il presidente Donald Trump ha voluto che avvenisse il tra-
sferimento dell’ambasciata degli Stati Uniti – come aveva unilateral-
mente dichiarato il 6 dicembre 20171 – da Tel Aviv a Gerusalemme.
Questa decisione, oltre ad avere un forte significato simbolico, ha an-
che una grande rilevanza politica, in quanto si oppone all’indirizzo
finora seguito su questa delicata materia dalla gran parte della comu-
nità internazionale in ottemperanza alle varie risoluzioni delle Na-
zioni Unite, che per Gerusalemme Est intende mantenere per il mo-
mento lo status quo, in attesa di decisioni concordate.
Occorre anche notare che il giorno successivo, il 15 maggio, il
mondo arabo ha ricordato il settantesimo anniversario della

1 Cfr G. Sale, «La questione di Gerusalemme capitale», in Civ. Catt. 2018 I 331-
342; G. Pani, «La Giordania e Gerusalemme», ivi 2018 II 257-264.
87

cosiddetta Nakba (catastrofe): in questa occasione si fa memoria


dell’espulsione – in seguito alla guerra arabo-israeliana del 1948-49 –
di circa 500.000 (secondo altri, più di 700.000) palestinesi dalle loro
case e dalla loro terra, costretti a cercare asilo in Paesi limitrofi2. Que-
sto evento è stato ricordato, come tutti gli anni, nella Striscia di Gaza
con diverse manifestazioni, che sono iniziate il 30 marzo e si sono te-
nute nei pressi della frontiera con Israele3. Ciò ha dato origine a scon-
tri tra le due parti: l’esercito israeliano in diverse occasioni ha risposto
aprendo il fuoco contro i manifestanti che tentavano di oltrepassare il
reticolato di confine, e questo ha provocato la morte di 49 persone, tra
cui due giornalisti, e il ferimento di almeno altre 1.500 persone.
Questi avvenimenti cadono in un momento molto delicato per
il Governo israeliano, impegnato a impedire che la Siria diventi una
«terra di conquista» dei pasdaran iraniani e degli Hezbollah sciiti, da
dove poter minacciare la sicurezza di Israele. Secondo gli analisti, ciò
spiega i frequenti bombardamenti di obiettivi militari iraniani in Siria
– di solito non rivendicati – operati negli ultimi mesi dall’artiglieria e
dall’aviazione israeliane.
In ogni caso, il recente trasferimento dell’ambasciata Usa a Ge-
rusalemme ha certamente una rilevanza storica. Le vicende degli ul-
timi decenni dimostrano come il problema della «Città santa» e quello
riguardante la soluzione del conflitto israelo-palestinese siano stretta-
mente legati e interdipendenti, e questo fatto non può essere ignorato,
né tantomeno sottovalutato.
La decisione di Trump di trasferire l’ambasciata, inoltre, ha
avuto come risultato non voluto quello di sottoporre nuovamente
all’interesse della comunità internazionale e dell’opinione pubblica il
problema di Gerusalemme, dopo che negli ultimi anni, a causa della

2 La nostra rivista si è interessata più volte di questo tema: cfr G. Sale, «La

fondazione dello Stato di Israele e il problema dei profughi palestinesi», in Civ. Catt.
2011 I 107-120.
3 La cosiddetta «Marcia del ritorno» è una manifestazione, iniziata il 30 marzo

2018, per reclamare il diritto dei palestinesi a ritornare nei loro territori, da cui furono
cacciati dall’esercito israeliano nel 1948, e anche per denunciare il blocco imposto da
Israele nel 2007 sulla Striscia di Gaza. Cfr A. Ayman, «La resistenza che unisce gli
abitanti di Gaza», in Internazionale, 4 maggio 2018, 22.
88

lotta contro l’Isis e il terrorismo islamico, non se ne parlava quasi più4.


Anche i «nuovi jihadisti», infatti, a differenza di al-Qaeda, nella loro
propaganda politica hanno in qualche modo «derubricato» la que-
stione palestinese (che per decenni aveva agitato il mondo arabo), ri-
tenendola non più fondamentale per l’unità del mondo musulmano.

Gerusalemme città sacra delle tre religioni monoteiste


Gerusalemme (in arabo al-Quds) è città sacra per le tre grandi
religioni abramitiche – l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam –, alle
quali fanno riferimento circa tre miliardi di persone nel mondo. Per
gli ebrei, è il luogo dove si trova il loro tempio, la dimora di Dio. An-
che se esso fu completamente distrutto dai romani nel I secolo d.C., e
l’intero popolo ebraico fu costretto alla diaspora. Ogni volta che gli
ebrei venivano cacciati dalla loro patria, il loro sogno era di ritornare
a Gerusalemme; da qui l’augurio che gli ebrei della diaspora si scam-
biavano da secoli per la festa di Pesach: «L’anno prossimo a Gerusa-
lemme», riaffermando la centralità di questa città nella loro vita.
Gerusalemme è città santa anche per i cristiani di tutte le con-
fessioni. Infatti, in essa si sono svolti i fatti decisivi della vita di Gesù
Cristo. In questa città si trovano alcuni fra i più importanti luoghi di
culto della cristianità, come ad esempio la basilica costantiniana del
Santo Sepolcro, oggi divisa tra ortodossi, cattolici, armeni, copti e altre
confessioni cristiane. Dopo la dolorosa e controversa esperienza delle
crociate, nel XIV secolo fu istituita – e riconosciuta dal Sultano – la
«Custodia di Terra Santa», alla quale era affidata la tutela dei Luoghi
Santi, e non soltanto di Gerusalemme. Essa è ancora affidata ai frati
francescani e ha un certo riconoscimento in ambito internazionale.
Per i musulmani di tutto il mondo, sia sunniti sia sciiti, Gerusa-
lemme è la terza città santa, dopo Mecca e Medina. È la città da dove
(precisamente dal luogo dove oggi si trova la moschea di Omar o Cu-
pola della Roccia) il profeta Maometto – secondo una tradizione me-
dievale – è asceso al cielo per parlare con Dio. In questo stesso luogo

4 Cfr T. Marshall, Le 10 mappe che spiegano il mondo, Milano, Garzanti, 2017, 181.
89

si trova una delle più antiche e venerate moschee dell’islam, «quella


più lontana», cioè al-Aqsa.
Tutti questi luoghi, carichi di grande significato religioso per le
tre fedi abramitiche – cosa unica al mondo –, si trovano in un raggio
spaziale non superiore al chilometro quadrato. Due di questi – cioè il
luogo santo degli ebrei e le moschee dell’islam – sono ubicati nello
stesso spazio fisico, cioè la grande Spianata del Tempio. Per gli ebrei
osservanti è vietato calpestare il luogo dove era ubicato il Santuario,
lo spazio più interno del Tempio, il Sancta Sanctorum; e poiché non se
ne conosce l’esatta ubicazione, la proibizione vale per l’intera Spia-
nata.
Dal canto loro, i musulmani nei secoli passati hanno esteso a
tutta la Spianata lo spazio del recinto sacro, definendolo al-Haram al-
sharif («il nobile santuario»). L’unica parte rimasta alla venerazione
degli ebrei è il cosiddetto «Muro del Pianto» o muro occidentale (che
era un muro di sostegno, risalente all’epoca del Secondo Tempio), da-
vanti al quale, in occasione della «Guerra dei sei giorni» del 1976
(quando gli israeliani occuparono buona parte di Gerusalemme Est),
fu realizzata una grande piazza, per rendere più agevole il culto, eli-
minando un fatiscente quartiere arabo. Non lontano da questi luoghi
si trova la «Via dolorosa», che porta alla basilica del Santo Sepolcro.
A motivo dell’importanza che Gerusalemme ha per le tre grandi
confessioni religiose, quello che avviene in questa città ha ripercus-
sioni internazionali. Il più piccolo errore nella gestione dei luoghi di
culto può provocare gravi conflitti, come di fatto è accaduto nel pas-
sato recente tra arabi e israeliani. Gerusalemme è come una polveriera
che può esplodere in ogni momento, mandando in frantumi uno sta-
tus quo accolto e contestato allo stesso tempo dalle comunità che la
abitano. In ogni caso, il conflitto israelo-palestinese non sarà mai ri-
solto fino a quando non si troverà una soluzione condivisa su Geru-
salemme.
Eppure il sionismo, che dalla fine del XIX secolo ha dato avvio
al movimento di ritorno degli ebrei della diaspora in Palestina con
l’obiettivo di costruirvi uno Stato «autenticamente ebraico», aveva po-
sto ai margini della sua propaganda politica e ideologica la sacralità
90

della città di Gerusalemme. Esso era un movimento filo-europeo e


laico, che sposava le idealità della sinistra e considerava Gerusalemme
un relitto del passato, una città «bigotta, superstiziosa e improdut-
tiva», lontana dalle vie commerciali del Medio Oriente e circondata
da un territorio arido e povero di risorse materiali.
Va però anche ricordato che i nuovi arrivati dall’Europa, oltre
alle idee di progresso e di civiltà – dichiarandosi ora socialisti ora li-
berali –, portarono nel nuovo Paese anche il fanatismo religioso e set-
tario (che di solito considera il ghetto come una fortezza), il naziona-
lismo militarista e tutte le sue rivendicazioni pseudo-imperialiste.
«Mentre – secondo lo scrittore israeliano Amos Oz – sono stati proprio
gli immigrati d’Oriente (ebrei sefarditi e altri) a portare qui con sé un
antico patrimonio di moderazione, di relativa tolleranza religiosa e di
abitudine a vivere in un regime di buon vicinato anche con chi non ti
assomiglia»5.

Gerusalemme e la fondazione dello Stato di Israele


Quando, il 29 novembre 1947, l’Onu approvò, con la risoluzione
n. 181, il progetto di spartizione della Palestina (che fino ad allora era
stata sotto il mandato britannico) in due Stati autonomi e indipendenti
– uno arabo e l’altro ebraico –, i capi sionisti del tempo si affrettarono
ad accettare il piano delle Nazioni Unite, e il 14 maggio 1948, in una
sala del museo di Tel Aviv – che divenne la capitale del nuovo Stato
nazionale – David Ben Gurion dichiarò l’indipendenza dello «Stato
ebraico». In questo testo solenne, Gerusalemme – la città da sempre
invocata dai pii ebrei della diaspora – non veniva citata neppure una
volta. Lo Stato di Israele dunque nacque a prescindere da Gerusa-
lemme.
A differenza degli ebrei, gli Stati arabi non accettarono il «piano
di spartizione», ritenendolo una violazione dei diritti inalienabili e in-
disponibili dei palestinesi, che da secoli avevano abitato quella terra.
Per quanto riguardava Gerusalemme, considerate le difficoltà che
presentava una sua eventuale divisione, il piano di spartizione del

5 A. Oz, Cari fanatici, Milano, Feltrinelli, 2017, 19.


91

1947 affermava che essa doveva essere istituita come un corpus separa-
tum sotto un regime internazionale speciale e doveva essere ammini-
strata dalle Nazioni Unite6. Il suo territorio doveva, inoltre, includere
altri piccoli villaggi limitrofi, come Betlemme.
Il primo ministro David Ben Gurion, al fine di non inimicarsi gli
ebrei osservanti, affermò che la perdita di Gerusalemme (città da lui
non amata) era il prezzo che si doveva pagare per la fondazione di
uno Stato ebraico. Presto però essa sarebbe stata in parte occupata,
manu militari, dagli eserciti israeliani. Ciò avvenne quando, nel mag-
gio del 1948, gli Stati arabi confinanti con Israele (Egitto, Libano, Siria,
Giordania e persino l’Iraq) gli dichiararono guerra. Guerra che fu
vinta dal nuovo Stato, il quale ne approfittò per «estendere» i confini
indicati dal piano di spartizione a proprio vantaggio, inglobando una
parte di Gerusalemme, e per «liberare» alcune aree del Paese dalla
presenza dei residenti palestinesi (da cui l’insolubile problema dei
profughi).
Gli Accordi di armistizio del 1949 tra Israele e gli Stati arabi di-
visero in due parti, con la cosiddetta «Linea Verde», la città di Geru-
salemme: la parte occidentale (Gerusalemme Ovest) fu assegnata agli
israeliani, mentre la parte orientale (Gerusalemme Est), dove si tro-
vava la Città Vecchia, e quindi il Monte del Tempio e i luoghi sacri dei
cristiani, fu attribuita ai giordani.
L’Onu non riconobbe questi accordi e si attenne ai confini fissati
dal piano di spartizione. Negli anni successivi, però, sia la Giordania
sia Israele preferirono lasciare divisa Gerusalemme. Come per tutte le
città spaccate in due da un conflitto – ad esempio, Berlino e Belfast –,
anche per Gerusalemme la divisione è stata percepita da tutti come
dilaniante: una città che fino ad allora era stata vissuta come una realtà
unitaria, complessa ma complementare, veniva da un giorno all’altro
smembrata, sia sul piano materiale sia su quello culturale e spirituale:
«Gerusalemme – scrive un religioso residente a un suo confratello –
lascia una sensazione di tristezza nella mia memoria. La città è sur-
reale come se la divisione fosse una sorta di congegno malvagio

6 Cfr D. Neuhaus, «La Chiesa cattolica e la Città Santa», in Civ. Catt. 2018 I 10-
22.
92

piazzato nel cuore della notte da un demone, come se fosse una beffa
oscena. Ma non è uno scherzo, e la crudeltà è rimarcata dai muri, le
barriere, i fili spinati, i fucili e i soldati»7.
Pio XII, con due encicliche – In multiplicibus, del 1948, e Redemp-
toris nostri, del 1949 –, chiese l’instaurazione di un «regime internazio-
nale» nella Città santa, al fine di «garantire la tutela dei santuari», as-
sicurare libertà di accesso ai luoghi di culto e rispettare i costumi e le
tradizioni religiose del luogo. Questo appello non fu accolto dalle
parti, anzi fu ostacolato perfino dalle altre confessioni cristiane pre-
senti in Terra Santa, perché temevano che il Vaticano volesse in qual-
che modo garantirsi una condizione di vantaggio su di esse8.
È a partire da questo momento che Gerusalemme entra a pieno
titolo nella storia dello Stato di Israele, divenendone, per motivazioni
sia politiche sia religiose, un elemento costitutivo. Il primo ministro
Ben Gurion già nel 1950, in seguito alla proposta dell’Onu di interna-
zionalizzazione della città, decise con determinazione di spostare la
Knesset (cioè il Parlamento israeliano) e diversi ministeri a Gerusa-
lemme, in modo da renderne definitiva l’annessione.
Poi, soltanto nel 1980, dopo l’unificazione della città in seguito
alla «Guerra dei sei giorni», il Parlamento israeliano votò una «legge
fondamentale», cioè di livello costituzionale, che dichiarava Gerusa-
lemme «capitale unica e indivisibile dello Stato ebraico». L’Onu, con
la risoluzione n. 478, definì la legge «nulla e priva di validità», in
quanto violava il diritto internazionale e ostacolava il raggiungimento
della pace tra israeliani e palestinesi. La comunità internazionale con-
tinuò pertanto a tenere le proprie ambasciate a Tel Aviv e a non rico-
noscere a Gerusalemme il rango di capitale di Israele9.

7 P. Caridi, Gerusalemme senza Dio. Ritratto di una città crudele, Milano, Feltri-

nelli, 2017, 189. Sulle vicende di Gerusalemme dopo la guerra del 1948, cfr V. Lemire
(ed.), Gerusalemme. Storia di una città-mondo, Torino, Einaudi, 2017, 90 s.
8 Cfr P. Pieraccini – E. Dusi, «Gerusalemme: un accordo impossibile?», in Li-

mes, 1/2001, 98. Sui rapporti tra Santa Sede e Gerusalemme, cfr D. Neuhaus, «La
Chiesa cattolica e la Città Santa», cit.
9 Cfr E. Dusi – P. Pieraccini, «La battaglia per Gerusalemme», in Limes

(www.limesonline.com/cartaceo/la-battaglia-per-Gerusalemme), 13 luglio 2010.


93

Gerusalemme e la «Guerra dei sei giorni»


Per quanto riguarda la recente storia dello Stato di Israele e della
città di Gerusalemme, la «Guerra dei sei giorni» ha un’importanza
fondamentale10. Fu questa guerra infatti – combattuta in meno di una
settimana (5-10 giugno 1967) tra il potente e motivato esercito israe-
liano e quelli degli Stati arabi confinanti, numericamente più cospicui,
ma peggio equipaggiati – che ridefinì i confini fissati dall’Onu, suc-
cessivamente dilatati a favore di Israele dalla guerra del 1948. In se-
guito Israele occupò militarmente la Cisgiordania (dove sarebbe do-
vuto nascere lo Stato palestinese) e Gerusalemme Est, togliendole alla
Giordania, strappò all’Egitto la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza
e alla Siria le alture del Golan. Questa «vittoria maledetta», come re-
cita il titolo di un recente libro di Ahron Bregman11, fu all’origine di
infinite questioni, dispute, accordi falliti, sanguinose intifade e soffe-
renze indicibili per i due popoli – quello palestinese e quello israeliano
–, che vivevano uno accanto all’altro, uno contro l’altro.
Le truppe israeliane occuparono la Città Vecchia e la Spianata
del Tempio il 7 giugno 1967. In quell’occasione il rabbino capo
dell’esercito, il generale Shlomo Goren, fu uno dei primi ad accorrere
sul luogo per portarvi il rotolo della Legge e per suonare lo shofar; egli
propose anche al generale Uzi Narkiss – secondo la testimonianza di
questi – di far esplodere con la dinamite la moschea di Omar.
Fu Moshe Dayan, ministro della Difesa, a riportare ordine nel
luogo sacro e a impedire il peggio, innanzitutto ordinando di rimuo-
vere le bandiere israeliane fatte sventolare in cima alla Cupola della
Roccia e alla moschea di al-Aqsa, e intimando ai paracadutisti di sgom-
berare la Spianata12. Poi riconsegnò alle milizie musulmane la custo-
dia del luogo: di fatto, otto delle nove porte che davano accesso alla
Spianata furono consegnate al waqf (custode dei luoghi santi
dell’islam); gli israeliani presero possesso soltanto della nona entrata,

10 Cfr G. Sale, «A cinquant’anni dalla guerra dei sei giorni», in Civ. Catt. 2017

II 262-275.
11 Cfr A. Bregman, La vittoria maledetta. Storia di Israele e dei Territori occupati,

Torino, Einaudi, 2017.


12 Cfr B. Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Milano, Riz-

zoli, 2001, 405 s.


94

la cosiddetta «Porta dei maghrebini», dove fu istituito un comando di


polizia13.
Questa decisione fu avversata dagli ebrei tradizionalisti e ul-
traortodossi, che avrebbero desiderato impossessarsi della Spianata in
vista di una possibile ricostruzione del Terzo Tempio. Al fine di sco-
raggiare tentativi di questo tipo, pochi giorni dopo il rabbinato di
Israele proibì l’ingresso nella Spianata – in virtù della legge ebraica,
che vieta di calpestare il luogo (sconosciuto) del Sancta Sanctorum – a
tutti gli ebrei. Da quel momento sulla Spianata, oltre ai musulmani,
salgono soltanto turisti ed ebrei non religiosi.
Nel novembre di quell’anno il Consiglio di Sicurezza delle Na-
zioni Unite votò la risoluzione n. 242, in cui si stabiliva che Israele do-
veva prontamente restituire tutti i territori occupati in cambio di una
pace duratura. Questo avrebbe dovuto vincolare Israele a mantenere
lo status quo nei territori, cosa che però Israele non attuò: anzi, nei fatti
palesò la volontà di estendere la sua sovranità sulla Cisgiordania e
soprattutto su Gerusalemme Est, espellendone, per quanto possibile,
la popolazione araba14.

13 Dopo la «Guerra dei sei giorni» la Giordania dovette abbandonare Gerusa-

lemme. Essa conservò però il diritto di nominate il gran muftì, cioè il capo religioso
dei musulmani gerosolimitani e il custode della Spianata delle moschee. Questo po-
tere nel 1994 passò dalla Giordania all’Autorità nazionale palestinese, in seguito a un
conflitto che sorse tra queste due autorità. Nel trattato di pace firmato quell’anno tra
Israele e Giordania si affermava: «Israele rispetta il ruolo speciale della Giordania nei
luoghi santi di Gerusalemme. Durante i negoziati verso lo status finale, Israele darà
alta priorità al ruolo storico della Giordania su questi santuari». Questo passo suscitò
le ire di Arafat che, appena morì il gran muftì di Gerusalemme, si affrettò a nominarne
uno palestinese e a installarlo nella carica, consegnandogli anche le chiavi della Spia-
nata. Lo stesso fece la Giordania, ma quest’ultimo gran muftì rimase in carica per poco
tempo, senza un potere effettivo. Sul ruolo della Giordania, cfr G. Pani, «La Giordania
e Gerusalemme», cit.
14 Israele annesse la parte orientale di Gerusalemme dopo la sua occupazione

militare, cioè alla fine di giugno 1967. In seguito l’Onu approvò due importanti riso-
luzioni (nn. 2253 e 2254), in cui condannava l’annessione e chiedeva allo Stato di
Israele di astenersi da ogni azione che potesse alterare lo status quo della città. Mentre
il Regno Unito votò a favore di entrambe le risoluzioni, gli Stati Uniti, come avevano
fatto altre volte, si astennero, dichiarando però che si opponevano all’espansione ter-
ritoriale di Israele. Nessuno dei due Paesi però trasferì la propria ambasciata da Tel
95

Gli eventi del 1967 provocarono anche un importante cambia-


mento nella politica della Santa Sede nei confronti della Terra Santa.
Paolo VI abbandonò l’ipotesi dell’internazionalizzazione di Gerusa-
lemme, considerata non più realistica, e propose, in alcune allocu-
zioni, uno «statuto internazionalmente garantito», finalizzato alla tu-
tela della libertà di culto e alla conservazione dei Luoghi Santi, «con
particolare riguardo alla fisionomia storica e religiosa di Gerusa-
lemme»15.
A partire dal giugno 1967 Israele occupò gran parte di Gerusa-
lemme Est: in tal modo, la cosiddetta «Linea Verde» perse molto del
suo significato. I nuovi confini amministrativi della città vennero così
estesi alla parte orientale, e la sua superficie passò da 38 a 108 kmq16.
Da questo tracciato furono lasciati fuori i quartieri più densamente
popolati di palestinesi, perché considerati difficili da amministrare e
da gestire anche sul piano del welfare. Furono invece incorporate di-
verse aree, a quel tempo disabitate, che cingevano la Città Vecchia e
che furono destinate al verde pubblico. Su queste terre negli ultimi
decenni sono sorti diversi insediamenti israeliani, vere e proprie «co-
lonie-città» (alcune con più di 50.000 abitanti), dove vive una parte
considerevole dei gerosolimitani.
I primi permessi per la costruzione di nuovi e moderni quartieri
ebraici a Gerusalemme furono concessi dall’amministrazione comu-
nale già dal 1968. Il più convinto sostenitore della strategia di «ebrai-
cizzare» Gerusalemme – contravvenendo alle risoluzioni dell’Onu –
attraverso l’edilizia residenziale fu il sindaco di allora Teddy Kollek.
In questo modo la città sarebbe rimasta per sempre in mano a Israele,
e non sarebbe passata a un eventuale Stato palestinese. Tale indirizzo
nei decenni successivi fu seguìto – e non soltanto a Gerusalemme – sia
dai governi di destra sia da quelli di sinistra.

Aviv a Gerusalemme. Cfr N. Erakat, «La pace si ferma a Gerusalemme», in Interna-


zionale, 15-21 dicembre 2017, 20.
15 Cfr D. Neuhaus, «La Chiesa cattolica e la Città Santa», cit., 16 s.
16 Gli abitanti di Gerusalemme salirono così a 263.000, di cui 197.000 ebrei,

55.000 musulmani e 11.000 cristiani. Cfr P. Pieraccini – E. Dusi, «Gerusalemme: un


accordo impossibile?», cit., 99.
96

Questa politica di annessione condotta da Israele nei confronti


di Gerusalemme Est venne fortemente condannata, oltre che
dall’Onu, anche dall’Ue, che la considerava di ostacolo al processo di
pace. «Attraverso nuovi insediamenti – denunciava una sua dichiara-
zione –, costruzione della barriera, politiche edilizie discriminatorie,
demolizione delle case, restrizione dei permessi e ripetute chiusure
delle istituzioni palestinesi si rafforza la presenza ebraica a Gerusa-
lemme Est, s’indebolisce la comunità araba, si impedisce lo sviluppo
urbano palestinese e si separa Gerusalemme Est dal resto della Ci-
sgiordania»17.
Oggi non è per nulla facile per gli ebrei acquistare terreni per
costruire case o altro nella parte Est di Gerusalemme. Tuttavia questo
può essere fatto o costringendo (in vario modo) i possidenti arabi ad
abbandonare le loro proprietà, oppure attraverso l’emanazione di or-
dinanze di demolizione di edifici vecchi, pericolanti o abusivi da parte
del Comune. La vendita di case o di terreni agli israeliani è vietata da
una fatwa (editto religioso) del 1925, ribadita poi nel 1997. Il colpevole
che si macchia di questo «delitto» viene di fatto espulso dalla comu-
nità, e quindi non può beneficiare di funerali religiosi, né può essere
sepolto insieme agli altri credenti. Arafat stesso aveva ordinato ai suoi
collaboratori di usare il pugno di ferro per vietare la vendita di pro-
prietà agli ebrei, e il ministero di Giustizia palestinese propose la pena
di morte contro questo crimine.
A Gerusalemme oggi ci sono circa 880.000 residenti, di cui il 63%
sono israeliani e il 37% palestinesi. Nella parte orientale della città,
cioè quella annessa dopo la guerra del 1967, abitano circa 300 palesti-
nesi. Questi, avendo rifiutato nel 1967 la cittadinanza israeliana, al fine
di non legittimare la politica dei «fatti compiuti» dell’unificazione,
sono considerati «residenti permanenti». Pagano le tasse e godono dei
diritti riservati agli israeliani, ma non hanno il diritto di voto nelle ele-
zioni legislative.
Secondo molti osservatori, il problema principale con il quale
Gerusalemme si dovrà confrontare in futuro sarà quello demografico
(cioè, il mantenimento dell’ebraicità dello Stato). A questo proposito,

17 E. Dusi – P. Pieraccini, «La battaglia per Gerusalemme», cit.


97

in alcuni ambienti si parla di «bomba demografica», con la quale alla


fine i palestinesi sconfiggeranno i loro nemici18: di fatto, il tasso di cre-
scita dei palestinesi è da diversi anni molto superiore a quello degli
ebrei. Questi ultimi, negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso,
hanno beneficiato dell’arrivo di molti ebrei aschenaziti, per lo più os-
servanti, con numerosa prole al seguito, che provenivano dalla Russia
o da Paesi ex comunisti. Questa immigrazione ora però è cessata.

Gerusalemme tra gli Accordi di Oslo e il Vertice di Camp Da-


vid
La «questione di Gerusalemme» – la sua divisione e le sue con-
traddizioni – ha contribuito in questi decenni a fomentare il contrasto
tra palestinesi e israeliani. La storia recente insegna che non è possi-
bile raggiungere un accordo di pace tra i due popoli senza prima de-
finire lo status della Città santa. I vari tentativi fatti dalla comunità
internazionale, sotto la regia degli Stati Uniti, per risolvere il pro-
blema arabo-palestinese hanno cercato di mettere provvisoriamente
tra parentesi il problema di Gerusalemme, pur sapendo che la tenuta
del processo di pacificazione sarebbe poi dipesa dall’equa risoluzione
di tale questione, su cui attentamente vigilavano i gruppi religiosi di
ambedue la parti, ora ricattando i vari Governi, ora aizzando le masse
popolari.
Il tentativo più serio per risolvere l’intricata questione israelo-
palestinese, da cui dipendeva la pace in Medio Oriente, fu certamente
quello dei cosiddetti «Accordi di Oslo», dell’estate del 1993, il cui me-
diatore fu il presidente Clinton, mentre gli attori principali furono Yi-
tzhak Rabin e Yasser Arafat. Non va dimenticato che tali Accordi, pur
criticati da entrambe le parti, fissarono dei punti fondamentali per av-
viare un «processo» di pace e rendere possibile la convivenza tra i due
popoli. Ad esempio, nei protocolli si fissava il ritiro israeliano da al-
cune aree densamente popolate da palestinesi, come la Striscia di
Gaza, e da alcune zone della Cisgiordania (indicate nel protocollo
come «zona A», mentre per le altre, indicate come zona B e C, erano

18 Cfr S. Della Pergola, Israele e Palestina: la forza dei numeri. Il conflitto mediorien-
tale fra demografia e politica, Bologna, il Mulino, 2007, 206.
98

fissate regole diverse). Inoltre, si affermava il diritto dei palestinesi


all’autogoverno in tali aree, attraverso la creazione dell’Autorità na-
zionale palestinese (Anp).
Dopo cinque anni dal ritiro israeliano si prevedeva che sarebbe
stato negoziato un accordo definitivo, che avrebbe affrontato anche
problemi molto delicati, come la questione di Gerusalemme, quella
dei coloni ebrei in Cisgiordania e il rientro dei profughi palestinesi.
Tutti problemi scottanti e di non facile soluzione19. Le due parti, inol-
tre, firmarono lettere di mutuo riconoscimento tra le due autorità, e
questo è certamente uno degli aspetti più positivi degli Accordi. Il go-
verno israeliano si impegnava a riconoscere l’Organizzazione per la
Liberazione della Palestina (Olp) come legittima rappresentante del
popolo palestinese, mentre questa a sua volta riconosceva il diritto
dello Stato di Israele di esistere e rinunciava alla violenza e al terrori-
smo come strumenti di lotta politica.
Secondo l’attivista palestinese Noura Erakat, gli Accordi non si
basavano sul diritto internazionale – anche se si ripromettevano di ri-
spettare le risoluzioni dell’Onu in materia (come la n. 242) –, ma sem-
plicemente su accordi negoziali, ai quali si dava valore di legge. A suo
avviso, le conseguenze di tali Accordi per i palestinesi sono state di-
sastrose. «Gli Accordi di Oslo – scrive – sono diventati una struttura
permanente, che ha portato alla situazione attuale: una barriera attra-
verso cui Israele ha confiscato il 13% delle terre della Cisgiordania.
Un’aggressiva politica di pulizia etnica a Gerusalemme, con l’obiet-
tivo di ridurre la popolazione palestinese, per mantenere una maggio-
ranza ebraica»20.
Va anche ricordato che, sulla base degli Accordi di Oslo, Israele
ha il controllo militare e amministrativo sull’intera zona C, che corri-
sponde al 59% del territorio della Cisgiordania. Sta di fatto che in de-
finitiva il «processo» di Oslo si è dimostrato favorevole più agli israe-
liani che ai palestinesi: il suo gradualismo ha giocato certamente a sfa-
vore di questi ultimi e permesso ai primi di approfittare della situa-
zione.

19 Cfr V. de Giovannangeli, «Il negoziato impossibile», in Limes, 13 luglio 2010.


20 N. Erakat, «La pace si ferma a Gerusalemme», cit., 19.
99

Successivamente, l’unico colloquio di pace – peraltro fallito –


che si occupò direttamente della situazione di Gerusalemme fu quello
di Camp David, svoltosi fra l’11 e il 24 luglio del 2000. Anche in questo
caso, le trattative furono volute e condotte con la mediazione del pre-
sidente statunitense Clinton. Per la prima volta gli israeliani accetta-
rono di discutere – nonostante le pressioni in senso contrario eserci-
tate dai partiti religiosi – della divisione di Gerusalemme con i coabi-
tanti arabi, abbandonando la posizione caparbiamente tenuta fino a
quel momento, e di concedere ai palestinesi una certa autonomia am-
ministrativa sulla parte di Gerusalemme Est.
I negoziati cominciarono a complicarsi nel momento in cui si
iniziò a trattare della Città Vecchia, e in particolare del Monte del
Tempio. Una delle proposte avanzate fu quella di dividere in due
parti la Città Vecchia, affidando agli israeliani il quartiere ebraico e
quello armeno, e ai palestinesi quello musulmano e quello cristiano.
Soluzione che, oltre a non soddisfare nessuna delle due parti, suscitò
un certo allarme tra le Chiese e confessioni cristiane presenti nei Luo-
ghi Santi. Esse sottoscrissero e inviarono a Camp David una lettera in
cui si protestava contro la divisione della Città Vecchia e si chiedeva
per essa uno «statuto speciale, garantito internazionalmente».
Mentre gli israeliani e gli statunitensi optavano per trattare un
problema alla volta, al fine di trovare soluzioni concrete per le singole
questioni che si dovevano affrontare, i palestinesi chiesero di iniziare
la trattativa partendo dalla definizione dei princìpi generali. In parti-
colare, Arafat disse che la trattativa sarebbe andata avanti soltanto se
la parte israeliana (rappresentata dal primo ministro Barak) avesse ri-
conosciuto la sovranità palestinese su Gerusalemme Est. E fu proprio
sul rapporto tra il principio di «sovranità» e quello di «autorità fun-
zionale» che si giocò l’esito del Vertice di Camp David. Gli israeliani,
infatti, proposero di affidare la gestione autonoma dei quartieri a
maggioranza araba di Gerusalemme Est ai palestinesi, e di portare la
loro capitale nel popoloso quartiere di Abu Dis. In cambio, i confini
100

municipali della città sarebbero stati allargati secondo il modello della


Greater Jerusalem21.
Circa la Spianata delle moschee, si propose di affidarne la «cu-
stodia» (con diritto di piantarvi la bandiera) all’Anp. Arafat disse che
era disposto a trattare della delicata questione (sulla quale vigilava
l’intero mondo arabo) solo a condizione che venisse trasferita ai pale-
stinesi la «sovranità» dell’intera Spianata, ad eccezione del Muro del
Pianto. Barak a sua volta propose che una parte del Monte del Tempio
venisse riservata agli ebrei per il culto. Ma Arafat respinse la proposta.
Gli americani proposero allora una «divisione verticale della sovra-
nità», per cui i palestinesi avrebbero avuto la superficie della Spianata
dove si trovavano le moschee, e gli israeliani il sottosuolo. Ma anche
questa soluzione fu respinta dagli arabi. Gli israeliani, in ogni caso,
non si fecero intimorire dalla posizione intransigente degli arabi, e an-
che negli anni successivi continuarono i loro scavi archeologici sotto
e a lato della Spianata.
Al ritorno da Camp David, Arafat venne accolto a Ramallah
come un vincitore, per aver resistito alle pressioni congiunte degli
israeliani e degli statunitensi e per aver salvato l’onore dei palestinesi.
Prima di partire dalla tenuta presidenziale, egli disse a Clinton: «Non
è ancora nato il leader arabo che cederà Gerusalemme». In realtà, an-
cora una volta il processo di pace si era bloccato, e questa volta, al-
meno sul tema di Gerusalemme, in modo definitivo.
I risultati del fallimento del Vertice di Camp David furono rovi-
nosi. Alla fine di settembre dello stesso anno scoppiò la seconda inti-
fada, detta «di al-Aqsa» (la prima era scoppiata nei campi profughi
nel 1987 e aveva portato agli Accordi di Oslo), quando il leader del
Likud (un partito di destra), Ariel Sharon, spavaldamente decise di
fare una «semplice passeggiata», insieme ad alcuni suoi sostenitori,
sulla Spianata e di andare a visitare gli scavi israeliani nelle cosiddette
«Stalle di Salomone», che si trovano sotto la moschea. Questo fatto fu
considerato dai palestinesi come una provocazione e come una profa-
nazione del loro luogo sacro. L’intifada, come è noto, durò circa

21 Cfr P. Pieraccini – E. Dusi, «Gerusalemme: un accordo impossibile?», cit.,


109.
101

cinque anni e provocò più di 5.000 vittime tra i palestinesi e circa un


migliaio tra gli israeliani.
Altro importante risultato del fallimento del Vertice di Camp
David, di cui ancora oggi si pagano le conseguenze, fu che a partire
da allora i leader politici israeliani decisero di applicare a Gerusa-
lemme il principio, già da tempo sperimentato in Cisgiordania e in
parte anche a Gaza, di «occupare il massimo di territorio con il mi-
nimo di presenze palestinesi». Dopo Camp David, si decise di rimo-
dellare la città in modo da includervi la gran parte degli insediamenti
israeliani, tenendone fuori i quartieri a maggioranza palestinese. Que-
sta misura di sicurezza fu poi rafforzata a partire dal 2002 – cioè negli
anni bui dell’intifada – dalla costruzione di una «barriera divisoria»
tra Israele e Territori occupati, che intorno a Gerusalemme segue un
tracciato tortuoso di circa 150 km e a volte taglia a metà alcuni villaggi
arabi, modificando lo stato giuridico di migliaia di persone. Decine di
migliaia di palestinesi si sono così trovati nella parte della Cisgiorda-
nia, pur avendo la carta di identità israeliana.

Conclusione
Negli ultimi anni, sia a Gerusalemme sia nei Territori la convi-
venza tra israeliani e palestinesi è diventata difficile e a volte impos-
sibile. Più di 400.000 israeliani (i cosiddetti «coloni»), spesso con mo-
tivazioni politico-religiose, si sono trasferiti in Cisgiordania, dove do-
veva sorgere lo Stato palestinese. Oggi sono molti gli osservatori po-
litici e gli intellettuali, anche progressisti e di sinistra, che considerano
la soluzione del bi-statualismo ormai superata e impraticabile. Essi
propongono la soluzione del mono-statualismo – uno Stato per due
popoli –, dove tutti i cittadini, ebrei e palestinesi, godano degli stessi
diritti civili e politici. Ritengono che il vecchio progetto del bi-statua-
lismo oggi sia finalizzato solo a tenere in vita una classe politica cor-
rotta, cioè l’Anp, che ha fallito i suoi obiettivi e che non avrebbe più
l’appoggio della maggioranza dei palestinesi. La comunità internazio-
nale – in particolare l’Onu, che non ha mai riconosciuto l’annessione
di Gerusalemme Est e dei Territori – ribadisce l’importanza della so-
luzione dei due Stati, che vivano uno accanto all’altro in pace e
102

sicurezza entro confini riconosciuti. In questa direzione si è espresso


anche papa Francesco nel recente discorso al Corpo diplomatico.
Ora, a prescindere dalle questioni legate al bi-statualismo o
mono-statualismo, che non rientrano in questo studio22, per quanto
riguarda Gerusalemme, alcuni settori del mondo politico e intellet-
tuale sia israeliano sia palestinese guardano ad essa (oltre la gabbia di
Oslo) come a una città aperta, unita, senza confini interni, capitale dei
due popoli che la abitano. Cioè, una città «una e condivisa», dove
«tutto il mosaico di quartieri, insediamenti, colonie, sobborghi storici,
Città Vecchia, luoghi sacri dovrebbe rappresentare un corpo urbano
unico, in cui vi sia totale libertà di movimento»23. Una città di questo
tipo dovrebbe, però, avere uno statuto speciale, con un sindaco eletto
da tutti gli abitanti e un Consiglio municipale che rappresenti in modo
paritetico le due comunità. «Gerusalemme – scrive Paola Caridi –
deve rimanere aperta oltre le diverse cinte di mura che la racchiudono
e la feriscono»24. Per tutti gli uomini essa dovrebbe essere una «città
aperta»25 e rappresentare il luogo della comunione e della pace, e non
della discordia e della divisione.

22 Sul dibattito in corso, cfr C. De Martino, Il nuovo ordine israeliano. Oltre il

paradigma dei due Stati, Roma, Castelvecchi, 2017, 19 s; N. Chomsky – I. Pappé, Pale-
stina e Israele che fare?, Roma, Fazi, 2015. In favore del bi-statualismo si dichiara A. Oz,
Cari fanatici, cit., 87 s. «Sì, un compromesso tra Israele e Palestina. Sì, due Stati. Spar-
tizione di questa terra, che deve diventare una casa bifamiliare» (ivi, 96).
23 P. Caridi, Gerusalemme senza Dio…, cit., 191.
24 Ivi, 189.
25 Così ha detto in un’intervista il Segretario di Stato, card. Pietro Parolin: «Ge-

rusalemme dovrebbe avere uno statuto speciale che ne faccia una città aperta» (G. G.
Vecchi, «Gerusalemme città di pace, ma solo con il dialogo diretto», in Corriere della
Sera, 21 dicembre 2017).
Popolo di Israele, terra di Israele, Stato di Israele

(Unsplash/antonmislawsky)

Nel 1994 la Santa Sede ha firmato con lo Stato di Israele un ac-


cordo che stabilisce le relazioni diplomatiche. Da allora si è aperto un
dibattito sulla posizione della Chiesa cattolica in merito a uno Stato
che si definisce ebraico e vede se stesso in continuità con l’antico
Israele di quella Scrittura biblica che anche la Chiesa considera sacra.

Il dialogo ebraico-cristiano dopo il Concilio Vaticano II


La Chiesa si è impegnata in un processo di riconciliazione, dia-
logo e collaborazione con gli ebrei sin dal Concilio Vaticano II. Met-
tendo da parte l’«insegnamento del disprezzo», ha cercato di svilup-
pare un «insegnamento del rispetto» per gli ebrei e per l’ebraismo, che
guarda con attenzione al modo in cui gli ebrei vedono se stessi1.
Questo ripensamento del rapporto con gli ebrei ha aperto gli oc-
chi di molti cattolici sulla realtà vivente del popolo ebraico, quindi
sulla sua identità e sulle sue aspirazioni. Un documento del 1974

1 Cfr D. Neuhaus, «“Ebrei” ed “ebraismo” nell’insegnamento cattolico. Una


rivoluzione nell’interpretazione», in Civ. Catt. 2019 II 417-431.
104

dichiarava: «La storia dell’ebraismo non si è conclusa con la distru-


zione di Gerusalemme. Questa storia ha continuato a svolgersi svilup-
pando una tradizione religiosa la cui portata, pur assumendo – cre-
diamo noi – un significato profondamente diverso dopo Cristo, resta
tuttavia ricca di valori religiosi». Inoltre, «è necessario, in particolare,
che i cristiani cerchino di capire meglio le componenti fondamentali
della tradizione religiosa ebraica e apprendano le caratteristiche es-
senziali con le quali gli ebrei stessi si definiscono alla luce della loro
attuale realtà religiosa»2. Dal Vaticano II a questa parte i cattolici,
ascoltando gli ebrei, sono diventati sempre più consapevoli del fatto
che molti ebrei oggi si definiscono, più che una religione, un popolo.
Essi, in quanto popolo, rivendicano una terra, che chiamano «la terra
di Israele», e la identificano con uno Stato, «lo Stato di Israele», che
esiste in quei luoghi dal 1948.

La pretesa ebraica sulla terra e sullo Stato d’Israele


Ebrei di varie denominazioni religiose, molti dei quali hanno
collaborato con i cattolici nel dialogo, nel 2000 hanno pubblicato un
documento in otto punti, nel quale si promuovono le relazioni con i
cristiani. Esso si intitola Dabru emet («Direte la verità»). Al terzo punto,
si afferma: «L’evento più importante per gli ebrei dal tempo dell’Olo-
causto è stato la restaurazione di uno Stato ebraico nella Terra pro-
messa. Come membri di una religione fondata sulla Bibbia, i cristiani
riconoscono che Israele fu promesso – e dato – agli ebrei come luogo
fisico del patto tra loro e Dio. Molti cristiani approvano lo Stato di
Israele per ragioni ben più profonde di quelle politiche»3.
Nell’affrontare questa realtà politica dello Stato di Israele, la
Chiesa cattolica si è attenuta a una condotta prudente. Dopo decenni
di esitazione, la Santa Sede ha inaugurato piene relazioni diplomati-
che con questo Stato nel 1994, in un tempo in cui la pace tra israeliani

2 Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, Orientamenti e suggeri-

menti per l’applicazione della dichiarazione conciliare «Nostra aetate» (n. 4), 1 dicembre
1974.
3 National Jewish Scholars Project, Dabru Emet, 2000, in www.nostrerad-

ici.it/dabru_emet.htm
105

e palestinesi sembrava vicina. Ancora oggi esistono relazioni diplo-


matiche tra la Santa Sede e lo Stato di Israele. Tuttavia, nonostante il
riconoscimento diplomatico da parte di Israele, i portavoce ebraici
hanno continuato a lamentare la persistente riluttanza della Chiesa a
riconoscere esplicitamente il significato teologico della pretesa ebraica
sulla terra e sullo Stato di Israele. Invitato a parlare a fianco del cardi-
nale Kurt Koch, presidente della Commissione per le relazioni reli-
giose con gli ebrei, alla presentazione del documento che nel 2015 ce-
lebrava il cinquantesimo anniversario del paragrafo 4 della Dichiara-
zione conciliare Nostra aetate, il rabbino David Rosen si è espresso così:
«Forse mi sarà consentito di sottolineare che per il pieno rispetto
dell’autocomprensione ebraica è necessario valorizzare la centralità
che la terra di Israele occupa nella vita religiosa, passata e presente,
del popolo ebraico, che sembra mancare»4.
In effetti, il documento del 2015, nel suo testo ampio e conci-
liante, faceva solo due riferimenti allo Stato di Israele. Il primo era la
citazione di un precedente documento della Commissione per i rap-
porti religiosi con l’ebraismo: «I cristiani sono invitati a comprendere
questo attaccamento religioso, che affonda le sue radici nella tradi-
zione biblica, senza tuttavia far propria un’interpretazione religiosa
particolare di questa relazione5. Per quanto concerne l’esistenza dello
Stato d’Israele e le sue opzioni politiche, esse vanno viste in un’ottica
che non sia di per sé religiosa, ma che si richiama ai principi comuni
del diritto internazionale»6.
Il secondo riferimento allo Stato di Israele era in relazione alla
giustizia e alla pace: «Nel dialogo ebraico-cristiano, di grande rile-
vanza è la situazione delle comunità cristiane nello Stato di Israele,
poiché là – come in nessun altro luogo al mondo – una minoranza

4 Citato in G. D’Costa, Catholic Doctrines on the Jewish People after Vatican II,

Oxford, Oxford University Press, 2019, 65. Cfr R. Langer, «Theologies of the Land and
State of Israel: The Role of the Secular in Jewish and Christian Understandings» in
Studies in Jewish-Christian Relations 3 (2008) 1-17.
5 Cfr Dichiarazione della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti, 20 no-

vembre 1975.
6 Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, Sussidi per una corretta

presentazione degli ebrei ed ebraismo nella predicazione e nella catechesi nella Chiesa cattolica
(1985), VI, 1.
106

cristiana si trova davanti ad una maggioranza ebraica. La pace in


Terra Santa – una pace che manca e per la quale si prega costante-
mente – svolge un ruolo considerevole nel dialogo tra ebrei e cri-
stiani»7.
Oggi tuttavia c’è chi – in particolare in Europa e nel Nord Ame-
rica – preme perché si giunga, da parte cattolica, all’affermazione del
significato teologico della pretesa ebraica sulla terra e sullo Stato di
Israele8.

Umanesimo sionista e militarismo israeliano


Si deve anzitutto precisare che, riguardo allo Stato di Israele,
non vi è unanimità tra gli stessi ebrei. La storia del sionismo e il mo-
derno nazionalismo ebraico hanno suscitato diffidenza e persino osti-
lità da parte di alcuni ebrei, e molti altri hanno criticato le scelte poli-
tiche adottate dai leader sionisti, in particolare per quanto riguarda il
popolo palestinese9. Martin Buber, celebre filosofo ebreo, così scriveva
già nel maggio del 1948, vale a dire nel pieno della guerra che fece da
cornice all’istituzione dello Stato di Israele: «Cinquant’anni fa,
quando mi sono unito al movimento sionista per la rinascita di Israele,
il mio cuore era integro. Oggi è lacerato. La guerra condotta per una
struttura politica rischia a ogni momento di diventare una guerra di
sopravvivenza nazionale […]. Non posso nemmeno essere felice di
augurarmi una vittoria, perché temo che il significato della vittoria
ebraica sia la caduta del sionismo»10. Il filosofo aveva levato la sua
voce angosciata, perché vedeva il sorgere del militarismo israeliano e
temeva che ciò avrebbe comportato il venir meno del suo ideale di

7 Id., Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (2015), n. 46.


8 Cfr P. Lenhardt, «La fin du sionisme?», in Sens, n. 3, 2004, 99-138; M. Remaud,
Echos d’Israël, Gerusalemme, Elkana, 2010; R. Lux, The Jewish People, the Holy Land, and
the State of Israel: A Catholic View, Mahwa, Paulist Press, 2010; G. D’Costa, Catholic
Doctrines on the Jewish People after Vatican II, cit.
9 Una rassegna classica dell’opposizione ebraica al sionismo si trova in M. Sel-

zer (ed.), Zionism Reconsidered: The Rejection of Jewish Normalcy, New York, Macmillan,
1970.
10 M. Buber, «Zionism and Zionism», in P. Mendes-Flohr (ed.), Martin Buber

on Jews and Arabs, Oxford, Oxford University Press, 1983.


107

umanesimo sionista. La sua angoscia crebbe quando le autorità israe-


liane si rifiutarono di prendere sul serio i profughi palestinesi e sotto-
posero alla legge militare gli arabi che non avevano abbandonato il
territorio che era diventato lo Stato di Israele (una situazione a cui si
è posto fine solo nel 1966, alcuni mesi dopo la morte di Buber). Il filo-
sofo era già morto quando fu imposta l’occupazione militare nei ter-
ritori conquistati da Israele nella guerra del 1967.
Altrettanto profetica, nella sua incisiva analisi del lato oscuro
del sionismo, è stata la filosofa ebrea Hannah Arendt. Impegnata nello
studio del totalitarismo nelle sue forme moderne, la filosofa metteva
in guardia dai pericoli del sionismo per il popolo ebraico. In un arti-
colo del 1945, scriveva: «Se i sionisti continueranno a ignorare i popoli
del Mediterraneo e presteranno attenzione soltanto alle grandi po-
tenze lontane, appariranno come i meri strumenti di quelle, cioè
agenti di interessi stranieri e ostili. Gli ebrei che conoscono la propria
storia dovrebbero essere consapevoli che un tale stato di cose porterà
inevitabilmente a una nuova ondata di odio antiebraico»11.

L’elezione del popolo ebreo e la promessa della terra nell’An-


tico Testamento
Non c’è dubbio, comunque, che la maggior parte degli ebrei
consideri lo Stato di Israele qualcosa di più che una semplice istitu-
zione politica. Secondo Dabru emet, poiché ebrei e cristiani condivi-
dono un linguaggio basato sulle Scritture di Israele, possono anche
condividere il fatto che la terra di Israele sia stata promessa e data agli
ebrei. Da un punto di vista teologico, l’elezione di Israele fatta da Dio
e il dono della terra sono davvero temi centrali nell’Antico Testa-
mento. Tuttavia i cristiani comprendono l’Antico Testamento in rife-
rimento al Nuovo, e questo è vero in modo particolare per temi come
il dono della terra e l’elezione di un popolo. La fede in Gesù distingue
la lettura cristiana della Bibbia da quella degli ebrei, e nel dialogo in
corso con questi ultimi è importante chiarire come questo influisca

11 H. Arendt, «Zionism Reconsidered», in M. Selzer (ed.), Zionism Reconside-


red…, cit., 216.
108

sulla concezione cristiana della terra, e in particolare sulla questione


dei confini.
Nei racconti dell’Antico Testamento, Dio ha promesso la terra
ad Abramo e ai suoi discendenti; poi ha incaricato Giosuè di conqui-
stare quella terra, ovvero il luogo in cui Israele avrebbe vissuto il rap-
porto di alleanza con lui, osservando la Torah. Al centro di quella terra
c’era Gerusalemme, la Santa Sion, e al centro di Gerusalemme il Tem-
pio, luogo sacro della continua presenza divina. Tuttavia non va di-
menticato che la terra, sebbene fosse stata donata a Israele nell’Antico
Testamento, in definitiva continuava ad appartenere a Dio (cfr Lv 25,
23) ed era una terra data come il luogo in cui Israele sarebbe stato la
«luce delle nazioni» (cfr Is 42, 6; 49, 6), attirandole tutte a Gerusa-
lemme, affinché vi giungessero e apprendessero la Torah (cfr Is 2, 3).
Secondo il linguaggio delle Scritture – in particolare dei Libri
della tradizione deuteronomista – la terra fu perduta perché i peccati
di Israele provocarono l’oscurità anziché la luce. Tuttavia, al tempo di
Ciro, re di Persia, Dio riportò il popolo a Sion, perché volle effondere
la sua grazia e mantenere la sua fedeltà alle promesse fatte. L’esilio
lasciò il posto al ritorno, e la morte alla risurrezione. È certamente si-
gnificativo il fatto che il canone ebraico delle antiche Scritture di
Israele si concluda con le parole della lettera di Ciro agli esiliati babi-
lonesi: «Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il Signore, suo Dio,
sia con lui e salga [a Sion]!» (2 Cr 36, 23).
Ma la Chiesa ha ordinato diversamente queste stesse Scritture,
collocando il Secondo libro delle Cronache nel mezzo della saga vete-
rotestamentaria di Israele. La lettera di Ciro rappresenta anch’essa un
evento che orienta la narrazione verso la promessa posta alla fine
dell’Antico Testamento: la venuta del Giorno del Signore. Nel Nuovo
Testamento, Giovanni annuncia il Giorno che, con l’avvento di Gesù
di Nazaret, trasfigurerà i confini tra i popoli e le terre, fino a condurre
alla scomparsa di quelle frontiere e all’unità delle terre e dei popoli.

La concezione cristiana della terra


Nel passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento la concezione
cristiana della terra cambia. Un documento della Pontificia
109

Commissione biblica del 2001 dichiara: «Una beatitudine effettua lo


stesso tipo di passaggio dal significato geografico storico a un signifi-
cato più aperto: “I miti possederanno la terra” (Mt 5, 5); “la terra”
equivale lì a “Regno dei cieli” (5, 3.10), in un orizzonte di escatologia
al tempo stesso presente e futura. Gli autori del Nuovo Testamento
non fanno che spingere oltre un processo di approfondimento simbo-
lico messo già in moto nell’Antico Testamento e nel giudaismo inter-
testamentario»12. A prima vista, nei testi del Nuovo Testamento la
terra sembra essere quasi scomparsa, perché per lo più i cristiani ve-
dono la loro patria nel cielo (cfr Eb 11, 13-16). La terra tuttavia non è
assente; anzi, Cristo risorto l’ha trasfigurata, perché i confini che se-
parano un territorio dall’altro, un popolo dall’altro, si dissolvono pro-
gressivamente nella predicazione del Vangelo.
Il continuo allargarsi del concetto di terra è evidente quando il
Vangelo si estende da un luogo all’altro e si diffonde – come docu-
mentano gli Atti degli Apostoli – da Gerusalemme fino ai confini della
terra. La terra non è più esclusivamente la terra di Israele, ma si
espande per includere ogni luogo in cui il Vangelo viene predicato e
vissuto. Abbattere i confini è un aspetto fondamentale della missione
di Cristo: «Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una
cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’ini-
micizia, per mezzo della sua carne. Così egli ha abolito la Legge, fatta
di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo
uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in
un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimi-
cizia. Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e
pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui infatti possiamo pre-
sentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito» (Ef 2, 14-18).
Pur essendo vero che ebrei e cattolici condividono un linguag-
gio comune derivato dalle Scritture, non sempre essi concordano sulla
comprensione teologica di tale linguaggio e delle sue implicazioni per
la vita odierna, dal momento che sono radicati in due distinte

12 Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella

Bibbia cristiana (2001), 57. Cfr W. D. Davies, The Gospel and the Land: Early Christianity
and Jewish Territorial Doctrine, Berkeley, University of California Press, 1974.
110

concezioni religiose. In effetti, molti cristiani sarebbero restii a usare i


testi dell’Antico Testamento per giustificare le ideologie e le azioni
politiche del XX secolo in Medio Oriente. D’altra parte, i cattolici de-
vono procedere con cautela quando si tratta di enunciare simili perce-
zioni, perché gli ebrei hanno buone ragioni per ribattere che la Chiesa
non ha sempre sostenuto tale prospettiva.
L’ideologia imperiale che si sviluppò quando i cristiani conqui-
starono il potere terreno fu in contraddizione con la concezione della
terra propria del Nuovo Testamento dai tempi dell’imperatore Co-
stantino, nel IV secolo, in poi. L’Impero cristiano guardava con pas-
sione ai confini che dovevano essere difesi, e ai territori che attende-
vano di essere conquistati nel costante tentativo di espandere tali con-
fini. Nel Medioevo, una cristianità militarizzata andò in guerra per
liberare Gerusalemme dai musulmani, che, secondo alcuni, rappre-
sentavano una rediviva forma di ebraismo13.
L’insegnamento del disprezzo verso i musulmani è andato di
pari passo con l’insegnamento del disprezzo verso gli ebrei. Per molti,
al tempo delle crociate, la guerra fu duplice: contro il nemico interno
(gli ebrei) e contro il nemico esterno (i musulmani). I crociati, ispiran-
dosi alla Bibbia, si consideravano conquistatori per diritto divino, ed
echi di questa mentalità sono risuonati in tutta la lunga storia del co-
lonialismo europeo. Esploratori e conquistatori spianavano la strada
a missionari e predicatori. Diversamente dai cristiani trionfatori, con-
fermati da Dio nelle loro vittorie, gli ebrei, sconfitti e soggiogati, ave-
vano perso la terra dei loro antenati, sebbene nemmeno Gesù avesse

13 Qualcuno vedeva nell’islam una nuova e potente forma di cristianesimo ere-

tico, mescolato al giudaismo talmudico. Si tendeva ad appaiare il Talmud e il Corano


come fonti di errore (cfr gli scritti di Pietro Alfonsi, il Corpus toletanum cluniacense,
Riccoldo da Montecroce e altri).
111

profetizzato una cosa del genere14, e li si considerava condannati a es-


sere un popolo errante senza terra15.
Il ripensamento postconciliare delle relazioni ebraico-cristiane
ha reso consapevoli del fatto che gli ebrei hanno sofferto a causa della
supremazia cristiana, spesso basata su una lettura non etica dei testi
biblici. I meccanismi che collegano l’egemonia cristiana con l’emargi-
nazione ebraica vanno riscoperti e trasformati, e i presunti princìpi
teologici su cui essi si basano vanno sconfessati. I cattolici hanno in-
trapreso il compito importante di riformulare i loro atteggiamenti nei
confronti degli ebrei, il che è una vera benedizione della nostra epoca.
Ma una sfida altrettanto importante è quella di garantire che la rifor-
mulazione di una teologia cristiana, purificata dall’antigiudaismo e
permeata del nuovo linguaggio del dialogo e della collaborazione
ebraico-cristiana, a sua volta non dia adito a nuovi meccanismi di su-
premazia ed esclusione. Qualsiasi riflessione cattolica sulla terra e
sullo Stato di Israele deve considerare la reale situazione politica, so-
ciale, economica e culturale in Israele-Palestina. Questo include un at-
tento esame di come le rivendicazioni ebraiche e le politiche israeliane
siano correlate alla protezione dei luoghi santi del cristianesimo e
dell’islam, al benessere delle comunità indigene cristiane e musul-
mane e alle aspirazioni del popolo palestinese.
Sebbene l’attenzione della Chiesa per i luoghi santi e le comu-
nità di fede sembri abbastanza naturale, la sua preoccupazione per la
giustizia e la pace non è una mera questione politica o diplomatica,
ma è parte integrante della sua missione. La Costituzione pastorale
del Vaticano II sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et

14 Nel Vangelo di Luca, Gesù, piangendo su Gerusalemme, afferma: «Se avessi

compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è stato nasco-
sto ai tuoi occhi. Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee,
ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte; distruggeranno te e i tuoi figli dentro
di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in
cui sei stata visitata» (Lc 19, 41-44).
15 Alcuni Padri della Chiesa, tra cui Tertulliano, hanno contrapposto l’eredità

cristiana all’esilio ebraico, descrivendo quest’ultimo in maniera incisiva: «Dispersi,


errabondi, dal suolo e dal cielo loro banditi, errando vanno per il mondo, senza un
uomo, senza Dio per loro capo; nemmeno a titolo di stranieri ad essi salutare è per-
messo, sia pure per un istante, la patria terra» (Tertulliano, Apologeticum, 21, 5).
112

spes, ha affermato: «Quanto alla Chiesa, fondata nell’amore del Re-


dentore, essa contribuisce ad estendere il raggio d’azione della giusti-
zia e dell’amore all’interno di ciascuna nazione e tra le nazioni. Predi-
cando la verità evangelica e illuminando tutti i settori dell’attività
umana con la sua dottrina e con la testimonianza resa dai cristiani,
rispetta e promuove anche la libertà politica e la responsabilità dei cit-
tadini»16. La Chiesa formula la propria posizione sull’attuale situa-
zione di conflitto in Israele-Palestina come un atto di responsabilità
morale, analizzando il contesto odierno, senza ridurre la sua prospet-
tiva alle formule bibliche o alla speculazione teologica.

La posizione della Chiesa riguardo alla terra di Israele-Pale-


stina
Negli ultimi decenni, tornando indietro all’inizio dell’attuale
conflitto dopo la Prima guerra mondiale, la Chiesa ha sviluppato un
discorso articolato e complesso sulla terra di Israele-Palestina, i popoli
che la abitano e le strutture di governo. In tale argomentazione con-
vergono le Scritture, la tradizione, l’interesse per le comunità cri-
stiane, l’impegno nel dialogo con ebrei e musulmani e una particolare
insistenza nel promuovere la giustizia e la pace per israeliani e pale-
stinesi. Questo discorso a più livelli non è un esercizio diplomatico,
ma un progetto genuino e dinamico per affermare la verità in una si-
tuazione di divisione, conflitto e violenza17.
Inoltre, la Chiesa universale non può esporre un discorso spiri-
tuale o teologico astratto su una terra in cui i membri della Chiesa lo-
cale hanno a che fare con realtà quotidiane di discriminazione e occu-
pazione che colpiscono i palestinesi cristiani, in quanto toccano tutti i
palestinesi che oggi vivono nell’area di Israele-Palestina. I tentativi
della Chiesa locale di affrontare tali realtà hanno una ripercussione
molto naturale e consistente sul pensiero riguardante le questioni
della terra e dello Stato nella Chiesa universale.

Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes (1965), n. 76.


16

Per una riflessione cattolica su questi temi, cfr A. Marchadour – D. Neuhaus,


17

The Land, the Bible, and History, New York, Fordham University Press, 2007.
113

Le rivendicazioni ebraiche nei confronti della terra, che fanno


appello sia all’autorità della Scrittura sia alla sofferenza ebraica nella
storia, vanno viste anche alla luce dell’esilio del popolo palestinese
dalla sua patria e delle sue esperienze di discriminazione e occupa-
zione nelle terre oggi governate da Israele. Il patriarca Michel Sabbah,
capo della diocesi latina in Terra Santa per più di 20 anni, nella sua
lettera pastorale del 1993 ha posto questa scottante domanda teolo-
gica: «Dobbiamo forse essere vittime della nostra stessa storia della
salvezza, che sembra privilegiare il popolo ebraico e condannare noi?
È proprio questa la volontà di Dio alla quale dovremmo piegarci ine-
sorabilmente, senza appello e senza discussione, e che ci chiederebbe
di lasciare tutto a favore di un altro popolo?»18.
Secondo l’insegnamento attuale della Chiesa, il popolo ebraico,
come tutti i popoli, ha il diritto di esprimersi in quanto tale. Emargi-
nato per secoli, il nazionalismo ebraico ha respinto quell’emargina-
zione e ha combattuto per l’emancipazione. Riguardo al popolo di
Israele e alla terra di Israele, oggi la Chiesa comprende il legame
ebraico con la terra, che è storico, religioso ed emotivo, e respinge se-
coli di insegnamento tradizionale che condannava gli ebrei a una per-
petua condizione di esilio come punizione per il loro rifiuto di accet-
tare Cristo. Tuttavia il riconoscimento, da parte della Chiesa, della
specificità permanente del popolo ebraico e il suo rispetto per l’attac-
camento ebraico alla terra di Israele non possono essere intesi come
legittimazione della volontà politica e ideologica di governare quella
terra in maniera esclusiva. La Chiesa diffida di un linguaggio di diritti
esclusivi che oggi in Israele-Palestina scavalchi i diritti degli altri. Ri-
conosce invece l’autorità del «diritto internazionale», che stabilisce i
criteri atti a promuovere la giustizia, l’uguaglianza e la pace in ogni
contesto concreto19.

18 M. Sabbah, Lettera pastorale Leggere e vivere la Bibbia oggi nel paese della Bibbia
(1993), n. 7.
19 «Il diritto si pone come strumento di garanzia dell’ordine internazionale,

ovvero della convivenza tra comunità politiche che singolarmente perseguono il bene
comune dei propri cittadini e che collettivamente devono tendere a quello di tutti i
popoli, nella convinzione che il bene comune di una Nazione è inseparabile dal bene
dell’intera famiglia umana» (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 434).
114

L’insegnamento sull’esilio degli ebrei come punizione divina va


chiaramente respinto, in quanto tradisce il Vangelo della fedeltà di
Dio. Tuttavia l’alternativa non è l’affermazione teologica del naziona-
lismo ebraico, ma piuttosto il rifiuto di tutte le forme di insegnamento
del disprezzo che sostengono privilegi per alcuni a esclusione di altri.
L’insistenza nazionalista degli ebrei sulla sovranità nazionale, definita
come ebraica, stride fortemente con i diritti di tutti i cittadini dello
Stato di Israele, in particolare di quelli che non sono ebrei.
La realtà di oltre settant’anni di statualità israeliana si manifesta
nell’esperienza di quei cittadini che incontrano molteplici forme di di-
scriminazione, emarginazione ed esclusione, perché sono «non ebrei»
nello Stato ebraico. Essi pure devono avere voce, non soltanto
nell’arena politica, ma anche nel dibattito teologico sulla terra e sullo
Stato di Israele. Qualunque quadro si stabilisca per una soluzione del
conflitto israelo-palestinese – sia che si tratti di due Stati che vivono
fianco a fianco, sia di un unico Stato per tutti –, il principio ultimo per
una soluzione duratura è l’uguaglianza della persona umana nei di-
ritti e nei doveri.
Una recente dichiarazione dei vescovi cattolici in Terra Santa ha
sottolineato questo principio: «Promuoviamo una visione secondo la
quale tutti in questa Terra Santa hanno piena uguaglianza, l’ugua-
glianza che si addice a tutti gli uomini e le donne creati uguali a im-
magine e somiglianza di Dio. Noi crediamo che l’uguaglianza, quali
che siano le soluzioni politiche che potrebbero essere adottate, resti
una condizione fondamentale per una pace giusta e duratura. Nel
passato abbiamo vissuto insieme in questa terra, perché non po-
tremmo vivere insieme anche in futuro? Questa è la nostra visione per
Gerusalemme e l’intera terra, chiamata Israele e Palestina, tra il fiume
Giordano e il Mar Mediterraneo»20. Può darsi che, guardando alla
terra e ai suoi abitanti, ebrei e cattolici non siano uniti in una visione
comune, ma essi possono certamente esserlo in una preghiera comune
per la pace e per il benessere di tutti coloro che vivono lì.

Assemblea dei Vescovi cattolici della Terra Santa, Giustizia e pace si baceranno,
20

20 maggio 2019.
Israele e il Golfo: pace o soltanto prosperità?

Un funzionario degli Emirati Arabi Uniti, con lunghe vesti


fluenti, copricapo bianco ben calcato e il viso coperto da una masche-
rina protettiva per il Covid-19, sfrega i gomiti con il consigliere per la
Sicurezza nazionale israeliano, che indossa un abito elegante, ha la te-
sta coperta da una kippah e anche lui cela il volto dietro una masche-
rina. Questa scena si è svolta il 1° settembre 2020, quando la prima
delegazione ufficiale israeliana in visita ad Abu Dhabi, capitale degli
Emirati Arabi Uniti, stava per mettersi sulla via del ritorno con un
volo diretto per Tel Aviv: un momento simbolico del processo iniziato
il 13 agosto 2020 con l’annuncio del presidente degli Stati Uniti Do-
nald Trump che gli Emirati Arabi Uniti e Israele avrebbero stabilito
piene relazioni diplomatiche. Poche settimane dopo, l’11 settembre
2020, a 19 anni dagli attentati di Al-Qaeda alle Torri gemelle di New
York, è giunto l’annuncio che anche il Regno del Bahrain era pronto a
stabilire relazioni diplomatiche con Israele.
Il 15 settembre 2020, sul prato della Casa Bianca a Washington,
il raggiante padrino del processo, Trump, ha accolto i suoi ospiti israe-
liani, degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein per sottoscrivere insieme
quelli che sono stati chiamati gli «Accordi di Abramo». L’intesa si apre
con un impegno eccezionale: «Noi sottoscritti riconosciamo l’impor-
tanza di mantenere e rafforzare la pace in Medio Oriente e nel mondo
sulla base della comprensione e della convivenza reciproche, nonché
116

del rispetto della dignità umana e della libertà, inclusa la libertà reli-
giosa».
A qualcuno l’incontro di questi figli di Isacco e di Ismaele, riu-
niti di nuovo sotto la tenda del patriarca Abramo, è parso l’alba di una
nuova era. Come dichiara il documento firmato da Israele e dagli Emi-
rati Arabi Uniti, «le parti si impegnano a promuovere la compren-
sione reciproca, il rispetto, la coesistenza e una cultura di pace tra le
loro società nello spirito del loro comune antenato, Abramo». Ebrei e
musulmani, convocati da un presidente degli Stati Uniti, si sono final-
mente seduti allo stesso tavolo per costruire un nuovo Medio Oriente.
E corre voce che altri Paesi musulmani stiano considerando la propria
adesione allo storico processo: Oman, Qatar, Kuwait (altri regni e
principati del Golfo) e, forse, interlocutori rilevanti come Arabia Sau-
dita, Sudan e Marocco.
Il mondo, affascinato, è stato a guardare e ha applaudito lo sto-
rico evento. Non si tratta tuttavia del primo trattato in assoluto tra
Israele e i suoi vicini arabi. L’Egitto aveva firmato un’intesa di pace
con Israele nel 1978; la Giordania lo aveva fatto nel 1994; e l’Olp dal
1991 aveva avviato quello che è stato definito un «processo di pace»
con Israele e che ha portato alla costituzione dell’Autorità palestinese.
Ma quegli accordi appartengono a un’epoca diversa. Da tempo
nella regione le speranze di una pace durevole sono state soffocate
dagli eventi. Israele ha continuato a occupare le terre palestinesi, a co-
struire insediamenti e a rivendicare porzioni sempre più ampie di ter-
ritorio. I palestinesi hanno reagito furiosamente con la violenza, che
veniva intesa come «terrorismo», e Israele ha replicato con una mas-
siccia repressione. Nel frattempo si è diffusa una delusione sempre
maggiore nei confronti dell’Autorità palestinese, che spesso appariva
più come parte del problema che della soluzione. La retorica radicale
islamica e gli slogan nazionalistici sionisti si sono opposti a qualsiasi
barlume di speranza che potessero esserci dei progressi.
Pertanto, è vero che a Washington, nel 2020, si è fatta la storia;
ma quale tipo di storia? Al di là delle emozioni suscitate dallo spetta-
colo dei cordiali incontri tra arabi musulmani ed ebrei israeliani, qual
è la vera posta in gioco, quando oggi gli accordi e le alleanze cambiano
117

in Medio Oriente? Qual è il processo guidato per mano dall’ammini-


strazione statunitense, abbracciato dal governo israeliano e sostenuto
dai potentati del Golfo? Potrà portare alla pace tanto attesa, per la
quale pregano in tanti?

Relazioni non proprio nuove


Innanzitutto, è importante sottolineare che i rapporti tra Israele,
da un lato, e gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain, dall’altro, non sono
nuovi. L’inizio dei contatti risale a quando Israele e l’Olp avevano av-
viato le relazioni reciproche, negli anni Novanta. Nel 1994 l’allora mi-
nistro israeliano dell’Ambiente, Yossi Sarid, visitò il Bahrain per par-
tecipare a una conferenza internazionale, e incontrò il ministro degli
Esteri di quel Paese. Nel 1995 Israele aprì una missione commerciale
a Doha, la capitale del Qatar, gesto che rifletteva il migliorato rapporto
tra i due Stati. Anche l’Oman ha avviato contatti con Israele nella
prima metà degli anni Novanta. Ma queste relazioni sono state uffi-
cialmente interrotte quando i negoziati israelo-palestinesi sono stati
troncati e nel 2000 è scoppiata la seconda rivolta popolare palestinese
contro l’occupazione israeliana. La violenza sia della rivolta sia della
repressione israeliana ha infranto molte delle speranze riposte nel
processo di pace tra Israele e Olp sostenuto dagli Stati Uniti.
Tuttavia pochi anni dopo, una volta cessata la rivolta, è iniziata
una nuova serie di contatti tra Israele e gli Stati del Golfo. Firmando,
nel 2005, un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti, il Bahrein ha
interrotto il boicottaggio di Israele. Nel 2009 Israele ha appoggiato il
trasferimento dell’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili
(Irena) ad Abu Dhabi, capitale degli Emirati Arabi Uniti, dichiarando
che avrebbe aperto un ufficio di rappresentanza in quella città, per
curare le relazioni ufficiali con la Irena. Di fatto l’apertura è stata ri-
mandata a causa dell’assassinio, nel 2010, in un hotel di Abu Dhabi,
di un importante agente di Hamas, Mahmud al-Mabhuh: episodio per
il quale molti hanno puntato il dito contro Israele. L’ufficio israeliano
è stato poi inaugurato soltanto nel 2015.
Nel 2016 il sultano dell’Oman, Qabus, oggi defunto, ha inviato
a Gerusalemme una delegazione ufficiale ai funerali dell’ex
118

presidente Shimon Peres. Nel 2017 il re del Bahrain, Hamad bin Isa Al
Khalifa, ha posto fine al boicottaggio di Israele gestito dalla Lega
araba, e le visite israeliane nel Golfo sono cresciute sempre più in fre-
quenza e importanza. Nel 2018 il sultano dell’Oman ha accolto nella
sua patria il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, in visita
ufficiale, e l’Oman si è schierato a favore del riconoscimento di Israele
in quanto Stato come tutti gli altri della regione. Miri Regev, ministra
israeliana della Cultura e dello Sport, ha visitato Abu Dhabi nel 2018
e vi ha assistito all’esecuzione dell’inno nazionale israeliano in un
evento sportivo internazionale. Pochi mesi dopo, anche Israel Katz,
ministro degli Esteri israeliano, ha preso parte a conferenze interna-
zionali in Oman e ad Abu Dhabi. Funzionari israeliani importanti
hanno visitato il Bahrain per vari eventi; tra loro, l’ex rabbino capo
sefardita israeliano Shlomo Amar, che ha partecipato a un congresso
interreligioso nel 2019.
Nel 2020 l’ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti negli Stati
Uniti Yousef Al Otaiba, vicino sia a Jared Kushner, imprenditore
ebreo americano, genero e consigliere di Trump, sia al principe eredi-
tario saudita Mohammed bin Salman, ha scritto una lettera diretta al
popolo israeliano, pubblicata il 12 giugno su Yediot Ahronot, popolare
quotidiano in lingua ebraica. Il testo metteva in guardia dalle possibili
conseguenze della pianificata annessione israeliana di gran parte
della Cisgiordania, già occupata da Israele. Inoltre esprimeva una vi-
sione molto chiara delle basi di una possibile relazione tra Israele e gli
Emirati Arabi Uniti.

Non proprio pace


I contatti tra Israele e gli Stati del Golfo negli ultimi anni sono
stati abbastanza diversi da quelli intrecciati negli anni Novanta, all’in-
domani dell’inizio dei negoziati tra Israele e Olp. Allora l’attenzione
si concentrava principalmente sul tentativo di risolvere il conflitto
israelo-palestinese, in vista di una pace globale. Su questa prospettiva
era incentrata l’Iniziativa di pace araba, lanciata sotto la guida
dell’Arabia Saudita e sostenuta da tutti i leader presenti all’incontro
della Lega araba tenutosi a Beirut nel 2002. Il testo del piano del 2002
dichiarava: «Riaffermiamo che la pace in Medio Oriente non potrà
119

avere successo se non sarà giusta ed equa […] e basata sul principio
della pace in cambio della terra». In una sezione intitolata «Che cosa
ci aspettiamo da Israele», la Lega chiedeva: «1) il ritiro da tutti i terri-
tori occupati dal 1967 in poi, tra cui le Alture del Golan siriane fino
alla linea di confine del 4 giugno 1967, oltre che i restanti territori li-
banesi occupati nel sud del Libano; 2) il raggiungimento di una solu-
zione equa del problema dei profughi palestinesi, da concordare sulla
base della risoluzione 194 dell’Assemblea generale dell’Onu; 3) l’ac-
cettazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano sui terri-
tori occupati dal 4 giugno 1967 in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza,
con Gerusalemme Est come sua capitale». In cambio, gli Stati arabi
assumevano questi impegni: considerare concluso il conflitto israelo-
palestinese, stipulare un accordo di pace con Israele e adoperarsi per
la sicurezza della regione; allacciare normali relazioni con Israele nel
contesto di questa pace globale. A questa Iniziativa la Lega araba si è
attenuta negli anni successivi.
Nel 2020 la situazione mondiale, le tensioni regionali e una serie
di preoccupazioni condivise tra Israele e il Golfo hanno fatto passare
in secondo piano la questione palestinese. Innanzitutto, Israele, Emi-
rati Arabi Uniti e Bahrain sono strettamente allineati agli Stati Uniti.
Il presidente Trump ha affidato a sua figlia Ivanka e a suo genero Ja-
red Kushner l’incarico di ricercare solidi rapporti con personalità
israeliane e del Golfo. Queste reti di relazioni hanno avvicinato i lea-
der, soprattutto quelli con comuni interessi commerciali. Un «Vangelo
della prosperità», benedetto dagli Stati Uniti, è stato un’esca convin-
cente per attirarli in un cerchio dove fosse possibile forgiare una vi-
sione comune.
Inoltre, sebbene l’Arabia Saudita sia rimasta per ora fuori dagli
«Accordi di Abramo», se c’è una persona che si trova al centro di que-
sta visione plutocratica di un nuovo Medio Oriente, questa è proprio
il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. Le sue riforme
interne hanno attirato l’attenzione degli Stati Uniti. Ciò non significa
necessariamente che verranno maggiormente garantiti i diritti umani,
ma che ora le donne possono guidare le automobili. Sebbene il re Sal-
man, padre del principe, rimanga fermamente impegnato
120

nell’Iniziativa per la pace araba, il figlio sembra disponibile a soste-


nere la visione degli Stati Uniti.
L’amministrazione del presidente Trump ha investito non pochi
sforzi nell’impegno di tessere accordi tra i Paesi del Medio Oriente, al
fine di comporre una coalizione compatta in opposizione all’Iran. Essa
si è concentrata in gran parte sulla minaccia iraniana e l’ha definita
«l’odierna questione principale in Medio Oriente». L’Iran, le sue ri-
sorse nucleari, il suo sostegno ai movimenti radicali islamici e la sua
sfida all’egemonia occidentale hanno del tutto soppiantato, nella ge-
rarchia delle preoccupazioni, la questione palestinese. Da questo cam-
bio di prospettiva, che mette in sordina i palestinesi, ha tutto da gua-
dagnare Israele; e, dal canto loro, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain
– così come altri Stati della regione – concordano sul fatto che l’Iran
costituisca il principale elemento di destabilizzazione. Questa preoc-
cupazione per l’Iran e per le sue ambizioni politiche in Medio Oriente
è uno degli elementi di comprensione degli «Accordi di Abramo».
Un’altra minaccia percepita, che certamente spinge Israele a unirsi
agli Emirati Arabi Uniti e al Bahrain, è il ruolo sempre più aggressivo
della Turchia. La miscela di nazionalismo islamico-turco di Erdoğan
viene percepita con inquietudine sia in Israele sia nel Golfo.
Nella sua forte ricerca di legami con il Golfo, Israele si è fatto
promotore anche di una specifica attenzione a comuni interessi ad
ampio raggio: economici, culturali, scientifici, sportivi e medici. La
pandemia del Covid-19 ha fornito un’ulteriore opportunità per fare
fronte comune nella lotta contro la diffusione del virus. Un altro inte-
resse condiviso riguarda la commercializzazione di prodotti israeliani
hi-tech di avanguardia nei settori della sicurezza e dello spionaggio,
che ai Paesi del Golfo servono nella lotta contro i nemici sia all’estero
sia in patria. D’altra parte, nell’orizzonte degli Emirati Arabi Uniti e
del Bahrain non trovano posto soltanto i prodotti del dinamismo
israeliano nell’economia, nella scienza, nella medicina, nell’industria
e nella sicurezza: c’è anche la consapevolezza che, dal momento che
essi non vengono più visti come una minaccia per Israele (cioè, del più
stretto alleato degli Stati Uniti in Medio Oriente), ne verranno ricom-
pensati anche con una maggiore libertà di acquistare merci prodotte
dagli Usa, armi incluse.
121

La lettera di Al Otaiba, come accennato, aveva sinteticamente


riassunto al popolo israeliano in che termini si sarebbe potuto formu-
lare un accordo tra Emirati Arabi Uniti e Israele. E la pace nella re-
gione non vi appariva come lo scopo principale. «Con i due apparati
militari più sviluppati della regione, le comuni preoccupazioni per il
terrorismo e l’aggressione e un rapporto profondo e antico con gli
Stati Uniti, gli Emirati Arabi Uniti e Israele potrebbero allacciare una
cooperazione per la sicurezza più stretta ed efficace. […] Poiché sono
le due economie più avanzate e diversificate della regione, i loro più
ampi rapporti commerciali e finanziari imprimerebbero un’accelera-
zione alla crescita e alla stabilità in tutto il Medio Oriente. I nostri in-
teressi condivisi sul cambiamento climatico, sulla sicurezza riguardo
all’acqua e al cibo, sulla tecnologia e sulla scienza avanzata potrebbero
stimolare una maggiore innovazione e collaborazione. In qualità di
polo globale dell’aviazione, della logistica, dell’istruzione, dei media
e della cultura, gli Emirati Arabi Uniti sarebbero una porta aperta per
collegare gli israeliani alla regione e al mondo».
Infine, era chiaro che la tempistica della cerimonia diplomatica
a Washington sarebbe stata molto utile alla campagna elettorale del
presidente Trump, impegnato a battere il suo avversario democratico
Joe Biden nelle elezioni del novembre 2020.

Non proprio sulla giustizia


Sebbene nel «Trattato di pace, relazioni diplomatiche e piena
normalizzazione tra gli Emirati Arabi Uniti e lo Stato di Israele» il ter-
mine «pace» ricorra 20 volte, la parola «Palestina» non compare af-
fatto e la parola «palestinese» è inserita solo in riferimento al conflitto
israelo-palestinese, nel contesto della «visione per la pace» del presi-
dente Trump e dei trattati sottoscritti in precedenza con l’Egitto e la
Giordania. Nella molto più sintetica «Dichiarazione di pace, coopera-
zione e costruttive relazioni diplomatiche e amichevoli», sottoscritta
insieme dal Regno del Bahrain e dallo Stato di Israele, la parola «pace»
compare sette volte, e tuttavia, anche qui, soltanto un breve riferi-
mento al conflitto israelo-palestinese esprime la speranza che si trovi
«una soluzione giusta, completa e duratura». In sostanza, la Palestina
e i palestinesi sono stati relegati ai margini, perché né vengono
122

considerati come una componente del processo, né viene loro con-


cesso di avere voce nello sviluppo delle relazioni economiche, cultu-
rali, scientifiche e tecnologiche tra Israele e i due Stati del Golfo.
I palestinesi hanno poco da offrire, a paragone dell’impegno alla
normalizzazione dei rapporti con Israele da parte di un’amministra-
zione statunitense che in contraccambio è disposta a concedere
enormi benefici. D’altra parte, in questo processo le autorità palesti-
nesi spesso sono sembrate il peggior nemico di se stesse. Per una serie
di ragioni, non sono riuscite a concentrarsi sulla giustizia e sulla pace.
La mancanza di unità, lo scontro tra Hamas e l’Autorità palestinese, il
fatto che entrambe le autorità mantengano contatti continui con gli
israeliani nel tentativo di governare la Cisgiordania e Gaza, metten-
dosi tuttavia l’una contro l’altra, e i sospetti sulla diffusa corruzione
dei dirigenti palestinesi hanno prodotto nel mondo arabo crepe con-
sistenti nell’impegno per la causa palestinese. Inoltre, l’Autorità pale-
stinese ha cercato forti legami con la Turchia, mentre da parte sua Ha-
mas è stata corteggiata dall’Iran, e così si è creato un collegamento tra
il mondo palestinese e coloro che nell’area del Golfo sono visti come i
principali destabilizzatori.
La pressoché totale assenza dei palestinesi dagli «Accordi di
Abramo» ha fatto eco alla loro assenza nella «visione per migliorare
la vita del popolo palestinese e di quello israeliano» del presidente
degli Stati Uniti, pubblicata nel gennaio 2020 sotto il titolo «Pace per
la prosperità». In questa visione, la promozione della prosperità piut-
tosto che della pace occupa un ruolo centrale, sostituendo con lo svi-
luppo economico e il benessere le aspirazioni nazionali a un vero Stato
palestinese nei territori occupati da Israele dopo la guerra del 1967. La
parte economica del piano è più dettagliata e coerente di quella poli-
tica. Viene detto esplicitamente che i palestinesi otterrebbero soltanto
un grado limitato di controllo su aree dei territori occupati, mentre
Israele sarebbe libera di annettersi grandi estensioni di territorio,
quelle in cui già dominano gli insediamenti israeliani impiantati in
contrasto con il diritto internazionale. «Lo Stato di Israele trarrà van-
taggio dall’avere confini sicuri e riconosciuti. Non dovrà sradicare al-
cun insediamento e incorporerà al suo territorio la stragrande mag-
gioranza dei suoi insediamenti contigui. Le enclave israeliane situate
123

all’interno del contiguo territorio palestinese entreranno a far parte


dello Stato di Israele».
Mentre i palestinesi, mai consultati ufficialmente sulla visione
espressa da «Pace per la prosperità», hanno prontamente respinto il
piano, Israele l’ha abbracciato, e gli Stati Uniti lo hanno caldeggiato
con entusiasmo tra i Paesi arabi, specialmente quelli del Golfo.
Nell’introduzione, il documento afferma: «L’assenza di relazioni for-
mali tra Israele e la maggior parte dei Paesi musulmani e arabi non ha
fatto che esasperare il conflitto tra israeliani e palestinesi. Riteniamo
che se vari Paesi musulmani e arabi normalizzeranno le relazioni con
Israele, ciò contribuirà a promuovere una soluzione giusta ed equa al
conflitto tra israeliani e palestinesi e impedirà alle frange radicali di
utilizzare questo conflitto per destabilizzare la regione».
Alla pubblicazione della visione di Trump non ha fatto seguito
la pace tra Israele e la Palestina, ma piuttosto uno sforzo concertato da
Israele per annettersi ampie parti della Cisgiordania. Dopo la con-
danna di questo piano da parte delle Nazioni Unite e della comunità
internazionale, e in particolare dell’Unione Europea, la rea-zione
dell’amministrazione statunitense è stata modesta. In effetti è stato
l’ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti Yousef Al Otaiba a condan-
nare in modo eloquente il piano di annessione elaborato da Washing-
ton nella lettera del giugno 2020 diretta agli israeliani, e che molto
probabilmente era stata approvata dai suoi amici Jared Kushner e Mo-
hammed bin Salman. «Di certo e immediatamente l’annessione ribal-
terà le aspirazioni israeliane a una maggiore sicurezza, nonché ad al-
lacciare legami economici e culturali con il mondo arabo e con gli Emi-
rati Arabi Uniti».
Il piano di annessione israeliano ha consentito sia agli Emirati
Arabi Uniti sia al Bahrain di ergersi a difensori dei palestinesi, le-
gando la firma degli accordi con Israele all’annullamento dei progetti
israeliani di annessione. Anche in questo caso l’amministrazione sta-
tunitense ha mantenuto una posizione distaccata, e da parte sua
Israele ha precisato che l’annessione è stata rimandata solo tempora-
neamente.
124

Gli accordi bilaterali tra Israele ed Emirati Arabi Uniti e tra


Israele e Bahrain, volutamente definiti «un trattato di pace» e «una
dichiarazione di pace», sembrano derivati dal piano «Pace per la pro-
sperità». Né gli Emirati Arabi Uniti né il Bahrain sono mai stati in
guerra aperta con Israele, ma sono entrambi interessati alla prosperità
che potrebbe derivare dagli accordi di normalizzazione. Questi hanno
comportato una spaccatura esplicita e formale del consenso arabo, os-
sia di quella comune opposizione a Israele che era sorta nel 1948,
all’alba della tragedia palestinese. L’occupazione, nel 1967, della Ci-
sgiordania e della Striscia di Gaza, che portava tutta la Palestina sto-
rica sotto il dominio israeliano, era valsa a cementare l’opposizione
araba a Israele e a intensificare la retorica del sostegno ai palestinesi.
Gli accordi ora firmati puntano alla normalizzazione con Israele e
all’intensificazione della collaborazione su tutti i fronti: collabora-
zione che di fatto era già stata intrapresa, ma che ora viene ufficializ-
zata. Inoltre, guadagnandosi la gratitudine degli Stati Uniti, gli Emi-
rati Arabi Uniti e il Bahrain hanno la certezza di una relazione privi-
legiata anche con gli Usa.
Dopo la firma degli accordi, l’amministrazione statunitense ha
promesso che presto altri Paesi arabo-musulmani avrebbero seguíto
lo stesso percorso. Ed effettivamente, in diversi stanno cercando ora
di ottenere il patrocinio degli Stati Uniti. Un candidato è il Qatar, che
dal giugno 2017 viene boicottato da una coalizione dei suoi vicini, gui-
data dall’Arabia Saudita e che include sia gli Emirati Arabi Uniti sia il
Bahrain (oltre a Giordania ed Egitto). Questo Paese è accusato di fi-
nanziare movimenti politici islamici e il «terrorismo» regionale. È in-
teressante notare come Israele sia in continuo contatto con il Qatar,
che a sua volta collabora con Hamas e finanzia la ricostruzione della
Striscia di Gaza, incanalandovi enormi somme di denaro con l’appro-
vazione israeliana. Con l’identica procedura che ha portato agli «Ac-
cordi di Abramo», il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha
incontrato il ministro degli Esteri del Qatar Mohammed bin Ab-
dulrahman Al Thani per sottolineare che il Qatar è un anello impor-
tante nell’attuazione della politica statunitense in Medio Oriente. Allo
stesso tempo il ministro degli Esteri qatariota ha riconosciuto che la
visione statunitense è alla base della risoluzione del conflitto israelo-
125

palestinese. Gli Stati Uniti hanno lasciato capire che avrebbero lavo-
rato per porre fine al boicottaggio del Qatar da parte dei suoi più
stretti alleati1.
Un altro Paese che ha profondo bisogno dell’appoggio degli
Stati Uniti per riabilitarsi è il Sudan. Già nel 2016 questo Stato si era
offerto di normalizzare le relazioni diplomatiche con Israele, al fine di
guadagnarsi l’appoggio degli Stati Uniti per il proprio reinserimento
nella comunità internazionale. Le sanzioni statunitensi sono state gra-
dualmente allentate nel 2017, e i contatti con Israele si sono intensifi-
cati, portando a un incontro – avvenuto in Uganda – tra il primo mi-
nistro israeliano Netanyahu e il presidente del Consiglio sovrano su-
danese Abdel Fattah al-Burhan. Sulla questione della normalizza-
zione con Israele i leader provvisori del Sudan sono divisi: quelli che
la sostengono hanno chiesto ingenti aiuti finanziari per convincere gli
oppositori.
Insomma, il tanto ricercato aiuto degli Stati Uniti ai Paesi arabi
musulmani è ora condizionato alla normalizzazione dei rapporti con
Israele. Attorno a questo tema nel mondo arabo ruota un importante
dibattito. Il consenso arabo, sviluppato nel 2002, che prometteva «nor-
malizzazione» in cambio di giustizia e pace, allora veniva inteso come
una soluzione del conflitto israelo-palestinese. Tale soluzione consi-
steva essenzialmente nell’istituzione di uno Stato palestinese all’in-
terno dei territori conquistati da Israele nel 1967, con capitale Gerusa-
lemme Est. E tuttavia, se non si va alle cause profonde del conflitto, la
«normalizzazione» appare tuttora come parte del problema piuttosto
che della soluzione. Come ha affermato, nel maggio 2017, la Commis-
sione Giustizia e pace dei vescovi cattolici in Terra Santa in una di-
chiarazione sulla normalizzazione, «in sintesi, per “normalizzazione”
si intende l’instaurazione di rapporti con lo Stato di Israele, le sue isti-
tuzioni e i suoi cittadini, “come se” la situazione attuale fosse uno
stato di cose normale, ignorando così la guerra, l’occupazione e la di-
scriminazione ancora in corso, o occultandole, o emarginandole con-
sapevolmente. […] La Chiesa locale in Israele-Palestina ha la

1 Cfr anche D. Christiansen – J. Cesari, «La questione Quatar», in Civ. Catt. 2017
III 398-405.
126

responsabilità di ricordare alla Chiesa universale che la situazione in


Israele-Palestina è una ferita aperta e purulenta, e la situazione non
può essere considerata normale»2.

Eppure, come nota a piè di pagina…


Sebbene sia improbabile che i cosiddetti «Accordi di Abramo»
porteranno giustizia e pace, proprio ai margini della spettacolare ce-
rimonia è apparso un raggio di sole, che ha gettato luce su una realtà
troppo spesso ignorata. Tra le persone interpellate riguardo agli ac-
cordi Israele-Bahrain c’è stato il capo della comunità ebraica in Bah-
rain, Ebrahim Dahood Nonoo, che, in un comunicato ampiamente ri-
preso, ha dichiarato: «La comunità ebraica è sempre esistita nel Regno
del Bahrain ed è l’unica comunità indigena del Golfo. Abbiamo una
sinagoga e un cimitero tuttora in funzione. Questo è un momento sto-
rico a cui non ci saremmo mai aspettati di assistere nella nostra vita».
In un’intervista con la Jewish Telegraphic Agency (15 settembre 2020),
Nonoo ha spiegato: «La nostra religione è ebraica, ma in realtà la no-
stra cultura è molto araba, e ci sentiamo pienamente a casa […]. One-
stamente non potrei pensare di vivere altrove».
Il Bahrain è l’unico Stato del Golfo ad avere una piccola comu-
nità ebraica indigena, e uno dei suoi membri, Huda al-Nonoo, è stato
ambasciatore di quel Paese negli Stati Uniti dal 2008 al 2013. La fami-
glia Nonoo è la prova vivente del fatto che in Bahrain, prima degli
eventi del 1948 che hanno polarizzato ebrei e arabi, esisteva una realtà
ebraica araba, che da allora è quasi svanita.
Le principali vittime del 1948 – gli arabi palestinesi, musulmani
e cristiani che hanno perso la loro patria e aspettavano che il mondo
se ne accorgesse – sono state tenute ai margini dagli «Accordi di
Abramo». In questi si esprime insofferenza nei confronti dei palesti-
nesi che, invece di consentire lo sviluppo di un prospero Medio
Oriente, insistendo sulla giustizia, hanno alimentato una continua in-
stabilità. Tuttavia ha fatto una breve ricomparsa una vittima

2 Cfr D. Neuhaus, «Popolo di Israele, terra di Israele, Stato di Israele», in Civ.


Catt. III 491-502.
127

secondaria del 1948, ossia quel milione circa di ebrei arabi che ave-
vano lasciato le terre arabe musulmane in cui avevano vissuto per se-
coli, dal Marocco all’Iraq. Il ricordo di un tempo in cui ebrei e arabi
non rappresentavano due campi contrapposti, ma piuttosto collabo-
ravano alla costruzione di una società moderna, si è sbiadito anche a
causa della questione israelo-palestinese. Ma qualsiasi speranza di ri-
solvere il conflitto deve basarsi su una visione in cui israeliani e pale-
stinesi possano godere non soltanto della prosperità, ma anche
dell’uguaglianza, in un quadro politico che garantisca i loro diritti e
doveri.
Nella lettera diretta agli israeliani Yousef Al Otaiba ha menzio-
nato la visita di papa Francesco negli Emirati Arabi Uniti, nel febbraio
2019, come un altro segno di tempi nuovi. «Dopo la storica visita di
papa Francesco negli Emirati Arabi Uniti, lo scorso anno, e il suo in-
contro con il Grande Imam di Al-Azhar, abbiamo annunciato l’istitu-
zione di una casa familiare abramitica ad Abu Dhabi, che conterrà
all’interno del suo complesso una moschea, una chiesa e una sina-
goga». Un’immagine affascinante. Tuttavia, affinché si instauri una
pace effettiva in Medio Oriente, gli abitanti della regione – musul-
mani, ebrei e cristiani, che un tempo vivevano fianco a fianco e in-
sieme hanno creato una civiltà araba – devono riconoscere il reciproco
radicamento essenziale in quell’area. Se la chiesa e la sinagoga adia-
centi alla moschea verranno frequentate solo da uomini d’affari statu-
nitensi in visita, questo non porterà la pace, ma una mera afferma-
zione di prosperità.
Una pace che porti vera prosperità arriverà quando il popolo
del Medio Oriente si renderà conto che la perdita di ogni singolo ele-
mento nel suo variegato ecosistema umano – che sia musulmano,
ebraico, cristiano, yazida, druso, o qualsiasi combinazione di questi –
impoverisce il Medio Oriente. Inoltre, ignorare una delle ferite princi-
pali nel cuore del mondo arabo, ovvero la tragedia dei palestinesi e la
perdita della loro patria, non potrà mai portare né pace né prosperità
duratura.
Il conflitto Israele-Striscia di Gaza

(iStock.com/sameer chogale)

La Laylat al-Qadr («Notte del destino») è uno dei momenti forti


della vita di Gerusalemme. In tempi normali, centinaia di migliaia di
musulmani accorrono da ogni parte della Palestina e di Israele all’Ha-
ram al-Sharif (il Nobile Santuario, un ampio complesso nella Città vec-
chia, che comprende la Cupola della roccia e la moschea di al-Aqsa)
per celebrare questa notte santa.
La notte commemora la prima rivelazione del Corano al profeta
dell’islam, Maometto. Ha luogo ogni anno, verso il termine del Rama-
dan – il mese di digiuno –, e i musulmani della Terra Santa la attedono
con trepidazione per trascorrerla in preghiera, in meditazione e in co-
munità all’interno del sacro recinto. La novantasettesima sura del Co-
rano descrive la Laylat al-Qadr come «migliore di mille mesi», e conti-
nua: «In essa discendono gli angeli e lo Spirito con il permesso del loro
Signore per [fissare] ogni decreto. È pace, fino al levarsi dell’alba». Ma
quest’anno, in cui Laylat al-Qadr è caduta l’8 maggio, non c’è stata
pace, e i sogni di molti sono stati infranti dalla rinnovata esplosione
di violenza che ha travolto gran parte di Israele e della Palestina.
Sebbene il divampare della violenza non sorprenda coloro che
vivono nel cuore di quella piaga non curata che è Israele-Palestina,
questa volta l’entità e l’intensità della violenza sono degne di nota.
129

Gerusalemme, una città sotto assedio


Il mese del Ramadan, iniziato il 12 aprile 2021, è stato contras-
segnato dall’ombra della pandemia da Covid-19. A molti musulmani
è stato impedito lo spostamento dalla Palestina a Gerusalemme, per
la perdurante diffusione del virus e le poche vaccinazioni eseguite
nella zona palestinese. Sebbene Israele continui a controllare quei ter-
ritori, direttamente o indirettamente, disciplinando l’accesso alle aree
considerate autonome, e nonostante il notevole successo che ha otte-
nuto nella lotta contro il coronavirus, il vaccino non è stato condiviso
con i palestinesi.
I musulmani provenienti da Gerusalemme e dall’interno di
Israele erano soliti confluire per la notte all’Haram al-Sharif.
Quest’anno le autorità israeliane hanno deciso di vietare loro di radu-
narsi alla Porta di Damasco, la principale via di accesso per i palesti-
nesi che si recano all’Haram. La piazza e le scalinate fuori di questa
Porta sono abituale palcoscenico di eventi culturali e il punto d’incon-
tro di tutti coloro che lasciano la Città vecchia prima di tornare a casa.
Di solito qui le famiglie si scambiano saluti e notizie in un’atmosfera
festosa.
La polizia israeliana si è presentata in forze e ha transennato
l’area, disperdendo i musulmani che tentavano di radunarsi. Le suc-
cessive proteste della comunità palestinese, guidate da giovani arrab-
biati, hanno denunciato l’azione della polizia come un simbolo del
perdurante e inarrestabile tentativo israeliano di impadronirsi dell’in-
tera Gerusalemme Est.
Gli scontri intorno alla Porta di Damasco si sono estesi all’area
dell’Haram. Le forze armate israeliane sono penetrate nelle moschee,
e molte persone sono state ferite e arrestate all’interno della sacra spia-
nata. Vedere l’intero Haram trasformato in una zona di guerra ha
sconvolto, ancora una volta, i musulmani di tutto il mondo.
Poco a nord dell’Haram, il quartiere di Sheikh Jarrah è teatro di
un altro tentativo israeliano che dura da anni. Si tratta di uno scenario
di crescente violenza, fomentato dagli sfratti imposti a famiglie pale-
stinesi a cui è stato ingiunto di abbandonare le case che avevano oc-
cupato all’indomani della guerra del 1948, quando fu istituito lo Stato
130

di Israele. Queste famiglie, fuggite dal territorio divenuto israeliano,


si stabilirono in proprietà fino allora abitate da ebrei, a loro volta in-
sediatisi nelle nuove aree disponibili.
Può darsi che la restituzione delle proprietà ai possessori origi-
nari risponda a un principio di giustizia, tuttavia questo diritto di ri-
pristino viene applicato esclusivamente agli ebrei. A loro volta, le cen-
tinaia di migliaia di palestinesi fuggiti o cacciati dai territori divenuti
parte dello Stato israeliano avevano dovuto lasciare proprietà consi-
stenti: case, campi e attività commerciali, che furono espropriati e con-
segnati agli ebrei immigrati nel Paese. Ora non c’è alcuna intenzione
di restituirli agli arabi palestinesi che li possedevano in origine. Inol-
tre, non appena le proprietà di precedente appartenenza ebraica ven-
gono evacuate dai palestinesi, a prendervi residenza non sono gli ex
proprietari, ma coloni ebrei che vi si trasferiscono allo scopo di creare
enclave ebraiche forti e sorvegliate nel cuore dei quartieri arabi. Il fe-
nomeno è ben noto a Gerusalemme Est e ripercorre il processo ana-
logo svoltosi nel quartiere di Silwan, nella parte sud della Città vec-
chia. Arabi ed ebrei progressisti protestano da anni, con scarsi risul-
tati, contro le manovre israeliane a Sheikh Jarrah e a Silwan. In conco-
mitanza con gli eventi alla Porta di Damasco, anche le proteste a
Sheikh Jarrah sono diventate più violente.
Sheikh Jarrah, Silwan e la Porta di Damasco sono tre punti chiave
di Gerusalemme Est che illustrano un principio generale. Da decenni
Israele esercita un rigido controllo sulla parte araba della città, con la
determinazione a rendere sempre più difficile la vita dei palestinesi
che vi abitano. Subito dopo la guerra del 1967 le autorità israeliane
avviarono la costruzione di veri e propri anelli di insediamenti ebraici
intorno a Gerusalemme Est, per separarla da Betlemme a sud, da Ra-
mallah a nord e da Gerico a est. Contemporaneamente venne appro-
vata la legge che annetteva Gerusalemme Est, definita parte inte-
grante dello Stato di Israele a Gerusalemme Ovest, capitale «eterna»
del popolo ebraico. Il muro che venne costruito all’inizio degli anni
Novanta fu presentato dagli israeliani come una misura di sicurezza
contro gli attacchi terroristici, ma di fatto ha ulteriormente diviso Ge-
rusalemme Est dal resto del territorio palestinese.
131

In anni più recenti, le autorità israeliane hanno avviato un pro-


cesso di mappatura del territorio e pianificazione urbana che prelude
a una vasta confisca di terreni e impedisce ai palestinesi di sviluppare
la città, di costruire quartieri residenziali e di avviare imprese com-
merciali. Molti abitanti di Gerusalemme Est, impossibilitati a trovare
alloggio nella loro città, sono stati costretti a emigrare oltre i confini
municipali israeliani di Gerusalemme, perdendo la residenza, e in
molti casi questo ha comportato la confisca delle loro carte d’identità
di Gerusalemme. Inoltre, i gerosolimitani che sposano palestinesi
della Cisgiordania non possono risiedere con loro a Gerusalemme,
perché ai partner è negato il diritto di soggiorno nella città. E se si
trasferiscono con il coniuge in Cisgiordania, rischiano di perdere il
loro diritto di residenza a Gerusalemme.

Una situazione di stallo politico


La soluzione degli innumerevoli conflitti che oggi investono Ge-
rusalemme e i suoi residenti palestinesi dipende da un processo poli-
tico israelo-palestinese che è inesistente. Se, con un eufemismo bene-
volo, prima del 2017 lo si poteva definire «traballante», a partire da
quella data esso è stato letteralmente devastato sotto i colpi dell’am-
ministrazione Trump. Il trasferimento dell’ambasciata americana a
Gerusalemme, la rottura delle relazioni ufficiali con i palestinesi e la
legittimazione delle politiche di Netanyahu hanno seminato dispera-
zione nei circoli palestinesi.
Più recentemente, il divieto israeliano ai palestinesi di Gerusa-
lemme Est di partecipare alle elezioni politiche generali della Pale-
stina, previste per il mese di maggio del 2021, è servito da giustifica-
zione per l’annullamento dell’intero appuntamento elettorale. Molti
palestinesi sono convinti che la vera ragione di questo rinvio fosse do-
vuta al timore del presidente Mahmoud Abbas di perderle, a vantag-
gio della fazione islamica di Hamas. Più in generale, gli abitanti di
Gerusalemme Est si sentono del tutto abbandonati dall’Autorità pale-
stinese nel far fronte ai tentativi israeliani di controllare Gerusalemme
e ritengono che essa preferisca concentrare gli sforzi diplomatici e po-
litici sulla lotta per mantenere l’integrità dei restanti territori in Ci-
sgiordania fuori dalla zona di Gerusalemme.
132

Un ulteriore contributo a questo stallo politico viene dalla situa-


zione dello Stato israeliano. Nel luglio 2019 Benjamin Netanyahu è di-
ventato il primo ministro israeliano più longevo di sempre, supe-
rando David Ben Gurion. Dopo le ultime elezioni israeliane del 23
marzo 2021, egli è stato nuovamente incaricato di provare a formare
un nuovo governo. Ma, di fronte alle crescenti critiche che gli veni-
vano non solo dal centro e dalla sinistra israeliani, ma anche dalla de-
stra, necessitava di un sostegno più consistente di quello che gli pote-
vano offrire i suoi alleati ebrei ultraortodossi. Pertanto ha promosso
la formazione di una coalizione di estrema destra, che comprendeva
esponenti di gruppi estremisti ben noti per il rifiuto di qualsiasi com-
promesso con i palestinesi e per il razzismo nei confronti di tutti gli
israeliani «non ebrei». Queste forze politiche sono entrate in Parla-
mento all’indomani delle elezioni, convinte che la tenuta di Neta-
nyahu dipendesse da loro e che quindi lui le avrebbe assecondate.
Il 22 aprile, un mese dopo le elezioni, questi gruppi israeliani
estremisti hanno organizzato una marcia su Gerusalemme Est, con il
proposito dichiarato di restituire l’onore agli ebrei nella città: onore
offeso dai video pubblicati sui social media da alcuni giovani palesti-
nesi, che si erano ripresi mentre compivano bravate, come schiaffeg-
giare e spintonare ebrei in luoghi pubblici. Quelle immagini sono state
sfruttate come combustibile per alimentare l’indignazione popolare.
Centinaia di attivisti si sono radunati a Gerusalemme Ovest, innal-
zando striscioni e cantando slogan che minacciavano gli arabi mentre
marciavano verso la Porta di Damasco. La polizia israeliana non ha
sciolto il corteo, limitandosi a impedire l’accesso dei partecipanti
all’area della Porta di Damasco. La violenza, già in corso a causa delle
barricate erette dalla polizia, si è intensificata, provocando molti feriti.
Bande di manifestanti ebrei sono tornate a Gerusalemme Ovest e
hanno aggredito qualsiasi cittadino arabo incontrassero. Pochi giorni
dopo, il 25 aprile, la polizia ha annullato la misteriosa e inspiegabile
decisione di occupare la Porta di Damasco, ritirandosi e consentendo
la rimozione delle transenne. Tuttavia la calma non è durata a lungo,
e nelle sere del Ramadan la tensione è rimasta alta.
Quando si è giunti alla Laylat al-Qadr dell’8 maggio, le elezioni
palestinesi erano state rinviate a tempo indeterminato e il mandato di
133

Netanyahu di formare un nuovo governo era ormai scaduto. Il 4 mag-


gio, infatti, il presidente israeliano Reuven Rivlin aveva conferito il
compito di formare un governo a Yair Lapid, capo dell’opposizione.
Questi ha cercato di dare vita a una coalizione anti-Netanyahu, basan-
dola sulle accuse di corruzione contro il premier e sulla sua rottura
con gli altri leader della destra israeliana. In sostanza, ha cercato con-
senso contro la persona di Netanyahu, piuttosto che creare un’alter-
nativa credibile per la società israeliana, e quindi si è visto costretto a
ignorare l’attuale situazione instabile per non alienarsi i potenziali al-
leati di sinistra e di destra. Nel frattempo, Netanyahu ha continuato a
governare in attesa che si giungesse alla nomina di un suo successore.
Mentre la Laylat al-Qadr calava sulla città, le autorità israeliane
hanno deciso di fermare le decine di pullman che trasportavano a Ge-
rusalemme i fedeli musulmani provenienti dall’entroterra. I passeg-
geri, tutti cittadini israeliani musulmani, sono scesi dai pullman e si
sono avviati a piedi verso la Città santa, convinti che la polizia si sa-
rebbe comportata con maggiore prudenza verso di loro di quanto
avesse fatto con i residenti di Gerusalemme Est e degli altri territori
occupati. Questo, nel giro di breve tempo, ha indotto le autorità a tor-
nare sulla loro decisione, e i pullman hanno ripreso il viaggio, ma il
danno era stato fatto e i pellegrini ribollivano di rabbia. Quella che era
vista come la profanazione di un momento e di un luogo sacro ha in-
fiammato i musulmani ovunque, e in particolare nelle città e nei paesi
della Palestina e di Israele.
Due giorni dopo la Laylat al-Qadr, il 10 maggio, migliaia di ebrei
israeliani sono affluiti a Gerusalemme per celebrare l’anniversario
dell’occupazione israeliana di Gerusalemme Est. Yom Yerushalayim
(«Giorno di Gerusalemme») è una commemorazione annuale che ogni
anno ha comportato crescenti tensioni in città. L’evento principale
consiste nella «Marcia delle bandiere», in cui migliaia di giovani ebrei
israeliani sfilano per le strade di Gerusalemme sventolando bandiere
israeliane e cantando canzoni nazionaliste. Durante la marcia attra-
versano la Porta di Damasco e percorrono il Quartiere musulmano
della Città vecchia, diretti al Muro occidentale, luogo sacro e simbolo
ebraico, che è situato subito sotto l’Haram al-Sharif. Con un ordine
dell’ultimo minuto, il primo ministro Netanyahu ha annullato la
134

parata attraverso la Città vecchia, ma la frustrazione e la rabbia erano


già montate e con esse la violenza fuori e dentro l’Haram e nel quar-
tiere di Sheikh Jarrah.

Palestinesi che sono israeliani


La violenza a Gerusalemme Est, e in particolare nell’Haram, ha
suscitato forti reazioni non soltanto tra i palestinesi che vivono sotto
l’occupazione israeliana entro i territori sequestrati nella guerra del
1967, ma anche tra quei palestinesi che sono cittadini di Israele e vi-
vono all’interno dei confini internazionali definiti nel 1948. Molti di
loro avevano sperimentato in prima persona le tensioni a Gerusa-
lemme in occasione del viaggio all’Haram. Gli arabi palestinesi che
sono cittadini dello Stato di Israele costituiscono circa il 21% della po-
polazione complessiva e prendono parte alla vita politica israeliana.
Nelle elezioni del 2020, una coalizione di quattro partiti prevalente-
mente arabi, la Lista comune, era riuscita a ottenere 15 dei 120 seggi
parlamentari, un vero primato.
A tenere unita tale coalizione era l’opposizione, concorde
sull’occupazione israeliana dei territori palestinesi e sulla discrimina-
zione nei confronti degli arabi all’interno di Israele. Questo pro-
gramma condiviso è stato tuttavia sconfessato da un importante poli-
tico arabo conservatore, Mansour Abbas, che è a capo di una delle
quattro formazioni che compongono la coalizione. Abbas non solo ha
rotto con gli alleati, ma ha avviato colloqui con la destra israeliana,
con l’intento di sostenere un governo Netanyahu. Abbas condivide
con la destra israeliana un approccio conservatore a varie questioni
sociali. Constatata la scissione della Lista comune, alle elezioni del
2021 molti cittadini arabi di Israele non sono andati a votare. Il con-
senso ai partiti prevalentemente arabi è sceso da 15 seggi a 10 (sei alla
Lista comune e quattro al partito conservatore di Abbas). Dopo le ele-
zioni, la necessità, per Netanyahu, del sostegno di Abbas nella forma-
zione di un governo è diventata stringente. Ma altri suoi alleati, gli
estremisti di destra, hanno rifiutato di accettare il coinvolgimento de-
gli arabi nella coalizione che si cercava di formare.
135

Il rifiuto che gli alleati di Netanyahu hanno opposto ad Abbas


ha evidenziato ancora una volta la discriminazione verso i cittadini
arabi palestinesi di Israele. Pur avendo il diritto di voto, essi sono con-
finati in un regime di discriminazione che tocca quasi ogni aspetto
della loro vita in uno Stato che si autodefinisce «ebraico», sebbene in-
sista a proclamarsi democratico. Nel 2018, il Parlamento israeliano ha
approvato una legge che ribadiva che Israele è lo Stato-nazione del
popolo ebraico, evidenziando ancora una volta la natura problematica
della democrazia israeliana. La discriminazione che colpisce gli arabi
è particolarmente evidente nei settori dell’istruzione, dell’assistenza
sanitaria, dell’occupazione, dello sviluppo della comunità, della pro-
prietà territoriale e dei servizi municipali. Un’altra conseguenza de-
vastante di questo regime discriminatorio è determinata dall’assenza
della polizia nelle località arabe: per questo vi sono sbocciati la crimi-
nalità, lo spaccio di armi e quello della droga, che ogni anno provoca
decine di morti tra i giovani e gli adulti. L’uguaglianza dei cittadini
arabi in Israele è, insieme all’occupazione dei territori palestinesi, una
delle principali questioni politiche all’interno della società israeliana.
Questa disparità appare più evidente che mai nelle città in cui
convivono cittadini ebrei e arabi: Jaffa, Ramla, Lidda, Haifa, Acri e
Nazaret. Ai quartieri ebraici viene riservata la maggior parte dei con-
tributi e dei progetti di sviluppo, causando una disuguaglianza evi-
dente per qualsiasi osservatore che paragoni le infrastrutture nei di-
versi settori di queste località. Gli ebrei e gli arabi che hanno assistito
agli eventi di Gerusalemme hanno trasformato queste città in campi
di battaglia paralleli. Estremisti ebrei e giovani arabi furibondi si sono
scontrati nelle strade. Davanti allo spettacolo dei vicini che aggredi-
vano i vicini e ne distruggevano le proprietà, la discriminazione ha
avuto di nuovo la meglio, perché la polizia ha arrestato per lo più
arabi e spesso ha chiuso gli occhi sulla violenza ebraica. L’esplosione
dell’odio e della vendetta, in particolare nelle città miste, ma in gene-
rale in tutto il settore arabo, per le autorità israeliane costituisce una
sfida forse ancora più grande che non gli eventi di Gaza, perché in-
tacca il tessuto sociale israeliano e smentisce i ricorrenti slogan sulla
coesistenza arabo-israeliana all’interno di Israele.
136

Gaza ruggisce e geme


Il 10 maggio, mentre gli entusiasti partecipanti al «Giorno di Ge-
rusalemme» si accingevano a far partire la loro parata, diretta oltre la
Porta di Damasco e attraverso il quartiere musulmano, Hamas, il mo-
vimento islamico che a Gaza costituisce anche il governo locale, ha
pronunciato un ultimatum per gli israeliani, chiedendo il ritiro imme-
diato delle loro forze armate dall’Haram. Se non fossero state imme-
diatamente rimosse, Hamas minacciava di bombardare di missili Ge-
rusalemme e altre città israeliane. Per molti, in tutto il mondo, l’intera
vicenda che stiamo riepilogando ha avuto inizio quando Hamas ha
effettivamente lanciato i suoi missili. Questo atto di guerra ha attirato
l’attenzione di un mondo sostanzialmente annoiato dalle continue
schermaglie tra israeliani e palestinesi.
Hamas, che è di ideologia islamica e considera la distruzione di
Israele come un proprio obiettivo, da molti mesi aveva promosso un
periodo di pace con Israele, dialogando con i rappresentanti di Neta-
nyahu attraverso mediatori egiziani ed europei. Il bombardamento di
Israele, compiuto in nome della difesa della moschea di Al-Aqsa, pro-
babilmente ha dato sfogo anche alla frustrazione accumulata in mesi
di negoziati infruttuosi. Inoltre, Hamas aveva sperato che la program-
mata tornata elettorale palestinese avrebbe portato a una sua vittoria,
sicché il rinvio delle elezioni è stato un duro colpo.
In sostanza, sia Netanyahu sia i dirigenti di Hamas hanno scelto
di impegnarsi in un conflitto aperto e violento animati da secondi fini:
Netanyahu per rimanere al potere; e i dirigenti di Hamas per guada-
gnarsi il sostegno popolare senza il processo elettorale. Alla luce della
crisi in atto, figure importanti dell’opposizione a Netanyahu hanno
abbandonato i tentativi di formare un governo alternativo, e molti pa-
lestinesi hanno applaudito alla spavalderia di Hamas.
Il boato proveniente da Gaza è risuonato in tutto Israele. La
pioggia di missili ha fatto correre israeliani terrorizzati nei rifugi, e un
certo numero di loro è morto sotto il fuoco (10 persone entro il mez-
zogiorno del 17 maggio). I missili sono piovuti sulle aree meridionali
(comprese le città di Beer Sheva, Sderot e Ashkelon), ma hanno rag-
giunto anche il centro del Paese e le zone intorno a Tel Aviv e a
137

Gerusalemme. Hamas ha rivelato un arsenale più imponente di


quanto la maggior parte degli israeliani si aspettasse. La rappresaglia
israeliana è stata immediata e violenta. Fino al 17 maggio, 196 abitanti
di Gaza erano stati uccisi dai bombardamenti, oltre 1.200 persone
erano rimaste ferite, e i danni materiali erano enormi.
Al ruggito di Gaza ha fatto eco il gemito continuo di un’area che
è di nuovo insanguinata e devastata. Gaza è da anni sotto assedio e
sotto il controllo di un regime islamico autoritario. Con i suoi vasti
campi profughi, è fortemente sovrappopolata; oltre il 70% degli abi-
tanti sono discendenti di rifugiati da quelle aree della Palestina che
nel 1948 divennero israeliane. Di fatto, Gaza è il luogo più densamente
popolato della Terra: conta due milioni di persone che vivono in
un’area geografica di 364 chilometri quadrati. La disoccupazione è vi-
cina al 50%; l’elettricità scarseggia, con forniture che non superano le
otto ore al giorno; quasi assenti sono le infrastrutture idriche e fogna-
rie. Lo sviluppo economico è pressoché inesistente. La miseria di Gaza
è proverbiale quanto la vitalità e la prosperità di Tel Aviv.

Quanto manca all’alba?


Mentre il mondo sta a guardare, israeliani e palestinesi conti-
nuano a combattere. Purtroppo, questa non è una novità, né una sor-
presa. Quella di Israele-Palestina è da decenni una ferita non curata.
Vi assiste gran parte del mondo, esprimendo generiche condanne
della violenza e torcendo il linguaggio in modo che rimanga impar-
ziale e, alla fine, inefficace. La ferita resta insanguinata e non medi-
cata. Anche adesso chi si adopera per placare gli animi e far tacere le
armi fa affidamento sulla stanchezza. In definitiva, l’obiettivo rimane
«ristabilire la calma», in modo che la vita possa continuare. Tuttavia,
quando la vita continuerà, e così sarà, per la maggior parte dei pale-
stinesi si tratterà di una vita ancora sotto occupazione e all’ombra
della discriminazione, e per la maggior parte degli israeliani di una
vita vissuta nel timore di rappresaglie e violenze. Una piaga non cu-
rata come Israele-Palestina continuerà a suscitare ideologie impron-
tate all’odio e alla vendetta, che generano disprezzo e promuovono la
violenza. Perché la realtà è guerra fino al levarsi dell’alba, l’alba di un
nuovo giorno.
138

Il Pontefice è intervenuto due volte al Regina Coeli sul conflitto.


Il 9 maggio ha invitato «tutti a cercare soluzioni condivise affinché
l’identità multireligiosa e multiculturale della Città Santa sia rispet-
tata e possa prevalere la fratellanza». Il successivo 16 maggio ha de-
nunciato la «spirale di morte e distruzione», affermando: «Numerose
persone sono rimaste ferite, e tanti innocenti sono morti. Tra di loro ci
sono anche i bambini, e questo è terribile e inaccettabile. La loro morte
è segno che non si vuole costruire il futuro, ma lo si vuole distrug-
gere». Ha invitato tutti a pregare «incessantemente affinché israeliani
e palestinesi possano trovare la strada del dialogo e del perdono, per
essere pazienti costruttori di pace e di giustizia, aprendosi, passo
dopo passo, ad una speranza comune, ad una convivenza tra fratelli».
Una dichiarazione rilasciata dal Patriarcato latino di Gerusa-
lemme il 9 maggio, giornata intermedia tra la Laylat al-Qadr e il
«Giorno di Gerusalemme», riferendosi a Gerusalemme, auspica l’alba
di un nuovo giorno: «La nostra Chiesa è stata chiara sul fatto che la
pace richiede giustizia. Fintantoché i diritti di tutti, israeliani e pale-
stinesi, non saranno sostenuti e rispettati, non ci sarà giustizia, e
quindi nessuna pace nella città. È nostro dovere non ignorare l’ingiu-
stizia né alcuna aggressione contro la dignità umana, indipendente-
mente da chi le commette». Queste parole riguardo a Gerusalemme si
possono estendere all’intero Israele-Palestina. Secondo questa dichia-
razione, tutti – israeliani e palestinesi, ebrei, musulmani e cristiani –
devono avere «lo stesso diritto di costruirsi un futuro basato sulla li-
bertà, sull’uguaglianza e sulla pace». Inoltre, il Patriarcato si è spinto
a immaginare un giorno in cui Gerusalemme possa essere «un luogo
di preghiera e di incontro aperto a tutti, e dove tutti i credenti e i cit-
tadini, di ogni fede e appartenenza, possono sentirsi “a casa”, protetti
e sicuri». Sarebbe davvero l’alba di un nuovo giorno, un giorno di
pace.

***

Il 21 maggio 2021, alle 2 del mattino, è entrato in vigore un ces-


sate il fuoco, mediato dall’Egitto dopo che l’amministrazione
139

statunitense è riuscita a far comprendere al primo ministro israeliano


Netanyahu che i bombardamenti su Gaza dovevano finire. Sia l’am-
ministrazione Netanyahu sia Hamas hanno immediatamente rivendi-
cato la vittoria, entrambe le parti sottolineando la distruzione che ave-
vano causato nelle vite di quelli della parte avversa. Dodici erano i
morti da parte israeliana – tra cui tre lavoratori immigrati e due citta-
dini arabi palestinesi di Israele –, mentre 226 palestinesi erano morti a
causa dei bombardamenti israeliani di Gaza, e altri 12 palestinesi
erano stati uccisi dai soldati israeliani in Cisgiordania. Nonostante le
affermazioni in senso contrario, è improbabile che quest’ultimo con-
flitto abbia aggiunto qualcosa di positivo alla risoluzione delle cause
profonde della violenza. L’unica domanda che rimane ora è quanto
durerà la calma prima del prossimo ciclo di violenza.
Ripensare la ripartizione della Palestina?

(foto: iStock.com/NSA Digital Archive)

Settantacinque anni fa, il 29 novembre 1947, le Nazioni Unite


approvarono la Risoluzione 181, che divideva la Palestina in due Stati:
uno ebraico e l’altro arabo-palestinese. Lo Stato israeliano è entrato a
far parte dell’Onu nel maggio 1949. Invece, non esiste ancora uno
Stato pienamente membro della Palestina, sebbene, a distanza di 65
anni dall’approvazione della Risoluzione 181, il 29 novembre 2012,
l’Onu abbia accordato alla Palestina la condizione di «Stato osserva-
tore non membro», ovvero una posizione che essa condivide soltanto
con la Santa Sede. I 65 anni intercorsi tra il piano di riripartizione e
l’accettazione della Palestina secondo le suddette modalità meritano
di essere ripercorsi per comprendere l’attuale situazione del conflitto
israelo-palestinese, che è al centro della perdurante instabilità in Me-
dio Oriente. Qual era la riripartizione proposta? Che cosa ha portato
alla decisione di darvi luogo? Quali ne sono state le conseguenze? E,
infine, oggi la ripartizione è ancora una soluzione plausibile per il con-
flitto tra Israele e Palestina?

Qual era il piano di ripartizione?


Il piano delle Nazioni Unite del 1947 proponeva di dividere la
Palestina in due Stati: uno ebraico e uno arabo-palestinese. Gerusa-
lemme e i suoi dintorni sarebbero stati controllati dalle Nazioni Unite
141

per un periodo di 10 anni come un corpus separatum, che sarebbe stato


oggetto di futuri negoziati. Al momento della ripartizione proposta,
la popolazione della Palestina era di circa 1.845.000 residenti:
1.237.000 arabi (67%) e 608.000 ebrei (33%). La stragrande maggio-
ranza della popolazione ebraica era emigrata in Palestina, prevalente-
mente dall’Europa, nel corso dei trent’anni precedenti il 1947. I confini
proposti per i due Stati accordavano il 61% del territorio della Pale-
stina allo Stato ebraico e il restante 35% agli arabi.
L’Agenzia ebraica, l’organo di governo degli ebrei in Palestina,
votò a favore della decisione. Il sionismo politico, l’ideologia del mo-
derno nazionalismo ebraico, si era impegnato allo stremo per convin-
cere sia gli ebrei sia i leader mondiali a vedere come un atto di giusti-
zia la creazione in Palestina di uno Stato per gli ebrei che avevano
tanto sofferto in Europa per decenni. Il Supremo comitato arabo, che
rappresentava la leadership arabo-palestinese, respinse la ripartizione
e si associò ai governi dei Paesi arabi circostanti nella richiesta che il
territorio andasse sotto il dominio arabo dopo secoli di dominazione
straniera. Il nazionalismo arabo sosteneva il principio dell’autodeter-
minazione per le popolazioni indigene, dopo aver lottato per decenni
per liberare la Palestina sia dal dominio coloniale britannico sia dalla
migrazione sionista. Dal suo punto di vista, gli ebrei erano nient’altro
che colonialisti europei, impazienti di rivendicare quella che era e re-
stava la sua patria.

Perché fu proposta la ripartizione?


Trent’anni prima, nel 1917, durante la Prima guerra mondiale,
quando gli inglesi occuparono la Palestina subentrando a secoli di do-
minio turco ottomano, gli ebrei erano solo circa 60.000, appena il 10%
della popolazione, e molti di loro erano arrivati di recente dalla Rus-
sia. Sei settimane prima che le forze inglesi entrassero a Gerusalemme,
il ministro degli Esteri britannico, Lord Arthur Balfour, inviò una let-
tera a un dignitario ebreo britannico, in cui annunciava che il suo go-
verno vedeva «con favore l’istituzione in Palestina di un focolare na-
zionale per il popolo ebraico». Questa lettera, nota come «Dichiara-
zione Balfour», divenne una base importante per il dominio britan-
nico in quei luoghi, confermata in seguito dal mandato della Società
142

delle Nazioni per la Palestina. L’articolo 4 del mandato prevedeva il


coinvolgimento di una «appropriata agenzia ebraica» nella «costitu-
zione del focolare nazionale ebraico» e nell’evoluzione del Paese. È
interessante notare che la Santa Sede nutriva riserve su questo aspetto
del mandato britannico. Il Segretario di Stato, card. Pietro Gasparri,
scrisse al Segretario generale della Società delle Nazioni che, sebbene
la Santa Sede non avesse obiezioni al fatto che gli inglesi ricevessero
il mandato per la Palestina, restava molto perplessa sul cambiamento
implicito nello status degli ebrei residenti. Gasparri, pur sottolineando
che la Santa Sede non si opponeva al fatto che gli ebrei abbiano uguali
diritti civili in Palestina, rimarcava di non poter accettare che a essi
venisse accordata una posizione privilegiata1.
Il sionismo, formalizzato politicamente come organizzazione
mondiale nel 1897 a Basilea, vedeva nel «ritorno» a Sion l’unica solu-
zione possibile alla difficile situazione degli ebrei in Europa, sempre
più vittime designate dei movimenti nazionalisti etnocentrici europei.
Balfour e il suo primo ministro David Lloyd George erano in grande
sintonia con questa idea. I sionisti in Gran Bretagna, in particolare il
fisico ebreo russo Chaim Weizmann (poi primo presidente dello Stato
di Israele), avevano corteggiato i politici britannici affinché sostenes-
sero il sionismo, indicando una presenza ebraica in Palestina come il
migliore interesse della Gran Bretagna. Da parte loro, Balfour e Lloyd
George non solo erano motivati dall’interesse nazionale britannico,
ma provavano anche solidarietà con la difficile condizione degli ebrei
nell’Impero russo, i quali vivevano sotto un regime discriminatorio,
esposti a sporadiche violenze e all’espulsione. Inoltre, come cristiani
che si ispiravano alla Bibbia, sposavano l’idea che la Palestina fosse la
patria promessa da Dio agli ebrei: convinzione, questa, che caratte-
rizza il sionismo cristiano, fondato sul fondamentalismo biblico, am-
piamente diffuso nel mondo anglosassone. Questo misto di interesse
imperiale, nobile sollecitudine umanitaria e fervore religioso riferito
alla Bibbia fece da potente sfondo nel sostegno accordato al sionismo.

1 Cfr P. Gasparri, Lettera al Segretario generale della Lega delle Nazioni, 15 maggio
1922.
143

Nel 1947, dopo tre decenni di dominio britannico, la popola-


zione ebraica in Palestina era aumentata di 10 volte e molti altri ebrei
stavano cercando di immigrarvi. Il nazismo pareva aver dimostrato
che il sionismo era davvero l’unica alternativa per gli ebrei. L’antigiu-
daismo era stato trasmesso per secoli nel contesto della diffusa narra-
zione cristiana tradizionale. Gli ebrei vi venivano definiti sia come co-
loro che avevano ucciso Dio crocifiggendo Gesù, sia come un popolo
di ciechi, perché continuavano a negare che Gesù fosse il loro Messia
e Salvatore. Questo «insegnamento del disprezzo» verso gli ebrei e
l’ebraismo aveva troppo spesso condotto, nel corso dei secoli,
all’emarginazione, alla discriminazione, alla vittimizzazione e alla
persecuzione, soprattutto in Europa.
Nel XIX secolo l’antigiudaismo si trasformò in antisemitismo,
sulla spinta di un sentimento generato dalle nuove teorie del naziona-
lismo etnocentrico. La discriminazione, i violenti pogrom e infine il
metodico genocidio condotto contro gli ebrei in vari luoghi d’Europa
e oltre non erano più basati su tropi teologici, ma piuttosto sulla reto-
rica nazionalista, che considerava gli ebrei come gli eterni stranieri,
traditori per natura, riluttanti e incapaci di integrarsi, minacciosa-
mente ostili. Dalla fine del XIX secolo e per tutta la prima metà del XX
secolo, milioni di ebrei furono assassinati, e altri milioni sradicati in
conseguenza dell’antisemitismo che si manifestava nelle politiche sta-
tali, nella brutalità burocratizzata e nel genocidio. Gli impulsi patolo-
gici del nazionalismo etnocentrico e del populismo razzista imposero
una fine catastrofica a gran parte delle variegate culture ebraiche che
avevano arricchito il continente europeo per due millenni. Gli ebrei,
che si erano aggrappati per secoli alle loro molteplici patrie europee e
avevano sperato di integrarsi in esse come cittadini alla pari, si trova-
rono spesso costretti a scegliere tra la morte e l’esilio. La vittoria
sull’Asse della Germania nazista e dei suoi alleati, nel 1945, rivelò che
durante la Seconda guerra mondiale sei milioni di ebrei erano stati
assassinati dai nazisti e dai loro collaboratori, mentre altri milioni di
loro erano stati espropriati e privati delle loro case. In tutto il mondo
si divenne consapevoli del maltrattamento degli ebrei e si accesero
simpatie per le pretese ebraiche di una patria.
144

E tuttavia gli inglesi, nel loro periodo di governo della Palestina,


scoprirono che quella terra non era come nel XIX secolo l’aveva raffi-
gurata un politico cristiano sionista britannico, Lord Shaftesbury:
«una terra senza popolo per un popolo senza terra». Di fatto, una vi-
vace popolazione arabo-palestinese di musulmani e cristiani (e un pic-
colo gruppo di ebrei arabi palestinesi) vedeva in quei territori la pro-
pria patria e si batteva con impegno per l’autodeterminazione. Già nel
1917, un oppositore del sionismo, il politico e ministro ebreo britan-
nico Lord Edwin Montagu, aveva obbligato Balfour a includere nella
sua lettera una seconda affermazione, secondo la quale «non si deve
fare nulla che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comu-
nità non ebree presenti in Palestina». La tensione tra l’appello a stabi-
lire un «focolare nazionale» ebraico e il rispetto dei diritti civili e reli-
giosi della popolazione «non ebrea» avrebbe reso impossibile il domi-
nio britannico in Palestina, e portò quindi allo scoppio di una feroce
guerra civile, che contrappose ebrei sionisti, arabi palestinesi e le forze
del mandato britannico. Non era sorprendente che i palestinesi aves-
sero respinto il piano di ripartizione.
In quel periodo, in tutta l’Asia e l’Africa i movimenti di libera-
zione stavano svincolando le loro patrie dal controllo coloniale e chie-
devano l’autodeterminazione. Per gli arabi residenti in Palestina, sia
gli inglesi sia gli ebrei a cui era stato concesso di immigrare erano co-
lonizzatori europei. Tuttavia, alla luce del fatto che gli ebrei non ap-
parivano colonialisti europei ma piuttosto un popolo che tornava
nella sua antica patria, e che gli arabi palestinesi si consideravano gli
indigeni di questa stessa patria, la ripartizione sembrava a molti un
compromesso ragionevole. La Santa Sede, particolarmente gratificata
dal fatto che Gerusalemme sarebbe stata un’entità a parte, non inclusa
nella giurisdizione di nessuno dei due Stati, non solo espresse soste-
gno al piano di ripartizione, ma esortò vari Paesi dell’America Latina
a fare altrettanto.

Quali sono state le conseguenze della ripartizione?


Sebbene negli ultimi 75 anni il piano di ripartizione sia rimasto
alla base della visione della comunità internazionale riguardo a
Israele-Palestina, e con esso la promozione di due Stati per due popoli
145

come soluzione al conflitto che ha lacerato la regione del Medio


Oriente, tuttavia quel piano non è mai stato attuato. Gli inglesi si riti-
rarono dalla Palestina nel maggio 1948, lasciandosi alle spalle un
Paese martoriato da una guerra civile, che contrapponeva gli ebrei sio-
nisti agli arabi palestinesi. La loro partenza e la successiva dichiara-
zione dell’istituzione dello Stato di Israele portarono allo scoppio
della prima di una serie di guerre regionali tra Israele e i Paesi arabi
circostanti. Israele, con il sostegno militare, politico ed economico
dell’Urss, degli Stati Uniti e di altri alleati europei, respinse gli eserciti
arabi. L’accordo di armistizio, firmato nel gennaio 1949, gli ricono-
sceva, come Stato, la sovranità non soltanto sulle terre assegnategli
dal piano di ripartizione, ma anche sui territori di cui aveva preso il
controllo e che in origine erano destinati allo Stato arabo. Allo Stato di
Israele venne riconosciuta la sovranità su quasi il 78% del territorio
della Palestina mandataria. L’altro 22% fu conquistato dal Regno ha-
scemita di Giordania (la Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est) e
dall’Egitto (la Striscia di Gaza). In quella guerra, più della metà della
popolazione palestinese perse la propria casa e divenne profuga. Il
nuovo Stato di Israele aprì subito le porte all’immigrazione ebraica, e
nel corso di 10 anni agevolò l’arrivo di oltre due milioni di nuovi cit-
tadini: sia quelli che abbandonavano l’Europa del dopoguerra, sia
quelli in fuga dai Paesi arabi in cui avevano vissuto fino ad allora e
dove ormai spesso erano visti come collaborazionisti dello Stato di
Israele.
Nel 1967 la regione vide lo scoppio dell’ennesima guerra, che
contrappose Israele, sostenuto dagli Stati Uniti, ai Paesi arabi circo-
stanti, appoggiati dall’Urss. La clamorosa vittoria dello Stato di Israele
gli assicurò il controllo del restante 22% della Palestina mandataria
(Cisgiordania e Striscia di Gaza), che fu sottoposta all’occupazione
militare. La Risoluzione 242 delle Nazioni Unite chiedeva la fine di
tale occupazione e una giusta soluzione della questione dei profughi
palestinesi. Poco prima della guerra, attivisti palestinesi avevano fon-
dato l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), che si
assumeva la rappresentanza del popolo palestinese. La Risoluzione
3236 delle Nazioni Unite, nel novembre 1974, riconosceva il diritto del
popolo palestinese all’autodeterminazione in Palestina, ridestando
146

l’intenzione del piano di ripartizione, e concedeva anche all’Olp la


condizione di osservatore non statale all’Onu.
Il 15 novembre 1988, nel contesto di una rivolta generale contro
l’occupazione israeliana, nota come intifada, l’Olp dichiarò l’istitu-
zione dello Stato di Palestina. Sebbene i territori che componevano
tale Stato fossero sotto il controllo di Israele, molti Paesi lo riconob-
bero, citando la Risoluzione 181. Fortemente incoraggiati dalla comu-
nità internazionale, i negoziati tra Israele e l’Olp iniziarono nei primi
anni Novanta, portando alla firma degli Accordi di Oslo nel 1993 e
alla successiva istituzione dell’Autorità nazionale palestinese, con
sede a Ramallah, in Cisgiordania. Tuttavia gli Accordi non sono mai
stati pienamente attuati, e nel settembre 2000 ha avuto inizio un’altra
tornata di violenze, una seconda intifada. Infine, il 29 novembre 2012
la Palestina è stata riconosciuta dalle Nazioni Unite come Stato osser-
vatore non membro. Sia Israele sia gli Stati Uniti hanno protestato
contro tale riconoscimento, pur continuando entrambi a sostenere for-
malmente il principio di due Stati per due popoli.
La Shoah e la Nakba – ossia, l’esodo forzato di circa 700.000
arabi palestinesi dai territori occupati da Israele nel corso della prima
guerra arabo-israeliana – sono legate insieme nella storia. Nella
Shoah, l’antisemitismo ebbe un’apoteosi satanica. L’industria del ge-
nocidio raggiunse livelli di efficienza che possono essere definiti solo
spaventosi. Molti insistono sul fatto che la Shoah non sia paragonabile
ad altri eventi, e qui non intendiamo fare confronti. Tuttavia il piano
di ripartizione, progettando una patria per gli ebrei sulla scia della
Shoah, con la speranza di fare spazio anche a una patria araba palesti-
nese, mise in moto la Nakba. Fu una conseguenza necessaria? Il dibat-
tito accademico, politico e speculativo che vorrebbe rispondere al que-
sito non cambia la realtà derivante da quegli eventi: l’istituzione di
uno Stato definito ebraico ha portato a relegare i palestinesi ai margini
della storia. L’antisemitismo moderno, che fu una catastrofe epocale
per gli ebrei nella modernità, ebbe conseguenze sconvolgenti anche
per i palestinesi. Con la diretta distruzione delle vite degli ebrei attra-
verso un genocidio inimmaginabile, la Shoah ha condotto i palestinesi
alla tragedia dell’esodo, della Nakba. Con il suo protratto impegno
per la ripartizione, la comunità internazionale appare spesso
147

impegnata nel tentativo di bilanciare questi due momenti fondamen-


tali, la Shoah e la Nakba. La decisione di ripartire la Palestina – «due
Stati per due popoli» – si basa sulla convinzione post-Shoah che il po-
polo ebraico abbia bisogno di una patria sicura e che ciò non dovrebbe
significare che i palestinesi perdano la loro. La sicurezza ebraica può
essere compaginata con la giustizia palestinese? Oggi la soluzione dei
due Stati è ancora attuale?

La ripartizione è ancora una soluzione proponibile?


Pareva che l’accettazione della Palestina come Stato osservatore
all’Onu, nel 2012, potesse significare un piccolo passo avanti verso la
soluzione dei due Stati per il conflitto israelo-palestinese. Sul tema la
Santa Sede si espresse all’unisono con la comunità internazionale. Be-
nedetto XVI, nella sua visita in Terra Santa del 2009, lo ha dichiarato
in termini precisi: «Sia universalmente riconosciuto che lo Stato di
Israele ha il diritto di esistere e di godere pace e sicurezza entro confini
internazionalmente riconosciuti. Sia ugualmente riconosciuto che il
Popolo palestinese ha il diritto a una patria indipendente sovrana, a
vivere con dignità e a viaggiare liberamente. Che la “two-state solu-
tion” (la soluzione dei due Stati) divenga realtà e non rimanga un so-
gno»2. Le sue parole sono state ripetute da papa Francesco durante la
visita in Terra Santa nel 2014. Più di recente, rivolgendosi nel gennaio
2022 ai diplomatici, Francesco ha detto: «Vorrei davvero vedere questi
due popoli ricostruire la fiducia tra di loro e riprendere a parlarsi di-
rettamente per arrivare a vivere in due Stati fianco a fianco, in pace e
sicurezza, senza odio e risentimento, ma guariti dal perdono reci-
proco»3.
Tuttavia, a 75 anni dalla decisione di ripartire la Palestina, ci si
pone la domanda: la soluzione dei due Stati è ancora plausibile? Nei
sondaggi pubblicati di recente sia in Israele sia in Palestina, la maggior
parte delle persone si è discostata dalla prospettiva dei due Stati. In

2 Benedetto XVI, Cerimonia di congedo nel pellegrinaggio in Terra Santa, 15 mag-

gio 2009.
3 Francesco, Discorso ai membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa

Sede, 10 gennaio 2022.


148

un sondaggio del settembre 2022 dell’Israel Democracy Institute, solo il


32% degli ebrei israeliani si è detto favorevole a tale soluzione. E se-
condo un sondaggio condotto nell’ottobre 2022 dal Palestinien Center
for Policy and Survey Research, l’appoggiava solo il 37% dei palestinesi
presenti in Palestina. Tuttavia, la comunità internazionale persegue
tuttora questo risultato. Se si osserva la realtà sul campo dopo decenni
di invasione israeliana delle terre occupate nella guerra del 1967, con
l’incessante costruzione di insediamenti ebraici, di strade israeliane e
di altre infrastrutture, la soluzione dei due Stati oggi sembra poco rea-
listica. Se nella realtà odierna non è possibile ritagliare due Stati vitali,
sovrani e sicuri, la ripartizione non porterà alla giustizia e alla pace,
tanto desiderate, tra israeliani e palestinesi.
A chi segue da vicino il dibattito degli analisti riguardo al con-
flitto balza all’occhio come, a proposito di Israele-Palestina, l’atten-
zione si stia lentamente spostando verso un mutato vocabolario poli-
tico-diplomatico; l’insistenza si concentra di più sulla parola «ugua-
glianza». A partire dal 2004, alcuni hanno sostenuto che il concetto
appropriato per definire la situazione attuale è quello dell’apartheid.
Negli ultimi anni, l’accusa che Israele utilizzi un sistema di apartheid
per dominare i palestinesi è stata persino allargata dai territori occu-
pati allo stesso Stato di Israele e al suo controllo sui cittadini arabi pa-
lestinesi di Israele. Questa discussione accende forti emozioni e inge-
nera da entrambe le parti un dibattito vivace. Nell’Assemblea gene-
rale del Consiglio ecumenico delle Chiese, svoltasi a Karlsruhe, in
Germania, nel settembre 2022, una dichiarazione faceva riferimento a
tale polemica: «Di recente, numerose organizzazioni e organismi le-
gali internazionali, israeliani e palestinesi, per i diritti umani hanno
pubblicato studi e rapporti che descrivono le politiche e le azioni di
Israele come “apartheid” ai sensi del diritto internazionale. All’in-
terno di questa Assemblea, alcune Chiese e delegati sostengono forte-
mente l’utilizzo di questo termine per descrivere appropriatamente la
realtà del popolo in Palestina/Israele e la sua collocazione secondo il
diritto internazionale, mentre altri lo trovano inappropriato, inutile e
doloroso. Non siamo unanimi su tale argomento. Dobbiamo
149

ulteriormente confrontarci su questo problema, mentre continuiamo


a lavorare insieme in questo cammino di giustizia e di pace»4.
La lotta per l’uguaglianza tra ebrei israeliani e arabi palestinesi
fa parte integrante del tentativo di risolvere il conflitto in corso. La
realtà demografica negli ultimi decenni è cambiata, ha alterato note-
volmente il volto di questi territori. Oggi in questi luoghi sette milioni
di ebrei israeliani e sette milioni di arabi palestinesi (cinque milioni
dei quali residenti nelle terre occupate da Israele nel 1967, e due mi-
lioni che sono cittadini israeliani) vivono fianco a fianco. 670.000 ebrei
israeliani vivono in Cisgiordania, zona in cui Israele controlla ancora
la maggior parte del territorio entro insediamenti definiti illegali dal
diritto internazionale. Sacche frammentate di enclavi palestinesi – la
cosiddetta «Area A» –, che comprendono le principali città palestinesi,
vengono amministrate da un’Autorità palestinese indebolita da dis-
sensi interni, da una gestione corrotta e dalle minacce di anarchia.
Questi insediamenti sono circondati da posti di blocco militari israe-
liani, con muri e recinzioni di sicurezza. All’interno di Israele, i citta-
dini arabi palestinesi costituiscono circa un quarto della popolazione
e chiedono uguali diritti, esprimendo al tempo stesso una crescente
delusione nei confronti del processo politico in atto nel Paese. Al mo-
mento, la maggior parte degli ebrei israeliani è del tutto contraria a
eventuali compromissioni dell’identità ebraica dello Stato di Israele e
non sembra probabile una risoluzione del conflitto nel prossimo fu-
turo.
Tuttavia, poiché l’eventualità della ripartizione – in una realtà
in cui Israele ha quasi annesso gran parte dei territori occupati du-
rante la guerra del 1967 – sembra ogni giorno più dubbia, questo po-
trebbe essere il momento giusto per rafforzare la coscienza della ne-
cessità di una lotta per l’uguaglianza di israeliani e palestinesi, in qua-
lunque quadro politico possa evolversi la situazione (due Stati o uno).
La lotta civile per l’uguaglianza è condizione necessaria per la libertà,
la dignità e il benessere di ogni persona umana. Nel maggio 2019 i
vescovi cattolici di Terra Santa hanno proposto una visione del futuro

4 Consiglio ecumenico delle Chiese, Seeking Justice and Peace for all in the Middle
East, 8 settembre 2022.
150

che non si limiti all’idea della ripartizione: «Chiamiamo i cristiani in


Palestina-Israele a unire le loro voci con ebrei, musulmani, drusi e
tutti coloro che condividono questa visione di una società basata
sull’uguaglianza e sul bene comune, e a invitare tutti a costruire ponti
di mutuo rispetto e amore. A nulla è servita la proposta della “solu-
zione dei due Stati”, che viene inutilmente ripetuta. Di fatto, nella si-
tuazione attuale qualsiasi discorso circa una soluzione politica sembra
un atto di vuota retorica. Pertanto ci facciamo promotori di una vi-
sione secondo cui tutti in questa Terra Santa hanno piena ugua-
glianza, l’uguaglianza che accomuna tutti gli uomini e le donne creati
uguali da Dio, a sua immagine e somiglianza. Siamo convinti che tale
uguaglianza, al di là di qualsiasi soluzione politica adottabile, sia la
condizione fondamentale per una pace giusta e duratura. Nel passato
abbiamo vissuto insieme in questa terra, perché non potremmo vi-
verci insieme anche in futuro? Questa è la nostra visione per Gerusa-
lemme e per tutto il territorio chiamato Israele e Palestina, che è posto
tra il fiume Giordano e il mare Mediterraneo»5.
I vescovi cattolici non sono né politici né diplomatici, ma questa
loro attenzione ai princìpi che si trovano al centro del conflitto, in par-
ticolare al principio di uguaglianza, potrebbe davvero rivitalizzare un
dibattito sul futuro di Israele-Palestina. Quale che sia la soluzione – la
ripartizione, una soluzione a due Stati, oppure un’altra –, l’ugua-
glianza di ciascun individuo all’interno dell’entità politica in cui vive
è garanzia e condizione per una pace giusta e duratura.

Assemblea degli Ordinari Cattolici in Terra Santa, Giustizia e pace si baceranno,


5

20 maggio 2019.
Gli ebrei di cultura araba

Ebrei yemeniti che raggiugono in volo il neonato Stato di Israele

Dal 1948 a questa parte, le due parole «ebreo» e «arabo», se pro-


nunciate nella stessa frase, evocano poli opposti: suggeriscono reci-
proca sfiducia e inimicizia, guerra e violenza, segnalano un presunto
abisso incolmabile. È il momento di ricordare che non è sempre stato
così. La storia degli ebrei nelle terre arabe, a ben vedere, mostra che
c’è stato un tempo prima che gli ebrei fossero contro gli arabi, e prima
che gli arabi fossero contro gli ebrei; un tempo in cui un ebreo poteva
anche essere un arabo. Gli ebrei nei Paesi arabi non solo parlavano
arabo, ma erano parte integrante della civiltà araba e vi hanno dato il
loro specifico contributo. Prima del 1948, infatti, circa un milione di
ebrei di lingua araba erano di casa nei Paesi che si estendevano dal
Marocco all’Iraq. C’erano importanti centri ebraici a Casablanca, Tu-
nisi, Tripoli, Il Cairo, Alessandria, Sana’a, Beirut, Damasco, Aleppo e
Baghdad, non meno che a Gerusalemme, Ebron, Giaffa e Tiberiade.
Quando, poco tempo fa, coloni ebrei hanno devastato la città di
Huwara, vicino a Nablus nella Palestina occupata da Israele, come
vendetta per l’assassinio di due israeliani in quella zona, è successo
qualcosa di sorprendente: tra i membri della coalizione di governo,
c’erano più voci che giustificavano quella crudeltà contro i palestinesi
di quante ce ne fossero a condannarla. Tra coloro che hanno condan-
nato l’orrore c’erano però diversi membri del partito religioso ebraico
152

Shas, un segmento affascinante della mappa politica israeliana. Re-


centemente nominato ministro dell’Interno e della Sanità, il rabbino
Moshe Arbel, attivo nello Shas fin dalla giovinezza, è stato inequivo-
cabile nel condannare la violenza, sfidando i suoi colleghi di coali-
zione che hanno appoggiato l’azione dei coloni. Nel 1999, all’apice del
suo successo elettorale, Shas ottenne 17 seggi su 120 (14%) alla Knes-
set; nell’attuale coalizione di governo ha 11 seggi. Nonostante questo
partito negli ultimi anni abbia mostrato abitualmente di essere alli-
neato al nazionalismo ebraico di destra, i suoi membri hanno talvolta
sorpreso gli osservatori politici per la moderazione e l’apertura al dia-
logo con gli arabi in generale e con i palestinesi in particolare. Shas,
acronimo di Shomrei Sefarad (Guardiani sefarditi), è stato fondato nel
1984 per protestare contro l’impari rappresentanza nei partiti politici
degli ebrei orientali (mizrahim), spesso chiamati sefarditi1, ovvero
quelli originari del mondo musulmano: infatti la guida delle forma-
zioni politiche è in mano, per lo più, a ebrei originari dell’Europa
orientale e centrale (i cosiddetti «ashkenaziti»).

Prima che gli ebrei fossero contro gli arabi, e


viceversa, c’è stato un tempo in cui un ebreo poteva
anche essere un arabo.
Uno dei rabbini ortodossi orientali più noti in Israele, Ovadia
Yosef, è stato fino alla sua morte la forza trainante del partito. Nato
nel 1920 in Iraq, a Baghdad, da una famiglia di ebrei di lingua araba,
gli era stato dato il nome di Abdallah, versione araba del nome ebraico
Ovadia, che significa «servo di Dio». Quando aveva quattro anni si
trasferì con i genitori a Gerusalemme e a suo tempo fu iscritto a una
scuola ultra-ortodossa. Poiché eccelleva negli studi religiosi e la sua
fama si era diffusa, fu promosso rabbino all’età di vent’anni. Poco
dopo, nel 1947, fu inviato al Cairo per dirigere la comunità ebraica

1 Il termine «sefardita» si riferisce agli ebrei che fanno risalire le loro origini

alla Spagna e al Portogallo al tempo delle espulsioni dei giudei da quei territori, tra il
XIV secolo e l’inizio del XVI. Molti emigrarono in Nord Africa e in Medio Oriente,
dove esistevano già comunità di ebrei indigeni di lingua araba e berbera, meglio iden-
tificati come mizrahim (ebrei orientali).
153

nella più grande città del mondo arabo. Tornò appena due anni dopo,
per ritrovarsi cittadino del nuovo Stato di Israele. Yosef si fece strada
nella gerarchia rabbinica, che nel 1921 era stata scissa in due dagli in-
glesi: una parte guidata da un rabbino capo ashkenazita e l’altra da
uno sefardita. Mentre l’élite politica, sociale ed economica del Paese
era composta prevalentemente da ashkenaziti, la migrazione di centi-
naia di migliaia di mizrahim in Israele, per lo più di lingua araba e pro-
venienti dalle terre tra il Marocco e l’Iraq, cambiò la composizione
della popolazione ebraica. Dopo aver prestato servizio come giudice
religioso in diverse località, Yosef divenne rabbino capo sefardita di
Tel Aviv nel 1968 e cinque anni dopo fu nominato rabbino capo sefar-
dita di Israele, carica che ha ricoperto per dieci anni.
Una volta cessato il ruolo di rabbino capo, nel 1983, si è mag-
giormente coinvolto nell’arena politica, fondando Shas. Gli ebrei
orientali gli apparivano svantaggiati, esclusi dai centri di potere, di-
scriminati, spesso umiliati per via della loro cultura mediorientale
non europea. Shas è stato fondato in parte come espressione del di-
saccordo con l’establishment politico ashkenazita, ma anche per con-
trastare l’atteggiamento delle troppe persone secondo cui gli ebrei di
lingua araba erano in qualche modo inferiori agli ebrei ashkenaziti.
Yosef ha cercato di restituire a questi ebrei la loro dignità perduta.
Insisteva sul fatto che gli ebrei di lingua araba avevano un passato
non meno glorioso degli ebrei d’Europa, ed era orgoglioso della cul-
tura araba di cui lui stesso era espressione. Se ne è vista un’affasci-
nante dimostrazione nel luglio 2019, quando un elenco dei canti pre-
feriti del rabbi Ovadia Yosef in arabo, scritto di suo pugno, è stato
venduto all’asta per oltre 6.000 dollari. Chi legge quella lista può con-
statare come il rabbino amasse soprattutto la musica di Muhammad
Abd al-Wahab (1902-1991), grande compositore e cantante egiziano
del Novecento, famoso per i suoi inni romantici e patriottici.
Gli ebrei orientali potevano vantare epoche d’oro della simbiosi
arabo-ebraica in regioni come l’Iraq, l’Egitto, il Marocco e l’Andalusia.
Quella cultura aveva prodotto alcune delle più grandi menti della sto-
ria ebraica, come Saadya Gaon (Sa’d ben Yossef al-Fayumi), egiziano
del X secolo, traduttore, filosofo, teologo e liturgista, e come Mosè
Maimonide (Musa ben Maimon), andaluso del XII secolo, medico,
154

filosofo, giurista e commentatore, per citare solo due geni tra una mi-
riade di luminari. Gli ebrei orientali in Medio Oriente non erano mi-
granti, ma piuttosto indigeni, integrati nel mondo a maggioranza mu-
sulmana insieme ai cristiani di lingua araba. Incarnavano il retaggio
secolare di un giudaismo che si esprimeva tranquillamente in arabo.
Quel retaggio arabo-ebraico risale agli albori della civiltà araba.
Troviamo tracce di ebrei di lingua araba anche prima dell’ascesa
dell’islam nel VII secolo. Alcuni ebrei dello Yemen hanno fatto risalire
la loro presenza nella penisola arabica ai tempi del Primo Tempio.
Una dinastia araba di ebrei convertiti, gli himyariti, stabilì un regno
in Arabia nel V secolo. Il profeta dell’islam, Maometto, aveva relazioni
complesse con le tribù ebraiche in Arabia, oscillanti tra l’amicizia e
l’ostilità. La traduzione in arabo delle Scritture ebraiche a opera di
Saadia Gaon nel IX secolo fu un capolavoro, successivamente adottato
(con modifiche teologiche) dalla Chiesa copta. Il suo manuale di
grammatica araba era studiato in tutto il mondo arabo. Nel XII secolo
Maimonide, che Tommaso d’Aquino cita nelle sue opere, fu uno dei
più importanti esponenti della scuola filosofica razionalista che si svi-
luppò allora nel mondo arabo musulmano.
Come molti altri, questi intellettuali nei loro scritti usavano tre
lingue: l’ebraico (per la complessità della legge e della pratica ebraica),
l’arabo (per le opere teologiche e filosofiche rivolte a tutto il mondo
arabo) e il giudeo-arabo (per le opere popolari destinate alla comunità
ebraica). Il giudeo-arabo, una versione dell’arabo trascritta secondo
l’alfabeto ebraico, è a sua volta un tesoro dimenticato di questa ere-
dità. Si pone in parallelo con la più nota scrittura ebraica del tedesco,
che usa le stesse lettere, nota come yiddish e usata nell’Europa orien-
tale, e con il ladino, il giudeo-spagnolo ebraico, usato dagli ebrei ori-
ginari dell’Andalusia. Gli ebrei continuarono a usare il giudeo-arabo
fino al XX secolo e molti volumi di filosofia, teologia, scienza, poesia,
canto e comunicazioni della comunità attestano la ricchezza di questa
forma ebraica dell’arabo.
Solo dopo la caduta dell’Impero ottomano, nel 1918, si è confi-
gurata la maggior parte dei Paesi arabi del Medio Oriente contempo-
raneo. Gli ebrei hanno preso parte alla vita politica, sociale, culturale
ed economica di quelle società in via di sviluppo insieme ai loro
155

compatrioti musulmani e cristiani. Gli ebrei di lingua araba spicca-


vano in vari ceti sociali e qui dobbiamo accontentarci di qualche esem-
pio tratto dalla politica e dalla cultura popolare:
◘ Eskell Sassoon (1860-1932), ministro delle Finanze iracheno e mem-
bro del Parlamento iracheno fino alla sua morte.
◘ Youssef Qattawi (1861-1942), ministro egiziano delle Finanze e poi
dei Trasporti.
◘ David Samra (1878-1960), vicepresidente della Corte suprema ira-
chena.
◘ Henri Curiel (1914-1978), fondatore del Partito comunista egiziano,
assassinato a Parigi.
◘ Abraham Serfaty (1926-2010), leader dell’opposizione marocchina
al re Hassan II, che ha trascorso più di due decenni in prigione
come detenuto politico.
◘ André Azoulay (nato nel 1941), intimo consigliere dei re Hassan II
e Muhammad VI in Marocco.
◘ Huda Ezra Nonoo (nata nel 1964), ambasciatrice del Bahrein negli
Stati Uniti.
◘ Daoud Hosni (1870-1937), compositrice egiziana.
◘ Habiba Msika (1893-1930), cantante tunisina.
◘ Fayruz al-Halabiya (Rachel Smuha) (1895-1955), cantante siriana di
Aleppo, che ispirò la rinomata cantante libanese Nouhad Haddad,
nota anche come Fayruz.
◘ Togo Mizrahi (1901-1986), regista e attore egiziano.
◘ Zohra al-Fassiya (1905-1994), cantante marocchina alla corte del re
Muhammad V.
◘ Salih (1908-1986) e Daud al-Kuwaiti (1910-1976), musicisti di spicco
e fondatori della prima orchestra radiofonica irachena.
◘ Salima Mourad (1912-1974), popolare cantante irachena.
◘ Cheikh Raymond (Raymond Leyris) (1912-1961), maestro algerino
della musica andalusa, suonatore di oud e cantante, assassinato
durante la guerra civile algerina.
156

Forse più presente alla memoria nel mondo arabo oggi è Leila
Mourad (1918-1995), attrice e cantante egiziana, che ha recitato in
molti film romantici del suo Paese e si è convertita all’islam quando
ha sposato il noto regista egiziano Anwar Wagdi.
L’istituzione dello Stato di Israele ha destabilizzato il mondo
arabo di cui gli ebrei orientali erano membri a pieno titolo. Come per
tutte le minoranze, epoche d’oro di tolleranza, convivenza e creatività
si sono alternate ad altre di disagio, emarginazione e oppressione. Nel
XX secolo gli emissari del movimento sionista dominato dagli ashke-
naziti, politico e prevalentemente laico, esercitarono forti pressioni su-
gli ebrei orientali, invitandoli a ridefinire la loro identità, a immedesi-
marsi nel nazionalismo ebraico e nell’idea che la loro vera patria era
la Palestina/Israele. L’appello a migrare in Palestina/Israele era
spesso inquadrato in termini messianico-religiosi che trovavano eco
presso molti ebrei orientali, i quali mantenevano uno stile di vita
ebraico tradizionale e speravano in una riunione del popolo ebraico a
Sion (Gerusalemme) alla fine dei tempi. Il discorso politico sionista,
fondato sulla necessità di reagire all’antisemitismo europeo del XIX e
del XX secolo, culminato nell’Olocausto, assimilò l’esperienza degli
ebrei orientali a quella degli ebrei europei. La storia ebraica era vista
come una lunga e tragica vicenda di vittimizzazione e anche gli ebrei
orientali venivano invitati, a loro volta, a vedere la propria come una
triste storia di persecuzione endemica. Rafforzando questa tendenza,
negli anni Quaranta alcuni leader arabi, mossi principalmente da una
reazione a quello che percepivano come un colonialismo sionista in
Palestina, iniziarono a identificare quegli ebrei orientali indigeni come
simpatizzanti del sionismo. In alcuni luoghi del Medio Oriente vi fu-
rono esplosioni di violenza contro gli ebrei, tra le quali i massacri con-
tro gli ebrei indigeni a Hebron, in Palestina, nel 1929 e a Baghdad nel
1941. Intrappolati tra il sionismo europeo e il nazionalismo arabo, cen-
tinaia di migliaia di ebrei orientali fecero i bagagli e lasciarono le loro
antiche patrie.
Molti di coloro che arrivarono in Israele alla fine degli anni Qua-
ranta e Cinquanta e all’inizio degli anni Sessanta rimasero sconvolti
dalla società prevalentemente laica ed europea che vi trovarono.
Spesso venivano trasportati in campi di transito improvvisati,
157

registrati con nuovi nomi ebraici per liberarli da quelli arabi, e veni-
vano trattati come se non fossero completamente ebrei, tantomeno del
tutto civilizzati, a causa della loro tradizionale pratica ebraico-araba e
della loro cultura araba. L’umiliazione che subirono costituì un
trauma, e molti incolparono l’élite laica socialista ashkenazita che go-
vernò Israele dal 1948 al 1977.
Quando i socialisti furono sconfitti nel 1977, molti ebrei orien-
tali, che all’epoca costituivano più della metà della popolazione
ebraica in Israele, non solo contribuirono alla sconfitta con il loro voto,
ma abbracciarono inoltre l’ideologia della destra israeliana guidata da
Menachem Begin. Prese campo un nazionalismo più acceso, che tra
l’altro rifiutava di scendere a compromessi con i palestinesi ed era ani-
mato da un atteggiamento di sfida nei confronti del mondo arabo in
generale. Tuttavia, tra gli ebrei orientali questo diffuso sentimento
anti-arabo era accompagnato da non poca ambivalenza, dato che do-
potutto erano culturalmente radicati nel mondo arabo. Non solo si
erano trovati a loro agio nel mondo arabo, che ora vedevano con ini-
micizia e disprezzo, ma si sentivano anche discriminati a causa delle
proprie radici culturali arabe. Sebbene riluttanti ad essere identificati
come arabi, nemici di Israele per definizione, stavano anche progres-
sivamente riscoprendo l’orgoglio per la loro particolare eredità reli-
giosa, sociale, culturale e culinaria ebraico-araba.
Il rabbino Ovadia Yosef e i suoi giovani protetti di Shas hanno
spesso rivelato questa ambivalenza, manifestata in un continuo alter-
narsi di sfoghi di beffardo disprezzo – in particolare dopo gli attacchi
arabi agli ebrei o le diatribe estremiste musulmane contro l’ebraismo
– e la promozione del dialogo e della pace con il mondo arabo. Da un
lato, per esempio, nel 2001 Yosef dichiarò a proposito degli arabi: «È
proibito essere misericordiosi con loro. Bisogna annientarli a colpi di
missili. Sono malvagi ed esecrabili» (The Telegraph, 10 aprile 2001); allo
stesso modo, nel 2009, commentò a proposito dei musulmani che «la
loro religione è brutta quanto loro» (Maariv, 14 dicembre 2009). E nel
2010 disse dei palestinesi: «Tutta questa gente malvagia dovrebbe
scomparire da questo mondo. Dio dovrebbe colpirli con un castigo»
(al-Jazeera, 29 agosto 2010).
158

Dall’altro lato, nonostante queste dichiarazioni al vetriolo, è


stato lo stesso Yosef che nel 1989 ha approvato una sentenza legale
religiosa tramite la quale consentiva di rinunciare a parti della Terra
d’Israele, compresi gli insediamenti ebraici, quando erano in gioco
delle vite umane. Su questa base ha sostenuto il governo Rabin, che
ha firmato gli accordi di pace di Oslo con i palestinesi secondo il prin-
cipio dei «due Stati per due popoli». Yosef e il suo discepolo Aryeh
Deri, attuale capo di Shas, si recarono in Egitto nel 1990 per discutere
iniziative di pace con il presidente Hosni Mubarak. Destò stupore, in
particolare, che i leader israeliani dialogassero con quelli arabi regio-
nali in arabo, lingua madre degli uni e degli altri. Si dava con ciò
un’immagine molto diversa di israeliano, solitamente percepito dagli
arabi come un colonialista europeo. Poco dopo Yosef ordinò a Shas di
unirsi al governo di coalizione di Rabin, che stava negoziando con
l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), sfidando
molti dei rabbini ashkenaziti di Israele. Yosef si offrì di incontrare per-
sonalmente il capo dell’Olp Yasser Arafat, e i suoi incontri con il capo
della polizia palestinese Nasser Yusuf hanno probabilmente salvato
vite su entrambi i fronti del conflitto. Successivamente, sfidando an-
cora una volta la destra religiosa, Yosef biasimò i coloni israeliani che
si erano impadroniti delle abitazioni palestinesi a Gerusalemme est e
minacciò di far cadere il governo se il primo ministro Netanyahu non
avesse ridistribuito le truppe nei territori occupati, come era stato con-
cordato a Oslo.
Le sfuriate emotive e reattive di Yosef si sono intrecciate con il
linguaggio del dialogo con il mondo arabo musulmano, incomprensi-
bile a molti analisti politici. Tre settimane dopo le dichiarazioni ostili
sui palestinesi che aveva pronunciato nel 2010, ribadì il suo sostegno
al processo di pace. Nel suo messaggio, scrisse al presidente
dell’Egitto: «Sostengo i vostri sforzi e lodo tutti i leader e i popoli –
egiziani, giordani e palestinesi – che vi si associano. Auguro il suc-
cesso di questo importante processo volto a raggiungere la pace nella
nostra regione e a prevenire spargimenti di sangue. Dio vi conceda la
159

longevità e che possiate riuscire nei vostri sforzi per la pace e che nella
nostra regione ci sia pace»2.
Di recente, nel gennaio 2023, in una conferenza di ebrei israe-
liani religiosi che sostengono il processo di pace con i palestinesi, la
figlia di Yosef, Adina bar-Shalom, si è rivolta ai presenti con queste
parole: «Contrariamente a quanto molti hanno affermato, mio padre
non ha mai cambiato posizione […]. Dichiarazioni estreme, il soste-
gno a politiche discriminatorie e il razzismo hanno alzato la testa e si
sono trasformati in uno spettacolo comune […]. Insisto sul fatto che
questa non è la via della Torah, e non è la via del mondo ultra-orto-
dosso […]. Non è così che siamo stati educati»3. Quando Yosef è
morto, nel 2013, il suo funerale è stato ritenuto il più imponente a cui
Israele avesse mai assistito. In quell’occasione, il partito radicale sciita
libanese Hezbollah, tramite il suo organo di informazione al-Manar,
sottolineò pesantemente l’attrito tra l’educazione di Yosef come ebreo
di lingua araba e la sua presunta ostilità verso gli arabi: «La morte del
rabbino Ovadia Yosef: l’arabo sionista che odiava gli arabi».
Il 29 settembre 2019, all’età di 89 anni, è venuto a mancare un
altro ebreo di Baghdad, Shimon Ballas, prolifico scrittore israeliano e
docente di letteratura araba all’Università di Haifa. Come Yosef, an-
che lui era nato nella capitale irachena, e nel 1951 era approdato da
giovane in Israele. A differenza di Yosef, Ballas era un intellettuale
laico e, in gioventù, si identificò con il Partito comunista. Per tutta la
vita, Ballas si è definito un arabo ebreo. Nella sua autobiografia, First
Person Singular, pubblicata in ebraico nel 2009, ha descritto in modo
toccante come, circa un decennio dopo essere arrivato nel suo Paese
di adozione, aveva costretto sé stesso ad abbandonare la sua lingua
madre, l’arabo, e aveva iniziato a scrivere in ebraico, la lingua ebraica
dello Stato di Israele: «Mi dedicai alla lettura sistematica della Bibbia
in ebraico e della Mishnah [compendio rabbinico del III secolo, nda].
Un’altra decisione che mi preoccupai di adottare fu smettere di leg-
gere qualsiasi libro o giornale in arabo. Evitavo persino di ascoltare le

2 Y. Ettinger, «Ovadia Yosef Atones to Mubarak After Declaring Palestinians

Should Die», in Haaretz, 16 settembre 2010.


3 Y. Abraham, «A Coming out Party Israel’s Religious Jewish Left», in +972

Magazine, 24 gennaio 2023.


160

trasmissioni radiofoniche in arabo. Decisi infatti di separarmi


dall’arabo, anche di dimenticarlo, per fare dell’ebraico la mia prima
lingua. Questo processo durò circa due anni. Una sera, prima di an-
dare a letto, presi un libro di Taha Hussein [eminente scrittore egi-
ziano del XX secolo] per verificare qualcosa. Dopo aver spento le luci,
fui assalito da un impetuoso torrente di parole, di frasi, di versi poe-
tici, tutti in arabo, come da una diga scoppiata all’improvviso. Il sonno
venne esiliato dai miei occhi fino alle prime ore del mattino. Avevo
sperimentato in me la rivincita dell’arabo, così me lo spiegai: una giu-
sta punizione per aver voltato le spalle alla mia amata e calda lingua
madre»4.
Uno dei personaggi letterari più sorprendenti di Shimon Ballas
è Ahmad (Harun) Shushan, protagonista del suo romanzo He is Diffe-
rent, pubblicato nel 1991. Il libro apparve ai tempi della prima guerra
del Golfo. È la storia di un ebreo iracheno che, invece di abbandonare
la sua amata patria, l’Iraq, insieme alle masse di ebrei che se ne anda-
rono all’inizio degli anni Cinquanta decise di convertirsi all’islam e in
seguito entrò nel partito Baathi iracheno al potere. Una volta Ballas ha
spiegato che Ahmad/Harun era il suo alter ego, la persona che lui
avrebbe potuto essere se fosse rimasto in Iraq. In un’intervista a un
giornale locale di Gerusalemme, nel marzo 1991, nel bel mezzo dei
bombardamenti alleati su Baghdad, Ballas dichiarò commosso: «Non
ho mai rinnegato le mie origini arabe o la lingua araba […]. L’identità
araba è sempre stata una parte di me. E ho detto e dico: io sono un
arabo che ha assunto un’identità israeliana, ma non sono meno arabo
di qualsiasi altro arabo. Questo è un dato di fatto e non ho nulla di cui
vergognarmi. […] Ci sono ebrei arabi così come ci sono ebrei francesi.
Come mai un cristiano può essere arabo e un ebreo no?»5. Nei suoi
scritti, Ballas ricorda che il Medio Oriente non era e non dev’essere
una zona di guerra perpetua.
Per il Medio Oriente la guerra in Palestina del 1948 ha avuto due
conseguenze tragiche. Innanzitutto è stata la genesi della crisi dei

4 S. Ballas, First Person Singular, Bnei Brak/Tel Aviv, Hakibbutz Hameuchad,

2009, 75.
5 Intervista nel settimanale locale Kol Ha’ir, 15 marzo 1991.
161

rifugiati arabi palestinesi, allorché centinaia di migliaia di persone


vennero cacciate via dalle loro case e non fu loro permesso di tornarci.
In secondo luogo, provocò la rapida e quasi totale estinzione delle co-
munità arabe ebraiche in Iraq, Siria, Libano, Yemen, Egitto, Libia, Tu-
nisia, Algeria e Marocco, quando i loro componenti lasciarono le loro
case nel decennio successivo alla costituzione dello Stato di Israele.
Per quanto la catastrofe del popolo palestinese sia nota a molti, ben
pochi invece sono consapevoli della tragedia degli ebrei nel mondo
arabo. La collusione tra i sionisti prevalentemente ashkenaziti e i re-
gimi arabi negli anni Quaranta e Cinquanta ha promosso il trasferi-
mento di molti di quegli ebrei in Israele, sebbene molti altri si siano
invece stabiliti nell’Europa occidentale, nel Nordamerica e altrove. La
maggior parte dei regimi arabi non ha fatto nulla per incoraggiare i
propri cittadini ebrei a restare, anzi a volte ha fatto di tutto per affret-
tarne la partenza, confiscandone le proprietà e annullandone la citta-
dinanza. La millenaria civiltà arabo-ebraica, un tempo fiorente, è
quasi completamente scomparsa.
Questi due dislocamenti, che fanno parte della tragica storia del
Medio Oriente alla metà del XX secolo, non dovrebbero essere evocati
come se si annullassero reciprocamente. Gli ebrei di lingua araba che
si sono trasferiti in Israele hanno per la maggior parte trovato una
nuova casa, mentre gli arabi palestinesi rimangono dispersi in una
diaspora remota o vivono sotto un regime di occupazione e/o discri-
minazione.
Oggi gli unici Paesi arabi dotati di consistenti comunità ebraiche
sono il Marocco e la Tunisia; altrove invece sussiste un piccolo nu-
mero di ebrei, spesso celato agli occhi della pubblica vista. Tuttavia,
anche coloro che sono emigrati in Israele non hanno sempre avuto vita
facile. Nel 1959, dopo la massiccia immigrazione di ebrei orientali in
Israele, scoppiarono proteste nel quartiere Wadi Salib di Haifa, che si
estesero ad altre città dove pure c’erano forti concentrazioni di ebrei
di lingua araba. Le contestazioni riguardavano la diffusa discrimina-
zione e il razzismo che costoro incontravano in un Paese dominato
dalle élite ashkenazite. Nel 1971 a Musrara, un quartiere povero di Ge-
rusalemme, si formò un movimento di protesta di ebrei orientali, per
lo più provenienti dal Marocco, chiamato Black Panthers, in ricordo del
162

movimento contestatore dei neri americani che lottavano per la parità


di diritti negli anni Sessanta. I manifestanti scesi in piazza chiedevano
alle autorità israeliane di porre fine alla discriminazione contro gli
ebrei orientali. Shas ha proseguito questa lotta, anche se non ha certo
abbracciato il laicismo che ha caratterizzato i manifestanti nei decenni
passati. È interessante notare che il recupero delle proprie tradizioni
religiose ebraiche orientali avvicina i suoi seguaci a molti arabi mu-
sulmani in Palestina e in tutto il mondo arabo, aprendo la possibilità
del dialogo e della cooperazione.
Ella Shohat, importante studiosa della cultura, dell’identità e
della storia degli ebrei nelle terre arabe, a sua volta figlia di ebrei ira-
cheni, ha scritto: «Spogliati della nostra storia, siamo stati costretti
dalla nostra situazione senza uscita a reprimere la nostra nostalgia
collettiva, almeno nella sfera pubblica. La nozione pervasiva di “un
solo popolo” riunito nell’antica patria agisce incessantemente per ri-
muovere ogni dolce ricordo della vita prima di Israele. Non ci è mai
stato permesso di piangere un trauma che, davanti alle immagini
della distruzione dell’Iraq, in alcuni di noi si è intensificato e cristal-
lizzato. La nostra creatività culturale in arabo, ebraico e aramaico è
poco studiata nelle scuole israeliane, e sta diventando difficile convin-
cere i nostri figli che esistevamo davvero laggiù e che alcuni di noi
sono ancora lì in Iraq, in Marocco e nello Yemen»6.
Negli ultimi anni, alcuni discendenti degli ebrei provenienti dal
mondo arabo in Israele stanno recuperando le proprie radici sociali,
culturali e religiose nel mondo arabo. C’è un risveglio di interesse so-
prattutto per le tradizioni musicali, religiose e culinarie di un mondo
ebraico che per secoli è stato parte integrante del Medio Oriente arabo.
Un nuovo impegno verso le proprie radici culturali muove alcuni a
cercare un dialogo più profondo con i loro vicini palestinesi e arabi.
Concludendo un suo studio sulla cultura levantina, After Jews
and Arabs, il critico letterario Ammiel Alcalay afferma: «Idealizzare e
romanticizzare questa memoria sembra un tentativo altrettanto futile
e fallimentare di quanto sia quello di appropriarsene e pervertirla. Ma

6 E. Shohat, On the Arab-Jew, Palestine and Other Displacements, London, Pluto


Press, 2017, 80.
163

non setacciare le sue particolarissime qualità, fino a tracciare una


mappa basata sulla conoscenza contraddittoria che si può dedurre dal
flusso degli eventi, è una totale abdicazione di responsabilità. […] Da
qualche parte tra le visioni fondate sulle antiche profezie e il bisogno
di una nuova alleanza, tra le porte chiuse e le strade piene, la magia
dei vecchi luoghi e le serrature delle stanze senza canto, rimane uno
spazio, uno spazio per una poetica e una politica del possibile»7.
Ricordare gli ebrei del mondo arabo e la loro storia ridefinisce
in modi dimenticati le parole «ebreo» e «arabo», aprendo nuovi oriz-
zonti verso un futuro non soffocato dalle attuali realtà di conflitto e di
spoliazione. Il presente ristagna, in bilico su un abisso incolmabile tra
i due mondi, ma rievocando un tempo antecedente agli ebrei contro
gli arabi, la memoria degli ebrei come parte integrante del mondo
arabo e della sua lingua, e si offre la prospettiva di un futuro in cui gli
ebrei potrebbero vivere accanto agli arabi in una pace giusta e in
un’uguaglianza riconciliata.

7A. Alcalay, After Jews and Arabs, Minneapolis, University of Minnesota Press,
1993, 284.

Potrebbero piacerti anche