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REAZIONE DI ISRAELE
Contesto e storia della questione israeliano-palestinese
L'ATTACCO DI HAMAS E LA REAZIONE DI ISRAELE
Contesto e storia della questione israeliano-palestinese
Senza alcuna apparente avvisaglia, all'alba del 7 ottobre scorso dalla Striscia
di Gaza è partita una pioggia di razzi che ha colpito il sud e il centro di Israele (Tel
Aviv e Gerusalemme comprese), mentre dai territori palestinesi penetravano in terri-
torio israeliano, via aria e via mare, decine di miliziani armati di Hamas che hanno
fatto strage e preso ostaggi. A seguire, la rapida e durissima reazione dell’esercito
israeliano ancora in corso. Il bilancio delle vittime da una parte e dall'altra è già molto
pesante.
È cominciata così una nuova e imprevedibile fase nella lunga storia del con-
flitto israelo-palestinese. La comunità internazionale è preoccupata per il possibile
allargamento del conflitto, soprattutto all’Iran; la Santa Sede, in particolare, si è messa
a disposizione per la liberazione degli ostaggi israeliani e per non far dimenticare la
sorte e i diritti delle centinaia di migliaia di palestinesi in fuga da Gaza.
Mentre gli eventi sono drammaticamente in corso, al fine di offrire il conte-
sto prossimo e meno prossimo di questa nuova crisi, La Civiltà Cattolica ripropone una
lista degli articoli dedicati negli ultimi anni alla questione israelo-palestinese.
5 «La fratellanza – scrive Guolo – mette al servizio di una popolazione che vive
in situazione di estremo disagio risorse spirituali ma anche sociali: in campo sanitario,
culturale e ricreativo. La Fratellanza gestisce, oltre ad ambulatori e ospedali, una
banca del sangue, asili, scuole, biblioteche, associazioni sportive. I servizi offerti per-
mettono di entrare in contatto con centinaia di migliaia di persone, accumulando un
capitale di stima che tornerà utile quando la fratellanza si darà un’organizzazione
politica»: R. Guolo, Il fondamentalismo islamico, cit., 1.
7
L’Olp, sia pure tra alti e bassi, e con qualche ambiguità, accettò
a partire dall’accordo di Algeri del 1988 (al quale non parteciparono
né Hamas né il jihad) l’idea della coesistenza in Palestina di due Stati,
uno ebraico e l’altro palestinese, secondo lo spirito della Risoluzione
Onu del 1947. L’Olp accettò di costruire questo Stato, «con capitale
Gerusalemme», in Cisgiordania e a Gaza e non nel territorio della Pa-
lestina storica, occupata ormai da Israele. Nella dichiarazione, inoltre,
si parlava anche di ripudio del terrorismo in ogni sua forma, anche se
veniva difeso il diritto dei palestinesi a lottare contro l’occupazione
straniera. In tal modo l’Olp, accettando il punto di vista occidentale
sulla soluzione della questione palestinese, ebbe il sostegno dei Go-
verni e delle cancellerie occidentali e non solo di queste. Hamas, al
contrario, denunciava l’Onu come il principale strumento del com-
plotto ebraico internazionale e considerava peccaminoso acconten-
tarsi, come aveva fatto l’Olp, di qualunque soluzione che non contem-
plasse l’eliminazione dello Stato ebraico e la costituzione di uno Stato
islamico unitario dal Giordano fino al Mediterraneo. Tale prospettiva
incontrava in quel momento il sostegno di buona parte della popola-
zione palestinese. Alcuni analisti hanno comunque posto in evidenza
che le posizioni politiche di Hamas, pur tenendo fermi i princìpi sopra
esposti, erano (già prima del 2006) in qualche modo improntati a un
certo realismo politico. Lo stesso leader storico di Hamas, lo sceicco
Yassin, fece ricorso in alcune occasioni alla categoria islamica di
hudna, cioè tregua o armistizio, per giustificare un cessate il fuoco o
favorire un colloquio o un’intesa fra le parti in lotta. Una hudna è sol-
tanto un accordo per interrompere le ostilità, non un trattato di pace
che comprenda anche concessioni reciproche; essa inoltre era limitata
a un preciso periodo di tempo stabilito dai belligeranti. «Potremmo
firmare un armistizio per dieci o vent’anni – affermò Yassin nel 1993
– a condizione che Israele abbandoni senza condizioni la Cisgiorda-
nia, Gaza e Gerusalemme Est, ritorni ai confini del 1967 e lasci al po-
polo palestinese piena libertà di autodeterminarsi e decidere del suo
futuro». In effetti, è stato notato, in tale richiesta è contenuto lo spirito
degli accordi di Algeri firmati da Arafat, soltanto che una hudna non
impegna le parti come un armistizio o un accordo internazionale,
10
stina, cit., 42; P. Caridi, Hamas. Che cos’è e cosa vuole il movimento radicale palestinese,
Milano, Feltrinelli, 90, 2009; A. Nusse, Muslim Palestine. The Ideology of Hamas, Am-
sterdam, Harwood Academic Publishers, 1998, 180.
11
2003, 128; G. Kepel, Jihad. Ascesa e declino, Roma, Carocci, 132, 2008.
13
14Cfr P. Caridi, Hamas. Che cos’è e cosa vuole il movimento radicale palestinese,
Milano, Feltrinelli, 2008, 235.
17
allo stesso modo, però, anche i palestinesi hanno diritto a una loro
patria e ad essere sostenuti dalla comunità internazionale in tale giu-
sta aspirazione. Hamas, come si è detto, dovrà su questo punto fare
un passo avanti coraggioso e chiarificatore.
La questione israeliano-palestinese
1 Riportato in B. Morris, Due popoli una terra, Milano, Rizzoli, 2008, 67.
2 Cfr ivi, 71.
21
4S. Della Pergola, Israele e Palestina. La forza dei numeri, il conflitto mediorientale
tra demografia e politica, Bologna, il Mulino, 2007, 249.
24
5 G. Karmi, «Uno Stato democratico laico nella Palestina storica: un’idea per
8 Ivi, 210.
26
9 T. Judt, «Israel: The Alternative», in New York Review of Books, 23 ottobre 2003.
27
Judt, non può accadere a motivo del numero troppo alto di insedia-
menti (sviluppatisi nel territorio a macchia di leopardo) e di coloni
ebrei (circa 400.000) che vivono in tale lembo di terra; essi infatti non
accetterebbero mai di abbandonare la terra «dei loro padri», né di vi-
vere in uno Stato arabo-palestinese, e d’altronde nessun leader israe-
liano probabilmente avrà la forza o il coraggio di riportare in patria
un numero così elevato di coloni, senza dare inizio a una guerra civile,
devastante per la sopravvivenza di Israele. Quale dovrebbe essere,
quindi, per Judt la soluzione dell’intricatissimo problema? A suo av-
viso, potrebbe consistere «nella creazione di un singolo Stato binazio-
nale integrato di ebrei e arabi, israeliani e palestinesi». Tale soluzione
sarebbe non soltanto possibile, ma anche desiderabile, perché in sin-
tonia con lo spirito dei tempi moderni. A tale riguardo, egli infatti ipo-
tizzava l’aiuto della comunità internazionale e, in particolare, degli
Stati Uniti. «Una forza internazionale potrebbe, inoltre, garantire la
sicurezza sia degli arabi sia dei palestinesi e, in ogni caso, per uno
Stato binazionale legittimamente costituito sarebbe molto più facile
sorvegliare i militanti di ogni tipo all’interno dei suoi confini»10.
Come era prevedibile, la posizione di Judt, divulgata dai suoi
allievi in varie pubblicazioni, fu fortemente criticata da molti polito-
logi, in particolare da quelli di origine israeliana. Il primo autore che
ha replicato alle audaci tesi di Judt dalle colonne della New York Re-
view of Books è stato Omer Bartov, che lo ha accusato di scrivere con la
stessa prospettiva di chi discute della delicata questione israeliano-
palestinese «in un caffè parigino o in un pub londinese». Secondo lo
studioso israeliano il modello monostatuale e binazionale proposto da
Judt sarebbe assurdo, per il semplice fatto che né gli israeliani né i
palestinesi lo vogliono; essi infatti vorrebbero abitare e governare uno
Stato proprio, fondato sulle loro tradizioni culturali e religiose. Da
parte araba, scrive Bartov, i fondamentalisti islamici considerano
l’ipotesi di condividere la sovranità con gli ebrei come una maledi-
zione, e i moderati sanno che uno Stato binazionale significherebbe
una guerra civile, che condurrebbe a un continuo spargimento di san-
gue, creando così nel giro di poco tempo una situazione insostenibile.
10 Ivi.
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«Quella dei due Stati, forse anche separati da un’orribile muro di si-
curezza, sarebbe un’ipotesi di gran lunga migliore e auspicabile»11.
Dello stesso avviso è anche il politologo dell’Università di Prin-
ceton, Michael Walzer. «Liberare il mondo dagli Stati-nazione – scrive
provocatoriamente – è un’idea interessante, se non nuova. Ma perché
iniziare proprio da Israele? Perché non dalla Francia?»12. Il vero pro-
blema, egli prosegue, è che la tesi di Judt non si muove secondo una
prospettiva indirizzata alla costituzione di uno Stato binazionale. Essa
infatti avrebbe come effetto quello di sostituire uno Stato-nazione con
un altro, dato che in un decennio, o giù di lì, come si è detto, tra il
Giordano e il Mediterraneo ci sarebbero più arabi che ebrei, e ciò con-
durrebbe semplicemente alla costituzione di uno Stato arabo-palesti-
nese, come da sempre è nell’ambizione dei fondamentalisti islamici.
Sarebbe poi inutile, anzi dannosa, la presenza di una forza internazio-
nale di interposizione con il compito di mantenere la sicurezza. Nes-
suno Stato, inoltre, manderebbe i suoi soldati a farsi ammazzare per
una causa impossibile. La conseguenza di tale stato di cose, conclude
Walzer, sarebbe che gli israeliani, in particolare la classe media e gli
intellettuali laici, lascerebbero immediatamente la loro patria e cerche-
rebbero altrove lavoro e sicurezza.
Altri studiosi accusano Judt di essere poco realista e di porre
sullo stesso piano concetti diversi: una cosa è infatti pensare a un’al-
ternativa «per Israele», altra cosa è proporre un’alternativa «all’esi-
stenza stessa di Israele». In ogni caso, essi sostengono, chi ci assicura
che tale nuova entità statuale a maggioranza araba anziché uno Stato
democratico non si tramuti in uno Stato terrorista, come di fatto è ac-
caduto a Gaza? La prospettiva avanzata dagli ideologi monostatuali,
secondo Leon Wieseltier, è davvero sconcertante. «È davvero possi-
bile – egli si chiede – che il ritorno degli ebrei a essere un popolo senza
patria, la rivendicazione del radicalismo palestinese e l’intensificarsi
13L. Wieseltier, «Israel, Palestine, and the Return of the Bi-National Fantasy:
What is not be Done?», ivi, 27 ottobre 2003.
30
situazioni non più tollerabili, dove era messa a rischio la vita di centi-
naia di migliaia di ebrei europei, ai quali le potenze occidentali ave-
vano chiuso le porte. Da qui la loro consapevolezza della necessità di
creare uno Stato nazionale ebraico, anche in una parte soltanto del ter-
ritorio da essi occupato, lasciando così cadere l’idea, accarezzata da
ormai 50 anni, della fondazione di uno Stato ebraico nell’intera Pale-
stina storica, cioè dal Giordano fino al Mediterraneo. La maggior parte
degli attivisti del movimento sionista internazionale, dopo attente e
dolorose deliberazioni (come, ad esempio, al Congresso di Zurigo del
1937), concluse che per salvare gli ebrei europei e tutelare gli interessi
di quelli già residenti, bisognava accettare l’idea di una spartizione tra
le due comunità della Terra Santa. Dieci anni dopo, in un contesto in-
ternazionale completamente diverso, l’idea di una spartizione della
Palestina tra ebrei e palestinesi divenne una realtà ufficialmente san-
cita dalla maggiore autorità internazionale esistente: l’Assemblea Ge-
nerale delle Nazioni Unite.
Nel febbraio 1947 il Governo britannico decise di rinunciare al
mandato sulla Palestina e di lasciare alle Nazioni Unite il compito di
far fronte alla difficile situazione creatasi nel frattempo anche a causa
dei frequenti attentati condotti contro gli occupanti inglesi dall’Haga-
nah e dall’Irgun, cioè dalle organizzazioni clandestine sioniste. Parti-
colare clamore suscitò in ambito internazionale l’attentato dinami-
tardo, posto in essere dall’Irgun il 22 luglio contro l’hotel King, dove
era ospitato il quartier generale militare e amministrativo della Gran
Bretagna. L’attentato provocò la morte di 91 persone, la maggioranza
delle quali inglesi. Dopo questo ne accaddero altri, sempre contro
obiettivi inglesi, meno spettacolari ma altrettanto disastrosi e cruenti.
La motivazione che spinse il Regno Unito ad abbandonare il mandato
non fu però la provocazione e la violenza degli attacchi sionisti o pa-
lestinesi, ma la difficile situazione economica e sociale in cui versava
il Paese dopo la seconda guerra mondiale, e l’impossibilità di tenere
sotto controllo un impero coloniale così vasto e percorso ovunque da
movimenti di indipendenza nazionale.
Il 2 agosto 1947 il Parlamento inglese in sessione speciale decise
di abbandonare la Palestina senza ulteriori indugi. Il cosiddetto pro-
blema palestinese passò quindi alle Nazioni Unite, la cui Assemblea
35
1 B. Morris, Due popoli una terra, Milano, Rizzoli, 2008, 34. Secondo il Ministero
degli Esteri inglese la popolazione araba che viveva nella parte riservata agli ebrei era
di circa 512.000 persone. Cfr T. G. Fraser, Il conflitto arabo-israeliano, Bologna, il Mu-
lino, 2004, 44; G. Rulli, Lo Stato d’Israele. Democratico, intransigente, provvidenziale, am-
biguo, Bologna – Roma, Edb – La Civiltà Cattolica, 1998, 9 s.
2 Cfr W. Khalidi, All That Remains: The Palestinian Villages Occupied and Depop-
3 Ph. Mattar, The Mufti of Jerusalem, New York, Columbia University Press,
1988, 165.
4 Citato in L. Collins – D. Lapierre, Jerusalem!, Great Britain, History Book Club,
1972, 41.
39
vicina alla città ebraica di Tel Aviv. Tutte queste operazioni ebbero
come effetto immediato la fuga o l’allontanamento forzato di decine
di migliaia di arabi dalle zone di operazione militare. Come previsto,
gli inglesi, i quali si erano tenuti ben in disparte dai combattimenti e,
nonostante le proteste della comunità internazionale, avevano impe-
dito alla Commissione Onu – incaricata di dare esecuzione alla Riso-
luzione 181 – di entrare in Palestina, abbandonarono il territorio man-
datario il 14 maggio 1948.
Il giorno successivo, bruciando i tempi e le eventuali proteste
della comunità internazionale, Ben-Gurion e i capi sionisti si riuni-
rono nel museo di Tel Aviv e proclamarono la nascita dello Stato di
Israele, che sarebbe stato aperto a tutti gli ebrei del mondo e avrebbe
garantito a tutti, ebrei e arabi, gli stessi diritti di cittadinanza. Presi-
dente della nuova Repubblica fu nominato Chaim Weizmann, e la ca-
rica di capo di Governo fu attribuita a Ben-Gurion. Nonostante qual-
che difficoltà, il nuovo Stato israeliano fu immediatamente ricono-
sciuto sia dagli Stati Uniti sia dall’Unione Sovietica. Tale fatto fu molto
importante anche per l’andamento della guerra: Israele da questo mo-
mento in poi combatté come Stato sovrano, riconosciuto dalle grandi
potenze, su un piano di parità con i Paesi arabi, che già il 15 maggio,
come era prevedibile, avevano inviato i loro eserciti contro Israele.
Gli eserciti di sei Paesi della Lega Araba attaccarono Israele con
motivazioni differenti e senza essere coordinati tra loro. Quattro di
essi – il libanese, il siriano, l’iracheno e in ultimo il saudita – compi-
rono poche azioni offensive, anche se tennero impegnata una parte
dell’esercito israeliano. Gli altri due invece, cioè quello egiziano e
giordano (comandato da ufficiali britannici), provvisti di armamenti
pesanti e di supporti aerei, misero in seria difficoltà il giovane esercito
israeliano, che però, nonostante la sua iniziale debolezza sul piano de-
gli armamenti, era molto motivato nella sua azione e ben preparato
sul piano strategico.
Intanto le Nazioni Unite riuscirono a negoziare, attraverso il
proprio inviato, il conte svedese Folke Bernadotte, una tregua che en-
trò in vigore l’11 giugno. Essa fu accolta da entrambe le parti in lotta
con sollievo: dopo due settimane di aspro combattimento non era in-
fatti ancora chiaro per quale parte si prospettasse la vittoria. Israele
41
7Cfr M. Palumbo, The Palestinian Catastrophe, London, Quartet Books, 1987, 69;
A. Gresh, Israele, Palestina. La verità di un conflitto, cit., 77.
42
proposta però rimaneva ancora valida: per evitare che la comunità in-
ternazionale costringesse il Governo di Tel Aviv a scendere a patti sul
piano territoriale, il 15 ottobre l’esercito israeliano mosse in forze
verso il Negev, occupandone i punti strategici. Gli egiziani furono bat-
tuti sul campo e alla fine conservarono la striscia di Gaza soltanto per-
ché gli Stati Uniti imposero a Israele – che aveva abbattuto cinque cac-
cia inglesi che stavano portando aiuto agli arabi – di porre fine alla
guerra. I negoziati per gli accordi di armistizio tra Israele e l’Egitto
furono avviati a Rodi, sotto l’abile guida dell’inviato delle Nazioni
Unite, Ralph Bunche; l’accordo fu concluso il 24 febbraio 1949 e di-
venne il modello per quelli con la Siria, col Libano e con la Giordania,
con cui furono definiti i confini con Israele, almeno fino al giugno del
1967. La firma degli armistizi rappresentò la fine ufficiale della prima
guerra arabo-israeliana, anche se il rispetto delle sue disposizioni da
ambedue le parti fu più apparente che reale.
8 Cfr W. Khalidi, All That Remains…, cit. Si veda anche Id., Identità palestinese.
11 Ivi, 325.
12 I. Pappe, La pulizia etnica della Palestina, Roma, Fazi, 2008, 4. Il Piano D sulla
pulizia etnica stabiliva: «Queste operazioni potranno essere svolte in uno dei seguenti
modi: o distruggendo i villaggi (incendiandoli o facendoli saltare in aria e poi met-
tendo delle mine nelle macerie), soprattutto i centri abitati che sono difficili da con-
trollare in modo permanente; oppure con operazioni di setacciamento e controllo con
le seguenti modalità: si accerchia il villaggio e si fanno perquisizioni. Se c’è resistenza,
le milizie armate dovranno essere eliminate e la popolazione espulsa al di fuori dei
confini dello Stato» (ivi, 108).
46
13 Ivi, 9.
47
territori occupati nella guerra dei Sei Giorni (1967). Tale strategia, in
quel momento, era sostenuta soprattutto dagli Stati Uniti. Essi infatti
non avevano simpatia per l’Olp, per il suo programma rivoluzionario
e per i suoi legami con i movimenti radicali e di sinistra europei o con
i regimi antimperialisti del Terzo Mondo. Il movimento palestinese,
insomma, era considerato dall’amministrazione statunitense come un
anello importante del circuito della «sovversione comunista interna-
zionale».
questo autore, il cecchino, il miliziano e il martire sono tre figure fondamentali nei
conflitti intra-etnici libanesi. «Il cecchino è l’incubo degli abitanti di Beirut. In città si
sviluppa una psicosi, basata sul fatto che è impossibile sfuggirgli una volta che si è
nel suo mirino […]. Ogni cecchino uccide in media dieci vittime al giorno. È efficace
nell’arco compreso tra 250 e 500 metri e le opportunità di sfuggire sono infinitesimali.
Il cecchino non aderisce a nessuna ideologia, si vende al miglior offerente. Il suo ruolo
è separare ermeticamente l’est dall’ovest della città e tracciare così una linea di con-
fine insuperabile tra la comunità cristiana e quella musulmana» (p. 169).
50
3G. Corm, Il mondo arabo in conflitto. Dal dramma libanese all’invasione del Kuwait,
Milano, Jaca Book, 2005, 106.
51
4 Ivi.
52
sciiti più poveri; questo gli attirò la simpatia e il sostegno di gran parte
della popolazione musulmana. Investì, però, anche sulle nuove tecno-
logie legate alla comunicazione, facendo della propria antenna televi-
siva, Al Manar (il faro), la maggior concorrente di Al-Jazeera nel mondo
islamico radicale.
Gli sciiti libanesi, nonostante i successi politici di Hezbollah, fu-
rono chiaramente penalizzati nella nuova strutturazione della compa-
gine istituzionale dello Stato. Gli accordi di Taëf del 1989, che fissa-
vano gli equilibri politici emersi dalla guerra civile, da un lato, ratifi-
cavano l’indebolimento della parte cristiana (alla quale veniva conser-
vata la presidenza della Repubblica) nella gestione dello Stato; dall’al-
tro, trasferivano gran parte del potere effettivo ai sunniti, grazie a una
rivalutazione della funzione e del ruolo del primo ministro. Agli sciiti,
benché fossero una parte consistente della popolazione libanese, fu
assegnata una rappresentanza politica molto inferiore alla loro forza
e al peso politico che stavano assumendo nel Paese: ciò negli anni suc-
cessivi creò notevole instabilità e screditò l’azione del Governo, rite-
nuto troppo succube degli interessi occidentali. Negli ultimi anni
molti sciiti che abitavano la parte sud del Libano, sia per sfuggire agli
orrori della guerra, sia per cercare fortuna nella città, si erano trasferiti
nella periferia sud di Beirut, dove la maggior parte viveva, accanto ai
profughi palestinesi, in villaggi improvvisati e in condizioni di asso-
luta miseria. In tale contesto gli attivisti di Hezbollah trovarono mili-
tanti e simpatizzanti: essi fornirono un’espressione politica nuova a
una popolazione che viveva in condizioni di vita deplorevoli, sotto-
rappresentata nelle istanze del confessionalismo ufficiale.
dopo l’11 settembre 2001 era nella lista nera statunitense delle orga-
nizzazioni terroristiche – e degli interessi siriani. Insomma, nell’opi-
nione pubblica occidentale il primo ministro Hariri passava per essere
un moderato filo-occidentale, mentre il presidente Lahoud al contra-
rio era considerato un sostenitore convinto degli interessi iraniani e
siriani in Libano. Inoltre, aveva fatto sempre resistenza a cedere alle
richieste statunitensi di disarmare Hezbollah o almeno di ritirare le sue
milizie dalla frontiera con Israele. Nella lotta contro il Presidente, il
capo del Governo aveva dalla sua parte Walid Joumblatt, il capo
druso, e alcune personalità del mondo maronita5.
In ambito internazionale fu soprattutto la Francia a fare di tutto
per ostacolare il reincarico al presidente Lahoud. Nel settembre 2004
il presidente Chirac sottopose a Washington il progetto di far adottare
al Consiglio di Sicurezza dell’Onu una Risoluzione che impedisse al
Parlamento libanese la riconferma del Presidente uscente. Tale pro-
getto fu prontamente accolto dall’amministrazione statunitense, che
rimproverava alla Siria il mancato sostegno in occasione della guerra
contro l’Iraq. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nella Riso-
luzione 1559, votata il 2 settembre 2004, chiedeva al Parlamento liba-
nese di non emendare la Costituzione, così da permettere il prolunga-
mento del mandato presidenziale, ma, allo stesso tempo, invocava il
ritiro immediato di tutte le truppe siriane dal Libano, il disarmo di
Hezbollah, il dispiegamento dell’esercito libanese lungo la frontiera
con Israele, il disarmo dei campi palestinesi. Tale Risoluzione fu ac-
colta con esultanza dai sostenitori del primo ministro Hariri e fu in-
vece molto contestata da coloro che appoggiavano il presidente La-
houd, in particolare da Hezbollah e dai siriani. Secondo alcuni osserva-
tori internazionali, tale Risoluzione rappresentava una grave intro-
missione negli affari interni di uno Stato membro dell’Onu; perciò
sotto il profilo del diritto internazionale fu considerata illegittima6.
La manifestazione di Hezbollah
Di fronte all’ampiezza di tale mobilitazione, Hezbollah decise di
far sentire ai libanesi e al mondo il peso della sua forza politica e
chiamò i suoi sostenitori a una grande manifestazione in favore della
Siria e per denunciare la Risoluzione 1559 dell’Onu. Il 17 marzo,
piazza Riad El-Solh – vicino alla piazza dei Martiri dove si era tenuta
7 Ivi, 330.
55
Il Governo di Siniora
Dopo il ritiro siriano della primavera del 2005, il Libano fu go-
vernato da una coalizione filo-occidentale, sotto la guida del primo
ministro sunnita Fouad Siniora, uomo di fiducia dell’ex-primo mini-
stro ucciso Rafid Hariri. Tale maggioranza era appoggiata dai sunniti,
dai drusi e da una parte della dirigenza cristiana maronita. Questa
composita alleanza riuniva ex-nemici che, nel corso degli ultimi de-
cenni, si erano combattuti con accanimento e crudeltà, come, ad esem-
pio, drusi e maroniti. L’opposizione al Governo era guidata dagli sciiti
(cioè dalle milizie di Amal e da Hezbollah) e dalla Corrente patriottica
libera, composta essenzialmente da cristiani guidati dal generale ma-
ronita Michel Aoun. Questi, ex-capo del Governo, nel 1989 aveva con-
dotto, con l’appoggio di Saddam Hussein, una lotta senza quartiere
contro la presenza siriana in Libano, senza ottenere alcun risultato.
Finito il mandato, lasciò il Paese e si trasferì in Francia. Ritornato a
Beirut, procedette, dopo il ritiro delle forze siriane, a un capovolgi-
mento delle alleanze, fenomeno molto comune nella recente storia li-
banese, avvicinandosi alle milizie di Amal e di Hezbollah. Questa si-
tuazione apparentemente curiosa è spiegabile tenendo presente due
fattori: 1) L’indebolimento delle forze cristiane, private della loro po-
sizione tradizionalmente dominante, dopo che gli accordi di Taëf del
56
8 Cfr G. Kepel, Oltre il terrore e il martirio, Milano, Feltrinelli, 2009, 85. Sulla
situazione politica attuale del Libano si veda L. Larivera, «Tutto fermo in Libano», in
Civ. Catt. 2009 III 532-541.
9 G. Kepel, Oltre il terrore e il martirio, cit., 55.
57
te», scoppiò il 12 luglio 2006, quando militari Hezbollah, dopo aver lan-
ciato razzi in territorio israeliano, vi entrarono attaccando due veicoli
militari. Tre soldati israeliani furono uccisi durante l’attacco, due fu-
rono feriti e altri due catturati e condotti in Libano (successivamente
si seppe della loro morte). Il giorno seguente, il comando militare
israeliano ordinò attacchi fulminei contro obiettivi militari e civili,
considerati di interesse strategico. La guerra, nonostante le devasta-
zioni compiute nel Paese dei cedri, si concluse, come vedremo, con un
mezzo disastro dal punto di vista strategico-militare per Israele. La
comunità internazionale, con la sola eccezione degli Stati Uniti, nel
suo insieme condannò l’intervento sia a motivo della durezza deva-
stante dell’attacco (tra i più micidiali condotti dall’esercito della stella
di Davide), sia a causa della «sproporzione» – questa fu la parola
chiave che girò in quell’estate nelle cancellerie arabe e occidentali –
della risposta israeliana rispetto alla provocazione di Hezbollah.
In realtà, il Governo israeliano, secondo alcuni osservatori, colse
tale occasione per attaccare, seppure indirettamente, l’Iran, conside-
rato potenza nemica e oltremodo pericoloso per i propri interessi (so-
prattutto dopo la nomina a capo del Governo dell’islamista radicale
Ahmadinejad), e lo fece iniziando a colpire con determinazione Hez-
bollah, considerato la quinta colonna iraniana in terra libanese. Israele
insomma, mal calcolando la forza militare e il radicamento nel terri-
torio del movimento fondamentalista, intendeva far piazza pulita del
«partito di Dio» e dei suoi sostenitori nel giro di poche settimane. La
pericolosità di Hezbollah, in realtà, era già stata più volte sottolineata
negli anni passati da alcuni leader moderati del mondo arabo.
Nell’autunno del 2004 il re Abdullah II di Giordania aveva messo in
guardia l’Occidente contro «il pericolo di una mezzaluna sciita che si
estendesse dall’Iran al Libano, passando per l’Iraq e il Bahrein, dove
gli sciiti erano maggioritari, come pure per le minoranze sciite
dell’Arabia Saudita e della Siria». Anche il rais egiziano Mubarak, in
un’intervista a una televisione di Dubai, aveva dichiarato che gli sciiti
dei Paesi arabi, qualunque fosse la loro nazionalità, «erano fedeli in
primo luogo all’Iran e ai suoi ayatollah». In tal modo si accreditava la
vecchia tesi secondo la quale essi rappresentavano una sorta di quinta
colonna persiana all’interno del mondo arabo, specialmente di quello
58
I massacri
Particolare emozione in tutto il mondo civile provocò il cosid-
detto «massacro di Cana», piccolissimo villaggio, che si usa identifi-
care con quello nel quale, secondo il Vangelo di Giovanni, Gesù du-
rante una festa di nozze aveva trasformato l’acqua in vino. L’avia-
zione israeliana, sulla base di informazioni errate, il 30 agosto – quindi
Cfr W. Charara – F. Domont, Hezbollah. Storia del partito di Dio e geopolitica del
10
11 Ivi, 134.
12 Il grosso delle truppe israeliane abbandonò il Libano soltanto il 1° ottobre,
anche se le ultime truppe continuarono a occupare il villaggio di confine di Ghayar
fino al 3 dicembre 2006.
60
17 Cfr W. Charara – F. Domont, Hezbollah. Storia del partito di Dio e geopolitica del
Medio Oriente, cit., 128; K. Hroub, Hamas, fondamentalismo islamico e terrorismo suicida
in Palestina, Milano, Bruno Mondadori, 2006, 37.
La Santa Sede e lo Stato di Palestina
1 Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, Note per una corretta pre-
sentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica
(24 giugno 1986), VI, 1.
65
2 M. Sabbah, Leggere la Bibbia oggi nella Terra della Bibbia (1° novembre 1993), n.
7.
66
relazioni sia con lo Stato di Israele (nel 1993), sia con l’Olp (nel 1994).
Sembrava quindi che il conflitto stesse per finire e che presto le due
parti si sarebbero accordate sui confini permanenti – e riconosciuti a
livello internazionale – dei due Stati, Israele e Palestina. Purtroppo le
cose non andarono così.
3 Cfr G. Caprile, «La Santa Sede e lo Stato d’Israele», in Civ. Catt. 1991 I 352-
360.
4 Accordo fondamentale tra la Santa Sede e lo Stato di Israele (30 dicembre 1993), n.
11.
5 Accordo fondamentale tra la Santa Sede e l’Organizzazione di Liberazione della Pa-
lestina (15 febbraio 2000), Preambolo.
67
6 Giovanni Paolo II, s., Discorso all’arrivo all’eliporto di Betlemme, 22 marzo 2000,
n. 2, in www.vatican.va
7 Benedetto XVI, Discorso all’aeroporto Ben Gurion, 15 maggio 2009.
68
maggio 2014.
9 Id., Discorso all’aeroporto Ben Gurion, 24 maggio 2014.
10 Id., Discorso nell’incontro con le autorità palestinesi, cit.
69
12 Ivi.
13 Ivi.
71
www.vatican.va
A cinquant’anni dalla Guerra dei sei giorni
foto: IsraeliGPO
della recrudescenza, a partire dal 1965, degli attentati terroristici contro obiettivi
israeliani. In varie occasioni missili siriani vennero lanciati dalle Alture del Golan
verso il territorio di Israele, che rispondeva con azioni di ritorsione soprattutto nei
confronti della Giordania. Il 7 aprile 1967, nel corso di una breve battaglia aerea sul
lago di Tiberiade, l’aviazione israeliana abbatté sei Mig 21 siriani. La Russia accusò
Israele di voler colpire il regime filosovietico di Damasco, mentre l’Egitto, strategica-
mente, non intervenne, e questo fatto non fu certo gradito dai Paesi coinvolti nel con-
flitto. Diverse circostanze spinsero subito dopo Nasser ad agire con forza nei con-
fronti dei «sionisti», al fine di riaffermare la sua leadership sul mondo arabo.
74
segnale negativo. Gli israeliani pensavano, però, che sull’orlo del pre-
cipizio Nasser si sarebbe fermato.
La situazione si fece seria quando il 23 maggio Nasser annunciò
la chiusura degli stretti di Tiran alle navi israeliane. Questi stretti met-
tevano in comunicazione, attraverso il golfo di Aqaba, il porto israe-
liano di Eilat con il Mar Rosso. Poiché essi si trovano davanti alle coste
della penisola del Sinai, Nasser sosteneva che si trattava di acque ter-
ritoriali egiziane, mentre gli israeliani dichiaravano che erano acque
internazionali. Questa posizione era stata sostenuta già dal 1956 anche
dagli Stati Uniti6.
La reazione di Israele a questa decisione fu molto forte. Alla riu-
nione dello Stato maggiore delle Forze di difesa israeliane (Idf), uno
dei suoi capi affermò che in questo caso non si trattava di una que-
stione di libertà di navigazione, ma della sopravvivenza stessa di
Israele. «Se Israele non reagisce – disse –, perderà ogni credibilità, e
l’Idf ogni potere di deterrenza; gli Stati arabi vedranno nella debo-
lezza di Israele un’occasione per mettere in forse la sua sicurezza e la
sua stessa sopravvivenza»7.
Questa posizione era sostenuta da tutti i capi militari e politici
del Paese. Gli Stati Uniti, pur avendo condannato la chiusura degli
stretti, avevano comunicato a Israele la loro ferma opposizione ad
ogni azione unilaterale da parte sua. Washington propose allora di
formare una flotta internazionale per forzare il blocco egiziano, e
quindi di portare la questione su un piano più generale. Ma per Israele
il problema centrale non era questo.
Intanto Egitto e Siria stipularono un trattato di reciproca difesa,
al quale il 31 maggio aderì anche il re di Giordania. Con esso il so-
vrano hashemita accettava che le sue forze armate passassero sotto il
comando di un generale egiziano e che sul proprio territorio venissero
dislocate truppe irachene e saudite.
quarti erano riservisti e un quarto coscritti. Gli eserciti arabi (formati da professioni-
sti) erano di gran lunga più numerosi, ma con uno scarso livello di addestramento e
di meccanizzazione. Tra i due schieramenti, secondo Morris, c’era un’indiscutibile
differenza di motivazione: mentre i soldati arabi combattevano per il loro Paese con-
tro Israele, quelli israeliani combattevano non solo per la sopravvivenza dello Stato,
ma anche per quella delle loro famiglie e di ciò che avevano di più caro. Cfr ivi, 393.
11 Cfr E. Barnavi, Storia d’ Israele. Dalla nascita dello Stato all’assassinio di Rabin,
12 M. Emiliani, Medio Oriente. Una storia dal 1918 al 1991, Bari – Roma, Laterza,
2012, 172.
13 Cfr I. Pappé, La pulizia etnica della Palestina, Roma, Fazi, 2008, 227.
79
e la Siria nel 1973, in occasione della festa ebraica dello Yom Kippur, lanciarono con-
tro Israele un attacco congiunto (6-25 ottobre) dal Sinai e dalle Alture del Golan. Dopo
i primi successi la situazione volse a favore dell’esercito israeliano, colto di sorpresa
dall’attacco e numericamente inferiore. In ogni caso, l’Egitto riuscì a riprendere il con-
trollo del canale di Suez, il che non era poca cosa. Gli accordi di Camp David del 1978
portarono in seguito alla normalizzazione dei rapporti tra Israele ed Egitto. L’Egitto
è stata la prima nazione araba a riconoscere l’esistenza dello Stato israeliano.
17 Cfr M. Campanini, Storia del Medio Oriente 1798-2005, cit., 151.
80
politica all’interno del mondo arabo. Gli Stati Uniti, che a quanto pare
avevano incoraggiato Israele (senza però aiutarlo militarmente), dopo
la guerra decisero di sostenerlo in ambito internazionale, e negli anni
successivi finanziarono il suo riarmo in funzione anti-araba.
La Guerra dei sei giorni cambiò radicalmente la natura stessa
dei rapporti tra arabi e israeliani. In precedenza la questione di fondo
era stata l’esistenza stessa di Israele come entità statale, che Nasser
aveva definito «un insanabile scandalo»; dopo la guerra le posizioni
si capovolsero e la posta in gioco fu la restituzione dei territori occu-
pati dagli eserciti israeliani. Il che, come è stato ricordato, divenne un
vero problema per Israele, che era disposto a ritirarsi, tramite accordi
di pace, dal Sinai, dalle Alture del Golan e dalla Cisgiordania, ma non
da Gerusalemme Est, nella quale si trova il Muro del Pianto, il centro
religioso del mondo ebraico. Dayan, contro il parere di molti rabbini,
assicurò ai musulmani l’accesso alla Spianata delle moschee e volle
che Gerusalemme rimanesse aperta a tutti i credenti delle grandi reli-
gioni monoteiste, che in quel luogo avevano i loro principali luoghi di
culto.
Per quanto riguarda la Cisgiordania, Israele propose a re Hus-
sein un progetto di spartizione, conosciuto come il «piano Allon».
Questo prevedeva la cessione di gran parte del territorio conquistato
alla Giordania, mentre Israele avrebbe tenuto il controllo soltanto di
una fascia di terra lungo la valle del Giordano. Prevedeva, inoltre, che
in Giordania fossero create colonie ebraiche per motivi di sicurezza.
In questo modo Israele si sarebbe «liberato» di gran parte della popo-
lazione palestinese che viveva nella regione e che, a suo avviso, sa-
rebbe stata fonte di instabilità.
Il progetto, che fu di volta in volta aggiornato, da parte israe-
liana rimase in vigore fino al 1977; «segnò l’inizio di quel processo di
colonizzazione dei Territori occupati, e divenne uno degli ostacoli più
duri alla pace tra israeliani e palestinesi»18.
18 M. Emiliani, Medio Oriente. Una storia dal 1918 al 1991, cit., 184.
81
Conclusione
La Guerra dei sei giorni ha dato origine a tre tipi di problemi,
che per decenni hanno avvelenato i rapporti tra israeliani e palesti-
nesi: quello degli insediamenti ebraici in Cisgiordania; quello dei pro-
fughi palestinesi accolti nei Paesi arabi limitrofi (ai quali fu promesso
in diverse occasioni il ritorno in patria); e quello di Gerusalemme
(«unita e indivisa»), dichiarata nel 1980 dal Parlamento di Israele
(Knesset) «capitale eterna di Israele».
A cinquant’anni dalla guerra, tali questioni, che per decenni
sono state oggetto di contesa, di lotta e di accordi internazionali, sono
ancora aperte, anzi sul piano politico sembrano tuttora irrisolvibili.
Fatto sta che i coloni israeliani, in questi cinquant’anni, hanno allar-
gato i loro insediamenti con il consenso ora implicito ora esplicito dei
vari Governi che si sono succeduti.
Su questa «rampante annessione» veglia l’esercito, che ha
spesso il doppio ruolo di protettore e di complice. Il 7 febbraio 2017
laKnesset si è pronunciata in favore di una legge retroattiva che espro-
pria legalmente migliaia di proprietà private palestinesi. Qualcuno ha
giustificato tale iniziativa dicendo che la Corte Suprema avrebbe poi,
come in passato, annullato questa decisione come anticostituzionale.
Intanto la dirigenza israeliana intendeva dare un segnale politico
chiaro in direzione dell’annessione delle proprietà già occupate.
Va sottolineato che questa decisione è stata resa possibile anche
dall’elezione, come nuovo Presidente degli Stati Uniti, di Trump che,
84
23 Prima che scadesse il suo mandato, Obama aveva lasciato che il rappresen-
tante statunitense al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non ponesse, come di
solito, il veto (ma scegliesse l’astensione) a una risoluzione che condannava l’occupa-
zione di nuove aree abitative nei Territori palestinesi da parte del Governo Neta-
nyahu. Questi ha «gridato» al complotto del Presidente uscente contro Israele, mentre
Trump ha immediatamente twittato che con la sua presidenza le cose sarebbero cam-
biate.
24 Cfr B. Valli, «Palestina. Cinquant’anni dopo la guerra dei Sei giorni lo Stato
foto: krystianwin
1 Cfr G. Sale, «La questione di Gerusalemme capitale», in Civ. Catt. 2018 I 331-
342; G. Pani, «La Giordania e Gerusalemme», ivi 2018 II 257-264.
87
2 La nostra rivista si è interessata più volte di questo tema: cfr G. Sale, «La
fondazione dello Stato di Israele e il problema dei profughi palestinesi», in Civ. Catt.
2011 I 107-120.
3 La cosiddetta «Marcia del ritorno» è una manifestazione, iniziata il 30 marzo
2018, per reclamare il diritto dei palestinesi a ritornare nei loro territori, da cui furono
cacciati dall’esercito israeliano nel 1948, e anche per denunciare il blocco imposto da
Israele nel 2007 sulla Striscia di Gaza. Cfr A. Ayman, «La resistenza che unisce gli
abitanti di Gaza», in Internazionale, 4 maggio 2018, 22.
88
4 Cfr T. Marshall, Le 10 mappe che spiegano il mondo, Milano, Garzanti, 2017, 181.
89
1947 affermava che essa doveva essere istituita come un corpus separa-
tum sotto un regime internazionale speciale e doveva essere ammini-
strata dalle Nazioni Unite6. Il suo territorio doveva, inoltre, includere
altri piccoli villaggi limitrofi, come Betlemme.
Il primo ministro David Ben Gurion, al fine di non inimicarsi gli
ebrei osservanti, affermò che la perdita di Gerusalemme (città da lui
non amata) era il prezzo che si doveva pagare per la fondazione di
uno Stato ebraico. Presto però essa sarebbe stata in parte occupata,
manu militari, dagli eserciti israeliani. Ciò avvenne quando, nel mag-
gio del 1948, gli Stati arabi confinanti con Israele (Egitto, Libano, Siria,
Giordania e persino l’Iraq) gli dichiararono guerra. Guerra che fu
vinta dal nuovo Stato, il quale ne approfittò per «estendere» i confini
indicati dal piano di spartizione a proprio vantaggio, inglobando una
parte di Gerusalemme, e per «liberare» alcune aree del Paese dalla
presenza dei residenti palestinesi (da cui l’insolubile problema dei
profughi).
Gli Accordi di armistizio del 1949 tra Israele e gli Stati arabi di-
visero in due parti, con la cosiddetta «Linea Verde», la città di Geru-
salemme: la parte occidentale (Gerusalemme Ovest) fu assegnata agli
israeliani, mentre la parte orientale (Gerusalemme Est), dove si tro-
vava la Città Vecchia, e quindi il Monte del Tempio e i luoghi sacri dei
cristiani, fu attribuita ai giordani.
L’Onu non riconobbe questi accordi e si attenne ai confini fissati
dal piano di spartizione. Negli anni successivi, però, sia la Giordania
sia Israele preferirono lasciare divisa Gerusalemme. Come per tutte le
città spaccate in due da un conflitto – ad esempio, Berlino e Belfast –,
anche per Gerusalemme la divisione è stata percepita da tutti come
dilaniante: una città che fino ad allora era stata vissuta come una realtà
unitaria, complessa ma complementare, veniva da un giorno all’altro
smembrata, sia sul piano materiale sia su quello culturale e spirituale:
«Gerusalemme – scrive un religioso residente a un suo confratello –
lascia una sensazione di tristezza nella mia memoria. La città è sur-
reale come se la divisione fosse una sorta di congegno malvagio
6 Cfr D. Neuhaus, «La Chiesa cattolica e la Città Santa», in Civ. Catt. 2018 I 10-
22.
92
piazzato nel cuore della notte da un demone, come se fosse una beffa
oscena. Ma non è uno scherzo, e la crudeltà è rimarcata dai muri, le
barriere, i fili spinati, i fucili e i soldati»7.
Pio XII, con due encicliche – In multiplicibus, del 1948, e Redemp-
toris nostri, del 1949 –, chiese l’instaurazione di un «regime internazio-
nale» nella Città santa, al fine di «garantire la tutela dei santuari», as-
sicurare libertà di accesso ai luoghi di culto e rispettare i costumi e le
tradizioni religiose del luogo. Questo appello non fu accolto dalle
parti, anzi fu ostacolato perfino dalle altre confessioni cristiane pre-
senti in Terra Santa, perché temevano che il Vaticano volesse in qual-
che modo garantirsi una condizione di vantaggio su di esse8.
È a partire da questo momento che Gerusalemme entra a pieno
titolo nella storia dello Stato di Israele, divenendone, per motivazioni
sia politiche sia religiose, un elemento costitutivo. Il primo ministro
Ben Gurion già nel 1950, in seguito alla proposta dell’Onu di interna-
zionalizzazione della città, decise con determinazione di spostare la
Knesset (cioè il Parlamento israeliano) e diversi ministeri a Gerusa-
lemme, in modo da renderne definitiva l’annessione.
Poi, soltanto nel 1980, dopo l’unificazione della città in seguito
alla «Guerra dei sei giorni», il Parlamento israeliano votò una «legge
fondamentale», cioè di livello costituzionale, che dichiarava Gerusa-
lemme «capitale unica e indivisibile dello Stato ebraico». L’Onu, con
la risoluzione n. 478, definì la legge «nulla e priva di validità», in
quanto violava il diritto internazionale e ostacolava il raggiungimento
della pace tra israeliani e palestinesi. La comunità internazionale con-
tinuò pertanto a tenere le proprie ambasciate a Tel Aviv e a non rico-
noscere a Gerusalemme il rango di capitale di Israele9.
7 P. Caridi, Gerusalemme senza Dio. Ritratto di una città crudele, Milano, Feltri-
nelli, 2017, 189. Sulle vicende di Gerusalemme dopo la guerra del 1948, cfr V. Lemire
(ed.), Gerusalemme. Storia di una città-mondo, Torino, Einaudi, 2017, 90 s.
8 Cfr P. Pieraccini – E. Dusi, «Gerusalemme: un accordo impossibile?», in Li-
mes, 1/2001, 98. Sui rapporti tra Santa Sede e Gerusalemme, cfr D. Neuhaus, «La
Chiesa cattolica e la Città Santa», cit.
9 Cfr E. Dusi – P. Pieraccini, «La battaglia per Gerusalemme», in Limes
10 Cfr G. Sale, «A cinquant’anni dalla guerra dei sei giorni», in Civ. Catt. 2017
II 262-275.
11 Cfr A. Bregman, La vittoria maledetta. Storia di Israele e dei Territori occupati,
lemme. Essa conservò però il diritto di nominate il gran muftì, cioè il capo religioso
dei musulmani gerosolimitani e il custode della Spianata delle moschee. Questo po-
tere nel 1994 passò dalla Giordania all’Autorità nazionale palestinese, in seguito a un
conflitto che sorse tra queste due autorità. Nel trattato di pace firmato quell’anno tra
Israele e Giordania si affermava: «Israele rispetta il ruolo speciale della Giordania nei
luoghi santi di Gerusalemme. Durante i negoziati verso lo status finale, Israele darà
alta priorità al ruolo storico della Giordania su questi santuari». Questo passo suscitò
le ire di Arafat che, appena morì il gran muftì di Gerusalemme, si affrettò a nominarne
uno palestinese e a installarlo nella carica, consegnandogli anche le chiavi della Spia-
nata. Lo stesso fece la Giordania, ma quest’ultimo gran muftì rimase in carica per poco
tempo, senza un potere effettivo. Sul ruolo della Giordania, cfr G. Pani, «La Giordania
e Gerusalemme», cit.
14 Israele annesse la parte orientale di Gerusalemme dopo la sua occupazione
militare, cioè alla fine di giugno 1967. In seguito l’Onu approvò due importanti riso-
luzioni (nn. 2253 e 2254), in cui condannava l’annessione e chiedeva allo Stato di
Israele di astenersi da ogni azione che potesse alterare lo status quo della città. Mentre
il Regno Unito votò a favore di entrambe le risoluzioni, gli Stati Uniti, come avevano
fatto altre volte, si astennero, dichiarando però che si opponevano all’espansione ter-
ritoriale di Israele. Nessuno dei due Paesi però trasferì la propria ambasciata da Tel
95
18 Cfr S. Della Pergola, Israele e Palestina: la forza dei numeri. Il conflitto mediorien-
tale fra demografia e politica, Bologna, il Mulino, 2007, 206.
98
Conclusione
Negli ultimi anni, sia a Gerusalemme sia nei Territori la convi-
venza tra israeliani e palestinesi è diventata difficile e a volte impos-
sibile. Più di 400.000 israeliani (i cosiddetti «coloni»), spesso con mo-
tivazioni politico-religiose, si sono trasferiti in Cisgiordania, dove do-
veva sorgere lo Stato palestinese. Oggi sono molti gli osservatori po-
litici e gli intellettuali, anche progressisti e di sinistra, che considerano
la soluzione del bi-statualismo ormai superata e impraticabile. Essi
propongono la soluzione del mono-statualismo – uno Stato per due
popoli –, dove tutti i cittadini, ebrei e palestinesi, godano degli stessi
diritti civili e politici. Ritengono che il vecchio progetto del bi-statua-
lismo oggi sia finalizzato solo a tenere in vita una classe politica cor-
rotta, cioè l’Anp, che ha fallito i suoi obiettivi e che non avrebbe più
l’appoggio della maggioranza dei palestinesi. La comunità internazio-
nale – in particolare l’Onu, che non ha mai riconosciuto l’annessione
di Gerusalemme Est e dei Territori – ribadisce l’importanza della so-
luzione dei due Stati, che vivano uno accanto all’altro in pace e
102
paradigma dei due Stati, Roma, Castelvecchi, 2017, 19 s; N. Chomsky – I. Pappé, Pale-
stina e Israele che fare?, Roma, Fazi, 2015. In favore del bi-statualismo si dichiara A. Oz,
Cari fanatici, cit., 87 s. «Sì, un compromesso tra Israele e Palestina. Sì, due Stati. Spar-
tizione di questa terra, che deve diventare una casa bifamiliare» (ivi, 96).
23 P. Caridi, Gerusalemme senza Dio…, cit., 191.
24 Ivi, 189.
25 Così ha detto in un’intervista il Segretario di Stato, card. Pietro Parolin: «Ge-
rusalemme dovrebbe avere uno statuto speciale che ne faccia una città aperta» (G. G.
Vecchi, «Gerusalemme città di pace, ma solo con il dialogo diretto», in Corriere della
Sera, 21 dicembre 2017).
Popolo di Israele, terra di Israele, Stato di Israele
(Unsplash/antonmislawsky)
menti per l’applicazione della dichiarazione conciliare «Nostra aetate» (n. 4), 1 dicembre
1974.
3 National Jewish Scholars Project, Dabru Emet, 2000, in www.nostrerad-
ici.it/dabru_emet.htm
105
4 Citato in G. D’Costa, Catholic Doctrines on the Jewish People after Vatican II,
Oxford, Oxford University Press, 2019, 65. Cfr R. Langer, «Theologies of the Land and
State of Israel: The Role of the Secular in Jewish and Christian Understandings» in
Studies in Jewish-Christian Relations 3 (2008) 1-17.
5 Cfr Dichiarazione della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti, 20 no-
vembre 1975.
6 Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, Sussidi per una corretta
presentazione degli ebrei ed ebraismo nella predicazione e nella catechesi nella Chiesa cattolica
(1985), VI, 1.
106
zer (ed.), Zionism Reconsidered: The Rejection of Jewish Normalcy, New York, Macmillan,
1970.
10 M. Buber, «Zionism and Zionism», in P. Mendes-Flohr (ed.), Martin Buber
Bibbia cristiana (2001), 57. Cfr W. D. Davies, The Gospel and the Land: Early Christianity
and Jewish Territorial Doctrine, Berkeley, University of California Press, 1974.
110
compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è stato nasco-
sto ai tuoi occhi. Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee,
ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte; distruggeranno te e i tuoi figli dentro
di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in
cui sei stata visitata» (Lc 19, 41-44).
15 Alcuni Padri della Chiesa, tra cui Tertulliano, hanno contrapposto l’eredità
The Land, the Bible, and History, New York, Fordham University Press, 2007.
113
18 M. Sabbah, Lettera pastorale Leggere e vivere la Bibbia oggi nel paese della Bibbia
(1993), n. 7.
19 «Il diritto si pone come strumento di garanzia dell’ordine internazionale,
ovvero della convivenza tra comunità politiche che singolarmente perseguono il bene
comune dei propri cittadini e che collettivamente devono tendere a quello di tutti i
popoli, nella convinzione che il bene comune di una Nazione è inseparabile dal bene
dell’intera famiglia umana» (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 434).
114
Assemblea dei Vescovi cattolici della Terra Santa, Giustizia e pace si baceranno,
20
20 maggio 2019.
Israele e il Golfo: pace o soltanto prosperità?
del rispetto della dignità umana e della libertà, inclusa la libertà reli-
giosa».
A qualcuno l’incontro di questi figli di Isacco e di Ismaele, riu-
niti di nuovo sotto la tenda del patriarca Abramo, è parso l’alba di una
nuova era. Come dichiara il documento firmato da Israele e dagli Emi-
rati Arabi Uniti, «le parti si impegnano a promuovere la compren-
sione reciproca, il rispetto, la coesistenza e una cultura di pace tra le
loro società nello spirito del loro comune antenato, Abramo». Ebrei e
musulmani, convocati da un presidente degli Stati Uniti, si sono final-
mente seduti allo stesso tavolo per costruire un nuovo Medio Oriente.
E corre voce che altri Paesi musulmani stiano considerando la propria
adesione allo storico processo: Oman, Qatar, Kuwait (altri regni e
principati del Golfo) e, forse, interlocutori rilevanti come Arabia Sau-
dita, Sudan e Marocco.
Il mondo, affascinato, è stato a guardare e ha applaudito lo sto-
rico evento. Non si tratta tuttavia del primo trattato in assoluto tra
Israele e i suoi vicini arabi. L’Egitto aveva firmato un’intesa di pace
con Israele nel 1978; la Giordania lo aveva fatto nel 1994; e l’Olp dal
1991 aveva avviato quello che è stato definito un «processo di pace»
con Israele e che ha portato alla costituzione dell’Autorità palestinese.
Ma quegli accordi appartengono a un’epoca diversa. Da tempo
nella regione le speranze di una pace durevole sono state soffocate
dagli eventi. Israele ha continuato a occupare le terre palestinesi, a co-
struire insediamenti e a rivendicare porzioni sempre più ampie di ter-
ritorio. I palestinesi hanno reagito furiosamente con la violenza, che
veniva intesa come «terrorismo», e Israele ha replicato con una mas-
siccia repressione. Nel frattempo si è diffusa una delusione sempre
maggiore nei confronti dell’Autorità palestinese, che spesso appariva
più come parte del problema che della soluzione. La retorica radicale
islamica e gli slogan nazionalistici sionisti si sono opposti a qualsiasi
barlume di speranza che potessero esserci dei progressi.
Pertanto, è vero che a Washington, nel 2020, si è fatta la storia;
ma quale tipo di storia? Al di là delle emozioni suscitate dallo spetta-
colo dei cordiali incontri tra arabi musulmani ed ebrei israeliani, qual
è la vera posta in gioco, quando oggi gli accordi e le alleanze cambiano
117
presidente Shimon Peres. Nel 2017 il re del Bahrain, Hamad bin Isa Al
Khalifa, ha posto fine al boicottaggio di Israele gestito dalla Lega
araba, e le visite israeliane nel Golfo sono cresciute sempre più in fre-
quenza e importanza. Nel 2018 il sultano dell’Oman ha accolto nella
sua patria il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, in visita
ufficiale, e l’Oman si è schierato a favore del riconoscimento di Israele
in quanto Stato come tutti gli altri della regione. Miri Regev, ministra
israeliana della Cultura e dello Sport, ha visitato Abu Dhabi nel 2018
e vi ha assistito all’esecuzione dell’inno nazionale israeliano in un
evento sportivo internazionale. Pochi mesi dopo, anche Israel Katz,
ministro degli Esteri israeliano, ha preso parte a conferenze interna-
zionali in Oman e ad Abu Dhabi. Funzionari israeliani importanti
hanno visitato il Bahrain per vari eventi; tra loro, l’ex rabbino capo
sefardita israeliano Shlomo Amar, che ha partecipato a un congresso
interreligioso nel 2019.
Nel 2020 l’ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti negli Stati
Uniti Yousef Al Otaiba, vicino sia a Jared Kushner, imprenditore
ebreo americano, genero e consigliere di Trump, sia al principe eredi-
tario saudita Mohammed bin Salman, ha scritto una lettera diretta al
popolo israeliano, pubblicata il 12 giugno su Yediot Ahronot, popolare
quotidiano in lingua ebraica. Il testo metteva in guardia dalle possibili
conseguenze della pianificata annessione israeliana di gran parte
della Cisgiordania, già occupata da Israele. Inoltre esprimeva una vi-
sione molto chiara delle basi di una possibile relazione tra Israele e gli
Emirati Arabi Uniti.
avere successo se non sarà giusta ed equa […] e basata sul principio
della pace in cambio della terra». In una sezione intitolata «Che cosa
ci aspettiamo da Israele», la Lega chiedeva: «1) il ritiro da tutti i terri-
tori occupati dal 1967 in poi, tra cui le Alture del Golan siriane fino
alla linea di confine del 4 giugno 1967, oltre che i restanti territori li-
banesi occupati nel sud del Libano; 2) il raggiungimento di una solu-
zione equa del problema dei profughi palestinesi, da concordare sulla
base della risoluzione 194 dell’Assemblea generale dell’Onu; 3) l’ac-
cettazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano sui terri-
tori occupati dal 4 giugno 1967 in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza,
con Gerusalemme Est come sua capitale». In cambio, gli Stati arabi
assumevano questi impegni: considerare concluso il conflitto israelo-
palestinese, stipulare un accordo di pace con Israele e adoperarsi per
la sicurezza della regione; allacciare normali relazioni con Israele nel
contesto di questa pace globale. A questa Iniziativa la Lega araba si è
attenuta negli anni successivi.
Nel 2020 la situazione mondiale, le tensioni regionali e una serie
di preoccupazioni condivise tra Israele e il Golfo hanno fatto passare
in secondo piano la questione palestinese. Innanzitutto, Israele, Emi-
rati Arabi Uniti e Bahrain sono strettamente allineati agli Stati Uniti.
Il presidente Trump ha affidato a sua figlia Ivanka e a suo genero Ja-
red Kushner l’incarico di ricercare solidi rapporti con personalità
israeliane e del Golfo. Queste reti di relazioni hanno avvicinato i lea-
der, soprattutto quelli con comuni interessi commerciali. Un «Vangelo
della prosperità», benedetto dagli Stati Uniti, è stato un’esca convin-
cente per attirarli in un cerchio dove fosse possibile forgiare una vi-
sione comune.
Inoltre, sebbene l’Arabia Saudita sia rimasta per ora fuori dagli
«Accordi di Abramo», se c’è una persona che si trova al centro di que-
sta visione plutocratica di un nuovo Medio Oriente, questa è proprio
il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. Le sue riforme
interne hanno attirato l’attenzione degli Stati Uniti. Ciò non significa
necessariamente che verranno maggiormente garantiti i diritti umani,
ma che ora le donne possono guidare le automobili. Sebbene il re Sal-
man, padre del principe, rimanga fermamente impegnato
120
palestinese. Gli Stati Uniti hanno lasciato capire che avrebbero lavo-
rato per porre fine al boicottaggio del Qatar da parte dei suoi più
stretti alleati1.
Un altro Paese che ha profondo bisogno dell’appoggio degli
Stati Uniti per riabilitarsi è il Sudan. Già nel 2016 questo Stato si era
offerto di normalizzare le relazioni diplomatiche con Israele, al fine di
guadagnarsi l’appoggio degli Stati Uniti per il proprio reinserimento
nella comunità internazionale. Le sanzioni statunitensi sono state gra-
dualmente allentate nel 2017, e i contatti con Israele si sono intensifi-
cati, portando a un incontro – avvenuto in Uganda – tra il primo mi-
nistro israeliano Netanyahu e il presidente del Consiglio sovrano su-
danese Abdel Fattah al-Burhan. Sulla questione della normalizza-
zione con Israele i leader provvisori del Sudan sono divisi: quelli che
la sostengono hanno chiesto ingenti aiuti finanziari per convincere gli
oppositori.
Insomma, il tanto ricercato aiuto degli Stati Uniti ai Paesi arabi
musulmani è ora condizionato alla normalizzazione dei rapporti con
Israele. Attorno a questo tema nel mondo arabo ruota un importante
dibattito. Il consenso arabo, sviluppato nel 2002, che prometteva «nor-
malizzazione» in cambio di giustizia e pace, allora veniva inteso come
una soluzione del conflitto israelo-palestinese. Tale soluzione consi-
steva essenzialmente nell’istituzione di uno Stato palestinese all’in-
terno dei territori conquistati da Israele nel 1967, con capitale Gerusa-
lemme Est. E tuttavia, se non si va alle cause profonde del conflitto, la
«normalizzazione» appare tuttora come parte del problema piuttosto
che della soluzione. Come ha affermato, nel maggio 2017, la Commis-
sione Giustizia e pace dei vescovi cattolici in Terra Santa in una di-
chiarazione sulla normalizzazione, «in sintesi, per “normalizzazione”
si intende l’instaurazione di rapporti con lo Stato di Israele, le sue isti-
tuzioni e i suoi cittadini, “come se” la situazione attuale fosse uno
stato di cose normale, ignorando così la guerra, l’occupazione e la di-
scriminazione ancora in corso, o occultandole, o emarginandole con-
sapevolmente. […] La Chiesa locale in Israele-Palestina ha la
1 Cfr anche D. Christiansen – J. Cesari, «La questione Quatar», in Civ. Catt. 2017
III 398-405.
126
secondaria del 1948, ossia quel milione circa di ebrei arabi che ave-
vano lasciato le terre arabe musulmane in cui avevano vissuto per se-
coli, dal Marocco all’Iraq. Il ricordo di un tempo in cui ebrei e arabi
non rappresentavano due campi contrapposti, ma piuttosto collabo-
ravano alla costruzione di una società moderna, si è sbiadito anche a
causa della questione israelo-palestinese. Ma qualsiasi speranza di ri-
solvere il conflitto deve basarsi su una visione in cui israeliani e pale-
stinesi possano godere non soltanto della prosperità, ma anche
dell’uguaglianza, in un quadro politico che garantisca i loro diritti e
doveri.
Nella lettera diretta agli israeliani Yousef Al Otaiba ha menzio-
nato la visita di papa Francesco negli Emirati Arabi Uniti, nel febbraio
2019, come un altro segno di tempi nuovi. «Dopo la storica visita di
papa Francesco negli Emirati Arabi Uniti, lo scorso anno, e il suo in-
contro con il Grande Imam di Al-Azhar, abbiamo annunciato l’istitu-
zione di una casa familiare abramitica ad Abu Dhabi, che conterrà
all’interno del suo complesso una moschea, una chiesa e una sina-
goga». Un’immagine affascinante. Tuttavia, affinché si instauri una
pace effettiva in Medio Oriente, gli abitanti della regione – musul-
mani, ebrei e cristiani, che un tempo vivevano fianco a fianco e in-
sieme hanno creato una civiltà araba – devono riconoscere il reciproco
radicamento essenziale in quell’area. Se la chiesa e la sinagoga adia-
centi alla moschea verranno frequentate solo da uomini d’affari statu-
nitensi in visita, questo non porterà la pace, ma una mera afferma-
zione di prosperità.
Una pace che porti vera prosperità arriverà quando il popolo
del Medio Oriente si renderà conto che la perdita di ogni singolo ele-
mento nel suo variegato ecosistema umano – che sia musulmano,
ebraico, cristiano, yazida, druso, o qualsiasi combinazione di questi –
impoverisce il Medio Oriente. Inoltre, ignorare una delle ferite princi-
pali nel cuore del mondo arabo, ovvero la tragedia dei palestinesi e la
perdita della loro patria, non potrà mai portare né pace né prosperità
duratura.
Il conflitto Israele-Striscia di Gaza
(iStock.com/sameer chogale)
***
1 Cfr P. Gasparri, Lettera al Segretario generale della Lega delle Nazioni, 15 maggio
1922.
143
gio 2009.
3 Francesco, Discorso ai membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa
4 Consiglio ecumenico delle Chiese, Seeking Justice and Peace for all in the Middle
East, 8 settembre 2022.
150
20 maggio 2019.
Gli ebrei di cultura araba
1 Il termine «sefardita» si riferisce agli ebrei che fanno risalire le loro origini
alla Spagna e al Portogallo al tempo delle espulsioni dei giudei da quei territori, tra il
XIV secolo e l’inizio del XVI. Molti emigrarono in Nord Africa e in Medio Oriente,
dove esistevano già comunità di ebrei indigeni di lingua araba e berbera, meglio iden-
tificati come mizrahim (ebrei orientali).
153
nella più grande città del mondo arabo. Tornò appena due anni dopo,
per ritrovarsi cittadino del nuovo Stato di Israele. Yosef si fece strada
nella gerarchia rabbinica, che nel 1921 era stata scissa in due dagli in-
glesi: una parte guidata da un rabbino capo ashkenazita e l’altra da
uno sefardita. Mentre l’élite politica, sociale ed economica del Paese
era composta prevalentemente da ashkenaziti, la migrazione di centi-
naia di migliaia di mizrahim in Israele, per lo più di lingua araba e pro-
venienti dalle terre tra il Marocco e l’Iraq, cambiò la composizione
della popolazione ebraica. Dopo aver prestato servizio come giudice
religioso in diverse località, Yosef divenne rabbino capo sefardita di
Tel Aviv nel 1968 e cinque anni dopo fu nominato rabbino capo sefar-
dita di Israele, carica che ha ricoperto per dieci anni.
Una volta cessato il ruolo di rabbino capo, nel 1983, si è mag-
giormente coinvolto nell’arena politica, fondando Shas. Gli ebrei
orientali gli apparivano svantaggiati, esclusi dai centri di potere, di-
scriminati, spesso umiliati per via della loro cultura mediorientale
non europea. Shas è stato fondato in parte come espressione del di-
saccordo con l’establishment politico ashkenazita, ma anche per con-
trastare l’atteggiamento delle troppe persone secondo cui gli ebrei di
lingua araba erano in qualche modo inferiori agli ebrei ashkenaziti.
Yosef ha cercato di restituire a questi ebrei la loro dignità perduta.
Insisteva sul fatto che gli ebrei di lingua araba avevano un passato
non meno glorioso degli ebrei d’Europa, ed era orgoglioso della cul-
tura araba di cui lui stesso era espressione. Se ne è vista un’affasci-
nante dimostrazione nel luglio 2019, quando un elenco dei canti pre-
feriti del rabbi Ovadia Yosef in arabo, scritto di suo pugno, è stato
venduto all’asta per oltre 6.000 dollari. Chi legge quella lista può con-
statare come il rabbino amasse soprattutto la musica di Muhammad
Abd al-Wahab (1902-1991), grande compositore e cantante egiziano
del Novecento, famoso per i suoi inni romantici e patriottici.
Gli ebrei orientali potevano vantare epoche d’oro della simbiosi
arabo-ebraica in regioni come l’Iraq, l’Egitto, il Marocco e l’Andalusia.
Quella cultura aveva prodotto alcune delle più grandi menti della sto-
ria ebraica, come Saadya Gaon (Sa’d ben Yossef al-Fayumi), egiziano
del X secolo, traduttore, filosofo, teologo e liturgista, e come Mosè
Maimonide (Musa ben Maimon), andaluso del XII secolo, medico,
154
filosofo, giurista e commentatore, per citare solo due geni tra una mi-
riade di luminari. Gli ebrei orientali in Medio Oriente non erano mi-
granti, ma piuttosto indigeni, integrati nel mondo a maggioranza mu-
sulmana insieme ai cristiani di lingua araba. Incarnavano il retaggio
secolare di un giudaismo che si esprimeva tranquillamente in arabo.
Quel retaggio arabo-ebraico risale agli albori della civiltà araba.
Troviamo tracce di ebrei di lingua araba anche prima dell’ascesa
dell’islam nel VII secolo. Alcuni ebrei dello Yemen hanno fatto risalire
la loro presenza nella penisola arabica ai tempi del Primo Tempio.
Una dinastia araba di ebrei convertiti, gli himyariti, stabilì un regno
in Arabia nel V secolo. Il profeta dell’islam, Maometto, aveva relazioni
complesse con le tribù ebraiche in Arabia, oscillanti tra l’amicizia e
l’ostilità. La traduzione in arabo delle Scritture ebraiche a opera di
Saadia Gaon nel IX secolo fu un capolavoro, successivamente adottato
(con modifiche teologiche) dalla Chiesa copta. Il suo manuale di
grammatica araba era studiato in tutto il mondo arabo. Nel XII secolo
Maimonide, che Tommaso d’Aquino cita nelle sue opere, fu uno dei
più importanti esponenti della scuola filosofica razionalista che si svi-
luppò allora nel mondo arabo musulmano.
Come molti altri, questi intellettuali nei loro scritti usavano tre
lingue: l’ebraico (per la complessità della legge e della pratica ebraica),
l’arabo (per le opere teologiche e filosofiche rivolte a tutto il mondo
arabo) e il giudeo-arabo (per le opere popolari destinate alla comunità
ebraica). Il giudeo-arabo, una versione dell’arabo trascritta secondo
l’alfabeto ebraico, è a sua volta un tesoro dimenticato di questa ere-
dità. Si pone in parallelo con la più nota scrittura ebraica del tedesco,
che usa le stesse lettere, nota come yiddish e usata nell’Europa orien-
tale, e con il ladino, il giudeo-spagnolo ebraico, usato dagli ebrei ori-
ginari dell’Andalusia. Gli ebrei continuarono a usare il giudeo-arabo
fino al XX secolo e molti volumi di filosofia, teologia, scienza, poesia,
canto e comunicazioni della comunità attestano la ricchezza di questa
forma ebraica dell’arabo.
Solo dopo la caduta dell’Impero ottomano, nel 1918, si è confi-
gurata la maggior parte dei Paesi arabi del Medio Oriente contempo-
raneo. Gli ebrei hanno preso parte alla vita politica, sociale, culturale
ed economica di quelle società in via di sviluppo insieme ai loro
155
Forse più presente alla memoria nel mondo arabo oggi è Leila
Mourad (1918-1995), attrice e cantante egiziana, che ha recitato in
molti film romantici del suo Paese e si è convertita all’islam quando
ha sposato il noto regista egiziano Anwar Wagdi.
L’istituzione dello Stato di Israele ha destabilizzato il mondo
arabo di cui gli ebrei orientali erano membri a pieno titolo. Come per
tutte le minoranze, epoche d’oro di tolleranza, convivenza e creatività
si sono alternate ad altre di disagio, emarginazione e oppressione. Nel
XX secolo gli emissari del movimento sionista dominato dagli ashke-
naziti, politico e prevalentemente laico, esercitarono forti pressioni su-
gli ebrei orientali, invitandoli a ridefinire la loro identità, a immedesi-
marsi nel nazionalismo ebraico e nell’idea che la loro vera patria era
la Palestina/Israele. L’appello a migrare in Palestina/Israele era
spesso inquadrato in termini messianico-religiosi che trovavano eco
presso molti ebrei orientali, i quali mantenevano uno stile di vita
ebraico tradizionale e speravano in una riunione del popolo ebraico a
Sion (Gerusalemme) alla fine dei tempi. Il discorso politico sionista,
fondato sulla necessità di reagire all’antisemitismo europeo del XIX e
del XX secolo, culminato nell’Olocausto, assimilò l’esperienza degli
ebrei orientali a quella degli ebrei europei. La storia ebraica era vista
come una lunga e tragica vicenda di vittimizzazione e anche gli ebrei
orientali venivano invitati, a loro volta, a vedere la propria come una
triste storia di persecuzione endemica. Rafforzando questa tendenza,
negli anni Quaranta alcuni leader arabi, mossi principalmente da una
reazione a quello che percepivano come un colonialismo sionista in
Palestina, iniziarono a identificare quegli ebrei orientali indigeni come
simpatizzanti del sionismo. In alcuni luoghi del Medio Oriente vi fu-
rono esplosioni di violenza contro gli ebrei, tra le quali i massacri con-
tro gli ebrei indigeni a Hebron, in Palestina, nel 1929 e a Baghdad nel
1941. Intrappolati tra il sionismo europeo e il nazionalismo arabo, cen-
tinaia di migliaia di ebrei orientali fecero i bagagli e lasciarono le loro
antiche patrie.
Molti di coloro che arrivarono in Israele alla fine degli anni Qua-
ranta e Cinquanta e all’inizio degli anni Sessanta rimasero sconvolti
dalla società prevalentemente laica ed europea che vi trovarono.
Spesso venivano trasportati in campi di transito improvvisati,
157
registrati con nuovi nomi ebraici per liberarli da quelli arabi, e veni-
vano trattati come se non fossero completamente ebrei, tantomeno del
tutto civilizzati, a causa della loro tradizionale pratica ebraico-araba e
della loro cultura araba. L’umiliazione che subirono costituì un
trauma, e molti incolparono l’élite laica socialista ashkenazita che go-
vernò Israele dal 1948 al 1977.
Quando i socialisti furono sconfitti nel 1977, molti ebrei orien-
tali, che all’epoca costituivano più della metà della popolazione
ebraica in Israele, non solo contribuirono alla sconfitta con il loro voto,
ma abbracciarono inoltre l’ideologia della destra israeliana guidata da
Menachem Begin. Prese campo un nazionalismo più acceso, che tra
l’altro rifiutava di scendere a compromessi con i palestinesi ed era ani-
mato da un atteggiamento di sfida nei confronti del mondo arabo in
generale. Tuttavia, tra gli ebrei orientali questo diffuso sentimento
anti-arabo era accompagnato da non poca ambivalenza, dato che do-
potutto erano culturalmente radicati nel mondo arabo. Non solo si
erano trovati a loro agio nel mondo arabo, che ora vedevano con ini-
micizia e disprezzo, ma si sentivano anche discriminati a causa delle
proprie radici culturali arabe. Sebbene riluttanti ad essere identificati
come arabi, nemici di Israele per definizione, stavano anche progres-
sivamente riscoprendo l’orgoglio per la loro particolare eredità reli-
giosa, sociale, culturale e culinaria ebraico-araba.
Il rabbino Ovadia Yosef e i suoi giovani protetti di Shas hanno
spesso rivelato questa ambivalenza, manifestata in un continuo alter-
narsi di sfoghi di beffardo disprezzo – in particolare dopo gli attacchi
arabi agli ebrei o le diatribe estremiste musulmane contro l’ebraismo
– e la promozione del dialogo e della pace con il mondo arabo. Da un
lato, per esempio, nel 2001 Yosef dichiarò a proposito degli arabi: «È
proibito essere misericordiosi con loro. Bisogna annientarli a colpi di
missili. Sono malvagi ed esecrabili» (The Telegraph, 10 aprile 2001); allo
stesso modo, nel 2009, commentò a proposito dei musulmani che «la
loro religione è brutta quanto loro» (Maariv, 14 dicembre 2009). E nel
2010 disse dei palestinesi: «Tutta questa gente malvagia dovrebbe
scomparire da questo mondo. Dio dovrebbe colpirli con un castigo»
(al-Jazeera, 29 agosto 2010).
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longevità e che possiate riuscire nei vostri sforzi per la pace e che nella
nostra regione ci sia pace»2.
Di recente, nel gennaio 2023, in una conferenza di ebrei israe-
liani religiosi che sostengono il processo di pace con i palestinesi, la
figlia di Yosef, Adina bar-Shalom, si è rivolta ai presenti con queste
parole: «Contrariamente a quanto molti hanno affermato, mio padre
non ha mai cambiato posizione […]. Dichiarazioni estreme, il soste-
gno a politiche discriminatorie e il razzismo hanno alzato la testa e si
sono trasformati in uno spettacolo comune […]. Insisto sul fatto che
questa non è la via della Torah, e non è la via del mondo ultra-orto-
dosso […]. Non è così che siamo stati educati»3. Quando Yosef è
morto, nel 2013, il suo funerale è stato ritenuto il più imponente a cui
Israele avesse mai assistito. In quell’occasione, il partito radicale sciita
libanese Hezbollah, tramite il suo organo di informazione al-Manar,
sottolineò pesantemente l’attrito tra l’educazione di Yosef come ebreo
di lingua araba e la sua presunta ostilità verso gli arabi: «La morte del
rabbino Ovadia Yosef: l’arabo sionista che odiava gli arabi».
Il 29 settembre 2019, all’età di 89 anni, è venuto a mancare un
altro ebreo di Baghdad, Shimon Ballas, prolifico scrittore israeliano e
docente di letteratura araba all’Università di Haifa. Come Yosef, an-
che lui era nato nella capitale irachena, e nel 1951 era approdato da
giovane in Israele. A differenza di Yosef, Ballas era un intellettuale
laico e, in gioventù, si identificò con il Partito comunista. Per tutta la
vita, Ballas si è definito un arabo ebreo. Nella sua autobiografia, First
Person Singular, pubblicata in ebraico nel 2009, ha descritto in modo
toccante come, circa un decennio dopo essere arrivato nel suo Paese
di adozione, aveva costretto sé stesso ad abbandonare la sua lingua
madre, l’arabo, e aveva iniziato a scrivere in ebraico, la lingua ebraica
dello Stato di Israele: «Mi dedicai alla lettura sistematica della Bibbia
in ebraico e della Mishnah [compendio rabbinico del III secolo, nda].
Un’altra decisione che mi preoccupai di adottare fu smettere di leg-
gere qualsiasi libro o giornale in arabo. Evitavo persino di ascoltare le
2009, 75.
5 Intervista nel settimanale locale Kol Ha’ir, 15 marzo 1991.
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7A. Alcalay, After Jews and Arabs, Minneapolis, University of Minnesota Press,
1993, 284.