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^ Edward W.

Said
Q.

Covering
IsIam
a:

I- Come i media
e gli esperti
determinano
la nostra visio­
ne del resto
del mondo

collana differenze
Covering Islam. Come i media e gli esperti determinano la no­
stra visione del resto del mondo costituisce l’ideale prosecuzione dei
libri che hanno reso celebre Edward W. Said: Orientalismo e La
questione palestinese. L’assunto di Said è presto detto: l’imperiali-
smo economico americano ed europeo necessita, per mantenere il
suo dominio, di una costruzione simbolica del nemico.
L’Islam, il “diverso”, l’Altro diventano l’oggetto artificiale su
cui riversare le inquietudini di un Occidente in preda al panico.
Said studia la cronaca giornaliera dei maggiori quotidiani, pesa
ciascuna parola proferita nei dibattiti televisivi, smonta con una
pratica critica impareggiabile le opinioni interessate degli esperti
di geopolitica: ne esce un quadro a tinte fosche delle distorsioni
ideologiche praticate dai media, in favore di una chiara strategia
militare e politica.
Le analisi di Said forniscono un utile e aggiornato corollario
alle tesi foucaultiane sulla costruzione dei discorsi di potere, at­
traverso uno dei più precisi documenti critici sulle capacità del
dominio mediatico di plasmare i fatti e porsi a cavallo del potere
politico. La questione palestinese, qui sullo sfondo, resta tuttavia
il momento-chiave: negare cittadinanza a un popolo significa an­
zitutto ritrarlo, all’opinione pubblica, come irrazionale, infido,
irrimediabilmente diverso. Una logica del capro espiatorio che
non sembra lasciare alcuno spazio alla contraddizione, ma che
sollecita la critica della cultura a impegnarsi nella pratica nobile
della demistificazione.

ISBN 978-887580194-6

EURO 1 9 ,9 0
9 788875 801946
«Ogniqualvolta romanzieri, reporter, stra­
teghi-politici ed “esperti” trattano F“Islam”,
vale a dire l’Islam che è attualmente in vigore
in Iran e in altre parti del mondo musulma­
no, pare che non vi possano essere distinzioni
tra il fervore religioso e la lotta per una giusta
causa, tra la normale debolezza umana e il
conflitto politico; il corso della storia fatta da
uomini, donne e società non è contemplato
come un umano divenire. L’“Islam” sembra
fagocitare i variegati aspetti del mondo mu­
sulmano, tutti riconducibili in una speciale
entità malvagia, priva di ragione.»

«Ogni volta che un musulmano si pro­


nuncia sull’“Occidente”, o un americano
sull’“Islam”, inevitabilmente entrano in gio­
co enormi generalizzazioni che, sebbene ren­
dano possibile forme di scambio, allo stesso
tempo ne impediscono altre. Le definizioni
sono ideologiche, cariche di forti emozioni e,
rimanendo intatte nel corso dei secoli, sono
state capaci di adattarsi al mutare degli eventi
e delle situazioni.»

«Perché l’Islam è spesso riconducibile in


modo pavloviano a un’intera serie di eventi
politici, culturali, sociali e perfino economi­
ci? Cosa c’è nell’Islam che provoca una re­
azione così immediata e irrefrenabile? Cosa
rende differente l’Islam e il mondo islami­
co dall’Occidente, anzi, dal resto del Terzo
mondo e, durante la Guerra fredda, anche
dall’Unione Sovietica?»
Edward W. Said, nato nel 1936 a Gerusa­
lemme ed esiliato in Egitto e poi negli Stati
Uniti, è stato professore alla Columbia Uni­
versity di New York e collaboratore di «Guar­
dian», «Le Monde Diplomatique» e «al-Ha-
yat». Ha raggiunto il successo mondiale con
Orientalismo (Feltrinelli 1978 ). Conosciuto
tanto per la sua ricerca nel campo della lette­
ratura comparata quanto per i suoi interventi
politici incisivi, Said è stato uno degli intel­
lettuali più in vista negli Stati Uniti. Ex socio
del Consiglio Nazionale Palestinese, è stato
un “negoziatore ombra” del conflitto arabo­
israeliano e, a causa della sua pubblica difesa
dell’autodeterminazione palestinese, gli è sta­
to impedito l’ingresso in Palestina per molti
anni. Si è opposto agli accordi di Oslo e al
potere di Yasser Arafat, che per questo ha fatto
vietare i suoi libri nei territori autonomi. È
morto a New York il 25 settembre 2003 .
Edward W. Said

COVERING ISLAM
COME I MEDIA E GLI ESPERTI DETERMINANO
LA NOSTRA VISIONE DEL RESTO DEL MONDO

a cura di Marco Gatto

TRANSEUROPA
D IFFE R E N Z E

Collana diretta da Gianni Vattimo


e Santiago Zabala

Nella stessa collana:


I. H. G. Gadamer, Lettura, scrittura e partecipazione
2. M. Adinolfi, Una passione senza misura
3. R. Rorty, Verità e libertà
4. C. Dotolo, Abitare i confini
5. A. Ganji, Iran, Islam e democrazia
6. Slavoj Zižek, John Milbank, La mostruosità di Cristo
7. Slavoj Zižek, John Milbank, San Paolo Reloaded

TITOLO ORIGINALE:
Covering Islam : How the Media and the Experts Determine
How We See the Rest o f the World (ed. 1996)

Traduzione di Marco Gatto (Introduzione alla prima edizione,


Introduzione alla seconda edizione, La storia dell’Iran),
Caterina Giannottu (Introduzione alla prima edizione,
Introduzione alla seconda edizione, Sapere e potere)
e Marco Montemurro (L’Islam come notizia)

Veditore intende ringraziare il curatore Marco Gatto


per il sostegno e l’aiuto nell’acquisizione dei diritti dell’opera.

© C O P Y R IG H T 1 9 8 1 , 1 9 9 7 , ED W A RD W . SA ID
A L L R IG H T S R ESER V ED
© 2012 P IE R V IT T O R IO E A S S O C IA T I, T R A N SE U R O P A , M A SSA

www.transeuropaedizioni.it
IS B N 9 7 8 8 8 7 5 8 0 1 9 4 6

C O P E R T IN A : ID E A , P R O G E T T O G R A F IC O E L E T T E R IN G D I F L O R IA N E P O U IL L O T
L ’E D IT O R E È A D IS P O S IZ IO N E D E G L I E V E N T U A L I D E T E N T O R I
D I D IR IT T I C H E N O N SIA STA T O P O S S IB IL E R IN TR A C C IA R E.
INDICE

Introduzione alla prima edizione (1981) IX

Introduzione alla seconda edizione (1996) xxxm

Capitolo primo, L’Islam come notizia 1

I. L’Islam e l’Occidente 1
il. Comunità interpretative 37
IH. L’episodio della principessa e il suo contesto 72

Capitolo secondo, La storia dell’Iran 83

I. La guerra santa 83
il La perdita dell’Iran 96
ili. Ipotesi nascoste e non verificate m
IV. Un altro paese 12.3

Capitolo terzo, Sapere e potere 135


I. Politiche di interpretazione dell’Islam: ortodossia
e sapere antitetico 135
il. Conoscenza e interpretazione 164
INTRODUZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE (1981)

Questo è il terzo e ultimo libro di una serie in cui ho tentato di


analizzare i rapporti moderni tra Islam, mondo arabo e Oriente, da
un lato, e Occidente (Francia, Gran Bretagna e, in particolare, Stati
Uniti), dall’altro. Orientalismo è il più generale dei tre; ripercor­
re le tracce di questi rapporti a partire dall’invasione napoleonica
dell’Egitto, attraversa il grosso del periodo coloniale e la nascita
degli studi orientalistici moderni in Europa durante il Diciannove­
simo secolo, fino alla fine dell’egemonia imperiale francese e bri­
tannica successiva al secondo conflitto mondiale e al sorgere, allora
come oggi, del dominio americano. Il tema che sottende Orientali­
smo è l’apparentamento tra conoscenza e potere.' Il secondo libro,
La questione palestinese, offre una storia dettagliata del conflitto
tra gli originari abitanti della Palestina, arabi in maggioranza mu­
sulmani, e il movimento sionista (che diventerà in seguito Israele),
la cui provenienza e il cui modo di affrontare la realtà «orientale»
della Palestina sono ampiamente occidentali. In maniera più espli­
cita che in Orientalismo, il mio studio sulla Palestina cerca inoltre
di riportare alla luce ciò che si nasconde sotto la superficie dell’im­
magine occidentale dell’Oriente - in questo caso, la lotta nazionale
palestinese per l’autodeterminazione.12

1. E d w ard W. Said , O rientalism o. Lim m agine europea dell’O riente [1978], M ilano,
Feltrinelli, 1999.
2. Id ., La questione palestinese [1979], Roma, Gamberetti, 1995.
X PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE (1981)

In Covering Islam l’argomento è più strettamente contempora­


neo: la risposta occidentale, e in particolare americana, a un mondo
islamico percepito fin dai primi anni Settanta come immensamente
importante e tuttavia irrimediabilmente problematico e tormen­
tato. Tra le cause di tale percezione vanno annoverate la scarsità
di fonti energetiche, con particolare riguardo al petrolio arabo e
persiano del Golfo, I’o pec ,3 nonché i devastanti effetti sulle società
occidentali dell’inflazione e dei bilanci energetici drammaticamente
costosi. Oltre a questo, la rivoluzione iraniana e la crisi degli ostaggi
ha dato prove allarmanti di quello che ha finito con l’essere chiama­
to «il ritorno dell’Islam». Per finire, si è verificata la recrudescenza
del nazionalismo radicale all’interno del mondo islamico, con l’ag­
giunta particolarmente sfortunata della ripresa in loco dell’ostilità
tra superpotenze. Esempio della prima è la guerra Iran-Iraq; della
seconda, l’invasione sovietica dell’Afghanistan e i preparativi ame­
ricani per una forza di intervento rapido nel Golfo.
Anche se il gioco di parole in Covering Islam apparirà evidente
a chiunque prosegua nella lettura del libro,4 vale la pena di trac­
ciare una semplice spiegazione d’apertura. Una delle affermazioni
che faccio sia qui che in Orientalismo è che il termine «Islam»,
così come viene oggi usato, sembra possedere un significato sem­
plice, ma in realtà è un miscuglio di fantasia e ideologia, e sempli­
ficazione di una religione chiamata Islam. In nessun senso c’è una
relazione diretta tra l’«Islam» come viene comunemente inteso in
Occidente e l’enorme varietà di vite che si dispiega all’interno del
mondo dell’Islam, con i suoi più di 800.000 adepti, i suoi milioni
di chilometri quadrati di territorio in Africa e Asia, i tanti stati,
le numerose storie e culture. D ’altra parte, l’«Islam» rappresenta
una cattiva notizia oggi per l’Occidente, per motivi che discuterò
più avanti nel corso del libro. In questi ultimi anni, specialmente
3. [Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio, NdT.]
4. [Qui l’autore si riferisce al doppio e ambiguo significato di covering, inteso sia
come “rappresentazione” giornalistica e mediatica di un soggetto, sia come “coper­
tura” d’esso. Nel testo, si è cercato di esplicitare, secondo i casi, entrambi i sensi. Lo
stesso titolo del libro reca in sé la doppia valenza del verbo to cover, cui spesso Said
associa to cover up, che significa più strettamente “velare” o “insabbiare”, “occulta­
re”, NdT.]
EDWARD W. SAID XI

da quando gli avvenimenti in Iran hanno attratto così fortemen­


te l’attenzione europea e americana, i media hanno rappresenta­
to l’Islam: lo hanno ritratto, l’hanno caratterizzato, analizzato, ci
hanno fatto sopra dei corsi estemporanei e di conseguenza l’hanno
fatto diventare «conosciuto». Ma, come suggerisco, questa rap­
presentazione, e con essa l’opera di esperti accademici sull’Islam,
strateghi geopolitici che parlano della «mezzaluna della crisi»,
tuttologi che deplorano il «declino dell’Occidente», è totalmente
fuorviarne. Ha trasmesso ai consumatori di notizie la sensazione di
aver capito l’Islam senza averli messi in guardia che una gran parte
di tale rappresentazione muscolare si basa su materiale tutt’altro
che obiettivo. In molte occasioni l’«Islam» ha dato manforte non
solo a evidenti falsi, ma anche a espressioni di etnocentrismo senza
freni, di ostilità culturali, o addirittura razziali, liberamente vaganti
e al tempo stesso paradossalmente profonde. Tutto questo ha avu­
to luogo come parte di ciò che si presume debba essere un’onesta,
responsabile ed equilibrata restituzione mediatica dellTslam. A
parte il fatto che né il cristianesimo né l’ebraismo, entrambi i quali
stanno passando un periodo di rinnovato vigore, vengono trattati
in modo così visceralmente emotivo, c’è comunque il presupposto
incontestabile che l’Islam possa essere caratterizzato senza alcu­
na limitazione mediante una manciata di generalizzazioni sconsi­
derate e abbondantemente stereotipate. E comunque si suppone
sempre che l’«Islam» di cui si parla sia un oggetto reale e concreto
là dove capita che si trovino anche le «nostre» riserve di greggio.
Con questo tipo di rappresentazione è avvenuta anche una buona
quantità di occultamenti. Quando il «New York Times» deve dare
spiegazione di una resistenza iraniana particolarmente tenace a un
attacco iracheno, ricorre alla formula della «predilezione sciita per
il martirio». Frasi come questa hanno superficialmente una cer­
ta plausibilità, ma io credo che in realtà servano a coprire buona
parte delle manchevolezze del reporter. Non conoscere la lingua
è solo parte di una più vasta ignoranza, dal momento che spesso
il reporter viene spedito in un paese straniero con nessuna pre­
parazione e nessuna esperienza, per il fatto che è bravo a mettere
insieme qualcosa in poco tempo o perché già si trova più o meno
XII PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE (1981)

nelle vicinanze del luogo dove si verificano le notizie da prima pa­


gina. E così invece di cercare di capirne qualcosa di più del paese,
il reporter agguanta quello che si trova più a portata di mano, di
norma un cliché o qualche frammento di buonsenso giornalistico
che è poco probabile che i lettori a casa mettano in dubbio. Con
circa trecento giornalisti a Teheran nei primi giorni della crisi degli
ostaggi e neanche uno tra loro che parlasse persiano, non c’è da
meravigliarsi che tutte le corrispondenze da Teheran ripetessero gli
stessi triti resoconti su quel che stava succedendo; e nel frattempo
passavano inosservati altri eventi politici in Iran che non potevano
essere facilmente etichettati come esempi di «mentalità islamica» o
di «antiamericanismo».
Le due attività concomitanti di “rappresentazione” e “copertu­
ra” dellTslam hanno eliminato la complessità della situazione che
vorrebbero interpretare e comunicare. L’Islam è un caso sia para­
digmatico che particolare, a causa della sua presenza in Occidente
così antica e ben definita. Con questo voglio dire che, come magna
pars del mondo postcoloniale, l’Islam non appartiene né all’Euro­
pa, né, come il Giappone, al gruppo delle nazioni industriali avan­
zate. È stato considerato facente parte del campo dei paesi in via
di sviluppo, che è un altro modo di dire che le società islamiche
sono state considerate per almeno tre decenni come bisognose di
“ modernizzazione ”.
L’ideologia della modernizzazione ha prodotto un certo modo
di vedere l’Islam il cui culmine e il cui apice sono rappresentati
rispettivamente dall’immagine dello shah dell’Iran come «moder­
no» capo di stato, e dall’immagine del collasso del regime, che fu
considerato come un precipitare nel fanatismo di una religione me­
dioevale.
D ’altronde l’«Islam» è stato sempre rappresentato come una
minaccia particolare per l’Occidente, per le ragioni che ho già di­
scusso in Orientalismo e che riprendo in esame in questo libro. Di
nessun’altra religione o insieme culturale si può dire come accade
oggi per l’Islam che rappresenti una minaccia per la civiltà occiden­
tale. Non è casuale che i sommovimenti e i tumulti che oggi avven­
gono nel mondo musulmano (e che hanno molto più a che vedere
EDWARD W. SAID XIII

con fattori sociali, economici e storici piuttosto che con l’unilate­


ralità dell’Islam) abbiano messo a nudo i limiti degli ingenui cliché
orientalisti sui «fatalistici» musulmani, senza produrre alcunché che
ne prendesse il posto, se si eccettua la nostalgia dei vecchi tempi,
quando gli eserciti occidentali governavano quasi tutto il mondo
musulmano dal Subcontinente Indiano fino al Nordafrica. Il recen­
te successo di libri, giornali e di esponenti pubblici che premono
per una rioccupazione della regione del Golfo giustificandola con la
barbarie islamica è parte di questo stesso fenomeno. Non è meno da
notare che quest’epoca abbia visto l’ascesa alla notorietà in America
di “esperti” come il neozelandese J. B. Kelly, già professore di Sto­
ria dell’impero nel Wisconsin, un tempo consigliere dello sceicco
Zayd di Abu Dhabi,5oggi fortemente critico dei musulmani e degli
occidentali moderati, che, a differenza di Kelly, si sono venduti ai
petrolieri arabi. Non c’è stata una sola delle saltuarie recensioni cri­
tiche del suo libro che avesse trovato nulla da ridire sull’atavismo
sorprendentemente chiaro del paragrafo conclusivo, che merita di
essere citato per il suo puro afflato di conquista imperiale e per la
sua assai poco celata posizione razzista:

Quanto tempo resti all’Europa Occidentale per salvaguar­


dare o consolidare la sua eredità strategica a est di Suez, è im­
possibile da prevedere. Finché durava la pax britannica, vale a
dire dal quarto o quinto decennio del diciannovesimo secolo
fino a metà del secolo attuale, la tranquillità ha regnato nel
mare orientale e attorno alle bocche dell’oceano indiano occi­
dentale. Ancora vi aleggia una calma effimera, ombra residua
del vecchio ordine imperiale. Se la storia dei quattro o cinque­
cento anni passati ci insegna qualcosa, è che tale fragile pace
non potrà durare ancora molto. La maggior parte dell’Asia sta
scivolando nel dispotismo, la maggior parte dell’Africa nella
barbarie - in breve, cioè, nello stato in cui si trovava quando
Vasco de Gama ha doppiato per primo il Capo, gettando le
fondamenta del dominio portoghese in Oriente... L’Oman è
ancora la chiave di volta del Golfo e delle sue rotte marittime,
5. Per un riferimento diretto, cfr. Robert Graham, The Middle East Muddle, in
«New York Review of Books», 23 ottobre 1980, p. 26.
XIV PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE (1981)
così come Aden resta la chiave per il passaggio del Mar Ros­
so. Le potenze occidentali hanno già buttato via una di queste
chiavi; l’altra, tuttavia, è ancora alla loro portata. Se abbiano o
no la capacità di afferrarla, come i capitani generali portoghesi
tanto tempo fa, è ancora da vedersi.6

Sebbene il suggerimento di Kelly secondo cui il colonialismo


portoghese del quindicesimo e sedicesimo secolo sia la guida più
appropriata per i politici occidentali contemporanei possa colpire
qualche lettore per le sue tinte pittoresche, è la sua semplificazione
della storia a essere assai rappresentativa delle tendenze attuali. Il
colonialismo, sostiene Kelly, ha portato la tranquillità, come se la
sottomissione di milioni di persone ammontasse a poco più di un
idillio; i loro desideri calpestati, la loro storia distorta e il loro sfor­
tunato destino non contano, fintanto «noi» si possa continuare a
godere di ciò che «ci» serve - risorse preziose, regioni strategiche
a livello politico e geografico e un ampio bacino di manodopera
indigena a buon mercato. L’indipendenza di nazioni in Africa e
in Asia dopo secoli di dominio coloniale è liquidata come un ri­
torno alla barbarie o al dispotismo. L’unica via che rimane aperta,
in risposta a ciò che descrive come il vigliacco smantellamento del
vecchio ordine imperiale, è, secondo Kelly, una nuova invasione. E
sotto un tale invito all’Occidente a riprendersi quel che è di diritto
«nostro», c’è il profondo disprezzo per la cultura islamica indigena
dell’Asia, che Kelly vuole governata da «noi».
Lasciamo pietosamente da parte la logica retrograda dello scrit­
to di Kelly, che gli ha procurato le deferenti lodi della destra intel­
lettuale americana, da William F. Buckley a «New Republic». A es­
sere interessante nel panorama che Kelly prospetta è che, di fronte
a problemi complessi, venga preferita una soluzione prefabbricata,
specie quando si raccomanda un’azione di forza contro l’«Islam».
Nessuno racconta quel che succede nello Yemen, per esempio, o in
Turchia o al di là del Mar Rosso in Sudan, Mauritania, Marocco o
anche in Egitto. Silenzio sulla stampa, tutta impegnata a discettare

6. J . B. Kelly, Arabia, The Gulf, and the West: A Critical View of the Arabs and
Their Oil Policy, London, Weidenfeld & Nicolson, 1980, p. 504.
EDWARD W. SAID XV

sulla crisi degli ostaggi nell’ambasciata americana a Teheran; silen­


zio dal mondo accademico, occupato a far da consigliere all’indu­
stria petrolifera e al governo su come prevedere le tendenze nel
Golfo; silenzio nel governo, che reperisce informazioni soltanto
dove i «nostri» amici (come lo shah o Anwar Sadat) ci dicono di
cercarle. L’«Islam» non è altro che l’usurpatore delle riserve occi­
dentali di petrolio; poco altro conta, poco altro merita attenzione.
Data la situazione attuale degli studi accademici sullTslam, non
c’è granché da trovare che meriti una rettifica. L’intero campo è
piuttosto marginale per la cultura in generale, mentre rappresenta
una risorsa per le attività del governo e delle multinazionali. Tut­
to ciò ha impedito di occuparsi di Islam in modo da poterci dire
qualcosa in più sul già noto e di andare al di là della superficie delle
società islamiche. E ci sono anche numerosi problemi di ordine
intellettuale e metodologico che hanno bisogno di puntualizzazio­
ne. Esiste un “oggetto” come il comportamento islamico? Cosa
collega l’Islam a livello di vita quotidiana con l’Islam a livello di
dottrina nelle diverse società islamiche? Quanto è realmente utile
il concetto di «Islam» per capire il Marocco e l’Arabia Saudita e
la Siria e l’Indonesia? Se si arriva a realizzare, come molti studiosi
hanno fatto notare di recente, che la dottrina islamica può servire a
giustificare il capitalismo quanto il socialismo, la militanza quanto
il fatalismo e l’ecumenismo quanto il localismo, cominciamo a per­
cepire il terribile divario tra le descrizioni accademiche dell’Islam
(che finiscono inevitabilmente come caricature sui media) e le real­
tà diversificate che si trovano all’interno del mondo islamico.
E tuttavia c’è accordo nel considerare l’Islam come una sorta di
capro espiatorio per tutto quello che capita di spiacevole nel nuovo
ordine politico, sociale ed economico. Per la destra, l’Islam rappre­
senta la barbarie; per il centro una sorta di sgradevole esotismo. In
entrambi i campi, tuttavia, si concorda che, anche se si sa abba­
stanza poco sul mondo islamico, non ci sia granché di accettabile
in esso. Quel che c’è di valore nellTslam è principalmente l’antico­
munismo, con l’ulteriore ironia che l’anticomunismo nel mondo
islamico è stato sinonimo di regimi repressivi pro-americani. Zia al
Haq, in Pakistan, è un perfetto caso da manuale.
XVI PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE (1981)

Lungi dall’essere una difesa dell’Islam - progetto improbabile


quanto futile per i miei scopi - questo libro descrive l’uso che si fa
dell’«Islam» in Occidente, e, sebbene dedichi meno tempo a farlo,
in molte società islamiche. Quindi criticare gli abusi sull’Islam in
Occidente non vuol dire assolutamente che si dimentichi quanto
accade nelle società islamiche. Il fatto è che in molte - fin troppe
- società islamiche la repressione, l’abolizione delle libertà indi­
viduali e regimi non rappresentativi e spesso minoritari vengono
falsamente legittimati o caviliosamente giustificati con riferimento
all’Islam, che dal punto di vista della dottrina è altrettanto poco da
biasimare di qualsiasi altra delle grandi religioni universali. Capita
raramente che gli abusi dell’Islam corrispondano (o abbiano a ve­
dere con) al potere o all’autorità eccessivi dello stato centrale.
Ritengo nondimeno che, anche se non si biasima tutto quel che
c’è di morboso in Occidente rispetto all’Islam, abbiamo il dovere
di esaminare il rapporto tra il discorso occidentale sull’Islam e ciò
che, per reazione, le diverse società musulmane elaborano a pro­
posito dell’Occidente.
La dialettica tra i due - dato che per molte parti del mondo isla­
mico l’Occidente, sia come ex potenza coloniale che come part­
ner commerciale attuale, è un interlocutore assai importante - ha
prodotto quello che Thomas Franck e Edward Weisband hanno
chiamato «politica globale»,7 che è il vero oggetto di questo libro.
Il va e vieni tra Occidente e Islam, le sfide e le risposte, l’apertura
di alcuni spazi retorici e la chiusura di altri: tutto ciò costitui­
sce la «politica mondiale» attraverso la quale ciascuna delle due
parti valuta le situazioni, giustifica comportamenti, prevede scel­
te o cerca di spingere l’altro verso un’alternativa. Così, quando
gli iraniani si impadronirono dell’ambasciata degli Stati Uniti a
Teheran, la loro non era soltanto una risposta all’accoglienza ne­
gli Stati Uniti del deposto shah, ma anche a ciò che percepivano
come una lunga storia di umiliazioni inflitte loro dalla superiore
potenza americana: gli interventi americani del passato «parlava­
no» di un’interferenza costante nelle loro vite, e in qualità di mu-
7, Thomas N. Franck e Edward Wiesband, World Politics: Verbal Strategy Among
the Superpowers, New York, Oxford University Press, 1971.
EDWARD W. SAID XVII

sulmani che, sentendo di esser stati prigionieri nella propria terra,


per reazione avevano preso in ostaggio gli americani e li tenevano
prigionieri in territorio statunitense. Sebbene fossero le azioni in
sé a essere importanti, sono state le parole e le situazioni di potere
cui alludevano che hanno spianato la strada e che hanno reso pos­
sibili le azioni. Si tratta, ritengo, di un esempio di grande impor­
tanza, perché sottolinea la stretta relazione che lega linguaggio a
realtà politica, almeno per quanto concerne il dibattito sull’Islam.
La cosa più difficile da accettare per la maggior parte degli esperti
accademici di Islam è ammettere che quel che dicono e fanno in
qualità di studiosi è radicato in un contesto profondamente e, per
certi aspetti, offensivamente politico. Tutto ciò che riguarda lo
studio dellTslam nell’Occidente contemporaneo è saturo di im­
portanza politica, ma difficilmente chi scrive di Islam, da esperto
o meno, lo ammetterà. Si ritiene che l’obiettività sia inerente a
qualsiasi discorso colto su altre società, nonostante la lunga storia
di preoccupazioni politiche, morali e religiose presenti in tutte le
società, sia occidentali che islamiche, verso lo straniero, l’estra­
neo e il diverso. In Europa, per esempio, l’Orientalista è per tra­
dizione legato direttamente agli uffici coloniali. Ciò che abbiamo
appena cominciato a capire - ovvero fino a che punto arrivasse
la stretta cooperazione tra studi accademici e conquista militare
coloniale diretta (come nel caso dell’osannato orientalista olan­
dese C. Snouck Hurgronje, che ha sfruttato la fiducia che si era
conquistata tra i musulmani per pianificare e mettere in atto la
brutale guerra olandese contro la popolazione di Sumatra) - 8 è
al contempo istruttivo e deprimente. Eppure continuano a venir
fuori articoli e libri che proclamano la natura non politica degli
studi occidentali, i frutti degli insegnamenti orientalisti e il valore
«obiettivo» delle valutazioni degli esperti. Nel medesimo tempo
non si trova quasi nessun esperto dell’«Islam » che non sia stato
consulente o addirittura dipendente del governo, di qualche mul-
8. Cfr. Paul Marijnis, De Dubbelrol vane en Islam-Kennen, in « nrc Handelsblad»,
i2 dicembre 1979. L’articolo di Marijnis sintetizza una ricerca su Snouck Hurgronje
effettuata dal professor Van Koningveld della Facoltà Teologica della University of
Leiden, Sono grato a Jonathan Beard per avermi segnalato l’articolo, e al professor
Jacob Smith per l’ausilio nella traduzione.
XVIII PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE (1981)

tinazionale o dei media. Il mio parere è che tali forme di collabo-


razione debbano essere prese in considerazione, e non soltanto
per ragioni morali, ma anche intellettuali. Diciamo che ogni di­
scorso suH’Islam è, se non del tutto viziato, perlomeno colorato
dalla situazione politica, economica e intellettuale in cui nasce: e
questo è vero a est come a ovest. Per molte evidenti ragioni, non è
troppo esagerato dire che ogni discorso sull’Islam ha un coinvol­
gimento in una qualche autorità o in qualche potere. Non inten­
do d ’altra parte dire che tutti gli studi o gli scritti sull’Islam siano
di conseguenza inutili. Al contrario, credo che siano più spesso
utili che no, e assai rivelatori degli interessi di cui sono al servizio.
Non posso dare per certo che su argomenti riguardanti la società
umana esista qualcosa come una verità assoluta o una conoscen­
za perfettamente vera; forse cose del genere esistono soltanto in
astratto - affermazione che non trovo difficile da accettare - ma,
nella realtà di oggi, la verità su argomenti come l’Islam è legata a
doppio filo a chi se ne fa artefice e comunicatore. Faccio notare
che una posizione del genere non prescinde da un giudizio di
valore (buono, cattivo, indifferente) né dalla possibilità di parlare
con precisione delle cose. Chiedo soltanto che chiunque parli di
Islam tenga a mente quel che qualunque studente di letteratura
del primo anno sa: che leggere o scrivere testi sull’umana realtà
mette in gioco assai più fattori di quanti ne siano contenuti (o
giustificati) da etichette come “obiettivo”.
E per questo che mi prendo la briga di identificare la situazione
dalla quale scaturiscono determinate affermazioni, e perché sia così
importante definire i gruppi sociali che hanno interessi nell’Islam.
Perché per l’Occidente, in generale, e per gli Stati Uniti, in partico­
lare, la confluenza di interessi che si scarica sull’Islam è assai notevo­
le, così come per i gruppi che li compongono (l’accademia, le grandi
corporazioni, i media, il governo) e per la relativa mancanza di dis­
senso dall’ortodossia che questa situazione particolare ha creato. Il
risultato è stata un grossolana semplificazione dell’«Islam», così da
poter perseguire numerosi obiettivi manipolativi, dall’evocazione di
una nuova Guerra fredda alla mobilitazione per una possibile inva­
sione, dall’istigazione all’odio razziale alla continua denigrazione dei
EDWARD W. SAID XIX

musulmani e degli arabi.9 Ben poco di ciò, ritengo, è nell’interesse


della verità; e in ogni caso viene sempre negata la verità di tali intenti
manipolativi. Invece, si fanno affermazioni e si perseguono scopi mi­
stificatori con un bel contorno di accademia e di competenza specia­
listica. Una conseguenza divertente è che quando i paesi musulmani
fanno donazioni alle Università per cattedre di studi arabi o musul­
mani, scoppia una gran bagarre liberale sulle interferenze straniere
nell’università americana, ma non si sentono analoghe lamentele se
lo fanno il Giappone o la Germania. E per quanto concerne le pres­
sioni delle grandi corporazioni sull’università, anche questo viene
giudicato nella sana natura delle cose.10Non vorrei sembrare troppo
vicino alla definizione del cinico data da Oscar Wilde - colui che
sa il prezzo di ogni cosa ma il valore di nessuna - tuttavia devo a
questo punto dire che riconosco la necessità di opinioni informate
e competenti; è verosimile che gli Stati Uniti, in quanto grande po­
tenza, abbiano atteggiamenti e politiche verso il resto del mondo
che potenze minori non hanno; e che ci sono buone speranze in
un miglioramento della sconfortante situazione attuale. Allo stesso
modo, non credo affatto così fortemente nella categoria di «Islam»
utilizzata e condivisa da tanti esperti, da politici e intellettuali in ge­
nere; penso al contrario che sia stata più di impedimento che d’aiu­
to. Al contrario, credo realmente nell’esistenza di un senso critico e
in cittadini capaci e desiderosi di usarlo per andare oltre gli interessi
particolari degli esperti e delle loro idées reçues. Usando le capacità
di buon lettore critico per sceverare il senso dal nonsenso, ponendo
domande giuste e pretendendo risposte pertinenti, ognuno può ot­
tenere conoscenza sia deU’«Islam» che del mondo islamico, nonché
degli uomini e delle donne che vi appartengono, ne parlano le lin-
9. Per un resoconto dettagliato dell’intero contesto, vedi Noam Chomsky e
Edward S. Herman, La Washington connection e ilfascismo nel Terzo mondo e Dopo il
cataclisma. L’Indocina del dopoguerra e la ricostruzione dell’ideologia imperiale, primo
e secondo volume de Leconomia politica dei diritti umani [1979], Milano, Baldini &
Castoldi, 2005 e 2006. Per un’analisi di valore sulla pittura del diciannovesimo secolo,
cfr. Ronald T. Takaki, Iron Cages. Race and Culture in i<jb Century America, New
York, Alfred A. Knopf, 1979.
10. P e r un b u on resocon to di com e le gran di im prese influenzano l ’università, vedi
D av id F. N o b le e N an cy E . P fu n d , Business Goes Back to College, in «T h e N atio n »,
20 settem bre 1980, p p. 246-252.
XX PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE (1981)

gue, respirano l’aria, creano le loro storie e le loro società. A questo


punto inizia la conoscenza umanistica, e si comincia ad assumere la
responsabilità di tale conoscenza. Ho scritto questo libro per tale
scopo.
Parti del primo e del secondo capitolo sono già apparse in «The
Nation» e in «Columbia Journalism Review». Sono particolarmen­
te riconoscente verso Robert Manoff, che durante il suo troppo
breve incarico di editor alla «Columbia Journalism Review» ne
aveva fatto una pubblicazione eccitante.
Nel corso delle ricerche di materiale per varie parti del libro ho
avuto la competente assistenza di Douglas Baldwin e Philip She-
hadé. Paul Lipari ha dato al manoscritto la sua forma finale con
l’abituale efficienza e competenza letteraria. Sono grato ad Albert
Said per la sua generosa assistenza.
Ho un debito particolare con il mio caro collega Eqbal Ahmad,
la cui conoscenza enciclopedica e le cui attenzioni costanti hanno
sostenuto molti di noi in momenti di confusione e difficoltà. James
Peck ha letto il manoscritto in una delle sue prime versioni e mi ha
dato suggerimenti brillanti e dettagliati per la revisione, sebbene
non abbia naturalmente alcuna responsabilità per gli errori rima­
nenti. Ho però piacere a riconoscere il suo indispensabile aiuto.
Jeanne Morton della Pantheon Books ha editato il manoscritto con
tatto e attenzione, e anche a lei sono assai grato. Devo un ringrazia­
mento anche ad André Schiffrin.
Mariam Said, alla quale è dedicato questo libro, mi ha virtual­
mente tenuto in vita durante la scrittura. Per il suo amore, la sua
compagnia e la sua presenza vivificante, il mio grazie più sentito.

E. W. S.
ottobre 1980
New York
EDWARD W. SAID XXI

Poscritto

Il 20 gennaio 1981 i cinquantadue americani tenuti prigionieri per


444 giorni nell’Ambasciata degli Stati Uniti hanno finalmente lascia­
to l’Iran. Pochi giorni dopo sono arrivati negli Stati Uniti accolti da
una felicità genuina del Paese nel vederli tornare. Il «ritorno degli
ostaggi», come finì per essere chiamato, divenne l’evento mediatico
di tutta una settimana. Ci furono molte ore di intrusive e lacrimo­
se trasmissioni televisive dal vivo mentre i «tornati» venivano tra­
sportati prima in Algeria, quindi in Germania, poi a West Point e
a Washington, e infine nelle varie città d’origine. La maggior parte
dei quotidiani e delle riviste nazionali pubblicarono supplementi
su questo ritorno, che spaziavano da analisi informate di come si
fosse arrivati all’accordo finale tra Iran e Stati Uniti e di quel che
quest’accordo comportava, alla celebrazione dell’eroismo america­
no e della barbarie iraniana. Qua e là venivano sparsi racconti per­
sonali sull’epopea degli ostaggi, spesso infiocchettati da giornalisti
intraprendenti e conditi di un’allarmante disponibilità di così tanti
psichiatri ansiosi di spiegare ciò che gli ostaggi realmente stavano
passando. Mentre si tenevano discussioni (molto) serie sul passato e
sul futuro che andarono ben oltre il livello dei nastri gialli, divenuti il
simbolo della prigionia iraniana, la nuova amministrazione decideva
come intervenire. Le analisi sul passato si focalizzarono sull’opportu­
nità che gli Stati Uniti addivenissero (con onore o meno) all’accordo
con l’Iran. Il 31 gennaio 1981 «New Republic» prevedibilmente attac­
cò il «riscatto» e l’amministrazione Carter per il patteggiamento con
i terroristi; quindi condannò l’«affermazione legalmente opinabile»
di venire a patti con le richieste iraniane, così come l’uso da inter­
mediario dell’Algeria, un paese «ben avvezzo a ospitare terroristi e a
riciclare i riscatti». La discussione sul futuro era ristretta all’interno
della guerra al terrorismo dichiarata dall’amministrazione Reagan.
Questa, e non i diritti umani, era la nuova priorità della politica degli
Stati Uniti, finanche al punto di «sostenere regimi moderatamente
repressivi» se si trovano a essere alleati.
Conseguentemente, Peter C. Stuart, sul numero del 29 genna­
io del «Christian Science Monitor», sostenne che le audizioni del
XXII PREFAZIONE ALLA PRIMA ED IZIO N E (1981)

Congresso probabilmente vertessero sui «termini dell’accordo per


il rilascio degli ostaggi [...], il trattamento degli ostaggi [...], la
sicurezza dell’ambasciata [...] [e, quasi in aggiunta,] le future rela­
zioni Iran-Stati Uniti». In pieno accordo con lo spettro di problemi
esplorato dai media durante la crisi, non c’è stata una sola analisi
accurata del significato del trauma iraniano, del futuro e del suo
significato storico. Il «Sunday Times» di Londra riporta il 26 gen­
naio che, prima di lasciare la carica, il presidente Carter si dice ab­
bia consigliato al Dipartimento di Stato di «di sollevare un’ondata
pubblica di risentimento contro gli iraniani». Che il fatto sia vero
o meno, sembra fosse almeno plausibile, visto che nessun uomo
pubblico e pochi opinionisti o giornalisti si mostrarono interessati
a riesaminare la lunga storia di interventismo degli Stati Uniti in
Iran e nel mondo islamico. C’è stato un gran parlare sulla disloca­
zione di truppe in Medio Oriente; ma, di contro, quando si tenne
il summit islamico a Taif nell’ultima settimana di gennaio, i media
statunitensi hanno fatto di tutto per ignorarlo.
Idee di ritorsioni punitive e magniloquenti affermazioni sull’uso
della forza militare americana furono accompagnate da un’elabo­
razione sinfonica dell’odissea degli ostaggi e del loro ritorno trion­
fale. Le vittime vennero d’un tratto trasformate in eroi (con com­
prensibile scorno di vari gruppi di veterani ed ex prigionieri di
guerra) e in simboli di libertà, mentre i loro carcerieri in bestie
subumane. A questo riguardo, il «New York Times» scrisse, in un
editoriale del 22 gennaio, «che rabbia e disgusto nascano in queste
prime ore dal rilascio», e quindi, dopo averci riflettuto per un po’,
se ne uscì il 28 gennaio con le seguenti domande: «Che avrem­
mo dovuto fare? Minare i porti o far sbarcare marines? Oppure
sganciare qualche bomba che avrebbe potuto spaventare nemici, si
suppone, razionali? Ma l’Iran era - è - razionale?» Certo che, come
scrisse Fred Halliday sul «Los Angeles Times» del 25 gennaio, c’era
parecchio da criticare in Iran, dal momento che la religione e i con­
tinui rivolgimenti si erano rivelati incapaci di costruire uno stato
moderno in grado di provvedere a quelle decisioni quotidiane utili
alla maggioranza della popolazione. Come posizione internaziona­
le, l’Iran era isolato e vulnerabile. Ed era di certo più che evidente
EDWARD W. SAID XXIII

che gli studenti dentro l’Ambasciata non fossero stati affatto teneri
con i prigionieri. Eppure, neanche i cinquantadue ostaggi erano
mai arrivati a dire di essere stati torturati o sistematicamente sotto­
posti a brutalità: ciò emerge dalla trascrizione della loro conferenza
stampa a West Point (vedi il «New York Times» del 28 gennaio),
dove Elisabeth Swift dice in maniera esplicita che «Newsweek»
aveva travisato le sue parole, inventandosi storie di torture (molto
amplificate dai media) che non avevano avuto niente a che vedere
con la realtà.
Dopo il ritorno degli ostaggi si determinò nei media e nella cul­
tura generale il salto da un’esperienza specifica - sgradevole, an­
gosciosa e miserevolmente lunga - alle massicce generalizzazioni
su Iran e Islam. In altre parole, ancora una volta le dinamiche po­
litiche di un’esperienza storica complessa vennero completamente
cancellate da un’incredibile amnesia. E si tornò al punto di prima.
Gli iraniani furono ridotti a «fondamentalisti pazzi» da Bob Ingle
nell’«Atlanta Constitution» del 23 gennaio; Claire Sterling nel «Wa­
shington Post» del 23 gennaio argomentava che la vicenda dell’Iran
era una manifestazione «della Prima Decade del Terrore», la guer­
ra dei terroristi contro la civiltà. Per Bill Green, sulla stessa pagina
del «Post», «l’oscenità iraniana» faceva nascere la possibilità che
«la libertà della stampa» nel pubblicare notizie riguardo all’Iran
potesse «trasformarsi in un’arma puntata dritto al cuore del na­
zionalismo e dell’autostima americani» Una tale combinazione di
fiducia e di insicurezza viene in un certo senso sminuita dallo stesso
Green quando poco più avanti si domanda se la stampa «ci» abbia
aiutato a capire la «rivoluzione iraniana», domanda che trova facile
risposta da parte di Martin Kondracke sul «Wall Street Journal»
del 29 gennaio, quando scrisse che «la televisione americana (con
rare eccezioni) ha trattato la crisi iraniana o come un’esibizione
di mostri, inscenando autoflagellazioni e pugni levati, o come una
soap opera».
Tuttavia, ci sono stati alcuni giornalisti che hanno riflettuto se­
riamente. H. D. S. Greenway riconobbe sul «Boston Globe» del
21 gennaio che «l’ossessione americana per la crisi degli ostag­
gi ha causato danni agli interessi americani distogliendo da altre
XXIV PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE (1981)

e più pressanti (situazioni di) crisi», con la capacità di arrivare a


una conclusione chiara: «Le realtà di un mondo pluralizzato non
cambieranno, e la nuova amministrazione dovrà fare i conti con i
limiti concreti del potere nel tardo ventesimo secolo.» Scrivendo
lo stesso giorno sul «G lobe» Steven Erlanger lodò Carter per aver
disinnescato la crisi ed essere quindi riuscito a orientare il dibattito
verso «meno passione e più ragione». Sull’altro versante, «New Re­
public» (31 gennaio) censurava il «sempre accomodante “Globe”»,
come a dire che l’Iran è gestito meglio se lo si tratta come un’aberra­
zione nel processo di ricostruzione della potenza americana e nella
lotta al comuniSmo. In realtà questa linea sostanzialmente militante
venne elevata al rango di ideologia americana semi-ufficiale. In The
purposes o f American Power («Foreign Affairs», inverno 1980-81)
Robert W. Tucker chiede che si giunga a un nuovo corso tra i so­
stenitori della «risorta America» e «l’isolazionismo». Però propone
per il Golfo Persico e per il Centroamerica una politica di esplicito
interventismo dal momento che, dice, gli Stati Uniti non possono
«permettere» né modifiche dell’equilibrio interno né estensione
dell’influenza sovietica. E in qualunque caso, sta agli Stati Uniti
decidere quali cambiamenti siano accettabili e quali inaccettabili.
Così un collega di tali idee, Richard Pipes di Harvard, propone
che la nuova amministrazione riclassifichi il mondo in due semplici
categorie: nazioni procomuniste e nazioni anticomuniste.
Se il ritorno alla Guerra fredda sembra da un lato aver portato
a una nuova assertività, dall’altro ha anche incoraggiato la rinascita
di auto-illusioni. I nemici comprendono chiunque chieda all’Occi­
dente di prendere in considerazione il proprio passato, non tanto
come colpa quanto come presa di coscienza: questi popoli vanno
semplicemente ignorati. Un esempio simbolico assai significativo si
è verificato durante la conferenza di West Point. Una persona tra il
pubblico affermò che era «il massimo dell’ipocrisia parlare di tortura
da parte del governo americano» quando gli Stati Uniti avevano in­
coraggiato le mutilazioni degli iraniani durante l’epoca Pahlevi. Bru­
ce Laingen, chargé d’affaires presso l’Ambasciata di Teheran e diplo­
matico di lungo corso in Iran, disse per due volte di non aver udito la
domanda, e si spostò rapidamente sul ben più congeniale argomento
EDWARD W. SAID XXV

della brutalità iraniana e dell’innocenza americana. Nessun esperto,


nessuna personalità mediatica o figura governativa sembrò chiedersi
che sarebbe accaduto se una piccola parte di tempo spesa per isolare,
drammatizzare e occultare il sequestro illegale dell’ambasciata fosse
stato utilizzata per descrivere la brutalità e l’oppressione del regime
dell’ex shah. Non c’era ragione di usare il nutrito apparato di raccol­
ta-dati per informare il pubblico, a buon diritto angosciato, di quello
che realmente succedeva in Iran? Le alternative dovevano limitarsi
a evocare sentimenti patriottici o a fomentare una sorta di rabbia di
massa verso il pazzo Iran? Non sono domande oziose, adesso che
il deplorevole episodio si è concluso. Sarà sia benefico che utile, in
particolare per gli americani, ma in generale per l’Occidente, sceve­
rare le mutate configurazioni della politica mondiale. L’«Islam» va
confinato al ruolo di fornitore terroristico di greggio? I giornali e le
indagini debbono focalizzarsi su «chi abbia perso l’Iran», o sarebbe
meglio utilizzare riflessioni e dibattiti per argomenti più adatti a uno
sviluppo pacifico e comune del mondo?
Indicazioni di come i media, per esempio, potrebbero fare un
uso responsabile della loro enorme capacità di informare il pubbli­
co si trovano nello speciale di tre ore della ABC, I negoziati segreti,
andato in onda il 22 e 28 gennaio 1981. Nell’esposizione dei vari
sistemi messi in atto per la liberazione degli ostaggi, la trasmissione
riversa un’impressionante mole di materiali non conosciuti, davve­
ro rivelatori nel mettere in luce atteggiamenti nascosti e profondi.
Uno di questi momenti ha luogo quando Christian Bourguet de­
scrive il suo incontro con Jimmy Carter alla Casa Bianca a fine mar­
zo 1980. Bourguet, un avvocato francese legato agli iraniani, agiva
da intermediario tra gli Stati Uniti e l’Iran; era venuto a Washing­
ton perché, nonostante un accordo con i panamensi per l’arresto
dell’ex-shah, quest’ultimo era improvvisamente partito per l’Egitto.
E ci si trovava quindi di nuovo alla casella di partenza.

bourguet: A un certo punto [Carter] parlò degli ostaggi,


dicendo: lei capisce che si tratta di americani. Che sono inno­
centi. Sì, gli risposi, signor presidente, capisco che lei dica che
sono degli innocenti. Ma credo che lei debba capire che per gli
XXVI PREFAZIONE A LLA PRIMA ED IZIO N E ( i 98i )

iraniani non sono innocenti. Anche se nessuno di loro ha per­


sonalmente commesso alcunché, non sono innocenti perché
rappresentano una nazione che ne ha fatte di cose in Iran...
Lei deve capire che l’azione non è diretta alle loro persone.
Lei può ovviamente vederlo. Non sono stati minacciati. Non
sono stati feriti. Non c’è stato alcun tentativo di ucciderli. Lei
deve capire che si tratta di simboli, e che è sul piano simbolico
che va affrontata la cosa. (Trascrizione gentilmente fornita da
Veronica Pollard, abc, New York)

Nei fatti, Carter sembrava aver visto il sequestro dell’ambascia­


ta in termini simbolici, ma, a differenza del francese, utilizzava un
proprio quadro di riferimento. A suo modo di vedere, gli americani
erano innocenti per definizione: le lamentele dell’Iran nei confron­
ti degli Stati Uniti, disse in un’altra occasione, erano storia antica.
Quel che contava al momento era che gli iraniani fossero terroristi,
e che forse erano sempre stati un popolo potenzialmente terrorista.
In realtà, chiunque non piacesse all’America e tenesse prigionieri
degli americani era, per forza di cose, malato e pericoloso, al di là
della ragione, al di là dell’umanità e della comune decenza. L’in­
capacità di Carter di mettere in relazione quel che alcuni stranieri
provavano rispetto all’appoggio di lunga durata da parte degli Stati
Uniti a dittatori locali con quanto succedeva agli americani illegal­
mente detenuti a Teheran, è estremamente sintomatico. Anche se
si è pienamente contrari alla presa di ostaggi, e anche se si provano
sentimenti esclusivamente positivi sul ritorno degli ostaggi, vi sono
preoccupanti insegnamenti da trarre dalla tendenza ufficiale na­
zionale a trascurare certe realtà. Tutti i rapporti tra popoli e nazio­
ni comportano due polarità. Assolutamente nulla deve obbligare
«noi» a farci piacere o approvare «loro», ma dobbiamo perlomeno
riconoscere che (a) «loro» ci sono e (b) almeno per quanto riguar­
da «loro», «noi» siamo quello che siamo, con l’aggiunta di quello
che hanno sperimentato e conosciuto di noi. Non è questione di
innocenza o colpevolezza, né di tradimento o patriottismo. Né l’es­
sere schierati da una delle parti interviene sulla realtà così comple­
tamente da far scomparire gli altri. A meno che, ovviamente, non si
EDWARD W. SAID XXVII

creda in quanto americani che, dal momento che la parte avversa è


ontologicamente colpevole, noi siamo innocenti.
Prendiamo ora in esame, come altra prova utilmente avanzata
dai media, il dispaccio confidenziale spedito da Teheran da parte
di Bruce Laingen al Segretario di Stato Vance il 13 agosto 1979,
documento del tutto in linea con l’atteggiamento di Carter duran­
te la conversazione con Bourguet. Fu pubblicato dal «New York
Times» nel suo editoriale d’apertura il 27 gennaio 1980, forse per
attrarre l’attenzione del paese su come fossero realmente gli ira­
niani, non foss’altro che come nota ironica a margine della crisi
appena conclusa. Tuttavia, il dispaccio di Laingen non è un’espo­
sizione scientifica della «psiche persiana» di cui parla, nonostante
la pretesa dell’autore di serena obiettività e profonda conoscenza
della cultura. Il testo è piuttosto una serie di affermazioni ideolo­
giche mirate a trasformare la «Persia» in un’essenza senza tempo
profondamente fastidiosa, evidenziando così la superiorità morale
e la salute nazionale della metà americana dei negoziati. E così che
ogni affermazione sulla «Persia» aggiunge prove di pericolosità al
suo profilo, mentre protegge l’America da indagini e analisi.
Questo auto-accecamento viene compiuto dal punto di vista re­
torico in due modi che vale la pena di esaminare da vicino. Primo,
si fa unilateralmente piazza pulita della storia: «gli effetti della rivo­
luzione iraniana» sono accantonati nell’interesse delle «caratteristi­
che culturali e psicologiche [...] relativamente costanti». Quindi,
il moderno Iran si trasforma nella Persia senza età. La variante non
scientifica di questa operazione cambia gli italiani in maccaroni, gli
ebrei in giudei, i neri in negri e via dicendo. (Quanto genuine e
oneste sono le bade di ragazzacci a confronto dell’educato diplo­
matico!). Secondo, il carattere nazionale «persiano» viene dipinto
solo in riferimento aH’immaginario (leggi: paranoide) senso di re­
altà degli iraniani. Laingen non dà credito né all’esperienza reale
di oppressione e sofferenza degli iraniani, né dà loro il diritto di
essere arrivati a una visione degli Stati Uniti basata, per come loro
l’hanno visto, su ciò che gli Stati Uniti hanno fatto in Iran. Non per
dire che gli Stati Uniti non abbiano fatto alcunché in Iran; significa
soltanto che gli Stati Uniti possono fare quello che vogliono, senza
XXVIII PREFAZIONE ALLA PRIMA ED IZIO N E (1981)

lamentele di nessun peso o reazioni da parte degli iraniani. L’unica


cosa che conta in Iran è per Laingen la «psiche persiana», che so­
vrasta qualsiasi altra realtà.
La maggior parte dei lettori del dispaccio di Laingen mi con­
cederanno, come senz’altro anche lui stesso, che non si dovreb­
bero ridurre altri popoli o altre società a un nucleo così semplice
e stereotipato. Oggi non permettiamo che si trattino pubblica­
mente in analogo modo ebrei o neri, così come dovremmo (e lo
facciamo) farci una risata del ritratto dell’America come Grande
Satana. Troppo semplice, troppo ideologico, troppo razzista. Ma
per questo particolare nemico il riduzionismo serve, come quando
Martin Peretz di «New Republic» riprodusse (7 febbraio 1981) la
prosa palesemente razzista di un inglese del diciassettesimo secolo
sul «turco», definendolo un «classico» per gli studenti di cultura
mediorientale, chiosando che «ci diceva come i musulmani si com­
portano». Viene da chiedersi come reagirebbe Peretz se una pagina
di prosa del diciassettesimo secolo sull’«Ebreo» venisse riprodotta
oggi come guida per la comprensione del comportamento «ebrai­
co». La questione è a cosa servano esattamente documenti come
quelli di Laingen o di Peretz se, come dimostrerò, non insegnano
alcunché sullTslam o sull’Iran, e, data la tensione tra Iran e Stati
Uniti dopo la rivoluzione, non sono stati di alcun aiuto a indirizza­
re le azioni occidentali laggiù.
Il ragionamento di Laingen è che non importa quel che accada,
esiste una «proclività persiana» a resistere «al concetto stesso di un
processo razionale di negoziazione (dal punto di vista occidenta­
le)». Noi possiamo essere razionali: i persiani, no. Perché? Perché
sono assolutamente egocentrici; per loro la realtà è minacciosa; la
«mentalità da bazar» spinge al vantaggio immediato piuttosto che
a un guadagno differito; il Dio onnipotente dellTslam rende im­
possibile per loro capire i nessi causali; realtà e parole non sono
per loro collegate. In conclusione, secondo le cinque lezioni che
trae dalla sua analisi, il «persiano» di Laingen è un negoziatore
inaffidabile, non avendo né il senso dell’«altra parte», né capacità
di fiducia né buona volontà, né abbastanza carattere per portare
avanti quello che promette a parole.
EDWARD W. SAID XXIX

L’eleganza di questa modesta proposta è che letteralmente tutto


quello che viene imputato al persiano o al musulmano, senza as­
solutamente alcuna prova, può applicarsi aH’«americano», l’autore
quasi fittizio e sottaciuto dietro il dispaccio. Chi, se non «l’ameri­
cano», nega la realtà e la storia decidendo unilateralmente che non
significano niente per il «persiano»? Adesso facciamo il seguente
gioco di società: trovare un famoso giudeo-cristiano culturalmente
e socialmente equivalente ai caratteri che Laingen ascrive al «per­
siano». Egoismo strabocchevole? Rousseau. Malevolenza per la
realtà? Kafka. Onnipotenza di Dio? Vecchio e nuovo Testamento.
Mancanza di nessi causali? Beckett. Mentalità da bazar? La borsa di
New York. Confusione tra parole e realtà? Austin e Searle. Ma ben
pochi metterebbero in piedi un ritratto dell’essenza dell’Occidente
servendosi esclusivamente dei lavori di Christopher Lasch sul narci­
sismo, delle parole di un predicatore fondamentalista, del Cratilo di
Platone, di uno o due ritornelli pubblicitari, o (come caso di incapa­
cità dell’Occidente di credere in una realtà stabile e benevola) delle
Metamorfosi di Ovidio integrate da versi scelti del Levitico.
Il dispaccio di Laingen è l’equivalente funzionale di un simile
quadro. In un contesto diverso apparirebbe nel migliore dei casi
come una caricatura, nel peggiore come un attacco brutale ma non
particolarmente dannoso. Non è neanche efficace come esercizio di
guerra psicologica, visto che mette a nudo più la debolezza di chi
scrive che quella dei suoi nemici. Mostra per esempio che l’autore
è estremamente nervoso verso l’oggetto della sua analisi, e che non
riesce a vedere altro che l’immagine speculare di sé stesso. Dov’è
la capacità di comprendere il punto di vista iraniano o la rivolu­
zione iraniana stessa, che si potrebbe supporre sia stata la diretta
conseguenza di un’intollerabile tirannia persiana e della necessità
di rovesciarla?
E per buona volontà e per fiducia nella razionalità del processo
negoziale, anche se non furono menzionati i fatti del 1953, ci sareb­
be parecchio da dire sul tentativo di golpe militare contro la rivo­
luzione, incoraggiato direttamente dal Generale Huyser alla fine
di gennaio del 1979. Allora, in aggiunta, ci fu il comportamento di
varie banche degli Stati Uniti (di solito disponibili a soprassedere
XXX PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE (1981)

alle regole per venire incontro allo shah) che nel 1979 si prepara­
vano a ritirare i prestiti concessi nel 1977 con la scusa che l’Iran
non aveva pagato gli interessi in tempo debito; Eric Rouleau di
«Le Monde» riferì il 25-26 novembre 1979 che aveva avuto modo di
vedere le prove che l’Iran aveva pagato gli interessi in anticipo sulla
scadenza. Per forza che “il persiano” ha creduto di trovarsi davanti
a un avversario. E lui è un avversario, a quei tempi molto instabile:
Laingen lo dice tranquillamente.
Permettetemi di concludere che il problema non è l’equità, ma
la precisione. L’uomo degli Stati Uniti sul posto manda consigli a
Washington. Su cosa si basa? Su un pugno di cliché orientalisti che
avrebbero potuto essere presi parola per parola dalla descrizione
della mente orientale fatta da Sir Alfred Lyall, o dal resoconto di
Lord Cromer quando aveva a che fare con gli indigeni in Egitto.
Se, a sentire Laingen, Ibrahim Yadzi, al tempo ministro degli esteri
iraniano, faceva resistenza all’idea che «il comportamento iraniano
ha delle conseguenze sulla percezione dell’Iran negli Stati Uniti»,
quale decision-maker americano era pronto ad accettare in antici­
po che il comportamento americano avesse conseguenze sulla per­
cezione degli Stati Uniti in Iran? Perché allora si è permesso allo
shah di entrare nel paese? O anche noi, come i persiani, abbiamo
«ripugnanza ad accettare la responsabilità delle nostre azioni»? Il
dispaccio di Laingen è il prodotto di una potenza disinformata e
poco intelligente e di certo aggiunge poco alla comprensione di al­
tre società. Come esempio del modo in cui ci possiamo confrontare
con il mondo, non ispira molta fiducia. Come non intenzionale au­
toritratto americano, è francamente ingiurioso. Che uso dovremmo
farne, allora? Esso ci dice come i rappresentanti degli Stati Uniti, e
con essi buona parte dell’establishment orientalista, abbiano crea­
to una realtà che non corrisponde né al nostro mondo né all’Iran.
Ma se ciò non riesce a dimostrare che sarebbe meglio buttar via
deformazioni di questo genere, gli americani andranno verso altri
problemi internazionali, e, ahimè, la loro innocenza verrà di nuovo
inutilmente offesa.
E certo che Stati Uniti e Iran si sono ingolfati in una rissosa
inimicizia, ed è altrettanto certo che il sequestro dell’ambascia-
EDWARD W. SAID XXXI

ta ha mostrato d’essere l’indicatore di un generale scivolamento


dell’Iran in un caos improduttivo e retrogrado. Non bisogna trala­
sciare di dire che la storia insegna. Il fatto è che si sta verificando
un cambiamento nell’«Islam» esattamente come nelT«Occidente».
Il modo e il passo sono diversi, ma pericoli e incertezze sono simi­
li. Come grida da stadio per le rispettive squadre di riferimento,
«Islam» o «Occidente» (o «America») danno più un incitamento
che una comprensione. In qualità di reazioni uguali e opposte al di­
sorientamento dovuto a nuove realtà attuali, «Islam» e «Occiden­
te» possono trasformare l’analisi in banale polemica e l’esperienza
in fantasia. Il rispetto per la concretezza dell’agire umano, la com­
prensione che nasce dal vedere l’Altro in maniera empatica, la co­
noscenza ottenuta e diffusa con onestà morale e intellettuale: sono
obiettivi auspicabili, se non più facili, rispetto all’ostilità riduttiva e
semplificatrice. E se durante questo processo possiamo finalmente
sbarazzarci dell’odio residuo e della generalizzazione insultante di
etichette quali «il musulmano», «il persiano», «il turco», «l’arabo»
o «l’occidentale», sarà tanto meglio.
E. W. S.
p febbraio ip8i
New York
INTRODUZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE (i 996)

Nei quindici anni successivi all’apparizione di Covering Islam


si è determinata nei media americani e occidentali una grande
attenzione verso musulmani e Islam, in massima parte caratteriz­
zata da bellicosa ostilità e da stereotipizzazione assai più esage­
rate di quelle all’epoca da me descritte nel libro. Infatti il ruolo
dellTslam nei dirottamenti aerei e nel terrorismo, i resoconti di
come paesi apertamente musulmani come l’Iran minaccino «noi»
e il nostro stile di vita, e le speculazioni sull’ultimo complotto
per far saltare edifici, sabotare linee aeree o avvelenare le risor­
se idriche sembrano giocare un ruolo sempre crescente nella co­
struzione della coscienza occidentale. Battaglioni di «esperti» di
mondo islamico hanno acquisito grande influenza, e a ogni crisi
se ne escono pontificando idee cervellotiche sull’Islam in sempre
nuovi programmi e talk show. Sembra pure che si sia verificata
una curiosa ripresa delle canoniche idee orientaliste (precedente-
mente cadute in disgrazia) sui musulmani, o in genere sulle popo­
lazioni non-bianche, - idee che hanno raggiunto una schiacciante
diffusione in un’epoca in cui la diffamazione religiosa o razziale
di qualunque altro gruppo culturale non può più circolare così
impunemente. Le generalizzazioni denigratorie sull’Islam sono
diventate l’ultima forma accettabile in Occidente di denigrazione
di una cultura straniera; quel che si dice della mente, della cultu­
ra, della religione o del carattere dei musulmani in generale, oggi
XXXIV INTRODUZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE (1996)

non si può dire in un dibattito pubblico degli africani, degli ebrei,


né di altri orientali o asiatici.
E evidente che si sono verificate nell’ultima decade e mezzo
molte provocazioni e molti gravi incidenti causati da paesi islamici
come l’Iran, il Sudan, l’Iraq, la Somalia, l’Afghanistan e la Libia.
Esaminiamo la lista abbreviata di attacchi che segue: nel 1983 in
Libano circa 240 marines statunitensi furono uccisi da una bomba
rivendicata da un gruppo musulmano, mentre l’Ambasciata USA a
Beirut fu fatta saltare in aria da attentatori suicidi con gravi perdite
di vite umane. Negli anni ’80 numerosi ostaggi americani furono
catturati e imprigionati da un gruppo Shia in Libano per lunghi pe­
riodi di tempo. Parecchi dirottamenti aerei - il più famoso dei quali
fu quello del volo TWA a Beirut tra il 14 e il 30 giugno 1985 - vennero
rivendicati da gruppi musulmani, così come anche numerose stragi
mediante bombe in Francia all’incirca nello stesso periodo. L’esplo­
sione del volo 109 Pan Am nel 1988 su Lockerbie, in Scozia, fu
opera di terroristi islamici. L’Iran assunse grande importanza quale
sostenitore di vari gruppi attivi in Libano, Giordania, Sudan, Pale­
stina, Egitto, Arabia Saudita e altrove. L’Afghanistan, dopo la fine
dell’occupazione sovietica, sembrava caduto in un crogiolo di tribù
e partiti islamici feudali; molti dei musulmani ribelli - specialmente
i Talebani - armati, addestrati e sovvenzionati dagli Stati Uniti han­
no oggi preso il controllo del paese. Alcuni dei primi guerriglieri
addestrati dagli americani si sono spostati altrove - come lo sceicco
Omar Abdel Rahman, accusato di aver organizzato l’attentato al
World Trade Center nel 1993 - e pare che siano dietro la guerriglia
civile in Egitto e Arabia Saudita, alleati importanti degli Stati Uniti
in Medio Oriente. La fatwa di Khomeini contro Salman Rushdie
(febbraio 1989) e la taglia di milioni di dollari per l’assassinio dello
scrittore che l’accompagnava apparvero come l’epitome della mal­
vagità dellTslam, della sua guerra senza tregua alla modernità e ai
valori liberali, così come della capacità di raggiungere attraverso gli
oceani il cuore dell’Occidente per provocare, sfidare e minacciare.
Dopo il 1983 c’erano ovunque nei notiziari dei musulmani che
proclamavano la loro fede nellTslam. In Algeria vinsero le elezioni
amministrative, ma venne loro impedito di prendere il potere da
EDWARD W. SAID XXXV

un colpo di stato militare. L’Algeria è ancora nelle spire di una


orribile guerra civile nella quale i militanti si scontrano con i re­
parti militari e migliaia di intellettuali, artisti, giornalisti e scrittori
sono finiti uccisi. Il Sudan è oggi governato da un partito islamico
militante il cui capo, Hassan al-Turabi, è spesso dipinto come un
individuo intelligente e malvagio, uno Svengali o un Savonarola
in abiti islamici. Dozzine di innocenti turisti europei e israeliani
sono stati assassinati da assalitori islamici in Egitto, dove il potere
dei Fratelli Musulmani e del Jam a’at Islamiya - uno più violento
ed estremista dell’altro - sembrano essere cresciuti enormemente
nell’ultimo decennio. Sostenuto inizialmente da Israele per minare
l’autorità dell’OLP durante Vintifada palestinese (iniziata nel dicem­
bre 1987) nei territori occupati della West Bank e della striscia di
Gaza, Hamas e con esso il movimento per la jihad islamica si sono
trasformati negli esempi più temuti e più seguiti giornalisticamen­
te di estremismo islamico, con numerosi attentati suicidi, autobus
civili fatti esplodere e assassinii di civili israeliani nell’elenco dei
loro odiosi misfatti. Non meno terrorizzanti i guerriglieri di Hez­
bollah (il Partito di Dio) - che i media americani chiamano abi­
tualmente terroristi - che si considerano e sono percepiti in loco
come combattenti della resistenza contro l’occupazione illegale da
parte di Israele di una vasta e cosiddetta “striscia di sicurezza”
nel sud del Libano. Nel marzo del 1996 fu convocata nel porto
egiziano di Sharm el Sheikh una grande conferenza internazionale
alla quale parteciparono numerosi capi di stato, inclusi il presi­
dente Bill Clinton, il primo ministro Shimon Peres, il presidente
Hosni Mubarak e il comandante Yasser Arafat per discutere di
“terrorismo”, di cui un recente esempio si era avuto con tre at­
tacchi suicidi contro civili israeliani. Nel suo discorso, diffuso in
tutto il mondo, Peres - come anche nella stessa conferenza - non
lasciò alcun dubbio nell’opinione pubblica che la responsabilità
fosse dell’Islam e della Repubblica Islamica dell’Iran. L’ambiente
dei media negli Stati Uniti era già infiammato contro l’Islam, e
l’Occidente in generale lo diventò quando nell’aprile 1995 avvenne
l’attentato dinamitardo di Oklahoma City e fu suonato l’allarme
che i musulmani avevano colpito di nuovo; ricordo ancora (con
XXXVI INTRODUZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE (1996)

un certo disagio) di aver ricevuto quel pomeriggio venticinque


telefonate tra giornali, emittenti televisive e parecchi giornalisti
intraprendenti, tutte basate sulla convinzione che siccome venivo
da lì e avevo scritto del Medio Oriente, dovessi saperne qualcosa
di più della maggior parte della gente. Mai come in quell’occa­
sione mi fu più chiara la connessione del tutto artefatta tra arabi,
musulmani e terrorismo; il senso di colpevole coinvolgimento che,
nonostante me stesso, fui portato a provare mi colpì per essere
proprio lo stato d ’animo che si supponeva dovessi avere. In breve,
i media avevano assalito me, ma l’Islam - o meglio i miei legami
con l’Islam - ne era la causa.
Quest’ultimo è stato senza dubbio il caso dei musulmani bo­
sniaci, vittime della pulizia etnica a opera dei loro compatrioti ser­
bi. E lì, come hanno mostrato David Rieff e altri, assai poco fu fatto
per loro sia dalle potenze europee che dagli Stati Uniti finché non
si furono consumate le peggiori atrocità. Lo sforzo massiccio delle
Nazioni Unite per un aiuto umanitario in Bosnia fu una novità, dal
momento che altrove i musulmani erano trattati da aggressori per
i quali il giusto trattamento era rappresentato da discorsi insultan­
ti, minacce, sanzioni, quarantena, e, se del caso, bombardamenti
aerei. Va preso in considerazione anche il tentativo sanguinoso da
parte della Russia di sopprimere i musulmani ceceni. Nei casi di
Libia e Iraq, la prima fu bombardata nell’aprile del 1986 nelle ore
di massima audience serale, il secondo fu bersaglio di una guer­
ra in piena regola, con conseguenti attacchi aerei statunitensi nel
1993 e nel 1996 (per la maggior parte trasmessi dalla CNN). La gen­
te in Occidente riteneva che i raid fossero giustificati, a onta del
gran numero di innocenti civili colpiti. Nessuno nel 1992 ebbe da
obiettare all’intervento umanitario degli Stati Uniti nella Somalia
musulmana, finito in un disastro come la spedizione libanese di un
decennio prima. I casi di Iraq, Libia, Cecenia e Bosnia sono tutti
diversi, ma quel che hanno in comune agli occhi dei musulmani di
tutto il mondo è che sono le potenze e le popolazioni occidentali,
in maggioranza “cristiane”, a condurre una guerra costante contro
l’Islam. In questo modo si approfondisce la contrapposizione e si
allontanano le possibilità di dialogo tra culture. Molti musulmani
EDWARD W. SAID XXXVII

hanno detto e scritto che se le vittime bosniache, palestinesi o ce-


cene non fossero state musulmane, e se il «terrorismo» non fosse
stato opera dell’«Islam», le potenze occidentali avrebbero fatto di
più. Dopotutto Israele ha occupato e annesso territori arabi musul­
mani e non ha ricevuto punizioni. Perché soltanto i paesi e le genti
dell’Islam sono stati specifici oggetti di obbrobrio e di ostilità così
sproporzionata? Per la maggioranza degli americani, l’Islam non è
nient’altro che guai.
Il quadro si fa quindi complicato. Un’ondata emotiva ha per­
corso il mondo islamico, e si sono verificati molti episodi di terro­
rismo, organizzati o meno, contro bersagli israeliani e occidentali.
Lo stato complessivo del mondo islamico, con il suo declino di
produttività e di benessere, inclusa la censura, l’assenza relativa di
democrazia, la sconfortante prevalenza di dittature e di stati vio­
lentemente repressivi e autoritari, alcuni dei quali incoraggiano o
praticano il terrorismo, la tortura e le mutilazioni genitali, appa­
re retrogrado e crudele; e vi sono inclusi, tra gli altri, stati fon­
damentalmente islamici come l’Arabia Saudita, l’Egitto, l’Iraq, il
Sudan e l’Algeria. In aggiunta a tutto questo il riduzionismo (per
me) semplicistico di un certo numero di persone che si rifugiano
nella fumosa fantasia di una Mecca del settimo secolo come pana­
cea dei numerosi mali dell’odierno mondo musulmano, costituisce
un miscuglio poco attraente che sarebbe ipocrita negare. La mia
preoccupazione, tuttavia, è che il mero uso del termine «Islam»,
sia per spiegare che per condannare l’«Islam», finisca in realtà per
rappresentare una forma di aggressione che a sua volta è causa di
ostilità tra chi si autodefinisce musulmano e i portavoce dell’Oc­
cidente. Il termine «Islam» definisce un’esigua proporzione di
quanto accade al giorno d’oggi nel mondo islamico, che annovera
miliardi di persone e dozzine di paesi, società, tradizioni, lingue e,
ovviamente, un numero infinito di esperienze diverse. E semplice-
mente falso tentare di riportare tutto a qualcosa chiamato «Islam»,
nonostante l’insistenza di orientalisti rumorosi e polemici - attivi
prevalentemente negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Israele -
su un Islam che pervade le società islamiche da cima a fondo, che
dar-al-Islam sia una entità coerente e univoca, che chiesa e stato
XXXVIII INTRODUZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE (1996)

siano una sola cosa nell’Islam, e via elencando. La tesi di questo li­
bro è che si tratti in massima parte di una generalizzazione inaccet­
tabile e irresponsabile, tale da non poter essere applicata a nessun
altro gruppo religioso, culturale o demografico della terra. Ciò che
ci aspettiamo dallo studio profondo delle società occidentali, con
teorie complesse, analisi estremamente variegate delle strutture so­
ciali, resoconti storici, formazioni culturali e sofisticati linguaggi
di analisi, dovremmo anche aspettarcelo nello studio delle società
islamiche da parte dell’Occidente.
Invece di accademici troviamo spesso soltanto giornalisti che
fanno affermazioni stravaganti, subito riprese e drammatizzate dai
media. Aleggia su questo lavoro il concetto scivoloso - cui alludo­
no sempre - di fondamentalismo, parola che ha finito con l’essere
associata quasi automaticamente all’Islam, sebbene abbia fiorenti
rapporti, di solito elusi, con il cristianesimo, l’ebraismo e l’indui­
smo. L’associazione creata ad arte tra Islam e fondamentalismo as­
sicura che il lettore medio veda i due fenomeni come una cosa sola,
data la tendenza a ridurre l’Islam a un pugno di norme, stereotipi
e generalizzazioni circa la fede, il suo fondatore e la primitività,
la violenza, l’atavismo, la minaccia. E tutto questo senza nessuno
sforzo reale di definire il termine «fondamentalismo», né dare pre­
ciso significato a «estremismo» o «radicalismo» né di contestualiz­
zare questi fenomeni (dire per esempio che il 5 o il io o il 50% dei
musulmani è fondamentalista).
L’American Academy of Arts and Sciences ha pubblicato a par­
tire dal 1991 i risultati di un imponente studio sul «fondamentali­
smo» in cinque volumi svolto, sotto la sua egida, da un gruppo di
ricercatori. Ho il sospetto che il progetto sia partito proprio avendo
l’Islam in mente, sebbene siano stati presi in esame sia l’Ebraismo
che il Cristianesimo. Vi hanno partecipato numerosi accademici di
spicco coordinati da due curatori, Martin E. Marty e R. Scott Ap­
pleby. Il risultato è un compendio di articoli spesso interessanti, ma
secondo l’analisi dell’opera completa fatta da Ian Lustick, senza
che ne emerga una qualche definizione operativa del fondamenta­
lismo; al contrario, aggiunge Lustick, curatori e autori «finiscono
col suggerire quasi senza speranza che il “fondamentalismo” non
EDWARD W. SAID XXXIX

sia da definire».1E se gli specialisti del campo non sono in grado di


fornirne una definizione, non c’è da meravigliarsi se una schiera di
polemisti - spinti da uno zelo ostile verso tutto quel che è musul­
mano - facciano ben di peggio. Sono però ben in grado di sollevare
preoccupazione e allarme nei lettori.
Prendiamo come caso tipico Peter Rodman, già membro del
National Security Council, che scriveva P i i maggio 1992 sulla «N a­
tional Review», come modesta premessa iniziale: «Ancora oggi
l’Occidente si trova sotto la sfida esterna di una forza militante
e atavica spinta dall’odio nei confronti di qualsiasi idea politica
occidentale, e che va a ripescare recriminazioni secolari contro
il Regno di Cristo.» Da notare l’assenza di qualificativi, nonché
l’uso disinvolto di generalizzazioni ampie e impossibili da verifi­
care, come «che ripesca recriminazioni secolari contro il Regno
di Cristo», termine che suona ben più grave e impressionante di
quello disadorno, ma in qualche modo più vero, di «Cristianità».
Rodman continua poi a offrirci un saggio di «tattica». Il ruolo di
Lewis in questo discorso riceverà attenzione a parte più avanti.
Rodman non fornisce alcuna prova delle affermazioni sulla infe­
riorità islamica, sul rancore o la rabbia. A lui basta fare pure as­
serzioni, dal momento che l’«Islam», così come viene mistificato
e (mis)rappresentato nel pensiero orientalista e negli stereotipi
mediatici è accusato e condannato senza alcun bisogno di argo­
mentazioni a supporto o di definizioni argomentate quali quelle
che di norma userebbe in un dibattito sul mondo «occidentale»
o sul «Regno di Cristo». Viene voglia di chiedere: ma davvero
ognuno dei miliardi di musulmani prova inferiorità e rabbia, ma
veramente ogni abitante dell’Indonesia, del Pakistan o dell’Egitto
ha rancore verso le influenze «occidentali»? In quale posizione
bisognerebbe porsi per avere risposta a tali domande basilari? O
si dà invece il caso che l’«Islam » non possa essere preso in esame
come si farebbe per qualsiasi altra cultura o religione, in quanto,
a differenza di tutte le altre, è al di fuori dell’esperienza umana
«normale», una religione di cui si può parlare come se essa stessa
I. Ian Lustick, fundamentalism, Politicised Religion and Pietism , in «Mesa Bullet-
tin», 30,1996, p. 26.
XL INTRODUZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE (1996)

e tutto ciò che la concerne somigliasse a un essere umano psico­


patologico?
Oppure, prendiamo in considerazione Daniel Pipes, un anti­
musulmano bigotto la cui principale caratteristica è che, in quanto
orientalista, «conosce» l’Islam per quella cosa spaventosa e terribile
che è. Egli si lancia in alcune riflessioni in un articolo «ragionato»
apparso nel numero dell’autunno 1995 di «The National Interest»,
dal modesto titolo Non esistono moderati: affrontare il fondamenta­
lismo islamico. Non manca mai nel pezzo di ribadire la vera natura
dellTslam radicale - che non si prende mai la briga di definire, ma
che già dal titolo ci fa presumere non sia diverso dalla sua variante
non-radicale - natura che, ci dice subito, «è più vicina nello spirito
ad altri analoghi movimenti (comuniSmo, fascismo) che a una reli­
gione tradizionale». Poco oltre, sviluppa ancora di più l’analogia:
«Mentre lTslam fondamentalista differisce nei dettagli dalle altre
ideologie utopistiche, vi è molto vicino per obiettivi e ambizioni.
Come il comuniSmo e il fascismo, offre una ideologia d’avanguar­
dia; un programma completo per migliorare l’uomo e creare una
nuova società; un controllo completo sulla stessa società; e quadri
pronti, addirittura ansiosi, di far scorrere il sangue.» Pipes mette
in ridicolo quegli esperti che dicono che lTslam politico ha fatto la
sua strada; no, replica contraddicendoli, è oggi a essere in ascesa e
ci piomba addosso. LTslam «fondamentalista» di Pipes, violento,
irrazionale, irriducibile e privo di compromessi, minaccia il mon­
do, e «noi» in modo particolare, sebbene, secondo il Dipartimento
di Stato, il terrorismo di origine mediorientale sia solo sesto come
numeri e frequenza.
In breve, fondamentalismo uguale Islam uguale tutto-ciò-con-
tro-cui-oggi-dobbiamo-combattere, come è successo con il comu­
niSmo durante la Guerra fredda; in realtà, dice Pipes, la battaglia
contro lTslam è ben più grave, intensa e pericolosa. Sia Pipes che
Rodman non scrivono da outsider, né come appartenenti a una
qualche frangia fuori di testa. Il loro lavoro è all’interno di una
corrente vigorosa, e nutre l’ambizione, con qualche probabilità
realistica, di attrarre. Poco dopo, il 16 ottobre 1987, sulla stessa ri­
vista: «Il complesso del martirio, connaturato alla varietà di Islam
EDWARD W. SAID XLI

dell’Iran, quella della setta sciita, si sta manifestando nella gioventù


della maggioranza sunnita.» Le regole del senso della razionalità
sono sospese quando si affronta un discorso sull’Islam. Nessuno,
per esempio, si preoccupa di chiedere quanto sia verificabile l’af­
fermazione che il martirio si stia diffondendo tra la gioventù sunni­
ta, tra le centinaia di milioni dal Marocco all’Uzbekistan, e se così
fosse quali ne sarebbero in primo luogo le prove.
C ’è poco da meravigliarsi che il supplemento domenicale del
«New York Times», «Week in Review», metta come titolo al nu­
mero del zi gennaio 1996: «La minaccia rossa è passata. Ades­
so c’è l’Islam.» All’interno, un lungo articolo di Eiaine Sciolino
che, sebbene strutturato sul principio di pareri di una parte/
pareri dell’altra, dà l’idea di quello che chiama «il più scottante
e sgradevole dibattito all’interno dei circoli accademici attuali,
che rispecchia le vecchie discussioni su quanto ben organizzata
e monolitica fosse la minaccia del comuniSmo». Al di là del ti­
tolo incendiario, l’articolo di Sciolino spinge il lettore verso una
visione dellTslam (la minaccia verde) pericolosa per gli interessi
occidentali, considerando il grande numero di citazioni riportate
che testimoniano a favore di tale tesi (incluso il segretario nato
generale Claes, Newt Ginrich, Bernard Lewis, Shimon Peres e
l’onnipresente, sebbene non del tutto accreditato, Steven Emer­
son); in aggiunta, come partigiani di una tesi cospiratoria a valen­
za mondiale, sono elencati vari capi di stato legati all’America,
come Benazir Bhutto, Hosni Mubarak e Tansu Ciller. E, come
prova a difesa, è citato soltanto il professor John Esposito di G e­
orgetown, il cui puntuale e ben argomentato libro The Islamic
Threat: Myth or Reality? (Oxford, 1992), smonta pazientemente la
teoria della minaccia islamica. È evidente quindi che il clima at­
tuale favorisca - si potrebbe anche dire che richieda - che l’Islam
sia una minaccia, nonostante la vastità impossibile della nozione
e le sue basi non comprovabili e puramente polemiche.
L’Islam è diventato quindi un argomento centrale nei dibattiti
dei circoli politici e nei media. Gran parte dei dibattiti trascura il
fatto che la maggioranza delle popolazioni islamiche sia oggi alleata
e cliente degli Stati Uniti o comunque si posizioni nell’orbita sta­
XLII INTRODUZIONE ALLA SECONDA E D IZ IO N E (1996)

tunitense - paesi come l’Arabia Saudita, l’Indonesia, la Malaysia,


il Pakistan, l’Egitto, il Marocco, la Turchia o la Giordania, dove la
militanza musulmana emerge in quanto i regimi sono apertamente
sostenuti dagli Stati Uniti; questi governi in minoranza, spesso iso­
lati e lontani dalla maggioranza della popolazione, sono stati obbli­
gati ad accettare la tutela e l’influenza degli Stati Uniti, vale a dire
l’hanno subita senza alcuna possibilità di un’autodeterminazione.
Il Council on Foreign Relations, un’associazione politica influen­
te e rinomata, ha prodotto di recente un Rapporto sulla politica
musulmana e messo insieme un gruppo di lavoro che comprende
un ampio spettro di punti di vista sullTslam, tra i quali alcuni in­
formati e corretti. In pubblicazioni come «Foreign Affairs», il qua­
drimestrale del Council, tuttavia, il dibattito si presenta spesso in
forma polarizzata, come quello tra Judith Miller e Feon Hadar, la
prima contro e il secondo a favore di una risposta affermativa alla
domanda «F ’Islam è una minaccia?» («Foreign Affairs», primavera
1993). Con un piccolo briciolo di empatia non è difficile immagi­
nare come un musulmano possa finire con l’essere messo a disagio
dall’insistenza costante - anche se in termini di dibattito - con cui
la sua fede, la sua cultura e la sua gente sono viste come una minac­
cia, associate al terrorismo, alla violenza e al «fondamentalismo».
L’ampia corrente di caratterizzazioni del genere monta ancora
di più grazie al contributo di giornali e libri pro-Israele, nella spe­
ranza che sempre più europei e americani vedano Israele come una
vittima della violenza islamica. Un governo israeliano dopo l’altro
ha fatto ricorso alla pubblicizzazione di questa forma autonoma di
rappresentazione, che è andata avanti fin dal 1948 sull’intera que­
stione mediorientale. Sebbene ne abbia discusso altrove, è impor­
tante insistere sul fatto che tali proclami sullTslam e, per la maggior
parte del tempo, sugli arabi, hanno lo scopo di nascondere quel
che hanno fatto Israele e gli Stati Uniti, in qualità di principali op­
positori dell’Islam. Tra le altre cose, i due paesi hanno bombardato
e invaso parecchi paesi islamici (Egitto, Giordania, Siria, Libia, So­
malia, Iraq), hanno occupato (nel caso di Israele) territori arabo­
islamici in quattro nazioni, e, nel caso degli Stati Uniti, sostengono
attivamente l’occupazione militare di questi territori alle Nazioni
EDWARD W. SAID XLIII

Unite; per la schiacciante maggioranza degli arabi e dei musulma­


ni, Israele è quindi un’arrogante potenza nucleare regionale, sprez­
zante dei suoi confinanti, incurante del numero e della frequen­
za dei suoi bombardamenti, delle sue uccisioni (che superano di
molto il numero degli israeliani uccisi dai musulmani), delle sue
espropriazioni e delle sue deportazioni, in particolare per quanto
concerne i palestinesi. In sfida aperta alla legislazione internaziona­
le e a dozzine di risoluzioni delle Nazioni Unite, Israele ha annesso
Gerusalemme Est e le alture del Golan, ha occupato il sud del Li­
bano fin dal 1982, ha applicato la politica di trattare (e caratteriz­
zare) i palestinesi da subumani - una razza a parte, in realtà - e ha
esercitato il suo potere sulla politica statunitense in Medio Oriente
in modo tale che gli interessi di quattro milioni di israeliani hanno
del tutto sopraffatto quelli di duecento milioni di arabi musulmani.
È stato tutto questo, e non la pittoresca idea di Bernard Lewis che i
musulmani siano pieni di rabbia verso la «modernità» occidentale,
che ha dato origine a un ben comprensibile senso di rancore per
potenze che, come Israele e gli Stati Uniti, si proclamano demo­
crazie liberali ma si comportano verso popoli più deboli secondo
norme di auto-interesse e di crudeltà. Quando le Nazioni Unite
hanno guidato una coalizione di paesi contro l’Iraq nel 1991, ciò
era in funzione di contrastare un’aggressione e un’occupazione. Se
l’Iraq non fosse stato un paese musulmano che ne aveva occupato
militarmente uno simile, in un’area di vaste riserve petrolifere con­
siderate proprietà degli Stati Uniti, non ci sarebbe stata nessuna
invasione, esattamente come l’invasione e l’occupazione da parte
di Israele della West Bank e delle alture del Golan, l’annessione
di Gerusalemme Est e gli insediamenti dei coloni non sono stati
considerati dagli Stati Uniti bisognosi di intervento.
Non sto dicendo che i musulmani non abbiano attaccato e col­
pito Israele o gli occidentali nel nome dell’Islam. Ma ribadisco che
molto di quello che si legge e si vede sui media riguardo all’Islam
dipinge l’aggressione come proveniente dall’Islam, con un’inevita­
bile contropartita di immagine per quest’ultimo. Così si azzerano
eventi locali e ben concreti. In altre parole, mascherare l’Islam è
l’attività di una parte soltanto, che oscura quel che «noi» facciamo
XLIV INTRODUZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE (1996)

e porta invece in piena luce ciò che musulmani e arabi, con la loro
perversa natura, sono.
In quel che segue non citerò autori marginali o palesemente
fuori di testa né fonti irrilevanti che hanno scritto di Islam e Me­
dio Oriente, ma esempi di giornalismo autorevole e riconosciuto
come quello del «New Republic» e di «The Atlantic», il primo di
proprietà di Martin Peretz e il secondo di Morton Zuckerman,
entrambi grandi sostenitori di Israele e di conseguenza pregiudi­
zievoli verso l’Islam. In particolare Peretz. Nessuno come lui sui
media americani ha portato avanti per tanto tempo (almeno due
decenni) un disprezzo e un odio razziale così intenso nei confronti
della cultura e del popolo arabi. Parte del suo veleno proviene cer­
to dall’instancabile tendenza a difendere Israele a tutti i costi, ma
quello che ha scritto negli anni va ben oltre una difesa razionale, e
i suoi articoli di pura, irrazionale e volgare diffamazione sono vera­
mente inarrivabili. Nella sua testa Islam e arabi sono una sola cosa
e possono essere attaccati in modo intercambiabile. Ecco un pezzo
del 7 maggio 1984 in cui commenta uno spettacolo teatrale:

[ ...] un uom o d ’affari tedesco, un ’ebrea am ericana im m i­


grata e un arabo si trovano insiem e in un rifugio a G eru salem ­
m e durante un bom bardam ento arabo. Sebbene ci sia qualcosa
di piuttosto sorprendente nell’iniziale sim patia tra il tedesco e
l ’ebrea, ancor m eno em ergono i pregiudizi universalistici della
nostra cultura nei confronti dell’arabo - un arabo im pazzito,
certo, ma im pazzito nei m odi specifici della sua cultura. È in­
tossicato dalle parole, non distingue tra fantasia e realtà, alieno
da com prom essi, biasim a sem pre gli altri per le sue disgrazie e
alla fine getta il suo grum o di frustrazioni in un atto sanguina­
rio privo di senso, p er quanto m om entaneam ente gratificante.
E un dram m a politico, e ciò che lo rende cogente è il suo p e s­
sim ism o, e cioè la sua verosim iglianza. A bbiam o visto l’arabo
del dram m a a Tripoli e a D am asco, e nelle ultime settim ane nel
dirottam ento di un autobus a G aza e nell’uccisione di innocen­
ti in una strada di G erusalem m e. Sulla scena è un personaggio
fittizio, naturalm ente, m a nel m ondo reale esiste un suo fratel­
lo “m od erato” che è solo frutto dell’immaginazione.
EDWARD W. SAID XLV

Materiale del genere appare settimana dopo settimana sulla sua


rivista, che, per chiarezza, è un giornale d’opinione rinomato e un
tempo liberale, letto da un ampio numero di persone influenti sia
a Washington che a New York. Avendoci già assicurato (24 giugno
1991) di come Israele sia «l’espressione politica di un popolo già
formato, come la Polonia, il Giappone o l’Inghilterra» e che la sua
identità politica è ben salda (a differenza di quella dell’India o dei
Palestinesi), il 6 settembre 1993 avanza la tesi che «per gli arabi gli
ebrei saranno sempre usurpatori e intrusi. Ai nostri tempi la xe­
nofobia non è un atteggiamento dei soli arabi. Ma in un’epoca in
cui lo stato confonde politica e identità, l’Islam arabo che soffre di
sentimenti di inferiorità nei confronti di Israele e dell’Occidente lo
è in modo particolare, rinchiuso nel suo mondo ed esclusivamente
nel suo mondo».
Le incredibili diffamazioni di Peretz sono talmente estese da
oscurare del tutto la realtà storica, la quale vuole che l’arrivo di
ebrei in maggioranza europei in Palestina, paese già abitato da un
altro popolo, abbia praticamente distrutto la società palestinese,
espropriando i territori e cacciando due terzi della popolazione;
in più, Israele ha occupato militarmente altri territori palestine­
si (come pure libanesi e siriani) per parecchi decenni, ha annesso
unilateralmente Gerusalemme Est, atto non riconosciuto da alcun
paese al mondo, e si è arrogato il diritto di condurre una guerra
preventiva contro parecchie nazioni arabe. Incapace di cavarsela
con questi fatti se non attribuendo un diritto inalienabile al popolo
israeliano, Peretz riversa sui musulmani e sugli arabi i frutti di una
bella teoria fatta di violenza gratuita e di giudizi sulla presunta in­
feriorità culturale. Sul numero del 13 agosto 1996 del suo giornale,
Peretz prima giustifica la dura politica di forza del primo ministro
israeliano Benjamin Nethaniau, e quindi aggiunge che dopo tutto
Israele ha a che fare con paesi arabi in cui non c’è alcuna «dispo­
sizione culturale per uno sviluppo scientifico o industriale. Sono
società che non riescono a fare un mattone, figuriamoci un micro­
chip». Peretz persegue quest’idea (che ovviamente somiglia alle
sue opinioni sugli afroamericani, storicamente condannati all’infe-
riorità) fino alla seguente conclusione; «Tale sempre più ampio di­
XLVI INTRODUZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE (1996)

vario produrrà un profondo e forse irrimediabile risentimento nei


confronti di Israele. E se non potrà condurre a una guerra in senso
tradizionale, può però ben causare un aumento di ciò che Israele
ha sperimentato negli ultimi anni: terrore e continue sommosse.»
L’abitudine di Peretz di servirsi di generalizzazioni ampie e irra­
zionali per punire l’Islam e gli arabi dei loro peccati contro la sua
nazione preferita, Israele, ha una controparte più benigna in arti­
coli, libri, episodi televisivi e film, sia di tipo documentario che di
intrattenimento. Uno scrittore sostiene che «la città islamica tradi­
zionale reca assai poca attenzione all’estetica; ancora oggi gli arabi
sembrano non fare attenzione alle loro strade, e le riempiono di
spazzatura. Alcuni osservatori spiegano che tale noncuranza per gli
spazi pubblici deriva dalla fissazione della cultura islamica per la
vita privata, dal momento che la vita sociale si svolge solo all’interno
delle case». E poi ancora: «L’Islam» dice Viorst, «è riuscito dove il
cristianesimo ha fallito, nell’ostacolare le capacità razionali dell’uo­
mo [...] gli arabi hanno spesso notato una disposizione intrinseca
al conservatorismo, se non addirittura al fatalismo, nella loro cultu­
ra. Si sentono a disagio di fronte alle sfide intellettuali.» Khalidi ben
giustamente ricorda a Viorst che i musulmani, dopo tutto, hanno
salvaguardato la filosofia greca per l’uso successivo che ne ha fatto
l’Europa, sono stati pionieri in logica e astronomia, hanno messo le
basi della medicina scientifica e inventato l’algebra.
Viorst non è per niente dissuaso (o forse non ne sa niente) da
questi argomenti. Parla assertivamente di «un ostacolo di base al
pensiero creativo che ha sempre più caratterizzato l’Islam», e so­
stiene che i musulmani, sia arabi che turchi, riconoscono in pieno
che, secondo una valutazione basata su criteri intellettuali, la loro
civiltà non si può misurare con quella occidentale poiché «il rigore
intellettuale, il vero apporto dell’Occidente al mondo moderno, ha
a malapena sfiorato la civiltà araba».
Quel che trovo tristemente sintomatico in tali affermazioni è
che sembrano derivare - in modo piuttosto difensivo e addirittura
xenofobo - da sedicenti portavoce quali Peretz, Viorst e altri (trop­
po numerosi per citarli), che attaccano l’Islam proprio a causa di
tali sentimenti fluttuanti di ostilità. La maggior parte delle rappre-
EDWARD W. SAID XLVII

sentazioni correnti dell’Islam sono mirate a mostrare l’inferiorità


di questa religione in relazione all’Occidente, che l’Islam contra­
sterebbe in modo furibondo e indiavolato.
Inoltre, importanti riviste d’opinione come «New Yorker»,
«New York Review of Books» e «Atlantic Monthly» non pubbli­
cano mai saggi (o anche opere letterarie) tradotti da autori arabi
o musulmani, ma contano su esperti come Viorst per interpretare
eventi d’attualità culturale o politica illuminati non da fatti ma da
pregiudizi mai esaminati come quelli prima citati. E assai raro che
critici di questo sistema possano intervenire nelle opinioni correnti
per contrastarne l’egemonia.
Una delle poche rassegne critiche dei danni provocati dai cliché
sull’Islam nei media, nelle riviste politiche e nelle università è quella
di Zachary Karabell («World Policy Journal», estate 1995), che parte
dalla premessa per cui si è data eccessiva attenzione all’Islam “fon­
damentalista” fin dalla fine della Guerra fredda. I media pubblici,
dice assai giustamente, si sono allora riempiti di immagini negative
dell’Islam. «Domandate a un qualsiasi studente americano, sia nelle
università prestigiose che altrove, cosa viene loro in mente quando
si menziona la parola “musulmano”. La risposta è invariabilmente
la stessa: un terrorista fanatico, armato e barbuto, indemoniato a di­
struggere il grande nemico, gli Stati Uniti.» Karabell nota, per esem­
pio, che un programma di notizie prestigioso e di alto profilo come
20/20 sul canale ABC «ha trasmesso numerosi pezzi in cui si parlava
dell’Islam come di una religione da crociata che produceva guerrieri
di Dio; Frontiine ha promosso un’inchiesta sui tentacoli del terrori­
smo musulmano nel mondo». Avrebbe anche potuto citare il film di
Emerson Jihad in America, andato in onda su pbs , cinicamente gira­
to e distribuito proprio per sfruttare tale paura; o anche la moda di
libri con titoli provocatori quali Sacred Rage o In the Name of God
che rendono l’associazione tra Islam irrazionalismo pericoloso più
salda e inevitabile. «Lo stesso si può dire della stampa» continua
Karabell. «I pezzi sul Medio Oriente sono spesso accompagnati da
fotografie di moschee o di vaste folle in preghiera.»
Tutto questo segna, come ho già detto, un marcato deteriora­
mento della situazione descritta nella prima edizione di Covering
XLVIII INTRODUZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE (1996)

Islam, pubblicata un decennio e mezzo fa. C ’è oggi per esempio una


nuova ondata di film d’intrattenimento a vasta distribuzione (uno
dei quali, True Lies, ci ricorda Karabell, «ha come cattivi i classici
terroristi arabi, con tanto di occhi di fuoco e desiderio spasmodico
di uccidere americani») il cui principale scopo è quello prima di
demonizzare e disumanizzare i musulmani, e poi di mostrare un
intrepido eroe occidentale, di solito americano, che li fa fuori. Del­
ta Force (1985) ha iniziato il trend, che è poi andato avanti con la
saga di Indiana Jones e con innumerevoli serial televisivi in cui i
musulmani sono invariabilmente rappresentati come malvagi e vio­
lenti e in ultima analisi - è quel che più conta - uccidibili. A essere
cambiato rispetto al carattere esotico dei film hollywoodiani è che
il romanticismo e il fascino emanato daü’alterità sono stati del tutto
eliminati, come è successo per i film sui ninja che mettono in scena
un bianco (o anche un nero) americano contro un’infinita schiera di
orientali mascherati, che alla fine hanno quel che si meritano.
Al di là di questa miscela di riduzionismo e ostilità proposta
da tali travisamenti, c’è il problema di quanto tutto ciò esagera o
fa crescere l’estremismo musulmano all’intemo del mondo mu­
sulmano stesso. Karabell fa un’affermazione eccellente, anche se
attenuata dall’ironia quando dice che «le forze del secolarismo e
della modernità sono tutt’altro che sopite in Medio Oriente». In
un saggio apparso nel 1993 e poi ripubblicato nel mio libro The
Politics of Dispossession (Pantheon, 1994), ho tentato di mostrare
come sia il secolarismo, più che il fondamentalismo, che tiene in­
sieme le società arabe musulmane, nonostante le esagerazioni sel­
vagge dei media americani sensazionalisti e ignoranti, le cui idee
sono in maggioranza riprese da pubblicisti anti-islamici di carriera
che hanno scoperto un nuovo campo su cui esercitare le loro com­
petenze demonologiche. Alla fin fine si potrebbe dire che nella
battaglia tra islamici e la schiacciante maggioranza di musulmani,
i primi hanno perso di gran lunga. The Failure of Politicai Islam,
come il politologo francese Olivier Roy l’ha definito in un libro
eccellente dallo stesso titolo (Harvard, 1994). Altri studiosi, come
John Esposito nel suo The Islamic Threat: Myth or Reality?, lo ri­
badisce in maniera diversa, accentuando la varietà, la complessità
EDWARD W. SAID XT .TX

delle espressioni e le differenti tradizioni ed esperienze storiche


delle società musulmane a fronte dell’ipotetico antioccidentalismo
di massa.
Purtroppo, simili punti di vista ben documentati, ragionevo­
li e alternativi sono stati messi raramente in evidenza; il mercato
della rappresentazione di un Islam monolitico, furibondo, che si
espande in modo cospiratorio e minaccioso, è assai più grande,
utile e capace sia di intrattenere che di accendere l’odio per un
nuovo diavolo straniero. Per ogni libro fuori dal coro, come Islam:
the View from the Edge di Richard Bulliet (Columbia, 1994), ce
ne sono assai più tra libri e articoli che esprimono punti di vista
come quelli di David Pryce-Jones con The Closed Circle (Harper,
1991), lo stridente resoconto di quello che Charles Krauthammer
chiama « 1’intifada globale» («Washington Post», 16 febbraio 1990)
o un qualsiasi pezzo di A. M. Rosenthal sul «New York Times»
(per esempio il suo II declino dell’Occidente, 27 settembre 1996)
nel quale Islam, terroristi e palestinesi sono messi tutti assieme
indifferentemente e accusati; è questo quel che passa per analisi
informata nei media di prestigio degli Stati Uniti. Il lettore medio
dei mezzi di comunicazione più diffusi ha assai scarse probabilità
di imbattersi, per esempio, nella accurata analisi di Yvonne Yaz-
beck Haddad sulle Islamist Perceptions of US' Policy in the Near
East, apparso, ahimè, in un oscuro testo accademico, The Middle
East and the United States, a cura di David W. Lesch (Westview,
1996). Confrontandosi con Rosenthal e Krauthammer, essa distin­
gue accuratamente cinque categorie di islamisti (termine che pre­
ferisce agli incendiari «radicale» o «fondamentalista»), e, ancora
più utilmente, mette insieme un’intera serie di offese verbali di­
rette ai musulmani, che hanno esacerbato i rapporti tra il mondo
dellTslam e l’Occidente. Tra di esse ci sono affermazioni di Ben
Gurion («Non abbiamo paura di nessuno se non dellTslam»), di
Ytzhack Rabin («La religione dellTslam è il nostro solo nemico»)
e Shimon Peres («Non ci sentiremo mai sicuri finché l’Islam non
rinfodererà la sua spada») e la lunga lista di azioni dirette contro
il mondo islamico da parte dell’Occidente, che culminano nella
forte - per non dire aggressiva - alleanza Israele-Stati Uniti.
L INTRODUZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE (i 996)

Il punto su resoconti come quello di Haddad non è se siano o


no completamente corretti, né se li si debba accettare o rifiutare
incondizionatamente; la posta in gioco sta piuttosto nell’attribuire
una quota di realtà e di senso all’interlocutore e all’oggetto di cui
si sta discutendo. Nessuno pretende che i giornalisti o le persona­
lità dei media si mettano a sprecare tempo negli studi, leggendo
libri, cercando punti di vista alternativi o tentando di informarsi in
modo da non partire dal presupposto che l’Islam sia monolitico e
ostile. Ma perché adottare supinamente senza alcuna critica punti
di vista che non fanno altro che accentuare argomentazioni ridutti­
ve sull’Islam, e perché tale straordinaria disposizione ad accettare
la retorica ufficiale governativa con la sua irresponsabile caratteriz­
zazione dell’Islam? E intendo con questo riferirmi alla sconnessa
applicazione della parola «terrorismo» all’Islam e dell’atteggia­
mento che eleva il punto di vista di Israele sui «pericoli» islamici
al livello della politica degli Stati Uniti. La risposta sta in quanto
ancora prevalga la visione di un’altra epoca, quella dell’Islam come
antagonista dell’Occidente cristiano. La tendenza a considerare il
mondo intero come soggetto all’imperium di un solo paese è assai
nelle corde degli odierni Stati Uniti, ultima superpotenza rimasta.
Ma mentre molti altri grandi raggruppamenti culturali sembrano
aver accettato questo ruolo, è all’interno del mondo islamico che ci
sono ancora forti segni di decisa resistenza. E quindi abbiamo un
fiorire di attacchi religiosi e culturali all’Islam da parte di individui
e gruppi che condividono l’idea che l’Occidente (e gli Stati Uniti
come suo leader) sia lo standard di una modernità illuminata. Ma
ben lontana dall’essere una descrizione accurata dell’Occidente,
questa idea di un diritto al dominio occidentale altro non è che
l’adulazione acritica del suo potere.
Uno di quelli che hanno espresso le peggiori offese nella guer­
ra culturale contro l’Islam è stato il vecchio orientalista britannico
- attualmente residente negli Stati Uniti e professore in pensione
a Princeton - Bernard Lewis, i cui saggi appaiono con regolarità
in «The New York Review of Books», «Commentary», «Atlantic
Monthly» e «Loreign Affairs». Da molte decadi, le sue idee, che
sono rimaste intatte e sono anzi divenute più agguerrite e ridutti­
EDWARD W. SAID LI

ve, sono penetrate negli scritti di giornalisti ambiziosi e di qualche


politologo. Come mai le idee di Lewis, biecamente convenzionali
nella loro derivazione dall’orientalistica di scuola inglese e france­
se del diciannovesimo secolo, che vedeva nell’Islam un pericolo
per la cristianità e per i valori liberali, abbiano ottenuto una così
vasta circolazione, è facile da spiegare. Tutta l’enfasi del lavoro di
Lewis è diretta a descrivere l’Islam nel suo insieme come qualco­
sa che si colloca fuori il mondo conosciuto, accettabile e familiare
che «noi» abitiamo; e, in aggiunta, mira a sostenere che l’Islam
contemporaneo abbia ereditato l’antisemitismo europeo per utiliz­
zarlo in una supposta guerra contro la modernità. Come ho osser­
vato riguardo a Lewis nel mio Orientalismo, i suoi metodi rappre­
sentano una modalità d’osservazione falsata, propongono un uso
fraudolento dell’etimologia per fare ampie affermazioni culturali
su di un insieme di popoli, e, non meno criticabile, esprimono la
sua totale incapacità di attribuire alle genti islamiche una capacità
di autodeterminazione nelle pratiche culturali, politiche e storiche,
al di fuori dei calcolati attacchi per dimostrare che, siccome non
sono occidentali (nozione sulla quale ha assai debole presa), non
possono neanche essere buoni. Prendiamo in esame il caso del­
la parola watan, che in arabo significa madrepatria o nazione. Lo
studio tendenzioso di tale vocabolo da parte di Lewis è il tentativo
di spogliarlo di qualsiasi connotazione territoriale o affiliativa; egli
afferma, in ogni caso senza alcuna prova contestuale, che la parola
non significa patria o patrie o patris, e non può essere avvicinata
a queste ultime, dal momento che watan per l’Islam è un luogo
neutro di residenza. La dimostrazione di quel che ho detto riposa
in uno dei saggi di Islam and the West (Oxford, 1993), in cui, come
negli analoghi brani del libro, lo scopo è quello, in primis, di mo­
strare l’erudizione di Lewis, e, secondariamente, di mostrare, attra­
verso la «superiore» autorità dell’occidentale, ciò che i musulmani
realmente sentono ma sono in qualche modo incapaci di esprime­
re. Tutto nel saggio rivela una sconvolgente ignoranza dell’attualità
vissuta dagli arabi musulmani, per i quali la parola watan al contra­
rio possiede certamente il significato esistenziale di patria o patrie.
Lewis si limita a pescare due o tre esempi nella letteratura araba
LII INTRODUZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE (1996)

medioevale per suffragare la sua speciosa affermazione, ignorando


del tutto le fonti letterarie dal diciottesimo secolo a oggi, così come
l’uso comune quotidiano nel quale la parola watan è quella che gli
arabi reali (contrapposti a quelli testuali) adoperano per indicare
casa, appartenenza e lealtà. Dal momento che per lui l’arabo è una
lingua esclusivamente testuale e non ha nulla a che fare con la quo­
tidianità, sembra del tutto dimentico di parole correlate, come bi-
lad e ard, che connotano un senso forte di abitazione specifica e di
attaccamento. Lo strabiliante metodo di Lewis è, ancora una volta,
basato su un letteralismo profondamente anti-umano, mediante il
quale decreta quel che i musulmani sono, sentono e a cui aspirano.
L’Islam, dice, «non è semplicemente un sistema di credenze e di
culto, un compartimento della vita, per così dire [...] è piuttosto
l’intera vita [corsivo aggiunto]». Un’affermazione del genere deno­
ta non solo pregiudizio, ma anche una ridicola incomprensione di
come funziona in realtà la vita umana. Il metodo di Lewis suggeri­
sce che tutti i musulmani - quindi, un miliardo nella sua interezza
- abbiano letto, assorbito e accettato in pieno le «regole» alle quali
lui si riferisce e che regolano «le leggi civili, penali e quelle che noi
chiamiamo leggi costituzionali», e che poi applichino tali precetti
supinamente in ogni azione significativa della loro vita quotidiana.
Se c’è un caso in cui applicare il termine assurdo, è questo. Lewis
semplicemente non riesce a fare i conti con la diversità della vita
musulmana, poiché per lui è chiusa come qualcosa di estraneo, ra­
dicalmente diverso.
In nessuna occasione ciò appare più evidente come nel saggio
The Return of Islam, un pezzo già apparso nella rivista ebrea di
ultradestra «Commentary», poi incluso in Islam and the West. N o­
nostante i pretenziosi rituali accademici che mette in mostra, Lewis
fa uso di filologia fasulla per sostenere che la maggior parte degli
avvenimenti politici del mondo arabo contemporaneo che lui e i
suoi compari disapprovano provengano direttamente dall’Islam
del settimo secolo. Come nota l’intuitivo studioso As’ad Abu Kha­
lil: «Mentre egli [Lewis] ha il diritto di credere in una diversità fon­
damentale - e apparentemente genetica - tra “la mente occidentale
moderna” e la mente musulmana - cosa che per Lewis non cambia
EDWARD W. SAID LUI

nei secoli (fatto che gli permette di citare giuristi arabi medioevali
per spiegare situazioni odierne), la sua analisi degli eventi correnti
è a dir poco disinformata» (« jp s » , inverno 1995). E il punto è pro­
prio questo, visto che le procedure orientaliste di Lewis vengono
sciorinate davanti al lettore per dare il senso di ciò a cui oggi arriva
la «mente musulmana». Questo naturalmente spazza via i muta­
menti storici o l’intervento umano o la possibilità che non tutti i
musulmani la pensino esattamente allo stesso modo fin dal settimo
secolo; e gli vieta anche di discutere concretamente del presente.
Ma l’intento di Lewis è persuadere i lettori che i musulmani sono
stati sempre ostinatamente tutti Islam e nient’altro, tautologia che
banalmente sfida l’umana comprensione. Lewis dà il peggio di sé
nel famigerato The Roots of Muslim Rage, apparso nel numero del
settembre 1990 di «The Atlantic». Chiunque abbia disegnato la co­
pertina di quel numero della rivista ha interpretato Lewis fin trop­
po bene: una testa con turbante, dallo sguardo di fuoco, ovviamen­
te islamica, fissa il lettore con due bandiere americane nelle pupille
l’atteggiamento di chi promette rabbia e odio. Chiamare quel che
fa Lewis in questo assai influente saggio ricerca accademica o in­
terpretazione sarebbe travisare il significato di questi due termini.
The Roots of Islamic Rage è una polemica violenta, priva di verità
storica, di argomentazioni razionali o umana conoscenza. Tenta di
caratterizzare i musulmani come una personalità collettiva terroriz­
zante, piena di rabbia verso un mondo esterno che ha disturbato
la sua quiete quasi primordiale e le sue regole cristallizzate. Per
esempio:

[ ...] l’ultima goccia è stata la sfida al suo [dell’ipotetico m u ­


sulm ano] potere nella propria casa, da parte di donne em anci­
pate o ragazzi ribelli. E ra troppo da sopportare, e l’esplosione
di rabbia contro queste forze aliene, infedeli e incom prensibili
che hanno sovvertito il suo (sic) potere, distrutto la sua società,
e hanno infine violato il santuario della sua casa è stata inevi­
tabile. E ra anche naturale che tale rabbia fosse diretta verso il
nem ico m illenario, e traesse la sua forza da legam i e credenze
antichi.
LIV INTRODUZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE (1996)

In seguito, Lewis si contraddice, arrivando a dire che i musul­


mani all’inizio avevano accolto con favore l’Occidente, risponden­
do con «ammirazione ed emulazione». Ma tutto ciò si dissolve in
rabbia e odio «quando sono eccitate le passioni profonde», da bia­
simare e di cui vergognarsi. Verso la fine del saggio Lewis elabora la
sorprendente affermazione secondo cui il fenomeno islamico altro
non è che l’esito della più pura e gratuita rabbia verso la modernità
stessa:

D ovrebbe essere chiaro, a questo punto, che ciò che ci


troviam o ad affrontare è una em ozione e un m ovim ento che
trascende am piam ente le iniziative politiche e i governi che le
perseguono. N on è nulla di m eno che uno scontro di civil­
tà - la reazione forse irrazionale, m a senza dubbio storica, di
un antico rivale contro la nostra eredità giudaico-cristiana, il
nostro presente secolare e la diffusione m ondiale di entrambi.
E di im portanza cruciale che, dalla nostra parte, non si accetti
la provocazione che con durrebbe a una risposta storica, ma
anche irrazionale, nei confronti di questo rivale.

In altri termini, i musulmani oggi reagirebbero per ragioni sto­


riche e genetiche; e reagirebbero non a scelte politiche, bensì in
nome di un odio irrazionale per il presente secolare e moderno, che
Lewis grandiosamente chiama «nostro», e nostro soltanto.
L’arroganza di simili affermazioni toglie il fiato. Non soltanto
i musulmani e «noi» veniamo separati gli uni dagli altri a onta di
secoli di scambi e spostamenti attraverso i confini che Lewis nega
totalmente, ma «loro» sono tanto accecati da rabbia e irrazionali­
smo quanto «noi» godiamo della nostra razionalità e della nostra
supremazia culturale. Noi rappresentiamo il mondo reale, cioè se­
colare, loro si arrabattano e piangono e hanno la bava alla bocca in
un mondo che è poco più di una fantasia puerile. In conclusione
il «nostro» mondo è il mondo di Israele e dell’Occidente, il loro
quello dell’Islam e del resto. «N oi» ci dobbiamo difendere non con
la politica o con il confronto, ma con un’incondizionata ostilità.
Nessuna meraviglia che il saggio di Samuel P. Huntington abbia
preso il titolo e la sua tesi di fondo proprio dal saggio di Lewis.
EDWARD W. SAID LV

Chiamare tali idee ostili e irrazionali non è di certo un’esagera­


zione, soprattutto perché queste stesse idee sono spinte all’apoteosi
negli scritti di giornalisti come Judith Miller del «New York Times»,
il cui libro God has ninety-Nine Names: A Reporter’s Journey Throu­
gh a Militant Middle East (Simon and Schuster, 1996) è una specie
di manuale sull’atteggiamento dei media nei confronti dellTslam.
Assai in evidenza in talk show e seminari sul Medio Oriente, Miller
ha buon gioco a vendersi la merce della «minaccia islamica», come
l’ha definita un simposio di «Foreign Affairs» del 1993, al quale lei
ha contribuito; la sua specifica missione è sempre stata quella di
portare avanti la tesi millenaristica che l’Islam militante sia un peri­
colo per l’Occidente, ossia il nucleo di pensiero che è alla base del
libro di Samuel Huntington. Così, nell’ipotetico vuoto intellettuale
lasciato dallo smembramento dell’Unione Sovietica, la ricerca di un
nuovo diavolo straniero ha finalmente trovato uno sbocco - come
a partire dall’Ottavo secolo per la cristianità europea - nell’Islam,
religione la cui vicinanza geografica e la sfida instancabile all’Oc­
cidente (termine vago usato da Lewis e Huntington per definire la
«nostra» civiltà contrapposta alla «loro») sembra oggi diabolica e
violenta come allora. Miller non fa menzione del fatto che la mag­
gioranza dei paesi islamici colpiti dalla povertà, dalla tirannia, siano
incapaci militarmente e scientificamente di rappresentare un peri­
colo per chicchessia, a eccezione dei propri cittadini; e sorvola sul
fatto che le più potenti tra loro - Arabia Saudita, Egitto, Giordania
e Pakistan - siano interamente nell’orbita degli Stati Uniti. Quel
che importa a “esperti” come Miller, Huntington, Martin Kramer,
Daniel Pipes e Barry Rubin, oltre che a una nutrita batteria di ac­
cademici israeliani, è che la «minaccia» sia ben parata davanti agli
occhi e che si fustighi instancabilmente l’Islam per il suo terrore,
il suo dispotismo e la sua violenza, in modo da assicurarsi lucrose
consulenze, frequenti apparizioni televisive e contratti editoriali.
Per una clientela americana in fondo indifferente e già poco infor­
mata la minaccia islamica è dipinta come terribilmente paurosa, e
fornisce supporto alla tesi (che costituisce un interessante parallelo
con la paranoia antisemita) che esista una cospirazione mondiale
dietro ogni esplosione.
LVI INTRODUZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE (1996)

L’Islam politico non è riuscito generalmente granché bene do­


vunque abbia tentato di prendere il potere attraverso i partiti isla­
mici. L’Iran potrebbe rappresentare un’eccezione, ma il Sudan, che
di fatto è uno stato islamico, l’Algeria, stretta nella lotta tra gruppi
islamici e brutalità militare, e l’Afghanistan, stato turbolento e oggi
ultrareazionario, non hanno fatto altro che rendersi più poveri e
più marginali sulla scena del mondo. A ben vedere, dietro il di­
scorso sul pericolo islamico in Occidente si nasconde una qualche
verità, quella relativa al fatto che tra i musulmani l’Islam ha rinfo­
colato qua e là una resistenza (nella forma che Eric Hobsbawm ha
definito come ribellione preindustriale primitiva) alla Pax America-
na-lsraelica in Medio Oriente. Comunque, né Hezbollah né Hamas
hanno rappresentato un serio ostacolo al rullo compressore del
processo di pace. Vorrei qui dire che gli arabi musulmani sono oggi
così umiliati e scoraggiati e anche talmente anestetizzati dalle loro
rozze e incompetenti dittature per riuscire ad alimentare qualcosa
che somigli a una vasta campagna islamica contro l’Occidente. Va
aggiunto a tutto ciò il fatto che le élite sono per la maggior parte in
combutta con il regime, a favore della legge marziale, che in Egitto
dura dal 1946, nonché di varie altre norme al di fuori della legalità
contro gli «estremisti». Perché allora il tono di allarme e di paura
nella maggior parte delle discussioni sull’Islam? Certo che ci sono
stati attentati suicidi e vergognosi episodi di terrorismo, ma hanno
ottenuto qualche risultato oltre a rendere più forte la presenza po­
litica di Israele e degli Stati Uniti o quello dei regimi loro clienti nel
mondo musulmano?
L a r isp o sta , c re d o , è ch e lib ri c o m e q u e llo di M ille r sia n o sin ­
to m a tic i in q u a n to fu n z io n a li alla lo tta p e r so g g io g a re , atterrare,
im p rig io n a re e sc o n fig g e re q u a lsia si re siste n z a a ra b a o m u su lm a n a
alla p r e d o m in a n z a sta tu n ite n se -isra e lia n a . O ltre a ciò, g iu stific a n ­
d o in m o d o su rre ttiz io la p o litic a d i in fle ssib ile d u re z z a ch e le g a
l ’isla m ism o , p e r q u a n to b ia sim e v o le , a p a rti d e l m o n d o d i im p o r­
ta n z a stra te g ic a e ric ch e d i p e tr o lio , la c a m p a g n a an ti-Islam elim in a
o g n i p o ssib ilità d i d ia lo g o alla p a r i tra Isla m e A ra b i e Isra e le e
O c c id e n te . D isu m a n iz z a r e e d e m o n iz z a re u n ’in te ra c u ltu ra su lla
b a s e d e l fa tto ch e è « p ie n a d i r a b b ia » v e rso la m o d e rn ità , signifi-
EDWARD W. SAID LVII

ca trasformare i musulmani in oggetto di attenzioni terapeutiche


punitive. Non voglio che qui sorgano equivoci: la manipolazione
dell’Islam, così pure della cristianità o dell’ebraismo, per fini po­
litici retrogradi è sbagliata in assoluto e va contrastata, e non solo
in Arabia Saudita, nella West Bank e a Gaza, in Pakistan, Sudan,
Algeria e Tunisia, ma anche in Israele, tra i cristiani di destra del
Libano (per i quali la Miller mostra un’improbabile simpatia) e do­
vunque si manifestino tendenze teocratiche. E sia ben chiaro che
non credo affatto che tutti i mali dei paesi arabi musulmani siano
dovuti al sionismo e all’imperialismo. Ma questo è ben lontano dal
negare che Israele e gli Stati Uniti, assieme ai loro sicofanti intellet­
tuali, abbiano avuto un ruolo attivo e addirittura incendiario nello
stigmatizzare e teorizzare un’odiosa brutalizzazione nei confronti
di un’astrazione chiamata «Islam», allo scopo di evocare emozioni
di timore e angoscia nei confronti dellTslam in americani ed euro­
pei già di per sé irreggimentati nel considerare Israele una demo­
crazia secolare liberale. La Miller dice alla fine del suo volume che
l’ebraismo di destra in Israele «sarà argomento di un altro libro».
In verità, sarebbe stata materia da trattare, ma le pagine sono servi­
te a contenere le solite ritorsioni verso l’Islam.
Se avesse scritto di qualunque altra religione o qualsiasi altra
regione del mondo, la Miller sarebbe stata considerata vergognosa­
mente incompetente. Ci racconta a più riprese di essersi occupata
professionalmente di Medio Oriente per venticinque anni, ma non
conosce né l’arabo né il persiano; e ammette che dovunque vada
ha bisogno di un interprete del quale non ha modo di verificare
l’accuratezza o l’affidabilità. Sarebbe impossibile prenderla sul se­
rio nel ruolo di reporter o di esperta di Russia, Francia, Germania,
America Latina, forse anche di Cina e Giappone senza conoscere
le lingue necessarie, ma per l’Islam non sembra necessaria alcuna
competenza linguistica, dal momento che quello di cui ci si occupa
viene visto come una stortura psicologica piuttosto che una cultura
o una religione “reali” .
La maggior parte delle fonti che la Miller cita nelle sue pagi­
nate di note soffrono della sua ignoranza, sia perché può soltanto
citare ciò che è già disponibile in traduzione inglese, sia perché
LVIII INTRODUZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE (1996)

cita autori i cui punti di vista corrispondono ai suoi. Resta quindi


preclusa a lei e naturalmente ai suoi lettori una biblioteca intera di
studiosi musulmani, arabi o non-orientalisti. Quasi ogni volta tenta
di impressionarci con una frase o due in arabo, ovviamente intesa
a sproposito. Si tratta di frasi assai comuni, per niente astruse; e
i suoi non sono banali errori di traslitterazione, dei quali chiede
diffusamente scusa in anticipo all’inizio del libro. Si tratta di errori
marchiani da parte di uno straniero che non mostra nessuna cura
né rispetto per il soggetto che gli ha permesso di guadagnarsi da
vivere per venticinque anni, e che non si è mai sognata di acqui­
sire realmente. A pagina 211 cita la definizione di Gheddafi data
da Saddam come al walad majnoon, e lo traduce con «quel pazzo
d’un tipo». La frase recita in realtà el walad el magnoon\ quello
che crede di citare è in realtà la caricatura di «quel tipo è pazzo».
Stadia, la popolare attrice egiziana, è pretenziosamente indicata
come Sha’adia, dimostrando che la Miller non conosce neppure la
differenza tra le lettere dell’alfabeto arabo. Ha l’abitudine di dare
plurali inglesi a parole arabe (p. e. “thobe/thobes”, o “hanif/hani-
fs”) e ha la sfrontatezza a pagina 315 di dirci che «una bella poesia in
arabo [...] perde molto, come la maggior parte della poesia araba,
in traduzione».
Se i suoi tentativi di cogliere i dettagli della vita arabo-islamica
sono così fallimentari, che dire delle informazioni politiche o sto­
riche? Ciascuno dei dieci capitoli dedicati a un paese (Egitto, Ara­
bia Saudita, Sudan, ecc.) comincia con un aneddoto e prosegue
con una storia in pillole del livello da scuola dell’obbligo. Abbor­
racciate da varie fonti non sempre affidabili, queste storie hanno
l’obiettivo di mostrare la padronanza dell’argomento, ma in realtà
si limitano a esporre pregiudizi disdicevoli, carenza di analisi e di
comprensione. Nel capitolo sull’Arabia Saudita, per esempio, ci in­
forma che la sua fonte «preferita» sul Profeta Maometto è l’orien­
talista francese Maxime Rodinson, un indomito studioso marxista
la cui biografia del Profeta è scritta con una corroborante mesco­
lanza di ironia anticlericale e di mostruosa erudizione. Quello che
la Miller ne ricava nel sommario di quattro o cinque pagine sulla
vita e le idee di Maometto è qualcosa di intrinsecamente ridico­
EDWARD W. SAID LIX

lo su ll’u o m o , ch e R o d in so n d e fin isc e c o m e u n a c o m b in a z io n e fra


C a rlo M a g n o e G e s ù C r isto ; m a m e n tre R o d in so n n e c o m p r e n d e il
sig n ificato , la M ille r ci fa sa p e r e (c o sa d e l tu tto irrilev an te) ch e n o n
n e è c o sì co n v in ta. P e r lei M a o m e tto è l ’a n te sig n a n o d i u n a re lig io ­
n e a n tie b ra ica , im p r e g n a to d i v io le n z a e d i p a ra n o ia . N o n c ita u n a
so la fo n te m u su lm a n a su M a o m e tto e si b a s a e sc lu siv a m e n te su g li
sm a sc h e ra m e n ti d is p e p tic i d i o rie n ta listi o c c id e n ta li; im m a g in a te
so lo un lib r o p u b b lic a to in E u r o p a o n egli S ta ti U n iti su G e s ù o
M o sè ch e n o n si se rv a d i u n a so la fo n te a u to re v o le e b re a o c ristia ­
na. « D o p o la c o n q u ista d e lla M e c c a , M a o m e tto a q u e l ch e si d ic e
a v re b b e u c c iso so lo d ie c i p e r so n e p e r o ffe s e a lu i o a ll’I sla m » , d ic e
con un p a te tic o e se rc iz io d i sa r c a sm o . L ’atte n z io n e su M a o m e tto
vien e g iu stific a ta d a lla M ille r nel ric o r d a r c i ch e h a fo n d a to u n a
relig io n e ch e al te m p o ste sso è u n o sta to (o sse rv a z io n e n o n ce rto
o rig in a le ), sa lv o p o i sa lta re d a l se ttim o se c o lo p iù o m e n o ai g io rn i
n o stri, c o m e se chi h a fo n d a to u n o sta to n el p a s s a to lo n ta n o fo sse
u n a b u o n a fo n te p e r la sto ria d ei g io rn i n o stri.
N o n b iso g n a m ai d im e n tic a re ch e la M iller, d i b a se , è u n a g io r­
n alista te n d e n z io sa e co n o b ie ttiv i p o litic i, e n o n c e rto u n o s t u d io ­
so , n é un e sp e r to , e n e p p u r e u n a sc rittric e c o e re n te , d a l m o m e n to
ch e la m a g g io r p a r te d el su o lib r o è c o m p o sta n o n d i d ib a ttiti o di
idee, m a di in te rm in a b ili in te rv iste a ciò ch e v ien e ra p p re se n ta ta
c o m e u n a sc h ie ra d i m u su lm a n i p a te tic i, p o c o co n v in ce n ti e a u ­
to re fe re n z iali, o p p u r e a lo ro critici o c c a sio n a li. A p p e n a ci la s c ia ­
m o alle sp a lle le su e b re v i d ig re ssio n i sto ric h e , fin iam o d ritti n elle
p iù n o io se e d e str u ttu r a te d iv a g a z io n i, te stim o n ia n z a p iù d i u n o
sc h e d a r io s o v r a b b o n d a n te ch e d i u n a v e ra c o n o sc e n z a d ei lu o gh i.
E c c o p e r e se m p io u n a d e lle su e a ffe rm a z io n i ro b o a n ti e p riv e di
so sta n z a : « I sirian i, q u in d i, m e m o ri d e lla sto ria c a o tic a d e l lo ro p a ­
e se [in c id e n ta lm e n te , p e r q u a le a ltro p a e se al m o n d o q u e sto n on
è u g u a lm e n te v e r o ? ] , si so n o tro v a ti d i fro n te alla p ro sp e ttiv a di
un rito rn o a ll’a n a rch ia o p p u r e d i u n ’altra alla rm a n te e sa n g u in o sa
lo tta d i p o te re a lu n g o te rm in e [q u e s to è v e ro u n ic a m e n te p e r la
S iria , in q u a lità d i sta to p o stc o lo n ia le , o lo è a n ch e di altre c e n tin a ­
ia d i p a e si in A sia , in A fr ic a o in A m e ric a L a t in a ? ] o, m a g a ri, del
trio n fo d e ll’Isla m m ilita n te a ll’in te rn o d e l p iù se c o la re [e co n q u a le
LX INTRO DUZIO NE ALLA SECON D A EDIZIO N E (1996)

te r m o m e tro è sta ta fa tta u n a sim ile le ttu r a ? ] d e g li s ta ti.» L a s c ia m o


d a p a r te il le ssic o a b o m in e v o le e il g e rg o d a fa r strid e re i den ti.
O tte n ia m o so lo un in sie m e di clich é m e sc o la ti a d a ffe rm a z io n i in ­
d im o str a b ili ch e rifletto n o i « p e n s ie r i» d e i « s ir ia n i» a ssa i m e n o di
q u elli d e lla M iller.
M ille r in d o r a le su e d e scriz io n i co n la fra se « il m io a m ic o » , ch e
a d o p e r a p e r c o n v in ce re il le tto re ch e c o n o sc e re alm e n te le p e r s o ­
n e r a p p r e se n ta te e, di c o n se g u e n z a , è p a d r o n a di q u e llo d i cu i sta
p a r la n d o . E c o m e se c re d e ss e ch e i su o i « a m ic i» le riv e la sse ro fatti
in tim i ch e so lta n to lei è sta ta in g r a d o di c a v a r lo ro d i b o c c a . Q u e ­
sta te c n ic a p e r ò p r o d u c e d e lle d isto rsio n i stra o rd in a rie so tto fo rm a
d i lu n g h e d ig re ssio n i su l s u p p o s t o a tte g g ia m e n to m e n ta le isla m ic o ,
ch e la sc ia n o in s e c o n d o p ia n o m a te ria le p iù o alm e n o u g u a lm e n te
rilev an te c o m e la p o litic a lo c a le , il fu n z io n a m e n to d e lle istitu zio n i
se c o la ri o l ’attivo c o n tr a sto ch e h a lu o g o tra isla m isti e o p p o s ito r i
n a zio n alisti. N o n se m b r a av er m ai se n tito p a rla re d i M o h a m m a d
A rk o u n o d i M o h a m m a d e l-Ja b ri, n é d i G e o r g e T a ra b ish i o di A d o ­
nis o H ish a m D ja it, le cu i tesi so n o al c e n tro d i un a c c a lo ra to d ib a t ­
tito in tu tto il m o n d o islam ic o .
T ale d isd ic e v o le m a n c a n z a d i c o n o sc e n z a e di an alisi è v e ra in
sp e c ia l m o d o p e r il c a p ito lo su Isr a e le (tito lo fu o ri lu o g o , v isto ch e
è tu tto su lla P a le stin a ), d o v e la M ille r ig n o ra c o m p le ta m e n te i c a m ­
b ia m e n ti p o rta ti d all 'intifada, n o n ch é il p r o lu n g a to stillicid io di tre
d e c e n n i d i o c c u p a z io n e isra e lia n a , n o n fa c e n d o il m in im o ac c e n n o
alle ig n o m in ie ch e si so n o riv e rsa te su lle vite d e i co m u n i p a le stin e si
a se g u ito d e g li a c c o r d i d i O s lo e d e l g o v e rn o p e r so n a le d el so lo
Y a ssir A ra fa t. N o n è un c a so ch e, in q u a lità di so ste n itric e d ella
p o litic a sta tu n ite n se , la M ille r sia a ssa i p iù o s se ssio n a ta d a H a m a s
di c h iu n q u e altro , e ch e sia d el tu tto in c a p a c e d i m e tte re in re la z io ­
n e H a m a s co n la d e p lo re v o le situ a z io n e n ei territo ri b ru ta lm e n te
g o v e rn a ti d a Isr a e le p e r tu tti q u e sti anni. T ra la sc ia p e r e se m p io di
m e n z io n a re ch e l ’u n ic a u n iv e rsità p a le stin e se n o n so v v e n z io n ata
d a fo n d i p a le stin e si è l ’U n iv e rsità Isla m ic a (H a m a s) d i G a z a , ch e
v e n n e istitu ita d a Isr a e le p e r c o n tr a sto a ll’OLP d u ra n te Vintifada.
M e n z io n a le a g g r e ssio n i di M a o m e tto agli e b re i m a n on h a a s s o ­
lu ta m e n te n ien te d a d ire su lle c re d e n z e , le a ffe rm a z io n i e le le ggi
EDWARD W. SAID LXI

co n tro i « n o n - e b r e i» , p ra tic h e s p e s s o d o ta te d i sa n z io n e ra b b in ic a
e v o lte alla d e p o r ta z io n e , a ll’a ssa ssin io , alla d e m o liz io n e di case,
alla c o n fisc a di terre e a d a n n e ssio n i se n z a alcu n d iritto , n o n ch é a
ciò ch e S a ra Roy, la p iù c re d ib ile a u to rità su G a z a , h a c h ia m a to il
c o n tro sv ilu p p o e c o n o m ic o siste m a tic o . L a M ille r d isse m in a q u a e
là alcu n i d i q u e sti fatti, m a n o n c o n fe risc e m ai lo ro un p e s o p o litic o
e sto ric o .
L ’altro su o tic è q u e llo d i in fo rm a re i le tto ri d e lla re lig io n e di
c ia sc u n o - q u e sto o q u e llo è cristian o , o m u su lm a n o su n n ita , o
m u su lm a n o sc iita e v ia d ic e n d o . P e r u n a p e r so n a c o sì p r e o c c u p a ta
di q u e sto a sp e tto p a r tic o la re d e lla vita, la m a n c a ta a c c u ra te z z a in
m ateria h a tin te d i co m icità. P a r la d i H ish a m S h a ra b i c o m e d i un
« a m ic o » m a lo sc a m b ia p e r c ristian o : è m u su lm a n o su n n ita. B a d r
el H a j vien e d efin ito m u su lm a n o , m e n tre è c ristia n o m aro n ita.
N o n s a r e b b e r o e rro ri g rav i se n on fo s s e r o l ’e sito d e llo sfo rz o di
im p re ssio n a re il le tto re co n il ra c c o n to d elle su e relaz io n i e d e lla
su a in tim ità. M a d a n o ta re è so p r a ttu tto il fa tto ch e la M iller, co n
e v id e n te m a la fe d e , ev ita di d efin ire il p r o p r io b a c k g ro u n d re lig io so
o le su e sim p a tie p o litic h e . P e r chi si o c c u p a d i u n a m a te ria c o sì
p e sa n te m e n te c a rica d i p a s sio n i id e o lo g ic h e e re lig io se , tro v o s tr a ­
n o ch e p o s s a p a rtire d a l p r e s u p p o s to ch e la su a re lig io n e (ch e n o n
p e n so sia l ’Islam o l ’in d u ism o ) sia p riv a d i rilev an za. V e rre b b e d a
c h ie d e rsi q u a n ta g e n te alla q u a le h a c a v a to in fo rm a z io n i s a p e sse
co n chi in realtà sta v a in te rlo q u e n d o , e q u a n ti a b b ia n o o g g i id e a di
q u e l ch e h a r a c c o n ta to d i lo ro .
L a M ille r a p p a r e ta lv o lta e sp lic ita n e ll’e ste rn a re le su e r e a z io ­
ni p a te tic h e v e rso p e r so n a g g i d el p o te re o p a rtic o la ri situ azio n i
co n tin g en ti. È « d is tr u tta d a ll’a n g o s c ia » q u a n d o al R e H u sse in di
G io r d a n ia v ien e d ia g n o stic a to un c a n c ro , m a se m b ra fa r p o c o c a so
al fa tto ch e sia a c a p o d i u n o sta to d i p o liz ia le cu i m o lte v ittim e
h a n n o su b ito to rtu re , d e te n z io n i illeg ittim e o u c c isio n i ta c iu te . I
su o i o c c h i so n o « p ie n i d i la c rim e d i r a b b ia » q u a n d o si tro v a di
fro n te alle p ro v e d e lla p r o fa n a z io n e d i u n a ch ie sa cristia n a lib a n e ­
se, m a n o n se m b r a d a r si p e n a d i m e n z io n a re altre p ro fa n a z io n i in
Isra e le , p e r e se m p io d i cim iteri islam ici o d e lle c e n tin aia d i v illa g g i
rasi al su o lo in S iria , L ib a n o e P a le stin a . I su o i v e ri se n tim e n ti di
LXII INTRO DUZIO NE ALLA SECON D A ED IZIO N E (1996)

rim p ro v e ro e di d isp r e z z o v e n g o n o fu o ri in p a s s a g g i c o m e q u e llo


ch e se g u e , nel q u a le a ttrib u isc e d e sid e ri e p e n sie ri a u n a d o n n a s i­
rian a a p p a rte n e n te alla c la sse m e d ia la cu i figlia è a p p e n a d iv e n ta ta
isla m ista e ch e h a sv e n tu ra ta m e n te in v itato la M ille r c o m e o s p ite a
c a sa su a:

Non avrebbe potuto avere ciò cui aspira una madre siriana
della classe media: un grandioso ricevimento di nozze con sua
figlia in abito bianco e tiara di diamanti, una foto in cornice
d’argento della coppia felice in abito scuro e gonna con lo stra­
scico accanto al tavolo da caffè o al caminetto, le danzatrici del
ventre e champagne a fiumi. Forse anche gli amici di Nadine
hanno figli o figlie che li hanno ripudiati e che in segreto li
disprezzano per i compromessi che sono stati costretti ad ac­
cettare per entrare nelle grazie del crudele e disumano regime
di Assad. Se una figlia di simili pilastri della borghesia dama­
scena ha potuto soccombere al potere dell’Islam, chi ne sarà
immune?

L a d o m a n d a p iù in te re ssa n te su l lib ro d e lla M ille r è p e rc h é


m ai lo a b b ia scritto . N o n c e rto p e r rag io n i affettive. N o tia m o , p e r
e se m p io , ch e am m e tte ch e il L ib a n o n o n le p ia c e e le fa p a u r a , ch e
o d ia la S iria , sc h e rn isc e la L ib ia , d isp r e z z a il S u d a n , si se n te triste
e un p o c o p r e o c c u p a ta p e r l ’E g itto e p r o v a re p u lsio n e p e r l ’A ra b ia
S a u d ita . N o n si è m ai p r e s a la b rig a d i im p a ra re la lin g u a e d è p r e ­
o c c u p a ta se n z a p o s a so lta n to d e i p e ric o li d e lla m ilita n za isla m ic a
o rg a n iz z a ta , ch e, se d e v o a z z a r d a r e u n ’ip o te si, c o n ta so lo un 5%
d e l m ilia rd o d i g e n te m u su lm a n a . E to ta lm e n te a fa v o re d e ll’e li­
m in a z io n e v io le n ta d e g li isla m ic i (m a n on d e lla to rtu ra o d i altri
« m e z z i ille g a li» d a u sa r e p e r l ’e lim in a zio n e: se m b r a ch e tale c o n ­
tra d d iz io n e le sia sfu g g ita ), n o n h a re crim in az io n i su lla m a n ca n z a
di m e to d o d e m o c ra tic o o d i p r o c e d u r e le g ali in p a e si a p p o g g ia ti
d a g li S ta ti U n iti c o m e l ’E g itto , la G io r d a n ia , la S iria e l ’A r a b ia S a u ­
d ita fin tan to ch e il b e r sa g lio è islam ista. In un e p is o d io rip o rta to
n el lib r o p a r te c ip a c o n c re ta m e n te a ll’in te rro g a to rio d i un so sp e tto
te rro rista m u su lm a n o d a p a r te d i p o liz io tti israelian i; s o p r a ssie d e
e d u c a ta m e n te su ll’u so d i m e to d i d i to rtu ra (a ssa ssin i so tto co p e rtu -
EDWARD W. SAID LXIII

ra, arresti notturni, demolizioni di case) ponendo lei stessa alcune


domande all’uomo incappucciato. Il suo fallimento di giornalista si
realizza nell’intento di azzardare connessioni o analizzare fatti per
portare acqua alla sua tesi sul carattere fondamentalmente odioso
degli islamici. Ora, personalmente ho assai poco da contestare al
fatto che da un punto di vista generale il mondo arabo islamico
sia in condizioni terribili, e l’ho detto a mezzo stampa negli ultimi
trent’anni. Ma la Miller non dà un quadro neppure lontanamente
veritiero del ruolo giocato da Israele e dagli Stati Uniti in un qua­
dro del genere, anzi in realtà quasi neppure nomina l’esistenza di
una politica antiaraba e anti-islamica da parte degli Stati Uniti (a
parte l’episodio in Afghanistan, che menziona con leggerezza e di
sfuggita). Prendiamo per esempio il Libano. Riferendo l’assassinio
di Bashir Gemayel nel 1982, dà l’impressione che sia stato eletto da
un mandato popolare. Non allude neanche al fatto che salì al po­
tere mentre l’esercito israeliano occupava Beirut ovest, poco prima
dei massacri dei campi di Sabra e Chatila e che per anni, stando
a fonti israeliane come Uri Lubrani, è stato l’uomo del Mossad
in Libano. Viene anche taciuto che fosse un assassino e per sua
stessa ammissione un malavitoso, come anche il fatto che l’attuale
struttura di potere in Libano è piena di gente come Elie Hobeika,
che è stato direttamente accusato dei massacri nei campi. Citando
casi di antisemitismo arabo, avrebbe anche potuto far menzione
di un discorso razziale all’interno di Israele diretto contro arabi e
musulmani. A riguardo della guerra di Israele contro i civili - la
prolungata, coerente e sistematica campagna contro i prigionieri
di guerra, lo smantellamento dei campi di rifugiati, le distruzioni
di villaggi, i bombardamenti di scuole e ospedali e la deliberata
creazione di centinaia di migliaia di rifugiati - tutto viene sepolto
(se mai è presente) sotto un allegro chiacchiericcio. Il problema
di fondo della Miller è che ha un disprezzo dei fatti degno del più
etereo dei decostruzionisti, ma preferisce interminabili chiacchiere
alla cronaca di come i musulmani siano vittime del terrore israelia­
no, supportato dagli Stati Uniti: questo ci dice molto sul suo essere
un esempio perfetto del modo attuale di trattare il Medio Oriente
da parte dei media.
LXIV INTRODUZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE (1996)

N o n è ce rto d a l lib ro d ella M ille r ch e si p u ò ven ire a sa p e re di


c o m e e sista un con flitto rib ollen te a ll’in te rn o d e ll’Islam su in ter­
p retazio n i e rap p re se n tazio n i d el M e d io O rie n te ; n é si p u ò ven ire
a c o n o sc e n z a im m ed iata d ella circo stan z a che, d ata la scelta delle
fon ti, l ’au trice sia p ro fo n d a m e n te p artig ian a, n em ica d el n a z io n a ­
lism o a ra b o , ch e d ich iara a p iù rip re se d efu n to , so sten itrice della
p o litic a d eg li Stati U n iti e d e c isa av versaria di q u alsiv o glia n a z io n a ­
lism o p ale stin e se n on c o n fo rm e alla p re v ista ve rsio n e sterilizzata e
in offen siv a e in realtà p ro g ra m m a tica m e n te p ia n ifica ta d ag li a c c o rd i
di O slo . In b reve, la M iller è u n a g io rn a lista sch iera ta e su p erficiale, il
cu i e n o rm e lib ro di cin q u e ce n to p a g in e è tro p p o lu n g o p e r q u el che
d ice, se b b e n e sia un c o m p e n d io p e rfe tto d elle afferm azio n i p riv e di
riflessio n e o di in d ag in e ch e circo lan o e v e n g o n o rip rese n ei m edia.
Q u a n to q u e ste n u o c c ia n o alle n o tizie q u o tid ia n e , lo si v e d e in
m an ie ra d ra m m a tic a in u n o sc a m b io ra d io fo n ic o tra S e rg e Sch-
m em an n , il c a p o d ella re d a z io n e d i G e ru sa le m m e d e l « N e w Y o rk
T im e s» e R o b e rt F isk , ch e scrive d al L ib a n o p e r il lo n d in e se « I n ­
d e p e n d e n t» . D a lati o p p o s ti d el con fin e, h a n n o e n tram b i seg u ito
l ’in v asio n e israelian a d e l L ib a n o d e ll’ap rile 1996; e p p u re q u el che
e m erg ev a d ai risp ettiv i re p o rta g e e d al lo ro d ib a ttito ra d io fo n ic o
(Democracy Now\ 5 m a g g io 1996, P a c ifica R a d io ) è u n a p ra tic a g io r­
n alistica rad ic alm e n te o p p o s ta , n ella q u a le il g io rn a lista a m erican o
si m u o v e (fo rse in co n scia m e n te ) se c o n d o le lin ee d ella M iller. P e r
p rim a c o sa va rim arca to ch e Isra e le h a o c c u p a to fin d al 1982 u n a
striscia n el su d d el L ib a n o in q u alità d i c o sid d e tta z o n a di sicu rezza
e h a m e sso in siem e, e c o n tin u a a m an ten ere, un e se rcito m e rce n ario
lib a n e se n e ll’area o c c u p a ta ; resisten ze all’o c c u p a z io n e e al c o sid d e t­
to ese rc ito lib a n e se so n o v e n u te d a H e z b o lla h , il c o sid d e tto P a rtito
d i D io , la cu i raison d’être è sta ta l ’o c c u p a z io n e d a p a rte di Israele.
Q u e sti gu errig lieri v iv o n o e c o m b a tto n o nel su d , d im o d o ch é , se c o n ­
d o m o lti sta n d a rd , a n d r e b b e ro fo n d a m e n ta lm e n te co n sid e rati co m e
u n a fo rm a z io n e di gu e rrig lia ch e c o m b a tte co n tro l ’o c c u p a z io n e m i­
litare illegale d el p r o p r io p a e se . M a c ’è d a n o tare, c o m e o sse rv a z io ­
n e n u m e ro d u e, ch e n ella sta m p a d eg li S tati U n iti vien e p o sta g r a n ­
d e e n fasi su lla relig io n e d i H e z b o lla h , così c o m e su lla su p p o siz io n e
che, sic c o m e c o m b a tte Israe le , sia u n a o rg an izzaz io n e terro ristica.
EDWARD W. SAID LXV

Nell’aprile del 1996 il «Times» aveva riportato la notizia che


Israele si era infiltrato nel Sud del Libano uccidendo due civili.
«Il militante Partito di Dio ha minacciato ritorsioni» riportava il
pezzo anonimo, e proseguiva dicendo che «la tensione è molto alta
su entrambi i lati del confine, dal momento che i guerriglieri han­
no ucciso sei soldati israeliani nella striscia di Libano meridionale
occupata da Israele». Di solito, i guerriglieri sono proprio quelli
che combattono i soldati di un esercito di occupazione, sebbene
qui il principio sia viziato in partenza da riferimenti a un partito
militante «islamico», che evoca nella mente del lettore associazioni
con il fondamentalismo, la minaccia islamica e via dicendo. Fin dal
io di aprile (in una nota dell’inviato israeliano del «Times» Joel
Greenberg), compare nelle corrispondenze la frase «appoggiato
dal governo sciita dell’Iran», che si ripresenta in tutti gli articoli
del «Times» fino al termine dell’invasione, due settimane più tardi.
E come se, per quanto riguarda Israele, il «Times» desse per scon­
tato che i nemici del paese siano musulmani militanti (che presto
diventeranno «terroristi») e non guerriglieri che fanno resisten­
za all’occupazione di un paese. Il 12 aprile Schmemann parla di
Hezbollah come di «un’organizzazione militante musulmana sciita
appoggiata dall’Iran», come a dire: guarda un po’, i musulmani
pazzi sono tornati e ammazzano ebrei come al solito. Nello stesso
articolo compare un riferimento ai «terrorizzati residenti israeliani
di Qiryat Shemona», sebbene contemporaneamente Israele stesse
bombardando Beirut, città piena di residenti terrorizzati che non
vengono affatto menzionati.
Con una definitiva vittoria dell’ideologia sui fatti, l’editoriale del
«Times» della stessa data è intitolato La risposta di Israele al Terro­
re, e riporta che «i raid aerei israeliani contro obiettivi terroristici
in Libano sono stati giustificati e limitati [...] La responsabilità del­
le incursioni di ieri in Libano e delle insensate perdite della scorsa
settimana su entrambi i lati del confine ricadono platealmente sui
terroristi di Hezbollah e sui governi di Beirut e di Damasco. Peres
in questo caso non ha fatto altro che esercitare il diritto di Israele a
difendersi». Affermazioni del genere venivano fatte mentre Israele
stava deportando 200.000 abitanti del Libano meridionale, dopo
LXVI INTRODUZIONE ALLA SECON D A EDIZIO N E (1996)

av erlo b o m b a r d a to d a ll’aria, d a lla te rra e d a l m a re e - q u e sto va


r ic o r d a to - e ra n o rim asti c o m e o c c u p a n ti m ilitari, c o n d iz io n e che,
se c o n d o le le g g i di g u e rra , d à il d iritto ag li ab ita n ti d i fa re re siste n ­
za. S i so n o rim e sc o la te le carte : p rim o , p e rc h é si tra tta v a d i Isra e le ;
se c o n d o , p e rc h é e ra l ’« I s la m » a r a p p r e se n ta re la « m in a c c ia » . Il 18
ap rile , g io r n o in cu i Isra e le av eva b o m b a r d a to e u c c iso un c e n ti­
n a io d i p e r so n e in un a v a m p o s to d e ll’oNU a Q a n a , ch e e ra un b e n
se g n a la to rifu g io p e r la p o p o la z io n e civile in fu g a d a lla g u e rra , il
« T im e s » rip o rta v a ch e sia gli S ta ti U n iti ch e S h im o n P e re s si r a m ­
m a ric a v a n o p e r le vittim e, m a c o n sid e ra v a n o c o m u n q u e r e s p o n s a ­
b ile H e z b o lla h « p e r av er in fra n to l ’a c c o r d o d e l 1993 sen za a lcu n a
p r o v o c a z io n e » (12 ap rile ). O ltre a ciò , p e r tu tta la d u ra ta d e lla c a m ­
p a g n a lib a n e se d i Isra e le , il « T im e s » n on h a p u b b lic a to un so lo
p e z z o d ’o p in io n e o un e d ito ria le ch e r ip o rta ss e u n p u n to d i v ista
d iv e rso d a q u e llo di Isr a e le o d e l g o v e rn o sta tu n ite n se . D o p o tu tto ,
la S iria e l’Ira n e ra n o b e n p iù im p o rta n ti d e g li sfo rtu n a ti lib a n e si
o d i H e z b o lla h , c o m e se q u e l ch e su c c e d e v a n el L ib a n o m e r id io ­
n ale fo sse q u a lc o s a d i b e n p iù g r a n d e e im p o rta n te di u n a b a n a le
o c c u p a z io n e e d e lla r isp o sta a e ssa . D i n u o v o , e ra l ’Isla m c o n tro
l ’O c c id e n te .
L e d e fo rm a z io n i ch e n e c o n se g u o n o n ella c o p e rtu ra d e i m e d ia e
nei re so c o n ti g io rn a listic i so n o sta te m e sse in lu c e d a R o b e rt F isk ,
ch e è rim a sto c o n c e n tra to su c iò ch e realmente è a c c a d u to , p iu t ­
to sto ch e su q u el ch e le fo n ti u fficiali d i Isra e le e d e g li S ta ti U n iti
v o le v a n o ch e il m o n d o c re d e ss e ste sse a v v e n e n d o . F is k si è b e n
g u a r d a to d a l ro v e sc ia re il p r in c ip io ch e la g u e rrig lia ch e re siste a
u n a o c c u p a z io n e è g iu stific a ta a fa rlo , n é h a c e d u to alla ten taz io n e
di c o n sid e ra re la b a tta g lia d e l L ib a n o m e rid io n a le c o m e u n a tra
l ’O c c id e n te e i te rro risti m u su lm a n i a p p o g g ia ti d a ll’Iran . C o s ì è
sta to c a p a c e in m a n ie ra c o n v in c e n te d i d im o stra re n ella d e sc riz io ­
n e d e ll’in cid e n te d i Q a n a ch e fin d a l c e ssa te il fu o c o d el 1993 c ’era
sta ta u n a d e lib e ra ta p o litic a isra e lia n a d i d a r lu o g o a u n a v e n tin a di
in cid e n ti p e r b u tta r e fu o ri H e z b o lla h e d e ffe ttu a re p e sa n ti r ito rsio ­
ni c o m e m e z zo d i p r e ssio n e su l L ib a n o e su lla S iria . Q u e s to è q u el
ch e d isse a S c h m e m a n n , la cu i fe d e ltà , o fo rse p ru d e n z a , n e ll’ade-
rire alla lin ea e d ito ria le d e l « T im e s » si m a n ife sta d ra m m a tic a m e n te
EDWARD W. SAID LXVII

a paragone dell’indipendenza di Fisk. L’intervistatore, durante la


trasmissione radio gli dice: «Lei scrive che Israele ha messo in atto
un’applicazione specifica e selettiva della forza in Libano. Lei ri­
porta senza commenti critici che “gli ufficiali israeliani insistevano
nel dire che i loro uomini ignoravano la presenza di rifugiati nel
campo di Qana”. In tal modo sta deliberatamente dando l’impres­
sione che Israele non colpisca bersagli civili, cosa assai differente
da ciò che descrive Fisk.»
Fisk avanza tre differenti prove per controbattere l’assenza di
intenzionalità da parte di Israele; ed esse sono la base del reso­
conto del massacro nei reportage per l’«Independent» del 19 e del
22 aprile; prima di essi (il 15 aprile), scrivendo dal sud del Libano,
Fisk riporta gli intenti di Israele in un importante articolo intito­
lato Questa non è un’operazione militare. È un tentativo di radere
al suolo un paese. Le prove che Fisk mette sul tavolo sono che 1)
diciannove ore prima dell’attacco a Qana c’era stata una comuni­
cazione ufficiale da parte delle Nazioni Unite al comando militare
israeliano secondo la quale civili erano rifugiati in tutte le postazio­
ni O N U ; 2 ) un aereo israeliano senza pilota sorvolava il luogo duran­
te il bombardamento; 3) date tutte le affermazioni sull’accuratezza
e sulla raffinata tecnologia di Israele, come mai il bombardamento
si era protratto a lungo dopo che le Nazioni Unite, attraverso suoi
ufficiali a Naqura, nel Libano del Sud «invocavano di fermarsi»?
Schmemann risponde dicendo di «non riuscire a capire perché
Israele dovrebbe deliberatamente colpire dei civili», un punto di
vista che, sebbene egli porti avanti con vera convinzione, riflette
anche il punto di vista generale dei media degli Stati Uniti, secondo
il quale mentre i terroristi sono pienamente capaci di atti di genui­
na violenza contro degli innocenti, Israele, che è come noi, non lo
è. Fisk concorda con Schmemann che, scrivendo da Israele e non
dal Libano meridionale, avrebbe potuto riportare soltanto quello
che succedeva lì, e che ha tenuto le sue opinioni coscientemente
fuori dal reportage: «Ci sono delle differenze tra quello che fa un
reporter e quello che fa un opinionista.» Abbastanza vero, natu­
ralmente, ma rimane tuttavia il problema di quale sia il quadro di
riferimento per il reporter e di quali fatti metta in rapporto con
LXVIII INTRO DUZIO NE ALLA SECON D A ED IZIO N E (1996)

quali opinioni. Per Fisk, il quadro di riferimento è quello della di­


chiarazione del Ministro degli Esteri Ehud Barak (3 gennaio 1996),
per il quale «se Israele attaccherà militarmente, sarà un attacco al
Libano, e le vittime saranno libanesi».
In breve, se si parte dal presupposto che Hezbollah sia prima­
riamente un gruppo terrorista sciita appoggiato dall’Iran, entre­
ranno in gioco tutta una serie di idee implicite sull’Islam pieno
di rabbia contro la modernità, dedito alla violenza gratuita e roba
del genere, cosa che conferma il ben congegnato punto di vista di
Israele durante l’invasione del Libano (reiterato da Judith Miller
sulla CNN e da un editoriale del «New York Times» su Hezbollah
come organizzazione terroristica) che la guerriglia libanese ha quel
che si merita. La Miller ha anche affermato una volta che la guerri­
glia libanese veniva dalla Bekaa e non dal Libano del Sud («Lo so
perché c’ero») e che spingevano a sangue freddo donne e bambini
in prima linea per dare prova della ferocia di Israele. Alexander
Cockburn nel suo pezzo La blitzkrieg di Israele sul numero del 20
maggio 1996 di «The Nation» fa un’ulteriore analisi della copertura
dei media durante la crisi libanese.
Spogliata di qualsiasi contesto storico o esistenziale, questa idea
dell’Islam come religione violenta e irrazionale che spinge la gente
ad atti di aggressione verso Israele vizia concretamente tutto quel
che somiglia a un resoconto di quanto succede sul campo e gli
impedisce di inserirsi in un contesto più umano e comprensibile.
Col chiamare i guerriglieri «militanti sciiti appoggiati dall’Iran» la
resistenza viene sia disumanizzata che delegittimata. Nell’articolo
del 28 aprile, Schmemann non riesce a trovare una spiegazione de­
cente dell’invasione, una «sconcertante fine dei giochi nel Medio
Oriente», fuori dall’affermazione: «Questo è il Medio Oriente -
frase usata come battuta finale di una lunga serie di aneddoti che
cercano di spiegare eventi al di fuori di qualsiasi logica. Se ci fosse
stato bisogno di illustrare la genialità del format, la settimana scor­
sa l’abbiamo ammirata in tutto il suo splendore.»
Le false rappresentazioni e le distorsioni della rappresentazio­
ne odierna dell’Islam non depongono per un sincero desiderio di
capire né per una volontà di vedere e ascoltare quel che c’è da
EDWARD W. SAID LXIX

vedere e da ascoltare. Ben lontane dall’essere resoconti ingenui o


pragmatici dell’Islam, le immagini e i processi attraverso i quali i
media hanno portato l’Islam all’attenzione dei consumatori occi­
dentali di notizie perpetuano l’ignoranza, per ragioni ben analizza­
te da Noam Chomsky in una lunga serie di libri {La manipolazione
del consenso, con Edward S. Herman, e in particolare La cultura
del terrorismo e Deterring Democracy). Tuttavia, qualunque siano
le motivazioni che possiamo attribuire a questo stato di cose, che,
come ho detto all’inizio, è peggiorato moltissimo dalla prima appa­
rizione di Covering Islam nel 1980, c’è da dire che un po’ di buono
in direzione del dialogo e dello scambio reciproco - entrambi in
dibattiti accademici, in eventi artistici, durante gli incontri di gen­
te qualsiasi che trattano affari, interagiscono, si parlano invece di
sproloquiarsi addosso - si sta insinuando in un’opinione pubblica
così dominata dai mass media. Sensazionalismo, grossolana xeno­
fobia, irriducibile ostilità sono all’ordine del giorno, con risultati
veramente sconfortanti da entrambi i lati della linea immaginaria
tra «noi» e «loro». La speranza è che un modesto tentativo come
quello di questo libro possa servire da antidoto e possa evidenziare
quanto sia possibile evitare tragedie attraverso la ricerca e la presa
di coscienza.

Nella revisione e negli aggiornamenti necessari per questa nuo­


va edizione sono stato efficacemente assistito dal mio vecchio ami­
co Noubar Hovsepian; Mario Ortiz Robles e Andrew Rubin mi
sono stati di grande aiuto nelle ricerche bibliografiche. L’assistenza
di Zaineb Istrabadi è stata fondamentale. E Shelley Ranger mi ha
beneficato delle sue superbe competenze editoriali.

E. W. S.
5/ ottobre 1996
New York
CAPITOLO PRIMO
L’ISLAM COME NOTIZIA

I. L’Islam e l’Occidente

Per spiegare le fonti energetiche alternative agli americani la


Consolidated Edison (Con Ed) di New York, durante l’estate del
1980, diffuse in televisione una pubblicità toccante. Filmati di
vari esponenti dell’oPEC facilmente riconoscibili, come Yamani' e
Gheddafi, insieme ad altri arabi meno conosciuti, si alternavano
a immagini e video di altre figure correlate al petrolio e allTslam:
Khomeini, Arafat, Hafez al-Assad. Nessuna di queste personalità
era menzionata per nome; tuttavia si diceva in maniera sinistra
che «questi uomini» controllano le risorse petrolifere dell’Ame-
rica. La solenne voce di sottofondo non faceva alcun riferimento
alle reali identità e origini di «queste persone», lasciando così in­
tuire che quel gruppo ristretto, composto interamente da uomini,
tiene gli americani in pugno con estremo sadismo. Per suscitare
un misto di rabbia, risentimento e paura era sufficiente che que­
sti personaggi apparissero così come sono mostrati nei giornali
e in televisione al pubblico americano. La Con Ed voleva imme­
diatamente suscitare proprio questa combinazione di sensazioni
in modo da sfruttarla per fini pubblicitari, come un anno prima
aveva fatto Stuart Eizenstat, consigliere politico del presidente

I. [Ahmed Zaki Yamani è stato Ministro del Petrolio e delle risorse minerarie dal
1962 al 1986 in Arabia Saudita, NdT.]
2 L’ISLAM COM E NOTIZIA

Carter e attualmente alto funzionario dell’amministrazione Clin­


ton, quando sollecitò al presidente che «dovremmo mobilitare la
nazione con fermezza attorno a una crisi vera, tramite un nemico
innegabile, I’o p ec » .
Riguardo alla pubblicità della Con Ed vi sono un paio di que­
stioni che, considerate insieme, costituiscono l’argomento di que­
sto libro. La prima ovviamente è l’Islam, o meglio l’immagine
dell’Islam diffusa in Occidente; la seconda, invece, è come que­
sta immagine viene utilizzata, in particolar modo negli Stati Uniti.
Come vedremo, questi temi sono connessi a tal punto che rivela­
no molti più aspetti ignoti dell’Occidente e degli Stati Uniti che
dell’Islam. Comunque, prima di esaminare gli eventi degli ultimi
anni, bisogna prendere in considerazione la storia delle relazioni
tra l’Islam e l’Occidente cristiano.
Dalla fine del diciottesimo secolo fino ai nostri giorni, nel rap­
porto dell’Occidente con l’Islam ha prevalso un tipo di pensiero
estremamente riduttivo che possiamo definire con il termine di
orientalismo. La concezione orientalista si basa su una geografia
immaginaria, drasticamente polarizzata, che divide il mondo in
due parti diseguali, quella più grande e “differente” è chiama­
ta Oriente, e l’altra, conosciuta come il “nostro” mondo, è detta
Occidente.2 Tale separazione avviene sempre quando una socie­
tà medita sulle culture differenti; e tuttavia, è interessante notare
che l’Oriente, anche quando giudicato come la parte inferiore del
mondo, è stato considerato sia di dimensioni più estese, sia dotato
di una forza potenziale più grande (di solito distruttiva) rispetto
all’Occidente. Dal momento che l’Islam è stato sempre visto come
parte integrante dell’Oriente, entro il quadro generale dell’orien­
talismo, il suo peculiare destino è stato quello di essere ritenuto
un’entità monolitica, capace di suscitare ostilità e paura alquanto
particolari. Vi sono ovviamente molte spiegazioni religiose, psico­
logiche e politiche, ma tutti questi motivi derivano dal fatto che,
sebbene l’Occidente ne sia interessato, l’Islam rappresenta sia un
avversario temibile sia una continua sfida alla cristianità.
2. Cfr. Edward W. Said, Orientalismo. Limmagine europea dell’Oriente [1979],
Milano, Feltrinelli, 1999, pp. 37-56.
EDWARD W. SAID 3

Durante gran parte del Medioevo e all’inizio del Rinascimento


in Europa si credeva che l’Islam fosse una religione demoniaca,
fonte di eresia, blasfemia e oscurità.3Era irrilevante che i musulma­
ni considerassero Maometto un profeta e non un dio; ai cristiani
importava solo che Maometto fosse un falso profeta, un seminatore
di discordia, un lussurioso, un ipocrita e un emissario del diavolo.
Questi giudizi su Maometto non erano strettamente dottrinali, ma
derivavano dal fatto che, nel corso della storia, l’Islam aveva assun­
to una considerevole forza politica. Per centinaia di anni grandi
armate e flotte islamiche hanno minacciato l’Europa, distrutto gli
avamposti e colonizzato i suoi domini. Era come se fosse sorta a est
una versione del cristianesimo più giovane, virile ed energica, for­
matasi grazie agli insegnamenti dell’antica Grecia, invigoritasi con
una fede semplice, intrepida, guerriera e intenzionata a distruggere
la cristianità. Persino quando il mondo islamico entrò in un periodo
di declino, mentre l’Europa si avviava in una fase di ascesa, la pau­
ra dei “maomettani” persistette. Più vicina all’Europa delle altri re­
ligioni non cristiane, l’Islam, per la sua estrema prossimità, evocava
i ricordi delle usurpazioni commesse in Europa e continuava, in
modo permanente, a disturbare l’Occidente con il suo potere non
manifesto. Le altre grandi civiltà dell’est - tra le quali India e Cina
- potevano essere considerate sia sconfitte sia distanti e, pertan­
to, non erano una preoccupazione costante. Solo l’Islam sembrava
non essersi mai sottomesso completamente all’Occidente, cosicché
ancora una volta, in seguito al drammatico incremento del prezzo
del petrolio all’inizio degli anni ’70, il mondo musulmano è parso
sul punto di ripetere le conquiste del passato e l’intero Occidente è
sembrato rabbrividire. L’emergere del “terrorismo islamico” negli
anni ’80 e ’90 ha reso la paura più profonda e intensa.
Nel 1978 poi l’Iran balzò in primo piano, divenendo fonte di
ansie e preoccupazioni per gli americani, dato che prima d’ora
3. Cfr. Norman Daniel, Gli arabi e l’Europa nel Medioevo [1975], Bologna, il Mu­
lino, 1998; così pure il precedente e molto utile Islam and the West: The Making of an
Image, Edimburgh, University Press, i960. Un’eccellente indagine su questo proble­
ma, collocata nel contesto politico della Guerra di Suez nel 1956, si deve a Erskine B.
Childers con The Road to Suez: A Study of Western-Arab Relations, London, MacGib-
bon & Kee, 1962, pp. 25-61.
4 L’ISLAM CO M E NOTIZIA

quasi nessuna nazione, tanto distante e diversa dagli Stati Uniti,


li aveva impegnati così intensamente. Gli americani mai erano ap­
parsi così paralizzati, a prima vista incapaci di fermare il susseguirsi
degli eventi drammatici. Pertanto, non si poteva affatto ignorare
l’Iran, un paese che per tanti aspetti contrastava con le loro vite,
quasi con un’aria di sfida. Nel periodo in cui scarseggiava l’energia,
il maggior fornitore di petrolio era proprio l’Iran, situato in una
regione del mondo solitamente considerata instabile e strategica­
mente vitale. Nel corso di un anno pieno di rivolte quell’alleato
importante perse legittimità, forze armate e significato nei calcoli
geopolitici statunitensi; praticamente un evento così sconvolgente
non avveniva dalla rivoluzione d’ottobre del 1917. Stava emergendo
un nuovo ordine che, denominatosi islamico, si mostrava popolare
e anti-imperialista. I media trasmettevano costantemente l’immagi­
ne dell’ayatollah Khomeini, presentandolo solamente come ostina­
to, potente e profondamente furioso contro gli Stati Uniti. Infine,
in reazione all’ingresso negli Stati Uniti dell’ex shah avvenuto il 22
ottobre 1979, un gruppo di studenti il 4 novembre occupò l’amba­
sciata degli Stati Uniti a Teheran, sequestrando molti ostaggi ame­
ricani, rilasciati soltanto mesi più tardi.
In Iran l’evolvere dei fatti ebbe luogo in un determinato conte­
sto, poiché da molto tempo nella popolazione perdurava un senso
comune nei confronti dellTslam, degli arabi e dell’Oriente in gene­
rale, una conoscenza che ho definito orientalistica. Se si conside­
rano i recenti romanzi acclamati dalla critica come Alla curva del
fiume di V. S. Naipaul e II colpo di stato di John Updike, oppure
i libri di storia diffusi nelle scuole, i fumetti, i serial televisivi, i
film e i cartoni animati, l’iconografia dellTslam appare uniforme.
Si era radicata nel tempo una visione dellTslam monolitica, dalla
quale derivano le frequenti caricature dei musulmani, raffigurati
come fornitori di petrolio, terroristi e, recentemente, come folle as­
setate di sangue. Difatti, nell’ambito della cultura e delle riflessioni
sui non occidentali, i discorsi e le opinioni propense a giudicare
l’Islam benevolmente furono molto poche. Se alle persone fosse
stato domandato di nominare una scrittore islamico contempora­
neo, la maggior parte probabilmente avrebbe saputo citare sola-
EDWARD W. SAID 5

mente Khalil Gibran (che tra l’altro non è musulmano). Gli esperti
accademici specializzati in Islam di solito avevano considerato la
religione, con le sue varie culture, entro uno schema ideologico
inventato o culturalmente determinato, irrazionale, pieno di pre­
giudizi diffidenti e, talvolta, persino di repulsione; a causa di que­
sto contesto, comprendere l’Islam era un compito molto arduo. A
giudicare dalle varie analisi dei media e dalle interviste sulla rivo­
luzione iraniana condotte durante la primavera dal 1979, vi era una
forte propensione a considerare la rivoluzione soltanto come una
sconfitta per gli Stati Uniti (sebbene, effettivamente, fu proprio
così), oppure come il trionfo dell’oscurità sulla luce.
Una volta terminata la Guerra fredda, anche nel corso degli anni
Novanta l’Iran ha continuato a destare preoccupazioni poiché è
giunto a rappresentare, oltre all’“Islam”, il principale nemico estero
degli Stati Uniti. È considerato uno stato terrorista perché supporta
nel sud del Libano gruppi come gli Hezbollah (organizzazione fon­
data dopo l’invasione israeliana nel Libano meridionale), è ritenuto
promotore del fondamentalismo ed è specialmente temuto per la
sua fiera opposizione all’egemonia statunitense nel Medio Oriente,
in particolare nel Golfo Persico. Robin Wright, il principale esperto
di Islam del «Los Angeles Times», il 26 gennaio 1991 in un edito­
riale ha affermato che gli Stati Uniti e i governi occidentali sono
ancora alla ricerca di una strategia per affrontare la «sfida islamica»,
riferendo che un anonimo “alto funzionario” dell’amministrazio­
ne Bush aveva ammesso che «per fronteggiare l’Islam è necessaria
maggiore destrezza rispetto al contrasto del comuniSmo avviato 30
o 40 anni fa». Il rischio di semplificare una «miriade di paesi» era
stato, tuttavia, notato, e tra le cinque colonne di quell’articolo vi era
solamente l’immagine di Khomeini. L’Iran e il famigerato ayatollah
incarnavano tutto quel che era detestabile dell’Islam, dal terrorismo
all’avversione nei confronti dell’Occidente, fino a diventare «la sola
principale nazione monoteista che fornisce un insieme di regole con
cui governare la società, nonché un canone di norme spirituali».
Non veniva affatto menzionata né l’importante disputa che era in
corso in Iran su quali dovessero essere queste regole, perfino su
cosa fosse l’“Islam”, né l’acceso dibattito che contestava la legitti­
6 L’ISLAM COM E NOTIZIA

mità di Khomeini. Era sufficiente nominare il termine “Islam” per


comunicare gli aspetti del mondo che a “noi” spaventano. Peggio­
rando la situazione, l’amministrazione Clinton ha approvato leggi
che disincentivano gli altri paesi a stringere accordi commerciali
con l’Iran (così come avviene con la Libia e con Cuba).
È interessante la funzione svolta da V. S. Naipaul nell’assecon-
dare questa diffusa ostilità nei confronti dell’Islam. In un’intervista
pubblicata su «Newsweek International» (18 agosto 1980) parla in
merito al libro che ha scritto sull’“Islam” affermando di propo­
sito che «il fondamentalismo musulmano non ha alcun sostegno
intellettuale, pertanto è destinato a crollare». Non specifica a quale
fondamentalismo islamico in particolare intenda riferirsi, e quale
sorta di sostegno intellettuale abbia in mente. Indubbiamente allu­
deva all’Iran, così come - con termini altrettanto sfumati - all’inte­
ra ondata di anti-imperialismo islamico diffusosi nel Terzo mondo
nel dopoguerra, per il quale Naipaul ha sviluppato un’antipatia
particolarmente intensa, come dimostra nel suo Tra i credenti: un
viaggio nell’Islam. In alcuni suoi romanzi più recenti, Guerrillas e
Alla curva del fiume, Naipaul prende in considerazione l’Islam po­
nendolo tra le sue invettive generali contro il Terzo mondo (diffuse
tra i lettori progressisti occidentali), da lui associato alla corruzione
di pochi governanti grotteschi, alla fine del colonialismo europeo
e ai tentativi postcoloniali di ricostruire le società originarie, dimo­
strando così come in Africa e in Asia il fallimento intellettuale sia
totale. Secondo Naipaul l’“Islam” riveste un ruolo predominante
laddove sono in uso cognomi islamici, come tra i patetici guerri­
glieri dell’India occidentale, oppure dove rimangono le tracce della
tratta degli schiavi africani. In buona sostanza, per Naipaul e per i
suoi lettori 1’“Islam” rappresenta tutto quel che la razionalità civile
e occidentale disprezza maggiormente.4
Ogniqualvolta romanzieri, reporter, strateghi-politici ed “esper­
ti” trattano l’“Islam”, vale a dire l’Islam che è attualmente in vigore
in Iran e in altre parti del mondo musulmano, pare che non vi pos­
4. H o d iscu sso di N aip u l in Dispacci amari dal Terzo mondo [ 1 9 8 0 ] , in E d w ard W.
S aid , Nel segno dell’esilio. Riflessioni, letture e altri saggi [ 2 0 0 0 ] , M ilano, Feltrinelli,
2 0 0 8 , p p . 138-144.
EDWARD W. SAID 7

sano essere distinzioni tra il fervore religioso e la lotta per una giusta
causa, tra la normale debolezza umana e il conflitto politico; il corso
della storia fatta da uomini, donne e società non è contemplato come
un umano divenire. L’“Islam” sembra fagocitare i variegati aspet­
ti del mondo musulmano, tutti riconducibili in una speciale entità
malvagia, priva di ragione. Di conseguenza, tende a prevalere la più
cruda forma di scontro tra le parti, un antagonismo tra noi e loro,
a discapito di analisi e comprensione. Qualunque cosa gli iraniani
o i musulmani dicano sul loro senso di giustizia, sulla loro storia di
oppressione, sulla loro visione della loro società, sembra irrilevante;
quel che conta per gli Stati Uniti invece è lo svolgimento in atto della
“rivoluzione islamica” , come molte persone siano state giustiziate dai
Komitehs,5quanto siano strani i provvedimenti dell’ayatollah, utiliz­
zati per portare ordine nel nome dell’Islam. Ovviamente nessuno
ha mai considerato il massacro di Jonestown, l’attentato di Oklaho­
ma, terribilmente distruttivo, o la devastazione dell’Indocina, even­
ti commessi dalla cristianità, oppure in senso lato dall’Occidente e
dalla cultura americana; una tale similitudine è valida solamente per
1’“ Islam”.
Perché 1’“Islam” è spesso riconducibile in modo pavloviano a
un’intera serie di eventi politici, culturali, sociali e perfino econo­
mici? Cosa c’è nell’Islam che provoca una reazione così immediata
e irrefrenabile? Cosa rende differente 1’“Islam” e il mondo isla­
mico dall’Occidente, anzi, dal resto del Terzo mondo e, durante
la Guerra fredda, anche dall’Unione Sovietica? Queste non sono
affatto domande banali, pertanto è necessario rispondere un poco
alla volta, con molte analisi e differenziazioni.
Le etichette che pretendono di definire realtà molto vaste e com­
plesse sono notoriamente vaghe e, allo stesso tempo, inevitabili. Se
è vero che 1’“Islam” è un’etichetta imprecisa e carica di ideologie,
è anche vero che l’“Occidente” e la “cristianità” sono espressioni
altrettanto problematiche. Non vi è ancora nessun modo per evita­
re semplicemente queste etichette, dal momento che i musulmani
parlano di Islam così come i cristiani di cristianità, gli occidentali

5. [I “ K o m iteh s” eran o i C om itati rivoluzionari, N d T .]


8 L’ISLAM COM E NOTIZIA

di Occidente e gli ebrei di ebraismo, e inoltre tutti si esprimono


sugli altri con parole che paiono convincenti ed esatte. Invece di
proporre strategie che tentino di aggirare le etichette, nell’imme­
diato ritengo che sia più utile prendere atto fin dall’inizio della loro
esistenza e del loro essere utilizzate da molto tempo, essendo que­
ste parte integrante della storia culturale, a discapito di un’obiettiva
classificazione: ne parlerò successivamente in questo capitolo consi­
derandole per quello che sono, ovvero interpretazioni, prodotte per
e da ciò che definisco comunità interpretative.6Occorre quindi tener
presente che i termini “Islam”, “Occidente” e perfino “cristianità”
ogni volta che sono utilizzati funzionano almeno in due modi dif­
ferenti, producendo almeno due significati. Inizialmente, svolgono
una semplice funzione identificante, come quando si sostiene che
Khomeini è un musulmano, o che papa Giovanni Paolo il è un cri­
stiano. Simili affermazioni perlomeno rivelano ciò che caratterizza
una cosa, differenziandola da tutte le altre. A questo punto possiamo
distinguere tra un’arancia e una mela (come potremmo distinguere
tra un musulmano e un cristiano) solo nella misura in cui sappiamo
che sono frutti differenti, che crescono su diversi alberi, e così via.
La seconda funzione di queste diverse etichette è produrre un si­
gnificato molto più complesso. Parlare di “Islam” in Occidente oggi
denota i tanti aspetti spiacevoli menzionati prima e, per di più, con
molta probabilità l’Islam è associato a qualcosa che non si conosce
direttamente, in maniera obiettiva. Questa stessa considerazione è
vera anche riguardo al nostro utilizzo del termine “Occidente”. Fra
tutte le persone che pronunciano tali definizioni in modo aggressivo
e con fermezza, quante padroneggiano gli aspetti della tradizione oc­
cidentale, della giurisprudenza islamica, oppure conoscono le lingue
parlate nel mondo islamico? Pochissime, ovviamente, ma ciò non
impedisce alle persone d’indicare con fiducia “Islam” e “Occiden­
te”, credendo di saper esattamente ciò di cui stanno parlando.

6. [L a n ozione di “ com un ità interpretative” (com munities o f interpretation ) ri­


m an da alla sfera teorica d e ll’estetica della ricezione: una su a occorren za, piuttosto
nota negli Stati U niti, e qu i certam ente evocata da Said , si trova in Stanley F ish , C ’è
un testo in questa classe? Linterpretazione nella critica letteraria e nell'insegnam ento
[1980], Torino, Einaudi, 1987, pp. 102 sgg., N d T .]
EDWARD W. SAID 9

Per questo motivo dobbiamo considerare seriamente le etichet­


te. Ogni volta che un musulmano si pronuncia sull’“Occidente”, o
un americano sull’“Islam”, inevitabilmente entrano in gioco enormi
generalizzazioni che, sebbene rendano possibile forme di scambio,
allo stesso tempo ne impediscono altre. Le definizioni sono ideolo­
giche, cariche di forti emozioni e, rimanendo intatte nel corso dei
secoli, sono state capaci di adattarsi al mutare degli eventi e del­
le situazioni. Attualmente, aH’“Islam” e alT“Occidente” sono stati
ovunque attribuiti forti significati. E in effetti bisogna notare che è
sempre l’Occidente, e non la cristianità, a contrapporsi all’Islam.
Per quale motivo? Perché vige il presupposto che l’“Occidente”
sia superiore dal momento che ha superato lo stadio della cristia­
nità, sua principale religione, a differenza del mondo islamico che,
nonostante le sue varie popolazioni, storie e lingue, rimane anco­
ra impantanato nella superstizione, in uno stato di primitività e
arretratezza. Dunque l’Occidente è moderno, non riducibile alla
somma delle parti, anzi le contraddizioni interne ne arricchiscono
l’identità culturale, che rimane sempre “occidentale”; il mondo isla­
mico invece non è altro che “Islam”, riducibile a poche peculiarità
immodificabili, nonostante vi siano contraddizioni e specificità che
si manifestano in gran numero altrettanto che in Occidente.
Un esempio di quel che intendo dire è riscontrabile in un ar­
ticolo pubblicato domenica 14 settembre 1980 nell’inserto «News
of the Week in Review» del «New York Times». L’articolo, scrit­
to dal corrispondente da Beirut per il «Times» John Kifner, tratta
il rafforzamento dell’influenza sovietica nel mondo musulmano.
L’opinione di Kifner è evidente sin dal titolo (Marx and the Mo­
sque Are less Compatible Than Ever)-, tuttavia merita attenzione il
suo servirsi dellTslam per compiere ciò che in qualsiasi altro con­
testo sarebbe considerata una connessione inaccettabile, diretta e
infondata, tra un’astrazione e una realtà notevolmente complessa.
Perfino ammettendo che lTslam, a differenza delle altre religioni,
sia totalitario e non postuli separazione tra Chiesa e Stato, o tra
religione e vita quotidiana, non vi è alcun dubbio che le seguenti
dichiarazioni, sebbene siano piuttosto usuali, alimentino la disin­
formazione:
IO L’ISLAM COM E NOTIZIA

È sem plice il motivo per cui l ’influenza di M osca è in calo:


M arx e le m oschee sono incom patibili. [D iam o forse per scon­
tato che M arx e chiese, op pure M arx e tem pli, siano com pa­
tibili?]
Per la mentalità occidentale [ovviam ente questa è la que­
stione], condizionata dalla Riform a protestante fino agli svi­
luppi storici e intellettuali che hanno costantem ente dim inu­
ito il ruolo della religione, è difficile com prendere l’autorità
esercitata dall’Islam [che, presum ibilm ente, non è stato con ­
dizionato né dalla storia né dall’intelletto]. È stata per secoli
la principale forza nella vita di questa regione e, perlom eno
adesso, il suo potere pare inasprirsi.
N ell’Islam non c’è separazione tra chiesa e stato. E un siste­
m a totalitario non solo nell’am bito della fede, m a anche nella
pratica, con rigide norm e che dettano la vita quotidiana e con
uno slancio m essianico che incita a com battere e a convertire
gli infedeli. P er gli individui profondam ente religiosi, in parti­
colare per gli studiosi e il clero, m a anche per le m asse [in altre
parole, nessuno è esclu so ], il m arxism o, con la visione dell’u o ­
m o puram ente laica, non solo è estraneo, m a anche eretico.

Kifner non solo ignora la complessità della storia, come dimo­


strano le sue varie comparazioni tra il marxismo e l’Islam (legame
studiato da Maxime Rodinson in un libro che si sforza di spiegare
perché il marxismo sembra essersi inserito nelle società islamiche
nel corso degli anni),7ma rimane ancorato ai suoi ragionamenti sui
legami sottostanti tra “Islam” e Occidente, che nella realtà sono
eterogenei e variegati, non affatto riconducibili a un Islam sem­
plice, monolitico e totalitario. L’aspetto interessante è che Kifner
può affermare le sue argomentazioni senza correre nessun rischio
di apparire in errore. Il problema principale è che gli opinionisti
come Kifner passano da un Islam astratto a una realtà estremamen­
te complessa senza pensarci due volte.
Islam contro l’Occidente: questo è un terreno straordinariamen­
te fertile per una vasta gamma di variazioni. Le tesi che prevalgono
7. Maxime Rodinson, Marxism and The Modem World, London, Zed Press, 1979.
Vedi pure Thomas Hodgkin, The Revolutionary Tradition in Islam, in «Race and
Class», 21, n. 3, inverno 1980, pp. 221-237.
EDWARD W. SAID il

sono infatti Europa contro Islam e America contro Islam.8Ma i rap­


porti reali con l’Occidente sono piuttosto differenti e, nel comples­
so, giocano anche un ruolo significativo. A proposito è necessario
evidenziare le differenze fondamentali tra la conoscenza dell’Islam
degli americani e degli europei. Francia e Inghilterra, per esempio,
fino a poco tempo fa possedevano grandi imperi musulmani, per
questo motivo entrambi questi paesi, e in misura minore Italia e
Olanda (anch’essi con colonie islamiche), hanno maturato una lun­
ga tradizione di scambi stretti con il mondo islamico.9 Inoltre mi­
lioni di musulmani provenienti dall’Africa e dall’Asia attualmente
vivono nelle città francesi e inglesi. Tutto ciò ha influito nel campo
dell’orientalismo accademico, ben strutturato in Europa, in quei
paesi che possedevano colonie, così come in quelli che aspiravano
a possederle (Germania, Spagna, Russia pre-rivoluzionaria), oppu­
re confinanti a territori musulmani o che hanno avuto un passato
musulmano. La Russia, assieme alle sue repubbliche, oggi conta
una popolazione islamica di oltre 50 milioni e, tra il 1979 e 1988,
l’Unione Sovietica occupò militarmente l’Afghanistan musulmano.
Nessuna di queste esperienze appartiene alla storia degli Stati Uni­
ti, nonostante la popolazione musulmana residente sia in continuo
aumento e, mai prima d’ora, così tanti americani abbiano scritto,
pensato e parlato dellTslam.
In America l’assenza di un passato coloniale, nonché la scarsa
tradizione di studi sullTslam, contribuisce a rendere l’attuale osses­
sione piuttosto particolare, più astratta, perché le esperienze diret­
te sono limitate. Pochissimi americani hanno effettivamente avuto
contatti con persone musulmane; al contrario, in Francia l’Islam
è la seconda religione del paese, un dato che non indica certo la
popolarità, ma dimostra almeno che la conoscenza è più diffusa.
Nell’Europa moderna l’interesse nei confronti dellTslam si svilup­
pò tra la fine del diciottesimo e l’inizio del diciannovesimo secolo,
S. Esiste un elegante resoconto su questo tema, prodotto da un intellettuale tunisino
contemporaneo: vedi Hichem Djaït, L’Europe et l’Islam, Paris, Editions du Seuil, 1979.
Una brillante lettura psicoanalitico-strutturalista di un motivo “islamico” nella lettera­
tura europea - il serraglio - si trova in Alain Grosrichard, Structure di sérail: La fiction
du despotisme asiatique dans l’Occident classique, Paris, Editions du Seuil, 1979.
9. Maxime Rodinson, Ilfascino dell’Islam [1980], Bari, Dedalo, 1988.
12 L’ISLAM COM E NOTIZIA

nel cosiddetto periodo di “rinascimento orientale”, nel quale gli


studiosi francesi e britannici riscoprirono “l’Est”, ossia l’India, la
Cina, il Giappone, la Mesopotamia e la Terra Santa. L’Islam era
visto, nel bene o nel male, come parte dell’Oriente, dotato di mi­
stero, esotismo, corruzione e di un potere latente. In effetti prima
di allora l’Islam aveva minacciato militarmente l’Europa per secoli
e, durante il Medioevo e nel primo Rinascimento, aveva rappresen­
tato un vero e proprio problema per i pensatori cristiani, dato che
da centinaia di anni collocavano l’Islam e il suo profeta Maometto
tra le varie eresie. Per molti europei l’Islam esisteva, e veniva con­
siderato come una sfida religiosa e culturale, un’avversità che non
ha impedito all’imperialismo europeo di costituire le sue istituzio­
ni nei territori islamici. Nonostante le forti ostilità tra l’Europa e
l’Islam, gli scambi non furono mai interrotti, coinvolsero la sfera
dell’immaginazione e delle arti raffinate, per esempio influenzando
poeti, romanzieri e studiosi come Goethe, Gerard de Nerval, Ri­
chard Burton, Flaubert e Luis Massignon.
Eppure, malgrado questi artisti e altri come loro, l’Islam non è
mai stato accolto in Europa. La maggior parte dei grandi filosofi
della storia, da Hegel a Spengler, hanno giudicato l’Islam con scar­
so entusiasmo. Albert Hourani in un saggio decisamente illumi­
nante, Islam and the Philosophy o f History, ha approfondito questa
costante capacità straordinaria dell’Islam di andare oltre il sistema
della fede.10 Eccetto qualche raro interesse nei confronti di stra­
vaganti santi sufi e scrittori, le mode europee nei confronti della
“saggezza dell’Est” raramente includono saggi e poeti musulmani.
Omar Khayyàm, Harun al-Rashid, Sindbad, Alladin, Hajji Baba,
Scheherazade, Saladin, costituiscono più o meno l’intera lista dei
personaggi islamici attualmente conosciuti dagli europei più colti.
Nemmeno Carlyle è riuscito a rendere accettabile Maometto, poi­
ché gli europei già da tempo consideravano quei principi religiosi
assolutamente inadeguati ai paesi cristiani, nonostante suscitino
curiosità. Verso la fine del diciannovesimo secolo, con l’emerge­
re del nazionalismo islamico in Asia e in Africa, l’opinione comu-
io. A lbert H ou ran i, Islam and the Philosophers of History, in Id ., Europe and the
Middle East, L o n d o n , M acm illan & C o ., 1980, p p . 19-73.
EDWARD W. SAID 13

nemente accettata riteneva che le colonie musulmane sarebbero


dovute rimanere sotto la tutela europea, sia perché erano fonte di
guadagno, sia perché, essendo paesi sottosviluppati, avevano biso­
gno della disciplina occidentale.11 Nonostante il razzismo diffuso
e gli attacchi contro il mondo musulmano, gli europei espressero
molto chiaramente ciò che l’Islam significasse per loro. Le rappre­
sentazioni dell’Islam infatti hanno influenzato tutta la cultura euro­
pea - studi, arte, letteratura, musica, e discorsi pubblici - dalla fine
del diciottesimo secolo fino ai nostri giorni.
Molti governi europei, inoltre, hanno intrapreso una politica
di dialogo culturale e religioso con i paesi musulmani e arabi che
ha dato origine a molti seminari, conferenze e traduzioni di libri.
Tutto ciò è assente negli Stati Uniti, in quanto l’Islam è fondamen­
talmente una questione politica che impegna il Council on Foreign
Relations, un “pericolo” militare essendo, rispetto a tutte le altre
culture e paesi legati agli Stati Uniti, la principale minaccia alla
sicurezza nazionale.
La sobrietà diffusa in Europa è riscontrabile solamente in minima
parte in America. Nel diciannovesimo secolo gli Stati Uniti hanno
avuto poche relazioni con l’Islam, solamente qualche raro viaggia­
tore come Mark Twain e Herman Melville, missionari isolati oppure
militari impegnati in brevi spedizioni in Nordafrica. Fino alla Secon­
da guerra mondiale l’America non ha mai dedicato allTslam uno spe­
cifico campo culturale; gli studiosi accademici in genere svolgevano
le loro ricerche sullTslam isolati, in maniera alquanto eccentrica, del
tutto distanti dal fascino mondano dell’orientalismo e dalle princi­
pali riviste. Per circa un secolo nei paesi islamici le organizzazioni
missionarie americane, i funzionari diplomatici e gli addetti delle
compagnie petrolifere hanno stretto legami pacifici; tale situazione
è testimoniata dalle critiche che talvolta venivano espresse contro il
Dipartimento di Stato e le compagnie petrolifere “arabiste”, consi­
derati eccessivamente tolleranti nei confronti delle idee filo-islami-

II . In p rim o luo go, vedi il pen etrante stu dio di Syed H u sse in A latas, The Myth of
the Lazy Native: A Study of the Image of the Malays, Filipinos, and Javanese from the
i6'hto the zo,hCentury and in the ideology of Colonial Capitalism, L o n d o n , F ran k C ass
& Co., 1977.
H L’ISLAM COM E NOTIZIA

che, aggressive e antisémite. D ’altronde, fino a venti anni fa negli


Stati Uniti tutti i più famosi esperti sull’Islam, studiosi accademici e
fondatori di dipartimenti universitari, erano nati all’estero: il libane­
se Philip Hitti a Princeton, l’australiano Gustave von Grunebaum a
Chicago e alla UCLA, il britannico H. A. R. Gibb a Harvard, il tedesco
Joseph Schacht alla Columbia. Tuttavia, nessuno di questi professori
ha ottenuto un prestigio culturale celebre come quello di Jacques
Berque in Francia e di Albert Hourani in Inghilterra.
Perfino personalità come Hitti, Gibb, von Grunebaum e
Schacht sono scomparsi dalla scena americana, come del resto è
improbabile che studiosi come Berque e Hourani, morti entrambi
nel 1993, avranno successori in Francia e Inghilterra. Attualmen­
te nessuno possiede né il loro calibro culturale né il medesimo li­
vello di autorevolezza. Oggi in Occidente gli esperti accademici
sull’Islam tendono a studiare le scuole giuridiche nel decimo se­
colo a Baghdad, oppure i modelli urbani marocchini del dicianno­
vesimo secolo, ma mai (o quasi) la civiltà islamica nel complesso
- letteratura, leggi, politica, storia, sociologia e così via. Questo
però non impedisce agli esperti di esprimere generalizzazioni di
volta in volta sulla “mentalità islamica” o sull’“inclinazione degli
sciiti al martirio”, affermazioni che trovano spazio nelle riviste più
diffuse e nei media, dal momento che proprio questi incentivano
il sorgere di tali opinioni. Le crisi politiche, inoltre, quasi sempre
offrono l’occasione per intavolare dibattiti sull’Islam, coinvolgen­
do persone più o meno esperte. E estremamente raro leggere ar­
ticoli che informano sulla cultura islamica sul «New York Review
of Books», per esempio, o sull’«Harper’s». Pare che l’Islam desti
l’attenzione di tutti soltanto quando scoppia una bomba in Ara­
bia Saudita, oppure quando l’Iran minaccia di attaccare gli Stati
Uniti. Infatti, dopo l’attentato al World Trade Center del 1993, si­
stematicamente giornali, periodici e talvolta film si sono sforzati di
informare il pubblico sul “mondo islamico” con indagini, tabelle
e storie umanamente interessanti (il venditore d’acqua pakistano,
la famiglia contadina egiziana, ecc.). Questi sforzi tuttavia si sono
rivelati inefficaci poiché quel che impressionava maggiormente era
il retroterra di militanza e jihad, sebbene fosse riduttivo.
EDWARD W. SAID 15
Bisogna considerare quindi che la maggior parte degli america­
ni, inclusi gli intellettuali (accademici e non) esperti dell’Europa e
delPAmerica latina, conosce l’Islam soprattutto, se non esclusiva-
mente, perché è associato alle varie notizie che riguardano il petro­
lio, l’Iran, l’Afghanistan o il terrorismo.u D ’altronde, a partire dalla
metà del 1979 è cominciato un largo uso di espressioni come “rivo­
luzione islamica”, “la mezzaluna della crisi”, “l’arco di instabilità”
e “il ritorno dell’Islam”. Un esempio particolarmente significativo
è fornito dall’Atlantic Council’s Special Working Group on the
Middle East (che include Brent Scowcroft, George Ball, Richard
Helms, Lyman Lemnitzer, Walter Levy, Eugene Rostow, Kermit
Roosevelt, Joseph Sisco e molti altri) per aver intitolato la sua pub­
blicazione dell’autunno del 1979 Oil and Turmoil: 'Western Choices
in the Middle East,'3Quando il 16 aprile 1979 la rivista «Time» dedi­
cò il suo articolo principale all’Islam, pose in copertina un quadro
di Gérome che raffigura un muezzin con la barba, in piedi su un
minareto, intento a richiamare con calma i fedeli alla preghiera;
come si può immaginare, era una tipica opera d’arte orientalista
del diciannovesimo secolo, fin troppo sopravvalutata. Come se non
bastasse, a questa tranquilla scena anacronistica è stata abbinata
una didascalia del tutto inadeguata: «The Militant Revival». Non
avrebbe potuto esserci modo migliore per illustrare i diversi ap­
procci allTslam da parte dell’Europa e dell’America. Un’immagine
placida e decorativa, dipinta in Europa semplicemente seguendo
un canone artistico, grazie a tre parole è stata trasformata in una
diffusissima paura americana.
Sto forse esagerando? La storia di copertina del «Time»
sull’Islam era pensata solo per soddisfare volgarmente un presunto123

12. Non che ciò abbia sempre significato scritture e studi di basso calibro: nel­
la qualità di resoconto generale che risponde principalmente a esigenze politiche e
non alla necessità di un’effettiva conoscenza dell’Islam, vedi Martin Kramer, Politicai
Islam , Washington, D. C., Sage Publications, T980. Questo contributo fu scritto per
il “Center for Strategie and International Studies” della Georgetown University, e
quindi appartiene alla categoria della conoscenza politica, dunque non “oggettiva”,
Un altro esempio è nel numero speciale (voi. r, n. 453, gennaio 1980) su The M iddle
East, 1980 di «Current History».
13. «Atlantic Community Quarterly», 17, n. 3, autunno 1979, pp. 29^305, 377-378.
16 L’ISLAM COM E NOTIZIA

gusto per il sensazionale? Non rivela in realtà qualcosa di più se­


rio? Da quando i media hanno cominciato a dedicarsi a religione,
politica e cultura? Inoltre, non è forse vero che proprio quell’IsIam
aveva attirato su di sé l’attenzione del mondo? E cosa è successo agli
esperti d’IsIam, perché nei dibattiti evitavano del tutto l’argomen­
to, oppure i loro interventi erano parte integrante di quell’“Islam”
così diffuso dai media?
Innanzitutto, è necessario qualche semplice chiarimento. Come
mostrato precedentemente, nessun esperto americano del mon­
do islamico ha goduto di un vasto pubblico; inoltre, con l’ecce­
zione degli ultimi tre volumi di Marshall Hodgson The Venture
o f Islam, pubblicati postumi nel 1975, non è mai stata offerta ai
lettori un’analisi dell’Islam nel suo complesso.14 Gli esperti o sono
così specializzati da rivolgersi soltanto ad altri specialisti, oppure
le loro ricerche non sono abbastanza adatte per soddisfare quello
stesso genere di lettori che si informa sul Giappone, sull’Europa
occidentale o sull’India. Queste congetture sono entrambe valide,
dal momento che in America nessun orientalista è conosciuto al di
fuori degli studi orientalisti, al contrario di Berque o Rodinson in
Francia. Negli Stati Uniti però lo studio dell’Islam non è né inco­
raggiato seriamente nelle università, né sostenuto da personalità
celebri che, grazie ai loro meriti, potrebbero favorire una migliore
conoscenza dell’Islam nella cultura generale.15 Chi sono gli equi­
valenti americani di Rebecca West, Freya Starle, T. E. Lawrence,
Wilfred Thesiger, Gertrude Bell, P. H. Newby, oppure del più re-
14 Marshall Hodgson, The Venture of Islam, Chicago and London, University
of Chicago Press, 1974, 3 voli. Cfr. l’importante recensione a questo libro scritta da
Albert Hourani e pubblicata sul «Journal of Near Eastern Studies», 37, n. 1, gennaio
1978, pp. 53-62.
15. Indice di ciò è il rapporto Middle Eastern and African Studies: Developments
and Needs, commissionato dal Department of Healt, Education and Welfare del go­
verno statunitense nel 1967, scritto dal professor Morroe Berger di Princeton, anche
presidente della m e s a (Middle East Studies Association). Nel rapporto Berger asseri­
sce che il Medio Oriente «non è un centro rilevante dal punto di vista culturale [...]
e dunque non se ne ricava granché a occuparsene, almeno per quanto concerne la
cultura moderna [...] [Il Medio Oriente] ha visto diminuire la sua immediata impor­
tanza politica per gli Stati Uniti». Per un commento a questo documento e una con­
siderazione del contesto in cui è stato prodotto, vedi Edward W. Said, Orientalismo,
cit., pp. 285-291 [che riporta una citazione più estesa del rapporto di Berger, NdT].
EDWARD W. SAID 17

cen te Jo n a th a n R a b a n ? N e l m ig lio re d e i c a si, p o tr e b b e r o e sse re


ex p e rso n a lità d e lla CIA c o m e M ile s C o p e la n d o K e rm it R o o se v e lt,
m o lto ra ra m e n te sc ritto ri o p e n sa to r i di altra fo rm a z io n e cu ltu rale.
G io v a n i sc ritto ri e tra d u tto ri di tale n to c o m e P e te r T h e r o u x n on
h an n o a n c o r a la sc ia to u n a fo rte tra ccia.
Un secondo motivo della drammatica assenza dell’opinione de­
gli esperti d’IsIam è la loro lontananza da quel che accadeva nel
mondo musulmano, quando nella metà degli anni Settanta per la
prima volta l’Islam è divenuto “notizia”. In quegli anni sono avve­
nuti molti fatti sconvolgenti: per esempio, gli stati esportatori di
petrolio del Golfo improvvisamente sono apparsi potentissimi; era
in corso una guerra civile in Libano incredibilmente violenta e che
sembrava senza fine; l’Etiopia e la Somalia erano coinvolte in un
lungo conflitto; il problema curdo all’improvviso diventò centrale,
per poi attenuarsi inaspettatamente dopo il 1975; l’Iran aveva desti­
tuito il re a seguito di una rivoluzione “islamica” di massa e com­
pletamente nuova; l’Afghanistan nel 1978 fu sconvolto da un colpo
di stato e, successivamente, invaso dalle truppe sovietiche alla fine
del 1979; l’Algeria e il Marocco si trascinavano in un lungo conflitto
sulla questione del Sahara meridionale; in Pakistan un presidente
fu giustiziato e fu imposta una nuova dittatura militare. Avveniva
anche altro: tra Iran e Iraq era appena scoppiata una guerra, erano
sorti Hamas e Hezbollah, Israele (ma non solo) era stato colpito
da una serie di attentati dinamitardi, in Algeria vi era una cruen­
ta guerra civile tra gli islamisti e un governo ormai screditato, ma
accontentiamoci di questi avvenimenti. Nel complesso ritengo giu­
sto affermare che gli esperti che si occupavano d’IsIam avrebbero
dovuto spiegare questi fatti in Occidente; non avendo previsto tali
sconvolgimenti, non hanno neanche preparato i loro lettori. Ave­
vano invece realizzato molti studi che sembravano, in confronto
a quel che avveniva, riferirsi a regioni del mondo incredibilmente
lontane, privi di qualsiasi rapporto con i disordini minacciosi che,
attraverso i media, tutti vedevano scoppiare.
Q u e s t a è la q u e stio n e c e n tra le e, d a to c h e a b b ia m o a p p e n a
c o m in c ia to a tr a tta r la a n a litic a m e n te , d o v r e m m o p r o c e d e r e a c ­
c u ra ta m e n te . G li e s p e r ti a c c a d e m ic i c o m p e te n ti s u ll’Isla m , c o m e
i8 L’ISLAM COM E NOTIZIA

av v en iv a p r im a d e l d ic ia s se tte sim o s e c o lo , la v o ra v a n o in u n c a m ­
p o e sse n z ia lm e n te a n tiq u a to ; p e r d i p iù , c o m e gli s p e c ia listi d i
altri c a m p i, il lo r o la v o r o e ra su d d iv is o in ta n ti se tto ri. N o n h a n n o
n é v o lu to n é p r o v a to a in te re ssa r si se ria m e n te ai risv o lti m o d e r n i
d e lla sto r ia isla m ic a . In u n a c e rta m isu ra , i lo r o stu d i e r a n o le g a ti
a n o z io n i b a s a t e su un Isla m “ c la s s ic o ” , a m o d e lli d i v ita m u s u l­
m a n a r e p u ta ti im m u ta b ili o p p u r e a d a rc a ic h e q u e stio n i filo lo g i­
ch e. In o g n i c a s o n o n c ’e ra m o d o d i u tiliz z a rli p e r c o m p r e n d e r e
il m o n d o m u su lm a n o c o n te m p o r a n e o p o ic h é , a tu tti gli e ffe tti,
o g n i re g io n e si è sv ilu p p a ta s e g u e n d o p e r c o r s i m o lto d iv e rsi d a
q u e lli d e lin e a ti n e i p r im i se c o li d e ll’Isla m (v ale a d ire d a l se ttim o
al n o n o se c o lo ).
G li e sp e rti c o m p e te n ti su ll’Isla m c o n te m p o ra n e o o v v e ro , p e r
e sse re p iù p re c isi, q u e lli ch e si e ra n o sp e cia liz z a ti su lle so cie tà , p o ­
p o li e istitu z io n i in eren ti al m o n d o m u su lm a n o a p a rtire d a l d i­
c io tte sim o se c o lo , la v o ra v a n o v in co lati a u n o sc h e m a p re d e fin ito ,
c o n d u c e n d o rice rch e in b a s e a n o zio n i e la b o ra te d e c isa m e n te non
n el m o n d o islam ic o . Q u e s to fa tto n on p u ò e sse re tra sc u ra to , p e r
tu tta la su a c o m p le ssità e varietà. E in n e g a b ile ch e un ric e rca to re
d i O x f o r d o d i B o sto n sc riv a so p r a ttu tto s e g u e n d o c an o n i, c o n v e n ­
zio n i e a sp e tta tiv e ch e so n o c o n d iz io n a ti d a i su o i c o lleg h i, n o n d ai
m u su lm a n i ch e sta stu d ia n d o . S i tra tta p ro b a b ilm e n te d i u n tru i­
sm o , tu ttav ia b iso g n a c o m u n q u e so tto lin e a rlo . I m o d e rn i stu d i is la ­
m ici a c c a d e m ic i a p p a r te n g o n o g e n e ra lm e n te agli “ are a p r o g r a m s ” ,
v a le a d ire ag li stu d i se tto ria li s u ll’E u r o p a o c c id e n ta le , su ll’U n io n e
S o v ie tica , su l S u d -e st A sia tic o e c o sì via. S o n o stru ttu ra ti in b a se
alle e sig e n z e d e tta te d alla p o litic a n azio n ale , n o n so n o q u e stio n i
ch e il sin g o lo s tu d io so p u ò sce g lie re . S e a P rin ce to n q u a lc u n o ha
a p p r o fo n d ito le sc u o le re lig io se n e ll’A fg h a n ista n c o n te m p o ra n e o ,
è o v v io (sp e c ia lm e n te d i q u e sti te m p i) ch e un tale stu d io potrebbe
av ere “ im p lic a z io n i p o litic h e ” e ch e il ric e rca to re , lo v o g lia o n o ,
s a r e b b e in se rito n ei can ali g o v e rn ativ i, n elle relaz io n i az ie n d a li e
n elle a sso c ia z io n i le g a te alla p o litic a e ste ra ; u n tale im p e g n o in c i­
d e r e b b e su i fin an ziam e n ti, su l tip o d i p e rso n e d a in co n tra re e, in
g e n e ra le , gli s a r e b b e r o o ffe rte r ic o m p e n se sic u re e u n c e rto g e n ere
d i le gam i. V o len te o n o le n te , lo stu d io so d iv e rre b b e u n “ e sp e rto
EDWARD W. SAID 19
d ’a r e a ” , a sc o lta to in u n silen z io rev e re n ziale, n el m o d o in cu i av v ie ­
ne n ei c o n fro n ti di g io rn a listi m e d io c ri e in c o m p e te n ti c o m e Ju d ith
M iller su Isra e le e p u b b lic isti c o m e M a rtin P eretz.
R ig u a r d o ag li s tu d io si ch e h a n n o in te re ssi le g a ti d ire tta m e n te
alle q u e stio n i p o litic h e (so p r a ttu tto p o lito lo g i, m a a n ch e sto ric i
c o n te m p o ra n e i, e c o n o m isti, so c io lo g i e a n tr o p o lo g i), b is o g n a a f ­
fro n ta re q u e stio n i se n sib ili, p e r n on d ire p e r ic o lo s e . A d e se m p io ,
un r ic e r c a to re c o m e p u ò c o n c ilia re la s u a p r o fe s s io n e co n le e s i­
g e n z e g o v e rn a tiv e ? L ’Ira n è u n c a so p e r fe tto p e r sp ie g a r e ta le a r g o ­
m en to . D u r a n te il re g im e la P a h le v i F o u n d a tio n e la rg iv a fo n d i ag li
ira n o lo g i e, n a tu ra lm e n te , a n ch e alle istitu z io n i am e ric a n e . Q u e sti
fin an ziam e n ti so ste n e v a n o stu d i ch e c o n sid e ra v a n o c o m e p u n to di
p a rte n z a lo sta tu s q u o (o ssia la p r e se n z a d e l r e g im e d ei P a h le v i, le ­
g a to m ilita rm e n te e d e c o n o m ic a m e n te ag li S ta ti U n iti) in m o d o d a
re n d e rlo , in un c e rto se n so , il p a r a d ig m a d i ric e rc a p e r gli stu d e n ti
del p a e se . L ’H o u s e P e r m a n e n t S e le c t C o m m itte e o n In te llig e n c e
d u ra n te la crisi a ffe r m ò ch e le v a lu ta z io n i s u ll’Ira n e la b o r a te fin o ­
ra d a g li S ta ti U n iti e r a n o in flu e n z a te d a lle ista n z e p o litic h e « n o n
d ire tta m e n te , a ttra v e r so il d e lib e r a to o s c u r a m e n to d e lle n o tiz ie
sg ra d ite , b e n sì in d ir e tta m e n te [ . . . ] n o n v e n iv a d o m a n d a to ag li
an alisti p o litic i se l ’a u to r ità d e llo sh ah sa r e b b e rim a sta s a ld a a lu n ­
g o ; la c o n d o tta si b a s a v a su q u e lla a s s u n z io n e » .16 D i c o n se g u e n z a ,
so la m e n te p o c h issim i s tu d i a v e v a n o v a lu ta to se ria m e n te il re g im e
d e llo sh ah , in d iv id u a n d o i p r e s u p p o s t i d i u n ’o p p o s iz io n e p o p o l a ­
re. C h e io s a p p ia , s o lo H a m id A lg ar, p r o fe s s o r e a B erk eley , g iu d i­
c ò c o rre tta m e n te l ’e ffe ttiv a fo r z a p o litic a d e l se n tim e n to re lig io so
ira n ia n o , so lo A lg a r e b b e il c o r a g g io d i p r e v e d e r e ch e l ’ay ato llah
K h o m e in i p r o b a b ilm e n te a v r e b b e d e stitu ito il reg im e. S i d is c o s t a ­
v a n o d a lla v isio n e c o rre n te a n ch e altri ric e rc a to ri, tra cu i R ic h a rd
C o tta m e d E r v a n d A b ra h a m ia n , m a rim a n e v a n o se m p re u n a n etta

16. Cit. in Michael A. Ledeen e William H. Lewis, Carter and the Fall of the Shah:
The Inside History, in «Washington Quarterly», 3, n. 2, primavera 1980, pp. 11-12.
Ledeen e Lewis sono integrati (e supportati nelle loro argomentazioni) da William H.
Sullivan, Dateline Iran: The Road Not Taken, in «Foreign Policy», 40, autunno 1980,
pp. 175-186; Sullivan era l’ambasciatore in Iran prima e durante la rivoluzione. Vedi
anche le sei puntate di Scott Armstrong, The Fall of the Shah, in «Washington Post»,
25, 26, 27, 28, 29, 30 ottobre 1980.
20 L’ISLAM COM E NOTIZIA

minoranza.'7 (In tutta onestà bisogna notare che pure gli studiosi
europei, meno ottimisti sulla sopravvivenza dello shah, non rico­
nobbero la matrice religiosa dell’opposizione iraniana.)'8
Oltre all’Iran, anche altrove sono stati commessi molti errori
intellettuali altrettanto considerevoli, tutti causati dalla dipenden­
za acritica dalle politiche governative e dai canoni prestabiliti. A
questo punto, quel che è avvenuto in Libano e Palestina è esem­
plare. Per anni il Libano è stato considerato un modello di società
pluralista, composta da un mosaico di culture. Gli schemi utilizzati
per lo studio del Libano erano ritenuti esatti e stabili a tal punto
che la ferocia e la violenza della guerra civile (durata perlomeno
dal 1975 al 1980) apparve imprevista. Le analisi degli esperti svolte
negli anni precedenti sembravano estremamente ammaliate dalle
immagini della “stabilità” libanese: gli studi infatti si erano limitati
ai leader tradizionali, alle élite, ai partiti, alle caratteristiche nazio­
nali e al successo della modernizzazione.
Perfino quando l’ordinamento politico del Libano era reputato
instabile, oppure quando ne era evidenziata la sua scarsa “civiltà”,
i problemi nell’insieme di solito erano ritenuti gestibili, lungi dal
divenire estremamente distruttivi.'9 Durante gli anni Sessanta il Li-1789

17. H am id Algar, The O ppositional R ole o f the ’Ulam a in Twentieth Century Iran,
in N ik ki R. K e d d ie (a cu ra di), Scholars, Saints, and Sufis: M uslim R eligious Institutions
Since 1500, Berkeley, L o s A ngeles an d L o n d o n , U niversity o f C aliforn ia P ress, 1972,
p p . 231-255. V edi anche E rv an d A brah am ian , The Crowd in Iranian Politics, 1905-1953,
in «P a st an d P resen t», 41, dicem b re 1968, p p . 184-210; così p u re Id ., Factionalism in
Iran: Political Group in the 14th Parliam ent (1944-1946), in «M id d le E astern S tu d ie s»,
14, n. I , genn aio 1978, p p . 22-25; Id-. The Causes o f the C onstitutional Revolution in
Iran, in «In tern ation al Jo u rn a l o f M id d le E a st S tu d ie s», 10, n. 3, ago sto 1979, p p . 381-
414; Id ., Structural Causes o f the Iranian Revolution, in « m e r i p R e p o rts», 87, m aggio
1980, p p . 21-26. V edi anche R ich ard W. C ottam , N ationalism in Iran, P ittsbu rgh , Pa,
U niversity o f P ittsb u rgh P ress, 1979.
18. Ciò è ancor più valido per un libro come quello di Fred Halliday, Iran: Dicta­
torship and Development, New York, Penguin Books, 1979, che, nonostante tutto, è
uno dei due o tre studi migliori sull’Iran prodotti dopo il secondo conflitto mondiale.
Maxime Rodinson, in Marxism and the Muslim Word, non dice quasi nulla sull’oppo­
sizione religiosa musulmana. Solo Algar (vedi la nota 17, supra) sembra cogliere nel
segno su questo punto.
19. Questa è l’argomentazione portata avanti in Edward Shils, The Prospect of
Lebanese Civility, in Leonard Binder (a cura di), Politics in Lebanon, New York, John
Wiley & Sons, 1966, pp. 1-11.
EDWARD W. SAID 21

bario era considerato “stabile” perché, ci dicevano gli esperti, la


situazione “inter-araba” era stabile; finché durerà tale equilibrio,
sostenevano, il Libano sarà sicuro.20 Non era mai stata ipotizzata
l’eventualità di una stabilità inter-araba e una instabilità libanese,
essenzialmente perché - come avviene in tutti i casi in cui è in gio­
co il consenso - il Libano nel senso comune era associato a un
perenne “pluralismo” e a una serena continuità, come se fossero
irrilevanti le sue divisioni interne e i vicini arabi. Pertanto, tutti i
problemi del Libano dovevano essere necessariamente causati dal
contesto arabo circostante, mai da Israele o dagli Stati Uniti, en­
trambi con mire ben precise, per nulla prese in considerazione.21
Inoltre il Libano rappresentava il mito della modernizzazione. Con
un comportamento simile a quello degli struzzi che evitano di ve­
dere la realtà, questa menzogna era incredibilmente sostenuta nel
1973, quando la guerra civile era difatti già cominciata. Veniva detto
che il Libano avrebbe potuto subire un cambiamento rivoluziona­
rio, ma ciò restava un’ipotesi “remota”; era molto più probabile
invece «l’avvento di una modernizzazione in grado di coinvolge­
re la gente [un eufemismo tristemente ironico per quel che fu la
più sanguinaria guerra civile nella storia araba degli ultimi anni]
nel quadro dell’ordinamento politico vigente».22 Oppure, come un
celebre antropologo ha affermato, «rimane intatto lo “splendido
esempio di mosaico” libanese. Infatti [...] il Libano ha continuato
a essere perfettamente in grado di contenere le sue radicate divi­
sioni primordiali».23

20. Malcom Kerr, Political Decision Making in a Confessional Democracy, in ivi, p. 209.
21. Cfr. il ricco materiale che si trova in Moshe Sharett, Personal Diary, Tel
Aviv, Ma’ariv, 1979; Livia Rokach, Israel’s Sacred Terrorism: A Study Based on Moshe
Sharett’s Personal Diary and Other Documents, con l’introduzione di Noam Chomsky,
Belmont, Mass., Association of Arab-American University Graduates [ a a z g ] , 1980.
Considera pure le rivelazioni sul ruolo della C IA in Libano messe in campo da uno
dei suoi vecchi consiglieri, Wilbur Cranel Eveland, nel suo Ropes of Sand: America’s
Failure in the Middle East, New York, W. W. Norton & Co., 1980.
22. Elie A dib Salem, Modernization Without Revolution: Lebanon’s Experience,
Bloomington and London, Indiana University Press, 1972, p. 144. Salem è anche autore
di Form and Substance: A Critical Examination ofthe Arabis Language, in «Middle East
Forum», 33, luglio 1958, pp. 17-19. Il titolo indica già di per sé l’approccio seguito.
23. Clifford Geertz, Interpretazione di culture [1973], Bologna, il Mulino, 1987, p. 295.
22 L’ISLAM COM E NOTIZIA

Gli esperti dunque, sia riguardo al Libano che altrove, non


avevano compreso che le principali dinamiche in atto negli stati
post-coloniali non potevano semplicemente essere intese come una
questione di “stabilità”. In Libano non avevano mai documenta­
to, oppure avevano costantemente sottovalutato, proprio quegli
elementi instabili e devastanti che hanno lacerato il paese così
barbaramente,14 ossia gli squilibri sociali, i cambiamenti demogra­
fici come l’incremento della popolazione sciita, le appartenenze
religiose e le correnti ideologiche. In maniera analoga, per anni
la Palestina è stata da tutti considerata soltanto come un insieme
di rifugiati senza alcuna importanza, non come una forza politica
capace di suscitare notevoli implicazioni, fattori da non trascurare
per una valutazione accurata del Vicino Oriente. Dalla metà degli
anni ’70 i palestinesi sono diventati una delle maggiori preoccu­
pazioni della politica statunitense, tuttavia studiosi e intellettuali
non hanno ancora riconosciuto l’importanza che essi meritano;2425
hanno continuato a essere considerati come un aspetto marginale
nel quadro delle relazioni diplomatiche degli Stati Uniti con l’Egit­
to e Israele, del tutto ignorati all’irrompere del conflitto libanese.
Quando scoppiò Xintifada alla fine del 1987, agli occhi di funzionari
e commentatori apparve come una sorpresa. Non vi era alcuno stu­
dioso importante, nessun esperto, a fare da contrappeso alla cecità
di questa politica e ciò, nel lungo periodo, rischia di comportare
esiti disastrosi per gli interessi nazionali americani. Tale carenza si è
manifestata nuovamente quando scoppiò la guerra tra Iran e Iraq,
dato che gli analisti furono colti di sorpresa e le stime sulle capacità
militari di entrambi si rivelarono erronee. La questione principale
è che gli Stati Uniti e la loro schiera di “esperti” non possono aspet­
tarsi che gli islamici abbraccino di cuore l’“Occidente”, dopo che
questi hanno visto i musulmani venire uccisi in Bosnia, Cecenia e
Palestina, dopo aver visto lodati i loro impopolari governanti in
quanto amici dagli Stati Uniti e dopo aver dovuto sopportare in-

24. Per una descrizione interessante delle illusioni degli “esperti” sul Libano alla
vigilia della guerra civile, cfr. Paul and Susan Starr, Blindness in Lebanon, in «Human
Behavior», 6, gennaio 1977, pp. 56-61.
25. Ho discusso quest’argomento in La questione palestinese, cit., pp. 27-68 e passim.
EDWARD W. SAID *3

n u m erev o li v o lte la d e sc riz io n e d e lla lo r o re lig io n e e c u ltu ra co m e


“ fe r o c e ” e “ v io le n ta ” .
In a g g iu n ta ai fin an ziam e n ti alla ric e rc a o tte n u ti re m issiv a m e n te
e agli in te re ssi n on lim p id i, u n ’altra triste v e rità è ch e tr o p p i sc r itto ­
ri e sp e rti d e l m o n d o isla m ic o n o n p a d ro n e g g ia v a n o le lin g u e o rie n ­
tali e, q u in d i, le lo r o fo n ti d e riv a v a n o d a p u b b lic a z io n i altru i o d a
altri a u to ri o c c id e n ta li. Q u e s ta fo rte d ip e n d e n z a d a lla v e rsio n e d ei
fatti u fficiale, c o m u n e m e n te a c c e tta ta , fu la tr a p p o la in cu i c a d d e ro
i m e d ia , co n le lo ro v a g h e d e scriz io n i d e ll’Ira n p re-riv o lu z io n a rio .
L a m e d e sim a c o n d o tta fu se g u ita p rim a d e llo s c o p p io d ell 'intifada,
q u a n d o si d iffu se l ’o s se ssio n e p e r il “ fo n d a m e n ta lism o ” isla m ic o
e il “ te r r o r is m o ” . V ig ev a la te n d e n z a a stu d ia r e p iù v o lte le ste sse
q u e stio n i, fo c a liz z a n d o l ’a tte n z io n e se m p re su g li ste ssi asp e tti: le
élite, i p r o g r a m m i d i m o d e rn iz z a z io n e , il ru o lo d e i m ilitari, i le a ­
d e r p iù in v ista, le crisi se n sa z io n a li, le reti d e lla jih ad, la stra te g ia
g e o p o litic a (d a l p u n to d i v ista a m e ric a n o ), l ’in flu en za “ is la m ic a ” .16
T u tte q u e ste c o n sid e ra z io n i, ch e in un p r im o m o m e n to s e m b r a v a ­
n o in te re ssa re gli S ta ti U n iti, so n o sta te le tte ra lm e n te sp a z z a te via
d a lla riv o lu zio n e iran ian a n el g iro d i p o c h i gio rn i. T u tta la c o rte
im p e ria le si sb r ic io lò ; l ’e se rc ito , a cu i e ra n o stati v e rsa ti m iliard i
di d o lla ri, si d isin te g rò e le c o sid d e tte élite sc o m p a rv e ro o p p u r e
si ric o llo c a ro n o a ll’in te rn o d e l c o n te sto m u ta to ; so n o d u e fa tti
rilevan ti, se b b e n e n o n si p o s s a so ste n e re ch e sia n o sta ti p r o p r io
q u e sti av v en im en ti a d e te rm in a re l ’e v o lv ere d e lla p o litic a iran ian a.
C o m u n q u e , n el d ic e m b r e 1978 Ja m e s B ill d e ll’U n iv ersity o f T e x a s,
u n o d e g li e sp e rti a cu i fu c h ie sto d i p r e v e d e re le c o n se g u e n z e d ella
“ crisi d el ’78” , r a c c o m a n d a v a a n c o r a ai fu n z io n a ri p o litic i a m e ri­
can i ch e il g o v e rn o d e g li S ta ti U n iti in c o r a g g ia sse « l o sh ah [ . . . ] a d
a p rire il s is te m a » .17 In altre p a r o le , ven iv a c o n su lta to p e rfin o un
p r o fe sso r e rite n u to d issid e n te su c o m e so ste n e re un re g im e c o n tro
cui, in q u e llo ste sso m o m e n to , le tte ra lm e n te m ilio n i d i p e rso n e si
2 6 . P e r un resocon to brillan te di qu esta delusion e collettiva, vedi A li Jan d ag h i
(p seud .), The Present Situation in Iran, in «M on th ly R eview », n ovem bre 1 9 7 3 , p p . 34-
4 7 . V edi p u re Stuart Schaar, Orientalism at the Service of Imperialism, in «R a c e and
C lass 2 1 » , I , estate 1 9 7 9 , p p . 6 7 - 8 0 .
2 7 . Ja m e s A. Bill, Iran and the Crisis of ’7 8 , in «F o re ig n A ffairs 5 7 » , 2 , inverno
1 9 7 8 - 1 9 7 9 , p . 341.
24 L’ISLAM COM E NOTIZIA

sollevavano in una delle insurrezioni più partecipate della storia


moderna.
Bill inoltre mise in evidenza l’ignoranza sull’Iran diffusa negli
Stati Uniti. Aveva ragione nel dire che la copertura dei media era
superficiale, che l’informazione ufficiale era stata orientata verso
quel che i Pahlevi desideravano e che gli Stati Uniti non hanno
fatto nessuno sforzo né per conoscere a fondo il paese né per strin­
gere contatti con l’opposizione. Bill però non affermava che questi
fallimenti indicavano, e continuano a indicare, il modo in cui gli
Stati Uniti (e in tono minore anche l’Europa) si confrontano con il
mondo islamico e, come è riscontrabile, con gran parte del Terzo
mondo. Il fatto che Bill non mettesse in relazione quel che giu­
stamente sosteneva sull’Iran con il resto del mondo islamico era
proprio parte di questa attitudine. Prima di tutto erano compieta-
mente ignorate le questioni metodologiche centrali, vale a dire: che
valore ha (se presente) parlare di “Islam” e di rinascita islamica?
In secondo luogo, qual è o come dovrebbe essere la relazione tra le
politiche governative e le ricerche degli studiosi? L’esperto deve es­
sere considerato al di sopra della politica, oppure dipendente dalle
esigenze governative? Bill e William Beeman della Brown Univer­
sity dimostrarono in differenti occasioni che il motivo principale
della crisi tra gli Stati Uniti e l’Iran nel 1979 fu il non aver consul­
tato quegli esperti accademici che conoscevano accuratamente il
mondo islamico.28 Bill e Beeman non presero sul serio l’eventualità
che questa situazione fosse avvenuta perché gli studiosi erano alla
ricerca di un ruolo e, per continuare a definirsi tali, si erano mo­
strati enigmatici, quindi non attendibili, sia per il governo sia per la
comunità intellettuale.29

28. William O. Beeman, D evaluing Experts on Iran, in «New York Times», 11apri­
le 1980; James A. Bill, Iran Experts: Proven Right But Not Consulted, in «Christian
Science Monitor», 6 maggio 1980.
29. In sen so contrastivo rispetto a quegli stu diosi che, du ran te la guerra in V iet­
nam , p eroran o la cau sa delh autorappresen tazion e com e “ scienziati” volontariam ente
asserviti allo stato: sareb b e in d ispen sab ile sapere perché gli specialisti del Vietnam
furon o consultati (con non poch i risultati disastrosi), m entre gli esperti dell’Iran no.
Vedi N o am Chom sky, O biettività a cultura liberale, in Idem , I nuovi m andarini. G li
in tellettuali e il potere in Am erica [1969], M ilano, il Saggiatore, 2002, p p . 33-163.
EDWARD W. SAID 25

U n in te lle ttu ale in d ip e n d e n te (ch e in fin d e i c o n ti è q u e l ch e u n o


stu d io so a c c a d e m ic o d o v r e b b e e sse re ) p u ò m a n te n e rsi a u to n o m o
e, allo ste s s o te m p o , la v o ra re d ire tta m e n te p e r lo S ta to ? Q u a l è la
relaz io n e tra u n a fra n c a p a rtig ia n e ria p o litic a e u n a b u o n a c o n o ­
sc e n z a ? L ’u n a e sc lu d e l’altra, o p p u r e è v e ro so lo in alcu n i c a si?
C o m e è p o tu to av ven ire ch e u n a sc h ie ra (ce rta m e n te p ic c o la ) di
stu d io si su ll’Isla m n on sia sta ta a sc o lta ta a d e g u a ta m e n te n el p a e se ?
P e rc h é ciò a c c a d d e in un m o m e n to in cu i, c o m e a d e sso , gli S tati
U n iti av e v a n o n e c e ssità di in fo rm a r si? S i p u ò r isp o n d e re a tu tte
q u e ste d o m a n d e so lo rim a n e n d o a ll’in te rn o d e ll’a m p io q u a d r o p o ­
litico ch e, n el c o r so d e lla sto ria , g o v e rn a i r a p p o rti tra O c c id e n te
e m o n d o islam ico . S o lo c o n sid e ra n d o q u e sto c o n te sto p o ssia m o
c o m p r e n d e r e q u a le ru o lo sp e tti a g li sp e cia listi.
A p a rtire d a l M e d io e v o in tu tti i p e rio d i d e lla sto ria e u ro p e a o
am erican a l ’Isla m n on è m ai sta to n é c o n sid e ra to n é p e n sa to al di
là del so lito q u a d r o c o stitu ito d a sen tim en ti irrazio n ali, p re g iu d iz i
e in te re ssi p o litici. P ro b a b ilm e n te n on è u n a sc o p e rta e c c e z io n a ­
le, m a ciò h a in flu en zato u n ’in tera g a m m a d i d iscip lin e le tterarie e
scien tifich e che, d a ll’in izio d e l d ic ia n n o v e sim o se c o lo , n el lo r o in ­
sie m e si so n o d efin ite e n tro l ’a m b ito d e ll’o rie n talism o , c e rc a n d o di
trattare siste m a tic a m e n te l ’O rien te. N e s s u n o sa r e b b e in d is a c c o rd o
nel so ste n e re ch e i p rim i c o m m e n ta to ri d e ll’Isla m , c o m e P ie tro il
V en erab ile e B arth é lem y d ’H e r b e lo t, e ra n o con vin ti cristian i d alle
o p in io n i m o lto d u re. T u ttav ia, d a q u a n d o l ’E u r o p a e l ’O c c id e n te
so n o en trati n ella m o d e r n a era scien tifica, e m a n c ip a n d o si d a lla s u ­
p e rstiz io n e e d a ll’ig n o ra n z a , l ’in clu sio n e d e ll’o rie n talism o e n tro la
Scia di tale p r o g r e sso è sta to c o n sid e ra to un p r e s u p p o s to in d isc u sso .
N o n è fo rse v e ro ch e Silv e stre d e Sacy, E d w a r d L a n e , E rn e st R en an ,
H a m ilto n G ib b e L o u is M a ssig n o n e ran o in se g n ati c o m e m ateria
di stu d io ? E n on è fo rse v e ro ch e n el v e n te sim o se c o lo , n o n o sta n te
o g n i so rta d i p r o g r e sso n el c a m p o d e lla so c io lo g ia , a n tro p o lo g ia ,
lin g u istica e sto ria, i p r o fe sso r i am erican i ch e in se g n a n o il M e d io
O rie n te e l ’Isla m in lu o g h i c o m e P rin ce to n , H a r v a r d e C h ic a g o si ri­
te n g o n o im p arz iali, lib e ri d i p e rsiste re co n c o n v in zio n e ? L a risp o sta
è n o. L ’o rie n talism o n o n è p iù o b ie ttiv o d e lle altre scien ze so cia li e
u m an istich e; è ch iaram e n te id e o lo g ic o , in flu en zato d a l m o n d o co m e
26 L’ISLAM COM E NOTIZIA

le altre d iscip lin e. L a p rin c ip a le d iffe re n z a è ch e gli stu d io si o rie n ta ­


listi so n o stati p r o p e n si a u sa re la lo ro c o n d iz io n e di e sp e rti p e r n o n
a m m ettere - e q u a lc h e v o lta p e rfin o m a sc h e ra re - i lo ro sen tim en ti
p r o fo n d i su ll’Islam , g ra z ie a un lin g u a g g io a u to rev o le , il cu i s c o p o è
certificare la lo ro “ o b ie ttiv ità ” e “ im p arz ialità sc ie n tific a ” .
Q u e s to è il p u n to cru ciale. L ’alterità d e v ’e sse re sto riciz zata, altri­
m en ti r im a rre b b e u n ’in d efin ita c aratteriz zazio n e deH’o rie n talism o .
N e ll’e ra m o d e rn a o g n i v o lta ch e si è m a n ife sta ta u n ’a sp ra ten sio n e
p o litic a tra l ’O c c id e n te e il suo O rie n te (o tra l ’O c c id e n te e il suo
Isla m ), in O c c id e n te vi è stata la te n d e n z a a n o n rico rre re alla v io ­
le n za d iretta, b e n sì a serv irsi in p rim o lu o g o d e lle tecn ich e p ro p rie
d ella rice rca scien tifica, r a p p re se n ta z io n i q u a si o b ie ttiv e e relativ a­
m en te d ista cc a te . In q u e sto m o d o v ien e sp ie g a to l ’ “ I s la m ” , rivelan ­
d o la “ v e ra n a tu r a ” d ella su a m in accia, p r o p o n e n d o un in siem e di
azion i p e r co n tra sta rlo . In un tale c o n te sto la scien za, al p a ri d ella
vio len z a d iretta, è c o n sid e ra ta d a m o lti m u su lm an i, n elle p iù sv a ria ­
te circo stan z e , c o m e u n a fo rm a d i a g g re ssio n e co n tro l ’Islam .
D u e e se m p i so rp re n d e n te m e n te sim ili d im o stra n o le m ie tesi.
R ip e rc o rr e n d o la sto r ia p o ssia m o n o ta re c o m e nel d ic ia n n o v e si­
m o se c o lo le o c c u p a z io n i d e lle reg io n i o rie n tali islam ich e, d a p a rte
sia d e lla F ra n c ia sia d e ll’In g h ilte rra , sia n o sta te p r e c e d u te d a un
p e r io d o in cu i le v a rie te c n ic h e d i ric e rca u sa te p e r c o m p re n d e re
l’O rie n te su b ir o n o u n n o te v o le a g g io rn a m e n to te c n ic o e di sv ilu p ­
p o .30 P rim a d e ll’o c c u p a z io n e fr a n c e se d e ll’A lg e ria nel 1830, vi fu
u n a fa se lu n g a circa d u e d e c e n n i d u ra n te la q u a le gli stu d io si fr a n ­
cesi le tte ra lm e n te tra sfo r m a r o n o le rice rch e su ll’O rie n te d a u n a
c o n o sc e n z a d e lle c o se an tich e in u n a d isc ip lin a razio n a le. C e rto ,
nel 1798 N a p o le o n e B o n a p a r te o c c u p ò l’E g itto e, se n z a d u b b io ,
è rilev an te il fa tto ch e p rim a d e lla sp e d iz io n e fu p r e p a r a to d a un
p r e stig io s o g r u p p o di scien ziati, p e r re n d e re la su a im p re sa p iù
efficien te. Q u e l ch e in te n d o so ste n e re , c o m u n q u e , è ch e la b re v e
o c c u p a z io n e d i N a p o le o n e in E g itto h a c h iu so un c a p ito lo . U n o
n u o v o è c o m in c ia to d u r a n te il lu n g o p e r io d o in cu i, co n S ilv e stre
d e S a c y a c a p o d e lle istitu z io n i fra n c e si d i stu d i o rie n tali, la F ra n c ia

30. Cfr. E d w ard W. S aid , O rientalism o , cit., pp. 126-168.


EDWARD W. SAID 27

divenne il punto di riferimento mondiale nell’orientalismo; questo


capitolo raggiunse il culmine qualche anno dopo, quando gli eser­
citi francesi occuparono l’Algeria nel 1830.
N o n in te n d o a ffa tto so ste n e re ch e ci p o s s a e sse re u n a relaz io n e
cau sale tra u n a c o sa e l ’altra, n on a p p r o v o la visio n e an ti-in tellettuale
p e r cu i tu tta la c o n o sc e n z a scien tifica n e c e ssa ria m e n te c o n d u c e alla
violen za e alla so ffe re n za . C iò ch e v o g lio d ire è ch e gli im p e ri n on
so n o n ati in un istan te e, n el c o r so d ella sto ria m o d e rn a , n o n so n o
stati gestiti im p ro v v isa n d o di v o lta in vo lta. L o sv ilu p p o d e l sa p e re
o b b lig a gli scien ziati, ch e te n d o n o a p o rsi al di s o p r a d e g li a rg o m e n ­
ti ch e stu d ia n o , a rid efin ire e rico stitu ire i c a m p i d ella co n o sc e n z a .
In m an iera a n a lo g a ciò è v a lid o an ch e p e r q u e i p o litici ch e d e v o n o
e se rcitare la lo ro a u to rità n elle regio n i “ in fe rio ri” d el m o n d o , o ssia
la d d o v e d e i n u o v i in te re ssi “ n a z io n a li” so n o in d iv id u ati, p o ic h é in
un s e c o n d o m o m e n to si r e n d o n o c o n to d e lla n e ce ssità d i p o rre q u ei
p ae si so tto u n a stretta so rv e g lia n z a .31 D u b ito m o lto ch e l ’In g h ilterra
a v re b b e o c c u p a to l’E g itto p e r c o sì ta n to te m p o , in un m o d o co sì
fo rte m e n te istitu zio n alizz ato , se n on vi fo sse p rim a sta to un lu n ­
g o in v estim e n to n ella c o n o sc e n z a orie n tale , co ltiv ata in izialm en te
d a stu d io si c o m e E d w a r d W illiam L a n e e W illiam Jo n e s . F am iliari,
a ccessib ili, ra p p re se n ta b ili: in q u e sto m o d o gli o rie n talisti av ev an o
raffig u rato le regio n i orien tali. L ’O rie n te p o te v a e sse re o sse rv a to ,
stu d ia to e g o v e rn a to , n on d o v e v a n e ce ssa ria m e n te rim an ere un p o ­
sto d ista n te , m e rav ig lio so , in c o m p re n sib ile e m o lto ricco . P o te v a
e sse re p o rta to a c a sa an zi, p iù se m p lic e m e n te , l ’E u r o p a p o te v a s ta ­
b ilirsi là, c o m e a p p u n to fe ce su cce ssiv am e n te .
Il m io s e c o n d o e s e m p io fa rife rim e n to ai te m p i recen ti. L ’O r ie n ­
te isla m ic o o g g i è c h ia ra m e n te im p o r ta n te p e r le su e riso rse e p e r
la su a p o siz io n e g e o p o litic a , e c o m u n q u e n ie n te d i tu tto c iò p u ò
e sse re sc a m b ia to co n gli in te re ssi, i b iso g n i e le a sp ira z io n i d e lle
p o p o la z io n i o rie n ta li. D o p o la fin e d e lla S e c o n d a g u e rra m o n d ia ­

31. Sulla connessione tra sapere e politica nel mondo coloniale, vedi Le Mal de voir:
Ethnologie et orientalisme: politique et épistémologie, critique et autocritique, Cahiers
Jussieu n. 2, Paris, Collections 10/18,1976). Sul modo in cui i “campi” di studio coinci­
dono con gli interessi nazionali, cfr. Special Supplement: Modem China Studies, in «Bul-
lettin of Concerned Asia Scholars», 3, nn. 3-4, estate autunno 1971, pp. 91-168.
28 L’ISLAM COM E NOTIZIA

le nel mondo islamico gli Stati Uniti hanno assunto la posizione


dominante ed egemonica che un tempo Gran Bretagna e Francia
mantenevano. Sono scesi in guerra nel 1991 per salvaguardare i
loro interessi economici nel Golfo Persico, hanno armato i mili­
ziani afghani contro l’Unione Sovietica, sono attivi insieme a Isra­
ele nel campo della ricerca e dei servizi segreti contro i militanti
islamici nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza. La
sostituzione di un sistema imperiale con un altro ha comportato
un paio di cose: primo, un lieve aumento dell’interesse nei con­
fronti dell’Islam da parte degli esperti accademici che solitamente
si occupavano solo delle crisi e, secondo, una straordinaria rivolu­
zione tecnologica nel campo dell’editoria privata e del giornalismo
elettronico. Mai prima d’ora una crisi estera, per esempio in l’Iran
0 in B o sn ia , e ra sta ta r a c c o n ta ta co n u n a tale im m e d ia te z z a e r e ­
g o la r ità c o m e i m e d ia fa n n o attu a lm e n te : co n u n ’in te n sità se n z a
p r e c e d e n ti, l ’Iran p a r e v a e n tra re a ll’interno d e lle vite a m e ric a n e ,
p u r r im a n e n d o p r o fo n d a m e n te e str a n e o , c o sì c o m e è a v v e n u to
d u r a n te g li an n i N o v a n ta n el c a so d e lla B o sn ia . In sie m e q u e sti
d u e fe n o m e n i - il s e c o n d o m o lto p iù d e l p rim o - l ’u n o d o v u to
allo s tu d io d e ll’Isla m e d el M e d io O rie n te c o n d o tto d a un c o n s i­
d e re v o le a p p a r a to d i u n iv e rsità, g o v e rn o e d e sp e rti d i a ffa ri, l ’a ltro
d o v u to alla tr a sfo rm a z io n e d e ll’Isla m in un a rg o m e n to fa m ilia re
a o g n i fr u ito r e d i in fo rm a z io n i in O c c id e n te , h a n n o q u a si a d d o ­
m e stic a to il m o n d o isla m ic o , p e r lo m e n o q u e g li a sp e tti ch e so n o
c o n sid e ra ti d e g n i d i n o tizia . Il m o n d o m u su lm a n o in O c c id e n te
è d iv e n ta to un a r g o m e n to m o lto d is c u s s o in a m b ito c u ltu ra le e
p o litic o ; n e ssu n a re g io n e n o n o c c id e n ta le è m ai sta ta c o sì p re se n te
n e g li S ta ti U n iti c o m e è o g g i il m o n d o a ra b o -isla m ic o . P e r d i p iù
1 r a p p o r ti tra Isla m e O c c id e n te , in q u e sto c a so g li S ta ti U n iti,
so n o p r o fo n d a m e n te u n ila te ra li e ciò c o m p o r ta ch e, c o m e av v ie n e
a n ch e in altri c a si, gli a sp e tti d e l m o n d o m u su lm a n o m e n o in te ­
r e ssa n ti p e r l ’in fo rm a z io n e g io r n a listic a sia n o tra tta ti in m a n ie ra
p r o fo n d a m e n te d isto r ta .
N o n è ta n to e sa g e r a to a ffe rm a re ch e i m u su lm a n i e gli a ra b i
so n o e sse n z ia lm e n te d e sc ritti, d is c u ss i e c o n sid e ra ti so la m e n te in
q u a n to fo rn ito ri d i p e tr o lio , o p p u r e c o m e p o te n z ia li terro risti.
EDWARD W. SAID 29

P e rfin o q u e lle p e r so n e ch e p e r la v o ro d e v o n o ra c c o n ta re il m o n ­
d o isla m ic o c o n o sc o n o p o c h issim i d e tta g li r ig u a r d o a ll’u m a n ità e
alla c u ltu ra d e lla v ita a ra b a -m u su lm a n a . A b b ia m o a d isp o siz io n e
so lo u n a p ic c o la se rie d i c a ric a tu re d el m o n d o isla m ic o , g re z z e e
rid u ttiv e, talaltro p r e se n ta te p e r re n d e re q u e lla realtà v u ln e ra b ile
a u n ’a g g r e ssio n e m ilita re.32 R ite n g o ch e n egli an n i S e tta n ta n o n sia
sta to un c a so ch e le d isc u ssio n i su ll’in te rv e n to m ilitare d e g li S ta ti
U n iti n el G o lf o A r a b ic o , i d ib a ttiti su lla d o ttrin a C arter, su lla R a p id
D e p lo y m e n t F o r c e s e su l “ c o n te n im e n to ” m ilita re ed e c o n o m ic o
d e ll’ “ Isla m p o litic o ” , n e ll’a ffa sc in a n te m e d iu m telev isiv o fo sse r o
s p e s s o p r e c e d u te d a u n a ra z io n a le p re se n ta z io n e d e ll’ “ I s la m ” , g r a ­
zie a ll’ “ o g g e ttiv a ” an alisi o rie n ta lista (ch e p a r a d o ssa lm e n te h a un
e ffe tto stra n ia n te c o m e la telev isio n e, p e r la su a “ n on p e r tin e n z a ”
alla c o n te m p o r a n e ità o p e r la su a v a rie tà “ o g g e ttiv a ” tip ic a d ella
p ro p a g a n d a ). In b a s e a m o lti a sp e tti la n o stra situ a z io n e a ttu a le
so m ig lia a q u e lla d e lla G r a n B r e ta g n a e d e lla F ra n c ia nel d ic ia n n o ­
v e sim o se c o lo sp ie g a ta p r e c e d e n te m e n te .
S o n o p re se n ti in o ltre m o tiv i p o litici e c u ltu rali. D o p o la S e c o n ­
d a g u e r r a m o n d ia le , q u a n d o gli S ta ti U n iti c o n q u ista ro n o il r u o ­
lo im p e ria le ch e p rim a e ra d e te n u to d a F ra n c ia e G r a n B re ta g n a ,
fu e sc o g ita to un in sie m e d i p o litic h e p e r a ffr o n ta re il m o n d o , u n a
stra te g ia ch e si p o te s s e a d a tta r e alle p e c u lia rità e ai p r o b le m i d e l­
le v a rie reg io n i ch e in c id e v a n o su g li in te re ssi d e g li S ta ti U n iti (o
ch e e ra n o d a q u e sti in flu en zate). F u sta b ilito ch e l ’E u r o p a d o v e v a
m ig lio ra re n el d o p o g u e r r a , e p e r ta n to fu id e a to il p ia n o M a rsh a ll.
L ’U n io n e S o v ie tic a o v v ia m e n te e m e rse c o m e l ’a n ta g o n ista p iù te ­
m ib ile d e g li S ta ti U n iti e, in u tile d irlo , la G u e r r a fr e d d a p r o d u s s e
p o litic h e , stu d i, p e rfin o u n a m e n ta lità ch e a n c o ra d o m in a le re la ­
zion i tra u n a su p e r p o te n z a e u n ’altra. D o p o la fine d e lla G u e r r a
fr e d d a è rim a sto il c o sid d e tto T e rzo m o n d o , u n c a m p o d i b a tta g lia
tra gli S ta ti U n iti e i v a ri p o te ri lo c a li ch e so lo d i re ce n te h a n n o
o tte n u to l ’in d ip e n d e n z a d a i c o lo n iz z a to ri e u ro p e i.

32. Cfr. Edmund Ghareeb (a cura di), Split Vision: Arab Portrayal in the American
Media, Washington, D. C., Institute of Middle Eastern and North African Affairs, 1977.
Per la controparte britannica, vedi Sari Nasir, The Arabs and the English, London, Long­
mans, Green & Co., 1979, pp. 140-172.
30 L’ISLAM COM E NOTIZIA

Q u a s i se n z a ecc e z io n i, ai fu n z io n a ri p o litic i am e ric a n i il T erzo


m o n d o a p p a r v e su b ito “ s o tto s v ilu p p a to ” , n ella m o rsa d i m o d e lli
d i vita “ tr a d iz io n a li” in u tilm en te a rcaici e statici, p e ric o lo sa m e n te
in clin i alla so v v e rsio n e c o m u n ista e alla sta g n a z io n e in tern a. P e r gli
S ta ti U n iti la “ m o d e r n iz z a z io n e ” d e l T e rz o m o n d o e ra a ll’o rd in e
d e l g io rn o , u n ic a lo ro p rio rità . C o m e Ja m e s P e c k h a su g g e rito , « la
te o ria d e lla m o d e rn iz z a z io n e e ra la r isp o sta id e o lo g ic a a u n m o n d o
d i c re sc e n ti so lle v a z io n i riv o lu zio n arie e c o n tin u e rib ellio n i d e lle
élite p o litic h e tra d iz io n a li» .33 E n o r m i so m m e d i d e n a ro so n o state
e la rg ite a ll’A fric a e a ll’A sia p e r a rg in a re il c o m u n iS m o , p e r p r o ­
m u o v e re il c o m m e rc io co n gli S ta ti U n iti e, so p ra ttu tto , p e r re n d e ­
re p o te n ti u n a sc h ie ra d i alleati lo c a li la cu i raison d’être se m b ra v a
la tra sfo rm a z io n e d e i p a e si arre tra ti in p ic c o le A m e rich e . P e r r e a ­
lizzare q u e sti p ia n i gli in v estim e n ti in iziali co l te m p o h a n n o ric h ie ­
sto u lte rio ri so m m e e l ’a u m e n to d e ll’a p p o g g io m ilita re e ciò , a su a
v o lta, h a p r o d o tto in terv en ti in tu tta l ’A sia e l ’A m e ric a L a tin a che
re g o la rm e n te p o n e v a n o gli S ta ti U n iti in c o n tra p p o siz io n e a q u a si
o g n i fo r m a di n a z io n a lism o lo cale.
N o n si p u ò c o m p r e n d e r e d e l tu tto la sto ria d e g li sfo rzi sta tu ­
n iten si in n o m e d ella m o d e rn iz z a z io n e e d ello sv ilu p p o d el T erzo
m o n d o se n on si n o ta c o m e la p o litic a ste ssa a b b ia p r o d o tto u n o sti­
le di p e n sie r o e u n ’a b itu d in e a v e d e re il T erzo m o n d o in term in i di
p o te n z ia m e n to d e g li in vestim en ti p o litici, id e a li e strate gici, in b a se
alle id e e d el p r o g r e sso . Il V ie tn am è un e se m p io p e rfe tto . U n a v o lta
ch e fu d e c iso ch e il p a e se d o v ev a e sse re sa lv a to d a l com u n iSm o,
d ifatti d a sé ste sso , so rs e u n ’in te ra scien za d ella m o d e rn iz z a z io n e
d a a p p lic a re al V ietn am (la cu i fa se finale e p iù c o sto sa è c o n o sc iu ta
c o m e “ v ie tn a m iz z a z io n e ” ). N o n fu ro n o coin vo lti so lta n to gli s p e ­
cialisti d el g o v e rn o , m a an ch e gli e sp e rti u n iv ersitari. C o l p a ssa re
d eg li anni, la so p ra v v iv e n z a di regim i filo-am erican i e a n tico m u n isti
a S a ig o n p re v a lse su o g n i altra c o sa , an ch e q u a n d o d iv en tò ch iaro

33. James Peck, Revolution Versus Modernization and Revisionism: A Two-Front


Struggle, in Victor G. Nee e James Peck (a cura di); China’s Uninterrupted Revolution:
From 1840 to the Present, New York, Pantheon Books, 1975, p. 71. Vedi pure Irene L.
Gendzier, Notes Toward a Reading of The Passing of Traditional Society, in «Review
of Middle East Studies 3», London, Ithaca Press, 1978, pp. 32-47.
EDWARD W. SAID 31

che l ’e n o rm e m a g g io ra n z a d ella p o p o la z io n e g iu d ic a v a q u ei go v e rn i
stran ie ri e o p p re ssiv i, p e rfin o q u a n d o le g u e rre c o m b a ttu te sen za
su c c e sso in n o m e d i q u e i regim i d e v a sta v a n o l ’in tera re g io n e , c o ­
sta n d o la p re sid e n z a a L y n d o n Jo h n so n . N e g li S ta ti U n iti le n u m e ­
ro se o p in io n i su ll’im p o rta n z a d i m o d e rn iz z a re le so c ie tà tra d izio n ali
si d iffu se ro n ella so cie tà e n ella cu ltu ra in m a n ie ra q u a si in d isc u s­
sa. A llo ste sso te m p o p e rò , n elle d iv erse p a rti d el T e rzo m o n d o , la
“ m o d e rn iz z a z io n e ” n el se n so c o m u n e e ra a sso c ia ta alle sp e se folle
p e r gli arm am en ti, ai g o v e rn an ti co rro tti e ai b ru ta li in terv en ti d eg li
S tati U n iti n egli affari d i p a e si p ic c o li e d e b o li.
T ra le m o lte illu sio n i p e rsiste n ti n ella te o ria d e lla m o d e rn iz z a ­
zio n e, u n a se m b r a v a sp e c ia lm e n te p e rtin e n te al m o n d o isla m ic o
p o ic h é so ste n e v a ch e, p rim a d e ll’arriv o d e g li S ta ti U n iti, l ’Isla m si
tro v a v a in u n a so rta d i g io v in e z z a se n z a te m p o , lo n ta n o d a u n v e ro
sv ilu p p o , co n su p e rstiz io n i arc aic h e , b lo c c a to d a i su o i stra n i p re ti e
scriv an i sb a lz a ti d a l M e d io e v o n el m o n d o m o d e rn o . A q u e sto p u n ­
to l ’o rie n ta lism o e la te o ria d e lla m o d e rn iz z a z io n e si c o m b in a n o
a rm o n io sa m e n te . S e , c o m e tra d iz io n a lm e n te ci in se g n a n o g li stu d i
o rie n talisti, i m u su lm a n i n o n so n o n ie n t’altro ch e d ei b a m b in i f a ­
n atici ch e si o p p o n g o n o a ll’O c c id e n te e al p r o g r e sso , o p p r e s s i d a l­
la lo r o m e n ta lità, d a i lo ro ulema e d a i lo r o c a p i p o c o lu n g im iran ti,
e b b e n e , i m ig lio ri a n alisti p o litic i, a n tr o p o lo g i e so c io lo g i a llo ra s a ­
re b b e r o in g r a d o d i m o str a r e c o m e , p o s te le g iu ste co n d iz io n i, sia
p o ssib ile in tro d u rre n e ll’Isla m u n a so rta d i stile d i v ita a m e ric a n o ,
m e d ia n te c o n su m o d e lle m e rc i e “ b u o n i” le a d e r ? In o g n i m o d o ,
la p rin c ip a le d iffic o ltà co n l ’Isla m , d iv e rsa m e n te d a ll’In d ia e d a lla
C in a , e ra il su o n o n e sse re m ai sta to d e l tu tto p a c ific a to o sc o n fitto .
P e r rag io n i ch e se m b r a n o se m p re sfu g g ir e alla c o n o sc e n z a d e g li
stu d io si, l’Isla m (o q u a lc h e v e rsio n e d i e sso ) h a c o n tin u a to a in ­
flu e n z are i su o i fe d e li, i q u a li, c o m e v ien e re g o la rm e n te so ste n u to ,
n on so n o d is p o s ti a d a c c e tta re la realtà, o m e g lio q u e lla p a r te d i
e ss a ch e so stie n e la su p e r io rità d e ll’O c c id e n te .
G li sfo rz i p e r la m o d e rn iz z a z io n e so n o p e rsistiti d u ra n te i d u e
d e c e n n i su c c e ssiv i alla S e c o n d a g u e rra m o n d ia le e, in effetti, l ’Iran
e ra c o n sid e ra to u n c a so p ie n a m e n te riu sc ito , co n il su o so v ra n o che
se m b r a v a il le a d e r “ m o d e r n iz z a to ” per eccellenza. P o ic h é la strate-
32 L’ISLAM COME NOTIZIA

già americana aveva fortemente investito nella teoria della moder­


nizzazione, per via degli interessi economici, gli studiosi occidenta­
li giudicavano semplicemente dei nemici oppure non prendevano
adeguatamente in considerazione molte forze politiche presenti nel
mondo islamico, come i nazionalisti arabi, Gamal Abdel Nasser in
Egitto, Sukarno in Indonesia, i nazionalisti palestinesi, i gruppi di
opposizione iraniani e le migliaia di autorità islamiche, fratellanze
e altre organizzazioni meno note.
Nel corso degli sconvolgenti anni Settanta l’Islam ha dato nuo­
vamente prova della sua profonda intransigenza. Ad esempio, è
avvenuta la rivoluzione iraniana: sia per i sostenitori del comuni­
Smo, sia per i fautori della modernizzazione, era difficile inquadra­
re le persone che rovesciavano lo shah entro i criteri presupposti
dalla teoria della modernizzazione. Non erano affatto grati per i
benefici quotidiani apportati dalla modernizzazione (automobi­
li, un ingente apparato militare e di sicurezza, un regime stabile)
e apparivano completamente indifferenti alle lusinghe delle idee
“Occidentali”.34 Riguardo al loro comportamento, in particolare
quello di Khomeini, preoccupava specialmente il convinto rifiuto
manifestato nei confronti di qualsiasi ordinamento politico (o di
qualsiasi altra razionalità politica) che non fosse stato fondato da
loro stessi. Soprattutto allarmava il loro stretto legame a un Islam
prettamente iraniano, fieramente impugnato e difeso con un’intol­
leranza che sembrava particolarmente insolente. Solo pochi com­
mentatori, nel replicare a chi in Occidente criticava l’“atavismo”
islamico e le logiche medievali, facevano notare ironicamente che
poche miglia a ovest dell’Iran, nell’Israele di Begin, vi era un regi­
me che agiva in accordo ai dettami delle autorità religiose, basati su

34. Un resoconto della “modernizzazione” messa in campo dal regime di Pahlevi


si trova in Robert Graham, Iran: The Illusion ofPower, New York, St. Martin’s Press,
1979. Vedi pure Thierry-A. Brun, The Failures of Western-Style Development Add to
Regime’s Problems ed Eric Rouleau, Oil Riches Underwrite Ominus Militarization in
a Repressive Society, in Ali-Reza Nobari (a cura di), Iran Erupts, Stanford, Calif., Iran-
American Documentation Group, 1978. Anche Claire Brière and Pierre Blanchet,
Iran: La Révolution au nom de Dieu, Paris, Editions du Seuil, 1979, libro che possiede
in appendice un’intervista a Michel Foucault.
EDWARD W. SAID 33

un dottrina teologica che appariva alquanto arretrata.” Un’esigua


minoranza di opinionisti inoltre evidenziò la recrudescenza della
religiosità islamica ponendola in connessione al forte aumento ne­
gli Stati Uniti delle televisioni religiose, guardate da molti milioni
di fedeli, e al fatto che due dei tre più importanti candidati alla
presidenza nel 1980 erano ferventi cristiani born-again.
E divenuto un luogo comune utilizzare una o due generalizzazio­
ni orientaliste (molte di queste proclamate da orientalisti veterani
come Bernard Lewis) per attaccare l’intero mondo islamico senza al­
cuna preoccupazione, senza chiedersi se così tante banalità possano
sempre rappresentare il comportamento di tutti i musulmani. Ciò è
evidente soprattutto nelle discussioni che pretendono di dimostra­
re l’inevitabile connessione tra Islam e terrorismo. Prendiamo in
considerazione Conor Cruise O ’Brien, un ex intellettuale di sinistra
che durante gli anni Ottanta gradualmente ha abbracciato la destra
reazionaria, riuscendo a mantenere in un modo o nell’altro le sua
reputazione di intellettuale progressista, nonostante le sue critiche
nei confronti del boicottaggio culturale verso il Sudafrica durante
l’apartheid e il suo ostinato sostegno a favore dell’ala destra sionista
israeliana. Ecco un tipico paragrafo di un giudizio storico ottuso,
pieno di generalizzazioni e di stereotipi, a tal punto che chiunque
conosca minimamente l’Islam potrà ammettere la sua assurdità:

Certe culture e sub-culture, sedi di frustrazioni, sono desti­


nate a diventare terreno fertile per il terrorismo. La cultura isla­
mica [O’Brien in questo caso non spiega il ragionamento con
cui passa dalla religione alla cultura, né specifica quali siano i
loro ambiti] è l’esempio più eclatante. Quella cultura è convin­
ta di essere nel giusto rispetto al resto del mondo [O’Brien non
precisa in che modo e dove abbia ricavato questa informazione
particolarmente privilegiata] e ciò è profondamente in disac­
cordo con le attuali logiche del mondo contemporaneo [que-35

35. C’è stata una straordinaria riluttanza da parte della stampa nel dire qualcosa
a proposito dell’esplicita formulazione religiosa delle posizioni politiche in Israele,
specialmente quando quest’ultime erano dirette ai non-ebrei. Sarebbe interessante
accedere a materiale relativo a Gush Emunim o alle dichiarazioni delle varie autorità
rabbiniche, e via dicendo.
34 L’ISLAM COM E NOTIZIA

sto sicuramente può essere sostenuto riguardo alle “visione di


sé” di quasi ogni cultura]. La Casa dell’Islam, grazie al volere
di Dio, dovrebbe trionfare sul mondo della Casa della Guerra
(i non musulmani), non solo in modo spirituale. Lo slogan dei
fondamentalisti iraniani nel Golfo è «Islam Means Victory»
[per esempio durante la guerra Iran-Iraq tra il 1980 e 1988].
Infliggere un colpo contro la Casa della Guerra è meritorio; di
conseguenza le azioni deplorate in Occidente, come il terrori­
smo, sono molto supportate. [Si noti come O’Brien non abbia
indicato ai suoi lettori nessun avvenimento, fonte o citazione,
nemmeno il contesto, un metodo di ragionamento alquanto
singolare dal momento che non sembra affatto preoccuparse­
ne.] Queste attività prendono di mira soprattutto Israele [non
viene mai ricordato ciò che Israele ha fatto o continua a fare:
c’è solo puro terrorismo islamico], ma tali azioni probabilmen­
te continuerebbero perfino se Israele cessasse di esistere (Thin­
king about Terrorism, «The Atlantic», giugno 1986, p. 65).

Dunque, una caratterizzazione particolarmente violenta della re­


ligione è associata soltanto allTslam, anche se un simile sentimento
religioso si sta notevolmente diffondendo ovunque. Per compren­
dere come l’Islam sia giudicato con ostilità, in modo unilaterale, è
sufficiente ricordare che la stampa liberale tratta con benevolenza
personaggi religiosi palesemente illiberali, come Solženicyn o Gio­
vanni Paolo il, e che i massacri di musulmani in Bosnia non sono
mai stati messi in relazione alla cristianità.36 Il ritorno alla religione
è diventato il metodo per spiegare gran parte degli stati musul­
mani, dall’Arabia Saudita - la quale, in base a una logica ritenuta
puramente islamica, ha rifiutato di ratificare gli accordi di Camp
David - al Pakistan, Afghanistan e Algeria. In questo modo pos­
siamo notare come nella mentalità occidentale, ma particolarmente
negli Stati Uniti, il mondo islamico sia stato considerato differente
rispetto alle regioni del mondo in cui erano applicabili le anali­
si della Guerra fredda, anche se in realtà in certi paesi islamici la
36. Cfr. Garry Wills, The Greatest Story Ever Told, con sottotitolo che recita:
Blissed out the pope’s us visit - “unique”, “historic”, “trascendent” - the breathless pres­
so produced a load ofpapal hull, in «Columbia Journalism Review», 17, n. 5, gennaio-
febbraio 1980, pp. 25-33.
EDWARD W. SAID 35

Guerra fredda ha comportato conseguenze come corruzione e dit­


tature. Sembrava impossibile, per esempio, trattare l’Arabia Sau­
dita e il Kuwait come se appartenessero al “mondo libero”; anche
l’Iran, nonostante il suo marcato ruolo anticomunista durante il
regime dello shah, non è mai appartenuto del tutto alla “nostra”
parte come la Francia e la Gran Bretagna. Peraltro i politici negli
Stati Uniti hanno continuato a parlare della “perdita” dell’Iran,
come negli ultimi tre decenni si sono espressi in merito alla “per­
dita” della Cina, del Vietnam e dell’Angola. Gli analisti america­
ni, nelle loro valutazioni geopolitiche, hanno perfino pensato che
i poveri stati del Golfo Persico fossero disposti a un’occupazione
militare statunitense. Sul «New York Magazine» del 28 giugno 1970
George Ball infatti sostenne che «la tragedia del Vietnam» rischia
di alimentare in patria «pacifismo e isolamento», mentre invece il
presidente dovrebbe «educare» gli americani sulla possibilità di un
intervento militare in Medio Oriente, dati i grandi interessi degli
Stati Uniti in quella regione.37Scacciare definitivamente il fantasma
del Vietnam era uno dei motivi della Guerra del Golfo del 1991.
Bisogna considerare un’altra questione: il ruolo di Israele nel­
la diplomazia occidentale e, in particolare, i giudizi americani sul
mondo islamico a partire dalla Seconda guerra mondiale. In primo
luogo, il carattere dichiaratamente religioso di Israele è raramen­
te menzionato nella stampa occidentale. Solo recentemente sono
apparsi evidenti riferimenti al fanatismo religioso israeliano, molti
di questi riguardo agli zeloti di Gush Emunim, la cui principale
attività è la fondazione di insediamenti illegali in Cisgiordania con
l’uso della violenza. Tuttora in Cisgiordania la maggior parte dei
coloni israeliani più combattivi semplicemente ignora il fatto sco­
modo che i primi a edificare insediamenti illegali furono dei gover­
ni “laici”, quindi non sono solo opera dei ferventi religiosi che at­
tualmente agitano la scena. Ritengo che questa maniera unilaterale
di raccontare gli eventi sia un’indicazione di come Israele - la “sola
democrazia” del Medio Oriente e il “nostro fedele alleato” - sia

37. Vedi l’eccellente ed esauriente studio di Marwan R. Buheiry, US Threats Against


Arab Oil: 1973-1979, IP S Papers n. 4, Beirut, Institute for Palestine Studies, 1980.
36 L’ISLAM COM E NOTIZIA

stato usato come contraltare dell’Islam.38 Così Israele appare come


un bastione della civiltà occidentale, strappato (con molte lodi e
complimenti) al deserto islamico. In secondo luogo, la sicurezza
di Israele agli occhi americani è stata opportunamente posta in di­
retta connessione al respingimento dell’Islam, alla perpetuazione
dell’egemonia occidentale e all’esaltazione delle virtù della moder­
nizzazione. In questo modo tre grandi illusioni sostengono l’eco­
nomia e si riflettono l’un l’altra al fine di consolidare l’immagine
dell’Occidente e promuovere il suo potere sull’Oriente: il giudizio
sull’Islam, l’ideologia della modernizzazione e l’asserzione del va­
lore di Israele per l’Occidente.
Per comprendere a fondo le “nostre” opinioni sull’Islam biso­
gna considerare come l’intera gamma di informazioni e l’apparato
politico negli Stati Uniti dipendano da queste illusioni, nonché le
diffondano su ampia scala. Larghi settori dell’intellighenzia, insie­
me agli strateghi geopolitici, si scambiano molte opinioni sull’Islam,
sul petrolio, sul futuro della civiltà occidentale e sulla lotta per la
democrazia contro le rivolte e il terrorismo. Per motivi che ho già
discusso, gli specialisti di studi islamici traggono sostegno da tale
situazione, malgrado sia innegabile che solo una parte degli studi
accademici sull’Islam è direttamente legata alle visioni culturali e
politiche proprie della geopolitica e dell’ideologia della Guerra
fredda. Ancor meno giunge ai mass media, i quali traggono dagli
altri due gruppi di tale sistema quel che è più semplice ridurre in
immagini, ossia caricature e folle spaventose, dando rilievo alle pu­
nizioni islamiche e così via. Subito dopo l’attentato a Oklahoma
City (aprile 1995) i pregiudizi e l’ignoranza furono evidenti come
non mai perché tutti i media pervennero alla conclusione - espressa
da “esperti” improvvisati come Steven Emerson - che bisognava
condannare i terroristi islamici. In maniera simile i media ripetero­
no le medesime accuse, sebbene in tono minore e più pacato, dopo
il disastro aereo del TWA 800 nel giugno 1996. Tutto questo è dovuto
dal grande peso dei poteri forti - le compagnie petrolifere, le enor­
mi aziende e multinazionali, le reti dei servizi segreti e della difesa,
38. Questa è una sindrome tipicamente americana. In Europa, la situazione è sicu­
ramente più chiara, almeno per quanto riguarda il giornalismo in generale.
EDWARD W. SAID 37

i dipartimenti esecutivi del governo. Quando il presidente Carter


nel 1978 trascorse il Capodanno in ufficio con lo shah, affermando
che l’Iran era «un’isola di stabilità» parlò con le forze del suo in­
gente apparato allora mobilitate, rappresentando gli interessi degli
Stati Uniti e, allo stesso tempo, esprimendosi sull’Islam. Lo stesso
avvenne il 2 agosto di diciotto anni dopo quando il Segretario della
Difesa degli Stati Uniti, durante una visita in Arabia Saudita dopo
un attentato a Khobar, avendo individuato nell’Iran il «principale
sospetto», minacciò tale paese di un’«azione forte»: anche se smentì
la sua dichiarazione pochi giorni dopo, le forze armate erano già
all’opera.

il. Comunità interpretative

Vale la pena soffermarsi su come gli strateghi geopolitici e gli in­


tellettuali progressisti abbiano fatto uso dell’Islam negli Stati Uniti.
Non è un’esagerazione affermare che prima dei rialzi improvvisi dei
prezzi OPEC all’inizio del 1974, l’“Islam” aveva poca visibilità sia nel­
la cultura sia nei media. Si parlava di arabi e iraniani, di pakistani e
turchi, raramente di musulmani. Ma il drastico aumento del prezzo
delle importazioni petrolifere in breve tempo è stato associato nel
senso comune a una serie di aspetti spiacevoli: la dipendenza ame­
ricana dal petrolio estero (frequentemente si sentiva l’espressione
“in balia dei produttori di petrolio stranieri”); l’intransigenza delle
regioni mediorientali e del Golfo Persico, percepita con preoccupa­
zione da tutti gli americani; soprattutto l’avvertimento - provenien­
te da una nuova forza, finora sconosciuta - che l’energia non era
più “nostra”, da prelevare. Parole come “monopolio”, “cartello”
e “blocco” da allora si sono diffuse moltissimo, anche se il piccolo
gruppo di multinazionali americane raramente veniva definito car­
tello, essendo quest’espressione riservata ai membri dell'oPEC. Nel
complesso, sembrava che si stesse instaurando una nuova pressione
sull’economia e un’altrettanto nuova situazione culturale e politica.
Gli Stati Uniti, dacché erano una potenza dominante nel mondo,
38 L’ISLAM COM E NOTIZIA

sono stati drammaticamente ridimensionati. Fritz Stern su «Com­


mentary» disse che questa era la fine del dopoguerra.39
I primi segnali del cambiamento in corso si possono evidente­
mente riscontrare in una serie di articoli pubblicati su «Commen­
tary» nei primi mesi del 1975. Il primo è stato Robert W. Tucker’s
in Oil: The Issue o f American Intervention (a gennaio) e poi Daniel
Patrick Moynihan in The United States in Opposition (a marzo),
titoli che riflettono i contenuti senza alcun equivoco. Moynihan
giunse a rappresentare gli Stati Uniti alle Nazioni Unite, dove pro­
nunciò molti discorsi per denunciare al mondo che le “democra­
zie occidentali” non potevano pigramente restare ferme subendo
prepotenze, minacciate dalla maggior parte delle ex colonie. Tali
contenuti, in ogni modo, erano già stati espressi su «Commentary»
nel suo saggio e in quello di Tucker.
Nessuno ha niente da ridire sullTslam: tuttavia, come risultava
evidente un anno dopo, 1’“Islam” già era pronto a essere inqua­
drato entro un piano predisposto per far fronte ai cambiamenti
improvvisi e inaccettabili descritti da Tucker e Moynihan. Que­
sti hanno dato una forma, una retorica e una struttura narrativa
a quel che molti nel paese stavano effettivamente vivendo. Come
diceva Tucker, per la prima volta nella storia americana è parso
che le nazioni straniere esigessero di essere uguali agli Stati Uni­
ti. Secondo Moynihan, quei paesi erano frutto deH’imperialismo
britannico, con idee e caratteristiche prese in prestito appunto dal
socialismo britannico. Le loro filosofie si basavano suJTespropria-
zione oppure, non riuscendoci, sulla distribuzione della ricchezza;
erano interessati solo all’eguaglianza, non alla produzione e nean­
che alla libertà, almeno così sembrava. Sosteneva che «noi siamo
dalla parte della libertà», per poi aggiungere con tono militare che
«potremmo essere sopraffatti da forze scaturite da quei concetti
che noi stessi abbiamo divulgato».40 Queste nuove nazioni, che
includono i produttori di petrolio, erano interessate a livellare le

39. Fritz Stern, The End of the Postwar Era, in «Commentary», aprile 1974, pp.
2 7 ‘ 35 -
40. Daniel P. Moynihan, The United States in Opposition, in «Commentary»,
marzo 1975, p. 44.
EDWARD W. SAID 39
disparità tra “noi” e “loro”, un proposito che rischia di comportare
una pericolosa “interdipendenza”, pertanto, secondo l’opinione di
Tucker, sarebbe meglio se noi fossimo pronti a resistere - invaden­
doli, se necessario.41
L’insieme di strategie esposte in questi due articoli meritano di
essere illustrate. In primo luogo, i produttori di petrolio secondo
Tucker e le nazioni del nuovo Terzo mondo secondo Moynihan non
hanno identità, storie e aspirazioni nazionali loro propri. Questi
paesi sono semplicemente menzionati, definiti rapidamente entro
un ambito collettivo, e poi tralasciati. Le ex colonie sono ex colo­
nie; i produttori di petrolio sono produttori di petrolio. Al di là di
tali definizioni, sono solo delle entità anonime, strane, minacciose
e ostinate. La loro stessa esistenza è qualcosa che a “noi” comporta
pericoli. In secondo luogo, questi paesi sono astrazioni, congetture
contro cui sono schierati i potenti del mondo. «Improvvisamente»
afferma Tucker in un successivo saggio dedicato al petrolio e al po­
tere, «noi siamo stati messi di fronte alla prospettiva di un società
internazionale che non garantisce più una distribuzione ordinata
del cosiddetto “prodotto mondiale”, questo perché gli stati svilup­
pati e capitalistici, ossia coloro che sostanzialmente detengono il
comando, non sono più i soli a creare e generare ordine.»4* In terzo
luogo, questi paesi disturbano perché “loro” sono, o possono esse­
re, un gruppo a “noi” uguale e antagonista.
Le opinioni di Tucker e Moynihan seguono in parte la tipica lo­
gica del richiamo all’ethos occidentale assediato, che emerge e pe­
riodicamente riappare nella storia contemporanea dell’Occidente.
Ad esempio, lo vediamo in La Défense de l’Occident (1927) di Henri
Massis e, più recentemente, nell’articolo di Anthony Hartey The
Barbarian Connection: On the “Destructive Element” in Civilized
History.43 Per Tucker e Moynihan, comunque, ciò che si oppone
all’Occidente non è qualcosa che “noi” conosciamo, ossia qualcosa
di diverso dal modo in cui un imperialista europeo potrebbe par­

41. Robert W. Tucker, Oil: The Issue ofAmerican Intervention, in «Commentary»,


gennaio 1975, pp. 21-31.
42. Id., Further Reflections on Oil and Force, in «Commentary», gennaio 1975, p. 55.
43. In «Encounter», 54, n. 5, maggio 1980, pp. 20-27.
40 L’ISLAM COM E NOTIZIA

lare degli orientali, intesi come “popolo che conosciamo” perché


“noi” li abbiamo affettivamente governati. Nella migliore delle ipo­
tesi, secondo Moynihan i nuovi stati del Terzo mondo sono solo dei
pallidi riflessi, conosciuti grazie a quel che imitano, non certo per i
loro meriti. La nuova “società internazionale” illustrata da Tucker
sembra priva di qualsiasi punto di riferimento, l’unica certezza è
che viola l’ordine costituito. Chi sono queste persone, quali sono le
loro reali aspirazioni, da dove vengono, perché non si comportano
come noi? Queste domande non sono poste e, di conseguenza, ri­
mangono senza risposta.
Gli Stati Uniti si stavano ritirando dall’Indocina circa in que­
gli stessi anni. Recentemente è stato scritto molto sulla “sindrome
post-Vietnam” nella politica americana, tuttavia poche persone
hanno constatato che quella stessa teoria era stata trasferita dal
Vietnam verso un luogo più vicino, il mondo musulmano: la con­
vinzione, cioè, che gli interessi americani in regioni lontane ab­
biano bisogno dell’intervento militare per contrastare l’instabilità
e le insurrezioni. Questo è avvenuto contemporaneamente a una
graduale disillusione circa le cause progressiste nel Terzo mondo
e, in particolar modo, in quelle promesse che sembravano ormai
tradite. Si pensi, per esempio, a Revolution in the Third World di
Gérard Chaliand, un tormentato cri de coeur di un noto sostenito­
re dei movimenti di liberazione in Vietnam, Cuba, Angola, Algeria
e Palestina; nel 1977 sostenne che gran parte degli sforzi anticolo­
niali non hanno portato altro che miseri stati repressivi, che non
meritano alcun entusiasmo da parte dell’Occidente.44 Oppure il
caso della rivista «Dissent», che nell’autunno 1978 ha promosso
un convegno basato sul tema I recenti eventi in Cambogia [la vit­
toria dei Khmer Rossi e i successivi crimini commessi] ci devono
dar riflettere sulla nostra opposizione alla guerra del Vietnam?. La
questione, per non dire le risposte, indica lo stato d ’animo che il
calo dell’entusiasmo degli anni Sessanta ha comportato, sostituito
da un preoccupante disagio per le nuove situazioni internaziona­
li che parevano annunciare una catastrofe imminente. Con molte
44. G é ra rd C halian d, Revolution in the Third World: Myths and Prospects, N ew
Y ork, V iking P ress, 1977.
EDWARD W. SAID 41

ragioni, si faceva risalire a tali problemi il fallimento generale del


sistema economico globale.
In sostanza coloro che ascoltavano le notizie, fruitori allo stesso
tempo del petrolio, percepivano sensazioni di privazione e distru­
zione come non mai, senza poter associare al pericolo né un vol­
to né un’identità visibile. Tutti sapevamo solamente che eravamo
prossimi a perdere quel che ritenevamo nostro. Non potevamo più
guidare le nostre macchine nel modo in cui eravamo soliti fare;
la benzina era molto più costosa; le nostre comodità e abitudini
parevano subire uno spiacevole cambiamento radicale. Sul rischio
di perdere la benzina - che è l’argomento effettivamente in que­
stione - c’era molta incertezza: nessuno sembrava sapere se fosse
veramente carente, oppure se le forniture di petrolio fossero in­
fluenzate dal panico, o se le compagnie petrolifere, che certamente
aumentavano i margini di profitto, erano coinvolte nella crisi.45 Al­
tre cose sembravano più rilevanti. Gli arabi, con i loro vestiti, stra­
ordinariamente ricchi e ben armati, in Occidente si mettevano in
bella mostra in ogni occasione, anche in quelle meno adatte. Inol­
tre la nuova sicurezza di sé assunta dallTslam poteva facilmente
essere ricondotta alla cosiddetta guerra del Ramadan dell’ottobre
1973.46 In quell’evento l’esercito egiziano attraversò la formidabile
Linea Bar-Lev e i soldati arabi non scapparono via come nel 1967,
anzi combatterono con tenacia sorprendente. In seguito, nel 1974,
alle Nazione Unite comparve l’Organizzazione per la Liberazione
della Palestina. Sheikh Yamani divenne una personalità influente
per il solo motivo che era musulmano e che proveniva dall’Arabia
Saudita, tanto ricca di petrolio. Anche lo shah iraniano divenne un
leader mondiale. A metà degli anni Settanta Indonesia, Filippine,
Nigeria, Pakistan, Turchia, i vari stati del Golfo, Algeria e Maroc­
co erano capaci di perturbare gli Stati Uniti facilmente, e ciò di-
45. Cfr. Christopher T. Rand, The Arabian Fantasy: A Disserting View of the Oil
Crisis, in «Harper’s Magazine», gennaio 1974, pp. 42-54, e il suo Making Democracy Safe
for Oil: Oilmen and the Islamic East, Boston, Little, Brown & Co., 1975. Per un lavoro
autorevole sulla questione del petrolio, cfr. John M. Blair, The Control of Oil, New
York, Pantheon Books, 1976, e Robert Engler, The Brotherhood of Oil: Energy Policy
and the Public Interest, Chicago and London, University of Chicago Press, 1977.
4 6. [Conflitto co n osciuto anche com e G u e rra dello Yom K ippur, N d T .]
42 L’ISLAM COM E NOTIZIA

mostrava quanto poco si conoscesse delle loro storie e peculiarità.


In tal modo molti stati islamici e personalità più o meno rilevanti,
senza esserne pienamente consapevoli, da che erano a malapena
conosciuti sono divenuti delle “notizie”.
Il passaggio da uno stato all’altro non è stato graduale. Non vi
erano persone capaci di riconoscere e spiegare quel che si mostra­
va come un fenomeno nuovo, eccetto personalità come Moynihan
e Tucker, ovvero coloro che esprimevano conclusioni sulla storia
mondiale entro una cornice che includeva l’Islam con semplicità,
senza concedergli alcun particolare riguardo. Come risultato, l’im­
magine dell’Islam oggi, dovunque la incontriamo, è svincolata e
immediata. Vi è una supposizione non dichiarata, in primo luogo,
che denota con il nome “Islam” qualcosa a cui si può far subito
riferimento con facilità, così come ci si riferisce alla “democrazia”,
a una persona, oppure a un’istituzione come la Chiesa cattolica.
Questa immediatezza è riscontrabile, per esempio, nell’articolo po­
sto in copertina dal «Time» citato precedentemente. L’aspetto più
preoccupante comunque è che questa impostazione è regolarmente
evidente nelle discussioni entro le cerehie della cultura alta, presen­
tata spesso in modo serio e austero sulle famose riviste progressiste.
A tale riguardo, vi è poca differenza tra queste e i mass media, a
causa dei cambiamenti nelle teorie intellettuali e geopolitiche che
ho descritto.
Un caso che merita attenzione è il saggio di Michael Walzer pub­
blicato l’8 dicembre 1979 su «New Republic» dal titolo The Islam
Explosion. Walzer tratta molte questioni importanti come fosse un
reo confesso laico, ossia come se (secondo lui) gli eventi del vente­
simo secolo, in gran parte violenti e dolorosi, nelle Filippine, Iran,
Palestina e altrove, potessero essere interpretati quali istanze della
stessa scaturigine: lTslam. Walzer sostiene che tutti questi eventi
possiedono caratteristiche comuni: in primo luogo, il modello di
potere politico, che mira a invadere l’Occidente; in secondo luo­
go, sono tutti generati da un terribile fervore morale (per esem­
pio, quando i palestinesi si oppongono al colonialismo israeliano,
Walzer è convinto che la resistenza sia religiosa, non politica, civile
o umana); in terzo luogo, questi eventi intendono distruggere «la
EDWARD W. SAID 43

debole parvenza colonialista di liberismo, secolarismo, socialismo


o democrazia». L’“Islam” si ritrova caratterizzato come miscela di
queste peculiarità: agisce, cioè, il presupposto che l’“Islam” sia una
forza senza tempo e senza spazio, che non possegga la possibilità
di separare e distinguere. Si potrebbe inoltre notare che - ancora
secondo Walzer - quando si parla di Islam, più o meno automati­
camente si eliminano lo spazio e il tempo, si trascurano gli aspetti
politici (non si parla di democrazia, socialismo e secolarismo), inol­
tre si pongono numerose restrizioni morali. In conclusione Walzer
nel saggio convince (perlomeno sé stesso) che, ogniqualvolta (lui)
fa riferimento al termine “Islam”, sia possibile intendere un’entità
reale chiamata Islam, un’entità così direttamente comprensibile da
rendere ogni mediazione e definizione una mera pignoleria troppo
zelante. Questa immediatezza comporta inevitabilmente la tenden­
za a trattare l’Islam come un oggetto senza storia, oppure, qualora
fosse preso in considerazione, il passato storico è giudicato o irri­
levante o nei termini di una continua ripetizione, dal momento che
violenza, fanatismo e dispotismo sembrano ricorrere più volte nel
corso dei secoli, come costanti atemporali.
Un altro aspetto dell’immagine pubblica dell’Islam, diffuso nel
nuovo scenario geopolitico-intellettuale, è il suo costante rapporto
conflittuale con tutto quel che è normale, occidentale, usuale, “no­
stro”. Questa è certamente l’impressione che si deduce leggendo
Walzer, oppure leggendo gli studiosi su cui si basa Walzer. Il con­
cetto stesso di un mondo islamico - che era l’argomento di una se­
rie di quattro articoli scritti da Flora Lewis sul «New York Times»
il 28, 29, 30 e 31 dicembre 1979 (sui quali avrò qualcosa da dire nel
secondo capitolo) - implica il suo antagonismo nei confronti del
“nostro” mondo. Infatti, la vera ragione degli articoli era spiega­
re che l’Islam (ovvero, l’Islam di quegli iraniani che tengono gli
ostaggi americani) è “contro” di noi. Quest’impressione si rafforza
quando Lewis elenca le aberrazioni che differenziano l’Islam dalla
normalità: le peculiarità della lingua araba, le stranezze della fede,
il totalitarismo illiberale che contraddistingue il dominio sui suoi
fedeli, e così via. Da una parte l’Islam, per la sua immediatezza,
sembra direttamente comprensibile, ma dall’altra la sua diversità
44 L’ISLAM COM E NOTIZIA

rispetto alla realtà a noi familiare lo pone drasticamente contro di


noi, in maniera minacciosa. All’Islam pertanto sono stati associati
vari aspetti, tangibili e riconoscibili nella realtà, sui quali è stato
possibile basare molte affermazioni e formulare teorie - gran parte
frutto dell’uomo - che vengono espresse senza alcun ritegno.
Questa tendenza ha raggiunto l’apice quando Samuel P. Hun­
tington, ex esponente della Guerra fredda, ha pubblicato nell’esta­
te 1993 su «Foreign Affairs» il famoso articolo The Clash of Civili­
zations?, in cui espone la sua visione sulla nuova forma di conflitto,
post Guerra fredda. Afferma risolutamente che questo non è altro
che uno scontro tra diverse civiltà, individuabili in nove o dieci, tra
le quali la più pericolosa per l’Occidente è quella islamica (anzi,
quando si verifica l’alleanza tra l’Islam e il confucianesimo, anche
se non fornisce alcuna prova). Piuttosto interessante è che il titolo
di questa incursione improvvisata di Huntington nella storia e nella
cultura sia preso da uno dei saggi di Bernard Lewis, The Roots of
Muslims Rage, in cui Lewis avanza l’audace, per non dire radicale,
tesi che 1’“Islam” - senza altro specificare - è avverso alla moder­
nità. Basandosi su questa assurdità faziosa Huntington, indubbia­
mente insieme a molti suoi lettori facilmente impressionabili, trae
conclusioni allarmanti del tipo «il blocco della mezzaluna islamica,
dalla punta dell’Africa fino all’Asia centrale, ha frontiere grondanti
di sangue» (p. 34), un’espressione che, invece di produrre cono­
scenza, genera la paura dell’Islam. Huntington prova a sostenere
come certe civiltà e l’Occidente siano inconciliabili, nonostante vi
siano stati scambi pacifici per millenni, compromettendo così la
possibilità di un futuro dialogo. L’Islam è il nemico numero uno
per ogni occidentale, come se tutti i musulmani e tutti gli occi­
dentali fossero dei compartimenti a tenuta stagna di identità, tut­
ti rappresentati della propria civiltà e destinati ad auto replicarsi
all’infinito.
In questa maniera si può subito associare l’Islam a pressoché
tutti i musulmani: l’ayatollah Khomeini è il candidato più adatto,
così come le folle di musulmani nelle città di Karachi, Il Cairo o
Tripoli, mostrate in televisione ogni volta che bisogna far vedere
velocemente esempi di fondamentalismo. E possibile inoltre conti-
EDWARD W. SAID 45

nuare comparando l’Islam a qualsiasi cosa che non piace, incuranti


di quanto sia effettivamente veritiero quel che si dice. Ad esempio,
la casa editrice Manor Books ha pubblicato in edizione tascabile
Islamic Government di Khomeini ponendo come sottotitolo Aya­
tollah Kohmeini’s Mein Kampf. Questo testo è accompagnato da
un analisi scritta da George Carpozi Jr. (reporter del «New York
Post» da lunga data), il quale sostiene, secondo suoi ragionamenti,
che Khomeini è un arabo e che l’Islam è cominciato nel quinto
secolo a. C. Le analisi di Carpozi cominciano con queste gradevoli
parole:

Come Adolf Hitler in altri tempi, l'ayatollah Ruhollah


Khomeini è un tiranno, uno che fomenta l’odio, un ciarlatano,
una minaccia per l’ordine mondiale e la pace. La principale
differenza tra l’autore del Mein Kampf e l’artefice dell’insulso
Islamic Government è che l’uno era un ateo, mentre l’altro pre­
tende di essere un uomo di Dio.47

Le rappresentazioni dell’Islam di questo tipo dimostrano l’abi­


tuale propensione a dividere il mondo in pro- e anti-americani
(oppure pro- e anti-comunisti), le continue omissioni dei processi
politici, l’imposizione di modelli e valori etnocentrici o non perti­
nenti, oppure entrambi, la mera disinformazione, le ripetizioni, la
mancanza di dettagli e l’assenza di una prospettiva veritiera. Tutti
questi elementi non dipendono dallTslam, bensì devono essere
rintracciati nella società occidentale e nei media, che riflettono e
sono al servizio di questa idea di “Islam”. Il risultato è che ab­
biamo ridiviso il mondo tra Oriente e Occidente - la vecchia tesi
orientalista è rimasta più o meno invariata - ed è il modo migliore
per non vedere non solo il mondo, ma anche noi stessi e le nostre
relazioni nei confronti di quel che è veramente il cosiddetto Terzo
mondo.

47. Ayatollah Khomeini’s Mein Kampf: Islamic Government by Ayatollah Ruhollah


Khomeini, New York, Manor Books, 1979, p. 123. Per un’accorta critica della repressione
nell’Iran di Khomeini, di stampo pro-rivoluzionario, cfr. Fred Halliday, The Revolution
Turn to Repression, «New Statesman», 22 agosto 1979. Vedi pure Nikki R. Keddie, Iran,
Religion, Politics, and Society: Collected Essays, London, Frank Cass & C o., 1980.
46 L’ISLAM COM E NOTIZIA

Tale situazione comporta molte conseguenze piuttosto rilevan­


ti. Una di queste è la diffusione di una ben precisa raffigurazione
dell’Islam. Un’altra invece riguarda l’utilizzo del suo significato, che
nel complesso continua a essere condizionato e stereotipizzato. Ter­
za conseguenza, è stata creata una situazione conflittuale, contrappo­
nendo “noi” all’“Islam”. Una quarta è che quest’immagine riduttiva
dell’Islam ha comportato effetti rilevanti anche nel mondo islamico.
Una quinta è che l’Islam diffuso dai media, così come la tendenza
culturale nei suoi confronti, può mostrarci tante cose non solo in
merito allTslam, ma anche sulle istituzioni culturali, sulla politica na­
zionale e sul funzionamento dell’informazione e della conoscenza.
Nell’elencare tutte queste caratteristiche dell’immagine dellTslam
attualmente diffusa, non intendo sostenere che esista un Islam “re­
ale” da qualche parte, al di fuori dei media, che agisce autonoma­
mente e che è stato distorto. Per niente affatto. Per i musulmani
così come per i non musulmani, l’Islam è una realtà sia oggettiva
sia soggettiva, perché è creata dalle persone, con la loro fede, nelle
società, frutto di storie e tradizioni, inoltre, nel caso dei non musul­
mani, vi è comunque il bisogno di attribuire determinati significati,
personificare, assegnare identità a quel che vedono porsi di fronte
a loro collettivamente e individualmente. L’Islam dei media, l’Islam
degli studiosi occidentali, l’Islam dei reporter occidentali e l’Islam
dei musulmani derivano tutti da azioni umane e da interpretazioni
avvenute nel corso dei secoli e da considerare solo entro la storia,
intendendo questa come il frutto della volontà e dei pensieri dell’uo­
mo. Io stesso non sono né religioso né di origini islamiche, tuttavia
suppongo di poter comprendere coloro che si dichiarano fedeli di
una qualche religione. Per quanto io possa capire che è possibile di­
scutere di fede, ritengo comunque che si debba parlare sulla base di
interpretazioni di fedi, che si manifestano nelle azioni umane e che
hanno luogo nella storia e nella società umana. Per esempio, quan­
do discutiamo sulla rivoluzione “islamica” che ha deposto il regime
dei Pahlevi, oppure sul Fronte Islamico di Salvezza Nazionale (f is )
algerino che ha sconfitto il governo alle elezioni comunali del 1990,
non dovremmo formulare congetture se i rivoluzionari siano o no
veramente di fede musulmana. Tuttavia possiamo esprimerci riguar­
EDWARD W. SAID 47

do alla loro concezione dell’Islam, giacché questa li poneva coscien­


temente in contrapposizione - diciamo, islamicamente - rispetto
a un regime che giudicavano anti-islamico, oppressivo e dispotico.
Inoltre possiamo confrontare la loro interpretazione dell’Islam con
ciò che il «Time» e «Le Monde» hanno scritto sullTslam, sulla rivo­
luzione iraniana e sugli islamisti algerini.
In altre parole, in senso lato stiamo discutendo di comunità in­
terpretative, molte delle quali sono in contrasto tra loro, spesso
letteralmente disposte ad andare in guerra l’una contro l’altra, inol­
tre ognuna contribuisce a creare e rivelare le altre, giacché la loro
stessa esistenza si fonda su questo scambio interpretativo. Nessuno
vive in diretto contatto con la verità o con la realtà. Tutti viviamo in
un mondo che, di fatto, è composto da esseri umani, in cui concetti
come “nazione”, “cristianità” o “Islam” sono il risultato di accordi
e convenzioni, di processi storici e, soprattutto, sono il frutto della
volontà umana che si è sforzata di dare a quelle idee un’identi­
tà riconoscibile. Non che la verità e la realtà non esistano affatto.
Ci sono e lo riconosciamo quando vediamo gli alberi e le case nei
nostri quartieri, quando ci rompiamo un osso oppure proviamo
dolore per la morte di una persona che amiamo. Nel complesso
comunque tendiamo a ignorare o minimizzare quanto dipendiamo
dal nostro senso di realtà, dipendenza dovuta non solo alle inter­
pretazioni e ai significati che formuliamo individualmente per noi
stessi, ma anche a quello che riceviamo. Queste interpretazioni re­
cepite sono parte integrante del vivere in società. Il concetto è stato
espresso con chiarezza da C. Wright Mills:

Il primo principio per comprendere la condizione umana


è che gli uomini vivono in mondi che sono stati loro traman­
dati. La conoscenza va oltre gli eventi personalmente vissuti e,
per di più, l’esperienza è sempre indiretta. Il modo di vivere è
determinato dai significati che si ricevono dagli altri. Ognuno
vive in un mondo composto da tali significati, dato che nessun
uomo si sostiene confrontandosi da solo direttamente con la
solida realtà; un mondo del genere sarebbe impossibile. Gli
uomini ne raggiungono il punto più vicino quando sono neo­
48 L’ISLAM COM E NOTIZIA

nati, oppure quando cominciano a impazzire: infatti qualsiasi


persona posta di fronte a eventi privi di significato, in una con­
fusione senza senso, sarebbe terribilmente sopraffatta dal pani­
co, in un’insicurezza quasi totale. Ma normalmente gli uomini
non vivono in un mondo composto da solida realtà; l’espe­
rienza stessa deriva da una selezione di significati stereotipati
e condizionati da interpretazioni già pronte. Le loro immagini
del mondo e di loro stessi provengono da un gran numero di
testimoni che non hanno mai incontrato, né mai incontreran­
no. Tuttavia per tutti queste immagini - fornite da uomini sco­
nosciuti e defunti - sono le vere basi della vita sociale.
Per gli uomini la coscienza non determina l’esistenza mate­
riale; né l’esistenza materiale determina la coscienza. Tra la co­
scienza e l’esistenza si pongono i significati, le raffigurazioni e
le comunicazioni tramandate da altri uomini - prima il linguag­
gio e, a seguire, la gestione dei simboli. Queste interpretazioni,
ricevute e manipolate, influenzano decisamente la cognizione
degli uomini in merito alla loro esistenza. Forniscono la chiave
per capire ciò che vedono, il modo di interagire con il mondo,
di sentire e reagire a queste sensazioni. I simboli definiscono le
esperienze e i significati, organizzano la conoscenza, guidando
sia le lievi percezioni istantanee sia le aspirazioni di una vita.
Ogni uomo sicuramente osserva la natura, gli eventi sociali
e sé stesso, ma né ora né mai ha preso in considerazione qual­
cosa al di là di quel che ritiene reale. Tutti interpretiamo quel
che osserviamo - e anche ciò che non abbiamo mai visto - tut­
tavia i criteri con cui comprendiamo non sono nostri; non li
abbiamo personalmente formulati e neanche messi alla prova.
Ogni uomo parla in base a osservazioni e interpretazioni altrui,
ma i concetti dei discorsi probabilmente sono soltanto frasi e
immagini di altre persone che sono state assunte come proprie.
La gran parte della cosiddetta solida realtà, l’interpretazione
del linguaggio e il modo corretto di parlare per tutti gli uomini
dipende sempre più dalla ricezione dei messaggi, da centri di
interpretazione, sorta di depositi di definizioni che nella socie­
tà contemporanea ritengo si possano definire come apparato
culturale.48

48. C . W right M ills, The Cultural Apparatus, in Id., Power, Politics and People:
EDWARD W. SAID 49

Per la maggioranza degli americani (ma in genere è valido an­


che per gli europei) quel tipo di apparato culturale che ha fatto
loro conoscere l’Islam è composto in gran parte dai canali tele­
visivi e radiofonici, dai giornali e dalle riviste più diffuse. Ovvia­
mente influiscono anche i film poiché il vedere scene che rap­
presentano la storia, oppure terre lontane, ci informa altrettanto,
e anzi spesso ciò avviene proprio al cinema. Nel complesso si
può sostenere che questa grande concentrazione di mass media
genera un senso comune, interpretazioni, visioni delle cose, for­
nendo una certa immagine dell’Islam che, ovviamente, riflette gli
interessi predominanti presenti nella società in cui opera. Insieme
a questa immagine, che non è una semplice raffigurazione bensì
una gamma di sensazioni che si associano a essa durante la co­
municazione, agisce il cosiddetto contesto generale. Per contesto
intendo l’insieme delle immagini, la loro collocazione nella realtà,
i valori impliciti e, nondimeno, il genere di opinioni promosso
dagli osservatori. La crisi iraniana infatti è stata regolarmente
presentata in televisione con immagini di folle “islamiche” tur­
bolenti, accompagnate da commenti suH’“anti-americanismo”,
sulla distanza e diversità, che, attribuendo quelle caratteristiche
all’Islam, rendevano lo spettacolo spaventoso; questo, di conse­
guenza, generava in noi sensazioni negative, di rigetto. Quando
l’Islam è “contro” di noi ed è “estraneo”, non viene messa in
dubbio la necessità di adottare una risposta che difenda la pro­
pria parte in maniera altrettanto conflittuale. Quando assistiamo
a Walter Cronkite durante la sua trasmissione serale pronunciare
spesso la frase “così stanno le cose”, saremmo indotti a pensare
non che le scene mostrate sono solo ciò che la compagnia televisi­
va ha precedentemente scelto di far vedere, bensì a ritenere i con­
tenuti come fossero la reale situazione: naturale, immodificabile,
“estranea” e opposta a “noi”. Non c’è da meravigliarsi che Jean
Daniel del Le nouvel Obersateur ha potuto dire il 26 novembre
1979 che «gli Stati Uniti sono sotto assedio da parte dell’Islam».
La situazione è analoga a quella del 1996.
The Collected Essays of C. Wright Mills, a cura di Irving L o u is H orow itz, L o n d o n ,
NY, O x fo rd U niversity P ress, 1967, p p . 405-406.
O x fo rd ,
50 L’ISLAM COM E NOTIZIA

Dipendiamo molto da televisioni, giornali, radio e riviste, tutta­


via questa non è la nostra sola fonte di conoscenza dell’Islam. Sono
disponibili libri, riviste specializzate e conferenze, le cui visioni sono
più articolate rispetto ai contenuti frammentati e veloci che ci pro­
pongono i mass media.49 Inoltre bisogna ammettere che si possono
notare molte differenze nei giornali, nei canali radiofonici e televisi­
vi, per esempio tra una linea editoriale e un’altra, tra i disparati pun­
ti di vista degli opinionisti e editorialisti, oppure tra le descrizioni
alternative, controcorrente e convenzionali. In sintesi, nonostante i
media forniscano molta propaganda, prodotta anche da studiosi ri-
spettabili, noi non viviamo alla mercé di un apparato di propaganda
centralizzato. Eppure, malgrado la varietà e le differenze, per quan­
to molti affermino il contrario, le produzioni dei media non sono né
spontanee né completamente “libere”: le “notizie” non appaiono
dal nulla, le immagini e le idee non scaturiscono dalla pura realtà
verso i nostri occhi e le nostre menti, la verità non è direttamente
accessibile, non disponiamo di una varietà illimitata. Del resto come
ogni strumento di comunicazione, televisioni, radio e giornali per
rendere i messaggi comprensibili seguono determinate regole, con­
venzioni che spesso danno forma al contenuto distribuito dai me­
dia, molto più della realtà che si vuol trasmettere. Dal momento che
queste regole, tacitamente concordate, sono utilizzate per ridurre
una realtà difficilmente gestibile entro “notizie” e “storie” e, dato
che i media si sforzano di raggiungere un’audience ritenuta omoge­
nea, pervasa da medesime supposizioni sulla realtà, la raffigurazione
dell’Islam (come di qualsiasi altra cosa) tende a diventare con molta
probabilità uniforme, piuttosto riduttiva e monocromatica. E ovvio
che i media siano aziende che perseguono il profitto, pertanto è del
tutto comprensibile che abbiano interesse a proporre alcune imma­
gini della realtà anziché altre. Agiscono entro un contesto politico,
sostenuto e rafforzato da un’ideologia inconscia che i media stessi
disseminano senza alcuna restrizione o opposizione.
Dunque, alcune questioni sono state chiarite. Non si può certo
sostenere che gli stati industriali occidentali siano repressivi o siano
49. Cfr. H e rb e rt I. Schiller, The Mind. Managers, B o sto n , B eacon P re ss, 1973,
pp. 24-27.
EDWARD W. SAID 51
sistemi politici retti dalla propaganda; non sono così, ovviamente.
Negli Stati Uniti, per esempio, almeno in teoria, ovunque si può
esprimere qualsiasi opinione e vi è un’ineguagliabile ricettività da
parte dei cittadini e dei media nei confronti dei punti di vista nuovi,
originali e inusuali. Esistono moltissimi giornali, riviste, programmi
televisivi e radiofonici, per non parlare di libri e saggi, una quantità
così vasta che risulta diffìcile da inquadrare e distinguere. Come si
può affermare, con onestà, che tutto ciò esprime un unico pensiero?
Certamente non si può sostenerlo e non intendo neanche pro­
varci. Tuttavia, malgrado questa grandissima varietà, ritengo che vi
sia una tendenza a favorire certe visioni e determinate rappresen­
tazioni della realtà a discapito di altre, sia nella sostanza sia nella
quantità dei contenuti. Permettetemi velocemente di ricapitolare
alcune cose che ho già detto, per poi proseguire mostrando come
queste concordino con certi aspetti dei media. Non viviamo in un
mondo naturale: i giornali, le notizie e le opinioni non si presentano
spontaneamente; sono prodotti, frutto della volontà umana, della
storia, delle circostanze sociali, delle istituzioni e delle consuetudi­
ni lavorative di ciascuno. L’informazione giornalistica mira a essere
obiettiva, a raccontare i fatti reali con esattezza, ma questi termini
sono fortemente relativi; con tutta probabilità sono intenzioni, non
obiettivi realizzabili. Sicuramente non dobbiamo dare per scontato
questo aspetto, soltanto perché siamo cresciuti abituati a pensare
che i nostri giornali siano attendibili e veritieri, considerando invece
quelli dei paesi comunisti e non occidentali propagandistici e ideo­
logici. La realtà, come ha spiegato Herbert Gans nel suo libro im­
portante Deciding What’s News, è che i giornalisti, le agenzie e i ca­
nali svolgono deliberatamente un ruolo attivo, decidendo quel che
deve essere mostrato, come raffigurarlo, e così via.50 In altre parole
le notizie non sono un dato inerte, bensì il risultato di un complesso
processo di selezione e di espressione, in genere intenzionale.
In precedenza abbiamo ampiamente spiegato come funziona
in Occidente il principale apparato che raccoglie e distribuisce le
notizie. I libri di Gay Talese e Harrison Salisbury che parlano del
50. Herbert G a n s, Deciding What’s News: A Study o f «CBS Evening News», « nbc
Nightly News», «Neewsweek», and «Time», New York, Pantheon Books, 1979.
5* L’ISLAM COM E NOTIZIA

«New York Times», The Powers That Be di David Halberstam,


Making News di Gaye Tuchman, i vari studi di Herbert Schiller
sulle comunicazioni aziendali, Discovering the News di Michael
Schudson, Multinational Corporations and the Control of Culture
di Armand Mattelart:51 sono solo una parte degli studi, condotti da
diversi punti di vista, che sostengono che le notizie e le opinioni
nella società sono generalmente formate seguendo regole, all’inter­
no di contesti e tramite meccanismi prestabiliti, un intero processo
capace di attribuire identità stabili prive di errori. Come ogni esse­
re umano, il reporter presume che certe cose siano normali, ha in­
teriorizzato dei valori che raramente mette in discussione, proprio
come le abitudini che, in qualsiasi società, sono date per scontate.
Quando descrive paesi e culture straniere, il reporter non dimenti­
ca affatto l’educazione, la nazionalità e la religione sua e degli altri.
E consapevole del codice deontologico della professione; inoltre,
il modo di lavorare si ripercuote su quel che si scrive, sul modo
di esprimersi e sul pubblico a cui ci si rivolge. Robert Darnton ha
spiegato questa tematica in modo coinvolgente nel suo saggio Wri­
ting News and Telling Stories, in cui invita a riflettere non solo sui
fatti che i corrispondenti raccontano, ma anche su aspetti del tipo
«la sintonia e il conflitto tra un reporter e le sue fonti», le pressioni
che inducono verso «la standardizzazione e la stereotipizzazione»
e il modo in cui i reporter «aggiungono agli eventi che raccontano
più dettagli rispetto a quel che ricavano dai fatti» .52
I media americani sono differenti da quelli francesi e britannici
perché le società sono molto diverse, il pubblico è diverso, l’orga-
51. G a y Talese, The Kingdom and the Power, N ew Y ork, N ew A m ercan Library,
1969; Harrison Salisbury, Without Fear or Favor: The New York Times and Its Times,
New York, Times Books, 1979; David Halberstam, The Powers That Be, New York,
Alfred A. Knopf, 1979; Gaye Tuchman, Making News: A Study in the Construction
of Reality, New York, Free Press, 1978; Herbert I. Schiller, Mass Communications
and American Empire, Boston, Beacon Press, 1969; Id., Communication and Cultu­
ral Domination, White Plains, NY, International Arts and Sciences, 1976; The Mind
Managers, Boston, Beacon Press, 1973; Michael Schudson, La scoperta della notizia.
Storia sociale della stampa americana [1978], Napoli, Liguori, 1987; Armand Mattelart,
Multinational Corporations and the Control of Culture: The Ideological Apparatus of
Imperialism, Brighton, Sussex, Harvester Press, 1979.
52. R ob ert D a m to n , Writing News and Telling Stories, in «D a e d a lu s 104», n. 2,
prim avera 1975, p p . 183,188 e 192.
EDWARD W. SAID 53

nizzazione e gli interessi sono diversi. Ogni reporter statunitense


deve essere convinto che il suo paese sia la sola vera superpotenza,
una nazione con interessi e modalità sue proprie per perseguirli
che gli altri paesi non hanno. L’indipendenza della stampa è am­
mirevole, sia in pratica sia in teoria; tuttavia quasi tutti i giornalisti
americani che raccontano la cronaca estera hanno interiorizzato
che la loro categoria professionale è parte integrante del potere
americano poiché, quando questo è minacciato da paesi stranieri,
spesso antepongono all’indipendenza della stampa riferimenti che
alludono alla lealtà, al patriottismo e alla pura identità nazionale.
Certo, tutto ciò non sorprende. Stupisce invece che la stampa indi-
pendente sia in genere ritenuta lontana dalla politica estera, anche
se per molti aspetti è effettivamente così. Tralasciando i rapporti
tra la CIA e i giornalisti che lavorano all’estero, i media america­
ni inevitabilmente collocano le informazioni sul mondo entro una
cornice condizionata dalle politiche governative. Solo quando ci
sono conflitti politici interni, come è successo per il Vietnam, i me­
dia riescono a formulare punti di vista indipendenti, con l’obiettivo
costante di influenzare, se non addirittura cambiare, le politiche
del governo, che in sostanza è ciò che importa a tutti gli americani,
membri della stampa inclusi.
All’estero il giornalista americano tende a rintanarsi in quel che
conosce meglio. E comprensibile, avviene spesso quando si è tra­
sferiti in un cultura straniera e, in particolar modo, quando il gior­
nalista si trova a dover comunicare ai propri connazionali fatti ed
eventi di una realtà che non conosce. Cerca la compagnia di altri
giornalisti all’estero, mantenendosi anche in contatto con la sua
ambasciata, con gli altri americani residenti e le persone note per
aver buone relazioni con gli americani. Non bisogna inoltre sotto­
valutare il fatto che i giornalisti, quando si trovano all’estero, sono
consapevoli di non potersi basare soltanto sulle loro conoscenze,
perché devono sempre avere in mente ciò che un inviato di un
media americano dovrebbe sapere, imparare e dire. Un corrispon­
dente del «New York Times» sa esattamente cos’è il «Times» e
com’è considerato nell’ambito professionale. Senza dubbio ci sono
notevoli differenze, forse addirittura determinanti, tra una storia
54 L’ISLAM COM E NOTIZIA

redatta da un corrispondente del «Times» da II Cairo o Teheran


e un articolo di un giornalista freelance, scritto ugualmente a II
Cairo o Teheran, ma con la speranza che venga pubblicato su «The
Nation» o «In These Times». Il medium stesso esercita una forte
pressione. Apparire su « nbc Nightly News» induce il corrispon­
dente da II Cairo a mostrare gli eventi in maniera differente rispet­
to al contenuto di un articolo scritto dal responsabile dell’ufficio
del «Time magazine» a II Cairo, magari preparato in più tempo.
Inoltre, i comunicati dei corrispondenti esteri sono anche rima­
neggiati in patria dagli editori e, a questo punto, entra in gioco
un’altra serie di implicazioni politiche sottostanti e varie costrizioni
ideologiche.
La copertura dei paesi stranieri da parte dei media americani
non solo crea, ma intensifica anche gli interessi che “noi” nutriamo
all’estero. I punti di vista di televisioni e giornali sollecitano certi
aspetti per gli americani, altri invece per gli italiani o per i russi. Il
tutto converge attorno a un significato comune, un’opinione gene­
rale, che tutti i media quasi certamente ritengono di poter chiarire,
cristallizzare e formare. Questo è il punto. I media possono fare
qualunque cosa, rappresentare qualsiasi prospettiva, offrire molti
contenuti eccentrici, inaspettatamente originali, perfino aberranti.
Ma, alla fine, poiché sono compagnie che devono servire e pro­
muovere un’identità coesa - l’“America”, ma anche “l’Occidente”
- in fondo condividono tutte una stessa opinione. Questo aspetto,
come vedremo in seguito nel caso dell’Iran, modella le notizie, de­
cide cosa è una notizia e come è una notizia. L’informazione comun­
que non è imposta, né determinata senza una ragione; non è nean­
che il risultato di leggi deterministiche, né di una cospirazione, né
di una dittatura. E il frutto della cultura, o meglio, è la cultura; ed
è, nel caso dei media statunitensi, una componente rilevante della
storia contemporanea. Non ci sarebbe alcun motivo di analizzare e
criticare il fenomeno se i media non riflettessero quello che siamo
e vogliamo.” 53
53. Una dimostrazione convincente è offerta in Todd Gitlin, The Whole World is
Watching: Mass Media in the Making and Unmaking of the New Left, Berkeley, Los
Angeles and London, University of California Press, 1980.
EDWARD W. SAID 55

I principi su cui si basa questo consenso si possono descrivere


meglio con esempi pratici, piuttosto che elencandoli in maniera
astratta. Per quanto riguarda la copertura mediatica dell’Islam e
dell’Iran, nel prossimo capitolo riporterò le opinioni generali così
come sono state rilevate nel corso della ricerca. Per il momento,
comunque, intendo esporre solo un paio di considerazioni finali
sull’argomento.
Prima di tutto, dobbiamo precisare che per gli Stati Uniti la ne­
cessità di promuovere una visione culturale più o meno omogenea
attraverso i media è particolarmente importante, perché si tratta di
una società complessa, composta al suo interno da molte culture,
spesso incompatibili tra loro. Questo non è un aspetto associato
solo agli odierni mass media, bensì una caratteristica con una storia
così lunga che risale alla fondazione della Repubblica americana.
A partire dalla puritana “missione nelle terre selvagge”, in questo
paese è esistita un’ideologica retorica istituzionalizzata che esprime
una coscienza peculiarmente americana, con un’identità, un desti­
no e un ruolo che sono sempre serviti a incorporare il più possi­
bile le diversità presenti in America (e nel mondo), ricostituendo­
le entro un rispetto specificatamente americano. Questa retorica
presente in modo ufficiale nella vita statunitense è stata analizzata
in modo accurato da numerosi studiosi, tra i quali Perry Miller e,
più recentemente, Sacvan Bercovitch.545Ciò comporta l’illusione,
ma non sempre, di un’opinione unica diffusa, una situazione frutto
della visione nazionalista che i media, agendo in nome della società
che servono, credono vada promossa.
La seconda questione riguarda come questo consenso agisca
nel concreto. Suppongo che il modo più semplice e accurato per
spiegarlo sia quello di evidenziare la sua capacità di fissare margini
ed esercitare pressioni.” Non detta contenuti, né riflette mecca­
nicamente una classe di persone o determinati interessi di gruppi

54. Cfr. in part. Sacvan B ercovitch, The Rites of Assent: Rhetoric, Myth, Popular
Culture, and the American Ideology, A lb u qu erqu e, U niversity o f N ew M exico P ress,
1980, p p . 3-40.
55. Ben descritto in Raymond Williams, Struttura e sovrastruttura nella teoria cul­
turale marxista, in Idem, Materialismo e Cultura, Napoli, Pironti, 1980, pp. 1-25.
56 L’ISLAM COM E NOTIZIA

economici. Dobbiamo pensarlo come un confine invisibile oltre


il quale reporter e opinionisti non sentono la necessità di andare.
Pertanto, all’interno del consenso, sembra quasi impossibile l’ipo­
tesi che il potere militare americano possa essere usato per scopi
crudeli, così come è normale routine l’idea che l’America lotti per
il bene nel mondo. In maniera analoga gli americani tendono ad
associare alle società e culture straniere progetti pionieristici, un
nuovo spirito (per esempio Israele) che strappa la terra da un cat­
tivo utilizzo o dai selvaggi,56 spesso diffidano senza alcun interesse
nei confronti delle culture tradizioni locali, neanche nei paesi alle
prese con cambiamenti rivoluzionari. Gli americani ritengono la
propaganda comunista diretta da coercizioni culturali e politiche
di tal genere ma, quando queste avvengono negli Stati Uniti, le
limitazioni poste ai media e le pressioni mantenute non sono am­
messe con sincerità e consapevolezza, nonostante siano praticate.57
Anche questa è una conseguenza delle coercizioni esercitate. Per­
mettetemi un altro esempio semplice. Quando gli ostaggi america­
ni furono sequestrati a Teheran, immediatamente il consenso entrò
in gioco, ribadendo più o meno che gli unici fatti rilevanti in Iran
erano quelli che riguardavano i prigionieri; il resto del paese, i suoi
processi politici, la vita quotidiana, i suoi personaggi, la geografia e
la storia potevano essere quasi del tutto ignorati: l’Iran e il popolo
iraniano erano descritti solo in base alla loro collocazione, a favore
o contro gli Stati Uniti.
In generale, occorre considerare anche la portata dell’enfasi ri­
posta nei racconti e nella loro diffusione. Ciò che bisogna dire sugli
aspetti quantitativi delle notizie, intese come interpretazioni, può
essere spiegato semplicemente. Una manciata di organizzazioni

56. Una serie di studi recenti sulle esperienze americane con gli indiani, con vari
altri gruppi stranieri e porzioni di territorio “vuote”, rendono questo aspetto merite­
vole di attenzione: cfr. Michael Paul Rogin, Andrew ]ackson and the Subjugation ofthe
American Indian, New York, Alfred A. Knopf, 1975; Ronald T. Takaki, Iron Cages, cit.;
Richar Drinnon, Facing West: The Metaphysics oflndian-Hating and Empire-Building,
Minneapolis, University of Minnesota Press, 1980; Frederick Turner, Beyond Geogra­
phy: The Western Spirit Against the Wilderness, New York, Viking Press, 1980.
57. Cfr. il reseconto di questa dissimulazione in Noam Chomsky e Edward S.
Herman, Dopo il cataclisma, cit.
EDWARD W. SAID 57

controllano gran parte della distribuzione e, pertanto, producono


effetti maggiori: due o tre canali via cavo, tre reti televisive, la CNN,
mezza dozzina di quotidiani, due (o forse tre) settimanali giornali­
stici.58 E sufficiente menzionare pochi nomi per fare il punto della
situazione: CBS, «Time», «New York Times», AP. Questi raggiun­
gono più persone, suscitano impressioni più forti e trattano molti
più generi di notizie rispetto alle minori, meno facoltose, agenzie
che distribuiscono le notizie. E evidente cosa questo significhi per
le notizie estere: quelle agenzie hanno più inviati sul posto degli
altri, quindi sono i loro reporter a fornire le fonti delle notizie a
giornali, canali televisivi e radio locali, che a loro volta trasmettono
alle persone. Questa grande quantità di notizie dall’estero comune­
mente denota maggiore autorevolezza e, quindi, frequenti citazioni
da parte delle persone che si informano, cosicché un resoconto del
«New York Times» o della CBS avrà credibilità in virtù delle sue
fonti, del prestigio istituzionale, della frequenza (giornaliera, ora­
ria, ecc.) con cui viene mandato in onda e del suo aspetto compe­
tente ed esperto. I pochi principali distributori di notizie, insieme
alla moltitudine di fornitori minori indipendenti, sebbene allo stes­
so tempo dipendenti in vari modi dai giganti, offrono un’immagine
americana della realtà, coerente e riconoscibile.
Una conseguenza piuttosto seria è che gli americani hanno po­
che opportunità di conoscere il mondo islamico, fuorché in modo
semplificato, forzato e a loro contrapposto. E un problema grave,
dato che ha generato molte opposizioni riduttive sia qui sia nel
mondo islamico. Adesso all’“Islam” possono essere attribuiti sol­
tanto un paio di significati generici, entrambi inaccettabili e ina­
deguati. Per gli occidentali e gli americani l’“Islam” rappresenta il
risorgere dell’atavismo, ricorda minaccioso il ritorno del Medioevo
e preannuncia la distruzione dell’ordine democratico nel mondo
occidentale, come si è soliti definirlo. Dall’altra parte, per molti
musulmani 1’“Islam” è sinonimo di resistenza, in reazione a questa
immagine dellTslam come minaccia. Nessun discorso sull’“Islam”
appare più forzato, in senso apologetico, di una dichiarazione
58. Vedi in particolare le opere di Herbert Schiller e Armand Mattelart citate
supra , n. 51.
58 L’ISLAM COM E N O TIZIA

sull’umanesimo dell’Islam, sul suo contributo alla civiltà, allo svi­


luppo e alla giustizia morale. Tale genere di contrapposizione a vol­
te suscita stupidamente ancora un’altra contrapposizione, quando
si prova a identificare 1’“Islam” con l’attuale situazione di qualche
paese islamico, oppure con certe autorità islamiche. In aggiunta
abbiamo Sadat che giudica Khomeini un lunatico e una disgrazia
per l’Islam, Khomeini che ricambia il complimento e, a seguire, ne­
gli Stati Uniti molte persone che dibattono sulle ragioni dell’uno e
dell’altro. Coloro che difendono l’Islam cosa possono dire quando
quotidianamente si contano persone giustiziate dai Komiteh isla­
mici, oppure quando - come ha riferito la Reuters il 19 settembre
1979 - l’ayatollah Khomeini annuncia che i nemici della rivoluzione
islamica saranno distrutti? La mia opinione è che queste argomen­
tazioni suU’“Islam”, parziali e riduttive, dipendano l’una dall’altra,
e inoltre siano tutte ugualmente da rifiutare perché sfociano in una
strada senza uscita.
Le conseguenze di questo vicolo cieco possono essere terribili,
se consideriamo che il supporto degli Stati Uniti alla modernizza­
zione dello shah venne giudicato dagli iraniani come un grido di
battaglia, poiché fu attribuito un significato politico a favore della
monarchia e avverso all’Islam. La rivoluzione islamica si prefisse
in parte l’obiettivo di resistere all’imperialismo statunitense, che a
sua volta sembrava resistere alla rivoluzione islamica poiché aveva
accolto lo shah a New York - un gesto, quest’ultimo, dal valore
simbolico. Da quel momento in poi il dramma si dispiegò come se
seguisse un programma orientalista: i cosiddetti orientali recitavano
la parte progettata per loro dai cosiddetti occidentali; gli occidentali
confermavano il loro status di demoni agli occhi degli orientali.59
E non è tutto: molte parti del mondo islamico sono attualmen­
te inondate da trasmissioni televisive di produzione statunitense.
Come tutti gli altri abitanti del Terzo mondo, i musulmani tendono
a dipendere da poche agenzie giornalistiche, compagnie che nor­
malmente trasmettono al Terzo mondo anche notizie riguardanti
quelle stesse nazioni. I paesi del Terzo mondo in generale, ma par-
59. Per una descrizione del medesimo paradigma di azione e reazione, cfr. Thomas
N. Franck e Edward Wiesband, World Politics, cit.
EDWARD W. SAID 59

ticolarmente quelli islamici, nonostante siano la fonte delle notizie,


ne sono diventati i consumatori. Per la prima volta nella storia (o
meglio, per la prima volta su tale scala) si può dire che il mon­
do islamico sta assimilando nozioni su sé stesso attraverso imma­
gini, storie e informazione prodotte in Occidente. Questo è stato
drammaticamente evidente durante le Guerra del Golfo, quando
la maggior parte degli arabi (incluso, si dice, Saddam Hussein)
guardavano la CNN, la principale fonte d’informazione sulla guerra.
Bisogna aggiungere poi che nel mondo islamico sia gli studenti sia
i professori dipendono tuttora dalle biblioteche e dalle scuole di
formazione americane ed europee in materia di studi sul Medio
Oriente (e bisogna considerare che nell’intero mondo islamico non
esiste nessuna biblioteca di testi arabi veramente completa e rile­
vante). La lingua globale è l’inglese, non certo l’arabo, il persiano o
il turco. Inoltre, è doveroso ricordare che gran parte di quel mon­
do islamico, che deve le sue ricchezze al petrolio, per colpa delle
sue élite sta producendo classi dirigenti locali che sono indebitate
a causa delle loro scelte economiche e dei loro apparati militari,
e che rovinano ogni opportunità politica concedendosi al sistema
consumistico mondiale dominato dall’Occidente. Da un’osserva­
zione accurata si deduce una situazione estremamente deprimente,
ossia che la rivoluzione dei media, utile solo a quelle categorie so­
ciali che l’hanno prodotta, abbia semplificato l’“Islam”.6°
Non che in realtà non vi sia una risveglio islamico, indipendente
dalle contrapposizioni che ho descritto, ma sarebbe meglio parlar­
ne in modo meno banale. Personalmente preferisco non usare ter­
mini come “Islam” e “islamico”, oppure utilizzarli moderatamen­
te con molte precisazioni, appunto perché in tante società e stati
musulmani (e ovviamente in Occidente) l’“Islam” è diventato una
copertura politica per molti elementi non religiosi. Dunque, come
possiamo cominciare ad analizzare le interpretazioni musulmane
dell’Islam e gli sviluppi al suo interno in maniera responsabile?
Innanzitutto, seguendo Maxime Rodinson, dovremmo isolare60
60. Sul ruolo delle élite di stile occidentale nelle società musulmane/arabe, vedi
John Waterbury e Ragaei El Mallakh, The Middle East in the Corning Decade: From
Wellhead to Well-Being?, New York, McGraw-Hill Book Co., 1978.
6o L’ISLAM COM E NOTIZIA

l’insegnamento basilare della religione musulmana contenuto nel


Corano, che è considerata parola di Dio.6' Si tratta dell’identità
fondamentale della fede islamica, che è stata sentita oltraggiata
da I versi satanici di Salman Rushdie, anche se la questione è sta­
ta affrontata subito prendendo le distanze da tali intenzioni. Un
secondo livello comprende le varie interpretazioni conflittuali del
Corano che hanno dato origine a numerose sette islamiche, scuole
giuridiche, stili ermeneutici, teorie linguistiche e così via. All’in­
terno di questa vasta gamma di correnti di pensiero derivanti dal
Corano (la maggior parte di queste ha costituito istituzioni e, in
alcuni casi, formato società), una tendenza maggioritaria è stata
definita da Rodinson nei termini di “ritorno all’origine”. Significa
l’impulso radicale a cogliere lo spirito puro dell’Islam, uno stimolo
che Rodinson paragona a una “rivoluzione permanente” all’inter­
no dell’Islam. Quel che non dice, comunque, è che tutte le religioni
monoteistiche e la maggior parte dei movimenti ideologici hanno
questa spinta al loro interno; è molto difficile sostenere se, a tal
proposito, l’Islam sia più coerentemente rivoluzionario delle altre.
In ogni caso, “un ritorno all’origine” dà inizio a movimenti (per
esempio il wahhabismo oppure, è evidente, la componente religio­
sa della rivoluzione iraniana) che confliggono con le società in cui
si trovano in modi che variano a seconda dei luoghi e dei tempi. Il
mahdismo in Sudan durante il diciannovesimo secolo non è la stes­
sa ideologia del mahdismo contemporaneo. In maniera analoga, la
Fratellanza musulmana egiziana, tra la fine degli anni Quaranta e la
metà degli anni Cinquanta, era un movimento ideologico notevol­
mente più forte della Fratellanza odierna; entrambe sono diverse
sia per l’organizzazione che per gli obiettivi dalla Fratellanza mu­
sulmana siriana, che Hafez al-Assad ha tentato di sradicare brutal­
mente nel 1982 a Hama: i suoi soldati massacrarono diverse migliaia
di persone indicate come membri della Fratellanza.
Finora facendo riferimento principalmente a un Islam ideologi­
co e dottrinale, ma non solo, abbiamo già dovuto affrontare molte
variazioni e contraddizioni. Infatti, le etichette “Islam” e “islamico”
61. Maxime Rodinson, Islam and the Modem Economie Revolution, nel suo Mar­
xism and the Muslim World, cit. p. 151.
EDWARD W. SAID 61

d e v o n o e sse re u sa te in d ic a n d o a quale (e, se è p e r q u e sto , di chi)


Isla m si rife risco n o . C o n tin u a n d o a se g u ire R o d in so n , la q u e stio n e
si c o m p lic a u lte rio rm e n te q u a n d o a g g iu n g ia m o un te rz o livello alla
n o stra an alisi. M a a q u e sto p u n to è m e g lio c itarlo p e r este so :

All’interno dell’Islain vi è un terzo livello, da distingue­


re dagli altri due, che include il modo in cui sono vissute le
varie ideologie, le usanze a queste associate, le pratiche che
certamente le influenzano, se non le ispirano. L’Islam duran­
te il Medioevo si è manifestato in varie forme, ognuna vissuta
diversamente; seppure fossero rimaste identiche a livello te­
stuale, vi potevano essere profondi mutamenti interni. La que­
stione non può essere ridotta al mero contrasto tra le dottrine
e i testi delle tendenze “eretiche” da una parte, e l’“ortodossia”
musulmana riconosciuta dalla maggior parte dei musulmani
dall’altra. In un ambiente conformista, come in qualsiasi luo­
go, capita spesso che l’interpretazione di una frase tratta dal
testo sacro sia sufficiente a provocare un cambiamento essen­
ziale e l’adozione di un tendenza critica o rivoluzionaria, che
può rimanere un comportamento individuale, oppure diffon­
dersi tra gli altri. Al contrario, con il passare del tempo, accade
spesso che un pensiero di rottura, rivoluzionario o innovativo,
venga interpretato in un senso conservativo, conformista e
quietista. Molti esempi testimoniano tale processo, che a dire
il vero potrebbe essere espresso come una legge generale delle
ideologie. L’evoluzione della setta ismaelita è particolarmente
significativa. Nel Medioevo gli ismaeliti predicavano la sovver­
sione rivoluzionaria dell’ordine costituito. Oggi invece i suoi
leader sono gli Aga Khan, potentati miliardari che trascorrono
gran parte del tempo a godere della “dolce vita” in compagnia
di celebrità del cinema e personaggi famosi, tant’è vero che i
giornali scandalistici non si stancano mai di parlare di loro.
In conclusione, i testi sacri non esprimono espliciti precetti.
Nel suo insieme la tradizione culturale, che comprende tutte le
manifestazioni più evidenti, proclami, testi dottrinali e usanze
tramandate dal passato, offre una vasta gamma di prospettive e
permette di giustificare molte tesi tra loro contraddittorie.62
62. Iv i, p p . 154-155.
62 L’ISLAM COM E NOTIZIA

Dunque, questo livello è il terzo tipo di interpretazione, ma non


può verificarsi senza gli altri due. Non ci può essere Islam senza il
Corano; d ’altro canto, non può esistere il Corano senza i musulmani
che lo leggono, lo interpretano e che si sforzano di adattarlo alle
istituzioni e alle situazioni sociali. Anche laddove l’interpretazione è
fortemente ortodossa, come nell’Islam sunnita - lo stesso sunnismo
significa “ortodossia basata sul consenso” - può sussistere con mol­
ta facilità un fermento rivoluzionario. In Egitto il conflitto tra il go­
verno di Sadat e i vari partiti cosiddetti fondamentalisti musulmani
è avvenuto sul medesimo terreno molto controverso dell’ortodossia,
dal momento che Sadat e le sue autorità islamiche rivendicavano di
essere dalla parte del sunnismo, così come i suoi avversari che soste­
nevano accanitamente che loro erano i veri seguaci del sunnismo.
Se noi aggiungiamo a questi tre livelli di Islam il gran numero di
musulmani del passato, presente e futuro, il mero arco temporale
relativo all’“avvento dell’Islam” (dal settimo secolo a oggi), l’incre­
dibile varietà delle condizioni geografiche laddove vi sono società
islamiche (dalla Cina alla Nigeria, dalla Spagna all’Indonesia, dalla
Russia e dell’Afghanistan fino alla Tunisia), suppongo che iniziere­
mo a capire gli effetti politici dei media occidentali e la forzatura
culturale ogniqualvolta si definisce Islam tout court. Ritengo inoltre
che cominceremo ad avvertire che i vari sforzi islamici per dare
una risposta alle circostanze sia musulmane sia occidentali sono
altrettanto politici, intuendo che tali processi, lotte e strategie di
interpretazione sono passibili di analisi.63 Adesso permettetemi di
mostrare per sommi capi cosa implica questa estrema complessità,
anche se in via preliminare direi che il problema principale è che
gran parte di ciò che si deve valutare fondamentalmente rifugge
dalla documentazione.
Non siamo assolutamente in grado di sostenere se esiste qual­
cosa chiamato “storia islamica”, salvo intesa come un sistema ru­

63. Come esempio degno di nota, cfr. il recente lavoro di Mohammad Arkoun,
Contribution è l’étude de l’humanisme arabe au IV/Xesiècle: Miskawayh, philosophe et
historien, Paris, J. Vrin, 1970; Idem, Essais sur la pensée islamique, Paris, Maisonneuve
& Larose, 1973; e La pensée e La vie, in Idem e Louis Gardet, L’Islam: Hier. Demain,
Paris, Buchet/Castel, 1978, pp. 120-247.
EDWARD W. SAID 63

d im e n ta le p e r d istin g u e re il m o n d o m u su lm a n o d a ll’E u r o p a o d a l
G ia p p o n e . G li stu d io si m u su lm a n i e o c c id e n ta li n on so n o n e an c h e
d ’a c c o r d o se l ’Isla m a b b ia m e sso ra d ic i in ce rte lo c a lità g e o g ra fic h e
p e r m o tiv i d o v u ti a ll’e c o lo g ia o p p u r e alla stru ttu ra so c io e c o n o m ic a
0 al p a r tic o la re r a p p o r to tra il m o d e llo se d e n ta rio e n o m a d e . Q u a n ­
to ai p e r io d i d e lla sto ria isla m ic a , a n ch e q u e sti so n o c o sì c o m p le ssi
d a re n d e re a r d u a u n a se m p lic e c a ra tte riz z a z io n e “ is la m ic a ” . Q u a li
so n o i p u n ti d i so m ig lia n z a tra alaw iti, o tto m a n i, sa fa v id i, u zb e k i,
stati m o n g o li (o v v ero le g r a n d i o rg a n iz z a z io n i sta ta li d e lla sto ria
islam ica, fino al v e n te sim o se c o lo , in In d ia , T u rc h ia e n el V icin o e
M e d io O rie n te ) e i m o d e rn i stati n az io n a li isla m ic i? N e lle re g io ­
ni m u su lm a n e , c o m e si sp ie g a la d iffe re n z a (e an ch e l ’o rig in e ) tra
1 te rrito ri c o sid d e tti tu rco -iran ian i e tu rc o -a ra b i? D u n q u e , co m e
m o stra c h iaram e n te A lb e rt H o u r a n i, i p r o b le m i d i d efin izio n e , in ­
te rp re ta z io n e e c a ra tte riz z a z io n e n e ll’a m b ito d e llT sla m ste sso so n o
c o sì e n o rm i d a fa r riflettere gli stu d io si o c c id e n ta li (p e r n o n p a rla re
d e g li altri o c c id e n ta li n o n e sp e rti):

È evidente che un termine come storia islamica non signifi­


ca la stessa cosa nei diversi contesti, inoltre non è mai sufficien­
te di per sé per spiegare la reale situazione. In sostanza, l’Islam
e i termini che ne derivano sono “idealizzazioni”; pertanto,
qualora fosse necessario servirsene come concetti per spiega­
re la storia, bisogna utilizzarli con cautela, specificando le in­
numerevoli condizioni e sfumature del significato, ponendoli
in connessione con le altre astrazioni. Possono essere usati in
diversi modi che variano a seconda del tipo di storia che stia­
mo scrivendo. Nell’ambito della storia economica sono poco
rilevanti; come Rodinson ha mostrato in Islam e capitalismo,
la vita economica delle società a prevalenza islamica non può
essere spiegata principalmente in base alle credenze o alle leggi
religiose. Nonostante l’influenza della legge islamica sulle mo­
dalità di commercio, altri tipi di spiegazione sono più rilevan­
ti; come Cahen e altri hanno suggerito, concetti come società
“mediorientale”, “mediterranea”, “medievale” e “preindu­
striale” sono più utili rispetto a quello di islamica. Nell’ambito
della storia sociopolitica, l’Islam può fornire alcuni elementi di
64 L’ISLAM COM E NOTIZIA

spiegazione, ma non tutto ciò che serve. Le istituzioni e le poli­


tiche degli stati “islamici”, perfino i più ferventi, non possono
essere spiegate senza prendere in considerazione la posizione
geografica, i bisogni economici e gli interessi delle dinastie e dei
governanti. Anche la storia delle istituzioni che paiono fondate
sulle norme islamiche non può essere interamente spiegata in
questi termini: un concetto come la “schiavitù islamica” sva­
nisce se osservato da vicino. Come suggeriscono le ricerche di
Milliot sulla letteratura ’amai del Marocco, le tradizioni locali
in vari modi vengono sempre incorporate nella legge islamica,
dal momento che queste continuano a essere praticate. Solo
alcune correnti intellettuali, se non altro prima dell’età mo­
derna, si possono spiegare essenzialmente in termini islamici,
dal momento che un sistema capace di mantenersi e sviluppar­
si autonomamente è frutto di un processo che mescola idee
provenienti dall’esterno con altre generate dall’interno dello
stesso Islam. Anche i falasifa non devono essere considerati
come filosofi greci dalle sembianze arabe, bensì come musul­
mani che usavano i concetti e i metodi della filosofia greca per
dedurre spiegazioni proprie della fede islamica.64

Non esiste neanche alcuna teoria antropologica che presuppone


un Homo islamicus, né che lo ritiene importante dal punto di vista
analitico o epistemologico. Rispetto alle nostre competenze, non
conosciamo a sufficienza la distribuzione del potere e dell’autorità
nelle società islamiche - dal momento che nel corso della storia e in
luoghi diversi si è manifestata un’ampia varietà di aspetti - per dire
come si dovrebbe valutare il rapporto tra codici giuridici islamici e
la loro esecuzione, oppure sull’applicazione, sui cambiamenti e sul
mantenimento dei principi di governo.
Per esempio, non possiamo affermare con certezza se qualche
società islamica, tutte o nessuna, partendo dai principi religiosi ab­
bia trasformato le fondamenta dell’autorità basandole sui concetti
della dottrina legalistica. Il linguaggio, i canoni estetici, la sociolo­
gia del gusto, la questione dei rituali, gli spazi urbani, i mutamenti
64. Albert Hourani, History, in Leonard Binder (a cura di), The Study of the Midd­
le East: Research and Scholarship in the Humanities and the Social Sciences, New York,
John Wiley & Sons, 1976, p. 117.
EDWARD W. SAID 65

della popolazione, le rivoluzioni dei modi di pensare: tutti questi


ambiti, che si pongono in relazione al contesto, a malapena sono
cominciati a essere trattati dagli studiosi musulmani e non. Esiste
un comportamento politico prettamente musulmano? Come clas­
sifichiamo i partiti che si presentano nelle società musulmane e in
che modo differiscono da quelli europei? Quali sono i criteri, gli
strumenti di ricerca, i modelli, i documenti che ci permettono di
scoprire migliori dettagli sulla vita quotidiana musulmana in gene­
rale? In fin dei conti, la nozione di “Islam” è utile? O invece più
che altro nasconde, distorce, è fuorviante e riduce tutto in chiave
ideologica? Soprattutto, che relazione c’è tra colui che pone tutte
queste domande, o solo una parte, e le risposte? Perché oggi, se
le chiede un teologo musulmano in Iran, Egitto o Arabia Saudita
è diverso rispetto a dieci anni fa? In che modo tali affermazioni si
pongono a confronto con le problematiche formulate da un orien­
talista russo, da un arabista francese al Quai d’Orsay o da un antro­
pologo americano all’università di Chicago?
In termini politici, quel che appare come una normale reazione
islamica probabilmente non è altro che una reificazione, una scor­
retta mistificazione da parte dell’Occidente dei molti aspetti estre­
mamente contraddittori dell’“Islam”. In quasi tutti i casi la condi­
zione delle regioni islamiche (dal Nordafrica all’Asia meridionale),
con la particolare eccezione del Libano, è riportata deliberatamente
in termini islamici. Questo è un fenomeno sia politico che cultura­
le e soltanto adesso comincia a essere riconosciuto.65 Per esempio,
l’Arabia Saudita è (come il suo nome indica) il paese della casa reale
dei Saud, in quanto lo Stato ha avuto origine dalla loro vittoria sulle
altre principali tribù della regione. Tutte le affermazioni e le azioni
che questa famiglia compie nel nome del paese e dell’Islam sono
espressione del potere della famiglia, un forza che le deriva dal suo
inserimento nella comunità internazionale e, inoltre, dovuta alla no­
tevole autorità e legittimità ottenuta sulla popolazione. La situazio­
ne è simile anche in Giordania, Iraq, Kuwait, Siria, nell’Iran prima
65. Cfr. l’utile analisi di questo punto come caratteristica dello Stato nelle società
dipendenti prodotta da Eqbal Ahmad, Post-Colonial Systems of Power, in «Arab Stu­
dies Quarterly 2», n. 4, inverno 1980, pp. 350-363.
66 L’ISLAM COM E NOTIZIA

della rivoluzione e in Pakistan, ossia in tutti i casi in cui l’oligarchia


al governo è una famiglia. Tale situazione è diffusa nella maggior
parte dei paesi, laddove una setta religiosa, un singolo partito, una
famiglia o una fazione locale domina su tutte le altre nel nome dello
Stato e dellTslam. Il Libano e Israele sono delle eccezioni: entrambi
appartengono al mondo islamico, ma nel primo governa una mino­
ranza cristiana (con le altre comunità sempre di più all’opposizione),
e nel secondo una ebraica. Tuttavia anch’essi esercitano in maniera
considerevole la loro egemonia in termini religiosi.
E estremamente evidente che tutti questi stati, sentendosi po­
sti di fronte a minacce esterne, ognuno a proprio modo ricorre in
maniera reazionaria alla religione, alla tradizione e al nazionalismo.
Nessuno di loro ha potuto evitare questo problema estremamente
complesso. Da un lato, la struttura statale non è abbastanza aperta
nei confronti delle diverse nazionalità, religioni e sette incluse al
suo interno. Ciò avviene in Arabia Saudita, dove probabilmente
molte tribù e clan si sentono costretti dentro uno Stato che si pro­
clama l’Arabia dei Saud; nell’Iran contemporaneo, dove l’apparato
statale reprime sistematicamente azerbaigiani, baluci, curdi, arabi
e tutti coloro che sentono compromesse le loro peculiari identità
etniche. Una tensione analoga si ritrova anche in Siria, Giordania,
Iraq, Libano e Israele. Dall’altro lato, in tutti questi stati il potere
dominante si è servito di un’ideologia nazionale e religiosa per mo­
strare una parvenza di unità contro le minacce esterne percepite.
Questo è chiaramente il caso dell’Arabia Saudita, dove l’Islam è
l’unica corrente ideologica sufficientemente vasta e legittima da
unire la popolazione al suo seguito. Dalla fine degli anni Ottanta il
re è oltretutto nominato Khadim al Haramain (il custode dei luoghi
santi, ossia Mecca e Medina), vale a dire la maggiore onorificenza
per i musulmani. Pertanto in Arabia Saudita e nell’Iran prerivolu­
zionario l’Islam è stato associato a molti aspetti relativi alla sicu­
rezza nazionale; inoltre, il fatto che queste politiche soddisfino gli
stereotipi occidentali sullTslam comporta un’ulteriore pressione su
di esse, sia esterna che interna.
Il “ritorno allTslam”, lungi dall’essere un movimento omogeneo
e coerente, include una serie di situazioni politiche. Per gli Stati
EDWARD W. SAID 67
Uniti rappresenta un’immagine di distruzione che in alcuni mo­
menti bisogna contrastare, mentre in altre occasioni è utile incorag­
giare. Parliamo dei musulmani sauditi anticomunisti, dei valorosi
ribelli musulmani afghani e dei musulmani “moderati” come Sa­
dat, della famiglia reale saudita e del re Hussein di Giordania. Allo
stesso tempo però inveiamo contro i militanti islamici di Khomeini,
la “terza via” islamica di Gheddafi e, questo è dovuto alla nostra
curiosità morbosa, contro le “punizioni islamiche” (come quelle
ordinate da Khalkhali), critiche che paradossalmente ne rafforzano
l’autorità e la capacità di mantenersi al potere. In Egitto la Fratel­
lanza musulmana, in Arabia Saudita i militanti islamici che hanno
preso la moschea di Medina, in Siria le fratellanze e le avanguardie
musulmane che un tempo si opponevano al regime del partito Ba-
ath, in Iran i Mujaheddin islamici, così come i Fedayeen e i liberali:
sono solo una piccola parte dei movimenti attualmente all’opposi­
zione nelle varie nazioni, nonostante ne sappiamo molto poco. Poi
vi sono le molte identità musulmane che reclamano il loro Islam,
tutte osteggiate dai vari stati postcoloniali. Inoltre, sottostante a
tutto ciò - nelle madrase, moschee, club, fratellanze, gilde, partiti,
università, movimenti, villaggi e nei centri urbani di tutto il mondo
musulmano - esistono molti tipi di Islam, di cui la gran parte pre­
tende di condurre i propri fedeli verso “il vero Islam”.66
Nonostante la fede musulmana sia così variegata, gli occiden­
tali giungono a conoscenza soltanto di una piccola frazione, ossia
ciò che i media e i portavoce governativi reputano come “Islam”.
La distorsione più grave avviene quando si menziona la “rina­
scita” islamica.67 Nelle menti e nei cuori dei fedeli sicuramente
l’Islam è sempre stato vivo, fecondo, ricco di idee, sentimenti e

66. Un buon rilievo di questa attività per l’Iran è fornito da Michael M. G. Fi­
scher, Iran: From Religious Dispute to Revolution, Cambridge, Harvard University
Press, 1980. Ma vedi pure Marshall Hodgson, The Venture of Islam, cit.
67. Il documento ideologico-chiave è Bernard Lewis, The Return of Islam, in
«Commentary», gennaio 1976, pp. 39-49; vedi la mia discussione in merito: Orien­
talism, cit., pp. 339-344. In paragone a Elie Kedourie, Lewis è davvero un modera­
to: cfr. lo straordinario tentativo di Kedourie di mostrare che la ripresa dell’Islam è
principalmente una variante del “marxismo-leninismo” nel suo Islamic Revolution,
Salisbury Papers n. 6, London, Salisbury Group, 1979.
68 L’ISLAM COM E NOTIZIA

azioni umane. La “visione islamica” (come la definisce corretta-


mente W. Montgomery Watt)68 è sempre nei pensieri dei fedeli e
coinvolge la loro vita quotidiana. Cos’è la giustizia? Cos’è il male?
Quando bisogna ricorrere all’ortodossia e alla tradizione? Quan­
do Yijtihad (interpretazione individuale) è corretta? Le domande
su cui riflettere sono molte, tuttavia noi in Occidente quasi non le
vediamo né ascoltiamo. Pertanto molti aspetti della vita islamica
rimangono solamente sulla carta, oppure sono associati a deter­
minati personaggi o a modelli precostituiti, rendendo così l’abu­
sata parola “Islam” un elenco superficiale di quel che tentiamo di
comprendere.
Nonostante ciò, il conflitto tra “Islam” e “Occidente” è molto
reale. Si tende a dimenticare che in tutte le guerre ci sono due li­
nee di trincea, due barricate e due apparati militari. Proprio come
la guerra contro l’Islam sembra aver unificato l’Occidente attorno
all’opposizione nei confronti del potere musulmano, così anche la
guerra contro l’Occidente ha aggregato molti settori del mondo
islamico. Benché l’Islam sia un fattore relativamente recente ne­
gli Stati Uniti, molti musulmani considerano gli Stati Uniti parte
dell’Occidente e, pertanto, molti ambienti musulmani giudicano
tale fenomeno una scelta deliberata. Ritengo che molti studiosi oc­
cidentali specializzati in cultura islamica tendano a esagerare l’im­
patto dell’“Occidente” sul pensiero musulmano durante gli ultimi
duecento anni, dato che erroneamente presumono che “l’Occiden­
te” e la “modernizzazione” per molto tempo siano stati centrali per
il pensiero islamico, dall’Atlantico al Golfo. Ciò non è vero sempli­
cemente perché la società islamica, come tutte le altre, si è focaliz­
zata talvolta su determinate questioni, e talaltra su altri aspetti. E
vero però che l’“Occidente” ha fornito pagine e pagine di discus­
sioni, trattati e brillanti spiegazioni, inoltre molte personalità han­
no influito nel mondo islamico, introducendo partiti e movimenti
con varie finalità e progetti.69 In ogni modo sarebbe sbagliato e

68. William Montgomery Watt, What Is Islam ?, London and New York, Long­
mans, Green & Co., 1979’, pp. 9-21.
69. Una descrizione cogente si trova in Albert Hourani, Arabie Thought in the
Liberal Age, 1798-1939 [1962], London and Oxford, Oxford University Press, 1970.
EDWARD W. SAID 69

persino comodo concepire l’intero mondo islamico disturbato solo


da quel che è, dopotutto, esterno a esso.
E molto importante inoltre ricordare che una delle principali
caratteristiche della cultura islamica sono i ricchi e ingegnosi sforzi
interpretativi. Probabilmente è vero che l’Islam non ha prodotto
nessuna tradizione estetica visuale particolarmente elaborata, tut­
tavia è altrettanto vero e interessante il fatto che poche civiltà han­
no promosso l’arte dell’interpretazione verbale su così larga scala
come è avvenuto nelle società islamiche. Intere istituzioni, tradi­
zioni e scuole di pensiero sono scaturite da questi esercizi critici,
teorie linguistiche e sforzi ermeneutici. Tali attività esistono anche
nelle altre tradizioni religiose, però bisogna ricordare che, rispetto
ad altrove, nellTslam le pratiche orali e verbali si sono sviluppate
piuttosto liberamente in un ambito loro dedicato. Non c’è da me­
ravigliarsi infatti che la nuova costituzione iraniana abbia nominato
un faqih7° come guida della nazione, un faqih, non un re filosofo
come i media hanno mostrato, ma letteralmente un dottore di fiqh,
di ermeneutica legislativa - in altre parole, un grande letterato.
Tutte e due le comunità interpretative, sia quella islamica sia
quella occidentale e americana, poiché sono principalmente pla­
smate dai mass media, purtroppo hanno dedicato molta attenzione
agli aspetti che le pongono in attrito e, in tal modo, hanno tra­
scurato quel che non concerne questo confronto. Dal momento
che ormai noi tutti abbiamo cominciato a credere che i musulmani
si oppongono alla “satanica” America, vale la pena dedicare un
poco d’attenzione a quel che è successo recentemente. È innega­
bile che il controllo delle “notizie” e delle “immagini” è in mani
occidentali, non musulmane, ed è altrettanto vero che il motivo di
questa dipendenza è soltanto l’arretratezza del mondo musulmano
nel campo della conoscenza, un fattore che ha reso ardue iniziative
in tal ambito. I ricchi stati petroliferi, dal canto loro, non possono
lamentarsi della carenza di risorse. Quel che manca è una decisione
politica comune che consenta loro un serio ingresso nel mondo,
e tale carenza dimostra che gli stati musulmani, lungi dall’essere70

70. [Ovvero, un giurista, NdT.]


70 L’ISLAM COM E NOTIZIA

una forza unita, non sono ancora né impegnati politicamente né


coesi. Bisogna prima incentivare molte competenze e, tra queste, la
capacità di produrre e articolare una propria immagine cosciente
e forte. Ma questo comporta una seria riflessione sui valori (non
soltanto sui modi di reagire e difendersi) che i musulmani inten­
dono promuovere. Su questo argomento è in corso nel mondo
musulmano un grande dibattito che di solito avviene nelle discus­
sioni di turath (un’eredità culturale specificamente islamica):71 è il
momento di comunicare al resto del mondo queste tematiche e le
relative conclusioni. Non ci sono più scuse per lamentarsi dell’osti­
lità dell’“Occidente” nei confronti degli arabi e dell’Islam, per
poi continuare a ritenersi dalla parte della giustizia e oltraggiati.
Quando saranno analizzati senza timore i motivi di questa ostilità
dell’“Occidente” e gli aspetti che la suscitano, sarà intrapreso un
importante passo verso il cambiamento, anche se parziale: bisogna
chiarire altre cose, se non si vuol risollevare una nuova propaganda
anti-islamica. Certamente oggi vi sono grandi pericoli nel promuo­
vere realmente, nell 'attuare realmente, l’immagine predominante
dell’Islam ostile, anche se finora è così solo per alcuni musulmani,
alcuni arabi e alcuni neri africani. Ma questa perseveranza sottoli­
nea l’importanza di quel che è stato finora fatto.
Ritengo che molti paesi musulmani, nella grande corsa verso
l’industrializzazione, la modernizzazione e lo sviluppo, talvolta sia­
no stati troppo inclini a trasformarsi in mercati di consumo. Per
far svanire i miti e gli stereotipi dell’orientalismo, al mondo intero
deve essere data la possibilità, attraverso i media e da parte degli
stessi musulmani, di vedere islamici e orientali che producono e
che, soprattutto, diffondono un diverso tipo di storia, un nuovo
genere di sociologia e una nuova coscienza islamica. In sintesi, i
musulmani hanno bisogno di enfatizzare l’importanza di vivere
una nuova forma di storia, indagando quel che Marshall Hodgson
71. Per un esempio recente, seppure partigiano, vedi Adonis [Ali Ahmad Said],
Al-Thabit wal Mutahawwil, voi. 1, Al-Usul, Beirut, Dar al Awdah, 1974. Vedi pure
Tayyib Tizini, Min al-Turath al-’Arabi, Beirut, Dar Ibu Khaldum, 1978. Un buon reso­
conto del lavoro di Tizzini, a firma di Saleh Omar, si trova in «Arab Studies Quarterly
2», n. 3, estate 1980, pp. 276-284. Per una recente visione europea della questione, vedi
Jacques Berque, L’Islam au défi, Paris, Gallimard, 1980.
EDWARD W. SAID 71

ha chiamato islamicate.71 Sicuramente Ali Shariati aveva in mente


tutto ciò pensando ai musulmani iraniani, specie quando ha inter­
pretato il viaggio di Maometto dalla Mecca a Medina (hejira) in
chiave universale, associandolo all’idea di vita umana intesa come
«una scelta, una lotta, un costante divenire. E un percorso senza
fine, un viaggio interiore, dall’argilla a Dio; è una migrazione den­
tro la sua propria anima».7273
Le idee di Shariati hanno preannunciato la rivoluzione iraniana
nella sua fase iniziale, evento che ha rimosso per sempre la suppo­
sizione dogmatica che considerava i musulmani essenzialmente in­
capaci di una vera rivoluzione, oppure di liberarsi nettamente dalla
tirannia e dall’ingiustizia. Ancora più importante, la rivoluzione ira­
niana inizialmente ha dimostrato - come Shariati ha sempre sostenu­
to - che gli uomini devono vivere l’Islam come una sfida esistenziale
fortificante, non come una passiva sottomissione all’autorità, umana
o divina. In un mondo privo di “punti fermi” e con un precetto
religioso che invita a “migrare” dall’argilla umana verso Dio, se­
condo Shariati ogni musulmano deve intraprendere un suo proprio
percorso. La società umana nel complesso è stata una migrazione,
o meglio un’oscillazione tra “il polo di Caino” (governanti, re, ari­
stocrazia: il potere concentrato in una sola persona/individuo) e il
“polo di Abele” (l’insieme della persone che il Corano definisce al-
nass\ democrazia, soggettività, comunità).74Gli insegnamenti morali
dell’ayatollah Khomeini all’inizio erano altrettanto convincenti: con
meno flessibilità di Shariati anche lui aveva compreso l’esortazione
musulmana a vivere costantemente la scelta tra halal e haram (la
giustizia e il male). Da qui deriva il suo appello per una repubblica
“islamica”, attraverso cui intendeva istituzionalizzare la giustizia e
salvare gli al-mostazafin (gli oppressi) dalla loro situazione difficile.
Tali idee ovviamente in Iran hanno comportato un enorme scon­
volgimento. Tuttavia in Occidente nessuno ha espresso solidarietà

72. Marshall Hodgson, The Venture o f Islam, cit., voi. i, pp. 56 sgg.
73. Ali Shariati, Anthropology: The Creation o f Man and the Contradiction o f God
and Iblis, or Spirt and Clay, in On the Sociology o f Islam: Lectures hy A li Shariati, Ber­
keley, Calif., Mizan Press, 1979, p. 93.
74. Idem, The Philosophy o f History: Cain and Abel, in ivi, pp. 97-110.
72 L’ISLAM COM E NOTIZIA

nei confronti della rivoluzione islamica. Anche nei paesi islamici


l’esperienza iraniana è ancora temuta per la sua energia, il fervore,
la distruttività e l’entusiasmo quasi millenarista, sebbene in Iran ci
sia stato un enorme dibattito dopo Khomeini, verso il quale non è
stata dedicata molta attenzione. Infatti nel mondo musulmano vi
è una netta separazione tra le visioni ufficiali, ortodosse, della vita
islamica e i molti altri modi differenti che si pongono in contrasto,
ossia un Islam controcorrente la cui espressione più avanzata era
la rivoluzione iraniana.75 L’ironia è che le opinioni occidentali nel
complesso preferiscono associare l’“Islam” a ciò che molti musul­
mani attualmente osteggiano: punizioni, autocrazia, logiche medie­
vali e teocrazia.

ill. Lepisodio della principessa e il suo contesto

L’Islam è reso malleabile innanzitutto dalla nostra volontà di


rappresentarlo in modo strumentale; di volta in volta, appare sem­
plificato dal punto di vista di uno stato, di un governo o di qualsiasi
altro gruppo: ciò produce una distanza dall’Islam in quanto tale
e, per di più, si mette in discussione qualsiasi garanzia di fiducia
nell’incontro tra “noi” e “loro”. Ma al di là delle basi fiduciarie,
è significativo che vi siano molti presupposti taciuti nella nostra
visione dell’altro. Spiegherò quel che intendo dire analizzando un
noto episodio avvenuto qualche tempo fa.
Il 12 maggio 1980 la Public Broadcasting Service trasmise il film
Death o f a Princess, prodotto dal regista britannico Anthony Tho­
mas. Il mese precedente il film aveva già creato un incidente diplo­
matico tra Regno Unito e Arabia Saudita, comportando (anche se
nessuno di questi provvedimenti durò molto a lungo) il rimpatrio
dell’ambasciatore saudita da Londra, il boicottaggio dell’Inghilter-
ra come località turistica e la minaccia di ulteriori sanzioni. Quale
fu il motivo? Secondo i sauditi il film offendeva l’Islam, presentan­
do una raffigurazione erronea della società araba e, in particolare,
della giustizia saudita. Il film, basato sulla ben nota esecuzione di
75. Cfr. Thomas Hodgkin, The Revolutionary Tradition in Islam, cit., e Adonis,
Al-Thahit walMitahawwil, cit., sul conflitto tra cultura ufficiale e controculture.
EDWARD W. SAID 73

una giovane principessa e del suo amante non appartenente alla


famiglia reale, era stato realizzato sotto forma di un documentario
alla ricerca della verità: un reporter inglese prova a scoprire quel
che è avvenuto esattamente alla coppia e, così facendo, si reca a
Beirut per parlare con libanesi e palestinesi, poi in Arabia Saudita,
dove ovviamente gli è stato concesso il permesso di soggiorno. Du­
rante il suo lavoro apprende che le persone con cui parla interpre­
tano la storia della principessa come un simbolo dei loro problemi
politici e morali. Per i palestinesi è una di loro, un’emarginata in
cerca di libertà e di un modo per esprimersi politicamente. Per
alcuni libanesi, la principessa impersona la lotta tra gli arabi che
lacera il Libano. Per i funzionari sauditi, invece, si tratta sempli­
cemente di una storia inventata; affermano che gli occidentali la
considerano un caso interessante solo perché discredita il paese.
Infine, per una netta minoranza interna all’ambiente, la sua grave
condizione denuncia l’ipocrisia del regime, che utilizza l’“Islam”
e la lex talionis per celare la corruzione della famiglia reale. Il film
termina con un finale aperto: tutte le spiegazioni sono parzialmente
vere, cosicché nessuna pare adeguata per comprendere ciò che, a
quanto pare, è avvenuto.
Il governo saudita si dichiarò contrario alla trasmissione del film
negli Stati Uniti; due conseguenze malviste furono l’attenzione di
Warren Christopher del Dipartimento di Stato, che dette voce al
malcontento saudita pubblicamente alla p bs , e la rimozione, da
parte della Exxon, delle pubblicità sui principali quotidiani, che
chiedevano alla pbs di “rivedere” la sua decisione. In varie città la
trasmissione fu cancellata. Data la natura controversa del film, la
PBS organizzò una tavola rotonda di sessanta minuti subito dopo la
trasmissione. Sei persone più un moderatore commentarono il film:
uno era il rappresentante della Lega Araba, un altro era un professo­
re di legge ad Harvard, il terzo un religioso musulmano di Boston, il
quarto un giovane “arabista” americano (un titolo singolare per uno
che non era né un accademico né un funzionario del governo); poi
c’erano una giovane donna con esperienze in Medio Oriente sia nel
campo lavorativo che giornalistico e, infine, un giornalista britanni­
co onesto nella sua avversione nei confronti della situazione saudita.
74 L’ISLAM COM E NOTIZIA

Q u e sti sei in vitati in siem e in ta v o la ro n o p e r u n ’o ra u n a d isc u ssio n e


p e r v arie rag io n i c o n tra d d itto ria . Q u e lli ch e c o n o sc e v a n o q u a lc o sa
d ella re g io n e e ra n o s p e sso v in colati d alle lo ro p o siz io n i, d a to ch e si
a tten e v an o a u n a lin ea “ m u su lm a n a ” u fficialm en te a p o lo g e tic a . G li
altri, ch e n o n e ra n o in fo rm a ti su lla situ azio n e, o v v iam en te lo d im o ­
stra ro n o . T u tto il re sto fu a lq u a n to irrilevan te.
Le opinioni contrarie alla trasmissione del film giustamente chia­
marono in causa il primo emendamento della Costituzione america­
na. Personalmente, ritengo che l’opera dovesse essere trasmessa. In
merito al film (che come opera cinematografica, a mio parere, è piut­
tosto banale), non furono specificati alcuni particolari importanti,
ovvero: a) non era stato prodotto da musulmani; b) probabilmente
era il solo film sui musulmani - se non l’unico, di certo quello più
impressionante - fruibile da parte degli spettatori; c) le discussioni
sul film, sia durante il dibattito che altrove, molto raramente tocca­
rono le questioni del contesto, del potere e della rappresentazione.
L’impresa di Thomas ovviamente ha in sé un fascino scontato che,
per esempio, un film sullo Yemen non potrebbe avere: il sesso e la
“punizione” islamica (di quel tipo che conferma particolarmente le
“nostre” congetture peggiori sulla barbarie musulmana) presentate
come un serio documentario possono ottenere un pubblico molto
ampio. Come «The Economist» scrisse nell’aprile 1980: «La legge
islamica per la maggior parte degli occidentali significa punizioni
islamiche: un mito riduttivo che sarà ulteriormente alimentato da
questo film.» Il pubblico divenne ancora più vasto quando si seppe
che il governo saudita (cominciando con il coinvolgere la Exxon)
aveva provato a manovrare il gioco dietro le quinte. Tutto ciò mise
in risalto che Death o f a Princess era un film certamente non mu­
sulmano, un film in cui i musulmani avevano solo poche cose da
offrire, piuttosto impopolari e di scarso effetto.
I re g isti e la pbs p r o b a b ilm e n te e ra n o c o n sa p e v o li - c o m e d e l
re sto q u a lsia si m u su lm a n o e a b ita n te d e l T e rzo m o n d o d o v r e b b e
sa p e r e - ch e n on im p o rta v a il c o n te n u to d e l film p o ic h é la su a r e ­
a lizza zio n e , l ’a tto ste sso d i r a p p r e se n ta r e le sc e n e in im m ag in i, era
u n a lo r o p r e ro g a tiv a ch e d e riv a d a q u e l ch e altre v o lte h o d efin ito
p o te re cu ltu rale , in q u e sto c a so il p o te re c u ltu ra le d e ll’O cc id e n -
EDWARD W. SAID 75

te.7Ä Era semplicemente irrilevante che i sauditi disponessero di


maggior denaro: l’attuale produzione e distribuzione di notizie e
immagini era più influente del denaro stesso. Le rimostranze uffi­
ciali saudite verso il film, considerato un’offesa all’Islam, erano a
loro volta un tentativo di mobilitare un altro sistema di potere, un
apparato di rappresentazione, seppure molto più debole - vale a
dire, l’immagine del regime come difensore dell’Islam - in modo
da neutralizzare la cosiddetta controparte occidentale.
Nella tavola rotonda della pbs tale sistema ottenne un’ulterio­
re vittoria. Da un lato il canale televisivo potè rivendicare di aver
risposto con attenzione alle rimostranze saudite, avendo trasmes­
so una delicata discussione sugli argomenti, dall’altro lato la pbs
controllò la discussione facendo in modo che qualsiasi analisi ap­
profondita e accurata fosse attutita da un certo “equilibrio” tra i
punti di vista, tra le diverse opinioni non ben articolate di quegli
invitati “rappresentativi” relativamente sconosciuti. Mostrare una
sola discussione servì a sostituire un’analisi accurata. L’evento ebbe
successo anche perché nessuno criticò che la struttura del film in
stile Rashomon e che l’organizzazione “equilibrata” giudicavano
l’argomento in questione, ossia la società contemporanea musul­
mana, in maniera ingannevole e senza alcuna conclusione certa.
Non sapremmo mai (e forse non importa veramente) che cosa la
principessa abbia effettivamente fatto, proprio come vi sono alcuni
che sostengono che “il film è brutto” e altri invece che “è one­
sto e ben fatto”. Tuttavia, alla base del film e della discussione poi
generatasi, nessuno riconosce che un film simile, se fosse saudita
e prodotto con l’intenzione di danneggiare la cristianità, gli Stati
Uniti e il presidente Carter, avrebbe comportato conseguenze ben
più gravi.
Il regime saudita, dopo aver tentato attivamente di impedire
la trasmissione del film, si trovò in condizione di dover smentire
qualcosa, cioè l’incidente stesso, non potendo però negarlo, si rico­
nobbe allo stesso tempo incapace di offrire una visione alternativa
dellTslam. Il vicolo cieco riduttivo di cui ho parlato in precedenza76

76. Edward W. Said, Orientalismo , cit., p. 56 sgg.


76 L’ISLAM COM E NOTIZIA

rese inefficace ogni sorta di critica al film. Per entrambi i casi si po­
trebbe affermare che la realtà non è affatto così, oppure che questa
è la situazione, ovviamente purché vi sia una qualche maniera per
spiegare tale questione con efficacia e una sede dove poterla affer­
mare. Per i portavoce ufficiali sauditi non ci fu nessuna occasione
e nessun posto in cui esprimerla, provarono solo a evitare che il
film fosse mostrato pubblicamente: un metodo, a conti fatti, cul­
turalmente insostenibile. I funzionari sauditi senza entusiasmo si
sforzarono un poco di indicare i “buoni” aspetti dell’Islam, ma ciò
non ebbe alcun effetto nel dibattito. Peggio, nessun americano tra
i partecipanti sembrò abbastanza competente sul terreno culturale
da far notare che il film, sia dal punto di vista artistico che politico,
era troppo incongruente per comunicare qualcosa di importante.
Purtroppo per coloro che si opponevano al film, negli Stati Uniti
e in Inghilterra, non c’era nulla di peggiore che l’essere mostrati
come dei lacchè degli interessi finanziari sauditi (come fu insinuato
con palese disprezzo da J. B. Kelly su «New Republic» il 17 maggio
1980). In conclusione, chi disapprovava il contenuto non disponeva
del controllo di nessun apparato di diffusione mediante cui poter
sfidare il film criticamente. Apparve subito evidente quanto fosse
banale la polemica quando fu paragonata al dibattito su The Me­
mory o f Justice di Marcel Ophiils e su Holocaust,77 oppure quando
furono ricordati i vari film di Leni Riefenstahl.
La messa in onda di Death o f a Princess ci ha fatto notare altri
aspetti al di là del fatto in sé. Sia i media americani sia gli ambienti
intellettuali e culturali affini, ben prima che fosse conosciuto il film
Princess, erano letteralmente pieni di evidenti denigrazioni anti-
islamiche e anti-arabe. Già in almeno due occasioni il sindaco di
New York aveva direttamente insultato un re dell’Arabia Saudita,
quando si era rifiutato di salutarlo e di rivolgergli anche le più co­
muni forme di cortesia. Una ricerca sul lungo periodo ha dimostra­
to che difficilmente vi è uno spettacolo televisivo in prima serata
che non raffiguri gli islamici con qualche caricatura palesemente
razzista o denigratoria, tutte tendenti a rappresentarli in termini
77. [Holocaust è una serie televisiva, composta di quattro episodi, che fu trasmes­
sa nel 1978, NdT.]
EDWARD W. SAID 77

decisamente sprezzanti e generici: un singolo musulmano è quindi


visto come se fosse un modello per tutti i musulmani e in genera­
le per l’Islam.78 Testi scolastici, romanzi, film, pubblicità: quanti
di essi, per nulla benevoli, informano effettivamente sullTslam?
Quanto si conosce della differenza tra lTslam sciita e sunnita? Non
tutti la sanno. Se facciamo un conto, la maggior parte dei normali
corsi umanistici offerti dalle nostre università, se non tutti, nei loro
programmi di studio per “discipline umanistiche” intende seguire
il solco dei capolavori che vanno da Omero e le tragedie greche,
da Dostoevskij e T. S. Eliot fino alla Bibbia, Shakespeare, Dante
e Cervantes. In un tale schema etnocentrico, dove si collocano le
civiltà islamiche, vicine all’Europa cristiana? Tralasciando i mol­
ti libri pubblicati di recente con titoli come M ilitant Islam , The
Dagger o f Islam e Ayatollah Khomeini’s Mein Kampf, quale altra
opera sulla civiltà islamica nel complesso è largamente diffusa, pre­
sa come riferimento, oppure reperibile? E possibile definire una
parte della popolazione islamofila, nello stesso modo in cui si pos­
sono menzionare gli anglofili, francofili e altri? Solo perché alla fine
degli anni ’80 è cresciuto il numero degli immigrati musulmani,
così come degli afro-americani convertiti allTslam, rendendoli più
visibili (per esempio Louis Farrakhan), è consentito considerarli
una parte dell’elettorato.
Una volta terminata la polemica su Princess, i sauditi purtrop­
po si dimenticarono di offendersi quando l’«American Spectator»
pubblicò un articolo di Eric Hoffer intitolato Muhammad’s Sloth,
con sottotitolo Muhammad, M essenger o f Plod.79 Tra le tante idee
sbagliate sull’Islam si tralasciava che i soli tre paesi al mondo che
furono sottoposti all’occupazione dell’alleato statunitense erano
islamici. Il regime saudita minacciava ritorsioni solo quando veniva
direttamente macchiata la reputazione della famiglia reale. Come
era possibile che lTslam venisse offeso solo in un caso e non negli

78. Fino a poco tempo fa la situazione non era diversa nella rappresentazione
degli altri gruppi “orientali”: vedi Tom Engelhardt, Ambush at Kamikaze Pass, in
«Bulletin of Concerned Asia Scholars 3», n. x, inverno-primavera 1971, pp. 65-84.
79. Eric Floffer, Islam and Modernization: Muhammad, Messenger of Plod, in
«American Spectator 13», n. 6, giugno 1980, pp. 11-12.
78 L’ISLAM COM E NOTIZIA

altri? Perché fino ai giorni nostri i sauditi si sono sforzati relativa­


mente poco di promuovere la comprensione dell’Islam? Finora il
loro maggiore contributo culturale è stato diretto al Middle East
Studies Program, nella University of Southern California, gestito
da un ex impiegato dell’Aramco.80
L’intero scenario attorno al caso di Death o f a Princess comun­
que è ancor più complesso. L’intervento militare degli Stati Uniti
nel Golfo è stato un argomento di discussione molto comune per
almeno cinque anni, ben prima della crisi del Golfo e della guerra
del 1990-91. A partire dalla fine del 1978, ossia da quando i sauditi
non parteciparono al processo di pace di Camp David, sono sorti
regolarmente articoli (alcuni dei quali parevano pieni di autentica
disinformazione) che evidenziavano i numerosi difetti e la debo­
lezza del regime. Nel 1980, alla fine di luglio, è stato accertato che
dietro alcune di queste versioni c’era la CIA: si veda l’articolo di
David Leigh, The Washington Leak That Went Wrong: A cia Gaffe
That Shocked Saudi Arabia («Washington Post», 30 luglio 1980).
Per i primi sedici anni di attività la «New York Review of Books»
ha più o meno ignorato il Golfo Persico, dopodiché nell’anno subi­
to dopo Camp David ha pubblicato diversi articoli sul Golfo, tutti
che marcavano la fragilità dell’attuale assetto saudita. In quel pe­
riodo i quotidiani scoprivano il predominio dell’Islam e com’erano
medievali le sue punizioni, la giurisprudenza e la concezione delle
donna; allo stesso tempo nessuno rimarcava che i rabbini israe­
liani esprimevano opinioni estremamente simili sulle donne e sui
non ebrei, sull’igiene personale e sulle pene, oppure che i giudizi
dei vari religiosi libanesi erano altrettanto sanguinari e medievali.
L’attenzione sul regime islamico saudita, così selettiva, pareva or­
chestrata attorno alla sua vulnerabilità e peculiarità, non sul modo
per renderla meno debole e singolare. Poiché aveva sfidato gli Stati
Uniti, l’Arabia Saudita doveva adesso sopportare i benefici di un
“onesto” giornalismo, nonché sottomettersi alle richieste di porre
fine ai veli della sua censura (mentre nessuno si lamenta del fatto
che ogni notizia proveniente da Israele deve passare per la censu-
80. Sec o n d o L. J. D avid , Consorting with Arabs: The Friends Oil Buys, in « H a r p
e r’s M agazin e», luglio 1980, p. 40.
EDWARD W. SAID 79

ra militare). Frequentemente si accusava l’Arabia Saudita per la


carenza di libertà di stampa (quante critiche sono state espresse
sulle leggi israeliane contro giornali arabi, scuole e università in Ci-
sgiordania?). L’Arabia Saudita tutto a un tratto è divenuta un caso
unico, dal momento che era rimproverata dai liberali e dai sionisti
all’unisono, ma lodata e quasi coccolata dagli operatori finanziari
conservatori e dai più importanti personaggi istituzionali. Questo
ha ulteriormente screditato l’Arabia Saudita, rendendola ancor più
inaccettabile e ragionevolmente assurda, come lo è per molti aspet­
ti, facendola diventare un simbolo adatto a qualsiasi cosa riguar­
dante il mondo “islamico”.
Tutto ciò ha comportato che, di fronte al film Princess, “noi”
abbiamo fortemente deplorato la “loro” ipocrisia e corruzione co­
sicché, in risposta, “loro” si sono offesi per la nostra forza e incom­
prensione. Più avanti lo scontro è sfociato in discussioni del genere
“noi” e “loro”, rendendo dibattito, analisi e confronto pratica-
mente impossibile. L’identità musulmana di conseguenza ha teso
a rinsaldarsi per aver perso il confronto con un blocco monolitico
che si rappresentava come “civiltà occidentale” e, avvertendo ciò,
i discorsi demagogici propri dell’Occidente continuavano a inveire
contro il fanatismo medievale e le crudeli tirannie. Per quasi ogni
musulmano, la mera asserzione di identità islamica è divenuta si­
mile a una sfida cosmica, una necessità di sopravvivenza. La guerra
sembra un esito estremamente logico; da ciò derivano le previsioni
fatalistiche di Huntington che richiamano allo scontro di civiltà.
Un esempio di questa situazione è il contrasto tra Death o f a
Princess e un altro film “islamico” trasmesso dalla pbs quindici anni
dopo, Jihad in America (1995). Considerato che il primo documen­
tario presenta l’Islam in tinte esotiche e distante, la controparte più
recente invece ci riporta in patria, ricordando che gli Stati Uniti
sono diventati un campo di battaglia, con pazzi musulmani di tutti
i tipi che tramano il terrorismo e una spaventosa guerra contro di
noi, in mezzo a noi. Il presentatore del film è un certo Steve Emer­
son, completamente privo di una formazione sulla politica, storia,
cultura e religione mediorientale; ha avuto esperienza come repor­
ter sul terrorismo islamico, questa è la sua unica qualificazione, spe­
8o L’ISLAM COM E NOTIZIA

cificata fie ram e n te a ll’in izio d el film . N e g li u ltim i d ie ci an n i è so rta


u n a sc h ie ra di q u e sti d u b b i e sp e rti ch e si riv o lg o n o a un p u b b lic o
sp a v e n ta to . L ’a tte n ta to al W o rld T ra d e C e n te r81 è sta to v e ra m e n te
un e p is o d io te rrib ile e i co lp e v o li e ra n o d a v v e ro u n ’e sig u a m in o ­
ra n z a d i e stre m isti m u su lm a n i. C o m u n q u e E m e r so n n on p o n e in
d ire tto c o lle g a m e n to il lo ro lead er, sh eik h O m a r A b d e l R ah m an ,
un v e te ra n o d ei M u ja h e d d in afg h a n i s u p p o r ta ti d a g li S ta ti U n iti,
co n la p o litic a sta tu n ite n se in q u e l p a e se , p ro g e tta ta p e r so ste n e re
q u e i g r u p p i e stre m isti c o n tro l ’U n io n e S o v ie tica. R ife re n d o si alla
lo tta c o n tro il te rro rism o , alla su a e sp e rie n z a e alla c o n o sc e n z a del
p e r ic o lo isla m ic o e c o sì via, h a d a to risalto a tali q u e stio n i su i m e ­
d ia se n sa z io n a listici. A n c h e se jih ad in America q u a n d o p a rla di
Isla m se m b r a m a n te n e rsi p r u d e n te in te m a d i d iscrim in a z io n e , e
se b b e n e il film ta lv o lta affe rm i e sp lic ita m e n te ch e la m a g g io r p a rte
d ei m u su lm a n i so n o a m an ti d e lla p a c e , “ c o m e n o i” , il se n so d el
film rim an e c o m u n q u e q u e llo di m o b ilita rc i c o n tro lT sla m , in te n ­
d e n d o lo c o m e u n a sin istra fo n te di a ssa ssin i c ru d e li e irrazio n ali,
c o sp ira to r i e a m an ti d e lla v io len za. S c e n a d o p o sc e n a - tu tte iso la te
d a o g n i reale c o n te sto - a ssistia m o a im m a g in i fu lm in e e di im am
b a r b u ti ch e si a c c a n isc o n o c o n tro gli o c c id e n ta li, p a rtic o la rm e n te
c o n tro gli e b rei, m in a c c ia n d o un g e n o c id io e u n a g u e rra p e re n n e
c o n tro l ’O c c id e n te . V e rso la fin e d e l film lo sp e tta to re è co n v in to
ch e a ll’in te rn o d e g li S tati U n iti vi sia u n a v a sta rete d i b a si seg rete,
cen tri ch e tra m a n o c o sp ira z io n i, fa b b r ic h e di b o m b e , tu tte d e s tin a ­
te a e sse re u sa te c o n tro ig n ari citta d in i in n o cen ti.
D o p o l’atte n ta to a O k la h o m a C ity n e ll’a p rile 1995 è in te re ssa n te
c o m e i m e d ia si riv o lse ro su b ito a E m e rso n . Q u e s t ’u ltim o a ffe rm a ­
va co n n o te v o le sic u re z z a ch e l ’a tta c c o era sta to a rc h ite tta to dai
m e d io rie n ta li e ciò, nei p rim i g io rn i d o p o lo s c o p p io d elle b o m b e ,
a lim e n tò i so sp e tti n ei c o n fro n ti d e lle p e rso n e sc u re di c a rn a g io n e
e di p a rv e n z a islam ica. E m e r so n n on ve n n e p iù a sc o lta to q u a n d o si
sc o p r ì ch e gli e stre m isti re sp o n s a b ili d e ll’a tte n ta to e ra n o in realtà
d e i c o n citta d in i, b ia n c h i e p r o te sta n ti (an ch e se n on è irra g io n e v o le
su p p o r r e ch e le su e d ic h ia ra z io n i sia n o sta te p re se u lte rio rm e n te in

81. [Si riferisce all’attacco terroristico del 26 febbraio 1993, NdTJ


EDWARD W. SAID 8i

considerazione). Il suo film non si sforza minimamente di confron­


tare le dimensioni e le capacità dei terroristi islamici della jihad con
le varie reti locali di militanti, bombaroli e simili che hanno tor­
mentato il paese. Neanche nella seconda parte del film, fortemente
intensa per il suo passare da una scena all’altra, da un’affermazione
infondata a un’altra sui tentativi dei musulmani di distruggere gli
Stati Uniti, fornisce la minima indicazione sulle cifre reali, sull’ef­
fettivo succedersi degli avvenimenti, delle riunioni e così via. Alla
fine l’impressione che Emerson lascia agli spettatori è che l’Islam
è uguale alla jihad, che è uguale al terrorismo, e questo a sua vol­
ta rafforza la sensazione di paura culturale e odio nei confronti
dell’Islam e dei musulmani.
Il potere del film di Emerson, prodotto con un’abile tecnica,
deriva dal fatto che nei media non vi è nessuna visione autorevole
dell’Islam che si contrappone, e poco importa che l’enorme mag­
gioranza dei musulmani non dovrebbe essere affatto associata a
gruppi marginali e minuscoli che sono stati ingigantiti a dismisura.
L’Islam, così com’è rappresentato nel film di Emerson, sembra no­
tevolmente permeato da supposto antisemitismo e odio verso Isra­
ele; vengono mostrate alcune scene di distruzione provocate dagli
attacchi suicidi in Israele, così come vi è un breve riferimento vi­
suale all’attentato al centro culturale ebraico di Buenos Aires, per il
quale non fu arrestato nessun colpevole musulmano. È chiaro per­
tanto che queste raffigurazioni del terrorismo islamico intendono
suscitare sentimenti di paura e risentimento tra i sostenitori di Isra­
ele in America, che considerano quel paese una vittima innocente
del terrorismo islamico, gratuito e antisemita. Questa ovviamente
è la linea ufficiale di Israele che nasconde - con il supporto incon­
dizionato degli Stati Uniti - qualsiasi cosa possa capitare nell’occu­
pazione militare della Cisgiordania, di Gaza, di Gerusalemme Est,
delle alture del Golan e del Libano meridionale, una situazione
che perdura da decenni, in cui gli aerei israeliani hanno condotto
attacchi contro ospedali, abitazioni civili, scuole, orfanotrofi, ecc.
Tutto questo nel film di Emerson è deliberatamente tralasciato, il
miglior modo per infondere negli spettatori americani sentimenti
di odio e paura nei confronti di tutti i musulmani, facendo perce-
82 L’ISLAM COM E NOTIZIA

p ire ch e “ n o i” sa re m m o p u r e in g en u i su tu tto , m a n o n su lla n o stra


d e m o c ra z ia , su ll’a m o re p e r la lib e rtà , ecc.
F o r s e è t r o p p o sp e ra r e ch e q u a lc u n o , q u i e n el m o n d o isla m ic o ,
possa r e n d e rsi c o n to d i q u a n to sia n o d e p lo re v o li i lim iti d ei term in i
“ O c c id e n t e ” e “ I s la m ” , m ere etich e tte co ercitiv e . F o r s e è tr o p p o
a sp e tta r si ch e q u e ste etich ette, in sie m e alle stru ttu re ch e le s u p ­
p o rta n o , n el c o r so d el te m p o p e r d a n o la fo rz a c o ercitiv a . T u ttav ia
è p o ssib ile ch e l ’ “ I s la m ” se m b ri m e n o m o n o litic o e sp a v e n to so ,
sm e tta d i p re se n ta rsi c o m e il fr u tto di in te rp re ta z io n i utili n e ll’im ­
m e d ia to p e r i n o stri sc o p i p o litic i e p e r d e fin ire le n o stre an sie.
D o p o av er fin alm en te c o m p r e so il p o te re a ss o lu to d e g li e le m e n ­
ti so g g e ttiv i alla b a s e d e lle in te rp re ta z io n i, u n a v o lta r ic o n o sc iu to
ch e m o lte c o se ch e a p p r e n d ia m o so n o so lo u n a p ro s p e ttiv a nostra ,
n o rm a lm e n te a c c e tta ta , sa r e m m o su lla b u o n a str a d a p e r d isfa rc i di
q u a lc h e naïveté, d e i tan ti in g an n i e p r e s u p p o s ti su n o i ste ssi e su l
m o n d o in cu i viviam o . C o sì, c a p ire “ le n o tiz ie ” sig n ifica in un certo
se n so a n ch e c o m p r e n d e r e chi sia m o e c o m e o p e r a u n a d e te rm in a ta
p a rte d e lla n o stra so cie tà . S o lo d o p o av e r c a p ito q u e ste c o se , p o s ­
sia m o p r o c e d e r e c o g lie n d o il n o str o “ I s la m ” e i d iffe re n ti tip i di
Isla m ch e e sisto n o tra i m u su lm an i.
P r o v ia m o a d e sso a d an aliz z are n ei d e tta g li l ’av v en im en to p iù
p r o b le m a tic o n e ll’a m b ito d e llo sc o n tro tra “ n o i” e l ’ “ I s la m ” : la c ri­
si d e g li o sta g g i in Ira n , la cu i riso n a n z a c o n tin u a n egli an n i N o v a n ­
ta tra gli S tati U n iti e Iran , tra tta n d o si d i u n a q u e stio n e d i difficile
so lu z io n e . B iso g n a n o ta re p a r e c c h ie c o se e d è n e c e ssa rio a g g ira re
la c o n fu sio n e p o litic a ch e è a n d a ta p r o d u c e n d o si, sia p e rc h é p e r
n o i è sta to un e v e n to m o lto tra u m a tic o e sig n ificativ o , sia p e rc h é ,
o s se r v a to in m o d o critico , rivela m o lti a sp e tti su i p r o c e ss i a ttu a l­
m e n te in c o r so in altre re g io n i d e l m o n d o m u su lm a n o . D o p o aver
a p p r o c c ia to l ’Iran , p o tr e m m o c o n tin u a re a d isc u te re un a rg o m e n ­
to p iù c o m p le sso , o s sia il le g a m e tra Isla m e O c c id e n te in q u e sti
u ltim i anni.
CAPITOLO SECONDO
LA STORIA DELL’IRAN

I. La guerra santa

L ’Iran c o n tin u a a d e s ta re se n tim e n ti d i a g ita z io n e n egli a m e ri­


can i, n o n g ià p e r la p r e sa , o ffe n siv a e illecita, d e ll’a m b a sc ia ta d i T e ­
h e ran , ch e fu o c c u p a ta d a g li stu d e n ti iran ian i il 4 n o v e m b re 1979,
b e n sì p e r l ’a tte n z io n e m a n ia c a le ch e i m e d ia h a n n o riv o lto a ll’e v e n ­
to, cu i si è a g g iu n ta la c o n se g u e n te d e m o n iz z a z io n e d e ll’Ira n , o r­
m ai in c a m p o d a an n i. O c c o r r e sa p e re ch e i d ip lo m a tic i d e l lu o g o
e ra n o stati se q u e stra ti e ch e gli am e ric a n i se m b r a r o n o in c a p a c i di
lib erarli; è d a v v e ro u n ’altra c o sa a ssiste re ag li ev en ti in u n a p rim a
se ra ta telev isiva. M a sia m o g iu n ti a un p u n to , c re d o , in cu i c ’è b is o ­
g n o d i v a lu ta re c ritica m e n te il sig n ificato d e lla “ sto ria ir a n ia n a ” , al
fin e d i c o m p r e n d e r e , in via d e l tu tto ra z io n a le e sp a ssio n a ta , la su a
p re se n z a n ella c o sc ie n z a am e ric a n a , sp e c ia lm e n te a p a rtire d a q u el
c irca n o v a n ta p e r c e n to d i a rg o m e n ti e n o tizie ch e gli a m e rican i
so n o g iu n ti a c o n o sc e r e d e ll’Ira n a ttra v e rso la ra d io , la telev isio n e
e i g io rn a li. N o n c ’è m o d o d i le n ire il d o lo re e l ’o ffe s a c a u sa ti d alla
p r e s a d e g li o sta g g i am e ric a n i, e n e p p u r e la c o n fu sio n e p r o d o tta
d a i con flitti in te rn i al m o n d o isla m ic o , m a , a m io p a re re , d o v r e m ­
m o se n tirci c o n fo rta ti d a l fa tto che, e c c e tto in u n ’o c c a sio n e , gli
S ta ti U n iti n o n a b b ia m o u sa to la fo rz a m ilita re c o n tro l ’Iran . In
o g n i c a so , d o b b ia m o in izia re a v a lu ta re le o rig in i d i ciò ch e l ’Iran
h a r a p p r e se n ta to p e r gli am e ric a n i n el c o n te sto p iù g e n e ra le d e g li
84 LA STORIA D ELL’IRAN

Stati Uniti e delle relazioni occidentali col mondo islamico: in che


modo è apparso a loro, come è stato presentato e ripresentato agli
americani dai media giorno per giorno.
L’Iran cattura l’attenzione di gran parte dei programmi notturni
di approfondimento immediatamente dopo la presa dell’ambascia­
ta. Per parecchi mesi a b c ha previsto uno speciale giornaliero in
tarda serata, America held Hostage, e il «MacNeil/Lehrer Report»
di PBS ha messo in onda un numero senza precedenti di trasmissio­
ni sulla crisi. Per mesi Walter Cronkite ha voluto associare al suo
«bene, sono contento» un rimando ai giorni trascorsi in cattura
dagli ostaggi: «giorno duecentosette» e via dicendo. Il programma
di Ted Koppel su ABC, «Nightline», che ha ottenuto longevità e
successo, iniziò proprio sul tema degli ostaggi. Hodding Carter, lo
speaker del Dipartimento di Stato in quel momento, assurse allo
stato di star in nemmeno due settimane; dall’altro lato, né il segre­
tario Cyrus Vance né Zbigniew Brzezinski furono molto in eviden­
za, almeno fino all’inutile sforzo di liberazione di fine aprile 1980.
Interviste con Abolhassan Banisadr, con Sadegh Ghotbzadeh, con
i familiari degli ostaggi, regolarmente alternate a dimostrazioni ira­
niane, corsi di tre minuti sulla storia dell’Islam, bollettini ospeda­
lieri, commentatori ed esperti dalle facce solenni impegnati ad ana­
lizzare e a dibattere, riflessioni, dibattiti, arringhe e teorie, linee di
condotta, speculazioni sulle future esegesi degli eventi, psicologie,
mosse sovietiche e reazioni musulmane: e ancora i cinquanta e rotti
americani restavano prigionieri.
Per tutto questo tempo diventò evidente che gli iraniani stavano
usando i mezzi di comunicazione a loro vantaggio, secondo una
considerazione certamente avveduta dei media. Di frequente, gli
studenti nell’ambasciata erano soliti programmare gli “eventi” per
intercettare linee satellitari o trasmissioni notturne negli Stati Uni­
ti. Di tanto in tanto, gli ufficiali iraniani dichiaravano quale fosse il
loro piano in modo da volgere il popolo americano contro le politi­
che del suo governo. Si trattò di un calcolo errato. Ebbe infine sulla
politica un effetto imprevisto, che fu quello di stimolare i media in
direzione di un’attitudine più genuinamente investigativa. Ma quel
di cui voglio qui parlare è di come l’Iran apparve agli americani
EDWARD W. SAID 85

durante il periodo più intenso della crisi; l’altro lato della storia
dev’essere subordinato a questo proposito.
Come ho detto nel primo capitolo, molte delle più drammati­
che, e di solito cattive, notizie dell’ultimo decennio, includendo
non solo l’Iran ma il conflitto arabo-israeliano, il petrolio e l’Af­
ghanistan, sono state notizie sull’“Islam”. In nessun’altra occasione
ciò è stato più evidente che nel periodo della lunga crisi iraniana,
durante la quale i consumatori americani di notizie hanno subito
dosi massicce di informazione intorno a un popolo, a una cultura,
a una religione - in verità niente più che un’astrazione vacua e ille­
gittima - sempre, nel caso specifico dell’Iran, rappresentate come
militanti, pericolose e anti-americane.
Quel che fa della crisi iraniana una buona occasione per esami­
nare la performance mediatica è esattamente il motivo per cui essa
appare comprensibilmente angosciosa per gran parte degli ameri­
cani: la sua durata e il fatto che l’Iran rappresenti simbolicamente
le relazioni americane con il mondo musulmano. Nonostante ciò,
ritengo si debba guardare con molta attenzione a quel che appa­
rentemente sono divenute, subito dopo il periodo iniziale di due o
tre mesi, le attitudini dei media, specie nel loro modo di perseve­
rare in certi atteggiamenti, a dispetto delle novità in campo, delle
svolte senza precedenti e delle crisi con cui l’Occidente si è trovato
a fare i conti. Col tempo, comunque, sono avvenuti cambiamenti
nelle modalità di trasmissione delle notizie, ed essi ci parlano di
una storia leggermente più incoraggiante di quella iniziale.

Per vagliare l’immensa mole di materiale generato dalla presa


dell’ambasciata statunitense a Teheran occorre prendere in consi­
derazione una pluralità di cose. Prima di tutto, sembrava che “noi”
fossimo con le spalle al muro, e con noi il normale, democratico e
razionale ordine delle cose. Lì fuori, a fremere di un odio autopro­
dotto era l’“Islam” in generale, la cui manifestazione del momen­
to era racchiusa nell’Iran nevrotico e disturbante di quei giorni.
Un’ideologia del martirio campeggiava come titolo di un articolo
sullo shah iraniano il «Time» del 26 novembre; in concorrenza,
come per passaggio di testimone, «Newsweek» allestì una pagina
86 LA STORIA D ELL’IRAN

intitolata II complesso del martirio in Iran, sempre il 26 novembre.


Il tema acquisì un’evidenza sempre maggiore. Il 7 novembre il «St.
Louis Post Dispatch» pubblicò i dibattiti di un workshop tenutosi
a St. Louis sull’Iran e il Golfo Persico. Fu citato in particolare il
giudizio di un esperto, secondo il quale «L’assorbimento dell’Iran
entro una forma islamica di governo fu la più grande battuta d ’ar­
resto che gli Stati Uniti subirono negli ultimi tempi». L’Islam, in al­
tre parole, è per definizione un nemico degli interessi statunitensi.
Il «Wall Street Journal» riportava nell’editoriale del 20 novembre
che «il recedere della civiltà» derivava dal «declino dei poteri oc­
cidentali che avevano diffuso in primo luogo gli ideali di civiltà»,
come se non essere occidentale - il destino della gran parte della
popolazione del mondo, Islam incluso - equivalesse a non avere
ideali di civiltà. E ci fu il professor J. C. Hurewitz della Columbia
University che, quando gli venne chiesto da un reporter dell’ABC, il
21 novembre, se essere uno shah musulmano significasse essere un
anti-americano, rispose con un’affermazione categorica.
Tutti i maggiori commentatori televisivi, Walter Cronkite della
CBS e, su tutti, Frank Reynolds di ABC, parlarono regolarmente di
«odio musulmano nei confronti di questo paese» o più poetica-
mente di «crisi in crescita, un ciclone che devasta una prateria»
(Reynolds, ABC, 21 novembre); in un’altra occasione (7 dicembre)
Reynolds mandò fuori campo l’immagine di una folla che invoca­
va «Dio è grande», supponendo che l’intenzione di quella gente
fosse traducibile nel motto “odio per l’America”. Più tardi, nello
stesso programma, fummo informati che il Profeta Maometto era
un «profeta autoproclamatosi tale» (quale profeta non lo sareb­
be stato?) e quindi che l’“Ayatollah” è allo stesso modo «un titolo
autoprodotto nel ventesimo secolo», dal significato di “riflesso di
Dio” (sfortunatamente, nessuna delle due ipotesi è verificata accu­
ratamente). Il piccolo corso dell’ABC sull’Islam fu tenuto attraverso
alcune didascalie poste alla destra dell’immagine, che raccontavano
la triste storia di come il risentimento, la diffidenza e il disprezzo
fossero di piena pertinenza dell’“Islam”: maomettismo, La Mecca,
purdah, chador, sunniti, sciiti (accompagnati da un’immagine di
giovani uomini nell’atto di autoflagellarsi), mullah, Ayatollah Kho-
EDWARD W. SAID 87

meini, Iran. Subito dopo la visione di queste immagini, il program­


ma si sposta su Janesville, Wisconsin, le cui ammirevoli scolaresche
- senza purdah, punizioni corporali o mullah tra loro - avevano
organizzato un patriottico “Giorno dell’Unità”.
L’Islam militante: il vortice storico annunciò il «New York Ti­
mes Sunday Magazine» il 6 gennaio 1980; L’esplosione Islam fu il
contributo di Michael Walzer in «New Republic» dell’8 dicembre.
Entrambi i saggi, come tutti gli altri, cercavano non solo di provare
che l’Islam fosse qualcosa di fisso e immutato, al di là della rimar­
chevole varietà storica, geografica, sociale e culturale delle quaran­
ta nazioni islamiche e dei circa ottocento milioni di musulmani che
vivono in Asia, Africa, Europa e America del Nord (inclusi altri mi­
lioni nell’Unione Sovietica e in Cina), ma anche di rilevare - in par­
ticolare Walzer - che ovunque ci siano assassina, guerre, conflitti
caratterizzati da delitti ignominiosi, «l’Islam gioca chiaramente un
ruolo di primo piano». Non sembrava un problema che le normali
leggi dell’evidenza fossero messe da parte, o che lo scrittore non
conoscesse nulla delle lingue o delle società su cui si stava pronun­
ciando, o che il senso comune provocasse ritrazioni di fronte alla
parola “Islam”. L’editoriale principale di «New Republic» riduceva
l’Iran alla «rabbia di una passione religiosa trasversale» e all’Islam
sanguinario, arguendo cosa la sharia, «la legge santa dell’Islam»,
prescrivesse sullo spionaggio, sul lasciapassare, e via dicendo.
Ci furono modi velatamente più sottili di incriminare 1’“Islam”
rispetto a quelli messi in campo da «New Republic». Uno fu quello
di mettere un esperto davanti al pubblico per fargli o farle suggeri­
re che, per quanto Khomeini non fosse realmente «rappresentativo
del clero islamico» (secondo le parole di L. Dean Brown, primo
ambasciatore americano in Giordania a inviato speciale in Libano,
presidente del Middle East Insitute, pubblicate sul «MacNeil/Leh-
rer Report» del 16 novembre), il “corazzato” mullah rappresentava
un passo indietro rispetto a un’era islamica primitiva (e ovviamente
più autentica); le masse di Teheran ricordavano a Brown il pro­
cesso di Norimberga, così come le dimostrazioni di piazza qrano
segni di un «intrattenimento circense» appositamente allestito dai
dittatori.
88 LA STORIA D ELL’IRAN

Un altro metodo fu quello di suggerire che linee invisibili con­


nettessero vari altri aspetti del Medio Oriente all’Islam iraniano,
per poi condannarli assieme, a seconda del caso. Quando il pre­
cedente senatore James Abourezk si recò a Teheran, l’annuncio su
a b c e CBS contenne un rimando al fatto che Abouzrek avesse «ori­
gini libanesi». Nessun riferimento fu mai fatto alle origini danesi
di George Hansen o alle radici protestanti di Ramsey Clark. Fu
invece considerato essenziale alludere vagamente al passato isla­
mico di Abouzrek, seppure provenisse dal cristianesimo libanese.
(Un problema simile riguardò l’utilizzo di falsi sceicchi arabi come
esche da parte di Abscam.)
Gran parte dell’uso mirabolante di suggestioni relative allTslam
trovò un’origine in un piccolo articolo di apertura di Daniel B.
Drooz comparso su «Atlanta Constitution» l ’8 novembre, in cui
si asseriva che dietro la presa dell’ambasciata ci fosse I ’o l p . Le sue
fonti erano le autorità investigative «diplomatiche ed europee».
George Ball sentenziò sul «Washington Post» del 9 dicembre che
«ci sono molti presupposti per credere che l’intera operazione sia
stata orchestrata da marxisti ben organizzati». Il giorno seguente,
il «Today Show» della n b c mandò in onda un’intervista con Amos
Perlemutter e Hasi Carmel, identificati principalmente come «pro­
fessore dell’accademia americana» e «corrispondente da Parigi per
il settimanale “L’Express”». Entrambi israeliani. Bob Abernethy li
interrogò sull’accusa, da loro mossa senza prove, di una «coinci­
denza d’interessi» tra l’Unione Sovietica, OLP, e i “radicalisti” mu­
sulmani in Iran: vero, domandò il conduttore, che queste tre forze
fossero coinvolte attualmente nella presa dell’ambasciata? Ebbene,
no, loro replicarono, ma esiste una coincidenza d’interessi. Allorché
Abernethy fece notare che le loro insinuazioni suonavano come un
tentativo israeliano di «rendere opaca l’immagine d e ll ’o P L » , il pro­
fessor Perlemutter obiettò rabbiosamente, tirando in ballo niente
meno che la sua «integrità intellettuale».
Per non esser da meno, la CBS fece introdurre le sue «Night­
ly News» del 12 dicembre da Marvin Kalb, del Dipartimento di
Stato, nell’atto di citare quelle stesse (e sempre innominate) fonti
investigative messe in campo da Drooz un mese prima, per cor-
EDWARD W. SAID 89

roborare l’ipotesi di una cooperazione tra P o l p , i fondamentalisti


islamici e l’Unione Sovietica. Gli uomini dell’OLP erano gli unici ad
aver oltraggiato le recinzioni, sostenne Kalb; e ciò era sostenibile
- proferì saggiamente - perché al di là delle mura dell’ambasciata
si udivano «suoni arabi». (Una piccola inchiesta sul “racconto”
di Kalb fu pubblicata il giorno sul «Los Angeles Times»). Non­
dimeno la stessa tesi fu portata avanti da un esperto dello H ud­
son Institute, Constantine Menges, sia su «New Republic» del 15
dicembre 1979, sia ben due volte sul «MacNeil/Lehrer Report».
Nessun’altra evidenza fu accordata al tema, eccetto, naturalmente,
la diabolicità del comuniSmo, visto in ferrea alleanza con la demo­
nica OLP e i satanici musulmani. (C’è da chiedersi perché MacNeil
e Lehrer non abbiano invitato nuovamente Menges a commentare
l’invasione sovietica in Afghanistan o la critica ufficiale dell’Iran a
quest’ultima.)
«Dove ci sono gli sciiti, ecco sorgere il problema» sostenne Da­
niel B. Drooz sull’«Atlanta Journal-Constitution» del 29 novembre.
O, per dirla con le parole più giudiziose del «New York Times», po­
ste sulla prima pagina del 18 novembre: «La presa dell’ambasciata è
frutto sia dell’approvazione sia della collera degli sciiti nei confron­
ti dello shah.» Nella settimana successiva alla presa dell’ambascia­
ta, non fu infrequente vedere alcune raffigurazioni di un Khomeini
corrucciato e pensieroso, le quali avevano lo stesso obiettivo delle
immagini che rappresentavano le enormi folle del mondo arabo,
ossia quello di suggerire una sorta di immobilità storica. L’incendio
(e la vendita) di bandiere iraniane da parte di americani infuriati
divenne un passatempo regolare; la stampa non si esimeva dal leg­
gerlo come un esempio di patriottismo. Curiosamente, molti repor­
tage riflettevano l’enorme confusione popolare tra arabi e iraniani,
come nel caso del «Boston Globe» del io novembre, in cui la folla
arrabbiata di Springfield veniva colta nell’atto di urlare «Gli arabi
a casa!». Proliferavano, allo stesso modo, gli approfondimenti sul­
lo sciismo, per quanto davvero esigui fossero, per moto contrario,
gli articoli sulla storia moderna dell’Iran, per non parlare di quelli
- pochissimi - che mettevano in luce l’importante resistenza politi­
ca dei clerici persiani nei confronti sia dell’intervento straniero sia
90 LA STORIA D ELL’IRAN

della monarchia, partita già sul finire del diciannovesimo secolo;


e ancora, esiguo era il numero degli scritti che consideravano il
modo in cui Khomeini avesse spodestato lo shah, utilizzando quasi
per nulla le armi e coinvolgendo, attraverso la diffusione delle no­
tizie audio, le masse popolari.
Fu certo sintomatica, pur essendo un episodio da niente, l’inca­
pacità di Walter Cronkite di pronunciare correttamente i nomi. Il
nome di Ghotbzadeh fu soggetto a enormi variazioni, di solito mu­
tandosi in qualcosa di simile a “Gaboozaday” (il 28 novembre la CBS
chiamò Beheshti “Bashati”; e addirittura il 7 dicembre ABC cambiò
Montazeri in “Montessori”). Pressoché ogni piccolo lacerto della
storia dell’Iran andò incontro a confusioni senza senso, alcune delle
quali davvero spaventose. Prendiamo come esempio un segmento
sull’Islam del «Nightly News» della CBS, andato in onda il 21 novem­
bre. Il moharram venne descritto dal reporter Randy Daniels come
un periodo di tempo in cui i musulmani sciiti «celebrano la sfida
lanciata da Maometto ai leader mondiali» - un’espressione talmen­
te errata da sembrare stupida. Il moharram è un mese islamico; gli
sciiti vi commemorano, per i primi dieci giorni, il martirio di Hus­
sein. Subito dopo, veniamo informati del fatto che gli sciiti hanno
un’ansia di persecuzione, e quindi «senza grossa meraviglia hanno
prodotto un Khomeini»; fu rassicurante, e non meno che fuorviarne,
sentir dire che non si stava rappresentando l’Islam nella sua interez­
za. Nello stesso programma fui intervistato per la mia preparazione
sull’Islam e fui identificato erroneamente come professore di studi
islamici. Il 27 novembre, un reporter della CBS informò tutti noi che
l’Iran era in ginocchio per effetto della sua «sbronza rivoluziona­
ria», come fosse un ubriaco accasciato in un angolo.
Ma fu quando l’élite di cui è emanazione il «New York Times»
si espresse sull’Islam che la natura sconfortante dell’espressione
“l’America tenuta in ostaggio” prese vigore. Del resto, l’Islam del
«New York Times» ha molto a che vedere con quello del «Times».
Non si tratta semplicemente del fatto che sia il quotidiano più in­
fluente in America; piuttosto, la sua cattolicità, la qualità specia­
listica delle notizie, la responsabilità nei confronti del messaggio
e la sua abilità di riportare in mondo credibile il punto di vista
EDWARD W. SAID 91

della sicurezza nazionale, tutti questi elementi gli danno una forza
e una serietà uniche. In altre parole, il «Times» può scrivere con
autorevolezza su qualsiasi soggetto, rendendolo pertinente agli oc­
chi della nazione; e lo fa in modo deliberato, e con successo. Per­
ciò Harrison Salisbury può ricordare che nella primavera del 1961
il presidente Kennedy disse a Turner Catledge del «Times» che
se la carta stampata fosse stata più prodiga di dettagli sull’immi­
nente invasione della Baia dei Porci (che il «Times» aveva comun­
que raccolto), «ci avrebbe salvato da un errore colossale».1Dopo
quell’episodio, scrive Salisbury, né il «Times» né tutto il resto del
mondo avevano compreso che le notizie allestite da Tad Szulc non
erano certo eccezionali e che allo stesso modo il giornale non si
era speso a dovere. Fu semplicemente un problema di routine. Il
«Times», negli anni, è diventata una vera e propria istituzione, un
potere al servizio della nazione.

«The Times» adesso è riuscito a raggiungere una massa


critica di lettori, non una massa indifferenziata. E allo stesso
modo ha raccolto attorno a sé una massa critica di giornalisti
ed esperti. Adesso può riportare in modo genuino tutto quel
che succede nel mondo, a Washington, nel Paese e nella città,
grazie all’ausilio delle sue donne e dei suoi uomini, che non
sono semplicemente giornalisti da quotidiano. Sono i migliori
giornalisti che potevamo desiderare. Si sono raccolti attorno
al «Times» non già per questioni di guadagno - le paghe di
questo giornale sono alte, ma non sono mai state spettacolari.
Piuttosto, si sono avvicinati al «Times» perché offre una qua­
lità unica in termini di comunicazione e pubblicistica. È per
questo che gli standard di professionalità sono molto alti. La
massa critica di giornalisti e reporter (dopo la Baia dei Porci)
fu di una qualità tale che le cose presero a funzionare senza una
direzione consapevole. Gli uomini del «Times» sono presenti
in tutto il mondo, inclini ad allargarne i tentacoli, indagando,
scavando e ponendo questioni.112

1. Harrison Salisbury, Without Fear or Favor: The «New York Times» and Its
«Times», New York, Times Books, 1979, p. 158.
2. Ivi, p. 163.
92 LA STORIA D ELL’IRAN

Quindi, a tempo debito, l’esercizio del potere divenne decisa­


mente la missione collettiva dei giornali, e i reporter fecero dei loro
reportage sul «Times» nulla più che una questione di abitudine,
«senza una direzione consapevole». Dal 1971, allorché il «Times»
iniziò a pubblicare i «Quaderni del Pentagono», era passato un
centinaio di anni da quando il giornale aveva contribuito a demo­
lire il boss Tweed della Tammany Hall pubblicando alcuni docu­
menti governativi molto rilevanti. E anche in tal caso, per dirla con
Salisbury, andando contro la legge con la sua esemplare coscienza
morale, facendo gli interessi della nazione3 e dimostrando la sua
capacità di esprimere la verità e mettere alle strette i governi. Il
suo successo finanziario, dispiegatosi sotto la guida del suo più
recente direttore, A. M. Rosenthal, è stato, invero, il risultato di
scelte innovative, come l’aggiunta delle sezioni «Home» e «Living»
all’edizione giornaliera; ma pure di una presenza più evidente di
reportage esteri, grazie all’incremento delle rendite.

Le nuove sezioni hanno dato al giornale una base finanziaria


che ha reso la sua posizione virtualmente inattaccabile, in un
momento in cui «News» e «Post» stavano entrando in crisi.
Ora, diversamente da qualsiasi altro quotidiano, «The Times»
potrebbe (e anzi lo fa) buttare via 30.000 dollari al mese, o for­
se addirittura 50.000, oltre ai soldi per i salari, per garantire la
copertura mediatica della caduta dell’Iran; i soldi ci sono, senza
sforzo.4

Verso la fine dell’anno, nel corso della “caduta” dell’Iran, il


«Times» ritornò a parlare di Islam. L’ ii dicembre due pagine inte­
re furono dedicate a un simposio intitolato Lesplosione del mondo
musulmano. I sette partecipanti includevano tre studiosi prove­
nienti dal mondo musulmano e ora residenti e occupati negli Stati
Uniti; gli altri quattro erano studiosi di storia moderna, cultura
e società del mondo islamico. Tutte le questioni discusse erano
d’ordine politico e convergevano sul tema della minaccia islamica
all’America. Qua e là gli specialisti tentavano di dipingere il mon-
3. Ivi, p. 311.
4. Ivi, pp. 560-561.
EDWARD W. SAID 93

do islamico come animato da un passato storico differente, da pro­


cessi politici complessi, da molteplici tipologie di musulmani. Ma
questi tentativi erano calpestati dalla pressione di domande come
queste: «Se dunque appariamo così satanici agli occhi dei musul­
mani, come potremmo trattare con rappresentanti, leader, governi
che sentiamo affini? Bazergan stringe la mano di Brzezinski e va
via. Banisadr dice di voler venire a New York e questa richiesta
gli causa il collasso politico. Dobbiamo imparare a dialogare con
i regimi? Bisogna limitarsi o cosa?» Il «Times» ovviamente sentì
di star andando direttamente alla fonte del problema: se i musul­
mani obbedivano alle leggi dellTslam, la questione da affrontare
è l’Islam. Il punto cruciale è che gli specialisti stavano provando
a suddividere 1’“Islam” in diverse componenti, poi ricomposte
proprio dal «Times» in un solo potere avverso agli interessi degli
Stati Uniti. Il risultato finale del simposio fu quello di esasperare
le questioni, dal momento che era chiaramente implicito l’assioma
secondo cui la persuasione e la logica non possono trovare punti
d’incontro - e dunque l’utilizzo della forza era, in ultima battuta,
giustificato.
I dubbi intorno a cosa “noi” pensiamo dellTslam furono chiariti
più tardi, negli ultimi quattro giorni del 1979, quando il «Times»
pubblicò una serie di quattro lunghi articoli di Flora Lewis, tutti
miranti a ragionare attorno alla crisi dellTslam (Upsurge Islam, 28-
31 dicembre). Ci sono molte cose eccellenti nei suoi articoli - per
esempio, il modo in cui si delineano le complessità e le differenze
in gioco - ma ci sono pure troppe leggerezze, molte delle quali re­
lative al modo in cui l’Islam è visto oggi. Non solo la Lewis selezio­
na un certo Islam del Medio Oriente (l’incremento dell’ebraismo
e della cristianità libanese o egiziana, per esempio, è scarsamente
menzionato), ma arriva a formulare giudizi - in particolare nel ter­
zo articolo - sul linguaggio arabo (citando l’opinione degli esperti
secondo cui la sua poesia è «retorica e declamatoria, non certo inti­
ma e personale») e sulla mente islamica (una certa inabilità a «pen­
sare passo dopo passo») che potrebbero essere considerati razzisti
e insensati se utilizzati per descrivere qualsiasi altro linguaggio,
qualunque altra religione o altro gruppo etnico.
94 LA STORIA D ELL’IRAN

Una decade dopo, Chris Hedge, sempre sul «Times», pubblicò


un articolo intitolato Un linguaggio separato da sé stesso, che di­
chiarava di voler mostrare in che modo gli estremisti musulmani
avessero la meglio sugli arabi, già del resto corrotti dal nazionali­
smo, al fine di produrre un nuovo linguaggio fatto di formule sem­
plicistiche e orride, e pregno di fervore religioso: «la brutalizzazio-
ne del linguaggio politico» concluse, «ha lasciato solo pochi arabi
in grado di parlarsi fra loro.»
Troppo frequentemente le autorità di Lewis erano orientalisti
noti per le loro vedute generali: Elie Kedourie, che sul finire del 1979
aveva prodotto uno studio sulla rivoluzione islamica che si propo­
neva di mostrare come fosse afferente al marxismo-leninismo,5 fu
citato per dire che «il disordine dell’Oriente è profondo ed ende­
mico», e Bernard Lewis (non un parente di Flora Lewis) si pronun­
ciò sulla «fine della libera riflessione e ricerca» nel mondo islamico,
presumibilmente come risultato della «staticità» dellTslam e della
sua teologia «determinista, occasionale e autoritaria». Utilizzando
l’autorevolezza, acquisita da tempo, di orientalista, Bernard Lewis
ha portato avanti i suoi attacchi tendenziosi allTslam per tutti gli
anni Ottanta e Novanta. Nessuno potrebbe aspettarsi di ottene­
re una visione coerente dellTslam dopo aver letto Flora Lewis (o
Bernard), la cui faciloneria sull’utilizzo delle fonti e l’assenza di
familiarità con l’oggetto d ’indagine danno al lettore l’impressione
di aver davanti uno spazzino che fa piazza pulita dell’argomento
che vorrebbe trattare; dopotutto, come si possono sussumere entro
una sola categoria parecchi milioni di persone, le cui parole sono
ridotte a essere «un’espressione di desiderio più che una descrizio­
ne di fatto?» (Cfr. l’«Atlantic Constitution» del 19 novembre: «la
natura subdola ed elusiva del linguaggio persiano»), A ogni modo,
il punto sullTslam è stato fatto: anche se non è del tutto chiaro cosa
sia l’Islam, le “nostre” visioni d’esso lo sono.
In un’intervista forse non del tutto intenzionale uscita nel mag­
gio del 1980 su «Esquire», Flora Lewis ha descritto i risultati dei
suoi articoli sull’Islam. Il lavoro raffazzonato e prodotto in fretta e
5. Elie Kedourie, Islamic Revolution, Salisbury Papers n. 6, London, Salisbury
Group, 1979.
EDWARD W. SAID 95

furia suggerisce che il «Times» avrebbe potuto sganciarsi da questa


operazione, perché lTslam è l’Islam, ma il «Times» è il «Times».
Questo è quanto la stessa Lewis disse (e si noti l’autorità informale
suggerita dalla frase posta in rilievo: «nessuno conosce quale infer­
no stia divampando nellTslam»):

Qualche mese fa, per esempio, ero impegnata in un proget­


to che stava assolutamente per traballare in ragione delle sue
proporzioni. New York mi aveva dato questo compito speciale
relativo ai fermenti nel mondo islamico. Avevano partecipato
a un meeting a New York e qualcuno aveva detto: «Gesù, nes­
suno conosce quale inferno stia divampando nell’Islam. Man­
diamo lì Flora.» Così mi chiamarono, e andai. Fu incredibile;
non ero nemmeno sicura su come usare il materiale che avrei
raccolto.
Arrangiai il tutto freneticamente in modo da vedere più
gente possibile. Non avevo tempo per girare, in soli tre giorni.
Cominciai da Parigi e Londra. Poi andai al Cairo, perché è
lì che ha luogo l’università islamica, e poi mi recai ad Algeri e
Tunisi. Tornai con una ventina di quaderni d’appunti e dieci
libbre di carta, e iniziai a scrivere.
Certamente, tutto ciò aveva un vantaggio: avrei imparato
qualcosa. Tu parla delle formations permanentes, e il «New
York Times» ti darà una borsa di studio dopo l’altra.
L’eccezionaiità di fare un reportage tutto da me risiede nel
fatto che non posso scriverlo in un solo posto a causa delle
pressioni sul tempo di consegna. Per il progetto sull’Islam, per
esempio, ho avuto bisogno di molto materiale sulle Filippine. E
nessuno del bureau asiatico era disposto a fornirmelo - impe­
gnati com’erano con la guerra in Cambogia, i disordini in Sud
Corea e la crisi politica a Tokyo - cosicché dovetti insistere per
farmelo inviare via posta in un luogo diverso da New York.

Una comparazione illuminante può essere fatta tra la copertura


deU’“Islam” prodotta dal «Times» e quella di «Le Monde». Il pri­
mo ha usufruito delle argomentazioni di Flora Lewis, che non ha
discusso né le grandi questioni d’ordine teologico e morale dibat­
tute nel mondo islamico (come parlare dell’Islam oggi senza men-
96 LA STORIA D ELL’IRAN

zionare il conflitto tra i partigiani della ijtihad - l’interpretazione


individuale - e i sostenitori della taqlid - fiducia nell’interpretazio­
ne delle autorità - sui modi dell’esegesi coranica?) né la storia e la
struttura delle varie scuole islamiche che hanno alimentato il solle­
vamento che lei ha cercato di documentare. Invece, si è limitata a
chiamare in causa l’autorità di varie persone, ha utilizzato aneddoti
più che analisi e non ha descritto nulla dei termini attuali della vita
islamica, fossero essi di natura dottrinale, metafisica, politica ed
economica.
E utile paragonare l’élite dei giornali americani all’élite dei gior­
nali francesi. Esattamente un anno prima (6-8 dicembre 1978) «Le
Monde» aveva commissionato a Maxime Rodinson (un importante
marxista francese ed esperto orientalista citato da Flora Lewis) uno
studio sul medesimo fenomeno.6 La differenza non poteva essere
più grande. Rodinson è totalmente padrone del suo oggetto; ne
conosce la lingua, la religione, la politica. Non ci sono aneddoti, né
citazioni sensazionali, nessun “bilancio” su altri esperti orientalisti.
Egli cerca piuttosto di suggerire quali forze nella società e nella
storia islamiche sono intervenute nelle configurazioni politiche at­
tuali contribuendo a produrre la crisi. Come risultato, non può che
essere rilevata l’esperienza - in merito all’imperialismo, al conflitto
di classe, alle dispute religiose, alla moralità sociale - del tutto co­
erente del suo lavoro, non certo una collezione di sensazioni a uso
del lettore sprovveduto.

il La perdita dell’Iran

Assediati tutti dai reportage superficiali e a lingua sciolta


sull’Iran, è facile si possa essere disposti a intrattenersi con la ge­
nuina perspicacia del programma notturno della p b s , «MacNeil/
Lehrer Report». Come il «New York Times» nel mondo della carta
stampata, il «Report» è noto per essere una trasmissione di élite
nel giornalismo televisivo. Ho trovato i programmi di «MacNeil/
6. Questi articoli si trovano anche in inglese: Maxime Rodinson, Islam Resur­
gent?, in «Gazelle Review», n. 6, a cura di Roger Hardy, London, Ithaca Press, 1979,
pp. 1-17.
EDWARD W. SAID 97

Lehrer» stranamente insoddisfacenti, sia per il loro format davvero


riduttivo e conservatore, sia per la scelta degli ospiti e degli argo­
menti trattati. Prendiamo il format della trasmissione. Data una
notizia intorno allo sconosciuto mondo dell’Iran, lo spettatore vie­
ne immediatamente indotto a provare sentimenti di disparità tra la
folla “là fuori” e la compunta e ordinata disposizione degli ospiti
in studio, la cui postura ricorda che sono degli esperti del settore,
non per forza chiari e comprensibili. Non c’è nulla di sbagliato nel
voler provare a ragionare su un evento o su una situazione, come
il programma vorrebbe, ma le questioni poste agli ospiti rendono
evidente che MacNeil e Lehrer si esprimono in maniera tenden­
ziosa: oltraggi agli iraniani, analisi astoriche, tentativi di spostare la
discussione sulla Guerra fredda o sulla crisi economica. Un’indica­
zione estremamente significativa di ciò è apparsa nelle due puntate
del 28 dicembre e del 4 gennaio, in cui gli ospiti erano due gruppi
di ecclesiastici di recente tornati da Teheran. In entrambe le tra­
smissioni i sacerdoti parlavano della loro compassione verso la sof­
ferenza degli iraniani, costretti a vivere per venticinque anni sotto
il terrore dispotico dello shah. Lehrer era schiettamente scettico,
per non dire dubbioso, su quanto si stava sostenendo. Quando il
ministro degli Esteri Banisadr e il suo successore, Sadegh Ghotbza-
deh, furono invitati (il 23 e il 29 novembre),, il fulcro delle questioni
poste si presentava come molto vicino alle posizioni intraprese dal
governo americano: appena gli ostaggi sarebbero stati rilasciati,
nessuna concessione e nessun tentativo di venire a patti con i crimi­
ni e i reati dell’ex shah. L’ironia della sorte volle che Banisadr per
la prima volta non insistesse sul ritorno dell’ex shah; anzi, propose
una formula simile a quella voluta dalla commissione statunitense
recatasi a Teheran parecchi mesi dopo. Ovviamente ignorata, in
quel momento, da MacNeil e Lehrer.
La lista degli ospiti dal novembre 1979 fino alla metà di genna­
io del 1980 fu significativa. A parte cinque apparizioni di iraniani
e una a testa di Richard Falk ed Eqbal Ahmad, noti sostenitori
del Terzo mondo e schierati contro la guerra, tutti gli altri invi­
tati erano giornalisti, ufficiali di governo, accademici specializzati
sul Medio Oriente, individui legati a istituzioni paragovernative o
98 LA STORIA D ELL’IRAN

afferenti a corporazioni, o mediorientali noti per le loro posizio­


ni essenzialmente antagoniste alla rivoluzione iraniana. Lo stesso
sbilanciamento si presentò durante i quattro mesi della crisi del
Golfo, nel 1990. La frequenza con la quale alcuni apparvero più
di altri fu palese. Menges, dello Hudson Institute, ben due volte,
l’ambasciatore americano in Afghanistan Robert Neumann e L.
Dean Brown pure. Il risultato fu quello di collocare le posizioni
degli iraniani oltre i confini della morale, alimentando così le offese
e creando confusione negli spettatori. Fui colpito e sorpreso che
né Lehrer né MacNeil avessero provato a comprendere le parole di
Banisadr, per esempio quando parlava degli “oppressi del mondo”
e suggeriva che il soddisfacimento delle loro richieste non passa­
va dall’estradizione dello shah prima in carica (del resto, non fu
certo questo un problema semplice per gli Stati Uniti), bensì dalla
necessità di un gesto, da parte degli americani, di riconoscimento
legittimo delle rimostranze messe in atto dagli oppressi.
Per queste ragioni, l’indagine del «MacNeil/Lehrer Report» ap­
parve censoria persino nei confronti di sé stessa, nel tentativo di
stare lontana da un largo raggio di esperienze umane, fossero quel­
le degli antagonisti o degli interlocutori. Le sessioni di partecipanti
radunati attorno a un tavolo dominato da un paio di intervistatori;
lo sbilanciamento effettivo dei punti di vista, per effetto del qua­
le nessun ospite poteva davvero comunicare il messaggio essen­
zialmente “straniero” della gente oppressa, che aveva fino a quel
momento sopportato decenni di interferenze degli americani o del
despota locale; le domande sempre focalizzate su come confrontar­
si con la crisi, senza provare a comprendere i nuovi orizzonti aperti
nel mondo non-europeo; il ricorrere, quasi istintivamente, a giudizi
di parte sulla geopolitica, a irrequietudini settarie, a revival islami­
ci, bilanci di potere: erano queste le costrizioni che l’inchiesta di
MacNeil e Lehrer si era imposte. E, nel bene e nel male, furono le
medesime attraverso cui operò il governo americano.
Nel contesto particolare creato da un giornalismo affetto da
superstizione e vedute conformistiche sull’Iran, si può maggior­
mente apprezzare lo spirito preveggente del pezzo di I. F. Stone,
A Shah Lobby Next?, scritto il 17 gennaio 1979 e pubblicato il 22
EDWARD W. SAID 99

febbraio dalla «New York Review of Books». Vi si legge di come


10 shah avrebbe potuto «chiamare a sé tanti e formidabili ami­
ci», dalla Chase Bank di Manhattan all’industria delle armi, dal­
le compagnie petrolifere alla CIA, sino «all’accademia inferocita».
Eppure, con lo shah «in persona» si sarebbero aperte possibilità
allettanti, per quanto «avremmo dovuto imparare già da subito - e
non lo abbiamo fatto - a non intrometterci nella politica interna
dell’Iran, e potremmo imparare la lezione subito allontanando la
politica dell’Iran dalla nostra». Per quale motivo? Perché, conti­
nua Stone nella sua inquietante previsione: «Mettiamo che il nuo­
vo regime iraniano ponga delle richieste di testa sua [...] reclami
i propri diritti alle holding straniere, ai conti bancari dello shah
e alla Fondazione “Pahlevi”. E mettiamo che richieda il ritorno
dello shah per sottoporlo a un processo sul saccheggio del Paese.
Mettiamo che si accusi quest’ultimo, in qualità di legislatore assol­
to, dell’assoluta responsabilità di tutte le indicibili torture e morti
commesse per mano dello SAVAK.»
Cito Stone non solo perché mi sembra che veda giusto nelle sue
previsioni ma anche perché non era, né pretendeva di esserlo, un
“esperto” dell’Iran, e tantomeno un uomo noto per le sue simpatie
pro-islamiche. Se si legge bene il suo articolo, non si trovano riferi­
menti alla mentalità islamica o alle predilezioni sciite per il martirio
o ad altre sciocchezze fatte passare per “informazioni” sull’Islam.
Stone comprende la politica; la capisce a tal punto da non avven­
turarsi in teorie su cosa spinga uomini e donne ad agire in questa
o in quella società; prima di tutto, egli non dubita del fatto che,
sebbene gli iraniani non siano europei o americani, posseggano allo
stesso modo legittime richieste, ambizioni, speranze, che sarebbe
certamente folle per gli occidentali ignorare. Senza eufemismi, sen­
za iperboli. Se Stone non può leggere il persiano, non si permette il
lusso di generalizzare sulla «subdola ed elusiva natura della lingua
persiana».
Col suo solito pragmatismo, Joseph Kraft schizzò la sua visione
del problema nell’articolo Time for a Show of Power, scritto per
11 «Washington Post» l’n novembre - e fu proprio ciò che scris­
se in questo pezzo, molto più di tutte le riflessioni standardizzate
IOO LA STORIA D ELL’IRAN

suH’immunità diplomatica e sulla santità della nostra ambasciata,


a illuminare aspetti della razionalità occulta (se non addirittura in­
conscia) dei media. La caduta dello shah, scrisse Kraft, fu «una
calamità per gli interessi nazionali deH’America». Non solo lo shah
aveva reso disponibili quantità regolari di petrolio, ma aveva im­
posto un ordine preciso sull’altipiano iraniano attraverso «le sue
pretese imperiali». Un toccasana per l’America: il petrolio restava
disponibile; si mantenevano in riga i «nazionalisti nascosti» del Pa­
ese; “ci” faceva apparire forti. Kraft andava avanti raccomandan­
do «di trovare l’occasione per affermare, senza equivoci e preferi­
bilmente in modo stupefacente, il potere dell’America a favore di
quei regimi che si sentivano minacciati dall’Ayatollah», come parte
del processo di «ricostruzione dell’azione politica americana verso
l’Iran». In che modo ciò poteva essere fatto?

Si dovrebbe assumere la forma apparente di un supporto


all’Iraq nel suo sforzo di istigare la resistenza locale presente
nei territori iraniani. Ciò dovrebbe significare assistenza mili­
tare alla Turchia [...]. Per trovare e valorizzare tali opportu­
nità, è richiesto un repentino cambio di rotta a Washington.
Gli Stati Uniti d’America hanno bisogno della capacità di fare
qualcos’altro, oltre a inviare marines e bombardare. C’è da ri­
costruire la capacità che è stata persa qualche anno prima - la
capacità di intervenire segretamente.

Ad apparire chiara nel pezzo di Kraft è la sua riluttanza ad accet­


tare la rivoluzione iraniana come accadimento iniziale. Perciò, essa
e tutto ciò a essa collegato - l’Ayatollah, l’Islam, il popolo iraniano
- dev’essere “rivisto” come quell’evento aberrante che i lettori, si
augura Kraft, credono sia. In altri termini, Kraft stava proiettando
la sua versione personale della realtà sulla complessità dell’Iran e
dell’America, in modo tale da sostituire questa versione alla realtà.
E la versione di Kraft aveva l’addizionale merito didattico di essere
interamente priva di moralità: essa concerneva semplicemente il
potere, il potere americano di disporre del mondo secondo i “no­
stri” termini, come se il risultato di venticinque anni di intervento
in Iran non ci avessero insegnato nulla. Se nel dispiegarsi della sua
EDWARD W. SAID IO I

versione egli si trovava a negare il diritto degli altri popoli ad auto-


determinarsi e a scegliere la propria forma di governo, senza ren­
dersi conto che era avvenuto un cambiamento decisivo, tutto ciò
non presentava alcun problema. Pretendeva semplicemente che
l’America conoscesse (e fosse conosciuta da) il mondo per effetto
del suo potere, dei suoi bisogni, della sua visione delle cose. Il resto
rappresentava un oltraggio.
Il problema sollevato da una tale prospettiva è che, anche da un
punto di vista pragmatico e totalmente autoreferenziale, è allo stes­
so tempo grossolana e cieca. Nel momento in cui Kraft e altri come
lui stavano attaccando la rivoluzione iraniana e stavano biasimando
la caduta dello shah, la situazione in Iran era altamente incerta e
provvisoria. Le masse che avevano defenestrato il regime si trova­
vano in prima linea in una coalizione politica capeggiata dall’Aya­
tollah Khomeini. Solo quest’ultimo possedeva l’autorità spirituale
e la legittimazione politica di dirigere l’attenzione del Paese; imme­
diatamente sotto la superficie del suo dominio, andava avanti una
lotta tra diverse fazioni, tra le quali spiccava il clero (i cui seguaci
si erano organizzati nel Partito islamico repubblicano), i liberali
centristi (con Bazergan in testa), un ampio gruppo di liberali con
esponenti di sinistra afferenti a partiti islamici (tra i quali adergeva
Banisadr), e la sinistra non-islamica, allo stesso modo costituita da
tanti piccoli partiti e gruppi. Per oltre un anno dopo la rivoluzio­
ne - ovvero, dal febbraio 1979 fino alla fine di marzo o all’aprile
1980 - la lotta per il potere tra queste diverse fazioni fu foraggiata;
in certi frangenti Banisadr sembrava spuntarla, in altri - princi­
palmente durante la fine dell’inverno e l’inizio della primavera del
1980 - il clero (con l’Ayatollah Mohammad Beheshti a capo) domi­
nava. Molto, molto poco di questa lotta fu riportato negli Stati Uniti
nel momento in cui si svolgeva. Così forte era l’impegno ideologico
nei confronti dell’idea di un Islam monolitico e senza possibilità di
cambiamento che nessuna riflessione fu prodotta circa il processo
politico interno a questo o a quel particolare territorio islamico.
E dunque, allorché il gruppo islamico conservatorista trionfò al
fine della lotta, le descrizioni dell’Islam appena citate si riveleranno
nella loro correttezza. E una volta fallito il soccorso in elicottero, e
102 LA STORIA D ELL’IRAN

dopo che l’amministrazione Carter decise di porre l’Iran in secon­


do piano per un momento (e, in un certo senso, quando era trop­
po tardi), la stampa iniziò diligentemente a riportare le lotte per il
potere tra Beheshti e Banisadr. Quest’ultimo fu ritratto come quel
genere di persona con cui noi avremmo potuto trattare se Beheshti
non fosse stato lì, mentre, di fatto, quando Banisadr si trovava in
ascesa sul finire del 1979, era stato ignorato e disprezzato.
Il potere è una cosa complessa, proteiforme, non sempre visibile,
che non si può comprendere solo in termini militari. Ci sono situa­
zioni in cui - come Kraft molto accuratamente osserva - il potere
non può essere visto e compreso con facilità, e nemmeno può essere
impiegato direttamente (un raid, un sovvertimento della CIA, un af­
fronto punitivo di qualsiasi sorta), ma solo indirettamente (“L’Ame­
rica tenuta in ostaggio” come messaggio presentato e ripresentato
da un apparato informativo con fonti apparentemente illimitate).
I media erano interessati a sostenere il loro diretto potere per un
tempo molto lungo. Non penso sia un’esagerazione dire che il sen­
timento di “impotenza nazionale” del quale Kraft parla rappresentò
l’eclissi temporanea di un certo tipo di potere americano a favore di
un altro: da quello militare a quello dei media. Dopo l’occupazione
dell’ambasciata, la forza militare fu ostacolata da una forza che pa­
reva esterna al potere americano (un fatto ampiamente dimostrato
dal fallito soccorso tentato sul finire dell’aprile 1980).
Questa stessa forza, del resto, rimase vulnerabile alle limitazio­
ni su di essa imposte dal potere riccamente simbolico dei media.
Per quanto molti individui iraniani avessero ottenuto la loro libertà
dallo shah e dagli Stati Uniti, essi apparivano sugli schermi delle te­
levisioni americane come parti di un flusso anonimo, deindividua­
lizzati, deumanizzati, e di conseguenza nuovamente assoggettati.
Lo facessero o meno di proposito, i media stavano di fatto utiliz­
zando i loro poteri di rappresentazione per sostenere un proposito,
del tutto simile a quello inteso dal governo statunitense nel più
immediato passato: ovvero, l’estensione di una presenza americana
o - ciò che agli iraniani pareva lo stesso - la negazione della rivo­
luzione iraniana. Ciò non significava di primo acchito la presenta­
zione di notizie, o l’analisi e la riflessione su una nuova importante
EDWARD W. SAID 103

congiuntura nelle relazioni estere dell’America. Con pochissime


eccezioni, il proposito dei media sembrò quello di intraprendere
una sorta di guerra contro l’Iran.
La notevole serie di reportage investigativi firmati da Walter
Pincus e Dan Morgan sul «Washington Post» nei mesi di dicem­
bre, gennaio, febbraio e marzo 1980, rappresentò un’eccezione.
Misero in assoluta evidenza gli affari lucrativi dello shah con le
industrie militari degli Stati Uniti e le sue proprietà nella Fonda­
zione “Pahlevi”, assieme alla manipolazione e repressione del suo
popolo (aspetti i cui dettagli possono essere in larga parte reperiti
nel libro di Robert Graham, Iran: The Illusion of Tower). Questi ar­
ticoli, così come il pezzo di Bernard Nossiter uscito il 26 novembre
1979 sul «New York Times», comparando Khomeini con lo shah,
furono messi a confronto con lo stato d’animo sdegnoso prevalente
e ripetutamente proclamato dai media. Stranamente, nessuno pen­
sò di interpretare la politica degli Stati Uniti in Iran sullo sfondo
delle cosiddette capitolazioni in voga per un secolo intero; questa
politica, grazie alla quale vari poteri, a iniziare dall’Inghilterra, ac­
quisirono privilegi extraterritoriali d’ordine economico, diplomati­
co e giuridico in Iran (Khomeini fu capace di dire, nel 1964, «Se lo
shah avesse investito un cane americano, sarebbe stato chiamato a
renderne conto, ma se un cuoco americano avesse investito lo shah
[...] nessuno avrebbe inveito contro di lui»),7 non fu mai menzio­
nata dai media. Di certo, una tale prospettiva può essere utilizzata
per interpretare la peculiare intensità dei sentimenti iraniani nei
confronti di tutti i “diavoli stranieri”, e non solo degli Stati Uniti.
Tutto ciò deve aver mutato le proteste bigotte di tanti commenta­
tori, che vedevano l’America sia come esageratamente disturbata
dall’Iran, sia come dotata di un’eccessiva benevolenza nei confron­
ti degli iraniani.
Senza grandi sorprese, del resto, nessun avrebbe potuto impa­
rare molto dalle notizie pubblicate nei primi tre mesi della crisi. I
media avevano fornito insistenza, e non certo analisi o copertura
7. Cit. in Roy Parriz Mottahedeh, Iran’s Foreign Devils, in «Foreign Policy», n. 38,
primavera 1980, p. 28. Vedi pure Eqbal Ahmad, A Century o f Subjugation, in «Chris­
tianity and Crisis», voi. 40, n. 3, 3 marzo 1980, pp. 37-44.
104 LA STORIA D ELL’IRAN

informativa della complessa trama di quegli eventi. Credo che gli


americani volessero dire che i media diedero ampia dimostrazione
della loro capacità politica d’essere lì, a Teheran, e della loro abilità
di comunicare gli eventi in forme assimilabili quanto rudimentali.
Tuttavia, non era così difficile analizzare la variegata trama politi­
ca che andava dispiegandosi, e sicuramente nessuno ne sarebbe
uscito con la sensazione che i media stavano registrando i proces­
si complessi e spesso sconcertanti della storia. Ma, certamente, si
potrebbe imparare qualcosa sul modo in cui media badavano al
proprio mestiere.
A prescindere dall’implacabile raffigurazione messa in campo da­
gli esempi provocatori cui prima alludevo, una delle conseguenze fu
di certo l’immensa mole di notizie sull’Iran. Per un periodo di dieci
settimane, durante le quali ho monitorato otto quotidiani al giorno,
tre network, vale a dire «Time», «Newsweek» e p b s , sembrò che i
maggiori canali di diffusione giornalistica si facessero carico di offri­
re notizie sugli eventi iraniani, senza contare gli approfondimenti e i
focus a essi legati. John Kifner del «New York Times» il 15 dicembre
1979 scrisse che sul territorio di Teheran si trovavano al momento
non meno di trecento reporter occidentali (la maggior parte, se non
tutti, bisognosi di un interprete) e Col Alien il 16 dicembre dello
stesso anno riportò su «The Australian» che, in totale, i tre maggiori
network americani stavano spendendo un milione di dollari al gior­
no per garantire l’informazione sugli eventi di Teheran. In aggiunta
a ciò, CBS, secondo Alien, «possedeva un team di 23 giornalisti, un
cameraman, un tecnico audio e vari altri esperti coadiuvati da 12
interpreti iraniani, autista e guida». Una suite di hotel era stata alle­
stita, per circa 6.000 dollari al mese, come centro per le operazioni,
e 35 stanze, per 70 dollari al giorno, ospitavano giornalisti, autisti e
interpreti; aggiungi a ciò il costo di aerei privati, macchine telex,
auto, telefoni, l’utilizzo del satellite per comunicare (4 ore al giorno
per 100 dollari al minuto), e i costi si alzano alle stelle.
Di ritorno negli Stati Uniti dopo un viaggio all’estero, Vermont
Royster commentò, sul «Wall Street Journal», il 19 dicembre 1979,
che le pile ingenti di quotidiani e la serie infinita di programmi te­
levisivi che aveva iniziato a esaminare testimoniavano
EDWARD W. SAID 105

quanto poco avessi imparato sulla crisi iraniana, nonostan­


te l’incredibile copertura mediatica offerta. Una volta tornato
a casa, rimasi sbigottito nel trovarmi inondato da una marea
di programmi televisivi, radiofonici e approfondimenti gior­
nalistici sull’Iran. I quotidiani presentavano pezzi lunghissimi,
mentre la televisione dedicava gran parte del palinsesto serale
all’argomento, non senza proseguire con speciali notturni sul
tema.
E da ciò nasceva in me un’ulteriore considerazione impar­
ziale: che i media stessero impegnandosi a esagerare.
Sembrava davvero una strana reazione rispetto a eventi di
tale importanza [...]. Ma la mole di parole impiegate per rac­
contare una storia non corrisponde necessariamente con l’in­
formazione impartita. La verità è che nella gran parte di quelle
parole non c’era una sola notizia reale.
Giorno 28, giorno 38, giorno 40... Ogni nuovo giorno non
presentava notizie diverse dal giorno precedente.

Forse Royster non stava reagendo tanto all’invariabilità delle


notizie giornaliere, quanto all’insoddisfacente restringersi delle ar­
gomentazioni. In che misura è possibile far affidamento su esperti e
reporter che si trovano comprensibilmente coinvolti nella faccenda
riguardante gli ostaggi, esasperati dalla sconvenienza della loro po­
sizione, forse persino ostile all’Islam, e in che modo si può ancora
sperare di ricevere un’informazione imparziale o un’analisi ogget­
tiva degli eventi? Poniamo che si legga il «Chicago Tribune» il 18
novembre - un pezzo lunghissimo di James Yuenger che convoca
al rapporto esperti pronti ad affermare che «non ci sono i presup­
posti per una discussione razionale» o che gli iraniani sono «desi­
derosi di martirio» e hanno «la tendenza a cercare capri espiatori»
- e che si continui la settimana dopo con il «Time» o «Newsweek»,
e ancora la settimana seguente con il «New York Times»: è chiaro,
ci si convincerà che gli iraniani sono sciiti che aspirano al martirio,
guidati dal loro leader irrazionale, Khomeini, nutriti dall’odio ver­
so l’America, determinati a distruggere le spie sataniche, incapaci
di compromesso, e così via. C ’è da chiedersi se sia esistito per l’Iran
un passato, un tempo storico, prima degli eventi dell’ambasciata.
io 6 LA STORIA D ELL’IRAN

Non esiste dunque una storia o una società iraniane di cui parla­
re che non siano traducibili nei termini antropomorfici di un Iran
malato che del tutto gratuitamente dileggia la buona America? So­
prattutto, è possibile che la stampa fosse interessata solo a diffon­
dere notizie sulla rappresentazione che il governo americano dava
di un’America “unita” dietro la richiesta incondizionata di rilascio
degli ostaggi, una richiesta - astutamente valutata da Roger Fisher,
accademico di Harvard, sul «Today Show» del 3 dicembre - essa
stessa subordinata alla priorità reale, non certo quella del rilascio
ma della rappresentazione di un’«America forte»?
Per paradosso, il governo e i media apparvero talvolta in reci­
proco antagonismo. Da qui l’eccitazione causata dall’attacco del
governo, allestito su NBC, per l’utilizzo dell’intervista di Gallegos.8
O il ritornello frequente balzato fuori da ambienti prossimi o meno
al governo secondo il quale, al modo in cui George Ball lo ha messo
in rilievo durante il «MacNeil/Lehrer Report» del 12 dicembre, «i
grossi network nel mondo si sono schierati realmente dalla parte del
cosiddetto governo in Iran». E in aggiunta a questo refrain, ci fu un
perdurante tentativo di falsare testimonianze, giudizi, dichiarazioni,
diffuse e rappresentate dai media, sia nel caso che al tal dei tali fosse
stato fatto il lavaggio del cervello nel parlare della situazione in Iran,
sia nel caso che gli iraniani X e Y fossero nemici fanatici o propagan­
distici. Nel riportare alcune notizie per il «Chicago Tribune» il 22
novembre, James Coates disse che «gli ostaggi presi nell’ambasciata
statunitense in Teheran sono andati incontro a pressioni psicologi­
che simili a quelle subite dai militari americani durante la guerra in
Corea e Vietnam, secondo quanto riferito dai funzionari ammini­
strativi». I funzionari ammisero più tardi che «si riferivano ad alcune
testimonianze che gli ostaggi avevano prodotto al momento del loro
rilascio». Lois Timnick, sul «Los Angeles Times» del 26 novembre,
riportava la notizia che, secondo un esperto in materia, «il mondo
può aspettarsi di vedere o sentire alcune interviste registrate in cui
ostaggi individuali “confessano” ogni sorta di misfatto ed emettono
giudizi deleteri sia a loro stessi che agli Stati Uniti d’America».
8. Cfr. Robert Friedman, The Gallegos A ffair, in «Media People», marzo 1980,
PP- 33-34-
EDWARD W. SAID 107

Un altro caso simile fu l’attacco al senatore Kennedy (cfr. Teddy


is the toast of Teheran, «New York Post», 5 dicembre) per aver
proposto una visione alternativa a quella del governo e dei media.
O la spietata bastonatura ai danni del deputato George Hansen,
il cui intero passato fu ricostruito a dovere per far apparire come
legittimi i capi di accusa a lui mossi da Tip O ’Neill.
Non sto dicendo ci fosse una collusione diretta tra i media e il
governo e neppure che qualunque notizia sull’Iran fosse distorta
dagli abbagli ideologici di cui ho discusso. Nemmeno credo che
ci siano i presupposti per giustificare il trattenimento degli ostag­
gi; anche Mansour Farhang, l’ambasciatore di Khomeini negli Stati
Uniti, pochi mesi prima di prodursi in un totale voltafaccia, ammise
ciò al «MacNeil/Lehrer Report» il 5 novembre. Nessuno può dubi­
tare, del resto, che la faccenda degli ostaggi abbia giocato un ruolo
non ancora sufficientemente analizzato nelle dinamiche complesse
della rivoluzione in Iran, seppure è apparso chiaro che l’emergere
di elementi arretrati e retrogradi nella società iraniana fu favorito
dal protrarsi nel tempo del trattenimento degli ostaggi. Ora che la
crisi era giunta a una soluzione (perché la guerra con l’Iran ha reso
gli ostaggi non più proficui per la politica interna), una nuova si­
tuazione è iniziata a emergere. Nonostante ciò, sto cercando di dire
che il mondo in cui viviamo è fin troppo complesso e vario adesso
e lo sarà in seguito nel produrre nuove situazioni non previste (a
dispetto dei gusti americani) che non potranno sempre essere tra­
dotte nei termini di un affronto agli Stati Uniti. Gli americani non
possono continuare a credere che la cosa più importante da sapere
suU’“Islam” è se sia pro- o anti-americano. Una visione del mondo
così xenofobicamente riduttiva ambirebbe a garantire un confronto
continuo tra gli Stati Uniti e la restante umanità (testarda e ostinata
per definizione), una politica di continuità con la Guerra fredda, nel
perfetto stile-Huntington, estesa a tutte le altre porzioni del globo.
Suppongo che una politica del genere potrebbe essere considerata
un’utile legittimazione del “Western way of life”, ma ritengo allo
stesso modo che lo stile di vita occidentale non necessariamente
induca a produrre ostilità o confronti come modi di chiarificazione
della propria identità e del proprio posto nel mondo.
io 8 LA STORIA D ELL’IRAN

La mia idea è che ci troviamo in una nuova situazione politica a


livello mondiale (di cui l’Iran è il maggior presagio) che dev’esse­
re compresa velocemente. Visto che qualcuno ritiene che il potere
americano sia in declino, vorrei sostenere invece che una quota
sempre più sostanziale del mondo, certamente più di prima, di­
venta politicamente consapevole e dunque meno propensa a es­
sere considerata come una colonia satellite dell’impero o come
un alleato senza testa. L’Iran odierno, la Turchia e l’Europa occi­
dentale illustrano rispettivamente cosa intendo dire: ciascuna non
vuole accettare passivamente l’azione unilaterale degli Stati Uniti
di messa al bando delle attività commerciali con l’Iran. Per di più,
non c’è ragione di credere che il popolo afghano voglia essere
invaso dall’Unione Sovietica più di quanto gli iraniani non siano
stati felici del supporto che gli Stati Uniti hanno accordato all’ex
shah. Credo che sia sbagliato e folle guardare all’‘Tslam” come a
un blocco, così come credo sia scorretto considerare 1’“America”
come se fosse una persona lesa invece che un sistema complesso.
Per queste ragioni, credo che abbiamo bisogno di una conoscenza
più approfondita del mondo; di conseguenza, dovremmo aspet­
tarci standard più alti nel campo dei media, informazioni più so­
fisticate, resoconti più accurati di ciò che sta accadendo, rispetto
a quelli che abbiamo ora, i quali, a cominciare in modo dramma­
tico dalla Guerra del Golfo nel 1991 e dagli Accordi di Olso del
1993, semplicemente seguono la linea di tendenza maggioritaria,
che è quella anti-musulmana e anti-araba della politica estera sta­
tunitense. Ma ciò significa andare oltre ciò che è comunemente
disponibile a uomini e donne della comunicazione che lavorano
in una società: a) la cui conoscenza del mondo non-occidentale è
essenzialmente determinata sia dalla crisi sia da un etnocentrismo
mai messo in discussione; b) la cui abilità a costruire una strut­
tura informativa elaborata per obbedire ai suoi stessi interessi è
notevole; c) la cui storia di interazione con le diverse popolazioni
islamiche si è formata attraverso i soli temi del petrolio e della
dittatura (nel caso dell’ex-shah), la cui alleanza con gli Stati Uniti
ha recato in sé il marchio della “modernizzazione” e dell’anti-
comumsmo.
EDWARD W. SAID 109

Sarà difficile uscire da queste prigioni di senso. Bisogna consi­


derare che i corrispondenti della maggior parte dei network ame­
ricani lottano eroicamente per assolvere perpetuamente il dovere
di portarsi dietro una storia da raccontare. Peraltro, di solito non
conoscono il linguaggio dell’area in cui lavorano, non ne conosco­
no la cultura, si limitano a intraprendere un brevissimo tour, anche
dopo aver iniziato a scrivere contributi di un certo rilievo. Malgra­
do il talento individuale, i corrispondenti non possono sperare di
restituire al pubblico la complessità di luoghi come la Turchia o
l’Egitto senza una qualche esperienza di lungo termine sul posto. Si
consideri, per esempio, che James Markham, il bravissimo giorna­
lista che si occupò della guerra civile in Libano per il «Times» nel
biennio 1975-1976, era appena giunto dal Vietnam, e dopo solo un
anno nel Vicino Oriente fu mandato in Spagna. E si consideri pure
che, durante l’assenza di John Kifner a Teheran, l’intero Levante
fu “coperto” per il «Times», a intermittenza, da Henry Tanner, che
si trovava a Roma, o da Nicholas Cage. Mentre Marvin Howe, che
era stato già corrispondente a Beirut (e che avrebbe dovuto ga­
rantire anche le notizie provenienti da Giordania, Siria, Iraq e dal
Golfo), rimase un anno nella capitale libanese, dopo esser stato in
Portogallo, e l’anno successivo, nell’autunno 1979, fu spostato ad
Ankara. Se tutto ciò viene paragonato a quanto accade nel mondo
della stampa europea, le difficoltà e i pericoli in cui la stampa ame­
ricana incorre risaltano maggiormente: «Le Monde» ha avuto Eric
Rouleau, che conosceva perfettamente la lingua araba e si è occu­
pato per quasi un quarto di secolo delle vicende di quella terra; il
«Manchester Guardian» ha David Hirst, allo stesso modo prepara­
to nelle lingue, e con un’esperienza da veterano alle spalle. (C’è da
dire che, in tanti altri frangenti, il giornalismo europeo non è meno
debole di quello americano.) Le probabilità a sfavore di un’infor­
mazione adeguata da parte degli inviati televisivi, che dovrebbero
essere certo più itineranti dei giornalisti della carta stampata, fa ap­
parire questi ultimi, in confronto, come una specie di enciclopedia
di sapienza e serenità.
Ho il sospetto che l’estrema variabilità di notizie attorno
all’Oriente e alHTslam” che caratterizza quotidianamente i media
no LA STORIA D ELL’IRAN

americani non sarebbe facilmente tollerata nel mondo mediatico


dell’Europa occidentale - il che non vuol dire che i problemi della
stampa europea siano stati risolti. In ogni caso, trovo difficile com­
prendere perché radio, televisione e giornali sembrino tutti conve­
nire sul fatto che gli occhi inesperti degli inviati siano largamente
preferibili a quelli di chi ha un’esperienza diretta del territorio. Du­
rante la crisi in Iran, si possono osservare all’opera reporter com­
petenti e preparati come Morton Dean, John Cochran e George
Lewis, che però assurgono al rango di “esperti” proprio davanti
ai tuoi occhi, non già perché posseggano un più ampio bagaglio di
conoscenze, ma semplicemente perché si suppone che se ti trovi in
un luogo per un breve lasso di tempo sarai in grado di conoscerlo
in modo adeguato. In pratica, quel che si osserva è la dipendenza
del reporter dalla necessità di dover creare una notizia - per esem­
pio, la discussione serale su n b c tra John Chancellor (in diretta da
New York) e Lewis e Cochran (in diretta da Teheran) - e sempre
meno dalla capacità di analizzare e raccogliere dati certi. L’accura­
tezza - che non è una virtù dei media - è stata spesso sacrificata al
bisogno di offrire notizie, ci fosse o meno qualcosa da raccontare.
Ma ci sono anche altre pressioni che giocano ruoli importanti.
I giornalisti della carta stampata sono consapevoli che i corrispon­
denti delle reti televisive hanno la necessità di produrre ogni sera
storie appetibili per il pubblico; del resto, loro guardano semplice-
mente alla richiesta del consumatore, che non ha nulla a che vedere
con l’accuratezza dell’informazione e con il reale significato degli
eventi di cui dare notizia. La competizione tra la carta stampata e
la televisione ha causato un’enfasi eccessiva su quanto sia bizzarro
l’Islam degli sciiti o sul profilo psicologico di Khomeini, per quan­
to la stessa competizione renda conto della trascuratezza con cui
sono state trattate altre figure e forze sociali all’opera in Iran. An­
cora più importante - se non addirittura snaturante - è il fatto che
i media abbiano usato come veicolo diplomatico un aspetto della
“storia dell’Iran” notato con perizia dalla rivista «Broadcasting» il
24 dicembre 1979. Gli iraniani, così come il governo degli Stati Uni­
ti, erano perfettamente coscienti che i giudizi espressi in televisione
erano rivolti non solo alla gente desiderosa di notizie ma anche
EDWARD W. SAID ni

ai governi, ai partigiani di una o dell’altra fazione, alle formazioni


politiche nuove ed emergenti. Nessuno ha studiato le conseguenze
di questo aspetto sulla pratica di “decidere cos’è notizia”. Eppu­
re credo che una consapevolezza generale di ciò abbia condotto
i reporter statunitensi a pensare in modo restrittivo e riduttivo,
attingendo alla dicotomia noi-contro-loro. Proprio la riduzione a
lettera di questi sentimenti condivisi ha reso l’incapacità e l’assenza
di accuratezza dei reporter molto più che solo apparenti.

III. Ipotesi nascoste e non verificate

L’inaccuratezza è sufficientemente deplorevole, ma, a mio pa­


rere, la creazione di notizie fondate su assunti conformistici è an­
cor peggio. Nel numero di gennaio-febbraio 1979 della «Columbia
Journalism Review» apparve un articolo sul modo in cui i media
statunitensi si fossero occupati del regime dello shah. Gli autori
di questo pezzo straordinario mostravano con convinzione che «la
stampa, in linea di massima, ha accettato l’implicita argomentazio­
ne dello shah secondo cui il meglio che la sua gente possa trovare
in materia di risorse ideologiche consiste nel fanatismo religioso e
nel comuniSmo».9 La rivista «Science», nel numero del 14 dicem­
bre 1979, commentava allo stesso modo l’incapacità di compren­
sione da parte dei media, ma estendeva la colpa, più lealmente, alla
difesa e ai servizi segreti. Questo punto di vista trovò un’attenta
e premurosa disamina in un articolo di Herman Nickel uscito su
«Fortune» del 12 marzo 1979. La saggia conclusione cui l’autore
giungeva è rimasta pressoché inascoltata:

Le cause del fallimento americano in Iran sono più profon­


de di un mero errore tattico e affondano le radici molto più nel
passato che nel presente.
Solo un’attenta e paziente analisi di queste tracce può pro­
durre un’indagine seria e utile per il futuro. Non è pleonasti­
co ripetere che un esercizio di autoanalisi da parte degli Stati

9. William A. Dorman ed Ehsan Omeed, Reporting Iran the Shah’s Ways, in «C o­


lumbia Journalism Review», vol. 17, n. 5, gennaio-febbraio 1979, p. 31.
112 LA STORIA D ELL’IRAN

Uniti non deve essere il veicolo di recriminazioni sorte su base


emozionale e con inevitabili esiti di divisione sociale, del ge­
nere «Chi ha perso la Cina?», così tossiche nella politica tra
gli anni Quaranta e Cinquanta. La storia recente dell’avven­
tura americana in Iran non è una favola a uso di giudiziosi
profeti, a lungo ignorati e ora legittimati ad alzare la voce e a
additare. Piuttosto, la responsabilità del fallimento sembrereb­
be incoraggiare un qualche sentimento generale di umiltà. La
grave estensione del potere personale dello shah nel governo
dell’Iran è stato un errore di valutazione commesso in egual
misura sia dalle amministrazioni repubblicane che da quelle
democratiche. E le voci di dissenso non erano udibili né nelle
stanze del Congresso né nelle riunioni della Casa Bianca.
I dibattiti che sollevano questioni politiche costruttive, a
differenze di quelli che producono accuse ad hominem, con
molta probabilità devono essere rinnovati dalla consapevolez­
za che le altre nazioni non sono, dopo tutto, proprietà da “per­
dere”. Se c’è una lezione che gli Americani avrebbero dovuto
imparare dalla tragedia in Vietnam, è che noi non possediamo
la capacità di decretare il corso degli eventi in paesi così pro­
fondamente legati alla propria storia, alla propria cultura e alla
propria religione. Se il ruolo del buddismo nel Sud-est asiatico
spesso appare contraddittorio, quello dell’Islam in Iran si è di­
mostrato molto più degno di nota e sconcertante agli occhi dei
politici americani.

Quasi un anno dopo, le attitudini a recriminare e a ragionare


nei termini di “proprietà” erano ancora prevalenti, con l’ironia ag­
giunta che l’intero apparato mediatico trovava piuttosto difficile
ammettere che cambiamenti sensibili nei paesi che gli Stati Uniti
credevano inseriti nella loro diretta sfera d’influenza fossero possi­
bili. Quando, nel 1996, le elezioni in Turchia condussero al potere
un partito islamico moderato, ci fu un opinionista del «Times»,
Thomas L. Friedman, che scrisse un articolo dal titolo Who Lost
Turkey? (21 agosto 1996), come se Turchia e Iran fossero proprietà
da “perdere”. Da un lato, per quanto riguarda il caso dell’Iran,
molti giornalisti tendevano ancora a considerare Mohammad Reza
come “lo shah” e non come “l’ex shah”. Dall’altro, fino alla metà
EDWARD W. SAID 113
del 1980 (quando sembrò chiaro che l’ala destra della rivoluzione
stava acquisendo la maggioranza), fu sfornata una quantità enorme
di storie su atrocità ed esecuzioni, e soprattutto sulla lotta politica,
sempre molto fluida ma ora sensibilmente più aperta, nel paese.
Si potrebbe pensare sia uno sforzo considerevole dar notizia nel
dettaglio di cosa significhi per l’esistenza di una nazione, dopo anni
di dura oppressione, avere una dozzina di partiti politici in com­
petizione per la conquista del potere, transitoriamente liberi dalla
minaccia della tortura e della carcerazione. Cosa significa per una
nazione essere rappresentata da un leader che, seppure cocciuto
e per tanti versi sgradevole, incarna una posizione politica poco
chiara, che non è per nulla interessato al governo centrale, che è
persino venerato, che pare un virtuoso nel controllare una dozzina
di partiti, tutti impegnati a lottare fra di loro, ma sostanzialmente
sotto il suo controllo, e che parla con una tale convinzione e riso­
lutezza degli al-mostazafin, vale a dire i diseredati e gli oppressi?
Non poche storie hanno insistito, durante i primi giorni della presa
dell’ambasciata americana, sul fatto che il governo in Iran fosse in
larga parte provvisorio, in attesa di dar vita a un nuovo stato, o sul
fatto che per tutto il 1979 ci fossero stati dibattiti nel paese sulla co­
stituzione e la struttura dell’amministrazione governativa, o che ci
fossero tanti partiti già all’opera (sia religiosi che laici, sia di destra
che di sinistra), o che parecchi quotidiani fossero stampati senza
controlli e regolarmente, o che si dibattesse su argomenti di attuali­
tà (non riducibili a ogni costo agli interessi settari, etnici o religiosi)
con il coinvolgimento di tanti iraniani, o ancora che il conflitto tra
gli ayatollah (Khomeini e Shariat-Madari, fra gli altri) riguardasse
le interpretazioni sia politiche che religiose dei principi islamici,
oppure che il futuro dell’Iran non dovesse inevitabilmente cadere
nelle maglie ristrette del punto di vista dei quotidiani americani e
della classe media da loro rappresentata.
La cosa più difficile da comprendere, a proposito dell’ambito
mediatico in cui si colloca il mestiere del reporter, è il motivo per
cui, quasi senza eccezioni, esso consideri in modo tanto disdice­
vole e sospettoso il movimento che rovesciò la dinastia di Pahle-
vi e produsse la creazione di diversi, e forse più popolari, gruppi
114 LA STORIA D ELL’IRAN

d ’azione politica. «I Nuovi Barbari sono a briglia sciolta in Iran»


ha scritto Hai Gulliver sull’«Atlanta Constitution» il 13 novembre
1979; si riferisce non solo agli studenti che trattenevano gli ostaggi
ma a chiunque in Iran. Se si legge un pezzo, apparentemente ben
argomentato e informato, a firma di Youssef Ibrahim, uscito il 14
ottobre 1979 sul numero speciale del «New York Times Sunday
Magazine», si può essere convinti del fatto che la rivoluzione sia
stata davvero un fallimento, che l’Iran sotto la cenere covi risenti­
mento, paura, odio per la rivoluzione. Le prove sarebbero: essen­
zialmente, alcune impressioni, varie citazioni da due ministri del
governo e, in larga parte, discussioni avute con un banchiere, un
avvocato e un manager pubblicitario.
Non che i reporter non debbano avere opinioni o non debbano
trasmetterle ai lettori. Ma è quando l’opinione si trasforma in realtà
che il giornalismo diventa una profezia che si autorealizza. Se si
assume l’ipotesi che la rivoluzione iraniana è stata un errore perché
ha assunto una forma di resistenza religiosa e politica alla tirannia,
drammaticamente sconosciuta agli occhi occidentali, allora, per di­
retta conseguenza, ciò che si sta cercando, e dunque trovando, è
una sorta di follia irrazionale. Si consideri ciò che scrive Ray Mose­
ley in un articolo intitolato Conformity Intolerance Grip Revolutio­
nary Iran, uscito il 25 novembre su «Chicago Tribune»:

La gente che considera la morte un onore è, per definizio­


ne, fanatica. Il desiderio di sangue vendicativo e l’aspirazione
al martirio sembrano caratterizzare lo shah dell’Iran. E ciò che
incita milioni di cittadini a starsene provocatoriamente disar­
mati davanti alle truppe e a imbracciare armi automatiche du­
rante la rivoluzione.

Ciascuna di queste frasi contiene supposizioni altamente di­


scutibili spacciate per verità, che sembrano però ammissibili per
il semplice fatto che si sta parlando di una rivoluzione islamica.
E un modo di fare che ha continuato a essere presente nei report
sull’Iran negli anni Novanta, così come nei resoconti sul movimen­
to degli Hezbollah in Libano (sempre ritratto come una sorta di
EDWARD W. SAID 115
“ritorno all’Iran”). Gran parte degli americani non considera Pa­
trick Henry un fanatico perché ha detto «datemi la libertà o datemi
la morte». Il desiderio di uccidere i cittadini francesi che collabo-
rarono con i nazisti (parecchi milioni furono uccisi in pochi giorni)
non significa che i francesi possano essere considerati tutti tali. E
che dire dell’ammirazione, davvero comune fra la gente, per coloro
che coraggiosamente si pongono come ostacolo davanti alle truppe
armate?
L’attacco di Moseley all’Iran fu supportato da un editoriale di
dimensioni cosmiche, uscito lo stesso giorno, che accusava Kho­
meini nientemeno che di «guerra santa al mondo». Il motivo della
jihad (la guerra santa) era inoltre postulato da un poderoso assalto
sferrato dal «Los Angeles Times» in un articolo di Edmund Bo-
sworth il 12 dicembre, divenendo così la chiave argomentativa più
diffusa nelle rappresentazioni mediatiche dellTslam. Tralasciando
che, secondo Fazlur Rahmann, «tra le ultime scuole giuridiche di
tradizione musulmana [...] solo quella del Kharigismo ha dichia­
rato che la jihad è uno dei “pilastri della Fede”»,10Bosworth conti­
nua ad affermare, in modo indiscriminato, che esistono numerose
prove a sostegno della teoria secondo cui tutta l’attività politica
racchiusa in un periodo di circa milleduecento anni, e collocata
nell’area che include Turchia, Iran, Sudan, Etiopia, Spagna e In­
dia, può essere compresa come emanazione di ciò che i musulmani
chiamano jihad.
Se l’iperbole aggressiva è una delle modalità giornalistiche co­
munemente usate per descrivere l’Iran in particolare e l’Islam in
generale, l’altra è l’eufemismo applicato male, di solito derivante
dall’ignoranza e molto spesso da un’ostilità ideologica appena ce­
lata. La sua forma prevalente è rappresentata dall’artificio di rim­
piazzare l’attualità con una “spiegazione” plausibile del reporter
medesimo. L’unico oggetto che giornali e trasmissioni televisive
hanno analizzato per i primi tre mesi dalla presa dell’ambasciata
è stato il precedente regime iraniano: per un tempo considerevol­
mente lungo, nessuno ha preso sul serio le lamentele iraniane in­

10. Fazlur Rahman, Islam, Chicago, Chicago University Press, 1979, p. 37.
116 LA STORIA D ELL’IRAN

dirizzate sia al monarca deposto sia alla politica statunitense che,


per una durata non certo esigua, lo ha favorito senza riserve. In un
modo o nell’altro, la violazione della sovranità iraniana che si rea­
lizzò nell’agosto del 1953, quando (come Kermit Roosevelt dimostra
nel suo recente e inascoltato libro, Countercoup) la CIA, d’accordo
con la compagnia petrolifera anglo-iraniana, rovesciò Mohammad
Mossadegh,11 meritava qualche piccola analisi, considerando che
l’assunto generale prescriveva che gli Stati Uniti, in qualità di gran­
de potenza, fossero legittimati a mutare l’assetto governativo di un
paese e a condonare la tirannide quando è inflitta su popoli incolti
e non-bianchi. George E. Gross, psichiatra in attività, espose la sua
riflessione in un editoriale uscito per il «New York Times» l’n gen­
naio 1980, secondo la quale, ammettendolo a New York, gli Stati
Uniti avessero perdonato a tutti gli effetti lo shah precedente: un
atto «privo di principi morali», come il grandioso perdono con­
cesso da Gerald Ford a Richard Nixon, che mostrava «una scarsa
capacità di crearsi giudizi senza una struttura morale, una perdita
di empatia cui si aggiunge un oltraggio morale verso gli altri».
Osservazioni come questa furono ben poche e rare. Molti scrit­
tori e editorialisti si appagavano dell’uso di eufemismi. Sembrava
si fosse d’accordo sul fatto che gli iraniani avevano allestito un atto
guerrafondaio contro l’ambasciata degli Stati Uniti, seppure vir­
tualmente nessuno pensasse, in aggiunta, che ciò che gli Stati Uniti
avevano fatto all’Iran, sin dal rovesciamento di Mossadegh nel 1953,
era, a tutti gli effetti, una dichiarazione di belligeranza. Ernest Co­
nine, in un editoriale per il «Los Angeles Times» del io dicembre
1979, ne fornì un esempio:

I resoconti giornalistici avvalorano la tesi degli orientalisti se­


condo la quale ciò a cui stiamo assistendo è una rivolta di vaste
proporzioni contro le influenze disturbanti che la modernizza­
zione in stile Occidentale si è portata dietro nei tempi recenti.
Lo shah è odiato non solo perché la sua polizia si è prodot­
ta in torture ma anche perché ha tolto i sussidi governativi aiil.

il. K erm it R oosevelt, Contercoup: The Struggle fo r the Control o f Iran, N ew York,
M cG raw -H ill B o o k C o ., 1979.
EDWARD W. SAID 117
sant’uomini musulmani e ha presieduto alla rivoluzione indu­
striale che ha inteso sradicare gli iraniani dal loro tradizionale
stile di vita rurale.
L’“America-Satana” è vista come il nemico numero uno
non solo in Iran, ma anche altrove, perché per 25 anni gli Stati
Uniti hanno rappresentato il potere, e dunque è vista pratica-
mente come il simbolo di una forza esterna che ha imposto
cambiamenti non voluti.

Gran parte di questa argomentazione è sbilanciata contro gli


iraniani attraverso assunti non spiegati, cosicché c’è bisogno d leg­
gerla molto attentamente. Prima di tutto, Conine asserisce che le
«influenze disturbanti» della «modernizzazione in stile Occidenta­
le» sono l’esito di un desiderio benevolo di portare l’Iran e l’Islam
dal passato al presente; in altre parole, l’Islam e l’Iran sono arretra­
ti, l’Occidente è avanzato, ed è ovvio che i popoli arretrati debbano
uscire dal loro stato di vetustà non senza qualche momento diffici­
le. Si tratta di giudizi di valore ampiamente contestabili e derivano,
come ho cercato di dimostrare nel primo capitolo, dall’ideologia
della modernizzazione. Inoltre, Conine sostiene, senza alcuna ga­
ranzia se non quella delle basi etnocentriche del suo discorso, che
gli iraniani fossero più preoccupati dei loro «sant’uomini» che
delle torture, un’affermazione, questa, usata intenzionalmente per
suggerire l’immagine di uomini primitivi alle prese con i loro scia­
mani. In più, suggerisce che gli iraniani non possiedono la “nostra”
stessa sensibilità. La sua tesi finale ne sviluppa altre per associazio­
ne, attribuendo agli iraniani arretrati la colpa di non riuscire a com­
prendere le buone intenzioni dell’America e gli sforzi di Pahlevi di
condurre l’Iran verso una via d’uscita; perciò, non solo “noi” siamo
discolpati, ma piuttosto è il popolo iraniano a essere incapace di
apprezzare il valore della nostra concezione di modernità, e ciò
rappresenta il motivo per cui l’ex shah rappresenta, dopo tutto,
una nobile figura.
Solo brevemente viene menzionato il fatto - che tutto sommato
non è né esoterico né difficile da cogliere - che le società americane
presenti sul territorio ottennero vasti profitti (non sarebbe stato
ii8 LA STORIA D ELL’IRAN

difficile collegare il 200% della crescita di profitti per le compagnie


petrolifere degli anni precedenti con la ricchezza della famiglia
Pahlevi) e che la maggioranza degli iraniani, come i tanti milioni
di arabi che non percepiscono profitto direttamente dal petrolio,
videro l’incremento della ricchezza americana come a loro carico.
Si vociferava che lo shah avrebbe fatto ricorso occasionalmente alle
torture - e del resto, scrisse il «Washington Post» il 16 dicembre,
«si può affermare che tutto ciò è in perfetto stile iraniano». L’impli­
cazione era chiara: dal momento che gli iraniani sono sempre stati
sottoposti a torture, qualsiasi tentativo di cambiare il loro destino
suona come un tradimento nei confronti della loro storia, per non
dire della loro stessa natura.
Quest’inconfutabile posizione logica si ripresentava in un rac­
conto di Don A. Schanche, uscito per il «Los Angeles Times» il 5
dicembre 1979, in cui si sosteneva la seguente tesi: siccome la nuova
costituzione era «uno dei documenti politici più bizzarri dei tempi
moderni» e siccome era accaduto che non assomigliasse alla costi­
tuzione degli Stati Uniti (nessuna traccia di checks and balances\),
l’influenza di Khomeini risultava infausta come quella dell’ex shah.
L’idea che, almeno in teoria, ci fossero «condizioni per le elezioni
democratiche del presidente e del parlamento e per l’organizzazio­
ne di un sistema giudiziario adeguato» fu accantonata da Schanche
perché esile quanto una «decorazione della democrazia». Sempli­
cemente l’autore non aveva considerato quel che invece, su «Le
Monde» del 2 e 3 dicembre 1979, Eric Rouleau aveva analizzato in
dettaglio: ossia, il dibattito, in verità molto acceso e impegnativo,
sulla costituzione e i vari disaccordi attorno al ruolo ricoperto da
Khomeini, e via dicendo. In altri termini, Schanche sembrava più
interessato a spacciare per verità i contenuti del suo editoriale sulla
costituzione iraniana, a dispetto di ciò che realmente era accaduto.
Fu solo una questione di coincidenze e l’esito di una battaglia incal­
lita, davvero deludente per i sostenitori (iraniani o meno) della rivo­
luzione, se il nuovo ordine costituito in Iran a partire dalla seconda
metà degli anni Ottanta apparve così poco promettente. Ma, a dirla
tutta, la comparsa negli Stati Uniti di un candidato repubblicano
iperconservatore non fu certo una coincidenza meno edificante!
EDWARD W. SAID 119

Con la notevole eccezione di Andrew Young, nessun uomo


pubblico negli Stati Uniti ebbe qualcosa da dire nel 1979 su cosa
significasse per gli iraniani il regime, prima di avviare un’azione di
sommossa contro l’America - mi riferisco anche a osservatori di­
retti come i tre sacerdoti che celebrarono il Natale nell’ambasciata
o agli altri gruppi clericali presenti a Teheran negli ultimi giorni di
dicembre (entrambi i gruppi apparvero sul «MacNeil/Lehrer Re­
port» il 28 dicembre e il 4 gennaio). E, aderendo a questo silenzio,
la stampa rappresentò l’ex shah esclusivamente in termini di “caso
umano” per almeno venti giorni dopo il suo ricovero negli Stati
Uniti. Spoglio del suo passato politico, apparve essere del tutto
estraneo alle vicende dell’ambasciata. Qualche giornalista, fra tutti
Don Oberdörfer del «Washington Post», cercò di ricostruire i pas­
saggi tortuosi attraverso i quali David Rockfeller, Henry Kissinger
e John McCloy fecero pressione sul governo americano per portare
qui l’ex shah. Ma tutti questi fatti, a cominciare dalla lunga liaison
dell’ex shah con la Chase Bank di Manhattan - la cui considerazio­
ne avrebbe aiutato a capire l’animosità ribelle degli iraniani -, non
sono casualmente connessi alla presa dell’ambasciata. E tuttavia,
contrariamente a ciò, sono state offerte tante spiegazioni eufemi­
stiche dell’occupazione come esito della manipolazione politica
di Khomeini, della sua necessità di distrarre la popolazione dalle
difficoltà economiche, e via dicendo (vedi il «Los Angeles» del 25
e del 27 novembre, del 7 e delibi dicembre; e pure il «Washington
Post» del 15 novembre).
In breve, sono convinto non sia certo più cinico discutere dell’in­
fluenza assoluta del governo americano sull’Iran (di cui è simbolo
il rifiuto del presidente Carter di prendere in considerazione i rap­
porti passati con quel paese, che egli definisce “storia antica”) di
quanto non fosse un utile mezzo quello di volgere l’animosità dei
media contro l’Iran, l’Islam e in generale il mondo non-Occiden-
tale durante il corso delle elezioni. Perciò, il presidente sembrò in
linea con una politica di forza contro gli attacchi stranieri; e que­
sta, contrariamente, era proprio la posizione di Khomeini in Iran.
Talvolta, il rifiuto di Carter di usare la forza gli fece guadagnare il
disprezzo di William Safire e Joseph Kraft, ma in generale sembra
120 LA STORIA D ELL’IRAN

avesse assicurato al pubblico che, in raffronto ai “terroristi” islami­


ci (così venivano chiamati), lui, il presidente, stava difendendo gli
standard occidentali di correttezza e civiltà. Un altro effetto della
crisi fu che uomini politici come il presidente Sadat (il cui giudizio
su Khomeini quale disgrazia dell’Islam fu ripetuto ad nauseam) fu­
rono fatti apparire come modelli desiderabili di politica islamica.
Lo stesso dicasi per la famiglia reale Saudi, per quanto ciò che ven­
ne riportato, nello stesso tempo, fu una quantità di informazioni
disturbanti e sconnesse e, nel caso dell’Iran, l’idea di una crisi con­
siderevolmente prolungatasi nel tempo.
Prendiamo per esempio Sadat e i Saudi. A partire dall’accor­
do di Camp David del 1978, si era diffusa, con un certo consenso,
l’idea che Sadat fosse il nostro amico in terra iraniana; insieme a
Menachem Begin aveva apertamente dichiarato la sua volontà di
divenire una sorta di poliziotto locale, di offrire agli Stati Uniti le
basi militari sul suo territorio, e così via. In conseguenza di ciò, gran
parte delle notizie sull’Egitto riportate dai media sembravano fil­
trate dal punto di vista di Sadat: il mondo arabo ed egiziano veniva
raccontato con l’intento di confermare la sua percezione delle cose,
sebbene Hosni Mubarak, il suo successore, persino più vicino agli
americani di lui, fosse di gran lunga meno accondiscendente nei
confronti degli Stati Uniti. Prima della sua uccisione, pochissimo
fu detto a proposito della sua politica, tanto da essere proposto
come un modello ideale di collaborazionismo da gran parte della
stampa. Esattamente la stessa operazione fu condotta durante il
regime di Pahlevi, quando, con l’eccezione di un articolo singolar­
mente profetico a firma dello studioso di Berkeley Hamid Algar,12
nessuno pose attenzione al ruolo potenziale dell’opposizione po­
litica e religiosa dello shah. Una quota enorme degli investimenti
politici, militari, strategici ed economici fu avviata con l’ausilio di
Sadat (e attraverso la sua visione delle cose). Ciò fu dovuto in parte
all’ignoranza dei media, alla loro preferenza per le “personalità”

12. Hamid Algar, The Oppositional Role o f the 'Ulama in Twentieth-Century Iran,
in Nikki R. Keddie (a cura di), Scholars, Saints, and Sufis: Muslim Religious Institu­
tions Since 1500, Berkeley, Los Angeles and London, University of California Press,
1972, pp. 231-255.
EDWARD W. SAID I 2I

spettacolari, alla quasi totale assenza di inchieste, nel rispetto del


consenso ideologico ora egemone in Egitto e nel Medio Oriente.
Ci sono pure altre ragioni. Una di queste riguarda i delicati aspet­
ti di politica interna del Medio Oriente. Ad esempio, non è un caso
che dopo Watergate, le varie rivelazioni sulla CIA, il “Freedom of
Information Act”,13non ci siano state altre grosse scoperte - eccet­
to per “Irangate” - sulle relazioni fra Stati Uniti e Medio Oriente.
E ciò è tanto più ovvio se pensiamo all’Iran, non solo perché molti
americani sono stati coinvolti illegalmente in qualità di sostenitori
dei contras del Nicaragua, ma anche a causa dello stretto legame di
Israele con gli Stati Uniti sia durante il regime dello shah sia dopo.
SAVAK fu messo su col diretto aiuto di Mossad e, come in molti altri
casi, la CIA e I’f b i hanno cooperato volentieri con i servizi segreti
di Israele.14 Una sfilza di articoli rivelatori pubblicati sulla stampa
israeliana nel 1979 e nei primi mesi del 1980 fu messa in campo da
Uri Lubrani e altri giornalisti impegnati nel mantenimento della
cooperazione tra Israele e Iran prima della rivoluzione (vedi «Da-
var» del 20 marzo 1980 e «Haaretz» del io gennaio 1979); neppure
uno di questi articoli apparve sulla stampa americana, probabil­
mente perché sarebbe apparso quantomeno imbarazzante di fron­
te all’immagine di un Israele democratico e amante della libertà. La
connivenza di Israele con l’“Iran-Contras Affair”15fu minimizzata,
e non di poco. Proprio nel momento in cui l’intero establishment
statunitense alzava il tiro contro qualsiasi proposta di estradizione
dell’ex shah in Iran, un giovane palestinese, Ziad Abu Ain, stava
subendo la prolungata agonia di un processo di estradizione (in
aggiunta a un diniego del rilascio per cauzione e a un’ordinanza
habeas corpus), con l’attiva collaborazione del Dipartimento di Sta­
to, solo e soltanto perché il governo di Israele aveva avanzato - per
13. [Si tratta di una legge sulla libertà dell’informazione, emanata nel 1966 negli
Stati Uniti: prevede una serie di regole per la conoscenza delle attività governative,
NdT.]
14. Cfr. Richard Deacon, The Israeli Secret Service, New York, Tapplinger Publish­
ing Co., 1978, pp. 176-177.
15. [Altrimenti noto come “Irangate” , si tratta dello scandalo che vide coinvolti,
tra il 1985 e il 1986, alcuni funzionari dell’amministrazione Reagan, rei di aver avviato
un traffico d’armi illecito con l’Iran, il cui ricavato era indirizzato al finanziamento dei
guerriglieri contras, che si opponevano ai sandinisti in Nicaragua, NdT.]
122 LA STORIA D ELL’IRAN

mezzo di una confessione da parte di terzi tratta e poi abiurata


da un altro palestinese in un carcere isreliano, peraltro in ebraico,
una lingua a lui ignota - l’accusa che si trattasse di un terrorista,
responsabile di un attentato di due anni prima. Di tutto questo, se
eccettuiamo un articolo rilevante uscito a firma della giornalista del
«New Statesman» Claudia Wright su «Inquiry» del 7 e 21 gennaio
1980, poco o nulla fu riportato dalla stampa.
Inoltre, la diffusa preoccupazione per la stabilità di luoghi come
l’Arabia Saudita e il Kuwait non ha prodotto una copertura gior­
nalistica all’altezza della situazione, eccezion fatta per le critiche
accese e forzate mosse alla vulnerabilità dell’Arabia Saudita che ho
descritto nel primo capitolo. Dei maggiori canali di informazione,
solo la CBS, con Ed Bradley, notò, il 24 novembre 1979, che tutte le
notizie sulla presa della moschea a La Mecca venivano dal governo;
nessun’altra notizia era consentita, nonostante Helena Cobban del
«Christian Science Monitor» scrivesse da Beirut, il 30 novembre,
che la presa della moschea aveva un significato chiaramente politi­
co-; e che, lungi dall’essere semplicemente opera di fanatici islamici,
l’attacco era stato sferrato da una fazione politica con un program­
ma parimenti laico e ispirato all’Islam, il cui obiettivo risiedeva
nell’abbattimento del potere monopolistico ed economico della
famiglia reale Saudi. Nel corso degli anni, questa rete si è consi­
derevolmente espansa, come testimoniano gli attentati di Riyadh e
Khoban sul finire del 1995 e nell’estate del 1996. Qualche settimana
dopo la rivelazione della Cobban, un arabo saudita residente in
Beirut sparì misteriosamente; si crede che i servizi segreti sauditi
ne siano i responsabili.
Se consideriamo la copertura giornalistica dell’invasione
dell’Afghanistan, siamo indotti ad avere un’idea ancor più dram­
matica della spaccatura profonda che separa i buoni musulmani
dai cattivi. Aumentano le notizie che acclamano i successi di mu­
sulmani buoni come Hosni Mubarak, Benazir Bhutto e come le
forze dell’ordine anti-Hamas guidate da Yasser Arafat; aumentano
le facili equazioni che legano il buon Islam alla “moderazione” (se
possibile, accompagnata da libertà e democrazia), pressoché sino­
nimo di economia di “libero” mercato e non certo di ampliamento
EDWARD W. SAID 123

dei diritti umani in paesi come l’Arabia Saudita, il Kuwait, l’Egitto


e la Giordania. Poca gente, del resto, realizza un’associazione tra
la resistenza dell’Afghanistan all’occupazione sovietica e la resi­
stenza palestinese all’occupazione israeliana, come ha sottolineato
re Hussein dalla Giordania in un articolo apparso sul «Meet the
Press» del 22 giugno 1980. Nel caso dell’Arabia Saudita, i pericoli
di un investimento massiccio da parte degli Stati Uniti hanno scos­
so - non a caso - l’attenzione dei sostenitori americani di Israele,
i quali non vorrebbero che gli interessi statunitensi si spostasse­
ro da Israele verso i paesi arabi. Un esempio in merito è offerto
dall’articolo di Peter Lubin intitolato What We Don’t Know About
Saudi Arabia e uscito il 22 dicembre 1979 su «New Republic», in
cui troviamo materiale utile a dismettere molto di ciò che è scritto
e insegnato - con evidente ignoranza - nelle università americane
sugli stati del Golfo detentori di petrolio. E tuttavia, Lubin non è
in grado di estendere le sue critiche a ciò che viene scritto su Isra­
ele o alla sottile propaganda pro-israeliana che serpeggia in varie
università nei programmi di studio sul Medio Oriente. Allo stesso
modo, insistendo giustamente sul fatto che i giornalisti dovrebbero
essere più esigenti e doviziosi nel riportare le notizie sui loro ricchi
alleati detentori di petrolio, Lubin non dice, come dovrebbe, che
allo stesso modo esiste una notoria assenza di rigore e di chiarezza
nella copertura giornalistica che riguarda Israele.

IV. Un altro paese

Tutto quel che ho detto a proposito della rappresentazione me-


diatica dellTslam e dell’Iran nel corso dei primi e intensi mesi della
presa dell’ambasciata si riduce, infine, a pochi punti d’interesse. Il
modo più utile di illustrarli è di raffrontare in maniera onnicom­
prensiva la versione americana della vicenda iraniana e quella euro­
pea, rappresentata dalla collezione di articoli giornalieri pubblicati
da Eric Rouleau su «Le Monde», che coprono un arco di tempo
che va dalla prima settimana della crisi fino alla fine di dicembre; in
seguito, dopo che a molti reporter americani fu chiesto di lasciare
l’Iran a gennaio, il «Times» pubblicò gli articoli di Rouleau per
124 LA STORIA D ELL’IRAN

qualche giorno. È certamente decisivo tener presente che Roule­


au non è un americano, che nessun ostaggio francese si trovava
nell’ambasciata, che l’Iran non è mai stato nella sfera d’influenza
francese e che, a prescindere dalla produzione giornalistica dello
stesso Rouleau, i media francesi non sono necessariamente migliori
di quelli americani nella copertura della politica estera. È inoltre
rilevante ribadire che l’enorme quota di media utilizzati amplifica
le difficoltà di valutazione di una serie estremamente varia di noti­
zie. Gli editoriali del «Los Angeles Times» e del «Boston Globe»,
articoli di fantasia sulle alternative politiche da perseguire o tenta­
tivi di prendere sul serio la realtà dell’Iran (per esempio, Richard
Falk sull’«Atlanta Constitution» del 9 dicembre e Roger Fisher su
«Newsweek» del 14 gennaio), ottimi articoli sul contesto in cui av­
venne l’ascesa al potere dello shah, analisi politiche di rilievo a in­
termittenza e narrazioni ben congegnate (Doyle McManus sul «Los
Angeles Times», Kifner sul «New York Times»): ecco solo alcuni
degli esempi più o meno disponibili a ogni lettore durante le prime
settimane della presa degli ostaggi, che certo dovevano apparire
su una linea diversa rispetto a quella patriottica percorsa per mol­
to tempo. Si potrebbero inoltre menzionare due influenti articoli
sul nuovo “gingoismo” degli americani, fatto di improperi come
“Iran Sucks” e “Nuke Iran”, che apparvero sulla rivista «Inquiry»
(24 dicembre e 7-21 gennaio) o il tempestivo report contenuto nel
pezzo di Fred J. Cook in «The Nation» del 22 dicembre su come
un’inchiesta congressuale sulle tangenti iraniane, iniziata nel 1965,
fu misteriosamente affossata e poi ripresa in considerazione, con
una certa urgenza, nell’immediata attualità. Si trattò di qualcosa di
profetico, se teniamo presente le negoziazioni con l’Iran condotte
da Robert McFarlane e Oliver North nel 1986 - negoziazioni che
prevedevano uno scambio illegale di armi americane per il rilascio
degli ostaggi tenuti in custodia dagli alleati iraniani in Libano.
Ma, nel complesso, la televisione, la stampa quotidiana e le ri­
viste settimanali hanno parlato dell’Iran in modo del tutto alieno
rispetto a quanto riportato dalla serie di articoli di Rouleau pub­
blicata da «Le Monde», che si era distinta per arguzia e capacità
di comprensione degli eventi. Se posso dirla tutta, l’Iran descritto
EDWARD W. SAID 125

da Rouleau sembrava un altro paese rispetto a quello dipinto dai


media americani. Rouleau non aveva mai perso di vista il fatto che
l’Iran si trovava ancora nel pieno di una transizione rivoluziona­
ria e che, essendo senza un governo, era nelle condizioni di cre­
are un assetto istituzionale e politico del tutto diverso rispetto al
passato. Per questo motivo, la presa dell’ambasciata statunitense
doveva essere interpretata all’interno di questo processo confuso
e complicato, e non certo letta come fatto isolato. Rouleau non ha
mai utilizzato l’Islam per spiegare gli eventi o per dire la sua sulle
personalità coinvolte; egli sembra aver articolato il proprio report
intrecciando analisi politiche, sociologiche e storiche - tutte colte
nella loro completezza - senza ricorrere a generalizzazioni ideo­
logiche o una retorica mistificante, anche se, come infine accade,
le cose prendono sempre un’altra piega, spesso aliena alla com­
prensione. Nessuno dei reporter statunitensi ha speso il proprio
tempo a riassumere il dibattito svoltosi in Iran sul referendum
costituzionale; esistono pochissime analisi sulle varie fazioni po­
litiche, scarsissimi sono i riferimenti alle pur importanti battaglie
ideologiche che vedono confrontarsi Beheshti, Bazergan, Banisa-
dr e Ghotbzadeh, inesistenti i tentativi di riportare al pubblico le
diverse strategie di lotta perseguite in Iran, così pure inefficaci e
per nulla dettagliate (almeno fino alla metà del 1980) le notizie sul­
le varie personalità politiche, sulle idee di fondo o sulle istituzioni
coinvolte nell’arena per la conquista del potere e del consenso;
per quasi dieci anni dopo la rivoluzione e la vicenda degli ostaggi
in ambasciata, nessun giornalista americano ha messo in evidenza
che la vita politica iraniana, fuori dalla questione se gli ostaggi
venissero o meno rilasciati e al di là del fatto se qualcuno fos­
se pro- o anti-americano, possiede un interesse intrinseco tale da
giustificare uno studio approfondito. Persino eventi di una certa
importanza come la visita in ambasciata di Banisadr agli studenti,
datata 5 dicembre 1979, furono ignorati, così come nessuno ha fat­
to riferimento all’importante ruolo giocato nella vicenda da Ha-
jitolislam Khoeiny, che peraltro è stato candidato alla presidenza
dell’Iran. Molti di questi aspetti sono stati sottolineati, al contra­
rio, da Rouleau.
126 LA STORIA D ELL’IRAN

Quest’ultimo aveva compreso in anticipo su molti che le varie


personalità politiche e le ideologie attive durante la crisi potessero
giocare un ruolo di peso. I suoi giudizi non sono stati impetuosi,
non nascevano da preconcetti, non arrivavano a conclusioni inco­
raggiate dalla verità ufficiale, e soprattutto le storie raccontate na­
scevano da un’inchiesta seria. La visita del parlamentare Hansen
assume connotati più rilevanti se rileggiamo il quadro attraverso la
versione di Rouleau: in un articolo del 24 novembre 1979, l’autore
rileva che il successo di Hansen con gli iraniani fu deliberatamen­
te ridimensionato dalla Casa Bianca (e dai media americani), così
come una possibile inchiesta sui rapporti finanziari tra Stati Uniti e
Iran (voluta dagli iraniani, anche nei termini di uno scambio equo
con gli ostaggi) fu messa al bando dalla presidenza statunitense. La
battaglia, messa in scena sul finire del 1979, tra Banisadr e Ghotbza-
deh - il primo un determinato socialista anti-imperialista, il secondo
un conservatore in politica e in economia - fu descritta da Rouleau
con dovizia di dettagli, come del resto avvenne in merito alle posi­
zioni apparentemente contraddittorie incarnate dai due rappresen­
tanti politici sulla presa dell’ambasciata tra novembre e dicembre
(Banisadr per calmare le acque, Ghotbzadeh per agitarle).
Si può ipotizzare - per quanto nessun giornalista statunitense
ne abbia parlato - che gli Stati Uniti preferissero avviare un dialogo
con Ghotbzadeh e incoraggiassero la rimozione di Banisadr dal
ministero degli Esteri (dimostrando di non prenderlo sul serio, di
disprezzare i suoi punti di vista, definendolo un “eccentrico”). È
chiaro allo stesso modo che le future posizioni politiche degli Stati
Uniti sull’Iran (e la preferenza accordata alla sfera conservatrice
e non a quella socialista) - considerato l’esito delle elezioni presi­
denziali, a favore di Banisadr - sono di assoluto rilievo, così come
rappresentano la vera ragione della caduta di Bazergan: non certo
perché quest’ultimo fosse un democratico liberale come i media
statunitensi lo hanno dipinto, o perché avesse stretto la mano a
Brzezinski in Algeria, ma per il fatto che si rivelò del tutto incapace
di svolgere il suo compito di governatore nella politica “islamica”.
In uno dei suoi articoli più importanti (proposto in una versione
ridotta sul «Manchester Guardian» del 2 dicembre 1979), Rouleau
EDWARD W. SAID 1 27

dimostra in che modo gli Stati Uniti avessero condotto e sostenuto


la guerra economica contro l’Iran molto prima della presa dell’am­
basciata a novembre: e un particolare sinistro di questa vicenda sta
nel fatto che la Chase Bank di Manhattan continuasse a giocare un
ruolo di primo piano.
Le capacità giornalistiche e analitiche di Rouleau possono es­
sere spiegate in parte dalla sua arguzia, in parte dalla sua lunga
esperienza nel Medio Oriente e in parte perché, come i suoi omo­
loghi americani, il suo lavoro è stato condotto con la mente sempre
rivolta alla politica elettorale del suo paese. «Le Monde», dopo
tutto, non è solo un quotidiano francese; è il giornale francese di
stato, e i punti di vista in esso espressi riflettono gli specifici in­
teressi politici dei francesi. E quest’ultimo aspetto che spiega la
differenza tra l’Iran rappresentato da Rouleau e quello, poniamo,
del «New York Times». La visione francese delle cose è consape­
volmente alternativa, non ha nulla a che vedere con quella di una
superpotenza o con quella dell’Europa intera. Inoltre, la familiarità
della Francia (e, per estensione, di «Le Monde») con l’Oriente è
di vecchia data: un atteggiamento zelante e, per così dire, post­
coloniale nei confronti del passato coloniale e dell’esperienza dei
protettorati; minori preoccupazioni verso il potere fine a sé stesso e
più interesse per aspetti strategici e tattici; un’attenzione maggiore
nei confronti di un piano ragionato di interessi piuttosto che verso
investimenti sbilanciati su regimi isolati; un’attenzione selettiva e
previdente, ma in un certo senso anche opportunista, nella scelta di
chi sostenere e chi criticare. «Le Monde», del resto, è proprietà di
un soggetto collettivo: è il giornale della borghesia francese e, per
quanto interessato al mondo non-Europeo, esprime una politica
che può essere variamente definita come missionaria, pastorale, pa­
ternalistica, “un socialismo dal volto umano”, che si abbevera alla
fonde dellTlluminismo settecentesco e al cattolicesimo riformista
(Louis Wiznitzer sul «Christian Science Monitor» del 13 maggio
1980; Jane Kramer sul «New Yorker» del 30 giugno 1980).16Sia quel16
16. P e r una visione d ifferente di « L e M o n d e », vedi, A im é G u ed j e Ja c q u e s G irau lt,
«Le Monde»: humanisme, objectivité et politique, P aris, E d itio n s Sociales, 1970), e P h i­
lip p e Sim on not, “Le Mond” et le pouvoir, P aris, L e s P resses d ’au jo u rd ’hui, 1977.
128 LA STORIA D ELL’IRAN

che sia, a contare è il modo in cui «Le Monde» cerca, senza dubbio
con coscienza, di restituire una rappresentazione del mondo. Men­
tre il «New York Times» sembra essere guidato dalla novità delle
notizie, «Le Monde» cerca di registrare una pluralità di fenomeni.
L’opinione e il fatto non sono così rigorosamente separati come
sembrano (specie a livello di forma) esserlo nel «Times»: l’esito,
quando si tratta di storie o questioni di complessità inusuale, è una
maggiore flessibilità sia in termini di lunghezza che di dettaglio,
di complessità della notizia. «Le Monde» suggerisce un’idea di
mondanità,17 il «Times» un’austera selettività. Si consideri ora l’ar­
ticolo di Rouleau pubblicato il 2 e 3 dicembre 1979.
Rouleau inizia col ricordare che per i precedenti tre mesi si è
accordata una straordinaria attenzione alla discussione sull’Assem­
blea costituzionale; si sono tenuti centinaia di incontri pubblici,
molti di loro ripresi in televisione; la stampa e i giornali di parte
hanno analizzato la discussione e molti di loro si sono adoperati a
denunciare gli elementi “antidemocratici” presenti nel testo pro­
posto. (In ogni caso, molto poco di tutto ciò fu riportato dai media
americani.) In seguito, Rouleau fa un commento sulla frattura pa­
radossale tra Khomeini e la maggior parte della classe politica del
Paese, procedendo poi con abbondanza di dettagli a mostrare in
che modo il leader riuscisse, nonostante tutto, a imporre le proprie
volontà politiche mirando ad anticipare gli eventi, piuttosto che a
produrre ritardi strutturali. Senz’altro per questo motivo, Rouleau
si sente in dovere di analizzare il dibattito costituzionale (le cate­
gorie politiche, le fazioni e lo stile comunicativo) e le forze coin­
volte, chiarendo i termini della scissione tra potere e costituzione.
Nel finale dell’articolo, i sostenitori “islamici” di Khomeini sono
rappresentati come un gruppo eterogeneo, coeso ma nello stesso
tempo dispersosi durante le politiche interne, anche in virtù della ri­
marchevole consapevolezza di Khomeini dello stato in cui si svolge
una “rivoluzione permanente”, che solo lui, in qualità di “legalitario
fastidioso” per natura, è stato in grado, senza grandi paradossi, di
17. [Il termine “mondanità” ha, in Said, un’ascendenza vichiana: sta a indicare il
carattere umano, secolare, laico dell’esperienza umana, colta in tutta la sua moltepli­
cità materiale, NdT.]
EDWARD W. SAID 129

mettere in atto. Dopo aver elencato i partiti di destra e sinistra, con


gli annessi programmi di governo, Rouleau evidenzia una serie di
incongruenze nella costituzione proposta: le donne non vengono
considerate meri oggetti di godimento e di profitto economico, sep­
pure i loro diritti non vengano riconosciuti chiaramente; i sindacati
sono denunciati al pari di invenzioni marxiste, eppure ai comitati
dei lavoratori spetta un ruolo importante nella vita economica; tutti
i cittadini hanno eguali diritti, ma lo sciismo è la religione di stato; e
così via. Tutto questo conduce ai seguenti paragrafi:

È indispensabile per l’imam Khomeini adottare senza gros­


si ritardi una costituzione così discutibile. Molta gente gli ha
intimato di posporre il referendum fino a quando non fosse
cessata la prova di forza contro gli Stati Uniti. Un paese in
rivolta, fu detto, dovrebbe accontentarsi di un regime transito­
rio di lungo periodo. Ma l’imam non ha tenuto conto di questo
avvertimento, attirandosi non poche obiezioni.
Per paradosso, a coloro i quali non lo conoscono bene, il
patriarca di Qom sovente appare come un fastidioso legalita­
rio. Egli insiste sul fatto di restare al potere per motivi giuridi­
ci. L’immensa popolarità acquisita nelle ultime settimane gli ha
offerto una soddisfazione enorme. E tale popolarità, nell’im­
mediato presente, incorrerà in trasformazioni dipendenti più
dal bilanciamento delle forze politiche che sono emerse dalla
“seconda rivoluzione” in atto che dal testo della costituzione.

Qui Rouleau non fa nessuno sforzo nel giudicare le questioni


in campo con franchezza (basta fare un confronto con l’analisi su­
perficiale di Don Scanche uscita sul «Los Angeles Times», di cui
ho parlato prima); si perita di dimostrare, al contrario, le fratture
tra apparenza e potere, tra testo e lettori, tra singoli politici e fa­
zioni, collocando tutto ciò molto correttamente in un contenitore
caratterizzato da turbolenze e fluttuazioni. Quel che Rouleau cerca
di comunicare è non solo qualche senso del processo in atto, ma
anche il contesto entro cui questo processo va svolgendosi. Al mas­
simo, egli propone commenti sempre molto cauti. Non si lancia
mai in paragoni patriottici e nemmeno in giudizi di valore gratuiti.
130 LA STORIA D ELL’IRAN

Dopo aver lasciato «Le Monde», Rouleau fu nominato da


François Mitterand ambasciatore francese in Tunisia, presso la lega
araba e I’ o l p , e in seguito, dal 1989 al 1991, ricoprì lo stesso incarico
in Turchia. Dopodiché tornò alla sua vita privata e continuò a scri­
vere come freelance sul Medio Oriente. Come ideale proseguimen­
to delle sue analisi giornalistiche, Rouleau visitò l’Iran nei primi
mesi del 1995: ne venne fuori un’analisi magistrale sulle complesse
trasformazioni sociali della società iraniana a partire dalla morte di
Khomeini («Le Monde diplomatique», maggio 1995). Fra le tante
altre questioni dimenticate dalla stampa americana c’è quella, da
Rouleau presa in considerazione, dell’effetto sortito dall’informa­
tica e da Internet sulla trasmissione, interpretazione e accessibilità
dei testi religiosi a Qom. Il giornalista francese ha inoltre rappre­
sentato quella che lui chiama la Seconda repubblica islamica nei
termini di una serie davvero impressionante di mutazioni sociali
e politiche, dovute ai dibattiti e agli scontri interni: esiste adesso
una sessantina di organizzazioni femministe che manifestano per i
diritti delle donne, un numero cospicuo di predicatori, video-arti­
sti, studiosi, clerici anticonformisti - nel complesso, viene offerta
l’impressione di uno stato islamico più aperto, maggiormente de­
mocratico rispetto a quello degli stati arabi limitrofi, risolutamente
attento a mettere in discussione tutti quegli stereotipi sul mondo
arabo promossi dagli Stati Uniti.
Per concludere, le inchieste di Rouleau sull’Iran scritte per «Le
Monde» furono “politiche” nel senso migliore del termine. Per
molti mesi quelle dei media americani non lo furono affatto; o lo
furono nel significato deteriore della parola. Tutto ciò che appariva
sconosciuto o strano ai giornalisti americani (e occidentali) veniva
bollato come “islamico” e trattato con un’ostilità e derisione in­
commensurabili. L’idea che l’Iran potesse essere una società sot­
toposta a cambiamenti straordinari ebbe un impatto davvero lieve
sulla stampa occidentale; di certo, la storia iraniana non fu rappre­
sentata con l’integrità necessaria, soprattutto nel primo anno della
rivoluzione. Cliché, caricature, ignoranza, etnocentrismo inqualifi­
cabile, imprecisione nelle descrizioni: caratteri evidenti e ordinari
della stampa americana, a cui si associava una totale subordina­
EDWARD W. SAID 131

zione alle tesi governative, le quali insistevano solo sul motivo del
“non cedere al ricatto” o sulla liberazione o meno degli ostaggi. Le
conclusioni erano avventate; una situazione politica in corso veniva
irrigidita, col risultato che le specifiche continuità e discontinuità
della rivoluzione iraniana non emergevano mai. Inoltre, si paventa­
va l’assunto in virtù del quale se gli Stati Uniti avessero perdonato
lo shah precedente e l’avessero dichiarato come un caso di bene-
ficienza, non sarebbe stata importante la reazione degli iraniani (o
della storia iraniana nel suo complesso). In questo contesto, I. F.
Stone ebbe il coraggio di sostenere la necessità, per gli Stati Uniti,
di scusarsi con l’Iran perché «la restaurazione dello shah da noi
promossa nel 1953 [...] non è storia antica per gli iraniani, e non
può esserlo neppure per noi» («Village Voice», 25 febbraio 1980).
Durante tutto il 1979, i media si produssero in un antagonismo
così feroce nei confronti dell’Iran e dell’Islam che si può sospet­
tare che, proprio in ragione di ciò, fu perso un certo numero di
opportunità per risolvere la crisi in ambasciata; e per gli stessi mo­
tivi, il governo iraniano suggerì, nel 1980, che solo pochi reporter
avrebbero potuto calmare le tensioni e proporre una risoluzione
pacifica. Quel che va evidenziato seriamente in merito al fallimento
dei media - ed è quel che non bisogna augurare al nostro futuro - è
che, per quanto si occupassero di questioni internazionali di una
certa gravità, non siano stati in grado di assicurarsi una propria
indipendenza e una propria verità di metodo. Sono sembrati così
poco consapevoli del fatto che la nuova era iniziata tra gli anni Ot­
tanta e Novanta non potesse essere rappresentata attraverso sterili
dicotomie - “noi” contro “loro”, gli Stati Uniti contro l’Unione
Sovietica, Occidente contro Islam, i media sempre schierati con il
polo “buono” - non meno di quanto potessero credere che una tra
le due superpotenze avrebbe distrutto il mondo.
E ancora, la chiarezza ci impone di considerare i cambiamenti
intervenuti nella stampa con l’inasprimento della presa dell’am­
basciata. Ci furono non poche inchieste sul ruolo degli Stati Uniti
in Iran: la CBS, per esempio, dedicò gran parte di due puntate del
programma «Sixty Minutes» alle torture effettuate dal regime del­
lo shah e ai complotti di Henry Kissinger a favore di quest’ultimo.
132 LA STORIA D ELL’IRAN

Il «New York Times» e il «Washington Post» riportarono rispet­


tosamente (l’uno il 7 marzo, l’altro il 6 dello stesse mese) lo sforzo
del governo di reprimere la versione diramata dalla CBS e, com’era
da aspettarsi, la maggior parte dei quotidiani si mostrò scettica sul­
le storia delle operazioni di salvataggio dell’aprile precedentemen­
te. In modo forse più pervicace, si aprì la possibilità di una visio­
ne differente sugli eventi iraniani. Crebbe il punto di vista critico
nei confronti della posizione ostruzionista del governo, così pure
nei cittadini prese piede la sensazione - espressa principalmente
nelle lettere al direttore - che non tutto fosse stato detto della
storia in Iran. A ogni modo, l’ostilità verso il mondo arabo persi­
stette, condotta (come prevedibile) da giornali conservatori come
«New Republic»: «l’Occidente s’inchina» asseriva Elie Kedourie
nell’articolo del 7 giugno 1980; il potere «occidentale» doveva di­
venire «visibile e rispettato», scriveva, altrimenti nuovi disordini
mondiali avrebbero preso il sopravvento. A periodi, il consenso
rigido verso una visione parziale delle cose si faceva vivo in modi
avvilenti. Quando Ramsey Clark fu intervistato dall’«Issues and
Answers» dell’ABC (8 giugno 1980) dopo il suo ritorno dalla con­
ferenza sui “Crimini deH’America” a Teheran, i suoi intervistatori
non si lanciarono in una sola domanda genuinamente esplorativa;
qualunque cosa domandarono, fu francamente ostile e rifletteva il
compiacimento illimitato nei confronti delle posizioni dell’ammi­
nistrazione, di cui Clark aveva dato una versione sovversiva.18
Occasionalmente, per esempio nell’intelligente serie in quattro
puntate di John Kifner sulla rivoluzione iraniana («New York Ti­
mes», 29, 30 e 31 maggio, i° giugno 1980) e nel saggio di Shaul Bha-
kash sul medesimo argomento scritto per la «New York Review of
Books» (26 giugno 1980), si potevano incontrare sforzi di un certo
rilievo per comprendere contemporaneamente il processo rivoluzio­
nario e quelle energie ancora non rilevabili in termini strettamente
empirici. Ritengo allo stesso modo che ci fossero scarse possibilità
che questi articoli non facessero riferimento al rilascio o meno degli
ostaggi. La presa dell’ambasciata - immorale, illegale, oltraggiosa,
18. Vedi la proposta di Clark per la risoluzione della crisi iraniano-americana: Th
Iranian Solution, in «The Nation», 21 giugno 1980, pp. 737-740.
EDWARD W. SAID 133

politicamente utile nei tempi brevi ma dannosa per l’Iran a lungo


andare - aveva letteralmente prodotto una crisi di coscienza negli
Stati Uniti. Dall’essere una colonia quasi dimenticata, l’Iran è di­
ventata un’occasione di autoanalisi per una parte dell’America. Il
persistere della vera storia dell’Iran, la sua durata persino ansiosa,
aveva gradualmente modificato la determinazione dei media e po­
sto l’attenzione su qualcosa di più critico e utile. In breve, la presa
dell’ambasciata produsse il senso di un processo laddove regnava
un’idea di staticità; col tempo, questo processo acquisì una storia,
attraverso cui i media - in particolare, quelli americani - rifletteva­
no loro stessi come mai avevano fatto sino ad allora. Se questa fu
l’intenzione dei militanti, o se questo ha ritardato o incoraggiato il
ritorno di condizioni politiche normali in Iran, è ancora presto per
dirlo. Certamente, adesso una quota maggiore di americani com­
prende cosa significa una lotta per il potere (chi non ha sentito sulla
pelle il conflitto tra Banisadr e Beheshti, con l’ombra di Khomeini
dietro di loro?); e certamente, più americani di prima capiscono
quanto sia futile l’idea di poter imporre il “nostro” ordine sugli altri
o sulla guerra tra Iraq e Iran. Molte domande restano inevase - le
circostanze in cui Beheshti è andato al potere, le modalità in cui
sinistra e destra si sono fronteggiate, lo stato dell’economia iraniana
- e tante possibilità restano nel novero.'9
A restare inesplorato - ed è ciò che dobbiamo adesso provare
a lambire - è la questione della crisi. Perché l’Iran e l’Islam rap­
presentano un problema? E quale modalità conoscitiva, o di rap­
presentazione, richiedono queste domande? Non si tratta di que­
stioni astratte. Bensì di una questione fondamentale per la politica
contemporanea e per le attività interpretative degli studiosi - una
questione che riguarda la conoscenza delle culture altre. Ma senza
uno sguardo demistificante sulle relazioni tra potere e conoscenza,
ci sfuggirebbe il nocciolo duro delle questioni, che è invece il vero
oggetto della nostra inchiesta da questo momento in poi.

19. Il “Middle East Research and Information Project” (merip) ha tentato, quasi
da solo, di analizzare le questioni elencate: vedi « merip Reports», n. 88, giugno 1980,
Iran’s Revolution: The First Year, pp. 3-31, o lo studio sull’Afghanistan nel n. 89, luglio-
agosto 1980, pp. 3-26.
CAPITOLO TERZO
SAPERE E POTERE

l. Politiche di interpretazione dell’Islam: ortodossia e sapere anti­


tetico

Date le attuali circostanze, in cui né l’“Islam” né D'Occidente”


sono in pace uno con l’altro, potrebbe sembrare del tutto inuti­
le domandarsi se per i membri di una data cultura la conoscenza
deH’alterità sia realmente possibile. «Insegui la conoscenza, anche
se è lontana quanto la Cina» recita una ben nota massima islamica
- e perlomeno dall’epoca dei Greci è stata egemone in Occidente
l’idea che, per quanto possibile, si debba perseguire la conoscen­
za dell’uomo e della natura. Ma il risultato di questa ricerca, per
quel che concerne i pensatori occidentali, è stato di norma consi­
derato imperfetto. Persino Bacone, il cui II progresso del sapere si
ritiene abbia inaugurato il pensiero occidentale moderno nelle sue
più entusiastiche e auto-incoraggianti modalità, esprime in realtà
ogni sorta di dubbio sul fatto che i diversi impedimenti alla co­
noscenza (gli idola) possano mai essere eliminati. Vico, rispettoso
discepolo di Bacone, affermava esplicitamente che la conoscenza
umana riguarda solo le opere che gli esseri umani hanno realizzato;
la realtà esterna, inoltre, è non più che « modificazione della mente
umana».1La ricerca di una conoscenza oggettiva di ciò che è alieno
I. Giambattista Vico, Princìpi di scienza nuova d’intorno alla comune natura del­
le nazioni [1744], in idem, Opere, a cura di Andrea Battistini, Milano, Mondadori,
1990,
136 SAPERE E PO TERE

e distante, almeno dopo Nietzsche, diventa una prospettiva sempre


più evanescente.
Contro questa tendenza scettica e pessimistica, gli specialisti
dell’Islam in Occidente (e, sebbene io non desideri disquisire né di
loro, né degli studiosi dell’Occidente all’interno del mondo islami­
co) tendono generalmente a essere ottimisti e fiduciosi in un modo
però inquietante. I primi orientalisti moderni in Europa sembrava­
no praticamente certi del fatto che lo studio dell’Oriente, del quale
il mondo islamico faceva parte, fosse la via maestra della conoscen­
za universale. Uno di loro, il Barone d’Eckstein, scrisse negli anni
Venti dell’Ottocento che

Nello stesso modo in cui Cuvier e Humboldt scoprirono i


misteri dell’organizzazione della natura nelle viscere della ter­
ra, così anche Abel Rémusat, Saint-Martin, Silvestre de Sacy,
Bopp, Grimm e A. W. Schlegel inseguirono e scoprirono nel
mondo del linguaggio l’intera struttura interna e le basi primi­
tive del pensiero umano.1

Pochi anni dopo, Ernest Renan, nelle pagine prefatorie alla sua
dissertazione su Maometto e le origini dell’islamismo, promosse
una serie di osservazioni sulla possibilità di aprire la strada a quella
che definiva «la scienza critica». Geologi, storici e linguisti, diceva
Renan, possono giungere ai «primitivi» - nel senso di essenziali e
originari - oggetti naturali sulla base di un esame paziente e minu­
zioso delle loro sopravvivenze; l’Islam rappresenta un fenomeno
particolarmente rilevante dal momento che la sua nascita è relati­
vamente recente e la sua natura non è dunque originale. Di conse­
guenza, concludeva, studiare l’Islam è studiare qualcosa su cui si
può acquisire sia una conoscenza certa che scientifica.3
Forse, proprio grazie a questa felice disposizione mentale, la
storia dell’orientalismo islamico è relativamente libera da correnti
scettiche e, quasi fino ai giorni nostri, è stata completamente im­
mune dall’autocoscienza metodologica. La maggior parte degli
2. Cit. in Raymond Schwab, La Reinassance orientale, Paris, Payot, 1950, p. 327.
3. Ernest Renan, Mahomet et les origines de L islamisme, in Idem, Etudes d’histoire
religieuse, Paris, Calmann-Lévy, 1880, p. 220.
EDWARD W. SAID 137
studiosi occidentali dell’Islam non ha mai dubitato del fatto che,
nonostante le limitazioni loro poste in termini di tempo e spazio,
fosse conseguibile una conoscenza oggettiva e vera dell’Islam, o
almeno di alcuni aspetti della vita islamica.
D ’altro canto, ben pochi studiosi moderni si spingerebbero a
essere così esplicitamente arroganti quanto Renan nella loro visio­
ne di ciò che è l’Islam: nessuno studioso professionista, per esem­
pio, direbbe candidamente come Renan che l’Islam è conoscibile
nella misura in cui rappresenta un esempio capitale di arresto dello
sviluppo umano. E tuttavia, fino a oggi, non mi è riuscito di trovare
alcun esempio di studioso contemporaneo dell’Islam in grado di
guardare con sospetto a una simile affermazione. In parte, riten­
go, la tradizionale gilda degli studi islamici, che è stata tramandata
genealogicamente per quasi due secoli, ha protetto e rassicurato
i singoli studiosi, senza dar peso alle insidie metodologiche e alle
innovazioni del campo umanistico.
Un esempio rappresentativo di quello che intendo è il recente
saggio The State of Middle Eastern Studies, pubblicato nell’estate
del 1979 all’interno del volume deH’«American Scholar» da un ben
noto islamista britannico, ora residente e attivo negli Stati Uniti.
Nel suo insieme, il saggio è il prodotto di una riflessione che si
attarda pigramente su questioni di routine e prive di interesse. Tut­
tavia, ciò che colpisce i lettori non specialisti, a prescindere dalla
sorprendente indifferenza di questo autore verso temi estesamente
intellettuali, è l’ipotetico pedigree culturale defl’orientalismo. Me­
rita una citazione per esteso.Il

Il Rinascimento diede inizio a una fase totalmente nuova


nello sviluppo degli studi su Islam e Vicino Oriente nel mon­
do occidentale. Forse il fattore più importante e innovativo fu
un tipo di curiosità intellettuale che appare a tutt’oggi unica
nella storia dell’umanità, anche perché fino a quel momento
nessuno sforzo era stato prodotto per studiare e comprende­
re civiltà aliene, e men che meno civiltà ostili. Molte società
hanno cercato di studiare i loro predecessori, con i quali si
sentivano in debito di qualcosa e dai quali sentivano di discen-
138 SAPERE E POTERE

dere. Società sotto la dominazione di una cultura aliena e più


forte sono spesso state obbligate, con la forza o in altri modi,
a imparare la lingua e a cercare di comprendere i costumi dei
dominatori.
In una parola, le società hanno studiato i loro master, in
entrambi i sensi della parola[...].4 Ma la tendenza a studiare
culture aliene e remote, espressasi in Europa (e in seguito nelle
sue figlie d’oltreoceano) dal Rinascimento in poi, rappresenta
qualcosa di nuovo e di totalmente differente. E significativo che
oggi i popoli del Medio Oriente manifestino poco interesse re­
ciproco e ancora meno verso le culture non islamiche dell’Asia
e dell’Africa. Gli unici seri tentativi di studiare le lingue e le
civiltà dell’India e della Cina nelle università del Medio Orien­
te sono stati prodotti in Turchia e in Israele - i due stati nella
regione che hanno scelto consapevolmente di adottare uno sti­
le di vita occidentale.
Ancora oggi, le civiltà non europee hanno enormi difficoltà
nel comprendere una curiosità intellettuale di questo tipo. Quan­
do i primi egittologi europei e gli altri archeologi iniziarono a
scavare in Medio Oriente, molti abitanti del luogo trovarono
impossibile credere che degli stranieri desiderassero spendere
così tanto tempo, sforzi e denaro e affrontare così tanti rischi
e difficoltà solamente per recuperare e decifrare antiche reli­
quie dei loro antenati dimenticati. Scelsero infatti di formulare
spiegazioni più razionali. Per i semplici abitanti dei villaggi, gli
archeologi erano cercatori di tesori sepolti. Per i più sofisticati
abitanti delle città, erano spie o altri agenti governativi. Il fatto
che alcuni archeologi, in verità, rendessero tale servizio ai loro
governi non è legata ai loro probabili errori di metodo, e rivela
la disdicevole incapacità di comprendere un’impresa che ha
aggiunto nuovi capitoli alla storia dell’umanità e nuove pos­
sibili dimensioni di autocoscienza delle nazioni mediorientali.
Questa difficoltà di percezione continua fino a oggi, e colpisce
anche qualche accademico, che imperterrito vede gli orien­
talisti al tempo stesso come cercatori d’oro o agenti segreti
deU’imperialismo.

4. [Gioco di parole intraducibile in italiano, basato sul doppio significato della


parola master, che significa “padrone” e “maestro”, NdT.]
EDWARD W. SAID 139
La gratificazione di questa nuova curiosità intellettuale
fu certo supportata dai viaggi di scoperta che portarono gli
europei verso nuove terre al di là dell’oceano. Questi viaggi
provocarono la rottura di modelli intellettuali, stimolarono e
crearono opportunità per gli studi a venire.5

Utilizzando poco più che asserzioni non dimostrate, questo


scritto contraddice lo spirito degli studi portati avanti da orientali­
sti, da storici dell’Europa dal Rinascimento all’età contemporanea
e da studiosi ed esegeti, da Agostino ai giorni nostri. Anche a voler
lasciar perdere la pura curiosità intellettuale - in virtù della quale
chiunque si sia cimentato nella lettura e nell’interpretazione di un
testo non è riuscito a possederlo completamente - il lettore è qui
chiamato a fidarsi ciecamente della parola dell’autore. Dalla lettura
di storici della cultura e del colonialismo come Donald Lach o J. H.
Parry, si potrebbe concludere che l’interesse europeo per le culture
«altre» sia basato su un genuino incontro con l’alterità, che però
solitamente risulta caratterizzato da ragioni di commercio, conqui­
sta o casualità.6 L’«interesse» deriva dal bisogno, e il bisogno giace
su fenomeni empiricamente stimolati, che agiscono e sussistono
insieme - desiderio, paura, curiosità e via dicendo - e che hanno
sempre avuto un ruolo ovunque e in qualunque momento gli esseri
umani abbiano vissuto.
5. Bernard Lewis, The State o f Middle East Studies, in «American Scholar», voi.
48, n. 3, estate 1979, pp. 366-367, corsivi miei; interessante il paragone tra le asserzioni
tutt'altro che ingenue di Lewis e il libro di Bryan S. Turner, Marx and the End of
Orientalism, London, George Allen & Unwin, 1978.
6. Vedi, per esempio, Donald F. Lach e Carol Flaumenhaft (a cura di), Asia on
the Eve of Europe’s Expansion, Englewood Cliffs, N. J., Prentice-Hall, 1965; Donald
F. Lach, Asia in the Making of Europe, voi. 1: The Century of Discovery, Chicago
and London, University of Chicago Press, 1965 e voi. 2: A Century of Wonder, Chi­
cago and London, University of Chicago Press, 1977; J. H. Parry, Europe and a Wider
World, London, Hutchinson & Co., 1949 e The Age of Reconnaissance, London, We­
idenfeld & Nicolson, 1963. Certamente si può consultare K. M. Panikkar, Storia della
dominazione europea in Asia. Dal Cinquecento ai nostri giorni, Torino, Einaudi, 1972;
per una serie di letture interessanti sulla “scoperta” dell’Occidente da parte degli
asiatici, cfr. Ibrahim Adu-Lughod, Arab Rediscovery of Europe: A Study in Cultural
Encounters, Princeton, N. J., Princeton University Press, 1963, e Masao Miyoshi, As
We Saw Them: The First Japanese Embassy to the United States (i860), Berkeley, Los
Angeles and London, University of California Press, 1979.
140 SAPERE E POTERE

Inoltre, come sarebbe possibile interpretare un’altra cultura se


non si fosse verificata la circostanza per cui la medesima si è mo­
strata disponibile a essere compresa? Tali circostanze, per quanto
riguarda l’interesse europeo per le altre culture, sono sempre sta­
te commerciali, coloniali o di espansione militare, di conquista, e
dunque imperialistiche. Anche quando gli studiosi orientalisti nel­
le università tedesche del diciannovesimo secolo studiavano san­
scrito, codificavano gli hadith, o spiegavano il califfato, mettevano
da parte la finzione della pura curiosità e puntavano più che altro
sull’istituzione universitaria, sulle biblioteche, sulle relazioni con
gli altri studiosi, sulle ricompense sociali che avevano reso possibili
le loro carriere. Solo il Dr. Pangloss o un nuovo membro dell’Ac­
cademia di Lagado ne I viaggi di Gulliver potrebbe attribuire alla
pura «gratificazione della curiosità intellettuale» il desiderio di an­
nettere nuove terre all’impero e di conoscerle. Poco sorprendente,
quindi, che gli arretrati nativi non europei abbiano visto la «cu­
riosità intellettuale» degli studiosi con un certo sospetto: quando
mai, del resto, è accaduto a uno studioso occidentale di trovarsi
in un paese “altro” per ragioni dipendenti dagli interessi politico­
coloniali presenti su quel territorio?7 Questo fatto è indizio della
particolare ignoranza dell’orientalista da cui abbiamo citato, segno
della sua presunzione, che sembra mettere da parte l’acceso di­
battito interno al campo dell’antropologia circa la complicità tra
imperialismo e sapere etnologico; perfino un “mandarino” come
Lévi-Strauss ha espresso dubbi, se non addirittura rincrescimen­
to, nei confronti deH’imperialismo quale elemento costitutivo del
campo etnografico.
Se ci liberassimo delle solenni affermazioni sulla pura curiosità,
si potrebbe concludere che l’intera argomentazione avanzata sugli
studi mediorientali sia in realtà una difesa della loro intrinseca ca­
pacità - in senso sia storico che culturale - di dire null’altro che il
vero sulle società remote e aliene. Più avanti, nel medesimo saggio,
7. Ci sono numerosi esempi di ciò, a partire dalla carriera di William Jones sino
alla spedizione di Napoleone in Egitto, a un’intera serie di studiosi-viaggiatori-agenti
del Diciannovesimo secolo: vedi Edward W. Said, Orientalismo, passim. Vedi pure le
rivelazioni attorno Snouck Hurgronje, alla nota 8 dell’Introduzione alla prima edizione
(supra).
EDWARD W. SAID 141

questo punto è ulteriormente elaborato con riferimento ai pericoli


della «politicizzazione» del campo che, si presume, solo alcuni stu­
diosi e dipartimenti sono in grado di scansare. La politica appare
qui associata all’immagine di una meschina partigianeria, come se
il vero studioso fosse immune dalle basse polemiche, preoccupan­
dosi solo delle idee, dei valori eterni e di alti principi; è significa­
tivo che non siano riportati esempi in merito. Il nodo interessante
dell’intero saggio, tuttavia, è il richiamo, solo nominale, alla scien­
tificità del metodo. Quando si giunge alla domanda su quale sia (o
debba essere) la verità scientifica di questi studi apolitici, l’autore
semplicemente tace. In altri termini, a contare sono le tendenze, le
posizioni, la retorica - in una parola, l’ideologia - della scienza. Il
suo contenuto viene semplicemente non esplicitato e - il che è peg­
gio - esiste un deliberato tentativo di nascondere le connessioni fra
scienza e mondanità, al fine di mantenere la finzione di una verità
intellettuale apolitica e non schierata.
Questo ci dice molto di più sull’autore che sul campo di studi in
cui la sua attività si colloca, un’ironia della sorte che ha persegui­
tato tutti i moderni tentativi europei o occidentali di scrivere sulle
società non europee. Non che altri studiosi siano stati consapevoli
delle difficoltà cui andavano incontro. Nel 1973 la m e s a (Middle
Eastern Studies Association), in collaborazione con la Fondazione
Ford, ha commissionato a un team di esperti un esame dell’intero
campo di studi per valutarne lo stato attuale, i bisogni, gli obiet­
tivi e le criticità.8 Il risultato è stato un ampio e denso volume dal
titolo The Study o f the Middle East: Research and Scholarship in
the Humanities and the Social Sciences, a cura di Leonard Blinder,
pubblicato nel 1976. Dal momento che il testo è un’opera collettiva,
è inevitabilmente vario per quanto attiene la qualità, ma si resta
comunque colpiti dalla generale aria di crisi e di urgenza, al con­
trario totalmente assente dai saggi su «The American Scholar». Per
questo gruppo di studiosi, non meno illustri dei loro colleghi bri­
tannici, gli studi sul Vicino Oriente sono un campo sotto assedio:
8. Cfr. la penetrante recensione scritta da Bryan S. Turner in « merip Reports», n.
68, giugno 1978, pp. 20-22. Seguendo le argomentazioni di Turner, sullo stesso nume­
ro, James Paul stima il costo del volume della mesa di 85,50 dollari per pagina.
142 SAPERE E PO TERE

non c’è sufficiente attenzione dedicata a esso, non ci sono abba­


stanza investimenti, non abbastanza studiosi (anche qui, per ironia
della sorte, un membro del comitato di ricerca e formazione della
MESA, che per primo concepì la ricerca di cui abbiamo parlato, ave­
va condotto qualche anno prima uno studio sul Vicino Oriente per
il governo degli Stati Uniti, nel quale aveva smentito il bisogno di
studi specialistici sull’Islam o sugli arabi: si trattava a suo avviso di
un campo culturalmente e politicamente di secondaria importan­
za per gli Stati Uniti).9 Ma, sorvolando su tutti i problemi da loro
menzionati ce n’è uno in particolare che Leonard Blinder tratta
candidamente nella sua introduzione.
«Il primo motore dello sviluppo degli area studies negli Sta­
ti Uniti», recita proprio la prima frase di Blinder, «è stato quello
politico».101Egli procede poi a esaminare gli aspetti organizzativi
e filosofici che caratterizzano il moderno specialista del Vicino
Oriente, senza perdere mai di vista il fatto - perché di un fatto si
tratta - che tali studi si collochino nell’alveo di una società all’in­
terno della quale, per così dire, si manifestano e si sviluppano. Alla
fine della ricerca, dopo aver riconosciuto abbastanza francamente
come pure le questioni metodologiche - per esempio, se si debba
iniziare con lo studio delle strutture sociali o della religione, oppure
se per uno studioso le strutture politiche siano più o meno impor­
tanti del reddito pro capite - non siano neutrali, e riconoscendo
poi che anche se «l’orientamento degli studi sul Vicino Oriente sia
in molti casi più complesso della prospettiva di informazione del
governo [...], il problema non può essere evitato»,1' Blinder cerca
almeno di riassumere gli effetti della politica sulla verità scientifica
che emerge dagli studi occidentali sulle altre culture.
Egli riconosce immediatamente che ogni studioso possiede un
corredo di «valori guida» che entra in gioco quando si fa ricerca. E
nonostante tutto, sostiene Blinder, «gli orientamenti normativi del­
le discipline» riducono l’effetto dispersivo di personali «giudizi ad

9. Cfr. Edward W. Said, Orientalismo, cit., pp. 285-288.


10. Leonard Binder, Area Studies: A Critical Assessment, in Idem (a cura di), 'The
Story o f the Middle East, cit., p. 1.
11. Ivi, p. 20.
EDWARD W. SAID 143

hoc»." Il saggista, tuttavia, non spiega affatto come «le discipline»


agiscano e nemmeno specifica che cosa permetta di trasformare i
giudizi umani in analisi oggettive. Come se dovesse pur affrontare
la questione in un modo o nell’altro, si aggrappa a fine discorso a
una argomentazione inutilmente oscura e totalmente discontinua
rispetto a quanto detto in precedenza: le discipline, afferma, «for­
niscono inoltre metodi per esplorare questioni morali di simile fat­
tura, che possono sorgere nel contesto dell’area». Quali questioni
morali? Quali metodi? Quale area? Nessuna spiegazione. La sua
conclusione invece è di una tale stupefacente serietà che si viene
lasciati con un rassicurante senso di fiducia nelle «discipline» - e
nessuna spiegazione in assoluto di cosa «le discipline» trattino ve­
ramente.
Persino qualora le pesanti pressioni politiche che influenzano
gli studi sul Vicino Oriente siano riconosciute, c’è un’inquietante
tendenza a farle sparire come per incanto e a ristabilire l’autorità
canonica del discorso orientalista. E bene ripetere che tale auto­
rità deriva direttamente dal potere interno alla cultura occidenta­
le, potere che permette agli studiosi dell’Oriente o dell’Islam di
fare affermazioni sull’Islam e sull’Oriente per molto tempo assun­
te come incontestabili. Chi, salvo gli orientalisti stessi, ha parla­
to e continua a parlare in vece dell’Oriente? Gli orientalisti del
diciannovesimo secolo, né tantomeno uno studioso del ventesimo
come Leonard Binder, hanno mai dubitato che «il campo di stu­
dio» - non, è importante notare, l’Oriente stesso o i suoi popoli
(se non come oggetti o reperti informativi) - abbia fornito sempre
alla cultura occidentale tutto quello che aveva bisogno di sapere
sull’Oriente; di conseguenza, chiunque abbia parlato il linguaggio
della disciplina, spiegato i suoi concetti, maneggiato le sue tecniche
e acquisito le sue credenziali sarebbe stato capace di superare il
pregiudizio e le circostanze contingenti per giungere ad asserzioni
del tutto scientifiche. Né è da dubitare che tale senso di potere
autosufficiente, autoanalitico, autogiustificante abbia dato e ancora
fornisca aH’orientalismo la sua retorica abbondantemente scevra di12

12. Ivi, p. 21.


144 SAPERE E POTERE

autoconsapevolezza. Secondo Binder, le discipline, e non i popoli


dell’Oriente, stabiliscono le questioni normative in termini gene­
rali; le discipline, non il desiderio dei popoli di quella regione, le
discipline e non la moralità della vita di ogni giorno, «ci offrono i
metodi per esplorare le questioni morali che sorgono nel contesto
dell’area».
Da un lato, dunque, «le discipline» sono istituzioni più di quan­
to esse non siano attività; dall’altro, esse regolano e normalizzano
ciò che studiano (che in un certo senso hanno contribuito a creare)
molto più facilmente di quanto esse analizzino loro stesse o riflet­
tano su cosa stanno facendo. Il risultato netto, penso, potrebbe es­
sere descritto, solo con una certa indulgenza, nei termini di piena
conoscenza di un’altra cultura. Vero, ci sono stati degli importanti
risultati nello studio dell’Islam: sono stati scritti testi e formulate
descrizioni positivistiche dell’Islam classico in modo molto preciso.
Ma per quanto riguarda la dimensione umana dell’Islam contempo­
raneo o la difficile situazione di ogni attività interpretativa, in nes­
sun modo c’è stato qualcosa che sia stato pienamente illuminato o
sostenuto dalle «discipline» degli attuali studi sul Vicino Oriente.
Virtualmente nulla sullo studio dell’Islam oggi è «libero» e non
determinato da pressioni attuali ed emergenti. E si tratta di un’asser­
zione molto lontana dall’obiettività apolitica presupposta da molti
studiosi orientalisti a proposito del loro lavoro; ed è quasi altrettan­
to lontano sia dal meccanico determinismo dei volgari materialisti,
che vedono ogni lavoro intellettuale e attività culturale come de­
terminata in anticipo da forze economiche, sia dal felice ottimismo
degli specialisti che ripongono tutta la loro fiducia nell’efficienza
tecnica delle «discipline». Da qualche parte, tra questi due estremi,
si dispiegano gli interessi dell’interprete, che vanno poi a riflettersi
nella comunicazione culturale e nella diffusione di sapere.
Ma anche qui c’è meno diversità e libertà di quanto ci piace­
rebbe credere. Che cos’è che rende un argomento interessante, al
di fuori di quello che altrimenti sarebbe un problema antiquario o
accademico, se non il potere e il desiderio, che nella società occi­
dentale (come in tutte le altre, sia pure in gradi diversi) tendono a
essere strettamente connessi, di essere in grado di produrre un’im-
EDWARD W. SAID 145

plementazione conoscitiva, cioè di esercitare una formidabile, e in


aggiunta istituzionale, autorità sulla loro stessa ristretta e pragmati­
ca immediatezza? Un semplice esempio ci farà velocemente arriva­
re al punto: andiamo avanti discutendo una o due argomentazioni
per esteso.
Per il pubblico americano ed europeo di oggi, l’Islam costituisce
una “news” di tipo particolarmente spiacevole. I media, il governo,
gli strateghi geopolitici e - sebbene socialmente defilati - gli acca­
demici esperti di Islam sono tutti d’accordo su un punto: l’Islam
costituisce una minaccia per la civiltà occidentale. Ora questo non
significa che nel panorama occidentale si possano incontrare solo
caricature dell’Islam offensive e razziste. Non intendo infatti so­
stenere una simile idea e nemmeno mi troverei mai d’accordo con
qualcuno che esprima una simile affermazione. Quello che sto cer­
cando di dire è che le immagini negative dell’Islam continuano a
essere molto più diffuse di ogni altra e che tali rappresentazioni
non corrispondono a ciò che l’Islam è (dato che l’“Islam” non è un
fatto naturale ma una struttura composita creata a diversi livelli dai
musulmani e dall’Occidente stesso, nei modi che ho cercato di de­
scrivere), ma a ciò che gli elementi influenti di una specifica società
ritengono debba essere. Tali elementi hanno il potere e la volontà
di diffondere questa particolare immagine dell’Islam, e quindi tale
immagine diventa la più pervasiva e presente rispetto a tutte le al­
tre. Come ho affermato nel primo capitolo, ciò avviene attraverso
un’opera di consenso, che stabilisce limiti ed esercita pressioni.
Consideriamo come esempio paradigmatico una serie di quat­
tro seminari tenutisi tra il 1971 e il 1978, finanziati dalla Fondazione
Ford e dall’Università di Princeton, la quale, per molte ragioni
sociali e politiche, è ovviamente un luogo prestigioso per tenere
dei seminari accademici. Oltre al suo prestigio generale, Prince­
ton è sede di un rinomato e rispettabile programma di studi sul
Vicino Oriente; chiamato Dipartimento di Studi Orientali, fu fon­
dato da Philip Hitti quasi mezzo secolo fa. Oggi, l’orientamento
del programma - come molti altri programmi sul Vicino Oriente
- è dominato dalla presenza di scienziati politici e sociali. Le let­
terature islamiche classiche, araba e persiana, per esempio, sono
146 SAPERE E PO TERE

assai meno presenti nel curriculum e negli insegnamenti di facoltà


rispetto a materie come economia, sociologia, scienza politica e
storia del Vicino Oriente contemporaneo. La collaborazione di
questo programma con la Fondazione Ford, la prima fondazione
di scienze sociali del paese, rivela - e, vorrei aggiungere, è la spia
di senso di tale rivelazione - la presenza un’autorità e di un potere
molto influente negli Stati Uniti. A ogni disciplina che promuo­
va un interesse disciplinare sotto l’egida di tale potere è garantita
un’indubbia preminenza, perché a ciò che Princeton propone e
che la Fondazione Ford finanzia viene conferita enfasi, importan­
za e prestigio. In breve, sebbene fossero organizzati e diretti da
accademici, questi seminari erano condotti con un interesse nazio­
nale bene in vista. L’Accademia veniva ritenuta al servizio di tali
interessi e, come si può vedere, la scelta di un simile soggetto indi­
cava che le preferenze politiche avevano realmente un peso nella
formulazione degli imperativi scientifici. In quest’ottica, non con­
ta niente il fatto che la Fondazione Ford e Princeton non fossero
interessate a seminari di alto livello sulle teorie della grammatica
araba medievale, per quanto culturalmente più interessanti degli
incontri che lì si tennero.
Sia come sia, di cosa trattarono i seminari e chi vi prese parte?
Uno di essi affrontava il tema «schiavitù e istituzioni a essa collega­
te nell’Africa islamica». Nel progetto di un simile seminario, ci si
concentrava molto sulla paura africana e sul risentimento dei mu­
sulmani arabi, e fu anche notato che «alcuni intellettuali israeliani»
avevano tentato di suggerire agli stati africani di non fidarsi troppo
delle nazioni arabe «che in passato spopolarono le loro regioni».13
Attribuendo all’Islam il ruolo di promotore della schiavitù, si sot­
tolineava questa ipotesi al fine di peggiorare le relazioni fra Africa
e arabi musulmani: d’altra parte, era per raggiungere questo scopo
che nessuno studioso del mondo arabo musulmano fu invitato.
Un secondo seminario trattava il sistema del millet e insisteva
sul tema della «posizione delle minoranze e in particolare del­
le minoranze religiose all’interno degli stati musulmani in Medio
13. Proposal to the Ford Foundation fo r Two Seminar-Conference, «Program in
Near Eastern Studies», Princeton University (1974-75), PP-15-16.
EDWARD W. SAID 147

Oriente».141 millet erano dei sistemi di raggruppamento relativa­


mente autonomi che esistevano all’interno dell’impero ottoma­
no. Dopo la caduta dell’impero e la fine dei vari regimi coloniali
francesi e inglesi, una serie di nuovi stati emerse in Vicino Oriente
nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale. La maggior
parte di essi erano, o avrebbero voluto essere, stati-nazione: uno
(Israele) costituiva uno stato a minoranza religiosa nel più ampio e
circostante contesto musulmano ; un altro (il Libano) era dilaniato
in larga misura da una minoranza non musulmana militante armata
e supportata sia da Israele che dagli Stati Uniti.
Lontano dall’essere un soggetto accademico neutrale, «il siste­
ma del millet» era, nella sua più esatta formulazione, l’espressione
di una preferenza per una linea politica che tentasse di formulare
una soluzione univoca per il complesso insieme di problemi etnici
e nazionali del modo islamico contemporaneo. Di qualsiasi tipo
fossero le ragioni per dedicarsi a studiare un simile argomento, il
sistema del millet rappresenta il ritorno a un’epoca precedente, du­
rante la quale un potere di tipo imperiale (ottomano o occidentale
che fosse) divideva e governava una popolazione varia e assai irre­
quieta. Per la maggioranza degli abitanti sunniti della regione, così
come per alcune delle minoranze, la storia più recente del mondo
islamico contemporaneo è stata una lotta per il progresso, al di là
delle divisioni etniche o religiose, verso un qualche tipo di secolare
(e forse anche unitaria) democrazia. Nessuno degli stati della re­
gione è riuscito a ottenerla, se non formalmente, tranne nel caso di
Israele e dei maroniti di estrema destra in Libano, che intrapresero
attivamente una campagna per tornare a un struttura statale basata
principalmente sull’autonomia delle minoranze etniche con legami
bilaterali verso un patrono estero o un potere più grande. Che que­
sto fosse anche il caso della soluzione proposta per il popolo pa­
lestinese, non fu certo un argomento casuale per i programmatori
del seminario, dal momento che la persona scelta da Princeton per
parlare della «minoranza» araba palestinese (quanta ironia in una
simile definizione!) era un professore israeliano. E inoltre degno

14. Ivi, p. 26.


148 SAPERE E PO TERE

di nota che, come nel caso della conferenza sulla schiavitù, nes­
sun membro della maggioritaria comunità sunnita fosse invitato a
parlare. Che questo seminario, che toccava un tema così sensibile,
fosse condotto negli Stati Uniti in un anno così particolare (il 1978)
e che avessero partecipato così tanti membri delle minoranze etni­
che e religiose essenzialmente ostili a ciò che era designato come la
legge islamica (e inoltre potenzialmente utile ai pianificatori delle
politiche statunitensi), può essere difficilmente assimilato a un in­
teresse scientifico. Non fu infatti un caso che il principale relatore
fosse lo stesso studioso a cui ho già fatto riferimento, proprio la
stessa persona che aveva elogiato la curiosità intellettuale occiden­
tale e deriso quegli accademici e tutti color che, da non europei,
avevano suggerito la presenza di un interesse politico alla base del­
le sue pagine.
Il primo seminario fu condotto applicando tecniche di analisi
psicoanalitica e comportamentale alla comprensione delle moder­
ne società mediorientali. In seguito, venne pubblicato il volume
degli atti.15 In generale, il seminario era come ci poteva aspetta­
re. C ’era enfasi sulla centralità degli studi sul carattere nazionale
(sebbene con una rigorosa e perspicace critica di Ali Banuazizi
dei cosiddetti studi sul carattere iraniano, attraverso la quale egli
connetteva molto correttamente gli scopi manipolativi del potere
imperiale con i piani sull’Iran).16Il risultato era tristemente preve­
dibile. Nel libro ci viene detto molte volte che il musulmano vive
in un mondo immaginario, all’interno del quale la famiglia è re­
pressiva, la maggior parte dei leader sono psicopatologici, la socie­
tà immatura e via dicendo. Tutto ciò non è presentato dal punto di
15. L. Cari Browon e Norman Istkowitz (a cura di), Psychological Dimensions o f
Near Eastern Studies, Princeton, n j , Darwin Press, 1977.
16. Ali Banuazizi, Iranian “N ational C h aracterA Critique o f Some Western Per­
spectives, in L. Carl Browon e Norman Istkowitz (a cura di), Psychological Dimensions
o f Near Eastern Studies, cit., pp. 210-239. P er lavori simili su oggetti d’analisi prossimi,
vedi gli importanti saggi di Benjamin Beit-Hallahmi, National Character and National
Behavior in the Middle East: The Case o f the Arab Personality, in «International Jour­
nal of Group Tensions 2», n. 3, 1972, pp. 19-28; e Fouad Moghrabi, The Arab Basic
Personality, in «International Journal of Middle East Studies 9», 1978, pp. 99-112; e
pure Idem, A Political Technology o f the Soul, in «Arab Studies Quarterly 3», n. 1,
inverno 1981.
EDWARD W. SAID 149

vista dello studioso interessato a trasformare queste società in «so­


cietà mature», ma da una prospettiva neutrale, oggettiva e scienti­
sta e senza alcun valore di riferimento. Nessun riconoscimento del
ruolo che simili posizioni scientiste (per quanto potessero essere
formulate in modo neutrale e non orientato) ricoprivano in seno
ai poteri delle grandi corporation e del governo, oppure su quali
ruoli le loro ricerche giocassero nelle politiche estere di governo o
quali fossero le implicazioni metodologiche dell’applicazione del­
la psicologia allo studio di una società più debole da parte di una
più forte.
Non è possibile rintracciare nessuna discussione su questi temi
all’interno del quarto seminario, il cui titolo suonava Territorio,
popolazione e società nel Vicino Oriente: studi di storia economica
dalla nascita dell’Islam alX IX secolo. Come gli altri, questo semina­
rio si presentava quale scientifico e imparziale, sebbene al di sotto
della superficie era possibile intravedere un interesse politico ab­
bastanza pressante: in questo caso, esso consisteva nella relazione
fra proprietà terriera, modello demografico e autorità statale, in
quanto indici di stabilità (o di instabilità) delle moderne società
musulmane. Non dovremmo trarre la conclusione che ogni contri­
buto del seminario fosse oggettivamente senza valore e nemmeno
che ogni studioso presente facesse parte di una nefasta cospira­
zione. Gli organizzatori avevano saggiamente previsto vi fosse un
«equilibrio» fra punti di vista e che, preso nel suo insieme, il se­
minario dovesse apparire serio e responsabile. D ’altro canto, non
dovremmo cadere nella trappola di vedere la stessa organizzazione
come una meccanica somma di parti più piccole e discrete. Nella
scelta dei temi onnicomprensivi e delle tendenze, il quarto semina­
rio porta avanti una conoscenza dell’Islam che è di fatto una presa
di distanza da esso in quanto fenomeno ostile, specie in relazione
alla messa in evidenza di certi aspetti che potrebbero essere poi
«gestiti» in termini politici.
In quest’ottica, i seminari di Princeton sull’Islam erano confor­
mi alla storia degli altri programmi di studio del Terzo mondo negli
Stati Uniti - per esempio, nel periodo dell’immediato dopoguerra,
150 SAPERE E PO TERE

lo studio della Cina.17La differenza è che i programmi di islamistica


non sono ancora stati «revisionati»: risultano ancora dominati da
concetti vetusti e incredibilmente vaghi (come lo stesso «Islam») e
da un gergo intellettuale senza più contatti con le innovazioni delle
scienze umane in generale e le trasformazioni della società nel suo
complesso. E ancora possibile dire dell’Islam cose che sarebbero
semplicemente inaccettabili nei confronti dell’ebraismo, degli altri
asiatici o dei neri ed è ancora possibile scrivere saggi sulla storia
e sulla società islamiche che ignorino bellamente ogni sostanziale
progresso nella teoria interpretativa, si vada da Nietszche a Freud
o si parta da Marx.
Il risultato è che una ben piccola parte di quello che accade negli
studi sull’Islam ha granché da dire agli studiosi che si occupano di
problemi metodologici di storiografia generale o, per esempio, di
analisi testuale. Invece, se prendiamo i seminari di Princeton come
caso esemplare, si pubblica un lavoro accademico sull’Islam (come
è avvenuto per il volume sulla psicologia del Medio Oriente), lo si
recensisce su una o due riviste specialistiche a circolazione limitata,
e poi finisce nel dimenticatoio. E precisamente tale marginalità,
tale voluta irrilevanza degli studi sull’Islam per la cultura generale
che rende possibile agli studiosi di continuare a fare quel che finora
hanno fatto e ai media di prodursi nella continua diffusione di cari­
cature razziste delle popolazioni islamiche. E infatti sin dalla metà
degli anni Ottanta che gli studi sull’Islam politico - in maggioran­
za studi di carattere ostile che avevano come oggetti d ’analisi il
fondamentalismo, il terrorismo e Tantimodernismo quali principali
aspetti dell’Islam - hanno invaso il mercato accademico. La mag­
gior parte di essi fa capo a un manipolo di studiosi (come Bernard
Lewis) che ha come finalità la mobilitazione dell’opinione pubbli­
ca contro la «minaccia» dell’Islam. In tal modo, la combriccola
accademica si perpetua, mentre la clientela delle notizie sull’Islam
continua a ricevere le dosi massicce di ritorsione, violenza gratuita,
terrorismo e pettegolezzi da harem con i quali è stata cibata per
anni.
17. V edi Special Supplement: Modem China Studies, in «B ulletin o f C on cern e
A sia Sch olars 3», nn. 3-4, estate-inverno 1971.
E D W A R D W. S A ID 151

Quando gli esperti si avventurano in dichiarazioni pubbliche lo


fanno in qualità di esperti, tirati dentro perché un’emergenza ha
colto «l’Occidente» impreparato. Le loro affermazioni non sono
attenuate o raffinate da alcun interesse culturale, pur residuale, per
l’Islam, come avviene in Inghilterra o in Francia. Vengono conside­
rati come tecnici in possesso del «come fare» (la frase è di Dwight
MacDonald)18da ammannire a un pubblico angosciato. E il pubbli­
co li accetta ben volentieri, dal momento che essi sono la risposta a
quel che Christopher Lasch ha chiamato

una domanda di esperti, di tecnici o di manager senza


precedenti [creata da ciò che Lasch chiama « l’ordine postin­
dustriale»]. Sia il mondo degli affari che il governo, sotto la
pressione della rivoluzione tecnologica, dell’incremento della
popolazione e dell’emergenza indefinita della Guerra fredda
sono diventati sempre più dipendenti da un apparato di dati
sistematizzati intellegibile soltanto a specialisti addestrati; e le
università, di conseguenza, sono diventate industrie per la pro­
duzione di massa di esperti.19

Il mercato della valutazione competente è così attraente e lucra­


tivo che il lavoro sul Medio Oriente è quasi esclusivamente finaliz­
zato a esso. Questo è uno dei motivi per cui in quasi nessuno dei
periodici affermati (e neppure nei libri recenti di studiosi rinomati)
viene prestata alcuna attenzione alla questione basilare del perché
esistano gli studi islamici e gli studi sul Medio Oriente e per chi
vengano prodotti. L’obliterazione della coscienza metodologica è
assolutamente coincidente con la presenza del mercato dell’infor­
mazione, che si rivolge a intere clientele di consumatori in cerca di
sicurezza (governi, corporazioni, fondazioni); semplicemente non
ci si chiede perché si fa quel che si fa e se lo si fa per il banale mo­
tivo che esiste una clientela che apprezza o che è almeno potenzial­
mente ricettiva. Peggio ancora, lo studioso smette di relazionarsi

18. Dwight Macdonald, Howtoism, in Idem, Against the American Grain , New
York, Vintage Books, 1962, pp. 360-392.
19. C h istoph er L asch , The New Radicalism in America, 1889-1963; The Intellectual
as Social Type, N ew Y ork, V intage B o o k s, 1965, p. 316.
152 SA PE R E E PO T E R E

con il suo oggetto d’indagine e con le sue peculiarità geografiche e


sociali. L’Islam, se è l’“Islam” che si studia, non è un interlocutore;
è, un certo senso, una semplificazione. Il risultato complessivo è
una sorta di malafede istituzionale. L’onore degli studi e l’integrità
del campo vengono levati contro i critici esterni, la retorica accade­
mica si disvela violentemente arrogante nel negare qualsiasi appar­
tenenza politica, e l’auto-gratificazione dell’accademia rinvigorisce
questa pratica di semplificazione (specialmente nel giornalismo
popolare).
Ciò che ho appena descritto è un’impresa essenzialmente so­
litaria: il che vuol dire che lo studioso lavora in risposta a ciò che
interessi svariati sembrano richiedere; è guidato, lo studioso, più
da un’ortodossia di casta che dalle esigenze culturali di un’inter­
pretazione reale - e, oltretutto, la cultura generale ghettizza il suo
lavoro relegandolo al margine e utilizzandolo solo in momenti di
crisi. Non è presente alcuna delle due condizioni necessarie alla
conoscenza di un’altra cultura - il contatto non coercitivo con una
cultura aliena attraverso uno scambio reale e l’auto-consapevo-
lezza del progetto interpretativo in sé - e tale assenza rinforza la
solitudine, la provincialità e la circolarità della rappresentazione
dell’Islam. Significativamente, tutto ciò rende evidente che la co­
noscenza dell’Islam che si diparte dagli Stati Uniti, ultima delle
superpotenze, non ha nulla a che vedere con l’interpretazione, nel
senso vero e reale del termine, ma con l’affermazione di potere. I
media dicono quello che vogliono sull’Islam per il solo fatto che
possono, con il risultato che il fondamentalismo islamico, il terro­
rismo e i musulmani «buoni» (in Bosnia, per esempio) dominano
la scena in modo indiscriminato; ben poco d’altro rientra nei canali
di diffusione, dal momento che qualsiasi elemento al di fuori della
definizione condivisa viene considerato irrilevante per gli interessi
degli Stati Uniti e per l’idea che i media hanno di una storia uti­
le da raccontare. La comunità accademica, di contro, si piega alle
necessità della nazione e degli apparati economici, con il risultato
che argomenti islamici utili alla causa vengono estratti da una enor­
me massa di dettagli, e tali argomenti (estremismo, violenza, e così
via) finiscono per definire l’Islam nel suo complesso e si ergono a
E D W A R D W. S A ID 153

criteri di validità per un corretto modo di studiare il mondo islami­


co. Anche quando casualmente il governo o uno dei dipartimenti
universitari sul Medio Oriente o una delle fondazioni organizza
un convegno sul futuro degli studi sul Medio Oriente (di solito
un modo per porre la domanda: «che dovremo farne del mondo
islamico?»), continua a venir fuori la medesima batteria di concetti
e di obiettivi. Ben poco è cambiato.
Nella maggioranza dei casi si punta sulla perpetuazione di que­
ste modalità conoscitive e su un sistema ben rodato di patrocini e
di alleanze. Gli esperti senior del campo, sia provengano dall’area
governativa, sia dal mondo delle corporation o dell’università,
tendono a strutturare rapporti con finanziatori compiacenti. Un
giovane studioso dipende da questo sistema di relazioni per le sov­
venzioni, per non parlare dell’occupazione o della possibilità di
pubblicare su riviste di qualche nome. Avventurarsi in critiche al
lavoro di rinomati studiosi, in questo campo ben più che nel campo
della storia in generale o della letteratura, significa correre troppi
rischi. Le recensioni dei libri risultano sempre adulatorie; la critica
è uniformemente espressa nel più pedante linguaggio possibile, e
nulla mai viene detto della metodologia o degli assunti di base.
L’omissione più curiosa - e quella più frequente - è l’analisi dei
rapporti tra la ricerca e le varie forme di potere nella società nella
quale questa ricerca si produce. E nel momento in cui si ode una
voce che sfida questa congiura del silenzio, l’argomento principe
diviene l’ideologia o l’origine etnica: egli (o ella) è marxista; oppu­
re egli (o ella) è palestinese (o iraniano, o musulmano, o siriano)
- e sappiamo bene, si tenta di suggerire, di quali nemici si tratti.“
Riguardo le fonti stesse, vengono trattate sempre come se fossero
inerti; così, parlando di una società islamica o di un movimento o
di un personaggio, lo studioso si riferisce a essi come si trattasse di
un dato, raramente come a qualcosa cui accreditare una propria
integrità o un proprio diritto di esistenza e di risposta. E interes-
20. Per un esempio di come le origini etniche siano citate come “credenziali” da
un tipico specialista di studi sul Medio Oriente, vedi J. C. Hurewitz, Another View
on Iran and the Press, in «Columbia Journalism Review», voi. 19, n. 1, maggio-giugno
1980, pp. 19-21. Per una risposta, vedi Edward W. Said, Reply, in «Columbia Journali­
sm Review», voi. 19, n. z, luglio-agosto 1980, pp. 68-69.
154 SA P E R E E P O T E R E

sante che non ci sia mai stato da parte degli studiosi occidentali di
Islam alcun tentativo sistematico di affrontare metodologicamente
gli scritti islamici sull’Islam. E ricerca, questa? Sono semplicemen­
te dati? Nessuno dei due?
Eppure, nonostante l’arido stato di cose, o forse proprio a cau­
sa di esso, una qualche conoscenza di valore sull’Islam viene pur
prodotta, e menti indipendenti cercano di attraversare il deserto.
In ogni caso, la generale marginalità, la generale incoerenza intel­
lettuale (contrapposta al consenso di casta), la generale bancarotta
interpretativa - sebbene assolutamente non di tutti - degli scritti
sull’Islam può essere ricondotta alla combriccola di vecchie amici­
zie corporazioni-governo-università che domina l’intera faccenda.
Guardate come i medesimi personaggi anti-musulmani continuino
ad alternarsi su «MacNeil/Lehrer Report», «Nightline» o «Charlie
Rose». Cosa che, in conclusione, determina il modo in cui gli Stati
Uniti guardano al mondo islamico. Per quale altra ragione potreb­
be infatti svilupparsi e prosperare una così peculiare struttura di
conoscenza sull’Islam, così interconnessa, ben solida e indisturbata
da un fallimento dopo l’altro?
Il modo più efficace di comprendere la specifica qualità di que­
sta visione, che ha la forza di una fede indiscussa, è ancora una vol­
ta quello di paragonarla alla situazione che troviamo in Gran Bre­
tagna e in Francia, i due predecessori degli Stati Uniti nel mondo
islamico. In entrambi i paesi c’è sempre stata, naturalmente, una
schiera di esperti islamici con ruolo consultivo nella formulazione
- e spesso anche nell’applicazione - di politiche sia governative
che commerciali. Ma in entrambe le situazioni c’era un compito
immediato da eseguire: l’amministrazione delle colonie. Tale era
la situazione fino alla fine della Seconda guerra mondiale. Il mon­
do islamico era concepito come una serie discreta di problemi da
risolvere, e la conoscenza di tali problemi era nell’insieme positivi­
stica e partecipata in modo diretto. Teorie e astrazioni riguardanti
la mentalità islamica, in Francia relative alla mission civilisatrice,
in Gran Bretagna all’autogoverno dei popoli soggetti, interveni­
vano qua e là nella politica amministrativa, ma soltanto dopo la
loro messa in atto sul terreno della politica. Il discorso sullTslam
E D W A R D W. S A ID ISS

aveva essenzialmente il ruolo di giustificare l’interesse nazionale (o


anche economico-privato) per il mondo islamico. E per questo che
oggi in Francia e in Gran Bretagna i grandi studiosi dell’Islam sono
figure pubbliche la cui raison d’être, anche oggi che gli imperi co­
loniali si sono dissolti, è il mantenimento di un interesse francese
o britannico nel mondo islamico. Per una serie di altre ragioni,
questi studiosi tendono in genere a essere degli umanisti, e non
degli scienziati sociali. La loro rilevanza nella cultura generale ha
poco a che fare col culto postindustriale della competenza speciali­
stica (che esiste in entrambi i paesi), piuttosto si abbevera alla fonte
delle grandi correnti intellettuali e morali della società. In Francia,
Rodinson è un grande filologo, ma anche un ben noto marxista; lo
scomparso Hourani, in Egitto, era uno storico famoso, ma anche
un uomo le cui opere sono espressione di un evidente liberalismo.21
Persone del genere vanno tuttavia scomparendo e sia in Francia
che in Gran Bretagna è probabile vengano rimpiazzate in futuro da
sociologi all’americana o da studiosi specializzati in antiquaria.
Studiosi di quest’area negli Stati Uniti sono noti esclusivamen­
te come esperti islamici o del Medio Oriente; appartengono alla
classe degli specialisti e il loro ambito, nella misura in cui si oc­
cupano di società moderne nel mondo islamico, può essere con­
siderato come l’equivalente intellettuale della gestione della crisi.
Molta della loro rilevanza deriva dalla consapevolezza che, per gli
Stati Uniti, il mondo islamico è fondamentalmente un’area strate­
gica, con tutti i possibili problemi (se non sempre attuali) che ciò
si porta dietro. Durante i vari decenni di amministrazione delle
colonie islamiche, sia la Francia che la Gran Bretagna hanno pro­
dotto una classe di esperti coloniali, ma questa classe non ha a sua
volta prodotto un’appendice equivalente all’intreccio di alleanze
tra studi sul Medio Oriente, governo e corporazioni che esiste negli
Stati Uniti. Professori di arabo o persiano o di istituzioni islamiche,
che svolgevano il loro lavoro nelle università britanniche o francesi,
erano chiamati a fornire pareri o a far parte dei dipartimenti colo­
niali e delle imprese commerciali private; ogni tanto organizzava-
21. Vedi il mio commento ai recenti libri di Rodinson e Hourani in «Arab Studies
Quarterly 2», n. 4, inverno 1980, pp. 386-393.
156 SA PE R E E PO T E R E

no convegni, ma non sembra abbiano creato una propria struttura


indipendente, sostenuta e addirittura mantenuta dal settore delle
imprese private o direttamente da fondazioni e dal governo. La
conoscenza e la rappresentazione del mondo islamico sono defi­
nite negli Stati Uniti da interessi economici e geopolitici su scala
incredibilmente - per un individuo - massiccia, spalleggiata e aiu­
tata da una struttura di produzione del sapere altrettanto estesa
e incontrollabile. Cosa dovrebbe fare lo studioso di arabo o delle
tribù degli Emirati rispetto all’intrusiva presenza delle compagnie
petrolifere, o rispetto alle discussioni operative sulla creazione di
forze di impiego rapido (vedi l’articolo di copertina su «Newswe­
ek» Difendere le installazioni petrolifere: l’incremento militare sta­
tunitense del 14 luglio 1980) nel Golfo, o ancora rispetto all’intero
apparato di “mani” sul Medio Oriente presente nel Dipartimento
di Stato, nelle corporazioni, nelle fondazioni, nella schiera di acca­
demici orientalisti? Di che genere può mai essere la conoscenza di
un’altra cultura quando è in realtà così soffocata dalle ipotetiche
urgenze della “mezzaluna della crisi” da un lato e dalle fiorenti
affiliazioni istituzionali tra mondo accademico, mondo degli affari
e governo dall’altro?
Concluderò questa sezione cercando di rispondere assai concre­
tamente alla domanda in due parti. In primis, vorrei considerare la
situazione attuale, i fatti e i personaggi che controllano ciò che po­
tremmo definire come la rappresentazione ufficiale dell’Islam. Mi
concentrerò sugli Stati Uniti, ma una situazione simile sta gradual­
mente prendendo altrettanto piede in Europa. Secondo un’utile in­
dagine francese sui centri americani di studio del Medio Oriente,
circa 1.650 specialisti in Medio Oriente insegnavano nel 1970 le lin­
gue dell’area a 2.659 studenti laureati e a 4.150 diplomati (rispettiva­
mente il 12 e il 7,4% del numero complessivo di laureati e diplomati
negli “studi di area”).“ I corsi d’area sul Medio Oriente assorbivano
6.400 laureati e 22.300 diplomati (cioè il 12,6% del totale). Negli
anni recenti però il numero di Ph.D negli studi sul Medio Oriente
è stato in proporzione piccolo - meno dell’i% dei Ph.D naziona­
l i . Irène Ferrera-Hoescstetter, Les Études sur le moyen-orient aux États-Unis, in
«Maghreb-Mashrek», n. 82, ottobre-novembre 1978, p. 34.
E D W A R D W. S A ID 157
li.23 Secondo un brillante studio sui centri sul Medio Oriente nelle
università americane condotto da Richard Nolte (commissionato -
cosa piuttosto interessante - dalla Esso Middle East, una divisione
della Exxon) e pubblicato nel 1979, il Ministero dell’Istruzione so­
steneva gli studi d’area «per sviluppare esperti e specialisti veloce­
mente e in gran numero per gli scopi del governo, delle corporazio­
ni e dell’istruzione». Le università hanno aderito al progetto: «Da
un punto di vista universitario» scrive giustamente Nolte, «i centri
[sul Medio Oriente] possono considerarsi come promettenti mec­
canismi di mercato per il prodotto universitario - utili non soltanto
a produrre merce più commerciabile, specialisti d’area formati in
discipline utili e specialisti per nuovi mercati potenzialmente ampi,
ma anche a creare mercato.» E sostiene in merito ai programmi di
laurea specialistica: «Il mercato governativo, delle imprese, delle
banche e di altri sbocchi professionali per laureati formati in una
appropriata dimensione mediorientale è a paragone vivace, grazie a
fattori economici e politici del tutto analoghi.»24
Proprio come nel caso dei seminari di Princeton a cui ho fatto
riferimento per aiutare a definire il coinvolgimento degli intellet­
tuali nella comunità scientifica, così allo stesso modo la dimensione
economica incide sul curriculum accademico. Negli studi sul Me­
dio Oriente massima enfasi è conferita a campi come la legge isla­
mica e il conflitto arabo-israeliano: la loro rilevanza è ovvia. Nello
stesso tempo, la letteratura, secondo Nolte, viene trascurata, così
come sono isolati i gruppi studenti del Medio Oriente iscritti alle
università americane. Inoltre, afferma Nolte, i presidi che da lui
intervistati

[...] hanno riportato episodi di pressione politica, spesso


di origine esterna al campus, per ostacolare o screditare attività
legate al mondo arabo considerate accademicamente legittime
e desiderabili dai centri coinvolti. Eventi sulla cultura araba,
proiezioni di film, conferenze, accettazione di sovvenzioni da
23. R ich ard H. N olte, Middle East Centers at US Universities, giugno 1979, p. 2 (per
gentile concessione di D o n S n o o k di E s so M id d le E a st, che m olto gentilm ente mi ha
inviato una co pia del resocon to di N olte).
24. Ivi, p p . 40, 46 e 20.
158 SA P E R E E P O T E R E

parte di fondazioni arabe - qualsiasi proposta poteva divenire


un bersaglio. L a consapevolezza di una simile situazione ha
causato una diffusa inibizione, tanto che ben pochi direttori
mancano di resistervi o possono permettersi di ignorarla. A l­
cuni direttori hanno avuto sentore che il problema fosse in via
di miglioramento, altri non ne erano così sicuri.25

Tutti questi elementi - politica, pressioni, mercati - sono stati


diversamente percepiti. Il bisogno di una expertise sulle questio­
ni del Medio Oriente contemporaneo ha prodotto la creazione
di molti corsi di studio, l’aumento di molti studenti, e ha messo
in rilievo quelle branche del sapere specialistico capaci d’essere
allo stesso tempo vantaggiose e immediatamente lucrative. Un’al­
tra conseguenza è che le ricerche metodologiche semplicemente
non trovano cittadinanza in una simile organizzazione accademica:
uno studente che desideri portare avanti un percorso di studi sul
Medio Oriente in primo luogo verrà spaventato dai lunghi e aridi
anni necessari per ottenere un dottorato (a seguito del quale non
è assolutamente scontato che riesca a ottenere un incarico di inse­
gnamento); dopodiché, potrà conseguire una laurea specialistica o
un titolo di studi internazionale in una materia appetibile ai grandi
datori di lavoro (il governo, le compagnie del petrolio, i grandi
investitori, le società di appalti); infine, il lavoro di ricerca tende­
rà a essere svolto il più velocemente possibile nella forma di un
“caso” esemplare di studio. Tutto questo isola gli studi sullTslam
o sul Medio Oriente dalle altre correnti intellettuali e morali che si
agitano all’interno della comunità scientifica. I media saranno visti
come un luogo in cui dimostrare la propria expertise, un contesto
ben più promettente e vantaggioso di - poniamo - una rivista in­
tellettuale o scientifica, e all’interno dei media, come ben sanno gli
habitué, si possono assumere i panni del militante o quelli dello
specialista, chiamato quest’ultimo a esprimere giudizi su sciismo o
antiamericanismo. Ricoprire il ruolo di esperto favorisce la carrie­
ra del singolo, a meno che quest’ultimo non ne abbia già una nel
mondo degli affari o nel governo.
25. I v i , p p . 43 e 2 4
E D W A R D W. S A ID 159

Tutto ciò può sembrare la parodia di come la conoscenza pos­


sa diventare un prodotto, ma descrive bene l’estremo restringi­
mento del punto di vista e il disastroso impoverimento degli studi
sullTslam. Soprattutto, spiega perché non si tenti affatto di sfidare
i volgari stereotipi che circolano nei media. Gli accademici esperti
di Islam costituiscono un unico corpo, neutralizzato dal suo stesso
isolamento; questo corpo ricopre direttamente il ruolo di indiscu­
tibile autorità sulla questioni islamiche, ma al tempo stesso risulta
dipendente dall’intero sistema che gli ha conferito quello stesso
ruolo e che ne legittima l’esercizio; è proprio questo sistema che i
media riflettono con la loro cieca fiducia negli stereotipi, basata su
paura e ignoranza.
Nonostante quanto ho appena descritto possa sembrare intellet­
tualmente restrittivo - e in effetti lo è - in realtà non impedisce una
produzione estremamente vasta di materiale sul Medio Oriente,
sullTslam e ovviamente sulle altre parti del Terzo mondo. In altre
parole, abbiamo a che fare con quello che Foucault, in altro con­
testo, ha chiamato «la costruzione del discorso».16 In modo molto
diverso da una semplice censura «interventista», la manipolazione
intellettuale di un discorso su culture lontane e aliene incide in
modo positivo e forte molto più del discorso stesso. Ecco la spie­
gazione del perché questo discorso resista immutato, a dispetto dei
cambiamenti che hanno avuto luogo nel mondo, e svela anche per­
ché abbia continuato ad attirare nuovi elementi al suo servizio.
Tutto sommato, l’attuale rappresentazione dellTslam e delle so­
cietà non occidentali canonizza alcune nozioni, alcuni testi e alcune
autorità in materia. L’idea che l’Islam sia medievale e pericoloso
oppure ostile e minaccioso per «noi», per esempio, attualmente ri­
copre una posizione ben definita sia dal punto di vista culturale che
di governo: in favore di questo discorso possono essere citate, sen­
za alcuna remora, le «autorità» degli esperti, si può fare riferimento
al discorso stesso, si possono addurre argomentazioni e riportare
casi esemplari di Islam a partire da un punto di vista acquisito - e
tutto ciò può essere fatto da chiunque e non solo dagli esperti o dai
26. Michel Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1 [1976], Milano,
Feltrinelli, 1978, cap. 2.
i6 o SA PE R E E P O T E R E

giornalisti. In questa direzione, una simile idea fornisce una sorta


di pietra di paragone a priori che deve essere presa in considera­
zione da chiunque desideri discutere o dire qualcosa a proposito
dell’Islam. A partire dal suo essere «altro», l’Islam - e senza dubbio
anche il materiale che è invariabilmente a esso collegato - ha su­
bito una metamorfosi, diventando un’ortodossia di questa società.
Immagine che ormai risulta canonizzata - e ciò rende impossibile
cambiarne le sorti. La causa risiede nella rappresentazione orto­
dossa dell’Islam offerta dai media, alla quale la stretta connivenza
con il potere conferisce forza, durevolezza e, soprattutto, presenza.
E qui c’è un’altra diffusa visione dell’Islam, che appartiene alla ca­
tegoria di quello che potrebbe essere definito sapere antitetico.27
Per «sapere antitetico» intendo un tipo di sapere prodotto da
persone che, con grande consapevolezza, ritengono di dover scri­
vere in opposizione alla vigente ortodossia. Come vedremo, si fa
opposizione per varie ragioni e in differenti situazioni, ma ognu­
na di queste persone è convinta del fatto che le questioni relative
all’Islam debbano essere trattate con chiarezza. In questi interpreti
antitetici, il silenzio metodologico dell’orientalismo, abitualmente
rivestito di strati di ottimistica fiducia nell’oggettività di un’osser­
vazione libera da influenze di tipo valoriale, è stato rimpiazzato dal
più urgente dibattito circa la dimensione politica della ricerca e
dello studio.
Esistono tre tipi di sapere antitetico negli studi sull’Islam e tre
forze che, producendoli, si trovano socialmente in una posizione
tale da poter sfidare l’ortodossia. Un primo gruppo è rappresen­
tato dai giovani ricercatori. Questi ultimi tendono a essere più
sofisticati e più onesti politicamente rispetto ai loro predecesso­
ri e concepiscono il lavoro sull’Islam come connesso alle attività
politiche dello stato. Inoltre, non hanno alcuna pretesa di essere
“ricercatori oggettivi”. Il fatto che gli Stati Uniti siano coinvolti
all’interno della politica globale, gran parte della quale ha a che
fare con il mondo musulmano, non è ritenuto in nessun modo,
27. L a frase è p arzialm ente di H a ro ld B loom , se p p u re lui la utilizzi in un contesto
differente e la definisca “ critica an titetica” : vedi il su o L’angoscia dell’influenza. Una
teoria della poesia [1973], M ilano, Feltrinelli, 1983.
E D W A R D W. S A ID i6 i

da questi giovani studiosi, un dato di fatto neutro su cui tacere.


A differenza degli orientalisti più anziani, sono degli intellettuali
raffinati piuttosto che degli esperti “generalisti” di Islam e han­
no accolto nella loro riflessione elementi metodologici innovativi
come l’antropologia strutturale, il metodo quantitativo, l’approc­
cio analitico marxista, con reale interesse e con ottimi risultati.28
Costoro si mostrano particolarmente sensibili alle forme etnocen­
triche del discorso orientalista e la maggior parte di loro - per la
loro giovane età - si trova relativamente al di fuori del sistema di
connivenza e clientelismo che imprigiona i compunti colleghi an­
ziani in completi di tweed e bicchieri di scotch. Dalle fila di questi
giovani studiosi hanno preso vita l’Alternative Middle East Studies
Seminar (a m e s s ) e il Middle East Research and Information Project
( m e r ip ), entrambi fondati come organizzazioni esplicitamente fi­
nalizzate a impedire la complicità fra governo e compagnie pe­
trolifere; gruppi simili sono nati in Europa e si relazionano l’uno
con l’altro. Non tutti i giovani studiosi a cui faccio riferimento
fanno parte di questi gruppi, ma la maggior parte di loro dichiara
esplicitamente finalità critiche e alternative. Tutti loro cercano co­
munque di raffigurare l’Islam a partire da prospettive trascurate o
sconosciute ai loro maestri.
Un secondo gruppo è composto da studiosi più anziani che,
attraverso il loro lavoro, per diverse ragioni, troppe per poterle ri­
assumere qui schematicamente, sono andati controcorrente all’or­
todossia dominante nel settore. Hamid Algar di Berkeley e Nikki
Keddie della University of California, per esempio, sono stati due
dei rarissimi studiosi dell’Iran che, per alcuni anni nel periodo im­
mediatamente precedente alla rivoluzione iraniana, hanno preso
sul serio il ruolo politico degli ’ulama (il clero sciita in Iran). Algar
e Keddie, pur avendo opinioni differenti, espressero forti dubbi
sulla stabilità del regime di Pahlevi. Lo stesso si dica per Ervand
Abrahamian del Baruch College, i cui studi dell’opposizione laica
allo shah hanno costituito una brillante serie di intuizioni sulle di­
namiche politiche della rivoluzione; o, più recentemente, Michael
28. Il lavoro di Peter Gran, Judith Tucker, Basem Musallem, Eric Davis e Stuart
Schaar, tra gli altri, è rappresentativo di questo gruppo.
162 SA P E R E E P O T E R E

G. Fischer di Harvard e, in Inghilterra, Fred Halliday sono en­


trambi studiosi che sia per ragioni intellettuali che accademiche
si allontanano dalla maggioritaria visione dell’Iran, producendo in
passato lavori estremamente validi sull’Iran contemporaneo.19 Fi­
scher ha smesso di scrivere sull’Islam e l’Iran, mentre Halliday è
diventato, nel complesso, una figura più convenzionale.
La cosa interessante circa questo gruppo di studiosi “antitetici”
dell’Islam è che non possano essere ridotti a una caratterizzazione
metodologica e ideologica. Tuttavia, salta subito agli occhi il fatto
che nessuno di loro faccia parte dell’establishment degli studi sul
Medio Oriente. Ciò non significa che non siano personaggi illustri
e rispettati, giacché lo sono a tutti gli effetti, ma quasi nessuno di
loro (o forse nessuno) è stato attivamente e istituzionalmente coin­
volto dal governo o dalle corporazioni in qualità di consulente. È
questo aspetto che li ha resi liberi dagli obblighi dello status quo
e li ha messi nella posizione di poter vedere ciò che i loro colleghi
più ortodossi avevano tralasciato. Bisogna anche dire che, affinché
il loro lavoro possa ottenere l’effetto politico che potenzialmen­
te possiede, occorre diventino più attivi e impegnati nella socie­
tà. Non basta infatti avere un punto di vista diverso dagli studiosi
ortodossi. Devono conferire una dimensione di attualità a esso, e
poiché un simile lavoro avviene perlopiù attraverso la scrittura e la
pubblicazione, essi hanno davanti a loro un lungo percorso di lotta
politica e organizzativa.
Infine, ci sono scrittori, attivisti e intellettuali, che non sono
esperti accreditati di Islam, ma il cui ruolo nella società è opposi­
tivo: sono i militanti pacifisti e antimperialisti, il clero dissidente,
gli intellettuali e gli insegnanti radicali, e così via. Il loro sguardo
sullTslam ha molto poco a che fare con il sapere orientalista, seb­
bene alcuni di loro siano stati influenzati dall’orientalismo cultura­
le che di fatto permea l’intero Occidente. Tuttavia - se si considera
per esempio un uomo come I. F. Stone - la diffidenza e l’antipatia
nei confronti dellTslam sono stemperate dalla consapevolezza di
cosa siano l’imperialismo e la sofferenza umana, non importa se29

29. Vedi le note 17,18 e 66 del primo capitolo.


E D W A R D W. S A ID 163

quest’ultima coinvolga musulmani, ebrei o cristiani. Stone fu infat­


ti inimitabile nel predire le conseguenze del sostegno da parte degli
Stati Uniti allo shah anche dopo la rivoluzione e furono personalità
come la sua e non certo gli esperti iranologi del governo o dell’ac­
cademia a invocare una politica di conciliazione nei confronti del
regime rivoluzionario.
La caratteristica impressionante di queste persone è come ri­
escano a comprendere, a dispetto della loro carenza di “lauree”
in materia, alcune dinamiche interne al mondo postcoloniale e a
gran parte del mondo islamico. Per loro è l’esperienza umana e
non limitanti etichette come «la mentalità islamica» o «il tempera­
mento islamico» a definire il campo di osservazione. Inoltre, questi
intellettuali si dimostrano sinceramente interessati al confronto e
hanno fatto di quest’ultimo una regola per oltrepassare quelle ri­
gide barriere di ostilità poste dai governi che, di fatto, dividono i
popoli. Faccio riferimento al soggiorno di Ramsey Clark a Teheran
o al coraggioso ruolo svolto durante i peggiori momenti della crisi
iraniana da semplici individui come Richard Falk, William Sloane
Coffin Jr., Don Luce e molti altri, troppo numerosi per menzionarli
tutti; oppure da organizzazioni come il Friends Service Commit­
tee, Clergy and Laity Concerned e altri ancora. In più, una parte
di queste configurazioni del dissenso dovrebbe includere diverse
pubblicazioni e testate autonome come «The Progressive», «M o­
ther Jones», «The Nation», che hanno aperto le loro pagine e han­
no reso disponibili le loro risorse a punti di vista diversi sull’Iran
e - meno frequentemente, a dir il vero - sull’Islam. Lo stesso feno­
meno è rilevabile anche in Europa.
È rilevante sottolineare, a proposito di questi gruppi, che, per
loro, la conoscenza è essenzialmente un qualcosa da contendere
e da ricercare attivamente, e non solo una passiva litania di fatti e
rappresentazioni «accettabili». Lo scontro fra questi punti di vista,
dal momento che influenzano le altre culture anche al di fuori delle
più ampie questioni politiche, e il sapere istituzionale adottato dai
poteri dominanti della società occidentale è un fatto epocale. E
ciò va oltre l’annosa questione di quale dei due punti di vista sia
pro-islamico e quale anti-islamico, o di quale sia patriottico e quale
164 SA PE R E E P O T E R E

traditore. Siccome il nostro mondo diventa sempre più saldamente


interconnesso, il controllo delle già scarse risorse ambientali, delle
aree strategiche e dell’ampia popolazione mondiale si rivelerà sem­
pre più auspicabile e necessario. La paura dell’anarchia e del disor­
dine, alimentata con attenzione e consapevolezza, verosimilmen­
te produrrà una visione conformista e, in riferimento al “mondo
esterno”, una sempre maggiore diffidenza nei confronti dell’Altro:
ciò vale sia per il mondo islamico che per l’Occidente. Quando si
arriverà a una simile situazione - a cui ci stiamo avvicinando - la
produzione e la diffusione di sapere svolgerà un ruolo assoluta-
mente cruciale. Finché la conoscenza non sarà compresa in termini
politici e umani, ossia come qualcosa che deve essere ottenuto al
servizio della coesistenza e del vivere comune e non di particolari
razze, nazioni, classi o religioni, il futuro si profila oscuro.

il. Conoscenza e interpretazione

Ogni conoscenza legata alla società umana e non al mondo


naturale è una conoscenza di tipo storico, e dunque sottomessa
al giudizio e all’interpretazione. Ciò non significa che in questo
campo i fatti o i dati siano inesistenti, ma piuttosto che i fatti ac­
quisiscono la loro importanza a partire dalla loro collocazione e
funzione all’interno del processo interpretativo. Nessuno mette in
discussione il fatto che Napoleone sia realmente vissuto e sia stato
un imperatore francese, tuttavia c’è molto disaccordo interpretati­
vo per decidere se egli sia stato un sovrano eccellente o disastroso
per la Francia. Tale disaccordo è la sostanza di cui è fatto il di­
scorso storico e da cui deriva il sapere storico stesso. Perché l’in­
terpretazione dipende moltissimo da chi la conduce, dal soggetto
a cui ci si rivolge, da quale sia lo scopo dell’interpretazione e da
quale sia il momento storico all’interno del quale essa ha luogo. In
questo senso, tutte le interpretazioni possono essere definite come
situazionali: esse avvengono sempre all’interno di un contesto che
le influenza, a volte pesantemente.30 L’interpretazione è inoltre
30. Ho discusso la nozione di affiliazione in Reflections on Recent American “Left"
Literary Criticism , in «Boundary 2», 8, n. 1, inverno 1979, pp. 26-29.
E D W A R D W. S A ID 165

connessa al giudizio precedente formulato da altri interpreti, sia


che lo si desideri confermare sia che lo si voglia criticare, oppure
si intenda seguirne la traccia di lavoro. Nessuna interpretazione è
senza precedenti o senza qualche connessione con altre interpre­
tazioni. Di conseguenza, chiunque si occupi seriamente di Islam
0 di Cina o di Shakespeare o di Marx deve in qualche modo fare
1 conti con ciò che già è stato detto su questi argomenti, a meno
che non voglia rischiare di sembrare ridondante o irrilevante per
la materia. Nessuno studio è (o potrà mai essere) completamente
nuovo e, dal momento che studiando la società umana non si sta
facendo matematica, non si può pensare che in una simile attività
venga compresa l’ambizione a essere originali.
La conoscenza delle altre culture, di conseguenza, va particolar­
mente soggetta all’imprecisione “non-scientifica” e dipende dalle
circostanze dell’interpretazione. Tuttavia, possiamo qui ipotizza­
re che conoscere una cultura diversa sia possibile e, fatto impor­
tantissimo da aggiungere, sia persino auspicabile a patto vengano
soddisfatte due condizioni, che, guarda caso, sono esattamente le
due condizioni a cui la moderna islamistica non si avvicina nem­
meno lontanamente. In primo luogo, lo studioso deve sentire di
essere profondamente responsabile della realizzazione di un in­
contro non coercitivo con la cultura e il popolo studiato. Come
ho avuto occasione di dire precedentemente, la maggior parte di
quello che l’Occidente ha appreso sulle società non occidentali
lo ha appreso sulla base del colonialismo; lo studioso europeo ha
quindi approcciato il suo soggetto da una posizione generalmente
dominante e ciò che poi è stato affermato sul soggetto in questione
non ha in nessun modo preso in considerazione altri punti di vista
che non fossero quelli di altri studiosi europei. Per tutte le ragioni
che ho esposto precedentemente in questo testo e in Orientalismo,
la conoscenza dell’Islam e delle popolazioni islamiche deriva non
solo dal dominio e dallo scontro, ma anche da una forma di osti­
lità culturale. Oggi l’Islam è definito in modo negativo, come un
qualcosa in contrasto radicale con l’Occidente, e questa tensione
crea una rappresentazione che limita estremamente la conoscenza
dellTslam stesso. Finché questa rappresentazione persiste, l’Islam,
166 SA PE R E E P O T E R E

in quanto esperienza viva e vissuta dai musulmani, non potrà essere


conosciuto. Questo purtroppo è particolarmente vero negli Stati
Uniti e solo leggermente meno presente in Europa.
La seconda condizione è complementare alla prima. La cono­
scenza del mondo sociale, al contrario della conoscenza del mondo
naturale, è alla radice di ciò che io intendo per interpretazione: la
conoscenza acquisisce lo status di sapere in molti modi, alcuni dei
quali culturali, ma più spesso sociali e politici. L’interpretazione è
prima di tutto una forma di creazione, giacché dipende dalle atti­
vità intenzionali della mente umana, che modellano e formano gli
oggetti del proprio interesse con l’attenzione e con lo studio. Una
simile attività avviene necessariamente in un tempo e in un luogo
specifici e vi è collocata da un individuo che è a sua volta all’inter­
no di un contesto specifico, con uno specifico background, in una
situazione specifica per una specifica serie di finalità. Quindi, l’in­
terpretazione dei testi - ovvero, ciò su cui principalmente è basata
la conoscenza delle altre culture - dal momento che non ha luogo
in un laboratorio asettico, non può nemmeno fingere di ottenere
dei risultati oggettivi. E un’attività sociale ed è inestricabilmente
legata alla situazione da cui emerge, che a sua volta può conferire
all’interpretazione lo status di conoscenza oppure rifiutarla, con­
siderandola inappropriata. Nessuna interpretazione può sfuggire
a questa dinamica e nessuna interpretazione può dirsi completa
senza un’ulteriore interpretazione del contesto.
Potrà sembrare evidente che elementi “molesti”, totalmente
non scientifici, come sentimenti, abitudini, convenzioni, affiliazio­
ni e valori siano intrinseci a ogni interpretazione. Ogni interprete
è un lettore e non esiste nessun lettore neutrale e non orientato.
Ogni lettore, in altre parole, è allo stesso tempo un individuo e un
membro della società, connesso a essa da appartenenze di diversa
natura. Lavorando attraverso le forme del sentimento di apparte­
nenza nazionale, come il patriottismo, o la sudditanza a emozioni
del tutto individuali come la paura o la disperazione, chi interpreta
deve cercare di esercitare in modo rigoroso la ragione e le cono­
scenze ottenute attraverso l’educazione ricevuta (quest’ultima, allo
stesso modo, un lungo processo di interpretazione) così da poter
E D W A R D W. S A ID 167

raggiungere la comprensione. Bisogna fare un grande sforzo per


oltrepassare le barriere che esistono fra una realtà - la condizione
dell’interprete - e un’altra, ovvero il contesto di produzione del
testo stesso. E precisamente la consapevole volontà di superare le
distanze e le barriere culturali che rende possibile la conoscenza di
società diverse dalla propria e la limita allo stesso tempo. In quel
momento, nell’atto interpretativo, il lettore comprende sé stesso
all’interno della precipua situazione in cui si trova e mette il testo
in relazione alla sua situazione, ovvero il contesto umano da cui il
suo giudizio scaturisce. Questo può accadere solo come risultato
di un processo attraverso il quale l’autoconsapevolezza dà vita a
un’altra consapevolezza, che si può così tradurre: ciò che appare
distante e alieno non è, per questo, meno umano. Non c’è bisogno
di aggiungere che l’intero processo ha assai poco a che vedere con
«una conoscenza nuova e del tutto diversa» alla quale alludono gli
orientalisti convenzionali, o con le “discipline” autoreferenziali del
prof. Binder.
C ’è un altro aspetto da sottolineare in relazione alla questione
piuttosto astratta del processo interpretativo, che è instabile per
definizione: non si dà mai interpretazione, comprensione e quin­
di conoscenza dove non c’è interesse. Può sembrare il più banale
dei truismi, ma è esattamente questa verità assai ovvia che viene di
norma ignorata o negata. Per uno studioso americano leggere e de­
codificare un romanzo o decodificare un romanzo contemporaneo
arabo o giapponese comporta una forma di coinvolgimento con un
oggetto alieno completamente diverso dal coinvolgimento che un
chimico può intrattenere con una formula. Gli elementi chimici
non hanno valenza affettiva intrinseca e non coinvolgono le emo­
zioni umane, sebbene naturalmente anche loro possano scatenare
associazioni emotive nello scienziato, seppure per ragioni intera­
mente estrinseche. In quella che possiamo chiamare interpretazio­
ne umanistica è vero l’opposto, e per molti teorici in realtà essa
inizia con la coscienza dei pregiudizi da parte dell’interprete, con
un senso di alienazione derivante dal testo che sta interpretando, e
via discorrendo. Come ha scritto Hans Georg Gadamer:
i6 8 SA PER E E PO T E R E

Chiunque cerchi di comprendere un testo si aspetta che


esso gli dica qualcosa. Questo perché una mente ermeneutica-
mente educata deve essere fin dall’inizio sensibile alla sua no­
vità. Ma questo tipo di sensibilità non comprende né la «neu­
tralità» nell’ambito dell’oggetto né l’estinzione del proprio sé
ma la consapevole assimilazione delle proprie aspettative e dei
propri pregiudizi. La cosa importante è essere coscienti dei
propri pregiudizi cosicché il testo si possa presentare in tutta
la sua novità e sia così in grado di asserire la propria novità
contro i pregiudizi di ciascuno.5'

Quindi, nella lettura di un testo prodotto da una cultura altra è


necessario essere coscienti della sua distanza e la qualità principale
di tale distanza (sia nel tempo che nello spazio) è quasi compieta-
mente, sebbene non in modo esclusivo, la presenza dell’interprete
nel suo tempo e nel suo spazio. Come abbiamo visto, l’approccio
orientalista o più in generale degli “area studies” è quello di equi­
parare la distanza all’autorità, in modo da incorporare l’estraneità
di una cultura distante all’interno della retorica autoritaria di un
discorso professorale che assume lo status sociale di conoscenza,
senza alcun riconoscimento di ciò che tale estraneità esige da parte
dell’interprete, né della struttura di potere che ha reso possibile il
lavoro dell’interprete stesso. Intendo semplicemente dire che, qua­
si senza eccezione, non c’è scrittore sull’Islam oggi in Occidente
che si confronti in modo esplicito con il fatto che “l’Islam” venga
considerato una cultura ostile, o che qualunque cosa venga detta
sull’Islam da uno studioso di professione ricada nella sfera di in­
fluenza delle corporazioni, dei media o del governo, che giocano
tutti a turno un forte ruolo nel costruire interpretazioni, e di con­
seguenza, una conoscenza dell’Islam desiderabile e “nell’interesse
nazionale”. Nel dibattito di cui ho parlato, Leonard Binder è pa­
radigmatico: fa menzione di questi problemi, e poi li fa sparire in
una frase che rende omaggio al professionismo e alle “discipline”
e che serve per liberarsi di qualunque idea metta in discussione la
loro apparenza di obiettività razionale. Si tratta di un esempio di
31. Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo. Lineamenti di u riermeneutica filosofica
[1980], Milano, Bompiani, 1990, p. 327.
E D W A R D W. S A ID 169

conoscenza socialmente accettabile che cancella i passi con cui è


stata costruita.
Come aspetto dell’interpretazione, l’“interesse” può essere defi­
nito molto più precisamente e concretamente. Nessuno si imbatte
per caso nell’Islam, nella cultura islamica o nella società islamica.
Per un cittadino di uno stato industriale occidentale odierno ci
si imbatte nell’Islam a causa della crisi politica del petrolio o per
il fondamentalismo e il terrorismo o per una forte attenzione dei
media o per la vecchia tradizione di commenti specialistici - quel­
li degli orientalisti - sull’Islam in Occidente. Prendiamo il caso di
un giovane storico che desideri specializzarsi nella storia del Medio
Oriente moderno. Egli inizierà a studiare l’argomento con tutti i
fattori in gioco, che contribuiscono a modellare e a dar forma alla
situazione in cui vengono appresi i “fatti”, i supposti dati ogget­
tivi. Oltre a ciò vanno presi in considerazione la storia personale
dell’individuo, la sua sensibilità e le sue capacità intellettuali. Prese
insieme, queste ultime costituiscono una misura significativa del suo
interesse in materia: la pura curiosità si modula in base a questio­
ni di tal fatta: l’ipotesi di consulenze per il Dipartimento di Stato,
l’organizzazione militare o le compagnie petrolifere, il desiderio di
partecipare a dibattiti in televisione, a congressi o di diventare uno
studioso famoso, il desiderio di “dimostrare” che l’Islam sia un si­
stema culturale meraviglioso (o terribile, secondo i casi), l’ambizio­
ne di fungere da ponte di comprensione tra l’una e l’altra cultura,
il desiderio di conoscenza. A tutto ciò si devono aggiungere i testi,
i professori, la tradizione accademica e il contesto specifico in cui
l’esperienza di studio viene a collocarsi. Infine, ci sono anche altre
cose da prendere in considerazione. Se si studia, per esempio, la sto­
ria della proprietà terriera siriana nel X IX secolo, è assai probabile
che anche il più asciutto e “oggettivo” esame dell’argomento avrà
una qualche rilevanza politica attuale, in particolare per un dipen­
dente governativo ansioso di capire le dinamiche dell’autorità tradi­
zionale (che è connessa alla proprietà terriera) come contrappeso al
potere del partito Baath nella Siria contemporanea.
Ma se, in primo luogo, ci sforziamo di avere un approccio non
coercitivo con una cultura distante e, in secondo luogo, l’interprete
170 SA PER E E P O T E R E

è cosciente della situazione interpretativa in cui viene a trovarsi


(cioè se l’interprete comprende che la conoscenza di un’altra cul­
tura non è assoluta ma relativa alla situazione interpretativa in cui
tale conoscenza si produce), allora è più che probabile che l’inter­
prete percepisca il punto di vista ortodosso sull’Islam o su altre
culture “aliene” come fortemente limitato. Per comparazione, la
conoscenza antitetica dell’Islam sembra avvicinarsi a una distanza
ragionevole verso il superamento delle limitazioni del punto di vista
ortodosso. Proprio per il fatto che gli studiosi antitetici rigettano
la nozione che la conoscenza dell’Islam debba essere soggetta agli
immediati interessi del governo o debba semplicemente confluire
nell’immagine mediatica dell’Islam in modo da fornire al mondo
militanza e violenza terribile, essi evidenziano la connivenza tra
sapere e potere. Così facendo, cercano di costruire relazioni con
l’Islam diverse da quelle ordite dagli imperativi del potere. Ricer­
care relazioni alternative significa ricercare altre situazioni inter­
pretative; e viene quindi sviluppato un metodo analitico molto più
rigoroso.
Alla fine, tuttavia, non esiste alcuna via d ’uscita semplice da
quello che alcuni critici hanno chiamato il “circolo ermeneutico”.
La conoscenza del mondo sociale, in breve non è mai migliore del­
le interpretazioni su cui si basa. Tutta la nostra conoscenza di un
fenomeno così complesso ed elusivo come l’Islam ci perviene at­
traverso testi, immagini ed esperienze che non sono incarnazioni
veridiche dellTslam (appreso, dopotutto, solo attraverso rappre­
sentazioni), bensì interpretazioni di esso. In altre parole, tutta la
conoscenza delle altre culture, società o religioni passa attraverso
un mescolanza fra prove indirette e situazione individuale dello
studioso, che include il tempo, il luogo, le capacità personali, la
situazione storica e tutte le altre circostanze politiche generali. Ciò
che rende questa conoscenza accurata o inaccurata, cattiva, mi­
gliore o peggiore, ha principalmente a che fare con i bisogni della
società in cui questa conoscenza si produce. Esiste naturalmente
un livello di semplice fattualità senza il quale non può darsi co­
noscenza alcuna: dopotutto, come si può “conoscere” l’Islam in
Marocco senza conoscere l’arabo, il berbero e qualcosa sul paese e
EDWARD W. SAID 171
sulla sua società? Ma al di là di questo, la conoscenza dell’Islam del
Marocco non è una semplice faccenda di corrispondenza tra qui e
là, tra un oggetto inerte e il suo osservatore, ma un’interazione tra
i due (di solito) per uno scopo qui e ora: per esempio un articolo,
una conferenza o una consulenza ai politici. La conoscenza viene
considerata raggiunta nel momento in cui lo scopo è soddisfatto.
Ci sono altri usi della conoscenza (inclusa l’inutilità), ma i princi­
pali tendono a essere assai funzionali e/o strumentali al potere. Ciò
che diventa conoscenza pubblica, quindi, è un qualcosa di assai
composito, ed è meno determinata da bisogni intrinseci (che sono
comunque raramente intrinseci) che estrinseci. Lo studio delle éli­
te iraniane sotto i Pahlevi prodotto da un accademico americano
con delle buone credenziali può essere utile ai politici che hanno
bisogno di trattare con il regime imperiale; lo stesso identico stu­
dio può apparire a uno studioso non ortodosso dell’Iran infarcito
di errori e giudizi erronei.31 Tali standard di giudizio radicalmente
differenti non suggeriscono la necessità di altre e migliori pietre di
paragone né di più saldi valori assoluti; debbono piuttosto ricor­
darci che è nella natura dell’interpretazione riportarci ai proble­
mi sollevati dall’interpretazione stessa, a chiederci per chi, a quale
scopo e perché una certa interpretazione è più convincente in tale
o talaltro contesto. L’interpretazione, il sapere e, come ha detto
Matthew Arnold, la cultura stessa sono il risultato di contesti e non
un puro dono del cielo.
La mia tesi in questo libro è che la rappresentazione canonica e
ortodossa all’Islam che si ritrova nell’accademia, nel governo e nei
media sia un fenomeno che lega tutti questi aspetti e abbia rappre­
sentato la più diffusa, influente e persuasiva modalità di conoscenza
in Occidente. Il successo di questa rappresentazione va attribuito
all’influenza delle persone e delle istituzioni che l’hanno prodotta
piuttosto che all’accuratezza interpretativa o alla verità scientifica.
Ho anche postulato che tale rappresentazione sia servita a scopi
solo tangenzialmente correlati alla conoscenza dello stesso Islam.
Il risultato è stato il trionfo non solo di una particolare conoscenza
32. Cfr. il commento di Ali Jandaghi allo studio di Marvin Zonis sull’élite iraniana:
The Present Situation in Iran, in «Monthly Review», novembre 1973, pp. 34-47.
172 SA PE R E E P O T E R E

dell’Islam ma piuttosto di una particolare interpretazione che tut­


tavia non è stata né incontestata né impenetrabile alle domande
sollevate da menti non ortodosse e indagatrici.
Ed è quindi proprio per questo che r “Islam” non è stato parti­
colarmente utile per spiegare la Guerra del Golfo, non più di quan­
to le idee sulla “mentalità dei negri” siano state utili nello spiega­
re le esperienze dei neri americani del X X secolo. Perché, oltre
a fornire una soddisfazione narcisistica all’esperto che adopera le
interpretazioni e il cui tenore di vita spesso dipende da esse, questi
concetti totalitari non hanno tenuto il passo né degli eventi né delle
complesse forze che li hanno prodotti. Il risultato è stato quello di
una divaricazione sempre maggiore fra l’affermazione di concetti
omogeneizzanti e le assai più potenti asserzioni e discontinuità del­
la storia contemporanea. E in questo iato solo occasionalmente si è
avventurato un individuo in grado di porre domande pertinenti e
aspettarsi risposte ragionevoli.
Nessuno può conoscere tutto del mondo in cui viviamo e quin­
di, prevedibilmente, la divisione del lavoro intellettuale dovrà
continuare a esistere. L’accademia richiede tale divisione, lo stesso
sapere la pretende, la società occidentale è organizzata attorno a
essa. Ma la maggior parte della conoscenza sulla società umana è,
in fondo, accessibile al senso comune - ovvero al senso che emerge
dalla comune esperienza umana - ed è e deve essere soggetto a
un qualche tipo di valutazione critica. Questi due “oggetti”, senso
comune e valutazione critica, sono in ultima analisi attributi sociali
e intellettuali in genere raggiungibili e coltivabili da chiunque, e
non il frutto del privilegio di una classe speciale, né il possesso
esclusivo di un manipolo di “esperti” laureati. E però necessario
un training particolare se si vuole imparare l’arabo o il cinese o se
si vogliono capire i significati delle tendenze economiche, storiche
e demografiche. E l’accademia è il luogo per rendere disponibile
questo training-, su questo non ho alcun dubbio. Il guaio arriva nel
momento in cui il training produce gilde ed “esperti” giornalistici
che, perso il contatto con la realtà delle comunità, del buon sen­
so e della responsabilità intellettuale, portano avanti dei gruppi di
interesse particolare e a ogni costo si mettono entusiasticamente e
E D W A R D W. S A ID 173

acriticamente al servizio del potere. In entrambi i casi, le società o


le culture straniere come l’Islam finiscono con l’essere rappresen­
tate più che spiegate o comprese. C ’è anche il rischio che nuove
rappresentazioni fittizie vengano inventate e circoli un’inaudita va­
rietà di disinformazione.
In quasi ogni momento degli ultimi anni, si sono avute evidenti
prove, accessibili a chiunque, che il mondo non-occidentale in ge­
nere e l’Islam in particolare non sia più adeguato agli schemi trac­
ciati dagli scienziati sociali europei e americani, dagli orientalisti e
dagli esperti di area nell’immediato dopoguerra. Questo concetto
ritengo sia stato ben formulato dal noto studioso e critico algerino
Mohammad Arkoun, professore di filosofia islamica alla Sorbona:

il discorso accademico sugli “studi islamici” deve ancora


fornire una spiegazione di come così numerosi campi, teorie,
sfere culturali, discipline e concetti abbiano finito con l’essere
associati con il singolo termine “Islam ” e perché la discussio­
ne resti così monodimensionale laddove riguardi l’Islam. Di
contro, lo studio delle società occidentali è caratterizzato da
indagini accurate, attenzione ai dettagli specifici, distinzioni
meticolose e costruzioni di teorie. L o studio delle culture oc­
cidentali continua a svilupparsi lungo queste linee e a muo­
versi in una direzione ben diversa da quello dello sfortuna­
to approccio adottato nell’area dell’“Islam ” e nel cosiddetto
“mondo arabo” (cit. in Malise Ruthven, «London Review of
Boooks», i° agosto 1996, p. 27).

È certamente vero che il mondo islamico nel suo insieme non è


né del tutto antiamericano o antioccidentale, né uniforme e preve­
dibile nelle sue azioni. Senza tentare di voler dare una spiegazione
esaustiva di questi cambiamenti, ho avuto modo di dire che ciò
ha significato l’emersione di realtà nuove e irregolari nel mondo
islamico; e non è meno vero che simili irregolarità, disturbando
le tranquille disquisizioni teoriche degli anni precedenti, si siano
verificate in altre parti del mondo postcoloniale. Riaffermare sem­
plicemente le vecchie formule sul “sottosviluppo” e la “la menta­
lità afro-asiatica” è abbastanza stupido; ma connetterle in maniera
174 SAPERE E POTERE

causale con dati sul triste declino dell’Occidente, la sfortunata fine


del colonialismo e la deplorevole diminuzione del potere america­
no - devo affermarlo con la maggior forza possibile - suona folle.
Non c’è semplicemente alcun modo in cui società migliaia di miglia
distanti dal mondo atlantico, sia nello spazio che nell’identità, pos­
sano conformarsi a ciò che noi vogliamo da loro. Si può considerare
tutto ciò un fatto neutrale senza considerarlo anche (come nel mio
caso) una buona cosa. In ogni caso, il rischio di parlare della scon­
fitta, e quindi della minaccia dell’Iran e del declino dell’Occidente,
nella stessa frase è quello di precluderci immediatamente la possi­
bilità razionale di altre azioni politiche, diverse dalla predominanza
dell’Occidente e dalla riconquista di luoghi come il Golfo e l’Iran:
e tuttavia, quest’ultimo è stato lo schema degli ultimi due decenni.
Il recente successo di “esperti” che nelle loro opere mettono in
guardia sulla fine (o argomentano per la loro estensione) del domi­
nio britannico o americano o francese nel mondo è, secondo me,
una testimonianza agghiacciante di ciò che potrebbe affacciarsi alla
mente dei politici e a quali profondi bisogni di aggressione e di
conquista questi “esperti” sono realmente asserviti consciamente
o inconsciamente.” Che esistano nativi compiacenti con il potere
appartiene alla triste storia del collaborazionismo e non (come a
qualcuno piacerebbe) a segni di nuova maturità nel Terzo mondo.
Eccetto che per propositi di conquista, 1’“Islam” non è ciò che
viene rappresentato oggi in Occidente. Dobbiamo quindi offrire
un’alternativa: se 1’“Islam” ci dice molto meno di quanto dovreb­
be, se nasconde scheletri nell’armadio, allora dove - o piuttosto
come - cercare informazioni che non incoraggino nuove forme
di prepotenza né vecchie paure o pregiudizi? In questo libro ho
menzionato e, qualche volta, descritto l’inutilità di certe indagini,
33. Come esempi, vedi J. B. Kelly, Arabia, The Gulf, and the West, cit., che lamenta
la partenza dei britannici verso l’est di Suez; Elie Kedourie, che attacca de Gaulle
per “essersi arreso” all’Algeria - vedi la sua recensione ad Alistair Horne, A Savage
War o f Peace: Algeria, 1954-1962 sul «Times Literary Supplement» del 21 aprile 1978,
pp. 447-450; e Robert W. Tucker, con un’intera fila di seguaci, che hanno sostenuto
un’invasione americana del Golfo per almeno cinque anni (vedi note 37 e 41 del primo
capitolo). Dietro gran parte di questi lavori c’è l’opera di Edward N. Luttwak: vedi il
modello presentato nel suo La grande strategia dell’impero romano dal I al III secolo d.
C. [1976], Milano, Rizzoli, 1996.
EDW ARD W. SAID 175

e ho anche detto che si deve far propria l’idea che ogni sapere è
interpretazione e che l’interpretazione deve essere autocosciente
nel metodo e negli scopi se vuole essere attenta e umana e se vuole
arrivare alla conoscenza. Ma al di sotto di ogni interpretazione di
altre culture - specialmente dell’Islam - esiste una scelta di fronte
alla quale il singolo studioso o l’intellettuale si trova: se mettere
l’intelletto al servizio del potere o al servizio della critica, della co­
munità, del dialogo e del senso morale. Questa scelta deve essere il
primo atto interpretativo oggi, e deve oggettivarsi in una presa di
posizione e non semplicemente in un rinvio. Se la storia della co­
noscenza dell’Islam in Occidente è stata troppo strettamente legata
alla conquista e al dominio, è giunto il momento in cui questi lega­
mi vengano recisi del tutto. Non si enfatizza mai abbastanza un si­
mile fatto. Perché, altrimenti, non solo dovremmo fronteggiare una
tensione protratta e forse anche una guerra, ma prospetteremmo al
mondo musulmano e alle sue diverse società un futuro di conflitti,
di sofferenze inimmaginabili, di sollevazioni disastrose, non ultima
conseguenza delle quali sarebbe la vittoria di un “Islam” pronto
a giocare il ruolo per lui preparato dalla reazione, dall’ortodossia
e dalla disperazione. Anche per gli standard più sanguinosi non è
una possibilità piacevole.
NOTE SULL’EDIZIONE

Covering Islam. Come i media e gli esperti wdeterminano


la nostra visione del resto del mondo
di Edward W. Said
Curatela Marco Gatto
Traduzione Marco Gatto, Caterina Giannottu
e Marco Montemurro
Impaginazione Dario Rossi
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in Toscana, ed è stata (rifondata da Giulio M ilani e Marco Rovelli.
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(coordinatore), Massimo Gezzi,
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Ballate di fine comuniSmo di Davide Giromini
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12. Azzurra D ’Agostino, D ’aria sottile + CD Rianta di Kay McCarthy
13. Alessandro Raveggi, La trasfigurazione degli animali in bestie + c d omonimo
di A smile for Timbuctu
14. Castaldi, Castiglione, Clesis, Presciuttini, Salardi, Madre morte + CD Ar­
monie di Maria Grazia Berti
15. Demetrio Paolin, La seconda persona + CD Dalla parte del torto di Claudio
Lolli
16. Stefano Lorefice, Frontenotte + CD Black di Le-Li
17. Gilda Policastro, Antiprodigi e passi falsi + c d omonimo di Massimiliano
Sacchi
18. Rosaria Lo Russo, Nel Nosocomio + CD L’estinzione di un colloquio amoroso
di Massimo Zamboni
19. Gloria Gerecht, Caduta massi + CD The old standards di Enzo Orefice
20. Jonida Prifti, Ajenk + CD omonimo
21. Salvatore Ritrovato, Cono d ’ombra + dvd omonimo
22. Alessandro Broggi, Coffee-Table Book + cd There’s Nothing better than
producing sounds di Gianluca Codeghini
23. Georges Bataille, a cura di Antonio Contiero, w.c. + CD omonimo di
Alessandra Celletti
24. Luca Musella, Avviso di vendita senza incanto + d v d omonimo
25. Giovanna Frene, Il noto, il nuovo + cd Paura del buio dei Poems
FINITO DI STAMPARE NELL’AGOSTO 2012
PRESSO STAMPA EDITORIALE SRL, MANOCALZATI (av)
SU CARTA CERTIFICATA FSC

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