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CONFUTAZIONE DELL'ISLAMISMO

RADICALE

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ABDULLAH GIAMPIERO FILANGIERI

CONFUTAZIONE DELL'ISLAMISMO
RADICALE
Seconda edizione riveduta e aggiornata

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Premessa dell'autore

È inutile negare che il Corano è stato interpretato


male e anche fin troppo liberamente. Mi rendo conto
però che anche il mio Confutazione dell’islamismo
radicale – senza certo paragonarlo al Corano - può
venir interpretato scorrettamente come ogni altro li-
bro. Nel tentativo di scongiurare questa ipotesi espon-
go una delucidazione su quale sia l’obiettivo di questo
libro e quale la sua corretta interpretazione.
Ci tengo subito a precisare che gli argomenti
trattati in questo libro non hanno a che fare con la tesi
dello scontro di civiltà formulata da Bernard Lewis.
Gli attacchi terroristici alle Twin Towers e al
Pentagono del 2001 hanno ampliato il dibattito
animatosi già in precedenza attorno a problemi aperti
ben noti, oltre a portare all'attenzione degli utenti
dell'informazione tematiche di attualità ispirate a tesi
di scontro di civiltà; tematiche, queste, divenute anche
fin troppo ridondanti e ripetitive e che andrebbero
ormai rinnovate. Alimentarne la discussione - anche
in varie maniere del tutto irresponsabili - ha portato

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non solo al dilagare di xenofobia e islamofobia (e per
reazione un attaccamento maggiore alla degenerazione
integralista dell'Islam) ma ha condotto le masse ad
agire in maniera totalmente irrazionale.
In questo libro ho esposto la mia tesi secondo
la quale l’islamismo radicale è sì un errore ma non
solo dal punto di vista umano ma anche da quello
teorico. Il mio tentativo è quello di confutare la con-
vinzione fin troppo ribadita secondo la quale l’Islam
sarebbe un sistema completo e integrale, da tradursi
pienamente nella vita politica, economica e sociale.
Questo libro mette in luce, inoltre, i vari errori
commessi da Paesi e partiti islamisti nella loro con-
dotta di governo, quando hanno avuto l’opportunità di
esercitarla; ho fatto ciò al fine di dimostrare che
l’islamismo radicale sia un completo fallimento anche
come ideologia politica.
Lo sviluppo del libro è storico e tematico a un
tempo: si tratta di ripercorrere la Storia del pensiero
islamico al fine di permettere al lettore di comprendere
meglio come, e per quali cause, la parte più
conservatrice del mondo islamico è giunta alla deriva
islamista. Le idee di alcuni dei principali teorici del
radicalismo islamico sono, in più, messe a confronto
con le fonti sacre dell’Islam, per rendere evidente al
lettore la dissimmetria concettuale e contenutistica tra

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quelle idee e le fonti alle quali pretendono di ispirarsi.
Quest'opera propone, come via d’uscita dall’I-
slam politico, da un lato il mancato raggiungimento
dei suoi obiettivi e, dall’altro, il ritorno a un Islam più
rispettoso delle sue fonti sacre e dei suoi valori umani
- senza nessun bisogno di propugnare nuove utopie-.
Tutto ciò permetterebbe anche di fare chiarezza su un
tema ancora poco dibattuto: cosa sia da considerare
Islam e che cosa Islamismo.
Alla luce di tutto questo, l’obiettivo del mio
libro è far emergere un rispetto delle fonti sacre
dell’Islam più interiore che collettivo, con ciò inten-
dendo dire che il miglior credente è colui che crede per
se stesso.

Abdullah G. Filangieri

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PRIMA PARTE
NASCITA E SVILUPPO DELLE DEVIAZIONI
RELIGIOSE IN SENO ALL'ISLAM

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1. La grande frattura

La scandalosa escalation di violenza dei movi-


menti terroristi di matrice islamista, ISIS e Al-
Qaida in primis, non è frutto di una improvvisa
ipnosi collettiva. La tensione che ha prodotto l'at-
tacco terroristico alle Twin Towers e al Pentagono
del 2001 era nell'aria già da tempo. Esistono luo-
ghi, nel mondo arabo, nei quali si ha la sensazio-
ne che la violenza si respiri nell'aria. Perché? È
forse giusto coinvolgere civili, tra donne, bambi-
ni, i musulmani stessi e chiunque si incontri sul
proprio cammino, rendendoli vittime indiscrimi-
nate delle manifestazioni violente di una lotta
armata? Gli islamisti direbbero che l'uccisione di
innocenti in attentati e altre azioni terroristiche
sia “possibile”, anche alla luce della convinzione,
sostenuta dagli islamisti, che ogni occidentale sia
da considerare "nemico", e nella cerchia dei "ne-
mici" rientrino tutti: i popoli arabi e chiunque al
mondo, perfino i musulmani stessi, e quindi la

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sua uccisione sarebbe legittimata da tale presun-
zione. Ma la risposta a questo interrogativo è un
grandissimo no: tutto ciò non deve più accadere,
e basta.
Il Medio Oriente, in ogni caso, non è im-
pazzito di colpo: il radicalismo islamista è frutto
di una degenerazione intellettuale lenta ma irre-
frenabile, fatta di secoli di rancori, dissidi interni,
lotte di potere intestine, interessi economici pri-
vati e settari. A cominciare dall'evento scismatico
(656 d.C.) che seguì di soli ventiquattro anni la
morte del profeta Maometto* (Muhammad*)
l'Islam perse la coesione che fino ad allora aveva
potuto vantare come comunità religiosa, insieme
alla sua unità territoriale, da almeno un secolo da
quando l'Islam divenne impero (IX sec. d.C.).
Accadde non di rado - come accade ancora oggi -
che la fortuna di una setta su un'altra si decida
sul campo, capeggiati dal solito leader sedicente
discendente del Profeta* scagliatosi contro l'"ini-
quo" di turno, come anche contro tribù dichiarate
ostili con il pretesto della loro vera o presunta
carenza di religiosità. Questi eventi innescarono
una spirale di dissidi interni le cui conseguenze
sono ancora oggi più che visibili.

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Naturalmente gli avvenimenti succitati
hanno avuto dei chiari sviluppi: a questi segni di
decadenza e di reciproca ostilità e discordia in se-
no all'Islam si è aggiunto, negli ultimi due secoli,
un fenomeno di revisionismo religioso culminato
nella comparsa, negli Anni Venti del XX, dell'i-
slamismo radicale. Se ci si vuole tenere alla larga
dal fenomeno del radicalismo più violento, biso-
gna risalire all'origine del problema.
I media occidentali si accorsero molto tar-
divamente dell'integralismo o fondamentalismo
islamico – quello che oggi viene più di frequente
chiamato “islamismo” o “radicalismo”. L'evento
che lo ha portato alla loro attenzione è stata la
Rivoluzione Iraniana del 1979, nonostante il suo
germe si nascondesse e moltiplicasse in seno
all'Islam da molto più tempo, con le premesse di
un integralismo a metà tra religione e idee
politiche di varia fonte e ispirazione.
Il dissidio più importante, la vera querelle
che ha dato origine a tutto ciò ruota attorno alle
seguenti affermazioni, tutt'oggi ribadite caparbia-
mente da tutti i sostenitori dell'Islam politico:
l'Islam altro non sarebbe che un “sistema com-
pleto e integrale”, “religione e Stato, Libro e
spada e sistema di vita”. Stando alle parole dei

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filosofi islamisti, la principale caratteristica dell'I-
slam sarebbe quella che non si concepisca separa-
zione tra gli aspetti materiali e spirituali della vita
(Mawdûdî): l'intromissione dell'islamismo nella
vita pubblica produce, se inserita nell'organizza-
zione di uno Stato, masse totalmente obbedienti e
disposte a qualunque sacrificio per questi nuovi
imprecisi e inconsistenti ideali.
Questo libro, frutto di anni di meditazio-
ne, si occupa di trovare e di esporre la dimostra-
zione del contrario; ed è indispensabile, perché
non si può pensare di opporsi al massacro perpe-
trato dal radicalismo se, al tempo stesso, si con-
dividono le idee e i “principî” ai quali si ispira.
Bisogna innanzitutto fare chiarezza: anche
se il radicalismo sostiene di essere la più auten-
tica espressione del messaggio del Corano, non
c'è nulla di più falso di questa affermazione. In
realtà il Corano non è affatto la fonte autentica
dei pensieri e delle idee degli islamisti. Bastereb-
be metterli a confronto l'uno con gli altri: le tema-
tiche essenziali e i contenuti ideologici dell'Isla-
mismo radicale non riflettono il messaggio del
Corano e le sue verità fondamentali, tutt'altro.
Bisogna cominciare affermando che la dissimme-
tria tra il Corano e l'Islam politico è contenutistica

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e concettuale.
C'è da chiedersi, dapprincipio, se l'Islam
sia davvero un sistema completo e integrale, se la
sua parte normativa si possa estendere ad ogni
aspetto della vita anche facendo ricorso al ragio-
namento analogico (ijtihâd) dei dottori del diritto
e quanto, del Corano e delle Tradizioni orali attri-
buite a Maometto* venga effettivamente rispetta-
to dai musulmani più estremisti.
L'invasione napoleonica dell'Egitto è il
momento storico al quale si fa risalire l'inizio del
Riformismo islamico, un movimento culturale
musulmano ispiratosi, forse, alla riforma prote-
stante. L'Egitto svolgeva un ruolo fondamentale
in quello che restava dell'integrità territoriale del
mondo islamico e la sua perdita venne interpre-
tata dagli arabi come fosse stata la sconfitta stessa
dell'Islam. Questa dispercezione determinò quin-
di un cambiamento radicale nel mondo islamico,
persuaso com'era che la missione di Maometto*
(Muhammad*) fosse fallita.
Questo evento inaspettato venne narrato
nelle cronache napoleoniche dello storico Al-
Giabarti (1753-1825) e preparò l'ambito di discus-
sione di una serie di interrogativi che si perpetua
ancora oggi. Si cominciò a mettere mano all'inter-

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pretazione del Corano e, nel giro di cinquant'an-
ni, l'aspetto stesso del mondo islamico era cam-
biato da ogni profilo. Una conoscenza più appro-
fondita della Storia dell'Islam suggerisce che in
realtà la spedizione di Bonaparte in Egitto, del
riformismo è stata solo l'evento scatenante: la
perdita del rispetto dei valori e delle fonti sacre
dell'Islam da parte dei musulmani si stava già
preparando da tempo. Quando spiegano la Sto-
ria, gli stessi orientalisti specificano, in un secon-
do momento, che far risalire all'invasione napole-
onica (1798 ca.) l'inizio del movimento culturale
arabo conosciuto come “rinascita” è soltanto un
postulato stabilito per convenzione.
Già questo movimento culturale, letterario
e di riforma religiosa, meglio conosciuto come
“Nahda”, di stampo laico e revisionista, fece sì
che il cammino dell'Islam cambiasse direzione. Il
fallimento del riformismo portò, per reazione,
alla nascita del radicalismo islamico all'inizio del
XX secolo, con la perdita dei valori umani più
basilari.
Gli arabi però non erano affatto tornati
all'Islam: Olivier Carré ha riassunto così il con-
cetto di radicalismo islamico:

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L'islam politico attivista di oggi, che chiamiamo
spesso islamismo o integralismo, consiste in una
ribellione – insurrezionale o meno – contro un
potere dichiarato «empio e rinnegato». L'obiet-
tivo consiste in una fraternizzazione di tutte le
classi in vista di una giustizia sociale islamica,
attraverso un'organizzazione sociale islamizzata
con l'aiuto del diritto musulmano originale,
nonché in totale indipendenza dalle potenze
«empie». Sunniti o sciiti, l'ispirazione e i pro-
grammi sono simili, così come la forza di mobi-
litazione. Essi attirano soprattutto le persone de-
luse dai regimi autoritari di sviluppo economico
accelerato come il modello turco kemalista e il
modello iraniano dei due scià pehlevì […].
Dalla preparazione di un'avanguardia
islamica... fedele alla «sovranità politica esclusi-
va di Dio» degli anni '60 e '70, si passa all'insur-
rezione violenta immediata contro poteri rinne-
gati e all'instaurazione integrale della legge pe-
nale letterale «coranica» da parte dei cosiddetti
stati rivoluzionari islamici degli anni '70 e '80. I
gruppi più estremisti riprendono le ideologie
primitive dei gruppi violenti, se non terroristi,
dei movimenti considerati dalla Tradizione
come eretici: kharigiti agli inizi, al tempo stesso
antisunniti e anti-sciiti, ismailiti nelle forme ra-
dicali più tarde...

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Essi proclamano la guerra (jihad) contro
gli stessi musulmani, dichiarati collettivamente
rinnegati, quindi passibili di pena capitale senza
processo1.

In realtà, dunque, l'Islamismo radicale è


un Islam militante molto diverso e di molto
posteriore a quello predicato da Maometto* (o,
per meglio dire, Muhammad*, suo nome origi-
nale). Non si può fare a meno di notare che
l'Islam abbia subito notevoli modifiche nel corso
dei secoli, benché il testo del Corano sia rimasto
perfettamente intatto. Si dibatte ancora poco in
merito alle origini dell'Islamismo: è un fenomeno,
questo del radicalismo islamico, scaturito dalle
pericolose innovazioni e riforme che l'Islam ha
subito negli ultimi secoli del suo involutivo
percorso storico e culturale. Tutto ciò può essere
spiegato nei termini suesposti, ed è da qui che
bisogna cominciare se si vuole fare chiarezza e
comprendere perché bisogna che il massacro non
si ripeta.

1 Carré, Olivier, L'Islam laico. Bologna, il Mulino Contemporanea,


1993.

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2. La legge religiosa dell'Islam: periodo
docente e periodo formativo

La presente dissertazione sarebbe incompleta se


non contenesse un capitolo dedicato a un punto
caldo del dibattito sul radicalismo: la legge reli-
giosa a cui pretende di ispirare la propria, rivista
e reinterpretata e divenuta, oggigiorno, un mezzo
brutale per mettere le masse in stato di sogge-
zione. Si tratta di confutare anche la convinzione,
fin troppo ingiustamente consolidata, secondo la
quale la sciarî`ah non sarebbe niente più che un
codice di leggi beduine formato dalla somma tra
la legge del taglione e il concetto di welfare-state.
L'ideale tutto islamista del ritorno all'eser-
cizio della sciarî`ah tipico dell'epoca del Profeta* è
stato adoperato per giustificare azioni paramili-
tari aventi come oggetto l'espansione territoriale
delle ideologie jihadiste. I Pasdaran in Iran, l'ISIS
nel Siraq, i Talebani in Afghanistan, insieme ad
altre analoghe vicende di sollevamento in armi
dei jihadisti dietro varie sigle hanno tutte un

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denominatore comune: il presupposto che ovun-
que non si faccia abbastanza per applicare la
legge penale coranica nella maniera più letterale
e onnicomprensiva. Una volta divenuta Pubblica
amministrazione sotto varie forme, la jihad glo-
bale ha replicato l'errore commesso da tutti quelli
che si sono adoperati per soggiogare altri popoli,
vale a dire avvalersi della necessità di imporre
dall'alto una legge migliore di altre.
Di qui si torna all'immediato riferimento
ai raccapriccianti delitti commessi in nome di una
presunta legge penale letterale coranica. Questo è
sicuramente un punto debole della retorica jiha-
dista: la volontà di rieducare e correggere tutti gli
individui sottoponendoli ai rigori della "sciarî`ah".
Bisognerebbe invece oggettivamente domandarsi
se un mondo già da lungo tempo incamminato
verso la rovina e la corruzione morale possa mai
trarre beneficio dal tentativo di rieducarlo e cor-
reggerlo. Non si potrebbe più chiamare legge e
non sarebbe in alcun modo produttiva. Non si
ridurrebbe che a stato di natura. Nemmeno i più
pii tra gli uomini e le donne scampano a una
siffatta imitazione della natura, che non tollera
alcun tipo di infrazione né di difficoltà oggettiva
a perfezionare la prassi. Ai fini della cessazione

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delle iniquità che regnano nel mondo si dovrebbe
attendere un intervento divino e niente più, que-
sta è la mia ottica.
Rieducare e correggere, dunque, sottopo-
nendo terzi ai rigori della legge. Se da una parte è
una mossa che consente di giustificare il proprio
progetto di espansione territoriale, dall'altra
suscita prevedibili reazioni da parte dei popoli
sottomessi e costretti a obbedire con la forza della
coercizione - qualora altre tecniche di modifica-
zione comportamentale e di propaganda non sia-
no sufficienti -.
Si tratta di uno scenario in parte già visto
ai tempi dell'età degli imperi, con la riserva che
gli attori internazionali erano altri rispetto a
quelli di oggi. Hannah Arendt ne fornì una
descrizione dettagliata, di cui mi limito a citare
un estratto:

Uno stato nazionale non potrebbe mai soggio-


gare popoli stranieri mantenendo pulita la sua
coscienza, perché ciò è possibile soltanto quan-
do il conquistatore è convinto di imporre una
legge superiore a dei barbari [...]. Dovunque si è
presentato nella veste di conquistatore, ha
infatti destato la coscienza nazionale e la

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volontà d'indipendenza nel popolo vinto, man-
dando a monte il tentativo di costruzione di un
impero duraturo.

Non meno di altri, l'Iran dei Pasdaran, lo


Stato wahhabita dell'Arabia Saudita, la Turchia
dei tempi più recenti e una delle parentesi stori-
che più drammatiche - quella di Daish nel Siraq -
hanno tentato di internazionalizzare il proprio
modello di vita, ma - e questa è una delle grandi
contraddizioni di un movimento, quello jihadista
globale che, almeno negli intenti dichiarati, pro-
pone cambiamenti e riforme - è uno stile di vita
completamente anacronistico, e la sua legge, rivi-
sitata e riproposta in chiave integralista non fa
eccezione, poiché degenerata da sapienza divina
a stato di natura.
Certamente la guerra, ben lungi da indivi-
duare di per se stessa la soluzione ai problemi e a
ciò che non piace, non può essere considerata che
una estrema ratio, quando a scatenarla sono fattori
che non possono prescindere dall'intervento delle
forze armate, in casi in cui l'uso della forza nella
risoluzione delle controversie internazionali non
è strettamente ripudiato, e si muove nel rispetto
del diritto. L'integralismo islamico non è dello
stesso avviso, e non si fa scrupoli a imporre la

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propria autorità a scapito del destino di intere
popolazioni: donne, bambini, anziani, che per-
dono la vita nelle forme più brutali dell'uso della
violenza o, nei casi migliori, la propria abitazione
e la propria terra. Questi, gli scampati alla
violenza dei gruppi armati, sono destinati non di
rado a divenire profughi costretti ad emigrare,
lasciati alla mercé delle organizzazioni interna-
zionali, dei trattati sull'immigrazione, costretti a
mendicare accoglienza alle popolazioni ospitanti.

Sciarî`ah del periodo docente

Il senso del divino e dell'umano trovarono la loro


massima espressione nell'Islam: il suo messaggio
è chiaro e intelligibile:
«Non invidiatevi a vicenda, non rincarate i
prezzi, non odiatevi a vicenda, non voltatevi le
spalle, che nessuno di voi faccia acquisti sugli
acquisti di altri! Siate fratelli, o servi di Allah. Il
musulmano è del musulmano fratello: non lo
tratta ingiustamente, non lo abbandona, non lo
inganna e non lo disprezza. Il devoto timore di
Allah risiede qui – e si indicò il petto per tre
volte -. È male per un uomo disprezzare il suo
fratello musulmano. Tutto il musulmano è al

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musulmano inviolabile: la sua vita, i suoi beni e
il suo buon nome2».

Accomunati dalla fede in un unico Dio*


privo di eguali, questi erano Maometto* (570-632
ca.) e i primi musulmani. Come mostra questo
esempio, la via maestra dell'Islam (sciarîʿah) in
origine non era un corpus di leggi esteso a tutti
gli aspetti della vita pubblica. Era, piuttosto, un
modo di riunire ed esporre le indicazioni e i pre-
cetti ricavati dal Corano e dalle Tradizioni orali
(Sunna). Nel corso del pellegrinaggio dell'addio,
Maometto* (Muhammad*) lasciò alla sua Comu-
nità le sue ultime raccomandazioni, sempre più
disattese nel corso del tempo:
«Vi raccomando il devoto timore di Allah, il
Potente, l'Eccelso, e di ascoltare e obbedire
anche se sarete sotto il comando di uno schiavo.
Chi di voi vivrà vedrà tante spaccature. A voi
incombe il dovere di seguire il mio esempio e
quello dei califfi ben diretti... guardatevi dalle
cose nuove, ché in verità ogni cosa nuova è
innovazione, ogni innovazione è traviamento e
tutto il traviamento conduce al Fuoco infer-
nale3».
2 Hadith trasmesso da Muslim. Cfr. Yahya An-Nawawi, Arba'una
ahadith, Tradizione orale n. 35.
3 Yahya An-Nawawi, Op. Cit., tradizione orale n. 28.

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Questo suo discorso d'addio lanciò due
profezie: la prima ad avverarsi fu la venuta dei
primi quattro califfi (632 - 661 d.C.), che lui stesso
descrisse con l'appellativo di “ben diretti” o “ben
guidati” (râshidûn), ai quali si contrapposero, nei
secoli, molti capi di Stato iniqui e perfino qualche
sedicente califfo; l'altra (chi di voi vivrà vedrà
tante spaccature) annuncia l'evento scismatico,
quello che dividerà i musulmani in sciiti e sunniti
e che sopraggiungerà dopo soli ventiquattro anni
dalla morte del Profeta dell'Islam*. Come è noto,
il fattore scatenante lo scisma d'oriente fu il soste-
gno e la nomina di Ali (656-661) a quarto califfo.
Spodestando il predecessore 'Othmân, la
setta sciita aveva come elemento caratteristico il
suo suffragio, che forniva specificamente alla sola
famiglia e discendenza del Profeta* per parte di
Ali* e Fatima* – figlia del primo e sposa del
secondo -. Come qualcuno ha giustamente osser-
vato, non si può non considerare l'eccezionalità di
questa frattura, se confrontata con quella che
aveva, in precedenza, diviso il cristianesimo dopo
ben quattro secoli dalla predicazione di Gesù*.
Gli storici fanno risalire al Concilio di Calcedonia
(451 d.C.) lo scisma che divise le chiese d'oriente
da quella di Roma e Costantinopoli. La battaglia

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di Karbala, nella quale Hussein*, figlio di Ali* e
nipote di Maometto* verrà ucciso in modo bruta-
le dalle milizie omayyadi, determinerà la frattura
definitiva tra sciiti e sunniti.
La necessità di trasmettere all'umanità una
legge nata con l'intento di garantire la pace, la
giustizia e l'armonia venne testimoniata dalle
parole stesse del Profeta*, che disse, secondo Ibn
Abbâs:
«Se alla gente venisse dato secondo le proprie
pretese, certo molti tra gli uomini reclamereb-
bero i beni e le vite altrui4».

La legge islamica del periodo docente


dell'Islam, che si riferisce alla predicazione di
Muhammad* rimase intatta fino alla sua morte
(632 d.C.). Una volta persa la fonte vivente* delle
informazioni sull'Islam, rimasero solo le fonti
scritturali, dalle quali si dovette desumere tutto
ciò che riguarda la religione da lui* predicata.
Diversamente da quanto favoleggiano in molti, la
trasmissione orale del Corano durò soltanto due
anni, ovverosia il tempo di raccogliere in un
volume tutto il suo contenuto nel giusto ordine e
nella sua corretta configurazione. La commis-

4 Yahya An-Nawawi, Op. Cit., Hadith n.33.

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sione editoriale istituita dal terzo califfo, 'Othmân
Ibn 'Affân, convertito all'Islam della prima ora, si
occupò di fissarne le sette letture tramandate da
Muhammad* e di eliminare le collezioni corani-
che diverse dall'originale.

Le Tradizioni orali (Sunna) attribuite al


Profeta* e ai suoi compagni* sono racchiuse in
raccolte ampie e dettagliate, chiara conseguenza
dell'assiduità con la quale essi* lo interpellavano,
bramosi di ricevere da lui insegnamenti e consigli
da interiorizzare e applicare. Nell'epoca attuale
dell'islamismo radicale, l'Islam è stato però preci-
pitosamente inteso come fosse un'ideologia poli-
tica, da effettuarsi compiutamente in ogni aspetto
della vita pubblica e privata. Ma lungi dall'essere
un fenomeno che scaturisca dalle fonti sacre
dell'Islam, l'integralismo è invece una concezione
di natura trasversale, comune alle frange estreme
di molte religioni e di numerose ideologie politi-
che. Non è, dunque, peculiarità di un Islam dai
caratteri originari, al quale non appartiene.

Sciari'ah del periodo formativo


Le Tradizioni orali (Sunna) vennero così traman-

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date oralmente fino alla terza generazione dei pii
predecessori. Essi, timorosi che queste vadano
perdute, le misero per iscritto. Si calcola infatti
che un'opera letteraria tramandata oralmente
rimanga nella memoria collettiva per non più di
due secoli, il che rendeva indispensabile metterle
nero su bianco per garantirne la conservazione.
Comparirono le prime raccolte di detti e discorsi
risalenti al Profeta* e ai suoi compagni*, la cui
prima in assoluto è il Muwatta' di Mâlik Ibn Anas
(711-795 d.C.).
Le fonti sacre dell'Islam sono due: «il
Libro e la sapienza», come lo stesso Corano
enuncia in LXII:2. Se il «Libro» è il Corano, la
«sapienza» è indubitabilmente il complesso delle
tradizioni orali risalenti al Profeta Muhammad*,
proprio perché non si conosce l'esistenza di altre
fonti sacre dell'Islam, se si fa eccezione per i testi
sacri che li hanno preceduti e che hanno perso il
carattere di fonte una volta sostituiti da queste
due finali, eterne e immutabili. Se è pur vero che
il Corano è il libro che conferma ciò che è stato
rivelato in precedenza, è altrettanto irrefutabile
che i testi biblici – di qualunque origine siano -, i
Vangeli apocrifi, i rotoli di Qumran ecc. - che

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altro non sono che varianti dei Libri rivelati
anteriormente al Corano - appartengano a un
ambito diverso da quello dei Testi sacri ora in
vigore nell'Islam.
La raccolta di detti e discorsi attribuiti a
Muhammad* proseguì, simultaneamente all'esa-
me di autenticità che ne venne fatto da parte
degli stessi studiosi della Tradizione orale
(muhaddithûn). Lo strumento di cui essi si servono
per distinguere le tradizioni orali autentiche dalla
gran mole di detti e discorsi messi in bocca al
Profeta dell'Islam* è la catena di trasmettitori
(isnâd). Non escludo, in ogni caso, che alcune di
quelle frettolosamente etichettate come autenti-
che possano essere oggetto di una certa critica
testuale. Ciò non è comunque ammesso nel caso
del Corano, che i musulmani sanno essere
arrivato a loro nella sua corretta configurazione.
Nel Corano l'errore non può mai trovare varco, e
su questo tutti i musulmani sono categorici. Il
fatto che il Corano contenga miti e leggende di
varia provenienza ai più sembra scontato, ma la
provenienza umana delle versioni coraniche di
quei racconti viene ragionevolmente esclusa. La
storia coranica del profeta Giuseppe*, che

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sostanzialmente si discosta di poco dal resoconto
biblico, o quella dei sette dormienti di Efeso nar-
rata in Corano XVIII: 9-22, sono state considerate
«fonti del Corano» dall'orientalistica non musul-
mana; tuttavia è la Divinità*, in quanto onni-
sciente, a fornire la versione corretta e infallibile
di questi aneddoti. Nell'Islam è sconosciuta la
convinzione che il Corano possegga delle “fonti”,
dacché l'unica sua fonte è il suo autore onni-
sciente*, che sovrasta miti e leggende. Questa
convinzione, che dal primo momento ha assunto
valore dogmatico, trova consenso unanime anche
a livello comunitario (ijmâ`) e presso ogni musul-
mano che si rispetti.
Cominciò dunque, attorno all'VIII sec., il
periodo formativo della nuova fede. Contempo-
raneamente all'esame e alla verifica dei detti pro-
fetici si svilupparono le prime scuole di diritto.
Nell'Islam sunnita, l'ortodossia religiosa venne
determinata dagli ulema (i massimi studiosi
dell'Islam) a seguito di un notevolissimo sforzo
intellettuale che troverà la sua più grande espres-
sione tra l'VIII e il IX sec. (il II e il III del calen-
dario lunare islamico). Lungi dall'aver trovato
risposte definitive e del tutto condivisibili ai que-
siti dottrinali, gli ulema dei primi secoli si espres-

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sero efficacemente nel diritto (fiqh).
L'intesa (ijmâ`) venne da essi raggiunta
per mezzo dello scambio di epistole, lettere in cui
enunciavano i propri pareri e che si scambiavano
a vicenda, in un botta e risposta in cui accetta-
vano, riformulavano o confutavano a vicenda
tutto ciò che veniva da loro prodotto. Ci vollero
tre secoli affinché questa logica della dialettica e
del confronto si concludesse con la codificazione
definitiva della legge religiosa: intorno al 960
d.C., vennero chiuse le porte al ragionamento
analogico (ijtihâd): da quel momento in avanti,
non era più lecito formulare nuove disposizioni
in materia di diritto islamico.
Indubitabilmente ci si sarà domandati a
cosa corrispondono i concetti, cari al diritto isla-
mico, di consenso comunitario e di ragionamento
analogico succitati. Il consenso comunitario
(ijmâ`) altro non è che il raggiungimento di un'in-
tesa, di carattere unanime oppure maggioritario
(nel qual caso si parla tecnicamente di “forte con-
senso”). La fonte sacra che confermerebbe la vali-
dità di questo criterio di giudizio dei pareri
espressi dai dotti (ulema) è la stessa Tradizione
orale (o Sunna): un celebre hadith risalente al Pro-
feta* enuncerebbe questo principio per mezzo

31
dell'espressione mnemonica “La mia comunità
non si radunerà mai attorno a un errore”. Nono-
stante l'evidenza che, nell'Islam, le principali ete-
rodossie (ash'arismo, modernismo, radicalismo,
riformismo in genere ecc.) abbiano raggiunto
vastissimo consenso nel corso dei secoli, è ancora
possibile credere che la tradizione orale succitata
sia da intendere nei seguenti termini: è la comu-
nità musulmana autentica, sincera a non essersi
mai fuorviata e non la generalità dei musulmani.
Il parere della scuola di diritto dell'imam Asc-
Sciâfi'i (767-820) è che la nota tradizione orale
succitata si riferisca ai compagni* del Profeta* e
non alle successive generazioni di musulmani.
L'ijmâ' o intesa comunitaria è la terza
fonte del diritto islamico tradizionale, dietro al
Corano (la prima in assoluto) e la Tradizione
orale o Sunna (considerata la seconda, ma equi-
parata al Corano dalla scuola di diritto sciafeita).
Al quarto posto vi è il ragionamento analogico
(ijtihâd o qiyâs), criterio in base al quale la liceità o
illiceità di un'azione si estende, per analogia, ad
altre simili: il divieto di giocare a dadi puntando
del denaro o di utilizzare frecce divinatorie si
estende a tutto il gioco d'azzardo; quello di con-
sumare vino vale per tutte le bevande inebrianti e

32
per le altre sostanze psicotrope.
Tali sono le fonti del diritto musulmano,
individuate dall'imam Asc-Sciâfi'i, il fondatore
della scuola di diritto sciafeita, considerato da
molti il più grande giurista del Medio Evo. Esse
hanno carattere generale e sono riconosciute da
quasi tutti i giuristi. Altri principi del diritto
musulmano sono le cosiddette fonti secondarie,
ovverosia il pensiero logico del giurista (istihsân),
caro alla scuola hanafita e la maslaha, fonda-
mento riconosciuto solo da quella malikita, in
base al quale una particolare norma può essere
disattesa se la sua applicazione è causa di danno
alla comunità musulmana. Le fonti secondarie
del diritto islamico non hanno carattere generale
e sono valide solo per le scuole di diritto di riferi-
mento che le hanno istituite.
Nello sciismo, l'interpretazione della legge
sacra è fissata e determinata dal magister dixit di
un certo numero di «imam» discendenti di Ali.
Poiché il loro insegnamento è considerato infal-
libile, il problema non si pone: quello che il sun-
nismo denominerebbe taqlîd o accettazione pas-
siva, in ambiente sciita è il taʿlîm (insegnamento)
e non si discute.

33
Nell'Islam sunnita, le scuole giuridiche
(mazâhib) riconosciute e sopravvissute fino a oggi
sono, in ordine cronologico di apparizione:
1) quella che prende il nome dall'imam
Abû Hanîfa An-Nu'mân (699-767 d.C.) e perciò
denominata hanafita: è quella maggioritaria per
numero di seguaci nel mondo. Lascia molto spa-
zio all'opinione del giurista sulle questioni non
chiarite dai Testi di riferimento; nelle questioni
più dettagliate, in mancanza di chiarificazioni
contenute in modo esplicito in versetti coranici o
in Tradizioni orali, le delucidazioni in materia
scaturiscono dal pensiero logico del dotto
(istihsân);
2) la scuola malikita, che prende il nome
dal già citato imam di Medina Mâlik Ibn Anas
(711-795): secondo il suo insegnamento, una
particolare norma può essere disattesa se la sua
applicazione è causa di danno alla comunità
musulmana (maslaha).
3) quella sciafeita, che prende il nome
dall'imam Asc-Sciâfi'i (767-820), giurista di im-
mensa erudizione, che ha gettato le basi e i prin-
cipî di tutto il diritto musulmano sunnita. Molto
deriva da questa scuola di diritto a livello dottri-
nale. Le tradizioni orali (Sunna) risalenti al

34
Profeta Muhammad* sono considerate rivelate e
infallibili come il Corano, secondo l'affermazione,
ricorrente nel Corano: «Oh voi che credete, obbedite
a Dio e al Suo Messaggero5»; il Corano non può
abrogare la Sunna, e viceversa; le contraddizioni
esistenti tra le varie parti della rivelazione sono
tutte spiegabili: versetti coranici e tradizioni orali
(Sunna) tra di loro in apparente contrasto sono
tutti vicendevolmente conciliabili e fanno parte di
un quadro etico sempre coerente; tutt'al più si
può pensare che un versetto del Corano più re-
cente possa abrogarne uno rivelato prima d'esso
(secondo una precisa affermazione contenuta in
Corano II:106), e la stessa cosa si può dire per i
Detti; la Sunna si esprime più dettagliatamente
del Corano, e fornisce alcuni chiarimenti in pro-
posito alle questioni sulle quali il Corano non
esprime giudizi visibili6. Tale dottrina del diritto
è chiaramente irrefutabile; la sola cosa che si può
rimproverare a questa scuola giuridica è di tende-
re molto al letteralismo.
L'ultimo di questi mazâhib è la scuola han-
balita, di Ahmad Ibn Hanbal, caratterizzata da un

5 Corano VIII:20.
6 Cfr. Hourani, Albert, Storia dei Popoli Arabi. Da Maometto ai nostri
giorni. Milano, Se, 2008.

35
marcato letteralismo. La scuola teologica Athari è
quella che calca le sue orme, ed è giudicata la più
fondamentalista. Ciò che le accomuna entrambe è
che, oltre ad essere entrambe inclini all'interpreta-
zione letterale delle fonti sacre, rifiutano quasi
del tutto il ricorso al pensiero logico e induttivo
(istidlâl). Oggi tali deviazioni del diritto e della
dottrina trovano un gran numero di supporters in
Arabia Saudita, dove il wahhabismo è religione
di Stato. Solitamente, gli hanbaliti del diritto
corrispondono agli Athari nella dottrina.
È opinione del già citato Asc-Sciâfi'i (767-
820) che la parola divina non sia da interpretare,
ad eccezione dei passaggi il cui significato auten-
tico non è quello che si evince dall'interpretazione
letterale.
Questa mia breve esposizione di fonda-
menti e principî non è che un'introduzione, ma-
gari un po' troppo didascalica, al diritto musul-
mano originale che lascia certamente insoddi-
sfatti. Restano da chiarire alcuni interrogativi fin
troppo riproposti e generalizzati come questi:
qual è il giusto trattamento che l'Islam dovrebbe
riservare alla donna? Perché si trova costretta a
esercitare un ruolo servile? Essa sarebbe da
considerare intellettualmente inferiore, e il suo

36
corpo una vergogna? Perché bastano poche pa-
role pronunciate per mezzo di un parere giuri-
dico espresso da una fatwa per santificare il
massacro? La legge islamica originale è davvero
rigorista al punto che basti il ragionamento analo-
gico (ijtihâd) quando non addirittura l'opinione
personale a proibire tutto? Bisognerebbe perfino
vietare ai bambini di giocare a calcio? Perfino
un'azione banale come entrare in un bar a bere un
caffè sarebbe passibile di ammenda?
Inizio da una precisazione condivisa e che
gode di forte consenso (ijmâ'): tutto ciò che il
Corano e la Tradizione orale (Sunna) non proibi-
scono è da considerare più che lecito: tutte le
norme di condotta obbligatorie per i musulmani
sono state infatti trasmesse nelle fonti sacre;
qualunque precetto in esse irreperibile è da
considerarsi fantasioso.
Detto ciò: il diritto islamico delle relazioni
sociali (fiqh al-mu'âmalât) riguardante, ad esem-
pio, il ruolo delle donne o i rapporti tra musul-
mani e non va considerato alla luce dello statuto
personale vigente nella legge islamica in gene-
rale. È pur vero, in ogni caso, che di questo
statuto non se ne può fare se non un uso equo e
solidale. La testimonianza di una donna vale la

37
metà, come l'eredità che riceve dal defunto, anche
se essa riceve in cambio il vantaggio di avere
diritto alla dote e al mantenimento da parte del
marito, ai quali egli non ha diritto, e così via.
Lo statuto personale dell'Islam non aveva
la funzione di creare diseguaglianze, ma quella di
accontentare le esigenze di ciascun soggetto.
In nessun caso, però, si possono giustifi-
care norme inesistenti nelle fonti sacre dell'Islam,
come quelle, soggettivamente stabilite da dottori
del diritto, che vietano alle donne di uscire di
casa, di lavorare, ricevere un'istruzione e di par-
tecipare alla vita pubblica, di guidare la preghiera
comunitaria, o che le sottopongono a terribili
mutilazioni genitali. Tutte queste norme date per
scontato sono vaneggiamenti.
Non solo. Non figura neppure un solo
versetto in tutto il Corano che giustifichi il terro-
rismo come strumento di lotta, o il ricorso arbitra-
rio e spregiudicato al deterrente delle pene corpo-
rali. È pur vero che l'Islam ammetta, in certi casi,
l'uso della forza nella risoluzione delle controver-
sie internazionali, ma si tratta di casi di estrema
necessità. È invece escluso dal Corano e quindi
dalla parola divina qualsiasi ricorso alla crudeltà
(Corano II:190). Anche le conversioni forzate

38
sono contrarie a ciò che il Corano insegna (vedi
per esempio II: 256). In nessun caso, quindi, un
musulmano può agire inesorabilmente.
Da questa osservazione non si può non
domandarsi che spazio debbano occupare i diritti
umani nell'etica musulmana come nel diritto.
In Europa la concezione stessa di diritti
umani nacque nell'ambito di discussione della
Rivoluzione Francese. La Dichiarazione dei diritti
dell'uomo e del cittadino fu il primo riferimento a
un cambiamento di prospettiva in cui si passò dal
governo per diritto divino tipico dell'ancient
regime a un concetto umanistico di diritto. Non
più Dio e i suoi “ministri” dunque, ma lo Stato e
il popolo sono i nuovi garanti del rispetto di nuo-
vi diritti inalienabili, concessi a tutti gli uomini in
quanto tali.
Non si può contare sull'integralismo, reli-
gioso o politico, per ottenere il rispetto dei propri
diritti, poiché esso fa a meno del concetto stesso
di umanità ed è noto che si muove in tutt'altra
direzione. Ciononostante, l'Onnisciente* non può
certo aver trascurato il valore dell'umanità o la
sua applicazione pratica al momento di rivelare
la sua legge, e questo poco ha a che fare con il
fatto che abbia scelto di collocarla cronologica-

39
mente nell'Alto Medio Evo.
I diritti umani e civili dell'Islam trovarono
tutte le loro basi in tre principali, secondo il
hadith succitato: il diritto alla vita, alla proprietà e
alla dignità. Da questi tre diritti derivavano tutti i
diritti umani e civili. I rapporti tra musulmani e
non, come già stabilito, formavano la sezione del
diritto musulmano classico loro dedicata alla luce
dello statuto personale. Esonerati dal servizio
militare, i non musulmani erano tenuti al versa-
mento della jizya. In cambio di ciò, il rispetto dei
tre diritti fondamentali veniva garantito dalla
massima carica dello Stato.
Occorre naturalmente riscoprire il vero
valore dell'umanità e della civiltà in seno all'I-
slam, o quella che ci attenderà sarà un'ennesima
epoca di barbarie.

40
3. L'inizio del Medio Evo

La fine della dominazione musulmana in Spagna


segnò, nel 1492, l'inizio del Medio Evo islamico.
La perdita dell'Andalusia ebbe effetti devastanti
dal punto di vista scientifico, tecnologico, intellet-
tuale e religioso: assieme all'Iraq e alla Persia fu
l'area più produttiva in tutti i campi dello scibile.
È certamente vero che la Spagna fu, dal punto di
vista geopolitico, un'area periferica in tutto
l'Islam, ma centrale dal punto di vista del sapere:
esercitava un ruolo paragonabile senza esitazione
a quello della Grecia classica.
Quasi in concomitanza con la fine della
reconquista in Spagna, in Persia lo scià impose lo
sciismo. Avvenne, per la prima volta nella Storia
dell'Islam, l'applicazione di un principio: cuius
regio eius religio (=la popolazione deve avere la
stessa religione del suo re), nonostante il Corano
stesso dichiari in modo esplicito che «nella Reli-
gione non c'è costrizione» (Corano II:256). Il
mondo islamico si trova così costretto a fronteg-

41
giare la perdita dei suoi capisaldi.
Qualche secolo prima, l'invasione mon-
gola di Baghdad (1258) che aveva messo fine al
califfato storico, non era riuscita ad arrestare la
produttività scientifica, tecnica, religiosa o lette-
raria in area islamica. Ma con la caduta di Gra-
nada (1492) non si riprodusse lo stesso fenomeno
di continuità nella produzione culturale. Già a
partire dal XII sec., nel corso della stessa recon-
quista, il Collegio di traduttori di Toledo aveva
avviato la trasposizione dei testi arabi in latino e
nelle lingue romanze, per iniziativa di Pietro il
Venerabile, abate di Cluny (1092-1156). Il Canone
di Avicenna – che rimase il testo-base dello
studio della medicina per secoli; il celebre Com-
mentario di Aristotele, opera fondamentale di Ibn
Rushd (1126-1198, meglio conosciuto come Aver-
roè); trattati di ottica, astronomia, farmacologia e
altri mille testi vennero fatti conoscere all'Europa
e forniranno un contributo notevole al Rinasci-
mento. Della produzione scientifica musulmana
facevano parte anche una primordiale tavola
periodica degli elementi e l'invenzione di almeno
duecento nuovi strumenti chirurgici. Il geografo e
cartografo Al-Idrîsî (1099-1165) aveva disegnato
una mappa dei tre continenti allora conosciuti,

42
lavorando a denominazioni dei Paesi e delle re-
gioni che, in larga parte, rimangono tuttora inva-
riate. Una rappresentazione della sua cartina è
reperibile nella Muqaddima dello storico Ibn
Khaldûn (1332-1406), considerato uno dei padri
della critica storica e il padre stesso del concetto
di ciclicità della Storia.
Frattanto, anche alla corte di Federico II
(1194-1250) scorreva l'inchiostro e si traducevano
manoscritti risalenti all'epoca della dominazione
moresca in Sicilia (827-902). Tanto, tantissimo è il
sapere musulmano che si riversò sulla sponda
nord del Mediterraneo. In questo lungo periodo,
le lingue neolatine cominciarono a consolidarsi,
apparirono i primi poemi e romanzi cavallere-
schi, l'Europa rinascimentale andò alla riscoperta
della cultura classica del mondo greco-romano.
Questo nuovo movimento di traduzione, del
tutto simile a quello che, secoli prima, avevano
conosciuto gli arabi traducendo dal greco, rimet-
teva in discussione tutto.
L'anno in cui venne scoperta l'America fu
anche quello in cui il Mediterraneo perse valore.
A tutto ciò si aggiunse l'affermazione dell'oth-
manli, la lingua turca ottomana, che gli arabi
percepiscono ancora come il segno di un'ulteriore

43
umiliazione alla loro cultura. L'Impero Ottomano
attraversò, all'inizio del XVI sec. un'epoca di
splendore culturale sotto il regno di Solimano I
(1494-1566), fondatore di istituti e biblioteche,
governante noto per le sue virtù nonostante qual-
che errore nella sua tarda condotta di governo.
Nel 1453 i turchi ottomani conquistarono
Bisanzio (alla quale venivano dati il nuovo nome
e la nuova identità di Istanbul) e si concluse la
fase storica dell'Impero Romano, durata due
millenni. Ma ora gli Europei circumnavigavano
l'Africa, andavano alla conquista del mondo, tra-
sportavano schiavi in tutta l'America, importa-
vano dal nuovo mondo oro, argento, zucchero,
caffè, cotone e altro ancora. I musulmani conti-
nueranno sì a circondarsi di mecenati, al cui
servizio lavoreranno scienziati e uomini dotti, ma
ormai il declino del mondo islamico e il rovescia-
mento degli equilibri internazionali erano inarre-
stabili.

44
4. Premesse storiche della nascita
dell'islamismo radicale

Il riformatore religioso hanbalita Ahmad Ibn Tay-


miyya (1263-1328) rimase pressoché inascoltato in
vita – benché ab-bia avuto tra i suoi allievi il giu-
rista Ibn Al-Qayyim Al-Jawziyya (1292-1350) e lo
storico ed esegeta Ibn Kathîr (1301-1373), compi-
latore di un celebre commentario del Corano.
Quest'ultimo, benché si proclamasse scia-
feita, citava insistentemente, nel suo Tafsîr al-
Qur'ân al-Azîm, il musnad di Ibn Hanbal - . Ad
Ibn Taymiyya si fanno risalire le origini concet-
tuali del salafismo e del wahhabismo in egual
misura. Suo è il concetto di siyâsa ash-sharaʿiyya, la
teocrazia islamista. In epoche recenti egli, riconsi-
derato, ha guadagnato addirittura il titolo po-
stumo di shaykh al-Islâm (il dottore dell'Islam).
In tempi più recenti, Muhammad Ibn 'Abd
Al-Wahhâb (1703-1791), della tribù dei Banu
Tamîm fu il fondatore della corrente di pensiero
conosciuta come wahhabismo. Questi, fortemente

45
debitore di Ibn Taymiyya, ne scoprì e divulgò il
pensiero. Inaugurando la dottrina dei muwahhi-
dûn (gli autoproclamati partigiani della fede nell'U-
nico), Ibn 'Abd Al-Wahhâb auspicò un risveglio
dei musulmani nell'ottica di una teologia della
liberazione: questo è, con ogni probabilità, il
primo esempio di radicalismo militante e rivolu-
zionario di cui si abbia conoscenza.
Nella sua opera principale, Kitâb at-
Tawhîd (il “Libro dell'unicità divina”) giunse a
scomuniche generalizzate (takfîr) contro tutti co-
loro che non si uniformarono alla sua concezione
dell'islamismo. Non è certamente da imputarsi a
lui l'origine del fenomeno della scomunica collet-
tiva (noto come takfirismo) ma è più che probabile
che il suo dilagare nel mondo moderno sia dovu-
to anche al suo decisivo contributo. Una parte
importante della comunità musulmana era spro-
fondata nell'ignoranza, al punto da giungere a
ignorare o a non voler comprendere il precetto
più importante dell'Islam: adorare Dio* senza
attribuirgli né eguali né consimili. Netta fu la
risposta di Ibn 'Abd Al-Wahhâb: distrusse tombe
– compresa forse quella di Al-Hasan figlio di Ali
– e giustificò l'uso della violenza in nome dell'af-
fermazione del primato del tawhîd (monoteismo

46
islamico), concetto di monoteismo assoluto certo
caro a ogni musulmano che si rispetti; sta di fatto
che la “purificazione dell'Islam” da parte di Ibn
'Abd Al-Wahhâb individò tanti, troppi elementi
da lui ritenuti ad esso estranei.
Ibn 'Abd Al-Wahhâb strinse un'alleanza
con la tribù guerriera dei Banu Sa'ûd, che, adot-
tando il wahhabismo ne fece, in seguito, religione
di stato ed elemento fondante dell'identità nazio-
nale della futura Arabia Saudita.
Un'altra area di importanza capitale nel
mondo islamico che fu è l'Egitto. Questo è sem-
pre stato un punto strategico per il controllo del
Mediterraneo. Era potente sotto il dominio dei
Faraoni, quando il loro regno si estendeva dalle
frontiere della Libia al Sinai, Dal Sudan al delta
del Nilo: non sarebbe stato facile costruire una
potenza altrettanto grande in un'altra zona del
mondo più periferica. Il prestigio dell'Egitto è
legato anche a quello dell'università Al-Azhar del
Cairo, tra le più vecchie e importanti.
La spedizione di Napoleone in Egitto ven-
ne vissuta come una catastrofe dagli arabi, poiché
minò alle fondamenta una convinzione consoli-
data: fino ad allora, l'Islam, in quanto religione
divina, poteva solo espandersi e trionfare ed era

47
difficile immaginare per esso una vittoria su tutte
le nazioni se non per mezzo del tentativo di con-
quistare il mondo con le armi. In realtà, un Dio
onnipotente* non ha certo bisogno dell'aiuto delle
Sue creature per trionfare, ma vince qualunque
cosa cada sotto i suoi occhi. Ma quanto era acca-
duto in Egitto generava ansia e autocritica nel
mondo islamico: improvvisamente ci si rendeva
conto dello strapotere tecnologico e militare
dell'occidente. Nell'arco di tempo di pochi de-
cenni, i musulmani si ritrovarono sotto l'autorità
di padroni stranieri e non-musulmani nelle loro
terre. Il mondo islamico venne letteralmente de-
predato: potenze straniere vi scatenarono guerre
mal giustificate, al solo scopo di acquisire più
potere.
La disgregazione interna in cui stavano
precipitando gli stati nazionali europei fu uno dei
fattori scatenanti dell'imperialismo, che a quel
punto vide un ostacolo non solo nella vecchia
legislazione, ma si avvalse del potere politico per
proteggere interessi personali divenuti vitali alla
sopravvivenza, penalizzando così gli attori inter-
nazionali meno progrediti, in un'ottica egoistica
non solo di conquista territoriale, ma anche di
espansione economica basata sul principio del

48
tornaconto. Punti di importanza strategica come
il Canale di Suez o l'isola di Cipro cadranno sotto
l'influenza e il controllo occidentali senza diffi-
coltà.
Francia, Gran Bretagna e, in minor misura,
altre potenze come l'Italia, la Germania, il Belgio,
si spartirono tutto. Le autorità musulmane locali
rimasero formalmente regie ma furono, di fatto,
subordinate alle potenze europee, con le quali
furono costrette a stipulare accordi che servirono
ai nuovi dominatori a mantenere il controllo delle
proprie colonie. Le popolazioni musulmane
dovettero confrontarsi con una situazione difficile
e del tutto inedita:
Fra gli avvenimenti politici più rilevanti sul
piano socioculturale per il mondo musulmano,
la spedizione di Bonaparte in Egitto nel 1798
può essere considerata come il primo impatto
dell'Islam con la modernità. In effetti, da quel
momento le condizioni d'esercizio del pensiero
musulmano non saranno più le stesse: e ciò non
solo perché Bonaparte inaugura la question
d'Orient, ma soprattutto perché i musulmani
scoprono un altro ordine culturale. Essi ven-
gono così a porsi la questione, a tutt'oggi non
risolta, della propria identità culturale7.
7 Fouad Allam, Khaled, L'Islam contemporaneo, saggio breve

49
La risposta degli arabi fu un'apertura tota-
le e repentina alla modernità: Muhammad Ali Pa-
sha (1805-1867), il primo khedivè d'Egitto, iniziò
ad operare riforme dell'economia e dell'ammini-
strazione e introdusse l'uso della stampa e delle
tipografie. Egli inviò studenti in Europa ad
apprendere le lingue europee. Università e scuole
del vecchio continente divennero il fulcro di un
nuovo fenomeno. Presto vennero convocati ad
insegnare nelle università arabe professori fran-
cesi, inglesi e anche italiani, come Carlo Alfonso
Nallino, che godé di grande stima e ammirazione
presso i futuri intellettuali arabi.
Con l'arrivo di Bonaparte in Egitto, si con-
cluse dunque un'epoca. In ogni caso il mondo
arabo si trovava già, a detta di molti, in una fase
di transizione religiosa e culturale, il che lascia
facilmente intendere che la spedizione del gene-
rale italiano non abbia determinato un cambia-
mento repentino. Ma il dominio dell'istruzione e
della giustizia, fino a quel momento gestito dalle
autorità religiose, passò di mano ad autorità
laiche. Avvenne la riforma dei codici: già a
partire dal 1848 la shari`ah venne rimpiazzata, in
ambiente ottomano, da codici civili e penali
contenuto in Islam, Bari, Giuseppe Laterza & Figli, 2005.

50
copiati da quelli europei.
Intere sezioni dei codici penali e civili
francesi, italiani ecc. vennero impiantate nella le-
gislazione dell'Impero Ottomano. I musulmani si
modernizzarono presto e la loro nuova concezio-
ne dell'Islam fu caratterizzata dalla più ampia
apertura socioculturale all'Europa, al punto che
tutto ciò che proveniva dal vecchio continente
venne considerato buono.
Nonostante le veementi proteste delle au-
torità religiose, prese corpo la riforma dell'Islam,
la denominazione da attribuire alla quale è la-
sciata all'incertezza: si parla di Nahda (rinascita),
Tanwîr (illuminismo) e di Islâh (riforma). Tale
«rinascita» venne favorita dalle autorità ottomane
e appoggiata dalle potenze coloniali.
Jamâl Ad-Dîn Al-Afghânî (1838 - 1897)
inaugurò l'ideologia del panislamismo, alla quale
affiancò il salafismo, nuova concezione – trasver-
sale ai riformismi di numerose religioni – fondata
sull'imitazione (vera o presunta) della condotta
dei primi musulmani – in questo caso i salaf o pii
predecessori – e sulla retrospettiva utopia della
riaffermazione della loro epoca storica. Ingaggiò
personalmente un dibattito con Ernest Renan
(1823-1892) in merito alla conferenza, da questi

51
tenuta alla Sorbonne nel marzo del 1883, dal
titolo L'islamisme et la science. Renan poneva in
conflitto l'Islam con l'esercizio della ragione, in
particolare quella messa al servizio della scienza;
etichettava l'Islam come «il Regno del dogma, la
catena più pesante che l'Umanità abbia portato».
Al-Afghânî così commentava l'opinabile punto di
vista del filosofo francese, con il quale tuttavia,
alla fine, troverà qualche punto in comune:
C'est sans doute, pour l'homme un joug des
plus lourds ed des plus humiliant, je le recon-
nais, mais l'on ne peut nier que toutes les
nations sont sorties de la barbarie, et qu'elles ont
marché vers une civilisation plus avancée.
S'il est vrai que la religion musulmane
soit un obstacle au développement des sciences,
peut-on affirmer que cet obstacle ne disparaîtra
pas un jour? Toutes le religions sont intolé-
rantes, chacune à sa maniere8.

L'essenza stessa dell'Islam, a cominciare


dalle sue fonti sacre, venne dunque attaccata du-
ramente dai musulmani moderni, per i quali il
vero Islam è concettualmente diverso da quello
8 Breveglieri, Stefano, A proposito del dibattito su Islam e scienza tra
Giamal Ad-Din Al-Afghani e Ernest Renan, saggio breve contenuto
in Conflitti e dissensi nell'Islam, a cura di Daniele Cevenini e Svevo
d'Onofrio, Bologna, Casa editrice Il Ponte, 2009.

52
predicato dal Profeta* stesso. Naturalmente que-
sto fenomeno di completo revisionismo religioso
non venne accolto dai musulmani conservatori e
suscitò profonde reazioni da parte loro. Essi si
domandarono: in questo modo, cosa resterà del-
l'Islam?
Tali sono state le premesse storiche della
nascita dell'Islam politico, inaugurato dall'atto
fondativo della Confraternita dei Fratelli Musul-
mani, nata nel 1928. La nuova organizzazione, la
prima islamista, ebbe come fondatore e guida
generale Hasan Al-Banna (1906-1949). Nel frat-
tempo, con il primo conflitto mondiale, si con-
cluse la fase storica dell'Impero Ottomano (1917).
Da Hasan Al-Banna l'Islam venne letteral-
mente concepito come sistema completo, integra-
le e totalizzante. Nessun aspetto dell'esistenza
umana viene escluso dall'interferenza di questo
nuovo integralismo a tutto tondo. Il motto dei
Fratelli Musulmani è «Dio è il nostro obiettivo. Il
Profeta è il nostro capo. Il Corano è la nostra
legge. Il jihâd è la nostra via. Morire nella via di
Dio è la nostra suprema speranza». L'essenza
dell'Islam politico è spiegata in questi termini:
«L'Islam è religione e Stato, Libro e spada e un
sistema di vita»; il mondo aveva fatto ritorno alla

53
jahiliyya, l'epoca oscura dell'ignoranza che aveva
preceduto la predicazione di Muhammad*; biso-
gnava ricondurre l'Islam alla sua “vera essenza”,
adottando il Corano come unica costituzione
nell'ottica di un integralismo islamico, un tutto
armonico in cui le scienze sociali venivano da
esso inglobate e a esso adeguate. Gli studiosi del-
l'Islam classico e tradizionale restavano increduli
di fronte a queste parole del tutto inedite da essi
pronunciate.
Il contemporaneo Tariq Ramadan, noto
pensatore riformista e nipote di Hasan Al-Banna,
fornisce questa panoramica di tale contesto
storico e socioculturale:
Comment rester fidèle au Message sans subir
les contraintes d'une époque dont l'élan semble
nous échapper? La maîtrise est-elle compatible
avec la fidélité?
Les réformistes répondent à cette que-
stion par l'affirmative: ils ne remettent pas en
cause la fidélité, ni le nécessaire attachement
aux sources coranique et prophétique, et encore
moins la capacité de l'islam d'accepter l'évolu-
tion et de vivre avec son temps. Face à la
décadence du monde musulman, leur intuition
est que la cause relève non du fait de la fidélité

54
au Message, mais à sa nature9.

È infatti prima con il movimento rifor-


mista e poi con la nascita dell'Islamismo radicale
che le fonti dell'Islam vennero ridotte a pura
forma: rimangono sì le medesime nel testo e nel
contenuto, ma la loro interpretazione è stata e
viene ancora manomessa e stravolta da più parti.
Esse, non più rispettate nel contenuto, non costi-
tuiscono più le fonti autentiche: da quel momento
in avanti è solo a livello di rappresentazione che
il Corano e la Sunna rimangono i punti di riferi-
mento invariabili. Intellettuali laici, ulema e dot-
tori del diritto forniscono al Corano un significato
contestualizzato in base alle epoche storiche,
secondo le loro preferenze e da un punto di vista
soggettivo.
Molto evidente è che quella integralista,
pur spacciandosi per ortodossia, è assai estranea
all'ambito strettamente legato al Corano e alla
Sunna, i veri riferimenti e testi accademici dell'I-
slam. Ciononostante, il revisionismo religioso di
tendenza integralista insiste molto nell'identifica-
9 Ramadan, Tariq, Aux sources du renouveau musulman. Paris, Bayard
Éditions/Centurion, 1998. Tradotto in italiano col titolo Il riformi-
smo islamico. Un secolo di rinnovamento musulmano. Troina (En),
Città Aperta Edizioni, 2004.

55
zione dell'Islam in una sorta di ideologia, di si-
stema di vita completo e integrale: ne consegue
che un nuovo sistema andrebbe studiato e ade-
guato in funzione della configurazione attuale
non solo del mondo, ma anche di un Paese e di
un modo di vivere rispetto a un altro, dal
momento stesso che un sistema funzionante in
un'epoca trascorsa e per altri popoli, non può
essere riproposto in una realtà differente se non
con risultati deludenti. Ma l'Islam non è tutto
questo: è una religione, se chiamata con il proprio
nome. Il presupposto appena menzionato alla ba-
se del riformismo ha senso solo confondendo la
natura dell'Islam con quella delle scienze sociali.
L'infondatezza di ogni tipo di revisionismo
religioso è resa tanto più evidente quanto più si
confrontano i principî e le tematiche essenziali
dell'Islam in quanto religione, con gli elementi in
grado di mettere in moto l'economia e la Pubblica
amministrazione, la cui natura è decisamente
altra. Mettendoli a confronto per evidenziarne la
dissimmetria concettuale, risulta quanto elencato
in tabella nella pagina seguente:

56
Tabella 1. Esempi di differenze concettuali
tra Islam e scienze sociali

Tematiche fondamentali Elementi fondanti le


del Corano e dei Detti e scienze economiche
fatti del Profeta*

I sei pilastri della fede: Fondamenti dell'economia


fede in Allah, negli angeli, politica, come l'attività
nei libri rivelati, nei profeti*, economica, i cui soggetti
nell'aldilà e nel decreto sono: la famiglia, l'impresa,
divino e nel destino. lo Stato e il resto del mondo.

Pilastri dell'Islam: la Principi alla base di una


professione di fede, la scelta economica, quali il
preghiera (salât), l'elemosina principio del tornaconto:
obbligatoria (zakât), il ottenimento del massimo
digiuno nel mese di risultato con il minimo
Ramadan, il pellegrinaggio mezzo. Principio edonistico:
alla Santa casa per chi ne scelte dirette al
abbia la possibilità. raggiungimento del massimo
piacere individuale.

L'impossibilità di effettuare un paragone


calzante, in cui possano convergere queste due
differenze concettuali inconciliabili è evidente.
All'esposizione delle differenze tra religio-
ne e scienze sociali abbozzata sopra in tabella, si

57
potrebbe obiettare che la vita pubblica non può
prescindere dallo Stato, in quanto organizzazione
atta al soddisfacimento dei bisogni individuali e
collettivi. Questo è lapalissiano, ma ha poco a che
vedere con la religione in senso stretto, non fos-
s'altro perché i principi della scienza economica
sono irreperibili nel Corano e nel complesso dei
Detti e fatti del Profeta*.
Oltre a ciò, i testi sacri indicano certa-
mente la "via maestra" (sciari`ah) sulla base della
quale l'individuo e la collettività possano basare
la propria pratica cultuale ('ibâdât) e la vita sociale
(mu'âmalât), ma al tempo stesso tacciono su que-
stioni imprescindibili come la normativa in mate-
ria di diritto internazionale, procedura civile e
penale e così via.
Non sarebbe plausibile, per citare un e-
sempio, regolamentare la previdenza sociale sulla
base del versamento dell'elemosina obbligatoria
come sostengono i filosofi islamisti. Qutb (1906-
1966) sosteneva che la zakat, l'elemosina obbliga-
toria citata molto di frequente nei testi sacri mu-
sulmani, possa essere impiegata per la costru-
zione di scuole e ospedali ma, a partire dalle ri-
sposte mancanti, le giuste domande che si por-
rebbero in molti sarebbero, come conseguenza

58
logica: come stabilire, stando alle parole del Cora-
no, l'età pensionabile, il calcolo dell'indennità di
disoccupazione, la giusta soluzione alle varie dif-
ficoltà che presenta la lotta alle diseguaglianze?
Islam politico, modernismo e riformismo,
le tre nuove correnti a cui ci si ispira, non sono in
realtà altro che diverse espressioni di uno stesso
revisionismo religioso.

59
5. Il binomio religione-Stato nel
radicalismo islamico

Il concetto di dîn wa dawla (religione e Stato) è di


natura trasversale nell'islamismo radicale. Attra-
versa, cioè, tutte le sue forme di pensiero,
dall'Islam politico dei Fratelli Musulmani al wa-
hhabismo, al salafismo ecc. Questo concetto
teocratico non ha sempre fatto parte dell'Islam in
senso stretto: è piuttosto frutto delle elaborazioni
mentali del già citato Ibn Taymiyya (1263-1328).
Fu lui l'ispiratore della siyasa ash-sharaʿiyya (la
politica sciaraitica) per la quale la vita stessa è dîn
wa dawla (religione e Stato), laddove in preceden-
za si concepiva solo come dîn wa dunya (religione
e mondo). Il pensatore siriano di origini turche
venne guardato con sospetto dai suoi contempo-
ranei, proprio a causa delle sue idee estremiste.
Oggi il suo insegnamento vive un inaspettato re-
vival, insieme alla scuola giuridica hanbalita (di
cui al capitolo 2) alla quale faceva riferimento e
che era decaduta nello scorrere del tempo.

60
A partire da almeno un secolo, dunque, il
radicalismo ha insistito molto sull'instaurazione
di una teocrazia, vedendovi una priorità su tutto.
La politica è giunta a possedere il primato su
tutto: il credo, il culto e l'adorazione, la vita pri-
vata, quella sociale e ogni aspetto dell'Islam ora
sono funzionali all'instaurazione della sharîʿah nel
mondo. In un'ipotetica piramide delle priorità e
degli obiettivi, la base è l'ideologia in ogni suo
aspetto; lo sforzo bellico (jihâd) è il tentativo
utopico di farla prevalere su tutto; il monopolio
del potere è il vertice, e forse il vero scopo
dell'islamismo radicale è una certa final solution. Il
binomio religione-Stato è divenuto dunque il leit
motiv di tutto il pensiero radicale sunnita, sciita e
kharigita.
Personalmente percepisco, nel pensiero
islamico fondamentalista, un certo dispotismo di
Dio* sull'uomo, una concezione molto opinabile
che impone all'uomo la supina accettazione di un
volere divino considerato arbitrario e aleatorio.
Questo retaggio culturale, fatalista e in parte
debitore dell'ashʿarismo più strampalato del X
sec. certamente non sopravvive a un esame di
realtà. Innanzitutto, questo completo fatalismo
nega la misericordia divina o, comunque, stando

61
a questa caotica e pessimista concezione, è come
se Dio* non fosse buono e giusto realmente, ma
solo perché lo vuole la dottrina. In quest'ottica
non si potrebbe nemmeno essere certi della
veridicità delle affermazioni del Corano, stando
almeno alle parole degli ashʿariti. In secondo
luogo, non si darà mai il caso che una Divinità*
possa rivelare ideologie politiche e, se così fosse,
essa dovrebbe almeno affacciarsi al mondo come
l'ideologia più forte, salda e strutturata fra tutte.
Come qualcuno ha giustamente osservato, l'Isla-
mismo radicale non vale nemmeno quanto valse
il comunismo. Non è credibile l'ipotesi, tacita-
mente espressa dai Fratelli Musulmani, che Dio*
in persona abbia fatto scaturire la loro ideologia
dal Corano ben tredici secoli dopo la rivelazione.
Una divinità declasserebbe forse la sua Parola a
libro da ideologia? Alzare il tono dello scontro
con le grandi potenze e fra gli arabi stessi non
serve: può solo portare più brutalità, più
crudeltà, rendere il mondo più rozzo e primitivo
e questo è proprio ciò di cui il mondo in cui
viviamo ha meno bisogno.
Tuttavia, nell'Islamismo radicale - che
rivendica impropriamente la veste di ortodossia -

62
l'interpretazione dei testi sacri dell'Islam non
trova più il suo punto di partenza e la sua origine
da queste fonti, ma dalle parole dei suoi ulema, i
suoi dotti. I testi sacri, non più rispettati a livello
contenutistico e concettuale, non sono più le fonti
autentiche di una parte importante della comu-
nità musulmana, ma il mezzo per giustificare in
modo soggettivo l'islamismo radicale.
A questo punto, ognuno attribuisce ai suoi
versetti il significato che preferisce. È come se
l'islamista seguisse non la parola di Dio*, ma
quella dei dotti, degli ulema.
Sono fermamente convinto che Dio* go-
verni già il mondo. Per mezzo dell'affermazione
coranica che eleva l'uomo a suo vicario (Corano
II:30) Dio* gli affida questo compito affinché pos-
sa fare esercizio della propria autorità al servizio
dei suoi simili, e non affinché li distrugga. In
effetti non è di provenienza coranica il concetto di
estraneità di Dio* alla Storia dell'uomo: il testo-
base principale dell'Islam si esprime insistente-
mente sull'intervento divino. Non è forse vero
che Dio* è libero di realizzare la giustizia sulla
terra? Non è forse onnipotente, sì da far vincere
la sua parola qualunque cosa accada? In ogni
caso, se si vuole fare chiarezza, l'azione in favore

63
degli oppressi e dei diseredati sarà forse l'obiet-
tivo dichiarato degli islamisti radicali, ma le forti
contraddizioni di quell'ideologia e la sua man-
canza di valori umani sono sotto lo sguardo di
tutti. Essi stessi lo ammettono, quando non ne
fanno addirittura alcun mistero. Qualche volta, in
un passato non troppo lontano, il terrorismo
internazionale è stato concepito da ingenui come
strumento di lotta terzomondista, ma appoggiare
quest'ipotesi è un grave errore: è sotto gli occhi di
tutti che il terrorismo, locale o internazionale, ha
messo le sue radici non nella lotta alla povertà,
ma nel terreno dell'intolleranza.
Il fatto lapalissiano che il Profeta Muham-
mad* fosse anche un uomo politico non deve
trarre in inganno: non si può estendere la parte
normativa dei testi sacri dell'Islam a ogni aspetto
della vita politica, economica e sociale, ed egli*
effettivamente non lo fece. Rispettò i costumi e le
usanze di tutti i popoli; mise in pratica egli
stesso* delle eccezioni alla legge da lui* predicata,
respingendo il netto dualismo tra l'ambito del
lecito e quello dell'illecito: questo fa parte della
sua competenza spirituale ed è tipico di tutti i
profeti* della tradizione musulmana. Prendendo
in esame, a livello esemplificativo, la Sura IX del

64
Corano, che codificava i rapporti tra le tribù, non
si può affermare che queste poche indicazioni si
possano estendere tramite ragionamento analo-
gico alle basi di tutta l'odierna diplomazia. Islam
non è il nome di un partito politico.
Esiste una distinzione tra modernità e
rinnovamento religioso. Né il Corano né la tradi-
zione orale contengono controindicazioni all'uti-
lizzo di mezzi più moderni ed evoluti, se lo scopo
è quello di vivere più dignitosamente. Un'ipotesi
di questo tipo negherebbe il grande contributo
che è stato dato alla scienza da berberi, persiani,
indiani ecc. e anche da qualche scienziato di ori-
gine araba peninsulare. Il wahhabismo odierno
vorrebbe che si utilizzasse il fuoco e solo il fuoco
per ottenere illuminazione; in realtà, si può
benissimo adoperare a tal fine la corrente elettrica
senza incorrere in alcun biasimo. Si può vivere
nella modernità; l'unico suo aspetto da non
imitare sono le cattive abitudini. È per questo che
l'Islam non ha bisogno di nessun rinnovamento,
ed è strana l'affermazione che vuole che il Corano
sia un libro da adeguare al presente e far andare
al passo coi tempi che cambiano. In realtà, il
Corano e la Tradizione orale – presi così come
sono – sono applicabili anche nella quotidianità

65
di oggi. L'Islam è la religione del lavoro e insegna
che tutti i profeti*, primi portatori del suo mes-
saggio, lavoravano. Anche il profeta Davide*,
benché fosse re d'Israele, si dedicava al mestiere
di fabbro ed è a lui che i testi rivelati fanno
risalire l'invenzione delle cotte di maglia.
Se così non fosse, se la validità di una
parte dei testi sacri in vigore nell'Islam fosse da
rigettare e il loro contenuto e insegnamento da
riformulare, la Divinità* che li ha rivelati li
avrebbe certamente già sostituiti con altri libri,
benché non si abbia avuto notizia, in quattordici
secoli, di ipotetici successori di Muhammad*
portatori di una nuova rivelazione.

Contro il concetto distopico di dispotismo divino


Una certa concezione dispotica della Divinità*
prevale in tutta la galassia dell'Islam fondamenta-
lista e non solo. La dogmatica musulmana fatali-
sta nacque in due principali ambiti di discus-
sione: la scuola di diritto hanbalita e la predica-
zione del teologo Abu Al-Hasan Al-Ash`ari (874-
935). Quest'ultimo focalizzò il suo operato sul
tentativo di conciliare le due posizioni dogma-
tiche prevalenti nella sua epoca: quella hanbalita e

66
quella dei razionalisti mu'taziliti. Pur non essen-
do, quello ash`arita, da reputare un sistema teolo-
gico fondamentalista, è importante sottoporlo
all'attenzione del lettore, perché oggi la dogma-
tica islamista calca le orme lasciate anche da tale
scuola teologica.
Nel brano che segue, la scuola teologica
di Abu-l-Hasan Al-Ash`ari viene, forse con trop-
pa facilità, insignita del titolo di "credo orto-
dosso":
Il tratto più caratteristico dell'atteggiamento
teologico ortodosso è facilmente evidenziato in
un dialogo fra Ash'ari ed il suo maestro, il
mu'tazilita Giubbà'i. Ash'ari avrebbe inter-
rogato quest'ultimo sulla sorte ultraterrena di
tre fratelli, l'uno credente, l'altro empio e il
terzo morto bambino. Il mu'tazilita, confor-
memente alla tesi della scuola per cui Dio è
sempre regolato in modo perfetto in materia di
premi e punizioni eterne, avrebbe risposto che
il primo andrà in paradiso, il secondo all'in-
ferno e l'ultimo godrà di una salvezza spiri-
tualmente inferiore a quella che si ottiene in
paradiso. Ma, obiettò Ash'ari, cosa si potrebbe
rispondere al bambino se pretendesse questa
più intensa beatitudine, visto che non è colpa
sua se è morto in così tenera età? Dio, rispose

67
Giubbà'i, sapendo nella Sua scienza infinita
che il bambino col crescere avrebbe finito per
diventare un peccatore, lo ha fatto morire in
tempo, onde evitargli il castigo infernale. Ma a
questo punto concluse Ash'ari, non avrebbe
forse ragione l'empio se obiettasse che anche
nel suo caso Dio avrebbe potuto usare un
simile riguardo, facendolo nel suo interesse
morire giovane e preservandolo così dalle pene
dell'altro mondo? Giubbà'i, conclude la storia,
sarebbe rimasto profondamente interdetto e
non avrebbe dato risposta.
In questo dialogo, anche se in termini
semplificati e aneddotici, è pienamente eviden-
ziato il limite del mu'tazilismo, che pretese di
rinchiudere l'agire divino nei confini di una
normativa razionale e prevedibile. Il persona-
lissimo Dio coranico sfugge ad ogni defini-
zione umana e non vi è dunque da soprendersi
se tali argomenti, ancor più delle disquisizioni
prettamente teologiche, hanno finito per mina-
re il credito della scuola mu'tazilita presso la
maggioranza dei musulmani. Il Dio dei mu'ta-
ziliti, costretto a rispettare rigide norme di
giustizia e di equità, sembrò ai più come limi-
tato nella sua libertà, che deve invece essere
assoluta ed illimitata. Per gli ortodossi era
necessario affermare il principio per cui Dio
potrebbe, se lo volesse, premiare il malvagio e

68
punire il buono e secondo cui non bisogna
necessariamente trovare una giustificazione
razionale alle iniquità che regnano in questo
mondo. L'intera opera della dogmatica sunnita
può in effetti essere descritta come uno sforzo
per rispettare l'assoluta libertà divina, pur
analizzandola alla luce di criteri razionali ed
evitando di cadere in un letteralismo eccessivo
e antropomorfico10.

Nell'aneddoto succitato, Giubbà'i arebbe


tentato di individuare una soluzione al falso
problema dei tre fratelli rispondendo che Dio*
aveva fatto morire il più piccolo dei tre da bam-
bino sì da fargli evitare il castigo infernale, sapen-
do che se fosse divenuto grande sarebbe divenuto
peccatore. Giubbà'i avrebbe agito conformemente
alla nota tradizione orale secondo la quale il Pro-
feta* avrebbe affermato che ogni neonato nasce
puro (lett. kùllu mawlùd yùlad 'ala-l-fìtra): tradi-
zione orale, questa, sulla quale per secoli non è
stata operata opportuna critica testuale. Un ade-
guato e doveroso riesame del noto hadith eviden-
zierebbe già un punto debole nell'argomentazione
proposta da Al-Ash`ari.

10 Ventura, Alberto, L'Islam sunnita nel periodo classico (VII-XVI seco-


lo) in AA.VV., L'Islam. Bari, Giuseppe Laterza & Figli, 2005.

69
Riprendendo in esame il tema della libertà
divina succitato, non si può non evidenziare una
sua dissimmetria con il Testo sacro, anche alla
luce di un maggior esame di realtà. Il lettore inte-
ressato a operare un esercizio intellettuale sul te-
ma della "libertà divina" non potrebbe non notare
in ciò innumerevoli implicazioni. Ripropongo
parte del brano di cui sopra, per esaminarlo
attentamente:
Per gli ortodossi era necessario affermare il
principio per cui Dio potrebbe, se lo volesse,
premiare il malvagio e punire il buono e
secondo cui non bisogna necessariamente tro-
vare una giustificazione razionale alle iniquità
che regnano in questo mondo. L'intera opera
della dogmatica sunnita può in effetti essere
descritta come uno sforzo per rispettare
l'assoluta libertà divina, pur analizzandola alla
luce di criteri razionali ed evitando di cadere in
un letteralismo eccessivo e antropomorfico11.

Sarebbe più saggio affermare che Dio*


agisce sempre con criterio e saggezza assoluti e
mai arbitrariamente, questo è vero rispetto; pro-
prio il dogma dato per scontato che insinua che la
Divinità* sia libera di punire il giusto e premiare
11 Ventura, Alberto, Op. Cit.

70
il malvagio viene escluso dal dettato del Corano
nei termini che seguono, dove Dio* stesso si
esprime affermando:

Tratteremmo forse i dati a Dio come gli empi?


Che avete? Come giudicate?
[Corano LXVIII: 35-36]

Il modo di agire divino non è dunque


arbitrario: ci si dovrebbe soffermare a osservare
che, diversamente, potrebbe regnare il disordine
più completo nel creato, invece dell'ordine che
Allah* ha dato a tutte le cose. Anche a questo si
contrappone il Testo sacro principale nei termini
che seguono:
Non creammo i cieli, la terra e ciò che vi si
interpone per giocare! Non li creammo altro
che secondo verità, però i più tra gli uomini
non sanno.
[Corano XLIV, 38-39]

Nel brano succitato viene fatto anche ripe-


tuto riferimento a una certa "irrazionalità divina",
concetto che desterebbe curiosità a chi per un mo-
mento abbandonasse una mentalità diffusa, secondo
la quale la parola dei "sapienti" non andrebbe discus-
sa perché, in essa, si perpetuerebbe non meno che la
profezia dopo la morte del Profeta*!

71
Alla teologia ash`arita ciò non importa:
essi sono pronti anche a dare corso alla libera
interpretazione dei testi sacri, senza dare risalto o
importanza a ciò che effettivamente dice il loro
enunciato. Eppure le distopiche implicazioni del
dogma della libertà divina sono state osservate, se
ne potrebbero addizionare altre e l'elenco è infi-
nito. Le conseguenze logiche di questa concezione
potrebbero essere la perdita di valore della sua
parola, dal momento che si insinua che Dio* abbia
libertà di mentire, e poi c'è un elenco intermi-
nabile di insinuazioni ma ritengo che questa sia
già sufficiente come punto debole della dogma-
tica ash'arita. Di fronte all'antitesi, i suoi espo-
nenti si sono ridotti a dover smentire la confu-
tazione del dogma della libertà divina controbat-
tendo in modo labiale, arroccandosi dietro all'idea
contorta che "Dio fa ciò che vuole nel senso che,
se anche volesse nuocerci, chi si potrebbe opporre
alla sua volontà?".
Certo, tutta la forza appartiene all'Onnipo-
tente*; e con questo? Un credente che fa esercizio
della logica non può non notare la mancanza di
una struttura precisa nell'ipotesi degli ash'ariti,
che non sopravvive a un esame di realtà.
Non si tratta di attribuire limiti alla Divi-

72
nità*: essa è obbligata da se stessa e non da terzi
ad agire secondo misericordia e giustizia. Questa
affermazione trova conferma nelle seguenti paro-
le divine, contenute in un discorso santo (hadîth
qudsi):
O miei servi, in verità ho proibito a Me stesso
l'esser ingiusto e l'ho proibito tra voi, perciò
non siate ingiusti gli uni con gli altri12.

L'azione e la volontà divina non sono e


non saranno mai casuali, "irrazionali" o disgiunte
dalla sua sapienza. Un fatto noto, oltretutto, è che
la fortuna di una scuola teologica musulmana
rispetto a un'altra è non di rado dipesa dalla vo-
lontà delle autorità regnanti, o da quella delle più
influenti tra loro. Lo stesso momentaneo successo
della scuola mu'tazilita (non meno eterodossa di
quella ash`arita) dipese principalmente dalla vo-
lontà del califfo-teologo Al-Ma'mûn (813-833).
Il sistema teologico ash'arita era in realtà
decaduto nel corso dei secoli; ciononostante è sta-
to riportato in auge in epoche più recenti da
Mustafa Kemàl.

12 An-Nawawi, Yahya, Op. Cit.

73
6. Il confronto tra tradizione e modernità
alla luce delle sacre fonti

Agli esordi del XX sec., gli arabi riunirono i loro


sforzi per coalizzarsi in una grande nazione. La
Gran Bretagna accolse la loro richiesta. Fu così
che lo sceriffo Hussein, custode dei luoghi santi
delle città di Mecca e Medina, si alleò con gli
Inglesi allo scopo di sottrarre la Penisola arabica
alla dominazione ottomana ed effettivamente vi
riuscirono. Inutile dire tuttavia che la Corona bri-
tannica non manterrà la succitata promessa di
riunire gli arabi in un unico grande Stato nazio-
nale. In seguito si scoprirà perfino che T.E. Law-
rence, che aveva guidato la rivolta, era il capo dei
servizi d'intelligence britannici.
Giunse il primo dopoguerra e vari eventi
sconvolsero il mondo: il collasso dell'Impero Ot-
tomano e la rivoluzione russa cambiarono l'asset-
to politico del mondo arabo, ancora sotto la do-
minazione straniera. Negozi, fabbriche e officine
fecero la loro comparsa anche nel mondo islami-

74
co, aumentando l'offerta lavorativa. In tutte le
città si assistette a un fenomeno di inurbamento.
Ristoranti, caffè e cinema offrivano nuovi tipi di
attività ricreative e costituivano punti di raccolta.
Già da qualche decennio avevano fatto la loro
comparsa le prime linee tranviarie. Negli Anni
Venti del XX sec. moderni sistemi per ottenere e
portare acqua potabile, elettricità, gas e telefoni
vennero introdotti nelle case. Auto private, auto-
bus e taxi sostituirono le carrette trainate dai ca-
valli, almeno nei centri abitati più popolati.
L'esempio dell'Europa cambiò anche l'e-
spressione artistica dei popoli musulmani: pittori
e scultori iniziarono a esprimersi con stile occi-
dentale e le arti visive a trovarsi in una posizione
intermedia fra tradizione e modernità. Nuove
generazioni di donne musulmane iniziarono a
uscire di casa sprovviste del velo. Celebre è il
caso della femminista Hûda Ash-Shaʿrâwî che, di
rientro da un viaggio a Roma, all'aeroporto del
Cairo si tolse pubblicamente il tradizionale copri-
capo13.
Come qualcheduno ha giustamente osser-
vato, l'occidentalizzazione e la modernizzazione

13 Hourani, Albert, Storia dei Popoli Arabi. Da Maometto ai nostri gior-


ni. Milano, Se, 2008.

75
non sono necessariamente lo stesso fenomeno
potendo, il progresso, essere accolto senza adotta-
re i costumi imposti dal colonialismo culturale 14.
Nonostante l'evidenza di questa affermazione,
questi due fattori, nel mondo islamico di inizio
XX sec., furono ritenuti complementari: evidente-
mente l'esigenza di modernizzarsi andava di pari
passo con l'ansia di adottare un nuovo modo di
vivere.
Dopo la II Guerra Mondiale, l'Impero Bri-
tannico si indebolì a causa, forse, delle imponenti
spese militari che aveva dovuto affrontare
durante il conflitto. L'affermazione di USA e
URSS sopra ogni altra superpotenza contribuì a
determinare il declino della Francia e anche
quello dell'Impero Britannico, che, in età vitto-
riana, aveva raggiunto un tale livello di prestigio
ed estensione da meritare l'appellativo di “Im-
pero sul quale non tramonta mai il sole”. Logica
conseguenza fu che le nazioni musulmane, e non
solo quelle, ne approfittarono per ottenere l'indi-
pendenza dagli Stati coloniali. Ciò nonostante, un
ennesimo capovolgimento degli equilibri del
mondo arabo era dietro l'angolo. Secondo la

14 Cfr. Huntington, Samuel P., Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine


mondiale. Milano, Garzanti, 1997.

76
Dichiarazione Balfour, la Palestina sarebbe stata
destinata alla spartizione in due Stati, uno arabo e
l'altro israeliano. La leadership palestinese era
stata indebolita da arresti, esìli e attentati subiti
durante la rivolta araba del 1936-1939. La rappre-
sentanza israeliana era rimasta l'unica voce in
capitolo nel Vicino Oriente: fu la sommossa della
popolazione ebraica contro la presenza britannica
a permetterle di proclamare, il 14 maggio del
1948, la nascita dello Stato di Israele, votata e ap-
provata dalla neonata ONU il novembre dell'an-
no precedente. La promessa dell'affiancamento di
uno Stato arabo a quello sionista non verrà mai
mantenuta.
Tutto ciò richiedeva una reazione da parte
degli Stati arabi confinanti, che non si fecero pre-
gare. Ma, al termine del primo Conflitto arabo-
israeliano, tutto rimarrà invariato. È opinione
prevalente tra gli arabi che il Mandato britannico
in Palestina abbia agevolato il movimento sioni-
sta senza curarsi delle sue implicazioni in un fu-
turo già prossimo. Tutto il mondo arabo ricorda
la nascita di Israele come la nakba (catastrofe).
È stato ipotizzato da più parti che la
nascita di uno Stato ebraico in Medio Oriente
abbia avuto la funzione di alimentare le divisioni

77
interne al mondo islamico, seminando la discor-
dia reciproca, necessaria all'interesse di altre na-
zioni in merito alla questione palestinese.
Il nazionalismo panarabo - che espresse la
succitata volontà del mondo arabo di cancellare i
suoi confini interni riunendosi in un'unica entità
geopolitica – trovò il suo promotore principale
nella letteratura ideologica e il suo ambito di
discussione e di dialettico confronto nella critica
letteraria. In modo particolare, negli anni Ses-
santa del secolo scorso i nuovi intellettuali arabi
fondarono giornali e riviste e indissero confe-
renze - a cui parteciparono anche capi di stato
come Nasser (1918-1970). La letteratura impe-
gnata proliferò soprattutto nel Vicino Oriente, in
Paesi come Libano, Siria, Iraq e Palestina e si
servì della carta stampata come veicolo di diffu-
sione ideologica, non senza incontrare numerosi
ostacoli dovuti a censure15. In Egitto, un nuovo
sentimento nazionalista prese piede tramite l'ope-
rato dello scrittore Ta Ha Hussein (1889-1973): è il
faraonismo, un'utopia retrospettiva che possedeva
lo scopo di riportarlo all'antico splendore dei
Faraoni. Man mano che tale ideologia si diffon-

15 Cfr. Ruocco, Monica, L'intellettuale arabo tra impegno e dissenso. Ro-


ma, Jouvence, 1999.

78
deva tra gli egiziani, avveniva un mutamento nel-
le loro coscienze: essi cominciavano a sentirsi più
egiziani che musulmani. In altre parole: l'Egitto
antico divenne la loro età dell'oro di riferimento
ed è solo per caso, sostengono, che in seguito co-
nobbero l'Islam e la sua espansione.
Ta Ha Hussein fu corresponsabile della
riforma dell'Islam sul piano culturale. Riuscì a
superare il test di ammissione dell'Università
Khediviale del Cairo nonostante avesse perso la
vista alla tenera età di tre anni. Lì seguì le lezioni
di celebri orientalisti, come il già citato Carlo Al-
fonso Nallino (fondatore dell'Istituto per l'Oriente
di Roma) e Hans Wehr (che redasse un dizionario
bilingue arabo-tedesco che, nonostante rimo-
stranze più o meno legittime, diventò il testo di
riferimento praticamente per tutti i dizionari
arabi delle lingue europee). Studiò al Cairo e
ottenne il dottorato alla Sorbonne di Parigi; la sua
tesi di dottorato divenne un voluminoso e
ampiamente discusso studio critico sulla poesia
preislamica, per redigere il quale egli fece uso del
know-how appreso dai grandi arabisti succitati. Il
faraonismo è focalizzato, oltre che sulla retrospet-
tiva utopia dell'Egitto antico, sull'idealistica esal-
tazione dell'uomo politico e sarà l'ideologia di cui

79
si farà portavoce la quasi totalità dei capi di stato
egiziani dall'epoca di Nasser.
L'attività intellettuale di Ta Ha Hussein
non mancò di aspetti positivi: suoi sono i primi
esempi di letteratura araba scritta con modelli
scientifici; lottò contro l'analfabetismo allorché fu
ministro della pubblica istruzione sotto il regno
di Farûq I (1920-1965) e sotto il mandato dello
stesso Nasser.
Era il 1956 quando Jamâl ʿAbd An-Nasser
promise di rilanciare l'economia del suo Paese.
Come segno di cambiamento espresse il desiderio
di far edificare una diga ad Aswân ma non ricevé
gli attesi stanziamenti di fondi da parte occi-
dentale. In ogni caso, egli non vi rinunciò tanto
facilmente: prese la decisione di nazionalizzare il
Canale di Suez allo scopo di riscuotere i proventi
indispensabili alla costruzione della diga. La sta-
talizzazione del canale durò pochi giorni: per
tutta risposta Israele, appoggiato da Francia e
Gran Bretagna, invase il Sinai. Gli Stati Uniti non
permisero però che gli interessi di queste potenze
contrastassero con i loro e imposero a Israele il
ritiro16.
Infine l'ideale panarabo fece il suo primo
16 Cfr. Hourani, Albert, Op. Cit.

80
passo verso la realizzazione di una grande nazio-
ne araba, tramite l'unificazione, datata 1958, del-
l'Egitto con la Siria nella RAU (Repubblica Araba
Unita). Fu un grande fallimento: il 14 luglio dello
stesso anno, l'ufficiale iracheno ʿAbd Al-Karîm
Qâsim (1914-1963) mise in atto un colpo di Stato
in Iraq proclamando la propria amicizia alla
RAU. Ci si sarebbe dovuti aspettare che la repub-
blica araba contraccambiasse l'interesse offerto
dal graduato ma i membri del partito Baʿth (Rina-
scita) egiziano, siriano ed iracheno, avversari del-
la politica del comunista Qâsim finirono per for-
mare anche un fronte comune contro entrambi.
Tale situazione non tardò a scatenare una crisi
che attraversò la stessa RAU e che si complicò a
causa dell'appoggio, dato a Qâsim e al nuovo re-
gime iracheno, dall'Unione Sovietica.
Tale scompiglio condusse immancabil-
mente alla secessione della Siria dalla RAU. Con
la scissione della Repubblica Araba Unita, il
panarabismo si trovò dunque costretto a incas-
sare un primo duro colpo. Altro boccone amaro
fu la sconfitta riportata dalla coalizione araba
nella Guerra dei Sei Giorni (1967). È importante
segnalare avvenimenti come questi, poiché la
miccia dell'estremismo religioso degli anni Set-

81
tanta e Ottanta e a venire venne accesa, nel mon-
do islamico, non solo dalla Rivoluzione Iraniana
del 1979 ma anche dal vuoto politico lasciato dal
fallimento del modello arabo di socialismo, che
era per lo più inconsistente.
Negli anni Sessanta il Mondo Islamico
partecipò attivamente ai grandi stravolgimenti
che segnarono un'epoca della rivoluzione in tutto
il mondo. Le nuove prospettive di cambiamento
generale portate dall'università di Berkley, dai
Kennedys, da Luther King, Jean-Paul Sartre,
Nelson Mandela ecc. segnarono bene o male
un'epoca della sedizione e anche di battaglie per i
diritti civili. In questo quadro generale si inserì
anche la letteratura araba impegnata che cambiò
assetto politico, da nazionalista a rivoluzionaria.
Benché lo Stato di Israele non possieda
grande capacità di controllo e gestione dei terri-
tori che occupa militarmente, purtroppo è invece
favorito dalle sue grandi abilità a condurre
guerre di breve durata. La blitzkrieg israeliana del
1967 alimentò la frustrazione tra gli arabi e le
divisioni politiche tra le potenze sconfitte. Tutte
si accusarono a vicenda di incarnare la respon-
sabilità della debacle dei Sei Giorni, chiedendosi
vicendevolmente chi di loro abbia sbagliato tat-

82
tica. La perdita del Sinai, della Cisgiordania e del-
le alture del Golan reca da allora il nome di naksa,
la cui ricorrenza viene celebrata ancora oggi.
La naksa generò, come si sarà intuito,
autocritica a tutti i livelli. Gli intellettuali arabi
accusarono le nazioni uscite sconfitte dal conflitto
di aver sottovalutato la potenza di fuoco di
Israele. Il divario già esistente tra gli intellettuali e
il potere politico crebbe sempre più, e iniziò a
coinvolgere tra di loro gli intellettuali stessi,
sempre più vicendevolmente divisi. È proprio in
questa fase di autocritica e rivalutazione che gli
intellettuali riproposero la tematica della scelta
tra tradizione e modernità e quella dello scontro –
e al tempo stesso confronto – tra mondo islamico
e occidente.
Nel corso della Guerra del Kippur (1973)
gli eserciti egiziano e siriano colsero di sorpresa
quello israeliano che però si ricompattò, mante-
nendo alla fine il controllo di tutti i territori occu-
pati sei anni prima. In Tunisia, Burghiba giunse
al potere nel 1964 con un colpo di Stato alla guida
del suo partito Ad-Dustûr (La Costituzione). I
Tunisini conquistarono così l'indipendenza dalla
Francia. Burghiba fu il fondatore della Tunisia
moderna. Fortunatamente, l'indipendenza della

83
Tunisia non costò grandi spargimenti di sangue
come quelli che hanno contrassegnato la Rivolu-
zione algerina.
Sorge spontanea l'osservazione che, all'in-
domani dell'indipendenza ottenuta dai Paesi ara-
bi dal potere coloniale, ci si sarebbe dovuto aspet-
tare che il mondo arabo ritrovasse se stesso e rico-
struisse la gloria del passato. Se ciò non avvenne,
le cause non vanno ricercate solo nel manteni-
mento post-coloniale del predominio economico
da parte delle grandi potenze europee attraverso
la trappola del debito, ma anche al fatto che gli
arabi nei secoli erano cambiati. Coloro che appli-
cano l'Islam nella sua retta accezione sono ridotti
a delle enclavi. Nelle scuole arabe non si fa che
insegnare agli alunni fin dalla più tenera età a
coltivare ideali nazionalistici fondati sull'identità
araba, disgiunta da quella musulmana ormai en-
trata in crisi. Molti bambini non completano nem-
meno gli studi, in certi casi nemmeno le scuole
elementari. Si trovano obbligati ad aiutare econo-
micamente le proprie famiglie, abbandonando la
scuola per lavorare, magari nell'industria tessile
filando tappeti.
Delusi dalla debolezza degli Stati arabi
confinanti, i Palestinesi iniziano a organizzarsi. I

84
fedayîn sono, letteralmente, “coloro che si sacrifi-
cano per una causa”. Azioni armate vennero da
loro intraprese nella vicina Giordania, evidente-
mente allo scopo di richiamare l'attenzione della
comunità internazionale attorno alla questione
palestinese. Zarqâ', città giordana che dista pochi
chilometri dalla capitale Amman, ospita una base
aerea tra le più importanti: qui i fedayin avrebbero
fatto esplodere tre aerei. La risposta di re Hussein
di Giordania fu breve e incisiva: sciolto il parla-
mento, nominò nuovi capi militari e dichiarò
guerra ai fedayin nel suo Paese. Era il 1970 e, in
Giordania, scoppiava la Guerra Civile. In tutto il
Paese si contarono centomila morti, nell'arco di
un mese passato alla Storia come il Settembre
nero.
Nello stesso anno Nasser morì colpito da
una crisi cardiaca. Il suo successore Anwar As-
Sadât (1918-1981) portò l'Egitto sotto l'influenza
degli States. Quattro anni dopo, la Lega Araba
votò un documento dichiarante che l'Olp è l'uni-
co legittimo rappresentante del popolo palesti-
nese. In occasione degli Accordi di Camp David
del 1978, Jimmy Carter fece siglare la pace tra
Israele ed Egitto; l'accordo previde che il Sinai e il
Canale di Suez, presi dagli Israeliani durante la

85
Guerra dei Sei Giorni, ritornassero sotto il con-
trollo dell'Egitto; questa clausola verrà effettiva-
mente rispettata, anche se il conflitto Israelo-
palestinese rimase irrisolto malgrado i lunghi
tentativi di individuare una soluzione, bellica o di
conciliazione tra le parti. Fu così che Sadât allac-
ciò relazioni diplomatiche con Israele, scelta che
gli costò la vita nel 1981. Si individuarono come
responsabili dell'attentato membri della succitata
Fratellanza Musulmana, movimento notoriamen-
te filo-palestinese. Era già da almeno un decennio
che si faceva strada, nel mondo arabo, una lette-
ratura del disincanto, con la quale si metteva in
luce il senso di delusione e di smarrimento dovu-
to al fallimento della via araba al socialismo.
Frattanto, Yasser Arafat (1929-2004), insie-
me alla dirigenza dell'Olp, spostò i suoi miliziani
dalla Giordania al Sud del Libano: a partire da
questo fazzoletto di terra a nord, ingaggiò un ten-
tativo di riappropriazione territoriale da parte di
palestinesi male armati di tutta la Palestina stori-
ca, sotto l'appoggio sovietico. Il risultato fu disa-
stroso: nel 1982 l'esercito israeliano giunse alla
periferia sud di Beirut e obbligò Arafat a lasciare
il Libano, insieme a tutta l'Olp. Sotto la garanzia
dell'Italia, Arafat trovò rifugio in Tunisia.

86
Da quel momento la resistenza palesti-
nese, delusa dall'ideologia modernista di Arafat,
prese la via della radicalizzazione. Il passaggio da
idee di stampo laico ad altre di ispirazione
islamista fu segnato dalla nascita di alcuni partiti
armati palestinesi, tra i quali il wahhabita Jihâd
Islamî (1982) e il politico-islamista Hamas (più
tardi, nel 1987) il quale altro non è che l'ala pale-
stinese del movimento dei Fratelli Musulmani. Fu
ancora nel 1982 che l'Iran inviò nel Sud del
Libano miliziani e istruttori militari, a fondare il
partito armato della Hezbollah libanese. I futuri
dirigenti di Hamas stavano già effettuando i loro
preparativi per la nascita della loro organizza-
zione ma, per ragioni di ordine organizzativo,
economico e di arsenale militare, rimandarono
l'entrata in scena dell'organizzazione terroristica
fino allo scoppio della Prima Intifada nel 1987.
Questo forse rappresenta un ennesimo esempio
di radicalizzazione vicinorientale dovuto alla
debolezza mostrata dai partiti di ispirazione
laica. In tutto il mondo islamico si verifica lo
stesso fenomeno: l'islamismo radicale fa proseliti
tra le masse deluse dalla dirigenza laica. Molto di
frequente si è ipotizzato che l'occidente stesso si
sia servito dello stesso islamismo radicale per

87
mandare in fallimento il socialismo arabo e sot-
trarre i Paesi Arabi socialisti all'influenza del-
l'URSS17.
La Conferenza di Madrid del 1991 inau-
gurò il processo di pace tra Israeliani e Pale-
stinesi. Gli scandalosi accordi siglati a Oslo due
anni più tardi generarono disincanto e disillu-
sione tra quanti speravano nella spartizione
territoriale della Palestina e nella nascita di uno
Stato Palestinese. Il processo di pace proseguì
negli anni rendendosi sempre meno coerente e
credibile, e venne fatto fallire in tutti i modi non
solo dai jihadisti palestinesi ma allo stesso modo
da un gran numero di Israeliani disinteressati alla
pace. Volendo fare luce sugli errori del sionismo,
va sottolineato che questo si sia imposto da su-
bito in modo offensivo e brutale, senza mostrare
alcun rispetto verso la popolazione araba, coloro
che i sionisti continuano a definire “i Locali”.
Golda Meir (1898-1978) giunse persino a negare
l'esistenza stessa dei Palestinesi dinnanzi al
mondo, descrivendo la Palestina storica «una
terra senza un popolo per un popolo senza terra»,
negando con ciò il diritto all'uguaglianza ai cosid-

17 Camera d'Afflitto, Isabella, Letteratura araba contemporanea. Dalla


Nahdah a oggi. Roma, Carocci Editore, Quality Paperbacks, 1998.

88
detti “Locali”. Il grande problema dei Palestinesi
non è mai stato l'assenza di uno Stato, ma l'assen-
za di diritti. La Storia Palestinese sarebbe stata
altra se il movimento sionista si fosse proposto in
modo pacifico, anche se ciò può ragionevolmente
sembrare poco realistico. Le motivazioni del
sionismo sono più che legittime, se con ciò si
intende la ricerca di un territorio dove sfuggire
alle condizioni generate da diaspora e antisemi-
tismo, specie in Europa; ma privare gli arabi delle
loro case era lungi dall'essere una necessità.
Come l'Egitto, altri Paesi cercarono invano
di guadagnarsi l'egemonia del mondo islamico.
Iran, Arabia Saudita e Turchia hanno una visione
proiettata verso l'esterno, in cui cercano di ergersi
a guida. È una fortuna o un grave problema che il
mondo arabo sia interiormente diviso e discorde?
Difficile dirlo. I tentativi del laico Egitto sono
falliti a cominciare dalla RAU. L'Arabia Saudita
ha cercato di conquistare un ruolo-guida del
mondo arabo in prima istanza attraverso le orga-
nizzazioni internazionali arabe, poi dichiarando
una guerra fredda all'Iran che si sta combattendo
nello Yemen e fornendo sostegno anche a gruppi
armati in Siria e Iraq. L'Iran, vincente nel Siraq,
non cerca meno di altri di esportare il suo

89
modello di islamismo, rimasto fortemente teocra-
tico. La Turchia soffre anch'essa di crisi di iden-
tità religiosa e politica.
Per molti intellettuali arabi, il conflitto tra
eredità culturale islamica e modernità andrebbe
risolto più semplicemente sbarazzandosi della
prima, da loro vissuta oramai come un peso, un
elemento reazionario della cultura e della società.
Checché ne dicano, non si può dire, alla luce del
collasso del socialismo arabo, che il mondo isla-
mico abbia tratto giovamento dal colonialismo
culturale. Come tutti gli intellettuali, anche quelli
arabi persero specificità e funzione alla caduta
del Muro di Berlino nel lontano 1989.
Il resto è Storia: la guerra d'Afghanistan
tra Talebani e Armata Rossa, la I Guerra del Gol-
fo, l'espulsione di Osama Bin Laden dall'Arabia
Saudita, la nascita di Al-Qaida, gli attacchi terro-
ristici dell'11 settembre 2001, altre guerre, altri
attentati e, a peggiorare tutto, intorno al 2006 la
frangia estrema della Al-Qaida irachena, dopo
essere stata sotto la guida di Az-Zarqâwî è
divenuta l'ISIS.
In tutta questa Storia c'è da chiedersi che
fine abbia fatto la Confraternita dei Fratelli Mu-
sulmani. Nel 2010, Muhammad Bouazizi inau-

90
gurò la stagione della Primavera araba e tutto il
mondo arabo venne scosso da un fremito. I Fra-
telli Musulmani approfittarono di questi eventi
per arrivare al potere con il loro partito Libertà e
Giustizia nel 2012. Il noto autore contemporaneo
Massimo Campanini narra così quegli avveni-
menti:
Nonostante la partecipazione a titolo personale
di alcuni militanti, soprattutto giovani, i Fratelli
Musulmani non avevano occupato gli spazi
politici subito dopo l’esplosione delle proteste,
ma, quando si erano accorti che non si trattava
di un fenomeno passeggero, ma di una spinta
eversiva che poteva portare al rovesciamento
del dittatore, avevano fatto proprie le parole
d’ordine delle rivendicazioni, ammantandole di
una veste religiosa che lasciava comunque spa-
zio – almeno apparentemente – a soluzioni con-
divise, in nome di un patriottismo trasversale
che tingeva di nazionalismo gli stessi slogan
religiosi [...].
Abbandonando la prospettiva graduali-
sta, i Fratelli Musulmani hanno creduto di poter
imporre dall’alto invece che con la germina-
zione dal basso il proprio progetto.
[...]Una certa mancanza di contatto con
l’asperità della realtà quotidiana in nome della
purezza dei principî, li ha indotti probabilmente

91
a sottovalutare l’importanza della soluzione dei
problemi immediati, tra cui erano preminenti
quelli del lavoro, dell’occupazione e della lotta
alla povertà18.

Almeno negli intenti dichiarati sembrava


dunque che l'Islam politico fosse un movimento
più vicino ai bisogni generali e più a favore di
una vera giustizia sociale di quanto non si sia di-
mostrato alla prova dei fatti. Muhammad Mursi
(1951-2019), primo presidente egiziano dell'ala
politica dei Fratelli Musulmani, venne destituito
da un movimento di protesta esattamente un
anno dopo l'inizio del suo mandato. Nonostante
la Turchia segua ancora i programmi della Fratel-
lanza, la confraternita ha senza alcun dubbio
disatteso le aspettative, a lungo proclamate nel
suo slogan «L'Islam è la soluzione».
Beninteso: l'Islamismo radicale non è certo
preferibile all'Islam di stampo laico-modernista.
Ma se l'Islam è alla ricerca di un'identità, perché
essere costretti a scegliere tra queste due, perpe-
tuandone il contenzioso nel tempo? Laicità e radi-
calismo sono due varianti dello stesso Islam o
sono piuttosto due aspetti della stessa volontà di
18 AA.VV., L'autunno delle primavere arabe, Editrice La Scuola, 2013,
contributo di Massimo Campanini, ppgg. 17 e 21-23.

92
riforma che ne ha mutato le verità fondamentali,
il messaggio-base, la legge religiosa e perfino l'a-
spetto esterno? Perché perpetuare il sostegno a
modelli subdoli, cinici e fallimentari? Tuttavia
un'alternativa esiste.

93
7. L'inefficacia dell'islamismo radicale
come ideologia di governo; la sua
origine nell'interpretazione deviante
delle Fonti Sacre dell'Islam.

Visti e considerati gli esperimenti di governo che


ha attuato, non si può certo dire che l'Islamismo
radicale funzioni come ideologia. Non si possono
non considerare le pessime prove di governo
dell'amministrazione Mursi in Egitto, degli Aya-
tollah in Iran, di Erdoğan nella Turchia postke-
malista e di qualsiasi teocrazia pura e semplice –
per non parlare di quella tentata dal sedicente
Islamic State -. L'elenco è lungo: l'Afghanistan dei
Talebani nel periodo 1994-2001, il Regno Saudita
e qualunque teocrazia integrale e totalizzante.
Benché ognuno di questi Stati teocratici
abbia tentato di ergersi a guida e a modello, di
queste ipotesi di governo non ce n'è una che
possa essere imitata, a livello circoscritto o
universale. Il sedicente Stato Islamico del Siraq e

94
della Libia aveva preso coscienza di dover alme-
no garantire i servizi essenziali, come ad esempio
l'istruzione, negli sfortunati territori presidiati
militarmente. L'esito è stato comunque più che
reprensibile: se la matematica viene insegnata
usando i kalashnikov per i calcoli aritmetici, va da
sé che questo equivale ad educare alla guerra. Gli
stessi bambini del Siraq ne erano vittima fin
dall'infanzia, trascorsa infelicemente. Gli elementi
che possono far funzionare un sistema non si
possono, oltretutto, ridurre al contrabbando del
petrolio in cambio dei fondi necessari a garantire
i servizi essenziali. Il già citato Ibn Khaldûn
(1332-1406), storico arabo di immensa erudizione,
sei secoli fa delineava tutt'altra concezione della
politica:
La politique est l'art de gouverner une famille
ou une cite conformement aux exigences de la
morale et de la sagesse, afin d'inspirer a la
masse un comportement (minhaj) favorable a la
conservation et a la duree de l'espece19.

Al modernismo kemalista e cesaropapista,


che dell'Islam non vuole le regole, si è finora con-
19 Ibn Khaldun, Discours sur l'Histoire universelle (Al-Mu-qaddima).
Traduit de l'arabe, présenté et annoté par Vincent Monteil. Bei-
routh, Thesaurus Sindbad, 1968.

95
trapposto l'atteggiamento integralista, che è arri-
vato ad abolire ogni libertà di scelta del cittadino
anche nell'esecuzione dei gesti quotidiani più
banali. Non è vero Islam il primo, ma certamente
nemmeno il secondo. Tutto dipende dalla lettura
e dall'interpretazione dei suoi testi fondamentali,
ed è per questo che entrambe le vie si distolgono
dalla sua corretta accezione. Qual è dunque il
vero Islam?
Il Corano, come sanno in molti, è il Libro
imbattibile, non soggetto non solo a imitazione,
ma nemmeno a paragone o addirittura a supera-
mento. Ma se letto e interpretato come fosse il
libro fondamentale di una religione di legge, o in
chiave ideologica, viene indubitabilmente inde-
bolito e declassato a libro da ideologia. Eppure
basterebbe rimuovere dalla propria forma mentis
ogni innovazione e ogni ostacolo alla compren-
sione per vedere la verità rimasta tale e mai
interpolata. Ne consegue che un musulmano può
in qualunque momento risolvere queste crisi di
identità, riscoprendo la sapienza di una divinità
onnisciente* che non ha eguali. I wahhabiti fanno
spesso vanto di essere gli autoproclamati parti-
giani della fede nell'Unico (muwahhidûn) e i depo-
sitari del credo corretto (al ʿaqîda as-sahîha),

96
eppure non sembra essere propriamente, la loro,
la posizione dottrinale più forte tra tutte. Nondi-
meno quella dei Fratelli Musulmani è colma di
errori, primo tra tutti quello di illudere sull'animo
degli individui. La confraternita basa la riuscita
dell'Islam sull'ipotesi che il mondo veda che esso
è la soluzione a tutti i mali della società: povertà,
disoccupazione, sfruttamento. Ma l'autore di que-
sto libro non si sbaglia di certo smentendo questa
teoria: Dio* fa vincere la sua parola* qualunque
cosa cada sotto il suo sguardo. La mia posizione è
sostenuta dal Corano quando dice: wa huwa al-
qâhiru fawqa ʿibâdihi (=ed Egli è Colui che prevale
sui suoi servi).
Quella del riformismo in tutte le sue
forme non è dunque la linea tracciata dal Corano,
né ne segue il filo logico. Questo si può
facilmente dimostrare mettendo a confronto ciò
che il Corano enuncia con l'enunciato degli
islamisti e di altri revisionisti di ogni tendenza.
L'insegnamento dell'Islamismo radicale e tutto il
riformismo in genere è lungi dal corrispondere a
ciò che dicono le Fonti Sacre dell'Islam, contenu-
tisticamente, giuridicamente, pedagogicamente e
da qualunque punto le si osservi. Ad ogni modo,
ritrovare il significato originario delle fonti sacre

97
dell'Islam è semplice quanto rispettarle. È solo
seguendo questa metodica che le si può leggere e
interpretare senza commettere errori sistematici,
grossolani e strutturali.

98
SECONDA PARTE
L'ESEGESI DEVIANTE DEL CORANO:
CONFUTAZIONE DELLE IDEE DI PENSATORI
REVISIONISTI E DELLA PROPAGANDA
RADICALE

99
100
8. Un esempio paradigmatico di esegesi
deviante: Sayyid Qutb

Sayyid Qutb (1906-1966) è una delle figure più


note all'Islamismo radicale. Divenne la figura di
massimo rilievo dei Fratelli Musulmani dopo il
fondatore della confraternita, il già citato Hasan
Al-Banna. La sua nascita, vita e attività si svol-
sero, non a caso, in Egitto.
Già funzionario del Ministero dell'Istru-
zione Pubblica, nel 1948 venne inviato dal gover-
no cairota negli States, dove, a contatto con la
società locale, prese la via della radicalizzazione.
Dopo un'iniziale adesione alla Rivolu-
zione dei Liberi Ufficiali in Egitto nel 1952, Qutb
condivise la persecuzione dei Fratelli Musulmani
e venne imprigionato per molti anni. In carcere
scrisse un commento al Corano e Ma‘âlim fi-t-
tarîq (Pietre miliari o I segnali lungo la via), la sua
opera più influente, nella quale riformulò i
concetti di jihâd e di jâhiliyya, aprendo la strada
alle formulazioni più estreme dell’islamismo ra-

101
dicale egiziano. Scarcerato nel 1964, Qutb verrà
nuovamente arrestato l’anno dopo con l’accusa di
complottare ai danni di Nasser e infine giusti-
ziato nel 196620.
Dal momento che il mio compito è quello
di operare una critica testuale dell'esegesi cora-
nica del radicalismo di marca islamista, mi occu-
però di rivedere il commentario al Corano che
Qutb scrisse durante la sua prigionia, trala-
sciando le altre opere da lui concepite.
Come Qutb giustamente sosteneva, la fede
musulmana trascende i limiti della coscienza e
dell'interiorità dell'individuo, trovando espres-
sione anche nella vita comunitaria come campo
d'azione. Qutb approfittò di questa concezione
per rivestire l'integralismo della sua confraternita
di un manto di azione politica.
Nell'Islam, è noto, per potersi dire sincera,
la fede si traduce immancabilmente in fede,
parole e opere – senza che ciò debba implicare un
Ghazaliano pragmatismo. Detto ciò, Sayyid Qutb
si getta letteralmente agli antipodi di una visione
limitativa della fede, incrementando addirittura
le basi di un integralismo a tutto tondo. Nel suo

20 Cfr. www.treccani.it/enciclopedia/sayyid-qutb_(Dizionario-di
Storia)/

102
commentario Fī zilāl al-Qur’ān (All'ombra del
Corano), religione e politica, sfera pubblica e pri-
vata della vita, mondo spirituale e mondo mate-
riale costituiscono un tutto armonico in cui viene
abolita ogni distinzione.
Nell'integralismo egli individua letteral-
mente una via della salvezza collettiva, e il Cora-
no diviene a tutto tondo la Costituzione della
società islamizzata ideale. L'educazione e la radi-
calizzazione vanno così di pari passo e gli
elementi essenziali della pedagogia islamista
andrebbero, infine, applicati a tutti i livelli della
società. Mentre Sayyid Qutb scriveva, i Fratelli
Musulmani sospesero la lotta armata dedicandosi
all'esercizio dell'istruzione e del welfare. Tale
stato di cose durerà fino al luglio 2013, quando
l'allora presidente Muhammad Mursi, da loro
eletto, venne destituito da un movimento di
protesta.
La società, effettivamente schiacciata dalla
miscredenza e dalla corruzione, è sprofondata
nell'epoca buia dell'ignoranza (jâhiliyya). Questo,
per gli storici arabi, rimanda all'epoca preisla-
mica, che si era conclusa con l'emigrazione del
Profeta* dalla città di Mecca - a lui ostile - a quella
di Medina – pronta ad accoglierlo in buona e in

103
mala fede - . Qutb sosteneva che tutte le nazioni
arabe siano regredite a questo stadio, e questo è
effettivamente ciò che si è potuto riscontrare. Una
volta sovvertiti, i governi arabi andrebbero sosti-
tuiti, sostenne, con uno Stato musulmano che
possieda il Corano come unica legge e costitu-
zione. La Sovranità esclusiva di Dio* non permet-
terebbe all'uomo di legiferare alcunché, quan-
d'anche le sue decisioni non contrastino con i
precetti del Corano e della Tradizione orale.
Questa concezione della politica dettata da Qutb
presenta notevoli somiglianze con quella dei
kharigiti.
Muhammad Ibn `Abd al-Wahhâb imputò
le cause della decadenza attuale del mondo
islamico all'idolatria e al culto dei santi; Rashid
Rida la addossò al mondo delle confraternite;
Qutb vide nel colonialismo culturale dell'Occi-
dente il principale responsabile. Responsabilità
che forse è da attribuire alla perdita del rispetto
delle Fonti Sacre dell'Islam, insieme a molti altri
fattori.
Commentando i verss. 6.16 della Sura II
del Corano, Qutb introduce senza esitazioni il
dissidio contro i nemici dell'islamismo radicale
denominato

104
semplicemente Islam - . Le tematiche essenziali
del suo commentario si possono così riassumere:
- la fede in un Unico Dio*, estesa a ogni
aspetto della vita individuale e comunitaria,
come cemento unificante della comunità musul-
mana;
- l'individuazione del nemico nelle fedi
diverse dall'Islamismo e nei governi arabi costi-
tuiti, prendendo a pretesto la cattiva condotta
umana e politica di alcuni gruppi umani, senza
fare eccezioni di sorta al loro interno;
- il rovesciamento di tutti i governi del
mondo, elevando la legge letterale coranica a
unico codice esistente.
Nelle sue affermazioni propagandistiche
ed eversive c'è più di un segno tangibile in base al
quale affermare senza esitazioni che, mentre il
Corano riconosce che Dio* «vi ha creati uomini e
donne e divisi in popoli e tribù affinché vi
conosciate a vicenda» (come recita un versetto
della Sura delle Stanze), la versione radicalizzata
dell'Islam possiede invece connotazioni razziali.
V'è poi più che un riferimento al «marti-
rio», a cominciare dal paragrafo da Qutb intito-
lato «Il sacrificio della propria vita»:

105
La Sura dice ai Musulmani che, nella lotta per
l’affermazione della verità universale, dovranno
sacrificare le loro vite. Coloro che rischiano la
vita e vanno fuori a combattere, e che sono
pronti a perdere le loro vite per la causa di Dio
sono persone onorabili, pure di cuore e
dall’animo benedetto. Ma la grande sorpresa è
che quelli tra loro che vengono uccisi nella
battaglia non sono considerati morti. Essi
continuano a vivere, come Dio Stesso afferma
chiaramente21.

Il primo pensiero va ai membri del sedi-


cente Islamic State che hanno perso la vita nelle
loro azioni terroristiche, condotte scandalosa-
mente anche contro i musulmani stessi. Come
definire i suoi jihadisti: gente onorabile? Pura di
cuore? Benedetta nell’animo?
Qutb prosegue:
La Sura continua a mobilitare i credenti
verso la dura e lunga battaglia che hanno di
fronte e accresce la loro comprensione delle cose
a venire:
Vi metteremo certamente alla prova con un po’
di paura e di fame, diminuzione della ricchezza,
21 Qutb, Sayyid, In the shade of the Qur’ān, translated and edited by
Adil Salahi & Ashur Shamis. The Islamic Foundation, United King-
dom, 1999. Traduzione a cura dell'autore.

106
delle vite e dei frutti. Ma da’ la buona novella ai
pazienti, coloro che quando li coglie una
calamità dicono: «È ad Allah che apparteniamo,
e a Lui ritorniamo».

[Corano II:155-156

Le prove fanno parte del processo educativo. La


risolutezza dei credenti nella lotta in nome della
verità e nella sopportazione del processo ogni
volta che essi possono dover essere messi di
fronte alla paura, alla durezza, alla carestia o
alla perdita della vita deve essere rigorosamente
testata22.

Nel passaggio appena citato del suo com-


mentario, ritorna a parlare di radicalizzazione, la
cui estrema concretizzazione è il sacrificio della
propria vita, dopo essere stati pronti a tutto in
cambio del successo della causa dell'Islamismo.
Le estreme conseguenze del fanatismo si riassu-
mono nell'atto conclusivo del processo di radica-
lizzazione.
Le motivazioni più profonde di Qutb, pur
ammettendo che sia lecito chiamarle in questi
termini, sono descritte nel capitolo 10 del com-
mento alla Sura II, frazione che si intitola «Giu-
22 Qutb, Sayyid, Op. cit.

107
stizia sociale e pratica del digiuno». La sua con-
vinzione che il Corano a sé stante possa rappre-
sentare in modo autonomo la Costituzione di uno
Stato non si muove di un millimetro. Qutb non
vuole ammettere che:
1) è troppo riduttivo e inappropriato
descrivere la legge islamica come fosse un codice
composto dalla legge del taglione pura e semplice
a cui vanno ad aggiungersi disposizioni corani-
che testamentarie, di mutua assistenza ecc.;
2) la legge islamica è di per sé insufficiente
a dirigere uno Stato e va completata con norme e
decreti lasciati alle capacità di chi lo governa,
anziché essere estesa a tutti i casi dell'umano
agire in ogni suo aspetto. Il Corano tace infatti su
numerose questioni, per esempio sul piano
amministrativo, di procedura civile e penale, di
diritto internazionale ecc. lasciando intendere che
il ruolo che l'Islam dovrebbe esercitare non è
quello di sistema completo e integrale. In uno
Stato che riconosce la legge religiosa dell'Islam,
ad essa andrebbe sempre affiancato un diritto
complementare, anziché fare spregiudicato ricor-
so all'ijtihâd (Capitolo 2) per completarne il qua-
dro normativo.
A partire dall'enunciato coranico non è

108
infatti possibile rispondere a quesiti e a esigenze
come queste: che strategia economica bisogna
adottare in alternativa, magari, a globalizzazione
e protezionismo? Quale sistema elettorale
dovrebbe sostituire, stando al Corano e la Tradi-
zione, quello utilizzato negli States, ad esempio?
Come si dovrebbero comportare e come dovreb-
bero relazionarsi le nazioni del mondo per indivi-
duare un modo di realizzare l'ideale tutto
idealistico di una pace duratura? Gli stessi
Fratelli Musulmani, di cui Qutb era esponente di
spicco, sono stati capaci di attuare un efficace
piano di sviluppo durante l'amministrazione
Mursi? Il taglione puro e semplice degli islamisti,
le poche disposizioni coraniche applicabili al
moderno concetto di welfare, non sono sufficienti
a ottenere maggiore giustizia sociale.
Qutb procede a commentare il vers. II:190
e segg. parlando delle giuste restrizioni che uno
sforzo bellico dovrebbe rispettare ogni volta che
si ricorra ad esso come mezzo di risoluzione delle
controversie. Nonostante egli confermi il fatto che
l’intera popolazione civile, donne, bambini,
anziani e religiosi, inclusi i luoghi di culto vadano
risparmiati, si possono fare due osservazioni:
1) il jihadismo odierno, che altro non è che

109
la degenerazione del radicalismo dei tempi di
Qutb e di altri autori, non agisce più secondo
un’etica che preveda di non fare vittime civili:
tutto è considerato lecito, a dispetto della stessa
dignità umana;
2) la propaganda di Qutb è a scopo ever-
sivo: l’obiettivo dichiarato è quello di abbattere il
sistema vigente in ogni epoca e in ogni luogo e di
sostituirlo con l’«Islam» concepito come sistema
completo e integrale, senza curarsi minimamente
delle conseguenze di una siffatta enormità.
Inoltre, un ennesimo esame del testo lascia
sospettare che Qutb abbia tentato - disgraziata-
mente con successo – di internazionalizzare la
questione dei Fratelli Musulmani relativamente
all’epoca del Nasserismo in Egitto, facendola
somigliare un po’ forzatamente alla condizione
dei musulmani di ogni epoca e di ogni luogo.
Dopo il fallimento del mandato di Muhammad
Mursi tra il 2012 e il 2013, l’ideologia dei Fratelli
Musulmani tornò ad occupare il ruolo di causa
persa assegnatole già da tempo.
Il paragrafo relativo ai verss. II: 204-214,
intitolato «La vera natura della società islamica»
richiama alla mente una concezione già cara alla
Jamaat-e-Islami di Abu-l-Aʿla Al-Mawdûdî - pen-

110
satore indiano di cui Qutb era debitore - e cioè
che le società musulmane nel loro complesso
vadano mobilitate allo scopo di sovvertire l’or-
dine costituito e di sostituirlo con uno Stato retto
dal dettato coranico letterale e integrale, da lui
ritenuto l’unica alternativa possibile allo status
quo.
Per brevità faccio a meno di riportare il
gruppo dei versetti coranici così interpretati, ma
consiglierei di confrontarli con la loro «esegesi»
proposta da Qutb - se il lettore lo riterrà neces-
sario - per poter comprendere che detta interpre-
tazione non può essere ad essi applicata se non
con una buona dose di forzatura.
Seguono un capitolo il cui titolo è «Peg-
giore dell’omicidio stesso», in cui gli Stati arabi
sono concepiti come una minaccia alle fonda-
menta del l’Islam per loro stessa struttura e natu-
ra, un ulteriore capitolo dedicato alla «famiglia, il
fondamento della società umana», nel contesto
del quale il ruolo della donna nella famiglia e
nella società è di essere un mezzo di procreazione
e niente più.
Il commento ai verss. 1-120 della Sura III
non è che retorica. Analizzando ulteriori brani
del suo commentario - ad esempio la sua esegesi

111
della Sura CII - si ha la netta impressione che la
Divinità* che ha rivelato il Corano, non solo,
secondo Qutb, ne abbia fatto scaturire l'ideologia
dei Fratelli Musulmani tredici secoli dopo la rive-
lazione; ma, di conseguenza, il mondo starebbe
aspettando la loro ideologia, vista e concepita
quale unica risposta e unica soluzione a tutti i
mali della società e del mondo.
Non c'è da domandarsi se un teorico
dell'ideologia nota al mondo come islamismo o
integralismo islamico sia sincero nell'intento e se,
magari, si trovi nell'errore per pura ignoranza: è
impossibile che non si accorga di mentire chi,
della menzogna, ne getta anche le basi. Un’ultima
analisi di Fī Zilāl Al-Qur’ān o «All’ombra del
Corano» tirerebbe le somme dei fondamenti di
un’ideologia debole quale era quella ideata dalla
Fratellanza Musulmana.
Detto commentario trasmette e spiega ben
poco del messaggio del Corano e delle sue verità
fondamentali, e in modo decisamente distorto.
Un qualsivoglia lettore alle prese con Fī Zilāl Al
Qur’ān termina la lettura senza saperne più di
prima. Ci si sarebbe potuti aspettare di più da un
esegeta che, nella vita, era stato un critico lette-
rario. In sintesi si può concludere che tale com-

112
mentario esegetico sia un testo tutto sommato
mediocre, riduttivo, deviante, grossolano e ap-
prossimato.

113
9. Un teorico della Rivoluzione del '79:
Ali Shari'ati

Dopo aver ampiamente preso in esame l'islami-


smo radicale sunnita è più che opportuno dare
uno sguardo anche a quello sciita, non meno
politico ed estremista.
L'ascesa al potere degli ayatollah nel '79 in
Iran ha determinato una fase storica nuova anche
per l'Islamismo sciita: in Iran ci si domanda se il
mahdismo sia ancora una necessità. Per meglio
intendersi: il termine «imam» possiede, nelo
sciismo, un significato molto più esteso che nell'i-
slam sunnita, dove questo termine designa sem-
plicemente colui che guida una preghiera comu-
nitaria o, al limite, il fondatore di una scuola giu-
ridica. Nello sciismo, l'imam è una personalità,
discendente di ‘Ali, nella quale si perpetua la
profezia dopo la morte di Muhammad. Di questi,
lo sciismo duodecimano (quello al potere in Iran)
ne conta appunto dodici; il dodicesimo e ultimo

114
di essi è il prescelto, manifestatosi nel IX sec e oc-
cultatosi ancora bambino. Quest'ultimo, il mahdi
o «ben guidato» non è dunque morto, e farà la
sua ricomparsa in epoche escatologiche, quando
sarà chiamato a realizzare la giustizia sulla terra.
Analoga figura del mahdi esiste anche nel
sunnismo, ma spogliata da tutto il mahdismo e da
tutta l'imamologia sciiti e senza coincidere con
quella dell’imam «occulto».
Detto ciò, con la presa di potere dei pasda-
ran e il rovesciamento di Reza Scià la popolazione
iraniana comincia a domandarsi se il mahdismo
succitato debba ancora perpetuarsi. Molti sono
però consci del fatto lapalissiano che il regime
degli ayatollah non abbia realizzato la giustizia
sulla terra, anzi. La condotta dei nuovi leader è
spesso inesorabile, complice la polizia morale e il
trattamento riservato alle donne nelle prigioni, la
corruzione e l'interesse personale e settario e, per
di più, l'instaurazione del loro governo è quel che
ha fatto Khomeini applicando nell'Iran rivoluzio-
nario la dottrina del «vicariato dei giureconsulti»:
i giureconsulti...
...sono vicari dell'imam, e si arrogano le sue pre-
rogative politiche onde gestire uno stato che, in
teoria, sarebbe sempre e comunque illegittimo

115
in assenza dell'imam. Siamo forse in questo caso
più vicini a una sorta di teocrazia che però
l'islam sunnita, largamente maggioritario, non
ha mai conosciuto23.

Questo rimanda alla concezione del ta'lîm


(Capitolo 2) per la quale il diritto, a livello dei
giudizi dottrinali, è sempre dettato dagli imam
del passato (sette o dodici a seconda della fazione
sciita di riferimento) e, in loro assenza, nessun
giudizio può essere sostituito al loro, indiscutibile
e infallibile.
Nel 1979, la Rivoluzione Iraniana realizzò
una delle prime ipotesi di Stato teocratico fonda-
to su idee islamiste. Le sue premesse sono state
simili a quelle di altri momenti di ascesa di uno
Stato islamista:
1) un precedente governo laico – quello di
Reza Scià - ispirato a modelli europei (si pensi
all’attuale Turchia, la cui adesione all’islamismo
dei Fratelli Musulmani segue a un lungo periodo
di sperimentazione del modello Kemalista);
2) repressione dei movimenti islamisti (co-
me nel caso dell’Egitto, prima e dopo l’ascesa del-

23 Massimo Campanini, Il pensiero islamico contemporaneo, Bolo-


gna, Il Mulino, 2005.

116
la Fratellanza) e
3) uso della tortura nelle carceri, il quale
ha generato prevedibili reazioni.
’Ali Shari’ati (1933-1977), teorico della
Rivoluzione Iraniana è, secondo il mio parere, un
ennesimo esempio paradigmatico di Islam poli-
tico. Come gli altri intellettuali islamisti militanti
ha ricevuto un’istruzione religiosa, ha proseguito
gli studi in Europa, ha letto le opere di filosofi
occidentali, è stato in carcere, ha scelto la stampa
come veicolo di trasmissione dei principi cari alla
propria utopia e si è dedicato con fervore allo
studio della Storia e della sociologia. Secondo
Hamid Algar, che traccia un profilo della vita e
delle idee di Šari’ati, le motivazioni della sua
ideologia sono che
Without ideological change, no profound chan-
ge is possible in society, and it is precisely a pro-
found ideological and intellectual change that is
now needed more than anything else in the fast
moving, modern world24.

La «teologia della liberazione» da lui pro-


fessata denota una «sociologia dell’Unità di Dio»,
contrapposta a una «sociologia del politeismo»,
24 Shari'ati, 'Ali, On the Sociology of Islam, translated from the persian by
Hamid Algar, 1979, Mizan Press, Berkley (USA) introduzione, p.29.

117
identificando la fede nell’Unità di Dio attraverso
quella delle masse (an-nās) e il politeismo attra-
verso il colonialismo culturale occidentale e le
ideologie rivali all’islamismo.
Tutto il significato della vita è, per il no-
stro, rinchiuso in queste sue parole:
Life is conviction and struggle, and nothing
more25.

Per completare il quadro e la prospettiva del cre-


do (‘aqīda) di Šari’ati è utile esaminare le sue con-
getture su Caino e Abele. La loro storia è citata
nel Corano, secondo presupposti direi del tutto
diversi e distanti da quelli attribuitile da Shari'ati.
Secondo la lettura da lui proposta, si tratterebbe
di una allegoria in cui Abele è la figura retorica
del socialismo primitivo e Caino quella del liberi-
smo:

…Within the structure of Abel, it is possible to


have economic socialism […] the pastoral and
hunting mode of production (both existed in the
primitive commune); the industrial mode of
production (in the classes, post-capitalist socie-
ty) and even the mode of production […] at the

25 Shari'ati, 'Ali, On the Sociology of Islam, Op. cit., pag.33

118
opposing pole, that of Cain, or economic mono-
poly and private ownership […] slavery, serf-
dom, feudalism, bourgeoisie, industrial capita-
lism and – at its culmination – imperialism, all
belong to the structure of Cain26.

Eppure, dal lato oggettivo il Corano non si


esprime in questi termini, ma dice soltanto ciò
che segue:

E recita loro la storia dei due figli di Ada-


mo, secondo verità, quando essi offrirono
un sacrificio, e quello dell’uno fu accetto e
non fu accetto quello dell’altro. E questi
disse: “io t’ucciderò!” ma il fratello rispose:
“Allah non accetta che il sacrificio dei pii!
E certo se tu stenderai la mano contro di
me per uccidermi, io non stenderò la mia
su di te per ucciderti, perché temo Allah, il
Signor del Creato! Io voglio che tu ti accolli
il mio peccato e il tuo e che tu sia nel
Fuoco, che è la ricompensa degli ingiusti!”.
La sua passione lo spinse a uccidere suo
fratello, lo uccise e fu tra i perduti.
[…] per questo prescrivemmo ai
Figli di Israele che chiunque ucciderà una

26 Shari'ati, Ali, Op. cit.

119
persona senza che questa abbia ucciso un
altro o portato la corruzione sulla terra, è
come se avesse ucciso l’umanità intera. E
chiunque avrà salvato una persona sarà
come se avesse salvato l’umanità intera.
[Cor. V:27-32]

Si osservi la totale dissimmetria tra le pa-


role del Corano e la loro allegorica e marxiana
esegesi: l’Islam politico sopravvive al confronto
con le fonti? È vero Islam quello che manca di
rispetto alle sue fonti sacre e nondimeno ai suoi
valori umani? Operare un raffronto tra il testo
coranico e le diverse spiegazioni fornite serve a
rendere evidente al lettore la differenza totale tra
i due - se presente -.

120
10. La nascita di un diritto islamico
europeo: Tariq Ramadan

Il succitato Tariq Ramadan, filosofo, scrittore e


accademico svizzero è nato a Ginevra nel 1962. È
risaputo che suo nonno era il fondatore della
confraternita dei Fratelli Musulmani, Hasan Al-
Banna (1906-1949), del quale egli comunque sia
non seguirà le orme, preferendo un approccio
propriamente riformista al fondamentalismo del-
la Fratellanza. To be an European Muslim è uno dei
testi fondamentali più noti dell'elaborazione in-
tellettuale di Ramadan; con esso concepisce il
tentativo di fondare un diritto islamico europeo,
riproponendo il binomio tradizione-modernità in
chiave di compromesso.
Gli ulema del periodo classico della reli-
gione musulmana (610-1492 ca.), avevano, come
giustamente afferma, proposto una rappresenta-
zione bipolare del mondo, suddividendolo in due
entità: Dimora della pace (Dar al-Islam) e Dimora
della guerra (Dar al-Harb). Concezioni, queste,

121
certo soggettive e ormai superate. Ramadan sepa-
ra il contesto religioso da quello geopolitico, se-
condo uno schema che consente di considerarsi
occidentali e musulmani a un tempo: fin qui, nul-
la di strano. Il Corano fornisce più di un riferi-
mento all'universalità del messaggio dell'Islam;
uno in particolare dice:
«Ad Allah appartengono l'oriente e l'occidente,
Egli guida chi vuole alla retta via».
[Corano II: 142]

Per il resto, in questo e negli altri testi da


lui scritti e divulgati, regna il solito caos del pen-
satore riformista, ormai divenuto consuetudine: il
ritorno alle fonti sacre da un lato e la riforma
religiosa dall'altro, concetti contemporanei e com-
presenti nella mentalità riformatrice.
Ramadan conclude che il lavoro svolto dai
fuqahā’ o giuristi dei primi secoli dell'Islam fosse
già in sé teso a ispirare un atteggiamento volto a
contestualizzare il Corano e la Tradizione, nel
quale sarebbe fissato anche l'obiettivo stesso della
legge religiosa. Qui si potrebbe forse spezzare
una lancia a suo favore: non sempre l'Islam dei
primi secoli ha rispettato le proprie fonti sacre. Le
scuole teologiche islamiche allora dominanti han-

122
no regolarmente introdotto nel credo (‘aqida) de-
vianze ed errori nella stessa misura del salafi-
smo/neo-kharigismo.
Ma nella sua trattazione teorica, Ramadan
non offre esempi concreti o dimostrazioni prati-
che che una riforma religiosa sia o sia stata una
reale esigenza. In fin dei conti l'Islam è, come ho
già dimostrato con una citazione tratta dal conte-
sto sacro, una religione universale, che si adatta
da sé ad ogni esigenza. Dacché egli cita le parole
dell'imam Ash-Shâtibî, quando sostiene che «Il
mufti27 all'interno della comunità svolge il ruolo
del Profeta» dimenticano entrambi che nessuno,
pur ricoprendo tale carica può occupare una posi-
zione così importante: solo l'insegnamento del
Profeta* è considerato infallibile.

Non si mette certo in discussione il fatto


che una qualsiasi nazionalità o etnia sia compa-
tibile con l'essere musulmano. Nondimeno si può
mettere in discussione l'obbedienza alle leggi di
un Paese in cui esista libertà di professare l'Islam,

27 Il mufti è, nel diritto islamico, una figura che esprime un parere


giuridico per mezzo di una fatwa quando tale parere è richiesto. Cfr.
Ramadan, Tariq, Essere musulmano europeo, Troina (En), Città Aperta
Edizioni, 2002, p.130.

123
si tratti anche di un Paese occidentale: tutto ciò
che lo vieterebbe si basa su falsi problemi. Il
dissidio fondamentale è piuttosto un altro: esiste
reale esigenza di vivere secondo lo stile di vita
altrui? Cosa impedisce di appropriarsi delle rego-
le dell'Islam, rispettando certo quelle del contesto
sociale in cui si vive, ma senza reale necessità di
adottarne anche le cattive abitudini? Il vero Islam
può forse essere di altra natura riguardo a ciò che
è stato insegnato dall'imam infallibile in persona?
Regge in piedi una tale affermazione?
Tra le righe di un'altra sua opera, La rifor-
ma radicale. Islam, etica e liberazione, fornisce la sua
esegesi di un noto hadith messo in bocca al Pro-
feta*:
«Dio manderà ogni cento anni a questa comuni-
tà (musulmana) chi le rinnoverà (yuğaddidu) la
religione»... Il rinnovamento della religione
(tağdīd ad-dīn) non comporta ovviamente un
cambiamento delle fonti, dei principi e dei fon-
damenti dell’islam, ma una novità nella com-
prensione della religione e nel modo di appli-
carla e di viverla secondo le diverse epoche o i
diversi luoghi... Lo stesso significato si ritrova
nel termine «islāh», che compare spesso nel Co-
rano e in alcune tradizioni profetiche (ahādīth) e
che veicola l’idea di miglioramento, risanamen-

124
to, riconciliazione, rinnovamento, riparazione e
riforma... Nella nozione di islāh c’è l’idea di
riportare l’elemento in questione (un cuore,
un’intelligenza o una società) allo stato originale
in cui era considerato sano e buono... Le due
nozioni di tağdīd e di islāh traducono quindi
un’unica idea di riforma e sono allo stesso tem-
po complementari, perché la prima, per come si
intende correntemente, si riferisce principalmen-
te (anche se non esclusivamente) alla relazione
con i testi, mentre la seconda riguarda soprattut-
to la riforma del contesto umano, spirituale, so-
ciale o politico28...».

Il cambiamento e il revisionismo religioso sareb-


bero dunque impliciti negli stessi testi fondamen-
tali fin dal periodo docente. Ramadan trascura
moltissimi fattori nella sua contraddittoria e sog-
gettiva esegesi della tradizione orale succitata, co-
me questi: se il messaggio, le verità fondamentali,
la legge religiosa e tutti gli elementi concettuali
del Corano e della Tradizione orale non hanno
dunque più valore se non contingente e relativo
al contesto storico-sociale in cui si vive; se ciò
fosse vero, come interpellare la Divinità* per ve-
nire a conoscenza di nuove scritture che illumino
28Ramadan, Tariq, La riforma radicale. Islam, etica e liberazione. Ed.
Rizzoli, 2009.

125
in proposito a tutto ciò che c'è da cambiare? Co-
me essere certi che le soggettive conclusioni dei
riformatori religiosi siano quelle giuste agli occhi
della Divinità? Come fare a non correre seria-
mente il rischio di uscire dal seminato, come è
effettivamente accaduto in seno all'Islam?
Se si potesse porre la questione nei termini
suesposti, bisognerebbe immaginare Dio stesso*
nel grottesco intento di inviare all'inizio di ogni
secolo a questa Comunità un uomo il cui compito
sarebbe quello di propagare la bid'âh o innova-
zione. Questo non è certo plausibile.
Sembra tacitamente espresso in tutto il
Riformismo che le verità del Corano non vengano
più considerate come eterne e immutabili come
sono. Ma in questo caso, cosa sarebbe da confer-
mare e cosa da cambiare nell'interpretazione del-
le fonti? Perché invece non rispettarle e fare affi-
damento su ciò che insegnano?

126
CONCLUSIONI

127
128
11. Il rispetto per le fonti sacre

Il ruolo della religione nella quotidianità

L'imam An-Nawawi (1233-1277), noto erudito di


tradizioni orali risalenti al Profeta* e sostegno dei
giuristi, pensò di strutturare una delle sue opere
più celebri, I giardini dei devoti, suddividendole
per argomenti, come si suol fare, ma di modo che,
per ciascun argomento affrontato, alcuni versetti
(ayat) del Corano venissero messi a debito con-
fronto con le tradizioni orali da lui riportate di
seguito al testo.
In un capitolo del libro da lui intitolato
"sull'obbedienza al giudizio di Allah l'Altissimo, alla
risposta che deve dare chi viene chiamato a rispettarlo,
e all'ordinare le buone virtù e interdire ogni vizio",
An-Nawawi citò alcune delle tante parole del
Corano riguardanti l'obbedienza al giudizio
divino e all'arbitrato del suo Messaggero* che
ciascun musulmano ha il dovere, moralmente e
testualmente stabilito, di prestare:

129
Per il tuo Signore! Essi non saranno credenti fin-
ché non applicheranno il tuo giudizio alle loro
vicendevoli dispute; dopodiché non proveranno
imbarazzo a rispettare ciò che avrai stabilito, e
vi si sottometteranno interamente".
[Corano IV: 65]

La sola risposta che diedero i credenti, quando


vennero chiamati ad Allah e al suo Messaggero
affinché si giudicasse tra loro fu: "Ascoltiamo e
obbediamo!", e saranno quelli i vincitori!
[Corano 24:51]

Molto significativo è il fatto che la racco-


mandazione di rispettare la parola rivelata venga
confrontata con un versetto del Corano, da lui
citato nel hadith sottostante nel testo, che concede
al credente la possibilità di adeguarvisi secondo
le proprie possibilità: ciò significa che il divino*
viene incontro all'umano, conoscendo la sua ina-
deguatezza in base alla divina presapienza:
Allah non dà a nessuno carichi che non può
portare: a ognuno ciò che si sarà guadagnato o
che avrà demeritato.
[Corano II:286 parziale]

Con ciò si vuol dimostrare che:


a) il rispetto della rivelazione da una parte e

130
b) la ricerca di una via di mezzo tra una
concezione totalizzante della religione nella vita
dell'uomo e la totale trascuratezza dall'altra,
non si escludono a vicenda ma sono due
fattori tra di loro perfettamente conciliabili, come
dimostrato dal confronto tra le prove scritturali
succitate.
Non è un fatto misterioso. Non si capisce
la ragion per la quale viene perpetuato nel tempo
il contenzioso tra il più laico modernismo e il più
intransigente e brutale islamismo radicale, dal
momento che la risposta è univoca: non un ritor-
no nominale a un presunto "Islam delle origini" o
l'irrealistico ritorno a un'epoca storica ben defini-
ta e nemmeno un compromesso tra le due revi-
sioniste concezioni ma un Islam rispettoso delle
proprie divine e infallibili origini concettuali e,
come conseguenza logica, del suo messaggio di
pace, fraternità e uguaglianza.

L'Islam rispettoso delle fonti

La ragione per cui nessun musulmano dovrebbe


mettersi in aperta contrapposizione con i testi ac-
cademici di riferimento (Corano e detti autentici)
è semplice per qualsiasi musulmano che si rispet-

131
ti: la Divinità* che li ha rivelati è onniscente; ciò
non significa solo che Essa* è più sapiente di
chiunque, ma che lo è su ogni argomento e in
tutti i campi dello scibile. Inna Allah ya'lam wa
antum laa ta'lamuun (Invero Allah sa e voi non
sapete), come recita il Corano. Non si prospetta
mai per una creatura battere un Dio onniscente*
nell'esercizio della logica su nessun argomento.
Naturalmente le idee sopravvivono alla
loro confutazione da parte della realtà - come
qualcuno ha giustamente affermato - ma all'indi-
viduo critico basta saper osservare, senza dare
per scontato la parola di saccenti nominandoli
frettolosamente "eredi dei profeti", ma sottopo-
nendo sempre la parola dell'uomo o quella di
origine ignota a un certo esercizio intellettuale.
In soldoni, è necessario operare sempre un
confronto tra i testi rivelati e la parola del Tale o
del Tal altro. Esiste, nel Corano, un adagio che si
ripete con parole di questo tipo: «Questo Corano è
un invito alla riflessione per coloro che hanno intel-
letto». Il Profeta Muhammad* già predisse la com-
parsa delle devianze religiose; esse si spiegano
dicendo che, mentre in un Islam rispettoso delle
fonti l'interpretazione del Corano e della Sunnah
sarebbe il più possibile oggettiva, nell'Islamismo

132
radicale e in ogni altro revisionismo religioso essa
non trova come punto di partenza le parole dei
Testi sacri, ma piuttosto quelle degli ulema, i dot-
tori della teodicea e del diritto, in base al secondo
schema (n. 2):
SCHEMA 1 : ISLAM RISPETTOSO DELLE FONTI

Fonti sacre parola degli interpretazione


ulema

SCHEMA 2: ISLAM REVISIONISTA

Parola
Fonti degli
sacre fonti sacre interpretazione
ulema

Il risultato è che il Corano e la Tradizione


non sono le fonti autentiche degli islamisti e nep-
pure quelle dei revisionisti di controtendenza. La
loro fonte autentica non è il Corano, non la Sun-
nah, ma la parola degli ulema. È come se l'islami-
sta fosse dunque seguace di dottrine di uomini.
Per dimostrarlo, basta operare confronti. Per non
essere tratti in inganno da un simile meccanismo
è necessario tornare a operare un rapporto: la
parola di giuristi ed esegeti va sempre confronta-
ta con le prove scritturali (adilla) che questi ripor-
tano dal Corano e dalla Sunna ed enunciano a ri-
prova delle loro opinioni. Così facendo si può va-

133
lutarne la simmetria o dissimmetria concettuale.
In fin dei conti, seguire le opinioni degli ulema
contemporanei e delle masse senza operare con-
fronti con i Testi rivelati non è forse anch’esso un
esempio di taqlīd (accettazione passiva)?
Una lettura in chiave soggettiva delle fonti
sacre dell'Islam non può del resto fornire la cer-
tezza che l'interpretazione che ne è frutto sia
quella giusta agli occhi della Divinità*. Quello
contro il quale scendo in campo è l'errore siste-
matico scaturito dalla lettura soggettiva del Cora-
no e della Sunna.
L'approccio dei pensatori musulmani ra-
zionalisti del Medio Evo (mi riferisco in modo
particolare a quelli appartenenti alla scuola teolo-
gica mu‘tazilita) tacitamente considerava inutile il
Testo rivelato, la verità potendo, ai loro occhi, es-
sere raggiunta in modo parallelo tramite l'eser-
cizio dell'intelletto. I filosofi musulmani di marca
ellenizzante, «cugini» dei mu‘taziliti, nelle loro
riunioni in pubblico dissertavano su temi religio-
si, salvo poi dibattere in privato su questioni filo-
sofiche. Non è questo l’atteggiamento da adot-
tare, e questo è certo. Nondimeno il letteralismo
interpretativo, dal canto suo, non consente di
comprendere, dei testi sacri dell'Islam, né il mes-

134
saggio né il significato autentici, proprio perché,
rifiutando il pensiero logico induttivo (istidlâl)
non ricava un significato dalle loro parole. Non
mi stancherò mai di ribadire che sul Corano si
deve meditare, in maniera sillogistica o con altra
metodica. Per citare le parole del Corano:
Di’: «Se il mare fosse inchiostro per scrivere le
parole del Signore, s’esaurirebbe il mare prima
che s’esauriscano le parole del Signore, se anche
portassimo un mare nuovo ancora in aiuto».
[Corano XVIII: 109]

Il dissidio fondamentale è che, allorché l'interpre-


tazione del Corano non si basa più sulla Parola
rivelata ma su criteri soggettivi, è come se il Cora-
no smarrisca questo valore. Ogni volta che ven-
gono attribuite al Corano nozioni appartenenti
alle scienze della sociologia, della pedagogia, del-
la politologia e dell'economia non ci si trova più
di fronte alla sapienza divina, ma a semplici os-
servazioni che possono essere o meno smentite.
Ecco cosa intendo quando affermo che il
testo sacro dell'Islam, da sapienza divina è stato
declassato a libro da ideologia.
È indispensabile che la lettura del Corano
e della Tradizione riparta da queste fonti, se ne-

135
cessario anche dalle nude fonti. Infatti, la parola
divina è costituita dalla nuda fonte e non da quel-
la già interpretata. Si possono certo accogliere le
interpretazioni che possiedano base e fondamen-
to, ma si possono riconoscere solo confrontando
le spiegazioni con le nude fonti, rifiutando quelle
che non corrispondono ad esse dal profilo concet-
tuale. In questo modo si giunge – a Dio* piacendo
- ad una più corretta interpretazione del Corano e
della Tradizione.
Per chi desideri approfondire lo studio e
la meditazione sui temi trattati nel Corano e nella
Sunna, tale studio e meditazione lo aiutano a
recuperare il vero valore della Sapienza divina in
essi contenuta, purché la loro lettura venga con-
dotta su base oggettiva. In tal modo, anche a
partire da un solo versetto del Corano si possono
ricavare innumerevoli insegnamenti che traggono
ispirazione dalla Sapienza divina, il «mare pro-
fondo» di Ghazaliana memoria.
Riferisce la Tradizione orale che una sola
ora di meditazione è migliore della preghiera di
un anno.

136
12. Il recupero dei valori umani

Accade spesso che un'ideologia esalti la violenza.


Bisogna comprendere la differenza tra Islam e
Islamismo: la prima è una religione, mentre la
seconda è un'ideologia. Benché molti intellettuali
abbiano dissertato sul tema della violenza senza
passare all'azione, non è un mistero il fatto che
nell'Islam politico la violenza non si riduca ad
elaborazione teorica, tutt'altro.
Non so dire se l'Islam politico si possa
sconfiggere nella maniera in cui si fanno fallire le
ideologie. Non so dire se il terrorismo internazio-
nale possa essere paragonato alla lotta armata in
Italia degli anni di piombo, da questo punto di
vista.
Certo è che, mentre la religione rivelata è
protetta per sua natura dalla divinità, le ideolo-
gie, poiché di origine umana, non hanno alcun
patrono e quindi possono essere sconfitte. Ci si
può augurare che l'Islam, dopo di ciò, recuperi la
sua vera natura ed essenza, ovverosia una volta

137
spogliato dai veli di tutti i revisionismi. Anche
questo può favorire una riscoperta del vero va-
lore della sapienza divina, attuabile in modo sem-
plice: imparando a leggere con i propri occhi e
non con quelli di terzi.
Del resto, il terrorismo è solo all'apparen-
za lo strumento di lotta più efficace. È vero che
non si sa quando, dove e come possa colpire, ma
è vero altrettanto che il terrorismo non ha mai
vinto nel corso della Storia, nemmeno nel conte-
sto della lotta armata in Italia, come qualcuno ha
giustamente osservato.
Dopo l'auspicabile fine dell'ideologia isla-
mista radicale e, in un modo o nell'altro, di tutti i
revisionismi, ciò che rimarrebbe sarebbe il vero
Islam: non quello islamista, e nemmeno quello
riformista o quello di stampo laico, ma un Islam
fondato sul rispetto delle fonti rivelate, e quindi
dei suoi valori umani.
Valori umani come la pace, l'armonia, la
fratellanza, la giustizia, la misericordia prende-
ranno presto o tardi il posto della follia e del
pericolo che è e rappresenta l'Islamismo radicale.
Senza l’affermazione di questi valori, questo libro
non sarebbe che una sterile dissertazione su
principî e fondamenti.

138
Oltre a ciò, in base a questi presupposti ci
si potrebbe augurare la fuoriuscita dell'Islam dal
suo attuale Medio Evo culturale.
Forse non è difficile, per un musulmano di
qualunque livello intellettuale, mettere da parte
l'ignoranza delle masse musulmane deviate per
distaccarsi dalle loro ideologie, interpretazioni e
false concezioni per incominciare a pensare con la
propria testa.

Venerdì, 7 aprile 2023

139
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2016.

La trasposizione delle tradizioni orali (ahâdîth) citati è a


cura dell'autore. La traduzione dei versetti (ayât) del
Corano è sempre dell'autore, per la quale ha eventual-
mente consultato quella curata da Alessandro Bausani,
edita da BUR.

143
INDICE

Pag. 5 Premessa dell'autore


Pag. 9 PRIMA PARTE: NASCITA E
SVILUPPO DELLE DEVIAZIONI RELI-
GIOSE IN SENO ALL'ISLAM
Pag. 11 1. La grande frattura
Pag. 19 2. La legge religiosa dell'Islam: periodo
docente e periodo formativo
Pag. 41 3. L'inizio del Medio Evo
Pag. 45 4. Premesse storiche e nascita
dell'islamismo radicale
Pag. 57 Tabella 1. Esempi di differenze concettuali
tra Islam e scienze sociali
Pag. 60 5. Il binomio religione-Stato nel
radicalismo islamico
Pag. 74 6. Il confronto tra tradizione e
modernità alla luce delle sacre fonti
Pag. 94 7. L'inefficacia dell'islamismo radicale
come ideologia di governo; la sua origi-
ne nell'interpretazione deviante delle
Fonti Sacre dell'Islam.

Pag. 99 SECONDA PARTE: L'ESEGESI DE-


VIANTE DEL CORANO. CONFUTA-
ZIONE DELLE IDEE DI PENSATORI

144
REVISIONISTI E DELLA PROPAGAN-
DA RADICALE
Pag.101 8. Un esempio paradigmatico di esegesi
deviante: Sayyid Qutb
Pag.114 9. Un teorico della Rivoluzione del '79:
Ali Shari'ati
Pag.121 10. La nascita di un diritto islamico
europeo: Tariq Ramadan

Pag.127 CONCLUSIONI
Pag.129 11. Il rispetto delle Fonti Sacre
Pag.133 SCHEMA 1: ISLAM RISPETTOSO DELLE
FONTI
Pag.134 SCHEMA 2: ISLAM REVISIONISTA
Pag.137 12. Il recupero dei valori umani

Pag. 140 Bibliografia


Pag. 144 Indice

145

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