La questione mediorientale
Breve storia della questione mediorientale
Interpretazioni e retroscena
1973:
la guerra del Kippur
di Ennio Polito
«Gli obiettivi degli Stati Uniti nel Medio Orien te son o in s ostanza tre: dominare
strategicamente l a regione, continuare ad assicurarsene le ris orse, specialmente
petrolifere, conservare e cons olidare quell'utile strumento della loro politica che è
Israele».
Questa l'analisi che Mohammed Hassanein Heykal, direttore di Al Ahram, svolgeva sul
suo giornale il 5 ottobre 1973, all’indomani degli incontri di New York tra il ministro
degli esteri egiziano, El Zayat, e il segretario di Stato americano, Kissinger, e
ventiquattro ore prima che sul Canale di Suez e sul Golan esplodesse la quarta guerra
arabo-israeliana.
Perciò, egli aggiungeva, gli Stati Uniti stanno tentando di «espellere politicamente e
militarmente l'Unione Sovie tica dal mondo arabo», di «approfondire le
contraddizioni esistenti nella regione e di crearne di nuove», di «es tenuare ed
esaurire le forze nazion ali contrarie agli Stati Uniti, nate dall’ondata
rivoluzion aria del periodo 1955-56», di stabilire il loro controllo sulle risorse
energetiche e finanziarie arabe e di preservare la superiorità militare di Israele, in quanto
«grosso bastone» di riserva, sempre pronto a colpire.
Sullo sfondo di queste valutazioni, Heykal riprendeva con sobrietà di accenti il tema
delle relazioni sovietico-egiziane, da una parte ammettendo che il Cairo aveva commesso
«alcuni errori», dall'altro lamentando che l'URSS non avesse sostenuto l'Egitto «come
fece col Vietnam del nord e con la Core a del nord».
È un'analisi interessante, considerato anche il momento in cui si è collocata e la
personalità dell'autore. Portavoce a suo tempo di Nasser, poi di tendenze che potremmo
definire pro-occidentali nell'ambito del «non allineamento», Heykal parlava qui il
linguaggio dell'unità nazionale, in nome della quale, pochi giorni prima, il presidente
Sadat aveva annunciato la reintegrazione dei giornalisti allontanati in febbraio e
l'annullamento dei procedimenti legali contro gli animatori dell'agitazione studentesca
sorta per denunciare l'inadempienza e l'involuzione del regime. Ma parlava anche il
linguaggio dell'uomo che ha visto sistematicamente delusa la sua ricerca in occidente di
«amici» disposti a far qualcosa per l'Egitto senza una concreta contropartita, e ha ragione
di temere un pericoloso cedimento a questo stato di cose.
Vi erano già state indicazioni in questo senso.
La prima era implicita nell'estromissione e nell'arresto, nel maggio del 71, di Ali Sabri e
degli altri esponenti del gruppo dirigente nasseriano, accusati di «complotto».
Una seconda era venuta il 1° maggio del 72, nel discorso di Alessandria, quando Sadat,
dopo aver denunciato la «c ollusione» tra la reazione egiziana e gli Stati Uniti, aveva reso
noto di aver mandato a Nixon un messaggio contenente l'assicurazione che l'Egitto non
aveva concesso all'URSS basì navali.
Infine, il 18 luglio, era venuto il clamoroso annuncio del rinvio dei consiglieri sovietici,
accompagnato da una riaffermazione della «linea fondamentale della politic a seguita
dall'Egitto dopo la riv oluzione del 26 luglio 1952, linea bas ata sul rifiuto di
diventar parte di qualsiasi sfera di inf luenza», e dalla rivelazione di «punti di
disaccordo» emersi durante la trattativa con i sovietici.
Sadat aveva indicato a questo proposito tre temi: le «restrizioni» che i sovietici
avrebbero attuato per quanto riguarda i tipi di armamento da fornire all'Egitto,
escludendo quelli offensivi più moderni, il protrarsi dello «attu ale stato di: né pace né
guerra», vantaggioso soltanto per Israele, e il rifiuto egiziano di «cede re parti del
territorio n azion ale».
Il mancato adempimento degli impegni presi per le forniture militari, aveva aggiunto il
presidente egiziano, aveva costretto il Cairo a «rivedere i suoi piani» per quel 1971 che
era stato indicato come l'anno decisivo per la vertenza con Israele, mentre nello stesso
periodo di tempo l'URSS si impegnava più decisamente a fianco dell'India e del
Bangladesh nel conflitto con il Pakistan.
Riprendendo queste accuse, la stampa del Cairo suggeriva che la presunta preferenza
sovietica per lo status quo si fosse tradotta in un tacito accordo con gli Stati Uniti in
occasione del «vertice» di Mosca. Tanto Sadat quanto la stampa ufficiale avevano cura di
riaffermare la continuità dell'amicizia sovietico-egiziana, nell'ambito del «n on
allineamento». Ma l'elogio di questa formula era in buona parte nutrito di possibilismo
per quanto riguarda le relazioni con Washington.
Infine, nel febbraio del '73, c'era stata la missione di Mohammed Hafez Ismail,
consigliere di Sadat per la sicurezza, negli Stati Uniti, che aveva dato luogo a colloqui
riservati con Nixon e con altri esponenti americani.
Questo riavvicinamento con gli Stati Uniti, ripetutamente indicati come la potenza in
possesso delle carte decisive per rimuovere l'ostruzionismo israeliano, è senza dubbio
una delle componenti fondamentali della vicenda culminata nella guerra del Kippur.
Una seconda componente è il consolidamento dell'unità araba, le cui vie Sadat aveva
esplorato e percorso con pazienza e con spregiudicatezza.
Nella fase più recente degli sforzi, la diplomazia egiziana si era mossa tra due «poli»: la
Libia di Gheddafi, teatro di una vicenda politica contraddittoria, che vedeva parole
d'ordine progressiste e atteggiamenti populisti mescolarsi a furori coranici, e l'Arabia di
Feisal, dove la tradizionale influenza statunitense era messa alla prova dalla politica
nixoniana di sostegno a Israele.
Era sembrato dapprima che l'attrazione esercitata dalla Libia fosse destinata a prevalere,
fino alla realizzazione di un'unità federale. Ma le istanze di Gheddafi non potevano
tradursi in una leadership effettiva. Le carte migliori restavano a Feisal, massimo
produttore di petrolio del mondo arabo e, come tale, in possesso della maggior forza
contrattuale nei confronti degli Stati Uniti. Da qui la presa di distanze dal leader libico e
il riavvicinamento di Sadat e del presidente siriano Assad al fino a ieri ripudiato Hussein,
protetto da Feisal, nel «piccolo vertice» del Cairo.
Occorrerà probabilmente molto tempo prima che siano note la sostanza dei contatti tra
Kissinger e i rappresentanti arabi, in margine alla sessione dell'Assemblea dell'ONU, e le
circostanze nelle quali è precipitato il nuovo urto tra gli eserciti.
Tanto le dichiarazioni del portavoce americano e dell'israeliano Eban quanto quelle del
ministro degli esteri egiziano concordano nell'indicare che Nixon e Kissinger hanno
continuato a muoversi a partire dalle «posizioni di forz a» conquistate da Israele. Ma gli
sviluppi successivi lasciano intendere che un discorso esclusivo «ame rican o-egizian o» ha
cominciato ad avviarsi, con implicazioni di vasta portata per l'insieme delle relazioni
all'interno del mondo arabo, tra il mondo arabo e Israele e tra il mondo arabo e le grandi
potenze.
Il dato subito evidente è, invece, l'ampiezza senza precedenti raggiunta dal fronte anti-
israeliano nella nuova guerra.
L'Egitto conserva in esso il suo ruolo di protagonista. La Siria mostra fin dalle prime ore
del combattimento i segni del consolidamento realizzato in questi anni.
Diversamente da El Atassi, che la sinistra del Baath aveva portato al potere appena un
anno prima della guerra dei sei giorni, Assad ha avuto infatti il tempo di ampliare
sostanzialmente la base del regime, tanto dal punto di vista politico quanto da quello
delle forze sociali: è dell'estate precedente l'affermazione del Fronte nazionale
progressista nel quale militano, accanto al Baath e alla corrente nasseriana, i comunisti,
nelle elezioni per la nuova Assemblea; e il regime, che ha esteso le nazionalizzazioni
all'ottanta per cento dell'apparato industriale e ha portato a un milione di ettari la terra
distribuita ai contadini nel quadro della riforma agraria, si è anche preoccupato di
lasciare alla piccola e media borghesia uno spazio nell'industria, nell'edilizia e nel
commercio.
L'Iraq, che ha mandato un proprio contingente sul fronte siriano, è un altro caposaldo
dello schieramento nazionale progressista, come attestano il trattato d'amicizia con
l’URSS, la nazionalizzazione degli interessi petroliferi stranieri (estesa ulteriormente
pochi giorni prima della «quarta guerra» e i nuovi rapporti stabiliti tra il Baath e i
comunisti, sulla base di una «Carta d'azione nazionale».
L'intervento, lungamente differito, di Hussein riflette con evidenza una pressione dal
basso che il massacro dei feddayin non è valso ad eliminare.
Soldati marocchini, sauditi, del Kuwait, sudanesi, algerini e tunisini sono anch’essi al
fronte.
Feisal e il Kuwait hanno contribuito con ingenti somme allo sforzo dei protagonisti.
Il risultato di questa unità è qualitativamente diverso da quello delle guerre precedenti.
Non è la vittoria piena: il «cessate il fuoco» trova gli egiziani sulla sponda occidentale del
Canale di Suez, ma il loro successo è infirmato da una profonda penetrazione dei loro
avversari sulla sponda orientale; sul Golan, gli israeliani sono riusciti ad ampliare in
diversi punti le conquiste del giugno 1967. Ma questa volta Israele ha toccato con mano
i limiti della «politica di forza» e la precarietà di una prospettiva interamente affidata a
quest'ultima.
Nella partita diplomatica, e non solo diplomatica, che seguirà il nuovo round, lo Stato
sionista conserverà il suo ruolo di «grosso bas tone» controrivoluzionario nel Medio
Oriente (confermato dai colpi che le sue forze hanno immediatamente diretto e
concentrato, allo scoppio del conflitto, su obiettivi vitali per uno sviluppo indipendente,
come l'apparato industriale della Siria e il terminale dell'oleodotto irakeno), ma dovrà
esercitarlo entro i limiti indicati dagli Stati Uniti, nei cui confronti resta dipendente.
A loro volta, gli Stati arabi e i loro alleati andranno alla ricerca di nuovi mezzi di
pressione sulle altre potenze, per indurle ad abbandonare le posizioni di complicità, di
omertà o di semplice agnosticismo mantenute fino a quel momento nei confronti
dell'espansionismo aggressivo di Israele.