Sei sulla pagina 1di 9

Tratto da: Giuseppe Mazzocchi, Molte sono le strade.

Spiritualità, mistica e letteratura nella spagna dei secoli d’oro


(con un’appendice novecentesca), a cura di Paolo Pintacuda, Napoli, Liguori, 2018, pp. 145-158.

I NOMI DI DIO NEL DON QUIJOTE

Nel 1989 Padre Giovanni Pozzi pubblicava una plaquette di ringraziamento agli allievi e amici
che avevano contributo al suo Festschrift; il titolo era I nomi di Dio nei “Promessi Sposi”1. Si tratta
di pagine importanti, dove arriva allo stremo la capacità del grande italianista di collegare il testo
letterario e la storia, le strutture di pensiero, le forme del religioso.
Qui, riprendendo alla lettera il suo titolo, ci si pone subito, naturalmente, nella linea di quel
confronto tra Promessi sposi e Don Quijote che ha attratto voci molto importanti, tra ricerca
positivista di echi e presenze da un lato, e lettura parallela dei due grandi capolavori dall’altro2. E
saranno proprio le pagine di Padre Pozzi a farci da guida, in un’esplorazione che, nella linea delle
consonanze sorprendenti, e delle inevitabili distanze, credo possa essere di qualche utilità per la
comprensione del romanzo cervantino, e della spiritualità del suo autore.
Le 530 occorrenze della parola Dios nel capolavoro di Cervantes3, acquistano significato, in
primo luogo, nella curiosa consonanza con i Promessi sposi. In entrambi i romanzi, una parte
importante del nome di Dio è costituito da invocazioni estemporanee e frasi fatte, lessicalizzate,
segno evidente di un portato culturale, che include anche le formule di giuramento4. Formule
meccaniche? Certo che sì, e di un meccanicismo su cui Cervantes non manca ogni tanto di lasciar
cadere l’ombra di un sorriso: “Levantados pues los manteles, y dadas las gracias a Dios y agua a las
manos […]” (II, 18); “Pues sepa vuesa merced que lo puede agradecer a Dios y luego a dos fuentes
que tiene en las dos piernas, por donde se desagua todo el malhumor de quien dicen que está llena”
(II, 48). Come ci spiega Padre Pozzi:

L’intercalare sacro è un fatto di natura inconscia e meccanica nel quale si perde proprio la nozione di
sacro collegata all’uso corrente del vocabolo. Se dico “Dio! Madonna!” in una situazione difficile o
gioiosa, il vocabolo non copre il medesimo concetto sacro che esprime sul piano della denotazione
quando svolgo un discorso su di loro. Tant’è vero che i moralisti dichiarano vera bestemmia non
pronunciare il nome di Dio anche con rabbia, ma l’aggiungervi qualifiche negative, almeno con un
epiteto. E, all’opposto, i maestri di spirito richiedono figure linguistiche analoghe di segno opposto
perché si abbia l’orazione aspirativa della giaculatoria. Sono gettoni già bell’e pronti per supplire in

1
G. Pozzi, I nomi di Dio nei “Promessi Sposi”, s. n., Lugano 1989. Cito da questa edizione, anche se lo studio è stato
ripreso e ampliato in G. Pozzi, Alternatim, Adelphi, Milano 1996, pp. 315-89.
2
Si vedano le voci più importanti nell’appendice bibliografica di A. Ruffinatto, Cervantes. Un profilo su smalti italiani,
Carocci, Roma 2002, pp. 241-46; e si consulti D. Pini Moro, Cervantes in Italia. Contributo ad un saggio bibliografico
sul cervantismo italiano (con un’appendice sulle trasposizioni musicali), in Don Chisciotte a Padova. Atti della I
giornata cervantina. Padova 2 maggio 1990, Programma, Padova 1990, pp. 151-270. Lo sforzo maggiore di confronto
tra le due opere, oltre la ricerca di incerti contatti intertestuali, resta quello di H. Hatzfeld, “Don Quijote” e “I Promessi
Sposi” (1927), in Estudios de literaturas románicas, Planeta, Barcelona 1972, pp. 297-337, le cui conclusioni sono
affatto sottoscrivibili: “Cuanto más indirectas se hacen las relaciones entre la actitud espiritual y el estilo, éstas aparecen
naturalmente tanto más problemáticas, y, no obstante, me parece que todo lo que hemos tocado ligeramente se
comprueba como correspondencias naturales entre espíritu y forma que tienen en común dos grandes escritores
fundamentalmente católicos” (p. 321). Al di là della problematica delle fonti, sono anche assai fini le osservazioni di G.
Getto, I “Promessi Sposi”, i drammaturghi spagnoli e Cervantes, in Manzoni europeo, Mursia, Milano 1971, pp. 299-
402, che opportunamente commenta: “i classici di Spagna avevano pure la virtù di porsi come un filtro dell’arte di
Manzoni: un filtro capace di guidare nelle sue scelte l’autore. E questa virtù essi la mantengono anche per noi
ponendosi come un elemento di decantazione prezioso, capace di orientare il critico nell’intelligenza del capolavoro
manzoniano” (p. 402).
3
Strumento di lavoro imprescindibile le concordanze che accompagnano l’edizione curata da F. Rico per l’Instituto
Cervantes (Crítica, Barcelona 1998), da cui provengono, di conseguenza anche le citazioni. Per i Promessi sposi cito
invece dall’edizione curata da A. Stella e C. Repossi, Einaudi - Gallimard, Torino 1995.
4
“por la pasión de Dios” (I, 1), “en Dios y en mi ánima” (I, 4), “juro a Dios” (I, 8).
1
Tratto da: Giuseppe Mazzocchi, Molte sono le strade. Spiritualità, mistica e letteratura nella spagna dei secoli d’oro
(con un’appendice novecentesca), a cura di Paolo Pintacuda, Napoli, Liguori, 2018, pp. 145-158.

date situazioni all’elaborazione di messaggi personali. L’uso frequente di intercalari sacri nella parlata
umana dice unicamente come l’orizzonte religioso sia così famigliare al parlante che ad esso ricorre
per orientare il destinatario sulla natura delle sue idee e sentimenti. Così è anche nei Promessi Sposi
che brulicano di “Grazie a Dio, per amor del cielo, voglia il cielo, misericordia, oh Signore, oh
Vergine santissima”, al punto da apparirci un romanzo popolato da un’umanità schiacciata sotto
formule pie. Dissuade tuttavia dal crederle messe lì dal Manzoni a puro scopo mimetico d’una parlata
popolare, la presenza fitta di formule a contenuto semantico alquanto più denso. Non sono stereotipi
usati da una penna distratta5.

Si potrà affermare la stessa cosa per il Don Quijote? Oso rispondere positivamente, soprattutto
tenendo conto dell’ampliamento a cui le formule più correnti, incominciando dal “por Dios”, sono
sottoposte, quasi a dare loro un senso (religioso) più esplicito e incontrovertibile: “por el Dios que
nos rige” (I, 1), “por el Dios que criome” (I, 8), “por un solo Dios” (I, 20), “sea par Dios” (I, 21),
“por amor de Dios” (I, 23, 24, 31 ecc.), “en el nombre de Dios” (I, 29), “por quien Dios es” (II,
20)… È come se il parlante volesse fare più sua e sentita la formula idiomatica.
D’altra parte, se nei Promessi sposi “i materiali [di questo tipo] si possono distribuire in due
classi, quella del Dio voglia e non voglia, e quella del Dio sa che”, perché “volere e sapere sono le
due modalità che fondano il potere degli agenti negli intrecci delle favole narrative. In un racconto
cattolico come questo, volere e sapere di Dio non possono non essere una delle chiavi della
vicenda”6, la stessa cosa succede nel Don Quijote. Formule come “Dios sabe”, “Dios quiere”, “Dios
sea servido”, “plega a Dios” e simili, che ricorrono con grande frequenza, ci mostrano una divinità
che nel suo sapere e nel suo volere guida provvidenzialmente la vita degli uomini, secondo disegni
che gli stessi non possono penetrare (come soprattutto le formule ottative già ci suggeriscono). A
questo ricorrere del nome di Dio, si accompagnano, come nei Promessi sposi, i rimandi frequenti, e
più o meno letterali, alle Sacre Scritture, che fanno personaggi del più diverso livello culturale e
sociale7.
Ma ci sono altri due notevolissimi parallelismi tra Promessi sposi e Don Quijote. In primo luogo,
il fatto che alla frequenza del nome Dio, si accompagna una assai scarsa presenza dei nomi Gesù,
Cristo, Gesù Cristo. Togliendo due Jesús esclamativi di scarso rilievo8, e due Jesucristo in contesto
religioso9, null’altro troviamo nel Don Quijote. È un dato su cui dovremo tornare, ma che intanto
accostiamo alla mancanza dei “nombres de Cristo” più usuali: pastor, camino, monte, cordero
(insomma i nomina, di più consolidata tradizione cristiana, a partire dalle Scritture, cui fray Luis de
León dà il rilievo che sappiamo nel suo capolavoro) non compaiono nel romanzo spagnolo; dove
neppure troviamo l’invocazione della regalità di Dio, tanto frequente, a dirne una, in Santa Teresa,
per la cui spiritualità negli ultimi anni della sua vita Cervantes mostra un caldo interesse 10: mai Dio
è alluso come Majestad, e nemmeno come Rey. Insomma, Dios a secas, e perdipiù (come appunto
nei Promessi sposi) senza appellativi di sorta: “Dio, anche nell’aspetto di Signore, grandeggia nella

5
G. Pozzi, I nomi di Dio, cit., pp. 10-1.
6
Ivi, p. 11.
7
È sempre utile la catalogazione che ne ha dato J. A. Monroy, La Biblia en el Quijote, Victoriano Suárez, Madrid 1963;
mentre per i canali di diffusione che nei paesi cattolici percorre il testo biblico in alternativa alla lettura diretta
dell’originale, sono importanti le riflessioni di D. Zardin, Bibbia e letteratura religiosa volgare nell’Italia del Cinque-
Seicento, in “Annali di Storia Moderna e Contemporanea”, 1998, IV, pp. 593-616.
8
“¡Y Jesús!, y no sé qué gente es aquella tan desalmada […]” (I, 32); “¡Jesús! ¿Qué es lo que veo?” (II, 48). Da notare
che, in entrambi i casi, la voce è femminile.
9
Sono pronunciati, significativamente da don Chisciotte nel discorso sulla pace di II, 27, e nella narrazione della vita di
San Paolo di II, 58. In entrambi i luoghi la problematica teologica appare in primo piano, al punto che in II, 27 si
colloca il celebre commento di Sancio: “El diablo me lleve –dijo a esta sazón Sancho entre sí– si este mi amo no es
teólogo, y si no lo es, que parece como un güevo a otro”.
10
Cfr. specialmente R. Rossi, Sulle tracce di Cervantes, Editori Riuniti, Roma 1997, pp. 85-91.
2
Tratto da: Giuseppe Mazzocchi, Molte sono le strade. Spiritualità, mistica e letteratura nella spagna dei secoli d’oro
(con un’appendice novecentesca), a cura di Paolo Pintacuda, Napoli, Liguori, 2018, pp. 145-158.

nudità del nome senza attributi”11. L’unica eccezione importante (oltre a un isolato “santo Dios” che
pronuncia Sancio in II, 23) è quella dell’onnipotenza: per 3 volte (I, 45; II, 7; II, 56) Dio è il
“todopoderoso” (in un caso – I, 46 – l’“omnipotente”, con latinismo; mentre si parla di “el poderoso
Dios” in II, 74)12. Il dato, saliente nel momento in cui costituisce un’anomalia, ci avvicina agli spazi
più intimi della spiritualità di Cervantes e del suo tempo, così come gli epiteti di “misericordioso e
buono” e “grande e misericordioso” mostrano di che punta è il verde della speranza manzoniana.
Nel Don Quijote Dio, a partire dalla percepita fragilità dell’essere umano, è l’essere onnipotente cui
tutti i personaggi si rivolgono, si badi, per ottenere aiuto e soccorso. Dio, così, è costantemente
evocato come l’artefice ultimo di quanto avviene agli uomini, e il modellatore della loro natura:
“Yo conozco, con el natural entendimiento que Dios me ha dado […]” (I, 14); “el cual se llamaba
Guillermo, y al cual dio Dios, amen de las muchas y grandes riquezas, una hija […]” (I, 12); “Pero
el cielo lo ordenó de otra manera, no por culpa ni descuido del general que a los nuestros regía, sino
por los pecados de la cristiandad y porque quiere y permite Dios que tengamos siempre verdugos
que nos castiguen” (I, 39); “–Y quién le mato? –preguntó don Quijote. –Dios, por medio de unas
calenturas pestilentes que le dieron –respondió el bachiller. –Desa suerte –dijo don Quijote–,
quitado me ha Nuestro Señor del trabajo que había de tomar en vengar su muerte, si otro alguno le
hubiera muerto; pero, habiéndole muerto quien le mató, no hay sino callar y encoger los hombros,
porque lo mesmo hiciera si a mí mismo me matara” (I, 19).
Rispetto ai Promessi sposi (e incominciano ad affiorare le inevitabili differenze) colpisce la
quasi totale assenza di orazioni di lode: la preghiera di petizione, segno di un bisogno, di una
carenza sofferta (e più o meno drammaticamente sentita) si accampa in modo imponente; preghiere
che si innalzano verso un Dio lontano e misterioso nei suoi disegni, ma unica possibilità reale di
aiuto per gli esseri umani. Preghiere fiduciose, beninteso, rivolte a un Dio che è essenzialmente
misericordia, come ricorda don Chisciotte a Sancio nel dargli i consigli per il buon governo
dell’isola: “aunque los atributos de Dios todos son iguales, más resplandece y campea a nuestro ver
el de la misericordia que el de la justicia” (II, 43). Quanto questo tipo di sentimento religioso sia
epocale non serve nemmeno sottolinearlo. Basti ricordare i celebri versi di Camões (poeta che,
almeno in traduzione, Cervantes certo conosceva) sull’impenetrabilità dell’essenza divina: “[…] o
que é Deus ninguém o entende, / que a tanto o engenho humano não se estende” (Lusíadas X, 80).
E non è inutile rilevare la frequenza con cui a Dio si sostituisce per metonimia la sua sede, il cielo
(“cielo”, “cielos”), contrapposta naturaliter alla terra in cui vive l’uomo: se, come noto, nella Vida
es sueño di Calderón il riferimento ai cieli permette di evitare la compromettente messa in causa
della divinità, nel Don Quijote il cielo evocato, realtà superiore e spirituale spesso positiva, diventa
segno emblematico di una distanza e di una potenza.
Troppe esperienze storiche e culturali (l’Illuminismo in primis) si addensano dietro il Manzoni,
con le delusioni drammatiche che hanno prodotto, ma anche con i risultati certi che hanno
raggiunto, perché lo scrittore lombardo possa sentire Dio esattamente come Cervantes: alla saldezza
dell’insieme invariabile di credenze, corrisponde, insomma, una spiritualità in parte diversa. Ma,
assodata questa ovvietà, non credo che possa essere tutta storica la spiegazione della mancanza nel
Chisciotte di quei grandi squarci di approfondimento dell’anima che si fissano tra le pagine
spirituali più alte del romanzo italiano: penso, e faccio solo un esempio, alle notti parallele
dell’Innominato e di Lucia (cap. 21), agli abissi spirituali che – in un gioco di simmetrie tutto
manzoniano– ci vengono sciorinati. Ma sarebbe troppo facile liquidare questa prospettiva con il
Romanticismo e la sua tendenza alla soggettività; una lettura estremamente attenta13 ci ha già

11
G. Pozzi, I nomi di Dio, cit., p. 11.
12
Da segnalare è anche l’apposizione formulare a Dios della perifrasi Nuestro Señor: 7 occorrenze contro le 12 in cui la
perifrasi compare da sola. Solo 4 le occorrenzc di Señor per “Dio”.
13
D. Conrieri, Maria Maddalena peccatrice e convertita. Una fonte dell’Innominato manzoniano?, in “Giornale Storico
della Letteratura Italiana”, 1971, CXL, pp. 474-77.
3
Tratto da: Giuseppe Mazzocchi, Molte sono le strade. Spiritualità, mistica e letteratura nella spagna dei secoli d’oro
(con un’appendice novecentesca), a cura di Paolo Pintacuda, Napoli, Liguori, 2018, pp. 145-158.

suggerito impressionanti consonanze con un genere, il romanzo barocco italiano, cui il Manzoni
non poteva non guardare sia in quanto unico settore della letteratura italiana che gli potesse offrire
un modello di macchina narrativa; sia perché, nel suo ribrezzo sistematico per l’arbitrarietà
dell’invenzione (che lo porta all’esplorazione sorprendente ed inesausta dei testi secenteschi), più di
un suggerimento doveva venirgli da lì. Se poca fortuna ha avuto la proposta del Cavalier perduto di
Pace Pasini come fonte dei Promessi sposi14, lascia certo più pensosi l’analisi che della descrizione
dei pentimenti della peccatrice fa il Brignole Sale nella sua Maddalena penitente. La strada del
romanzo secentesco deve ancora essere battuta dai manzonisti, e ci riserverà, ne sono persuaso,
delle sorprese; tuttavia, per ora, mi interessa cogliere un elemento importante per noi, ossia che è il
genere letterario, e in particolare, lo statuto parodico, a rendere impraticabile nel Don Quijote
squarci di drammatico scavo interiore, che possono invece essere perfettamente recepiti in un
genere coevo quale il romanzo agiografico.
Ma all’elemento storico e a quello letterario, aggiungerei subito una terza componente, ora
nazionale. Con tutti i distinguo del caso, è chiaro che nella cultura spagnola del Seicento (più di
quanto non succeda in quella italiana coeva) non si può concepire la miscredenza altro che come
fattore esterno, proprio di quelli che, in senso antropologico, chiameremmo gli “altri”. Nel cerchio
entro cui si collocano coloro che condividono il credo cattolico ci possono essere il peccatore e
l’ipocrita, non la credenza alternativa, la selezione della verità in cui credere all’interno dell’insieme
delle verità custodite dalla Chiesa, la messa in discussione del dogma: la “libertadad de conciencia”
è cosa da tedeschi, come ci ricorda Ricote15, il cui credo essenziale (guardato con ogni simpatia da
Cervantes, ma questo è un altro discorso16) è roba da morisco (assimilatissimo, per carità): “Que, en
resolución, Sancho, yo sé cierto que la Ricota mi hija y Francisca Ricota mi mujer son católicas
cristianas, y aunque yo no lo soy tanto, todavía tengo más de cristiano que de moro, y ruego
siempre a Dios me abra los ojos del entendimiento y me dé a conocer cómo le tengo de servir” (II,
54). Non entro ora nella discussione di quanto questa tendenza alla compattezza tetragona
corrisponda alla reale situazione storica, o non sia piuttosto la proiezione di un’immagine ideale di
sé fatta da una società molto più inquieta e traumatizzata (il criptoebraismo, il problema morisco
appunto, l’incombere della decadenza…) di quanto a prima vista non appaia. Quel che importa è
che il conflitto religioso di qualunque tipo (anche quello intimo, nella forma della conversione) non
può accamparsi in primo piano neanche nel Don Quijote.
Da questa problematica nazionale, e dalla diversa sensibilità storica, discende anche (credo)
un’altra differenza importante tra i due romanzi. Gli usi più propri e intensi del nome di Dio, nei
Promessi sposi sono riservati agli umili, depositari della Fede più autentica e incontaminata. I
grandi (e i loro servi) solo impropriamente possono fare il nome di Dio. Si tratta di una visione,
beninteso, non sociale: il Manzoni non perde mai di vista il fatto che la salvezza non avverrà per
categorie; e che il giudizio sulle opere e sulla carità dev’essere individuale. Questa visione della
religiosità degli umili è certo ideale, nel momento in cui Manzoni ignora volutamente non solo le
credenze superstiziose ancora diffuse ai suoi tempi nel contado lombardo, ma anche le pratiche di
pietà cui la gerarchia ecclesiastica educava il popolo: “Questo non è il quadro d’una pietà popolare,
né, storicamente, della pietà popolare tridentina, in quanto gli manca tutto quel contorno di

14
G. Getto, Echi di un romanzo barocco nei “Promessi Sposi”, in “Lettere Italiane”, 1960, XII, pp. 141-67 (poi in
Manzoni europeo, cit., pp. 11-56). E si veda anche M. Fantuzzi, Un altro matrimonio a sorpresa. Meccanismi narrativi
del romanzo barocco, Antenore, Padova 1975, pp. 257-78 (esamina la possibilità di contatto tra i Promessi sposi e la
Gondola a tre remi del Brusoni).
15
“Pasé a Italia y llegué a Alemania, y allí me pareció que se podía vivir con más libertad, porque sus habitadores no
miran en muchas delicadezas: cada uno vive como quiere, porque en la mayor parte della se vive con libertad de
conciencia” (I, 54). Sull’ambiguità dell’espressione, la cui interpretazione è molto dibattuta, si veda, oltre alla nota
corrispondente dell’edizione del Quijote che seguiamo, A. Ramírez Araujo, El morisco Ricote y la libertad de
conciencia, in “Hispanic Review”, 1956, XXIV, pp. 278-89.
16
E la simpatia va essenzialmente alla sottolineatura che il morisco fa della dipendenza da Dio della vita dell’uomo.
4
Tratto da: Giuseppe Mazzocchi, Molte sono le strade. Spiritualità, mistica e letteratura nella spagna dei secoli d’oro
(con un’appendice novecentesca), a cura di Paolo Pintacuda, Napoli, Liguori, 2018, pp. 145-158.

spettacolarità e di teatralità che gli era proprio; gli mancano gli elementi vistosi della
manifestazione esterna (processioni, missioni) e gli mancano i contenuti più specifici: intercessione
e protezione, angeli, santi. Il culto della Vergine è presente ma strettamente privato (Lucia) e
interiore (voto)”17. A ciò si aggiunga la sensibilità all’umile, l’attenzione alla figura popolare, tratto
comune a tutto il Romanticismo europeo, che troviamo persino nel conte Giacomo che, un po’
perché non era sposato e un po’ perché non era lombardo, tendeva a stare più sulle sue: e penso, più
che all’oleograficamente divina “donzelletta” del Sabato del villaggio, al “villanel” della Ginestra e
alla sua famiglia (vv. 237-68).
Ce n’è d’avanzo, insomma per capire come la presentazione del sentimento religioso sia condotta
nel Don Quijote senza l’occhio alla scala sociale. Sancio può storpiare il termine teología in tología,
ma non (è ovvio per quello che prima si è detto) la credenza; e neppure il sentimento religioso si
distingue in base ad un’escursione tra i ceti. Sancio, come tutti ricordano, dimostra spesso di aver
ben assimilato gli insegnamenti del suo parroco, anche in una questione complessa come la
contrizione (in quanto contrapposta all’attrizione), ed è in grado di correggere certi sbandamenti di
don Chisciotte:

–¡Oh qué necio y qué simple eres! –dijo don Quijote–. Tú no ves, Sancho, que eso todo redunda en su
mayor ensalzamiento? Porque has de saber que en este nuestro estilo de caballería es gran honra tener
una dama muchos caballeros andantes que la sirvan, sin que se estiendan más sus pensamientos que a
servilla por solo ser ella quien es, sin esperar otro premio de sus muchos y buenos deseos sino que ella
se contente de acetarlos por sus caballeros.
–Con esa manera de amor –dijo Sancho– he oído yo predicar que se ha de amar a Nuestro Señor, por
sí solo, sin que nos mueva esperanza de gloria o temor de pena, aunque yo le querría amar y servir por
lo que pudiese. ( I, 31)

D’altro canto la religiosità del curato e di don Chisciotte non è né più profonda né più
superficiale di quella del contadino. Ne discende una conseguenza importante, ossia la condivisione
in tutti i suoi aspetti (inclusi quelli spirituali) di una stessa religiosità da parte di tutti i personaggi.
Lontani, per i motivi che si sono detti, i sondaggi degli abissi dell’anima, Dio ci appare
continuamente nel romanzo come patrimonio collettivo e condiviso, quando non esibito come segno
di appartenenza. Tra i tanti segni antropologici dell’assimilazione di Ricote e della sua famiglia,
Cervantes non manca di sottolineare la richiesta di preghiere alla Vergine in quanto madre di Dio
(dichiarazione blasfema per un musulmano 18) che la figlia del morisco fa alle amiche quando, in
seguito all’editto di espulsione, deve lasciare il suo villaggio: “Iba llorando y abrazaba a todas sus
amigas y conocidas y a cuantos llegaban a verla, y a todas pedía la encomendasen a Dios y a
Nuestra Señora su madre; y esto, con tanto sentimiento, que a mí me hizo llorar, que no suelo ser
muy llorón” (II, 54). È la stessa richiesta, fondata naturalmente sul dogma della Comunione dei
Santi, che fa Sancio quando viene issato su Clavileño: “Hízolo así Sancho, y, diciendo «a Dios», se
dejó vendar los ojos, y ya después de vendados se volvió a descubrir, mirando a todos los del jardín
tiernamente y con lágrimas, dijo que le ayudasen en aquel trance con sendos paternostres y sendas
avemarías, porque Dios deparase quien por ellos los dijese cuando en semejantes trances se viesen”
(II, 41). E anche il galeotto umanista, con molta ipocrisia, si avvale di questa certezza fortemente
condivisa: “Si vuestra merccd, señor caballero, lleva alguna cosa con que socorrer a estos pobretes,
Dios se lo pagará en el cielo y nosotros tendremos en la tierra cuidado de rogar a Dios en nuestras
oraciones por la vida y salud de vuestra merced, que sea tan larga y tan buena como su buena
presencia merece” (I, 22).

17
G. Pozzi, I nomi di Dio, cit., p. 9.
18
Non è un caso che anche la mora Zoraida abbia una forte devozione per la Madonna.
5
Tratto da: Giuseppe Mazzocchi, Molte sono le strade. Spiritualità, mistica e letteratura nella spagna dei secoli d’oro
(con un’appendice novecentesca), a cura di Paolo Pintacuda, Napoli, Liguori, 2018, pp. 145-158.

Ma vorrei tornare alla considerazione del genere letterario, e ai suoi riflessi sul trattamento del
divino. Nel momento in cui tra le pagine del romanzo spagnolo si muove un pazzo (che condivide
comunque in toto il sistema di credenza cattolico), e nel momento in cui il comico ha tanto spazio
nel romanzo, che ne è del nome di Dio? Esemplifico subito il problema con la scena dell’investitura
a cavaliere di don Chisciotte. La formula stereotipata finché si vuole, include il nome di Dio, ed è
pronunciata in un contesto burlesco da una prostituta: “Dios haga a vuestra Merced muy venturoso
caballero y le dé ventura en lides” (I, 3). E se, nel bel mezzo della burla giocata a don Chisciotte e
Sancio con Clavileño, si evoca Dio: “–Dios te guie, valeroso caballero! –¡Dios sea contigo,
escudero intrépido!” (II, 41)? E che dire dei casi numerosi in cui il folle don Chisciotte associa Dio
alla sua attività di cavaliere andante: “Así que somos ministros de Dios en la tierra y brazos por
quien se ejecuta en ella su justicia” (I, 13)? O concede la stessa realtà a Dio e alla principessa
Micomicona: “Bien puede la vuestra grandeza, alta y fermosa señora, vivir de hoy más segura que
le pueda hacer mal esta nacida criatura; y yo también de hoy más soy quito de la palabra que os di,
pues, con el ayuda del alto Dios y con el favor de aquella por quien yo vivo y respiro, tan bien la he
cumplido” (I, 35)? O, ancora, considera il proprio comportamento come emanazione diretta della
volontà divina: “Y así, te ruego, Sancho, que calles, que Dios, que me ha puesto en corazón de
acometer ahora esta tan no vista y tan temerosa aventura, tendrá cuidado de mirar por mi salud y de
consolar tu tristeza” (I, 20)?
La domanda brutale che qualunque lettore si può porre è in che misura un Dio evocato con tanta
frequenza in contesti del genere non pericliti. Qui ci avviciniamo molto, tra l’altro, alla differenza
radicale che separa i Promessi sposi e il Don Quijote: se il romanzo italiano vede, secondo la mai
consunta formula desanctisiana, l’ideale calato nel reale, il Don Quijote ci mostra piuttosto
l’inconciliabilità tra ideale e reale. In tale situazione, l’unico partito da prendere è lo sorridente
scetticismo di chi la sa lunga proprio perché la sa corta; ossia il distacco, dato dalla parodia19, di chi
coglie i limiti dell’umano, e non può penetrare, per gli stessi limiti, la volontà di Dio; di chi ha
chiari i valori, ma chiara anche l’impossibilità di vederli realizzati sulla terra senza cadute. In questo
senso, i casi numerosi in cui un folle come don Chisciotte pronuncia in contesti stranianti il nome di
Dio, altro non sono che la proiezione su scala maggiorata, se non iperbolica, della generale
incomunicabilità tra uomo e Dio, delle difficoltà insormontabili che trova il primo a comprendere il
secondo, ad adire la sua grandezza. Non si tratta di ridurre l’ortodossia di Cervantes, o di farne un
pensatore più inquieto di quanto serva, ma di cercare piuttosto di penetrare la sua spiritualità, ossia i
sentimenti con cui accosta la verità religiosa. E in tal senso, è davvero illuminante il capitolo finale,
con la morte del protagonista20. A mio parere, il testo si lascia intendere chiaramente solo se
assumiamo che l’idalgo, morendo, non rinsavisce; la “locura” da cui dice di volersi separare, ossia
la sua fissazione maniacale per i libri di cavalleria, è la “locura” della realtà umana che, in
prossimità della morte, va definitivamente superata. Ma qualunque realtà umana (non solo quella
che si è creata un pazzo) non può che apparire subordinata al divino, e incomparabile ad esso.
Certamente Cervantes di certe devozioni religiose e di certe semplificazioni teologiche del suo
personaggio sorride. Sorride (e qui va certo tenuto presente un certo erasmismo, ambientale più che
individuale) delle devozioni religiose, come quelle, improprie per un laico, che don Chisciotte mette
in campo quando decide di farsi eremita e gli manca il rosario: “En esto le vino al pensamiento
cómo le haría, y fue que rasgó una gran tira de las faldas de la camisa, que andaban colgando, y
diole once ñudos, el uno más gordo que los demás, y esto le sirvió de rosario el tiempo que allí
estuvo, donde rezó un millón de avemarías” (I, 26). Altrove Cervantes crea un contrasto voluto tra

19
Della parodia, si badi, e non dell’ironia. La distinzione, fondamentale, è di A. Ruffinatto, Cervantes, cit., pp. 191-210,
anche se varrebbe la pena di rintracciarne i precedenti, a partire da certi spunti del capitolo sull’Ariosto della Storia
della letteratura italiana di De Sanctis in cui si instaura il confronto tra il Furioso e il Don Quijote.
20
G. Mazzocchi, La morte di don Chisciotte e le “Artes bene moriendi”, in “Il Confronto Letterario”, 1995, 24, pp.
581-97 [ora qui, pp. 000-000].
6
Tratto da: Giuseppe Mazzocchi, Molte sono le strade. Spiritualità, mistica e letteratura nella spagna dei secoli d’oro
(con un’appendice novecentesca), a cura di Paolo Pintacuda, Napoli, Liguori, 2018, pp. 145-158.

la tensione religiosa di un personaggio, e la comicità della situazione. Così, quando la dama sulla
carrozza attaccata da don Chisciotte (I, 8) prega “a todas las imágenes y cosas de devoción en
España, porque Dios librase a su escudero y a ellas de aquel gran peligro” (I, 8: satira erasmiana, o
lieve caricatura della religiosità femminile?); o quando descrive la compunzione con cui Sancio
prega: “Puestos, pues, en tierra, más mojados que muertos de sed, Sancho, puesto de rodillas, las
manos juntas y los ojos elevados al cielo, pidió a Dios con una larga y devota plegaría le librase de
allí adelante de los atrevidos deseos y acometimientos de su señor” (II, 29). In questi casi, però, la
mano è quella del grande narratore, che vuole prendere le distanze, in modo non dissimile (e per le
stesse motivazioni ideali) da come Manzoni usa il comico per frapporre terreno fra sé e i suoi
personaggi (e la sua Lucia in particolare) nella “notte degli imbrogli e dei sotterfugi” (cap. 8). E, qui
come là, credo, si tratta di rimarcare la fragilità dell’agire dell’uomo di fronte all’imponderabile
delle cose, se non è un caso che nessuno dei piani escogitati (neppure quello di Padre Cristoforo) è
destinato a sortire gli effetti desiderati. E, non diversamente dal Manzoni (e senza bisogno di tirare
in ballo Erasmo), Cervantes non può non trovare ingenuo rivolgersi a Dio per ottenere la soluzione
dei propri problemi pratici più vari. Se la faccenda sta nelle nuvole, ci sembra suggerire il passo
seguente, perché supplicare la divinità, e con un gesto pubblico come una processione?

Era el caso que aquel año habían las nubes negado su rocío a la tierra y por todos los lugares de
aquella comarca se hacían procesiones, rogativas, y disciplinas, pidiendo a Dios abriese las manos de
su misericordia y les lloviese; y para este efecto la gente de una aldea que allí junto estaba venía en
procesión a una devota ermita que en un recuesto de aquel valle había. (I, 52)

Il precipitare della situazione è tipico (don Chisciotte attacca la processione con l’intenzione di
liberare l’immagine della Madonna, da lui ritenuta una dama rapita). Ma quel che importa è il
modo sottile in cui Cervantes contrappone il fenomeno naturale oggettivo (“las nubes”) e la volontà
di Dio soggettivamente invocata (“pidiendo a Dios abriese las manos de su misericordia y les
lloviese”).
D’altra parte non mancano i passi su cui forme devozionali non propriamente erasmiste sono
messe a fuoco da Cervantes con grande rispetto e partecipazione, segno che quello che conta per lui
non è una battaglia ideologica di cui, da laico qual era, gli dovevano sfuggire i termini più tecnici,
quanto la messa a fuoco di una situazione psicologica. Cosi, nel tanto discusso episodio delle statue
(II, 58), a Cervantes, più che prendere bonariamente di mira il culto superstizioso delle reliquie, e
gli eccessi di quello delle immagini, interessa mostrare nei santi “cavalieri” rappresentati dei
modelli di stato, che servano a confermare don Chisciotte nella bontà e legittimità della sua scelta,
mostrandogli nel contempo i limiti della sua attività umana (rappresentati nella caduta di San Paolo
da cavallo) 21. E che dire del crocifisso che il rinnegato esibisce all’inizio del racconto di Zoraida?
“Y diciendo esto sacó del pecho un crucifijo de metal y con muchas lágrimas juró por el Dios que
aquella imagen representaba, en quien él, aunque pecador y malo, bien y fielmente creía” (I, 40).
Una croce, anzi un crocifisso, portato con rischio personale nella penosa situazione dei baños
algerini, quale segno di appartenenza a una comunità spirituale22, non può essere liquidato con il
sorriso che potrebbe suscitare altrove; così come il rosario che Lucia stringe nella preghiera, e che

21
D’altronde, i riferimenti ai santi e al loro culto sono piuttosto rari nel romanzo spagnolo, come lo sono in quello
italiano. Oltre al refranero e ai rimandi scontati all’agiografia (“porque en viéndose solo me desuelle como a un San
Bartolomé” I, 4), il materiale è poco; e sugli aspetti teologici e spirituali non vi è nulla di più importante del capitolo II,
58, appunto, e del capitolo II, 8, collegato a quest’ultimo, con l’importante dialogo tra don Chisciotte e Sancio su
cavalleria e santità. Cfr. G. Mazzocchi, Una religiosità per il laico: “Quijote”, II, 58, in Atti della VI Giornata
Cervantina (Padova, 17-18 aprile 1998), a cura di D. Pini e J. Pérez Navarro, Unipress, Padova 2000, pp. 163-77 [ora
qui, pp. 000-000].
22
Sullo sfondo va tenuta naturalmente la splendida monografia sui rinnegati di B. e L. Bennassar, I cristiani di Allah,
Rizzoli, Milano 1991.
7
Tratto da: Giuseppe Mazzocchi, Molte sono le strade. Spiritualità, mistica e letteratura nella spagna dei secoli d’oro
(con un’appendice novecentesca), a cura di Paolo Pintacuda, Napoli, Liguori, 2018, pp. 145-158.

poi si mette al collo, quasi come un amuleto, mentre attende un destino ignoto al castello
dell’Innominato, non può essere guardato con la superiorità del cattolico consapevole: “Proferite
queste parole, abbassò la testa, e si mise la corona intorno al collo, quasi come un segno di
consacrazione, e una salvaguardia a un tempo, come un’armatura della nuova milizia a cui s’era
ascritta” (cap. 21).
Resta poi il fatto che, in ambito religioso come in altri, la saviezza di don Chisciotte emerge con
forza, magari nella capacità di assemblare abilmente un puzzle di citazioni evangeliche: “Mas, con
todo esto, sube en tu jumento, Sancho el bueno, y vente tras mí, que Dios, que es proveedor de
todas las cosas, no nos ha de faltar, y más andando tan en su servicio como andamos, pues no falta a
los mosquitos del aire ni a los gusanillos de la tierra ni a los renacuajos del agua, y es tan piadoso,
que hace salir su sol sobre los buenos y los malos y llueve sobre los injustos y justos” (I, 18), Qui,
con una sensibilità che ricorda (nell’uso stilistico dei diminutivi, ad esempio) fray Luis de Granada,
si compongono Mt 6, 26-9 e 5, 45. E sono, naturalmente, luoghi che anche Sancio ricorda, anche se
ridotti a proverbio, e infilati appunto in una retahila di refranes che snocciola alla duchessa (II, 33)
per rimarcare la propria indifferenza all’onore di essere governatore di un’isola, visto che la felicità
è a disposizione di tutti gli uomini, e tutti attende la morte: “y las avecitas del campo tienen a Dios
por su proveedor y despensero”. Resta che, in bocca a Sancio, il riferimento al Vangelo occupa
nella serie un luogo centrale, ed è “como el eje entre las dos secuencias […] para mostrar la
confìanza en Dios”23.
Le cose, le cose dell’uomo, non sono mai semplici ed univoche. Quello che Cervantes pare
raccomandarci ad ogni piè sospinto, proprio dalla struttura complessa del suo romanzo, e dai giochi
tra verità e finzione che esso ci presenta, non è un relativismo teologico, ma una grande lezione di
prudenza nel cogliere la voce di Dio, e nel giudicare gli uomini.
Padre Pozzi, nel saggio che ha offerto l’abbrivio, le linee di svolgimento, e ora anche le
conclusioni di queste pagine, si interrogava sulle ragioni dell’assenza di Cristo dai Promessi sposi.
E formulava una seducente ipotesi, a partire dall’analisi della personalità di Padre Cristoforo, e del
taglio profetico e libero da ogni condizionamento umano del suo agire:

L’assenza di Cristo nei Promessi Sposi si spiegherebbe così non come una remora di ordine teologico,
ma come un accorgimento narrativo. Cristo è tutto nel cristiano Cristoforo; Cristo è nel romanzo per
interposta persona. L’idea che il Manzoni abbia incarnato il Cristo-Dio invisibile in un protagonista
visibile suo portatore, e perciò l’abbia cancellato dalle evocazioni dirette, se accettabile, risulterebbe
un’iniziativa romanzesca teologicamente sottile, o, se volete, un pensiero teologico calcato alla
perfezione sul discorso romanzesco24.

Di fronte a queste parole un vero tourbillon può prendere la mente di qualunque lettore del Don
Quijote. Libertà da schemi e pregiudizi sociali (nella capacità di discernere tra ciò che si deve
credere e ciò che è opinabile: preoccupazione che anche per Cervantes è fortissima), persecuzione
assoluta dell’ideale, taglio profetico… Non sarà anche don Chisciotte “un’iniziativa romanzesca
teologicamente sottile”? Non meno sottile, si intende, del far nominare Dio ai personaggi,
rinunciando a pronunciarne il nome in proprio, esattamente come farà Manzoni. Non meno sottile
dell’evidenziare Dio nella sua semplice forza di supervisore della realtà oggetto della narrazione,
senza distinguo teologici (lo Spirito Santo non compare mai, e la Trinità è sminuita nel ricordo
devozionale a un tempio a lei dedicato che fa Sancio: II, 22 e 41).
Non importa tanto richiamare le sempre belle pagine di Amado Alonso che, in polemica con
Hatzfeld, rimarcava le virtù cristiane di don Chisciotte25. Non si tratta di cadere nelle affascinanti

23
Dal commento dell’edizione citata.
24
G. Pozzi, I nomi di Dio, cit., pp. 19-20.
25
A. Alonso, Don Quijote no asceta, pero ejemplar caballero y cristiano, in “Nueva Revista de Filología Hispánica”,
1948, II, pp. 333-59; H. Hatzfeld, ¿Don Quijote asceta?, in ivi, pp. 57-70.
8
Tratto da: Giuseppe Mazzocchi, Molte sono le strade. Spiritualità, mistica e letteratura nella spagna dei secoli d’oro
(con un’appendice novecentesca), a cura di Paolo Pintacuda, Napoli, Liguori, 2018, pp. 145-158.

pastoie della Vida de Don Quijote y Sancho di Unamuno, così lesto, sempre, a risaltare gli aspetti
cristologici (ma di una cristologia tutta ispanica) del personaggio. Bisogna, piuttosto, riflettere su
cosa davvero distingue la scelta dell’idalgo folle e quella del santo cappuccino. Se don Chisciotte
enuncia così il proprio programma esterno: “es mi ofìcio y exercicio andar por el mundo
enderezando tuertos y desfaziendo agravios” (I, 19); Cristoforo non è da meno (e per scelta
caparbiamente individuale): agli “uffizi” del suo stato, “non lasciava mai sfuggire un’occasione
d’essercitarne due altri, che s’era imposti da sé: accomodar differenze, e protegger oppressi”; e
d’altronde, già prima di farsi frate, “prendeva volentieri le parti d’un debole sopraffatto, si piccava
di farci stare un soverchiatore, s’intrometteva in una briga, se ne tirava addosso un’altra; tanto che,
a poco a poco, venne a costituirsi come un protettor degli oppressi, e un vendicatore de’ torti” (cap.
4). Come già dicevo, per iperbole Cervantes ci presenta nel suo protagonista la verità del limite
umano, a fronte comunque della fede certa nell’esistenza di Dio. Quella del pazzo può essere figura
perfetta, a rappresentare anche, tra l’altro, ciò che l’uomo non può che essere di fronte a Dio; ed è
un pazzo a insegnare all’uomo quanto, fino alla morte, deve ostinarsi a perseguire, in tutti i suoi
limiti, la propria vocazione. In questo modo, si finisce per coincidere con quella che è
probabilimente la più profonda lettura teologica che il Don Quijote abbia avuto:

don Chisciotte è un cristiano tanto migliore in quanto egli non ha soggettivamente pretese di santità, e
oggettivamente le sue ridicole imprese non possono mai in nessun momento e da nessun punto di vista
essere annumerate alle serie imprese di Dio e di Gesù Cristo. Egli sa dell’assoluta distanza tra Dio e
l’uomo, Cristo e la chiesa (in quanto egli, don Chisciotte, la incarna); egli vuole bensì in quanto
cristiano il bene e nient’altro che il bene, e tuttavia deve, partendo da questo mondo, riconoscere che
tutta la sua cavalleria cristiana non è che una sciocchezza: “Ora io riconosco la mia follia… Ora sono
diventato per la misericordia di Dio prudente a mie spese”. Così precisamente la sua esistenza è un
monumento perenne di esistenza cristiana e un riverbero della gloria di Dio 26.

26
H. U. Von Balthasar, Gloria. Una estetica moderna, Jaca Book, Milano 1978: V Nello spazio della metafisica:
l’epoca teologica, p. 165.
9

Potrebbero piacerti anche