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Dentro Fuori
Viaggio artistico educativo nelle carceri pugliesi
a cura di
Ivano Gamelli e Roberto M. Ricco
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Estratto per il gruppo di studenti del progetto TECHNE - sezione NUOVE FRONTIERE, dal libro di
prossima pubblicazione presso la casa editirice MELTEMI.
Si prega di non riprodurre o diffondere il presente testo senza l’autorizzazione dell’autore.
Questo libro è il punto d’arrivo del progetto denominato “Colloqui sensibili”, realizzato dal “Teatro
Kismet OperA” negli anni 2002-2003 in alcuni Istituti penitenziari per adulti della Puglia (Bari,
Taranto, Trani e Brindisi) su invito del “Provveditorato Regionale del Ministero della Giustizia”. Il
materiale che ne è scaturito, e che qui presentiamo, racconta una composita realtà penitenziaria
nella dinamica di un percorso di lavoro artistico e educativo.
La sua intenzione non è però la sola costituzione di un materiale documentario: “Dentro Fuori” si
candida ad essere, oltre che una base efficace per il proseguimento delle attività negli istituti
penitenziari coinvolti, uno stimolo di riflessione per tutti coloro che, a vario titolo, sono interessati
ad un confronto sugli stili d’intervento nelle carceri come pure in altre situazioni di disagio
sociale. La mediazione del teatro con altre forme di comunicazione/creazione quali la scrittura, il
video, la fotografia, l’intreccio quindi di competenze culturali e professionali diverse, ma
soprattutto – come auspichiamo riesca ad emergere dalle pagine di questo volume - l’attenzione
alla circolarità dei processi, la presa in carico formativa della complessità di un sistema sociale, il
coinvolgimento di tutti i soggetti presenti, lo sforzo per migliorare la qualità delle relazioni
individuali e di gruppo e perseguire una continuità che offra garanzie d’efficacia e aderenza ad un
contesto che si trasforma sono caratteristiche fondanti il pensiero e il lavoro del Teatro Kismet.
E’ un Teatro stabile d’innovazione cui il Ministero dei Beni e della Attività Culturali affida il
compito di produrre e promuovere il “nuovo teatro”, nelle forme e nei contenuti, per le nuove
generazioni e per la formazione di nuovo pubblico.
Nasce a Bari nel 1981, dapprima come compagnia teatrale per iniziativa di un gruppo di attori
tutti provenienti da una scuola universitaria di formazione dell’attore, diretta da Carlo Formigoni,
che ha avuto vita solo per un biennio, tutto ciò è stato considerato un “felice destino”, in
sanscrito “Kismet”. Il Teatro Kismet ha poi fondato la sua casa teatrale in un edificio industriale
ristrutturato con risorse proprie. In questo spazio, che noi consideriamo pubblico, dal 1989,
artisti, educatori, organizzatori e tecnici praticano un’idea di teatro come luogo di incontro fra
cittadini, centro di cultura e dialogo civile. Un teatro aperto di sera come di giorno, per tutto
l’anno che, alla produzione di spettacoli e ospitalità di altre compagnie teatrali, unisce proposte di
formazione, incontri e laboratori per le scuole, percorsi di ricerca, rassegne musicali, attività volte
al dialogo e al confronto sui temi fondanti della cultura e della vita civile.
Il Kismet è una delle comp agnie italiane più note a livello internazionale per la sua capacità di
creare spettacoli che toccano il pubblico adulto così come i ragazzi. Vincitore di quattro edizioni
del Premio dell’Ente Teatrale Italiano, Stregagatto, rappresenta i suoi spettacoli in tutta Europa,
in Africa fino al Giappone. Il teatro, aperto quattordici anni fa, è stato fra i primissimi in Italia a
ripercorrere un modello europeo di spazio culturale multidisciplinare e aperto. Fortemente legato
all’azione sociale, ha promosso dai primi anni ’90 scambi internazionali giovanili all’insegna della
pratica teatrale. Dal 1992, è fra i primi teatri a produrre spettacoli di livello professionale con
attori disabili ed è fra gli ideatori e promotori del “Master in educazione e gestione delle arti della
scena” con il Dipartimento di Scienze Pedagogiche e Didattiche dell’Università di Bari. Altri ambiti
di collaborazione e produzione sono legati al teatro nei Musei e Beni Culturali, alla formazione
organizzativa, alle competenze organizzative nelle imprese. Il Kismet è membro di numerose reti
culturali europee di cooperazione e ricerca culturale.
Un elemento distintivo della storia del Teatro è costituito dalle attività teatrali rivolte a persone in
condizioni di disagio, rinvenendo in questa pratica un importante territorio di scambio: offrire
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Estratto per il gruppo di studenti del progetto TECHNE - sezione NUOVE FRONTIERE, dal libro di
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occasioni di espressione collettiva a coloro cui normalmente questa opportunità viene negata,
stabilire forme di lavoro che favoriscono l’incontro tra operatori sociali e disabili, fare di questo
lavoro un’opportunità di ricerca teatrale.
Il sorgere di questo impegno ha posto il Teatro Kismet OperA di fronte al problema di un teatro
necessario, un teatro la cui esistenza trova forti motivi di partecipazione alla vita sociale.
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contesti di disagio non può quindi limitarsi ad un’azione individuale, deve intervenire anzitutto in
una dimensione collettiva e, in quanto tale, interagire con la realtà circostante.
I cambiamenti profondi richiedono tempi lunghi, in generale non concessi. Al teatro nella sua
specificità, ma anche alle altre pratiche artistiche, si può chiedere di esprimere il suo potenziale
di reinvenzione, di rilettura del mondo, di presa di posizione ma anche di sviluppo del senso
critico.
Un esercizio fra i più importanti nella ricerca del personaggio proprio del metodo teatrale di
Bertolt Brecht, consiste nell’indagare anzitutto le umane motivazioni all’origine dei gesti più
discutibili e antisociali; ma, subito dopo, l’attore è sollecitato dal medesimo esercizio a
ripercorrere le vicende del personaggio, esercitando tutto il senso critico possibile. Il teatro è
trasformazione dei punti di vista e grande esercizio di dialogo solo a patto che si eserciti con
coerenza e profonda convinzione. Nel momento in cui agisce su un palcoscenico, all’attore non è
richiesta questa consapevolezza, ma nelle esperienze sociali essa si rivela fondamentale per non
ridurre la realtà ad un gioco semplificato.
Un’altra riflessione si deve condurre sugli spettacoli come risultato finale dei laboratori. Il teatro
muove le emozioni, spesso si afferma che un pessimo attore è colui che sul palco piange per far
piangere il pubblico. La condizione di disagio dichiarato degli attori detenuti (o disabili, o malati di
mente) offre al pubblico un’esperienza anomala, di commozione preventiva, una commozione che
rafforza il disagio e non premia il lavoro e lo sforzo di relazione, ma soltanto la condizione, in una
forma di relazione sociale fortemente asimmetrica. La consapevolezza di questo doppio livello di
comunicazione, cioè del corto circuito tra attore e essere umano, deve essere inevitabilmente
superata oppure assunta come condizione. Significativa è, per esempio, la modalità degli
spettacoli di Armando Punzo, nel suo lavoro al Centro Nazionale di Teatro e carcere di Volterra:
uno spettatore entra nello spazio teatrale con la forte sensazione di entrare in un luogo di
detenzione; il corto circuito viene disinnescato nell’impatto iniziale e poi regolato nel corso della
rappresentazione. La spettacolarizzazione del laboratorio teatrale, cioè la ricerca di un pubblico
esterno alla cerchia istituzionale e familiare rende necessaria una maggiore consapevolezza dei
processi che il teatro è in grado di attivare. Il problema dell’equilibrio tra identità sociale e
identità teatrale è certamente fra i più delicati se si tiene conto dell’importante domanda
educativa affidata all’esperienza del teatro in condizioni di disagio. In queste condizioni la
consapevolezza del lavoro di regia non si può limitare allo spazio scenico ma deve comprendere il
sistema nel quale il progetto viene realizzato, prendendo in considerazione le relazioni già attive
e irrigidite del sistema. Spostare il punto di vista in questo caso significa ribaltare i tradizionali
meccanismi del giudizio da parte di un pubblico che molto spesso si accontenta di quelle onde
emotive promosse dall’esercizio della compassione.
L’esperienza artistica deve essere infine negoziata con l’istituzione che la promuove e con i suoi
operatori; deve agire in una cerchia più ampia, aprendo la coppia operatore-soggetto
svantaggiato; deve essere attuata senza l’illusione di poter “salvare” le persone affidate. Quello
di educare gli artisti a una pratica di lavoro non indispensabilmente “salvifica” è uno dei compiti
più difficili ai quali si deve orientare l’impegno dei responsabili di progetto e degli organizzatori.
In questa sede intendiamo negare con forza l’idea che si possano specializzare artisti
dell’intervento sociale, al contrario si deve prediligere la differenziazione delle esperienze, il
teatro resta un’esperienza fatta da “viaggiatori in grado di collegare mondi diversi”. Viaggiatori ai
quali è però richiesta la capacità di parlare le lingue e assumere gli usi di tutti i territori da
visitare. Il dialogo, ovvero la cooperazione interistituzionale, diviene quindi un mezzo
indispensabile alla costruzione dei progetti in ambito teatrale e creativo.
La complessità espresse dal sistema, impone a l necessità di formare figure professionali le cui
competenze risiedono sia nell’attenzione all’alterità, che a specifiche capacità di dialogo con
artisti, teatri e istituzioni educative, sociali, pubbliche. Una qualità che permette di porsi al centro
di una serie di bisogni a volte molto diversi tra loro, cercando sintesi adeguate e valorizzanti.
Professionalità, si noti bene, non specializzate in disagio, ma in promozione del dialogo e della
relazione e fortemente aderenti alla pratica artistica.
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Le esperienze di teatro in ambito educativo sono in forte aumento, il teatro sembra essere una
pratica che non richiede eccessive competenze per essere realizzata. Questa crescita comporta
un rischio: celebrare il festival del teatro sociale. Fino ad ora il lavoro dei critici e degli esperti si
è limitato a enumerare le esperienze, manca un pensiero sui differenti modelli, sui loro esiti, sui
contesti. Manca soprattutto una riflessione sulla relazione interistituzionale. Il rischio di questo
successo numerico è l’impoverimento delle esperienze, l’indebolimento dell’intero sistema. È oggi
indispensabile ragionare su una pratica che viene attuata con motivazioni profondamente
differenti, con scopi e sostegni distinti. Soprattutto di fronte ad un sempre maggior numero di
esperienze formative destinate ad artisti, educatori e organizzatori, occorre sviluppare un
modello critico, un pensiero che spinga alla scelta, alla distinzione e che offra chiare coordinate
per costruire progetti e interventi più efficaci ed articolati sia in ambito educativo che nelle forme
dell’arte. Su questi temi restiamo in attesa di ulteriori sviluppi.
Alla proposta di avviare un progetto negli Istituti penitenziari per adulti, nonostante la lunga
esperienza ma turata nell’Istituto Penale per minori “N. Fornelli” di Bari e con l’Area Penale
Esterna,1 la sensazione da noi tutti condivisa è stata il senso di inadeguatezza di fronte alla
necessità di applicare i principi appena descritti.
Un’inadeguatezza rafforzata da un rapido ciclo di letture e riletture, che esponevano un
paradigma principale: il carcere è luogo di radicale esperienza individuale; dai detenuti, al
personale, a coloro che lo visitano e raccontano, tutto lì dentro spinge verso un’accentuata
soggettività. Come avrebbe potuto il teatro, il nostro teatro, con i suoi modelli di relazione ed
esperienza collettiva, intervenire in un simile contesto? La sfida prima è stata quindi quella di
trovare un senso e un obiettivo di lavoro.
Partire dalla nostra condizione ci ha permesso di configurare un’ipotesi di partenza, ne sono
seguiti alcuni principi attorno a cui il progetto è stato concepito:
?? la sensazione di dover esplorare un territorio superficialmente somigliante (il carcere adulto),
ma di fatto estrema mente composito, anche all’interno degli stessi istituti;
?? la consapevolezza che occorresse un dispositivo di intervento e di lavoro elastico e
modificabile, ma allo stesso tempo preciso, per non rischiare di configgere con i meccanismi
del controllo che inevitabilmente qualificano quelle realtà;
?? la necessità di coinvolgere tutti, anche con forme di dialogo a distanza: non solo i detenuti,
anche la polizia penitenziaria, gli educatori e la direzione;
?? la convinzione che il racconto dei processi di lavoro fosse importante almeno quanto la voce
dei detenuti, in questo modo i viaggiatori avrebbero tracciato un possibile percorso quale
esempio per tutti i successivi visitatori.
A partire da queste condizioni ci è parso che il viaggio (e di un libro, questo, scritto come una
guida di viaggio) potesse essere la metafora e il paradigma del progetto: una guida prodotta da
1 In questo ambito il Teatro Kismet ha realizzato un progetto che rappresenta con limpidezza i meccanismi
sociali ed educativi enunciati in queste pagine. Il progetto “La prova del teatro” prende avvio sette anni fa
con la creazione di una sala teatrale nell’Istituto per minori e re alizzando negli anni successivi un
programma di laboratori, spettacoli, rassegne teatrali e cinematografiche aperte anche al pubblico esterno;
alcuni degli spettacoli realizzati con i giovani reclusi sono stati portati in tournée in festival e rassegne
teatrali in Italia. Per l’Area Penale Esterna è stato sviluppato un programma di formazione basato sulla
pratica della costruzione scenografica e della luce. I progetti, realizzati in luoghi pubblici, hanno favorito il
dialogo con il territorio a partire dalle opere e dalle installazioni create. Ultima proposta del progetto è APE,
una bottega creativa formata da un gruppo di artisti che, ogni anno, associano un gruppo di ragazzi per
realizzare un progetto di installazione artistica urbana.
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dell’esperienza, dei temi e delle storie, nei modi che più “parlavano” alla sensibilità di ciascuno di
loro.
Anche l’organizzazione del progetto ha ripercorso il mo dello del viaggio di esplorazione,
prevedendo quattro incontri organizzati e lasciando la possibilità di proseguire alle intenzioni e
all’iniziativa dei viaggiatori.
Ai viaggiatori scrittori si sono affiancate due esperte educatrici teatrali del Teatro Kismet con
funzioni di guida. Una guida comunque anomala poiché anche a loro, pur avendo venti anni di
esperienza nelle diverse realtà sociali regionali, non avevano conoscenza delle carceri coinvolte
nel progetto.
Ma quali sono state le scelte relative ai viaggiatori? Caratteristiche essenziali sono state la capaci
di scrivere la realtà, la disponibilità ad affrontare i disagi di un lavoro volutamente
approssimativo negli sviluppi. La scrittura avrebbe dovuto ricucire la distanza tra i diversi
soggetti di cui volevamo raccontare, ricostruire a posteriori un dialogo a partire dai materiali
degli incontri. Inoltre era necessaria quella visone soggettiva consapevole del processo in cui
erano coinvolti e che essi stessi avrebbero generato.
Dunque anzitutto una fotografa, un’artista visiva, Agnese Purgatorio, con cui il Kismet ha
condiviso numerosi progetti in ambito sociale e il cui tipico lavoro di costruzione fotografica a più
immagini, come nei trittici medioevali, poteva garantire una memoria visiva nello stessa logica
del dialogo scritto.
Poi un drammaturgo e regista del Kismet, Lello Tedeschi, che lavora nei progetti di teatro sociale
del Kismet da circa dieci anni (ma non è specializzato!). Lello sarebbe stato la voce interna il
collegamento tra il gruppo e il Teatro Kismet, un mediatore ma anche un “infiltrato” della
direzione del progetto.
Poi un giornalista, Gianluigi De Vito, un giornalista militante, esperto di problemi
dell’integrazione, un giornalista capace di fare reportage ma anche di riflettere sui problemi civili,
questi i motivi della reciproca scelta di affrontare il progetto; nell’equipaggio, l’uomo esperto di
viaggi.
Dopo una lunga conversazione, lo stesso De Vito ci ha proposto il terzo viaggiatore, Ron Kubati,
migrante albanese e dottore in filosofia, autore di un libro edito da Besa, Va e non torna. La
capacità di analisi e un differente spirito civile, oltre ad una forte qualità descrittiva hanno
proposto Kubati come la persona in grado di associare ai dialoghi una riflessione sulle istituzioni.
Infine Elio Paoloni, il nostromo, l’uomo concreto in grado di leggere con attenzione la realtà, il
suo Piramidi è il racconto di un modello economico attraverso la storia di una vita, la stessa
possibilità per noi di riflettere sul funzionamento del progetto, esporne gli ingranaggi.
Dunque in ogni carcere, dopo le riunioni preparatorie, si è rappresentato lo spettacolo, è stato
formato un gruppo di detenuti interlocutori e sono stati organizzati gli incontri con la coppia
formata dallo scrittore e da un’educatrice teatrale. Ad ogni coppia è stato affidato un istituto
penitenziario e un tema di partenza che necessariamente si è modificato durante il percorso.
Ne è risultato dunque un insieme di scritture e di immagini che solo alla fine ha assunto la forma
organica del presente libro: scritture come diari, resoconti, dialoghi, analisi, immagini che
cercano di offrire elementi destrutturati come unica opportunità di presentare una parte di un
territorio carcerario irrappresentabile in modo organico.
Dall’insieme e dalla molteplicità dei punti di vista crediamo si possa ricavare una visione
certamente sfaccettata e che, allo stesso tempo, riporta la sorpresa della scoperta, del confronto
con quanto già scritto, con i tanti luoghi comuni sugli Istituti Penitenziari.
L’articolazione complessa del progetto, in particolar modo in fase di avvio, rendeva necessario un
meccanismo unificante, un’esperienza di apprendimento e creazione in cui potessero essere
coinvolti tutte le figure presenti nei penitenziari, il Provveditorato Regionale e gli artisti e scrittori
coinvolti. Un modo per creare conoscenza reciproca, dialogo e confidenza tra le persone
dell’Istituzione e quelle del teatro.
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Immagini invisibili
Agnese Purgatorio
Esiste un lungo elenco di citazioni sulle fotografie mai scattate e rimaste imprigionate nella
memoria. Mi viene da pensare a un limbo di immagini sospese, assenti, a bozze mai realizzate e
depositate in uno spazio invisibile.
… nella realtà del Progetto cui ho partecipato ho incontrato molti più ostacoli che nelle belle
teorie. Conoscevo già il divieto di effettuare riprese o scattare immagini delle carceri, delle celle,
dei corridoi e degli agenti, ma in questo caso ho anche dovuto rassicurare le autorità che in certi
luoghi non avrei fotografato neanche i volti.
Ho accettato comunque la sfida per cominciare il viaggio, tra mille divieti e censure, in un luogo
che da sempre attrae e respinge i visitatori, in uno spazio che suggerisce interrogativi, ma non
prevede risposte perché tutto è ambiguo e irreversibile.
… Vedevo scorrere nei miei pensieri chiavi d’oro che aprivano cancelli dopo cancelli, Vergini e
Santi Pii su mattoni rossi, corridoi gialli e verdi, una cupola scrostata, tredici televisori neri sulle
scale con un cartellino rosa che recitava: “da riparare”. Ho associato questi dettagli a certe frasi,
del tipo: “Quando stai dentro vedi la tua vita come fosse un film e un po’ alla volta cominci a
cancellare tutto, anche gli amici, perché capisci che tipi erano”. Guardandomi attorno, ho anche
avuto la sensazione che, per chi mi accompagnava e controllava la quotidianità del carcere,
potevo essere solo un inutile problema.
… Concedere il proprio ritratto per alcuni detenuti e detenute è stata una sfida, un modo per
sottrarsi al potere; ma quello che infine conta è che ogni volto parlava, aveva, come il mio, la
necessità impellente di raccontarsi, ed è nata così una complicità di fronte alla macchina
fotografica che ha portato a superare la distanza naturale. Sguardi e volti a confronto sono
“scivolati “verso il dialogo.
… E l’inquietudine dietro ogni storia raccontata non era diversa da quella che mi accompagnava
verso l’uscita, attraverso corridoi silenziosi dove rimbombava il rumore dei passi e dei cancelli
che mi si chiudevano alle spalle, mentre quello che restava dentro erano solo i frammenti di un
viaggio che rafforza e indebolisce allo stesso tempo.
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Colloqui insensibili
Gianluigi De Vito
Tre
Ester è in chiesa a togliere polvere. Si ferma, fissa il vuoto. Si vede che è affollata dai pensieri.
Ha in tasca la lettera dei figli. Indossa abiti di una ragazzina. Non scommetteresti un centesimo
sull’età. Ha ventisei anni, due figli: Alessio, otto anni e Alessandra, tre anni.
“Sono in carcere da sette mesi. A mia figlia ho dato il latte dal mio seno fino al giorno prima di
essere portata qui”.
Ester è rubiconda. Capelli corti, nerissimi, occhi piccoli e svelti, naso nascosto tra le guance
rotonde. Faccia di granito quando srotola i ricordi. Raddrizza il dialetto per dare peso alle
risposte.
“Mi manca mio figlio quando usciva da scuola. Veniva a sedersi sulle mie gambe e mi baciava.
Sempre addosso a me, buttato”.
“Certo che mi sento in colpa per averli lasciati, ci mancherebbe”.
Un sospiro. Silenzio. Di nuovo il racconto di “ieri”. E ieri è un brandello di vita gettata alle ortiche.
La vita a Ester non offre granché: pulisce le stalle, custodisce tutto il giorno il gregge di famiglia
in una zona di campagna lontana dalla città. Si occupa anche delle capre. E non è cosa da poco.
Devi saperci fare con le capre, per poterle governare. Sono bizzarre. Ma conservano intatto
l’istinto materno. Nessun capretto succhia latte da un’altra madre. E così adesso i suoi figli:
vogliono lei, non una madre in affitto.
Ester ha quattordici anni quando l’amico del padre, il “socio delle pecore”, abusa di lei. Non sa
nulla del sesso. Difficile costruire una diga alle attenzioni particolari di quell’uomo che sa scucire
anche un po’ di seduzione. Il “socio delle pecore” s’approfitta del suo corpo. Nessuno vede,
nessuno sa. Ma è solo la prima “vergogna”. Ne arriverà una seconda e poi una terza, e con esse
arriveranno pure le colpe e la pena.
A casa dei suoi accade ogni tanto di ricevere visite di altri amici di famiglia. C’è un ragazzo, a
pranzo. Occhiate profonde, sguardi di passione. Sarà amore. Nascerà un figlio. Ma non sarà
matrimonio. Ancora minorenne, lei. Il Sud ha un copione per qualsiasi destino: Ester la
“svergognata” deve andare via di casa perché altrimenti “disonora” la famiglia. Lei, il ragazzo
dell’occhiata, il figlio, la madre di lui e il padre di lui: eccola la nuova famiglia di Ester. Il
matrimonio? Un giorno, chissà quando.
Il socio del padre però non vuole farsi da parte. Minaccia Ester di raccontare tutto a tutti. Si fa
pagare il silenzio: lui deve continuare a possedere gratis quel corpo di bambina un po’ cresciuta.
Lei stavolta ha l’amore. C’è un figlio, Alessio; c’è il ragazzo dell’occhiata. La doppia vita non può
durare. Non dura. Ester scuce la bocca. Confessa tutto alla nuova famiglia. Il copione prevede
che quella vergogna sia cancellata per sempre.
Il racconto si fa confuso. Altra pausa. La faccia di pietra non trattiene le lacrime. Torna la voce. E’
rotta dal singhiozzo. Le indagini. Il processo. Le verità del Tribunale: lei la mandante e
l’esecutrice dell’omicidio; i maschi sono fuori da tutto. In fondo, la partita col morto la si gioca
sempre con un killer che possa rimanere fantasma. No. C’è qualcosa che non torna nella partita.
Non può essere lei la colpevole di tutto. Alla fine dei processi verrà fuori quest’altra verità:
concorso in omicidio, quattordici anni di carcere, per lei; più anni, per lui, il suo uomo, e per il
“suocero”.
…
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Taranto, maschile
Visite guidate
Elio Paoloni
Figuriamoci cos’è l’entrata in un vero carcere (istituto penitenziario, certo, certo). E invece,
all’Istituto di Taranto, i posti di controllo (tre: l’ingresso vero e proprio, il cancello scorrevole
dopo il parcheggio e il bancone all’interno della palazzina con amministrazione e locali degli
agenti) risultano meno claustrofobici, meno inquietanti. Non si sta al chiuso e intorno c’è aria,
tanta aria. Una felice eccezione? Occorre considerare che questa casa circondariale
(circondariale, del circondario, beh, non è il caso di stupirsi se un funzionario ha definito i
detenuti “produzione locale”) è situato tra altre grandi aree recintate con ampi capannoni: un
centro commerciale, l’Auchan. C’è una logica? Anche quello, universo concentrazionario,
istituzione totalizzante, atopia. Ma non facciamo poesia.
Cerco di non lasciarmi fuorviare dalla relativa piacevolezza delle strutture (fungo futuristico
centrale invece delle torrette laterali, spazi ampi, padiglioni – relativamente - luminosi, silenzio)
e mi concentro sulla scorta: siamo i testimoni di una staffetta degli agenti, alcuni con tuta grigia,
stivaletti, anche armi mi sembra, altri hanno una divisa, assomiglia a quelle dell’aviazione. Non
vengono maneggiate moltissime chiavi nel tragitto scortato verso la sala deputata, ma mi
colpisce il loro colore: sono dorate, brillano, sembrano chiavi per il paradiso, non le lugubri chiavi
per le segrete.
Uno dei miei più tipici interrogativi “filosofici” adolescenziali era: cosa differenzia un prigioniero
da un secondino?
…
Seconda giornata
… Domanda del giorno (giorno molto corto, chè per disguidi vari abbiamo cominciato tardissimo):
cosa rende, più d’ogni altra cosa, l’idea della libertà, del “fuori”?
Le risposte sono molte e quasi tutte ovvie, tranne una: il traffico, che per noi rappresenta la pena
peggiore. “Mare” e “boschi” sembrano simili a “stadi” eppure, prescindendo dagli spazi, sono
l’opposto: folla contro solitudine. Ma entrambe, insieme all’andarsene in giro con gli amici, si
oppongono allo “stare in casa”, che in fondo è un altro luogo chiuso, una gabbia, anche se più
che lo “stare” conta la cucina della mamma. Fernando non condivide la situazione scelta da
Massimo (passeggiare con la figlioletta): è bellissimo, l’affetto paterno è un grande sentimento,
ma sono gli amici a renderti libero, il bar. E il peso delle stoviglie (qui ci si abitua a bicchieri di
carta e posate di plastica: leggerezza, inconsistenza). E’ importante anche (ma questo è un
suggerimento di Mimmo, l’agente) che la birra tu possa berla dalla bottiglia e non dalla lattina,
unico contenitore ammesso nel carcere. Mi accorgo che tra le molte situazioni manca quella
fondamentale. Massimo ci si è avvicinato di più con un “dialogo con la compagna”.
Si chiama così, adesso? Gli ospiti si sciolgono e, beh, sì, certamente, lo aggiungono al resto,
forse li tratteneva la presenza di Francesca o pensavano che noi volessimo accademia, poesia,
arcadia. O non volevano che li stigmatizzassimo come allupati. Oppure, molto semplicemente,
l’attività che fa girare il mondo non corrisponde esattamente alla libertà: si fa al chiuso, del
resto, e costituisce un legame. Il Buddha direbbe che è una catena.
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Trani, maschile
Forme
Ron Kubati
La prima volta che si entra in un carcere si fa attenzione a tutto. Al controllo dei documenti, al
pass numerato, al cortile che separa i primi due cancelli, alle auto che prima di entrare o uscire
fanno vedere il bagagliaio, ai parenti dei detenuti che attendono in questo interno ancora
esterno, al suono del campanello che è un semplice ding-dong da appartamento, ai secondi che
servono all’agente per aprire, al numero medio degli agenti presenti, al personale civile che
transita, agli avvocati più in divisa degli agenti con le loro cravatte e le loro enormi borse, al
metal detector con l’avviso per i portatori di pacemaker di non attraversarli, alle telefonate fatte
ad altri agenti più all’interno, ai minuti che passano prima di entrare, alle chiavi enormi, ai
sorprendenti numerosi gatti che sostano nell’ultimo cortile, all’odore pesante dell’ora di pranzo, ai
metri del primo corridoio, al registro dell’agente che segna nomi e ora, all’ennesimo cancello, ai
rumori dei ferri, ai primi detenuti che circolano nei corridoi, agli spazi dedicati all’ora d’aria, alle
prime celle, all’aula-cella ecc.
Arrivano per la prima volta in tanti, tantissimi i dettagli caratterizzanti del nuovo ambiente. Le
nostre risposte variano dalla rigidità dell’avvio alla spontaneità in chiusura della prima visita che
vede la mia collega educatrice dare un’istintiva spallata a una porta che non si apre. Gran parte
di questo si perde col tempo. Tutto diventa automatico: i documenti li forniamo prima che ce li
chiedano insieme al motivo della nostra visita, i nomi li pronunciamo con un chiaro spelling, gli
agenti li aspettiamo a distanza di un passo per farci aprire, non sbirciamo più né nelle celle né
fuori dalle finestre. Ci siamo adeguati anche a questo. Conosciamo le stanze delle educatrici, le
persone da interpellare, la reazione dei detenuti, l’ora in cui arrivare, i minuti prima della
scadenza per chiudere. La routine, l’ordine, la legge, la forma si sono imposte anche su di noi.
Forse rimane un sottile velo di angoscia come sentimento di non accettazione. Io né riesco a fare
a meno né voglio privarmene. È in un certo senso la garanzia di un approccio autentico con un
ambiente che le mie private categorie etico-razionali considerano (quindi non sul piano politico)
non meno assurdo di un temporaneo cimitero. E ogni volta, appena fuori, il ritorno del
contingente, l’aumento della luce quando c’è, la distensione delle forme, l’auto da mettere in
moto, lo stereo, i cellulari, il traffico, la corsa verso la città e le faccende altre, sembrano
elementi di una fuga fisiologica, la cui unica traccia consapevole è la leggerezza mista a
dispiacere o inquietudine di chi non ha perso del tutto la sensibilità. Anche con il passare del
tempo l’impressione suscitata da questo passaggio non si cancella mai. Tanto che anche l’irrisoria
facilità di guida con il servosterzo mentre si lascia il parcheggio del carcere e l’impercettibile
sforzo che accompagna l’intenzione alla realizzazione del balzo aggressivo in avanti dell’auto,
sulla corsia di sorpasso, non possono non marcare la radicale differenza. Ma anche questa
percezione, più che una reale sintonia con i problemi dei detenuti, è la consapevolezza di una
condizione appena esperita in prima persona, come la morte di uno sconosciuto che ci colpisce
tanto proprio grazie alla proiezione, alla paura di essere al suo posto. Solo il tempo dà un volto e
crea un rapporto che sostituisce il detenuto con un nome di persona. Ma allora i paradossi
aumentano. L’atteggiamento distaccato o quello missionario diventano sempre meno possibili.
Scatta inevitabilmente un relazionarsi paritetico. S’indovinano spontaneamente registri e tecniche
di approccio personalizzati. Il carattere solare di uno ti fa scappare la battuta, mentre il
vittimismo comprensibile dell’altro ti fa pensare.
In effetti i detenuti si lamentano sempre, per cose importanti o futili, per incontri mancati o cibi
avariati, per il magistrato di sorveglianza o il nuovo direttore, per l’agente perché è agente o per
l’amnistia non concessa, per le scarpe come per il walkman, per la cella sovraffollata come per
l’ingiusta condanna. Si lamentano perché sono vivi e non dispiegano le loro potenzialità. Sentono
lo spreco, lo spreco di loro stessi …
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Bari, maschile.
“Alle sei, al risveglio - scrive M - apro gli occhi e il piantone prepara il caffè su un fornello a gas.
Poi il piantone mi porta un bicchiere d’acqua e le scatole dei farmaci. Prendo due farmaci
insieme, per le crisi epilettiche. Dopo qualche minuto io, il piantone e l’altro compagno di cella
beviamo il caffè. Io ne prendo poco (un sorso) con un po’ di zucchero in più. Lo beviamo seduti
intorno a un tavolo con una tovaglia colorata portata da casa. Facciamo colazione con un po’ di
latte, biscotti, crostatine del Mulino Bianco. In pigiama. Il mio pigiama è blu, mentre il piantone
ha un pigiama fondo blu colorato (regalato da me e dall’altro detenuto). L’altro detenuto ha un
pigiama blu felpato. Alcune volte, quasi sempre, ci laviamo prima la faccia. La tv è accesa e
seguiamo il telegiornale”.
“Il piantone” mi incuriosisce e chiedo spiegazioni…
“Da tanti anni - dice M - sono in questa condizione di detenuto su una sedia a rotelle, e ho
cambiato tanti piantoni, quasi tutti bravi ragazzi. Il piantone è anche lui un detenuto, è nella mia
stessa cella e percepisce uno stipendio, poca cosa, gli stipendi qui sono al minimo sindacale”.
Ha poco più di quarant’anni, M, occhi azzurri e uno sguardo intenso e fiero, penetrante,
incorniciato da capelli e barba bianchi. Parla piano, con uno spiccato accento campano e le parole
gli si impastano sulle labbra producendo poco più che un bisbiglio. La sua permanenza sulla sedia
a rotelle è definitiva.
“I piantoni qui dentro sono per lo più albanesi, povera gente; l’ultimo, quello che mi accompagna
adesso, anche lui è albanese, parla poco l’italiano ma ha tempo e sta imparando. La mattina
quando mi sveglio e lui dorme ancora, aspetto, tanto di lì a poco si sveglia, e come ogni mattina
mi aiuta a passare dal letto alla sedia, mi spinge per pochi metri fino al bagno e mi aspetta fuori
dalla porta. Poi mi avvicina al tavolo e prende la bottiglia dell’acqua, il bicchiere di plastica e la
scatola dei farmaci, versa un po’ d’acqua nel bicchiere, mi consegna la scatola dei farmaci e poi
lascia tutto sul tavolo e va in un angolo adibito a cucina per preparare il caffè. L’altro detenuto
che è in cella con noi si alza e accende la tv, sentiamo le notizie del telegiornale e conversiamo.
Il piantone apparecchia la tavola con una tovaglia di casa, portata da mia moglie, usiamo tutto
in plastica, è più igienico e non occorre lavare niente. Insieme facciamo colazione con caffè, latte
e biscotti, come i “piccirilli”; io prendo poco caffè, perché non lo posso bere. Restiamo in pigiama
per un po': il pigiama mio e quello del piantone sono blu, sono quasi uguali, li ha comprati mia
moglie; anche la tuta che il piantone indossa è stata comprata da mia moglie, a colloquio dico
sempre a mia moglie compra una tuta, un maglione o un pantalone per me e per il piantone”.
Immagino M, già sveglio e sono le sei, che non osa disturbare il sonno del piantone, l’albanese. I
piantoni qui dentro sono perlopiù albanesi, povera gente, opaco rispecchiamento della vita di
fuori, né più né meno. Aspetta, M, non ha fretta, tanto di lì a poco il piantone si sveglierà e
ricambierà la gentilezza dell’attesa aspettando a sua volta M davanti alla porta del bagno. Si
avvicina, prende, versa, lascia, va a preparare il caffè. Risveglio quieto e gentile, domestico,
familiare; tv, tovaglia, caffè, latte, biscotti: descrizione rassicurante, troppo, fino al sospetto che
sia soprattutto consolatoria, come esprimesse una spenta rassegnazione a un inalienabile
bisogno di esistere, gioco di ruoli e responsabilità cui si è costretti ma a cui destinare una luce di
autenticità familiare, pena l’immediata constatazione di una sconfitta, probabilmente definitiva.
...
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Come nasce un progetto? O meglio, contenendo l’ambizione: come nasce un progetto in cui la
creazione artistica – com’è certo il caso di “Colloqui Sensibili” - deve mostrarsi in grado di
promuovere e sostenere un dialogo umano e civile?
Da quando esistono i contributi pubblici, i bandi, i finanziamenti, progettare è diventata
un’attività obbligatoria. Ideare, definire e organizzare un progetto è da molti considerato
strumentale, se non a volte un vero e proprio ostacolo, alla realizzazione dei propri obiettivi. Di
fatto la progettazione è un elemento indispensabile per riflettere intorno al proprio lavoro,
definirne i confini e perciò stesso prefigurare quelle azioni che permettono di superarli.
Le ridotte potenzialità della progettazione dipendono dal fatto che spesso non costituisce
un’occasione per guardare la realtà, ma piuttosto si realizza utilizzando schemi facilitatori e
modelli precostituiti. Inoltre mancano spesso le competenze organizzative che permettono di
affrontare situazioni di una certa complessità operativa. In altri termini, la realtà, la
progettazione e la realizzazione sono spesso tenute separate e non costituiscono un flusso
continuo di lavoro capace di accogliere l’imprevedibilità dei comportamenti e di sentire il contesto
nella sua complessità. Un vero tradimento etimologico.
Nel Rinascimento, il termine “progettare” aveva un’accezione più creativa: una proiezione del
desiderio in avanti nel tempo. Dopodiché il termine assume una caratteristica prevalentemente
tecnica, mirante però alla razionalizzazione delle risorse e al raggiungimento di un risultato certo,
comunque un’attenzione alla continuità.
Trasferendo la tipica rigidità degli schemi progettuali ai contesti sociali e creativi, si dimentica di
considerare il suo potere di prefigurazione e di visione d’insieme, lasciando a chi deve operare le
limitate condizioni del passo dopo passo e della responsabilità individuale. Questa impostazione
entra in conflitto con le strategie del lavoro creativo anche in ambito sociale; in questi contesti si
deve sempre tenere conto della grande molteplicità delle risposte e dei processi dei destinatari.
Uno psicologo israeliano, David Guttman, ha cercato di interpretare la complessità nella
progettazione attraverso un’interessante visione umanistica:
I progetti sono molto pericolosi come oggetti definitivi. Il progetto assoluto trasforma le persone
in oggetti. Il tragitto reclama persone-soggetti. Una persona diventa oggetto perché sottomessa al
soggetto, mentre il tragitto richiede coscienza, responsabilità, un parziale e libero arbitrio
(...). Il progetto rileva la problematica del cambiamento, il tragitto quello della trasformazione. Il
progetto è coerente con la società dello spettacolo, con la società dell’apparenza come ne scrivono
Baudrillard e Debord, il tragitto è lo spettacolo della società, è il vero spettacolo, è la tragedia. Nel
progetto le persone sono spettatori o al massimo figuranti, nel tragitto le persone sono dei co-
autori o dei co-attori e soprattutto non ci sono altri che facciano da spettatori: il tragitto è uno
spettacolo in cui tutti hanno un proprio ruolo.2
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Per Peter (Brook, n.d.a.) la componente dell’istinto è fondamentale nel suo lavoro sull’attore. Egli
non si limita a esplorare il movimento o il solo linguaggio, ma richiede all’attore un coinvolgimento
umano profondo. Peter non ci parla mai dello spirito o dell’anima. Simili discussioni diventano
presto artificiali e non aiutano in alcun modo l’attore. L’elemento spirituale emergerà da sé, se
l’attore riesce ad esplorare e privilegiare le sue qualità fondamentali di essere umano.
Gli attori tendono spesso a dare maggiore importanza all’aspetto più esteriore e teatrale della loro
natura. Peter al contrario stimola i suoi attori alla ricerca costante della reazione viva, naturale e
umana. In tutti i suoi spettacoli, Shakespeare incluso, Peter non cerca di trasmettere un
messaggio specifico e univoco. Incoraggia piuttosto gli attori ad analizzare il testo in maniera
aperta ed umana. Ne emergeranno mille “interpretazioni”, mille messaggi e lo spettatore sarà
libero di scegliere il proprio.3
La percezione del contesto è un dato primario e inevitabile; quando si affronta un nuovo percorso
è necessario conoscere, accumulare informazioni, sapere da dove iniziare e quali obiettivi
prefiggersi.
Cercare subito di interpretare e motivare aumenta la confusione. Percepire la complessità del
sistema è un’esperienza non istintiva per gli adulti, poiché, dopo l’infanzia, tutto il sistema
culturale occidentale tende a promuovere capacità razionali e lineari e la divisione mente corpo
rimane un paradigma fondamentale. Illuminanti - ma non è questa la sede per una riflessione
approfondita - sono le teorie che partendo da Piaget arrivano all’epistemologia operativa di
Donata Fabbri Montesano e Alberto Munari. L’applicazione dei modelli della complessità alle
teorie dell’apprendimento offre una visione che il lavoro progettuale dovrebbe abbracciare nel
suo complesso, per la lucidità dell’approccio sistemico e la capacità di riflettere sulle competenze
di coloro, artisti organizzatori o educatori, che sono chiamati ad agire nei diversi ambiti sociali:
L’intelligenza è … un processo di interiorizzazione delle azioni materiali che l’individuo opera sulla
realtà spazio-temporale: le operazioni mentali sono dunque una filiazione diretta delle azioni
sensorio-motorie, esse sono radicate nei processi adattativi biologici.5
Queste due affermazioni sarebbero totalmente condivise dai maestri del teatro citati in queste
pagine, a dimostrare la possibilità di una continuità tra la dimensione dell’apprendimento e la
pratica del lavoro d’attore, intesa come motore di trasformazione e relazione, piuttosto che come
supporto razionale per la comunicazione di principi e idee. Per gli stessi motivi, questi principi
potrebbero essere considerati “assiomi” di un’eventuale teoria della progettazione: la complessità
che lo strumento progettuale permette di realizzare tende proprio a collegare i comportamenti
con i principi.
Ancora una considerazione sulla qualità e l’efficacia dei processi artistici, già considerata nel
capitolo introduttivo. La necessità di mantenere una dimensione di lavoro professionale non
edulcorata, priva del necessario potenziale, deve permettere di evitare che l’emozione si
trasformi in svago e che il pensiero e la condivisione si riducano al compatimento o, peggio
ancora, alla trasmissione di un messaggio sociale. Anche in questo caso siamo di fronte al rischio
di una separazione, in questo caso tra processo creativo e valore sociale, come se le due
componenti fossero antitetiche e che la partecipazione alle arti di soggetti svantaggiati possa
3 Chi parla è uno dei suoi attori più capaci. Oida Y., L’attore fluttuante, ed. it,. Roma, 1993, p. 77.
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essere possibile solo attraverso la semplificazione dei processi. Questa divisione trova una
comp osizione significativa nel pensiero teatrale di Bertolt Brecht che, così come Peter Brook, ha
cercato di sistematizzare i principi del proprio lavoro di regista. Brecht, che ha sempre investito il
proprio teatro di un forte valore politico, si preoccupa di coniugarlo con la qualità della
partecipazione dello spettatore:
Anche se non gli si può imporre ogni sorta di materie scientifiche che gli toglierebbero il carattere
dilettevole, pure (il teatro, n.d.a.) è libero di divertirsi con lo studio e l’indagine. Produce allora
quelle immagini praticabili della società che sono in grado di influenzarla, e le produce come vero
e proprio “gioco”: per gli edificatori della società espone le esperienze vissute della società quelle
passate e quelle presenti, in modo tale che diventino “godibili” le reazioni, le conoscenze, gli
impulsi che i più appassionati, i più saggi e attivi fra noi traggono dagli avvenimenti del giorno e
del secolo. Essi si diletteranno della saggezza che viene dalla risoluzione dei problemi, dell’ira in
cui può utilmente trasformarsi la passione per gli oppressi, del rispetto di fronte al rispetto per le
cose umane – che è l’amore dell’uomo -, di tutto ciò che può ricreare coloro che producono.6
Da questo rapido percorrere alcuni principi ed elementi pratici, si può ricavare la considerazione
che non esiste una teoria della progettazione, ma certamente esiste un comportamento
progettuale che, nel costruire una strategia di lavoro, permette di valorizzare le esperienze,
articolare gli interventi sociali in modo da offrire maggiori ricadute nel contesto in cui si opera e
nella realtà che è intorno.
Uno degli elementi primari di un lavoro di progettazione è la creazione di un bacino di contenuti
che costituiscono la ricchezza delle attività da organizzare e sono sempre la base per la ricerca di
soluzioni creative. Questo processo è analogo al lavoro preparatorio di uno spettacolo teatrale
(ma certamente anche di altre forme di espressione), una “pre-drammaturgia”, un accumulo di
materiali eterogenei, testi, immagini, suoni, storie personali, notizie, ecc. che nel loro insieme
possono essere considerate la materia prima da modellare. In un lavoro di progettazione
dovranno aggiungersi elementi quali le informazioni sui soggetti coinvolti, le condizioni del
contesto, le esperienze pregresse, i valori condivisi. Il passaggio successivo, nel lavoro di
progettazione, è la ricerca di un ordine che non è assiomatico ma si costruisce a partire dal
materiale accumulato. Quale ordine? Non esiste una regola. Il meccanismo si compone
attraverso la scoperta di similitudini, vicinanze o distanze, attraverso un’empirica composizione
fisica degli elementi. In questo tentativo di ordine si scopre che alcuni elementi sono meno
importanti e altri invece sono stati trascurati. Alla fine emerge un un’aggregazione arbitraria ma
consapevole delle regole del contesto, un disegno complessivo che costituisce una mappa di
riferimento per il successivo lavoro di programmazione delle attività. In questo processo è
importante il primo sguardo, quello iniziale solo apparentemente più superficiale, ma che in
realtà investe i sensi, i pensieri e le emozioni in modo articolato e con il massimo coinvolgimento,
perché il disagio di ciò che non conosciamo ci obbliga alla massima attenzione; nel recuperare un
equilibrio facciamo il più importante dei nostri sforzi istintivi.
Tutto questo è importante perché serve a non dimenticare pezzi per strada. In un processo
lineare spesso si impiegano mezzi o attività in funzione di un obiettivo limitato, dimenticando che
la stessa cosa o processo o funzione possono essere riutilizzati e valorizzati nelle fasi successive.
In una narrazione, è come introdurre un personaggio necessario al momento e poi farlo
scomparire. Fondamentalmente uno spreco.
Una volta acquisita questa pratica dell’accumulo e della ricerca di ordini, non è difficile
convincersi che le alla idee si possono associare le procedure, i percorsi di lavoro, i valori da
rispettare e condividere, a costituire una mappa più ampia che poi dovrà finalmente organizzarsi
nel tempo, poiché un progetto è in prevalenza un’organizzazione di strumenti e materiali in
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funzione del tempo, del luogo di applicazione e dei cosiddetti destinatari, un’organizzazione però
che si può praticare in molti modi differenti e che le scelte fra queste modalità sono in parte a
priori in base all’esperienza, ai valori da rispettare, e in parte legate all’evolversi del contesto.
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Materiali di progettazione
Di seguito un estratto dei testi del progetto che potranno essere una guida ulteriore nel percorso
carcerario oltre che un approfondimento sul tema del progettare.
Le attività.
Il progetto si compone di attività diverse:
1. repliche dello spettacolo ‘Miles’ per la regia di Marco Martinelli in una speciale versione
‘vocale’ in cui si esalta il lavoro degli attori riducendo l’impegno della costruzione di una
scena che potrebbe essere eccessivamente difficoltosa in luoghi non attrezzati. Per gli
istituti penitenziari maschili.
2. repliche dello spettacolo "Ecuba e i suoi figli" per la regia di Teresa Ludovico da
rappresentare all’Istituto Penitenziario femminile
3. laboratorio teatrale per la costituzione di un coro da inserire nelle repliche dello spettacolo
Ecuba e i suoi figli
4. attività di approfondimento sui temi degli spettacoli all’interno degli istituti con il
coinvolgimento di due professionisti della comunicazione o della produzione video (regia)
o di esperti. Il coinvolgimento specifico di queste figure sarà definito in sede di
progettazione esecutiva, una volta acquisisti elementi utili alla valutazione sui temi, le
modalità e gli obiettivi specifici di questa attività. Nel corso degli incontri verranno
mostrati materiali video che testimoniano esperienze del Kismet con realtà dell’area
penale minorile e altri materiali di altre esperienze collegate ai luoghi di detenzione.
5. progetto di documentazione fotografica o video dell’esperienza.
In questa area centrale si opera il collegamento tra la metafora, gli obiettivi, i valori e una
prima scansione di azioni materiali a cui si aggiungono istruzioni e modalità per il
procedere della ricerca. Non ripresenta uno schema rigido ma una griglia di azioni e
comportamenti di lavoro. Si dichiara in ogni caso un obiettivo operativo finale: cosa
realizzeremo.
Crediamo che il progetto debba assumere una forma compatta sostenibile come l’ipotesi di un
viaggio di un gruppo di artisti all’interno della realtà degli istituti penali pugliesi, definendo quindi
una serie di presupposti:
?? con quali scopi un gruppo di artisti decide di affrontare un’esperienza all’interno degli istituti
?? quali sono le aspettative e le domande preliminari
?? in che modo verranno incontrate le persone detenute
?? quale confronto umano
?? quale esperienza, contraddizioni, contenuti, emozioni emergono
?? quali storie saranno ascoltate
?? quali storie sarà importante riportare all’esterno
?? Quali gli altri abitanti degli Istituti, i loro punti di vista e le aspettative rispetto al lavoro
teatrale e alle esperienze artistiche.
Luglio 2002.
Prima visita agli Istituti del responsabile del progetto, Roberto Ricco, della regista Teresa
Ludovico, del drammaturgo Raffaele Tedeschi, della responsabile delle produzioni e coordinatrice
del progetto, Clarissa Veronico e di un responsabile tecnico. Al gruppo potrebbe aggiungersi
un’educatrice collaboratrice stabile del Teatro Kismet OperA.
Obiettivi: conoscenza reciproca fra responsabili e operatori; conoscenza dei luoghi e sopralluogo
tecnico; approfondimento della presentazione del progetto; definizione del personale coinvolto.
Un’eventuale seconda visita entro la fina di luglio sarà concordata con le Direzioni nel caso si
renda necessario.
Settembre 2002.
Seminario di una giornata a Bari condotto dal dott. Ivano Gamelli. Partecipano l’equipe del Teatro
Kismet e i responsabili e gli operatori degli Istituti coinvolti nel progetto.
Obiettivi: approfondimento dello scambio di esperienze in vista dell’avvio del progetto,
definizione delle linee guida del percorso di viaggio, consolidamento delle relazioni e degli
obiettivi individuali, di gruppo e istituzionali. Definizione delle prime modalità operative.
Crediamo passa essere utile invitare esperti che possano partecipare e arricchire il confronto nel
corso del seminario.
Nel corso del Seminario crediamo possa risultare utile una presentazione pubblica del progetto.
Ottobre 2002.
Rappresentazione degli spettacoli.
Dicembre 2002.
Realizzazione del materiale di documentazione dell’esperienza.
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Il seminario.
Condizione primaria per la realizzazione del progetto è la condivisione di principi, metodi e
contenuti. A questo scopo abbiamo coinvolto il Prof. Ivano Gamelli, docente all’Università Milano-
Bicocca e alla Libera Università dell’autobiografia di Anghiari, per un percorso di formazione e per
la supervisione del progetto.
Proponiamo che la prima giornata del seminario, coinvolga i responsabili Area Pedagogica
regionale e degli Istituti Penitenziari collegati al progetto, eventuali educatori incaricati di seguire
il progetto (in questo caso sarebbe per noi essenziale che vi sia una figura di riferimento fissa);
auspicabilissima la partecipazione di un rappresentante della Polizia Penitenziaria, il personale
Kismet e gli esperti esterni. Obiettivo della prima giornata è la condivisione di alcuni elementi
delle tecniche di scrittura autobiografica funzionali al progetto, una riflessione sui temi da
promuovere nei laboratori e sugli aspetti metodologici, la definizione dei gruppi di lavoro.
La seconda giornata sarà dedicata ad un approfondimento delle tecniche e della progettazione.
Essendo a conoscenza di altri impegni formativi dei Direttori di Area Pedagogica auspichiamo che
comunque in questa giornata sia presente un rappresentante per ogni Istituto e che questo
rappresentante, educatore o dirigente, sia effettivamente coinvolto nella realizzazione e gestione
del progetto. Saranno presenti gli operatori del Teatro Kismet e probabilmente gli esperti esterni.
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Il professor Gamelli sarà nel seguito del progetto presente altre due giornate, per una verifica in
itinere e una valutazione finale (che si svolgeranno in più occasioni nel 2003) degli scritti
prodotti.
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I laboratori.
Come da progetto, l’equipe di lavoro sarà presente in ogni istituto per quattro incontri di tre ore
(con una eventuale ulteriore incontro se necessario).
Il calendario degli incontri sarà definito nel corso del seminario del 7 ottobre, valutando tutte le
necessità e gli impegni dei partecipanti.
Data una disponibilità ad un avvio nel mese di ottobre, in modo particolare per le esigenze della
Casa Circondariale di Brindisi, crediamo che gli incontri si realizzeranno prevalentemente nel
mese di novembre e prima parte di dicembre
Conferenza stampa.
Allo scopo di comunicare all’esterno, in concomitanza con l’avvio del lavoro, la natura e gli
obiettivi del progetto abbiamo stiamo organizzando una conferenza stampa di presentazione.
Tema fondamentale dei laboratori è la raccolta di storie, scritture, esperienze relative alla
dimensione degli Istituti Penitenziari.
Il lavoro coinvolgerà in maniera preminente un gruppo di detenuti individuati dalle Direzioni degli
Istituti.
Come già dichiarato è nostra intenzione coinvolgere in questa raccolta di esperienze e storie tutte
le altre figure che vivono la realtà penitenziaria, gli agenti di Polizia Penitenziaria, gli educatori e
l’Area Pedagogica, le Direzioni. Le modalità di coinvolgimento saranno concordate in modo
specifico tra l’equipe del Teatro Kismet OperA e le singoli Direzioni dei Penitenziari.
La comprensione sempre maggiore delle diversità e delle specificità di ogni Istituto ci convincono
che ogni percorso di laboratorio sarà fortemente influenzato dalle condizioni oggettive del
Penitenziario, dalle presenze e dalla loro disponibilità.
Elenchiamo quindi per i differenti Istituti gli elementi caratterizzanti la fase dei laboratori, con la
composizione delle equipe, la proposta di date e gli elementi finora raccolti che possono
determinare le modalità del laboratorio.
Questi materiali possono costituire la base dello sviluppo del percorso e sono, al tempo stesso,
fortemente provvisori per quanto riguarda i contenuti che, ovviamente, saranno sviluppati dalle
equipe di lavoro.
La valutazione.
Crediamo sia opportuno definire un meccanismo di valutazione o autovalutazione che possa
servire alla verifica dei processi messi in atto e offrire le condizioni per mettere in relazione le
diverse esperienze di laboratorio.
A tale scopo crediamo sia opportuno un incontro, entro i primi dieci giorni di novembre, con i
rappresentanti delle Aree Pedagogiche per costituire lo strumento di valutazione. Tale incontro
potrebbe essere utile per un ultimo confronto di verifica prima dell’avvio dei laboratori.
Equipe.
Equipe composta da Franca Angelillo, Ron Kubati (poi sostituito da Lello Tedeschi, n.d.a.).
Agnese Purgatorio, documentazione fotografica.
Destinatari.
È stata individuata la possibilità di lavorare con un gruppo di detenuti portatori di handicap;
prevalentemente disabili motori su sedia a rotelle.
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Equipe.
Equipe composta da Francesca Lisco, Elio Paoloni, Raffaele Tedeschi.
Agnese Purgatorio, documentazione fotografica.
Condizioni attuali.
L’IP di Brindisi è luogo essenzialmente di passaggio. Pochi detenuti sono in condizione di
permanenza. Il gruppo di detenuti non è stato ancora costituito.
Altri riferimenti
Gli agenti di polizia penitenziaria, che ci sono sembrati numerosi e molto presenti, hanno attratto
la nostra attenzione. Sarebbe per noi molto prezioso poter lavorare con loro, coinvolgerli in uno o
due incontri.
L’area pedagogica e il direttore ci sembra possano essere un ulteriore, preziosa risorsa.
Equipe.
Equipe composta da Francesca Lisco, Elio Paoloni, Raffaele Tedeschi.
Agnese Purgatorio, documentazione fotografica.
Destinatari.
Il gruppo è stato costituito ed è composto da sei persone. Tutti frequentano il Liceo Artistico
interno all’IP. Sono tutti piuttosto giovani, attorno ai trent’anni, tranne una persona più adulta. Si
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sono mostrati tutti molto interessati all’esperienza. Hanno capito che lavoreremo sulle
personalità, sull’identificazione delle persone, sul racconto di sé e degli altri.
Altri riferimenti.
Ci piacerebbe coinvolgere nel laboratorio alcuni agenti di Polizia Penitenziaria, alcuni educatori e
la direzione.
Equipe.
Equipe composta da Franca Angelillo, Ron Kubati, Gianluigi De Vito
Agnese Purgatorio, documentazione fotografica.
Destinatari.
Il gruppo formato è costituito da otto persone. Fra loro alcuni lavoranti. La maggior parte di loro
sono giovani (23/30anni), tranne una persona (53 anni). Nel gruppo vi è uno straniero.
Nonostante non fossero a conoscenza del progetto e dell’ipotesi di partecipare al laboratorio, si
sono mostrati molto interessati e disponibili a partecipare all’esperienza.
Altri riferimenti.
Ron Kubati potrà incontrare un gruppo di detenuti della sezione speciale che hanno già avuto
esperienze di laboratorio teatrale.
Equipe.
Gianluigi de Vito e Agnese Purgatorio saranno presenti nell’ambito del laboratorio destinato alla
sezione femminile per allargare il percorso di indagine avviato nella sezione maschile.
Il laboratorio per il coro.
Per la realizzazione del laboratorio saranno impegnati: Teresa Ludovico, Roberta Carrieri, Loreta
Guario, Agnese Purgatorio, Gianluigi De Vito.
13 incontri di due ore da realizzare al mattino dal 5 novembre al 5 dicembre.
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Le prove e lo spettacolo.
Oltre al personale dei laboratori, ingresso del personale tecnico, degli attori e dei collaboratori
per allestimento, prove e replica dello spettacolo Ecuba. A partire dal giorno 5 dicembre sarà
necessario autorizzare l’ingresso di un gruppo di studentesse del Liceo Ginnasio O. Flacco di Bari.
Due giornate: laboratorio, montaggio scene, prove spettacolo
Tre giornate: prove spettacolo (+ coro Flacco), prove coro (+ coro Flacco)
Due repliche di “Ecuba e i suoi figli” rappresentate il 9 e il 10 dicembre
Dell’esperienza nella sezione femminile presentiamo una documentazione sintetica poiché molto
è stato affidato alle intuizioni della regista Teresa Ludovico e al laboratorio sul coro. Anche i temi
e le modalità di ingresso del gruppo di viaggiatori sono state determinate dall’andamento del
percorso di laboratorio.
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… Del metodo autobiografico nella formazione mi occupo da circa quindici anni, da quando,
grazie all’impegno di elaborazione teorica e di diffusione operativa di Duccio Demetrio e del suo
giovane gruppo di ricerca, cominciò allora a muovere i suoi primi timidi passi nel nostro Paese.
Ho potuto dunque partecipare fin dagli esordi allo sviluppo esponenziale dell’autobiografia
come strategia di ricognizione cognitiva, di educazione della memoria, di conoscenza e cura di
sé; (ri)apprendendo il valore autoapprenditivo, e trasversale ai più diversi contesti, della
scrittura di sé, scoprendo via via anche la possibilità di integrarla-associarla con una
molteplicità di altri linguaggi di matrice estetica ed artistica.
Il prefisso “auto” contiene certamente l’essenza della proposta, rintracciabile nel recupero
pieno della centralità del soggetto, della singolarità incarnata di ciascuno, contro ogni
riduzionismo quantitativo, oltre l’idea che si possa lavorare con e sugli altri senza fare i conti
con la messa in gioco delle reciproche storie.
Si tratta di smettere di lavorare per l’utente “che abbiamo in mente” e provare a chiederci chi sia
quell’utente – in carne, ossa e storia – che abbiamo davanti. Perché ci sono ancora troppe persone
raccontate da altri, che non riescono a parlare, a dirsi, a raccontarsi.
Fare autobiografia educativa implica condividere, com-promettersi, modificare profondamente
la qualità dello sguardo e dell’ascolto. Interrogare le motivazioni e le finalità etiche del proprio
impegno professionale. Ma andiamo per ordine. Con un po’ di storia.
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