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Maria D’Ambrosio
di entrare e di conoscere il progetto Teatro Scuola Vedere Fare per-
GRAFIEGICHE
ché la sua complessità e articolazione, nonché la sua storia e quin-
di quella del gruppo teatrale “Le Nuvole” insieme a quella di “Casa
del contemporaneo”, “Agita”, “Casa dello spettatore” e “Fondazio-
ne spettacolo arte territorio”, danno l’idea evidente di un lavoro di
equìpe, di un necessario lavoro corale, che ha l’ambizione di farsi
veicolo di innovazione sociale. Un progetto che dà opportunità di
COD. T
ISBN 978-88-207-6799-0
LIGUORI
e 11,99 9 788820 767990 EDITORE
Cartografie pedagogiche
Collana diretta da
Fabrizio Manuel Sirignano e Pascal Perillo
fondata da
Elisa Frauenfelder e Ornella de Sanctis
La Collana Cartografie pedagogiche rappresenta lo sviluppo del volume annuale Quaderni F.
Cartografie pedagogiche, nato nel 2007 e ideato da Elisa Frauenfelder nel Laboratorio di
Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, con
l’intento di dare voce alla giovane ricerca educativa, nazionale e internazionale.
Fabrizio Manuel Sirignano e Pascal Perillo, ereditando lo spirito dei Quaderni F, che per la
loro Maestra significava Quaderni della Formazione, continuano con questa Collana a per-
seguire l’obiettivo di documentare la ricchezza e la pluralità degli studi e delle ricerche nel
campo dell’educazione e della formazione, con particolare attenzione a quelle proposte che
colgono le dimensioni più attuali del nostro tempo complesso e in continuo mutamento. Si
accolgono, pertanto, pubblicazioni tese ad aggiornare progressivamente la cartografia degli
studi che configurano l’articolato panorama della pedagogia, tanto sul piano teoretico-
fondativo ed epistemologico-metodologico quanto sul piano empirico. I volumi pubblicati
nella collana, dunque, oltre ad alimentare il dibattito della pedagogia contemporanea, si
rivolgono a studenti di educazione e formazione, educatori, pedagogisti, insegnanti delle
scuole di ogni ordine e grado e a tutti coloro i quali sono indirizzati e/o interessati ad ap-
profondire questioni di natura educativa e formativa.
Cartografie pedagogiche
Maria D’Ambrosio
Liguori Editore
Con il contributo di
Liguori Editore
Via Posillipo 394 – I 80123 Napoli NA
http://www.liguori.it/
D’Ambrosio, Maria :
Teatro Scuola Vedere Fare. Spazi pratiche estetiche per una poetica pedagogica/
Maria D’Ambrosio
Cartografie pedagogiche
Napoli : Liguori, 2019
ISBN-13 978 – 88 – 207 – 6799 – 0
Ristampe:
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27 26 25 24 23 22 21 20 19 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0
La carta utilizzata per la stampa di questo volume è inalterabile, priva di acidi, a ph neutro, con-
forme alle norme UNI EN Iso 9706 ∞, realizzata con materie prime fibrose vergini provenienti
da piantagioni rinnovabili e prodotti ausiliari assolutamente naturali, non inquinanti e totalmente
biodegradabili (FSC, PEFC, ISO 14001, Paper Profile, EMAS).
INDICE
VII
All’Edenlandia purtajemo n’Inferno
no de Dante, ma re guagliunera
cu la passione viva de lu scherno
e li suonne all’uocchie de chi spera.
In platea ’nce stevano li scole
ca contro a lloro gariggiate avevemo
e ce vulevano lincia’ cu na mazzola
e nuje cacate sotte ce futtevemo.
VIII
PREFAZIONE
di Maria Grazia Riva
IX
tro quella forma non disciplinare che chiama l’attore a dare forma alla
vita del personaggio, esponendosi per gioco allo sguardo inverante di un
altro. L’interesse per le diverse forme-scuola e forme-teatro evidenzia
l’attuale possibilità di dare forma a uno spazio di intervento che è anche
spazio di ricerca e setting per un lavoro clinico che investe i professionisti
dell’educazione che, come artisti in scena, ripresentano esperienze per
produrre nuovi significati. Si tratta come di entrare e svelare un teatro
interiore, dando voce ciascuno ai propri antenati sentendosi dentro dei
legami che guidano, sollecitano oppure opprimono. Il teatro è quella for-
ma di Scuola Attiva dove la messa in scena è parte di rappresentazione
che è soprattutto costruzione, o più propriamente, co-costruzione, e che
consente di ‘lavorare’ il concetto di Teatro e quello di Scuola nella loro
comune matrice intersoggettiva, permettendo all’attore di cogliere il suo
essere, al contempo, soggetto e oggetto di osservazione. Pertanto Teatro e
Scuola si propongono come territori dove l’osservazione è categoria fon-
dante il fare e il pensare e dove si fa spazio ad una riflessione pedagogica
che, con Dewey, fa risuonare l’educazione con la comunicazione. Lungo
la stessa traiettoria epistemologica, il Teatro è parola-chiave da intendersi
come metafora e come pratica sociale che dà forma alla Scuola Attiva e
propone il vedere-fare anche come segno di una scelta metodologica che
spinge a realizzare incontro, dialogo, relazione, senza omologazione né
con-formazione.
L’eredità di Riccardo Massa e dei suoi studi sul rapporto tra teatro, edu-
cazione, formazione e pedagogia ritorna e rivela la natura extra-ordinaria
tanto del teatro quanto dell’educativo e della formazione. Si tratta di
un’eredità connessa a quella genealogia di studi cui si deve la sovrap-
posizione di teatro e scuola in quanto dispositivi pedagogici attraverso
cui ripensare all’attore e alla scena, ovvero al loro rapporto vitale, come
condizione per tornare alla ‘realtà’, essendo in grado di lasciar traccia
ed emergere sulla scena come Darstellung. L’azione in scena dimostra
il superamento della irrappresentabilità del teatro interiore e l’apertura
ad un lavoro sul simbolico e il linguistico che fa dell’azione quel piano
oggettuale attraverso cui è possibile una transazione.
In questo testo compaiono o sono sottesi grandi maestri del teatro del
Novecento insieme ai maestri del pensiero che hanno animato la ri-
flessione filosofica e pedagogica novecentesca: la loro ‘presenza’ aiuta
a rileggere l’educazione e la formazione, parimenti alla messa in scena,
come processi complessi e quindi non riducibili a questa o quella di-
mensione – il testo/programma, il regista/maestro, l’attore/allievo – per
X
poterli figurare nell’insieme come sistemi o ‘apparati simbolici’. La loro
metodo-logica può dirsi co-costruttiva e preparare a decostruire/rico-
struire altri apparati, macchine, giochi, necessari all’esperienza formativa
e alla sua ‘umanità’. Il teatro suona quindi come apparato, macchina,
gioco, che rivela quello che Althusser chiamava ‘circuito e reticolo re-
lazionale’, e che si dà come ‘oggetto’ dentro cui la scienza pedagogica
può afferrare, comprendere e legittimare la materialità educativa e la sua
consistenza agente-agita. L’arte e la pratica teatrale sono proposti lungo
tutto il testo come quello spazio in cui il sapere pedagogico s’apre alle
questioni metodologiche, alla performance, alla rappresentazione (Dar-
stellung) e sostanzia la praticabilità, pure mobile, obliqua e rarefatta, di
una epistemologia che è ricerca clinica e di un pensiero che è critico,
riflessivo, comprendente. L’educazione non è risolta né dissolta nelle
questioni tecniche o di ‘metodo’. L’educazione, come la pedagogia, si
prende lo spazio necessario per fare della ‘scena’ la metafora per unire
arte e scienza utilizzando corpo, materia e simbolo in un pensare-fare
che è anche vedere-fare e si qualifica come tratto contemporaneo di una
epistemologia incorporata nell’agire prassico ermeneutico. Pertanto tea-
tro e scuola sono riattraversati da una sguardo pedagogico che restituisce
senso e necessità alla comunità, così da fare spazio alla formazione come
a quel processo continuo e transgenerazionale che chiama ad una poetica
e ad una progettualità come stato permanente del vivente. Uno spazio
dunque che riguarda l’umano, la sua situata soggettività, che della for-
mazione afferma l’importanza, appunto, della formazione dei formatori
e che elegge il teatro ad habitat o ambiente educativo e riconfigura la
scuola come comunità di maestri e allievi, il cui esito è ascrivibile ad una
certa pedagogia degli ambienti educativi (Gennari, 1997).
Bibliografia
Canguilhem, G., 1963, Dialectique et philosophie du non chez Gaston Ba-
chelard, «Revue Internationale de philosophie»; trad. it. in: AA. VV., Ca-
hiers pour l’analyse. Scritti scelti di analisi e teoria della scienza, Torino, Bo-
ringhieri, 1972.
Gennari, M., 1997, Pedagogia degli ambienti educativi, Roma, Armando.
Massa, R. 1997, Cambiare la scuola. Educare o istruire?, Roma-Bari, La-
terza.
Winnicott, D., 1971, Gioco e realtà, tr. it., Roma, Armando Editore, 2006.
XI
NOTE PER I LETTORI
CON RINGRAZIAMENTI
XIII
so fondamento, verso il formante. Il formante che è concetto-chiave per
ripensare l’essere e lo spazio/mondo attraverso il gesto performativo del
prendere e dare forma. Essere come formante e spazioFormante attraver-
sati dal pedagogico e dalla sua dimensione poietica, emergono da una
ricerca, che è postura epistemologica necessaria al sapere/agire pedago-
gico, e incarnano la generatività dell’agire e la necessità di accrescerne il
potenziale comunicativo che fa coincidere il concetto di vita con quello
di teatro e quello di azione con interazione. Senza la macchina finzionale,
senza l’immaginazione, senza l’incontro, la vita sarebbe solo un ‘nastro’
– come l’Ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett (1957) – mentre la
tessitura e l’intreccio, come già nel nostro codice genetico, sono la con-
dizione di un divenire non già definito dal copione ma che emerge dalla
presa perturbante cangiante e mobile e si dà come manifesto inafferabi-
le accadere. Il corpo, a scuola come a teatro, è splendore, è apparenza
annodata e poi strappata e ricucita, è voce risonante mischiata ad altri
voci e suoni il cui moto smuove altri corpi con-fusi e con-giunti a fare la
differenza, a fare il molteplice della comunità.
Il corpo di questo libro e le voci che custodisce disegnano un movimen-
to circolare che s’apre e chiude con Mimmo Borrelli, con la sua lirica
potente che non è scrittura, né letteratura, ma voce e canto. Lirica: l’im-
provviso possibile sacro del teatro. Dove c’è spazio solo per la necessità e
dove pure gli eccessi, lo strabordare di quella voce e di quel canto, sono
l’esatto punto da cui s’apre un’altra possibile strada da percorrere. Op-
pure è solo il richiamo che fa il canto che rivela il cammino del poeta: di
quell’alunno di liceo che proprio a scuola col suo prof ha incontrato il
teatro e poi, inquieto, non lo ha più lasciato.
Con questo libro aspetto il buio vuoto del primo passo, come quello cui
ci fa tornare Mimmo Borrelli, per ringraziare i maestri e le maestre con
un inno alla gioia di averli incontrati e al volerne incontrare ancora.
XIV
A Lucia Latour, alla sua ricerca e alla sua danza che tanto muovono il
mio parkour.
Alla pazienza di Maria Liguori e alla cura nell’ospitare un altro mio vo-
lume nella casa editrice Liguori.
Ai dialoghi intessuti con Ornella De Sanctis. Le trame fitte.
A Rena Mireska, a Ewa Benesz, a Vincenzo Pennella, ad Alfred Bu-
chholtz e al mio teatro con loro.
Alle guide preziose di Enrico Corbi, Fabrizio Sirignano, Vincenzo Sar-
racino.
A Maria Grazia Riva per la vicinanza.
A Jole Orsenigo e alle nostre affinità elettive.
A Vincenzo Moretti e alla sua cura per un #lavorobenfatto
A tutte le insegnanti e ai loro alunni e alle famiglie, alle loro scuole, alle
compagnie, agli attori e agli organizzatori. Alle luci che si sono accese e a
tutto il buio e il silenzio che è servito a far splendere bellezza.
A Stefania Maraucci e al Teatro Stabile di Napoli.
All’ospitalità di Stefania Di Bartolomeo e della sua bella famiglia cilen-
tana.
Al tempo passato in scena e agli incontri del gruppo ‘embodied educa-
tion’ a Casa Morra da aprile 2018.
All’estate.
Al sole.
Al mare.
Alle capre cilentane e a quelle sarde.
Ai guerrieri giganti di Tharros.
A tutto quello cui ho rinunciato per scrivere, appuntare, studiare, cer-
care.
A tutto quello che sto ancora cercando.
XV
TEATRO SCUOLA VEDERE FARE
Spazi pratiche estetiche
per una poetica pedagogica
INTRODUZIONE
Per una poetica delle nuove generazioni
1
Il progetto ideato e avviato nell’anno scolastico 2014-2015 da le Nuvole – coopera-
tiva attiva dal 1985 nel campo delle arti, della scienza, della cultura (www.lenuvole.
it) – e da Agita (www.agitateatro.it) – associazione che dal 1994 promuove la cultura
teatrale-artistica nella scuola e nel sociale. Al progetto si sono uniti, come partner,
Casa del Contemporaneo (www.casadelcontemporaneo.it) – centro di produzione
teatrale – e Casa dello spettatore (www.casadellospettatore.org) – associazione che
si occupa della formazione dello spettatore. Teatro Scuola Vedere Fare è un progetto
rivolto a classi di scuola primaria e secondaria di primo e secondo grado con sede
nella Regione Campania, articolato in: attività di formazione dei docenti a teatro; vi-
sione a teatro di spettacoli di professionisti; attività di laboratorio teatrale a scuola con
operatori teatrali e realizzazione di uno spettacolo; presentazione e visione a teatro,
in una rassegna dedicata (Maggio all’infanzia – ideata e realizzata dalla Fondazione
SAT Spettacolo Arte Territorio a Napoli al Teatro dei Piccoli e a Bari e Matera) degli
spettacoli prodotti attraverso i laboratori teatrali realizzati nelle scuole dalle classi
partecipanti.
3
rispondere alla costruzione di una comunità che emerga da un processo
virtuoso di partecipazione, formazione, produzione, fruizione, riflessio-
ne e sperimentazione continua, capace di trasformare ciascun dirigente,
docente, alunno, genitore e familiare, organizzatore e operatore teatrale,
compagnia e artista professionista, esperto, attore e studioso/ricercatore,
in cittadino e quindi attivo/attore/poeta. Un progetto ambizioso, dunque,
che esplicita la necessità sempre attuale del fare formazione e del fare
arte. E un progetto che dà occasione di cogliere la “poetica delle nuove
generazioni” come focus a chi, come me, osserva il progetto a posteriori
nella sua articolata struttura per rintracciare una metodologia che attra-
versa quello che il progetto ha generato in questi anni: una metodologia
che si incrocia con quanto viene espressamente dichiarato dai curatori
e con quanto è stato realizzato concretamente nei percorsi attivati e nei
risultati condivisi, che proverò a ripercorrere nel testo in forma di rifles-
sione perché ciascuno poi possa “scoprire nuovi modi di fare scuola e
fare teatro”. Una scoperta che continua oltre il progetto e oltre il libro,
questo libro, che lo racconta. Perché per ogni nuovo modo di fare scuola
e di fare teatro realizzato da qualcuno si aprono infinite altre possibili-
tà di sperimentare il nuovo, proprio grazie ad una tensione poetica che
attraversa l’agire scolastico e l’agire scenico: tensione poetica con cui
guardare a ciò che è già accaduto e soprattutto con cui muoversi per
l’avvenire. Parlo e sottolineo la dimensione poetica perché non si tratta
di presentare qui ‘modelli’ da applicare e replicare ma di tornare sul pro-
getto, che peraltro prosegue e si rinnova anche mentre scrivo e andiamo
in stampa, e di individuare quelle azioni e quelle poetiche di cui volersi
fare attori, nel presente scenico della vita. Una vita di cui si recupera il
vedere e il fare come ‘momenti’ di un unico processo che è il vivere stesso
e il suo divenire, perché vedere e fare sono recuperati come parte di una
metodologia che può definirsi pragmatica ed estetica, agita trasformando
lo spazio in ‘scena’: e perché uno spazio si faccia ‘scena’, quel fare deve
porgersi come dono/comunicazione, offerto allo sguardo altrui che a sua
volta ‘opera’ su quanto vede e ne fa artefatto di cui è artefice. Vedere e
Fare, come spettatore e attore, allievo e maestro, sono due differenti ma
correlate ‘posizioni’ che ciascuno deve assumere per formare/formarsi
e per conoscere/conoscersi ad arte. E l’Arte, quella che si qualifica come
esperienza, chiede di tornare a Dewey (1934) per ‘mutare scena’, per
uscire dal retorico e spesso non più sensato uso delle parole e delle cose,
per rintracciare ed esplorare altre forme del comunicare, per dare voce al
pensiero, per farsi spazio secondo altre grammatiche plastiche. L’autore-
4
volezza di Dewey fa tornare ad una Pedagogia rivolta al contemporaneo,
e ritrovare autori con cui sentirsi in dialogo. Infatti, lungo il percorso
tracciato in questi anni ad occuparmi dell’arte del formare e del fare te-
atro, vedo il progetto Teatro Scuola Vedere Fare e i suoi partecipanti come
concreta occasione per parlare di una esistente comunità di pratica ca-
pace di vedere e fare del Teatro-Scuola un’opportunità per “cambiare la
scuola” (Massa, 1997). La ‘lezione’ di Riccardo Massa s’è tramutata in
esperienza e la scuola in un teatro fuori dall’ordinario che crea discon-
tinuità con l’ordinario della vita quotidiana, che mette sempre tutto in
dubbio e in forma di festa, e chiede a ciascuno di mettersi in gioco con le
proprie domande di senso, per aiutare a far crescere un maggiore senso
di responsabilità e di consapevolezza in chi si forma. Una ‘lezione’ che
s’è messa in opera. Teatro pedagogico e teatro educativo sono etichette
che metto da parte perché parlo di teatro e di educazione/formazione
in senso pieno, come territori di ricerca sulla relazione e sulla comuni-
cazione umana. Parlo di teatro alludendo già alla sua costitutiva cifra
pedagogica. E parlo di scuola nello stesso senso perché a mio avviso c’è
scuola dove si realizzano incontri che generano relazioni significative e
producono nuove storie. In questa prospettiva, il progetto Teatro Scuola
Vedere Fare mostra come, tanto a scuola quanto a teatro, si possa mettere
in luce la connessione tra comunicazione e formazione per riconoscere
in ogni fenomeno o evento, in posizione di soggetto o di oggetto che sia,
la dimensione estetica e quella etica dell’esistere e dell’agire. Osservare
e ripercorrere il progetto Teatro Scuola Vedere Fare è dunque occasione
per condividere ed estendere una esperienza locale con quanti si collo-
cano lungo la traiettoria di una pedagogia dell’arte che è sintesi di una
necessaria e opportuna unità teoria-prassi, consapevoli di muoversi in
senso circolare e multiverso, percorrendo e generando la stratiforme uni-
tà riflessione-azione-riflessione, in process. Il cambiamento cui guardava
Riccardo Massa è cambiamento in atto e passa per chi lo opera. E questo
testo lo testimonia. Un’esperienza locale diventa racconto perché la sua
epica non è da super-eroi, né da nostalgici di una qualche rivoluzione,
ma perché testimonia di una scuola e di un teatro che si sono incontrati
per rinsaldare la centralità del progetto pedagogico che ne fa istituzioni
di ogni tempo. Il testo dunque è la ‘messa in scena’ di una riflessione e di
una ricerca metodologica che mi vede attiva in ambito pedagogico e in
un’ottica transdisciplinare umanistica da molti anni e che ha l’ambizione
di interrogarsi sul nesso teoria-prassi per farne emergere una vocazione
alla sperimentazione e alla metodologia come necessità del fare ricerca,
5
del fare formazione, del fare ricerca artistica e del fare arte per la ricerca
pedagogica.
E, nel nome della ricerca pedagogica e artistica, propongo al lettore di
entrare e di conoscere il progetto Teatro Scuola Vedere Fare perché la sua
complessità e articolazione, nonché la sua storia e quindi quella della
cooperativa Le Nuvole con Casa del contemporaneo e con le associazioni
AGITA e Casa dello spettatore e con la Fondazione Spettacolo Arte Territo-
rio, danno l’idea evidente di un lavoro di equìpe, di un necessario lavoro
corale, che ha l’ambizione di farsi veicolo di innovazione sociale. Un
progetto dunque che ci dà opportunità di ripensare alle due macchine
dell’apprendimento, Teatro e Scuola, e di aprirne le architetture e gli
orizzonti, lasciando che respirino e si muovano verso La strada che non
andava in nessun posto raccontata da Gianni Rodari2, perché si sa che
“certi tesori esistono soltanto per chi batte per primo una strada nuova”.
Il nostro tesoro è la formazione al tempo di un Nuovo Umanesimo, la
formazione che può generare trasformazione ma che esiste solo se se ne
diventa parte. E così Morena Pauro, Salvatore Guadagnuolo e Giorgio
Testa – rispettivamente per Le Nuvole-Casa del Contemporaneo, per AGI-
TA e per Casa dello spettatore – scrivono ai potenziali interlocutori del
progetto Teatro Scuola Vedere Fare proponendo loro “Un’educazione al te-
atro e alla teatralità (che) impone una visione pedagogica del ‘fare’ anche
attraverso la visione degli spettacoli di teatro professionale che diventa la
naturale e giusta sintesi/verifica di un percorso di crescita sociale e cul-
turale”. Un percorso, come La strada che non andava in nessun posto, che
invita a muoversi, a mettersi in cammino, lungo tutto l’anno scolastico,
a essere in azione, perché solo attraverso l’agire e il senso che lo nutre si
costruiscono mondi e si dà forma alla historia 3.
2
La strada che non andava in nessun posto si trova in: Rodari, Gianni, 1971, Favole al
telefono, Torino, Einaudi.
3
Stòria (ant. o letter. istòria) s. f. [dal lat. historia, gr. ἱστορία, propr. «ricerca, indagine,
cognizione» da una radice indoeur. da cui il gr. οἶδα «sapere» (e ἴστωρ «colui che sa») e
il lat. vid- da cui vĭdēre «vedere»]- (Vocabolario Treccani).
6
Quale Teatro e quale Scuola.
Per una decostruzione del dispositivo educante
7
riapertura del teatro, del Teatro dei Piccoli, è uno dei tasselli, e più propria-
mente quello spazio, attorno a cui la visione ha potuto diventare progetto
e prendere corpo con una proiezione lunga nel tempo.
La voce di Winnie-Morena che risuona sin da quando il Teatro dei piccoli
era solo un cantiere, è poi, ora, quello spazio fisico che concretamente
consente di tornare a riflettere sul Teatro e sulla Scuola perché ci interes-
sa la loro quotidiana pratica di farsi ambiente extra-ordinario. Ambienti
extra-ordinari, la Scuola e il Teatro, di cui ci interessa l’azione finzionale/
scenica e l’azione formante, la loro prassi e le loro liturgie fondate su
un training quotidiano che per essere efficace, per il Teatro come per la
Scuola, deve ripetersi e trovare, proprio nella ripetizione – mai vana e mai
uguale a se stessa – la spinta rigeneratrice del giorno nuovo. La Winnie
di Giorni felici sa guardare oltre le sue difficoltà e proiettarsi nel futuro di
quel giorno che vede felice; e così guardo alla vitalità del Teatro e della
Scuola perché come Winnie, possiamo rintracciare e far emergere quella
speciale capacità di rinnovarsi e di sfuggire alle convenzioni consolidate
che è del Teatro e della sua antica funzione sociale, pure formante, che ne
fa uno spazio e una pratica necessari. Il Teatro – che è azione finzionale/
scenica/formante – è necessario perché è quello spazio dove la realtà è
trasfigurazione, artificio, immaginazione; uno spazio dove si generano
forme di realtà differenti perché relative all’eroe e al suo speciale sentire-
immaginare-agire che prende corpo sulla scena e può farsi veicolo di
conoscenza: in questo senso penso al teatro come veicolo dell’esperien-
za dell’oltre-passamento necessaria al conoscere. Parlo, cioè, del Teatro
come di quella speciale macchina estetica dalle origini antiche che rende
il vedere-sentire-agire un dispositivo pedagogico la cui metodologia è
incarnata nel corpo e nel rapporto che quel corpo costruisce con lo spa-
zio/scena/mondo e con l’altro. Si tratta, come per Winnie, di un corpo
capace di rendere attuale la sua esperienza del mondo, mutandolo. A
questo proposito in Rifare la filosofia, Dewey ricorda che “Il vero metodo,
quello che Bacone avrebbe introdotto, è paragonabile all’attività dell’ape
che raccoglie materia prima dal mondo esterno come la formica ma, di-
versamente da lei, intacca e modifica la materia raccolta per farne uscire
il tesoro che vi è celato” (Dewey, 1920, p. 45). Le api di Dewey e la Win-
nie di Beckett incarnano la “logica della scoperta” (Dewey, 1920) che fa
danzare il già noto con l’ignoto e preferire la via delle arti (del produrre
opere) a quella delle scienze (quando queste coincidono con un intrinse-
co dogmatismo dottrinale che confonde la conoscenza, essa stessa opera,
con natura e verità). Con Dewey e con Beckett ‘abitiamo’ il XX secolo: il
8
pensiero pedagogico e la drammaturgia teatrale si attualizzano rinnovan-
do e rigenerando il sapere millenario di cui sono consapevolmente eredi,
di fatto aprendo la strada a quel cambiamento cognitivo che oggi ci fa
guardare a Marte come alla Nuova America, al Nuovo Mondo, a quelle
nuove e altre traiettorie da tracciare per sentirci esploratori/osservatori
di altre e possibili realtà. Dewey e Beckett segnano importanti passaggi
che conducono più che ai concetti di realtà, conoscenza, mondo, alle
loro mutevoli variazioni e stratificazioni: come a delineare un elogio della
mobilità e della variazione che cerca un corpo per far presente, svelare,
render manifesto, un nuovo ordine del pensiero che prova ad emancipar-
si dalla metafisica e si ‘realizza’ attraverso l’opera che è l’uomo stesso, il
suo conoscere, il suo agire. Logica della scoperta e della variazione che
il progetto Teatro Scuola Vedere Fare aveva ben presenti e che ha tradotto
in una articolazione che è diventata innanzitutto una tessitura stretta
tra Teatro e Scuola per cucire e ridefinire un territorio, per scambiare
e condividere pratiche, luoghi, rituali, così che il formale e l’informale,
l’artistico e lo scolastico, lo scolastico e l’extrascolastico, si riconfiguras-
sero insieme come un altro giorno felice.
Nel 1916, con il suo Democrazia e educazione, John Dewey parlava dell’e-
ducazione così come la Huppert, a distanza di un secolo e citando Be-
ckett, parla del Teatro: educazione/Scuola e Teatro sono ‘spazi’ di cui l’u-
manità ha avuto sempre bisogno per rigenerarsi, per variare, per mettere
in crisi e dubitare dello stato apparentemente immutabile e ripetitivo
delle cose. E l’umanità è Winnie che prende voce e guarda ad un altro
giorno felice testimoniando la necessità di unire la volontà, l’intenzione,
l’ideale, alla materialità, alla concretezza, alle cose che diventano ‘ope-
re’. Quella che Winnie incarna è un’Umanità senza la forza dell’autorità
superiore, come Antigone, la cui vitalità è ‘traccia’ della dimensione po-
ietica dell’essere-nel-mondo: vitalità che è dell’attore che, fuori dall’or-
dinario, come tutti gli artisti, i filosofi e gli scienziati, ‘fa scuola’ di fare-
pensare e traccia le linee di una ricerca di cui è importante il processo più
che l’esito come destino. Così, in un giorno di festa per il teatro, la Hup-
pert sottolinea la capacità di darsi come festa, come un altro giorno felice:
quello che Grotowski chiamava Swieto (parlando del parateatro, più che
del teatro). Swieto: il giorno che è santo. Holidays. La festa, appunto, so-
vrapposta all’idea stessa di Teatro, per sfuggire a un ideale monumentale
e celebrativo e recuperare “nel mondo vivente, il corpo vivente”.
E proprio nel senso del vivente, di chi partecipa del suo tempo col proprio
corpo e la sua spinta vitale, rileggo il messaggio della Huppert e il suo
9
riferimento a Beckett, alla sua Winnie che nella finzione scenica di Giorni
felici si trova sepolta fino alla vita e poi fino al collo in un cumulo di sab-
bia, perché io stessa vi riconosca la permanente necessità di una deco-
struzione (Derrida, 1967), di un dissenso che attraversi anche il pensiero
pedagogico (Mariani, 2008) per assumere una postura critica soprattut-
to verso il potere autoritario del logos, verso la sua unitaria totalità defini-
toria che esclude la differenza e induce alla “spartizione nell’atto stesso
del sentire” (Derrida, 1967, p. 49). Derrida compie questa ‘operazione’
attraverso il teatro della crudeltà di Antonin Artaud ricordando che “È la
pratica teatrale della crudeltà che, nel suo atto e nella sua struttura, abita
o meglio produce uno spazio non-teologico” (Derrida, 1967, p. 303). Il
teatro è la pratica attraverso cui lo stesso pensiero pedagogico può pren-
dere corpo in forma di pedagogia del teatro-scuola. La pratica teatrale
(della crudeltà per Artaud, come dell’assurdo di Beckett) suggerisce una
‘rottura’ possibile con l’asservimento ad un ‘padrone’, ad un’autorità su-
periore, e instaura una modalità ‘produttiva’, attiva, emancipatoria, di
agire il mondo, di viverlo, di abitarlo. Il Teatro e la concretezza della real-
tà scenica impongono un uso disciplinato dell’azione. Si tratta di affinare
tutti gli strumenti disponibili, e il corpo ne possiede tanti, perché l’azione
si faccia opera e sia in grado di essere condivisa. Derrida aveva messo in
guardia sostenendo che “La scena è teologica fin tanto che è dominata
dalla parola, da una volontà di parola, dall’intenzione di un logos primo
che, pur non facendo parte di un luogo teatrale, lo guida a distanza. La
scena è teologica finchè la sua struttura comporta, secondo l’intera tra-
dizione, i seguenti elementi: un autore-creatore che, assente e da lontano,
impugnando un testo, sorveglia, riunisce, e domina il tempo e il senso
della rappresentazione lasciando che quest’ultima lo rappresenti in ciò
che viene chiamato il contenuto dei suoi pensieri, delle sue intenzioni,
delle sue idee” (Derrida, 1967, p. 303). La sapienza dell’attore si realiz-
za nella sua performance, sulla scena, quando cioè ne è autore-creatore
sottratto al mero apparire e denso della sua carnale simbolica. Rifuggire
dalla “scena teologica” vuol dire scegliere una postura critica verso la
mera trasmissione, e quindi prepararsi attraverso una pratica quotidiana
ad esercitare la propria ‘autorialità’ e a farsi artigiani del sapere e scultori
del sé (Onfray, 1993). La postura autoriale e critica implica responsabilità
– quella che con Artaud diventa “trionfo della messinscena” e che la pe-
dagogia auspica come fine di ogni azione formante – così non si rimane
fermi al testo e a ciò che è già scritto e detto. Attraverso l’azione scenica
si ‘tradisce’ il testo, la parola, la letteratura, e si partecipa in maniera ‘sen-
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sibile’, attiva e non voyeristica, al testo. Ovvero, ci si prepara, ci si allena,
si lavora, come le api, per poter trasformare ciò che si è colto in azione,
in frutto, in deliziosa opera fatta perché ne possano godere anche gli altri.
E come le api, con i ‘maestri’ di cui mi sono nutrita, arrivo a riconoscere
nella scena quello spazio-alveare dove il lettore/spettatore/alunno è per-
former e produce ‘opera’: quello spazio ha molte forme ed è la Scuola
fatta Teatro. Il Teatro – quello che rifugge dalla rappresentazione e dalle
sue intenzioni servili, da quel “Rappresentare per mezzo dei rappresen-
tanti, registi o attori, interpreti asserviti che rappresentano personaggi
che, prima di tutto con quello che dicono, rappresentano più o meno
direttamente il pensiero del ‘creatore’. Servi che interpretano, eseguo-
no fedelmente le intenzioni provvidenziali del ‘padrone’. Il quale d’altra
parte […] non crea nulla, si dà solo l’illusione della creazione poiché non
fa che trascrivere e offrire da leggere un testo la cui natura è anch’es-
sa necessariamente rappresentativa, poiché conserva con quello che si
chiama il ‘reale’ […] un rapporto imitativo e riproduttivo” (Derrida,
1967, p. 303) – quel Teatro coincide con un certo tipo di Scuola perché
rende praticabile il pedagogico come l’umano trasformare/trasformarsi
in quanto creatura vivente (Dewey, 1934). E proprio spinto da quella
postura critica verso la “scena teologica”, mi appare il progetto Teatro
Scuola Vedere come strutturato in direzione del “trionfo della messinsce-
na”: la stagione teatrale, il cartellone, la scelta delle compagnie e degli
spettacoli, si uniscono ad altre ‘scene’, a quelle degli incontri seminariali,
ai laboratori fatti a scuola, a tutto il resto, perché pensato organicamen-
te come veicolo di una proposta culturale che si allea ad una proposta
formativa per superare una logica della ‘trasmissione’ e attivare quel-
la poetica, quella dell’ape. Senza attendere investiture dall’alto e confi-
dando nell’attiva autonomia della Scuola, il progetto Teatro Scuola Vedere
Fare ha aumentato la posta in gioco individuando quattro macro-aree
di intervento: la formazione degli insegnanti a teatro (con la didattica
della visione), la visione degli spettacoli a teatro, le attività laboratoriali a
scuola con la produzione di una ‘comunicazione finale’, la presentazione
della comunicazione finale in una rassegna dedicata (Maggio all’infan-
zia). Ciascuna area di intervento pensata come organica parte di un per-
corso unico e complesso attraversato da una logica laboratoriale, perché
tutti potessero situarsi e collocare il proprio agire in ambiente-Scuola
e in ambiente-Teatro e perché Scuola e Teatro potessero sentire la loro
comune necessità di farsi ambiente formante utilizzando il potere rige-
nerativo e straniante dell’arte e dei suoi tanti codici. L’architettura del
11
progetto Teatro Scuola Vedere Fare è aperta perché a Teatro si può fare
Scuola e a Scuola si può fare Teatro, mescolando le carte e mobilitando
saperi e pratiche in continua condivisione e trasformazione così che dalla
singolarità e l’unità – degli spazi, dei ruoli, delle persone, degli oggetti,
dei significati – si possa passare al plurale, al molteplice, e tracciare un
percorso leggibile come costruzione di una comunità. In questa apertura
rintraccio quindi una pratica teatrale che informa quella pedagogica e
viceversa, nella direzione di una necessaria ‘infedeltà’ con cui incarnare
una postura epistemologica comune all’una e all’altra ‘scena’: postura
che definisco critica e che costituisce elemento distintivo e originario per
comprendere in quale rapporto siano Teatro e Scuola. Teatro e Scuola
che si riconoscono nel principio dell’autonomia e della partecipazione:
quello che rende ancora tutto da compiere il progetto di una ‘scuola at-
tiva’ e di un ‘teatro di ricerca’.
12
dell’insegnante se vuole farsi ‘attore’ del suo percorso. Il corpo, e in pri-
mis quello dell’insegnante, è chiamato ad esserci per ‘leggere’ e attuare
in pieno la partitura di Teatro Scuola Vedere Fare. Il corpo che attraversa
il percorso non è anonimo, non è un dispositivo meccanico, ma una re-
altà dinamica di natura bio-meccanica-estetica e psico-socio-culturale la
cui mobilità e cinetica è vista come prima modalità di interazione con il
mondo (mondo-scuola, mondo-teatro, mondo-di-vita) che può assume-
re qualità pedagogica e valenza formativa anche quando la sua ‘posizio-
ne’ è di spettatore. Infatti nella sintesi del progetto Teatro Scuola Vedere
Fare, si dichiara che “la visione di uno spettacolo teatrale debba essere
il centro di un percorso che mobiliti conoscenze, domande ed emozioni
e (sia mosso) dalla consapevolezza che “imparare a vedere” è il risulta-
to di un processo, (per il quale) si propongono – a partire dai titoli del
cartellone teatrale (…) – pratiche e strumenti didattici per la formazione
del docente che vorrà inserire la visione di spettacoli teatrali nel proprio
programma scolastico”1.
Pertanto, raccolto l’invito di Isabelle Huppert ad essere Winnie, si può
comprendere il dramma di chi proprio come Winnie si ritrova in un
corpo immobile cui la parola, però, la sua voce usata in quanto mate-
ria sonora e spinta oltre quel corpo, è in grado di superare la propria
condizione di immobilità e si proietta in un altro giorno felice! Il corpo
immobile è di Winnie nella finzione ma è anche quello della scena pe-
dagogica attuale e della pratica scolastica nello specifico: un corpo che
trova difficoltà ad uscire dal proprio confine materiale e connettersi a
quello cognitivo che pure dal corpo emerge. Un corpo che deve trovare
il modo per tornare, come la voce, a farsi mobile, a realizzare la propria
condizione vitale di materia sonante/danzante e in divenire per ricono-
scere il pedagogico come essenza costitutiva di quel corpo che a Teatro
come a Scuola deve tornare ad agire attraverso tutte le forme possibili, e
a trovarne, sperimentarne, sempre di nuove. Di altre. Differenti. Perché
nella forma nuova c’è vita nuova e possibilità di esistere e di comunicare
(e non semplicemente di esprimersi). L’immobilità del corpo di Winnie
urla, silente, la necessità di restituirlo alla sua vitale mobilità, e usa la
scena per suggerire come ‘operare’ questa svolta verso l’azione, verso il
gesto, anche quando si tratta di usare le parole.
Avvertire questa immobilità come elemento critico e non-vitale, ha si-
gnificato per il progetto Teatro Scuola Vedere Fare smuovere l’asse vertica-
1
http://www.lenuvole.it/teatro-scuola-vedere-fare/
13
le della Scuola chiedendo agli insegnanti di farsi corpo-docente, corpo-
docente-mobile dico pensando al teatro come metodologia trasformativa2, e
“fare laboratorio” nel senso di stare “dove si attende a un lavoro. Una
ricerca continua per scoprire attraverso una metodologia trasversale una
didattica del confronto, una relazione autentica per poter crescere indi-
vidui consapevoli”. Così si ‘inquadrano’ gli incontri preparatori destinati
agli insegnanti prima che accompagnino i loro alunni a teatro a vedere
gli spettacoli scelti per loro e poi anche tutte le attività laboratoriali che
gli insegnanti realizzano a scuola con il supporto degli operatori teatra-
li, la realizzazione della comunicazione finale, le prove e l’esibizione in
pubblico a teatro. Dal punto di vista dell’insegnante sembra tutto un
percorso di aggiornamento: per realizzare un altro giorno felice! Ed ecco
che, tornando all’opera di Beckett, ci si accorge di un segno: Giorni felici
si apre con il suono di un campanello fuoriscena. È come la campana
della scuola che chiama all’inizio della giornata e poi suonerà ancora per
segnare il termine di uno spazio-tempo nel quale ci si è aperti ad una
forma collettiva di abitare la scena educativa. Si è tutti chiamati ‘in sce-
na’, senza distinguere tra attori e spettatori, perché lo spazio fisico possa
diventare ambiente-teatro (di relazione) dove mobilitare tutte le vie per
dire anche l’indicibile e rendere visibile l’invisibile. Vie, forme, scritture,
linguaggi altri e plurimi sottraggono spazio alla parola e alla testualità in-
tesa nel senso già codificato e riconosciuto come dominante, per lasciare
che il gesto si faccia spazio come parte di una semantica che unisce e
rafforza il rapporto tra significante e significato. Quel campanello allora
suona, e risuona qui, per richiamare ma anche per risvegliare e attivare i
sensi nella produzione di senso. Beckett ci scuote e ci ridesta e Derrida
sembra proseguire con altro registro, chiedendosi e chiedendoci: “In che
modo, allora, funzioneranno la parola e la scrittura? Tornando ad essere
gesti: verrà ridotta e subordinata l’intenzione logica e discorsiva, attraver-
so la quale solitamente la parola garantisce la sua trasparenza razionale e
affina il proprio corpo orientandolo verso il senso, lo lascia stranamente
celare da quanto lo rende trasparente; de-costituendo la trasparenza, si
mette a nudo la carne della parola, la sua sonorità, la sua intonazione e
intensità, il grido che l’articolazione della lingua e della logica non ha
2
Cfr. D’Ambrosio, Maria, 2016, Cinetica e cognizione. Teatro come spazio dove l’educa-
zione ‘prende corpo’, in: D’Ambrosio, Maria, 2016, a cura di, Teatro come metodologia
trasformativa. La scena educativa fatta ad arte. Tra ricerca e formazione, Cartografie Pe-
dagogiche 7/2016, Napoli, Liguori.
14
ancora del tutto congelato, quanto rimane del gesto represso in ogni pa-
rola, quel movimento unico e insostituibile che la generalità del concetto
e della ripetizione continuano senza fine a rifiutare” (Derrida, 1967, p.
309). Il suono del campanello apre la scena beckettiana e, come a scuola,
inaugura un rituale ‘crudele’ che è tale se rifiuta chiarezza e trasparenza
e sceglie un simbolismo ‘plastico’ che si muove di forma in forma, di
segno in segno, di materia in materia perché sa che la sua fatica è quella
di mettere “a nudo la carne della parola”. Su quella scena non c’è delega
della parola rispetto alla cosa. Parola, gesto, azione, suono, immagine,
sono utilizzate nella loro materiale consistenza di cose, capaci di agire e
smuovere altre cose. Non si tratta di ‘spettacolo’ né di rappresentazione
ma di azione: cioè di quella speciale forma di attività che unisce dimen-
sione materiale con quella immateriale, senza lasciare che l’una o l’altra
predominino ma che l’una e l’altra si nutrano vicendevolmente delle loro
differenti consistenze. Attività che è del corpo tutto, vivo, mobile, sensi-
bile. Del corpo poetico e della sua qualità di farsi presente e di agire/cre-
are/ricreare. In questo senso risuona qui quel campanello che dalla scena
beckettiana si colloca anche nella scena formante perché Teatro e Scuola
ritrovino la loro centratura nel corpo/azione/gesto che vive e abita lo spa-
zio trasgressivo della festa. L’azione del corpo, a Teatro come a Scuola,
è quella sgrammaticata che richiede continuamente una decostruzione,
alla Derrida, appunto, che suggerisce l’eccesso del mettersi in gioco e la
possibilità di riconfigurare il giocattolo-dispositivo così da “rischiare la
perdita assoluta del senso” (Derrida, 1967, p. 331) perché “risibile è la
sottomissione all’evidenza del senso” (Derrida, 1967, p. 332). Risveglia-
re i sensi per evitare “la sottomissione all’evidenza del senso” configura
una ‘erotica’ della disciplina, della pratica teatrale e di quella scolastica,
che emerge come necessità metodologica che apre al non-sapere come
via per accedere all’ignoto senza asservimento. La poesia, il non-senso,
l’impossibile, incarnati nella bellezza del corpo estatico arrivano in soc-
corso di un Teatro e di una Scuola che sono scene di una piena sovranità
che rifiuta e supera il lavoro servile per innescare il gioco liberato dal
desiderio del senso e fare della pratica disciplinare l’unica possibilità per
superarla.
La bellezza disarmante del corpo poetico, estatico, sacro, ha origine dal
suo sapere/sentire di non-sapere che espone il maestro all’allievo e vice-
versa, liberando ciascuno da certezze e subordinazioni. Il corpo assume
una postura epistemica e può entrare in scena da ‘moderno’ veicolo per
oltrepassare in chiave fenomenologica la tradizione metafisica in nome
15
della profondità e della mobilità. L’entrata in scena del corpo costituisce
“la nuova centralità delle arti dinamiche nel processo educativo, almeno
come idea politica” (Attisani, 2017, pp. 123-156) e fa spazio ad una
grammatica generativa di cui il corpo stesso è vettore in quanto soggetto/
oggetto formante il cui gesto non esegue ma scompone e ri-compone
tracce, secondo una nuova partitura. Il libro, il testo, la scrittura, che per
il Teatro come per la Scuola hanno costituito l’autorità e la ‘luce’ verso
cui tendere, perdono o iniziano a perdere l’aura cristallizzata dei ‘classici’
e ad aprire alle stratificazioni del linguaggio vivo che si svelano nell’atto
stesso dell’accadere scenico/performativo. Il corpo, a Scuola come a Te-
atro, è corpo per-formante, non nel senso metafisico dell’esecuzione di
un dettato prescritto, ma corpo che sperimenta e attualizza l’esperienza
dell’oltrepassamento e si fa generativo di altro lessico, altra semantica,
altra presenza, per dissolversi ed emergere alla Mallarmé: come “una
spaziatura della lettura”, come scrittura della differenza. Farsi spazio,
spaziarsi, ha proprio il senso del manifestarsi come differenza così che la
pratica della lettura (rispetto all’autorità del libro, del testo, della scrit-
tura) suoni come momento ‘epocale’, come emergenza di una pratica
obliqua: quella che Derrida (1967) chiama “un’avventura dello sguar-
do”. La scena teatrale e quella scolastica, se attraversate da ‘inquietu-
dine’, dubbio, interrogativi, lasciano spazio al corpo vivo che penetra la
forma, negandola come superficialità e sollecitandone/smuovendone la
trama con le sue profondità. Chi ha organizzato, condotto o partecipato
alle attività del progetto Teatro Scuola Vedere Fare conosce la fatica e la
resistenza che ciascuno oppone alla possibilità di ‘spaziare’ e di esplorare
per vivere “un’avventura dello sguardo”, e sa che l’intero percorso non è
altro che il continuo richiamo a un possibile risveglio del poeta che è in
ognuno dei partecipanti.
Il quadro epistemico delineato fin qui, di cui è traccia l’impianto gene-
rale del progetto Teatro Scuola Vedere Fare, intende la conoscenza come
atto, inaugurato da quel rintocco del campanello che scatena un’energia
difforme rispetto alla cadenza della ritmica ordinaria, suggerendo una
straordinarietà all’accadere per-formante che Beckett utilizza come evi-
dente segno del richiamo ad un’altra qualità dello stare, dell’essere/farsi
presente. L’essere-corpo fa presa in quanto esser-ci (Da-Sein) e rintrac-
cia una originaria teatralità che coincide con una ricerca dell’eccitatorio
come stato dell’arte per apprendere e per conoscere. L’azione è la qualità
manifesta dell’essere e l’arte quella facoltà produttiva, che è del formare/
formarsi, del sentire/conoscere, che fa dell’agente-attore la categoria che
16
incarna e connette immaginazione e poietica e restituisce l’umano ad un
intelletto incarnato e situato.
Il corpo-performante, poietico, diventa metafora di un certo Teatro e di
una certa Scuola perché incarna e incorpora una differenza, nel senso
derridiano del differimento, che ‘sposta’ le orbite gravitazionali e si muo-
ve secondo tracciati rizomatici (Deleuze-Guattari, 1980) non ascrivibili
a tracce e ordini preesistenti ma generativi di un vitale e attivo conoscere.
In tal senso, a Teatro e a Scuola, la sfera corporea si fa spazio insieme ad
una ‘originaria’ educazione estetica che riconnette uomo e mondo se-
condo il nesso sentire-agire. Il campanello che suona risveglia l’organica
e fisiologica capacità del sentire, necessaria all’agire (almeno necessaria
a quell’agire che si voglia far emergere dal sentire) e quindi importante
da attivare e da alimentare attraverso la pratica artistica/artigiana che è
sostanza per immaginare/conoscere.
Teatro e Scuola costituiscono gli ambienti privilegiati di una educazione
estetica (Schiller, 1795) come progetto in fieri che tra Arte e Educazio-
ne richiama ad un Umanesimo che fonde senso e ragione e produce una
realtà la cui apparenza ‘consiste’ di bellezza e libertà. Teatro e Scuola in
questo caso si strutturano intorno al concetto di azione che fa da disposi-
tivo pedagogico che attraversa la scena sociale e ne forma i cittadini-attori
secondo un principio di responsabilità che dà valore all’opera e al processo
che l’ha generata, alle ragioni che spingono alla sua creazione. Ciascuno ri-
sponde dell’opera realizzata e non rinvia ad una autorialità esterna: Teatro
e Scuola si configurano così come gioco, come ambiente cui si partecipa
e nel quale ci si realizza attraverso l’epifanico, epocale, mettersi-in-opera.
O almeno questo pare suggerire anche per il progetto Teatro Scuola Vedere
Fare la preparazione dello ‘spettacolo’ in forma di ‘comunicazione finale’
perché le forme, i codici, i materiali utilizzati possono essere tanti e diversi
tra loro, nello sforzo di ricomporre frammenti di un tutto che può essere
ricondotto ai Greci, perché “Ricchi insieme di forma e di pienezza, al tem-
po stesso filosofici e creativi, al contempo delicati ed energici, li vediamo
congiungere in una splendida umanità la giovinezza della fantasia con la
virilità della ragione” consapevoli che “in quel felice destarsi delle ener-
gie spirituali, i sensi e lo spirito non avevano ancora dominî rigidamente
distinti, poiché nessuna scissione li aveva ancora istigati a dividersi come
nemici e a stabilire confini reciproci” (Schiller, 1795, p. 32). Che si chiami
Teatro o Scuola, in questi spazi si ridestano insieme sensi e spirito, così che
il vivere-conoscere acquista forma di danza, azione scenica, performan-
ce, scrittura, poesia, canto, sempre come fosse “la prima voce” (Covino,
17
2017): quel momento aurale, di un altro giorno nuovo e felice, in cui si
prova piacere a rompere con il proprio isolamento e si cerca il modo di
ricongiungersi ad altro e vivere la propria appartenenza cosmica come una
condizione di ricerca continua in cui si realizza un mutevole divenire della
propria “natura sensibile-razionale”.
Nella scena-Teatro e nella scena-Scuola il corpo è azione-parola-gesto.
“Ogni gesto è un utensile, una abilità acquisita, prodotta, espressione
sociale, esteriore di un corpo che si è costruito fuori di se stesso, con
gli altri. Utensile è il corpo che nei gesti e nella voce ha perduto i con-
fini. E come una pietra quando sia lavorata dalle mani dell’uomo ha
una voce, così pure i gesti hanno voce. Un gesto è da sempre una voce.
Fuori dal corpo, una voce” (Covino, 2017, p. 43). La scena-Teatro o la
scena-Scuola si potranno considerare ambienti-di-vita se i corpi che lo
abitano si muovono nel tentativo di mettersi-in-opera, di produrre ad
arte, di farsi autori della propria esistenza. In quegli ambienti non ci
sarà bisogno di esplicitare una Pedagogia perché il Pedagogico è fatto
coincidere con il Poietico come principi e istanze di un Essere che deve
farsi Manifesto, Fenomeno, Voce. E dunque consistere e significare an-
che per un altro. Diapason-soggetto lo chiama Jean-Luc Nancy (2002).
Questi ambienti, allora, vanno preservati dall’ordinarietà e restituiti alla
sensibilità creatrice del Poeta. Uno spazio, un luogo, un ambiente non
possono essere sempre Teatro o Scuola, se non quando nel loro quoti-
diano si apre un ordine straordinario delle cose e diventano spazio sacro,
della festa, spazio-formante perché disposto a deformarsi, a scomporsi,
a riordinarsi mobilitando energie nuove che ridestando i sensi siano in
grado di generare altro senso. Come deve accadere per il corpo: quando
il corpo diventa gesto, quando cioè muta la sua geometria statica, allora
quel corpo, fattosi azione-gesto, parla, produce senso. Come dire per
l’ape che non tutto il raccolto diventa miele. Per estrarre miele dal net-
tare c’è bisogno di lavoro, di un processo complesso da governare, in cui
non tutto del lavoro diventa capolavoro. Si deve essere disposti all’errore,
all’inutile girovagare, prima di trovare quella sintesi tra intenzione ed
opera. Non basta per questo rendere disciplinare l’Arte e orientare ad
una metodologia che sembri guidata ad arte per rendere formante quel
Teatro o quella Scuola. Il fallimento, l’errore, la vuota mimetica – la
pratica del pappagallo, la chiamerebbe Michel Serres (1991) – è parte
ordinaria di un dispositivo che per realizzarsi come Pedagogico, come
generativo, deve intercettarne la originaria mobilità e cercare/trovare nel
principio cinetico la condizione di inadeguatezza e di manchevolezza
18
che muovono dal disagio e producono uno sguardo. Il corpo non basta
dunque. Il corpo deve farsi gesto e ritmo, così che il corpo possa farsi
spazio e tempo, possa farsi mondo e parlare “la lingua muta delle cose”
(Covino, 2017, p. 13). E di quel corpo, “La mano non fu soltanto organo
di lavoro, ripeteva Engels, ma suo prodotto. Essa imparò sempre nuove
operazioni e le imparò cambiandosi, definendosi, coi suoi movimenti,
nella forma, attraverso la trasmissione ereditaria dei muscoli, dei tendini,
delle articolazioni. Soprattutto però la mano imparò dall’abitudine, dallo
sforzo, dal lavoro e dalla sua conservazione nella memoria. E fu la con-
servazione delle operazioni compiute dalla mano ad obbligare la voce al
significato. Non fu per quella voce una condanna. Essa non fu costretta
ad emanciparsi da lui, ma con lui si unì in una corrispondenza segreta
che silenziosamente legava tutti gli esseri. Il significato non apparteneva
a qualcuno. Esso serviva alla memoria umana perché restasse fuori di sé
nel tempo, perché fosse memoria sociale nel tempo” (Covino, 2017, pp.
13-14). Non c’è gesto ‘naturale’, c’è solo imitazione, lavoro, sforzo per
piegare il corpo e mutarlo in strumento, in linguaggio. Perché il gesto
libera la parola che contiene un gesto che fa della cosa un’opera, un
simbolo, uno strumento per significare altro dall’oggetto-cosa e dire del
rapporto che ciascuno ha stabilito con quella cosa. Il gesto e la parola
tessono e condividono relazioni tra soggetto e oggetto, ne sono l’imma-
gine e la sostanza, cucite insieme perché la messa-in-scena sia momento
qualificante dell’umano, non sua mera effimera vanità. Il corpo organico
è intrinsecamente inorganico quando si lega ad un altro, gli mostra fuori
di sé ciò che ha sentito e pensato: realizza il Teatro, la scena pubblica,
la comunità, quando si espone e si mette-in-opera. Le cose lo spazio il
tempo, se Teatro sono, mutano col mutare del gesto e della voce che li at-
traversa, che li afferra, che dà loro forma di opera, di immagine, di-segno.
Per questo uso e faccio risuonare qui simbolicamente il campanello – quel-
lo di Beckett in Giorni felici – per ridestarne la capacità di farsi azione sulle
cose: quel far presa che è condizione del conoscere e del conoscersi. Come
il vasaio con il suo vaso: piega e curva la materia secondo una tecnica che
rende la mano-strumento capace di sentire/sapere cosa e come operare con
la materia. Si tratta di imparare a scrivere. Non in senso ortografico. Impa-
rare il gesto più opportuno per le necessità di ciascun caso. E ripeterlo ogni
volta sia necessario. Fissarlo in memoria perché serva all’occorrenza senza
troppo andare cercando e poi, ogniqualvolta se ne dà occasione, mutarlo
in altro gesto e altra cosa per ricordare di dimenticare perché lo strumento
è quello ma pure molti altri usi insieme. Così, la necessità del Teatro come
19
della Scuola diventa quella di coinvolgere l’altro nel proprio gesto. Render-
lo partecipe di un gesto il cui senso deve poter essere inteso, se offerto allo
sguardo dell’altro. Così il pensiero si sperimenta come azione. L’azione che
è forma del pensiero. Il suo prendere spazio sulla scena pubblica. Scena
che mentre è Scuola, è Teatro. Se è Scuola, è Teatro, è comunità.
3
Cfr. Sola (2012a): “Il concetto di Bildung, per essere correttamente assunto, va in-
nanzitutto ricollocato all’interno della sua storia, che dalla mistica medioevale giunge
fino al classicismo tedesco di Goethe, incontrando – secondo Gadamer – in Herder e
nella sua “Bildung dell’umanità’ (…) un’ideale attribuzione di senso. La Bildung, pre-
cisa Gadamer, si dà nella forma del divenire (des Werdens) che è sempre processo (Vor-
gang) e mai risultato (Resultat). Essa evoca cioè – attraverso la radice Bild (immagine)
– una naturale tensione alla perfezione, quindi la possibilità di un miglioramento che
dall’interno si irradia e si riflette verso l’esterno. (…) Così, la Bildung è un compito
dell’uomo (…) che solo lui stesso, in se stesso, può assolvere” (pp. 13-14).
20
satori della nostra storia, ha coniato per questo la bella espressione: cia-
scuno deve ‘prender dimora’ […]; deve, per così dire, costruire la propria
casa nella propria vita” (Gadamer, 20124, p. 229). Il ‘prender dimora’, il
‘costruire la propria casa nella propria vita’, costituiscono un nucleo con-
cettuale che include una forte dimensione pratica che chiama l’umanità
a ‘farsi spazio’, a dar forma e costruire la propria dimora, la casa, la vita.
Lo spazio vitale va costruito, alla vita va data una dimora. Quindi il gesto
dell’esistere è connesso a quello del costruire e dell’abitare. Heidegger ce
lo ha ben detto. E così fa anche Gadamer che con Heidegger si mette in
dialogo. Il formare/formarsi ha a che fare con il ‘farsi spazio’, con l’aver
luogo: è strettamente connesso a una questione di spazio, di ambiente,
ovvero alla capacità di trasformare lo spazio nel quale ‘si viene al mondo’
in quell’ambiente che fa da ‘casa’ o mondo-di-vita. Perché uno spazio
possa farsi ‘scena formante’, ‘casa’, dimora, c’è bisogno di ‘abitarlo’, di
farsene designer/costruttori. E questo diventa il focus con cui gli esperti
di Teatro Scuola Vedere Fare introducono all’uso didattico della visione te-
atrale e gli operatori teatrali si spingono nella costruzione di un comune
spazio/scena di lavoro performativo.
La formazione intesa come Bildung consiste in un processo che coinvolge
lo spazio. In questo senso la metafora del Teatro per dire del pedagogico,
individua la ‘scena’ come categoria centrale che unita a quella di azione
del performer/attore dice proprio di uno spazio che si fa altro: che si fa
‘teatro’ della Bildung solo se si sottrae a ciò che è già e si apre ad esse-
re messo-in-opera. L’azione, la dimensione performativa dello stare in
scena, diventa la condizione del formare/formarsi. Essere-in-azione è al
tempo stesso essere e farsi-spazio.
Pertanto, con Hegel, Heidegger, Gadamer recupero un pensiero e rico-
struisco una genealogia cui sento di appartenere e cui riconduco anche la
progettualità di Teatro Scuola Vedere Fare, perché si avverte l’urgenza di ri-
dare senso all’idea di Bildung proprio come proposto da Gadamer e dalla
sua tradizione neoumanistica: perchè “la sua idea di Bildung corrisponde
alla formazione armonica dell’uomo e non già al suo portato culturale”
(Sola, 2012, p. 11). L’urgenza riguarda la necessità di osservare critica-
mente la propria contemporaneità per estrarne alcuni elementi ‘origina-
ri’ utili a tracciare altre traiettorie, possibili, perché quella ‘formazione
4
L’opera raccoglie sette saggi gadameriani pubblicati tra il 1944 e il 1992, scritti per
conferenze tenute da Gadamer tra il 1947 e il 1991 e pubblicati insieme nel 2012
nella loro prima edizione in lingua italiana curata da Giancarla Sola.
21
armonica’ costituisca un’attuale ‘emergenza’ pedagogica, sociale, politi-
ca, e non sia schiacciata su una ‘cultura dell’educazione’ fatta coincidere
con l’apprendimento ma attenta invece all’importanza di “imparare a
pensare” e alla fecondità del domandarsi, dell’interrogarsi, in nome di
un sapere che non può limitare né limitarsi ma tendere alla libertà. L’os-
servazione, come parte di una pratica riflessiva, è d’altronde il concetto
cui ciascun insegnante partecipante al progetto Teatro Scuola Vedere Fare
viene chiamato e sollecitato lungo tutto il percorso, attraverso schede,
questionari, riflessioni.
La critica è al modello di formazione come mera trasmissione al quale si
contrappone quella formazione riferita all’umanità dell’uomo che forma e
si forma. Rifiutare il sapere come forma di dominio e di potere (di qualcu-
no su qualcun altro) significa allo stesso tempo mettere in crisi il “dominio
della tecnica” e il mito del progresso, ripensando all’uomo e alla sua for-
mazione come ad un processo necessariamente mosso tra Natura e Spirito.
Il rapporto tra Natura e Cultura diventa un focus importante per un discor-
so sulla formazione che voglia essere attuale e da attualizzare in una pratica
che passi per l’agire, consapevole e critico-riflessivo, di ciascuno, e non si
affidi a dispositivi esterni come gli ordinamenti normativi e le loro formu-
le/procedure burocratiche e retoriche. In questo senso la Scuola, che in-
carna in maniera istituzionale le finalità formative di una società, non può
arroccarsi né irrigidirsi in metodi disciplinati della trasmissione del sapere,
ovvero dei suoi frammenti. Né esibire come compito educativo quello di
“adattamento” e di preparazione al mondo del lavoro e delle professioni.
La dimensione produttivo/creativa e performativa è elemento centrale per
un Humanismus da connettere alla Bildung. Non si tratta di ‘operazioni’
di facciata. Né di abbellimenti in chiave classicheggiante di impianti e di
logiche ‘conservative’, quanto di una vitale spinta che mette insieme que-
stioni della formazione con quelle della forma e della sua trasformazione,
l’agire con il pensare, così che ad emergere sia un ‘naturale’ uso dell’ar-
te del comprendere: quell’arte ‘generativa’ e formante – nel senso della
Bildung e della sua ‘armonica’ – che per Gadamer propriamente coincide
con l’attività ermeneutica e che nella proposta e nella riflessione metodo-
logica che opero rispetto al progetto Teatro Scuola Vedere Fare viene intesa
come arte scenica/performativa, o, più propriamente, Teatro. La Scuola si
fa Teatro quando l’umanesimo incontra la Bildung. Si tratta di un proget-
to ambizioso quanto necessario: quello che Gadamer fa risalire a Kant e
che “si fonda proprio sul fatto che ha unito e conciliato la grande eredità
della cultura antica e medievale, che l’Umanesimo aveva risvegliato, con
22
il pathos illuministico della scienza moderna” (Gadamer, 2012, p. 67). La
Scuola e il Teatro di cui qui si parla non sono conservate negli edifici,
nelle loro architetture – che Gadamer chiama “testimoni di pietra” – più
o meno felici. La Scuola come Teatro che partecipa di quella umanizzazio-
ne della Bildung e che concilia cultura classica con scienza moderna non
può essere chiusa in forme educative altamente organizzate perché ciò di
cui deve essere ‘produttrice’ è quella autonoma “capacità di giudizio” che
consente di integrare differenti visioni del mondo e usare adeguatamente
saperi, informazioni, dati, per porre domande interrogandosi pensosamen-
te così da agire senza ‘eseguire’ ma riflettendo ed esercitandosi “nel libero
movimento”. Gadamer suggerisce di pensare la crescita e quindi anche
il sistema educativo coniugandolo “ad ogni essere vivente” mettendo in-
sieme la “capacità di giudizio” con il “libero movimento”: come a dire
che il pensiero si realizza nel movimento, mobilitando il gusto ovvero la
facoltà di giudizio (Arendt, 1971) e la “produttività dello spirito”. Si tratta
di abitare un mondo nuovo dove “l’umanità saprà risolvere i propri pro-
blemi soltanto se non si accontenterà di imitare semplicemente i modi di
agire precedenti, ma se imparerà a realizzare nel concreto le proprie idee”
(Gadamer, 2012, p. 91). Torna cioè attuale l’Ode a Prometeo di Goethe
attraverso cui lo spirito creatore, il genio, l’artista, emerge come mito: “è
il mito di Prometeo. Prometeo, il titanico antagonista degli dèi olimpici,
diventa l’incarnazione delle forze creatrici dell’uomo” (Gadamer, 2012, p.
99). L’immagine dell’uomo come homo faber fornisce una dimensione fat-
tuale alla volontà, alla ragione, all’intelletto, con cui si qualifica l’uomo e la
sua umanità. La volontà e l’intelletto devono trovare i mezzi adeguati per
creare e per far accadere quello che di volta in volta si conviene sia ‘vero’.
La ‘naturale’ propensione dell’uomo a farsi creatore di cultura, indica una
stretta “connessione di vita e pensiero” che mette in crisi l’universalità del
sapere e l’idea di “un unico mondo del sapere” e apre a “sempre nuove
possibilità di azione” e fa emergere un concetto unificatore di natura e
cultura che è la coltivazione: il gesto sottratto all’ordine ripetitivo e ciclico
della natura che conferisce senso a quell’ordine producendone un altro in
forma di linguaggio. Il gesto agisce modificando la materia naturale e ne
produce una artificiale che contiene e ‘dice’ del senso e della volontà che
ha spinto a quel gesto creativo/trasformativo. Come quando nel progetto
Teatro Scuola Vedere Fare, oltre che a Teatro e a Scuola, si lavora in un Mu-
seo, Scavo archeologico, Galleria o altra istituzione museale, scientifica e
culturale, in un giardino o in un bosco, consapevoli della possibilità di quel
gesto creativo/trasformativo che può rendere ciascuno spazio e il ‘materia-
23
le’ con cui si interagisce e che si estrae come nettare dai fiori, un ambiente
formante dove generare in senso sempre attuale il processo di produzione
della conoscenza/identità.
Se il sistema educativo si struttura a partire dall’homo faber e dalla sua
istanza creativa e trasformativa, la Scuola diventa Teatro proprio per
lasciare spazio a un modello di apprendimento creativo, attivo, non nel
senso retorico di una potenzialità di azione ma proprio nel senso del
‘lavoro’ perché conoscere è altro dall’edenico cogliere i frutti già maturi
dall’albero della conoscenza perchè implica la fatica di imparare molte
arti per poter, come Prometeo, “essere vivente autonomo” (Gadamer,
2012, p. 129) che in maniera multiforme orienta la propria forza vitale
oltre la propria finitudine, verso il futuro. Il progetto di una Bildung uma-
nistica fa spazio ad un pensiero pedagogico che coincide con l’oltre del
futuro e chiama in gioco l’arte del creare per ciascuno la propria strada,
la propria casa. Il ruolo dell’arte intercetta la necessità e la possibilità
dell’uomo, come essere di natura, di generare cultura, facendo presa sul-
le cose e mutandole in opere. Mano e intelletto, natura e cultura, sono
alleate di un sistema che ridisegna e attualizza la Bildung tracciando nuo-
ve strade da percorrere per realizzarne il progetto ambizioso di restituire
umanità all’uomo, lasciando che viva in bilico la contraddizione e le im-
prevedibili connessioni tra idea/pensiero e realtà. L’istruzione scompare,
o almeno così pare, dall’immaginario di un discorso pedagogico con cui
voglio sovrapporre Teatro e Scuola per rispondere al ‘classico’ tema della
formazione attraverso una postura critica e riflessiva che al contempo è
performativa e dell’azione coglie la sua matrice ermeneutica. Il Teatro si
fa Scuola e la Scuola genera il Teatro quando l’azione in scena acquista
il valore della ricerca e produce comprensione e autocomprensione: un
lavoro che chiede a ciascuno di farsi spazio, di occupare il proprio spazio
d’azione in un orizzonte pubblico che rende l’azione un gesto solidale
che implica un orizzonte di reciprocità, di dialogo, di scambio, di inte-
razione possibile. Quando la Scuola è Teatro, rinasce come comunità,
come nuovo ordine, come un altro giorno felice!
24
riflessione pedagogica, alla fondazione di una “tradizione nuova”. “La
vita nelle idee” è ciò che Gadamer eredita e fa suo da Humboldt come
obiettivo ancora attuale per recuperare “spazio libero” rispetto agli or-
dinamenti, all’organizzazione e quindi alla socializzazione che costitu-
iscono il vincolo pratico-politico di una vita, già da quella dei Greci,
con poco spazio per la libera speculazione (theoria). L’antica e ‘classica’
opposizione tra theoria e pratica costituisce di fatto l’orizzonte dentro
cui ci si muove, dentro e fuori la Caverna, parlando attraverso il mito
di Platone, consapevoli che “un modo di pensare libero […] non esiste”
(Gadamer, 2012, p. 156). La libertà che sin dalla tradizione classica si è
attribuita alla vita teorica, alla via contemplativa e distaccata dai vincoli
del ‘reale’, resta il ‘compito’ da realizzare: compito che le istituzioni for-
mative devono fare proprio per lasciare che ciascuno cerchi e produca
giudizi propri e pensieri, e che non segua semplicemente e si unifor-
mi a quelli preesistenti. Come ci ricorda Gadamer, “La scienza produce
dei cattivi spettatori televisivi” (Gadamer, 2012, p. 158) perché lascia le
domande aperte e chiede a ciascuno di farsi spazio, di cercare gli spazi
liberi dove potersi muovere per dar forma alla propria esistenza, alla pro-
pria vita. C’è un profondo senso di etica del lavoro e della responsabilità
nell’orizzonte che condividiamo con Gadamer per le istituzioni educati-
ve e formative. Questa è un’etica che spinge all’azione e alla solidarietà
e che quindi chiede di unire la distanza con la presenza, la theoria con
la pratica, le diverse discipline tra loro, consapevoli del fatto che “Nella
‘azienda’ dell’insegnamento le scienze sanno troppo poco l’una dell’al-
tra” (Gadamer, 2012, p. 148).
Presupponendo poi – come con Dewey (1916) – un legame stretto tra
Democrazia e educazione, nel tempo si è messo mano a tante riforme del-
la Scuola. E l’Italia in questo non è stata da meno. La Legge 107/2015
(cosiddetta ‘Buona Scuola’), una legge molto giovane, recependo anche
quanto indicato dall’Unesco e altri organismi internazionali in materia
di educazione artistica, fa esplicitamente riferimento alla connessione
tra attività didattiche e Teatro. Il Teatro con la T maiuscola. Alla legge
107 faranno poi seguito le “Indicazioni strategiche per l’utilizzo didattico
delle attività teatrali”, note come ‘Linee guida’, la cui struttura si muove
tra indicazioni teoriche e indicazioni operative. La Legge 107/2015 e
le relative ‘Linee guida’ costituiscono, pur nella possibilità di ‘leggerci’
tanto altro, la traccia per un’unità Teatro-Scuola che suona quanto mai
necessaria per far incontrare Umanesimo e Bildung, perché il corpo si
faccia spazio e faccia del mondo la propria scena e perché l’educazione
25
ritrovi la sua poetica vitale e riconnetta pensiero e azione. Quanto possa
essere vitale la stessa unità Teatro-Scuola è da praticare, ritrovando un
certo senso del fare Scuola e del fare Teatro. Che il Teatro possa essere
educativo e formativo, abbiamo visto, l’umanità ne ha fatto esperienza
prima ancora di istituire la forma-Teatro o la forma-Scuola. Non basta
dare nome di Teatro o di Scuola a qualcosa perché questa assuma i prin-
cipi fondanti del Teatro e della Scuola: la dimensione del fare, dell’agire,
del mutare, le attraversa e connota il rapporto di natura epistemica tra
uomo e mondo, la qualità e il modo dell’esistere. In questo la riforma del
2015 e le relative linee guida proprio in materia di Teatro-Scuola posso-
no solo fare da solchi facilitatori per il corso di un fiume che però deve
avere tanta acqua da spingere nella valle del processo del vivere perché
vada in direzione di una ‘normale’ specialità dell’agire formativo che si
rinnova nel quotidiano come un altro giorno felice! Si tratta di recuperare
come necessaria la fatica dell’operosità: il maestro e l’allievo, a Teatro
come a Scuola, non vivono separata la condizione dell’attore da quella
dello spettatore; la loro è una comune tensione a farsi voce, a divenire se-
gno. La dimensione attoriale è costitutiva per il maestro come per l’allie-
vo, per l’attore come per lo spettatore: al loro incontro è dato di generare
qualcosa d’altro rispetto a quanto già esistente e atteso. Faccio ricorso
alla categoria di homo faber proprio per qualificare il fare e considerarlo
fondante rispetto all’umanità dell’uomo la cui postura artigiana ne fa un
costruttore di mondi. La scena teatrale e la scena educativa sono ‘solo’
l’esplicita spazializzazione di tale postura artigiana che si nutre dell’im-
maginario poetico e artistico sapendo che “La storia della scienza e della
filosofia, come anche delle arti belle, documenta come il prodotto imma-
ginativo venga all’inizio condannato dal pubblico, e in maniera propor-
zionale alla sua portata e alla sua profondità” (Dewey, 1934, p. 263). Per
‘fare storia’, nelle scienze come nella filosofia e nelle arti, è necessario
dare spazio all’immaginativo che produce grazie alla “mente che cerca e
accoglie ciò che è nuovo nella percezione” (Dewey, 1934, p. 264). L’at-
tività immaginativa è generativa del fare/produrre/creare e riguarda la
sfera percettiva e la mente, fuori dall’abitudine meccanica e funzionale
dell’esperienza passata, capace di trasfigurare quella presente e di aprire
in senso estetico ad una nuova esperienza e quindi ad altro sapere/cono-
scere. L’attivismo pedagogico e la ricerca artistica individuano nel Teatro
quello speciale spazio, che è anche una pratica, per realizzare il progetto
di una Bildung restituita allo specifico dell’umano e perciò vicina al pa-
radigma dell’interpretazione/comprensione e del dubbio, attraversato da
26
una vitale “tensione interdisciplinare” (Sola, 2002, p. 31). La scelta del
Teatro appare dunque rispondere ad una specifica posizione che si po-
trebbe definire anche ‘romantica’, oltre che ‘classica’, perché rintraccia
nella dimensione estetica/patica la matrice per una epistéme che riflette
sulla pratica e riconosce nel formare il formarsi, nel conoscere il cono-
scersi, nell’apparire l’essere. Mettersi-in-opera, nell’atto dell’apprendere/
conoscere o del performare, indica uno spazio privato che si fa pub-
blico, che prende forma per apparire così che l’opera sia intesa come
opera d’arte nel senso che “essa nega esplicitamente o ignora di fatto
quell’identificazione tra materiale oggettivo e operazione costruttiva che
è l’essenza stessa dell’arte” (Dewey, 1934, p. 269). L’azione costruttiva,
la performance, ribalta il dominio dell’oggetto sul soggetto e fa dell’arte,
del Teatro, dell’arte scenica, quella condizione di ‘shock’ che andiamo
cercando perché la formazione come la conoscenza si realizzino lascian-
do che ad emergere sia la differenza e l’unicità del soggetto e il suo oriz-
zonte intersoggettivo.
La connessione tra Teatro e Scuola vede un reciproco movimento: por-
tare il Teatro a Scuola e la Scuola a Teatro. Teatro e Scuola con la ma-
iuscola. E se invece del Teatro e della Scuola con la maiuscola – che
sembrano chiamare alla ‘difesa’ o alla tutela di un’istituzione, senza cu-
rarsi della vita e della sostanza di quella stessa istituzione – si iniziasse a
riconoscerne la necessità? La necessità del conoscere/comunicare e del
formare/formarsi, che Scuola e Teatro rappresentano in senso istituzio-
nale e che devono trasferire sul piano pratico, in una ‘pedagogia’ e in una
‘didattica’ che siano la risposta a quelle necessità. Per questo poi, pur
lontani da finalità amministrative o da posizioni burocratiche, dell’arte
teatrale in chiave pedagogica se ne delineano quelle ‘linee guida’ che
esplicitamente portano il titolo di ‘Indicazioni strategiche per l’utilizzo
didattico delle attività teatrali’. In questo senso propongo di intendere il
progetto Teatro Scuola Vedere Fare, pure se il suo avvio precede la Legge e
le indicazioni stesse, e trovo interessante che, proprio come premessa a
tali indicazioni sia indicato “Il valore educativo delle esperienze didatti-
che con gli spettacoli artistici, fatto valere dagli studi della Facoltà delle
Scienze dell’Educazione”: gli studi e le ricerche che le Facoltà di Scienze
dell’Educazione hanno realizzato, legittimano e danno forza al dispositi-
vo normativo del 2015 relativo alla Scuola e alle linee guida che ne sono
conseguite, dedicate alle attività teatrali. Mi sento chiamata in causa. Il
sapere accademico emerso dalla ricerca pedagogica degli ultimi anni fa
da sfondo ad una crescita epistemologica che incontrando la modernità
27
sente di dover innovare anche le pratiche di una educazione che non deve
dimenticare la centralità dei propri obiettivi formativi. Come se quel
campanello, fatto risuonare da Beckett in Giorni felici nel 1961, avesse
risvegliato l’idea di un lavoro sulla ricerca scientifica che la facesse “dia-
logare con la società e con la cultura” (Cambi, 2002, p. 102). In questo
modo il complesso ‘congegno’ pedagogico ha saputo/dovuto integrarsi
con l’agire e collocarsi dentro uno “spazio-tempo determinato” che chie-
de al sofisticato congegno teorico di rifuggire da ‘metodi’ e di dar corpo
alle proprie pedagogie in un recupero della centralità dell’esperienza (e
quindi della costruzione del significato, della produzione del senso) che
fa di John Dewey ancora un autore di riferimento per chi voglia innovarsi
attraverso un pensiero cui si chiede di farsi azione perturbante (e non
rappresentazione). La qualità pedagogica dell’azione sta nel sottrare il
gesto dal mostrare solo se stesso in senso didascalico per aprire al gesto
come traccia di un altro piano che emerge e lascia che accada qualcosa
in quanto segno perturbante, appunto, che smuove non solo chi ne è l’at-
tore ma anche chi ne è spettatore. Si tratta di generare una relazione, di
lavorare sulla possibilità di un incontro e sulle difficoltà perché ciò avven-
ga. Non basta parlare per comunicare. L’impianto della Scuola come del
Teatro fatto coincidere con la parola, con il testo, con quanto già ‘scritto’
e detto, appare indebolito se si opera con Derrida una ‘decostruzione
della parola’: si tratta dello “smascheramento radicale dell’intera strate-
gia metafisica da Platone a Husserl” (Sini, 1984, p. 13) che passa per “la
svalutazione della scrittura, del gramma o segno ‘scritto’” (Sini, 1984, p.
19) per poi ritornare all’azione come categoria connessa a quella di vita
e restituita al gesto e alla voce, cioè alla sua carnale corporea materia-
lità che ne fa un evento sottratto dall’ordinario significato precodificato
e consegnato invece dalla presenza dell’agente-attore alla significazio-
ne, alla produzione di senso generata dal contatto con lo spettatore: è
dall’incontro e dalla condivisione dello spazio che si può produrre un
‘territorio’ e iniziare a percorrerlo non più secondo le ‘indicazioni’ e le
traiettorie già tracciate, ma secondo una nuova cognizione, mossi da un
altro sentire che è dato da un certo ‘stato dell’arte’. Il cambiamento che
si prospetta passa per la qualità della ‘presenza’ di ciascuno. Anche ora
che il registro s’è fatto elettronico, la pratica dell’appello, quel rituale che
pare solo burocratico (e che il più delle volte non serve neppure a quello
perché i dati dell’evasione e dell’abbandono scolastico spesso non arri-
vano in tempo reale e neppure in differita), quella verifica della presenza
in classe che avvia le lezioni a scuola, acquista qui un’altra funzione: può
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essere il gesto inaugurale con cui si rivolge la domanda di fondo ‘Ci sei?
Sei qui con noi?’ e con cui la risposta ‘Presente’ suona come un impegno,
un auspicio, e non un dato di fatto. Questo l’attore lo sa. Non basta stare
in scena, sotto i riflettori, alla ribalta, per poter dire di ‘fare spettacolo’.
Non basta all’alunno stare in classe per dire di essere attore del proprio
processo di apprendimento e formazione. Come non basta all’insegnante
occupare la cattedra, e ripetere gesti e procedure come fossero un sacro
rituale, per essere ‘maestro’ o ‘maestra’ di vita. Le difficoltà dell’incontro,
della relazione, della comunicazione, e la fatica necessarie a superarle, si
rinnova ogni giorno e non può essere ‘risolta’ con modelli o metodi cui
appellarsi e dentro i quali trincerarsi in nome delle ‘buone prassi’, perché
i tracciati vanno percorsi e lo specifico umano è che il tracciato esisten-
ziale di ciascuno si intreccia, come la trama di un racconto, con quello
di tanti altri e non si compie ma si realizza in una creazione continua.
Lo spazio, il mondo che si vive, dice di una condizione del singolare che
contiene una “pluralità originaria” e che rende ciascuno un Noi, “noi
altri5 incaricati di questa verità, più che mai la nostra, la verità di questa
paradossale ‘prima persona al plurale’ che fa il senso del mondo come
spaziatura e intreccio di tanti mondi – terre, cieli, storie – quanti sono
gli aver-luogo del senso, o i passaggi della presenza” (Nancy, 1996, p. 9).
La spaziatura parla di una condizione di ‘legame’ con il mondo che con
Nancy si dà come tra di noi: questo ‘tra’ indica di fatto ciò che si dà quan-
do si produce un legame la cui dinamica genera la topografia mobile del
noi che si rinnova attraverso il quotidiano arrivo del giorno nuovo. Quel
beckettiano altro giorno felice!
Il discorso pedagogico che si incarna in un dispositivo normativo come
quello che in Italia ci si è dati con l’intento di fare una ‘Buona Scuola’,
sembra che rivendichi una centralità dell’umano nelle questioni relative
alla Bildung contemporanea e l’emergere di una progettualità centrata
sull’azione che ‘liquida’ le certezze metafisiche e chiede a ciascuno di
partecipare in senso fenomenologico ed ermeneutico nel farsi-spazio e
mettersi-in-opera, come noi altri attraversati da una vitale spinta a ‘fare
comunità’. Certo, nel lessico normativo utilizzato per le ‘linee guida’ si
avverte ancora la fatica nell’operare un salto cognitivo deciso, necessario
5
Come ci ricorda lo stesso Nancy, in una nota al suo testo che cita F. Warin, “Tra il
‘noi tutti’ dell’universalismo astratto e l’ ‘io-me’ dell’individualismo miserabile, c’è il
‘noi altri’ di Nietzsche, un pensiero del caso singolare che mette fuori gioco la con-
trapposizione tra il particolare e l’universale”.
29
ad innovare l’istituzione scolastica nella sua unità teorico-pratica. Come
per chi ha architettato e sta realizzando Teatro Scuola Vedere Fare, si è
lontani dall’idea di asservirsi ad una norma, perchè tutto passa e neces-
sita dell’umano gesto di ogni singolo attore del sistema scolastico e del
sistema artistico-teatrale nel suo complesso per dare senso e corpo all’in-
dirizzo normativo. Il Teatro appare come il presidio scelto per difendere
e garantire la centralità del sentire e del fare rispetto ad un impianto
spostato sui contenuti e sul loro apprendimento riferito all’intelletto e
contrapposto alla sfera emotiva. Pur consapevole di tali criticità di carat-
tere culturale, e quindi anche epistemico, considero e propongo di consi-
derare le linee guida come la concreta testimonianza di un cambiamento
in atto che fa della Pedagogia un territorio molto esteso che dalla Scuola
si sposta e si apre alle Arti e fa del Teatro la sua nuova ‘casa’: lo spazio per
una metodologia che l’attivismo di Dewey ha provato a rendere pratica-
bile e che l’umanità si era data in Oriente come in Occidente in forma
di ‘parola’, di ‘gesto’, di ‘teatro’, per comunicare e dare senso al proprio
trasformarsi-divenire. In questo senso il Teatro può non essere un’atti-
vità più o meno integrata nella didattica ma una dimensione trasversale
al ‘fare scuola’ attraverso la quale lavorare a formare una comunità di
apprendimento in cui ciascuno è attore-agente-performer-cittadino del
proprio apprendere-conoscere-divenire. Il Teatro può essere cioè il nome
che diamo all’utopico pedagogico della Scuola: la ‘via’ per liberarsi dalla
spinta ideale e indifferenziata e scegliere la sostanziale erranza del diffe-
rente. Il Teatro può rispondere cioè a quella che Riccardo Massa (2002)
definisce la “istanza sostanziale” che orienta la prospettiva di ricerca della
clinica della formazione: si tratta di una svolta pragmatista e fenomeno-
logica alla formazione che, come Dewey, individua l’arte come esperienza.
Lo sguardo critico non può mancare se con Riccardo Massa mettiamo
“in luce l’istanza di potere che sta alla base di ogni progetto clinico” e ci
chiediamo “Ora, quale progetto è più segnato da una istanza di potere
di un progetto educativo?” (Massa, 2012, p. 319). L’Istituzione-Scuola
necessita di una prospettiva critica e della consapevolezza che deriva in
particolare dalla prospettiva clinica, “nel senso d’un’attenzione a ciò che
è concreto, a ciò che è individuale” (Massa, 2002, p. 321), per contra-
stare quel progetto di potere e di assoggettamento che pure contiene
ogni progetto educativo con i suoi desideri e una certa logica ‘verticale’.
L’Istituzione-Scuola può aver luogo, accadere, in ogni luogo perché ne-
cessita ‘solo’ della qualità relazionale di un ambiente per poter realizzare
il suo progetto. Ha bisogno di una ‘scena’. Il Teatro diventa metafora
30
della scena formativa ma in un senso che rompe con ogni progetto di
assoggettamento ed instaura un’importante attenzione alla relazione e
al linguaggio-azione. “Se la clinica è ricerca, essa è ricerca strettamente
legata con un fare, un agire, un operare, e quindi si pone all’interno di
una circolarità virtuosa tra il sapere, il saper fare, il sapere essere, tra
l’agire e il comprendere entro situazioni determinate” (Massa, 2002, p.
321). Il fare trova casa nel Teatro che intanto è stato istituzionalmente
chiamato a farsi Scuola o meglio quel Teatro che rende la Scuola una
struttura viva, autonoma e indipendente dalle stesse istituzioni che la
significano e che producono l’orizzonte funzionale del sistema formativo
nel suo complesso.
Come si legge anche nelle ‘linee guida’, l’invito non è solo a vedere spet-
tacoli teatrali ma a produrne di propri. Il vedere-Teatro si combina con
il fare-Teatro. Il laboratorio teatrale è un po’ come il corpus di una meto-
dologia che unisce vedere e fare, l’osservare e il produrre, in un gioco di
continua riconfigurazione dei ‘dati’ in ‘fatti’, così che le attività teatrali
non siano ridotte ed asservite al programma e alla didattica ma rese parte
e veicolo di una strategia pedagogica che chiede alla didattica di tradur-
re – e quindi di tradire – l’intenzionalità del progetto educativo sotteso
all’Istituzione Scuola e all’Istituzione Teatro. Dall’utopia pedagogica è
possibile, cioè, produrre proprie distopie che estendono l’orizzonte edu-
cativo e fanno entrare in scena molti altri mondi. Sono i mondi finzio-
nali che entrano in relazione con la ‘realtà’. In questo non c’è intratte-
nimento né svago ma un complesso di-vagare per nutrire il cognitivo di
altro materiale e di altro ‘punto di vita’. Il sapere si connette con l’atto
del conoscere/com-prendere che diventa esperienza viva, vissuta, patica
che passa per il corpo e ne fa condizione necessaria all’essere-conoscere.
L’osservazione e l’ascolto diventano momenti qualificati e qualificanti
di un’attività dell’interpretare-comprendere che investe l’essere e il suo
esser-ci, non importante che sia nella ‘posizione’ di maestro o di allievo,
così che lo spettacolo teatrale, anche solo nel momento del suo accade-
re scenico, possa essere parte di un apprendere oltre e fuori dalle piste
tracciate dalle indicazioni (ministeriali). E una volta tanto, nel caso del
progetto Teatro Scuola Vedere Fare, sembra che una Legge, delle istituzioni
culturali e artistiche, delle istituzioni scolastiche, dei professionisti e degli
artisti, si siano fatti ‘cittadini’ di una Bildung essa stessa in formazione.
L’osservazione e l’ascolto sono già un fare e, se inseriti in un sistema
formativo più complesso, sono anche la condizione perché il fare non sia
un ripetere ma un agire con senso. Il vedere-Teatro ha già una qualità
31
pedagogica che collega prometeicamente quel vedere ad un fare e che
instaura uno spazio-tempo differente che chiamiamo della sospensione
“per poter aprire lo spazio ad un atteggiamento di tipo autenticamente
ermeneutico e autenticamente interpretativo, senza credere che vi sia
una verità nascosta da rivelare” (Massa, 2002, p. 327). La sospensione cui
invita Riccardo Massa, questo rarefarsi/alterarsi e mutare di ritmo, entra
nel lessico pedagogico e diviene pratica liberatoria che apre un varco ver-
so ciò che è meno evidente, reso invisibile da un occhio-orecchio-pelle-
corpo che afferra e fa presa solo su ciò che ri-conosce, per abitudine.
Nella sospensione come pratica del vedere c’è un principio di cinetica
differente: una mobilità praticata per “restituire alla vita i suoi significati
formativi e alla formazione i suoi significati vitali” (Massa, 2002, p. 332)
così da sottrarsi agli automatismi dell’abitudine e restituire profondità al
vedere oltre che al fare.
Utilizzando un approccio clinico alla formazione sostengo che “La for-
mazione diventa oggetto narrativo!” (Massa, 2002, p. 329) così che an-
che i dispositivi normativi che riguardano e regolano la formazione, e
più nello specifico l’educazione scolastica, siano l’oggetto empirico da
osservare perché carico di epistemologie implicite e di una cultura dell’e-
ducazione che guida poi questa o quella pratica. Se anche il dispositivo
normativo diventa oggetto di studio e ricerca empirica è perché questo
speciale ‘testo’ può ‘dire’ cose differenti in base a chi lo legge e a chi se
ne fa attuatore. E questo lo ribadisco perché non basta dare indicazioni
strategiche da parte di un ministero, il ministero dell’istruzione, perché
il Teatro sia introdotto in maniera univoca nella didattica e nelle attivi-
tà scolastiche curriculari ed extracurriculari. Bisogna allora esplicitare la
pedagogia sottesa di cui si è portatori perché questa orienta ciò che viene
compreso del testo normativo e genera tante e differenti interpretazioni.
Sulla base di questa varietà interpretativa, nominare il Teatro-Scuola, pur
nell’ambito degli stessi riferimenti normativi, produrrà esiti molti diversi
che lasceranno emergere le specificità dei contesti e le diverse capacità
degli ‘attori’ di attuare questa o quella pedagogia in nome delle stesse
‘linee guida’. In questo senso, qui non voglio affermare né indicare una
‘corretta’ interpretazione né una buona prassi, quanto invitare ciascuno a
riflettere sulle modalità attraverso cui è possibile dare forma al ‘proprio’
Teatro formante e trasformare la Scuola in una scena tras-formativa la
cui struttura si sa che si è contribuito a costruire – come chi esplicitamen-
te aderisce al progetto Teatro Scuola Vedere Fare – oppure comporre e con-
figurare quella stessa complessità in maniera da unire caso e necessità.
32
Operare una decostruzione per il Teatro e per la Scuola, così come per il
Teatro-Scuola, è una opportunità che mi sono data in questa sede per-
ché consapevole di usare due dispositivi-concetti, Teatro e Scuola, che
funzionano in risposta a diverse intenzionalità che a loro volta generano
strumenti artificiali e ingegnose tecnologie dell’apprendimento e della
formazione. Due concetti che in ogni tempo e ad ogni latitudine o lon-
gitudine hanno preso vita per rispondere a bisogni sociali legittimati dal
contesto in cui quei bisogni e quel Teatro e quella Scuola sono emersi.
‘Leggere’ le linee guida come esse stesse suggeriscono, cioè come “co-
mune corpus teorico pedagogico e didattico”, invita di fatto a riflettere
sul corpus teorico pedagogico e didattico di cui si è portatori e quindi
a divenire consapevoli della propria cognizione in materia di Teatro e
di Scuola. L’invito alla ‘lettura’ è sicuramente rivolto agli insegnanti, ai
professionisti della formazione e ai professionisti della formazione che
hanno scelto il Teatro come medium e come veicolo di relazione/comu-
nicazione/formazione. Dove, essere esperto o professionista di Teatro-
Scuola non significa sapere usare correttamente il medium, quanto invece
essere chiamati a realizzare e a far esistere ciascuno il proprio progetto,
la propria idea di Teatro e di Scuola che ha bisogno di coinvolgere atti-
vamente il gruppo, la classe, perché il singolare nutra il plurale. Il Teatro
come la Scuola sono spazi di co-esistenza, singolare/plurale (Nancy, 1996)
dove si coltiva la dimensione politica dell’essere e del conoscere. I modi
del coltivare sono essi stessi plurali e non basta indicare Scuola, Tea-
tro, né tantomeno Teatro-Scuola per ‘dire’ esattamente il senso che si
conferisce loro e che si prova ad ‘esprimere’ nel lavorarci. La fatica del
produrre senso si rinnova giornalmente e riguarda la comunità che at-
tua materialmente quelle indicazioni normative. Bataille, George Bataille
(1967), avrebbe definito questa attività come quelle che concorrono al
dispendio: perché la norma non sia ridotta ad un vademecum per realizzare
lo spettacolo come ‘utile’ da mostrare ai parenti oppure a qualche ras-
segna teatrale, o per individuare i criteri con cui ‘logicamente’ scegliere
quello dove essere spettatori, in nome dei programmi e degli obiettivi
didattico-disciplinari. Il diritto, ovvero una delle sue espressioni che ha
dato forma a quel dispositivo normativo di cui il mondo della Scuola si è
dotato dichiarando la sua strategica alleanza con il Teatro, in questo caso
va osservato, da chi vuole farsene interprete, con sguardo interrogativo
per cercare nelle pieghe del testo quei ‘rovesci’ e quegli interstizi che
fanno spaziare e muovere, dispendiosamente, verso un certo senso della
comunità e della sua sacra linfa vitale, verso un singolare quanto plurale
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vedere e fare Teatro. Perché la dispersione apre allo spazio comunitario,
costituisce la spaziatura per offrirsi, donarsi e comunicare con l’altro.
Proprio come in un certo Teatro. L’essere produttivo nel senso di questo
certo Teatro riguarda la comunità, lo spazio della condivisione, l’essere-
in-comune di Nancy (1996). E proprio attraverso questa prospettiva e
questa tensione comunitaria ci si riavvicina alle linee guida per il Teatro-
Scuola, riconoscendo che il Teatro-Scuola, così come la norma che lo
istituzionalizza come attività didattica, non costituisce una finalità bensì
individua esplicitamente nel vedere e nel fare Teatro un modo per dare
materialità e visibilità alla propria pedagogia e alla propria epistemologia
pedagogica. Attraverso la concretezza dell’agire performativo si può dun-
que lavorare con un certa qualità pedagogica sull’apparire che implica
un comparire e quindi un prendere contatto con la propria co-esistenza
(Nancy, 1996, p., 22). Interessante quindi, per tutti gli attori del siste-
ma scolastico, raccogliere dati e osservare cosa uno stesso dispositivo ha
generato in termini di varietà e di pluralità. Vedere o realizzare un’opera
teatrale diventa, o può diventare, l’occasione per una comunità di realiz-
zarsi come tale. Per questo, ovvero per tutti i molteplici modi che una co-
munità tesse legami che strutturano un ‘tra’, non è possibile individuare
né indicare la via più giusta al fare Teatro-Scuola. Ci si può solo confron-
tare e osservare attraverso lo sguardo degli altri: come a Teatro, appunto.
E come nella rassegna Maggio all’infanzia in cui confluiscono i lavori
realizzati dalle classi partecipanti a Teatro Scuola Vedere Fare. Perché non
si segue una moda, un modo, ma si fa esperienza della Scuola come Tea-
tro e del Teatro come Scuola, e soprattutto non si segue una indicazione
normativa come fosse un ‘dettato’ ma si auspica si producano reti di
relazioni tra diversi ‘attori’ del sistema educativo e artistico-organizzativo
locale in grado di costituire un sistema intelligente capace di interagire e
comunicare anche fuori dal territorio di cui sono espressione, per ragioni
che attengono a quella Bildung e a quell’Umanesimo di cui dicevamo con
Gadamer. Le ragioni dello spettacolo, anche solo quello a cui assistere,
coincidono con la sua necessità; e il dispositivo normativo messo a punto
ad hoc per ‘indicare’ l’uso didattico delle attività teatrali, ha una funzione
politica attraverso cui si esplicitano le necessità di una comunità. Come
Jean-Luc Nancy tiene a sottolineare, lo spettacolo è una forma di mes-
sa in scena dell’essere-sociale e della sua co-esistenza se “l’essere-sociale è
essenzialmente un essere-esposto” (Nancy, 1996, p. 96). In tal senso la
rappresentazione nella sua forma di spettacolo dal vivo, di Teatro, è quel
particolare caso del reciproco farsi presente di cui ciascuno necessita per
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cogliere di Sé la propria sfera pubblica, politica, spettacolare appunto. La
rappresentazione in forma di teatro ‘lavora’, mediante la mimesis, sul sen-
so della responsabilità, della consapevolezza, e contribuisce a costruire
quel ‘noi’ come riparo dal vuoto individualismo esibizionista. La parteci-
pazione allo spettacolo, sia in forma di attore che di spettatore – e quindi
proprio l’attivazione del dispositivo mimetico che ereditiamo dalla tra-
gedia greca ateniese – è necessaria perché lo spettacolo compia la sua
funzione necessaria riferita al com-parire. “E com-parire […] Significa
trovarsi nella simultaneità dell’essere-con, in cui non c’è alcun ‘in sé’ che
non sia immediatamente ‘con’” (Nancy, 1996, p. 94). Il com-parire può
essere utilizzato come chiave di lettura, come dispositivo, per decostruire
e comprendere le linee guida per il Teatro-Scuola in un’ottica che Ric-
cardo Massa (2002) ha definito di “comprensione trasformatrice” e che
costituisce una prospettiva con cui ripensare Teatro e Scuola in termini
politici e sociali, nuovamente come espressione di una presentazione,
cioè di un farsi presente consapevoli che “non c’è ‘presenza’ che non sia
la presenza degli uni agli altri” (Nancy, 1996, p. 95). Se il diritto indica
un sistema di valori, allora la normativa in materia di ‘Buona Scuola’
e di ‘Teatro-Scuola’ esprime il valore dell’essere-sociale, del reciproco
essere-presente, così che, a partire dal suono della campanella che dà
avvio alle lezioni e dall’appello che chiama i presenti, sia tutto ricondotto
ad una pratica sociale del com-parire e del com-prendere. Il diritto, anche
solo quello codificato in un documento sintetico denominato ‘indicazio-
ni strategiche per l’utilizzo didattico delle attività teatrali’, contiene una
sua Pedagogia che individua nel Teatro una metodologia che lavora sulla
consapevolezza e sul senso di reciproca responsabilità per una diversa
qualità dello stare al mondo, di abitarlo, di costruirlo, che corrisponde
ad una diversa qualità dell’esistere che forma alla capacità di stare e di
agire in relazione a dove si sta, a dove si è situati e in rapporto a chi è
presente con te.
Sembra tornare attuale e necessaria cioè una vita activa (Arendt, 1958)
in cui il giudizio, la capacità di giudicare-pensare, emerge nell’azione, è
affidata cioè al gesto teatrale che trova senso sulla scena e attraverso gli
sguardi che su quella scena compaiono. L’azione, che è gesto teatrale se
‘arriva’ all’altro, se ha in sé l’altro, se comunica di sé all’altro, diventa
quello speciale e vitale spazio-tempo in cui non risuona il così fan tutte
bensì un inno alla gioia!
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I perché del Teatro-Scuola.
Per una politica dell’educazione
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la parola e ne indaga le pieghe non verbali ma vocali e sonore (Cavarero,
2003), così innovativa negli anni ’70 e oggi così fortemente legittimata dai
più recenti studi di neuroscienze e dal loro contributo a un’altra cultura
dell’educazione (Bruner, 1996). Una cultura dell’educazione che ha guidato
di certo le diverse teste ben fatte (Morin, 1999) che animano il progetto
Teatro Scuola Vedere Fare e gli enti-istituzioni cui afferiscono.
Ripensare qui a quanto vissuto, a quel flauto e alla gioia provata nel sen-
tirne il vibrato e riuscirne a domare i suoni in armoniche, ha un valore
tutto speciale quando si incontra con una riflessione sul senso pedago-
gico del fare Teatro a Scuola e del portare la Scuola a Teatro. Insieme
alla drammatizzazione e alla finzione scenica, io ho conosciuto il mondo
sonoro e quello musicale avendo accesso, pienamente dentro la didattica
curriculare e l’ordinario delle attività scolastiche, al regno del non-verba-
le, attraverso il flauto, la cui forza simbolica Jean-Pierre Vernant (1990) ci
aiuta a ricostruire come proveniente dalla lontana mitologia classica, che
ha fatto da medium per estendere il nostro mondo naturale a quello so-
vrannaturale. Un raffinato lavoro di cucitura tra codici e linguaggi diffe-
renti che oggi emerge come una necessità educativa e un richiamo espli-
cito a bisogni educativi speciali, disabilità, interculturalità, intelligenze
multiple, disturbi dell’apprendimento e altre fenomenologie del caso, e
che richiama ad un certo Teatro-Scuola o a una Scuola-Teatro che grazie
alla ricchezza e alla varietà dei codici e dei linguaggi si sperimenta, ogni
giorno, come “campo relazionale” in cui l’arte occupa una posizione pri-
vilegiata tra le forme di relazione sociale necessarie al costruire mondi
e produrre conoscenza. La lezione di Dewey sembra tutta compiuta in
qualche modo, e resa praticabile da una maestra la cui postura epistemo-
logica mi ha condotto a incorporare l’arte, a iniziare da quella del suono
del flauto, la dimensione materiale e insieme immateriale che ne gover-
nano il processo produttivo e che costituiscono la multidimensionalità
dell’essere-esistere, dell’agire-com-parire, del conoscere-com-prendere.
Nel suono che è anche gesto e smorfia mostruosa per il volto che si defor-
ma perché quel suono possa prendere forma, ho conosciuto le possibilità
che ha il corpo di rendere presente il suo essere ‘animale vivente’. Così
risuona Dewey che sostiene che: “Per capire le fonti dell’esperienza este-
tica è pertanto necessario prendere in considerazione la vita animale al di
sotto del gradino dell’uomo” perché dell’animale vivente – o della bestia
e del mostro direbbe Vernant – ci interessa che è “pienamente presente”
(Dewey, 1934, p. 44). La presenza, quella che abbiamo concettualizzato
con Jean-Luc Nancy e con Derrida, è una qualità che per Dewey indica la
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vitalità necessaria al fare esperienza perché “L’esperienza, nella misura in
cui è esperienza, è vitalità intensificata” (Dewey, 1934, p. 45). Dell’animale
allora recuperiamo con Dewey questa vitale condizione di una presenza
piena che ne fa “un buon osservatore del mondo intorno a lui e ben teso
con energia. Quando osserva quel che si agita attorno a lui è lui stesso
agitato. La sua osservazione è sia azione che si prepara, sia previsione del
futuro” (Dewey, 1934, p. 44). Il non-umano/animale dell’umano ci inte-
ressa pedagogicamente perché costituisce una condizione e una qualità
dell’essere e del farsi presente necessaria al fare esperienza e dunque al
mettersi-in-opera. Un’opera che a Teatro non è conservata se non attraver-
so l’esperienza del pubblico e dell’incontro tra il pubblico e gli artisti. Ma
che per il progetto Teatro Scuola Vedere Fare provo a conoscere attraverso le
schede degli spettacoli inseriti nella stagione teatrale e dedicati al progetto
e quelli realizzati dagli alunni. Di questi ho anche una documentazione
audiovisiva e fotografica da cui estraggo tracce di un lavoro riconducibile
ogni volta a diverse sensibilità, poetiche, drammaturgie del corpo e degli
oggetti. E lì il non-umano/animale affiora in forma fiabesca oppure come
implicito di una mobilità a piedi nudi e con le mani per aria, che trova in
una smorfia dietro la maschera, sotto un manto bianco o dietro un aquilo-
ne che non vuol volare la via per provare ad essere altro.
E la vita animale, io l’ho conosciuta nella forma della Gorgone, imparan-
do a suonare il flauto, a entrare concretamente in uno stato eccitatorio
che mobilita i sensi e tutto il sistema motorio, trasformando lo spazio-
tempo in una ritmica differente dal flusso lineare e dando corpo ad un’a-
zione fuori dall’ordinario, pienamente partecipativa e comunicativa. Una
vita che ora riconduco a un quadro epistemico attraverso il quale ‘signi-
ficare’ il Teatro-Scuola e quella particolare esperienza-progetto che è Te-
atro Scuola Vedere Fare e che attraversa e nutre il perché di questo volume
e il perché del Teatro-Scuola.
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Come in un gran bel giardino, a Scuola come a Teatro, tutto è incon-
sueto: gli odori, i suoni, la durata del tempo, la dimensione delle cose.
L’inconsueto ha la consistenza del mezzo-sogno in cui si è avvolti come
dal ronzio di api e di uccelli. Le rumorose sonorità di un tempo sospeso
dove ci conduce Clarice Lispector col suo racconto ci ricordano che,
nella storia dell’uomo e del mito, al flauto si è aggiunta l’arpa così che la
voce, libera dallo strumento, potesse diventare canto e la maestria delle
mani liberare il vibrato delle corde e della tastiera ed estendere e variare
l’estensione vocale, producendo altra materia sonora vocale modulata in
suoni poi codificati in parole. Il suono è il mondo – dionisiaco – nel quale
immersi siamo sin dalla vita intrauterina (Tomatis, 1972-1991). Immersi
e toccati da materia sonora, orecchio e pelle sono i due sistemi prima-
ri del linguaggio e della comunicazione umana che dal ventre materno
strutturiamo per restituire quel sentire tattile in tante altre forme e in
tante altre scene. Il suono, la voce, la parola, il gesto, l’azione, sono le for-
me che apprendiamo dall’ambiente per esistere e costituiscono la qualità
attraverso cui la materia di cui siamo fatti esiste: qualità che dice di una
costitutiva dimensione tattile e cinetica dell’essere e del mondo che pree-
siste a quella visiva – apollinea – e fa dello stare al mondo una condizione
‘tragica’, che è del conoscere stesso, direbbe Nietzsche (1871). Questa
condizione tragica è di Prospero e di Ariel, di don Chisciotte o del Picco-
lo Principe come dell’orco o della strega: la pienezza con cui esibiscono
la loro volontà, la loro patica ragione, può diventare per incanto mimeti-
co quella di chi si mette loro in ascolto. La visione (dello spettacolo) ha la
qualità dell’ascolto se assume il senso tragico del patire, del partecipare,
dell’essere e del fare come-se. Si ascolta il suono, la sua materia, prima
che diventi canto o coro, per lasciare che il sentire non cada nella ricerca
rivelatoria di un significato puntuale ma sia in grado di mobilitare altro
sentire con cui afferrare la materia sonora perché questa muova verso
un’altra dimensione del conoscere: quella dove dionisiaco e apollineo si
incontrano. Così William Shakespeare, Italo Calvino, Antoine de Saint
Exupery, i fratelli Grimm, Miguel de Cervantes e molti altri – gli autori
classici e contemporanei dalle cui opere le compagnie teatrali producono
gli spettacoli inseriti nelle stagioni teatrali per ragazzi e quindi anche in
quella programmata per il progetto Teatro Scuola Vedere Fare – sono i lirici
le cui opere generano una potente materia sonora nella quale immergersi
e sentire/comprendere l’allegorica e metaforica realtà di cui è carica. Tre
gli spettacoli che le classi scelgono e vedono a teatro. Tre spettacoli che
gli insegnanti scelgono e attorno a cui è strutturata l’attività di Didattica
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della Visione, perché è esplicito l’obiettivo di integrare poi con i gruppi-
classe la visione degli spettacoli con il loro lavoro e studio curriculare.
L’insegnante partecipa all’attività di Didattica della Visione, prima quin-
di di vedere con i suoi alunni lo spettacolo a teatro, con la possibilità di
trasformare quella attività in una ‘bottega della didattica’ recuperando
del ‘vedere’ la totalità del sentire, la ‘tragica’ e lirica immersione e tattilità
dell’ascolto. Si tratta, a bottega, durante gli incontri di Didattica della
Visione, di riunire, dello spettacolo (del mondo), la natura dionisiaca a
quella apollinea: non più due mondi, due momenti e due spazi distinti
ma un unico corpo la cui materia è anche figura. Il corpo che vede è an-
che corpo che vive il suono, l’azione scenica, la musica, il canto, il gesto,
la danza. Vive e può prodursi in suono, azione scenica, musica, canto, ge-
sto, danza, non dimenticando della varietà dei linguaggi e delle possibili-
tà generative che possono aprire. L’insegnante che partecipa alle attività
di Didattica della Visione si regala dunque un’opportunità, entra e par-
tecipa di uno spazio dove inizia a realizzare il ‘suo’ Teatro-Scuola senza
cercare di mettere tutto in una spiegazione lineare ma scoprendo come
gli stessi contenuti disciplinari e la didattica utilizzata per l’insegnamento
non sono da usare in chiave trasmissiva o dogmatica. All’occhio si unisce
la forza paradigmatica dell’orecchio e della pelle e insieme ritrovano la
sapienza della mano dell’artista/poeta/artigiano.
E così, se con Vernant abbiamo ripercorso attraverso il mito l’ingresso
sulla scena educativa e teatrale del sacro e del sovrannaturale, ora mi
viene in mente il dilemma de Le due scuole in una delle favole filosofiche
di Ermanno Bencivenga (2007):
Al mondo ci sono due tipi di scuole. In uno si insegnano tutte le cose vere:
chi ha veramente fondato Roma, qual è veramente la montagna più alta
del mondo, chi vive veramente sott’acqua. Nell’altro invece si insegnano
tutte le cose false: che Roma l’ha fondata remo e Numa Pompilio, e che
sott’acqua ci stanno draghi e sirene.
Fra i due tipi di scuole c’è una bella differenza. Di verità ce n’è una sola:
se è vero che Romolo ha fondato Roma, non può essere vero che l’ha
fondata nessun altro. Quindi i bambini che vanno a questo tipo di scuola
imparano tutti le stesse cose, e quando le hanno imparate passano il tem-
po a ripeterle. “Roma è stata fondata da Romolo”, “Sott’acqua ci vivono
i pesci” eccetera eccetera. In ogni momento dell’anno, se entrate in una
scuola così ci trovate tutti i bambini che ripetono la stessa cosa, per esem-
pio che Roma è stata fondata da Romolo. Se uno sgarra e dice che Roma
l’ha fondata qualcun altro, gli danno dell’asino. Perché in queste scuole si
insegna la verità, e di verità ce n’è una sola.
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A lungo andare, anche i bambini che vanno a queste scuole diventano
tutti uguali: hanno tutti un grembiulino bianco, i capelli rossi e neri e gli
occhi gialli e blu, e mangiano tutti il gelato alla crema di ribes. Quando
crescono, vogliono tutti una macchina grande grande, con dentro il tele-
fono e il frigorifero e la lavatrice.
L’altro tipo di scuola è molto diverso. Siccome per ogni cosa vera ci sono
infinite cose false, ogni scuola di questo tipo insegna ai bambini cose
diverse, anzi ogni bambino in una scuola impara cose diverse dagli al-
tri. Uno impara che Roma l’ha fondata Remo, un altro che l’ha fondata
Numa Pompilio e un altro ancora che l’ha fondata suo zio Gustavo, che
tanto non ha niente da fare. Se entrate in una scuola così ci trovate un
gran pandemonio, con tutti i bambini che raccontano storie diverse e
nessuno può dire a un altro che ha torto perché tanto hanno torto tutti
e lo sanno in partenza. E i bambini, anche, sono diversi: uno ha gli occhi
verdi e un altro bianchi, uno ha il naso davanti e un altro dietro, uno por-
ta il grembiule e un altro lo scafandro. Quando crescono, uno vuole una
macchina con dentro il frigorifero e un altro un frigorifero con dentro la
macchina, uno va in giro con il vestito e la cravatta e un altro senza cra-
vatta e senza vestito.
Il problema adesso è: quale di queste è una scuola davvero?
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nella prima scuola tutto si ripete uguale a se stesso e tutti riproducono
la stessa verità, nella seconda scuola, quella dove si moltiplicano le sto-
rie e le differenze, c’è un pandemonio, quasi ad evocare una condizione
festante, sempre riconducibile ad una dimensione sociale e civica, come
quella cui il dio Dioniso, lo straniero, chiama perché si possa essere
‘posseduti’ dall’estasi divina e accedere alla saggezza sovrumana ricon-
ducibile al dio, oppure dirsene estranei perché seguaci di un altro ordine
nel quale ci si voglia sentire ‘liberi’. Quel pandemonio della favola fa eco
alle Baccanti di Euripide perché ce ne fa cogliere la necessità: quella che
nella tragedia greca fa spazio al rito e alla festa perché tutta la comunità,
nessuno escluso, possa condividere ciò che nel quotidiano resta separato
o non visibile e che nella favola contemporanea proposta dal filosofo per
presentare due scuole, diventa la festosa e festante condizione del mani-
festarsi ciascuno con la propria storia, consapevoli di concorrere tutti a
una visione molteplice e plurale del conoscere, del desiderare e quindi
del fare il mondo nuovo. Ma da cui tutti escono mutati. Nel pandemonio
della favola le differenze sono al centro di quella scuola “dove si inse-
gnano tutte le cose false”, mentre in quella in cui “si insegna la verità,
e la verità è una sola”, tutti sono uguali. Sembrerebbero le due scuole ri-
spondere l’una alla categoria di apollineo e l’altra a quella di dionisiaco.
Ma prima ancora che ‘interrogare’ Nietzsche sulla questione, in quanto
a uguaglianze e differenze, c’è un aspetto interessante che riguarda il
maschile e il femminile cui la favola fa solo un generico cenno e che
invece ritorna pieno di senso dalle Baccanti e dal culto di Dioniso che vi
si celebra. Il racconto tragico ci aiuta a ‘vedere’ il femminile e il maschile
come principi generatori di un certo ordine che la festa a Dioniso inter-
rompe: nel corteo della festa per le donne “L’accesso all’universo dioni-
siaco, all’idolo dalla maschera […] non esige da loro alcuna rinuncia a
ciò che esse sono: donne, a volte sagge matrone o ragazze, come quelle
che si potrebbero incontrare nei ginecei, a volte menadi agitate, frene-
tiche, ma in ogni modo, nell’ottica dei greci, già immediatamente altre,
in quanto donne, per natura e per definizione” (Vernant, 1990, p. 184).
Il femminile porta con sé il dionisiaco, contiene quella frenesia che ne
fa principio vicino al dionisiaco. Mentre “Per partecipare all’esperienza
dionisiaca, gli uomini sono costretti a moltiplicare le modalità di allon-
tanamento dalle norme, dalle condotte usuali, nel loro abito e nei loro
atteggiamenti. Devono abbandonare il contegno, la dignità virile nel
comportamento, il costante dominio di sé che sono propri del loro sesso.
Con la gioia del banchetto, la felicità del vino, l’eccitazione della danza,
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il frastuono, in compagnia di buoni amici, ecco come i maschi possono
avvicinarsi a Dioniso pur restando umani, cambiare pur restando ciò
che sono […]. Fare l’esperienza dell’altro, divenire altro, per il sesso
maschile significa – in un corteo di festa, dopo aver bevuto, nella danza
e nella musica, con una gestualità disordinata i cui eccessi ricordano i
comportamenti aberranti dei Satiri – confondere i confini che separano
le donne dagli uomini, il greco dal barbaro, gli esseri umani dai Satiri e
dal dio, rovesciarsi improvvisamente in un ambito di esistenza nel qua-
le non soltanto non esistono più determinati divieti, ma categorie che
normalmente si escludono si trovano a essere per un attimo confuse”
(Vernant, 1990, pp. 184-185). Ecco che, anche fuori dalla scena tragica,
la festante confusione, il pandemonio, è condizione di rigenerazione della
comunità e spazio formante capace di coltivare differenze. Il dionisiaco
diventa quel principio di cui si ha bisogno insieme con l’apollineo per-
ché si possano alimentare e far crescere tutte le dimensioni, i mille piani
di cui ciascun vivente è costituito e tra cui si muove, perché è animale
e animale sociale. Kaos e Kosmos insieme: l’uno condizione dell’altro e
viceversa. La maschera, il teatro, la possibilità di mutare il proprio vol-
to, la sua mimica e quella di tutto il corpo, il proprio rapporto con lo
spazio-mondo, sono costitutivi dell’esistere e dell’apprendere: a scuola
o anche per strada quando la strada si fa maestra, talvolta molto più che
la scuola. In questo senso, in nome di Dioniso si può erigere il Teatro
e il Tempio dentro la città, sono la condizione stessa della polis. Render
sacro lo spazio e percorrerlo al ritmo frenetico della festa, significa po-
ter introdurre l’extra-ordinario nello spazio pubblico trasformandolo in
quello speciale ambiente fuori del quotidiano che chiamiamo Scuola
e che chiamiamo Teatro. Richiamare e far risuonare in questo spazio
extra-ordinario il mito di Dioniso, in particolare nel racconto di Euri-
pide con le Baccanti, è perché con Vernant (1990) sosteniamo che “La
tragedia delle Baccanti mostra quali siano i pericoli di un ripiegamento
della città sui propri confini. Se l’universo del Medesimo non accetta
d’integrare in sé quell’elemento d’alterità che ogni gruppo, ogni essere
umano porta in sé pur senza saperlo, così come Penteo rifiuta di rico-
noscere quella parte misteriosa, femminile, dionisiaca che lo attira e lo
affascina sino all’orrore, allora, anche la stabilità, la regolarità, l’identità
si rovesciano e crollano […]. La sola soluzione è che l’Altro, grazie alla
trance controllata, all’ufficializzazione del tiaso e alla sua promozione a
istituzione pubblica per le donne (grazie alla gioia del comos, del vino,
del mascheramento e della festa per gli uomini), grazie al teatro per
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l’intera città, divenga una delle dimensioni della vita collettiva e dell’e-
sistenza quotidiana di ciascuno” (pp. 205-206). La tragedia della Bac-
canti risuona come quella di ogni città che, intera, può scegliere di non
separare il Medesimo dall’Altro, e di incorporare lo spazio dell’alteri-
tà: quello spazio che dedichiamo a Dioniso e alla sua maschera perché
possa aiutare a mescolare umano e divino, saggezza e follia, anche nel
dilemma consegnato dalla favola di Bencivenga e dalle sue due scuole.
Perché, come nella tragedia di Euripide “il conflitto Penteo-Dioniso può
essere interpretato come la drammatica messa in scena dell’opposizione
tra due atteggiamenti contrari: da una parte il razionalismo dei sofisti,
la loro intelligenza tecnica, la loro padronanza nell’arte del governare, il
loro rifiuto dell’invisibile; dall’altra un’esperienza religiosa che fa spazio
alle pulsioni dell’irrazionale e sbocca su un’unione intima con il dio”,
così per le due scuole si avverte la contrapposizione che produce solo
separazione e esclusione dell’uno rispetto all’altro e nulla sa dell’armo-
nia, cui si può giungere, senza possessione, senza manìa, ma con la gioia
offerta dal divino quando si produce in suono del flauto e nella danza
che lo accompagna.
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la dimensione del gioco e dell’assurdo che apre alla risata, mentre la
scintilla diventa fuoco e il piccolo fuoco un incendio. Come in un rito
sacro o nella festa, il fuoco è elemento generativo e rigenerativo e diventa
alleato di quel maestro che, come Rodari, vuole che sprizzi la scintilla per
accendere la fantasia: anche solo per lavorare con la lavagna, le parole,
la scrittura. L’immagine festosa e ridente della classe di Gianni Rodari
restituisce al contesto Scuola una dimensione che possiamo definire ‘te-
atrale’ se in quel far festa e in quella risata, nel duello acceso perché si
generi la folgore, rintracciamo una poetica che del teatro ha l’assurdo, la
possibilità di capovolgere e di far incontrare e confliggere elementi dif-
ferenti perché con quell’energia si possa generare altro e coinvolgere in
quel movimento rigeneratore tutto il preesistente.
Le uscite a teatro per assistere agli spettacoli scelti per il progetto Teatro
Scuola Vedere Fare inaugurano anche le attività laboratoriali: il laboratorio
teatrale realizzato a scuola con gli alunni e gli insegnanti e con il supporto
e la supervisione degli operatori teatrali estende la dimensione della festa
e del gioco. Tutti in scena! In azione! Questo è un teatro senza spettatori, dove
tutti sono attori: è la Scuola, la scena dove tutti i giorni è possibile si compia il
prodigio della formazione! Lo spettacolo è il processo stesso del mettersi all’o-
pera: non aspettiamo che il sipario si apra perché basterà solo che la campana
suoni! …Che suoni la campana! La campana che come scintilla faccia accen-
dere e sgorgare fantasia. Ecco cosa sembra di udire dal mio teatro interiore
che prende voce qui lasciando che affiori, grazie alla poetica di quelli
come Gianni Rodari, e si configuri una Pedagogia, un progetto attuale e
in fieri la cui tensione formante individua la grande e antica ‘macchina-
Teatro’ come metafora e come spazio per la dimensione attoriale poeti-
ca e politica di cui necessita la Cura del Sé e l’istituzione cui abbiamo
delegato in forma classica e poi moderna la cura del Sé, l’educazione, la
formazione del cittadino, e che chiamiamo Scuola. D’altronde, da Mo-
rin (1977) in maniera esplicita abbiamo conosciuto l’importanza delle
leggi della termodinamica sulla vita e l’organizzazione di ciascun vivente:
l’ordine e il disordine della materia indicano principi differenti e forme
di organizzazione differente che sovrintendono, in senso mobile e in di-
venire, il processo stesso del vivere. Le scintillanti perturbazioni e lo stato
eccitatorio che ne consegue sono quella condizione – focosa – che lo
stesso Rodari individua e cerca nel suo farsi maestro. Il maestro è quin-
di anche ‘mastro di festa’: quello che fa reagire l’esistente e fa in modo
che si trasformi, mettendo in scena, ovvero dandogli ‘spessore’ attraverso
l’azione scenica, quel teatro dell’immaginario che prova a farsi ‘reale’.
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Il ‘mastro di festa’ non è il deus ex machina, non è il burattinaio che tira
i fili e guida l’azione, ma è solo quello più consapevole dell’importanza
delle interazioni, quello che si fa osservatore del suo agire, il professionista
riflessivo per dirla con Schön6, che fa esperienza dell’essere soggetto e og-
getto, allo stesso tempo, del processo di cui è partecipe. In questo senso
rileggere Alfred Jarry e il suo Ubu, così difficile da smuovere con la sua
ventraglia – Ubu Re, Ubu Cornuto, Ubu incatenato, Ubu sulla collina – può
smascherare chi vuole farsi maestro, a Scuola come a Teatro, pensando
di farsi burattinaio da gran Guignol. Non c’è burattino né burattinaio,
né tantomeno un canovaccio, nella Scuola e nel Teatro dove si fa festa
lasciando che s’accenda il fuoco e ciascuno senta la propria vita farsi sto-
ria. Così, in quella Scuola e in quel Teatro, Natura e Cultura, Biologia e
Cognizione/Conoscenza, emergono nell’unità stratiforme e multidimen-
sionale dell’agire-comunicare-esistere: nessuno escluso! Quell’agire che
chiamo Teatro perché incontra lo sguardo di un altro. In caso contrario,
ci avverte Alfred Jarry, si diventa la ‘ventraglia’ che è Ubu. Non la ma-
schera ma il suo ventre fa da monito a chi non volesse indossare e agire la
maschera e le sue smorfie patafisiche con cui immaginare e inverare tutte
le soluzioni possibili alla drammatica commedia umana.
E così osservo il materiale audiovisivo e fotografico che del progetto
Teatro Scuola Vedere Fare è stato prodotto e archiviato. Soprattutto quello
delle attività laboratoriali: quando il Teatro entra a Scuola e ne scom-
piglia l’ordinata geometria e fissità degli spazi. Mi soffermo sui dettagli
oppure sull’immagine d’insieme per cogliere di quell’attività l’esperien-
za che si è generata. Ne osservo sguardi e posture, lo smarrimento o la
felice risata, i passi e i gesti goffi insieme alle energiche esplosioni in
salti preceduti da supine respirazioni. Le aule scolastiche esibiscono la
loro trasgressiva possibilità plastica e i corpi trasfigurati ne esplorano
nuove traiettorie che dicono di molti slittamenti e sconfinamenti tra le
6
In particolare, “quando il professionista riflette nel corso dell’azione, egli diventa un
ricercatore operante nel contesto della pratica e costruisce una nuova teoria del caso
unica. Egli non tiene separati i fini dai mezzi, ma li definisce in modo interattivo, men-
tre struttura una situazione problematica conversa con la situazione, senza separare il
pensiero dall’azione. Egli ragiona sul problema fino alla decisione che in seguito dovrà
trasformare in azione. È in questo modo che la riflessione nel corso dell’azione può
procedere, anche in situazioni a forte grado di incertezza o peculiarità, perché non è
limitata dalle dicotomie della cosiddetta razionalità Tecnica” (Schön, Donald, 1983, Il
professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica professionale, tr. it., Bari,
Dedalo, 1993, p. 94).
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due scuole, oltre cui si può restare anche senza parole perché se il corpo
e la sua stratiforme realtà prendono voce, questa non sarà più una sola
ma avrà l’eco e il riverbero di più voci insieme. Intanto le immagini e
i suoni estratti dall’archivio di Teatro Scuola Vedere Fare scorrono e non
ne posso arrestare il denso flusso disordinato né fermarne il significato
in un discorso che ne celebri questo o quel valore culturale, sociale o
personale. Sarebbe tutto troppo riduttivo, o potrebbe suonare come
retorico dato di fatto. L’osservazione e la riflessione che ne emergono,
invece, si incrocia con uno sguardo più ampio sull’attuale stato dell’arte
del Teatro e della Scuola perché, se nella realtà locale e particolare del
progetto Teatro Scuola Vedere Fare è possibile mobilitare risorse dei singo-
li e farle diventare bene comune, è anche possibile farsi architetti della
propria vita come della propria Scuola e del proprio Teatro e designer
della propria bottega artigiana. Il laboratorio, il Teatro-Laboratorio e la
Scuola-Laboratorio, non è più solo un’etichetta che suona sperimentale
e innovativa ma ne costituisce il senso stesso dell’abitare quei luoghi, di
varcarne la soglia, perché nel laboratorio eccedere diventa la regola che
contiene e disciplina l’istanza creatrice, perché tutto ciò che entra, si tra-
sforma e vi si produce, è opera collettiva per la comunità. Significativo
in questo senso che i risultati del laboratorio e quindi le comunicazioni
finali in forma di spettacolo trovino una cornice speciale nella rassegna
Maggio all’infanzia e quindi in quel “cantiere creativo” che accoglie e
rende condivisibile il lavoro che ha coinvolto i diversi gruppi di parte-
cipanti. Maggio all’infanzia, infatti, diventa a sua volta scena pubblica
e laboratorio aperto alla città, utile a testimoniare che tutto quello che
riguarda la formazione delle nuove generazioni assume una posizione
manifesta perché se ne avverta la concreta dimensione politica e poetica
declinata al futuro. Sul finire dell’anno scolastico, la rassegna Maggio
all’infanzia conclude il percorso del progetto Teatro Scuola Vedere Fare e
segna uno dei momenti in cui tutte le parti coinvolte si ritrovano insie-
me per riaffermare la ricchezza della cartografia pedagogica della co-
munità, le risorse che vanno oltre Teatro e Scuola e toccano la Famiglia
e altre figure di riferimento e le Istituzioni locali, per condividere e rin-
novare l’impegno di ognuno a tenere aperta bottega nella grande casa-
laboratorio che è la comunità educante con le sue poetiche e politiche
per le nuove generazioni.
48
4. Teatro e Scuola: per una cinetica della formazione
Ball-paradox
per Achille Perilli
49
perché il piacere del tracciare solchi per la semenza possa essere del
contadino e pure di chi coltiva orticelli dell’immaginario e si lancia con
spirito d’avanguardia pure verso terreni incolti o non mappati e ne pro-
duce buoni frutti. I frutti dell’albero della conoscenza (Maturana-Varela,
1984) non sono gli stessi da cui Newton ha dedotto le leggi della gravi-
tazione universale bensì ciò che puoi toccare con mano per conoscere
e produrre te stesso. Il contatto, il prender con mano, la relazione, sono
la condizione del conoscere e del creare, secondo la prospettiva tatti-
le circolare e autopoietica che facciamo risalire ai due biologi cileni.
Per chi si occupa di Arte è più normale occuparsi del vivente in ogni
sua forma: abbiamo visto come Euripide abbia introdotto, attraverso il
racconto drammaturgico risalente ad origini mitologiche, l’animale e
il mostruoso, lasciando che entrassero in scena per diventare parte di
un intreccio che corrispondesse al groviglio dell’esistere che ciascuno
prova a districare secondo logiche di senso e non-senso. Attori e spet-
tatori insieme, nel groviglio della trama e del loro organico inseparabile
di essere e di agire. L’agire diventa qualità e condizione dell’esistere
e dell’apprendere: in questo senso pare inconsistente dividere maestro
da allievo, attore da spettatore, perché agire e osservare stanno insieme
plasticamente nel dinamico processo del vivere.
Nello slancio con cui nella primavera del 1987 Humberto Maturana
e Francisco Varela invitavano sin dalla prefazione i loro lettori, quelli
dell’Albero della conoscenza, ad abbandonare le abitudinarie certezze per
pervenire ad un’altra visuale di quello che costituisce l’umano, in for-
za delle teorie sviluppate da Humberto Maturana già dal 1969 con la
sua Neurofisiologia della cognizione, s’avverte tutta l’attuale forza di un
paradigma che individua nella sensibilità e nella mobilità la condizione
dell’umano. Le implicazioni metodologiche di questo paradigma sono
significative e possiamo considerare le attuali ‘indicazioni strategiche per
l’utilizzo didattico delle attività teatrali’ una sintetica torsione generata
ed emergente proprio da quella prospettiva biologica al ‘problema’ della
conoscenza. Perché albero e frutti, come maestro e allievo, dicono di una
connessione necessaria: la loro relazione è il focus di una Scuola che fa
della pratica teatrale un habitus per coltivare-costruire uno spazio di vita
che Martin Buber (1953) avrebbe chiamato di dialogo.
Il dialogo tra maestro e allievo è anche uno degli obiettivi che attraver-
sano il progetto Teatro Scuola Vedere Fare. Un dialogo in cui la finzione fa
da medium per la relazione che produce comunicazione, apprendimento,
opera. Alla relazione si partecipa, come alla co-costruzione della cono-
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scenza e alla produzione dello spettacolo-comunicazione finale. La rela-
zione e la sua qualità dialogica è anche la sostanza dell’agire scenico e di
quello scolastico che sposta l’attenzione dal maestro alla maestria e alla
cura con cui fare le cose, e dagli obiettivi al percorso utilizzato o tracciato
per raggiungerli. Nel nome della relazione, dunque, un’attività scolastica
e un’attività teatrale integrata nella didattica curriculare a Scuola pos-
sono essere quella ‘scena’ dove ciascuno è chiamato a partecipare alla
costruzione del gruppo di lavoro, della comunità di apprendimento. In
questo senso, ‘vedere’ e quindi osservare e riflettere su quanto si è rea-
lizzato o su quanto altri hanno fatto è utile proprio in direzione di una
consapevolezza e di una capacità di ‘leggere’ e di ‘leggersi’ che unisce la
conoscenza alla conoscenza del Sé. Ma il ‘vedere’ ha bisogno di un suo
setting e di una sua preparazione all’ascolto. E questo l’insegnante deve
incorporarlo, proprio attraverso quello spazio laboratoriale dedicato alla
formazione e alla Didattica della visione che può dedicarsi per tornare in
classe con più attrezzi e con maggiore cognizione per l’ascolto, la rela-
zione, la partecipazione. L’insegnante cioè esce allo scoperto, si sposta e
si muove in territori altri da quelli propriamente scolastici, inizia a spe-
rimentarsi, anche nella continuità della partecipazione rinnovata negli
anni al progetto, con altro corpo-docente, altre visioni e altre pratiche
di Scuola e di Teatro, con altre discipline ed epistemologie didattiche
tenute insieme da obiettivi che sembrano quelli scanditi dalle fasi del
progetto ma che invece possono essere molto altro ancora. La mobilità
non sta solo nell’impegno di muoversi tra Scuola e Teatro dedicando del
tempo aggiuntivo rispetto al già gravoso peso burocratico e organizzativo
dell’insegnamento, ma sta soprattutto nell’opportunità di distogliere lo
sguardo dai soliti interlocutori e di straniarsi provando a disattendere
alle proprie aspettative di ricaduta pratica ed immediata, girovagando
e dissentendo pure dall’operatore/esperto di Teatro. Solo in tale stato di
mobilità l’insegnante in veste di regista potrà inserire pratiche inedite
nella sua didattica curriculare perché la sua ‘materia’ possa essere colta
dai suoi alunni come un delizioso frutto da assaporare e gustare insieme
a quello delle altre ‘materie’ con cui ricombinare e dare forma ad altra
materia ed altra opera.
51
5. Scuola come Teatro: per una politica dell’educazione
Nei quaderni, nei diari, tra gli appunti, a Scuola come a Teatro, compare
sempre qualcosa che sembra somigliare al Manifesto surrealista e degno
di sfidare l’imperativo della tecnica per aprire all’interrogativo dell’Arte.
Sulle tracce di una possibile ‘antropolitica’, Edgar Morin ci suggerisce la
forza del movimento surrealista, considerando che “il surrealismo era sin
da principio qualcosa di più di un semplice movimento letterario, artisti-
co o politico; poetico nel senso più elevato del termine, esso è stato un
movimento fondato su una nozione totale e radicale dell’uomo. […] Nella
sua espressione più ricca, il surrealismo – sto alludendo ai manifesti di
Breton – non è un movimento che dà importanza al sogno o alla stranezza
quanto piuttosto un atteggiamento che fa proprio tutto ciò che sfugge alla
realtà, tutto ciò che esula dal reale quale ci appare nella normalità della
nostra esistenza […]. Come tutte le forme di pensiero che non accettano
le apparenze immediate, il surrealismo non fa che riconoscere la poca
realtà del reale, formulare l’idea della realtà dell’immaginario e tentare di
collegare l’una all’altro perché si arricchiscano vicendevolmente” (Morin,
1965-1999, pp. 48-49). La matrice poetica surrealista è individuata come
parte di una genealogia della ricerca pedagogica che fa dell’arte scenica,
del Teatro, uno spazio privilegiato dove ciascuno può fare esperienza della
propria ‘itineranza’ (Morin, 1965-1999) e del proprio concreto agire per
riconquistare la propria dimensione scenica, mondana e quindi politica,
52
necessaria a ripensare l’uomo attraverso la sua relazione con un cosmo di
cui ne è anche autore. Chiamiamo Teatro dunque quello speciale spazio
che incorpora la forza della poesia e fa di ogni azione un gesto politico. Se
dunque il Teatro, nella sua accezione poietica/politica, si sovrappone o si
integra alla Scuola e non si riduce ad un’ora dedicata al movimento e alle
emozioni – come se queste fossero estraibili a comando – significa che si
individua la forza rigeneratrice della sua perturbante materialità (Massa,
1987; Barone, 1997) e si fa del dispositivo-Teatro quella speciale Arte in-
tesa nel senso pieno della Techné che fa ‘scuola di vita’ perché prepara alla
imprevedibile vitalità dell’accadere e quindi ad ‘andare in scena’ consape-
voli che non basta avere un programma o delle conoscenze ma preparar-
si concretamente all’impreparazione, alla dislocazione, al punto di vista
differente e incorporarlo grazie alla pratica del laboratorio che consente
l’errore e ne fa parte della pratica stessa perché consente di andare oltre
la linea già tracciata e già conosciuta. Prepararsi all’impreparazione, alla
giravolta, passa per un lavoro che coincide con uno stato di formazione
permanente: significa attivare un lavoro che dura tutta la vita e che chia-
ma tutto il sistema corpo-mente-azione-ambiente a prender forma e a
manifestarsi sensibilmente sottraendosi alla somma dei dati e provando
ad afferrarne la possibilità di divenire, per nostra mano, dei fatti, secon-
do un “accadere concreto, storicamente e socialmente condizionato, en-
tro una certa fisicità corporale, spaziale e temporale, nell’ambito di una
loro peculiare simbolizzazione linguistica dettata dall’inconscio e dal loro
specifico regime esperienziale” (Massa, 1987, p. 49). La materialità del
Teatro, come della vita che prova ad entrare a Scuola trasformandola in
Teatro-Scuola, passa per la gravità dei corpi e per la loro goffa andatura
e pure per la leggerezza di un’immagine o di un suono che interrompe
l’incedere goffo, ne dilata o ne sospende il peso, e lascia che insorga la
meraviglia di un altro giorno felice.
Sembra delinearsi una politica e una poetica romantica dove è concesso
stare senza parrucca e con tanta voce. Ed ecco che parlare in versi re-
cupera della parola l’alto contenuto di impegno civico e storico perché
i versi e la forma letteraria suonino e vengano usate per generare ‘fra-
stuono’ e senso di smarrimento rispetto al già sentito e al già detto. La
necessità delle avanguardie pare emergere in ogni tempo. E così anche
nell’educazione, oltre che nell’apparente distante cittadella delle Arti. Il
Teatro è individuato come lo spazio dove si situano e crescono tutti i lin-
guaggi artistici e la loro ricerca, il loro spirito sperimentale e innovatore.
Inquieto e non domabile.
53
Chi scrive una poesia (e dunque
anche chi la scrive leggendola)
sperimenta tutta la possibile ambiguità e
comprensività del linguaggio. Strozzata
apparizione, rito demente e schernitore,
discorso sapiente, pantomima incorporea,
gioco temerario, la nuova poesia si
misura con la degradazione dei significati
e con l’instabilità fisiognomica del
mondo verbale in cui siamo immersi
(Alfredo Giuliani, 1961, a cura di, I novissimi. Poesie per gli
anni ’60, Torino, Einaudi, 1965)
54
In action. L’attivismo pedagogico
prende corpo tra vedere e fare
55
guardare e riflettere: perché la ‘scuola’ dei ‘maestri’ di ermeneutica e di
fenomenologica ci ha preparato a unire visibile e invisibile (Merleau-Ponty,
1964), a percepire anche le materie più sottili. E il Teatro ne è stato lo
spazio elettivo perché si dà ‘teatro’ quando la forma-opera esposta si of-
fre come incompiuta e mai ferma e ‘afferrata’ dallo sguardo di un altro
che ne esplora, incantato e operoso, le ulteriori e celate rappresentazioni
possibili. Il Teatro è corpo cavo: ventre che origina dal vuoto e si fa pieno
di un altro e del suo tramutare e divenire gesto. E quella cavità del Teatro
si fa piena di vedere e fare: il vedere dello spettatore che diventa fare e il
fare dell’attore che è frammenti di immagini in cui si guarda e riflette. Tra
attore e spettatore ci si scambia opere, immagini, pensieri, corpi, materie
composte e poi loro frammenti da ricombinare e comporre, in variazioni:
a Teatro come a Scuola, tra maestro e allievo si ingaggia un gioco fuori
dal dominio linguistico e dentro uno spazio che li vede ombre mobili che
mimano un fare originario o antico di cui sono immagine.
D’altronde, è esemplificativo che il nome del progetto, Teatro Scuola Ve-
dere Fare, unisca il Vedere e il Fare al Teatro-Scuola, come ne fossero
una condizione. Difatti, attorno al vedere abbiamo giocato a fare la mo-
dernità. In compagnia di Galileo Galilei abbiamo accolto il suo metodo
scientifico e quindi l’occhio, il vedere, l’osservare, il misurare, e anche il
sorvegliare e punire (Foucault, 1975), come tecnologie della conoscenza
e grandi macchine educanti. Eppure ne abbiamo colto il limite e la dis-
sonanza rispetto ai gioiosi eccessi del barocco e alla manifesta romantica
totalità. L’estetica del post-Moderno ci spinge oltre la Modernità senza
rinunce né troppe specializzazioni per riafferrare il turbamento patico
del sentire e dare sostanza e corpo al pensiero che ne emerge, denso
e leggero. Il fare, da bottega, sembra risalire dai medioevali mestieri e
poi dalle rinascimentali glorie umanistiche, per riemergere nell’attuale
iper-sensibile post-umano understanding by design (Pfeifer-Bisig, 2008).
Vedere e Fare non sono più in conflitto perché del Fare si scopre la fun-
zione di mediatore, così necessaria se la postura è quella della clinica del-
la formazione (Massa, 2002), perché attraverso i manu-fatti è possibile
vedere ed estrarre i dati come in un gioco di specchi e ‘leggerne’ il carico
di senso. Vedere unito al Fare è osservatorio che si spinge in profondità,
è riflessione. Osservatorio e spazio riflessivo che il progetto Teatro Scuola
Vedere Fare ha voluto rendere parte della sua metodologia insieme a una
forte impronta laboratoriale e sempre sperimentale. Per non restare ad
aspettare Godot, senza la certezza che qualcuno arrivi a cambiare le me-
ravigliose sorti e progressive del Teatro o della la Scuola e senza perdersi
56
dietro la chimera e il culto dell’autonomia normativa, ma uscendo allo
scoperto per non cadere nel vuoto formalismo di maniera né negli ecces-
si degli estetismi post-televisivi.
57
Attraversare i chiari del bosco richiede tempo perché il percorso non è già
tracciato. Ciò che è scritto può diventare suono e ridare vita alla parola
depositata in una pagina che invece pareva essere immutata e immuta-
bile. Ma perché la scrittura riprenda vita c’è bisogno di chi la incarni
e la trasformi in una presenza che nel farsi suono e gesto, poi svanisce
tracciando una circolarità tra attori, azione scenica e pubblico che ne
fa un unico corpo cavo e risonante che pratica l’ascolto e allena ad un
sentire totale la cui durata è un tempo che non cade come flusso ordi-
nario da orologio ma lascia accadere qualcosa. Il corpo cavo, che è il
Teatro e che può essere la Scuola quando segue una logica circolare, può
aprire varchi inaspettati ed essere il vuoto necessario, quella pausa, che
consente di fare un salto ed arrivare altrove. Il salto non ha un timing
definito, non accade ‘come da programma’, altrimenti si tratterebbe di
una trance collettiva spinta da una Ragione conformante. Il salto che
ciascuno può realizzare ‘ad un certo momento’ spinge in quello spazio-
tempo che chiamiamo formante quando segue l’ordine e la mappa del
poeta. Spazio-tempo del poeta che non è già segnato sulla mappa. Per
qualcuno può sembrare una perdita di tempo ed essere fastidioso come
quando si è nel regno di Ubu Re o nel ventre della balena come Pinocchio.
Il salto avviene attraverso la carne di Ubu o della balena, non è astratto e
deliberato esercizio di fantasia ma ha necessità di una cosa solida, e di un
sentire che questa genera, per volersene allontanare, separare e liberare.
La mimetica dell’arte come esperienza è essa stessa arte, arte del vivere
e dell’apprendere anche senza intenzione di farlo ma con la piena co-
gnizione di vivere e di esserci. Così quel salto, da Omero in poi, si opera
attraverso il tempo ed è un’operazione sul tempo. La sua possibilità di
variare. Come con Bach e il suo clavicembalo. Così per ‘saltare’ nel pro-
getto Teatro Scuola Vedere Fare e nella sua intenzionalità pedagogica, come
per tutti gli altri progetti di Teatro-Scuola, è necessario fare un patto
che impegni tutti i partecipanti per un intero anno scolastico. Non sono
importanti le singole attività, il loro succedersi cadenzato, le differenti
tipologie di risorse mobilitate e la varietà delle metodologie, dei luoghi
e degli strumenti utilizzati. È tutto il tempo che unisce le singole parti,
che si mescolano poi ad altri ‘pezzi’ di mondi e di vita fuori dalla Scuola
e fuori dal Teatro, che è necessario a ciascuno per poter ricombinare e
farne uno spazio-tempo altro: la stanza che ognuno può far diventare una
stanza tutta per sé.
58
3. Teatro come metodologia trasformativa
Lungo la riva del mare si può stare per ore a guardare il moto ondoso
del mare e il suo infaticabile ritorno. Non se ne viene a noia, come di
ascoltare il proprio respiro e vederne e poterne toccare la forza vitale che
lo muove. Si può stare in silenzio e sondare la propria intima profondi-
tà seguendone la mobile consistenza che si riflette nel danzare ritmico
dei flutti, senza dover giudicare che sia bello o brutto ma lasciandosi
sedurre da qualcosa che arriva da un’altra dimensione. Allora la riva
del mare, il bordo di una pagina, la soglia di una stanza di un museo,
la cornice che inquadra una tela, il fondo nero da cui si stacca la scena
di un teatro, segnano la possibilità di farsi ‘creatori’ e di cogliere “l’in-
tima unione di fare e subire” (Dewey, 1934, p. 75) che è alla base della
creazione artistica e della sua dimensione estetica. In sostanza, “questa
ricezione comporta attività che sono comparabili a quelle del creatore.
Ma la ricettività non è passività. Essa pure è un processo che consiste
di una serie di atti di risposta che si accumulano nella direzione di un
compimento oggettivo. Altrimenti non ci sarebbe percezione ma ricono-
scimento” (p. 75). Importante recuperare questo aspetto dell’atto crea-
tivo proprio per cogliere il nesso tra la pratica artistica e la formazione:
pratica artistica che può considerarsi formante e quindi generativa se
fa spazio in modo concreto al sentire, all’osservazione. Dewey focalizza
sull’artista ma potremmo dire lo stesso dell’homo faber e del suo fab-
bricarsi ad arte. “Se nel corso del suo fare non dà compimento a una
nuova visione, l’artista agisce meccanicamente e ripete qualche vecchio
modello prefissato come se fosse uno stampo rigido interno alla sua
mente. L’opera creativa in arte è caratterizzata da un’incredibile dose di
osservazione” (Dewey, 1934, p. 74). L’osservazione costituisce la qualità
estetica nonché la condizione del fare e del generare nuove visioni cui bi-
sogna sottrarre vuote meccaniche e automatismi. Per questo, progettare
un percorso complesso come Teatro Scuola Vedere Fare implica diventare
studiosi di biomeccanica. E di molte altre cose insieme. Come stare su
una giostra e divenirne parte. Come in quella ruotante ideata dal co-
reografo Yoanne Bourgeois con ‘Celui qui tombe’1. O come nel sistema
1
Performance ideata dal coreografo Yoann Bourgeois nel 2016 per la 16° Biennale
della danza di Lyon – vedi video: https://www.youtube.com/watch?v=1eBSi5B8nDY
o https://www.youtube.com/watch?v=n0zqQxz4DHs
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roteanza gravitazionale 2 di Lucia Latour e il gruppo di Altroequipe. La
mobilità e il suo principio cinetico, l’interazione e la sua qualità estetica,
l’osservazione e la sua potenziale generatività, tracciano le condizioni di
un processo la cui qualità artistica e pedagogica ha una sostanza perché
coinvolge la totalità della sfera corporea e produce formazione/tras-for-
mazione su un piano visibile, oltre che su quello invisibile che vi è sotte-
so. Per parlare di formazione in termini di trasformazione e di creazione
come del “compimento di una nuova visione”, torna l’antica sapienza
che arriva dal Teatro classico e che riconosce l’utilità e la necessità della
materialità della scena: una materialità che lega spazio e corpi ma non
dice del risultato, perché l’esperienza è incarnata e attualizzata, e non
meramente né solo meccanicamente trasmessa. Il Teatro-Scuola prova
a inverare questa materialità, tende a fare spazio all’esperienza: all’arte
come esperienza. Prepara a stare al mondo abitandolo, facendosene os-
servatore e creatore al tempo stesso. Come per l’artista in scena, e come
per l’atleta in pista, anche per insegnanti e per alunni a Scuola, la pratica
quotidiana offre la base concreta della propria crescita e del proprio
mettersi-in-opera pur tra molte e distinte discipline. La tensione poetica
alla formazione/trasformazione rende le discipline con cui si attua la
didattica quel filo rosso della conoscenza che poi s’annoda e cuce tanta
materia e materiali insieme. Non è Penelope che fa e disfa, ma è Maria
Lai che muove il gesto collettivo del legarsi alla montagna.
2
Laboratorio realizzato nel maggio 2013 in collaborazione con Lucia Latour, Orazio
Carpenzano e il gruppo di Labmutation di Altroequipe, presso la Facoltà di Scienze
della Formazione dell’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli per il
progetto ‘Digital space makes school. Apprendimento e formazione al tempo del web
3.0’ finanziato da Docebo spa e diretto da Maria D’Ambrosio (vedi documentazione
video: https://vimeo.com/67490787 e report di ricerca: Carpenzano-D’Ambrosio-
Latour, 2016).
60
L’arte di tras-formare con Teatro Scuola Vedere Fare.
Note metodologiche
61
di un museo, di una stanza, e di una statua, di una tela, di una composi-
zione musicale, di una dramma teatrale, estendono l’accezione di Scuola
e di Teatro e chiedono a quei luoghi e a quelle opere di piegarsi alla logica
generativa e non omologante del pedagogico.
Secondo questa cognizione generale, ripercorro i quattro anni di attività del
progetto Teatro Scuola Vedere Fare e individuo alcuni elementi interessanti da
osservare per operare una ricognizione e anche per sostenere una maggiore
e più estesa capacità del sistema-Scuola e del sistema-Teatro di produrre/
incarnare tanta ‘bella’ pedagogia, tanta perturbante poetica pedagogica.
Guardo allora alcuni dati e alla crescita progressiva delle Scuole, de-
gli alunni e dei docenti coinvolti. Guardando i numeri si può cogliere
già ad un primo sguardo che, nonostante il progetto richieda energie
significative e un impegno collettivo, il lavoro avviato ad ottobre 2014 e
che quest’anno ha programmato la sua quinta edizione, ha generato un
sempre più numeroso interesse nelle Scuole del territorio napoletano.
Numeri in crescita che dicono di un interesse concreto per un approccio
al Teatro-Scuola che richiede impegno e proietta la comunità scolastica
in quella artistica dei professionisti del Teatro rivelando connessioni si-
gnificative tra arte e formazione: connessioni da cui emerge, anche guar-
dando i materiali di presentazione delle diverse annualità del progetto,
una tensione alla ricerca che ne fa un osservatorio su una comunità di
pratica e sulle sue esperienze pedagogiche e artistiche insieme. Gli ordini
di grandezza numerica segnalano dunque un interesse e una partecipa-
zione dentro cui, poi, si può guardare più in profondità.
2014/2015
scuole classi gruppi/spettacoli studenti docenti
4 14 10 276 29
2015/2016
scuole classi gruppi/spettacoli studenti docenti
6 24 16 456 53
2016/2017
scuole classi gruppi/spettacoli studenti docenti
7 32 29 650 76
2017/2018
scuole classi gruppi/spettacoli studenti docenti
9 55 41 1122 154
62
TESSERE
Avviato prima della Legge di riforma della Scuola, cosiddetta ‘Buona
Scuola’, il progetto Teatro Scuola Vedere Fare è una ‘realtà’ che ha coin-
volto molti e differenti ‘attori’ in gioco, ciascuno con l’intento di rendere
condivisibile le proprie esperienze in chiave di possibile innovazione so-
ciale, operando una cucitura tra le due culture: quella del vedere e quella
del fare, quella del sentire e quella dell’agire, la teoria con la pratica. Sen-
za gerarchie e senza separazioni. Proprio come nella più antica tradizione
del teatro classico dove nulla basta a se stesso: l’eroe ha il suo anti-eroe
e il protagonista il suo antagonista, la voce del singolo ha come contrap-
punto quella del coro, il gesto può essere esteso o contraddetto dalla sua
ritmica e da quella del canto e della musica, l’architettura cela in sé la
sua distruzione e l’urlo un denso silenzio. La dimensione artistica e cre-
ativa che attraversa tutto il progetto è anche metalinguaggio con cui tutti
gli ‘attori’ coinvolti comunicano e partecipano estendendo e mutando
ciascuno la propria scena. Il risultato è una cartografia che disegna una
geografia inter-istituzionale, forse controcorrente, dove i rapporti sono
tenuti insieme come trama e ordito di un tessuto fatto ad arte. L’arte
costituisce l’impulso nuovo che il sistema formativo riceve per attivarsi e
configurare una visione che contenga, non solo formalmente, la ‘Buona
Scuola’. La scelta del Teatro-Scuola risponde, pertanto, alla prospettiva
63
estetica di Dewey e alla sua Pedagogia, tenuto conto che “L’impulso a
oltrepassare tutti i limiti imposti dall’esterno è insito nella natura stessa
dell’opera dell’artista. Appartiene al carattere stesso della mente creativa
di protendersi verso qualsiasi materiale che lo solleciti e di afferrarlo così
che il valore di quel materiale possa essere spremuto fuori e diventare
materia di una nuova esperienza” (Dewey, 1934, p. 193).
Osservando i dati riferiti ai partecipanti1 al progetto Teatro Scuola Vedere
Fare, nelle quattro annualità fin’ora realizzate, si possono vedere i luoghi
della città di Napoli coinvolti, e quindi il Teatro dei Piccoli, le Scuole con
i loro spazi, i Musei, i siti archeologici, i soggetti territoriali e poi le altre
città, gli altri Teatri, e comprendere che la progettualità e la metodologia di
Teatro Scuola Vedere Fare non pone limiti, non detta leggi su chi sta dentro
e chi sta fuori. Il coinvolgimento degli alunni disabili oppure dei genitori
e familiari, per esempio, fa parte della forza complessiva del progetto di
collocarsi in pieno in un contesto e di attivarne tutte le risorse o le con-
nessioni possibili. Fuori dalle etichette ‘speciali’ che rafforzano solo grandi
separazioni e inutili specialismi, quando Teatro e Scuola sono attivate in
quanto comunità in costruzione e come territorio in crescita, senza che la
retorica e le mere dichiarazioni d’intenti coprano il fibrillare della realtà,
si attivano strategie, si colgono opportunità, si sperimentano temporanee
soluzioni, e si tracciano altre piste percorse per via delle necessità occorse.
COMUNICARE
La progettualità di Teatro ScuolaVedere Fare ha una sottesa e costitutiva ma-
trice pedagogica e teatrale che considera ogni passaggio, ogni azione, ogni
intenzione, come momento pubblico, come ‘messa in scena’. Si lavora cioè
per cercare e sperimentare le forme più adatte per presentarsi e per coin-
volgere gli altri, per contribuire a delineare ed attuare delle politiche attive
che utilizzano l’arte in chiave di fermento sociale e culturale. L’ambizione
del progetto è anche di realizzare e superare i propri obiettivi, costruendo
una solida comunità di organizzatori, operatori, attori, registi, educatori
teatrali, esperti e studiosi, per affermare la funzione sociale del Teatro e la
possibilità di allearsi alla Scuola per recuperarne il fondante valore estetico
attraverso cui si compie quello etico. Il gruppo di lavoro su cui si regge
il progetto è solo un punto da cui parte un impulso. Teatro Scuola Vedere
Fare è una ‘chiamata alle arti’ per la Scuola, e quindi per i dirigenti, gli
insegnanti, gli alunni e i familiari, perché si uniscano insieme in un lavoro
1
Vedi paragrafo in appendice.
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capace di attivare e unire energie, in direzione di una spinta fuori di sé in
grado di produrre e dare corpo alla ‘grande opera’ che è la formazione del
cittadino. Opera la cui realizzazione non si compie mai veramente del tut-
to. È un processo i cui esiti possono essere molti diversi e mutare lungo il
percorso. Per questo l’Arte viene incontro alla Pedagogia, perché sebbene
si individuino obiettivi, strumenti, risorse, non è detto che il risultato sia
coincidente con quello previsto. E forse il bello sta proprio in questo. In
qualche modo Velasquez in Las meninas (1656) ce lo aveva detto attraverso
la sua tela e con lui hanno continuato a ripeterlo Pablo Picasso e poi, più
di recente, anche Eve Sussman: le opere e gli spettacoli di cui si è spetta-
tori, la tecnica e gli strumenti degli artisti e degli esperti, i protagonisti e i
loro ruoli, non vanno presi così come sono ma vanno pensati e ‘messi in
scena’, sperimentati nella loro azione e interazione con chi incontrano. Il
momento dell’incontro reciproco, della comunicazione, è quello decisivo
perché l’impulso poi possa trasformare gli elementi in gioco e produr-
re altro per tutti quelli coinvolti. Per questo, con Teatro Scuola Vedere Fare
che qui abbiamo già detto usiamo come pretesto per comprendere quali
risorse attivare per dare senso all’agire scenico in funzione dell’agire for-
mante, ci si può sentire figli della modernità, di Velasquez, Picasso e Eve
Sussmann, e vivere il nostro tempo prendendoci cura della materialità del-
le cose e della cura che necessita il processo per produrle, consapevoli di
quanto non sia solo questione di tecnica, né di esecuzione. E di quanto sia
importante il tutto, l’insieme dei processi e dei prodotti. Attraverso quello
che va in scena è possibile ‘vedere’ anche quello che resta ed è presente
nel retroscena. Tutto in qualche modo è esposto per l’occhio che si fa abi-
le a guardare oltre e a cogliere la sostanza di ciò che viene mostrato e si
incontra in scena. Dentro e fuori le aule di Scuola, dentro e fuori le scene
del Teatro, in quel territorio dove ciascuno costruisce la propria ‘casa’, la
propria, unica ed esclusiva modalità di esistenza, l’incontro tra apparenze
si fa l’unica via possibile per afferrare e dare corpo alla propria dimensione
sociale e politica.
Su un altro piano poi, sulla scena, nel mondo inteso come Teatro, il corpo
manifesta e incarna questa o quella prospettiva pedagogica e quindi quella
cultura dell’educazione di cui si può diventare consapevoli se reso visibile e
posto all’occhio altrui. L’immaginario pedagogico della ‘recita’ e del ‘la-
voretto’ può sovrastare il dispositivo teatrale e può fagocitarlo facendone
proprio fedele servitore, producendo una retorica profondamente distante
dal senso generativo che parole come teatro, laboratorio, comunicazione,
parrebbero portare con sé. Quindi non basta introdurre a Scuola e nella
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cittadella della Pedagogia il Teatro per dire che si sia fatta o che sarà fatta
una virata verso l’attivismo pedagogico né verso quel criticismo o quella
decostruzione. Questo gli insegnanti più avveduti e gli operatori culturali
del mondo del teatro per l’infanzia, come Le Nuvole-Casa del contempo-
raneo, AGITA e Casa dello Spettatore, lo sanno come sanno che non ba-
stano tanti anni di esperienza né un progetto articolato come Teatro Scuola
Vedere Fare, né un momento storico apparentemente favorevole per via
della Legge di riforma e le relative ‘Indicazioni strategiche per l’utilizzo di-
dattico delle attività teatrali’, a fare un altro giorno felice per il Teatro e per la
Scuola. Chiamare come alleato di una riforma scolastica le attività teatrali
ha però il senso di una invocazione prodigiosa rivolta a quanto di sacro,
artistico e poetico è presente nel Teatro e può essere usato proprio come
elemento generativo e rigenerativo dell’istituzione scolastica e soprattutto
della estesa comunità famiglie-insegnanti-alunni. Per questo il Teatro non
può essere propriamente una disciplina. Né un’attività extracurriculare re-
legata ad una progettualità esterna. Ma è nel vivo della Scuola che il Teatro,
il Teatro-Scuola come quello pensato dagli ideatori di Teatro Scuola Vedere
Fare, recupera la centralità pedagogica dello stare insieme e dell’apparire/
mostrarsi l’uno all’altro perché lo splendore dei corpi restituisca luce alla
corporeità e al suo valore politico. Importante dunque che la dimensione
pubblica attraversi l’intera progettualità e renda i momenti di ‘spettacolo’
come l’evidenza dei corpi che si fanno spazio sulla scena e dice di una
presenza preparata alla sua funzione comunicativa. Lo splendore dei corpi
esibiti ha dunque la qualità etica ed estetica del comunicare che suona e ri-
suona eccedendo la fisicità dei corpi e dei loro gesti che spostano sul piano
pratico la necessità di legarsi/collegarsi e di ‘fare comunità’.
66
RIFLETTERE
Il Vedere è unito al Fare come il soggetto all’oggetto: una solidarietà che
genera una differente consapevolezza nell’agire, nel fare, perché osservan-
dosi nel fare o osservando gli altri fare si occupa una posizione differente
che aiuta a comprendere e comprendersi come realtà materiale e fenome-
nica sottoposta ad un continua interrogazione. Il Vedere a Teatro è come
la bottega della conoscenza della conoscenza di Edgar Morin: è dispositi-
vo metacognitivo attraverso cui si diventa consapevoli del proprio punto
di vista e dell’azione esercitata da ciascuno verso l’oggetto della propria
osservazione. Il Vedere a Teatro, per l’insegnante come per l’alunno, può
diventare pratica dialogica e aprire alle possibilità di incontro tra soggetto
e oggetto. L’evidenza non trova più solo sguardi ingenui. A Teatro, nella
pratica del Vedere, c’è tutta la sapienza di René Magritte e della sua opera
Il tradimento delle immagini, di fronte alla quale siamo invitati ad esclamare,
come suggerito dalla sua didascalia: Ceci n’est pas une pipe!
Attraverso il Teatro-Scuola e la sua pratica del vedere-fare, si costruisce
la comunità di quelli che sperimentano una postura attiva e critica verso
il mondo: la dimensione laboratoriale prepara ad essere via via sempre
più consapevoli e responsabili, mai piegati solo a ciò che accade ma aper-
ti a tutto quello che resta da fare, oltre il già dato.
La qualità riflessiva del vedere sta ad indicare dunque la necessità di
aprire un varco in profondità: si tratta di una qualità che passa per un
modo differente di considerare la superficie e di oltrepassarla, sapendo
di non poterne fare a meno e che l’andata non sarà come il ritorno se nel
riflettere muta la cognizione e muta anche l’agire che ne consegue.
67
RICREARE
Lo sguardo complessivo al progetto Teatro Scuola Vedere Fare e la riflessio-
ne epistemica e metodologica che ne è emersa e che sintetizzo in questo
volume, ci dà agio di sostenere che il corpo, la sua natura sensibile e la sua
tensione artigiana, è categoria fondativa per una pedagogia che, grazie al
Teatro e all’attuale Teatro-Scuola, ritrova la sua matrice politica, oltre che
riaffermare quella poetica. Il corpo è possibilità per la Pedagogia di farsi
azione, come il Teatro è forma della Pedagogia di farsi didattica. Per questo
a ciascuna prospettiva pedagogica corrisponde il suo agire formante e il
suo teatro. Ma il progetto Teatro Scuola Vedere Fare ci dà occasione di foca-
lizzare su una genealogia pedagogica che ha stretta parentela con la poeti-
ca, con la drammaturgia del corpo, e con la didattica laboratoriale e attiva.
Il pensiero pedagogico e la riflessione epistemica che ha generato nel tem-
po, hanno continuo bisogno di diventare nuova pratica e incarnare le piste
concettuali emerse dalla riflessione, dall’osservazione in azione. Il lavoro
di formazione degli insegnanti, quello di laboratorio teatrale per insegnanti
e alunni, la visione degli spettacoli, la preparazione di una comunicazione
finale e il confronto con quelle prodotte dagli altri, alcuni incontri semina-
riali su focus tematici scelti, la visita ad altri luoghi dell’arte e della cultura,
le letture e gli autori suggeriti o incontrati per caso, sono operate nella
logica dell’alveare. Non basta raccogliere ma è necessario trasformare, cre-
are e ricreare. C’è una importante metabolica nell’apprendimento e nella
formazione, metabolica che lo spazio artistico considera come fondante
e legittima di qualsiasi processo del conoscere, dell’esistere e quindi del
comunicare. Una metabolica che attiva una vera e propria creazione intesa
come ri-creazione così da suggerire quanto di pedagogicamente pregnante
si nasconde nella ricreazione, nel girovagare, nella sospensione dell’attivi-
tà didattica vera e propria e nell’introduzione di attività divergenti. Così,
quando nella didattica a scuola viene introdotta un’attività artistica come
quella teatrale, la Scuola scopre di poter stare nell’una e l’altra delle due
scuole raccontate dalla favola di Bencivenga (2007), in quella della verità e
in quella delle storie differenti, muovendosi secondo logiche differenti che
aumentano le vie del conoscere e del fare esperienza. Del toccare e dell’es-
sere toccati, del prendere e del rimetter mano a quello che si è prelevato.
La centralità del laboratorio è una cifra metodologica significativa che
appartiene già al lessico pedagogico e scolastico ma che con il teatro tro-
va una forza nuova e rigenerante che fa tornare al senso del laboratorio,
alla sua carica trasformativa connessa ad una organica e singolare meta-
bolica di cui ciascuno dei partecipanti può farsi ‘attore’.
68
Momenti dal laboratorio teatrale a scuola – V D – 63° Circolo Didattico ‘Andrea Doria’
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Frammenti di un discorso con il gruppo degli
insegnanti partecipanti a Teatro Scuola Vedere Fare
Il corpo-docente in figure
Con sguardo clinico ripercorro tutto il materiale prodotto durante le
attività e gli incontri formativi programmati in questi quattro anni nella
cornice del progetto Teatro Scuola Vedere Fare, in particolare i questio-
nari, come oggetti che testimoniano qualcosa di quanto già accaduto e
sono traccia dell’esperienza vissuta dal gruppo degli insegnanti coinvolti.
Un’esperienza cui io sono estranea e di cui mi faccio ora osservatrice. Si
tratta di risposte a domande aperte, frutto di brevi osservazioni, analisi
e riflessioni, e poi anche testi e lettere prodotte in chiusura di incontro
o di percorso. Una grande mole di parole da cui ciascuno si è separato
e che ora sono in archivio come tracce di quel lavoro che ha investito
anche sulla formazione degli insegnanti. Lavoro che ora io guardo con
occhio clinico attraverso questo materiale, queste parole, e lo osservo
come fosse la casa che ciascuno ha costruito e provato ad abitare nel
condividere uno spazio-tempo altro, differente: perché dedicato alla me-
todologia e alle pratiche e non ai contenuti o alle valutazioni. Spazio del
Teatro-Scuola e quindi spazio al Teatro per aprire ed aprirsi ad un fare
Scuola che potesse ridare corpo alla Bildung e restituirle il suo orizzonte
umanistico. Così la lettura e l’osservazione di questo materiale procede
in maniera disordinata a cercare l’immagine della ‘casa’ costruita. Cia-
scuna parola mi appare come un mattoncino di quella casa, dell’edificio
Teatro-Scuola, e ogni insegnante un architetto, un ospite o un pellegrino
errante. Mi muovo tra edifici solidi e tra quelli più instabili ma acco-
glienti, sapendo che quei testi e quelle parole mediano tra le aspettative
e i desideri di chi domanda e quelli di chi risponde e, allo stesso tempo,
chiedono ad ognuno di riguardarsi anche solo per un momento e resti-
tuire in forma condivisa, con un vocabolario comune, quello che si è
sentito e visto. Così la qualità della presenza di ciascuno degli insegnan-
ti viene messa sotto osservazione e il ruolo che ciascuno sente di aver
avuto nel progetto, espresso con una sola parola, mi lascia intravedere il
mondo del Teatro e della Scuola che ciascuno ha vissuto e immaginato.
C’è chi definisce il proprio ruolo con: insegnante, insegnante-capo, maestra,
lasciando intendere che il progetto ha rafforzato e centrato questa di-
mensione professionale che si incontra con quella dell’e-ducere e quindi
71
con la propria funzione formante. Dello stesso tono ma più spinto su una
funzione tecnica, si sono le parole: critico teatrale, supporto, collaboratrice,
co-animatrice, mediatrice, come a rendere più visibile le competenze tec-
niche e a considerarne ora gli aspetti più legati ai contenuti e ora quelli
riferiti alla relazione e al lavoro di gruppo. In questo caso si avverte la
fatica dell’organizzazione, dei tempi, dell’essere in tanti, suggerendo una
gestione extrascolastica come rimedio e formula possibile. C’è poi chi
si dice: apprendista, discepolo, a sottolineare la necessità di una maggiore
presenza dell’esperto insieme però ad una apertura al fare che rimette in
gioco le proprie competenze e ne estende la portata proprio alla sfera del
fare (di cui sarebbe depositario l’esperto). Ma c’è anche chi si definisce
con: totale, protagonista, per sottolineare la gioia e il piacevole impegno
investiti in una partecipazione e in un coinvolgimento solidale che lascia
intravedere possibilità di ricerca e di crescita. Più metaforiche poi le paro-
le: ponte (tra esperti e bambini), maestralunna, cercatore d’oro, che lasciano
immaginare la voglia di continuare il percorso e la capacità di farsi consape-
voli e autonomi nel dare forma teatrale allo studio per riuscire a far uscire
fuori dal guscio gli alunni e il loro senso di isolamento.
Nella casa del Teatro-Scuola, attraverso le parole lasciate scritte, provo a
imbastire un dialogo con chi le ha tracciate come se fossero tracce di una
mappa interiore con cui ricostruire il senso dell’esperienza e gli obiet-
tivi emersi. Spazio, corpo e relazione sono le parole-chiave individuate
durante il percorso e nei momenti di lavoro laboratoriale dedicati alla
formazione degli insegnanti. Lo spazio è parola che assume uno spessore
particolare perché connesso esplicitamente alla consapevolezza e all’estra-
niamento. Il rapporto con lo spazio fa emergere una dimensione attiva
che ciascuno può mobilitare per occupare tutti gli spazi e appropriarsi dello
spazio; spazio che poi diventa anche spazio scenico e luogo dove riflette-
re. Allo spazio si riconosce infatti il legame con la conoscenza del proprio
corpo. A partire dal corpo e dagli esercizi proposti, emerge un lavoro in
profondità che nel tempo va oltre l’espressione e diventa parte di un senti-
re che viene descritto come ascoltare il proprio corpo, conoscere e riconoscere
il proprio corpo, che può passare anche per un lavoro di coordinamento
che può diventare di cooperazione, nel quale qualcuno si chiede dove sono
collocata e sembra fare eco a chi sente di ascoltare il proprio corpo e poter
immaginare scenari diversi e creare sincronia. Importante anche che il cor-
po sia colto nella sua dinamicità e ritmica, come movimento di cui talvolta
si cerca armonia e sintonia con le emozioni, ed è movimento nello spazio e
anche movimento nel gruppo. Inoltre, la plasticità del corpo lascia intra-
72
vedere la possibilità di farsi modellare anche attraverso l’improvvisazione
e l’immaginazione. Entrare in contatto con se stessi e con gli altri disegna il
tracciato preciso delle sfere coinvolte. Infatti, alla dimensione spaziale e
corporea si unisce quella relazionale che emerge perché quello spazio da
occupare sia anche quello dove creare relazioni, lasciarsi andare, dare corpo
alle emozioni, e anche dove avere fiducia negli altri. L’interazione con l’altro
è anche quell’aspetto del lavoro sul contatto fisico cui qualcuno avrebbe
voluto dedicare maggior tempo per poter tradurre le emozioni, condivi-
dendole armonicamente. D’altronde, creare partecipazione e mettersi in gioco
sembrano un altro passaggio chiave individuato nella ricerca di sinergia
nel gruppo che apprende a relazionarsi con gli altri non solo con i gesti ma
anche col suono della propria voce e trova nell’interazione nel gruppo la
capacità di inventare.
In questa osservazione emergono anche, più o meno esplicitamente, sug-
gerimenti per modificare la conduzione dei gruppi o le consegne date,
nel tentativo di individuare punti di forza e punti di debolezza che di
fatto invitano gli insegnanti partecipanti a farsi parte attiva dell’azione
progettuale che così si muove e vive con il progetto e con tutte le perso-
ne e le risorse coinvolte. Progettare Teatro Scuola Vedere Fare significa di
volta in volta individuare soluzioni possibili, spingersi oltre i limiti che
sembrerebbero posti dalle griglie normative e organizzative della Scuola,
consapevoli che un percorso completo di formazione per docenti e bambini
deve pur trovare tempi e orari adatti per essere una consistente opportunità
di crescita personale, culturale e professionale che abbia anche una ricaduta
positiva sulla bambina diversamente abile. Sperimentare e crescere insieme è
un obiettivo raggiunto, anche se sullo sfondo le difficoltà di organizzazio-
ne e i limiti di tempo/spazi segnano una criticità di cui si è consapevoli e
che pure lascia intravedere una vera possibilità di ribaltare schemi mentali
e sociali. Il Teatro e il Teatro Educazione appaiono parte non solo di un
vocabolario comune ma di una metodologia che lavora sulla possibilità di
imparare ‘facendo’ e di darsi una grande occasione di confronto e sodalizio tra
colleghe. Il lavoro multidisciplinare di alto livello è vissuto come (piacevol-
mente) molto impegnativo e dice quindi della fatica necessaria a vedere la
luce degli occhi dei bimbi felici quando sono in scena. La ricchezza dell’espe-
rienza riguarda anche il confronto costruttivo con le altre scuole e allarga l’e-
stensione degli effetti del progetto dalla persona, alla sua funzione, fino a
sentirsi più parte della realtà scolastica perchè attraverso i molteplici modi
di fare e vedere teatro la si può guardare con lo spirito della scoperta e con
la passione con la quale lavorano i responsabili di questo progetto. La Scuola
73
ritrova se stessa e la voglia di imparare se somiglia a quel pezzettino di
palco come luogo sacro dal quale non mi scinderò mai e se porta con sé il
carico di nuovi visioni e di bellezza: la bellezza dei visi di tutti i bambini sul
palco!! La sfida alla burocrazia scolastica e alle lezioni cattedratiche spinge il
progetto Teatro Scuola Vedere Fare dentro un solco più ampio, quello delle
strategie e delle politiche formative, un solco perciò esteso e trasversale,
la cui ampiezza dell’azione del vedere e fare aiutano a costruire una concreta
possibilità di utilizzo del teatro a scuola.
La concretezza, dunque, mi pare più di tutto riemergere dai corpi, dagli
spazi, dalle relazioni, e dire di un lavoro che procede verso la costruzione
di una comunità di pratica e che cresce e si trasforma come la comunità
stessa e la sua vita.
74
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78
VOCI DAL PROGETTO
TEATRO SCUOLA VEDERE FARE
Il ‘vedere’: per una Didattica della Visione.
Appunti da una conversazione con Giorgio Testa
81
la città stessa. Poi, accanto al mio interesse per il Teatro, c’era Freinet e
l’idea di dare spazio a quello che si è sempre chiamato il gioco drammati-
co. Cioè l’attività espressiva. Il fatto che si potesse sviluppare il gioco che
il bambino fa naturalmente, in forme che in quella pedagogia attiva non
era tanto la recita ma quello che i francesi chiamavano, appunto, ‘gioco
drammatico’. Quello che poi di volta in volta si è chiamato anche gioco
simbolico o gioco espressivo. Ero molto interessato a sapere che cosa
avviene nel processo educativo quando si lavora attraverso un’attività che
coinvolge intensamente il corpo, dato cruciale, e che nasce come gioco
collettivo, un gioco che fai insieme in una situazione educativa. Quindi
è chiaro che questa modalità di lavoro è nata insieme all’interesse per
la comparsa e l’utilizzo in chiave educativa di un’attività drammatica,
del linguaggio drammatico. Uso il termine in questo senso: come esiste
il linguaggio verbale esiste il linguaggio drammatico che non è quello
non verbale e basta, perché il linguaggio drammatico è quello che si usa
quando si dice una bugia, quando ci si traveste, in ogni azione simulata.
Questa premessa è lo sfondo che porta a tutto.
Ero dentro questo orizzonte educativo quando ho incontrato l’animazio-
ne. A partire dal teatro, anche lì, si riproponeva il linguaggio drammatico
con finalità educative, come nel Movimento di Cooperazione Educativa,
come in Mario Lodi. Io stesso quando ho insegnato, in quei primi anni
che ho insegnato, ho usato il gioco drammatico con le mie allieve della
scuola superiore. Quindi era una modalità di espressione e di conoscen-
za. In quel momento, che il teatro fosse una cosa che si ‘vedeva’ non mi
passava proprio per la mente. Del resto, ancora adesso e sin da quando
stavo all’Ente Teatrale Italiano, ho sempre parlato di “pratiche teatrali”
perché sono quelle pratiche che afferiscono a quel linguaggio istituito
che noi chiamiamo teatro ma che comporta tanti livelli di praticabilità.
Se in una scuola materna c’è il baule e l’angolo dei travestimenti, ritengo
che quello sia a tutti gli effetti una pratica teatrale. Io guardo al teatro
nella sua complessità. Poi ho seguitato a utilizzare queste pratiche tea-
trali all’interno di un contesto educativo non solo a scuola, ma anche in
attività formative rivolte agli adulti. Era un’idea chiave del Movimento di
Cooperazione Educativa: fare esperienza diretta di quello che poi fai fare
agli altri. Con l’animazione teatrale si è poi recuperata la ragione antica
di quelli che facevano la Scuola attiva in Italia. C’è stato un incontro tra
quelli che utilizzavano il teatro nella loro pratica didattica e quelli che la
usavano nella loro espressione adulta. Quindi questo è il percorso da cui
nasce l’idea di un uso educativo del teatro. Voglio insistere sull’educativo
82
– e una pedagogista lo può capire – e non sull’uso terapeutico. Quando
mi sono ritrovato in una ASL a fare lo psicologo, in nessuno momento
dell’attività professionale ho utilizzato il teatro; sul valore curativo delle
pratiche teatrali nutro più di una perplessità, preferisco metterne in va-
lore il lato conoscitivo. Perché attraverso il teatro è possibile mettere a
fuoco un’altra conoscenza: quella particolare conoscenza che è la cono-
scenza della condizione umana.
Da questo contesto è apparso il lavoro sul ‘vedere’. Da uno studio perso-
nale è apparso il ‘vedere’ che ha cominciato ad incrociare la nascita del
Teatro ragazzi. Perché con la nascita del Teatro ragazzi doveva formarsi
un pubblico che non c’era. Quelli del Teatro ragazzi dovevano parlare
con le maestre e farsi capire. Dovevano fare due operazioni: da un lato
fare spettacolo e dall’altro educare un pubblico. Quindi, quelli che ve-
nivano dal Teatro ragazzi come Loredana Perissinotto lavoravano con le
insegnanti. Così l’Ente Teatrale Italiano ha promosso il Teatro ragazzi
con chi come me si occupava di educazione e quindi sapeva parlare con
le maestre possedendo il loro linguaggio, facendo da mediatori culturali
e non gli artisti. Perché capivamo qual era il problema relativo al rappor-
to tra artisti e insegnanti. Quindi ho cominciato a promuovere il Teatro
ragazzi con l’ETI attraverso dei corsi che supportavano quel teatro in-
terrogandosi sul significato e sul funzionamento del linguaggio. Ci si è
chiesti cosa fare e che cosa significasse educare le insegnanti e gli alunni
al teatro. Significa che in quel momento – nel 1985 – ho dovuto darmi
un’idea dell’educazione al teatro perché fino a quel momento avevo solo
idea dell’educazione tramite il teatro. In quel momento mi sono chiesto
cosa volesse dire l’educazione al teatro? Io avevo elaborato prevalente-
mente un discorso intorno alla ricezione del testo. Mi ero occupato della
didattica della lettura. Quindi io venivo dal bagaglio della didattica della
lettura. In analogia a questa, però, mi sono dato uno schema teorico
che poi è stato quello che abbiamo usato all’interno di AGITA. Cioè,
per educare al teatro, e come per ogni educazione a tanti altri linguaggi,
devi avere almeno altre tre cose: lo devi praticare, perché se non pratichi
quel linguaggio, se non lo possiedi, non lo puoi insegnare; è come per la
scrittura, non puoi insegnare a leggere senza insegnare a scrivere. Quindi
la prima cosa è praticare il linguaggio teatrale. Seconda cosa riguarda la
ricezione, quindi il vederlo. Perché se non lo vedi, non conosci di quel
linguaggio il suo esito. Perché lì ero un po’ in conflitto con quelli dell’a-
nimazione perché loro dicevano sempre “l’importante è il processo e non
il prodotto”. Che da un certo punto di vista del pappagallo ammaestrato
83
loro avevano ragione. Però io dico sempre, il linguaggio teatrale si com-
pie nel momento in cui si fa vedere. Non è che è come la scrittura, che
lo scritto rimane lì. No. Il “sempre caro mi fu quest’ermo colle”, posso
metterlo in un cassetto e non se ne parla più. Ma il teatro non è come
la Gioconda, che la si può portare con sé come faceva Leonardo. Non si
può portare con sé niente del teatro perché esiste nel momento in cui lo
si guarda. Quel linguaggio esige qualcuno che guardi. Quindi il vederlo
è fondamentale. Poi c’è anche un terzo punto che però nel progetto Te-
atro Scuola Vedere Fare non c’è e che riguarda uno sguardo sulla natura
del linguaggio teatrale rispetto agli altri linguaggi perché per conoscere
e comprendere il senso di quel linguaggio c’è bisogno di metterlo in
dialogo e in opposizione con gli altri linguaggi. Questo terzo punto indi-
vidua il teatro come spazio di tutti i linguaggi e dell’azione che si compie
attraverso il linguaggio. Per questo, in un’ideale didattica io metterei un
approfondimento sull’educazione linguistica, sul testo. Necessario un
orientamento al testo per unire pensiero, azione, linguaggio.
Quindi sullo sfondo del progetto Teatro Scuola Vedere Fare c’è tutto il la-
voro fatto con il laboratorio teatrale, portato avanti con AGITA per l’e-
ducazione attraverso il teatro e l’educazione al teatro. E c’è la ‘didattica
della visione’ che altrove non trovava udienza. Perché al teatro interes-
sa il pubblico che compra il biglietto. Che il pubblico venga educato
non gliene importa. Non capiscono il problema, non capiscono che è
consustanziale perché soprattutto i teatranti moderni vedono il teatro
come un fatto espressivo ‘loro’. Mentre c’è tutta la questione del lettore
e del lettore modello (e tutti gli studi di Eco). L’idea del ‘a chi parlo’
quando faccio uno spettacolo, non è mai tematizzato. Per un po’ lo ab-
biamo chiamato operatore-iride. Questo mediatore in campo educativo
non può non esserci. Quali sono le condizioni perché l’incontro con lo
spettacolo avvenga. Un lavoro sul bagaglio con cui lo spettatore arriva.
Perché quando si parla a uno spettatore, lo spettatore non è vuoto. Anche
qui, sono dei principi chiave dell’educazione, almeno di quella attiva.
Devi sapere come lo spettatore arriva allo spettacolo. Quindi c’è tutto
un orizzonte di attese che si unisce al fatto che il teatro lo consumi con il
corpo con cui vai a vederlo. Importante quindi anche come ci arrivi. Se
tu ci arrivi con un bambino della scuola che ha impiegato un’ora e mezza
per arrivare e ha bisogno del bagno, la visione ne risentirà. Poi c’è tutta
la questione della premessa cognitiva e del linguaggio verbale. Questo è
evidente anche per gli adulti. Ogni drammaturgo che si rispetti, questo lo
sa. Tanto è vero che parla allo spettatore in italiano e non in cinese. L’ar-
84
tista trova importante non togliergli la rivelazione. Infatti io uso la parola
‘dissodare’ per dare idea di cosa intendo per preparare lo spettatore alla
visione di uno spettacolo; uso cioè la metafora agricola del dissodare un
terreno perché quando il seme arriva c’è bisogno di un terreno che lo
accolga. Nel caso del teatro, naturalmente, dipende anche dalla tipologia
del gruppo e dalla tipologia dello spettacolo. Per esempio se propongo
‘Il Brutto anatroccolo’ con la danza, posso supporre una fascinazione
ma devo preparare alla visione facendo conoscere la storia, per esempio,
predisponendo il pubblico ad entrarvi. Ogni volta devi fare un’ipotesi sul
gruppo, cioè un lavoro pedagogico raffinato. Devi sapere chi sei tu. Natu-
ralmente tu come mediatore sei in gioco. E poi la tipologia di spettacolo.
Ovviamente anche lì c’è un problema che esiste anche con gli adulti.
Perché anche lo spettatore adulto che guarda la prima volta la danza
contemporanea ti dice “non ci ho capito niente”, e non ci va più perché si
sente aggredito. E allora la domanda è ‘perché si sente aggredito’? Perché
se lo spettatore ha in testa che il ballo è solo Carla Fracci e il chachacha,
o il tango, è evidente che non si sa dove si trova e si sente offeso. Oppure
si dice che non è in grado. Un’altra ipotesi è che quello spettatore sia
passivo. Ma non è vero che sia passivo perché può essere inattivo ma non
passivo. Perché la regola è che per l’appunto io sono lì e vedo. Quello è
il teatro: ‘io vedo’. Non posso intervenire. Io dalle mani di Otello non
posso togliergli Desdemona. Perché abbiamo patteggiato che quello è un
posto dove posso veder strangolare. Se non capisco questo, non capisco
più niente. È evidente che tu devi predisporre il pubblico a questo tipo di
esperienza del vedere. Allora ci sono alcuni fondamenti: uno è lavorare
sull’attesa. Sul prima. Tutto questo avviene sempre di regola con un pia-
no che è un testo, un dossier, che si dà. Si prepara il gruppo di spettatori,
gli insegnanti che a loro volta preparano i loro alunni, avendo un piano
di lavoro. A volte si può partire con un lavoro sul titolo dello spettacolo,
se è una cosa stimolante. Se vai a vedere ‘Cappuccetto rosso’, no. Ma se
vai a vedere ‘Così è, se vi pare’, allora chiedi: ma cos’è che ci pare? Può
essere un testo che aiuta ad approcciare il tema dello spettacolo, che lo
tematizza ma non in maniera diretta, alla lontana. Se fanno – è successo
una volta – ‘Corruzione a palazzo di giustizia’ di Ugo Betti, quindi una
cosa degli anni ’40, un testo metafisico, allora si può iniziare discutendo
sul significato di corruzione, utilizzando testi di giornalisti, altri autori,
altri testi, un racconto. Poi il discorso prosegue con la visione dello spet-
tacolo. Così dopo la visione il discorso continua. Per questo lo spettacolo
diventa parte di un percorso didattico. A volte capita che la didattica è
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più interessante dello spettacolo. Ma la regola è che vedere lo spettacolo
non sia un consumo solitario ma che implichi l’andarci insieme.
Dei materiali per la ‘Didattica della visione’, l’archivio è pieno. È l’archi-
vio di tutti i materiali di lavoro, che non è il mio diario personale; materiali
che ho dovuto preservare una volta smontato l’ETI. Un archivio per chi si
interessa di questi temi. Si tratta di una ricerca finanziata dallo Stato. Un
lavoro dove sono state coinvolte coralmente tante forze: quelle del Mo-
vimento di Cooperazione Educativa, di Loredana Perissinotto e di molti
altri. Una ricerca che ha coinvolto una grande varietà di pubblici e che
propone un’idea di teatro che non si ferma all’espressione ma che chiede
che sappia comunicare non solo agli addetti ai lavori. Un teatro che sa che
non si può dissacrare, che so, l’Eneide, se nessuno l’ha mai letta.
E proprio nel senso di un teatro in grado di comunicare, penso che il
progetto Teatro Scuola Vedere Fare abbia costruito una comunità. Questa
era ed è la finalità. Sin da quando abbiamo cominciato con gli adulti,
siamo partiti dall’idea di far incontrare le persone sulla base del comune
interesse per il teatro (come per altri il calcio, un partito politico o altro).
Dopo che l’ETI è stato chiuso, mi sono concentrato sul lavoro degli edu-
catori che lavorano con gli spettatori. Ho fondato la Casa dello spettatore
e la ricerca continua anche con AGITA. AGITA si occupa del teatro
fatto dai ragazzi e del teatro sociale, lavorando con gli insegnati perché
facciano loro i mediatori. A Napoli lavoriamo insieme sulla visione e sul
fare. Si fa un teatro amico con le insegnanti per una didattica indiretta. Il
vedere è insieme al fare, ed entrambi lavorano sulla didattica, il linguag-
gio, il tema. Stiamo cercando di fare in modo che lo spettacolo abbia una
rilevanza pedagogica altra. È un momento di discussione su di un tema
di interesse e rilevanza sociale. Quindi lo spettacolo ti dà l’opportunità
di creare una comunità. È successo solo a Napoli. Ho sperimentato la
visione da sola. Cosa significa vedere. Mi sono reso conto che il teatro è
una parte, di minoranza, rispetto a tutta la visione. Perché a teatro vedi
una cosa sola ma per il resto vedi molte cose. Così a Napoli ho fatto
due esperimenti. Un primo è stato un modello di seminario intitolato
“Vedere soli e vedere insieme” vedendo due volte lo stesso spettacolo. È
interessante confrontarsi su cosa vediamo e ci confrontiamo sul cosa si è
visto, sulle condizioni della ricezione. Si ripercorre l’esperienza, parlando
di quello che si è visto; del rapporto con i segni, dell’esperienza fenome-
nologica dello spettatore. Quindi si lavora sul vedere a fondo, e vedere lo
spettacolo due volte è una opportunità formidabile, per questo. Vedere
uno spettacolo due volte è esperienza rara, a differenza del rileggere una
86
poesia, per esempio, ma è davvero un utilissimo esercizio di didattico per
conoscersi come spettatori.
Con un secondo esperimento ho proposto un lavoro sullo spettatore mul-
tiplo. Siamo spettatori di molte cose. Con un gruppo di insegnanti a Na-
poli non si parla solo di teatro ma di come si matura vedendo. Anche la
tv. Un seminario importante in questa direzione ha avuto come oggetto la
visione di una puntata di Forum rispetto alla quale ci siamo posti con la
stessa serietà che avremmo avuto davanti all’Edipo Re. Abbiamo lavorato
sulla drammaturgia. Abbiamo scomposto il testo, le immagini. Nella tv
non c’è il corpo vivo ma c’è il corpo vivo dello spettatore. E sono forme
linguistiche che provengono dal teatro. A Napoli col gruppo di insegnanti
si fa ricerca sul teatro e anche sulle altre forme della finzione. Ora vorrei
lavorare su tutto il vedere. Come anche vedere il Museo, le sue opere,
le sue modalità di fruizione, il tempo, l’identificazione. È tutto come un
processo di ‘lettura’. A Napoli c’è già un gruppo che segue da anni con
continuità le attività del progetto Teatro Scuola Vedere Fare, così con loro
si può introdurre in maniera approfondita la questione del linguaggio in
generale. Questo progetto può essere usato come cavallo di troia per por-
tare innovazione nella scuola. Intanto il gruppo dei partecipanti ha già
cambiato il modo di intendere la scuola. Il nucleo del gruppo veniva dalla
scelta del teatro a scuola come modalità per avere accesso a un altro modo
di intendere l’educazione, perché gli insegnanti stessi del gruppo facevano
esperienza di un altro modo di imparare e di avere cura. Mentre si faceva
un lavoro preparatorio al teatro, ci si apriva ad un lavoro sulla metodolo-
gia. Nel gruppo, il sapere si mette in comune, si condivide nel gruppo e
si unisce alle competenze di ciascuno. Si scambiano strumenti. Non sap-
piamo se la scuola sia consapevole di tutto questo perché più difficile rile-
varlo. Non è prevista una verifica di questo. Dovresti studiare in un’altra
maniera per individuare dei parametri. I risultati ottenuti dagli insegnanti
nei confronti degli artisti di teatro è significativo. Ma quello che non si è
esplorato ancora è quanto gli operatori di teatro educativo siano in grado
di penetrare con la loro cultura teatrale la cultura educativa. Manca una
vera riflessione su come essere educativi attraverso tutto il teatro.
Intanto a Napoli con il progetto Teatro Scuola Vedere Fare hai quel teatro
solo per i piccoli. Quel parco. Uno dei luoghi dove si va con la scuola e
dove si può tornare la domenica con la famiglia. È un punto di riferimen-
to, come il teatro da sempre fa. Anche ora che la ‘Buona Scuola’, dopo
più di vent’anni, legittima e supporta l’autonomia per far crescere anche
un uso del teatro educativo.
87
Appunti sul ‘fare’:
il Teatro-Laboratorio a Scuola
e la Scuola-Laboratorio a Teatro
di Salvatore Guadagnuolo
89
La scissione si supera con l’apprendere dall’esperienza agita e l’appren-
dere ad agire in modo adeguato nel contesto di nuove esperienze.
In questo senso il percorso teatrale educativo potrà conoscere sempre
nuovi stimoli, perché costruito lungo il percorso, arricchito dagli spunti
o da contribuiti personali. Un iter, pertanto, finalizzato alla costruzione
di un progetto educativo sostenuto e giustificato dalla realizzazione di
proposte e azioni concrete, in cui rispecchiare le auspicate trasformazioni
cognitive, valoriali e comportamentali dei soggetti coinvolti.
E per accertarsi che gli allievi si siano impadroniti delle abilità desiderate
si è esplorato il fattore comprendere. Comprendere nel senso di essere
capaci di integrare competenze scolastiche e fare formativo, per poi por-
tarli al servizio dei bisogni e delle richieste personali e culturali.
Si è poi utilizzato un metodo che valorizza più efficacemente i canali di
apprendimento della maggior parte degli allievi.
Tali canali sono caratterizzati:
1. da una tipologia complessa e curiosa per quanto riguarda autori,
contenuti, tematiche e sincretismo tra i linguaggi;
2. da una risposta a una vasta gamma di stili e cliché simbolico-
espressivi, sia in funzione conservativa che di rottura;
3. da un’esperienza più visibile del legame con la naturalezza del gio-
co e della teatralità.
4. da implicazioni cognitive, psicologiche, emotive, terapeutiche, esi-
stenziali attivate dall’esperienza teatrale.
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Tutti hanno avuto l’opportunità di adottare nei confronti dei contenuti
una molteplicità di prospettive e atteggiamenti.
È interessante notare come il dialogo continui al di là dell’imposizione
istituzionale; la ricerca dell’altro prosegue ben oltre il momento dato
e programmato: la curiosità, dote tipica degli adolescenti, si esterna in
mille modi e momenti d’incontro.
91
Tra teatri e scuole: tessere comunità
Appunti da una conversazione con Morena Pauro
Nel ricostruire questi quattro anni di progetto Teatro Scuola Vedere Fare e
l’avvio del suo quinto anno di attività, sono in apertura della trentatreesi-
ma stagione del teatro per le nuove generazioni curata da Le Nuvole ora
Casa del Contemporaneo. Siamo stati per venticinque anni a Edenlandia
in uno spazio che era stato la pista degli autoscontri, poi l’Edenlandia
ha chiuso e abbiamo dovuto lasciare il teatro che avevamo lì dopo tanti
anni di “casa”. Abbiamo così deciso di investire nostre risorse personali
per costruire un teatro a Città della Scienza ma, inaugurato a novembre,
a marzo è stato chiuso a seguito dell’incendio (il 4 marzo del 2013). Il
teatro si è salvato ma intorno non avevamo più niente: camerini, bagni,
spazi per l’accoglienza del pubblico, tutto perduto insieme a quel bellissi-
mo Museo. Nel frattempo, a maggio 2013, si era inaugurato il Teatro dei
Piccoli alla Mostra d’Oltremare – un progetto che inseguivamo da anni,
ristrutturare e aprire quel teatro chiuso e abbandonato da tanto tempo
– così abbiamo avuto una struttura, bellissima, adatta ad essere la casa
delle arti per le nuove generazioni.
Cambiare tre teatri in due anni è stata una prova dura e difficile che ha
rimesso molto in discussione, prima di tutto me stessa. Ricominciare: ma
in che direzione andare? Alla ricerca di riferimenti, con tante domande e
poche risposte, ho incontrato alcuni insegnanti e operatori con cui ave-
vo lavorato anni prima e che sentivo vicini. Quale senso poteva avere il
nostro lavoro, fare programmazione e direzione artistica di un teatro di
ricerca per ragazzi e insegnare in una scuola dove la sperimentazione era
sempre meno gradita? Ecco in quel primo incontro è nato tutto e ho tro-
vato – nel pieno di una crisi economica, politica e personale, in cui avevo
smarrito il senso del mio fare – compagni di viaggio forti di pensieri, pro-
fessionalità, amore per il proprio lavoro. Con loro ho condiviso il disagio,
i desideri e i sogni e abbiamo cercato la via e l’entusiasmo, il credere
nuovamente ad una funzione politica e culturale del teatro e della scuola.
In questo contesto è nato il progetto che abbiamo chiamato Teatro Scuola
Vedere Fare, in cui il teatro è stato da subito protagonista per smuovere
all’ascolto e all’osservazione in profondità. L’idea su cui tutto è stato
costruito è l’integrazione tra teatro e scuola e tra ‘vedere’ e ‘fare’ in un
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continuo gioco di rimandi e di vasi comunicanti. Il ‘fare’ (il laboratorio
teatrale a scuola in orario curriculare, curato da AGITA e finalizzato ad
una comunicazione finale a maggio) mutava anche il ‘vedere’ perché su-
bito il pubblico delle scuole ha iniziato a considerare con più attenzione
e rispetto il lavoro a cui erano invitati come spettatori. Quando entrano
a teatro i ragazzi spengono i telefoni cellulari e fanno silenzio. Rispettano
quello spazio e le sue regole. Le chiedono quando a maggio, salgono su
quel palco per il loro spettacolo, imparano ad offrirle quando sono seduti
in sala. E in quello che definiamo il ‘loro spettacolo’ c’è quello che gli
alunni vogliono raccontare, quello che hanno scritto, quello che hanno
rielaborato a partire da quello che hanno studiato, visto, letto, vissuto.
Con ‘fare’ imparano a rimescolare materiali ma anche a stare insieme a
rispettare gli altri, a fare gioco di squadra. Non è un’attività per il tempo
libero o extrascolastico, è un progetto fatto dentro la classe e con tutta la
classe, lavorando sulle differenze e con le differenze. Tutto questo grazie
ai docenti che scelgono di partecipare – spesso tra mille difficoltà – of-
frendo lavoro straordinario e grande disponibilità, mettendosi in gioco e
seguendo parallelamente fino a 90 ore di corsi di formazione.
Il progetto abbraccia l’intero anno scolastico e il ‘fare’ si conclude a mag-
gio con Maggio all’infanzia Napoli la rassegna degli spettacoli fatti dai
ragazzi. È il momento della comunicazione, ad altri compagni e ai ge-
nitori, del lavoro svolto. È il loro momento, tocca a loro raccontarci e
raccontarsi tra il grande stupore generale. Sì, lo stupore è secondo me la
caratteristica principale della rassegna di maggio. Stupore degli adulti nel
vederli e nell’ascoltarli – sentiste i testi! – stupore dei ragazzi che hanno
davanti una platea attenta riunita lì per loro. Questo ti dice anche che
lavorando con il teatro attivi un processo che non rinuncia alle discipline:
fai matematica, italiano, storia, geografia, fai tutto con il teatro. Ma lo fai
dando senso alle discipline e producendo storie da raccontare, azioni da
condividere, scopri che le cose che hai da raccontare interessano altri.
Ci sono altri che ti guardano, che si interessano a te. Questo è il teatro.
Quando tu hai qualcosa da raccontare e c’è qualcuno che con la sua pre-
senza e la sua attenzione ti dice che è interessato a quello che hai da dire.
In parallelo vi è la sezione ‘vedere’ (almeno 3 spettacoli con la classe e
molti altri la domenica con le famiglie) che coinvolge direttamente il car-
tellone teatrale che io firmo. Il progetto ha previsto da subito l’apporto di
Casa dello spettatore con Didattica della Visione, un corso di aggiorna-
mento rivolto al docente in qualità di spettatore e in qualità di educatore
che sceglie e accompagna gli alunni a teatro. Conoscere meglio le poten-
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zialità del teatro come strumento culturale ha creato molta curiosità re-
ciproca e grande interesse in un approfondimento. Presto alcuni docenti
sono partiti con me alla volta di Bari per partecipare al festival Maggio
all’infanzia che si svolge sull’altra sponda dell’Italia ed è curato da Teatri
di Bari. Si tratta di una rassegna di spettacoli inediti proposti da compa-
gnie professioniste e che si rivolge ad un ampio pubblico di operatori del
settore che visionano in anteprima tutte le novità da portare poi nel pro-
prio teatro. Con l’arrivo dei docenti il festival è stato integrato da incontri
di formazione che si alternavano alla visione degli spettacoli – circa 15
in 3 giorni! – e il percorso è stato denominato “Esplorazioni. Gruppo di
visione in festival”. Docenti e operatori teatrali si sono ritrovati insieme
e ne è nata una nuova collaborazione, un ulteriore arricchimento e uno
scambio prezioso. D’altronde un cartellone teatrale per ragazzi si rivolge
sempre agli adulti, sono loro che scelgono per i più piccoli. Oggi posso
dire che è quanto mai indispensabile che l’insegnante, nostro interlocu-
tore principe, entri più attivamente nel settore e conosca meglio e più
approfonditamente il teatro per le nuove generazioni. Ne guadagnano
tutti in qualità, il teatro e la scuola.
Nella stagione teatrale al Teatro dei Piccoli di Napoli trovano sempre più
posto spettacoli che portano in scena tematiche vicine al vissuto quo-
tidiano dei giovani spettatori con rielaborazioni e adattamenti di testi
classici o di nuova drammaturgia. È possibile trovare una fiaba a cui non
si chiede di rispondere alle attese tradizionali ma usata per raccontare
dell’invidia, dell’abbandono, della perdita, per parlare del rapporto geni-
tori-figli, di questioni molto sentite e non sempre affrontate. In questo il
teatro per ragazzi è fantastico perché i destinatari – i ragazzi – sono aperti
e disponibili ad ogni variazione sul tema, ad ogni argomento, ad ogni
sperimentazione. Non così è l’adulto che invece ha spesso delle aspetta-
tive ben precise ed è su queste aspettative che s’innesta il lavoro in siner-
gia, gli approfondimenti, i corsi di aggiornamento, che hanno portato a
un cartellone ampiamente discusso e condiviso, in cui le aperture sono
sollecitate e la sperimentazione è fortemente richiesta.
Il teatro è speciale perché tocca delle corde particolari che aiutano a
comprendere le cose del quotidiano, ne interrompe il flusso o lo riavvia.
Apre strade che non pensavi di poter percorrere e che possono essere
percorse da tutti. E una volta che il teatro ha fatto scattare qualcosa in
te, ti mette in moto. Ti apre alla curiosità, alla voglia di approfondire. È
la magia del teatro. È quello che abbiamo visto sia in scuole considerate
“più facili” che in altre con un alto tasso di assenteismo e abbandono.
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Tutto questo grazie alla sinergia e al tempo, sì non devi farti prendere
dall’ansia da prestazione, devi dare il tempo di far accadere le cose. An-
che chi legifera, i “decisori”, dovrebbe considerare che i progetti di un
giorno non servono a nulla e che invece ci vuole tempo ma anche ascolto,
professionalità, integrazione di competenze e sperimentazione.
Teatro Scuola Vedere Fare è cresciuto sotto i nostri occhi, per numeri e
per qualità, ha di fatto creato una comunità fatta di persone e di tante
professionalità a cui si sono aggiunti i genitori invitati dai figli/alunni del
progetto. Ogni studente riceve a inizio anno una card che consente di
vedere tutti gli spettacoli del programma nei giorni festivi. Succede che
gli alunni chiedano ai genitori di essere accompagnati a teatro e spesso
per questi genitori è la prima volta. Quando arrivano è una festa: “sono
del teatro!” e si vanno a cercare la loro poltroncina preferita non prima
di aver informato i genitori delle regole, prima fra tutte “spegnere il te-
lefono”.
Un progetto ampio e variegato, intenso e difficile, in continua e inevita-
bile evoluzione per l’adattamento al naturale sviluppo. Non credevo che
quel sasso buttato in acqua 5 anni fa da poche mani riunite dalla difficol-
tà potesse avere la potenza di allargare cerchi sempre più ampi e arrivasse
dove è arrivato, potesse creare dei legami forti fondati sulla passione per
il proprio lavoro. Non so come e dove ci porterà il viaggio, so solo che
sono in ottima compagnia e voglio restarci.
96
MATERIALI DAL PROGETTO
TEATRO SCUOLA VEDERE FARE
Teatro Scuola Vedere Fare.
I partecipanti e i programmi delle attività
a cura di Casa del Contemporaneo,
le Nuvole, Agita, Casa dello Spettatore, SAT
Le Scuole e le classi:
Ospiti:
Centro diurno per adulti disabili “Il cielo in una stanza” – Vico Equense
Laboratorio teatrale d’infanzia – Vico Equense
Istituto Superiore ‘San Paolo’ di Sorrento
Progetto Scuolavoro Casa delle Arti e dei Mestieri – Napoli
Associazione Mamme del Marano Spot festival
Le Scuole e le classi:
99
Istituto Comprensivo 73 ‘Michelangelo Ilioneo’ – Napoli (plesso ‘Ma-
donna Assunta’)
1A – docenti: Silvia Sambucci, Maria Rosaria Devoto, Rosa Lucignano
3A – docenti: Orietta Cattaneo, Lucia Abbate, Rosita D’Isanto, Monica
Massa
3B – docenti: Ornella Troncone, Olga Mautone, Alessandra Albertini,
Monica Massa, Irma di Meglio
3C e D – docenti: Maria Alfuso, Maria Gabriella Lanzetta, Emmanuela
Florio, Maria Capuano, Marcella Lanzilli, Ida Barretta
3E – docenti: Maria Gabriella Pennino, Marina Pescarolo, Antonio Ia-
boni
Ospiti
Scuola Media Statale ‘U. Pellis’ – Fiumicello (UD) dell’Istituto Com-
prensivo Don L. Milani di Aquileia (UD)
gruppo interclasse 1A–2A-2B-2C-3A-3B – docente: Michela Vanni
100
I partecipanti nel 2016-2017
7 Istituti Scolastici – 32 classi – 29 spettacoli – 76 docenti – 650 studenti
101
63 Circolo Didattico ‘Andrea Doria’ – Napoli – Dirigente Scolastico:
Rossella Tenore
scuola primaria III A – docenti: Paola Cinque, Giuliana Gaeta, Rosanna
Galano, Rosaria Perrone
scuola primaria III B – docenti: Assunta Grassini, Maria Cocozza, Giusj
D’Ambrosio
scuola primaria II D – docente: Annamaria Angiuoni
scuola primaria II A – docenti: Valeria Abbate, Antonella Cammardella,
Cristina De Luca
scuola primaria II B – docenti: Maria Norcia, Roberta Vannini
102
3 A scuola primaria - docenti Antonella Cammardella, Valeri Abbate,
Cristina de Luca
3 B scuola primaria - docenti Maria Norcia, Roberta Vannini, Adelina
D’Oriano
3 D scuola primaria – docente Annamaria Angiuoni
4 A scuola primaria – docenti Paola Cinque, Giuliana Gaeta, Mariaro-
saria Perrone
103
5 B scuola primaria – docenti Olga Mautone, Ornella Troncone, Serena
Sorrentino
5 C scuola primaria - docenti Daniela Grasso, Giuditta Astronomo, Lu-
isa Fragiello, A. Esposito
5 D scuola primaria - docenti Maria Rosaria Fogliano, Maria Gabriella
Lanzetta, G. Scarpa
5 E scuola primaria - docenti Marina Pescarolo, Maria Gabriella Penni-
no, Paola de Tullio
1 A secondaria di primo grado – docenti Antonella Ascione, Fiorella An-
gelillo, Simona Rossi
1B secondaria di primo grado – docenti Antonella Ascione, Fiorella An-
gellillo, Simona Rossi
104
la Ranieri, Annamaria Smarrazzo, Teresa Viglietto
5 B scuola primaria – docenti Maria Antonietta Tamburrino, Valeria de
Martino
1 E secondaria di primo grado – docenti Tiziana Ferrara, Clara Pittore
105
Teatro Scuola Vedere Fare
Napoli ottobre 2014 – maggio 2015
Prima edizione
107
Una realtà che, pur non trovando la sua dimensione all’interno dei cir-
cuiti ufficiali della cultura e dell’educazione, riveste una notevole impor-
tanza per la propensione ad essere una reale lente d’ingrandimento delle
tendenze di pensiero dei giovani e dei loro educatori.
Un’educazione al teatro e alla teatralità impone una visione pedagogica
del fare anche attraverso un confronto diverso ovvero la visione degli
spettacoli di teatro professionale che diventa, in maniera paradigmatica,
la naturale e giusta sintesi/verifica di un percorso di crescita sociale e cul-
turale. Gli spettacoli in cartellone infatti si inseriscono nel progetto come
un momento fondamentale della riflessione e della proposta culturale,
per completare il processo del fare e del vedere.
Attivare un progetto di teatro della scuola e della comunità ci sembra
l’occasione giusta per incrementare gli obiettivi artistici e pedagogici di
cui noi e non solo noi, siamo protagonisti e responsabili.
108
Metodologie, prassi e poetiche del teatro educazione.
Ass.ne culturale “Guarnieri”, gruppo “I Gianburrasca” – Lucca
SE IL MARE POTESSE PARLARE – Conclusione di un percorso di
teatro educazione con adolescenti – a cura di Miriam Jacopi
La visione di un modello del fare teatro in ambito educativo semplifica
il dibattito attivando un confronto con i docenti e gli operatori presenti.
109
data di spettacolo, dalle ore 16.30 alle ore 18.30, per scaricare e montare
i materiali
110
Teatro Scuola Vedere Fare
Napoli ottobre 2015 – maggio 2016
Seconda edizione
111
MODALITÀ DI PARTECIPAZIONE – PROGRAMMA – CALEN-
DARIO
112
VEDERE
> da novembre 2015 a aprile 2016
3 spettacoli teatrali, a scelta, nel cartellone 2015_2016 del teatro Le Nu-
vole, stabile d’innovazione per le nuove generazioni
prenotazione obbligatoria da effettuarsi entro novembre 2015, titoli da
concordare con la direzione del teatro
FARE
> mercoledì 11 e venerdì 27 novembre 2015, teatro dei piccoli, ore
17.00-20.00
incontri con i docenti delle classi partecipanti e attivazione del percorso
di formazione. Vedere, fare e riflettere sul teatro nelle diverse dinamiche
relazionali. Accogliere le istanze della scuola e della comunità, per ap-
procciarsi e far avvicinare al teatro le nuove generazioni, per un percorso
teatrale progettato in comune ed elaborato nell’ottica della crescita cul-
turale, sociale e civile.
creare un collegamento tra il progetto e i percorsi, gli obiettivi e le attività
didattiche
integrare nel contesto educativo il teatro dei/con/per gli studenti
temi, termini, fini e modalità
metodologie sulla didattica del teatro della scuola e del teatro educazione
attivazione del percorso annuale con i laboratori teatrali in classe
partecipazione obbligatoria, l’assenza comporterà l’esclusione dal pro-
getto
113
sociale – prenotazione obbligatoria a info@lenuvole.com. In particolare
l’incontro è aperto ai genitori dei ragazzi partecipanti. Per i docenti par-
tecipanti al progetto la partecipazione è obbligatoria
114
audio standard, (impianti audio e luci uguali per tutte le scuole, non
saranno possibili puntamenti o cambiamenti di nessun genere), senza
l’ausilio di altra strumentazione tecnica
> dovrà essere completamente autonomo per oggetti, scene, costumi e
tutto quanto occorre allo spettacolo
> dovrà essere completamente autonomo rispetto a tutto il personale
funzionale allo spettacolo, un docente (formato dal nostro tecnico) si
occuperà delle operazioni di start e stop musiche.
Il biglietto d’ingresso è di € 3 cadauno (ingresso omaggio per le classi
del progetto)
Le classi partecipanti:
nella giornata dedicata al loro lavoro, dovranno essere autonomi per tut-
to l’occorrente la colazione al sacco.
oltre alla giornata dedicata al loro lavoro, dovranno partecipare – gratui-
tamente e previa prenotazione – ad almeno un’altra mattina di spettacoli.
115
LA BAMBINA LIBRATA in scena martedì 15/03 ore 10.00, età consi-
gliata 8-14 anni
incontro di preparazione martedì 8/03 ore 16.30/19.00 – incontro dopo
la visione martedì 15/03 ore 16.30/19.00
116
La proposta prevede, per ciascun titolo:
un incontro, precedente la visione, di presentazione del lavoro teatrale e
del relativo progetto didattico con materiali e condizioni d’uso.
un incontro post visione, il pomeriggio dello stesso giorno di spettacolo, per
un momento di approfondimento su quanto visto, provato, sperimentato. È
il momento finale che chiude l’episodio “siamo andati a teatro”, ed è fonda-
mentale per il pubblico perché può costituire una forte spinta a continuare
l’esplorazione sia allargando le proprie conoscenze sull’arte del teatro, sui
testi, sulle regie, sui generi; sia a frequentare ancora il teatro riuscendo per-
sino a superare la delusione di uno spettacolo non gradito. Il ”dopo” conso-
lida l’esperienza fatta, aggiungendola al bagaglio culturale dello spettatore.
È possibile scegliere anche solo 1 titolo dei 4. Al momento della prenota-
zione dello spettacolo, prenotare anche i 2 incontri di formazione abbinati.
117
I partecipanti dovranno indossare abiti comodi per il movimento (possi-
bili sedute a terra) ed essere dotati di penna e quaderno per gli appunti.
Come è possibile mantenere il filo del discorso senza ridurre la voce ad
un filo?
Possono finalità didattiche ed esigenze narrative andare di pari passo?
Il corso, a carattere assolutamente pratico, si propone di recuperare le
attitudini e le capacità narrative di ognuno.
Gli obiettivi possono essere raggiunti lavorando sulla voce con consoli-
date tecniche della “messa in suono”.
ATTRAVERSO LA LETTERATURA
Museo e Parco Archeologico di Paestum (Salerno)
sabato 31 ottobre 2015, ore 11.00 (durata 2 ore e 30 circa)
I partecipanti dovranno indossare calzature comode per percorso disa-
gevole
Una visita partecipata, un percorso in cui archeologia, storia, arte e let-
teratura si fondono per dar luogo ad una visita che si arricchirà con la
lettura di brani letterari e permetterà di ‘scambiarsi’ gli sguardi parte-
cipando attivamente, non solo da spettatori ma da protagonisti di una
nuova esperienza di fruizione.
118
ELEMENTARY, WATSON!
Teatro dei Piccoli, Mostra d’oltremare, Napoli
lunedì 9 novembre 2015, ore 17.00 (durata 2 ore circa)
Uno spettacolo interattivo, in lingua inglese, è un ottimo strumento, per
l’apprendimento della lingua straniera.
Intriso di sense of humour britannico e ispirato a elementi di “Le Av-
venture di Sherlock Holmes” e “Il Taccuino di Sherlock Holmes” di Sir
Arthur Conan Doyle, il coinvolgimento del pubblico è sorprendente-
mente facile. Non solo uno spettacolo in lingua, ma un’esperienza che
sintetizza, con efficacia, l’avventura di entrare in una lingua.
119
Teatro Scuola Vedere Fare
Napoli ottobre 2016 – giugno 2017
Terza edizione
Il ‘fare teatro nella scuola’ riveste una notevole importanza per la pro-
pensione ad essere una reale lente d’ingrandimento delle tendenze di
pensiero dei giovani e dei loro educatori.
121
progetto nella sua interezza e ampiezza collaborando affinché le classi
di studenti (e i docenti) possano con serenità accogliere, all’interno del
normale percorso didattico, la nuova materia “teatro”.
Le Nuvole
122
> il testo utilizzato potrà essere ispirato o liberamente tratto da altre ope-
re ma il risultato dovrà essere un’opera originale
> dovrà avere una durata minima di 20 minuti e massima di 30 minuti
> dovrà essere “in scena” entro 5/10 minuti dall’ingresso, della classe,
sul palcoscenico
> dovrà essere adatto ad un palcoscenico di m 8 x 8, dotato di fondale e
quinte nere; con illuminazione fissa dello spazio e impianto audio stan-
dard, (impianti audio e luci uguali per tutte le scuole) senza l’ausilio di
altra strumentazione tecnica
> dovrà essere completamente autonomo per oggetti, scene, costumi e
tutto quanto occorre allo spettacolo
> dovrà essere completamente autonomo rispetto a tutto il personale
funzionale allo spettacolo, un docente (formato dal nostro tecnico) si
occuperà delle operazioni di start e stop musiche.
> qualora i docenti lo ritengano opportuno, gli incontri PRE/POST
spettacolo sono aperti anche ai genitori degli alunni (prenotazione a cura
dei docenti)
> gli spettacoli IL GIARDINO DIPINTO e AHIA! saranno presentati
anche nei festivi, i docenti e i genitori della classe, interessati a DdV,
possono prenotare gli incontri (gratuiti per tutti) come da calendario e
visionare lo spettacolo nella data festiva (ingresso ridotto per i genitori
prenotati). La prenotazione sarà, per tutti, a cura dei docenti.
> per ESPLORAZIONI/Bari, sarà richiesto ai partecipanti un contribu-
to a parziale rimborso spese.
Tutti gli incontri con i docenti del progetto sono attività riconosciute
come formazione per il personale della scuola (ex direttiva ministeriale
MIUR 90/2003). È previsto l’esonero dal servizio | Partecipazione gra-
tuita | Sarà rilasciato (a fine anno) relativo attestato di partecipazione,
cumulativo di tutte le presenze.
Le Nuvole è un ente di formazione per il personale della scuola rico-
nosciuto dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca,
ex direttiva ministeriale MIUR 90/2003. È previsto l’esonero dall’obbli-
go del servizio, in base alle comunicazioni del Ministero della Pubblica
Istruzione, dell’Università e della Ricerca – dipartimento per l’istruzione
– DG personale scolastico.
123
CRONOPROGRAMMA
> entro fine ottobre. prenotare 3 spettacoli teatrali a teatro, a scelta, nel
cartellone 2016_2017 Le Nuvole, di cui almeno 1 abbinato al percorso
DIDATTICA DELLA VISIONE/ INCONTRI PRE / POST spettacolo:
incontri di approfondimento – 1 prima e 1 dopo ciascun spettacolo. L’at-
tività prevede il coinvolgimento degli insegnanti in una ricerca aperta e
condivisa intorno a quel “prima” di attese, curiosità, conoscenze e ipote-
si che accompagnano lo spettatore nel tempo che precede lo spettacolo,
e a quel “dopo” di reazioni e rielaborazioni. Ogni incontro è sostenuto
da specifici materiali appositamente strutturati, in cui ritrovare di volta
in volta spunti e tracce da percorrere.
124
IL GIARDINO DIPINTO di tpo – età consigliata 4-9 anni spettacolo >
domenica 13/11 ore 10 e 11 e lunedì 14 e martedì 15/11 ore 9.30 e 11.30
e 15.00 (numero limitato di spettatori)
incontro pre – visione mercoledì 9 novembre ore 16.30/19.30 | incontro
post – visione venerdì 18 novembre ore 16.30/19.30
CAINO E ABELE di Rodisio – età consigliata 10-16 anni spettacolo >
martedì 17/01 ore 10 e 15 e mercoledì 18/01 ore 10.00
incontro pre – visione mercoledì 11 gennaio ore 16.30/19.30 | incontro
post – visione venerdì 20 gennaio ore 16.30/19.30
PER LA STRADA di Eccentrici Dadarò – età consigliata 10-16 anni
spettacolo > mercoledì 8 e giovedì 9/02 ore 9.30 e 11.30
incontro pre – visione venerdì 3 febbraio ore 16.30/19.30 | incontro
post – visione lunedì 20 febbraio ore 16.30/19.30
AHIA! di Teatri di Bari – età consigliata 6-11 anni spettacolo > domeni-
ca 5/03 ore 10 e lunedì 6 marzo ore 9.30+11.30
incontro pre – visione mercoledì 1 marzo ore 16.30/19.30 | incontro
post – visione mercoledì 8 marzo ore 16.30/19.30
IL PAESE SENZA PAROLE di Rossoteatro – età consigliata 7-12 anni
spettacolo > giovedì 6 e venerdì 7/04 ore 9.30 e 11.30
incontro pre – visione venerdì 31 marzo ore 16.30/19.30 | incontro
post – visione martedì 11 aprile ore 16.30/19.30
> novembre/maggio mercoledì 30/11, 14/12, 25/01, 22/02, 29/03, 12/04,
10/05, 17/05, 30/05, 31/05, ore 17.00/20.00. A teatro. FARE TEATRO
A SCUOLA. Solo per i docenti delle classi del progetto. 10 incontri (3 h.
cadauno) di laboratorio di formazione e accompagnamento al percorso
FARE. Percorso di formazione – alla luce delle nuove direttive ministe-
riali (16 marzo 2016) che richiedono una progettualità del fare e vedere
teatro nei piani di offerta formativa – che, accogliendo le istanze della
scuola e della comunità, intende promuovere un percorso teatrale pro-
gettato in comune ed elaborato nell’ottica della crescita culturale, sociale
e civile. In particolare ci occuperemo di: creare un collegamento tra il
progetto e i percorsi, gli obiettivi e le attività didattiche | integrare nel
contesto educativo il teatro dei/con/per gli studenti | discutere temi, ter-
mini, fini e modalità del progetto | approcciare metodologie sulla didat-
tica del teatro della scuola e del teatro educazione | attivare il percorso
annuale con i laboratori teatrali in classe
Per i docenti la partecipazione è obbligatoria, l’assenza comporterà l’e-
sclusione dal progetto
125
> dicembre/aprile. In classe. LABORATORIO. Con gli studenti
5 incontri (1 al mese) a scuola, di 2 ore cadauno. Date e orari da con-
cordare con ogni singola classe. Contatti e monitoraggio per rinforzare
la tematica e affrontare le problematiche in preparazione dell’incontro
di maggio
126
Programma delle giornate:
ore 8.30 arrivo delle classi e preparazione allo spettacolo | ore 10.00
apertura del teatro al pubblico, a seguire inizio spettacoli (da 2 a 3, ogni
mattina, senza intervallo) | ore 12.00 circa, termine attività e incontro, in
giardino, con il pubblico | ore 12.00/13.00 pausa merenda |
ore 13.30/15.30 salotto/laboratorio teatrale
Le classi partecipanti: nella giornata dedicata al loro lavoro, dovranno
essere autonomi per tutto l’occorrente la colazione al sacco | oltre alla
giornata dedicata al loro lavoro, dovranno partecipare – gratuitamente e
previa prenotazione – ad almeno
un’altra mattina di spettacoli. | tutti gli spettacoli saranno ripresi inte-
gralmente, da un operatore professionista, a scopo di documentazione
127
> lunedì 12 e martedì 13 giugno, ore 16.00/20.00. A teatro. DIDATTI-
CA DELLA VISIONE. SEMINARIO DI CHIUSURA
L’incontro è tra i protagonisti del mondo dell’educazione – dirigenti sco-
lastici, insegnanti, educatori, operatori teatrali e del territorio. Assistere
a uno spettacolo teatrale è un’esperienza di gruppo, un ‘vedere insieme’
lo stesso spettacolo e
contemporaneamente un’esperienza individuale in cui ogni spettatore
‘vede da solo’, con i suoi occhi, in un suo modo
proprio. Ma che cosa realmente vediamo insieme e cosa vediamo soli? In
che relazione sono le due esperienze di visione?
Come accedere alla visione di un altro? A partire da queste domande si
propone a un gruppo di spettatori un percorso di
ricerca che avrà a riferimento l’esperienza condivisa di vedere uno spet-
tacolo
Per i docenti del progetto, la partecipazione è obbligatoria
128
Teatro Scuola Vedere Fare
Napoli ottobre 2017 – giugno 2018
Quarta edizione
129
Il ‘fare teatro nella scuola’ riveste una notevole importanza per la pro-
pensione ad essere una reale lente d’ingrandimento delle tendenze di
pensiero dei giovani e dei loro educatori.
Un’educazione al teatro e alla teatralità impone una visione pedagogica
del ‘fare’ anche attraverso la visione degli spettacoli di teatro professio-
nale che diventa la naturale e giusta sintesi/verifica di un percorso di cre-
scita sociale e culturale. Gli spettacoli del cartellone 2017/2018 si inse-
riscono nel progetto come un momento fondamentale della riflessione e
della proposta culturale, per completare il processo del fare e del vedere.
130
spettacolo per i propri studenti, con un particolare focus sulla prepara-
zione, ma anche sul comportamento dello spettatore, dall’accesso alla
sala, fino alla fruizione completa dello spettacolo.
131
venerdì 9 febbraio ore 16.30/20.30 incontro pre – visione
mercoledì 21 febbraio ore 16.30/20.30 incontro post – visione
SENZA PIUME – età consigliata > ultimo anno scuola primaria, scuola
secondaria spettacolo > mercoledì 18 aprile
mercoledì 11 aprile ore 16.30/20.30 incontro pre – visione
lunedì 23 aprile ore 16.30/20.30 incontro post – visione
Lunedì 12 e martedì 13 giugno ore 16.00/20.00 SEMINARIO DI
CHIUSURA
Assistere a uno spettacolo teatrale è un’esperienza di gruppo, un ‘vedere
insieme’ lo stesso spettacolo e contemporaneamente un’esperienza indi-
viduale in cui ogni spettatore ‘vede da solo’, con i suoi occhi, in un suo
modo proprio.
Ma che cosa realmente vediamo insieme e cosa vediamo soli? In che rela-
zione sono le due esperienze di visione? Come accedere alla visione di un
altro? A partire da queste domande si propone a un gruppo di spettatori
un percorso di ricerca
che avrà a riferimento l’esperienza condivisa di vedere uno spettacolo
132
> 1 incontro, per lo spettacolo/comunicazione finale, con gli alunni e i
docenti
> la fornitura di impianti audio e luce necessari, per tutti e 2 gli incontri
> la stampa di un opuscolo con tutti gli spettacoli/comunicazioni finali
di tutte classi coinvolte
133
so, a partire dalla stesura del testo fino alla messa in scena sul
palcoscenico. In scena, volutamente, pochi elementi teatrali, per
lasciare tutto lo spazio e l’attenzione ai ragazzi, ai loro pensieri e
alle loro parole, unici protagonisti al centro del progetto.
134
> mercoledì 20/12, 31/01, 28/02, 28/03, 18/04, 30/05, ore 17.00/20.00.
A teatro. FARE/TEATRO/AGGIORNAMENTO
> venerdì 28 febbraio. MATERIALE STAMPA. Termine ultimo per l’in-
vio a pauro@lenuvole.com di titolo dello spettacolo | scheda di max. 5
righe di presentazione dello spettacolo/del lavoro svolto e da una dedica
(da considerare, nella stesura, che sarà distribuita al pubblico che assi-
sterà allo spettacolo) | 4/5 foto in buona risoluzione che rappresentino il
lavoro | liberatoria (firmata dai genitori) per l’uso delle immagini foto e
video dei minori (richiedere il modello ai ns uffici).
Il mancato invio, nei termini, comporterà l’esclusione del proprio pro-
getto dai materiali stampati
> dal 2 maggio. A teatro: PROVE. FARE/TEATRO/LABORATORIO
Prove del proprio spettacolo di fine laboratorio, in teatro, prevede per
ogni classe l’utilizzo esclusivo del Teatro dei Piccoli per max. 2 ore (al
mattino tra le 8.30 e le 12.30 o al pomeriggio dalle 13.00 alle 17.00).
Date e orari da concordare con ogni singola classe.
> dal 14 maggio ore 8.30/12.30 e ore 13.30/17.30. A teatro. SPETTA-
COLO/COMUNICAZIONE FINALE
MAGGIO ALL’INFANZIA Napoli, rassegna di spettacoli fatti dai ra-
gazzi. Programma delle giornate:
matinée: ore 8.30 ingresso in teatro e preparazione allo spettacolo | ore
10 apertura teatro al pubblico, a seguire inizio spettacoli (da 2 a 3, senza
intervallo) | ore 12 circa, termine attività e incontro, in giardino, con il
pubblico | ore 12.30/13.30 merenda e rientro a scuola |
pomeridiane: ore 12.30/13.30 merenda | ore 13.30 ingresso in teatro e
preparazione allo spettacolo | ore 15 apertura teatro al pubblico, a se-
guire inizio spettacoli (da 2 a 3, senza intervallo) | ore 17 circa, termine
attività e incontro, in giardino, con il pubblico.
> da giovedì 17 maggio ore 12.00 a domenica 20 maggio ore 21.00. A
Bari. ESPLORAZIONI
alla 21a edizione del festival di teatro per le nuove generazioni MAGGIO
ALL’INFANZIA, a cura di Teatri di Bari
Un gruppo di insegnanti che insieme a operatori e artisti si interrogano
sull’arte per le nuove generazioni.
Sarà data priorità di partecipazione ai docenti dei progetti TSVF. Attività
a pagamento.
> giovedì 31 maggio ore 17.00/20.00. A teatro. TSVF. INCONTRO DI
CHIUSURA
aperto a dirigenti scolastici, insegnanti, genitori. Confronto sul teatro
135
della scuola e su metodologie, poetiche e ricadute. Testimonianza dei
docenti TSVF 2017/2018 che presenteranno una breve comunicazione
teatrale, a testimonianza del cammino, della strada percorsa insieme e
quotidianamente, con “valigie da svuotare e da riempire perché alla fine
del viaggio si è subito pronti per un’altra avventura”.
> lunedì 11 e martedì 12 giugno, ore 16.00/20.00. A teatro. VEDERE.
SEMINARIO DI CHIUSURA
aperto a dirigenti scolastici, insegnanti, genitori.
> mercoledì 13 giugno, ore 10.00/18.00. Luogo da definire. FARE. SE-
MINARIO DI CHIUSURA
> mercoledì 20 giugno, ore 17.00/21.00. A teatro.
I docenti del Maggio all’Infanzia Bari, “restituiscono” l’esperienza del
progetto ESLPORAZIONI 2018.
Per i docenti del progetto TSVF la partecipazione agli incontri in calen-
dario
- ad esclusione di ESPLORAZIONI – è obbligatoria, l’assenza potrà
comportare l’esclusione dal progetto.
136
La foto Api fa parte del progetto fotografico
“Terra Nera - Identità e territorio Vesuviano” di Pino Miraglia
Il buio vuoto re lu primmo passo
di Mimmo Borrelli
139
All’Edenlandia purtajemo n’Inferno
no de Dante, ma re guagliunera
cu la passione viva de lu scherno
e li suonne all’uocchie de chi spera.
In platea ’nce stevano li scole
ca contro a lloro gariggiate avevemo
e ce vulevano lincia’ cu na mazzola
e nuje cacate sotte ce futtevemo.
140
CARTOPEDAGO
Nel nome della ricerca pedagogica e artistica, si propone al lettore
Maria D’Ambrosio
di entrare e di conoscere il progetto Teatro Scuola Vedere Fare per-
GRAFIEGICHE
ché la sua complessità e articolazione, nonché la sua storia e quin-
di quella del gruppo teatrale “Le Nuvole” insieme a quella di “Casa
del contemporaneo”, “Agita”, “Casa dello spettatore” e “Fondazio-
ne spettacolo arte territorio”, danno l’idea evidente di un lavoro di
equìpe, di un necessario lavoro corale, che ha l’ambizione di farsi
veicolo di innovazione sociale. Un progetto che dà opportunità di
COD. T
ISBN 978-88-207-6799-0
LIGUORI
e 11,99 9 788820 767990 EDITORE