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TEATRO SCUOLA VEDERE

FARE - D'AMBROSIO
Pedagogia
Università degli Studi Suor Orsola Benincasa
35 pag.

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TEATRO SCUOLA VEDERE FARE

Senza pratiche estetiche per una poetica


pedagogica

MARIA D'AMBROSIO

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PREFAZIONE

Un libro come questo, che lavora sui concetti di teatro e di scuola dà occasione per tematizzare e
legittimare la materialità educativa come pista epistemologica percorsa sin dalla classicità e oggi
emergente come necessità nel contemporaneo. Necessità cui contribuisce anche l'attuale scenario
definito dalla recente normativa sul riconoscimento della figura professionale dell'educatore e
del pedagogista, per la quale le professioni educative sono individuate come struemnti da
introdurre nelle Istituzioni educative e formative, per rigenerarne l'organizzazione in chiave di
benessere sociale. Ciò è parte di un progetto ambizioso che coinvolge la materialità e le pratiche
dei professionisti dell'educazione, la cui dimensione corporea è chiamata a realizzare spazi
immaginativi e a produrre nuove realtà.
Sembra cioè ci poter realizzare un sogno. Winnicott afferma che il soggetto che sogna possiede
una collocazione creativa che sperimenta in quello spazo-tempo che chiamiamo gioco e che rende
possibile l'atto creativo e il suo divenire teatro.
In questo testo si torna a fare spazio alla responsabilità dell'eroe tragico e al suo impegno nel
sottrarsi alla spinta deterministica e al volere di altri. Si trtta di questioni che recuperano con Riccardo
Massa l'interrogativo relativo a educare o istruire e rimettono al centro della riflessione pedagogica la
forma-scuola e la necessaria riconfigurazione del dispositivo educativo che vi è sotteso.
La forma-scuola può trovare nel teatro quella forma non disciplinare che chiama l'attore a dare
forma alla vita del personaggio, esponendosi per gioco allo sguardo dell'altro.
L'interesse per le diverse forme-scuola e forme-teatro evidenzia l'attuale possibilità di dare forma a
uno spazio di intervento che è anche spazio di ricerca e setting per un lavoro clinico che investe i
professionisti dell'educazione che ripresentano esperienze per ripodurre nuovi significati. Si tratta
di entrare e svelare un teatro interiore, dando voce ciascuno ai propri antenati sentendosi entro
dei legami che guidano, sollecitano oppure opprimono.
Il teatro è quella forma di Scuola Attiva dove la messa in scena è parte di rappresentazione che è
co-costruzione, e che consente di lavorare il concetto di Teatro e quello di Scuola nella loro comune matrice
intersoggettiva, permettendo all'attore di cogliere il suo essere.
Teatro e Scuola si propongono come territori dove si fa spazio ad una riflessione pedagogica che,
con Dewey, fa risuonare l'educazione con la comunicazione.
Il Teatro è la parola-chiave da intedersi come metafora e come pratica sociale che dà forma alla
Scuola Attiva e propone il vedere-fare anche come segno di una scelta metodologica che spinge a
realizzare incontro, dialogo, relazione, senza omologazione né con-formazione.
L'eredità di Riccardo Massa e i suoi studi sul rapporto tra teatro, educazione, formazione e
pedagogia, ritorna e rivela la natura extraordinaria tanto del teatro quanto dell'educativo e della
formazione: si tratta di un'eredità connessa agli studi cui si deve la sovrapposzione di teatro e
scuola in quanto dispositivi pedagogici attraverso cui pensare all'attore e alla scena, ovvero al loro
rapporto vitale, come condizione per tornare alla realtà, essendo in grado di lasciar traccia ed
emergere sulla scena come Darstellung.
L'azione in scena dimostra il superamento della irrappresentabilità del teatro interiore e
l'apertura ad un lavoro sul simbolico e il linguistico che fa dell'azione quel piano oggettuale
attraverso cui è possibile una transazione.
In questo testo vi sono grandi maestri del teatro del 900 insieme ai maestri del pensiero che hanno
animato la riflessione filosofica e pedagogica novecentesca, i quali aiutano a rileggere l'educazione
e la formazione come processi complessi e quindi non riconducibili a questa o quella dimensione
per poterli definire invece come sistemi o apparati simbolici.
Il teatro suona come apparato, macchina, gioco, che rivela quello che Althrusser chiamava circuito
e reticolo relazionale, e che si dà come oggeto dentro cui la scienza pedagogica può afferrare,
comprendere e legittimare la materialità educativa e la sua consistenza agente-agita.

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L'arte e la pratica teatrale sono proposti come quello spazio in cui il sapere pedagogico si apre alle
questioni metodologiche, alla performance, alla rappresentazione e sostanzia la praticabilità, pure
mobile, obliqua e rarefatta, di un'epistemologia che è ricerca clinica e di un pensiero che è critico,
riflessivo, comprendente.
L'educazione, come la pedagogia, si prende lo spazio necessario per fare della scena la metafora
per unire arte e scienza utilizzando corpo, materia e simbolo in un pensare-fare che è anche
vedere-fare, e si qualifica come tratto contemporaneo di un'epistemologia incorporata nell'agire
prassico-ermenutico.
Teatro e scuola sono riattraversati da uno sguardo pedagogico che resituisce a quel processo
continuo e transgenerazionale che chiama ad una poetica e ad una progettualità come stato
permanente del vivente. Uno spazio che riguarda l'umano, la sua situata soggettività, che della
formazione afferma l'importanza della formazione dei formatori e che elegge il teatro ad habitat o
ambiente educativo e riconfigura la scuola come comunità di maestri e allievi, il cui esito è
ascrivibile ad una certa pedagogia degli ambienti educativi.

INTRODUZIONE

Il libro è un omaggio alla bellezza e alla gioia della scuola e del teatro, da cercare anche fuori dagli
edifici che provano a contenerne materialmente la missione formativa. Perchè ogni spazio può farsi
scuola e teatro se è scena dove mostrarsi e apparire agli occhi di un altro e alcontempo ambiente
dove generare e partecipare di un incontro/dialogo che produce comunità in forma di opere e
della loro plastica trasformazione.
Teatro Scuola Vedere Fare è un progetto esistente già da quattro anni, con il pretesto di avvicinare
lo spazio della ricerca epistemologica e metodologica e pedagogica con quello delle pratiche
scolastiche e teatrali e vederne emergere un territorio ampio e plurale abitato da una comunità
che ha individuato nella necessità di rigenerarsi anche l'opportunità di aprire spazi non canonici,
fuori da luoghi comun.
Il libro è prova dell'idea di fare scuola e teatro giudati da un'etica della partecipazione che genera
una estetica della creazione, lungo la traiettoria che unisce vedere e fare nel processo vitale da cui
emerge l'essere e la sua intersezione tra attore e spettatore.
Ciò accade ponendo attenzione verso il formante. Esso è il concetto-chiave per ripensare l'essere e
lo spazio/mondo attraverso il gesto performativo del prendere e dare forma. Essere come formante
e spazio formante attraversati dal pedagogica e dalla sua dimensione poietica, emergono da una
ricerca e incarnano la generatività dell'agire e la necessità di accrescerne il potenziale comunicativo
che fa coincidere il concetto di vita con quello di teatro e quello di azione con interazione.

CAPITOLO 1: QUALE TEATRO E QUALE SCUOLA.


PER UNA DECOSTRUZIONE DEL DISPOSITIVO EDUCANTE

1. Teatro e Scuola: spazi vitali del Pedagogico

Mettersi all'opera e dare forma al progetto Teatro Scuola Vedere Fare ha significato far emergere la
capacità visionaria e trasformare il bagaglio di esperienze e il percorso tracciato nel campo del
teatro ragazzi, in un intervento capace di andare oltre le difficoltà e le resistenze e guardare più in
là, chiamando a raccolta persone più adatte a rispondere agli obiettivi e alle ambizioni progettuali.
Così si è configurato un partenariato, un approccio, un programma, un gruppo di lavoro e le attiità
inagurate nell'ottobre 2014.
Per guardare al vedere/fare del teatro-scuola come a quello spazio poetico dove si riscrivono di
continuo i limiti tra possibile impossibile, dove ci si muove per quel felice gioco del dare e prendere

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forma di cui siamo tutti partecipi interpreti, torna alla mente l'immagine che Isabella Huppert, in
occasione della Giornata mondiale del Teatro promossa dall'Unesco, ha proposto dando voce a
Winnie, la protagonista di Giorni felici di Beckett, che esordisce con il suo “Oh, anche questo sarà
un giorno felice”. La battuta di Winnie risuona qui perchè contiene la forza dell'avvio di una
stagione teatrale che cammina insieme a quella di un anno scolastico e che ha trovato modo di
figurarsi anche quello che non c'era, o che con c'era ancora, come l'apertura del Teatro dei Piccoli
alla Mostra d'Oltremare di Napoli, restituito alla città nel maggio del 2013, grazie ad un restauro: la
riapertura del teatro è uno dei tasselli attorno a cui la visione ha potuto diventare progetto e
prendere corpo con una proiezione lunga nel tempo.
La voce di Winnie-Morena, che risuona sin da quando il Teatro dei piccoli era solo un cantiere, è
ora quello spazio fisico che consente di tornare a riflettere sul Teatro e sulla Scuola perchè ci
interessa la loro quotidiana pratica di farsi ambiente extraordinario.
La Winnine di Giorni felici sa guardare oltre le sue difficoltà e proiettarsi nel futuro di quel giorno che vede
felice; e così possiamo rintracciare e far emergere quella speciale capacità di rinnovarsi grazie al teatro.
Il Teatro è necessario perchè è quello spazio dove la realtà è trasfigurazione, artificio, immaginazione;
uno spazio dove si generano forme di realtà differenti perchè relative all'eroe e al suo speciale sentire-
immaginare-agire che prende corpo sulla scena e può farsi veicolo di conoscenza.
Possiamo allora pensare al teatro come un veicolo dell'esperienza dell'oltre-passamento necessaria al
conoscere; una speciale macchina estetica dalle origini antiche che rende il vedere-sentire-agire un
dispositivo pedagogico la cui metodologia è incarnata nel corpo e nel rapporto che quel corpo
costruisce con lo spazio/scena/mondo e con l'altro.
Si tratta di un corpo capace di rendere attuale la sua esperienza del mondo, mutandolo. A questo
proposito, in Rifare la filosofia, Dewey ricorda che il vero metodo, quello che Bancone avrebbe
introdotto, è paragonabile all'attività dell'ape che raccoglie materia prima dal mondo esterno
come la formica ma, diversamente da lei, intacca e modifca la materia racoclta per farne uscire il
tesoro che vi è celato. Le api di Dewey e la Winnie di Beckett incarnano la logica della scoperta che
fa danzata il già noto con l'ignoto e preferire la vita delle arti a quella delle scienze.
Con Dewey e con Beckett stiamo nel XX secolo in cui il pensiero pedagogico e la drammaturgia
teatrale si attualizzano rinnovando e rigenerando il sapere millenario di cui sono eredi, di fatto
aprendo la strada a quelle nuove e altre traiettorie da tracciare per sentirci esploratori/osservatori
di altre e possibili realtà.
Dewey e Beckett segnano importanti passaggi che conducono ai concetti di realtà, conoscenza,
mondo, alle loro mutevoli variazioni e stratificazioni.
Nel 1916, con il suo Democrazie e educazione, John Dewey parlava dell'educazione così come la
Huppert, a distanza di un secolo, parla del Teatro: edcuazione/Scuola e Teatro sono spazi di cui
l'umanità ha avuto sempre bisogno per rigenerarsi, per variare, per mettere in crisi e dubitare dello
stato immutabile e ripetitivo delle cose. E l'umanità è Winnie che prende voce e guarda ad un altro
giorno felice testimoniando la necessità di unire la volontà, l'interazione, l'ideale, alla materialità,
alla concretezza, alle cose che diventano opere.
Quella che Winnie incarna è un'umanità senza la forza dell'autorità superiore, come Antigone, la
cui vitalità è traccia della dimensione poietica dell'essere-nel-mondo: vitalità che è dell'attore che,
fuori dall'ordinario, fa scuola di fare-pensare e traccia le linee di una ricerca di cui è importante il
processo più che l'esito come destino.
La Huppert sottolinea la capacità di darsi come festa, come un altro giorno felice: quello che Grotowski
chiamava Swieto: il giorno che è santo. La festa appunto, sovrapposta all'idea stessa di Teatro, per sfuggire
a un ideale monumentale e celebrativo e recuperare nel mondo vivente il corpo vivente.
E proprio nel senso del vivente, citiamo Winnie che in Giorni felici si trova sepolta fino alla vta e poi
fino al collo in un cumulo di sabbia, perchè possiamo riconoscere la encessità di una
decostruzione, di un dissenso che attraversi anche il pensiero pedagogico per assumere una

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postura critica soprattutto verso il potere aturoritario del logos, verso la sua unitaria totalità
definitoria che esclude la differenza e induce alla spartizione nell'atto stesso del sentire.
Derrida compie questa operazione attraverso il teatro della crudeltà di Antonin Artaud ricordando che
è la pratica teatrale della crudeltà che, nel suo atto e struttura, produce uno spazio non-teologico.
Il teatro è la pratica attraverso cui lo stesso pensiero pedagogico può prendere corpo in forma di
pedagogia del teatro-scuola. La pratica teatrale suggerisce una rottura possibile con l'asservimento ad
un padrone, ad un'autorità superiore, e instaura una modalità produttiva, attiva, emancipatoria, di agire
il mondo, viverlo e abitarlo.
Il Teatro e la concretezza della realtà scenica impongono un uso disciplinato dell'azione. Si tratta di
affinare tutti gli strumenti possibili perchè l'azione si faccia opera e sia in grado di essere condivisa.
Derrida aveva messo in guardia sostenendo che la scena è teologica fin tanto che è dominata dalla
parola, da una volontà di parola, dall'intenzione di un logos primo che, pur no facneod parte di un
luogo teatrale, lo guida a distanza.
La scena è teologica finchè la sua struttura comporta, secondo l'intera tradizione, i seguenti
elementi: un autore-creatore che sorveglia, riunisce e domina il tempo e il senso della
rappresentazione lasciando che quest'ultima lo rappresenti in ciò che viene chiamato il contenuto
dei suoi pensieri, delle sue interazioni, delle sue idee.
La sapienza dell'attore si realizza nella sua performance. Rifuggire dalla scena teologica vuol dire
scegliere una postura critica verso la mera trasmissione, e quindi prepararsi attraverso una pratica
quotidiana ad esercitare la propria autorialità e a farsi artigiani del sapere e scultori del sé. La postura
autoriale e critica implica responsabilità, quella che con Artaud diventa trionfo della messinscena.
Attraverso l'azione scenica si tradisce il testo, la parola, la letteratura, e si partecipa in maniera
sensible, attiva e non veristica, al testo. Ovvero ci si prepara, ci si allena, si lavora, come le api, per
poter trasformare ciò che si è colto in azione, in frutto, in deliziosa opera fatta perchè ne possano
godere anche gli altri. E, come le api, con i maestri, possiamo riconoscere nella scena quello
spazio-alveare dove il lettore/spettatore/alunno è performer e produce opera: quello spazio ha
molte forme ed è la Scuola fatta Teatro.
Il Teatro, quello che rifugge dalla rappresentazione e dalle sue intenzioni servili, da quel
rappresentare per mezzo dei rappresentanti, registri o attori, interpreti asserviti che rappresentano
personaggi che rappresentano più o meno direttamente il pensiero del creatore, coincide con un
certo tipo di Scuola perchè rende praticabile il pedagogico come l'umano trasformare/trasformarsi
in quanto creatura vivente.
E allora il progetto Teatro Scuola Vedere Fare appare come strutturato in direzione del trionfo della
messinscena: la stagione teatrale, il cartellone, la scelta delle compagnia e degli spettacoli, si uniscono
ad altre scene, a quelle degli incontri seminariali, ai laboratori fatti a scuola, a tutto il resto, perchè
pensato organicamente come veicolo di una proposta culturale che si allea ad una proposta formativa
per superare una logica della trasmissione e attivare quella poetica, quella dell'ape.
Il progetto Teatro Scuola Vedere Fare ha aumentato la posta in gioco individuando quattro
macro-aree di intervento: la formazione degli insegnanti a teatro; la visione degli spettacoli a
teatro;le attività laboratoriali a scuola con la produzione di una comunicazione finale; la
presentazione della comunicaizone finale in una rassegna dedicata.
Ciascuna area di intervento è pensata come organica parte di un percorso unico e complesso attraversato
da una logica laboratoriale perchè tutti potessero situarsi e collocare il proprio agire in ambiente-Scuola e in
ambiente-Teatro, e perchè Scuola e Teatro potessero sentire la loro comune necessità di farsi ambiente
formante utilizzando il potere rigenerativo e straniante dell'arte e dei suoi codici.
L'architettura del progetto Teatro Scuola Vedere Fare è aperta perchè a Teatro si può fare Scuola e
a Scuola si può fare Teatro, mescolando le carte e mobilitando saperi e pratiche in continua
condivisione e trasformazione cosicchè dalla singolarità e l'unità si possa passare al molteplice, e
tracciare un percorso leggibile come costruzione di una comunità.

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2. Spazio al corpo: suonate campane! A festa!

La partitura del progetto Teatro Scuola Vedere Fare può essere letta secondo più ordini
compositivi, ma trasversale è la necessità per il progetto di generare specifici attraversamenti e
slittamenti di senso, perchè ciascuno vi operi da maestro e senza spartizione di ruoli.
Il progettista-organizzatore, l'insegnante, il maestro di teatro, l'esperto e operatore teatrale,
l'alunno, il drammaturgo, l'attore e il regista, l'alunno-attore e regista, sono posizioni mobili che
ciascuno è chiamato ad assumere nel gioco combinatorio del vedere-fare.
In questo gioco, gli insegnanti che aderiscono con la loro classe o con più gruppi di classe, o con un
gruppo interclasse, sanno che il progetto diventa uno spazio-tempo che corre lungo l'anno
scolastico e che offre momenti di sospensione dedicati ad attività seminariali e laboratoriali e ad
uscite per incontri, spettacoli e comunicazioni.
Tutte le attività coinvolgono la sfera professionale ma toccano sempre anche quella personale,
cosicchè il ritorno alla didattica curriculare sia carico di materiali in forma di espereinza, e non di
contenuti o procedure da applicare.
Perchè i materiali attraversati e da attraversare, in vista anche delle uscite per vedere gli spettacoli a
teatro, emergono nella didattica curriculare come esperienza: c'è bisogno di incorporare questi stessi
materiali; di recuperare la presenza del corpo dell'insegnante se vuole farsi attore del suo percorso.
Il corpo, in primis quello dell'insegnante, è chiamato ad esserci per leggere e attuare in pieno la
partitura di Teatro Scuola Vedere Fare.
Il corpo che attraversa il percorso è una realtà dinamica di natura bio-meccanica-estetica e
psico-socio-culturale, la cui mobilità e cinetica è vista come prima modalità di inerazione con il mondo
che può assumere qualità pedagogica e valenza formativa anche quando la sua posizione è di spettatore.
Infatti, nella sintesi del progetto Teatro Scuola Vedere Fare, si dichiara che la visione di uno
spettacolo teatrale debba essere il centro di un percorso che mobiliti conoscenze, domande ed
emozioni e sia mosso dalla consapevolezza che imparare a vedere è il risultato di un processo, per
il quale si propongono pratiche e strumenti didattici per la formazione del docente che vorrà
inserire la visione di spettacoli teatrali nel proprio programma scolastico.
Pertanto, raccolto l'invito di Isabelle Huppert ad essere Winnie, si può comprendere il dramma di chi
proprio come Winnie si trova in un corpo immobile cui la parola, però, la sua voce usata in qaunto
materia sonora e spinta oltre quel corpo, è in grado di superare la propria condizione di immobilità e si
proietta in un altro giorno felice! Il corpo immobile è di Winnie nella finzione ma è anche quella della
scena pedagogica attuale e della pratica scolastica nello specifico: un corpo che trova difficoltà ad uscire
dal proprio confine materiale e connettersi a quello cognitivo che pure dal corpo emerge.
Un corpo che deve trovare il modo per tornare a farsi mobile, a realizzare la proprio condizione
vitale di materia sonante/danzante e in divenire per riconoscere il pedagogico come essenza
costituitiva di quel corpo che a Teatro come a Scuola deve tornare ad agire attraverso tutte le
forme possibili, e a trovarne, sperimentarne, sempre di nuove. Perchè nella forma nuova c'è vita
nuova e possibilità di esistere e di comunicare.
Avvertire questa immobilità come elemento critico e non-vitale, ha significato per il progetto
Teatro Scuola Vedere Fare smuovere l'asse verticale della Scuola chiedendo agli insegnanti di farsi
corpo-docente-mobile, pensando al teatro come metodologia trasformativa, e fare laboratorio nel
senso di stare dove si attende a un lavoro; una ricerca continua per scoprire attraverso una
metodologia trasversale una didattica del confronto, una relazione autenitica per poter crescere
individui consapevoli.
Così si inquadrano gli incontri preparatori destinati agli insegnanti prima che accompagnino i loro
alunni a teatro a vedere gli spettacoli scelti per loro e poi anche tutte le attività laboratoriali che gli
insegnanti realizzano a scuola, con il supporto degli operatori teatrali, la realizzazione della
comunicazione finale, le prove e l'esibizione in pubblico a teatro.

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Dal punto di vista dell'insegnante sembra tutto un percorso di aggiornamento: per realizzare un
altro giorno felice! Ed ecco che, tornando all'opera di Beckett, ci si accorge di un segno: Giorni felici
si apre con il suono di un campanello fuoriscena. È come la campana della scuola che chiama
all'inizio della giornata e poi suonerà ancora per segnare il termine di uno spazio-tempo nel quale
ci si è aperti ad una forma collettiva di abitare la scena educativa. Si è tutti chiamati in scienza,
senza distinguere tra attori e spettatori, perchè lo spazio fisico possa diventare ambiente-teatro (di
relazione) dove mobilitare tutte le vie per dire anche l'indicibile e rendere visibile l'invisibile.
Vie, forme, scritture, linguaggi altri sottraggono spazio alla parola e alla testualità intesa nel senso
già codificato e riconosciuto come dominante, per lasciare che il gesto si faccia spazio come parte
di una semantica che unisce e rafforza il rapporto tra significante e significato.
Derrida si chiede: in che modo funzioneranno allora le parole e la scrittura? Tornando ad essere
gesti, verrà ridotta e subordinata l'intenzione logica e discorsiva, attraverso la quale solitamente la
parola garantisce la sua trasparenza razionale e affina il proprio corpo orientandolo verso il senso,
lo lascia stranamente celare da quanto lo rende trasparente; de-costituendo la sua intonazione e
intensità, il grado che l'articolazione della lingua e della logica non ha ancora del tutto congelato
quel movimento unico e insostituibile che la generalità del concetto e della ripetizione continuano
senza fine a rifiutare.
Il suono del campanello apre la scena beckettiana e, come la scuola, inaugura un rituale crudele
che è tale se rifiuta chiarezza e trasparenza e sceglie un simbiolismo plastico che si muove di forma
in forma, di segno in segno, di materia in maeteria, percgè sa che la sua fatica è quella di mettere a
nudo la carne della parola.
Parola, gesto, azione, suono, immagine, sono utilizzate nella loro materiale consistenza di cose,
capaci di agire e smuovere altre cose.
Non si tratta di spettacolo né di rappresentazione, ma di azione, cioè di quella speciale forma di
attività che unisce dimensione materiale con quella immateriale, senza lasciare che l'una o l'altra
predominino ma che si nutrano vicendevolmente delle loro differenti consistenze.
L'azione del corpo, a Teatro come a Scuola, è quella srammaticata che richiede continuamente una
decostruzione, alla Derrida che suggerisce l'eccesso del mettersi in gioco e la possibilità di
riconfigurare il giocattolo-dispositivo così da rischiare la perdita assoluta del senso, perchè risibile è
la sottomissione all'evidenza del senso.
Risvegliare i sensi per evitare la sottomissione all'evidenza del senso configura un'erotica della
disciplina, della pratica teatrale e di quella scolastica, che emerge come necessità metodologica
che apre al non-sapere come via per accedere all'ignoto senza asservimento.
La poesia, il non senso, l'impossibile, incarnati nella bellezza del corpo estatico, arrivano in
soccorso di un Teatro e di una Scuola che sono scene di una piena sovranità che rifuta e supera il
lavoro servile per innescare il gioco liberato dal desiderio del senso e fare della pratica disciplinare
l'unica possibilità per superarla.
La bellezza disarmante del corpo poetico, estatico, sacro, ha origine dal suo sapere/sentire di
non-sapere che espone il maestro all'allievo e viceversa, liberando ciascuno da certezze e subordinazioni.
Il corpo assume una postura epistemica e può entrare in scena da moderno veicolo per oltrepassare in
chiave fenomenologica la tradizione metafisica in nome della profondità e della mobilità.
L'entrata in scena del corpo costituisce la nuova centralità delle arti dinamiche nel processo
educativo come idea politica e fa spazio ad una grammatica generativa di cui il corpo stesso è
vettore in quanto soggetto/oggetto formante il cui gesto non esegue ma scompone e ricompone
tracce, secondo una nuova partitura.
Il libro, il testo, la scrittura, perdono o inizano a perdere l'aura cristallizzata dei classici e ad aprire alle
stratificazioni del linguaggio vivo che si svelano nell'atto stesso dell'accadere scenico performativo.
Il corpo, a Scuola come a Teatro, è corpo performante, un corpo che sperimenta e attualizza
l'esperenza dell'oltrepassamento e si fa generativo di altro lessico, semantic,a presenza, per dissolversi

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ed emergere alla Mallarmé: come una spaziatura della lettura, come scrittura della differenza.
Farsi spazio, spaziarsi, ha proprio il senso del manifestarsi come differenza così che la pratica della
lettura suoni come momento epocale, come emergenza di una pratica obliqua: quella che Derrida
chiama un'avventura dello sguardo.
La scena teatrale e quella scolastica, se attraversate da inquietudine, dubbio, interrogativi, lasciano
spazio al corpo vivo che penetra la forma, negandola come superficialità e sollecitandone la trama
con le sue profondità.
Il quadro epistemico delineato fin qui intende la conoscenza come atto, inaugurato da quel
rintocco del campanello che scatena un'energia difforme rispetto alla cadenza ritmica ordinaria,
suggerendo una straordinarietà all'accadere performante che Beckett utlizza come evidente segno
del richiamo ad un'altra qualità dello stare, dell'esserefarsi presente.
L'essere-corpo fa presa in quanto esserci e rintraccia un'originaria teatralità che coincide con una
ricerca dell'eccitatorio come stato dell'arte per apprendere e per conoscere.
L'azione è la qualità manifesta dell'essere e l'arte quella facoltà produttiva, che è del
formare/formarsi, del sentire/conoscere, che fa dell'agente-attore la categoria che incarna e
connette immaginazione e poietica e restituisce l'umano ad un intelletto incarnato e situato.
Il corpo performante, poietico, diventa metafora di un certo Teatro e di una certa Scuola perchè
incarna e incorpa una differenza, nel senso derridiano del differimento, che sposta le orbite
gravitazionali e si muove secondo tracciati rizomatici non ascrivibili a tracce e ordini preesistenti
ma generativi di un vitale e attivo conoscere.
In tal senso, a Teatro e a Scuola, la sfera corporea si fa spazio insieme ad un'orginaria educazione
estetica che riconnette uomo e mondo secondo il nesso sentire-agire.
Teatro e Scuola costituiscono gli ambienti privilegiati di un'educazione estetica come progetto in
fieri che tra Arte e Educazione ne richiama ad un Umanesimo che fonde senso e ragione e produce
una realtà la cui apparenza consiste di bellezza e libertà. Teatro e Scuola in questo caso si
strutturano intorno al concetto di azione che fa da dispositivo pedagogico che attraversa la scena
sociale e ne forma i cittadini-attori secondo un principio di responsabilità che dà valore all'opera e
al processo che l'ha generata, alle ragioni che spingono alla sua creazione.
Che si chiami Teatro o Scuola, in questi spazi si ridestano insieme sensi e spirito, cosicchè il
vivere-conoscere acquista forma di danza, azione cenica, performance, poesia, canto, sempre
come fosse la prima voce: quel momento aurale, di un altro giorno nuovo e felice, in cui si prova
piacere a rompere con il proprio isolamento e si cerca il modo di ricongiungersi ad altro e vivere la
propria appartenenza cosmica come una conduzione di ricerca continua in cui si realizza un
mutevole divenire della propria natura sensibile-razionale.
Nella scena-Teatro e nella scena-Scuola il corpo è azione-parola-gesto.
Dice Corvino: ogni gesto è un utensile, un'abilità acquisita, prodotta, espressione sociale, esteriore
di un corpo che si è costruito fuori di se stesso, con gli altri. Utensile è il corpo che nei gesti e nella
voce ha perduto i confini. E come una pietra quando sia lavorata dalle mani dell'uomo ha una voce,
così pure i gesti hanno voce. Un gesto è da sempre una voce. Fuori dal corpo, una voce.
La scena-Teatro o la scena-Scuola si potranno considerare ambienti di vita se i corpi che lo abitano
si muovono nel tentativo di mettersi-in-opera, di produrre ad arte, di farsi autori della propria
esperienza. In quegli ambienti non ci sarà bisogno di esplicitare una Pedagogia perchè il
Pedagogico è fatto coincidere con il Poietico come principi e istanze di un Essere che deve farsi
Manifesto, Fenomeno, Voce, e dunque consistere e significare anche per un altro: Jean-Luc Nancy
lo chiama diapason-soggetto.
Uno spazio, un luogo, un ambiente non possono essere sempre Teatro o Scuola, se non quando nel
loro quotidiano si apre un ordine straordinario delle cose e diventano spazio sacro, della festa,
spazio-formante perchè disposto a deformarsi, a scomporsi, a riordinardi mobilitando energie
nuove che siano in grado di generare altri sensi.

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Come deve accadere per il corpo: quando il corpo diventa gesto, quando cioè muta la sua geometria
statica, allora quel corpo, fattosi azione-gesto, parla, produce senso. Come dire per l'ape che non tutto
il raccolto diventa miele. Per estrarre miele dal nettare c'è bisogno di lavoro, di un processo complesso
da governare, in cui non tutto del lavoro diventa capolavoro- si deve essere disposti all'errore,
all'inutile girovagare, prima di trovare quella sintesi tra intenzione ed opera. Il fallimento, l'errore, la
vuota mimetica è parte ordinaria di und ispositivo che per realizzarsi come pedagogico, come
generativo, eve intercettarne l'originaria mobilità e cercare nel principio inetico a condizione di
inadeguatezza e id manchevolezza che muovono dal disagio e producono uno sguardo.
Il corpo deve farsi gesto e ritmo, così che il corpo possa farsi spazio e tempo, possa farsi mondo e
parlare la lingua muta delle cose. La mano non fu solo organo di lavoro, ripeteva Engels, ma suo
prodotto: essa imparò sempre nuove operazioni e le imparò cambiandosi, definendosi, coi suoi
movimenti nella forma, attraverso la trasmissione ereditaria dei muscoli, dei tendini, delle
articolazioni. Soprattutto però la mano imparò dall'abitudine, dallo sforzo, dal lavoro e dalla sua
conservazione nella memoria. E fu la conservazione delle operazioni compiute dalla mano ad
obbligare la voce al significato. Essa non fu costretta ad emanciparsi da lui, ma con lui si unì in una
corrispondenza segreta che silenziosamente legava tutti gli esseri. Il significato non apparteneva a
qualcuno. Esso serviva alla memoria umana perchè restasse fuori di sé nel tempo, perchè fosse
memoria sociale nel tempo.
Nonc'è gesto naturale, c'è solo imitazione, lavoro, sforzo per piegare il corpo e mutarlo in
strumento, in linguaggio. Perchè il gesto libera la parola che contiene un gesto che fa della cosa
un'opera, un simbolo, uno strumento per significare altro dall'oggetto-cosa e dire del rapporto che
ciascuno ha stabilito conq uella cosa. Il gesto e la parola tessono e condividono relazioni tra
soggetto e oggetto, ne sono l'immagine e la sostanza, cucite insieme perchè la messa-in-scena sia
momento qualificante dell'umano, non sua mera effimera vanità.
Il corpo organico è intrinsecamente inorganico quando si lega ad un altro, gli mostra fuori di sé ciò
che ha sentito e pensato: realizza il Teatro, la scena pubblica, la comunità, quando si espone e si
mette-in-opera. Le cose, lo spazio, il tempo, se sono Teatro, mutano col mutare del gesto e della
voce che li attraversa, li afferra, che dà loro forma di opera, di immagine, di segno.
La necessità del Teatro come della Scuola diventa quella di coinvolgere l'altro nel proprio gesto.
Renderlo partecipe di un gesto il cui senso deve poter essere inteso, se offerto allo sguardo dell'altro.
Così il pensiero si sperimenta come azione. L'azione che è forma del pensiero. Il suo prendere spazio
sulla scena pubblica. Scena che mentre è Scuola, è Teatro. Se è scuola è teatro, è comunità.

3. Per un progetto pedagogico: l'homo faber cerca casa

La dimensione artigiana del vivere e del conoscere si collega alla proposta del laboratorio teatrale
che il progetto Teatro Scuola Vedere Fare propone alle classi che aderiscono. Si tratta di dare
spessore a ciò che ci appare come già fatto oppure quello che si deve allestire, preparare,
mostrare.
Grazie al laboratorio teatrale realizzato a scuola, ciascuna classe con i suoi insegnanti e gli alunni,
sperimenta la centralità del dispositivo laboratoriale che attraversa e rende possibile la produzione
dell'artefatto/spettacolo/comunicazione finale: torna l'immagine dell'ape di Dewey che vola e
raccoglie il nettare ( il vedere del progetto) e poi nell'alveare o nell'arnia (il fare del progetto e
quindi il laboratorio teatrale) rigurgita e trasforma il bottino il miele.
Bisogna fare spazio alla necessità di un'educazione estetica che è di un'umanità alla continua
ricerca del suo Humanismus, quello che Gadamer fa incontrare con la Bildung, ricordando che
Hegel, uno dei grandi pensatori della storia, ha coniato l'espressione “ciascuno deve prender
dimora; deve costruire la propria casa nella propria vita”. Il prender dimora, il costruire la propria
casa nella propria vita, costituiscono un nucleo concettuale che include una forte dimensione

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pratica che chiama l'umanità a farsi spazio, a dar forma e a costruire la propria dimora, la casa, la
vita: lo spazio vitale va costruito, alla vita va data una dimora.
Il formare/formarsi è strettamente connesso a una questione di spazio, di ambiente, ovvero alla capacità
di trasformare lo spazio nel quale si viene al mondo in quell'ambiente che fa casa o mondo-di-vita.
E questo diventa il focus con cui gli esperti di Teatro Scuola Vedere Fare introducono all'uso
didattico della visione teatrale e gli operatori teatrali si spingono nella costruzione di un comune
spazio/scena di lavoro performativo.
La formazione intesa come Bildung consiste in un processo che coinvolge lo spazio. In questo
senso la metafora del teatro individua la scena come categoria centrale che, unita a quella
dell'azione del performer/attore, dice proprio di uno spazo che si fa altro: che si fa teatro della
Bildung solo se si sottrae a ciò che è già e si apre ad essere messo-in-opera. L'azione diventa la
condizione del formare/formarsi. Essere in azione è al tempo stesso essere e farsi spazio.
L'idea di Bildung di Gadamer corrisponde alla formazione armonica dell'uomo e del suo portato
culturale. L'urgenza riguarda la necessità di osservare criticamente la propria contemporaneità per
estrarne alcuni elementi originari utili a tracciare altre traiettorie possibili, perchè quella
formazione armonica costituisca un'attuale emergenza pedagogica, sociale, politica, e non sia
schiacciata su una cultura dell'educazione fatta coincidere con l'apprendimento, ma attenta
all'importanza di imparare a pensare e alla fecondità del domandarsi, dell'interrogarsi, in nome di
un sapere che non può limitare né limitarsi ma tendere alla libertà.
L'osservazione è d'altronde il concetto cui ciascun insegnante partecipante al progetto Teatro
Scuola Vedere Fare viene chiamato e sollecitato lungo tutto il percorso, attraverso schede,
questionari, riflessioni.
La critica è al modello di formazione come mera trasmissione al quale si contrappone quella formazione
riferita all'umanità dell'uomo che forma e si riforma. Rifiutare il sapere come forma di dominio e di
potere significa allo stesso tempo mettere in crisi il dominio della tecnica e il mito del progresso,
ripensando all'uomo e alla sua formazione come ad un processo mosso tra natura e spirito.
Il rapporto tra natura e cultura diventa un focus importante per un discorso sulla formazione che voglia
essere attuale e da attualizzare in una pratica che passi per l'agire, consapevole e critico-riflessivo, di
ciascuno, e non si affidi a dispositivi esterni come gli ordinamenti normativi e le loro formule/procedure
burocratiche e retoriche. In questo senso la scuola non può irrigidirsi in metodi disciplinati della
trasmissione del saere, ovvero dei suoi frammenti, né esibire come compito educativo quello di
adattamento e di preparazione al mondo del lavoro e delle professioni.
La dimensione produttivo/creativa e performativa è elemento centrale per un Humanismus da
connettere alla Bildung. Si tratta di una vitale spinta che mette insieme questioni della formazione
con quelle della forma e della sua trasformazione, l'agire con il pensare, cosicchè ad emergere sia
un naturale uso dell'arte del comprendere; quell'arte generativa e formante che per Gadamer
coincide con l'attività ermeneutica e che nella proposta e nella riflessone metoodlogica che si
opera rispetto al progetto Teatro Scuola Vedere Fare viene intesa come arte scenica/performatica
o, più precisamente, teatro.
La scuola si fa teatro quando l'Umanesimo incontra la Bildung. Si tratta di un progetto ambizioso
quanto necessario: quello che Gadamer fa risalire a Kant e che si fonda proprio sul fatto che ha
unito e conciliato la grande eredità della cultura antica e medievale, che l'Umanesimo aveva
risvegliato, con il pathos illuministico della scienza moderna.
La scuola e il teatro che partecipa a quell'umanizzazione della Bildung e che concilia cultura
classica con scienza moderna, non può essere chiusa in forme educative altamente organizzate,
perchè ciò di cui deve essere produttrice è quell'autonoma capacità di giudizio che consente di
integrare differenti visioni del mondo e usare saperi, informazioni, dati, per porre domande
interrogandosi pensosamente così da agire senza eseguire, ma riflettendo ed esercitandosi nel
libero movimento.

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Gadamer suggerisce di pensare la crescita, e quindi anche il sistema educativo, coniugandolo ad
ogni essere vivente, mettendo insieme la capacità di giudizio con il libero movimento. Si tratta di
abitare un mondo nuovo dove l'umanità saprà risolvere i propri problemi soltanto se non si
accontenterà di imitare semplicemente i modi di agire precedenti, ma se imparerà a realizzare nel
concreto le proprie idee.
Torna attuale l'Ode a Prometeo di Goethe, attraverso cui lo spirito creatore, il genio, l'artista,
emerge come mito: è il mito di Prometeo. Prometeo, il titanico antagonista degli dei olimpici, dice
Gadamer, diventa l'incarnazione delle forze creatrici dell'uomo.
L'immagine dell'uomo come homo faber fornisce una dimensione fattuale alla volontà, alla ragione,
all'intelletto, con cui si qualifica l'uomo e la sua umanità. La volontà e l'intelletto devono trovare i
mezzi adeguati per creare e per far accadere quello che di volta in volta si conviene sia vero.
La naturale propensione dell'uomo a farsi creatore di cultura, indica una stretta connessione di vita
e pensiero che mette in crisi l'universalità del sapere e l'idea di un unico modo del sapere e apre
sempre nuove possibilità di azione e fa emergere un concetto unificatore di natura e cultura che è
la coltivazione: il gesto sottratto all'ordine ripetitivo e ciclico della natura che conferisce senso a
quell'ordine producendone un altro in forma di linguaggio. Il gesto agisce modificando la materia
naturale e ne produce una artificiale che contiene e dice del senso e della volontà che ha spinto a
quel gesto creativo/trasformativo.
Se il sistema educativo si struttura a partire dall'homo faber e dalla sua istanza creativa e
trasformativa, la Scuola diventa Teatro proprio per lasciare spazio a un modello di apprendimento
creativo, attivo, non nel senso di una potenzialità di azione ma nel senso del lavoro perchè
conoscere è altro dall'edenico cogliere i frutti già maturi dall'albero della conoscenza perchè
implica la fatica di imparare molte arti per poter, come Prometeo, essere vivente autonomo che in
maniera multiforme orienta la propria forza vitale verso il futuro.
Il progetto di una Bildung umanistica fa spazio a un pensiero pedagogico che coincide con l'oltre
del futuro e chiama in gioco l'arte del creare per ciascuno la propria strada, la propria casa. Il ruolo
dell'arte intercetta la necessità e la possibilità dell'uomo, come essere di natura, di generare
cultura, facendo presa sulle cose e mutandole in opere.
Mano e intelletto, natura e cultura, sono alleate di un sistema che ridisegna e attualizza la Bildung
tracciando nuove strade da percorrere per realizzarne il progetto ambizioso di restituire umanità all'uomo,
lasciando che viva in bilico la contraddizione e le imprevedibili connessioni tra idea/pensiero e realtà.
L'istruzione scompare dall'immaginario di un discorso pedagogico con cui si sovrappone Teatro e
Scuola per rispondere al classico tema della formazione attraverso una postura critica e riflessiva
che al contempo è performativa e dell'azione coglie la sua matrice ermeneutica. Il teatro si fa
scuola e la scuola genera il teatro quando l'azione in scena acquista il valore della ricerca e produce
comprensione e autocomprensione: un lavoro che chiede a ciascuno di farsi spazio, di occupare il
proprio spazio d'azione in un orizzonte pubblico che rende l'azione un gesto solidale che implica un
orizzonte di reciprocità, dialogo, scambio, interazione possibile.

4. Dispositivi normativi e narrativi aprono al singolare plurale del progettare

Lo slancio vitale e la spinta umanistica che arrivano da Gadamer alle istituzioni formative ci dà una
scossa e legittimazione ulteriore per mettere mano alla fondazione di una tradizione nuova.
La vita nelle idee è ciò che Gadamer eredita e fa suo da Humboldt come obiettivo per recuperare
spazio libero rispetto agli ordinamenti, all'organizzazione e quindi alla socializzazione che
costituiscono il vincolo pratico-politico di una vita, già da quella dei Greci, con poco spazio per la
libera speculazione (theoria). L'antica e classica opposizione tra theoria e pratica costituisce
l'orizzonte dentro cui ci si muove, dentro e fuori la Caverna, parlando attraverso il mito di Platone,
consapevoli che un modo di pensare libero non esiste.

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La libertà resta il compito da realizzare: compito che le istituzioni formative devono fare proprio
per lasciare che ciascuno cerchi e produca giudizi propri e pensieri, e che non segua e si uniformi a
quelli preesistenti. Come ci ricorda Gadamer, la scienza produce dei cattivi spettatori televisivi
perchè lascia le domande aperte e chiede a ciascuno di farsi spazio, di cercare gli spazi liberi dove
potersi muovere per dar forma alla propria esistenza, alla propria vita.
C'è un profondo senso di etica del lavoro e della responsabilità nell'orizzonte che condividiamo con
Gadamer per le istituzioni educative e formative: questa è un'etica che spinge all'azione e alla
solidarietà e che quindi chiede di unire la distanza con la presenza, la theoria con la pratica, le
diverse discipline tra loro, consapevoli del fatto cche nell'azienda dell'insegnamento le scienze
sanno troppo poco l'una dell'altra.
Presupponendo poi, come con Dewey nel 1916, un legame tra Democrazie e educazione, nel
tempo si è messo mano a tante riforme della scuola. La legge 107/2017, cosiddetta Buona Scuola,
fa riferimento alla connessione tra attività didattiche e Teatro. Il Teatro con la T maiuscola.
Alla legge 107 faranno poi seguito le indicazioni strategiche per l'utilizzo didattico delle attività
teatrali, nome come Linee guida, la cui struttura si muove tra indicazioni teoriche e operative.
La legge 107/2015 e le Linee guida costituiscono la traccia per un'unità Teatro-Scuola necessaria
per far incontrare Umanesimo e Bildung, perchè il corpo si faccia spazio e faccia del mondo la
propria scena e perchè l'educazione ritrovi la sua poetica vitale riconnetta pensieor e azione.
La riforma del 2015 e le relative linee guida possono fare da solchi facilitatori per il corso di un
fiume che però deve avere tanta acqua da spinere a valle del processo del vivere perchè vada in
direzione di una normale specialità dell'agire formativo che rinnova nel quotidiano come un altro
giorno felice! Si tratta di recuperare la fatica dell'operosità: il maestro e l'allievo, a teatro come a
scuola, non vivono separata la condizione dell'attore da quella dello spettatore; la loro è una
comune tensione a farsi voce, a divenire segno. La dimensione attoriale è costitutiva per il maestro
come per l'allievo, per l'attore come per lo spettatore: al loro incontro è dato di generare qualcosa
d'altro rispetto a quanto già esistente e atteso.
Ricorriamo all'homo faber per qualificare il fare e considerarlo fondante rispetto all'umanità dell'uomo
a cui postura artigiana ne fa un costruttore di mondi. La scena teatrale e educativa sono solo l'esplicita
spazializzazione di tale postura artigiana che si nutre dell'immagnario poetico e artistico sapendo che
la storia della scienza e della filosofia documenta come il prodotto immaginativo venga all'inzio
condannato dal pubblico, e in maniera proporzionale alla sua portata e alla sua profondità.
Per fare storia, nelle scienze come nella filosofia e nelle arti, è necessario dare spazio all'immaginativo che
produce grazie alla mente che cerca e accoglie ciò che è nuovo nella percezione. L'attività immaginativa è
generativa del fare/produrre/creare e riguarda la sfera percettiva e la mente, fuori dall'abitudine
meccanica e funzionale dell'esperienza passata, capace di trasfigurare quella presente e di aprire in senso
estetico ad una nuova esperienza. L'attivismo pedagogico e la ricerca artistica individuano nel teatro
quello speciale spazio, che è anche una pratica, per realizzare il progetto di una Bildung restituita allo
specifico dell'umano e perciò vicina al paradigma dell'interpetazione/comprensione e del dubbio,
attraversato da una vitale tensione interdisciplinare.
La scelta del teatro appare dunque rispondere a una specifica posizione che si potrebbe definire
anche romantica perchè rintraccia nella dimensione estetica/pratica la matrice per un espistéme
che riflette sulla pratica e riconosce nel formare il formarsi, nel conoscere il conoscersi,
nell'apparire l'essere. Mettersi-in-opera indica uno spazio privato che si fa pubblico, che prende
forma per apparire così come opera d'arte, nel senso che essa nega o ignora quell'identificazione
tra materiale oggettivo e operazione costruttiva che è l'essenza stessa dell'arte.
L'azione costruttiva, la performance, ribalta il dominio dell'oggetto sul soggetto fa dell'arte, del
teatro, dell'arte scenica, quella condizione di shock che andiamo cercando perchè la formazione
come la conoscenza si realizzino lasciando che ad emergere sia la differenza e l'unicità del soggetto
e il suo orizzonte intersoggettivo.

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La connessione tra teatro e scuola vede un reciproco movimento: portare il Teatro a Scuola e la
Scuola a Teatro, entrambe con le inziali maiuscole. E si dovrebbe inziare a riconoscere la necessità
del conoscere/comunicare e del formare/formarsi che Scuola e Teatro rappresentano in senso
istituzionale e che devono trasferire sul piano pratico, in una pedagogia e in una didattica che siano
la risposta a quelle necessità.
Dell'arte teatrale in chiave pedagogica se ne delineano quelle linee guida che portano il titolo di
Indicazioni strategiche per l'utilizzo didattico delle attività teatrali. Gli studi e le ricerche che le
Facoltà di Scienze dell'Educazione hanno realizzato, legittimano e danno forza al dispositivo
normativo del 2015 relativo alla Scuola e alle linee guida che sono conseguite, dedicate alle attività
teatrale. Il sapere accademico emerso dalla ricerca pedagogica degli ultimi anni fa da sfondo ad
una crescita epistemologica che, incontrando la modernità, sente di dover innovare anche le
pratiche di un'educazione che non deve dimenticare la centralità dei propri obiettivi formativi.
In questo modo il complesso congegno pedagogico ha saputo integrarsi con l'agire e collocarsi
dentro uno spazio-tempo determinato che chiede al sofisticato congegno teorico di rifuggire da
metodi e dar corpo alle proprie pedagogie in un recupero della centralità dell'esperienza che fa di
John Dewey ancora un autore di riferimento per chi voglia innovarsi attraverso un pensiero cui si
chiede di darsi azione perturbante.
La qualità pedagogica dell'azione sta nel sottrarre il gesto dal mostrare solo se stesso in senso
didascalico per aprire al gesto come traccia di un altro piano che emerge e lascia che accada
qualcosa in quanto segno perturbante ch smuove non solo chi ne è l'attore ma anche chi ne è
spettatore. Si tratta di generare una relazione, di lavorare sulla possibilità di un incontro e sulle
difficoltà perchè ciò avvenga.
L'impianto della Scuola come del Teatro fatto coincidere con la parola, con il testo, con quanto già
scritto e detto, appare indebolito se si opera con Derrida una decostruzione della parola: si tratta
dello smascheramento radicale dell'intera strategia metafisica da Platone a Husserl che passa per
la svalutazione della scrittura, del gramma o segno scritto, per poi ritornare alla'zione come
categoria connessa a quella di vita e restituita al gesto e alla voce, cioè alla sua carnale corporea
materialità che ne fa un evento sottratto dall'ordinario significato precodificato e consegnato
invece dalla presenza del'agente-attore alla significazione, alla produzione di senso generata dla
contatto con lo spettatore.
Le difficoltà dell'incontro, della relazione, della comunicazione, e la fatica necessarie per superarle, si
rinnova ogni giorno e non può essere risolta con modelli o metodi cui appellarsi e dentro i quali
trincerarsi in nome delle buone prassi, perchè i tracciati vanno percorsi e o specifo umano è che il
tracciato esistenziale di ciasucno si intreccia con quello di altri e si realizza in una creazione continua.
Lo spazio, il mondo che si vive, dice di una condizione del singolare che contiene una pluralità
originaria e che rende ciascuno un Noi. La spaziatura parla di una condzione di legame con il
mondo che con Nancy si dà come tra di noi: questo tra indica di fatto ciò che si dà quando si
produce un legame la cui dinamica genera la topografia mobile del noi che si rinnova attraverso il
quotidiano arrivo del giorno nuovo, bel beckettiano altro giorno felice!
Il discorso pedagogico che si incarna in un dispositivo normativo come quello che in Italia ci si è dati con
l'intento di fare una Buona Scuola, sembra che rivendichi una centralità dell'umano nelle questioni
relative alla Bildung contemporanea e l'emergere di una progettualità centrata sull'azione che liquida le
certezze metafisiche e chiede a ciascuno di partecipare in senso fenomenologico ed ermeneutico nel
farsi-spazio e mettersi-in-opera, come noi altri attraversati da una spinta a fare comunità.
Il Teatro appare come presidio scelto per difendere e garantire la centralità del sentire e del fare
rispetto a un impianto spostato sui contenuti e sul loro apprendimento riferito all'intelletto e
contrapposto alla sfera emotiva. Pur consapevole di tali criticità di carattere culturale, possiamo
considerare le linee guida come la testimonianza di un cambiamento in atto che fa della Pedagogia
un territorio molto estesto che dalla Scuola si sposta e si apre alle Arti e fa del Teatro la sua nuova

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casa: lo spazio per una metodologia che l'attivismo di Dewey ha provato a rendere praticabile e che
l'umanità si era data in Oriente come in Occidente in forma di parola gesto, teatro, per comunicare e
dare senso al proprio trasformarsi-divenire. In questo senso il Teatro può essere una dimensione
trasversale al fare scuola attraverso la quale lavorare e formare una comunità di apprendimento in cui
ciascuno è attore-agente-performer-cittadino del proprio apprendere-conoscere-divenire. Il teatro
può essere cioè il nome che diamo all'utopico pedagogico della Scuola: la via per liberarsi dalla spinta
ideale e indifferenziata e scegliere la sostanziale erranza del differente. Il teatro può rispondere a
quella che Riccardo Massa definisce istanza sostanziale, che orienta la prospettiva di ricerca della
clinica della formazione: si tratta di una svolta pragmatista e fenomenologica alla formazione che,
come Dewey, individua l'arte come esperienza.
L'Istituzione-Scuola necessita di una prospettiva critica e della consapevolezza che deriva un
particolare dalla prospettiva clinica, nel senso di un'attenzione a ciò che è concreto, a ciò che è
individuale per contrastare quel progetto di potere e di assoggettamento che prue contiene ogni
progetto educativo con i suoi desideri e una certa logica verticale.
L'Istituzione-Scuola può avere luogo in ogni luogo perchè necessità solo della qualità relazionale di
un ambiente per poter realizzare il suo progetto: ha bisogno di una scena.
Il teatro diventa metafora della scena formativa ma in un senso che rompe con ogni progetto di
assoggettamento ed instaura un'importante attenzione alla relazione e al linguaggio-azione.
Se la clinica è ricerca, essa è ricerca legata con un fare, un agire, un operare, e quindi si pone
all'interno di una circolarità virtuosa tra il sapere, il saper fare, il saper essere, tra l'agire e il
comprendere entro situazioni determinate.
Il fare trova casa nel teatro che intanto è stato chiamato a farsi scuola o meglio quel teatro che
rende la scuola una struttura viva, autonoma e indipendente dalle stesse istituzioni che la
significano e che producono l'orizzonte funzionale del sistema formativo nel suo complesso.
Il vedere-Teatro si combina con il fare-Teatro. Il laboratorio teatrale è un po' come il corpus di una
metodologia che unisce vedere e fare, osservare e produrre, in un gioco di continua riconfigurazione
dei dati in fatti, così che le attività teatrali non siano ridotte e asservite al programma e alla didattica
ma rese parte e veicolo di una strategia pedagogica che chiede alla didattica di tradurre l'intenzionalità
del progetto educativo sotteso all'Istituzione Scuola e all'Istituzione Teatro. Dall'utopia pedagogica è
possibile quindi produrre distopie che estendono l'orizzonte educativo e fanno entrare in scena molti
altr mondi: sono i mondi finzionali che entrano in relazione con la realtà. Il sapere si connette con
l'atto del conoscere/comprendere ch ediventa espereinza viva, vissuta, pratica che passa per il corpo e
ne fa condizione necessaria all'essere-conoscere.
L'osservazione e l'ascolto diventano momenti qualificati e qualificanti di un'attività
dell'interpretare-comprendere che investe l'essere e il suo esserci. Nel caso del progetto Teatro Scuola
Vedere Fare sembra che una Legge, delle istituzioni culturali e artistiche, delle istituzioni scolastiche, dei
professionisti e degli artisti, si siano fatti cittadini di una Bildung essa stessa in formazione.
L'osservazione e l'ascolto sono già un fare e, se inseriti in un sistema formativo più complesso,
sono anche la condizione perchè il fare non sia un ripetere ma un agire con senso.
Il vedere-Teatro ha già una qualità pedagogica che collega quel vedere ad un fare e che instaura
uno spazio-tempo differente, che chiamiano della sospensione, per poter aprire lo spazio ad un
atteggiamento di tipo ermeneutico e interpretativo, senza credere che vi sia una verità nascosta da
rivelare. La sospensione cui invita Riccardo Massa entra nel lessico pedagogico e diviene pratica
liberatoria che apre un varco verso ciò che è meno evidente, reso invisibile da un occhio-orecchio-
pelle-corpo che afferra e fa presa solo a ciò che ri-conosce, per abitudine.
Nella sospensione come pratica del vedere c'è un principio di cinetica differente: una mobilità
praticata per resituire alla vita i suoi significati formativi e alla formazione i suoi significati vitali,
così da sottrarsi agli automatismi dell'abitudine e restituire profondità al vedere oltre che al fare.

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Utilizzando un approccio clinico alla formazione, possiamo sostenere che la formazione diventa un
oggetto narrativo, cosicchè anche i dispositivi normativi che riguardano e regolano la formazione, e
più nello specifico l'educazione scolastica, siano l'oggetto empirico da osservare perchè carico di
epistemologie implicite e di una cultura dell'educazione che guida poi questa o quella pratica.
Se anche il dispositivo normativo diventa oggetto di studio e ricerca empirica è perchè questo
speciale testo può dire cose differenti in base a chi lo legge e a chi se ne fa attuatore.
Bisogna allora esplicitare la pedagogia sottesa di cui si è portatori perchè questa orienta ciò che
viene compreso del testo normativo e genera tante e differenti interpretazioni.
Sulla base di questa varietà interpretativa, nominare il Teatro-Scuola produrrà esiti molti diversi
che lasceranno emergere le specificità dei contesti e le diverse capacità degli attori di attuare
questa o quella pedagogia in nome delle stesse linee guida.
In questo senso, qui vogliamo invitare ciascuno a riflettere sulle modalità attraverso cui è possibile
dare forma al proprio Teatro formante e trasformare la Scuola in una scena trasformativa la cui
struttura si sa che si è contribuito a costruire oppure comporre e configurare quella stessa
complessità in maniera da unire caso e necessità.
Leggere le linee guida come esse stesse suggeriscono, cioè come comune corpus teorico pedagogico e
didattico, invita di fatto a riflettere sul corpus teorico pedagogico e didattico di cui si è portatori e quindi a
divenire consapevoli della propria cognizione in materia di teatro e di scuola. L'invito alla lettura è rivolto
agli inseganti, ai professionisti della formazione e ai professionisti della formazione che hanno scelto il
teatro come medium e come veicolo di relazone/comunicazione/formazione. Dove essere esperto o
professionista di teatro-scuola significa essere chiamati a realizzare e a far esistere ciascuno il proprio
progetto, la propria idea di Teatro e di Scuola che ha bisogno di coinvolgere attivamente il gruppo, la classe,
perchè il singolare nutra il plurale.
Il Teatro come la Scuola sono spazi di coesistenza, singolare/plurale dove si coltiva la dimensione
politca dell'essere del conoscere: i modi del coltivare sono essi stessi plurali.
George Bataille avrebbe definito questa attività come quelle che concorrono al dispendio: perchè
la norma non sia ridotta ad un vademecum per realizzare lo spettacolo come utile da mostrare ai
parenti oppure a qualche rassegna teatrale, o per individuare i criteri con cui scegliere quello dove
essere spettatori, in nome die programi e degli obiettivi didattico-disciplinari.
Il diritto va osservato, da chi vuole farsene interpete, con sguardo interrogativo per cercare nelle
pieghe del testo quei rovesci e quegli interstizi che fanno spaziare e muovere verso un certo senso
della comunità e della sua sacra linfa vitale, verso un singolare e plurale vedere e fare Teatro.
Perchè la dispersione apre allo spazio comunitario, costituisce la spaziatura per offrirsi, donarsi e
comunicare con l'altro,proprio come in un certo teatro. L'essere produttivo nel senso di questo
certo teatro riguarda la comunità, lo spazio della condivisione, l'essere-in-comune di Nancy.
E proprio attraverso questa prospettiva e questa tensione comunitaria ci si riavvicina alle linee
guida per il Teatro-Scuola, riconoscendo che questo non costituisce una finalità ma individua nel
vedere e nel fare teatro un modo per dare materialità e visibilità alla propria pedagogia e alla
propria epistemologia pedagogica.
È importante per tutti gli attori del sistema scolastico raccogliere dati e osservare cosa uno stesso
dispositivo ha generato in termini di varietà e di pluralità. Vedere o realizzare un'opera teatrale
diventa, o può diventare, l'occasione per una comunità di realizzarsi come tale. Per questo non è
possibile individuare né indicare la via più giusta al fare teatro-scuola: ci si può solo confrontare e
osservare attraverso lo sguardo degli altri.
Le ragioni dello spettacolo coincidono con la sua necessità; e il dispositivo normativo messo a
punto ad hoc per indicare l'uso didattico delle attività teatrali, ha una funzione politica attraverso
cui si esplicitano le necessità di una comunità.
Come Jean-Luc Nancy tiene a sottolineare, lo spettacolo è una forma di messa in scena dell'essere
sociale e della sua co-esistenza se l'essere sociale è essenzialmente un essere esposto.

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In tal senso, la rappresentazione nella sua forma di spettacolo dal vivo, il Teatro, è quel particolare
caso del reciproco farsi presente di cui ciascuno necessita per cogliere di Sè.
La rappresentazione in forma di teatro lavora, mdiante la mimesis, sul senso della responsabilità,
della consapevolezza, e contribuisce a costruire quel noi come riparo dal vuoto individualismo
esibizionista. La partecipazione allo spettacolo, sia in forma di attore che di spettatore, è necessaria
perchè lo spettacolo compia la sua funzione necessaria riferita al comparire. E comparire, dice
Nancy, significa trovarsi nella simultanietà dell'essere-ci.
Il comparire può essere utilizzato come chiave di lettura, come dispositivo, per decosturire e
comprendere le linee guida per il Teatro-Scuola in un'ottica che Riccardo Massa ha definito di
comprensione trasformatrice, e che costituisce una prospettiva con cui ripensare teatro e scuola in
termini politici e sociali, come espressione di una presentazione, cioè di un farsi presente
consapeovli che non c'è presenza che non sia la presenza degli uni agli altri.
Se il diritto indica un sistema di valori, allora la normativa in materia di Buona Scuola e di Teatro-Scuola
esprime il valore dell'essere-sociale, del reciproco essere-presente, cosicchè sia tutto ricondotto ad una
pratica sociale del comparire e del comprendere. Il diritto contiene una sua Pedagogia che individua nel
Teatro una metodologia che lavora sulla consapevolezza e sul senso di reciproca responsabilità per una
diversa qualità dello stare al mondo, di abitarlo, di costruirlo, che corrisponde ad una diversa qualità
dell'esistere che forma alla capacità di stare di agire in relazione a dove si sta, a dove si è situati e in
rapporto a chi è presente con te.
Sembra tornare attuale e necessaria una vita activa, in cui il giudizio, la capacità di guidicare-pensare,
emerge nell'azione, è affidata cioè al gesto teatrale che trova senso sulla scena e attraverso gli sguardi
che su quella scena compaiono.

CAPITOLO 2: I PERCHE' DEL TEATRO-SCUOLA.


PER UNA POLITICA DELL'EDUCAZIONE

1. In premessa: ricordi di una Scuola

Quando la Scuola Primaria si chiamava Scuola Elementare, dice D'Ambrosio (prof), la sua maestra,
insieme allo studio delle discipline del programma, introdusse i suoi alunni alla lingua francese, al teatro
e alla musica, di quest'ultima lo studio delle note e del pentagramma e del suonare il flauto dolce.
Verante fa osservare che la sonorità del fluato sono estranee alla parola articolata, al canto petico,
alla locazione umana e più precisamente che l'arte del flauto è stata inventata da Atena per
simulare i suoni acuti che avevano udito provenire dalle bocche delle Gorgoni e dei loro serpenti.
Per riprodurli, fabbrica allora il suono del flauto che raccoglie tutti i suoni. L'alterità sovrannaturale
nella mitologia trasmetta dai classici greci arriva in forma di tutti i suoni connessi alla maschera
deforme che li genera.
Accedere al mondo sonoro e musicale, dice D'Ambrosio, ha coinciso con l'essere iniziata all'arte del
fluato che intercetta e incorpora il tema della maschera e quindi della potenza fatta maschera e della
sua plastica mostruosa. Attraverso il suo del flauto, continua, ha avuto modo di conoscere la maschera
e il tema del mostruoso e di accedere a un mondo fatto di suoni differenti da quelli articolati in parole.
L'aula lasciava risuonare anche il suono del flauto prodotto dai loro volti-maschera mutati nella loro
mimica che apriva all'esperienza del mondo e del non-umano, del mostruoso, del bestiale.
Il flauto conduce dolcemente in una zona che oltrepassa l'umano e ne esplora delle variazioni di cui il
corpo è portatore, solo che plasticamente muti la sua maschera: l'unità, l'ordine lineare e la fissità cui
forma la parola si son rotte in una plurale deformazione che ha introdotto ad una erotica-estetica della
formazione e della conoscenza che va oltre la parola e ne indaga le pieghe vocali e sonore, così
innovativa negli anni '70 e oggi così fortemente legittimata dai più recenti studi di neuroscienze e dal
loro contributo a un'altra cultura dell'educazione, la quale ha guidato di certo le diverse teste ben fatte,

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dice Morin, che animano il progetto Teatro Scuola Vedere Fare e gli enti-istituzioni in cui afferiscono.
Nel suono, che è anche gesto e smorifa mostruosa per il volto che si deforma perchè quel suono
possa prendere forma, ha conosciuto le possibilitàche ha il corpo di rendere presente ill suo essere
animale vivente.
Così risuona Dewey che sostiene che per capire le fonti dell'esperienza estetica è necessario
prendere in considerazione la vita animale al di sotto del gradino dell'uomo, perchè dell'animale
vivente ci interessa che è pienamente presente. La presenza è una qualità che per Dewey indica la
vitalità necessaria al fare esperienza perchè l'esperienza è vitalità intensificata. Dell'animale allora
recuperiamo con Dewey questa vitale condizione di una presenza piena che ne fa un buon
osservatore del mondo intorno a lui e ben teso con energia.
Il non-umano/animale dell'umano ci interessa pedagogicamente perchè costituisce una condizione
e una qualità dell'essere e del farsi presente necessaria al fare esperienza e dunque al mettersi in
opera. Un'opera che a Teatro non è conservata se non attraverso l'esperienza del pubblico e
dell'incontro tra il pubblico e gli artisti. Ma che per il progetto Teatro Scuola Vedere Fare si può
conoscere attraverso le schede degli spettacoli inseriti nella stagione teatrale e dedicati al progetto
e quelli realizzati dagli alunni. Affiora in questi spettacoli il non-umano/animale in forma fiabesca.

2. Le due scuole o molte di più. Danzando con Dioniso a suon di flauto

Come in un gran bel giardino, scuola come a teatro tutto è inconsueto. L'inconsueto ha la
consistenza del mezzo-sogno in cui si è avvolti come dal ronzio di api e uccelli. Le rumorose
sonorità di un tempo speso dove ci conduce Clarice Lispector col suo racconto ci ricordano che,
nella storia dell'uomo e del mito, al fauto si è aggiunta l'arpa cosicchè la voce, libera dallo
strumento, potesse diventare canto e la maestria delle mani liberare il vibrato delle corde e della
tastiera ed estendere e variare l'estensione vocale, producendo altra materia sonora vocale
modulata in suoni poi codificati in parole.
Il suono è il mondo dionisiaco nel quale immersi siamo sin dalla vita intrauterina. Immersi e toccati
da materia sonora, orecchio e pelle sono i due sistemi primari del linguaggio e della
comunicazione umana che dal ventre materno strutturiamo per resituire quel sentire tattile in
tante altre forme e scene. Il suono, la voce, la parola, il gesto, l'azione, sono le forme che
apprendiamo dall'ambiente per esistere e costiuiscono la qualità attraverso cui la materia di cui
siamo fatti esiste: qualità che dice di una costitutiva dimensione tattile e cinetica dell'essere e del
mondo che preesiste a quella visiva apollinea e fa dello stare al mondo una condizione tragica, che
è del conoscere stesso, direbbe Nietzsche.
La visione dello spettacolo ha la qualità dell'ascolto se assume il senso tragico del patire, del
partecipare, dell'essere e del fare come-se. Si ascolta il suono, la sua materia, prima che diventi
canto o coro, per lasciare che il sentire non cada nella ricerca rivelatoria di un significato puntuale
ma sia in grado di mobilitare altro sentire con cui afferrare la materia sonora perchè questa muova
verso un'altra dimensione del conoscere: quella dove dionisiaco e apollineo si incontrano,
così William Shakespeare, Italo Calvino, Antoine de Saint Exupery, i fratelli Grimm, Miguel de
Cervantes e molti altri sono i lirici le cui opere generano una potente materia sonora nella quale
immergersi e sentire/comprendere l'allegorica e metaforica realtà di cui è carica.
Tre gli spettacoli che le classi scelgono e vedono a teatro. Tre spettacoli che gli insegnanti scelgono
e attorno a cui è strutturata l'attività di Didattica della Visione, perchè è esplicito l'obiettivo di
integrare poi con i gruppi-classe la visione degli spettacoli con il loro lavoro e studio curricolare.
L'insegnante partecipa all'attività di Didattica della Visione con la possibilità di trasformare
quell'attività in una bottega della didatica recuperando del vedere la totalità del sentire, la tragica e
lirica immersione e tattilità dell'ascolto. Si tratta di riunire la natura dionisiaca a quella apollinea:
non più due mondi distinti ma un unico crpo la cui materia è anche figura.

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L'insegnante che partecipa alle attività di Didattica della Visione si regala un'opportunità, entra e
partecipa di uno spazio dove inzia a realizzare il suo Teatro-Scuola senza cercare di mettere tutto in
una spiegazione lineare ma scoprendo come gli stessi contenuti disciplinari e la didattica utilizzata
per l'insegnamento non sono da usare in chiave trasmissiva o dogmatica.
Bisogna inoltre analizzare il dilemma de Le due scuole in una delle favole filosofiche di Ermanno Bencivenga:
Al mondo ci sono due tipi di scuole. In uno si insegnano tutte le cose vere: chi ha veramente
fondato Roma, qual è veramente la montagna più alta del mondo, chi vive veramente sott’acqua.
Nell’altro invece si insegnano tutte le cose false: che Roma l’ha fondata remo e Numa Pompilio, e
che sott’acqua ci stanno draghi e sirene.
Fra i due tipi di scuole c’è una bella differenza. Di verità ce n’è una sola: se è vero che Romolo ha
fondato Roma, non può essere vero che l’ha fondata nessun altro. Quindi i bambini che vanno a
questo tipo di scuola imparano tutti le stesse cose, e quando le hanno imparate passano il tempo a
ripeterle. “Roma è stata fondata da Romolo”, “Sott’acqua ci vivono i pesci” eccetera eccetera. In
ogni momento dell’anno, se entrate in una scuola così ci trovate tutti i bambini che ripetono la
stessa cosa, per esempio che Roma è stata fondata da Romolo. Se uno sgarra e dice che Roma l’ha
fondata qualcun altro, gli danno dell’asino. Perché in queste scuole si insegna la verità, e di verità
ce n’è una sola.
A lungo andare, anche i bambini che vanno a queste scuole diventano tutti uguali: hanno tutti un
grembiulino bianco, i capelli rossi e neri e gli occhi gialli e blu, e mangiano tutti il gelato alla crema
di ribes. Quando crescono, vogliono tutti una macchina grande grande, con dentro il telefono e il
frigorifero e la lavatrice.
L’altro tipo di scuola è molto diverso. Siccome per ogni cosa vera ci sono infinite cose false, ogni
scuola di questo tipo insegna ai bambini cose diverse, anzi ogni bambino in una scuola impara cose
diverse dagli altri. Uno impara che Roma l’ha fondata Remo, un altro che l’ha fondata Numa
Pompilio e un altro ancora che l’ha fondata suo zio Gustavo, che tanto non ha niente da fare. Se
entrate in una scuola così ci trovate un gran pandemonio, con tutti i bambini che raccontano storie
diverse e nessuno può dire a un altro che ha torto perché tanto hanno torto tutti e lo sanno in
partenza. E i bambini, anche, sono diversi: uno ha gli occhi verdi e un altro bianchi, uno ha il naso
davanti e un altro dietro, uno porta il grembiule e un altro lo scafandro. Quando crescono, uno
vuole una macchina con dentro il frigorifero e un altro un frigorifero con dentro la macchina, uno
va in giro con il vestito e la cravatta e un altro senza cravatta e senza vestito.
Il problema adesso è: quale di queste è una scuola davvero?

Possiamo leggere e rileggere la favola raccontata da Bencivenga per restar nel problema posto come
interrogativo di chiusura e per iniziare a riflettere, così come attraverso i testi che gli insegnanti
partecipanti al progetto Teatro Scuola Vedere Fare sono invitati a fare. Sembra non esserci risposta
esatta, se la domanda è riferita a una scuola “davvero”. Il racconto è a opera di un narratore che
opera sulla realtà, mutandola in racconto, in un intreccio da cui far emergere una storia e i suoi eroi,
non importa di che dimensioni, perchè la scena poi è lo spazio dove tutto acquista altre dimensioni, si
trasfigura e assume le tinte e l'enfasi delll'epica, della commedia o della tragedia.
Oltre alla maschera della Gorgone col suo fiato, nella lettura della favola compare anche la
maschera di Dionisio. Nella favola di Bencivenga, mentre nella prima prima scuola tutto si ripete
uguale a se stesso e tutti riproducono la stessa verità, nella seconda scuola, quella dove si
moltiplicano le storie e le differenze, c'è un pandemonio, quasi ad evocare una codnizoone
festante, riconducibile a una dimensione sociale e civica, come quella cui il dio Dioniso, lo
straniero, chiama perchè si possa essere posseduti dall'estasi divina e accedere alla saggezza
sovraumana riconducibile a dio, oppure dirsene estranei perchè seguaci di un altro ordine nel
quale ci si voglia sentire liberi.

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Quel pandemonio della favola fa eco alle Baccanti di Euripide perché ce ne fa cogliere la necessità:
quella che nella tragedia greca fa spazio al rito e alla festa perché tutta la comunità, nessuno
escluso, possa condividere ciò che nel quotidiano resta separato o non visibile e che nella favola
contemporanea proposta dal filosofo per presentare due scuole, diventa la festosa e festante
condizione del manifestarsi ciascuno con la propria storia, consapevoli di concorrere tutti a una
visione molteplice e plurale del conoscere, del desiderare e quindi del fare il mondo nuovo, ma da
cui tutti escono mutati. Nel pandemonio della favola le differenze sono al centro di quella scuola
dove si insegnano tutte le cose false, mentre in quella in cui si insegna la verità, e la verità è una
sola, tutti sono uguali. Sembrerebbero le due scuole rispondere l’una alla categoria di apollineo e
l’altra a quella di dionisiaco.
Ma prima ancora che interrogare Nietzsche sulla questione c’è un aspetto interessante che
riguarda il maschile e il femminile cui la favola fa solo un generico cenno e che invece ritorna
pieno di senso dalle Baccanti e dal culto di Dioniso che vi si celebra. Il racconto tragico ci aiuta a
vedere il femminile e il maschile come principi generatori di un certo ordine che la festa a Dioniso
interrompe: nel corteo della festa per le donne l’accesso all’universo dionisiaco, all’idolo dalla
maschera non esige da loro alcuna rinuncia a ciò che esse sono: donne, a volte sagge matrone o
ragazze, come quelle che si potrebbero incontrare nei ginecei, a volte menadi agitate, frenetiche,
ma in ogni modo, nell’ottica dei greci, già immediatamente altre, in quanto donne, per natura e per
definizione.
Il femminile porta con sé il dionisiaco, contiene quella frenesia che ne fa principio vicino al
dionisiaco. Mentre per partecipare all’esperienza dionisiaca, gli uomini sono costretti a moltiplicare
le modalità di allontanamento dalle norme, dalle condotte usuali, nel loro abito e nei loro
atteggiamenti. Devono abbandonare il contegno, la dignità virile nel comportamento, il costante
dominio di sé che sono propri del loro sesso. Con la gioia del banchetto, la felicità del vino,
l’eccitazione della danza, il frastuono, in compagnia di buoni amici, ecco come i maschi possono
avvicinarsi a Dioniso pur restando umani, cambiare pur restando ciò che sono. Fare l’esperienza
dell’altro, divenire altro, per il sesso maschile significa confondere i confini che separano le donne
dagli uomini, il greco dal barbaro, gli esseri umani dai Satiri e dal dio, rovesciarsi improvvisamente
in un ambito di esistenza nel quale non soltanto non esistono più determinati divieti, ma categorie
che normalmente si escludono si trovano a essere per un attimo confuse.
Il pandemonio è condizione di rigenerazione della comunità e spazio formante capace di coltivare
differenze. Il dionisiaco diventa quel principio di cui si ha bisogno insieme con l’apollineo perché si
possano alimentare e far crescere tutte le dimensioni, i mille piani di cui ciascun vivente è
costituito e tra cui si muove, perché è animale e animale sociale. Kaos e Kosmos insieme: l’uno
condizione dell’altro e viceversa. La maschera, il teatro, la possibilità di mutare il proprio volto, la
sua mimica e quella di tutto il corpo, il proprio rapporto con lo spazio-mondo, sono costitutivi
dell’esistere e dell’apprendere.
In questo senso, in nome di Dioniso si può erigere il Teatro e il Tempio dentro la città, sono la
condizione stessa della polis. Render sacro lo spazio e percorrerlo al ritmo frenetico della festa,
significa poter introdurre l’extraordinario nello spazio pubblico trasformandolo in quello speciale
ambiente fuori del quotidiano che chiamiamo Scuola e che chiamiamo Teatro. Richiamare e far
risuonare in questo spazio extraordinario il mito di Dioniso, in particolare nel racconto di Euripide
con le Baccanti, è perché con Vernant sosteniamo che la tragedia delle Baccanti mostra quali siano
i pericoli di un ripiegamento della città sui propri confini.
Se l’universo del Medesimo non accetta d’integrare in sé quell’elemento d’alterità che ogni gruppo,
ogni essere umano porta in sé pur senza saperlo, così come Penteo rifiuta di riconoscere quella
parte misteriosa, femminile, dionisiaca che lo attira e lo affascina sino all’orrore, allora, anche la
stabilità, la regolarità, l’identità si rovesciano e crollano. La sola soluzione è che l’Altro, grazie alla
trance controllata, all’ufficializzazione del tiaso e alla sua promozione a istituzione pubblica per le

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donne (grazie alla gioia del comos, del vino, del mascheramento e della festa per gli uomini), grazie
al teatro per l’intera città, divenga una delle dimensioni della vita collettiva e dell’esistenza
quotidiana di ciascuno.
La tragedia della Baccanti risuona come quella di ogni città che, intera, può scegliere di non
separare il Medesimo dall’Altro, e di incorporare lo spazio dell’alterità: quello spazio che
dedichiamo a Dioniso e alla sua maschera perché possa aiutare a mescolare umano e divino,
saggezza e follia, anche nel dilemma consegnato dalla favola di Bencivenga e dalle sue due scuole.
Perché, come nella tragedia di Euripide il conflitto Penteo-Dioniso può essere interpretato come la
drammatica messa in scena dell’opposizione tra due atteggiamenti contrari: da una parte il
razionalismo dei sofisti, la loro intelligenza tecnica, la loro padronanza nell’arte del governare, il
loro rifiuto dell’invisibile; dall’altra un’esperienza religiosa che fa spazio alle pulsioni
dell’irrazionale e sbocca su un’unione intima con il dio. Così per le due scuole si avverte la
contrapposizione che produce solo separazione e esclusione dell’uno rispetto all’altro e nulla sa
dell’armonia, cui si può giungere, senza possessione, senza manìa, ma con la gioia offerta dal divino
quando si produce in suono del flauto e nella danza che lo accompagna.

3. Teatro-scuola: per una poetica dell'educazione

Il fuoco della fantasia per Gianni Rodari va acceso ed è l’obiettivo con cui lui in prima persona, da
maestro elementare, ha inventato giochi perché si inventassero storie e soprattutto perché si
ridesse lasciando che nascessero storie da quel gioco e da quel ridere. La maschera di Dioniso
torna anche con Rodari a ricordarci che nella pratica del maestro c’è la dimensione del gioco e
dell’assurdo che apre alla risata, mentre la scintilla diventa fuoco e il piccolo fuoco un incendio.
Il fuoco è elemento generativo e rigenerativo e diventa alleato di quel maestro che, come Rodari,
vuole che sprizzi la scintilla per accendere la fantasia. L’immagine festosa e ridente della classe di
Gianni Rodari restituisce al contesto Scuola una dimensione che possiamo definire teatrale se, in
quel far festa e in quella risata, rintracciamo una poetica che del teatro ha l’assurdo, la possibilità
di capovolgere e di far incontrare e confliggere elementi differenti perché con quell’energia si
possa generare altro e coinvolgere in quel movimento rigeneratore tutto il preesistente.
Le uscite a teatro per assistere agli spettacoli scelti per il progetto Teatro Scuola Vedere Fare
inaugurano anche le attività laboratoriali: il laboratorio teatrale realizzato a scuola con gli alunni e
gli insegnanti e con il supporto e la supervisione degli operatori teatrali estende la dimensione
della festa e del gioco.
Il maestro è quindi anche mastro di festa: quello che fa reagire l’esistente e fa in modo che si
trasformi, mettendo in scena, ovvero dandogli spessore attraverso l’azione scenica, quel teatro
dell’immaginario che prova a farsi reale.
Il mastro di festa è quello più consapevole dell’importanza delle interazioni, quello che si fa
osservatore del suo agire, il professionista riflessivo per dirla con Schön, che fa esperienza
dell’essere soggetto e oggetto, allo stesso tempo, del processo di cui è partecipe.
In questo senso rileggere Alfred Jerry e il suo Ubu può smascherare chi vuole farsi maestro
pesnanodo di farsi burattinaio da gan Guignol: non c'è burattino né burattinaio nella Scuola nel
Teatro, dove si fa festa lasciando che s'accenda il fuoco e ciascuno senta la propria vita farsi sotria.
Così in quella scuola e in quel teatro, natura, cultura, biologia e conoscenza, emergono nell'unità
stratiforme e multidimensionale dell'agire-comunicare-esistere; quell'agire che chiamiamo teatro
perchè incontra lo sguardo di un altro.
E così possiamo osservare il materiale audiovisivo e fotografico che del progetto Teatro Scuola
Vedere Fare è stato prodotto e archiviato. Le aule scolastiche esibiscono la loro trasgressiva
possibilità plastica e i corpi trasfigurati ne esplorano nuove traiettorie che dicono di molti
slittamenti e sconfinamenti tra le due scuola, oltre cui si può restare anche senza parole perchè il

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corpo e la sua stratiforme realtà prendono voce, questa avrà l'eco e il riverbero di più voci insieme.
Il laboratorio, il Teatro-laboratorio e la Scuola-laboratorio non è più solo un'etichetta che suona
sperimentale e innovativa ma ne costituisce il senso stesso dell'abitare quei luoghi, di varcare la soglia,
perchè nel laboratorio eccedere diventa la regola che contiene e disciplina l'istanza creatrice, perchè
tutto ciò che entra, si trasforma e vi si produce, è opera collettiva per la comunità.
Significativo in questo senso i risultati del laboratorio trovino una cornice speciale nella rassegna
Maggio all'infanzia e quindi in quel cantiere creativo che accoglie e rende condivisibile il lavoro
che ha coinvolto i diversi gruppi di partecipanti. Maggio all'infanzia, infatti, diventa a sua volta
scena pubblica e laboratorio aperto alla città, utile a testimoniare che tutto quello che riguarda la
formazione delle nuove generazioni assume una posizione manigesta perchè se ne avverta la
concreta dimensione politica e poetica declinata al futuro.
Sul finire dell'anno scolastico, la rassegna Maggio all'infanzia conclude il percorso del progetto
Teatro Scuola Vedere Fare e segna uno dei momenti in cui tutte le parti coinvolte si ritrovano
insieme per riaffermare la ricchezza della cartografia pedagogica della comunità, le risorse che
vanno oltre Teatro e Scuola e toccano la famiglia e altre figure di riferimento e le Istituzioni locali,
per condividere e rinnovare l'impegno di ognuno a tenere aperta bottega nella grande
casa-laboratorio che è la comunità educante con le sue poetiche e politiche per le nuove generazioni.

4. Teatro e scuola: per una cinetica della formazione

Si può scrivere a un amico, dedicargli una poesia, come fa Alfredo Giuliani con Achille Perilli, e fare
che quei versi siano sempre contemporanei a chi li legge. Si può leggere una poesia perché si vuole
essere portati oltre le parole e le cose. Ci si può ricordare, grazie al poeta, che la lingua, la parola, il
segno, sono tutti parte di quell’armamentario che fa dell’uomo un poeta e del suo corpo lo spazio
danzante di un attore. Ma soprattutto si può leggere, e leggere ad alta voce, una poesia per
provare la voglia di scrivere, di passare dalla lettura alla scrittura, come dal vedere al fare, perché il
piacere del tracciare solchi per la semenza possa essere del contadino e pure di chi coltiva orticelli
dell’immaginario e si lancia con spirito d’avanguardia pure verso terreni incolti o non mappati e ne
produce buoni frutti. I frutti dell’albero della conoscenza, Maturana-Varela, non sono gli stessi da
cui Newton ha dedotto le leggi della gravitazione universale bensì ciò che puoi toccare con mano
per conoscere e produrre te stesso.
Nello slancio con cui nella primavera del 1987 Humberto Maturana e Francisco Varela invitavano sin
dalla prefazione i loro lettori, quelli dell’Albero della conoscenza, ad abbandonare le abitudinarie
certezze per pervenire ad un’altra visuale di quello che costituisce l’umano, in forza delle teorie
sviluppate da Humberto Maturana già dal 1969 con la sua Neurofisiologia della cognizione, s’avverte
tutta l’attuale forza di un paradigma che individua nella sensibilità e nella mobilità la condizione
dell’umano. Le implicazioni metodologiche di questo paradigma sono significative e possiamo
considerare le attuali indicazioni strategiche per l’utilizzo didattico delle attività teatrali una sintetica
torsione generata ed emergente proprio da quella prospettiva biologica al problema della
conoscenza. Perché albero e frutti, come maestro e allievo, dicono di una connessione necessaria: la
loro relazione è il focus di una Scuola che fa della pratica teatrale un habitus per coltivare-costruire
uno spazio di vita che Martin Buber avrebbe chiamato di dialogo.
Il dialogo tra maestro e allievo è anche uno degli obiettivi che attraversano il progetto Teatro
Scuola Vedere Fare. Un dialogo in cui la finzione fa da medium per la relazione che produce
comunicazione, apprendimento, opera. Alla relazione si partecipa, come alla co-costruzione della
conoscenza e alla produzione dello spettacolo-comunicazione finale.
La relazione e la sua qualità dialogica è anche la sostanza dell’agire scenico e di quello scolastico
che sposta l’attenzione dal maestro alla maestria e alla cura con cui fare le cose, e dagli obiettivi al
percorso utilizzato o tracciato per raggiungerli.

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Nel nome della relazione, dunque, un’attività scolastica e un’attività teatrale integrata nella
didattica curriculare a Scuola possono essere quella scena dove ciascuno è chiamato a partecipare
alla costruzione del gruppo di lavoro, della comunità di apprendimento. In questo senso, vedere e
quindi osservare e riflettere su quanto si è realizzato o su quanto altri hanno fatto è utile proprio in
direzione di una consapevolezza e di una capacità di leggere e di leggersi che unisce la conoscenza
alla conoscenza del Sé. Ma il vedere ha bisogno di un suo setting e di una sua preparazione
all’ascolto. E questo l’insegnante deve incorporarlo, proprio attraverso quello spazio laboratoriale
dedicato alla formazione e alla Didattica della visione che può dedicarsi per tornare in classe con
più attrezzi e con maggiore cognizione per l’ascolto, la relazione, la partecipazione.
L’insegnante cioè esce allo scoperto, si sposta e si muove in territori altri da quelli propriamente
scolastici, inizia a sperimentarsi, anche nella continuità della partecipazione rinnovata negli anni al
progetto, con altro corpo-docente, altre visioni e altre pratiche di Scuola e di Teatro, con altre
discipline ed epistemologie didattiche tenute insieme da obiettivi che sembrano quelli scanditi dalle
fasi del progetto ma che invece possono essere molto altro ancora. La mobilità non sta solo
nell’impegno di muoversi tra Scuola e Teatro dedicando del tempo aggiuntivo rispetto al già gravoso
peso burocratico e organizzativo dell’insegnamento, ma sta soprattutto nell’opportunità di distogliere
lo sguardo dai soliti interlocutori e di straniarsi provando a disattendere alle proprie aspettative di
ricaduta pratica ed immediata, girovagando e dissentendo pure dall’operatore/esperto di Teatro.
Solo in tale stato di mobilità l’insegnante in veste di regista potrà inserire pratiche inedite nella sua
didattica curriculare perché la sua materia possa essere colta dai suoi alunni come un delizioso frutto
da assaporare e gustare insieme a quello delle altre materie con cui ricombinare e dare forma ad altra
materia ed altra opera.

5. Scuola come Teatro: per una politica dell'educazione

Nei quaderni, nei diari, tra gli appunti compare sempre qualcosa che sembra somigliare al
Manifesto surrealista e degno di sfidare l’imperativo della tecnica per aprire all’interrogativo
dell’Arte. Edgar Morin ci suggerisce la forza del movimento surrealista, considerando che “il
surrealismo era sin da principio qualcosa di più di un semplice movimento letterario, artistico o
politico: esso è stato un movimento fondato su una nozione totale e radicale dell’uomo.
Nella sua espressione più ricca, il surrealismo è un atteggiamento che fa proprio tutto ciò che sfugge
alla realtà, tutto ciò che esula dal reale quale ci appare nella normalità della nostra esistenza: il
surrealismo non fa che riconoscere la poca realtà del reale, formulare l’idea della realtà
dell’immaginario e tentare di collegare l’una all’altro perché si arricchiscano vicendevolmente.
La matrice poetica surrealista è individuata come parte di una genealogia della ricerca pedagogica
che fa dell’arte scenica, del Teatro, uno spazio privilegiato dove ciascuno può fare esperienza della
propria itineranza e del proprio concreto agire per riconquistare la propria dimensione scenica,
mondana e quindi politica, necessaria a ripensare l’uomo attraverso la sua relazione con un cosmo
di cui ne è anche autore. Chiamiamo Teatro dunque quello speciale spazio che incorpora la forza
della poesia e fa di ogni azione un gesto politico. Se dunque il Teatro, nella sua accezione poietica/
politica, si sovrappone o si integra alla Scuola e non si riduce ad un’ora dedicata al movimento e
alle emozioni, significa che si individua la forza rigeneratrice della sua perturbante materialità e si
fa del dispositivo-Teatro quella speciale Arte intesa nel senso pieno della Techné che fa scuola di
vita perché prepara alla imprevedibile vitalità dell’accadere e quindi ad andare in scena consape-
voli che non basta avere un programma o delle conoscenze ma prepararsi concretamente
all’impreparazione, alla dislocazione, al punto di vista differente e incorporarlo grazie alla pratica
del laboratorio che consente l’errore e ne fa parte della pratica stessa perché consente di andare
oltre la linea già tracciata e già conosciuta.

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La materialità del Teatro passa per la gravità dei corpi e per la loro goffa andatura e pure per la
leggerezza di un’immagine o di un suono che interrompe l’incedere goffo, ne dilata o ne sospende
il peso, e lascia che insorga la meraviglia di un altro giorno felice.
Parlare in versi recupera della parola l’alto contenuto di impegno civico e storico perché i versi e la
forma letteraria suonino e vengano usate per generare frastuono e senso di smarrimento rispetto
al già sentito e al già detto.
Il Teatro è individuato come lo spazio dove si situano e crescono tutti i linguaggi artistici e la loro
ricerca, il loro spirito sperimentale e innovatore. Inquieto e non domabile.

CAPITOLO 3: IN ACTION.
L'ATTIVISMO PEDAGOGICO PRENDE CORPO TRA VEDERE E FARE

1. Andar per il sottile. Senza aspettare Godot

Ogni scuola, fin dall’età classica, è nata sviluppando una propria metodologia che riguarda il
governo della macchina biologica in rapporto alle finalità che si immagina di dover raggiungere.
La metodologia, e quindi la filosofia del progetto Teatro Scuola Vedere Fare, è però quella di
consegnare al corpo-docente la consapevolezza e la responsabilità di costruire una propria scuola,
di poterne ridisegnare l’architettura a geometrie variabili e di poterne nutrire il senso alleandosi
con la fisica e la chimica di cui non si preordina il risultato ma che aiutano a rendere evidenti le
conseguenze sul piano formativo di attività che altrove sono confinate in una zona che sa ancora
troppo di mero intrattenimento o di esibizione.
La scuola può occupare anche il territorio-Teatro e ricondurlo alle sue esigenze didattiche, disciplinari,
disciplinate e disciplinanti, oppure il Teatro può far grande e viva la Scuola che sa di dover trovare in
sé e fuori di sé quei virus, quella peste per rigenerare il corpo sociale e la sua macchina desiderante.
L’energia vitale e virale del Teatro e di tutte le Arti che il Teatro tiene insieme si riconosce solo quando
ci si lascia attraversare da questa energia, quando se ne diventa il corpo incandescente capace di
unire la distanza del vedere alla prossimità del fare. E quando del vedere si coglie tutta la tensione
indagatoria del fare, e nel fare si disvela il ‘piano’ attraverso cui guardare e riflettere: perché la scuola
dei maestri di ermeneutica e di fenomenologica ci ha preparato a unire visibile e invisibile, dicono
Merleau e Ponty.
E il Teatro ne è stato lo spazio elettivo perché si dà teatro quando la forma-opera esposta si offre
come incompiuta e mai ferma e afferrata dallo sguardo di un altro che ne esplora le ulteriori e celate
rappresentazioni possibili. Il Teatro è corpo cavo. E quella cavità del Teatro si fa piena di vedere e fare:
il vedere dello spettatore che diventa fare; e il fare dell’attore che è frammenti di immagini in cui si
guarda e riflette. Tra attore e spettatore ci si scambia opere, immagini, pensieri, corpi, materie
composte e poi loro frammenti da ricombinare e comporre, in variazioni.
È esemplificativo che il nome del progetto, Teatro Scuola Vedere Fare, unisca il Vedere e il Fare al
Teatro-Scuola, come ne fossero una condizione. Difatti, attorno al vedere abbiamo giocato a fare la
modernità. Con Galileo Galilei si accoglie il suo metodo scientifico e quindi il vedere, l’osservare, il
misurare, e anche il sorvegliare e punire, come tecnologie della conoscenza e macchine educanti.
Ma presenta dei limiti rispetto agli eccessi del barocco e alla manifesta romantica totalità.
L’estetica del post-Moderno ci spinge oltre la Modernità senza rinunce né troppe specializzazioni per
riafferrare il turbamento patico del sentire e dare sostanza e corpo al pensiero che ne emerge, denso e
leggero. Il fare sembra risalire dai medioevali mestieri e poi dalle rinascimentali glorie umanistiche, per
riemergere nell’attuale ipersensibile post-umano understanding by design, dico Pfeifer e Bisig.
Vedere unito al Fare è osservatorio che si spinge in profondità, è riflessione. Osservatorio e spazio
riflessivo che il progetto Teatro Scuola Vedere Fare ha voluto rendere parte della sua metodologia
insieme a una forte impronta laboratoriale e sperimentale.

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2. Drammaturgie pedagogiche. Oltre la marionetta

Teatro Scuola Vedere Fare è anche metadiscorso sul potere: sul potere del dispositivo educativo
quando questo diventa dogmatica esecuzione di un compito e di un dettato (ministeriale); sul
potere come esercizio di un dominio che ferisce come la freccia di un dardo che non sai da dove
arriva ma che ti sembra inevitabile; ma anche sul potere come sospensione dall’esecuzione del
dogma e dall’esercizio del dominio e quindi sul potere di fare dell’altro, di inverare l’inverosimile,
di spostare lo sguardo altrove, di muoversi tracciando altre linee e traiettorie di senso.
La Favola di Pinocchio ci ha insegnato tanto e così pratichiamo il potere di leggerne una morale
all’incontrario, perché Pinocchio, libero dal gran burattinaio Mangiafuoco del teatro delle
marionette, possa fare della strada la sua maestra senza che questa si vesta da fata turchina e se
ne aspetti prodigi immediati, perché la strada maestra è quella lontana dai luoghi comuni e per
raggiungerla hai da sottrarre e hai da faticare e muoverti e spostarti di continuo come nei fuggenti
chiari del bosco. Dice Zambrano: l’attraversamento dei chiari del bosco ricorda anche il modo in cui
si sono percorse le aule. Come i chiari, le aule sono spazi vuoti pronti a venirsi riempendo uno alla
volta, spazi della voce nei quali si apprenderà con l’udito, ossia in modo più immediato che dalla
parola scritta, alla quale bisogna per forza restituire accento e voce per sentire che ci viene diretta.
Attraversare i chiari del bosco richiede tempo perché il percorso non è già tracciato. Ciò che è
scritto può diventare suono e ridare vita alla parola depositata in una pagina che invece pareva
essere immutata e immutabile. Ma perché la scrittura riprenda vita c’è bisogno di chi la incarni e la
trasformi in una presenza che nel farsi suono e gesto, poi svanisce tracciando una circolarità tra
attori, azione scenica e pubblico che ne fa un unico corpo cavo e risonante che pratica l’ascolto e
allena ad un sentire totale la cui durata è un tempo che non cade come flusso ordinario da orologio
ma lascia accadere qualcosa. Il corpo cavo, che è il Teatro e che può essere la Scuola quando segue
una logica circolare, può aprire varchi inaspettati ed essere il vuoto necessario, quella pausa, che
consente di fare un salto ed arrivare altrove.
Il salto che ciascuno può realizzare ad un certo momento spinge in quello spazio-tempo che
chiamiamo formante quando segue l’ordine e la mappa del poeta.
Il salto avviene attraverso la carne di Ubu o della balena; ha necessità di una cosa solida, e di un
sentire che questa genera, per volersene allontanare, separare e liberare. La mimetica dell’arte
come esperienza è essa stessa arte, arte del vivere e dell’apprendere anche senza intenzione di
farlo ma con la piena cognizione di vivere e di esserci.
Così quel salto, da Omero in poi, si opera attraverso il tempo ed è un’operazione sul tempo.
Così per saltare nel progetto Teatro Scuola Vedere Fare e nella sua intenzionalità pedagogica è
necessario fare un patto che impegni tutti i partecipanti per un intero anno scolastico. Non sono
importanti le singole attività, il loro succedersi cadenzato, le differenti tipologie di risorse
mobilitate e la varietà delle metodologie, dei luoghi e degli strumenti utilizzati; è tutto il tempo che
unisce le singole parti, che si mescolano poi ad altri pezzi di mondi e di vita fuori dalla Scuola e
fuori dal Teatro, che è necessario a ciascuno per poter ricombinare e farne uno spazio-tempo altro:
la stanza che ognuno può far diventare una stanza tutta per sé.

3. Teatro come metodologia trasformativa

Dewey afferma che la riva del mare, il bordo di una pagina, la soglia di una stanza di un museo, la
cornice che inquadra una tela, il fondo nero da cui si stacca la scena di un teatro, segnano la
possibilità di farsi creatori e di cogliere l’intima unione di fare e subire, che è alla base della
creazione artistica e della sua dimensione estetica.
Questa ricezione comporta attività che sono comparabili a quelle del creatore: essa è un processo che
consiste di una serie di atti di risposta che si accumulano nella direzione di un compimento oggettivo.

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Importante recuperare questo aspetto dell’atto creativo per cogliere il nesso tra la pratica artistica
e la formazione: pratica artistica che può considerarsi formante e quindi generativa se fa spazio in
modo concreto al sentire, all’osservazione.
Dewey si focalizza sull’artista, ma potremmo dire lo stesso dell’homo faber e del suo fabbricarsi ad
arte. Egli dice: se nel corso del suo fare non dà compimento a una nuova visione, l’artista agisce
meccanicamente e ripete qualche vecchio modello prefissato come se fosse uno stampo rigido interno
alla sua mente. L’opera creativa in arte è caratterizzata da un’incredibile dose di osservazione.
L’osservazione costituisce la qualità estetica nonché la condizione del fare e del generare nuove
visioni. Per questo, progettare un percorso complesso come Teatro Scuola Vedere Fare implica
diventare studiosi di biomeccanica.
La mobilità e il suo principio cinetico, l’interazione e la sua qualità estetica, l’osservazione e la sua
potenziale generatività, tracciano le condizioni di un processo la cui qualità artistica e pedagogica ha
una sostanza perché coinvolge la totalità della sfera corporea e produce formazione/trasformazione su
un piano visibile, oltre che su quello invisibile che vi è sotteso.
Per parlare di formazione in termini di trasformazione e di creazione, come del compimento di una
nuova visione, torna l’antica sapienza che arriva dal Teatro classico e che riconosce l’utilità e la necessità
della materialità della scena: una materialità che lega spazio e corpi ma non dice del risultato, perché
l’esperienza è incarnata e attualizzata, e non meramente né solo meccanicamente trasmessa.
Il Teatro-Scuola prova a inverare questa materialità, tende a fare spazio all’esperienza, all’arte come
esperienza; prepara a stare al mondo abitandolo, facendosene osservatore e creatore al tempo stesso.
Come per l’artista in scena, anche per insegnanti e per alunni a Scuola, la pratica quotidiana offre la base
concreta della propria crescita e del proprio mettersi-in-opera pur tra molte e distinte discipline.

CAPITOLO 4: L'ARTE DI TRASFORMARE CON TEATRO SCUOLA VEDERE FARE.


NOTE METODOLOGICHE

1. Il progetto in sintesi. Fare comunità attraverso il Teatro-Scuola

1.1 Partecipare

Il progetto Teatro Scuola Vedere Fare è un complesso oggetto-metafora con cui giocare all’arte di
progettare una Scuola viva e darle forma tessendo interazioni con il Teatro, perché questa
connessione possa cambiare profondamente la cognizione del fare Scuola e del fare Teatro, in
modo da attivare ognuno le molte risorse che il territorio potenzialmente offre e abitare/costruire
ciascuno il proprio festante spazio poietico per fare formazione, per fare comunità.
Teatro Scuola Vedere Fare è quella proposta concreta che ha la sua storia e le sue ragioni ma che
invita molti altri a proiettarsi, proprio come Winnie, in un altro giorno felice! e a sperimentare il
proprio modo di pensare-fare Scuola come Teatro e Teatro come Scuola. Così si potrà agire con altri
spazi, contesti, oggetti, Istituzioni, bandi, norme, indicazioni ministeriali, e usarli come se si fosse a
Teatro: mettendosi in-opera, provando a sottrarsi ai modellini prefabbricati, agli automatismi di
una meccanica da esperto, alle sorde autoreferenzialità e alle ‘applicazioni’ didascaliche.
Sottrarsi per aggiungere senso sempre attuale e contemporaneo al progetto che mobilita una
progettazione-in-situazione, progettazione per emergenza la chiamano i teorici della Nuova
Robotica Autonoma pensando ai sistemi intelligenti, sapendo che il segreto sta nella sua
dimensione sempre situata e plurale, nell’attivazione e nel coinvolgimento di molti e specifici
agenti con i loro codici, linguaggi, saperi, risorse, la cui interconnessione offre uno specifico e
singolare manifesto accadere. I risultati non sono garantiti, né corrispondono a quelli attesi.
Provare quindi a sintetizzare alcuni aspetti del progetto ha senso solo se li si considera nei termini
di una dinamica complessa dalla quale estraiamo parti di quella che è una metodologia, e non una

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procedura, un protocollo, né un metodo.
Progettare in questo senso, significa esser consapevoli della co-autorialità del progetto-processo e
della debolezza del copione. Significa che non basta un edificio-Scuola o un edificio-Teatro per fare
Scuola e per fare Teatro. Quegli edifici possono fungere da ambienti formanti se, nella forma di una
strada, di una piazza, di un museo, di una stanza, e di una statua, di una tela, di una composizione
musicale, di una dramma teatrale, estendono l’accezione di Scuola e di Teatro e chiedono a quei
luoghi e a quelle opere di piegarsi alla logica generativa e non omologante del pedagogico.
Secondo questa cognizione generale, possiamo allora ripercorrere i quattro anni di attività del
progetto Teatro Scuola Vedere Fare e individuiamo alcuni elementi interessanti da osservare per
operare una ricognizione e anche per sostenere una maggiore e più estesa capacità del sistema-Scuola
e del sistema-Teatro di produrre/incarnare tanta bella pedagogia e perturbante poetica pedagogica.
Guardiamo allora alcuni dati e alla crescita progressiva delle Scuole, degli alunni e dei docenti
coinvolti: guardando i numeri si può cogliere già ad un primo sguardo che, nonostante il progetto
richieda energie significative e un impegno collettivo, il lavoro avviato ad ottobre 2014 e che
quest’anno ha programmato la sua quinta edizione, ha generato un sempre più numeroso
interesse nelle Scuole del territorio napoletano.

1.2 Tessere

Avviato prima della Legge di riforma della Scuola, cosiddetta Buona Scuola, il progetto Teatro
Scuola Vedere Fare è una realtà che ha coinvolto molti e differenti attori in gioco, ciascuno con
l’intento di rendere condivisibile le proprie esperienze in chiave di possibile innovazione sociale,
operando una cucitura tra le due culture: quella del vedere e quella del fare, quella del sentire e
quella dell’agire, la teoria con la pratica.
La dimensione artistica e creativa che attraversa tutto il progetto è anche metalinguaggio con cui
tutti gli attori coinvolti comunicano e partecipano estendendo e mutando ciascuno la propria scena.
La scelta del Teatro-Scuola risponde, pertanto, alla prospettiva di Dewey e alla sua Pedagogia,
tenuto conto che, afferma Dewey, l’impulso a oltrepassare tutti i limiti imposti dall’esterno è insito
nella natura stessa dell’opera dell’artista. Appartiene al carattere stesso della mente creativa di
protendersi verso qualsiasi materiale che lo solleciti e di afferrarlo così che il valore di quel
materiale possa essere spremuto fuori e diventare materia di una nuova esperienza.
Osservando i dati riferiti ai partecipanti al progetto Teatro Scuola Vedere Fare, nelle quattro
annualità fin’ora realizzate, si possono vedere i luoghi della città di Napoli coinvolti, e quindi il
Teatro dei Piccoli, le Scuole con i loro spazi, i Musei, i siti archeologici, i soggetti territoriali e poi le
altre città, gli altri Teatri, e comprendere che la progettualità e la metodologia di Teatro Scuola
Vedere Fare non pone limiti, non detta leggi su chi sta dentro e chi sta fuori.
Il coinvolgimento degli alunni disabili oppure dei genitori e familiari, per esempio, fa parte della
forza complessiva del progetto di collocarsi in pieno in un contesto e di attivarne tutte le risorse o
le connessioni possibili.

1.3 Comunicare

La progettualità di Teatro Scuola Vedere Fare ha una sottesa e costitutiva matrice pedagogica e
teatrale che considera ogni passaggio, ogni azione, ogni intenzione, come momento pubblico,
come messa in scena. Si lavora cioè per cercare e sperimentare le forme più adatte per presentarsi
e per coinvolgere gli altri, per contribuire a delineare ed attuare delle politiche attive che utilizzano
l’arte in chiave di fermento sociale e culturale.
L’ambizione del progetto è anche di realizzare e superare i propri obiettivi, costruendo una solida
comunità di organizzatori, operatori, attori, registi, educatori teatrali, esperti e studiosi, per

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affermare la funzione sociale del Teatro e la possibilità di allearsi alla Scuola per recuperarne il
fondante valore estetico attraverso cui si compie quello etico.
Teatro Scuola Vedere Fare è una chiamata alle arti per la Scuola, e quindi per i dirigenti, gli
insegnanti, gli alunni e i familiari, perché si uniscano insieme in un lavoro capace di attivare e unire
energie, in direzione di una spinta fuori di sé in grado di produrre e dare corpo alla grande opera
che è la formazione del cittadino. È un processo i cui esiti possono essere molti diversi e mutare
lungo il percorso. Per questo l’Arte viene incontro alla Pedagogia, perché sebbene si individuino
obiettivi, strumenti, risorse, non è detto che il risultato sia coincidente con quello previsto.
Eve Sussman dice: le opere e gli spettacoli di cui si è spettatori, la tecnica e gli strumenti degli
artisti e degli esperti, i protagonisti e i loro ruoli, non vanno presi così come sono, ma vanno
pensati e messi in scena, sperimentati nella loro azione e interazione con chi incontrano. Il
momento dell’incontro reciproco, della comunicazione, è quello decisivo perché l’impulso poi
possa trasformare gli elementi in gioco e produrre altro per tutti quelli coinvolti.
Con Teatro Scuola Vedere Fare ci si può sentire figli della modernità, di Velasquez, Picasso e Eve Sussmann,
e vivere il nostro tempo prendendoci cura della materialità delle cose e della cura che necessita il processo
per produrle, consapevoli di quanto non sia solo questione di tecnica, né di esecuzione.
Dentro e fuori le aule di Scuola, dentro e fuori le scene del Teatro l’incontro tra apparenze si fa
l’unica via possibile per afferrare e dare corpo alla propria dimensione sociale e politica.
Su un altro piano poi, sulla scena, il corpo manifesta e incarna questa o quella prospettiva
pedagogica e quindi quella cultura dell’educazione di cui si può diventare consapevoli se reso
visibile e posto all’occhio altrui. L’immaginario pedagogico della recita e del lavoretto può
sovrastare il dispositivo teatrale e può fagocitarlo facendone proprio fedele servitore, producendo
una retorica profondamente distante dal senso generativo che parole come teatro, laboratorio,
comunicazione, parrebbero portare con sé. Quindi non basta introdurre a Scuola e nella pedagogia
il Teatro per dire che si sia fatta o che sarà fatta una virata verso l’attivismo pedagogico né verso
quel criticismo o quella decostruzione.
Chiamare come alleato di una riforma scolastica le attività teatrali ha però il senso di una
invocazione prodigiosa rivolta a quanto di sacro, artistico e poetico è presente nel Teatro e può
essere usato proprio come elemento generativo e rigenerativo dell’istituzione scolastica e
soprattutto della estesa comunità famiglie-insegnanti-alunni.
Nel vivo della Scuola che il Teatro, il Teatro-Scuola come quello pensato dagli ideatori di Teatro
Scuola Vedere Fare, recupera la centralità pedagogica dello stare insieme e dell’apparire/mostrarsi
l’uno all’altro perché lo splendore dei corpi restituisca luce alla corporeità e al suo valore politico.
Importante dunque che la dimensione pubblica attraversi l’intera progettualità e renda i momenti
di spettacolo come l’evidenza dei corpi che si fanno spazio sulla scena e dice di una presenza
preparata alla sua funzione comunicativa. Lo splendore dei corpi esibiti ha dunque la qualità etica
ed estetica del comunicare che suona e risuona eccedendo la fisicità dei corpi e dei loro gesti che
spostano sul piano pratico la necessità di legarsi/collegarsi e di fare comunità.

1.4 Riflettere

Il Vedere è unito al Fare come il soggetto all’oggetto: una solidarietà che genera una differente
consapevolezza nell’agire, nel fare, perché osservandosi nel fare o osservando gli altri fare si
occupa una posizione differente che aiuta a comprendere e comprendersi come realtà materiale e
fenomenica sottoposta ad un continua interrogazione.
Il Vedere a Teatro è come la bottega della conoscenza della conoscenza di Edgar Morin: è
dispositivo metacognitivo attraverso cui si diventa consapevoli del proprio punto di vista e
dell’azione esercitata da ciascuno verso l’oggetto della propria osservazione.
Il Vedere a Teatro, per l’insegnante come per l’alunno, può diventare pratica dialogica e aprire alle

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possibilità di incontro tra soggetto e oggetto. A Teatro, nella pratica del Vedere, c’è tutta la
sapienza di René Magritte e della sua opera Il tradimento delle immagini, di fronte alla quale
siamo invitati ad esclamare, come suggerito dalla sua didascalia: Ceci n’est pas une pipe!
Attraverso il Teatro-Scuola e la sua pratica del vedere-fare, si costruisce la comunità di quelli che
sperimentano una postura attiva e critica verso il mondo: la dimensione laboratoriale prepara ad
essere via via sempre più consapevoli e responsabili, mai piegati solo a ciò che accade ma aperti a
tutto quello che resta da fare, oltre il già dato.
La qualità riflessiva del vedere sta ad indicare dunque la necessità di aprire un varco in profondità:
si tratta di una qualità che passa per un modo differente di considerare la superficie e di
oltrepassarla, sapendo di non poterne fare a meno e che l’andata non sarà come il ritorno se nel
riflettere muta la cognizione e muta anche l’agire che ne consegue.

1.5 Ricreare

Lo sguardo complessivo al progetto Teatro Scuola Vedere Fare e la riflessione epistemica e


metodologica che ne è emersa, ci dà agio di sostenere che il corpo è categoria fondativa per una
pedagogia che, grazie al Teatro e all’attuale Teatro-Scuola, ritrova la sua matrice politica, oltre che
riaffermare quella poetica. Il corpo è possibilità per la Pedagogia di farsi azione, come il Teatro è
forma della Pedagogia di farsi didattica.
Il progetto Teatro Scuola Vedere Fare ci dà occasione di focalizzare su una genealogia pedagogica
che ha stretta parentela con la poetica, con la drammaturgia del corpo, e con la didattica
laboratoriale e attiva. Il pensiero pedagogico e la riflessione epistemica che ha generato nel tempo,
hanno continuo bisogno di diventare nuova pratica e incarnare le piste concettuali emerse dalla
riflessione, dall’osservazione in azione.
Il lavoro di formazione degli insegnanti, quello di laboratorio teatrale per insegnanti e alunni, la
visione degli spettacoli, la preparazione di una comunicazione finale e il confronto con quelle
prodotte dagli altri, alcuni incontri seminariali su focus tematici scelti, la visita ad altri luoghi
dell’arte e della cultura, le letture e gli autori suggeriti o incontrati per caso, sono operate nella
logica dell’alveare: non basta raccogliere ma è necessario trasformare, creare e ricreare.
C’è una importante metabolica nell’apprendimento e nella formazione, metabolica che lo spazio
artistico considera come fondante e legittima di qualsiasi processo del conoscere, dell’esistere e quindi
del comunicare. Una metabolica che attiva una vera e propria creazione intesa come ricreazione così
da suggerire quanto di pedagogico si nasconde nella ricreazione, nel girovagare, nella sospensione
dell’attività didattica vera e propria e nell’introduzione di attività divergenti.
Così, quando nella didattica a scuola viene introdotta un’attività artistica come quella teatrale, la Scuola
scopre di poter stare nell’una e l’altra delle due scuole raccontate dalla favola di Bencivenga, in quella
della verità e in quella delle storie differenti, muovendosi secondo logiche differenti che aumentano le
vie del conoscere e del fare esperienza.
La centralità del laboratorio è una cifra metodologica significativa che appartiene già al lessico
pedagogico e scolastico, ma che con il teatro trova una forza nuova e rigenerante che fa tornare al
senso del laboratorio, alla sua carica trasformativa connessa ad una organica e singolare
metabolica di cui ciascuno dei partecipanti può farsi attore.

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CAPITOLO 5: FRAMMENTI DI UN DISCORSO CON IL GRUPPO DI INSEGNANTI
PARTECIPANTI A TEATRO SCUOLA VEDERE FARE

1. Il corpo docente in figure

Ripercorrendo tutto il materiale prodotto durante le attività e gli incontri formativi programmati in
questi quattro anni nella cornice del progetto Teatro Scuola Vedere Fare, possiamo individuare i
questionari, come oggetti che testimoniano qualcosa di quanto già accaduto e sono traccia
dell’esperienza vissuta dal gruppo degli insegnanti coinvolti. Si tratta di risposte a domande aperte,
frutto di brevi osservazioni, analisi e riflessioni, e poi anche testi e lettere prodotte in chiusura di
incontro o di percorso.
La qualità della presenza di ciascuno degli insegnanti viene messa sotto osservazione e il ruolo che
ciascuno sente di aver avuto nel progetto, espresso con una sola parola, lascia intravedere il
mondo del Teatro e della Scuola che ciascuno ha vissuto e immaginato.
C’è chi definisce il proprio ruolo con: insegnante, insegnante-capo, maestra, lasciando intendere
che il progetto ha rafforzato e centrato questa dimensione professionale che si incontra con quella
dell’e-ducere e quindi con la propria funzione formante.
Dello stesso tono ma più spinto su una funzione tecnica, si sono le parole: critico teatrale,
supporto, collaboratrice, co-animatrice, mediatrice, come a rendere più visibile le competenze
tecniche e a considerarne ora gli aspetti più legati ai contenuti e ora quelli riferiti alla relazione e al
lavoro di gruppo. In questo caso si avverte la fatica dell’organizzazione, dei tempi, dell’essere in
tanti, suggerendo una gestione extrascolastica come rimedio e formula possibile.
C’è poi chi si dice: apprendista, discepolo, a sottolineare la necessità di una maggiore presenza
dell’esperto insieme però ad una apertura al fare che rimette in gioco le proprie competenze e ne
estende la portata proprio alla sfera del fare (di cui sarebbe depositario l’esperto).
Ma c’è anche chi si definisce con: totale, protagonista, per sottolineare la gioia e il piacevole
impegno investiti in una partecipazione e in un coinvolgimento solidale che lascia intravedere
possibilità di ricerca e di crescita.
Più metaforiche poi le parole: ponte (tra esperti e bambini), maestralunna, cercatore d’oro, che lasciano
immaginare la voglia di continuare il percorso e la capacità di farsi consapevoli e autonomi nel dare forma
teatrale allo studio per riuscire a far uscire fuori dal guscio gli alunni e il loro senso di isolamento.
Spazio, corpo e relazione sono le parole-chiave individuate durante il percorso e nei momenti di
lavoro laboratoriale dedicati alla formazione degli insegnanti. Lo spazio è parola che assume uno
spessore particolare perché connesso esplicitamente alla consapevolezza e all’estraniamento.
Il rapporto con lo spazio fa emergere una dimensione attiva che ciascuno può mobilitare per
occupare tutti gli spazi e appropriarsi dello spazio; spazio che poi diventa anche spazio scenico e
luogo dove riflettere. Allo spazio si riconosce infatti il legame con la conoscenza del proprio corpo.
A partire dal corpo e dagli esercizi proposti, emerge un lavoro in profondità che nel tempo va oltre
l’espressione e diventa parte di un sentire che viene descritto come ascoltare il proprio corpo,
conoscere e riconoscere il proprio corpo, che può passare anche per un lavoro di coordinamento
che può diventare di cooperazione, nel quale qualcuno si chiede dove sono collocata e sembra fare
eco a chi sente di ascoltare il proprio corpo e poter immaginare scenari diversi e creare sincronia.
La plasticità del corpo lascia intravedere la possibilità di farsi modellare anche attraverso
l’improvvisazione e l’immaginazione. Entrare in contatto con se stessi e con gli altri disegna il
tracciato preciso delle sfere coinvolte. Infatti, alla dimensione spaziale e corporea si unisce quella
relazionale che emerge perché quello spazio da occupare sia anche quello dove creare relazioni,
lasciarsi andare, dare corpo alle emozioni, e anche dove avere fiducia negli altri. L’interazione con
l’altro è anche quell’aspetto del lavoro sul contatto fisico cui qualcuno avrebbe voluto dedicare
maggior tempo per poter tradurre le emozioni, condividendole armonicamente.

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D’altronde, creare partecipazione e mettersi in gioco sembrano un altro passaggio chiave individuato
nella ricerca di sinergia nel gruppo che apprende a relazionarsi con gli altri non solo con i gesti ma
anche col suono della propria voce e trova nell’interazione nel gruppo la capacità di inventare.
In questa osservazione emergono anche suggerimenti per modificare la conduzione dei gruppi o le
consegne date, nel tentativo di individuare punti di forza e punti di debolezza che di fatto invitano
gli insegnanti partecipanti a farsi parte attiva dell’azione progettuale che così si muove e vive con il
progetto e con tutte le persone e le risorse coinvolte.
Progettare Teatro Scuola Vedere Fare significa di volta in volta individuare soluzioni possibili, spingersi
oltre i limiti che sembrerebbero posti dalle griglie normative e organizzative della Scuola, consapevoli
che un percorso completo di formazione per docenti e bambini deve pur trovare tempi e orari adatti
per essere una consistente opportunità di crescita personale, culturale e professionale che abbia
anche una ricaduta positiva sulla bambina diversamente abile. Sperimentare e crescere insieme è un
obiettivo raggiunto, anche se sullo sfondo le difficoltà di organizzazione e i limiti di tempo/spazi
segnano una criticità di cui si è consapevoli e che pure lascia intravedere una vera possibilità di
ribaltare schemi mentali e sociali. Il Teatro e il Teatro Educazione appaiono parte non solo di un
vocabolario comune ma di una metodologia che lavora sulla possibilità di imparare ‘facendo’ e di
darsi una grande occasione di confronto e sodalizio tra colleghe.
Il lavoro multidisciplinare di alto livello è vissuto come molto impegnativo e dice quindi della fatica
necessaria a vedere la luce degli occhi dei bimbi felici quando sono in scena. La ricchezza
dell’esperienza riguarda anche il confronto costruttivo con le altre scuole e allarga l’estensione
degli effetti del progetto dalla persona, alla sua funzione, fino a sentirsi più parte della realtà
scolastica perchè attraverso i molteplici modi di fare e vedere teatro la si può guardare con lo
spirito della scoperta e con la passione con la quale lavorano i responsabili di questo progetto.
La sfida alla burocrazia scolastica e alle lezioni cattedratiche spinge il progetto Teatro Scuola Vedere
Fare dentro un solco più ampio, quello delle strategie e delle politiche formative, un solco perciò
esteso e trasversale, la cui ampiezza dell’azione del vedere e fare aiutano a costruire una concreta
possibilità di utilizzo del teatro a scuola.

VOCI DAL PROGETTO TEATRO SCUOLA VEDERE FARE

IL VEDERE: PER UNA DIDATTICA DELLA VISIONE


Appunti da una conversazione con Giorgio Testa

In Teatro Scuola Vedere Fare il focus è il vedere. Quel vedere particolare che a teatro è vedere insieme.
Un progetto quello di Teatro Scuola Vedere Fare che è arrivato ad integrare Vedere e Fare e ad
assumere la sua articolazione così complessa solo a Napoli, per la felice congiuntura generata dal
contemporaneo coinvolgimento di Casa dello Spettatore, di Morena Pauro con Le Nuvole, e di
Salvatore Guadagnuolo con AGITA. Quindi Napoli è l’unico posto dove questo si fa in maniera
organica da molto tempo. Il focus di Casa dello Spettatore sul Vedere risale ad una ricerca che
conduco da molto tempo e che a Napoli ha trovato questa coniugazione organica. Però, appunto,
ha una storia più lontana e un’origine più antica, a cui si da il nome di Didattica della visione.
Una delle premesse di questa storia personale è che come pedagogista e come educatore, dice
Giorgio Testa, è nato e cresciuto nel Movimento di Cooperazione Educativa che era un altro modo
di fare scuola rispetto all’universo tradizionale in cui l’architrave è chi fa lezione a un altro che
l’ascolta e che ha il compito di ripetere quello che ha ascoltato. L’interesse per il teatro è riemerso
in quel contesto perché portava con sé il tema del fare educazione in un altro modo.
Tale interesse si è unito ad una riflessione di tipo pedagogico in un momento storico in cui non
c’era ancora il piano ragazzi o altre politiche nazionali, ma già si coniugava teatro e educazione.

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Ha portato nell’educazione, la passione personale per il teatro. Una passione che si riferisce
soprattutto al suo incontro con la tragedia greca. Poi, accanto al suo interesse per il Teatro, c’era
Freinet e l’idea di dare spazio a quello che si è sempre chiamato il gioco drammatico, cioè l’attività
espressiva. Quello che poi di volta in volta si è chiamato anche gioco simbolico o gioco espressivo.
Questa modalità di lavoro è nata insieme all’interesse per la comparsa e l’utilizzo in chiave educativa di
un’attività drammatica, del linguaggio drammatico. Dice: come esiste il linguaggio verbale esiste il
linguaggio drammatico che non è quello non verbale e basta, perché il linguaggio drammatico è quello
che si usa quando si dice una bugia, quando ci si traveste, in ogni azione simulata.
A partire dal teatro, anche nell'animazione, si riproponeva il linguaggio drammatico con finalità
educative, come nel Movimento di Cooperazione Educativa, come in Mario Lodi. Egli stesso ha
usato il gioco drammatico con le sue allieve della scuola superiore. Quindi era una modalità di
espressione e di conoscenza.
Poi ha seguitato a utilizzare queste pratiche teatrali anche all’interno di attività formative rivolte
agli adulti. Con l’animazione teatrale c’è stato un incontro tra quelli che utilizzavano il teatro nella
loro pratica didattica e quelli che la usavano nella loro espressione adulta. Quindi questo è il
percorso da cui nasce l’idea di un uso educativo del teatro. Attraverso il teatro è possibile mettere
a fuoco un’altra conoscenza, ovvero la conoscenza della condizione umana.
Da questo contesto è apparso il lavoro sul ‘vedere’. Da uno studio personale è apparso il ‘vedere’
che ha cominciato ad incrociare la nascita del Teatro ragazzi. Perché con la nascita del Teatro
ragazzi doveva formarsi un pubblico che non c’era. Quelli del Teatro ragazzi dovevano fare due
operazioni: da un lato fare spettacolo e dall’altro educare un pubblico.
Così l’Ente Teatrale Italiano ha promosso il Teatro ragazzi con chi si occupava di educazione e quindi sapeva
parlare con le maestre possedendo il loro linguaggio, facendo da mediatori culturali e non gli artisti.
Ci si è chiesti cosa fare e che cosa significasse educare le insegnanti e gli alunni al teatro. Per educare
al teatro, e come per ogni educazione a tanti altri linguaggi, devi avere almeno altre tre cose: lo devi
praticare, perché se non pratichi quel linguaggio, se non lo possiedi, non lo puoi insegnare; è come per
la scrittura, non puoi insegnare a leggere senza insegnare a scrivere. Quindi la prima cosa è praticare il
linguaggio teatrale. Seconda cosa riguarda la ricezione, quindi il vederlo. Perché se non lo vedi, non
conosci di quel linguaggio il suo esito. Poi c’è anche un terzo punto che però nel progetto Teatro Scuola
Vedere Fare non c’è e che riguarda uno sguardo sulla natura del linguaggio teatrale rispetto agli altri
linguaggi perché per conoscere e comprendere il senso di quel linguaggio c’è bisogno di metterlo in
dialogo e in opposizione con gli altri linguaggi. Questo terzo punto individua il teatro come spazio di
tutti i linguaggi e dell’azione che si compie attraverso il linguaggio. Per questo, in un’ideale didattica io
metterei un approfondimento sull’educazione linguistica, sul testo. Necessario un orientamento al testo
per unire pensiero, azione, linguaggio.
Quindi sullo sfondo del progetto Teatro Scuola Vedere Fare c’è tutto il lavoro fatto con il laboratorio
teatrale, portato avanti con AGITA per l’educazione attraverso il teatro e l’educazione al teatro. E
c’è la didattica della visione.
L’idea del a chi parlo quando faccio uno spettacolo, non è mai tematizzato. Per un po’ lo abbiamo
chiamato operatore-iride. Questo mediatore in campo educativo non può non esserci. Quali sono
le condizioni perché l’incontro con lo spettacolo avvenga. Un lavoro sul bagaglio con cui lo
spettatore arriva. Perché quando si parla a uno spettatore, lo spettatore non è vuoto. Anche qui,
sono dei principi chiave dell’educazione, almeno di quella attiva. Devi sapere come lo spettatore
arriva allo spettacolo. Quindi c’è tutto un orizzonte di attese che si unisce al fatto che il teatro lo
consumi con il corpo con cui vai a vederlo. Importante quindi anche come ci arrivi. Se tu ci arrivi
con un bambino della scuola che ha impiegato un’ora e mezza per arrivare e ha bisogno del bagno,
la visione ne risentirà. Poi c’è tutta la questione della premessa cognitiva e del linguaggio verbale.
Questo è evidente anche per gli adulti. Ogni drammaturgo che si rispetti, questo lo sa. L’artista
trova importante non togliergli la rivelazione.

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Lo spettacolo diventa parte di un percorso didattico. A volte capita che la didattica è più
interessante dello spettacolo.
Dei materiali per la Didattica della visione, l’archivio è pieno. Si tratta di una ricerca finanziata dallo
Stato. Un lavoro dove sono state coinvolte coralmente tante forze: quelle del Movimento di
Cooperazione Educativa, di Loredana Perissinotto e di molti altri. Una ricerca che ha coinvolto una
grande varietà di pubblici e che propone un’idea di teatro che non si ferma all’espressione ma che
chiede che sappia comunicare non solo agli addetti ai lavori.
E proprio nel senso di un teatro in grado di comunicare, possiamo dire che il progetto Teatro
Scuola Vedere Fare abbia costruito una comunità. Questa era ed è la finalità. Sin da quando si è
cominciato con gli adulti, si è partiti dall’idea di far incontrare le persone sulla base del comune
interesse per il teatro (come per altri il calcio, un partito politico o altro).
AGITA si occupa del teatro fatto dai ragazzi e del teatro sociale, lavorando con gli insegnati perché
facciano loro i mediatori. A Napoli si lavora insieme sulla visione e sul fare. Si fa un teatro amico
con le insegnanti per una didattica indiretta. Il vedere è insieme al fare, ed entrambi lavorano sulla
didattica, il linguaggio, il tema. Stiamo cercando di fare in modo che lo spettacolo abbia una
rilevanza pedagogica altra. È un momento di discussione su di un tema di interesse e rilevanza
sociale. Quindi lo spettacolo ti dà l’opportunità di creare una comunità.
A Napoli, continua Testa, ha fatto due esperimenti. Un primo è stato un modello di seminario
intitolato Vedere soli e vedere insieme vedendo due volte lo stesso spettacolo. È interessante
confrontarsi su cosa si vede e si sono confrontati sul cosa si è visto, sulle condizioni della ricezione.
Si ripercorre l’esperienza. Quindi si lavora sul vedere a fondo.
Con un secondo esperimento ha proposto un lavoro sullo spettatore multiplo. Siamo spettatori di
molte cose. Con un gruppo di insegnanti a Napoli non si parla solo di teatro ma di come si matura
vedendo. Un seminario importante in questa direzione ha avuto come oggetto la visione di una
puntata di Forum rispetto alla quale si sono posti con la stessa serietà che avrebbero avuto davanti
all’Edipo Re. Hanno lavorato sulla drammaturgia, scomponendo il testo, le immagini.
A Napoli c’è già un gruppo che segue da anni con continuità le attività del progetto Teatro Scuola
Vedere Fare, così con loro si può introdurre in maniera approfondita la questione del linguaggio in
generale. Questo progetto può essere usato come cavallo di troia per portare innovazione nella
scuola. Intanto il gruppo dei partecipanti ha già cambiato il modo di intendere la scuola. Il nucleo
del gruppo veniva dalla scelta del teatro a scuola come modalità per avere accesso a un altro modo
di intendere l’educazione, perché gli insegnanti stessi del gruppo facevano esperienza di un altro
modo di imparare e di avere cura. Mentre si faceva un lavoro preparatorio al teatro, ci si apriva ad
un lavoro sulla metodologia. Nel gruppo, il sapere si mette in comune, si condivide nel gruppo e si
unisce alle competenze di ciascuno. Si scambiano strumenti.
A Napoli con il progetto Teatro Scuola Vedere Fare si ha quel teatro solo per i piccoli. Uno dei
luoghi dove si va con la scuola e dove si può tornare la domenica con la famiglia. È un punto di
riferimento, come il teatro da sempre fa.

APPUNTI SUL FARE:


IL TEATRO-LABORATORIO A SCUOLA E LA SCUOLA-LABORATORIO A TEATRO di Salvatore
Guadagnuolo

Quando si parla di educazione teatrale si intende riferirsi a esperienze educative capaci di cogliere
obiettivi di tipo cognitivo ed emozionale.
A partire dagli anni '80 l’animazione teatrale ha sconvolto il sistema educativo. Si è andata
costituendo una nuova figura di docente che potesse ricostruire la nuova scuola capace di
interagire con il corpo dei bambini e che potesse veramente cambiare il mondo.

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Contemporaneamente anche il teatro usciva dal suo pigro ambiente per ritrovare una nuova forza, uno
slancio vitale per dare linfa alla ricerca. Tutto ciò avveniva allora per rinnovare la scuola e la società.
Oggi la realtà, cambiata, ci ha imposto un nuovo approccio alla formazione e all’educazione.
Abbiamo dovuto guardare le vere esigenze dei destinatari.
Il progetto Teatro Scuola Vedere Fare ha come ossatura principale l’ascolto continuo delle esigenze
dei bambini e dei ragazzi.
Il percorso teatrale educativo potrà conoscere sempre nuovi stimoli, perché costruito lungo il percorso,
arricchito dagli spunti o da contribuiti personali. Un iter, pertanto, finalizzato alla costruzione di un
progetto educativo sostenuto e giustificato dalla realizzazione di proposte e azioni concrete, in cui
rispecchiare le trasformazioni cognitive, valoriali e comportamentali dei soggetti coinvolti.
E per accertarsi che gli allievi si siano impadroniti delle abilità desiderate si è esplorato il fattore
comprendere. Comprendere nel senso di essere capaci di integrare competenze scolastiche e fare
formativo, per poi portarli al servizio dei bisogni e delle richieste personali e culturali.
Si è poi utilizzato un metodo che valorizza più efficacemente i canali di apprendimento della
maggior parte degli allievi. Tali canali sono caratterizzati:

1. da una tipologia complessa e curiosa per quanto riguarda autori, contenuti, tematiche e
sincretismo tra i linguaggi;
2. da una risposta a una vasta gamma di stili e cliché simbolico-espressivi, sia in funzione
conservativa che di rottura;
3. da un’esperienza più visibile del legame con la naturalezza del gioco e della teatralità.
4. da implicazioni cognitive, psicologiche, emotive, terapeutiche, esistenziali attivate
dall’esperienza teatrale.

All’insegnante e agli allievi si è chiesto di affrontare il teatro della scuola in un’ottica di formazione
sistemica e integrata: ciò significa operare trasformazioni e scelte. Mettere in rilievo le valenze di
questo tipo di operare richiede un convinto cambiamento d’atteggiamento, superare alcuni
stereotipi, preparazione adeguata e chiarezza degli obiettivi.
Si è cercato di far diventare il laboratorio un luogo di attività e di esercizio di ruoli tratti precisamente
dai campi che interessano gli adolescenti, e gli oggetti che solitamente vi compaiono rappresentano le
occupazioni, le abilità e le aspirazioni che legittimamente piacciono agli allievi e li motivano.
È interessante notare come il dialogo continui al di là dell’imposizione istituzionale; la ricerca
dell’altro prosegue ben oltre il momento dato e programmato: la curiosità, dote tipica degli
adolescenti, si esterna in mille modi e momenti d’incontro.
Su un percorso in fase di apprendimento con un gruppo misto, proveniente da varie storie si è
lavorato sull’immaginario collettivo conducendo gli utenti in un viaggio fantastico attraverso
l’azione del corpo in azione in uno spazio, in una relazione con sé e con l’altro. Lo spazio è il luogo
dove il corpo può essere vissuto e quindi comunicato. Gli utenti sono stati indirizzati a costruire il
proprio corpo narrante, e condotti in un viaggio fantastico attraverso uno spazio altro che è lo
specchio: lo specchio come visione diversa di un sé corporeo, locus ideale dove la dimensione può
trasformarsi ed essere tutto ciò che si vuole, anzi si può anche moltiplicarla e ridimensionarla.
Oggi il teatro plasma la scuola creativa, la scuola esce dai suoi schemi per trovare uno spazio
edenico dove realizza i propri sogni.

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TRA TEATRI E SCUOLE: TESSERE COMUNITA'
APPUNTI DA UNA CONVERSAZIONE CON MORENA PAURO

Nel ricostruire questi quattro anni di progetto Teatro Scuola Vedere Fare, e l’avvio del suo quinto
anno di attività, Morena Pauro in apertura della trentatreesima stagione del teatro per le nuove
generazioni curata da Le Nuvole ora Casa del Contemporaneo. È stata per venticinque anni a
Edenlandia in uno spazio che era stato la pista degli autoscontri, poi l’Edenlandia ha chiuso.
Cambiare tre teatri in due anni è stata una prova dura e difficile che ha rimesso molto in
discussione. Ricominciare: ma in che direzione andare? Alla ricerca di riferimenti, con tante
domande e poche risposte, ha incontrato alcuni insegnanti e operatori con cui aveva lavorato anni
prima. In questo contesto è nato il progetto che Teatro Scuola Vedere Fare, in cui il teatro è stato
da subito protagonista per smuovere all’ascolto e all’osservazione in profondità. L’idea su cui tutto
è stato costruito è l’integrazione tra teatro e scuola e tra vedere e fare in un continuo gioco di
rimandi e di vasi comunicanti. Il fare (il laboratorio teatrale a scuola in orario curriculare, curato da
AGITA e finalizzato ad una comunicazione finale a maggio) mutava anche il vedere perché subito il
pubblico delle scuole ha iniziato a considerare con più attenzione e rispetto il lavoro a cui erano
invitati come spettatori. Quando entrano a teatro i ragazzi spengono i telefoni cellulari e fanno
silenzio. Rispettano quello spazio e le sue regole.
Con fare imparano a rimescolare materiali ma anche a stare insieme a rispettare gli altri, a fare
gioco di squadra. È un progetto fatto dentro la classe e con tutta la classe, lavorando sulle
differenze e con le differenze. Tutto questo grazie ai docenti che scelgono di partecipare offrendo
lavoro straordinario e grande disponibilità, mettendosi in gioco e seguendo parallelamente fino a
90 ore di corsi di formazione.
Il progetto abbraccia l’intero anno scolastico e il fare si conclude a maggio con Maggio all’infanzia
Napoli la rassegna degli spettacoli fatti dai ragazzi. È il momento della comunicazione, ad altri
compagni e ai genitori, del lavoro svolto. È il loro momento, tocca a loro raccontarsi tra il grande
stupore generale. Ci sono altri che ti guardano, che si interessano a te. Questo è il teatro. Quando
tu hai qualcosa da raccontare e c’è qualcuno che con la sua presenza e la sua attenzione ti dice che
è interessato a quello che hai da dire.
In parallelo vi è la sezione vedere (almeno 3 spettacoli con la classe e molti altri la domenica con le
famiglie) che coinvolge direttamente il cartellone teatrale. Il progetto ha previsto da subito l’apporto
di Casa dello spettatore con Didattica della Visione, un corso di aggiornamento rivolto al docente in
qualità di spettatore e in qualità di educatore che sceglie e accompagna gli alunni a teatro. Conoscere
meglio le potenzialità del teatro come strumento culturale ha creato molta curiosità reciproca e
grande interesse in un approfondimento. Presto alcuni docenti sono partiti a Bari per partecipare al
festival Maggio all’infanzia che si svolge sull’altra sponda dell’Italia ed è curato da Teatri di Bari. Si
tratta di una rassegna di spettacoli inediti proposti da compagnie professioniste e che si rivolge ad un
ampio pubblico di operatori del settore che visionano in anteprima tutte le novità da portare poi nel
proprio teatro. Con l’arrivo dei docenti il festival è stato integrato da incontri di formazione che si
alternavano alla visione degli spettacoli e il percorso è stato denominato Esplorazioni. Gruppo di
visione in festival. Docenti e operatori teatrali si sono ritrovati insieme e ne è nata una nuova
collaborazione, un ulteriore arricchimento e uno scambio prezioso.
Nella stagione teatrale al Teatro dei Piccoli di Napoli trovano sempre più posto spettacoli che portano
in scena tematiche vicine al vissuto quotidiano dei giovani spettatori con rielaborazioni e adattamenti
di testi classici o di nuova drammaturgia. È possibile trovare una fiaba a cui non si chiede di rispondere
alle attese tradizionali ma usata per raccontare dell’invidia, dell’abbandono, della perdita, per parlare
del rapporto genitori-figli, di questioni molto sentite e non sempre affrontate.
In questo il teatro per ragazzi è fantastico perché i destinatari sono aperti e disponibili ad ogni
variazione sul tema, ad ogni argomento, ad ogni sperimentazione.

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Non così è l’adulto che invece ha spesso delle aspettative ben precise ed è su queste aspettative
che s’innesta il lavoro in sinergia, gli approfondimenti, i corsi di aggiornamento, che hanno portato
a un cartellone ampiamente discusso e condiviso.
Il teatro è speciale perché tocca delle corde particolari che aiutano a comprendere le cose del
quotidiano, ne interrompe il flusso o lo riavvia. Esso apre alla curiosità, alla voglia di approfondire.
Teatro Scuola Vedere Fare è cresciuto sotto i loro occhi, per numeri e per qualità, ha di fatto creato
una comunità fatta di persone e di tante professionalità a cui si sono aggiunti i genitori invitati dai
figli/alunni del progetto. Ogni studente riceve a inizio anno una card che consente di vedere tutti
gli spettacoli del programma nei giorni festivi. Succede che gli alunni chiedano ai genitori di essere
accompagnati a teatro e spesso per questi genitori è la prima volta.
Un progetto ampio e variegato, intenso e difficile, in continua e inevitabile evoluzione per
l’adattamento al naturale sviluppo.

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