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FARE - D'AMBROSIO
Pedagogia
Università degli Studi Suor Orsola Benincasa
35 pag.
MARIA D'AMBROSIO
Un libro come questo, che lavora sui concetti di teatro e di scuola dà occasione per tematizzare e
legittimare la materialità educativa come pista epistemologica percorsa sin dalla classicità e oggi
emergente come necessità nel contemporaneo. Necessità cui contribuisce anche l'attuale scenario
definito dalla recente normativa sul riconoscimento della figura professionale dell'educatore e
del pedagogista, per la quale le professioni educative sono individuate come struemnti da
introdurre nelle Istituzioni educative e formative, per rigenerarne l'organizzazione in chiave di
benessere sociale. Ciò è parte di un progetto ambizioso che coinvolge la materialità e le pratiche
dei professionisti dell'educazione, la cui dimensione corporea è chiamata a realizzare spazi
immaginativi e a produrre nuove realtà.
Sembra cioè ci poter realizzare un sogno. Winnicott afferma che il soggetto che sogna possiede
una collocazione creativa che sperimenta in quello spazo-tempo che chiamiamo gioco e che rende
possibile l'atto creativo e il suo divenire teatro.
In questo testo si torna a fare spazio alla responsabilità dell'eroe tragico e al suo impegno nel
sottrarsi alla spinta deterministica e al volere di altri. Si trtta di questioni che recuperano con Riccardo
Massa l'interrogativo relativo a educare o istruire e rimettono al centro della riflessione pedagogica la
forma-scuola e la necessaria riconfigurazione del dispositivo educativo che vi è sotteso.
La forma-scuola può trovare nel teatro quella forma non disciplinare che chiama l'attore a dare
forma alla vita del personaggio, esponendosi per gioco allo sguardo dell'altro.
L'interesse per le diverse forme-scuola e forme-teatro evidenzia l'attuale possibilità di dare forma a
uno spazio di intervento che è anche spazio di ricerca e setting per un lavoro clinico che investe i
professionisti dell'educazione che ripresentano esperienze per ripodurre nuovi significati. Si tratta
di entrare e svelare un teatro interiore, dando voce ciascuno ai propri antenati sentendosi entro
dei legami che guidano, sollecitano oppure opprimono.
Il teatro è quella forma di Scuola Attiva dove la messa in scena è parte di rappresentazione che è
co-costruzione, e che consente di lavorare il concetto di Teatro e quello di Scuola nella loro comune matrice
intersoggettiva, permettendo all'attore di cogliere il suo essere.
Teatro e Scuola si propongono come territori dove si fa spazio ad una riflessione pedagogica che,
con Dewey, fa risuonare l'educazione con la comunicazione.
Il Teatro è la parola-chiave da intedersi come metafora e come pratica sociale che dà forma alla
Scuola Attiva e propone il vedere-fare anche come segno di una scelta metodologica che spinge a
realizzare incontro, dialogo, relazione, senza omologazione né con-formazione.
L'eredità di Riccardo Massa e i suoi studi sul rapporto tra teatro, educazione, formazione e
pedagogia, ritorna e rivela la natura extraordinaria tanto del teatro quanto dell'educativo e della
formazione: si tratta di un'eredità connessa agli studi cui si deve la sovrapposzione di teatro e
scuola in quanto dispositivi pedagogici attraverso cui pensare all'attore e alla scena, ovvero al loro
rapporto vitale, come condizione per tornare alla realtà, essendo in grado di lasciar traccia ed
emergere sulla scena come Darstellung.
L'azione in scena dimostra il superamento della irrappresentabilità del teatro interiore e
l'apertura ad un lavoro sul simbolico e il linguistico che fa dell'azione quel piano oggettuale
attraverso cui è possibile una transazione.
In questo testo vi sono grandi maestri del teatro del 900 insieme ai maestri del pensiero che hanno
animato la riflessione filosofica e pedagogica novecentesca, i quali aiutano a rileggere l'educazione
e la formazione come processi complessi e quindi non riconducibili a questa o quella dimensione
per poterli definire invece come sistemi o apparati simbolici.
Il teatro suona come apparato, macchina, gioco, che rivela quello che Althrusser chiamava circuito
e reticolo relazionale, e che si dà come oggeto dentro cui la scienza pedagogica può afferrare,
comprendere e legittimare la materialità educativa e la sua consistenza agente-agita.
INTRODUZIONE
Il libro è un omaggio alla bellezza e alla gioia della scuola e del teatro, da cercare anche fuori dagli
edifici che provano a contenerne materialmente la missione formativa. Perchè ogni spazio può farsi
scuola e teatro se è scena dove mostrarsi e apparire agli occhi di un altro e alcontempo ambiente
dove generare e partecipare di un incontro/dialogo che produce comunità in forma di opere e
della loro plastica trasformazione.
Teatro Scuola Vedere Fare è un progetto esistente già da quattro anni, con il pretesto di avvicinare
lo spazio della ricerca epistemologica e metodologica e pedagogica con quello delle pratiche
scolastiche e teatrali e vederne emergere un territorio ampio e plurale abitato da una comunità
che ha individuato nella necessità di rigenerarsi anche l'opportunità di aprire spazi non canonici,
fuori da luoghi comun.
Il libro è prova dell'idea di fare scuola e teatro giudati da un'etica della partecipazione che genera
una estetica della creazione, lungo la traiettoria che unisce vedere e fare nel processo vitale da cui
emerge l'essere e la sua intersezione tra attore e spettatore.
Ciò accade ponendo attenzione verso il formante. Esso è il concetto-chiave per ripensare l'essere e
lo spazio/mondo attraverso il gesto performativo del prendere e dare forma. Essere come formante
e spazio formante attraversati dal pedagogica e dalla sua dimensione poietica, emergono da una
ricerca e incarnano la generatività dell'agire e la necessità di accrescerne il potenziale comunicativo
che fa coincidere il concetto di vita con quello di teatro e quello di azione con interazione.
Mettersi all'opera e dare forma al progetto Teatro Scuola Vedere Fare ha significato far emergere la
capacità visionaria e trasformare il bagaglio di esperienze e il percorso tracciato nel campo del
teatro ragazzi, in un intervento capace di andare oltre le difficoltà e le resistenze e guardare più in
là, chiamando a raccolta persone più adatte a rispondere agli obiettivi e alle ambizioni progettuali.
Così si è configurato un partenariato, un approccio, un programma, un gruppo di lavoro e le attiità
inagurate nell'ottobre 2014.
Per guardare al vedere/fare del teatro-scuola come a quello spazio poetico dove si riscrivono di
continuo i limiti tra possibile impossibile, dove ci si muove per quel felice gioco del dare e prendere
La partitura del progetto Teatro Scuola Vedere Fare può essere letta secondo più ordini
compositivi, ma trasversale è la necessità per il progetto di generare specifici attraversamenti e
slittamenti di senso, perchè ciascuno vi operi da maestro e senza spartizione di ruoli.
Il progettista-organizzatore, l'insegnante, il maestro di teatro, l'esperto e operatore teatrale,
l'alunno, il drammaturgo, l'attore e il regista, l'alunno-attore e regista, sono posizioni mobili che
ciascuno è chiamato ad assumere nel gioco combinatorio del vedere-fare.
In questo gioco, gli insegnanti che aderiscono con la loro classe o con più gruppi di classe, o con un
gruppo interclasse, sanno che il progetto diventa uno spazio-tempo che corre lungo l'anno
scolastico e che offre momenti di sospensione dedicati ad attività seminariali e laboratoriali e ad
uscite per incontri, spettacoli e comunicazioni.
Tutte le attività coinvolgono la sfera professionale ma toccano sempre anche quella personale,
cosicchè il ritorno alla didattica curriculare sia carico di materiali in forma di espereinza, e non di
contenuti o procedure da applicare.
Perchè i materiali attraversati e da attraversare, in vista anche delle uscite per vedere gli spettacoli a
teatro, emergono nella didattica curriculare come esperienza: c'è bisogno di incorporare questi stessi
materiali; di recuperare la presenza del corpo dell'insegnante se vuole farsi attore del suo percorso.
Il corpo, in primis quello dell'insegnante, è chiamato ad esserci per leggere e attuare in pieno la
partitura di Teatro Scuola Vedere Fare.
Il corpo che attraversa il percorso è una realtà dinamica di natura bio-meccanica-estetica e
psico-socio-culturale, la cui mobilità e cinetica è vista come prima modalità di inerazione con il mondo
che può assumere qualità pedagogica e valenza formativa anche quando la sua posizione è di spettatore.
Infatti, nella sintesi del progetto Teatro Scuola Vedere Fare, si dichiara che la visione di uno
spettacolo teatrale debba essere il centro di un percorso che mobiliti conoscenze, domande ed
emozioni e sia mosso dalla consapevolezza che imparare a vedere è il risultato di un processo, per
il quale si propongono pratiche e strumenti didattici per la formazione del docente che vorrà
inserire la visione di spettacoli teatrali nel proprio programma scolastico.
Pertanto, raccolto l'invito di Isabelle Huppert ad essere Winnie, si può comprendere il dramma di chi
proprio come Winnie si trova in un corpo immobile cui la parola, però, la sua voce usata in qaunto
materia sonora e spinta oltre quel corpo, è in grado di superare la propria condizione di immobilità e si
proietta in un altro giorno felice! Il corpo immobile è di Winnie nella finzione ma è anche quella della
scena pedagogica attuale e della pratica scolastica nello specifico: un corpo che trova difficoltà ad uscire
dal proprio confine materiale e connettersi a quello cognitivo che pure dal corpo emerge.
Un corpo che deve trovare il modo per tornare a farsi mobile, a realizzare la proprio condizione
vitale di materia sonante/danzante e in divenire per riconoscere il pedagogico come essenza
costituitiva di quel corpo che a Teatro come a Scuola deve tornare ad agire attraverso tutte le
forme possibili, e a trovarne, sperimentarne, sempre di nuove. Perchè nella forma nuova c'è vita
nuova e possibilità di esistere e di comunicare.
Avvertire questa immobilità come elemento critico e non-vitale, ha significato per il progetto
Teatro Scuola Vedere Fare smuovere l'asse verticale della Scuola chiedendo agli insegnanti di farsi
corpo-docente-mobile, pensando al teatro come metodologia trasformativa, e fare laboratorio nel
senso di stare dove si attende a un lavoro; una ricerca continua per scoprire attraverso una
metodologia trasversale una didattica del confronto, una relazione autenitica per poter crescere
individui consapevoli.
Così si inquadrano gli incontri preparatori destinati agli insegnanti prima che accompagnino i loro
alunni a teatro a vedere gli spettacoli scelti per loro e poi anche tutte le attività laboratoriali che gli
insegnanti realizzano a scuola, con il supporto degli operatori teatrali, la realizzazione della
comunicazione finale, le prove e l'esibizione in pubblico a teatro.
La dimensione artigiana del vivere e del conoscere si collega alla proposta del laboratorio teatrale
che il progetto Teatro Scuola Vedere Fare propone alle classi che aderiscono. Si tratta di dare
spessore a ciò che ci appare come già fatto oppure quello che si deve allestire, preparare,
mostrare.
Grazie al laboratorio teatrale realizzato a scuola, ciascuna classe con i suoi insegnanti e gli alunni,
sperimenta la centralità del dispositivo laboratoriale che attraversa e rende possibile la produzione
dell'artefatto/spettacolo/comunicazione finale: torna l'immagine dell'ape di Dewey che vola e
raccoglie il nettare ( il vedere del progetto) e poi nell'alveare o nell'arnia (il fare del progetto e
quindi il laboratorio teatrale) rigurgita e trasforma il bottino il miele.
Bisogna fare spazio alla necessità di un'educazione estetica che è di un'umanità alla continua
ricerca del suo Humanismus, quello che Gadamer fa incontrare con la Bildung, ricordando che
Hegel, uno dei grandi pensatori della storia, ha coniato l'espressione “ciascuno deve prender
dimora; deve costruire la propria casa nella propria vita”. Il prender dimora, il costruire la propria
casa nella propria vita, costituiscono un nucleo concettuale che include una forte dimensione
Lo slancio vitale e la spinta umanistica che arrivano da Gadamer alle istituzioni formative ci dà una
scossa e legittimazione ulteriore per mettere mano alla fondazione di una tradizione nuova.
La vita nelle idee è ciò che Gadamer eredita e fa suo da Humboldt come obiettivo per recuperare
spazio libero rispetto agli ordinamenti, all'organizzazione e quindi alla socializzazione che
costituiscono il vincolo pratico-politico di una vita, già da quella dei Greci, con poco spazio per la
libera speculazione (theoria). L'antica e classica opposizione tra theoria e pratica costituisce
l'orizzonte dentro cui ci si muove, dentro e fuori la Caverna, parlando attraverso il mito di Platone,
consapevoli che un modo di pensare libero non esiste.
Quando la Scuola Primaria si chiamava Scuola Elementare, dice D'Ambrosio (prof), la sua maestra,
insieme allo studio delle discipline del programma, introdusse i suoi alunni alla lingua francese, al teatro
e alla musica, di quest'ultima lo studio delle note e del pentagramma e del suonare il flauto dolce.
Verante fa osservare che la sonorità del fluato sono estranee alla parola articolata, al canto petico,
alla locazione umana e più precisamente che l'arte del flauto è stata inventata da Atena per
simulare i suoni acuti che avevano udito provenire dalle bocche delle Gorgoni e dei loro serpenti.
Per riprodurli, fabbrica allora il suono del flauto che raccoglie tutti i suoni. L'alterità sovrannaturale
nella mitologia trasmetta dai classici greci arriva in forma di tutti i suoni connessi alla maschera
deforme che li genera.
Accedere al mondo sonoro e musicale, dice D'Ambrosio, ha coinciso con l'essere iniziata all'arte del
fluato che intercetta e incorpora il tema della maschera e quindi della potenza fatta maschera e della
sua plastica mostruosa. Attraverso il suo del flauto, continua, ha avuto modo di conoscere la maschera
e il tema del mostruoso e di accedere a un mondo fatto di suoni differenti da quelli articolati in parole.
L'aula lasciava risuonare anche il suono del flauto prodotto dai loro volti-maschera mutati nella loro
mimica che apriva all'esperienza del mondo e del non-umano, del mostruoso, del bestiale.
Il flauto conduce dolcemente in una zona che oltrepassa l'umano e ne esplora delle variazioni di cui il
corpo è portatore, solo che plasticamente muti la sua maschera: l'unità, l'ordine lineare e la fissità cui
forma la parola si son rotte in una plurale deformazione che ha introdotto ad una erotica-estetica della
formazione e della conoscenza che va oltre la parola e ne indaga le pieghe vocali e sonore, così
innovativa negli anni '70 e oggi così fortemente legittimata dai più recenti studi di neuroscienze e dal
loro contributo a un'altra cultura dell'educazione, la quale ha guidato di certo le diverse teste ben fatte,
Come in un gran bel giardino, scuola come a teatro tutto è inconsueto. L'inconsueto ha la
consistenza del mezzo-sogno in cui si è avvolti come dal ronzio di api e uccelli. Le rumorose
sonorità di un tempo speso dove ci conduce Clarice Lispector col suo racconto ci ricordano che,
nella storia dell'uomo e del mito, al fauto si è aggiunta l'arpa cosicchè la voce, libera dallo
strumento, potesse diventare canto e la maestria delle mani liberare il vibrato delle corde e della
tastiera ed estendere e variare l'estensione vocale, producendo altra materia sonora vocale
modulata in suoni poi codificati in parole.
Il suono è il mondo dionisiaco nel quale immersi siamo sin dalla vita intrauterina. Immersi e toccati
da materia sonora, orecchio e pelle sono i due sistemi primari del linguaggio e della
comunicazione umana che dal ventre materno strutturiamo per resituire quel sentire tattile in
tante altre forme e scene. Il suono, la voce, la parola, il gesto, l'azione, sono le forme che
apprendiamo dall'ambiente per esistere e costiuiscono la qualità attraverso cui la materia di cui
siamo fatti esiste: qualità che dice di una costitutiva dimensione tattile e cinetica dell'essere e del
mondo che preesiste a quella visiva apollinea e fa dello stare al mondo una condizione tragica, che
è del conoscere stesso, direbbe Nietzsche.
La visione dello spettacolo ha la qualità dell'ascolto se assume il senso tragico del patire, del
partecipare, dell'essere e del fare come-se. Si ascolta il suono, la sua materia, prima che diventi
canto o coro, per lasciare che il sentire non cada nella ricerca rivelatoria di un significato puntuale
ma sia in grado di mobilitare altro sentire con cui afferrare la materia sonora perchè questa muova
verso un'altra dimensione del conoscere: quella dove dionisiaco e apollineo si incontrano,
così William Shakespeare, Italo Calvino, Antoine de Saint Exupery, i fratelli Grimm, Miguel de
Cervantes e molti altri sono i lirici le cui opere generano una potente materia sonora nella quale
immergersi e sentire/comprendere l'allegorica e metaforica realtà di cui è carica.
Tre gli spettacoli che le classi scelgono e vedono a teatro. Tre spettacoli che gli insegnanti scelgono
e attorno a cui è strutturata l'attività di Didattica della Visione, perchè è esplicito l'obiettivo di
integrare poi con i gruppi-classe la visione degli spettacoli con il loro lavoro e studio curricolare.
L'insegnante partecipa all'attività di Didattica della Visione con la possibilità di trasformare
quell'attività in una bottega della didatica recuperando del vedere la totalità del sentire, la tragica e
lirica immersione e tattilità dell'ascolto. Si tratta di riunire la natura dionisiaca a quella apollinea:
non più due mondi distinti ma un unico crpo la cui materia è anche figura.
Possiamo leggere e rileggere la favola raccontata da Bencivenga per restar nel problema posto come
interrogativo di chiusura e per iniziare a riflettere, così come attraverso i testi che gli insegnanti
partecipanti al progetto Teatro Scuola Vedere Fare sono invitati a fare. Sembra non esserci risposta
esatta, se la domanda è riferita a una scuola “davvero”. Il racconto è a opera di un narratore che
opera sulla realtà, mutandola in racconto, in un intreccio da cui far emergere una storia e i suoi eroi,
non importa di che dimensioni, perchè la scena poi è lo spazio dove tutto acquista altre dimensioni, si
trasfigura e assume le tinte e l'enfasi delll'epica, della commedia o della tragedia.
Oltre alla maschera della Gorgone col suo fiato, nella lettura della favola compare anche la
maschera di Dionisio. Nella favola di Bencivenga, mentre nella prima prima scuola tutto si ripete
uguale a se stesso e tutti riproducono la stessa verità, nella seconda scuola, quella dove si
moltiplicano le storie e le differenze, c'è un pandemonio, quasi ad evocare una codnizoone
festante, riconducibile a una dimensione sociale e civica, come quella cui il dio Dioniso, lo
straniero, chiama perchè si possa essere posseduti dall'estasi divina e accedere alla saggezza
sovraumana riconducibile a dio, oppure dirsene estranei perchè seguaci di un altro ordine nel
quale ci si voglia sentire liberi.
Il fuoco della fantasia per Gianni Rodari va acceso ed è l’obiettivo con cui lui in prima persona, da
maestro elementare, ha inventato giochi perché si inventassero storie e soprattutto perché si
ridesse lasciando che nascessero storie da quel gioco e da quel ridere. La maschera di Dioniso
torna anche con Rodari a ricordarci che nella pratica del maestro c’è la dimensione del gioco e
dell’assurdo che apre alla risata, mentre la scintilla diventa fuoco e il piccolo fuoco un incendio.
Il fuoco è elemento generativo e rigenerativo e diventa alleato di quel maestro che, come Rodari,
vuole che sprizzi la scintilla per accendere la fantasia. L’immagine festosa e ridente della classe di
Gianni Rodari restituisce al contesto Scuola una dimensione che possiamo definire teatrale se, in
quel far festa e in quella risata, rintracciamo una poetica che del teatro ha l’assurdo, la possibilità
di capovolgere e di far incontrare e confliggere elementi differenti perché con quell’energia si
possa generare altro e coinvolgere in quel movimento rigeneratore tutto il preesistente.
Le uscite a teatro per assistere agli spettacoli scelti per il progetto Teatro Scuola Vedere Fare
inaugurano anche le attività laboratoriali: il laboratorio teatrale realizzato a scuola con gli alunni e
gli insegnanti e con il supporto e la supervisione degli operatori teatrali estende la dimensione
della festa e del gioco.
Il maestro è quindi anche mastro di festa: quello che fa reagire l’esistente e fa in modo che si
trasformi, mettendo in scena, ovvero dandogli spessore attraverso l’azione scenica, quel teatro
dell’immaginario che prova a farsi reale.
Il mastro di festa è quello più consapevole dell’importanza delle interazioni, quello che si fa
osservatore del suo agire, il professionista riflessivo per dirla con Schön, che fa esperienza
dell’essere soggetto e oggetto, allo stesso tempo, del processo di cui è partecipe.
In questo senso rileggere Alfred Jerry e il suo Ubu può smascherare chi vuole farsi maestro
pesnanodo di farsi burattinaio da gan Guignol: non c'è burattino né burattinaio nella Scuola nel
Teatro, dove si fa festa lasciando che s'accenda il fuoco e ciascuno senta la propria vita farsi sotria.
Così in quella scuola e in quel teatro, natura, cultura, biologia e conoscenza, emergono nell'unità
stratiforme e multidimensionale dell'agire-comunicare-esistere; quell'agire che chiamiamo teatro
perchè incontra lo sguardo di un altro.
E così possiamo osservare il materiale audiovisivo e fotografico che del progetto Teatro Scuola
Vedere Fare è stato prodotto e archiviato. Le aule scolastiche esibiscono la loro trasgressiva
possibilità plastica e i corpi trasfigurati ne esplorano nuove traiettorie che dicono di molti
slittamenti e sconfinamenti tra le due scuola, oltre cui si può restare anche senza parole perchè il
Si può scrivere a un amico, dedicargli una poesia, come fa Alfredo Giuliani con Achille Perilli, e fare
che quei versi siano sempre contemporanei a chi li legge. Si può leggere una poesia perché si vuole
essere portati oltre le parole e le cose. Ci si può ricordare, grazie al poeta, che la lingua, la parola, il
segno, sono tutti parte di quell’armamentario che fa dell’uomo un poeta e del suo corpo lo spazio
danzante di un attore. Ma soprattutto si può leggere, e leggere ad alta voce, una poesia per
provare la voglia di scrivere, di passare dalla lettura alla scrittura, come dal vedere al fare, perché il
piacere del tracciare solchi per la semenza possa essere del contadino e pure di chi coltiva orticelli
dell’immaginario e si lancia con spirito d’avanguardia pure verso terreni incolti o non mappati e ne
produce buoni frutti. I frutti dell’albero della conoscenza, Maturana-Varela, non sono gli stessi da
cui Newton ha dedotto le leggi della gravitazione universale bensì ciò che puoi toccare con mano
per conoscere e produrre te stesso.
Nello slancio con cui nella primavera del 1987 Humberto Maturana e Francisco Varela invitavano sin
dalla prefazione i loro lettori, quelli dell’Albero della conoscenza, ad abbandonare le abitudinarie
certezze per pervenire ad un’altra visuale di quello che costituisce l’umano, in forza delle teorie
sviluppate da Humberto Maturana già dal 1969 con la sua Neurofisiologia della cognizione, s’avverte
tutta l’attuale forza di un paradigma che individua nella sensibilità e nella mobilità la condizione
dell’umano. Le implicazioni metodologiche di questo paradigma sono significative e possiamo
considerare le attuali indicazioni strategiche per l’utilizzo didattico delle attività teatrali una sintetica
torsione generata ed emergente proprio da quella prospettiva biologica al problema della
conoscenza. Perché albero e frutti, come maestro e allievo, dicono di una connessione necessaria: la
loro relazione è il focus di una Scuola che fa della pratica teatrale un habitus per coltivare-costruire
uno spazio di vita che Martin Buber avrebbe chiamato di dialogo.
Il dialogo tra maestro e allievo è anche uno degli obiettivi che attraversano il progetto Teatro
Scuola Vedere Fare. Un dialogo in cui la finzione fa da medium per la relazione che produce
comunicazione, apprendimento, opera. Alla relazione si partecipa, come alla co-costruzione della
conoscenza e alla produzione dello spettacolo-comunicazione finale.
La relazione e la sua qualità dialogica è anche la sostanza dell’agire scenico e di quello scolastico
che sposta l’attenzione dal maestro alla maestria e alla cura con cui fare le cose, e dagli obiettivi al
percorso utilizzato o tracciato per raggiungerli.
Nei quaderni, nei diari, tra gli appunti compare sempre qualcosa che sembra somigliare al
Manifesto surrealista e degno di sfidare l’imperativo della tecnica per aprire all’interrogativo
dell’Arte. Edgar Morin ci suggerisce la forza del movimento surrealista, considerando che “il
surrealismo era sin da principio qualcosa di più di un semplice movimento letterario, artistico o
politico: esso è stato un movimento fondato su una nozione totale e radicale dell’uomo.
Nella sua espressione più ricca, il surrealismo è un atteggiamento che fa proprio tutto ciò che sfugge
alla realtà, tutto ciò che esula dal reale quale ci appare nella normalità della nostra esistenza: il
surrealismo non fa che riconoscere la poca realtà del reale, formulare l’idea della realtà
dell’immaginario e tentare di collegare l’una all’altro perché si arricchiscano vicendevolmente.
La matrice poetica surrealista è individuata come parte di una genealogia della ricerca pedagogica
che fa dell’arte scenica, del Teatro, uno spazio privilegiato dove ciascuno può fare esperienza della
propria itineranza e del proprio concreto agire per riconquistare la propria dimensione scenica,
mondana e quindi politica, necessaria a ripensare l’uomo attraverso la sua relazione con un cosmo
di cui ne è anche autore. Chiamiamo Teatro dunque quello speciale spazio che incorpora la forza
della poesia e fa di ogni azione un gesto politico. Se dunque il Teatro, nella sua accezione poietica/
politica, si sovrappone o si integra alla Scuola e non si riduce ad un’ora dedicata al movimento e
alle emozioni, significa che si individua la forza rigeneratrice della sua perturbante materialità e si
fa del dispositivo-Teatro quella speciale Arte intesa nel senso pieno della Techné che fa scuola di
vita perché prepara alla imprevedibile vitalità dell’accadere e quindi ad andare in scena consape-
voli che non basta avere un programma o delle conoscenze ma prepararsi concretamente
all’impreparazione, alla dislocazione, al punto di vista differente e incorporarlo grazie alla pratica
del laboratorio che consente l’errore e ne fa parte della pratica stessa perché consente di andare
oltre la linea già tracciata e già conosciuta.
CAPITOLO 3: IN ACTION.
L'ATTIVISMO PEDAGOGICO PRENDE CORPO TRA VEDERE E FARE
Ogni scuola, fin dall’età classica, è nata sviluppando una propria metodologia che riguarda il
governo della macchina biologica in rapporto alle finalità che si immagina di dover raggiungere.
La metodologia, e quindi la filosofia del progetto Teatro Scuola Vedere Fare, è però quella di
consegnare al corpo-docente la consapevolezza e la responsabilità di costruire una propria scuola,
di poterne ridisegnare l’architettura a geometrie variabili e di poterne nutrire il senso alleandosi
con la fisica e la chimica di cui non si preordina il risultato ma che aiutano a rendere evidenti le
conseguenze sul piano formativo di attività che altrove sono confinate in una zona che sa ancora
troppo di mero intrattenimento o di esibizione.
La scuola può occupare anche il territorio-Teatro e ricondurlo alle sue esigenze didattiche, disciplinari,
disciplinate e disciplinanti, oppure il Teatro può far grande e viva la Scuola che sa di dover trovare in
sé e fuori di sé quei virus, quella peste per rigenerare il corpo sociale e la sua macchina desiderante.
L’energia vitale e virale del Teatro e di tutte le Arti che il Teatro tiene insieme si riconosce solo quando
ci si lascia attraversare da questa energia, quando se ne diventa il corpo incandescente capace di
unire la distanza del vedere alla prossimità del fare. E quando del vedere si coglie tutta la tensione
indagatoria del fare, e nel fare si disvela il ‘piano’ attraverso cui guardare e riflettere: perché la scuola
dei maestri di ermeneutica e di fenomenologica ci ha preparato a unire visibile e invisibile, dicono
Merleau e Ponty.
E il Teatro ne è stato lo spazio elettivo perché si dà teatro quando la forma-opera esposta si offre
come incompiuta e mai ferma e afferrata dallo sguardo di un altro che ne esplora le ulteriori e celate
rappresentazioni possibili. Il Teatro è corpo cavo. E quella cavità del Teatro si fa piena di vedere e fare:
il vedere dello spettatore che diventa fare; e il fare dell’attore che è frammenti di immagini in cui si
guarda e riflette. Tra attore e spettatore ci si scambia opere, immagini, pensieri, corpi, materie
composte e poi loro frammenti da ricombinare e comporre, in variazioni.
È esemplificativo che il nome del progetto, Teatro Scuola Vedere Fare, unisca il Vedere e il Fare al
Teatro-Scuola, come ne fossero una condizione. Difatti, attorno al vedere abbiamo giocato a fare la
modernità. Con Galileo Galilei si accoglie il suo metodo scientifico e quindi il vedere, l’osservare, il
misurare, e anche il sorvegliare e punire, come tecnologie della conoscenza e macchine educanti.
Ma presenta dei limiti rispetto agli eccessi del barocco e alla manifesta romantica totalità.
L’estetica del post-Moderno ci spinge oltre la Modernità senza rinunce né troppe specializzazioni per
riafferrare il turbamento patico del sentire e dare sostanza e corpo al pensiero che ne emerge, denso e
leggero. Il fare sembra risalire dai medioevali mestieri e poi dalle rinascimentali glorie umanistiche, per
riemergere nell’attuale ipersensibile post-umano understanding by design, dico Pfeifer e Bisig.
Vedere unito al Fare è osservatorio che si spinge in profondità, è riflessione. Osservatorio e spazio
riflessivo che il progetto Teatro Scuola Vedere Fare ha voluto rendere parte della sua metodologia
insieme a una forte impronta laboratoriale e sperimentale.
Teatro Scuola Vedere Fare è anche metadiscorso sul potere: sul potere del dispositivo educativo
quando questo diventa dogmatica esecuzione di un compito e di un dettato (ministeriale); sul
potere come esercizio di un dominio che ferisce come la freccia di un dardo che non sai da dove
arriva ma che ti sembra inevitabile; ma anche sul potere come sospensione dall’esecuzione del
dogma e dall’esercizio del dominio e quindi sul potere di fare dell’altro, di inverare l’inverosimile,
di spostare lo sguardo altrove, di muoversi tracciando altre linee e traiettorie di senso.
La Favola di Pinocchio ci ha insegnato tanto e così pratichiamo il potere di leggerne una morale
all’incontrario, perché Pinocchio, libero dal gran burattinaio Mangiafuoco del teatro delle
marionette, possa fare della strada la sua maestra senza che questa si vesta da fata turchina e se
ne aspetti prodigi immediati, perché la strada maestra è quella lontana dai luoghi comuni e per
raggiungerla hai da sottrarre e hai da faticare e muoverti e spostarti di continuo come nei fuggenti
chiari del bosco. Dice Zambrano: l’attraversamento dei chiari del bosco ricorda anche il modo in cui
si sono percorse le aule. Come i chiari, le aule sono spazi vuoti pronti a venirsi riempendo uno alla
volta, spazi della voce nei quali si apprenderà con l’udito, ossia in modo più immediato che dalla
parola scritta, alla quale bisogna per forza restituire accento e voce per sentire che ci viene diretta.
Attraversare i chiari del bosco richiede tempo perché il percorso non è già tracciato. Ciò che è
scritto può diventare suono e ridare vita alla parola depositata in una pagina che invece pareva
essere immutata e immutabile. Ma perché la scrittura riprenda vita c’è bisogno di chi la incarni e la
trasformi in una presenza che nel farsi suono e gesto, poi svanisce tracciando una circolarità tra
attori, azione scenica e pubblico che ne fa un unico corpo cavo e risonante che pratica l’ascolto e
allena ad un sentire totale la cui durata è un tempo che non cade come flusso ordinario da orologio
ma lascia accadere qualcosa. Il corpo cavo, che è il Teatro e che può essere la Scuola quando segue
una logica circolare, può aprire varchi inaspettati ed essere il vuoto necessario, quella pausa, che
consente di fare un salto ed arrivare altrove.
Il salto che ciascuno può realizzare ad un certo momento spinge in quello spazio-tempo che
chiamiamo formante quando segue l’ordine e la mappa del poeta.
Il salto avviene attraverso la carne di Ubu o della balena; ha necessità di una cosa solida, e di un
sentire che questa genera, per volersene allontanare, separare e liberare. La mimetica dell’arte
come esperienza è essa stessa arte, arte del vivere e dell’apprendere anche senza intenzione di
farlo ma con la piena cognizione di vivere e di esserci.
Così quel salto, da Omero in poi, si opera attraverso il tempo ed è un’operazione sul tempo.
Così per saltare nel progetto Teatro Scuola Vedere Fare e nella sua intenzionalità pedagogica è
necessario fare un patto che impegni tutti i partecipanti per un intero anno scolastico. Non sono
importanti le singole attività, il loro succedersi cadenzato, le differenti tipologie di risorse
mobilitate e la varietà delle metodologie, dei luoghi e degli strumenti utilizzati; è tutto il tempo che
unisce le singole parti, che si mescolano poi ad altri pezzi di mondi e di vita fuori dalla Scuola e
fuori dal Teatro, che è necessario a ciascuno per poter ricombinare e farne uno spazio-tempo altro:
la stanza che ognuno può far diventare una stanza tutta per sé.
Dewey afferma che la riva del mare, il bordo di una pagina, la soglia di una stanza di un museo, la
cornice che inquadra una tela, il fondo nero da cui si stacca la scena di un teatro, segnano la
possibilità di farsi creatori e di cogliere l’intima unione di fare e subire, che è alla base della
creazione artistica e della sua dimensione estetica.
Questa ricezione comporta attività che sono comparabili a quelle del creatore: essa è un processo che
consiste di una serie di atti di risposta che si accumulano nella direzione di un compimento oggettivo.
1.1 Partecipare
Il progetto Teatro Scuola Vedere Fare è un complesso oggetto-metafora con cui giocare all’arte di
progettare una Scuola viva e darle forma tessendo interazioni con il Teatro, perché questa
connessione possa cambiare profondamente la cognizione del fare Scuola e del fare Teatro, in
modo da attivare ognuno le molte risorse che il territorio potenzialmente offre e abitare/costruire
ciascuno il proprio festante spazio poietico per fare formazione, per fare comunità.
Teatro Scuola Vedere Fare è quella proposta concreta che ha la sua storia e le sue ragioni ma che
invita molti altri a proiettarsi, proprio come Winnie, in un altro giorno felice! e a sperimentare il
proprio modo di pensare-fare Scuola come Teatro e Teatro come Scuola. Così si potrà agire con altri
spazi, contesti, oggetti, Istituzioni, bandi, norme, indicazioni ministeriali, e usarli come se si fosse a
Teatro: mettendosi in-opera, provando a sottrarsi ai modellini prefabbricati, agli automatismi di
una meccanica da esperto, alle sorde autoreferenzialità e alle ‘applicazioni’ didascaliche.
Sottrarsi per aggiungere senso sempre attuale e contemporaneo al progetto che mobilita una
progettazione-in-situazione, progettazione per emergenza la chiamano i teorici della Nuova
Robotica Autonoma pensando ai sistemi intelligenti, sapendo che il segreto sta nella sua
dimensione sempre situata e plurale, nell’attivazione e nel coinvolgimento di molti e specifici
agenti con i loro codici, linguaggi, saperi, risorse, la cui interconnessione offre uno specifico e
singolare manifesto accadere. I risultati non sono garantiti, né corrispondono a quelli attesi.
Provare quindi a sintetizzare alcuni aspetti del progetto ha senso solo se li si considera nei termini
di una dinamica complessa dalla quale estraiamo parti di quella che è una metodologia, e non una
1.2 Tessere
Avviato prima della Legge di riforma della Scuola, cosiddetta Buona Scuola, il progetto Teatro
Scuola Vedere Fare è una realtà che ha coinvolto molti e differenti attori in gioco, ciascuno con
l’intento di rendere condivisibile le proprie esperienze in chiave di possibile innovazione sociale,
operando una cucitura tra le due culture: quella del vedere e quella del fare, quella del sentire e
quella dell’agire, la teoria con la pratica.
La dimensione artistica e creativa che attraversa tutto il progetto è anche metalinguaggio con cui
tutti gli attori coinvolti comunicano e partecipano estendendo e mutando ciascuno la propria scena.
La scelta del Teatro-Scuola risponde, pertanto, alla prospettiva di Dewey e alla sua Pedagogia,
tenuto conto che, afferma Dewey, l’impulso a oltrepassare tutti i limiti imposti dall’esterno è insito
nella natura stessa dell’opera dell’artista. Appartiene al carattere stesso della mente creativa di
protendersi verso qualsiasi materiale che lo solleciti e di afferrarlo così che il valore di quel
materiale possa essere spremuto fuori e diventare materia di una nuova esperienza.
Osservando i dati riferiti ai partecipanti al progetto Teatro Scuola Vedere Fare, nelle quattro
annualità fin’ora realizzate, si possono vedere i luoghi della città di Napoli coinvolti, e quindi il
Teatro dei Piccoli, le Scuole con i loro spazi, i Musei, i siti archeologici, i soggetti territoriali e poi le
altre città, gli altri Teatri, e comprendere che la progettualità e la metodologia di Teatro Scuola
Vedere Fare non pone limiti, non detta leggi su chi sta dentro e chi sta fuori.
Il coinvolgimento degli alunni disabili oppure dei genitori e familiari, per esempio, fa parte della
forza complessiva del progetto di collocarsi in pieno in un contesto e di attivarne tutte le risorse o
le connessioni possibili.
1.3 Comunicare
La progettualità di Teatro Scuola Vedere Fare ha una sottesa e costitutiva matrice pedagogica e
teatrale che considera ogni passaggio, ogni azione, ogni intenzione, come momento pubblico,
come messa in scena. Si lavora cioè per cercare e sperimentare le forme più adatte per presentarsi
e per coinvolgere gli altri, per contribuire a delineare ed attuare delle politiche attive che utilizzano
l’arte in chiave di fermento sociale e culturale.
L’ambizione del progetto è anche di realizzare e superare i propri obiettivi, costruendo una solida
comunità di organizzatori, operatori, attori, registi, educatori teatrali, esperti e studiosi, per
1.4 Riflettere
Il Vedere è unito al Fare come il soggetto all’oggetto: una solidarietà che genera una differente
consapevolezza nell’agire, nel fare, perché osservandosi nel fare o osservando gli altri fare si
occupa una posizione differente che aiuta a comprendere e comprendersi come realtà materiale e
fenomenica sottoposta ad un continua interrogazione.
Il Vedere a Teatro è come la bottega della conoscenza della conoscenza di Edgar Morin: è
dispositivo metacognitivo attraverso cui si diventa consapevoli del proprio punto di vista e
dell’azione esercitata da ciascuno verso l’oggetto della propria osservazione.
Il Vedere a Teatro, per l’insegnante come per l’alunno, può diventare pratica dialogica e aprire alle
1.5 Ricreare
Ripercorrendo tutto il materiale prodotto durante le attività e gli incontri formativi programmati in
questi quattro anni nella cornice del progetto Teatro Scuola Vedere Fare, possiamo individuare i
questionari, come oggetti che testimoniano qualcosa di quanto già accaduto e sono traccia
dell’esperienza vissuta dal gruppo degli insegnanti coinvolti. Si tratta di risposte a domande aperte,
frutto di brevi osservazioni, analisi e riflessioni, e poi anche testi e lettere prodotte in chiusura di
incontro o di percorso.
La qualità della presenza di ciascuno degli insegnanti viene messa sotto osservazione e il ruolo che
ciascuno sente di aver avuto nel progetto, espresso con una sola parola, lascia intravedere il
mondo del Teatro e della Scuola che ciascuno ha vissuto e immaginato.
C’è chi definisce il proprio ruolo con: insegnante, insegnante-capo, maestra, lasciando intendere
che il progetto ha rafforzato e centrato questa dimensione professionale che si incontra con quella
dell’e-ducere e quindi con la propria funzione formante.
Dello stesso tono ma più spinto su una funzione tecnica, si sono le parole: critico teatrale,
supporto, collaboratrice, co-animatrice, mediatrice, come a rendere più visibile le competenze
tecniche e a considerarne ora gli aspetti più legati ai contenuti e ora quelli riferiti alla relazione e al
lavoro di gruppo. In questo caso si avverte la fatica dell’organizzazione, dei tempi, dell’essere in
tanti, suggerendo una gestione extrascolastica come rimedio e formula possibile.
C’è poi chi si dice: apprendista, discepolo, a sottolineare la necessità di una maggiore presenza
dell’esperto insieme però ad una apertura al fare che rimette in gioco le proprie competenze e ne
estende la portata proprio alla sfera del fare (di cui sarebbe depositario l’esperto).
Ma c’è anche chi si definisce con: totale, protagonista, per sottolineare la gioia e il piacevole
impegno investiti in una partecipazione e in un coinvolgimento solidale che lascia intravedere
possibilità di ricerca e di crescita.
Più metaforiche poi le parole: ponte (tra esperti e bambini), maestralunna, cercatore d’oro, che lasciano
immaginare la voglia di continuare il percorso e la capacità di farsi consapevoli e autonomi nel dare forma
teatrale allo studio per riuscire a far uscire fuori dal guscio gli alunni e il loro senso di isolamento.
Spazio, corpo e relazione sono le parole-chiave individuate durante il percorso e nei momenti di
lavoro laboratoriale dedicati alla formazione degli insegnanti. Lo spazio è parola che assume uno
spessore particolare perché connesso esplicitamente alla consapevolezza e all’estraniamento.
Il rapporto con lo spazio fa emergere una dimensione attiva che ciascuno può mobilitare per
occupare tutti gli spazi e appropriarsi dello spazio; spazio che poi diventa anche spazio scenico e
luogo dove riflettere. Allo spazio si riconosce infatti il legame con la conoscenza del proprio corpo.
A partire dal corpo e dagli esercizi proposti, emerge un lavoro in profondità che nel tempo va oltre
l’espressione e diventa parte di un sentire che viene descritto come ascoltare il proprio corpo,
conoscere e riconoscere il proprio corpo, che può passare anche per un lavoro di coordinamento
che può diventare di cooperazione, nel quale qualcuno si chiede dove sono collocata e sembra fare
eco a chi sente di ascoltare il proprio corpo e poter immaginare scenari diversi e creare sincronia.
La plasticità del corpo lascia intravedere la possibilità di farsi modellare anche attraverso
l’improvvisazione e l’immaginazione. Entrare in contatto con se stessi e con gli altri disegna il
tracciato preciso delle sfere coinvolte. Infatti, alla dimensione spaziale e corporea si unisce quella
relazionale che emerge perché quello spazio da occupare sia anche quello dove creare relazioni,
lasciarsi andare, dare corpo alle emozioni, e anche dove avere fiducia negli altri. L’interazione con
l’altro è anche quell’aspetto del lavoro sul contatto fisico cui qualcuno avrebbe voluto dedicare
maggior tempo per poter tradurre le emozioni, condividendole armonicamente.
In Teatro Scuola Vedere Fare il focus è il vedere. Quel vedere particolare che a teatro è vedere insieme.
Un progetto quello di Teatro Scuola Vedere Fare che è arrivato ad integrare Vedere e Fare e ad
assumere la sua articolazione così complessa solo a Napoli, per la felice congiuntura generata dal
contemporaneo coinvolgimento di Casa dello Spettatore, di Morena Pauro con Le Nuvole, e di
Salvatore Guadagnuolo con AGITA. Quindi Napoli è l’unico posto dove questo si fa in maniera
organica da molto tempo. Il focus di Casa dello Spettatore sul Vedere risale ad una ricerca che
conduco da molto tempo e che a Napoli ha trovato questa coniugazione organica. Però, appunto,
ha una storia più lontana e un’origine più antica, a cui si da il nome di Didattica della visione.
Una delle premesse di questa storia personale è che come pedagogista e come educatore, dice
Giorgio Testa, è nato e cresciuto nel Movimento di Cooperazione Educativa che era un altro modo
di fare scuola rispetto all’universo tradizionale in cui l’architrave è chi fa lezione a un altro che
l’ascolta e che ha il compito di ripetere quello che ha ascoltato. L’interesse per il teatro è riemerso
in quel contesto perché portava con sé il tema del fare educazione in un altro modo.
Tale interesse si è unito ad una riflessione di tipo pedagogico in un momento storico in cui non
c’era ancora il piano ragazzi o altre politiche nazionali, ma già si coniugava teatro e educazione.
Quando si parla di educazione teatrale si intende riferirsi a esperienze educative capaci di cogliere
obiettivi di tipo cognitivo ed emozionale.
A partire dagli anni '80 l’animazione teatrale ha sconvolto il sistema educativo. Si è andata
costituendo una nuova figura di docente che potesse ricostruire la nuova scuola capace di
interagire con il corpo dei bambini e che potesse veramente cambiare il mondo.
1. da una tipologia complessa e curiosa per quanto riguarda autori, contenuti, tematiche e
sincretismo tra i linguaggi;
2. da una risposta a una vasta gamma di stili e cliché simbolico-espressivi, sia in funzione
conservativa che di rottura;
3. da un’esperienza più visibile del legame con la naturalezza del gioco e della teatralità.
4. da implicazioni cognitive, psicologiche, emotive, terapeutiche, esistenziali attivate
dall’esperienza teatrale.
All’insegnante e agli allievi si è chiesto di affrontare il teatro della scuola in un’ottica di formazione
sistemica e integrata: ciò significa operare trasformazioni e scelte. Mettere in rilievo le valenze di
questo tipo di operare richiede un convinto cambiamento d’atteggiamento, superare alcuni
stereotipi, preparazione adeguata e chiarezza degli obiettivi.
Si è cercato di far diventare il laboratorio un luogo di attività e di esercizio di ruoli tratti precisamente
dai campi che interessano gli adolescenti, e gli oggetti che solitamente vi compaiono rappresentano le
occupazioni, le abilità e le aspirazioni che legittimamente piacciono agli allievi e li motivano.
È interessante notare come il dialogo continui al di là dell’imposizione istituzionale; la ricerca
dell’altro prosegue ben oltre il momento dato e programmato: la curiosità, dote tipica degli
adolescenti, si esterna in mille modi e momenti d’incontro.
Su un percorso in fase di apprendimento con un gruppo misto, proveniente da varie storie si è
lavorato sull’immaginario collettivo conducendo gli utenti in un viaggio fantastico attraverso
l’azione del corpo in azione in uno spazio, in una relazione con sé e con l’altro. Lo spazio è il luogo
dove il corpo può essere vissuto e quindi comunicato. Gli utenti sono stati indirizzati a costruire il
proprio corpo narrante, e condotti in un viaggio fantastico attraverso uno spazio altro che è lo
specchio: lo specchio come visione diversa di un sé corporeo, locus ideale dove la dimensione può
trasformarsi ed essere tutto ciò che si vuole, anzi si può anche moltiplicarla e ridimensionarla.
Oggi il teatro plasma la scuola creativa, la scuola esce dai suoi schemi per trovare uno spazio
edenico dove realizza i propri sogni.
Nel ricostruire questi quattro anni di progetto Teatro Scuola Vedere Fare, e l’avvio del suo quinto
anno di attività, Morena Pauro in apertura della trentatreesima stagione del teatro per le nuove
generazioni curata da Le Nuvole ora Casa del Contemporaneo. È stata per venticinque anni a
Edenlandia in uno spazio che era stato la pista degli autoscontri, poi l’Edenlandia ha chiuso.
Cambiare tre teatri in due anni è stata una prova dura e difficile che ha rimesso molto in
discussione. Ricominciare: ma in che direzione andare? Alla ricerca di riferimenti, con tante
domande e poche risposte, ha incontrato alcuni insegnanti e operatori con cui aveva lavorato anni
prima. In questo contesto è nato il progetto che Teatro Scuola Vedere Fare, in cui il teatro è stato
da subito protagonista per smuovere all’ascolto e all’osservazione in profondità. L’idea su cui tutto
è stato costruito è l’integrazione tra teatro e scuola e tra vedere e fare in un continuo gioco di
rimandi e di vasi comunicanti. Il fare (il laboratorio teatrale a scuola in orario curriculare, curato da
AGITA e finalizzato ad una comunicazione finale a maggio) mutava anche il vedere perché subito il
pubblico delle scuole ha iniziato a considerare con più attenzione e rispetto il lavoro a cui erano
invitati come spettatori. Quando entrano a teatro i ragazzi spengono i telefoni cellulari e fanno
silenzio. Rispettano quello spazio e le sue regole.
Con fare imparano a rimescolare materiali ma anche a stare insieme a rispettare gli altri, a fare
gioco di squadra. È un progetto fatto dentro la classe e con tutta la classe, lavorando sulle
differenze e con le differenze. Tutto questo grazie ai docenti che scelgono di partecipare offrendo
lavoro straordinario e grande disponibilità, mettendosi in gioco e seguendo parallelamente fino a
90 ore di corsi di formazione.
Il progetto abbraccia l’intero anno scolastico e il fare si conclude a maggio con Maggio all’infanzia
Napoli la rassegna degli spettacoli fatti dai ragazzi. È il momento della comunicazione, ad altri
compagni e ai genitori, del lavoro svolto. È il loro momento, tocca a loro raccontarsi tra il grande
stupore generale. Ci sono altri che ti guardano, che si interessano a te. Questo è il teatro. Quando
tu hai qualcosa da raccontare e c’è qualcuno che con la sua presenza e la sua attenzione ti dice che
è interessato a quello che hai da dire.
In parallelo vi è la sezione vedere (almeno 3 spettacoli con la classe e molti altri la domenica con le
famiglie) che coinvolge direttamente il cartellone teatrale. Il progetto ha previsto da subito l’apporto
di Casa dello spettatore con Didattica della Visione, un corso di aggiornamento rivolto al docente in
qualità di spettatore e in qualità di educatore che sceglie e accompagna gli alunni a teatro. Conoscere
meglio le potenzialità del teatro come strumento culturale ha creato molta curiosità reciproca e
grande interesse in un approfondimento. Presto alcuni docenti sono partiti a Bari per partecipare al
festival Maggio all’infanzia che si svolge sull’altra sponda dell’Italia ed è curato da Teatri di Bari. Si
tratta di una rassegna di spettacoli inediti proposti da compagnie professioniste e che si rivolge ad un
ampio pubblico di operatori del settore che visionano in anteprima tutte le novità da portare poi nel
proprio teatro. Con l’arrivo dei docenti il festival è stato integrato da incontri di formazione che si
alternavano alla visione degli spettacoli e il percorso è stato denominato Esplorazioni. Gruppo di
visione in festival. Docenti e operatori teatrali si sono ritrovati insieme e ne è nata una nuova
collaborazione, un ulteriore arricchimento e uno scambio prezioso.
Nella stagione teatrale al Teatro dei Piccoli di Napoli trovano sempre più posto spettacoli che portano
in scena tematiche vicine al vissuto quotidiano dei giovani spettatori con rielaborazioni e adattamenti
di testi classici o di nuova drammaturgia. È possibile trovare una fiaba a cui non si chiede di rispondere
alle attese tradizionali ma usata per raccontare dell’invidia, dell’abbandono, della perdita, per parlare
del rapporto genitori-figli, di questioni molto sentite e non sempre affrontate.
In questo il teatro per ragazzi è fantastico perché i destinatari sono aperti e disponibili ad ogni
variazione sul tema, ad ogni argomento, ad ogni sperimentazione.