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CAPITOLO 1: IL RETROTERRA EMPIRISTA

Quando si tratta di un “giudizio di valore” non è possibile che sia un “giudizio di fatto”.
I giudizi di valore sono soggettivi. Fra fatto e valore c’è una dicotomia e per capirla bisogna esplorarne un’altra:
quella fra analitico/sintetico.
● Analitico è un termine tecnico della filosofia ed è considerato come il nome della classe di verità che sono
“tautologie”, oppure vere in virtù del loro significato. Una verità analitica è: “tutti gli scapoli sono non sposati”. I
positivisti logici sostengono che la matematica è formata da verità analitiche.
● Sintentico era un termine usato da Kant per le verità non analitiche. Egli sosteneva che le verità matematiche
sono sia sintetiche che necessarie (a priori).
Gli avversari positivisti di Kant vogliono espandere la nozione di “analitico” a tutta la matematica (che per loro era
una materia legata alle nostre convenzioni linguistiche, opposte ai fatti). Per i positivisti entrambe le distinzioni
(fatto/valore e analitico/sintetico) opponevano ai fatti qualcos’altro:
La prima (fatto/valore) i fatti ai valori
La seconda (analitico/sintetico) I fatti alle tautologie (o verità analitiche).
A partire dalla critica di Quine nel 1951 alla dicotomia analitico/sintetico, essa è venuta meno.

Una distinzione non è una dicotomia: l’analitico e il sintetico


In questo libro, Putnam, difende il punto di vista di Dewey, per quanto riguarda la relazione fra fatti e valori.
Dewey parla di un “dualismo” tra fatto e valore. La dicotomia analitico/sintetico ci fa vedere l’importanza della
differenziazione tra un “dualismo filosofico” e una “distinzione filosofica”.
I positivisti distinguono:
1. giudizi sintetici (verificabili e falsificabili empiricamente);
2. giudizi analitici (veri o falsi in base alle regole logiche);
3. giudizi cognitivamente insignificanti (modi di influenzarci reciprocamente, eincludono giudizi etici,
metafisici ed estetici).
Se un giudizio non può essere così classificato è ambiguo.

Kant si è chiesto: “le verità della matematica sono analitiche o sintetiche?”


Ha scoperto che sono sia sintetici sia a priori.
- Per gli empiristi è un sacrilegio.
- Per i positivisti invece sono necessari (come per Kant), ma non sintetici. Quindi sono analitici estendendo la
nozione di analiticità fino all’eccesso.
Bisogna considerare la possibilità che i principi della matematica siano differenti dagli esempi di verità analitiche
(tutti gli scapoli sono non sposati) e anche delle verità descrittive (i pettirossi hanno le penne).
Questo porta ad una differenza tra distinzione ordinaria e dicotomia metafisica:
le distinzioni ordinarie non si applicano sempre.
I positivisti pensano:
la questione analitico/sintetico ha senso applicata non solo alla matematica ma ad ogni affermazione della fisica teorica.
Quine li ha criticati:
il fatto che un enunciato venga adoperato come una convenzione non vuol dire che dopo non sia sottoposto al
tribunale della sperimentazione, come tutti gli enunciati della teoria.
Poi, Quine, si è spinto troppo oltre:
non ha senso, per lui, distinguere una verità analitica dalle verità soggette a test osservativi.
Per altri e per Putnam, Quine ha ragione a dire che molte affermazioni non possono essere classificate in nessuno
dei due modi; ma ce ne sono altre che vanno classificate nell’uno o nell’altro modo.
Quine poi ha dato ragione a Putnam.
Poi c’è un’altra tesi sulla dicotomia analitico/sintetico:
Fino a quando si ritiene che essa sia obbligatoria, si pensa che entrambi i suoi termini siano generi naturali, che
corrispondono ciascuno ad una categoria i cui membri hanno proprietà essenziale comune.
La tesi di Putnam:
Non si tratta di negare la distinzione, la distinzione esiste ed è significativa ma non segna, a differenza di quel che
pensavano i positivisti logici, lo spartiacque fra giudizi significativi ( i giudizi scientifici) e giudizi privi di
significato cognitivo (gli enunciati dell'etica, dell'estetica e della metafisica).

La storia della dicotomia fatto/valore


E’ parallela a quella della dicotomia analitico/sintetico e viene anticipata da Hume nella dottrina secondo cui
non si può derivare un “deve” da un “è”. Le ragioni date da Hume non sono molto sostenibili. Nessuno l’ha mai
presa come una tesi relativa alla validità di certe forme di inferenza.
Hume assumeva una dicotomia metafisica tra “questioni di fatto” e “relazioni di idee” (Anticipazione di quella a/s):
Quando un giudizio sull’ “è” descrive una questione di fatto, nessun giudizio sul “deve” ne può essere derivato.

Per Hume I concetti sono un tipo di idea e le idee sono “pittoriche”: si può rappresentare una questione di fatto
solo “rassomigliando” ad essa (in modo visivo, tattile,olfattivo ecc.).
Ma le idee hanno proprietà anche “non pittoriche” (associate a sentimenti,emozioni).
Inoltre, per Hume, non ci sono questioni di fatto relative al giusto e alla virtù.

A partire dalla cosiddetta "Legge di Hume":


Un giudizio su ciò che "è" riguarda una questione di fatto.
Da esso non può essere derivato un giudizio sul "deve", ossia un giudizio di valore.
Questa tesi si fonda su una "semantica pittorialista":
le idee sono copie o raffigurazioni di fatti, ma le idee di "giusto" o "buono" o "virtuoso" non sono raffigurazioni di
fatti., quindi i giudizi di valore non riguardano questioni di fatto.
Anche Kant, ma in modo diverso da Hume, distingue l'etica, il piano del "deve" dal piano dell' "è".
Kant, a differenza di Hume non fonda la morale sul sentimento o sulle emozioni (con ciò Hume aveva escluso
l'etica da una giustificazione razionale, una tesi apprezzata dai positivisti logici)
ma su regole o leggi a priori della ragione, o "imperativi categorici", indipendenti dalle questioni di fatto.
I positivisti tornano a Hume: i giudizi etici non possono essere giustificati razionalmente, essendo basati su
sentimenti o emozioni, quindi sono privi di significato cognitivo, sono semplicemente privi di senso.
La tesi di Putnam:
Sgonfiare la dicotomia fatto/valore, c'è una distinzione ovviamente, ma essa non ha la rilevanza epistemologica
che i positivisti le attribuiscono fondando su di essa la distinzione fra giudizi dotati di significato e giudizi privi di
senso, fra scienza e pseudoscienza
Il lato "fatto" della dicotomia
La separazione di Hume fra etica e conoscenza non lo spinge ad annullare il valore dell'etica. Molti lo hanno
frainteso pensando che egli sostiene che il “bene” sia essere approvati dalle persone imparziali e informate. Egli è
d’accordo che approverebbero una cosa buona, ma non dice che questo è il contenuto dell’idea di bene, E ci fa
l’esempio del delitto di ingratitudine che non è un fatto particolare dell’individuo ma nasce dalle circostanze che
eccitano il sentimento di biasimo, in base alla struttura della mente.
La "saggezza" etica si fonda sui sentimenti di approvazione e di disapprovazione di persone imparziali che
giudicano il comportamento morale dei loro simili. Questi sentimenti sono ciò che costituisce il collante della
convivenza sociale e politica.
Per i positivisti gli enunciati etici per essere conoscenza, devono essere o analitici o fattuali. Ma non sono nè l’uno
nè l’altro.
Per Carnap, e per tutti i positivisti logici, è la nozione di fatto "a fare tutto il lavoro...". Ciò significa che i
positivisti logici privano di ogni significato i giudizi che non sono né analitici né riguardanti i fatti. Tuttavia la
nozione di fatto è molto cambiata dai tempi di Hume, i positivisti hanno rivisto la loro nozione di “fatto” e quindi
hanno distrutto la base della dicotomia fatto/valore.
Per Hume e per i positivisti il fatto era qualcosa di cui si può dare un’impressione sensibile.
Per la scienza del Novecento,invece, i fatti non sono più rilevati da esperienze sensibili, ( si inizia a parlare dei
batteri, della particelle degli atomi, della curvatura spazio-temporale e della legge di gravità che impressiona i
positivisti logici che non possono continuare a sostenere che un fatto è solo un’impressione sensibile).
Essi sono dunque costretti a rivedere il significato di "termine osservativo" e di "empiricamente verificabile".
Carnap, tuttavia, resistette al criterio della verificabilità conclusiva, liberalizzò leggermente il requisito secondo cui
i predicati fattuali devono essere definiti tramite termini osservativi. Ma rimase sempre vero che:
● un’affermazione per essere cognitivamente significante deve essere esprimibile col linguaggio della scienza;
● i predicati della parte fattuale devono essere “termini osservativi” o ad essi riconducibili.
Continuò a distinguere i “termini osservativi” dai “termini teorici” (batterio, elettrone ecc.).
Questi ultimi non venivano ammessi nel linguaggio della scienza, erano solo dispositivi per derivare gli enunciati
osservativi (che esprimono fatti empirici).
La povertà della concezione del linguaggio dei positivisti logici.
Carnap liquidò l’etica normativa come “nonsenso”.I positivisti logici distinguono termini descrittivi e termini
normativi o di valore (questi ultimi privi di senso) e fra termini osservativi (che Carnap dovevano solo fare
riferimento a qualità come ad esempio blu, caldo, largo ecc.) e termini teorici.
La crudeltà ad esempio non è un termine osservativo e neppure un termine teorico perchè non è il nome di una
proprietà fisica ed esprime un nonsenso. (Ci fa l’esempio di uno storico che definisce un imperatore romano
“crudele”, per introdurre la crudeltà).
Il linguaggio della fisica è l'unico linguaggio dotato di significato per i positivisti logici.
Anche nell'ambito della scienza cognitiva odierna si afferma lo stesso riduzionismo fisicalista:
le descrizioni psicologiche fanno riferimento a stati cerebrali, stati neurologici, cioè fisici, o i cosiddetti stati
computazionali, ma predicati come "crudele" dimostrano che la distinzione fra termini descrittivi e termini
valutativi non regge.
Fatti e valori sono strettamente intrecciati.
Non possiamo affermare che tutte le persone nervose o felici hanno un determinato stato cerebrale e gli altri ne
hanno un altro. Forzare tutti i termini descrittivi che usiamo quotidianamente verso una parte o l’altra della
dicotomia è una forzatura.

CAPITOLO 2: L’INTRECCIO DI FATTI E VALORI


Putnam riassume i punti trattati precedentemente e poi spiega che anche "i valori epistemici" sono valori:
in base a questi valori formuliamo descrizioni corrette del mondo a cui non possiamo accedere se non attraverso
queste stesse descrizioni.
Poiché noi non possiamo giungere alla "verità" indipendentemente dai nostri valori epistemici, qualsiasi procedura
di giustificazione sulla correttezza delle nostre credenze è viziata di una circolarità ineliminabile (è impossibile
avere una giustificazione esterna alla nostre credenze: significherebbe pretendere di conoscere la realtà
indipendentemente da come la conosciamo).
Tuttavia, afferma Putnam, tale circolarità è accettata dalla maggior parte dei filosofi odierni.
Dire che i valori epistemici sono valori non vuol dire che non ci sono differenze tra valori epistemici ed etici.
Ad esempio la giustizia e la compassione sono entrambe essenziali ma diverse.
Una corretta descrizione del mondo, a molti sembra corrispondere con l’oggettività. Ma si tratta di un errore.
La nozione di "oggettività", intesa come "corrispondenza agli oggetti" entra di conseguenza in crisi:
non solo non corrispondono ad oggetti gli enunciati di valore, "verità normative", come "l'assassinio è ingiusto"
poiché non vi è alcune fatto che corrisponda a tali enunciati.
Vale lo stesso anche le verità logiche e matematiche per le quali noi creiamo degli “oggetti speciali” (le cosiddette
entità astratte).. Sono tutti esempi di "una oggettività priva di oggetti".
Dobbiamo smetterla di far corrisponde “oggettività” con “descrizione”. Ci sono affermazioni che non sono
descrizioni, ma sono lo stesso soggette ad un controllo razionale: corretto, scorretto, vero, falso, giustificato, privo
di giustificazione ecc.
Quindi la tesi di Putnam è che:
1) non è necessario postulare entità metafisiche (come oggetti astratti, enti di pensiero ecc.) per giustificare
l'oggettività della logica, della matematica o dell'etica;
2) il linguaggio non ha solo la funzione di descrivere il mondo.
Concetti etici spessi
I positivisti pensavano che ciò che loro chiamavano “linguaggio della scienza” equivalesse alla totalità del
linguaggio “cognitivamente significante”.
Contro il positivismo Putnam obietta che termini come "cognitivamente significante" oppure "nonsenso", utilizzati
dai positivisti, non rientrano tuttavia in nessun genere dei termini filosofici da loro ammessi: non sono termini
osservativi, né termini teorici, né termini logico-matematici, eppure il linguaggio della scienza avrebbe dovuto
contenere solo questo genere di termini.
Rilevata questa incongruenza nella prospettiva positivista, Putnam sostiene dunque che il linguaggio nel suo
insieme contiene termini che sono sempre un intreccio di fatti e valori di ogni tipo, epistemici, etici, estetici,
persino al livello dei predicati individuali.
Esempio di crudele: naturalmente si tratta di un termine normativo e quindi tale da essere contenuto in un giudizio
etico, (quando ad esempio dico che “l’insegnante di mio figlio è crudele” lo sto criticando sia come insegnante che
come uomo). Tuttavia alcune volte può essere usato in senso puramente descrittivo, per esempio in un giudizio
storico (quando uno storico dice che il comportamento di certo sovrano fu eccezionalmente crudele).
Termini come "crudele" o "crimine" sono da considerare "concetti etici spessi", in essi è distinguibile un uso
descrittivo da un uso normativo, ma il significato descrittivo non è totalmente separabile dal significato normativo,
quindi con questi due termini viene ignorata la dicotomia fatto/valore perchè possono essere entrambe le cose.

Poiché i concetti etici spessi sono numerosissimi (generoso, elegante, abile, forte, maldestro, debole, volgare ecc.) ,
molti neopositivisti non hanno seguito la strada inaugurata da Hume, assegnando un significato meramente
emotivo, eliminandoli dal linguaggio della scienza e hanno provato a dare due soluzioni, comunque insoddisfacenti:
1) Ridurre i concetti etici spessi a meri concetti fattuali (gli esempi "scortese" e "crudele" dimostrano che ciò non è possibile)
Hare ci fa l’esempio di due ragazzi in classe: uno sputa a l’altro e questi gli dà un pugno.
L’insegnante commenta che il pugno è stato un gesto scortese, e il ragazzo che ha sputato, alla fine, ammette che
anche lo sputo lo è stato. Ma in questo esempio Hare non ammette che scortese possa avere un certo valore che poi
però viene superato da qualcos’altro. Perchè il pugno è scortese, ma in questo caso è giusto perchè il ragazzo se lo è
meritato. Quando invece Hare parla del termine “scortese” dice che questa azione è “motivante” per sua essenza.
Esistono quindi proprietà che sono in sè negative e termini morali che sono sia descrittivi, sia prescrittivi.

2) Scindere la componente descrittiva dalla componente "prescrittiva", altrettanto impossibile: qual è il "fatto
naturale" corrispondente a "crudele"? sarebbe procurare dolore in quanto il dolore è un fenomeno fisico?
spiegazione insoddisfacente: prima della scoperta dell'anestesia medici procuravano dolore, ma non per questo
erano crudeli. Oppure si immagini una persona che corrompe un giovane per non fargli mai sviluppare un
determinato talento. Il giovane non prova mai dolore fisico, ma il comportamento della persona è crudele.

Per comprendere un termine come "crudele" occorre identificarsi con un punto di vista valutativo, ossia occorre
poter condividere o non condividere determinate valutazioni.
Per esempio se dico: "è crudele fare sperimentazione scientifica sugli animali", questo enunciato non descrive
alcun fatto, esprime una valutazione che può essere compresa solo da chi condivide l'applicazione del termine
"crudele" alle condizioni di vita degli animali.
Per Mackie termini come “crudele”o “crimine” sono solo parole che descrivono fatti naturali.

Tentativi postpositivistici di recuperare la nozione humiana di fatto che oggi (come si è spiegato nel capitolo precedente) non è
più ciò che corrisponde a impressioni sensoriali.
Bernard Williams è un filosofo morale contemporaneo che ha cercato di mantenere una concezione fisicalista
della realtà (l'unica descrizione legittima della realtà è quella offerta dal linguaggio della fisica). : Il mondo com’è in realtà può essere
descritto, indipendentemente da qualsiasi osservatore, solo in termini scientifici.
Distingue una concezione "assoluta" della realtà (quindi indipendente da ogni soggetto) e una concezione vista da
una o da un'altra prospettiva. Tale distinzione sostituisce, ma è analoga alla dicotomia fatto/valore e prende il nome
di relativismo, in quanto ogni descrizione della realtà, non essendo assoluta (tale assolutezza può essere assunta
solo come meta ideale finale raggiungibile quando la scienza sarà giunta al suo termine), dipende sempre da "una
prospettiva locale".
Perché veniamo attratti dalla dicotomia fatto/valore?
La risposta di Putnam è che i positivisti e i filosofi come Williams non riescono a comprendere una nozione di
oggettività che non si fondi un qualche criterio assoluto. Non si può spiegare in termini assoluti come sia possibile
la conoscenza. Secondo Putnam (che accoglie l'insegnamento di Dewey) invece l'oggettività, intesa come
spiegazione razionale, si raggiunge attraverso un dibattito pubblico, democratico, fondato sulla tesi della fallibilità
della scienza e, in generale, dell’azione umana.

CAPITOLO 3: FATTI E VALORI NEL MONDO DI AMARTYA SEN


Amartya Sen ha ricevuto il premio Nobel per l'economia nel 1998 per aver rivoluzionato la scienza economica
basata sull'analisi meramente quantitativa del concetto di utilità economica e su idee astratte di uguaglianza e libertà.
Secondo Sen lo sviluppo non può essere identificato semplicemente con l'aumento del reddito pro capite o con il
progresso tecnologico. I livelli di reddito della popolazione sono importanti, perché ogni livello coincide con una
certa possibilità di acquistare beni e servizi e di godere del tenore di vita corrispondente; ma analfabetismo,
malattie, mancanza di libertà civili e politiche, limitano pesantemente la libertà di azione delle persone.
La valutazione dello sviluppo non può, pertanto, essere separata da quelle delle possibilità di vita e di libertà di cui
godono effettivamente le persone. L’impoverimento dell’economia è collegato al suo allontanarsi dall’etica.
Questa prospettiva demolisce quindi quella separazione tra economia ed etica che aveva caratterizzato il
presupposto principale dell' "economia del benessere" (un'ulteriore versione della dicotomia fatto/valore esaminata
da Putnam) che, secondo Sen, procedeva da un'errata interpretazione delle teoria di A. Smith e D. Ricardo, che
avevano dato origine all'economia classica. Pur distinguendo il campo dell'economia da quello dell'etica i due
economisti classici non ritenevano comunque che una società potesse funzionare senza tener conto del benessere di
tutti gli individui. Quindi non si tratta di abbandonare l’economia classica, ma di reintrodurre qualcosa che era
presente ovunque nelle opere di Smith, e che è stato travisato.
Walsh, colloca Sen, nella “seconda fase della teoria classica” perchè vuole introdurre preoccupazioni e concetti etici
nell’economia, senza sacrificare gli strumenti rigorosi che contribuirono alla teoria rigorosa della prima fase.
Etica ed economia
Si deve essere egoisti per essere razionali?
Sen propone "il criterio delle capacitazioni" in alternativa al criterio della massimizzazione dell'interesse personale
(utilitarismo). La sua tesi è che le motivazioni degli attori economici siano svariate e non riducibili all'unico fattore
dell'interesse personale. Quale sarebbe questo interesse e come misurarlo? Semplicisticamente, sulla base di una
teoria sensista, tale interesse è stato individuato nel concetto di "piacere" e di conseguenza, la felicità risulta essere
la somma o massimizzazione dei piaceri.
Ma per Sen è sbagliata l’idea che solo i valori che massimizzano l’interesse personale sono razionali.
L’idea che le persone agiscono solo in base all’interesse personale è stata difesa dalla psicologia edonista di
Bentham (il padre dell’utilitarismo) che diceva che tutti desiderano un quantitativo psicologico soggettivo (il
piacere) e che tale quantità è soggettiva.
Ma come osservava Dewey, il piacere puro è un mito, qualsiasi piacere è qualitativamente unico e non paragonabile
con altri (es. il piacere del cibo, diverso dal piacere dell'ascolto della musica ecc) Non si può pertanto quantificare.
Per Dewey la felicità è un aggregato di stati di sensazione che differiscono tra loro per intensità e durata.
Le loro differenze qualitative non sono intrinseche, ma sono dovute ai differenti oggetti a cui si associano (come
per l’udito o per la vista). Quindi tale differenza scompare quando il piacere viene preso come fine in se stesso.
Quindi il piacere è qualitativamente unico, essendo l’armonia fra un insieme di condizioni.
Il piacere del cibo è una cosa, il piacere del sentir musica è un altro, e così via.
Dewey con queste considerazioni anticipa un punto di vista che anche R. Nozick, molto più tardi (secondo
Novecento) espliciterà con il suo esperimento mentale della "macchina dell'esperienza" . La macchina che simula
tutte le sensazioni o esperienze di un uomo non può simulare l'esperienza di "essere un uomo".
Nella vita, infatti, ciò che vogliamo non sono mere sensazioni,ma vogliamo la realizzazione oggettiva di desideri,
capacità e progetti. Per noi è importante “ciò che siamo”.

Utilità e benessere sociale


Durante la Grande Depressione ci fu un grande cambiamento. Alcuni economisti iniziarono a parlare di “utilità”
che poteva essere misurata. Furono tracciate delle curve di utilità, che mostrava come essa aumentasse con
l’aumentare di una certa merce. Parlarono di Legge dell’utilità marginale decrescente. In seguito a questa legge, nel
1920 si iniziò a parlare di redistribuzione delle ricchezze. Un’ utilità marginale di mille dollari, per un senzatetto, è
sicuramente maggiore, rispetto all’utilità che quella stessa cifra ha per Bill Gates. Quindi l’utilità totale della
popolazione verrebbe accresciuta sottraendo mille dollari a Bill Gates e dandoli ad un senzatetto.
Il criterio di utilità, divenuto centrale nell'economia del benessere, fu supportato attraverso la tesi della
ridistribuzione del reddito dalle classi più ricche a quelle meno abbienti attraverso il sistema della tassazione dei
redditi. Sen critica questa prospettiva perché essa si basa su un un calcolo meramente astratto e semplicistico del
benessere individuale in quanto esso viene collegato semplicemente alla disponibilità di una certa quantità di
denaro.
Si tratta invece di "valutare i pesi" cioè stabilire che cosa (oltre al denaro) e quanto può essere necessario per
realizzare il benessere degli individui. La risposta a tale questione può avvenire solo attraverso "una valutazione
ragionata", frutto di una scelta sociale e democratica, non attraverso un calcolo quantitativo astratto e generale.
Se quindi l'economia del benessere vuol fare posto, non alla legge del libero mercato e dell'interesse individuale,
ma al problema della povertà e della qualità della vita delle persone, allora entra in gioco il “criterio delle
capacitazioni”.

Il criterio delle capacitazioni


Per "capacitazioni" Sen intende la capacità di acquisire "funzionamenti" (dai più semplici, come procurarsi cibo, salute,
ecc., ai più complessi, come rispetto di se stessi, capacità di partecipare alla vita della comunità) a cui la persona attribuisce valore.
Solo sulla base della realizzazione di tali funzionamenti si possono formulare giudizi di uguaglianza e di
disuguaglianza.
(Il termine capacitazioni era stato anticipato da Walsh col termine acquisizioni, sempre con lo spunto da Aristotele).
In tal modo Sen lega l'economia all'etica e alla teoria classica della felicità, (piena realizzazione della persona)
(risalente al filosofo greco Aristotele).
In particolare per quel che riguarda il problema dello sviluppo economico dei paesi poveri, Sen dimostra con analisi
statistiche come il concetto di benessere non debba essere valutato semplicemente in relazione al reddito
economico degli individui o all'aumento della produzione economica di un paese.
Queste sono misure vaghe che devono essere poste in relazione con le condizioni di vita specifiche delle
popolazioni prese in considerazione. Segue l'esempio dei dati statistici relativi alla maggiore sopravvivenza degli
uomini del Kerala e della Cina rispetto agli afro-americani che hanno un reddito superiore.
Inoltre le donne afro-americane hanno una sopravvivenza analoga alle donne cinesi, molto più povere, e persino
inferiore alle donne indiane, ancora più povere.
L'esempio dimostra che non c'è stretta correlazione tra reddito e sopravvivenza.
Contesta anche la nozione utilitaristisca di desiderio: individui fortemente deprivati non concepiscono neanche
desideri analoghi a quelli di individui che vivono in condizioni di relativo o di totale benessere.
Nella prospettiva di Sen la libertà consiste dunque nella possibilità di realizzare o meno le capacitazioni, ma è
ovvio che non esiste un criterio generale per stabilire come gli individui attribuiscono valore alle capacitazioni.
Pertanto è naturale che all'interno di una società di possa produrre un dissenso sulle valutazioni, ma tale dissenso
non è un ostacolo per Sen, bensì qualcosa che può essere affrontato attraverso una discussione pubblica e una
comprensione e accettazione democratica. Il risultato non è una classificazione definitiva delle capacitazioni, ma un
ordinamento sempre parziale e approssimativo, pertanto modificabile all'insegna di una concezione della "vita
buona" (che risale all'etica aristotelica) e che non può che risultare dalla connessione fra economia, etica e politica.
Conclusione: ancora sull'intreccio fatto/valore
Prendendo come punto di riferimento Dewey e la sua critica a ogni forma di dualismo, Putnam riepiloga gli errori
della dicotomia fatto/valore, da Hume ai positivisti logici, alla luce della nozione di "capacitazioni", che sono
"funzionamenti" (componente fisico-fattuale) dotati di valori, quindi un ulteriore esempio, che nasce dentro
l'economia, di intreccio fatti/valori.

PARTE 2: RAZIONALITA’ E VALORE


CAPITOLO 4: GLI INIZI PRESCRITTIVI DI SEN

Nel 1967, Sen pubblica un saggio che ha come punto di partenza la posizione non cognitivista di Hare.
Il positivista logico R.M. Hare ha formulato una teoria etica denominata "prescrittivismo universale”, in base alla
quale che i giudizi etici siano universalizzabili è una verità logica, cioè analitica (quindi sempre vera).

Ciò significa che se "l'omicidio è ingiusto" è un giudizio etico, io devo necessariamente concordare sul fatto che è
ingiusto per chiunque commettere omicidio (ecco perchè la chiama “universale”). E la chiama “prescrittivismo”
perchè la componente di valore di un giudizio etico, viene espressa in maniera appropriata nel modo imperativo.
Un giudizio di valore, puramente prescrittivo (privo di qualsiasi componente descrittiva) comunica solo una
condivisione di un imperativo sottostante.
Così Sen commenta: per esempio, se dico "la pena capitale dovrebbe essere abolita" ciò comporta la mia
condivisione dell'imperativo "aboliamo la pena capitale".
Ma la connessione tra i due giudizi non è affatto così stretta come vedremo.
Inoltre Sen, accettando inizialmente la distinzione che Hare opera tra una componente prescrittiva e una
componente descrittiva dei termini di valore, distingue tra:
Giudizi prescrittivi (contenenti solo termini prescrittivi)
Giudizi valutativi (contenenti termini che hanno sia un significato prescrittivo sia un significato descrittivo).
Un "giudizio valutativo" comporta, oltre alla mia condivisione di un imperativo anche un contenuto descrittivo.
Per esempio, il giudizio "la pena capitale è barbara" potrebbe comportare non semplicemente la mia adesione
all'imperativo di prima ("aboliamo la pena capitale"), ma la mia intenzione di comunicare che la pena capitale
possiede delle caratteristiche che possono essere associate alla nozione di barbarie

I giudizi di valore implicano imperativi? In che senso o giudizi di calore implicano imperativi?
Anzitutto Putnam analizza il concetto di implicazione logica. : relazione fra enunciati, veri o falsi.
In base alla regola dell'implicazione , se p implica q, allora se p è vero, anche q è vero.
Ma i giudizi etici non sono né veri né falsi, quindi l'implicazione non può essere spiegata in questo modo.
Sen risolve il problema nel modo seguente:
L'enunciato "la pena capitale dovrebbe essere abolita" implica l'enunciato " aboliamo la pena capitale".
Chi acconsente al primo enunciato non può non acconsentire al secondo enunciato, se lo ha compreso e intende
veramente dire quel che già affermato nel primo enunciato. Hare sosteneva qualcosa di simile, ossia che i giudizi di
valore implicano imperativi perché a suo avviso i termini di valore sono "motivazionali", nel senso che chi
comprende il contenuto semantico di un termine che rappresenta un valore o disvalore intrinseco (per es. "valoroso"
o "crudele"), se parla sinceramente è disposto ad approvare o disapprovare quel contenuto.
Ma questa spiegazione è stata giustamente criticata, e Putnam d'accordo con tale critica:;
Apatia, debolezza, disperazione, distrazione, le persone possono non essere motivate a tale approvazione o
disapprovazione. Analoga critica si può fare con il ragionamento "prescrittivista" riportato da Sen.
Una persona può assentire al giudizio "la pena capitale dovrebbe essere abolita" senza che ciò implichi la sua reale
intenzione di impegnarsi a sostenere un atteggiamento che possa essere connesso con un enunciato del tipo
"aboliamo la pena capitale". Anche in questo caso per molte ragioni diverse: o perché il secondo enunciato ha un
senso diverso se pronunciato da un cittadino qualunque o da un politico, o per le ragioni sopra,apatia, indifferenza..
Ciò non priva tuttavia di significato o di sincerità il primo enunciato "la pena capitale dovrebbe essere abolita".
Posso asserire il primo ma non sentirmi obbligata a fare direttamente qualcosa per abolire la pena capitale.
Dunque secondo Putnam, il requisito motivazionale, in cui consiste il nucleo teorico del prescrittivismo, è
irragionevole ed egli ritiene che per questa ragione lo stesso Sen abbia superato il prescrittivismo.

Termini con significato valutativo secondario


Putnam afferma che Sen, sulla scia di Hare, sostiene che i "termini valutativi secondari" talvolta vengono usati in
un senso puramente descrittivo, altre volte vengono adoperati in modo da comunicare una descrizione e
contemporaneamente esprimere una prescrizione. Esempi:
● Barbaro: ha certe caratteristiche di solito associate alla nozione di “barbarie”;
● Giusto: (quando utilizzato in maniera descrittiva) adeguato ai criteri di comportamento corretto, accettato;
● Esigente: può essere definito nei termini di certi criteri convenzionali, ad esempio una “ragazza esigente” è una
che ci mette di più a cedere alle tentazioni di un certo tipo.
Putnam non condivide la distinzione tra descrittivo e prescrittivo, che in un primo momento Sen ammette, in quanto
il significato "descrittivo" di un termine è inteso come la nozione comunemente, associata a quel termine.
Ciò comporta un errore enorme da un punto di vista linguistico, ma sarebbe anche incongruente con la teoria delle
capacitazioni di Sen. Dal punto di vista linguistico, dire che il termine coraggioso è spiegato dalle caratteristiche
che comunemente le persone attribuiscono al comportamento coraggioso, smentirebbe la nota affermazione di
Socrate (nel Protagora ) secondo cui le persone comunemente confondono il coraggio con l'avventatezza (ossia il
valore di qualcosa non è determinato da quel che ritengono i più, un aspetto che diventerà chiaro nella parte
conclusiva del testo). Inoltre nello stesso termine "barbaro" non può essere distinta una componente descrittiva e
una componente valutativa, a differenza di quanto pretendevano i positivisti logici. Se la distinzione fosse possibile
basterebbe notare che il concetto di barbarie comunemente (per esempio storicamente,) viene associato con altri
aspetti (per.esempio popoli nomadi, invasori ecc.) per sostenere che non è vero che la "pena capitale è barbara".
Questo e altri esempi dimostrano, secondo Putnam, l'intreccio di fatti e valori: ossia un termine può essere usato in
un senso puramente descrittivo (ossia senza l'intenzione di approvare o disapprovare, senza sentirmi impegnato in
un imperativo ad esso connesso), ma si tratta comunque di un termine valutativo, ossia di un termine il cui
significato può essere stabilito solo da un giudizio etico e non da un confronto con i fatti né da ciò che
comunemente pensano le persone.
Le ragioni nella discussione etica
Nonostante Sen abbia provato ad accettare la tesi prescrittivista di Hare, il suo punto di vista non è certamente in
linea con l' "emotivismo" del positivista A.J. Ayer, che considerando i giudizi etici come semplici espressioni di
emozioni, relegava l'etica nel campo della psicologia. Neanche con la tesi positivista di L. Robbins, secondo cui
l'economia riguarda fatti che possono essere verificati, invece l'etica riguarda valutazioni e obblighi (non
verificabili, quindi privi di significato).
Il primo passo con cui Sen si allontana da Hare lo porta ad affermare che non tutti i giudizi prescrittivi comportano
imperativi. Tali giudizi Sen li definisce "non costrittivi".
Per es. "la pena capitale dovrebbe essere abolita" non comporta l'imperativo "aboliamo la pena capitale", ma non
per questo non è un giudizio di valore. Analogamente anche i giudizi di preferenza ("questo è più gradevole di
quello") non implicano l'imperativo "scegliamolo".
Dunque Sen non approva la tesi di Hare, secondo cui ogni giudizio di valore non è che un modo di approvare un
imperativo particolare.
Sen definisce invece un'altra categoria di giudizi di valore che denomina "giudizi fondamentali": sono quelli che
una persona non è disposta a modificare nonostante possano essere riesaminate e corrette le "assunzioni fattuali" a
cui cui tali giudizi possono riferirsi. Se invece la persona è disposta a modificare il suo giudizio, allora esso non era
fondamentale.
Precisazione: "non fondamentale" non è equivalente a "non costrittivo" (la non costrittività ha a che fare con la
relazione -non necessaria- fra il giudizio e e l'imperativo ad esso associato) la "non fondamentalità" ha a che fare
invece com il modo in cui è concepito il giudizio in se stesso.
Es. 1) "Una crescita del reddito nazionale misurato sulla scorta dei prezzi base annuali rivela una situazione
economica migliore".
Se la persona che sostiene questo giudizio è disposta a rivederlo, una volta che le sia fatto notare che possono che in
tale situazione si verifica anche che i ricchi divengono più ricchi e i poveri più poveri, allora il giudizio non era per
fondamentale, altrimenti no.
Es. 2) L'uccisione di un essere umano non è giustificabile.
Questo giudizio potrebbe essere fondamentale per chi ritiene che non vi siano situazioni fattuali che renderebbero
giustificabile l'uccisione di un essere umano.
Sen sostiene che in nessun sistema di valori tutti i giudizi sono fondamentali, ossia tali che non vi è alcun metodo
fattuale per mettere il giudizio in discussione. Se così non fosse ognuno potrebbe affermare di poter formulare un
giudizio morale indipendentemente dalla considerazione di qualsiasi fatto (con ovvie conseguenze di totale
intolleranza morale).
Sen non è tuttavia esplicito (a differenza di Dewey) nell'affermare che in nessun sistema esistono valori
fondamentali, però implicitamente esprime tale convinzione in quanto sostiene che non esiste nessun metodo per
verificare, per qualsiasi giudizio di valore, se si tratti di un giudizio fondamentale o no. Sen conclude perciò: è
interessante notare che alcuni giudizi sono dimostrativamente non fondamentali, al contrario non si può mostrare
che alcun valore sia fondamentale.
Con ciò Sen colpisce la dicotomia fatto/valore sostenendo una tesi opposta a quella dei positivisti. I fatti non sono
estranei ai giudizi di valore, anzi tutt'altro. Affermare l'irrilevanza dei fatti significa invece chiudere i propri giudizi
in una forma di assolutismo incontrollabile (che è la conseguenza insidiosa della dicotomia fatto7valore sostenuta
dai positivisti)
Cap 6. I valori vengono prodotti o scoperti?
Thomas Hobbes è il primo filosofo che introduce l''idea che i valori giuridici (che sono dello stesso ordine dei
valori morali) sono istituiti dagli uomini quando si associano per fondare una società. Nella concezione assolutistica
dello stato hobbesiano è il sovrano a stabilirei valori.
Una visione deweyana della valutazione
Seguendo Dewey, Putnam afferma che noi produciamo modi di trattare situazioni problematiche e stabiliamo quali
sono o i migliori e i peggiori. Questa concezione viene talora definita strumentalismo, ma tale "strumentalismo" va
ben compreso riconducendolo alla concezione generale che Dewey avanza sulla ricerca come attività fondamentale
degli esseri umani. Tale ricerca comporta un riesame incessante sia dei mezzi sia dei fini, che non sono stabiliti una
volta e per tutte, né chiaramente immagazzinati sotto forma di preferenze razionali (più o meno computabili).
Qualsiasi ricerca ha sia presupposti fattuali, quali la ricerca dei mezzi più adeguati per la realizzazione di
determinati fini, sia presupposti di valore, che a loro volta possono essere riesaminati alla luce di considerazioni
fattuali.
Quindi la concezione di Dewey non è "strumentalismo" nel senso banale del termine, ossia la ricerca dei mezzi più
idonei per raggiungere determinati (ossia preesistenti) fini. E' invece una ricerca molto più ampia che riguarda la
valutazione di ciò che è bene per la convivenza umana. In quanto ricerca comporta sperimentazione, discussione,
apertura.
La teoria di Dewey, non correttamente interpretata si presta a due generi di obiezioni: obiezioni rortyane e obiezioni
riduzioniste.
Rorty e Dewey
Rorty è stato uno dei maggiori filosofi del secondo Novecento che si è ispirato a Dewey. In particolare per il tema
in questione, la dicotomia fatto/valore, Rorty approva il rifiuto della dicotomia da parte di Dewey, ma non tiene
conto che tale rifiuto non comporta, come abbiamo visto, il disconoscimento dell'importanza delle questioni di fatto
per la ricerca dei fini (valori) da realizzare, tutt'altro. Tale "realismo oggettivo" viene considerato da Rorty un
residuo metafisico inaccettabile della concezione di Dewey. Infatti la nozione di "realtà oggettiva", ossia di
un'ipotetica corrispondenza fra la nostra rappresentazione della realtà e la realtà, è incomprensibile e ingiustificata.
Rorty sostituisce tale nozione con quella di "solidarietà", che si fonda sulla condivisione degli standard della nostra
cultura (per Rorty si tratta della cultura democratica, progressista, liberale ed europea, presupposto anche questo
ingiustificato naturalmente, come gli è stato obiettato da più parti.)
Putnam è d'accordo on Rorty nel rifiuto (tipicamente pragmatistico) del confronto tra pensieri e credenze e "le cose
come sono in se stesse", in quanto non abbiamo un accesso alle cose come sono in se tesse o ai "fatti" come
propriamente sono. Ma ciò non lo induce ad abbandonare la nozione di "oggettività".
Putnam fa due esempi significativi riguardo ai limiti della nostra mente, che tuttavia non comportano dubbi
sull'esistenza di ciò che è al di là di tali limiti. 1) Non posso sapere ciò che accadrà dopo la mia morte, ma non
dubito che ci saranno eventi futuri sui quali addirittura posso persino pensare di avere influenza ( facendo
un'assicurazione sulla vita); 2) non posso uscire dalla mia mente e penetrare nella mente altrui per conoscere a che
cosa esattamente corrispondano le esperienze dei miei amici (nelle loro menti) e tuttavia ciò non mi impedisce di
intendermi con loro su tali esperienze e su altro ancora.
Queste considerazioni sono sufficienti per supportare la comune nozione di "oggettività", secondo cui i nostri
pensieri e credenze si riferiscono a cose del mondo (presupposto necessario affinché la nozione stessa di
"solidarietà" possa avere un senso osserva pure Putnam), fatta slava la critica di Rorty a una metafisica
corrispondenza della realtà oggettiva alla realtà delle cose in se stesse.
Quest'ultima critica non comporta infatti lo scetticismo fondato sul rifiuto di Rorty della comune nozione di
"rappresentazione". E' ovvio che il linguaggio non rappresenta una realtà esterna al linguaggio stesso: sarebbe come
dire che il linguaggio rappresenta ciò che è al di fuori delle sue stesse possibilità di rappresentazione. Il linguaggio
è anzi la capacità di rappresentare le cose nel senso comune del termine "rappresentare", ossia è la capacità di
"riferirsi a" le cose del mondo.
Alcune obiezioni riduzioniste alla teoria del valore di Dewey
Per "obiezioni riduzioniste" Putnam intende una prospettiva che va al di là della concezione di Dewey: si tratta
della tesi, che abbiamo fin qui esaminato sotto diversi aspetti, e che ora viene ripresa nella cornice più ampia della
scienza odierna, secondo cui la dicotomia fatto/valore sia un presupposto strettamente connesso con il moderno
ragionamento scientifico.
Due tipi di argomentazioni: epistemologiche e ontologiche o metafisiche
L'argomento epistemologico più tradizionale: come possono esserci fatti valutativi? non abbiamo organi di senso
per percepire tali "fatti", possiamo percepire colori, ma non valori. L'argomento è debole perché si fonda su un
presupposto epistemologico ingenuo, risalente all'empirismo classico (Locke, Hume): solo gli organi di senso
forniscono conoscenze certe. Ma la filosofia più matura (Kant) e la psicologia odierna hanno dimostrato che non
esistono sensazioni pure, persino le sensazioni più semplici, per es. una sensazione di giallo, presuppongono
concetti, in questo caso il concetto di colore.Non si potrebbe altrimenti distinguere, per es. la sensazione del
"giallo" di una rosa dall'odore, dalla forma, ecc. dell'oggetto con cui essa è fusa. Inoltre sono percepibili anche
emozioni come l'euforia di una persona, anche se non ci sono organi di senso specificamente dedicati a tale
funzione.
A questo punto Putnam chiarisce le ragioni del suo pragmatismo: 1) i giudizi in generale, in particolare anche quelli
di percezione possono essere sbagliati, ma non ha senso cercare un punto di partenza assolutamente certo per
l'impresa scientifica o conoscitiva. Citando uno dei due fondatori del pragmatismo americano, Charles, S. Peirce,
Putnam afferma, contro l'immagine tradizionale della solidità della scienza, che quest'ultima poggia su un terreno
molle, ma è questo che la tiene in movimento; 2) l'esperienza non è neutrale, quindi non possiamo distinguere
sensazioni pure che forniscono il materiale su cui opera l'intelletto o la ragione e, separatamente da questi materiali,
valori che vengono misteriosamente colti da un'ulteriore facoltà , la volontà.
i pragmatisti hanno perciò dimostrato che l'esperienza non è neutrale, che essa è carica di valori, fin dalle sue forme
più elementari: nell'infanzia facciamo esperienza per es. del cibo come un "bene" e della fame come un "male".
L'esperienza diventa progressivamente più complessa e l'intreccio fatti/valori diventa anch'esso più complesso e sosisticato (es. la
percezione del gusto di un vino associata ad immagini visive, a termini di valore ecc.)
C'è un ulteriore aspetto importante messo in luce da Dewey: la differenza fra l'esser riitenuto di valore, (questione di fatto
esperenziale) e l'esser dotato di valore: quest'ultimo è il risultato di una critica. Dunque i valori non sono oggetti percepibili
attraverso i nostri organi di senso, ma il risultato della critica delle nostre valutazioni. Tali valutazioni sono sempre all'opera in tutte
le attività, comprese quelle scientifiche.
Si tratta allora di stabilire quali valutazioni sono valide e quali no (che cosa, per es. rende una rappresentazione pittorica di un
paesaggio un'opera d'arte rispetto ad un'altra che non ha questo valore?)
Tramite quali criteri decidiamo quali valutazioni sono giustificate e quali no?
1) a differenza di quanto sostenevano i positivisti non esiste un punto di partenza neutrale di "fatti" su cui vengano innestati i valori.
Il terreno in cui ci muoviamo è già costituito da un insieme di descrizioni e di valutazioni che non vengono messe in discussione
dall'indagine in corso. La scienza inizia in medias res (in mezzo alle cose), come sostenevano i primi pragmatisti.
2) Non c'è un criterio unico né una disciplina specifica per stabilire che cosa possiamo dire di conoscere in modo giustificato
("asseribilità garantita"). Pertanto la filosofia non è la disciplina privilegiata che dà accesso alla "verità" o al "bene"; non è una sorta
di rivelazione, è solo la capacità di esercitare l'intelligenza nella critica.
3) con quai criteri si esercita tale critica? non con criteri metodologici specifici, ma con un metodo molto generale
che comprende al suo interno i criteri particolari (ed è il solo che può garantirli). Si tratta della democratizzazione
della ricerca, quindi sperimentazione, accompagnata da libera discussione e da apertura nei confronti delle
obiezioni ecc.
Anche questo può diventare un vangelo e una forma di dogmatismo, ossia un altro tipo di fondamentalismo?
Risposta: basta guardare che cosa accade con i fondamentalismi che sono all'opera nel mondo contemporaneo per
trarre adeguate conclusioni.
Stesse considerazioni per quel che riguarda il campo dell'etica, anzi alla luce della non definitività delle valutazioni
scientiifiche la non definitività delle valutazioni etiche non preoccupa circa la loro mancanza di "oggettività" o di
significato.
Verità e asseribilità garantita
Si tratta di un'ultima questione metafisica.
Per "asseribilità garantita" (nozione complementare a quella di "fallibilità") intendiamo la tesi per cui, dal momento
che non siamo mai in condizione di iniziare ex nihilo, né in etica, né in nessun altro ambito, siamo sempre in grado
di scoprire che una soluzione proposta è superiore ad un'altra (fallibilità), ma ciò ci autorizza al tempo stesso a
ritenere valide le soluzioni accettate fino a prova contraria.
Qual è la relazione fra asseribilità garantita e verità?
Verità potrebbe significare asseribilità garantita in condizioni ideali?
Nell'ultima fase del suo pensiero Putnam non fornisce più questa risposta (che era tipicamente in linea con il
pragmatismo di Peirce), perché la nozione stessa di condizioni ideali è insoddisfacente se è intesa estendersi a tutte le possibili
verità. Noi facciamo parecchie asserzioni per le quali non potranno mai darsi le condizioni ideali e che tuttavia possono essere vere
o di cui non posiamo escludere la verità.
Per es. può essere vero che non ci sono in nessun luogo extraterresti, anche se non possiamo verificarlo.
La nozioni di "condizioni ideali" ha dunque un uso molto più limitato, esclusivamente empirico, com per es.
quando dico "in questa stanza ci sono sedie", questo enunciato risulta vero se ci sono le condizioni che rendono
possibile la percepibilità delle sedie.
Sul versante del razionalismo, che supera lo scetticismo attraverso il ragionamento puramente mentale (di cui la
versione dei "cervelli in una vasca", dello stesso Putnam, è la versione odierna del demone cartesiano), Putnam
afferma che la mente non può ricavare da se stessa la dimostrazione dell'esistenza delle cose reali.
E' una falsa impostazione del problema: già il sollevare la questione del riferimento alle cose comporta una interazione con le
cose stesse che ci informa in qualche modo della loro realtà e ciò dimostra che la verità non è assolutamente indipendente dal modo
attraverso cui la verifichiamo, ossia la verità è un concetto intrinsecamente epistemico (cioò nasce dentro la conoscenza stessa, che
pertanto accettiamo già implicitamente come vera).
Tuttavia per dare senso alla nozione comune di verità o oggettività, sia nella scienza sia nell'etica, secondo Putnam
non c'è bisogno di ricorrere ad argomenti di natura così tecnica. E' sufficiente il realismo comune, che non è, come
il platonismo, basato sull'idea che le nostre credenze o pensieri fondino la loro verità o oggettività sulla presunta
corrispondenza con un mondo di realtà in sé, ma semplicemente sulla considerazione che comunemente ci
intendiamo, condividiamo esperienze, e questo è ciò che intendiamo per "oggettivitità".
Riassumendo
Il pragmatismo americano è questo insieme di antiscetticismo e di fallibilismo.
Tutto l'insieme delle considerazioni fatte sin qui si può riassumere nella affermazione finale di questo
paragrafo: Non ci sono verità che trascendono il loro riconoscimento, ossia la verità o oggettività delle nostre
tesi, asserzioni, giudizi, sia in campo scientifico ed etico sia in qualsiasi altro ambito dell' attività umana si fonda
sui nostri stessi strumenti di conoscenza e di valutazione che ci portano a valutare tali tesi o giudizi come veri o
oggettivi.
Quindi la valutazione è parte integrante del concetto stesso di verità o oggettività, così come oggettività e verità
sono parte integrante del processo di valutazione (dal momento che non tutte le valutazioni sono vere o oggettive).

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