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PROF.

SSA NICOLETTA SARTI

GUIDA AL CORSO DI

STORIA DEL DIRITTO MODERNO E CONTEMPORANEO

AA. 2017-2018

PARTE SPECIALE

1
LE DUE VITE DEL DIVIETO DEGLI ATTI EMULATIVI TRA DIRITTO
COMUNE E DIRITTO CIVILE VIGENTE

Codice Civile (1942)

Libro III, tit. II “Della proprietà”, capo I “Disposizioni generali”

- art. 832 (Contenuto del diritto): Il proprietario ha il diritto di

godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e

con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico.

- art. 833 (Atti d’emulazione): Il proprietario non può fare atti i

quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare

molestia ad altri.

- art. 844 (Immissioni): Il proprietario di un fondo non può impedire

le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli

scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se

non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla

condizione del luogo.

- QUESTA NORMA È IL PORTATO DELLE PROBLEMATICHE INNESCATE

DALLA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE, CHE IN ITALIA DIVENNE

FENOMENO SENSIBILE DAGLI ANNI OTTANTA DEL XIX SECOLO. SI

AVVIA PERTANTO UNA MODIFICAZIONE NELLA CONCEZIONE DELLA

2
PROPRIETÀ LA QUALE, NONOSTANTE L’AFFERMAZIONE DI PRINCIPIO

CONSOLIDATA NELL’ART. 832, COMINCIA A SUBIRE DELLE LIMITAZIONI

ALLA SUA ASSOLUTEZZA IN RAGIONE DEL SUPERIORE INTERESSE

DELL’ECONOMIA NAZIONALE. PRINCIPIO CHE SI IMPONE COME UNA

NOVITÀ RISPETTO AL PORTATO ROMANISTICO, CHE SANCIVA IL

DIVIETO ASSOLUTO DI IMMISSIONI.

Costituzione della Repubblica italiana (1948)

- art. 2: La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili

dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la

sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di

solidarietà politica, economica e sociale.

- art. 42, 2° comma: La proprietà privata è riconosciuta e garantita

dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti

allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile

a tutti.

Commissione Reale per la riforma dei codici – Sottocommissione per il

Codice Civile – Codice Civile – Secondo libro – Cose e diritti reali –

Progetto, Roma 1937, tit. “Della proprietà”, capo “Della proprietà

fondiaria”

3
IL PROGETTO INIZIALE DELLA NUOVA CODIFICAZIONE PREVEDEVA IL

DISCIPLINAMENTO DELLA PROPRIETÀ NEL LIBRO SECONDO, DOPO “PERSONE

E FAMIGLIA”. SOLO UN RITARDO NELL’APPRONTAMENTO E

NELL’APPROVAZIONE DEI PROGETTI PROVOCÒ IL SUO SLITTAMENTO AL

LIBRO TERZO, DOPO LE “SUCCESSIONI”. VA RICORDATO CHE FINO AL 1939

L’ARCHITETTURA DEL CODICE CONTEMPLAVA SOLI QUATTRO LIBRI, AI

QUALI SI AGGIUNSERO IN TEMPI RAPIDISSIMI “DELL’IMPRESA E DEL

LAVORO” E “DELLA TUTELA DEI DIRITTI”. L’AMPLIAMENTO SI GIUSTIFICÒ

CON LA DECISIONE DI ACCORPARE IN TOTO LA MATERIA COMMERCIALE ALLA

CIVILE – C. D. “COMMERCIALIZZAZIONE DEL DIRITTO CIVILE”.

- art. 18: La proprietà è il diritto di godere e di disporre della cosa in

modo esclusivo, in conformità della funzione sociale del diritto

stesso. Il proprietario deve, inoltre, osservare i limiti imposti dalle

leggi e dai regolamenti e i diritti spettanti ai terzi sulla medesima

cosa.

- art. 25: La proprietà del suolo importa quella di tutto ciò che è

piantato o costruito sul suolo. Il proprietario può fare sopra il suolo

qualsiasi costruzione, piantagione od altra opera nei limiti consentiti

dalle leggi e dai regolamenti, salvi sempre i diritti spettanti ad altri.

Egli però non può fare od imprendere opera alcuna, che rechi

pregiudizio ad altri senza utilità propria.

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Si veda la relazione del civilista e romanista Roberto De Ruggero -

autore di uno dei più fortunati manuali di Istituzioni di diritto privato

del primo trentennio del XX secolo – al citato Progetto del Libro

Secondo del cod. civ. “Cose e diritti reali ”: «Ma più importante e nuova

è un’altra limitazione imposta al capoverso dell’articolo in esame (art.

25), quella per cui il proprietario non può fare od imprendere opera
alcuna che rechi molestia ad altri senza alcuna utilità propria. E’ il

divieto dell’abuso del diritto introdotto espressamente nel codice in

rapporto al diritto di proprietà e che trova riscontro nel progetto del

libro delle “Obbligazioni e contratti” in cui all’art. 74, si dispone che

“è tenuto al risarcimento colui che ha cagionato danno ad altri

eccedendo, nell’esercizio del proprio diritto i limiti posti dalla

buona fede o dallo scopo per il quale il diritto gli fu riconosciuto”».

Dato assai significativo appare il particolare accento che il De


Ruggero pone sulla “novità” del principio contenuto nell’articolo in

esame. Una “novità” che non può essere letta che in termini di
“discontinuità” rispetto alla tradizione di Diritto Comune, privilegiando
gli elementi oggettivi del comportamento sanzionato – mancanza di
utilità propria – rispetto a quelli soggettivi e psicologici – la prova
dell’animus nocendi -, che avevano caratterizzato l’istituto tra
medioevo ed età moderna.

Commissione Reale per la riforma dei codici – Commission francaise

d’études de l’union législative entre les nations alliées et amies.

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Progetto di codice delle obbligazioni e dei contratti ( testo definitivo

approvato a Parigi nell’ottobre 1927), ed. bilingue Roma, 1928

- art. 74: Qualunque fatto colposo che cagioni danno ad altri obbliga

colui che l’ha commesso a risarcire il danno. È ugualmente tenuto al

risarcimento colui che ha cagionato danno ad altri eccedendo,

nell’esercizio del proprio diritto, i limiti posti dalla buona fede o

dallo scopo per il quale il diritto gli fu riconosciuto.

Tale articolo era stato recepito ad litteram dal Progetto del libro IV

“Delle obbligazioni” del redigendo Codice Civile italiano (CHE DATI I

TEMPI RISTRETTISSIMI DEL SUO APPRONTAMENTO – 1939-’41 – AVEVA

AMPIAMENTE ATTINTO DA QUESTI MATERIALI GIÀ ELABORATI ) e trovava


un aggancio sostanziale nell’art. 7 del Progetto del libro I – “Principi

generali dell’ordinamento giuridico”: Nessuno può esercitare il


proprio diritto in contrasto con lo scopo per cui il diritto medesimo

gli è stato riconosciuto.

Relazione del Ministro Guardasigilli [Dino Grandi] al Codice Civile…,

Roma 1942, n. 408: «L’art. 833 pone il divieto degli atti emulativi.

Tale divieto afferma un principio di solidarietà tra privati e nel

tempo stesso pone una regola conforme all’interesse della


collettività nella utilizzazione dei beni. Quanto alla nozione
dell’atto vietato ho creduto opportuno, per evitare eccessi

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pericolosi nell’applicazione delle norme, esigere espressamente il

concorso dell’animus nocendi».

Una formula, questa adottata dal nostro legislatore, che – ben al di là

del tenore letterale – rievoca l’elaborazione giurisprudenziale

sull’aemulatio propria del Diritto Comune e riflette l’ambiguità insita

nel disegno di ricodificazione, contenendo una spinta alla valutazione,

in termini obiettivi, dell’interesse del proprietario, controbilanciata da

un forte richiamo all’elemento soggettivo, che riconduce il divieto –

attenuandone di molto la valenza di principio di solidarietà tra privati,

nonché di regola conforme all’interesse della collettività nella

utilizzazione dei beni – nella sfera dell’illecito caratterizzato dal

dolo specifico. Conseguenze inevitabili e quasi fisiologiche di questi

contraddittori assetti sono state, per un verso, la limitatissima

portata, nel nostro ordinamento civilistico, della norma in oggetto –

circoscritta a fattispecie di intenzionalità maligna assolutamente

marginali rispetto ai più corposi temi del fondamento di poteri del

proprietario e dei conflitti interproprietari – e la sua progressiva

disapplicazione o, come è stato scritto, “cancellazione” ad opera di

una giurisprudenza assolutamente costante.

A soli quattro anni dall’entrata in vigore del Codice Civile, si coglievano

nelle pagine di un autorevole commentatore come Francesco De

Martino forti perplessità (Comm. Scialoja Branca, libro terzo (artt.

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810-956), Roma 1946): «Dal lato soggettivo, occorre che l’esercizio
del diritto sia compiuto unicamente allo scopo di offendere il vicino:

non sarebbe quindi sufficiente che l’intenzione maligna sia

determinante, se insieme ad essa vi è uno scopo lecito. Né si potrebbe

invocare che l’animus nocendi prevalga sullo scopo lecito, per essere

l’utilità poco rilevante o insignificante. L’esistenza di una qualsiasi

utilità esclude l’abuso, anche nei casi in cui l’utilità è di gran lunga

minore della molestia o del danno che si procura al vicino…Non è poi da

escludere recisamente la possibilità che la prova dell’animus nocendi

sia insita nella stessa attività antisociale, quando possa ritenersi

sicuro che nessun altro movente, né una semplice imprudenza o

leggerezza, abbia spinto il proprietario all’azione. Ma di regola

occorrerà desumere questa intenzione da altri elementi di prova,

estranei al fatto; in caso contrario basterebbe il più delle volte la

dimostrazione del carattere obiettivamente dannoso dell’azione per

affermare lo scopo emulativo, il che, oltre ad essere pericoloso,

andrebbe contro la chiara volontà delle leggi. L’onere di provare

l’animus nocendi incombe sull’attore, a norma dei principi, epperò non

basta la prova dell’attitudine dell’azione a produrre danno o molestia».

Fuori d’Italia:

8
Allgemeines Landrecht fur die Koniglichen Preussischen Staaten

(1794)

I, 8, § 27: Niuno può abusare della sua proprietà per offendere o

danneggiare altri.

I, 8, § 28: Dicesi abuso un uso tale della proprietà, che per sua

natura può solo avere per intenzione l’offesa di un altro (trad.

italiana: F. FILOMUSI GUELFI, Diritti reali. Esposizione pel corso

1901-1902, Roma 1902, pp. 219-220).


Il “Landrecht” prussiano costituisce un riordino sistematico del diritto
territoriale–ius proprium della Prussia e si inserisce nel filone delle
consolidazioni di fine Settecento.

Codice Civile Generale del Principato del Montenegro (trad. italiana

sulla nuova modificata edizione originale di A. MARTECCHINI,

Spalato 1900 (ma entrato in vigore nel 1888).

Parte II, sez. V “Dei rapporti di vicinato. Norme finali sui rapporti di

vicinato”.

- art. 141: È regola generale: i vicini, già per ciò che sono vicini, per il

miglior godimento dei propri beni, devono, quanto è possibile,

esercitare il proprio diritto di proprietà in modo da non

molestarsi, né danneggiarsi reciprocamente.

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Parte CI, sez. II “Aggiunte concernenti principalmente la proprietà e

le altre specie di diritti reali”.

- art. 850: I rapporti di vicinato…e i diritti che dai medesimi in

singoli casi vengono conferiti ai vicini, derivano dai reciproci contatti

e bisogni che il solo vicinato crea fra vicini. Per ciò, la legge venendo

incontro ai loro interessi, con riguardo all’ordine, all’utilità, e al pieno

godimento dei loro beni, ordina, che in certe circostanze il vicino

tolleri qualche cosa a vantaggio del vicino, in un’altra si limiti,

ceda alcunché della totalità dei propri diritti, ciò che, senza

questi contatti vicinali non dovrebbe essere.

OPERA D’AUTORE, IL GIURISTA ED ERUDITO STUDIOSO DELLE

CONSUETUDINI DEGLI SLAVI DEL SUD BALDASSARRE BOGISIC, IL CODICE

CIVILE DEL MONTENEGRO VENNE PROMULGATO IL 23 MARZO 1888 DAL

PRINCIPE NIKOLA A CATINJE ED ENTRÒ IN VIGORE IL PRIMO LUGLIO DELLO

STESSO ANNO. I SUOI CONTENUTI, ORIGINALI IN SPECIE NEGLI AMBITI

DEL DIRITTO DELLE PERSONE E DELLE SUCCESSIONI, SI RIVELANO UNA

FELICE MEDIAZIONE – NON LONTANA IN QUESTO DALLE FONTI DEL

“LANDRECHT” PRUSSIANO – FRA RISALENTISSIME CONSUETUDINI SLAVE ED

I NUOVI PRINCIPI DEL DIRITTO COMUNE EUROPEO, CREANDO UN ORIGINALE

INCONTRO FRA CULTURA GIURIDICA OCCIDENTALE E CONSUETUDINI DEGLI

SLAVI DELL’OCCIDENTE EUROPEO.

Codice Civile del Cantone di Zurigo (1888)

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§ 189: L’uso lecito del proprio fondo o della propria casa, che

spiacevolmente operi sugli occhi, orecchi o naso del vicino, non

autorizza a protestare. Solo se l’uso è fatto fuori misura, o doloso

può invocarsi la difesa della polizia, ed, in caso di necessità, quella

giudiziaria (trad. italiana: F. FILOMUSI GUELFI, Diritti reali, cit., p.

220).

B. G. B. (1900)

Il § 226 (Schikaneverbot), dispone che l’esercizio del proprio diritto

sia inammissibile quando non abbia scopo diverso da quello di

nuocere ad altri.

Il § 826 obbliga al risarcimento chi abbia arrecato danno

attraverso un comportamento contrario alla morale.

IL B.G.B. È, SOSTANZIALMENTE, UN PRODOTTO DEI PANDETTISTI; QUESTI

AVEVANO SEGUITO IL METODO DELLA SCUOLA STORICA, MA NON

RIPRODOTTO LA SPIRITO FILOSOFICO, NELLO SFORZO DI ADATTARE IL

DIRITTO ROMANO A REGOLARE I RAPPORTI GIURIDICI DELLA VITA

MODERNA. POSTO QUESTO ASSUNTO, IL CODICE NON PUÒ CERTO ESSERE

PRESENTATO COME L’ESPRESSIONE DELLE NUOVE TENDENZE CHE SI

AGITAVANO NEL CAMPO DEL DIRITTO PRIVATO: VI PREVALGONO GLI

INTERESSI DELLA PROPRIETÀ FONDIARIA, DELL’INDUSTRIA, DEL

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COMMERCIO. SAREBBE D’ALTRO CANTO INGIUSTO NON RICONOSCERNE I

GERMI DI UN DIRITTO NUOVO: PER MOLTI ASPETTI ESSO DISCHIUDE

ORIZZONTI NUOVI E SODDISFA NON SOLO GLI INTERESSI SOCIALI, MA

ANCORA GLI INTERESSI DEL LAVORO. SECONDO L’ART. 226, L’ESERCIZIO DI

UN DIRITTO NON È PERMESSO SE NON HA ALTRO SCOPO CHE QUELLO DI

PROCURARE DANNO AD ALTRI (CHICANE). CON QUESTA DISPOSIZIONE SI

STABILISCE CHE I DIRITTI SOGGETTIVI NON POSSONO ESSERE ESERCITATI

ARBITRARIAMENTE, CHE OGNI DIRITTO È RICONOSCIUTO ALL’INDIVIDUO

PER L’ATTUAZIONE DI UN CERTO SCOPO SOCIALE, E IL TITOLARE DI UN

DIRITTO, DEVIANDOLO DALLO SCOPO CHE LO GIUSTIFICA, COMMETTE UNA

COLPA DI CUI DEVE RISPONDERE. LA TEORIA DELL’ABUSO DEL DIRITTO

IMPLICA UNA PROFONDA MODIFICAZIONE NEL PRINCIPIO DELLA LIBERTÀ

NELL’ESERCIZIO DEI DIRITTI: ESSA INAUGURA LA CONCEZIONE VERAMENTE

SOCIALE DEL DIRITTO SOGGETTIVO…L’ART. 226 VIENE AD ATTUARE IL

CONCETTO DELLA SOLIDARIETÀ SOCIALE E LO RENDE PRINCIPIO

DOMINANTE DI TUTTA LA LEGISLAZIONE CIVILE.

Codice Civile Svizzero (1912). Pubblicato dalla Cancelleria Federale

- Art. 2: Ognuno è tenuto ad agire secondo la buona fede così

nell’esercizio del propri diritti come nell’adempimento dei propri

obblighi. Il manifesto abuso del proprio diritto non è protetto dalla

legge.

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NEL SOLCO DEL DIVIETO DI ABUSO FORMALIZZATO PER IL DIRITTO DI

PROPRIETÀ DALLA LEGISLAZIONE CIVILISTICA CANTONALE DI ZURIGO SIN

DALLA SUA PRIMA REDAZIONE (1853-55), IL CODICE CIVILE ELVETICO DEL

1912 HA ASSUNTO NEL “TITOLO PRELIMINARE” IL PRINCIPIO DI BUONA

FEDE COME CLAUSOLA GENERALE DI ESERCIZIO DEI DIRITTI. IN LUOGO DI

UN TESTO COSTRUITO SECONDO TUTTE LE REGOLE DELL’ARTE E DELLA

LOGICA GIURIDICA, IL CODICE CIVILE SVIZZERO PONE PRINCIPI GENERALI

IN ARMONIA COLLE ESIGENZE SOCIALI LASCIANDO ALLA GIURISPRUDENZA

LA CURA DI SVILUPPARE NEL SENSO DELL’EVOLUZIONE SOCIALE STESSA, LE

CONSEGUENZE PRATICHE DEI PRINCIPI SOCIALI CONSACRATI DALLA LEGGE.

IL CODICE SVIZZERO NON SI DISTINGUE PER UNA TECNICA RIGOROSA:

EVITA LE SOTTIGLIEZZE DOTTRINALI, È TUTTO PENETRATO DI SPIRITO

PRATICO E ATTUA NELLA FORMA PIÙ PERFETTA L’IDEALE DI UNA

LEGISLAZIONE DEMOCRATICA.

Codigo Civil para el Distrito y Territorios Federales, Mexico (1871,

riconfermato nel 1884 e nel 1928)

Art. 840: No es licito ejercitar el derecho de propriedad de

manera que su ejercicio no dé otro resultado que causar perjuicios

a un tercero, sin utilidad para el proprietario.

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LA NORMA RIENTRA MANIFESTAMENTE IN QUELLA TRADIZIONE GIURIDICA

COLONIALE A BASE ROMANISTICA, CUI SI SONO ISPIRATE TUTTE LE

CODIFICAZIONI CIVILI DELL’AMERICA LATINA.

Un ritorno annunciato: premesse storiche e filosofiche

Code Napoléon (1804)

liv. II, tit. II.

- art. 544: La propriété est le droit de jouir et de disposer des

choses de la maniére la plus absolue, purvou qu’on n’en fasse pas

un usage prohibé par les lois ou par les réglements.

NEL CODE NAPOLÉON E NEI SUOI DERIVATI. IL REGIME DELLE SERVITÙ HA

PRESO IL POSTO DEL DIVIETO DEGLI ATTI EMULATIVI – CHE PER IL SUO

CARATTERE INQUISITORIO (ELEMENTO SOGGETTIVO) ERA POCO GRADITO

ALLA MENTALITÀ LIBERALE .

GIOVA RICORDARE CHE L’IDEALE GIUSNATURALISTICO (XVII SECOLO) ED

ILLUMINISTICO (XVIII SECOLO) DI UNA PROPRIETÀ INTESA COME

ESTRINSECAZIONE DELL’INDIVIDUO, COME PROIEZIONE E REALIZZAZIONE

DELLE SUE CAPACITÀ, TROVAVA IL MODELLO STORICO NELLA CONCEZIONE

PIENA, ASSOLUTA ED ILLIMITATA DEL DOMINIO ROMANO. F U, POI,

COMPITO DEI REDATTORI E DEGLI INTERPRETI DEL “CODE CIVIL” DELINEARE

UN’IMMAGINE DELLA PROPRIETÀ CONSONA AGLI IDEALI FILOSOFICI ED AGLI

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INDIRIZZI ECONOMICI DELLA SOCIETÀ INDIVIDUALISTA E LIBERISTA

USCITA DALLA RIVOLUZIONE FRANCESE, AD UN TEMPO ANCORANDOLA

ROBUSTAMENTE AD UN’IMMAGINE DI MATRICE ROMANISTICA. IL PRODOTTO

FU UN PARADIGMA PROPRIETARIO DESTINATO AD INFLUENZARE

LARGAMENTE IL PENSIERO GIURIDICO EUROPEO LUNGO TUTTO L’ARCO DEL

XIX SECOLO, CONTRO IL QUALE SI APPUNTARONO – SUL PIANO DELLA

CRITICA STORICA – GLI STRALI RIVOLTI A DENUNCIARE L’EGOISMO E LA

ASOCIALITÀ DEL DIRITTO ROMANO E DEL QUALE, COME DI UN

INGOMBRANTE IPOSTASI, ANCHE LA STORIOGRAFIA SULLA PROPRIETÀ

ROMANA STENTA A LIBERARSI.

SENZA DUBBIO I COMPILATORI DEL CODICE NAPOLEONE, CHE AVEVANO

EREDITATO LE IDEE DELLA RIVOLUZIONE CONTRO IL SISTEMA FEUDALE,

ACCOLSERO NELLA LEGISLAZIONE PRECETTI E PRINCIPI ROMANISTICI I

QUALI RISPECCHIAVANO LE IDEE INDIVIDUALISTICHE DA ESSI PROFESSATE.

MA NON SI TRATTAVA DELLE STESSE IDEE, PERCHÉ LE NORME ROMANE

ERANO ESPRESSIONE DI UNA SOCIETÀ PROFONDAMENTE DIVERSA DA

QUELLA DELL’ETÀ MODERNA ED ERANO STATE ELABORATE IN CONDIZIONI

ECONOMICO-SOCIALI DIVERSISSIME. DECONTESTUALIZZAZIONE

STRUMENTALE

Codice Civile del Regno d’Italia, Torino stamperia reale 1866

Parte II, lib. II.

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- art. 436: La proprietà è il diritto di godere e di disporre della

cosa nella maniera più assoluta, purché non se ne faccia un uso

vietato dalla legge o dai regolamenti.

UN SILENZIO, QUESTO DELLE CODIFICAZIONI, CHE SI È RIVELATO,

NELL’ULTIMO SCORCIO DEL XIX SECOLO, IL MIGLIOR APPIGLIO PER UNA

DOTTRINA ED UNA GIURISPRUDENZA DI DIVERSO RESPIRO, CHE COL

DECLINARE DELL’IDEA INDIVIDUALISTA TENTARONO DI PENETRARE E

RIPLASMARE L’ORMAI DECLINANTE MODELLO DI PROPRIETÀ EGOISTA E

BORGHESE NEL SEGNO DELLE NUOVE IDEOLOGIE SOCIALISTE E

SOLIDARISTE.

Corte di appello di Colmar, 2 maggio 1855 (Dalloz jurisprudence…):

nel dirimere una controversia tra proprietari di immobili urbani sorta

in merito alla costruzione di un camino le cui esorbitanti proporzioni

palesavano come l’unico scopo togliere luce al vicino, la sentenza coglie

l’occasione per affermare che il diritto di proprietà «comme celui de

tout autre, doit avoir pur limite la satisfaction d’un intérèt sérieux

et légitime», precisando che «les principes de la morale et de l’équité

s’opposent à ce que la justice sanctionne une action inspirée par la

malveillance, accomplie sous l’empire d’une mauvais passion, ne se

justifiant pas aucune utilité personelle et portant un grave préjudice à

altrui».

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Sulla dottrina francese della seconda metà dell’Ottocento,

rappresentata da nomi illustri, come Luis Josserand e Jean Charmont,

che hanno fatto della categoria dell’abuso di diritto uno degli snodi

delle loro teoriche, ha scritto negli anni Sessanta del secolo appena

concluso, Natalino Irti, Dal diritto civile al diritto agrario :


«L’immagine più viva di fermenti di revisione, che si raccolgono intorno

alla teoria dell’abuso di diritto; di questa crisi che arde insieme

individuo e ordine giuridico tradizionale; di un mondo, in breve, che

cerca un nuovo equilibrio, è dato scorgere nell’opera di Josserand, che

rispecchia i tempi con appassionata e vigorosa sensibilità. Punto di

partenza del pensiero del Josserand è il rapporto fra individuo e

società, dacché, se il diritto soggettivo tutela il “pertinere” di un

interesse al singolo, ogni suo sviluppo critico dovrà muovere da un’idea

della posizione dell’uomo nel mondo. Il distacco dalla scuola di diritto

naturale è netto e consapevole. L’individuo non è più fittiziamente

proiettato fuori dal contesto storico, è unità sociale, fragile cellula in

un complesso meccanismo. Nel clima originario del codice napoleonico,

l’esercizio del diritto soggettivo è rimesso al volere dell’individuo, né

questi è impegnato a seguire una piuttosto che altra direzione. Il

collegamento fra singolo e gruppo sociale si rifrange sui poteri di

autonomia che il titolare del diritto esplica riguardo agli interessi

garantitigli; su questa linea si colloca il sistema dei limiti, ma il

Josserand avverte che è necessario andare oltre, procedere

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dall’estrinseco all’intrinseco, e colpire la finalità tipica

dell’attribuzione fatta all’individuo».

S. GIANZANA, Le acque nel diritto civile italiano , Torino 1879, capo

VI, parte I, pp. 832 ss.: «Del potere conciliativo dell’autorità

giudiziaria in materia d’acqua e della repressione dell’emulazione».

Obiettivo dell’autore è quello di dimostrare che al di là del silenzio del

Codice Civile del 1865, la repressione dell’emulazione costituisce

«regola direttiva nella materia delle acque, di cui ci occupiamo,

regola che sgorga spontanea da un complesso di più disposizioni, le

quali ci dimostrano che in ciò il legislatore italiano la pensò come i

giuristi romani, ed i commentatori delle pandette», nella ferma

convinzione che la «teorica repressiva dell’emulazione» nuoccia alla

convivenza sociale ed all’aggregazione dei cittadini allo scopo

dell’utile comune.

G. GIOVANETTI, Il regime delle acque…, Napoli 1883, p. 7:

«L’illustre Romagnosi, la cui memoria io onoro come si deve onorare

quella d’un maestro e di un amico, proclamava vivamente che il

principio della proprietà debb’essere subordinato alla legge sociale

ed alle esigenze comuni; che non bisogna confondere il dominio

naturale, che non suppone alcun rapporto sociale, col dominio civile,

che impone la necessità della vita comune, della convivenza; che

18
obbedire alla legge della vita comune non è obbedire ad un altro uomo,

ma alla necessità delle cose ed a noi stessi, e che la modificazione

del principio non toglie il diritto, né lo cambia; essa gli da una

direzione confacente a tutti».

G. D. ROMAGNOSI, Trattato della ragion civile delle acque nella

rurale economia, Firenze 1834, libro II, capo II, pp. 258 ss : «Come
nell’associazione territoriale civile moderar si possa il privato dominio

non contrattuale su di una corrente naturale privata…Quando io

sostengo che il privato ha diritto ed azione giudiziaria di impedire

la deviazione di una corrente artificiale utile ad altri fatta per

vendetta, per invidia, o per altro maligno motivo, io non pretendo

che ciò derivi da un diritto privato nativo dedotto dalla individuale

e naturale padronanza di due eguali, ma bensì da un diritto

sociale dativo, cioè conferito al cittadino dalla legge stessa

fondamentale della socialità soprattutto in materia di acque».

Corte di Cassazione di Firenze, dicembre 1877, in “Il Foro italiano”,

III (1878), p. I, col. 481: Massima. Gli atti di emulazione devono

proibirsi anche sotto l’impero delle vigenti leggi. Sebbene l’art. 533

del codice autorizzi il comproprietario di un muro ad alzarlo senza il

consenso dell’altro, tale facoltà non può esercitarsi per spirito di

emulazione.

19
Corte di Cassazione di Palermo, febbraio 1878, in “Il Foro italiano”,

IV (1879), p. I, col. 119: Massima. L’esercizio del diritto di proprietà

è limitato dalla necessità di evitare il danno altrui. È lecito al

proprietario di fondi invasi dall’irrompere delle acque difendersi anche

con danno dei vicini, ma solamente in caso di forza maggiore e quando

non vi sia altro mezzo di difesa. Il proprietario pertanto, che sia

danneggiato dal proprietario limitrofo per la costruzione dei ripari che

abbiano alterato il corso delle acque, ha diritto di agire contro di lui

per il risarcimento dei danni e la restituzione delle acque nel pristino

corso. Non può un proprietario fare opere usque ad aemulationem.

Carlo Lozzi, Introduzione al diritto civile e al diritto internazionale

privato (1880): «Quanto agli atti di emulazione nell’esercizio dei


diritti, o per parlar più propriamente o più conformemente alla verità
delle cose, quanto agli atti che si fanno non per alcun utile o godimento

proprio, ma unicamente a dispetto o nocumento del vicino, noi siamo

d’avviso del tutto contrario a quello sostenuto con tanto apparato

dall’insigne avvocato Vittorio Scialoja, parendoci la proibizione di simili

atti dispettosi potersi argomentare dal Diritto Comune, dalle

disposizioni del Codice Civile, e ad ogni modo apparire manifesta dal

principio equitativo, ammesso come fonte d’interpretazione dall’art. 3

del titolo preliminare e imperiosamente reclamato dalle nuove dottrine

dell’economia sociale».

20
Art. 3 del Codice Civile del 1865. Disposizioni preliminari. ”Disposizioni
sulla pubblicazione interpretazione ed applicazione della legge in
generale”: Nell’applicare la legge non si può attribuirle altro senso che
quello fatto palese dal proprio significato delle parole secondo la

connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore. Qualora una

controversia non si possa decidere con una precisa disposizione di

legge, si avrà riguardo alle disposizioni che regolano casi simili e

materie analoghe; ove il caso rimanga tuttavia dubbio, si deciderà

secondo i principi generali del diritto.

ORIGINE ROMANISTICA?

Il termine “aemulatio” compare nel Corpus iuris civilis giustinianeo in

due luoghi:

1) D. 50, 10 [de operibus publicis], 3: MACER…Opus novum privato

etiam sine principis auctoritate facere licet, praeterquam si ad


aemulationem alterius civitatis pertineat vel materiam seditionis
praebeat vel circum theatrum vel amphiteatrum sit (l’affermazione
della perfetta libertà di costruire in città opera nova di utilità

pubblica da parte di privati senza bisogno di autorizzazione

preventiva, è seguita da una limitazione per i casi in cui si costruisca

ad aemulationem alterius civitatis, si dia materia di sedizione, ci sia


vicinanza di teatri o di anfiteatri).

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2) C. 12, 58(59) [de apparitoribus praefecti annonae], 1: Impp. Valens,

Gratianus et Valentinianus… Apparitores urbanae praefecturae


annonario officio se non inserant, sed apparitorum aemulatione
secreta ministerio suo annonae praefectura fungatur (racchiude
disposizioni volte a proibire l’intrudersi degli addetti ad un ufficio

amministrativo in affari pertinenti ad altro ufficio, onde evitare tra i

due confusioni e conflitti).

Leggasi pure Cicerone, Tusculanae disputationes (IV. 8. 17): Aemulatio

autem dupliciter illa quidem dicitur, ut et in laude et in vitio nomen


hoc sit: nam et imitatio virtutis aemulatio dicitur (sed ea nihil hoc loco
utimur; est enim laudis), et est aemulatio aegritudo si eo quod
concupierit, alius potiatur, ipse careat.

Sono, siffatta dottrina e siffatta giurisprudenza, espressione di un

clima apertamente derogatorio rispetto ad una stretta esegesi della

logica proprietaria (emblematizzata dall’art. 436 del Codice Civile

vigente) a segnare la discesa in campo di Vittorio Scialoja. I suoi

interventi si susseguono incalzanti fra il 1878 e il 1887, per confluire

con terso approfondimento critico nell’articolata voce Aemulatio del

1892, che il Maestro fu invitato a redigere per le pagine

dell’Enciclopedia Giuridica Italiana.

VITTORIO SCIALOJA (TORINO, 1856 - ROMA, 1933), COMPLESSA FIGURA

DAL POLIEDRICO IMPEGNO SCIENTIFICO, PROFESSORE DI DIRITTO ROMANO

22
ALLA “SAPIENZA” SULLA CATTEDRA CHE ERA STATA DEL SUO MAESTRO

NICOLA DE CRESCENZIO, POI AVVOCATO ED EMINENTE GIURISTA,

NOMINATO SENATORE DEL REGNO NEL 1904, MINISTRO DELLA GIUSTIZIA

FRA IL 1909 E IL 1910, QUINDI INCARICATO DAL 1924 DI PRESIEDERE LA

COMMISSIONE PER LA RIFORMA DEL CODICE CIVILE.

V. Scialoja, voce “Aemulatio”: «Non è difficile trarre la conclusione

generale da questa disamina delle disposizioni del nostro Codice Civile.

L’emulazione non vi è mai proibita, come tale. In generale il

proprietario può compiere sulla cosa propria tutti gli atti non vietati

dalle leggi o dai regolamenti senza che altri abbia diritto di

riscontrare se siano atti vantaggiosi o no, se siano fatti con questa o

quella intenzione. Quando invece sia il caso di un conflitto di diritti,

come per esempio quando si tratti dei rapporti dei condomini tra loro,

gli atti di chi ha un diritto non possono essere fatti con danno o

incomodo dell’altro avente diritto e senza utile di chi li compie. In

materia d’acqua finalmente vige lo speciale principio, che ogni

proprietario non solo non può fare atti a se stesso inutili e nocivi al

vicino, ma deve concedere a questo la facoltà di compiere quegli atti

che gli siano utili e non rechino danno al concedente…Tale principio si

fonda sopra un criterio affatto diverso da quello del divieto

dell’emulazione, quantunque in forza di esso gli atti emulativi vengano

ad essere vietati, perché inutili a chi li compie e nocivi agli altri.

Questo principio finalmente non ammette estensioni dalla materia

delle acque ad altre specie di proprietà».

23
Continua: «Questa in breve è la teoria dell’emulazione segnata in ogni

sua parte dallo stampo di quel medioevo nel quale andavano sempre

confuse le idee di diritto, morale e religione, che pure secondo il solito

soleva derivarsi dal diritto romano».

Frammenti giustinianei contrari all’esistenza del divieto:

D. 50, 17, 55: GAIUS…Nullus videtur dolo facere, qui suo iure

utitur.

D. 50, 17, 151: PAULUS…Nemo damnum facit, nisi qui id fecit, quod

facere ius non habet.

Frammenti che sembrano testimoniare invece della sua esistenza:

D. 39, 2 (de damno infecto…), 24, 12: ULPIANUS…Item videamus,

quando damnum dari videatur: stipulatio enim hoc continet, quod vitio
aedium loci operis damnum fit. Ut puta in domo mea puteum aperio,
quo aperto venae putei praecisae sunt: an tenear? Ait Trebatius non
teneri me damni infecti: neque enim existimari operis mei vitio
damnum tibi dari in ea re, in qua iure meo usus sum. Si tamen tam
alte fodiam in meo, ut paries tuus stare non possit, damni infecti
stipulatio committetur.

24
D. 6, 1 (de rei vendicatione), 38: CELSUS…In fundo alieno, quem

imprudens emeras, aedificasti aut conseruisti, deinde evincitur…


sufficit tibi permitti tollere ex his rebus quae possis, dum ita ne
deterior sit fundus, quam si initio non foret aedificatum. Constituimus
vero ut, si paratus est dominus tantum dare, quantum habiturus est
possessor his rebus ablatis, fiat ei potestas: neque malitiis
indulgendum est, si tectorium puta, quod induxeris, picturasque
corradere velis.

D. 39, 3 (de aqua et aquae pluviae arcendae…), 2, 9: PAULUS…Idem


Labeo ait, si vicinus flumen torrentem averterit, ne aqua ad eum
perveniat, et hoc modo sit effectum, ut vicino noceatur, agi cum eo
aquae pluviae arcendae non posse: aquam enim arcere hoc esse curare
ne influat: quae sententia verior est, si modo non hoc animo fecit,
ut tibi noceat, sed ne sibi noceat.[PASSO INTERPOLATO]

Teorie del Luzzatto e del Riccobono, fra i romanisti favorevoli alla

presenza del divieto nel diritto giustinianeo.

Origine germanica dell’istituto del divieto degli atti emulativi:

teoria imputabile fondamentalmente a Francesco Schupfer, Il diritto

privato dei popoli germanici con speciale riferimento all’Italia , vol. III.
Possessi e dominii, Città di Castello-Roma 1915.

25
Si vedano i seguenti passi contenuti nel Liber Legis Langobardorum:

Rotari 358: Nulli sit licentia iterantibus herbam negare, excepto


prato intacto tempore suo aut messe. Post fenum aut fruges collectas
tantum vendicet cuius terra est, quantum cum clausura sua potest
defendere.

Carlo Magno 14: De iterantibus, qui ad palatium aut alicubi pergunt,


ut eos cum collecta nemo ausus sit adsalire. praesumpserit, amendet”
Et nemo herbam alterius tempore defensionis tollere presumat, nisi
in hostem pergendo aut missus noster sit; et qui aliter facere.

Lex Visigothorum, VIII, 4, 27 (Recesvindo, VII sec. D. C.): Iter


agentibus in pascuis, que conclusa non sunt, deponere sarcina et
iumenta vel boves pascere non vetentur; ita ut non uno loco plus
quam biduo, nisi hoc ab eo, cuius pascua sunt, obtinuerint.

Rotari 300: Si quis robore…infra agrum alienum aut culturam seu


clausuram vicinus ad vicinum incederit, componat per arborem
tremisses duas. Nam iterans homo si propter utilitatem suam foris
clausuram capellaverit, non sit culpabilis.

Rotari 292: Si quis vitem expoliaverit id est aminicula tulerit supra


tres aut quattuor, sit culpabilis solidos sex.

26
Rotari 296: Si quis super tres uvas de vinea aliena tulerit, componat
solidos 3; nam si usque ad tres tulerit, nulla sit culpa.

Questi frammenti delle normative longobarda e visigota furono più

probabilmente ispirati dai topoi presenti in alcuni versetti

veterotestamentari, genericamente incoraggianti sentimenti di

solidarietà verso il prossimo, ma nei quali non è possibile ravvisare gli

elementi sostanziali dell’istituto de quo: vedi Numeri 21. 22, Iudices

11. 19-20; Deuteronomium 23. 24-25: Quando entrerai nella vigna del

tuo prossimo, potrai mangiare uva secondo il tuo appetito, a

sazietà. Ma non ne metterai nel tuo paniere. Quando entrerai tra

il frumento del tuo prossimo, potrai cogliere spighe con la tua

mano. Ma non agiterai la falce nel frumento del tuo prossimo.

Mancanza di una ricostruzione della disciplina del divieto nei secoli

intermedi. Le sillogi manualistiche sul diritto privato medievale hanno

rivelato un interesse rapsodico, connotato da scarso approfondimento

ed originalità. Lo schema con il quale l’istituto viene affrontato è

tralatizio e può essere così riassunto:

1) fissazione della sedes materiae nell’ambito delle limitazioni

dell’esercizio del diritto di proprietà;

2) attenzione privilegiata al problema delle origini del divieto piuttosto

che dell’evoluzione delle sue dinamiche nell’età del Diritto Comune;

27
3) quasi totale ignoranza delle fonti preaccursiane e scarsa attenzione

per quelle accursiane;

4) valutazione in larga misura negativa sulla qualità e l’originalità del

modus argumentandi degli interpreti del Diritto Comune, mutuata dal


pesante giudizio scialojano.

Ad una verifica sulle fonti, è risultato che la teorica del limite per il

proprietario d’agire ad aemulationem è stata sostanzialmente ed

originalmente costruita sulle fondamenta di un manipolo di frammenti

dei Digesta. Frammenti estranei al leggerissimo bagaglio culturale dei

redattori delle consolidazioni germaniche, ai quali i giuristi interpreti

dell’età di mezzo si accostarono senza alcun timore reverenziale, per

attingerne il linguaggio rigoroso ed i processi logici, ma nella salda

convinzione che il diritto e le sue fonti siano strumenti della storia e

nella storia disponibili a piegarsi quando non ad evolversi nella

direzione del divenire sociale.

Dalla loro spregiudicata esegesi sortì una figura giuridica nuova,

inquadrabile fra i limiti della potestas dominica, i cui elementi de

substantia facevano capo 1) alla gratuità del danno arrecato dal


dominus al vicino; 2) al movente esclusivo dell’animus nocendi.

Diritto Comune: le fonti dottrinali

28
Opere esegetiche

Fermo restando che soltanto con il ritorno al diritto romano e con

l’attività della scuola di Bologna nella stagione più matura

dell’esperienza accursiana si potrà ragionare nei termini di un sistema

dottrinario articolato, seppure non ancora compiutamente organico e

sistematizzato, in merito al divieto degli atti emulativi, una prima

sicura individuazione delle dinamiche argomentative è apparsa

riconducibile alla pulsante realtà dell’esegesi preaccursiana.

Stagione preaccursiana: Piacentino (m. 1192), Pillio da Medicina (…

1169-1207), Azzone (…1190-1220…), anche i glossatori delle prime

generazioni riservarono al problema delle limitazioni dei diritti del

dominus fundi una palese attenzione.

Piacentino, Summa Codicis, tit. de servitutibus et aqua (C. 3, 34),

Moguntiae 1536 (rist. anast. 1536): Ut pomum liceat in alieno

decerpere, et spaciari et coenare, servitus non constituitur.


(ATTO DI LIBERALITA’)

Nel medesimo titolo Piacentino condanna tuttavia un uso iniquo ed

immorale del diritto di proprietà, a proposito di D. 8, 2 (de

servitutibus), 19 (Fistulam) egli afferma: Non potest prohibere


vicinus quo minus balneum habeat iuxta parietem communem, nisi
adsiduum humorem immittendo noceat vicino.

29
Piacentino, op. cit., tit. de aedificis (C. 8, 10): Permittimur loca plene

et prorsus nostra valere mirabili hambitu circundare: ita tamen, ut


modum usitatum altitutidinis non excedamus [C. 8, 10, 10]…Sed
permittimur castrum facere, ita tamen ut ad aemulationem non
fiat, nec materiam seditionis praebeat [D. 50, 10, 3].
Il limite dell’emulazione si estende dall’ambito degli edifici privati a

quello dei castra, costruzioni fortificate con obiettivi difensivi, per le

quali la legge giustinianea non aveva previsto alcun limite, occupandosi

esclusivamente di recinzioni murarie di terreni privati:

C. 8, 10, 10: Impp. Onorio e Teodosio…Per provincias Mesopotamiam…

ubi magis hoc desideratur, ceterasque provincias cunctis volentibus


permittatur murali ambitu fundos proprios seu loca sui dominii
constituta vallare.

Piacentino, op. cit., tit. cit.: Vetamur in alieno aedificare. Sed si non

noceamus, vel si alias sine nocendi proposito fontem prorsus vicini in


nostro fodiens avertimus, vel aedificantes vicino penitus lucem
auferimus. Sibi enim unusquisque, ut tamen ut alii non noceat,
studiose permittitur prospicere: ut…de aqua pluvia arcenda, l. 1, §
Idem aiunt (D. 39, 3, 1, 11).

D. 39, 3, 1, 11: ULPIANO…Idem aiunt aquam pluviam in suo retinere vel

superficientem ex vicini in suum derivare, dum opus in alieno non fiat,

30
omnibus ius esse prodesse enim sibi unusquisque, dum alii non nocet,
non prohibetur nec quemquam hoc nomine tenet.

Pillio da Medicina, Summa trium librorum, tit. de fundis limitaneis (C.

11. 60), Papiae 1506 (rist. anast. Torino 1966): nel silenzio della

compilazione giustinianea, che sub C. 8, 10, 10 non si occupa della

costruzione di castra e fortificazioni – realtà tipicamente medievale –

l’autore sostiene che solo i castra limitanea (castella), per ovvii

motivi di ordine pubblico, sono soggetti a limiti. Al di fuori di

questa ipotesi, per le fortificazioni come per ogni altro tipo di

edificio vale solo il limite ad aemulationem affermato da D. 50,

10, 3.

Azzone, Summa super Codicem, tit. de edificiis privatis (C. 8, 10),

segue la medesima opzione esegetica, nei confronti dei castra, mentre,

afferma la piena facultas aedificandi del proprietario nel titolo de

servitutibus (C. 3, 34).

La regola è quella sancita da C. 3, 34, 11: Altius quidem aedificia

tollere, si domus servitutem non debet, dominus eius minime


prohibetur.
L’espresso divieto di costruire con l’unico e pernicioso movente di

incoraggiare sterili rivalità intercittadine rimane, tuttavia, nell’esegesi

azzoniana, circoscritto all’ambito di non generalizzabili rapporti

31
pubblicistici e convive con l’adesione al principio privatistico di una

piena facultas aedificandi in capo al dominus fundi: una facoltà

confermata dal tenore di più di un testo e comprimibile

esclusivamente dalla costituzione di un rapporto di servitù tra fondi

vicini.

AZZONE, Brocardica aurea, rub. “de se suisque rebus”, Napoli 1568

(rist. anast. Torino 1967). Si discute l’apparente antinomia fra i

principi “Nemo debet facere in suo quod noceat alieno” e “Liceat

unicuique facere in suo quamvis in alio non sit nociturus”,


proponendo, sulla base di una distinctio, la seguente soluzione: Hic

distingue cum facio in meo, et alii noceo, an immittam in alienum,


et tunc non licet, dicta lege Sicuti, § Aristo (D. 8, 5, 8, 5), an
non immittam, et tunc siquidem facio dolo, idest, ut alteri noceam
prohibeor, alias contra, dicta lege I, § Denique (D. 39, 3, 1, 12).
DIVIETO DI IMMISSIONI:

D. 8, 5 (si servitus vendicetur), 8, 5: “ULPIANO…Aristo Cerellio Vitali

respondit non putare se ex taberna casearia fumum in superiora


edificia iure immitti posse…Idemque ait: et ex superiore in inferiora
non aquam, non quid aliquid immitti licet: in suo enim alii hactenus
facere licet, quatenus nihil in alienum immittat.

D. 39, 3 (de aqua et aquae pluviae arcendae), 1, 12: “ULPIANO…

Denique Marcellus scribit cum eo, qui in suo fodiens vicini fontem

32
avertit, nihil posse agi, nec de dolo actionem: et sane non debet
habere, si non animo vicino nocendi, sed suum agrum meliorem
faciendi id fecit.

Artificiosa duplicazione di figure giuridiche:

I giuristi preaccursiani parlano di emulazione esclusivamente in

relazione al ius aedificandi, estendendo per analogia ai castelli ed alle

fortificazioni del bellicoso territorio medievale un divieto che la

giurisprudenza classica aveva coniato in relazione agli opera nova

costruiti da privati nell’interesse della civitas.

È invece ricorrendo a formule assimilabili alla piacentiniana “ sibi enim

quisque, ut tamen alii non noceat, studiose permittitur prospicere ”


che i medesimi giuristi circostanziano ex adverso il divieto, operante

nell’ambito dei rapporti di vicinato rustico, di esercitare il proprio

diritto al solo iniquo scopo di nuocere altrui, così segnando, sulla base

di un ineccepibile ancoraggio testuale, un'artificiosa duplicazione di

figure giuridiche destinate a lunga vita.

Il divieto nelle quaestiones de facto e genesi del ius molendinorum


(il diritto dei mulini)

Le quaestiones de facto discusse nella scuola dei due sommi allievi di

Irnerio, Bulgaro e Martino, ripropongono con vivide immagini un

contesto di vicinato rustico, nel quale la pienezza delle facoltà del

33
proprietario del fondo appare temperata non solo da vincoli legali, ma

anche dall’operatività di un ulteriore, generale limite equitativo.

Quaestiones dominorum bononiensium. Collectio Parisiensis , ed. G. B.


PALMIERI, n. 122: Sempronio, acquirente in buona fede di un terreno

di proprietà di Tizio, è tenuto a costruire sulle nuove acquisizioni un

ponte che consenta a Tizio di raggiungere un suo castello, che si trova

al di là del fiume. Sempronio sarà liberato dal suo obbligo – sentenzia

il giurista Martino – se avrà costruito un ponte in grado di resistere al

consueto corso del fiume: se il ponte andasse distrutto ed egli

dovesse conseguire un ingiusto vantaggio incamerando il castrum di

Tizio, sarebbe tuttavia equo che egli fosse tenuto a costruire un nuovo

ponte, “quia nemo debet locupletari cum aliena iactura”.

Liber Sextus, lib. V, 12 (de regulis iuris), reg. 48: Locupletari non
debet aliquis cum alterius iniuria, vel iactura.

Specifico rilievo rivestono le questioni, assai numerose, che dipanano

le problematiche delle derivazioni per uso privato delle acque

pubbliche, per l’irrigazione o per la forza motrice dei mulini ad acqua.

L’esistenza di un mulino ad acqua è testimoniata nel bolognese per la

prima volta in un contratto di enfiteusi del 1074. Intorno al 1170/80

vennero costruiti a nord e a sud della città i canali di Reno e Savena,

34
che convogliavano nell’abitato per uso industriale e per i trasporti le

acque dei due fiumi.

Fiumi pubblici: requisito della perennità e della navigabilità.

Per un’esemplificazione di questa tipologia di quaestiones può valere la

q. 11 della raccolta di Quaestiones aureae di Pillio da Medicina. Il caso

è quello di un Rolandino che construxit sibi molendinum in flumine

publico, et possedit tale molendinum sine controversia per XXX. annos,


deinde alius edificavit aliud molendinum, quo constructo, cursus aquae
prioris molendini impedivit. Il giurista si interroga an prior costruens
possit agere interdicto, quod vi aut clam . L’apparato argomentativo
costruito dai litiganti si innerva, per il resistente, nella pienezza del

suo ius aedificandi in mancanza di un vincolo di servitù, nell’assenza di

un danno effettivo per l’attore e nell’affermazione del principio

potestativo sua preponenda alienae utilitas; per l’attore Rolandino

nell’effettività del vantaggio derivatogli dall’uso di un bene pubblico e,

soprattutto, dal diritto di aquae ductus, che il suo mulino tempore

acquiritur. Elemento questo di tale rilievo fattuale e giuridico da


volgere la solutio di Pillio in senso a lui favorevole.

Sempre le quaestiones: dall’ambito rustico a quello urbano:

1) Concorrenza tra vicini esercitanti la medesima industria.

35
PILLIO, Quaestiones…, n. 36: il caso è quello di un pater familias

proprietario ad un tempo di una fabbrica per il sale e di un forno, i

quali ex diuturno tempore, et longa consuetudine semper habuit, nec

unquam istorum aliquod in nullum usum transduxit , che morendo lascia


ai due figli uni salinariam, alteri vero furnum. L’erede della salina, al

comprensibile scopo di rendere più lucrativa la sua industria, vi

impianta anche un forno e viene in ciò contrastato dal fratello, che lo

cita in giudizio per indebita concorrenza. In favore del titolare del

forno depone la regola licet cuique in loco proprio edificare, ne usus

incommodetur alterius, nonché una sorta di destinazione del buon


padre di famiglia, innervata nella diuturna consuetudo paterna di

mantenere separati i due commerci. All’obiezione che l’iniziativa del

fratello appare dettata da un’indubbia utilità, il fornaio oppone come

all’utilità privata sia, comunque, da anteporre quella della comunità,

con la quale le sue ragioni coincidono. In modo altrettanto convincente

il salinarius allega una molteplicità di argomenti a sostegno del suo

diritto a furnum facere, muovendo da una serie di postulati volti ad

acclarare, vuoi lo scopo migliorativo della sua iniziativa, vuoi la

mancanza di un oggettivo nocumento nei confronti del fratello, per

chiudere con il classico nemo videtur dolo facere, qui suo iure

utitur.
Prevalgono le ragioni del salinarius in base al principio di libera

concorrenza che regola l’economia medievale così come regola la vita

dello Studio di Bologna, laddove sarebbe impensabile – conclude Pillio –

36
che i maestri più anziani, per evitare di perdere studenti e guadagni,

impedissero ai colleghi più giovani di aprire nuove scuole: eadem

ratione quilibet magister antiquus novis magistris a scolarum regimine


prohibetur quia eius forte scolas scolaribus vacaret, quod est
absurdum.

2) problema delle torri e case-torri nell’edilizia urbana.

PILLIO, Quaestiones…, q. 90: il caso vede una giovane adire in giudizio

il tutore del proprio fratello per averne decurtato il patrimonio con

spese superflue – nella fattispecie, la costruzione di una torre

superiore in altezza a quella dei vicini – al solo scopo di fomentare

inutilmente la discordia tra i due casati, quia turris constructio

homines depauperat, et superbiam auget, seditionisque materiam


prebet. Il tutore adduce, come iusta causa aedificandi, il proprio
dovere istituzionale di difendere il pupillo da ritorsioni future di vicini

malfidati, qui semper domui eius invidi extiterant. Si tratta di un uso

largamente invalso fra coloro que sunt alicuius valentie in città, anche

se sanzionato dalla normativa statutaria, che induce Pillio ad

allontanare dal tutore l’accusa di avere edificato ad aemulationem dei

vicini.

Osservazioni: in sede processuale, la carta dell’intento emulativo non

viene mai apertamente giocata, ma solamente evocata attraverso il

37
richiamo dei due elementi sostanziali: l’ animus nocendi e l’assenza di

utilitas. Si tratta di confini molto angusti, che ne rendono difficile


prova, confermando la sua vocazione di limite equitativo e residuale

del diritto di proprietà.

La Glossa Accursiana e la sua sistematica

I. Glosse che vietano l’esercizio di un diritto senza utilità alcuna

per il titolare.

Gl. “detrimento” a D. 8, 1, 9: Nec enim cum malitiis, etc. ut supra, de

rei vendicatione, l. In fundo (D. 6, 1, 38).


Gl. “quod sine dispendio” a D. 21, 2, 38: Item nota hic quod cogetur

quis cedere quod est sine suo damno…sic debeo pati fieri in meo,
quod non nocet mihi, ut infra de aqua pluvia arcenda, l. In summa, §
Item Varus (D. 39, 3, 2, 5).

D. 39, 3(de aqua et aquae pluviae arcendae), 2, 5(Item Varus), qui

nella trad. di G. D. Romagnosi, Della ragion civile delle acque , cit., p.

264: «Nel fondo del vicino esisteva un argine il quale mi riparava il

fondo mio da inondazione. Avviene che l’acqua rompe quest’argine. Si

domanda se, volendo io ristabilire l’argine rotto situato nel di lui

fondo, possa costringere il mio vicino ad accordarmi quest’opera. Paolo

risponde che, sebbene nella legislazione in allora vigente mancasse

38
l’azione propria aquae pluviae arcendae, ciò non ostante era di

sentimento competere a me contro il vicino l’azione utile a non opporsi

alla ristaurazione dell’argine con tutto che costituito nel suo fondo,

perocchè esso può giovare a me e non nuocere a lui. (Quamquam

tamen deficiat aquae pluviae arcendae actio, attamen opinor utilem


actionem vel interdictum mihi competere adversus vicinum, si velim
aggerem restituere in agro eius qui factus mihi quidem prodesse
potest, ipsi vero nihil nociturus est: haec aequitas suggerit, etsi
iure deficiamur)».

II. glosse che pongono l’accento sull’elemento soggettivo, l’animus

nocendi.
Gl. “facere licet” a D. 8, 5, 8, 5: Nota, in suo facit quod vult quilibet

non in alieno…Sed contra, infra de damno infecto, l. Fluminum, § finali


(D. 39, 2, 24, 12), ubi etiam alenam aquam aufert. Solutio, ibi in suo

tantum fodiebat, non in alieno, et non animo nocendi, sed proficiendi


(D. 39, 3, 1, 11).
Gl. “non teneri me” a D. 39, 2, 24, 12: Nisi animo nocendi feci. Tunc

enim de dolo…quod semper praesumitur, scilicet quod non faciam


animo nocendi.

III. Gli spunti più maturi, che denotano una teorica compiuta del

divieto, si rinvengono in quelle glosse che coniugano i due elementi,

l’oggettivo ed il soggettivo.

39
Gl. “nihil laturus” a D. 6, 1, 38: Vel quasi, nec alia de causa, nisi hac,

scilicet ut officiat.

Gl. “habere” a D. 39, 3, 1, 12: Scilicet vicinus actionem contra istum,

qui in suo suffodit, non animo nocendi etc. quia tunc tenetur de dolo ut
hic dicit. Et nota in hoc § in suo licere facere quod vult. Item
nota quod alii noceat et sibi non prosit, non licet et ad hoc
concordant.

D. 39, 3, 1, 11 e 12 nella trad. di S. PEROZZI: «11. Parimenti Sabino e

Cassio dicevano che ciascuno può ritenere l’acqua piovana nel suo

fondo, o può derivarla dal fondo vicino se è superflua, purché non

faccia opera nel fondo altrui: questo diritto è dato a tutti, giacché

a ciascuno è lecito giovare a sé stesso senza nuocere agli altri

(prodesse enim sibi unusquisque, dum alii non nocet, non


prohibetur). 12. Marcello scrive che contro colui il quale scavando nel
proprio fondo ha divertito la fonte del vicino, non si può proporre

alcuna azione, neppure quella di dolo, ed è giusto che non si debba

avere azione, se non fece quello scavo con animo di nuocere al

vicino, ma con animo di rendere migliore il fondo (si non animo vicino

nocendi sed suum agrum meliorem faciendi id fecit)».

In ambito edilizio:

40
Gl. “novum” a D. 50, 10, 3: Item quod si in meo privato? Respondent

quidam quod possum etiam ad aemulationem: quia in suo potest quilibet


facere quod vult…Sed potest dici et in privato non licere, per l.
istam, quam exponas opus novum in publico scilicet vel privato et
quia publica utilitas praefernda est privatae.

Gl. “sui dominii” a C. 8, 10, 10: Hoc autem fallit, si ad emulationem

alterius civitatis fiat, vel materiam seditionis praebeat.

Gl. “antiquitas” a C. 11, 60, 2: Et sic nota non licere cuilibet habere

castrum. Quod intellige in limite Imperii et sic castellum dicitur limitis


castrum…et alibi quilibet potest facere (C. 8, 10, 10)…nisi fiat ad
aemulationem, vel scandalum inde oriretur (D. 50, 10, 3).

Risulta confermata la formale duplicazione di figure giuridiche già

rilevata nella dottrina preaccursiana. Una duplicazione che classifica,

su basi testuali, come emulative esclusivamente le opere edilizie del

territorio e della città nelle quali siano ravvisabili intenti malevoli o

sediziosi e che configura, invece, il medesimo limite, nell’ambito dei

rapporti di vicinato rustico, con la meno tecnica – ma originale –

formula “quod alii noceat et sibi non prosit, non licet”.

Spunti intorno ad una inedita sede della materia

41
Alberico da Rosate (1290-1360), Dictionarium Iuris tam civilis quam

canonici, Venetiis 1601, voce “aemula”: Aemula id est invida, unde


emulor, id est invideo, alias imitor, unde aemulor vos Dei aemulatione
(2 ad Coryntos, 11). Habet etiam alias significationes, unde
versus”Aemulor, inflatur, amat, invidet, ac imitatur…et nota et vide in
Proemio ff., § tertii unsuper anni, in glossa.

Const. Omnem rei publicae, § 4 (nella trad. di M. BIANCHINI,

Giustiniano e la sua compilazione, Torino 1983, p. 145): «Quanto


all’ordine nell’insegnamento del terzo anno, si studierà, a seconda

dell’avvicendamento dei corsi, o la parte de rebus o quella de iudiciis,

nonché una serie di tre libri singoli: dapprima il libro singolo relativo

all’azione ipotecaria, che noi abbiamo opportunamente inquadrato nella

trattazione delle ipoteche; dal momento che l’azione ipotecaria è

simile a quelle pignoratizie di cui si tratta nei libri de rebus, non

susciti alcuna perplessità la loro vicinanza: in effetti, lo studio

dell’una o dell’altra presenta le stesse caratteristiche e le stesse

difficoltà (cum aemula sit pigneraticiis actionibus, que in libris de

rebus positae sunt, non abhorreat eorum vicinitatem, cum circa


easadem res ambabus paene idem studium est)».

Gl. “aemula” a Const. Omnem, § 4: Aemulor tibi, id est, invideo tibi,

et sic aemula id est invidia, quia pignoratitia directa debitori


contra creditorem datur…et sic directa, scilicet hypothecaria

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competit creditori,…Item aemulor te, id est, imitor, unde dicitur
Aemulor vos Dei imitatione…et sic tractatus illum imitatur et circa
idem tractat, et sic ad contrariam hypothecariam.

Ambiguità, duplice valenza dell’aggettivo:

Bartolo da Sassoferrato (1314-1357), Commentario al Digestum

vetus, c. Omnem: Adverte ad quemdam glossam quam alibi meliorem


non habes: et dicit quod vult dicere aemulor id est invideo vel
sequor vel inimicor: sed prima expositio est verior.

Angelo degli Ubaldi (1328 ca. – 1399), Commentario…., : arg. quod

calzolarii habent aliqua privilegia per statutum, quod etiam


ciabatterii debent habere istud beneficium, tamquam ministri
calzolariorum.

Raffaele Fulgosio, Commentario…, : Glossa exponit, id est invida, et

refert ad directam pignoratitiam, que datur creditori. Sed et


secundum hanc secundam expositionem potest ad utrumque referri
per rationem que subditur, cum circa easdem res ambabus pene
idem studium est.

Baldo degli Ubaldi (1327-1400), Commentario…, : Ibi vicinitatem.

Nota quod inter vicinos praesumitur aemulatio.

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Una presunzione, questa baldesca, certamente non riconducibile, a

causa della genericità e della persistente ambiguità etimologica, a

specifiche connotazioni tecniche inerenti al modus operandi del

divieto degli atti emulativi nella dottrina del Diritto Comune, ma che

fotografa nitidamente l’intimo nesso che collega i due termini ed i

sottostanti concetti all’interno del medesimo contesto proemiale

giustinianeo, offrendo anche alla dottrina romanistica spunti per più di

un ripensamento.

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